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Docsity Appunti Completi Delle Lezioni Di Filologia Romanza I Modulo Prof Paolo Gresti

Il documento fornisce un'introduzione alla filologia romanza, analizzando l'evoluzione delle lingue romanze dal latino volgare. Si discute l'importanza di studi storici e linguistici, come quelli di Friedrich Diez e Hugo Schuchardt, e si esplorano le caratteristiche delle lingue romanze, la loro diffusione e le complessità della romanizzazione. Infine, si evidenzia la varietà linguistica nel Medioevo e il concetto di romanizzazione attraverso esempi storici.

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Il documento fornisce un'introduzione alla filologia romanza, analizzando l'evoluzione delle lingue romanze dal latino volgare. Si discute l'importanza di studi storici e linguistici, come quelli di Friedrich Diez e Hugo Schuchardt, e si esplorano le caratteristiche delle lingue romanze, la loro diffusione e le complessità della romanizzazione. Infine, si evidenzia la varietà linguistica nel Medioevo e il concetto di romanizzazione attraverso esempi storici.

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Appunti completi delle lezioni di

filologia romanza (I modulo) - prof.


Paolo Gresti
Filologia romanza
Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano (UCSC MI)
93 pag.

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FILOLOGIA ROMANZA (I MODULO)

0. INTRODUZIONE

Il nostro scopo è quello di analizzare l’evoluzione dal latino alle lingue romanze, tenendo conto del fatto che il nostro
focus dev’essere sulle lingue romanze, non sul latino. Non facciamo un corso di latino, ma di filologia romanza: il
nostro interesse è sulle lingue romanze, ma è necessario soffermarsi sui meccanismi di evoluzione a partire dal latino.
La prima parte del semestre è suddivisa in vari argomenti, di cui il primo è il latino volgare; proseguiremo poi con la
fonetica (trattando sia del vocalismo sia del consonantismo); proseguiremo con la morfologia nominale e verbale e
con l’evoluzione del lessico. Nella seconda parte del corso leggeremo alcuni testi in varie lingue romanze: si tratta di
testi che appartengono a generi letterari diversi, come epica, lirica, romanzo e racconto, scritti nelle principali lingue
romanze (con l’esclusione di una lingua romanza, che non tratteremo in maniera specifica e di cui non leggeremo nulla
oltre al portoghese, cioè l’italiano). Ci occuperemo in particolare della letteratura francese, in lingua d’ oïl, della
letteratura provenzale, in lingua d’oc, e dello spagnolo.

1. IL LATINO VOLGARE

1.1 DIEZ E SCHUCHARDT

Il nostro scopo di studio sono le lingue romanze e le letterature scritte nelle lingue romanze, non il latino. Il latino che
ci interessa è quello che, ormai da lungo tempo, viene chiamato LATINO VOLGARE (anche se non tutti gli studiosi
sono d’accordo nell’utilizzare questa etichetta).
Volumi importanti per la storia della filologia romanza sono Grammatik der romanischen Sprachen (1836) di Friedrich
Diez (1794-1876) e Der Vokalismus des Vulgärlateins (1866-1868) di Hugo Schuchardt (1842-1927). La filologia
romanza nasce come disciplina scientifica nella prima metà dell’Ottocento, grazie a Friedrich Diez, che nel 1836
pubblica La grammatica delle lingue romanze, a sottolineare che fin dall’inizio uno degli interessi principali della
filologia romanza è la lingua, lo studio linguistico. Diez non è il primo a porsi il problema della nascita delle lingue
romanze e della loro derivazione dal latino, ma è il primo a porre il problema in modo scientifico, ed è il primo a
definire le lingue romanze come prosecuzione del latino volgare, cioè del latino dell’uso quotidiano (non del latino
classico, quello che noi siamo abituati a chiamare latino classico, cioè il latino degli autori). Per lo studioso tedesco
l’esistenza di questo latino non è nemmeno da dimostrare e anzi, al contrario, sarebbe da dimostrare la sua
inesistenza.
Il latino dell’uso quotidiano viene normalmente chiamato latino volgare a partire dalla seconda opera citata (un
insieme di volumi), pubblicata agli albori della filologia romanza, Il vocalismo del latino volgare. L’etichetta di latino
volgare, Vulgärlateins, nasce praticamente con l’opera di Schuchardt: da allora – non in modo unanime, perché alcuni
studiosi hanno cercato di cambiare nome alla lingua – parliamo di latino volgare come latino che interessa a noi
studiosi delle lingue romanze. L’etichetta di latino volgare è un’etichetta complessa, come tutte le etichette (esse sono
utili perché ci aiutano a definire, a inscatolare un argomento, un oggetto di studioso, ma è necessario comprendere
cosa vi sia sotto quella etichetta). La letteratura è piena di etichette, a partire dalle origini: pensiamo alla scuola
siciliana, ai siculo-toscani (qualche anno fa, qualcuno ha pensato bene di affiancare ai siculo-toscani, etichetta già poco
chiara, i toscano-siculi, complicando un quadro già di per sé complesso), allo stilnovo, ecc. Le etichette sintetizzano e
consentono di inquadrare un oggetto di studioso, ma in ogni caso bisogna capire bene a cosa ci si sta riferendo.
Quando parliamo di latino volgare, utilizziamo un’etichetta in realtà piuttosto complessa.

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1.2 PROPAGAZIONE DEL LATINO

Le lingue romanze sono le lingue che derivano dal latino: un’etichetta che si utilizzava e si è utilizzata nei decenni
passati accanto a lingue romanze è quella di lingue neolatine (manuale molto famoso ed importante di filologia
romanza, scritto nei primi decenni nel Novecento, è intitolato Le origini delle lingue neolatine). Quest’ultima è
un’etichetta che non si usa più; prevale l’etichetta di lingue romanze. Seguendo il movimento del sole, da est a ovest,
le lingue romanze (parlando delle lingue attuali) sono:
1. ROMENO
2. ITALIANO
3. FRANCESE
4. SPAGNOLO
5. PORTOGHESE
6. CATALANO E GALLEGO
7. IL GRUPPO DELLE LINGUE COSIDDETTE RETOROMANZE (una volta etichettate con l’unico nome di
ladino; anche il concetto di ladino è in realtà piuttosto complesso).
Il Medioevo è molto complesso, e proprio del Medioevo tratteremo, leggendo testi risalenti al XII-XIII secolo. Nel
Medioevo non esisteva il concetto, oggi prevalente, di lingua nazionale, per il banalissimo motivo che non vi erano le
nazioni (nel Medioevo non esiste l’Italia, non esiste la Francia, non esiste la Spagna in quanto tale, come la pensiamo
oggi, come nazione) e non esistevano l’italiano, il francese o lo spagnolo, ma tante varietà linguistiche che – di solito –
vengono chiamate in vari modi. Identifichiamo dunque un gruppo italo-romanzo, cioè le lingue romanze della penisola
italica; un gruppo ibero-romanzo, cioè le lingue parlate nella penisola iberica, lo spagnolo o castigliano, il portoghese,
il gallego, il catalano e altre varianti linguistiche che nel Medioevo erano vere e proprie lingue, come l’aragonese e il
leonese. In Francia la situazione è ancora più complessa, perché esistono due gruppi linguistici forti: la lingua
cosiddetta d’oc al Sud e la cosiddetta lingua d’oïl al Nord (etichette usata peraltro da Dante nel De Vulgari Eloquentia).
A loro volta, questi due gruppi linguistici non sono uniformi, ma al loro interno hanno una serie di varietà linguistiche,
che noi oggi chiamiamo dialetti. In realtà, il concetto di dialetto nel Medioevo non c’è: parliamo piuttosto di lingue, di
varianti linguistiche, perché il concetto di dialetto si sviluppa quando vi è una lingua nazionale di riferimento. Avendo
una lingua come l’italiano, lingua parlata in Italia (con la quale, grosso modo, ci capiamo tutti), identifichiamo dialetti
del Nord, del Centro e del Sud, parlate più locali. Nel Medioevo, appunto, non esisteva il concetto di dialetto, perché
non esisteva il concetto di una lingua unica, nazionale, standard.
Proprio con la diffusione del latino nasce la frammentazione linguistica. Il latino è una lingua che si diffonde, si irradia
capillarmente nelle varie province conquistate dai romani (anche prima dell’esistenza dell’Impero): tuttavia, parlando
di diffusione del latino, ci riferiamo ad un processo complesso, lungo, perché il latino si diffonde con l’ampliarsi della
potenza romana, la quale non si espande in poco tempo. Il consolidamento di quello che poi sarà l’Impero romano
avviene in secoli: la diffusione del latino, quindi, segue la diffusione militare-politica; è una diffusione lenta (certo
capillare, ma non avviene proprio dovunque arrivino i romani. Il latino sì arriva, ma non è detto che si diffonda a
macchia d’olio, che venga accolto), ed è soprattutto un processo lungo e complicato.
Per riassumere:
 Il latino si è irradiato capillarmente;
 Non si è però diffuso a macchia d’olio;
 La diffusione del latino è un processo lungo e complesso;
 Non mancano esempi di non accoglienza del latino.

1.3 UN CASO DI NON ACCOGLIENZA DEL LATINO: APULEIO

Il latino si è diffuso molto, basti pensare a quali sono le lingue romanze oggi; buona parte dell’Europa parla una lingua
che deriva dal latino. In molti dei territori in cui sono arrivati i romani il latino si è diffuso a tal punto da imporsi
linguisticamente, creando una realtà linguistica strettamente connessa al latino stesso. Certo, non dovunque i romani

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sono arrivati si parla una lingua romanza: è il caso dell’Inghilterra, della Scozia (la Britannia è stata romanizzata molto
debolmente, già dai tempi di Cesare, a causa dell’ostilità della regione: per il nostro discorso risulta dunque marginale;
lo stesso è accaduto in Germania, dove si parla una lingua germanica). L’inglese è infatti una lingua germanica, di
ceppo germanico (anche se, in realtà, è stato calcolato che circa il 70% del vocabolario dell’inglese è latino; non, però,
per merito dei latini, dei romani).
Non dovunque i romani siano arrivati si è diffuso il latino, come detto in precedenza: Apuleio (125-180 ca d.C.),
scrittore latino, nella sua Apologia (98, 8-9) parla dell’africano Sicinius Pudens definendolo Punico, perché del latino
non voleva saperne:

Non parla mai se non Punico […]. Infatti non vuole nè può parlare latino. Massimo, hai appena sentito (quale
disgrazia!) il mio figliastro, fratello dell’eloquente giovane Pontiano, che balbetta a stento dei monosillabi (vix singulas
syllabas fringultientem  fringultio o frigultio significa “cinguettare”, ma riferito agli uomini vale “borbottare”,
“balbettare”).

Eppure, quelli sono territori in cui i romani sono arrivati, che sono stati colonizzati anche abbastanza profondamente.
Il latino si diffonde capillarmente, ma non dovunque arrivano i romani la lingua si diffonde nello stesso modo, e
soprattutto la sua diffusione non è imposta dai dominatori. L’impero romano, comunque, non si espande in breve
tempo, e dunque la lingua latina non si irradia in un giorno: in linea di massima, laddove i romani arrivano più
anticamente, più facilmente si instaura una dipendenza linguistica. Più facilmente, nei luoghi in cui i romani sono
arrivati prima, abbiamo una lingua che deriva dal latino: il latino si diffonde più anticamente, e quindi in maniera più
profonda.
Questo concetto, tuttavia, vale e non vale: una delle lingue romanze, il romeno, è parlato in una zona che – grosso
modo, anche se non in maniera precisa – corrisponde alla provincia romana della Dacia, ultima provincia romana
conquistata (siamo nel II secolo d.C., nel 107) e prima ad essere persa. Tutto sommato, lì, la romanizzazione non è
stata lunghissima, eppure è stata sufficientemente profonda per far nascere una lingua dipendente, discendente dal
latino. Allo stesso modo, anche se diversamente, la Gallia è tutto sommato una provincia abbastanza antica, eppure –
tra le lingue romanze – quella che probabilmente si è allontana di più dal latino è il francese (da un punto di vista
linguistico, il francese è la lingua che crea più problemi; spesso, studiando la fonetica e la morfologia, troveremo il
francese come lingua che più delle altre si è allontanata dal latino). In linea di massima, dove i romani sono arrivati
prima, dove i romani si sono stabiliti in maniera profonda, aprendo anche delle scuole, lì il latino si è diffuso più
profondamente.

1.4 LINGUA DELLA MADREPATRIA; LINGUA DELLE COLONIE; ROMANIZZAZIONE

Alcuni studiosi, uno in particolare, James N. Adams (importante studioso dei fenomeni di romanizzazione e del latino
cosiddetto volgare), hanno paragonato la diffusione dell’Impero romano alla diffusione dell’Impero britannico anche
da un punto di vista, per così dire, linguistico. Adams ne ha dedotto alcuni elementi applicabili alla moderna
colonizzazione, ma che possono valere in qualche modo anche per la diffusione del latino. In effetti, ci sono delle
analogie tra la diffusione dei grandi imperi moderni (quello britannico ma non solo; per quanto riguarda le lingue
romanze, l’espansione coloniale della Spagna e del Portogallo ha dato risultati anche linguistici importanti. Tutta
l’America centro-meridionale parla lingua romanze, spagnolo perlopiù ma anche portoghese in Brasile: si tratta di un
fatto interessante di colonizzazione, che è anche colonizzazione di tipo linguistico. Del resto, lo spagnolo è la lingua
romanza più parlata al mondo, proprio per merito dell’America centro-meridionale e degli Stati Uniti). Adams ha
elaborato una serie di nozioni, di termini generali:
 La lingua, arrivata nella provincia, si adatta alle nuove condizioni ambientali. La lingua dei colonizzatori arriva
nelle colonie e trova autoctoni che parlano delle lingue: la lingua dei colonizzatori, quindi, incontra o si
scontra con queste lingue autoctone e, in qualche modo, può subirne gli influssi. Ciò modifica o può
modificare la lingua dei conquistatori: nel nostro caso, il latino arriva in Gallia, trova popolazioni che parlano

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lingue perlopiù celtiche e, in qualche modo, prende qualcosa da quelle lingue e si modifica rispetto alla sua
origine;
 Dopo l’insediamento delle colonie ci possono essere cambiamenti nella lingua della madrepatria che non
arrivano nelle colonie (che sono ignorati dalla lingua coloniale): le lingue sono vive, e cambiano, soprattutto la
lingua parlata (la lingua scritta è più lenta ad evolvere, ha un’evoluzione molto lenta, mentre quella parlata ha
un’evoluzione che può essere abbastanza veloce). È chiaro che la lingua della madrepatria ha una sua
evoluzione, e non è detto che la stessa lingua parlata nelle colonie abbia quella medesima evoluzione: se il
latino parlato a Roma evolve in un certo modo, non è detto che il latino parlato a Lione (città molto
importante della Gallia fin da epoca romana) evolva nello stesso modo o che accolga i cambiamenti linguistici
che sono avvenuti nella madrepatria. Le due lingue, pur trattandosi della stessa lingua, possono cominciare
ad avere evoluzioni differenti;
 La lingua della colonia può avere evoluzioni, cambiamenti ignorati dalla lingua della madrepatria. Questo è
capitato anche con lo spagnolo di Spagna rispetto allo spagnolo delle colonie americane, al portoghese di
Portogallo rispetto al portoghese brasiliano (sono sì la stessa lingua, ma non sono identici). La lingua parlata
nelle colonie può avere caratteristiche che la lingua parlata nella madrepatria non ha, e viceversa. Si può
trattare di evoluzioni di tipo fonetico (di pronuncia), oppure di vocabolario (può capitare che una parola che
nella madrepatria vuol dire una cosa ne indichi un’altra nella colonia o che esista una parola diversa per lo
stesso oggetto);
 La varietà coloniale entra in contatto con le lingue locali, dando avvio ad una sorta di dialettizzazione: quando
si hanno questi fenomeni, si parla di lingue di substrato che influenzano la lingua dei colonizzatori. Per il
latino, le lingue di substrato sono tutte le lingue dei popoli che i romani hanno colonizzato: le lingue italiche
nella penisola italica, le lingue iberiche nella penisola iberica, le lingue celtiche, soprattutto, nella Gallia.
Queste lingue, che spesso sono completamente scomparse, sono dette lingue di substrato, e hanno
influenzato la lingua del colonizzatore a livello lessicale (introducendo nel vocabolario parole nuove) e
soprattutto a livello fonetico, meno a livello morfologico (la morfologia, bene o male, rimane stabile). La
pronuncia diversa delle parole e l’introduzione nel vocabolario di parole nuove sono tipici effetti delle lingue
dei colonizzati, delle lingue di substrato, che intervengono in qualche modo a modificare la lingua dei
colonizzatori. Tutto ciò ci fa capire per quale motivo parliamo di lingue romanze che hanno lo stesso ceppo, la
stessa origine, ma che sono così differenti tra di loro: attraverso le influenze di substrato, i momenti diversi di
espansione del latino, la profondità diversa da zona a zona nell’espansione stessa del latino hanno provocato
quella che alcuni studiosi definiscono frammentazione delle lingue romanze. Tutte le lingue romanze, cioè,
hanno la stessa origine, ma sono molto differenti tra loro. Per esempio, il romeno ha delle sue particolarità
abbastanza marcate, ma per il fatto che la provincia della Dacia è stata persa dai romani abbastanza presto,
che essa è rimasta isolata rispetto al resto del territorio romanizzato, circondata da popolazioni che parlavano
lingue slave, completamente diverse, ha avuto un’evoluzione peculiare
 I parlanti di una colonia possono spostarsi in un’altra colonia e influenzare la lingua della regione nella quale
si stabiliscono (diaspora linguistica).
I territori più antichi dell’impero subirono una romanizzazione più profonda, mentre i territori più recenti vennero
romanizzati meno capillarmente (cfr. punto 1.3). I tempi e i modi della colonizzazione (nel nostro caso della
romanizzazione), le lingue che entrano in contatto con il latino durante la fase di conquista, le lingue che si
sovrappongono in un secondo tempo, al momento dello sfaldarsi dell’Impero, sono ulteriori fattori che complicano il
quadro.
Il latino si diffonde per momenti successivi: i primi che arrivano sono i soldati; seguono i mercanti, che usufruiscono
dell’imponente rete viaria romana (i romani procedevano in questo modo: conquista militare e consolidamento,
attraverso mercanti, commercio, scuole, ecc.). Nei territori in cui i romani sono riusciti ad installarsi in maniera più
profonda hanno stabilito contatti molto stretti con la popolazione, al punto che in alcune zone l’apprendimento del
latino coincideva con una possibilità di ascesa sociale (anche il commercio si serviva in maniera minima del latino,
necessario per la comunicazione con commercianti romani). Gli strati più alti, gli aristocratici delle popolazioni locali,
ad un certo punto, hanno sentito l’esigenza di conoscere la lingua dei vincitori, perché ciò permetteva loro talvolta di

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mantenere le loro posizioni di privilegio (era possibile entrare più facilmente nel sistema romano  latino come
strumento per intrattenere rapporti commerciali o di altro tipo on i conquistatori). La conoscenza della lingua latina,
non imposta dai romani con la forza, era un veicolo di consolidamento, di ascensione sociale e di emancipazione
(soprattutto per i ceti colti): ciò, in alcune zone dell’impero, è successo. Il latino si diffuse moltissimo nelle città,
soppiantando – anche se molto lentamente – le lingue originarie; del resto, proprio nelle città furono fondate
importanti scuole, che si dimostravano un veicolo fondamentale di diffusione della lingua e della cultura di Roma (che
offriva del resto un modello altissimo, un punto di riferimento pet molti “provinciali”). È noto che non poche
personalità della vita politica e culturale di Roma venivano dalle province:
 Seneca e Lucano da Cordova;
 Apuleio, Arnobio, sant’Agostino dall’Africa settentrionale;
 Traiano da Siviglia;
 Claudio e Caracalla da Lione.
Non tutto l’impero, però, parlava latino: nella parte orientale, infatti, la lingua ufficiale rimase il greco, e d’altronde la
cultura greca aveva lasciato profonde tracce in quella romanda fin dall’inizio della dominazione di Roma sulla Grecia.

1.5 ESPANSIONE ROMANA E ROMANIZZAZIONE

Il latino fa parte della famiglia delle lingue indoeuropee. L’idea della classificazione linguistica per famiglie risale allo
studioso tedesco August Schleicher: la “lingua madre” della famiglia indoeuropea sembrerebbe essere stata la lingua
di un popolo che, stanziato nell’Asia centrale intorno al 3000 a.C., si è poi sposato dal suo luogo d’origine attraverso
gran parte dell’Asia e dell’Europa. Le lingue indoeuropee sono: greco, lingue germaniche (tedesco, inglese, olandese,
svedese, norvegese ecc.), lingue slave (russo, polacco, bulgaro, croato, ecc.), lingue celtiche (gallese, gaelico, irlandese,
bretone, scozzese), lingue baltiche (lettone, lituano), albanese. Non sono indoeuropee ungherese, finnico, estone,
basco, turco. Tra le lingue italiche sono senz’altro indoeuropee latino, osco-umbro, venetico, siculo, messapico;
quanto all’etrusco, la sua appartenenza a questa famiglia linguistica è sostenuta da pochi studiosi.
Il latino, che all’inizio era solo la lingua parlata nel Lazio, grazie alle progressive conquiste dei Romani, si diffuse su un
vasto territorio:
 275 a.C.  sconfitta di Pirro a Benevento: i romani concludono la prima fase della loro espansione, che copre
ormai tutta la Penisola italica ad eccezione del bacino del Po. Gli abitanti delle città conquistate diventano
progressivamente cittadini romani, soggetti al diritto romano e all’obbligo del servizio militare;
 264-241/218-201 a.C.  guerre puniche, che portano alla distruzione di Cartagine: Roma diventa padrona
assoluta del Mediterraneo. Da questo momento, l’espansione romano non conosce ostacoli, e le tappe
principali sono segnate dall’istituzione delle province;
 284-305 d.C.  gravità della crisi dell’Impero: Costantino, difensore del cristianesimo (313: editto di Milano),
trasferisce la sede dell’impero a Bisanzio, che prende da lui il nome di Costantinopoli;
 Teodosio I è l’ultimo imperatore a regnare su tutto l’impero, poi diviso in Impero d’Occidente e Impero
d’Oriente: il primo cade presto sotto i colpi delle invasioni barbariche (476), mentre il secondo gli sopravvive
per quasi un millennio (1453: conquista di Costantinopoli da parte dei turchi).

1.6 LA ROMÀNIA

Quando si riferiscono all’Impero romano da un punto di vista linguistico, cioè dei territori che furono conquistati dai
romani, nei quali si diffuse la lingua latina, e nei quali sono rimaste come eredità della lingua latina le lingue romanze,
gli studiosi parlano di ROMÀNIA (territori dell’impero romano nei quali oggi si parla una lingua romanza). Il vocabolo
fu coniato nel IV secolo sul modello di vocaboli come Hiberia e Gallia, per denominare l’insieme dei territori che
formavano l’impero romano. La Romània è ovviamente un territorio più vasto, in cui in latino è arrivato e in cui
attualmente si parlano le lingue romanze. In origine, in realtà, il vocabolo aveva un significato più politico, e non
coincideva necessariamente con il fatto che si parlassero lingue romanze in quei territori. All’inizio, dunque, la valenza

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del termine era più di tipo politico: anche l’aggettivo romanus aveva all’inizio un valore politico, soprattutto nelle
espressioni populus o civis romanus; addirittura, nell’Impero d’Oriente si parlava il greco, non il latino, eppure anche
coloro che abitavano lì si definivano romaioi, “romani”.
Con le invasioni barbariche in Occidente, però, il termine romanus si oppose sempre di più a barbarus, e l’accezione
del primo aggettivo divenne decisamente linguistica: si usava per opporre coloro che parlavano latino, e poi le lingue
della Romània occidentale, cioè le lingue romanze, a coloro che parlavano le lingue germaniche. Il vocabolo Romània
acquisì un valore etnico-linguistico, e la Romània venne a delimitare, in Occidente, il territorio in cui si parlano le
lingue che derivano dal latino (neonate lingue romanze), in contrapposizione alle lingue dei nuovi conquistatori, dei
nuovi invasori, cioè dei popoli germanici (i quali non amavano confondersi con i Romani, che chiamavano nella loro
lingua Walha). Quando cioè l’Impero romano crolla (per vari motivi, anche interni) sotto la pressione delle popolazioni
germaniche, che invadono l’Impero e parlano altre lingue, la contrapposizione si pone anche a livello linguistico: gli
abitanti della Romània sono coloro che parlano il latino, o meglio – a quel punto – le lingue che dal latino sono
derivate.
Nella linguistica moderna, Romània è un concetto più specifico, che indica l’insieme dei territori dove si parlava latino
(cioè l’insieme dei territori che appartennero all’impero romano) e dove oggi si parlano le lingue romanze.

1.7 ROMANIA PERDUTA E ROMANIA NUOVA

Come detto, non si parlano lingue romanze dovunque siano arrivati i romani: infatti, per i territori che sono stati
conquistati dai romani per un certo tempo ma in cui non si parlano lingue romanze, si utilizza l’etichetta di ROMÀNIA
PERDUTA, che indica l’insieme di tutti i territori dove i romani sono arrivati (territori che furono romanizzati), ma nei
quali non si parlano lingue romanze (questi territori non continuarono linguisticamente l’eredità latina). Questi sono:
la Britannia, le parti della Germania conquistate dai romani (zone danubiane), il Medioriente o Asia Minore (la
Palestina), il Nord dell’Africa. Si tratta di territori che sono stati talvolta romanizzati a lungo, che magari hanno dato
degli scrittori alla letteratura latina (basti pensare all’Africa settentrionale), ma nei quali non si parlano lingue romanze
(nell’Africa settentrionale si parlano lingue semitiche, perlopiù alcune varietà di arabo. In alcuni Stati dell’Africa
settentrionale si parlano lingue romanze, per esempio in Algeria, dove si parla francese, ma quello è un fatto
successivo che dipende dalla colonizzazione francese molto tardiva).
Allo stesso modo, si parla di ROMÀNIA NUOVA per tutti i territori in cui si parlano lingue romanze, ma in cui i romani
non sono mai arrivati (l’insieme dei territori che non sono mai stati romanizzati, ma nei quali si parla una lingua
romanza, come lingua ufficiale o, almeno, come seconda lingua): l’America centro-meridionale (spagnolo e
portoghese; il latino lì non è mai arrivato, sono giunte direttamente le lingue romanze già formate), il Québec
canadese (zona bilingue, ma in cui si parla perlopiù francese; nel Sette-Ottocento, quando sono arrivati gli europei, il
francese si parlava in zone più diffuse, anche negli attuali Stati Uniti, basti pensare alla zona di New Orleans, in cui
sorgevano ricche colonie francese; lo stato della Louisiana ha questo nome in onore di re Luigi di Francia. Queste zone
sono poi state conquistate dalla lingua inglese), alcune zone dell’Africa (portoghese, francese). La situazione, per la
verità, è molto più complessa, perché l’America centro-meridionale è un insieme di territori molto vasti: laddove si
parla lo spagnolo, dal Messico alla Patagonia, alla Terra del fuoco, vale lo stesso principio visto in precedenza, cioè il
fatto che lo spagnolo ha incontrato lingue locali, influenzando l’evoluzione stessa dello spagnolo parlato in quei
territori (in alcuni casi, le lingue autoctone sono sopravvissute, e si affiancano allo spagnolo come lingue ufficiali). Lo
spagnolo parlato in America non solo è differente dallo spagnolo parlato in Spagna, ma differisce anche all’interno
della stessa zona americana (già all’interno della Spagna, del resto, ci sono differenze tra Nord e Sud). Nello spazio
geografico occupato dalle lingue romanze, comunque, non mancano zone nelle quali si parlano lingue che romanze
non sono. Queste isole, dette alloglotte, sono formate per lo più da lingue indoeuropee:
 Bretone nella Bretagna francese;
 Tedesco in Alsazia e Lorena (territori originariamente di lingua tedesca, tornati alla Germania dopo la guerra
franco-prussiana nel 1870, ma francesi dopo il 1918);
 Tedesco nel Tirolo italiano (Sud-Tirolo o Alto-Adige);

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 Albanese e greco in certe zone dell’Italia meridionale.
Isole non indoeuropee sono quelle nelle quali si parla il basco, a cavallo dei Pirenei, o l’ungherese all’interno della
Romania.

1.8 PERCHÉ PARLIAMO DI LINGUE ROMANZE?

 L’aggettivo romanus aveva significato politico, populus o civis romanus, ma anche linguistico, opposto a
barbarus. Era romanus chi parlava il latino (e poi le lingue romanze), era barbarous chi parlava le lingue
germaniche;
 L’aggettivo romanicus aveva significato di “fatto a Roma”, riferito al latino arcaico;
 L’aggettivo romanze deriva dall’avverbio romanice, coniato sull’aggettivo romanicus, che ha dato dapprima
romanz (“lingua volgare”, “componimento scritto in volgare”, “discorso in lingua volgare”  cfr. i versi che
Dante mette in bocca a Guido Guinizzelli, che gli indica lo spirito del trovatore Arnaut Daniel, in Purg. XXVI,
117-119) in antico francese, da cui è passato in altre lingue, dando in italiano romanze (non deriva quindi
direttamente dall’avverbio romanice; romanz viene dall’avverbio latino romanice, attraverso il francese
antico romanz; romanz > prov. romans, sp. romance, it. romanzo, con una complessa ramificazione
semantica. Abbiamo infatti il romanzo, la romanza come genere poetico o genere cantato lirico, ecc.).
Romanzo è un aggettivo, riferito alle lingue romanze; il romanzo, poi, è un sostantivo che indica un genere
letterario nato nel Medioevo (sono nati nel Medioevo sia la definizione di romanzo come genere letterario sia
il genere letterario stesso). Inizialmente, in francese antico, romanz non specificava un genere letterario, ma
definiva qualunque opera scritta non in latino ma nella lingua romanza. In antico francese, vi è l’espressione
metre en romanz, “mettere in romanzo”, cioè tradurre dal latino in una lingua romanza. Già dal XII secolo,
romanz diventa sostantivo con il significato specifico di un genere letterario ben definito. Inizialmente, il
romanzo è un genere letterario molto diverso da quello a cui siamo abituati noi, perché è in versi: il romanzo
medievale, almeno per tutto il XII secolo e parzialmente nel XIII secolo, è un’opera narrativa in versi. Più o
meno negli anni Trenta del XIII secolo cominciano a comparire in Francia i primi romanzi in prosa; da quel
momento, si perde l’abitudine di scrivere opere narrative in versi e il romanzo diventa sempre più il genere
letterario a cui siamo abituati.
In origine, romanice parabolare o addirittura romanice fabulare significava “parlare come gli abitanti della Romània”,
cioè parlare una lingua derivata dal latino. In quest’espressione, manca il verbo che in latino tipicamente si usa con il
significato di parlare, il deponente loquor (loqui era ormai voce dotta): il verbo viene eliminato (scompare
definitivamente, del tutto) in favore di due altri verbi, parabolare (verbo diffuso dal cristianesimo, “parlare per
parabole”, poi con il significato di “parlare”) e fabulare (verbo già presente in latino, perlopiù nella sua forma
deponente fabulari). Parabolare si ritrova nell’italiano parlare, nel francese parler; fabulare si ritrova nello spagnolo
hablar e nel portoghese falar.

1.9 CHE COS’È IL LATINO VOLGARE?

Nel citato volume sul vocalismo del latino volgare, Hugo Schuchardt elabora una teoria che avrà una certa eco negli
studi seguenti: ci sarebbe una corrispondenza tra la data di conquista di una provincia, il latino “esportato” in quella
provincia e la lingua romanza che ne sarebbe poi sorta. Siamo negli anni Sessanta del XIX secolo, epoca in cui si
affaccia al mondo scientifico la teorica evoluzionistica darwiniana: Schuchardt, che cita esplicitamente Darwin, disegna
un albero genealogico del latino e delle lingue da esso derivate, nel quale il tronco è rappresentato dalla linea che
congiunge direttamente la lingua di Roma ai dialetti dell’Italia centrale, mentre i rami (che partono dal tronco in
momenti successivi) conducono alle altre lingue romanze, formano numerosi fasci di linee.
Che ci sia una precisa corrispondenza tra l’epoca di conquista di una data provincia e la qualità (e dunque l’evoluzione)
del latino in quella provincia è un’ipotesi che in realtà non ha fondamento; come sottolinea Adams:

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 L’idea che il latino possa fossilizzarsi in una provincia al momento della conquista non è plausibile, perché le
province – una volta stabilite – non erano chiuse, ma continuavano a ricevere nuovi coloni;
 La differenziazione del latino (e l’emergere delle lingue romanze) non possono essere spiegate a partire da un
singolo fatto, come per esempio la data di formazione delle province; fu al contrario un processo complesso
determinato da molteplici cause.
L’etichetta latino volgare nasconde un concetto complesso. Alberto Varvaro è convinto che il concetto di latino volgare
sia risultato pernicioso per lo sviluppo degli studi, e preferisce parlare di vari livelli di latino sub-standard, seguendo
James N. Adams. Quest’ultimo sostiene che dobbiamo abbandonare l’idea che il latino fosse monolitico fino a una
data molto tarda, quando qualche evento catastrofico ne causò l’imbastardimento, o che esso mostrasse
diversificazioni regionali dall’impero in poi. La variazione regionale esiste fin quasi dall’epoca delle prime
testimonianze. Tutto ciò è senz’altro vero, se con latino volgare si vuole intendere una lingua omogenea e strutturata,
una lingua ricostruita in vitro con il metodo comparativo: è assai poco credibile che una creazione linguistica siffatta
possa essere esistita nella realtà (cfr. la polemica di Varvaro contro Robert de Dardel, che distingue tra una lingua
madre storica, che è esistita, benché non sia attestata, e il protoroman, protoromanzo, che è il risultato della
ricostruzione, e in quanto tale è un’astrazione. Lo studioso non nega che la lingua madre storica contenesse in sé più
livelli, ma sostiene che dovesse mantenere un certo grado di omogeneità nell’ampio e variegato territorio dell’impero,
che permetteva l’intercomprensione; tale lingua doveva comunque convivere, in un certo numero di parlanti, con le
varietà locali). Non tutti gli studiosi sono d’accordo sull’aggettivo “volgare”, che sembra mettere troppo l’accento sulla
natura popolare, plebea di questa lingua; nel corso dei decenni si sono tentate altre etichette, come orale, popolare,
non-standard. Di seguito alcune proposte:
1. Zamboni  Umgangssprache, “lingua di comunicazione, di uso corrente” come definizione meno fuorviante,
benché tutt’altro che esaustiva di latino “volgare”;
2. Spaggiari  latino volgare come denominazione che raccoglie tutte le particolarità e le tendenze della lingua
parlata che si discostano dal latino classico, e in genere dalla lingua letteraria;
3. Castellani/Herman  latino volgare sia come linguaggio plebeo d’epoca repubblicana, opposto a quello dei
ceti superiori, sia come latino spontaneo, opposto al latino delle scritture, che s’udiva nei territori
dell’impero;
4. Maurer  latino volgare come latino parlato in primo luogo dalla plebe romana, dalla grande massa
popolare, una sorta di koinè (attenzione: a “plebe” si deve dare il valore generico di “massa della
popolazione”, non quello storico di classe sociale opposta a quella dei patrizi; cfr. Castellani).
Per comodità continuano ad utilizzare l’etichetta di latino volgare, al singolare: la realtà dei fatti, tuttavia, non è
questa; sarebbe più opportuno parlare di latini volgari al plurale, perché il latino si è diffuso in maniera diversa nelle
varie zone dell’Impero. Il latino che si parlava a Roma nel I secolo a.C. non è lo stesso latino che si parlava a Roma un
secolo dopo, e non è lo stesso latino che si parlava in Iberia o in Gallia, o in altre zone dell’impero. Siamo dunque di
fronte ad una varietà di lingue diverse: sostanzialmente, e se vogliamo semplificare al massimo, per latino volgare
intendiamo la lingua parlata nelle varie zone dell’impero, o meglio le lingue parlate nelle varie zone dell’impero. Come
tutte le lingue parlate, bisogna tenere in conto la variazione di tipo geografico, diatopico (penisola italica, penisola
iberica  latini differenti), ma anche la variazione di tipo diacronico (il latino parlato anche nello stesso luogo ad un
secolo di distanza non è lo stesso latino) e la variazione di tipo diafasico (dipende da chi parla, dalla situazione in cui si
parla: lo stesso soggetto, in situazioni diverse, parla diversamente. Due soggetti con cultura diversa parlano la stessa
lingua ma diversamente). Queste variazioni vengono studiate per le lingue moderne, ma valgono assolutamente anche
per il latino parlato (ovviamente, per quanto riguarda il latino, non abbiamo alcun tipo di registrazione che ci permetta
di capire le differenze).
Il soldato romano che, nel I secolo a.C., conquista la tal colonia parla un latino diverso dal soldato romano che, un
secolo dopo, conquista una colonia diversa: già in partenza, il latino esportato è diverso. Tutti questi fattori vanno
tenuti in conto per capire meglio la differenziazione che è sì delle lingue romanze, ma che doveva essere già una
differenziazione originaria del latino parlato. Il latino volgare non è una lingua monolitica, come non può essere
monolitica nessuna lingua, soprattutto nella sua variante parlata. La lingua scritta, letteraria è più resistente ai
cambiamenti rispetto alla lingua parlata: la lingua parlata evolve molto più velocemente.

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Il latino volgare è una lingua sincronica rispetto a quello che noi chiamiamo latino classico (o letterario): si tratta di due
livelli linguistici differenti che vivono nello stesso momento. Non esistono un latino arcaico, un latino classico e poi il
latino volgare in successione: nello stesso momento in cui abbiamo il latino classico (Cicerone), vi sono persone che
parlano il latino, ma non quello di Cicerone; lo stesso Cicerone, verosimilmente, quando parlava, non utilizzava lo
stesso latino con cui scriveva (qualcosa di differente doveva pure esserci). La lingua latina volgare è sincronica rispetto
al latino classico, cioè convive con il latino classico, non è una fase ad esso successiva, non si pone in una direzione di
tipo diacronico (prima il latino classico e poi quello volgare).
In sintesi, il latino volgare:
 Non è una lingua monolitica, non è una lingua omogenea;
 È una lingua essenzialmente parlata: in quanto tale, è soggetta alle variazioni diacroniche, diatopiche e
diafasiche;
 È una lingua sincronica rispetto al latino classico.

1.10 CICERONE E IL LATINO RUSTICO

Marco Tullio Cicerone non è solo un autore tra i più famosi ed importanti del latino che chiamiamo classico, ma anche
colui che ci ha dato alcune informazioni sulla lingua latina.
Nel latino di Cicerone, le espressioni vulgaris o plebeius sermo (l’espressione sermo vulgaris, come ha rilevato Calboli,
ricorre solo cinque volte nelle opere latine, con senso prevalente di comune, generico, usuale, sinonimo di cottidianus
 non opposizione al linguaggio urbano, ma designazione di uno stile quotidiano nel quadro del “latino puro”)
sottolineavano un uso meno sorvegliato della lingua. Ma si deve anche tener conto del fatto che il più antico termine
di individuazione di lingua scorretta, o comunque non fornita dalla correttezza urbana e letteraria, non è vulgaris, ma
rusticus, come si desume da un famoso frammento di Lucilio (Cecilius pretor ne rusticus fiat  rusticitas di Caecilius
metellus Capranicus insita, secondo Lucilio, nel nome, scritto senza dittongo. La monottongazione AE > E è un tratto
rustico, tipico della parlata campagnola).
Secondo alcuni studiosi, come Adams, Cicerone ha come riferimento linguistico la lingua di Roma: la lingua di Roma,
almeno tra I secolo a.C. e I secolo d.C., doveva essere la lingua cosiddetta standard, che dettava la regola. Cicerone
parla spesso di latino rusticus: egli sembra opporre due tipi di latino, l’urbanus e il rusticus. Il sermo urbano è il sermo
delle città (soprattutto e prima di tutto Roma), la lingua piacevole, il latino alto, colto. Il sermo rusticus è la lingua
latina aspra: Cicerone fa spesso riferimento alla asperitas, all’asprezza della lingua che definisce rustica
(stigmatizzazione del linguaggio o del modo di parlare di oratori non originari di Roma) . Non è facile capire cosa
Cicerone intenda quando utilizza queste etichette, ma sembra di capire che per lui ci fosse un’enorme differenza dal
punto di vista linguistico tra l’Urbe e il resto del mondo. Cicerone aveva, insomma, una concezione piuttosto
rudimentale della diversificazione linguistica: il centro del suo mondo era Roma, e il suo latino di riferimento era
quello parlato dalle persone colte che vivevano nella città (tutto ciò che non è romano è “straniero” o “rustico”;
addirittura, rusticus e agrestis hanno in Cicerone un evidente significato generico di “maleducato”).
Pare di evincere (soprattutto secondo Adams) da alcuni scritti ciceroniani che una persona colta non originaria di
Roma, dal suo punto di vista, poteva essere surclassata, sul piano linguistico, da chi, pur avendo una cultura inferiore,
era però nativo dell’Urbe. Per Cicerone, ciò che non è romano è rustico e straniero, e viene bollato come non vero
latino (lo stesso Cicerone, tuttavia, non era di Roma, era campano).
 In De oratore 3, 11, 43, Cicerone si riferisce soprattutto alla pronuncia (lenitate vocis, sono): quella di Roma
sembrerebbe diversa e superiore a quella extra-urbana;
 In Brutus 171, Cicerone dice a Bruto che gli oratori della provincia mancano di urbanitas; alla domanda
dell’interlocutore su quale sia quella caratteristica urbana, tuttavia, Cicerone afferma “non lo so, so che
esiste”;
 In De oratore 3, 11, 42 e Brutus, 137, Cicerone (nonostante il modello linguistico da seguire, secondo lui,
fosse il latino parlato a Roma dalle persone colte) afferma che il mondo “rustico” è spesso guardato dalle
classi elevate di Roma, come punto di riferimento non solo morale, ma anche – talvolta – linguistico (cfr. il

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tribuno Lucio Aurelio Cotta, il quale aveva adottato una pronuncia rustica e rozza, che sembrasse conservare
arcaicità  polemica di Cicerone evidente fin dalle prime battute: “credendo che il suo discorso abbia un
chiaro tono di arcaismo, quando suona come quello dei rustici”).
Se il non romano Cicerone stigmatizza con insistenza le abitudini linguistiche di coloro che non parlano il latino di
Roma, al punto che gli sporadici “volgarismi” che affiorano nelle lettere ad familiares sono testimonianza di una
civetteria tutta intellettuale, altri non romani inurbati guardano alle differenze linguistiche con maggiore indulgenza.
Un esempio di questo atteggiamento è in Varrone, che riporta alcune testimonianze rustiche senza aggiungere alcun
giudizio di valore, come farebbe un linguista moderno (cfr. De rustica). Varrone è molto interessato alle varietà del
latino parlato nella penisola italiana, e in molti casi fornisce dettagli sulle caratteristiche fonetiche della parlata rustica.
Talvolta succede che venga sottolineata una caratteristica che sembra negativa del latino parlato da alcuni personaggi:
l’esempio più famoso, forse, è quello della cosiddetta patavinitas di Livio; di Cicerone, curiosamente, non si è mai
detto nulla, pur non essendo lui romano (come oratore, parlava in senato e in tribunale, era un avvocato). Secondo
Adams, ciò dipende dal fatto che – pur non essendo romano – probabilmente egli aveva imparato il latino alla
perfezione, alla romana, parlava come un romano, in modo perfetto, pertanto non aveva alcuna caratteristica negativa
(purificazione della propria lingua da qualsiasi tratto fonetico o di intonazione che potesse suonare estraneo alle
orecchie degli abitanti dell’Urbe). In realtà, anche di alcuni personaggi importanti, come imperatori non romani,
veniva messo alla berlina il modo di pronunciare la lingua latina (cfr. cap. 1.13). Nella Historia Augusta, si parla di
Adriano (76-138), imperatore spagnolo (117-138), e della prima volta che, ancora questore, andò in senato a
pronunciare un’orazione: pare che i senatori romani abbiamo cominciato a sghignazzare in maniera invereconda
sentendolo parlare. Adriano aveva quindi deciso di studiare il latino, fino al raggiungimento della perfezione. Non
possiamo sapere in maniera precisa cosa voglia dire l’agrestius utilizzato nella Historia per definire l’accento
dell’imperatore (che probabilmente corrisponde grossomodo al rusticus di Cicerone): possiamo ipotizzare che,
essendo Adriano spagnolo, pronunciasse il latino con una fonetica che a Roma sembrava ridicola, marcatamente
regionale, poiché si distaccava dal canone romano (pronuncia del latino alla spagnola).
Un secondo episodio riguarda un altro imperatore, Settimio Severo, imperatore tra il 193 e il 211: siamo nel periodo di
massima espansione dell’Impero romano. Settimio Severo era di origine africana, e la Historia Augusta, che racconta le
vicende, le vite e le particolarità di molti imperatori, afferma che aveva una bella voce (canorus voce), ma con un forte
accento africano (Afrum quiddam usque ad senectutem sonans). Anche in questo caso, probabilmente, si tratta di una
abitudine fonetica di pronuncia del latino che si discostava dallo standard che era ed è stato per lungo tempo il latino
di Roma. Tuttavia, l’imperatore, al di là della riconoscibilità regionale, conosceva molto bene il latino: non era un
problema di conoscenza della lingua, ma di inflessione. La sorella di Settimio, ad un certo punto, per la sua scarsa,
quasi nulla conoscenza del latino, provocò addirittura un certo imbarazzo all’imperatore, che la rimandò in Africa:
quello era un problema non solo di pronuncia, ma anche di poca conoscenza della lingua (cfr. il punico di Apuleio).

1.11 SERMO RUSTICUS E SERMO URBANUS

Il latino rustico sembra caratterizzarsi rispetto al latino urbano, senz’altro più vicino a quello che definiamo classico, sul
piano fonetico più che su quelli lessicale e sintattico, stando almeno alle testimonianze degli autori antichi tra II e I
secolo a.C. L’attenzione per questo latino nasce già con il primo diffondersi della lingua di Roma nella penisola italica. Il
maggior impulso alle tendenze innovatrici, soprattutto in campo fonetico, dovette venire dall’inurbarsi dei rustici; a
favorire il generalizzarsi di quelle innovazioni fu l’erosione del ceto colto sotto la pressione delle masse. Nel suo
insieme, insomma, la dislocazione della lingua fu conseguenza e manifestazione diretta della dislocazione sociale.
L’allusione alla preminenza decisiva del fattore sociale, contenuta nel termine “latino volgare”, non pare dunque priva
di giustificazioni (Roncaglia). Secondo alcuni, tra i motivi della diversificazione delle lingue romanze sarebbe da
annoverare il decentramento della vita sociale nelle campagne durante il periodo della crisi dell’impero (Tovar).

1.12 LATINO VOLGARE E LATINO CLASSICO

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Il latino volgare, che per riassumere al massimo intendiamo come lingua di uso quotidiano, come lingua
sostanzialmente parlata che si affianca al latino classico, è una lingua che va considerata come sincronica al latino
classico. Come tutte le lingue d’uso, il latino volgare è una realtà fluida, variata nel tempo, nello spazio, nella realtà
socio-culturale. È una lingua che si è diffusa in zone dove le popolazioni parlavano altri idiomi (le cosiddette lingue di
substrato), che sono stati sì abbandonati a favore della lingua del popolo vincitore, ma che hanno lasciato non poche
tracce nel latino parlato, soprattutto a livello fonetico e lessicale. Come tutte le lingue parlate, è soggetta a diverse
variazioni:
 VARIAZIONI DIACRONICHE  nel tempo;
 VARIAZIONI DIATOPICHE  nello spazio;
 VARIAZIONI DIAFASICHE  di registro.
Il substrato etnico, l’organizzazione sociale e culturale dei popoli conquistati, in certa misura anche la data più o meno
antica della colonizzazione determinano, o possono concorrere a determinare, le differenze locali che caratterizzano il
latino parlato. Più che di latino volgare al singolare, dunque, si dovrebbe parlare di latini volgari al plurale. Finché
l’impero ha resistito come entità politica, amministrativa e culturale, anche la coesione linguistica è stata garantita,
almeno parzialmente, dal latino; quando la costruzione imperiale ha cominciato a scricchiolare, per poi sfaldarsi, le
forze centrifughe hanno avuto la meglio, e le differenze tra le lingue parlate nelle diverse regioni dell’ex-impero si
sono accentuate.
Tra i sostenitori dell’esistenza del latino volgare, le posizioni sono diverse: si discute per esempio sul rapporto di
parentela tra latino volgare e latino classico. La maggior parte degli studiosi sostiene che si tratterebbe di lingue
“sorelle”, cioè di lingue sincroniche. Dal latino arcaico discenderebbero per evoluzione sia il latino letterario (scritto,
classico) sia il latino volgare (intendendo la lingua dell’uso quotidiano); dal latino volgare discenderebbero poi le lingue
romanze. Questo schema è solitamente accettato dalla grande maggioranza degli studiosi: il latino volgare va inteso
come una variante quotidiana, orale, parlata del latino. Pur essendo una lingua parlata in un’epoca in cui non si poteva
registrare la lingua parlata stessa, il latino volgare ci ha lasciato alcune testimonianze anche scritte, ed è la lingua da
cui evolvono, si dipartono le lingue che chiamiamo romanze.
Tuttavia, c’è chi ipotizza che il latino volgare sia una lingua “figlia” del latino classico: l’asse sarebbe dunque diacronico.
Questa corrente di pensiero è ben rappresentata d Witold Manczak. Secondo la tesi di questo studioso, le lingue
romanze derivano dal latino classico, mentre il latino volgare (attestato e ricostruito parzialmente) costituisce una
tappa intermedia tra il latino classico e le lingue romanze, visto che nella maggior parte delle etimologie la forma
protoromanza è identica a quella del latino classico.

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1.13 PRONUNCIA DEL LATINO

Lo stesso concetto di latino classico è complesso, e non sempre del tutto chiaro, sia che lo si consideri in certa misura
in opposizione al latino volgare, sia che lo si veda come uno stadio precedente a questo. Per comprendere il latino
volgare è necessario però non dimenticare il latino letterario, perché si può individuare il primo per contrasto dal
secondo, ma sempre tenendo presente che anche il latino classico è un’astrazione, in parte prodotta dalla scuola,
prima romana, che cercava di tenere in vita un’unità linguistica in un impero multilingue, con diversa padronanza di
essa. In più, lo stesso latino letterario non era perfettamente unitario, né sul piano sincronico, né sul piano diacronico.
Del resto, anche l’aggettivo classico può avere un valore sociale, come visto per l’aggettivo volgare: classico non è
infatti altro che l’aggettivo derivato da classe; più precisamente, classici erano detti gli appartenenti alla prima delle
cinque classi in cui la costituzione serviana aveva diviso, sulla base del censo, i cittadini romani.
Lezione: In realtà, il latino parlato dalle persone colte – pur essendo sicuramente molto vicino a quello che chiamiamo
latino classico – aveva, almeno già dal I secolo d.C., caratteristiche differenti da regione a regione: era possibile
riconoscere, almeno a grandi linee, la provenienza di colui che parlava (pur parlando un ottimo latino). Nonostante una
coesione abbastanza forte a livello di persone colte, di latino alto, doveva esservi una certa diversità di pronuncia.
Manuale: Si potrebbe pensare che il latino parlato dalle persone colte fosse piuttosto omogeneo sul territorio
dell’impero ancora a cavallo tra I e II secolo d.C.
Probabilmente, la vera differenza la faceva il latino di Roma: era immediatamente riconoscibile chi – pur parlando un
ottimo latino – non veniva da Roma. Plinio il Giovane, molto amico di Tacito, racconta nelle Epistulae che quest’ultimo
era a Roma e, tra un impegno e l’altro, andò al circo per divertirsi. Si sedette sulle scalinate del circo e accanto a lui vi
era un eques romano, un aristocratico, una persona di un certo livello: il romano chiese all’interlocutore se fosse
originario di una provincia italica (italicus) o di un’altra provincia, se fosse Plinio o Tacito.
Evidentemente, non era tanto riconoscibile la pronuncia fuori Roma (italico o di un’altra provincia; Tacito era
originario della Gallia Narbonese, veniva dal sud della Francia, dalla Gallia; Plinio era originario della Gallia Cisalpina, di
Como. Le due parlate dovevano essere tutto sommato piuttosto simili): ciò che davvero faceva la differenza era
l’origine non romana di Tacito; il cavaliere romano aveva individuato subito che il suo interlocutore non era di Roma.
Alle orecchie dell’eques, dunque, il latino parlato dal grande storico non differiva da quello di Plinio. La parlata di

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Roma, che doveva rappresentare lo standard, il punto di riferimento della lingua latina, doveva essere
immediatamente riconoscibile.
L’accento provinciale era dunque anche nelle classi elevate, ma chi aveva incarichi importanti doveva eliminare la
cadenza della propria regione d’appartenenza e parlare il latino standard, cioè quello di Roma. Non si tratta, tuttavia,
di una vera e propria prescrizione, quanto piuttosto di un desiderio personale di miglioramento linguistico, che però
non è di tutti (cfr. i casi di Adriano e Settimio Severo).

1.13 LATINO VOLGARE: CRONOLOGIA DELL’EVOLUZIONE

Le forze centrifughe, ad un certo punto, hanno iniziato a prevalere sulle forze centripete, e l’impero ha cominciato a
frantumarsi linguisticamente; è stato comunque un processo molto lento. Le differenze, presenti già in origine,
permettevano a tutti di capirsi nell’impero; lentamente, le maglie si sono allargate, e le differenze si sono fatte più
profonde. Un grande studioso del latino volgare, Jószef Herman, ha scritto che “la coscienza linguistica diventa una
coscienza di crisi, per coloro, ovviamente, che arrivano ad avere una cognizione metalinguistica esplicita (…) a partire
dall’VIII secolo”: coloro che potevano ragionare sulla lingua, sul mezzo linguistico, che avevano gli strumenti per capire
se la lingua stava evolvendo, affermano che la crisi si innesca davvero a partire dall’VIII secolo (piuttosto avanti nel
tempo, considerando che l’Impero romano d’Occidente cade nel V secolo: la data simbolo è il 476; l’Impero romano
d’Oriente andrà avanti ancora mille anni prima della caduta di Costantinopoli, avvenuta nel 1453). Prima di
quest’epoca tutti sono convinti di parlate latino, e le persone colte, d’altra parte, usano una lingua scritta che, pur con
le incertezze grammaticali di cui gli stessi scrittori sono in parte consapevoli, è ancora considerata “latino”.
Secondo Herman, fino all’VIII secolo, gli illetterati, coloro che non avevano un bagaglio culturale, capivano il latino
parlato dai letterati, e i letterati – a loro volta – capivano tutto ciò che trovavano nei testi. Fino a quest’epoca, cioè, il
latino doveva essere tutto sommato omogeneo, o quantomeno vi era la possibilità di capirsi anche su distanze
geografiche importanti.
Anche se è vero che l’Impero romano entra in crisi molto prima dell’VIII secolo, è una forzatura voler anticipare
troppo, rispetto all’VIII secolo, anche la crisi linguistica (ciò non è testimoniato da alcun tipo di documentazione): le
due cose non sarebbero andate di pari passo. La crisi e la caduta dell’Impero romano sono una cosa; la crisi della
lingua latina parlata, fino ad un punto in cui le lingue parlate nei territori dell’Impero sono tanto diverse che non si può
più nemmeno parlare di latino, è un’altra cosa.
Parliamo di un processo molto lento, che ha delle tappe non per noi facilmente riconoscibili: non riusciamo a tracciare
delle coordinate cronologiche precise per un fenomeno così fluido come è la transizione dal latino alle lingue romanze.
Tuttavia, è possibile individuare alcuni momenti di cambiamento, seguendo l’evoluzione dei fatti fonetici e
morfologici: secondo Herman, vi sono mutamenti precoci, che intervengono entro il VI secolo, e mutamenti tardivi,
che si rivelano tra VI e VIII secolo. Nell’VIII secolo, manifestatisi tutti i mutamenti fonetici e morfologici, si arriva ad un
momento in cui non esistono più un latino o vari latini parlati nel territorio dell’impero (pur diversi, più o meno
comprensibili), ma lingue diverse rispetto al latino. I FENOMENI più antichi sono anche generalmente
PANROMANZI: proprio per il fatto di essere antichi, si trovano in tutte le lingue romanze o nella maggior parte di
esse. I mutamenti tardivi, avvenuti tra VI e VIII secolo, non sono quasi mai panromanzi. L’evoluzione dei dittonghi latini
AE e OE ne è un esempio: nessuna lingua romanza li ha mantenuti. Il monottongamento (AE > E aperta, con evoluzione
uguale alla E breve latina; OE > E chiusa, con evoluzione uguale a quella della E lunga latina) dei due dittonghi risale
pertanto ad un’epoca molto antica (fenomeno panromanzo). Altra cosa è il dittongo di AU, terzo dittongo latino: il
monottongamento di AU è un fenomeno più tardivo, perché vi sono lingue romanze che lo mantengono, come il
provenzale o il romeno (fenomeno non panromanzo). Non sappiamo quando si siano monottongati AE e OE, e quando
si sia monottongato AU in alcune lingue romanze, ma sappiamo per certo che i due fenomeni sono uno più antico e
l’altro più recente (sono stati fenomeni verosimilmente prolungati nel tempo, perché un fenomeno fonetico o
morfologico non si risolve nel giro di poco). È insomma possibile stabilire una cronologia relativa, affermando che un
fenomeno è più antico rispetto ad un altro.

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Possiamo tentare di tracciare alcune linee, sull’esempio dell’evoluzione di alcuni fatti fonetici e morfologici. I fenomeni
che prendiamo brevemente in considerazione sono:
1. CADUTA DELL’OPPOSIZIONE QUANTITATIVA  il sistema vocalico latino distingueva le vocali lunghe
dalle vocali brevi. Cicerone ci dice in modo esplicito che, per colui che ha il latino come lingua materna, la
capacità di distinguere le vocali lunghe dalle vocali brevi è un fatto naturale, anche per le orecchie popolari
(cfr. Orator: la natura stessa gli ha posto nelle orecchie la capacità di distinguere tutte le lunghe e le brevi nei
suoni, nonché l’acutezza e la gravità delle voci).
A partire dal III secolo d.C., aumentano gli errori di versificazione nelle iscrizioni, e senz’altro prima della fine
del IV secolo l’opposizione quantitativa non è più sentita, avendo ceduto il passo a un’opposizione di tipo
timbrico: al sistema lunga/breve subentra il sistema chiusa/aperta. Sant’Agostino è un attento osservatore
anche dei fatti linguistici, e la sua testimonianza è preziosa (cfr. De doctrina christiana, 426 d.C., e
Enarrationes in Psalmos: le orecchie degli africani non sono in grado di percepire la brevità o la lunghezza
delle sillabe; ad un certo punto, per esempio, non riuscivano a distinguere ŏs, “osso”, da ōs, “bocca”);
La diversa evoluzione delle lingue romanze (non tutte infatti hanno lo stesso sistema timbrico) prova che il
passaggio da sistema quantitativo a sistema timbrico si conclude durante l’ultimo periodo dell’impero;
2. SCOMPARSA DELLE CONSONANTI FINALI  la consonante -M scompare precocemente dal latino, tant’è
che nessuna lingua romanza la conserva, tolti alcuni monosillabi, nei quali peraltro passa solitamente a -n,
almeno nella grafia (es. CUM > it., sp. con; la realizzazione di questa n varia a seconda della consonante che
segue: in con te è una nasale alveolare /n/, ma in con foga è una nasale labiodentale /ɱ/); le iscrizioni ci
informano abbondantemente su questo fenomeno.
Più complesso il caso della -S, la quale – caduca nel latino arcaico – viene reintrodotta nel latino classico e in
genere nella lingua letteraria. Gli esempi di caduta di questa consonante sono dapprima assai meno frequenti
di quelli della perdita della -M, infittendosi a partire dal VII-VIII secolo (soprattutto in testi di origine italica). La
pronuncia della -S si mantiene per tutto il periodo dell’impero, e infatti in molte lingue romanze (soprattutto
in quelle occidentali) questa consonante viene mantenuta, anche se l’evoluzione verso la sua scomparsa
fonetica, non grafica, continua in epoca già romanza: si pensi al francese, nel quale la -s finale si pronuncia
solo in determinare circostanze.
La -T finale segue più o meno le orme della -S.
3. INDEBOLIMENTO DELLE CONSONANTI INTERVOCALICHE  l’indebolimento fino all’eventuale
scomparsa delle consonanti occlusive intervocaliche non è un fenomeno né panromanzo, né che interessa
tutte le consonanti. Se è vero che la -B- si indebolisce (si spirantizza) in pressoché tutte le lingue romanze, e la
sua confusione con la -V- è diffusa, è anche vero che per le altre consonanti occlusive intervocaliche
l’evoluzione è molto più frastagliata. Se si prende il caso di -T- > -d-, si osserva che gli esempi del fenomeno
sono sporadici fino al VI secolo, epoca in cui cominciano a infittirsi, almeno in certe zone romanze (per
esempio in Gallia). Anche in questo caso, l’evoluzione non si ferma con l’avvento della lingua romanza,
giacché la scomparsa della consonante in francese è attestata prima del X secolo, ma la sua presenza come
consonante spirantizzata è attestata in alcune tra le testimonianze più antiche del francese scritto:
Giuramenti di Strasburgo, Santa Eulalia, Vie de saint Alexis;
4. AFFRICAZIONE  l’affricazione di consonante + iod e del semplice iod è un fenomeno precoce, e si realizza
completamente prima della caduta dell’impero. A partire dai secoli II-III, ci sono molti esempi di affricazione
di K e T + iod, garantiti dalle grafie: CI, S, TZ, TS per il classico TI; TI, TZ, S per il classico CI. Ci sono poi alcuni
grammatici che parlano, come di un fenomeno diffuso in questi casi, della pronuncia ts, cioè affricato-
alveolare sorda (la z sorda).
È precoce anche la confusione grafica di DI, I, GI, GE che attesta una pronuncia affricato-palatale sonora ( ʤ,
affricata prepalatale sonora) o affricato-alveolare: Giovi per Iovi, zaconus o ziaconus per diaconus, genuaria
per ianuaria. Per quanto riguarda invece K E, I gli esempi di affricazione (palatale sorda) sono sporadici prima
della caduta dell’impero;
5. CADUTA DEL SISTEMA DEI CASI  la declinazione sembra resistere bene per un certo tempo: nel
Satyricon di Petronio (I secolo d.C.) si confondono i maschili con i neutri, ma in genere i casi sono usati

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correttamente. Verso la fine del II secolo, tuttavia, si percepiscono numerose difficoltà nella declinazione, e la
confusione funzionale tra dativo e genitivo è molto ben attestata a partire dal III secolo; nello stesso periodo,
in alcune zone si diffonde l’uso dell’accusativo per il nominativo.
A partire dal IV-V secolo, le iscrizioni testimoniano la perdita della declinazione anche a Roma: l’incertezza sul
funzionamento dei casi è generalizzata, rafforzata da fenomeni fonetici quali l’estinzione della quantità e la
caduta della -M finale. La scomparsa della declinazione non segue però percorsi lineari: probabilmente prima
che scompaia del tutto c’è un periodo di declinazione bi- o tricasuale, e nella Gallia rimane la declinazione
bicasuale anche in epoca letteraria romanza, come testimoniano i testi in antico francese e in provenzale
almeno fino a tutto il XIII secolo. In romeno rimane tuttora un sistema di declinazione che distingue la coppia
nominativo/accusativo dalla coppia genitivo-dativo;
6. NUOVE FORME VERBALI ROMANZE  tra le innovazioni morfologiche della coniugazione c’è la creazione
di un nuovo futuro romanzo. Il punto di fragilità maggiore del futuro classico è la terza persona singolare: a
causa della confusione tra -B- e -V-, il futuro laudabit veniva pronunciato in modo molto simile al perfetto
laudavit; e infatti per lungo periodo il nuovo futuro romanzo (nato dalla perifrasi formata da infinito del verbo
+ habeo) viene usato solo in questa persona. Si deve dunque supporre che il futuro classico sia stato
soppiantato da una neoformazione romanza solo dopo un periodo di coniugazione mista.
Un’altra innovazione riguarda il passivo, che dal sintetico laudor del latino classico passa al perifrastico sum
laudatus presente nelle lingue romanze. Ma il passivo non è diffuso nella lingua parlata, e infatti la resistenza
della forma classica è attestata ancora nei Sermones di Sant’Agostino: l’uso del passivo sintetico in testi
destinati a un largo pubblico, anche di illetterati, dimostra che tale forma era ancora ben compresa nel IV
secolo.
Riassumendo:
 Mutamenti precoci che si sono manifestati presto e che si sono conclusi entro il VI secolo (sono tutti
mutamenti panromanzi)  caduta del sistema quantitativo a favore del sistema timbrico; caduta di -M finale;
affricazione di K e T + iod, affricazione di D + iod e G + iod, affricazione di G E, I; perdita dei casi e passaggio a un
sistema bi/tricasuale;
 Mutamenti tardivi che iniziano intorno al VI secolo e si concludono verso l’VIII o addirittura il IX secolo; in
realtà, in alcuni casi si tratta di evoluzioni che proseguono ancora nelle lingue romanze ormai affermate
(mutamenti quasi mai panromanzi)  caduta di -S finale, che arriva a conclusione tra VI e VIII secolo, e in
alcune zone (Gallia) continua anche oltre; liquidazione totale del sistema dei casi, tranne che in Gallia e in
Romania, dove si mantiene allo stato embrionale; innovazioni morfologiche nella coniugazione; nuovo futuro,
nuovo passivo e creazione del passato prossimo e del condizionale.
Intorno all’inizio del V secolo si intensificano le prove della differenziazione geografica del latino, come dimostrano in
particolare le iscrizioni. Se è vero che, soprattutto in quelle private, lo scarto dalla norma classica sembra essere più o
meno lo stesso in tutte le regioni dell’antico impero, è anche vero che certe caratteristiche sono più presenti in una
regione che in un’altra, e rivelano quindi delle tendenze regionali, anche se non è sempre agevole distinguere una
deviazione dalla norma che riflette un mutamento fonetico o morfologico da un semplice errore meccanico di
scrittura. Un caso interessante è il trattamento delle vocali postoniche nei proparossitoni. Partendo dal presupposto
che un fonema stabile ha una rappresentazione stabile nella grafia, per quanto riguarda le vocali atone in questione,
una manifesta incertezza di resa grafica potrà significare anche una pronuncia debole, che volge verso lo schwa
(vocale centrale media), per poi tramutarsi in sincope vera e propria: le iscrizioni della Gallia mostrano il numero più
elevato di incertezze grafiche, seguite da quelle della Penisola iberica e dell’Italia settentrionale. Questi esempi
provano in anticipo ciò che succederà:
 Tendenza al mantenimento dei proparossitoni in Italia;
 Scivolamento verso i parossitoni in Francia, nell’Italia settentrionale (dove si diffonderanno poi gli ossitoni) e
in Spagna.
Verso il V secolo, insomma, il latino parlato nei territori dell’impero non era una lingua unitaria, benché non si
evidenziassero differenze particolarmente profonde tra le province: l’esame statistico delle iscrizioni permetterebbe di
individuare le differenze linguistiche che separano l’una dall’altra le varietà latine delle province (Herman).

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Il processo di trasformazione è dunque molto lento e graduale, e nello stesso tempo non sempre omogeneo: ci sono
cambiamenti panromanzi e cambiamenti geograficamente circoscritti. Passando attraverso una fase di sostanziale
diglossia, in cui i due livelli estremi della lingua coesistono ma si allontanano sempre di più, fino a richiedere un’opera
di intermediazione per garantire l’atto comunicativo, si giunge alla nascita delle lingue romanze, che rappresenta in
realtà solo una tappa intermedia dell’incessante processo di evoluzione linguistica. Dunque, la cosiddetta “nascita
delle lingue romanze” non è un fatto traumatico.
La fucina dentro la quale tutto ciò si prepara con consapevolezza più o meno piena è il periodo della renovatio
carolingia, il cui fulcro culturale consiste nella riforma scolastica affidata da Carlo Magno al monaco Alcuino di York. Le
invasioni barbariche, la caduta dell’impero di Occidente e il conseguente impoverimento culturale avevano messo a
dura prova la purezza del latino, che si era piegato alle esigenze nuove: il regolare contatto prevalentemente orale con
dominatori poco o non romanizzati obbliga gli indigeni, maggioritari e di cultura superiore, a usare un latino parlato
pidginizzato, cioè foneticamente, morfologicamente e sintatticamente così semplificato da permettere una rapida
comunicazione elementare.
Poiché le lingue romanze si sviluppano dal latino volgare con una lenta evoluzione, evidentemente non è possibile
stabilire la loro data di nascita.; è possibile, però, fissare le coordinate che segnano alcune tappe di questa evoluzione.
Ci si rende conto in maniera definitiva che qualcosa è cambiato dal punto di vista linguistico quando si manifesta una
frattura tra il mondo antico, latino, e il mondo più recente, in cui vi sono lingue che non si possono più chiamare
latino. La più antica presa di coscienza di questo fatto ha una data simbolica, l’813 (non una data di nascita delle lingue
romanze, ma una data di presa di coscienza del fatto che la frattura si è verificata).

1.14 IL CONCILIO DI TOURS

L’813 è la data del concilio di Tours: in piena epoca carolingia, i vescovi che si ritrovano a Tours e stilano il documento
finale dell’incontro si rendono conto del fatto che non si può più predicare in latino, perché la gente non capisce nulla.
I vescovi prendono coscienza del fatto che bisogna tradurre le omelie (spiegazioni del testo sacro, parte importante
dell’educazione dei fedeli) pensate e scritte in latino in rusticam romanam linguam (lingua romanza; viene peraltro
mantenuto l’aggettivo rusticam utilizzato da Cicerone per definire il latino parlato di livello basso. La doppia
aggettivazione, rustica romana, è dovuta agli scrupoli di chiarezza della burocrazia ecclesiastica. L’aggettivo romanus
poteva essere equivocato, dal momento che l’espressione romana locutione equivaleva a “latino colto”; pochi anni
dopo, nella Historia filiorum Ludovici Pii, giunto al momento di parlare del giuramento tenutosi a Strasburgo tra
Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, nell’842, a Nitardo basterà usare l’espressione romana lingua per segnalare l’)
aut thiotiscam (lingua tedesca: l’Impero carolingio si espande su più territori, in alcuni dei quali si parlano lingue che
derivano dal latino; in altri si parlano lingue germaniche), quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur (“affinché
tutti possano capire ciò che viene detto, le cose che vengono dette”). Ciò non significa che l’813 sia la data di nascita
delle lingue romanze, perché si dà già per scontato che gli illetterati, coloro che non hanno studiato, non capiscono più
ciò che gli viene detto in latino. L’autorità ecclesiastica non fa altro che prendere atto di una frattura linguistica che
divide nettamente in due la società, separando i litterati (appartenenti al clero) dagli illitterati.
All’incirca da un secolo, il latino veniva capito poco dai fedeli: il problema non era tanto costituito dalla liturgia, le cui
formule erano note, ma dall’omelia, la spiegazione del testo sacro, il sermone che doveva essere compreso dal
pubblico. I vescovi carolingi, ovviamente, si rendono conto di questo fatto non nel momento in cui si crea la frattura,
ma in un momento in cui la frattura esiste già, e chissà da quanto.
Carlo Magno aveva come obiettivo anche quello di introdurre un’istruzione molto elevata, voleva migliorare il sistema
scolastico che, dopo la crisi dell’Impero romano, si era disfatto. L’obiettivo di insegnare il miglior latino possibile
provoca una presa di coscienza del fatto che la lingua scritta, il latino, e la lingua parlata non sono più la stessa cosa.
Nelle scuole carolinge si recuperano i testi classici, e la ripresa dello studio del latino sui classici fa percepire la
distinzione della lingua scritta dalla lingua materna. I primi decenni del IX secolo sono uno spartiacque molto
importante dal punto di vista linguistico: a partire da quegli anni, si innalza lo standard della lingua scritta (il latino), e
l’innalzamento dello standard provoca una netta divisione tra lingua scritta e lingua parlata. Ciò non era così netto nel

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periodo nel precedente: negli scritti latini del periodo merovingico (epoca di forte crisi culturale), il latino usato anche
per la lingua scritta è molto diverso dall’epoca successiva. Basta leggere alcune righe di uno dei più importanti autori
dell’epoca merovingica, Gregorio di Tours, autore dell’Historia rerum francorum, per avere un esempio di latino
grossus, “grossolano”, non classico (che ha ricominciato ad essere studiato in maniera approfondita con le scuole
carolinge, appunto). Carlo Magno affidò al monaco Alcuino di York, come si è detto, la ristrutturazione del sistema
scolastico, che portò a quella frattura.
Le persone colte, ovviamente, continuavano a comunicare tra di loro in latino, pertanto si capivano nonostante la
diversa provenienza dai territori dell’impero. Il latino, secondo una felice espressione coniata da Herman, diventò una
“lingua senza popolo”: era una lingua nella quale si esprimevano (e scrivevano) le persone colte, verosimilmente
molto vicina al latino scritto, ma nessuno nasceva parlandola, non era una lingua materna (come accadeva in epoca
classica, perché la lingua quella era). Il latino veniva studiato dalle persone colte a scuola, ma non veniva imparato in
famiglia né utilizzato nell’infanzia.
Prima che si arrivi alla metà del IX secolo, compare la prima attestazione scritta in una lingua romanza (in base ai
documenti pervenutici), i giuramenti di Strasburgo del 14 febbraio 842 (tutto sommato poco tempo dopo il concilio di
Tours dell’813). Il testo è inserito in un’opera storica latina, la storia dei figli di Ludovico il Pio, figlio a sua volta di Carlo
Magno: la storia è scritta in latino, perché quella era la lingua dei letterati, per chiunque volesse scrivere. Giunto al
momento di raccontare l’episodio dei giuramenti di Strasburgo, l’autore decide di inserire nella sua opera latina il
documento nelle lingue usate al momento del giuramento (il giuramento in lingua romanza e quello in lingua tedesca:
i due sovrani che si giurano fedeltà reciproca sono Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, parlanti rispettivamente una
lingua romanza, un francese particolare, e l’antico tedesco). Quei giuramenti non vengono tradotti in latino, ma
vengono riprodotti nella lingua originale. Le lingue romanze cominciano rapidamente la loro storia, che le porterà –
dopo alcuni decenni – a produrre le prime opere letterarie. La prima opera che può essere considerata letteraria
scritta in una lingua romanza è proprio della fine del IX secolo, dell’881-882 circa, ed è un testo in francese.

1.15 19 FONTI DEL LATINO VOLGARE

Il latino volgare che ci fornisce la base dell’evoluzione delle lingue romanze è una lingua parlata, e in quanto tale
abbiamo scarse testimonianze. Le cosiddette FONTI DIRETTE del latino volgare (fonti che ci permettono di conoscere
direttamente qualcosa del latino volgare, che ci trasmettono scritto qualcosa del latino volgare) ci pervengono da
grammatici, autori arcaici, classici e tardi (Plauto, Cicerone, Petronio), da iscrizioni, glossari, trattati tecnici, storie,
cronache e da autori cristiani. Noi ci occuperemo, in particolare, dell’Appendix Probi, che rientra nella prima categoria
(testimonianze dirette da grammatici). Non si tratta di un vero e proprio trattato grammaticale, bensì di un repertorio
di forme scorrette ma proprio per questo fortemente indiziarie di uno status volgare. il manoscritto unico che
contiene l’Appendix è un palinsesto scritto intorno al 700 a Bobbio (attualmente conservato dalla Biblioteca Nazionale
di Napoli), che trasmette un’opera grammaticale, gli Instituta artium, con cinque appendici (solo materiali, senza alcun
rapporto di composizione con l’opera che precede), la terza delle quali è la nostra. Il nome Appendix Probi si deve al
fatto che un tempo si attribuivano gli Instituta artium a Marco Valerio Probo, famoso grammatico vissuto nel I secolo
d.C. In realtà, è ormai stato dimostrato che l’autore degli Instituta, il cui nome è incerto, è vissuto in un’epoca assai più
tarda.
L’Appendix Probi è un elenco di 227 parole, nel quale un maestro di scuola ha messo, una accanto all’altra, la forma
corretta secondo i canoni del latino letterario, classico e la forma sbagliata di latino volgare (si dice A, non B). Per noi,
chiaramente, è molto utile, perché ci dà una serie di informazioni su alcuni fenomeni, soprattutto di tipo fonetico, che
si erano verificati nella lingua. Peraltro, l’Appendix Probi è un testo relativamente tardo: alcuni la collocavano nel III-IV
secolo, altri studiosi nel V-VI; probabilmente hanno ragione questi ultimi. Il maestro di scuola non registra l’uso dei
suoi studenti, se non in parte: la lista di parole si basa grandemente su fonti precedenti, vengono registrati fenomeni
che non sono del V-VI secolo, ma di molto precedenti. Colui che stila l’Appendix Probi trae gli esempi non tanto dalla
realtà a lui contemporanea, ma piuttosto da fonti più antiche, come promemoria per non commettere gli errori dei
secoli precedenti.

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 GRAMMATICI  la lista dei puristi che si pronunciano su forme scorrette o ritenute tali è molto lunga: da
Appio Claudio (verso il 300 a.C.) allo Pseudo-Virgilio (VII sec.), a Paolo Diacono (740-801). Il fatto che i
grammatici si siano tanto interessati alle forme considerate sbagliate rispetto alla lingua standard rivela che
tali forme erano spesso entrate nell’uso anche delle classi elevate. I grammatici hanno lo scopo di illustrare la
lingua normata, standard: tutte le deviazioni dalla norma che essi registrano e che bollano come errori sono il
sintomo di un’evoluzione linguistica. Certo, sono errori se li si considera dal punto di vista della grammatica
latina; ma rappresentano la lingua parlata, viva, usata normalmente. Infatti, in molti casi, questi stessi errori
vengono ritrovati nelle lingue romanze, sono i prodromi delle evoluzioni che portano alle lingue romanze;
 AUTORI LATINI ARCAICI, CLASSICI E TARDI  Cicerone è l’emblema, il simbolo del latino che chiamiamo
classico, è il latino classico vivente. All’interno delle sue opere, in effetti, non possiamo dire che ci siano
volgarismi: in qualche caso, più per snobismo suo che non per altro, nelle lettere ai famigliari ( Epistolae ad
familiares), certo non nelle orazioni e nelle opere filosofiche, si trova qualche volgarismo (dimostrazione
dell’abilità di usare una lingua che non è il latino classico), come il monottongamento del dittongo AU (piano
fonetico; fenomeno successivo al monottongamento di AE ed OE, attestato in epoca precedente a Cicerone.
es. olla per aula, “pentola”; oricula invece di auricula, diminutivo di auris, “orecchio”. La forma auricula,
diminutivo, ad un certo punto sostituirà auris, perdendo il significato di diminutivo: l’italiano orecchia, il
provenzale aureglia e il francese oreille sono dimostrazione di ciò1) e l’utilizzo di bellus in luogo di pulcher.
Cicerone opta spesso per la costruzione preposizionale a scapito dei casi, fenomeno che caratterizza la
morfologia nominale del latino volgare e poi delle lingue romanze (es. scribere ad meum fratrem e non
scribere fratri meo).
Certo più importanti sono i testi arcaici e tardi, non perché Plauto o Petronio non conoscessero abbastanza
bene il latino, ma perché utilizzavano i volgarismi sapendo ciò che facevano. Plauto è il più grande autore
latino arcaico di commedie, e mette in scena spessissimo personaggi non colti, facendoli parlare con
espressioni che appartengono al latino volgare (“fra tutti gli autori latini precedenti lo sviluppo di una
letteratura cristiana, è quello che ci offre la visione più esatta del linguaggio popolare”, Elcock): un termine
che nei vocabolari troviamo come neutro, per esempio, può essere utilizzato al maschile; lo stesso accade in
Petronio (es. nasus per nasum, collus per collum, ecc.). La scomparsa del neutro è uno dei fenomeni che
ritroviamo nelle lingue romanze (rimane in qualche caso nel romeno, ma in linea di massima le lingue
romanze hanno solo maschile e femminile): ciò non significa che i vocaboli neutri scompaiono, bensì che
passano dal neutro al maschile nella maggior parte dei casi. A volte, in questi autori ritroviamo forme che non
sono classiche ma che avranno fortuna nelle lingue romanze: invece che utilizzare l’aggettivo magnus, Plauto
ricorre a grandis; invece dell’aggettivo pulcher, impiegato da Cicerone, in Plauto troviamo bellus e formosus;
questi ultimi due aggettivi proseguiranno nelle lingue romanze (pensiamo all’italiano bello e allo spagnolo
hermoso), mentre pulcher scomparirà completamente.
In realtà, l’emersione nel latino tardo e nelle lingue romanze di fenomeni tipici del latino arcaico va
considerata caso per caso: può sembrare, per esempio, che certi fatti della lingua di Plauto prefigurino
fenomeni presenti nelle lingue romanze, ma le somiglianze potrebbero essere più apparenti che reali (es.
l’utilizzo di ecce + ille/iste in condizioni molto particolari, diverse, parrebbe, da quelle che favoriscono la
nascita dell’it. quello/questo; lo scambio di genere dei sostantivi sembra coinvolgere i tre generi a più vasto
raggio rispetto al movimento che caratterizza il passaggio alle lingue romanze, che vede la perdita del neutro
a vantaggio quasi esclusivo del maschile).
Famoso è il Satyricon, romanzo di Petronio (che la maggior parte degli studiosi identifica nel famoso arbiter
elegantiarum della cerchia neroniana, che lo stesso imperatore convinse al suicidio nel 66 d.C. Se il Petronio
autore del Satyricon fosse questa persona, non possiamo non affermare che avesse una grandissima cultura,
o al contrario che non conoscesse il latino), giunto fino a noi solo in frammenti: nel celeberrimo episodio della
cena di Trimalchione, della Cena Trimalchionis (“vivacissima rappresentazione ambientata in una città
fortemente grecizzante dell’area napoletana e incentrata sulla figura di Trimalcione, liberto di scarsa cultura
ma smisuratamente progredito nella ricchezza e nella scala sociale, e dei suoi convitati, appartenenti tutti più
o meno al suo ceto originario”, Zamboni), vi sono liberti arricchiti poveri di cultura, che parlano utilizzando

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espressioni non del latino classico (usano per esempio preposizioni in modo diverso da quello corretto del
latino classico). Anche autori latini a tutti gli effetti, dunque, possono darci informazioni su quel latino che
classico non è.
1
Questo fenomeno nasce dall’uso linguistico famigliare, in cui spesso si utilizzano diminutivi e vezzeggiativi,
che talvolta non hanno pienamente il significato di alterato.
 ISCRIZIONI  non intendiamo le iscrizioni ufficiali, che troviamo per esempio sugli archi di trionfo (il lapicida
aveva un testo da scrivere, ed era in perfetto latino), per le quali ci si serviva di scriptores che usavano il latino
letterario, ma quelle spontanee, estemporanee, le scritte sui muri, che abbondavano nell’antica civiltà
romana. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce decine di migliaia di iscrizioni in tutto il territorio
dell’impero (la raccolta più importante è il Corpus Inscriptionum Latinarum, CIL, che raccoglie circa 180.000
iscrizioni, ed è in continuo aggiornamento).
Particolarmente importanti per noi sono le iscrizioni di Pompei, in gran parte sopravvissute grazie all’eruzione
del Vesuvio del 79 d.C., che ha cristallizzato la vita. Si tratta di scritte di ogni tipo: imprecazioni, motteggi,
insulti, dichiarazioni di voto, messaggi erotici. I tratti “volgari” di queste iscrizioni sono ben attestati:
 Sonorizzazione delle occlusive sorde in posizione intervocalica (logus per locus);
 Caduta di -M finale;
 Sincope (caduta di una vocale atona e, a volte, di una consonante, soprattutto in posizione post-
tonica; es. fridam per frigidam);
 Monottongazione dei dittonghi (Phebus per Phoebus);
 L’uso dei diminutivi, tipico del linguaggio familiare (ocellos per oculos);
 Il passaggio di iod di I o E in iato (peria per pereat, dove c’è anche la caduta della consonante finale);
 Riduzione di certi nessi consonantici, come NS > S (mesa per mensa), testimoniati anche da
ipercorrettismi (formonsus per formosus).
Due sono le tipologie di iscrizioni: quelle incise, che resistono più a lungo, e quelle dipinte, maggiormente
soggette alla scomparsa. Le iscrizioni spontanee sono realizzate certo da persone che hanno almeno la cultura
sufficiente per scrivere, ma in un latino a cui sono abituati, che molto si avvicina al latino parlato. Tali iscrizioni
presentano vari fenomeni che poi si ritrovano in alcune lingue romanze, in particolare nell’italiano;
 GLOSSARI (LESSICOGRAFI E GLOSSOGRAFI)  vocabolari rudimentali, liste di parole accompagnate da
traduzione (parole latine con traduzione in una lingua decisamente vicina al volgare, oppure liste di parole in
latino classico con una traduzione accanto o soprascritta in un latino più vicino a quello parlato) di parole e
costruzioni considerate estranee all’uso del tempo (attraverso i cosiddetti interpretamenta). Vero iniziatore di
questo “genere” è Pompeo Festo (II sec. d.C.), che epitomò il De verborum significatione dell’erudito di età
tiberiana Verrio Flacco. Il più noto lessicografo latino è senz’altro Isidoro di Siviglia (570 c.a.-636), che nelle
sue Origines sive etymologiae fornisce numerose indicazioni sul latino tardo e popolare.
Un glossario di particolare importanza è quello di Reichenau, località sulla sponda tedesca del lago di
Costanza: pur trovandosi lì, il manoscritto (del IX secolo) è stato stilato verosimilmente nel nord della Francia
(prima parte del glossario: spiegazione di alcune espressioni tratte dalla Bibbia; seconda parte: glossario
alfabetico). Le glosse spiegano parole latine con altre parole latine vicine al latino parlato; in alcuni casi, vi
sono parole che sopravvivono solo nel francese: possiamo desumerne che il latino volgare in cui vengono
“tradotte”, spiegate alcune parole del latino classico fosse quello parlato in Gallia. Ad esempio, caseum,
“formaggio”, viene glossato, spiegato con la parola formaticum. In Italia settentrionale, si usa formaggio,
francesismo, laddove in altre parti d’Italia si utilizza più spesso la parola cacio, in senso generico, che continua
caseum. Caseum ha dato queso in spagnolo, queijo in portoghese, käse in tedesco, cheese in inglese; perché
dunque viene glossata? L’unica zona in cui il caseum non era più capito nell’VIII secolo (epoca a cui risalgono
le glosse) era quella zona del nord della Francia, dove nasce la parola formage, che nel francese moderno
diventa fromage, e che passa all’italiano formaggio. Probabilmente, alla base, vi era un tipo di lavorazione
particolare del formaggio, il caseum formaticum, il cacio messo in una forma; cadde poi caseum e rimase solo
formaticum;

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 TRATTATI TECNICI  per la loro natura, hanno – soprattutto a livello di vocabolario – molte parole che il
lessico classico non utilizza. Il più famoso architetto romano, Marco Vitruvio Pollione, che scrisse un trattato
di architettura nell’epoca di Augusto, affermò non architectus potest esse grammaticus, “un architetto non
può essere anche un grammatico”, a giustificare il fatto che la lingua usata era particolare, si discostava per
certi fatti dalla lingua classica. La materia era tecnica, dunque era necessario usare una lingua particolare. I
trattati tecnici spaziano dalla medicina e dalla veterinaria alle ricette culinarie, ai testi di mineralogia e
agricoltura, e ci lasciano un patrimonio anche lessicale molto importante dell’uso del latino parlato;
 STORIE E CRONACHE  a partire soprattutto dal VI secolo, c’è un fiorire di opere storiche scadenti, senza
pretese letterarie, utili sotto il profilo linguistico. Abbiamo ricordato l’Historia francorum di Gregorio di Tours,
che scrisse nel VI secolo in un latino non propriamente eccelso (lui stesso ne era consapevole, non era
imbutus, ricco del latino classico, dell’arte grammatica);
 AUTORI CRISTIANI  la lingua è considerata come uno strumento che serve, prima di tutto, per comunicare,
spesso a persone non particolarmente colte. Ciò che importava loro era che il messaggio arrivasse in modo
corretto: poco importavano lo stile e la lingua utilizzati. Sant’Agostino, autore latino di grandissimo rilievo,
originario del nord dell’Africa, scriveva in un suo commento ai salmi (Enarrationes in Psalmos) melius est
reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi, “è meglio che ci rimproverino i grammatici,
piuttosto che non ci capiscano i popoli”. È possibile utilizzare parole strane, forme non del latino classico,
maschili al posto dei neutri: quello che conta è che la gente capisca. Nel De doctrina christiana, una delle sue
opere più famose, Sant’Agostino afferma molto esplicitamente che non deve curarsi di usare la preposizione
inter correttamente, con il caso opportuno: chi lo sente, chi lo legge dev’essere in grado di intenderlo, non
presta attenzione ad un ablativo in luogo di un accusativo.
Con il passare del tempo, queste testimonianze si infittiscono e si ripropone, negli autori cristiani, l’idea che
l’importante è farsi capire, non conta la lingua utilizzata. Lo stesso Sant’Agostino conosceva bene i suoi
compagni dell’Africa del nord, e sapeva che le loro orecchie (le afrae aures) non erano abituate a sentire il
latino corretto, a distinguere le lunghe dalle brevi. Il latino, infatti, distingueva le vocali non tanto in aperte e
chiuse, come nelle lingue romanze, ma in lunghe e brevi: per ogni vocale vi era la variante lunga e quella
breve. Per un romano qualunque, anche non particolarmente colto, che viveva nell’epoca classica, era una
distinzione molto evidente, che poi venne perdendosi. Uno dei macrofenomeni fonetici nel passaggio dalle
lingue romanze è proprio la perdita della quantità vocalica: si tratta di un fenomeno panromanzo, perché
nessuna lingua romanza distingue più vocali lunghe da vocali brevi, a differenza delle lingue germaniche, in
cui sussiste la distinzione tra vocali lunghe e brevi (basti pensare all’inglese: es. ship/sheep).
Agostino rimprovera spesso i grammatici per le loro posizioni anacronistiche su alcuni fenomeni linguistici,
spia – peraltro – dell’uso del latino anche tra le classi colte, che certamente avevano adottato almeno alcune
delle “deviazioni” dalla lingua standard che i grammatici stigmatizzavano. Tuttavia, verso la metà del IV
secolo, si nota un certo ritorno all’antica tradizione romana e ellenistica, e lo stesso Agostino ha fatto largo
uso degli artifici della retorica antica. San Girolamo, pur conservando numerose espressioni e costruzioni di
origine popolare o esotica, e adottando una sintassi lontana da quella classica, darà una veste più letteraria ai
testi sacri nella sua versione, la cosiddetta Vulgata, che sostituì le traduzioni latine precedenti (Vetus latina).
Nonostante ciò, in alcuni casi difende la scelta per parole e forme volgari (es. cubitum usato al maschile
anziché al neutro), giustificandone l’uso con la necessità di chiarezza.
Tra le FONTI INDIRETTE, collochiamo le lingue romanze stesse: attraverso la comparazione (strumento utilizzato
moltissimo dai germanisti, che non hanno alle spalle un patrimonio scritto come quello del latino. Il latino classico ci dà
un riscontro importante, perchè conosciamo la lingua di partenza in maniera perfetta. I germanisti non godono di
questa fortuna: essi, per ricostruire ciò che stava dietro le lingue germaniche, nella quasi totalità dei casi, ricorrono
appunto alla comparazione) tra le lingue romanze, possiamo trovare caratteristiche e forme che dovevano
appartenere al latino volgare (perché presenti in tutte le lingue romanze), ma che – casualmente – non sono
testimoniate da nessuna fonte diretta. Consideriamo l’infinito del verbo italiano potere, lo spagnolo poder, il francese
pouvoir: le tre forme derivano dalla stessa forma potere; tuttavia, nel latino classico, l’infinito di questo verbo era
posse, verbo irregolare. Da un punto di vista fonetico, è impossibile che ci sia stata l’evoluzione da posse alle forme

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delle lingue romanze: tra posse e gli esiti nelle lingue romanze dev’esserci stata una forma intermedia usata nella
lingua parlata, nel latino volgare, che doveva essere verosimilmente proprio la forma * potere, della seconda
coniugazione latina. Si tratta peraltro di un fenomeno molto diffuso: non abbiamo la prova di quanto accaduto su
questo verbo, perché l’infinito potere non è in nessuna fonte diretta del latino volgare, ma fenomeno molto diffuso è
la regolarizzazione di verbi irregolari latini (in altri casi, troviamo testimonianze in tal senso). Il verbo essere italiano (fr.
être; pr. e cat. esser), per esempio, non deriva dal latino classico esse, irregolare, ma da una sua regolarizzazione in
verbo della terza coniugazione latina, *essere. A seconda delle lingue romanze, poi, la coniugazione può essere più o
meno regolarizzata: l’italiano, in genere, è abbastanza conservativo; altre lingue romanze, non solo nell’infinito, ma
anche nella coniugazione del verbo, hanno varie regolarizzazioni. La forma ricostruita è preceduta da un asterisco,
simbolo della ricostruzione: la forma non è attestata da nessuna parte, nessuna fonte diretta ce la garantisce, ma è
stata ricostruita attraverso la comparazione.
Si ammette che un elemento protoromanzo ricostruito dove a far parte realmente del latino volgare quando questo
elemento è postulato:
 Da tutte le lingue romanze o dalla loro maggioranza;
 Da un gruppo geograficamente unito.
Bisogna però sempre ricordare che le forme ricostruite restano solo delle ipotesi, almeno finché non ricevono
l’appoggio di un’attestazione scritta. Può capitare, infatti, che una forma ricostruita venga poi smentita da successivi
ritrovamenti documentari. E si deve anche tener presente che la corrispondenza tra le lingue romanze non testimonia
necessariamente un comune antecedente dal latino volgare (es, it. giardino, sp. jardín, pg. jardim  gallicismi, dal fr.
jardin, a sua volta derivato dal francone *gard, “recinto”. I Franchi erano di stirpe germanica, e in effetti il francone è
una lingua che appartiene al gruppo linguistico germanico occidentale: cfr, ted. Garten, ingl. garden).

1.16 SCHEMI EVOLUTIVI

Lo schema è un tentativo di rappresentazione dell’evoluzione del latino scritto, classico. Si tratta di una linea che non
ha grandi curvature: la voragine più profonda si ha in corrispondenza del latino merovingico (che riguarda in
particolare la situazione della Gallia), momento in cui il latino scritto raggiunge il punto più basso, in cui il latino scritto
si avvicina maggiormente alla lingua parlata (senza tuttavia un contatto vero e proprio). Si verifica poi la risalita
carolingia: con Carlo Magno, Alcuino e le scuole palatine si ripristina il latino studiato sui classici. La risalita prosegue,
fino al latino umanistico, che rappresenta probabilmente il punto più alto dopo l’epoca classica: il latino umanistico
aspira ad essere uguale a quello dei classici.
Le scritture hanno varie caratteristiche, anche a seconda dell’epoca: in epoca carolingia vi era una scrittura che i
paleografi chiamano carolina, molto elegante, pulita, leggibile (con la quale peraltro sono scritti i giuramenti di
Strasburgo). Confrontando la grafia umanistica e quella carolina, notiamo che esse sono molto simili tra loro: gli
umanisti, sulle orme di Petrarca, avevano l’abitudine di andare nelle biblioteche a scovare testi classici, per poi
ristudiarli. Pescando in antiche biblioteche capitolari e di monasteri, essi trovavano manoscritti copiati in epoca
carolingia, con scrittura carolina. Pensando che si trattasse di testi antichi, dell’epoca classica, che quella scrittura fosse
tipicamente classica, l’hanno in qualche modo copiata (ammodernandola). Peccato fosse una scrittura tipicamente
medievale, di un’epoca che gli umanisti odiavano oltremodo.

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Il secondo schema rappresenta il passaggio dal latino parlato alle lingue romanze: è uno schema molto diverso dal
precedente, in cui l’evoluzione è netta. Si dà l’idea di un cambiamento radicale tra il punto di partenza e quello di
arrivo (per il latino, in fondo, oltre a qualche scossone, lo schema variava di poco), di una frattura, di un’evoluzione
forte. Questo tentativo mostra chiaramente quanto sia imprecisa, per rendere l’idea dell’evoluzione dal latino alle
lingue romanze, la peraltro molto diffusa metafora della “lingua madre” (latino volgare) con le “lingue figlie” (lingue
romanze): questa metafora presupporrebbe una sostanziale differenza tra madre e figlie, che dovrebbero essere
entità distinte. Ciò non corrisponde esattamente alla verità, visto che le lingue romanze altro non sono se non la
realizzazione progressiva del latino parlato nei vari territori dell’impero (o ex-impero) romano da parte delle
popolazioni che vi hanno abitato durante i secoli. Non c’è alcun parto, né c’è la morte di una supposta lingua-madre,
ma solo la sua trasformazione. Vale di più, se proprio si deve usare una metafora, l’immagine della metamorfosi, una
metamorfosi in continuo divenire.

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Per descrivere l’evoluzione dal latino alle lingue romanze, è utile utilizzare un’immagine: si parla di una lingua madre
(latino) che produce delle lingue figlie (lingue romanze). Questa è un’immagine abbastanza efficace, che tuttavia non
rispecchia davvero il fenomeno: parlando di una lingua madre e di lingue figlie, ci riferiamo a due entità comunque
distinte. Nascendo le lingue figlie, non è detto che la lingua madre debba morire necessariamente: nel momento in cui
ci si accorge dell’esistenza delle lingue romanze, il latino parlato non c’è più (c’è il latino scritto, ma è altra cosa).
Risulta dunque più opportuno utilizzare l’immagine della metamorfosi: un soggetto diventa un altro soggetto, ed è
esattamente quello che accade. Il latino volgare non dà alla luce le lingue romanze e muore, ma continua a cambiare
lui stesso, in modo multiforme (perché le lingue romanze sono diverse tra di loro, e in questo potrebbero essere sì
viste come lingue sorelle). Si tratta di un’evoluzione continua che, oltretutto, non finisce mai, perché anche le lingue
moderne continuano necessariamente a cambiare. La lingua volgare, il latino volgare continua a cambiare, non muore
ad un certo punto: vi è un continuo movimento, al punto che – per quanto paradossale possa sembrare – potremmo
dire che la lingua che chiamiamo italiano non è altro che il latino volgare nella sua estrema manifestazione, parlato in
Italia nel 2021. Le lingue romanze, insomma, altro non sono che la continua evoluzione del latino parlato (tant’è che
non ci si rende conto di questa evoluzione, non c’è una rottura: vi è una frattura con la lingua scritta, ma è un’altra
cosa).

2. IL SORGERE DELLE LINGUE ROMANZE E LA LORO CLASSIFICAZIONE

Le lingue romanze sono dunque il risultato dell’evoluzione del latino volgare: una lingua che varia sia sincronicamente
(da regione a regione), sia diacronicamente. I testi dell’alto Medioevo non mancano di registrare particolarità
linguistiche che sono verosimilmente dei regionalismi: nei testi merovingi, per esempio, troviamo apud nel senso di
cum (da apud: afr. o, od; pr. ab; cat. amb; in francese antico abbiamo anche auvec [poi avec] < apud-hoc).

2.1 RAGIONI DELLA DIFFERENZIAZIONE DELLE LINGUE ROMANZE

Quando si cerca di capire qual è il latino che sta alla base delle singole lingue romanze, e qual è la ragione della loro
differenziazione (a volte davvero notevole), anche se partono dalla medesima radice, bisogna tenere presenti almeno
tre fattori:
 FATTORE CRONOLOGICO (DIACRONIA)  con il tempo, tutte le lingue evolvono, anche il latino parlato:
da un lato, i parlanti hanno la tendenza a mantenere la lingua stabile, per facilitare la comprensione
reciproca; dall’altro, la propensione al cambiamento. Di generazione in generazione la lingua muta, anche se
impercettibilmente, perché la lingua dei figli non è uguale a quella dei padri;
 FATTORE GEOGRAFICO  la variazione geografica è legata all’apprendimento della lingua: chi prova a
parlare una lingua straniera ha la tendenza a introdurre in essa tratti tipici del proprio idioma materno, in
particolare a livello fonetico e lessicale. Quando c’è l’invasione di un Paese da parte di un popolo che parla
una lingua diversa, in genere si crea una situazione di bilinguismo o di DIGLOSSIA, finché – di solito – una
delle due lingue soppianta l’altra. Se sopravvive la lingua del popolo invasore, la lingua autoctona svolge nei
suoi confronti una funzione di SUBSTRATO; se invece prevale la lingua dei conquistati, allora quella degli
invasori agisce su questa come SUPERSTRATO; si parla infine di ADSTRATO quando avvengono scambi per
via orizzontale tra due lingue paritarie. In genere, la vittoria in questa lotta per la sopravvivenza linguistica va
alla lingua detentrice di una riconosciuta supremazia culturale. il latino volgare ha incontrato, nella sua
diffusione sul territorio che formerà l’impero romano, lingue locali con le quali ha dovuto interagire. Si tratta
delle lingue di substrato, che hanno influenzato il latino, prima di scomparire, a livello di toponomastica,
lessico e fonetica, determinando alcune delle differenze che dividono le attuali lingue romanze. Le principali
lingue di substrato che interessano le lingue romanze sono:
 Dialetti italici (osco-umbro, sabellico), nell’Italia centrale e meridionale;
 Illirico, nelle Puglie, in Dalmazia, nel Veneto;
 Greco, nella Magna Grecia (ma il greco è più lingua di adstrato che di substrato);

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 Etrusco, in Campania, nel Lazio, in Toscana, in Romagna;
 Lingue mediterranee non indoeuropee, sulle Alpi, sui Pirenei, in Sicilia, in Sardegna;
 Ligure;
 Celtico;
 Tracio, getico, in Romania (Dacia).
Sulle lingue romanze hanno agito anche le lingue cosiddette di superstrato, quelle dei popoli che hanno
invaso, e a un certo punto distrutto, l’impero romano. Si tratta, per lo più, di varietà germaniche e arabe: il
superstrato germanico (Visigoti, Ostrogoti, Franchi, Longobardi, Burgundi) ha lasciato tracce più profonde nel
francese, quello arabo nello spagnolo.
 FATTORE STILISTICO  la lingua scritta non è uguale a quella parlata, e quest’ultima varia molto a seconda
delle caratteristiche socio-culturali del parlante. Finchè il potere romano rimase saldo, la lingua dell’impero
tendeva ad eliminare tutte le forze centrifughe troppo forti, contrapponendo una forza centripeta che
emanava dal centro politico-culturale dell’impero, cioè Roma.

2.2 CLASSIFICAZIONE DELLE LINGUE ROMANZE

Le lingue romanze possono essere classificate in vari modi. La classificazione proposta da Heinrich Lausberg è di tipo
geografico e prevede la suddivisione della Romània in tre aree: Romània occidentale (Iberoromania, Galloromania,
Retoromania, Italia Settentrionale); Romània orientale (Italia centrale e meridionale, Dalmazia, Romania); Sardegna. È
una classificazione che ha come base il grado di parentela delle rispettive lingue. Le principali lingue romanze sono:
 FRANCESE  il francese letterario odierno è la lingua della buona società parigina, lingua unificata a partire
dal XVII secolo ad opera di maestri di lingua e di scrittori esemplari (Pascal, Racine, Molière, ecc.), e poi
evolutasi nelle generazioni successive: Voltaire, Rousseau (sec. XVIII); Hugo, Balzac, Flaubert (sec. XIX). La
tendenza depuratrice e nazionalista, assecondata dalla Académie française fondata nel 1635, culmina nel
Discours sur l’universalité de la langue française di Antoine de Rivarol (1784). La storia del francese si articola
in tre fasi: antico francese (secoli IX-XIV), medio francese (secoli XIV-XVI), francese moderno (dal XVI secolo).
La base dialettale del francese è il franciano, cioè la lingua dell’Île-de-France, la regione di Parigi. Le altre
principali varietà linguistiche della Francia del nord sono:
 Lingue settentrionali: vallone (odierno Belgio francofono) e piccardo;
 Lingue occidentali: normanno settentrionale e normanno meridionale;
 Lingue sud-occidentali: pittavino;
 Lingue sud-orientali: borgognone;
 Lingue orientali: champenois.
Per la fase medievale, l’insieme di queste lingua va solitamente sotto l’etichetta dantesca di lingua d’oïl;
 PROVENZALE (OCCITANO, IN ANTICO LIMOSINO)  è la lingua parlata e scritta durante il Medioevo nel
sud della Francia (etichetta dantesca di lingua d’oc). Al secolo X rimontano le prime parole provenzali in testi
notarili scritti in latino, poi cominciarono i primi testi interamente romanzi (giuramenti feudali, carte di vario
tipo). Con la fioritura della lirica trobadorica (secoli XII e XIII), il provenzale diventa una delle più importanti
lingue letterarie del Medioevo, ma in seguito esso perde terreno a vantaggio del francese: a partire dal XV
secolo, la lingua del nord soppianta il provenzale nell’uso amministrativo, e questa situazione viene
definitivamente sancita dall’Ordonnance de Villers-Cotterets (1539), con la quale Francesco I rende
prescrittivo e non più solo facoltativo l’uso del francese negli atti pubblici. L’intento di Franceso I era di
evitare l’uso del latino, che avrebbe danneggiato le persone prive di cultura, ma di fatto il provvedimento
colpì anche le lingue di minoranza;
 CATALANO  dal IX secolo, si costituisce un centro politico-culturale importante intorno al conte di
Barcellona, che nel 1137 diventa anche re d’Aragona. Durante il Medioevo, infatti, il catalano era la lingua
ufficiale usata dalla casata d’Aragona. Per tutto il XIII secolo, i rapporti con i Paesi occitanici e con il regno di
Francia sono molto forti, e questo si riflette anche sulla lingua: fr. manger, pr. manjar, cat. menjar (<

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manducare) ma sp. comer (< cum-edere); fr. matin, pr. mati(n), cat. mati (< matutinum), ma sp. mañana (<
[hora] *maneana < mane). Dopo il 1479, anno della fusione tra il regno d’Aragona e quello di Castiglia, la
vitalità del catalano viene fortemente minacciata dal castigliano, che lo rimpiazza definitivamente come
lingua ufficiale nel 1714. Ora il catalano è una delle lingue nazionali della Spagna;
 SPAGNOLO  la lingua letteraria spagnola si basa sul castigliano. Durante la dominazione araba, la Penisola
iberica è divisa in regni arabi (che occupano la maggior parte del territorio), e regni cristiani del Nord, a
ridosso dei Pirenei (regni di León, Navarra, Aragona, contea di Barcellona). Negli Stati cristiani si parlano
ovviamente delle lingue romanze, ma varietà romanze si parlano anche nella zona araba della Penisola:
questi dialetti romanzi avevano una scarsa vitalità sociale, soffocati com’erano dalla lingua ufficiale, che era
l’arabo. Gli arabi chiamavano queste varietà romanze al-‘agamîya, (“lingua straniera”), ma gli studiosi
moderni preferiscono parlare di dialetti “mozarabici” (mozarabi era il nome dato dagli arabi ai propri sudditi).
Con la Reconquista, lungo processo di riappropriazione della Penisola iberica da parte degli spagnoli
culminato nel 1492 con la conquista del regno di Granada, s’impone il castigliano.
Lo spagnolo è la lingua romanza più parlata, visto che con le conquiste coloniali esso si è diffuso non solo in
gran parte dell’America cosiddetta latina, ma anche a Est, grazie agli ebrei sefarditi, che – cacciati dalla
Penisola iberica nel 1492 – si sono trasferiti nei Balcani e nell’Anatolia: questi ebrei hanno conservato una
lingua arcaica, chiamata giudeospagnolo, che ignora le evoluzioni fonetiche avute dallo spagnolo a partire dal
XVI secolo. Si tratta però di una lingua in via di estinzione;
 PORTOGHESE E GALEGO  durante il Medioevo, il portoghese e il galego non erano altro che due varianti
della stessa koinè, il galego-portoghese, veicolo letterario di prestigio (soprattutto per la lirica), durante i
secoli XIII e XIV. Da quando, nel 1095, la contea (poi regno) di Portogallo si è staccata dalla Galizia, le due
lingue hanno cominciato ad avere una storia separata.
Il documento più antico del portoghese è il testamento di Alfonso II, del 1214. La lingua attuale si basa sulla
parlata di Lisbona, capitale dal XV secolo. Il portoghese del Brasile si distingue da quello europeo soprattutto
a livello parlato, sia da un punto di vista lessicale e sintattico, sia da un punto di vista fonetico; spesso il
brasiliano conserva alcuni tratti arcaici.
A sua volta, il galego ha cessato di essere una lingua letteraria di prestigio con la fine del Medioevo, quando il
castigliano lo ha surclassato;
 RETOROMANZO (O LADINO)  non tutti gli studiosi sono concordi nel raggruppare le lingue a cui si fa qui
riferimento sotto la sola etichetta di ladino, affermatasi a partire dai pioneristici e ancor oggi fondamentali
Saggi ladini di Graziadio Isaia Ascoli, usciti nel 1873 come primo numero dell’“Archivio glottologico italiano”,
fondata dallo stesso Ascoli. In effetti, queste lingue sono parlate in territori disomogenei, interrotti da zone in
cui si parlano altre varietà romanze o il tedesco. Il retoromanzo si divide normalmente in tre gruppi:
occidentale, centrale, orientale.
 Gruppo occidentale  romancio, lingua diffusa nel Canton Grigioni, in Svizzera (a sua volta diviso in
sursilvano, sottosilvano, surmirano, alto engadino, basso engadino). Nella provincia della Raetia, la
romanizzazione fu piuttosto intensa, ma a partire dall’epoca carolingia si diffonde sempre di più la
varietà tedesca: tant’è che per il Medioevo non abbiamo in pratica documenti scritti in lingua
romanza. Il romancio letterario ricevette un grande impulso durante il periodo della Riforma e della
Controriforma. Dal 1938, il romancio è – grazie ad un plebiscito – una lingua nazionale della
Confederazione elvetica, ma ufficiale solo rispetto alle persone di lingua romancia;
 Gruppo orientale  ladino dolomitico (val Gardena, val Badia, val di Fiemme, val di Fassa, val
Marebbe), che rappresenta la continuazione del latino introdotto dai Romani quando hanno
conquistato le Alpi centrali (15 a.C.). Il latino era parlato anche in Pusteria e nella Venosta, oggi
entrambe di lingua tedesca (valli appartenute al Tirolo dal XIII secolo alla Prima guerra mondiale). I
primi testi scritti in ladino dolomitico risalgono al XVII secolo;
 Gruppo orientale  friulano.
 ROMENO  oltre che in Romania (ex provincia romana della Dacia), il romeno è parlato anche in Moldavia,
oltre che in alcune isole linguistiche sparse; fino al 1840, il romeno è stato scritto con caratteri cirillici. Anche

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l’area in cui è parlato il romeno è divisibile in alcune zone linguistiche (dacoromeno, macedoromeno,
meglenoromeno, istroromeno). I romeni hanno vissuto fin dal VI secolo a stretto contatto con gli Slavi, che
rappresentavano la classe sociale socio-culturale più elevata, in quanto conquistatori. Durante i secoli IX-XVII
anche i riti ecclesiastici erano slavi, e solo in seguito è subentrato un rito orientale in lingua romena. Per
questo non esiste in pratica una letteratura romena medievale: il primo documento conservato di romeno
scritto è una lettera del 1521, mentre il primo libro scritto in romeno, un catechismo luterano, è stato
stampato nel 1544.

3. GEOLINGUISTICA E SOCIOLINGUISTICA

3.1 GEOLINGUISTICA

La geolinguistica, nata dalla dialettologia, è una disciplina di confine tra la linguistica storica, la linguistica generale,
l’antropologia, l’etnografia, la sociologia, le scienze storiche e geografiche. La geolinguistica studia l’innovazione del
linguaggio attraverso l’analisi della distribuzione geografica dei fenomeni linguistici; l’indagine effettuata sul campo di
tali varianti geografiche ha come prodotto immediato l’atlante linguistico, che può comprendere un territorio ristretto
(una singola regione) oppure vasto (uno Stato nazionale, o un insieme di Stati). Le carte possono essere di tre tipi:
fonetiche o fonologiche (rappresentano la realizzazione dei singoli fonemi), lessicali (rappresentano la distribuzione
lessicale su un certo territorio), fonetiche e lessicali insieme. Si deve allo svizzero Jules Gilliéron se la geolinguistica è
diventata una disciplina autonoma: i suoi studi e le sue inchieste, realizzate con l’aiuto di Edmond Edmont, hanno
portato all’Atlas linguistique de France, ALF, uscito tra il 1902 e il 1912. Questo atlante comprende un gran numero di
carte geografiche della Francia, su ognuna delle quali sono segnati 639 punti, che rappresentano i luoghi nei quali è
stata svolta l’inchiesta linguistica. Le carte dell’ALF ci permettono non solo di vedere la diffusione di certe parole sul
territorio francese, ma anche di notare le diverse realizzazioni fonetiche. L’importanza delle informazioni fornite dalle
carte linguistiche non dev’essere tuttavia sovrastimata. L’errore di prospettiva di Jules Gilliéron è stato forse di
accordare troppa importanza alla geolinguistica, senza tener conto a sufficienza dei testi scritti o delle fonti
documentarie in genere. Un rischio sempre presente nelle indagini sulla lingua parlata è la scarsa competenza degli
intervistati, che possono fornire risposte che non corrispondono alla realtà linguistica, a volte coprendo la propria
ignoranza con l’invenzione di forme inesistenti. Ai tempi di Gilliéron ci si doveva affidare esclusivamente all’orecchio
degli intervistatori, e alla loro accuratezza nella trascrizione fonetica.

OMOFONIA E ETIMOLOGIA POPOLARE

Tra i fattori scatenanti dell’evoluzione lessicale secondo Gilliéron ci sono OMOFONIA e ETIMOLOGIA POPOLARE.
Quando nel lessico di una lingua si creano degli omofoni, originati dalle leggi dell’evoluzione fonetica, capita a volte
che uno dei due vocaboli venga sostituito con un sinonimo, o comunque con una parola che possa coprire quel campo
semantico.
 I verbi latini mulgēre, “mungere”, e molĕre, “macinare”, hanno dato in francese un’unica forma moudre,
dopo che il primo ha subito un metaplasmo dalla seconda alla terza coniugazione. In francese, moudre è
sopravvissuto solo con il secondo significato, mentre per il primo si è usato il verbo traire, “tirare”, dal latino
*tragere per il classico trahĕre.
In altri casi, si cerca di ovviare alle possibili confusioni con pronunce che derogano dalla norma.
 In héros (< heros), l’H, essendo di origine latina, non dovrebbe impedire la liaison e l’elisione, e invece si dice
le héros, non *l’héros, perché al plurale le forme les héros e des héros pronunciate con la liaison (lezeró,
dezeró) potrebbero essere confuse con les zéros o des zéros;
 In sens, “senso”, la -s viene pronunciata per evitare la confusione con cent, “cento”, sang, “sangue”, o sans,
“senza”; allo stesso modo, la pronuncia di tous, “tutti”, è [tus] per non confonderlo con tout, “tutto”.

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L’omofonia potrebbe essere all’origine anche di mutamenti fonetici che vanno contro le normali regole dell’evoluzione
storica.
 In avoine < avēna e foin < fēnum, si ha oi da Ē seguita da nasale, che presenta normalmente l’evoluzione ei
(plein < plēnum). Alcuni studiosi spiegano che tale evoluzione è normale in Borgogna, regione che riforniva di
avena la regione parigina: ecco il motivo per il quale anche lì, e da lì nel francese, si fanno le forme avoine e
foin; secondo altri, invece, la ragione di questa evoluzione sarebbe da ricercare nell’omonimia: la forma
antica aveine si scontrava con veine, “vena”, soprattutto se preceduta da articolo (l’aveine = la veine), mentre
fein poteva essere confuso con fin, “fine”, o faim, “fame”.

Per quanto riguarda l’etimologia popolare (o paretimologia), si tratta del fenomeno per cui il soggetto parlante,
fondandosi su talune somiglianze formali, congiunge coscientemente o incoscientemente una certa forma a un’altra
senza che tra le due vi sia un giustificato rapporto etimologico, in modo tale che i termini sottoposti a quest’astrazione
finiscano per avvicinarsi sul piano semantico, oltre che strettamente formale. L’aggettivo popolare non si riferisce
necessariamente a una classe culturalmente subalterna, anche se spesso le etimologie popolari sono il frutto di
fraintendimenti tipici delle persone meno colte.
 L’espressione parler comme une vache espagnole, “parlare come una vacca spagnola”, usata per
stigmatizzare l’incapacità di un soggetto nel parlare il francese, e attestata fin dal XVII secolo. Si tratta forse
della storpiatura di parler français comme un basque espagnol, “parlare francese come un basco spagnolo”, o
parler français comme un basque l’espagnol, “parlare francese come un basco lo spagnolo” (dal momento
che il basco è una lingua di origine non indoeuropea). L’etimologia popolare sarebbe scattata davanti alla
parola basque, forse non ben compresa, sostituendola con il ben più noto vache. Il risultato è chiaramente
bizzarro, ma è curioso che sia attestata solo l’espressione con vache e non anche quella, supposta originaria,
con basque. Questo fa ipotizzare che l’origine sia differente, e non abbia nulla a che vedere con l’etimologia
popolare: la parola vache è usata spesso in frasi di senso negativo o intensivo; d’altra parte, anche il
riferimento alla Spagna o agli spagnoli può assumere un valore negativo;
 La parola lazzaretto, luogo che accoglieva i malati di peste, sembra in origine legata alla chiesa di Santa Maria
di Nazareth a Venezia, posta su un’isola della laguna sulla quale venivano isolati gli appestati nel XIV secolo. In
seguito, il vocabolo viene reinterpretato popolarmente alla luce di un personaggio evangelico, il mendicante
Lazzaro, che si presenta coperto di piaghe nel vangelo di Luca;
 Il francese fumier, “letame”, e per estensione “letamaio”, presenta un’evoluzione apparentemente anomala
della prima vocale, poiché – derivando da *fĭmarium, la Ĭ atona dovrebbe dare e; la u si spiega attraverso un
incrocio con fumée, “fumo” (< fūmum), perché nei mesi invernali dai letamai si eleva il fumo a causa dell’aria
fredda circostante. Anche in questo caso è possibile un’interpretazione diversa, di tipo fonetico, che
escluderebbe l’etimologia popolare: le consonanti labiali (M è una nasale labiale) possono labializzare la
vocale che precede, per cui la E e la I diventano U, che è una vocale labializzata: gĕmĕllum > fr. jumeau;
 Il latino cŭbare, “giacere”, “essere disteso”, “dormire”, ha dato l’it. covare e il fr. couver, “covare”: alla
normale evoluzione fonetica della consonante intervocalica si aggiunge la fantasia popolare, che ha messo in
relazione questo verbo con il sostantivo ovum.

TEORIA DELLE ONDE E NORME AREALI

La prima teoria in senso geografico circa la diffusione delle lingue fu forse la cosiddetta WELLENTHEORIE (teorie delle
onde), elaborata da Johannes Schmidt. Le innovazioni linguistiche si diffonderebbero nello spazio come le onde che si
formano in uno specchio d’acqua mosso dal lancio di un sasso. Il punto in cui cade il sasso, fuor di metafora, è il centro
da cui si propagano le innovazioni linguistiche, centro che deve avere un indiscusso prestigio culturale, politico e
amministrativo. Nella realtà linguistica, i centri di propagazione sono vari, e le onde s’intrecciano dovente tra loro. La
prima onda, quella più antica, è quella che ha il diametro maggiore, dunque la sua azione si spinge più lontano.
Prendendo Roma come luogo da cui parte l’innovazione linguistica, la prima onda (cioè quella più antica), raggiunge
anche la periferia dell’impero, mentre le onde successive (dunque le successive innovazioni linguistiche) copriranno

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un’area più piccola, e il loro raggio d’azione rimarrà più vicino al centro. L’aggettivo formosus, per esempio, sostituisce
pulcher in una fase antica, rappresenta la prima onda di propagazione, e dunque giunge anche nelle periferie, Penisola
iberica da una parte e Romania dall’altra (pg. formoso, sp. hermoso, rom. frumos). La diffusione di bellus, invece, è più
recente, rappresenta un’onda successiva, più debole, con un raggio d’azione più limitato: sostituisce formosus nella
zona centrale (it. bello, fr. beau/bel), ma non ha la forza di raggiungere le parti estreme dell’impero. ma la presenza
dello sp. bello e del pg. belo mette parzialmente in crisi la teoria enunciata. Rimane certo il fatto che l’assenza di
formosus nell’area centrale dà l’idea di un più profonda penetrazione, qui, di bellus.
Comincia così a farsi strada il concetto importante che non esistono confini linguistici netti, ma piuttosto un continuum
dialettale: a tracciare la strada di questa idea, rivoluzionaria per l’epoca, sono fondamentali gli studi di dialettologia di
Graziadio Isaia Ascoli.
La teoria di Schmidt presuppone che la diffusione delle innovazioni sia uniforme, ma la geolinguistica mostrerà che
non è così, perché essa procede lungo le vie di comunicazione, ed è condizionata in senso negativo tanto dalle barriere
fisiche (montagne, laghi, fiumi, deserti), quanto dai confini politici e/o religiosi. Alla luce dei primi risultati degli studi di
Gilliéron e dei suoi allievi, la Wellentheorie viene ripresa e perfezionata dalla linguistica spaziale di Matteo Giulio
Bartoli, che – in Introduzione alla neolinguistica – elabora le cosiddette NORME AREALI:
 Norma dell’area isolata  l’area geografica meno esposta alle comunicazioni, e dunque più isolata, è quella
che conserva la forma più antica (es. la conservazione, in Sardegna, del classico cras, eliminato in quasi tutta
la Romània a favore di mane e dei suoi composti);
 Norma delle aree laterali  se aree periferiche che non sono in contatto tra loro presentano una forma
linguistica e l’area centrale ne presenta un’altra, la prima è quella più antica, purché l’area di mezzo non sia
isolata (es. mensam > sp. pg. mesa, rom. masă, ma it. tavola, fr. table < tabulam; cfr. anche magis e plus);
 Norma dell’area maggiore  l’area che copre una maggiore estensione geografica è quella che conserva le
forme più antiche, purché l’area minore non sia la più isolata, e non sia costituita da aree laterali (es. per
“mese”, tutte le lingue romanze proseguono il latino mensem, mentre il rom. lună < lunam è un’innovazione);
 Norma dell’area seriore  l’area raggiunta più tardi da una lingua conserva una forma più antica rispetto al
centro (es. per “cipolla” il rom. ceapă prosegue il classico cepam, mentre l’it. cipolla, fr. ciboule, sp. cebolla,
pg. cebola < cepullam¸ diminutivo più tardo).
La linguistica spaziale può spiegare molti fenomeni, purché non la si applichi in modo indiscriminato.

3.2 SOCIOLINGUISTICA

La sociolinguistica è un settore delle scienze del linguaggio che studia le dimensioni sociali della lingua e del
comportamento linguistico, vale a dire i fatti e i fenomeni linguistici che, e in quanto, hanno rilevanza o significato
sociale. Padre della sociolinguistica può essere considerato Uriel Weinreich, che nel 1953 pubblicò Languages in
contact, il suo studio più importante: le lingue in contatto sono quelle usate alternativamente dalle stesse persone,
mentre i fenomeni di interferenza sono quegli esempi di deviazione dalle norme dell’una e dell’altra lingua che
compaiono nel discorso dei bilingui come risultato della loro familiarità con più di una lingua, cioè come risultato di un
contatto linguistico.
Uno dei concetti sui quali la sociolinguistica lavora è quello di variabilità linguistica, visto che ogni lingua è varia, e
dunque conosce, al suo interno, una diversificazione; tale variabilità può realizzarsi su diversi livelli: sociale, culturale,
personale. Non tutti gli elementi di una lingua sono però soggetti in ugual misura alla diversificazione. In ordine
crescente (Berruto): morfologia, sintassi, fonologia, lessico, semantica, pragmatica (l’ultimo elemento è quello che può
più facilmente subire variazioni). Sul primo gradino, a precedere la morfologia, alcuni studiosi pongono l’ortografia.

DIGLOSSIA E PLURILINGUISMO

Nello studio citato, Weinreich non distingue tra BILINGUISMO (dal latino bis e lingua) e DIGLOSSIA (dal greco “due
volte” e “lingua”); in effetti, il concetto di diglossia è stato introdotto nella linguistica moderna da Charles A. Ferguson,

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il quale – in un famoso articolo – fornisce la seguente definizione: “situazione linguistica relativamente stabile in cui, in
aggiunta ai dialetti originari della lingua, vi è una varietà sovrapposta molto divergente e altamente codificata, veicolo
di un vasto e rispettato corpus letterario, che viene appresa in larga parte per mezzo dell’istruzione formale e viene
usata per lo più per scopi formali e nella forma scritta, ma che non è mai usata da nessun settore della comunità per la
comune conversazione”.
Nella diglossia entrano in gioco due lingue, rigidamente complementari sul piano socio-funzionale:
 Una di livello alto (A);
 Una di livello basso (B).
Con ciò, la diglossia si differenzia rispetto al bilinguismo (o plurilinguismo), il quale prevede la compresenza di più
lingue non socio-funzionalmente differenziate. In un contesto di diglossia, dunque, non c’è mai l’interscambiabilità
delle lingue: tra gli esempi di diglossia descritti da Ferguson c’è la situazione della Svizzera tedesca, nella quale il ruolo
della lingua A è svolto dal cosiddetto Hochdeutch, usato in contesti esclusivamente ufficiali, mentre quello della lingua
B è giocato dal tedesco dialettale, di uso normale e quotidiano; un altro esempio è quello di Haiti, dove la lingua A è il
francese, la lingua B è il creolo. Secondo lo studioso americano, la situazione – tipica di molti Paesi europei e in
particolare dell’Italia – in cui a una lingua ufficiale si contrappongono vari dialetti non rientrerebbe nella fattispecie
della diglossia: in tali contesti, infatti, non vige la rigida contrapposizione funzionale che caratterizza la diglossia. Se ci
limitiamo al caso dell’Italia, questa descrizione può valere da qualche decennio a questa parte, da quando cioè l’azione
combinata dell’istruzione scolastica, da una parte, e dei mezzi di comunicazione, dall’altra, ha contribuito a un
notevole livellamento linguistico, benché permangano forti diversificazioni regionali e continuino a sussistere sacche
di persistente dialettofonia. Ma la netta separazione socio-funzionale tra la lingua A (italiano) e la lingua B (dialetto),
così come prescritto nella definizione di diglossia, è sopravvissuta in Italia ben dentro il XX secolo.
Per quanto riguarda le lingue romanze, lungo la parabola che ha caratterizzato la loro storia si è probabilmente
assistito al passaggio da una fase antica di diglossia (latino lingua A, lingua romanza lingua B), a una fase più recente di
bilinguismo (o plurilinguismo), quando la lingua romanza ha raggiunto la dignità di lingua letteraria e amministrativa,
affiancando il latino. A questo punto la distinzione non è più funzionale (interscambiabilità della lingua romanza con il
latino), ma sociale, perché la possibilità del bi- o plurilinguismo è riservata alle persone colte.

LINGUA STANDARD, LINGUA NAZIONALE, DIALETTI

È difficile stabilire una volta per tutte i criteri che ci permettono di capire se ci troviamo davanti a vere e proprie lingue
diverse, oppure a varianti della medesima lingua, e allo stesso modo è complicato definire i confini di una lingua
rispetto a quelli di un dialetto e viceversa. La definizione sociolinguistica di lingua contiene in sé anche il concetto di
dialetto, e descrive, almeno sommariamente, il rapporto esistente tra le due entità linguistiche: “una lingua è ogni
sistema linguistico socialmente sviluppato, che sia lingua nazionale o ufficiale di qualche Paese, che svolga un’ampia
gamma di funzioni nella società, che sia standardizzato e sia sovraordinato ad altri sistemi linguistici subordinati
eventualmente presenti nell’uso della comunità”.
D’altra parte, gli stessi concetti di lingua standard e di lingua nazionale presenti nella definizione non sono univoci. Per
essere definita standard, una lingua deve avere determinate caratteristiche, tra le quali codificazione e
sovraregionalità sono particolarmente significative. Una lingua standard deve dunque essere codificata, cioè normata
da un serie di regole stabilite sulla base di un corpus per lo più letterario, formato da testi riconosciuti dalla comunità
come di riferimento; e dev’essere un veicolo di comprensione per persone che, pur appartenendo a una determinata
comunità linguistica, abbiano origini geografiche diverse. La lingua standard è sempre un prodotto artificiale, è il
risultato di un processo culturale e sociale.
Poiché la lingua standard funziona da modello per una comunità di parlanti che si identificano in quella lingua, può
capitare di sovrapporre, in modo erroneo, il concetto di lingua standard a quello di lingua nazionale; d’altra parte, non
si deve confondere la lingua nazionale con la lingua ufficiale di uno Stato, poiché ci sono lingue nazionali che
travalicano i confini delle singole entità politico-amministrative. Le lingue romanze sono un perfetto esempio di ciò:
 L’italiano si parla anche nel Canton Ticino, in Svizzera;
 Lo spagnolo si parla in buona parte dell’America centro-meridionale;

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 Il portoghese è parlato anche in Brasile;
 Il francese è la lingua di parte della Svizzera e del Belgio, è la lingua ufficiale del Québec, è diffusa sia in Africa
sia in Asia.
D’altra parte, ci sono Stati sul cui territorio non si parla una sola e univoca lingua nazionale; l’esempio più eclatante,
almeno in Europa, è rappresentato dalla Svizzera: lo “svizzero”, infatti, non esiste, e sul territorio della Confederazione
elvetica sono presenti ben quattro lingue nazionali (tedesco, francese, italiano e romancio), alle quali si aggiunge – nei
territori tedescofoni – il già citato tedesco dialettale.
La nozione di dialetto si chiarisce spesso proprio per la contrapposizione a quella di lingua standard: il dialetto non è
sovraregionale; una delle sue caratteristiche è di avere una diffusione geografica piuttosto limitata. Per comprendere il
rapporto tra lingua e dialetto, è utile far riferimento al concetto di Dachsprache, “lingua tetto”, elaborato da Heinz
Kloss. La “lingua tetto” è una lingua di riferimento di un certo territorio, strettamente imparentata con le varietà
parlate in quel territorio. I dialetti italoromanzi hanno come Dachsprache l’italiano, mentre le parlate albanesi diffuse
nell’Italia centro-meridionale sono, rispetto all’albanese, dialetti senza copertura, dachlose Mundarten. Il dialetto
senza copertura è quello dei parlanti che non hanno la possibilità di imparare a scuola la lingua di riferimento. Si deve
considerare che normalmente, sul piano storico, la lingua standard altro non è se non un dialetto che, per vari motivi,
in un dato momento della storia linguistica di una comunità, è stato scelto come lingua di riferimento. Di fatto, fra
lingua e dialetto non esiste una differenza linguistica; anzi, intercorre un rapporto di affinità genetica, tanto che in
base all’analisi delle sole caratteristiche linguistiche non è possibile stabilire se un sistema è definibile lingua o dialetto.
La differenza tra lingua e dialetto va cercata a livello sociale, perché i due sistemi linguistici si separano sul piano
funzionale e su quello comunicativo. È inevitabile che il dialetto viva in uno stato di subordinazione rispetto a una
lingua (standard): è un veicolo intercomunicativo debole se confrontato a quest’ultima, dal punto di vista della
diffusione e del prestigio socio-culturale. Tuttavia, non bisogna pensare che il dialetto qualifichi sempre chi lo usa
come socio-economicamente inferiore: è sempre necessario, infatti, distinguere tra chi può e chi deve servirsi del
dialetto.
Per tutto il periodo medievale, il panorama linguistico dell’Europa è assai più mosso di quello attuale, poiché sui
territori che formeranno i futuri Stati nazionali si parlavano e si scrivevano numerose lingue, in assenza di una lingua
standard di riferimento. In Inghilterra, la lingua della cultura, e della corte, è stata per lungo tempo addirittura una
lingua romanza, l’anglonormanno, una varietà d’oïl. Il processo di standardizzazione avviene per gradi, in modo
differente per ciascuna lingua; tuttavia, le vicende che conducono all’identificazione di una lingua di riferimento in
Inghilterra, Francia e Spagna sono molto simili, perché in questi tre casi la standardizzazione parte da un centro che si
impone sugli altri per motivi anche, se non soprattutto, extralinguistici:
 Inghilterra  dalla metà del Trecento, si impone la lingua di Londra, sede della corte, anche se la lingua
materna dei sovrani inglesi è il francese fino al 1399, quando sale al trono il primo re di lingua materna
inglese, Enrico IV. La cosiddetta received pronunciation (RP) è quella delle classi colte, insegnata nelle scuole
più prestigiose, accolta e diffusa dalla BBC; il fatto che oggi vengano accettate anche pronunce più disinvolte
non intacca sostanzialmente il quadro di una lingua di riferimento stabile e robusta;
 Spagna  il castigliano si impone sulle altre varietà in particolare dal momento della costituzione del Regno
di Spagna nel 1469, nato dalla fusione del Regno di Castiglia e León con quello d’Aragona. La lingua vincente,
anche in questo caso, è quella della corte, che si impone grazie alla Reconquista (1492: cacciata degli Arabi da
Granada).
Lingue come l’inglese, lo spagnolo e il francese, che hanno avuto una larga diffusione mondiale, vengono detti pluri o
policentriche, poiché hanno una pluralità di standard che coincide più o meno con ciascuno dei Paesi in cui la lingua è
parlata, con differenze che possono essere anche notevoli, soprattutto sui piani fonetico e lessicale, tra uno standard e
l’altro.
L’italiano ha una storia differente, che si può riassumere in termini essenziali affiancandola, per contrasto, alla storia
del francese, che invece è simile a quelle dell’inglese e dello spagnolo. Dobbiamo preliminarmente distinguere tra la
lingua scritta e la lingua parlata, visto che la diglossia in cui la madre lingua e la lingua letteraria sono idiomi
nettamente distinti sembra essere la condizione prevalente in ogni parte del mondo, nella tradizione storica a noi
nota. Punto di riferimento privilegiato è la lingua scritta, per due motivi: fornisce la base più solida per la

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stabilizzazione di una norma e, in una sorta di circolo vizioso, i grammatici (almeno all’inizio) scelgono come oggetto
della regolamentazione la lingua scritta; a esclusione della fase più recente, non si hanno sufficienti testimonianze che
riguardano la lingua effettivamente parlata. Italiano e francese sono due lingue con una storia assai diversa: da un
lato, infatti, l’italiano contemporaneo differisce da quello di Dante meno di quanto il francese della Chanson de Roland
differisca da quello odierno; dall’altro, nel XIX secolo, Manzoni invidiava ai francesi la possibilità di godersi senza
problemi il teatro del Seicento: un italiano dell’Ottocento, infatti, non avrebbe potuto capire – se non con grandissimo
sforzo e a rischio di gravi incomprensioni – la lingua dei secoli precedenti.
Quando si parla di standardizzazione non si intende un’unificazione linguistica totale e assoluta, che è un postulato
esclusivamente teorico. La lingua, parlata e scritta, è il mezzo privilegiato di comunicazione tra gli esseri umani, e
dunque anche quella più standardizzata – soprattutto, ma non solo, nella sua variante orale – è in costante evoluzione
in senso diacronico e sincronico (di pronuncia, di intonazione, di scelta lessicale). Anche nei casi in cui tali varianti
possono essere importanti, come per esempio nell’italiano, esse non impediscono comunque la grammaticalizzazione,
e dunque la stabilizzazione di una serie di norme nelle quali la comunità dei parlanti si riconosce. Del resto, la norma
non è monolitica e assoluta, e non sarebbe corretto perseverare nel comportamento manicheo di chi giudica
l’esattezza o l’erroneità delle forme in base a un concetto eccessivamente rigido di norma.

L’ITALIANO

 I poeti della corte di Federico II, iniziatori della letteratura italiana in quanto attori non estemporanei in un
progetto voluto dall’imperatore stesso, scrivono in un “siciliano illustre” di cui restano pochi lacerti, scampati
alla toscanizzazione (cfr. alcuni versi di re Enzo e, soprattutto, la canzone Pir meu cori alligrari di Stefano
Protonotaro), tanto massiccia quanto normale per l’epoca, intrapresa subito a ridosso della fine di quella
prima esperienza poetica. Ma l’Italia di allora era, esattamente come la Spagna e la Francia, plurilingue, sia
nel senso che erano attive altre varietà italoromanze, sia nel senso che non mancavano esperienze alloglotte
in lingua d’oc e d’oïl;
 Il dibattito sulla lingua è particolarmente vivo nella nostra Penisola tra XVI e XIX secolo: nasce come questione
letteraria, e assume – dopo l’Unità d’Italia – dimensioni più ampie, sociali e politiche. All’inizio, il nucleo della
questione è se il volgare possa avere la medesima dignità letteraria del latino: risponde positivamente Dante,
primo “linguista” italiano; ribadiscono invece la superiorità indiscussa del latino gli umanisti, i quali affermano
che il volgare non offre alcuna garanzia di durata, e dunque non è adatto alla letteratura, poiché si tratta di
una lingua non codificata e soggetta a continue variazioni;
 Nei secoli XIV e XV l’Italia offre ancora un panorama ampiamente plurilingue e soggetto a mutamenti
linguistici dovuti a fattori sociali ed economici. Ciononostante, l’umanista Leon Battista Alberti scrive, ma non
rende pubblica, una Grammatichetta del volgare (1438-1441 ca.), a sottolineare il fatto che non tutti gli
uomini di cultura del tempo sono totalmente contrari alle nuove lingue;
 Nel XVI secolo la dignità del volgare è un dato acquisito, e la questione linguistica sposta il proprio baricentro:
la domanda non è più latino o volgare?, ma quale volgare? La risposta viene dal veneziano Pietro Bembo, che
nelle sue Prose della volgar lingua (1525) auspica l’uso del fiorentino trecentesco, così come codificato da
Petrarca per la poesia e da Boccaccio per la prosa. La scelta di Bembo, che pure alla fine sarà vincente,
incontra fin da subito degli oppositori, che preferiscono altre soluzioni: per esempio, quella a favore della
“lingua cortigiana”, usata dalle cancellerie delle più importanti corti italiane. Essa, nel risultato finale, non è
omogenea, ma caratterizzata dalla eliminazione dei tratti più locali, a favore eventualmente dei latinismi. Tra i
seguaci di questa linea, Baldassarre Castiglione e Gian Giorgio Trissino, che – interpretando in modo
personale e tendenzioso il De vulgari eloquentia dantesco – afferma che la lingua usata dai grandi trecentisti
non è il fiorentino schietto dell’epoca loro, ma una miscela formata dagli elementi meno municipali delle
varie lingue peninsulari. Gli scrittori del Cinquecento, dunque, dovrebbero fare lo stesso, usare una lingua
mista, italiana, la lingua parlata nelle principali corti, e in particolare quella papale, cosmopolita;
 La proposta linguistica bembiana non ha ovviamente nulla a che vedere con la lingua parlata, e questo urta la
sensibilità dei fiorentini che vorrebbero veder riconosciuto il primato della loro lingua. Benedetto Varchi,

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membro dell’Accademia fiorentina fondata nel 1542 dal Granduca Cosimo I de’ Medici (nel 1583, alcuni dotti
appassionati di questioni linguistiche decidono di abbandonare questa Accademia per fondare l’Accademia
della Crusca), tenta una mediazione tra le Prose di Bembo e le istanze degli intellettuali fiorentini.
Nell’Hercolano (1570, postumo), distingue tra lingua scritta e lingua parlata: per la prima è bene seguire il
modello bembiano dei grandi autori trecenteschi, ma per la lingua viva l’esempio viene soprattutto
dall’idioma fiorentino contemporaneo, solo purgato degli elementi troppo marcatamente municipali. Questa
mediazione ha avuto riflessi di lunga durata sulla lingua italiana;
 Verso la fine del secolo, un’altra proposta ancora allarga ulteriormente il modello di Bembo: Lionardo Salviati,
nei suoi Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decamerone (1584-1586), sostiene che non solo la lingua di
Petrarca e Boccaccio può fungere da modello, ma la lingua di qualunque scrittore del Trecento, perché basta
essere nati a Firenze in quel secolo per poter svolgere il ruolo di modello linguistico. All’idea di Bembo che la
lingua “perfetta” sia frutto di una selezione artistico-letteraria si sostituisce la convinzione che il fiorentino
trecentesco sia un modello “naturale”;
 Le teorie arcaizzanti di Bembo, mitigate dai successivi Varchi e Salviati, forniscono le basi per il primo grande
dizionario di una lingua moderna: il Vocabolario degli Accademici della Crusca, stampato a Venezia nel 1612.
L’interno dei compilatori è senz’altro normativo: fornire un modello di lingua al quale attenersi, che accordi
l’esempio degli autori del Trecento (anche i meno celebrati) con l’uso dei fiorentini colti contemporanei;
 L’italiano è una lingua libresca, che ha vissuto – e ancora per certi aspetti vive – più nei libri che nella realtà
quotidiana: se ne accorgono i giovani europei ricchi e colti che, soprattutto nel corso dei secoli XVII e XIX,
vengono in Italia per visitare le rovine romane, nel rinnovato gusto per la classicità. L’italiano parlato, intriso
di forme locali, quando non dialettali, è diverso dalla lingua che francesi, tedeschi, inglesi hanno imparato nei
libri, e che si è diffuso in tutta Europa soprattutto grazie al melodramma;
 Le persone colte che si richiamano agli ideali dell’Illuminismo rifiutano la visione arcaizzante della lingua
ancora ben presente nella quarta edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1729-1738): famosa
è la Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca di Alessandro Verri. Si insinua sempre più nitida l’idea
che le lingue non sono immutabili, e alla fine del Settecento Melchiorre Cesarotti (Saggio sopra la lingua
italiana, 1788) distingue tra il “genio grammaticale” (regole di funzionamento della lingua, indispensabili per
la comunicazione) e il “genio retorico” (stile, che arricchisce la lingua sul piano espressivo);
 La questione linguistica si ravviva nella seconda metà del XIX secolo, incalzata dall’urgenza di dare una lingua
al neonato Regno d’Italia. Protagonisti della rinfocolata questione della lingua nel secondo Ottocento sono il
più famoso scrittore italiano del XIX secolo, Alessandro Manzoni, e uno dei più eminenti glottologi del tempo,
Graziadio Isaia Ascoli. Dopo aver rivisto in chiave fiorentina la lingua del suo romanzo per l’edizione definitiva
del 1840, Manzoni è incaricato nel 1868 dal Ministro della Pubblica Istruzione Emilio Broglio di presiedere una
commissione con il compito i proporre i modi per diffondere la “buona lingua”. Nella lettera Dell’unità della
lingua e dei mezzi per diffonderla, Manzoni ribadisce l’idea che la lingua nazionale non può che essere il
fiorentino dell’uso contemporaneo. L’uso dev’essere alla base della scelta linguistica. Inoltre, nell’opera Sentir
messa, mai pubblicata in vita, lo scrittore espone i concetti basilari del proprio pensiero linguistico: l’uso
cambia con il tempo, non può essere limitato alle forme scritte, deve essere toscano. Firenze, che negli anni
della Relazione è capitale d’Italia, deve svolgere, secondo Manzoni, la stessa funzione linguistica che hanno
avuto Roma per il latino e Parigi per il francese; modo migliore per diffondere la lingua è la compilazione di un
vocabolario dell’uso vivo fiorentino;
 La Relazione di Manzoni suscita un dibattito molto acceso, che divide studiosi e letterati tra favorevoli e
contrari: tra questi ultimi, i conservatori (che si rifanno al fiorentino del periodo aureo, del XIV secolo, o al
fiorentino del periodo argenteo, del XVI secolo, e rifiutano l’idea che la lingua dell’uso possa svolgere un
ruolo normativo) e Ascoli (cfr. Proemio al primo volume dell’“Archivio glottologico italiano”: il fiorentino
contemporaneo, rispetto alla lingua letteraria basata sul fiorentino trecentesco, è un dialetto come gli altri.
Apparentemente, Ascoli attacca il Novo vocabolario della lingua italiana di Giovan Battista Giorgini e Emilio
Broglio, a partire dal titolo: l’assenza del dittongo in novo, forma scelta dai compilatori del vocabolario in
ossequio alla parlata di Firenze, è un municipalismo fiorentino, inaccettabile in quanto tale in una lingua che

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vuole essere nazionale. Il normale esito in italiano di Ŏ latina in sillaba aperta è infatti uo). Il valente
dialettologo dimostra che la lingua non è un’unità assoluta e monolitica, e che anzi essa non può che nascere
dai conflitti tra forze diverse, tra le diverse realizzazione regionali. La lingua della nazione non va creata a
tavolino, non può essere trovata in una varietà sola: solo una maggiore diffusione della cultura e, dunque, del
metodo scientifico (oltre al superamento di un’eccessiva preoccupazione per la forma) permetterà alla nuova
nazione di avere una lingua unica, in cui tutti si possano riconoscere;
 Durante il XIX secolo, l’esigenza di un rinnovamento linguistico è molto sentita dagli scrittori, soprattutto dai
prosatori. In ambiente verista si diffonde l’idea, espressa per esempio da Matilde Serao, di una lingua
“borghese”, che sia una via di mezzo tra la lingua “classica” (arcaica e non adatta al nuovo pubblico abituato
alla prosa giornalistica) e il dialetto (espressione della vivacità popolare ma comprensibile in un’area troppo
ristretta). Il problema linguistico, insomma, non è legato solo all’esigenza di avere una lingua di
comunicazione per il neonato Stato unitario: si riflette anche nella letteratura;
 Nella scuola primaria, il manzonismo ha un certo seguito, soprattutto grazie a libri di grande successo, quale
Cuore di Edmondo De Amicis (1886). In tal modo, si sottrae spazio ai tradizionalisti, almeno nella formazione
elementare: i professori delle scuole superiori, infatti, si schierano piuttosto sul fronte antimanzoniano e
aristocratico, che ha il suo campione in Giosue Carducci;
 La storia linguistica italiana è percorsa da fremiti puristi, che si alternano a fasi di apertura nei confronti del
nuovo. L’ultimo organico tentativo purista è quello pianificato dal Fascismo, che si muove lungo tre direttrici:
negazione delle lingue degli alloglotti (soprattutto tedesco e slavo, parlato dalle popolazioni annesse all’Italia
dopo la fine della Prima guerra mondiale), limitazione dei forestierismi (sostituiti, con esiti altalenanti, da
sinonimi italiani; la lingua straniera dominante nell’italiano parlato negli anni Trenta è il francese, la cui moda
comincia nel XVIII secolo), ostilità nei confronti dei dialetti (progetto di unificazione a scapito delle lingue
locali  soprattutto negli anni Trenta, vera e propria dialettofobia). Bruno Migliorini, fin dal titolo di un suo
articolo del 1937 su “Critica fascista”, parla di autarchia linguistica. Gli studiosi più seri, come lo stesso
Migliorini – fondatore del cosiddetto neopurismo – o Alfredo Schiaffini, pur vicini alla politica linguistica del
regime, auspicano posizioni moderate. Schiaffini sottolinea che la classe colta è libera d’intervenire nel
processo formativo della lingua, e come sia ineluttabile il prestito, benefico quando determina un
arricchimento non verbale ma dello spirito;
 Alcune parole messe in circolazione durante il regime fascista resistono tuttora nel lessico italiano: sportello
al posto del francese guichet, assegno per check o chèque, autista per chaffeur; in alcuni casi si affiancano ai
forestierismi, magari con qualche sfumatura semantica: rimessa/garage, rinfresco/buffet, villetta/chalet. Non
mancano gli italianismi d’autore, come regista per régisseur, che si deve a Migliorini. Ma numerosi sono gli
esempi di sostituzioni che sono state dimenticate dopo la caduta del Regime: arlecchino per cocktail, guisco
per whisky (con la tipica evoluzione w- > gu-), fubbia per smog (somma di fumo e nebbia, esattamente come
il termine inglese), alla frutta o fin di pasto per dessert; non mancano infine gli adattamenti semplicemente
grafici (bidè per bidet), o morfo-fonetici (alcole per alcool, festivale per festival), anch’essi per lo più decaduti.
Ci chiediamo, a questo punto: esiste un italiano standard? Non tutti gli studiosi concordano. Dal punto di vista
sociolinguistico, i parlanti nativi di italiano, cioè coloro che parlano la lingua spontaneamente, non perché l’hanno
appresa a scuola, sono aumentati numericamente dopo il 1950, grazie alla diffusione della televisione (l’italiano
parlato diventa largamente familiare). La base della nostra lingua è indubbiamente il fiorentino del Trecento, ma nel
corso dei secoli l’italiano si è allontanato dalla lingua di Firenze, non accettandone alcune caratteristiche:
 Esecuzione fricativa delle affricate palatali ([valiʤa] vs. [valiʒa]);
 Riduzione del dittongo uo (nuovo vs. novo);
 Vocali paragogiche dopo finale consonantica (nord vs. norde);
 Un caso particolare è il raddoppiamento fonosintattico, che interessa in determinate condizioni – all’interno
della frase – la consonante iniziale di una parola. Nella pronuncia, esso è realizzato in Toscana e nelle regioni
meridionali, non al Nord, ma in qualche caso si cristallizza anche nella grafia: eppure, nemmeno, soprattutto,
ecc.

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Rimangono anche delle differenze lessicali notevoli tra l’italiano e il fiorentino: figlio vs. figliolo, straccio vs. cencio,
raffreddore vs. infreddatura.
Il fiorentino non può dunque essere assunto come varietà standard dell’italiano. Inoltre, l’italiano cosiddetto standard
presenta alcune difformità che contrastano con il concetto stesso di standard, per esempio nella fonetica, nella
distribuzione delle vocali aperte e chiuse e nell’esecuzione di alcuni suoni consonantici (S in posizione intervocalica):
[bɛne] vs. [bene], [kasa] vs. [kaza]. Di fatto, lo standard italiano non rispecchia la parlata di alcuna comunità linguistica,
è una lingua ampiamente artificiale che si riflette nella lingua scritta. È stato per questo elaborato il concetto di
italiano dell’uso medio, il quale tende all’accoglimento e alla standardizzazione di forme (che sempre più passano
anche al livello scritto) che erano state lasciate fuori dalla norma:
 Lui, lei, loro come pronomi personali soggetto in luogo di egli, ella, essi;
 Gli come dativo unico, anche per il le femminile e per il loro plurale;
 Partitivo dopo preposizione (esco con degli amici);
 Risalita del clitico con i verbi servili o di accompagnamento (ti vuoi muovere? per vuoi muoverti?; mi comincio
ad annoiare per comincio ad annoiarmi);
 Indicativo con i verba putandi e dopo dichiarativa negativa (credo che viene, non dico che è brutto);
 Indicativo imperfetto in luogo di congiuntivo e di condizionale in periodo ipotetico (se lo sapevo, non venivo);
 Accordo a senso fra soggetti collettivi e verbo (la maggior parte dei presenti si sono annoiati).
È chiaro che l’accettabilità di simili innovazioni varia da caso a caso, e dipende dalla sensibilità del parlante.
Se la realtà di una lingua s’identifica sempre più con il parlato, e la variante scritta non ha più la funzione normativa di
un tempo, allora bisogna dire che la vera realtà dell’italiano sono gli italiani regionali e locali. Nel corso del Novecento
la pronuncia fiorentina, e eventualmente quella romana, hanno fornito il punto di riferimento attraverso
l’insegnamento scolastico almeno fino agli anni Sessanta, ma resta difficile parlare di uno standard per l’italiano. Nel
secondo dopoguerra, a Firenze e Roma si è aggiunta Milano come terzo polo linguistico, in virtù del suolo ruolo di
motore economico e finanziario della nuova Repubblica. Le parlate regionali si sono livellate, si sono formate koinai
interregionali che si possono genericamente definire settentrionali, centrali e meridionali, pur sussistendo – all’interno
di ogni singola koinè – una notevole quantità di sfumature da una zona dall’altra. Le migrazioni interne degli anni
Cinquanta e Sessanta e la diffusione dei mezzi di comunicazione creano poi il presupposto per livellamenti linguistici
all’interno della Penisola, e dunque per lo scolorimento delle identità dialettali originarie. È un processo lento e ancora
ben lontano dalla sua conclusione: l’italiano è infatti l’unica lingua del panorama romanzo che conservi ancora una
fitta presenza dialettale.

IL FRANCESE

 Il territorio che chiamiamo, con termine d’origine germanica, Francia, era nel Medioevo plurilingue: non solo
diviso tra langue d’oc al sud e langue d’oïl al nord, ma frazionato in ciascuna delle due zone in numerose
varietà linguistiche (lingua d’oc e lingua d’oïl sono due etichette usate da Dante nel DVE, che non
corrispondono a due lingue reali, ma a una serie di lingue; almeno per quanto riguarda la lingua scritta, però,
il sud è più omogeneo del nord). La langue d’oïl comprende per esempio piccardo, normanno (cfr.
anglonormanno, parlato e scritto nel sud dell’Inghilterra), champenois, vallone, lingua dell’Île-de-France
(franciano). Sono tutte lingue usate tanto a livello orale, quanto a livello scritto, dapprima principalmente per
scopi letterari, perché il latino rimane per un certo tempo lingua di riferimento per usi documentari e pratici;
 Già durante il XIII secolo, Parigi diventa punto di riferimento politico (sede del potere regio) e linguistico
(punto di incontro tra genti di diverse regioni francesi). L’autorità del re aumenta, e con essa cresce la
capacità del potere centrale di contrastare le forze centrifughe proprie del sistema feudale: con il passare del
tempo, la lingua del re sostituisce il latino. Ma si tratta di un processo lento, e l’importanza di Parigi non
intacca il sostanziale plurilinguismo della Francia medievale;
 Nel 1539, Francesco I promulga l’Ordonnance de Villers-Cotterets, che rappresenta di fatto l’atto di nascita del
francese come lingua ufficiale dell’amministrazione e della giustizia (contro ambiguità ed incertezze causate
dalla comprensione delle parole latine presenti nelle sentenze), ed è la prima concreta manifestazione di una

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politica di centralismo linguistico. Negli articoli 110 e 111 viene reso obbligatorio il langaige maternel françois
in tutti gli atti pubblici: la lotta ingaggiata affinché il francese s’imponga sul latino, lingua di una ristretta élite
di uomini di cultura, si allarga inevitabilmente alle varietà regionali, alle lingue minoritarie e ai patois, i
dialetti;
 La lingua di Parigi si diffonde, ma non riesce a soppiantare velocemente le lingue regionali e i dialetti, che
restano di fatto la lingua materna per la maggioranza dei francesi;
 Sul versante letterario, gli umanisti desiderano rinnovare i fasti della letteratura classica, ma si rendono conto
di non poter rivaleggiare con i grandi autori latini e greci usando la loro stessa lingua. D’altra parte, prima di
poter usare il francese per scrivere opere all’altezza di quelle classiche, è necessario che la lingua venga
regolamentata, cioè che diventi una gramatica. L’opera di grammaticalizzazione inizia nel XVI secolo, e ha per
oggetto la lingua scritta: il primo tentativo di regolamentazione del francese è forse l’opera intitolata Champ
fleury (1529), nella quale il tipografo Geoffrey Tory cerca di proporre norme generali per la lingua e un
canone di autori-modello, seguendo in ciò le Prose della volgar lingua di Bembo (1525). Ma il problema è che,
da un lato, gli autori contemporanei non sono abbastanza rappresentativi, dall’altro quelli antichi non
possono essere presi in considerazione, perché il francese (anche quello letterario), a differenza dell’italiano,
ha un’evoluzione molto significativa nel periodo che corre dal Medioevo al Rinascimento;
 Nel 1549, Joachim du Bellay propone come modello la lingua dei poeti della Pléiade: ma il tentativo è
destinato all’insuccesso, perché i nuovi poeti – cultori della classicità greca e latina, amanti di una scrittura
retoricamente ricca e sperimentale – usano un linguaggio troppo ricercato e lontano dall’uso comune, e
dunque non idoneo alla funzione di modello;
 Nella trattatistica successiva, prevale il modello della lingua parlata dalle persone colte che vivono a corte,
che conoscono il latino e il greco, che escludono forme dialettali e risalgono facilmente a forme più
puramente etimologiche. Secondo il poeta François Malherbe (1555-1628), che si assume la missione di
depurare e disciplinare la lingua francese, le caratteristiche della “nuova” lingua francese devono essere
purezza, chiarezza e proprietà. Egli vuole che siano espulsi non solo regionalismi e dialettismi, ma anche
arcaismi, neologismi e termini tecnici, accolti invece nel francese del XVI secolo. Malherbe è in generale
contrario allo sviluppo libero delle particolarità nell’espressione linguistica;
 I grammatici codificano il cosiddetto bon usage, il modo di parlare della parte migliore della corte e il modo di
scrivere della parte migliore degli autori del tempo. Nel XVI secolo si va alla ricerca di una lingua classica,
rifuggendo dall’uso vivo, che non viene considerato un modello degno; Claude Favre de Vaugelas, invece,
consacra proprio l’uso vivo del francese parlato a corte dalle persone colte, aristocratici o alto-borghesi. Gli
autori rimangono in secondo piano, perché non partecipano alla costituzione della norma, giacché altro non
possono fare nelle loro opere se non conformarsi al bon usage della corte. Nonostante tutta l’importanza che
si possa accordare alla corte, essa non può fornire, da sola, la regola; è necessario che la corte e i buoni autori
collaborino, ed è solo grazie alla loro unione di intenti che si stabilisce il bon usage. Il consenso da parte dei
buoni autori è come un sigillo, o una verifica, che consacra il linguaggio usato a corte. Vaugelas nega
addirittura che la conoscenza del greco e del latino possa essere utile nello stabilire la buona norma, anzi a
volte può rivelarsi controproducente. Il bon usage, dunque, è aristocratico, è parigino, serve soprattutto alla
comunicazione, esclude tecnicismi ed arcaismi, pur essendo discretamente aperto ai neologismi;
 Nel 1635, Armand-Jean du Plessis de Richelieu, cardinale e primo ministro di Luigi XIII, fonda l’Académie
Française, con il compito di fornire la lingua francese di un vocabolario (che arriverà solo nel 1694), di una
grammatica e di norme stilistiche e retoriche. Il Seicento è insomma il secolo nel quale la lingua francese si
fissa in una forma che possiamo definire classica. Il XVII secolo segna, inoltre, il momento di maggior prestigio
dell’italiano in Francia;
 Gli scrittori del Settecento consacrano definitivamente la lingua del secolo di Luigi XIV, che diventa il modello
da seguire, ma sostituiscono la rigidità accademica all’aristocratico esclusivismo del secolo precedente. Nel
1783, l’Accademia di Berlino bandisce un concorso proponendo il quesito: “Che cosa fa sì che il francese sia la
lingua universale d’Europa? Perché esso merita tale prerogativa? Bisogna presumere che la mantenga?”. Il
francese, ormai consolidato, è una lingua universale. Il premio è vinto ex aequo dal tedesco Schwab e da

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Antoine Rivarol, che mette al centro l’idea della perfezione del francese rispetto alle altre lingue d’Europa,
una perfezione che deriva dalla chiarezza (incorruttibilità della sintassi, dell’ordine nella costruzione della
frase);
 Durante la Rivoluzione, la politica linguistica è tutto sommato conservatrice: di fatto, i rivoluzionari
promuovono la lingua esaltata da Rivarol. Il francese si diffonde, diventa la lingua di tutti, ma è ancora la
lingua dell’Ancien Régime. La politica linguistica dei rivoluzionari ha l’obiettivo di diffondere il francese in
modo capillare, perché ci sia una reale identificazione tra lingua e nazione. Il processo di unificazione, partito
nel lontano XIII secolo, si intensifica a cavallo dei secoli XVIII e XIX. I rivoluzionari rinnovano gli sforzi per
estirpare i patois e progettano un piano di diffusione dell’insegnamento elementare. Con il decreto del 20
luglio 1794, viene di fatto riproposto il contenuto dell’ordinanza di Villairs-Cottêrets (nessun atto pubblico, in
qualunque luogo del territorio della Repubblica, potrà essere scritto se non in lingua francese);
 Bisogna però aspettare la fine del XIX secolo (1882), per avere la scuola obbligatoria per tutti, gratuita e laica,
e con essa un veicolo potente per la reale diffusione della lingua in tutto il Paese. La scuola bandisce
vigorosamente i dialetti, e prevede anzi delle punizioni per i bambini che continuano a usarli. Insomma, il
francese plasmato nel XVII secolo, il francese del bon usage della corte del Re Sole, diventa il modello
linguistico della borghesia ottocentesca, seguendo un tragitto privo di significativi sbandamenti;
 Con il XX secolo, anche in Francia, come in Italia, la radio prima e la televisione poi contribuiscono alla
diffusione della lingua standard: ma, a differenza dell’Italia, la Francia ha un livello di unificazione linguistica
già molto avanzato. L’assorbimento dei dialetti e delle patine dialettali nella lingua standard si trova ad uno
stadio molto diverso rispetto a quello italiano, tanto che si sente l’esigenza di invertire la tendenza rispetto
alla politica attuata nel periodo rivoluzionario: si tenta di salvaguardare il bretone, l’alsaziano, l’occitano, il
basco e il corso;
 Anche il francese risente della massiccia diffusione dell’inglese, soprattutto dell’americano, nonostante gli
sforzi di commissioni create ad hoc per proteggere la lingua. Tale processo difensivo è particolarmente attivo
nelle zone periferiche, nelle quali la salvaguardia della lingua assume dimensioni politiche, e di protezione
delle minoranze (è il caso del Québec e del Belgio). In ambiti nei quali l’italiano ha ceduto all’inglese, il
francese continua a resistere: ordinateur per computer, souris per mouse, logiciel per software; in altri casi, il
cosiddetto franglais ha invece la meglio: nomination, interview, news.

LA STORIA ORTOGRAFICA

Può essere utile mettere a confronto anche la storia ortografica delle due lingue, italiano e francese, che è quasi
contraria a quella della loro standardizzazione: l’italiano ha un’evoluzione ortografica antica e consolidata, per nulla
tormentata, piuttosto lineare; il francese vive, viceversa, un’evoluzione assai complessa della propria veste grafica.

L’ITALIANO

Nella grafia dell’italiano, non c’è una perfetta corrispondenza tra grafemi e fonemi:
 Il grafema E vale tanto per /e/ quanto per /ɛ/;
 O si realizza tanto /o/ quanto /ɔ/;
 C rende sia /k/ sia /ʧ/;
 G si usa per /g/ e /ʤ/;
 S vale per /s/ e /z/;
 Z serve per /ts/ e per /dz/.
Ci sono inoltre alcuni suoni che vengono rappresentati da grafemi complessi: per rendere /ʎ/ si scrive GLI, per /ʃ/ si
ricorre a SCE, I. Ciononostante, si può dire che la grafia dell’italiano è molto vicina ad una grafia di tipo fonetico, nella
quale cioè ad un simbolo corrisponde un suono, soprattutto se paragonata a quella di altre lingue, per esempio a
quella del francese o dell’inglese.

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L’assetto grafico dell’italiano contemporaneo risale, nelle sue strutture di base, al Cinquecento, secolo nel quale
grammatici e scrittori si sono adoperati a cercare una lingua standard, almeno per lo scritto, e a stabilire per quella
lingua una coerente rappresentazione grafica. La resa grafica è infatti un problema che occupa tutte le lingue romanze,
che si trovano a dover rappresentare con l’alfabeto latino alcuni suoni estranei al sistema della lingua di Roma, in
particolare la serie delle palatali. Ogni lingua trova alla fine un sistema standard, e tutto sommato solido (l’ortografia è
l’aspetto meno soggetto alla variabilità), dopo una fase inevitabilmente incerta: il Medioevo, che rappresenta il
periodo di nascita delle lingue romanze scritte, e dunque anche della loro resa grafica, non conosce regole
ortografiche precise:
 La palatale nasale [ɲ] viene rappresentata oggi con GN, grafia già presente in latino, benché ad essa
corrisponda una diversa realizzazione; nel Medioevo troviamo le grafie GN, NGN e GNI;
 La laterale palatale [ʎ] è oggi rappresentata da GLI, mentre nel Medioevo poteva essere rappresentata da
LGL, GL, LI o LLI;
 La grafia CH compare piuttosto presto, già in alcune carte longobarde del secolo VIII, e sostituisce
completamente il segno K (in parallelo viene usato anche, per la sonora, il digramma GH). La stessa grafia, in
lingue diverse, può realizzare suoni differenti: se CH in italiano serve per l’occlusiva velare, in francese e in
portoghese rappresenta la fricativa prepalatale sorda (fr. chanter, pg. chave), in spagnolo l’affricata palatale
sorda (mucho).
Un grafema che non è più presente nella scripta dell’italiano moderno, ma che era molto diffuso nella lingua antica, è
Ç, che per lo più si usava per l’affricata dentale sorda. Per la rappresentazione di questo fonema si usavano spesso,
durante il periodo, altomedievale, le grafie Z o TZ o CZ. Il nuovo segno Ç, che probabilmente si diffonde a partire dalla
Spagna, nasce dall’uso di scrivere le due lettere C e Z una sopra l’altra, la prima un po’ sopra il rigo di scrittura, la
seconda un po' sotto: quando nell’uso grafico la C scende sul rigo, la Z sottoscritta si rimpicciolisce, prendendo la
forma di virgola che ha attualmente (in spagnolo, cediglia, “piccola zeta”). Tale segno poteva essere usato anche sotto
altre lettere, per esempio la T, sempre per rappresentare l’affricata dentale sorda (il segno Ţ è presente nell’uso
grafico del romeno).
La grafia dell’italiano comincia a stabilizzarsi nel XVI secolo: i testimoni più importanti di questa operazione sono,
all’inizio del secolo, le edizioni delle opere di Petrarca e Dante curate da Bembo per Aldo Manuzio (1501-1502), e –
verso la fine dello stesso secolo – gli Avvertimenti della lingua sopra ‘l Decamerone di Lionardo Salviati. A questi si
aggiunge la prima edizione del vocabolario dell’Accademia della Crusca (1612): da allora, i cambiamenti grafici
dell’italiano sono tutto sommato esigui. Ma la storia grafica della nostra lingua, nonostante la complessiva stabilità, è
attraversata da numerosi progetti diversi di riforma dell’alfabeto. Si possono distinguere grosso modo due filoni: i
fonetisti e gli etimologisti. I primi auspicano riforme che adeguino al meglio la grafia alla pronuncia, colmando le
lacune dell’alfabeto latino con l’inserzione di nuovi segni; i secondi ritengono che la forma grafica debba andare nella
direzione di una maggiore aderenza all’origine latina della lingua, poiché in Italia non c’è alcun modello fonologico che
possa essere assunto come base di una codificazione ortografica, neppure il fiorentino. Il Cinquecento è il secolo più
vivace da questo punto di vista: famosa è la riforma di Gian Giorgio Trissino, che risale al 1524 (tra le altre cose, è
prevista l’inserzione, nel nostro sistema grafico, di due lettere dell’alfabeto greco, la ɛ per la E aperta e l’ω per la O
aperta, ma nella revisione del 1529 ω viene usata per rappresentare la O chiusa).
La discussione è accesa anche tra XIX e XX secolo: Policarpo Petrocchi è autore di una Grammatica della lingua italiana
(1887; ideazione di un vero e proprio alfabeto in gran parte nuovo) e del Novo dizionario italiano (1894; grande
importanza è accordata all’uso degli accenti e vengono introdotti nuovi simboli).
I più recenti modi di comunicare indicono in qualche modo anche sulla grafia, soprattutto dei più giovani. Pensiamo
agli sms, che spingono a un sistema potentemente tachigrafico, cioè ricco di abbreviazioni: x in luogo di per, cmq per
comunque, nn per non, ecc.

IL FRANCESE

L’ortografia del francese ha una storia lunga e complessa. Durante la fase medievale, la grafia cerca di essere nei limiti
del possibile fonetica, anche se la forte evoluzione dal latino complica necessariamente la resa grafica (es. grafia fet

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accanto a quella moderna fait da factum). Nel corso dei secoli, e in particolare in periodo umanistico, si intensifica la
grafia etimologica, più o meno corretta, che ovviamente non intacca la reale pronuncia: dict per dit da dictum; laict
per lait da *lactem. In alcuni casi, la consonante etimologica viene messa prima di una V, a sottolineare il fatto che si
tratta di una consonante anch’essa, non della (semi)vocale U: debvoir, apvril, insepvelir (negli usi grafici antichi, U e V
si equivalgono). Non raramente la grafia etimologica che si impone in questo periodo rimane anche nel francese
moderno: poids, “peso”, dove la D si spiega con la falsa etimologia da pondus, mentre la parola deriva da pensum. Non
di rado le nuove grafie servono a distinguere gli omofoni: doigt è uguale a (il) doit, “deve”.
Non mancano, nel corso della storia dell’ortografia francese, i tentativi di ritornare ad una grafia fonetica, ma si tratta
di operazioni necessariamente destinate al fallimento, anche perché in tal modo molti omofoni del francese
diventerebbero anche omografi: mère, “madre”, maire, “sindaco”, mer, “mare”.
È necessario tenere in considerazione alcuni casi particolari:
 In francese, la H ha per lo più origine etimologica: può venire dal latino (la cosiddetta H muta: homme <
hominem) oppure dalle lingue germaniche (H aspirata, che impedisce la liaison: honte < *haunitha). In alcuni
casi, però, l’H non è etimologica, bensì un segno grafico che veniva usato soprattutto nelle parole comincianti
per U + vocale, a segnalare che quella U era semiconsonantica e non consonantica (cioè non era V, per
l’interscambiabilità di cui si è detto): huile < oleum, huit < octo;
 Altro grafema che viene dall’uso medievale è X in posizione finale, segno di abbreviazione per -us: chevax =
chevaus, “cavalli”. Con l’invenzione della stampa, l’abitudine di usare le abbreviazioni va scemando, ma
questa X viene conservata come marca del plurale: chevaux (la parola proviene da caballos, con caduta della
O e vocalizzazione della L, che si è scempiata davanti a S: *cabals > afr. chevaus; la grafia medievale ha forme
ridondanti, che abbinano all’abbreviazione per -us la L etimologica: chevalx o chevaulx, da pronunciare
comunque [ʧəvàus o ʃəvàus]). In alcuni casi, si aggiunge una X etimologica laddove la grafia medievale aveva
preferito S: voix per vois (< vocem), croix per crois (< crucem). In questi casi, si è recuperata graficamente la X
del nominativo latino (vox, crux); anche in questi casi, la diversa grafia distingue degli omofoni;
 La Z in posizione finale era usata per rappresentare TS, l’affricata dentale sorda, nelle parole latine che
finissero in -atis, -itis e simili: assez < ad satis. La Z si è mantenuta anche quando il suono consonantico finale
non veniva più pronunciato, perché serviva a sottolineare la tonicità della vocale precedente: vous priez vs. tu
pries. Dopo l’introduzione dell’accento acuto, che risolve il problema, la Z può essere sostituita dalla più
etimologica S, e così accade già nel vocabolario pubblicato dall’Académie française nel 1762;
 Anche la nasalizzazione ha prodotto qualche assestamento grafico. Poiché en e an rappresentano lo stesso
fonema /ã/, è successo che qualche volta la grafia etimologica en sia diventata an (è una grafia usata abbasta
diffusamente nel Medioevo): dedans invece di dedens (< de-de-ĭntus). Ma molto più spesso, nella grafia del
francese moderno, si mantiene en (sentir, dent), anche perché il mutamento sarebbe stato a volte impossibile
(gent [ʒã] scritto gant sarebbe stato pronunciato [gã]) o avrebbe generato malintesi;
 Un caso interessante è quello del dittongo oi. Esso proviene dal dittongamento di Ē o Ĭ del latino in sillaba
aperta, oppure dalla combinazione di O con uno iod proveniente da altra evoluzione: rēgem > roi, pĭlum >
poil, gaudia > joie. La pronuncia più antica era oi discendente, che poi passò – sul finire del XII secolo – a oè e
poi a wè; dal XIII secolo si comincia a diffondere in un certo numero di casi la pronuncia /ɛ/, che è normale nel
XVI secolo soprattutto a Parigi (desinenze dell’imperfetto e del condizionale; alcuni nomi di origine
geografica, come anglois, polonois, piémontois; alcune parole isolate). Si ha dunque un periodo nel quale la
medesima grafia oi corrisponde a due pronunce: /wɛ/ e /ɛ/. Al posto della prima si diffonde, anche nella
lingua popolare di Parigi, la pronuncia /wà/.
Nei casi in cui oi corrisponde a /ɛ/ si propone fin dal 1675 di adottare la grafia ai, richiesta sempre più
insistentemente nel XVIII secolo per esempio da Voltaire, che la usa in alcuni suoi scritti (grafia detta, per
questo, “di Voltaire”). Bisogna però aspettare la pubblicazione del vocabolario del 1835 perché tale grafia
venga definitivamente accolta dall’Accademie (anglais, polonais, piémontais). Quanto alla pronuncia
parigina /wà/ per la grafia oi, essa s’impone dovunque (tranne ovviamente nei casi in cui la pronuncia è
passata a /ɛ/) nel XVIII secolo, soprattutto dopo la Rivoluzione.
Per riassumere:

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1. Ē/Ĭ [ > fr. wà / ɛ, grafia oi
2. Fino alla fine XII sec.: pronuncia [oi] > [oè] > [wè] nel XIII sec.
3. Si diffonde già nel XIII sec. a Parigi la pronuncia /ɛ/ per alcune categorie di parole: desinenze
dell’impf. e del condiz., alcuni nomi di origine geografica, alcune parole isolate
4. XVII/XVIII sec.: queste parole prendono la grafia ai
5. Fine XVIII sec.: per tutte le altre parole, con grafia oi, la pronuncia diventa [wà].
Il problema dell’ortografia del francese, a differenza di quanto visto per l’italiano, è sempre attuale, tanto che anche in
anni recenti lo Stato ha emanato circolari volte a modificarne qualche aspetto: si tratta di innovazioni minime, che in
verità restano per lo più lettera morta.

LA ROMÀNIA NUOVA

LO SPAGNOLO D’AMERICA

La polemica circa l’influsso della lingua andalusa sull’ispanoamericano, nata alla fine del XVII secolo, è uno dei capitoli
più importanti della storia dello spagnolo d’Oltreoceano: nessuno nega che ci siano dei tratti, soprattutto fonetici, che
legano la lingua del Nuovo Mondo a quella del sud della Penisola iberica, ma non tutti sono concordi nel vedere un
rapporto di filiazione della seconda rispetto alla prima. La discussione, iniziata negli anni Venti del XX secolo, vede
scendere in campo studiosi di alto livello, a sostegno dell’anti-andalusismo o dell’influenza andalusa sullo spagnolo
americano. Un passo importante a favore di questa seconda ipotesi è mosso dallo studioso statunitense Peter Boyd-
Bowman, che svolge varie ricerche per stabilire l’origine geografica dei primi colonizzatori, e di conseguenza per
determinare quale sia lo spagnolo che per primo si diffonde nel Nuovo Mondo. Le ricerche d’archivio portano Boyd-
Bowman ad affermare con certezza che la lingua che stabilisce la norma in America non è quella di Madrid o di Toledo,
bensì quella di Siviglia. Si stima che nei primi anni della colonizzazione, tra il 1493 e il 1508, il 60% degli spagnoli che si
recano in America sia originario dell’Andalusia, e che nel decennio seguente i due terzi delle donne che emigrano
verso le nuove terre provengano ugualmente dalla regione della Siviglia. Inoltre, la capitale dell’Andalusia
monopolizza, insieme a Cadice, i commerci con l’America durante i secoli XVI e XVII, e Siviglia è il luogo di raccordo
obbligato tra la Penisola iberica e l’America. Sotto l’aspetto linguistico, dunque, per i creoli d’Oltreoceano lo spagnolo
di riferimento è quello andaluso, non castigliano.
L’ipotesi di una influenza effettiva dello spagnolo andaluso su quello americano è quella oggi maggiormente
accreditata. È chiaro che, dopo l’arrivo dei primi coloni, tutte le regioni della Spagna contribuiranno al popolamento
dell’America, ma l’imprinting è sivigliano. È pure evidente che, nella norma dello spagnolo d’Oltreoceano, entrano
anche altri fattori, che concorrono alla formazione di una lingua che, pur non essendo un’entità monolitica, è
abbastanza uniforme. Lo studioso Rafael Lapesa (favorevole all’ipotesi di un’influenza andalusa sullo spagnolo
americano) afferma che, benché non esista un’uniformità linguistica nell’America latina, l’impressione di una diffusa
omogeneità non è ingiustificata, perché le sue varietà sono meno discordanti tra loro di quanto lo siano i dialetti della
Penisola iberica.
Le caratteristiche fonetiche che, sopra le altre, fanno pensare all’influenza dell’andaluso sullo spagnolo americano
sono due:
 SESEO  annullamento dell’opposizione tra /θ/ (fricativa interdentale sorda) e /s/ a favore del secondo
fonema, fenomeno tipicamente andaluso. L’andalusismo dello spagnolo americano, che possiamo definire
con più precisione siviglianismo, è incontrovertibile per il fatto che rispetta il seseo, che si estende a tutto lo
spagnolo d’Oltreoceano. In castigliano, dunque, parole come repaso, cazuela, celeste presentano due fonemi
differenti, e cioè /s/ la prima, /θ/ le altre due: [kaθuela] e [θeleste]. Nello spagnolo americano, invece, c’è
solo il fonema /s/: Oltreoceano il fonema fricativo interdentale è del tutto assente, con l’eccezione di qualche
isola linguistica nella quale al seseo si sostituisce il fenomeno opposto, cioè il ceceo, anch’esso di origine
andalusa (la parola mesa viene pronunciata [meθa] anziché [mesa]; fenomeno assai meno diffuso del seseo,
tipico della parlata più popolare). Il seseo era presente in Andalusia prima del secolo XVI, anche se non è

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chiaro il motivo di tale livellamento nella lingua parlata nel sud della Spagna: secondo alcuni sarebbe dovuto
alla ricchezza multietnica e plurilinguistica propria in particolare di Siviglia, che avrebbe portato a una certa
semplificazione nella lingua d’uso, anche tra i ceti colti. Il seseo si sarebbe trasmesso precocemente alla
lingua parlata nelle Isole Canarie, a causa della forte emigrazione andalusa verso quelle terre.
Se è vero che, provenendo per lo più dall’Andalusia, i colonizzatori parlano una lingua che prevede il seseo e
minoritariamente il ceceo, è anche vero che non mancano persone provenienti dalle regioni la cui lingua
distingue la fricativa interdentale dalla sibilante: tuttavia, la varietà linguistica con il seseo diventa
predominante, assumendo il ruolo di varietà propria dello spagnolo americano. Le grafie di creoli e indigeni
che imparano lo spagnolo e di spagnoli originari di zone non seseanti, ma che hanno soggiornato a lungo in
America, ci testimoniano che il seseo ha la meglio, e che già prima del 1650 questa pronuncia è quella
generalizzata nelle colone spagnole del Nuovo Mondo. Il seseo è una caratteristica così tipica dello spagnolo
d’America che si diffonde fin da subito anche nelle colonie conquistate più recentemente, e nelle zone più
marginali;
 YEÍSMO  fenomeno di livellamento e semplificazione: la palatale laterale perde il suo elemento laterale e
confluisce nel fonema /j/: una parola come caballo non viene pronunciata, come in castigliano, [caβaʎo],
bensì [caβajo]. Tale pronuncia è in verità diffusa tanto in Spagna quanto in America: in Spagna è
probabilmente maggioritaria, e ha una distribuzione più sociolinguistica che geografica; d’altra parte, in
America non mancano ampie zone in cui si mantiene la distinzione tra /ʎ/ e /j/. Lo yeísmo è presente
massicciamente a partire dal XV secolo nella zona meridionale della Penisola iberica, tanto da diventare uno
dei tratti caratteristici della parlata andalusa. Questo fenomeno fonetico passa subito nelle colonie
americane, a partire dal XVI secolo, ma la sua diffusione è piuttosto lenta e non raggiunge tutte le regioni del
Nuovo Mondo. Sembra che all’inizio si trattasse di una pronuncia tipicamente popolare, ma in seguito esso si
diffuse anche nello spagnolo delle classi elevate.
Le caratteristiche fonetiche analizzate accomunano lo spagnolo andaluso a quello delle Canarie e a quello americano;
per questo motivo, negli ultimi anni alcuni studiosi parlano di spagnolo atlantico, che si distingue da quello della
madrepatria (spagnolo metropolitano), ma anche dallo spagnolo esportato nelle Filippine e da quello degli ebrei
sefarditi, cacciati dai Re Cattolici nel 1492.
Al momento della scoperta del Nuovo Mondo lo spagnolo è una lingua molto variata, tanto sul piano geografico,
quanto su quello sociale: lo spagnolo che viene esportato in America è dunque una lingua in movimento. Lo spagnolo
arriva in America in periodi diverse, e dunque la lingua che si stabilisce nelle varie regioni è ugualmente diversa,
risultato delle evoluzioni realizzatesi in questi spazi temporali. È importante sottolineare che, da un punto di vista
sociolinguistico, è ormai dimostrato che lo spagnolo che si diffonde nelle colonie americane non appartiene solo al
livello basso, come si credeva un tempo: sulle navi che partono per le Indie occidentali ci sono di sicuro persone si
bassa o nulla cultura, ma anche chierici, ufficiali dell’esercito, personale amministrativo del regno, letterati, insomma
persone dalla cultura medio-alta.
La prima tappa della diffusione dello spagnolo in America è la creazione di uno spagnolo antillano, lingua parlata dai
primi colonizzatori, indipendentemente dalla loro origine geografica. Lo spagnolo antillano risulta da un processo di
creolizzazione, un livellamento, cioè, degli “spagnoli” parlati dai colonizzatori, una lingua di comunicazione che
assorbe alcuni elementi (soprattutto lessicali) anche delle lingue indigene: è questo lo spagnolo che viene imparato dai
nativi. Si crea una koinè con caratteristiche particolari, già americane, giacché essa non corrisponde ad alcuna delle
varietà di spagnolo parlate nella madrepatria. Le tappe sono:
1. Contatto linguistico di differenti varietà dialettali;
2. Riduzione e semplificazione dei fenomeni più marcati di ciascuna varietà;
3. Creazione di un idioma che abbia funzione di lingua franca;
4. Promozione della lingua così formata a lingua materna;
5. Standardizzazione della nuova lingua.
La cronologia del processo descrittivo non è nota nei dettagli, ma si può dire che nel 1650 la nuova lingua è già diffusa
in tutte le colonie spagnole d’America. È chiaro che in ogni zona, in ogni colonia ci saranno differenze dovute a vari
fattori: lingue di substrato, che avranno esercitato un’influenza più o meno importante a seconda del prestigio delle

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singole popolazioni autoctone; momento storico della colonizzazione; rapporti più o meno intensi della colonia con la
corte vicereale o con quella di Madrid, e dunque con le loro lingue. Si deve parlare dunque più correttamente di
differenti koinai nelle singole aree di colonizzazione. In conclusione, si può dire che in tutta l’America si ripete, in
momenti distinti, il medesimo processo che determina la creazione dello spagnolo antillano, e che tale processo è
all’origine delle distinte varietà linguistiche americane.
La diluizione diacronica della conquista delle terre americane e la presenza di lingue autoctone che in alcuni casi
hanno influenzato lo spagnolo sono fattori importanti che concorrono alla formazione della lingua parlata nelle
colonie ispaniche d’America. Quanto al substrato, che agisce soprattutto a livello lessicale, non tutte le lingue
precolombiane sono eliminate dallo spagnolo, come capita solitamente in circostanze analoghe: dalla cruenta corsa
alla colonizzazione americana da parte degli spagnoli si salvano, sotto il profilo linguistico, il guaranì e il quechua, che
sono lingue ufficiali rispettivamente in Paraguay e in Bolivia e Perù. Il nucleo più antico e significativo di parole
importate nel patrimonio castigliano è rappresentato dalla lingua parlata a Porto Rico e Santo Domingo, i territori dai
quali parte la successiva colonizzazione del Nuovo Mondo. Non è peraltro da sottovalutare, sul piano linguistico, la
massiccia presenza di schiavi neri deportati in America dall’Africa: poiché tali deportazioni sono appannaggio, in
principio, dei portoghesi, la lingua parlata dagli schiavi e da coloro che con gli schiavi hanno a che fare è un pidgin a
base portoghese. Ma successivamente all’elemento portoghese si aggiunge, e in parte sostituisce, quello castigliano.
Le diverse lingue di substrato, il décaloge cronologico della colonizzazione e i disomogenei rapporti con la madrepatria
da parte delle colonie contribuiscono alle differenze che caratterizzano lo spagnolo parlato nelle varie regioni del
Centro e del Sudamerica.
La salvaguardia delle lingue indigene è garantita in un primo momento dai missionari, soprattutto gesuiti, che trovano
più agevole – nella loro opera di evangelizzazione – usare la lingua parlata dalle popolazioni autoctone, piuttosto che
passare attraverso il filtro dello spagnolo. Tuttavia, sul finire del XVI secolo, la lingua dei conquistadores viene imposta
sempre più anche in ambito religioso, e infine si arriva a stabilire che i missionari debbano esprimersi unicamente in
spagnolo. In base agli studi fatti, all’inizio del XVIII secolo i parlanti spagnolo in America erano solo due milioni e
mezzo; all’inizio del secondo seguente, quando comincia il percorso di indipendenza delle colonie, gli ispanofoni non
superano i tre milioni. Le lingue indigene continuano dunque ad essere usate da una gran parte della popolazione: ciò
significa che anche per tutto il periodo coloniale lo spagnolo convive con le lingue precolombiane in una situazione più
o meno armonica di diglossia. Nei secoli XVI, XVII, XVIII lo spagnolo è la lingua della minoranza dominante, dei centri
urbani, dell’amministrazione, della scuola, della cultura. La situazione cambia solo con il XIX secolo, quando – con
l’indipendenza politica delle varie repubbliche americane – lo spagnolo si diffonde anche tra la popolazione rurale. La
nuova politica scolastica mira alla diffusione massiccia dello spagnolo, che diventa, forse paradossalmente, un simbolo
di libertà conquistata e un mezzo di elevazione sociale.
Oltre alle lingue locali, hanno probabilmente un ruolo marginale le lingue europee degli altri colonizzatori, le cui terre
confinano con quelle spagnole. In particolare, influiscono l’inglese a nord e il portoghese lungo l’ampia zona di confine
tra Brasile e colonie ispaniche. Non è raro, in queste circostanze, il fenomeno dell’ibridazione dello spagnolo, che dà
vita ai cosiddetti spanglish e portuñol. L’apporto di queste lingue (all’inglese al portoghese si aggiungono l’italiano e il
francese) è soprattutto di tipo lessicale, e non è ovviamente omogeneo né sul piano geografico, né su quello
sociolinguistico, né su quello cronologico:
 Portoghese  apporto molto importante e antico, perché risale ai primi anni della colonizzazione. I
lusitanismi nello spagnolo americano si devono a diversi fattori: sono di origine marinara, sono dovuti
all’emigrazione nelle colonie spagnole dei galeghi, sono dovuti all’influenza – soprattutto nelle zone
confinanti – del Brasile. Ma già in origine la lingua esportata dagli spagnoli contiene parole portoghesi, come
dimostrato dal fatto che il lessico dell’andaluso e della lingua delle Canarie è ricco di lusitanismi;
 Francese  influenza sicuramente meno significativa, oltre che piuttosto tarda, che riguarda soprattutto gli
strati elevati della popolazione. I francesismi dello spagnolo d’Oltreoceano rientrano nel più vasto movimento
di diffusione, in Europa e nel resto del mondo, della lingua di Parigi durante i secoli XVIII e XIX;
 Italiano  prestiti appartenenti al registro popolare, che spesso presentano sviluppi semantici autonomi e
offrono una discreta copia di dialettismi, perché l’America latina rappresenta l’unica realtà importante in cui
l’italiano si sia diffuso per via di contatto linguistico tra parlanti;

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 Inglese  importanza crescente dovuta all’ascesa internazionale dei confinanti Stati Uniti; sostituisce il
francese come lingua di prestigio.

IL FRANCESE D’AMERICA

Oggi la provincia canadese del Québec rappresenta l’unica vera isola francofona del territorio americano, l’unica zona
cioè in cui il francese è lingua ufficiale. Ma nel periodo compreso grossomodo tra gli inizi del XVII secolo e la metà del
XVIII i possedimenti della corona francese nel Nuovo Mondo coprono un’aria molto vasta, estesa più o meno dal
Canada al Golfo del Messico.
Le prime esplorazioni francesi si devono a Jacques Cartier di Saint Malo, nella seconda metà del XVI secolo; la vera
storia del francese in America comincia però solo con la fondazione delle prime città, al sorgere del XVII secolo, a cui fa
seguito l’afflusso dei coloni, nel corso del Seicento.
Nei primi anni che seguono la cessione all’Inghilterra (sancita dal trattato di Utrecht del 1713), agli abitanti della
regione dell’Acadia (grossomodo corrispondente alla Nuova Scozia) viene concessa la libertà di usare la propria lingua
e di praticare la religione cattolica; ma nel 1755 i dominatori britannici reagiscono con violenza al rifiuto, da parte degli
acadiani, di appoggiarli durante la guerra contro il Québec: le terre vengono confiscate, le case bruciate, i cittadini
deportati. Molti di loro muoiono, altri si trasferiscono nel New Brunswick, regione che oggi conta il più elevato numero
di francofoni dopo il Québec, al punto che nel 1969 è ufficialmente bilingue; ma soprattutto, gli acadiani emigrano in
Louisiana, e lì si stabiliscono. Nel XIX secolo, in effetti, la situazione linguistica di questa regione è complessa, perché vi
si possono distinguere tre tipi di francese: quello degli abitanti che vi si sono stabiliti ab origine, quello degli acadiani
(cadjin da Cadjins, nome degli acadiani in Louisiana: l’aferesi della A- di Acadia è dovuta probabilmente alla
segmentazione la Cadie in luogo di l’Acadie; avviene inoltre la palatalizzazione di /d/ seguita da iod) e il creolo a base
francese parlato dagli schiavi neri provenienti dalle Antille o direttamente dall’Africa. Nel XX secolo, la prima varietà di
francese praticamente scompare, e ben poco rimane anche del creolo dei neri. Oggi molti Cadjins parlano solo inglese,
ma mantengono una forte identità etnica. Dalla fine degli anni Sessanta in poi si cerca di proteggere la minoranza
linguistica francese della Louisiana, non sempre con successo.
La zona francofona più importante del Nordamerica è il Québec. I coloni che si stabiliscono lungo le rive del San
Lorenzo provengono dalla Normandia, dalla zona di Parigi e dalle regioni centro-ovest; essendo originari per lo più di
zone urbane della madrepatria, sono più scolarizzati dei loro compatrioti francesi, e dunque parlano mediamente un
francese migliore. Il passaggio sotto il dominio inglese nel 1763 è meno traumatico per la popolazione del Québec di
quanto lo sia per gli abitanti dell’Acadia: d’altra parte, il numero altissimo dei francofoni consiglia prudenza e cautela
ai nuovi governanti. Tuttavia accade che molti esponenti delle classi più agiate e acculturate tornino in Francia: ciò
determina un profondo cambiamento sociale all’interno della comunità francofona, ora formata esclusivamente da
persone di basso profilo sociale e culturale. Alexis de Tocqueville, che visita Montréal nel 1831, fotografa in modo
efficace la situazione: le città assomigliano a quelle francesi di provincia. La base della popolazione nella sua
maggioranza è ovunque francese, ma è facile vedere che i francesi sono il popolo vinto: le classi ricche sono per lo più
inglesi. Sebbene il francese sia la lingua parlata quasi universalmente, sono in inglese la maggior parte dei giornali e
delle pubblicità, e persino le insegne dei commercianti francesi.
L’inglese s’impone sempre di più, già nel corso del Settecento, sia perché aumenta la percentuale della popolazione
anglofona (l’indipendenza delle colonie britanniche d’America induce molti lealisti a passare nei territori canadesi,
ancora legati alla corona inglese), sia soprattutto perché le classi della media e piccola borghesia vedono nell’inglese
un mezzo imprescindibile di emancipazione sociale: il francese si arricchisce così di molti anglicismi. L’inglese, agendo
come lingua di adstrato, non intacca né la fonetica né la morfologia del francese, limitando la propria influenza al
lessico. Peraltro, e questo è un tratto che distingue il québécois dal francese di Francia, negli ultimi anni i francofoni
canadesi tendono a pronunciare le parole inglesi rispettandone la fonetica; in qualche caso si verifica anche il
contrario, ed è l’inglese (almeno quello parlato nel Québec) ad accogliere francesismi sconosciuti al british english e al
meno esclusivo inglese americano (metro per subway).
Quando, nel 1867, viene creata la Confederazione canadese, le due lingue sono messe esplicitamente sullo stesso
piano per quanto riguarda l’amministrazione della giustizia e la legislazione: ma il francese rimane una lingua di

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traduzione, perché di fatto gli atti legislativi sono scritti in prima istanza in inglese. Le élites urbane canadesi sono
bilingui, ma gli anglofoni che vivono nel Québec parlano solo inglese. Nelle città industrializzate, soprattutto a
Montréal, le classi sociali meno scolarizzate parlano un francese molto anglicizzato, il cosiddetto joual. Solo nel XX
secolo la lingua francese riesce a recuperare il terreno perduto: durante la prima metà degli anni Sessanta, nel periodo
noto con il nome di Rivoluzione tranquilla, vengono introdotte una serie di leggi riguardanti la lingua. Alla fine di
questo periodo, il Québec è la sola regione del continente americano nella quale il francese è l’unica lingua ufficiale
(lingua materna per più di sette milioni di persone).
Alcune caratteristiche del francese québécois (la prima pronuncia è quella québécois), per quanto riguarda il
vocalismo:
1. Dittongamento delle vocali medie e di quelle nasali: fort [faɔʁ] vs. [fɔʁ], beurre [baœʁ] vs. [bœʁ], bête [baɛt] vs.
[bɛt];
2. La grafia oi può avere diverse realizzazioni fonetiche, soprattutto [wɛ / we], nella lingua non sorvegliata della
comunicazione quotidiana. Si tratta di un arcaismo fonetico; nella lingua sorvegliata, comunque, prevale la
pronuncia standard [wa]: toi [twe] vs. [twa], voir [vwɛʁ] vs. [vwaʁ];
3. Passaggio /a/ > /ɔ/ in posizione finale (soprattutto se segue -s): ananas [ananɔ] vs. [anana(s)];
4. Passaggio in protonia di /ɔ/ e /i/ a /ə/, di /o/ a /a/: donner [dəne] vs. [dɔne], minute [mənyt] vs. [minyt],
hôpital [apital] vs. [ɔpital];
5. Passaggio di /u/ a /y/: tout le monde [tylmɔ̃ n] vs. [tulmɔ̃ d].
Per quanto riguarda il consonantismo:
1. Assibilazione di /t/ e /d/ davanti alle vocali o alle semiconsonanti anteriori chiuse; quindi /t/ > /ts/ e /d/ >
/dz/: petit [pətsit] vs. [pəti];
2. Riduzione dei gruppi consonantici finali: casque [kas] vs. [kask];
3. Palatalizzazione di /t/, /d/: parti [parʧi] vs. [parti];
4. Indebolimento di /g/ finale: catalogue [katalɔj] vs. [katalɔg];
5. Pronuncia di /t/ finale: lit [lit] vs. [li];
6. Caduta di /f/ finale: bœuf [bø] vs. [bøf];
7. Metatesi di /ʁ/ e /ə/: brebis [bəʁbi] vs. [bʁəbi].
Per quanto riguarda la fonetica sintattica:
1. Mantenimento di alcune liaisons che nel francese di Francia tendono a scomparire, o sono scomparse: il est
arrivé [jetaʁive] vs. [ile aʁive];
2. In alcuni casi, si inserisce una -t- anche per forme verbali che ne sono prive: je suis arrivé, nel francese del
Québec, è chus-t-arrivé [ʃytaʁive];
3. Nell’imperativo, quando i pronomi moi e toi si combinano con en, si inserisce una -z-: parle-moi-z’en!,
“parlamene!”.
Per la morfologia:
1. Produttività di alcuni suffissi la cui vivacità non è degna di nota nel francese di Francia, come -eux e -age;
2. Evoluzione dei pronomi personali il > i (davanti a consonante o semiconsonante) e elle > a davanti a
consonante, al davanti a vocale; ils, elles > i davanti a consonante, j davanti a vocale: il mange  i mange;
elle mange  a mange; elle arrive  al arrive.
Per il lessico:
 ANGLICISMI  contatti linguistici con l’inglese almeno a partire dal 1763. La circostanza che il Québec
rappresenti praticamente un’isola francese in un contesto anglofono non è senza conseguenze per l’unica
lingua romanza parlata ufficialmente nell’America settentrionale. Come capita spesso alle minoranze
linguistiche, i québécois sono molto attaccati alla loro lingua, e in qualche caso la custodiscono con maggiore
attenzione di quanto accada in Francia; può succedere così che alcune parole che a Parigi sono
tranquillamente sostituite da anglicismi (week-end), abbiano ancora vitalità a Québec (fin de semaine).
 Prestiti integrali  una parola di una lingua entra nel vocabolario di un’altra senza che ci siano, o
quasi, adattamenti al sistema della lingua che riceve; questo tipo di prestito è particolarmente

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presente nel linguaggio familiare. Per quanto riguarda il québécois: chum, “compagno” al posto di
copain, bines, dall’ingl. beans, per haricots, “fagioli”;
 Prestiti semantici  una parola già esistente nel vocabolario francese assume un significato nuovo,
derivato dall’inglese. Un esempio tipico di questi prestiti è il verbo adresser, “indirizzare” (una
lettera, ma anche una persona a un ufficio, un amico, ecc.; in senso figurato, anche “lanciare”) e
“rivolgersi verbalmente a qualcuno”. Si ha però un anglicismo semantico, per influsso di to address,
quando questo verbo viene usato con il significato “occuparsi di”, “trattare”: adresser un probléme,
“occuparsi di un problema”. Altri esempi sono l’ingl. green che influenza il fr. vert quando viene
usato nel senso di “campo da golf” e il verbo appliquer, “applicare”, che può significare “candidarsi”
su to apply;
 Prestiti fraseologici  trasposizione in una lingua di un’immagine o di una locuzione propria di
un’altra lingua: l’espressione faire du sense è costruita sull’ingl. to make sense, mentre in francese
standard si direbbe avoir du sens, être sensé, ecc.; prendre une marche, “fare una passeggiata”, è
costruito su to take a walk (invece di faire une promenade);
 Prestiti grafici  il francese insegnato nelle scuole del Québec rispetta quella del francese standard;
ma non è raro trovare grafie “errate” a causa dell’influenza inglese, ovviamente per le parole che
sono molto simili nelle due lingue. L’inglese, infatti, pur essendo una lingua germanica, ha un
vocabolario ad altissima percentuale latino, che si deve soprattutto alla dominazione normanna
dell’Inghilterra durante il Medioevo. Tra i vari fenomeni: caduta dell’accento grafico (theatre per
théâtre), confusione tra consonanti doppie e scempie (giraffe per girafe), caduta di -e finale o di h-
iniziale (chart per charte, abileté/abilité per habileté), cambi di consonante (apricot per abricot),
aggiunta di -e finale (volatile per volatil), fenomeni combinati (guard per garde).
 ARCAISMI  forme che esistevano nel vecchio francese e che sono ancora vive in Québec; a volte, l’arcaismo
può essere solo semantico, relativo al solo significato della parola. In questi casi, di solito, i vocabolari francesi
definiscono i vocaboli “arcaici”, “desueti”, o li classificano come regionalismi canadesi: traversier, “traghetto”,
al posto di ferry; croche, aggettivo e sostantivo, significa “curvo”, ma anche “disonesto”, “deviazione dalla
linea retta”. Il vocabolo è stato usato tra il XVI e il XIX secolo, poi è caduto in disuso in Francia, ma è ancora
vivo nel Québec;
 SUBSTRATO AMERINDIO  non ha lasciato molte tracce, se non in qualche vocabolo, per lo più legato al
mondo della natura, e in alcuni toponimi: caribou, maskinongé (grosso pesce di acqua dolce, simile al luccio);
 FONDO LESSICALE FRANCESE  le parole che appartengono al fondo lessicale francese hanno un significato
diverso rispetto a quello che hanno nel francese di Francia: pantoufle, “calza corta” vs. “pantofola”;
 INNOVAZIONI LESSICALI DEL QUÉBÉCOIS  rezipper, “chiudere la cerniera lampo”, su zipper, “munire di
chiusura lampo”; se débeurrer, “lavarsi”, “pulirsi”, su beurrer, “imburrare”. Al gergo appartiene bœuf,
“poliziotto” invece di “bue”.

Alcune caratteristiche fonetiche dell’acadiano:


1. Davanti a /r/, in francese non c’è opposizione tra /e/ e /ɛ/, perché la realizzazione è sempre /ɛ/; nel francese
accadiano, invece, ci sono coppie minime nelle quali, in tale posizione, /e/ si oppone a /ɛ/: mère, “madre”
[meʁ] vs. mer, “mare” [mɛʁ];
2. Sussiste il fonema /h/, che si pronuncia più o meno come nell’inglese; anche in questo caso ci sono coppie
minime: eau, “acqua” [o] vs. haut, “alto” [ho];
3. Un tratto tipico del francese accadiano è il cosiddetto ouïsme, cioè la chiusura in /u/ di /o/ e di /ɔ/ davanti a
nasale o a /z/: estomac [ɛstuma] vs. [ɛstɔma];
4. In posizione prevocalica, /t/ e /d/ non si assibilano come nel québécois, ma davanti a /j/ e /ɥ/ c’è una
palatalizzazione, che porta fino a /ʧ/ e /ʤ/: tuer [ʧɥe] vs. [tsɥe] (pronuncia del québécois);
5. Le consonanti /k/ e /g/ davanti alle vocali posteriori possono palatalizzarsi fino a diventare /ʧ/ e /ʤ/: guerre
[ʤɛʁ] vs. [gɛʁ].

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PIDGIN E CREOLO

Per pidgin (alterazione dell’inglese business secondo la pronuncia cinese) s’intende una lingua di comunicazione nata
dall’incontro e dalla miscela tra le lingue europee (francese, inglese, portoghese, spagnolo) e le lingue indigene delle
popolazioni colonizzate, nelle Americhe, in Africa e in Asia. Il pidgin è dunque una lingua che nasce da un’ibridazione
tra due o più lingue, ed è molto semplificata sul piano lessicale e ridotta al minimo per quanto riguarda morfologia e
sintassi: è una lingua che ha il solo scopo di permettere la comunicazione verbale tra persone che parlano lingue
differenti. Sul piano sociolinguistico, la formazione del pidgin è asimmetrica, poiché la base è data dalla lingua dei
padroni (colonizzatori), con l’aggiunta di alcuni elementi della lingua dei colonizzati. È però vero che, a volte, il pidgin
nasce per permettere la comunicazione, per lo più connessa a scambi commerciali, tra pari: è il caso del cosiddetto
sabir, lingua franca del Mediterraneo usata per secoli dai mercanti, a larga base italiana (soprattutto veneziano e
genovese), con innesti dallo spagnolo e dall’arabo.
Il creolo (dallo spagnolo criollo, “meticcio, servo nato in casa” dal verbo criar, “allevare”) è un pidgin che è diventato
lingua materna per una comunità di parlanti. Rispetto al pidgin, il creolo ha una grammatica maggiormente articolata,
anche se non complessa, un lessico più sviluppato e viene usato per funzioni più ampie.

4. FONETICA: VOCALISMO

4.1 ACCENTO IN LATINO

La quantità vocalica e quella sillabica sono due elementi che scompaiono totalmente dal latino al passaggio alle lingue
romanze. L’accento in una parola latina, posto che il latino non aveva ossitoni o ne aveva pochissimi, se quella parola
era bisillaba, si trovava sulla penultima sillaba. In latino, per posizionare correttamente l’accento, bisogna valutare la
quantità sillabica (distinzione tra quantità vocalica e quantità sillabica): per la legge della penultima, in una parola che
abbia due o più sillabe l’accento cade sulla penultima sillaba quando essa è lunga; altrimenti cade sulla terzultima. La
sillaba chiusa era sempre lunga, che contenesse una vocale lunga o breve (A-PĔR-TUM: la penultima sillaba è lunga); la
sillaba aperta o libera (terminante in vocale) era breve se conteneva una vocale breve, era lunga se conteneva una
vocale lunga (FA-CĔ-RE. Penultima breve, accento sulla terzultima; MO-NĒ-RE: penultima lunga, accento sulla
penultima). Nella maggior parte dei casi, non vi è nessun problema rispetto alla posizione dell’accento nel passaggio
alle lingue romanze, perché la posizione dell’accento rimane la stessa del latino. Nel passaggio dal latino alle lingue
romanze, parole piane diventano tronche, ossitone (accento sull’ultima sillaba), per una serie di evoluzioni
fonetiche: non si è verificato uno spostamento di accento, ma – per evoluzioni fonetiche diverse (caduta di vocali e
consonanti nella parte finale della parola) – gli elementi finali della parola sono caduti. L’italiano città, per esempio,
viene dal latino civitatem. Ciò accade molto spesso nel francese, che è una lingua molto ossitona. In alcuni casi,
dunque, ci possono essere degli spostamenti:
1. Proparossitoni con penultima breve, seguita da occlusiva + liquida (quasi sempre una vibrante; questa
tendenza si verifica solo in alcune lingue e in alcuni casi): intĕgrum > intègrum (spostamento in avanti
dell’accento verosimilmente già nel latino volgare) > it. intero, fr. entier, sp. entero, pg. inteiro; càthĕdra >
cathèdra > it. dialett. cadrega/carega, pg. cadeira; tènĕbras > tenèbras > sp. tinieblas, fr. ténèbres; pàlpĕbras
> palpèbras;
2. Parole con una I o una E tonica in iato nella terzultima sillaba (è quasi una regola, si verifica quasi sempre): FI-
Lĺ-Ŏ-LUM > FI-LJÒ-LU > it. figliolo, fr. filleul, pr. filhol;
3. Alcuni verbi composti (ricomposizione) : in alcuni verbi composti, l’accento si sposta dal prefisso al radicale.
RÉ-NĔ-GAT > RE-NÉ-GAT > it. rinnega, fr. renie. L’italiano è la lingua romanza più conservativa; la lingua
romanza che evolve di più, invece, è il francese. In italiano, infatti, non mancano i latinismi: colloco, replico
(cultismo) vs. ripiego (evoluzione popolare) (caso di allotropi: RÉ-PLĬ-CO vs. RE-PLĺ-CO).
Non sempre è possibile determinare per quale motivo i fenomeni si realizzino: nel secondo caso, abbiamo lo
spostamento d’accento perché la I o la E, in iato, tendono a diventare iod, semivocale o semiconsonante che non solo

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non può portare l’accento (perché non è una vocale), ma in altri casi produce delle evoluzioni fonetiche (laterale + iod
> laterale palatale GL, con palatalizzazione, o scomparsa dello iod). L’accento, per il fatto che lo iod non può portare
l’accento, per la perdita dello statuto vocalico, si sposta sulla vocale successiva. Secondo altri, l’accento viene
chiamato a sé dalla vocale più forte; a quel punto, la I, priva di accento, diventa uno iod.

4.2 LA QUANTITÀ NEL LATINO CLASSICO

La quantità in latino classico era un elemento distintivo (esattamente come il timbro aperto o chiuso in italiano):
coppie minime di parole si distinguono solo per il fatto di avere una la vocale chiusa e l’altra la vocale aperta ( pălus,
“palo” e pālus, “palude”). Intorno al III secolo d.C., vi è una totale sostituzione di un sistema di tipo quantitativo con
uno di tipo qualitativo: l’elemento diverso non è più la quantità della vocale, ma il suo timbro aperto o chiuso.

4.3 VOCALISMO TONICO

EVOLUZIONE SPONTANEA

Il sistema SARDO riduce le vocali lunghe e brevi ad una sola vocale. Il sistema a dieci vocali del latino diventa un
sistema a cinque vocali. Il sistema SICILIANO è diverso da quello sardo: il risultato è sempre di cinque vocali, ma con
un’evoluzione diversa. Abbiamo la confluenza di I breve, I lunga ed E lunga in I; la confluenza di E breve in E aperta;
quella di A, breve o lunga, in A; O breve passa ad O aperta; O lunga, U breve ed U lunga passano ad U.
Il sistema ITALICO è il sistema che si è diffuso di più, e ha determinato l’evoluzione della maggior parte delle lingue
romanze. Troviamo una distinzione tra E chiusa ed aperta e O chiusa ed aperta, che mancava nei due sistemi
precedenti (la A è la vocale più stabile, quella centrale del sistema). Il provenzale ha esattamente questo sistema
vocalico: esso mantiene questo sistema vocalico in quella che si suole definire evoluzione spontanea del sistema
tonico (vocali che portano l’accento). L’evoluzione spontanea del provenzale o lingua d’oc è quindi uguale al sistema
italico. Si possono avere risultati diversi da questi, dovuti a fenomeni esterni, che influenzano il vocalismo tonico.
L’antico francese è la lingua che dà più problemi, perché ha una serie di evoluzioni movimentate: in certi casi, per
certe lingue, bisogna distinguere la posizione della vocale in sillaba aperta o in sillaba chiusa. Ciò non è
determinante per spagnolo, portoghese, provenzale, mentre è importante per italiano e francese (unica lingua per
la quale bisogna distinguere tra francese antico e moderno; già il francese antico evolve abbastanza: tra XII e XIII
secolo, per esempio, intervengono fenomeni importanti di consonantismo). In italiano, bisogna distinguere tra vocale
in sillaba aperta e chiusa: E breve ed O breve del latino, in sillaba aperta, danno dittonghi spontanei.

 ANTICO FRANCESE  in sillaba chiusa, non dà particolari problemi: I lunga rimale tale, I breve ed E lunga
danno E chiusa, E breve diventa E aperta, la A rimane tale, O breve passa ad O aperta, O lunga ed U breve
passano ad O/U, U lunga passa ad U turbata (y in alfabeto fonetico internazionale). In sillaba libera, l’antico
francese dà più problemi: la A è la vocale più stabile, ma in sillaba aperta, in antico francese, diventa E (tra le
principali lingue romanze, è l’unica a presentare questa evoluzione); il passaggio di A tonica latina a E è un
fenomeno che segna il confine tra lingua d’ oc e d’oïl (è un’isoglossa che separa nord e sud della Francia da
un punto di vista linguistico, come la A atona finale del latino). I breve ed E lunga, in sillaba aperta, hanno
un’evoluzione significativa: abbiamo un dittongo èi > òi (per quasi tutto il XII secolo) > òe (verso la fine del
XII secolo; la pronuncia varia, ma la grafia rimane la stessa) > wè (nel francese fino alla Rivoluzione, quando
viene soppiantato dalla pronuncia tipicamente parigina: la pronuncia wà, non ue, del dittongo oi è
tipicamente parigina, e si diffonde all’incirca dalla fine della Rivoluzione) (es. regem > roi; la grafia del
francese moderno mantiene spesso quella del XII secolo, come in questo caso. La grafia del francese è
molto lontana dalla fonetica, proprio perché per molti aspetti è antica; ci sono poi state evoluzioni non
riportate nella grafia). Ugualmente complicata è l’evoluzione della O breve: ùo > ùe (dall’inizio XIII secolo,

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quando si verifica il monottongamento) > uè > [ø/œ]. Per quanto riguarda O lunga ed U breve, abbiamo la
seguente evoluzione: óu > éu > [ø/œ];
 SPAGNOLO O CASTIGLIANO  ha dei dittonghi, ma a differenza dell’italiano non vi è distinzione tra sillaba
lunga e breve: abbiamo sempre dittonghi in sillaba aperta e in sillaba chiusa;
 PROVENZALE E PORTOGHESE  non hanno dittonghi spontanei
 FRANCESE MODERNO  nel XVI secolo, i trattatisti che riflettono sulla lingua francese criticano la pronuncia
parigina wà della grafia oi: ancorché locale e isolata, è una pronuncia già presente, che esploderà e si
imporrà con la Rivoluzione. Nel francese moderno, abbiamo due esiti diversi per I breve ed E lunga in sillaba
aperta: wà/ɛ (grafia oi). Alcune categorie di parole (desinenze dell’imperfetto e del condizionale; alcuni
nomi di origine geografica come anglois, polonois, piémontois vs. danois, suédois che conservano wè; alcune
parole isolate), in particolare, presentano una pronuncia /ɛ/ della grafia oi già dal XIII secolo: abbiamo
dunque il problema di un grafema (oi) per due fonemi (wè/ɛ), che non è mai cosa economica. La pronuncia
alternativa per alcune categorie di parole, poi, si espande nel XVII/XVIII secolo: a questo punto, viene
proposto di cambiare la grafia delle parole nelle quali il dittongo oi era pronunciato /ɛ/. La proposta di
rinnovamento grafico è la seguente: le parole con dittongo oi etimologico (come CRĒTAM > croie e
MONĒTAM > monnoie) pronunciato /ɛ/ prendono la grafia ai (anglais, polonais, craie, monnaie). Questa
grafia viene detta “grafia di Voltaire”, in quanto pare che egli sia stato il primo ad utilizzare la grafia in alcune
sue opere: la grafia ai per parole con dittongo oi etimologico pronunciato /ɛ/ venne tuttavia
istituzionalizzata, stabilizzata solo successivamente. Alla fine del XVIII secolo, per tutte le altre parole con
grafia oi, la pronuncia diventa wà: RĒGEM > roi [ròi] > [ròe] > [rwè] > [rwà] (cfr. pagg. 40-41);
 ITALIANO  tutto sommato, si scrive e si pronuncia come in epoca antica, ma ha subito qualche
cambiamento: per esempio, in italiano antico (a volte fino al XIX secolo), vi era una maggiore diffusione dei
dittonghi /jɛ/ < Ĕ[ e /wɔ/ < Ŏ[. Pensiamo alle parole brieve > breve, priega > prega, pruova > prova, figliuolo >
figliolo.

DITTONGHI LATINI

I dittonghi latini sono tre, discendenti: AE, OE, AU. Il destino dei dittonghi latini è quello di monottongarsi nel
passaggio alle lingue romanze, ma i dittonghi AE e OE si monottongano in epoca antica (attestato in iscrizioni antiche;
questi dittonghi sono assenti da tutte le lingue romanze; quando Cicerone parla di latino rustico, evidenzia come
caratteristica il monottongamento del dittongo AE). Il dittongo AU, che pure si monottonga in molte lingue romanze,
ha una maggiore resistenza: il monottongamento è complessivamente più tardo rispetto a quello di AE e OE. Benché
vi siano esempi antichi di monottongamento di AU, è un monottongamento che resiste di più (nel provenzale e nel
romeno, laddove le altre lingue romanze hanno un monottongamento).
 Il dittongo AE segue la stessa evoluzione della E breve, diventando E aperta se in sillaba chiusa: dittonga
quindi in jɛ in sillaba aperta (caelum > it. cielo, fr. ciel, sp. cielo. La consonante iniziale subisce
palatalizzazione: l’occlusiva velare sorda diventa un’affricata palatale sorda). In qualche caso, anziché avere
come esito un dittongo o una E aperta, possiamo avere una E chiusa: l’italiano seta, dal latino saetam, ha una
E chiusa. Ancora più evidente gli esiti nel francese: il dittongo oi è il risultato dell’evoluzione della E lunga
latina in sillaba aperta (fr. soie). In alcune lingue romanze notiamo un’oscillazione: possiamo avere
l’evoluzione di AE come E breve o di AE come E lunga (praedam > it. preda [prɛda], fr. proie). Nel latino
parlato in Gallia, il dittongo AE è stato pronunciato come una E chiusa, dando come risultato il dittongo
francese oi;
 Il dittongo OE, non diffusissimo in latino classico, ha la stessa evoluzione della E lunga, dando una E chiusa;
 Il dittongo AU ha dapprima un’evoluzione in O chiusa, ma viene quasi subito sostituita da una O aperta:
complessivamente, si tratta di un’evoluzione meno massiccia di AE ed OE, ma avviene nella maggior parte
delle lingue romanze (nella maggior parte dei casi, abbiamo il monottongamento) (caudam > it. coda, fr.
queue).

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I dittonghi latini, nell’evoluzione alle lingue romanze, manifestano il monottongamento, ma a loro volta le lingue
romanze sviluppano dittonghi: vi è un fenomeno piuttosto significativo di dittongamento nelle lingue romanze
(fenomeno vero e proprio del dittongamento: in latino abbiamo una sola vocale che, nell’evoluzione alle lingue
romanze, determina un dittongo). Nelle lingue romanze vi sono anche altri dittonghi, che si creano per altri motivi,
non per dittongo di una vocale latina (il dittongo jɛ in piede è il risultato di un dittongamento, dal latino pedem. In
pioggia, il dittongo non è frutto di un dittongamento: la semiconsonante che determina il dittongo deriva
dall’evoluzione del gruppo consonantico PL, che dà in italiano PJ; la O è normale evoluzione della U breve latina.
Questo dittongo è provocato da fenomeni di altro tipo). Anche il provenzale e il portoghese hanno dittonghi, ma essi
sono dovuti ad altri fattori, non sono frutto di un dittongamento delle vocali.
Nella maggior parte dei casi, in italiano e in francese, le vocali latine dittongano solo se si trovano in sillaba aperta,
libera. In spagnolo, invece, ci possono essere dittongamenti anche in sillaba chiusa. In italiano e in spagnolo,
dittongano al E breve latina (jɛ) e la O breve latina (wɔ in italiano we in spagnolo). E breve ed O breve dittongano
anche in francese, e in questo il francese è uguale all’italiano. Il dittongamento di E breve è uguale all’italiano; in
francese, la O breve ha un dittongamento più complesso rispetto all’italiano, che alla fine si riduce. La differenza del
francese più cospicua è il dittongo di alcune vocali chiuse del latino volgare: la E chiusa del latino volgare (da E lunga
e I breve) e la O chiusa del latino volgare (da O lunga e U breve) in sillaba aperta. L’unica che rimane effettivamente
dittongata, anche nella lingua moderna, è la E chiusa. La O chiusa dapprima dittonga, poi il dittongo si riduce a
monottongo. O lunga e U breve hanno la stessa evoluzione, arrivando a questo risultato già dalla fine del XII secolo;
anche dalla O breve abbiamo la grafia eu. Abbiamo un adeguamento grafico dell’evoluzione di O breve all’evoluzione
di O lunga e U breve (due grafie per una medesima pronuncia, che si riducono ad una grafia sola: la riduzione si
adatta all’esito più precoce: novum > nuef > neuf, florem > fleur; rime e assonanze ci danno informazioni sulle
evoluzioni fonetiche). Il romeno ha un solo dittongamento spontaneo, quello della E breve in sillaba aperta o chiusa
che dà jɛ (fĕrrum > fier); nel latino parlato in area balcanica, O breve e O lunga convergono in una O chiusa, senza
dittongamento.

CRONOLOGIA RELATIVA DI FENOMENI DIVERSI

Ciò che possiamo fare è determinare una cronologia relativa tra i fenomeni (stabilire quale sia avvenuto prima e quale
dopo), senza tuttavia capire quando siano avvenuti l’uno e l’altro. Gĕnerum > fr. gendre ma tĕpidum > fr. tiède;
entrambe le parole sono proparossitone, hanno la E breve tonica, ma hanno anche una differenza: generum ha come
vocale atona postonica una E breve, mentre tepidum una I breve. Questa differenza determina la presenza in una
parola del dittongo e nell’altra no. Generum subisce un fenomeno tipico del vocalismo atono, la sincope: capita
spesso che le vocali atone cadano in corpo di parola. Le parole maggiormente colpite da questo fenomeno sono
quelle sdrucciole o proparossitone, con accento sulla terzultima. Le lingue romanze orientali, italiano e romeno,
sono meno soggette alla sincope rispetto alle lingue ibero-romanze e franco-romanze. Generum subisce una sincope
della vocale atona postonica: la sincope determina il fatto che la vocale tonica, in latino in sillaba aperta, si trovi ora in
sillaba chiusa. In francese, il dittongo si ha solo se la vocale si trova in sillaba aperta: la mancanza del dittongo è dovuta
alla sincope della vocale atona, che ha chiuso la sillaba che contiene la vocale tonica; non abbiamo dunque
dittongamento, gendre. Se, nel risultato di tepidum, abbiamo il dittongo, significa che in generum la E breve è
caduta prima che si verificasse il fenomeno del dittongamento della E breve tonica : la E breve tonica, a quel punto,
non si trova più in sillaba libera e non può dittongare. In tepidum, la I breve è probabilmente caduta per sincope
dopo che si vera verificato il dittongamento della E breve tonica (la sincope non ha influito sull’evoluzione della
vocale tonica). La sincope della E breve atona è più antica della sincope della I breve atona : cioè, la I breve atona ha
resistito più a lungo rispetto alla E. Non possiamo stabilire quando i fenomeni si siano verificati, ma sappiamo che essi
solo legati tra loro, e che uno è avvenuto più anticamente dell’altro. Il dittongamento della E lunga avviene sempre
dopo la sincope, è un fenomeno sempre più tardo della sincope; il dittongamento di E lunga è posteriore a quello di E
breve (dēbita > fr. dette). Tutte le parole proparossitone, nel passaggio da latino al francese, perdono la vocale
atona. Causam > chose presenta monottongamento di AU e palatalizzazione della velare iniziale davanti alla A,
fenomeno tipico della lingua d’oïl. La palatalizzazione di questa consonante è più antica del monottongamento di AU.

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EVOLUZIONE CONDIZIONATA

Nella maggior parte dei casi, abbiamo un’evoluzione condizionata del vocalismo tonico. Ciò avviene, perlopiù, quando
– dopo la vocale tonica – c’è un suono palatale. Spesso, la consonante palatale (laterale, nasale) può determinare e
spesso determina un’evoluzione condizionata del vocalismo tonico.
 LINGUE IBERO-ROMANZE  cŭneam > sp. cuña. La palatale nasale influenza la vocale tonica, impedendo
alla U breve di diventare una O chiusa. Lŭctam > sp. lucha (evoluzione del gruppo consonantico CT latino in
palatale; la palatale impedisce alla U breve di diventare O chiusa), pg. luta; mŭltum > sp. mucho, pg. muito (la
U è dovuta al suono palatale, è un’evoluzione condizionata). In nŏctem > sp. noche, in spagnolo ci
aspetteremmo un dittongo we, anche se è in sillaba chiusa: il dittongamento non c’è perché la palatale chiude
la vocale tonica (un dittongo we che si chiude diventa una semplice O aperta, più chiusa rispetto al
dittongamento). Lo stesso accade per fŏliam > sp. hoja (in origine vi è un suono palatale, risultato di LJ, che
impedisce alla O breve di dittongare in sillaba libera; anche in italiano abbiamo foglia, senza dittongo, per un
fenomeno di chiusura dovuto alla palatale). In factum > sp. hecho abbiamo evoluzioni condizionate di A, la
vocale più stabile, che diventa E (la caduta della F è probabilmente dovuta ad un influsso di substrato);
*lactem > sp. leche;
 FRANCESE  il suono palatale precede la vocale tonica, non la segue come negli esempi precedenti. Caput >
fr. chief > chef, capram > fr. chievre > chèvre: quello che ci sorprende, nella fase più antica della lingua, è la
presenza del dittongo, dovuto alla presenza del suono palatale che precede la vocale tonica;
 ITALIANO  gramĭneam > gramigna, famĭliam > famiglia; ma: lĭgnum > legno (esito regolare), dĭgnum >
degno. Se la palatale nasale chiude la vocale tonica, impedendo l’evoluzione spontanea del vocalismo tonico,
perché abbiamo i casi di legno e degno? Bisogna considerare che l’anafonesi si presenta nei casi in cui la
palatale nasale è dovuta all’evoluzione del nesso latino NJ, non quando è etimologica (GN latino). La nasale
palatale è uguale nei due casi, è lo stesso fonema, ma ha un’origine diversa. Per quanto riguarda la chiusura
di E davanti a nasale velare: lĭnguam > lingua, ma trŭncum > tronco. L’evoluzione, la chiusura si ha quando N
è seguita da occlusiva velare sonora (G) ma non sorda (C);
 PROVENZALE  mĕlius > mielhs; il provenzale non ha dittongamenti spontanei, ma solo condizionati dalla
presenza di un suono palatale. La particolarità del provenzale è che è possibile avere sia la forma dittongata
sia la forma con evoluzione spontanea, anche all’interno di uno stesso testo (fuelha/fuolha): si hanno più
possibilità, più forme possibili. L’unica evoluzione condizionata si verifica quando la vocale tonica si trova
davanti alla nasale: in questo caso, la vocale è sempre e regolarmente chiusa ( vĕntum > ven, necessariamente
chiusa; dŏminam > domna, con O necessariamente chiusa).

5. FONETICA: CONSONANTISMO

Il sistema consonantico delle lingue romanze non coincide, non si sovrappone in maniera perfetta a quello del latino:
ci sono, in particolare, alcune consonanti che sono presenti nel sistema consonantico delle lingue romanze ma che non
erano proprie del latino. Il caso contrario, di consonanti che esistevano in latino e non sono state accolte nel sistema
delle lingue romanze non si presenta, se non in un caso, quello della fricativa laringale (consonante aspirata
rappresentata in latino dal grafema H). In latino, la H rappresenta un’aspirata abbastanza tenue, ed è un fonema che si
è perso piuttosto presto (almeno nel latino parlato): in iscrizioni abbastanza antiche troviamo parole che avrebbero
dovuto avere la H, specie in posizione iniziale, che vengono scritte senza la H. Viceversa, troviamo parole scritte con la
H, laddove questa in latino non era presente. Essendosi perso il fonema rappresentato da H, era difficile
comprendere quando essa fosse necessaria: abbiamo dunque sia la sottrazione sia, per ipercorrettismo, l’addizione
del grafema H. Certo, ci sono lingue romanze in cui la H rimane, ma senza alcun valore fonetico (è un latinismo grafico,
un segno solo grafico): in francese, scriviamo homme; in spagnolo, hombre. La H, in italiano, rimane in qualche caso
come segno grafico, per esempio in alcune forme del verbo avere, laddove si può creare ambiguità (egli ha, terza

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persona singolare; a, preposizione semplice). La H rimane inoltre come segno grafico per rappresentare alcuni suoni
nuovi delle lingue romanze: alcune lingue, per rappresentare il suono dell’affricata palatale sorda, molte lingue usano
il grafema CH. Pensiamo allo spagnolo mucho, al francese chambre.
Il latino non conosceva in generale le consonanti palatali (affricate, fricative, orali, nasali, laterali). Le lingue romanze
incontrano la difficoltà di dover rappresentare con l’alfabeto latino suoni che il latino non aveva. Alcune lingue
romanze, tuttavia, non hanno alcune delle consonanti precedenti: per esempio, la bilabiale fricativa ( β) è un suono
tipico dello spagnolo, del castigliano, che nessun’altra lingua romanza ha (è un suono ibrido tra B e V, che viene
pronunciato tale in posizione intervocalica. Si tratta di un suono che solo lo spagnolo ha mantenuto, a differenza delle
altre lingue romanze, che hanno optato per B o V). Mentre la fricativa labiodentale sorda (F) era un suono che il latino
aveva, la fricativa labiodentale sonora (V) non esisteva in latino (che, per esempio, pronunciava uiuere, non vivere).
Anche i suoni fricativi interdentali sono tipici dello spagnolo, così come dell’inglese (pensiamo allo spagnolo cielo).
I suoni affricati e fricativi prepalatali sono ʧ, ʤ, ʃ, ʒ (chambre, in francese antico, aveva il suono ʧ, ʧambre, che poi è
stato pronunciato ʃambre; il francese, infatti, oggi non ha il suono affricato). L’italiano oggi conserva i suoni ʧ, ʤ, ʃ, ma
non il suono ʒ, caratteristico del francese.
L’occlusiva palatale sorda è la C di una parola come chiave: quando pronunciamo questa parola, la lingua va a battere
sul palato. Se invece pronunciamo cane, la lingua non batte sul palato, in quanto la C di cane è un’occlusiva velare. In
latino c’era l’occlusiva velare sorda, ma non l’occlusiva palatale sorda; lo stesso vale per la serie sonora. Abbiamo
un’occlusiva palatale quando l’occlusiva è seguita da uno jod, suono palatale, come nella parola chiave e nella parola
ghiaia.
Le nasali sono quelle consonanti che necessitano di una fuoriuscita di aria dal naso per essere pronunciate. Le
labiovelari sono rappresentate da una K seguita da una W e da una G seguita da una W: si tratta dei suoni
quell’italiano quando e guanto (la Q dell’italiano è una grafia latineggiante). Abbiamo le occlusive labiovelari (suoni
propri anche del latino, ma non – per esempio – del francese) quando un’occlusiva velare è seguita da uno wow.
La laterale palatale è un suono che il latino non aveva, ed è rappresentata da ʎ.
Le velari fricative sono tipicamente spagnole: quella rappresentata da X è la consonante iniziale di juego.
La fricativa uvulare (pronunciata nel fondo della gola) è un suono che solo il francese ha: è la cosiddetta “R francese”;
la R dell’italiano è l’alveolare vibrante.
La fricativa labiodentale sonora V non è propria del latino classico: i due grafemi U e V, in latino, potevano essere
entrambi la U vocalica o la wow, la semiconsonante. Quella che noi pronunciamo vinum, in latino si pronunciava
winum; dvx, “comandante”, si pronunciava dux (U vocalica).
In età imperiale, il suono semiconsonantico tende a diventare il suono fricativo bilabiale rappresentato da β: nelle
iscrizioni, tale suono viene rappresentato sia con il grafema B sia con il grafema V. Nella maggior parte delle lingue
romanze, la β è passata ad una V (con la grafia, perlopiù, V): lo spagnolo, invece, ha mantenuto quel suono ibrido in
posizione intervocalica, con rappresentazione tanto con il grafema B quanto con il grafema V. Nel castigliano
moderno, la differenza è di posizione: pronunciamo β in posizione intervocalica, B in posizione iniziale o dopo M/N
(vino [bino], cambiar, beber [beβer], volver [bolβer], aver [aβer]). Nello spagnolo medievale, la differenza era di tipo
etimologico: se in latino vi era un’occlusiva bilabiale sorda, la P, del passaggio dal latino allo spagnolo antico, il suono si
sonorizzò, passando ad una B (corrispettivo sonoro dell’occlusiva bilabiale sorda), a prescindere alla posizione. Se in
latino vi era una V, a prescindere dalla posizione, il suono divenne fricativo (sapĕre > *sapére, con metaplasmo > saber
[saber > saβer]).

CONSONANTI IN POSIZIONE INIZIALE

Le consonanti in posizione iniziale sono abbastanza robuste, si mantengono generalmente nel passaggio dal latino alle
lingue romanze. Fenomeno molto importante, che si realizza già nel latino parlato, è la palatalizzazione di alcune
consonanti occlusive in posizione iniziale. Le consonanti occlusive che si palatalizzano sono i suoni velari (occlusive
velari sorda e sonora) davanti ad E e I (C E, I > ʧ). In alcune lingue romanze si mantenne questo suono, verosimilmente
molto diffuso nel latino volgare, nel latino parlato, ma in altre (francese, provenzale, portoghese, le lingue romanze

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occidentali) abbiamo evoluzioni dentali che non sarebbero spiegabili se non si passasse attraverso la palatalizzazione
iniziale: caelum > *celum > it. cielo, rom. cer; fr. ciel [tsiel > siel]; pg. ceu [seu] sp. cielo [tsielo > θielo].
Per quanto riguarda la serie sonora: G E, I > ʤ, abbiamo avuto ulteriori evoluzioni in francese e in portoghese, ʤ > ʒ; in
spagnolo, ʤ > x (jota). Gentem > it. gente, rom. gintǎ; fr. gens [ʤas > ʒa].
In francese (e in alcuni casi nelle lingue retoromanze), abbiamo poi il passaggio C A > ʧ > ʃ.
La palatalizzazione iniziale riguarda anche jod e D + jod: iam > it. già; afr. ja; pr. cat. ja. Iocum > it. gioco (la I è un segno
di palatalizzazione, un segno che ci serve per pronunciare quella lettera come un’affricata palatale sonora); fr. jeu; pr.
jeu; asp. guego [ʒuego > xuego]; pg. jogo. Diurnum > it. giorno; fr. jour.
In spagnolo, la F iniziale del latino, molto spesso, cade: nelle altre lingue romanze è invece una vocale molto stabile.
L’unica in cui cade, appunto, è il castigliano (si tratta forse di un substrato iberico o basco, una delle pochissime lingue
non indoeuropee in Europa). La F iniziale si mantiene, oltre che nei cultismi, davanti al dittongo ue (fuego) e davanti
alla vibrante R (frìo). Nella maggioranza dei casi, F > H.
Molto spesso, la grafia dell’antico spagnolo mantiene per cultismo F che non venivano pronunciate, e tale si conserva
fino al XV secolo: fablar, fijo, fierro, ecc.

NESSI DI CONSONANTE + L

Nelle lingue galloromanze, lingua d’oïl e d’oc, che solitamente sono le lingue dalla maggiore spinta centrifuga, i nessi
di consonante + L si mantengono. Il catalano è una lingua strana: geograficamente, fa parte delle lingue
iberoromanze, ma molto spesso ha contatti con le lingue galloromanze (in particolare con il provenzale, che anche
geograficamente è vicino) per quanto riguarda gli esiti del latino. Gli scrittori, soprattutto i poeti catalani, nel
Medioevo non scrivevano in catalano, bensì in provenzale: il primo poeta catalano a scrivere in catalano è dell’inizio
del XV secolo. La prosa, invece, già alla fine del Duecento si sviluppa in catalano. Il catalano, per queste ragioni,
viene considerato una lingua ponte tra le lingue iberoromanze e quelle galloromanze.
Le lingue iberoromanze, per alcuni dei gruppi consonante + L, hanno un’evoluzione di tipo palatale (per quanto
riguarda le consonanti sorde P, F, C: PL, FL, CL; i gruppi BL e GL, costituiti da un nesso di consonante sonora + L, hanno
evoluzione in sola L). L’evoluzione, dunque, è molto diversa da quella delle lingue galloromanze.
In italiano, abbiamo una sola evoluzione, nella quale la L diventa uno jod: PL > PJ; BL > BJ; FL > FJ, CL > CJ: GL > GJ.

CONSONANTI SEMPLICI INTERNE

In linea di massima, le consonanti che si trovano in posizione intervocalica o tra vibrante e vocale subiscono un
fenomeno di lenizione, un indebolimento articolatorio della consonante, che può arrivare fino al grado estremo, al
dileguo della consonante (fenomeno che si verifica molto frequentemente in francese. In italiano, invece, accade
spesso che la consonante rimanga tale, senza subire lenizione). Il fenomeno interessa soprattutto le consonanti
occlusive, ma anche la -S-, che può avere una sua evoluzione. Il processo di indebolimento avviene in questo modo:
consonanti sorde > consonanti sonore (grado di lenizione piè semplice, fenomeno di sonorizzazione) > fricative
(fenomeno di spirantizzazione, nome che deriva dal fatto che le fricative possono anche essere chiamanti spiranti) >
dileguo. Le lingue che registrano un dileguo non fanno scomparire subito quella consonante: si suppone che il grado
estremo di lenizione sia avvenuto attraverso un passaggio di spirantizzazione (indebolimento progressivo
dell’articolazione).
Le lingue romanze orientali, italiano e romeno, sono le più conservative: per questa ragione, la consonante non
subisce alcuna evoluzione.
Per quanto riguarda la S, in latino questa consonante è solo sorda in posizione intervocalica. In italiano, abbiamo una
sonorizzazione: la S sonora è rappresentata, nell’alfabeto fonetico, dalla Z (l’IFA può indurci in qualche
incomprensione: per rappresentare la Z, l’affricata, utilizziamo [ts] e [dz]). Per i parlanti settentrionali, la
rappresentazione fonetica di certi suoni è complessa, perché spesso essi utilizzano sonore in luogo di sorde (pensiamo
a zucchero, in cui l’affricata iniziale dovrebbe essere sorda).

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In italiano, la S intervocalica diventa sonora; in spagnolo, la S è sempre sorda, nonostante una fase precedente sonora.
Nelle altre lingue romanze, la S in posizione intervocalica diventa sempre sonora. Nelle lingue in cui il gruppo NS si
semplifica (fenomeno relativo ai gruppi consonantici: NS > S; è un fenomeno antico, che troviamo già nelle iscrizioni) a
sola S, questa tende a diventare sonora. Nel francese, nel caso di defensam > fr. defense, la S è sorda (si tratta di una
parola dotta); in portoghese e in spagnolo, in questo caso, la S è sorda.
Generalizzando, ci accorgiamo che – molto spesso – nelle lingue romanze orientali (italiano e romeno) viene
mantenuta la consonante del latino; le lingue romanze occidentali sono più soggette ad un processo di indebolimento:
che sia la semplice sonorizzazione, la spirantizzazione o addirittura il dileguo, ciò varia da lingua a lingua. Il francese è
la lingua che presenta, nel maggior numero di casi, il dileguo; lo spagnolo ha, nella maggioranza dei casi, la
spirantizzazione; in provenzale, abbiamo spesso la sonorizzazione. Ciò non toglie, naturalmente, che anche il
provenzale possa presentare fenomeni di spirantizzazione.
Nel caso di consonanti semplici tra vocale ed R, il provenzale ha pochi casi di dileguo rispetto al francese.

CONSONANTE + JOD

NJ > ɲ
LJ > ʎ
TJ > ts / dz / z
PJ > ppj / ʧ > ʃ
BJ > bbj / v / ʤ > ʒ
RJ > j > ir / r

Vinea e folia sono due parole trisillabe: la E e la I, cioè, sono vocali. Ciò che importa e ciò che va ben compreso è che,
nel latino classico, non abbiamo alcuno jod: esso si sviluppa nel latino parlato (vinea è esempio dell’Appendix Probi).
Per quanto riguarda la E e la I, quando queste sono in contatto con un’altra vocale in iato, nel latino parlato viene
facilitata l’evoluzione di quelle vocali a jod, a semiconsonante. Effettivamente abbiamo un’evoluzione di NJ e LJ, ma
prima di ciò dobbiamo segnalare il passaggio delle due vocali in iato a vocale + jod. Area (da trisillaba che era in latino,
diventa bisillaba) > it. aia (evoluzione popolare, che prevede tutti i passaggi che ci aspettiamo che ci siano. La parola
latina area ha dato in italiano tre parole: area, parola dotta, latinismo; aia, evoluzione popolare, posto che in italiano
normalmente RJ dà come risultato J; aria è una parola semidotta, nella quale notiamo il passaggio di E in iato a jod, ma
non l’ulteriore passaggio di RJ > J. Nelle parole semidotte, osserviamo solo alcuni dei fenomeni che ci aspettiamo di
trovare. Pensiamo a corium > cuoio); fr. aire (pronuncia: èr; ai costituisce dittongo); pr. aira; sp. era; pg. eira. Il
francese, come le altre lingue romanze, prevede, nell’evoluzione di RJ, una sorta di inversione in ir.

6. MORFOLOGIA NOMINALE

La morfologia è quella parte della linguistica che analizza la struttura e la forma delle parole ed i processi che
intervengono nella loro formazione o trasformazione. Secondo la definizione di Beccaria, il termine indica anche
l’oggetto di tale tipo di studi, ossia il componente grammaticale e lessicale di un sistema linguistico, con esclusione dei
fenomeni di natura fonetica e prosodica, di competenza fonologica, e dei processi di combinazione delle parole in unità
maggiori, di competenza sintattica. In base alla morfologia, i linguisti dividono le lingue in tre grandi categorie (posto
che non esistono lingue pienamente, esclusivamente analitiche, agglutinanti o sintetico-flessive):
1. LINGUE ANALITICHE O ISOLANTI  ogni parola consiste in uno e un solo morfema; si avvicina molto a
questo modello linguistico il vietnamita, anche se una lingua totalmente priva di morfologia (come
richiederebbe il modello ideale di lingua isolante) rappresenta più una possibilità teorica che una realtà
linguistica direttamente osservabile;
2. LINGUE AGGLUTINANTI  è possibile combinare in ogni singola parola più morfemi che sono
chiaramente identificabili e segmentabili. Questa proprietà è dovuta all’invarianza dei singoli morfemi, che

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– a differenza di quanto capita nelle lingue sintetiche – non subiscono vistosi fenomeni di trasformazione sul
piano fonologico. Lingua cosiddetta agglutinante è il turco: se adam vuol dire “uomo”, nominativo
singolare, per costituire il nominativo plurale si aggiunge il morfema lar, adam-lar; per costituire l’ablativo
plurale, aggiungiamo lar e dan, che indica l’ablativo. I due morfemi, uno dietro l’altro, ci indicano che quella
parola, adam-lar-dan, è l’ablativo plurale: i singoli morfemi hanno uno e un solo significato. In latino,
invece, i morfemi possono avere più significati: in viri, per esempio, la desinenza i segnala il caso, il numero e
il genere;
3. LINGUE SINTETICHE O FLESSIVE O FUSIVE  più morfemi possono essere combinati in un’unica parola.
Il latino è una lingua flessiva o sintetica: il morfema us della forma flessa lupus non è portatore di un solo
significato, ma di una serie di informazioni grammaticali distinte nello stesso morfema. -us indica che il
sostantivo è maschile, singolare, nominativo (in un morfema vengono fuse più informazioni grammaticali:
caso, genere, numero). Le lingue classiche, latino e greco, sono buoni esempi di lingue flessive, ma non si
tratta di lingue puramente sintetiche: in alcuni casi, troviamo elementi di propri di una lingua analitica.

L’evoluzione del latino classico alle lingue romanze si colloca su una linea che porta da una lingua tendenzialmente
sintetica a lingue romanze tendenzialmente analitiche, più analitiche rispetto al latino: esse tendono ad eliminare gli
elementi flessivi del latino, ma non completamente. Rimangono dunque, in misura maggiore o minore, elementi della
lingua sintetica. Una stazione importante sulla strada che porta verso le lingue analitiche è la perdita dei casi e delle
declinazioni, combinata con l’uso – assai accentuato rispetto al latino – delle preposizioni. La perdita dei casi, tipici
delle lingue sintetiche, esemplifica il passaggio alle lingue romanze analitiche.
Tuttavia, tanto la morfologia nominale quanto la morfologia verbale delle nuove lingue non mancano di morfemi
plurisignificanti:
 Nell’italiano libro, la o permette di stabilire con ragionevole certezza che il vocabolo è maschile (anche se
tale morfema, in via eccezionale, potrebbe anche essere femminile: mano) e singolare;
 Il francese, come lingua parlata, compie un passo in più nel passaggio a lingua analitica pura: la caduta
fonetica degli elementi finali di parola (che non vengono pronunciate) fa sì che la lingua abbia
caratteristiche più analitiche rispetto all’italiano, per esempio che i morfemi verbali perdano il loro valore
distintivo. Cantano, in italiano, può essere solo terza persona plurale del presente indicativo; in francese,
abbiamo chant, che è anche prima, seconda, terza persona singolare. Questo è uno dei motivi per i quali, in
francese, almeno a partire dal XIII secolo (quando le consonanti finali iniziano a non essere pronunciate), è
necessario esplicitare il soggetto, che tuttavia non risolve tutti i problemi (nel parlato, il chante, “egli canta” e
ils chantent, “essi cantano” suonano allo stesso modo [il ʃãt]). Il livello sintetico della lingua, che nella fase
antica è più elevato anche nel parlato, rimane evidente nella grafia.
La tentazione sintetica delle lingue romanze è chiara nelle neoformazioni che caratterizzano la morfologia verbale. Il
futuro romanzo nasce come forma analitica, dalla giustapposizione dell’infinito del verbo e del presente indicativo di
habeo, ma torna ad essere sintetico (al pari delle forme classiche che aveva scalzato) quando ciò che sopravvive della
forma verbale habeo viene usato come vera e propria desinenza: legere habeo > leger-*aio > leggerò.

6.1 I CASI E LE DECLINAZIONI

Nel latino classico, i sostantivi, gli aggettivi e i pronomi erano declinati: avevano desinenze che specificavano il
genere, il numero e il caso (funzione della parola all’interno della catena sintattica). Il latino classico aveva cioè i casi
per esprimere i rapporti grammaticali all’interno della frase.
I casi del latino classico sono sei: nominativo, genitivo, dativo, accusativo, ablativo, vocativo. Nelle lingue romanze, i
casi vengono sostituiti dalle preposizioni, che si utilizzano anche in casi nei quali il latino non le prevede (esprimono
complementi per cui il latino aveva il caso semplice): ciò porta all’inutilità dei casi. Nel passaggio dal latino alle lingue
romanze, insomma, i casi si semplificano fino a scomparire, sostituti dalle preposizioni.
Nel latino classico, le preposizioni erano abbinate ai casi. Quest’uso si estende e porta alla perdita dei casi:

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 DE  funzione del genitivo;
 AD  funzione del dativo;
 AD + ACCUSATIVO  necessità di distinguere con chiarezza il soggetto dall’oggetto quando entrambi sono
persone (in spagnolo, la madre quiere mucho a su niño; cfr. anche i dialetti italiani meridionali; il romeno usa,
in certi casi, come davanti ai nomi di persona o per evitare equivoci, per > pe).
Resistono più a lungo nominativo (come caso retto o caso soggetto) e accusativo (come caso obliquo). Sul lungo
periodo, l’accusativo avrà tendenzialmente la meglio anche sul nominativo, che indicava il soggetto; l’accusativo,
accompagnato dalle preposizioni, veniva utilizzato per esprimere tutti gli altri complementi (svolgeva le funzioni del
dativo, del genitivo e dell’ablativo). L’accusativo è infatti alla base di quasi tutte le etimologie.
La resistenza dell’accusativo è dimostrata, per esempio, dalle parole imparisillabe della terza declinazione: it. notte,
fr. nuit, sp. noche, pg. noite, pr. noch < noctem (accusativo), nox (nominativo). Questa stessa categoria di sostantivi
dimostra a volte la derivazione dal nominativo: it. uomo, sp. hombre (con consonante epentetica, omorganica, B:
essa deve condividere alcune caratteristiche con la vocale precedente; sia la M sia la B, infatti, sono bilabiali) < homo
(nominativo), non hominem (accusativo); it. prete, fr. pretre < presbyter (nominativo), non presbyterem, (accusativo).
Nominativo e accusativo sono i due casi che resistono di più, con tendenziale prevalenza dell’accusativo sul
nominativo. Nei casi in cui il latino aveva più preposizioni possibili per esprimere un concetto, in linea di massima ne
viene privilegiata una sola (il moto da luogo, per esempio, poteva essere espresso con a/ab + ablativo o con de +
ablativo, per indicare movimento dall’alto verso il basso. In italiano, viene privilegiata la seconda espressione del moto
da luogo).
In seguito, le lingue romanze hanno eliminato anche questa FLESSIONE BICASUALE, che resiste nelle lingue
galloromanze, ma solo nella fase medievale. Fa eccezione il romeno, che ha sì azzerato la differenza tra nominativo
e accusativo, ma mantiene ancora una distinzione tra nominativo-accusativo da una parte e genitivo-dativo
dall’altra. Una desinenza segnala genere, numero e caso, ma la stessa desinenza può valere anche per casi, generi e
numeri differenti: -ă vale tanto per il nominativo quanto per l’accusativo, -e vale per il genitivo-dativo singolare dei
femminili, per tutti i casi al maschile singolare e per tutti i casi del plurale. Per evitare ambiguità, il romeno (unico
caso nelle lingue romanze) presenta articolo enclitico, non proclitico, e agglutinato, non non-agglutinato: peretele “il
muro”, peretelui “del/al muro”. L’articolo (quello maschile determinativo deriva dal latino ille1, tranne nel sardo, il cui
articolo determinativo deriva dal latino ipse) identifica la funzione della parola all’interno del discorso.
Al maschile l’articolo può assumere varie forme, a seconda dell’uscita del sostantivo, mentre al plurale ha un’unica
forma (cfr. p. 121, la formazione del plurale in romeno):

Singolare Plurale
Nom./acc. Gen./dat. Nom./acc. Gen./dat.
Uscita consonantica (plop-plopi, “pioppo”) -ul (plopul) -ului (plopului) -i (plopi) -lor (plopilor)
Uscita in -u (codru-codri, “bosco”) -l (codrul) -lui (codrului) -i (codrii) -lor (codrilor)
Uscita in -e -le -lui -i -lor
Uscita in -ă (popă-popi, “prete”) -a (popa) -i (popei) -i (popii) -lor (popilor)

Per quanto riguarda il femminile:

Singolare Plurale
Nom./acc. Gen./dat. Nom./acc. Gen./dat.
Uscita in -e, -ie, -ă (mare-mari, “mare”) -a (marea) -i (mării) -le (marile) -lor (mărilor)
Uscita in -á, -eá (steá-stele, “stella”) -ua (steaua) -i (stelei) -le (stelele) -lor (stelelor)

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1
Ille è interpretato già come articolo nell’incisione della Catacomba di Commodilla.

Per quanto riguarda le declinazioni, grossomodo, i sostantivi della quinta declinazione (tema in -e-) trasmigrano
nella prima (tema in -a-), anche perché sono tutti femminili, mentre i sostantivi della quarta declinazione (tema in -
u-) passano alla seconda (tema in -o-). I sostantivi della quarta declinazione confluiscono facilmente nella seconda
declinazione per una sostanziale somiglianza morfologica delle due declinazioni (l’uscita in -us del nominativo
singolare: portus, us > portus, i; genus, us > genuculum, i). I sostantivi della quinta declinazione passano facilmente alla
prima declinazione per un’attrazione di genere (rabies > rabia > it. rabbia, fr. rage, sp. rabia, pg. raiva). Questi passaggi
rappresentano una tendenza: a volte i nomi di quarta e quinta declinazione vengono sostituiti da sostantivi di altre
declinazioni.
La quarta e la quinta declinazione sono le declinazioni più deboli del sistema del latino classico:
 Sono le più povere di sostantivi;
 Non vengono impiegate per la declinazione degli aggettivi;
 Presentano dei doppioni: pinus, us = pinus, i; materies = materia;
 Non sono produttive: in caso di parole nuove che entravano nel vocabolario del latino, queste non venivano
mai inserite nella quarta e nella quinta declinazione, ma nella prima o nella seconda (declinazioni più
produttive; lo stesso vale per la prima coniugazione, che è la coniugazione più produttiva).

6.2 RIDUZIONE DEI CASI

I fenomeni linguistici possono interagire uno con l’altro: alcuni fenomeni di fonetica aiutano a determinare fenomeni
di morfologia. È fondamentale considerare il fattore della maggiore o minore economicità della lingua : i deponenti,
per esempio, erano verbi scomodi da impiegare, perché complessi da utilizzare. Il significato, infatti, era attivo, ma la
forma passiva. Indubbiamente, è più semplice una lingua che non ha i casi ma le preposizioni.
Perché i casi si sono ridotti?
 Caduta delle consonanti finali che segnano i casi. La caduta della -M, per esempio, è un fenomeno
panromanzo (rosam > rosa);
 Perdita della quantità: nom. rosă e abl. rosā > rosa;
 Uso massiccio delle preposizioni, già presenti nel latino classico;
I casi resistono in alcune circostanze, come accade per la declinazione bicasuale, tipica delle lingue galloromanze
medievali.

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LA PRIMA DECLINAZIONE

È una declinazione piuttosto ricca, spiccatamente femminile; pochi sono i sostantivi maschili di questa declinazione, e
ancora meno quelli che sono sopravvissuti nelle lingue romanze (it. papa, poeta). Nel singolare, la caduta di -M
all’accusativo ha fatto sì che ci fosse una completa sovrapposizione tra nominativo e accusativo, con conseguente
eliminazione della declinazione bicasuale. Il plurale classico ha -AE per il nominativo e -AS per l’accusativo, ma nel
latino volgare doveva essere diffusa quest’ultima desinenza anche per il nominativo (forse per influsso del substrato
osco-umbro): lo testimonia la declinazione bicasuale delle lingue galloromanze medievali.
La questione è più complicata in italiano e in romeno. In italiano, la mancata palatalizzazione delle occlusive velari
davanti alla desinenza -e parla a favore di -AS (probabilmente attraverso la fase *-ai): amicae > *amice avrebbe dato
*amice, e invece abbiamo amiche. Anche in romeno abbiamo -e, ma c’è la palatalizzazione delle occlusive (-e > -i dopo
palatale: capre ma vaci, “vacche”); non si può però decidere se il plurale femminile venga da -AE o -AS, perché nella
coniugazione verbale la seconda persona in -AS produce lo stesso risultato -i con palatalizzazione: ligas > legi.

LA SECONDA DECLINAZIONE

Per i maschili singolari, il nominativo in -US si distingue nettamente dall’accusativo in -UM, e tale distinzione si
conserva nella declinazione bicasuale galloromanza medievale. Nelle lingue romanze moderne prevale poi
l’accusativo; nel romeno, che non distingue tra nominativo e accusativo, la desinenza -U si confonde con quella del
genitivo-dativo. Per quanto riguarda il plurale, spagnolo e portoghese proseguono l’accusativo -OS, il francese
mantiene solo la -s come marca del plurale, l’italiano e il romeno proseguono il nominativo -I: caballos > sp.
caballos, pg. cavalos, fr. chevaux; caballi > it. cavalli, rom. cai.
I nomi di pianta sono femminili in latino, così come femminile è il generico arborem (della terza declinazione); nel
passaggio alle lingue romanze i nomi di pianta diventano normalmente maschili (e lo stesso accade, ad eccezione del
portoghese, ad arborem > it. albero, fr. arbre, sp. árbol, rom. arbore ma pg. arvore). Dunque se pirus, femminile,
significa “pero”, mentre pirum, neutro, significa “pera”, quando le consonanti finali cadono, piru può significare sia
“pero” sia “pera”. Per distinguere l’albero dal frutto, si fece ricorso – per il frutto – al neutro plurale in -A,
reinterpretato come femminile singolare: pira, che in origine è il plurale di pirum (“le pere”), è la forma che viene
usata per il frutto (con nuovo plurale in -e; cfr. anche pesco/pesca e ciliegio/ciliegia). Lo stesso accade per il romeno.
In altri casi, per il nome di pianta si opta per una forma suffissale con -ARIUM, oppure -ALEM, mantenendo invece
l’antico plurale neutro (diventato femminile singolare) per il nome del frutto: fr. poirier, pg. pereira, sp. peral,
“pero”/fr. poire, sp. pera, pg. pêra, “pera”.

LA TERZA DECLINAZIONE

I sostantivi della terza declinazione si distinguono in:


 PARISILLABI  il nominativo singolare ha lo stesso numero di sillabe del genitivo;
 IMPARISILLABI  il nominativo singolare ha una sillaba in meno rispetto al genitivo. Gli imparisillabi si
suddividono a loro volta in imparisillabi ad accento fisso (flòs, flòris) e imparisillabi ad accento mobile
(sèrmo, sermònis). In linea di massima, il latino volgare procede alla parificazione degli imparisillabi (che
possiamo riscontrare in testimonianze di latino volgare e in parecchie fonti latine e medievali: il latino
medievale è una lingua scritta e parlata soprattutto dalle classi colte, quasi uguale al latino classico; ha
sicuramente un vocabolario leggermente diverso, arricchitosi, ma è codificato come il latino classico, è
distinto dal latino volgare), seguendo il modello di parisillabi del tipo canis, orbis o navis, che in latino hanno
nominativo e genitivo uguali (mons, montis > montis, montis). Questo fenomeno testimonia la debolezza del
nominativo. Resistono più a lungo gli imparisillabi ad accento mobile (sostantivi che nella lingua parlata
sono rimasti imparificati), tant’è che in alcuni casi, nelle lingue romanze, troviamo i continuatori del

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nominativo, non dell’accusativo. È il caso di: sartor > it. sarto, sp. sastre; presbyter > it. prete, fr. prêtre, asp.
preste (non dall’accusativo presbiterem, ma nemmeno da un latino parificato del tipo *presbiteris); latro > it.
ladro, pr. laire.
Talvolta resiste anche il nominativo degli imparisillabi ad accento fisso: homo > it. uomo, fr. on (soggetto
impersonale), rom. om; ma fr. homme, sp. hombre, pg. homem < hominem.
Nelle lingue romanze (in particolare in quelle galloromanze) che presentano la declinazione bicasuale, al nominativo
troviamo forme imparificate.
Alcuni sostantivi della terza declinazione sono passati alla seconda: os > ossum > it. pg. osso, sp. hueso; vas > vasum
> it. sp. pg. vaso. Alcuni sostantivi plurali in -es > -i: abbates > abbati; sapientes > sapienti (cfr. le carte longobarde,
ricce di esempi di questo fenomeno). Così alcuni aggettivi della seconda classe sono passati alla prima: l’Appendix
Probi testimonia per esempio i passaggi acre (seconda classe) > acrum (prima classe) e pauper (seconda classe a una
sola uscita) > paupera (prima classe: desinenza -A per il femminile).

LA QUARTA DECLINAZIONE

Il passaggio dei nomi della quarta declinazione alla seconda è testimoniato dalle iscrizioni e da altre fonti del latino
volgare, per esempio per i sostantivi passus, cantus, portus. Un caso particolare è il maschile fructus, che aveva nel
latino volgare un plurale in -A, come fosse un neutro (*fructa > it. le frutta), il quale però diventa in alcune lingue un
femminile singolare: it. (la) frutta, pr. frucha, sp. pg. fruta. I sostantivi femminili della quarta declinazione possono
seguire tre strade:
1. Restano femminili e passano alla prima declinazione  nurus > nura > it. nuora, pr. pg. nora, sp. nuera,
rom. noră; socrus > socra > it. suocera, pr. pg. sora, sp. suegra, rom. soacră (attestate nell’Appendix Probi);
2. Restano femminili e mantengono le desinenze della quarta  manus > it. sp. mano, fr. main, pg. mão;
3. Diventano maschili e passano alla seconda declinazione  ficus e pinus sono femminili in latino e diventano
maschili nelle lingue romanze, confondendosi nella declinazione con fraxinus o populus, femminili della
seconda diventati anch’essi maschili.

LA QUINTA DECLINAZIONE

Il passaggio alla prima declinazione dei sostantivi della quinta è determinato dal fatto che i nomi che
appartenevano a quest’ultima erano tutti femminili (con l’eccezione di dies, che del resto oscilla tra maschile e
femminile già in latino classico), esattamente come la maggior parte dei nomi di prima.
Già in latino classico, il suffisso -ITIES è interscambiabile con -ITIA: si ha dunque sia tristities sia tristitia. Nelle lingue
iberoromanze sopravvivono entrambi i suffissi: -ities > sp. -ez, pg. -êz; -itia > sp. -eza, pg. -êza (sp. pequeñez, pg.
pequenez, “piccolezza”; sp. pobreza, pg. pobreza, “povertà”). Nella Romània in genere viene salvato -itia: it. -ezza
(bellezza), rom. -eaţă (albeaţă, “bianchezza”), fr. -esse (jeunesse), pr. -eza (beleza).
Per quanto riguarda:
 Facies, facies > sp. haz, pg. face; pr. fatz; ma facies > *facia > it. faccia; fr. face;
 Dies (maschile e femminile) > it. dì (maschile); ma dies > dia (metaplasmo di declinazione) > sp. dìa
(maschile); pr. dia (femminile). Per lo più, dies scompare in favore di diurnum > it. giorno, fr. jour, pr. jorn;
 Res è rimasto in Galloromania (rem > *rene, con probabile paragoge), dando fr. rien, pr. ren, “cosa”,
“oggetto”, “essere”, passando poi al significato “nulla”;
 Fides è rimasta ovunque: it. fede, fr. foi, pr. sp. fe, pg. fé.

LA DECLINAZIONE BICASUALE GALLOROMANZA

Le lingue galloromanze medievali presentano la cosiddetta declinazione bicasuale (ma non è una vera e propria
declinazione), che distingue il caso retto o soggetto (in francese cas sujet) dal caso obliquo (in francese cas régime).

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Lo schema per i sostantivi maschili segue nella maggioranza dei casi quello della seconda declinazione latina: si avrà
una -s finale al caso soggetto singolare e al caso obliquo plurale (lup-us, lup-os), mentre il caso obliquo singolare e il
caso soggetto plurale non avranno alcuna desinenza (lup-um, lup-i):

Singolare Plurale
afr. pr. afr. pr.
CABALL-US (c. soggetto) chevaus cavals CABALL-I (c. soggetto) cheval caval
CABALL-UM (c. obliquo) cheval caval CABALL-OS (c. obliquo) chevaus cavals

I sostantivi che, a seguito della caduta della vocale finale, terminano in s o z rimangono indeclinabili (ursus > afr. pr.
ors). In antico francese vi è la tendenza della L davanti a consonante a vocalizzarsi, diventando una U, una
semiconsonante. Nella grafia del francese antico, potremmo trovare scritta una L, che comunque deve essere
pronunciata come una U (la grafia, semplicemente, è latineggiante, e conserva la L).
Nella declinazione bicasuale i nomi in -ER della seconda declinazione latina non dovrebbero avere la -s nemmeno al
caso retto singolare: liber > afr. livre, pr. libre; tuttavia, la -s a volte compare, per analogia con la declinazione
maschile: livres, libres.

Il modello per i sostantivi femminili è la prima declinazione latina: la distinzione non è dunque tra caso retto e caso
obliquo, bensì tra singolare e plurale:

Singolare Plurale
afr. pr. afr. pr.
AMIC-A (c. soggetto) amie amiga AMIC-AE (c. soggetto) amies amigas
AMIC-AM (c. obliquo) amie amiga AMIC-AS (c. obliquo) amies amigas

Il caso retto plurale deriva la propria -s finale dalla desinenza latina arcaica -AS, ben presente in latino volgare, non
dalla forma classica in -AE.

Non raramente vengono mantenuti gli imparisillabi della terza declinazione. Il caso retto singolare deriva
direttamente dal nominativo latino:

Singolare Plurale
afr. pr. afr. pr.
IMPERATOR (c. sogg.) emperere emperaire *IMPERATOR-I (c. sogg.) empereeur emperador
IMPERATOR-EM (c. obl.) empereeur emperador IMPERATORES (c. obl.) empereeurs emperadors

Per quanto riguarda il femminile:


Singolare Plurale
afr. pr. afr. pr.
SOROR (c. soggetto) suer > seur sor SOROR-ES (c. soggetto) serour > serors
sereur(s)
SOROR-EM (c. obliquo) serour > sereur seror SOROR-ES (c. obliquo) serours > serors
sereurs

Nei casi sovrastanti, abbiamo un caso soggetto immediatamente riconoscibile: la Chanson de Roland inizia proprio con
emperere, al caso soggetto. Al plurale, al caso obliquo del provenzale abbiamo una -s esattamente come nel francese,
prosecuzione di imperatores del latino. Al caso soggetto plurale ci aspetteremmo una -S, perché ci aspettiamo che la
forma latina retrostante sia imperatores. Non abbiamo invece la -S perché, in questo caso, la forma latina utilizzata
come base è una forma analogica, non attestata per questa parola, *imperatori. Altre forme analogiche tuttavia
sono attestate, come nel caso di abbati e non abbates (il singolare non prosegue abbas, al nominativo, ma l’accusativo
abbatem). La forma analogica riprende (appunto per analogia) il nominativo plurale della seconda declinazione:

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questo porta con sé il fatto che non ci sia la -S, laddove etimologicamente parlando ci aspetteremmo quella
consonante.
Talvolta succede in realtà che questi sostantivi possano comportarsi in modo bizzarro. Per esempio, il caso soggetto
singolare che etimologicamente non deve avere la S, nelle lingue romanze, presenta la -S finale: nella Chanson de
Roland, troviamo la forma empereres. Anche in questo caso, si tratta di un fenomeno di analogia, molto frequente
nella morfologia nominale e, soprattutto, in quella verbale. L’analogia, in questo caso, riprende il nominativo
singolare della seconda declinazione: la S, infatti, è tipica del caso soggetto singolare dei nomi maschili. Nella
morfologia verbale, per esempio, la prima persona singolare all’indicativo del verbo essere, io sono (dal latino sum), è
motivata dalla presenza, in latino, alla prima persona singolare della prima coniugazione, della O.
Il nominativo singolare imparisillabo, insomma, non è parificato, e nella declinazione bicasuale delle lingue
galloromanze antiche (poi scompare, di fatto) notiamo la mancanza di questa parificazione.

NOTA

Sermo, sermonis, così come imperator, imperatoris sono forme di imparisillabi ad accento mobile.

I GENERI

Nel latino classico, i generi erano tre: maschile, femminile e neutro. Nelle lingue romanze, normalmente, il neutro
scompare, assorbito nella maggior parte dei casi dal maschile. Il fenomeno è già ben attestato nelle fonti del latino
volgare; sono trattati come maschili:
 Neutri della seconda declinazione in -UM  balneum > balneus (Pompei, Petronio), vasum > vasus
(Petronio), vinum > vinus (Petronio), caelum > caelus (Petronio);
 Neutri della terza declinazione  caput > capus (iscrizioni);
 Neutri della quarta declinazione  cornu > cornus (Varrone), genu > genus (Lucilio), poi sostituito dal
diminutivo genuculum.
Altri esempi di passaggio dal neutro al maschile (metaplasmo di genere): lac > *lactem > it. latte, fr. lait, pr. lach, sp.
leche, pg. leite; mare > it. mare (maschile); pg. mar (maschile); ma fr. mer, pr. mar (femminile), rom. mare (femminile),
sp. mar (maschile e femminile).
In alcuni casi, il neutro plurale in -A passa al femminile singolare, a volte con valore collettivo (metaplasmo di
genere e declinazione): folia (plurale di folium) > it. foglia, fr. feuille, pr. e pg. folha; sp. hoja, rom. foaie. Questa
evoluzione produce una serie di doppioni, perché accanto al neutro plurale diventato femminile singolare continua a
sopravvivere, quasi sempre, il neutro singolare, diventato maschile. Si creano così delle nuove coppie di parole con
significato quasi sempre diverso (folium > it. foglio): bracchium > it. il braccio, afr. braz, pr. bratz ~ bracchia > it. le
braccia, afr. brace, pr. brasa.
In alcuni casi, si sono mantenuti dei neutri plurali con il significato di plurali, come nel caso di digitum > it. dito ~
digita > it. dita.

Gli astratti in -or, maschili in latino (e in tutte le lingue romanze diverse da quelle galloromanze), diventano femminili
nelle lingue galloromanze, francese e provenzale: dolorem > fr. doleur; pr. dolor. Calorem > fr. chaleur; pr. calor.
Saporem > fr. saveur; pr. sabor. Anche florem, maschile, forse per attrazione di questi astratti, diventa femminile in
tutte le lingue romanze tranne in italiano (per influsso del francese o del provenzale): florem (m.) > it. fiore (m.); ma
(f.) fr. fleur; pr. sp. pg. flor; rom. floare. Ciò vale sicuramente per le lingue iberoromanze, in cui la parola flor denuncia
un prestito, un latinismo (meno probabilmente, perché abbiamo un passaggio di genere) o un gallicismo (da vedere se
l’influenza è più dell’occitanico o del francese; il gallicismo è l’ipotesi più economica, sul piano fonetico e morfologico,
per quanto riguarda il cambio di genere), anche per la fonetica (il gruppo consonantico latino viene mantenuto).
Il latino classico costituiva il comparativo sintetico con la desinenza -ior (altior). Nelle lingue romanze abbiamo spesso
forme non sintetiche, perifrastiche per esprimere il comparativo di maggioranza. In latino, l’aggettivo con tema

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terminante in vocale vedeva il comparativo formato con la forma perifrastica magis (magis idoneus): non si utilizzava
dunque una desinenza. Nelle lingue romanze, viene utilizzata come base latina la forma magis altus. In alcune zone
della Romània, viene utilizzato plus per magis, in particolare nell’Italia e nella Gallia. L’esito delle lingue iberoromanze
e della lingua balcanoromanza è la stessa, con mantenimento della forma del comparativo con magis. Parliamo per
questa ragione di aree laterali (cfr. il manuale di linguistica di Matteo Bartoli degli anni Venti): la Romània può essere
divisa in quattro aree (norma areale). Nelle aree laterali rispetto al territorio europeo (a est, l’area balcanoromanza, la
Romania; a ovest, l’area iberoromanza, in cui si parlano portoghese e castigliano), Bartoli osserva come venga
mantenuta la forma più arcaica. Le lingue si propagano come le onde in uno stagno quando si getta un sasso (Bartoli
riprende un’idea del linguista svizzero Johannes Schmidt): le onde sono concentriche, e la prima che si forma è quella
che, pur perdendo di forza, giunge più lontano (più lontano dal punto in cui cade il sasso nell’acqua, diminuisce
l’intensità dell’onda). La prima onda linguistica di diffusione che si crea è quella che sostituisce il comparativo sintetico
come magis, che si diffonde dovunque nella Romània; successivamente, si diffonde la costruzione del comparativo con
plus, che tuttavia ha una forza minore di espansione rispetto all’ondata linguistica precedente, limitandosi alle aree più
prossime a Roma, cioè in Italia e in Gallia. Nell’area iberoromanza e in quella balcanoromanza abbiamo per questa
ragione il mantenimento del comparativo con magis (cfr. anche l’esempio di formosus/bellus). Altre zone
particolarmente conservative sono le isole linguistiche (pensiamo alla Sardegna).

Abbiamo esempi di comparativi sintetici sopravvissuti nelle lingue romanze: si tratta degli esiti del latino meliorem,
peior, peiorem, maior, maiorem.
Per quanto riguarda il superlativo, nel latino classico abbiamo il suffisso -issimus, -issima, -issimum, che rimane in
italiano (il suffisso -issimo è talmente produttivo che, in forme non codificate, ma anche nel linguaggio della pubblicità,
viene utilizzato con sostantivi: occasionissima), spagnolo e portoghese (accanto alle forme con multum). Nelle altre
lingue romanze abbiamo sole forme perifrastiche: in antico francese, viene mantenuto l’utilizzo di per, di solito
staccato dall’aggettivo (permagnum est > par est granz, anche rafforzato, mout par est granz). Il francese sostituisce
multum con trans (> très); il romeno usa forte > foarte (foarte bun, “buonissimo”).
La base per l’articolo romanzo è il dimostrativo ille; data la posizione proclitica (tranne nel romeno, come visto in
precedenza), dunque atona (perde la propria accentazione, si appoggia a quanto segue), si ha sempre la caduta di una
sillaba, per aferesi o per apocope. Ille perde la sillaba iniziale (forma aferetica) nella quasi totalità delle lingue
romanze; perde la sillaba finale (forma apocopata) solo nel caso dello spagnolo.
Per quanto riguarda l’italiano, il non è forma apocopata di ĭlli (avremmo avuto esito in E breve, come nello sp. el),
bensì variante dell’italiano antico ‘l, a sua volta variante di lo (< illum, aferetico) preceduto da vocale: la I di il è una
vocale di appoggio (mirare lo sole > mirare ‘l sole > mirare il sole; la vocale d’appoggio può essere di vario tipo, come
dimostrato dal fatto che nella Lombardia meridionale si utilizza la A, mentre nella Lombardia settentrionale, verso
Como, si utilizza la U). Secondo la norma di Gröber, l’italiano antico aveva di norma lo dopo parola terminante per
consonante e all’inizio di frase, il dopo parola terminante per vocale (tre esempi danteschi: Lo buon maestro disse; non
isperate mai veder lo cielo; poi ch’ei posato un poco il corpo lasso). Lo è rimasto in italiano solo in certe formule fisse,
perlopiù, perlomeno, o davanti a certe consonanti o gruppi consonanti o iniziale in jod (lo penumatico, lo zappatore, lo
zucchero, lo iato).
L’italiano antico, per quanto riguarda l’articolo determinativo plurale, aveva normalmente li < (il)li; quando l’articolo
precedeva una parola cominciante per vocale, la I di li diventava uno iod (perché in iato), e il nesso L + jod dava la
palatale ʎ: li > gli; la riduzione di gli ha dato l’italiano i (cfr. bei, quei, riduzioni di begli, quegli; li onori > gli onori; gli
altri, ma i cani).
In romeno l’articolo < illum, ma è enclitico, come si è già detto:
 Maschile singolare, lup: lupul luplui
 Maschile plurale, lupi: lupii lupilor
 Femminile singolare, casǎ: casa casei
 Femminile plurale, case: casele caselor.
Lui < *illui, ei < *illaei, lor < illorum.

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7. MORFOLOGIA VERBALE

Il latino classico aveva quattro coniugazioni, perché ne avere due con desinenza -ere, distinte nettamente dal fatto che
la seconda coniugazione aveva la E lunga e la terza coniugazione la E breve. In linea di massima, le lingue romanze
proseguono questo sistema, anche se il romeo complica, perché ha più coniugazioni: le lingue romanze hanno tre
coniugazioni. La diminuzione di numero rispetto al latino si deve alla fusione tra la seconda e la terza latina,
apparentemente con la stessa uscita in -ere (ma distinte dalla quantità). Venuta a perdersi la quantità, gli infiniti della
seconda e della terza sono difficilmente distinti: per questa ragione, queste due coniugazioni si sono “fuse”, ma non in
modo omogeneo in tutte le lingue romanze, o quantomeno in un modo che permette ancora – in alcune lingue
romanze – di vedere l’origine della coniugazione latina (se il verbo in questione viene dalla seconda o dalla terza
coniugazione). La coniugazione più produttiva, in genere, nelle lingue romanze, è la prima: i neologismi vengono tutti
coniugati in base alla prima coniugazione; vengono inoltre creati nuovi verbi, spesso partendo dal tema del supino:
questo tipo di produzione di nuovi verbi serve ad un’operazione abbastanza diffusa nel passaggio dal latino volgare
(una lingua eminentemente parlata) alle lingue romanze, cioè la regolarizzazione delle forme verbali. I processi di
economicità della lingua sono sempre presenti: il fatto di avere verbi irregolari cozzava con l’economicità della lingua,
e pertanto si è giunti alla regolarizzazione di verbi irregolari sul tema del supino. Ciò non significa, naturalmente, che le
lingue romanze non abbiano verbi irregolari (cano, cecini, cantum, canĕre > canto, cantare).
Il fatto di perdere la quantità vocalica e sillabica porta grossomodo ad una fusione tra la seconda e la terza
coniugazione, ma anche ai cosiddetti metaplasmi di coniugazione, il passaggio ad un’altra coniugazione (sapĕre >
*sapēre > it. sapere; fr, savoir; il dittongo -oi è evoluzione regolare di E lunga in sillaba aperta, e ciò dimostra il
metaplasmo di coniugazione; sp. pg. pr. saber; respondēre > *respondĕre > it. rispondere; fr. repondre, parola
proparossitona che nel francese è facilissimamente soggetta a sincope). Le lingue iberoromanze si distinguono
dall’italiano e dal francese, perché non hanno passaggi dalla seconda alla terza latina, ma anzi tutti i verbi passano alla
seconda coniugazione (vendĕre > sp. pg. vender; ma it. vendere; fr. vendre; la desinenza -re con sincope ci testimonia
che il verbo latino è rimasto della terza coniugazione; la desinenza -oir testimonia un verbo della seconda; -re con
sincope testimonia un verbo della terza coniugazione. In francese abbiamo dunque due desinenze distinte: -oir < -ēre;
-re < -ĕre. L’italiano, invece, distingue solo sulla base della posizione dell’accento). Persa la nozione di quantità,
essendo la desinenza di queste due coniugazione identica, si confondono le due coniugazioni, e non si riesce a
determinare se essa sia seconda o terza: la perdita progressiva della nozione di quantità porta dunque a metaplasmi.
Esistono però casi di metaplasmi della seconda o della terza coniugazione che passano alla quarta coniugazione: in
questo caso, non vi è alcuno spostamento di accento, ma cambia la desinenza. I metaplasmi, comunque, chiamano
sempre in causa verbi della seconda o della terza coniugazione: nella maggior parte dei casi, abbiamo metaplasmi tra
le due coniugazioni implicati; in altri casi, abbiamo passaggi alla quarta coniugazione. Non accade mai un metaplasma
che riguardi la prima coniugazione, che è stabile, è la più forte.
Per quanto riguarda i verbi irregolari, essi sono stati regolarizzati oppure sostituiti: in linea di massa, abbiamo
regolarizzazione (confluenza in una delle quattro coniugazioni latine: esse > *essĕre; velle > *volēre. La comparazione
tra lingue romanze ci consente di ricostruire le forme di latino volgare. la ricostruzione della forma linguistica può
avere un grado di correttezza variabile, ma verosimilmente pensiamo che esse sia passato ad *essĕre. Lo spagnolo e il
portoghese hanno una forma diversa: le lingue iberoromanze utilizzano ser, che non si ottiene per aferesi di essere,
come si potrebbe pensare. Già glosse di origine iberica del X secolo ci testimoniano una spiegazione diversa di quel
verbo: il verbo essere in spagnolo e portoghese era glossato, spiegato come derivante dal latino sedēre). In realtà, non
sempre tutta la coniugazione dei verbi viene regolarizzata: possiamo avere un adeguamento più o meno spinto al
resto della coniugazione. Nelle lingue iberoromanze, velle è sostituito da quaerĕre (“chiedere per sapere”) > *querēre
> sp. e pg. quaerer.
I verbi deponenti prendono forma attiva (come già accadeva in Plauto, un autore arcaico che utilizzava molto il
linguaggio parlato), o sono sostituiti (morior, mori > *morio, *morire; nascor, nasci > *nasco, *nascĕre). Nel primo
caso, il significato attivo rimane, e la forma diventa a sua volta attiva. A volte i verbi deponenti vengono riplasmati a
partire dal tema del supino (utor, usus, uti > *uso, *usare). In altri casi, i verbi deponenti vengono sostituiti da altri

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verbi, che deponenti non sono: uno degli esempi più noti di questa operazione è il verbo parlare, loquor in latino,
deponente. Il verbo non viene regolarizzato, ma viene sostituito da un altro verbo, nella fattispecie da due altri verbi,
fabulare in alcune zone della Romània (sp, hablar), e da parabolare (it. parlare) in altre zone dalla Romània. Fabulare,
per la verità, esisteva anche in latino, che aveva sia la forma fabulari, deponente, sia quella non deponente, fabulare:
naturalmente, viene scelta la forma non deponente. Il verbo loqui sarebbe stato soppiantato dapprima dal verbo
fabulare (prima ondata innovativa), e poi fabulare sarebbe stato sostituito da parabolare in alcune zone della Romània
(anche grazie all’influsso del cristianesimo; il verbo, etimologicamente, viene dal sostantivo greco parabolè,
“racconto”).
Nel passaggio dal latino alle lingue romanze, alcuni tempi verbali scompaiono: scompaiono il congiuntivo imperfetto, il
participio futuro (tranne alcune forme cristallizzate, come venturo e nascituro), l’infinito imperfetto, l’infinito passivo e
il supino. Ci sono però anche delle innovazioni nel passaggio dal latino alle lingue romanze: è chiara una sorta di
semplificazione generale della morfologia verbale latino, molto più complessa di quelle delle lingue romanze. Le novità
riguardano quattro forme: il futuro (che cambia rispetto al latino, che prende una forma diversa rispetto a quella del
latino; le lingue romanze non proseguono il futuro del latino), il passivo perifrastico (che sostituisce il passivo sintetico;
laudor > sono lodato), il condizionale (modo che non esiste in latino) e il passato prossimo o perifrastico (il latino ha il
perfetto, il passato prossimo è un nuovo tempo).
Il futuro latino doveva essere sostituito per il criterio dell’economicità, tipico della lingua parlata: il latino classico
aveva due forme diverse di futuro, una per la prima e la seconda coniugazione (cantabo, prima; habebo, seconda), una
per la terza e la quarta (vendam, terza; audiam, quarta). Inoltre, dal punto di vista fonetico, il futuro della prima e della
seconda coniugazione ha un infisso -B- che in posizione intervocalica tende ad essere pronunciato come una fricativa
(B e V si pronunciavano entrambi β). Abbiamo una possibile confusione con i tempi verbali che avevano una V, come il
perfetto. La seconda forma del futuro, inoltre, andava parzialmente a sovrapporsi con il congiuntivo presente. La
lingua parlata sostituisce per queste ragioni il futuro del latino classico con forme diverse, che all’inizio sono varie (in
qualche caso, rimangono nelle lingue romanze, per esempio avverbio + presente indicativo, forma perifrastica di
futuro: domani vado è esattamente equivalente a andrò). Due erano i tipi di costruzione per il futuro romanzo:
1. Avverbio di tempo + presente indicativo;
2. Forma perifrastica: infinito del verbo preceduto o seguito dal presente indicativo di habeo, debeo, o *voleo,
con o senza preposizione: *voleo *fugire > rom. voi fugì; debeo cantare > sardo deppo cantare (non “debbo
cantare”, ma piuttosto “canterò”, con vero e proprio significato di futuro); habeo ad cantare > it. merid. aggì
a cantà; habeo de cantare > pg. hei-de cantar.
Queste costruzioni perifrastiche rimangono tale, con netta distinzione dei due o tre elementi che costituiscono il
futuro. La forma però che ha avuto più successo nelle lingue romanze è la forma perifrastica che ha subito una
fusione: cantare habeo > cantar’*aio > it. canterò (in italiano antico, cantarò, con passaggio della A davanti a R ad E,
tipico del fiorentino); fr. chanterai; pr. cantarai; sp. cantarè; pg. canterei. La desinenza del futuro corrisponde al
presente indicativo del verbo avere nelle varie lingue. In alcune lingue romanze, soprattutto antiche, vi era una
possibilità ulteriore di formazione del futuro, in cui i due elementi restavano separati (forma perifrastica) grazie
all’inserzione di un pronome personale (cosiddetto futuro separato): asp. pedir vos hé = os pediré (“vi chiederò”; i due
elemento che costituiscono il futuro vengono tenuti separati dal pronome); pr. lauzar vos an = vos lauzaran; pg. dir-te-
ei = te direi. La tendenza del passaggio da una lingua sintetica come il latino a lingue analitiche non è quindi sempre
confermata: partiamo infatti da una forma originaria perifrastica, nel caso del futuro, per approdare nuovamente ad
una forma di futuro sintetica.
Il condizionale, che in latino non esiste (il latino utilizzava il congiuntivo), sostituisce il congiuntivo passato. Il tempo di
habeo utilizzato maggiormente nelle lingue romanze per costruire il condizionale (forma perifrastica) è l’imperfetto;
l’italiano, in questo caso, usa il perfetto: cantare habebam > fr. chanterais; pr. pg. cantaria; sp. cantarìa. Cantare
*hebui > it. canterei. In italiano antico e in alcuni dialetti non mancano le forme tipo canteria, cantaria (la lingua
poetica italiana nasce con la cosiddetta scuola siciliana; le forme in -ia potrebbero essere resti di forme siciliane o
prestiti provenzali, perché la poesia siciliana nasce per imitazione di quella provenzale). In fiorentino, il condizionale si
è formato con la forma del perfetto di habeo, ancorché nella forma *hebui. Nell’italiano meridionale, ci sono anche
forme sintetiche derivate dal piuccheperfetto indicativo (tempo scomparso nel passaggio dal latino alle lingue

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romanze): cantaveram > cantara (per alcuni verbi, questa forma sopravvive anche in provenzale: il provenzale ha il
cosiddetto condizionale secondo, proseguimento del piuccheperfetto latino, forma originariamente sintetica. Avrei in
provenzale può tradursi in due modi: avria < habere + habebam; agra < habueram; allo stesso modo, dovrei può
essere reso come devria e degra).
Il passato prossimo o perifrastico è un tempo che ha avuto un grande successo: tutte le lingue romanze accostano ad
un passato remoto un passato prossimo. Esso soppianta spesso il passato remoto nella lingua parlata. Il passato
prossimo è costruito con habere + participio passato: habeo epistulam scriptam = “ho una lettera scritta” > “ho scritto
una lettera” (habeo > ausiliare). In alcune lingue romanze, utilizziamo l’ausiliare essere per i verbi di movimento. In
spagnolo, habere > haber usato solo come ausiliare, tener è utilizzato con significato di “possedere”. In portoghese, ter
> tenēre, che sostituisce habere anche come ausiliare: tenho cantado, “ho cantato”.
In francese, di fatto, il passato remoto si utilizza solo nello scritto, o in un parlato molto sostenuto; lo stesso vale per
l’italiano settentrionale (ciò non avviene in Italia centrale e meridionale). Il passato prossimo dovrebbe essere
utilizzato solo per un passato che è davvero prossimo. Al contrario, nel Sud Italia viene utilizzato il passato remoto
anche un passato prossimo, vicino.
Il passivo è formato con una perifrasi: l’uso di perifrasi, anche se in alcuni casi diventano forse sintetiche, sta alla base
delle neoformazioni romanze. Il passivo latino è una forma sintetica, con una sua desinenza specifica, ed è sostituito
da una perifrasi. La forma perifrastica era utilizzata anche nelle lingue romanze per le forme perfettive: laudatus est,
“è stato lodato”. La creazione di passato prossimo e passivo perifrastico (perifrasi formata da participio passato +
verbo essere) vede un legame tra l’una e l’altra (ma almeno fino ai tempi di Sant’Agostino, i parlanti usavano e
capivano il passivo classico): con il diffondersi del passato prossimo, il cui tempo è espresso dall’ausiliare, anche nel
passivo il tempo è espresso dall’ausiliare: laudatus est > “è stato lodato”> “è lodato” (la forma utilizzata per il passato
viene utilizzata per il presente). Lo spagnolo distingue tra azione conclusa e azione non conclusa: la puerta es cerrada
= “la porta viene chiusa”; la puerta està cerrada = “la porta è chiusa”.

8. LESSICO

Di fatto, il lessico è la parte della lingua che cambia incessantemente, in modo meno sistematico, meno rigido rispetto
a quanto cambiano fonetica e morfologia. Tutte le lingue continuano a cambiare, a evolvere (quelle parlate più
velocemente di quelle scritte), e gli elementi che cambiano più rapidamente e meno sistematicamente sono quelli
lessicali. Il lessico, inoltre, è soggetto alle mode e ai neologismi: il vocabolario è interessante per verificare
l’innovazione di una lingua. Il serbatoio più importante del vocabolario delle lingue romanze è ovviamente il latino (le
lingue romanze hanno questo nome perché derivano dal latino: è abbastanza evidente che il vocabolario delle lingue
romanze sia formato da quello latino). Grossomodo, il vocabolario del latino volgare coincide con il vocabolario delle
lingue classiche (con influenza, per esempio, del vocabolario rustico). Il vocabolario latino è arricchito da quanto arriva
dalle lingue di substrato e, soprattutto, da elementi di lingue di superstrato, i quali hanno influenzato pesantemente
anche le lingue romanze. A queste aggiunte vanno poi sommati calchi, prestiti e neologismi, nonché parole che hanno
avuto una vita breve e dettata dalla moda e altre che, pur nascendo come “mode”, si sono impiantate nel lessico della
propria lingua, riflettendo le evoluzioni culturali di chi la parla. L’arricchimento di una lingua è tanto sincronico quanto
diacronico, poiché il lessico è un elemento in continua evoluzione e che rappresenta la costante interazione tra lingue.
Il linguista Gian Luigi Beccaria scrive che “la lingua è un bene comune, sociale, culturale, ma non è come l’ambiente,
che va protetto; non è come il monumento che all’aria si deteriora, non è da tenere sottovetro o in museo. La lingua va
lasciata vivere, ed è stolto parlare di corruzione. La lingua è viva, continua a cambiare, pertanto i cambiamenti non
sono corruzione, ma la sua stessa vita, movimenti inevitabili (la lingua che sta bene continua a cambiare, ad evolvere).
La lingua non è, insomma, un fatto immutabile: il cambiare è segno di vitalità e non di patologia, a meno che di una
lingua venga intaccata, da un’altra, la struttura stessa”.
Nell’area della Romània un posto particolare dal punto di vista lessicale è occupato dal romeo: la zona dove si pala il
romeno venne romanizzata tardi e non profondamente. Il legame del latino con la lingua che vi è nata è indubbio, ma
è un legame più labile di quello stabilitosi tra il latino e le altre lingue romanze: per questo, nel romeno si sentono forti

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influenze delle lingue slave, del turco e dell’ungherese, mentre molte parole latine hanno mutato il proprio significato
nel tempo. Il romeno è stato scritto per secoli in cirillico, e ciò ha lasciato tracce molto profonde. Il romeno ha inoltre
subito un forte influsso da parte del francese. L’essere circondata da lingue slave, ne ha influenzato il vocabolario: nel
romeno troviamo tante parole che derivano dalle lingue slave, come del resto lo spagnolo è, tra le lingue romanze, la
lingua con il maggior lascito arabo nel proprio vocabolario (dominazione araba dal 711 circa, con il passaggio dello
stretto di Gibilterra, alla fine del Quattrocento, con la liberazione di Granada). Gli arabismi sono presenti anche in
italiano e in francese, ma sicuramente lo spagnolo è la lingua romanza che, per motivi storici, è più ricca di arabismi.

8.1 LINGUE DI SUBSTRATO, SUPERSTRATO, ADSTRATO. I PRESTITI

Il vocabolario delle lingue romanze si arricchisce anche grazie ad altre lingue, che non sono il latino evidentemente.
Primo concetto importante relativo alla formazione del lessico delle lingue romanze è quello relativo a substrato,
superstrato e adstrato.
Per SUBSTRATO intendiamo l’insieme delle abitudini linguistiche che un popolo conquistato mantiene, anche se
accetta la lingua del popolo conquistatore: è l’azione esercitata dalla lingua dei vinti su quella dei vincitori, prima che
quest’ultima sostituisca in toto, fino a farla scomparire spesso definitivamente, la prima. Le lingue di substrato non
sopravvivono alle lingue dei popoli vincitori, se non lasciando qualche debole traccia, perché esse non sono
normalmente lingue scritte, ad eccezione di qualche iscrizione (l’abitudine della registrazione scritta arriva solitamente
con i romani: sono i romani a pensare che la lingua vada scritta). L’influenza della lingua di substrato è soprattutto di
tipo fonetico e molto meno di tipo morfologico e lessicale: fonetico perché le abitudini linguistiche del popolo vinto
possono consistere nel mantenimento di alcune abitudine fonetiche, di pronuncia. Casi tipici di substrato sono per
esempio i lasciati delle lingue preromane sul latino. Il latino viene assunto come lingua anche veicolare, con
adeguamenti di tipo fonetico propri delle lingue dei vinti: alcuni suoni del latino vengono cioè pronunciati in maniera
diversa da come dovrebbero essere pronunciati per influenza della lingua del popolo vinto. Il vocabolario, forse, è
l’aspetto che ha maggior rilevanza: parole nuove entrano nel vocabolario latino, ed arricchiscono di conseguenza le
lingue romanze che dal latino deriveranno, in combinazione con gli influssi di superstrato e adstrato. Il popolo
vincitore assume parole relative a determinate pratiche del popolo vinto.
Il SUPERSTRATO è l’influenza della lingua del popolo vincitore, in un ambiente che non assume come base la lingua
del popolo vincitore: è l’insieme degli influssi della lingua di un popolo vincitore sulla lingua del popolo vinto, senza
però che la seconda venga scalzata. Le lingue romanze, al momento delle invasioni barbariche, non vengono scalzate
dalla lingua dei popoli vincitori germanici che invadono l’ex impero romani (vandali, che giungono fino all’Andalusia;
ostrogoti; visigoti, ecc.). La lingua dei conquistatori lascia tracce sulle neonate lingue romanze, senza tuttavia
eliminarle. Il popolo vincitore è sì superiore dal punto di vista militare, economico e amministrativo, ma non dal punto
di vista culturale. L’influenza delle lingue di superstrato riguarda quasi solo esclusivamente il lessico. Lingue di
superstrato per le lingue romanze sono soprattutto quelle germaniche e l’arabo.
Le lingue di ADSTRATO non vedono un popolo vinto e uno vincitore, perché sono lingue di contatto: non vi è una
gerarchia, perché si tratta di lingue parallele, con la stessa dignità (una non sopraffà l’altra o viceversa). In altre parole,
mentre i fenomeni di substrato e superstrato sono di tipo verticale, quelli di adstrato sono orizzontali e tra lingue
paritarie. Si tratta spesso di scambi linguistici tra popolazioni geograficamente vicine, con forti rapporti commerciali,
politici e religiosi. In questo caso, la lingua che ha il maggior prestigio culturale, politico ed economico influenza le
altre, immettendo nel loro lessico parole fino ad allora inesistenti. Esempio tipico di lingua di adstrato rispetto a tutte
le altre lingue in epoca moderna è l’inglese. Nel caso del latino, lingua di adstrato per eccellenza è il greco, di cui i latini
sentivano l’influenza culturale (cfr. Orazio: Graecia capta ferum victorem cepit). Nell’Europa moderna, invece, il posto
che oggi ha l’inglese era riservato al francese, che nel corso del XVIII secolo diffuse una gran quantità di francesismi in
tutte le lingue del continente. Nel secolo precedente e nel XVI secolo, invece, tale ruolo toccò all’italiano, che si diffuse
in tutta l’Europa grazie al teatro, alla musica e al melodramma.

8.2 PRESTITI E CALCHI

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I vocabili entrati nel lessico di una lingua grazie al superstrato o all’adstrato sono detti prestiti. Questa etichetta,
invece, non si usa per le parole delle lingue di substrato. Dunque, il prestito si riferisce di solito alle lingue moderne,
benché talvolta si considerano prestiti anche parole greche o latine entrate in lingue moderne di recente, o comunque
dopo la formazione di tali lingue: perlopiù, però, si parla in questo caso di termini tecnici e settoriali, come i grecismi
del linguaggio medico. Soprattutto quando parliamo del lessico che penetra dalle lingue di superstrato, parliamo di
prestiti linguistici:
 I prestiti acclimatati acquisiscono una morfologia e una fonetica più vicine a quelle della lingua che accoglie il
prestito: it. lanzichenecco dal ted. Landsknecht; it. bistecca dall’ingl. beefsteak; ut. algebra dall’arabo al-gabr;
cliccare sull’ingl. to click (neologismi e prestiti entrano di preferenza nella prima coniugazione. In italiano, i
verbi sono sempre acclimatati, perché nelle lingue romanze essi vanno assegnati a una coniugazione e hanno
le proprie desinenze.
 I prestiti integrali mantengono la forma che avevano nella lingua di origine, anche se vi è una sorta di
acclimatazione parziale (perché la pronuncia non sarà mai uguale a quella della lingua d’origine): computer,
starter, tram, scanner, bus. Tali parole sono rimaste nella loro forma originale, ma hanno un minimo di
acclimatazione per quanto riguarda la pronuncia: ciò vale particolarmente per i termini inglesi. In altre parole,
i prestiti integrali non vantano alcuna adeguazione fonico-morfologica alla lingua che accoglie il forestierismo,
che rimane dunque allo stato originale.
Vi sono poi prestiti dalle lingue americane arrivate in Europa attraverso spagnolo o portoghese: si tratta di parole di
alimenti, perché dalle nuove colonie americane giunsero cibi che l’Europa non conosceva. In altre parole, questi
prestiti sono entrati nelle lingue europee per definire oggetti e concetti prima sconosciuti, e si tratta in larga parte di
vocaboli originari delle lingue autoctone dell’America Centrale, passati poi per la mediazione dello spagnolo e del
portoghese. Pensiamo a maiz (di origine aruaca), it. mais; fr. maïs; ingl. maize; ted. mais. Nel caso della parola patata
(dal quechua), abbiamo it. cat. patata; pg. batata; ingl. potato; fr. pomme de terre; ted. kartoffel < it. tartufolo.
Banana, per esempio, è passata in praticamente tutte le lingue, tranne in spagnolo, dove si mantiene un cultismo
come platano. Esistono poi alcuni esempi di prestiti che hanno sostituito vocaboli esistenti: per esempio, il germanico
werra ha piano piano sostituito la parola latina bellum in tutte le lingue romanze.
I calchi sono un tipo particolare di prestito: quando si ha un calco, si usano parole della lingua di arrivo cercando di
riprodurre parole della lingua straniera. Nel calco formale, viene in qualche modo tradotta la parola straniera nelle
lingue d’arrivo, utilizzando parole di quella lingua d’arrivo. Skyscraper  it. grattaciaelo (traduzione invertita, perché
l’italiano di preferenza fa precedere il verbo); fr. gratte-ciel; cat. gratacel; sp. rascacielos; pg. arranha-ceu. Ingl. railway
 it. ferrovia: spesso, la traduzione del termine nella lingua d’arrivo avviene in modo brutale: l’italiano non usa
giustapporre due sostantivi, tant’è che la forma più vicina al sostantivo ferrovia è via ferrata. Il francese, da questo
punto di vista, è più conservativo, con la forma chemin de fer. L’italiano compagno (cum + panem, “colui con il quale si
divide il pane”, parola di origine militare)  *ga-hlaiba; *companio > it. compagno: fr. copain; asp. compaño. I calchi
semantici sono calchi in cui una parola già esistente viene adattata ad un significato importato tramite una parola
simile da una lingua straniera: it. realizzare, il fr. réaliser, il pg. realizar “comprendere esattamente”  ingl. to realize.
It. angolo, “calcio d’angolo”  ingl. corner (che può avere il significato anche di calcio d’angolo dal punto di vista
linguistico). Un calco molto antico è l’it. compagno, costruito da cum e panem e che ricalca il gotico ga-hlaiba: in
origine, il lat. companionem definiva infatti il commilitone con cui si divideva il pane. La parola sopravvive oggi nella
maggior parte delle lingue romanze, sia nella forma al nominativo companio (it. compagno, fr. copain) sia nella forma
all’accusativo companionem (fr. compagnon, pr. companhó).

8.3 LESSICO LATINO, INFLUSSI DI SUBSTRATO E SUPERSTRATO

La maggior parte delle parole delle lingue romanze proviene dal latino classico con vari adeguamenti, scomparse e
sostituzioni: ignem, “fuoco”; focum, “focolare” > it. fuoco; fr. feu; pr. cat. foc; sp. fuego; pg. fogo; rom. foc. Mensam,
“mensa”; tabulam > it. tavola; fr. table; pr. tabla; ma è sp. pg. mesa; rom. masa. Nella penisola iberica: tabulam,

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“asse”: sp. tabla; pg. tabua. Confrontando il lessico del latino classico con quello del latino volgare, si trova che vi sono
numerosi casi di identità e continuità, soprattutto per le parole di uso comune, mentre dall’altro vi sono anche un
certo numero di innovazioni e di particolarità. Ci sono così parole del latino classico che, non essendo state usate nel
latino volgare (cioè in quello parlato), non sono state trasportate nelle lingue romanze. Ciò avviene soprattutto nei casi
in cui la lingua scritta possieda più vocaboli per esprimere lo stesso concetto, poiché la lingua scritta fa uso solo di uno
di questi, facendolo sopravvivere. Nella lingua, poi, possono convivere anche a lungo due o più parole dallo stesso
significato, perciò è difficile capire quando una abbia infine la meglio sull’altra. Parole latine del lessico classico
vengono sostituite da parole del lessico rustico, familiare, quotidiano: si possono infatti creare conflitti tra parole, a
causa dell’evoluzione fonetica. Ōs, “bocca” (neutro), ŏs, “osso”: in latino classico, le due parole sono omografe, ma
non omofone. Ōs è sostituito da ossum; acc. ōs  *orem, omofono di *orem, “orecchia” (< aurem, monottongamento
di AU); quindi:
 Os “bocca”  buccam (“guancia”, “bocca”); aurem  auriculam (diminutivo tipico del linguaggio famigliare)
> it. orecchia; fr. oreille; pr. aurelha; sp. oreja; pg. orelha; rom. ureche
In alcuni casi si prediligono parole che hanno un significato più marcato: edĕre, “mangiare” > sp. e pg. comer;
manducare > it. mangiare; fr. manger. Flere, “piangere”, è costituito da plorare, che indica il pianto manifesto,
“gridare”, “lamentarsi”, “strillare” o plangere, “battere”, “percuotere”, “gemere”.
Per quanto riguarda il lessico rustico, equum è sostituito da caballum, “cavallo di fatica”, “cavallo da tiro”: it. cavallo;
fr. cheval; pr. caval; cat. cavall; sp, caballo; pg. cavalo; rom. cal. Domum, “casa”, rimane solo in sardo, sostituto da
casam, “capanna”: it. cat. sp. pg. casa; rom. casa. Fr. maison < mansionem (> it. magione), deverbale da manēre,
“rimanere”.
Piuttosto diffuso l’uso metaforico: caput > it. capo; fr. chef; pr. cap; sp. pg. cabo, “estremità”; rom. e cat. cap, “testa”.
Testam, “vaso di terracotta”, “coccio” > it. testa; fr. tete; cat. testa; asp. tiesta. Il romeno teasta significa “cranio”.
Nelle lingue iberiche: sp. cabeza; pg. cabeça < *capitia, a sua volta derivato da caput.
Significativa è anche la derivazione dai diminutivi latini: apem > it. ape; apiculam > fr. abeille; pr. abelha; cat. abella;
sp. abeja; pg. abelha (anche it. regionale pecchia, con aferesi).
Quando ci sono due parole che hanno un significato simile o uguale, generalmente è solo una a sopravvivere sulle
altre nel latino volgare: per esempio, terra sopravvive a tellus, mare sopravvive ad aqueor e plaga su vulnus. In molti
casi è pur vero che il vocabolo soppiantato rimane comunque nella lingua, spesso come parte degli aggettivi più dotti:
per esempio, in italiano usiamo ancora tellurico e vulnerabile. Le scelte lessicali di questo tipo, comunque, vengono
effettuate dai parlanti, perciò la loro classe sociale e culturale si riflette nella formazione del loro lessico e, infine, del
vocabolario stessa della lingua. Spesso hanno dunque la meglio parole dal significato più marcato, ma in alcuni casi la
scelta di una parola sopra l’altra avviene per motivi fonetici, portando i corpi fonetici più esigui a scomparire in favore
di quelli più sostanziosi. Per esempio, in latino la parola ōs significa bocca, mentre ôs significa osso: poiché le due
parole sono omografe e non omofone, uno dei due vocaboli è stato sostituito con la forma ossum. Al contempo, il
neutro ōs è scomparso in favore dell’accusativo orem, che però è divenuto sinonimo e omofono di orem (orecchia).
Così, la lingua parlata ha sostituito prima ôs con ossum, poi ōs con buccam, che significava anche guancia e orem con
aurem, poi rimpiazzata dal diminutivo auriculam, che in italiano è diventata orecchia. L’esempio, poi, permette di
capire che i fenomeni che partecipano al cambiamento linguistico non possono essere isolati l’uno dall’altro.

8.4 IL GRECO

L’apporto del greco sul latino fu senza dubbio considerevole, anche se è difficile valutare il suo reale contribuito alla
lingua parlata e alla sua evoluzione. I rapporti tra greco e latino erano di adstrato, benché all’inizio la lingua greca
fosse considerata veicolo di una cultura superiore, e per questo influenzasse principalmente il latino scritto: solo in un
secondo momento, queste influenze transitarono anche al latino volgare e, da quest’ultimo, verso le lingue romanze.
Per esempio, la parola greca petra ha avuto la meglio su quella latina lapis, mentre colaphus (colpo) ha sostituito il lat.
ictus. A testimonianza dell’importanza culturale che i romani attribuivano al greco, invece, parole come cattedra e
scuola derivano rispettivamente dal greco cathédra e schola. Inoltre, il greco ha lasciato una traccia molto profonda
sia nel latino che nelle lingue romanze nel settore del vocabolario dedicato al cristianesimo: la religione, infatti, giunse

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a Roma tramite la comunità greca, che lo aveva formato con un culto greco basato su parole greche come epîscopus,
da cui deriva l’it. vescovo, presbyter, da cui deriva la parola prete, e diabôlus, da cui deriva diavolo.

8.5 IL SUBSTRATO

Per il latino, e dunque anche per le lingue preromanze che derivano da esso, le lingue più tipicamente di substrato
sono quelle preromane, che hanno lasciato traccia nella lingua di Roma man mano che questa si espandeva nel Lazio,
in Italia e in Europa. I linguisti ritengono che il substrato sia l’origine delle differenziazioni dialettali, perciò è possibile
che esso abbia avuto un ruolo non secondario anche nella formazione delle lingue romanze. La lingua di Roma, nelle
città e nelle regioni conquistate, era pressoché ineludibile, mentre conquistatori e conquistati erano naturalmente
spinti ad impararlo, benché non vi fosse alcun obbligo in merito. Le lingue delle popolazioni colonizzate cedevano così
spazio al latino con velocità variabile, scomparendo dopo un periodo più o meno lungo di bilinguismo. Le lingue di
substrato per il latino sono dunque numerose, poiché la situazione linguistica dell’Italia era complessa: qui, infatti, vi
erano il Venetico nel Nordest, i dialetti Celtici nella Pianura Padana, il Ligue, l’Etrusco, l’Umbro, l’Osco e il Messapico
nel centro-sud della penisola, nonché il Siculo nell’estremo meridione. Tutte queste lingue vennero totalmente
sostituite dal latino, perciò è difficile identificare i loro eventuali lasciti di substrato nella lingua dei romani. Tuttavia, si
ipotizza che la gorgia toscana (la spirantizzazione delle occlusive sorde in posizione intervocalica, che può giungere
all’aspirazione) sia un fenomeno di origine etrusca. Al celtico, invece, si addebitano alcuni fenomeni tipici del francese
e dei dialetti dell’Italia del nord.
Il substrato iberico è molto poco conosciuto: lo si rintraccia in alcune parole che lo spagnolo e a volta il portoghese
conservano. Sono parole completamente diverse dal latino, che non possono derivare dal suo lessico. Esse
deriverebbero da un substrato iberico molto poco conosciuto: sp. izquierdo; pg. esquerdo, “sinistro”; esistono anche
sp. siniestro, pg. sinistro < sinistrum, ma sono forme usate per lo più con il significato di “funesto”, “disgrazia”. Oltre al
substrato iberico, vi sono anche gli arabismi (lo spagnolo è la lingua con il maggior numero di arabismi). La provincia
dell’Iberia venne conquistata a partire da un’epoca molto antica e per gradi, il che rende difficile capire la situazione
preromana della linguistica locale. Inoltre, l’influenza delle lingue iberiche sul latino fu molto ridotta, a parte che nel
caso del basco, mentre queste ultime restano poco conosciute. Una parte importante del territorio della penisola
iberica era occupato dai baschi, i quali occupavano anche parte dei Pirenei e la regione della Guascogna, in Francia. La
loro lingua è l’unica di origine non-indoeuropea sopravvissuta alla romanizzazione, benché oggi sia estesa in una zona
assai limitata. Secondo le teorie degli studiosi, gli Ibéri sarebbero stati i progenitori dei baschi, la cui lingua sarebbe
nata per filiazione proprio da quella iberica: questi ultimi avrebbero poi colonizzato gran parte della penisola iberica e
alcune regioni al sud della Francia. Gli Ibéri, poi, si fusero con i Celti, la principale popolazione indoeuropea che si
trovava in Spagna, formando il popolo dei Celtiberi. Invece, i greci avevano diverse colonie sulle coste. Tanto lo
spagnolo quanto il portoghese contengono testimonianze di vari substrati. Uno di questi è quello basco, a cui viene
attribuito il passaggio tipico dello spagnolo F > h, che si ritrova per esempio nel passaggio da formosum a hermoso,
oppure da facere a hacer. Accanto a questo substrato, però, vi fu anche quello dell’iberico dei Celtiberi, dei dialetti
vicini al basco e di altri dialetti indigeni, a cui si deve, per esempio, l’evoluzione del gruppo consonantico -CT- in -it-,
come in NOCTEM > noite in portoghese e noche in spagnolo.
Nel caso del substrato celtico, si tratta perlopiù di termini legati ad oggetti ed alimenti che i romani conobbero per la
prima volta nel contatto con le popolazioni celtiche. Il celtico è la più importante lingua di substrato per il latino, anche
perché esso era parlato sia nella Gallia Cisalpina (ossia l’Italia settentrionale) che nella Gallia Transalpina (la Francia).
Le due regioni sono state conquistate da Roma in diversi periodi storici, che hanno influito sulla storia linguistica di
queste aree: per esempio, la Gallia Narbonense, ossia la Provenza, fu romanizzata precocemente e molto
profondamente, per il qual motivo poi vi si svilupparono i primi idiomi romanzi. La romanizzazione dei Galli, al di là
delle differenze locali, fu ovunque capillare e portò le popolazioni conquistate ad apprendere la lingua di Roma, che
nel caso dei nobili si estendeva anche al latino letterario. Qui, tuttavia, la differenza tra quest’ultimo e il lato volgare
era molto più marcata che nel resto d’Italia, manifestandosi anche più precocemente. Inoltre, Gallia e Italia erano più
strettamente legate rispetto alle altre province, perciò tutte le innovazioni linguistiche giungevano in Francia con
ampio anticipo rispetto al resto dell’Impero, specie alle zone più periferiche. Il celtico, come le altre lingue di

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substrato, cedette presto il passo al latino, ma ne influenzò soprattutto a livello lessicale le forme volgari. Bracas e
camisiam > it. brache (braghe è forma settentrionale) e camicia; fr. braies e chemise; pr. sp. pg. bragas e camisa; rom.
brace e camasa. Cerves(i)am o cervis(i)am > fr. cervoise > it. cervogia; cat. cervesa; pr. cerveza > sp. cerveza; sp.
cerveja. In italiano e in francese il vocabolo è stato sostituito da una voce germanica: it. birra; fr. bière. In alcuni casi, la
voce di origine celtica è rimasta solo nelle lingue galloromanze: per esempio, mentre l’italiano fuliggine deriva dal
latino fuliginem, il termine dal significato omonimo in francese, suie, deriva dal celtico sudia, come anche il catalano
sutge. Anche aratrum, da cui in italiano deriva aratro, viene sostituito dalla parola celtica carrucam, da cui deriva il
francese charruse. Cassanum, in celtico, ha originato chêne (quercia) in francese, mentre in italiano il termine quercia
deriva dal latino quercum.

8.6 IL SUPERSTRATO

I contatti tra romani e germani sono antichi, e durante l’epoca imperiale si sono intensificati: migliaia di soldati e
schiavi di origine germanica, infatti, vivevano insieme ai romani. Per questo, è probabile che i germanismi siano nel
tempo penetrati nel latino volgare, con un inizio di tale penetrazioni fin da tempi molto antichi: è tuttavia complesso
validare questa ipotesi, perché le nostre conoscenze delle lingue germaniche sono scarse. La lingua germanica di cui
abbiamo una conoscenza maggiore è quella gotica, grazie alla traduzione gotica della Bibbia del vescovo Ulfila nel IV
secolo d.C.. Alcuni autori latini, invece, usavano parole di origine germanica: per esempio, in Tacito viene attestato
l’uso di framea per riferirsi alla lancia, mentre in Plinio il Vecchio si trova sapo, per riferirsi al sapone. Palladio, invece,
nel De Rustica, fa riferimento alla parola vanga, rimasta invariata nell’italiano ma scomparsa dalle altre lingue
romanze. I germanismi arrivano alle lingue romanze da fonti diverse, poiché diverse erano le tribù stanziate dentro e
fuori dall’Impero: tra di esse, annoveriamo Goti, Visigoti, Ostrogoti, Franchi, Longobardi e molti altri. Ciascun popolo
ebbe un’influenza diversa su ciascuna lingua romanza, a seconda di fattori geografici e culturali, ma in generale esse
furono più profonde in Gallia e Italia e meno nella penisola iberica: per questo, l’italiano e il francese sono più densi di
germanismi del portoghese e del castigliano. Inoltre, nell’italiano molti germanismi non sono penetrati direttamente,
ma attraverso del francese; lo stesso vale poi anche per le lingue iberoromanze. Il superstrato germanico agisce in
alcuni ambiti specifici, come quello arabo: in particolare, i popoli germanici erano un popolo particolarmente
bellicoso. Molti vocaboli legati alle armi e alla guerra sono di origine germanica: brando (la spada è l’arma che
caratterizza il cavaliere), elmo, usbergo (maglia di ferro), guanto (si veda la Vita Columbani di Iona da Bobbio, dal VII
secolo: tegumenttum manuum, quos Galli wantos, id est chirothecas, vocant). Tipica evoluzione della W germanica è il
passaggio a G nelle lingue romanze: in alcuni casi, addirittura, la V latina viene trattata come una W germanica (guado
deriva dal latino vadum; la V iniziale è stata trattata come una G; guêpe, “vespa”, con caduta della S davanti a
consonante, come ci indica l’accento circonflesso, deriva dall’italiano vespa). Altre parole di superstrato germanico
passate alle lingue romanze riguardano la vita di corte, come maresciallo e barone. I germanismi sono dunque molto
numerosi, e interessano diversi settori della vita umana, come:
 Il settore della vita quotidiana, con parole come suppa > it. zuppa, fr. soupe, pr., cat., sp., pg. sopa; blank > it.
bianco, fr., pr., cat. blanc e sp. blanco; bosk > it. bosco, fr. bois; pr., cat. bosc; e gard (recinto) > it. giardino, fr.
jardin, sp. jardín.
 Il settore della guerra e delle armi, con parole come werra > it. guerra, fr. guerre, che ha sostituito il latino
bellum, ritenuto troppo simile all’aggettivo bellum (bello), divenuto a sua volta sempre più comune della
forma dotta pulcher; trewwa (longobardo) > it., pr., sp. tregua, fr. trêve; e helm > it. elmo, fr. heaume, pr. elm
e sp. yelm.
 L’ambito della vita di corte, con termini come mareshalk (l’ufficiale addetto ai cavalli) > it. maresciallo, fr.
maréchal, pr. marescal, anche se qui l’italiano è un francesismo; baro (uomo libero) > it. barone, fr., pr., rom.
baron e sp. Varón.
Infine, diversi sono i verbi di origine germanica approdati nelle lingue romanze. Tra di essi si ricordano haribergon,
ossia “accompagnare”, diventato albergare in italiano; wardon, diventato guardare in italiano e garder in francese; e
kratton, che in italiano diventa grattare e in francese gratter.

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Il superstrato arabo (in genere, le parole che iniziano per al sono di origine araba) è legato all’aspetto culturale, per gli
studi soprattutto scientifici nei quali gli arabi erano molto più avanzati delle popolazioni europee (pensiamo ai termini
legati alla matematica: algebra, alchimia, chimica, zero, cifra), e culinario (pesca, albicocca, carciofo, zucchero). Altre
parole legate al superstrato arabo sono divano, dogana (il divano era l’unico mobilio presente nell’ufficio in cui si
tenevano i registri; il termine persiano diwan era di origine persiana ed indicava il registro. Poi, passò ad indicare
l’ufficio in cui si tenevano i registri). La conquista araba dell’Iberia avvenne dopo il 711, e venne fermata alla battaglia
di Poitiers del 732 d.C. da Carlo Martello. Il governo arabo della penisola iberica fu segnato dalla tolleranza culturale e
religiosa, che sul fronte linguistico significò essenzialmente la tolleranza delle lingue locali, cioè delle varietà romanze
che si erano sviluppate a partire dal latino parlato nella regione. Gli autoctoni che vivevano sotto la dominazione e la
cultura araba erano chiamati mozárabes (arabizzati), e per questo le loro lingue sono oggi note come mozarabo. In
realtà, però, la popolazione mozaraba era essenzialmente bilingue: proprio grazie a questo bilinguismo, molte parole
arabe sono penetrate nelle lingue romanze della penisola iberica. Anche la Sicilia visse un periodo di dominazione
araba, anche se qui mancò una popolazione mozaraba vera e propria, perciò la compenetrazione dell’arabo e delle
lingue romanze fu molto meno profonda che altrove. Le lingue romanze che sono state più a contatto con l’arabo sono
dunque l’italiano e le lingue iberiche, mentre gli arabismi del francese e del romeno sono di importazione proprio
dall’italiano e dalle lingue iberiche. Tra i principali vocaboli di importazione iberica troviamo:
 I nomi di alcuni cibi, come al-haršūfa, tradotto in spagnolo e portoghese come alcachofa e alachofra, ma
anche in italiano, senza la particella al, come carciofo: da qui, la parola si è evoluta nell’italiano settentrionale
articiocco, e da qui nel francese artichaut; o al-barqoûq, che in spagnolo diventa albaricoque, in portoghese
albricoque e in italiano albicocca; o ancora la parola naranga, che in italiano diventa arancia.
 I nomi di alcuni indumenti e di alcune materie prime tessili, come al-qutūn, che diventa cotone in italiano e
algodón in portoghese; oppure al-gubba, che in arabo significa “veste di cotone” e che in italiano diventa
giubba.
 I nomi relativi al commercio, come al-diwan, traslitterano in dogana in italiano e, da qui, in douane in
francese; ma anche al-makhazin, che in italiano perde il prefisso al- e diventa semplicemente magazzino.
 Infine, alcuni vocaboli prettamente scientifici, come al-gabr (riduzione), che dà origine alla parola italiana
algebra, a álgebra in spagnolo e portoghese e al francese algèbre; sifr, o “vuoto”, che si è trasformato in zero
in italiano e in cero in spagnolo; e infine al-kimiya, che in italiano diventa alchimia.

8.7 PAROLE POPOLARI E PAROLE DOTTE


La linguistica distingue tra parole dotte, o tradizione interrotta, e parole popolari, o a tradizione ininterrotta. Queste
ultime sono parole che hanno subito tutte le alterazioni previste dall’evoluzione fonetica e morfologica dal passaggio
dal latino alle lingue romanze; le prime, invece, sono parole che, non essendo state usate normalmente nella lingua
parlata, sono penetrate nella lingua romanza solo attraverso i libri, e dunque non hanno vissuto tutte le evoluzioni che
hanno interessato l’altra tipologia di vocaboli. Per questo, solitamente le parole dotte sono riconoscibili perché molto
simili all’originario vocabolo latino, motivo per cui sono definite latinismi. Accanto a queste due tipologie, poi, vi sono
le parole semidotte, cioè quelle parole dotte che sono state assunte dalla lingua popolare in epoca molto alta, così da
compiere una parte dell’evoluzione dal latino alle lingue romanze. Gli aggettivi dotto e popolare, comunque, sono
usati solo in un contesto linguistico: una parola dotta non è necessariamente “difficile”, mentre una popolare non è
sempre “semplice”. Non sempre è comunque facile riconoscere una parola dotta a partire dalla sola fonetica, specie in
italiano, la cui linguistica popolare ha subito relativamente pochi mutamenti fonetici rispetto al latino. In alcuni casi,
come quello di integro, è facile dire che si tratta di una parola dotta, perché esiste il corrispettivo popolare intero, ma
in altri, come pane o civiltà, è difficile differenziare tra parole dotte e popolari. Inoltre, dalla stessa base latina a volte
si generarono due o tre parole romanze, una popolare e una dotta o semidotta, che si differenziano sia per l’aspetto
fonetico che per quello semantico, e che per questo sono dette allotropi. Esempi di allotropi sono, in italiano vezzo e
vizio, entrambe derivate dal latino vitium; pesare e pensare, derivate da pensare; netto e nitido, derivate da nitidum.
Di fatto, il lessico è la parte della lingua che cambia incessantemente, in modo meno sistematico, meno rigido rispetto
a quanto cambiano fonetica e morfologia. Tutte le lingue continuano a cambiare, a evolvere (quelle parlate più

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velocemente di quelle scritte), e gli elementi che cambiano più rapidamente e meno sistematicamente sono quelli
lessicali. Il lessico, inoltre, è soggetto alle mode e ai neologismi: il vocabolario è interessante per verificare
l’innovazione di una lingua. Il serbatoio più importante del vocabolario delle lingue romanze è ovviamente il latino (le
lingue romanze hanno questo nome perché derivano dal latino: è abbastanza evidente che il vocabolario delle lingue
romanze sia formato da quello latino). Grossomodo, il vocabolario del latino volgare coincide con il vocabolario delle
lingue classiche (con influenza, per esempio, del vocabolario rustico). Il vocabolario latino è arricchito da quanto arriva
dalle lingue di substrato e, soprattutto, da elementi di lingue di superstrato. Il nostro linguista Gian Luigi Beccaria
scrive che la lingua è un bene comune, sociale, culturale, ma non è come l’ambiente, che va protetto; non è come il
monumento che all’aria si deteriora, non è da tenere sottovetro o in museo. La lingua va lasciata vivere, ed è stolto
parlare di corruzione. La lingua è viva, continua a cambiare, pertanto i cambiamenti non sono corruzione, ma la sua
stessa vita, movimenti inevitabili (la lingua che sta bene continua a cambiare, ad evolvere). La lingua non è, insomma,
un fatto immutabile: il cambiare è segno di vitalità e non di patologia, a meno che di una lingua venga intaccata, da
un’altra, la struttura stessa.
Nell’area della Romània un posto particolare dal punto di vista lessicale è occupato dal romeo: la zona dove si pala il
romeno venne romanizzata tardi e non troppo profondamente. Il legame del latino con la lingua che vi è nata è
indubbio, ma è un legame più labile di quello stabilitosi tra il latino e le altre lingue romanze. Il romeno è stato scritto
per secoli in cirillico, e ciò ha lasciato tracce molto profonde. Il romeno ha inoltre subito un forte influsso da parte del
francese. L’essere circondata da lingue slave, ne ha influenzato il vocabolario: nel romeno troviamo tante parole che
derivano dalle lingue slave, come del resto lo spagnolo è, tra le lingue romanze, la lingua con il maggior lascito arabo
nel proprio vocabolario (dominazione araba dal 711 circa, con il passaggio dello stretto di Gibilterra, alla fine del
Quattrocento, con la liberazione di Granada). Gli arabismi sono presenti anche in italiano e in francese, ma
sicuramente lo spagnolo è la lingua romanza che, per motivi storici, è più ricca di arabismi.

9. APPENDIX PROBI

L’Appendix Probi è una fonte diretta del latino volgare: è una lista di 227 parole stilata secondo uno schema molto
preciso, del tipo A non B. A è la forma corretta secondo la norma del latino classico; B, secondo la medesima norma, è
la forma scorretta. L’autore di questa lista di parole è ignoto (probabilmente l’appendice è stata scritta in Italia; alcuni
sostengono addirittura che l’autore fosse romano), anche se probabilmente si tratta di un maestro di scuola che ha
stilato la lista ad uso didattico: non dobbiamo tuttavia pensare che questa sequenza di parole rifletta la situazione
linguistica che l’autore dell’Appendix Probi poteva constatare nei suoi allievi (ammesso e non concesso si tratti di un
maestro di scuola). Non dobbiamo pensare sia una registrazione più o meno diretta di errori linguistici che risalgono
alla stesura della lista medesima, perché studi recenti hanno dimostrato che una parte degli errori registrati era già
presente in testi di grammatici precedenti. Ciò significa che il personaggio si sarà in parte servito della sua esperienza
personale, e in parte avrà usato fonti a lui disponibili e più antiche. La situazione della lingua parlata registrata
nell’Appendix Probi è solo in parte contemporanea alla stesura della stessa, ma è in parte anteriore (uso linguistico
che solo parzialmente può corrispondere all’epoca di stesura dell’Appendix Probi medesima). La datazione, secondo
alcuni studiosi (tra cui uno dei grandi linguisti italiani, Arrigo Castellani), risale al III-IV secolo d.C.; studi più recenti
propendono ad una datazione più tarda, intorno al V-VI secolo. Datare l’Appendix al V-VI secolo significa, alla luce di
quanto detto prima, realizzare una fotografia linguistica che risale ad epoche anche precedenti, rispetto alla data più
facilmente reale per la stesura del testo.
Il nome di Appendix Probi, “Appendice di Probo”, si riferisce ad uno dei grandi grammatici latini, Marco Valerio Probo,
vissuto verso la fine del I secolo d.C. I grammatici latini più noti, molto conosciuti nel Medioevo e presenti nelle scuole
medievali, erano Elio Donato (il più studiato), Prisciano (autore di una grammatica che si utilizzava nei primi studi) e
Marco Valerio Probo. Verso la metà del XIII secolo venne scritta una grammatica dell’antico provenzale che divenne
nota con il titolo di Donaz provenzal, perché il riferimento grammatica era Elio Donato (lo schema riproposto è lo
stesso). Probo, in realtà, non c’entra assolutamente nulla nella stesura della lista. Il documento è conservato da un
unico manoscritto, copiato intorno al 700 d.C. nell’abbazia di Bobbio (il che significa che – se l’originale risale al V-VI

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secolo e se il documento fisico è in un manoscritto copiato nel 700 – non possediamo l’originale del manoscritto, ma
una copia). Il codice contiene anche altre opere grammaticali, e in particolare un’opera che erroneamente è stata
attribuita a Probo; da qui, il nome di Appendix Probi (alcuni studiosi hanno proposto di cambiare il nome dell’Appendix
in Appendix bobbiensis, per il luogo in cui il manoscritto è stato redatto). La lista è l’appendice ad un’opera
grammaticale, Instituta artium, che non ha nulla a che fare con Probo perché risalente alla stessa epoca
dell’appendice. Quando pensiamo ad un’appendice, essa è strettamente legata all’argomento del libro, è
un’appendice a ciò di cui il libro ha parlato (stretto è il legame di autore e contenuto): il legame tra l’opera e
l’Appendix, in realtà, è esclusivamente materiale; nessuno è il legame con l’opera grammaticale (avanzavano
probabilmente alcune pagine di pergamena nel codice che sono state riempite con l’Appendix e altre opere). Il nome
di appendice è solo dovuto alla posizione rispetto all’Instituta artium. Il manoscritto è ora conservato presso la
Biblioteca nazionale di Napoli.
Fenomeno importante e diffuso è la sincope, la caduta di una vocale atona soprattutto in posizione postonica (anche
se ci sono casi di caduta di vocale atona protonica, ma sono decisamente più rari). Gli esempi di sincope riguardano
soprattutto le parole originariamente sdrucciole o proparossitone. Gli esempi dal 3 all’11 sono tutti esempi di sincope:
le parole sdrucciole o proparossitone presentano vocale atona in posizione postonica che nel parlato tende a cadere.
L’esempio sincopato fornisce solitamente la base alle ulteriori evoluzioni nelle lingue romanze (speculum non
speclum> it. specchio, con evoluzione del gruppo consonantico CL, uguale in italiano all’evoluzione in posizione
iniziale, con l’avvertenza che quando il gruppo è preceduto da una vocale l’occlusiva raddoppia). Nelle parole che sono
sopravvissute anche nel francese, c’è sempre la forma sincopata, perché il francese non prevede parole
proparossitone; in italiano, invece, lingua che prevedere parole proparossitone, alcune forme hanno proseguito la
forma non sincopata (non vernaclus, ma vernaculus > vernacolo; non articlus, ma articulus > articolo). In alcuni casi
abbiamo l’evoluzione dalla forma del latino volgare e in altri no perché forme come vernacolo o articolo sono forme
dotte, latinismi, cultismi, che non presentano l’evoluzione che ci aspetteremmo (sincope di U ed evoluzione del nesso
CL, vernacchio, artecchio). Queste parole sono cadute in disuso nel linguaggio quotidiano, nella lingua parlata
abitualmente: quando le forme sono state ripescate, hanno mantenuto la forma classica. Abbiamo quella che si suole
definire tradizione interrotta (la tradizione ininterrotta segue le normali tappe dell’evoluzione della parola. Importante
è sottolineare che cultismo non è sinonimo di parola sofisticata; è solo una categoria linguistica, ma non ha una
rilevanza sul piano semantico. Per esempio, la forma dotta disco è una parola che normalmente utilizziamo, mentre
l’esito popolare desco viene utilizzato molto raramente). Possiamo constatare che la forma calda è presente anche nel
Satyricon di Petronio, opera letteraria che risale al I secolo d.C.: in Petronio troviamo calda potio, perché le sincopi
sono abbastanza frequenti. Per quanto riguarda la forma fricda (probabilmente da leggere con assimilazione, fridda),
nelle iscrizioni pompeiane troviamo una forma molto simile, frida.
Come spesso capita, il sostantivo è una forma popolare, mentre l’aggettivo è una forma dotta (maestro/magistrale,
fiore/floreale. Le caratteristiche che ci permettono di dire senza ombra di dubbio che la forma è dell’aggettivo è dotta
è il gruppo consonantico iniziale FL, che non evolve in FJ; inoltre, la E in iato dovrebbe diventare uno jod; RJ, a quel
punto, dovrebbe passare a solo jod. La forma popolare dell’aggettivo sarebbe fioriale, forma semidotta > fioiale).
All’esempio 130, tabula non tabla, notiamo che l’italiano ha proseguito la forma non sincopata, tavola, mentre il
francese prosegue, come sempre, la forma sincopata. Nelle lingue iberoromanze, viene inoltre proseguita la forma
mensam (sp. mesa, con evoluzione del gruppo consonantico NS che tende alla semplificazione in sola S). Il gruppo
consonantico NS tende all’assimilazione, diventando una doppia S, e successivamente si verifica uno scempiamento,
con riduzione della doppia S a sola S (cfr. esempio 76, ansa non asa).
Statisticamente, pur essendo un fenomeno molto ben testimoniato (la sincope è un fenomeno diffuso in tutte le
lingue romanze, è un fenomeno panromanzo), le lingue romanze occidentali (iberoromanze e galloromanze)
presentano più parole, più forme sincopate rispetto alle lingue romanze orientali (nel settore italiano e in quello
romeno). Fracsinus, parole sdrucciola, ha tutte le caratteristiche perché la I postonica cada: quella I, tuttavia, sia
mantiene in italiano e in romeno.
Consideriamo gli esempi 19, hercules non herculens; 75, formosus non formunsus; 123, occasio non occansio: perché i
parlanti e gli scriventi del latino volgare utilizzano una forma che presenta l’aggiunta della N? Si tratta del fenomeno
dell’ipercorrettismo (correzione di una forma già corretta): posto che il fenomeno è la semplificazione del gruppo

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consonantico NS che diventa S, il parlante non pienamente consapevole del fatto linguistico ma che è a conoscenza di
commettere alcuni errori, davanti ad una forma come formosus, interpreta la S tra le due consonanti come la
semplificazione di un gruppo NS originale. Consapevole del suo errore di trasformare un gruppo NS in S, il parlante
ricostruisce così un nesso consonantico NS che non è mai esistito.
Altro gruppo consonantico che tende alla semplificazione è quello formato dall’occlusiva velare sorda e dalla sibilante,
solitamente rappresentato dal grafema X (che è un gruppo consonantico). Esso tende dapprima ad un’assimilazione
regressiva, SS, che poi diventa S semplice. È il caso degli esempi 30, miles non milex; 147, meretrix non menestris. Gli
ipercorrettismi sono rappresentazione indiretta di una certa tendenza linguistica.
Altro fenomeno rilevante è la tendenza del passaggio a jod della E e della I che si trovano in posizione di iato: 117,
tinea non tinia; 55, vinea non vinia. La E si trova originariamente in iato, la parola in latino è trisillaba; abbiamo poi il
passaggio E > jod (forse la pronuncia era già vigna), e l’evoluzione del gruppo in palatale nasale GN: lo jod palatalizza la
consonante che precede, dando il suono palatale nasale. In tutte le lingue romanze, abbiamo l’esito di palatale nasale,
che si può avere solo in presenza di uno jod, la semiconsonante palatale. All’esempio 160, noxius non noxeus,
troviamo un caso di ipercorrettismo: la I è stata interpretata come la semiconsonantizzazione di un’originaria vocale E.
Gli esempi 223, 224, 226 presentano la caduta della M finale: pridem non pride, olim non oli, idem non ide. La caduta
della M finale è un fenomeno molto antico, panromanzo, ben attestato, ben presente. All’esempio 225, adhuc non
adu, abbiamo la caduta della H: la caduta di questo suono latino, consonante laringale (fricativa laringale, con leggera
aspirazione), è molto antico, tanto che nelle iscrizioni molto antiche troviamo forme che dovrebbero avere la H ma in
cui essa non è scritta (testimoniando la perdita del valore fonetico di quella H; anche in questo caso, abbiamo
fenomeni di ipercorrettismo). Sorprende dunque che il maestro di scuola corregga un fenomeno molto antico solo
della lingua parlata: presumiamo che, se l’Appendix Probi risale al V-VI secolo, a quell’epoca la H non si aspirasse più. Il
maestro corregge una forma scritta, ma probabilmente nemmeno egli pronunciava adhuc con aspirazione: alcune
correzioni riguardano dunque forme della lingua scritta, e non solo parlata (il maestro si sarebbe servito di fonti
precedenti, usandole per correggere errori dei suoi discepoli).

FENOMENI MORFOLOGICI

Gli imparisillabi della terza declinazione latina sovente vengono parificati: all’esempio 21, pecten non pectinis,
troviamo la parificazione degli imparisillabi (pectinis non è un genitivo, ma vuole essere un nominativo). Anche in
questo caso abbiamo ipercorrettismi: 74, orbis (orbis, is, con nominativo e genitivo uguale) non orbs è un
ipercorrettismo (correzione di una forma in realtà corretta) che vuole creare una forma di nominativo non parificata,
non parisillaba, orbs, mai esistita (magari la forma ha risentito l’influsso del sostantivo urbs). Non abbiamo la semplice
sincope della I, ma la ricostruzione di una forma mai esistita: quel parisillabo viene interpretato come il frutto della
parificazione di un originario imparisillabo. Altro ipercorrettismo (imparificazione indebita di un originario parisillabo: il
parlante è a conoscenza della sua tendenza alla parificazione) è all’esempio 96, nubes non nubs.
Agli esempi 169 e 170 abbiamo sostantivi femminili della quarta declinazione che subiscono un metaplasmo di
declinazione passando alla prima declinazione: nurus non nura, socrus non socra. La stessa cosa si verifica per gli
aggettivi: 41, acre non acrum, e 56, tristis non tristus. Questi aggettivi sono della seconda classe in latino, seguono la
terza declinazione: facilmente, gli aggettivi della seconda classe passano alla prima classe, perché la prima e la seconda
declinazione sono le più diffuse.
Soffermiamoci sull’esempio 42, pauper mulier non paupera mulier. Pauper è un aggettivo della seconda classe ad una
sola uscita: la prima classe tende a disambiguare l’aggettivo. La terminazione dell’aggettivo paupera è più parlante, più
specificatamente femminile. Le lingue romanze, già il latino volgare, tendono a rendere più esplicito l’aggettivo: il
passaggio dalla seconda alla prima classe permette di avere un’uscita più consona alla terminazione del femminile o
del maschile. In tristis non tristus, esempio 56, abbiamo il passaggio dell’aggettivo dalla seconda alla prima classe:
l’italiano, che mantiene tutte le vocali finali (è molto esplicito da questo punto di vista; a differenza del francese, che fa
cadere tutte le vocali finali), non prosegue la forma usata nel latino volgare, ma la forma classica, dell’aggettivo nella
seconda classe. La forma italiana tristo, poco utilizzata oggi, forma letteraria, è un aggettivo che non ha lo stesso

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significato di triste: tristo ha un significato più marcato, è più vicino a malvagio piuttosto che a triste. Aper non aprus,
esempio 139, è un aggettivo della seconda classe declinato come fosse un aggettivo della prima classe.
In auris non oricla, esempio 83, abbiamo ben tre fenomeni (così collocati anche cronologicamente):
1. L’uso del diminutivo: auris > auricula, tipico del linguaggio familiare (vezzeggiativi che assumono un
significato neutro);
2. La sincope: auricula, sostantivo proparossitono con U in posizione postonica che cade > auricla;
3. Il monottongamento di AU (ultimo fenomeno che si verifica, tanto che nel provenzale si mantiene la forma
non monottongata, il dittongo): auricla > oricla.

10. GIURAMENTI DI STRASBURGO (14 FEBBRAIO 842)

I giuramenti di Strasburgo rappresentano il più antico testo scritto, il più antico documento in una lingua romanza.
Carlo Magno muore il 28 gennaio 814: il regno viene lasciato al figlio Ludovico I detto il Pio , già associato al governo
dell’impero nell’813. I figli di Ludovico il Pio sono Lotario, Pipino d’Aquitania (che muore nell’838), Ludovico II il
Germanico (figlio della prima moglie) e Carlo detto il Calvo (figlio della seconda moglie). Già prima della morte di
Ludovico il Pio, avvenuta nell’840, si verificano lotte tra i fratelli. Nell’843 viene stipulato il trattato di Verdun, che
segna la fine delle guerre tra i fratelli e la suddivisione dell’Impero (grosso modo: Francia a Carlo il Calvo, Germania
a Ludovico il Germanico, Italia a Lotario). Nell’842, abbiamo una precedente intesa tra Carlo il Calvo (il più giovane
tra i fratelli, all’epoca diciottenne) e Ludovico il Germanico: l’intesa tra i due fratelli è firmata a Strasburgo il 14
febbraio. Non solo il testo costituisce la prima testimonianza scritta in una lingua romanza, ma è anche un raro caso in
cui possiamo datare in modo preciso i fatti (conosciamo non solo l’anno ma anche il giorno). Il testo dei cosiddetti
Giuramenti di Strasburgo è inserito in un’importante opera, l’Historia filiorum Ludovici Pii, scritta da Nithard (o
Nitardo, italianizzando). Egli è figlio, ancorché illegittimo, di Angilberto, consigliere di Carlo Magno, maestro di
palazzo e poeta (personaggio di altissimo rango nella corte di Carlo Magno), e di Berta, figlia di Carlo Magno. Nitardo,
di fatto, è un membro della famiglia imperiale, cugino di primo grado dei tre figli di Ludovico il Pio che si
contendono il regno: Nithard scrive la storia dall’interno, non dall’esterno, perché vive in quello stesso contesto. È
molto vicino a Carlo il Calvo, di cui è anche il consigliere, e viene scelto da Carlo come diplomatico per cercare la pace
con Lotario nell’840.
L’Historia filiorum Ludovici Pii è scritta ovviamente in latino, in quattro libri: l’unica lingua letteraria disponibile per
scrivere un’opera storica nel IX secolo era il latino. L’opera ci è giunta grazie ad un solo manoscritto (scrittura detta
carolina, molto nitida. L’umanistica è una scrittura molto simile; cfr. gli umanisti che riproducono una scrittura nella
quale leggevano i classici latini copiati in epoca carolingia, ritenendo che quella sia la scrittura antica, classica) , per una
coincidenza fortunosa, che risale alla fine del X secolo o all’inizio dell’XI (a distanza, dunque, di un secolo dai
giuramenti stessi). La cosa assolutamente eccezionale, che rivela l’intelligenza dell’opera storica, è che arrivato al
punto di descrizione dell’incontro tra Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico, Nitardo cambia la lingua: il testo dei
giuramenti viene inserito nell’opera latina nella lingua in cui, presumibilmente, i giuramenti vennero stipulati, in
lingua germanica e in lingua romanza. Nitardo avrebbe potuto tradurre quei giuramenti in latino (o, forse, lasciarli in
latino: vi è l’ipotesi che i due giuramenti siano la traduzione di un originale latino) senza suscitare scalpore. Ma per
salvaguardare la verità storica del prezioso documento, Nithard inserisce i due documenti nella lingua in cui sono
stati scritti.
I giuramenti sono riprodotti in due lingue diverse: una lingua romanza e una lingua germanica. Nel testo abbiamo
anche un breve testo latino che introduce il documento romanzo; un breve testo latino tra le due parti del giuramento
romanzo e la prima parte del giuramento in lingua tedesca. Carlo il Calvo era il sovrano francese, grosso modo di
lingua romanza (nel suo regno si parlavano lingue romanze); Ludovico era il sovrano della parte germanica
dell’originario regno unitario di Carlo Magno (nel suo regno si parlavano lingue germaniche). Al momento della
pronuncia dei giuramenti si stabilì che Ludovico pronunciasse il giuramento in lingua romanza e Carlo il Calvo in
lingua germanica, perché i sovrani dovevano essere capiti dai sudditi (rappresentanza militare) dell’altro sovrano. La

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seconda parte del giuramento è pronunciata dall’esercito dei due sovrani (ciascun esercito la pronuncia nella propria
lingua; la parte che leggiamo è pronunciata dall’esercito di Carlo il Calvo, in lingua romanza).
Il primo a pronunciare il giuramento è Ludovico, il più anziano tra i due fratelli. Ludovico e Carlo arrivano nella città
detta un tempo olim Argentaria e oggi Strasburgo. Mentre nel testo dei vescovi carolingi dell’813 si parlava di rustica
romana lingua, qui si parla esclusivamente di romana lingua: probabilmente, romana lingua era sufficiente per far
capire che non fosse il latino, ma la lingua romanza. All’epoca del concilio di Tours (trent’anni prima), era forse
necessario aggiungere rustica per far capire con precisione che non ci si stava riferendo alla lingua latina, ma a quella
romanza, volgare (osservazione di James Adams).
L’attenzione va prestata ad alcune U e ad alcune I, che devono essere pronunciate rispettivamente O molto chiusa e E
molto chiusa; inoltre:
 QUANT si legge cant;
 ET si legge e;
 QUID si legge chid;
 Leggiamo ALTRE (< alterum) e SALVAR ipotizzando il vocalizzamento di L davanti ad un’altra consonante:
autre e sauvar. Nelle lingue galloromanze (specificamente nel francese), la tendenza della L davanti a
consonante è di semivocalizzarsi, diventando una semiconsonante (quella U è una semiconsonante, ma
parliamo di vocalizzazione perché la grafia è quella di una U, di una vocale). In alcuni casi (in testi medievali
del X-XI secolo), prevale la grafia della L, di tipo etimologico (la base latina manteneva la L, che continuava
ad essere scritta): quella L, tuttavia, non è più una consonante da un punto di vista fonetico;
 NUMQUAM e IN DAMNO SIT si leggono come tali perché è latino. Gli affioramenti latini fanno ipotizzare che
il testo in lingua romanza altro non sia che una traduzione in volgare (non sappiamo se dello stesso Nithard)
di un testo originariamente latino, che mantiene alcune isole linguistiche latine. In altri testi latini, infatti,
troviamo alcune espressioni che nei giuramenti sono state tradotte alla lettera: Pro Deo amur (pro Deu
amore); d’ist di in avant (de iste die in antea), in quant Deus savir et podir me dunat (in quantum Dominus
posse dederit), si cum om per dreit son fradra salvar sift (sicut fratri per rectum facere debet), in o quid (in hoc
ut). L’ipotesi è che in realtà i giuramenti in lingua volgare siano traduzioni di originarie formule latine
presenti in tanti testi precedenti all’epoca di Nitardo 1;
 Le vocali finali, probabilmente, sono delle schwa, vocali sorde: le parole vengono infatti scritte ora con una
vocale finale, ora con un’altra (Karlo/Karle, fradre/fradre/fradra). Poiché le vocali finali erano tutte uguali,
un suono indistinto, e poiché mancava una grafia che rappresentasse questo suono, la grafia delle vocali
finali veniva alternata (oscillamento). In francese si sarebbe poi stabilizzata in una E, per poi diventare
completamente muta. L’alternanza della grafia fa appunto sospettare che le vocali finali vadano pronunciate
tutte allo stesso modo (poblə, nostrə, Karlə, aiudhə, cadhunə, cosə);
 Per quanto riguarda Ludher (Lodhuwigs, con doppio V perché nome di origine germanica), aiudha e cadhuna,
emerge il problema della H: se l’uso grafico ha un senso, chi ha trascritto queste parole ha forse voluto
cercare di rendere un suono che nell’alfabeto latino non aveva un preciso corrispettivo grafico (una
fricativa dentale o interdentale). In posizione intervocalica, la consonante subisce una lenizione: poiché si
parte da un’alveolare (dentale) sonora, la grafia con H rappresenta un suono fricativo interdentale.
Leggiamo il testo in base gli studi di D’Arco Silvio Avalle, uno dei maggiori filologi romanzi italiani: si tratta di una
testimonianza molto arcaica, è la prima volta che una lingua romanza viene messa per iscritta. Colui che scrive usa
una grafia anch’essa arcaica che risale all’epoca merovingia, nella quale vi era l’uso grafico di scrivere come U le O
molto chiuse e come I le E molto chiuse. Tale consuetudine si sarebbe mantenuta.
L’articolo è una delle grandi novità delle lingue romanze rispetto al latino: i giuramenti presentano la grande
mancanza dell’articolo, curiosamente (l’articolo compare nella forma molto latineggiante ma da interpretare già nella
scarnissima iscrizione della catacomba di Commodilla: non dicere ille secreta abboce). La mancanza dell’articolo
potrebbe essere dovuta alla traduzione letterale di formule originariamente latine 1.

TRADUZIONE: IL GIURAMENTO DI LODOVICO IL GERMANICO

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Per l’amore di Dio, per il popolo cristiano e per la nostra comune salvezza (oppure: Per l’amore di Dio e per la salvezza
del popolo cristiano e nostra insieme, di noi tutti), da questo giorno in poi, nella misura in cui Dio mi dà sapere
(saggezza) e potere, (si, che apre il paragrafo 4, non si traduce, è un rafforzativo) io soccorrerò certo (di sicuro) questo
mio fratello Carlo con aiuti e in ogni cosa, così come si deve (om è impersonale: homo debet), secondo giustizia,
soccorrere il proprio fratello, nella misura in cui (a patto che) egli faccia altrettanto nei miei confronti; e con Lotario
non prenderò (non stipulerò) mai alcun accordo che, secondo la mia volontà, sia di danno (dannoso) a questo mio
fratello Carlo.

La seconda parte del giuramento presenta più incertezze: abbiamo due parole scritte tra croci ( cruces desperationis,
utilizzate quando il termine è poco chiaro, tanto da non arrivare ad un’interpretazione univoca e sicura), la S lunga che
normalmente si usava, l’iv finale.
I giuramenti di Strasburgo osservano la declinazione bicasuale: nella seconda parte, la cosa è molto evidente nei
nomi di Ludovico e Carlo, perché Lodhuwigs è scritto con S finale (soggetto di conservat), ma non alla fine nel testo,
Lodhuwig (caso obliquo; soggetto è iv); allo stesso modo, troviamo le due forme Karlo e Karlus (soggetto di tanit, che
dovrebbe corrispondere al latino tenet); Karlo è caso obliquo assoluto, senza preposizione , e si utilizza
frequentissimamente, al punto che è obbligatorio, con i nomi propri). Nella prima parte del giuramento, allo stesso
modo, avevamo Deo (non soggetto) e Deus, alla seconda riga (soggetto del verbo donat, latino).

TRADUZIONE: IL GIURAMENTO DELL’ESERCITO DI CARLO

Se Ludovico conserva (mantiene) il giuramento che giurò (fece) a suo fratello Carlo, e Carlo, che è il mio signore, da
parte sua non lo mantiene (osserva), se io non riesco a distoglierlo (qualora io non riuscissi a distoglierlo), io o nessuno
su cui io possa influire, dal non mantenere il giuramento fatto, non gli sarò di alcun aiuto contro Ludovico.

Er finale è il verbo sarò: è un caso di futuro latino mantenuto (ero, “io sarò”). Non abbiamo cioè il futuro tipicamente
romanzo, perifrastico (serà, attestata in francese antico), ma la forma sintetica del latino che si mantiene in provenzale
(abbiamo dunque due modalità di formazione del futuro). Er (o ier; essendo la E tonica del latino breve, abbiamo un
dittongo di E breve in sillaba aperta) è forma tipicamente provenzale, dei trovatori, accanto a serà.
Il passaggio più incerto è quello racchiuso nel testo tra cruces; la traduzione si basa sull’interpretazione lo.s tanit, esito
di illu ipsu tenet; le letture e le interpretazioni sono però state molte.

10.1 LOCALIZZAZIONE LINGUISTICA DEI GIURAMENTI DI STRASBURGO

Qual è la collocazione geografica della lingua romanza? Il fatto che sia una lingua galloromanza è abbastanza
evidente: ma è una lingua del Nord o del Sud della Francia? È più vicina alla lingua d’oïl o alla lingua d’oc? L’ipotesi
più plausibile è che la lingua dei giuramenti di Strasburgo possa essere considerata come una coinè di corte. Carlo il
Calvo aveva una corte itinerante: il modo per far sì che il popolo sentisse la presenza del sovrano era lo spostamento
del sovrano stesso. Ogni sovrano medievale aveva però una corte principale di residenza: quella di Carlo il Calvo si
trovava a Poitiers (Guglielmo IX duca d’Aquitania e VII conte di Poitiers, primo trovatore, era originario proprio di
Poitiers. La sua lingua, schiettamente provenzale, presentava infatti alcune caratteristiche del Nord).
Linguisticamente, nel Medioevo, la città si trovava in una regione, il Poitou, a cavallo tra il Nord e il Sud linguistico
della Francia. Non sorprende dunque che la lingua parlata nella corte di Carlo il Calvo fosse una lingua di corte, una
coinè che mescolava al suo interno elementi della lingua d’oc e di quella d’oïl.
Caratteristiche meridionali, della lingua d’oc:
1. Le A toniche sono rimaste intatte (la A tonica in sillaba libera, in francese, diventa E, ma non in provenzale), e
questo è tipico del dominio d’oc: salvar vs. sauver;
2. Manca qualsiasi forma di dittongamento di E e di O (il provenzale manca di dittongamento spontaneo): savir
vs. saveir (fr. m. savoir), deo vs. dieu, amur vs. amour, poblo vs. puoblo (fr. m. peuple);

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3. La preposizione con è rappresentata da ab, che è tipicamente d’oc, e non da od o o, come tipico del francese
antico (entrambe le forme < apud). Cum latino era spesso sostituito già in epoca merovingia da apud (nelle
lingue galloromanze; nelle lingue iberoromanze e in italiano si è mantenuto il cum latino).
Caratteristiche settentrionali, della lingua d’oïl:
1. La spirantizzazione della consonante labiale in posizione intervocalica (alcuni studiosi ritengono in realtà che
la grafia I di savir nasconda un dittongo, saveir; in quel caso, la forma sarebbe tipicamente ed esclusivamente
del Nord): savir vs. saber;
2. Il monottongamento di AU: cosa vs. causa (manca la palatalizzazione della consonante iniziale davanti ad A:
tratto tipicamente francese è la palatalizzazione dell’occlusiva velare davanti ad A);
3. Dift vs. deu, forma tipicamente provenzale;
4. Fazet vs. faza, in provenzale, con mantenimento della vocale latina finale (< faciat);
5. Suo vs. sua, in provenzale, con mantenimento della vocale latina finale.

11. CHANSON DE ROLAND

La Chanson de Roland è il capostipite del genere letterario che si suole definire chanson de geste, il poema epico.
Come spesso accade per le opere medievali, non sappiamo con precisione quando la Chanson sia stata scritta, e non
sappiamo nemmeno con precisione chi l’abbia scritta. Abbiamo delle indicazioni di massima relative a entrambi le
questioni:
 Per quanto riguarda l’epoca di stesura, l’opera risale agli ultimi decenni dell’XI secolo (grosso modo intorno
al 1070). Il dato certo che abbiamo è che il manoscritto più antico che ci trasmette la Chanson è attualmente
conservato ad Oxford: esso è siglato con la maiuscola O. Il manoscritto risale al secondo quarto del XII
secolo, alla prima metà del XII secolo: verosimilmente, conserva almeno in parte la lingua originale in cui è
stata scritta la Chanson, l’anglo-normanno. La Chanson è infatti stata scritta sicuramente nel sud
dell’Inghilterra (componenti linguistiche che rinviano a quell’area): una forte patina anglo-normanna permea
infatti tutto il manoscritto. La Chanson ebbe un grande successo: nello stemma codicum, rappresentazione
grafica dei rapporti esistenti tra tutti i manoscritti che ci trasmettono il testo, troviamo O, K, n (questi ultimi
due sono manoscritti non romanzi: K è in antico tedesco; n è in antico norreno, testimonianza del grande
successo dell’opera). C, V7, V4 hanno una versione della Chanson in franco-italiano (lingua d’oïl + dialetti
settentrionali, in particolare lombardi e veneti), una lingua mista usata dalla fine del XIII secolo fino alla fine
del XIV-metà del XV soprattutto nel nord Italia (soprattutto, ma non solo, per scrivere o “tradurre” opere
francesi). Gli ultimi manoscritti dello stemma sono tutti in lingua d’oïl. Mentre la forma originale della
Chanson è assonanzata, a partire dai manoscritti che derivano dal subarchetipo δ (P, F, L, I, T, B), il poema è
rimato (l’assonanza è stata sostituita dalla rima). Il testimone V 4 è in parte assonanzato e in parte rimato:
forse perché il primo esemplare assonanzato era incompleto, il copista ha fatto riferimento ad un altro testo
rimato;
 Vi è una firma alla fine della Chanson: il testo è firmato da un certo Turoldus. L’ultimo verso, infatti, cita
Turoldus: Turoldo è l’autore, o piuttosto un copista (forse il copista del manoscritto di Oxford) o un
rimaneggiatore del testo originale? È esistito un monaco con il nome di Turoldo (le cui date sarebbero
compatibili con quelle della stesura del testo), originario della Normandia, abate di due monasteri nel sud
dell’Inghilterra (Malmesbury e Peterborough).
Come tutte le chanson de geste, per buona parte del XII secolo, i versi sono suddivisi in lasse, strutture versali non
omogenee. Un componimento strofico è diviso in unità che hanno sempre lo stesso numero di versi; la lassa , invece,
può avere un numero variabile di versi (dai 3 o 4 versi alle centinaia di versi). Questo modo di suddivisione del testo è
tipico della chanson de geste. La lassa è una delle differenze che distingue il poema epico alle sue origini, francese,
dai grandi testimoni di questo genere letterario del Rinascimento italiano, divisi in canti formati da numeri variabili
di ottave (l’ottava, comunque, rimane una struttura fissa). Il verso tipico della chanson francese è il cosiddetto
decasyllabe: solo teoricamente, il decasyllabe equivale all’endecasillabo italiano. Il decasyllabe epico è un verso che

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ha la caratteristica inevitabile di avere l’ultimo accento sulla decima sillaba: in questo, è uguale all’endecasillabo
italiano (l’italiano è una lingua piana, dunque la stragrande maggioranza degli endecasillabi è costituita da 11 sillabe;
tuttavia, possiamo avere anche endecasillabi sdruccioli e tronchi). Il decasyllabe epico ha sempre un accento sulla
quarta sillaba: di fatto, esso è un verso molto ritmico. Il decasyllabe epico ha un accento sulla quarta, una cesura
dopo l’accento di quarta e l’obbligatorio accento di decima. L’endecasillabo italiano è un verso molto più libero, che
può avere la cesura, ma questa non è obbligatoria.
Le lasse della chanson sono lasse monoassonanzate (ogni lassa ha un’assonanza che si ripete nel corso di quella
lassa): la vocale tonica finale è sempre la stessa. La rima è l’identità fonica (non grafica) assoluta di due o più parole a
partire dalla vocale tonica. L’assonanza prevede la stessa vocale tonica, ma tutto ciò che viene dopo può anche
divergere. In una serie di assonanze, nella chanson, possono esserci delle rime, possono cioè esserci parole che – in
una serie assonanzata – sono tra loro in rima (una serie assonanzata può contenere una rima, parole identiche a
partire dalla vocale tonica). Le assonanze nell’epica francese si distinguono tra maschili e femminili: quelle maschili
sono le assonanze tronche (parole ossitone, accentate sull’ultima sillaba); quelle femminili sono lasse nelle quali
l’ultima parola è piana (una sillaba dopo l’ultima sillaba tonica).
L’autore non fa alcun tipo di preambolo: non vi è un’introduzione al testo della Chanson, un proemio (in cui viene
esposto in breve il contenuto del poema). L’inizio della Chanson è in medias res. La storia della Chanson è la storia di
Roncisvalle, della morte di Rolando; già alla lassa 168, a circa metà del poema (duemila versi), il protagonista muore.
La storia riguarda sì il tradimento di Gano di Maganza nei confronti di Rolando, attraverso l’organizzazione
dell’imboscata sui Pirenei, ma vi è anche il racconto della vendetta di Carlo (che scopre l’inganno di Gano e lo
massacra).
Carlo fu in Spagna sette anni: l’autore racconta solo l’ultima parte di quei sette anni; Carlo ritornerà poi in Francia, e la
retroguardia guidata da Rolando verrà assalita dagli arabi, dai saraceni e massacrata. Rolando si trova come capo della
retroguardia suo malgrado (subodorando che qualcosa non funziona), proposto da Gano. Significativo è il discorso
sull’orgoglio di Rolando che, vedendosi circondato da schiere infinite di saraceni, potrebbe suonare il suo corno e
avvisare Carlo di soccorrerlo, ma non lo fa. Solo alla fine Rolando suonerà il corno, richiamando Carlo, che sconfigge i
saraceni. Rolando non muore perché ferito da un arabo, ucciso da un infedele, ma a causa dello sforzo di suonare il
corno, che gli fa scoppiare il cervello. Rolando, prima di morire, si rivolge alla Spagna.

11.1 CHANSON DE ROLAND: PURA INVENZIONE LETTERARIA?

La Chanson de Roland è una pura invenzione letteraria o no? Naturalmente, è un’opera letteraria; ma parte da un
fatto storico reale: Carlo è stato in Spagna, si è verificata un’imboscata della retroguardia dell’esercito franco sui
Pirenei. Carlo è Carlo Magno, realmente esistito; parimenti, sarebbe esistito un comandante, un nobile Roland, di
cui le fonti ci parlano (ma egli non è nipote di Carlo, come nella finzione letteraria). Già al primo verso troviamo
un’invenzione letteraria: Carlo Magno viene già insignito del titolo di imperatore. In realtà, l’escursione oltre i
Pirenei avvenne nel 778, prima dell’incoronazione a imperatore nella notte di Natale dell’800. Carlo non rimase poi
sette anni in Spagna, ma solo pochi mesi; non conquistò tutta la terra alta fino al mare, perché si fermò ad una
striscia di terra oltre i Pirenei. Saragozza, inoltre, non si trova su una montagna, ma sulla valle dell’Ebro : essendo
l’ultima città rimasta in mano ai saraceni, doveva essere particolarmente complessa da assediare ed espugnare.
Il personaggio di Marsilio, capo dei saraceni, non è storico, ma frutto della finzione letteraria: egli deve contrastare
l’imperatore dei cristiani. Il nucleo della vicenda, oltre al tradimento di Gano (vero motore della narrazione), è la
guerra, la lotta dei cristiani contro i pagani (come sono definiti i saraceni), nel contesto del movimento di crociata
(cfr. crociata di Spagna all’inizio del XII secolo). Del resto, l’epoca di stesura si colloca in pieno periodo della prima
crociata.

LASSA 1: NOTAZIONI LINGUISTICHE E METRICHE

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 A partire dalla prima parola, abbiamo un fatto linguistico che ci rinvia all’anglo-normanno: Carles presenta
mancata palatalizzazione della consonante occlusiva davanti ad A, come tipico della lingua d’ oïl. Il
mantenimento della velare è un tratto tipico dell’anglo-normanno, e in genere delle varianti settentrionali
della lingua d’oïl (come la Piccardia, regione dell’estremo nord della Francia). Lo stesso fenomeno si verifica
nella parola castel, che mantiene l’occlusiva (senza palatalizzazione della consonante in posizione iniziale);
 Il sostantivo reis presenta un’altra caratteristica dell’anglo-normanno; il sostantivo deriva dal latino rēgem,
con E lunga in sillaba aperta, che in lingua d’oïl dittonga in oi, già all’inizio del XII secolo sul continente (a
differenza delle altre lingue romanze). L’anglo-normanno mantiene il più antico dittongamento, ei (> oi).
L’anglo-normanno non presenta, dunque, il passaggio ei > oi;
 Emperere (< imperator) è un caso soggetto da un imparisillabo della terza declinazione latina che non viene
parificato; la S di Carles e reis ci dice che si tratta di casi soggetti (declinazione bicasuale);
 Tutta la lassa ha la vocale tonica A: l’ultima parola di ogni verso ha la tonica A. È un’assonanza femminile,
perché tutte le parole in fine di verso sono piane. In una serie di assonanze, possiamo trovare delle rime:
magnes, altaigne, remaigne, muntaigne sono in rima tra loro, sono parole identiche a partire dall’ultima
vocale tonica;
 La palatale nasale GN è rappresentata quasi sempre dalla grafia IGN;
 Sappiamo che il dittongo ai, normalmente, in francese è pronunciato è. Esso viene pronunciato è già in
quest’epoca, in linea di massima: nella Chanson, notiamo un’alternanza tra la pronuncia ai e la pronuncia è
(riusciamo a capirlo grazie all’assonanza). Il dittongo, dunque, può avere ancora a quest’altezza due possibili
realizzazioni;
 Caratteristica tipica dell’anglo-normanno è la presenza di alcune U laddove ci aspetteremmo delle O chiuse:
cunquist, muntaigne. La chiusura della O chiusa in U è un tratto anglo-normanno: secondo alcuni, sarebbe un
fatto puramente grafico (dunque le U dovrebbero essere lette come O molto chiuse, ma possiamo
pronunciare anche come U);
 La serie QU + vocale si legge come una velare (K + vocale): trasken la mer (con E leggermente nasalizzata),
cunkist/conkist. La grafia normale sarebbe QUI, ma al verso 7, per esempio, troviamo una grafia di tipo
fonetico, ki;
 Castellum, dim. di castrum > castel; citét > civitatem;
 Le consonati finali si leggono tutte;
 Tra nostre e emperere vi è il fenomeno della sinalefe: le due sillabe linguistiche (finale di nostre e iniziale di
emperere) si fondono in un’unica sillaba metrica;
 I versi della Chanson sono tutti corretti: come spieghiamo dunque la ipermetria ai versi 6 e 7? Questi versi
conterrebbero una o più sillabe di troppo. In realtà, sono due decasyllabe perfetti: a differenza di tutti i
decasyllabe che precedono, l’accento di quarta cade su una parola piana (a differenza dei versi precedenti,
dove l’accento di quarta cade su parole tronche). Abbiamo qui la figura metrica che si suole definire cesura
epica, piuttosto frequente nei decasyllabe usati nelle chanson de geste. L’accento di quarta cade sulla parola
piana, e dunque segue una sillaba atona dopo la sillaba che porta l’accento di quarta. Quella sillaba è
soprannumeraria, e non rientra nel computo sillabico del verso (sillaba ce di Sarraguce e lie di Marisilie). È un
artificio prosodico usato con frequenza proprio dagli autori delle chanson de geste;
 Nel verso 6, abbiamo sinalefe tra ki e est;
 GU + vocale vale come velare: gardèr
 Mals si legge maus, per vocalizzazione di L davanti a consonante;
 Aoi, scritto alla fine di alcune lasse, ha forse un significato particolare, o forse si tratta di distrazione: sono
state avanzante numerose ipotesi, ma rimane un problema piuttosto fitto.

LASSA 2: NOTAZIONI LINGUISTICHE E METRICHE

 Al v. 20, leggiamo saiv o sev? Possiamo leggere in entrambi i modi;

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 All’inizio della seconda lassa, l’autore ci dà un’informazione che già conosciamo dalla prima lassa , ossia che
Marsilio è già a Saragozza. Questo modo di procedere è tipico degli autori delle chanson: essi procedono
nella narrazione ripetendo alcuni concetti, legando le lasse le une alle altre. A volte, troviamo vere e proprie
ripetizioni dell’ultima parte di una lassa nella lassa che segue  tecnica dell’imbricazione, del legame tra le
lasse. Talvolta, abbiamo le cosiddette lassi similari: due o più lasse che si susseguono dicono esattamente le
stesse cose, usando le stesse parole ma in ordine diverso, per cambiare l’assonanza (la narrazione non
procede);
 Alez: alare spiega ambulare nelle glosse di Reichenau. Ambulare, utilizzato con il significato di “andare”, non
era compreso nella Gallia settentrionale;
 Il re Marsilio si ritira in un giardino, in un orto, in un luogo appartato per consigliarsi con i suoi più stretti
collaboratori, all’ombra: è una caratteristica frequente, un’azione che compie anche Carlo;
 Prestiamo caso ai due puntini sopra la E di milië: essi vengono solitamente utilizzati quando vi è la figura
metrica della dieresi (i due puntini sono il segno di dieresi: due vocali contigue che solitamente fanno sillaba
unica, per ragioni metriche, costituiscono due sillabe distinte). I due puntini non evidenziano qui il fenomeno
della dieresi, ma un altro fenomeno analogo, quello della dialefe (una sorta di dieresi interverbale, una
separazione vocalica che interviene tra due parole, la prima delle quali finisce per vocali e la seconda delle
quali inizia per vocale). È un uso tipico della filologia francese: l’editore della Chanson, nel nostro caso quella
di Segre, segnala al lettore quando vi sia la dialefe;
 Empereres, al v. 16, ci sorprende, perché la S finale non è necessaria: emperere è già e non può che essere un
caso soggetto singolare (deriva da un nominativo latino imparisillabo non parificato), non è una forma
ambigua, non è un caso obliquo. Può esserci il caso in cui anche i casi soggetti di per sé non ambigui hanno
una S finale per analogia (S analogica sui casi soggetti singolari che normalmente hanno S finale):
normalmente, infatti, il caso soggetto singolare dei sostantivi maschili ha la S finale;
 La lingua delle chanson, dell’epica è spesso molto formulare, è una lingua nella quale si ripetono con
frequenza i medesimi sintagmi: uno di questi sintagmi è France dulce (allo stesso modo, ricorre il sintagma di
Carlo barbuto, con la barba).

LASSA 3: NOTAZIONI LINGUISTICHE E METRICHE

Abbiamo una lassa nella quale parla Blancandrino, personaggio chiaramente inventato. Nel primo verso della lassa,
l’autore sottolinea che Blancandrino era uno dei pagani più saggi. Nell’ottica dell’autore, i musulmani sono del tutto
equiparabili ai pagani, tant’è che alla fine della prima lassa si dice che il loro re, Marsiglio, serve Maometto e invoca
Apollo, mischiando il profeta dell’islam (Maometto è equiparato ad una divinità) ad una divinità assolutamente pagana
come Apollo. Viene poi riportato il discorso di Blancandrino, che all’inizio sembra un discorso saggio (perché avrebbe
condotto alla pace tra i due popoli): egli, proveniente dal castello di Valfonda, località che non è stata trovata da
alcuna parte, sembra dare a Marsiglio consigli saggi. Egli non si deve preoccupare, non si deve spaventare: è
necessario mandare a Carlo dei regali, come orsi, leoni, cani, 700 cammelli e 1000 astori mudati (uccelli rapaci che
servono per la caccia: una delle occupazioni dell’aristocrazia medievale era la caccia con uccelli rapaci, adeguatamente
addestrati e lanciati alla caccia di altri uccelli e piccoli mammiferi. È un dono molto prezioso. Mudati indica che essi
sono adulti, che hanno mutato le penne). Nel resto della lassa, seguono 400 muli caricati con oro e argento, tanto da
riempire fino a 50 carri: una quantità di denaro, di ricchezze che a Carlo possono servire per pagare i suoi soldati.
Prima di tutto, è necessario mostrare servigi fedeli e una grande amicizia a Carlo: tale atto di sottomissione farà sì
che Carlo si rassicuri e retroceda verso la propria patria, verso la Francia (Aquisgrana, Ais).
Il consiglio di Blancandrino si rivelerà falso (parole fintamente sagge), perché Marsiglio deve solo far credere a Carlo
che farà tutto ciò: una volta retroceduto, non tornerà sicuramente in territorio musulmano a fare la guerra. Carlo
non è così poco avveduto dall’accontentarsi dei doni di Marsiglio: egli, sicuramente, chiederà degli ostaggi, che
rendano più sicure le promesse fatte da Marsiglio (cosa assolutamente normale nel Medioevo: i patti venivano
suggellati da ostaggi). È molto meglio che gli ostaggi perdano la testa piuttosto che i musulmani perdano l’onore e la
dignità (cfr. Asez est mielz qu’il perdent les testes, alla lassa successiva): Blancandrino dà per scontato che gli ostaggi

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verranno decapitati, per la mancata reale sottomissione. Lo scontro sul campo non è possibile, perché Carlo ha
forze militari nettamente superiori: è possibile solo fargli credere ad una sottomissione feudale da parte di
Marsiglio (che tuttavia non si verificherà davvero).
 Carlun non è un accrescitivo dispregiativo usato da Blancandrino nei confronti di Carlo Magno, ma è il caso
obliquo di Carlo (immaginiamo una forma latina Carlonem/Carlun): la U è dovuta alla tendenza
dell’anglonormanno a sostituire le O chiuse con le U. Non vi è, inoltre, la preposizione: è il cosiddetto caso
obliquo assoluto (apreposizionale), che in francese antico (in lingua d’oïl; è un fenomeno presente anche in
provenzale) è frequentissimo, per non dire praticamente obbligatorio, in caso di nomi propri o nomi di
personalità come re ed imperatori;
 Tratto tipico delle chanson de geste è il fatto che i pagani conoscano a menadito il calendario sacro dei
cristiani, tutte le feste comandate del calendario cristiano;
 Michel si pronuncia Micèl;
 Lei, dal latino legem, in questo caso (uso molto frequente) non significa “legge” ma “credo”, “religione”;
 Hom non è semplicemente “uomo”, ma “vassallo”.

LASSA 4: NOTAZIONI LINGUISTICHE E METRICHE

Blancandrino svela il reale contenuto del suo precedente consiglio: i franchi torneranno in Francia, ciascuno nella
propria dimora (Carlo ad Aquisgrana); Carlo, il giorno di San Michele, darà una festa molto ricca. L’azione di
decapitazione degli ostaggi, che Blancandrino è sicuro sarà eseguita da Carlo, è assolutamente normale: Carlo è
caratterizzato negativamente (del resto, anche nella terza lassa, Carlo è detto orgoglioso e fiero).
 Spesso, nelle lasse continue, vengono ripetutiti, con un nullo avanzamento della narrazione, concetti già
espressi in precedenza;
 In capele non abbiamo palatalizzazione dell’occlusiva davanti ad A, tratto tipico dell’anglo-normanno;
 Curages (< *coraticum, costruita su cor) non è da intendere con il significato di “coraggio”, ma di “cuore”
(come accade in altre lingue romanze, per esempio in italiano: la sovrapposizione dei due termini è
abbastanza ovvia a livello semantico, perché il cuore è la sede del coraggio);
 Les testes (vv. 56-57) presenta un problema testuale, perché la ripetizione a distanza così ravvicinata della
medesima parola non rientra negli usi, nello stile normale dell’autore della Chanson (non possiamo
comunque escludere che l’autore abbia voluto sottolineare con particolare enfasi l’aspetto della
decapitazione degli ostaggi);
 Il ramo β dello stemma presenta, al v. 58, che i la vie perde. Viene così salvata la ripetizione fastidiosa della
stessa parola in due versi successivi e l’assonanza è salva: si tratta comunque di un intervento non
leggerissimo, perché si abbandona il manoscritto più antico ed importante della Chanson.

12. VIE DE SAINT ALEXIS

Rimaniamo in ambiente anglo-normanno: certo, cambiamo genere, passando dalla chanson de geste al poemetto
agiografico. Questi due generi letterari, per la verità, vivono una vita quasi simbiotica: a lungo si è discusso sulla
precedenza, nella letteratura francese e quindi in quella romanza, tra chanson de geste e poemetti agiografici. La
documentazione in nostro possesso ci dice che i poemetti sono più antichi delle chanson: i primi sarebbero stati
scritti in epoca più antica rispetto alla più antica chanson de geste che possediamo, la Chanson de Roland. La Vita di
Sant’Alessio risale alla metà dell’XI secolo (uno dei testi in assoluto più antichi che abbiamo); alcuni studiosi hanno
però ipotizzato che le più antiche chanson che possediamo (della fine dell’XI secolo e del XII secolo) altro non siano
che rifacimenti di più antiche chanson de geste che precedevano la letteratura agiografica. Testi che avevano
un’impronta guerresca, militare molto più forte, germanica, sarebbero passati sotto il filtro del cristianesimo e riscritti
in chiave cristiana. Rolando stesso è un martire cristiano, che muore da estremo difensore della cristianità contro i
pagani; questa lettura è presente in molte altre chanson de geste (in alcune, troviamo elementi violenti come

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monasteri infuocati, monache uccise senza pietà, ecc.). Tuttavia, non abbiamo nessuna prova di tutto ciò, perché non
possediamo chanson così antiche da confermare che quelle che possediamo siano riscritture. Un problema è anche di
carattere metrico: l’ipotesi è che le chanson de geste originare fossero scritte in octosyllabe (metro molto diffuso in
ambito agiografico, corrispondente all’ottonario italiano, con accento sull’ottava sillaba. È il verso tipico della narrativa
non epica: i romanzi, i fabliau e i racconti, nel XII secolo, sono scritti tutti in octosyllabe), tirati nella riscrittura dell’XI
secolo fino a diventare decasyllabe. Addirittura, alla fine del XII secolo, il decasyllabe venne sostituito da un altro
metro, l’alessandrino, un doppio settenario.
La Vie de saint Alexis ebbe una grandissima diffusione: quello della vita di Sant’Alessio è un racconto di origine
orientale che ebbe enorme fortuna in Occidente. All’origine del testo romanzo, vi è un testo latino: gli autori di
opere agiografiche, di vite dei santi in lingua volgare, si basavano sempre su una fonte latina della vita del santo, poi
tradotta in lingua volgare (la traduzione, come tipico del volgare, è un’interpretazione, un ampliamento che
presenta cambiamenti sostanziali e sostanziosi rispetto al testo di partenza; il testo di partenza latino è sempre in
prosa; il testo d’arrivo in lingua romanza è sempre in poesia). Dalla Vie derivano poemetti agiografici su Sant’Alessio
in tutte le lingue romanze (anche in antico italiano, il Ritmo di Sant’Alessio).
Alessio era un membro di una nobile famiglia romana, che al momento del matrimonio sentì la conversione: la prima
notte di nozze egli fuggì, conducendo una vita da mendico e da povero di predicazione per diciassette anni. Al ritorno a
Roma, il padre, la madre e la moglie non lo riconobbero: egli chiese di vivere nel sottoscala della propria abitazione, e
quelli acconsentirono perché capirono che si trattava di un sant’uomo. Al momento della morte (dopo altri diciassette
anni nel sottoscala), lasciò una carta in cui spiegava tutto: solo a quel punto, i famigliari capirono che si trattava di
Alessio, poi sepolto con tutti gli onori del caso.
L’autore potrebbe essere un tale Tibaldo, normanno: la lingua della Vita è per certi versi molto simile all’anglo-
normanno della Chanson del Roland.
Abbiamo qui strofe di cinque versi (non lasse) monoassonanzate: non abbiamo la rima nemmeno in questo caso. Il
decasyllabe presenta cesura dopo l’accento di quarta: non raramente, anche in questo testo, pur non essendo
epico, troviamo la cesura epica (addirittura nel primo verso).
 Ot, nell’antico francese, può avere due origini e due significati completamente diversi: in questo caso, deriva
da audivit; ot è però una forma diffusa del passato remoto del verbo avere, derivando da habuit;
 Tipico gesto che si trova anche nella Chanson è il gesto di disperazione per cui il padre di Alessio si strappa la
barba (blanz barb, esattamente con quella di Carlo): egli, alla lettura della carta, scoprì che quell’uomo era il
figlio atteso per diciassette anni;
 Cartre è inteso nel senso di lettera; il francese cartre non prosegue il latino cartam, perché ciò non
spiegherebbe la seconda M. Dobbiamo infatti partire dalla forma diminutiva cartulam > cart(u)lam, per
sincope > cartre, per assimilazione della L alla R ed avere una più semplice pronuncia della parola (sia L sia R
sono liquide: L è laterale, R vibrante);
 Si mantiene la velare iniziale (davanti ad A), caratteristica tipica del normanno;
 Le L davanti a consonante si vocalizzano sempre;
 L’alternanza delle vocali finali, E ed A grafiche, indica probabilmente che esse sono già pronunciate indistinte
(come avevamo avuto modo di vedere nei Giuramenti di Strasburgo);
 Secondo gli studiosi, halte sarebbe un incrocio tra due parole: altus x *hoch. Ipotizziamo un incrocio per un
problema fonetico: in francese moderno, haut non permette il fenomeno tipico del francese di non
pronunciare le consonanti finale, detto liaison (tranne quando la parola che segue inizia per vocale). Davanti
ad haut, è impossibile fare la liaison: ciò si verifica quando la parola inizia per H ed è seguita da una vocale,
ma tale H non è frutto di un ipercorrettismo perchè è di origine germanica. La H germanica ha avuto un valore
fonetico molto più forte e duraturo rispetto al latino: nelle parole di origine germanica che iniziano per H, in
francese moderno è impossibile la liaison;
 Avoglez < *ab-oculis;
 Par è una forma di superlativo molto frequente in antico francese, sempre usata in questo modo: par e
l’aggettivo sono sempre separati da qualcosa (par est forz, “è fortissimo”);

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 Medra < matrem; abbiamo il normale passaggio di A tonica in sillaba libera ad E, ma non si verifica il dileguo
della consonante tra vocale e vibrante abbastanza tipico del francese; vi è una sonorizzazione, per quanto
possiamo evincere dalla grafia. Non si può però escludere del tutto, anche se non rappresentata
graficamente, una spirantizzazione (mevrə, con fricativa). Se la spirantizzazione era già presente all’epoca dei
Giuramenti, può darsi che si verifichi anche in questo caso: nei Giuramenti, la grafia di H poteva dare spazio a
qualche interpretazione (perché scrivere DH in presenza di un’alveolare sonora?);
 Enpur è una grafia più etimologica (deriva dal prefisso in); anpur è una grafia più fonetica, che rappresenta la
leggera nasalizzazione della E (anche se, nelle lingue del nord, la nasalizzazione è meno accentuata che nelle
altre varianti della lingua d’oïl, dove la grafia testimonia in maniera più massiccia un fenomeno tipico del
francese come la nasalizzazione delle vocali davanti a nasale).

LASSE 82-83

 Caput > chef: la consonante iniziale si palatalizza; leggiamo testi che hanno patine anglo-normanne (forse più
normanne, come in questo caso). Alcune caratteristiche sono tipiche di alcune varianti linguistiche del nord,
ma non è detto che ci siano tutte e sempre, in ogni caso. Una caratteristica delle varianti settentrionali della
lingua d’oïl è il mancato dittongamento dopo la palatale: parlando dell’evoluzione condizionata del vocalismo
tonico, abbiamo visto che la palatale che precede la vocale tonica dovrebbe procedere al dittongamento della
medesima. La A tonica in sillaba libera dovrebbe dare come risultato una E, perchè questa è l’evoluzione
normale in francese antico e nel francese moderno. Poiché la consonante che precede è una consonante
palatale, c’è un’evoluzione condizionata per cui la E derivata da A dittonga, dando jɛ. Il dittongo (che poi si
riduce grossomodo a cavallo tra XII e XIII secolo) a causa della palatale, in questo caso, non si ha, perché esso
manca nelle varianti linguistiche d’oïl settentrionali (effetto della lingua settentrionale);
 Grafia che si ripercuote verosimilmente sulla fonetica riguarda le parole canuthe e absoluthe (cfr. i
Giuramenti): possiamo ipotizzare che la grafia TH voglia rappresentare un suono fricativo, una sorta di
interdentale; è una fase che precede la caduta della consonante. Già all’altezza della Chanson, la parola è
scritta canue, senza la consonante che cade (questa potrebbe essere una fase di spirantizzazione della
consonante dentale). Il fatto che sia scritta la consonante ci fa capire che siamo in una fase precedente alla
caduta. Il limite estremo della lenizione, la caduta della consonante (come capita spesso in francese), non
avviene immediatamente, ma – sebbene poco testimoniato – è passato sicuramente attraverso una fase in
cui la consonante era una spirante, una fricativa;
 Retenüde e apareüde: queste due parole subiranno un processo di lenizione della consonante D. Dobbiamo
pronunciare la D come alveolare sonora o come fricativa? Interpretando la grafia TH come rappresentazione
grafica di una fricativa interdentale, anche la grafia D va interpretata in questo modo;
 Apareüde, femminile, è accordato a dolur perché questa parola era femminile già nell’antico francese;
 Nel francese immediatamente successivo a questa epoca, le parole con la consonante D intervocalica che
incontriamo nel testo perderanno quella consonante (es. emperedeur): anche in questi casi, molto
probabilmente, questa consonante esprime graficamente un suono fricativo che non aveva un corrispettivo
grafico nell’alfabeto latino;
 Le L davanti a consonante sono da leggere come U, perché la L davanti a consonante si vocalizza. La grafia più
etimologica elme si alterna infatti alla grafia eume: è una parola di origine germanica *helm, che deriva più
specificamente dal francico, lingua germanica parlata dai franchi. Allo stesso modo, pronunciamo altre autre;
 Abbiamo un caso di caso obliquo assoluto, come abbiamo già visto nella Chanson: le gunfanun l’emperedur
(lett. “il gonfalone l’imperatore”, che interpretiamo “il gonfalone dell’imperatore”).

LASSA 84

82

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 Poverte < paupertas è un caso di sostantivo della terza declinazione latina imparisillabi che derivano dal
nominativo non parificato;
 Heberge è parola di origine germanica: è la stessa parola da cui deriva l’italiano albergo.

13. CAN VEI LAUZETA MOVER, BERNART DE VENTADORN

Siamo nella seconda metà del XII secolo, nel sud della Francia; il testo è infatti in lingua d’oc. Approdiamo al genere
della lirica, che tanto successo ha avuto soprattutto nel sud della Francia. Nel nord della Francia, i primi esempi di
poesia lirica in lingua d’oïl risalgono ad un’epoca leggermente successiva, all’epoca in cui scrive Bernart de
Ventadorn, autore di questa canzone. Allo stato attuale delle conoscenze, il primo poeta lirico in lingua d’oïl sarebbe
Chretien de Troyes, famoso per essere, in realtà, un romanziere (ne possediamo due liriche). Dobbiamo sempre
considerare che, della letteratura medievale, ci è arrivata la parte che già è stata selezionata dai medievali stessi: la
lirica è giunta fino a noi grazie ad antologie, a selezioni. Ciò significa che quanto ci è arrivato è solo una parte di
quello che è stato scritto: poiché l’attività letteraria di Chretien si è concentrata soprattutto sul romanzo, deve aver
scritto un numero limitato di liriche (sicuramente più di due canzoni  poiché la sua attività letteraria si è concentrata
soprattutto sul romanzo, possiamo presumere che non si sia dedicato tantissimo alla lirica; certo ne avrà scritte più di
due). Di Bernart de Ventadorn ci sono giunti una quarantina di testi, e non sono molti i trovatori di cui abbiamo così
tanti componimenti. Egli è considerato a buon diritto uno dei più importanti trovatori del sud della Francia, ed uno
dei più importanti poeti medievali (per questa ragione, i testi che ci sono giunti sono così numerosi; forse, poi, era un
autore particolarmente prolifico). Ma dobbiamo sempre considerare che quanto ci rimane della letteratura
medievale sono i relitti di un naufragio. Non sono infatti infrequenti le opere che ci sono pervenute grazie ad un
solo manoscritto.
La lirica d’oïl arriva dopo la lirica d’oc: se è vero che il più antico poeta lirico in lingua d’oïl è Chretien, grosso modo
contemporaneo di Ventadorn, Bernard de Ventadorn rappresenta il culmine della poesia lirica in lingua d’oc
(stagione lirica molto intensa ma breve, di due secoli  periodo di massima fioritura di questa lirica: seconda metà
del XII secolo), stagione della quale il primo trovatore fu Guglielmo IX d’Aquitania, nato nel 1071 e morto nel 1126
(signore feudale potentissimo: moltissimi documenti lo riguardano, ed è per questa ragione che conosciamo la data di
nascita e di morte). Bernard, dunque, ha dietro di sé una ricchissima stagione poetica. L’altrettanto ricca stagione lirica
in lingua d’oïl si svilupperà più che altro sul finire del XII secolo e nel XIII secolo. La lirica italiana nasce all’incirca negli
anni Venti del XIII secolo con la famosa “Scuola siciliana”.
La poesia lirica trobadorica è ritenuta la lirica che inizia la poesia lirica moderna : la lirica moderna si basa sulla poesia
lirica dei trovatori. Parlando di poesia lirica trobadorica, parliamo di componimenti accompagnati dalla musica,
anche se le melodie giunteci sono in numero esiguo rispetto al numero di testi (grosso modo un decimo); di Can vei
la lauzeta mover abbiamo anche la musica. Si trattava di canzoni nel senso proprio del termine, eseguite con
accompagnamento musicale: la musica, solitamente, veniva scritta dallo stesso trovatore (i trovatori erano veri e
propri cantautori, che spessissimo eseguivano i propri testi girando di corte in corte. Talvolta l’esecuzione delle
canzoni era affidata a cantadors con musicisti annessi; in altri casi ancora, il trovatore scriveva solo il testo, e la musica
veniva scritta da musicisti professionisti).
BdT (dal tedesco, Bibliografia dei trovatori) è la sigla di un repertorio in cui sono repertoriati tutti i trovatori e tutte le
loro canzoni: ogni trovatore ha un numero; ogni testo di ogni trovatore ha un numero. 70 è il numero di Bernart de
Ventadorn (preceduto da 69 trovatori, in ordine alfabetico); 43 è il numero del componimento (essi erano collocati in
ordine alfabetico, a partire dal primo verso del componimento, perché nel Medioevo non esistevano i titoli,
soprattutto per i testi lirici). Il repertorio è stato assemblato da due studiosi tedeschi, Alfred Pillet e Henry Carstens,
nel 1933: gli autori del repertorio leggevano il primo verso di questa canzone non con la C, ma con QU (Quan, non
Can, che troviamo in alcuni manoscritti); per questa ragione, il componimento, pur iniziando per C, è il
quarantatreesimo. L’edizione critica di riferimento utilizzata dai due studiosi tedeschi per Bernart è datata 1915: essa
presenta la C iniziale, come leggiamo oggi; evidentemente, i due provenzalisti hanno preferito seguire la variante di un

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manoscritto che comincia con la Q. Oggi abbiamo a disposizione una bibliografia elettronica dei trovatori, BeDT,
Bibliografia elettronica dei trovatori, realizzata da un docente dell’Università Sapienza di Roma.
Il testo lirico è un testo strofico rimato. Si tratta di una canzone costituita da 7 coblas (termine provenzale per
“strofe”) unissonans (non solo lo schema metrico, cioè la successione delle rime, è invariato, ma anche le rime restano
sempre le stesse: si ripetono, dunque, schema e rime). Ciò è tipico della lirica trobadorica, ma è assolutamente
eccezionale nella lirica italiana: normalmente, nella lirica italiana, lo schema metrico rimane inalterato di strofa in
strofa, ma normalmente le rime cambiano da una strofa all’altra. Quando le rime cambiano da una strofa all’altra, le
coblas si dicono singulars (lo schema metrico rimane invariato, è sempre lo stesso, ma ogni strofa ha rime diverse).
I versi sono octosyllabes, corrispondenti ai novenari italiani: l’ultimo accento cade sull’ottava sillaba. Gli
octosyllabes di questo testo lirico sono maschili: l’ultima parola è infatti sempre tronca, ossitona. Le sette strofe
sono poi chiuse, sono seguite da una tornada, una sorta di congedo di quattro versi (che solitamente riproduce la
seconda metà della stanza). Lo schema è: a8b8a8b8c8d8c8d8 (nella rappresentazione grafica, i versi femminili sono
segnalati con un apice, un apostrofo dopo il numero: esso indica che il verso è femminile, che dopo l’accento di
decima c’è una sillaba atona finale).
Il provenzale, grosso modo, si legge così come è scritto:
 La grafia CH corrisponde ad un’affricata palatale sorda;
 La vocale tonica seguita da nasale è sempre chiusa;
 Ve: venit latino avrebbe una E breve, tanto che in italiano abbiamo la forma dittongata viene; in provenzale, la
base latina dovrebbe dare una E aperta, ma in questo caso è chiusa perché seguita da nasale (anche se la
nasale poi cade  nasale cadùca: la nasale può cadere in provenzale quando, in latino, si trova in posizione
intervocalica, come nel caso di venit). La terza persone del verbo venire è ve, che può essere scritto anche
come ven;
 In provenzale, non possono rimare vocali aperte e vocali chiuse, come avviene invece in italiano;
 Dante, che sicuramente conosceva Bernart de Ventadorn, si sarebbe ricordato dell’immagine dell’allodola
che vola in Paradiso XX: quale allodoletta che ‘n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de
l’ultima dolcezza che la sazia. È un’immagine molto gioiosa, molto bella, che contrasta in qualche modo,
come tipico di Bernart, con gli ultimi versi della stessa strofa. Vedendo quella allodoletta così piena di gioia,
il trovatore ha molta invidia, al punto da meravigliarsi che non gli si fonda il cuore per il desiderio (non si
distrugga per il desiderio). La poesia di Bernart è una poesia esclusivamente amorosa, ma l’amore da lui
descritto è un praticamente sempre infelice: l’immagine iniziale, apparentemente gioiosa, descrive meglio,
in controluce, la tristezza del poeta;
 Joi < gaudium; in realtà, l’evoluzione autoctona in lingua d’oc di gaudium è gauch. Joi è una forma non
autoctona del provenzale per tre motivi:
 Abbiamo la palatalizzazione della consonante iniziale davanti ad A, tipico della lingua d’ oïl; in
provenzale (come del resto in italiano), queste consonanti, davanti ad A, non palatalizzano, ma
rimangono velari;
 Il provenzale è una delle poche lingue romanze in cui il dittongo AU latino si conserva; nel caso di joi,
tuttavia, abbiamo la monottongazione;
 Posto che anche in provenzale, come in francese, cadono U finale e M finale, rimane il nesso DJ che
dovrebbe dare un’affricata palatale (che tuttavia non abbiamo nella forma joi).
Joi è una parola chiave utilizzata dai trovatori: è molto usata dai trovatori proprio in questa forma, ma è una
forma non autoctona (statisticamente, tra gauch e joi, la forma più diffusa è joi). In questa canzone, joi fa
riferimento alla gioia dell’allodoletta che, spensieratamente, apre le ali e vola baciata dai raggi del sole.
Solitamente, non traduciamo mai joi, perché la traduzione banalizza questa parola pregna di significato
nella lirica trobadorica. Joi, di per sé, è uno stato d’animo che va al di là della semplice gioia (gioia è una
banalizzazione del joi provenzale), è una gioia profonda dell’anima, è tutto ciò che di positivo possa dare il
sentimento amoroso. Secondo alcuni studiosi, questo tipo di evoluzione fonetica può aver ragion d’essere
se pensiamo che il più antico trovatore, Guglielmo IX, era originario della città di Poitiers (Guglielmo era
nono duca d’Aquitania, ma anche e soprattutto settimo conte di Poitiers, regione citata per i Giuramenti, in

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cui teneva la corte Carlo il Calvo). La regione del Poitou è linguisticamente collocata al confine tra nord e
sud della Francia: la lingua aveva, pertanto, tratti fonetici legati alla lingua d’oïl. Guglielmo, primo
trovatore, utilizzò questa parola, joi, la cui evoluzione era compatibile con la lingua di quella regione.
Potrebbe poi essere stata utilizzata da altri trovatori, provenienti da altre regioni, dalla Francia meridionale,
ed introdotta così nel lessico poetico provenzale (pur non corrispondendo, linguisticamente, all’evoluzione
autoctona della lingua, gauch). Bernart era originario del limosino, dove sicuramente una forma come joi
non era autoctona (molto più comune era gauch): come sappiamo, tuttavia, il lessico poetico non
corrisponde in linea di massima alla lingua normalmente parlata, è un lessico specializzato (il lessico
d’amore ha delle formule, delle parole che vengono usate ripetutamente, che entrano nell’uso normale della
lingua poetica). Ecco perché una forma linguisticamente non autoctona avrebbe avuto una tale fortuna nella
lirica del sud;
 Chazer presenta un metaplasmo di coniugazione (cadĕre > cadēre): abbiamo qui una palatalizzazione
dell’occlusiva velare sorda davanti ad A. Anche in questo caso, il provenzale letterario presenta due
possibilità: la forma probabilmente autoctona con la velare, cazer; la forma palatalizzata, anch’essa
sicuramente non schietta del sud, della lingua d’oc;
 Fon, che chiude la cobla, si ritrova anche alla fine della terza cobla: i trovatori di un certo livello evitano di
utilizzare gli stessi rimanti. Le due parole, infatti, costituiscono una rima equivoca, cioè formata da due parole
uguali ma di significato diverso (in questo caso, di significato diverso). Il primo fon è voce del verbo fondere
(fŭndere), mentre il secondo è un sostantivo, dal latino fontem (rima equivoca di una forma verbale con un
sostantivo);
 Una volta appurato che nella prima cobla ve e desse (< *de ex semper  gli avverbi romanzi, spesso, vengono
da accumulazioni di avverbi o particelle latine) àvanno letti con E chiusa, anche nel resto del componimento
dobbiamo leggere quella E come chiusa (le rime, infatti, sono sempre le stesse). Me e re della seconda cobla,
dunque, vanno letti con E chiusa;
 Celeis (pronuncia zeleis), “colei” < ecce - *illaei (dativo che sostituisce il classico illi) + S non etimologica (che
spesso si trova anche negli avverbi). Illaei, al posto del classico illi, proviene dal latino *illui, che a sua volta
viene da illi. Il dativo di qui, cui, ha agito in qualche modo su illi, portando sulla costruzione di illui, che a sua
volta ha influenzato il femminile illaei (per “equilibrio” tra le due forme di maschile e femminile). Da queste
forme, naturalmente, derivano anche le forme italiane lei e lui, forme aferetiche di dativi non attestati che
sostituiscono il dativo classico. La S non etimologica si trova, per esempio, anche negli avverbi, in posizione
finale;
 Tout, “tolto” < *toltum. Come sempre in francese e provenzale, abbiamo la vocalizzazione di L davanti a
consonante (la U di tout è la L che si è vocalizzata davanti a consonante). Tout sostituisce il classico sublatum,
participio perfetto di tollere: sublatum era sentito come una forma anomala, e dunque è stata sostituita con
un più evidente participio passato, toltum, poi rimasto nelle lingue romanze;
 Tema piuttosto tipico della poesia amorosa trobadorica è l’idea, il concetto che, dal momento in cui il
poeta vede la donna amata, non appartiene più a se stesso, perde la cognizione di qualsiasi cosa, non è più
padrone delle proprie azioni e della propria vita. Il poeta, addirittura, è come se fosse morto: dal momento
in cui io mi sono specchiato in te, mi hanno ucciso i sospiri dal profondo. Il concetto dell’amore che passa
attraverso gli occhi, che era già classico, viene sfruttato tantissimo dai trobadori e dai poeti italiani delle
origini;
 Preon < *praefundum per profundum, con dileguo della F intervocalica;
 Il verbo morire, nelle lingue romanze antiche (compreso l’italiano), può avere il valore transitivo di
“uccidere”, non solo di “morire”;
 Importante è il riferimento alla storia di Narciso, raccontata nelle Metamorfosi di Ovidio. Egli fu fonte di
ispirazione notevole per tutta la poesia medievale. Narciso, rispecchiandosi nella fonte ed innamorandosi
della propria immagine riflessa, volle unirsi al suo riflesso, ma cadde nell’acqua e morì;

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 Altra idea tipica di Bernard de Ventadorn è la disperazione verso le donne: l’amore è sempre infelice, non
corrisposto. Bernard, spesso, si dispera nei confronti non solo dell’amata, ma di tutte le donne (non mi fiderò
giammai, mai più di loro);
 Fiarai (< *fidare su fidus), “non mi fiderò”, “non avrò più fiducia” è una forma di futuro romanzo: esso è
formato dall’infinito del verbo + presente indicativo del verbo habere;
 Solh, “ero solito” (pronuncia sogl) è un presente indicativo: molto spesso, nei poeti di quest’epoca, questo
presente indicativo aveva il valore di imperfetto, o comunque di passato;
 Chaptener è una forma costruita su caput + tenere;
 In chazutz, la grafia finale TZ equivale ad un’affricata alveolare sorda;
 In faih, la grafia IH si trova abbastanza frequentemente con il valore di un’affricata palatale;
 Il mas (< magis) a seguito di una frase negativa significa “se non”: tipica costruzione provenzale è no sai…
mas;
 Fols < follis, “sacco”, “palla gonfia d’aria”;
 Puyei è un passato remoto: pojar/pujar < *podiare su podium (cfr. la forma italiana dotta podio e la forma
popolare poggio; il verbo appoggiare < ad + *podiare su podium);
 Querrai è una forma di futuro romanzo;
 Degr < debueram è un condizionale sintetico, di secondo tipo, un condizionale secondo: esso deriva dal
piuccheperfetto latino;
 Chaitiu deriva probabilmente da *cactivum su captivum (CT > it). In origine, la parola aveva significato di
prigioniero; passa al significato di cattivo attraverso l’espressione captivum diaboli, “prigioniero del diavolo”,
dunque “cattivo”;
 Nella tornada troviamo un ulteriore passo in avanti: la tornada riprende l’ultima parte dell’ultima cobla, con
la stessa disposizione delle rime e le stesse rime. Addirittura, in questo caso, l’espressione, il rimante che
chiude la cobla VII, no sai on, si trova nel secondo verso della tornada. Nella tornada è normale che il
trovatore ripeta alcuni rimanti già usati nella canzone: è prassi, è abbastanza normale il trovatore, nel
congedo (all’italiana), riprenda alcune parole rima;
 Le canzoni dei trovatori possono avere anche due o tre tornadas: di solito, contengono l’invio della
canzone alla donna amata o ad un personaggio, come il protettore che accoglie il trovatore nella propria
corte o re, conti, marchesi (personaggi torici noti; la canzone è una ricompensa per l’ospitalità accordata dal
protettore medesimo) o al giullare a cui il poeta affida il proprio testo perché lo canti di corte in corte;
 Nella tornada, Bernard ribadisce il suo andarsene misero: egli si astiene dal canto, si dà per vinto, e rifiuta la
gioia e l’amore. Abbiamo il concetto del rifiuto del canto: poiché non può avere un amore corrisposto e
felice, egli rinuncia anche a scrivere canzoni. Un’altra canzone di Bernard, a pag. 176 dell’antologia, spiega il
De chantar me gic em recre della tornada di questa canzone. Consideriamo il verso che afferma che non c’è
da meravigliarsi se il trovatore canti meglio di chiunque altro, perché il cuore lo trascina verso amore: in nota,
leggiamo il rinvio ad un’altra canzone fondamentale. Il canto non vale nulla, se esso non si muove da dentro il
cuore; e, d’altra parte, il canto non può muovere dal cuore se in esso non vi è un amore profondo. Bernard
lega strettamente l’attività poetica con la presenza, nel cuore, di amore: il canto può nascere dal cuore solo
e soltanto se nel cuore vi è amore (che muove il canto stesso). Nella nostra canzone, il cuore del poeta non
ha un amore pieno, perché non è corrisposto: da esso, dunque, non può sgorgare nemmeno il canto. Ecco il
motivo della rinuncia al canto: nel suo cuore, non vi è un amore sufficiente a suscitare il canto;
 Chi è il Tristans citato nella tornada? Si è ipotizzato che questa canzone di Bernard sia un pezzo di un dialogo
a distanza tra tre poeti: Bernard stesso, Rimbaut d’Aurenga (cfr. pag. 196) e Chrétien de Troyes (cfr. pag.
226). Il tema, simile, è visto nelle tre canzoni in prospettive completamente diverse:
- Bernard, non ricambiato dalla donna amata, rinuncia all’amore;
- Rimbaut, altro trovatore in lingua d’oc, non ricambiato dalla donna amata, trova un’altra donna che
ricambi il suo sentimento. Non bisogna mai rinunciare ad amare: al massimo, si cambia il soggetto
del proprio amore. È una posizione assai vitalistica;

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- Chrétien si colloca in una posizione intermedia tra i due trovatori precedenti: la sua è una posizione
che potremmo definire classica. Nonostante le sofferenze causate da amore, non è possibile
rinunciare all’amore stesso; ma non bisogna nemmeno trovare un altro soggetto a cui indirizzare
l’amore (fedeltà all’amata).
Tristano è l’elemento comune alle tre canzoni: riferimenti alla vicenda di Tristano e Isotta sono espliciti in
tutte e tre le canzoni. Rimbaut, nella quarta cobla, dice di aver bevuto l’amore (con chiarissimo riferimento al
filtro amoroso al centro della vicenda di Tristano e Isotta, alla base dello scatenarsi della loro passione). In
Bernard, il riferimento è legato a quel Tristans, personaggio a cui il trovatore invia il proprio testo: Bernard
usa uno pseudonimo per inviare il testo a Rimbaut; Tristans, insomma, altri non sarebbe che Rimbaut.
Chrétien, in maniera sufficientemente evidente (cfr. pag. 228), si riferisce ad un verso di Rimbaut ( io non
bevetti mai il beveraggio con cui Tristano fu avvelenato). Se il punto di vista di Rimbaut nei confronti di
Tristano e Isotta è sostanzialmente positivo, quello di Chrétien è negativo: il filtro amoroso, dal suo punto di
vista, ha avvelenato Tristano.
Secondo alcuni studiosi, in particolare Aurelio Cornaglia, carestia, a cui Rimbaut invia il proprio testo, sarebbe
lo pseudonimo di Chrétien, un anagramma del nome del trovatore.

MANOSCRITTO VATICANO LATINO 5232

Vediamo uno dei manoscritti utilizzato dai provenzalisti per l’edizione critica della canzone di Bernard. Il manoscritto,
siglato con la lettera minuscola A, è oggi conservato alla Biblioteca Vaticana: è il manoscritto che ha la segnatura
Vaticano Latino 5232. Nel manoscritto, notiamo la rubrica in rosso, che recita Bernartz deventedorn (in scriptio
continua). Il manoscritto, come altri, adotta la grafia con la Q e non con la C, presente nell’edizione critica. L’editore ha
scelto la grafia CH, con la pronuncia ciaser, mentre questo canzoniere ha la lezione con mantenimento della velare,
caser. Abbiamo poi la P tagliata, segno di abbreviazione che sta per per; l’editore adotta poi una grafia dove l’affricata
in posizione iniziale viene scritta con la I lunga: di solito, nelle edizioni, si cerca di separare la I vocalica dalla I che sta
per l’affricata palatale. La S viene scritta nel manoscritto come una S lunga, che molto spesso si confonde con la F (a
meno che non sia in posizione finale: qui viene scritta come una S normale). Notiamo poi l’alternanza tra rosso e blu
della consonante iniziale di ciascuna cobla: la seconda cobla dovrebbe iniziare con A. Il copista trascriveva prima il
testo; poi, lui stesso o uno specialista scriveva tutte le iniziali alternando i colori: colui che doveva scrivere l’iniziale
maiuscola l’ha dimenticata, non l’ha scritta.
L’ordine delle strofe diverso nei vari manoscritti è cosa assolutamente normale: la successione delle strofe, in questo
caso, è diversa da quella adottata nell’edizione critica.
I canzonieri provenzali spesso raccolgono le poesie in piccole antologie: ogni autore ha una propria sezione. In questo
caso, le sezioni dei trovatori iniziano con la vida, la biografia antica. Le vidas risalgono in realtà, in linea di massima, a
dopo il 1220, ad un’epoca ben posteriore rispetto alla vita del poeta stesso (… 1147-1170 …; queste due date indicano
i limiti all’interno delle quali sappiamo, da documentazione di vario tipo, che Bernard de Ventadorn era vivo e
scriveva. Non sono dunque le date di nascita e morte; cfr. p. 176 Antologia). Le vidas raccolgono vicende in parte vere
in parte false: spesso, sono notizie reali; molte altre volte, chi ha scritto le vidas (quasi tutte anonime) si è inventato
certi episodi o ha utilizzato le poesie dei trovatori come documenti reali (inventandosi una biografia a partire dalla
produzione poetica). La vita di Bernard, nel manoscritto in questione, è scritta in rosso ed è in prosa (cfr. pagg. 366 e
seguenti: esempi di vidas). Dopo la vida, che occupa una colonna e mezza del manoscritto, abbiamo il primo
componimento del gruppo di componimenti conservato nel manoscritto: l’iniziale è miniata, nel senso proprio del
termine, con una figura umana che dovrebbe rappresentare il trovatore (figura stilizzata e totalmente inventata).
Interessante è poi l’indicazione che il copista ha dato al collega che doveva miniare la lettera iniziale: era una breve
descrizione di quanto la miniatura doveva contenere. Poiché questo canzoniere provenzale è stato copiato in Veneto
(soprattutto la zona di Treviso è stata una delle zone di irradiazione più importante della lirica trobadorica). La breve
annotazione che il copista dà al miniatore non è in provenzale, ma è scritta in una forma di italiano settentrionale,
perché il copista, verosimilmente, era veneto.

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14. POEMA DE MIO CID

Torniamo all’epica, spostandoci in Spagna. Leggiamo un testo in castigliano antico. Il poema del Cid è uno dei testi più
antichi della letteratura castigliana medievale (poema spagnolo più importante della letteratura medievale di quella
regione). È molto complesso determinare quando e da chi sia stato scritto, come nel caso della Chanson, con
l’aggravante che – secondo alcuni studiosi – il poema sarebbe il risultato della giustapposizione di tre cantari
differenti (che avevano come protagonista sempre il Cid de Campeador, personaggio storico) poi uniti in un unico
testo. Il poema del Cid, come lo conosciamo, ci è giunto attraverso un solo nel manoscritto, nel cui explicit troviamo
l’indicazione dell’autore, Per Abbat. Tuttavia, il verbo escribir a lui riferito può significare “scrivere” nel senso di
“comporre”, ma anche “copiare” o “rimaneggiare” (i cantari di cui si forma il poema potrebbero risalire al secolo
precedente, al XII secolo). Il manoscritto unico che fisicamente abbiamo, possediamo, che ci trasmette il Cid, risale
agli inizi del Trecento: colui che ha copiato il poema in quell’epoca, per nostra fortuna, ha copiato anche l’explicit, che
contiene il nome di Per Abbat, e l’indicazione dell’anno, 1245. Per Abbat avrebbe “scritto” il poema nel mese di
maggio del 1245: tuttavia, questa non è la data reale, perché l’anno è riferito al modo spagnolo di contare gli anni (a
partire dal 38 a.C.). L’anno corrisponde, dunque, al nostro 1207. Per Abbat, nel 1207, dichiara di aver finito di
“scrivere” il poema. Il manoscritto che fisicamente abbiamo è degli inizi del Trecento, posteriore di circa un secolo
(attenzione: Per Abbat è il copista del manoscritto da cui, a sua volta, il copista del Trecento ha copiato, non è il
copista dell’unico manoscritto pervenutoci).
Il poema del Cid racconta la storia di un personaggio storico, Rodrigo Díaz, morto nel 1099 (una sorta di eroe
nazionale spagnolo, di cui il poema narra, più o meno romanzate, le vicende). Effettivamente, il poema che
conosciamo è diviso in tre parti abbastanza distinte. Il metro del poema non è chiaro: essendo un poema epico, non
è un componimento in strofe, ma in lasse assonanzate. Nella maggior parte dei casi, la metrica è molto irregolare,
perché già in origine lo era (non è un problema di alterazione da parte del copista). Potremmo definire questa arte
come “giullaresca” (il computo sillabico oscilla tra le dieci e le venti sillabe, sebbene vi siano frequenti testimonianze
di décasyllabes e di alessandrini).
Il manoscritto giuntoci, la copia di inizio Trecento, manca di tre fogli, caduti, andati perduti: uno di questi è il primo .
In realtà, quella che noi leggiamo come prima lassa del poema è la prima lassa di quanto è arrivato fino a noi, non la
prima lassa in assoluto. Non sappiamo perciò come iniziasse davvero il Poema de mio Cid. Anche questo poema è
diviso in lasse, molto irregolari dal punto di vista della quantità di versi contenuti (cfr. il confronto tra le prime tre
lasse, piuttosto brevi, e la quarta, molto più lunga). A differenza della Chanson, scritta in décasyllabes perfetti, in
versi regolari, il poema del Cid presenta numerose oscillazioni metriche: si individuano molti décasyllabes e
alessandrini, ma le oscillazioni sillabiche sono moltissime, numerosissime. Parliamo per questo di versi anisosillabici:
ciò è dovuto probabilmente ad una caratteristica che, fin dall’origine, era di quest’opera (opera senza misura precisa
del verso). Ciò corrisponderebbe a quanto la filologia ispanica chiama con il termine di mester de giuglarìa, l’arte
poetica tipica dei giullari, che non ha per statuto una misura perfetta del verso dal punto di vista metrico. La
scrittura giullaresca è tipicamente anisosillabica: pur essendoci dei versi perfetti (décasyllabes e alessandrini),
compaiono versi ipometri o ipermetri, o non facilmente conducibili ad una norma precisa. Il mester de giuglarìa, nel
Medioevo, si contrappone al cosiddetto mester de clerecìa, il modo di poetare dotto, colto, dei poeti colti (clerecìa
perché si richiama alla cultura clericale, dei chierici) che utilizza versi perfetti. Tipico metro del mester de clerecià è la
quartina monorimata di alessandrini, la cosiddetta cuaderna vía (cfr. pag. 320, 324, 384).

LASSE 1-4

 Ojos si legge ogios;


 Pielles si legge pieglies;
 Le parole con la F iniziale (per esempio fablò) vanno lette, molto probabilmente, come se la F non ci fosse: la
F è un fatto puramente grafico, è un latinismo grafico;

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 Grafia tipica dello spagnolo è la doppia L iniziale, che sta per la palatale laterale GL, come nella parola
llorando. Nel manoscritto unico che ci trasmette il poema, questa forma verbale è scritta con una L semplice:
l’editore interpreta poi quella grafia come una grafia che vuole rappresentare una palatale laterale; perciò,
nell’edizione, la scrive come farebbe nello spagnolo moderno, con la doppia L. Nella terza lassa, al v. 18,
troviamo la stessa forma verbale, scritta però in modo diverso, plorando: l’editore ha lasciato questa grafia
perché evidentemente è etimologica (< plorare, latino). Nell’evoluzione delle consonanti e dei gruppi
consonantici, il gruppo consonantico PL in posizione iniziale, in spagnolo, dà una palatale laterale. Nel primo
verso, la prima grafia è di tipo fonetico (l’editore moderno attualizza ulteriormente la grafia per renderla
esplicita); in questo secondo caso, la grafia è volutamente etimologica, latineggiante, ma la parola va letta
come nel caso del primo verso (gliorando). Notiamo inoltre come llorando de los sos ojos sia la stessa
espressione che compare nella prima lassa: l’espressione era molto diffusa nel Medioevo, era una sorta di
formula fissa che spesso tornava (cfr. Alexis, p. 41, v. 88: plore des oilz). Il soggetto è qui il Cid che viene
cacciato, esiliato dalla sua città natale, Vivàr, perché il re lo crede ingiustamente infedele (le accuse sono
fasulle): egli, per questo, piange fortemente dagli occhi;
 Los di estàvalos fa riferimento a qualcosa che era detto nelle lasse precedenti, che non ci sono pervenute
(attenzione alla traduzione corretta del secondo verso);
 Catar significa guardare;
 Le alcàndaras vazìas sono le rastrelliere, le pertiche vuote sulle quali si mettevano le pellicce, i mantelli, i
falconi e gli astori (mudados, “che hanno fatto la muta delle penne”, dunque adulti), uccelli rapaci addestrati
per la caccia, animali tipicamente nobiliari (lo stesso uccello incontrato nella Chanson, tra i doni che Marsiglio
dovrebbe fare a Carlo secondo quanto dice Blancandrino);
 Hablò è passato remoto di hablar < fabulare (in sostituzione del latino loquor);
 Buelto, participio del verbo volver < volvere (i verbi della terza latina passano sempre alla seconda nelle
parlate iberiche);
 Una delle caratteristiche dello spagnolo rispetto alle altre lingue romanze è il dittongamento della vocale
breve anche in sillaba chiusa, come nel caso di puertas e pielles;
 Alcàndaras è una parola di origine araba, come capiamo dall’al iniziale, una delle spie che più facilmente ci
permettono di individuare le parole di origine araba (l’articolo arabo si è legato alla parola);
 Allì, parola tronca < ad illic (illic, illac, illuc sono tra le poche parole ossitone del latino). Non capiamo qui cosa
significhi il fatto che, all’uscita da Vivàr, essi avessero la cornacchia alla loro destra e, entrando a Burgos, alla
loro sinistra;
 Ovieron è un passato remoto < *abuerunt < habuerunt;
 Nello spagnolo antico, siniestra aveva significato di sinistra, poi sostituita da un izquierda forse di origine
basca;
 Tiesta (con dittongamento della E breve: testus era il vaso di coccio, poi diventato sinonimo di caput; è lo
stesso procedimento per cui, dicendo zucca, vogliamo riferirci alla testa di qualcuno), nella fase medievale,
convive con cabeza (< capitia < caput, da cui deriva anche l’italiano cavezza, che indica le redini del cavallo),
parola in uso nello spagnolo moderno;
 Ombros deriva da latino umĕros: questa parola viene facilmente sincopata, perché sdrucciola; le parole
sdrucciole facilmente perdono la vocale atona postonica. Se sincopiamo questa parola, si crea un gruppo
consonantico MR, non naturale nello spagnolo, nella lingua di partenza (latino) e di arrivo (spagnolo). In
questi casi, possono avvenire all’ingrosso un paio di fenomeni:
- Un’assimilazione o una dissimilazione, con cambio di una delle due consonanti;
- Per rendere pronunciabile un gruppo consonantico estraneo alla lingua d’arrivo, si inserisce una
consonante detta epentetica: in questo caso, è la B. La consonante epentetica è detta omorganica:
non tutte le consonanti possono essere usate come epentetiche; la scelta della consonante dipende
dalla consonante da rendere leggibile. La consonante scelta deve condividere, con almeno una delle
due consonanti, solitamente con la prima, alcune caratteristiche: sia la B sia la M, infatti, sono
consonanti labiali.

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Questo stesso procedimento si ha nella parola spagnola hombre, “uomo”: in questa parola, dal latino
hominem, parola sdrucciola > homne, per sincope (forma attestata nello spagnolo medievale; è un tratto
tipico della lingua utilizzata da Gonzalo de Berceo, non propriamente castigliano) > homre (nel castigliano),
per dissimilazione > hombre, con inserimento di consonante epentetica (la H è grafica, derivata dal fatto che
hominem latino ha la H iniziale);
 Àlbar Fañez è anch’egli personaggio storico, un militare, che nella finzione letteraria divenne nipote di
Rodrigo Diaz, del Cid: l’epica era ricca di nipoti e zii, a partire da Carlo e Rolando. Nel Medioevo, il rapporto
zio-nipote era molto forte, soprattutto a livello feudale: abbiamo molte attestazioni di nobili che mandarono
il primo figlio, anche per l’educazione cavalleresca, dallo zio;
 Castiella presenta normale dittongo: l’etimologia è castella, neutro plurale di castellum (< castra, per
diminutivo). In castella, la E breve dittonga anche se in sillaba chiusa; nell’evoluzione del castigliano, questi
dittonghi, davanti a suono palatale, tendono poi a ridursi (Castiella > Castillia);
 In ondra (deverbativo < honorare, con sincope e consonante epentetica), la consonante epentetica, la D, è
omorganica, perché condivide con la N la caratteristica di essere una dentale;
 La X va letta SC nell’antico spagnolo;
 Il Cid, esiliato, prende i suoi uomini e se ne va: in città, a Burgos, donne e uomini escono per vederlo,
affacciandosi alle finestre. Gli abitanti di Burgos sanno che il Cid è un valoroso combattente, sanno o
intuiscono che il re si sta comportando male nei suoi confronti, che sta sbagliando nei suoi confronti .
Ciononostante, gli abitanti di Burgos non accoglieranno il Cid, non gli permetteranno di fermarsi nella loro
città, perché il re ha fatto loro sapere che il Cid è esiliato: sebbene ritengano che un buon vassallo dovrebbe
avere anche un buon signore (e il re non lo è), essi non hanno il coraggio di andare contro il volere del re
medesimo. Gli abitanti non si spingono oltre una velata critica, oltre una considerazione negativa nei
confronti del re (e positiva nei confronti del Cid). I vassalli giuravano sempre fedeltà al loro feudatario, ma il
legame era reciproco, biunivoco: se il vassallo giurava fedeltà al signore, il signore giurava fedeltà al
vassallo (ovviamente, il feudatario, il re poteva infrangere le regole perché era più potente, ma da un punto
di vista almeno teorico così era). Uno dei simboli del giuramento vassallatico era la copertura della stretta di
mano tra vassallo e feudatario con un panno prezioso (giuramento di fedeltà reciproca che nessuno dei due
dovrebbe infrangere);
 Dios si pronuncia dìos, non diòs;
 Possiamo pronunciare, al massimo, con fricativa sonora mujeres e ojos;
 Varones (nello spagnolo medievale, la pronuncia è fricativa, anche se in posizione iniziale) < germanico * baro,
“uomo libero”, latinizzato alla fine dell’impero. Nelle lingue iberoromanze, portoghese e spagnolo, abbiamo
due parole assolutamente identiche, una con significato di “uomo” e una con significato di “barone” (senso
feudale del termine). Ciò che ci permette di distinguere le due parole è la grafia (perchè, nello spagnolo
moderno, la pronuncia è occlusiva in entrambi i casi, anche con grafia V): sp. varon, “uomo” – baron,
“barone”; pg. varao – barao;
 Recabdo va probabilmente pronunciato recaudo;
 Ganades si legge probabilmente gañades;
 Fincò, fecha e fincava si leggono con la F iniziale muta;
 In exiénlo ver, il lo enclitico è obbligatoriamente enclitico, perché viene rispettata la legge di Tobler-Mussafia.
Adolf Tobler (studioso svizzero-tedesco) e Adolfo Mussafia (studioso italiano, che scrisse per la maggior parte
in austriaco) furono due studiosi vissuti nell’Ottocento che, indipendentemente uno dall’altro, scoprirono che
nelle lingue antiche una frase o un verso non iniziavano mai con una particella atona (quasi sempre un
pronome). Nella lingua poetica, questa regola si protrasse molto a lungo (cfr. il leopardiano Movesi il
vecchierel canuto e bianco);
 La quarta lassa è molto più lunga delle precedenti: i cittadini di Burgos vorrebbero accogliere il Cid, ma non
osano, perché quella notte è arrivata una lettera del re stesso che affermava che, qualora avessero accolto
il Cid, avrebbero perso tutto, le loro ricchezze, gli occhi, sarebbero stati uccisi (avrebbero perso i corpi) e
avrebbero perso le almas (sarebbero stati dannati). Il Cid si reca ad una casa che possedeva a Burgos, ma

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trova la porta sbarrata: percuotendo la porta, esse non cede perché ben serrata (concetto ripetuto più di una
volta). Una bambina di nove anni, unica tra tutti, ha il coraggio di parlare al Cid, dicendogli che non possono
ospitarlo perché il re lo ha proibito. Con un procedimento molto tipico dei poemi epici, vengono ripetuti
concetti già affermati all’inizio della lassa: viene così ribadito il concetto che i cittadini di Burgos
patteggerebbero per il Cid, ma non possono, perché il re li ucciderebbe. Il Cid, constatato che il re non vuole
dargli la grazia, si accampa con il suo seguito presso un torrente. Addirittura, l’autore afferma che i cittadini
di Burgos non volevano vendergli nemmeno da mangiare;
 Conbidarle ien presenta le enclitico: la forma è quella di un condizionale separato (tipica delle lingue antiche),
“lo accoglierebbero di buon grado”; conbidarien è separato nei suoi due elementi (infinito latino + habebant);
 Noche è un caso di evoluzione condizionata del vocalismo tonico: dovremmo avere un dittongo, nueche, ma
la palatale chiude la vocale tonica ed impedisce ad essa di dittongarsi;
 Palabra, “parola” < parabolam; in questo caso, abbiamo la sincope della parola sdrucciola, la caduta della
vocale atona, parabla. Si verifica poi una metatesi (una doppia metatesi, probabilmente, perché cambiano
entrambe le consonanti), per cui dall’origine parabla si arriva a palabra: le due liquide, laterale e vibrante, si
scambiano di posto per facilitare la pronuncia. La B, inoltre, spirantizza (fricativa bilabiale);
 Llegar, “arrivare” < plicare, “piegare”. Arriviamo a questa evoluzione semantica da “piegare” ad “arrivare”
grazie al linguaggio marinaresco: arrivando in porto, si piegano le vele. Piegare le vele, pertanto, era sinonimo
di arrivare in porto. In romeno, lo stesso verbo, a plicà (la A in romeno indica sempre l’infinito del verbo,
come il to inglese), significa “partire”: probabilmente, gioca qui un’altra immagine del linguaggio militare, in
cui le tende vengono ripiegate quando si parte;
 Le lingue iberiche conservano la parola miedo < mĕtum, tipica delle lingue classiche, a favore di pavorem (con
caduta della V in posizione intervocalica; l’italiano viene da *pavuram, in cui il suffisso dell’astratto orem è
stato sostituito da un suffisso dell’altrettanto astratto uram; cfr. pagüra in alcuni dialetti lombardi, con G
epentetica o estirpatrice di iato);
 Luego < locum, con passaggio da sostantivo ad avverbio, “subito”, “immediatamente”;
 In fecha < factam (evoluzione del gruppo palatale CT latino che ha indotto la A a chiudersi), probabilmente, la
F è un latinismo grafico;
 Glera < glarea, “ghiaia” è una voce dotta per il mantenimento di GL, che avrebbe dovuto dare come normale
evoluzione dello spagnolo una L; il resto dell’evoluzione della parola è spontaneo: la E in iato diventa uno jod;
il gruppo RJ diventa sostanzialmente R; la E si spiega per l’influenza dello jod, che chiude la vocale tonica del
latino;
 Vianda, “vettovaglia” (senso generico di “cose da mangiare”) < vivanda: cfr. fr. viande, “carne”, con passaggio
da un significato generale ad uno preciso, specifico, di una sola vivanda, la carne.

15. LAIS, MARIE DE FRANCE

Maria di Francia è una delle poche scrittrici medievali, ma non sappiamo molto di lei (cfr. cappello introduttivo
dell’antologia). Ella, all’interno di alcune sue opere, si firma. Ci ha lasciato sostanzialmente tre opere, la più
importante delle quali sono i Lais, costituita da dodici racconti brevi (narrativa breve; dodici racconti di tipo
arturiano). Abbiamo poi una raccolta di Fables di stampo esopiano e una terza opera che si intitola Espurgatoire de
Saint Patrice. In tutte e tre le opere, Maria si firma: in uno dei Lai, il Lai de Guigemar, Marie esplicita il proprio nome
(secondo alcuni studiosi, il nome Marie sarebbe lo pseudonimo di uno scrittore uomo, ma è un’ipotesi ormai caduta: è
sicuramente una persona reale che ha scritto e firmato quelle opere, anche se la sua biografia è sconosciuta.
Dobbiamo inoltre considerare che Maria era un nome estremamente diffuso, per nulla desueto). Maria, all’inizio dei
versi finali delle Fables, specifica il fatto di essere de France (alcuni studiosi, nei tempi passati, sottolineano come la
specificazione della provenienza sia un aggancio culturale per far capire che l’autrice si rifà ad una cultura
genericamente francese medievale nella scrittura delle sue opere): nel Medioevo (siamo qui nel pieno XII secolo,
intorno alla metà del XII secolo), la Francia come la intendiamo noi non esisteva. Quando, nel Medioevo, si usava

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France, si identificava un territorio ben preciso: quello della regione intorno a Parigi (Île-de-France, che oggi coincide
praticamente con Parigi), città che sarebbe poi divenuta il centro della monarchia francese. Due sono le ipotesi che
possono spiegare quella specificazione de France:
1. Aggancio di tipo culturale  la tradizione letteraria cui la scrittrice si rifà è quella in lingua d’oïl:
sicuramente, a quell’epoca (metà del XII secolo), la letteratura francese aveva già dato segni importanti
della propria esistenza. Quando Maria di Francia scrive, verosimilmente, Chretien de Troyes non ha ancora
scritto i suoi romanzi. Esistono già tuttavia prove letterarie importanti, come il Roman de Brut di Wace,
terminato nel 1155 (come ci dice l’autore stesso);
2. Maria si trova altrove  più probabilmente, Maria sottolinea di essere di Francia perché si trova altrove: è
originaria di quella zona, pur non trovandosi lì. Ella si trova verosimilmente nel sud dell’Inghilterra, perché
le sue opere hanno una fortissima patina linguistica anglo-normanna. Addirittura, si è ipotizzato che Maria,
autrice di quelle tre opere, possa essere stata la sorella minore di Thomas Becket, antagonista di Enrico II
d’Inghilterra, eletta badessa del monastero di Barking nel 1173.
Nel Medioevo, non è così infrequente che un autore si firmi: al di là del fatto che non sappiamo se Per Abbat sia
l’autore del Cid o semplicemente il copista o il rimaneggiatore, anch’egli messe il suo sigillo, il suo nome alla fine
dell’opera. Non sappiamo se l’autore della Chanson sia quel monaco Turoldo che mette il suo nome alla fine
dell’opera, ma di fatto egli si firma nell’ultimo verso dell’opera. Chretien de Troyes, più grande romanziere medievale,
mette il suo nome in più di un’opera che ha scritto. Il fatto che Maria abbia sigillato con il suo nome tutte e tre le opere
fa capire che non si tratti di un nome fittizio, ma di una persona reale, di una donna che ha effettivamente scritto
quelle opere.
I dodici racconti brevi contenuti nei Lais sono di argomento arturiano: le avventure che Maria racconta nei Lais,
quasi sempre amorose, si rifanno al ciclo arturiano, si svolgono alla corte di re Artù o vedono come protagonista un
cavaliere che si sa frequentare quella corte (per esempio, è frequente il tema dell’amore tra un cavaliere e una fata).
Tranne che in un caso, non ci sono nomi noti (come potrebbero essere Artù, Lancillotto, Merlino): in un caso, i
protagonisti non sono prettamente arturiani, ma più genericamente bretoni. L’altro grande ciclo letterario della
narrativa francese medievale è quello bretone, relativo a Tristano e Isotta: un episodio narrato da Maria, assente in
altri racconti di materia bretone, ha proprio come protagonisti Tristano e Isotta . I testi più antichi della vicenda di
Tristano e Isotta, riferibili al XII secolo, sono due romanzi giunti a noi in forma molto frammentata, oltre ad altri due
brevi racconti. La grande fortuna avuta dalla vicenda ha determinato lo sviluppo di altri romanzi, anche in lingue non
romanze (per esempio, in tedesco medievale). Alla metà del XIII secolo, con i grandi romanzi in prosa, i due grandi
filoni si fusero, e Tristano divenne uno dei cavalieri della Tavola Rotonda.
Il metro del Lais sono coppie di octosyllabes a rima baciata, metro tipico della narrativa.
Nel prologo dei Lais, Maria afferma che chi ha avuto da Dio il dono dell’eloquenza non deve tacere , non deve stare
zitto, ma deve mostrarsi volentieri, deve avere la volontà di mostrare, di condividere questo suo dono. Quando un
bene è molto ascoltato, comincia a diffondersi, quando viene lodato da parte dei più ha raggiunto il suo scopo, ha
fatto sbocciare completamente i suoi fiori. Questo concetto non è un’invenzione di Maria: è un tema già biblico
(Ecclesiaste, 20, 32; Mt. 5, 14-15  che utilità c’è in un tesoro che viene tenuto nascosto? In una sapienza che non si
esprime?). Il prologo dei Lais è programmatico: Maria ha scritto e ha voluto diffondere ciò che conosceva per
arricchire anche i suoi lettori ed ascoltatori. A questo concetto si lega il successivo: Prisciano (Precïens) era uno dei
grandi grammatici latini, conosciuto ed assai apprezzato nel Medioevo. Il tema è quello degli antichi e dei moderni
elaborato magistralmente di Bernardo de Chartres (cfr. la testimonianza di Giovanni di Salisbury) con l’immagine dei
nani sulle spalle dei giganti. I nani sono i contemporanei, e i giganti gli antichi: essere sulle spalle dei giganti significa
riconoscere l’enorme cultura degli antichi e riconoscere che i moderni non possono prescindere da loro; inoltre,
salendo sulle spalle dei giganti, i nani riescono a vedere più lontano dai giganti stessi . La cultura che i moderni
acquisiscono dagli antichi permette ai moderni di guardare ancora più lontano rispetto agli antichi (il problema della
cultura pagana degli antichi: come poteva la cultura cristiana accettare quella pagana degli antichi?).
Gli antichi, come afferma Maria, avevano l’abitudine di scrivere in modo oscuro, perché sapevano che i posteri
avrebbero avuto l’occasione di capire davvero i contenuti profondi delle loro opere studiandole, glossandole e
aggiungendo la loro conoscenza (gloser è un verbo tecnico; le glosse potevano essere traduzioni di singole espressioni

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in una sorta di rudimentale vocabolario dal latino classico a quello volgare, o addirittura ad una lingua romanza; le
glosse potevano anche essere commenti, spiegazioni del significato dei testi, come intende in questo caso Maria).
L’interpretazione del testo era un punto molto importante nel Medioevo: essa era lasciata praticamente solo al testo
sacro, che doveva essere glossato, spesso con interpretazioni di tipo simbolico (interpretazione simbolica o allegorica
dell’Antico Testamento come prefigurazione del Nuovo Testamento). Il continuo capire che quelle opere avevano
sempre qualcosa di nuovo da dire le avrebbe preservate dalla dimenticanza. Per filosofo, nel Medioevo, si intende il
dotto in generale.
Dal v. 23 inizia una seconda parte del prologo: Maria passa ad un secondo tema, legato al primo. Chi vuole difendersi
dal vizio, dall’errore, deve fare un’opera gravosa, impegnativa, perché, grazie a ciò, può allontanarsi e dimenticare,
abbandonare un grande dolore. De latin en romaunz traire significa tradurre dal latino ad una lingua romanza: il
riferimento tecnico è al volgarizzamento (mentre traduzione si utilizza per la trasposizione da una lingua romanza
all’altra, la traduzione dal latino alla lingua romanza si chiama più facilmente, almeno in quest’epoca,
volgarizzamento). La mentalità medievale era molto diversa dalla nostra: per un autore medievale, citare un’opera
antica significava attribuire alla propria credibilità; la citazione dell’auctoritas permetteva all’opera di acquisire
maggiore spessore (il nostro è un feticcio dell’originalità, al contrario della mentalità medievale).
Maria di Francia, inizialmente, pensò di tradurre dal latino: tuttavia, era un’attività sterile, perché già in molti si
erano prodigati in quest’attività. Non si tratta insomma di un classico prologo in cui l’autore racconta in breve
quanto narrerà nella sua opera. Abbandonata I’idea della traduzione (che compie nel Purgatorio di San Patrizio e
nelle Fables), Maria intraprende la scrittura dei Lais, racconti (forse di origine bretone e cantati con
accompagnamento musicale) che ha sentito narrare: si tratta di racconti trasmessi oralmente (coloro che li
raccontavano, perché non se ne perdesse la memoria, li avevano sentiti a loro volta) , che ella ha deciso di mettere in
rima. È un’opera gravosa, pesante, molto difficile, ma di grande novità rispetto ai volgarizzamenti (in cui lei,
comunque, si era cimentata, per esempio nell’Espurgatoire de saint Patrice; i Lais sarebbero infatti l’opera della
maturità di Maria). Un’operazione tanto ambiziosa non può non avere un destinatario, un dedicatario altrettanto
alto: Maria dedica i Lais ad un nobles reis, di cui non conosciamo l’identità. Pensando che Maria di Francia si autociti
perché si trovi altrove rispetto alla Francia e considerando la forte patina anglo-normanna delle sue opere, non
possiamo non arrivare alla conclusione che il nobles reis sia il re che, poco dopo la metà del XII secolo, era sul trono
nel Sud dell’Inghilterra, Enrico II Plantageneto. Enrico II era il marito di Eleonora d’Aquitania (probabilmente una delle
donne più fenomenali del Medioevo, divenuta moglie di Enrico II dopo essere stata sposata con Luigi VII di Francia. Ella
è nipote di Guglielmo IX d’Aquitana, primo trovatore, uomo addirittura più potente del re di Francia) e il padre, tra gli
altri, di Riccardo Cuor di Leone e Giovanni Senza Terra.

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