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STORIA DEILE RETLGIONI
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DEI PECCATI
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PARTE PRIMA
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E > TICA - GIAPPONE - CINA
DELLO STESSO AUTORE
La Religione di Zarathustra nella storia religiosa dell’ Iran (“ Sto-
ria delle Religioni,,, vol. I), Bologna, Zanichelli, 1920.
La Religione nella Grecia antica fino ad Alessandro (“ Storia delle
Religioni,, vol. III), Bologna, Zanichelli, 1921.
I Misteri: Saggio di una teoria storico-religiosa (“Storia delle
Religioni,,, vol. VII), Bologna, Zanichelli, 1924.
Dio: Formazione e Sviluppo del Monoteismo nelia Storia delle Reli-
gioni, vol. I: L’ Bssere celeste nelle credenze dei popoli pri-
tivi. Roma, Societa Editrice “ Athenaeum,, 1922.
La Religione primitiva in Sardegna, Piacenza 1912.
Svolgimento e Carattere della Storia delle Religioni (Lezione inau-
gurale), Bari, Laterza, 1924.
La Mitologia Giapponese (“ Testi e Documenti per la Storia delle
Religioni,, vol. I), Bologna, Zanichelli, 1929.
STORIA DELLE RELIGIONI
A CURA DI
RAFFAELE PETTAZZONI
VOLUME OTTAVO
RAFFAELE PETTAZZONI |
LA
SONFESSIONE DET PECGAT
PARTE PRIMA
PRIMITIVI - AMERICA ANTICA - GIAPPONE - CINA
BRAHMANESIMO - GIAINISMO - BUDDHISMO
Une personne me disait un jour qu’ il
avait une grande joie et confiance en sor-
tant de confession,....
PASCAL, Pensées, 530.
BOLOGNA
NICOLA ZANICHELLI
EDITORE
L’ EDITORE ADEMPIUTI I DOVERI
ESERCITERA I DIRITTI SANCITI DALLE LEGGI
Officina Grafica A. Cacciari - Bologna, III, 1929,
PREFAZIONE
La Confessione dei. peccati quale si pratica nelle
varie religioni’ é qui studiata per la prima volta in
modo sistematico. La ricerca, condotta nel senso
della storia delle religioni®, tende a disegnare lo
svolgimento della pratica confessionale in necessaria
connessione con lo svolgimento della idea religiosa
di peccato. Anzi che distribuita in uno schema tipo-
logico, la materia é lasciata entro i quadri naturali
del luogo e del tempo, cid che conferisce alla no-
stra trattazione un andamento diverso da quello del-
Vopera di F. Heiler dedicata alla Preghiera*. I qua-
dri - cioé i Capitoli - sono raggruppati in due Vo-
lumi o Parti in modo che la Prima, dopo studiate le
forme elementari della confessione presso i popoli
‘primitivi’ e le relative sopravivenze nelle antiche
1 La cosa é abbastanza nota, poiché se ne trova l’eco anche
nella letteratura contemporanea : nel Romanzo di G. A. Borgese
intitolato Rubé (Milano 1921) si legge (a p. 315): « La confes-
sione é un istituto sacro di tutte le religioni, e non solamente
della cattolica, come a torto si pretende..... ».
2 Cfr. R. Pettazzoni, Svolgimento e carattere della Storia
delle Religioni*(Lezione inaugurale), Bari 1924.
3 F. Heiler, Das Gebet: Eine religionsgeschichtliche und
religionspsychologische Untersuchung, Miinchen rg19, 5 1923.
be PREFAZIONE
religioni Americane, tratta della confessione nelle re-
ligioni del Giappone, della Cina e dell’India, cioé in
quella vasta area che ¢ dominata dal Buddhismo, -
mentre la Seconda studiera la confessione principal-
mente nelle religioni del mondo antico, cioé in quel-
Valtra grande area storico-religiosa che ebbe il suo
centro di gravitazione nel bacino del Mediterraneo e
fini per essere unificata dal Cristianesimo.
Cristianesimo e Buddhismo segnano appunto,
ciascuno secondo il proprio genio, un superamento
della concezione primitiva del peccato e del valore
primitivo della confessione. Ma questo valore pri-
mitivo, che é un valore magico, persiste in altre
religioni allo stato di sopravivenza, e ricompare poi
anche in seno al Buddhismo stesso e allo stesso Cri-
stianesimo in momenti ulteriori del loro sviluppo.
Da queste sopravivenze e ritorni riesce confermata
la teoria qui svolta delle origini magiche della con-
fessione dei peccati in relazione con la magia della
parola. Come, dunque, in altre mie ricerche - special-
mente in quella su gli esseri supremi celesti dei pri-
mitivi in rapporto con le divinita maggiori del po-
liteismo e con le divinita uniche del monoteismo’ -,
é qui applicato il principio metodologico che non
soltanto dalle forme elementari della religiosita vien
1 R. Pettazzoni, Dio: Formazione e sviluppo del Mono-
teismo nella Storia delle Religioni, I: L’essere celeste nelle
credenze dei popoli primitivi, Roma 1922; La formation du
monothéisme, Revue de Vhistoire des religions, 1923, t. 88;
Studi recenti in rapporto con la teoria degli esseri celesti e
del monoteismo, Studi e Materiali di Storia delle Religioni,
3, 1927; art. ‘Monotheismus u. Polytheismus’ in « Die Religion
in Geschichte und Gegenwart » 2. Aufl. III (1929).
3
PREFAZIONE XI
luce alle religioni pit elevate, ma anche - viceversa -
le religioni pitt progredite ci aiutano ad intendere
la religiosita primitiva.
L’orizzonte della ricerca é vasto. La principale
difficolta @ costituita dalla scarsita di lavori prepa-
ratorii. Gli svolgimenti particolari della confessione
nelle singole religioni hanno dovuto in gran parte
essere costruiti insieme con la teoria generale. Spe-
cialisti’ avrebbero potuto far meglio, ciascuno nel
proprio campo. Ma non pochi aspetti, anche parti-
colari, soltanto nella veduta d’insieme hanno potuto
venire alla luce, cid ch’é appunto l’ufficio e la ra-
gion d’essere della ‘storia delle religioni’. A quegli
specialisti che su qualche singolo punto di loro com-
petenza mi fornirono schiarimenti e indicazioni - per
questo primo Volume i proff. K. Florenz di Am-
burgo, G. Vacca di Roma, H. Hackmann di Am-
sterdam, M. W. De Visser di Leida - esprimo il mio
ringraziamento.
La materia del Primo Volume fu gia quasi tutta
trattata in una serie di articoli pubblicati negli
« Studi e Materiali di Storia delle religioni »*. Tali
articoli sono stati qui sottoposti ad una completa re-
visione e in grandissima parte ad un radicale rifa-
cimento.
Delle mie ricerche ebbi modo di riferire in varie
occasioni: se ne trovano le tracce negli « Atti del
xx1r Congresso degli Americanisti» (Roma 1926),
Roma 1928, vol. 1 277-288, nel « Congrés d’ Histoire
du Christianisme: Jubilée Alfred Loisy» (Parigi
1927), Paris 1928, vol. 1 96-98, e negli Atti (non an-
1 2. 1926, 44-84, 163-229; 3. 1927, 55-81, 157-1973 4. 1928, 28-48.
ubblicati
maria @ comparsa sotto V’articolo ‘Busswesen’ nella _
Enciclopedia tedesca « Die Religion in Geschichte Ri
und Gegenwart», 2° ediz., vol. 1, Titbingen 1927,
1388-1393; un’altra vedra la luce nell’ « Enciclopedia
Italiana », all’articolo ‘Confessione dei peccati’.
Roma, dicembre 1928.
7
Raffaele Pettazzoni
SOMMARIO
PERRIOA
LOM Tiy) ie ice (a os an ee, | ee DD garVE Fk
EMEILOLO =| Primitivi.<) ssp eeu ie Gholi 1-74
A. Africa: 1. Dagari, 2. Ewe, 3. Bashilange,
4. Bechuana, 5. Kikuyu, 6, Baganda, 7. Wa-
kulwe, 8. Malgesci.
B. Malacca e Indonesia: 1. Penisola di Malacca,
2. Sumatra.
C. Melanesia: Sulka.
D. America Settentrionale : 1. Eskimesi, 2. Din-
neh (Athapaski), 3. Californiani, 4. Algon-
kini, 5. Irokesi, (6. Yuchi), 7. Huichol.
E. America Meridionale: 1, Kagaba ed lIjca,
2. Brasiliani.
F. Interpretazione.
CAPITOLO II - America antica . - + -.». + + » 757169
A. Messico: 1. Descrizione, 2. Interpretazione,
3. Svolgimento.
B. America Centrale: 1. Chiapas, 2. Yucatan,
3. Guatemala, 4. Nicaragua.
C. Pert: 1. Descrizione e interpretazione,
2. Svolgimento.
CAPITOLO III - Giappone . . » 170-202
. Shintoismo, 2. I Vamabushirega u Tenriky6.
XIV SOMMARIO
CaPITOLoO IV - Cina PAB il PP- 203-228
. La confessione del sovrano, 2. La confes-
sione e le origini della chiesa taoista, (3. Tao-
ismo monastico).
CAPITOLO V - Brahmanesimo . 229-261
. I Veda, 2. I Brahmavya, 3. I Sétra, 4. ees
fel di Manu.
CaPITOLo VI - Giainismo . 262-283
CapiToLo VII - Buddhismo 284-355
. India, 2,. Cina, 3. Tibet, 4. aeeeuie.
LA
PARTE PRIMA
Mf.
Primitivi.
aN) PANTENTRIELOIA
I. DAGARI.
Presso i Dagari (Negri dell’Alta Guinea), quando
una donna é vicina a partorire e ha le doglie, con-
fessa i suoi peccati a suo marito, specialmente i
suoi peccati carnali, cioé se l’ha tradito e con chi:
se per vergogna o altro non fa questa confessione,
non riuscira a sgravarsi e morra, mentre, se con-
fessa, partorirA immediatamente'.
2. EWE.
Presso gli Ewe (Negri del Togo meridionale, Co-
sta di Guinea), quando una donna desidera aver fi-
glioli, il marito la conduce dal sacerdote della Terra,
uno dei principali trowo (numi) della religione de-
gli Ewe. Ivi marito e moglie s’inginocchiano pog-
giando l’avambraccio al suolo e toccando con la testa
il terreno. I] sacerdote rivolge una preghiera d’oc-
casione al tro della Terra; poi, accomiatando i visi-
tatori, suggerisce all’uomo di interrogare, quando
sara a casa, la sua donna, chiedendole se abbia avuto
di nascosto qualche relazione illecita. Se cosi 6, e
R. PETTAZzZONI, La Confesstone dei peccati, 1, I
2 CAPITOLO I
la donna non vuol dirlo, essa morra prima di intro-
durre la mano nel bacino sacrificale del tro. Se an-
nuisce, il marito l’accompagna di nuovo dal sacer-
dote, al quale allora essa confessa le sue colpe
segrete; se tace qualche cosa, morra. Dopo la con-
fessione il sacerdote versa dell’acqua in una specie
di catino, dove si trovano certi semi che conferi-
scono all’acqua una particolare virtt; indi fa ingi-
nocchiare la donna e con quell’acqua l’asperge; poi
si allontana, e allora la donna si lava con la stessa
acqua: da quel momento essa é sacra al tro. Du-
rante la gravidanza dovra ripetere le abluzioni e por-
tare al sacerdote due volte la settimana della farina
destinata al tro. Nato il bambino, viene consacrato
anch’esso al tro”.
Altro caso di confessione presso gli Ewe. Tag-
bamiyi é il nume (tro) principale presso la tribti dei
Ve. La invocazione indebita di questo nume - p. es.
quando uno, avendo rubato qualche cosa, invoca per
nome il tro per protestare la sua innocenza - é pu-
nita con la morte pit o meno immediata. Quando
uno ha semplicemente pronunziato il suo nome e
nega, non tarda molto ad essere colpito da malattia;
in tal caso, ai primi sintomi di malore egli si affretta
a dichiarare la sua colpa, scusandosi di aver invo-
cato il tro per sottrarsi alla vergogna. Allora i suoi
parenti mandano a chiamare il fattucchiere perché
allontani dall’infermo il tro. In presenza loro il fat-
tucchiere procede alla confessione dell’ infermo.
Sette volte questi confessa la sua cattiva
azione, perché sette volte il fattucchiere dice di
non avere ben capito. Finalmente il fattucchiere gli
impone un’ammenda e gli somministra una medi-
AFRICA 3
cina consacrata con cui il paziente deve lavarsi la
faccia. Cosi la colpa ¢ espiata’*.
Come si vede, in ambedue questi casi la confes-
sione é associata ad una abluzione’.
3. BASHILANGE.
Nel Congo, presso i Bashilange (Bantu occiden-
tali)®, quando un capo-tribti andava per la prima
volta, oppure tornava - p. es. dopo una ribellione -,
a fare omaggio al capo pitt potente, Kalamba, non
era ammesso alla sua presenza, se prima egli e le
persone del suo séguito non avevano sostato per
due giorni fuori del villaggio, prendendo successi-
vamente un bagno in due diversi corsi d’ acqua.
Dopo di cid i visitatori erano introdotti, completa-
mente nudi, nella residenza di Kalamba. Indi erano
ricondotti fuori e sottoposti all’ordalia del pepe, du-
rante la quale (cioé mentre si gettava loro del pepe
negli occhi) essi dovevano confessare tutti i
loro peccati, rispondendo a tutte le domande
che erano loro rivolte. Soltanto allora essi erano au-
torizzati a prender alloggio sul posto ed erano liberi
di restarvi fin che a loro piacesse.
Anche qui la confessione appare in qualche modo
connessa con un bagno-lavacro.
4. BECHUANA.
Presso i Bechuana (Bantu dell’Africa meridio-
nale)® si celebra una festa ‘ dell’anno nuovo’, senza
oa
di che non si puod procedere alla degustazione e
4 CAPITOLO I
consumazione del nuovo raccolto. Essa implica una
purificazione generale di tutti i membri della tribu.
La purificazione si fa col succo che si spreme - strin-
gendole nella mano - dalle foglie della pianta le-
rotse. Con questo succo prima si spalmano in varie
parti del corpo (specialmente sull’ombelico e sul
dito grosso del piede) i maschi adulti riuniti nel
grande kraal comune. Poi ciascuno di essi ne spal-
mera i membri della sua famiglia riuniti nel suo
kraal domestico. Ma intanto, nella notte successiva
alla purificazione dei capi-famiglia - nella quale cia-
scuno di essi dovrebbe giacere con la propria mo-
glie -, se la moglie di uno di loro ha avuto durante
V’anno qualche relazione illegittima, deve confes-
sarla al marito, avvertendolo di non accostarsi
a lei fino a che essa non si sia purgata delle colpe
commesse. La mattina seguente il padre del marito
fa venire un fattucchiere. Questi si procura una
pianta di fava fornita di radici e germogli, la me-
scola con qualche ‘medicina’ di cui egli solo co-
nosce la composizione, pone il tutto entro un vaso
e vi getta dentro alcune brace. Indi fa sedere per
terra la donna con le ginocchia rattratte sotto il
mento, ponendole sotto le gambe il vaso fumigante.
Il marito, che deve avere preventivamente dichia-
rato anch’egh alla moglie le sue eventuali infedelta.
coniugali (sebbene a queste non si annetta - a
quanto pare - grande importanza), si siede allo stesso
modo di fronte alla donna con le gambe pitt diva-
ricate. Al suffumigio segue un’altra operazione : ma-
rito e moglie si praticano ciascuno due piccoli tagli
sotto l’ombelico e si strofinano reciprocamente col
sangue che ne esce. Soltanto allora la donna é am-
AFRICA _ 5
messa a partecipare all’atto finale della festa di pu-
rificazione.
Anche qui la confessione é associata ad un trat-
tamento complesso (fumigazione, estrazione di san-
gue cui segue lo strofinamento col succo del le-
rotse), che corrisponde al bagno-abluzione presso
gli Ewe e presso i Bashilange.
Altre volte la pratica concomitante della confes-
sione consiste nella somministrazione di un eme-
tico’: p. es. presso i
5. KIKUYU.
Nella lingua dei Kikuyu (Africa orientale)® ‘pec-
eato’ si dice noki. Il noki trae con sé delle conse-
guenze gravi (sahu) - come decessi, malattie ed al-
tre calamita -, che sono trasmissibili, specialmente
di padre (o di madre) in figlio. Per evitarle biso-
gna rimuovere la causa, e cid si fa ordinariamente
confessando i propri peccati ad un fattuc-
chiere. Questi dal canto suo eseguisce una ceri-
monia atta ad espellere il peccato: il rito princi-
pale di essa consiste in un vomito simulato da parte
del penitente. Per cié da tahika che vuol dir ‘ vo-
mitare’ é venuto il termine che nella lingua dei
Kikuyu significa ‘ confessare’, kotahikio (propriam.
“sbarazzarsi’ dal peccato). E notevole che questa
specie di confessione si pratica per peccati di carat-
tere propriamente sacrale, come violazioni di tabu,
inosservanze di precetti rituali, e simili. Invece ai
“peccati’ di carattere morale e sociale (omicidio,
furto, ecc,) non si applica generalmente la confes-
6 CAPITOLO I
sione. Una forma speciale di confessione é
prescritta per 1’ adulterio: il suo carattere
particolare consiste in questo, che essa é piuttosto
una specie di confessione privata fatta dall’adultero
ad un suo conoscente od amico, - cid che basta, ad
ogni modo, per stornare le conseguenze del nokt.
6. BAGANDA.
I Baganda (Bantu dell’ Uganda, Africa orien-
tale)® usano fare offerte di pesci alla barca (allo spi-
rito della barca) su cui vanno alla pesca: se trala-
sciano tali offerte, la pesca non sara buona. I] pesce
é ucciso ed offerto entro la barca stessa, ed é poi
mangiato dai pescatori. Ma dal mangiarne é esclu-
so chiunque di loro abbia fatto qualcuna delle se-
guenti azioni proibite: abbia commesso adulterio,
si sia cibato di carni di animali, abbia mangiato
del sale, si sia spalmato con del burro o del grasso.
La trasgressione di queste norme é invisa al nume
Mukasa: il trasgressore deve fare ammenda. Ed
ecco in che consiste l’ammenda: il colpevole deve
andare al santuario di Mukasa, confessare le sue
colpe al sacerdote, ed eseguire cid ch’egli or-
dina di fare per purgarsi. Se si tratta di adulterio, il
fattucchiere, ricevuta la confessione dell’adultero, ri-
ferisce la cosa al marito tradito, al quale 1’adultero
deve offrire una festa, e il marito deve accettarla
rinunziando a punire gli adfilteri: cosi il peccato é
espiato, e la pesca sara buona.
AFRICA 7
7. WAKULWE.
Presso gli indigeni di Mkulwe (Lago Rukwa,
Africa Orientale)’® si pratica una specie di confes-
sione collettiva, fatta da tutti i membri della stessa
famiglia o parentado a cominciare dal capo (se an-
che il capo ha qualche cosa da confessare). Da un
mucchio appositamente preparato il capo-famiglia
prende una certa quantita di schegge di legno e di
paglia sminuzzata, e la pone sopra un ventilabro.
Poi dice: « Perdonami, o benigno Nguluwi'': io
non ho altri peccati». Segue 1’ enumerazione dei
singoli peccati (senza specificare nomi e circo-
stanze) :
«Io sono andato con una donna (s’intende: « ho commesso
adulterio ») ;
io ho ammaliato qualcuno;
io ho procurato un aborto;
(questi sono i peccati gravissimi; seguono i peccati
gravi:)
io son venuto meno ad un voto;
io non ho preso parte al sacrifizio (prescritto) ;
io ho battuto mio padre e mia madre;
io ho trascurato la parola del vecchio (cioé « di mio padre ») ;
io sono venuto alle mani con mio fratello;
io ho calunniato;
io ho desiderato andare con chi era mio prossimo parente
(peccato d’incesto);
io ho rubato......
Io non ho altri peccati. Io sono povero: che il benigno
Nguluwi mi protegga. Tutti i peccati se ne sono andati col
vento ».
A questo punto il capo-famiglia getta in aria il
contenuto del ventilabro verso ponente, dicendo:
8 CAPITOLO I
« Come il sole scompare in occidente senza tornare,
cosi anche i miei peccati se ne sono andati... senza
tornare ».
Indi l’uno dopo 1’altro si confessano tutti i pre-
senti. La confessione dev’essere sincera (non fatta -
‘con doppio cuore’); dev’ essere, altresi, completa.
Essa si pratica specialmente quando qualche
membro della famiglia cade ammalato gravemente
(p. es. di vaiolo, nel qual caso si invoca, oltre Ngu-
luwi, anche il demone del vaiolo, Mwawa).
Se la mattina dopo il malato non é migliorato,
si va a consultare il fattucchiere (singanga), il quale
procede allora ad una cerimonia per sapere dagli
spiriti chi dei partecipanti alla confessione abbia ta-
ciuto qualche suo peccato: avuta l’indicazione, 1’in-
dividuo cosi designato deve ripetere la confessione
aggiungendo qualche nuovo peccato a quelli del-
‘
l’elenco. Se il malato non migliora ancora, é segno
che la malattia non é conseguenza di qualche pec-
cato: essa sara, invece, dovuta a qualche spirito mal
disposto. Si procede quindi ad una nuova consulta-
zione per sapere quale é questo spirito.
La confessione é praticata, sempre collettiva-
mente, anche in altre circostanze critiche, p. es.
quando una, donna si trova in grande travaglio per
le doglie del parto (cfr. Dagari, p. 1), o quando una
comitiva deve attraversare un corso d’acqua in un
punto pericoloso.
C’é anche qualche caso di confessione indivi-
duale: p. es. da parte di un capo-famiglia che stia
per intraprendere un viaggio.
In generale la confessione é praticata - con
“AFRICA ! 9
grande serieta - dagli adulti, mentre non si con-.
fessano 1 giovani non coniugati.
Quando uno ha commeésso qualche peccato trop-
po grosso ed ha ritegno a confessarlo, pud prendere
un gambo d’erba e andare a deporlo nella barca:
con cid egli assolve all’obbligo, che ha, di confes-
sare di aver commesso una colpa, pur evitando di
dire quale essa sia. Si noti che anche nella recita-
zione dell’elenco dei peccati da parte del capo-fami-
glia si enuncia il peccato senza riferire le circostanze
in cui é stato commesso.
8. MALGASCI.
La confessione delle partorienti (cfr. Dagari e
Wakulwe) si pratica anche presso una popolazione
del Madagascar (costa orientale), gli Antambahoaka.
Quando una donna ha le doglie-e si fa venire il fat-
tucchiere, questi finisce, di solito, per dichiarare che
la paziente non potra sgravarsi se prima non abbia
confessato qualche colpa segreta ch’essa deve aver
commesso (p. es. una relazione incestuosa con un
fratello).
Sempre nel Madagascar i balenieri, prima di
mettersi in mare, dovevano osservare il digiuno,
l’astinenza dai liquori e la castita per un periodo di
otto giorni; inoltre, usavano confessarsi fra loro
i falli pit’ segreti; e se si trovava che qualcuno
avesse commesso alcun che di straordinariamente
grave, quegli era escluso dalla spedizione. E evidente
- Yanalogia di questo costume con quello dei Baganda
(v. sopra a p. 6)’.
Io CAPITOLO I
B). MALACCA E INDONESIA.
I. PENISOLA DI MALACCA.
Presso parecchie trib Semang (Negrito, pigmei)
e Sakai (Senoi, pigmoidi) della penisola di Malacca,
e precisamente - da nord a sud - presso i Kensiu e
Kenta, Jahai e Jarun, Sabubn e Menri, Ple-T'emiar,
Semai, Batek, si pratica un rito caratteristico e
sostanzialmente uniforme’®: all’ avvicinarsi di un
temporale e specialmente al primo rumoreggiare del
tuono, uno o pit individui con una punta di bambu
od altro istrumento si fanno un taglio in una o in
ambedue le gambe nella regione del polpaccio, e
raccogliendo con lo stesso arnese il sangue sgorgato,
lo mescolano con acqua entro un ricettacolo di bam-
bu, e di questa miscela versano prima un poco per
terra e il resto poi scagliano verso il cielo in tutte
le direzioni‘**. Pare che soltanto in certi casi eccezio-
nali loperazione sia eseguita da tutti gli individui
di una data stazione, p. es. quando uno di essi é
stato sbranato da una tigre (Menri), oppure quando
ha avuto luogo un omicidio (Sabubn). Di regola
sono soltanto alcuni individui (prima le donne e
poi gli uomini, ma non sempre - a quanto pare - e
non presso tutte le trib) che eseguiscono il rito, e
precisamente coloro che si sentono colpevoli di qual-
che peccato, cioé di qualche infrazione alle norme
vigenti nella trib. All’osservanza di queste norme
vigila |’ essere supremo - Karei, Ta Pedn, Keto,
Enku, secondo le varie tribu -, il quale, essendo per
sua natura un essere celeste’*, naturalmente pre-
MALACCA II
siede ai temporali, e nel tuono fa sentire la sua mi-
naccia. Allora appunto si ricorre alla estrazione e
spargimento del sangue, per allontanare o far ces-
sare il mal tempo, credendosi che altrimenti segui-
rebbero inondazioni e rovine e addirittura il fini-
mondo, mentre il rito cruento vale a placare il nu-
me irato. Per cid, anche, il sangue - cioé la miscela
di acqua e di sangue - é lanciato verso il cielo, es-
sendo appunto destinato all’essere celeste, tranne la
piccola parte che é versata per terra, perché de-
stinata appunto alla divinita della terra, Manoid o
Takel, generalmente concepita come la moglie del-
l’ essere celeste. Dopo che un primo individuo ha
eseguito su di sé l’operazione, gli tien dietro un al-
tro, e cosi via fin che il temporale cessi (Kensiu):
ma |’ operazione pud essere eseguita anche da pit
persone contemporaneamente (Jahai). Presso i Sa-
bubn, nel caso citato di un omicidio, se dopo 1’estra-
zione generale del sangue il temporale non cessa,
l’omicida é ucciso, squartato, e il suo sangue é git-
tato verso il cielo. Se nessuno dei membri della sta-
zione ha qualche peccato sulla coscienza (gli ospiti-
forestieri eseguiscono il rito per conto loro [Kensiu]),
l’ estrazione del sangue non ha luogo e si lancia
verso il cielo soltanto un po’ di cenere presa dal fo-
colare (Ple).
I numerosi peccati (‘peccato’ si dice nei lin-
guaggi delle varie tribti lawaid, hmoid’n, telaidn,
terlaid, mifeg) che danno luogo all’ estrazione del
sangue sono per la maggior parte: a) violazioni di
norme relative a certi animali (le specie variano da
tribti a tribd), dei quali alcuni - considerati come i
compagni e ministri dell’essere supremo - non deb-
12 CAPITOLO I
bono essere tormentati né uccisi (il tigre, una specie
di vespa nera, la mignatta, certe specie di uccelli,
il picchio, la libellula), e ad altri non si deve man-
care di rispetto (la scimmia - in certe tribt: solo al-
cune specie di scimmie -, varie specie di mignatte,
il cane, il gatto, certi serpenti, certe farfalle, il mil-
lepiedi, il cervo, la testuggine); b) trasgressioni ad
-una quantita di norme di vario genere, come: attin-
ger acqua dal fiume con un vaso di terra (si deve
adoperare un recipiente di bambu, e se si adopera
il vaso, allora un po’ di sangue va gettato anche nel
fiume); specchiarsi all’aperto, alla luce del sole; par-
lare mentre gridano certi determinati uccelli; gio-
eare con uova di uccelli; guardare quando dei cani
si accoppiano; commettere adulterio (Kenta; non
presso i Sabubn); commettere 1’ atto sessuale di
giorno; se i genitori dormono troppo vicini ai figli
di sesso diverso gid abbastanza grandi; se contrag-
gono matrimonio persone strettamente apparentate
(in primo o in secondo grado). Ci sono poi altri pec-
cati per i quali non si pratica l’estrazione del san-
gue: essi cadono sotto la sanzione dell’essere cele-
ste, la quale consiste o nella morte violenta per un
colpo di fulmine o per l’incontro di una tigre o per
la caduta di un albero, oppure in una malattia (ce-
mam, una specie di mal di reni), eventualmente se-
guita da morte, e richiedente l’intervento del fattuc-
chiere (hala). Ecco alcuni peccati di questa seconda
classe: se lo suocero si avvicina troppo alla nuora
o il genero alla suocera, anche se cid accade invo-
lontariamente (Jahai); se uno si diverte a tirare
con la lancia od altro nelle ore antimeridiane (Jahai);
MALACCA 13°
se uno fa ristonare il rombo nella foresta, traendo
con quel rumore in inganno la tigre (Kenta).
Come si vede, tra i peccati dell’una e dell’altra
classe abbondano quelli di natura sessuale (l’omici-
dio compare soltanto presso i Sabubn, dando luogo
ad una forma speciale del rito del sangue, come si é
detto; peccati contro la proprieta non figurano af-
fatto). Gli altri in gran parte consistono in violazioni
di tabu: p. es. il tabu di attinger acqua con un vaso,
cioé portare a contatto con l’acqua cid che sta usual-
mente a contatto col fuoco; il tabu dello specchiarsi,
verisimilmente suggerito dal mistero dell’imagine ri-
flessa nello specchio. Anche nei molti peccati rela-
tivi ad animali é largamente in gioco il tabu, ossia
quella sacralita misteriosa inerente a certi animali
la quale fa si che essi siano considerati come tabu
(non ucciderli, non tocearli, non mancar loro di ri-
spetto), come altrove fa si che essi siano scelti come
totem (non ucciderli, non mangiarli, e simili): nel
caso della mignatta sara in gioco la stessa sacralita
del sangue che é anche alla base del rito cruento
eseguito dai peccatori.
Siccome le varie norme che non debbono essere
trasgredite sono concepite come date da Karei, le
trasgressioni si designano come ‘peccati contro Ka-
rei’ (lawaid Karei: Jahai). Chi commette una tra-
sgressione, cioé un peccato, contrae dusa, dos (dal
malese, e, in ultima istanza, dal sanscrito), cioé
“colpa’.
Il rito di estrazione e spargimento del sangue
suol essere accompagnato, presso le varie trib, con
la recitazione di formule speciali, rivolte (alla divi-
nita della terra e) all’essere celeste:
14 CAPITOLO I
«Oh, io pago la colpa (dos)» (detto a Kaci [= Karei]:
Kenta).
«Io pago la mia colpa (dusa); tu premdi via la colpa; io la
pago» (Kensin).
«O tu nonna (Manoid), laggitt, io getto la mia colpa (dusa)
a Pedn, io pago, io non sono insolente » (Kensiu).
«O tu nonna (Takel), va a dire a Ta Pedn (altro nome del-
l’essere celeste) : (la mia) colpa (dusa) (é) piccola. Oh, oh, pec-
cato (lawaid), ecco il mio peccato, piccola (¢ la mia) colpa,
cessa! » (Jahai). :
« Sangue, o Keto (altro nome dell’essere celeste), molto io
(sono) colpevole, fa’ che sia bene, cessa! » (Batek).
« O Karei, o Karei, io non ho pitt nessuna colpa (dos) » (Sa-
bubn, dopo ogni gettito di sangue ed acqua verso il cielo).
Tl peccatore riconosce dunque la sua colpa, pic-
cola o grande che sia. Accanto a queste dichiara-
zioni generiche di colpevolezza abbiamo, in altre for-
mule, la dichiarazione specifica del peccato com-
messo :
« BO, bo, bd! peceato (lawaid), peccato, peccato, peccato del
millepiedi (lawaid talugn, cioe ‘peccato commesso a danno o
a proposito del millepiedi’), peccato della mignatta (lawaid
lawen), peccato della mignatta (di un’altra specie: lawaid
djelau), peccato del cervo (lawaid kasa), peccato del tigre (la-
waid ab), io pago il peccato» (Menri).
Cosi pure, un indigeno dei Kensiu, in occasione di
un temporale, succedendo a sua moglie nell’esecu-
zione del rito del sangue, recitd alcune frasi in cui
aggiunse la enunciazione specifica del peccato com-
messo: dusa les ‘ colpa relativa alla formica’ (egli
aveva quel giorno schernito e mancato di rispetto a
un cane ch’egli aveva visto dimenarsi e sbuffare per-
ché una formica gli era entrata nelle narici).
Si tratta dunque di una specie di confessione’’,
qui associata con una estrazione di sangue dal corpo
del peccatore eseguita dal peccatore stesso. La colpa
SUMATRA 15
é estratta col sangue dalla persona del peccatore, e
gettata verso il cielo. Qualche cosa di analogo tro-
vammo gid presso i Bechuana (p. 4), dove marito
e moglie in preparazione della festa dell’anno nuovo
praticano, insieme con la confessione (dei peccati
sessuali), anche l’estrazione di un po’ di sangue dal
proprio corpo, mercé due piccoli tagli sotto 1’ombe-
lico. Ulteriori riscontri incontreremo nel seguito
della nostra trattazione (escoriazione cruenta dei
Yuchi: p. 30), alcuni dei quali interessanti anche
nel rispetto formale (estrazione di sangue dalle gam-
be nel Messico antico: p. 84).
2. SUMATRA,
a) A intervalli di circa cento anni - se le informa-
zioni sono esatte - si celebra da indigeni della re-
gione di Benkulen (distretto di Manna), sulla costa
sud-occidentale di Sumatra, una festa designata col
nome di sumpah-ngawak, destinata ad ottenere da-
gli spiriti la ‘purificazione dei cuori’, cioé un mi-
glioramento dei costumi, un abbandono delle cattive
abitudini, un emendamento della comunita e dei
singoli’®.
Sumpah-ngawak vuol dire ‘ giuramento su 1’og-
getto sacro’, e l’oggetto sacro, il ngawak, é in que-
sto caso una specie di cannoncino di bronzo (lila),
veneratissimo dagli indigeni, che gid appartenne, se-
condo la leggenda, agli antenati della loro trib e
che ora si conserva religiosamente in Mandi-Angin
ravvolto in diversi involucri preziosi, sotto la cu-
stodia di una persona designata col nome di djurai
16 CAPITOLO I
tuwe piare ngawak. Questa persona esercita delle
vere e proprie funzioni sacerdotali nei riti che si ri-
feriscono al ngawak, sia nel rito del bagno, che ha
‘luogo circa ogni tre anni ed é la sola occasione in
cui il ngawak & ‘svestito’ - cioé estratto dai suoi
involucri -, sia appunto nella cerimonia secolare del
sumpah-ngawak. In questa cerimonia si celebra da
prima il sacrificio di un bufalo, che da luogo ad un
sacro banchetto. Poi si passa al giuramento: chi
giura immerge la punta delle dita della mano destra
in un bacino contenente dell’acqua in cui é stato
spremuto del succo di limone (questa miscela é ado-
perata anche per fare frizioni sul corpo del bufalo
destinato al sacrifizio), e con la quale gia il djurai
tuwe ha fatto delle aspersioni sul ngawak; poi pog-
gia la mano al suolo (bumi) e ve la tiene mentre
pronuncia il giuramento, dando infine con la mano
un lieve colpo sul terreno. Non essendo possibile
far giurare individualmente tutti i membri della
tribti che partecipano alla cerimonia, giura un rap-
presentante - generalmente il capo o uno degli an-
ziani - per ogni singolo clan, a nome di tutti gli in-
dividui del clan. Cosi resta impegnata l’intera po-
polazione: impegnata ad osservare, con l’aiuto de-
gli spiriti, il giuramento prestato, relativo alla mo- .
ralita e alla.buona condotta che deve d’ora in poi
essere praticata dalla comunita. A questo atto, che
riguarda dunque il futuro, ne segue un altro che
ha, anche, un certo carattere retrospettivo. Ci sono
degli individui che per la loro cattiva condotta sono
considerati come violatori del giuramento comune.
Al giuramento collettivo segue il giuramento spe-
ciale di questi individui: essi debbono giurare di
SUMATRA 17
emendarsi chiedendo perdono agli spiriti dei peccati
commessi per 1’ addietro. Questa specie di confes-
sione - sia pure come semplice riconoscimento e di-
chiarazione di colpevolezza - tende a liquidare, in
certo qual modo, il passato peccaminoso all’ inizio
del nuovo periodo che s’inaugura col sumpah
ngawak.
b) Presso i Batak l’idea di peccato si esprime,
oltre che col termine dosa (derivato dal sanscrito
e penetrato, come vedemmo, anche fra i primitivi
di Malacca: p. 13), specialmente col termine na
so uhum, propriamente ‘cid che non é consuetu-
dine o norma tradizionale’, considerandosi come pec-
cato principalmente la violazione dei sahah, che
sono le norme regolatrici della vita tribale. Chi
commette qualche violazione di questo genere, cioé
un peccato, deve aspettarsi un castigo da parte
delle divinita o degli antenati o degli spiriti (tondi)
delle persone fra le quali egli vive. Anche la ma-
lattia di una persona é attribuita al malcontento
del suo tondi per qualche offesa che gli é stata
fatta. Quando uno cade ammalato e il fattucchie-
re (datw) dichiara che il suo tondi si sente offeso,
_subito qualcuno che si sente colpevole verso il pa-
ziente va ad offrire del sivi a lui o ai suoi geni-
tori, accompagnando la sua offerta con queste pa-
role, che contengono, a quanto pare, una confes-
x
sione individuale specifica: « Questa é la parola
del mio siri che parla al tuo tondi: io ho man-
cato verso di te cosi e cosi. La mia adora-
zione al tuo tondi, io voglio emendarmi. Questa é
una caparra, dimostrazione della mia colpa: se tu
R. PETTAzzONI, La Confessione dei peccati, |. 2
EE
18 - CAPLTOLO I
guarisci, io ti dard cibo, vesti e ornamenti a tuo
piacere. Il tuo tondi abbia compassione »’’.
C). MELANESIA.
SULKA (N. BRETTAGNA).
Presso i Sulka, popolazione della N. Brettagna
di lingua papuana, si pratica sui giovani la cerimo-
nia dell’annerimento dei denti. Si tratta di una ope-
razione assai importante: a partire dal momento in
cui il giovane l’ha subita esso si chiama per tutta
la vita o gitvungol. Generalmente il rito é eseguito
su pit giovani alla volta. Questi debbono porsi vi-
cino al fuoco tenendo dinnanzi a sé dei pezzi di le-
gno o dei tronchi di banano per difendersi dal ca-
lore. Quando é passato loro il nero sui denti, essi
debbono avvicinarli quanto pitt é possibile al fuoco,
mentre gli uomini che li assistono coprono loro gli
occhi con le mani perché questi non abbiano a sof-
frire dal calore. Se il nero non aderisce ai denti, cid
é colpa dei gitvungol. « Essi hanno» - si dice -
«ancora qualche cattiveria sul cuore», e debbono
confessarla. Confessato che abbiano alcun che,
uno degli assistenti prende un pezzo di legno e sputa
sul fuoco (cfr. Pert, p. 127), pronunciando certe pa-
role a seconda dell’azione commessa e confessata,
dopo di che il nero aderisce’”*.
Qui non é detto se si tratti di peccati sessuali od
altri. Ma che i rapporti sessuali siano oggetto di una
confessione speciale presso i Sulka é attestato esplici-
MELANESIA 1g
tamente. Per il commercio,sessuale l’tomo e la don-
na, siano sposati o no, restano contaminati. L’impu-
rita da essi contratta si chiama a sile (che si pro-
nuncia a un di presso a sle). I coniugati possono
purificarsi ciascuno da sé, in un modo che essi im-
parano al tempo del loro matrimonio, gli uomini da-
gli uomini, le donne dalle donne. I non sposati che
hanno contratto |’ impurita sle - impurita che, a
quanto dicono, si vede loro negli occhi - sono schi-
vati, i genitori dicono ai bambini di guardarsi da
loro, non si prende nulla da loro e si sta ben attenti
che essi non si avvicinino agli strumenti di danza
(o kol), ché con la loro semplice presenza essi ne
insudicerebbero la pittura. Chi é infetto di sle, se-
condo l’opinione degli indigeni, deve morirne, se
non si eseguisce su di lui una apposita cerimonia
di purificazione. Percid coloro che hanno commesso
qualche fallo debbono subito confessarlo e pre-
gare qualcuno di purificarli. Se si tratta di uomini,
questa cerimonia si compie pubblicamente nel modo
seguente. Si spreme una certa quantita di semi di
cocco e, mormorando certe formule magiche, la si
mescola con acqua marina e zenzero. Dopo che il
contaminato ha bevuto questa miscela, vien preci-
pitato in mare, e deve porre le foglie, di cui si é ser-
vito per prendere la medicina, sopra il fondo del
mare sotto qualche pietra; dopo di che egli butta via
gli indumenti che indossava (cfr. Pert, p. 125) e si
cinge un nuovo grembiule’’?,
Bien
dod
4
rs
20 CAPITOLO I
D). AMERICA SETTENTRIONALE.
I. ESKIMESI.
E noto che gli Eskimesi sono particolarmente
dediti alla caccia delle foche, balene ed altri ce-
tacei. Le operazioni di caccia sono circondate da un
complicato e minuzioso sistema di prescrizioni sa-
crali (tabu). Presso gli Eskimesi centrali (Baia di
Hudson, Terra di Baffin) questi tabw sono stati ac-
curatamente studiati dall’antropologo americano
Franz Boas'*. La cattura dei preziosi mammiferi,
da cui in gran parte la vita degli Eskimesi dipende,
€ condizionata dall’osservanza rigorosa dei tabu (non
toccare un cadavere, non avvicinare chi abbia ver-
sato 0 comunque versi sangue, compresa la donna
mestruante, ecc.). Quando qualche tabu é stato vio-
lato, si rende necessaria la confessione.
Credono, infatti, gli Eskimesi che in fondo al
mare dimori una dea, Sedna’®, che é come la re-
gina degli animali marini. Quando uno di essi é
ucciso, la sua anima va - anzi, torna - presso Sedna,
che la fara rivivere in un altro animale marino. Ma
prima, e precisamente nei primi tre giorni dopo la
morte dell’animale, la sua anima resta unita al ca-
davere. Se in quéi tre giorni ha luogo la violazione
di qualche tabu, l’anima rimane investita da una
specie di infezione (emanante dalla cosa che é tabu,
e successivamente propagata al violatore e a chi
viene in contatto con lui), che la fa soffrire e che,
quando l’anima raggiunge la dea Sedna, fa soffrire
anche la dea; ed allora questa manda il mal tempo
AMERICA SETTENTRIONALE 21
che impedisce la caccia, mentre gli animali stessi,
essendo particolarmente sensibili alla presenza del
fluido molesto, non si lasciano prendere da chi ne
é investito, - e cosi la caccia riesce infruttuosa”®.
Per evitare questo insuccesso, che pud avere conse-
guenze fatali (carestia), occorre che chi partecipa
alla caccia non sia contaminato. Per cid é necessa-
rio che chi ha violato qualche tabu lo dichiari (una
donna deve dichiarare se ha abortito, se ha il me-
struo, ecc.), mettendosi cosi da sé in una specie di
quarantena che consenta agli altri di schivarlo. Se
nonostante tutte le precauzioni prese e le norme
osservate la caccia riesce infruttuosa, si ricorre al
fattucchiere (angakoq), il quale ne scopre la causa,
cioé scopre quale é il tabu che é stato violato e chi
é il trasgressore. Trovato il colpevole, egli deve
confessare la colpa commessa; se si ostina
a dichiararsi innocente, soltanto la sua morte pla-
chera la divinita offesa.
Secondo il Boas, da questa specialissima esigenza
della autodenunzia di un colpevole ai fini del buon
sueccesso della caccia alle foche, si sarebbe svolta
Videa che il peccato - ogni ‘peccato’ - possa essere
espiato mercé la confessione, cid che é, a suo giu-
dizio, « uno dei tratti pit notevoli della religione de-
gli Eskimesi Centrali». Sempre presso gli Eskimesi
centrali, nella Penisola Melville, « quando c’ é pe-
nuria di viveri» - cioé, dunque, quando la cattura
dei cetacei é insufficiente -, « l’angakoq (fattucchiere)
esige una pubblica confessione generale dei
peccati »7?.
Presso gli Eskimesi della Grénlandia orientale
troviamo la confessione praticata in casi speciali di
22 CAPITOLO I
malattia. Se qualcuno ha una febbre forte con mal di
testa, l’angakoq fa sapere che c’é pericolo ch’egli
diventi pazzo. Per evitare questo pericolo il malato
deve confessare di essere un ilisitsok, cioé uno
stregone o una strega, e addossarsi, come tale, vari
misfatti, p. es. di aver rapito l’anima di qualcuno o
di aver ucciso qualcuno con mezzi sopranaturali;
se non fa una tale confessione, facilmente uscira di
senno o diventera addirittura pazzo furioso*’.
2. DINNEH (ATHAPASKI).
a) Presso i Kawchodinne (Peaux-de-Liévre, tribti
del Gran Lago degli Orsi), l’ammalato deve confes-
sare al fattucchiere tutti i suoi peccati; se tace
qualche cosa, non vivra a lungo, perocché «‘per
causa del male noi moriamo’, cosi noi pensiamo »?*.
b) Anche presso gli Indiani Carriers o Takulli,
altra tribt: della famiglia Déné (Athapaski), si pra-
tica la confessione quando qualcuno cade
gravemente ammalato (cfr. Ewe, Kikuyu, Wa-
kulwe, Eskimesi della Grénlandia). Ordinariamente
V’infermo si persuade che non potra guarire se non
palesera al sacerdote o fattucchiere ogni colpa com-
messa e tenuta fino allora nascosta. La confessione
dev’essere completa: dalla sua sincerita ed accura-
tezza dipende la guarigione del paziente, mentre, se
un solo fallo fosse taciuto, seguirebbe quasi istanta-
neamente la morte. Va notato che i peccati che
si confessano sono principalmente peccati sessuali
« peggiori per sozzura e bestialita dei peccati di
Sodoma e Gomorra »***,
AMERICA SETTENTRIONALE “1828
3. CALIFORNIANI.
a) Presso una popolazione della California nord-
occidentale - gli Hupa, di lingua athapasca - si crede
che nelle vicinanze di un masso chiamato ‘rupe del
tuono’ o ‘rupe della pioggia’ dimori uno spirito che
si offende se passa di 14 qualcuno che sia in lutto
per la morte di un suo congiunto, e allora manda
geli e fa piovere eccessivamente, oppure trattiene la
pioggia troppo a lungo. Quando gela fortemente o
quando infierisce qualche malattia insolita, si pro-
cede ad una cerimonia presso il masso per placare
lo spirito. Il sacerdote pronuncia una preghiera in-
vocando venti caldi e piogge moderate. Colui che
ha offeso lo spirito deve assistere e dar ragione pub-
blicamente del mal fatto**.
b) Sempre nella California settentrionale, presso i
Yurok, popolazione di lingua algonkina fra il Kla-
math inferiore e la costa, un cacciatore non avvi-
cina la propria moglie dopo aver mangiato della
carne di selvaggina o di leone marino; se lo fa, il
figlio concepito in tale circostanza nascera con qual-
che infermita; tale infermita potra essere eliminata
soltanto per mezzo di una pubblica confessione
dopo la nascita. (Cosi pure un cacciatore si astiene
dall’avvicinare la propria moglie quando é in pro-
cinto di andare alla caccia, cfr. Baganda p. 6, Mal-
gasci p. 9; se lo fa, cerca di neutralizzare gli ef-
fetti - pregiudizievoli al successo dell’ impresa -
mercé la recitazione di una formula di particolare
efficacia)”°,
24 CAPTLOLO 1
¢) Presso i Luisefio, popolazione di lingua shosho-
ne nella California meridionale, quando un uomo uc-
cideva un daino o dei conigli, li portava al wamgush
(o wamkish, specie di recinto sacro, fatto con una
giepe di pruni, che serviva da santuario). ‘Tutti ne
nuiigiavano, ma egli non prendeva parte al pasto.
Se avesse mangiato della carne di quegli animali uc-
cisi da lui stesso, anche in minima quantita, non
garebbe stato capace di ucciderne altri. Tuttavia, se
egli confessava pubblicamente di aver preso
di quella carne, si rimetteva con cid in grado di cac-
clare con successo?™,
d) Iai regola che chi aveva preso della selvaggina
o del pesce non potesse partecipare alla sua consu-
inazione era rigorosamente osservata anche presso i
Juaneno, altro popolo della California meridionale
di lingua shoshone; onde spesso avveniva che an-
dassero alla eaccia due uomini insieme per potersi
scambiare cid che prendevano, La regola si appli-
cava principalmente ai giovani. Il trasgressore si
esponeva a non aver pitt fortuna alla caccia ed even-
tualmente ad esser colpito da qualehe malattia. La
malattia si produceva quando la selvaggina era con-
sumata in segreto?", cid che, per analogia con quanto
avveniva presso i Luisefio, fa pensare - sebbene la
cosa non sia esplicitamente attestata - se anche presso
i Juanefio non si praticasse la confessione pubblica
come mezzo atto a neutralizzare le dannose conse-
guienze della consumazione fatta in segreto,
id AMERICA SETTENTRIONALE 25
4. ALGONKINI.
a) Presso gli Ojibway del Lago Superiore (Al-
gonkini) c’é traccia di una autoespulsione del pec-
cato - precisamente, a quanto pare, del peccato ses-
suale - da parte dei peccatori (specialmente i gio-
vani), nella ricorrenza di una festa annuale, verosi-
milmente una festa dell’anno nuovo?’.
b) In una di quelle Relazioni che i Gesuiti nel
sec. XVIII usavano mandare annualmente dalle loro
missioni della Nuova Francia, si legge”® che certi in-
digeni da poco convertiti (Algonkini?) avevano co-
stume di dividere l’anno in due parti, passando la
stagione invernale nelle foreste a caccia di animali,
e la estiva in riva al S. Lorenzo. Al principio della
primavera aveva luogo il passaggio dai boschi al
fiume, e in questa circostanza si praticava una spe-
cie di confessione: « L’ hyver tirant aux abois, pour
donner la vie au Printemps, Tous nos Chasseurs se
retirent avec tout leur bagage, sur les rives du grand
Fleuve, en ’Ance, ou au Port, que nous appelons
Tadoussac (allo sbocco del Saguenay nel S. Loren-
zo), c’est icy ow il se fait wne confession pu-
blique, sans gehenne, sans torture, et sans exac-
tion. On dit qu’il y a un pais, ou le froid est si
grand, que toutes les paroles s’y gelent, et quand
le printemps s’ approche, ces paroles venant a se
degeler, on entend quasi en un moment, tout ce qui
s’est dit pendant V’hyver. Quoi qu’il en soit de cette
fable, il est vray, que tout ce qui s’ est fait de
mal pendant l’ hyver dans ces grands bois,
26 ’ CAPITOLO I
se dit publiquement au Pere au mois d? Avril.
Les premiers venus font tout haut la confession de
ceux qui les suivent, et cela par un zele qu’ils ont
de la Justice Chrétienne (segue l’esempio edificante
di un indigeno che, arrivando a Tadoussac, vide subi-
to dal contegno del Padre missionario e degli Anzia-
ni « que quelques uns avotent desia confessé pour
luy son peché »)». Questa specie di confessione fatta
pubblicamente, e fatta da altri invece e prima che
dal peccatore, é indubbiamente qualche cosa di
molto lontano dalla confessione auricolare. Posto
pure che ci fosse stato il tempo sufficiente perché
la confessione cattolica da poco introdotta (il primo
stanziamento di una missione di Gesuiti a Tadous-
sac é del 1616) subisse da parte degli indigeni una
alterazione cosi profonda, non é verosimile che pro-
prio questa forma alterata e degenerata ricevesse la
sanzione e l’approvazione dei rappresentanti ufficiali
del Cattolicismo nel 1653. Pitt verosimile appare che
i Gesuiti abbiano trovato una specie di confessione
in uso presso gli indigeni, e abbiano creduto bene
di legittimare, in certo qual modo, provvisoriamente
una usanza sulla quale la confessione cristiana poteva
essere innestata e per questa via pili agevolmente in-
trodotta presso gli indigeni stessi’.
E notevole che questa confessione od enuncia-
zione pubblica di peccati presso gli indigeni del San
Lorenzo era connessa con l’inizio di un nuovo pe-
riodo annuale, con il principio della buona stagione
e del disgelo, con il passaggio dall’inverno alla pri-
mavera, forse anche con una di quelle ‘feste’ con
cui tale passaggio suol essere celebrato, come ¢@
quella ‘dell’anno nuovo’ presso gli Irokesi, nella
AMERICA SETTENTRIONALE ree eed
quale pure vedremo (p. 28) praticata la confessione,
e quella ‘dell’anno nuovo’ presso i Bechuana, che’
pure dava occasione ad una confessione (p. 3 sg.).
Una specie di confessione trovammo associata anche
con la celebrazione di una festa inaugurale di un
nuovo saeculum presso gli indigeni di Benkulen (Su-
matra: p. 15).
5. IROKESI.
Delle nazioni componenti la ‘Lega’ degli Iro-
kesi - le ‘Cinque Nazioni’ dei Mohawk, Oneida,
Onondaga, Cayuga e Seneca, cui si aggregarono
nel 1722 i Tuscarora - gli Onondaga sono quelli
che pitt hanno conservato della primitiva religione
“pagana’*®®. Anche dopo l’introduzione del Cristia-.
nesimo essi hanno seguitato a celebrare delle feste
religiose a base di danze, giochi, ecc., che sono so-
stanzialmente delle feste agrarie, coincidenti cia-
scuna con qualche momento importante dell’ anno
agricolo, e costituenti un ciclo nell’ordine seguente:
festa dell’anno nuovo;
festa degli aceri;
festa delle canne da zucchero;
festa della semina del grano;
festa delle fragole;
festa delle fave;
festa dello spuntare del grano;
festa del raccolto del grano.
Nella festa dell’anno nuovo, che é la principale
e che si celebra nel primo novilunio successivo al
capo d’anno, dopo quattro giorni occupati in mas-
28 CAPITOLO I
sima parte da discorsi tenuti l’un dopo V’altro dai
‘capi dinnanzi ai convenuti, ha luogo, nel quinto
giorno, una specie di confessione: ciascuno dei capi
principali, impugnando il wampun (che é una fascia
fatta di file di grani di conchiglia di vario colore),
dice: « Io pongo tutte le mie parole in questo wam-
pun*!: io mi sono ubriacato, io ho peccato, ecc. »,
Il sesto giorno ha luogo una confessione analoga da
parte dei guerrieri. Il settimo giorno i capi fanno
girare il wampun fra i convenuti. Segue una danza.
Poi viene la seconda parte della festa, che @ occu-
pata dalla esecuzione di certi giuochi per altri otto
giorni, con accompagnamento di gare, scommesse,
ecc. La terza ed ultima parte della festa, che dura
un’altra settimana (in tutto tre settimane), termina
con una cerimonia di espulsione dei malanni della
comunita: per un giorno e una notte i fattucchieri
vanno di casa in casa cacciando le malattie, ecc.;
poi, riuniti tutti i celebranti nella casa comunale,
gettano su loro della cenere, sempre a scopo elimi-
natorio®*. La confessione dei peccati si fa, nello
stesso modo, dai capi anche nella 4" festa, della se-
mina, nella 7*, dello spuntare, e nell’ 8*, del raccolto
del grano.
K un fatto che gli Onondaga (come, e in pitt
larga misura, le altre nazioni degli Irokesi) hanno
incorporato nelle loro celebrazioni religiose non po-
chi elementi di origine cristiana. La Sig. E. A,
Smith, cui dobbiamo le notizie sopra riferite su le
feste del ciclo annuale, dice espressamente** che il
fondo di queste feste @ costituito da elementi risa-
lenti alla religione irokese ‘pagana’, sopra i quali
gli indigeni «hanno innestato, interpretandole a
AMERICA SETTENTRIONALE 29
modo loro, varie forme del culto cattolico, ebraico
o protestante che loro parevano convenienti e su-
scettibili di adattamento». Ma che la confessione
dei peccati sopra descritta possa essere uno di tali
elementi di origine straniera (cristiana), non appare
verosimile. Una particolare importanza hanno, a
questo proposito, le circostanze in cui la confessione
é praticata; si tratta di feste religiose (agrarie) e
principalmente della festa dell’anno nuovo. Tale fe-
sta segna una fine ed un principio, una ripresa, un
rinnovamento, cosi della vita della natura come della
vita della comunita. F questo, se altro mai, uno di
quei momenti in cui per virti di operazioni rituali
appropriate si liberano delle forze sacrali potenti e
misteriose che, una volta liberate, circolano fra i ce-
lebranti, né questi possono avvicinarle senza peri-
colo, 0 solo dopo essersi messi in particolari condi-
zioni di ‘purita’. A procurare questo stato di purita
concorre indirettamente la confessione dei peccati
(dei peccati commessi durante |’ annata) in quanto
é eliminazione di impurita (comunque contratta).
Anche in Africa presso i Bechuana trovammo prati-
cata la confessione dei peccati (di adulterio) come
una delle condizioni preliminari per la partecipa-
zione ad un rito di purificazione connesso con una
specie di festa dell’anno nuovo (p. 3). Si ricordi
anche la festa di rinnovamento che si celebra ad
intervalli secolari da certi indigeni di Sumatra
(p. 15), nella quale pure ha luogo una specie di con-
fessione. E presso gli Onondaga é da notare altresi
che nella festa dell’anno nuovo - la principale di
quelle in cui si praticava la confessione - era an-
che celebrato, nel terzo ed ultimo periodo, preci-
30 CAPITOLO I
samente un rito di espulsione dei malanni. Per
tutto cid la confessione dei peceati anche presso gli
Onondaga appare inserita, anzi radicata, nella ideo-
logia e nella prassi religiosa primitiva*’.
6. YUCHI.
Una festa annuale di rinnovamento in rapporto con un mo-
mento culminante del processo vegetativo si trova largamente
celebrata anche presso le popolazioni - agricole e sedentarie -
del sud-est del Nord-America: Yuchi, Creek, Seminole, Nat-
chez, coincidendo ivi la sua celebrazione generalmente con
l’epoca della maturazione del grano (in giugno), alla quale
segue a breve distanza il raccolto. Questa festa é sovente con-
nessa con un rito di spegnimento (effettivo presso i Creek,
simbolico presso i Yuchi) e sticcessiva riaccensione del fuoco,
con cui si vuole accentuare l’inizio di «un nuovo periodo di
vita per la trib »35, In presenza di queste forze nuove che
vengono cosi a circolare in seno alla comunita, gli uomini
debbono convenientemente disporsi ad accoglierle, quasi into-
nandosi ad esse: questo ¢ appunto il senso delle feste di rin-
novamento, € in questo senso i riti che vi si celebrano sono
riti ‘di purificazione’. Presso i Yuchi essi sono eseguiti da
tutti gli individui maschi della trib, e comprendono: 1. dan-
‘ze; 2. digiuni; 3. osservanza di certi tabu (p. es. astenersi dal
sale); 4. continenza sessuale; 5. rinnovamento del ftoco;
6, escoriazioni cruente; 7. somministrazione di un emetico.
L’escoriazione é praticata con uno strumento apposito munito
di sei punte: 1’ operatore (dopo avere egli stesso subita la
escoriazione per opera del capo) afferra successivamente pel
_polso ciasctin individuo (anche i bambini), e affondando le
punte nella carne, lacera tutto l’avambraccio dal gomito in
git (altre volte l’escoriazione ¢ praticata nel petto). Questa
estrazione di sangue ha manifestamente lo scopo di espellere
dall’organismo il male che vi si sia annidato (si crede infatti
che essa preservi dalle malattie); ad accrescerne l’efficacia lo
s
strumento € preventivamente immerso in una miscela vege-
y
AMERICA SETMENTRIONALE Eat
tale dotata di particolari virth purgative. Di questa miscela é
anche composto l’emetico che in un momento susseguente alla
escoriazione ¢ somministrato in forma rituale. Preparato l’oc-
corrente entro un recinto quadrato, si presentano successiva-
mente a quattro a quattro in ordine di rango decrescente tutti
i maschi della comunitd ad inghiottire il sacro emetico, che
dopo breve intervallo produce il suo effetto. L’operazione pud
essere ripetuta pitt d’una volta. Anch’essa ha carattere puri-
ficativo nel senso sopra accennato: in particolar modo é de-
stinata ad immunizzare dalle malattie che certamente colpi-
rebbero chi senza averla eseguita gustasse il grano del nuovo
raccolto. Infatti alla cerimonia dell’emetico seguela festa del
grano nuovo,
I Creek, da cui i Yuchi furono assoggettati ed incorporati,
hanno le stesse cerimonie dei Yuchi, ossia hanno una festa
delle primizie in cui i guerrieri, riuniti separatamente dalle
donne e dai bambini, dopo aver digiunato due notti e un
giorno, bevono una specie di decotto vegetale « per vomitare
e purgare i loro corpi peccaminosi»; a cid tien dietro il rito
dell’accensione del nuovo fuoco (per confricazione); dopo di
che il sacerdote offre al fuoco in consacrazione i nuovi frutti,
nonché i sacri emetici, ed annunzia che il fuoco ha distrutto
i peccati dell’annata’6,
Anche i Seminole (Florida) celebrano una festa annuale
del grano nuovo, che si chiama ‘danza del grano novello’.
Rssa comprende, fra l'altro, la somministrazione di una cosi-
detta ‘bevanda nera’ (pa.sa.is.kit.a), che agisce da emetico
e da purgante insieme, e che preserva dalle malattie, consen-
tendo di gustare senza inconvenienti il grano novello37.
Anche i Natchez (Mississippi inferiore) avevano una festa
analoga ‘del raccolto’ o ‘del nuovo fuoco’; essa incominciava
con tre giorni di digiuno, durante i quali era prescritta l’asti-
nenza e si bevevano alcune gocce di un liquido rossiccio
(estratto da una radice) atto a produrre un’azione emetica
violenta3§.
La somministrazione di un emetico, che ¢ largamente pra-
ticata anche nel sud-ovest (Arapaho, Cheyenne, Whichita, Co-
manche)5, la trovammo gid presso i Kikuyu (p. 5) associata
con la confessione dei peccati. Del pari l’estrazione del sangue
dalla persona del peccatore ci si presentd in concomitanza
32 CAPITOLO 1
della confessione nell’Africa presso i Bechuana € nella Peni-
sola di Malacca presso i Semang e Sakai. Di una confessione
nelie feste di rinnovamento dei Yuchi, ecc. - nelle quali appunto
era praticato il vomito e l’estrazione del sangue - non si ha
notizia. Tuttavia presso i Yuchi dopo la somministrazione del-
Vemetico si dichiarano cancellati tutti i peccati e i risenti-
menti personali fra gli individui della comunita.
7, HUICHOL,
Nel Messico odierno, specialmente nello Stato di
Jalisco (e di Durango), vivono alcune popolazioni
(Huichol, Cora, Mexicano, ‘epehuane, ‘Tarahumare)
che per molti rispetti risultano culturalmente (al-
cune anche linguisticamente, p. es. i Mexicano, che
parlano una lingua nahwa) apparentate con quelle
presso cui fiorirono le antiche civilta del Messico
precolombiano. Assoggettate (temporaneamente) da-
gli Spagnuoli nel 1722, subirono anch’esse un pro-
cesso di cristianizzazione in senso cattolico, Cid non
di meno anche la loro religione ha conservato gran
parte dei suoi clementi e dei suoi caratteri originari.
Quanta luce forniscano le loro feste e celebrazioni
sacrali, le loro tradizioni e i loro miti, per la com-
prensione dell’ antica religione messicana, é stato
mostrato dal Preuss, che in due anni di soggiorno
in mezzo a loro ha raccolto una messe preziosa di
osservazioni e di materiali. Le popolazioni studiate
dal Preuss sono quelle dei Cora, degli Huichol e dei
Mexicano*®. Gli Huichol (con i Tarahumare, ‘Tepe-
huane) furono studiati in particolare dal Ium-
holtz”.
Presso gli Huichol é in uso una specie di con-
AMERICA SETTEN'TRIONALE 33
fessione. Essa si pratica in connessione con la spe-
dizione annuale che si fa dagli Huichol per andare
a raccogliere il sacro hikuli. KE questa una pianta,
della famiglia delle cactacee, che, sottoposta ad un
breve processo di fermentazione, fornisce una be-
vanda tonica, rinvigorente e inebriante insieme.
Questo liquido sacro, che corrisponde al pulque de-
gli antichi Messicani, ¢ un elemento indispensabile
nelle celebrazioni religiose degli Huichol, i quali lo
designano con lo stesso nome di hikuli*”.
‘La pianta hikwli non cresce nel territorio degli
Huichol. Per cid essi vanno annualmente a cercarla,
dirigendosi verso oriente, nella regione di San Luis
Potosi. Alla spedizione prendono parte quasi tutti
gli uomini validi. questo un periodo sacro, che
dura dall’ottobre al marzo, ed @ inaugurato e chiuso
con cerimonie speciali, In questi mesi (invernali) i
partecipanti vivono quasi una vita mistica, tutti as-
sorti nella sacralita delle operazioni cui attendono.
Il viaggio dura 42 giorni: ogni giorno un ‘sacer-
dote’ rimasto a casa scioglie uno dei 42 nodi fatti
in apposito cordone a segnare la durata del viaggio;
ed altrettanto fa giornalmente il capo della spedi-
zione su un cordone analogo. Nell’andata, durante
la lontananza e nel ritorno i cercatori si accompa-
gnano con canti che narrano l’antica caccia al cervo
fatta dagli déi, quasi prototipo mitico della ricerca
del sacro hikuli, secondo il complicato simbolismo
caro a queste genti, come in genere agli Indiani del-
l’ America Settentrionale, nonché ai Messicani an-
tichi.
Per mantenersi nel voluto stato di purita rituale
i cercatori debbono digiunare a lungo, astenersi da
R. PETTAZzZONI, La Con/fessione dei peccati, |. 3
4 — CAPILOLO 4
bagni ed abluzioni e rimanere casti. Di pit, cia-
acuno di essi deve dire quali relazioni amo-
rose lia avuto nella sua vita, e con chi, Per
questa confessione si servono ciaseuno di un cor-
done, facendovi tanti nodi quante sono state le
amanti, | singoli eordoni sono poi ritirati dal capo
della spedizione, che li getta nel fuoco. Dalla sin-
verlth oe completezza di tale confessione dipende il
buon esito della ricerea, Se uno non vuol dire la
voritA, & sottoposto a percosse e a restrizioni alimen-
tarl; ed & credenza difftwa ehe gli déi lo faranno mo-
rire, o ln degustazione del saecro hikwh gli fard male.
Anmoga confessione & pratieata dalle donne ri-
maste a casa, Durante i 4a giorni di assenza degli
omni esse debbono attenersi a eerte preserizioni
special (p, es, non debbono correre né camminare
in fretta), come pure debbono sottostare a certe pri-
vavioni, digitinare e mantenersi in castita assoluta.
Di pit, quattro giorni dopo la partenza degli uo-
ininl esse debbono riunirsi per procedere alla con-
fessione; ciascuna di esse deve pronunziare dinnanzi
al Fitoeo, che & il dio principale o il simbolo della
divinitN suprema, i nomi di tutti coloro con cui ha
AvutO rapporti amoposi a partire dalla prima fanciul-
lozza, Basta Vomissione di un nome per far si che i
eercalori non reseano A trovare neppure una pianta,
Por evitare Gili omission: le donne si aiutano prepa-
rando ciaseuna un cordone in eui & segnato wn node
per ogni amante'®, Con questo cordone si presen-
tano al santuario, e clasecuna ponendosi davanti al
fiioeo enunein ad alta voee i nomi di tutti ecolore
che furonoe siiol amantiy indi getta il cordone nel
fuoeo, e quando il dio l'ha consumato, i peceati sono
AMIRICA SIQTONTRTONA
TA 35
come caneetlati, Da questo momento le donne sen.
tono ripugnanzd perfino se un tome passa lore vie
cine,
ft} notevole che | peecati che qui si eonfessano
sono peceati sessuali, Sono questi, a quanto pare, i
voli peecati per gli Hulehol, In un vito ehe da il to.
mo alla festa della pulizin dei camp « Ia prima festa
delanno « e che consiste nel lavare i saeri jiearas
(gusei di zueen usatl come reciplenti), t jlearas rap.
presentano, nel simbolismo degli Muiehol, + genital
femmminili e la terra « ovsla la sporeizia «, ehe ne d
detersa, rappresenta il peeeato, @ precisamente i
peceato sessuale, joltre al quale propriamente non
ce nd altrin’, ClO va messo in rapporte eon 1on
servanzn della castitA eul sono tenuti 1 eereatord di
hikuli, C'S un esperienza ed una logien alla base
di tutto questo, In vista di un edmpito diffielle, di
tina impresa faticosa, quando il inassimo di energia
e cdi resistenza dev'essere in gloeo, la eoabitazione,
che debilita, & controindicata, mentre la enstitd, ehe
tempra, & un clemento di suceesso, Di qui, come ha
visto il Preuss*®, si & svolta idea ehe insuecessl e
malattic siano una conseguenza det rapportl sessuall,
I balenieri del Madagasear prima di mettersi in mare
debbono mantenersi casi per un perlodo di otto
giorm (p, 6). Nel nordeovest dell’ Amerien Set.
tentrionale gli Indiani Nutka si preparano alla eae.
cin delle balene osvervando per wn eerto tempo il
digittno e la eastith; se ln eaecia riesee tifruttuosa,
il eapo attribuisee I’ insueceesso alla ineontinengza di
qualeuno del suol vomini'®, Presso 1 Vurole della Ca-
lifornia settentrionale un ecneelatore al astiene dal.
Vavviecinare la propria mogie quando & in proeinto
36 CAPITOLO I
di andare alla caccia (p. 23). Preziosa é a questo pro-
posito la testimonianza di un autore del sec, XVII
relativa agli indigeni della Luisiana: L. Hennepin,
Histoire de la Louisiane, Paris, 1683 (a p. 39 del-
l’Appendice ‘les moeurs des sauvages’): « Les jeu-
nes guerriers ne s’approchent pas souvent des fem-
mes quils n’ayent l’dge de trente ans; parce que,
disent-ils, le commerce des femmes les em-
peschent (sic) de courir».
C’e di pit. I membri di una stessa famiglia, e
in primo luogo i coniugi, sono legati fra loro da
un vincolo mistico-sacrale che trae la sua ragione
dalle ragioni stesse, profonde e misteriose, della vita.
Un’azione - nel caso nostro un peccato sessuale -
commessa dalla moglie produce i suoi effetti anche
sul marito, e gli effetti si fanno sentire anche a di-
stanza, Presso i Wagogo (Bantu orientali), se un
cacciatore ¢ sfortunato, se é assalito da un leone,
cid é attribuito alla cattiva condotta di sua moglie
lontana*’. Alle Isole Aleutine i cacciatori di lontre
marine sono persuasi che non riusciranno ad ucci-
dere un solo animale, se in loro assenza le loro mo-
gli saranno infedeli e le loro sorelle non saranno ca-
ste**. Presso gli Huichol, come abbiamo visto, se le
donne non saranno caste, la ricerca del sacro hikuli
sard vana. Ma a raggiungere lo scopo giovera altresi
che anche Je donne annullino in sé tutte le colpe
sessuali (relazioni illegittime) commesse in passato,
le quali costituiscono un coefficiente - almeno po-
tenziale - di insuccesso per l’impresa dei mariti. A
cid serve appunto la confessione (col relativo abbru-
ciamento del cordone).
Presso i Cora la confessione non é praticata. Ma
AMERICA MERIDIONALE 37
il loro concetto del peccato é il medesimo che sta
alla base della confessione degli Huichol. Secondo
il Preuss é@ assai difficile dire che cosa sia Sana, cioe
“peceato’ per i Cora*®: la morale qui non c’entra
per nulla; peccato é cid che contrasta e annulla l’ef-
ficienza delle forze magiche, che per i Cora sono,
in primo luogo, la parola e il pensiero. Peccato ¢
- in questo senso - l’incontinenza sessuale (per tale
incontinenza, p. es., la stella del mattino dové di-
ventare, secondo il mito, la stella della sera)°°, cioe
appunto in quanto é¢ annullatrice di forze positive
e benefiche, e per cid ‘spregevole’, ‘ripugnante’,
“cattiva’.
BK). AMERICA MERIDIONALE.
I. KAGABA F IJCA.
Nella odierna Columbia vivono tuttora, nelle
montagne, alcune popolazioni appartenenti al grup-
po di quelle genti Chibcha che gid anticamente oc-
cuparono 1’altipiano di Bogoté. Quelle che sono
stanziate nei monti della Sierra Nevada, nell’antica
provincia spagnuola di Santa Marta, - gia ricordate,
col nome complessivo di Aurohuaco (Aurohuaca),
nell’ opera del P. Alvarez Don José Nicolas de la
Rosa, Floresta de la Santa Iglesia Catedral de Santa
Marta (1739, pubblicata nel 1755), e visitate in tem-
pi recenti da Fr. C. Nicholas (The Aborigenes of
the Province of Santa Marta, American Anthropo-
logist 1901, 606 sgg.) - sono state ultimamente fatte
ozgetto di studi adeguati alla loro importanza etno-
38 CAPITOLO I
logica e storico-culturale per opera del Preuss e
del Bolinder. Il Preuss ha studiato particolarmente
la popolazione dei K4gaba, la pit settentrionale e la
pitt vicina alla costa>’; il Bolinder quella degli Ijca®’.
a) La religione dei K4agaba appare per vari ri-
spetti assai interessante (idea di un essere supremo
femminile®’, assenza di sacrifizio, assenza di pre-
ghiera e di ogni altra forma di culto che non sia
la danza): tra l’altro essa conosce una confessione
dei peccati. Questa ha avuto, anzi, presso i Kagaba
uno sviluppo speciale, essendo diventata uno dei
principali coefficienti della straordinaria influenza
che sui K4gaba esercitano i sacerdoti o fattucchieri
(mama), uno dei mezzi onde i mama controllano
tutta la vita degli indigeni, dalla nascita alla morte,
- cid che, nell’assenza di ogni autorita civile e poli-
tica, conferisce al regime sociale dei Kagaba il ca-
rattere di una rudimentale teocrazia.
Presso i Kagaba, come presso altre genti primi-
tive (Ewe, Kikuyu; Sumatrani; Athapaski), la con-
fessione dei peccati si pratica principalmente in oc-
casione di una malattia. Tutti i Kagaba, quando ca-
dono ammalati, si confessano ai loro sacer-
doti. ‘Confessare’ si dice aluna iZguaSi, che pro-
priamente significa ‘dire cid che @ dentro’; ‘con-
fessione’ si dice aluneZguaka**.
I peccati che sono oggetto di confessione sono
principalmente quelli (assai frequenti presso i Ké-
gaba) di carattere sessuale: peccato é il rapporto
sessuale non legittimo (adulterio, violenza, incesto),
e quello contro natura (sodomia, bestialita). I tra-
scorsi e gli eccessi sessuali si crede producano delle
AMERICA MERIDIONALE We ALO,
conseguenze dolorose e funeste, sia per l’individuo,
sia per tutta la trib. Anche tra marito e moglie la
x
copulazione non é sempre lecita (p. es. se la donna
é incinta, se la donna é mestruante), onde avviene
che anche i coniugi stanno per lunghi periodi senza
congiungersi. Alla castita - e specialmente alla ver-
ginita - dei giovani é inerente una particolare ener-
gia, anzi virti magica. Anche qui é in gioco (cfr.
Pp. 35 sg.) la sperimentata azione debilitante dell’ac-
coppiamento, specie se praticato in particolari (non
consentite) circostanze. Se anche altri peccati sono
oggetto di confessione, p. es. il furto, cid é da con-
siderare, secondo il Preuss, come effetto di uno svol-
gimento secondario.
Anche secondo il Nicholas®® presso gli Aurohuaca
ogni malattia é considerata come una conseguenza
di peccati commessi. Quando uno cade ammalato, si
manda a chiamare il mama, il quale, avvicinatosi
al paziente con certi suoi gesti e passi misteriosi, gli
domanda per prima cosa se egli intende confessare
i suoi peccati. Se l’infermo rifiuta, il mama se ne
va. Ma siccome generalmente l’infermo annuisce, il
mama, fatte uscire le altre persone, riceve la con-
fessione. E se, secondo un suo sommario giudizio
clinico, gli pare che il paziente possa riaversi, gli
dice quel che deve fare per guarire. Una particolare
virti guaritrice é attribuita a certe pietruzze e con-
chiglie marine di forma ed aspetto insolito. Mercé
la recitazione di una formula appropriata si trasfe-
riscono i mali dell’infermo su questi oggetti, i quali
poi sono portati sulle montagne e depositati prefe-
ribilmente sulle balze pit: elevate, dove il sole possa
colpirli con i suol raggi al suo primo spuntare su
40 CAPITOLO I
l’orizzonte. Cid ricorda il costume dei Sulka (p. 10),
per cui le foglie ove era contenuta la ‘medicina’
presa da chi abbia contratto l’impurita sessuale deb-
bono essere deposte in fondo al mare.
La ‘penitenza’ che presso.i KAgaba il sacerdote
impone al peccatore consiste generalmente in asti-
nenze accompagnate da pene corporali. Gli uomini
debbono digiunare per quattro o cinque giorni, aste-
nersi da certi cibi, seguire una dieta speciale, riti-
rarsi per un dato tempo nei santuari, stare a lungo
in ginocchio, reggere col braccio disteso certe pietre
pesanti, esponendosi ad esser battuti quando il brac-
cio piega. Per le donne pare che la pena sia una
sola: debbono stare sedute per circa due ore sopra
una pietra acuminata. Il Preuss crede che qui sia
in gioco la medesima concezione del peccato (ses-
suale) come escremento che si trova presso i Messi-
cani antichi,(p. 75 sgg.): cosi la ‘penitenza’, ossia
la pena, sarebbe propriamente un mezzo magico-
simbolico per reprimere negli organi sessuali la di-
sposizione peccaminosa (e le sue conseguenze).
I K4gaba praticano la confessione anche quando
sono colpiti da qualche disgrazia. E poiché essi cre-
dono che i peccati possano attirare il male anche su
l’intera tribti, quando scoppia una calamita pub-
blica tutti si confessano. Cid avviene anche
quando una disgrazia é soltanto preannunciata, p. es.
da un’eclissi di sole o di luna o dal terremoto. Per
cid anche avviene che si pratichi la confessione in
oceasione di certe feste che si celebrano - a base di
danze - appunto per tener lontani i malanni. In pre-
parazione di tali feste in ogni villaggio tutti deb-
bono confessarsi. alvolta le operazioni della
AMERICA MERIDIONALE 41
confessione si prolungano per parecchi giorni prima
della festa. Cosi ¢ avvenuto che la confessione ha
finito per esser incorporata nella festa stessa diven-
tandone - accanto alle danze - un elemento inte-
grale. Cid risulta da uno dei testi indigeni raccolti
e pubblicati (con traduzione) dal Preuss*®: « A quel
tempo tutti vivevano felicemente e in pace, non
c’erano ancora i Columbiani; noi Kagaba eravamo
i soli. Poi vennero i Columbiani; tutte le tradizioni
cessarono, e vennero meno la danza dei quattro e la
danza dei nove giorni e la confessione. Tutte le
danze cominciarono a scomparire). - Questo testo
é importante anche in rapporto alla originalita della
confessione presso i Kagaba, cioé alla sua indipen-
denza e primitivita rispetto alla confessione cattolica
introdotta dagli Spagnuoli (Columbiani). Se degli
Aurohuaca il Nicholas riferisce la leggenda di un
profeta che sarebbe giunto anticamente nel paese ed
avrebbe insegnato «tutta la dottrina dei peccati,
della malattia e della morte e la virtt risanatrice di
certe pietre», cid difficilmente si puo disgiungere da
tutto un complesso di credenze prettamente indige-
ne relative alla figura del demiurgo (‘Heilbringer’)
cui anche i K4gaba - al pari di altre genti chibcha -
attribuiscono appunto, insieme con l’assetto cosmico
del mondo, Vistituzione e regolamentazione del culto
in tutti i suoi dettagli®’.
b) Anche gli Ijca®* conoscono il Cattolicismo e°
sono deferenti verso i missionari. Ma se qualcuno
di loro si sente veramente qualche cosa sulla co-
scienza, se ha commesso qualche mancanza, se cade
ammalato, ecc., non si rivolge al prete cattolico,
"42 CAPITOL) T
bens) al fattueechiere, al mana, La malattia & con-
siderata come la consepuenza di qualehe cattiva
avione che & dispineluta agli spiriti, Chi eade am-
malato dove per prima cosa ‘eonfessarsi’ al mama,
affinehé questi possa seoprire che eos’é che ha offeso
eli spirit,
{} mama a siede sul suo sgabello in un angolo
della eapanna, e il ‘penitente’ in un altro angolo.
Il penitente deve esser provvisto di ecerte pietre da
lul preventivamente sminugzate (efr, Pert, p. 123),
nonché di quattro foglie di involuero di pannoc.
chia di iaiz e di fili di eotone di vario colore,
I fii vengono strappati e si fa su elaseuno un nodo
(cfy, Huehol, p, aq e Zapoteki, p, 100), Ll mama
dal canto suo & provvisto della sua bisaceia da stre-
gone, eho & una pleeola borsa con dentro delle
pletre preziose, Il mama invita il penitente a ri-
chinmarat alla memoria tutto eld ehtegli pud aver
fatto di male; e per mezzo della sua bisaecia, bat+
lendola loppermente sul auolo, dal suono delle pie+
tre arguisee se il penitente non ha ancora detto
tutto, fino a che cell sia giunto a sapere eid che ef-
fettivamente ha offeso gli spiriti, Allora il mama con
1 fill e le foplie di maiz fa una apeele di mazzo, ave
volgendolo intorno alle pletrugze frantumate, e con
questo maszo, 6 aburre, esopuisee degli seongiuri
aul pentito, imponendogli infine una ‘penitenza’
che aposso © assal sgradevole, ma che pud anche
conalstere semplicemente in un digitino prolungato
o altro, Ci sono det peceati gravissimi, dai quali
& pid diMicile che il mama riesca a liberare il peni-
tente; p, ea, i ecoltivare ceca per conto proprio
(senva i] permesso dei mama), il sedurre una delle
AMERICA MERIDIONALE 43
vergini addette al culto (esse non possono andare a
marito se prima non sono state deflorate dal mama
principale; il seduttore ¢ destinato a morire di morte
improvvisa), giacere con una donna che sia diven-
tata vedova da poco.
La confessione é praticata altresi dalla puerpera.
Al periodo di isolamento antecedente al parto, che
é trascorso in luogo lontano dalla casa, ne segue un
altro entro la casa stessa, quando la donna, dopo es-
sersi sgravata, vi ha fatto ritorno: la donna resta
per nove mesi isolata in un letto speciale, prendendo
soltanto cibi senza sale (cfr. Pert, p. 130 sgg.), dopo
di che si confessa nel modo consueto.
La confessione é praticata, presso gli Ijca, an-
che in preparazione ad una qualche festa o cerimo-
nia da parte di coloro che intendono parteciparvi,
sia che si tratti di una nascita o di una morte o di
nozze o di funerali. Nei giorni che precedono la con-
fessione o in quelli in cui la confessione ha luogo
i ‘penitenti’ debbono astenersi da cibi che conten-
gano del sale o dell’alcool. Chi abbia commesso qual-
che peccato gravissimo deve fare la confessione
in istato di digiuno assoluto e farsi esorcizzare per
nove giorni.
Il mama principale, che @ una specie di gran sa-
cerdote, tiene presso di sé otto ragazze che lo aiu-
tano, insieme con sua moglie, a preparare le cose
necessarie pel culto. Esse si chiamano seymaque:
non debbono mangiar sale e debbono osservare la
castita. Se una viene meno al precetto di castita,
non puod pit attendere ai servizi del culto - almeno
per un certo tempo -, deve confessare il suo
fallo e farsi esorcizzare.
44 CAPTTOLO I
Anche chi aspira a diventare mama, se durante
il lungo tivocinio che gli & imposto trasgredisee ad
aleuna delle molte norme eh’erl & teniuto ad osser-
vare relativamente alla dieta, all’isolamento, ai rap-
porti con le donne ece,, deve restare in digiuno as.
soluto per nove giorni, e per nove giorni far eon.
fessione della sua maneanza, indi sottoporsi ad
osorcismi da parte di un mama,
Come si vede, Ja vita sessuale ha gran parte nei
peecati che sono oggetto di confessione presso gli
Tjea, Un altro aspetto notevole di questa confessione
é la sua costante associazione con le pratiche di
esorcismo o scongiure,
4, INDIGINI DIL, DRASILN,
Dell’esistenza di una speele di confessione presse
aleune popolazioni indigene dell’ America del Sud
abbiamo una preziosa notizia » derivante da Rela«
gioni inviate in Portogallo da missionari Gesuiti
operanti nel Brasile « riferita dal noto veseove di
Chiapas Bartolomé de Las Casas (1474-1569) @ ri-
prodotta letteralmente o quasi dal ‘Torquemada®®,
Poiehd queste prime missioni, in un tempo in eui
la Tierra firme cominciava appena ad essere esplo-
rata, diffcilmente saranno penetrate molto nell’in«
terno della regione brasiliana, & da ritenere che le
popolagioni di cui si tratta fossero stangiate non
molto lontano dalla costa, pit verosimilmente nella
parte settentrionale del Brasile,
La confessione aveva luego in occasione di una
festa religiosa che si praticava periodicamente, «de
AMERICA MERIDIONALE 45
ciertos en ciertos afos», la quale, attraverso la de-
scrizione del Las Casas - rispettivamente, delle sue
fonti -, si rivela come una di quelle ‘feste’ di rin-
novamento che gia imparammo a conoscere (p. 3, I5,
29, 30 sgg.) presso indigeni dell’America settentrio-
nale e dell’Africa, e nelle quali trovammo qualche
volta praticata la confessione. Il momento iniziale
della ‘festa’ era segnato dall’arrivo di certi fattuc-
chieri che venivano ‘da paesi lontani’, e si credeva
portassero con sé una sanctidad o divinidad, cioé
dunque un qualche potere divino - noi diremmo
una ‘sacralita’ -, verosimilmente fornito di parti-
colari virti ‘purificatrici’. All’ epoca in cui i fat-
tucchieri stavano per arrivare, gli indigeni si met-
tevano a pulire accuratamente le strade (non sara
stata, anche questa, una espulsione - pit o meno
simbolica - dei mali?) ¢ andavano loro incontro fa-
cendo grandi accoglienze con danze ed altro. Pri-
ma che i fattucchieri giungessero sul posto, le donne
a due a due andavano in giro per le case e pubbli-
camente confessavano i torti fatti ai pro-
pri mariti (i peccati sessuali sono dunque anche
qui in prima linea), nonché quelli che si eran fatti
reciprocamente le une alle altre, chiedendone per-
dono. Arrivato il fattucchiere, entrava in una ca-
panna poco illuminata, vi collocava un guscio di
zucca avente forma umana ch’egli portava con sé,
e stando vicino a questa zucca cominciava a par-
lare con voce infantile, quasi che fosse l’idolo stesso
(cioé la calabaga in figura antropomorfa) o uno spi-
rito dell’idolo che parlasse. Nel suo discorso diceva
che nessuno doveva darsi pensiero di lavorare, che
non occorreva attendere alle opere dei campi, perché
46 CAPTTOLO 1
le messi crescerebbero da sé e non mancherebbe mai
di che mangiare, anzi gli alimenti entrerebbero in
‘asa da sé stessi, e gli utensili da sé lavorerebbero,
e le frecee da sé andrebbero a caccia pei monti a
fornir carni da mangiare; che inoltre essi, gli indi-
geni, ucciderebbero molti nemici e vivrebbero a
lungo, e le veechie tornerebbero ad essere ragazze,
e che le figlie le lasciassero prendere a chi le voleva.
Attraverso questo quadro che ricorda le descri-
zioni dell’ etd dell’ oro, nonché quelle del paese di
Bengodi, fatta la debita parte alla incomprensione
ironizzante degli informatori, si intravede una ce-
rimonia destinata ad assicurare |’ abbondanza dei
raceolti e la prosperita della vita nel periodo inter-
cedente fra l’?una e 1’ altra festa di rinnovamento.
ira questo il naturale complemento positivo di quella
parte negativa e preliminare della ‘festa’ che con-
sisteva nella eliminazione dei mali (per espulsione,
per confessione), Queste solennita, in cui insieme
con la vita della natura anche la vita umana si
rinnovava (le veechie ridiventavano giovani), so-
levano essere accompagnate da una straordinaria
licenza e sfrenatezza di rapporti sessuali (le ragazze
erano di chi le voleva). ‘Tutto cid era effetto della
particolare sanctitad presente nell’idolo e da esso ir-
radiante. Per cid - séguita a dire il nostro docu-
mento - al sentir la voce che parlava dall’idolo le
donne (si noti la parte accentuata che ha l’elemento
femminile in tutta la celebrazione; la confessione
stessa ¢ attribuita solo alle donne, non agli uomini)
erano prese da un tremito e@ come indemoniate si
gettavano per terra con la schiuma alla bocca, cre-
dendo che in tale stato di furore religioso entrasse
INTERPRETAZIONE 47
in loro la ‘santita’ purificatrice, risanatrice, rinno-
vatrice. Aggiunge la nostra. notizia che questi fat-
tucchieri esercitavano anche funzioni di medici nelle
infermita, nonché di 4uguri, osservando il volo di
certi uccelli. Erano essi i pitt temibili avversari del-
V’opera dei missionari e il principale ostacolo alla pe-
netrazione del Cristianesimo fra gli indigeni.
F). INTERPRETAZIONE.
Per quanta sorpresa possa recare, a prima vista,
l’esistenza di una confessione dei peccati in ambienti
di civilta pit o meno primitiva, i fatti qui sopra ad-
dotti (e molto verosimilmente non saranno i soli)
sono, a mio giudizio, abbastanza probanti, e d’al-
tra parte escludono - come gid abbiamo accennato
(p. 28 sg.) - Vipotesi di una complessiva origine cri-
stiana (pel tramite delle missioni). Con la confessione
cristiana non si spiega la confessione dei primitivi :
bisogna spiegarla restando nell’ambito della religio-
sita primitiva stessa.
Passando dunque dalla collezione dei fatti alla
loro interpretazione, bisogna, in primo luogo, tener
conto delle circostanze in cui la confessione é pra-
ticata. Molto spesso si tratta di casi di malattia
(Ewe, Wakulwe, Batak, Eskimesi della Grénlandia,
Hupa, Athapaski, Kagaba-Ijca), potendosi fare. en-
trare in questa classe, secondo le idee di una pato-
logia rudimentale, i casi di parto difficile (Dagari,
Wakulwe, Antambahoaka) e di sterilita (Ewe). Fre-
quente é pure l’uso della confessione nell’interesse
di una spedizione di caccia o di pesca (Baganda,
48 CAPITOLO I
Malgasci, Eskimesi, Californiani; presso gli Hui-
chol per la ricerca del sacro hikuli), oppure in vista
di una ‘festa’ o celebrazione religiosa (Bechuana,
Sumatrani di Benkulen, Irokesi, Algonkini, Kagaba
e Ijca, Brasiliani), nei quali casi lo scopo é di aver
fortuna in quella impresa o di poter partecipare a
quella festa. Presso i Sulka si pratica la confessione
in oceasione della cerimonia dell’ annerimento dei
denti (una specie di rito di iniziazione dei giovani),
affinché l’operazione riesca. Presso i Bashilange certe
persone si confessano per potersi presentare al capo;
e presso i Wakulwe si ricorre alla confessione prima
di accingersi a qualche impresa pericolosa. Presso
gli Hupa (California settentrionale) la confessione
giova per far cessare le intemperie mandate da uno
spirito crucciato. I primitivi di Malacca confessano
i loro peccati quando sentono tuonare, per far ces-
sare od allontanare il mal tempo.
Presso i primitivi di Malacca (p. 10 sg.) la confes-
sione si fa rivolgendosi all’essere supremo, mentre
si lancia verso il cielo un po’ di sangue estratto dai
polpacci. Questo rito é stato interpretato come un
simbolico sacrificio espiatorio®®, e corrispondente-
mente la confessione come un atto di profonda reli-
giosita, suggerito dal pentimento, dal rimorso e dal
bisogno di ottenere il perdono dell’essere supremo.
I fatti da noi raccolti e studiati non sono, com-
plessivamente, favorevoli a questa interpretazione,
la quale dipende da una speciale tendenza a trovare
una vita religiosa elevatissima - culminante appunto
nella credenza in un essere supremo - nelle fasi pri-
mordiali della civilta, di cui i primitivi di Malacca
(Pigmei) sarebbero appunto rappresentanti®', In ge-
INTERPRETAZIONE 49
nerale é difficilissimo appurare, in base alle testi-
monianze, quale vita religiosa interiore si accompa-
gni presso i primitivi alla confessione dei peccati. I
motivi appariscenti sono, come si é visto, motivi pra-
tici, utilitari, eudemonistici e deprecatorii. Che 1’es-
sere supremo sia associato al trattamento del peccato
in genere, e quindi anche alla confessione, é quanto
mai naturale, dato che l’essere supremo é un essere
celeste, e come tale vede tutto e sa tutto, e quindi
conosce anche i peccati e i peccatori, e per cid pre-
siede alla punizione loro, adoperando precisamente
anche i fenomeni meteorici ed atmosferici - che sono
naturalmente a sua disposizione -, come il fulmine,
Vuragano e simili®*. Ma altro é la sanzione del pec-
cato e altro la confessione. Se quella é naturalmente
connessa con l’essere celeste - per via della sua on-
niveggenza-onniscienza -, non si pud dire altrettanto
della seconda®*. Fuori della penisola di Malacca é
soltanto presso i Wakulwe®* che la confessione si
trova in rapporto diretto con l’essere supremo (Ngu-
luwwi)®°, mentre d’altro lato é, anche, ritualmente - e
dunque intimamente - connessa con un gettito di
schegge che é esattamente corrispondente ed omo-
logo alla estrazione e dispersione del sangue presso
gli indigeni di Malacca. } questo un punto di capi-
tale importanza, perché non é soltanto presso i pri-
mitivi di Malacca e presso i Wakulwe, bensi nella
grande maggioranza dei casi da noi studiati che la
confessione appare associata con una operazione con-
comitante, la quale corrisponde idealmente a cid che
é lestrazione del sangue presso i primitivi di Ma-
lacca e il gettito delle schegge presso i Wakulwe.
Infatti 1’ estrazione del sangue dall’ ombelico
R. PETTAzzont, La Con/fessione dei peccati, |. 4
50 ' GAPITOLO I
presso i Bechuana - cui si aggiungono i suffumigi e
lo strofinamento col succo delle foglie del lerotse -,
il vomito (simulato) presso i Kikuyu, le abluzioni
e i lavacri presso gli Ewe e i Bashilange, il bagno
forzato di chi si trova in istato d’impurita presso i
Sulka - seguito dalla rimozione e deposizione di certe
foglie sul fondo del mare e dall’assunzione di in-
dumenti nuovi -, ’abbruciamento del cordone presso
xli Huichol, l’asportazione di pietruzze o conchiglie
presso i KA4gaba: sono, al pari della estrazione del
sangue dal polpaccio presso i Semang e Sakai, al
pari del gettito delle schegge dal ventilabro presso
i Wakulwe, altrettante operazioni che, pur nella
diversita loro, hanno un significato univoco ben
chiaro: per esse l’uomo intende levarsi di dosso - o
di dentro - o comunque eliminare ed allontanare
qualche cosa che fa male e reca danno. E poiché a
tutte queste operazioni la confessione é associata,
questa costante associazione in atto é indice di una
essenziale connessione in principio, cioé dunque di
una ideale partecipazione e cooperazione e concor-
renza della confessione alla funzione eliminatrice
propria di quelle varie pratiche con cui essa si ac-
compagna,
Conmiprendiamo cosi perché la confessione é spesso
praticata in occasione di feste e riti periodici di rin-
novamento (Bechuana, Sumatrani, Irokesi, Algon-
kini, Brasiliani) : questi riti, che sogliono inaugurare
un periodo di vita nuova, naturalmente includono,
per lo pitt, una espulsione dei malanni accumulati ‘
nel periodo cessante; e a questa espulsione di mali —
concorre appunto la confessione. «In realta» - dice
il Bolinder a proposito degli Ijea - « la confessione si
INTERPRETAZIONE St
é, in parte, né pit né meno che uno dei tanti riti
di purificazione »°°,
Questa é anche la ragione per cui la confessione
é praticata - sempre in concorrenza con le opera-
zioni concomitanti, delle quali parecchie hanno in
fatti carattere manifestamente terapeutico (estra-
zione del sangue, vomito, abluzioni, frizioni) -, in
casi di malattia, a scopo di allontanamento del male
fisico. Con cid é da porre in relazione il fatto, a
prima vista abbastanza strano, che i peccati che si
confessano dai primitivi sono, nella grande maggio-
ranza dei casi, peccati sessuali. Infatti, presso i Da-
gari e presso gli Antambahoaka la donna che ha le
doglie del parto deve confessare le sue relazioni ille-
cite, se vuole sgravarsi. Altrettanto deve fare presso
gli Ewe la donna sterile, se vuole aver figli. Altret-
tanto la moglie infedele presso i Bechuana, per po-
ter essere ammessa alla cerimonia annuale di puri-
ficazione. Presso gli Huichol le donne debbono con-
fessare tutte le relazioni amorose che hanno avuto,
se si vuole che riesca bene la ricerca del sacro hikuli.
Anche gli uomini sono tenuti a confessare i loro
peccati sessuali, sia in corrispondenza con la con-
fessione delle donne (Bechuana, Huichol), sia in cir-
costanze del tutto indipendenti, e in ispecie per la
buona riuscita di una spedizione di caccia o di pe-
sca (Baganda, Malgasci). Presso i Yurok si confessa
il peccato sessuale consistente nell’ aver avvicinato
la propria donna in circostanze indebite, generando
cosi un bambino che in qualche infermita od imper-
fezione porta il segno dell’ irregolare suo concepi-
mento. Peccati sessuali sono quelli di cui si confes-
sano i Sulka. I peccati sessuali hanno gran parte
52 CAPTTOLO I
fra quelli per cui i Semang e Sakai praticano la
estrazione del sangue accompagnata da confessione,
come pure fra quelli che cadono sotto la sanzione
diretta del loro essere supremo celeste. Peccati « peg-
giori per sozzura e bestialitd di quelli di Sodoma e
Gomorra » sono principalmente confessati dai ‘Ta-
kulli, Peceati sessuali sono, a quanto sembra, anche
quelli confessati dagli Ojibway. Peccati sessuali sono
principalmente oggetto di confessione presso i Ké-
gabae gli Ijea: se presso i Kégaba si confessa anche
il furto, cid rappresenta, a quanto pare, uno svolgi-
mento secondario (Preuss), Furto ed omicidio non
figurano, in generale, tra i peceati presso i primi-
tivi di Malacca (soltanto l’omicidio presso i Sabubn).
Presso i Kikuyu non si confessa il furto, non si
confessa l’omicidio, ma si pratica una confessione
speciale per i peceati di adulterio. Anche nel ‘de-
calogo’ dei Wakulwe l’adulterio tiene il primo po-
sto, La ragione di tutti questi fatti, che troveranno
ulteriori riscontri nel seguito della nostra trattazio-
ne, © da cercare - in massima parte - in una speciale
espericnza patologica che suole accompagnare 1’eser-
cizio abusivo od eccessivo della funzione sessuale:
infatti quel senso di fiacchezza, di inabilita allo
sforzo, di incapacitd alla resistenza (p. 35, 30) che
suol ingenerarsi da tali abusi ed eccessi, si presta ad
essere sperimentato come uno stato morboso, alla cui
climinazione si crede giovi, come in altri casi d’infer-
mita, la pratica della confessione e delle operazioni
ad essa concomitanti.
Or come pud avvenire che la confessione sia
parte, come ¢, di un processo eliminatorio? Come
INTERPRETAZIONE 53
puod la confessione concorrere alla eliminazione del
male nelle sue varie forme, sia di malattia, sia di
disgrazia o danno o insuccesso? Noi stentiamo a ren-
dercene conto, come in genere stentiamo a penetrare
nel pensiero dei primitivi, formati, come siamo, ad
un altro pensiero. Per prima cosa, dobbiamo cercare
di capire come é concepito dai primitivi il peccato.
Il peccato, che é l’oggetto proprio della confes-
sione, ¢ anche l’oggetto delle pratiche eliminatorie
concomitanti. Cid che é oggetto di tali pratiche, cid
che puo essere distrutto col fuoco, cancellato con
Vacqua‘’, rigettato col vomito®*, espulso insieme col
sangue, ecc., é dunque concepito come qualche cosa
avente una consistenza sostanziale; in altri termini,
é il male sentito come esperienza dolorosa ed obbiet-
tivato nella nozione di una forza-sostanza che la pro-
duce. D’altra parte il peccato é un’azione commessa :
per i primitivi un’azione generatrice di male. Se il
peccato nel processo confessionale-eliminatorio é trat-
tato allo stesso modo di una sostanza maligna, vuol
dire che qui é in gioco non il momento soggettivo
dell’atto peccaminoso, cioé la volonta del soggetto,
bensi il momento oggettivo, ossia la realta del fatto
compiuto - dell’azione commessa -, realta che é con-
cepita come male appunto perché é sperimentata nei
suoi effetti dolorosi. Questa confusione - o insuff-
ciente distinzione - di peccato e male procede, al pari
di altre ‘incongruenze’ (tali appaiono al nostro pen-
siero) del pensiero primitivo, da una effettiva - cioé
effettivamente concepita e pensata - compartecipa-
zione di ambo i termini ad un rapporto che non é
di causalita, né di successione nel tempo, ma di so-
stanzialita, in quanto l’azione peccaminosa suscita
54 CAPITOLO I
e mette in circolazione certe forze-sostanze genera-
trici di male. (Questa nozione di forza-sostanza co-
me medium participationis fra peccato-attivita e do-
lore-passivita sta anche alla base della gran legge
del karma: cfr. p. 272 sg.).
Talvolta questo male che si genera é esso la pri-
ma rivelazione sintomatica di un peccato commes-
so°®, cioé di un peccato che l’uomo non sapeva di
avere commesso, ma che pur deve avere commesso,
se ora ne soffre le conseguenze. Chi non é esposto,
p. es., a violare, pur contro ogni sua intenzione e
consapevolezza, qualcuno dei numerosi tabu compo-
nenti la trama spesso complicatissima entro la quale
si svolge la vita della tribti? Presso i Jahai (Semang)
é€ peccato - un peccato punito da Karei con una ma-
lattia - se lo suocero sta troppo vicino alla nuora, o
il genero alla suocera, anche se cid accade involon-
tariamente’°. Come si vede, la nozione primitiva del
peccato comporta anche l’idea di peccato involon-
tario e commesso senza saperlo: idea che a noi sem-
bra assurda, mentre é spiegabile in base alla no-
zione primitiva del male come forza-sostanza, come
fluido maligno operante automaticamente, liberato e
messo in gioco dall’atto peccaminoso.
Il peccato é azione generatrice di male in quanto
é azione perturbatrice di un ordine divino. In un
mondo, come quello dei primitivi, dove tutto cid
che é insolito e straordinario é divino, anche il male
é divino. Ma qui ‘divino’ non significa necessaria-
mente ‘mandato da Dio’. Né l’ordine divino, di cui
il peccato é perturbazione, é necessariamente un or-
dine voluto da Dio - o da un dio 0 demone o spi-
rito. C’é, anche, un ordine che é divino perché é
INTERPRETAZIONE 55
l’ordine delle impersonali forze sacrali; ed anche co-
me violazione di questo il peccato appartiene alla re-
ligione. C’é chi riserva il nome di religione al mondo
delle persone divine, contrapposto alla magia come
mondo del sacro, vale a dire della impersonale sacra-
lita’’. Ma tanto la concezione di esseri divini (per-
sonali) quanto quella di forze sacrali (impersonali)
rientrano in quel processo di obiettivazione dell’ espe-
rienza del sacro la quale presiede alla vita reli-
giosa tutta quanta. Un momento, un ‘aspetto’ di
tale processo é anche la nozione sostanziale del male-
peccato - corrispondente ad una esperienza dolorosa
del sacro -, che sta alla base della confessione primi-
tiva nelle forme da noi studiate. Abbiamo dunque da
un lato una concezione magica del peccato in fun-
zione dell’idea di forza-sostanza maligna, dall’altra
una concezione teistica del peccato come offesa fatta
alla divinita. Una combinazione delle due concezioni
si ha nella credenza degli Eskimesi (p. 20 sg.), se-
condo la quale l’insuccesso nella caccia alle foche é
un male mandato, si, in prima istanza da una divinita
- la dea Sedna -, ma in ultima analisi emanante da
un fluido pernicioso che si genera nella violazione
di un tabu, - nel che si potrebbe vedere adombrata
la transizione dalla concezione magica del peccato
alla teistica. Ma, a parte ogni questione genetica, cid
che qui importa affermare si é che anche la con-
cezione ‘magica’ del peccato é una concezione reli-
giosa. L’aspettazione angosciosa degli effetti funesti
delle forze sacrali messe in circolazione, p. es., nel
contatto indebito di cose o persone intangibili perché
‘impure’ (tabu) @ - qualitativamente - altrettanto
religiosa quanto |’ attesa timorata del castigo di-
56 CAPITOLO I
vino provocato da un’offesa fatta ad una divinita.
Religiosa é 1’ attribuzione delle comuni sofferenze
alla vendetta del dio offeso da una colpa di tutto
il popolo, e religioso é lo sgomento del singolo in-
dividuo di fronte ai sintomi del male o ai segni della
sciagura rivelatori di un peccato inavvertitamente o
involontariamente commesso.
Come c’é un peccato concepito ‘magicamente’,
cosi c’?é anche una confessione di tipo ‘magico’,
vale a dire fondata anch’essa sopra la nozione ele-
mentare di forza-sostanza sacrale. EK questo tipo di
confessione che prevalentemente si trova rappresen-
tato, insieme con la concezione magica del peccato,
presso i primitivi. Infatti nei vari casi di confessione
primitiva da noi qui sopra raccolti le persone di-
vine, compresa quella del supremo essere celeste,
hanno, come gid dicemmo (p. 49), in complesso,
poca parte, o per lo piti una parte indiretta od even-
tualmente secondaria. Né i motivi della confessione
sono, per quanto si sa, quelli interiori del penti-
mento, del riconoscimento della colpa e simili, che
sono propri della confessione in ambienti di religio-
sita teistica; bensi quelli esteriori onde la confes-
sione tende a conseguire un bene attraverso la eli-
minazione drun male (p. 49). Ma anche questa con-
fessione dominata da motivi ‘eudemonistici’, ignara
della contrizione e del rimorso, ha tuttavia un suo
carattere religioso in rapporto col carattere religioso
del peccato pur magicamente concepito, ossia in rap-
porto col carattere religioso della magia in genere,
nel senso sopra illustrato.
La magia che é in gioco in questa confessione
INTERPRETAZIONE 57
primitiva é precisamente la magia della parola, in
quanto la confessione é, in atto, enunciazione: enun-
ciazione del peccato. EK forse a scopo informativo che
il primitivo enuncia il suo peccato, per farlo sapere
a qualcuno? Questa spiegazione potrebbe valere per
la confessione fatta al fattucchiere specialmente in
caso di malattia, quando puo essere utile che il me-
dico-confessore conosca i peccati del paziente-peni-
tente per suggerire la terapia pil opportuna. Ma
non sempre, anzi soltanto nel minor numero dei casi,
la confessione é fatta ad un fattucchiere. E in che
modo pud, p. es., tornar giovevole ad una parto-
riente l’informare il proprio marito delle sue rela-
zioni extra-coniugali (Dagari)? Presso le genti pri-
mitive della penisola di Malacca, se all’appressarsi di
un temporale i peccatori gridano i loro peccati, cid
non sara certo per informarne gli altri individui pre-
senti, e nemmeno per informarne l’essere celeste, dal
momento che questo, essendo onniveggente, gid co-
nosce i trascorsi degli uomini. Le formule che i pri-
mitivi di Malacca pronunciano in tale occasione non
esprimono il pentimento pel peccato o pei peccati
commessi: contengono semplicemente il nome del
peccato o dei peccati e nulla pit, come se tale enun-
ciazione basti allo scopo..E basta in fatti, poiché lo
scopo é la evocazione del peccato, e la semplice enun-
ciazione é appunto evocazione. Per la straordinaria
potenza e virtti della parola il peccato enunciato é
evocato. Come il nome di una persona pronunciato
vale - magicamente - ad evocare la persona stessa
e a farla presente’*, cosi il peccato enunciato é ri-
chiamato dalle lontananze del tempo in cui fu com-
messo, € estratto fuori dalla persona che l’ha com-
58 CAPITOLO I
messo, € espresso nel senso pit genuino della pa-
rola: nel linguaggio dei Kagaba ‘confessare’ si dice
appunto aluna iZguaSi, che propriamente significa
‘dire cid che é dentro’”*. Che sia proprio la enun-
ciazione(-evocazione) il momento essenziale della
confessione primitiva risulta con particolare evidenza
nei casi in cui un’altra persona si sostituisce al pec-
catore nel fare la confessione, come avviene presso
gli Algonkini (p. 26) o presso i Wakulwe (recita-
zione di un elenco di peccati fatta a nome di una
comunita da un suo rappresentante: cfr. Giappone
p. 180, Cina p. 206). Cid é possibile solo in quanto
la confessione é enunciazione, bastando che il pec-
cato sia enunciato - anche se non da-chi l’ha com-
messo - per che lo scopo sia raggiunto.
Espresso dalla persona del peccatore, evocato,
reso attuale e presente nella sua sostanzialita, ecco
che il male-peccato é reso suscettibile di eliminazione
‘mercé l’applicazione di un mezzo materiale, come
l’acqua o il fuoco ecc. e l’esecuzione della relativa
operazione eliminatoria, che pud essere l’abluzione
o l abbruciamento o la dispersione o la deposizione
degli indumenti o 1’ estrazione del sangue o il vo-
mito, ecc. Ora comprendiamo come la confessione
possa far parte di un processo eliminatorio-purifica-
torio. Confessione del peccato e operazione elimina-
toria sono due~atti complementari di un medesimo
processo. A base di tutto questo sta la concezione
del male-peccato come forza-sostanza.
Ora, anche, comprendiamo come proprio nella
sua forma elementare primitiva la confessione sia,
come abbiamo visto presso i primitivi di Malacca
INTERPRETAZIONE 59
(p. 14), dichiarazione specifica di singoli peccati com-
messi, € non, p. es., un riconoscimento generico di
colpevolezza. Questo aspetto della confessione pri-
mitiva trova anch’esso la sua legittima spiegazione
nell’interpretazione qui data della confessione - nella
sua forma elementare - come enunciazione del pec-
cato a scopo evocatorio in vista della eliminazione dei
suoi effetti funesti. Infatti una dichiarazione generica
di colpevolezza, un riconoscimento sommario della
propria qualita di peccatore non ha valore di evoca-
zione: come evocazione - ai fini eliminatori - pud
valere soltanto l’enunciazione del singolo peccato,
la quale non puo essere che particolare e specifica.
Se poi uno stesso peccato é enunciato pit volte nella
confessione (fino a sette volte presso gil Ewe), an-
che cid sara da spiegare col carattere evocatorio-eli-
minatorio della pratica confessionale, volendosi con
l’ iterazione dell’ atto assicurare e perfezionare |’ ef-
fetto, cioé l’estrinsecazione del male-peccato.
Che tale specificazione dei peccati sia un carat-
tere primario della confessione primitiva, inerente
alla sua stessa natura, riesce comprovato dalla sua
- per cosi dire - vitalita, quale si manifesta in un
caso in cui la specificazione parrebbe addirittura im-
possibile. Questo é il caso dei peccati commessi in-
volontariamente e inconsapevolmente. Come speci-
ficare cid che non si sa? La difficolta é risolta mercé
una confessione di un tipo speciale, consistente
nella enunciazione di tutti i peccati possibili, tra i
quali dunque anche quelli reali - cioé quelli effet-
tivamente, anche se inconsapevolmente, commessi -
sono compresi. Questa é l’origine degli elenchi di
peccati, di cui si ha, a quanto pare, un esempio ru-
suite
60 CAPITOLO I
dimentale gid presso gli indigeni di Malacca (p. 14):
V’elenco @ un mezzo per salvare il principio essenziale
della specificazione a costo di togliergli ogni valore
col ripeterlo all’infinito.
Fondata, com’é, su la magia della parola, la con-
fessione primitiva non ha ragione di essere segreta.
Hsempi di confessione pubblica, cioé fatta in pre-
senza di pit’ persone, sia che queste partecipino
(confessione collettiva) o semplicemente assistano al-
l’operazione confessionale, si hanno presso i Wakul-
we (confessione collettiva), i Malgasci, i primitivi di
Malacea, i Sulka, gli Eskimesi Centrali, gli Hupa,
i Yurok, i Luisefio, gli Algonkini, i K4gaba (con-
fessione collettiva in caso di calamita pubblica), i
Brasiliani, verosimilmente anche presso i Bashilange,
Irokesi, Huichol. Di carattere privato é¢ la’ confes-
sione fatta al coniuge (Dagari, Bechuana), oppure
ad un conoscente od amico (Kikuyu), 0, pit fre-
quentemente, al fattucchiere (Hwe, Kikuyu, Bagan-
da, Antambahoaka, Athapaski, Kagaba ed Ijca); ma
anche la confessione fatta al fattucchiere non esclude
la presenza di terzi (Ewe, e verosimilmente Hui-
chol), e sopratutto non é sottoposta al vincolo del
segreto. La confessione segreta appartiene agli svol-
gimenti ulteriori della confessione (cfr. Pert, e forse
Messico p. 140, 142).
La confessione primitiva non é, essenzialmente,
- lo abbiamo visto - espiazione, soddisfazione, ripa-
razione verso la divinita: ma é, essenzialmente, libe-
razione. Liberazione da quello smarrimento che
prende l’uomo al manifestarsi dei primi sintomi del
male. Liberazione da quel cumulo di guai che a un
INTERPRETAZIONE - 65
certo momento - non di rado fissato periodicamente -
la comunita sente pesare sul suo destino come ere-
dita di un tempo pit o meno lungo e remoto, onde
anela a scuotersi di dosso il pernicioso fardello per
rimettersi, pit leggera, in cammino, per inaugurare,
purificata, un nuovo ciclo.
Liberazione da una intollerabile angoscia, sol-
lievo ineffabile da una pena che opprime: in questa
esperienza - che non é senza affinita con quella onde
il delinquente si sente spinto a dichiarare il suo de-
litto o lo sventurato s’induce a versare la sua pena
in un cuore amico -, in questa fondamentale espe-
rienza liberatrice e consolatrice é il valore intimo e
profondo della confessione, che é comune tanto alla
confessione dei primitivi nelle sue forme pitt elemen-
tari quanto a quella che si pratica nelle religioni
superiori, perché ¢ il comune dato di vita interiore,
suscettibile di una obiettivazione tanto in senso ma-
gico quanto in senso teistico. In processo di tem-
po, col prevalere della religiosita di tipo teistico, si
produrra un mutamento radicale nel modo di con-
cepire il peccato e di praticare la confessione. Alla
primitiva paura di malanni imminenti e alla preoc-
cupata premura di evitarli subentreranno il rimorso
che non da requie e 1’inquieto imperioso bisogno. di
essere, di tornare ad essere, in pace con Dio. Ma in
questo progressivo interiorarsi della vita religiosa,
ed attraverso tutta la varieta degli svolgimenti for-
mali e delle soprastrutture cultuali ed istituzionali,
restera a fondamento della confessione dei peccati
“quella essenziale funzione liberatrice che é la sua
propria ragion d’ essere immanente, perché é il suo
proprio valore universalmente umano.
62 CAPTTOLO I
Nel passare dal mondo dei primitivi a civilta e
religioni gradatamente pitt clevate, la confessione ci
apparirA in forme diverse e via via pitt evolute, in
armonia con i nuovi orientamenti e sviluppi della
religiosita di tipo teistico. La primitiva confessione
di carattere magico scomparirA, in complesso, dalla
scena, Ma tanto pitt interessante sara il poter segna-
lare nelle forme nuove non pochi aspetti ed ele-
menti propri ed originari di quelle tramontate ed
arcaiche, I concomitanza della confessione con riti
di carattere eliminatorio, la pratica della confessione
in casi di malattia ed altre disgrazie - in rapporto con
motivi prevalentemente cudemonistici -, il carattere
‘purificatorio’ della confessione che presiede alla sua
incorporazione nelle cerimonie e feste di rinnova-
mento, la curiosa preponderanza dei peccati sessuali
rivelatrice di oscure connessioni patologiche e sa-
crali, la confessione fatta pubblicamente e collet-
tivamente; tutto questo fermerdA la nostra atten-
zione via via che esamineremo la confessione nel-
America precolombiana, nel Giappone, nella Cina,
nell’ India, nell’ Ngitto, nella Babilonia, in Israele.
La confessione specifica dei peceati, cosi intima-
mente radicata nella primitiva magia della parola,
soltanto in parte cedera il terreno alla dichiarazione
generica di colpevolezza, L elenco dei peccati, di
cui abbiamo esempio presso i primitivi, ci riappa-
rirA non solo nel Shintoismo, ma anche - nella for-
ma amplificata e dignificata del formulario di con-
fessione - nel Buddhismo, nel Manicheismo e nel
Parsismo, Sopratutto la nozione di peceato involon-
tario, espressione genuina ed ereditA sintomatica
dell’areaica concezione sostanziale del male-peceato,
IN'TERPRELAZIONE 63
ci mostrera la sua persistenza anche in seno a fe-
ligioni di tipo nettamente teistico: non solo nel
Shintoismo giapponese o nell’antica religione di Ba-
bilonia, non solo nel Brahmanesimo, nel Giudaismo
e nell’Ellenismo, ma anche nel Giainismo, nel Ma-
nicheismo, nel Parsismo, e perfino nel Buddhismo
e nel Cristianesimo, nonostante che in queste due
massime religioni, come pure - ad un certo mo-
mento - nella religione d’Israecle (Profetismo), 1’an-
tica concezione del peccato involontario abbia tro-
vato, per diversa via, il suo superamento.
NOTE
11. Tauxier, Le Noir du Soudan, Paris 1912, 777; cfr. Studi
e Materiali di Storia delle Religioni, 3, 1927, 113 (R. Boccas-
sino).
2 J. Spieth, Die Religion der Eweer in Sitid-Togo (« Quellen
der Religionsgeschichte », 3), Gottingen 1911, 44, 58 sg.
3 Spieth, op. cit., 88.
4 Il bagno come mezzo di detergere i peccati - concepiti
come sudiciume - é praticato presso gli stessi Ewe nella con-
sacrazione di un sacerdote del dio supremo, Mawu: Spieth,
op. cit., 19; efr. Scheftelowitz, Die Siindentilgung durch Was-
ser, Archiv fiir Religionswissenschaft, 17, 1914, 353 sgg.
5 Pogge, Bericht tiber die Station Mukunge, Mittheilungen
der afrikanischen Gesellschaft in Deutschland 4, 1883-85,
182 sg., citato da J. G. Frazer, The Golden Bough’, vol. 3,
p. 198.
6 Rev. W. C. Willoughby, Notes on the Totemism of the
Bechuana, Journal of the R. Anthropological Institute, 35, 1905
(295 sgg.), 311-313.
7 Presso i Gafri (Africa meridionale), i quali sono partico-
colarmente sensibili alla sacralita del sangue umano, quando
i guerrieri tornano da una battaglia - dove o hanno versato
il sangue altrui o sono stati feriti essi stessi -, sono sottoposti
all’ azione di un emetico (A. Kropf, Verhandlungen der Ber-
liner Gesellschaft fiir Anthropologie, Ethnologie und Urge-
schichte, 1888, [46]). - Presso i Nandi (Africa Orientale), quan-
do un tomo di una tribti ha ucciso un membro di altra tribt, é
impuro per quattro giorni, durante i quali egli deve osservare
certi divieti, e alla fine del quarto giorno deve prendere una
purga (A. C. Hollis, The Nandi, Oxford 1909, 744).
8 P. Cayzac, La religion des Kikuyu, Anthropos, 5, 1910,
309 SBE.
9 Rev. J. Roscoe, ’urther Notes on the Manners and Cu-
stoms of the Baganda, Journal of the R. Anthropological In-
stitute, 32, 1902, 55 sgg.
10 P, Alois Hamberger, Religidse Ueberlieferungen und
Gebriuche der Landschaft Mkulwe, Anthropos, 4, 1909, 309 sgg-
11 Nguluwi é Vessere supremo, inyocato come mama ‘ina-
dre’, nel senso di ‘materno, benigno’; cfr. Pettazzoni, Dio, I,
p- 220.
12 Te fonti si trovano citate in Frazer, The Golden Bough*,
vol. 3 (Part. 11), 216 e 191. Nel Madagascar si ha notizia anche
di un altro costume che indirettamente interessa il nostro ar-
gomento. Quando uno sente il bisogno di liberarsi da guai e
malanni che l’affliggono, ricorre a persona competente (fattuc-
chieri, indovini e simili), e ne ha V’indicazione di un fdditra
(cfr. fddy, che corrisponde all’incirea all’idea di tabu: A, van
Gennep, Tabou et totémisme & Madagascar, Bibliothéque de
l’Ecole des Hautes Etudes, Section des Sciences Religieuses,
VII, Paris 1904, 12 sgg.; H. Dubois, La morale chez les Malga-
ches, «Settimana di Etnologia religiosa», 4# Sess. [Milano 1925],
Paris 1926, 179. [Dello stesso P. Dubois un articolo sulla cir-
concisione degli Antambahoaka in Anthropos, 22, 1927, 747]):
su questo fdditra, che pud essere, p. es., un pizzico di cenere,
tina moneta, un frutto, od altro, si enunciano tutti i mali
- reali o possibili - del paziente; indi si procede alla elimina-
zione del fdditra: se é cenere é soffiata via, se é una moneta
é gettata in un’acqua profonda, se é un frutto @ fatto a pezzi:
la distruzione o eliminazione del fdditra implica la distruzione
od allontanamento dei malanni. Fddilra pud esser anche un
animale: in tal caso un uomo se lo mette in ispalla e ly porta
lontano, imprecando su di esso ogni sorta di guai (J. Sibree,
Madagascar and its people [1870] 391). - Anche presso i Cafri
in caso di malattia grave, riusciti vani altri rimedi, si conduce
tina capra al giaciglio del sofferente e su di essa si ‘confes-
sano’ i peccati del kraal, dopo di che la capra é cacciata in
territorio disabitato, ritenendosi che essa porterd via con sé
la malattia (Frazer, The Golden Bough, vol. 9, p. 31).
R. PETTAzzoNI, La Confessione dei peccati, |, 5
ge!
66 CAPITOLO I
13 Tl rito, gid noto per osservazioni anteriori (Skeat-Blagden,
Pagan Races of the Malay Peninsula, London 1906; cfr. R. Pet-
tazzoni, Dio, I. 104), é stato osservato da Ivor H. N. Evans,
Studies in Religion, Folk-lore and Custom in British North
Borneo and the Malay Peninsula, Cambridge 1923, 141 sgg.,
I5I sgg., 199 sgg. e studiato specialmente dal P. P. Schebesta,
Religidse Anschauungen der Semang tiber die Orang hidop,
Archiv f. Religionswiss. 24, 1926, 209-233; 25, 1927, 5-35 (cfr.
« Settimana Internazionale di Etnologia Religiosa », 4# sessione
[Milano 1925], Paris 1926, 186 sg.); Bei den Urwaldzwergen von
Malaya, Leipzig 1927, 181 sg., 190 sg.; 210 sg., 243 sg. (con fo-
tografie del rito); Gesellschaft u. Familie bei den Semang auf
Malacca, Anthropos 1928, 235 sgg. - Le tribtii presentano una
assai complicata e varia mescolanza di elementi antropologici,
linguistici e culturali (dai Sakai son derivati ai Semang il ta-
tuaggio, la perforazione del setto masale, ecc.: Schebesta, op.
cit., 271 sg.), che rende difficilissimo identificare e precisare
nei rapporti e nelle proporzioni reciproche gli elementi costi-
tutivi fondamentali.
13a Cfr. quel che attesta (dei Totonaki: Krickeberg, Bassler-
Archiv, 9, 1925, 15) Pietro Martire, De Insulis, 35: « suum pro-
prium sanguinem offerunt e lingua..... vel femore aut cruribus :
multi acutis novaculis vulnerati emungunt sangtlinem, quem
manu receptum roratim projectum caelum versus, per
templi pavimenta conspergunt ».
14 Cfr. R. Pettazzoni, L’essere celeste nelle credenze dei
popoli primitivi (Dio: Formazione e sviluppo del monoteismo
nella storia delle religioni, I), Roma 1922, tor sgg.
15 « Une vraie confession prononcéé a haute voix»: Sche-
besta, 42 Settimana di Etnol. relig., 188. - Presso i Ple, quando
si scatena un temporale, si domanda nella comunita, che vive
raccolta in una grande capanna comune, chi abbia un peccato
sulla coscienza: ibid., 191-92, Arch. f. Religionsw., 25, 1927, 23.
16 H. Juda, Soempah-Ngawak, Bijdragen tot de taal-, land-
en volkenkunde van Nederlandsch-Indié, 70, 2 (1915), 650 sg.;
efr. Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 3, 1927, 247.
17 J. Warneck, Die Religion der Batak (« Quellen der Reli-
gionsgeschichte », 1), Géttingen-Leipzig 1909, 129, 57.
17a Parkinson, Dreissig Jahre in der Stidsee, Stuttgart 1907,
NOTE 67
183; efr. Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 4, 1928,
303 sg. (R. Dangel).
17b Parkinson, op. cit., 179.
18 F. Boas, Eskimo of Baffin Land and Hudson Bay, Bul-
letin of the American Museum of Natural History, XV, 1
(1901), 120 sgg.
19 R. Pettazzoni, Dio, I, p. 260 sg.; cfr. W. Thalbitzer, Eski-
moernes kultiske Guddomme, Kébenhavn 1926, 46 sg.
20 Si noti l’analogia con una credenza attestata dal P. L.
Hennepin, in Les mceurs des sauvages (appendice alla Descrip-
tion de la Louisiane, Paris 1683), p. 97: «Ils ne donnent pas
les os des Castors ni des Lontres aux Chiens, je leur en ay de-
mandé la raison, ils m’ont répondu quw’il y avoit un esprit
dans le bois qui le diroit aux Castors et aux Lontres, et
qu’aprés cela ils n’en prendroient plus. Je leur ay demandé
ce que c’estoit qu’un semblable esprit, ils m’ont réparti que
c’estoit une femme quti scavoit tout, et estoit la maitresse de
toute la chasse ».
21 Knud Rasmussen, Rasmussens Thulefahrt, Frankfurt a.
M. 1926, 72 sg.; Studi e Materiali, 3. 1927, p. 114 (R. Dangel).
22 Will. Thalbitzer, The Ammassalik Eskimo, Meddelelser
om Groénland, vol. 39, p. 97; cfr. Studi e Materiali di Storia
dele Religioni, 3, 1927, 114. (R. Dangel). - Non fa meraviglia
che, quando i Grénlandesi furono convertiti al Cristianesimo,
si dovesse introdurre dal danese la parola per dire ‘peccato’,
perché per i Grénlandesi l’idea di peccato si confonde con
quella di danno, disgrazia: Arch. f. Religionsw., 17, 1914, 354-
23 KH. Petitot, Traditions Indiennes du Canada Nord-Ouest,
Alencon 1887, 271 sg.: Studi e Materiali di Storia delle Reli-
gioni, 4. 1928, 303.
23a La testimonianza é fornita da D. W. Harmon, ap. J.
Morse in Report to the Secretary of War of the U. S. on
Indian Affairs, New-Haven 1822, p. 345, riportato da Frazer,
The Golden Bough’, vol. 3 (Part 11), 215. - Cfr. H. H. Ban-
croft, The Native Races of the Pacific States, III, New-York
1875, 143. Cfr. anche J. G. Bourke, The medicine-men of the
Apache, Annual Report of the Bureau of American Ethnology,
Smithsonian Institution, 9 (1887-88), Washington 1892, p. 465,
n. 8. - H. B. Alexander, « Encyclopaedia of Religion and
Ethics », XI, 530.
———
68 CAPTTOLO I
24 Pliny Earle Goddard, Life and Culture of the Hupa,
University of California Publications in American Archaeology
and Ethnology, I, 1, Berkeley 1903, 79 sg.
25 A. I. Kroeber, Handbook of the Indians of California,
78 Bulletin of the Bureau of American Ethnology, Washington
1925, 69. J
25a A. I,, Kroeber, ap. Constance Goddard Dubois, The Re-
ligion of the Luisefio Indians of Southern California, Univer-
sity of California Publications, VIII. 3, Berkeley 1908, 184.
26 A. L. Kroeber, Handbook of the Indians of California,
1925, 643.
27 I G. Kohl, Kitschi-Gami oder Erzihlungen vom Obern
See, Bremen 1859, I, 166 sg.: « Ich habe hier unter den Odjib-
bewds von einem Monate sprechen gehért, ‘in dem die Leute
das Laster verwerfen’ (‘une Lune, ou ils rejettent le vice’).
Das erste Mal, so erzihlte man mir, wo die Leute, besonders
die Jungen, den Mond im Februar sehen, sagen sie: ‘Je re-
jette ma mauvaise maniére de vivre’. Dies war leider alles,
was ich iiber diesen interessanten Umstand erfahren konnte.
Steckt hinter dieser Sitte vielleicht eine Feier des: wiederkeh-
renden Jahres, oder ist ein Rest sonst eines alten traditionellen
Festes darin? Manche haben mir behauptet, es ware wirklich
der Anfang des Jahres damit bezeichnet ». Cfr. Studi e Mate-
tiali di Storia delle Religioni, 4, 1928, 303 (R. Dangel).
28 Relation de ce qui s’est passé..... en la Nouvelle France
és années 1653 et 1654, in « The Jesuit Relations» (ed. R. G.
Thwaites), vol. 41: ch. x1 ‘Remarques tirées de quelques Let-
tres et de quelques Mémoires venues du Pays’, p. 188.
29 Cir. la Relation pel 1657, « The Jesuit Relations », vol. 43,
p. 284 - a proposito degli Onondaga (Onnontaghehronnons) -:
« Dieu se sert de leur superstition et de leur fausse piété pour
sanctifier l’inclination qu’ils ont 4 pratiquer quelque culte di-
vin, et 4 user de quelques cérémonies de Religion, en leur
faisant changer d’objet». Cfr. H. B. Alexander, « En-
cyclopaedia of Religion and Ethics », XI. 530, sg. Cfr. quel che
dice, a proposito della confessione pagana dei Peruviani (v. ol-
tre a p. 143), l’Acosta, Historia natural y moral de las Indias,
V, 25: «y en parte 4 sido providencia del Sefior permitir el
uso passado para que la confession no se les haga dificultosa ».
30 E. A. Smith, Myths of the Iroquois, Annual Report of
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NOTE 69
the Bureau of American Ethnology, 2 (1880-81), Washington
1883, 112 sgg.
31 Non @ questo un modo di trasferire nel wampun le
colpe commesse, che ora sono enunciate ?
32 Cfr. Frazer, The Golden Bough*, VI. p. 127.
33 1. cit., p. 112.
34 Per rendere plausibile l’ipotesi di un’ origine cristiana
bisognerebbe spiegare storicamente in che modo avrebbe
potuto attuarsi e sopratutto - di fronte all’opera ed alla in-
fluenza delle missioni - mantenersi una simile deformazione
della confessione auricolare da parte degli indigeni. Anche
Morris Wolf, Iroquois Religion and its Relation to their Mo-
rals, New York 1919, nello studiare cid che nella religione
degli Irokesi é dovuto ad influenze cristiane, dice, a proposito
della confessione e dell’idea di peccato (p. 58): «........
it became customary, though possibly not before the nine-
teenth century, to make public confession of sins. But the
conception neither of confession nor of sin, judging from the
practice, was that of the old Jesuit teachers». - Cfr. D. Boyle,
On the Paganism of the civilised Iroquois of Ontario, Journ. of
the Anthropol. Institute, 30, 1900, 263 sg.: « The wonder is not
that Iroquois paganism has been to some extent modified by
Christian influences, but that it has been modified so little»
(p. 272).
85 F. G. Speck, Ethnology of the Yuchi Indians, University
of Pennsylvania, Anthropological Publications of the Univer-
sity Museum, I. 1, Philadelphia 1901, p. 114.
36 H. R. Schoolcraft, Indian Tribes of the United States,
V, Philadelphia 1856, 267; cfr. Speck, op. cit.; Arch. f. Reli-
gionswiss., 1914, 362.
37 C. Mac Cauley, The Seminole Indians of Florida, Annual
Report, 5, Washington 1887, p. 522.
38 Chateaubriand, Voyage en Amérique (Oeuvres, éd. Gar-
nier, t. VI), p. 122. In altre circostanze, ma sempre in pre-
senza di una forza sacrale (qui incorporata in un idolo) si pra-
ticava il vomito dagli indigeni dell’Isola di Epafiola (Haiti) :
«entrados en el templo, gomitaban metiendose un palillo por
el garguero, para mostrar al idolo aue no les quebada cosa
mala en el est6mago » (F. Lopez de Gémara, Historia General
de las Indias, Anvers 1554, p. 41 [=Historiadores Primitivos
70 CAPITOLO I
de Indias,-I, Biblioteca de Autores Espafioles, XXII, Madrid
1877, p. 172]; G. Benzoni, Historia del Mondo Nuovo, Ve-
nezia 1565, p. 53 verso [=Hakluyt Society, vol. 21, p. 79]).
39 Speck, op. cit., 131. - Anche i Delaware (Algonkini) per
liberare qualcuno dal peccato gli somministravano un emetico
(un altro mezzo consisteva nel bastonare il peccatore con do-
dici bastoni dalla pianta dei piedi fino al collo): G. H. Loskiel,
History of the Mission of the United Brethren among the In-
dians in North America, London 1794, I, 37, citato da Frazer,
The Golden Bough’, vol. 9, p. 263.
40 K. Th. Preuss, Die religidsen Gesinge und Mythen eini-
ger Stimme der Mexikanischen Sierra Madre, Archiv fiir Re-
ligionswissenschaft, 11, 1908, 369 sgg. (cfr. 9, 1906, 464 sgg.);
Die Religion der Cora-Indianer (Die Nayarit-Expedition, I),
Leipzig 1912. Cfr. Seler, Die Huichol-Indianer des Staates Ja-
lisco, in Gesammelte Abhandlungen, III (Berlin 1908), 355.
41 C. Lumholtz, The Huichol Indians of Mexico, Bulletin
of the American Museum of Natural History, 10, 1898; Sym-
bolism of the Huichol Indians, Memoirs of the American Mu-
seum of Natural History 3, New York 1900; Unknown Me-
xico, New York 1902, I, 356 sgg.; II, 127 sgg. - Cfr. L. Diguet,
Idiome Huichol, Journal de la Société des Américanistes de
Paris, 8, 1911, 23 sg.
42 I Cora lo chiamano nawé, ma lo ottengono - dalla linfa
dell’agave - mercé un processo di distillazione, ond’esso corri-
sponde piuttosto al mezcal e al peyote (dal nahuatl peyoll) :
M. Urbina, El peyote y el ololiuhqui, Anales del Museo Na-
cional de Mexico, 7, 1903, 25; L. Diguet, Le peyote et son
usage rituel chez les Indiens du Nayarit, Journ. Soc. Amér.
de Paris, 4, 1907, 21 sg. - L’uso religioso di questa bevanda
alcoolica si é andato diffondendo in tempi recenti dal sud
verso il nord, fino presso i Kiowa: J. Mooney, Calendar Hi-
story of the Kiowa Indians, 17 Annual Report of the Bureau
of American Ethnology, I, Washington 1898, 239.
43 Questo sistema mnemonico, la cui principale applica-
zione @ rappresentata dai quipus peruviani, fu usato anche nel
Nord-America (wampun: v. s. a p. 28).
44 Preuss, Archiv fiir Religionswiss., 11 1908, 378.
45 Ibid., 384. Cfr. Globus, vol. 83 (1903), 253 sgg-, 268 sgg.;
Anthropos, 14-15. 1919-20, 1044.
NOTE “ Wil
46 Wrazer, The Golden Bough’, vol. 3 (Part 11), p. 191.
47 Frazer, The Golden Bough*®, vol. 1, p. 123.
48 Tbid. - Cfr. L. Hennepin, Hist. de la Louisiane, a p. 43
dell’Appendice ‘Les Macurs des Sattvages’: « Si une fille avoit
manqué de se rendre A celui que le chef de partie luy avoit
prescrit (ch’era un modo d’impedire una promiscuita sfrenata),
on Itty attribuoit tout le malheur qui arrivoit dans les entre-
prises de guerre ».
49 Preuss, Die Religion der Cora-Indianer, p. CIV sg.
50 Cfr. Preuss, Archiv f. Religionsw., 11, 1908, 388.
51 K, Th. Preuss, Forschungsreise zu den Kdgaba, St. Ga-
briel-MGdling 1926-1927 (Anthropos, 14, 1919 - 21, 1926), 96 seg.,
128 sg. .
52 G. Bolinder, Ijca-Indianernas Kultur. Bidrag till Kéan-
nedomen om en Chibcha-Stam, Stockholm, 1918; cfr. Die In-
dianer der tropischen Schneegebirge: Forschungen im nérd-
lichsten Siidamerika, Stuttgart 1925.
53 Cfr. K. Th. Preuss, Die hdéchste Gottheit bei den kul-
turarmen Vélkern, Psychologische Forschung, 2, 1922, 167-173-
54 Preuss, op. cit., 96, 141, 289, 423.
55 American Anthropologist, 1901, 639 sg.
56 Preuss, op. cit., 289.
57 Preuss, Psychologische Forschung, 2, 1922, 172.
58 Bolinder, Die Indianer, etc., 120, 126 sg., 139 Sg.; 155, 163.
59 Fr. Bartolomé de Las Casas, Apologética Historia de las
Indias (Historiadores de Indias I [Nueva Biblioteca de Au-
tores Espafioles, t. XIII], ed. M. Serrano y Sanz, Madrid 1909,
cap. 124, p. 331; Fr. Iuan de Torquemada, Monarquia Indiana,
II, Sevilla 1615, lib. v1, cap. 26, p. 58. - Il testo del Las Casas,
con le scarse varianti del Torquemada, é riportato in Studi e
Materiali di Storia delle Religioni, 2, 1926, 74 sg.
60 P. W. Schmidt, Ethnologische Bemerkungen zu theolo-
gischen Opfertheorien, Jahrbuch von St. Gabriel, 1, 1922, 21
(dell’estratto) : per analogia con lo sgarrettamento degli ani-
mali, onde questi sono messi alla mercé del cacciatore, la
estrazione del sangue dal polpaccio vorrebbe significare l’ab-
bandonarsi completo del peccatore alla mercé dell’essere su-
premo; cfr. Schebesta, Archiv fiir Religionswiss., 1927, p. 34.
61 P. W. Schmidt, Der Ursprung der Gottesidee, I, 1912,
21926. Contro questa teoria, v. R. Pettazzoni, Dio: Formazione
i
72 CAPITOLO I
e sviluppo del monoteismo nella storia delle religioni, 1: L’es-
* sere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, Roma 1922;
La formation du monothéisme, Revue de 1’Histoire des Reli-
gions, 1923, vol. 88; Studi recenti in rapporto con la teoria
degli esseri celesti e del monoteismo, Studi e Materiali di Sto-
tia delle Religioni, 3, 1927; Monotheismus u. Polytheismus, in
« Die Religion in Geschichte und Gegenwart » 2° Aufl., vol. IIT.
- Cfr. F. Graebner, Das Weltbild der Primitiven, 1924, 144, n. 4:
«I/idea (dello Schmidt) che il monoteismo primitivo sia pit
antico della magia preanimistica si fonda sopratutto sulla teo-
tia, a mio giudizio non dimostrata, della priorita del cosidetto
ciclo culturale dei Pigmei, la ctli unita a me pare assai dubbia
e che, a parte cid, difficilmente @ tanto antico quanto la ci-
vilta dei Tasmaniani, nella quale il monoteismo, nonostante
il tentativo dello Schmidt, non é dimostrabile ». Contro la pre-
tesa esistenza di un essere stipremo presso i Tasmaniani
(Schmidt, Urspr. d. Gottesid. I? 256 sgg.) v. R. Pettazzoni, Re-
ligiosita dei Tasmaniani, Rivista di Antropologia, 1916. Anche
i Wedda di Ceylon non hanno, per quanto si sa, la nozione
di un essere supremo; né l’hanno i Kubu selvaggi di Sumatra
(A. W. Nietwwenhuis, Das héchste Wesen im Heidentum, In-
ternationales Archiv fiir Ethnographie, 27, 1926, p. 79 sgg.); al-
cuni Pigmei dell’Africa centrale I’hanno presa dai loro vicini
Bantu (R. Pettazzoni, Dio, I, 193-195).
62 R. Pettazzoni, Dio, I, 361 sg. - Si pensi alla vivida ima-
gine uranico-meteorica con ctii é espressa, in modo schietta-
mente mitico-fantastico, 1’ onniveggenza-onniscienza di Karei
presso i Menri (Malacca): Karei lancia una corda ( = il ful-
mine), al cui splendore rischiarante egli vede ogni cosa, com-
presi i peccati degli uomini, ed allora comincia a mugghiare
(= il ttono): Schebesta, Archiv f. Religionswiss., 1927, 15;
per i Kensiu, ibid., p. 13. - Non sempre la sanzione é di na-
tura meteorica: il~peccatore pud soccombere, p. es., all’incon-
tro di una tigre (cfr. America Centrale, p. 115), oppure pud
esser colpito da una malattia; ma @ notevole che una certa ma-
lattia molto temuta - una specie di puntura - é@ considerata
(Jahai) come prodotta da una scheggia del fulmine confitta nel
petto del paziente : Schebesta, Arch, f. Religionswiss. 1926, 221.
63 Per poter dedurre la primarieta della connessione della
confessione con l’essere celeste dalla assoluta primitivita etno-
logica degli indigeni di Malacca presso i quali essa s’incontra,
bisognerebbe che tale primitivita fosse fuori di discussione.
Ma dalle osservazioni stesse del P. Schebesta (Anthropos, 1925,
721 sgg.) risulta che le popolazioni primitive di Malacca presso
cui c’é traccia di una pratica confessionale insieme con l’estra-
zione del sangue e con la nozione di un essere sttpremo ap-
partengono tanto ai Semang (Pigmei) quanto ai Sakai (Pig-
moidi), e che, sia nel rispetto antropologico, sia nel lingui-
stico, sia nel culturale, tutte queste popolazioni quale pit
quale meno rappresentano una combinazione in proporzioni
variabili dell’elemento pigmeo (negrito) con Velemento pig-
moide, per non parlare della ulteriore sovrapposizione dell’ele-
mento protomalese. Di quale di questi elementi sia originario
lessere celeste, di quale l’estrazione del sangue con la con-
gitunta confessione, é assai difficile, in tali circostanze, preci-
sare. Un fatto di cui non si pud non tener conto é che nel
rito dell’estrazione del sangue, stando alle notizie del P. Sche-
besta, tna parte del sangue suol essere versata per terra, es-
sendo destinata ad una divinita femminile della terra (Manoid,
Takel), generalmente concepita come moglie dell’essere su-
premo celeste, mentre a questo é destinata la restante e mag-
gior parte del sangue. Questa associazione - originaria, a
quanto pare (‘urspriinglich’: Schebesta, Archiv f. Religions-
wiss., 1927, p. 28), - dell’essere celeste con l’essere femminile
terrestre nella penisola di Malacca difficilmente si pud di-
sgiungere da quella coppia di Cielo e Terra che s’incontra in
Quasi tutte le isole dell’Indoresia malese o malesizzata (R.
Pettazzoni, Dio, I. 129 sgg.; A. W. Nieuwenhuis, Internat. Arch.
f. Ethnogr., 27, 1926, 30 sgg.; Ztschr. f. Vélkerpsychologie, 2,
1926, 26 sgg.). - Qualunque sia, dunque, la pertinenza etnolo-
gica dell’essere celeste presso i primitivi di Malacca, non é
detto che allo stesso complesso etnologico appartenga anche
la estrazione del sangue e la confessione: la connessione pudé
essersi prodotta secondariamente. E mnotevole che la confes-
sione non figura tra le operazioni che esegtisce il fattucchiere
(hala) in occasione di malattie che si credono mandate in pu-
nizione da Karei.
64 Dunque in un ambiente etnologico assai meno arcaico
di quello dei Pigmei di Malacca.
65 Un essere divino figura bensi in qualche caso in rap-
porto con Ja confessione dei peceati (il tro della terra presso
wli Wwe, il nume Mukasa presso i Baganda, la ‘dea’ Sedna
presso gli Hekimesi, lo spirito di una certa rupe presso gli
Ilupa), ma soltanto indirettamente, non nel senso che la con-
feasione sia fatta a, o controllata da, questo essere divino, -
Preaso gli Huichol Ja confessione & fatta dinnanzi al fuoco,
che @ il simbolo della divinit&é suprema, ma é anche il mezzo
onde & eseguita in questo easo Voperazione eliminatoria con-
comitante della confessione,
46 G, Bolinder, Die Indlaner der lroplschen Schneegebirge,
1925, 140.
47 1, Scheftelowitz, Die Stindentilgung durch Wasser, Ar-
chiv flir Religionswiss., 17, 1914, 353 8g.: il Scheftelowitz usa
il termine ‘Stindenstoft’,
68 Una leggenda degli Arunta (Australia centrale) narra di
due uomini del tolem dello sparviero i quali, avendo divorato
uiomink, donne e bambini del loro stesso lolem, dovettero poi
vigurgitare ogni cosa, liberandosi cos) nel modo pit naturale
di quel cibo ingoiato e proibito e degli influssi della sacralité
tolemica in easo contentta, influssi esiziali, onde era vera-
mente ‘peceato mortale’ quel ch’essi avevano commesso tra-
sgredendo al precetto santissino che vieta di uccidere e man-
winre individui del proprio tolem: B, Spencer, F. J, Gillen,
The northern Tribes of Central Australia, London 1904, 472.
oo Cfr, ‘I, C, Hodson, Archiv flir Religionsw., 12, 1909, 451.
70 Schebesta, Archiv fir Religionswiss., 1926, 2a0.
71 Ofr, Ry Pettazzoni, La ‘grave mora’: Studio su alcune
forme e@ sopravvivenze della sacralita primitiva, Studi e Mate-
riali di Storin delle Religioni, 1, 1925, 1 spe.
72 Anche, p. es, nell’extispicio: Plut. Alex., 73; Arrhian.
Anab,, vin, 18; Tacit. Hist, u. 4. Clr. Blecher, De extispicio,
Giesven 1905, 217 8g.
7) Preuss, Vorschungen zu den Kdgaba, 1927, 96, 423.
|
America antica,
A). MESSICO.
I. DESCRIZIONE.
Fra le numerose divinita dell’ antica religione
messicana ci fu una dea chiamata Tlagolteotl. Teotl
significa ‘divinita’ e tlagolli vuol dire ‘sudiciume,
immondezza, escremento’: Tlagolteotl era dunque
la ‘dea delle sozzure’, diosa de la vasura o desver-
guengas'. Come ‘sozzure’ ed ‘escrementi’ sono da
intendere qui i trascorsi libidinosi, gli atti sessuali
nel loro aspetto meno legittimo e meno normale, e,
comunque, peccaminoso. Questa assimilazione del
peccato carnale all’escremento, che sara stata sug-
gerita da ovvie ragioni fisiologiche (cfr. K4gaba,
p. 40), @ documentata anche dalle pittografie dei
cosidetti Codici messicani, dove il segno del cuitlatl,
cio ‘escremento’*, sta a significare appunto il pec-
cato carnale. In fatti il peccatore carnale, usual-
mente rappresentato da una figura ignuda con vi-
cino un serpente’, é pit specialmente caratterizzato
come tale dal cuitlatl ch’egli tiene in mano‘, o porta
alla bocca®, mentre ¢ in atto di evacuare, quasi a
far intendere ch’egli si nutre del proprio sterco, co-
76 CAPITOLO If
me quegli la cui vita si svolge fra le immondezze.
La nudita e la compagnia del serpente sono proprie
anche delle rappresentazioni della dea Tlagolteotl®.
Inoltre essa ¢ designata altresi col nome di Tlael-
quani, che vuol dire precisamente ‘mangiatrice di
sterco’’. Sotto un altro aspetto la natura eminente-
mente sessuale della dea ‘Tlagolteotl si esprime nella
sua maternita, essendo essa rappresentata in atto di
partorire® o di allattare’.
A ‘Tacolteotl] era sacro il 14° giorno di ogni
‘mese’, intendendosi per mese il periodo di 20 giorni
che costituiva la 18" parte dell’ anno messicano
(360 giorni + 5). Avendo ciascun giorno un suo se-
gno speciale, il giorno di Tlagolteotl era sotto il se-
gno del giaguaro (ocelotl), Per gli scopi augurali,
cui serviva - in ispecie per trarre oroscopi - il
libro’ dei giorni buoni e cattivi (lonalamatl), i
giorni dell’anno erano ripartiti anche in altri modi
diversi: la ripartizione pitt usuale era quella di 260
giorni in 20 ‘settimane’ di 13 giorni ognuna. An-
che queste 20 ‘settimane’ avevano ciascuna una
divinita reggente (nonché un proprio segno influen-
zante). Per la corrispondenza esistente fra le divi-
nita delle 20 ‘settimane’ e quella dei 20 giorni del
mese, ‘T'lagolteotl era la reggente della 13" setti-
mana, 0, per meglio dire, della 13" sezione del tona-
lamatl'®, Inoltre Tagolteot] presiedeva alla 5" delle
13 ore in cui si divideva il giorno (in corrispon-
denza con i 13 cieli), - nonché alla 7" delle 9 ore
della notte’’. In un frammento di una Histoyre du
Mechique utilizzata del ‘Thévet (1502-1592) per la
sua Cosmographie Universelle (1575)'*, frammento
in cui sono registrate le divinitd presiedenti a cia-
MESSICO 77
scuno dei 13 cieli diurni, si trovano assegnati « au
cinquiesme (cioé dunque al cielo di Tlagolteotl) cing
dieux chascung de diverse couleur». La cosa si
spiega col fatto che Tlacolteotl era concepita anche
in forma plurima (cfr. il dio Tlaloc e i Tlaloque,
ecce.), e precisamente quadrupla, come l’insieme delle
quattro Ixcuinanme’*, cinque™ con la stessa ‘T'la-
colteotl che le rappresentava e che si chiamava essa
stessa, con altro nome, Ixcuinan’®,
In base specialmente alle figurazioni pittogra-
fiche si pud stabilire’® - tanti sono gli elementi
comuni dell’abbigliamento, dell’acconciatura, dei di-
stintivi - che Tacolteotl era sostanzialmente tutt’una
con un’altra dea, la quale é designata nelle fonti!’
(Sahagun 1, 8 ecc.) coi nomi di Toci ‘ava nostra’,
Teteo innan ‘madre degli déi’, Tlalli iyollo ‘cuore
della terra’. Gid in questo ultimo nome, che sembra
contenere una allusione al terremoto'’, appare ma-
nifesto il carattere ctonico della dea, Ad esso accen-
nano anche i nomi ‘ava nostra’ e ‘madre degli déi’,
se sono da intendere in rapporto alle generazioni de-
gli uomini usciti dalla terra e nel suo grembo rien-
tranti (come teteo ‘iddii’) dopo la morte nell’ atto
del seppellimento. Come la pijtyp toy Oemy (cfr. Ary-
pijenp) dell’antico mondo mediterraneo, cosi la mes-
sicana Teteo innan = ‘madre degli déi’'® era una
dea-madre per eccellenza, era la terra non solo come
madre degli uomini, ma anche come generatrice
della vita vegetale. La sua festa, ch’ era 1’ 11° del-
l’anno e cadeva nel settembre, era infatti una festa
eminentemente agraria connessa con la maturazione
e il raccolto del maiz. In tale ricorrenza sacrifica-
van 4 las plantas y después de adoradas las llevaban
wey a
78 CAPITOLO 11
d sus templos®®, I riti?*? non erano meno sanguinari
degli altri del culto messicano, ma si distinguevano
per talune singolarita, tra cui una particolare accen-
tuazione dell’elemento sessuale, che ¢ invece estraneo
agli altri culti messicani.
C’era una cerimonia preliminare che consisteva
in una pulizia generale fatta con le scope: si spaz-
zavano tutte le case in ogni angolo e adiacenza, tutte
le strade, tutti i bagni, fossati, fonti e corsi d’ ac-
qua. Percid la festa si chiamava ochpaniztli, cioe —
alimpiamento, fiesta barrendera, dia de barrer, festa
della spazzatura, dello scopare (barrer camino). La
scopa era infatti Vinsegna della dea’, che nei Co-
dici & rappresentata in atto di impugnarla*’. Anche
taluni dei seguaci della dea sono rappresentati pit-
tograficamente** con la scopa in mano”*, mentre con
V’altra mano impugnano il loro enorme itifallo. Nella
prima parte della celebrazione la dea era rappresen-
tata da una donna vestita ed acconciata esattamente
come la dea stessa (cio® come il suo idolo, che si
venerava in una cappella fuori della citta). Questa
donna era affidata alle cure di sette vecchie che ave-
vano l’incarico di farla stare allegra. Giunto il giorno
della festa, essa era sgozzata, decapitata e scorticata
dalle coscie in su; da questo momento e per tutto
il resto della cerimonia subentrava a rappresentare
la dea un sacerdote che indossava la pelle della vit-
tima (la terra che si riveste di vegetazione??*), Dopo
una finta battaglia fra i devoti armati di scopa e
altri in arnese di guerrieri, tutti si trasferivano al
tempio di Huitzilopochtli, dove si svolgeva il rito
culminante, che simulava il parto di Toci (la terra
fecondata dal Sole-Huitzilopochtli) e la nascita di
MESSICO 79
Cinteoll, il dio del maiz. Indi il corteo si recava al
santuario suburbano della dea (tocititlan), donde, in
una corsa finale, si spingeva sino ad un certo con-
fine, al di 1A del quale erano deposte le scope.
O che fosse originariamente identica a Toci o
che con Toci sia stata quandochessia identificata,
Tlacolteotl era dunque essenzialmente una dea della
terra e della vegetazione, una dea della feconda-
zione, fecondata essa stessa e partoriente (p. 76), e
quindi naturalmente associata con la vita sessuale.
Di qui si svolse il suo aspetto venereo di dea degli
amori, della lussuria, dei piaceri carnali peccaminosi
concepiti come escremento e sozzura®’: aspetto che
si esprime appunto nei suoi nomi di Tlagolteotl e
Tlaelquani.
Tutto cid che abbiamo detto fin qui interessa da
vicino la confessione dei peccati per due ragioni, e
cioé: 1) perché appunto con la dea Tlacolteotl ¢
associata la confessione messicana; 2) perché i pec-
eati di cui gli antichi Messicani si confessavano
erano principalmente i peccati carnali.
Della confessione nell’antico Messico ci da no-
tizia il francescano Bernardino de Sahagun (nativo
di Sahagun en Campos nel reame di Leén), il quale
ando al Messico nel 1529, ed avendo appreso il
nahuatl, raccolse una quantita di informazioni pre-
ziose fornitegli da indigeni e redatte in nahuatll,
componendo cosi una vasta opera di cui poi diede
egli stesso una traduzione, o piuttosto una parafrasi,
in lingua castigliana”*. In essa, e precisamente al
capitolo 12 del Libro 1 e al capitolo 7 del Libro v1,
troviamo i seguenti dati relativi alla confessione.
80 CAPITOLO II
Ai sacerdoti di Tlacolteotl, ch’erano anche in-
dovini, facitori di oroscopi, predizioni e simili*®, ri-
correvano coloro che desideravano confessarsi. Pre-
via consultazione del tonalamatl per ottenere 1’indi-
cazione di un giorno propizio, nel giorno cosi indi-
cato il penitente si recava di nuovo dal sacerdote
(se era persona di riguardo, il sacerdote andava da
lui), portando con sé delle legna per il fuoco, del
copalli (incenso fatto con una specie di resina) da
gettare sul fuoco, ed un petlatl nuovo (specie di
stuoia o coperta) da stendere in un luogo accura-
tamente scopato. Terminati i preparativi, il sacer-
dote si sedeva sul petlatl, ed esortava il penitente a
dire tutti i suoi peccati senza nasconderne alcuno,
dal momento che egli si trovava alla presenza invi-
sibile, ma reale, del grande iddio Tezcatlipoca, on-
niveggente e conoscitore di ogni segreto®®. I] peni-
tente giurava di dire tutto; indi, sedutosi di fronte
al sacerdote, « cominciava ad esporre i suoi peccati
nell’ordine in cui li aveva commessi, con chiarezza
e senza fretta, come se recitasse lentamente una lita-
nia, scandendo bene le parole..... »*?.
Terminata la confessione, il sacerdote, che sulle
cose udite era tenuto al segreto pitti assoluto, im-
poneva la penitenza. Questa doveva esser eseguita
in occasione della festa delle Ixcwinanme, che é co-
me dire (p. 77) di Tlagolteotl. Nei quattro giorni
prima della festa il penitente doveva osservare il di-
giuno; il giorno della festa doveva eseguire la vera
e propria penitenza. Ecco in che cosa essa consi-
steva. Con una spina acuminata di agave (maguey)
il penitente si perforava la lingua da parte a parte;
indi - per impedire che la ferita si rimarginasse su-
Penitente (il dio Quetzalcouatl ?)
che si estrae sangue dalla lingua.
ntla (Vera Cruz):
Rilievo di arte totonaka dalle rovine di Huiloci
anischen
E SELER, Gesammelle Abhandlungen 2ur Amerik
Sprach- und Alterthumskunde, I11 (Berlin 1908), p. 519, f3
MESSICO 81
bito, e dunque per far si che il sangue seguitasse
ad uscire - doveva pel foro cosi praticato far pas-
sare, l’uno dopo I’altro, tanti piccoli fuscelli ricavati
da una pianta apposita detta teocalcacatl (‘giunco
del tempio’)*!*. Dopo passati attraverso la lingua,
i fuscelli erano buttati via, gettandoseli il penitente
dietro le spalle. Egli poteva anche congiungere pre-
ventivamente i fuscelli l’uno con l’altro per le estre-
mita, e poi passarli cosi tutti di seguito attraverso la
lingua, ripetendo eventualmente pit volte 1’opera-
zione. Altrimenti egli poteva eseguire 1’ operazione
stessa sulle orecchie, praticando un foro attraverso
il padiglione auricolare e facendovi passare altri fu-
scelli®*. Per maggior devozione e per completare la
penitenza si consigliava al peccatore di dedicarsi per
un anno al servizio divino ritirandosi presso qual-
che santuario: in questo periodo egli doveva ancora
praticare l’estrazione del sangue ripetendo 1’opera-
zione due volte al giorno alternativamente sulle orec-
chie e sulla lingua**®. Cosi i peccati gravi erano per-
donati. Quelli pit leggeri si scontavano con peni-
tenze minori, come digiuni ed offerte votive (consi-
stenti, p. es., in pezzi di carta), accompagnate da
atti di adorazione dinnanzi alle imagini divine**.
Altrimenti - dice ancora Sahagun - la penitenza
dei peccati confessati poteva farsi « quando le dee
chiamate Ciuapipiltin (‘dame, matrone’) scendono
sulla terra». Queste Ciuapipiltin, chiamate anche
Ciuateteo ‘dee’, erano*® le rappresentanti divine
(cinque di numero) delle anime delle donne morte
di parto eroizzate, le quali, dimorando in occi-
dente, accompagnavano giornalmente il sole dal me-
riggio al tramonto; sull’ imbrunire esse scendevano
R. PETTAzzoNI, La Confesstone det peccatt, 1. 6
82 CAPITOLO IT
sulla terra frequentando i crocicchi e insidiando spe-
cialmente i bambini (per renderli deformi e malati,
specialmente epilettici); ma sulla terra si aggiravano
anche in certi giorni speciali cinque volte all’anno
(in tali giorni i bambini non dovevano uscir di casa),
sempre cagionando guai e sventure, fra l’altro ecci-
tando gli uomini ad atti libidinosi e scandalosi’*®,
nel quale ultimo aspetto esse appaiono dunque af-
fini a T'lacolteotl. Anche nella festa delle Ciuapi-
piltin, come in quella di Tlagolteotl, aveva luogo una
estrazione di sangue: il sangue, che si estraeva dalla
mammella sinistra o dagli occhi, era assorbito da
piccole strisce di carta, che poi si raccoglievano e
si bruciavano davanti alle imagini delle dee*’. Le
meretrici e le adultere andavano ignude di notte®®
ai crocicchi - dove appunto solevano aggirarsi le
Ciuapipiltin - per far penitenza dei loro peccati.
Infatti nell’antico Messico, come presso parecchie
popolazioni primitive studiate nel Cap. I (p. 51 sg.),
i peccati che si confessavano erano in primo luogo
i peccati sessuali. Questi ha in mente Sahagun
quando parla, nei passi relativi alla confessione, di
“fetori e sudicerie’, di ‘sporcizie’, di ‘peccati gravi,
enormi, sudici e nauseabondi..... che mandano un
odore infetto’®®: termini che manifestamente allu-
dono agli escrementi (cwitlatl), con cui, come gia
dicemmo (p. 74), i peccati carnali erano assimilati.
Uno dei peccati carnali, l’adulterio*®, era anche
considerato come delitto, e come tale cadeva altresi
sotto la sanzione della legge civile. Secondo la legge
azteca, come secondo la mosaica (Ezech. 16, 40; 23,
47; cfr. Giov. 8, 5 segg.), gli adulteri - per lo meno
quelli sorpresi in flagrante - erano lapidati*’. Il ri-
MESSICO , ; 83
gore di questa sanzione era mitigato dalla religione.
Infatti coloro che andavano a confessarsi ai sacerdoti
di Tlagolteotl ottenevano V’immunita di fronte alla
legge. La remissione della pena era accordata per
tutti i peccati commessi, ma solo per una _ volta
tanto’*: non che - cosi credo si debba intendere la
notizia di Sahagun - fosse vietato al recidivo di tor-
nare a confessarsi, ma soltanto una volta la confes-
sione liberava dalla sanzione penale: cid che in pra-
tica avra poi indotto i pitt a confessarsi una volta
sola, e quindi - come sottolinea lo stesso Sahagun -
preferibilmente in etd avanzata‘*.
Altri peccati gravi, oltre quelli della carne,
non
risulta dalle notizie di Sahagun** che fossero og-
getto di confessione presso i Messicani, tranne uno
solo: l’ubriachezza. Gli antichi Messicani avevano
una bevanda inebriante, il pulque, che si otteneva
(cfr. 1’ hikuli degli Huichol: p. 33) lasciando fer-
mentare la linfa estratta dal fusto (mezontli) del
maguey, ossia dell’agave (metl)*®, ma non da ogni
specie di agave, anzi quasi esclusivamente da una
determinata specie dalle foglie carnose (Agave atro-
virens o salmiana), detta appunto teometl ‘agave
divina’*®, L’ uso del pulque non era consentito
(tranne, moderatamente, ai vecchi) se non in circo-
stanze straordinarie, cioé in occasione di certe so-
lennita religiose, come la festa dei Tlaloque, iddii
della pioggia’”, e quella di Xiwhteculli, dio del
fuoco**®, Poiché essendo ubriaco l’uomo poteva com-
mettere ogni sorta di delitti, anche 1’ ubriachezza
cadeva sotto la sanzione penale: chi era colto in
istato di ubriachezza era messo a morte*®. Anche in
questo caso la pena poteva essere condonata in no-
84 CAPITOLO II
me della religione; e il condono si otteneva preci-
gamente merce la confessione, la quale, mentre as-
solveva il pececatore, accordava Vimpunita al delin-
quente, imponendogli, se mai, soltanto una pena re-
ligiosa, che era la penitenza. La confessione era
fatta, anche in questo caso, ai sacerdoti di ‘Tagol-
teotl. La penitenza, invece, doveva farsi®’ agli iddii
del pulque, cioé ai Totochtin (‘conigli’). Come le
adultere e le meretrici si denudavano nel far peni-
tenza di notte alle Ciuateteo (p. 81 sg.), cosi il col-
pevole di ubriachezza doveva andare ignudo di notte
a fare atto di adorazione dinnanzi agli idoli dei ‘To-
tochin, avendo soltanto un pezzo di carta sul da-
vanti ed uno sul di dietro della persona, e, termi-
nata la preghiera, doveva liberarsi anche di questi
pezzi di carta gettandoli ai piedi delle imagini di-
vine’?,
2. INTERPRETAZIONE.
Lestrazione del sangue da questa o quella parte
del corpo - la lingua, le orecchie, il membro virile,
il petto, le gambe, le braccia, le dita, le palpebre,
le narici - era praticata dagli antichi Messicani in
molte circostanze diverse, sia nelle feste e celebra-
zioni cultuali in onore di questa o quella divinita
- 'Tezeatlipoca®’, Huitzilopochtli®’, Xochipilli®*, Ya-
catecutli®’, ecc. - da parte dei suoi sacerdoti e de-
voti, sia occasionalmente sui fanciulli®® e neonati*’,
o sul re nuovamente eletto®*®, o su varie persone per
procurar loro buona fortuna nella caccia al cervo®’,
oO sui rappresentanti di una tribti conquistata che
venivano per la prima volta a fare omaggio al sovra-
MESSICO 85
no°°, o sui novelli sposi®’, o su coloro che, essendo
senza prole, desideravano aver figli®’, oppure in oc-
casione di una eclissi (specialmente di sole)*’, e nella
inaugurazione di un nuovo edificio™.
Questa pratica, che é documentata anche da rap-
presentazioni pittografiche e monumentali®®, aveva
indubbiamente un carattere ed un fine eliminatorio.
Insieme col sangue si voleva far uscire dall’organi-
smo qualche cosa che nel sangue era contenuto e
di cui il sangue era dunque il veicolo. Percié il san-
gue che si estraeva dalle orecchie all’inaugurazione
di un nuovo edificio era raccolto sull’unghia dell’in-
dice e del medio, e poi lanciato nel fuoco oppure
verso il sole, per farlo consumare, cid che si chia-
mava tlazcaltiliztli®®. Per cid nel culto di Tezcatli-
poca, quando i sacerdoti a mezzanotte, terminate le
quotidiane adorazioni, si adunavano in apposito 1lo-
cale ed ivi procedevano all’ estrazione del sangue
(dalle gambe), dopo essersene spalmate le tempia,
si recavano ad un piccolo laghetto, chiamato ezapan
(‘acqua di sangue’), per disperdere nell’ acqua il
sangue sgorgato®’. Per cid, anche, le spine di agave
e le lame di obsidiana o d’altro che avevano servito
all’estrazione del sangue non potevano adoperarsi
pit di una volta, e, dopo essere rimaste esposte per
un certo tempo sui merli del muro di cinta dell’abi-
tazione sacerdotale - confitte in appositi cuscini di
erba -, erano poi raccolte e custodite in luogo appar-
tato®*®. Cid che si voleva cosi allontanare, eliminare
e distruggere, era qualche cosa che poteva far male,
qualche cosa d’impuro, cioé di ‘sacro’ secondo la
concezione obiettiva della sacralita (p. 55). Cosi si
spiega come la estrazione del sangue si praticasse
—e_--
B6 CAPTTOLO I
appunto » come anche presse i primitivi (p, 48 sg.) «
nell’ imminenza di wun perieolo, in presenza dele
Vignoto, nell’aspettayione di un evento desiderato
© temuto, al comineiare di una vita nueva, di un
periodo nuovo pieno d'incognite, ossia dunqiue in
tutte quelle elreostanze in cul eouveniva trovarsi in
istato di puritd, eid che si otteneva appunto elimi.
nando, col sangue, VimpuritA ehe vi era contenuta,
Gid vedemmo (p, to) |estrazione del sangue
(dai polpaeei, cid che anehe nel rispetto formate
trova un singolare riseontro nell’anticno Measieo) pra-
ticata dagli indigent di Malneen in oeeasione di un
temporale, In Afrien essa & pratioata (eon due pie
coll tagli sotto Vombelieo) dai Bechuana in vista
della festa dell’ anno nuovo (p, 4), Analogamente
nell’America settentrionale la praticano (per eseoria.
vione ertienta dell’ avambraceio o del petto) i Yuehi
in oeeasione di una festa della maturazione del
grano (p, 30)", Una festa della maturazione del
maiz era del pari, nell’antico Messico, lochpanialli,
lan ‘festa della dea ‘Toei’ o Teteo-innan (p. 77 sg.),
L'ochpanistl, la ‘festa delle scope’, che cominelava
appunto con una spagzatura generale delle ease,
atrade, corsi d'aequa eee,, 6 terminava con una corsa
al di lA del confine « dove erano deposte le seope,
restando cos) allontanata Vl’impurith da esse race
colta’® »«, era, almeno in parte, una ‘festa’ di eapul-
sione dei malanni, elod una di quelle celebraziont
eliminatorie che sono naturalmente associate alle fe.
ate di rinnovamento, perchd & appunto eacelando
Vantico che si prepara ta via al nuevo’, Th note.
vole che nel corso della celebrazione dell ochpaniatli
al svolmevano delle finte battaglic fra i parteeipanti,
T
MESSICO 87
e precisamente fra quelli che impugnavano le scope
ed altri in assetto di guerrieri, ¢ quindi forniti di
vere e@ proprie armi: queste scaramucce che, per
quanto simboliche, riuscivano tuttavia cruente ave-
vano, a quanto pare’’, anch’esse uno scopo elimina-
torio analogo e raggiunto con lo stesso mezzo, cioe
con una effusione di sangue.
L estrazione del sangue - dalla lingua e dalle
orecchie - era praticata appunto in occasione della
festa della dea ‘T'lacolteotl - Vequivalente di T'oci -
dai peccatori carnali come penitenza a loro im-
posta dai sacerdoti della dea, ai quali essi aveva-
no precedentemente confessato i loro peceati. Ora
comprendiamo nel suo vero valore questa ‘peni-
tenza’: essa non & che un caso speciale del diffuso
costume messicano della estrazione del sangue. Essa
rientra dunque nella classe di quelle operazioni eli-
minatorie con cui trovammo associata la confessione
presso i primitivi, e che gid ci fornirono la chiave
per la interpretazione della confessione stessa in rap-
porto alla nozione obicttiva e dinamistica del peccato
come male (p. 49 sg.). ‘ale interpretazione si ap-
plica esattamente anche alla confessione megsicana,
nella quale infatti abbondano gli atti ei gesti di ca-
rattere eliminatorio. « Ecco» - dice il penitente nel
preambolo che Sahagun gli fa pronunziare prima
della confessione - « ecco che io espello fuori tutte
le cose vergognose che ho commesso »’*, Quando il
sacerdote aveva confessato il peceatore e gli aveva
imposto la penitenza, gli consigliava certe devozioni
accessorie, tra cui quella, di cui ora comprendiamo
il significato simbolico, di « scopare, pulire e met-
ter in ordine la casa..., scopare e portar via dalla
88 CAPITOLO II
casa le immondezze e il sudiciume...»7*. Il gettito
dei fuscelli intrisi di sangue che il penitente si butta
dietro le spalle, dopo averli passati pel foro della
lingua o delle orecchie in penitenza dei peccati con-
fessati, corrisponde assai da vicino al gettito delle
schegge di legno e paglia sminuzzata che presso gli
indigeni di Mkulwe il capo-famiglia disperde verso
occidente dopo averle agitate nel ventilabro durante
la recitazione dei peccati (p. 7), nonché - in am-
biente messicano ‘moderno’ - all’atto con cui il sa-
cerdote degli Huichol getta nel fuoco il cordone su
cui la donna ha fatto, a mo’ di confessione, tanti
nodi quanti furono i suoi amanti (p. 34). I fuscelli
buttati erano ammucchiati e poi periodicamente
- di quattro in quattro anni - bruciati, conservan-
dosi poi le ceneri in luogo apposito’®. Anche lo sve-
stirsi, il denudarsi € un gesto di ovvio carattere
eliminatorio, che gia trovammo associato con la
confessione presso i Bashilange (p. 3). Nell’ antico
Messico le peccatrici (adultere, meretrici) che anda-
vano di notte a far penitenza nei crocicchi frequen-
tati dalle Ciuapipiltin (Ciuateteo), si denudavano
completamente’®. Anche i peccatori dediti all’ ubria-
chezza, dopo essersi confessati ai sacerdoti di ‘Ma-
colteotl, andando a far penitenza di notte presso le
imagini dei Totochtin (p. 84), si spogliavano te-
nendo indosso soltanto due pezzi di carta, che poi
gettavano anch’essi ai piedi degli idoli, restando
dunque completamente ignudi.
Un tratto caratteristico della confessione messi-
cana € la sua quasi esclusiva limitazione ai peccati
carnali. Questa trova abbondanti ed interessantis-
x
simi riscontri nella confessione quale é praticata da
MESSICO 89
popolazioni primitive d’America, d’Oceania (Sulka),
d’Asia (Malacca) e d’Africa (p. 51 sg.), e va spiegata
nello stesso modo, cioé con la natura stessa fisiolo-
gica del peccato carnale, per cui il male che se ne
genera é innanzi tutto naturalmente un male pato-
logico, un male dell’ organismo, una malattia. In
un ambiente di civilta progredita, come é quello del-
l’antico Messico, la prevalenza quasi esclusiva del
peccato sessuale nella confessione conferisce alla
prassi penitenziale uno speciale carattere arcaico.
Che il peccato sessuale sia causa di malattie a chi
lo commette fu credenza diffusa presso gli, antichi
Messicani. In primo luogo vengono naturalmente le
malattie veneree’”. Nella ricorrenza della ‘festa dei
fiori’ (xochilhuitl), che si celebrava annualmente in
onore del dio Xochipilli, i devoti erano tenuti ad
osservare scrupolosamente, oltre il digiuno, la con-
tinenza sessuale nei quattro giorni prima della festa;
chi violava tale precetto doveva aspettarsi di essere
terribilmente punito dal dio con ulceri, bubboni ed
altre malattie veneree, nonché emorroidi’®.
Anche la sterilita della donna, considerata come
una forma patologica, fu ritenuta una conseguenza
di qualche suo peccato’®, certamente - come presso
gli Ewe (p. 2) - di un peccato sessuale, tanto é
vero che come rimedio era usata 1’ estrazione del
sangue dai genitali®®, quasi ad eliminare l’ostacolo
od impedimento locale alla concezione. Forse fu
questa - dai genitali - la forma originaria dell’estra-
zione del sangue come penitenza per peccati ses-
suali. Per le regioni di Tehuacan, Teutitlan e Coz-
catlan si ha notizia che i giovani-in eta da prender
moglie usavano « per devozione» perforarsi il mem-
go CAPITOLO II
bro entre cuero y carne e attraverso il foro cosi pra-
ticato passavano una corda grossa un dito e lunga
fino a venti braccia; e se uno di essi non reggeva
al tormento e sveniva, dicevano che cid accadeva
per aver egli gid avvicinato qualche donna®’: segno
che lo scopo era appunto di eliminare col sangue,
in vista del matrimonio, le impurita contratte in
rapporti sessuali anteriori. Se come ‘penitenza’ dei
peccati carnali dichiarati in confessione si praticava
invece l’estrazione del sangue dalla lingua e dalle
orecchie (cosi anche nella festa xochilhuitl: p. 89),
anzi che dai genitaliS®, pud darsi che sia stata que-
sta una modificazione posteriore®’.
Anche altre malattie si credeva procedessero dai
peccati della carne. In un Tratado de las Supersti-
ciones y Costumbres gentilicias que viven entre los
Indios naturales desta Nueva Espana escrito en Mé-
xico por el Br. Hernando Ruiz de Alarcon, ano de
1629**, c’& un capitolo che tratta De los males y
enfermedades que proceden de amores illicitos, dove
sono specialmente considerate come prodotte da tra-
scorsi sessuali talune malattie incurabili, tanto dei
bambini (epilessia: cfr. sopra a p. 82) quanto degli
adulti (consunzione), sia poi che il peccato - cioé
il male-peccato - abbia agito per via diretta (tlagol-
miquiztli, «dafio causado de amor y deseo»), re-
stando colpiti dal morbo quelli stessi che l’avevano
commesso (0 i loro figliuoli: cfr. Yurok, p. 23), op-
pure per via indiretta (netepalhuilitzli, («[dafio por]
dependencia de otro»), cioé per incontro o compa-
gnia o commercio avuto con peccatori carnali (o per
essere questi stati presenti alla nascita di un bam-
bino, ecc.)**.
MESSICO ig F gl
Secondo lo stesso Tratado anche ogni altro ge-
nere di disgrazie - la disdetta, la poverta, il cattivo
raccolto, lo smarrirsi del bestiame, il non trovar da
vendere le messi, il non avvantaggiarsi nei contratti,
persino la difficile cottura degli alimenti - era con-
siderato come conseguenza dei peccati della carne.
Alla base di questa superstizione, che vigeva dun-
que nel Messico ancora al sec. XVII, sta sempre
la fondamentale esperienza patologica di quello stato
di depressione che suol tener dietro agli eccessi ed
abusi sessuali, fiaccando le energie e rendendo 1’uo-
mo inetto alle imprese. L’ idea che il commercio
sessuale é controindicato ai fini del successo - idea
che gia trovammo attestata dal P. Hennepin per gli
indigeni della Luisiana (p. 36) - € documentata al-
tresi per |’ antico Messico*®. Forse anche la pena
di morte - per lapidazione - che incombeva agli adul-
teri fu concepita come uno dei tanti mali che 1’uo-
mo si tirava addosso commettendo il peccato della
carne’’, come infatti per stornare questo male com-
minato dalla societa valse, per ovvia estensione, lo
stesso mezzo - confessione e penitenza - che si ap-
plicava per stornare il male fisico, la malattia.
Anche 1’ ubriachezza, oltre la lussuria, era, se-
condo Sahagun, oggetto di confessione presso gli
antichi Messicani (p. 83). Vero é che l’ubriaco non
era ritenuto responsabile del male che commetteva"’,
quasi non fosse lui ad agire durante 1’ubriachezza,
bensi - in lui - il pulque o, altrimenti detto, il dio
- rispettivamente gli déi - del pulque. Ma noi abbiamo
gia imparato a conoscere (p. 54 sg.) un mondo pel qua-
le il peccato esiste anche se manca la consapevolezza
e la volonta - cioé dunque la responsabilita - di pec-
92 CAPITOLO II
care. Quando Sahagun argomenta che il male com-
messo dagli ubriachi non doveva essere considerato
dai Messicani come peccato, egli sostituisce la sua
idea - l’idea cristiana - del peccato a quella conce-
zione arcaica, che doveva essere dunque ancor viva
presso i Messicani del suo tempo: la concezione per
la quale il peccato non é consapevolezza, responsa-
bilita, soggettivita, anzi é qualche cosa di ogget-
tivo, nel caso specifico qualche cosa di inerente al
pulque, che inevitabilmente investe 1’ organismo
quando si beve il pulque (come inevitabilmente lo
investe il peccato-sozzura quando si compie la fun-
zione sessuale), e che dall’organismo si elimina
mercé la confessione e la relativa penitenza, qui con-
sistente in quel denudamento e in quel gettito di
pezzi di carta - prima tenuti sul corpo ignudo - che
sono altrettanti gesti di carattere indubbiamente eli-
minatorio, e come tali idealmente corrispondenti alla
estrazione del sangue. Per questo, forse, l’ubriaco
é, in un certo senso, inviolabile (Sahagun dice che
non pud essere offeso): ¢ inviolabile perché é
“sacro’, ed @ ‘sacro’ proprio perché @ peccatore,
cioé investito di fluido peccaminoso, sempre secondo
la concezione sostanziale ed obiettiva del male-pec-
cato. Col prevalere della moralita su la sacralita,
della religiosita morale sulla religiosita sacrale, il
dominio della confessione si estese, generalmente,
a molti peccati d’ altro genere. In questa direzio-
ne non pare che si sia svolta 1’ antica confessione
messicana, essendo essa rimasta limitata ai peccati
d’ordine fisiologico, che sono naturalmente i pitt vi-
cini alla concezione obiettiva del peccato (p. 80).
Infatti, oltre la lussuria e l’ubriachezza, non si sa
“we
MESSICO 93
di altri peccati gravi che fossero confessati dai Mes-
sicani. E, al pari della lussuria, anche 1’ ubria-
chezza & condizionata dall’esercizio di una funzione
fisiologica : il bere. } notevole che lussuria ed ubria-
chezza compaiono associate anche in una notizia
relativa alla antica popolazione degli Otomi, i quali
facevano penitenza (di confessione non si fa parola)
di questi peccati con astinenze, abluzioni (in locali
appositi) ed estrazione di sangue dalle orecchie e
dalle braccia®’,
3. SVOLGIMENTO.
Lussuria ed ubriachezza erano dunque i soli
peccati gravi di cui si confessavano i Messicani
ai sacerdoti di Tlacolteotl. A ‘TMagolteotl si face-
va la penitenza dei peccati carnali; agli déi del
pulque, ai Totochtin si faceva la penitenza dei
peceati di ubriachezza (p. 84). Fra Tlacolteotl e
gli déi del pulque esisteva effettivamente un’ af-
finiti che si esprimeva anche nelle rappresenta-
zioni pittografiche: gli stessi colori del viso, rosso
e nero; la comunanza del yacameztli, che era il carat-
teristico ornamento metallico in forma di mezzaluna
pendente dal setto nasale°®. La ragione di tale affi-
nita ¢ che tanto gli déi del pulque quanto Tlagol-
teotl o rispettiv. Toci (Toci é, fra l’altro, madre
di Cinteotl, la divinita del maiz) sono divinita di
carattere agrario, tra le quali corre a un dipresso
il medesimo rapporto che fra Dionysos coi demoni
suoi seguaci da un lato e dall’altro Demeter o ri-
spettivamente la pijtyp tay Oe@y (p. 77). In questo
94 CAPITOLO II
comune fondo elementare di religiosita agraria tro-
vano infatti spiegazione certe sorprendenti analogie”
che sono state constatate fra la religione messicana
e talune religioni del mondo antico’?.
Questi elementi religiosi di spiccato carattere
agrario non sono indigeni dell’area culturale stret-
tamente messicana. Il santuario della dea Toci, in
cui era custodito il suo idolo (p. 79), era situato, a
México, alquanto fuori della citta: in citta la dea
non aveva santuario proprio, essendo ivi adorata en
comun*™ con altre divinita, e svolgendosi la parte
principale della sua festa ochpaniztli nel gran tem-
pio del dio Huitzilopochtli (p. 78). Nella gia citata
(p. 78 sg.) descrizione dell’ ochpaniztli®*® quei parteci-
panti che, mentre impugnano con una mano il loro
itifallo (cf. i seguaci itifallici di Dionysos), reggono
con l’altra una scopa, e con cio si rivelano piu inti-
mamente prossimi alla dea, perché la scopa é 1’in-
segna della dea stessa (p. 78), portano in testa un
tipico berretto a punta, che li caratterizza come
Cuexteca, Huaxteki®*, cioé come originari della re-
gione chiamata appunto Cuextlan, Vodierna Huax-
teca. D’ altro lato, negli Anales de Quauhtitlan®®
si legge che del paese degli Huaxteki erano ori-
ginarie le quattro Ixcuinanme (p. 77): « nello stes-
so anno... vennero (a Tollan) i demoni femminili
chiamati Ixcuinanme, e, secondo quel che raccon-
tano i vecchi, vennero dall’Huaxteca ». Ma le Ixcui-
nanme sono, come gid sappiamo (p. 77), in forma
allomorfa plurima, la stessa I‘lacolteotl, che si chia-
ma anche (p. 77) Ixcuinan, appunto dall’ huaxteco
Ix-cuynim ‘signora del cotone’, essendo infatti T'la-
colteotl la patrona della lavorazione del cotone, rap-
MESSICO 95
presentata nelle pittografie con ciocche di cotone
sulla fronte e sulle orecchie®®. Questa dea ‘T'lacol-
teotl, tellurica ed agraria, questa dea della feconda-
zione ch’era anche la dea degli amori e della lussu-
ria, e per cid anche dei peccati carnali (p. 79), non
era dunque una dea indigena, anzi peregrina®’. Se,
come appare da certi indizi, anche gli iddii del pul-
que presentano delle connessioni originarie col paese
degli Huaxteki®®, noi vediamo qui delinearsi una
complessa corrente di religiosita agraria la cui pe-
netrazione nel Messico propriamente detto pare ab-
bia avuto non piccola importanza per la storia della
religione messicana. A tener vivo il ricordo di que-
ste origini straniere avra contribuito - insieme con
lV’ubicazione extra moenia del Tocititlan (p. 79) -
la partecipazione all’ochpaniztli di devoti indossanti
il tipico costume provinciale degli Huaxteki (anche
litifallo avra fatto parte del travestimento).
Il paese degli Huaxteki era, ed é, situato®® in
quella regione che, digradando da monte a mare ad
oriente dell’altipiano dell’ Anahuac, costeggia 1’ Atlan-
tico sino a Vera Cruz. Che questa fertile regione
costiera fosse effettivamente il centro della religione
di Tlacolteotl é attestato in maniera esplicita da Sa-
hagun'®®, Tlacolteotl, egli dice, non era adorata dai
Chichimeki (genti pre-azteke di lingua nahwa stan-
ziate a nord di México). Altrettanto sconosciuta do-
veva essere nelle regioni occidentali (verso il Paci-
fico), se nel Michoacan i vecchi non erano in grado
di affermare che il suo culto fosse ivi esistito. Esso
esisteva invece - dice ancora Sahagun - presso gli
Huaxteki, gli Olmeki e i Mixteki.
Quanto agli Huaxteki, la cui devozione ad una
gé CAPITOLO II
grande dea terrestre é comprovata dai trovamenti
archeologici nella odierna Huaxteca'®', Sahagun si
esprime testualmente cosi: «gli Huaxteki adora-
vano ed onoravano ‘lagolteotl», ma «ad essa non
si accusavano (cioé: non si confessavano) della lus-
suria, perché non credevano che questa fosse pec-
cato». Che si confessassero di altri peccati non é
detto, ma non é escluso. E quanto alla non confes-
sione dei peccati carnali (proprio l’opposto di quel
che si faceva in México), credo che la testimonianza
di Sahagun non sia da intendere alla lettera. EK
noto'®* che i culti agrari sogliono essere ab antiquo
fortemente impregnati di elementi sessuali. La ra-
gione di questo fatto sta in un rapporto che il pen-
siero primitivo stabilisce fra la vita umana e la vita
della natura. A questo rapporto ideale corrisponde
una prassi intesa ad influire magicamente sulla vita
vegetale mercé atti simpatici della vita umana. Cosi
avviene che il coito sia praticato come rito di fecon-
dazione, cioé come operazione atta a promuovere
simpaticamente le energie e capacita generatrici
della terra-madre. Che anche i culti agrari che si
celebravano nell’antico Messico fossero impregnati
di elementi sessuali si rileva dalla descrizione del-
lochpaniztli (p. 78). Questo sessualismo é, anzi, una
caratteristica che li distingue dagli altri culti messi-
cani, - cid che pud servire, indirettamente, a confer-
mare la loro diversita di origine. Infatti quei devoti
della dea Toci che nella celebrazione dell’ ochpaniztli
compaiono in atteggiamento itifallico sono precisa-
mente degli Huaxteki!®’.
E che nella religione degli Huaxteki avesse
gran parte |’ elemento sessuale si rileva da altre
y
MESSICO 97
fonti'®*. Cid non di meno le genti di Panuco appar-
vero al Conquistadédr Andénimo « le pid devote genti
et osservatrici della religione loro di quante nationi
habbia create Iddio»'®*. Appunto in questa consa-
crazione e quasi santificazione del sesso - come ele-
mento caratteristico di una religione della natura
fecondata e feconda - non c’era posto per una con-
cezione peccaminosa della funzione sessuale: non
poteva essere peccato - e dunque non doveva essere
confessato - cid ch’era fatto in nome e in servizio
della religione. Che all’infuori del rito e delle sue
celebrazioni orgiastiche i rapporti sessuali, specie
nelle loro forme anormali ed abusive’®®, siano ap-
parsi agli stessi Huaxteki anche nel loro aspetto
peccaminoso, e come tali siano stati oggetto di con-
fessione, é, nonostante la testimonianza di Sahagun,
per lo meno possibile, se tale testimonianza va rife-
rita partitamente ai soli atti sessuali esercitati ritual-
mente, cioé in funzione cultuale. E interessante, a
questo proposito, constatare che anche le genti di
Panuco praticavano l’estrazione del sangue da va-
rie parti del corpo, anche dalle orecchie e dalla lin-
gua, ch’era la forma di penitenza usata, come sap-
piamo, in México precisamente per i peccati della
carne'®’,
I Mixteki, che avevano, al pari degli Olmeki
(p. 95), il culto di Tlagolteotl, praticavano altresi,
sempre secondo Sahagun (VI, 7), la confessione, e
precisamente in caso di malattia: quando erano am-
malati, usavano confessarsi ad un sacerdote; questi,
ch’era anche medico, indovino e astrologo (tali erano
anche le funzioni e prerogative dei sacerdoti-confes-
sori di Tlagolteotl in México: p. 80), prescriveva
R, PETTAZZONI, La Con/fessione dei peccati, 1. 7
98 o CAPITOLO II
loro, a titolo di riparazione, il pagamento dei debiti
e la restituzione di quanto essi si fossero indebita-
mente appropriati col furto, con |’ usura e con la
frode. Questi Mixteki non sono secondo il Seler’?®
gli abitanti della vera e propria Mixteca (a sud di
México, fra Guerrero ed Oajaka), bensi quelli di
una regione chiamata anche oggi Mistequilla, cioé
‘piccola Mixteca’, situata pit ad oriente verso 1’A-
tlantico a sud di Vera Cruz, quasi in prolungamento
del territorio costiero abitato dagli Huaxteki. La
confessione in caso di malattia e la confessione di
peccati contro la proprieta (dei peccati sessuali nulla
é€ detto) sono, a quanto pare, tratti caratteristici
della confessione mixteca rispetto a quella azteca.
I Totonaki!®®, stanziati anch’essi, come i Mix-
teki e gli Huaxteki, nella regione costiera, adora-
vano accanto al sole, ch’era il loro dio principale,
una dea della terra e della vegetazione’?®, al cui
culto erano specialmente adibiti due personaggi di
eta fra i 60 e i 70 anni, piuttosto ‘monaci’ - come
sono designati dagli autori spagnuoli - che veri e
propri sacerdoti, scelti dalla comunita per la loro
vita esemplare, gid ammogliati, ma ora vedovi, i
quali passavano la vita in adorazione perpetua della
dea, vivendo in solitudine, senza mangiare carne e
senza parlare a chicchessia tranne quando qualcuno,
afflitto da malanni, veniva a chiedere la loro inter-
cessione per ottenere un sollievo alle sue pene!?.
Poiché la gran dea dei Totonaki, designata come
Centeutl, ‘divinita del maiz’ e Tonacayohua ‘conser-
vatrice della nostra carne’, cioé, metaforicamente, del
maiz, era indubbiamente una dea della terra e della
vegetazione, corrispondente a Tlagolteotl; e poiché
MESSICO 99
la figura dei suoi ministri coincide con quella dei
sacerdoti-medici-indovini di Tlacolteotl presso gli
Aztechi (p. 80) e i Mixteki (p. 97)”, i quali per
testimonianza esplicita di Sahagun (p. 97) eserci-
tavano altresi l’ufficio di confessori: é assai verosi-
mile, come ha mostrato il Krickeberg, che la con-
fessione, pur non essendo esplicitamente attestata
nelle fonti, esistesse tuttavia anche presso i Toto-
naki, essendo fatta precisamente ai ‘monaci’ della
gran dea da coloro che ricorrevano a loro in caso
di malattia od altre disgrazie'’*.
Lasciando ora la costa per 1’ interno, troviamo
praticata la confessione anche presso i Zapoteki, i
quali erano stanziati nella regione di Oajaca. La
notizia é fornita dal domenicano Francisco de Bur-
goa, che fu due volte Provinciale di Oajaca'’*, e si
riferisce ad un pueblo di Indios Cajonos situato
nelle montagne sopra la citta di S. Francisco, dove
nel 1652 gli indigeni furono casualmente sorprési a
celebrare certi riti della loro antica religione pagana
- che essi seguitavano ancora a praticare in segreto
dopo un secolo e pitt dalla loro ‘cristianizzazione’ -
e precisamente un rito di penitenza e confessione
dei peccati che ricorreva una volta all’ anno.
Le operazioni si svolgevano davanti ad un idolo
mostruoso (non é detto di quale divinita), in pre-
senza del sacerdote. Si sacrificavano vittime, si of-
frivano piume di vari colori intrise di sangue estratto
dalla lingua e dalle orecchie e si abbruciava incenso
in numerosi bracieri. La confessione si faceva nel
modo seguente: i penitenti, che si presentavano a
chiedere perdono dei peccati commessi nell’ an-
nata, portavano una specie di piatto vegetale, fatto
100 CAPITOI,O II
d’ erbe intrecciate colte appositamente, nonché al-
cuni fili vegetali (doblados del totomostle del mayz),
non molto lunghi, annodati a due a due pel mezzo.
Questi fili annodati rappresentavano i loro peccati.
I penitenti li ponevano sopra il piatto vegetale, e
li aspergevano di sangue estratto dalla loro per-
sona (gid é stato detto che si estraevano sangue
de baxo de la lengua y detras de las orejas)'"*; il
sacerdote li presentava all’idolo facendo un gran
discorso perché la divinita accordasse il perdono per
quei peccati che le erano offerti, e dopo un altro
discorso di esortazione ai fedeli (questa profusione
oratoria richiama quella dei confessori messicani se-
condo la descrizione di Sahagun: p. 80), la peni-
tenza era terminata e si dava principio ad una gran
festa. I fili annodati in rappresentazione dei pec-
cati ricordano da vicino i cordoni annodati usati
a scopo mnemonico nella confessione degli Huichol
(p. 34), mentre la loro aspersione col sangue estratto
dalla persona lascia intravedere, pur attraverso il
gesto dell’ offerta alla divinita, il fondamentale si-
gnificato eliminatorio del rito. Caratteristico della
confessione zapoteca é la sua ricorrenza annuale’*®
in connessione manifesta con un rito di rinnova-
mento, cid che pud essere in rapporto con le origini
agrarie di tutta la celebrazione.
La connessione col culto di una grande divinita
femminile della terra feconda ricco di elementi ses-
suali sembra dunque caratteristica dell’antica con-
fessione messicana. Quali che siano le sue origini
prime, par certo che dalla regione costiera a popo-
lazione e civilta mista di elementi maya (Huaxteki)
MESSICO for
e di elementi nahua, la confessione si sia propagata
in una col culto della dea terrestre in altre parti del
Messico. I} probabile''” che gid in epoca pre-azteca
essa si sia introdotta presso varie genti di lingua
nahua, penetrando poseia presso gli Azteki nel culto
della dea ‘Macolteotl, Se siano queste le sole ori-
gini della confessione azteca quale ce la fa cono»
scere Sahagun, o se invece la confessione di ori-
gine costiera e orientale - e, in ultima istanza, forse,
meridionale (centro-americana, yukateca?) « si sia in
México incontrata con una pratica analoga di ori-
gine settentrionale (si pensi alla confessione nord.
americana in genere, p. 20 sgg., 0, Se si vuole, alla
confessione ~ di peccati sessuali - presso gli Muichol,
p. 35), & questione che rientra nel problema gene-
rale, e non ancora risolto, delle origini della antica
civiltA messicana., Certo & che la confessione quale
ci appare in México non & esattamente la stessa de«
gli ambienti agricoli provinciali, Mentre da un lato
essa conserva una impronta arcaica « specie nella
sua limitazione ai peceati sessuali (p, 83) «, dal-
Valtro si presenta in una forma meno primitiva per-
ché pid organizzata. Specialmente la sua organiz-
zazione in forma istituzionale, voglio dire la sua
interferenza con la legge penale, che accordava per
una volta tanto il condono della pena capitale agli
adulteri, se si fossero confessati ai sacerdoti di ‘Ma.
colteot] (p. 83), & testimonio di una pitt intima in-
serzione del costume di origine esotica nella vita so-
ciale e civile del paese, e come tale sembra portare
il segno dello spirito assimilatore e riformatore dello
Stato azteco,
102 CAPITOLO II
Di grande interesse per la storia religiosa é l’in-
contro di due pratiche cosi simili e insieme cosi di-
verse quali sono l’antica confessione messicana di
otigine pagana e Ja confessione auricolare cattolica.
Gli scrittori ecclesiastici spagnuoli’*® ci dicono che
la prima introduzione della confessione auricolare
nel Messico avvenne nel 1526, precisamente nella
provincia di T'ezcuco. Superate le prime esitazioni’’®
e difficolta, la confessione auricolare’”° si diffuse ra-
pidamente presso gli indigeni - uomini e donne -, e
presto il concorso divenne tale da arrecare molestia
e fatica grande ai confessori’”’, i quali spesso non
bastavano alla bisogna, e per far pitt presto, poiché
la lingua era molto difficile!””, si lasciavano presen-
tare i peccati per iscritto’?*.
L’ esistenza della confessione pagana poté sotto
un certo rispetto agevolare la introduzione della
confessione auricolare cattolica presso gli indigeni
(cfr. sopra a p. 26 a proposito degli Algonkini). Ma
d’altro lato avrd proprio essa creato degli inconve-
nmienti del genere di quelli che sono infatti segnalati
da Sahagun. Citando’** il caso frequente di adil-
teri ed omicidi che si presentavano ai conventi e,
dopo aver messo a disposizione l’opera loro per i
pitt umili servizi, si confessavano dei loro peccati e
non se ne andavano senza chiedere un biglietto fir-
mato dal confessore, Sahagun mette in guardia i
confratelli contro tale richiesta, come quella che non
era suggerita dal desiderio di conservare un atte-
stato e ricordo del sacramento celebrato, anzi traeva
origine dal costume pagano, in cui la legge in certi
casi accordava, come vedemmo (p. 83), impunita al
peccatore in séguito alla confessione.
MESSICO 103
Quanto vivace fosse l’antico costume, ce lo di-
mostra il caso di sopravivenza osservato presso i
Zapoteki nel 1652, e riferito, come. gia dicemmo
(p. 99), da Francisco de Burgoa. Non per nulla il
Burgoa in altra sua opera stampata a México nel
1670 lamentava che ancora al tempo suo i riti della
Chiesa, «e specialmente i sacramenti del battesimo,
della penitenza e del matrimonio», fossero in-
quinati da elementi profani e barbarici’’’.
B). AMERICA CENTRALE.
Gli Huaxteki erano dei Maya', vale a dire ap-
partenevano al gruppo etnico di quelle genti di lin-
gua maya-quiche’ da cui era costituito il grosso della
popolazione dell’America Centrale. Poiché, come ve-
demmo (p. 100 sg.), dal paese degli Huaxteki o - pit
genericamente - dalla zona costiera dell’Atlantico pe-
netrd nel Messico propriamente detto (Anahuac) una
corrente culturale-religiosa che vi portd, insieme col
culto della dea Tlacolteotl, verosimilmente anche la
confessione che vi era connessa, ecco prospettarsi la
eventualita che le origini di quella corrente possano
essere perseguite, oltre il paese degli Huaxteki,
verso sud, in quella pit vasta area centro-americana
dove abit6d il grosso delle genti maya, delle quali gli
Huaxteki sono come un avamposto settentrionale
rimasto incuneato in mezzo alle popolazioni di lin-
gua nahua.
E un fatto che anche nell’America Centrale si
trova diffusa la confessione dei peccati. Ed anche
104 CAPITOLO II
nell’America Centrale i peccati che furono oggetto
di confessione furono principalmente i peccati ses-
suali®: tanto che, quando si diceva ‘peccato’, s’in-
tendeva per antonomasia il peccato della carne’.
Vero é che oltre a questo si confessavano nell’Ame-
rica Centrale anche peccati d’altro genere, cid che
costituisce una differenza rispetto al Messico, 0, se
mai, trova un riscontro soltanto presso i Mixteki
(p. 97 sg.). Laconfessione dei Mixteki presenta anche
“un’altra somiglianza con quella dell’America Cen-
trale, ed é la sua applicazione ai casi di malattia,
di cui nel Messico non si ha esplicita notizia. D’al-
tro lato, mentre nel Messico la confessione dei pec-
cati é strettamente connessa col culto di una spe-
ciale divinita (Tlacolteotl), nell’ America Centrale
non si constata una simile connessione. Inoltre, men-
tre nel Messico la confessione era rigorosamente se-
greta (p. 80), la segretezza non fu, come vedremo,
elemento indispensabile della confessione centro-
americana.
I. CHIAPAS.
Nel Chiapas é attestato 1’ uso della confessione
in occasione dei matrimoni. Siamo dunque, anche
qui, in ambiente sessuale. La notizia é data da Her-
rera’: quando tutti - il cacicco, il sacerdote (fattuc-
chiere), i promessi sposi e i parenti - erano conve-
nuti nel capul o casa comunale, lo sposo e la sposa
erano invitati a dire (dunque senza nessuna segre-
tezza) las cosas que avian hecho hasta aquella hora.
Sebbene lo sposo dichiarasse in questa occasione an-
4)
CHIAPAS 105
che i furti eventualmente da lui commessi® (cfr.
Mixteki: p. 98), erano naturalmente i peccati ses-
suali - lo que tocaba & la luxuria - che tenevano il
primo posto. Lo sposo diceva se aveva avuto rap-
porti con Ja fidanzata e con quante altre donne e con
quanti uomini, La sposa, dal canto suo, faceva altret-
tanto. Cid ricorda l’uso degli Huichol (p. 34), presso
i quali le donne e (separatamente) gli uomini confes-
sano quanti e quali amanti hanno avuto, come pure
il costume dei Bechuana (p. 4), dove la moglie (ed
anche il marito) deve confessare le sue infedelta co-
niugali per poter partecipare alla cerimonia annuale
di purificazione e di rinnovamento (cfr. Algonkini
p. 26 e Ojibway p. 29), mentre presso i Sulka é pra-
ticata la confessione - verosimilmente in materia ses-
suale - dai giovani nel rito della loro iniziazione
(p. 18). In un certo senso anche il matrimonio é un
passaggio ad una vita nuova e diversa, nella quale
conviene entrare in istato di purita, e la confessione
serve appunto ad espellere l’impurita (in questo caso
impurita sessuale), allo stesso modo che la espelle
l’estrazione del sangue, quale era infatti praticata,
nel Messico, anche sugli sposi novelli’ (p. 85).
2. YUCATAN.
Sulla confessione nel Yucatan c’informano prin-
cipalmente due uomini di chiesa ch’ebbero una parte
molto importante nella prima organizzazione del Cat-
tolicismo nell’America Centrale: il domenicano Bar-
tolomé de Las Casas, vescovo di Chiapas, nella sua
Apologética Historia de las Indias*, e il francescano
106 CAPITOLO IT
Diego de Landa, vescovo di Yucatan, nella Relacién
de las cosas de Yucatdn’.
La confessione si praticava specialmente in casi
di malattia, quando lo stato dell’infermo era grave.
Questo costume trova riscontro, come dicemmo,
presso i Mixteki (p. 97), nonché presso varie popo-
lazioni incolte d’America e fuori d’America (p. 47).
Il malato dichiarava i suoi peccati al medico stesso
o al fattucchiere (le due funzioni saranno state ge-
neralmente riunite in una sola persona) o, in man-
canza di questo, a qualcuno di coloro che lo assiste-
vano, e cioe «i ragazzi ai loro padri, la moglie al
marito, il marito alla moglie o ad uno qualsiasi dei
suoi parenti»?®. Se Vinfermo dimenticava di con-
fessarsi, i suoi parenti ed assistenti glielo rammen-
tavano (De Landa). La confessione non era segreta,
anzi si faceva in presenza di quanti si trovavano in-
torno al malato (De Landa); onde poteva avvenire
che chi era stato l’amante di una donna maritata,
se questa lo denunziava in confessione, incorresse
nelle pene degli adtlteri (Las Casas). I rapporti
avuti con una schiava non si confessavano, perché la
schiava era considerata come una cosa, di cui il pro-
prietario poteva servirsi quando voleva (Las Casas).
Una donna che, senza esser ammalata, si presentava
a confessare di aver patito violenza denunziando il
suo violatore, doveva fornire delle prove per essere
creduta. Se la confessione era cosi intimamente con-
nessa con lo stato patologico di chi la faceva che
quasi non si concepiva che alctino si confessasse se
non era infermo'', é@ facile vedere qui riflessa l’an-
tica concezione obiettiva del male-peccato, cioeé del
male come conseguenza automatica del peccato, e
YUCATAN 107
quindi sintomo del peccato, sintomo cosi importante
e decisivo che l’assenza sua rendeva dubbia 1’esi-
stenza del peccato stesso. Tale aspetto patologico
del peceato é particolarmente appariscente, come
sappiamo (p. 89), nei peccati di natura fisiologica,
quali sono appunto, in primo luogo, i peccati ses-
suali. Connessa con la vita sessuale é un’altra cir-
costanza ‘patologica’ in cui nel Yucatan si prati-
cava, a quanto sembra, la confessione, cioé quando
una donna aveva un parto difficile’? (cfr. DAgari,
Wakulwe, Antambahoaka: p. 47). Anche peccati di
carattere rituale, come la violazione dei digiuni di
precetto, erano oggetto di confessione (Las Casas).
Altri peccati non sessuali che pure si confessavano
nel Yucatan erano specialmente il furto (cfr. Mix-
teki, p. 98), l’omicidio e la falsa testimonianza (De
Landa)**. Del resto la confessione era praticata non
solo per liberarsi da mali fisici, ma anche da ogni
genere di disgrazie ed avversita’™.
La confessione si praticava nel Yucatan anche
nella celebrazione del caputzihil. Caputzihil vuol
dire ‘rinascita’!°. Si tratta di uno di quei riti che
presso molti popoli, anche tra i meno civili, so-
gliono segnare il passaggio dei giovani dall’infanzia
all’ adolescenza, dall’ ambiente femminile materno
alla societa dei maschi adulti. Come in altri riti di
rinnovamento, di inaugurazione, di introduzione in
un nuovo stato’®, nei quali il partecipante deve tro-
varsi in condizione di purita, cosi anche i ragazzi che
erano ammessi al caputzihil, per lo meno i pitt gran-
dicelli fra loro, dovevano a un certo momento fare,
tra l’altro, una specie di confessione?’, in ma-
teria - a quanto sembra - sessuale, E notevole che
108 CAPITOLO It
a questo antichissimo’® e santissimo rito yucateco,
che gli Spagnuoli assimilarono al battesimo cristiano
e che effettivamente ricorda quegli altri riti di ri-
nascita che furono nel mondo antico i misteri, an-
dava, a quanto pare, associata, come nei misteri,
una profonda e delicata esperienza religiosa, un sen-
timento che rendeva migliori!®, nonché una serena
speranza escatologica®®: elementi,
dunque, di una
interiore religiosita, i quali, precisamentecome nei
misteri*’, non erano, come si vede, incompatibili
con il carattere rudimentale e materiale delle opera-
zioni di cui il rito stesso constava, fra cui c’erano
delle operazioni eliminatorie destinate ad espellere
dai ragazzi ]’impurita, nonché, in intima connessione
con queste, la confessione.
Il caputzihil & descritto assai particolareggiata-
mente nell’opera gid citata del vescovo De Landa’?’.
Data l’importanza del rito, vale la pena di riferirne
la descrizione per esteso.
I ragazzi. — Erano ammessi al caputzihil tutti
i ragazzi del pueblo di ambo i sessi, dai tre anni
in su, restando essi sino a quell’eta affidati alle cure
delle donne”*. Fino alla celebrazione del caputzihil
i maschi portavano in testa attaccata ai capelli del
cocuzzolo una pallottolina bianca, e le femmine por-
tavano un cordancino sottile legato alle reni, da cui
pendeva sui genitali una piccola conchiglia.
Il promotore. — La celebrazione del caputzihil
dipendeva dall’ iniziativa individuale di un padre
che avesse un figlio da far ‘rinascere’. Colui che
desiderava compiere questo atto di devozione ed era
disposto a sostenerne le spese, si presentava al sa-
cerdote manifestando la sua intenzione. Il sacerdote
YUCATAN 109
provvedeva a fissare per la celebrazione un giorno
non infausto, e per quel giorno la annunziava a
tutto il pweblo. Il promotore era tenuto ad osservare
il digiuno (e la continenza) per 3 giorni prima c
9g giorni dopo la celebrazione.
Il personale officiante. — Oltre il sacerdote e il
promotore avevano una parte speciale nella celebra-
zione del caputzihil un capo o presidente aggregato
al promotore e quattro assistenti del sacerdote chia-
mati chaces, scelti l’uno e gli altri fra gli uomini
anziani e pitt stimati del pueblo, in base al parere
di tutti i padri dei ragazzi da ‘battezzare’, col gra-
dimento del promotore e, rispettivamente, del sa-
cerdote. Coloro che erano investiti di queste cariche,
come pure tutti i padri dei ragazzi, erano tenuti ad
osservare il digiuno e a non avvicinare le loro mo-
gli nei tre giorni prima della festa. Un altro offi-
ciante, investito di una funzione speciale, era il
cayom (p. 112).
Preliminari. — Wa celebrazione aveva luogo
nella casa del promotore, e precisamente nel cortile,
il quale per la circostanza era tenuto pulito e sparso
di foglie fresche dell’albero cihom. In esso si riu-
nivano tutti gli interessati, insieme con i ragazzi da
“battezzare’. Questi erano disposti, nel cortile, in
fila, i maschi separatamente dalle femmine, rispetti-
vamente sotto la sorveglianza di un padrino e di
una madrina, scelti fra le persone anziane.
Rito di espulsione. — Il sacerdote procedeva
anzitutto alla purificazione della casa mercé un rito
di espulsione del ‘demonio’. Su quattro sedili posti
ai quattro angoli del cortile si sedevano i quattro
chaces, tendendo un lungo cordone in modo che vi
110 CAPYTOLO II
restavano chiusi dentro i fanciulli, e con essi anche
i padri loro, che andavano a raggiungerli scaval-
cando il cordone. Nel mezzo, sopra un altro sedile,
si sedeva il sacerdote avendo accanto a se un bra-
ciere** con un po’ di maiz tritato e un po’ di in-
censo. Tutti i ragazzi, maschi e femmine, si avvici-
navano l’uno dopo J’altro, e ciascuno, avendo rice-
vuto dal sacerdote un po’ di maiz e d’incenso, lo
gettava nel braciere. Indi, levato il braciere e tolto
il cordone, si versava un po’ di vino in un vaso e
lo si dava ad un indigeno che lo portasse fuori dal
villaggio senza berne e senza voltarsi indietro”®. Con
cid il ‘demonio’ era espulso.
Toletta del sacerdote. — Mentre si scopava il
cortile sostituendo alle foglie di cihom quelle di
un altro albero (copo) e stendendo stuoie, il sacer-
dote attendeva alla sua toletta. Finalmente egli ap-
pariva indossando una giubba di piume colorate ri-
camata con altre piume di colore diverso, e adorna
di lunghe penne pendenti dall’orlo, e avendo in capo
una specie di mitra anch’essa fatta di piume, e al
di sotto della giubba molti lembi di cotone lunghi
fino a terra come code, e in mano una specie di asper-
sorio - dal manico corto e ben lavorato - fatto con le
code di certi serpenti.
Confessiones — I quattro chaces dal canto loro
preparavano i ragazzi, ponendo in testa a ciascuno
delle fascie bianche portate per questo scopo dalle
madri dei ragazzi stessi. Indi a quelli che erano pit
grandicelli domandavano se avevano commesso alcun
peccato o toccamento impuro, e, in caso affermativo,
li ‘confessavano’ e li separavano dagli altri®® (cfr. la
YUCATAN Tit
confessione nel rito d’iniziazione dei giovani presso
i Sulka, p. 18).
Aspersione ed unzione. — Allora il sacerdote,
intimato il silenzio e fatta sedere la gente, comin-
ciava a ‘benedire’ con 1’ aspersorio i ragazzi con
grande solennita. Dopo di cid si alzava il presidente
« eletto dai padri dei ragazzi » e, con un osso datogli
dal sacerdote, faceva atto di battere nove volte sulla
fronte a ciascun fanciullo; indi, bagnato l’osso nel
liquido di un vaso che teneva in mano, senza pro-
ferir parola lo passava a ciascuno sulla fronte, non-
ché sul viso e fra le dita delle mani e dei piedi. Esso
liquido era fatto con certi fiori e con del cacao pe-
stato e diluito mercé acqua ‘vergine’ (cioé tratta
dalle cavita degli alberi o dalle pietre dei monti).
Emancipazione. — Terminate queste operazioni
simbolicamente eliminatorie, il sacerdote toglieva ai
fanciulli le fascie bianche che ciascuno aveva sulla
testa ed altre pendenti dalle spalle con attaccata
qualche penna di uccelli bellissimi e un po’ di ca-
cao; e mentre uno dei chaces raccoglieva tutte que-
ste cose, il sacerdote con un coltello di pietra ta-
gliava ai fanciulli la pallottolina che fino allora ave-
vano portato sulla testa. Indi gli altri aiutanti del
sacerdote con un mazzo di fiori ed un fumacchio
che gli indigeni avevano 1’ abitudine di aspirare
toccavano ciascun fanciullo nove volte, dandogli poi
da annusare i fiori e da aspirare il fumacchio. Dopo
di che raccoglievano i doni portati dalle madri, con-
sistenti in cibarie, di cui davano a ciascun fanciullo
un poco. Prendevano poscia un vaso di vino e, re-
catolo in mezzo, lo offrivano agli déi, supplicandoli
con devote preghiere di accogliere questo piccolo
112 CAPITOLO II
dono da parte dei fanciulli; indi lo davano al cayom,
il quale doveva berlo tutto d’un fiato.
Congedo dei ragazzi e banchetto finale. — Fi-
nalmente si congedavano per prima le fanciulle,
alle quali le madri toglievano allora il filo o cor-
doncino che avevano sino a quel momento portato
intorno alle reni, nonché la piccola conchiglia pen-
dente sui genitali; e cid voleva dire che ormai esse
potevano andare a marito. Congedati poscia i ra-
gazzi, i padri distribuivano agli officianti e ad altre
persone presenti le fascie adoperate per la celebra-
zione. Infine davano termine alla festa con un ab-
bondante banchetto. Questa festa era chiamata
emku, che voleva dire ‘discesa di Dio’.
3. GUATEMALA.
Come nel Yucatan, cosi nel Guatemala era uso
che si confessassero i malati. Se la malattia era lieve,
veniva curata con erbe ed altri medicamenti. Se era
grave, il medico diceva all’infermo: « Tu hai com-
messo qualche peccato», ed insisteva fino a che
quegli si fosse confessato, magari di cose commesse
molti anni prima, y esto - dice il Las Casas*’ con una
frase che esprime efficacemente la concezione sostan-
ziale del male-peccato - era tenido por principal me-
dicina, echar el pecado de su dnima para la salud del
cuerpo. Ricevuta la confessione, il medico, ch’era in-
sieme fattucchiere e indovino, traeva le sorti per
conoscere quale sacrificio dovesse essere offerto dal
paziente.
Come presso i Dagari dell’Alta Guinea, gli in-
" GUATEMALA 113
digeni Wakulwe (Africa Orientale) e gli Antamba-
hoaka del Madagascar (p. 47), e come - per quanto
vedemmo (p. 107) - nel Yucatan, cosi nel Guate-
mala la confessione era praticata altresi in occa-
sione di un parto difficile. Una interessante descri-
zione di questo costume é data da Herrera: « quan-
do una donna era di parto, la comare le faceva dire
i stoi peccati; e se tuttavia non partoriva, faceva
dire al marito i proprii; e se neanche cid giovava,
toglievano di dosso al marito i calzoni e li mette-
vano intorno alle reni della partoriente; e se questa
ancora non si sgravava, la comare cavava sangue
al marito e lo spruzzava ai quattro venti, facendo
alcune invocazioni e cerimonie »**. Anche qui certo
la confessione aveva uno scopo eliminatorio; e cid
che con essa o col suo concorso si voleva eliminare
era, nel caso specifico del parto difficile, qualche
cosa che impediva in certo qual modo il parto stesso,
quasi ostacolandolo materialmente, quasi ingom-
brando ed ostruendo ed occludendo la via al feto:
qualche cosa che verosimilmente si era insinuato nel-
l’atto del peccato, quasi emanando dal peccato, s’in-
tende dal peccato sessuale, che é quello in cui gli
organi genitali sono fisiologicamente in gioco (cfr.
Yurok, p. 23). E che cosi sia é confermato dalla no-
tizia stessa di Herrera, dove é detto che quella par-
toriente tormentata era un’adultera, e agli otto adul-
terii da lei commessi saranno state appunto commi-
surate le difficolta e le doglie del parto.
Infatti la estrazione del sangue, che vedemmo
cosi largamente e variamente applicata nel Messico,
era altrettanto diffusa nell’America Centrale, come
risulta anche da qualche rappresentazione figurata?’,
R. PETTAzzonI, La Confesstone det peccati, |. 8
114 CAPITOLO IT
oltre che dalle testimonianze di varii autori®®. Nel
Guatemala*! si estraeva il sangue, ‘per devozione’,
dalle braccia, dalle coscie, dai polpacci, dalla lingua
e da altre parti del corpo**; e cid facevano special-
mente, su sé stessi, i sacerdoti, e in particolare il
sacerdote supremo, a cominciare dal momento in cui
egli era eletto®*. Un caso speciale era quello del parto
difficile, perché in occasione di esso, come vedemmo,
Vestrazione del sangue era praticata (sul marito) in
concomitanza con la confessione. Si aggiunge che
con la vita sessuale é, in certo qual modo, connessa
anche la sterilita femminile (cfr. Ewe, p. 1 sg.);
ed anche questa fu, al pari del parto, trattata con
ambo le operazioni combinate, cioé con la estrazione
del sangue pit la confessione: non senza ragione,
perché la sterilita, rendendo impossibile la conce-
zione, produce lo stesso effetto negativo del parto
impedito, cioé la mancanza di prole. Riferisce in-
fatti il Las Casas che, per aver figli, coloro che erano
senza prole, oltre ad offrire in sacrifizio uccelli ed
altre cose, si cavavano sangue da varie parti del
corpo, e per di pitt ricorrevano per consiglio ai me-
dici e fattucchieri, i quali, gittando le sorti, rispon-
devano che erano stati gli déi a privarli di figliuoli
a cagione di qualche loro peccato, e spesse volte li
confessavane, dopo di che li mandavano a far pe-
nitenza**. Ed anche le ‘penitenze’ erano significa-
tive; ché la pit usuale consisteva nel dormire sepa-
xati dalla moglie per quaranta o cinquanta giorni,
non mangiare cosa che fosse salata, mangiare pan
secco, 0 solo maiz, star fuori per un certo numero
di giorni in qualche grotta, dormire sulla nuda terra,
stare un certo tempo senza bagnarsi.
GUATEMALA TI5
Dal pericolo di morte per malattia passd forse la
confessione ad essere praticata, nel Guatemala, in
qualsiasi altro caso di pericolo mortale, p. es. quando
uno, essendo in cammino, s’imbatteva in un ani-
male feroce. In tal caso stbito dichiaravano i loro
peccati; se accadeva loro di incontrare un tigre, con-
fessavano dicendo: «io ho commesso tanti peccati;
non uccidermi». Cosi un’indigena che, sentendo
rumore all’uscio, ando ad aprire credendo fosse suo
marito di ritorno, trovato invece un tigre, si mise
a gridare: «Signore®®, non uccidermi, ché non ho
pitt di tre peccati», dove i ‘tre peccati’ saranno da
intendere come peccati carnali (adultéri) secondo il
senso antonomastico della parola (p. ro4). Questi ed
altri fatti consimili, che sono interessanti anche co-
me esempio di confessione senza confessore, sono
riferiti - a scopo di edificazione - dal Las Casas e
da altri®® come accaduti ad indigeni gia convertiti.
Di qui gid si vede che, nonostante la conver-
sione, persisteva 1’ attaccamento all’ antico costume,
il quale proprio nei momenti piti critici - per cosi
dire - riemergeva. Cosi in occasione della eruzione
di un vulcano avvenuta al Guatemala il 26 dicem-
bre 1581 si diedero, fra laltro, uomini e donne, a
confessarsi ad alta voce, senza l’intervento di alcun
confessore®’, - cid che é evidentemente un altro caso
di reviviscenza dell’antica confessione provocato da
circostanze eccezionali. ‘D’ altro lato, anche nell’A-
merica Centrale, come nel Messico (p. 102) e come
nel Pert (p. 144), non é improbabile che la preesi-
stenza di un’ antica confessione pagana abbia con-
tribuito a facilitare l’introduzione della confessione
116 CAPITOLO It
auricolare cristiana®*: per il Guatemala cid é espli-
citamente attestato dal Las Casas*’.
4. NICARAGUA.
I/ adelantado Pascual de Andagoya (Tt 1546)
nella sua Relacién de los sucesos de Pedrarias Da-
vila en las Provincias de Tierrafirme 6 Castilla del
Oro, y de lo occurrido en el discubrimiento de la
Mar del Sur y costas del Peru y Nicaragua*’, toc-
cando della religione delle genti Nicaraguane, rife-
risce che vigeva tra loro il costume cruento di ta-
gliuzzarsi la lingua con certe pietre aguzze come
coltelli e di spalmare col sangue che ne usciva la
statua aurea di una divinita collocata in un tempio;
indi, dopo aver parlato del sacerdote addetto al culto
di tale divinita, aggiunge che a questo sacerdote fa-
cevano una specie di confessione*?.
La confessione (nonché l’estrazione del sangue:
dalla lingua, dalle orecchie, dai genitali)** @ atte-
stata pel Nicaragua anche da G. F. Oviedo y Val-
dés**, il quale riferisce i risultati di una inchiesta
sulle effettive condizioni religiose degli indigeni, ese-
guita nel 1528 dal P. Francisco de Bobadilla per
conto del governatore Pedrarias DAévila. Secondo le
informazioni raccolte - per mezzo di interpreti - dal
Bobadilla, gli indigeni, una volta raggiunta l’eta da
prender moglie, usavano confessarsi delle loro colpe.
Cid che li induceva a confessarsi - e la confessione
aveva luogo il giorno stesso in cui era stato com-
messo il peccato, o il giorno seguente - era l’idea
che, altrimenti, avrebbero potuto ammalarsi e mo-
NICARAGUA 117
rire, mentre dopo la confessione.si sentivano liberati
dalla colpa, come se non l’avessero commessa. I pec-
cati che si confessavano erano principalmente quelli
contro la religione: inosservanza delle feste, impre-
cazioni agli déi per la mancanza di pioggia (cfr. Pert,
p. 131 sg.), e simili. I] penitente si confessava stando
in piedi. La confessione era strettamente individuale
e segreta: il confessore non doveva rivelare a nes-
suno le cose udite. Il confessore imponeva una pe-
nitenza**, che consisteva in una prestazione d’opera
in servizio del tempio (portar legna, scopare, ecc.),
ed era eseguita scrupolosamente. La confessione non
si faceva ad un sacerdote, ma ad un anziano appo-
sitamente designato dalla comunita a questo ufficio
di confessore. Egli era persona di grande autorita
e dignita, e come distintivo dell’ufficio suo portava
una calebasse appesa al collo. Non dimorava nel
tempio né in aleun luogo sacro, bensi in casa sua,
e non doveva essere ammogliato**®. Tutto cid ricorda
molto da vicino i due ‘monaci’ addetti al culto della
gran dea presso i Totonaki, che probabilmente eser-
citavano, tra l’ altro, anche 1’ ufficio di confessori
(p. 98).
Per testimonianza degli autori spagnuoli, confer-
mata dai dati della linguistica*®, una parte della po-
polazione del Nicaragua era formata da genti di
lingua nahua venute dal nord. Anche nel rispetto
culturale queste genti erano affini alle popolazioni
del Messico*” e diverse dagli altri Nicaraguani. La
stessa diversita si notava anche - com’é naturale -
nella religione**. Tutto cid rende assai probabile che
la confessione sia stata portata nel Nicaragua pre-
cisamente dagli oriundi Messicani. E notevole spe-
118 CAPITOLO IT
cialmente il fatto che il confessore era tenuto al se-
greto su quanto aveva udito in confessione: anche
al Messico coloro che esercitavano l’ufficio di con-
fessori - cioé i sacerdoti di Tlacolteotl (p. 80) - os-
servavano rigorosamente il segreto, a differenza di
quanto generalmente si praticava, p. es., presso i
Maya dell’America Centrale (p. 104).
CGC). P ER Oe
Notizie sull’esistenza di una confessione dei pec-
cati presso le popolazioni del Pert si trovano - per
quanto io ho potuto vedere - negli scritti di: Polo
de Ondegardo, Fernando de Santillan, Christoval
de Molina, Martin de Mora, José de Acosta, Blas
Valera - o chi altro sia l’autore della cosidetta Re-
lacién Anénima -, Herrera, Garcilasso de la Vega,
Gavilan, La Calancha, Arriaga, Avendafio, Bernabé
Cobo, Don Pedro de Villagémez.
Polo de Ondegardo scrisse nel 1571 le sue Informaciones
acerca la Religién y Gobierno de los Incas, pubblicate da H.
H. Urteaga in «Coleccién de Libros y Documentos referentes
A la Historia del Peru», t. III, 2 voll., Lima 1916-1917; le no-
tizie sulla confessione si trovano al cap. 5° (vol. I, p. 12 sgg.).
Fernando de Santillan, che andd al Pert intorno al 1550,
compose verso il 1572 una Relacién del Origen, Descendencia,
Politica i Gobierno de los Incas, pubblicata da Marcos Jimenez
de la Espada in Tres Relaciones de Antigiiedades Peruanas, Ma-
drid 1879, 1-133; le notizie sulla confessione sono a p. 36 sgg.
Cristoval de Molina circa il 1580 scrisse una Memoria inti-
tolata Relacién de las Fdébulas y Ritos de los Incas sulla scorta
di preziose informazioni ch’egli poté avere nella sua qualita
di curato della parocchia di Nuestra Sefiora de los Remedios
annessa all’ospedale per gli indigeni in Cuzco. Essa fu pub-
PERU 11g,
blicata in traduzione inglese da Sir Clements R. Markham (The
Fables and Rites of the Incas) nella Serie della Hakluyt Society,
vol. 48, London 1873 (sulla confessione a p. 15 e€ 63 sg.), e nel-
l’originale spagnuolo - non sempre concordante con la versione
inglese - nella gia citata « Coleccién de Libros y Documentos
referentes 4 la Historia del Peru», I, Lima 1916 (le notizie
sulla confessione a p. 23 e 101 sg.: a queste si riferiscono le
mie citazioni).
Fr. Martin de Mortia, dell’ordine della Merced, é autore di
una Historia del Origen y Genealogia Real de los Reyes Incas
del Peru, terminata nel 1590, e pubblicata nella stessa « Co-
leccién de Libros, ecc.», 24 Serie, t. IV, Lima 1922: lib. m1,
C. 45, pt 218 sg. ec. 49, p. 228.
José de Acosta (1540-1600), nato a Medina del Campo, ge-
suita, vissuto al Pert dal 1569 al 1585, poi rettore dell’ Univer-
sita di Salamanca, é autore della Historia Natural y Moral de
las Indias, en que se tratan las cosas notables del cielo, y ele-
mentos, metales, plantas, y animales dellas; y los ritos, y cere-
monias, leyes y govierno, y guerras de los Indios, Sevilla 1590.
Il cap. 25 del libro V tratta De la Confessione, y confessores,
que usavan los Indios. - Traduzione inglese: The Natural and
Moral History of the Indies, reprinted from the English trans-
lated Edition of Edward Grimston, 1604 ...... with Notes and
an Introduction by Cl. R. Markham, Hakluyt Society, voll.
60-61, London 1880 (il capitolo sulla confessione é@ a p. 360 sg.
del vol. 61). Le mie citazioni si riferiscono all’edizione ori-
ginale, dove le notizie sulla confessione si trovano a p. 364 sg.
Blas Valera, nato verso il 1540 a San José de Chachapoyas
nel Pert settentrionale da una dama peruviana della corte di
Atahualpa e da un ufficiale spagnuolo, entrd nell’ordine dei
Gesuiti, risiedette per circa dieci anni a Cuzco, poi passd in
Ispagna a Cadice, dove mori nel 1597 0 ’98. Per la conoscenza
perfetta ch’egli ebbe delle lingue indigene (il kechua fu la sua
lingua materna) sarebbe un informatore preziosissimo. Disgra-
ziatamente le sue opere non sono giunte integre fino a noi.
Notizie sulla confessione peruviana si trovano anche nella
grande opera di Antonio de Herrera, Historia general de los
hechos de los Castellanos en las Islas y Tierra Firme del Mar
Oceano, Madrid 1601, specialmente Dec. V, lib. 4, cap. 5, p. 116.
Garcilasso de la Vega, figlio - come il Valera - di una dama in-
120 | CAPITOLO IT
digena (appartenente alla famiglia degli Incas, ond’ egli si chia-
m6 ‘l’Inca’) e di un nobile ufficiale spagnuolo, nato a Cuzco nel
1539, passato in Ispagna nel 1560 ed ivi morto nel 1616, nei
suoi Commentarios Reales, que tratan del origen de los Yncas...
de su idolatria, leyes y govierno en paz y en guerra, Primera
Parte, Lisboa 1609 (in traduzione inglese, The Royal Commen-
taries of the Yncas, First Part, nei voll. 41 e 45 della Hakluyt
Society, London 1869, 1871) cita pit volte l’opera principale
del Valera - una Historia del Peru scritta in latino -, lamen-
tando che essa fosse andata distrutta durante la presa e il
saccheggio di Cadice per opera degli Inglesi nel 1596, e dichia-
rando di avere avuto sott’occhio alcuni frammenti superstiti
del manoscritto originale, che gli sarebbero stati dati dal ge-
suita D. Pedro Maldonado de Saavedra. Lo studioso pertiviano
Manuel Gonzalez de la Rosa ha sfatato questa leggenda della
distruzione del manoscritto, congetturando che essa sia stata
inventata da Garcilasso per poter plagiare anche pit libera-
mente l’opera del Valera (M. Gonzales de la Rosa, Découverte
de trois précieux ouvrages du métis péruvien Blas Valera,
qu’on croyait détruits en 1596, Journal de la Société des Amé-
ricanistes de Paris, 4, 1907, 197-202. Cfr. Markham, The Incas
of Peru, London 1o10, 14). Ma oltre ai copiosi ed ampi estratti
della Storia del Pert riportati letteralmente da Garcilasso nel I
e in parte del II Libro dei Commentarios Reales, di Blas Va-
lera ci sarebbe pervenuta, secondo il De la Rosa, anche buona
parte di un’opera originale, che si trova gid citata nel 1629
come trattante De los Indios del Peru, sus costumbres y paci-
' ficaci6n: essa é conservata in un manoscritto anonimo (oltre
che mutilo) della Biblioteca Nazionale di Madrid, ed é stato
pubblicato da M. Jimenez de la Espada, in Tres Relaciones
de Antigiiedades Peruanas, Madrid 1879, 137-227, col nome di
Relacién Anénima, sotto il quale essa é generalmente cono-
sciuta. Questo scritto, cui conferisce un particolare valore il
fatto che esso attinge direttamente alla tradizione indigena dei
quipus attraverso l’interpretazione dei quipucamayoc, ha pa-
recchie pagine (161 e€ 165-170) dedicate alla confessione degli
antichi Peruviani.
P. Alonso
Ramos Gavilan (agostiniano), Historia del cele-
bre Santuario
de Nuestra Sefiora de Copacabana, Lima 1621,
Ty 13, p- 69 sg.
PERU i Siti ; 121
Un altro agostiniano, Antonio de La Calancha, é autore di
tna Cordnica Moralizada del Orden de San Augustin en el
Piru, Barcelona 1639, preziosa specialmente per le notizie sulla
religione delle genti costiere di Chimu: della confessione si
parla al vol. II, c. 12, p. 376 sg.
Tl gesuita Pablo José de Arriaga (1564-1622), che ebbe parte
attiva nella estirpazione del paganesimo peruviano come visi-
tador delle province di Yauyos (ovest) e Conchucos (nord)
nel 1617-18, raccolse le stile osservazioni e quelle di altri eccle-
siastici (Francesco de Avila per'la regione di Huarochiri, Fer-
nando de Avendafio pel territorio di Lima, ed altri) in un
libretto intitolato Extirpacién de la Idolatria del Piru, Lima
1621, dove si trovano abbondanti notizie sulla confessione
pagana.
La Relacién dell’ Avendafio, portante la data del 3 aprile
1617 e diretta all’Arcivescovo di Lima D. Bartolomé Lobo Guer-
rero, é pubblicata in Relaciones geogrdficas de Indias: Peru, J,
. Madrid 1881, p. 215 (in nota).
(La Relacién dell’Avila, del 1608, € pubblicata nel vol. 48
della Serie della Hakluyt Society, pp. 121-147, e nell’originale
spagnuolo nella Serie limense gia pit volte citata; essa non
contiene notizie sulla confessione).
La Historia del Nuevo Mundo del gesuita Bernabé Cobo,
terminata nel 1653 e pubblicata da M. Jimenez da la Espada,
4 voll., Sevilla 1890-1893, contiene notizie sulla confessione pe-
ruviana nel vol. IV, lib. 13, cap. 24, p. 89 sgg. (e cap. 18,
pu 607 'Se:).
Di D. Pedro de Villagédmez, arcivescovo di Lima nel 1640,
abbiamo una Carta pastoral de Exortacidn é Instruccién con-
tra las Idolatrias de los Indios del Arzobispado de Lima, Lima
1649, pubblicata nella « Coleccién de Libros y Documentos »,
Lima 1919, con notizie relative alla confessione al cap. 44
(p. 157 sgg.) e al cap. 58 (p. 229).
In base alle fonti antiche é trattata la confessione peruviana
nell’opera di Ribero y Tschudi, Antigiiedades Peruanas, Viena
1851 (151 sgg.), pubblicata anche in inglese nella traduzione di
Francis L. Hawks, Peruvian Antiquities, New York 1854.
R. Karsten, The Civilisation of the South American Indians,
London 1926, 487 sgg. ha tentato di dare una teoria della confes-
sione pertiviana accentuandone l’elemento morale di fronte alla
splegazione ‘magica’ e ‘fisica’ del Vrazer, % naturale che una —
teoria della confessione ‘primitiva’ non pud senz’altro appli-
cartel alla confessione peruviana dell'epoca incasica. L’/impor-
tante é, invece, che nella confessione praticata in un ambiente
cilturalmente cost progredito come era il Peri al tempo de-
wii Incas ci siano tanti elementi di carattere ‘primitivo’, come
del resto rieonosce anche il Karsten, e come rigulterA meglio
dalle pagine seguenti, D'altro lato, come abbiamo detto sopra
(p. 55), Concezione fisico-mayica (del peccato ¢) della confes-
sone primitiva non vuol dire disconoseimento del suo valore
religioso; quanto al valore morale nel senso proprio della
parola, esso sark da riconoscere alla confessione piuttosto nei
suol evolgimenti ulteriori.
1, DESCRIZIONE i INTHRPRETAZIONE.
In aleuni degli autori sopra nominati si trova il
termine ichoco per dire ‘confessione’ (Molina) e il
termine hocha, «pit correttamente hucha»', per
dire ‘peccato’ (Santillan)*. Per dire ‘confessore’ il
termine usuale & ichuri, ychuri o ichuiri® (meno
frequentemente aucachic: p. 141): esso era usato
specialmente nella regione di Cuzco; ¢ forse é ori-
ginario appunto di questa regione, essendo poi di-
ventato di uso generale quando Cuzco divenne il
centro dell’impero unificatore degli Incas, Ichuri
(non dunque anche ichoco?) viene, secondo le fonti,
da ichu, hichu ‘paglia, erba, giunco’*, e vorrebbe
dire propriamente ‘colui che coglie paglia’, essendo
Ja paglia adoperata in certe operazioni che il con-
fessore eseguiva nello svolgersi della confessione,
come ora diremo,
La confessione si svolgeva possibilmente in vi-
cinanza di un corso d’acqua*, talvolta in certe loca-
lita all’aperto appositamente riservate ¢ designate
col nome di cayan®. Gli indigeni si presentavano a
confessarsi l’uno dopo laltro (Avendafio). L/tehuri
confessava tutte le persone del suo ayllu, cioé della
sua comunitd o villaggio, compresa la propria mo-
glie e il proprio figlio’.
Il penitente portava con sé delle polveri di va-
rio colore - polvere di conchiglie marine (mullu),
cinabro (paria), polvere verde (llaxa) «, nonehé della
coca, della chicha (bevanda fermentata), del grasso
di montone e delle pastine di farina di maiz (sancu,
parpa). Secondo Molina®, il penitente portava le
conchiglie di vario colore (ymaymana mullu) insic-
me con del maiz in grani di varie qualith: maiz
bianco paracay sara, maiz nero colli sara, maiz rosso
e giallo cuma sara, maiz giallo paro sara, Maiz € con-
chiglie erano poi ridotti in polvere dal confessore,
Il confessore stava seduto per terra @ faceva se-
dere il penitente (Arriaga, Villagéimez), Prese le
polveri, le disponeva sopra una pietra levigatissima
(Avendafio), Allora il penitente pronunciava questa
invocazione; « Uditemi, o rupi cireostanti e¢ pianure
e¢ condori che volate e gufi e civette, ché voglio con-
fessare i miei peccati» (Avendatio, Arriaga, Villa-
gémez). Indi il penitente cominciava a dire i sui
peccati: mentre li diceva, teneva con due dita della
mano destra alzata all’indietro una spina di cactus
in cima alla quale cra infisso un anellino od una
pallina di mullw (conchiglia)"; finita la confessione,
la porgeva all’ichuri, Questi rivolgeva al penitente
un fervorino esortandolo ad emendarsi, ¢ gli asse-
gnava la penitenza; indi gli presentava le pietre
con sopra le polveri; e il penitente le soffiava vial’.
iat ry
(ie a “
124 CAPITOLO 11
Questa dispersione col soffio, che trova riscontro
), es, nel gettito di pagliuzze dal ventilabro (perché
sano disperse dal vento) presso i Wakulwe (p. 7)
ce, in ambiente sud-americano, nell’ allontanamento
di couchipgiie e pietruzze presso gli Aurohuaca e gli
Ijea (p, a9, 42)'', & manifestamente uno di quei ge-
oti di carattere eliminatorio con cul suole accompa
ynarel Ja confessione nelle sue forme primitive.
Hieso non era il solo nella eonfessione peruviana.
Alla dispersione delle polveri seguiva un’ altra ope-
razione che consisteva nello strofinare la testa del
penitente con una pietra - portata dal penitente o
gil in possesso del confessore - chiamata pasca, cioe
‘perdono’'’, e con della farina di maiz bianeo, e
nel Javargli poi la testa in un torrente o al con-
fluente di due corsi @aequa, chiamato tincuna, ‘In
altre provineie’ (Avendafio) pare che il penitente
prendesse addirittura wn bagno in wn corso d’ ae-
qua; @ la ragione addotta & proprio perehé el agua
llevaba sus pecados, Anche secondo Molina il pe-
iitente (infermo), dopo aver reeitato una formula
('invoeazione agli huaca ed agli antenati!, e dopo
iver soffiato via le polveri, nonché un po’ di coca
in onore del gole, della luna e delle stelle, ed aver
offerto un po’ d’oro e d’argento al ‘Creatore’ (Vi-
vacocha), ed aver fatto libazioni di chicha ed offerte
di cibo in onore dei defunti sulle loro tombe op-
pure in casa propria, doveva andare a piedi, se ne
era in grado, al confluente di due ruscelli (se no,
eseguiva la stessa operazione stando in casa), ed
ivi lavarsi il corpo con aequa e farina di maiz bianco,
con che egli «vi lasciava la sua infermita»;
e solo dopo di cid aveva luogo la confessione, per-
perv 125
ché, «se il penitente voleva liberarsi del
suo male, doveva confessare tutti i suoi
peccati ».
Questo bagno o lavacro, di cui non potrebbe es-
sere pitt evidente il carattere eliminatorio (cfr, Sul-
‘ka: p. 19), si chiamava uwpacuna'. Quando si con.
fessava uno che aveva un figlio ammalato (e per cid
appunto si confessava, perché l’ammalargi del figlio,
al pari di ogni altro malanno, si credeva caugato da
qualche peccato del padre: il male del figlio come
sintomo rivelatore del pececato del padre, efr. p. 131),
oltre a praticare l’wpacuna, $i sottoponeva anche ad
una specie di flagellazione ch’era eseguita con certe
ortiche da un indigeno deforme dalla nascita’’,
Non meno trasparente é il carattere eliminatorio
di un’ altra pratica che ¢é attestata, in connessione
con lo stesso upacuna, con specifico riferimento alle
genti della zona costiera (‘Yunca’), Essa consisteva
nel deporre, allontanare ¢ magari distruggere gli
indumenti che si indossavano quando #i commise
il peceato. Un indigeno di un pueblo de los Llanos
riferi all’Arriaga che una volta il fattucchiere aveva
condotto lui e sua moglie ad un grande canale, ¢
dopo il lavacro aveva fatto loro indossare abiti nuovi
(cfr. Sulka, p. 19) ¢ lasciar quelli vecchi sulla stra-
da, dicendo che cosi essi si sarebbero sharazzati di
tutti i loro peccati, ¢ chi avrebbe preso i vestiti si
sarebbe presi anche i peceati'®, Secondo altre testi-
monianze, gli indumenti erano bruciati'’, Sempre
en los llanos, e precisamente presso los Iuncas, V'ab-
bandono dei vestiti sulla strada serviva a liberare
qualeuno dalla malattia’*. Cid conferma 1’ identita
del male (fisico) col peccato, se la stessa operazione
126 CAPITOLO II
eliminatoria poteva applicarsi per l’uno e per l’altro
indifferentemente. In realta nulla é pitt atto a farci
intendere la concezione primitiva del male-peccato
come sostanza malefica (p. 53) che questa possi-
bilita di deporlo e indossarlo insieme con le vesti
cui esso aderisce. Il costume, e con esso l’idea che
lo ispira, ¢ attestato anche in ambiente primitivo
presso i Sulka della N. Brettagna, e gia lo incon-
trammo nell’antico Messico, dove le donne adultere
e le meretrici si denudavano nel far penitenza alle
Ciuapipiltin, come pure si denudavano gli ubriachi
nel far penitenza agli iddii del pulque (p. 84, 88). La
nudita ¢ infatti una caratteristica delle rappresenta-
zioni del peccatore (carnale) nelle pittografie dei Co-
dict messicani,
LInca, cioe il sovrano, e il Huillac uma, cioé il
gran sacerdote (vilahoma), non si confessavano a
nessuno, tranne in aleune circostanze eccezionalis-
sime’’, Di regola 1’Inca dichiarava i suoi peccati di-
rettamente al Sole (perché poi il Sole li riferisse al
Viracocha) e il Huillac wma al Viracocha od Es-
sere supremo, In questa circostanza |’ Inca prati-
cava l’upacuna, e cioé: entrava in un ruscello e vi
si bagnava, e dopo pronunziava queste parole, nelle
quali @ implicita Videa della funzione eliminatoria
attribuita all’ acqua corrente: «Io ho detto i miei
peccati al Sole; tu, o Ruscello, ricevili e portali al
mare, donde non ricompaiano mai pit » (Acosta).
La Relacién Anénima nega - invece - recisa-
mente*® che l’upacuna facesse parte della prassi pe-
nitenziale, ma parla di altre operazioni, delle quali
é altrettanto evidente il carattere eliminatorio:
l’Inca si recava ad un ruscello o torrente portando
any
jy Trang ve =,
PERU 127
in mano un mannello di fieno fresco o di erba, ed
ivi giunto parlava al Sole chiedendogli perdono delle
sue colpe e promettendo di emendarsi e pregandolo
di far si che il ruscello o torrente le portasse insie-
me con quel pugno di fieno nell’abisso; cid detto,
sputava sul fieno e lo gettava nell’ acqua”’. Analo-
gamente il Huillac uma, tenendo in una mano un
mazzo composto di fieno, fiori ed erbe odorose, di-
chiarava - nel tempio - i stoi peccati all’essere supre-
mo Illa Tecce (Illa ici Uiracocha); indi, sputando
nel mazzo, lo gettava nel fuoco, supplicando che il
fumo portasse via i suoi peccati; le ceneri, dopo aver
pronunziate certe orazioni, le gettava nell’acqua del
ruscello o torrente. Sempre secondo la Relacién Ané-
nima questa procedura non era eccezionalmente ri-
servata alle due autorita supreme, la civile e la re-
ligiosa, anzi si praticava su per git nello stesso
modo da ogni genere di persone, solo che per que-
ste generalmente si aggiungeva la confessione al-
Vichuri. Questa si faceva (Rel. An. 165) vicino ad
un corso d’acqua: lichuri coglieva un gran mazzo
di fieno o d’erba e lo teneva nella destra, mentre
con la sinistra reggeva una piccola pietra legata ad
una fune o inserita in un foro praticato in un ba-
stone (cfr. la pasca secondo Arriaga: p. 124). Se-
dutosi, 1’ ichuri chiamava il penitente, il quale si
presentava tremando e si prostrava ai suoi piedi.
Fattolo sedere, lo esortava a dire ogni cosa senza
nulla nascondere. Finito che aveva il penitente di
dire i suoi peccati, Vichuri gli rivolgeva un fervo-
rino, esortandolo ad emendarsi, a render onore agli
déi e ad obbedire al Huwillac wma e all’Inca; indi gli
assegnava la penitenza. Poi gli dava con la pietra
“ey:
128 CAPITOLO 11
leggermente alcuni colpi sulla spalla, Infine en-
trambi, prima il penitente, poi il confessore, sputa-
vano nel mazzo di fieno o di erba**, e pronunciando
Vichwri certe orazioni ed imprecazioni contro il pee-
ato, lo gettavano nel ruscello, pregando gli déi di
portarlo nell’abisso ed ivi nasconderlo per sempre
(cfr, ’oho-harahi nel Shintoismo giapponese : p. 171).
In tal modo i peceati enuneiati, ossia - per virtth ma-
pica della parola « rievocati e quindi resi passibili di
climinazione (p. 58), erano effettivamente eliminati
col gettare il fieno nell’acqua corrente, quasi che in
esso si fosse magicamente trasferita la sostanza pec-
caminoga gid annidata nell’organismo, e il mezzo
del trasferimento era lo sputo (efr. Sulka, p. 18),
mentre i colpi dati con la pietra sulla schiena al
penitente (cfr, i Delaware p. 70 n. 39 € il rito yucateco
del capulzihil, p. 111) pare concorressero a far usci-
re il peceato, Esattamente analoga era, nel caso del
Hwuillac uma, Vapplicazione del fuoco, onde il fumo
perdendosi nell’aria compiva la medesima ed altret-
tanto definitiva funzione allontanatrice che compiva
l’ acqua corrente trasportando il male-peccato in
fondo al mare, sia che esso fosse concentrato nel
fieno, oppure, nel caso stesso del Hwillac uma, nei
residui della combustione*®. L’azione del fuoco co-
me operazione eliminatoria concomitante della con-
fegsione (essa era applicata nel Pert anche agli in-
dumenti che il peecatore indossava quando commise
il peceato, p, 125) trova riscontro presso gli Huichol
(p. 34) e altrove?*,
I] mazzo di fieno od erba adoperato nella con-
fessione sopra descritta ci riporta all’etimologia di
ichuri da ichu, hichu, che vuol dire appunto ‘erba,
vai a Werry is oe ah yes.
ie ec |
PERU A ae
fieno, paglia’, onde ichuri sarebbe propriamente ‘el
que coje pajas’ (p. 122). Anche un’altra operazione
era eseguita dal confessore con la paglia, e cioe;
terminata la confessione, per verificare se questa era
stata sincera ¢ completa, Vichuri prendeva un man-
nello di ichu, @ ne faceva due parti, poi toglieva
alternativamente una pagliuzza dall’una e dall’altra
parte: se le pagliuzze risultavano pari di numero,
la confessione era stata buona, se no, cattiva (Ar-
riaga, Villagémez). La verifica della confessione po-
teva farsi anche in altri modi. P. egs., il confessore
prendeva |’ anellino di mullw infisso sulla spina di
cactus rimessagli dal penitente (p. 123), ne confic-
cava la punta nel suo scialle, indi premeva fino a
che l’anellino si spezzasse: se si spezzava in tre
parti, la confessione era buona; se in due, era cat-
tiva (Arriaga, Villag6mez). Quando la prova riu-
sciva negativa, il penitente doveva ripetere la con-
fessione (Cobo). In altre regioni (Arriaga) la veri-
fica si faceva osservando il sangue di un cwy sgoz-
zato (il cwy, Cavia porcellus, & una specie di coni-
glio, pitt piccolo del nostro), Anche la Relacién
Anénima afferma che, se il confessore sospettava
che il penitente non avesse detto tutto, sacrificava
un cuy od altro animale, ed esaminandone le inte-
riora, indovinava che il penitente gli nascondeva
qualche peccato, ed allora lo percuoteva con la pie-
tra per fargli dire ogni cosa. Altrimenti il confes-
sore raggiungeva lo stesso scopo stringendo forte
con un cordone le mani del penitente legate dietro
la schiena, oppure percuotendolo con un bastone o
con una fune (Arriaga). La verifica si poteva fare
anche gettando le sorti*’
Mw, wervazzomi, La Confessione det peccali, |. 9
140 CAPINOLO 11
A coloro ai quali la prova riusciva sfavorevole
erano inflitte delle penitenze ehe aleuni fra gli au.
tori spagnuoli chiamano severe, Ora, & facile rendersi
conto che le cosidette ‘penitenze’ sono essenzial-
mente delle vere @ proprie operazioni climinatorie,
La cosa & di tutta evidenza quando si tratta di una
penitenza corporale quale & nel Messico |’estrazione
del sangue, Da questo punto di vista anche lablu-
zione © il lavacro potevano essere considerati come
‘nenitenze’: infatti 1’ Arriaga riferisee, a proposito
dei gemellie di altri nati in modo anormale (p. 132),
che, inficrendo il gelo, di cui essi erano ritenuti re-
sponsabili, i sacerdoti li faeevano confessare, y dd-
wanles por penitencia que se lavassen®®, Le peni-
tenze che ordinariamente si davano a chi faceva
una buona confessione (senza bisogno di verifiea)
erano; il digiuno « per tre, quattro o sei mesi «, il
divieto di gustare sale e aji (una specie di pepe), il
divieto di usare con donne (Arriaga, Calaneha, Cobo),
In queste astinenze & lecito vedere altrettanti mezzi
intesi a far durare per un tempo pil o meno lungo
quello stato di puritA che mereé leliminazione della
impuriti era stato conseguito, Anche il ritiraral per
wn certo periodo sui monti (Acosta, 367) poteva sere
vire allo stesso seopo, Agli abbienti si preferiva as-
segnare come, penitenza un’ offerta da farsi ai vari
huaca in stoffa, oro, argento e cibarie*’,
La confessione era praticata al Pert « come nell’A-
merica Centrale (p., 104) @ presso i Mixteki (p, o7) =
principalmente in caso di malattia (ef, p, 47). Quando
no era ammalato, ricorreva alliechuri, il quale per
prima cosa presagiva se egli poteva risanare o no,
PERY 131
e in caso di presagio favorevole procedeva, fra |’al-
tro, alla confessione dell’ infermo nel modo sopra
descritto**, Si confessava anche il padre cui era am-
malato un figlio, come gid si é detto (p. 125), op-
pure il marito cui era ammalata la moglie, e la mo-
glie cui era ammalato il marito*®: sempre in base
alla eredenza che ogni sciagura fosse conseguenza
dei peccati commessi, essendo la malattia dei fami-
liari una sciagura anche pel capo-famiglia, onde an-
che in questi casi la sua confessione non era senza
motivo utilitario (p. 49), come pure quando era fatta
in occasione della malattia del cacicco, o capo-villag-
gio, secondo la ecredenza comune a molti popoli pri-
mitivi, che dal benessere del capo della comunita di-
penda quello dei singoli membri. Onde, quando la co-
munita si allargd, nel Pert, fino a diventare l’impero
degli Inca, invalse l’uso che, ammalandosi 1’Inca, si
confessassero tutti i sudditi di tutte le provincie*®,
per assicurare, con la sua guarigione, anche la pro-
pria salute®', per la stessa ragione di mistica solida-
rieta fra l’organismo sociale e il suo rappresentante
onde altrove (Cina: p. 206) era invece il sovrano
che, quando qualche calamita si abbatteva sul suo
popolo, procedeva a confessare i propri peccati. Né
soltanto il male presente e reale spingeva alla con-
fessione, ma anche quello che si delineava minac-
cioso in un futuro pitt o meno prossimo, onde, p. es.,
usava confessarsi chi stava per intraprendere un
lungo viaggio’’.
Santillan*® cita come occasioni in cui principal-
mente si praticava la confessione i geli ¢ le siccita®’.
Un caso speciale della confessione connessa con
preoceupazioni di carattere meteorologico era la con-
132 CAPITOLO II
fessione dei gemelli (curi o chuchos, nel Cuzco ta--
qui huahua), come pure dei nati pei piedi (chacpas)
e dei nati col labbro leporino. Tutti costoro, la cui
nascita era avvenuta in modo anormale, erano con-
siderati come il frutto del peccato - naturalmente,
dunque, di un peccato sessuale*® -, e come tali si
credeva che avessero una speciale influenza maligna
sul tempo; onde, quando gelava, i sacerdoti li man-
davano a chiamare e li rampognavano, perché, se ge-
lava, era per causa loro, cioé pel fatto che essi non
si erano astenuti dal gustar sale ed aji; dopo di che
li facevano confessare, nonché digiunare ed aste-
nersi dal coito per un certo numero di giorni®®.
L/elemento meteorologico é, a quanto pare, un tratto
caratteristico della confessione peruviana®’ (cfr. Hu-
Da, P. 23).
Un’altra occasione principale di praticare la con-
fessione era nell’imminenza e alla vigilia di sacri-
fici e celebrazioni religiose, in ispecie di alcune
grandi feste annuali, come quella delle Plejadi, che
cadeva nel giugno all’epoca della massima visibilita
di questa costellazione. All’ influenza delle Pleiadi
si attribuivano i geli che minacciavano le semina-
gioni; ond’esse erano chiamate, oltre che llari illa,
anche ccollca ccoyllur, che vuol dire ‘stella dei gra-
nai’, e la loro festa si chiamava oncoy-mitta, cioé
‘vicenda, turno dei malanni’ (Avendafio), di quei
malanni che le Pleiadi appunto dovevano stornare.
A questa e ad altre feste di carattere agrario - p. es.
quella che si celebrava circa 1’ epoca del Natale al
cominciar delle pioggie in onore del tuono e del ful-
mine porque embie pluvias (Arriaga) - gli indigeni
si preparavano con alcuni giorni di digiuno (cinque
a
PERU 133
© pitt a seconda delle consuetudini locali: Arriaga),
durante i quali essi non dovevano gustare né sale
né aji, e non dovevano dormire con le loro mogli.
In questi giorni di digiuno si confessavano an-
che di tutti i loro peccati.
Una organizzazione speciale presenta la confes-
sione quale fu praticata nel gran santuario di Titi-
caca dedicato al dio del Sole. Questo santuario
aveva origini verosimilmente pre-incasiche (la re-
gione era abitata da genti Colla), ma il suo grande
splendore datava dal regno dell’ Inca Topa Yupan-
qui, che ne aveva fatto uno dei principali centri re-
ligiosi dell’impero. Esso sorgeva sopra un’isoletta
alla quale si accedeva dal pueblo di Copacabana,
che era congiunto alla sponda del lago da una spe-
cie di istmo. Questo istmo era sbarrato da una mu-
raglia, e alle porte di essa si trovavano dei guardia-
ni che sottoponevano ad un primo interrogatorio i
pellegrini, indi li consegnavano 4 los confesores y
penitenciarios que alli residian para este efecto, los
cuales segtin la calidad de las culpas que confesa-
ban, les imponian la penitencia (Cobo), dando loro
alcuni colpi sulle spalle con una pietra (cfr. p. 128)
e ingiungendo loro di astenersi dal sale, dall’ aji e
dalla carne. Entrati i pellegrini nel pueblo di Co-
pacabana, passavano all’isola sacra. Ma per giun-
gere al tempio vero e proprio, dovevano attraver-
sare altre tre cerchie di mura passando per le ri-
spettive porte - Pumapuncu ‘porta del leone’, Ken-
tibuncu ‘porta dell’ uccello mosca’ e Pillcopuncu,
‘porta della speranza’ -, ciascuna delle quali era
guardata da un sacerdote che sottoponeva i pelle-
grini ad una nuova confessione, dopo di che essi
134 ' CAPITOLO II
erano finalmente ammessi a vedere da lontano, at-
traverso un’altra porta detta Intipuncu ‘porta del
sole’, il simbolo sacrosanto della divinita solare**.
Nel quadro della confessione peruviana il pec-
cato carnale non ha una posizione cosi esclusiva' co-
me nella messicana (p. 82), 0 cosi cospicua come nel-
la confessione dell’ America Centrale (p. 104)°°. Bensi
é in gioco l’elemento sessuale nella confessione dei
gemelli (p. 132), perché uno di essi era considerato
come figlio del fulmine (per questo sara stata attri-
buita ai gemelli un’influenza sui fenomeni meteo-
rici), e€ quindi in certo qual modo come frutto di
un ‘peccato’ carnale. Peccati sessuali sono inclusi
senza alcun rilievo speciale nelle enumerazioni dei
peccati confessati dai Peruviani secondo i vari au-
tori. La lista pi ampia é data dalla Relacién Andé-
nima:
adorare altre divinita all’infuori di quelle riconosciute dallo
stato49;
parlar male di qualche divinita41;
imprecare o maledire a sé o ad altri;
invocare maledizioni su di sé a scopo di menzogna davanti
al giudice (p. es, ‘che la terra m’inghiottisca’, ‘che il fulmine
mi squarti’);
non celebrare le feste42;
non attendere ai*sacrifici prescritti;
sottrarre al sacrificio le offerte e le vittime dovute;
profferire ingiurie contro il padre e la madre, i nonni e
gli zii;
non ubbidirli;
non soccorrerli nelle loro necessita;
non obbedire agli ordini del Hwillac wma e del hatun huillac;
insolentire contro questi ed altri (minori) ministri del culto;
non obbedire al re45;
PERU aS
partecipare ad un’azione di rivolta contro il re;
parlar male del re e mormorare contro di lui44;
uccidere un fanciullo od un uomo adulto tranne che in giu-
sta guerra45 ;
uccidere un giudice per vendetta;
cagionare un aborto, massime se la donna é gia incinta di
tre mesi;
stupro di una vergine46;
stupro sacrilego di una vergine ‘vestale’ (mamacuna) ;
rapporti con tna donna maritata o di un uomo ammogliato
con altra donna qualsiasi47 ;
far violenza a una donna, sia pure una meretrice;
rapporti con tna vedova o una nubile o una mondana‘8;
commettere il peccato nefando con un uomo o con animali;
rubare pel valore di una misttra (fanega) di maiz o di
patate4?;
assaltare alle strade;
saccheggiare in guerra senza il permesso del proprio ca-
pitano;
mormorazioni gravi;
menzogne dannose;
stare in ozio per un certo tempo dell’anno;
trascurare i propri uffici ed occupazioni.
Come si vede, questo elenco - cui sono da ag-
giungere, in base ad Ondegardo, Acosta, Herrera,
Calancha, Cobo, per lo meno i peccati di veneficio
e di sortilegio dannoso (dar yeruas, y hechizos) -
segue a un di presso l’ordine del Decalogo: in cid,
come in parecchi altri punti, la Relacién Anénima
risente della mentalita ecclesiastica del suo Autore
(certamente un gesuita, anche se non fu proprio Blas
Valera)*°.
Alla stessa mentalita é da attribuire l’insistenza
di certi autori sopra i peccati d’intenzione e di pen-
siero (cfr. America Centrale, p. 158 n. 13): vero é
che generalmente ¢ detto che i Peruviani non li
confessavano (Acosta, Arriaga, Villagémez, Cobo,
196 CAVITOLO IT
Werrera); ma la Relacién Andnima afferma che essi
crano confessati dalle persone appartenenti alle classi
clevate, Ondegardo, seguito da Acosta, dice espli-
citamente che i Peruviani cominciarono a confessarsi
dei peceati di pensiero soltanto dopo lintroduzione
del Cattolicesimo”,
T/adorare divinitA non riconoseiute, il parlare ir
riverentemente di una divinita, il partecipare ad una
azione rivoltosa contro il re, lo stupro saerilego di
una ‘vestale’ erano peceati la cui confessione do-
veva farsi al Hwillae wma o gran sacerdote; lo stu.
pro semplice di wna vergine doveva essere confes-
sato ad uno dei suoi vieari (hatun huillac)",
2, AVOLGIMIENTO,
AlVinfworl di questi casi eceezionali i peccati
erano confessati alVichwi, Gli iehwi non erano dei
sacerdoti, non crano wna categoria speciale di que-
gli hwillae (villac) che costituivano il corpo sacer-
dotale @ tra eul si cleggevano Je supreme autorita
della gerarchia ecclesiastica, quali appunto il Huil-
lac uma © pli halun licillae, che erano i suoi vieari,
in numero di dieci o dodici, Gli tehuri si recluta-
vano invece fra un personale di rango inferiore,
quello dei cosidetti huatue o indovini, il cui com-
pito era principalmente di ottenere presagi e formu-
lare predizioni, A questo proposito & da ricordare
che anche nel Messico erano indovini, facitori di
oroseopi, ece, quei ‘sacerdoti’ di Magolteotl che ri-
cevevano le confessioni (efr, ‘Totonaki, p. 98),
Gli huatue erano tenuti, al pari dei sacerdoti, al
purty 137
celibato, per lo meno durante il tempo in ei eser-
citavano il loro ufficio’’, Ce n’erano di varie specie
secondo le provincie, e si chiamavano con vari tiomi
(calparicu, virapiricuc, achicoc, camasca, yacarcaes)
in rapporto coi differenti sistemi praticati per inter-
rogare il futuro™’, Hualuc in senso proprio si chia
mavano, a quanto pare, quelli che consultavano gli
oracoli, Altri, che divinavano dal volo degli uecelli
e dalle interiora di certi animali, si chiamavano ha-
murpa. Tra questi hamurpa appunto si sceglievano
gli ichuri. Hssi erano nominati « cosl nel Cuzeo co-
me in tutte le altre provinee » dal huillae wma, Per
assicurarsi che gli ichuri fossero all’altezza del loro
ufficio, il huillac wma li faceva preventivamente esa-
minare da una commissione composta di un hatun
huillac e di quattro amautas ~ ossia dottori - sulle
cose della religione, specialmente sulle varie qualita
di peccati e penitenze relative. A confessori delle
vergini in clausura (aclla @ mamacuna) erano desti-
nati soltanto degli eunuchi, oppure persone che
avessero fatto voto di castitA perpetua, preferibil-
mente se avanzati in etd. Il huillac wma poteva al«
largare o restringere a suo talento le facoltd degli
ichuri’®,
Se in questo ambiente interamente dominato e
controllato, come si vede, dall’elemento sacerdotale
la confessione era tuttavia esercitata dagli ichuri,
che non erano sgacerdoti (solo eccezionalmente « co-
me vedemmo, p. 136 - per certi peecati speciali la
confessione era riservata alle supreme autoritA sa-
cerdotali), bisognerA dire che essa dovette essere ab
antiquo una funzione propria dell’ichuri @ per cid
avrA potuto mantenersi sostanzialmente tale anche
138 ~ *Caprroro IT’
in un regime in cui gli ichuri - e tutti gli huatuc -
restarono subordinati ad altre autorita ecclesiastiche.
La confessione peruviana (e lo stesso si pud dire, for-
se, della messicana) é dunque, secondo ogni verosimi-
glianza, di origine extra-sacerdotale e pre-sacerdo-
tale; essa ci riporta ad un ambiente religioso arcaico
in cui la figura centrale non é il sacerdote vero e
proprio, bensi il suo precursore, il fattucchiere-indo-
vino. Di questo loro originario carattere di confes-
sores hechizeros (Acosta) gli ichwri conservarono
qualche tratto, p. es. nella indagine preventiva che
_essi facevano per scoprire la causa di una malattia,
e poi in quella verifica della confessione (p. 129) che
é un aspetto caratteristico dell’ antica confessione
peruviana (qualche cosa di simile presso gli Ijca*® e
forse presso i Wakulwe: p. 8).
Tutto cid concorda, del resto, con quanto altri-
menti sappiamo della confessione dei peccati quale
fu praticata in ambienti culturali assai primitivi
(Cap. I), e riesce poi comprovato per altra via. Non
per nulla Fernando de Santillan, mentre rifugge
dall’assimilare la originaria confessione peruviana a
quella cattolica®’, le da per isfondo le molte super-
stizioni del popolo peruviano. Quando pioveva - egli
dice -, o quando il gelo minacciava di essiccare le
piante, qualcuno si presentava al cwraca - cioé, al
capo - e ai fattucchieri, dicendo: «la tale - o il
tale - ha qualche peccato (hocha), e per questo non
-piove»; LV individuo cosi denunziato era condotto
dinnanzi al confessore e si confessava; oppure si pre-
sentava spontaneamente, e, anche se non sapeva pre-
cisamente che cosa avesse commesso di male, tutta-
via si accusava al confessore, ritenendo che cid gio-
PERU’ ee ag
vasse a far cessare le intemperie o a stornarle; nel
che é implicita Videa tipicamente primitiva del pec-
cato involontario e non saputo, e tuttavia confessato-
in presenza o nell’imminenza di un male che ne é°
il segno rivelatore (p. 54).
Santillan aggiunge che la confessione era tut-
t’altro che generale presso i Peruviani, cid che si
comprende benissimo di una confessione che, per
essere suggerita dalla presenza o dalla minaccia di
un male, era naturalmente occasionale e sporadica.
Altrettanto comprensibile é che una tale confessione
non avesse bisogno di essere segreta: in Santillana
non c’é il minimo accenno all’ esistenza di un se-
greto confessionale; Garcilasso conosce soltanto delle
confessiones publicas®*; Molina afferma in termini
espliciti che le confessioni si facevano pubblicamen-
te, e soltanto chi aveva sulla coscienza qualche de-
litto capitale lo confessava in segreto al fattuc-
chiere®’.
Or se in altre fonti invece é@ detto che a) la con-
fessione era praticata da tutti®’, e b) i confessori era-
no tenuti ad osservare scrupolosamente il segreto®?
- due proposizioni esattamente antitetiche a quanto
é attestato da Santillan e da altri -, la contradizione
sara da risolvere ammettendo l’esistenza di due tipi
diversi nella confessione peruviana: quella confes-
sione occasionale e facoltativa di tipo arcaico di cui
abbiamo messo in evidenza le tracce, ed una confes-
sione rigorosamente organizzata sotto il controllo
sacerdotale, alla quale ben si addice l’osservanza del
segreto insieme con la generalita (obbligatorieta?)
della pratica.
Se poi questo dualismo tipologico vogliamo tra-
oA.
140 CAPITOLO II
durlo in termini di spazio e di tempo, ci soccorre
anzitutto una notizia preziosa di Molina, il quale
cita espressamente una regione del Pert come quella
in cui si praticava la confessione segreta, cioé la
regione di Cuzco®*. Cuzco fu il cuore, e forse anche
la culla, dell’impero degli Incas: «gli Incas», dice
ancora Molina - e per Incas sono qui da intendere
tutti i membri della gente cui apparteneva il so-
vrano -, « gli Incas e tutti quelli di Cuzco si con-
fessavano in segreto»®*. Infatti una confessione se-
greta e rigorosamente controllata dai sacerdoti é in
armonia con quello che fu lo spirito e lo stile della
politica di governo degli Incas, ed é naturale che
questo spirito e questo stile si manifestassero in modo
pitt cospicuo in quegli ambienti che erano sia so-
cialmente sia localmente pit vicini agli stessi Incas.
Forse la confessione fu anch’ essa, insieme con lo
spionaggio segreto™*, un instrwmentum regni; in-
fatti fra i peccati gravissimi di cui, secondo la Re-
lacién Anénima, era riservata la confessione al Huwil-
lac uma, figura il peccato di lesa maesta (p. 136).
Se dunque esisté realmente al Pert, indipendente-
mente dalla confessione sacramentale introdotta dal
Cattolicismo, una confessione auricular segreta®®,
essa sara esistita, secondo ogni verosimiglianza, in
un raggio di luogo e di tempo coincidente con
quello dell’impero degli Incas.
D’ altro lato, sempre secondo Molina, a Cuzco
stessa la gente por la mayor parte se confessavan
con los yndios de Huaro hechicgeros que para ello
dedicados tenian. I fattucchieri ci riportano alla
forma primitiva, pre-sacerdotale, della confessione.
Pitt che in ogni altra parte del Pert, essi appaiono
PERU 141
‘in voga, secondo Acosta, nelle provincie del Colla-
suyu, ch’era la regione meridionale dell’ impero. I
Collas, infatti, dovevano essere particolarmente de-
diti alla pratica della confessione, se le fonti, rife-
rendo la notizia che « quando l’Inca era ammalato,
si confessavano tutte le province» (p. 131), aggiun-
gono: «e specialmente i Collas»°*®. I Collas sono
anche menzionati come i soli presso i quali - a diffe-
renza di cid che si verificava nel Cuzco e nel Chin-
chaysuyu (la parte settentrionale dell’impero) - c’era-
no anche delle donne che confessavano (altre don-
ne)°’ (cfr. la moglie che confessa il marito al Yuca-
tan, p. 106, la comare che confessa il marito al Gua-
temala, p. 113). A questo proposito conviene ricor-
dare altresi che la regione di Titicaca, dove la con-
fessione ricevette quella organizzazione caratteristica
che sopra vedemmo (p. 133), era abitata dai Collas.
Cobo dice addirittura®* che dovevano essere i Collas
los inventores della confessione, porque wniversal-
mente eran tenidos por mejores maestros deste oficio.
Ma anche la regione occidentale e costiera, che
fu verosimilmente il centro pit antico della civilta
peruviana, é da tenere in considerazione a proposito
della confessione primitiva. Ad essa si riferiscono,
per la maggior parte, i dati relativi alla confessione
che si leggono negli scritti di Arriaga, Avendafio,
Calancha. A questa zona, abitata dalle genti ‘Yun-
ca’, appartiene, a quanto pare, il termine aucachic
come equivalente del cuzcano ichuri, col senso di
“confessore’®®. Ad essa appartiene forse anche quel
culto delle Pleiadi con cui abbiam visto associata la
confessione (p. 132), culto che € comune anche ad
altre popolazioni dell’America meridionale fuori del
142 . CAPYTOLO II:
Pertti - p. es. ai Guarani -, e che certamente risale
all’ antico fondo pre-incasico della religione peru-
viana, in seno alla quale sopravisse poi non sol-
tanto alla riforma religiosa degli Incas - che impose
il culto del sole come religione ufficiale a tutto l’im-
pero -, ma anche alla introduzione del Cattolicesimo,
se ancora nel sec. XVII, a testimonianza dei visita-
dores Avendafio e Arriaga, la festa delle Pleiadi era
celebrata simulatamente dagli indigeni all’ ombra
del culto cattolico, in coincidenza con la festa del
Corpus Domini".
Quel clima storico in cui si produsse la riforma
religiosa degli Incas poté ben esser anche quello
in cui si operd, se mai, la trasformazione in senso
sacerdotale e istituzionale dell’antica confessione pe-
ruviana, dalla sua forma elementare primitiva alla
nuova forma organizzata coi caratteri della genera-
lita (obbligatorieta?) e della (relativa) segretezza. In
cid é forse lecito vedere un certo parallelismo fra
lo svolgimento della confessione peruviana e quello
che verisimilmente ebbe a subire la confessione nel-
Vantico Messico in rapporto con 1’ organizzazione
dello stato azteco (p. 1or)’*. Nonostante la politica
livellatrice ed unificatrice degli Incas, non fa mera-
viglia che in ambiente provinciale la confessione ab-
bia seguitato a sussistere qua e lA nella sua forma
elementare ed arcaica, p. es. nelle regioni costiere.
Attraverso il dualismo geografico (coste del Pacifico
e regioni andine dell’interno), nonché etnografico-
linguistico (Kechua-‘Aymara’ e ‘Yunca’) si intra-
vede una differenziazione di aree culturali cui cor-
risponde anche una successione di momenti storici
(pre-incasico ed incasico). E notevole che Miguel
part . 143
Cavello Balboa nella sua Storia del Peri - che fa-
ceva parte della Miscellanea Austral - accenna alla
confessione in un succinto preambolo introduttivo
complessivamente dedicato alla pitt antica fase della
storia peruviana, prima degli Incas’*.
La prima conversione del Pert, ufficialmente da-
tata nel 1554, dovette essere assai superficiale, se ad
essa segul una ‘ricaduta’ nell’idolatria (massime a
partire dal 1560). Come avvenne sotto altri cieli,
cosi forse nel Pert si svilupparono in quel primo
tempo delle tendenze sincretistiche in base a somi-
glianze pitt formali che sostanziali fra l’una e |’altra
religione. Un elemento di somiglianza era appunto
la confessione, Contraffazione diabolica era agli oc-
chi dei teologi la confessione indigena, ma non per
nulla l’aveva permessa la Provvidenza divina, aven-
dola anzi destinata a facilitare proprio l’introduzione
della penitenza cristiana’’,
Pid difficile che l’introduzione della pratica
nuova fu Il’ estirpazione dell’ antica. Per gli indi-
geni |’ accettazione del Cristianesimo non appa-
riva incompatibile con |’ adesione alle antiche pra-
tiche pagane, née la frequentazione dei sacerdoti
rattolici con la consultazione dei loro ichuri, Spe-
cialmente nei momenti critici, nell’ infierire di
qualche calamitd, 1’ antica fede si ravvivava e gli
indigeni (come vedemmo anche nel Guatemala,
p. 115) ricorrevano ai loro idoli per ottenere tre-
gua ai loro mali, come si verificd in oceasione di
una epidemia di vajolo scoppiata nel rs580**. Moli-
na’® parla di aleuni Indiani convertiti che facilmente
ricorrevano ai loro fattucchieri e poi venivano a con-
144 CAPITOLO II
fessarsi ai preti cattolici di questo atto di apostasia.
Contro questa e contro altre sopravivenze del pa-
ganesimo parve necessaria, massime dopo il Conci-
lio di Lima del 1583, un’azione energica di repres-
sione e di estirpazione. Essa fu l’opera dei visita-
dores. Uno di questi, l’Arriaga, facendo il bilancio
dei risultati ottenuti nella sua circoscrizione negli
anni 1617 e 1618, annovera a 5694 le persone che
si erano confessate. In altre provincie - dicono altri
‘visitatori’ - gli indigeni accorrevano cosi numerosi
ad accostarsi al sacramento della penitenza che i
confessori non trovavano il tempo di mangiare un
boccone; e talvolta pareva che fosse semana santa’®.
Anche qui, come pel Messico (p. 102) e come nel caso
degli Algonkini (p. 26), vien fatto di chiedersi quanta
parte abbia avuto in questa adesione degli indigeni
alla confessione auricolare la loro antica consuetu-
dine con una pratica analoga preesistente nel loro
paganesimo. FE} noto, in fatti (cfr. p. 142), che sotto
la veste del culto cattolico gli indigeni seguitarono
per molto tempo a celebrare dissimulatamente i loro
riti pagani: si narra - e non saranno tutte esagera-
zioni di ecclesiastici - di certi llama portati in pro-
cessione nella festa del Corpus Domini, mentre erano
destinati ad essere sacrificati a divinita indigene, e
di certi idoletti nascosti negli altari delle chiese cat-
toliche o nei piedistalli delle statue dei Santi e per-
fino nel piede degli ostensori, nonché di feste cele-
brate apparentemente in onore della Vergine e di
. Cristo, ma in realta - nell’intimo pensiero degli indi-
geni - in onore di qualche corrispondente loro divi-
nita pagana.
Ia resistenza fu viva e tenace specialmente da
purty 145
parte dei fattucchieri, custodi delle tradizioni indi-
gene. La lotta si combatté anche a proposito della
confessione, Si narra di fattucchieri che avrebbero
preteso che gli indigeni confessassero, come peccati
contro la religione, l’aver adorato il Dio degli Spa-
gnuoli (Arriaga, 28), l’aver partecipato ad opere ee.
clesiastiche (Avendafio), |’ aver frequentato chiese,
portato rosari, ascoltato messe, e l’essersi confes-
sati a sacerdoti spagnuoli (Calancha); come pure di
taluni echizeros dogmatizadores i quali avrebbero in-
segnato, fra l’altro, agli indigeni che non era pos-
sibile evitare il peccato (Calaneha 378), Dal canto
loro i cattolici cercavano di persuadere gli indigeni
che gli ichuri non avevano la facoltA di perdonare
i peccati (Arriaga, 83). Certo la confessione pagana
seguitd a praticarsi anche molto tempo dopo l'intro-
duzione del Cattolicismo:; la interrogazione inquisi-
toriale da rivolgersi agli indigeni in lingua indigena
per domandare « hai confessato i tuoi peccati ai fat-
tucchieri? » (huchaiquicla aucacucchu canqui?) &
ancora ripetuta nella Carta Pastoral dell’arcivescovo
di Tima Don Pedro de Villagomez, pubblicata in
Lima nel 16497".
R, perrazzomt, La Confessione det peccati, I. 10
NOTE *
MESSICO.
1 Interpret. del Codex Telleriano-Remensis, 17.
2 Codex Borgia, 64.
3 Codex Borgia, 2, ecc.
4 Cod. Vatic. B, 87, cfr. 91; Cod. Telleriano-Remensis, 2r.
5 Cod. Borgia, 10; cfr. Cod. Vatic. B, 29.
6 Cod. Borgia, 14; Vatic. B, 22. - Forse anche qualcuna
delle suddette figure col cuitlatl é da intendere come rappre-
sentativa della dea stessa: Seler, Codex Borgia, I. 94, 145;
cfr. Gesammelte Abhandlungen, I 421.
7 Sahagun, I. 12; cfr. dios (sic) del estiercol: Torquemada,
Monarquia Indiana, II, Sevilla 1615, VI. 32, p. 65. - Anche
quella zona obliqua intorno alla bocca - dalla punta del naso
alla punta del mento - di color bruno (mentre il resto della
faccia é in bianco e giallo) che ricorre in parecchie figure della
dea (Cod. Borgia 16, 60, ecc.) potrebbe alludere allo stesso
fatto: cfr. Seler, Codex Borgia, II. 81.
8 Cod. Borbon. 13; Vatic. B, 41, 74.
9 Cod. Borgia, 16.
10 Seler, Codex Borgia, I. 213 sgg., II. 208 sgg.
11 Seler, Codex Borgia, II, 289 sgg.
12 Kd. de Jonghe, Journal de la Societé des Américanistes
de Paris, N. S., 2, 1905, 1 sgg.; cfr. Verhandl. d. XIV Ameri-
kanisten-Kongress (Stuttgart 1904), I, 223 sgg.
* Parecchi dei passi di autori spagnuoli citati nelle note di
questo Capitolo sono riportati testualmente nel corrispondente
atticolo degli Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 2,
1926, 163-229, dove, chi voglia, potra agevolmente rintracciarli.
NOTE : MESSICO 147
13 Quattro sorelle, secondo Sahagun, I, 12: Tiapacan ‘la
maggiore’, Teicu ‘la seconda’, Tlaco ‘la mezzana’, Xoyocoltzin
‘la minore’.
14 Cod. Borgia, 47, 48.
15 Sahagun, I. 12; Interpret. del Codex Telleriano-Remen-
sis, 17. - Cfr. Hamy, Sur une statuelte mexicaine de la déesse
Ixcuina, Journal de la Société des Américanistes de Paris, 3,
1906, x sgg. Ixcuina é corruzione azteca del nome huaxteco
Ix-cuynim ‘signora del cotone’ (cfr. p. 94 con la n. 96).
16,.Seler, Zeitschrift fiir Ethnologie 20, 1888, 28 = Gesam-
melte Abhandlungen, I. 435; cfr. Das Tonalamatl der Au-
bin’sche Sammlung, Berlin 1900, 93 sgg. - Toci nel Cod. Telle-
riano-Remensis, 3" ha dintorno alla bocca la zona nera carat-
teristica di Tlacolteotl; cfr. la descrizione dell’acconciatura di
Toci in Sahagun, I, 8.
17 Sahagun, I. 8. ecc.
18 Por ser corazon de la tierra la hacia estremecer y trem-
blar: Duran, II 292.
19 Duran, II, 191: la madre de los diosses y coragon de la
tierra, la qual fiesta los Romanos tenian y celebravan & la
madre de sus diosses Berecinta Cibila.
20 Interpr. del Cod. Telleriano-Remensis, 3°.
21 La descrizone é data da Sahagun, I. 8 e II. 30 Seler
Pp. 5 sg., 171 sgg.; cfr. Diego Duran, Historia de las Indias
de Nueva Espana y Islas de Tierra Firme, ed. J. Ramirez,
México 1880, II, 185 sgg., 292 sgg.
22 Sahagun, I. 8 Seler p. 6, 41; cfr. Duran, II. 292: las
insignias de la diosa que era la escoba etc.
23 Cod. Borbonicus 30, Telleriano-Remensis 37, Fejérvary-
Mayer 4.
24 Cod. Borbon. 30.
25 Cfr. Sahagun, 30 Seler, p. 183 e p. 176.
26 Cfr. Seler, Codex Borgia, I. 154.
27 la muger que pecd: Interpr. del Cod. Telleriano-Re-
mensis 17V.
28 L’opera, intitolata Historia de la Nueva Espafia, fu riti-
rata dalla circolazione nell’interesse della religione per editto
speciale del re di Spagna nel 1577. Il testo spagnuolo fu pub-
blicato nel 1829 da D. Carlos Maria de Bustamante, México,
3 voll., e dal Kingsborough nel 1830. Nel 1880 ne usc (a Pa-
148 CAPITOLO II
rigi) la traduzione francese per opera di D. Jourdanet e R.
Siméon. L’edizione in fac-simile dei manoscritti originali (Ii-
renze, Laurenziana e Madrid, Biblioteca del Palacio e Acade-
mia de la Historia), nei quali é contenuto anche il testo azteco,
é stata intrapresa dal Sig. Del Paso y Troncoso. Una (parziale)
edizione del testo azteco con traduzione tedesca, opera del
Seler, é ora pubblicata per cura della Signora Seler col con-
corso di W. Lehmann e W. Krickeberg: Fray Bernardino de
Sahagun, Einige Kapilel aus seinem Geschichtswerk, wortgetreu
aus dem Aztekischen iiberlragen von Ed. Seler, Stuttgart 1927.
Cfr. Seler, Gesamm. Abhandl., II. 429=Journal de la Soc. des
Améric. de Paris, 5, 1908, 163 sgg.; 6, 1909, 101 sgg.
29 Indovini, medici, chirurgi, levatrici, donne che procu-
Tavano aborti sono anche citati da Sahagun, I. 8 Seler, 5 sg.,
efr. 173 tra gli adoratori di Toci.
30 Sahagun, I. 12; VI. 7.
31 Sahagun, I. 12.
31a Un interessante riscontro cinese in De Groot, The Reli-
gious System of China, VI, Leyden 1910, 1276; cfr. R. Pettaz-
zoni, Studi e Mater. di Storia delle Religioni, 4, 1928, 130.
32 Sahagun, I, 12.
83 Sahagun, VI, 7.
84 Sahagun, I, 12.
35 Sahagun, I. ro Seler, 7 sg.; IV. 29 Seler, 306 segg. - Una
concezione analoga nelle credenze degli isolani dell’Arcipelago
Malese : Buschan, Illustrirle Vélkerkunde, I12-3, Stuttgart 1923,
go9.
36 Sahagun, IV, 27.
87 J. de la Serna, Manual de ministros de los Indios (1656),
Coleccién de Documentos inéditos para la Historia de Espafia,
t. 104, Madrid 1892, p. 117.
88 Interpr. del Cod. Telleriano-Remensis, 18v.
39 Sahagun, I, 12; VI. 7.
40 « adultert e altre sozzure », Sahagun, VI. 7. - Per gli sca-
poli era ammesso il concubinato: Sahagun, III, Apend. 6
Seler, p. 346.
41 Tonalamatl Aubin, 12 (Seler, p. 90); Cod. Telleriano-Re-
mensis 17°. Cfr. Sahagun VI, 19; Codice Ramirez (México
1878) 103; B. de las Casas, Apologética Historia (Madrid 1909),
213 DP. 557, 215 p. 563; Duran, Historia, II. 8x p. 97. Cfr. J.
NOTE: MESSICO 149
Kohler, Das Recht der Azteken, Zeitschrift fiir vergleichende
Rechtswissenschaft 11. 1895, 89, 109. - La stessa pena nel Yu-
catan (Diego de Landa). Cfr. R. Pettazzoni, La lapidazione de-
gli adilteri nell’America precolombiana, Studi e Materiali di
Storia delle Religioni, 2, 1926, 281 sgg.
42 Sahagun, I, 12.
43 In un’altra occasione si concedeva il perdono dei peccati
di ogni genere («los ladrones, fornicarios, homicidas 6 cual-
quiera género de delincuentes»: Codice Ramirez 105), e cioé
nel ‘giubileo’ ricorrente di 4 in 4 anni in coincidenza con la
grande festa (annuale) di Tezcatlipoca detta toxcatl (=‘cosa
secea’, dunque una festa per ottenere la pioggia), che aveva
luogo il 19 maggio (Codice Ramirez, ed. Vigil, México 1878,
103 sgg.; Duran, Historia, ed. Ramirez, México 1880, II, 82,
p. 98 sgg.; Acosta, Historia natural y moral, Sevilla 1590, V,
29, p. 382=Hakluyt Society, vol. 61 p. 378 sg.). L’associazione
di Tezcatlipoca alla confessione (anche a quella che si faceva
ai sacerdoti di Tlacolteotl, v. sopra a p. 80) dipendera dal fatto
che Tezcatlipoca é onnisciente, come iddio cui nulla sfugge e
che conosce ogni segreto (Sahagun, VI 4, 6, 14; per cid nel
giubileo i peccatori implorano da lui sopratutto di non essere
scoperti: Cod. Ramirez 105). Qui avremmo dunqtie tun paral-
lelo alla associazione della confessione con il supremo essere
celeste presso i primitivi (Semang e Sakai di Malacca, Wakul-
we dell’Africa Orientale), associazione di cui il parallelo messi-
cano confermerebbe dunque il carattere secondario (p. 73 n. 63),
perché non é certo primariamente che l’antica confessione mes-
sicana é associata con Tezcatlipoca. - Quanto al ‘giubileo’ di
Tezcatlipoca, non potrebbe esso essere precisamente la cele-
brazione religiosa dell’epoca in cui ogni 4 anni cadevano in
prescrizione i delitti rimasti impuniti durante il quadriennio?
44 Se vi é@ detto (VI. 7) che la penitenza dev’esser fatta
anche in espiazione di ingiurie pronunciate contro qualcuno,
sara questa una di quelle colpe leggere di cui altrove (I, 12)
si dice che possono essere scontate con digiuni e astinenze,
come anche é detto (VI. 7) che la poca gratitudine verso la
divinita per i favori da essa elargiti e lo scarso amore del pros-
simo si scontano con opere di carita.
45 maguey (come anche maiz) non é@ parola nahuatl, bensi
del linguaggio degli indigeni delle Antille, da cui la presero
150 CAPITOLO II
gli Spagnuoli applicandola poi alla stessa pianta nel Messico.
- Di pulque @ incerta l’etimologia: il termine generico nahuatl
per dire vino’ (qualunque fosse la pianta da cui era ottentuto)
era oclli,
46 Da questa, come dalle altre specie di agave, si ricava
anche il mezcal (mezcalli, nahuatl), che é un alcool ottenuto
mercé un processo pitt complicato di torrefazione, fermenta-
zione e distillazione: I. Diguet, Le mais et le maguey chez
les anciennes populations du Mexique, Journ. de la Soc. des
Améric. de Paris, 7, 1910, I sgg.
47 Sahagun, I, 12.
48 Sahagun, I, 13.
49 Sahagun, II, Apend. 6 Seler p. 346. Cfr. Bart. de Las
Casas, Apologét. Hist. (Madrid 1909), 213 p. 559. - I due pec-
catori lapidati nel Tonalamatl della Collezione Aubin, f°. 12
(Seler p. 90), ciascuno con un bicchiere in mano, potrebbero
ben essere dei bevitori di pulque puniti del peccato di ubria-
chezza.
50 Sahagun, I. 12.
51 Sahagun, I. 12.
52 Cédice Ramirez, México 1878, II. 113; Duran, Historia,
II. 83, p. 112 sgg.; Acosta, Historia nat. y moral, V. 17,
Pp. 343 sg. (Hakluyt Soc. vol. 61, p. 338 sg.).
53 Cédice Ramirez, II, 97 sg.; Duran, II, 80, 87 sgg.; Her-
rera, Historia General, III. 2, 15, p. 88.
54 Sahagun, I. 14 Seler p. 13: «si estraeva sangue e si fa-
cevano passare pagliuzze per le ferite ».
55 Sahagun, I. 19 Seler p. 21.
56 Orecchie, lingua e polpacci: Sahagun, II. 37 Seler
239 sg.; Duran, II. 116, 273, 275 (con riferimento alla circon-
cisione); Torquemada, Monarquia Indiana (Sevilla 161s), VI.
48, p. 88 (Totonakj).
57 Prepuzio e orecchie: le stesse fonti della nota prece-
dente, e Mendieta, Historia ecclesiastica Indiana (ed. Icazbal-
ceta, Mexico 1870), II. 19, p. 108.
58 Tezozomoc, Crénica Mexicana, México 1878, 573, 577, 584
(Motezuma:; orecchie, braccia, polpacci e stinchi, con un osso
acuminato di tigre e uno di leone); cfr. B. de las Casas, Apo-
logélica Historia (Madrid 1909), 217, p. 568.
59 Orecchie: Sahagun, II. 33 Seler p. 195 (questo rito si
‘
NOTE: MESSICO Boe it a
chiamava momagaigo, da magatl ‘cervo’ e igo ‘forare’, cioe
‘cavarsi sangue per i cervi’).
60 Orecchie, braccia, gambe: Tezozomoc, Crénica, 639. Cfr.
Bashilange, sopra a p. 3.
61 Tas Casas, Apol. Hist. (Madrid 1909), 218, p. 570.
62 Genitali: Nuttall, A penitential rite, 449.
63 Lopez de Gémara, Historia general de las Indias (Madrid
1877), II. 446; Las Casas, op. cit., 174, Pp. 459-
64 Orecchie: Sahagun, II, Apend.
65 Esse sono state raccolte e studiate dalla sig.t@ Zelia Nut-
tall, A penitential rite of the Ancient Mexicans, Archaeological
and ethnological Papers of the Peabody Museum, I, Cam-
bridge, Mass., 1904, 439-462.
66 Sahagun, II. Apend.
67 Herrera, III, 6, 15, p. 207.
68 y. le fonti citate a n. 75.
69 Cfr. la festa dell’anno nuovo presso gli Onondaga, col
rito finale di espulsione dei malanni (p. 28).
70 Fuori del confine si seppelliva (Sahagun, II. 30 Seler
p. 178 sg.) anche il mexxayacatl, cioé la maschera che nel corso
della celebrazione era stata portata dal rappresentante di Cin-
teotl, la divinita del maiz, e che era fatta con la pelle della
coscia della vittima che nella prima parte della celebrazione
aveva rappresentato la dea Toci: forse questa maschera por-
tava dunque concentrata in sé la natura peccaminosa della dea
stessa (Seler, Codex Borgia, I. 161).
71 Anche nella festa di rinnovamento che si celebrava
(p. 45) de ciertos en ciertos afios (cfr. il ‘giubileo’ quadrien-
nale di Tezcatlipoca: n. 43) presso popolazioni indigene del
Brasile si praticava una specie di purificazione, ossia di elimi-
nazione preliminare, consistente precisamente in una spazza-
tura delle strade.
72 «la cual ceremonia..... era como sacrificio que en si
mesmos hacian en lugar de sajar la lengua 6 las orejas como
en otras fiestas se usava» (Duran, Historia, II, 191).
73 Sahagun, I. 12.
74 Sahagun, VI. 7.
75 Mendieta, Historia ecclesiastica Indiana (ed. Icazbalceta,
México 1870), II, 18, p. 106. Cfr. Duran, Historia, II, 195.
152 ° CAPITOLO II \
76 y esto (cioé il togliersi di dosso le vesti) era serial que
dexava el pecado: Interpr. Cod. Tell. Rem. 18v.
77 Si alguna cometia pecado de la carne estando en el
templo, aunque mas secretamente fuese, creia que sus carnes
se habian de podrecer: Motolinia, Historia de los Indios,
ed. Icazbalceta, México 1858, I, 9, p- 54; cfr. Bartolomé de
Las Casas, Apologética Historia de las Indias (Madrid 1909),
140, Pp. 371.
78 Sahagun, I. 14 Seler, p. 13.
79 por algun pecado suyo los dioses no le habian dado
hijos: B. de Las Casas, Apol. Hist., 179 = Mendieta, Historia
ecclesiast. indiana, III, 41, p. 281. Sulla dipendenza di Men-
dieta (e Torquemada) da Las Casas, cfr. Weber, Beitrage zur
Charakteristik der dilteren Geschichtsschreiber tiber Spanisch-
Amerika, Leipzig 1911, citato da Krickeberg, Bassler-Archiv,
Dy -LOZ5,) Lp, ale SEO.
80 Z. Nuttall, op. cit., 449.
81 Motolinia, Memoriales, 25 (cfr. Historia, I 9: sui rap-
porti fra i Memoriales e la Historia cfr. L. Léjeal, XIV Ame-
rikanisten-Kongress (Stuttgart 1904), I, Stuttgart 1906, 193 sgg.).
- Cfr. anche Lopez de Gémara, Historia de México, Anvers
1554, 336.
82 Accenni ad una legge del contrappasso per cui 1’estra-
zione del sangtie sarebbe stata praticata (come sui genitali,
cosi in generale) su gli organi con cui il peccato era stato
commesso non mancano nelle fonti, p. es. Duran, Historia,
II. 83, p. 113: sacavanla (scil. la sangre) de la lengua y de
los pdrpalos de los ojos por aver hablado y mirado, de los
bragos por aver pecado en floxedad, de los muslos, piernas,
orejas y narizes segun las culpas en que avian errado ».
83 Naturalmente bisogna tener conto della varieta dei co-
stumi locali: Lopez de Gémara, II p. 446 (Historiadores pri-
mitivos de Indias+I, Madrid 1877): ..... tambien iban aquellas
sangrias segun usanza de cada villa; B. de Las Casas, Apol.
Hist. (Madrid 1909), 170, p. 452: en cada provincia tenian di-
ferente costumbre, tanto che a seconda dell’ organo da cui
uno si estraeva sangue si capiva di che provincia egli era
(cfr. Motolinia, Hstoria de los Indios, I, 6, p. 39 sg.). - Anche
le tendenze individuali saranno da tener presenti: dedonde
mas devocién tenian Herrera, III. 4, 7, p. 154.
Pee se Kh a
aii uy ATEN
sirjpll tO
NOTH: MHSSTCO 153
84 Anales del Museo Nacional de México, 6, toa, 128 set.
(il cap. tt a p. 182 agg.).
85 4 todas estas enfermedades aplican un mismo yvemedio,
que es el que laman tetlagolaltiloni, como st difessemos: baflo
para enfermedad causada por amores 6 por aficgtén: ibid,
86 Sino cattvdredes 6 matdredes los enemigos, « dice in capo
ai sttoi tlomini - no serd sino por el oluido que tuvistes con las
mujeres en vuestros pueblos por los pecados que heclstes con
ellas.....: Relactén de las ceremontas vy ritos, poblaclén y po-
bierno de los Indios de la Provincia de Mechuacan, Colecelén
de Documentos inéditos para la Historia de Mapafia, t. 54 (Mie
drid 1869), 44.
87 Cfr. K. Th, Preuss, Die Stinde in der menilantachen
Religion, Globus, 83 (1904, 1), 253 seg, 268 sey,
88 Sahagtn, T, 24,
89 los que permanecian en el matrimonlo haglan pent
tencia por sus pecados, que eran el aver tlegado d las
mugeres, y el emborracharse; abstentanse dello veynte
dias y un mes, purificdvanse baflandose 4d media noche en 6a
sas dedicadas para ello, y sacdvanse sangre de las ovejas ¥
bragos; y las mugeres hazlan esta misma pentlencla en sus
casas; Herrera, Hist. general, Madrid 1601, TIT. §, to, pr. 184,
90 Codex Borgia, 13, 16, 60; Cod, Vatie. BH. at; Cod, Tejér
vary-Mayer, 17; Sahagun, trad, Seler, p. 49.
91K, Th. Preuss, Phallische Fruchtbarketls-Dimonen als
Triger des altmexikantschen Dramas, Archiv flr Anthropo
logie, N. F., 1, 1903, 1429-188; Der ddmontsche Urspring des
griechischen Dramas, Neue Jahrbticher f, das lelussisehe Al-
terttim, 1906, 16% sgg.; J. Loewerthal, Das altmenihantsche
Ritual tlacacaliliztli und seine Parallelen in den Vegetations-
kulten der Allen Welt, Mitteilungen der anthropology, Ges, in
Wien, 52, 1922, t sgg.; I. Andrea, Buphonia-Opfer und Opfer
im Kulte des Xipe-Totec, Vestschrift P. W. Schmidt, Wien
1928, p. 175-180,
92 Duran, Historia, 11, 93, p. 185 see.
93 Cod. Borbonicus, 40.
94 icuexuan = «i sol Hunxtekl», Sahagun, IT, 40 Seley,
p. 176, 178.
®5 Anales del Museo Nacional de México, 4, 1845; ofr, W
Iehmann, Zeitschrift fiir Hthnologie, 48, 1906, 9a Beet,
154 fa CAPITOLO II
96 W. Staub, Zeitschrift d. Ges. f. Erdkunde, 1923, 200;
1924, 228; Journal de la Société des Américanistes de Paris,
1926, 289.
97 Cfr. Seler, Codex Borgia, I, 16r.
98 Seler, Codex Vaticanus 3773 (Codex Vaticanus B), Berlin
1902, 173; cfr. Gesammelte Abhandlungen, III. 247 sg.
29 W. Staub, Le nord-est du Mexique et les Indiens de la
Huaxtéque, Journal de la Soc. des Améric. de Paris, N. S., 18,
1926, 279 sgg.; cfr. R. Schuller, Die ehemalige u, die heutige
Verbreitung der Huaxteka-Indianer, Anthropos, 18-19, 1923-24,
793 S&B.
100 Sahagun, VI. 7.
101 Straordinaria frequenza di figure in pietra rappresen-
tanti una divinita femminile della terra, verosimilmente ap-
punto Tlacolteotl: Staub, Journ. Soc. Am. Paris 1926, 287 e
tav. II, 8; W. Krickeberg, Biassler-Archiv, 9, 1925, 66.
102 Cfr. R. Pettazzoni, I Misteri (« Storia delle Religioni »,
vol. VII), Bologna 1924, 283 sg.
103 }%} assai interessante, a questo proposito, il fatto che il
coito a scopo magico per promuovere la fertilita dei campi
si pratica ancor oggi da popolazioni (maya) dell’America Cen-
trale (Guatemala): E. P. Dieseldorff, Zeitschrift fiir Ethnolo-
gie, 57, 1925, 20. Si tenga presente che gli Huaxteki sono dei
Maya.
104 Si legge nella Relatione del cosidetto Conquistador Andé-
MUO. © . 1.00 in altre provincie et particolarmente in quella di
Panuco (in pieno ambiente huaxteco) adorano il membro.....
et lo tengono nella meschita et posto similmente sopra la
piazza insieme con le imagini di rilievo di tutti i modi di pia-
ceri che possono essere fra V’huomo et la donna..... »: Rela-
tione di alcune cose della Nuova Spagna..... fatta per uno
Gentil’homo del Signor Fernando Cortese, in Coleccién de Do-
cumentos para la Historia de México, ed. Icazbalceta, I, Mé-
xico 1858, 386. - Cfr. Bernal Diaz del Castillo, Verdadera Hi-
storia de los sucesos de la Conquista, in Historiadores primi-
tivos de Indias, II (Biblioteca de Autores Espafioles XXVI),
Madrid 1882, cap. 208, p. 309. - L’esistenza di culti fallici presso
gli Huaxteki ha ricevuto una conferma archeologica dalla sco-
perta di un fallo di pietra in Yahualica: N. Leén, El culto del
2
.
NOTE: MESSICO = ° ~ 155
falo en el Mexico, Anal. d. Mus. Nac., II@ Epoca, 1, 278 sgg.;
Krickeberg, Bassler-Arch. 9, 1925, 67.
105 Conquistaddr Anéon., 1. cit.
106 «in questa provincia di Panuco sono gran sodomiti gli
uomini e gran poltroni et briachi»: Conquist. Anén., 1. cit.
107 « si cavavano essi stessi il sangue dalla lingua et
dalle orecchie, et dalle coscie et dalle braccia per sacri-
ficarlo et offerirlo a gli Idoli loro. Hanno di fuora et per cam-
mini molti heremitorii, dove i viandanti vanno a sparger il
loro sangue et offerirlo a gli Idoli, et ne hanno ancora su le
montagne »: Conquist. Anén., 1. cit.
108 Codex Borgia, I, 161.
109 W. Krickeberg, Die Totonaken: Ein Beitrag zur histo-
rischen Ethnographie Mittelamerikas, Bassler-Archiv, 9, 1925,
I sgg., cfr. 7, 1918-22, I sgg.
110 T1 dio del sole, la dea della terra (e della luna) sua
moglie e il dio della stella del mattino loro figlio - in funzione
di demiurgo - costituivano, a quanto pare, nella religione dei
Totonaki una specie di triade che troverebbe riscontro nella
suprema triade divina della religione dei Cora, composta di
Taydéu, Tatéx e Hatsikan, nonché nell’antica religione messi-
cana nel gruppo Huitzilopochtli, Tlacgolteotl, Quetzalcouatl :
l. cit., 4 sgg.
111 Las Casas, Apologética Historia de las Indias, c. 121,
p. 325; Mendieta, Historia eccles. Indiana (ed. Icazbalceta),
II. 9, p. 90; Torquemada, Monarquia Indiana, IX, 8 (II. p. 181);
Krickeberg, 1. cit., p. 14.
112 Kd ancor pitt con quella dei sacerdoti-confessori presso
le popolazioni di lingua nahua del Nicaragua, p. 117.
113 Per l’estrazione del sangue dalla lingua presso i Toto-
naki, v. Krickeberg, 1. cit., p. 15.
114 Francisco de Burgoa, Geogrdfica Descripcion de la Parte
Septentrional del Polo Artico de la America, etc., Mexico 1674,
cap. 64, p. 312 sgg. L’opera costituisce la « Segunda Parte de
la Historia desta Provincia de Guaxaca de el Orden de Predi-
cadores ».
115 Sull’estrazione del sangue dalla lingua e dalle orecchie
presso i Zapoteki, v. anche Herrera, Historia General, III.
3, 14, P- 127.
116 Cfr. Mendieta, Hist. ecclesiast. Indiana, III, 41, p. 281
156 CAPITOLO IT
(ed. Teazbaleeta, México 18yo): « Bn algunas provinelas de esta
Nueva Espafia usaban los Indtos (quali?) en su infidelidad
una manera de confeslon vocal, y esta haclan dos veces en
el aflo & sus dloses.....
117 Krickeberg, L. elt, gt.
118 Motolinia (tay ‘oriblo de Benavente), HMistorla de los
Indios de la Nueva Espafia, 11, 5, p. 116 age.) Mendieta, Mist,
Kecles, Indiana, TIT, 41, p. a8 age. (eeTorquemada, Monarqula
Indiana, XVI, 16).
119 Clr, Relactén de las ceremontas y ritos.... de la Pro.
vincla de Mechuacan, in Coleecién de Documentos inéditos
para la Mistoria de Fapafia, t. 53 (Madrid 1869), p. 109.
120 In nahuatl mayolenyla (B, de Tas Casas, Apol, Hist,
eap, 176; Th Roman, Republi, T, 16), « Clr. (nino) yvoleuttla
‘confessarai’ (da yollotl ‘cuore’ e eultla ‘dichiarare’), neyol-
culliligl ‘confeasione’, teyolewttlant ‘confessore’; R, Siméon,
Dictionnaire de la langue nahuatl, Paris 1885; efr, Vocabolarto
de la lengua mexteana di Vr, Alfonso de Molina (ed. Platz.
mann, Leipzig 1880), p, 28,
134 Motolinia, Mist, TIT, 3, p. 164; Mendieta, op, elt,, TIT,
41, Pp. aba,
122 Clr, Relacldn breve y verdadera de algunas cosas de las
muchas que sucedleron al P. Fray Alonso Ponce, in Coleccién
de Doctmentoa inéditos para la Mistoria de Hspafia, t. 57 (Ma.
drid 18ya), p. gar.
129 Tn carattert apagnoli (se 1 conosecevano), oppure in pit-
tografia: Mendieta, 1. eft., Motolinia, IT, 6, p, raa.
14 Sahagun, I, 19,
125 Burgoa, Palestra Historlal de Virtudes, México 1670,
cap. 38, Pp. TOO ag.
AMBRICA CRNTRALI,
1 Seler, Codew Borgia, I. 162.
2 Clr, TH. Beuchat, Manuel d’Arehdologie américaine, Paris
YOra, a73, Me 4.
Slo que estos Indios confessavan comunmente era el pee
dado de la fornicacidn 6d adutterto, porque esto era lo mas
grave que ellos tenian; Fy, Werénymo Roman, Repriblica de
NOTH | AMERICA CHNTRALAY 157
los Indlos Occidentales, Medina del Campo 1975, ILL. 8, De tae
4 Bart. de Las Casas, Apologédlica Historia de las Indias,
capp. 239 € 24o.
6 A, de Herrera, Historia general de los hechos dé los Cae
stellanos.,., Madrid 1601, 1V, 10, 11, p. 478.
“ aunque no lo lenian por pecado, sino por cosas halladas :
ibid.
7 Qualche dato complemenutare, ma, pel carattere compilie
torio dell’opera, poco sicuro si trova in Vray Antonio de Ke-
mesal, Historia general de las Indias Occidentales y particular
de la Governacién de Chiapa y Gualemala,,,, Madrid 1620, VI,
11, P. $13 Seg. Il dato pik importante sarebbe la confessione
di donne da parte di altre donne: d las mugeres en los partos
y casamientos algunas veces las confessaban olvas mugeres
(efr, Pert, p. s41). ‘Trattandosi di casamilentos, la notizin site
rebbe da riferire al Chiapas; ma poiché si tratta insieme di
parlos, vesta il dubbio che l’Autore abbia generalizzato, esten:
dendo ai matrimoni, e quindi al Chiapas, cid ch'é elfettiva-
mente attestato (p. 113) per i parti al Guatemala,
8 Qui citata secondo l’edizione a cura di M, Serrano y Sanz
in « Historiadores de Indias», 1 (e« Nueva Biblioteca de Au.
tores Hspafoles», XIL1), Madrid 1909, Da essa deriva TH, Ro-
man, Republica de los Indios Oceldentales (KRepublicas del
Mundo, Il), Medina del Campo 1575.
® Questa Relacidn, estratta da seritti del De Landa, & con
servata nella Real Academia de la Historia de Madrid, é qui
citata secondo la sua pubblicazione in Relaciones de Yucatan
(Coleccién de Documentos inéditos relativoa al Descubrimiento,
Conquista y Organisacién de las antiguas posesiones Nsepafolas
de Ultramar, Segunda Serie, t, XIII, Parte 24), Madrid igoo,
Ppp. 265-408.
10 Las Casas, op. cil., cap. 239, p. 6a8 sg.; cfr, De Landa,
op. cit., p. 334. Anche Bernardo de Lizana, Historla de Yuea-
ldn, Devoclonarlo de Nstra Sfra de lzmal (1633), UL. a, p. 4o og,
(ed, Mexico 1893); Confession avia entre esta gente, mas era
en Uempo de morirse, 0 quando la muger estaua de parlo: de
lo que se confessauan era de algunos pecados graves, a quien
dezian sus pecados era al Sacerdote, 0 al Medico, o al marido
la muger, y a la muger el marido; y es de advertir que luego
158 CAPITOLO 1
estos pecades se publicanan por el que era el confessor entre
los parlenmlesucos
11 fenlan por costumbre confesarse quando ya snteben en
éllos (sell, malos); De Tanda, p. 353 ae.
12 Don Pedro Sanches de Aguilar, Informe contra idolo-
rum cullores del Oblspado de Yucatan (Madrid 1630), in Ana-
lea del Museo Nacional de México, 6, 80a, 84,
14 Secondo De Landa, p. 334, 1 peceati d'intenzione erano
conosciuti e riprovatl come tall, ma non erano conferwath;
ofr, Herrera, IV, 10, 4, p. 966. !
14 Werrera, IV, 10, 4, p. 266.
15 nager de nuevo 6 Obra Vesa vihil no se usa sine en
composicién de verbo: De Tanda, p. gas.
14°V, sopra a p, 86,
'7 los que tlenen pecados, sl eran para saberlos eo
meter, los avlan de manifestar espectalmente ad los
sacerdotes para veelulrlos De Tanda, p, gaa,
‘Bes cosa que slempre an usado; De Landa, p, gas.
WY lo que penssauan veclblan en él era wna previa dispoe
siclon para ser buenos en sus costumbres; De Tanda, p. gas.
20 y venir mediante él y su buena vida d conseguir la
gloria que ellos esperavan: ibid,
21 Cfr, R. Pettazzoni, 1 Misterl, Bologna 1944, 494.
22 De Tanda, Relacidn de las cosas de Yucatdn, 1, eilt,,
PP. gas355. Qualche dato complementare che mai trova nel
Vopera del Remesal, Hist, gen, de las Indias Oceldentales, Max
drid 1620, V. 7, p. a46, deriverd anch'esao dal De Tanda, elod
da quegl seritti del De Tanda in base ai quali fu compilata
Ia Relaclon, Di origine indipendente sono alewne notigie con-
tenute nelle Relaciones de Yuealan che formano i voll, XT e
XIT della stessa « Coleceidn de Documentos inéditos » in eul d
pubblicata la Relacldn del De Tanda,
29 Secondo la Relaclén de Valladolid ig79 (Relaciones de
Yucatan, I =» Colleceién t, NITT, Madrid yooe, p. a8), dl rite
era eseguito slendo las erlaturas de quatro afies, Secondo tl
Remesal Vetd adatta era dai g ai 1a anni, Secondo la Relacidn
de Mutul (una delle Relaciones de Mérida in Relaciones de
Yucatan, Te Coleceién t, XT, Madrid 1808, p, yo), a ‘batter
zavano’ i ragagal di ry o 1s annl, non conaentendoal dl ma.
trimonio prima dei venti, Secondo il Remesal Vaver partecd
NOTH | AMERICA CHNTRATAL 159
pato al capulzihil eva condizione necessaria per che un glo
vine potesse eontrar matrimonio,
24 Sulla importanza del braciere nella odierna religione dei
Lacandones, ¢ in generale sulla sopravivenza della religione
antica dei Maya presso i moderni Lneandones, a veda Alfr,
M. 'Tozzer, A comparative study of the Mayas and the Lacan
dones, New Vork, 1907.
25 Cfr, i riti del capro expiatorio, del pharmakds e simill
(R. Pettazzoni, Studi e Mater, di Storia delle Relig,, 1, 1945, 45).
Quanto al motivo del non voltarsi indietro come gesto di aver:
sione concorrente con In fuga, esso ei & noto specialmente
dalla mitologia e dalla favolistion (pi aneora ehe ad Orfeo
ed Wuridice ai pensa al gettito di ostacoll per trattenere gli
inseguitori, gwettito che gli inseguith fanno senza voltaral ine
dietro: questo motivo, come anehe quello di Orfeo ed uri.
dice, ricorre anche nella mitologia shintoista, Koji, p. ag ag.
Morenz, « Quellen der Religionagesch., » vol, 7), ma avrl ane
ch’ euso, secondo ogni verosimighanza, un fondamento nel
rito, Cfr, nel mondo antico certi riti in onore delle diviniti
infere che si eseguiscono tenendo Ja testa rivolta da altra
parte; Rohde, Psyche, 11, p. 84; Ch, Pieard, Revue de Whi
stoire des religions, roa, t. 03, Pp. 75
26 Preguntaban d los que eran grandecillos sl hablan hecho
algun pecado 6 tocamlento feo y st lo habian hecho conffesd-
banlos y separdbanlos de los otros: De Landa, p. gat.
27 Apolog, Hist., cap, 179, Pp. a7t ee Mendieta, Hist, Heeles,
Indiana, México 1870, TIT, 41, p. aft.
28 Herrera, Historla General, IV, 8, 8 p. 405; eff, to, p, a00,
- Cir, Vrazer, The Golden Bough®, (Part 1), 216, dove perd il
testo @ citato ed interpretato secondo la traduzione di J, Ste.
vens (London 1726-26), nel senso che In comare séparge sangue
estratto dalla propria persona, Tl passo per aé stesso & ambi-
guo (« .., en las renes de la prefiada, y sino parla sacava su
sangre la comare..... »): In nostra interpretazione, fondatu so»
pra i riscontri specialmente messieant della confeasione asso.
clata con Vestrazione del sangue del ‘penitente’, trova con.
ferma in Bancroft, Native races, IT, 678, dove é detto che il
sangue era cavato precisamente dalla lingua e dalle oreechie
del marito,
29-7, Nuttall, A penitential rite, p. ago.
160 CAPITOLO II
50 In una delle prime notizie relative al Yucatan, l’Iline
yario de larmata (sic) del re catlolico in India verso la isola de
Juchathan del anno MDXVIII ..... facto (originalmente in ca-
stigliano) per el capellano maggior (Juan Diaz) de la dicia
Armata, in «Coleccién de Documentos para la Historia de
México» ed. Icazbalceta, I, México 1858, p. 303, si parla di
alcuni Indiani che, al veder approdare una barca di Spa-
gnuoli, « faceva (sic) secondo el costume loro sanguinarse la
lengua et sputavano in terra in segno de pace». Pel Yucatan
é attestata l’ estrazione del sangue da varie parti del corpo
- dalle guance, labbra, iingua, orecchie, braccia, petto, cosce,
membro virile (De Landa, Relacion, 337; D. Pedro Sanchez de
Aguilar, Informe contra idolorwm cultores del Obispado de
Yucatan, Anales del Museo Nacional de México, 6, 1892, 90,
96; Herrera, IV, 10, 3, p. 264) - e in forme assai simili alle
messicane, p. es. il passaggio di pagliuzze attraverso i fori
aperti nella lingua, e specialmente quel suzio y penoso sa-
crificio che il De Landa, p. 337, descrive cosi: tutti i parte-
cipanti si riunivano nel tempio e, postisi in fila, si facevano
ciascuno dei fori di traverso nel membro virile, passandovi
poi un unico cordone assai lungo, nel quale tutti restavano
infilati. (Lo stesso rito nel Messico: sopra a p. 89 sg. e nel
Darien: sotto a n. 42). - Estrazione del sangue nel Honduras:
Las Casas, Ap. Hist., 180, p. 473.
31 Cfr. la figura di un ‘Indiano che si fora la lingua’ ri-
prodotta in W. T. Brigham, Guatemala, the Land of the Quet-
zal, London 1887, 246.
32 Las /Casas op, cit., 177, Dp. 465; 237 p. 624; Roman,
Republ. de los Ind., I, 17, p. 374 sg.
33 Herrera, IV, 8, 10, p. 209: el electo sacrificava & los
idolos sangre de sus orejas, del miembro genital y de la len-
gua. Cfr. ’elezione del nuovo re al Messico: sopra a p. 84.
34 Las Casas, Apolog. Hist., cap. 179, p. 471 = Mendieta,
op. cit,, III. 41, p, 28r.
35 Le parole sono da intendere come rivolte allo spirito o
demonio che si riteneva incarnato nel tigre secondo una cre-
denza assai diffusa nell’America Centrale, dove assunse anche
la forma speciale del nagualismo: cfr. la Relacién del Guaymy
y del Darien (vedi p. 162 n. 42), p. go.
NOTE : AMERICA CENTRALE ; 161
36 Las Casas, Apolog. Hist., c. 179, p. 470; H. Roman,
Reptblica de los Indios Occidentales, I. 19, p. 377:
37 « confesdbanse hombres y mujeres & veces, sin advertir
que los vian y oian»: Relacién breve y verdadera de algunas
cosas de las muchas que sucedieron al Padre Fray Alonso Ponce
en las Provincias de la Nueva Espana ..... escrita por dos Re-
ligiosos sus compaferos, in « Coleccién de Documentos iné-
ditos para la Historia de Espaiia», t. 57, Madrid 1872, p. 413.
38 Cfr. H. B. Alexander, in « Encyclopaedia of Religion and
Ethics », XI, 530.
39 de aqui (scil. dalla confessione praticata in casi di ma-
lattia) es que agora despues de convertidos, es cosa mara-
villosa la devocion y la fé que tienen con los sanctos Sacra-
mentos, en especial con el de la Confesion, y es increible &
quien no lo ha visto con quanta importunidad lo piden..... fc
Las Casas, Apologética Historia de las Indias, cap. 179, p. 471.
La stessa cosa é affermata pii genericamente dal P. Antonio
de Remesal, il quale dice (Historia general de las Indias Oci-
dentales, VI, 11, p. 314) che, superate le prime ostilita e diffi-
denze, acudieron tan de golpe & confessarse, que de dia ni
de noche no dexavan sosegar el Padre.
40 Pubblicata nella « Coleccién de los Viajes y Descubri-
mientos que hicieron por mar los Espafioles desde fines del
siglo XV» di D. Martin Fernandez de Navarrete, t. III, Ma-
drid 1880, secc. 3%, num. 7, p. 396 sgg. = Hakluyt Society
vol. 34 (transl. by Cl. R. Markham), London 1869.
41 Habia una manera de confesion que hacian 4 este
(cioé, al sacerdote) de ciertos pecados que & ellos les parecia
que eran malos, y creian que confesdndoles & este quedaban
libres dellos: Andagoya, op. cil., p. 414 = Hakluyt Society,
vol. 34, p. 33.
42 Oviedo y Valdés, Hist. general y natural xi. 11, t. IV.
p. 98. Altre testimonianze relative all’estrazione del sangue
nel Nicaragua: Las Casas, Ap. Hist., 241, p. 632: mas co-
mun era la circuncision en provincia de Nicaragua; Herrera,
Ill. 4, 7, p. 154: sangrdvanse de la lengua, otros de las
orejas, del miembro secreto 6 dedonde mas devocidn tenian;
tomavan la sangre en papel (come nel Messico: sopra a
p. 82) 6 en el dedo por ofrenda, fregavan la cara del idolo...
- Nel Darien, quando cadeva un fulmine (il fulmine era iden-
R, PETTAzZoNI, La Con/fessione dei peccati, I. 1r
162 CAPITOLO II
tificato col Dio degli Spagnoli), gli indigeni si radunavano nel
luogo doy’esso era caduto e per placarlo usavano questo « bar-
baro sacrificio» (Relacién del Guaymi y del Darien, in Re-
lacién histérica y geogréfica de la Provincia de Panamd por
D. Juan Requeio Salcedo, afio 1640, pubblicata in « Relaciones
histéricas y geograficas de América Central», « Coleccién de
Libros y Documentos referentes 4 la Historia de América »,
t. VIII, Madrid 1908, 89): si foravano il prepuzio con una
spina di pesce destinata a questo scopo, e pel foro si infila-
vano tutti mediante una corda di cotone delia grossezza del
dito medio, i cui capi erano legati a due bastoni tenuti dal
primo e dall’ultimo della ‘danza’, di modo che, mettendosi
essi a cantare e facendo grandi gesti e movimenti, il cordone
era tirato in tutti i sensi, e cosi usciva il sangue, il quale,
raccolto in piccoli recipienti dalle donne che si aggiravano
ignude fra i sacrificanti, era offerto insieme con altre cose
sopra un palo 1a dove il fulmine era caduto (lo stesso rito
nel Yucatan p. 160 n. 30 e nel Messico, Motolinia, Memoria-
les, 25; cfr. Seler, Codex Borgia, I, 163; v. sopra a p. 89 sg).
- L’uso della spina di pesce per l’estrazione del sangue pare
sia caratteristico del nord dell’America meridionale: sulla co-
sta di Paria, nei tre mesi che precedono una eclissi di luna,
essendo questa ritenuta di malaugurio, gli indigeni si danno
a lunghi digiuni e canti tristissimi, e le ragazze in etd da ma-
rito «se sacan sangre, rompiendo las venas de los morcillos
de los brazos y piernas con una espina» (Las Casas, Apol.
Hist., 245, p. 642). La stessa cosa in occasione delle eclissi é
attestata per Cumanad da Lopez de Gdmara, Historia general
de las Indias, I (Historiadores Primitivos de Indias, I, Ma-
drid 1877), p. 208 e da Herrera, Hist. general de los hechos,
étc., IIT, 4, x12, p. 3163.
43 Gonzalo Fernandez de Oviedo y Valdés, Historia ge-
neral y natural’ de las Indias, Islas y Tierra-Firme del mar
Océano (solo parzialmente pubblicata nel 1535, 1547, 1557; un
Sumario gid nel 1526), Madrid 1851-1855, XIdI. 3, tom. IV (Ma-
drid 1855), p. 55 sg.
44 segun la culpa: Lopez de Gémara, Historia general de
las Indias, Anvers 1554, 277.
45 Gomara, 1. cit.: los sacerdotes se casan todos, sino los
que oyen pecados agenos. Herrera, che del resto dipende da
NOTE: PERU 163
Gomara, qui fraintende: no se casan los sacerdoles, sino los
que oyen pecados agenos (III. 4. 7, p. 154). Cosi anche Re-
mesal, Historia General, VI. 11. 313 seg.
46 Cfr. Beuchat, Manuel d’archéologie américaine, Paris
1912, 393 Sg.
47 Herrera III. 4, 7, p. 154: tenian pintadas sus leyes y
ritos con gran semejanza de los Mexicanos.
48 tambien son diferentes en los sacrificios: ibid.
PERU.
1R. Karsten, Civilisation of the South American Indians,
London 1926, 492.
2 Cfr. von Tschudi, Kulturhistorische und sprachliche Bei-
trige zur Kenntnis des alten Peru, Denkschr. d. Wien. Akad,
1891, 65 sgg.
3 Ondegardo 12, Mortta 218, Rel. Anén. 165, Arriaga 18, Ca-
lancha 377, Acosta 365, Villagomez 159.
4 Arriaga 29; cfr. Calancha 378: « hichu, que es su esparto ».
5 Avendafio; Rel. Anén. 165; Villagémez 159.
6 Avendafio; Arriaga 29. 91.
7 Arriaga 18; Calancha 377. Secondo Avendafio prima si
confessavano los ministros de idolatria unos con otros.
8 Hakluyt Soc., vol. 48, p. 63; testo spagnuolo p. tor sg.
9 Arriaga 29; Ribero y Tschudi, Antigiiedades Peruanas,
Viena 1851, 178: una bolita de barro colorado.
10 Secondo Molina prima il penitente soffiava via le pol-
veri, poi faceva la confessione.
11 Cfr. Bolinder, Die Indianer der tropischen Schneege-
birge, Stuttgart 31925, 134, 139 sg- La confessione degli Ijca
quale é descritta dal Bolinder presenta parecchie somiglianze
con la pertiviana antica.
12 Arriaga 28. 131; Villagémez 158.
13 La invocazione diceva: « O voi quanti siete huaca e vilca
delle quattro regioni della terra, avi miei ed antenati, ricevete
questo sacrificio dovunque voi siate e fatemi guarire ».
14 opacuna Acosta 367, da upani «io lavo»: Markham,
Hakluyt Soc., vol. 61, p. 36r.
15 Ondegardo 14 sg.; Acosta, Hist. nat. y moral, V. 17,
164 CAPITOLO 11
Pp. 344 sg. = Hakluyt Society, vol. 61, p. 339; Cobo 92. Se-
condo Ta Calancha, p. 377, era legge del regno degli Incas
che los impedidos, contrechos 6 indbiles para labrangas 6
guerras aprendlesen @ erbolarios para curar enfermos 6 apren-
diesen & echizeros para ministros de sus idolos.
16 Arriaga 29.
17 Balboa, Hisloire du Pérow (Ternaux-Compans, Voyages,
Relations, elc.), 1, Paris 1840, 3: «ils avaient soin de brfiler les
yétements qu'ils portaient quand ils avaient commisle péché »,
18 Calancha 378.
19 Rel. Andn. 170,
20 Contro Polo de Ondegardo, con cui in pit di un Inogo
la Rel. Anén, poletmizza.
21 Rel, Andn, 169.
22 Secondo Calancha, il penitente andava sputando nell'erba
nel mentre che si confessava: Corén. Moral., II, 12, px 378.
23 Nella festa che si celebrava nel mese di gennaio le ce-
neri delle vittime erano gettate nei ruscelli, credendosi che le
acque portassero via con sé tutti i peccati della popolazione:
Balboa, Hist. du Pérou, Paris 1840, p. 125. Il massimo rito pe-
ruviano di espulsione dei malanni era la grande festa Silna
che si celebrava all’equinozio di primavera (il nostro equinozio
di autunno): Markham, The Incas of Peru, 125 seg.
24 Quanto alle ceneri, cfr, i relativi fdditra al Madagascar
ece., Vv. BOpTa p. 65 Nn, 12,
25 Ondegardo 13; Acosta 365; cfr. Molina 23; Cobo 92. - In
Ribero y ‘Tschudi, Antigiiedades Peruanas, Viena 1851, 178, &
detto che il confessore gettava un pugno di maiz in un reci-
piente e contava i grani: se il numero era pari, la confessione
era buona, se dispari, nulla, Siffatto sortilegio era in uso anche
“al Messico: Motolinia, Historia (México 1858), II. 8, p. 130 (per
sapere se Un infermo garebbe guarito, o per ritrovare una cosa
perduta); cfr, Torquemada, Monarquia Indiana, VI. 48, p. 89.
- Altro e pit complicato sortilegio coi grani di maiz é deseritto
da Hernando Ruiz de Alareén, Tratado de las supersticiones y
costumbres gentilicias que oy viven entre los Indios naturales
desta Nueva Espanta (1629), Anales del Museo Nacional de Mé-
xico, 6, 1892 (125 sgg.), 193 SE.
26 Arriaga 119.
27 Acosta 367, Calancha 377,
NOTE: PERV : 165
28 Molina ror, Arriaga 29, Cobo 90 sg., Villagémez 159.
29 Ondegardo 13: Esta confessién usan tambien quando
estdn enfermos sus hijos, 6 mujeres, 6 marido, 6 su cacique,
6 quando estan en algunos grandes trabajos; Cobo 91.
30 Ondegardo, Acosta, Cobo 90 (tenian entendido, que cuan-
do ed Rey enfermaba 6 padecia otra adversidad, eran causa
dello los pecados de sus stbditos, y no los del Rey; por lo
cual en sabiendo que estava infermo, se confesavan todas las
provincias....).
31 Cfr. R. Karsten, Die altperuanische Religion, Archiv fiir
Religionswiss. 25. 1927, 42. Garcilasso, Primera Parte de los
Comm. Reales, Lisboa 1609, II. 13, p. 39 (Markham, Hakluyt
Soc., vol. 41, 148 sg.) adduce come motivo capitale della con-
fessione pertiviana la perstiasione del colpevole che la sua
colpa, se occultata, avrebbe cagionato guai e malanni alla co-
munita (4 la reptiblica), cioé enfermedades, muertes, y malos
afios y otra qualquiera disgracia comun 6 particular.
32 Arriaga 18.
33 Tres Relaciones, 36.
34 Cfr. i malos afios di Garcilasso, Comm, Real, Prim. Parte,
Il. 13 e La Calancha II. 12, p. 376: si el afio es esteril, 6
ay falta de temporales.
35 Uno dei due gemelli era considerato dai Peruviani come
figlio del fulmine (per cid, dopo l’introduzione del Cattolicismo,
gli davano il nome di Santiago, essendo questo nome usato
dagli Spagnuoli in connessione col tuono e col fulmine: Ar-
riaga 33). I genitori di gemelli erano sottoposti ad uno speciale
processo di purificazione: generalmente erano tenuti ad osser-
vare il digiuno, l’astinenza dal sale e aji, nonché dal coito, per
un periodo che poteva essere anche di 6 mesi; in certe parti
erano costretti a restare coricati cinque giorni su un fianco,
poi altri cinque giorni sull’altro, con una gamba rattratta senza
muoversi, tenendo un fagiolo o una fava nella piegatura del
ginocchio fino a che pel calore germogliasse; dopo di che i
parenti andavano a caccia e, preso un daino, lo scorticavano e,
fatto della pelle una specie di baldacchino, vi facevano passar
sotto i due genitori con certe funicelle al collo che poi essi
dovevano portare per molti giorni (Arriaga 32; cfr. Frazer, The
Golden Bough’, I. 1, London 1911, 266). Anche al Messico i
gemelli erano oggetto di superstizione (il padre o Ta madre loro
166 CAPITOLO II
doveva morire: per riscattarsi uccidevano uno dei gemelli) :
Motolinia, Historia, II. 8, p. 130; Torquemada, Monarquia
Indiana, Sevilla 1615, VI. 48, p. 89 (i gemelli erano detti co-
cohua, cioé ‘serpenti’, e come tali avrebbero mangiato il pa-
dre o la madre. Cfr. Kohler, Zeitschrift f. vergl. Rechtswiss.
II, 1895, 46).
36 Arriaga 119.
87 Cfr. Mortia, 228: cuando habia falta de temporales... so-
lian confesarse con el hechizero....
38 Gavilan, Historia del Celebre Santuario de Nueslra Se-
nora de Copacabana, Lima 1621, 69 sg.; Cobo, Historia del
Nuevo Mundo, xii. 18 t. IV p. 54 sg.
39 Per le sanzioni civili dei delitti sessuali al Peri cfr. H.
Trimborn, Straftat und Siihne in Alt-Peru, Zeitschrift f. Ethno-
logie, 57, 1925, 220 sgg.
40 In forma negativa, non adorare le divinita riconosciute:
«il Sole, la Luna e gli huaca» (Molina), gli huaca in genere
(Ondegardo, Acosta). Cfr. Calancha, 377: no servir mucho 4
Dioses.
41 « Mormorare contro il Sole » (Molina).
42 Cioé i raymi, feste mensili (Molina); cfr. Ondegardo,
Acosta, Herrera, Cobo.
43 Ondegardo, Acosta, Herrera, Calancha.
44 Ondegardo, Molina, Acosta, Herrera, Cobo.
45 Ondegardo, Molina, Avendafio, Acosta, Herrera, Cobo.
46 Anche Molina e Cobo.
47 Prender mujer agena Ondegardo, Acosta, Herrera, Cobo;
tenir mas que una mujer Arriaga, Avendafio, Villagémez.
48 La fornicazione non era peccato per sé stessa (Arria-
ga 28, Calancha 379, Cobo), bensi (Molina) in quanto fosse
praticata contro la legge degli Incas, la quale vietava di avere
rapporti con una donna straniera 0 con una vergine che non
fosse stata concessa dall’Inca.
49 Tl furto é@ citato come peccato da confessare anche in
Ondegardo, Molina, Avendafio, Arriaga, Calancha, Acosta, Her-
rera, Cobo.
50 Cfr. Karsten, Civilisation of South American Indians,
488 n. I.
51 Ondegardo 13, Acosta 366.
NOTE: PERU 167
52 Rel. Anén. 166. Anche Ondegardo (con Acosta, Cobo,
Herrera) parla di pecados reservados al mayor,
53 Rel, Anén. 164.
54 Molina, p. 20 sg.
55 Rel. Anén. 161, 165.
56 Bolinder, op. cit., 139 sg.
57 Anche Garcilasso polemizza con coloro che pretendevano
trovare nel Perit una confessione simile alla cattolica. Egli ha
in mente, sebbene non lo nomini, specialmente l’Acosta (Mar-
kham, Hakluyt Society, vol. 41, p. 120 in nota). Secondo Gar-
cilasso l’attribuzione di una confessione simile a quella cat-
tolica (individuale, segreta ecc.) ai Pertiviani non aveva altro
fondamento che nell’indole compiacente e bonaria degli indi-
geni, naturalmente inclini a trovare nella propria religione
tutto quello che poteva far piacere agli Spagnuoli, pur di ri-
spondere affermativamente alle loro domande (Primera Parte
de los Comm. Reales, II. 5, II. 13).
58 Primera Parte de los Comm. Reales, Lisboa 1609, II. 13,
p. 39, Hakluyt Society, vol. 41, p. 148 sg.
59 Fabulas y Ritos de los Incas (Lima 1916), p.. 23: ..... la
cual confesion hagia publica..... desque algunos tenian algunos
graves pecados que por ellos mereciese la muerte, coechava
al hechigero y confesavase secreto con el.
60 Rel. Andénima: «todas las personas»; Cobo, p. or:
« obligaba el precepto de la confesién & todo género de gente »
sulla eccezione relativa ‘agli Incas’, v. sotto a. n. 63).
61 Rel. Anén. 161, 165; secondo Ondegardo 13, Acosta 366,
Cobo 91 Vobbligo del segreto comportava cierias limitaciones;
cfr. Herrera, Hist. Gen., V. 4. 5, p. 116.
62 Fabulas y Ritos de los Incas, 23: los Yncas y jente del
Cuzco siempre hagian sus confisiones secretas.....
63 Quando Cobo, p. g1, dice che gli Incas erano i soli che
facessero eccezione all’obbligo generale della confessione, egli
applica per errore agli Incas, cioé a tutti i membri de la pro-
genie y casta del Rey, cid ch’era vero soltanto dell’Inca, cioée
del re (e del Huillac Uma: p. 126).
64 Cfr, R. Pettazzoni, Gli Incas e gli Achemenidi, Studi e
Materiali, 1, 1925, 225.
65 Rel. Anén. 165.
66 Ondegardo 13, Cobo 9go-91.
168 CAPITOLO IT
67 Rel. An6én. 170; Cfr. Ondegardo 12, Acosta 365, Arria-
ga 19, Calancha 377, Cobo go.
68 Historia del Nuevo Mundo, x11. 24, t. IV. p. 91.
69 aucachic que en el Cuzco llaman ichuris: Arriaga 18 =
Villagémez 152. Cfr. Calancha, II. 12, p. 377: @ estos llaman
aucachic, i en el Cuzco ichuris. Arriaga e Calancha lavorarono
appunto nella zona occidentale e costiera. Ad essa apparten-
gono anche le regioni di Cajatambo e Huaylas, nella cui par-
lata per domandare « Hai confessato i tuoi peccati al confes-
sore (pagano)?» si diceva: huchaiquicta aucacucchu canqui?
(Arriaga 91, Villagémez 229).
70 Avendafio; cfr. Arriaga, cap. vir (Brehm, Das Incareich,
Jena 1885, 126).
71 ¥§ notevole che anche al Messico la figura del sacerdote-
confessore nel culto di Tlacolteotl conserva, come gia dicemmo
(p. 99, 138), certi tratti che corrispondono a quelli dell’ichuri,
e che verosimilmente risalgono alla fase primitiva (pre-azteca)
della confessione, quando anche nel Messico, forse, la confes-
sione non era segreta. Presso i Maya dell’America Centrale la
confessione restd esente dal segreto (p. 104). Comune al Perit
come all’America Centrale e al Messico é la pratica dell’estra-
zione del sangue, ma non connessa - nel Pert - con la con-
fessione (dalle braccia, dalle coscie, dall’orlo delle narici, dalla
fronte fra le sopraciglia: Garcilasso, Comm. Real., Prim. P.,
I. rx, VII. 5). Intorno alle connessioni culturali fra Varea pe-
ruviana e la centro-americana, rispettivam. la messicana, cfr.
Dieseldorff, Kunst und Religion der Maya-Vélker im alten
und heutigen (specialm. i Kekchi del Guatemala) Mittelame-
rika, Ztschr. f. Ethnol., 57, 1925, 32, 43; W. Krickeberg, Mexi-
kanisch-peruanische Parallelen, Festschrift P. W. Schmidt,
Wien 1928, 378 sgg.
72 Tl Balboa, giunto al Perit nel 1566, risiedette a Quito,
dove fra il 1576 e il 1586 scrisse, utilizzando anche uno scritto
oggi perduto del Molina, una Miscellanea Austral, di cui una
patte fu pubblicata in francese, come Histoire du Pérou, dal
Ternaux-Compans (Paris 1840). Sulla fine del preambolo é
detto che «in alcune provincie avevano dei confessori cui di-
chiaravano tutti i loro peccati», dopo di che l’Autore passa a
trattare dell’epoca incasica, «non avendo pit nulla da dire
sulla condizione del paese prima dell’avvento degli Incas.... ».
NOTE: PERU Vitesse Ce,
73 y en parte d& sido providencia del Sefor permitir el
uso passado para que la confession no se les haga dificullosa:
Acosta, Hist. nat. y moral, V. 25; cfr. The Jesuit Relations,
vol. 43, p. 284 (sopra a p. 68 n. 29).
74 Gavilan, Sanluario de Copacabana, 14, p. 71.
75 Hakluyt Society, vol. 48, p. 63.
76 Arriaga, p. 9, 117, 119.
77 Edizione di Lima, 1919, cap. 58, p. 229.
18
Giappone.
I, SHINTOISMO.
Ia concezione ‘sostanziale’ del male-peccato
(p. 53 sz.), che abbiamo trovata viva e attuale presso
i primitivi e che abbiamo visto affiorare ad ogni mo-
inento al livello - per quanto superiore - delle antiche
civiltd americane, dovette esistere ab antiquo anche
presso il popolo giapponese, poiché la vediamo so-
pravivere a lungo nella sua religione nazionale,
il shinlo. Una importante cerimonia shintoistica,
Voho-harahi, & sostanzialmente imperniata su quel-
la concezione, Harahi & propriamente l’atto di spaz-
zar via (cfr. Vantico messicano ochpanizlli: p. 78),
sgombrare, sbarazzare. Oho-harahi, 6-harahi, vuol
dire la ‘grande purificazione’, ed & una cerimonia
di eliminazione dei peccati che si celebrd dappri-
ma in occasioni straordinarie', e poi regolarmente
l’ultimo giorno del sesto e l’ultimo del dodicesimo
nese: ‘festa’, dunque, di purificazione, di rinnova-
mento, di passaggio (cfr. p. 50), per entrare nel-
’ ‘anno’ nuovo liberi dai peccati del vecchio”, An-
che oggi l’oho-harahi & celebrato in tutto il Giap-
pone, dalla capitale - ¢ pitt precisamente dalla reg-
SHIN'TOISMO 17%
gia - all’ultimo villaggio, ovunque esista un santtta-
rio del culto ufficiale: in seguito all’ adozione del
calendario gregoriano (1873), la sua ricorrenza ¢ stata
fissata al 30 giugno e al 31 dicembre.
Naturalmente nel corso dei secoli la celebrazione
dell’ oho-harahi ha subfto delle modificazioni: in
complesso, delle semplificazioni. Ma nel suo schema
fondamentale e nei suoi elementi costitutivi é rima-
sta inalterata. Gli elementi sono due: l’esecuzione
di un rito e la recitazione di un testo. I] rito con-
siste sostanzialmente*® nella presentazione di una
quantita di oggetti diversi, che poi finiscono per es-
sere gettati nell’acqua corrente, oppure imballati e
caricati in una barca che li porta in mare. Sono
questi gli harahe-tsu-mono ‘cose di purificazione’,
che presentemente consistono quasi soltanto in pezzi
di tela candeggiata, mentre in passato comprende-
vano una grande varieta di oggetti*. C’é anche, nel-
Voho-harahi, una invocazione ai kami - che sono le
divinita del shintd -, perché discendano ad assistere
alla cerimonia (kami-oroshi); c’é una offerta di cibo
fatta - idealmente - ai kami; e, in fine, una specie
di congedo degli stessi kami (kami-age). Ma questo
vario rituale a base teistica sembra piuttosto un ele-
mento accessorio che un elemento essenziale della
celebrazione; infatti pud anche essere omesso.
Cid che non manca mai ¢, invece, la recitazione
di uno speciale testo liturgico, detto oho-harahe-no-
kotoba ‘parola della grande purificazione’. Esso é
uno dei cosidetti norito, testi che si recitano nel
corso delle varie cerimonie shintoistiche e che, fis-
sati anticamente in una forma consacrata, furono
tramandati in una raccolta che fa parte del cosidetto
172 CAPITOLO ITI
Engishiki. 1? Engishiki & il ‘Cerimoniale dell’ e-
poca Engi’ (dal 901 al 923), che fu promulgato nel
927 in 50 libri, di cui i primi 10 contengono le nor-
me del cerimoniale religioso: 1’oho-harahe-no-kotoba
é precisamente il 10° dei 27 norito che costituiscono
Vvirt libro dell’ Engishiki. In origine oho-harahe-
no-kotoba era recitato - in nome dell’imperatore - da
un sacerdote speciale appartenente alla grande fa-
miglia dei Nakatomi; in seguito fu recitato dagli
urabe ‘divinatori’; ora é recitato, di solito, dal sa-
cerdote principale del santuario dove la celebrazione
ha luogo. Esso dice cosi°:
« Ascoltate voi tutti (qui) radunati principi del sangue, prin-
cipi, alti dignitari e uomini dei cento uffici. Ascoltate voi tutti,
ché nella Grande Purificazione di (questo) ultimo giorno del
sesto mese dell’anno corrente, (il sovrano) si degna di purifi-
care e si degna di purgare i vari peccati che possono essere
stati commessi sia inavvertitamente che deliberata-
mente da quanti prestano servizio nella corte imperiale,
(cioeé) dai funzionari insigniti di sciarpa, di cordone, di fare-
tra o di spada, nonché dagli ottanta (mel senso generico di
‘molti’) funzionari dei funzionari, come ptre dal personale di
tutti gli uffici. (Segue un brano di contenuto mitologico che
si riferisce alla fondazione leggendaria dell’impero del Giap-
pone e della dinastia imperiale di origine divina che, secondo
la tradizione, dura ininterrotta fino ad oggi).
seid « Quanto alla specie di peccati (tswmi) che possono es-
sere stati commessi sia inavvertitamente che delibe-
ratamente dalla numerosa divina popolazione destinata a
vivere nel paese, un certo numero di peccati sono espressa-
mente distinti come peccati celesti (ama-tsu-tsumi), e
cioé: abbattere le dighe dei campi di riso, colmare i canali
dirrigazione, aprire la chiusa delle cateratte, seminare sul
seminato (cost da rendere impossibile la vegetazione), pian-
tare delle canne appuntite (cosi da impedire la lavorazione dei
campi), scorticare un essere vivente dalla testa all’indietro
(anziché in senso opposto), evacuare (in luoghi indebiti). (Que-
SHINTOISMO 173
sti sono i peccati distinti) come peccati celesti. Quanto ai
peceati terreni (kuni-tsu-tswmi), essi sono i seguenti: ta-
gliare della pelle viva, tagliare della pelle morta, albinismo,
essere affetti da escrescenze, il peccato di copulazione con la
propria madre, il peccato di copulazione con la propria figlia,
il peceato di copulazione con la figliastraS, il peccato di co-
pulazione con la propria stiocera, il peccato di copulazione
con animali, calamitd causate da animali striscianti, calamita
catisate da uccelli del cielo (escrementi e cose impure lasciate
cadere dal becco entro la casa attraverso l’apertura del tetto
per l’uscita del fumo), uccidere gli animali (altrui), il peccato
di praticare gli incantesimi.
«Se tali peccati sono stati commessi, il Gran Nakatomi, con-
formemente alle cerimonie (celebrate) nel palazzo celeste",
tagliando le basi e tagliando le cime dei divini giovani ar-
busti, (ne) fard mille tavole e (vi) depositerd (sopra) in ab-
bondanza (le offerte di purificazione); indi falcerd e taglierd
le basi, falcerd e taglierd le cime di splendide divine striscie
di vimini, e le spaccherd con l’ago facendole sempre pit sot-
tili; e reciterd le possenti parole del rituale celeste (cioe ap-
punto l’oho-harahe-no-koloba, la cui esistenza viene ad essere
cosi proiettata nei primordi del mondo).
« Se egli cosi recita (il rituale celeste), gli iddii del cielo,
aprendo la porta delle rupi celesti e tracciando una via attra-
vetso le ottuplici nubi del cielo, udiranno (le parole rituali);
(e) gli iddii della terra salendo sulle vette delle alte montagne
e sulle vette delle colline, e fendendo la nebbia delle alte
montagne e la nebbia delle alte colline, udiranno (le parole
rittali).
* Cioé quando la dea del sole Amaterasu si ritird entro la
grotta immergendo il mondo nelle tenebre, nella quale occa-
sione il capostipite della famiglia dei Nakatomi, il dio Ama
no Koyane no Mikoto, recitd, fra Valtro, ‘le splendide parole
rituali’: Kojiki, p. 39 Florenz (Die historischen Quellen der
Shinto-Religion. « Quellen der Religionsgeschichte », vol. 7,
Géttingen-Leipzig 1919); cfr. Nihongi, p. 155 Florenz. Anche
in oceasione del harahi di Susanowo (p, 175) Ama no Koyane
recita ‘le splendide parole rituali’ (Nihongi, p. 162 Florenz),
cioé appunto l’oho-harahe-no-koloba.
174 CAPITOLO III
«Se essi cosi odono (le parole rituali), é da aspettarsi che
ogni peccato che ha nome di peccato scomparira, specialmente
nella corte di sua Maesta il sovrano pronipote, come pure
-nelle contrade dei quattro punti cardinali del paese (che sta)
sotto il cielo; ed é da aspettarsi che nessun peccato restera,
a quel modo che il vento di Shinato* disperde le ottuplici
nubi del cielo, a quel modo che il vento del mattino e il vento
della sera soffiano via la densa nebbia del mattino e la densa
nebbia della sera, a quel modo che i grandi vascelli che stanno
nell’ampio porto sono slegati alla prua, slegati alla poppa, e
sono spinti nell’immensa distesa del mare, a quel modo che
uno asporta gli arbusti delle dense foreste con l’aguzzo taglio
di una roncola bene temprata.
«I peccati che in questa aspettativa (il sovrano) si degna
di purificare e si degna di purgare saranno portati via nella
grande distesa del mare dalla dea il cui nome é ‘Colei che
discende nella corrente’**, la quale risiede nella corrente del
tapido fiume che cade gitt spumeggiando dalle balze, dalle
vette delle montagne e dalle vette delle colline.
«E quando essa (li) ha cosi trasportati, la dea il cui nome
é ‘Colei che rapidamente inghiotte’, la quale risiede 1a dove
s’incontrano le ottocento (cioé: ‘innumerevoli’) correnti della
salsedine delle fresche onde marine, li prendera e li inghiot-
tira con mormorio gorgogliante.
E quando essa (li) ha cosi inghiottiti con mormorio gorgo-
gliante, il dio il cui nome é ‘Signore del luogo dove il soffio
spira’**, dimorante nel luogo dove il soffio spira, li prendera
e col suo soffio completamente li soffiera via nella regione della
radice, nella regione del profondo.
«E quando egli cosi (li) ha soffiati via, la dea il cui nome
é ‘Colei che rapidamente espelle’, la quale risiede nella re-
gione della radice, nella regione del profondo, li prendera e li
espellera completamente e se ne sbarazzera.
* La divinita del vento (Shinta-tobe), usualmente sdoppiata
in una divinita maschile (Shina-tsu-hiko) e una femminile
(Shina-tsu-hime) ; Florenz, Hist. Quellen der Shinto-Rel., 134,
n. 1; cfr. Genchi Kato, A Study of Shintd, the Religion of
the Japanese Nation, Toky6 1926, 15.
** Questa divinita figura tra quelle generate da Izanagi ¢
Izanami secondo il Kojiki, p. 17 Plorenz.
SHINTOISMO 175
.
«KE quando essi siano stati cacciati via, é da aspettarsi che
da questo giorno in avanti non vi sara nessun peccato nelle
quattro regioni del paese (che sta) sotto il cielo, specialmente
per cid che riguarda tutto il personale di tutti gli uffici che
rispettosamente presta servizio nella corte del Sovrano.....
« Orst, o urabe delle quattro regioni, andate e recatevi alla
grande corrente e portate via i peccati mediante la purifica-
zione ».
La concezione del male-peccato come qualche
cosa di sostanziale risalta qui in modo evidente. E
questa sostanza peccaminosa, questa impurita, questo
fluido maligno, che, aderendo alle ‘cose di purifi-
cazione’, viene allontanato insieme con esse ed ul-
timamente disperso nel mare, donde torna, per le
vie del profondo, al suo luogo d’origine, ch’é 1’in-
ferno (yom). Infatti il primo harahi secondo la mi-
tologia shintoistica é quello che eseguisce su sé
stesso il dio Izanagi quando, di ritorno dall’inferno,
dov’ egli si era recato a trovare la sposa Izanami,
sente il bisogno di purificarsi da tutte le ‘sozzure’
- cioé da tutti gli influssi esiziali contratti in quel
luogo infetto -, bagnandosi nella corrente di Woto’.
Un vero e proprio oho-harahi & poi quello che gli
déi impongono al dio Susanowo in espiazione delle
offese da lui fatte alla dea del sole Amaterasu. Nei
campi di riso coltivati da Amaterasu Susanowo
rompe le dighe, chiude i fossati d’irrigazione, apre
le cateratte, semina lA dove é gia stato seminato,
pianta delle punte aguzze nei campi; inoltre, nella
sala dove Amaterasu da un banchetto (in occasione
della degustazione del riso novello) sparge dello
sterco; e ancora, mentre Amaterasu sta lavorando
al telaio con le sue ancelle, Susanowo da un buco
fatto nel soffitto cala git un cavallo scorticato dal-
176 © CAPITOLO TIT
la testa all’ indietro*. Per tali e tanti misfatti Su-
sanowo é obbligato dagli déi a fornire mille tavole
colme di ‘cose di purificazione’ (harahe-tsu-mono);
e per di pit gli déi gli tagliano la barba e i capelli, e
gli fanno strappare le unghie delle mani e dei piedi, e
gli prendono la saliva e il muco nasale*. Questi ele-
menti organici sono essi stessi delle ‘cose di puri-
ficazione’: appartenendo all’organismo, concentrano
in sé stessi il peccato, cioé l’impurita di cui il ‘pec-
catore’ é rimasto investito per effetto dell’azione pec-
caminosa, impurita che resta dunque eliminata con
l’ecliminazione di quei ‘rifiuti’. In questo senso sa-
ranno stati ‘cose di purificazione’ anche, p. es., gli
oggetti con cui il peccato fu commesso e quelli che
comunque, sia per appartenenza a chi lo commise,
sia per fortuita vicinanza od altro, si trovarono
esposti al fluido peccaminoso, e ne furono investiti,
cid che appunto rende necessario di sbarazzarsene.
E forse da questo originario valore di alienazione a
scopo eliminatorio si svolse successivamente il va-
lore del harahe-tsu-mono come multa o come offerta
riparatrice’®. Certo é che gli harahe-tsu-mono sono
tutt’altro che offerte fatte ai kami: sono mezzi adope-
rati per eliminare il peccato inteso come impurita e
come malanno; e per cid sono buttati in acqua, che
é il momento _culminante e conclusivo di tutta la
cerimonia.
L altro momento dell’ oho-harahi @, come ab-
biamo detto, la recitazione del norito o testo litur-
gico. Questo testo, con la sua enumerazione di pec-
cati celesti e peccati terreni, contiene un vero e pro-
prio elenco di peccati. Quale criterio abbia presie-
duto alla distinzione dei peccati (tswmi) in ‘celesti’
SHINTOISMO 177
(ama-tsu-tsuwmi) e ‘terreni’ (kwni-tsu-tswmi) non sap-
piamo'!. EK notevole, ad ogni modo, che i peccati
“celesti’ coincidono con le ‘offese’ di Susanowo
contro Amaterasu quali sono enumerate nel Kojiki
e nel Nihongi (p. 175)'”. Come si vede, il mito ha
costruito anche qui sulla realta, in questo caso sulla
realta rituale: il rito preesisteva al mito, che |’ ha
incorporato proiettandolo sopra uno sfondo divino
e pre-umano. Quanto ai peccati ‘terreni’ - cioé
quelli che sarebbero stati commessi ‘sulla terra’ a
partire dal tempo del primo imperatore ‘terreno’,
Jimmu, (660 a. Cr., data tradizionale della fonda-
zione dell’impero giapponese) -, é da osservare che
soltanto in parte essi consistono in azioni che il
‘peccatore’ commette volontariamente (in massima
parte azioni concernenti la vita sessuale), mentre
altri (albinismo’*, protuberanze, morso di rettili, un
colpo di fulmine, contatti impuri) sono semplice-
mente degli stati patologici o delle condizioni cala-
mitose in cui il ‘peccatore’ viene comechessia a tro-
varsi indipendentemente dalla sua volonta. Peccati
involontarii e peccati di natura sessuale sono ele-
menti caratteristici, come gid sappiamo (Cap. I e II),
della nozione elementare e primitiva del peccato.
Quanto alla confessione, di cui pure conosciamo la
particolare connessione con i peccati sessuali (p. 51),
ecco che essa ci appare, in forma elementarissima,
anche nello stesso oho-harahi.
L, importanza che nella celebrazione dell’ oho-
harahi aveva, come dicemmo, la recitazione del no-
rito sta appunto nell’ elenco di peccati ‘celesti’ e
‘terreni’ che nel norito era contenuto. Si, perché i
peccati che si eliminavano per mezzo delle ‘cose di
R, PETTAzzonI, La Confesstone dei peccati, 1. 12
178 CAPYTOLO IIT
purificazione’ erano precisamente quelli - ‘celesti’
e ‘terreni’ - che erano enunciati nel recitare 1’elen-
co, essendo la loro enunciazione in certo qual modo
la condizione preliminare della eliminazione (cfr.
p. 58). Recitazione ed espulsione erano due mo-
menti complementari del medesimo rito eliminatorio.
Come elemento essenziale del rito, l’elenco dei pec-
cati avra verosimilmente fatto parte del nucleo pit
antico del nostro norito, un nucleo che sara non solo
anteriore alla compilazione dell’Engishiki (a. 927),
ma forse anche preesistente ad ogni redazione scritta
del norito stesso.
Si é discusso se i norito siano delle formule ma-
giche’*. Per cid che riguarda il norito della ‘grande
purificazione’ diremo che, se nella sua forma attuale
abbondano gli spunti di invocazione e preghiera ai
kami, s’intravede tuttavia una fase pit arcaica nella
quale la sua efficienza dové consistere principalmente
nella enunciazione dei peccati in esso elencati, ese-
guita a scopo eliminatorio in virti della potenza
magica della parola parlata. E infatti la magia della
parola che é in gioco nella recitazione di quella parte
- almeno - dell’oho-harahe-no-kotoba che é costituita
dall’ elenco dei peccati, precisamente come nella
‘confessione’ quale é praticata dai primitivi: il prin-
cipio magico della enunciazione specifica del peccato
commesso (p. 59) resta inalterato anche se é esteso
a tutti - idealmente - i peccati possibili. Non solo:
ma nell’azione combinata della enunciazione dei
peccati e della espulsione loro per mezzo degli
harahe-tsu-momo si ripete quella concomitanza della
confessione con una operazione eliminatoria che é
caratteristica della prassi confessionale nelle sue for-
SHINTOISMO 179
me elementari. E proprio quella eliminazione per
l’acqua corrente che si pratica in Giappone per
mezzo degli harahe-tsu-mono, la trovammo gia in
uso specialmente nell’ antico Pert, dove la confes-
sione aveva luogo possibilmente in prossimita d’un
corso d’acqua (p. 122), e dove l|’Inca - a differenza
dei suoi sudditi - non si confessava ad alcun confes-
sore, ma semplicemente enunciava, da solo, i suoi
peccati, tenendo in mano un manipolo d’erba che
poi, sputandovi sopra (cfr. la saliva di Susanowo:
p. 176), gettava nella corrente, - e nello stesso mods
“si confessava’ il gran sacerdote, salvo che gettava
il mazzo dell’ erbe nel fuoco, e nel ruscello le ce-
neri (p. 127).
Da un punto di vista meno formale e pit so-
stanziale, meglio ancora che nella confessione pe-
ruviana - la quale é confessione individuale (ma i
casi eccezionali dell’ Inca e del Huillac wma sono
molto istruttivi, come esempi appunto di una con-
fessione individuale ridotta all’ atto elementare e
fondamentale della entnciazione dei peccati) -,
l’ oho-harahi trova riscontro nella cerimonia del
‘capro espiatorio’ presso gli Ebrei (Vol. IJ), in
cui il gran sacerdote ‘confessava’ sul capro i pec-
cati del popolo tenendo le mani sopra la sua testa,
col quale atto i peccati erano trasmessi nel corpo
dell’animale, e quindi, con l’allontanamento del ca-
pro, erano allontanati essi stessi e dispersi nel de-
serto (Levit. 16. 21 sg.). Analogamente, nell’ oho-
harahi, era il Nakatom: che enunciava - e in que-
sto senso anch’egli, dunque, ‘confessava’ - i pec-
cati della comunita seconde l’elenco contenuto nel
norito. Appunto percid questo eienco comprendeva
180 CAPITOLO III
i peccati ‘celesti’ pit i peccati ‘terreni’, cioé - ideal-
mente - tutti i peccati, perché tutti dovevano essere
eliminati, quanti ne potevano essere stati commessi
dai singoli membri della comunita. La ‘confessione’,
cioe la enunciazione dei peccati da parte del Naka-
tomi, teneva luogo, in certo qual modo, di quelle
che avrebbero potuto essere le confessioni dei sin-
goli individui. Non per nulla il Nakatomi recitava
in nome dell’imperatore, cioé del capo supremo di
tutta la comunita, il quale suole avere nelle societa
primitive, e non in esse soltanto, funzioni rappresen-
tative di carattere sacrale (cfr. Sumatra p. 16, Cina,
p. 206 e Babilonia, Vol. II).
Nonostante questo suo fondamentale carattere
collettivo, l’oho-harahi presenta taluni aspetti indi-
viduali di particolare interesse. Connessa in via ac-
cessoria con ]’oho-harahi era la cerimonia del kata-
shiro, che ora si pratica soltanto in pochi santuari
shintoisti’®, dove é rimasto in vigore nella celebra-
zione dell’oho-harahi il cerimoniale dei tempi me-
dioevali. Il kata-shiro, ‘rappresentante della per-
sona’'®, € un pezzo di carta ritagliato in forma di
figura umana (vestita). Qualche giorno prima del-
V’oho-harahi il fedele si presentava al sacerdote del
santuario locale e ritirava un kata-shiro, lo portava
a casa, vi scriyveva sopra la sua data di nascita e
l’indicazione del suo sesso, se lo strofinava su tutto
il corpo, indi vi soffiava sopra e lo riportava al san-
tuario. Tutti i kata-shiro restituiti erano legati in
uno o pitt fasci con dei vimini, e andavano a rag-
giungere le altre ‘cose di purificazione’, insieme
con le quali, dopo essere stati esposti, finivano per
essere gettati in acqua. Cosi erano eliminati i ‘ma-
SHINTOISMO 181
lanni’ personali che ciascuno aveva, col soffio, tra-
smessi, in certo qual modo, nel proprio kata-shiro.
Corrispondentemente - sebbene, a quanto pare,
indipendentemente dalla usanza del kata-shiro - si
ha notizia altresi di una confessione individuale pra-
ticata in connessione accessoria con 1’ oho-harahi.
Prima che Il’ oho-harahi avesse principio, il Naka-
tomi ascoltava le confessioni di taluni che intende-
vano parteciparvi; e quando poi recitava il norito,
faceva seguire all’eclenco tradizionale e fisso dei pec-
cati ‘celesti’ e ‘terreni’ la enunciazione di quelle
colpe ch’egli aveva udite nelle confessioni indivi-
duali (cfr. Sumatra, p. 16). Questo é quanto rife-
risce il Florenz'’, in base a degli appunti da lui presi
assistendo a certe lezioni di Motowori Toyokahi nel-
VUniversita di Téky6.
Questi dati sommari, che sono gli unici a mia
disposizione, appaiono alquanto inadeguati all’ im-
portanza del problema che qui si presenta. E cioé:
in quale rapporto stanno queste pratiche individuali
con la celebrazione collettiva dell’oho-harahi, nella
quale esse appaiono, per cosi dire, inscritte? L’usan-
za del kata-shiro sembra soddisfare al bisogno di una
partecipazione pit personale e pit diretta dell’indi-
viduo al tradizionale rito collettivo di eliminazione
dei peccati. Dal canto suo la confessione individuale
viene incontro alla necessita di provvedere alla in-
completezza del norito per quei peccati che nell’ e-
lenco fisso (‘celesti’+‘terreni’) eventualmente non
fossero compresi. Si tratta dunque di svolgimento
spontaneo ed interno? O sono invece da ammettere
delle influenze esterne, extra-shintoistiche?
182 CAPITOLO III
2. LA CONFESSIONE DEI YAMABUSHI E IL, SINCRETISMO
SHINTO-BUDDHISTICO.
Introdotto il Buddhismo nel Giappone nel VI sec.
d. Cr., esso vi ebbe il massimo incremento in se-
guito alla sua assimilazione con la religione nazio-
nale. Quando i kami della mitologia shintoistica fu-
rono identificati con i nuinerosi hotoke - Buddha,
Bodhisattva e simili - del pantheon mahayanico, il
popolo poté aderire in massa alla religione nuova
che ormai appariva tutt’ una con I’ antica. Questa
profonda tendenza sincretistica prese corpo in di-
versi sistemi a seconda delle differenti scuole o sétte
buddhistiche. Su tutti prevalse il sistema del rydbu-
shintd o ‘shintd bilaterale’, elaborato da K6bo
Daishi (774-835), il fondatore del shingon-shu, o
“scuola della parola vera’. Un’altra scuola princi-
pale fondata al principio del IX sevolo, il tendai-shi,
seguiva invece il sistema del sannd-shintd, secondo
la formula del suo fondatore Dengyd Daishi (767-,
822). Da una propaggine del shingon-shu (Shdbd
[Rigen Daishi], 834-909) fusa col tendai-shi (Zoyo,
sec. XI) si formé una sétta minore detta shugen-do,
suddivisa a sua volta in un ramo tozan-ha (shingon)
e in uno honzan-ha (tendai). I seguaci del shugen-dé,
i shugen-ja, sono noti comunemente col nome di
Yamabushi, ‘soldati della montagna’, perché vive-
vano di preferenza sui monti e portavano la scia-
bola?®.
Il sincretismo caratteristico delle scuole shingon
e tendai appare in quella loro combinazione che é il
" YAMABUSHI 183
shugen-dd ancor piti accentuato. Specialmente dal
shingon-shti i shugen-ja derivarono, oltre la spe-
ciale venerazione del Buddha di saggezza Dainichi
“gran sole’ (che é il Dhyanibuddha Vairdcana, iden-
tificato con la gran dea del sole Amaterasu), anche
una speciale tendenza all’esoterismo, che era gia im-
plicita nei precedenti indiani della sétta, e che, tra-
piantata nel Giappone, facilmente degenerd in for-
me pit triviali di magia. Le formule magiche (man-
tra, proprie specialmente del shingon = ‘parola
vera’), le figure magiche fatte con le dita’® (magia
del gesto corrispondente alla magia della parola),
passarono dal shingon- e dal tendai-shiu nella prassi
quotidiana dei Yamabushi. Taumaturghi, indovini,
guaritori di malattie, scopritori di furti, rinvenitori
di cose smarrite, facitori di scongiuri, interpreti di
sogni: tutto questo furono i Yamabushi, - cid che
naturalmente conferi loro una larga popolarita che
si espresse poi anche in forme satiriche nei no-
kydgen, specie di ‘farse’ in cui i Yamabushi sono
trattati un po’ come spesso sono trattati i frati nella
novellistica medievale europea?’.
I Yamabushi attrassero in modo particolare 1’in-
teresse dei missionari cattolici del sec. XVI; e molte
informazioni sulla loro sétta sono contenute nelle
‘carte’ (solo in parte pubblicate e generalmente
non nel testo originale) inviate dai Gesuiti della
missione giapponese alla Compagnia - a cominciare
dal rapporto sugli usi e costumi del Giappone com-
pilato nel 1548 e 1549 in base alle notizie fornite dal
giapponese Hanshiro (Anjiro, Angero) di Kagoshi-
ma, il primo giapponese convertito al Cristianesimo
e battezzato a Goa nel 1548 col nome di Paulo da
184 CAPITOLO III
Santa Fé?! -, come pure nel Sumario del 15577,
nonché, occasionalmente, in varie lettere
PP. dei
Alcaceva, Vilela, Torres, Gago, Frois?*, e quindi
anche in alcune opere sistematiche di Gesuiti con-
dotte su quelle fonti epistolari, come la Historia Na-
tural y Moral de las Indias del P. Jos. de Acosta,
Sevilla 15907‘, e la Historia de las Missiones que
han hecho los Religiosos de la Compania de Jesus
del P. Luis de Guzman, 2 voll., Alcala 1601.
In alcuni di questi scritti?? i Yamabushi sono
presentati come adoratori dei kami. Infatti fra
tutte le formazioni del Buddhismo giapponese il
shugen-do & forse quella dove 1’ elemento shintoi-
stico é pili preponderante. Usanze tipicamente e tra-
dizionalmente shintoistiche come l’isolamento (tabu)
della donna mestruante o partoriente, nonché di
ogni persona colpita da lutto; pratiche di carattere
primitivo come 1’ ordalia del fuoco ed altre per lo
scoprimento dei colpevoli; adorazione di divinita
schiettamente naturistiche, p. es. la luna (nuova)?®;
tutto cid trovava posto nella religione dei Yamabu-
shi accanto all’adorazione del buddhistico Dainichi
Nyorai (Nyorai= Tathagata).
Di essa religione faceva parte anche il nydhd,
una specie di pellegrinaggio che aveva luogo una
volta all’anno”’, avendo per méta la cima di qual-
che alta montagna e il relativo santuario?®. I Yama-
bushi vi partecipavano a centinaia. I partecipanti
dovevano trovarsi in istato di purita rituale: percid
si preparavano con un regime di astinenze, digiuni ¢
abluzioni per un periodo di cento giorni (Hanshiro).
Il pellegrinaggio procedeva lentamente (un miglio
al giorno: Guzman), a cagione dei luoghi impervii,
YAMABUSHI 185
sotto la guida di alecuni ‘maestri’ e col concorso di
certi eremiti (Zenki, Goki) permanentemente dimo-
ranti nelle montagne attraversate. Mangiando poco,
dormendo poco, estenuati dalle privazioni e dalle
fatiche, i pellegrini andavano facilmente soggetti a
delle allucinazioni (apparizioni di demoni, audizioni
di voci, ecc.). Lo scopo principale sembra fosse
quello di ottenere tuna specie di ordinazione o in-
vestitura delle funzioni di taumaturgo, mago, ecc.
attraverso una esperienza ipnotica, concepita come
una possessione da parte del ‘demonio’, quasi una
‘discesa’ della divinita nell’individuo (Sumario, Vi-
lela, Frois). Cid era possibile soltanto se l’indivi-
duo si trovava in particolari condizioni di purita;
e a produrle concorreva, dopo le astinenze della fase
preparatoria, il pellegrinaggio stesso con le sue pri-
vazioni e fatiche, e finalmente una confessione ge-
nerale dei peccati?® che aveva luogo verso la fine
del viaggio, a conclusione, dicono le fonti, di un
lungo periodo - 60 0 70 © 75 giorni - di penitenza.
Dopo uno sosta di un giorno e una notte, destinata
al raccoglimento e all’esame di coscienza (Guzman),
si riunivano tutti i pellegrini in una localita davanti
ad una specie di santuario, ed ivi ciascuno confes-
sava sus peccados de toda su vida & alta voz delante
de todos, dopo di che, terminate le confessioni, cia-
scuno giurava di non dire mai nulla di quanto aveva
udito®*®. Secondo il Guzman si confessavano soltanto
i peccati commessi nell’annata*?. La contradizione
si pud risolvere plausibilmente congetturando che la
confessione generale fosse fatta da quei Yamabushi
che partecipavano per la prima volta ad un pelle-
grinaggio per ricevere |’ ordinazione, mentre quelli
186 CAPITOLO III
che partecipavano a pitt pellegrinaggi consecutivi®”
si saranno naturalmente limitati a confessare i pec-
cati commessi a partire dal pellegrinaggio - e dalla
confessione - dell’anno prima.
Stando all’Acosta, questa confessione si faceva
in un luogo speciale, designato precisamente come
sangenotocoro, «que quiere dezir lugar de confes-
sion®® ». Infatti tokoro é la parola giapponese che
vuol dire ‘luogo’, ‘localita’; no é particella con va-
lore di genitivo; sangue é termine passato nel giap-
ponese dal cinese, e significante ‘confessione, pen-
timento, penitenza’, essendo composto del cinese,
ge, ke ‘pentirsi’ e di san, riduzione cinese del san-
scrito ksama (ksamayati ‘chiedere perdono’)**.
In base alle informazioni di un Yamabushi con-
vertito al Cristianesimo, la confessione dei ‘soldati
della montagna’ é descritta dal Guzman e dall’Aco-
sta nel modo seguente*®: Sopra una rupe era fis-
sata una lunga sbarra di ferro reggente all’estremita
tna enorme bilancia a due piatti, in uno dei quali
si faceva entrare il penitente; spinta in fuori la
sbarra per mezzo di un congegno a ruota, la bilan-
cia si trovava sospesa nel vuoto, e di 1a il pellegrino
per ordine dei Goki doveva fare la confessione dei
suoi peccati in modo che tutti li udissero, senza ta-
cerne alcuno, sotto la minaccia di essere rovesciato
gil e precipitato nell’abisso. Questa curiosa descri-
zione trova riscontro in una vignetta posta in fronte
ad un libretto intitolato Kokwa Jichiroku, cioé
‘Auto-notazione dei meriti e delle colpe’, composto
(su motivi pid antichi) da Renchi Daishi - prete bud-
dhista del Jédo-shu (‘scuola della terra pura’) vis-
suto nel sec, XVII -, e consistente in una specie
YAMABUSHI 187
di calendario per segnare giorno per giorno le azioni
buone e le cattive valutate in base ad una apposita
tariffa, in modo da poterne fare il bilancio mese per
mese, e quindi il bilancio totale dell’anno®®. In ar-
monia col carattere del libro é la vignetta che gli
fa, per cosi dire, da frontespizio, la quale consiste
in una bilancia a due piatti recanti nell’incavo i ca-
ratteri cinesi significanti ‘rispettivamente “bene’ (a
destra) e ‘male’ (a sinistra). I1 motivo della bilan-
cia per pesare le buone e le cattive azioni ricorre
nell’antico Egitto, in Babilonia, nel Zoroastrismo (in
epoca tarda, ma in base a motivi antichi, gathici) e
nel Brahmanesimo*’. Se lo troviamo in Giappone,
esso vi sara stato introdotto dalla Cina, verosimil-
mente per opera del Buddhismo.
Nel Buddhismo fu largamente praticata la confes-
sione (cap. VII), specialmente nella forma connessa
con la celebrazione quindicinale (in Cina anche setti-
manale p. 332) dell’uposatha. Nel Buddhismo cinese
e precisamente in quella sétta tien t’ai che, trapian-
tata poi nel Giappone (tendai), fu uno degli elementi
costitutivi del shugen-dd (p. 182), esistette anche
una confessione del prete buddhista, fatta dinnanzi
al Buddha, come risulta dal Si-do-in-dzu, un ma-
nualetto che contiene i ‘segni (in=midra) dei quat-
tro riti’ del Buddhismo esoterico secondo una sotto-
sétta del tendai: i segni erano fatti con le mani; uno
dei pit usuali**®, consistente nel giungere le mani
al petto intrecciando le estremita delle dita, oltre a
significare genericamente la concentrazione sopra
un’idea, aveva anche il senso specifico di confes-
sarsi®®,
Ma questi riscontri e connessioni esotiche non
188 CAPITOLO IIT
valgono a dar ragione di quello che é l’aspetto pit
caratteristico della confessione dei Yamabushi, cioé
la sua ricorrenza annuale in connessione con un
pellegrinaggio. Il pellegrinaggio é largamente pra-
ticato dai buddhisti; ma non ¢ una invenzione del
Buddhismo. Nell’India stessa, dove anche il Giaini-
nismo e l’Induismo lo praticano, esso risale, a quanto
sembra, a delle forme religiose elementari (viaggi ai
fiumi sacri a scopo di purificazione, guarigione, e
simili)*°. In Cina il pellegrinaggio era gid in uso
nel Taoismo, e il Buddhismo non fece che appro-
priarsi, fra l’altro, certi luoghi sacri, ch’erano gia
méta di pellegrinaggi taoisti*’. Lo stesso avvenne
- secondo ogni verosimiglianza - in Giappone, dove
il Buddhismo, nonostante la sua pretesa di aver esso
per primo ‘aperto’ e consacrato le vette e i passi
montani*”, in realta trovo il pellegrinaggio gid in
uso nel Shintoismo, in quella forma tipicamente giap-
ponese ch’é appunto il pellegrinaggio alpestre, e lo
adottd, dando luogo a delle forme ibride di pelle-
grinaggio shintd-buddhistico secondo lo spirito del
ryobu-shinto, cui soltanto in seguito alla recente re-
staurazione del shintd puro succedette una pitt netta
separazione di pellegrinaggi shintoisti e buddhisti,
gli uni e gli altri del resto promossi e organizzati in
tutto il Giappone da una quantita di societa o cir-
coli pit sportivi che religiosi*®. Segno del carattere
arcaico, pre-buddhistico e originariamente indigeno
del pellegrinaggio giapponese é il fatto che esso
aveva talvolta, a quanto pare, una funzione inizia-
tica, in quanto valeva ad introdurre i giovani nei
misteri della religione riservati agli adulti (Ane-
saki)**: nel qual caso non é forse fuor di luogo pen-
YAMABUSHI 189
sare che le astinenze e i digiuni e gli stessi prodigi
di agilitA acrobatica richiesti per queste ascensioni
difficilissime avessero originariamente il valore di
prove, corrispondenti a quelle che sogliono accom-
pagnare i riti di iniziazione dei giovani presso varie
popolazioni primitive*®. Analogamente le pratiche
ipnotiche del kami-oroshi o kami-utsushi, posses-
sione divina (propriam. ‘far discendere la divinita’),
ancor oggi connesse col pellegrinaggio *°, trovano
il loro riscontro pitt prossimo nelle pratiche shama-
nistiche delle popolazioni dell’Asia settentrionale, e
di altre pitt o meno incolte.
Anche il nyoho, o pellegrinaggio annuale dei Ya-
mabushi, sara dunque da considerare verosimilmente
come di origine pre-buddhistica, come uno di que-
gli elementi shintoisti (tabu, ordalie, ecc.) che ab-
bondano, come dicemmo (p. 184), nel shugen-dd. In
quella specie di ordinazione o promozione dei Ya-
mabushi in cui il nydho - a quanto pare - culminava
sembra continuarsi 1’ eventuale primitiva funzione
iniziatica del pellegrinaggio giapponese, come anche
le apparizioni visionarie del ‘Diavolo’ - per usare
l’espressione dei Missionari -, cioé del Buddha, sem-
brano ripetere, in forma buddhistica, le possessioni
divine del kami-oroshi; e chi sa se la prova della
bilancia non sia pur essa il succedaneo di qualche
antica pratica ordalica (kugadachi, ordalia dell’ac-
qua bollente*’; hiwatari, ordalia del braciere ar-
dente*®).
Che tra gli elementi pre-buddhistici (shintoistici)
che concorsero a formare il shugen-dod ci sia stato an-
che una specie di confessione non é teoricamente
impossibile, dal momento che una specie di confes-
190 CAPITOLO IIT
sione esist¢ pure nel shintoistico oho-harahi. Ma nel
caso specifico di una formazione cosi tipicamente
sincretistica quale ¢ il shugen-dd, nell’ assenza di
ogni dato positivo in seno al Shintoismo, la presenza
della confessione sard da considerare piuttosto in
funzione di quell’altro elemento costitutivo che é il
Buddhismo. Infatti, a quel modo che, p. es., il costu-
me esteriore dei Yamabushi si arricchi di un ele-
mento schiettamente buddhistico, qual’é il rosario*®,
analogamente sul loro pellegrinaggio, gid ricco di
motivi ascetici e penitenziali, poté innestarsi ex novo
la pratica buddhistica della confessione dei peccati,
salvo a modificarsi secondo le esigenze della sua
nuova funzione. Soltanto, anzi che la confessione
quindicinale dell’uposatha, o la confessione del prete
officiante secondo il t’ien t’ai, entrerd qui in consi-
derazione piuttosto quella confessione che si fa-
ceva, specialmente nel Buddhismo cinese, dai novizi
nella circostanza solenne della loro ordinazione
(p. 335)°°, cid che sarebbe anche in armonia con
Veventuale carattere iniziatico dell’originario pelle-
grinaggio giapponese.
La presenza di una confessione di origine verosi-
milmente buddhistica nel rydbu-shintd dei Yamabu-
shi ci aiuta a comprendere, per riflesso, la presenza
di una confessione individuale nel shintd dell’ oho-
harahi (p. 181). Infatti, non tutto il shintd passd
- come rydbu-shintd (p. 182) - sotto il segno del Bud-
dhismo. Seguitd, anche nei secoli dell’eta di mezzo,
a sussistere, specialmente in certe regioni e nel rag-
gio d’influenza di alcuni veneratissimi santuari (Ise,
Idzumo), un Shintoismo indipendente. Vero é@ che
anch’esso subi le influenze del Buddhismo; ma, pur
YAMABUSIII ° 191
subendole, conservd tuttavia la propria fisonomia
originale. I,’ antica cerimonia dell’ oho-harahi non
sfuggi alla sorte comune’. Luso, che vi si intro-
dusse, di ripetere pit volte la recitazione del norilo
(oho-harahe-no-kotoba) rivela Vinfluenza del costu-
me buddhistico di ripetere all’infinito, magari con
mezzi meccanici (si pensi alle ruote di preghiera,
introdotte anch’esse dalla Cina)°’, certe formule sa-
crosante e miracolose. Alcune di queste formule
buddhistiche, p. es. la invocazione per la purezza
del cuore e quella per la purezza dei sei sensi,
furono inserite nel rituale dell’ oho-harahi**. Nello
stesso santuario di Ise, che @€ come la Mecca del
Shintoismo, ci fu 1’ uso di vendere delle scatole
coperte d’ iscrizioni mezzo shintoiste e mezzo bud-
dhiste, contenenti - insieme con alcuni frammenti
di paraphernalia adoperati nell’oho-harahi - dei certi-
ficati attestanti che l’oho-harahe-no-kotoba era stato
recitato 1000 e 10000 volte a pro’ dell’acquirente®’.
Cosi stando le cose, non sembra fuor di luogo do-
mandarsi, per analogia, se le influenze buddhistiche
abbiano avuto parte anche nella introduzione di quel-
la specie di confessione individuale di cui, per quanto
vedemmo, si ha traccia nello stesso oho-harahi. La
situazione non é precisamente la stessa come nel
caso dei Yamabushi: i Yamabushi rappresentano
piuttosto un Buddhismo shintoizzato, mentre nel-
Voho-harahi si tratta piuttosto di Shintoismo buddhi-
stizzato. Ma i due casi tuttavia si corrispondono e si
illuminano a vicenda. Infatti anche nell’ oho-harahi
Vintroduzione della confessione poté essere agevo-
lata e in certo qual modo predisposta dal carattere
“penitenziale’, 0, pit propriamente, eliminatorio,
192 CAPITOLO III
della cerimonia shintoistica. fd anche nell’ oho-harahi
la confessione buddhistica introdotta si adattd e, per
cosi dire, si conformd al nuovo organismo che la
incorporava. Sopratutto ¢ da notare che la confes-
sione personale dei peccati é rappresentativa di una
religiosita di tipo individuale che appare estranea
al Shintoismo genuino’*, mentre é propria del Bud-
dhismo, essendo connaturata al suo spirito soterio-
logico.
Assai pitt ipotetica appare una dipendenza della
confessione giapponese extra-shintoistica dalla con-
fessione dei peccati manichea o cristiana (nestoria-
na). E ad ogni modo una qualsiasi influenza di que-
sto genere non pote esercitarsi - dalla Cina, ove Ma-
nicheismo e Nestorianesimo furono trapiantati - nel
Giappone direttamente, ma solo, se mai, pel tramite
del Buddhismo, e pitt precisamente attraverso il sin-
cretismo caratteristico delle scuole cinesi tien t’ai
e mi-tsung, trapiantate in Giappone - nel IX sec. -
come tendai e shingon®"*.
Il Cristianesimo s’introdusse nel Giappone (1540)
- in seguito all’arrivo dei Portoghesi (1542) - come
una varieta superiore del Buddhismo, o per lo meno
come tale lo intesero i Giapponesi, i quali lo accol-
sero da principio con favore e con entusiasmo’’. I
Gesuiti che accompagnarono e seguirono Francesco
Xaverio ricordano nei loro rapporti lo zelo, la pieta
e la devozione edificante onde i convertiti si acco-
stavano al sacramento della penitenza e facevano la
confessione. Nelle lettere dei PP. Da Sylva, Vilela,
Gago, Monti, Almeida, Frois®® occorrono ripetuta-
vi
YAMABUSHT 193
mente gli aceenni al gran numero dei confessati ¢
alla frequenza delle confessioni, T/'affluenza era tanta
che la chiesa era affollata « dalla mattina alla sera»,
e al confessore non bastavano «otto o nove ore al
giorno» per esaurire il suo compito’’, Quando erano
costretti a stare molto tempo senza confessarsi (fino
a304 anni, per mancanza di confessori), i conver.
titi tenevano una specie di diario, in cui segnavano
i loro peceati; a questa confessione per iscritto si ri-
correva specialmente quando il confessore non cono-
sceeva abbastanza la lingua, nel qual caso egli si va-
leva anche di un interprete’” (efr, Messico: p, 156
n, 122). Il Frois giunge persino a dire che «i Cristia-
ni del Giappone hanno per natura una certa inelina-
zione per la penitenza®’», Tf lecito domandarsi se
questa ‘natura’ non fosse pitttosto una disposizione
acquisita per una secolare consuctudine con una pra-
tica confessionale pre-cristiana, Proprio il primo Giap-
ponese convertito al Cristianesimo, Hanshiro (p, 184),
a proposito dei Yamabushi ebbe modo di avvertire la
somiglianza fra le pratiche aseetiche del loro nydho,
terminanti con una confessione dei peccati, ¢ gli eser-
cizi spirituali ch’egli stesso ebbe a fare sotto la dire-
zione del P, ‘Torres®’, I} ad un altro Giapponese che
prima di diventare cristiano aveva appartenuto alla
sétta dei Yamabushi veniva fatto di confrontare la
confessione entro la bilancia con la confessione cat-
tolica®’, Il favore che trovd la confessione cattolica
presso le popolazioni del Messico e del Pert (p. 10a,
144) ci fece pensare se esso non fosse in parte dovuto
alla preesistenza di una confessione pre-cristiana, Se
qualche cosa di analogo si pud ammettere pel Giap-
pone, si penserd, in questo caso, alla confessione
nm. verrazzoni, La Confessione det peceati, |, 1
194 CAPITOLO IIT
buddhistica nelle sue forme pitt usuali (Cap. VII).
A questo proposito pud avere una speciale impor-
tanza il fatto che i cristiani giapponesi usavano con-
fessarsi - possibilmente - ogni 15 od ogni 8 giorni®™:
nel Buddhismo (cinese) la confessione si praticava
appunto, in occasione dell’ uposatha, ogni 15 od
ogni 8 giorni (p. 332).
3. IL TENRI-KYO.
Il Tenri-ky6 é la pit importante di quelle forma-
zioni di tipo settario che sono sorte in tempi recenti
(parte in epoca Meiji, parte gia in epoca Tokugawa)
in seno al Shintoismo come movimenti religiosi di
carattere popolare, indipendenti di fatto e, a partire
dal 1882, anche ufficialmente separate - come Shuha
Shinto - dal Shinto ufficiale, pur essendo, per la
maggior parte, ufficialmente riconosciute (sei sétte
nel 1882, tredici attualmente)°*. Sorto nel 1839 dalla
predicazione di un’umile contadina, Nakayama Miki
(1798-1887), nativa di un villaggio nel territorio di
Nara (provincia di Yamato), il T’enri-kyd, come in
genere le altre sétte del Shiha-Shinto, é una forma-
zione largamente sincretistica sulla base del tradi-
zionale Shintoismo buddhistizzato (il tipo stesso set-
tario, estranee al Shintoismo genuino, sara derivato
dal Buddhismo), con ulteriore incorporazione di ele-
menti confuciani e cristiani. Shintoistiche - rispetti-
vamente shintd-buddhistiche - sono le dieci divinita
(ten-rin 0 Mikoto) che O Miki pose a capo della sua
religione, di cui le principali sono Kuni no toko-
tachi e Omotaru, nonché Izanagi e Izanami, sinte-
TENRI-KYO 195
tizzate, per riflesso del dualismo confuciano (il prin-
cipio maschile e il principio femminile), in una sola
coppia divina. L’influenza cristiana é rappresentata,
come in parecchie altre sétte del Shaha Shinto (il
‘dio del cielo’ Ten-jin), da una concezione monotei-
stica della divinita, che, ancora estranea - o soltanto
latente - nel pensiero di O Miki, si venne accentuan-
do presso i suoi seguaci e continuatori, dando luogo
perfino a una specie di scisma fra il Ten-rin kyo-
kwai ‘Chiesa della dottrina dei volgimenti (rin) ce-
lesti (ten)’, cioé delle dieci divinita originarie, - pit
conservatrice, pit vicina al pensiero di O Miki (seb-
bene per O Miki ten-rin non avesse il significato di
‘cielo’) - e il Ten-ri kyd-kwai, ‘Chiesa della dot-
trina della ragion (ri) celeste’, pit decisamente mo-
noteistica.
Pitt oscura é l’origine, nel Tenri-ky6, della con-
cezione di Dio come padre affettuoso e misericor-
dioso per gli uomini, che secondo alcuni deriverebbe
dalla predicazione dei Gesuiti nel sec. XVI e XVII
(Greene), mentre secondo altri potrebbe risalire, at-
traverso il Buddhismo amidista, al Nestorianismo
cinese (Haas). Dalla misericordia divina l’uomo pud
sperare la liberazione da ogni male. Tutto il male
scompare quando la divinita prende possesso dell’ uo-
mo. Questa fede conferisce al Tenri-ky6d un carattere
altamente ottimistico. Soltanto, per che la preghiera
sia esaudita, dev’esser fatta con cuore puro. Non si
richiedono mortificazioni e penitenze. Ma chi aspetta
il soccorso divino deve esaminarsi per vedere se si
sia reso colpevole di qualche trascorso, nel qual
caso deve farne umile confessione dinnanzi
alla comunita senza nulla nascondere™. Co-
196 CAPTTOLO ITT
munque si pensi della presenza di clementi cristiani
nel ‘Tenri-ky6, questa pratica confessionale sard da
riportare piuttosto agli clementi buddhistici che con-
corsero alla sua formazione, Infatti la confessione
dinnanzi alla comunitd © propria del Buddhisme,
A questo proposito & anche da tener presente che
© Miki nacque da una famiglia che da pit genera.
zioni aderiva al Jodo-shii, cioe al Buddhismo secondo
la formula amidista,
tas wire ese Aer ey WAL Abas Nee ea B
NOTE
1 P, es. Voho-harahi ordinato dallimperatvice JingO KOg6 in
seguito alla morte dellimperatore Chilai-Tennd nel aoo d. Cr, :
Nihongi, lib. IX p. a77 Vlorenz (Die historischen Quellen der
Shinto-Religion, «Quellen der Religionagesehichte », vol, ¥,
Gottingen 1919).
2 In rapporto con I’ esistenza di un ‘anno’ di sel mesi
presso i Giapponesi (in base alla quale sarebbe da correggere
tutta la indubbiamente artificiale cronologia giapponese pri-
mitiva: W, Bramsen, Japanese Chronology, Transactions Awiat.
Soc, Jap, Suppl. of Vol, 39, 1910, 28 age.)?
5 T dettagli ai possono vedere nella descrizione particola-
reggiata del Vlorenz, Transactions of the Asiatic Society of Ja-
pan a7, 1899, 1 sgg., st cui principalmente @ fondata la min
esponizione, - Cfr. W. G, Aston, Shinto, the Way of the Gods,
London 1905, 204 sg} EL. Weipert, Das Shinto-Gebel der grossen
Reinigung, Mitteilungen der Deutschen Gesellach, f, Natur
tnd Vélkerkunde Ostasiens, 6 (1897), 3605 see.
4 In un editto imperiale del a8 settembre 676 che ordina
la celebrazione dell’oho-harahi sono menzionath come harahe-
{su-mono, oltre a pezzi di tela: ecavalli, #pade, pelli di cervo,
zappe, falci, frecce, riso in spiga, canapa;: Nihongi, lib, ao Mo.
renz, op, cll,, p.' a8o,
5 Ta traduzione ¢ del Mlorenz, Anclent Japanese Rituals ;
Transactions of the Asiatic Soc, of Japan, a7, 1809, §9 aeE.
6 Questo e il peccato seguente sono, da altri, intesl come
uno solo, e cloé come ‘il peceato di coabitazione con una mu
dre ¢ una sua figlia ad un tempo’: G. Kato, 1, Hoshino,
Kogoshal', Tokyd 1926, p. 72.
198 CAPITOLO III
7 Kojiki p. 26, Nihongi p. 139, Florenz, Quellen.
8 Kojiki I. 15 p. 37,Nihongi I. 5 p. 154, 158, 161, Florenz,
Quellen.
9 Kojiki I. 17 p. 41, Florenz, Quellen; Nihongi I. 6 p. 156,
160, Florenz, Quellen.
10 Cfr. Florenz, Transactions 27. 1899, 49 sgg.
11 Un puro artificio retorico per spezzare in due una enu-
merazione troppo lunga (Aston, Shinto, 300)? - Un riflesso dei
due elementi etnici (asiatico e insulare) che concorsero alla
formazione del popolo giapponese (EK. Satow, The Mythology
and religious worship of the Ancient Japanese, Westminster
Review 1898, 27 sg.)? - Cfr. Florenz, Transactions 27, 1899,
74 SZEg.
12 La corrispondenza é ancora pitt esatta, anzi addirittura
letterale, fra il norito e il Kogoshii, una preziosa appendice
al Nihongi (ma che si rifa anch’essa, succintamente, dalle ori-
gini), scritta nell’808: Florenz, Die histor. Quellen der Shinto-
Religion, p. 418. - Cfr. Kogoshiti, Gleanings from ancient sto-
ries, transl. by Genchi Kato, H. Hoshino, 34 ed., Toky6 1926,
p. 18.
13 Che si tratti effettivamente di albinismo (altri intendono
altrimenti), sembra confermato da wun passo del Nihongi,
lib. 22, Florenz, p. 326 (e n. 24), dove é attestata la ripu-
gnanza che suscita la vista di un albino.
14 M. Revon, Les anciens riluels du shinto considérés com-
me formules magiques, Transactions of the III Congress of
the History of Religions (Oxford 1908); cfr. T’oung Pao 1908,
214 sgg.; Aston, Are the norito magical Formulae? ‘T’oung
Pao 1909, 559 Sg.
15 I] Florenz, Transactions, 27, 1899, 25 sg. cita il Sumiyoshi-
jinja, in una piccola isola vicino a Tokyo.
16 Florenz, in™Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der
Religionsgeschichte, 4%-ed., I. 330, n. I.
17 Tlorenz, Transactions, 27, 1899, p. 77; cfr. p. 2.
18 soldados de la sierra (Guzman), milites convallium (Vi-
lela): G. Schurhammer, Die Yamabushis, Zeitschrift fiir Mis-
sionswissenschaft, 12, 1922, 206 sgg.
19 Si-do-in-dzou, Gestes de Vofficiant dans les cérémonies
mystiques des sectes Tendai et Singon. Annales du Musée Gui-
met, Bibliothéque d’Ktudes, VIII, Paris 1899.
”
NOTE - 199
20 K. Florenz, in Chantepie de la Saussaye, Lehrbuch der
Religionsgeschichte, 4* ed., Tiibingen 1925, I, 42r.
21 H. Haas, Geschichte des Christentwms in Japan, I, Toky6
1902, 278 sgg.; cfr. Schurhammer, Zeitschrift f. Missionswiss.
1O22,.225,, Ne te
22 Tl titolo ¢: Sumario dos erros en que os gentios do Ja-
pao biuem et de algwmas sectas gentilicas en que principal-
mente confiam: Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele in Ro-
ma, Mss. gesuit. 1482=3611; cfr. G. Schurhammer, Shin-to, der
Weg der Gétter in Japan, Bonn-Leipzig, 1923, 165 sgg.
23 Schurhammer, I. cit.
24 Hakluyt Society, voll. 60, 61. Il passo che interessa la
confessione é riportato nel testo spagnuolo in Studi e Mate-
tiali di Storia delle Religioni, 3, 1927, 118 sg.
25 P, es. nel ‘Sommario’ e in una lettera del Frois. Anche
nella ‘Storia del Giappone’ del Kampfer (scritta fra il 1690 e
il 1692): Schurhammer, Ztschr. f. Missionsw., 1922, 206 sgg.
26 Lettera del P. Giram (1604): Schurhammer, Ztschr. f.
Missionsw., 1922, 208 n. 2; Shin-t6 (1923), 43.
27 Secondo Guzman, Historia de las Missiones, etc. I, lib. r
cap. 7, p- 401, dos vezes cada ano.
28 Le descrizioni pit particolareggiate (Guzman, Acosta) si
riferiscono specialmente all’ascensione dell’Omine (cfr. Sum-
mers, Notes on Osaka, Transact., 7, 1879, 375 sgg.), la quale
cominciava dalla localiti di Yoshino (Ozino), ad otto miglia
da Nara, ch’era il punto di convegno di tutti i pellegrini. Cfr.
Haas, Gesch. des Christ. in Japan, I, 293 n. 49.
29 In una lettera del P. Frois (da Meaco [Miyako], 20 feb-
braio 1565) é distinto il pellegrinaggio dei Yamabushi ad un
monte dove ha luogo l’ammissione dei novizi nell’ordine da
una confessione fatta al diavolo sopra un monte nella regione
di Bandu (Kwanto): De Rebus Japonicis, Neapoli 1573, lib. V.
p. 207; cfr. Schurhammer, Ztschr. f. Missionsw. 1922, 209,
n. 3, 228.
30 Cosi secondo il ms. della Biblioteca Vittorio Emanuele
di Roma, Mss. Gesuit. 1482=3611 (Neste caderno se contiene
la informacion de la isla de Iapan segun nos hemos informado
del mismo Iapan que estuvo en este Collegio della S.ta Fe el
qual se hizo christiano, ecc.).
31 Guzman, Historia de las Missiones, I. 5, 8, p. 404 (Studi
200 CAPITOLO III
e Materiali, 3, 19027, p. 120); cfr. 403: «este dia y medio que.
detienen los peregrinos en aquel campo, es para que se acuer-
den, y hagan memoria de los peccados de aquel ano.
32 Quel Yamabushi convertito alle cui informazioni attin-
sero il Guzman e l’Acosta aveva preso parte al pellegrinaggio
siete vezes e altrettante volte si era confessato (Studi e Ma-
teriali, 3, 1927, I15).
33 Acosta, Historia Natural y Moral, lib. V, cap. 25, p. 368
(Hakluyt Society, vol. 61, p. 356).
34 Queste spiegazioni mi sono state gentilmente fornite dal
prof. K. Florenz; cfr. Annales du Musée Guimet, Bibl. d’ Et.,
VIII (1899), p. XV, e p. 12 n. 4.
35 I passi relativi sono riportati in Studi e Materiali di
Storia delle Religioni, 3, 1927, 114 sgg.
36S. H. Wainwright, The Kokwa Jichiroku, or a Buddhist
Parallel to Poor Richard’s Almanach, Transactions of the Asia-
tic Soc. of Japan, 42, 1914, p. 739.
37 Satapatha-Brahmana, Xi. 2, 7, 33. Cfr. A. V. W. Jackson,
Weighing the soul in the balance after death, Actes du Xe® Con-
grés des Orientalistes (Genéve 1894), Leide 1897, II. 1, p. 67
sgg.; cfr. Sylv. Lévi, La doctrine du sacrifice dans les Brah-
manas, 100. I1 motivo compare anche nell’Islamismo: Tor An-
drae, Der Ursprung des Islams und das Christentum, Uppsala
1926, 69.
38 Si-do-in-dzou, Gestes de l’officiant dans les cérémonies
mystiques des sectes Tendai et Singon, Annales du Musée Gui-
met, Bibliothéque d’Etudes, VIII, Paris 1899, segno 8 a p. 12
to Butsu zen sange ke, cin. tao Fo ts’ien ch’an hoei kie; cfr.
il segno 23, a p. 20.
39 Che la confessione del prete buddhista nel t’ien lai di-
penda da influenze extra-buddhistiche (manichee ? cristiane ?) é
ipotesi che sfugge ad ogni possibilita di controllo: Cristiane-
simo e Manicheismo poterono esser conosciuti dai fondatori
del Tendai e del Shingon, Dengyd e Kobé, che furono in Cina
nei primi anni del sec. IX; ma il carattere largamente sincre-
tistico che il shingon e il tendai hanno in comune col Mani-
cheismo non basta, credo, per affermare che « K6b6 fu, con-
sapevolmente o no, tn vero discepolo di Mani» (A. Lloyd,
Formative Elements of Japanese Buddhism, I: Manichacism
and Kobo, Transact. of. the As. Soc. of Jap., 35, 1908, 193 sgg.).
NOTE z 201
40 W. Crooke in « Encyclopaedia of Religion and Ethics »,
X. 24 sg.
41 A. Geden, ibid., X. 17.
42 Le ascensioni di monti altissimi per dedicarne le vette
a Shaka (=Budda) erano uno degli esercizi favoriti dall’anaco-
teta Enno Shékaku, un precursore dei Yamabushi (impropria-
mente considerato come il loro fondatore: egli era nato nel
634): H. Haas, Annalen des japanischen Buddhismus, Mittei-
lungen der Deutsch. Ges. f. Natur- und Vélkerkunde Ostasiens,
11. 3, ((Ldky6 1908), 319.
43 P. Lowell, Esoteric Shinto, 11: Pilgrimage and the Pil-
grim Clubs, Transactions of the Asiatic Soc. of Japan, 21, 1893,
241 segg.
44 « Enciclop. of Relig. a. Ethics», X. 27.
45 H. Webster, Societi segrete primitive (Bologna 1922),
47 Seg.
46 Lowell, Transactions 21, 1893, 112 sg.
47 Esempi di kugadachi (kukatachi) nel Kojiki e Nihongi:
’ Florenz, Quellen, p. 118, 286, 293, 303.
48 Cfr. l’ordalia del fuoco cui ricorre Sakuya-bime per di-
mostrare la sua fedelta a Ninigi: Kojiki p. 75, Nihongi p. 18s,
Florenz.
49 Schurhammer, Ztschr. f. Missionsw., 1922, 216.
50 I. P. Minayeff, Recherches sur le Bouddhisme (Annales du
Musée Guimet, Bibliothéque d’Etudes, IV), Paris 1894, 303 sgg. ;
cfr. De Groot, Die Religion der Chinesen, in « Kultur der Ge-
genwart» Die Religionen des Orients?, (1923), 184.
50a Sintomatica @ la coincidenza seguente: al tempo del-
l’imperatore Temmu, e precisamente nell’anno 686, il 27 luglio
si celebré nel palazzo imperiale una cerimonia buddhistica di
penitenza e confessione dei peccati, e il giorno successivo fu
decretata la celebrazione dell’oho-harahi: Nihongi, lib. 29, Flo-
renz, Quellen, p. 393.
51 K. Steiner, Das Gebetsrad im japanischen Buddhismus,
Mitteilungen der Deutschen Gesell. fiir Natur- und Vélkerk.
Ostasiens, 12, 1909-10, 35 sg.; cfr. Zeitschrift f. Missionskunde
u. Religionswss., 1910, 34 Sgg., 304 sgg.
52 Aston, Shinto, 304.
53 Aston, ibid.
54 Anche i riti del shintd esoterico studiati dal Lowell (Eso-
202 CAPITOLO III
teric Shinto, Trans. Asiat. Soc. of Jap., 21, 1893, 106 sgg.), il
kami-oroshi e le ordalie relative, sono praticati collettivamente
e ‘ciclicamente’, cioé per turno dai partecipanti.
5da V. sopra n. 39.
55 EF. Satow, Vicissitudes of the Church at Yamaguchi from
1550 to 1586. Transactions As. Soc. Jap., 7, 1879, 131 sgg. Cfr.
Haas, Gesch. des Christ. in Japan, II. 51 sgg.
56 De Rebus Japonicis, Neapoli 1573, pp. 105, 116, 130, 182,
199; De Rebus Japonicis, Indicis et Peruanis epistolae recen-
tiores, Antverpiae 1605, pp. 130, 187; cfr. P. Louis Frois, Die
Geschichte Japans (1549-1578), nach der Handschrift der Ajuda-
Bibliothek in Lissabon tibersetzt u. kommentiert von G. Schur-
hammer u. E. A. Voretzsch, Leipzig 1926, pp. 50, 56, 122, 133,
147, 167, 202, 214 sg., 310, 325. - Cfr. H. Haas, Geschichte des
Christentums in Japan, II. 1904, 348 sg-
57 Frois, Gesch. Japans, 310; De Reb, Jap. Antverp. 1605,
130, 187 (Osaka, Arima).
58 G. B. Monti, De Reb. Japon. Neapoli 1573, 187; Frois,
Gesch. Japans, 202, 215, 319, 427.
59 L. Frois, Geschichte Japans, 214.
60 Schurhammer, Ztschr. f. Missionswiss. 1922, 209.
61 Guzman, Historia de las Missiones, I. p. 403.
62 «Complures Japonii qui proprius absunt singulis sab-
batis confessione, celebrioribus vero diebus etiam commu-
nione sese confirmant »: B. Gago, lettera da Bungo x nov. 1559,
De Rebus Japonicis, Neapoli 1573, 130. - « cum..... octavo vel
quinto decimo quoque die sacramentum confessionis
obire essent soliti»: J. B. Monti, lettera da Bungo, 7 ott. 1564,
ibid., p. 182 (verso).
63 D. C. Greene, Tenri-ky6 or the Teaching of the Heavenly
Reason, Trans. Asiat. Soc. of Japan, 23, 1895, 24 sgg.; M. Ost-
wald, Tenri-ky6 .oder die Lehre der himmlischen Vernunft,
Zeitschr. f. Missionskunde u. Religionswiss. 1907, 106 sgg.;
L. Balet, Le Tenri-ky6, Religion de la Raison Céleste, Mélan-
ges Japonais, nn. 23, 24, 1909; H. Haas, Tenri-kyd: Ein neues
synkrelistisches Religionsgebilde im Japan wnserer Tage,
Ztschr. f, Missionsk. u. Religionswiss. 1910, 129 sgg.; Die Tanz-
psalmen der Tenrykyo-kwai, ibid. 162 sgg., 193 sgg.
64 Haas, Ztschr. f. Missionsk. u. Religionsw. 1910, 146.
a
IV.
Cina.
I. LA CONFESSIONE DEL SOVRANO.
«Con la scopa si possono spazzar via le cose fu-
neste». Queste parole, chiaramente allusive ad un
rito di espulsione magica che fa venire in mente le
pratiche del giapponese oho-harahi (p. 170) e del
messicano ochpaniztli (la ‘festa delle scope’: p. 78),
si leggono nel commento di Ching Khang-ch’ing
(II sec. d. Cr.) ad un passo del Li-ki’. Infatti il
male nelle sue varie forme fu concepito anche nel-
l’antica Cina come qualche cosa di sostanziale, che
dunque poteva essere eliminato con mezzi materiali
e meccanici (0, se esso era prodotto da spiriti mali-
gni’, mercé l’allontanamento degli spiriti stessi).
Applicata al male fisico, questa concezione diede
luogo a svariate operazioni terapeutiche di carat-
tere eliminatorio. Per esempio: una specie di me-
dium (ki tong) - cioé un individuo posseduto da
uno spirito - si flagellava il dorso sino a farne uscire
il sangue, e si perforava con un grosso ago la lin-
gua, oppure vi praticava una incisione facendola
sanguinare e sputando - o spalmando - il sangue che
ne usciva su dei fogli di carta che poi si ponevano
204 CAPITOLO IV
addosso al paziente, oppure s’incollavano al muro®.
L” operazione, eseguita su interposta persona, cioé
sul medium come sostituto del paziente, era desti-
nata ad eliminare dalla persona del paziente stesso
il male, o - rispettivamente - lo spirito che lo pro-
duceva. Gia presso i Bechuana, gli indigeni di Ma-
lacca, i Yuchi dell’America settentrionale, le popo-
lazioni antiche del Messico e dell’America Centrale
trovammo |’estrazione del sangue adibita alla elimi-
nazione del peccato dalla persona del peccatore. Spe-
cialmente l’estrazione del sangue dalla lingua quale
fu praticata dagli antichi Messicani e dalle genti
maya dell’America centrale trova nel costume cinese
qui sopra descritto* un riscontro formale singolaris-
simo di particolare importanza etnologica in rap-
porto alle eventuali connessioni delle antiche civilta
americane col mondo asiatico. - Un’altra operazione
eliminatoria del male (fisico) consisteva, in Cina, nel
somministrare all’infermo dell’acqua ‘incantata’, sia
che |’ incantesimo fosse operato direttamente, pro-
nunziando sull’acqua certe formule magiche (cheu-
shui), oppure indirettamente, tenendo immerso o
facendo bollire entro l’acqua un oggetto su cui erano
scritte le formule esorcizzatrici, o anche bruciando
un tale oggetto per poi mescolarne con l’acqua le
ceneri (fu-shui)®.
Secondo ta concezione primitiva il peccato (in ci-
nese tsui) é l’aspetto attivo di cid che é il male nel-
l’aspetto passivo; o, in altri termini, il male é la con-
seguenza fatale - e quindi anche il sintomo - di un
peccato commesso (p. 54). Peccato é, in genere, vio-
lazione di un ordine divino (p. 54). In Cina l’ordine
divino é principalmente la grande legge del tao, cioé
4
LA CONFESSIONE DEI, SOVRANO IN CINA 205
del corso perenne di tutto l’universo, regolato dal
Cielo. Alle vicende e disposizioni del Cielo anche le
cose umane debbono conformarsi: di una non con-
formita, di una disarmonia od opposizione sono san-
zione e segno le disgrazie pit rovinose. Questa non
conformita é essa stessa il peccato. In questo senso,
che é@ poi il senso larghissimo in cui va inteso il pec-
cato come violazione di un ordine divino in genere
(p. 55), non é estranea al Confucianesimo® la no-
zione di peccato, sebbene non vi dia luogo ad al-
cuna espiazione o perdono divino, ma solo all’emen-
damento da parte dell’uomo’. E vero che nel Con-
fucianesimo ]’elemento etico prevale, a quanto sem-
bra, di gran lunga sul religioso, con norme di mo-
rale familiare e civica che procedono piuttosto dalla
tradizione che dalla divinita, e con doveri che con-
cernono i rapporti fra uomo e uomo, non fra 1|’uo-
mo e Dio, - onde anche le mancanze ai proprii do-
veri sono piuttosto delle immoralita che dei pec-
cati®: ma peccati sono anch’ esse in quanto la tra-
dizione stessa tiene qui luogo di religione, anzi é
religione, essendo essa appunto la norma della con-
formita delle azioni umane alla legge divina uni-
versale.
C’é un uomo che pit di tutti, anzi in luogo di
tutti, € tenuto a conformare la sua condotta alla
legge cosmica e celeste, ed é il sovrano, 1’ ‘Uomo
unico’, il solo responsabile del benessere dello stato.
L’idea si trova’ gia, in germe, nelle societa primitive
(p. 131), dove il capo é il rappresentante del gruppo
nel senso pitt completo della parola, e dove la pro-
sperita del gruppo dipende dalla prosperita del capo,
x
e la vita del capo é quindi regolata da una quantita
206 CAPITOLO IV
di norme minuziose (tabw) intese a proteggerla e
difenderla da ogni pericolo®. Questa concezione ele-
mentare fu svolta in Cina in un vero e proprio si-
stema. Nello stato feudale ogni signore, nello stato
unificato ogni governatore, ma sopra tutti e sempre
il sovrano concentra nella sua persona la respon-
sabilita. L’imperatore é figlio del Cielo: la sua con-
dotta deve essere in tutto e per tutto conforme ai
‘voleri del Cielo; se no, il popolo sara oppresso da
sciagure. Quando il popolo soffre, quando il paese
é afflitto, € segno che il sovrano ha agito in modo
non conforme, cioé ha peccato. Il ‘male’, che egli
ha commesso o da cui é rimasto comechessia in-
vestito, ridonda a danno di tutti. Perché il male
cessi, egli deve espiare. Chi ha ‘peccato’ per tutti
- cioé ha fatto del male a tutti -, per tutti deve fare
penitenza. Nella letteratura cinese abbondano gli
esempi di imperatori che si offrono di prendere su
di sé i malanni onde soffre l’impero (carestie, sic-
cita, inondazioni, pestilenze), affinché i] popolo ne
sia liberato. In tale circostanza essi talvolta con-
fessano i loro peccati. Anche in Giappone,
nella celebrazione dell’oho-harahi, era in nome del
sovrano che il Nakatomi - originariamente - reci-
tava il norito della grande purificazione contenente
un elenco di peccati (p. 180).
«Quando una montagna crolla o un corso d’ac-
qua si secca,» - leggiamo nel Tso-chuan - «il prin-
cipe si priva di un pasto completo, si veste di abiti
semplici, monta sopra un carro senza ornamenti,
sopprime la musica, e va ad abitare fuori della sua
citta. Egli ordina all’invocatore di offrire dei pezzi
di seta agli Spiriti, e fa scrivere dal grande anna-
x
LA CONFESSIONE DEL, SOVRANO IN CINA 207
lista. la dichiarazione dei suoi peccati»’®.
La stessa misura, del ritiro e isolamento del sovrano,
si adotta anche quando egli si trova non in istato di
peccato (male commesso), ma, p. es., nello stato di
lutto (male subito: cfr. gli Hupa Californiani,
p. 23). Alla morte di un imperatore l’erede e suc-
cessore era tenuto ad osservare un lutto di tre anni.
Morto 1’ imperatore ‘’ang il vittorioso, fondatore
della'(seconda) dinastia Shang (poi altrimenti detta
Yin, 1766-1122 a. Cr.), il suo giovane (nipote e) suc-
cessore I’ai-kia dimord per tre anni in T’ung, rele-
gatovi - cosi dicono le fonti - dal ministro Yi Yin
«a cagione della sua cattiva condotta»’!: poiché,
secondo la tradizione, I’ung (T’ung-kung ‘palazzo
di ‘T’ung’) é@ il luogo dov’era sepolto ‘I’ang, la re-
legazione sara da porre in rapporto con la norma
che imponeva all’erede del trono un lutto di tre anni,
durante i quali egli non doveva governare (reggenza
di Yi Yin)'?. Ad ogni modo, al terzo anno, « essen-
dosi ‘T’ai-kia emendato», Yi Yin stesso lo va a
prendere, lo riconduce a Po e lo pone sul trono,
nella quale occasione T’ai-kia confessa i propri
peccati. « Per tre anni» - leggiamo in Se-ma T's’ien
(1. 188) - « T’ai-kia si penti dei suoi peccati, bia-
simod la propria condotta e si emendd». Nel Shu-
king @ riferita la ‘confessione’ fatta da ‘I’ai-kia da-
vanti a Yi-Yin in questi termini: «Io, bambino,
ero senza discernimento di cid che fosse virtt, e mi
rendevo indegno. Con i miei desideri io annullavo
tutte le norme (di condotta), e con 1’ indulgenza
verso me stesso violavo tutte le regole di conve-
nienza, andando incontro a rapida rovina della mia
persona. Alle calamita mandate dal Cielo si pud
208 CAPITOLO IV
sfuggire, ma per quelle che uno si procura da sé
stesso non c’é scampo. Io non ascoltai le istruzioni
vostre, o mio tutore e custode; il mio esordio fu ca-
ratterizzato da incompetenza. Possa io fare ancora
assegnamento sulle salutari correzioni della vostra
abeatls Wye
Dello stesso T’ang, il nonno di 'T’ai-kia, si nar-
rava che in occasione di una siccita egli era salito
sopra un carro senza ornamenti (cfr. Tso-chuan,
Ir. 50), tirato da cavalli bianchi (il bianco era il
colore del lutto), offrendosi personalmente come vit-
tima e facendo una preghiera nella foresta dei
mauri’*. Nel Lit shi Tsch’un-ts’iu, opera di Li Pu-
wei (III sec. a. Cr.)’®, l’ episodio @ narrato cosi
(cap. rx. 2): « Il Cielo produsse una grande siccita :
per cinque anni non ci furono raccolti. Allora T’ang
fece personalmente una preghiera nella foresta dei
mauri. Egli disse: ‘Se sono io il colpevole, io, 1’Uo-
mo unico, il castigo non colpisca la moltitudine. Se
é la moltitudine che é colpevole, (il castigo) sia per
me, 1’ Uomo unico. Non avvenga che per la mia
mancanza di intelligenza il Sovrano Celeste e le Di-
vinita colpiscano la vita del popolo.’ Allora egli si
taglid i capelli, si taglid le unghie delle mani e si
offerse personalmente come vittima». I] sovrano qui
si sacrifica, ma il suo ‘sacrificio’ é inerente al suo
carattere di imperatore, come nel caso di ‘T’ai-kia
il lutto é inerente al suo carattere di successore al
trono. In ambo i casi la persona del sovrano resta
investita di un male che non ha commesso, ma che,
comunque, dev’essere ‘espiato’. Che questa ‘espia-
zione’ implichi originariamente una eliminazione
(anche il lutto, cioé la segregazione temporanea, ha
LA CONFESSIONE DEL SOVRANO IN CINA 209
effetto eliminatorio) é specialmente evidente nel caso
di T’ang, in quanto egli si taglia i capelli e le
unghie.
Questa operazione, noi la trovammo gia nel Giap-
pone proiettata nel mondo dei miti (cid che é gia
segno della sua alta antichita), e precisamente ap-
plicata al dio Susanowo, cui i kami fanno (p. 176)
tagliare i capelli e la barba, nonché le unghie del-
le mani e dei piedi, per offrirle come ‘cose di pu-
rificazione’ (harahe-tsu-mono). Che questo rito sia
stato trapiantato direttamente dalla Cina nel Giap-
pone non é probabile: non furono gli elementi di
una religiosita primitiva, bensi quelli di una civilta
e di una religione superiore (la scrittura, l’organiz-
zazione statale, il Buddhismo) che il Giappone rice-
vette dalla Cina al tempo della grande penetrazione
culturale cinese. Per un elemento di carattere pri-
mitivo, com’é questo rito del tagliare i capelli e le
unghie, sara piuttosto da pensare, se mai, ad una
ereditai comune da un comune patrimonio origi-
nario. In Cina anche un generale che partiva per
la guerra, oltre a indossare un vestito di lutto, so-
leva tagliarsi le unghie delle mani e dei piedi’®.
L/operazione aveva dunque un carattere rituale: se
anche fu praticata come atto simbolico per signifi-
care, per mezzo dell’asportazione parziale, il sacri-
ficio e la offerta totale della persona’’, il suo valore
e senso originario fu quello di una pratica elimina-
toria, come si vede ancor meglio nel caso seguente.
Essendosi ammalato l’imperatore Wu-Wang, pri-
mo sovrano della dinastia Chou, il suo fratello ca-
detto e primo ministro Tan, generalmente noto col
nome di Chou-Kung, il ‘duca di Chou’ (+ 1105
R. PETTAzzon1, La Con/fesstone dei peccati, 1. 14
FAD THA ee At iee aeon Cane ee RA 6 ic
( 1a Ste
210 CAPITOLO IV
a. C.), si offerse per morire in sua vece (Shu-King,
Parte v, lib. 6)'*. L’idea che una malattia, una ca-
lamita ecc. poteva essere trasferita dalla persona col-
pita sopra un’altra, era assai diffusa in Cina, insie-
me con le pratiche cui essa dava luogo’®. Quando
la persona colpita era il sovrano, era naturale che
il trasferimento si operasse sul primo ministro, In-
fatti fra il primo ministro e i] sovrano esiste un vin-
colo di natura particolare. Il primo ministro é, pid
che il rappresentante, Valter ego del sovrano. La
rappresentanza in questo caso implica un rapporto
specialissimo fra rappresentante e rappresentato.
Questo rapporto, al pari di quello tra il sovrano e
la comunita ch’egli rappresenta, ¢ fondato sulla re-
ligione. Il ‘sacrificio’ del ministro a pro’ del suo
sovrano - altrettanto frequente come motivo lette-
rario quanto il ‘sacrificio’ del sovrano a pro’ del
suo popolo - ha, al pari di questo, origini religiose
e rituali?’. Il ‘duca di Chou’ é appunto una delle
figure che meglio incarnano il tipo ideale del mi-
nistro devoto sino all’abnegazione. Non soltanto egli
si offerse una volta per suo fratello Wu; ma, avendo
assunto, alla morte di Wu, la reggenza in nome del
giovanissimo figlio e successore di lui - e nipote
proprio - Ch’eng, una volta che Ch’eng cadde am-
malato si offerse di nuovo come vittima in sua vece.
Eeco come @raccontata la cosa da Se-ma ‘I's’ien:
« Quando il re Ch’eng era giovane, avvenne ch’egli
ammald. Il duca di Chou si taglid le unghie e
le gittO nel Fiume (il Fiume Giallo), e cid fa-
cendo rivolse agli déi questa preghiera: ‘Il re é@
giovane e non ha ancora discernimento; chi ha vio-
lato gli ordini degli déi, sono io’. Egli nascose il
/
LA CONFESSIONE DEI, SOVRANO IN CINA 2ir
testo scritto (di questa dichiarazione) negli archivi.
Il re Ch’eng, che era ammalato, guari. Poscia il
re Ch’eng esercitd il governo; ci furono alcuni che
calunniarono il duca di Chou, e questi si rifugio nel
(paese di) Ch’u. Il re Ch’eng aperse gli archivi; vide
il testo dell’invocazione del duca di Chou; allora
pianse e fece tornare il duca di Chou »??.
Anche qui, sotto il rivestimento moralizzante del
racconto, troviamo traccia di un antico rito. Il fatto
che le unghie sono gettate ‘nel Fiume’ conferma
che si tratta, in questo caso, di un rito di elimina-
zione. Anche al Giappone nella celebrazione del-
Voho-harahi gli harahe-tsu-mono - le ‘cose di puri-
ficazione’ - erano gettati in acqua o per acqua tra-
sportati al mare (p. 171); e gid abbiamo notato che
fra gli harahe-tsu-mono di Susanowo figurano le sue
unghie (delle mani e dei piedi), oltre la sua barba
e i suoi capelli. A questa operazione é connessa,
nell’episodio di Chou-kung quale é riferito da Se-ma
Ts’ien, una dichiarazione (scritta) di colpevolezza.
Quella concomitanza della confessione con una ope-
razione eliminatoria da noi tante volte constatata in
ambienti primitivi (nel Giappone il gettito degli
harahe-tsu-mono nell’ acqua tien dietro alla recita-
zione di un elenco fisso di peccati), ecco che ci ap-
pare, in certo qual modo, anche nella Cina antica,
non senza la presenza di altri elementi di carattere
altrettanto primitivo. Infatti: il ritiro o la segrega-
zione del sovrano, che ricorda i molteplici tabu del
lutto vigenti presso i ‘selvaggi’; l’asportazione delle
unghie, dei capelli e della barba, che trova riscon-
tro nella particolare sacralita attribuita a queste
parti del corpo da molte popolazioni incolte; il tra-
212 CAPITOLO IV
sferimento del ‘male’ da una persona sopra un suo
sostituto (p. 238, 241); il carattere religioso della per-
sona del sovrano come rappresentante della comu-
nitd (e del primo ministro come alter ego del so-
vrano): sono altrettanti elementi di sapore arcaico
che compongono lo sfondo su cui viene a delinearsi
la confessione cinese.
Kira essa effettivamente, come ci ¢ apparsa fin
qui, riservata al solo sovrano e ai personaggi uffi-
ciali? Anche 1’Inca si confessava - a modo suo
(p. 126) + nell’ antico Pert; ma si confessavano al-
tresi i suoi sudditi individualmente. In Cina la re-
ligione ufficiale, di cui il sovrano era il capo e il
sacerdote supremo, ebbe uno sviluppo preponderante
in rapporto con la formazione dello stato imperiale.
Ma non fu tutta la religione. In essa gli elementi
della pitt antica vita religiosa del popolo cinese fu-
rono conservati, per cosi dire, allo stato fossile; op-
pure, quando la religione ufficiale si iscrisse defini-
tivamente nei quadri del sistema di Confucio, fu-
rono trasfigurati secondo lo spirito confuciano. Ma
seguitarono invece, quegli elementi, a vivere la loro
propria vita in ambiente extra-ufficiale e popolare,
e dunque nel ‘Taoismo, ch’é appunto l’antica reli-
gione del tao perpetuata attraverso i secoli, fonda-
mento comune di ogni formazione religiosa cinese,
compreso il Confucianesimo, teorizzata anch’ essa
speculativamente - ma in senso tutto diverso dalla
filosofia confuciana - per opera di Lao-tse e dei suoi
continuatori (Lieh-tse, Chuang-tse), esclusa sempre
dal conseguimento di una posizione ufficiale (nono-
stante la politica di un Shi Huang-ti, III sec. a. Cr.,
e la inclinazione personale di un Wu-ti, II sec.
TAOISMO ; 213
a. Cr.), ma sempre, anche, sfuggita all’ impoveri-
mento religioso, sebbene poi degenerata nelle forme
volgari della superstizione e della magia. Ed é ap-
punto nel Taoismo che compaiono, come ora vedre-
mo, le tracce pitt cospicue della confessione cinese
dei peccati, non gid irrigidita in un atto di devo-
zione riservato al sovrano, bensi individualmente
praticata da numerosi privati, e in una forma che
almeno in un tratto caratteristico - la confessione
scritta - coincide con la confessione del sovrano
(cfr. Tso-chuan, 11. p. 50), cid che pud esser segno
di un’origine unica ed antica.
2. LA CONFESSIONE E LE ORIGINI
DELLA CHIESA TAOISTA.
La chiesa taoista (tao-kia) venera come suo fon-
datore o ‘Gran Patriarca’ (t’ai tsung) il grande
Chang-Ling o Chang Tao-ling, del quale i succes-
sivi papi taoisti (t’ien shi ‘maestri celesti’? 0, come
anche si chiamano, chén-jen ‘uomini veri’) - ancor
oggi residenti in una localita (prima Lung-hu shan,
poi Shang-ts’ing) presso Kuei-k’i hsien nel Kiang-si -
non solo sono discendenti, ma sono anche conside-
rati come altrettante successive reincarnazioni. La
tradizione, prolungando la genealogia della nobile
famiglia Chang per otto generazioni prima di Chang
Ling, gli assegna un precursore nella persona di
Chang Liang, il quale, essendo ministro di un pic-
colo stato che ando travolto nel profondo sconvolgi-
mento della Cina feudale operato da Shi Huang-ti
(III sec. a. Cr.), dopo essere stato implicato nelle
214 CAPITOLO IV
lotte contro 1’ usurpatore e contro la effimera di-
nastia dei ‘T's’in, si sarebbe poi ritirato a vita soli-
taria in una regione del Kiang-su, ed ivi sarebbe
morto (189 a. Cr.), dopo essersi dato allo studio del
‘Taoismo ed aver avuto tna visione, in cui lo stesso
Lao-tse gli sarebbe apparso ad annunziargli la glo-
ria destinata ad uno dei suoi discendenti??.
Il preconizzato fu appunto Chang Ling, discen-
dente in ottava generazione da Chang Liang, nato,
secondo la tradizione, nel 34 d. Cr. Insoddisfatto
dello studio dei classici, Chang Ling si diede alle
pratiche della magia taoistica e alla ricerca dell’elisir
di lunga vita, consumando in tali ricerche tutte le
sue sostanze. Ritiratosi con alcuni discepoli sopra
una montagna del Se-chuan, ebbe una visione, nella
quale un messo celeste, il ‘segretario di sotto ai pi-
lastri’, gli rivelé il luogo dove si trovavano certi
scritti contenenti un insegnamento di Lao-tse. In
possesso di queste scritture, Chang Ling fu in grado
di guarire i malati. Storpi, ciechi, sordi accorrevano
a lui. Cosi egli si trové a capo di un gran numero
di seguaci. Dalla organizzazione ch’egli seppe dare
a questa prima comunita ebbe origine la chiesa taoi-
sta esistente ancor oggi. Egli riparti la moltitudine
in ‘fuochi’, assegnd dei capi, stabili dei tributi in
natura (riso, seta, carta, legna, utensili), impose e
distribui il lavoro manuale (costruzione e riparazione
di ponti e strade, migliorie per la coltivazione dei
campi). Ma il genio organizzatore di Chang Ling si
riveld sopratutto nel carattere religioso ch’egli seppe
dare alla sua istituzione, facendo appello a motivi
sentimentali e morali. «In conformita della dottrina
trasmessagli dal Cielo» - cosi secondo la biografia
tL
PAWS
TAOISMO 215
di Chang Ling che si legge nel Shen-sien ch’wen
del taoista Ko Hung (sec. IV d. Cr.) - « Ling amava
governare gli uomini facendo agire i loro sentimenti
di vergogna; perché a lui non piaceva di inflig-
gere punizioni. Percid egli fece un’ ordinanza nel
senso che gli infermi dovessero mettere per
iscritto tutti i loro peccati commessi dalla
nascita in poi e gettare queste confessioni
autografe nell’ acqua, giurando agli déi di non
peccare mai pit, pena la morte. Il risultato fu che
tutti risanavano: la confessione dei peccati che gli
infermi erano obbligati a fare li guariva, e nello
stesso tempo li moveva a tanta vergogna e rincre-
scimento che mancava loro il coraggio di peccare di
nuovo. Era il timore del Cielo e della Terra che li
convertiva, e da quel momento ogni peccatore di-
ventava virtuoso »7°.
L’opera di Chang Ling - la cui morte si pone nel
157 d. Cr. - fu continuata da suo figlio Chang Heng,
e da suo nipote Chang Lu, come pure da altri mem-
bri della sua famiglia, Chang Sin e Chang Kio?’:
tutti, qual pi qual meno, implicati nelle torbide
vicende politiche che prepararono e produssero la
fine (220 d. Cr.) della seconda dinastia Han (Han
orientali).
Chang Kio fu a capo (184 d. Cr.) del movimento
rivoluzionario dei cosidetti ‘Turbanti gialli’*5, una
sétta che si distingueva per la sua passione politica
spinta sino al fanatismo, ma che aveva anch’ essa
fondamento e carattere taoistico. Secondo la tradi-
zione conservata nel San-kwo-chi (‘Memorie dei tre
Regni’, fine del III sec. d. Cr.), anche Chang Kio
era venuto in possesso di un libro miracoloso che
ye:
216 CAPITOLO IV
insegnava la ‘instaurazione della pace universale’
(Vai-p’ing), ond’ egli si chiamd T’ai p’ing tao-jen
‘maestro taoista della pace universale’, e la sua
‘religione’ ‘religione della pace universale’. Chang
Kio disponeva di 500 discepoli che egli mandava
come missionari un po’ da per tutto. I suoi seguaci
diventarono cosi numerosi che egli li riparti in 36
quartieri aventi ciascuno da 6 a 10 mila uomini,
sotto gli ordini di un capo. Chang Kio riusci a far
cessare una epidemia. « Egli faceva venire personal-
mente gli infermi e faceva loro confessare i loro
peccati, e se si pentivano delle loro colpe, li fa-
ceva star bene e prosperare» (San-kwo-chi)*®. « Egli
istrui dei discepoli che guarivano i malati fa-
cendo loro confessare i loro peccati e ingi-
nocchiarsi e prosternarsi, e curandoli con acqua
incantata e formule magiche » (Annali dei Secondi
Han)’. «I maestri o dottori della religione della
pace universale portavano dei bastoni con 9 nodi,
facevano incantesimi e magie, e ordinavano ai ma-
lati di riflettere sui loro peccati toccando con
la fronte il suolo, e davano loro da bere dell’acqua
incantata; e, se miglioravano o guarivano, erano
considerati come credenti, mentre, se non guarivano,
erano ritenuti increduli »?°.
Chang Sin, anch’egli qualificato come ‘un prete
versato nella magia’ (Annali, cap. 8, f. 11 sg.), par-
tecipd, a quanto pare, al movimento di Chang Kio.
Il suo sistema era molto somigliante a quello di
Chang Kio, ma per di pit egli faceva costruire dap-
pertutto delle celle di purificazione, in cui dove-
vano dimorare i pazienti per riflettere sui loro
peccati. C’erano delle persone in qualita di ‘uffi-
TAOISMO 217
ciali contro il male’, ‘sacrificatori del vino’ e ‘sacri-
ficatori (del vino) in capo’, i quali avevano Vincarico
di sorvegliare che i 5000 caratteri del libro di Lao-tse
fossero osservati ¢ praticati da per tutto, Il e6mpito
principale di questi ‘ufficiali contro il male’ o ‘ufhi-
ciali contro gli spettri’ era di pregare per i malati,
cid che essi facevano nel modo seguente. Scrive-
vano il nome e cognome del paziente, insieme con
una dichiarazione ch’egli era meritevole di castigo,
e ne facevano tre copie che rispettivamente man-
davano (da un’altura) al cielo, seppellivano nel suolo
e gettavano nell’acqua, designandole come autografi
per ‘i tre governatori’. Indi si facevano dare dalla
famiglia del paziente 5 scodelle di riso; e percid
erano noti come i ‘maestri delle cinque scodelle’ (e
la ‘religione’ di Chang Sin era detta ‘la religione
delle 5 scodelle di riso’)?®.
Chang Lu, dopo essere stato - in un primo tem-
po - legittimista, passé anch’egli all’opposizione, cid
che diede luogo ad una serie di lotte con le autorita
governative (sua madre, che « era dedita a pratiche
di magia», fu messa a morte), fino a che egli dove
cedere ed arrendersi ultimamente al generale ‘T's’ao
T's’ao - fondatore (nel 220) della nuova dinastia
Wei -, rinunziando cosi alla signoria e all’indipen-
denza, ma ricevendo, insieme con un titolo nobi-
liare, una specie di investitura che assicurd la su-
premazia sulla chiesa taoista a lui e ai suoi discen-
denti, i quali infatti seguitarono poi ad essere suc-
cessivamente convalidati nella loro dignita di ‘Papi’
taoisti da un rescritto sovrano. Chang Lu insegna-
va il demonismo e si faceva chiamare ‘re dei mae-
stri’. I suoi seguact ricevevano da prima il titolo di
DATS Pie one ls SEA CREAM) A ene Uae Ba 8 Bye mh ee Seay areasey
j ; ne ‘ * cual
i 4
218 CAPITOLO IV
‘ouerrieri contro gli spettri’, e poi, quando avevano
abbracciato la sua dottrina, quello di ‘sacrificatori
del vino’. Chang Lu predicava l’onesta e la lealta,
l’astinenza dalle imposture, ela confessione vo-
lontaria dei peccati quando uno era amma-
lato. Come si vede, il suo sistema presenta una
particolare somiglianza con quello di Chang Sin.
Infatti é detto che, avendo constatato i successi del-
l’ opera di Chang Sin, Chang Lu pensod di raffor-
zarla. Egli fece:costruire degli alberghi pubblici, in
cui i viandanti trovavano vitto: ed alloggio gratuito
(ma chi ne abusava, cadeva ammalato, conforme alla
dottrina del demonismo). Chi trasgrediva i precetti
era punito, ma prima era perdonato per tre volte.
Coloro. che commettevano dei peccati lievi dove-
vano, per espiare la loro colpa, lavorare alla ripara-
zione di strade ciascuno per un tratto di 100 passi.
In ottemperanza ai precetti mensili (del Li-ki, lib. 1v,
Yuéh Ling), Chang Lu proibi che si uccidessero es-
seri viventi in primavera e in estate. Inoltre vietd
l’uso di bevande fermentate®*®.
Il divieto di bere liquori, la limitazione delle uc-
cisioni di animali, il precetto della sincerita, la in-
dulgenza verso i colpevoli (perdonati fino a tre vol-
te), la beneficenza a pro’ dei viandanti: tutto que-
sto sa di Buddhismo. Se i fondatori della chiesa
taoista poterono subire influenze buddhistiche, come
pensa il De Groot*!, se forse la idea stessa di una
comunita taoistica organizzata - una novita per la
Cina - fu loro suggerita dal Buddhismo, vien fatto
di pensare che anche la confessione istituita da
Chang Ling, Chang Kio, Chang Sin e Chang Lu
possa essere derivata dalla confessione buddhistica.
TAOISMO 219
Cronologicamente la cosa non sarebbe impossibile,
anche se si accetta la data tradizionale della nascita
di Chang Ling nel 34 d. Cr. (p. 214). L/’ introdu-
zione del Buddhismo nel 67 d. Cr. in seguito al so-
gno dell’imperatore Ming é@ in gran parte leggenda*?’;
e qualunque sia il suo eventuale fondamento storico,
pare certo che il Buddhismo abbia cominciato a pe-
netrare in Cina gid in epoca anteriore all’éra cri-
stiana**. Il pit antico testo buddhistico in lingua
cinese finora conosciuto, il ‘Sutra delle quarantadue
sezioni’, anche indipendentemente dalla sua attribu-
zione ai due monaci indiani che avrebbero seguito,
al suo ritorno in Cina, la missione inviata in India
da Ming-ti, risulta appartenere al I sec. d. Cr.**.
Esso sarebbe stato ‘tradotto’ dai due monaci - o da
uno solo di essi, Shih Chia-yeh Mo-téng (Kasyapa
Matanga)*® - in un convento di Loyang, dove poi,
nel II sec. d. Cr., il Buddhismo cinese ebbe il suo
centro pitt cospicuo’®.
Se non che, la confessione buddhistica era to-
talmente diversa dalla confessione quale si praticd
nelle prime comunita taoistiche fondate da Chang
Ling e dagli altri Chang. Mentre la confessione
buddhistica era fatta periodicamente dai monaci
nelle riunioni quindicinali, la confesisone taoistica
era una confessione generale, che si faceva una
volta tanto, estendendosi a tutti i peccati ‘commessi
dalla nascita in poi’ (p. 215), e si faceva precisa-
mente da coloro che erano ammalati, a scopo di gua-
rigione. Per questo suo fondamento utilitario ed
eudemonistico, donde Chang Ling e i suoi discen-
denti la sollevarono in una superiore atmosfera spi-
rituale (necessita del pentimento, pratiche di racco-
220 CAPITOLO IV
glimento e di meditazione, atti di umilta, proposito
di non ricadere), la confessione taoistica dei malati
appartiene ad un piano religioso che, a quanto pare,
non é quello del Buddhismo indiano, mentre sembra
essere piuttosto quello cui appartiene la confessione
dei malati, da noi gid incontrata altrove in ambienti
culturali pitt o meno arretrati (Ewe, Kikuyu, Wa-
kulwe; Batak; Athapaski; KAgaba ed Ijca; Mixteki;
Maya del Yucatan e Guatemala; Peruviani dell’epoca
incasica).
Infatti la confessione taoistica degli infermi pre-
senta quella associazione con una operazione elimina-
toria concomitante che sappiamo essere caratteristica
della confessione nelle sue forme elementari (p. 50).
L/operazione eliminatoria consisteva, nel ‘Iaoismo,
precisamente in questo, che la confessione fatta dai
malati era messa per iscritto e gettata nell’acqua,
- oppure se ne facevano per iscritto tre copie, di cui
una era lanciata da una altura verso il cielo, un’al-
tra era sepolta nel suolo e la terza gettata nell’ac-
qua (p. 217). Questo trinomio - cielo, terra, acqua -
é schiettamente taoistico, come taoistico é tutto quel-
V’elemento demonistico che figura®’ nelle istituzioni
di Chang Ling e dei suoi continuatori (‘guerrieri
contro gli spettri’, ecc.). Questo naturismo e que-
sto animismo_ appartengono al fondo originario della
religione cinese, a quel mondo religioso arcaico che
appunto nel Taoismo sopravisse alla sistemazione
speculativa di un Lao-tse e di un Chuang-tse.
Che a tale fondo arcaico appartenga anche, origina-
riamente, la confessione dei malati, appare, dunque,
per lo meno probabile. In questo tipo arcaico rien-
tra, in certo qual modo, la stessa confessione del so-
TAOISMO 221
vrano, accompagnata, com’era anch’essa (p. 208 sg.),
in certi casi, da una operazione eliminatoria consi-
stente nel taglio delle unghie e dei capelli, che poi
erano gettati nell’acqua. Anche qui, infatti, si tratta
di un risanamento per espulsione del male: si tratta
di liberare da un male la persona rappresentativa
del sovrano, affinché ne resti liberata la comunita
intera dei sudditi. Ed anche la confessione del so-
vrano era stesa per iscritto. In realta la parola scritta
ha la stessa virti della parola parlata; e lo scrivere
i peccati sopra una carta o sopra un oggetto qual-
siasi vale a trasferirli sull’oggetto
medesimo, a scopo
di eliminazione. Data l’antichita dell’uso della scrit-
tura in Cina, la sua applicazione alla confessione dei
peccati non é davvero un indizio di scarsa antichita
della confessione stessa. Che questa sia poi, in Cina,
anche - eventualmente - anteriore all’uso della scrit-
tura si pud, indirettamente, argomentare dagli ele-
menti primitivi che si riscontrano nella confessione
taoistica, specialmente come confessione dei malati.
Altrettanto probabile é che la confessione del so-
vrano non sia stata l’unica forma originaria della
confessione cinese, anzi sia piuttosto una cristalliz-
zazione - in seno alla religione ufficiale - di un co-
stume relativamente diffuso, sebbene di siffatta dif-
fusione in ambiente popolare non abbiamo testi-
monianze prima della fondazione della chiesa taoi-
stica. Della originaria pertinenza della confessione
al ‘Taoismo’ rimane traccia, forse, nella consuetu-
dine seguita dagli stessi imperatori di ricorrere al
clero taoista per propiziare, in caso di bisogno, le
varie potenze della natura, sia facendo gettare negli
abissi vari oggetti d’oro o d’argento o di giada su
222 CAPITOLO IV
cui erano scritte delle preghiere, sia facendo cele-
brare delle funzioni solenni, la cui liturgia compren-
deva, fra l’altro, degli atti di confessione e di
contrizione’®. Per tutto cid sembra lecito dubi-
tare che la confessione introdotta da Chang Ling e
da altri fondatori della chiesa taoista nel I-II sec.
d. Cr. sia tutta e soltanto di origine buddhistica,
mentre appare pit. verosimile che al contatto del
Buddhismo sia stato, se mai, galvanizzato e trasfi-
gurato un antico costume cinese che forse era da
tempo caduto in disuso.
3. TAOISMO MONASTICO.
Accanto a questo Taoismo di tipo ecclesiastico, cui aderisce
liberamente la popolazione laica sotto la direzione di ‘preti’
viventi - con le loro famiglie - in mezzo al popolo, esercitanti
la funzione di taumaturghi, indovini, ecc., nominati di volta
in volta dal (t’ien-shi (p. 213) e ordinati gerarchicamente, c’é
un altro Taoismo - il Taoismo monastico o ‘conventuale’ - che
non ignora la ‘chiesa’ né la combatte, ma che ha una or-
ganizzazione del tutto diversa e indipendente. K questo Taoi-
smo monastico che ha subito pitt direttamente e profonda-
mente l’influenza del Buddhismo. Esso stesso é@, si pud dire,
una emanazione del Buddhismo. Tutta la sua organizzazione
é caleata sul modello dei conventi buddhistici. Non per nulla
il Buddha fu da principio considerato come una trasfigura-
zione dello stesso Lao-tse. Appunto sotto la protezione del
Taoismo poté il Buddhismo fare i suoi primi progressi in Cina;
ed anche quando si accentuarono poi le divergenze e i dis-
sensi, le due religioni ‘popolari’ - l’indigena e la straniera -
restarono tuttavia accomunate nella rispettiva posizione d’in-
feriorita rispetto al Confucianesimo trionfante e talvolta per-
secutore.
Come il ‘canone’ taoista, il Tao-tsang39 , con le sue tre
sezioni (idealmente corrispondenti alle tre persone della triade
: TAOISMO MONAS'TICO 223 -
taoista, di ctti ciasctna sezione ¢ rispettivamente la rivela-
zione) e€ col suo carattere di Summa patristica - oltre che cano-
nica -, si formd per imitazione del San-tsang, 0 Tripitaka ci-
nese, con le sue numerose opere - canoniche ed extra-cano-
niche - ripartite nelle tre sezioni King-tsang (Stitra), Lii-lsang
(Vinaya) e Lun-tsang (Abhidharma); cosi tutta la vita dei
monasteri taoisti ¢ essenzialmente regolata sul tipo buddhi-
stico. La carriera dei monaci taoisti si svolge in tre gradi:
il monaco di grado inferiore si chiama miao hsing shih ‘mae-
stro della nobile condotta’, quello del grado medio miao té
shih ‘maestro della nobile virtt’, e quello del grado superiore
miao tao shih ‘maestro del nobile tao’. I tre gradi sono con-
feriti (magari in uno stesso giorno) mercé altrettante succes-
sive ordinazioni, per ciascuna delle quali l’iniziato riceve un
libretto contenente - oltre una specie di certificato col nome
dell’iniziato e la data della sua ordinazione - un esemplare
delle regole (chieh) del grado rispettivo: ch’u chén chieh
‘i comandamenti della veritd del grado iniziale’, chung chi
chieh ‘i comandamenti del fine mediano’, e t’ien hsien ta
chieh ‘i grandi comandamenti del celeste hsien’. Questi libretti
sono custoditi gelosamente dai loro titolari: essi non debbono
essere mostrati a laici né a monaci di grado inferiore49.
Le regole del primo grado contengono prima di tutto le istru-
zioni preliminari per chi si prepara ad entrare nella comunita,
i gitrramenti di rito, il voto di osservare i 5 precetti fonda-
mentali (non uccidere, non mangiar carne né bere bevande
spiritose, non dire il falso, non rubare, non commettere atti
libidinosi) ; indi le norme generali della condotta; poi le nor-
me speciali da osservarsi in particolari circostanze; poi le re-
gole relative al mangiare, al dormire, al vestiario, ecc., ed
altre relative alle formule di preghiera: il tutto manifesta-
mente calcato sulla falsariga del Buddhismo41. E poiché nel
Buddhismo hanno gran parte le pratiche penitenziali e le nor-
me regolatrici della penitenza, non fa meraviglia di trovare
qualche cosa di simile nei chieh pén dei monaci taoisti. Nei
comandamenti di primo grado c’é un paragrafo che s’intitola
appunto ‘Regole della penitenza ed assoluzione in caso di
violazione dei precetti’. Ivi é detto: «Se uno che si é assog-
gettato ai comandamenti opera per la prima volta contro i co-
mandamenti e i precetti, deve nel giorno ciclico kéng shén
224 CAPITOLO IV
devotamente far riverenza al tao (cioe alle imagini divine del
tempio), e recitare secondo il rito le orazioni di penitenza pre-
scritte per la remissione dei peccati; inoltre egli deve, of-
frendo una tazza d’acqua pura, recitare il Ch’an hui wén del
patriarca Ch’iu, indi restare per un mese in silenzioso rac-
coglimento. Se pecca una seconda volta (nello stesso modo),
deve eseguire le stesse pratiche. Se pecca per la terza volta,
deve nel giorno ciclico chia tzu devotamente far riverenza al
Tao, indi recitare il Ch’ao t’ien fa ch’an e altresi il Ling pao
ta ch’an, deve sacrificare tre tazze di acqua pura e restare per
tre mesi in silenzioso raccoglimento. Ma se si tratta di cinque
o dieci violazioni, allora svanisce il yang e divampa il yin,
allora i demoni si precipitano (sul peccatore) e i Shén (spiriti)
lo aborriscono: egli non pud pil fare penitenza »42,
C’é inoltre un periodo di 100 giorni specialmente dedicato
al raccoglimento ed alla penitenza; « Al sopraggiungere del-
Vepoca della festa invernale (che si celebrava al solstizio d’in--
verno, al principio dell’anno nuovo),.... chi si trova nel primo
grado deve quotidianamente per 100 giorni per un quarto del-
l’ora ssu, dopo aver fatto riverenza in ginocchio al maestro
della disciplina, recitare devotamente le orazioni di penitenza
per la remissione dei peccati48. Terminate le orazioni di peni-
tenza, se ne stia seduto in posizione meditativa. Se uno pecca
contro le suddette prescrizioni concernenti il sopraggiungere
dell’epoca della festa invernale, voi dovete, o monaci, punirlo
secondo le regole relative alla ribellione »44,
«Ma chi» - si legge in un altro punto - « soltanto con la
bocca riconosce la sta colpa, mentre in cuor suo ri-
plgna, chi é puro a parole, ma impuro nelle azioni, chi da
principio é zelante, ma in fine @ pigro, chi a mezzo del cam-
mino abbandona l’impresa, quegli si chiama uno che consa-
pevolmente e volontariamente commette peccato,
e la sua colpa & doppiamente grave. EK quando le cose sono
andate tanto oltre che egli non pud pit sentire pentimento,
egli cade in preda all’eterna rovina..... p45,
NOTE
1 J. J. M. De Groot, The Religious System of China, I, Lei-
den 1892, 41 sg.; VI, Leiden 1910, 970 sg. Il passo del Li-ki
@ nel 2° libro (T’an Kung) e dice (II. 1, 42, p. 207 Couvreur, I;
p. 172 Legge SBE, XXVII): « Quando un re va alle cerimonie
funebri di un ministro, prende seco un fattucchiere con un
ramo di pesco ed un invocatore con la sua scopa di vimini,
nonché un portatore di lancia». Cfr. Cheu-li, XXv. 30, 39. -
H. Maspéro, La Chine antique, 1927, 200.
2 De Groot, op. cit., V. 680 sg.
3 De Groot, op. cit., VI, 1276.
4 Cfr. anche il riscontro dei pezzi di carta in cui era assor-
bito il sangue estratto dalla persona (delle peccatrici) nella
festa messicana delle Ciuapipiltin: p. 82.
5 De Groot, op. cit., VI. 1051 sg.
6 « Encyclopaedia of Religion and Ethics », XI. 536.
7 J. Edkins, La religion en Chine, Annales du Musée Gui-
met, IV, Paris 1882, 185 sg.
8 Il Rey. J. Edkins, 1, cit., ci parla di un Cinese, che, gia-
cendo infermo all’ospedale, era indotto a domandarsi se la
ferita al piede di cui egli soffriva non fosse conseguenza di
luna sua mancanza a quello che é il primo dovere della morale
confuciana, la pieta filiale. - « Il pentimento é un rimedio per
la malattia» si legge in Wang Yang-ming (1472-1528): F. G.
Henke, The Philosophy of Wang Yang-ming, London-Chicago
1916, 120.
9 Cfr. Frazer, The Magical Origin of Kings (Lectures on
the early History of the Kingship), London 1905; The Golden
Bough®, I. 1, ch. 6, 7.
R, PETTAzzonI, La Confessione dei peccati, |, 15
ze
226 CAPITOLO IV 2
10 Tso-chuan, trad, Couvreur, IL, $0.
11 Ofr, Se-ma ‘I's'ien, cap, 3, Chavannes, I. 187 sg.
12 Cfr. M, Granet, Danses et légendes de la Chine ancienne,
Paris 1926, Il. qa4 sg.
19 Shu-King, parte IV, lib. 5, 2, 1. 3, Legge III. p. 200.
cfr, Prefaz. 18-19, Legge III. 1, p. 5.
14 Cfr, Granet, op, cit., 11. 451 sy.
16 Clr, Shiki, cap. 14: O. Tranke, Studien sur Geschichte
des konfuziantschen Dogma u. der chinesischen Staatsreligion,
Hamburg 1920, 38.
16 Huainan tse (IT sec. a. Cr), cap. 1§ (‘dei piedi e delle
mani’ si legge in una glossa): Granet, Danses et légendes, I.
Bad, the qe
17 Chavannes, Se-ma Ts’ien, IV. p. 95, n. 13 Granet, 1. cit,
18 Legge III. 2, 35% sxe.
19 Cfr, Se-mna Ts’ien, 1V, p. 379 (Chavannes).
20 Questo & uno dei temi principali syolti nell’opera del
Granet, Danses et légendes de la Chine ancienne, Paris 1926.
Di essa mi piace riferire tna frase che trova larga rispondenza
in queste mie ticerche sulla confessione: «Il suffit que les
mots soient énoneés pour que les choses qu'ils évoquent se
réalisent » (I, 320),
21 Sema ‘Ts'ien, 1V. p. o§ (Chavannes),
220, Imbault-Muart, La Idgende du premier pape des
Taoistes et Il’ histoire de la famille pontificale des Tchang,
Journal Agiatique 1884, 380-461.
23 J, J. M, de Groot, On the Origin of the Taoist Chureh,
Transactions of the I11d Congress for the History of Religions,
Oxford 1908, I, 138 sgg. Un ritratto di Chang Ling @ riprodotto
in De Groot, The Religious System of China, VI. p. 1184, f. 10.
24 Secondo aletine fonti, fratelli minori di Chang Iya: Im-
bault-Tuart, 1, eit,
2> Portavano come copricapo dei fazzoletti gialli, Gialle
erano anche le loro bandiere, Inoltre, Chang Kio ingegnava
che il cielo azzurro era morto e stava per cominciare il regno
del cielo giallo (San-kwo-chi, e Annali det Secondi Han),
20 W, Grube, Geschichte der Chinesischen Literatur, 408 sg.
27 De Groot, ‘Transactions, 1, cit,
48 Tien-lioh o Wel-loh, opera perduta della metd del IIT
7
NOTE 227
sec. d. Cr., cui attingono i Commentari alle ‘Memorie dei 3
regni’ di P’ei Sung-chi: De Groot, Transactions, 1. cit.
29 Dal Tien-lioh: De Groot, Transactions, 1. cit.
30 San-kwo-chi, Memorie del Regno di Wei, cap. 8, f. 22 sg.:
De Groot, Transactions, I. cil.
31 Transactions of the III Congress for the History of Re-
ligions, 1. cit.
32 H. Maspéro, Le songe et l’ambassade de Vl’ empereur
Ming, Bulletin de 1’ Ecole Frangaise d’ Extréme Orient, 10,
1910, 95 sgg.
83 O. Franke, Zur Frage der Einfiihrung des Buddhismus
in China, Mitteilungen des Seminars fiir Orientalische Spra-
chen zu Berlin, 13. Abt. 1, 1910, 295 sgg.; e in Chantepie de la
Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte*, Leipzig 1925,
F230.
34 H. Hackmann, Die Textgestalt des Sitra der 42 Ab-
schnitte, Acta Orientalia, 5, 1926, 197 sg.
35 All’altro monaco, Chu Fa lan (Bharana o, secondo il
Pelliot, Dharmaratna), é attribuita, fra l’altro, la prima tradu-
zione del pratimoksa: contro questa attribuzione, Pelliot,
T’oung Pao, 19, 344 sg.; Prabodh Chandra Bagchi, Le Canon
Bouddhique en Chine, I, Paris 1927, p. 7.
36 H. Maspéro, Communautés et moines bouddhistes chinois
au Ile et IITe siécles, Bulletin de l’Rcole Francaise d’Extréme
Orient, 10, 1910, 22 sg..
37 Cfr. De Groot, The Religious System of China, VI, 1182.
38 Granet, La Religion des Chinois, Paris 1922, 155.
39 1. Wieger, Taoisme, I (1911): l’analisi del Wieger é con-
dotta su l’esemplare del convento Pai yiin kuan presso Pekino
e su quello della biblioteca imperiale riservata di Todkyd.
40 Non senza fatica H. Hackmann poté averne un esem-
plare durante un soggiorno fatto nel 1911 in un convento del
Lao-shan nella provincia di Shantung: H. Hackmann, Die
Ménchsregeln des Klostertaoismus, Ostasiatische Zeitschrift, $
(Festschrift f. Fr.; Hirth), 1920, 142-170.
41 Cid non esclude la presenza di elementi ‘taoistici’ nel
senso indigeno e primitivo della parola. P. es. fra le regole
del primo grado relative al vestiario ce n’@ una che dice:
« Quando (i vestiti) sono vecchi e usati, siano bruciati nel nono
giorno del nono mese nella direzione di nord-ovest; e la loro
Eiao8'.
-- cenere sia portata ad un corso d’acqua scorrente verso est,
__ affinché se ne vada via con le onde» (cfr. il costume peru-
__—-viano, p. 127).
7 42 Hackmann, Ostas. Ztschr., 8, 1920, 159 seg. - Cfr. i pec-
cati perdonati fino a tre volte nel sistema di Chang Lu, p. 218.
43 Testi relativi alla penitenza e assoluzione si trovano nel
Tao-tsang: Wieger, Taoisme, I. nn. 184, 186, 187, 193, 414, 420,
457, 529-531, 539-541, 1432.
44 Hackmann, 1. cit., p. 155.
) 45 Hackmann, I. cit., p. rsr.
Ve
Brahmanesimo.
I. I VEDA.
La concezione che abbiamo chiamata obiettiva
e sostanziale del peccato si riscontra altresi nei
Veda’: il peccato (enas, agas) & concepito come una
specie di fluido che investe dall’esterno la persona
del peccatore e che va eliminato con gli stessi mezzi
che si adoperano per liberarsi dalla malattia, dalla
malia e da altri malanni, in primo luogo con mezzi
materiali, quali 1’ acqua e il fuoco. Cid non impe-
disce che le Acque e il Fuoco siano pensati come
esseri personali divini aventi precisamente la fun-
zione di portar via e distruggere la colpa: «O Ac-
que, portate via tutto cid che di peccaminoso é in
me, sia che io abbia mancato di parola od abbia
giurato il falso» (Rg-Veda 1. 23, 22)7; « Quante
mancanze noi abbiamo commesse col parlare, col
disdire e con l’aggiudicare, quante dormendo od es-
sendo svegli, tutte le azioni maledette il Fuoco
(Agni) le porti via lontano da noi (Rg-Veda x.
164, 3)°.
Vero é che accanto a questa si trova nel Rg-
Veda, e specialmente in un caratteristico gruppo di
230 CAPITOLO V
inni a Varuna nel libro vm, una concezione schiet-
tamente subiettiva del peccato come trasgressione
della volonta di un dio, trasgressione che il dio of-
feso pud perdonare quando sia debitamente placato
con sacrifizi, offerte, inni di lode in suo onore, pre-
ghiere per l’allontanamento del castigo. I] peccatore
invoca dal dio (Varuna) il perdono delle sue colpe,
ammette e riconosce i suoi torti e alla dichiarazione
- generica - della propria colpevolezza (Rg-Veda
vil. 89, 3; I. 25, I) aggiunge l’espressione del suo
pentimento (Rg-Veda vit. 86).
Non mancano fra l’una e l’altra concezione le
interferenze. I ‘lacci di Varuna’ (Rg-Veda 1. 24,
15) si lasciano ricondurre all’idea primitiva del male-
peccato come fluido avvolgente, quasi nelle maglie
della sua rete, il peccatore. L’ignoranza del proprio
peccato che angustia il colpevole e lo spinge ad in-
terrogare gli esperti e lo stesso dio Varuna (Rg-Veda
vit. 86, 3-4) dipende da quel fondamentale carat-
tere di inconsapevolezza ed involontarieta che é ine-
rente (p. 54) al peccato. concepito obiettivamente.
Tanto del peccato volontario quanto del non volon-
tario si chiede perdono a Varuna: « Se noi abbiamo
ingannato, come giocatori al gioco, sia effettiva-
mente sia inconsapevolmente, da tutto cid assolvici,
o Varuna» (Rg-Veda v. 85, 8)°*. Il medesimo con-
cetto si riflette altresi nell’idea del peccato com-
messo nel sogno (Rg-Veda X. 164, 3), come pure in
quella del peccato commesso non dalla persona stessa
che ne soffre, ma da altri suoi prossimi, in primo
luogo dai suoi ascendenti (Rg-Veda 11. 28, 9; vit.
86, 5).
I] fatto che la concezione subiettiva del peccato
Pe
VEDA 231
appare, nell’India, strettamente connessa con Va-
runa (e con gli déi del suo entourage, cioé Mitra e
gli Adityas), e soltanto in via eccezionale con qual-
che altra divinita (Indra, Agni), ha fatto pensare
ad una infiltrazione di idee extra-indiane (semiti-
che)*. Ma a dar ragione del carattere morale di Va-
runa (come pure di Mitra e degli Adityas), a diffe-
renza di tutte le altre divinita vediche, basta la
sua - e soltanto sua - natura uranica, che ne fa un
dio supremo onniveggente e onnisciente, cui nulla
sfugge e che naturalmente conosce i peccati de-
gli uomini (cfr. Atharva-Veda 1v. 16)°.
E un fatto che le concezioni morali connesse
con la religione di Varuna, e tra esse anche la con-
cezione subiettiva del peccato, non ebbero nell’In-
dia uno sviluppo adeguato. Nell’Atharva-Veda ve-
diamo prevalere di nuovo di gran lunga l’altra con-
cezione - la concezione arcaica, obiettiva - del pec-
cato®. Ma anche cid, anzi che con una mancata as-
similazione di elementi esotici (semitici) da parte
dello spirito indiano, pitt verosimilmente si spiega
tenendo conto, fra l’altro, di quell’ oscuramento e
scadimento religioso che fu il destino di non pochi
esseri celesti e antichi iddii del cielo’, che gid era
stato - in India - il destino di Dyaus, soppiantato da
Varuna, e fu poi quello di Varuna’, soppiantato da
Indra nella supremazia divina, - onde insieme con
Varuna dovettero tramontare anche le idee che in
lui si concentravano; cosicché, se talvolta anche In-
dra appare invocato come divinita perdonatrice del
peccato, si puod ritenere che tale qualita gli sia ve-
nuta in eredita appunto da Varuna’, come altri-
menti essa si comunicd in parte anche ad Agni
232 CAPITOLO V
(Rg-Veda 1v. 2, 11; 3. 5)'°, trasfigurando comple-
tamente questo dio che propriamente rappresenta la
distruzione materiale del peccato.
2. I BRAHMANA.
Nei Brahmana Varuna non é pit il supremo
punitore e perdonatore dei trascorsi umani. L’azione
pia, ’azione per eccellenza, é, ora pitt che mai, il
sacrificio; e Varuna stesso, decaduto dalla sua an-
tica posizione trascendente, entra nell’orbita e si in-
serisce, per cosi dire, nel congegno della onnipo-
tente azione sacrificale brahmanica, che non ignora
gli déi, ma sugli déi stessi agisce non tanto per im-
plorazione quanto per costrizione, e in cid rivela la
natura sua originaria di operazione magica, gioco
di forze ‘magiche’, ossia impersonalmente divine.
In tanta espansione di una religiosita primitiva
dominata tuttavia dal concetto del divino imperso-
nale (mana), per quanto sublimata nel superiore
mondo del brahman, era naturale’ che prevalesse
altresi su la concezione soggettiva del peccato con-
trollato da Varuna quella obiettiva ed arcaica del
male-peccato e del suo allontanamento materiale,
della quale gid conosciamo (p. 55) le connessioni
profonde cot divino impersonale e con la magia. In
un mondo religioso moralmente indifferente, dove
non di rado gli déi stessi - in ispecie Indra’? - ope-
rano contro la moralita, dove la morale é, per cosi
dire, surrogata dalla esattezza scrupolosamente co-
scienziosa nella esecuzione dei singoli atti sacrifi-
cali, dove la sincerita si riduce, in un certo senso,
le
Hit wee
BRAHMANA 233
alla enunciazione precisa delle formule’*: @ natu-
rale che anche il male-peccato - come fluido o so-
stanza perniciosa - sia ritenuto eliminabile per
mezzo del sacrificio debitamente e scrupolosamente
eseguito, allo stesso modo che, sempre nei Brahma-
na, anche l’impurita, p. es. l’impurita della men-
zogna, pud essere detersa mercé un filtro di steli
di un’erba sacra (Satapatha Brahmana ut. 1, 2, 10;
Sy athe
E la confessione-enunciazione del peccato, che
noi abbiamo imparato a conoscere altrove nelle sue
forme elementari come un mezzo concorrente alla
eliminazione materiale del peccato (p. 57 sg.) - un
mezzo che opera con la magia della parola -, ecco
che ci si presenta per la prima volta nella storia
religiosa dell’ India precisamente nei Brahmana, do-
ve appunto la magia della parola é variamente in-
gioco'*. Per la prima volta in forma autentica e
genuina, ché la pretesa ‘confessione’ del peccatore
a Varuna nel Rg-Veda’® é propriamente e sempli-
cemente una dichiarazione generica di colpevolezza,
non l’enunciazione specifica del peccato commesso,
- e noi gid sappiamo (p. 59) la differenza sostan-
ziale che intercede fra questi due modi, e la loro
pertinenza a due piani religiosi diversi. Per la pri-
ma volta, dunque, ci appare nei Brahmana la con-
fessione dei peccati nell’India, ma con caratteri tali
che ci consentono di attribuirle origini molto pit
antiche, non solo pre-brahmaniche, ma anche vero-
similmente pre-vediche, massime pel fatto che il
peccato confessato € - come vedemmo - precisa-
mente un peccato sessuale (adulterio), cid che co-
stituisce un sorprendente riscontro etnologico alla
234 CAPITOLO V
confessione quale ci apparve praticata da popola-
zioni primitive e non primitive dell’Asia, dell’ Africa
e dell’America, e quindi conferisce alla confessione
brahmanica un carattere particolarmente arcaico.
La confessione ci si presenta, nei Brahmana, in-
corporata nel rituale di una festa religiosa periodica
che si chiamava Varunapraghdsa. Essa era la secon-
da delle tre feste annuali di stagione o caturmasya
(‘quadrimestrali’): Vaifvadeva al principio della
primavera; Varunapraghdsa al principio della sta-
gione delle piogge, e precisamente al plenilunio
(piirnamasa) del mese dsadha (giugno-luglio) o del
mese consecutivo fravana (luglio-agosto); e Sdaka-
medha, al principio dell’autunno.
La festa Varunapraghasa, che traeva nome da
Varuna e dai Marut, i venti, concepiti come ‘i voraci’
(praghasya), & descritta pil o meno minutamente
in parecchi testi della letteratura brahmanica: Sam-
hita, Brahmana, Sutra (Srautastitra)'®.
Il sacrificante (yajamana), cioé colui per conto
del quale la festa si celebrava, era ordinariamente
un laico (grhapati), che vi assisteva insieme con la
moglie (patni ‘signora’) e con le altre persone della
sua famiglia, dopo essersi sottoposto ad un regime
preventivo di astinenze ed osservanze speciali. I sa-
cerdoti operanti erano cinque, diversi di grado, di ti-
tolo e di funzieone. Due di essi, adhvaryu e il prati-
prasthaty, costruivano ciascuno un altare (vedi),
l’uno a destra e l’altro (uttaravedi) a sinistra del fuo-
co orientale (Ghavaniya), e tutti gli atti che l’adhva-
ryu eseguiva sull’uttaravedi erano imitati ed eseguiti
dal pratiprasthatr sulla vedi. I due sacerdoti confe-
zionavano con grani di orzo rispettivamente una fi-
BRAHMANA 235
gurina di montone e una di pecora, che poi erano
rispettivamente dal ‘sacrificante’ e da sua moglie
adornate di batuffoli di lana di una forma allusiva
agli organi genitali maschili e femminili, indi offerte
nel latte rispettivamente a Varuna e ai Marut. Oltre
a questo rito destinato a promuovere l’incremento
delle greggi, se ne svolgeva un altro di significato
assai diverso.
Sempre con orzo crudo o appena abbrustolito ed
imperfettamente tritato, diluito con latte acido o
burro ed altri ingredienti, la patnt doveva confezio-
nare delle paste di una certa forma e in un certo
numero: la forma era quella di un piatto; quanto
al numero, dovevano essere tante quanti figli aveva
il sacrificante, pitt uno’’, corrispondendo quest’uno
idealmente al bambino o ai bambini nascituri’*. Ad
un certo momento il pratiprasthdtr si avvicinava
alla moglie del sacrificante, e mentre si accingeva a
condurla davanti al fuoco meridionale (daksinagni),
le domandava : ‘Con chi te la intendi?’?®. « Or quan-
do una donna,» - spiega il Satapatha-Brahmana (11. 5,
2, 20) - «appartenendo ad un uomo, ha rapporti con
un altro, essa indubbiamente opera contro Varuna.
Percid quegli la interroga, affinché essa non abbia a
sacrificare con una pena segreta nel cuore; infatti un
peccato quand’é confessato diventa mino-
re, giacché diventa verita (niruwktam [propria-
mente ‘enunciato’] va enah kaniyo bhavati satyam
hi bhavati). Ed ogni relazione (amorosa) che la
donna non confessi riuscira effettivamente di danno
a qualche suo congiunto». Infatti la donna doveva
rispondere dichiarando il numero dei suoi amanti,
o addirittura indicandoli ad uno ad uno per nome.
wil ak, Slay ee RoelSeer
236 CAPITOLO V
« Eissa deve dire la cifra totale o i singoli nomi dei
suoi amanti, oppure cogliere tanti fili d’erba (quanti
sono stati gli amanti) »?°. Se essa ne tacesse qual-
cuno, ne verrebbe del male a qualche suo congiun-
to”!, Essa deve dichiarare: ‘il tal dei tali é mio a-
mante’; il nominato o i nominati saranno ‘afferrati
da Varuna’??.
I piatti di pasta (karambhapatra) erano disposti
sopra un graticcio di vimini. La patni se lo poneva
in capo e, giunta davanti al fuoco daksina, ve li la-
sciava cadere?’, si che vi bruciassero. Indi era ricon-
dotta al suo posto**. Nel corso di queste operazioni
si recitavano formule (mantra) prescritte. Mentre 1
piattelli di pasta erano distrutti dal fuoco, si reci-
tava la formula penitenziale seguente*®: « Ogni
peccato da noi commesso nel villaggio o nella fo-
resta, in compagnia o su noi stessi, ogni peccato da
noi commesso, lo eliminiamo con questo sacrificio
(avayaj) »?°.
Come si vede, si tratta di un rito di elimina-
zione. Sotto la forma obbligata del sacrifizio traspare,
come é efficacemente espresso dal termine ava-yaj
(‘sacrificar via’), il carattere proprio dell’operazione
eliminatoria, Poiché onnipotente é il sacrificio, l’ope-
razione sacrale per l’allontanamento del peccato as-
sume anch’essa la forma del sacrifizio. Varuna, che
- insieme coi Marut - da il nome all’intera celebra-
zione (p. 234), ha in questo speciale rito elimina-
torio una parte ancor pitt cospicua, in cui si pud
vedere un riflesso della originaria connessione del
dio onniveggente ed onnisciente col peccato. Di
qui probabilmente si estese la predominanza di Va-
runa su tutta la festa, la quale, secondo il mito
BRAHMANA 237
brahmanico, sarebbe sorta precisamente come un
mezzo per liberare le creature dai lacci di Varuna:
le creature di Prajapati, avendo mangiato l’orzo di
Varuna?’, ed avendole percié Varuna afferrate co’
suoi lacci, ricorsero a Prajapati affinché escogitasse
un rito sacrificale che le liberasse dai lacci di Va-
runa; «allora Prajapati vide questo rito sacrificale
Varunapraghasa, lo prese e sacrificd con esso; aven-
do sacrificato con esso, recd diletto a Varuna; Va-
runa, avendo provato diletto, liberd le creature dai
lacci di Varuna e da ogni male. Dai lacci
di Varuna e da ogni male sono liberi i nati di
colui che cosi sapendo sacrifica con i Praghasa »**.
Infatti, «c’é un piatto per ciascuno dei nati: quanti
sono (i nati) nella famiglia (del sacrificante), tanti
sono i piatti, pitt uno. Con quelli che sono tanti
quanti i nati egli libera dal laccio di Varuna
ciascuno dei nati, e con quello in pit libera dal
laccio di Varuna i nascituri; ecco perché sono
(tanti) pid uno »?’,
Ma qual peccato mai poteva essere in bambini e
neonati, tale da esporli al ‘laccio di Varuna’? Non
certo un peccato consapevolmente commesso, come
son quelli di cui il peccatore chiede perdono a Va-
runa negli inni del Rg-Veda (p. 230). Non é - di-
cemmo (p. 232) - la concezione subiettiva del pec-
cato che prevale nella religione dei Brahmana,
bensi quella obiettiva; e se Varuna tuttavia vi ha
parte - e, nei Varunapraghasa, parte cospicua -, la
sua posizione non é pil, ad ogni modo, quella del-
l’arbitro. Autonoma ed irresistibile é l’azione sacri-
ficale, e Varuna stesso - pur sotto la specie dell’ a-
dorazione - la subisce. Anche nel sacrificio afva-
A. |
238 CAPITOLO V
medha il sacrificante era purgato dei suoi peceati
meree un’ offerta a Jumbaka (Varuna); ma questa
offerta era fatta sulla testa di un uomo di aspetto
deforme immerso nell’ aequa sino alla boecea, il
quale, dopo eseguita Vofferta, era caeciato via, ri-
tenendosi cosi allontanati i peeeati del villaggio,
cid che suggerisee spontancamente il riscontro col
‘capro espiatorio’ degli Israeliti (Vol, I1)*’. Del
pari nella festa Varunapraghisa il rito di elimina-
zione del peecato si svolgeva bens sotto il segno
tradizionale di Varuna, ma operava per virtt pro-
pria, giovandosi di un mezzo fisico qual & il fuoco,
un mezzo che in tanto poteva operare in quanto il
peeeato era qualche cosa di materiale che in certo
qual modo aderiva ai piattelli di pasta, onde insieme
con questi poteva essere distrutto dal fuoco;: qual-
che cosa - dunque ~ come un fluido, I) come tale
- anzi, soltanto come tale ~ esso poteva trovarsi
anehe nei bambini, per quanto ignari @ innocenti,
non come colpa da loro commessa, ma come tna
tara oscura che ciascuno portava eventualmente in
sé dalla nascita, e da prima della naseita, cioeé dal
concepimento, If donde poteva, nell’atto del conce-
pimento, formarsi questo ‘peceato’ nei figli, se non
dal peecato stesso dei genitori, in quanto essi fos-
sero adtilteri? Meco perehé Ja donna, cioé la madre,
ha una parté cospicua nel rito di climinazione: essa
confeziona le paste simboliche, essa le porta al fuoco
daksina, essa le gitta nella fiamma, perche & essa
la causa onde si trasmette ai figli quella originale
impuritA che ora si vuol distruggere col fuoco,
Di tale impuritA @ rimasta investita la donna
nell’amplesso illegittimo, Per liberare sé stessa, deve
BRAHMANA 239
confessare. Se non confessasse, le influenze maligne
di quella sua impurita, di quel suo peccato, si
farebbero sentire a danno di qualcuno dei suoi con-
giunti. In armonia con la concezione brahmanica
del peccato (p. 232), la confessione dell’ adtltera
appare dominata da motivi eudemonistici, anzi che
morali: tutt’al pitt, da motivi rituali. La frase stessa
del Satapatha-Brahmana (11. 5, 2, 20) «il peccato
quando é confessato diventa minore perché diventa
verita (satya) » (p. 235), cosi suggestiva nella sua
formulazione®', @ da intendere in rapporto a quello
che é@ il pensiero dominante di tutto il Brahmane-
simo, pel quale il sacrifizio, l’azione rituale litur-
gica € un mondo a sé, con un suo proprio modo
di essere, che é la sua verita®”. «Il sacrifizion -
detto esplicitamente nella Maitrayani-Samhita - «¢é
la verita e la giustizia, la donna (adultera) ¢ la
non-verita »°*. L incompatibilita fra I’ impurita, la
falsita, la menzogna (donna adultera) e la verita
(sacrifizio) é eliminata mediante la confessione. Con--
fessando il suo peccato, la donna « abbandona 1’in-
giustizia e rientra nella verita e nella giustizia »"’,
cioé diviene ritualmente pura, e quindi pud parteci-
pare al sacrifizio « senza quella pena segreta nel cuo-
re»"°, Il peccato ‘diventa minore’ (cioé: la men-
zogna diventa veritd) quando é@ ‘confessato’, cioe
quando ¢ enunciato, espresso verbalmente (niruk-
tam: p. 235). Attraverso le oscurita di un pensiero
speculativo ancora rudimentale traspare il valore ori-
ginario della confessione come enunciazione-evoca-
zione del peccato. Tale enunciazione non pud essere,
come sappiamo (p. 59), che specifica: tanto speci-
fica che la donna adultera doveva anche designare
WARSI Cy Wiethw am ey ek SL,
240 CAPITOLO V
per nome il suo amante o i suoi amanti (precisa-
mente come fanno nel Messico le donne degli Hui-
chol: p. 34), 0 per lo meno dichiarare quanti gli
amanti erano stati, sia formulando la cifra totale, sia
cogliendo altrettanti fili d’erba (qualche cosa di ana-
logo presso i Wakulwe, p. 9; le donne degh Hui-
chol fanno in un cordone tanti nodi quanti furono
gli amanti loro, p. 34; cfr. Zapoteki, p. I00).
Non sappiamo se tali fili d’erba fossero dalle
donne indiane - come avviene dei cordoni a nodo
delle donne Huichol - gittati nel fuoco. Certo vi
erano gettati i piattelli di pasta, e questo abbrucia-
mento tiene il posto di quella operazione elimina-
toria con cui sappiamo essere usualmente associata
la confessione nelle sue forme elementari (p. 50).
Per questa caratteristica associazione e concomitan-
za, oltre che per la sua speciale applicazione ad un
peccato sessuale (di altri peccati cui si applichi la
confessione non c’é parola nei Brahmana), e per
gli altri riscontri qui addotti, la confessione indiana
della donna adultera, inserita nei quadri della com-
plicata liturgia brahmanica, rivela il suo zarattere
arcaico di rito eliminatorio, originariamente appar-
tenente al piano della religiosita magico-sacrale, poi
trasferito nel piano di una religiosita sacrificale
(avayaj) e teistica.
Un esempio non di confessione vera e propria, .
ma di formule enunciative di singoli peccati in con-
comitanza con altrettanti gesti di eliminazione si ha
nel sacrifizio (annuale) del soma detto agnistoma*®,
dove uno dei riti di chiusura consisteva in una of-
ferta di-schegge di legno (Sakala) - ricavate dal palo
(yupa) cui era stata legata la vittima -, le quali erano
prAuMANA eer:
gittate nel fuoco ahavaniya, e a ciascuna scheggia
che si gettava si recitava una delle formule seguenti :
« Del peceato commesso dagli déi tu sei Veliminazione me-
diante il sacrificio (avayaj); del peccato commesso dagli uo-
mini tu sei Veliminazione mediante il sacrificio; del peccato
commesso da me stesso tu sei V’eliminazione mediante il sa-
crificio; del peccato commesso da altri tu sei l’eliminazione
mediante il sacrificio; di ogni e qualsivoglia peccato tu sei
Veliminazione mediante il sacrificio..... E il peccato che
io ho commesso consapevolmente e quello che (ho
commesso) senza saperlo, di tutti questi peccati tu sei
Veliminazione mediante il sacrificio... Del peccato che noi ab-
biamo commesso dormendo o vegliando tu sei 1’elimi-
nazione mediante il sacrificio; del peccato che abbiamo com-
messo consapevolmente o a nostra insaputa tu sei
V’eliminazione mediante il sacrificio »37;
dove é da notare l’arcaico motivo dei peccati com-
messi inconsapevolmente, come pure la_preoccupa-
zione totalitaria che da luogo, per |’ accumulazione
delle formule contemplanti un peccato ciascuna, ad
una specie di elenco di peccati (cfr. p. 59 sg.)°°.
Nell’ India meridionale e precisamente presso i Badaga
della regione dei Nilghidi (vedi la n. 30 di questo Capitolo)
in occasione di un funerale si pratica dai convenuti una spe-
cie di confessione ‘in suffragio’ del defunto. Essa consiste
nella recitazione di un elenco di peccati che rappresenta in
certo qual modo un compendio (pars pro toto) di tutti quelli
e
Pe
(ee
(in cifra convenzionale 300 0 1300) che un Badaga pud com- mn
oh
mettere (Jagor, Die Badagas im Nilgiri-Gebirge, Verhand-
lungen der Berlin. Gesell. f. Anthropologie, Ethnol. u. Ur-
gesch. 1876, (190); Edg. Thurston, Castes and Tribes of South-
ern India, Madras \1906, 189 sgg.). La recitazione é fatta da
uno degli anziani che si pone vicino al cadavere dalla parte
della testa: talvolta l’anziano tiene, mentre recita, la mano
sopra un bufalo (oppure questo é fatto girare tre volte intorno
al cadavere), quasi per far passare nel corpo del bufalo i pec-
eati, come nel rito del ‘capro espiatorio’. Ad ogni peccato
R, PETTAzzoni1, La Confessione dei peccati, |. 16
in —
242 CAPITOLO V
che il recitante enuncia la folla degli astanti risponde in coro
tipetendo le ultime parole. La recitazione é ripetuta tre volte
senza interruzione, subentrando al primo recitante immedia-
tamente un secondo e a qttesto un terzo. Ia recitazione é
fatta in base ad un testo fisso e, salvo qualche variante se-
condaria, costante. Nella versione fornitane - in base a fono-
grafia - dal Thurston, la parte principale (preceduta e seguita
da invocazioni e formule diverse, a Brahma, a Siva, ecc.) é
costituita dal seguente elenco di 39 peccati:
Suscitare inimicizia tra fratelli.
Spostare la linea di confine.
Invadere il campo di un vicino spostando la siepe.
Cacciar via fratelli e sorelle.
Tagliare furtivamente l’albero kalli.
Tagliare l’albero mulli fuori del confine (del proprio
campo).
Trascinare (sul terreno) le fronde spinose dell’ al-
bero kotte.
Spazzare con la scopa (il campo ?).
Spaccare fronde verdi.
Dire bugie.
Sradicare germogli.
Strappare piante in erba gettandole contro il sole.
Dare degli uccellini ai gatti.
Molestare i poveri e gli storpi.
Gettare acqua di rifiuto contro il sole.
Andare a dormire dopo aver visto un’eclissi di luna.
Guardare con invidia un bufalo che da latte in ab-
bondanza.
Esser gelosi delle belle messi altrui.
Spostare pietre di confine.
Servirsi di un vitello che fu liberato in occasione di
un funerale.
Insozzare l’acqua con immondezze.
Orinare sulle brace.
Esser ingrati verso il sacerdote.
Andar a contare delle storie ai superiori.
Avvelenare cibi.
Non dar da mangiare a chi é affamato.
Non dare del fuoco a chi é mezzo assiderato.
—
SUTRA 243
Uccidere serpenti e giovenche.
Uccidere lucertole e sanguisughe.
Indicare una strada che non é la giusta.
Mettersi in letto lasciando dormire per terra il suo-
cero.
Sedersi ad un balcone elevato cacciandone la suo-
cera.
Andar contro gli istinti naturali.
Molestare le nuore.
Abbattere gli argini degli stagni.
Abbattere gli argini dei serbatoi d’acqua.
Essere invidiosi della prosperita di altri villaggi.
Adirarsi con qualcuno.
Sviare viandanti nella foresta.
Come si vede, si trovang associati in questo elenco peccati
veri e propri con azioni che sono peccati unicamente nel
senso pil primitivo della parola. Quanto di indiano antico
sopraviva nel costume di Badaga, é assai difficile appurare.
Sat SOLRAS
Dai Brahmana passando ai Sutra, ritroviamo an-
cora la confessione connessa con peccati di natura
sessuale.
Alla letteratura dei Sutra appartiene, sostanzial-
mente, il Samavidhanabrahmana (uno dei Brahmana
del Sama-Veda)**®, un ‘manuale di magia’ - come
é stato definito -, nel quale la ‘magia’, consistente
in operazioni rituali accompagnate dalla recitazione
di formule e passi vedici (dove, perd, cid che conta
non é il testo, bensi il ‘canto’, cioé la melodia),
é adibita sia alla realizzazione di desideri d’ogni ge-
nere (seconda parte), sia alla espiazione di peccati
(prima parte), in connessione da un lato con i grhya-
244. CAPITOLO V
silra, dall’altro con i dharmasiitra’® e le Leggi di
Manu.
Fra i riti penitenziali (prayagcitta) - special-
mente astinenze nel cibo - figura in primo luogo il
cosidetto krcchra, che dura 12 giorni (nei primi tre
si prende solo il pasto della mattina, negli altri tre
solo il pasto della sera, nei tre successivi si mangia
solo cid che é dato senza chiederlo, negli ultimi tre
si digiuna), il quale, nella forma accentuata di
atikycchra (per ogni pasto mangiare non pit di
quanto si pud prendere in una sola volta), espia
tutti i peccati commessi, tranne i peccati mortali
e nella forma pitt rigorosa di krechratikycechra (vi-
vere soltanto di acqua) li espia tutti, compresi i
mortali (Samavidhanabrahm. 1. 2, 9). Ci sono poi
delle penitenze speciali che sono prescritte caso per
caso, cioé peccato per peccato. In quelle prescritte
per il peccato di bere bevande inebrianti si pratica
una specie di confessione consistente in una pub-
blica proclamazione del proprio peccato:
«Chi ha bevuto bevande inebrianti deve per un anno pren-
dere soltanto l’ottavo pasto mangiando quanto pud prendere
con le due mani; tenersi coperto al di sotto dell’ombelico e
al di sopra dei ginocchi; bagnarsi tre volte al giorno e altret-
tante di notte; stare in piedi o seduto; recitare giorno e notte
un dato sdman; sostare all’ingresso del villaggio, ivi restando
in piedi, sedendo e mangiando; non andare in viaggio; an-
nunziare pubblicamente cid che ha commesso;
mangiare in presenza di quattro Brahmani; non allontanarsi
dall’ingresso del villaggio che per fare i suoi bisogni. Finito
V’anno, avendo egli preso dell’olio di sesamo, del sale, un ra-
soio, del fuoco, del latte e dei chicchi di grano, i Brahmani
gli domanderanno ‘Hai eseguito?’; egli deve rispondere ‘Si,
o signori’ - ‘Se non hai eseguito a puntino, i tuoi discendenti
e ascendenti saranno annientati fino al settimo grado; hai
SUTRA 245
bene eseguito?’ - ‘Si, o signori’. - Allora, dopo che egli st
sara fatto tagliare i capelli, la barba ed altri peli e le unghie,
ed avra indossato un vestito nuovo e si sara fatto dare la be-
nedizione dai Brahmani, sara purgato» (Sadmavidhanabrahm
Th Serge
Qui non si tratta di un peccato sessuale. Ma la
medesima penitenza é prescritta anche per un pecca-
to sessuale, quale é quello gravissimo (mahdapataka)
delle relazioni amorose con la moglie del proprio
guru (‘maestro’): «Chi ha peccato con la moglie
del proprio guru deve osservare le prescrizioni sta-
bilite per chi beve bevande inebrianti» (Samavi-
dhanabrahm. 1. 6, 3). Dati i rapporti intrinseci
ripetutamente - ed anche nell’ India brahmanica
(p. 234 sg.) - constatati fra la confessione e i peccati
sessuali, vien fatto di chiedersi se qui non si abbia
una estensione secondaria della confessione dalla
sfera sessuale, con cui essa é primariamente connes-
sa, ad altre specie di peccati. Si pud notare altresi
che nel Messico antico il bere bevande inebrianti
(pulque) & il solo peccato - oltre quelli di natura
sessuale - nella cui penitenza si pratichi la confes-
sione, un peccato che ha in comune con quelli ses-
suali il carattere fisiologico (p. 83).
La speciale connessione tra confessione e peccati
sessuali risulta confermata nei Siitra veri e propri.
Il caso pit interessante é quello dello studente
che € venuto meno al voto di castita. Lo studente,
cioé il giovane aspirante a diventare un Brahmano
(brahmacarin), doveva vivere casto: se peccava, po-
teva espiare nel modo seguente. Doveva sacrificare
un asino (e fare offerte di cibo cotto) a Nirrti, la
dea del dissolvimento e della consunzione infetta
246 CAPITOLO V
(oppure ai demoni, Raksas). I) sacrifizio doveva farsi
accendendo un fuoco nella foresta in una notte di
plenilunio, ad un incrocio di strade. Della vittima
era assegnata in pasto al peccatore una porzione ta-
gliata dal pene. Il peccatore indossava poi la pelle
dell’asino col pelame volto all’infuori; e cosi camuf-
fato andava attorno con un vaso di terra elemosi-
nando di casa in casa fino a sette case, dichiarando
ad alta voce il suo peccato a coloro cui chiedeva la
elemosina. Cosi per un anno‘?.
Anche un altro peccato concernente rapporti ses-
suali (fra coniugi) si espiava con una penitenza ana-
loga, in cui pure figurava la confessione come pro-
clamazione pubblica del peccato commesso.
« Chi ingiustamente ha abbandonato la propria moglie, deve
indossare una pelle d’asino con il pelame rivolto all’in fuori,
e andare elemosinando per sette case dicendo: ‘Fate elemo-
sina a chi abbandond la propria moglie’. Questo dev’essere il
suo modo di vivere per sei mesi» (Apastamba Dharma Sitra
I. 10, 28, 19)42.
Lo stesso genere di confessione compare, nei
Stitra, anche nella espiazione di un peccato non ses-
suale, quale é l’omicidio di un Brahmano versato
© non versato nei Veda, oppure di un Ksatriya ver-
sato nei Veda: peccato gravissimo (mahapataka),
che rende 1’ uomo abhisasta (‘dannato’) e che si
espia, di regola, soltanto con la morte**, oppure fa-
cendo penitenza per tutto il resto della vita o, in
qualche caso speciale, per un periodo di dodici anni
nel modo seguente: il colpevole deve costruirsi una
capanna nella foresta o in un cimitero, ed ivi di-
morare in castitA limitando i suoi discorsi, tenendo
il corpo coperto fra l’ombelico e i ginocchi, stu-
spect eS eh A a ee ere A Pe ee ee OS
oa Rayne treceTe we 2 Ak Sic ew ae “a K
SOTRA 247
diando di giorno, di notte stando seduto, e bagnan-
dosi al mattino, a mezzodi e alla sera; deve inoltre
indossare la pelle di un asino (o di un cane) col
pelame rivolto all’infuori e portare attaccato al suo
bastone il teschio della sua vittima ‘a guisa d’inse-
gna’ (oppure: ‘un teschio per tazza e un piede di
letto per bastone’); andando al villaggio, deve te-
nersi entro la carreggiata (segnata dalle ruote), riti-
randosene al passaggio di un arya; con un recipiente
rotto di metallo comune deve andare per elemosina
a non pitt di sette case gridando: ‘Chi vuol fare
elemosina ad un assassino (abhifasta)?’; se nessuno
gli da nulla, deve digiunare: cosi per tutta la vita,
oppure per dodici anni, al termine dei quali egli
puo essere riammesso nella societa degli onesti qua-
lora abbia salvato la vita ad un Brahmano, oppure
si sia battuto per tre volte coi briganti in difesa della
proprieta dei Brahmani, oppure abbia preso un ba-
gno (insieme coi sacerdoti) al termine del sacrificio
di un cavallo, ecc.**.
Che senso ha, in seno alla prassi penitenziale dei
Siitra, nei casi qui sopra descritti, l’atto dell’indos-
sare una pelle d’asino? L’asino era considerato nel-
India, del pari che nella Grecia antica, come un
animale molto libidinoso*®. Luso vigente in Cuma
asiatica (Plutarch., quaest. gr., 2), di condurre per
la cittA sopra un asino le donne adultere colte in
flagrante, era praticato anche nell’India (Vetalapan-
cavimSati, 18, 1). Nell’India la donna che commet-
teva atti libidinosi con una fanciulla era rasata o
mutilata di due dita, indi era fatta cavalcare sopra
un asino (Manu vit, 370). Il mostrarsi con una
pelle d’asino indosso si addice dunque allo studente
248 CAPITOLO V
che é venuto meno al voto di castita, che, commet-
tendo atti libidinosi, si € comportato a guisa del-
V’asino. La pelle d’asino portata col pelame all’in-
fuori - precisamente come é nell’animale - é@ il se-
gno esterno della natura asinina cui egli ha ceduto.
Essa ¢ dunque come una ulteriore indicazione vi-
siva che si aggiunge alla dichiarazione verbale che
il peccatore ripete, mentre va attorno per elemosina,
dichiarando pubblicamente il peccato commesso.
Un altro peccato sessuale nella cui penitenza si
praticava, come vedemmo (p. 245), la confessione
era l’adulterio commesso con la moglie del proprio
guru. Secondo le Leggi di Manw chi si é reso col-
pevole di tale peccato
« pud, portando il piede di una lettiera, vestendosi di corteccia
d’albero e lasciandosi crescere la barba, in concentrazione di
pensiero eseguire per un anno intero il krcchra rivelato da
Prajapati in una foresta solitaria » (Manu, XI. 106).
Anche qui il piede del letto é una indicazione del
peccato commesso - un peccato sessuale, un peccato
di adulterio, che fu commesso sul letto -, e come tale
concorre, insieme con la pubblica confessione, alla
denunzia del peccatore.
La stessa cumulazione del segno visibile con la
confessione verbale si ha nella penitenza per 1’ucci-
sione di un Brahmano, dove il segno visibile é, ap-
propriatamente, il teschio della vittima, che l’ucci-
sore porta ‘a guisa d’insegna’, per far sapere a
tutti il suo delitto, per farsi conoscere immediata-
mente per quel ch’egli é, rinforzando e quasi sot-
tolineando con questo tratto carattefistico del co-
stume la dichiarazione del proprio peccato ripetuta
a gran voce con le parole ‘Fate elemosina ad un
SOTRA ; 249
abhifasta’. Se anche il piede di lettiera, anche la
pelle d’asino - o di cane - sono attribuiti all’ omi-
cida, questi elementi, ove abbiano effettivamente fi-
gurato nella prassi penitenziale e non si tratti sem-
plicemente di confusione avvenuta nei testi, rappre-
senteranno verosimilmente un momento secondario
nello sviluppo di essa prassi, un momento in cui
elementi penitenziali caratteristici ed originaria-
mente propri di determinati peccati si saranno ge-
neralizzati ed accomunati.
Un’usanza come quella di portare addosso o in-
torno il teschio della propria vittima ci riporta ad
un piano culturale e religioso molto pit arcaico di
quello della prassi penitenziale descritta nei Siitra.
Cid che sta alla base di siffatta usanza é la preoc-
cupazione di ridurre per sempre all’ impotenza il
double della vittima, che resta privato della testa in
seguito alla decapitazione eseguita sul cadavere. Sia-
mo dunque nel piano di una mentalita primitiva
(animistica), come risulta anche dai numerosi ri-
scontri che l’usanza stessa trova in ambienti di ci-
vilta inferiore (cfr. il costume dei cacciatori di teste).
La medesima idea si riflette nel costume analogo di
spezzare al cadavere del nemico ucciso il pollice della
mano destra (Australiani)*® - oppure tutta la spalla
destra con il braccio e la mano (Skythi: Herod.
Iv. 62) -, per impedirgli di maneggiare armi, e
quindi di vendicarsi. Tale costume é rappresentato
anche nell’India antica dall’uso dei briganti di por-
tare ‘come emblema’ (Mahavagga 1. 41) una maca-
bra collana fatta di dita strappate ai cadaveri delle
proprie vittime*’: uso ‘emblematico’ che come tale
é manifestamente assurdo, e che si spiega, invece,
250 CAPITOLO V
come una sopravivenza dell’antico costume apotro-
paico svuotato oramai del suo senso originario ed
investito di un senso nuovo in armonia con una
nuova coscienza religiosa che facesse obbligo al pe-
nitente di portare permanentemente su di sé i segni
indicatori delle colpe commesse.
Non meno primitivo ¢ il costume di mascherarsi
in guisa animalesca, indossando la pelle di un ani-
male ed altrimenti acconciando la propria persona
in modo da assomigliare ad un animale, imitandone
altresi i gesti, le movenze, la voce. Questa ‘imita-
zione’ & originariamente assimilazione, anzi trasfi-
gurazione, immedesimazione con |’ animale ‘imi-
tato’. Le applicazioni pitt cospicue di questo prin-
cipio si hanno, com’é naturale, in ambiente totemi-
stico, p. es. in Australia (riti e cerimonie totemi-
che). Nell’antico mondo mediterraneo se ne ha un
esempio interessantissimo nel noto frammento di af-
fresco da Micene*® rappresentante un corteo di ‘de:
voti’ in costume asinino. E la sopravivenza pit im-
portante - oltre a quella dei misteri mitriaci con
i gradi iniziatici del ‘corvo’ e del ‘leone’*® - si ha
nella Grecia stessa nelle figure animalesche dei de-
moni seguaci di Dionyso (i Sileni con coda e orec-
chie asinine), in quell’ambiente cultuale da cui ebbe
origine il drama, che é trasfigurazione per eccel-
lenza®®. Nell’Iiidia, come abbiamo visto, il trave-
stimento animalesco ha alterato od attenuato il suo
valore originario fino a divenire, nel caso del brah-
macarin (p. 248), un semplice segno indicatore dello
stato penitenziale e del peccato di cui il peccatore
fa penitenza. E se allo stesso brahmacarin spettava,
come porzione dell’ asino sacrificato, un pezzo del
pene (p. 246), ecco qui ancora un altro rito anti-
chissimo, cioé un primitivo rito di comunione, non
pitt praticato nel suo senso proprio ed originario,
per far passare una virtth o qualita della cosa man-
giata nella persona di chi Ja mangia, ma sem-
plicemente per significare, se mai, una volta di pit
che il brahmacarin, venendo meno al suo voto di
castita, si era reso cosi simile all’asino come se ne
avesse inangiato il pene, incorporandosene cosi tutta
la natura e la foga libidinosa,.
Elementi di una religiositA primitiva e di tna
origine remota si trovano dunque incorporati e git-
staposti nella prassi penitenziale descritta nei Stitra:
elementi di carattere diverso, e per cid refrattari
ad una interpretazione sistematica tunivoca come
quella tentata dall’Oldenberg e dal Keith®', intesa
a scoprire nel comune carattere originario la ragione
del loro concentramento e giustaposizione. La ra-
gione sta bens in un aspetto che a tutti & comune;
ma esso non é l’aspetto originario, anzi uno acqui-
sito: é l’aspetto nuovo che ciascun elemento ha as-
sunto in seno alla prassi penitenziale per intonarsi
con quello che ne é lo spirito e la nota dominante,
cioé con la esigenza profondamente sentita dell’au-
todenunzia, dell’autoaccusa, della permanente rive-
lazione e diuturna propalazione del proprio peccato,
per non sottrarsi a nessuna delle sue conseguenze,
per che ognuno sappia a prima vista con chi ha da
fare, e si regoli in conseguenza, e cosi l’espiazione
sia piena. ‘Tale esigenza culmina nella confessione.
Ma anche della confessione non & questo il senso
originario. Anche la confessione é, come ormai sap-
piamo, un rito antichissimo di carattere primitivo.
252 CAPITOLO V
E primitivamente essa ¢ una operazione sacrale con-
corrente, merce la magia della parola, alla elimina-
zione del peccato. Questo valore originario, la con-
fessione nella prassi penitenziale dei Siitra non lo
ha pitt. Come l’uso di portare il teschio della pro-
pria vittima non vi é pit praticato per ridurre al-
Vimpotenza lo spirito dell’ucciso, né l’uso d’indos-
sare una pelle d’asino - o di mangiare della carne del-
Vasino - per appropriarsi la natura dell’animale, co-
me questi ed altri elementi vi figurano ormai con
un valore semplicemente indicativo del peccato com-
messo, cosi la ‘confessione’, cioé la enunciazione
verbale del peccato commesso, vi ha perduto il suo
originario carattere eliminatorio ed ha assunto quel
valore di notificazione, di informazione, di denuncia,
che é chiaramente sottolineato dal modo come essa é
fatta: pubblicamente, gridando a gran voce, ripetu-
tamente, di casa in casa. Anche presso gli Eskimesi
- fatto il debito conto del dislivello culturale - la
‘confessione’ mira a far sapere alla comunita che
un tabu é stato violato e da chi, affinché, schivando
il ‘peccatore’, si possano evitare le conseguenze di-
sastrose del ‘peccato’ stesso (p. 21). Ma questo mo-
mento, in cui il Boas credette di vedere 1’ origine
della confessione, rappresenta invece - come dicem-
mo - gid presso gli Eskimesi uno sviluppo dell’idea
originaria, una applicazione particolare del fonda-
mentale valore eliminatorio della confessione. Cosi
anche, ed a maggior ragione, nell’India antica.
Un segno, ad ogni modo, del suo carattere pri-
mitivo, anche la confessione indiana lo conserva nel-
la sua particolare applicazione a peccati di natura
sessuale. Dietro la confessione nei Sitra, applicata
LEGGI DI MANU 253
prevalentemente alla penitenza di peccati ses-
suali, sta la confessione nei Brahmana, attestata
unicamente (p. 234 sg.) per un peccato sessuale
(adulterio). E dietro la confessione nei Brahmana
non dico si vede, ma s’intravede, una lunga linea di
sviluppo remoto che risale fino ad uno stadio primi-
tivo corrispondente a quello a cui la confessione ¢,
invece, rimasta ferma in altri ambienti culturalmente
inferiori.
Ad un punto abbastanza inoltrato di questa linea
di sviluppo appartiene verosimilmente 1’ estensione
della confessione dai peccati sessuali ad altri peccati,
p. es. all’uccisione di un Brahmano. Nei Siitra si tro-
va applicata la confessione anche al peccato di furto:
chi ha rubato loro di un Brahmano deve presen-
tarsi ‘con chiome sciolte’ e con una mazza in ispalla
al re, e confessare il suo delitto, dopo di che
il re lo uccide con un colpo di quella mazza, op-
pure da la mazza al. colpevole che con essa si uc-
cide*?.
4. LE LEGGI DI MANU.
Anche in quel massimo dei dharmasastra che
sono le Leggi di Manu (probabile termine ante quem
per la composizione attuale il II sec. d. Cr.)°* la
confessione é applicata indifferentemente a peccati
di vario genere**. Ma come il peccato vi é contem-
plato principalmente nel suo aspetto etico-giuridico
di delitto, cosi la confessione vi appare - corrispon-
dentemente - in funzione piuttosto procedurale.
Il momento interiore della contrizione e del pen-
FS ONNe
RAS eo oe ee oe oe
“
254 CAPITOLO V
timento figura, in tutta la confessione indiana di ori-
gine brahmanica, in linea del tutto secondaria. Nei
Siitra prevale, come si é visto (p. 252), il motivo
esteriore della notificazione. Nelle Leggi di Manu
é espresso, bensi, il concetto che pel perdono delle
colpe si richiede altresi il pentimento, insieme col
proposito di non ricadere: ma questo pentimento
non & qualche cosa di inerente alla confessione
stessa, bensi qualche cosa che si aggiunge alla con-
fessione concorrendo con essa - o con altre prati-
che - alla espiazione della colpa:
«Con la confessione, col pentimento, con le privazioni
e con la recitazione (dei Veda) il peccatore si libera dalle
colpe, e, se nessun’altra via é possibile, con la elargizione.
Nella misura in cui un uomo che ha fatto del male lo con-
fessa egli stesso, in tale misura appunto egli si libera dalla
colpa, come un serpente (si spoglia) della sua pelle. Di quanto
il suo cuore detesta il suo misfatto, di tanto appunto il suo
corpo é libero da quella colpa. Colui che ha commesso un
peccato e se ne é pentito, é libero da quel peccato; ma egli
é purificato soltanto mercé il (proposito di) cessare (dal pec-
cato, dicendo) ‘io non lo faré pil’» (Manu, XI. 228-231).
«Colui che, avendo involontariamente o volontariamente
commesso un atto biasimevole, desidera esserne liberato, non
deve commetterlo una seconda volta » (Manu, XI. 233).
La distinzione dei peccati in volontari ed invo-
lontari é frequente nella casuistica delle Leggi di
Manu :
« Tutti i saggi prescrivono una pena per un peccato com-
messo involontariamente; alcuni, in base ai testi rivelati, an-
che per un (peccato) intenzionale. Un peccato commesso invo-
lontariamente & espiato con la recitazione dei testi vedici, ma
quello che (gli uomini) nella loro follia commettono intenzio-
nalmente, con varie (pene speciali) » (Manu, x1, 45-46).
Come si vede, il momento volitivo vale come cri-
terio di graduazione della pena; ma anche il ‘pec-
cato’ involontario @ soggetto ad espiazione, per
quanto meno grave. I] concetto etico per cui non
c’é peceato se non fu voluto, non é realizzato. L’ar-
‘caica concezione onde l’azione peccaminosa va espia-
ta anche se fu commessa involontariamente, non ¢ ’
superata. Superata fu, nell’India, soltanto dal Bud- we
dhismo. ' oe
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NOTE
1 Oldenberg, Die Religion des Veda, %4 (1994), 204 Sums
A, B. Keith, The Rellglon and Philosophy of the Veda and
Upantshads, Cambridge, Mass, 199s, I, 244 see.
2%, VW, Geldner, Der Rigveda (a Quellen der Religions.
geschichte » vol, 1a), I, Gbttingen-Leipziy 1043, a1; efr, Sata-
patha-Bradhmana, X11, 9, 4 7.
8 Cty, A. Bergaine, La religlon vddique, 111, Paria 1883, 170,
Se A, Willebrandt, Lieder des Kgveda (« Quellen der Reli-
gionsyeschichte », vol, 5), Gbttingen-Leipzig tom, p. 775 ofr, I,
, Griswold, The Religion of the Rigveda, Oxford University
Press 1925, 127.
411, Oldenherg, Varuna und die Adityas, Zeitwchrift der
Deutschen Morgentind, Gesellachaft so, 1896, 43 oe.
5 R. Pettazzonl, La Rellglone dl Zarathustra (« Storia delle
Religionin, 1), Bologna toat, 4o sep.
6 Keith, op, clt,, 1, aq5, » Cfr,, p. en, Alharva-Veda X, 5,
2a-aq (la faleith-impurith detersa e portata vin dalle aeque),
7 KR, Pettazzoni, Dio; Formazlone e sulluppo del Monotel.
smo, I, Roma 1942, 3690 wee.
8 1) sarebbe. stato anche il destino di Ahura Mazda (ef,
Keith, op. cll,, 11, 468 seyy.), Vequivalente iranteo di Varuna
(R. Pettazzoni, La Religlone dl Zarathustra, qo eey.), se qui
non fosse intervenuta lazione personale riformutrice di Zara
thustra a farne il dio unico di una religione monotelstieas efr.
R. Pettazzoni, La formation du monothélame, Revue de Vhint.
des religions, 1923, vol. 88, 195 ome.; Ahura Mazda, the Know.
ing Lord, « Indorlranian Studies», 1925, 143 eee.
9 Cfr, Keith, op, ctt., I, 248.
She es re NS Re
NOTE 257
10 Bergaigne, La religion védique, III. 169; H. D. Gris-
wold, The Religion of the Rig-veda, 167.
11 Keith, Religion and Philosophy of the Veda, II. 468 sgg.
12 Uccisione di Visvarfipa.
13 Cfr. i prdyascitta ‘espiazioni di errori’ - errori commessi
nella recitazione delle formule o dei sacri testi nel corso di
una celebrazione sacrificale -: Kausitaki Brdhmana XXVI. 3-6;
Ailtareya Brahmana V. 32 (=XXV, 7) Keith, Rigveda Brah-
manas, Cambridge, Mass. 1920, 497 Sg-, 257 Sg-
14 Cfr. Keith, Religion and Philosophy of the Veda, II. 477.
15 Griswold, op. cit., 129 sg.
16 Specialmente : Satapatha-Brahmana, Il. 5, 2 (J. Eggeling,
The Saltapatha-Brahmana according the Text of the Madhyan-
dina School, SBE, XII. 396. - L’edizione del Satapatha-Brah-
mana secondo la recensione della scuola Kanva é stata ini-
ziata dal Caland, The Catapatha-Brahmana in the Kanviya Re-
cension, I, Lahore 1926). - Apastamba-Srautasutra, VIII. 5-8
(W. Caland, Das (rautasiitra des Apastamba aus dem Sanskrit
iiberselzt, I-VII Buch, « Quellen der Religionsgeschichte »,
vol. 8, Gottingen 1921, 17 sgg. - La seconda parte, libb. VIII-
XV, in « Verhandelingen der K. Akademie van Wetenschappen
te Amsterdam », Afd. Leterk., Nieuwe Reeks, XXIV, 2). - Tait-
tirtya Samhita, I. 8, 3; IV. 2, 11 (A. B. Keith, The Veda of the
Black Yajus School entitled Taittiriya Samhita, Cambridge,
Mass. 1914, I. 114 sg., IL. 325). - Kaustlaki Brahmana, V. 3-4
(Keith, Rigveda Bralhmanas translated, Cambridge, Mass., 1920,
372). - Cfr. Keith, Religion and Philosophy of the Veda, Cam-
bridge, Mass. II. 321 sgg.; A. Hillebrandt, Ritwal-Litleralur,
Vedische Opfer u. Zauber, « Grundr. der indo-arischen Philo-
logie », III. 2, Strassburg 1897, 117; Weber, Indische Studien,
X. 337 seg:
17 Anche nel Sakamedha, la terza (p. 234) delle feste an-
nuali di stagione (essa era caratterizzata da un sacrifizio spe-
ciale ai pilaras, cioé agli ‘avi’, detto pitryajia o mahdapi-
tryajfia), sopra un fuoco acceso ad un incrocio di strade si
offrivano delle paste, in numero di quattro almeno, e pid pre-
cisamente tante quante erano i membri della famiglia pit
uno; Keith, Religion and Philosophy of the Veda, II. 322.
18 Satapatha-Br. Il. 5, 2, 22; Taitliriya-Br. I. 6, 4, 5; Apa-
stamba-Srautastitra, VIII. 5, 41.
R. PETTAzzoNI, La Confessione dei peccati, 1. 17
2 Pe Hpi
258 CAPITOLO V
19 Secondo l’Apastainba (VIII. 6, 20) ed altri Sitra, la do-
manda @ ancor meno riguardosa: ‘Quanti amanti hai?’.
20 Kalydyana-Srautastitra, V. 5, 7-9. Cfr. HWillebrandt, op.
cit., 117.
21 Apastamba, VIII. 6, 22; efr. Mailrdyant-Samhitd, I. 10, 11.
22 Apastamba, VIII. 6, 21-22; cfr. Taittiriya-Brah,, I. 6, 5, 2.
23 Q, altrimenti, il ‘sacrificante’ e la patni insieme: Apast.-
Srautas, VIII. 6, 24 p. 26 (Caland), - « Oppure @ Vadhvaryu o
il pratiprasthdly che sacrifica i piatti di pasta, mentre gli altri
due (cioé il sacrificante e sta moglie) lo tengono stretto per
di dietro »; ibid., VIII. 6, 26.
24 Satapatha-Brahmana, Il. 5, 2, 30.
25 Satapatha-Brahmana, II. 5, 2, 21 e 25; cfr. Tailliriya
Samhita, I. 8, 3; Keith, The Veda of the Black Yajus School,
Cambridge, Mass. 1914, I, p. 114 sg. (cfr. II, p. 325).
26 La festa terminava con vari riti di chiusura, tra cui un
bagno finale del ‘sacrificante’ e di sua moglie, i quali s’ im-
mergeyano - non completamente -, si spruzzavano acqua sulla
testa e si lavavano scambievolmente il dorso: Apast. VIII. 8,
15 seg. - Riti analoghi alla chiusura dell’agnistoma e dell’asva-
medha, Cfr. Hillebrandt, op. cil., 125; Caland et Henry, L’Agni-
stoma, p. 401 (Apast., XIII. 19-22 Caland [2 parte], 352 sgg.).
27 Cfr, Satapatha-Brahmana, II. 5, 2, 23: « (Le paste) hanno
forma di piatti perché é@ dai piatti che si mangia il cibo; e
sono confezionate con orzo perché fu quando (le creature)
mangiarono l’orzo che Varuna le afferrd..... ».
28 Kausilaki Brahmana, V. 3: Keith, Rigveda Brahmanas
translated, Cambridge, Mass., 1920, p. 372.
29 Salapatha-Brahmana, II. 5, 2, 22.
40 Cfr. A. B. Keith, Journal of the Royal Asiatic Society,
1908, 845 sg. («the man is clearly a scapegoat on whose head
are deposited the sins of the village »); « Encyclopaedia of
Religion and Ethics», XI, 561; The Religion and Philosophy
of the Veda and Upanishads, I. 248. La difettosita fisica po-
trebbe avere la sua ragione nel fatto che un individuo difet-
toso era naturalmente pit indicato per la espulsione, perché
in tal modo la perdita subita dalla comunitad era meno grave,
- 0 magari era desiderata, per liberare la comunita da un indi-
viduo anormale e, come tale, temibile (cfr. Peri: p. 125 en. 15).
L/offerta (a Jumbaka) fatta sulla sua testa si presta ad essere
intesa come una trascrizione in termini di liturgia sacrificale
di un originario atto magico di toccamento della testa desti-
nato a trasferirvi i peccati. - Persone ed animali in funzione
di ‘capro espiatorio’ per essere caricate dei peceati di un
defunto o di un moribondo sono ancora in uso presso popola-
zioni odierne dell’India: presso i Badaga (Nilghiri, India me-
ridionale) i peceati di un defunto sono fatti passare sopra
tn bufalo (p. 241); analogamente presso i ‘Toda (Nilghiri)
sopra un vitello (J. W. Breeks, An Account of the Primitive
Tribes and Monuments of the Nilagiris, London 1873, 23 #5
W. H.R. Rivers, The Todas, London 1906, 377); a Travancore,
quando un rdjah era in fin di vita, #i cercava un Brahmano
che, dietro compenso in danaro, acconsentiva ad addossarsi i
suoi peccati, dopo di che doveva allontanarsi e¢ non farsi mai
pitt vedere da quelle parti; talvolta il trasferimento oi effet-
tuava merecé un’operazione - pill o meno simbolica - di man-
giare e bere, in certi casi dalla mano stessa del defunto (‘Tan-
jore, Bilaspur, Oudh, Chamba: Irazer, Golden Bough®, vol. 9,
p. 42 sgg.), Una interessante sopravivenza di questo costume
organizzato in forma di professione o mestiere (esempi anche
nel Turkestan) #i ha nel sin-cater del Paese di Galles, un po-
vero diavolo che, avendo ricevuto una pagnotta € una coppa
di birra (oltre a qualche moneta), mangiava e beveva in pre-
senza del cadavere esposto nella bara, € con cid si eredeva
che prendesse su di sé i peccati del defunto: J, Aubrey, Re-
maines of Gentillsme and Judalsme (1686-87, pubblic, dalla
Folk-Lore Society nel 1841); . Sidney Hartland, Volk-Lore,
4, 1892, 145 8g. (sopravivenza di un originario costume di
mangiare il cadavere ?); Godden, {bld., 546; Wartland, The Le-
gend of Perseus, IL, 209 8g.; Wood-Martin, Traces of the elder
faiths of Ireland, 1902, 1. 295; Archiv fir Religionswiss., 1914,
471, 0. 3; Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 2, 1926,
51 ogg.
41 HW. Oldenberg, Religion des Veda%-A (1923), 424, 0. 15
Zur Religion wid Mythologle des Veda, Géttingisehe Nach-
richten, 1915, 178, n. 4, Clr. Frazer, Golden Bough, Il. 715;
C, Clemen, Reste der primitiven Religion im illtesten Chris.
tentwm, 126, n. 4.
42 Sylv. Lévi, La Doctrine du Sacrifice dans les Brdhma-
nas, Paris 1498, 163, 166,
O Oe > Fare af 64 Se e
260 CAPITOLO V
53 Maitréyani Samhild, I. 10, 11; Apastampa Srautas. VIII.
6, 22, Caland p. 25; cfr. Keith, Relig. a. Philos. of the Veda a.
Upan., II. 475.
34 ibid.
35 Satap.-Br., II. 5, 2, 20.
36 W. Caland, V. Henry, L’Agnistoma, Paris 1906-07.
37 Caland et Henry, op. cit., 388; cfr. Oldenberg, Relig. des
Veda8-4, 325.
38 Una specie di elenco di peccati si ha anche nell’aggiunta
apocrifa agli inni del IX libro del Rgveda, i cui versetti si
recitano come ‘purificanti’ (pdvamdnit) in concomitanza di
abluzioni eliminatorie del peccato: Scheftelowitz, Archiv fiir
Religionswiss., 17, 1914, 354 Sgg-
39 Sten Konow, Das Sdmavidhdnabrahmana, ein altindisches
Handbuch der Zauberei, Halle a. S. 1893.
40 Gautamadharmasitra XXVI é preso di sana pianta da Sd-
mavidhanabrahmana, I. 2: Bithler, SBE, II, p. XLvil e 292 segg.
41 Gautama Dharma Sitra, XXIII. 17-19, SBE, II, p. 286;
Paraskara Grhya Sitra, III. 12, 1-11, SBE, XXIX, p. 361 sgg.;
Apastamba Dharma Sitra, I. 9, 26, 8, SBE, II, p. 85; Vasistha
Dharma Sutra, XXIII. 1 sgg., SBE, XIV, p. 117 sgg.; Manu
XI. 119 sgg.
42 SBE, II, p. 89.
43 T/omicida pud, p. es., gettarsi nel fuoco oppure fare
della sua persona scudo a combattenti (Gautama Dharma Su-
tra, XXII. 2). Soltanto chi uccise involontariamente pud essere
purgato in vita (Baudhadyana Dharma Sitra, II. 1. 1, 6). « An-
che chi uccide involontariamente matura tuttavia l’effetto di
questo peccato; pitii grande (é la sua colpa, se uccide) inten-
zionalmente »: Apastamba Dharma Sitra, I. 10, 29, 2-3. La pena
é la stessa anche se l’omicidio di un Brahmano fu solo ten-
tato e non consumato (Gautama Dharma Sutra, XXII. 11).
44 Apastamba Dharma Sutra, I. 9, 24, 11 sgg., SBE, II.
Pp. 79 sgg., (I. 10, 28.21 - 29.1, p. 89 sgg.); Gautama Dharma
Stitra, XXII. 2-11, SBE, II, p. 280 sgg.; Baudhdyana Dharma
Sutra, Il. 1. 1, 2 sgg., SBE, XIV, p. 211 sgg.; Manu XI. 73.
45 Pischel, Vedische Studien, I, Stuttgart 1889, 82; Weber,
Indische Studien, X. 102.
46 H. Spencer, Principles of Sociology, I%, (1885), 194.
47 Riscontri formali di primaria importanza etnologica nella
m%
NOTE 261
Grecia antica (pacyarrapreg) e nel Darien pre-colombiano: R.
Pettazzoni, Studi e Materiali di Storia delle Religioni, 1, 1925,
218 sgg.; 2, 1926, 278 sgg.
48 "Egy. Key aror. 1887, t. 10, I.
49 Rilievo dal mitreo di Konjica (Bosnia): Cumont, My-
stéres de Mithra®, 164.
50 Cfr. R. Pettazzoni, La Religione nella Grecia antica, 104;
I Misteri, 64, 266.
51 H. Oldenberg, Relig. des Veda3-4 (1923), 327 sgg.; A. B.
Keith, Religion and Philosophy of the Veda, I. 266 sgg.
52 Apastamba Dharma Sitra, I. 9, 25, 4; Vasistha Dharma
Stilra, XX. 41; cfr. Manu, XI. 100 sg.
53 The Laws of Manu, transl. by G. Biihler, SBE, XXV,
Oxford 1886.
54 Manu, XI. 83 sg.; XI. 100 sg.; XI. 104 sg.; ecc.
VI.
Giainismo.
La confessione fa parte del sistema penitenziale
giainico, ed é praticata principalmente dai monaci.
Accanto al semplice atto di contrizione interiore
(ninda), accanto alla dichiarazione generica di pen-
timento fatta da un monaco dinnanzi al suo supe-
rlore spirituale (garha), il Giainismo conosce la vera
e propria confessione, cioé la enunciazione specifica
del peccato commesso, designata col termine Glo-
cana, alocana (dloyana), e talvolta Anche col termine
pratikramana (padikkamana), sebbene questo abbia
propriamente il senso pitt comprensivo di ‘peni-
tenza’.
La confessione é fatta dal monaco di regola ad
un altro monaco autorevole della stessa comunita, e
solo in via e¢cezionale ad un monaco di una comu-
nita diversa o addirittura ad un laico:
« Un monaco che ha commesso tuna colpa e desidera dichia-
ratla, deve al suo maestro e al suo direttore spirituale, quando
li vede, dichiarar(la), confessarsi, pentirsi, rimproverarsi, ri-
nunziare (a quella colpa), purificarsi, fare proponimento di non
commetterla (pitt) e sottoporsi alla debita penitenza. Se non
vede il suo maestro e il suo direttore spirituale, deve (confes-
sarsi) ad un (altro) membro della sua commnita (che sia) ver-
aaEea
GIAINISMO 263
sato nei sacri testi e nella tradizione; (oppure, in mancanza
di tale,) ad un membro di altra comunita, (oppure) ad un laico
che temporaneamente osservi il regime dei monaci, (oppure)
ad un laico ordinario. (Mancando anche questo,) deve (andar)
fuori (dell’abitato), e volgendosi ad oriente o a settentrione,
toccandosi con le mani congiunte il sommo della testa, dire:
‘Tali e tanti sono i miei peccati, cosi e tante volte io ho pec-
cato’ (confessandosi in tal modo) ai santi sublimi» (Vavahara,
I. 34)2.
Il quadro ideale delle occupazioni giornaliere del
monaco, partitamente distribuite nelle ‘ore’ o divi-
sioni (paurusi) del giorno e della notte, contempla
al termine delle quattro ore diurne (pari a dodici
delle nostre) e al termine delle quattro notturne (le
altre dodici) un esame di coscienza da parte del mo-
naco eventualmente seguito da confessione (al guru) :
«12 Nella prima parte (del giorno il monaco) deve studiare,
nella seconda meditare, nella terza andare in giro per 1’ele-
mosina e nella quarta di nuovo studiare... 21 Nel primo quarto
della prima parte (del giorno) egli deve ispezionare le sue
cose, fare riverenza al suo stuperiore (guru), indi mettersi a
studiare senza lasciarsi prendere dalla stanchezza. 22 Nell’ (ul-
timo) quarto della prima parte (del giorno il monaco) deve
ispezionare la sta scodella..... 23 Deve prima ispezionare il
suo fazzoletto*, indi, prendendo in mano la spazzola, deve ispe-
zionare il suo vestito.....32 Nella terza parte (del giorno) il mo-
naco deve andare a mendicare cibo e bevanda..... 37 Nella
quarta parte (del giorno) deve riporre la sua scodella (dopo
aver mangiato), indi mettersi allo studio rivelatore di tutte
le cose esistenti. 38 Nell’ultimo quarto della quarta parte (del
giorno) deve far riverenza al guru,...:. indi deve ispezionare
il suo alloggio. 39 Un monaco zelante deve anche ispezionare
il sito che serve per evacuare e urinare; indi fino al tramonto
* Un pezzo di tela che i monaci tengono davanti alla bocca
per impedire che nell’atto della inspirazione qualche insetto
possa introdurvisi e trovarvi la morte.
Tn
Oe echo Tiere eC
©glee weet)
att ty
%
‘
sy
264 CAPITOLO VI
deve praticare il kdyotsarga *, senza lasciarsi prendere da
stanchezza. 49 Indi deve accuratamente riflettere sopra tutte le
trasgressioni da lui commesse durante il giorno in rapporto
alla conoscenza, alla credenza e alla condotta. 41 Terminato il
kayotsarga e fatta riverenza al guru, deve ordinatamente
confessare le sue colpe cotmmesse nel corso della
giornata. 42Indi, avendo recitato il pratikramanasttra ed
avendo distrutto i suoi peccati, deve fare riverenza al guru e
praticare il k@yotsarga senza lasciarsi assalire da stanchezza.....
44 Nella prima parte della notte (il monaco) deve studiare,
nella seconda meditare, nella terza dormire e nella quarta di
nuiovo studiare. 45 Nella quarta parte (della notte) egli deve
aspettare il tempo opportuno, indi mettersi a studiare senza
svegliare i padroni di casa. 46 Nell’ultimo quarto della quarta
parte (della notte) deve fare riverenza al guruw..... BT ae € pra-
ticare il kdyotsarga, 48 Indi deve ordinatamente riflettere a
tutte le trasgressioni da lui comimesse durante la notte in
rapporto alla conoscenza, alla credenza e alla condotta.
49 Avendo terminato il kdyotsarga e fatta riverenza al guru,
deve ordinatamente confessare le sue colpe com-
messe durante la notte» (Ultarajjhdyd, 26)3.
Anzi che quotidianamente, o magari due volte
nella stessa giornata - di giorno e di notte -, il pra-
tikramana poteva esser fatto anche una volta ogni
quindici giorni, oppure una volta ogni quattro mesi,
oppure una volta all’anno**.
Alla confessione seguiva, come complemento ne-
cessario, la penitenza. Quando questa era imposta in
modo conforme alle regole, doveva essere accettata
dal colpevole-e docilmente eseguita:
«Se un monaco ha commesso una colpa e non V’ha riparata,
non pud andare per cibo o bevanda alla proprieta di un laico
o tornar(ne), non recarsi ad un luogo di ricreazione e tratteni-
mento od entrar(vi), non andare da uno ad altro villaggio.
* Propriam. ‘abbandono del corpo’: posizione di medita-
zione con le gambe incrociate, il busto eretto e le braccia ab-
bandonate in grembo.
GIAINISMO 265
Quando egli vede il suo istruttore, esperto della tradizione,
conoscitore del canone, deve dinnanzi a lui confessarsi
(padikkamittae), pentirsi, accusarsi, purificarsi, promettere di
non tornare a peccare, ed assoggettarsi alla debita penitenza.
Quando questa @ indicata dalla tradizione, deve essere ac-
cettata; quando non é indicata dalla tradizione, non deve. Se
egli, obbligato (a far penitenza) conforme alla tradizione, non
acconsente, dev’ esser allontanato (dalla comunitd locale)»
(Kappa, tv. 25)4.
Naturalmente le penitenze erano proporzionate
alla entita delle colpe. Dalle pit lievi (per colpe ve-
niali, quali potevano essere le infrazioni alle regole
di buona creanza riguardo al modo di mangiare, di
studiare, di far pulizia, ecc.)°®, consistenti, p. es.,
nella rinunzia a certi condimenti, nella limitazione
delle pietanze, nel saltare alcuni pasti®, e simili, si
passava al digiuno pitti o meno prolungato e poi alle
sanzioni che toccavano il monaco in cid che gli stava
pitt a cuore, vale a dire la sua anzianita monastica
e la sua permanenza nell’ordine.
Si ebbe cosi un sistema penitenziale di dieci
gradi, che cominciava precisamente con la confes-
sione (aloyana) e la penitenza (padikkamana) e loro
combinazione, indi passava alle varie forme della
rinunzia e del digiuno per giungere alla perdita par-
ziale dell’anzianita, alla perdita totale con rinnova-
mento immediato dei voti, alla perdita totale con
rinnovamento dei voti soltanto dopo un certo inter-
vallo, e finalmente alla espulsione definitiva dall’or-
dine’.
Particolarmente gravi sono le colpe che il mo-
naco commette venendo meno ai cinque ‘grandi
voti’ (mahavrata) della vita monastica: non far male
ad esseri viventi, non dir cosa non vera, non appro-
266 CAPITOLO VI
priarsi l’indebito, non commettere atti carnali, non
bramare. Per siffatte infrazioni é specificamente pre-
scritta la confessione e la penitenza:
«ll primo grande voto (dice): Io mi astengo dal far male
ad esseri viventi, piccoli o grandi, mobili o immobili. Non
voglio far male io stesso ad esseri viventi, né esser catsa che
altri lo faccia, né approvare se altri lo fa, (e cid) per tutta la
mia vita, né col pensiero né con la parola né col corpo; (e€ se
no,) io voglio confessarmene, biasimarmi, rimproverarmi,
pentirmi.....8 - Ora segue il secondo grande voto: Io mi asten-
go da ogni peccato di parola menzognera, sia per ira o per
cupidigia o per patira o per gioia. Non voglio dire io stesso
il falso, né esser causa che altri lo dica, né approvare se altri
lo dice, (e cid) per tutta la mia vita, né col pensiero né con
la parola né col corpo; (e se no,) io voglio confessarmene,
biasimarmi, ritmproverarmi, pentirmi..... - Ora segue il terzo
grande voto: Io mi astengo dal prendere cosa alctina non data,
sia in un villaggio o in una citté o lontano dall’abitato, sia
essa poca 0 molta, piccola o grande, viva o non viva. Non vo-
glio prendere io stesso cosa non data, né esser causa che altri
la prenda; (e cid) per tutta la mia vita, né col pensiero né
con la parola né col corpo; (e se no,) io voglio confessarmene,
biasimarmi, rimproverarmi, pentirmi..... - Ora segue il quarto
grande voto: Io mi astengo dal commettere alcun atto carnale,
sia riguardo ad esseri divini od umani od animali. Non voglio
commettere io stesso alcun atto carnale, né esser causa che
altri lo commetta, né approvare se altri lo commette; (e cid)
per tutta la mia vita, né col pensiero né con la parola né col
corpo; (e se no,) io voglio confessarmene, biasimarmi, rim-
proverarini, pentirmi..... - Ora (segue) il quinto grande voto:
Io mi astengo da ogni possesso, sia esso poco 0 molto, piccolo
© grande, vivo o non vivo. Non voglio possedere io stesso al-
cuna cosa, né esser causa che altri la possegga, né approvare
se altri la possiede; (e cid) per tutta la mia vita, né col pen-
sero né con la parola né col corpo; (e se no,) io voglio con-
fessarmene, biasimarmi, rimproverarmi, pentirmi..... » (Aydra,
ul. 15 [Bhavana])9.
Gli stessi cinque voti in forma attenuata - come
anuvrata - sono obbligatori anche pei laici (wpasaka,
GIAINISMO 267
uvdsaga)'®: segno non trascurabile di quella mag-
giore e pitt intima coesione del mondo laico con il
mondo monastico che é caratteristica della chiesa ¢
della religione giainica specialmente in confronto col
Buddhismo. Oltre ai cinque voti fondamentali in-
tesi, pei laici, nel senso relativo di non uccidere,
non mentire, non rubare, non avere rapporti ses-
suali che con la propria moglie, limitarsi nelle pro-
prie aspirazioni, i laici possono imporsi’? altri sette
voti accessori (Silavrata), suddistinti in tre voti meri-
torii (gunavrata) e quattro supererogatorii (siksavra-
ta), che costituiscono una pitt piena - per quanto
temporanea - partecipazione dei laici alle austerita
;oo
della vita monastica. Uno dei quattro voti superero-
o
gatorii @ l’osservanza dei giorni di digiuno (uwposa-
tha), che sono sei per ogni mese, 1|’8 e il 14 della
prima quindicina, 1’8 e il 14 della seconda quindi-
cina, pit il novilunio e il plenilunio. Questi ‘giorni
di digiuno’ sono - per monaci e laici - anche giorni
di penitenza e di mortificazione: mentre i monaci
intensificano le loro mortificazioni, i laici interrom-
pono le occupazioni ordinarie, si astengono dall’av-
vicinare le loro mogli, non hanno cura della propria
persona, frequentano le chiese assistendo alle fun-
zioni e alla lettura dei testi sacri’*. C’& poi un’epoca
dell’anno specialmente dedicata alla penitenza pit
rigorosa, ed é il paryusana, un periodo di otto giorni
(per gli Svetambara) che cade nella stagione delle
piogge, e precisamente a meta del nostro agosto, e
che segna la fine dell’anno ecclesiastico giainico. Nei
primi sette giorni i laici osservano un relativo digiu-
no, frequentano assiduamente i templi e visitano i
monasteri; l’ottavo giorno del paryusana, che é l’ul-
268 CAPITOLO VI
timo dell’anno (samvatsari), & giorno di digiuno as-
soluto e di confessione generale: «ciascun fedele,
sia uwomo o donna, deve confessarsi al suo guru oO
direttore spirituale. La folla si accalca nelle chiese
a questo scopo. La confessione ha luogo nell’oscu-
rita, mentre i preti (pujari)'* recitano ad alta vo-
ce delle preghiere rituali. Quando la confessione
é terminata, i laici rendono omaggio ai guru; indi,
-dopo aver ascoltato la lettura dell’intero Kalpasitra,
si salutano chiedendosi vicendevolmente perdono
delle offese, fastidi e litigi cui abbian dato luogo nel
corso dell’annata»'. A questo scopo usano anche
scrivere ai loro conoscenti lontani per chieder per-
dono di eventuali torti volontariamente o involon-
tariamente fatti. Nessun peccato commesso nell’an-
nata deve rimanere inconfessato; ogni pendenza
dev’ essere liquidata prima che 1’ anno nuovo in-
cominci’?.
Ai laici é sovente inculcata la confessione nei te-
sti canonici (Svetambara)'°:
« (I laici) osservano il giorno di astinenza che ricorre il 14
e 1’8 (di ogni quindicina, nonché al) novilunio (e) plenilunio,
elargiscono ai monaci svincolati cibi, bevande, leccornie (e)
spezie, (nonché) vestiti, scodelle, fazzoletti* e spazzole, come
pure medicamenti, sgabelli, panche, giacigli, paglia, secondo
che é consentito; si purificano mercé i voti temporanei e per-
manenti..... in quanto se li sono imposti. Cosi vivendo, essi
compiono in molti anni la loro carriera di laici; e siano poi
sofferenti o no, rinunziano a molti cibi, saltano molti pasti, e
dopo la confessione e penitenza, quando al momento sta-
bilito muoiono con animo sereno, rinascono nei mondi divini
per vivere in qualita di iddii» (S#yagada, 11. 2, 76-77)17.
* V. sopra a pag. 263.
GIAINISMO 269
Per il destino ultraterreno incombente alle 16 ca-
tegorie di esseri, cioé per la loro eventuale rinascita
in un mondo superiore o inferiore e per un tempo
pitti o meno lungo a seconda della loro condotta,
ha gran peso, fra |’ altro, precisamente la circo-
stanza se essi - monaci o laici - siano morti avendo
fatto la confessione (dloiyapadikkanta) oppure senza
essersi. confessati (andloiyapadikkanta)'*. D? altro
lato, una confessione intenzionalmente incompleta,
e quindi insufficiente, avra delle conseguenze fatali,
in quanto fara prolungare indefinitamente la perma-
nenza del peccatore nel ciclo delle rinascite’®. Per
quanto uno si adoperi a vivere secondo le regole
della religione, i suoi sforzi saranno vani, se egli
terra dentro di s¢ un peccato non confessato”®. Ai
laici é specialmente rivolto anche il rimprovero che
spesso é fatto nelle sacre scritture a chi, avendo
commesso una colpa, rifiuta di riconoscerla e con-
fessarla:
« Un disonesto, quando commette tin inganno, non lo con-
fessa né privatamente né pubblicamente, non se ne rimprovera
né dentro di sé né davanti ad altri, non lo ripudia, non se ne
purga, non promette di evitarlo, non accetta di farne la debita
penitenza col digiuno» (Si#yagada, 1. 2, 20)21,
Per la tendenza sistematica che é caratteristica
della dottrina giainica la confessione-penitenza (pra-
tikramana) & concepita come uno dei sei dvasyaka,
o ‘doveri imprescindibili’ dei laici??. Analogamente,
la confessione e la penitenza (alocana, pratikramana)
figurano, come vedemmo (p. 265), fra i dieci gradi
della prassi penitenziale che si chiama, con termine
generico, prayascitta (payaccitta, paccitta), cioé
“espiazione’ nel senso pitt comprensivo della pa-
270 CAPITOLO VI
rola*, Il prayagcilla, a sua volta, é una delle sei
forme interiori del tapas ossia ‘ascesi’**. Questo
tapas nel complesso delle sue dodici forme - sei in-
teriori e sei esteriori - € uno dei mezzi per la estin-
zione del karma, allo stesso modo che l’osservanza
dei cinque voti é uno dei mezzi per tenere il karma
lontano dall’anima’®’. Cosi la confessione, attraverso
la prassi penitenziale di cui essa fa parte, trova il
suo posto preciso nel complicato ingranaggio della
dottrina giainica, la quale culmina appunto nella to-
tale eliminazione del karma come condizione neces-
saria e sufficiente per la salvezza, cioé per la libera-
zione dal ciclo delle esistenze (nirvana).
Infatti il karma é concepito, nel Giainismo, come
qualche cosa di materiale (pawdgala): & una delle
sei forme della materia (pudgala), la quale a sua
volta é una delle cinque sostanze (le altre sono lo
spazio, il tempo, la condizione del moto e la condi-
zione della quiete) che costituiscono il mondo non
spirituale (ajiva). Di fronte a questo sta il mondo
spirituale (jiva), costituito da una moltitudine di
anime immateriali. Ogni attivita dell’anima ha per
conseguenza una sua alterazione (deterioramento)
dovuta all’afflusso (Gsrava) e successiva assimilazione
(bandha) di particelle di materia karmica. L’azione
del karma dura fino alla totale estinzione di esso,
facendosi sentire in una serie di esistenze successive
fino a che il karma sia consumato: ché se ogni
nuova esistenza a sua volta da luogo all’accumula-
zione di nuovo karma, il ciclo delle rinascite (sam-
sara) si prolunga indefinitamente. Condizione per
uscirne ¢ che ogni azione di karma venga meno, e
dunque che 1) il karma gia accumulato, cioé affluito
GIATNISMO 271
e assimilato dall’anima, si estingua completamente,
e 2) ogni afflusso ed assimilazione di karma nuovo
sia impedito. Questa esclusione (samvara) di nuovo
karma si ottiene appunto regolando la propria vita
sull’osservanza scrupolosa dei cinque voti fondamen-
tali, nonché su una quantita di altre prescrizioni mi-
nori: osservanza della triplice gupti (disciplina re--
lativa ad ogni attivita del corpo, della parola e del
pensiero), osservanza della quintuplice samiti (cir-
cospezione nel camminare, nel parlare, nell’elemo-
sinare, nel prendere e deporre un oggetto, nell’eva-
cuare), osservanza dei ro doveri (dharma), concen-
trazione nelle 12 riflessioni (anupreksa), paziente
sopportazione dei 22 tormenti (parisaha), ecc. Ad ac-
ze
A
celerare il processo di estirpazione (nirjara) del kar-
ma preesistente, che altrimenti richiederebbe un nu-
mero indefinito di esistenze, serve il tapas, cioé I’ a-
scesi, nei suoi due modi sopra indicati, esterno ed
interno, e dunque servono la confessione e la pe-
nitenza, che fanno parte del tapas (interno), come
si é detto.
Attraverso lo spirito rigorosamente sistematico
che informa, come si vede, tutta la dottrina giainica,
applicandosi, p. es., con accentuata predilezione alla
rubricazione e classificazione numerica dei concetti,
é sintomatico che si possa constatare nel Giainismo
la presenza di taluni elementi religiosi che gli con-
feriscono una particolare fisonomia arcaica. Gia die-
tro il ‘panpsichismo’ giainico, cioé dietro la dottrina
delle innumerevoli anime individuali indistruttibili
- dottrina che é comune ad altri sistemi filosofico-
religiosi dell’ India, mentre ¢ nettamente ripudiata
dal Buddhismo -, par di vedere delinearsi, su uno
272 CAPITOLO VI
sfondo assai remoto, il primitivo animismo”®. Anche
la teoria dei cinque corpi (farira) di cui - secondo il
Giainismo - anima é rivestita sembra riprodurre in
termini di pensiero speculativo la credenza, larga-
mente esemplificata presso i primitivi, in una plura-
lita di ‘anime’ o di elementi animici esistenti nello
stesso individuo. Il fatto che uno di questi cinque
corpi é formato di sostanza karmica (kdrmanasarira)
richiama altresi, per ovvia associazione, la conce-
zione primitiva (Eskimesi, Californiani, Sulka, ecc.)
secondo la quale il male-peccato € una specie di
fluido onde rimane investita la persona del ‘pec-
catore’ (violatore di tabu). E l’idea stessa di karma
secondo il Giainismo, di un karma che é sostanza
ed é materia, che affluisce ed investe l’anima, che,
assimilato dall’anima, la influenza e la modifica of-
fuscandola, che pud tuttavia essere tenuto lontano
mercé l’occlusione delle possibili vie di accesso, che
opera per un certo tempo e poi si estingue da sé,
ma che puo anche essere estirpato, eliminato e di-
strutto artificialmente per mezzo di pratiche oppor-
tune: questa idea é affine a quella concezione pri-
mitiva del male-peccato - da noi gid incontrata
presso molte popolazioni incolte, ma anche, in for-
ma di sopravivenza, in ambienti culturalmente pro-
grediti - secondo la quale il male-peccato ha una sua
obiettiva consistenza sostanziale, ond’esso investe la
persona di chi, anche involontariamente ed inconsa-
pevolmente, l’ha prodotto, salvo poi ad essere espul-
so mercé una qualche operazione eliminatoria col
concorso di una enunciazione evocatrice del peccato
stesso. A questa ideale riduzione della nozione (giai-
nica) del karma al concetto primitivo del male-pec-
GIAINISMO 273
cato (cfr. p. 54) non contrasta il fatto che il karma
puod avere anche - a differenza del peccato - degli
effetti buoni (karma positivo), se Il’ azione genera-
trice di karma fu meritoria; infatti in questa tra-
scendenza del karma sul male-peccato é ovvio rico-
noscere una amplificazione ed estensione di origine
speculativa, - mentre é pur da tenere presente che,
nello stesso Giainismo, anche il karma generato da
un’ opera buona esercita sull’ anima una influenza
negativa ai fini della salvezza?”, a questa giovando
effettivamente soltanto la distruzione del karma, e
quindi la rinunzia ad ogni forma di attivita che non
sia rivolta a questo fine.
Sintomatico sopratutto é il fatto che una idea cosi
tipicamente primitiva (p. 54) come é quella del pec-
cato commesso involontariamente e inconsa-
pevolmente ricompaia nella concezione giainica
del peccato, per la quale, infatti, non conta la vo-
lonta del soggetto, ma la obiettiva realta dell’atto
compiuto, - per la quale dunque, p. es., la distru-
zione di un essere vivente é sempre peccato, anche
se essa non sia intenzionale, ed é poi addirittura in-
concepibile che chi uccise la propria madre sia in-
nocente pel solo fatto che l’uccisione sia stata invo-
lontaria?®. D’altro lato, poiché penitenza e peccato
sono intimamente connessi, é da aspettarsi che quel-
l’arcaismo di cui abbiamo traccia nella concezione
giainica del peccato si rifletta anche nella prassi pe-
nitenziale del Giainismo. Infatti, gia il tapas, come
fervore di pratiche ascetiche e fuoco interiore (cfr.
il latino tepos), si presta ad essere ricondotto ad un
vero e proprio processo fisico destinato a distruggere
il karma (sostanza karmica) mercé l’azione del fuo-
R, PETTAzzoNI, La Confessione dei peccati, |. 18
Yee eS VO ae
. Pf “ en t. & Re :
‘
274 CAPITOLO VI
co. Qui vengono in mente i ‘i bagni di sudore’ pra-
ticati specialmente dagli indigeni dell’America set-
tentrionale entro le stufe (sweat-lodge) a scopo tera-
peutico e sacrale insieme?’, Si aggiunga che la com-
bustione é una delle operazioni in uso presso popo-
lazioni primitive per la eliminazione del peccato
(p. 128). E nell’ India stessa vedico-brahmanica, il
Fuoco (Agni) era un mezzo per la distruzione del
peccato (p. 229), mentre nella ‘festa’ Varunapra-
ghasa esso era adibito alla distruzione (avayaj) di
oggetti investiti di sostanza peccaminosa (p. 236).
E poiché nella stessa festa Varunapraghasa era
praticata anche la confessione (p. 235), ecco che per
questa via anche alla confessione giainica si schiu-
dono orizzonti fino ad ora inesplorati e nuove pro-
spettive di connessioni remote sopra uno sfondo di
lontananza indefinita.
Come si vede, la nostra analisi del peccato, peni-
tenza e confessione nel Giainismo, condotta dal punto
di vista della storia generale delle religioni, in base
a risultati acquisiti con lo studio comparativo del
peccato, penitenza e confessione in altri ambienti re-
ligiosi diversissimi, viene ad aggiungere una nota di
pit a quell’aspetto arcaistico del Giainismo che le
ricerche recenti degli specialisti, come H. Jacobi ed
altri, hanno messo in luce, aprendo la via ad una
particolare concezione delle origini del Giainismo e
del posto che gli spetta nello svolgimento comples-
sivo della religione nell’India*®. I] ‘fondatore’ sto-
rico del Giainismo, il Jina Vardhamana, detto anche
Mahavira ‘grande eroe’, fiori nel VI sec. a. Cr., es-
sendo entrato nel nirvana, secondo la datazione
GIAINISMO 275
- forse un po’ troppo elevata - degli Svetambara,
nel 527 a. Cr.*1. Ma nell’ India del VI sec., nello
stesso clima spirituale che vide nascere il Buddhi-
smo, riesce quasi inesplicabile la formazione ex novo
di un sistema religioso cosi impregnato di elementi
arcaici com’é il Giainismo. Meglio si comprende tale
formazione se si ammette la preesistenza di una tra-
dizione - e di una scuola - gid depositaria, in gran
parte, di quegli elementi arcaistici che nel sistema
giainico hanno un posto cosi cospicuo, una tradizione
rispetto alla quale Vardhamana apparirebbe dunque
in funzione piuttosto di riformatore e riorganizzatore
che di fondatore nel senso proprio della parola.
Se cosi fu veramente, se l’esistenza ab aeterno
della religione giainica, successivamente annunziata
- nell’epoca attuale del mondo - da 24 banditori o
tirthamkara, di cui Vardhamana é l’ultimo, rappre-
senta, per cosi dire, una proiezione in infinitum di
un dato di fatto reale, quale sarebbe appunto 1’esi-
stenza di un Giainismo avant la lettre; viene, in que-
sta connessione, ad assumere un particolare rilievo
la figura di Parsva (Pasa) o Parsvanatha, il pre-
cursore immediato del Jina, il 23° tirthamkara, l’u-
nico tirthamkara cui la tradizione assegni una cro-
nologia non del tutto inverosimile, ponendo il suo
nirvana 250 anni prima di quello del Jina, e dun-
que il suo fiorire nell’VIII sec. a. Cr.*?. E riportata
all’VIII sec. riesce meglio comprensibile la forma-
zione del Giainismo, in un tempo in cui il pensiero
indiano, formato gia e irrobustito alla scuola delle
Upanisad, poté, in un primo distacco dalla tradi-
zione, applicarsi ad elementi religiosi di carattere
primitivo (animismo, ecc.) sopraviventi in ambiente
276 CAPITOLO VI
‘popolare’ extra-brahmanico, irrigidendosi poi su
questa sua posizione arcaica a tal segno da creare,
appunto nel Giainismo, un sistema destinato a rima-
nere estraneo agli ulteriori sviluppi del pensiero e
della religione indiana, incapace di sviluppo esso
stesso, condannato all’ isolamento e all’ immobilita
per tutto il corso della sua vita millennaria °°’.
La tradizione giainica presenta il Jina appunto
come un riformatore della religione di Parsva. Nato
e crescittto egli stesso in questa religione**, Vardha-
mana si sarebbe poi fatto banditore di un nuovo
verbo, ma la sua predicazione, ispirata - a quanto
pare - piuttosto ad un ascetismo rigoroso che ad un
pensiero originale, pitt che alla dottrina si applicd
alla regola e al costume. Nelle scritture canoniche,
quando sono posti di fronte il sistema di Parsva e il
sistema del Jina, essi sogliono essere definiti e ca-
ratterizzati in funzione di differenze non gia dottri-
nali, ma istituzionali. Cosi nella scena che si chiude
con il passaggio in massa dei discepoli di Parsva
nella nuova comunita del Jina, dopo un solenne con-
tradittorio, il sistema di Parsva é definito come ‘la
legge dei quattro voti’ (caujjama)*°, a differenza di
quello del Jina, dove i ‘grandi voti’ sono cinque,
cioé i quattro di Parsva, pit il voto della castita:
« Quale é la pinata, » - si chiedono i monaci perplessi - «la
nostra legge o quell’altra? la nostra regola o l’altra? la nostra
dottrina o l’altra? la legge insegnata dal gran saggio Pargva,
che ammette soltanto quattro voti, o la legge insegnata da
Vardhamana, che ammette cinque voti? » (Uttarajjhdyd, 23)3%.
Connessa con questa @ un’altra differenza fra i
due sistemi, anch’essa di carattere istituzionale e ri-
guardante precisamente la confessione. La conver-
GIAINISMO 277
sione di un seguace di Parsva alla legge del Jina, in
seguito ad una delle solite discussioni, é descritta in
questi termini:
« Allora Udaya, figlio di Pedhala, cosi disse al venerabile
Goyama: ‘Reverendo signore, io desidero in tua presenza pas-
sare dalla dottrina che prescrive quattro voti alla dottrina che
prescrive i cinque grandi voti e il padikkamana’. Allora il
venerabile Goyama si reco con Udaya..... dal venerabile asceta
Mahavira. Udaya reverentemente gird intorno al venerabile
asceta Mahavira,..... indi cosi parlé: ‘Reverendo signore, io
desidero in tua presenza passare dalla dottrina che prescrive
quattro voti alla dottrina che prescrive i cinque grandi voti
e il padikkamana. Cosi ti piaccia, o amato dagli déi, non mi
respingere’. Allora, in presenza del venerabile asceta Maha-
vira, Udaya, il figlio di Pedhala, passé dalla dottrina che pre-
serive quattro voti alla dottrina che prescrive i cinque grandi
voti e il padikkamana » (Stiyagada, 11. 7)37.
Se anche qui, come usualmente, padikkamana é
implicitamente sinonimo di ‘confessione’ (p. 262),
ecco che il sistema del Jina resta definito, in oppo-
sizione a quello di Parsva, precisamente come pafica-
mahavvaiyam sapadikkamanam dhammam, «la leg-
ge dei cinque grandi voti e della confessione ». Sara
puro caso che noi troviamo qui ancora una volta as-
sociati come elementi caratteristici e differenziali del-
l’opera riformatrice di Vardhamana rispetto al vec-
chio ‘Giainismo’ precisamente quei due elementi di
cui ormai conosciamo le connessioni intime e pro-
fonde (p. 51), cioé il peccato sessuale (voto di ca-
stita) e la confessione? Certo é che la confessione
non fu invenzione del Jina, dal momento che essa
era praticata gid nel Brahmanesimo e proprio spe-
cialmente per peccati di natura sessuale (p. 253). Né
é da escludere che essa fosse gid praticata anche
nello stesso ‘Giainismo’ di Parsva**® in via sporadica
278 CAPITOLO VI
e per elezione spontanea dei fedeli; nel qual caso
Vinnovazione di Vardhamana, in armonia col carat-
tere complessivo dell’opera sua di organizzatore e
sistematore, si sarebbe ridotta a fissare in forma ob-
bligatoria cid che gid esisteva allo stato libero e fa-
coltativo, - come anche, per cid che riguarda la vita
sessuale, é verosimile che la castita fosse gia osser-
vata spontaneamente nel vecchio Giainismo prima di
essere definita da Vardhamana come uno dei cinque
voti fondamentali®®. Vero é che anche a proposito
della confessione é da tener presente la possibilita
che intorno al nome e alla persona di Vardhamana
si sia cristallizzato cid che forse si matur6é in fasi ul-
teriori dello svolgimento del Giainismo, come infatti
sara dovuta a tale svolgimento la formazione di quel
sistema penitenziale giainico che conosciamo dalle
sacre scritture. In seno a questo sistema la confes-
sione specifica dei peccati, cioé la confessione pro-
priamente detta, l’alocand, sta a rappresentare - in-
sieme con la nozione di peccato involontario - un
elemento gid esistente nella tradizione religiosa in-
diana anteriore al Giainismo, verosimilmente tra-
mandato da epoche remote.
Verso la meta del sec. XII si formd in seno al
Giainismo una comunita (gaccha) che aboli, a quanto
pare, la pratica della confessione. Di essa c’informa
uno scritto (in pracrito, con un commento in san-
scrito) composto da Dharmasagara nel 1573, intito-
lato KupaksakauSsikasahasrakirana (cioé ‘sole per i
gufi delle eresie’) o altrimenti Pravacanapariksa*°,
che tratta di ro differenti scuole giainiche da un
punto di vista critico-polemico secondo la dottrina
ae
ly wre
GIAINISMO 279
degli Svetambara. Secondo questo testo un tale Na-
rasimha, gid appartenente alla scuola dei Paurna-
miyaka‘*!, fondd nel 1157, col concorso di una ricca
laica cieca, una nuova scuola, detta degli Ancalika
(Ancala- 0 Vidhipaksa-gaccha), da ancala ‘orlo’, per-
ché in essa, in luogo del fazzoletto o velo per co-
prirsi la faccia e la bocca, era adoperato 1’orlo della
veste*”; un’altra innovazione di questa scuola fu la
abolizione del pratikramana.
Bei
NOTE
1 Uttarajjayda, 29, SBE vol. 45, 158 sgg. (J. Charpentier, Ut-
taraddhyayanasitra, being the first Mulasitra of the Shvetam-
bara Jains, 2 voll., Upsala 1922). - Pratikramana-sitra sono
spesso citati (Uttarajjhayd, 26, ecc.). Cfr. il Pafica-Pratikra-
mana, libro di devozione molto in uso presso gli Svetambara
(v. Glasenapp, Der Jainismus, Berlin 1925, 437).
2 Schubring (A. Bertholet, Religionsgeschichtliches Lese-
buch?, 7:), Die Jainas, Tiibingen 1927, 8.
3 SBE vol. 45, 143 sgg-
3a Causarana: Weber, Indische Studien, 16, 1883, 433 sg.
4 Schubring, Das Kalpasiitra, die alte Sammlung jinisti-
scher Ménchsvorschrifien, Leipzig 1905, 54. - Per 1’ espulsione
di un monaco o di una monaca dalla sua comunita, cfr. Vava-
hara, 7, 2 sg. Schubring, Die Jainas, p. 7.
5 Nisitha: Weber, Indische Studien, 16, 1883, 454.
6 Cfr. il pacchittasutta nel Mahdnistha: Schubring, Abh.
Berlin. Akad, 1918, 5, 8r.
7 Schubring, ibid., 82; Kalpasitra, 11 segg. Cfr. il distico:
1 dloyana 2 padikamane 3 misa 4 vivege taha 5 viussagge
6 tava 7 cheya 8 mila 9 anavatthayad ya 1° paraficie ceva
Avassaga-nijjukti, 19, 1 ecc. Leumann, Sitzungsber. Berlin.
Akad. 1892, 1195 sg.; e Tativdrithddhigamasutra, IX. 22, Jacobi
ZDMG, 60, 1906, 538:
dlocanapratikramanatadubhayaviveka
vyutsargatapaschedaparihdropasthapanani.
8 A questo punto e per ciascuno dei voti successivi al
NOME 281
punto corrispondente segue l’enumerazione di cinque clausole
(bhdvand), che danno il nome (Bhdvayd) a questo capitolo
della seconda parte dell’Aydra.
9 SBE vol. XXII, p. 202 sg.; Schubring (Bertholet, Reli-
gionsgesch. Lesebuch?, 7:), Die Jainas, p. 21.
10 Uvdsagadasdo ‘i dieci (capitoli concernenti i) laici’ é il
titolo di uno scritto canonico del gruppo degli Anga: Hoernle,
Uvdsagadasdo, Calcutta 1885-1888.
11 Uvavdiya 57: Schubring (Bertholet, Religionsgesch. Le-
sebuch?, 7:), Die Jainas, Tiibingen 1927, p. 22.
12 Guérinot, La religion djaina, 252 sgg.
13 Nella religione giainica non sono i monaci i ministri
del culto, ma altre persone scelte specialmente nella casta dei
Brahmani, che possono anche - presso gli Svetambara - non
essere giainisti: Glasenapp, Jainismus, 403 sg.; Guérinot, La
religion djaina, 294 sg.
14 Guérinot, op. cit., 301 sg.
15 Glasenapp, Jainismus, 433 Sg., 133.
16 %& noto che un vero e proprio canone esiste solo presso
gli Svetambara, il Siddhadnta 0 Agama, non riconosciuto dai Di-
gambara. Il Siddhdnta é scritto in un dialetto pracrito (ardha-
magadht).
17 Schubring, Worte Mahaviras, Gottingen 1927, 62.
18 Uvavdiya, 75, 88, 100, 117, 121, 122 sg. Leumann, Das
Aupapatika Sutra, Abhandlungen fiir die Kunde des Morgen-
landes, vu. 2, Leipzig 1883. Cfr. Mahdpaccakkhana, Weber,
Indische Studien, 16, 1883, 444.
19 Mahanisiha 6, Schubring, Das Mahdnistha-Sutta, Abhand-
lungen Berlin. Akad. 1918, n. 5, p. 22: Un tale che, nonostante
gli ammonimenti di una divinita, aveva persistito nel propo-
sito di suicidarsi, fini poi per riconoscere la propria colpa e
se ne impose da sé la penitenza, ma, trasctrrando il precetto,
mori senza confessarsi, e percid dovra nascere e rinascere per
tutta una serie di esistenze.
20 Mahdanistha, 1, Schubring, ibid. (nota 19), p. rr.
21 Schubring, Worte Mahdviras (Quellen der Religionsge-
schichte, vol. 14), Géttingen-Leipzig 1927, p. 47. Cfr. Siya-
gada, I. 4, 18; I. 4, 28, ibid., p. 146, 147; Bambhaceraim, 21,
ibid., p. 90.
22 Causarana: Weber, Indische Studien, 16, 1883, 433 sg. -
CAPITOLO VI
Uno dei sei Malasutta s’intitolava appunto Avassaga: Weber,
Indische Studien, 17, 1885, 50 sg. Cir. Glasenapp, Jainismus, 408.
23 Uvavdiya, 30: E. Leumann, Das Aupapatika Sutra, Ab-
handlungen fiir die Kunde des Morgenlandes, vit. 2, Leipzig
1883, Pp. 40.
24 Uvavdiya, 30: Leumann, l, cit.; Schubring (A. Bertholet,
Religionsgeschichtliches Lesebuch?, 7:), Die Jainas, Tiibingen
1927, D-23-
25 H. von Glasenapp, Der Jainismus, 209, 205; cfr. Guéri-
not, La religion djaina, 211 sgg.
26 Glasenapp, op. cit., 374, 452. Cfr. L. de La Vallée Pous-
sin, The Way to Nirvana, Cambridge 1917, 67.
27 Le opere buone possono, si, avere per effetto una rina-
scita in uno dei molti mondi divini, ma una tale rinascita, per
quanto salutare in sé e per sé, non avvicina, anzi in un certo
senso, allontana l’uscita dal ciclo delle esistenze, perché dalla
condizione di divinita non si entra direttamente nel nirvana,
bensi soltanto dalla condizione di uomo; cfr. Glasenapp, Jai-
nismus, 213.
28 I. de La Vallée Poussin, The Way to Nirvana, 67.
29 Cfr. Lowie, Primitive Religion, New York 1924, 23 sg.,
a proposito degli Indiani Crow.
30 H. Jacobi, The Metaphysics and Ethics of the Jainas,
Transactions of the IIId Congress for the History of Reli-
gions, Oxford 1908, Il, 59 sgg.; ‘Jainism’, Encyclopaedia of
Religion and Ethics, VII (1914), 465 sgg.; Die Entwicklung
der Gottesidee bei den Indern, Bonn-Leipzig, 1923, 25; H. von
Glasenapp, Die Stellung des Jainismus in der indischen Reli-
gionsgeschichte, Zeitschrift fiir Buddhismus, 1925, 313 sgg.;
cfr. Der Jainismus, 1925, 18 sgg.; 138 sgg.; Sten Konow in
Chantepie de La Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte4,
II. 93 sgg. an
31 In base a un dato cronologico fornito da Hemacandra
(con riferimento all’assunzione al trono di re Candragupta, nel
322-21 a. Cr.), il nirvdna del Jina sarebbe da porre nel 477-476.
32 Jinacariya (Dasdo, 8), 168 sg. Schubring, Die Jainas,
p. 2: la vita di Pasa sarebbe durata 100 anni; il suo prede-
cessore Aritthanemi, 22° firthamkara, sarebbe invece vissuto
tooo anni, circa 34000 anni prima; le cifre si fanno ancora pid
grosse di mano in mano che si risale la serie dei Tirthamkara.
%3 H. Jacobi, Ueber die Entstehung der Cvetambara und
Digambara Sekten, Zeitschr. der Deutsch. Morgenl. Gesell-
schaft, 38, 1884, 18.
_ 34 Aydra, II. 15, 16, SBE vol. 22, p. 194; Schubring, Die
Jainas, p. 2. - Vardhamana é primamente concepito da Deva-
nanda, moglie del brahmano Usabhadatta; ma poi il suo em-
brione é trasferito da Hari-Negamesi, per ordine di Indra, nel
seno di Tisala, moglie del ksatriya Siddhattha, che poi lo da
alla luce; una rappresentazione della scena del trasferimento
in Kirfel, Die Religion der Jaina’s (Haas, Bilderatlas zur Re-
ligionsgeschichte, 12), Leipzig 1928, n.° 34. - Riscontri mitolo-
gici brahmanici: Schubring, Worle Mahdaviras, 20.
85 }} notevole che i 4 voti sarebbero stati propri della reli-
gione giainica ‘da tempo immemorabile’, e precisamente dal
tempo del 2° tirthamkara: «..... i 22 di mezzo (cioé tutti) al-
V’infuori del primo (Risaha) e dell’ultimo (Mahavira) annun-
ziano la dottrina dei quattro voti..... » Thana 4, 1, Schubring,
Die Jainas, p. 2.
36 SBE vol. 45, 119 sg.
37 SBE vol. 45, 434.
38 Essa figura tra le pratiche coltivate dai genitori del
Jina: «I genitori del venerabile asceta Mahavira erano devoti
di Parsva e seguaci degli Sramana. Per molti anni essi furono
seguaci degli Sramana, e a vantaggio delle sei classi di esseri
viventi esaminarono, biasimarono, si pentirono, si confes-
sarono e fecero penitenza secondo i loro peccati..... » Aydra,
II. 15, 16, SBE vol. 22, p. 194. Ma qui potrebbe trattarsi sem-
plicemente di una ovvia proiezione all’indietro di cid che si
praticava nel Giainismo storico.
389 © forse nel vecchio Giainismo stesso era gia di precetto,
essendo implicita nel quarto dei grandi voti di Parsva (« aste-
nersi da ogni concupiscenza »), se pure non era esplicitamente
contemplata con questo voto (« astenersi da ogni effusione [di
sperma] »): Schubring, Die Jainas, p. 2, n. 2.
40 Bhandarkar, Report for 1882-83, Bombay 1884, 152.
41 Pirnimad gacchaq, fondata nel 1102 da Candraprabha: Gué-
tinot, La religion djaina, 55; von Glasenapp, Jainismus, 352.
42 L’innovazione avrebbe avuto occasione dal fatto che, as-
sistendo la cieca Sravika Nati ad una cerimonia religiosa senza
avere con sé il fazzoletto occorrente, l’officiante Narasimha le
avrebbe suggerito di adoperare invece la frangia della veste.
WANte
Buddhismo.
I. INDIA.
«Uno dei pitt antichi, se non il pit antico, di
tutti i testi buddhistici »* é il cosidetto patimokkha
(sanscr. pratimoksa)*®. Esso non figura come tale
fra i testi del canone pali; ma certamente é pit an-
tico del canone, anzi fu esso un nucleo principale
intorno a cui il canone in parte si formo. Infatti il
Vinaya-Pitaka, il ‘canestro della disciplina’, per
gran parte - e pit’ specialmente nelle due prime se-
zioni, che insieme vanno sotto il nome di Sutta-
Vibhanga - si é svolto dal patimokkha, prima - se-
condo 1’ Oldenberg - in forma di commento lette-
rale e poi nell’attuale testo amplificato di carattere
narrativo, nel quale il patimokkha e |’antico com-
mento restarono incorporati.
Il patimoRkkha consiste sostanzialmente - a parte
Vintroduzione (nidana) e la chiusa o ricapitolazione
finale - in un elenco di colpe o mancanze diviso in
varie sezioni in ordine di gravita decrescente: le
sezioni sono 8, ma la vir contiene una serie di norme
di buona creanza e |’ viir una serie di norme proce-
durali per la risoluzione delle vertenze.
BUDDHISMO INDIANO 285
La I sezione comprende gli articoli (dhamma)
relativi alle colpe parajika, che sono le pit gravi,
come quelle che consistono nella violazione dei voti
monastici fondamentali, onde ad esse consegue la
espulsione definitiva del monaco dalla comunita.
Tutte le altre colpe (sezioni I-v1) comportano
invece una riconciliazione del colpevole con la co-
munita, in base ad una penitenza che varia secondo
la gravita della colpa, essendo, in ogni caso, richie-
sta - per lo meno - la confessione del colpevole.
La 1 sezione comprende gli articoli relativi alle
colpe sanghdadisesa, la cui sanzione, deliberata caso
per caso dalla comunita (sangha), consisteva in una
espulsione o segregazione temporanea per un pe-
riodo (manatta) della durata fissa di sei giorni (Cul-
lavagga, 111), eventualmente preceduto (nei casi in
cui la colpa non era confessata immediatamente) da
un periodo di sospensione (parivasa), che durava
tanti giorni per quanti il colpevole aveva tenuta na-
scosta la sua colpa (Cullavagga, 11), dopo di che
egli poteva essere riammesso, sempre in base a de-
liberazione della comunita, presa con l’intervento di
almeno 20 membri. Le colpe sanghddisesa sono di-
stinte in pathamapattika e yavatatiyaka a seconda
che in esse si incorre immediatamente oppure sol-
tanto dopo una triplice ammonizione.
La I11 sezione contempla le colpe aniyata, colpe
di per sé ‘indeterminate’, o non abbastanza deter-
minate, e perd passibili di un trattamento condizio-
nalmente diverso, che puo essere l’espulsione (1) 0
la sospensione (11) o la semplice penitenza (v).
La IV sezione contiene i nissaggiya-pdacittiya
dhamma, relativi alle colpe nissaggiya-pacittiya,
286 CAPITOLO VII
che sono colpe pacittiya di un genere speciale, im-
plicando la loro sanzione la confisca di un oggetto
(capi di vestiario, stuoie e coperte, la scodella, ecc.),
in pit della semplice penitenza.
I pacittiya dhamma costituiscono la v sezione.
Le colpe pdacittiya sono colpe pit lievi, che non
hanno per chi le commette conseguenze immediate
nei rapporti con la comunita, ma che possono col
tempo ‘maturare’ tali conseguenze, ove il colpevole
non se ne penta e non ne faccia la debita penitenza
con confessione ed assoluzione’.
La vi sezione contiene gli articoli relativi alle
colpe patidesaniya, per le quali é richiesta sempli-
cemente la confessione.
La vil sezione, anzi che contenere delle colpe cui
corrisponde, caso per caso, una determinata sanzio-
ne, enumera una serie di norme, positive o negative,
che debbono essere osservate (sekhiya, sscr. faiksya),
cid che costituisce una differenza formale rispetto
alle altre sezioni del patimokkha: si tratta di norme
di buona creanza, la cui contravenzione si espia con
la semplice riflessione sulla regola stessa e col pro-
ponimento di osservarla in avvenire.
L’vur sezione é quella degli adhikaranasamatha
dhamma. Qui la divergenza rispetto alle altre sezioni
non é soltanto formale, ma sostanziale. Infatti que-
sta sezione contiene delle norme procedurali da se-
guire nella composizione delle vertenze (cfr. Culla-
vagga 1v)*. Una delle procedure enunciate é preci-
somente per ‘confessione della colpa’ (patinnd).
Questo schema in 8 sezioni rimane costante in
tutte le redazioni del patimokkha-pratimoksa se-
condo le varie scuole buddhistiche: segno che esso
BUDDHISMO INDIANO 287
resto fissato nella sua forma definitiva gid in epoca
anteriore al frazionamento scolastico del Buddhi-
smo. Sul medesimo schema, con la sola - necessaria
(p.299) - soppressione della sezione 111, é pure calca-
to il patimokkha speciale delle monache, che si for-
mo, anch’esso, posteriormente a quello dei monaci e
sul modello di questo, salvo le modificazioni e gli
adattamenti indispensabili®. Variano invece dal pati-
mokkha dei monaci a quello delle monache, e in
ambedue da scuola a scuola, oltre 1’ introduzione
e la chiusa, il numero degli articoli di certe se-
zioni e l’ordine di successione in seno alla sezione
rispettiva, nonché la dicitura di singoli articoli. In
complesso le divergenze fra scuola e scuola sono
maggiori - com’é naturale - nel patimokkha delle
monache, piti recente, che in quello dei monaci, pit
antico®. Nel patimokkha dei monaci la sezione che
presenta maggiore varieta da scuola a scuola é la
Vir: anzi, il numero degli articoli sekhiya varia
anche da una redazione all’altra del patimokkha in
seno ad una medesima scuola. FE notevole che, men-
tre nelle altre sezioni é indicato testualmente il nu-
mero dei rispettivi articoli, quelli della vir sono in-
dicati soltanto genericamente come ‘molti’, ‘nume-
rosi’ (sambahula).
Il patimokkha dei monaci del cosidetto Buddhismo meri-
dionale (canone pdli), che per vari indizi risulta essere il pit
vicino alla forma originaria, ha 227 articoli; quello delle mo-
nache ne ha 311: J. Minayeff, Pratimoksha-Sitra, Pietroburgo
1869, testo e traduzione (in russo), con estratti del commento
di Buddhaghosa; Rev. D. J. Gogerly, Journal of the R. Asiatic
Society 1862, 407 sgg.; T. W. Rhys Davids, H. Oldenberg,
Vinaya Texts, 1, Sacred Books of the East x1, Oxford 1881;
H. Kern, Histoire du Bouddhisme dans VInde, Annales du
288 CAPITOLO VII
Musée Guimet, Bibliothéque d’ftudes, x1, Paris 1903, 77 segg.,
121 sgg.
Delle principali scuole del hinaydna ‘settentrionale’7 pos-
sediamo il pralimoksa sia nell’originale sanscrito, sia in tra-
duzioni cinesi o tibetane: Chung Se Kimm, Asia Major, 2.
1925, 597 sgg.; cfr. S. Lévi, Journal Asiatique, 1912, I, 103;
Finot, ibid., 1913, 1. 470. - Quanto alla prima traduzione ci-
nese del praltimoksa, attribuita a Chu Fa lan (Bharana o Dhar-
maratna), uno dei due monaci indiani che sarebbero andati in
Cina al seguito dell’ambasciata inviata dall’imperatore Ming-ti,
vedi Cap. IV, n. 35.
I due pratimoksa, maschile e femminile, - rispettivamente
di 250 e 348 articoli - della scuola dei Dharmaguptaka ci sono
pervenuti nella traduzione cinese del Vinaya di questa scuola,
il cosidetto Caturvarga Vinaya o ‘Vinaya delle quattro divi-
sioni’. (Si hanno due traduzioni del Caturvarga-bhiksu-prati-
moksa da parte di Buddhayadsas: Bunyiu Nanjio n. 1154 e 1155;
di una diede la traduzione S. Beal, Journ. of the R. Asiatic So-
ciety, 1862, 407 sgg., A Catena of Buddhist scriptures from the
Chinese, London 1871, 206 sgg.; un frammento dell’altra tra-
duzione, proveniente da Turfan e contenente gli articoli 41-64
della vir sezione é@ stato pubblicato da Chung Se Kimm, Ein
chinesisches Fragment des Pratimoksa aus Turfan, Asia Ma-
jor, 2. 1925, 597-608. - Il Caturvarga-bhiksuni-pratimoksa, Bu-
nyiu Nanjio n. 1156, é tradotto da lL. Wieger, Le Bouddhisme
Chinois, 1, (1910), 261 sgg.). I} questo pradtimoksa dei Dhar-
maguptaka che vige nella maggior parte dei conventi cinesi, ~
avendo acquistato autorita anche presso le scuole mahayani-
che: Wieger, Bouddhisme Chinois, 1, p. 134; Franke in Chan-
tepie de La Saussaye, Lehrbuch der Religionsgeschichte4, 1,
231; J. J. M. de Groot, Le Code du Mahayana en Chine, p. 1
sgg.; cfr. Lung-shu Ching t‘u wén, 1v. 8 (H. Hackmann, Laien-
Buddhismus in China, Gotha-Stuttgart 1924, p. 121). I ‘250 di-
vieti’ sono menzionati nel ‘Stitra dei 42 capitoli’, cap. 1:
H. Hackmann, Acta Orientalia, 5, 1927, p. 204; una sezione
(karmavdcd) del Dharmagupta Vinaya é gid tradotta nel TIT
sec., Bunyiu Nanjio, n. 1163, 1146.
Della scuola dei Sarvastivadin, largamente diffusa fra l’In-
dia e la Cina, i trovamenti di Turfan ci hanno dato il prali-
moksa-stilra dei monaci (263 articoli) nell’originale sanscrito
Ch Nee Nei has bd
‘
BUDDHISMO INDIANO 289
(pit un frammento appartenente ad una traduzione del Vinaya
in tokharico: i Sarvastivadin avevano il Vinaya ‘in dieci se-
zioni’), nonché alcuni frammenti del pratimoksa delle mona-
che, pure in sanscrito. Dell’uno e dell’altro pratimoksa (quello
delle monache in 355 articoli) abbiamo anche la traduzione ci-
nese: I. Finot, EK. Hubert, Le Pratimoksasutra des Sarvasti-
vadins, Texte sanscrit avec la traduction chinoise de Kuma-
rajiva, Journ. Asiatique 1913, 11, 465-558; S. Lévi, Un fragment
tokharien du Vinaya des Sarvastivadins, Journ. Asiatique, 1912,
I, tor sgg.; E. Waldschmidt, Bruchstiicke des Bhiksuni-Prati-
moksa der Sarvastivddins (K. Preuss. Turfan-Expeditionen :
Kleinere Sanskrit-Texte, 111), Leipzig 1926 (un frammento del
Bhiksuni-prat. sanscrito anche in Finot, 1. cit., 548).
Il pratimoksa dei monaci della scuola dei MUla-sarvasti-
vadin ci é noto, oltre che attraverso il sommario in Mahavyut-
patti 256-264 (255 articoli), nella traduzione cinese Bunyiu
Nanjio, n. 1110, 1149 (245 articoli), fattane - insieme con quella
del pratimoksa delle monache (354 articoli) - da Yi-tsing, ossia
dalla commissione di monaci da lui presieduta. (Dal Vinaya
dei Mula-sarvastivadin deriva buona parte della materia del
Divyavadana: S. Lévi, Les éléments de formation du Divya-
vadana, 'T’oung Pao, 1907, 105 sgg.; cfr. Przyluski, Le nord-
ouest de l’Inde dans le Vinaya des Mila-sarvdstivadins, Jour-
nal Asiatique, 1914, Il, p. 493 sg.). Questo dei Mila-sarvasti-
vadin é finora il solo pratimoksa-sitra esistente altresi in tra-
duzione tibetana, risalente al sec. IX (W. Wassiliew, Der Bud-
dhismus, St. Petersburg 1860, 96; il Vinaya dei Mila-sarvasti-
vadin é rappresentato nel Ka’gyur dalla sezione ’Dulba), tanto
come pratimoksa dei monaci (Ka-’gyur, ’Dulba, V. 1-30, 262 ar-
ticoli) quanto come pratimoksa delle monache (ibid., 1x. 1-36,
371 articoli): E. Burnouf, Introduction a@ l’histoire du Bouddhi-
sme indien, Paris 1844, 300; lL. Féer, Analyse du Kandjour (in
base a Csoma, Asiatic Researches, xx), Annales du Musée
Guimet, 1, Lyon 1881, 131 sgg.; W. W. Rockhill, Le traité
d’émancipation ou Pratimoksha Sutra (delle monache) traduit
du tibétain, Revue de Vhistoire des religions, 9, 1884, 3-26, 167-
201; Huth, Die tibetische Version, Strassburg 1891, cfr. H. Ol-
denberg, Zeitschrift der D. Morgenl. Gesellschaft, 52, 1898,
645 sgg. (Nel ’Dulba stesso e altrove il numero delle colpe del
pratimoksa é dato nella cifra di 253).
R. PETTAZZONI, La Con/fesstone det peccati, |. 19
290 CAPITOLO VIT
Nel San-ls’ang o Tripitaka cinese, e precisamente nella sua
seconda Sezione, il Lii-ts’ang o Vinaya-pitaka - dove sono ac-
cumulati i testi disciplinari del maha- e del hinayana, es-
sendo ciascuna scuola rappresentata da una specie di ‘Somma’
col relativo commento, da due rituali (karma), pei monaci e
per le monache, e dai due pratimoksa (chieh pén), dei monaci
e delle monache, nonché da altri scritti minori (Wieger, Boud-
dhisme chinois, I. 133 sgg.; cfr. ’elenco degli scritti compo-
nenti il Vinaya dei Mila-sarvastivadin in T’oung Pao, 1907,
108 sgg.) -, si trovano incorporati, oltre i gid ricordati prati-
moksa dei Dharmaguptaka, Sarvastivadin e Miila-sarvastiya-
din, anche il praétimoksa dei monaci della scuola dei Kagya-
piya, i due pratimoksa (251 e 380 articoli) della scuola dei Ma-
higasaka (che avevano un Vinaya ‘in cinque sezioni’) e i due
(218 e 290 articoli) della scuola dei Mahasanghika: Bunyiu
Nanjio, nn. rro8, 1150, 1157, 1158; Beal ap. Oldenberg, Intro-
duction to Vinaya Pitaka I, xuiv sgg.; Chung Se Kimm, Asia
Major 1925, 597 sgg. - Una traduzione (perduta) del pratimoksa
dei Mahasanghika in cinese fu fatta gia nel III sec. d. Cr.
dal monaco Dharmakala (questa sarebbe, secondo il Pelliot,
T’oung Pao 19, 1919-20, 344 sg-, la prima traduzione cinese del
pralimoksa attestata in modo attendibile: cfr. sopra a p. 288):
Prabodh Chandra Bagchi, Le Canon Bouddhique en Chine, 1,
Paris 1927, 74 sgg.. Pervenuta, invece, ci é la traduzione del
pratimoksa (delle monache) dei Mahasanghika fatta al prin-
cipio del V sec. da Buddhabhadra in collaborazione con Fa-hien
(Bunyiu Nanjio, n. 1159): Bagchi, op. cit., 346, 348.
Il patimokkha si recitava (e si recita ancora, p. es.
a Ceylan) nelle riunioni periodiche della comunita
(uposatha), che avevano luogo di nottetempo (Ma-
havagga, 11, 20, 4), regolarmente ogni quindici gior-
ni, al novilunio (darfa) e al plenilunio (paurna-
masa). Le monache tenevano le loro riunioni e re-
citavano il loro speciale patimokkha negli stessi
giorni, ma separatamente, previa autorizzazione di
volta in volta chiesta ed ottenuta dalla comunita dei
monaci (Cullavagga, x, 1, 4). In queste che erano
BUDDHISMO INDIANO 291
quasi le sole ricorrenze solenni della vita monastica
la recitazione del palimokkha era V’atto pit impor-
tante: il solo che in una religione essenzialmente
priva di culto come il Buddhismo tenesse luogo, in
certo qual modo, di una celebrazione cultuale collet-
tiva. All’wposatha dovevano partecipare tutti i mona-
ci addetti alla comunita locale (Mahdv., tm. 5, 2): se
essi non erano al completo, la riunione non era le-
gale. Un monaco gravemente ammalato era traspor-
tato sul suo giaciglio nel locale dove aveva luogo
l’ assemblea: se il suo stato era cosi grave da non
consentire il trasporto, 1’ assemblea si trasferiva
presso di lui. Ma ordinariamente un monaco impe-
dito per malattia poteva farsi rappresentare, solo
che fosse in grado di fare ad un altro monaco una
dichiarazione di parigfuddhi, cioé di ‘purita’, non-
ché di consenso preventivo (chanda) alle delibera-
zioni che sarebbero state prese dall’assemblea (Ma-
havagga, Ul, 22-24).
Tutti i monaci intervenuti dovevano essere in
istato di purita, ossia senza colpa. Secondo le sacre
scritture, ad una triplice richiesta di Ananda per
addivenire alla recitazione del patimokkha, il Bud-
dha per tre volte resté sordo, adducendo finalmente
il motivo che «l’assemblea non era pura», per la
presenza di un monaco colpevole (Cullavagga, 1x,
I, 1). « Non deve» - sono parole del Maestro -
«ascoltare il patimokkha chi ha commesso una
colpa » (Cullav., rx. 2, 1): al colpevole dev’ essere
interdetto di assistere alla cerimonia (ibid.). I1 mo-
naco che si era reso colpevole di qualche mancanza
doveva farne penitenza prima della cerimonia, e in-
nanzi tutto doveva confessarla. La confessione
292 CAPITOLO VII
non era collettiva (Mahav., m. 27, 3), bensi indivi-
duale e reciproca: tale si é¢ mantenuta fino ad oggi
nella pratica dei conventi di Ceylan, secondo la de-
scrizione di testimoni oculari®. Parimenti le mona-
che si confessavano fra di loro (Cullav., x. 6). Se
un monaco commetteva una colpa il giorno stesso
dell’uposatha, era tenuto a confessarla subito, salvo
a farne in seguito la debita penitenza. Se il giorno
dell’uposatha veniva ad un monaco il dubbio di aver
commesso una colpa, doveva dichiararla provviso-
riamente ad un confratello, salvo a farne penitenza
in seguito qualora il dubbio si fosse mutato in cer-
tezza. Questi casi non dovevano costituire impedi-
mento a tenere l’uposatha e a recitare il patimokkha.
Analogamente, se un monaco proprio mentre si
stava recitando il patimokkha si ricordava o conce-
piva il dubbio di aver commesso una colpa, doveva
limitarsi a farne dichiarazione provvisoria al suo vi-
cino, salvo a regolare la cosa in seguito (Mahav., 11.
2751292) 4).
Per la recitazione del patimokkha si richiedeva
la presenza effettiva (non per delegazione) di al-
meno quattro monaci. Erano esclusi tutti coloro che
non erano membri dell’ordine, e cioé, oltre le mo-
nache, i novizi e i laici d’ ambo i sessi. Erano del
pari esclusi gli eunuchi, gli ermafroditi, i deficienti,
ecce. (Mahdav., 1. 36). Il pit anziano dei presenti
(computandosi l’anzianitd non dal giorno della na-
scita - o pitt precisamente, secondo il costume in-
diano, da quello della concezione -, ma dal giorno
d’ingresso nell’ordine) aveva il diritto di recitare il
patimokkha, a meno che non possedesse J’istruzione
e la competenza necessaria (Mahdv., 11. 17).
BUDDHISMO INDIANO 203
Dopo i preparativi di rito, al lume delle fiaccole,
fra il silenzio dei presenti, incominciava la recita-
zione del patimokkha e seguitava, dopo ’ Introdu-
zione, per tutte le 8 Sezioni consecutivamente sino
alla chiusa. In ogni sezione all’enumerazione delle
colpe seguiva una triplice domanda con cui si chie-
deva se i presenti fossero immuni dalle colpe con-
template nella sezione rispettiva: dal loro silenzio
il presidente arguiva che tutti erano immuni, e pro-
cedeva oltre.
Ecco la traduzione® - alquanto abbreviata - del patimokkha
dei monaci secondo il testo del canone pali, preceduta da una
descrizione!9 delle cerimonie preliminari e della confessione
preventiva, quali si praticano tuttora nei conventi dell’isola di
Ceylan, dove la tradizione degli Sthavira si ¢ mantenuta fino
ad oggi.
La confessione.
Dapprima i monaci si traggono in disparte a due a due, e,
stando in ginocchio, l’uno di fronte all’altro, si confessano
scambievolmente sottovoce i propri peccati. Terminata la con-
fessione, essi prendono posto su delle stuoie - su cui é distesa
della tela bianca - collocate in due file parallele, disponendosi
alternativamente sull’una e sull’altra fila per ordine di anzia-
nita, per modo che a capo di una fila sta il pit anziano degli
intervenuti, di fronte a lui a capo dell’altra fila il secondo
per anzianita, il terzo nella prima fila accanto al pit anziano,
il quarto nella seconda accanto al secondo, e cosi via. Allora,
mentre il pit anziano resta seduto, tutti gli altri, levatisi, ven-
gono per ordine di anzianitad ad inginocchiarsi davanti a lui
pronunciando ciascuno questa formula: « Con licenza. Perdo-
nami, o signore, tutti i miei peccati, in opere, in parole o in
pensieri »; e l’anziano risponde: «Io ti perdono, caro fratello;
concedimi (a tua volta) il perdono ». Al che tutti rispondono:
« Con licenza. Io ti perdono, signore ». Dopo di cid il secondo
per anzianita torna al proprio posto, e tutti i meno anziani di
lui vengono sttccessivamente ad inginocchiarsi davanti a lui
y Os BlOne
294 - CAPITOLO VII
chiedendo e concedendo il perdono secondo le formule sud-
dette. Poi il terzo in anzianita riprende il suo posto, e tutti i
_ meno anziani di lui ripetono la stessa cerimonia. E cosi via,
fino a che il meno anziano di tutti l’abbia ancora una volta ri-
petuta davanti al fratello immediatamente pitt anziano di lui.
Finita la cerimonia, quando tutti hanno ripreso il proprio po-
sto, tutti s’inginocchiano e cantano in coro un inno di lode
al Buddha, al Dharma e al Sangha. Poi si rialzano.
Preliminari dell’uposatha.
I, anziano, oppure un suo sostituto (A), si pone in ginoc-
chio in capo alle due file, fra l’una e l’altra, dove é posto un
cuscino o un seggio pitt elevato. Un altro monaco apposita-
mente designato (B) viene ad inginocchiarsi di fronte a lui.
Questi due recitano il seguente formulario a domanda e ri-
sposta :
B. - Gloria al Signore, al Santo, al perfettamente Ilumi-
nato. Che la venerabile assemblea mi ascolti. Se l’assemblea
acconsente, io interrogherd sulla disciplina il venerabile A.
A. - Gloria al Signore, al Santo, al perfettamente Illumi-
nato. Che la venerabile assemblea mi ascolti. Se l’assemblea
acconsente, io risponderd alle domande del venerabile B sulla
disciplina.
B. - ‘La scopa e delle fiaccole, dell’acqua e un sedile’, que-
ste son dette le cose necessarie per l’uposalha. Con licenza.
La scopa.
A. - Far pulizia con la scopa.
B. - E fiaccole.
A. - Accendere delle fiaccole. Poiché il sole splende an-
cora*, la lampada non é necessaria.
B. - E dell’acqua. E un sedile.
A. - Oltre a un sedile**, occorre anche provvedere dell’ac-
qua, per bere € per altri usi.
B. - Le cose necessarie per l’uposatha.
A. - Queste quattro cose, cioé scopare, ecc., debbono esser
* Veramente la norma é che la cerimonia abbia luogo di
notte. ‘
** Per il caso che qualcuno si senta male.
; j bis
‘BUDDHISMO INDIANO) =———~=«S;
fatte prima della riunione del capitolo, e percid si chiamano
le cose necessarie per l’uposatha.
B. - ‘Consenso e dichiarazione di purita (chandaparisuddhi),
determinazione della stagione, computo dei monaci ed una al-
locuzione’, queste si chiamano le condizioni dell’ wposatha.
Consenso e dichiarazione di purita.
A, - Questo caso qui non si verifica*.
B. - Determinazione della stagione.
A. - Determinare la stagione indicando quale parte delle
tre stagioni - inverno, estate, stagione delle pioggie - é pas-
sata, e quale parte deve ancora passare. La nostra Legge am-
mette tre stagioni; nella stagione attuale, l’inverno, ci sono
otto giorni di riunione; di questi uno** é passato; noi cele-
briamo il secondo; ne restano ancora sei.
B. - Computo dei monaci.
A. - Il numero dei monaci radunati in questa aula del ca-
pitolo é tot.
B. - Una allocuzione.
A. - Una allocuzione deve farsi alle monache; ma in questo
momento non ci sono monache presenti; dunque 1’allocuzione
non ha luogo.
B. - Queste si chiamano le condizioni dell’uposatha.
A. - Queste cingque cose, consenso, ecc. sono richieste prima
che si reciti il pdlimokkha, e per cid si chiamano le condizioni
dell’uposatha.
—
B. - ‘Quando é il giorno di uposatha, quando c’é il numero
di monaci prescritto, quando non ci sono colpe commesse col-
lettivamente, quando nessuna persona da evitare ¢ presente;
l’assemblea pud esser tenuta’. Un giorno di uposatha.
A. - Ci sono tre giorni di wposatha: il 14° o il 15°*** op-
pure un giorno straordinario. Oggi é¢**** un uposatha del
15° giorno.
B. - Il numero di monaci prescritto.
A. - Quando partecipano alla riunione tanti monaci quanti
é prescritto, (cioé) almeno quattro, autorizzati e capaci, non
scomunicati, e quando questi monaci dimorano nel medesimo
’
* Kssendo tutti presenti.
** Per esempio.
*** TDi ciascuna meta del mese.
**** Per esempio.
hae 5
206 CAPITOLO VIT
territorio o tutt’al pitt per un tratto di 2 braccia e mezzo fuori
del limite fissato.
B. - Non ci sono colpe commesse collettivamente.
A. - Non c’é alcuna colpa che sia stata commessa colletti-
vamente, p. es. il fatto di mangiare ad ora proibita, o simili.
B. - Nessuna persona vitanda é presente.
A. - Le 21 classi di persone che si debbono evitare e te-
nere ad una distanza di 2 braccia e mezzo* non sono presenti.
B. - L’assemblea pud essere tenuta.
A. - Quando una riunione avviene con il verificarsi di que-
sti requisiti, pud essere tenuta.
Dopo aver esatirito i preparativi e le condizioni prelimi-
nari, io col permesso dei monaci riuniti che si sono confessati
teciterd il palimokkha.
I due monaci inginocchiati si alzano: B prende posto in
fondo alle due file. L’anziano si colloca col suo seggio nel
mezzo e incomincia
la recitazione del patimokkha.
Introduzione (niddana):
Reverenza al Benedetto, al Santo, al pienamente Illuminato.
Che il Capitolo mi ascolti, o Reverendi!
Oggi é il giorno sacro, il 15° della quindicina. Se cosi pare
al Capitolo, sia celebrato l’uposatha e sia recitato il patimok-
kha, A che punto sono i preparativi necessari per la riunione
della comunita? I reverendi fratelli facciano dichiarazione di
purita.
Tutti volentieri prestino orecchio ed attenzione.
Chiunque ha commesso un peccato, lo dichiari. Se non si
é commesso alcun peccato, si resti in silenzio.
Dal vostro silenzio o venerabili, io saprd se voi siete puri.
A ciascuna domanda si dia tisposta: per cid in siffatta riu-
nione ogni domanda é ripetuta tre volte. Se, dopo che la do-
manda per tre volte é stata ripetuta, qualcuno consapevol-
mente tralascia di dichiarare il peccato commesso, egli si rende
colpevole di menzogna coscientemente profferita. O venerabili,
il dire deliberatamente una menzogna é stato dichiarato dal
* Esse sono enumerate in Mahav., 11, 36.
BUDDHISMO INDIANO 297
Benedetto un impedimento (alla salvezza). Per cid ogni even-
tuale peccato dev’essere dichiarato dal monaco che lo ricorda
e vuol esserne purgato. Perché un peccato, una volta
dichiarato, gli sara lieve.
O venerabili, l’introduzione é recitata.
Io vi domando, o venerabili: ‘Siete voi puri?’
Una seconda volta io vi domando: ‘Siete voi puri?’
Per Ja terza volta io vi domando: ‘Siete voi puri?’
I venerabili sono puri. Per cid si tengono in silenzio. Cos}
io intendo.
I. parajika.
1. Qualunque monaco, dopo aver assunto il tenor di vita
e la regola dei monaci e senza aver rinunziato ad essa dichia-
rando la sta incapacita*, conosca carnalmente una creatura
di sesso femminile, di qualunque specie essa sia, é decaduto,
non é pitt in comunione.
2. Qualunque monaco prenda nel villaggio o nella foresta
cosa alcuna non data - cid che si chiama furto -, a quel modo
onde i re fanno arrestare il ladro e lo fanno uccidere o legare
o bandire dicendo ‘tu sei un ladro, tu sei uno stolto, tu sei
un pazzo, tu sei un disonesto’, anch’esso é decaduto, non é
pitt in comunione.
3. Qualunque monaco coscientemente tolga la vita ad un
essere umano o istighi un sicario contro un essere umano, 0
faccia l’elogio della morte o inciti altrui a darsi la morte, di-
cendo: ‘O amico, che vantaggio hai tu da questa vita pecca-
minosa, miserabile? Morire @ per te meglio che vivere’: se
cosi pensando e con siffatta intenzione con vari argomenti fa
Velogio della morte od incita altri al suicidio, anch’esso é de-
caduto, non é pitt in comunione.
4. Qualunque monaco, non possedendo le qualita straordi-
narie**, pretende di aver raggiunto la conoscenza superiore
* Cioé senza essersi spontaneamente dimesso, riassumendo
cosi la qualita di laico, e diventando libero di prender moglie
- salvo poi a richiedere, eventualmente, di essere riammesso
nell’ordine, cid che invece non era possibile se avesse avuto
rapporti carnali prima della uscita volontaria dall’ordine.
** Proprie di un arhant.
298 CAPITOLO VII
dicendo ‘questo io so’, ‘questo io comprendo’; e poi per forza
o non per forza egli, sentendosi colpevole, desidera scusarsi
della sua colpa dicendo: ‘Fratelli, io ho preteso di sapere cid
che non sapevo, di comprendere cid che non comprendevo’;
anch’egli, a meno che non sia stato vittima di una illusione,
é decaduto, non é pit in comunione.
II. (sanghdadisesa) :
1. L/emissione intenzionale di sperma, salvo durante il
sonno.
2. Se un monaco per depravazione con animo pervertito
venga in contatto corporale con una donna, prendendole la
mano o i capelli o toccandole alcuna parte del corpo.
3. Se un monaco per depravazione con animo pervertito
rivolga ad una donna parole malvagie, eccitanti a passione,
come sono quelle di un giovane ad una ragazza.
4. Se un monaco per depravazione con animo pervertito
esalti all’orecchio di una donna il prestarsi alle sue voglie.
5. Se un monaco faccia da mezzano ad una donna per un
uomo o ad tn uomo per una donna, sia sposa o concubina
od anche meretrice.
6. Se un monaco, mettendo insieme i materiali a forza di
elemosine, faccia costruire una capanna per uso proprio e di
nessun altro superando le dimensioni legittime* o scegliendo
un luogo che rechi pregiudizio (ad esseri viventi), senza uno
spazio aperto all’intorno, e senza condurre i monaci sul posto
a dare la loro approvazione.
7. Se un monaco facendo costruire una grande abitazione
per uso proprio e altrui non scelga un sito che non sia pre-
giudizievole e non faccia venire i monaci a dare la loro ap-
provazione.
8. Se un monaco abbia acctisato un altro di aver commesso
una colpa pdrajika, mentre poi per sua confessione o altri-
menti risulti che la cosa é insussistente.
g. Se un monaco abbia accusato un altro di aver commesso
una colpa parajika, e poi Vaccusa risulti fondata sopra una
circostanza accessoria di un fatto estraneo alla questione.
10. Se un monaco vada seminando zizzania in seno ad una
* 12x7 spanne,
2 BUDDHISMO INDIANO 299
comunita che vive in buona armonia, ed ammonito fino a tre
volte non si ravveda.
11. Se vari monaci si facciano partigiani di quello che se-
mina zizzania e, ammoniti fino a tre volte, non si ravvedano.
12. Se un monaco non tollera che altri monaci gli facciano
delle osservazioni, anche se parlano conforme alla Legge, ed
ammonito fino a tre volte non si ravveda.
13. Se tm monaco mena vita scandalosa e, invitato ad an-
dare altrove, rifiuta ed ammonito fino a tre volte non si rav-
vede.
Ill. (aniyata):
xr. Se un monaco si isola con una donna - uomo con donna -
di nascosto in luogo appartato e adatto (allo scopo), e se una
laica degna di fede, avendo visto, gli imputi il fatto in base
all’uno o all’altro dei tre titoli (sotto cui il fatto pud cadere,
cioé) parajika (1), sanghddisesa (2), o pacittiya (44, 45), quel
monaco, qualora ammetta di essersi seduto in quel modo, sia
trattato (a seconda della sta confessione) come per un pa-
rajika o per tn sanghddisesa o per un pdacittiya, oppure sia
trattato in base a quello dei tre titoli sotto il quale la laica
degna di fede gli avra imputato il fatto.
2. Inoltre, anche se il luogo non sia appartato e non adatto
(allo scopo), ma sia adatto per rivolgere ad una donna parole
infami, se un monaco si sieda con una donna - uomo con
donna - in disparte in tale luogo, ed una laica degna di fede,
avendo visto, gli imputi il fatto in base all’und o all’altro dei
due titoli (sotto cui il fatto pud cadere, cioé:) sanghddisesa
oppure pdacittiya, quel monaco, qualora ammetta di essersi se-
duto in quel modo, sia trattato (a seconda della sua confes-
sione) come per un sanghddisesa o per un pdcittiya, oppure
sia trattato in’ base a quello dei due titoli sotto il quale la
laica degna di fede gli avra imputato il fatto.
IV. (nissaggiya pucittiya):
1. Se dopo l’assegnazione del corredo un monaco tiene un
vestito in pit (dei tre capi di vestiario regolamentari) per
oltre dieci giorni (p. es. avendolo ricevuto per consegnarlo
ad un altro monaco).
2. Se dopo l’assegnazione un monaco abbandona i suoi ve-
300 CAPITOLO VII
stiti, anche solo per una notte, a meno che sia stato atto-
tizzato.
3. Se dopo Vassegnazione un monaco, avendo ricevuto in
dono un taglio di stoffa per un vestito, non lo fa subito con-
fezionare e, ove non sia per lui sufficiente, lo trattiene (nella
speranza di provvedere a cid che manca) per pit di un mese.
4. Se un monaco fa lavare o tingere o battere il suo vestito
logorato da una monaca che non sia sta parente.
5. Se il monaco riceve un vestito da una monaca che non
sia sua parente, salvo che si tratti di uno scambio.
6. Se un monaco chiede un vestito ad un laico o alla mo-
glie di un laico che non siano suoi parenti, a meno che ci
sia un motivo legittimo (p. es. che il sto vestito gli sia stato
rubato, ecc.).
7. Se un monaco cui un laico o la moglie di un laico of-
frano della stoffa per vari vestiti ne prenda pit di quel che
occotre per farsi il vestito esterno e l’interno.
8. Se un monaco pel quale un laico che non sia suo pa-
rente o la moglie di un laico mettano da parte una somma
per fargli un vestito va prima del tempo a dare istruzioni
sul modo come a Itti piacerebbe che il vestito fosse fatto.
9g. Lo stesso, se due laici o due mogli di laici mettono da
parte una somma per comprare un vestito a un monaco.
to. Se un monaco cui sia stata destinata una somma per
un corredo (somma che egli non pud accettare, e che deve
essere rimessa all’agente laico della comunita), presentandosi
all’agente richieda questo corredo e dopo averlo per tre volte
chiesto ed altre tre volte essersi presentato senza parlare, lo
ottenga con ulteriori insistenze (mentre, riusciti vani i tenta-
tivi fino al sesto, dovrebbe limitarsi ad avvertire chi ha de-
stinato la somma).
ir. Se tun monaco ha una coperta fatta di seta.
12. Se un monaco ha una coperta fatta di lana
nera pura
di pelo di capra.
13. Se un monaco si fa fare una coperta nuova che non
sia per due parti di pura lana nera, per una terza parte di
lana bianca e per la quarta parte di lana olivastra.
14. Se un monaco, essendosi fatto fare una coperta, se ne
faccia fare una nuova (abbia ancora 0 non abbia pitt la pre-
cedente) prima che siano passati sei anni, salvo autorizzazione.
BUDDHISMO INDIANO 301
15. Se tun monaco, facendosi fare un tappeto nuovo, non vi
include un pezzo dell’orlo del tappeto vecchio.
16. Se un monaco, avendo per via ricevuto della lana di
capra, la porta lui stesso (in mancanza di portatori) per oltre
tre leghe (yojana).
17. Se un monaco riceve della lana di capra lavata o tinta
o pettinata da una monaca che non sia sua parente.
18. Se un monaco riceve oro od argento o lo fa ricevere
da altri per conto suo o lo fa tenere da altri in deposito per sé.
19. Se un monaco comechessia si occupa di affari.
20. Se un monaco comechessia partecipa a compre o vendite.
21. Se un monaco tiene una scodella di riserva per pit di
dieci giorni.
22. Se un monaco si procura una scodella nuova prima che
la sua sia rotta in almeno cinque punti.
23. Se un monaco che, essendo ammalato, ha ricevuto dei
medicinali (burro, olio, miele, e simili), li trattiene per pit
di sette giorni.
24. Se un monaco si procura della stoffa per i vestiti della
stagione piovosa pit di un mese prima, e li confeziona e co-
mincia a portarli pit di una quindicina prima della fine della
stagione calda.
25. Se un monaco, dopo aver dato egli stesso un corredo
di vestiario ad un altro monaco, poi, stizzitosi, glielo toglie o
glielo fa togliere.
26. Se un monaco si fa dare del filo e poi lo fa tessere da
tessitori per farne un corredo di vestiario.
27. Se un monaco, avendo saputo che un laico che non
€ suo parente oppure la moglie di un laico fa tessere della
stoffa per un corredo di vestiario a lui destinato, si presenta
ai tessitori a dire come egli desidera che la stoffa sia tessuta,
promettendo e poi dando un compenso, sia pure minimo.
28. Se un monaco, avendo ricevuto in dono particolare un
vestito dieci giorni prima del plenilunio che chiude la stagione
piovosa, lo tiene oltre l’epoca della distribuzione dei vestitt.
29. Se un monaco, dimorando in luogo mal sicuro, nel pe-
riodo tra la fine della stagione piovosa e il plenilunio succes-
sivo, avendo deposto uno dei suoi vestiti in una capanna di
un villaggio, ve lo lasci per pit di sei notti.
302 CAPITOLO VII
30. Se un monaco faccia attribuire a sé qualche dono che
era stato destinato per la comunita.
V. (pacittiya) :
1. Menzogna intenzionale.
2. Linguaggio insolente.
3. Calunnia a danno di un monaco.
4. Se un monaco fa recitare clausola per clausola la legge
da un novizio.
5. Se tn monaco si corica (per dormire) per pitt di due o
tre notti con un novizio.
6. Se un monaco si corica con una donna.
7. Se un monaco predica la dottrina per pit di cinque oa
sei parole ad una donna senza che sia presente un tomo che
abbia l’eta del discernimento.
8. Se un monaco vanti presso un novizio di possedere fa-
colta straordinarie, anche se cid sia vero (se non é vero, si
ha la colpa parajika 4).
g. Se un monaco, sapendo che un altro monaco é caduta
in colpa grave, lo dice ad un novizio.
10. Se un monaco scava o fa scavare il terreno (mettenda
cosi in pericolo la vita di qualche essere vivente).
11. Distruzione di una pianta.
12. Disturbare (i monaci riuniti in assemblea).
13. Suscitar malumore (contro un monaco) parlando(ne) con
poco rispetto.
14. Se un monaco, dopo aver portato fuori una lettiera o
una sedia o tna stuoia o uno sgabello appartenente alla co-
munita, se ne va senza rimetterlo o farlo rimettere al posto.
15. Se un monaco nella residenza comune, avendo portato
fuori o fatto portar fuori una lettiera, se ne va senza rimet-
terla o farla rimettere al posto.
16. Se un monaco nella residenza comune si corica nel po-
sto di un altro monaco giunto prima di lui, con l’intenzione
di farlo sloggiare.
17. Se un monaco, stizzito con un altro, lo caccia o lo fa
cacciare dalla residenza comune.
18. Se un monaco nel piano superiore della residenza co-
mune si siede o si corica precipitosamente sopra una sedia
© sopra una lettiera con piedi mobili (potendo cosi rovesciare
il mobile).
BUDDHISMO._ INDIANO 303
1g. Se tun monaco, facendo costruire una grande residenza
in un luogo dove scarseggia la paglia, si rifé a riparare le
porte e le finestre e il tetto per pit di tre volte.
20. Se un monaco inaffia o fa inaffiare l’erba o il terreno
con acqua contenente esseri viventi.
21. Se tn monaco predica alle monache senza essere a cid
deputato.
22, Se un monaco, ptr essendo a cid deputato, predica alle
monache dopo il tramonto.
23. Sé un monaco va a predicare alle monache nella loro
residenza, salvo per motivo legittimo (p. es. che qualche mo-
naca sia ammalata).
24. Se un monaco dice: ‘I monaci predicano alle monache
per fini interessati’.
25. Se un monaco da un vestito ad una monaca che non é
sua parente.
26. Se un monaco fa o fa fare un vestito per una monaca
che non é sua parente.
27. Se tin monaco, previo accordo, percorre tina strada mae-
stra in compagnia di una monaca, magari soltanto fino al vil-
laggio, salvo per motivo legittimo (p. es. quando la strada é
malsicura).
28. Se un monaco, previo accordo, sale con una monaca
sulla stessa imbarcazione, sia che vada secondo corrente, sia
contro corrente, salvo che si tratti di passare all’altra riva.
29. Se tn monaco mangia del cibo procuratogli per inter-
vento di una monaca, a meno che esso sia stato preventiva-
mente a lui destinato.
30. Se un monaco si siede in compagnia di una monaca
- tomo con donna - in luogo segreto.
31. Se un monaco, essendo ammalato, prende pit di un pa-
sto in un pubblico albergo.
32. Se dei monaci vanno a prendere un pasto in comitiva,
salvo per legittimo motivo (in caso di malattia o essendo in
‘viaggio o essendo a’ bordo, ecc.).
33. Se si mangia a turno, salvo per legittimo motivo (ma-
lattia, ecc.).
34. Se tn monaco, invitato a prendere dolci e paste a vo-
lonta, ne prende pitt di due o tre scodelle piene.
35. Se un monaco, dopo aver mangiato, invitato a prendere
Be oy
304 CAPITOLO VII
ancora del cibo, ne mangia o ne prende, sia esso duro o molle.
36. Se.un monaco che ha finito di mangiare, sollecitato da
un altro monaco a mangiare ancora, acconsente.
37. Se un monaco prende cibo, sia duro o molle, in tempo
indebito (cioé dopo il tramonto).
38. Se un monaco mangia del cibo, sia duro o molle, messo
da parte.
39. Se tn monaco, senza essere ammalato, si faccia dare e
consumi delle, ghiottonerie, come burro, olio, miele, pesce,
earne, latte, ecc.
4o. Se un monaco introduca in bocca cosa alecuna che non
gli sia stata data, fatta eccezione per l’acqua e l’arnese per
pulire i denti.
41. Se un monaco di sua propria mano somministra del
cibo, duro o molle, a religiosi di altre sétte.
42. Se un monaco, dopo avere invitato un altro ad andare
con lui alla questua di un pasto, poi lo respinge.
43. Se un monaco entra a forza in una casa dove si sta
mangiando e vi si siede.
44. Se un monaco si siede in segreto con una donna in
luogo appartato (cfr. 30).
45. Se un monaco si siede in segreto con una donna, uomo
con donna (cfr. 30).
46. Se un monaco, avendo gia ricevuto un pasto in una
casa, va in giro per elemosina senza avvertire un monaco pre-
sente, salvo per motivo legittimo (p. es., all’epoca della distri-
buzione dei vestiti).
47. Se un monaco, non essendo ammalato, accetta un invito
permanente per pitt di quattro mesi.
48. Se un monaco va a vedere un esercito schierato in or-
dine di battaglia, salvo per motivo plausibile.
49. Se un monaco, avendo un motivo plausibile di recarsi
presso un esercito, vi resti pi di due o tre notti.
50. Se, soggiornando cola per due o tre notti, assiste allo
schieramento, alla rivista delle forze, ecc.
51. Bere bevande fermentate o liquori.
52. Tentare (qualcuno) col dito.
53- Sollazzarsi stando in acqua.
54. Mancare di rispetto.
55. Se tun monaco spaventa un altro monaco.
BUDDHISMO INDIANO 305
56. Se un monaco, non essendo ammalato, desidera scal-
darsi, accendere o far accendere il fuoco.
57. Se un monaco si bagna ad intervalli di meno di quin-
dici giorni, salvo le debite eccezioni (p. es. durante i due mesi
e mezzo del gran caldo, quando infieriscono le febbri, oppure
in caso di malattia, o quando si lavora o si é in viaggio).
58. Se un monaco, avendo ricevuto un vestito nuovo, non
lo deteriora, macchiandone una parte in bleu scuro oppure in
nero oppure con del fango.
59. Se un monaco, avendo ceduto il suo vestito ad un altro
monaco o ad una monaca o ad uno che é& sotto osservazione
o ad un novizio o ad una novizia, seguita tuttavia a servirsene.
60. Se un monaco nasconde o fa nascondere la scodella, il
vestito, la stuoia, l’agoraio o la cintura di un altro monaco,
sia pure per burla.
61. Se un monaco intenzionalmente uccide un qualsiasi es-
sere viveute.
62. Se un monaco consapevolmente beve acqua contenente
esseri viventi.
63. Se un monaco cerca di rimettere in causa una questione
che egli sa essere gid stata definita secondo la Regola.
64. Se un monaco occulta una colpa grave di un altro mo-
naco della quale egli sia a cognizione.
r 65. Se un monaco concede l’ordinazione a persona inferiore
; ai 20 anni, sapendola tale (in tal caso l’ordinazione é nulla).
66. Se um monaco viaggia, previo accordo, in compagnia
; di una comitiva di briganti sapendola tale, sia pure soltanto
fino al prossimo villaggio.
67. Se un monaco, previo accordo, viaggia in compagnia di
2 una donna, anche solo fino al prossimo villaggio.
. 68. Se un monaco, interprentando la Legge nel senso che le
qualita definite dal Buddha come dannose non impediscano il
conseguimento di doni spirituali, anche ammonito dai fratelli
; fino a tre volte, persista nel suo atteggiamento.
69. Se un monaco mangia, abita o dorme in compagnia con
.
az un altro che parla come si é detto nell’articolo precedente,
é essendo a cognizione del suo atteggiamento.
5 7o. Se un monaco mangia, abita o dorme in compagnia di,
o in qualche modo incoraggia, un novizio che abbia lo stesso
R. PETTAZZONI, La Confessione det peccati, |. 20
306 CAPITOLO VIT
atteggiamento come é detto nell’art. 68 e che per cid, riuscita
vana Vammonizione, sia stato espulso.
71. Se un monaco, ammonito dai fratelli, rifiuta di sotto-
mettersi prima di aver consultato un altro monaco.
72. Se un monaco, mentre si recita il pdtimokkha, getta di-
scredito sui precetti minori dicendo: ‘A che servono essi, se
non ad infondere perplessita e dubbio?’.
73. Se un monaco, dopo aver assistito pitt d’una volta alla
recitazione del pdtimokkha, pretenda di non aver mai sentito
parlare di questa o quella regola.
74. Se un monaco, essendo in collera con un altro, lo per-
cuote.
75. Se un monaco, essendo in collera con un altro, lo mi-
naccia.
76. Se tn monaco accusa un altro, senza ragione, di una
colpa sanghddisesa. A
77. Se un monaco intenzionalmente suscita degli scrupoli
di coscienza in un altro monaco, sia pure momentaneamente.
78. Se un monaco sta ad ascoltare mentre altri monaci que-
stionano o discutono.
79. Se un monaco, dopo aver dato il suo assenso a provve-
dimenti presi secondo la Legge, si mette poi a brontolare.
80. Se un monaco in una adunanza in cui si sta facendo
un’inchiesta se ne va senza aver dato il suo assenso.
81. Se un monaco, dopo aver ceduto un vestito, si mette
poi a brontolare.
82. Se un monaco devolve ad uso individuale cose che sono
di proprieta della comunita.
83. Se un monaco varea la soglia della dimora di un re
quando il re non se ne sia andato e la regina non si sia riti-
rata, senza essersi fatto annunziare.
84. Se un monaco raccoglie o fa raccogliere un gioiello,
salvo nel caso che cid avvenga in un bosco o nella residenza
comune.
85. Se un monaco entra in un villaggio in ora indebita (cioé
dal tramonto all’alba), senza aver ayvertito un monaco (se c’é)
del luogo, salvo per motivi speciali.
86. Se un monaco ha un agoraio d’osso o d’avorio o di
corno (esso dev’essere spezzato).
87. Se un monaco fa fare una lettiera o una sedia con le
BUDDHISMO INDIANO 307
gambe pitt lunghe della misura (le gambe vanno tagliate fino
alla misura giusta).
88. Se un monaco fa fare una lettiera o una sedia imbottita
di cotone (l’imbottitura va strappata).
89. Se un monaco fa fare una coperta o tuna stuoia di di-
mensioni oltre la misura (la coperta e la stuoia vanno ridotte
alla misura giusta).
go. Se un monaco fa fare un vestito per la rogna, che non
sia di misura (il vestito va ridotto alla misura giusta).
or. Se un monaco fa fare un abito per la stagione delle
piogge che superi la misura (come sopra).
92. Se tn monaco fa fare un vestito delle dimensioni del
vestito del Buddha od anche maggiori (come sopra).
VI. (patidesaniya).
1. Se un monaco, essendo una monaca che non é sua pa-
rente entrata nelle case (del villaggio), di sua propria mano
aecetta dalle mani di lei cibo, sia duro 0 molle, e ne mangia
e ne gode, questa é cosa che dev’essere da quel monaco con-
fessata, dicendo: ‘Io son caduto, o fratelli, in tn peccato bia-
simevole, sconveniente, che dev’ essere confessato, e lo con-
fesso’.
2. Dei monaci invitati da dei laici stanno mangiando. Se
ivi sta tna monaca e da istruzioni dicendo ‘Qua della salsa!
qua del riso!’, quei monaci debbono sgridarla dicendo:
‘Tienti in disparte, sorella, finché i monaci abbiano mangiato’.
Se a nessun monaco venga fatto di sgridare la monaca di-
cendo ‘Tienti in disparte, o sorella’, questa @ cosa che dev’es-
sere da quei monaci confessata, dicendo: ‘Noi siamo caduti,
o fratelli, in un peccato biasimevole, sconveniente, che deve
essere confessato, e lo confessiamo’.
3. Se un monaco, senza essere stato preventivamente in-
vitato e senza essere malato, con le proprie mani accetta cibo,
sia duro o molle, in case che sono state dichiarate ligie alla
Regola, e ne mangia e ne gode, questa é cosa che dev’essere
da quel monaco confessata dicendo: (come sopra).
4. Se tn monaco, dimorando in localitd pericolosa e mal-
sicura, con le proprie mani nella sua abitazione accetta cibo,
sia duro 0 molle, e ne mangia e ne gode, senza aver prima
denunziato (la pericolositai del luogo), a meno che egli sia
_—
TW Se Ri
Oe ee Oe)
re RD ee = gli
en poee ‘ Ee . a
edi ae j valie
308 CAPITOLO VIT
malato, questa é cosa che dev’essere da quel monaco confes-
sata dicendo: (come sopra).
VII. (sekhiya) :
1. La sottoveste sia bene avvolta intorno al corpo.
2. Il mantello sia bene avvolto intorno al corpo.
3. Andare di casa in casa vestiti decentemente.
4. Sedersi nelle case vestiti decentemente.
5. Andare, 6. sedersi con contegno corretto.
7-8. id. id. con occhi bassi.
g-10. con le vesti non scomposte.
II-12. senza ridere rumorosamente.
13-14. facendo poco rumore.
I5-16. senza agitare il corpo.
17-18. senza agitare le braccia.
19-20. senza agitare la testa.
21-22. senza tenere le braccia sui fianchi.
23-24. a Capo scoperto.
25. Girare di casa in casa senza camminare sui caleagni né
in punta di piedi .
26. Sedersi senza sdraiarsi.
27. Ricevere l’elemosina facendo attenzione.
28. Ricevere l’elemosina facendo attenzione alla scodella.
29. Ricevere l’elemosina con tna adeguata porzione di salsa.
30. Ricevere l’elemosina in debita misura.
31. Mangiare il cibo elemosinato nella scodella con at-
tenzione.
32. id. facendo attenzione alla scodella.
33. id. andando direttamente di casa in casa.
34. id. con adeguata porzione di salsa.
35- id. senza schiacciare dall’alto al basso.
36. Non coprire col riso la salsa o il condimento per ren-
derlo pitt gustoso.
37- Non chiedere salsa o riso per proprio uso particolare.
38. Non guttardare con invidia la scodella degli altri.
39. Non fare bocconi troppo grandi.
40. Disporre il cibo in bocconi rotondi.
41. Non aprire la bocca finché il boccone non le é giunto
vicino.
42. Non introdurre in bocea tutta la mano.
BUDDHISMO INDIANO 309
43. Non parlare col cibo in bocca.
44. Non buttarsi il cibo in bocca.
45. Non morsicchiare il cibo.
46. Non rimpinzarsi di cibo le guancie.
47. Non agitare le mani qua e 14 mentre si mangia.
48. Non lasciar cadere i grani del riso bollito.
49. Non metter fuori la lingua.
50. Non far schioccare le labbra.
51. Non fare una specie di sibilo.
52. Non leccarsi le dita.
53- Non leccare la scodella.
54. Non leccarsi le labbra.
55. Non prendere il recipiente dell’acqua con la mano im-
brattata di cibo.
56. Non gettare nel cortile la risciacquatura della scodella
contenente grani di riso bollito.
57. Non predicare la dottrina a persona che tiene in mano
un parasole, salvo se sia malata.
58. id. a persona che tiene in mano un bastone, salvo se
sia malata.
59. id. a persona che tiene una spada.
60. id. a persona che tiene un’arma.
61. id. a persona in pantofole, salvo se sia malata.
62. id. a persona in sandali.
63. id. a persona seduta su un carretto.
64. id. a persona in letto.
65. id. a persona sdraiata.
66. id. a persona con un turbante in testa.
67. id. a persona col capo coperto.
68. Non predicare la dottrina a persona seduta (salvo se
sia malata) stando seduto per terra.
69. id. a persona seduta sopra un sedile alto stando seduto
sopra un sedile basso.
jo. id. a persona seduta stando in piedi.
71. id. a persona che cammini avanti, camminandole dietro,
salvo se sia malata.
72. id. a persona che cammini per tn sentiero, stando sul
margine del sentiero.
73- Non fare i propri bisogni stando ritto, salvo per ma-
lattia.
310 CAPITOLO VII
74. Non fare i propri bisogni né sputare sull’erba in pianta.
75. Non fare i propri bisogni né sputare nell’acqua.
VIII. (adhikaranasamatha) :
I. procedura della ‘presenza’.
. procedura del ‘ricordo’.
. procedura della ‘non-follia’.
. procedura della ‘confessione della colpa’.
. procedura della ‘maggioranza del capitolo’.
. procedura
Num
DN
pw dell’ ‘ostinato’.
7. procedura del ‘coprire come con erba’.
Ricapitolazione.
O venerabili! Recitata é l’Introduzione, recitati sono i 4
parajika, recitatisono i 13 sanghddisesa, recitati sono i 2 ani-
yata, recitati sono i 30 nissaggiya-pdcittiya, recitati sono i 92
pacittiya, recitati sono i 4 patidesaniya, recitati sono i sekhiya,
recitati sono i 7 adhikaranasamatha.
C’ era un’ altra occasione in cui la confessione
si praticava periodicamente. Al principio della sta-
gione delle piogge, e precisamente a cominciare
dal giorno successivo al plenilunio del mese asalha
(asadha: giugno-luglio) o del consecutivo mese
Sravana (cfr. p. 234), e per tutti i tre mesi in cui
la pioggia rendeva impossibile l’andare attorno ele-
mosinando, i monaci si ritiravano a vita sedentaria
comune (Mahdav., ut). Alla fine di questo periodo
designato col nome di vassa (vara) aveva luogo la
cerimonia della pavarana (pravadrana), ossia ‘invi-
tazione’, in cui ciascun monaco invitava i fratelli
a dichiarare se egli si fosse durante il vassa reso col-
pevole di qualche mancanza per quanto essi even-
tualmente avessero veduto o udito o sospettato. La
formula, che era ripetuta tre volte da ciascun mo-
naco a cominciare dal pitt anziano per ordine di an-
zianita decrescente, era questa: « Io pronuncio, o
/
4
BUDDHISMO INDIANO gir
reverendi (il pit anziano diceva: ‘o amici’), la mia
pavarana davanti al sangha, per cid che sia stato vi-
sto o udito o sospettato; parlate, o venerabili, senza
riguardo verso di me: se io vedro (di aver com-
messo una colpa), ne fard penitenza » (Mahav., Iv.
1, 14). La celebrazione della pavadrana richiedeva la
presenza effettiva di almeno cinque monaci: un mo-
naco assente per malattia poteva mandare per dele-
gazione la sua dichiarazione di pavadrana (Mahav.,
Iv. 3, 3-5). A questa cerimonia nessuno poteva par-
tecipare se non era immune da colpa (Mahdav., Iv.
6): il colpevole era escluso. Il monaco colpevole
doveva preventivamente confessare la sua colpa
e farne penitenza. Se un monaco commetteva una
mancanza il giorno stesso della pavarand, doveva
confessarla prima di assistere alla cerimonia. Se un
monaco si rammentava - o concepiva il dubbio - di
aver commesso una colpa il giorno stesso della pa-
varand, O proprio nel mentre che si svolgeva la ce-
rimonia, doveva farne provvisoriamente dichiara-
zione a un confratello, salvo a regolare la cosa in
seguito (Mahdav., tv. 6). Le monache erano escluse
dalla pavaranad dei monaci (Mahdv., Iv. 14). Esse
celebravano la pavaranad prima fra di loro separata-
mente; poi, il giorno dopo, mandavano una loro de-
legata ad invitare i monaci ad una seconda pava-
rana: « La comunita delle monache invita la comu-
nita dei monaci (a segnalare eventuali colpe com-
messe dalle monache) relativamente a cose vedute
o udite o sospettate. Parlino i monaci senza ri-
guardo. Se le monache riconosceranno la colpa, la
confesseranno » (Cullav., x. 19).
312 CAPITOLO VII
Fuori dell’ wposatha e della pavarana solo per
eecezione si ha nei testi canonici qualche esempio
di confessione praticata in qualche circostanza oc-
casionale (p. es. Mahav., 1x. 1, 7-9, SBE xvit.
259 sg.). Eccezionalmente si trova, anche, praticata
la confessione da laici: il laico Vaddha, avendo ca-
lunniato un monaco, si pente e presentatosi al Bud-
dha, dice: « Voglia il Beato accettare la confessione
che io faccio del mio peccato nella sua peccamino-
sita, affinché io possa astenermene in avvenire »; e
i! Buddha gli perdona invitando i monaci a rivol-
tare in su la scodella davanti a lui (Cullav., v. 20,
1 sgg.), - ch’era un modo simbolico di significare
la sua reintegrazione, come viceversa il capovolgere
la scodella davanti a un laico equivaleva a rompere
ogni rapporto con lui, a metterlo al bando della co-
munita, rifiutando ogni offerta di cibo da parte sua.
A parte questi ed altri simili casi che si presen-
tano come dovuti ad un’ovvia estensione e generaliz-
zazione della pratica confessionale, la confessione
“appare, nel Buddhismo, particolarmente connessa
con la celebrazione quindicinale dell’uposatha e con
quella annuale della pavarand, e precisamente come
una operazione preventiva e preliminare che é la
condizione sine qua non per che un monaco resosi
colpevole di qualche trascorso possa partecipare al-
Puna o all’altra celebrazione. Questa é, infatti, la
situazione prospettata nel Mahdvagga e nel Culla-
vagga, i due Khandaka costituenti la seconda parte
del Vinaya, nei quali le modalita relative all’ wpo-
satha e alla pavdrana sono esposte particolareggia-
BUDDHISMO INDIANO 313
tamente. Ma questa situazione contiene una incon-
gruenza. Un ‘invito’ come quello da cui trae no-
me la festa pavarana non ha senso, se non é desti-
nato ad essere accolto da qualcuno degli ‘invitati’,
cioé se ad esso non segue effettivamente la segna-
lazione di qualche colpa comechessia imputabile al-
!’ ‘invitante’, con relativo processo ed eventuale ri-
conoscimento da parte del colpevole e sua confes-
sione e penitenza: tutto cid nel corso della celebra-
zione stessa, proprio questa essendo, per cosi dire,
la materia di essa celebrazione. Lanticipazione della
confessione, onde la pavarana viene a ridursi alla
enunciazione puramente formale di un ‘invito’ cui
nessuno risponde, non pud rappresentare lo stato di
cose originario.
L’incongruenza appare ancora pit sensibile nel
caso dell’ wposatha. La triplice interrogazione con
cui termina ciascuna sezione del patimokkha non
ha senso se non in rapporto con una risposta che
doveva venirle da parte di chi si sentisse colpevole
di qualcuna delle colpe enumerate nel testo della
sezione rispettiva’’. In tale risposta dové consistere
originariamente la confessione: confessione pub-
blica - davanti a tutto il capitolo adunato -, rispetto
alla quale la confessione dei monaci fra loro fatta
prima che incominci la recitazione del patimokkha
rappresenta dunque, secondo ogni verosimiglianza,
uno sviluppo secondario e posteriore. Né fa mera-
viglia che un tale momento sia rispecchiato nei
Khandaka (Mahavagga e Cullavagga), i quali furono
composti in epoca posteriore alla fissazione del pa-
timokkha nella sua forma definitiva, come risulta
314 CAPITOLO VII
anche, nel rispetto formale, dall’introduzione di una
terminologia nuova e diversa’?.
Questa fase pit arcaica, di cui, attraverso lo stato
attuale della tradizione, intravediamo l’esistenza, ci
porta pit vicino alle origini della confessione bud-
dhistica.
Antibrahmanico per eccellenza, negatore dei va-
lori religiosi tradizionali - dalla rivelazione vedica
alla liturgia sacrificale -, radicalmente innovatore
nello spirito, il Buddhismo conserv6 tuttavia i segni
della sua discendenza dal gran tronco della religione
indiana. Nelle antiche formule di karma, nirvana e
simili, ereditate dal Brahmanesimo, verso il conte-
nuto nuovo della sua ideologia e della sua dottrina.
Lo stesso fatto si produsse nell’ordine istituzionale.
L’uposatha preesisteva - parola e cosa - al Buddhi-
smo'*. Gia nel Brahmanesimo i giorni di novilu-
nio (amavasya) e di plenilunio (paurndmasi) erano
sacri alla religione (cfr. Atharva-Veda, vit. 79-80),
e precisamente alla celebrazione di sacrifizi, cui il
sacrificante si preparava con un periodo - magari
di un solo giorno - di isolamento, di astinenza e di
vigilia, passando la notte entro la capanna dove ar-
deva il fuoco sacrificale, e dove convenivano, invi-
sibili, gli déi in attesa del sacrifizio del di seguente
(Satapatha-Brahmana, I. 1, 1, 7). Era questo sog-
giorno in solitudine devota che si chiamava propria-
mente wpavasatha (uposatha: da vas ‘dimorare’); e
poiché fra le pratiche dell’ wpavasatha in prepara-
zione al sacrifizio il digiuno teneva il primo posto,
il termine passo a significare ‘digiuno, giorno di di-
giuno’,
/
BUDDHISMO INDIANO 315
Il digiuno non aveva valore agli occhi del Bud-
dhismo, come non l’aveva il sacrificio. Tuttavia il
Buddhismo non rinunzid alla santita dei giorni con-
sacrati dalla tradizione .Cosi avevano fatto gia pre-
cedentemente altre comunita di religiosi eterodossi,
rappresentanti di quel complesso movimento di op-
posizione al Brahmanesimo che, se ci fosse meglio
noto, ci aiuterebbe a comprendere la formazione del
Buddhismo e le sue fortune. Dalle scritture stesse
del Buddhismo abbiamo notizia di certi paribbajaka
(religiosi viandanti)'* appartenenti alle scuole ere-
tiche dei Titthiya, i quali avevano costume di riu-
nirsi due volte ogni quindicina, e precisamente 1’ 8°
e il 14° (o 15°) giorno (Mahavagga, mu. 1, 1)**. I
Buddha invece prescrisse ai suoi discepoli di tenere
le loro riunioni due volte al mese, il 14° (o 15°)
giorno di ogni quindicina (pakkha). A che fare, se
il sacrificio, e con esso la preghiera e in genere tutto
il culto, era abolito? La parola del Buddha é espli-
cita su questo punto: « Questo sara l’uffizio dei mo-
naci nei giorni di wposatha....: io vi prescrivo, o
monaci, di recitare il patimokka» (Mahav., 11. 3, 2).
Anche i ‘Titthiya nelle loro riunioni settimanali
recitavano il loro dhamma, cioé la loro ‘Regola’
(Mahav., 1. I, 1). Soppressa la festa e conservata
solo la vigilia - cioé l’uposatha -, le devozioni della
vigilia presero esse il posto dell’antica celebrazione
cultuale.
Se tra queste devozioni figura - nel Buddhismo
e in comunita extra-buddhistiche (pre-buddhisti-
che) - quasi esclusivamente la recitazione del rispet-
tivo canone disciplinare, non sara fuor di luogo cer-
316 CAPITOLO VII
carne la ragione nel fatto che essa, oltre a rammen-
tare ed inculcare i doveri religiosi, oltre a ribadire
periodicamente il sentimento della solidarieta tra i
membri dello stesso ordine rispetto ad altre comu-
nita religiose, aveva anche, verosimilmente, una
funzione pitt concreta e suscettibile di svolgimenti
liturgici, in quanto ad essa recitazione doveva cor-
rispondere una confessione da parte di chi alle nor-
me di disciplina recitate fosse venuto meno nell’in-
tervallo fra una riunione e l’altra, secondo quanto
abbiamo argomentato sopra (p. 313) a proposito del
patimokkha. Non é fuor di luogo questa conget-
tura, se si tiene presente che le pratiche devote dei
giorni di wposatha avevano, originariamente - in
vista della susseguente celebrazione sacrificale -, un
carattere propriamente ascetico e purificatorio, e che
tale é anche, precisamente, il carattere della con-
fessione. Gia in seno allo stesso Brahmanesimo ab-
biamo imparato a conoscere (p. 235) una confes-
sione che una peccatrice faceva per liberarsi dalla
oppressione del peccato in vista precisamente del-
Vazione liturgica finale, per potervi partecipare « sen-
za quella pena segreta nel cuore». D’altro lato é da
tener presente che la confessione fu praticata anche
nel Giainismo, verosimilmente gid nel primo Giai-
nismo - quello: di Par$va (p. 277 sg.) -, vale a dire in
quel mondo ricco di fermenti religiosi antichi e
nuovi che fu l’ambiente, per cosi dire, di incuba-
zione anche del Buddhismo.
In processo di tempo, per soddisfare alle esi-
genze cultuali che sempre pit si fecero sentire in
seno alle comunita buddhistiche, l’uposatha venne
cy ge TE eid haa aie
DG Agha ate ML his ARS
BUDDHISMO INDIANO 317
accentuando il suo carattere di celebrazione litur-
gica. Hssendo venuta meno la solennita sacrificale,
quella che era stata la ‘vigilia’ prese il posto della
‘festa’: il ‘giorno di digiuno’ diventd il giorno
della riunione solenne. Corrispondentemente e pa-
rallelamente la confessione, gid praticata come pre-
parazione spirituale alla celebrazione festiva, man-
tenne tale carattere preparatorio in rapporto all’upo-
satha, una volta che questo ebbe preso il posto di
quella celebrazione. Cid che in origine era verosi-
milmente connesso - wposatha e confessione - si
separO: mentre la recitazione della Regola (péati-
mokkha) divenne la materia essenziale della cele-
brazione dell’ wposatha, la confessione, che ne era
stata elemento complementare, resto anticipata come
pratica preliminare e preventiva, diventando la con-
ditio sine qua non per che un monaco prevaricatore
potesse partecipare all’uposatha. Cosi venne crean-
dosi quello stato di cose (p.'313) che é rispecchiato
nella seconda parte del Vinaya (Mahavagga e Cul-
lavagga).
La confessione dei monaci non fu, dunque, una
invenzione del Buddhismo. Anche per la confessione
appoggiata alla recitazione di una Regola, che sem-
bra essere la forma tipicamente buddhistica, pare
difficile escludere 1’ esistenza di qualche precedente
extra-buddhistico (si pensi al dhamma recitato dai
Titthiya). Ma altra ¢ - come gid accennammo
(p. 314) - la scarsa originalitd del Buddhismo nel
rispetto formale, altro ¢ lo spirito nuovo che il Bud-
dhismo trasfuse nelle forme tramandate. Per questo
318 CAPITOLO VII
spirito anche la pratica della confessione resto tra-
sfigurata, specialmente in rapporto con la conce-
zione buddhistica del peccato.
L) idea - che si trova gia nei Veda (p. 230) - del
peccato come offesa fatta ad una divinita, e della
sua remissione concessa dalla divinita stessa, é ori-
ginariamente estranea al Buddhismo, sia per effetto
del suo modo di concepire gli déi come forme con-
tingenti dell’essere, sia in armonia con la sua dot-
trina della impermanenza dell’io, e quindi della re-
lativa irresponsabilita personale, e quindi della sal-
vezza dipendente non tanto dal non peccare e dal
distruggere le conseguenze del peccato quanto - pit
genericamente - dal non fare (estinzione del karma,
estinzione del desiderio, ecc.).
Quanto all’altra concezione antico-indiana (pagi-
na 229 sg.) del peccato come qualche cosa di obietti-
vo e di sostanziale, par quasi di coglierla nelle stesse
scritture canoniche quando si incontra - e cid ac-
cade pitt volte - una frase come questa: ‘la colpa
mi ha assalito’, ‘il peccato mi ha sopraffatto’ (Ma-
havagga, IX. 1, 9; Cullav., v. 20, 51°; cfr. Dham-
mapada, 121 sg.)*". Ma che in tutti questi casi la
sopravivenza sia, se mai, puramente verbale, ossia
di semplici modi di dire ormai privi di quel che poté
essere, eventualmente, il loro proprio senso genuino,
risulta sicuramente dal fatto che proprio la conce-
zione sostanziale-obiettiva del peccato @ dal Bud-
dhismo esplicitamente negata e nettamente respinta,
e proprio in antitesi dichiarata col Brahmanesimo,
in cui tale concezione, risalente all’epoca vedica, era
invece tuttora viva ed attuale ai tempi buddhistici.
BUDDHISMO INDIANO 319
Specialmente quei riti di abluzione che gia vedem-
mo praticati nella religione brahmanica per ottenere
la remissione dei peccati, riti di eliminazione mate-
riale nei quali dunque si riflette direttamente la ar-
caica concezione obiettiva del male-peccato, dove-
vano essere in pieno vigore anche ai tempi in cui il
Buddhismo fioriva, perché proprio contro di essi si
scaglia l’invettiva dei testi sacri. Vale la pena di sof-
fermarsi a cogliere l’eco di questa polemica fra le
due religioni, la tradizionale e l’eterodossa.
Le due dottrine sono poste di fronte nel modo
pit. efficace nel dialogo fra la laica - e poi monaca -
Punna o Punnika ed un Brahmano, zelante esecu-
tore dei riti ‘battesimali’ (wdakasuddhika) di im-
mersione ed abluzione a scopo di remissione dei
peccati.
« Attingitrice d’acqua, » - dice Punna richiamandosi alla sua
precedente condizione di domestica - « io scendevo anche d’in-
verno alla corrente (un corso d’acqua affluente del Gange) per
timore di essere battuta, assillata dalla paura dei rimproveri
delle padrone. Ma tu, o Brahmano, che cosa temi, che sem-
pre te ne scendi cosi nel fiume? Perché esponi le tue membra
tremanti al freddo pungente?» - « Tu lo sai bene, o Punnika,
perché interrogare chi cosi annulla con retto karma l’effetto
di un karma cattivo? Chi in gioventi o in eta avan-
zata ha commesso cattive azioni, da questo karma
si libera mercé il battesimo dell’acqua» - «Ma
quale ignorante a te ignorante ha detto che il battesimo del-
l’acqtta pud valere a liberare dal cattivo karma? Se é cosi,
i pesci e le testuggini e le rane e i serpenti e i coccodrilli
e tutto cid che vive nell’acqua andra dunque direttamente
in paradiso. Tutti coloro che producono cattivo karma - ma-
cellai di ovini e sini, cacciatori di selvaggina, ladri e assas-
sini - non hanno che da inzaccherarsi d’acqua, e sono liberati
dal karma cattivo! Ché se queste correnti potessero asportare
il male che tu hai commesso per l’addietro, esse asportereb-
320 CAPITOLO VIT
hero anche il tuo merito, lasciandoti ignudo e spoglio. Cid
che ti fa paura, o Brahmano, e per questa paura tu vieni
sempre a bagnarti e a intirizzirti, evita una buona volta di
commetterlo, e tieni la pelle riparata dal gelo!.... Se temi
il male, se non te ne compiaci, non commettere
aleun torto né palese né occulto. Ma se tu farai
o hai fatto del male, in tal caso non scamperai
dalla sciagura, anche se tu la vedi venire e fuggi via»
(Therigadtha, 236-248)18.
Del pari le abluzioni o aspersioni rituali che,
sempre a scopo di purificazione dal peccato, si ese-
guivano in certe feste celebrate periodicamente sulle
rive dei fiumi, p. es. nella festa primaverile che
aveva luogo ogni anno a Gaya sul fiume Nerafijara
nella prima quindicina di marzo, sono nettamente
ripudiate dal Buddhismo:
«O ben venuto per me quel giorno di primavera quando
a Gaya, alla festa del fiume, io vidi il Buddha predicare la
legge suprema........ Al mattino, al meriggio e la sera tre
volte al giorno io scendevo a Gaya nell’acqua, alla festa pri-
maverile di Gaya, perché ‘di peccati da me commessi
in altre esistenze in giorni passati qui ora in tal
modo io mi lavo’, cosi una volta credevo. Ma udii una
voce che pronuncid suadenti parole, ...... e sul loro senso io
riflettei molto e ragionai seriamente. Ora da ogni male io
sono veramente lavato, pulito dall’errore, immacolato e puro,
in ptrita erede del Purificato, figliuolo suo, si, vero figlio del
Buddha, perocché io mi sono tuffato nella ottuplice
corrente ed ogni cosa cattiva ho deterso» (ibid.,
*
345-349)
19.
E ancora:
« Un tempo io solevo venerare e adorare il fuoco, la luna,
il sole, nonché gli iddii, recandomi sulla riva del fiume per
scendere nell’acqua a compiere i riti di abluzione: si, mol-
teplici osservanze io mi imponevo, a metda mi radevo il capo,
non mi coricayo che per terra né rompevo il mio digiuno al
termine dalla giornata» (ibid., 87-88)20.
BUDDHISMO INDIANO 321
Tutto questo ritualismo e ascetismo non aveva
valore per la religione del Buddha. Come per il suo
anti-ritualismo essa si opponeva alla religione brah-
manica, cosi per il suo spirito anti-ascetico si oppo-
neva, in generale, ai vari ordini religiosi, in parti-
colare al Giainismo :
« Non Vandare attorno ignudo, non il portare i capelli in-
treceiati, non la sporcizia, non il digiuno né il giacere sulla
nuda terra, non lo sfregarsi con la polvere né l’accosciarsi
immobili, purificano il mortale che non ha vinto il desiderio »
(Dhammapada, 141)21.
Dal Giainismo il Buddhismo si differenzia pro-
fondamente anche nella dottrina del peccato e della
liberazione dal peccato. Nel Giainismo il peccato ¢é
un modo del karma, il quale é, a sua volta, un modo
della materia: é, in altri termini, sostanza karmica
la quale dev’ essere consumata e distrutta ai fini
della salvezza, e l’ascesi, il tapas, & appunto un
mezzo per distruggerla (cfr. p. 270). Vige adunque
nel Giainismo, in armonia con la generale impronta
arcaistica che é propria di questa religione (p. 274),
lV’ arcaica concezione obiettiva del male-peccato: per
essa avviene che un’ azione (cattiva) produca il suo
karma (cattivo) anche se fu commessa involonta-
riamente.
Non cosi nel Buddhismo. Per esso cid che conta
é la volonta. L’opus operatum non é che il riflesso
dell’atto volitivo. La medesima azione puo esser ti-
tolo di merito o di demerito a seconda del motivo
che la informa. I] karma é trasferito dal momento
obiettivo dell’azione eseguita al momento subiettivo
della volizione. E la volonta che regge 1’azione in
tutto il corso del suo farsi. EK se, quando l’azione é
R. PETTAZZONI, La Confessione det peccati, 1. 2X
322 CAPITOLO VII
compiuta, la volonta l’approva e ne é soddisfatta,
allora, e soltanto allora, |’ azione é perfetta, e il
suo karma ‘matura’*®. Non c’é karma se non c’é
volonta consapevole. Non solo: ma se volonta ci fu
e poi non resse, il karma si genera, si, ma non ma-
tura. Il suo maturare é impedito, quando la volonta
é fiaccata. E questo venir meno della volonta é il
pentimento. Pentirsi € un mutarsi della volonta, un
suo ritirarsi dall’azione commessa per tornare su di
sé e volgersi in senso contrario, generando cosi un
karma nuovo e diverso. Peccato ¢, pel Buddhismo,
un’azione generatrice di karma negativo ai fini della
salvezza. Pentirsi di un peccato é il prodursi di una
volonta diversa - che é anche volonta di non tor-
nare a peccare -, onde il maturare di quel karma é
ostacolato e interrotto perché controbilanciato e neu-
tralizzato dal karma della nuova volonta soprav-
venuta.
Trasportato il peccato dalla sfera obiettiva alla
subiettiva, anche il processo di liberazione del pec-
cato si fa tutto interiore.
« Da noi stessi é fatto il peccato, a noi stessi ne viene affli-
zione, da noi stessi si evita il male, e cosi ci facciamo puri:
purita e impurita viene di per sé, non da un altro possiamo
essere purificati» (Dhammapada, 165).
Di qui discende il valore della confessione nel
Buddhismo. Esso valore sta in cid, che la confes-
sione, il riconoscimento della propria colpa e colpe-
volezza, é la espressione del pentimento, é il segno
di quella crisi interna da cui ha principio |’annul-
lamento delle conseguenze del peccato. L’annulla-
mento si compie con la penitenza e con il proposito
di non ricadere. « Vedi tu il tuo peccato? », chie-
BUDDHISMO INDIANO 323
deva il monaco al fratello che era venuto a dichia-
rargli una sua colpa. - « Lo vedo », rispondeva que-
sti. - « Orst, astientene per l’avvenire » (Mahav., 1.
27, 1). « Perocché, questo é il vantaggio della di-
sciplina dell’ Eccelso, che chi vede il suo peccato
come peccato e ne fa la debita ammenda, diventa
capace di astenersene in avvenire » (Cullav., v.20, 5).
Viceversa, il non confessare la propria colpa, il te-
nerla nascosta, favorisce la maturazione delle sue
conseguenze. « Pesante cade la pioggia » - dice una
sentenza pitt volte ripetuta nei sacri testi - « pesante
cade la pioggia su cid che é coperto, non su cid che
é scoperto: orsti, scopri cid che hai occultato, e la
pioggia non ti tocchera » (Theragatha, 447; Cullav.,
ibe, SID pee
Non evocazione magica del peccato a scopo eli-
minatorio, come nella concezione elementare sopra-
vivente - sebbene trasfigurata (p. 252) - nel Brah-
manesimo; non una forma, fra le altre, del tapas (in-
terno), concorrente alla consumazione del karma,
come nel Giainismo; ma espressione devota d’intima
contrizione: tale é la confessione nel Buddhismo,
in rapporto con la dottrina buddhistica (del karma
e) del peccato. In questa dottrina veramente l’antica
concezione elementare ed obiettiva del male-peccato
fu radicalmente superata, per la prima volta nella
storia religiosa dell’India.
Il massimo valore religioso della confessione sara
stato realizzato nel periodo delle origini buddhisti-
che, quando essa era fatta dal monaco colpevole
nelle periodiche riunioni niotturne della comunita,
324 CAPITOLO VII
in risposta alle triplici interrogazioni solenni inter-
calate nella recitazione del patimokkha, alla pre-
senza di tutti i confratelli adunati. La successiva
separazione dell’atto confessionale dalla recitazione
della Regola (p. 317), il suo passaggio dalla forma
pubblica ad una forma auricolare e privata (p. 313),
segna gia un abbassamento di tono nella esperienza
religiosa, in corrispondenza col prevalere dello spi-
rito monastico e casuistico nella codificazione defi-
nitiva del patimokkha. Quale a noi é pervenuto, il
patimokkha é, piuttosto che un elenco di veri e pro-
pri peccati, un elenco di colpe monastiche, manca-
menti che, nella loro grande maggioranza, sono tali
soltanto agli occhi di una comunita di monaci. Corri-
spondentemente, le sanzioni previste non riguardano
tanto il peccato per sé stesso o il soggetto peccante
quanto i rapporti del monaco peccatore con la co-
munita (espulsione, sospensione, ecc.). Non si tratta
di assoluzione né di perdono: questi concetti sono
incompatibili con la dottrina genuina del Bud-
dhismo.
2. CINA.
Il mahayana non fece da controaltare al hina-
yana: non volle essere una protesta, bensi una in-
tegrazione e un superamento. Superata fu 1’ antica
dottrina della salvezza riservata al bhikkhu, unico
candidato alla dignita di arhant, nel nuovo ideale - ac-
cessibile a tutti, monaci e laici, - del bodhisattva,
cioé di colui che, avendo oramai raggiunto la per-
BUDDHISMO CINESE 325
fezione, rinunziava tuttavia a diventare un Buddha,
per che i stoi meriti accumulati seguitassero a ri-
dondare a beneficio delle creature. L’idea centrale
del Buddhismo originario, che faceva dell’ uomo il
solo artefice della propria salvezza, cedeva il posto
alla nuova concezione della reversibilita del merito.
Corrispondentemente la confessione, da manifesta-
zione del pentimento interiore, diventava uno dei
mezzi utili per ottenere la cancellazione del peccato.
E si formava altresi una Regola mahayanica, che
non sopprimeva 1’ antico pratimoksa, ma lo inte-
grava con una disciplina speciale riservata ai bodhi-
sativa.
I due ‘veicoli’ non esistevano, pare, ancora di-
stintamente come tali, cioé con i nomi loro caratte-
ristici, quando il Buddhismo si introdusse prima-
mente in Cina; ma esistevano gia, specie nel nord
e nell’ovest dell’India, alcune correnti nuove, rap-
presentanti pitt o meno embrionali di un mahadyana
- per cosi dire - avant la lettre; e furono proprio, a
quanto sembra, queste correnti che per prime pene-
trarono in Cina.
Cid che avvenne in altri paesi fuori dell’India,
dove il Buddhismo si diffuse dapprima in forme pit .
o meno aberranti e solo in un secondo tempo nelle
forme pit genuine (T'song-ka-pa e la ‘chiesa gialla’
dopo la ‘chiesa rossa’ nel Tibet; la ‘restaurazione’
hinayanica in Birmania, Siam e Cambogia dopo la
prima introduzione del Buddhismo ‘settentrionale’),
si verificd, in un certo senso, anche per la Cina. E
un fatto che tra i primi buddhisti operanti in Cina
non tanto figurano dei monaci indiani quanto dei
‘sogdiani’ o ‘parthi’ 0, comunque, oriundi di quelle
326 CAPITOLO VII
regioni occidentali (‘Indo-Sciti’?) dove pit facil-
mente il Buddhismo poté subire le influenze di reli-
gioni extra-indiane (‘iraniche’ ed altre)*, influenze
con le quali appunto si vorrebbe, da alcuni, spiegare
la profonda trasformazione del Buddhismo in senso
mahayanico. Uno dei pit antichi centri di attivita
buddhistica in Cina é, nella seconda meta del IT sec.
d. Cr., la citta di Loyang, dove infatti primeggia la
figura di An-ts’ing (Ngan-T's’ing) - sopranominato
An-shih-kao (Ngan-shih-kao), ossia ‘il marchese’ o
‘il principe partho’ (An hsi, la Persia) -, insieme
con altri buddhisti di origine iranica (sogdiana), co-
me An-Hiuan (Ngan-Hiuan), e con quel Yen
Fo-t’iao che fu, se non il primo, uno dei primi mo-
naci indigeni cinesi”’.
An-shih-kao tradusse in cinese parecchi testi
buddhistici?®: tra l’altro gli é@ attribuita la tradu-
zione del celebre Sukhavati-vytiha. Sukhavati é il
“paradiso’ occidentale dove regna Amitabha (o Ami-
tayus), la ‘Ice (rispettivam. la ‘Vita’) infinita’,
il Buddha eterno e supremo, la cui inesauribile mi-
sericordia a pro’ delle creature si esplica per l’inter-
mediario del Bodhisattva Avalokitefvara. Una scuo-
la buddhistica speciale fondata sulla adorazione di
Omito-fo (Amitabha) e di Kuan-yin (equivalente ci-
nese femminile di Avalokite$vara), ed avente come
principale testo canonico il (grande) Sukhavati-
vyitha*", sorse in Cina per opera di Yiian-kung
(Hwui Yuen) (333-416), col nome di ‘scuola della
terra Pura’ (ching-t’u-tsung) o ‘scuola del Loto’
(lien-tsung), essendo la ‘Terra Pura’ precisamente il
“paradiso’ occidentale, la sukhavali, dove gli adora-
tori di Amitabha, dopo la morte terrena, rinascono
eee
BUDDHISMO CINESE 327
' - da un fiore di loto - nella condizione pit favorevole
al conseguimento finale del nirvana, come candidati
alla immancabile beatitudine sempiterna, non impe-
diti dai loro eventuali peccati, perché a cancellar que-
sti basta l’invocazione di Amitabha fatta con cuore
puro e con la formula consacrata: namo Amito-fo
(=namo Amitaya Buddhaya), ‘venerazioneal Buddha
Amitabha’. In una esposizione popolare della dot-
trina del ching-t’u-tsung, intitolata Lung shu ching
Vw wen (sec. XII), si legge infatti: « Il Bodhisattva
della grande misericordia dice: ‘Fra i Buddha delle
dieci direzioni del cielo e dei tre mondi Amitabha é
il supremo; chi invoca il suo nome e il suo titolo
d’onore, cancella tutti i suoi peccati e rinascera poi
nella Terra Pura’ » (vir. 7)*%. Nello stesso testo é
inculcata la pratica della confessione in varie circo-
stanze. Ogni giorno di buon mattino, dopo aver fatto
dieci invocazioni ad Ahitabha, a Kuan-yin e all’al-
tro Bodhisattva Ta shi shih (Mahasthanaprapta), si
deve fare un inchino e, invocato il Bodhisattva della
grande misericordia, si devono confessare i propri
peccati dicendo: « Dei Buddha dei 3 mondi nelle ro
direzioni del cielo Amitabha é il primo..... In lui
ora rifugiandomi io confesso e mi pento dei
miei peccati relativi ai 3 dominf (cioé: i 3 pec-
cati del corpo, i 4 della bocca, i 3 del pensiero), e
mi volgo invece di tutto cuore ad ogni cosa buona »
(1v. 2)°°. Un’altra preghiera da recitarsi al mattino
era questa: «Il discepolo N. N. devotamente ri-
volge per tutte le creature di tutti quanti i mondi
la sua laude al Buddha Amitabha, confessa i
suoi peccati e contrito se ne pente, fa voto
(di emendarsi) e attesta la sua devozione e venera-
328 CAPITOLO VII
zione; volge con fiducia lo sguardo alla grande com-
passione e misericordia del Tathagata ed agli eccelsi
spiriti protettori. Che tutte quante le creature esal-
tino del pari il Buddha, confessino e si pen-
tano dei loro peccati, facciano voti (di emen-
darsi) ed attestino la loro devozione e venerazione,
e ne traggano valido aiuto ad ottenere la rinascita
nel mondo della beatitudine suprema ».
FE difficile riconoscere l’antico Buddhismo - reli-
gione dello sforzo interiore - in questa dottrina dove
l’uomo pud fare assegnamento, per salvarsi, sul soc-
corso misericordioso di esseri sopraumani, e dove la
devozione - la bhakti - prende il sopravvento sopra
lo studio e la conoscenza della verita (jfvana). D’al-
tro lato, senza questo atteggiamento di indulgenza
illimitata verso il peccatore, difficilmente - forse - il
Buddhismo avrebbe potuto avere in Cina (e altrove)
la fortuna che ebbe. Fatto é che lo spirito di indul-
genza non é proprio soltanto della scuola della ‘Ter-
ra Pura.
L’idea che tutti i peccati, anche i pitt gravi, pos-
sono essere cancellati, che non ci sono colpe irre-
missibili é svolta p. es. nel Siaw-chi-kwan, opera di
Chih-ché (altrimenti chiamato Chih-i, Chih-k’ai,
531-597), che fu il fondatore della scuola T’ien-t’ai,
formazione prettamente cinese, cosi chiamata dalla
omonima regione montuosa (il ‘T’ien-t’ai-shan) ricca
di conventi nel Cheh-kiang. Nel Siau-chi-kwan é
prescritto l’adempimento dei ‘cinque mezzi esterni’,
il primo dei quali é la perfetta osservanza dei pre-
cetti: rispetto a questa si distinguono coloro che
prima di diventare buddhisti erano senza peccato,
coloro che dopo ricevuta l’ordinazione si astennero
BUDDHISMO CINESE 329
da peccati gravi commettendo solo colpe minori, e
coloro che, essendo gia ordinati, volontariamente cad-
dero in peccato grave; ma anche questi ultimi pos-
sono riabilitarsi attenendosi alle ro regole e atten-
dendo scrupolosamente alle pratiche di penitenza,
fino a che il ‘male’ risulti distrutto: una delle ro
regole consiste precisamente nel confessare senza
riserva i propri peccati®®.
Il Buddhismo cinese presenta questa caratteri-
stica - di cui anche la composizione del san-tsang,
il Tripitaka cinese, é un sintomo eloquente -, che le
sue varie scuole, diversamente da quanto accade nel-
l’India ed anche nel Giappone, anzi che accentuare
le loro differenze, tendono piuttosto ad attenuarle in
un eclettismo livellatore*’. Eclettico é appunto il gia
menzionato T’ien-t’ai-lsung. Ma la scuola che pit
pienamente realizzO tali tendenze sincretistiche e
che, incorporandosi - in certo qual modo - le altre
scuole, su tutte venne a prevalere fu il ch’an-lsung,
la scuola del dhyana, ossia della contemplazione inte-
riore. Veramente essa era sorta - nel VI sec., per ope-
ra di Bodhidharma (cin. Ta-m6), passato dall’India
in Cina intorno al 526 d. Cr. - in antitesi e quasi per
reazione alle scuole preesistenti, svalutando cosi lo
studio dei testi come le osservanze disciplinari co-
me le pratiche di devozione - e dunque tutti i vari
mezzi cui ciascuna scuola dava, per conto suo, la
preferenza -, per fondare il conseguimento della sal-
vezza unicamente su la meditazione e la concentra-
zione interiore (dhyana, pali jhana). Se, partendo da
questa posizione iniziale, il ch’an-tsung giunse poi
a sovrapporsi a tutte le altre scuole del Buddhismo
cinese, specialmente al tempo della dinastia Sung
330 CAPITOLO VIT-
(960-1127), cid poté accadere solo in quanto esso dal
canto suo gradualmente cedette e fece posto alle
varie tendenze rappresentate dalle singole scuole.
La concessione pitt sintomatica - perché fatta
proprio su di un terreno quanto mai lontano dallo
spirito del dhyana, il terreno della disciplina - fu
l’adozione di una Regola disciplinare che gia vigeva
in alcune scuole e che, una volta adottata dal ch’an
tsung, fini poi, col prevalere di questo, per imporsi
a tutto il Buddhismo cinese. Questa regola é conte-
nuta, come parte essenziale, nel cosidetto Brahma-
jalasiitra, o ‘testo della rete di Brahma’, in cinese
Fan wang king®*. Questo testo, di cui non si co-
nosce finora l’originale indiano (la traduzione in ci-
nese fu fatta da Kumarajiva nei primi anni del
V sec.), € per sé stesso un tipico prodotto dell’ eclet-
tismo, in quanto non solo combina le tendenze di
scuole (mahayaniche) diverse*’, ma anche fornisce
- in armonia con lo spirito di tutto il mahayana - la
integrazione, dal punto di vista mahayanico, di quella
che era la ‘Regola’ propria del Buddhismo hina-
yana, cioé del pratimoksa. « Chi opera costantemente
in conformita dei 250 divieti e nella sua condotta
dimostra purita perfetta e cammina nei sentieri delle
quattro verita, diventera un a-lo-han (arhant) ». In
queste parole del ‘Siitra dei 42 capitoli’, il pit an-
tico testo buddhistico cinese (pre-‘mahayanico’) a
noi noto finora**, é espresso l’ideale del ‘piccolo vei-
colo’ - e precisamente, come appare dal numero 250,
secondo quella che fu la scuola dei Dharmaguptaka
(p. 288) -, ideale che, come abbiamo gia detto, si rias-
sume nella formula: arhant diventa solo il bhiksu,
e il bhiksu diventa solo arhant, Quando a que-
Net OP) ORT Ne be ee eea es ns As! aD OPA ee Lad
. . LA oh
BUDDHISMO CINESE 331
sto ideale limitato e ristretto il mahaydna sostitui
quello, accessibile anche ai laici, del bodhisattva, la
qualita di arhant non fu pit la méta finale, ma sol-
tanto una tappa transitoria della carriera spirituale
del perfetto buddhista idealmente prolungata fino al
raggiungimento della suprema qualita di Buddha
attraverso la qualita di bodhisattva. Cosi la comu-
nita resto praticamente distribuita in un grado in-
feriore, dei bhiksu (preceduto da uno stato prelimi-
nare, del noviziato), e in uno superiore, dei bodhi-
sattva. Il Brahmajalasitra fornisce appunto la nuova
regola del grado superiore - cioé dei bodhisattva - ag-
giunta, anzi superordinata, a quella del grado infe-
riore, che é l’antico pratimoksa dei bhiksu.
La regola dei bodisattva si compone di 58 articoli
© comandamenti, 10 maggiori e 48 minori. I pri-
mi Io, designati col termine pratimoksa, sono: 1. non
uccidere, 2. non rubare, 3. non commettere atti di
lussuria, 4. non mentire, 5. non far commercio di
bevande inebrianti, 6. non divulgare i peccati altrui,
7. non esaltare te stesso abbassando gli altri, 8. non
essere avaro, 9. non nutrire risentimento e non rifiu-
tare le scuse di alcuno, ro. non dir male dei tre gio-
ielli (i1 Buddha, la Legge, la Comunita). I peccati
commessi contro questi 10 pratimoksa sono i pit
gravi: essi corrispondono ai peccati contemplati nel-
la 1* sezione del pratimoksa hinayanico, e, al pari
di questi, rendono l’uomo parajika, cioé indegno:
sono, per cosi dire, dei peccati ‘mortali’, che degra-
dano l’uomo annullando ogni suo progresso sulla via
della salvezza e privandolo della qualita di buddhi-
sta: tuttavia esse non danno luogo, come nel hina-
yana, alla scomunica ed espulsione del colpevole, dal
332 CAPITOLO VII
momento che egli con la penitenza propria e per i
meriti altrui pud riabilitarsi. Gli altri 48 articoli in
parte concernono colpe che sono considerate meno
gravi: mancare di rispetto a parenti ed amici, bere
bevande inebrianti (cid che ¢ meno grave, dal punto
di vista mahayanico, che il farne commercio, per-
ché il perdere sé stesso ¢ meno grave che il perdere
altrui), mangiar carne, mangiare aglio, trascurare
di indurre i peccatori a far penitenza (magari fa-
cendo uso della forza); in parte sono delle istruzioni
riguardanti la vita monastica (p. es. sull’ uso del
corredo) e i rapporti fra i monaci. E notevole 1’ac-
centuazione del momento volitivo e cosciente: « se
un figlio del Buddha beve, consapevolmente e
volontariamente, una bevanda inebriante; se con-
sapevolmente e volontariamente mangia della carne;
se consapevolmente e volontariamente mangia del-
‘laglio; se deliberatamente appicca il fuoco; se
deliberatamente coltiva l’intenzione di violare i
comandamenti..... ».
L’atto pitt importante della vita monastica é la
celebrazione dell’uposatha, che rimane fissata ogni
quindici giorni, al novilunio e al plenilunio. (Nel
Buddhismo cinese si usd prolungare il digiuno del-
Vuposatha per un secondo giorno, come pure si in-
seri un altro yposatha secondario - di un giorno solo -
a mezzo di ogni quindicina, in modo da avere sei
giorni di digiuno al mese: 8, 14 e 15, 22 (23), 28 € 29
(29 e 30)°°; ma in complesso l’uposatha & osservato
in Cina meno scrupolosamente che in India), « Al-
lora Buddha » - si legge nella introduzione del Brah-
majdlasiitra - disse ai Bodhisattva: ‘Io stesso recito
ogni quindici giorni le leggi e i comandamenti dei
BUDDHISMO CINESE 333
Buddha, e voi, o Bodhisattva,.... del pari dovete re-
citarli». E il 37° dei comandamenti minori dice:
« Quanto a cid che riguarda i giorni di wposatha, 1
bodhisattva che sono all’ inizio della pratica della
santita debbono sempre celebrarli ogni quindici
giorni, leggendo i 10 comandamenti maggiori e j
48 minori. Quando ha luogo questa lettura, essa
deve farsi davanti alle imagini dei Buddha e dei Bo-
dhisattva. Quando l’uposatha é€ celebrato da una
sola persona, una sola persona fa la lettura; se i pre-
senti sono due o tre, e fino a cento e a mille, é sem-
pre una sola persona che fa la lettura. Colui che
legge sta seduto sopra un seggio elevato, coloro che
ascoltano su dei seggi pit bassi..... »
La recitazione della regola é dunque, anche nel
mahayana - come nel hinaydna -, | atto principale
della celebrazione dell’uposatha. Ma la regola dei
bodhisativa non é la sola ad essere recitata: la sua
recitazione € preceduta da quella del pratimoksa o
regola dei bhiksu. Vigendo la norma che vieta ai
bhiksu di assistere alla recitazione del pratimoksa
quando abbiano la coscienza gravata da una qual-
che colpa (p. 291), la recitazione é preceduta dalla
confessione (hwei kwo). Questa ha luogo la vigilia
dell’uposatha, e si svolge nel modo seguente.
Scopata la sala, vi si colloca, accanto alla catte-
dra, un tavelo con una sedia, nonché qualche reci-
piente pieno d’acqua. Sulla cattedra sale un anziano
che é invitato a fare da confessore; al tavolo si
siede lo ‘scrivano’. Si comincia con la confessione
dei novizi. I] confessore invita i novizi a dichiarare
una per una le loro eventuali trasgressioni - com-
Pe og
334 CAPITOLO VII
messe nella quindicina - ai dieci precetti che essi
sono tenuti ad osservare. Questi sono i primi cinque
pratimoksa (1. non uccidere, 2. non rubare, 3. non
commettere atti di lussuria, 4. non mentire, 5. non
bere bevande inebrianti) con l’ aggiunta dei se-
guenti: 6. non far uso di cose profumate, 7. aste-
nersi dal canto e dalla danza, 8. non usar sedie o
letti troppo comodi, 9. non mangiare ad ore irrego-
lari, 10. non possedere argento né oro né pietre pre-
ziose. Ad ogni singolo precetto enunciato il novizio
deve rispondere si o no, a seconda che egli é col-
pevole od innocente. Le contravenzioni ai primi
quattro comandamenti danno luogo all’espulsione;
i peccati relativi agli altri sei comandamenti - ed
anche quelli relativi ai primi quattro, qualora siano
stati effettivamente consumati - sono puniti con la
imposizione di rigorose pratiche di penitenza. Dopo
di cid 1 novizi sono fatti uscire, ed incomincia la
confessione dei monaci. Dietro invito del confessore,
coloro che nella quindicina abbiano trasgredito a
qualcuno dei 250 articoli del pratimoksa si fanno
avanti - mentre gli altri restano indietro in silen-
zio -, e dopo un triplice inchino, inginocchiatisi con
le mani giunte al petto, confessano i peccati com-
messi. Segue da parte del confessore un interroga-
torio assai minuzioso che verte sulle circostanze del
peccato, i motivi del peccato, ecc. Di tutto cid pren-
de nota lo scrivano. Finita la confessione, e dopo
che tutti i monaci insieme hanno recitato una for-
mula di contrizione, i confessi sono condotti dinanzi
all’abate, al quale il confessore assistito dal segre-
tario espone i vari casi. L’abate impone le peniten-
ze; dopo di che i penitenti si ritirano, e non po-
BUDDHISMO CINESE 335
tranno assistere ad alcuna lettura della Regola fino
a che non abbiano espletate le rispettive penitenze.
Il giorno dopo, cioé il giorno dell’uposatha, i mo-
naci (in numero di quattro almeno, senza contare
gli assenti che si facciano rappresentare) si riu-
niscono nell’aula dell’wposatha - che puod essere lo
stesso refettorio - e, fatti uscire i novizi e le mona-
che (di fatto l’ordine femminile in Cina ha quasi
cessato di esistere), recitano il pratimoksa.
Subito dopo o dopo brevissimo intervallo si riu-
niscono i soli monaci aventi il grado di bodhisattva,
e procedono alla lettura del Brahmajalasitra nello
stesso modo usato per la lettura del pratimoksa:
sono esclusi, oltre i novizi, i bhiksu; sono ammesse,
invece, in linea di principio, le monache, perché la
regola mahayanica, a differenza del pratimoksa
(p. 287), é la stessa per 1 membri maschili come per
i membri femminili dell’ordine. E in occasione di
questa lettura che i bodhisattva si accusano dei pro-
pri peccati; se uno tace una colpa commessa, il con-
fratello che ne sia a conoscenza é tenuto a denun-
ziarla.
La confessione e la penitenza dei peccati si pra-
tica anche come atto preliminare in occasione della
ordinazione*’. In Cina*®* l’ordinazione é di tre gra-
di: a novizio, a bhiksu e a bodhisattva. Gli aspi-
ranti al noviziato, dopo che hanno dichiarato il loro
distacco dal mondo (pabbajja) con l’assunzione dei
5 voti fondamentali, sono convocati - di solito a un
centinaio per volta - per la cerimonia della wpasam-
pada, che é la vera e propria introduzione nell’or-
dine, la quale impegna all’osservanza dei 10 precetti
sopra enumerati. Essa é preceduta da un duplice
336 CAPITOLO VII
esame dei candidati: uno esterno - riguardante ‘il
vestiario e la scodella’ -, eseguito da un ispettore;
altro interno, fatto da un ‘segretario’ e consistente
nella confessione. Essa ha luogo sull’imbrunire, alla
luce di molte torce, al cui splendore si attribuisce
la virtti di influire sulla sincerita dei candidati. La
confessione verte sui 7 delitti, sui 10 vizi e sui 4 pec-
cati capitali. Dopo averli enunciati tutti, il segretario
invita i novizi a fare atto di raccoglimento mentale
per riandare tutta la vita passata e a rivelare aper-
tamente le colpe commesse. Allora i candidati sono
fatti uscire e poi rientrano a due o tre per volta e
si confessano: il segretario li interroga minuziosa-
mente, chiede schiarimenti, investiga sui motivi, in-
fine impone la penitenza (un certo numero di in-
chini, la recitazione di certe giaculatorie, ecc.). Un
mese dopo ha luogo il pronunciamento dei voti. -
Alla sola distanza di uno a due giorni segue 1’ordi-
nazione a bhiksu, indi eventualmente quella a bo-
dhisattva. Gli aspiranti al grado di bhiksu si con-
fessano delle eventuali trasgressioni dei 10 precetti
cui sono tenuti i novizi: il segretario stabilisce le
penitenze; i peccati pitt gravi sono riferiti all’abate.
_ Da ultimo é conferita la dignita di bodhisattva: il
candidato, dopo le orazioni e le cerimonie di rito,
si lava e indossa abiti puliti; indi procede alla con-
fessione dei propri peccati, giurando di volersi sem-
pre attenere ai 58 comandamenti del Brahmajala-
sutra. « Quando un figlio del Buddha - dice il 23°
dei comandamenti minori - dopo il nirvana di Bud-
dha vuole assumere con buone disposizioni i coman-
damenti dei bodhisattva, deve giurare personalmente
dinnanzi alle imagini dei Buddha e dei Bodhisattva
be aia
BUDDHISMO CINESE 337
di accettare i comandamenti. Poscia deve per sette
giorni confessare con contrizione i suoi pec-
cati dinnanzi ai Buddha. Se si manifestano i se-
gni propizi, egli € in possesso dei comandamenti;
se non si manifestano, deve continuare per due volte
sette giorni, per tre volte sette giorni e fino a un
anno finché cid si verifichi »*’. Il candidato si pro-
duce delle ustioni ponendosi dei carboni accesi sulla
testa rasata; in passato si bruciava addirittura uno
o pitt dita, o magari tutto il braccio: infatti, se-
condo il 16° dei comandamenti minori del Brahma-
jalasitra, « se non si brucia il corpo, il braccio, il
dito, in offerta ai Buddha....... , non si é Bodhisat-
tva»'°. Tutti i presenti recitano una lunga litania
di 300 nomi di Buddha, facendo seguire alla enun-
ciazione di ciascun nome una genuflessione*?.
Siffatte recitazioni hanno, in generale, una parte
cospicua nelle pratiche penitenziali. La semplice ri-
petizione del nome del Buddha Sakyamuni diffonde
una luce che dissipa il ‘male’, cioé il peccato. La
recitazione di certe formule (dharani) che si crede
siano state pronunciate una volta da certi Bodhi-
sativa, fa si che la luce che ne emana sia riflessa
sul mondo delle creature. La medesima efficacia é
attribuita alla lettura di testi relativi a questi speciali
Bodhisattva o a degli speciali Buddha di penitenza,
in numero variabile (trentacinque, cinquantatre)*?.
Di qui é facile il passaggio all’idea che nomi, for-
mule e testi recitati abbiano efficacia per sé stessi.
Anche Amitabha, teoricamente, era invocato perché
inducesse nel fedele una contrizione tale da annul-
lare il karma delle sue azioni peccaminose**, ma in
pratica fu supplicato per ottenere direttamente e im-
R. PETTAzzon!I, La Confesstone dei peccati, |, 22
338 CAPITOLO. VII
mediatamente la liberazione dalla colpa. Una volta
ammessa la possibilita, anzi 1’efficacia incomparabile,
del soccorso divino per la cancellazione dei peccati
da cui dipendeva la salvazione, la formula namo
Amito-fo, che, pronunciata, valeva ad ottenere quel
soccorso e quindi quella cancellazione, facilmente di-
venne essa la condizione sufficiente per la salvezza
stessa. La contrizione passd in seconda linea. Non
fa meraviglia che anche la confessione cessasse di
essere l’espressione del pentimento interiore, quale
era stata nel Buddhismo originario (p. 322), per di-
ventare un mezzo atto a procurare la liberazione im-
mediata dal peccato.
3. TIBET.
Nell’India stessa lo svolgimento del Buddhismo
in senso mahayanico e la progressiva reazione del-
l’antica religione indiana, ch’era destinata ad avere
da ultimo il sopravvento, favorirono un riflusso di
elementi magici (Tantrismo) in seno al Buddhismo
- come anche in seno al Brahmanesimo -, tra i quali
ebbe parte non piccola la magia della parola (man-
tra, dharani). Nei paesi stranieri in cui il Buddhi-
smo fu importato questa involuzione si accentud an-
cora di pitt pel concorso di fattori religiosi indigeni,
e dié poi luogo ad un processo di vero e proprio im-
barbarimento 14 dove, per le condizioni generali
della civilta pit arretrate, anche la religione, cui il
Buddhismo veniva a sovrapporsi, si trovava ad un
livello inferiore. Questo processo ebbe la sua riper-
cussione anche nella prassi penitenziale e confessio-
BUDDHISMO TIBETANO 339
nale. Cosi nel Giappone e, molto pitt, nel Tibet si
ebbe la ripetizione meccanica - mercé la rotazione
delle cosidette ‘ruote’ (nel Tibet ‘mulini’) da pre-
ghiera - delle formule di liberazione dai peccati.
(Quanto alla curiosa confessione dei Yamabushi, in
cui elementi di origine buddhistica si combinarono,
a quanto pare, con elementi shintoistici primitivi,
Vv. sopra a p. 189 sg.).
Il Tibet fornisce un esempio anche pit caratte-
ristico di sovrapposizione del Buddhismo ad una ci-
vilta e religione di tipo barbarico, con tutte le con-
seguenze relative, anche per cid che riguarda la pe-
nitenza e la confessione dei peccati. In un primo
tempo la religione ‘pagana’ indigena del Tibet reagi
fortemente sul Buddhismo importato, alterandolo in
modo radicale. Ne venne fuori il Buddhismo della
“chiesa rossa’ (Zva-dmar ‘berretti rossi’), che durd
sino all’avvento di Tsong-ka-pa (1356-1418), il fon-
datore della ‘scuola della virti’ (dge-lugs-pa) e del-
la ‘chiesa gialla’ (Zva-ser ‘berretti gialli’), che si
propose di restaurare il Buddhismo nella sua forma
genuina. E in questo Buddhismo riformato che si
osservano, molto pit. che nella ‘chiesa rossa’, le
norme del Vinaya in genere**, e quindi anche la
celebrazione dell’ wposatha (quattro volte al mese,
pili spesso ridotte a tre: 1’ 8, il 15 e il 30), con
relativa recitazione del pratimoksa (so-sor-thar-
pai-mdo)**® e confessione pubblica delle colpe (gso-
sbyong), sebbene generalmente prevalga tra i mo-
naci l’uso di confessarsi a quattr’occhi: uso che, a
prima vista e in rapporto con l’assai probabile deri-
vazione cristiana di altri elementi del culto lamai-
stico, potrebbe far credere ad una sua eventuale
340 CAPITOLO VII
derivazione dalla confessione auricolare cattolica,
mentre - e il caso é tipico per far vedere quanto
l’analogia puramente formale possa esser fallace, ove
manchi la conoscenza dello svolgimento genetico, -
mentre non v’ha dubbio che esso discenda da un
costume gia invalso nel Buddhismo indiano dei pri-
mi secoli, come gid esponemmo pit sopra (p. 292)*°.
Se non che, come in progresso di tempo anche
la ‘chiesa gialla’ dové, in generale, fare delle con-
cessioni al Buddhismo meno puro della ‘chiesa
rossa’, cosi anche la espiazione, purificazione e con-
fessione dei peccati, quale fu ed é praticata nel La-
maismo, accolse degli elementi estranei al pensiero
non meno che al rituale buddhistico originario.
Tra le cerimonie praticate nel Buddhismo tibe-
tano per fare penitenza dei peccati la pitt rigorosa
é quella designata col nome di snyung-gne o snyung-
bar gnas-pa, cioé ‘astinenza prolungata’, caratte-
rizzata dall’ osservanza di un digiuno (p. 130) quasi.
assoluto per un periodo di quattro giorni (1’ ulti-
mo giorno bisogna astenersi perfino dal mandar
git la saliva): il secondo giorno é dedicato ad una
confessione accompagnata dalla lettura del ‘cerimo-
niale dell’astinenza prolungata’ e di altri testi, spe-
cialmente in lode del bodhisatitva Padmapani (Ava-
lokite$vara)*”. Anche i laici (pei quali nel Lamai-
smo, come nel Buddhismo in genere, la confessione
é un’opera meritoria facoltativa), sono ammessi a
praticare il nyung-ne, solo che si presentino al con-
vento ben lavati e con abiti puliti, oltre che con
una bottiglia d’acqua (per le abluzioni), una tazza
ed un rosario. Ma di solito i laici rifuggono da que-
ste pratiche lunghe e penose; e gli stessi lama so-
BUDDHISMO TIBETANO 341
gliono celebrare il nyuwng-ne non pitt di due volte
all’anno.
Molto pitt frequentemente, e di solito anche ad
ogni celebrazione di uposatha (gso-sbyong), come
pure nelle altre ricorrenze e feste religiose, si ese-
guisce una cerimonia pit semplice, il cosidetto
bkrus-gsol (‘abluzione’, pronunzia tuisol). In un
vaso (bum-pa) si pone dell’ acqua mista con zaffe-
rano, zucchero, essenze profumate, grani di riso,
sulla quale il sacerdote officiante pronuncia una
lunga preghiera di consacrazione; si versa pit volte
di quest’acqua sopra il coperchio del vaso stesso op-
pure sopra un apposito specchio metallico (me-long)
disposto in modo da riflettere imagine del Buddha
collocata sopra l’altare; indi l’acqua é raccolta in un
altro recipiente (bum-pa), e se ne versano alcune
gocce sulla mano di ciascun monaco presente, e cia-
scuno le inghiottisce, toccandosi poi con la mano
umida la testa, la fronte e il petto**. Anche qui é
l’ imagine riflessa del Buddha che, quasi per miste-
riosa irradiazione, conferisce all’ acqua la virtti di
cancellare i peccati. Resta a vedere se il Buddhismo
non si sia appropriato, in questo come in altri casi,
una pratica primitiva di eliminazione materiale dei
peccati per mezzo dell’acqua.
Parallelamente, forse, non é da escludere che la
primitiva magia della parola sopraviva nella recita-
zione di testi e formule speciali largamente praticata
nel Tibet a scopo di liberazione dai peccati. Nei
conventi tibetani é facile trovare qualche copia di
un libriccino intitolato sDig-bshags, cioé ‘Confes-
sione dei peccati’, la cui lettura da parte dei novizi,
342 CAPITOLO VII
anche se fatta semplicemente a scopo di esercitazione
scolastica, ha la virtii di purgare dai peccati*®.
In quasi tutti i libri di devozione si trova altresi
riprodotta la ‘Preghiera ai 35 Buddha di confessione
dei peccati’ (ltung-bshags)°°. Altre volte i ‘Bud-
dha di confessione’, fra i quali Sakya-muni (Sakya
thub-pa) occupa il posto centrale, sono, invece, in
numero di 51, p. es. nella ‘Preghiera’ pubblicata
da E. Schlagintweit®’. Essa é tradotta dal sanscrito
e porta il titolo di ‘Confessione di tutti i peccati,
dottrina del tesoro nascosto’, nonché quello - effi-
cacemente allusivo alla efficacia eliminatoria del te-
sto stesso - di ‘Rasoio d’oro per la penitenza dei
peccati’. Era scritta su due fogli avvolti intorno al-
l’asse interna di un piccolo ‘mulino da preghiera’
riproducente la forma di un mc’od-rten (cioé di uno
stupa): girando il mulino, si ottenevano gli stessi
effetti come ripetendo indefinitamente la preghiera.
Dopo una breve invocazione collettiva:
«Io adoro i Tathagata dei 3 periodi dimoranti nei 10 quar-
tieri del mondo, vincitori dei nemici, i purissimi e perfettis-
simi Buddha; adoro questi esseri illustri ciascuno singolar-
mente e tutti insieme, e a loro offroe confesso i miei
peccati.»,
incomincia la litania dei 51 Buddha, ciascuno dei
quali é invocato per nome. Il Buddha Sakyamuni é
invocato cosi:
« Adoro altresi il Buddha Sakya thub-pa (tibetano per
Sadkyamuni), che é nato trenta milioni di volte; il suo nome
pronunziato una volta sola liberera da tutti i peccati com-
messi in esistenze anteriori».
Per taluni Buddha é stabilita una corrispondenza
fra l’invocazione di ciascuno di essi e un dato pec-
BUDDHISMO TIBETANO. mest
cato cui l’invocazione di quel tal Buddha vale a can-
cellare :
« Adoro il Buddha Mar-me-mdzad (Dipankara), che é nato
18.000 volte: il suo nome una sola volta pronunziato liberera
dai peceati commessi con l’appropriarsi i beni degli uomini
pitt vili. - Adoro il Buddha Rab-tu-’bar-ba, che é nato 16.000
volte: la enunciazione dél sto nome, fatta magari una volta
sola, assolve e purifica da tutti i peccati commessi contro i
genitori e i maestri. - Adoro il Buddha sKar-rgyal, che é
nato 10.003.000 volte. Il suo nome pronunziato una sola volta
purifichera da tutti i peccati commessi con l’appropriarsi le ric-
chezze sacre. - Adoro il Buddha Sd-la’i-rgyal-pa, che é nato
18.000 volte. IL suo nome, pronunziato una volta sola, purifi-
chera da tutti i peccati di ladrocinio, brigantaggio e simili. -
Adoro il Buddha Padma-’phags-pa, che é uato 15.000 volte.
Pronunziando una volta il suo nome, si é assolti dai peccati
commessi col possesso 0 con la brama delle ricchezze appar-
tenenti ai corten (luoghi sacri)....... »
Di altri Buddha il nome una sola volta pronunziato
“cancella i peccati che sarebbero causa di una nuova
esistenza’, oppure ‘i peccati commessi in una intera
esistenza con l’appropriarsi i beni del clero’, oppure
“i peccati che produrrebbero tormenti nell’ inferno
mNar-med’, oppure ‘il peccato di spergiuro e tutti
i peccati commessi per mala intenzione, concupi-
scenza, impostura e simili’, ecc.
Segue una sintesi eloquente:
« Questo testo ha il potere di vincere, bruciare, distruggere
l’inferno. Esso sara un conforto per gli esseri viventi in quel
periodo di angos¢ia e di miseria (segue la descrizione apoca-
littica di una delle epoche - kalpa - di distruzione), quando
nei luoghi destinati ai simboli del Buddha, dei suoi precetti e
della sua misericordia, gli tomini lavoreranno le stoffe di lana
e di cotone, tagliandole e foggiandole in vestiti; quando ivi
prenderanno i loro pasti, e faranno compra e vendita delle
merci; quando i dge-slong (bhiksu) spargeranno la rovina
344 CAPITOLO VII
nei luoghi abitati; quando gli astrologi faranno delle invoca-
zioni per ottenere la fortuna; quando i bon-po (sacerdoti della
religione pagana pre-buddhistica) intenderanno le formule se-
grete (dharani); quando i dgebshi (updsaka) saranno gene-
rali di truppe; quando i dotti e poveri (cioé i religiosi) abi-
teranno nei conventi delle donne e li governeranno; quando i
nobili si divertiranno con le loro nuore; quando gli uomini
divoreranno i cibi destinati in offerta ai defunti; quando i
Lama stperiori mangeranno le vivande preparate per le of-
ferte; quando gli uomini si stiicideranno; quando crescera
sulla terra il numero delle cattive azioni; quando il canto sa-
cro (om mani padme hom) sara cantato in ritornello; quando
i vitelli della razza dzo devasteranno i campi; quando gli uo-
mini brameranno i beni altrui; quando i santi viaggeranno
e trafficheranno; quando si froderd nei pesi e nelle misure;
quando i Cinesi faranno commercio di fanciulli (tibetani);
quando sotto le porte dei templi si opereranno dei falsi mira-
coli (sortilegi); quando gli uomini mangeranno e berranno
senza darsi altro pensiero che dell’esistenza attuale; quando
non si faranno pit elargizioni; quando verra un tempo in cui
le usanze antiche saranno cambiate; quando gli uomini sa-
ranno in balia delle rovine della guerra e del nemico; quando
il gelo, la grandine e la siccita diffonderanno la carestia;
quando gli uomini e gli (altri) esseri animali avranno a sof-
frire di mali trattamenti: allora, in quel periodo di angoscia
e di miseria, questo testo sara una consolazione per tutti i
peccati che saranno stati accumulati nell’intervallo: tutti gli
uomini lo leggeranno, e mercé sta tutti i peccati saranno di-
strutti.....».
4. TURKESTAN.
Fra i numerosi residui di antiche scritture reli-
giose riesumati in questi ultimi decenni nella re-
gione di Turfan sono due testi cospicui che inte-
ressano la storia della confessione buddhistica (e
forse, a quanto pare, non soltanto buddhistica). Re-
BUDDHISMO MONGOLICO 345
datti in antico turco (uigurico), essi sono fra i
‘documenti pit importanti della penetrazione del
Buddhismo fra le popolazioni dell’Asia centrale. Si
tratta di due formulari di confessione che due pie
seguaci della religione del Buddha, la laica Utrat e
la laica Qutlugh - quest’ultima in societa con la
propria figlia Qudat e il proprio figlio Tiirmis -,
hanno fatto copiare, rispettivamente dal copista T6-
kiilti e dal copista Sinandu Sali, a scopo meritorio,
con l’intenzione dichiarata che il merito di questa
buona azione torni a vantaggio proprio e di altre
persone, sia vive che defunte, a tutti procurando,
mercé la cancellazione dei peccati, immunita dalle
malattie in questa vita e buone condizioni di esi-
stenza (umana o divina) nelle rinascite future, in
vista della salvezza suprema (liberazione definitiva
dal samsdara, cioé dal ciclo delle rinascite)°*?.
La cancellazione dei peccati é ottenuta mercé
la confessione; e a scopo appunto di confessione
(ksanti) dovevano essere recitati i nostri formulari.
I quali, se pure nella forma casuistica in cui sono
redatti ricordano in certo qual modo |’ antico pra-
timoksa (anche il pratimoksa, infatti, era una spe-
cie di formulario, da quando aveva rinunziato a
provocare la confessione immediata dei peccatori:
p. 313), sono peraltro concepiti in uno spirito com-
pletamente diverso. Destinati all’uso dei laici, essi
rappresentano| un momento in cui la confessione,
anzi che essere una pratica quasi esclusivamente mo-
nastica, era ormai diventata di uso pressoché gene-
rale. Questa generalizzazione della confessione nel
mondo laico si sara prodotta specialmente sul ter-
reno del mahayana. E fra le scritture mahayaniche
346 CAPITOLO VII
sara da ricercare il prototipo dei formulari di con-
fessione uigurici, del quale infatti possiamo farci
un’idea in base ai vari ksama- (o ksanti-)sitra (Tris-
kandhaka, ecc.) pervenutici in traduzione cinese®*’.
Né sara fuori di luogo notare che qualche riscontro
testuale - p. es. l’accenno alla frode nei pesi e mi-
sure - esiste altresi fra i formulari uigurici e la sur-
riferita (p. 344) preghiera tibetana ai ‘Buddha di
penitenza’.
Fondata sulla recitazione di questi formulari, la
confessione buddhistica dei laici fu qualche cosa di
essenzialmente diverso da quella dei monaci. Non
colpe monastiche, ma veri peccati sono quelli regi-
strati nei nostri formulari: peccati come solevano
commetterne i laici. D’altro lato, i due documenti
di Utrat e di Qutlugh, confrontati l’uno con 1’altro,
risultano essere due varianti di un unico e medesimo
schema. Questo schema nella sua parte sostanziale
- a parte dunque gli eventuali adattamenti alle cir-
costanze ed esigenze dei singoli committenti - con-
teneva un elenco virtualmente completo di peccati,
in cui ciascun fedele avra dunque trovato anche il
suo, ma insieme col suo molti altri da lui non com-
messi. Alla enunciazione del peccato reale (in cid
consiste propriamente la confessione) subentra qui
la enunciazione di una serie di peccati possibili. E
la preoccupazione totalitaria giunge fino a contem-
plare anche i peccati che possano essere stati com-
messi inconsapevolmente: «se io» - dice il formu-
lario di Qutlugh - « qualche cosa consapevolmente
non ho fatto, se qualche cosa (di male) ho fatto
senza saperlo e senza capire, ora me ne pen-
to». Tutto cid procede da uno spirito che é molto
BUDDHISMO MONGOLICO 347
lontano da quello del Buddhismo genuino per cui la
confessione era stata l’ espressione del pentimento
interiore (p. 323). Qui la confessione del peccato
come atto di vita religiosa personale lascia il posto
alla recitazione di un elenco bell’ e fatto, ossia di
una formola eguale per tutti, tardivo ritorno ad un
tipo di religiosita ‘primitiva’ (cfr. l’elenco dei pec-
cati recitato in morte di un Badaga: p. 242) che il
Buddhismo aveva gia superato molti secoli prima. I
formulari di Utrat e di Qutlugh sono documenti di
quel processo involutivo della confessione buddhi-
stica, che, promosso prima da una piti vasta immis-
sione di correnti religiose popolari nel gran fiume
del mahdayana, fu poi naturalmente accelerato negli
ambienti culturalmente arretrati in cui il Buddhismo
mahayanico si diffuse fuori dell’India.
Ecco una traduzione del formulario della laica Utrit se-
condo il rendimento di F. W. Miiller, Uigurica II, Abhandl.
Berlin. Akad. 1910, 76 sgg.:
Confessione dei peccati della laica Utrat.
(Se io.....)1 saccheggiando, rubando e spezzando, aprendo
la porta, strappandone la catena..... sono penetrata nella ca-
mera del tesoro e mi sono avvicinata al tesoro, (e) scioglien-
done i legami, prendendo le cose date in offerta, dinanzi por-
tando il carico, di dietro sollevando il carico, avanzando senza
parlare, strisciando fuori senza far rumore, io ho ad altri tron-
cato con gli averi la vita, per avvantaggiare la mia persona;
se ho mancato verso i domestici; se con la lingua ho pronun-
ziato tna parola falsa e menzognera; se sono stata presun-
tuosa; se mi son lasciata spuntare in cuore pensieri d’invidia
contro la felicita altrui, se ho covato ira e malanimo; se ho
coltivato una falsa opinione, se ho spezzato e distrutto questi
dieci karmapatha, se ho eseguito le dieci azioni cattive, di
tutto cid io voglio ora pentirmi, (tutto cid) riconoscere e umil-
348 CAPITOLO VII
mente confessare. Dal peccato e dalla colpa possa io liberarmi!
Confessione (kSdanti) sia!
12Ancora, se io, Utrat, in ciascuna esistenza anteriore, e
qualunque mancanza io abbia commesso nell’esistenza attuale,
col corpo operando, con la lingua parlando, con la mente pen-
sando, e (comunque) per errore od ira o ignoranza o invidia
© superbia o dubbio e per le altre perverse passioni io abbia
peccato e mancato contro il Buddha (burchan), la Dottrina
(nom) e la pia Comunita, se ho peccato e mancato contro mia
madre e mio padre e i miei maestri (cfr. la preghiera tibetana
ai ‘Buddha di penitenza’ p. 343), se nella mia vita mi sono
posto contro il (mio) Signore, se l’ho offeso e contradetto,
(se) con la mia persona creature umili ho disprezzato, crea-
ture degne di onore e di considerazione ho trattato da indegne
e di nessun conto, ora di tutte quante le male azioni com-
messe ed accumulate voglio pentirmi, tutte riconoscerle ed
umilmente confessarle. Confessione (kSdnti) sia!
21 Ancora, se io, Utrat, passando dalla (mia) prima esistenza
fino alla presente, nel tempio (vrchar: vihdra) e nel chiostro
(sangram: sangha@rama), nel..... e nel....., in (questi) luoghi
puri e santi, con ctlore acceso di passione ed animo invere-
condo ho commesso cid che non é lecito, se ho preso cose di
proprieta del tempio e del chiostro, se ho fatto lavorare senza
dare il debito compenso e mercede, oppure se in occasione di
compra e vendita con peso e bilancia, con piede e misura
(cfr. la preghiera tibetana: p. 344), con moggio e staio, con
astuzia ed inganno, pulendo e lavando, poco ho dato e molto
ho preso; od anche nel piantare un podere o una vigna od
un campo le creature viventi nell’acqua ho gettato all’asciutto
cagionandone la morte, e le creature viventi sulla terra asciutta
ho gettato nell’acqua cagionandone la morte; se io ad altri
ho troncato la vita avvantaggiando me stessa, od anche, es-
sendo a capo di un esercito, indossai la corazza ed uccisi il
nemico e con affilata spada lo trucidai, e tesi l’arco e feci scoc-
eare la freccia togliendo cosi altri di vita; se io ho ingannati
il figlio e la figlia di poveri innocenti, se ho cagionato la se-
parazione di persone che si amano, se ho ridotto in schiavitti
persone nobili, miti, di buon cuore, se disprezzandole le ho
tormentate ed afflitte; o se ho tradito il paese e la legge, e
mi sono immischiata nei torbidi dello stato, ed ho nutrito
.
BUDDHISMO MONGOLICO 349
opinioni false ed erronee contro persone autorevoli, se ho
ereato la scissione nel regno e nella citta, se sono andato di
citta in citta, di trib: in tribt, di paese in paese come spione
e malfattore, ed ho commesso ed accumulato queste varie
forme del peccato di perturbazione ed (altre) miserabili azioni
cattive: di tutte quante io voglio ora pentirmi e tutte con-
fessarle.
39Del bene, io non ne ho fatto; del male io ne ho fatto.
Ora io, Utrat, voglio oggi, in questo fausto giorno, delle cat-
tive azioni da me commesse pentirmi e confessarle. Perché i
ptincipi dell’inferno non prostrino la mia mente e il mio
cuore, e la vampa delle fiamme infernali non mi investa
ed anch’io non cada nelle regioni del fuoco, ora mi pento e
confesso. Il padre mio Buddha io guardo, la predicazione della
dottrina io ascolto, e alla schiera dei fedeli mi inchino. &
adesso che bisogna pentirsi. Dopo precipitata nelle sedi fiam-
meggianti e infocate dell’inferno Avici, se io poi mille (volte)
mi pentissi e dieci mila (volte) mi umiliassi, che gioverebbe?
Percid ora io mi pento e confesso. Secondo la dottrina di
tutti i Buddha (burchan) delle tre epoche, numerosi come i
grani di sabbia nella corrente del Gange, secondo la dottrina
del venerando Pindola-bharadvaja e dei sedici Arhant Maha-
§ravaka e al cospetto del Bodhisattva Maitreya dimorante nel
paradiso di Tusita e dei 496 eccelsi Bodhisattva Bhadrakalpika,
io voglio umiliarmi a pro’ di tutte le creature viventi nelle
cingue forme di esistenza. Dal peccato (tswi) e dalla colpa
(yazuq) possa io liberarmi. Confessione (kSdnti) sia!
53Se dopo aver fatto questa confessione (kSdnti) la mia
azione non dovesse essere completamente annullata, ma un re-
siduo ancora sussistesse, io voglio piamente perseverare nella
devozione; se un giorno l’onnisapiente Maitreya, il Buddha
dio degli déi (imgri tngrisi burchan) in questo mondo e (in
questa) regione si degnera di apparire, possa io, perseverando
in questa devozicone, confessare allora le mie male azioni ed
essere liberato da questa pena del samsdra. Fine del testo
di confessione in un foglio. Viva il Buddha (namo But)! viva
il Dharma! viva il Sangha! Possa io, TOkiilti (il copista), es-
sere senza peccato!
Nel mese benedetto, in un giorno opportuno, nella pre-
scelta epoca propizia, in un momento fausto, nel fortunato
350 CAPITOLO VII
anno (ciclico) dell’ ‘ariete’, nel terzo mese, nel 23° giorno,
io, la laica Utrat, con animo saldo puro credente nei tre gio-
ielli, mi sono ricordata dei Buddha, ad essi ho pensato, ed
ho compreso e riconoscittto che questo nostro corpo (?) me-
rita di essere distrutto, e (solo) un merito guadagnato dura;
e€ poiché possesso indistruttibile, non annientabile non c’é al-
V’infuori della buona azione meritoria, percid io ho con tutta
reverenza fatto copiare questo prezioso testo di confessione
(kSanti nom) che purga tutte le male azioni. Di questa buona
azione meritoria io voglio rispettosamente far partecipi in
primo luogo le donne e gli uomini dimoranti lassi nel cielo e
quaggit sulla terra, i buoni spiriti e iddii che si cibano della
Legge, e fra i primi Tavghan-chan (?), Kiimsa, Chanin, Mi-
schan-Chan, Tchaisi-wang-Beg e gli altri divini (personaggi).
Per la virti di questa buona azione meritoria possa la loro
divina forza e virtti, la loro schiera parivdra aumentare e in-
grandige, possano essi proteggere, difendere e conservare da
un lato la legge e la dottrina (?), dall’altro lo stato e la tribi.
Inoltre io desidero che questa buona azione meritoria vada
a profitto di Tschitung-Sali, di Aitmisch, di Taghai-Tonga-
Sangun. Per virttii di questa buona azione meritoria possano
essi presentemente andare immuni da
malattia e in futuro
essere salvati dalle pene del samsdra!
Inoltre io voglio che
questa buona opera meritoria vada a profitto della maesta del
defunto Qonim Du-Fapschi-Sali-Beg, trapassato all’ esistenza
intermedia, di Il-Ongurt-Qaréuqii, di Qutlugh-Uziik, di mio
padre Bai Apa-Tschangschi, di mia madre Késat. Per virtti
di questa buona azione meritoria possano essi rinascere nella
forma umana, e se, per avere partecipato ad azioni cattive,
essi dovrebbero rinascere in regioni miserevoli, (possano) es-
serne liberati e tinascere nel mondo superiore degli déi, nel
regno dei Buddha. Sddhu! sa@dhu! evviva! due sddhu! un
evviva!
NOTE
1 T. W. Rhys Davids, H. Oldenberg, SBE XIII, p. 1x. Cfr.
T. W. Rhys Davids, ‘Patimokkha’ ERE, IX, 675.
2 Cfr. Dhammapada, 185.
3 Cfr. E. Waldschmidt, Bruchstiicke des Bhiksuni-Prati-
moksa der Sarvastivddins, Leipzig 1926, 116.
4 Kern, Histoire du Bouddhisme dans Vl Inde, II. rar, n. 1.
5 «Il faut remarquer que certaines régles ont acquis de
Vimportance, que leur violation est devenue plus grave en
passant du Bhikshu Pratimoksha dans celui des Bikshunis.
Ainsi les trois premiéres sanghaddisesa dharma des Bhikshus
sont devenus des parajika ou cas d’excommunication dans le
Pratimoksha des Bhikshunis®, ...... ete. »: W. W. Rockhill, Re-
vue de l’Histoire des Religions, 9, 1884, p. 6.
6 Oldenberg, ZDMG, 52, 1898, 645 sgg.; cfr. Waldschmidt,
op. cit., 187.
7 Sui rapporti fra le varie scuole, cfr. Max Walleser, Die
Sekten des alten Buddhismus, Heidelberg 1927.
8 Cfr. Gogerly, Journal of the R. Asiatic Society, 1862,
407 sg. - H. Kern, Histoire du Bouddhisme dans l’Inde, II.
(Annales du Musée Guimet, Bibl. d’Ktudes, x1), 77 sgg.
9 Rhys Davids e Oldenberg, Sacred Books of the East, vol.
XIII; Kern, Hist. du Bouddhisme dans l’Inde, II. 77 sg.
10 J. F. Dickson, The Patimokkha, being the Buddhist Of-
fice of the Confession of Priests, Journal of the R. Asiatic So-
ciety, 1876, 62 sgg.; cfr. Gogerly, Journal of the R. Asiat. Soc.,
1862, 407 sgg.; Kern, Hist. du Bouddh., II. 77 sg.
11 H. Oldenberg, Le Bouddha®, (1914), 420, n. 2; T. W.
Rhys Davids, Encyclopaedia of Religion and Ethics, IX. 676.
ay :
352 CAPITOLO VII
12 dukkata (Cullav., XI. 1, 10; ecc.) per designare una colpa
- non compresa nel patimokkha - leggera (tipo pdacitliya e
sekhiya); thullaccaya, per una colpa grave (tipo pardajika) :
Oldenberg, Zeitschr. d. D. Morgenl. Ges., 52, 1898, 647; SBE
XIII. p. 166 n. 1; Waldschmidt, op. cit., 4.
13 Notisi anche la coincidenza della festa pavarana (fine del
vassa=principio della stagione successiva) con una delle feste
di stagione (calurmadsya), che si celebravano precisamente al
principio della stagione rispettiva.
14 Ofr. Sukumar Dutt, Early Buddhist Monachism, london
1924.
15 ‘Cir. SBE, XEIEF pi 239) € a5 2.
L6-SBE XVIT. 2615 XX. tae.
17 Non potrebbe la procedura del ‘coprire come con erba’
- una delle procedure per la composizione delle vertenze re-
gistrate nella Sez. vir del patimokkha (p. 310) - accennare
alla eventuale esistenza di un antico rito di eliminazione del
peccato mercé un simbolico seppellimento sotto le zolle er-
bose? A Tahiti, alla morte di una persona d’ importanza,
quando il cadavere era stato posto sulla bara, il fattucchiere
faceva scavare a piedi di essa una btca nel terreno: indi pro-
nunciava tna preghiera (rivolta al nume che si sttpponeva
avesse cautsato il decesso), affinché tutti i peccati del morto,
e specialmente quello che aveva provocato l’ira del nume, re-
stassero li e non si attaccassero ai superstiti; indi nella buca
si piantava un palo (quasi rappresentazione simbolica del de-
funto) e vi si gettava dentro della terra, fin che fosse colmata:
W. Ellis, Polinesian Researches, I, London 1829, 259, - Cfr.
anche la triplice dispersione del peccato scritto - e cosi ‘con-
fessato’ - in tre esemplari nella confessione dei malati isti-
tuita dai fondatori della chiesa taoista: una delle copie era
sepolta nel terreno (p. 217).
18 Mrs Rhys Davids, Psalms of the Sisters, London 1909,
116 sgg.
19 ibid., p. 197.
20 ibid., p. 58.
21 Traduzione di P. E. Pavolini, Testi di Morale Buddhi-
stica, Ianciano 1912.
221. de La Vallée Poussin, The Way to aire Cam-
bridge 1917, 67 sg.
“NOTE ea Marah gage
23 Mrs Rhys Davids, Psalms of the Brethren, London 1973,
p. 225; SBE, XX. p. 305.
24 ‘Mazdei’ - cioé, adoratori del fuoco - convertiti al Bud-
dhismo secondo la vita cinese del Buddha Wieger, Le Boud-
dhisme Chinois, II, capp. 68-70.
25 Bunyiu Nanjio, Catalogue, col. 381; Wieger, Bouddhisme
Chinois, I. 117; H. Maspéro, Communautés et moines boud-
dhistes chinois au IJ¢ et IIJ¢ siécles, Bulletin de 1’KRcole Fran-
caise d’Extréme Orient, 10, 1910, 222 segg.; Prabodh Chandra
Bagchi, Le Canon Bouddhique en Chine: Les traducteurs et
les tradtctions, I, Paris 1927, 8 segg.
26 Telenco delle sue traduzioni in A. Forke, Katalog des
Pekinger Tripitaka, Berlin 1916. Contro Vl’ autenticita delle
opere di contenuto relativo al Vinaya ‘attribuite’ a An-shi-kao,
v. Pelliot, T’owng Pao, 19, 1919-20, 64 sg.; Bagchi, op. cit. 23.
27 Tl (grande) Sukhdvati-vyiha fu tradotto in cinese una
dozzina di volte (anche da Kumarajiva nel 4o2 d. Cr.). L’ori-
ginale sanscrito é tradotto da Max Miiller, SBR, vol. 49,
parte 23.
28 H. Hackmann, Laien-Buddhismus in China, Gotha 1924,
Pp. 232s
29 ibid., p. 48.
30 S. Beal, A Catena of Buddhist Scriptures from the Chi-
nese, London 1871, 253.
31 Cfr. H. Hackmann, Die Schulen des chinesischen Bud-
dhismus, Mitteilungen des Seminars fiir orientalischen Spra-
chen zu Berlin, 14, rg1z, 1.€ Abt,, 232 sgg.: trova che il De
Groot accentua troppo la tendenza sincretistica delle varie
scuole buddhistiche cinesi.
32 J. J. M. De Groot, Le Code du Mahdydna en Chine
(Verhandelingen der K. Akademie van Wetenschappen, Afd.
Letterkunde, I. 2), Amsterdam 1893. Bunyiu Nanjio, n. 1087;
Pr. Ch. Bagchi, Le Canon Bouddhique en Chine, I, Paris 1927,
p. 190. }
33 De Groot, op. cit., p. 96.
34 H. Hackmann, Die Textgestalt des Stulra der 42 Ab-
schnitte, Acta Orientalia, 5, 1926, p. 204.
35 Hackmann, Buddhism as a Religion, London 1910, 221.
36 De Groot, op. cit., p. 7o.
37 Cfr. Dickson, The upasampada-kammavaca being the
R. PETTAzzonI, La Con/fessione det peccati, |. 23
354 CAPITOLO VII
Buddhist Manual of the Form and Manner of ordering of
Priests and Deacons (testo pali e traduz.), Journ. of the R. As.
Soc. 1874, I sgg.
38 I. P. Minayeff, Recherches sur le Bouddhisme (Annales
du Musée Guimet, Bibl. d’Etudes, IV), Paris 1894, 299 sgg.
39 De Groot, Le Code du Mahayana en Chine, p. 56; cfr. il
419 comandamento a p. 75 sg.
40 ibid., p. 51.
41 De Groot, op. cit., 207 sgg.; cfr. « Kultur der Gegen-
watt », Die Religionen des Orients? (1923), 184.
42 De Groot, Le Code du Mahayana, 207 sg.
43 Anche nell’ ‘atto di contrizione’ posto in bocca al p’usa
Sin-siang nella Vita del Buddha del monaco cinese Pao-ch’eng
(epoca Ming), si legge (cap. 148): «Io vi prego (, o Buddha
di tutte le regioni,) ..... penetratemi di una contrizione tale
che io ottenga l’estinzione completa del mio karma (I,. Wie-
ger, Bouddhisme Chinois Il: Les vies chinoises du Buddha).
44 G. Schulemann, Geschichte der Dalailamas, Heidelberg
Igii, 66 sg.
45 Cfr. la 18 Sezione (’Dul-ba-ji) del ’Dul-ba (il Vinaya tibe-
tano): Annales du Musée Guimet, II. Cfr. G. Huth, Die tibe-
tische Version der buddhistischen Stihneregeln des Pratimoksa-
Stitra, Strassburg 1891.
46 Schulemann, op. cit., 80.
47 E. Schlagintweit, Le Bouddhisme au Tibet. Annales du
Musée Guimet, III (Lyon 1881), 155 sgg. - Schulemann, op.
cit., 68.
48 Schlagintweit, op. cit., 59 sg., 153 sg-; Schulemann, op.
Cil., “72:
49 1. A. Waddell, The Buddhism of Tibet, London 1895, 174.
50 Una rappresentazione dei 35 Buddha ‘di confessione’ é
riprodotta in Annales du Musée Guimet, III, tav. x1.
51 Annales du Musée Guimet, III. 77 sgg.; cfr. Sitzungs-
berichte der bayer. Akad. 1863, I. 81 sgg.; II. 149 sg.
52 F, W. K. Miiller, Uigurica II, Abhandl. Berlin. Akad.
1910, 76 sgg. Cfr. W. Bang, Zur Kritik und Erklirung der Ber-
liner uigurischen Turfanfragmente, 1: Das Siindenbekenntnis
der Qutlugh, Sitzungsber. Berlin. Akad., 1915, 623-635.
53 Bunyiu Nanjio, Catalogue, n. 1106 (traduzione attribuita
ad An-shih-kao; v. sopra a n. 26), cfr. n. r0go, n. 1103. (Cfr.
#ar
cea Abiatique Cot LIE ys 384 n. 48,p.oe
;_¥F. W. K. Miiller, 1. cit. 89 (nota).- Pel Triskandnane! ti etan
__(sezione mDo[=Sttra] del ’Ka-gyur vol. XXII, op. 18); Ae
“Tes du Musée Guimet, II (1881), 274. ra
‘STORIA DELLE RELIGION!
A CURA DI RAFFAELE PETTAZZONI
Volume 1° - R. Petrazzoni, La religione di Zarathustra — t
nella storia religiosa dell’lran. Bologna, 1921, pp. 260.
Las t5j3 =
Il primo volume della nuova Collezione fa bene augurare del suo
valore. Il Pettazzoni unisce ad una conoscenza precisa delle ricerche
dell’erudizione contemporanea — ne fanno fede le ‘sue note — una
larghezza di vedute che gli consente di collocare ogni singolo fatto
al suo posto e/nel piano dovuto.,.. Questo volumetto adempira mira-
bilmente il compito che esso si propone: quello,di indicare in modo
chiaro le grandi linee dello svolgimento ‘religioso, pii che millen-
nario, di uno dei popoli pit importanti dell’Asia.
F. Cumont, Revue de l’ histoire des religions, 1922, vol, 85, i)
pag. 80-81.
Il prof. R. Pettazzonié uno studioso di religione comparata del. vie
miglior tipo.... Io non so concepire per qttesti due studiosi (J: H.
Moulton e R.. Pettazzoni) un elogio pitt ‘alto che’ 1’ affermare che :
- Popera dell’uno € paragonabile soltanto a quella dell’altro.... Il libro
/€ completamente documentato, e rivela non solo una vasta lettura, |
ma un sano giudizio. Io accetto, in linea di principio, le sue con-
elusioni.
L. H. Gray, The Harvard Theological Review, 1922, 88 sg.
Il disegno storico tracciato dal Pettazzoni con mano sicura é svi-
luppato con perfetta organicita di pensiero ed efficacia di forma.
G. Levi DELLA Vina, Rivista di Cultwra, 1921, 177 sg.
R. Pettazzoni, che finora aveva lavorato soltanto nel campo della _ |
storia religiosa greco-romana e in quello della religione dei’ primi-
1 Se . Sis hee
tivi, ma che nel.1913 aveva pubblicato anche uno scritto di carattere
generale « La’ scienza delle religioni e il suo metodo », ci ha dato con
questo libro la migliore storia d’insieme della religione persiana che
abbiamo finora.
é . Di particolare valore é l’ampio disegno dello svolgimento re-
ligioso sotto i Sassanidi e sotto gli Arabi conqtistatori, che di solito
nei trattati generali di storia delle religioni o manca completamente
o @ troppo breve. Anche le molteplici influenze del Zoroastrismo su
VIslam ela sua espansione in altri paesi sono estesamente trattate;
solo lé condizioni ‘attuali dei Parsi dell’India sono tracciate in modo
_succinto: forse perché di esse qualche cosa gid si conosce altrimenti.
Ma‘ anche gui il P. rivela una sorprendente conoscenza della lettera-
tura relativa; specialménte mi piace di segnalare la ricchezza di eru-
dizione contenuta nelle numerose note. :
La-’Storia delle religioni in trattazioni monografiche disegnata
dal Pettazzoni si inaugura con questo libro nel modo migliore ed
é lecito attendere col pitti vivo interesse la pubblicazione dei volumi
successivi.
C. CLEMEN, Deutsche Literaturzeitung, 1922, 441-443.
Si accettino o no le conclusioni del Professor Pettazzoni, bisogna
ad ogni modo riconoscere il valore della sua argomentazione e la sua
padronanza della letteratura.
A. BERRIEDALE KEITH, Journal of Hellenic Studies, 1922, 279-230
Eccellente monografia, in cui la pit severa indagine scientifica,
traverso una materia perfettamente dominata, ha un’esposizione ele-
gante e perspicua.
A. Bonucci, Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi,
1921, 362.
aes It is a pity that there is no English translation of this fasci-—
nating study.....
NorMAN H. Baynes, Israel amongst the Nations, London,
1927, 275-
Volume 2° - H. Wexsster, Societa Segrete Primitive: Stu-
dio sulle forme elementari della politica e della rels-
gione, con una Prefazione di R. Pettazzoni. Bologna,
LQ22): \PPiPRWUL— Q2AC cs nae lak tea! Beare to ee race
Volume 3° - R. Perrazzoni, La Religione nella Grecia an-
‘tica fino ad Alessandro. Bologna, 1921, pp. X1-416. —
dis 203.
Lavoro bellissimo... ben ordinato, ben documentato. I fatti s’ in-
quadrano in una larga concezione dello, svolgimento religioso, e sem-
bra, in generale, che le idee non facciano altro che illumimnare i fatti.
A. Lorsy, Revue d’ histoire et de littérature religieuses, 1922, Ae
283 sg.
L’Autore ci da un vero e proprio svolgimento storico della reli-_
gione greca tenendo il debito conto. di tutti gli elementi spirituali
del popolo greco: politica, filosofia, arte. In modo cosi completo
nessuno prima del Pettazzoni aveva finora trattato questo argomento.
Se aggittingiamo il largo orizzonte che l’Autore deve alla conoscenza
delle religioni affini ¢ la sua immensa dottrina nel.catnpo della lette. —
ratura moderna, ci riesce evidente che il suo libro, malgrado la mo
desta mole, ¢ un’opera importantissima della quale non potra fare. 3
a meno nesstino. che lavori nel vasto incantevole dominio della reli-
gione del popolo pit pio del mondo.
TH. ZIELINSKI, Eos (Varsavia), 2, 1923.
R. Pettazzoni, gia professore di storia delle religioni a Bologna
(ora a Roma), aveva gid richiamato su di sé l’attenzione con i suoi _
eccellenti lavori sopra i Kabiri (1909) e sopra La religione primitiva —
in Sardegna (1912). Nel 1920 compariva il 1° Volume di una «Storia
delle religioni» da lui pubblicata, nel quale egli stesso trattava _
La religione di Zarathustra nella storia religiosa dell’ Iran, ed ap- —
pena tun anno dopo egli faceva stupire con il 3° Volume della stessa
Serie che é quello che qui si segnala: con molto ritardo purtroppo,
perché il recensore aveva sperato che presto alla Prima ~parte sa-
rebbe segttita la seconda, relativa all’ellenismo e all’eta imperiale.
Ma evidentemente il versatile Autore é stato momentaneamente —
distolto dai Greci per attendere alla sua grande opera: Dio, For-
mazione.e sviluppo del monoteismo~ nella storia delle religioni
(vol. I, 1922).
Ho citato questi lavori del Pettazzoni perché essi ci fanno facil-
mente capire come egli anche nella sta Religione dei Greci non
amanea, ove si’ presenta l’occasione di tali prospettive, di estendere
lo sguardo appunto alle grandi religioni universalistiche 0 a quelle — 7
dei primitivi.... cid che non riesce davvero a svautaggio della sua
trattazione. La quale per chiarezza, per elevatezza di stile, per lar-
\ ghezza di. vedute, per genialiti 2 eccellente: é& la“ pin bella (die
lesbarste) Religione greca che io conosca (non mi € accessibile la
Outline History of Greek Religion del Farnell). Beninteso, non @ un
s
co a t Wek a mes 2 | 4 ‘ ") . ee : » Si
‘Manuale come quello del Gruppe, che é superiore per spirito ‘siste-
matico.e ricchezza di materiale, ma che appunto per ci6 é utilizzabile
_ solo come opera di consultazione.
‘Il Pettazzoni si é proposto di dare una Storia dell’ antica reli-
gione greca, e giustamente egli inquadra lo svolgimento dei fatti
religiosi nel corso complessivo della evoluzione politica, sociale, spi-
rituale € artistica del popolo greco. ‘Anzi si pud qualche volta tro-\
_-vare che l’accentuazione del punto di vista sociologico e il gusto
delle sintesi ingegnose lo porta a formulare delle tesi che, per quanto
suggestive, semplificano troppo, la varieta multiforme dello svolgi-
“mento oppure introducono nei fatti delle tendenze’ che veramente
non si impongono per realta di cose....
La riunione, delle note alla fine di ogni singolo capitolo facilita
Ja letttira del libro che, come ho detto, vuol essere piuttosto una
re esposizione che un Manuale. Le note stesse sono esatte, e dimo-
strano su quali solide basi e su che vasta conoscenza anche della
/bibliografia recentissima! abbia il P. costruito questo libro che é
taccomandabile anche. per lettori tedeschi. |
Otro WEINREICH (professore di Filologia classica nell’ Univer-
siti. di. Tiibingen, condirettore dell’« Archiv fiir Reli-
gionswissenschaft ») nella Philologische _Wochenschrift,
1925, P- 770-772.
‘L’Autore é ben noto come storico delle religioni ed in prima
linea fra i nostri studiosi... Egli ha scritto questo Volume in una
forma agevole e viva, che hon € soffocata dall’erudizione, e il pub-
blico italiano gliene sara grato... Questa, dotta opera di indagine sto-
tica dovrebbe trovar posto nella biblioteca di ogni persona colta.
E. BIGNONE, I] Convegno, 1922, 72-73.
R. Pettazzoni € uomo di vasta lettura. Il libro.... rivela uno
‘studio assolutamente personale delle fonti, ed. una larga conoscenza
delle ricerche speciali degli! storici, degli archeologi, dei filologi,
- compresi i tedeschi... Le linee nettamente tracciate sono un pregio
- capitale del libro.... Rer tutti i 10 capitoli del suo libro il P, tiene
sempre lo pesado tivolto alla vita complessiva del popolo greco,
e cosi avvince il lettore sino alla fine.
F, KATTENBUSCH, Theologische Literaturzeitung, 1923, 150 sg.
Ri l’Autore ha delle idee, e percid non scrive senza una tesi da
’ sostenere. Libri, i suoi, quindi, ben unitari, intorno ad un’ idea, e
tali che si leggono, anche per l’eleganza dello stile, tutti d’un fiato,
ricchi di pensiero non meno che di erudizione, ma bene assimilata
e dominata dal, pensiero.
A. Bonuccl, Rivista trimestrale di studi filosofici e religiosi,
1923, 362.
__ Volume 4° -ALEKSANDER Brickner, Mitologia Slava. Tra-
duzione dal polacco e note di Julia Dicksteinéwna-
PPOen estTO2S5 PPe Ose why eee ear a em r ye 1b Urs
Cid che é stato scritto intorno alle religioni slave é scritto natu-
_ralmente soprattutto in qualcuna delle lingue slave, le quali sono
di solito sconosciute alla grande maggioranza di coloro che appar-- | :
tengono ad altre nazioni, D’ altro lato, il libro del Leger, La my-
thologie Slave (1901), formato da studi comparsi nella «Revue de =
Vhistoire des religions», e il contributo dal ceco Ma4hal. alla Colle- oe
zione « Mythology of All Races» (III, 1918), lasciavano a desiderare
dal punto di vista critico, Quindi i lavori pii importanti relativi
alle religioni slave erano rappresentati finora dagli studi di mitolo-
' gia pubblicati nell’ « Archiv fiir slavische Philologie » (1884, 1887,
1892), e dall’articolo del Briickner Slavische Religion nel Dizionario
« Die Religion in Geschichte und Gegenwart » (V, 1913), mentre dello
stesso Briickner restavano inaccessibili alla maggior parte dei non
» polacchi tanto l’articolo Poczatki Kultory Slovianskiej nell’ « Enzyklo-
pedja Polska » (IV, 2, 1912), quanto il libro Mitologia Slovianska (1918).
F quindi con un profondo senso di riconoscenza che noi dob-
biamo salutare l’iniziativa del solerte titolare deli’unica cattedra di
storia generale delle religioni esistente in Italia, il prof. Pettazzoni
(Roma), che nella sua Collezione « Storia delle religioni» ha pub-
blicato l’anno scorso una traduzione italiana antiotata del libro sud-
detto del Briickner, dovuta a Julia Dicksteinéwna: poiché cosi que-
sta eccellente trattazione della religione slava é diventata finalmente ©
accessibile anche a coloro che Roastepeng soltanto le lingue pit co. ~
nosciute.
‘ cy RSE complesso, i libro del Bricker! che, tra l’altro, discute
continuiamente le opinioni diverse dalle sue, é@ senza dubbio la trat-
tazione pit istruttiva che finora abbiamo: della religione slava. An-
_che se esso incontrera, come ha gid incontrato (si veda la recensione
che ne ha fatto il Jagic nell’ « Archiv fiir slavische Philologie », 1920),
~ delle obiezioni, giovera tuttavic meglio che tutto quatito si é scritto >
fin qui a chiarire le idee su questo campo di solito cosi maltrattato
nei Manuali e Compendii di storia delle religioni. ay
Di particolare valore sono anche i passi di autori greci, russie ©
latini che il Pettazgoni ha riportato in fine al volume. Essi sono~ ae
sotto un certo punto di vista completati dall’articolo Slavs dovuto $
al Czaplicka nella « Encyclopaedia of Religion and Ethics » (XI, =e
_ 1920).... Io stesso spero di poter presentare in tempo non lontano i
testi latini e greci relativi alla religione slava nelle mie Fontes hi-
, storiae religionum.
* Cart. CLEMEN (professore di storia delle religioni nell’ Uni-
versita di Bonn), nella Zeitschrift fiir Missionskunde und
: TYhe ig ao thai 1 1924, 143-144. }
:
6
Volume 5° - C. Formicut, J/ pensiero religioso nell’ India me
prima del Buddha. Bologna, 1925, pp. 300. L. 20,— —
- 3
Questo libro, dovuto al Professor Formichi, fa parte di una Colle-
zione intitolata Storia delle Religioni e pubblicata dal Professore Raf-
faele Pettazzoni di Roma..... Non y’ha- dubbio che questa Serie pub-
blicata dal Prof. Pettazzoni é utilissima e pud interessare molti lettori
anche fuori d’Italia. ‘
Il nome del Prof. Formichi é ben noto ad ogni sanscritista, e noi
gli siamo certamente obbligati per la pubblicazione di questo libro ©
bene scritto e istruttivo.
J. CHARPENTJER, Journal of the R. Asiatic Sociely, 1927,-339 sg.
In questo bel libro Carlo Formichi si sforza di segnalare nel Veda
« l’elemento dinamico» delle concezioni religiose dal Rigveda fino alle
Upanishad..... L’Autore studia gli inni del Rigveda e dell Atharva-
veda di contenuto filosofico e persegue 1l’dea del monoteismo fino alle
Upanishad. Di speciale interesse é lVestesa trattazione di alcuni inni
del Rigveda, e di alcuni canti dell’Atharvaveda.
W. CALAND, Archiv fiir yreligionswissenschaft, 1927, 285.
Volume,6° - G. Furvant, La Religione Babilonese ¢ Assira,
I: Le Divinita. Bologna, 1928, pp. 436. . . L: 30,—
g¢
Volume 7° - R. Perrazzoni, L Mistert. Saggio di una
teorta storico-religiosa. Bologna, pp. XIX-352. L. 20,—
R. Pettazzoni, cui gia dobbiamo, oltre a lavori minori, il 1° Vo-
lume di un’opera su la Formazione e sviluppo del monoteismo, una
Storia del Parsismo ed una della religione greca fino ad Alessandro,
di in questo nuovo libro, che é in certo qual modo una continua-
zione dei due ultimi suddetti, una trattazione delle religioni di mi-
stero sempre secondo la loro formazione e svolgimento.... <
Se qualche cosa é da criticare nella concezione fondamentale del
libro e in alcuni dettagli, queste osservazioni passano perd asso-
lutamente in seconda linea di fronte alla approvazione e all’ammi-
razione che nel-suo complesso é@ da tributargli. Come nei suoi lavori
precedenti, cosi anche in questo il P. ha preso in esame quasi tutta
oe
o4 ee
ia letteratura relativa, quasi-sempre ricavandone con occhio sicuro
la soluzione giusta dei molteplici problemi che i misteri presentano!
Il suo stile é anche qui estremamente agile e vivace..... Ogni lettore
sara naturalmente portato a paragonare il libro del P. con le Reli-
gioni orientali nel paganesimo romano del Cumont; esso pwd. stare
perfettamente con omore accatito a quest’opera, e sotto pila di un
rispetto la completa, non solo mercé i due primi capitoli, che nel
_Cumont naturalmente non sono rappresentati.
C. CLEMEN, Theologische Literaturzeitung, 1924, 409-412.
L’Autore, che si era gia brevemente occupato di questo argo-
mento in pubblicazioni anteriori, da ora una trattazione completa dei
« Misteri »..... Eegli svolge la sua teoria storico-religiosa, che con-
siste nel far risalire tutti questi misteri ai primordi della civilta,
derivandoli tutti da un dato psicologico, e non da un centro geogra~
“fico. Essi poi si svolgono in linee parallele..... Talvolta queste
linee parallele deviano e convergono in un centro unico dove si
fondono le une con le altre, specialmente nel tardo mondo greco-
‘romano, fino a che sono finalmente assorbite dal Cristianesimo.....
‘A parte la teoria, il libro é@ un prezioso contributo allo studio dei
misteri, che l’Autore tratta con molta dottrina, frutto di vaste letture
e di acume critico.
M. Gaster, Folk-Lore, 1925, 194 sg.
‘Il tema dei culti di mistero, che io ho trattato alquanto somma-
riamente nel mio libro su Les mystéres paiens et le mystére chré-
tien, é ripreso pit’ largamente dal Pettazzoni, che si occupa di sta-
~ bilire, in modo pitt preciso di quel che io abbia potuto fare, il rap-
porto dei culti di mistero coi culti primitivi, specialmente coi culti
agrari prenazionali, ma che si ferma meno a considerare i tratti
per cui il cristianesimo rientra nella categoria dei misteri, coi quali
esso entré in concorrenza e dei quali fini per trionfare.
..:. IL eapitolo sul rombo é assai istruttivo..... Il P. utilizza abil-
mente le notizie relative ai misteri..... Del pari egli fa vedere, nella
_ maniera pitt soddisfacente, l’origine agraria e lo svolgimento dei
- misteri, pil © meno completo a seconda dei casi.....
A. Loisy, Revue Critique, 1924, p. 401-403.
Il lavoro del Pettazzoni costituisce un complemento della sua
storia della religione greca. E certo nessuno meglio del P. possiede
le fonti di tale materia, letterarie ed archeologiche. Del lungo e
complesso sviluppo dei misteri sa egregiamente trovate le tracce
nelle antichissime religioni rurali dell’eta micenea, scorge acuta-
“mente una fase in cui il rito non é ancora esoterico, determina le
diverse funzioni e i diversi spiriti delle religioni misteriche di fronte
="
8
ai culti poliadi, e la loro divergenza nella struttura sociale antica;
sa rintracciare alle loro origini i misteri di origine esotica, il lore
lento e continuo avanzare in territorio ellenico, e il loro convogliars:
finalmente in tin unico letto nell’eta imperiale.....
A. OmopE0, Giornale critico della Filosofia italiana, 1924, 457.
Volume ‘8° - R. Petrazzon1, La Confessione dei peccat:
nella Storia delle Religioni, 1: Primitivi. Americe
Antica. Giappone. Cina. Brahmanesimo. Giainismo
Buddhismo. - Bologna, 1929 . . . . . . L. 30,—
BOLOGNA - NICOLA ZANICHELLI - EDITORE
;
STORIA DELLE RELIGIONT
A CURA DI RAFFAELE PETTAZZONI ;
}
4
1. R. Perrazzont - La Religione di Zarathustra nella
storia. religiosa dell'Iran.. . sp dng ;
2. H. Wepster - Socteta segrete primitive. . L. 20 f
3. R. Perrazzoni - La Religione nella Grecia antica
fino ad. Alessandro) 6. 1) Le
‘
4. A. Brickner - Mitologia slava .. . .L. 16
5. C. Formicur - J/ pensiero religioso nell’ India 4
prima del Buddhave Yi vs) 025) oe A
6. G. Furiant - La Religione babilonese e assira, Li
Ve BenDroinita oo 6 on P a ie 20 2
7. R. Perrazzoni - J Misteri: saggio di una teorta }
SLOTICO-VELI CIOS) SN e | Na an ee
8 R. Prrrazzoni - La Confessione dei peccati, 1: Pri- —
mutivi. America antica. Giappone. Cina. India
(Brahmanesimo. Giainismo. Buddhismo) . L. 30
TESTI
E DOCUMENTI
PER LA STORIA DELLE RELIGIONI
A CURA DI RAFFAELE PETTAZZONI
1. R, Perrazzoni - La mitologia giapponese secondo
il Kojiki.
2. V. Papesso - Juni sacri del Rig-Veda, 1.
3. G. Furvani - Testi religiosi degli Yezidi.
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