Purgatorio: canto VI
Vv 1-57:
Il canto è ambientato ancora nell’anti Purgatorio, dove Dante è ancora
accompagnato da Virgilio. Dante apre questo canto con una metafora: parla del
gioco della zara (v. 1), termine arabo che indica i dadi. Quando finisce tale gioco, il
perdente rimane triste e ripete più volte il lancio dei dadi imparando tristemente come
si gioca. Mentre il perdente tenta di imparare per vincere la volta dopo, il vincitore è
accerchiato da una folla di persone. Lui però non si ferma e ascolta tutti quanti,
porgendogli le mani e difendendosi dalla folla. Dante utilizza tale metafora per
paragonare la figura del vincitore al gioco della zara a sé stesso, visto che si trovava
accerchiato da una schiera di anime, che gli chiedevano preghiere in modo da
poter accelerare la loro permanenza al Purgatorio e poter accedere al Paradiso.
Appena si libera da tutte quelle anime che lo pregavano affinché egli pregasse per
loro, sottopone a Virgilio, definito luce mia (v. 29) con una metafora, un dubbio:
Dante ricorda che lui, in un passo del VI libro dell’Eneide ha detto che decreto del
cielo orazion pieghi (v. 30), ovvero che una decisioni divina non può essere modificata
da una preghiera; Dante si chiede quindi se sia effettivamente vana la speranza delle
anime che chiedono proprio questo.
Virgilio spiega allora a Dante che le preghiere, se dette con la mente sana (v. 36),
possono abbreviare il tempo della pena ma non cambiano la sentenza di Dio.
Aggiunge, inoltre, che nell’Eneide la colpa non poteva essere lavata dalla preghiera
perché l’priego da Dio era disgiunto (v. 42), ovvero a pronunciare questa preghiera era
un’anima pagana, e quindi lontana da Dio. Virgilio esorta infine Dante a non
preoccuparsi ora di questo dubbio così alto, e di porre la questione a Beatrice, che
incontrerà sulla vetta del monte del Purgatorio.
Nel momento in cui Dante capisce che vedrà presto Beatrice, desidera accelerare,
visto che ormai ‘l poggio l’ombra getta (v. 51), perifrasi che indica il pomeriggio. Ma
Virgilio spiega a Dante che andranno avanti ancora per molto, visto che sono appena
arrivati nel Purgatorio.
Vv 58-75:
Virgilio indica poi a Dante un’anima solitaria che potrebbe indicargli la via più rapida
per salire. Questa viene descritta, oltre che come solitaria, come altera, disdegnosa e
lenta anche nel muovere gli occhi (vv. 62-73), simbolo del fatto che è un’anima
dignitosa e meditativa; viene inoltre paragonata, tramite una similitudine
zoomorfa, ad un leone che in silenzio guarda passare le sue prede. Questa però non
rispose alla domanda dei due poeti e, piuttosto, gli chiese da dove venissero. Quando
Virgilio pronuncia il nome Mantova, l’anima, si alzò dal luogo dove risiedeva prima e
si presentò come Sordello da Goito, ed essendo anch’egli mantovano, abbracciò
Virgilio.
Vv 76-90:
Da questo momento in poi Dante inizia un’invettiva contro l’Italia, considerata
come una delle più robuste e indicative del disdegno di Dante nei confronti della
situazione politica italiana. Dante utilizza l’immagine dell’abbraccio tra Sordello e
Virgilio per contrapporla alla situazione attuale: nonostante i due non si conoscessero,
appena scoprirono di provenire dalla stessa città, si sentirono subito accomunati da un
sentimento fraterno.
Dante apre l’invettiva con un’apostrofe all’Italia, definendola come serva (v. 76):
l’Italia era infatti priva di una guida imperiale, in balia delle tirannidi e dei governi
popolari, oltre che straziata dalle lotte. Con una serie di metafore, accosta l’Italia ad
una serie di immagini ai versi 76-78:
Ostello di dolore;
Nave senza nocchiere in tempesta: l’immagine della nave non è originale, infatti
compare anche in altre opere di Dante, come nel Convivio.
Non la cosiddetta signora delle province ma un bordello, ossia un luogo di
perdizione: l’Italia, all’interno dei possedimenti dell’impero romano, era infatti stata
segnata come prima fra tutte le province.
Mentre nel Purgatorio Virgilio e Sordello si abbracciano per la sola ragione di essere
concittadini, nella realtà in Italia tutti stanno perennemente in guerra e si dilaniano
l’un l’altro. Dante, personificando l’Italia e rivolgendosi alla stessa, la esorta
ironicamente ai versi 86-87 a guardarsi dall’esterno e a cercare in sé anche solo un
luogo in cui regni la pace.
Dante fa poi riferimento all’imperatore Giustiniano, ovvero colui che introdusse il
Corpus Iuris Civilis e, con una domanda retorica, chiede ai versi 88 e 89 a cosa
servano le leggi se non c’è nessuno che le faccia rispettare: anche questa immagine è
presente nel Convivio, ma qui le leggi sono indicate metaforicamente come un freno,
mentre la mancanza di un imperatore è resa con l’immagine della sella vuota. L’Italia
viene dunque paragonata, per tutta la durata dell’invettiva, ad una cavalla senza
freni.
Vv 91-105
Si rivolge poi al clero, utilizzando la perifrasi, nonché apostrofe, ahi gente che
dovresti esser devota (v. 91) e, nominando Cesare, introduce all’interno del canto la
tematica dello scontro tra guelfi e ghibellini. Tornando alla metafora dell’Italia vista
come una cavalla, Dante asserisce che il clero dovrebbe occuparsi esclusivamente
della vita ecclesiastica e dovrebbe lasciar sedere sulla sella Cesare: la chiesa deve
quindi occuparsi solo del potere spirituale e lasciare la predella (v. 96), ossia il potere
temporale, all’imperatore.
Della situazione di continua guerra fratricida in Italia, è responsabile in primo luogo la
Chiesa ma anche l’imperatore, che non provvede a recuperare il potere che gli
appartiene. L’invettiva in questo caso è rivolta ad Alberto d’Asburgo che, come suo
padre Rodolfo, trascurò la situazione in Italia, lasciandola senza freni e con la sella
vuota. Dante invoca quindi una punizione divina nei confronti dell’imperatore,
augurandosi che possa servire da esempio ad un suo futuro successore. In effetti la
punizione invocata da Dante arriva, poiché il figlio di Alberto morirà precocemente.
L’Italia viene poi paragonata ad un giardino imperiale rimasto deserto (v. 105) e
chiede appunto ad Alberto d’Asburgo e a suo padre cosa abbiano sofferto per lasciare
l’Italia senza una guida.
Vv 106-126
Inizia poi una sequenza in cui spicca sin da subito l’anafora di vieni, ai versi 106-
109-112-115. Dante esorta l’imperatore a venire in Italia per poter osservare l’attuale
situazione, caratterizzata da uomini del tutto indifferenti: alcuni già abbattuti e altri
timorosi. Nomina, nel verso 106, nel particolare le famiglie dei Montecchi e dei
Cappelletti, intorno alle quali fiorì l’intera vicenda di Romeo e Giulietta, resa
immortale da Shakespeare. In realtà si tratta di due contee, la prima ghibellina e la
seconda guelfa, che turbarono per l’intero secolo la Lombardia con le loro lotte. Con
questi due nomi, Dante riassume dunque l’intera azione politica dei due partiti, quello
filo-imperiale e quello anti-imperiale, che condussero in rovina le città lombarde,
ormai cadute in mano alla tirannide.
Invita successivamente l’imperatore, crudele, a curare le colpe dei suoi feudatari e lo
invita a vedere come è caduta Santa Fiore, una contea che rappresenta appieno la
decadenza delle famiglie feudali, visto che proprio questa fu oggetto di cedimenti da
parte di una di queste.
Esorta Alberto a venire a vedere Roma, personificandola e accostandola
metaforicamente, ai versi 112-113, ad una vedova che piange sola e che lo chiama
giorno e notte. È come se Roma parlasse e chiamasse Cesare, chiedendogli perché
l’abbia abbandonata.
Dante utilizza poi l’antifrasi, invitandolo a vedere quanto la gente si ama e, se
vedendo tale scena non è commosso da nessuna pietà nei confronti degli italiani, deve
vergognarsi poiché tutti i cittadini italiani conoscono la sua condotta e sanno quali
sono le sue colpe.
Introduce poi, al verso 118, un’apostrofe a Giove, colui che, a detta di Dante, fu
crocifisso in terra. Ad essere crocifisso fu però Gesù Cristo: fa dunque riferimento ad
una divinità pagana, chiedendogli se sono i suoi occhi giusti rivolti altrove (v. 119-20)
oppure se questa situazione negativa serve a preparare qualcosa che al momento non
è comprensibile all’uomo. La contaminazione cristiano-pagana era infatti concessa
all’uomo medievale, ecco perché troviamo la medesima espressione anche in
Petrarca.
Dante osserva che le città d’Italia sono tutte in mano dei tiranni e un Marcel, ovvero
un capo di fazione, diventa quindi un villano. È difficile capire a quale Marcello della
storia romana Dante faccia riferimento, e quindi diventa anche difficile riuscire a
parafrasare il verso 125 e 126 che recita “un Marcel diventa ogne villan che
parteggiando viene”: si preferisce però pensare che Dante alluda al console Claudio
Marcello. In questo caso il verso potrebbe essere reso come “ ogni villano che si
pone a capo della fazione si atteggia a ribelle dell’autorità imperiale ”, parafrasi
che si adegua meglio al contesto dell’invettiva.
Vv 127-151
Effettua ora un’ultima apostrofe, questa volta a Firenze, utilizzando ancora una
volta il procedimento dell’antifrasi asserendo, ai versi 127-129, che lei può essere
felice poiché questa digressione non la tocca, grazie al suo popolo che si impegna per
farla vivere prospera e felice, quando in realtà non è così. In molti rifiutano gli
incarichi pubblici, ma il suo popolo risponde subito dicendosi pronto a ricoprire un
determinato incarico anche se non sono stati chiamati a ricoprirlo: significa, cioè, che
essi accettano le cariche con eccessiva leggerezza.
Con un’anafora del tu, nonché tramite un climax, Dante definisce Firenze al verso
137 ricca, in pace e saggia. Risulta inutile sottolineare l’amara ironia nascosta dietro
questo verso: ricca Firenze lo era, e quindi l’ironia è effettivamente rivolta non alla
ricchezza in sé, ma ai mezzi tramite i quali questa è arrivata a Firenze, nonché al
danno che ha causato.
Fa poi riferimento al verso 139 ad Atene e Lacedemone, ossia Sparta, che emanarono
le prime leggi affermando, sempre seguendo l’antifrasi, che li si viveva bene quanto
adesso a Firenze. Le due città greche erano infatti considerate la fonte del diritto
civile: anche qui ritorna un chiaro riferimento al Corpus Iuris Civilis voluto da
Giustiniano, in cui si afferma proprio che il diritto civile deriva dalle istituzioni delle
città greche di Atene e Sparta.
Dante continua l’ironia, questa volta in maniera più tagliente, affermando ai versi 143
3 144 che le leggi che vengono istituite a Firenze ad ottobre, non durano nemmeno
fino a metà novembre. Conclude infine questo canto paragonando Firenze ad una
donna che soffre, e che si gira da un fianco all’altro sulle sue piume
(metonimia=letto) alla ricerca di sollievo dal suo dolore: la stessa metafora verrà
ripresa da Manzoni all’interno dei Promessi Sposi.
Analisi del canto: elementi tematici e
narrativi
Un canto politico
Come già accaduto nell’Inferno e come accadrà nel Paradiso, anche il VI Canto del
Purgatorio presenta una forte tematica politica: nell’Inferno Dante si rifà alla città di
Firenze e alle lotte ad essa interne, nel Purgatorio parla dell’Italia in generale
definendola serva e nel Paradiso il discorso si estende all’intero Impero Romano. Si
viene quindi a creare una sorta di climax ascendente tra le tematiche politiche del VI
canto dei relativi libri che compongono la Commedia.
Come possiamo dedurre dalle varie apostrofi presenti nel canto, Dante pensa che le
cause dell’instabilità politica dell’Italia risiedano nella mancanza di un imperatore,
nonché nella corruzione del Clero, che ambisce al potere temporale senza riuscire
ad esercitarli efficacemente.
Importanza della preghiera
Come si deduce dai precedenti canti del Purgatorio, la preghiera assume per Dante un
valore cruciale, tanto che ogni anima sottopone a dante la medesima richiesta:
chiedere a vivi di pregare per lei. È Dante stesso a porre a Virgilio il suo dubbio,
sottolineando come, nell’Eneide, affermi che nessuna preghiera può piegare la
volontà divina. Virgilio spiga dunque a Dante che la sentenza di Dio è immutabile e
che le preghiere dei vivi non possono incidere sulla condanna dei morti, ma solo sugli
anni di permanenza dell’anima nel Purgatorio.