Il libro
F ederico I, imperatore, re di Germania, Italia, Borgogna. Per alcuni, un
monarca universale, conosciuto e amato anche nel più profondo dell’Asia,
scomparso da martire alle crociate; un sovrano leggendario, morto, come Artù,
soltanto in apparenza, addormentato in una montagna in attesa di ridestarsi. Per altri,
lo scomunicato che lacera la Chiesa con uno scisma, il tiranno che rade al suolo le
città italiane. Chi era in realtà Federico I, detto il Barbarossa, quali erano i tempi in
cui visse e agì, quali i costumi, le tradizioni della sua corte? In questa biografia la
figura dell’imperatore, spogliata di ogni leggenda, rivive inquadrata nella realtà del
suo tempo, nella sua umanità, nella sua quotidianità, nella sua verità, lontana,
difficile da affermare e definire come è di molte verità.
L’autore
Franco Cardini
Firenze 1940. Tra i più importanti medievisti italiani, da circa mezzo secolo si
occupa di rapporti tra cristianità e Islam. Collabora con la Rai e con importanti
testate.
Franco Cardini
IL BARBAROSSA
Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore
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Il Barbarossa
di Franco Cardini
© 1985 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
© 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835740230
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PORTFOLIO
Il Barbarossa
Alla dolce, dotta, nobile città di Gottinga, e agli amici del Max-Planck-Institut für
Geschichte di tanti anni fa… extra Gottingam non est vita; si tamen est, non est ita.
I
Il tabernacolo di Mosè
All’inizio del XII secolo, il più grave problema dell’impero bizantino era
come al solito la frontiera orientale. Il basileus Alessio I Comneno, dalla
sua fastosa reggia sul Corno d’Oro, temeva sempre di veder spuntare da un
momento all’altro – al di là del «Braccio di San Giorgio», il Bosforo – le
avanguardie dei turco-selgiuchidi che infestavano l’Anatolia. I nuovi venuti
erano pur stati più volte sconfitti, nel corso dell’XI secolo, prima dagli
eserciti bizantini e poi da quelle strane turbe di pellegrini armati (i
medesimi che noi siamo abituati a chiamare «crociati») transitati attraverso
la penisola anatolica tra il 1097 e il 1098. Tuttavia la loro offensiva era
ripresa: e, dinanzi al loro incalzare, le popolazioni greche avevano
gradualmente cominciato ad abbandonare quei territori che oggi
corrispondono all’area continentale della repubblica turca per rifugiarsi
prima nelle più sicure città costiere, poi nelle vicine isole egee e nell’Eubea.
Anche gli armeni, sotto la pressione turca, avevano finito col cercar rifugio
nella parte occidentale dell’impero, dando origine alle loro numerose
colonie di Costantinopoli, Tessalonica e soprattutto Filippopoli (oggi
Plovdiv in Bulgaria), dove si erano rifugiati anche molti georgiani: e dove
entrambi quei due grandi e sventurati popoli trovarono i loro nuovi centri
sacrali, rispettivamente, nei monasteri di Atman e di Backovo.
L’imperatore Alessio favoriva questa migrazione da oriente a occidente
delle genti a lui soggette: l’esperienza di più di quattro secoli insegnava
quanto rapida fosse l’islamizzazione dei territori conquistati dai musulmani,
e Bisanzio – con il suo governo centralizzato e con la sua pesante politica
fiscale – sapeva bene di non esser mai riuscita a farsi amare alla periferia
dell’impero. In tali condizioni, abbandonare anatolici, armeni e georgiani al
loro destino avrebbe potuto significare veder languire in breve tempo
altrettante antiche culture cristiane. Scopo fondamentale della politica
strategica di Alessio era il controllo di una parte almeno della penisola
anatolica con perno sulle due basi marittime di Smirne e di Trebisonda e il
mantenimento del controllo della strada militare del fiume Sangario fino più
o meno a Dorileo, presso la moderna Eskishehir: quand’egli morì,
improvvisamente, a metà agosto 1118, forse per un attacco cardiaco, tale
scopo poteva dirsi raggiunto. Ma a carissimo prezzo. L’impero subiva
pressioni e minacce anche da altre frontiere, come si era visto nell’autunno
1107 quando un esercito normanno guidato da Boemondo d’Altavilla –
figlio di Roberto il Guiscardo – era sbarcato presso Valona ed era stato
battuto soltanto sotto le mura di Durazzo. In quell’occasione Boemondo,
preso prigioniero, aveva dovuto piegarsi a riconoscere la sovranità del
basileus sulla città siriaca di Antiochia, che egli aveva conquistato durante
la prima crociata. Ma nel 1111 Boemondo era morto e Tancredi, suo
successore in Antiochia, si era rifiutato di ritener valida la sottomissione
dello zio al sovrano di Bisanzio. Le pretese di Costantinopoli sui principati
«franchi» (cioè fondati dai crociati) di Siria e Palestina restavano certo
ineccepibili sul piano del diritto, trattandosi di regioni appartenenti
all’impero romano d’Oriente fino alla metà circa del VII secolo: ma
restavano anche lettera morta. Nubi foriere di tempesta gravavano anche
sulla frontiera nordoccidentale dell’impero, verso la piana del Danubio. I
peceneghi, una popolazione d’origine turkmena che la pressione cinese
aveva costretto a spostarsi dal Kazakhstan dov’erano stanziati fino dal VI
secolo, si erano insediati nel corso del IX fra le steppe del fiume Dnepr e
l’attuale Bessarabia; ripetutamente battuti dai russi del principato di Kiev, si
erano spostati attorno alla metà dell’XI secolo nei Balcani tormentando la
Tracia bizantina con scorrerie continue che giungevano fin quasi sotto le
mura della capitale. Contro di loro, già Alessio aveva dovuto ricorrere
all’aiuto di un’altra popolazione uralo-altaica, i cumani (cioè i polovzi delle
fonti russe) insediati fra Don e Basso Danubio. Il basileus Giovanni II,
salito al trono dopo la morte di suo padre Alessio, prima riuscì a controllarli
con una serie di manovre diplomatiche: poi nel 1122 attaccò la loro
capitale-accampamento e li sterminò. Ma subito dopo fu la volta dei serbi,
ribelli al dominio imperiale, e poi degli ungari, che furono piegati solo fra
1128 e 1131 grazie a un attacco combinato terrestre e navale lungo il
Danubio. Queste vittorie non fornivano a Giovanni II né pace né sicurezza:
gli davano soltanto modo di tornare, con le spalle un po’ più sicure,
all’eterno fronte anatolico. 1
Intanto, più a nord, una nuova Bisanzio nasceva nelle pianure
dell’Europa orientale, lungo il corso dei fiumi Volchov e Dnepr, solcati dai
navigli che dalla Scandinavia recavano fino agli empori bizantini di Crimea
l’ambra, la cera, il legname, le pellicce. Nel 988 Vladimir, «gran principe»
di Kiev, era stato battezzato dai chierici greci inviatigli dal basileus Basilio
II: da allora la nascente cultura russa aveva ricevuto quel marchio
cristiano-«ortodosso» che le sarebbe rimasto indelebilmente impresso. Il
potente principato si era però molto indebolito tra gli ultimi decenni dell’XI
e i primi del XII secolo a causa dei conflitti dinastici e dei reiterati attacchi
dei popoli della steppa. Nel 1113, parve che Vladimir II riuscisse di nuovo a
imporre la sua autorità, arroccato nelle sue due capitali di Kiev e di
Novgorod: ma alla sua morte, nel 1125, il principato ricadde nelle lotte. 2
Anche l’Islam, nel quale siamo abituati a scorgere l’antagonista
principale di Bisanzio, stava passando alla fine dell’XI secolo attraverso
una fase di grandi mutamenti. Nel 1055, in una fase di tumultuoso arrivo in
quello che oggi definiamo il «Vicino Oriente» di grossi gruppi tribali di
etnia turcomongola, le tribù del khan selgiuchide Toghrul Beg, di recente
convertite alla fede del Profeta, avevano più o meno pacificamente
occupato Baghdad e da allora erano divenute il braccio armato dei califfi
abbasidi, che praticavano l’Islam secondo la confessione sunnita, contro gli
imam della dinastia fatimide d’Egitto seguace della confessione sciita. Il
khan selgiuchide, assunto il titolo arabo di «sultano» (principe), era
divenuto una sorta di primo ministro e di principale consigliere militare del
califfo: in pratica, un «protettore» che governava laddove il califfo si
limitava a regnare.
Ma nel 1092, dopo l’uccisione da parte di un gruppo sciita radicale, la
«Setta degli Assassini», del sultano Nizam al-Mulk, le prospettive mutarono
perché i vari potentati turchi insediati fra Siria, Persia occidentale e Iraq
intrapresero ciascuno una politica propria ora più, ora meno connessa con
quella del sultano selgiuchide: il che spiega non solo il successo della
crociata nel 1099 e l’impianto dei principati crociati tra Siria e Palestina,
bensì anche la sopravvivenza dell’imamato sciita al Cairo. Quest’ultimo
sarebbe stato tuttavia abolito soltanto nel 1179 dal Saladino – un capo
militare curdo al servizio dell’atabeg turco di Damasco e Mosul – il quale
ristabilì in tal modo formalmente l’unità califfale sotto il «Principe dei
Credenti» di Baghdad (ormai ridotto in realtà a governare un piccolo regno
iracheno): ma sostanzialmente regnò egli stesso, come sultano, su un vasto
principato comprendente Siria ed Egitto. Intanto, un’altra dinastia d’origine
selgiuchide si affermava nel Khwarezm o Khorasam, nell’attuale Iran
orientale. E anche in India, alla fine del XII secolo, sarebbe cominciato il
lungo periodo delle invasioni musulmane. Ancora più oltre, la regione
montagnosa fra Herat e Kabul era governata dalla dinastia di Ghur, che
regnava su un popolo famoso per la sua abilità nel forgiare le armi e
allevare i cavalli. In Tibet, paese di re guerrieri e necromanti, si affermava
con vigore la spiritualità buddhista e fra 1040 e 1123 fioriva il poeta ed
eremita Milarepa. Nel grande deserto del centro dell’Asia, il Gobi, e in tutta
l’area compresa fra le montagne dell’Altai, l’alto corso dei fiumi Onon e
Kerulen e le montagne cinesi, vagavano le tribù dei tatari, dei karaiti, dei
naiman, degli oirati, dei merkiti: affini tutte a turchi e tungusi. Più tardi, nel
primo quarto del XIII secolo, esse sarebbero state unificate da Temudjin,
meglio conosciuto con il suo nome da regnante di Gengis Khan: e da allora
sarebbero state indicate con il nome collettivo di «tatari» (in Occidente
storpiato nel demoniaco tartari) o, meno precisamente, «mongoli».
Altre popolazioni nomadi conoscevano intanto fasi di grande fioritura.
Così i pastori e cacciatori jurgi insediati nella Manciuria orientale, che ai
primi del XII secolo furono protagonisti di un repentino quanto inspiegabile
sviluppo che li portò a travolgere la dinastia sino-settentrionale degli
imperatori Liao e a sostituirvisi. A partire dal secondo-terzo quarto di quel
secolo, la dinastia jurgi, che assunse il nome di Chin, governò l’area
settentrionale dell’impero cinese pur restando a capo di un’élite minoritaria:
sembra che i conquistatori non arrivassero mai oltre il 15 per cento circa
della popolazione totale. Del resto la loro sinizzazione fu rapidissima.
Nell’area meridionale dell’impero, invece, restava insediata la vecchia
dinastia Sung, che aveva il proprio centro a Nanchino e poi, dal 1138,
ancora più a sud, a Hang-Chon. Dopo una fase di scontri durata più o meno
fino alla metà del secolo, fra impero Chin e impero Sung prevalse un
equilibrio basato su una sia pur fragile e sospettosa coesistenza. I Chin
avevano bisogno dei tessuti e del tè del Sud; e a loro volta i Sung
importavano dal Nord i bei cavalli dei nomadi e una quantità di prodotti
medicinali fra cui il ginseng originario della Manciuria. Più a sud, l’impero
cambogiano Khmer si estendeva sull’Amman meridionale.
Mentre queste cose accadevano in Cina e nel Sudest asiatico, a oriente
del mare che bagna quelle coste, in Giappone, divampava la guerra per il
potere fra le due grandi famiglie principesche dei Taira e dei Minamoto. La
tensione sarebbe scoppiata in un memorabile conflitto fra 1180 e 1185: i
raffinati e cavallereschi Taira dovettero cedere ai barbarici Minamoto, il
capo dei quali, Yoritomo, ricevette dalla corte imperiale un’ampia delega di
poteri riassunta nell’ufficio di Sú-shugo («Capo dei governatori militari»).
L’Africa non è lontana dall’Asia: e non lo era neppure nel Medioevo.
L’Oceano Indiano, interessato dal flusso periodico dei monsoni, veniva
solcato fino dall’età antica dalle navi dei mercanti che trasportavano le
spezie dell’Estremo Oriente verso la penisola arabica e il «Corno d’Africa»,
da dove venivano instradate – lungo la «Via dell’Incenso» (o «degli
Aromi») che risaliva la costa araba occidentale oppure lungo il corso del
Nilo – verso il Mediterraneo. In Africa settentrionale forte era la presenza
musulmana, dall’Egitto a tutto il Maghreb; ma in tutto il Nordest del grande
continente lo era anche quella cristiana, sia in Egitto e in Nubia dove la
Chiesa copta (monofisita) si era mantenuta relativamente in forze anche
dopo la conquista islamica nel VII secolo, sia in Etiopia dove, fra X e XII
secolo, era stato fondato il regno cristiano di Aksum che nel 1123 aveva
addirittura inviato ambasciatori a Roma, presso papa Callisto II. Più a ovest,
fra i regni sudanesi famosi nel mondo arabo-berbero per la ricchezza delle
miniere d’oro, all’inizio dell’XI secolo era stato fondato quello del Mali.
Intanto, al di là dell’Atlantico, dalla loro capitale di Tula (che sarebbe
poi divenuta l’azteca Teotihuacan), i toltechi esercitavano la loro egemonia
su tutta l’area mesoamericana, mentre nello Yucatán andava giungendo al
suo massimo sviluppo la cultura maya con il suo sistema di città federate.
Questo era il mondo, nella realtà «obiettiva», agli inizi del XII secolo.
Era sferico, e girava attorno al sole: esattamente come faceva da millenni e
come avrebbe continuato a fare dopo Galileo e dopo Newton. La gente,
però, non lo sapeva. In particolare, la gente della povera e barbara Europa
occidentale – quest’appendice depressa del grande continente asiatico nella
quale poco si sapeva dell’Asia occidentale e dell’Africa settentrionale
mentre sull’Asia (e in special modo sull’India) si conoscevano solo alcune
leggende – il mondo se l’immaginava in tutt’altro modo. E, si sa, quando un
errore viene condiviso da tutti, finisce col diventare una verità: almeno
finché resta condiviso.
Non è che, fra XI e XII secolo, non si viaggiasse. I popoli che si
affacciano sul bacino mediterraneo, i fratelli di Ulisse, si sono «sempre»
portati dentro la tentazione di scoprire che cosa ci sia oltre l’orizzonte.
Seneca racconta di due ufficiali imperiali inviati da Nerone alla scoperta
delle sorgenti del Nilo: essi, stando ai particolari della sua narrazione,
dovrebbero essere arrivati almeno nella zona dove gli affluenti Bahr el-
Ghazal e Sobat si gettano nel grande fiume, cioè nel Sudan meridionale più
o meno alla stessa latitudine di Addis Abeba. Nell’Alto Medioevo, marinai
e mercanti arabi erano giunti fino al Baltico e in Cina: ma di ciò le genti
dell’Europa occidentale erano rimaste all’oscuro. Fra IV e XI secolo,
tuttavia, quanto meno il flusso dei pellegrini occidentali verso
Gerusalemme non era mai venuto meno. Infine, appunto nell’XI secolo, il
risveglio demografico e l’almeno relativa sicurezza delle vie terrestri e
marittime recuperata dopo le incursioni ungare, normanne e islamiche dei
due secoli precedenti avevano consentito uno straordinario incremento ai
pellegrinaggi – anche verso Santiago de Compostela in Galizia –, ai viaggi
dei mercanti, alle spedizioni navali degli amalfitani, dei genovesi, dei
pisani, dei veneziani, dei baresi.
Le crociate e l’insediamento di cavalieri, monaci, mercanti ma anche di
semplici coloni in tutta un’area vicino-orientale che da Edessa in Armenia
(oggi Urfa in Turchia) si stendeva fino ad Aqaba sul Mar Rosso e dalla
costa del Mar di Levante fino alla Transgiordania, ampliarono senza dubbio
di molto nel corso del XII secolo gli orizzonti geografici degli occidentali,
se non altro familiarizzandoli con quei luoghi dei quali essi, dalle Sacre
Scritture, già conoscevano almeno i nomi. Pellegrini, crociati, mercanti e
marinai restavano però una minoranza fra le genti europee. Nella maggior
parte dei casi, non ci si moveva dalla vallata nella quale si era nati; le strade
– a parte i pochi tratti di vie romane rimasti più o meno in funzione – erano
un’intricata rete di sentieri appena tracciati fra brughiere, praterie, campi e
boschi, stretti nastri sassosi e polverosi punteggiati tuttavia di ponti, di
guadi, di passi montani e di ospizi ma anche costellati di pericoli. Foreste e
brughiere ospitavano animali selvaggi e feroci come orsi, cervi, lupi,
cinghiali; e le leggende narravano di ben più ardui rischi per chi si
avventurasse in quelli che i monaci del tempo – legati per i loro voti alla
stabilitas loci nei rispettivi monasteri – chiamavano «deserti». Nelle lande
desolate e acquitrinose, su per i pendii dei monti, fra le querce o gli abeti
dei boschi, si aggiravano oscure presenze: demoni orrendi, spiriti inquieti
che talora – specie nottetempo – comparivano ai viandanti, strane creature
mostruose come l’«uomo selvaggio» coperto di peli o di fronde. 3
Bonifiche e disboscamenti facevano beninteso arretrare queste creature
inquietanti, scacciavano draghi e melusine dalle acque ferme, stanavano
spiriti e mostri dai vecchi tronchi: 4 ma, dove si fermavano le colture e
quindi le terre insediative, si fermava anche il regno della civiltà e della
ragione. Boschi e paludi erano porte sull’Aldilà, province dell’impero della
paura. 5 Solo dei «marginali», dei vagabondi inquieti, vi si avventuravano:
briganti – non a caso essi stessi parte del panorama della paura –, anacoreti,
fabbri e boscaioli che vivevano presso le carboniere e che potevano
anch’essi – amici, dato il loro mestiere, del rosso fuoco e del nero carbone –
essere scambiati per demoni. La Chiesa diffidava della gente che si moveva
troppo: qui multum peregrinantur, raro sanctificantur, avrebbe sentenziato
un mistico del Trecento riprendendo umori e proverbi più antichi di lui.
Leggende di santi, affreschi, predelle d’altare invitano a non fidarsi dei
viaggiatori: sotto la veste del pellegrino, del chierico vagante, del cavaliere
errante, può nascondersi lui, il Cacciatore delle Anime. Ma a partire almeno
dal XII secolo, le crociate avrebbero diffuso in Europa altri due tipi di
vagabondi pericolosi: il predicatore itinerante (una sorta di «eremita
ambulante» che sovente fa tutt’uno col «missionario» eretico) e il lebbroso.
Ci sarebbe voluto un Francesco d’Assisi per incontrare, sfidare e integrare
queste nuove presenze: anch’egli scegliendo non più l’austera ma
confortevole pace del chiostro costruito a immagine del Paradiso e dove ci
si ripara come in una fortezza, bensì i disagi, i pericoli, la polvere ma anche
il fascino misterioso della strada.
D’altro canto, la rinascita dell’XI secolo aveva sì familiarizzato gli
europei con le strade, gli itinerari mediterranei, le coste vicino-orientali e gli
empori come Costantinopoli o Alessandria: ma non aveva agito se non a un
livello si può dire topografico, senza in nulla scalfire la visione
cosmografica d’insieme.
Pochi, in quei tempi lontani, «sapevano» com’è fatta la terra; o, a dirla
meglio, pochi si ponevano tale problema. Il racconto del Genesi, accanto
magari a qualche ricordo di lontane cosmogonie pagane, riempiva un vuoto
che a un superiore livello culturale – il livello delle biblioteche e degli
scriptoria monastici – veniva colmato dagli antichi trattati.
Nel mondo altomedievale esisteva senza dubbio il mistero: non però
propriamente quello che noi chiamiamo l’Ignoto. Al contrario: a partire
dalla Rivelazione, tutto era stato reso noto, tutto squadernato dinanzi
all’uomo; si trattava, semmai, di esercitarsi a meditare e a comprendere. Era
questione di esegesi, di commento: non di critica o di scoperta. Gli uomini
corrono a visitare i deserti e le cime dei monti: ma di te, o Altissimo, non si
curano. Era quanto aveva lamentato sant’Agostino. E conforme a questo
rimprovero, la mistica medievale insisteva sullo stesso tasto: bisogna
conoscere Dio e se stessi, ignorare e fuggire il mondo; anche se poi, in
realtà, quell’ignorarlo e quel fuggirlo si risolveva piuttosto in un aggredirlo
e più saldamente dominarlo. Ma che cos’è poi quella vana curiositas di
vedere nuove terre e di solcare mari sconosciuti, ci si chiedeva, quando il
vero viaggio è quello della vita, quando è dentro di noi che ci portiamo i
deserti più infocati e le montagne più inaccessibili, gli abissi più terribili e
le foreste più silenziose?
D’altronde, il cosmo era nella sua generale struttura ben noto. Le
Scritture e gli auctores (gli antichi scrittori, o – piuttosto – le aucoritates,
quel che ancora noi definiamo sotto il profilo scientifico «le autorità»)
l’avevano descritto puntualmente: ed era poi secondario, o apparteneva al
dominio dell’esegesi, l’accordare fra loro descrizioni che non concordavano
affatto.
Nel VI secolo il viaggiatore egiziano Cosma Indicopleuste, non
soddisfatto delle proprie esperienze, si era addentrato nella problematica
relativa alla forma del cosmo: e lo aveva immaginato a somiglianza del
tabernacolo di Mosè, cioè come una specie di scrigno allungato, all’interno
del quale stavano la terra – quadrata –, il sole, la luna e gli altri corpi
celesti. 6 I cosmografi medievali non immaginavano la terra dal punto di
vista volumetrico, per quanto fin dall’antichità si sapesse che la sua forma
era più o meno sferica. Essi ne redigevano alcune rappresentazioni grafiche,
appunto mappae mundi, e quindi si affannavano attorno alla sua
configurazione in piano. Il cerchio e il quadrato erano le due forme più
consuete della porzione di terra emersa e abitata, dell’ecumène: quanto alla
seconda figura, non dice forse il Vangelo di Matteo che alla fine dei tempi
l’Onnipotente «manderà fuori i suoi angeli con la tromba e a voce alta e
chiamerà a raccolta dai quattro angoli della terra»? D’altronde, cerchio e
quadrato erano le due forme-base della simbologia medievale: le figure
della perfezione divina e umana, le piante del Paradiso Terrestre e della
Gerusalemme Celeste. Il cerchio è figura del trascendente, dell’eterno,
dell’increato; il quadrato del creato, della pietra angolare, della solida
fondazione.
Topografia e geografia analitica non erano, nella loro sostanza, discipline
ignote. La Bibbia dava molte indicazioni topografiche e toponomastiche sul
Vicino Oriente, e talune molto precise. Le opere degli antichi, dal canto
loro, erano o sembravano spesso esaurienti: basti ricordare le carte stradali
romane. Nel VII secolo, in quella Hispania Betica ch’era appartenuta fino al
621 ai bizantini, Isidoro vescovo di Siviglia aveva lavorato alla stesura di
un’enciclopedia, gli Etymologiarum libri, che si giovava largamente del
clima cosmopolitico e delle ricche dotazioni librarie sivigliane. Aristotele,
Plinio il Vecchio, Pomponio Mela, Strabone, Solino, Agostino e gli altri
dotti antichi e recenti, pagani e cristiani, si affiancavano alla Bibbia per
fornire, attraverso la grande sintesi isidoriana, le basi dalle quali sarebbe
partita la cultura medievale sino alla rivoluzione della logica e della
scolastica tra XII e XIII secolo. E sant’Isidoro dedicava un intero libro della
sua enciclopedia, il XIV, alla descrizione della terra.
Molte, quindi, le informazioni. Ma si trattava di nomi di città e di popoli,
di caratteristiche desunte dalla letteratura biblica e grecolatina, di notizie
storiche o naturalistiche. Il punto in cui le cognizioni geografiche
altomedievali inciampavano era pur sempre, e ancora nonostante tutto, la
forma generale del mondo.
L’ecumène doveva, anzitutto, esser compatta: dal momento che i figli
d’Adamo appartenevano tutti a una sola originaria stirpe, non potevano
esservi continenti lontani, separati da quelli che si conoscevano. Vero è che
la geografia grecolatina aveva ipotizzato l’esistenza di altre stirpi umane al
di là dell’anello oceanico che si riteneva fasciasse le terre conosciute,
addirittura oltre la fascia equatoriale inabitabile per il troppo caldo. Alcune
carte segnavano una sottile linea di terra, oltre l’Oceano: gli Antipodi, il
leggendario paese dove si vive «alla rovescia». La geografia congetturale
confinava con l’Aldilà: il «mondo alla rovescia», in molte tradizioni
folkloriche, è quello dei morti.
Ma se la terra era una specie di focaccia rotonda circondata da un anello
d’acqua – questa la visione meglio accreditata secondo la lettera della
Bibbia –, restava il problema della sua scansione in continenti. Le carte
medievali ponevano in alto l’est (erano, appunto, «orientate») e
assegnavano all’Asia la metà dell’ecumène; sotto di essa, collocavano
l’Europa a sinistra dello spettatore (quindi orientata a nord) e l’Africa a
destra (orientata a sud). A separare i tre continenti, v’era una sorta di bacino
liquido a forma di T il cui braccio più lungo, orizzontale, rappresentava
idealmente la linea tesa fra Don, Mar Nero (confini fra Europa e Asia) e
Nilo o Mar Rosso (confini fra Africa e Asia), mentre il più breve braccio
verticale rappresentava il Mediterraneo. In questo modo, l’ecumène si
presentava come divisa in tre parti e inserita in un bacino acquatico a forma
di una T inscritta in un cerchio. Erano, queste, le carte «a Tau», dette anche
«carte T-O»: non avrebbero mai potuto servire per un viaggio o una
navigazione, né avevano alcuna pretesa di spiegare com’era davvero fatto il
mondo, del quale rappresentavano soltanto un’astrazione simbolica. Il Tau
per i cristiani era la forma tradizionale della croce: ma al tempo stesso era
considerato il simbolo tracciato dagli ebrei la notte del passaggio
dell’Angelo, prima dell’esodo, affinché il messaggero di Dio non nuocesse
ai loro primogeniti; era il segno marcato sulla fronte degli eletti secondo
Ezechiele; era il sigillo di Dio, che nell’Apocalisse sta nelle mani
dell’Angelo.
Simbolo apotropaico, il Tau era considerato la difesa per eccellenza
contro il peccato e la tentazione. Gli angeli, nell’iconografia, portano
sovente uno scettro di quella forma e dall’asta appuntita, arma e segno di
comando al tempo stesso, come si vede per esempio nelle miniature
castigliane dell’Apocalisse del monastero di Silos, terminata proprio nel
primo decennio dell’XI secolo: e la medesima forma ha il pastorale degli
abati e dei vescovi nelle Chiese orientali. Francesco d’Assisi, tracciando un
grande Tau rosso sulla pergamena della sua «benedizione a frate Leone»,
non faceva altro che riallacciarsi a questa tradizione profonda.
Così strutturate, le carte medievali recavano in alto, alla loro sommità,
l’immagine del Paradiso Terrestre: il giardino mirabile cinto da mura
invalicabili, siepi di fuoco o cortine di diamanti, al centro del quale sorgono
l’Albero Secco della conoscenza e la sorgente dei quattro fiumi del mondo,
il Gihon (il Nilo?), il Fison (l’Indo?), il Tigri e l’Eufrate. In basso erano
poste le Colonne d’Ercole, cioè lo stretto di Gibilterra. Oltre questi limiti
invalicabili v’era l’Oceano che non era possibile navigare: eppure pian
piano i cartografi medievali lo riempirono di isole, magari desunte da quella
medesima tradizione celtica che ci ha tramandato i viaggi di san Brandano 7
oppure da fonti arabe.
Ma come popolava, il geografo medievale, gli spazi vuoti all’interno dei
continenti? Essi erano, per lui, altrettante pagine da riempire di figure e di
cartigli; la carta geografica diveniva occasione per un trattato di geografia
ispirato certo in genere alle Scritture, ma che teneva conto dei dati
tramandati da Plinio, da Solino, da Isidoro da Siviglia, da Rabano Mauro,
dall’Imago mundi attribuita a Onorio di Autun, dalla tradizione
enciclopedica. Al centro dell’ecumène quindi, là dove i due bracci della T
s’incontrano, sta Gerusalemme: la Città Santa, lo sgabello sul quale
l’Onnipotente poggia i piedi. Ma l’Asia sconosciuta s’infittisce intanto di
genti misteriose: ecco, a nord, gli iperborei e gli arimaspi che lottano con i
grifoni per il possesso di miniere di smeraldi; ecco il popolo infinito di
mostri – le manticore, grandi felini dal volto umano, i panotii dalle grandi
orecchie che avvolgono loro l’intero corpo, gli sciapodi da un solo
smisurato piede, i blemmii acefali e dal volto sito sul torace 8 – non già fuori
dalla natura bensì testimonianza mirabile, all’interno di essa, della potenza
divina. Monstrum a monstrando, aveva sentenziato l’etimologista Isidoro
da Siviglia.
I mostri erano beninteso sentiti come realtà geografica mondana, non
diversamente dal Paradiso Terrestre o dall’Arca di Noè posta sull’Ararat. A
partire dal XII secolo, il popolo misterioso di queste ancora inesplorate
lontananze si infoltì di nuovi arrivati: accanto ai Seres (i cinesi) già
conosciuti da Plinio il Vecchio, trovarono posto i gimnosofisti – i filosofi
indiani nudi incontrati da Alessandro Magno – e tutte le altre meravigliose
o mostruose creature nelle quali il grande Macedone si era imbattuto
durante la conquista dell’Asia, ora divenuta (sulla base del celebre testo
detto Epistola Alexandri e del romanzo dell’autore ignoto detto «lo
Pseudocallistene», tradotto in latino nel X secolo) 9 il soggetto di un celebre
ciclo di romanzi; v’erano poi i popoli di Gog e Magog, da Alessandro
chiusi entro un’alta muraglia oltre il Caucaso e che avrebbero dilagato per il
mondo alla fine dei tempi; v’era infine il fantastico regno cristiano del Prete
Gianni, sito in Estremo Oriente, non lungi dal Paradiso Terrestre.
Lo schema tripartito dei tre continenti, geometricamente raffigurati come
altrettanti spicchi di diverse dimensioni quali apparivano nelle «carte a
Tau», non era ormai più sufficiente. Si delineavano così, riprendendo del
resto una tradizione romana, le penisole iberica, italica ed ellenica; si
allargavano all’interno dello stretto bacino liquido la palude Meotide (il
Mar d’Azov), il Mar Nero, il Mar Rosso, le “tre”» Indie – la maior, la
mediana e la minor, cioè rispettivamente il Sudest asiatico, l’India
propriamente detta e l’Etiopia (ma su ciò le tradizioni erano molte e non
sempre coerenti fra loro) – raffigurate l’una vicina all’altra in quanto la
rapidità con la quale le imbarcazioni, sia pure con grande pericolo,
solcavano l’Oceano indiano spinte dall’alternarsi dei monsoni veniva
interpretata come prova delle modeste distanze intercorrenti tra le opposte
sponde di esso. A nord, il Mar Caspio veniva raffigurato come una vasta
insenatura dell’Oceano che cingeva come un grande anello l’intera
ecumène: non si aveva ancora la cognizione che si trattasse di un bacino
chiuso. Il Baltico era poco meno ignoto: nell’XI secolo Adamo di Brema
parlava ancora di Estonia e Curlandia – alle quali, dalla Germania, si
accedeva esclusivamente per via marittima – come di due isole. Esigenze
simbologiche, informazioni realistiche e persistenza di schemi interpretativi
solo difficilmente adattabili alle une e alle altre, coesistevano. Nel
duecentesco mappamondo di Ebstorf, le terre emerse sono rappresentate
come distese sulla figura del Cristo: la testa del Figlio di Dio è dipinta a est,
accanto al Paradiso Terrestre; le due mani segnano il nord e il sud; i piedi
l’ovest. Questa visione, al di là del suo valore propriamente mistico, sembra
collegarsi all’immagine del mondo come corpo umano: tale ci è pervenuta
attraverso il Corpus hermeticum o lo Pseudoippocrate, il quale forniva
precisi corrispettivi di fisiologia umana alle varie parti del Mediterraneo.
Questa concezione antropomorfica dello spazio ha il suo corrispondente
immediato in un’analoga concezione del tempo. Agostino aveva elaborato
uno schema interpretativo della storia dividendola in sei «età», tante quanti
i giorni della Creazione: esse equivalevano però anche alle sei età attraverso
le quali l’uomo transita dall’infanzia alla vecchiaia. Secondo tale
interpretazione, il tempo sospeso tra la prima e la seconda Venuta del Cristo
era quello della vecchiaia del mondo: l’uomo del Medioevo aveva
coscienza di vivere in un mundus senescens. Un ulteriore schema
interpretativo della storia in senso e di tipo antropomorfico era desunto da
una celebre pagina biblica, quella del «sogno di Nabucodonosor». La statua
dalla testa d’oro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di rame,
le gambe di ferro e i piedi d’argilla rinvia al tema dei quattro regni del
mondo – il babilonese, il medo-persiano, il macedone, il romano –, che
nella meditazione storiografica cristiano-medievale affiancò quello delle sei
età.
Le sete della Cina, gli splendori lontani dell’India, le navi che solcavano
l’Oceano Indiano, le spezie e le gemme preziose provenienti dal lontano
sud, l’oro del biblico paese di Ofir. L’Occidente medievale conosceva tutto
questo: ma ne aveva un’immagine lontana, confusa, come attraverso uno
specchio d’acqua turbato. Le merci orientali arrivavano al Mediterraneo per
via di mare dall’Oceano indiano attraverso la penisola arabica (la «Via delle
Spezie») o il Mar Rosso o il corso del Nilo, oppure per via di terra fino ai
porti siriani e a Costantinopoli (la «Via della Seta») e risalivano l’Europa
fino al Reno, al Mare del Nord, all’Inghilterra: ma le idee e le informazioni,
che pure sono solite viaggiare con le merci, procedevano più piano,
perdendo in chiarezza di caravanserraglio in caravanserraglio e di molo in
molo; e caricandosi, in cambio, di leggende. Le meraviglie d’Oriente,
riferite nel V-IV secolo prima del Cristo da Ctesia di Cnido e fra IV e III da
Megastene, erano alla base dei favolosi racconti relativi all’India che da
Marziano Capella in poi circolavano per gli scriptoria monastici: ma quei
racconti si trasformavano in sogni e in incubi, senza affiorare ancora al
livello della consapevolezza e della decodificazione storica e geografica. La
storia di Siddharta Gauthama Sakyamuni – il Risvegliato, il Buddha –
arrivò come le merci, e con le merci, dall’India al Tibet, al Turkestan e di là
alla Persia dove ebbe una versione araba; e poi, attraverso il Caucaso e il
deserto siriaco, giunse a Costantinopoli e al Mediterraneo. Tradotta in
greco, la «fiaba» divenne un testo agiografico, la Vita di Barlaam e Joasaf o
Josafat: e sotto questa veste l’Occidente, dalla Provenza catara alla Francia,
alla Germania, alla Norvegia e all’Italia, venerò sotto le spoglie di un
«falso» santo colui che risvegliandosi dal magico sonno dell’illusione aveva
vinto il dolore e la paura della morte. 10 Questo era il mondo del XII secolo,
prima che gli occidentali cominciassero ad affacciarsi ai bordi del deserto
dell’Asia centrale e a salpare al di là delle Colonne d’Ercole.
II
«A l’entrada del tens clar…»
«A l’entrada del tens clar». Con la ballata che comincia con questo verso
famoso, un trovatore provenzale celebrava il ritorno della primavera, le
danze d’amore e il corteggiamento della Regina d’Aprile da parte dei
giovani forti, audaci e piacenti. 1 L’antico tema folklorico del ritorno della
stagione dei fiori e degli amori s’imponeva con giovanile baldanza nella
poesia occitanica all’alba del nuovo millennio. Non a caso l’alba, che fa
paura agli amanti ai quali il canto dell’allodola ingiunge di separarsi, è
tuttavia il momento più arcano del giorno, l’istante in cui la natura rinasce e
si risveglia.
Il senso aurorale e vigorosamente giovanile della vita e della gioia di
vivere che promana dai versi dei trovatori ha il suo riscontro immediato in
quel repentino rigoglio che percorre l’Occidente a partire dall’XI secolo (e
forse già dalla fine del X) e che si trasforma in un moto ascensionale dei
suoi livelli demografico, economico, politico e culturale culminante tra la
fine del XII e i primi del XIII secolo, per cominciar solo a partire dalla metà
circa del Duecento a dar segni di stanchezza. Quella delle «paure dell’Anno
Mille» è forse un po’ meno leggenda di quanto non la si voglia oggi
ritenere. Presagi della prossima fine del mondo e del susseguente Giudizio
– quei presagi che perseguitavano la cultura cristiana fin dalle origini, e che
d’altra parte qualificavano il senso cristiano della storia – avevano
veramente attraversato un’Europa impaurita e sconvolta alla fine del X
secolo, e poi ancora verso il 1033, cioè allo scadere del millennio dalla
morte e resurrezione del Cristo secondo il computo tradizionale. 2
È, beninteso, una fantasia romantica quella secondo la quale le genti
dell’Anno Mille si sarebbero riunite, l’ultima notte del primo millennio,
attorno alle chiese e ai monasteri attendendo il suono terribile della tromba
angelica; e poi, all’alba seguente, sarebbero sciamate felici dello scampato
pericolo verso il loro lavoro e la loro vita ritrovata. Oltretutto, non si
capisce quale avrebbe potuto essere questa «ultima notte» del millennio. In
Castiglia e in Aragona, è vero, l’anno cominciava il 1° gennaio, alla vecchia
maniera romana; ma in Francia si apriva piuttosto a Pasqua, salvo certe
zone in cui aveva inizio a Natale o il 25 marzo, giorno dell’Incarnazione. In
Inghilterra si usava farlo cominciare dal Natale, ma anche l’Incarnazione è
attestata. In Germania ci si riferiva abitualmente al Natale, mentre in
Borgogna vigeva l’uso del Capodanno alla Circoncisione (cioè al 1° di
gennaio) e in Italia si oscillava fra il Natale e l’Incarnazione.
Tuttavia, la realtà obiettiva spinge a credere che, nella sostanza, qualcosa
del genere di quanto è descritto nella leggenda sia potuto davvero accadere.
L’Europa del X secolo era un continente paralizzato dalla paura. Anche
nella seconda parte del secolo, quando i cavalli ungari, i vascelli arabo-
berberi e i drakkar vichinghi avevano cessato di tormentarne le campagne e
le coste, erano rimasti – ed erano forse non meno terribili – i signori che a
vario titolo esercitavano il potere e le loro masnade di guerrieri-predoni a
infestare le poche strade e i rari ponti, a spogliare i viandanti, a incendiare i
villaggi, a dissanguarsi tra loro e soprattutto a dissanguare l’intera società
con lotte e violenze alle quali non sfuggivano nemmeno le chiese e i
monasteri. Dalle carte e dalle testimonianze iconografiche del tempo ci
viene incontro l’immagine di un mondo depresso, atterrito, attento ai segni
di sventura che si annunziano in cielo e in terra, in ansiosa attesa
dell’Eterno Giudice. 3
Ma già le immagini di paura che ci arrivano da un cronista agli inizi
dell’XI secolo, il burgundo Rodolfo il Glabro, contengono una ben diversa
valenza. Sempre di crisi, in fondo, si tratta: ma è crisi di crescita. Gli stessi
pellegrinaggi di gruppi sempre più folti di uomini e anche di donne, che
partono febbrilmente da questa o da quella parte d’Europa in seguito alla
predicazione di un qualche agitatore religioso itinerante, sono spia di varie
forme di disagio economico ma anche di passioni collettive quali possono
propagarsi solo in un mondo fittamente popolato, caratterizzato dal
circolare vorticoso di persone e di idee. L’XI secolo è un’età di evidente
miglioramento climatico, al quale tenne dietro una proporzionale crescita
demografica con i relativi movimenti di espansione agricola, di progressiva
messa a coltura di suoli strappati alle foreste e alle brughiere e di
miglioramento delle tecnologie e dei livelli di vita.
Con i disboscamenti e le bonifiche si avevano anche fondazioni di nuovi
villaggi e addirittura di nuove città, così come ripopolamento o crescita dei
nuclei urbani già prima esistenti. Nel contempo l’Europa romano-germanica
si dilatava verso l’Est europeo, mentre le prime organizzazioni societarie
delle genti slave si affacciavano alla ribalta della storia scegliendo fra
l’Occidente e la Chiesa latina e Bisanzio e la Chiesa greca.
Ma l’XI secolo vide anche uno straordinario sviluppo dei commerci, una
generale ristrutturazione delle reti viarie, soprattutto un fitto incremento
della costruzione di nuovi monasteri che servivano da ospizio per i
pellegrini e da stazione intermedia di collegamento fra i grandi santuari
della Cristianità occidentale (Santiago de Compostela, Roma, San Michele
del Gargano), ma anche da centro per mercati periodici, coincidenti di solito
con qualche grande festa religiosa locale (le «fiere», appunto: cioè le feriae
sanctorum). «Il mondo si va coprendo di un candido mantello di chiese»
scriveva Rodolfo il Glabro con un’espressione destinata a divenir celebre. 4
Il candore di queste nuove chiese era quello delle pietre recate, magari a
braccia, da pellegrini-penitenti ai cantieri delle nuove abbazie – ma anche
delle prime cattedrali urbane – dove esse venivano squadrate, lavorate e
impiegate come materiale edile da gruppi di esperte maestranze guidate da
architetti spesso geniali.
Fu, quella, l’età dell’architettura che noi usiamo definire «romanica» con
il suo caratteristico linguaggio, univoco nelle sue molteplici varianti. Le
chiese romaniche extraurbane erano spesso quelle monastiche o abbaziali;
sovente si trattava invece di pievi dipendenti dalle autorità vescovili ma
rispondenti alle necessità della popolazione, espressione della cresciuta
densità di abitanti nelle aree rurali e alle quali i vescovi – che continuavano
a risiedere nei centri urbani – non potevano ormai se non delegare alcune
delle antiche prerogative e delle tradizionali funzioni della cattedrale. Il
nuovo secolo, anzi, il nuovo millennio, e con esso l’architettura romanica,
nacquero nel segno di un rinnovamento ecclesiale frutto di varie circostanze
e di diverse componenti, ma che tuttavia reca indelebile l’impronta
benedettina e il nome di una grande abbazia burgunda: Cluny.
Fondata verso il 910, essa rimase fra X e XII secolo – sotto la guida di
eccezionali abati, da Oddone a Pietro il Venerabile – la protagonista e si può
dire la forza motrice del risveglio culturale, religioso e anche politico
d’Europa. Fin dalla fondazione era stata direttamente sottoposta al
pontefice, il che la rendeva sicura – almeno in linea di principio – da
qualunque possibile usurpazione episcopale o di altro genere. La fama della
rigorosa ma equilibrata fedeltà dell’abbazia alla regola benedettina, il fasto
con il quale vi si celebrava il servizio liturgico, il rispetto da cui era
circondata, fecero sì che l’uno dopo l’altro una serie di monasteri
accettassero di «riformarsi» (vale a dire di correggere le deformazioni
spirituali e pratiche intervenute nel tempo a distorcerne e a corromperne la
primitiva forma) secondo la sua disciplina e le sue consuetudini, affiliandosi
a essa e costituendo così una congregazione della quale essa era a capo.
Verso la metà dell’XI secolo la congregazione cluniacense contava ormai
una settantina di monasteri, fra vecchi istituti riformati e nuove fondazioni.
Essi riconoscevano tutte l’autorità dell’abate cluniacense, che nominava il
priore di ciascuno di loro. Così organizzata, la congregazione si diffuse in
tutta Europa, fino a Santiago de Compostela, a Farfa in Sabina,
all’Inghilterra meridionale; e, attraverso il centro abbaziale di Hirsau, alla
Germania centrale e meridionale.
Cluny fu davvero il grande motore dell’XI secolo: guidò la riforma della
Chiesa; incoraggiò il movimento della Pax Dei che, in Francia, infranse la
riottosità dei domini e dei milites impegnati nelle loro guerre private e rese
quindi le strade sicure e aperte ai commerci; favorì l’espandersi e
l’affermarsi del movimento di pellegrinaggio verso Santiago de
Compostela, corrispettivo e complementare all’ampliarsi dei regni cristiani
del Nord (le Asturie, il León, più tardi la Castiglia e l’Aragona) verso il
Centro, l’Ovest e il sud della penisola iberica in quel movimento che molto
più tardi e impropriamente sarebbe stato definito di Reconquista; creò uno
stile nell’architettura, nella scultura, nella pittura murale, nella liturgia.
Quest’eccezionale dinamismo si comunicò all’intera Chiesa romana nel
momento stesso in cui essa usciva, almeno nelle sue gerarchie di vertice,
dalla sudditanza rispetto a quei poteri laici che fin dal secolo precedente –
ma in realtà si può dire fin dall’età carolingia – l’avevano dominata e
diretta. Da Gregorio VII in poi, per un buon mezzo secolo, furono dei
monaci ad ascendere al soglio romano; e monaci moltissimi fra cardinali,
vescovi, legati pontifici.
Come la cosiddetta Reconquista in Spagna anche la crociata fu, almeno
in una certa misura, il risultato della propaganda cluniacense; ma
rappresentò, d’altro canto, anche l’esito di un dinamismo che non fondava
le sue origini e le sue ragioni esclusivamente sull’azione di Cluny. La
riforma ecclesiastica aveva suscitato nuove forze, che a loro volta si erano
espresse anche in congregazioni benedettine che sull’esempio di quella
cluniacense avevano sviluppato forme di vita e di attività tali da render
possibile il considerarle dei veri e propri nuovi Ordini monastici: dai
certosini ai cistercensi ai camaldolesi ai vallombrosani. All’interno di alcuni
di questi Ordini era quasi sembrato che la spiritualità occidentale puntasse
al recupero dell’eremitismo d’Oriente, quello che vedeva nella lavra il
tipico insediamento nel quale – attraverso il sistema delle celle individuali
racchiuse in un solo recinto monastico – eremitismo e cenobitismo
convivevano e si equilibravano. D’altro canto però, specie nelle città
dell’Italia centrosettentrionale, i membri di questi Ordini dalla vocazione
così accentuata in senso spirituale non esitavano a farsi duri e rigorosi araldi
della riforma, a predicare focosi contro il vecchio clero compromesso con le
aristocrazie locali e le istituzioni regie, ad appoggiare i movimenti
religioso-popolari come la patarìa che non indietreggiavano neppure
dinanzi alla lotta armata e alla sollevazione violenta.
Questo nuovo fermento urbano va visto in stretto rapporto con la
rinascita degli scambi, con il fiorire di un’economia che tornava a essere
monetaria e urbanocentrica, con l’emergere e l’imporsi di nuove élite
dirigenti cittadine e l’elaborazione quindi di nuove istituzioni di governo
adatte a permetter loro di esprimersi. Le città marinare italiche – ma più
tardi anche quelle provenzali e catalane – seppero partecipare al movimento
crociato accanto ai milites, ai cavalieri e alle folle dei pauperes Christi, cioè
i semplici pellegrini. Le genti dell’Occidente, che fra VII e IX secolo le
forze congiunte dello spopolamento e della disgregazione dell’ex impero
romano d’Occidente e della talassocrazia islamico-bizantina avevano
allontanato dal controllo del Mediterraneo per segregarla in un ambito
continentale e costringerla a una stentata vita basata sull’economia di
sussistenza e sulla forzosa autarchia, tornavano ora vigorosamente a
guardare ai traffici marittimi e addirittura passavano, sia pure
episodicamente e contingenzialmente, all’offensiva.
L’egemonia continuava naturalmente a spettare all’Oriente, cioè a
Bisanzio e all’Islam: là dove ci si poteva permettere di coniar belle monete
d’oro, mentre in Europa ci si doveva accontentare di monetine d’argento
adatte ai mercati interni ma impresentabili e inaccettabili su quelli di più
ampio giro.
L’Europa tuttavia, se importava soprattutto le spezie pagandole a caro
prezzo, esportava dal canto suo verso l’Oriente merci meno costose e più
ingombranti ma di fondamentale importanza nella vita mediterranea: cera,
legname da costruzioni nautiche, cordami, metalli, prodotti alimentari.
Questa regola conosceva tuttavia un’eccezione: il ferro, del quale l’Oriente
era poverissimo, e le armi. Il mondo musulmano apprezzava moltissimo le
«spade franche», per quanto poi ne raffinasse il metallo fino a produrre i
famosi acciai di Damasco e di Toledo. In tal modo la bilancia commerciale,
sfavorevole agli europei, si andava in qualche modo aggiustando a loro
favore fino al punto che, a metà del XIII secolo, sarebbe stato possibile da
parte dell’Occidente tornare a sua volta alla coniazione aurea.
Si può comunque affermare con sicurezza che già all’inizio del XII
secolo una buona parte del commercio mediterraneo – fino a Costantinopoli
e alla Siria – fosse nelle mani dei mercanti e degli armatori veneziani,
pisani e genovesi, ai quali si sarebbero presto aggiunti marsigliesi e
catalani.
La conquista militare, vissuta magari come avventura guerresca, era una
componente essenziale di questa espansione della quale abbiamo finora
considerato gli aspetti ecclesiali e mercantili. Una delle forze motrici del
secolo è senza dubbio alcuno la «diaspora» normanna. Gli inquieti e
avventurosi marinai d’origine danese e norvegese, attestatisi ai primi del X
secolo in quella terra che aveva da loro preso il nome di Normandia e lì
trasformatisi in guerrieri a cavallo e in contadini, non avevano per questo
perduto l’antica vocazione al viaggio e alla conquista. Quando la pressione
demografica si fece troppo sentire e la nuova economia monetaria li
costrinse ad avvertire quella fame di contante che non poteva placarsi né
con le loro modeste rendite agrarie né con i proventi delle guerre private e
delle occasionali razzie, eccoli di nuovo, questi straordinari guerrieri dalle
pesanti armature issati sui grandi cavalli da guerra, sciamare verso lontani
opulenti orizzonti. Li troviamo ovunque ci sia bisogno di mercenari, odore
di preda, notizia di terre in cerca di un signore. Li vediamo mercenari a
Costantinopoli; c’imbattiamo in piccoli gruppi di loro intenti, nonostante
l’evidente esiguità dal punto di vista numerico, a strappare l’Italia
meridionale ai bizantini, la Sicilia ai musulmani e, con Roberto il
Guiscardo, a tentare addirittura un audace attacco all’impero bizantino dei
Comneni; intanto, nel 1066, il loro stesso duca – vassallo del re di Francia
ma di gran lunga più potente del suo signore – era divenuto re d’Inghilterra,
e noi ancora lo ricordiamo col nome di Guglielmo il Conquistatore; e infine
un figlio del Guiscardo, Boemondo d’Altavilla, avrebbe partecipato alla
prima crociata e sarebbe divenuto principe di una delle più ricche e favolose
città del Vicino Oriente, Antiochia. Eco di questa straordinaria vitalità, di
quest’audacia prorompente, di questa sanguigna sete di conquista, ci resta
fra l’altro la testimonianza della cosiddetta «tappezzeria della regina
Matilde», il famoso «arazzo di Bayeux». È la celebrazione, trionfante di
vividi colori barbarici, di una grande conquista e di una grande rapina.
Quando fu tessuto, alle corti del re d’Inghilterra e del re di Gerusalemme si
parlava latino e francese; e le stesse chiese in bello stile romanico, gli stessi
forti castelli dalle torri quadrate, si costruivano dalla Galizia fin oltre le
sponde del Giordano, là dove le carovaniere da Damasco alla Mecca
costeggiavano il deserto. Allora, nel XII secolo ormai inoltrato, manoscritti
ebraici, arabi, greci cominciavano a ingombrare gli armadi delle biblioteche
monastiche; a Chartres si iniziava a meditare sui testi di antichi filosofi fino
ad allora dimenticati in Occidente; a Toledo un’équipe di dotti incoraggiati
dall’abate di Cluny intraprendeva la traduzione latina del Corano; mentre
sui moli di Costantinopoli e nei bazar di Alessandria si sentiva sempre più
spesso parlare veneziano e pisano. I cavalieri del deserto combattevano per
la gloria di Allah i «franchi», i crociati; ma capitava loro sempre più spesso
di utilizzare «spade franche» forgiate in fucine italosettentrionali o – dalla
fine del XII secolo – renane. Pontefici e concili vietavano, beninteso,
l’esportazione di legname, metalli, armi e in genere materiale bellico dai
paesi cristiani a quelli musulmani: ma gli alti profitti dei commerci di
questo tipo tacitavano le coscienze. Intanto, nei castelli di Champagne, di
Provenza, di Borgogna, di Baviera e di Lombardia, ci si abbigliava con sete
di Damasco e con turchesi di Persia; si beveva in calici di vetro spagnoli o
libanesi vino condito con spezie provenienti dall’India attraverso l’Egitto o
la Siria; si pregava dinanzi a icone e a reliquie giunte da Costantinopoli. Il
basileus bizantino teneva presso di sé una guardia di mercenari russi o
svedesi (i «variaghi»), ma anche di sassoni insulari, e il re normanno di
Sicilia – che i mosaici raffigurano paludato come un imperatore
constatinopolitano – aveva al suo servizio medici ebrei e geografi arabi. Ad
Alessandria, a Córdoba, a Palermo capitava di potersi intendere in arabo, in
ebraico, in greco, in latino; a Gerusalemme i Templari che custodivano il
Templum Domini e il vicino Templum Salomonis – vale a dire la «Moschea
di Umar», o «Cupola della Roccia», trasformata in chiesa cristiana, e la
Moschea al-Aqsa che i primi due re di Gerusalemme avevano eletto a loro
sede, ed essi, una volta ottenutala dal secondo di costoro, Baldovino già
conte di Edessa, avevano convertito in loro quartier generale – consentivano
ai musulmani di visitarli e mettevano a loro disposizione un oratorio nel
quale essi potevano serenamente recitare le loro preghiere rivolti alla Mecca
(a testimoniarcelo è un principe siriano del XII secolo, Usama ibn
Munqidh).
Era, quello, un tempo che aveva certo le sue notti: e non poche, come
rifletteva Bernardo di Clairvaux. Ma era anche una fulgida alba
mediterranea: una fresca, fiorente primavera.
Vediamo comunque un po’ meglio, con l’aiuto di alcuni esempi concreti,
quali siano state le linee di sviluppo di questa complessa, articolata
rinascita.
Il tens clar dell’anonimo provenzale non è soltanto una felice immagine
poetica. Gli studi recenti di climatologia storica hanno stabilito che, una
trentina d’anni prima del Mille, ebbe inizio una lunga fase atlantica di
tempo buono, cioè caldo e moderatamente secco, che sarebbe durata oltre
due secoli, fino all’inizio del Duecento: allorché avrebbe gradualmente
lasciato il passo a una fase di segno inverso, la quale sarebbe a sua volta
culminata nella cosiddetta «piccola era glaciale» fra metà Cinquecento e
Settecento. Il momento migliore di questa fase favorevole sarebbe stato
toccato verso il 1125, come si è stabilito studiando la struttura del ghiaccio
fossile della Groenlandia. E, non a caso, tra la fine del X secolo e il primo
quarto del XII si situano proprio le grandi spedizioni marinare norvegesi, su
un oceano che la buona stagione aveva evidentemente liberato, almeno in
una certa misura, dai ghiacci. Nel 986 Erik il Rosso sbarcava in
Groenlandia e vi fondava, a sud, l’insediamento di Brattahlid; nel 1126, a
Gardar, veniva istituito il primo vescovato groenlandese. Intanto, in regioni
come l’Inghilterra, si poteva cominciare a praticar la viticoltura: segno
certo, questo, di un deciso addolcimento del clima. Non v’è dubbio alcuno
che – al di là di facili tentazioni deterministiche – il miglioramento
climatico in Europa abbia avuto un ruolo importante nella rinascita del
continente: sia provocando la contrazione di certe malattie – per esempio le
polmonari – e riducendo quindi la mortalità soprattutto infantile; sia
consentendo più abbondanti raccolti e quindi incoraggiando un incremento
della popolazione, il quale a sua volta, dato il basso livello delle rese
agricole del tempo, non poteva se non risolversi in una lotta ingaggiata da
signori e contadini contro il bosco e la brughiera per strappare loro, con il
disboscamento e la bonifica, nuovi spazi da coltivare.
La crescita demografica in tutta l’Europa, in stretta coincidenza con il
miglioramento climatico e in evidente rapporto con esso, è un fatto certo:
cominciò con gli ultimi decenni del X secolo o i primi di quello seguente e
non dette segni di ristagno fino ai primi del Trecento. 5 L’assenza di grandi
flagelli epidemici fra X e XIII secolo – a sua volta legata per molti versi al
miglioramento del clima – favorì l’ascesa demografica. Pare che in quei
secoli anche la malaria acquistasse un carattere meno micidiale. Grandi
pestilenze non ce ne furono: la lebbra e la guerra, che avrebbero potuto
costituire due elementi di depressione demografica, giocarono tuttavia in tal
senso un ruolo molto moderato. Mancano purtroppo dati che consentano al
riguardo calcoli analitici e stime statistiche attendibili: fonti di tal genere
(amministrative o fiscali) non sarebbero state disponibili prima del Tre-
Quattrocento e, anche allora, non senza molte difficoltà d’interpretazione e
d’utilizzazione. Si ritiene comunque che alla fine dell’XI secolo in
Inghilterra – paese senza dubbio privilegiato per lo stato delle fonti relative
a quel periodo – gli abitanti potessero arrivare a circa un milione e mezzo.
La Germania, considerata qui entro i suoi confini del 1939, aveva anch’essa
più o meno lo stesso numero di abitanti. Per tutta l’Europa si è calcolato che
fra XI e XIV secolo la popolazione sia aumentata forse del 75 per cento
circa, passando da poco più di 40 a oltre 70 milioni: ma si tratta di stime
molto incerte, in genere basate induttivamente su indagini condotte per
brevi periodi e su aree ristrette. Si è anche calcolato che nell’XI secolo gli
europei potessero passare dai 42 ai 48 milioni circa e che fossero appena
arrivati alla cinquantina a metà del XII secolo; ma il grande balzo fu
effettuato nel mezzo secolo seguente, allorché la popolazione del continente
passò dai 50 agli oltre 60 milioni. Più che dalle scarse e incerte stime
numeriche deducibili dalla documentazione, l’incremento demico risulta
evidente da altri segni: la creazione di numerosi nuovi insediamenti rurali,
la modificazione dell’habitat con la riduzione delle terre incolte, la
colonizzazione di nuove aree talora anche impervie, la ridistribuzione della
popolazione delle campagne, il mobilitarsi e frammentarsi dei possessi
fondiari, la creazione di nuove città, infine l’ampliarsi delle cinte murarie
urbane dei centri già esistenti, sintomo certo d’uno sviluppo demografico
delle città dovuto sì a un incremento delle nascite ma soprattutto
all’eccedenza delle popolazioni rurali e quindi a un massiccio inurbamento.
Tale ampliarsi delle cinte murarie è tanto più significativo se si pensa che
molte città di antica fondazione avevano subìto nei secoli dell’Alto
Medioevo, e segnatamente fra il VII e l’VIII, un caratteristico fenomeno di
contrazione della loro area d’insediamento; e che, pur così ridotte, avevano
conservato all’interno del loro perimetro murario zone libere adibite a orti,
a prati, addirittura a piccole boscaglie, e atte magari ad accogliere le genti
dalla campagna circostante in caso di pericolo. Fra XI e XII secolo questi
spazi vuoti si andarono riempiendo di nuovi abitanti e di nuove costruzioni:
fino a giungere alla città comunale piena come un uovo, nella quale gli
edifici furono costretti a elevarsi in altezza e la larghezza degli immobili
venne accuratamente sorvegliata dalle autorità comunali.
La crescita demografica anche contenuta finiva con il comportare ben
presto un fenomeno di saturazione, a causa delle estensioni relativamente
modeste di terre coltivate e delle basse rese agricole. Ciò determinava senza
dubbio la necessità di disboscamenti o di bonifiche: ma si trattava di lavori
faticosi, lenti, i risultati dei quali non si avevano se non nel giro di qualche
anno. Molte popolazioni dovevano quindi trovarsi spesso sull’orlo della
fame: a ciò si poteva ovviare con la ridistribuzione demografica, vale a dire
con esodi di contadini in cerca di terre e di cibo da un’area all’altra del
continente europeo. La mobilità contadina fa parte di un panorama
protagonista del quale era la strada: ed era, allora, il solo mezzo di
rimediare a una penuria alimentare alla quale non si poteva ancora
tecnicamente rispondere – come si sarebbe fatto più tardi, e con regolarità a
partire dal Duecento – con l’importazione dei cereali.
Gruppi di contadini in cerca di terra facevano quindi parte consueta del
mondo dell’XI secolo; essi trovavano abbastanza facilmente dei domini, dei
titolari di signorie fondiarie disposti a riceverli e a sistemarli come hospites
a condizioni privilegiate su terreni da dissodare. Nascevano così nuove aree
coltivabili e nuovi insediamenti rurali, di cui sono rimasti certi
microtoponimi come quelli desinenti in -rode o -rade in Germania (-roth o -
reuth al Sud), quelli in -ham in Inghilterra, quelli in -rup in Danimarca e
così via. Si è detto più volte che i signori tendevano a mantenere intatte le
loro riserve, dal momento che la foresta e la palude erano buone aree per la
caccia. È senza dubbio vero: e non bisogna d’altro canto dimenticare che la
foresta era un’ottima fonte di ricchezza (dal legname al carbone al miele
alla cera ai frutti commestibili del sottobosco), oltre che di selvaggina per la
tavola del signore. Ma ciò non impedì che la nobiltà laica, assillata dal
problema d’un sempre più necessario contante per sopperire alle spese che
il suo lussuoso tono di vita e il desiderio di ricche merci orientali
imponevano, si rendesse presto conto dei vantaggi che le sarebbero derivati
dalla commercializzazione delle eccedenze agricole prodotte sui suoi
territori. Un po’ più problematico il contributo delle signorie ecclesiastiche
al progresso dell’agricoltura e alla conquista del suolo. Certo comunque gli
eremiti dovettero svolgere un ruolo importante; e alla fine dell’XI secolo
vediamo anche cenobiti come i cistercensi o i monaci di Grandmont
impiegare massicciamente le forze dei loro conversi nei dissodamenti e nei
lavori dei campi, mentre i monasteri assumevano sempre più, senza nulla
perdere del loro volto spirituale, l’aspetto di grandi manifatture. Il lavoro
manuale riacquistò attraverso questo lungo e intenso processo una dignità
anche spirituale del tutto nuova che in origine – sentito come punizione
dopo il peccato originale – non possedeva.
L’incolto si restringeva quindi progressivamente. Di anno in anno, nuove
fasce di terra marginale venivano strappate al bosco e alla palude mentre le
radure si allargavano e, se contigue, tendevano addirittura a riunirsi aprendo
ampie brecce nel manto forestale del continente. Si bruciava prima la
sterpaglia e, dove il terreno era sgombro, bastava il cosiddetto «debbio» a
preparare, con adeguata concimazione attraverso le ceneri delle piante, la
terra alla coltura; questo, almeno, in area mediterranea. Ma più a nord la
foresta era fitta di grossi tronchi e bisognava estirpare con grande fatica le
radici. Poiché non sarebbe stato né facile né conveniente lavorare troppo
lontano da casa, l’ampliamento delle colture comportava la fondazione di
villaggi disseminati: e questi a loro volta imponevano la soluzione di vari
problemi che, dalla viabilità alla sicurezza, coinvolgevano i signori del
luogo. Un aspetto caratteristico della mobilità contadina dell’XI-XII secolo
fu la colonizzazione di intere aree fino ad allora vergini, come quelle del
centro della Francia. Durante il medesimo periodo proseguì con forza la
colonizzazione tedesca verso est. Essa, partita già addirittura verso la fine
dell’VIII secolo da una Renania allora colpita da una grave carestia, si era
sviluppata in direzione del fiume Raab e poi della selva boema. Coloni
franconi e bavari ne erano stati i protagonisti: e una prima organizzazione
dei territori così occupati si era avuta ai primi dell’XI secolo con la
sistemazione del territorio attorno a Vienna. A sud si era giunti fino al
Medio Danubio e alla valle della Morava, mentre nel centro e nel nord si
colonizzò definitivamente nel corso del XII secolo la vasta area fino
all’Elba; e si procedette oltre, strappando nel quinto decennio del secolo
agli slavi, che i tedeschi chiamavano collettivamente Wendi, ampi territori
nello Holstein, nel Meclemburgo e nel Brandeburgo. A nord, il compito di
dissodare le nuove terre a oriente della selva turingia fu lasciato ai franconi;
i sassoni intanto popolavano la costa baltica e i fiamminghi l’area della
Bassa Elba e dell’Oder.
A fronte dell’evidente crescita demografica e dell’incremento delle terre
messe a coltura, risulta chiaro che fra XI e XII secolo il livello quantitativo
della produzione agricola dovette alzarsi in misura considerevole. Qualcuno
ha parlato al riguardo di una «rivoluzione agraria»: espressione forse
eccessiva, forse emozionale, che può comunque fuorviare. Meglio è
piuttosto segnalare un’evoluzione delle tecniche agrarie e dei metodi di
conduzione della terra: i due fattori, congiunti, determinarono senza dubbio
un progresso. È in questo periodo che si diffuse dall’area atlantica – dov’era
peraltro nota almeno dal IX secolo – la tecnica della «rotazione triennale»
dei campi, che consentiva due fasi di semina (frumento e segale in autunno,
orzo e avena in primavera) e riduceva dalla metà a un terzo l’estensione di
terra lasciata a maggese, aumentando quindi proporzionalmente l’area
seminativa e permettendo maggiori raccolti. Tuttavia in molte zone del
continente, specie nel meridione mediterraneo, si continuò con la vecchia
«rotazione biennale».
I raccolti beneficiarono comunque soprattutto del perfezionamento
tecnico dei sistemi di aratura: l’aratro pesante asimmetrico, che permetteva
di lavorare la gleba più a fondo e di rivoltarla, contribuì senza dubbio al
miglioramento del lavoro dei campi. Fu importante altresì la crescente
diffusione dell’uso del ferro negli attrezzi agricoli, mentre la modifica
dell’attacco degli animali all’aratro (giogo frontale per i buoi; attacco «a
collare» per i cavalli) e la diffusione della ferratura per gli zoccoli
consentirono di sfruttare al massimo la forza animale. La diffusione
dell’impiego del ferro a partire dall’XI secolo (che si riscontra anche
nell’appesantirsi dell’armamento difensivo dei cavalieri) si dovette a una
sua maggior disponibilità: ed essa, in forza di una sorta di «circolo
virtuoso», fu stimolata ad accrescersi con la ricerca e l’apertura di nuove
miniere dalla sempre maggior pressione della domanda. Anche altri metalli,
del resto, divennero disponibili: le miniere dello Harz erano attive almeno
dal Mille circa. Non a caso, i progressi nella metallurgia e nelle tecniche di
fusione registrarono un netto progresso proprio nel XII secolo.
Beninteso, queste innovazioni non furono applicate dappertutto né
contemporaneamente né con la medesima intensità: comunque esse vi
furono, e si rifletterono sulla produttività al punto che le rese pare siano
passate, fra XI e XII secolo, dal 2,5 al 4 per unità di semente. Si tratta però
di dati molto incerti, basati su una documentazione sporadica e che non è
corretto generalizzare se non vogliamo che il quadro della situazione risulti
troppo roseo rispetto alla realtà.
Migliorò, insieme con tutto questo, anche il livello alimentare? Senza
dubbio, il pane di grano più o meno miscelato con altri cereali panificabili
si sostituì alle pappe poco consistenti: e, insomma, la lotta per
l’allargamento degli spazi coltivati si risolse in una lotta per il grano. Né
altrimenti poteva essere, visto che l’insufficiente concimazione – esito
anche di un sistema che privilegiava la cerealicoltura a svantaggio, fra
l’altro, dell’allevamento – impediva un intensificarsi della produttività. Se
nell’Alto Medioevo l’incolto aveva teso a riconquistare le colture e andava
pertanto tenuto costantemente a bada, con il XII secolo i rapporti si erano
ormai invertiti: e addirittura bisognava difendere boschi e pascoli dalla
minaccia costituita dall’aratro. Era, d’altronde, una necessità: l’incremento
della produzione cerealicola costituiva non già una scelta, bensì una risorsa
obbligata, l’unica che consentisse di far fronte alle necessità alimentari di
base d’una popolazione numericamente aumentata. E, se è vero che non di
solo pane vive l’uomo, vero è forse anche che mai come fra XI e XII secolo
egli si è avvicinato a vivere, appunto, di solo pane. Alla lunga, e già con la
seconda metà del Duecento, queste strutture di sussistenza si sarebbero
rivelate inadeguate; il che sarebbe stato uno dei primi – e più saldi – anelli
di quella catena carestie-epidemie che avrebbe forse causato, certo
accompagnato, la crisi del Trecento. Sta comunque di fatto che il contadino
altomedievale – come il collega dei tempi successivi alla crisi demografica
di metà Trecento – mangiava di più e meglio (carne, pesce, frutti della
raccolta boschiva) che non il contadino dei secoli XI-XIII. 6 Il continente
spopolato gli offriva molti alimenti che più tardi la corsa alla messa a
coltura e i divieti di caccia, pesca e raccolta vigenti nel regime propriamente
feudale gli avrebbero vietato. Il punto è tuttavia che, fra XI e XIII secolo, ci
si poté sfamare in un numero crescente di persone, sia pure «di solo pane» o
quasi. E ciò permise lo sviluppo di quei secoli, anche se forse – contenendo
la selezione degli individui più deboli e abbassando, con il ridotto consumo
di proteine e di vitamine pro capite almeno nei ceti più umili, le difese
fisiologiche – preparò la crisi del Trecento, allorché una massa di gente
debilitata da una cattiva alimentazione si trovò a dover fronteggiare l’urto
della Peste Nera.
Un altro segno della rinnovata vitalità del mondo euro-occidentale nel
periodo che qui ci riguarda è costituito, come abbiamo già anticipato, dalla
fondazione d’una quantità di centri urbani e villaggi nuovi e
dall’ampliamento di quelli preesistenti. Ancora una volta, certi toponimi
sono spia delle fondazioni ex novo: Villeneuve o Villefranche in Francia,
Neustadt o Freistadt in Germania, Villanova o Villafranca in Italia e così
via.
Nell’Europa del Nordovest, molte nuove città erano nate come
insediamenti fortificati nel IX-X secolo, al tempo delle incursioni; e in
senso più ampio tali incursioni (non solo vichinghe, ma anche ungare e
saracene) avevano forse, in certo qual modo, giovato alla rinascita della vita
urbana obbligando le popolazioni a vivere ammassate entro cinte fortificate
e a creare le condizioni propriamente civiche della convivenza.
Una caratteristica forma di sviluppo urbano si ebbe in Germania, dove
nel XII secolo molte città nacquero dall’iniziativa dei principi ecclesiastici
o laici: al di qua dell’Elba soprattutto come nuovi nodi mercantili, al di là
come centri di razionalizzazione politico-amministrativa (quali nuove
diocesi), di coordinamento economico e d’irradiazione culturale nei territori
colonizzati di recente. Nacque così, per esempio, Friburgo in Brisgovia,
fondata nel 1120 da Bertoldo III di Zähringen che era stato prigioniero nel
1114 a Colonia ed era rimasto forse affascinato dalla grande città
mercantile. Enrico il Leone, genero di Bertoldo, edificò a sua volta Monaco
di Baviera e Landsberg sul fiume Lech; ma la città più importante e
fortunata di quel tempo resta Lubecca, fondata nel 1143 dal conte dello
Holstein sull’antico insediamento slavo di Liubice, distrutta in un incendio
nel 1159 e di nuovo ricostruita dallo stesso Enrico il Leone. Sempre in quel
secolo le nuove città seppero procurarsi importanti privilegi dai pubblici
poteri: celebre, appunto, quello imperiale di Lubecca nel 1188 che
confermava un precedente privilegio ducale. In altri casi, come quello di
Magonza, il riconoscimento dei privilegi cittadini era stato accompagnato, a
partire dall’ultimo quarto dell’XI secolo, da dure lotte. Ma anche a Colonia,
come appare evidente dal grande moto del 1074, la conquista della libertas
non era stata per niente indolore.
Se nuove città sorgevano nei territori di recente colonizzazione e
venivano rapidamente popolate da gente venuta magari anche da lontano,
un sempre più vorticoso movimento di urbanizzazione – che avrebbe
incrementato a sua volta commercio e produzione manifatturiera, ma anche
stimolato l’agricoltura giacché importanti nuclei demici ponevano nuovi e
delicati problemi di vettovagliamento quotidiano – imponeva alle città di
molto precedente fondazione nuovi carichi di abitanti, che si sistemavano in
genere in borghi immediatamente addossati alla parte esterna delle mura.
Tutto ciò determinava situazioni giuridiche, amministrative, politiche,
economiche e igieniche del tutto nuove, che le città si trovavano a dover
rapidamente affrontare; ma anzitutto imponeva una questione militare,
un’esigenza difensiva. Questi borghi dovevano in qualche modo venir
protetti: prima con barriere e steccati di fortuna, poi con cortine murarie
vere e proprie. A Colonia, una nuova bastionatura fu eretta già nel 1106; ma
nel 1180 si fu costretti a porre mano a una nuova gigantesca cinta muraria
che difendeva un perimetro ormai enormemente ampliato fino a una
superficie di 400 ettari per una popolazione che si avvicinava alle 40.000
persone. Vero è che si trattava della più grande città tedesca del tempo.
Mentre Colonia si andava provvedendo della sua rinnovata cinta
muraria, molte città italiche avevano da poco già fatto o stavano per fare lo
stesso. Così Pisa nel 1162, a difendere un’area divenuta ormai di 114 ettari
con una popolazione che, secondo stime differenti, superava già i 10.000 e
stava addirittura raggiungendo i 20.000 abitanti; o Firenze, che nel suo
nuovo perimetro del 1172 racchiudeva un’area di 80 ettari e si andava
avvicinando alle dimensioni di Pisa, che avrebbe superato nel secolo
seguente.
Lo sviluppo urbano andava ovviamente di pari passo con quello
economico, in particolar modo commerciale. Centri di produzione e di
scambio, i nuclei urbani esigevano un netto incremento quantitativo e
qualitativo degli strumenti di comunicazione, primo fra tutti la rete viaria
terrestre e fluviale. Le due grandi aree mercantili del tempo, la mediterranea
e la baltica, entravano in contatto nel continente grazie soprattutto a una
serie di «mercati stagionali» (le «fiere») situati in un territorio
geograficamente al centro dell’Europa occidentale e politicamente in grado
di godere di una certa autonomia: la contea di Champagne. Essa era
attraversata dalle strade che dall’Italia conducevano verso la Francia
settentrionale e l’Inghilterra, mentre la via del Rodano la collegava al
Mediterraneo. Queste fiere, autentiche mediatrici del commercio
internazionale, si tenevano in tempi diversi – in modo che in qualunque
periodo dell’anno ce ne fosse una aperta – a Troyes sull’Alta Senna, a Brie
fra Senna e Marna, a Bar-sur-Aube e a Lagny-sur-Marne. Era qui che gli
italici e i provenzali potevano scambiare le loro merci orientali –
convogliate attraverso le colonie mercantili pisane, genovesi, veneziane a
Costantinopoli e in Terrasanta – con i panni di Fiandra e del Brabante, le
tele provenienti dalla Germania, le pellicce e le materie prime del
Settentrione d’Europa. Nel XII secolo non v’era un’altra via continentale di
commercio più importante di quella che faceva capo alla Champagne, se si
eccettua quella nordorientale che dal Baltico attraverso la rete dei grandi
fiumi russi conduceva al Mar Nero, «dai variaghi ai greci». Quest’ultima
aveva, fra l’altro, il vantaggio di essere pressoché tutta fluviale: ma era
gestita e monopolizzata, almeno nel XII secolo, dai principi russi e
dall’amministrazione bizantina. Nonostante veicolasse prodotti dal legname
alle pellicce e dal miele alla cera, tutti essenziali all’economia e alla
produzione del tempo, la merce dalla quale prendeva nome era un materiale
pregiatissimo, anzi addirittura prezioso, una resina fossile dai riflessi che
andavano dal giallo-oro al bruno e che si presentava in pezzi che sovente
racchiudevano piccoli fiori, minuscole foglie, insetti che vi erano rimati
misteriosamente prigionieri. Era la leggendaria «Via dell’Ambra».
Strumento fondamentale, misura di scambio e quindi grande tramite di
questa rigogliosa vita economica era comunque, naturalmente, il denaro. E
l’Occidente, dopo la grave depressione monetaria altomedievale che
Carlomagno aveva cercato di sanare almeno in parte imponendo un
monometallismo argenteo rigorosamente regolato in termini ponderali,
aveva assistito a un rapido deteriorarsi dei pezzi che si coniavano nelle sue
zecche. Durante il XII secolo, parecchie buone monete argentee s’imposero
però alla fiducia degli operatori economici: fra le altre, ovviamente,
anzitutto quel «denaro di Provins» battuto in nome del conte di Champagne,
dominus loci dell’area sulla quale si tenevano le celebri fiere. Ma anche il
grande santuario nazionale di Francia, l’abbazia di San Martino di Tours,
coniava un’ottima moneta d’argento: l’apprezzato «denaro di Tours», detto
perciò «tornese». In Italia, buona fama godevano i denari di Lucca, di
Piacenza e di Pavia, prima che nella seconda metà del secolo s’imponesse
quello pisano; in Germania, a partire dal 1160 acquistò autorità il denaro
(pfennig) di Colonia. Il denarius, secondo la riforma carolina, era la
dodicesima parte del solidus, moneta non effettivamente coniata bensì «di
còmputo», a sua volta la dodicesima parte di un’altra unità di còmputo, la
libra (da cui il termine «lira»). Solo più tardi si sarebbe giunti alla
coniazione del «soldo» come moneta vera e propria, ma sulla base di valori
ponderali differenti da quelli originali.
Mercanti frisoni, fiamminghi e norvegesi si davano appuntamento nel
XII secolo a Colonia. E fu lì che fecero la loro prima ma più massiccia
comparsa anche i mercanti tedeschi: non solo quelli della stessa Colonia,
ma anche quelli provenienti da Brema, da Tiel a sud di Utrecht, da
Bardowiek sull’Elba. Mercanti tedeschi avevano fondato verso il 1133-36
una colonia anche a Wisby, questa straordinaria metropoli commerciale
nell’isola baltica di Gotland; e ancora nello Schleswig danese, e perfino a
Londra. Commerciavano in vini del Reno e d’Alsazia, in pesce secco
scandinavo, in stoffe fiamminghe e italiche; trasportavano tessuti fino in
Austria e, dalle ricche miniere dello Harz, prelevavano l’argento e il rame
che attraverso Goslar, Soest e Dortmund giungevano a Colonia, mentre
nuove miniere d’argento scoperte verso il 1170 a Freiberg alleviavano con
nuovo metallo pregiato la sete di moneta liquida dell’Europa; infine, si
trafficava anche con il sale proveniente dalle miniere di salgemma di
Lüneburg, nell’attuale Bassa Sassonia. Nel 1161 Enrico il Leone prese sotto
la sua protezione i mercanti tedeschi dell’isola di Gotland e li sostenne nel
loro intento di penetrare fino alla Rus’, al florido mercato di Novgorod sul
Volga. Negli anni Ottanta del secolo un nuovo tipo di panciuta e capace
nave adatta alla navigazione nordica, la Kogge (cogga, «cocca»), sbarcava
già a Lubecca le pellicce, il miele, la pece provenienti dal Baltico orientale:
queste merci raggiungevano l’Inghilterra, le Fiandre, la Francia.
Mentre tutto ciò accadeva, a Chartres si rinnovavano i princìpi della
scienza e della filosofia occidentale; a Parigi Abelardo poneva le basi per la
sua rivoluzione del pensiero logico; e dalle scuole cattedrali urbane stavano
laboriosamente nascendo metodo scolastico e strutture universitarie.
Insomma, in questo XII secolo si stava fondando l’Europa moderna.
III
«Come i pesci nel mare»
L’impero di Carlomagno era nato nella notte di Natale dell’800 sulla base
forse di un malinteso fra il pontefice e il sovrano franco, forse di un troppo
ambizioso programma d’instaurazione di un contraltare a quell’impero
bizantino ch’era veramente – lo si volesse e lo si capisse o no – non l’erede,
bensì la prosecuzione senza soluzione di continuità dell’impero romano
nella sua pars Occidentis. Ci si è chiesti quale sia stata la vera natura di
quell’esperimento che fondò comunque un’istituzione la quale, attraverso
tanti e tali mutamenti e tante e tali rotture da indurre molti a dubitare della
sua stessa identità, ha comunque segnato di sé oltre un millennio di storia
europea e il cui mito è per più versi sopravvissuto alla definitiva caduta del
suo ultimo e lontano epigono, l’impero austroungarico degli Asburgo. È
stato un «preludio», o piuttosto una «falsa partenza» d’Europa? 1 Sta di fatto
che, già al tempo di Carlo, la distribuzione dei vari regni ad altrettanti
membri della famiglia imperiale aveva segnato le future linee di frattura
della peraltro mai unitaria compagine creatasi nell’800; e aveva inoltre
costituito fra l’altro, nel contempo, il lento delinearsi ed emergere di una
«coscienza nazionale» francese, a prevalente carattere franco-latino,
nell’area occidentale dell’impero, e di una «coscienza nazionale» o forse
soprattutto culturale, non più genericamente germanica ma più
propriamente tedesca, in quella orientale. Ne era stata culla la Franconia,
cioè la propaggine di sudest (fra Medio Reno e Meno) dell’antica regione
chiamata Austrasia, che confinava con il territorio degli alamanno-svevi e
dei bavari. Nel corso delle ulteriori suddivisioni dell’impero e delle lotte
che ne seguirono, e soprattutto a partire dal trattato di Verdun dell’843,
Francia occidentalis e Francia orientalis (vale a dire la «terra dei franchi»,
rispettivamente, dell’ovest e dell’est) si erano andate progressivamente
distanziando: e la seconda si era avviata a divenire il nucleo costitutivo di
quel che noi chiamiamo, appunto, Germania. Tra i discendenti del grande
sovrano franco, Ludovico – detto infatti «il Germanico» – si era visto
primitivamente assegnare la Baviera, alla quale aveva via via aggiunto la
Svevia-Alamannia, la Franconia, la Sassonia, la Turingia: vale a dire l’area
dell’impero franco situata a oriente del Reno. Difficile tracciare con
precisione i confini di questi territori, che vanno intesi anzitutto come aree
d’insediamento dei popoli corrispondenti. La «nazione» tedesca nasceva
quindi dallo smembramento dell’impero franco e dall’accorpamento in una
comunità storico-politica sempre «imperfetta» delle etnie francone, svevo-
alamanna, bavara e sassone-turingia: affini certo per lingua e per cultura,
ma lungi dal potersi dire costituenti davvero un popolo solo. Un’effimera
riunione dei vari regni carolingi sotto Carlo il Grosso, nella seconda metà
del secolo, fallì fra l’altro proprio per la ribellione, nell’887,
dell’aristocrazia «franco-orientale», che elesse per conto suo un nuovo re.
Quando, nel 921, Enrico I «l’Uccellatore», duca dei sassoni e re dei franchi
d’Oriente, concluse sul Reno, non lontano da Bonn, un trattato con re Carlo
III dei franchi d’Occidente nel quale si riconosceva l’uguaglianza e
l’indipendenza reciproca dei due regni, la distinzione tra Germania e
Francia era ormai definitiva. Di lì a qualche decennio, cioè nel 962, Ottone
I di Sassonia (re di Germania dal 936 e d’Italia dal 951) avrebbe ricevuto a
Roma la corona imperiale da papa Giovanni XII dopo che – sul campo di
battaglia sulla Lech, nel 955, all’indomani della vittoria sugli ungari –
l’esercito delle genti tedesche lo aveva già acclamato imperator. Ma il
nuovo impero, o meglio l’imperiale regnum, come lo si definiva, nasceva
già segnato da un profondo carattere nazionale che lo distingueva dal
precedente impero carolingio. La vecchia Francia occidentalis, così come
la fascia di territori burgundo-provenzali che costituivano l’antica
Lotaringia, restavano estranei a questa nuova autorità imperiale alla quale il
regno d’Italia si trovava in qualche modo annesso soltanto nella misura in
cui le corone imperiale e tedesca posavano entrambe, in unione personale,
sulla fronte di colui che, come abbiamo già detto, deteneva dal 951 anche
quella italica.
Una divergenza profonda aveva, da allora in poi, segnato il destino
storico di Francia e Germania. Il regno tedesco, tenuto saldamente nel X
secolo nelle mani dei Ludolfingi duchi di Sassonia, aveva saputo imporsi
battendo le tendenze centrifughe rappresentate dai vari «ducati nazionali»
(il sassone stesso, il franco, il bavaro, lo svevo-alamanno) e creando un
equilibrio fra poteri ecclesiastici e regali che sarebbe durato – sia pure con
incertezze e compromessi – fino alla metà circa dell’XI secolo. Al
contrario, il regno di Francia aveva attraversato un lungo periodo di lotte
interne, che conosciamo come «anarchia feudale». Era stato, quello, il
tempo dell’incastellamento del territorio e della nascita del nuovo ceto
sociale dei milites, dei cavalieri, rigorosamente distinti dai rustici, dai
contadini inermi.
Fu un’età di dure contese, delle quali ci resta un’eco forse più fedele di
quanto non si creda in certe chansons de geste che ci hanno tramandato
immagini di episodi terribili: in quel Medioevo «cristiano» i seniores in
guerra fra loro, ciascuno con le rispettive masnade di guardie del corpo, non
esitavano a profanare le chiese, a incendiare i monasteri, addirittura – come
si legge in un testo – ad accamparsi intorno all’altare maggiore e a utilizzare
le aste delle croci metalliche come trespolo per i loro falconi da caccia.
Così come i primi uomini non erano frenati nelle loro malvage azioni da alcuna
legge, da alcun rispetto, ma si davano senza freni alla gola, al piacere della carne e a
ogni altro vizio; allo stesso modo adesso, ponendo da un canto qualsiasi rispetto delle
leggi umane e divine e disprezzando gli editti episcopali, ognuno si comporta come
vuole. Il più forte opprime il più debole e gli uomini sono come i pesci del mare, che si
divorano a vicenda; l’iniquità si rafforza, sommandosi all’iniquità. Da ciò dipende quel
che vediamo in tutto il mondo, cioè rapine dei miseri e depredazione dei beni delle
chiese. Da ciò dipendono le continue lacrime e i lutti dei pupilli: tanto che il clamore
sollevato da questi orrori, come quello sollevato dagli abitanti di Sodoma, giungerà fino
al cielo e avverrà quel che la voce del Signore proclama attraverso il Salmista: «A causa
della miserevole povertà e del pianto dei deboli, ora insorgerò». 2
Con queste parole, durante un sinodo tenuto nel 909 a Trosly presso
Soissons, l’arcivescovo di Reims piangeva la Francia lacerata del suo
tempo. Negli atti di quel medesimo sinodo un capitolo intero –
significativamente intitolato De rapinis – era dedicato alle violenze:
… hanno rubato l’asino agli orfani, hanno sequestrato il bue alla vedova; hanno
sospinto fuori di strada i miseri, oppresso i mansueti; mietono nel campo non loro,
vendemmiano nella vigna di coloro che hanno schiacciato con la prepotenza; spogliano
la gente arrivando a toglierle perfino le vesti e a lasciarla nuda al freddo; hanno
imperversato depredando gli orfani e derubando la turba dei miseri. 3
Si può obiettare che le fonti ecclesiastiche tendono sempre, in questo
periodo e in contesti del genere, a noircir le tableau per adeguarsi agli
schemi biblico-letterari: l’insistenza sui torti subiti dagli orfani e dalle
vedove, per esempio, è letteralmente mutuata dal libro di Giobbe. Tuttavia,
i prelati riuniti in questo come in molti altri sinodi dell’epoca ricorrevano
naturalmente alla reminiscenza biblica non solo data la loro cultura
patristica, ma anche perché l’antico testo si rivelava, in tutta la sua tragicità,
adatto al presente. Sotto la scorza del richiamo veterotestamentario, è tutto
un mondo di violenze e di squallore che si squaderna davanti a noi. Vedove
e orfani sono appunto categorie che hanno per definizione bisogno e diritto
al «mundio», la tuitio, la difesa del re; e la tuitio era uno dei punti fermi
della pax regis.
Ma se il re veniva meno ai suoi doveri o i pubblici poteri si rivelavano
inadeguati a proteggere i più deboli, sarebbe stato il Signore in persona –
che la liturgia di una missa contra tyrannos del X secolo chiama Pater
orphanorum e iudex viduarum – a intervenire. Dalla fine del X secolo si
sarebbe sviluppato in tutta la Francia quel movimento della Pax Dei grazie
al quale nobili e cavalieri incitati da istituti ecclesiastici – prima fra tutti
l’abbazia di Cluny – e appoggiati spesso dalle comunità cittadine e
contadine stesse avrebbero imposto con la forza una drastica contrazione
delle guerre private e delle violenze. La Pax Dei sarebbe stata un fattore
primario non solo della riforma ecclesiastica dell’XI secolo, ma anche della
ricostituzione della compagine civile francese.
Nel corso della seconda metà del secolo, sotto il regno di Filippo I, il
paese mostrava ormai chiari segni di ripresa e di pacificazione. La corona
era senza dubbio ancora troppo debole nei confronti dei grandi principi
territoriali – il duca di Normandia che nel 1066 aveva conquistato anche
l’Inghilterra, il duca d’Aquitania, il conte di Borgogna, quello d’Angiò,
quello di Tolosa, quello di Fiandra e via dicendo –, ma andava rafforzando
ed espandendo la sua autorità. La prima crociata, liberando il paese da
alcuni grandi signori e da una massa di milites avidi e violenti, avrebbe
contribuito potentemente a questa normalizzazione.
In Germania, dove l’alternarsi delle dinastie sassone e francone sul trono
aveva garantito oltre un secolo di pace e sicurezza almeno relative, si
delineava invece un’opposta tendenza. Il regno era ancora forte con Enrico
III di Franconia, che Corrado II si era associato al trono fin dal 1028
quand’egli era un ragazzo più o meno decenne. Enrico restò il solo re di
Germania nel 1039, alla morte del padre: aveva allora circa ventidue anni.
L’associazione tanto precoce al trono aveva evitato al regno la crisi di
successione; e, per quanto giovane, il nuovo sovrano era comunque al
riparo da un altro pericolo, quello della minore età, che avrebbe richiesto
una reggenza. Come re di Germania, egli aveva anche diritto alla corona
d’Italia secondo la consuetudine inaugurata da Ottone I; e a quella reale di
Borgogna, che nel 1032 era stata raccolta da suo padre alla morte del re
burgundo Rodolfo III. Nel Natale del 1046 Enrico III aveva cinto a Roma la
corona imperiale, alla quale il possesso di quella regia di Germania gli dava
diritto, ma che doveva esser posta sulla fronte di ciascun nuovo sovrano
direttamente ed esclusivamente dalla mano del pontefice.
Come re di Germania, Enrico III aveva anzitutto teso a rendere effettivo
il suo potere sui cosiddetti «ducati etnici», o «nazionali»: cioè i cinque
ducati di Lorena, Alamannia-Svevia, Baviera, Sassonia e Franconia. In
primo luogo, bisognava evitare che anche due soli di essi si trovassero
riuniti nelle mani di un solo principe che avrebbe potuto in tal modo
costituire un centro di potere temibile come concorrente rispetto a quello
regio; poi, era necessario battere il principio dell’ereditarietà dei ducati e
consolidare quello secondo il quale essi equivalevano a pubblici uffici e i
duchi potevano pertanto venire scelti dal sovrano. In questo modo Enrico
riuscì per esempio, sia pure con il rischio di sollevare gravi rivolte, a
dividere definitivamente il ducato di Lorena in un’Alta e una Bassa Lorena;
quindi, dovendo – com’era uso – abbandonare, appena rimase alla morte del
padre il solo re di Germania, i ducati di Baviera e di Svevia dei quali era
stato fino ad allora diretto titolare, li affidò entrambi in un primo tempo a
Enrico di Lussemburgo; ma nel 1047, alla morte di questi, preferì scinderli
di nuovo scegliendo un signore diverso per ciascuno di essi; e nel 1055
riuscì addirittura a reimpadronirsi direttamente della Baviera, della quale
investì sua moglie Agnese. Anche per il regno di Borgogna, egli perseguì
una politica di rafforzamento delle prerogative regie curando
l’organizzazione d’una cancelleria separata da quella tedesca e affidata
all’arcivescovo di Besançon.
Sovrano ambizioso, Enrico teneva altresì grandemente alla gestione del
regno d’Italia e alla conservazione di quell’alta mano sul papa di Roma che
gli imperatori romano-germanici mantenevano fin dai tempi di Ottone I e
all’ombra della quale essi avevano anche promosso e favorito una seria
riforma morale della Chiesa. Inoltre aveva impegnato seriamente le proprie
forze in un’energica politica orientale: contenimento della minaccia
costituita dalle tribù slave insediate lungo il basso corso dell’Elba e
consolidamento della supremazia del regno di Germania sulla Boemia e sui
vicini regni di Ungheria e di Polonia. In effetti Enrico costrinse nel 1040 la
Boemia ad accettare la sua supremazia feudale e nel ’43 impose
all’Ungheria la scelta come re del suo candidato, obbligandolo però a
cedergli quei territori che sarebbero stati più tardi parte della marca
d’Austria.
Per condurre una così incisiva politica gli era necessaria la più ordinata
pace interna. A tale scopo, sempre nel 1043, egli aveva esteso le istituzioni
della Pax Dei, nate mezzo secolo prima in Francia per ovviare alla carenza
di poteri pubblici, al suo regno di Germania. Proclamandole di persona dal
pulpito della cattedrale di Costanza, l’imperatore aveva inteso chiamare Dio
stesso a testimone della sua volontà e dei suoi sforzi di pace.
Ma il grande sovrano venne a mancare nell’ottobre del 1056, non ancor
quarantenne. Lasciava sotto la tutela dell’imperatrice Agnese e di Annone
arcivescovo di Colonia il figlio bambino Enrico IV, nato nel 1050, che fin
da tre anni prima si era associato al trono. Se l’espediente dell’associazione
evitava crisi dinastiche e impediva l’affermarsi anche contingente del
principio elettivo – antagonista di quello dinastico – nella successione, nulla
v’era nella pratica giuridica tedesca che regolasse la reggenza. Si
scatenarono così, dietro e sopra le gracili spalle del fanciullo, le più dure
lotte di potere: un colpo di stato eliminò la reggente Agnese, indi il potere
passò all’arcivescovo di Colonia e poi a Adalberto di Brema. Quando
Enrico uscì finalmente dalla minore età, il patrimonio regio era gravemente
compromesso, i principi sull’orlo della rivolta e la Chiesa scossa da un
vento di riforma che – con il decreto del 1059 sull’elezione pontificia, che
praticamente esautorava le prerogative imperiali al riguardo sancite da
Ottone I, e poi con la lotta contro la simonia e il concubinato del clero, che
si risolveva in un attacco alle vecchie gerarchie ecclesiastiche ligie
all’impero – puntava decisamente alla Libertas Ecclesiae: cioè al totale
affrancamento delle istituzioni ecclesiali rispetto all’impero romano-
germanico e, in prospettiva, alla loro rigorosa subordinazione rispetto alla
sede pontificia.
I quaranta difficili anni di governo di Enrico IV – dal 1066, quando uscì
dalla minore età, al 1105, quando fu costretto ad abdicare – furono segnati
per intero dal conflitto con il papato romano e le forze riformatrici
all’interno della Chiesa: ciò indebolì gravemente la stessa autorità
dell’imperatore sul territorio tedesco. L’espediente del controllo dei «ducati
nazionali» e, in prospettiva, del loro scompaginamento identitario mediante
la nomina regia di duchi provenienti da altre stirpi – così uno svevo,
Bertoldo di Zähringen, in Carinzia; o un sassone, Ottone di Nordheim, in
Baviera – continuò a essere adottato: ma i risultati non furono soddisfacenti.
Alla ricerca di una solida base politica sulla quale fondare il potere regio, il
sovrano si volse quindi alla Sassonia. Laggiù, le strutture sociali si erano
mantenute ancor arcaiche rispetto alla Germania del sudovest: le
prerogative dell’aristocrazia feudale erano meno forti ed esisteva ancora un
saldo ceto di liberi contadini con una tradizione guerriera sempre viva,
mentre le contee – come circoscrizioni pubbliche, rette da un funzionario
regio – erano forse ancora solide. Enrico pensò comunque che fosse
possibile trasformare la Sassonia nel nucleo del suo potere: v’intraprese
un’opera di sistemazione giuridica caratterizzata anche da processi secondo
il diritto regio anziché quello consuetudinario, avviò un lavoro di
censimento del patrimonio della corona che per molti versi ricordava il
Domesday Book dei re normanni in Inghilterra e infine concepì un sistema
di castelli imperiali affidati a ministeriales – cioè a funzionari d’origine
umile e magari addirittura servile, per giunta provenienti dal Meridione del
paese – che avrebbe dovuto costituire l’ossatura del dominio regio.
L’aristocrazia sassone non era però disposta a lasciarsi né imbrigliare né
assoggettare. Lo stesso duca Ordulfo, appartenente al potente casato dei
Billung, guidò fin dal principio la protesta contro il programma
dell’imperatore che, se fosse stato attuato, avrebbe praticamente svuotato di
contenuto il ruolo dell’ufficio ducale (i cui rapporti con la corona non erano
mai stati oggetto di rigorosa precisazione). Da parte sua Ottone di
Nordheim, duca di Baviera, in quanto collega di Ordulfo non poteva
sottovalutare la minaccia d’una politica imperiale evidentemente intesa a
ridurre il potere dei duchi; e, in quanto sassone, era strettamente legato alla
nobiltà di quella terra, soprattutto ai forti conti di Stade. L’imperatore
depose Ottone, al cui posto insediò il duca Guelfo IV: ma ormai la rivolta
era scoppiata. Il sovrano venne assediato, nel 1073, nel castello della
Harzburg vicino a Goslar; e la situazione si poté in una certa misura
sbloccare solo grazie alla mediazione di Bertoldo di Zähringen. Nell’ottobre
successivo, durante la dieta di Würzburg, l’imperatore fu costretto a
recedere dalle sue mire: in seguito a ciò s’intraprese addirittura lo
smantellamento delle fortezze regie, mentre una seconda rivolta sassone –
d’origine stavolta contadina – scoppiò comunque nel 1075 e venne domata
solo con la forza.
È forse superfluo far notare la coincidenza delle date: il 1073 aveva
assistito all’ascesa al soglio papale del monaco Ildebrando di Soana col
nome di Gregorio VII, l’avversario «storico» di Enrico; il 1075 alla
formulazione, da parte del pontefice, di quel pur ambiguo documento
conosciuto col nome di Dictatus Papae, che segna la fine dello stato di
soggezione del sacerdozio rispetto al regno, anzi, l’avvio – ma, pensando ai
precedenti come la pretesa Donatio Constantini, si potrebbe parlare di una
ripresa – delle istanze ierocratiche del vescovo di Roma. Le manovre
politiche e diplomatiche della Curia pontificia influirono fortemente, da
allora in poi, sulle vicende dei regni di Germania e d’Italia. Se nel gennaio
1076 un concilio che vedeva riuniti una ventina di vescovi tedeschi dichiarò
nulla l’elezione di Gregorio, il che permetteva a Enrico – in quanto defensor
Ecclesiae, ufficio spettante all’imperatore che all’atto dell’incoronazione
veniva solennemente sancito – di proclamarne la deposizione, il papa
poteva da parte sua scomunicare il re dimostrando così che il programma
del Dictatus Papae non era vano.
È noto l’episodio di Canossa, che a ciò fece seguito: il sovrano costretto
a umiliarsi e ad attendere pazientemente in abito penitenziale, inginocchiato
nella neve, che il pontefice lo ricevesse nella rocca appenninica nella quale
si trovava ospite della marchesa Matilde di Toscana. Ma di recente si è fatto
notare quanto vi sia stato, in tutta quella faccenda, di formalmente
diplomatico piuttosto che di sostanzialmente politico; senza contare che a
quel tempo non c’era in fondo niente di particolarmente strano – e tanto
meno di «umiliante», nel senso che noi diamo a tale aggettivo – in una
scena di penitenza e di perdono. Più importante fu l’elezione a Forchheim
nel 1077, da parte degli avversari di Enrico appoggiati dai legati pontifici,
di un nuovo re di Germania, nella persona del duca di Svevia Rodolfo di
Rheinfelden. Ma la posizione dell’antiré si rivelò, fin dalle prime battute,
ben più debole di quella del legittimo sovrano: Rodolfo doveva la sua
dubbia corona al favore del papa e di una parte della nobiltà ed era quindi
costretto, se voleva mantenersi tale favore, a concessioni continue. D’altro
canto, l’idea della legittimità del principio dinastico era ormai troppo
profondamente radicata perché la nobiltà potesse con leggerezza
denunziarla e tanto meno optare con disinvoltura per quel principio elettivo
ch’era pure un’antica e venerabile forma del diritto consuetudinario. Infine
le nascenti borghesie cittadine che Enrico aveva in molti modi favorito, non
esitarono ad appoggiarlo con decisione.
Rodolfo di Rheinfelden, allo scopo di mantenere dalla sua il favore del
pontefice che gli era indispensabile per rimanere sul trono, aveva promesso
libera elezione dei vescovi e addirittura, forse, adombrato l’eventualità di
compiere atto di vassallaggio alla Santa Sede. Ma egli morì nel 1080; e la
successiva candidatura ad antiré di una figura di second’ordine come il
conte lorenese Ermanno di Salm mostra quanto screditata fosse ormai la
fazione dei ribelli. L’ingresso di Enrico in Roma nel marzo 1084 – dove il
suo antipapa Ghiberto di Ravenna, intronizzato col nome di Clemente III, lo
incoronò imperatore mentre Gregorio riusciva a fuggire a stento, con l’aiuto
dei normanni del Sud d’Italia – segnò un grande successo del sovrano
salico, che nel 1085 poteva proclamare la Pax Dei per tutte le terre a lui
sottomesse. Le lotte ripresero però ben presto e – nonostante il fatto che nel
1103 a Magonza l’imperatore, ormai stanco, avesse potuto solennemente
proclamare una nuova pubblica pace dell’impero – coinvolsero non solo
l’alta aristocrazia tedesca, ma perfino la famiglia imperiale. Nel dicembre
1104 Enrico V, figlio di Enrico IV e da tempo associato al trono del padre,
si sollevò contro di lui costringendolo all’abdicazione e all’esilio; ed esule
l’ormai anziano imperatore sarebbe morto nell’agosto 1106.
Intanto, però, il nuovo re dava segni di voler riprendere il programma
paterno sia nei confronti dei papi sia in quelli della nobiltà tedesca. La lotta
si riaccese quindi con durezza e, al solito, le questioni ecclesiastiche
costituirono in Germania un ottimo pretesto per nuove rivolte contro la
corona e nuovi episodi di guerra civile.
Quando Enrico V morì, nel maggio 1125, senza lasciare eredi diretti, fu
giocoforza che il principio ereditario subisse una battuta d’arresto che
lasciava aperto un varco alle ambizioni dell’alta nobiltà e soprattutto dei
duchi. Fra loro, una posizione fortissima era indubbiamente tenuta da
Enrico detto «il Nero», discendente di quel Guelfo che per volontà di
Enrico IV aveva sostituito Ottone di Nordheim sul trono ducale di Baviera.
Ma accanto a questa grande famiglia stava crescendo d’importanza quella
dei duchi di Svevia, la quale da origini relativamente modeste aveva saputo
assurgere a un ruolo notevole durante il regno di Enrico IV. Il fondatore
della fortuna dinastica era stato Federico di Büren (o Beuren), la fedeltà del
quale il sovrano aveva saputo a suo tempo riconoscere elevandolo al trono
ducale di Svevia nel 1079 e concedendogli la mano di sua figlia Agnese. I
signori di Büren venivano chiamati anche «Staufer», dal nome di un picco
roccioso presso Göppingen in Svevia sul quale essi avevano eretto il loro
castello di famiglia. Per questo erano conosciuti anche come «i signori
dell’alta rocca di Staufen», cioè gli Hohenstaufen. Tra gli altri casati di
maggior potenza, un ruolo speciale spettava agli Zähringen, che
controllavano alcune fra le vie attraverso le quali si accedeva dalla
Germania all’Italia.
Ma a partire dalla metà dell’XI secolo non solo l’alta, bensì anche la
bassa nobiltà aveva approfittato delle lotte continue per ridefinire i rapporti
di forza esistenti nel paese alla luce di quei rapporti feudali che, fino ad
allora presenti con una certa moderazione, cominciarono ad affermarsi
sempre di più. In questo modo la corona veniva progressivamente esclusa
dalla possibilità d’intervento immediato, salvo sui territori di sua diretta
pertinenza. In pochi anni tale processo, unito all’altro – parallelo – del
declino delle classi libere e del salire d’importanza dei funzionari di origine
servile, i ministeriales, determinò il rapido sfaldarsi del vecchio sistema di
controllo da parte del potere pubblico.
Fu a quel punto che la terra tedesca fiorì di castelli: un fatto che in
Francia era familiare fino dal IX-X secolo, ma in Germania relativamente
nuovo. Sino ad allora, la corona aveva rigorosamente vegliato per reprimere
l’incastellamento e molti erano stati i casi di confisca. Ora, invece, le
fortezze cominciavano a nascere l’una dietro l’altra e le famiglie feudali
presero ad assumere il nome stesso dal più famoso dei loro castelli. Gli
Staufer, gli Zähringen, più tardi i Süpplingen (la famiglia dell’imperatore
Lotario) rilevarono dalla più importante o più cara delle loro rispettive
rocche il nome che li avrebbe consegnati alla storia.
Quando Enrico V scomparve, il compito di eleggere il futuro re di
Germania – che, in quanto tale, sarebbe anche stato imperatore designato –
era affidato secondo la tradizione alla nobiltà. Accanto ai principi laici,
sedevano fra gli elettori quelli ecclesiastici: anzitutto gli arcivescovi delle
tre metropoli renane di Colonia, Magonza e Treviri, quindi quelli delle
diocesi fondate in seguito all’espansione tedesca verso oriente, vale a dire
Brema, Amburgo, Magdeburgo, Salisburgo. Virtualmente, tutti gli investiti
di un potere feudo-signoriale erano perciò stesso elettori del re, secondo
l’antica tradizione germanica che tale diritto accordava a tutti i liberi.
Tuttavia, quelli che veramente avevano autorità e potevano, con la loro
voce, far pendere dall’una o dall’altra parte la bilancia, erano in realtà
poche decine di principi: fra loro, gli ecclesiastici avevano un peso si può
dire più determinante ancora dei laici, in quanto – pur non potendo
direttamente aspirare alla corona – contavano su un forte ascendente
morale: e non solo sui loro diretti vassalli. La figura del «principe imperiale
ecclesiastico», caratteristica della Germania, si era precisata pochi anni
prima allorché, grazie al concordato di Worms stipulato nel 1122 tra il papa
Callisto II e l’imperatore Enrico V, i vescovi tedeschi – fino ad allora
considerati funzionari del regno – erano stati feudalmente investiti di taluni
diritti e prerogative giuridicamente spettanti al sovrano, gli iura regalia: e
l’investitura creava ormai un diritto ordinariamente non revocabile. In
questo modo, il peso dell’aristocrazia feudale – laica o ecclesiastica che
fosse – nei confronti della corona era straordinariamente aumentato.
L’elezione regia del 1125 si annunziava particolarmente delicata e
laboriosa. Si cominciò con lo scegliere, fra le centinaia di membri dell’alta
aristocrazia che si erano conservati il diritto di accedere all’elettorato attivo,
patrimonio un tempo – come detto poco sopra – di tutti i liberi, dieci elettori
per ciascuna delle quattro grandi etnie (sassoni, franconi, svevi, bavari) che
formavano il popolo tedesco. Essi espressero, a loro volta, quattro
candidati: uno per ciascun gruppo. Il principio della provenienza etnica era
così, in una qualche misura, preso in decisiva considerazione. Restavano
tuttavia da conciliare, o da miscelare con esso, altri principi che
tradizionalmente erano in qualche modo presenti nella scelta del re: vale a
dire quello dinastico, quello della designazione da parte del sovrano
scomparso, quello della libera elezione, quello della scelta a opera di un
ristretto gruppo di rappresentanti di casati ritenuti detentori di particolari
carismi. Nessuna di tali consuetudini – nella realtà delle cose difficili da
accordarsi fra loro – era regolata da norme precise: la forza e la mediazione
politica finivano quindi con l’avere di fatto l’ultima parola. Dal punto di
vista del legame di sangue con il sovrano scomparso, il più favorito era
Federico di Hohenstaufen, dal 1105 duca di Svevia ed erede inoltre,
attraverso la madre Agnese di Franconia, del patrimonio del casato al quale
apparteneva lo scomparso sovrano. Poiché Agnese era sorella di Enrico V,
Federico era addirittura nipote dell’imperatore stesso, il quale, morendo, lo
aveva designato come suo successore affidandogli la protezione della
moglie, l’imperatrice Matilde, alla quale erano state date in consegna le
insegne imperiali. Di conseguenza, egli era senza dubbio uno dei principi
più prestigiosi e potenti del regno: ma proprio per questo l’alta nobiltà
tedesca, quella ecclesiastica in particolare, non vedeva di buon occhio la sua
elevazione al trono. Che fine avrebbero fatto le prerogative degli altri
principi, con un sovrano così forte? Adalberto arcivescovo di Magonza, che
in quanto arcicancelliere presiedeva i lavori elettorali, sondò Federico nella
direzione che interessava a tutti i magnati: sarebbe stato disposto a
considerare la sua elezione a re come esito di un negoziato con la nobiltà e a
regolarsi di conseguenza? Ma la risposta del duca di Svevia non dovette
tranquillizzarlo.
Un altro candidato alla corona era il margravio Leopoldo III d’Austria,
che si trovava a essere patrigno di Federico in quanto la principessa Agnese
di Franconia l’aveva sposato in seconde nozze. Ma neppure lui riuscì ad
assicurarsi sufficienti simpatie fra gli elettori. Fu quindi eletto re – su
candidatura avanzata dall’arcivescovo Adalberto – Lotario, della famiglia
dei conti di Süpplingenburg (la nostra tradizione storiografica ne ha
italianizzato il nome in «Supplimburgo»). Egli, che – come abbiamo visto –
assumeva il nome di famiglia da un castello presso Braunschweig, era
succeduto nel 1106 alla dinastia dei Billung come duca di Sassonia; e
quando salì al trono regale aveva circa sessant’anni, che a quel tempo erano
considerati un’età avanzata. Privo di discendenza maschile, godeva fama di
fedeltà alla Chiesa scaturita dalla riforma del secolo precedente: non v’è
dubbio che, nei suoi confronti, fosse determinante il favore dei principi
ecclesiastici. Inoltre, la sua scelta come re poteva avere anche un più o
meno implicito carattere antifrancone (e conseguentemente antisvevo), dal
momento che Lotario si era apertamente ribellato fino dal 1123 a Enrico V:
e la ribellione era ancora in atto quando questi era venuto a mancare.
I lavori elettorali furono comunque penosi e si conclusero soltanto verso
la fine dell’agosto 1125. All’interno del corpo elettorale attivo, cioè dei
quaranta principi, si erano delineati vari conflitti fra laici ed ecclesiastici e
fra maior pars (maggioranza numerica) e sanior pars (prevalenza degli
elettori più autorevoli e di più alto prestigio). Insomma, un risultato poco
sicuro.
Neppure Lotario si pronunziò esplicitamente a favore del principio
elettorale e della sua preminenza nell’elezione del re su quello dinastico.
Egli era tuttavia abbastanza debole da assicurare la nobiltà che non
l’avrebbe mai schiacciata col peso del suo volere; d’altronde, l’elemento
dinamico nella politica tedesca era a quel punto costituito dalla famiglia
degli Hohenstaufen, i quali pochi mesi dopo, nel dicembre, contestata
durante la dieta di Ratisbona l’irregolarità dell’elezione, ribadirono la
rivendicazione del loro diritto dinastico. La risposta di Lotario fu
estremamente chiara e significativa. Egli si rendeva conto che ormai la
questione delle etnie – e, al limite, anche quella dei diritti e delle procedure
elettorali – era di ben scarso rilievo: quello che davvero contava era il
braccio di ferro tra i grandi lignaggi; e, dal momento ch’egli aveva contro di
sé uno dei più cospicui fra essi, cercò l’appoggio dell’altro, quello della
famiglia dei Guelfi duchi di Baviera. Dette quindi sua figlia Gertrude in
sposa al nuovo duca bavaro, Enrico detto «il Superbo», che diveniva in tal
modo – fra i possessi dinastici e i nuovi giuntigli con le nozze – il più
potente signore del regno di Germania. Di più: il matrimonio di Enrico di
Baviera con Gertrude di Sassonia riproduceva, a qualche anno di distanza,
una situazione analoga a quella determinata dal matrimonio di Federico di
Svevia con Agnese di Franconia. In entrambi i casi un gran signore, capo di
un ducato nazionale, sposava una principessa di sangue regale. Con ciò, alla
morte di re Lotario, il duca Enrico avrebbe potuto far sue le pretese che
Federico di Svevia aveva presentato ai nobili tedeschi nel 1125 e candidarsi
alla corona regale nel nome del diritto dinastico, rovesciando la precedente
situazione.
Era evidente che il conflitto si giocava ormai tra Guelfi di Baviera e
Hohenstaufen di Svevia. Questi risposero immediatamente: il 18 dicembre
1127 una dieta di principi loro partigiani appositamente convocata assegnò
la corona a un antiré nella persona di Corrado, fratello minore di Federico,
appoggiato da molti signori svevi, franconi, basso-lorenesi, austriaci. Si era
di nuovo alla guerra civile, com’era accaduto mezzo secolo prima. Ma,
intendiamoci, è difficile dire con sicurezza chi tra i due – Lotario e Corrado
– fosse veramente «re», e chi invece re illegittimo, definibile quindi come
«antiré»: poiché, se da un lato è vero che Lotario era stato eletto prima e la
scelta di Corrado poteva quindi configurarsi come quella di una fazione, è
anche vero che l’elezione del 1125 era avvenuta mediante una procedura
quanto meno sospetta e che d’altronde il diritto dinastico era profondamente
radicato nella coscienza comune e non poteva venir messo da parte
mediante il semplice accordo di una parte della nobiltà.
Lotario sapeva bene di essere, in realtà, alle corde. Da una parte, non
intendeva certo rinunciare al trono; dall’altra, non possedeva
obiettivamente, né a livello personale né a quello familiare, le forze
sufficienti a fronteggiare la compagine sveva, a meno di non affidarsi
sempre più all’aiuto del potente genero. Era però restio a questa scelta:
avrebbe preferito costruirsi una base autonoma di potere ma, a tale scopo, di
altra arma non disponeva se non della conquista del favore di forze disposte
a sostenerlo. Era però, quello, un sostegno che bisognava pagare: Lotario se
lo procurò moltiplicando le concessioni alla nobiltà feudale tedesca 4 e al
tempo stesso dimostrandosi estremamente ligio alla Chiesa, alieno
dall’ingerirsi nelle questioni episcopali (il che permise una serie di
deposizioni dalle cattedre diocesane di personaggi non graditi al papa),
fedele esecutore e garante degli impegni assunti dalla corona con il
concordato di Worms e addirittura tanto rispettoso nei confronti dei vescovi
da rinunciare all’atto formale della commendatio da parte loro quando
fossero stati già consacrati. Insomma, come dicevano i tedeschi, si
comportò da Pfarrerkönig: un «re dei preti».
IV
Welf e Weiblingen
Il rispetto dei patti di Worms era soltanto una delle componenti sulle quali
poggiava il pur precario equilibrio dei rapporti fra Chiesa e impero romano-
germanico: tanto più precario, poi, se si accetta l’idea (oggi per la verità
posta da canto) che la Chiesa mostrasse di non considerare da parte sua tali
patti come definitivamente vincolanti, bensì validi solo rispetto al sovrano
che li aveva stipulati, Enrico V, e suscettibili pertanto di venir rinnovati ogni
volta che un nuovo monarca fosse salito al trono. Ma v’erano altri problemi:
primo fra tutti quello dei beni che Matilde, margravia di Toscana, aveva
lasciato in eredità alla Chiesa di Roma. 1
L’autorità feudale di Matilde interessava, oltre la marca di Toscana,
anche le contee di Parma, Reggio, Modena, Ferrara, Verona, Brescia e
Mantova; ma ella disponeva anche di terre allodiali nell’area appenninica
prossima a Reggio e a Bologna, poi nella bassa pianura padana verso il
Mantovano e il Ferrarese, in Romagna e ancora in Toscana nella Val di
Serchio e in Versilia. La nobile signora, che nel 1102 aveva donato alla
Santa Sede i suoi allodi, 2 li aveva ricevuti indietro da essa a titolo
vassallatico con la prerogativa di disporne nei limiti delle consuetudini; e li
aveva pertanto affidati in quanto feudi, nel 1111, a Enrico V, che in tal
modo si trovava a essere relativamente a essi vassallo del pontefice. 3
Senonché l’imperatore, considerandosi supremo sovrano, non aveva mai
prestato al papa il relativo omaggio: il che equivaleva da parte sua a
dichiarare che egli considerava queste terre come ancora allodiali
(nonostante la validità indiscutibile della donazione del 1102) e pertanto
trasferite a lui a pieno titolo. Attraverso il matrimonio di Agnese con
Federico di Svevia, tali beni si potevano considerare come entrati a far parte
del patrimonio di quest’ultimo; per contro Lotario, all’atto delle nozze tra
sua figlia Gertrude ed Enrico il Superbo, aveva ceduto al genero anche i
diritti sulla cospicua eredità toscana. Bisogna del resto notare che lo zio del
Superbo, cioè Guelfo V, 4 aveva sposato nel 1089 Matilde: ma il matrimonio
era stato sciolto nel 1095. Così, anche la questione toscomatildina finiva
con l’entrare nel «pacchetto» delle rivalità tra Guelfi e Hohenstaufen.
D’altronde, per dirimere le questioni con la Chiesa, Lotario le aveva
riconosciuto i diritti di proprietà sui beni matildini limitandosi ad
assicurarsene l’uso in cambio di una grossa somma di denaro: atto
suscettibile di potersi considerare vassallatico. E a Roma non ci si lasciò
sfuggire un’occasione del genere.
Papa Onorio II, che regnava in quegli anni, non ebbe alcun dubbio sulla
necessità di sostenere un sovrano che sembrava figlio così fedele della
Chiesa. Ai primi del 1127 i vescovi tedeschi – non a caso riuniti a
Würzburg per una tormentata elezione episcopale nel cui corso
l’atteggiamento del re aveva permesso al punto di vista di Roma di
prevalere – avevano scomunicato l’antiré Corrado: e può darsi (ma solo una
fonte lo dichiara esplicitamente) che il pontefice avesse avallato questa
grave decisione.
Da parte sua, Corrado era lungi dall’arrendersi. Nel 1128 si recò in Italia,
dove il 22 luglio Anselmo Pusterla arcivescovo di Milano gli cinse, secondo
il rito, la corona di ferro del regno. La risposta di Onorio II non si fece
attendere: un concilio riunito a Pavia in presenza del cardinale Giovanni,
legato apostolico, scomunicò l’arcivescovo ambrosiano. Ma anche molte
città lombarde – probabilmente non in odio al sovrano svevo, bensì contro
Milano che lo favoriva – avevano mantenuto un atteggiamento ostile nei
suoi confronti: fra le altre, Pavia, Novara, Brescia, Piacenza, Cremona.
Corrado aveva inoltre sperato, nel suo breve soggiorno italico, di regolare a
suo vantaggio l’intricata questione matildina: ma anche qui dovette urtare
contro l’ostilità si può dire corale e compatta di tutte le forze locali
interessate all’assetto di quei territori.
Poco dopo, la guerra civile in Germania fu complicata, e resa
ulteriormente feroce, dallo scisma che in quegli anni devastò la Cristianità
occidentale. Il 14 febbraio 1130 Onorio II era morto e un gruppo di
cardinali era riuscito a imporre la scelta come pontefice di un nobile
romano, Gregorio Papareschi cardinale diacono di Sant’Angelo, che aveva
assunto il nome di Innocenzo II; ma il collegio cardinalizio, dopo un attimo
di sbandamento, si era scisso e una parte dei principi della Chiesa aveva
fatto confluire i voti verso un altro nobile prelato romano, Pietro Pierleoni,
che aveva scelto il nome di Anacleto II.
La questione non stava soltanto nelle modalità della duplice elezione,
invero piuttosto irregolare da entrambe le parti. Il fatto è che dietro a
Gregorio Papareschi era schierato un drappello di cardinali in maggioranza
non romani e non legati ai rigidi vecchi schemi ecclesiali d’origine
gregoriana; laddove viceversa Pietro Pierleoni, sostenuto da una
maggioranza di prelati romani e caldamente appoggiato dal violento
«popolo» di Roma, rappresentava la volontà di proseguire con rigore e
fermezza – ma, forse, senza la necessaria sensibilità nei confronti del
mutamento dei tempi e delle situazioni – sulla strada tracciata dal grande
Gregorio VII.
Innocenzo II dovette dunque abbandonare Roma: riparò in Francia, dove
peraltro ottenne non solo l’appoggio della corte ma anche quello del
«dittatore spirituale» della Cristianità di allora, il cistercense Bernardo abate
di Clairvaux. Questi, insieme al cancelliere della Chiesa di Roma cardinale
Almerico – che era stato l’artefice principale dell’elezione di Innocenzo – ,
si dette febbrilmente a cercar sostenitori per la causa del suo pontefice. E fu
così che Francia, Inghilterra e Germania riconobbero sollecitamente
Innocenzo.
La situazione tedesca è, per noi, particolarmente significativa. Qui,
Bernardo sapeva di potersi appoggiare a un suo grande e fedele amico: il
monaco premostratense Norberto di Xanten, che era divenuto arcivescovo
di Magdeburgo nel 1126 in circostanze abbastanza tempestose e, una volta
di più, grazie anche all’atteggiamento di Lotario. L’influenza di Norberto fu
senza dubbio decisiva nel convincere il re della giustezza della causa di
Innocenzo.
Lo scisma fra Innocenzo e Anacleto servì a ogni modo – come sempre
accadeva in casi del genere – da pretesto alle varie forze politiche
occidentali, le quali fecero a gara per vendere all’uno o all’altro dei due
pontefici in contesa il proprio appoggio in cambio di concessioni o
riconoscimenti da poter poi gettare comunque sul piatto della bilancia dei
loro diritti. Un esempio molto chiaro di tutto ciò sta nella politica di
Ruggero II, il normanno discendente del Guiscardo che proprio allora, nel
1127, aveva ereditato e unificato i ducati di Puglia e di Calabria e la contea
di Sicilia. 5 Ruggero aveva estremo bisogno di legittimare in un qualche
modo la sua posizione: e per farlo non poteva rivolgersi se non al pontefice,
al quale fino dal secolo precedente i normanni avevano riconosciuto la
sovranità eminente sulle loro conquiste italo-meridionali. Ma ora i papi
erano due: e Ruggero si rendeva conto di non potersi appoggiare a
Innocenzo che – per quanto espulso da Roma – era in campo internazionale
il più forte e non aveva quindi bisogno del suo braccio. Inoltre, egli era
ormai chiaramente il papa del re di Germania: e l’impero romano-
germanico non aveva mai cessato di guardare con allarmante interesse al
Meridione d’Italia.
Fu per questo motivo che Ruggero II sposò la causa dell’antipapa
Anacleto: e ne fu magnificamente ricompensato. Con una bolla del 27
settembre 1130, data in Benevento, Anacleto proclamava Ruggero II re di
Sicilia sotto l’alta sovranità pontificia e stabiliva altresì il diritto ereditario
della sua famiglia nel nuovo regno, comprendente l’intera Italia
meridionale, peninsulare e insulare. Qualche tempo dopo, nel fatidico
giorno di Natale caro alle incoronazioni dei monarchi d’Occidente, Ruggero
assumeva la nuova corona. Il suo regno, che si accampava in pieno
Mediterraneo proteso a un tempo verso Balcani, Africa e Terrasanta, si
ergeva come sfida orgogliosa contro i due imperi, il romano-germanico e il
bizantino. L’averlo costituito era una provocazione audacissima, ai limiti
della follia: ma anche un geniale colpo di mano. Ruggero sapeva bene di
dover la sua corona a un papa che quasi tutto l’Occidente considerava
illegittimo e la causa del quale sarebbe stata prima o poi sconfitta; ma
altrettanto bene sapeva che, se egli fosse stato tanto forte da superare le
prime reazioni, l’altro pontefice – il vincitore della contesa aperta con lo
scisma – non avrebbe potuto che avallare le decisioni del rivale al fine
evidente di rivendicare a sua volta l’alta sovranità feudale su un regno
prestigioso.
Intanto, nel marzo 1131, Innocenzo II e Lotario s’incontravano a Liegi.
L’abate di Clairvaux sorvegliava attentamente l’esito delle trattative: e forse
si dovette in gran parte a lui se esse assunsero un aspetto di straordinaria
affermazione del potere spirituale su quello temporale. Lotario accettò di
rendere al pontefice omaggio mediante un gesto carico di significato: gli
offrì i propri servigi fungendo ritualmente da suo scudiero, cioè tenendogli
la staffa nell’aiutarlo a salire in sella e guidando poi per la briglia il suo
cavallo lungo un certo tratto. Può anche darsi che non in tutti i momenti
dell’incontro di Liegi Lotario si mostrasse così arrendevole e disponibile,
nei confronti del papa, come lo era stato nell’accedere a una tanto
compromettente cerimonia simbolica. Non si deve certo sottovalutare il
grande ascendente che su di lui potevano vantare tanto Bernardo di
Clairvaux quanto Norberto di Xanten; senza dubbio, però, egli era anche in
condizioni d’inferiorità politica rispetto a Innocenzo. La palese debolezza di
Anacleto gli impediva di ricorrere tatticamente, in caso di contesa, alla
minaccia di appoggiare l’antipapa: essa sarebbe stata poco credibile. Al
contrario, era Innocenzo che teneva in pugno la situazione in quanto sapeva
bene fino a che punto Lotario fosse, in Germania, braccato dall’opposizione
politica e militare degli Hohenstaufen: un cenno di resistenza alle sue
pretese da parte del sire di Süpplingenburg, ed egli avrebbe subito
minacciato di concedere il proprio appoggio a Corrado di Svevia.
Fu così che Lotario si trovò costretto ad accondiscendere a qualunque
richiesta del pontefice e, soprattutto, a impegnarsi a scendere al più presto
in Italia: sia per assumere la corona imperiale dalle mani d’Innocenzo, sia –
e soprattutto – per reinsediarlo in quella Roma della quale egli, che ne era
vescovo, non poteva fare a meno.
Tuttavia, soltanto nell’agosto del 1132 l’anziano re di Germania poté
intraprendere il previsto viaggio in Italia: le condizioni del regno non lo
avevano consentito prima. Prese la via del Brennero e passò per Verona:
ma, avanzando con esasperante lentezza, soltanto nella primavera del 1133
giunse nelle vicinanze di Roma e s’incontrò con Innocenzo. La resistenza di
Anacleto, asserragliato in città, fu vinta solo in parte: l’antipapa occupava
saldamente Castel Sant’Angelo e controllava la basilica di San Pietro, nella
quale la tradizione voleva che si svolgesse la cerimonia dell’incoronazione
imperiale. Lotario dovette così accontentarsi di venir incoronato in San
Giovanni in Laterano, il 4 giugno.
A memoria dell’evento, quella basilica sarebbe stata poi decorata di un
celebre affresco, fonte di successive tensioni fra papato e impero. Esso
rappresentava il nuovo imperatore in atto di rendere omaggio a Innocenzo II
ed era commentato da un distico latino nel quale si ricordava come solo
dopo aver giurato gli Urbis honores (cioè i diritti municipali di Roma) e
prestato l’omaggio al pontefice egli avesse ricevuto dalle sue mani la
corona imperiale. Il Dictatus Papae di Gregorio VII non avrebbe potuto
essere illustrato con maggiore chiarezza. È probabile che l’affresco sia stato
dipinto alcuni anni dopo l’incoronazione di Lotario: forse nel 1139, in
occasione del II Concilio lateranense. Comunque, per quanto la scena
dell’omaggio potesse forse intendersi in maniera restrittiva – cioè solo per
quanto riguardava i beni matildini – non era facile sfuggire all’impressione
che essa volesse riferirsi specificamente alle insegne e quindi all’autorità
imperiale nel suo complesso. O, almeno, è fuor di dubbio che così venne
interpretata in seguito.
Non va dimenticato che, proprio intorno a quegli anni, Onorio d’Autun
sosteneva nell’opera Summa gloria de Apostolico et Augusto che, con la
«Donazione di Costantino», l’imperatore non solo aveva concesso al papa
la corona imperiale (il capitolo VIII del Dictatus Papae dichiarava che
soltanto il papa poteva servirsi delle insegne imperiali, e nel 1099 una
corona imperiale era stata usata effettivamente nell’incoronazione di papa
Pasquale II) ma anche il diritto di assegnare spada e corona all’imperatore:
insomma, il papa disponeva del dominium mundi e la funzione imperiale
veniva ridotta a quella di advocatus Ecclesiae, cioè delegato per le faccende
temporali. A ogni modo, avesse o no Lotario giurato gli Urbis honores, la
città era turbolenta e l’antipapa non rimaneva inattivo. Il sovrano tedesco
dovette rinunciare a ogni eventuale progetto di proseguire il suo viaggio
verso l’Italia meridionale alla ricerca di un confronto con Ruggero e si ritirò
prudentemente a Pisa.
L’incoronazione di Lotario fu, com’era uso, anche pretesto per nuovi
accordi politici. Fra essi, particolare rilievo assunsero le conferme dei diritti
metropolitani della diocesi di Brema-Amburgo sui paesi nordici e di quella
di Magdeburgo sulla Polonia. Esse non solo venivano a sancire la
preminenza – che assumeva anche tratti di signoria feudale – dell’impero
sulle monarchie danese e polacca, ma soprattutto sigillavano con il
consenso danese e polacco quel Drang nach Osten, quella spinta verso
Oriente ch’era tipica del mondo tedesco fino dai tempi di Ottone I e che la
Santa Sede mostrava di approvare.
La politica orientale restava, in effetti, uno dei caratteri originali e dei
connotati di base, di Lotario di Süpplingenburg. Fu durante il suo regno
che, fra l’altro, alcune grandi famiglie fondarono o consolidarono i loro
possessi a Oriente: gli Ascani – il casato di Alberto l’Orso – nel
Brandeburgo, i Wettin in Misnia e Lusazia. La concessione imperiale della
«Marca del Nord» ad Alberto l’Orso è del 1134: una volta completata la
conquista, essa sarebbe diventata appunto la Marca del Brandeburgo.
L’anno successivo, nel 1135, anche il re di Polonia Boleslao detto
Boccatorta dovette riconoscere l’alta sovranità imperiale sul suo territorio: i
diritti metropolitani del Magdeburgo su di esso non erano, come si vede,
questione solo ecclesiale. La corona imperiale e le affermazioni conseguite
nella politica orientale e settentrionale costituivano ormai una sufficiente
base sulla quale fondare le prospettive di futuro successo. Fu appunto su
tale presupposto che Lotario e il suo genero duca di Baviera decisero di
portare il risolutivo attacco contro gli Staufer invadendo, nell’agosto del
1134, la Svevia. Nel corso di una rapida quanto dura campagna la regione
fu devastata, la città di Ulm data alle fiamme e i feudatari svevi costretti al
giuramento di fedeltà. Il duca Federico, dinanzi a quest’inattesa offensiva,
non poté che rassegnarsi: nel marzo 1135, durante una dieta riunita a
Bamberga – alla quale presenziava, su richiesta di papa Innocenzo, anche
Bernardo di Clairvaux –, egli si sottomise a Lotario. L’antiré Corrado,
vistosi abbandonato dal suo stesso fratello, non poteva più fare gran cosa.
Temporeggiò fino al settembre; ma finalmente si recò a sua volta in
Turingia, presso il sovrano, a dichiarare – nel giorno della festa di Michele
Arcangelo – la sua sottomissione.
L’unità del regno di Germania era così ricomposta; si trattava ora di
pagare il lungo conto che papa Innocenzo non avrebbe tardato a rimettere
all’imperatore. Era stato grazie all’appoggio pontificio che questi aveva
acquistato il prestigio sufficiente a reimporre la propria autorità sui nobili
tedeschi e a sostenere la spinta verso l’Europa orientale. Ora, il papa
attendeva il suo aiuto per riconquistare definitivamente Roma, battere
l’antipapa Anacleto e porre termine allo scisma. Ai primi del 1136, durante
la dieta di Spira, Lotario annunziò solennemente il proposito di scendere di
nuovo in Italia: esso venne ribadito a Pasqua nella dieta di Aquisgrana e poi
nell’agosto durante quella di Würzburg in occasione della quale a Enrico il
Superbo, già detentore del ducato di Baviera, veniva assegnato altresì
quello di Sassonia.
La nuova campagna d’Italia cominciò subito dopo la dieta di Würzburg:
alla testa di un grande esercito del quale facevano parte, fra gli altri, gli
arcivescovi di Treviri e di Magonza e lo stesso Corrado di Hohenstaufen
ormai riconciliato con lui, l’imperatore scese lungo la strada del Brennero e
– dopo aver ricevuto atto di sottomissione da parte delle città lombarde e
aver punito quelle che (come Pavia, Cremona e Piacenza) gli si erano
opposte in odio, al solito, a Milano e a Verona che si erano dichiarate in suo
favore – procedette nel gennaio 1137 verso sud puntando sulla Puglia.
Pisani e genovesi, d’accordo con lui, si preparavano frattanto ad assalire il
regno di Ruggero, mentre Anselmo di Havelberg era partito alla volta di
Costantinopoli per imbastire contro i normanni un’alleanza tra i due
imperi. 6
L’esercito imperiale, rafforzato dalle milizie comunali italiche, marciava
distinto in due colonne. Lotario comandava la prima che, lungo il litorale
adriatico, avanzò fino alla Puglia; Enrico di Sassonia e di Baviera era alla
guida della seconda, che sottomise la Toscana e poi, incontratasi con
Innocenzo nel sud di quella regione, procedette verso il meridione evitando
Roma dove l’antipapa era troppo saldamente attestato e, assoggettate la
campagna romana, Benevento e Capua, giunse alla fine di maggio a Bari
dove le due colonne militari si ricongiunsero. Papa e imperatore poterono
allora, secondo la consuetudine, riabbracciarsi. Ruggero, in fuga, era ridotto
a offrire da parte sua una pace che veniva ovviamente respinta.
Ma l’abbraccio fra Lotario e Innocenzo era tuttavia quello di due fratelli
che non si amavano granché. E l’orizzonte restava ingombro di parecchie
nubi: una guarnigione normanna occupava ancora la piazzaforte di Salerno,
che dissapori fra imperiali e pisani avevano impedito di piegare; l’esercito
poi, stanco per l’estenuante campagna, si rifiutò d’inseguire Ruggero fino in
Sicilia per avere definitivamente ragione su di lui, come Lotario avrebbe
desiderato; e infine sorsero fra papa e imperatore pesanti contese a
proposito sia di Rainaldo, abate di Montecassino – che aveva sì
riconosciuto di buon grado la sovranità di Lotario, ma non intendeva
abbandonare la causa dell’antipapa –, sia della successione al ducato di
Puglia, sul quale tanto il pontefice quanto il sovrano vantavano diritti di
signoria eminente.
Lotario dovette ancora una volta cedere dinanzi al papa. Accettò per quel
che riguardava il ducato di Puglia il compromesso (anche perché non gli
erano ignoti i diritti dell’impero di Costantinopoli su quelle terre) e inghiottì
anche la deposizione del fedele abate cassinese Rainaldo. La sua pur
trionfale discesa in Italia era comunque fallita, dal momento che egli non
aveva potuto fiaccare del tutto la resistenza di Ruggero; inoltre, aveva
perduto interesse alla causa del violento e intransigente Innocenzo che si era
rivelato tanto petulante nel pretendere quanto arcigno e restio nel
concedere.
Ma, forse, quel che soprattutto non lo interessava più era la vita. Aveva
passato ormai la settantina, età veneranda per quei tempi, e la morte gli
camminava da parecchio tempo accanto. Ripartì nel settembre dalla Puglia,
accompagnò il papa fino a Farfa nella Sabina e da lì risalì in fretta l’Italia;
passò le Alpi nell’autunno ormai inoltrato e si spense poco oltre, a
Breitenwang nel Tirolo, in una modesta baita, il 4 dicembre. Il suo corpo,
trasferito nell’avita Sassonia, fu sepolto nel monastero di Lutter che egli
aveva fondato.
Ruggero di Sicilia vegliava frattanto spiando con attenzione le
prospettive di rivalsa. Appena sgombrato il meridione d’Italia dalle armate
imperiali, si precipitò a Salerno tentando da lì la riconquista: ma il nuovo
duca di Puglia Rainolfo, di nomina congiunta pontificio-imperiale, lo
sconfisse nuovamente nell’ottobre. D’altro canto Innocenzo, resosi conto
che non era facile eliminarlo, aveva deciso di aggirare l’ostacolo costituito
dalla sua ostilità. Dopo la nuova batosta militare, il normanno acconsentì a
riconsiderare la questione dello scisma: e i due papi inviarono presso di lui,
rispettivamente, Bernardo di Clairvaux e il grande canonista Pietro di Pisa.
Bernardo riuscì a convincere della bontà della causa di Innocenzo il suo
dotto contraddittore; non persuase però il re, dal momento che per questi la
questione di fondo era una, e molto semplice: avrebbe acconsentito
Innocenzo a confermargli quella corona che Anacleto gli aveva concesso?
Al solito, i fatti s’incaricarono di sciogliere il dilemma altrimenti difficile
a risolversi. Con la morte di Lotario, la guida dell’impero era rimasta
vacante e le appena sopite lotte si andavano riaccendendo; da parte sua, il
25 gennaio 1138 morì l’antipapa Anacleto. Ruggero cercò di guadagnar
tempo perpetuando lo scisma: a tale scopo appoggiò l’elezione di un nuovo
antipapa nella persona del cardinale Gregorio. Ma Bernardo di Clairvaux
intervenne ancora una volta: e, soggiogato dal fascino e dall’autorità del
grande mistico, il prelato eletto non poté che recarsi presso Innocenzo e far
atto di sottomissione. 7
Una volta di più, il papa si rivelò in quel frangente incapace sia di
moderazione, sia di sensibilità politica. Vincitore, volle stravincere; padrone
assoluto della tiara, volle aggiungere alla sua corona il fiore avvelenato
della vendetta perseguitando gli antichi partigiani dell’antipapa, anche
quelli che da tempo avevano fatto ammenda del loro errore. Durante il
Concilio lateranense del 1139, convocato appositamente per celebrare il
trionfo di Innocenzo, la scomunica contro Ruggero di Sicilia fu
solennemente ribadita. Il papa, ben deciso a dare un seguito militare a tale
provvedimento spirituale, nel giugno moveva verso il sud della penisola:
tuttavia, in una battaglia sul Garigliano, a Mignano, venne da questi
sconfitto e fatto prigioniero.
L’astuzia e il tradizionale senso diplomatico dei normanni fecero il resto.
Il pontefice catturato fu circondato di onori, ma gli venne nel contempo
fatto chiaramente intendere che la sua libertà comportava un alto prezzo: la
corona. Del resto, concedendo Sicilia e Italia meridionale in feudo a
Ruggero, Innocenzo sapeva di liberarsi quanto meno dall’ipoteca imperiale
che tre anni prima gli aveva imposto uno scomodo co-dominio sul ducato di
Puglia. Anche l’ultimo grande nucleo della resistenza meridionale contro
Ruggero, Napoli, gli si arrendeva intanto pacificamente: quanti gli erano
stati fino ad allora nemici si affrettavano a mutar atteggiamento. Lo stesso
Bernardo di Clairvaux gli scriveva in termini di lode, ben conscio che la
Chiesa si era guadagnata un nuovo, potente alleato; e grato al re che aveva
permesso ai cistercensi di fondare le due grandi abbazie di Fossanova e di
Casamari.
Mentre tutto ciò accadeva in Italia, la Germania tornava a risonare di
grida di guerra ripercosse di castello in castello. L’elezione regia del 1138
riproduceva, sotto spoglie mutate e addirittura di segno in apparenza
contrario, la situazione e gli esiti del 1125. Anche allora, molti e
contrastanti princìpi erano sul tappeto, da quello dinastico – ma il re
scomparso non aveva eredi maschi diretti – a quello della designazione da
parte del sovrano precedente, a quello elettivo caro all’aristocrazia laica e
soprattutto ecclesiastica. Anche allora il candidato più forte e dotato di
maggiori e migliori titoli alla successione venne scartato, e la ragione della
sua sconfitta stava proprio nel fatto che lo si riteneva il più forte. Anche
allora la Chiesa romana, attraverso un suo presule ch’era anche principe
dell’impero, riuscì a imporre il suo candidato. E anche allora tutto ciò
condusse a uno scontro tra opposte famiglie e opposte fazioni: insomma,
alla guerra civile.
Alla morte di Lotario, non v’era infatti dubbio che il candidato più ovvio
e per più versi naturale alla corona regale di Germania – e quindi a quelle
d’Italia, di Borgogna e infine imperiale – fosse il duca di Sassonia e di
Baviera Enrico il Superbo, designato dal sovrano suo suocero che gli aveva
affidato le insegne regali; egli era già del resto, a vario titolo, signore di
gran parte del regno. Ciò avrebbe fatto tacere le voci di nuovi disordini,
consentito il proseguimento della politica di espansione tedesca verso l’Est
europeo e anche permesso la prosecuzione d’una linea di condotta un po’
più ferma nei confronti dell’intransigente pontefice Innocenzo II, secondo
le tendenze che lo stesso Lotario aveva rivelato nell’ultima parte della sua
campagna italiana. Ma appunto per questo il duca Enrico non era ben visto
né a Roma né da parecchi vescovi tedeschi che, conoscendone la forza
politica e militare, avevano buone ragioni di pensare che, cinta la corona,
egli sarebbe riuscito a farsi valere molto al di là dei limiti che essi erano
disposti ad accettare.
Ancora una volta, un intraprendente prelato seppe egemonizzare senza
scrupoli una minoranza d’elettori, soprattutto ecclesiastici. Tale ruolo spettò
a Adalberone di Montreuil arcivescovo di Treviri, il quale riuscì a far in
modo che il papa accettasse la candidatura dello scomunicato antiré di
qualche anno prima, Corrado di Svevia. Il legato pontificio cardinal
Teoduino non consentì neppure, anzi, che una vera e propria elezione regale
avesse luogo: preferì procedere di persona, insieme con l’arcivescovo di
Treviri, il 13 marzo, all’incoronazione del suo candidato in Aquisgrana. Per
la verità, la tradizione avrebbe voluto che a officiare fosse l’arcivescovo di
Colonia, della cui sede metropolitana la diocesi di Aquisgrana era
suffraganea: ma in quel momento la cattedra coloniense era occupata da un
presule che non era stato ancora consacrato. E soprattutto si aveva fretta.
Prima dell’incoronazione, il 7, si era tenuta – tanto per salvare la forma –
una dieta elettorale in Coblenza. Ma i giochi erano ormai fatti: al punto che,
più che di un’elezione, s’era trattato di una cerimonia di giuramento di
fedeltà al nuovo re, significativamente disertata sia da Enrico sia dai nobili
sassoni e bavari. Nipote di Enrico V, Corrado rappresentava la continuità
dinastica francone esattamente come Enrico avrebbe rappresentato quella
sassone; d’altronde, il fatto che a Coblenza fossero presenti solo franconi e
svevi – cioè due soltanto delle quattro principali etnie che storicamente
costituivano il popolo tedesco – forniva un ulteriore significato all’evento.
Al livello dinastico non meno che a quello etnico, la Germania era di nuovo
spaccata in due: da una parte sassoni e bavari schierati dietro alla casa
guelfa, dall’altro franconi e svevi decisi ad appoggiare gli Staufer.
Non che le cose, si badi bene, fossero così rigorosamente schematiche.
In particolare, le etnie avevano ormai fatto il loro tempo, superate dai
progressi compiuti in Germania dal sistema feudale e dal principio non più
etnico, bensì territoriale, sulla base del quale si organizzavano e si gestivano
i ducati. Non a caso, del resto, quello guelfo, per radicato che fosse in
Baviera, era a sua volta un casato originario della Svevia.
Tra proprietà allodiali e possessi feudali, Enrico il Superbo controllava
un’area compatta che dal Mare del Nord giungeva alle Alpi, oltre all’eredità
matildina ottenuta come vassallo del pontefice: egli poteva ben guardare
quindi con una punta d’ironia quel suo antagonista sostenuto dai preti, che
dominava con sicurezza soltanto le sue personali terre dell’Alta Franconia e
al quale perfino il fratello Federico, duca di Svevia, sembrava disposto ad
accordare un aiuto molto limitato. Tuttavia il potente signore guelfo non
aveva né l’interesse né, forse, il coraggio di opporsi al fatto compiuto.
Allorché il nuovo re si presentò in Baviera, egli si avviò a incontrarlo a
Ratisbona, disposto a consegnargli le insegne del potere: in cambio del suo
omaggio, pretendeva tuttavia la conferma tanto del ducato di Sassonia
quanto di quello di Baviera. Era qualcosa di più di una mossa diplomatica o
della proposta di uno scambio di favori: era il segno preciso che ormai il
tempo dei ducati etnici era finito e che il potere politico in Germania era
saldamente tenuto nelle mani di grandi casati ben decisi a organizzare in
modo sostanzialmente autonomo rispetto allo stesso potere regio la loro
Landesherrschaft, la «sovranità territoriale» fondata su un potere effettivo e
sul meccanismo dei rapporti di dipendenza feudale.
Ma Corrado si sentiva probabilmente non già troppo forte, semmai al
contrario – e ben a ragione – troppo debole per accettare quella ch’era, nella
pratica, una proposta di diarchia. Decise pertanto di sfruttare appieno
l’unica vera carta che gli restava, la dignità regale: e intimò al duca che la
Baviera, il cui ducato questi teneva ereditariamente, gli venisse restituita,
mentre affidava la Sassonia – che Enrico deteneva per un diritto
trasmessogli in linea femminile attraverso la moglie, la quale, come
sappiamo, era figlia di Lotario di Süpplingenburg – ad Alberto l’Orso,
imparentato anch’egli per via femminile agli ultimi duchi di Sassonia della
stirpe dei Billung.
La ribellione divampò allora per tutta la Germania: nella stessa Svevia
Guelfo VI, fratello di Enrico il Superbo e più noto come Guelfo di
Memmingen, riuscì a organizzare la rivolta mentre si accordava d’altra
parte con Ruggero di Sicilia, il quale aveva interesse in genere a che il
regno di Germania non fosse mai in pace – dal momento che la pace
avrebbe indotto il re tedesco a riproporre il tema dei suoi diritti sull’Italia
meridionale –, ma soprattutto aveva individuato negli Svevi i suoi diretti
avversari per i rapporti che essi andavano annodando con l’impero
bizantino.
Corrado aveva, grazie al secondo matrimonio di sua madre, un
fratellastro in Leopoldo di Babenberg, margravio d’Austria: a lui aveva
assegnato il ducato di Baviera in quanto honor (feudo comportante funzioni
pubbliche), dopo averlo tolto al Superbo. Quest’ultimo scomparve
nell’ottobre 1139: ma restavano in campo due potenti guelfi, il di lui
giovanissimo figlio Enrico, che sarebbe stato più tardi conosciuto come «il
Leone», e lo zio di questi Guelfo VI. Il primo di essi era per il momento
ancora troppo giovane, dato che alla morte del padre aveva sì e no dieci
anni. Tuttavia, lo scomparso duca aveva lasciato dietro di sé un folto
seguito di fideles a lui e alla sua causa: ed essi non intendevano
abbandonare il suo erede. Già il Superbo era riuscito a sollevare la
Sassonia, a cacciarne Alberto l’Orso e a farsene assegnare dallo stesso re il
governo interinale fino alla Pentecoste del 1140: era però evidente che non
solo non intendeva cederla di nuovo, ma che si apprestava a strappare la
stessa Baviera al Babenberg. La sua scomparsa aveva arrestato il suo
programma, non la guerra civile.
La Germania fu così per lunghi mesi lacerata e percorsa da due feroci,
fatidici gridi di guerra: «Hie Welf!»; «Hie Weibling!». Pare fosse all’assedio
di Weimberg, nel 1140, che essi risuonarono per la prima volta. Il vescovo
cronista Ottone di Frisinga spiega come il primo si riferisse alla famiglia
svevo-bavara dei Welfen di Altdorf, mentre il secondo prendeva origine dal
castello dei Weiblingen sulle montagne dello Hertfeld, nella diocesi di
Augusta, appartenente agli Staufer. Da quei gridi di guerra nacquero i
termini «guelfi» e «ghibellini», destinati a riempire di sé – con significato
diverso, infiniti malintesi e una complessa, affascinante rispettiva avventura
semantica – la storia italiana dei successivi tre secoli; e non senza revivals
che si può dire li abbiano mantenuti in vita fino ai giorni nostri.
Intanto nell’ottobre del 1141, a due anni dalla scomparsa di Enrico il
Superbo, anche Leopoldo d’Austria-Baviera moriva. L’anno successivo,
durante la dieta di Francoforte, il re accettò che la Sassonia tornasse di
diritto al figlio del Superbo, cioè a Enrico il Leone; ma, per chiudere la
questione della Baviera, egli ne concesse l’honor al fratello di Leopoldo,
Enrico di Babenberg, famoso col soprannome di Jasomirgott in grazia della
sua esclamazione preferita: «Ja so mir Gott hilfe» (Così mi aiuti Iddio).
Combinando un matrimonio fra Gertrude, figlia dell’imperatore Lotario e
vedova di Enrico il Superbo, ed Enrico Jasomirgott, margravio d’Austria e
ora duca di Baviera, Corrado salvava sia la sua decisione di assegnare
quest’ultima ai suoi fratellastri Babenberg, sia la necessità di tener conto dei
diritti dei Welfen. L’altera signora sassone si ritrovava così di nuovo
duchessa, e per giunta margravia, mentre vedeva garantiti i diritti di suo
figlio Enrico al ducato di Sassonia. Poteva dirsi tutto sommato soddisfatta.
Corrado, da parte sua, giocò fino in fondo la carta della politica familiare
appoggiandosi tanto agli Staufer quanto ai Babenberg e ai Sulzbach, la
famiglia dalla quale proveniva sua moglie. Per questo adottò come figlia
sua cognata, Bertha di Sulzbach, in modo da elevarla al rango regio e
permetterle così di sposare il porfirogenito Manuele Comneno, principe
ereditario di Costantinopoli. Il matrimonio sarebbe avvenuto nel 1146,
quando Manuele era ormai basileus. Corrado fidanzò inoltre il suo ancor
giovanissimo figlio Enrico a una figlia del re d’Ungheria e contrasse patti
matrimoniali in base ai quali due sue sorellastre della casa dei Babenberg
sarebbero dovute andare spose, rispettivamente, al re di Polonia e al duca di
Boemia.
E ciò per la politica orientale. Frattanto, la sorella di Corrado era
divenuta duchessa della Bassa Lorena; e, fra i molti figli che Agnese di
Franconia aveva avuto da Leopoldo di Babenberg, ve n’erano alcuni che
avevano intrapreso la carriera ecclesiastica e che, col favore del re, avevano
ottenuto ottime sedi: Ottone divenne vescovo di Frisinga, altri due ottennero
le cattedre vescovili, rispettivamente, di Passau e di Hildesheim. Insomma,
anche Corrado poteva dirsi soddisfatto.
Chi soddisfatto non era per niente era viceversa il fratello minore del
Superbo, Guelfo VI. L’assetto uscito dalla dieta di Francoforte lo tagliava
fuori dal gioco dell’alta nobiltà, mentre la Baviera gli sembrava in un modo
o nell’altro perduta definitivamente per la sua famiglia: Gertrude infatti, con
il suo secondo matrimonio, aveva definitivamente reciso i rapporti con essa
e al momento v’era poco da sperare dal non ancora adolescente Enrico di
Sassonia.
Guelfo continuò quindi per conto suo la lotta. E seppe associarsi – in
quell’inutile e dissipante rissa feudale che lo vedeva correre, quasi solo, da
un castello all’altro della Germania meridionale – il giovane Federico, terzo
di questo nome come duca di Svevia: il quale per parte di padre era Staufer
e nipote del re, ma per parte di madre apparteneva alla casa guelfa mentre,
come principe e detentore dello honor di Svevia, si sentiva altrettanto fuori
dello zio Guelfo dal grande gioco del potere, quello nel quale si decideva
delle corone regali e magari del quasi inutile ma prestigioso trono
imperiale.
V
Un giovane signore dai capelli fulvi
Quando sia nato Federico di Svevia, con precisione non è dato sapere. Né
ciò deve stupire, dal momento che nel XII secolo – e del resto a lungo
anche più tardi, fino alle soglie dell’età moderna e addirittura dopo – era
abbastanza difficile che l’anno della nascita di qualcuno venisse
memorizzato con precisione. Si potevano semmai ricordare il mese, il
giorno e magari l’ora: il giorno era importante in rapporto all’anno liturgico
e alle solennità patronali, mentre mese giorno e ora potevano servire ai
pronostici astrologici. Ma l’anno era relativamente poco significativo e,
quando veniva ricordato, lo era più spesso grazie al meccanismo delle
coincidenze (in genere negative): l’anno del grande freddo, l’anno della
morìa, l’anno della fame, l’anno della tal guerra e via dicendo. Le
differenze di computo fra luogo e luogo complicavano ulteriormente le
cose. Vero è che, soprattutto per i grandi della terra, questo discorso
dev’essere accettato cum grano salis. I meccanismi della «maggior età»,
quindi della piena capacità giuridica, potevano decidere delle fortune e della
stabilità di un regno o di un principato feudale: era quindi importante
conoscere ed essere in grado di testimoniare pubblicamente l’età di un
principe. Ma l’incertezza, in parecchi casi, permaneva.
È il caso di Federico. Si è tutti d’accordo sul fatto ch’egli sia nato nella
prima metà circa del terzo decennio del secolo: ma tutte le ipotesi sono
insicure e mancano prove definitive in favore dell’una piuttosto che
dell’altra. È a ogni buon conto probabile che egli non avesse ancora
trent’anni, o li avesse appena, quando nel 1152 fu elevato al trono tedesco.
L’anno di nascita indicato come più probabile è, ormai, il 1122: ma c’è chi
vanta buoni motivi per ritenere che quando divenne rex Romanorum ne
avesse già trentadue, che fosse cioè nato proprio nel 1120. 1
Il fatidico castello di Hohenstaufen e il monastero di Lorch, vale a dire i
due centri della tradizione degli Staufer, erano stati fondati entrambi da
Federico di Büren, il piccolo nobile svevo che, come già s’è detto, dovette
la sua fortuna alla fedeltà dimostrata nei confronti dell’imperatore Enrico
IV. Il conte di Büren morì prima del 1094; largamente in tempo per vedere
suo figlio – che portava il suo stesso nome – sposare Agnese, figlia del
tragico sovrano francone, e divenire Federico I duca di Svevia. L’ambito
territoriale del ducato era grosso modo compreso tra le Alpi, i Vosgi, il
corso superiore del Reno, i fiumi Neckar e Lech. Il ducato concesso agli
Zähringen, e ritagliato alla fine dell’XI secolo entro i confini tradizionali di
quello svevo, aveva ridotto la potenza e il prestigio dei duchi di Svevia cui
aveva sottratto alcuni territori nella Svizzera odierna e nella Foresta Nera.
Ma, per i discendenti dei signori di Büren, tale carriera era sempre e
comunque eccezionale.
Da Federico I, morto nel 1105, e da Agnese di Franconia erano nati
Federico detto «il Losco» (o «l’Orbo»), che divenne secondo duca di
Svevia di questo nome, e Corrado, che nel 1138 sarebbe stato incoronato re
di Germania. Federico aveva sposato Giuditta di Baviera, sorella di Enrico
il Superbo e di Guelfo VI e nelle vene della quale scorreva, grazie alla di lei
madre Wulfhild, anche il sangue dei Billung di Sassonia. Da Federico e da
Giuditta era nato lui, il nostro protagonista.
Federico, orbo o losco che fosse, visse fino al 1147; e già sappiamo
ch’era stato lui l’iniziatore della lotta contro il cognato Enrico il Superbo,
sostegno principale dell’imperatore Lotario di Süpplingenburg.
Vediamolo da fanciullo, quest’altro Federico che fra pochi anni, con
l’epiteto di «Barbarossa», riempirà di sé le cronache d’Europa. Il suo snello
corpo di ragazzo è alimentato da una miscela del più prezioso e nobile
sangue tedesco: è figlio di un duca di Svevia e di una dama dei Welf di
Baviera; suo zio materno Enrico il Superbo è il più gran signore di
Germania, quello al quale l’imperatore Lotario ha concesso anche il ducato
di Sassonia; suo zio paterno è invece Corrado, che di lì a pochi anni sarà re
di Germania. Ma questo non basta ancora. Nonna paterna di Federico è
Agnese, figlia dell’imperatore Enrico IV; nonna materna Wulfhild, della
stirpe dei Billung, signori di Sassonia. Un autentico pedigree da gran
regnante, candidato a un destino splendido.
Dal 1125, cioè dalla morte dell’imperatore Enrico V ch’era fratello di
sua nonna Agnese, il piccolo e poi il giovane Federico era abituato a vivere
in una famiglia di re e di pretendenti alla corona. Prima Lotario di
Süpplingenburg, padre di sua zia materna Gertrude, era salito al trono col
favore di zio Enrico (il «Superbo»), sollevando le ire di suo padre Federico,
il favorito della vigilia; poi, nel 1138, era toccato a zio Corrado aver la
meglio contro zio Enrico che aveva visto giungere il suo turno di favorito
della vigilia, cioè di scornato del giorno dopo.
Federico aveva passato la fanciullezza fra le guerre civili del decennio
1125-35, finché suo padre e suo zio non si erano sottomessi a Lotario; era
poi entrato nell’adolescenza in mezzo alle guerre civili del 1139-42. L’anno
della dieta di Francoforte, poteva avere dai sedici ai ventidue anni: era
ormai nel fiore dell’età cavalleresca, nel suo bel maggio guerriero. Ma la
cultura cortese, che già mostrava qualche fiorente boccio a ovest del Reno
dove da tempo ormai si cantavano le gesta di Rolando e si narravano le
imprese della prima crociata, stentava a penetrare fra gli arcigni castelli e le
opache foreste della Germania; fosse pure la Germania sudoccidentale,
tanto più dolce – con le sue belle città e i suoi vigneti dal vino chiaro e
leggero – del Nord ancora intorpidito fra le brughiere sassoni e i cupi dossi
montani dello Harz e della Turingia.
Non sappiamo quasi nulla della sua infanzia né della sua adolescenza:
così come non sappiamo quasi nulla, in genere, dell’infanzia e
dell’adolescenza di chi è vissuto nel XII secolo, nemmeno quando sia
appartenuto a una grande famiglia. Certo, di tanto in tanto li vediamo,
questi ragazzi: ed è evidente che tanto più si mostrano quanto più in alto
stanno nella scala sociale. Ma sono presenze timide, fugaci, il più delle
volte occasionali o ridotte magari ai puri nomi o a scarne indicazioni d’età.
Li scorgiamo qua e là fra i documenti; a volte ci sgusciano dinanzi in
qualche trattato etico o religioso; nella maggior parte dei casi qualcuno di
loro s’infila in certe cronache o in certe curiose narrazioni autobiografiche,
come il De vita sua di Ghiberto abate di Nogent. È forse nelle leggende
agiografiche, nelle vite dei santi, che questi cuccioli d’uomo ai quali la
sensibilità del tempo sembra non mostrare attenzione – e per i quali sembra
non provare affetto – fanno più spesso la loro comparsa: magari perché,
ammalati, si trovano miracolosamente guariti. E c’imbattiamo così, per
caso, nella galleria delle sofferenze dei piccoli, delle malattie infantili.
Tempi duri, questi del «profondo» Medioevo, per bambini e ragazzi: non a
caso, l’episodio scritturale più noto del quale siano protagonisti dei fanciulli
– a parte la Natività – è la Strage degli Innocenti. I poenitentialia
altomedievali, insistendo nel condannare aborto e infanticidio, ci ricordano
quanto frequenti essi dovevano essere; e una celebre Chanson, quella di
Amis et Amiles, presenta come gesto paradigmatico d’amore tra amici
fraterni l’immagine di un padre che piamente sgozza le sue creature per
procurarsi il sangue giovane e fresco necessario a guarire – secondo le
credenze terapeutiche del tempo – la lebbra dell’amico. Ma anche quando si
aveva la fortuna di non venire assassinati prima di nascere o non si avevano
amici di famiglia lebbrosi che girassero per casa, il mestiere del bambino
doveva essere scomodo. L’abate Ghiberto, vissuto a cavallo fra XI e XII
secolo, narra d’una visione avuta dalla madre alla quale era apparso il
fantasma del marito che soffriva dopo la morte in punizione di un suo
adulterio. Da quella relazione era nato un pargolo: ed ecco, nella visione, il
frutto della colpa che frigna – ombra vana anche lui – accanto al padre. È
un povero innocente, il bastarduccio: morto però senza battesimo, è
condannato anche lui alla sofferenza. Insomma, nella sua brevissima vita
non glien’è andata bene una. In suffragio dei due poveracci, padre e non
gradito figliastro, la madre di Ghiberto accetta pazientemente di adottare un
neonato, sopportandone per penitenza gli strilli. La buona signora, in questo
suo nuovo rapporto con un piccolo indifeso, non sa vedere altro che
espiazione. E andava sempre abbastanza bene quando nasceva un maschio;
ché la femmina – è ancora Ghiberto a ricordarcelo, non l’avessimo a
dimenticare – appartiene al sesso deterior. 2
Certo, non è che ignoriamo tutto, per esempio, della pedagogia
altomedievale; al contrario, ne sappiamo abbastanza, sia pure non tanto
quanto della pedagogia antica. Il problema è piuttosto vedere come certi
princìpi generali venissero poi applicati nella pratica. Comunque, essi non
erano confortanti. Nella Bibbia, per esempio, il più alto elogio che si fa a un
ragazzo è quello di non esser tale: «Era il più giovane di tutti, ma non aveva
mai agito come un ragazzo» dice il libro di Tobia; 3 nelle vite dei santi, è
frequente l’allusione al piccolo predestinato alla santità che si comporta
come un adulto, anzi magari come un vecchio. Dai libri sapienziali della
Scrittura si trae una pedagogia della frusta di gran lunga più dura di quella
romana: «Il ragazzo ha la follia aggrappata al suo cuore, e soltanto la verga
della disciplina gliela stacca di dosso»; «Frustate e punizioni procurano la
saggezza; il figlio abbandonato a se stesso diviene la vergogna della
madre». 4 La teoria generale della pedagogia – e della psicologia –
medievale, è stato Agostino a redigerla nel capitolo 7 del I libro delle
Confessioni: il bambino è assediato sin dall’infanzia dalle forze del male; il
sigillo del peccato originale l’ha segnato ed è perciò che egli è capriccioso,
prepotente, orgoglioso, pigro, goloso e ladro. L’esser bambini ha un senso
eticamente positivo solo nella misura in cui si deve crescere. Et voilà: così
tutti i reazionari laudatores temporis acti, che se la prendono col dottor
Freud per tutte le brutte cose ch’egli ci racconta sul bambino voyeur e
aspirante parricida, sono serviti. Nel Medioevo cristiano si diceva ben di
peggio.
La musica un pochino cambia quando si passi ai ragazzi avviati agli
studi – il che, almeno per tutto l’Alto Medioevo, significava con ogni
evidenza alla vita monastica –, dei quali sappiamo quanto riguarda la loro
disciplina e i libri sui quali essi dovevano imparare. Per la classe dirigente
laica, fino dall’età carolingia possediamo una quantità di Specula
principum, di manuali etico-pedagogici. Fra 841 e 843, per esempio, la
margravia Dhuoda di Settimania scriveva per il figlio Guglielmo, allora più
o meno sedicenne, un Liber manualis nel quale gli illustrava elementi di
politica, di morale – molto insistendo sulla castità –, di teologia: e gli
forniva perfino una sorta di piccolo breviario per laici ispirato largamente al
trattato di Alcuino De usu Psalmorum. 5 Certo, fra IX e XII secolo
l’educazione mutò alquanto, in Germania non meno che altrove. Nel X, le
scuole dei monasteri di Corvey e di Gandersheim erano celebri: e da
quell’ambiente dovevano uscire personaggi illustri nella cultura del tempo
come la monaca Hrosvita, scopritrice e rielaboratrice del teatro terenziano.
Intanto Ratisbona, con il monastero di Sant’Emmerano famoso per il suo
docente Othlone – un altro autobiografo ispirato ad Agostino – era tanto
famosa da poter essere definita «seconda Atene»; e l’abbazia di Tegernsee
in Baviera andava orgogliosa del suo maestro, Fromondo. Dopo la
«rinascita carolingia», insomma, era adesso la «rinascita ottoniana» a
vivificare la cultura euro-occidentale. Nel 996, l’imperatore Ottone III
aveva chiesto alla grande e famosa abbazia di San Gallo – nella quale
esisteva tanto una scuola per gli oblati quanto una per i chierici esterni, che
non avevano una vocazione cenobitica – che gli fossero inviati dei maestri
colà istruiti. In questo modo, il celebre monastero aveva collaborato
all’elaborazione del sistema scolastico (il che, almeno fino ad allora,
significava con ogni evidenza la preparazione alla vita monastica) dei
monaci colti, dei quali sappiamo non poco di quel che riguarda la loro
disciplina e i libri sui quali essi dovevano imparare.
Ma tutto ciò riguardava in prevalenza la cultura e l’apprendimento dei
chierici. Che cosa accadeva, frattanto, per quel che concerneva i laici?
L’aristocrazia dei secoli X-XI è logicamente molto più incline a insegnare ai
suoi figli a cavalcare, a tirar d’arco e a cacciare, piuttosto che non a leggere.
Dalle chansons de geste apprendiamo parecchie cose sul tirocinio militare:
a prender dimestichezza col cavallo e a sopportare il pesante armamento
dell’epoca – l’usbergo di maglia di ferro, il grande scudo a mandorla,
l’elmo conico provvisto di nasale, la lunga lancia, la spada dalla larga lama
– bisogna imparare fin da piccoli. Fate arrivare un ragazzo alle soglie
dell’adolescenza senza che abbia preso la necessaria confidenza con le
armi, e non sarà più buono a nulla: potrete farne solo un prete.
Tuttavia, le eccezioni esistevano: e, significativamente, erano al vertice
della piramide feudo-nobiliare. Pensiamo a Guglielmo il Grande, conte di
Poitiers e d’Aquitania, che governò fra 990 e 1029: amico di uno dei più
grandi studiosi del suo tempo, Fulberto di Chartres, secondo il cronista
Ademaro di Chabannes aveva nel suo palazzo una grande quantità di libri;
quando le cure della guerra gli lasciavano un minuto leggeva da solo, e
tanto a lungo da addormentarsi sulle pagine aperte. 6
La figlia di Guglielmo, Agnese, andando sposa all’imperatore Enrico III
aveva trovato al di là del Reno un ambiente culturalmente forse non
altrettanto vivo ma certo non stagnante. Enrico aveva avuto come maestro il
poeta Wipone, il quale gli aveva indirizzato una serie di precetti in forma
proverbiale ispirati a una moderata saggezza volutamente alternativa
all’ascetismo: digiunare va bene, ma quando non è il caso è meglio
mangiare e riposarsi quanto sia necessario per la salute; la misura è buona
norma in tutte le cose; gli eccessi sono da fuggire. Verso il 1050 era stato
composto nel monastero di Tegernsee un poema epico latino, il Ruodliep,
del quale ci restano ampi frammenti e che sembra già – con qualche
decennio di anticipo sulla stessa Francia – enunciare un’etica di tipo
cortese-cavalleresco. Il protagonista del Ruodliep è un miles peregrinus:
verrebbe voglia di tradurre già quest’espressione con quella di «cavaliere
errante». Esule perché coinvolto nel meccanismo inesorabile della faida, la
vendetta privata, egli giunge in incognito presso una corte dove si fa
apprezzare per le sue doti e dove lo vediamo giocare a scacchi e a dadi,
proporre indovinelli, eseguire la danza «del falcone e della rondine». In
procinto di abbandonare quella dimora dove ha conosciuto la serenità,
Ruodliep si lascia insegnare dal re alcuni precetti ispirati a saggia misura:
non abbandonarsi all’ira, esser sempre fedele, ricercare la pace, tener
presenti le verità religiose. Da quest’impianto etico-parenetico del
Ruodliep, come dai proverbi di Wipone, spira un’atmosfera che si sarebbe
tentati di definire cristiano-laica e nella quale una sottile patina evangelica
si accompagna a un tessuto morale che sembra recuperare gli insegnamenti
di Cicerone e di Seneca. E appunto il De Officiis di Cicerone, come il De
Clementia di Seneca, sono alla base di quell’etica cavalleresca che nella
seconda metà dell’XI secolo si andava elaborando in Francia sulla base dei
concili convocati per sostenere il movimento della Pax Dei.
Intanto la poesia tedesca – sia quella epica, sia quella religiosa – aveva
conosciuto una notevole ripresa. Una cantilena in una lingua che già
anticipa – e avvia – il cosiddetto «altotedesco medio», e che ha come
argomento i miracoli di Gesù, era già stata composta da Ezzo, scholasticus
del capitolo di Bamberga, forse su richiesta di quel vescovo Gunther che nel
1064 guidò un famoso pellegrinaggio in Terrasanta. Il prelato conosceva
d’altronde molto bene, a quel che pare, anche le antiche cantilenae epiche
della tradizione germanica, lo Heliand e lo Hildebrandtlied con la grande
presenza eroica di Teodorico. Ma in latino la cultura tedesca aveva ben
altro. Risale addirittura a ben prima, al terzo quarto del X secolo – quindi
all’età ottoniana – il poema in esametri latini Waltharius manu fortis,
completamente rielaborato del resto verso la metà del secolo successivo,
quindi contemporaneamente al Ruodliep stesso. Il Waltharius è un poema
che parla di guerra: ma è fortemente segnato dal modello della
Psychomachia di Prudenzio, perciò dall’idea che la guerra altro non è se
non il modello allegorico del solo autentico scontro che il cristiano è
chiamato a combattere, quello dentro se stesso contro il male e il peccato.
Waltharius ha come sua specifica virtù l’umiltà, e combatte contro la
superbia: addirittura – ma non dimentichiamo che il rielaboratore è un
monaco – si coglie qua e là qualche nota dura contro la guerra in sé e per sé.
Specula principum e poemi epici non ci aiutano troppo, d’altronde, a
sapere quale sia stata l’educazione del giovane figlio del duca di Svevia e
della gran signora di Baviera. Federico – anche se non se ne conosce con
sicurezza l’anno della nascita – aprì gli occhi sul mondo quasi certamente
prima della morte dell’imperatore Enrico V, vale a dire prima del 1125. Era
quindi quasi un «nato nella porpora», un porphirogenitos, come lo
avrebbero definito a Costantinopoli: perché il sovrano salico non aveva
eredi maschi e Federico il Losco, padre del fanciullo, era il successore
designato.
È difficile dire se dopo lo smacco del 1125 il piccolo crescesse
nell’ignoranza di quanto riguardava la sua famiglia – e quindi di tutto il
rancore fra il ramo paterno e quello materno di essa – o meno. Può darsi che
i suoi primi precettori, i monaci di Lorch, lo tenessero premurosamente
all’oscuro di tutto; come può darsi che gli instillassero l’odio per la
conventicola di vescovi asserviti al papa di Roma che aveva tramato per
strappare agli Staufer la corona alla quale essi, gli eredi legittimi della
dinastia salica, avevano diritto. Non è impossibile che uno dei suoi
precettori sia stato Wibaldo, abate di Corvey e poi di Stavelot, apprezzato
consigliere ecclesiastico di Corrado III e, si può dire, vero cancelliere del
regno. Wibaldo è uno dei principali responsabili della politica di Corrado
nei confronti della Chiesa romana: una politica tanto ligia quanto lo era
stata quella di Lotario di Süpplingenburg. L’educazione ricevuta da
Federico dovette comunque essere anzitutto guerresca, secondo gli usi laici
del tempo. Ci piacerebbe coglierlo curvo su qualche libro, o intento ad
ascoltarne la lettura: ma che cosa poteva essergli proposto? Di latino,
certamente non troppo: dal momento che – a onta delle solenni allocuzioni
che i suoi biografi gli mettono ogni tanto in bocca – non dimostrò mai né di
saperne né di capirne granché; forse, tuttavia, quel tanto che bastava a
intendere un po’ di Bibbia e a seguire la liturgia. Lo avranno appassionato
le antiche cantilenae germaniche? Avrà cullato il primissimo germe del suo
successivo amore per la Terrasanta e per il pellegrinaggio armato ascoltando
i versi di Ezzo sui miracoli di Gesù, quel poema composto per il vescovo
Gunther pellegrino e martire del 1064? Avrà potuto ascoltar qualcosa tratto
dal Waltharius? Avrà meditato sulle Scritture, sulla scorta magari di
versioni o rifacimenti in volgare sul tipo del cosiddetto «Genesi di Vienna»
scritto fra il 1060 e il 1065 da un sacerdote forse nativo della Carinzia, o
della traduzione del Cantico dei Cantici che il monaco Williram di
Ebersberg aveva dedicato a Enrico IV? Certo gli avranno raccontato delle
storie di animali: o nella riscrittura satirica di stampo esopiano conosciuta
come Ecbasis cuiusdam captivi per tropologiam, o su uno dei tanti codici
del bestiario noto col titolo di Physiologus.
Ma la cosa che più ci incuriosirebbe sarebbe sapere se conobbe mai il
Ruodliep. È probabile di sì: e il racconto delle gesta del giovane generoso
dall’infanzia rattristata dalle guerre familiari gli si attaglierebbe molto bene.
Ma chi glielo avrà letto avrà quasi senza dubbio tralasciato quelle parti dei
precetti gnomici nelle quali al protagonista si raccomanda di diffidare di chi
sia rufus, di chi abbia cioè i capelli rossi. Un vecchio topos – non era forse
Enobarbus il tiranno Nerone, truce persecutore dei cristiani? – che più tardi
sarebbe stato ripreso fino alla noia dai nemici di quello svevo dalla chioma
rotblond, biondo-ramata.
Il padre di Federico morì nel 1147: ma già molto tempo prima di allora –
praticamente dopo la sottomissione del 1135 a Lotario – si era pian piano
estraniato dalla politica e, chissà, forse anche dalle cure del ducato e della
famiglia. Ben conscio forse che il suo momento era irrimediabilmente
trascorso, amareggiato per quella corona regia che gli era passata a un
palmo nel 1125 ed era sfumata, egli aveva decisamente lasciato al fratello
Corrado la gestione delle fortune degli Staufer; e non si può dire che
l’avesse neppure granché aiutato contro i suoi cognati della casa di Baviera
tra 1138-39 e 1142.
L’adolescente principe dovette quindi affacciarsi presto alle cure della
famiglia e del ducato. All’atto della dieta di Francoforte, poteva avere una
ventina d’anni o poco meno, ed era ormai compreso dell’alto ruolo che la
sua nascita lo chiamava a giocare: e forse, anche, un po’ indispettito di
come le cose andavano mettendosi. Il grande momento di suo padre, nel
1125, era stato determinato dal fatto che suo zio materno, l’imperatore
Enrico V, non aveva figli maschi. Ma alla fine degli anni Trenta a Corrado
era viceversa nato un figlioletto, Enrico: e ciò condannava il giovane svevo
a una vita in secondo piano, al servizio del più giovane e fortunato cugino.
Che cosa poteva passare per la testa di un principe frustrato della prima
metà del XII secolo, uno ch’era stato a un passo dal diventar erede di una
corona regale e magari imperiale? Chissà che in fondo, tutto sommato, non
celasse in cuor suo una profonda ammirazione – non osiamo dire affetto:
anche perché sentimenti del genere erano, allora, molto diversi da come noi
li intendiamo – per l’altro zio, il duca Enrico il Superbo antagonista di suo
padre e poi di Corrado. Enrico era il fratello maggiore di Giuditta, sua
madre: e se purtroppo siamo, fra le molte altre cose, all’oscuro anche dei
rapporti fra madre e figlio, possiamo ipotizzare senza troppo concedere alla
fantasia che lo zio materno avesse parecchie doti che dovevano piacere al
giovinetto. Era senza dubbio molto più energico di suo padre: durante la
campagna d’Italia del 1137, era stato soprattutto lui a opporsi all’invadente
petulanza di papa Innocenzo II, considerato in Germania il principale
responsabile della caduta di prestigio dell’impero e il massimo artefice – in
combutta con l’arcivescovo di Treviri, il grande elettore di Corrado –
dell’asservimento della corona tedesca alla Curia romana. I primi anni
Quaranta dovettero essere insomma, per Federico, un periodo di
depressione acuita dalla scarsa stima che l’adolescente nutriva
probabilmente nei confronti del padre che peraltro lo lasciò – coincidenza?
– in un momento nel quale grandi cose stavano per avvenire in Europa e nel
Vicino Oriente.
Ribellarsi; oppure insomma partire, uscire dal cerchio delle montagne e
delle selve sveve, dalla loro opprimente ristrettezza; farsi miles peregrinus,
al pari di Ruodliep; scrollarsi di dosso l’accidiosa prudenza paterna,
vendicarsi dei preti di Roma e dei loro accoliti tedeschi che avevano per due
volte sbarrato al suo casato la strada al regno favorendo regolarmente il
candidato che lo escludeva dal gioco; magari, chissà, vendicare la memoria
del grande imperatore salico, lo sfortunato Enrico IV che aveva tenuto per
tanto tempo in scacco gli intriganti preti romani prima che essi riuscissero a
rovinarlo servendosi com’era loro abitudine dei suoi stessi familiari.
Federico accorse baldanzoso, quasi fuggendo dalle sue terre con pochi
amici e seguaci, al richiamo di rivolta dell’altro suo zio materno, Guelfo di
Memmingen. In un primo tempo, restò abbagliato dalla generosità di questi
– ch’era ben provvisto grazie all’oro del re di Sicilia – nei suoi confronti.
Probabilmente però si accorse ben presto di aver commesso un errore; e si
rese conto, soprattutto, che comunque stessero le cose il suo posto era
dall’altra parte, a fianco di Corrado. Dal canto suo, il re lo perdonò
benevolmente e seppe servirsi di lui e delle sue doti di lealtà e di coraggio
per cercar di dominare la caotica situazione interna. Faide e guerre private
insanguinarono la Germania: Federico vi si gettò con ardore, ma anche – a
quel che pare – con una sorta di spirito nuovo. Per esempio combatté in
Baviera contro Corrado di Zähringen, lo vinse, lo prese prigioniero ma gli
rese la libertà senza pretendere riscatto alcuno. Il gesto fu considerato come
estremamente generoso: diremmo «cavalleresco» se tale termine alla metà
del XII secolo non fosse per la cultura tedesca ancora leggermente
prematuro. E di generosità Federico era senza dubbio capace. Ma chissà che
già da allora non vi fosse qualche cosa di più; per esempio un minimo di
astuzia diplomatico-familiare? Gli Zähringen erano congiunti degli Staufer,
i loro territori feudali e allodiali contigui: perché non azzardare un gesto
distensivo che sul momento gli avrebbe fatto perdere qualche marca
d’argento, ma in seguito avrebbe potuto fornirgli un amico e alleato
riconoscente?
Al di là di tutto ciò, comunque, doveva farsi strada nel cuore dello Svevo
la convinzione che il regno non sarebbe mai stato prospero e forte finché
non fosse stato pacificato. La stessa insicurezza politica che i due ultimi
sovrani tedeschi avevano drammaticamente dimostrato nei confronti della
Curia pontificia era dovuta alla cronica debolezza d’una corona in balìa
delle fazioni, obbligata quindi a difendersi costantemente dagli avversari
interni e ad accettare pertanto aiuto, anche il più interessato, e qualunque
ricatto: giacché il prezzo di questi appoggi era sempre alto, e la loro
stabilità molto precaria. Senza dubbio, a questa certezza che il
rafforzamento della corona fosse necessario e a questo senso profondo della
cosa pubblica – che si sarebbe precisato anche con specifica cognizione
giuridica di causa, non appena le circostanze lo avessero permesso –,
giovava anzitutto il fatto che egli era, e si sentiva, l’erede delle due
tradizioni sveva e bavaro-sassone congiunte: il principe nel quale le
famiglie che da due secoli reggevano la Germania avrebbero potuto
riconoscersi. Pur avendo passato l’infanzia fra gli odi dinastici, Federico ne
era esente: e ora che al fianco di Corrado aveva più o meno serenamente
accettato il suo ruolo subordinato di esponente della casa di Svevia, poteva
con altrettanta serenità guardare all’altra grande dinastia, i nobili e audaci
Welfen.
Il re di Germania aveva tradizionalmente diritto, come già sappiamo, alla
corona imperiale: tuttavia le faccende tedesche rendevano sconsigliabile
un’assenza piuttosto lunga, com’era sempre un viaggio italico. E Corrado
non sembrava nutrire soverchio interesse per un trono il cui contenuto
pratico si era andato progressivamente svuotando negli ultimi decenni dopo
essere stato a lungo, dalla scomparsa di Enrico III, soltanto fonte di guai.
Tuttavia, a Roma stavano accadendo cose di tale importanza da non
poter essere a lungo ignorate alla corte del sovrano designato a coprire,
quando fosse stato pronto, gli uffici di Patricius Romanorum e di advocatus
Ecclesiae.
Nel 1143 il movimento comunale, ormai affermato in tutta l’Italia
centro-settentrionale, giunse anche a Roma, ch’era stata del resto a lungo
provata dalla contesa relativa allo scisma tra Innocenzo e Anacleto,
configuratosi in città come lotta tra Frangipani e Pierleoni. Innocenzo II non
era mai stato troppo ben visto dai romani: un breve periodo di luna di miele
– durante il quale egli aveva ordinato il rifacimento di Santa Maria in
Trastevere, e si era costruito anche il monastero cistercense ad Aquas
Salvias – fu interrotto dalle divergenze nate fra il pontefice e i romani in
ordine al trattamento da imporre a Tivoli, che da tempo teneva testa a
Roma. Sdegnati per l’accordo unilateralmente concluso fra papa e tiburtini,
i romani presero di sorpresa d’assalto il Campidoglio e dichiararono
ripristinata la più venerabile istituzione antica, il Senato. Esso, che avrebbe
iniziato la sua attività regolare nell’ottobre 1144, non aveva com’è ovvio
niente dell’istituzione antica: era l’equivalente dei tanti consigli ristretti che
regolava la vita dei comuni italosettentrionali e italocentrali del cosiddetto
«periodo consolare».
Beninteso, la faccenda di Tivoli era stata, se non proprio un pretesto,
quanto meno una causa occasionale. Innocenzo II non fece a tempo a
rispondere adeguatamente, in quanto morì il 24 settembre 1143. Gli
successe, per poco più di cinque mesi, Celestino II, che si pose del tutto
sotto la protezione dei Frangipani; e nel marzo del 1144 egli ebbe un
successore in Lucio II, partigiano convinto di una stretta intesa con il re
Ruggero di Sicilia, cosa questa che infastidiva e preoccupava i romani.
Il comune romano, in vista del pericolo costituito dall’accordo tra il papa
e i normanni, affrettò ancor più i tempi dandosi un carattere più
marcatamente popolano con la creazione, accanto ai senatori, di una
magistratura nuova: un patrizio nella persona di Giordano Pierleoni. Il
pontefice non era più in grado di dominare la città: con l’aiuto dei normanni
dette l’assalto alla rocca nella quale erano asserragliati i senatori, il
Campidoglio, ma in quella circostanza venne ferito. Spirò qualche giorno
più tardi, il 15 febbraio 1145, nel monastero di San Gregorio al Celio.
Il 27 febbraio, un paio di settimane dopo la morte di Lucio II, i cardinali
riuniti in conclave in un monastero ben munito per paura di colpi di mano
scelsero come pontefice il cistercense Bernardo, abate del monastero ad
Aquas Salvias, che assunse il nome di Eugenio III. Suo primo atto fu la fuga
verso l’abbazia imperiale di Farfa nella Sabina, giacché il Senato aveva
posto come condizione per consentire l’incoronazione in San Pietro che gli
fossero riconosciuti i diritti e le prerogative pubbliche di tipo temporale, i
regalia.
Eugenio pose la sua residenza a Viterbo: da lì, coordinò la lotta contro il
comune romano alla quale chiamò la nobiltà, i baroni della campagna, i
centri laziali minori. A Roma si comprese che non era il caso di insistere
sull’intransigenza: si giunse così a un accordo grazie al quale il patriziato fu
abolito, ma in cambio si riconobbe il Senato. Il pontefice poté celebrare a
Roma il Natale del 1145; e, sia pure dopo una successiva serie di scontri e
di attriti, il comune finì col riconoscere definitivamente l’autorità pontificia
e il pontefice a sua volta l’esistenza del comune.
Comparve in quel momento – cioè quando ormai il Senato era stato
fondato e la vita comunale avviata – un personaggio che Eugenio III,
allievo e seguace rigoroso di san Bernardo, non poté accogliere se non con
preoccupazione e disappunto. Si tratta di Arnaldo da Brescia, che il
Concilio lateranense del 1139 aveva già condannato per la sua opposizione
al vescovo della sua città e che era in seguito riparato in Francia dove,
giovane studente, aveva conosciuto anni prima Abelardo; ora ne aveva
assunto le difese, e nel 1140 lo aveva accompagnato al Concilio di Sens.
Rientrato a Parigi, aveva raddoppiato gli attacchi senza risparmiare
nemmeno san Bernardo, l’avversario del suo maestro, che egli descriveva
come vanaglorioso e geloso. L’abate di Clairvaux non era certo uomo da
perdonare accuse del genere: si rivolse personalmente a re Luigi VII e lo
incitò a intervenire contro quello scismatico seminatore di discordie.
Riparato in seguito a Zurigo, Arnaldo aveva trovato un difensore –
nonostante le proteste fierissime di Bernardo – nel vescovo di Costanza.
Cacciato alfine anche da lì, poté comunque godere dell’appoggio di un suo
antico condiscepolo di Parigi, il cardinal legato Guido; e fu grazie alla sua
protezione (che beninteso non sfuggì all’accanito abate di Clairvaux) che
poté tornare in Italia. A Viterbo si riconciliò, tra 1145 e 1146, con Eugenio
III: questi era certo un ex discepolo e un seguace fedele di Bernardo, ma in
quel momento era preoccupato di ben altro, l’organizzazione della crociata.
Da Viterbo, Arnaldo si mosse verso Roma, pare come penitente e
pellegrino. Una volta che vi si fu stabilito, riprese però a poco a poco la sua
opera di apostolato e di predicazione e – sembra già a partire dal 1147 –
fornì con il fascino della sua personalità e con le sue tesi a carattere
antitemporalistico un vigoroso ancorché indiretto appoggio alla lotta del
comune romano contro il pontefice. Ed è infatti in Campidoglio che egli
prese sempre più frequentemente a predicare. I suoi duri e pittoreschi
attacchi contro il papa che, pur cistercense – e quindi votato al più austero
degli ordini monastici –, si ingrassava «il corpo e la borsa», e contro la
pompa e l’avidità dei principi della Chiesa, avevano successo non solo fra i
laici ma anche nel basso clero. Eugenio III lanciò nel luglio 1148 una bolla
di scomunica contro Arnaldo, ma questi aveva ormai dalla sua l’intera città.
Il pontefice lasciò allora Roma per insediarsi di nuovo, verso la fine
dell’anno, a Viterbo, e da lì nell’aprile 1149 raggiunse Tivoli. Come ormai
ricorrentemente avveniva dai tempi di Gregorio VII, pensava ai normanni di
Sicilia come all’unica forza capace di reintegrarlo nella città della quale era
vescovo.
Cresciuto nella tradizione patarinica, Arnaldo negava con ardore alla
Chiesa il diritto al potere mondano e al possesso di ricchezze: ne
derivavano il suo rifiuto di qualunque forma di giurisdizione temporale
detenuta da ecclesiastici, e quindi il suo appoggio al governo laico del
comune di Roma contro l’alta mano che il pontefice aveva imposto su di
esso secondo un’antica tradizione risalente almeno all’VIII secolo ma che il
movimento riformatore gregoriano – nel quale tuttavia lo stesso Arnaldo
riconosceva parte almeno delle sue radici –, lungi dall’aver compromesso,
aveva semmai al contrario rinforzato. Sembra inoltre che Arnaldo
predicasse ai romani anche qualche altra cosa, nuova per lui. La vita
comunale lo appassionava, ma si rendeva conto che il nuovo esperimento
non avrebbe resistito se non si fosse appoggiato a una base sociale adatta: e,
contro l’alta nobiltà della città e della campagna, supporto del potere
pontificio, egli auspicava il rafforzarsi dell’aristocrazia cittadina – l’ordo
equestris – e dei popolani. Ma soprattutto il suo spirito colto, alimentato
dalle antiche memorie, non era rimasto insensibile dinanzi al fascino d’una
città che, pur nella degradazione e nell’abbandono, conservava ancora
imponenti tracce del suo passato glorioso. E allora questo tormentato
monaco vagabondo, questo senza-patria che aveva pur conosciuto il sottile
e avvincente ragionare di Abelardo e aveva saputo guadagnarsi il favore di
un cardinale, finì col votarsi alla sedes imperii, alla fons libertatis, alla
domina mundi. Di fronte alla Roma costantiniana ereditata dal papa
secondo il Dictatus di Gregorio VII, dinanzi alla translatio imperii dai
romani ai franchi ai germani nella quale consisteva il nucleo dell’idea
imperiale ottoniana e salica, in alternativa a quella stessa altera Nova Roma
sul Bosforo, quella Costantinopoli erede e continuatrice dell’impero, si
andava ora ergendo – dall’arcigna rocca capitolina trasformata in fortezza –
una nuova sia pur municipale consapevolezza, una nuova fierezza
repubblicana. Era una ridicola pretesa, questa di quattro nobilucci e
popolani d’una città di ruderi e di caprai, di aver diritto al dominium mundi:
ma era anche il primo vagito d’una grande intuizione e, se si vuole, di una
grande utopia moderna, che avrebbe improntato di sé e della sua illusione la
cultura e la politica degli otto secoli a venire.
VI
Spira, Costantinopoli, Gerusalemme
Dalla scomparsa del profeta Muhammad nel 632, si può dire che l’Islam
non abbia più trovato una vera e propria unità; pure, attraverso lotte
familiari e congiure di palazzo, per un secolo almeno i califfi umayyadi di
Damasco erano riusciti a mantenere una parvenza di concordia fra emirati
centrifughi e fiere tribù nomadi assetate di libertà e dedite alla guerra fra
loro, scuole coraniche rivali e prospere città portuali e carovaniere fedeli al
Corano ma bisognose di commerciare.
Dalla metà dell’VIII secolo, tuttavia, l’affermarsi del califfato abbaside
di Baghdad aveva determinato un primo, definitivo scisma: e un califfato
concorrente, di tradizione umayyade, era sorto nella lontana Córdoba. Da
allora, il mondo musulmano – esteso dalle Colonne d’Ercole fino alla
lontana India – non aveva più trovato un suo centro politico-religioso.
Bastava il centro sacrale, la Pietra Nera della Kaaba alla Mecca, alla quale
ogni buon credente doveva peregrinare una volta almeno nella vita.
Ma per l’Occidente cristiano l’Islam era una cosa sola: lo schieramento
immenso e avvolgente dell’armata dell’Anticristo. Chansons de geste e
chansons de croisade erano d’accordo nel conferire agli infedeli sembianze
semiferine, mostruose, demoniache. 1 La lotta contro il saraceno era figura
della psicomachia, della pugna spiritualis. La crociata diveniva così
anzitutto la guerra del Bene contro il Male, che ciascun cristiano
combatteva all’interno della propria anima.
A metà del XII secolo il mondo cristiano aveva l’impressione che
l’Islam stesse, nel suo complesso, perdendo terreno. In Spagna, dopo
l’ondata almoravide proveniente dall’Africa, i regni cristiani erano tornati
all’offensiva e nel 1146 Alfonso VII, re di Castiglia e di León intraprendeva
la conquista dell’Andalusia. In Catalogna, il conte Raimondo Berengario IV
si apprestava attorno agli stessi anni a eliminare le ultime piazzeforti
musulmane a settentrione del fiume Ebro. Intanto Alfonso I del Portogallo,
proclamato re dopo la vittoria sui mori del 1139, conquistava nell’ottobre
1147 la città araba di Lisbona con l’aiuto di un’eterogenea armata di
crociati fra cui v’erano scandinavi, scozzesi, bretoni, fiamminghi, lorenesi e
anglonormanni. E infine lungo tutto il quinto decennio del secolo re
Ruggero di Sicilia alternava mosse diplomatiche e campagne navali contro
il regno zirita dell’Africa settentrionale e nel 1148 riusciva a conquistare al-
Mahdiah presso Tunisi, che già i pisani avevano saccheggiato nel 1087.
Grandi vittorie cristiane queste, che accendevano l’entusiasmo di
cavalieri e di monaci occidentali: al punto che, come attesta Bernardo di
Clairvaux, era difficile mantenere la disciplina negli stessi monasteri. E
poiché già lo strumento crociato cominciava a smarrire i suoi originali
connotati di pellegrinaggio armato verso Gerusalemme per assumere quelli,
nuovi, di guerra contro gli infedeli – un aspetto che, fino allora, era stato
secondario e tutto sommato neppure esplicito –, i nobili della Bassa
Germania (cioè della Germania settentrionale), con l’appoggio di danesi e
polacchi, stabilivano nel 1147 di gettarsi in una tumultuosa corsa di
conquista, che fu riconosciuta come crociata, attraverso il Nordest europeo
fino alla Pomerania. 2
Eppure, tutto questo entusiasmo crociato nasceva per certi versi da un
senso di sgomento, se vogliamo di collettiva paura isterica. L’impressione
che l’Islam indietreggiasse dal Portogallo all’Africa settentrionale – che era
errata, dal momento che esso non era affatto una compagine unitaria e
monolitica – era compromessa da un’eccezione sola, ma straordinariamente
grave: lo scacchiere siriaco, a ridosso immediato di quella Terrasanta la cui
conquista era stata la gloria della prima crociata. Là, una nuova vigorosa
offensiva musulmana rischiava di compromettere il retaggio di mezzo
secolo: il regno franco di Gerusalemme e i principati di Edessa, di
Antiochia, di Tripoli, di Transgiordania che a esso facevano fedelmente
capo.
Nel 1143 erano venuti a mancare, a pochi mesi di distanza l’uno
dall’altro, sia il basileus di Costantinopoli Giovanni Comneno sia il terzo re
franco di Gerusalemme, Folco d’Angiò. Se Giovanni aveva intrapreso una
vigorosa campagna orientale obbligando alcuni principi crociati a
riconoscere la sua autorità, il suo successore Manuele sembrava invece
disinteressarsi dello scacchiere asiatico e guardare semmai con insistenza al
mondo europeo che esercitava su di lui un grande fascino. A Gerusalemme,
intanto, la corona regale veniva cinta da Baldovino III, un giovinetto
quattordicenne affidato alla debole reggenza della madre Melisenda, figlia
di Baldovino II e di una principessa armena. La corte gerosolimitana, retta
dall’incerta mano di questa sovrana franco-orientale, affondava negli
intrighi: e intanto il principe di Antiochia Raimondo di Poitiers e il conte di
Edessa Joscelin II di Courtenay approfittavano della situazione per
sciogliersi sempre di più dai loro legami vassallatici nei confronti del regno
e darsi a una politica indipendente rivolta ai potentati turchi, armeni e siriaci
che confinavano con le loro terre: la loro sorda reciproca rivalità aggravava
la situazione, attirando sulla frontiera settentrionale del regno franco-siriaco
l’attenzione di quell’Islam che – colto di sorpresa in quanto diviso da scismi
califfali e da lotte intestine all’atto della prima crociata – si andava adesso
rapidamente riorganizzando. Protagonista della controffensiva maomettana
fu l’atabeg turco Imad ad-Din Zenki, che governava – nominalmente per il
sultano residente a Baghdad, praticamente in modo del tutto autonomo –
una vasta regione siro-mesopotamica facente capo alle due città di Aleppo e
Mosul.
La contea di Edessa costituiva l’avamposto crociato di nordest: protesa
verso i monti dell’Armenia, essa controllava l’alta valle dell’Eufrate. Zenki
individuò in questa città prospera ma debole il suo primo obiettivo: e il
principe d’Antiochia certo dovette assecondare questo disegno, lieto che la
pressione musulmana non s’indirizzasse alle sue terre strette fra la catena
dell’Antitauro, il fiume Oronte e il mare. Alla fine del novembre 1144
Edessa cadde nelle mani dell’atabeg. La presa di questa città condusse in
breve tempo al crollo di tutte le piazzeforti crociate a est dell’Eufrate; la
contea di Edessa si ridusse così al solo centro di Turbessel, a ovest del
fiume. Troppo tardi i principi crociati si accorsero che nei rapporti fra loro e
il circostante mondo islamico qualcosa di decisivo era avvenuto: i
musulmani erano passati al contrattacco, e non si sarebbero fermati se non
dopo averli cacciati dalla Siria-Palestina.
Sul momento però, la loro offensiva subì una battuta d’arresto. A metà
del settembre 1145 l’imprevisto, questa carta a sorpresa che scompiglia
spesso i giochi della storia, aveva fatto una volta di più la sua comparsa sul
tavolo da gioco del Vicino Oriente. L’atabeg fu assassinato nel sonno, pare
da un eunuco che egli aveva aspramente rimproverato per un futile motivo.
È ignoto se dietro a questo banale fatto di cronaca si celassero la protervia e
la corruzione di qualche potente musulmano geloso di Zenki, o magari gli
intrighi che si tessevano alla corte di Melisenda. I suoi domini si divisero
comunque in due distinti potentati retti da due suoi figli: Aleppo andò a Nur
ad-Din Mahmud (colui che la nostra tradizione epico-cavalleresca conosce
come «Norandino»), Mosul a Saif ad-Din Ghazi.
I franchi gioirono per la scomparsa di colui che le cronache latine,
adattandone il nome a un crudele gioco di parole, chiamavano Sanguis. Da
Turbessel Joscelin di Edessa riuscì, appoggiato dai fedelissimi armeni, a
riconquistare nell’ottobre la sua capitale: ma apparve presto chiaro che non
avrebbe potuto mantenerla contro Norandino, prontamente accorso ad
assediarla, se non avesse ottenuto immediati aiuti da Melisenda di
Gerusalemme, da Raimondo d’Antiochia e dal potente principe franco che
controllava il Libano, Raimondo II di Tripoli.
Neppure la gravità del momento induceva però i principi franco-siriaci a
trovare un accordo fra loro. Quello antiocheno, in realtà ben lieto che il suo
avversario Joscelin fosse in cattive acque, non mosse un dito per aiutarlo.
Ma dovette amaramente pentirsene allorché, impadronitosi di nuovo di
Edessa all’inizio del novembre 1146 con un atroce bagno di sangue,
Norandino si lanciò senza esitazione contro il principato antiocheno.
Una sciagurata mossa della reggente e della nobiltà del regno di
Gerusalemme intervenne intanto a compromettere del tutto la situazione
crociata. Zenki aveva un fermo avversario nel vecchio comandante
mamelucco, Unur, che governava Damasco: uno dei più grandi empori del
Vicino Oriente. Se l’atabeg di Aleppo e Mosul se ne fosse impadronito,
sarebbe divenuto veramente il signore incontrastato di Siria. Ma Unur –
salda restando la sua personale fedeltà al sultano selgiuchide – era
fermamente intenzionato a non perdere la sua bella e opulenta città: e, per
meglio poter fronteggiare il pericolo che premeva da nord e da est, si era
naturalmente appoggiato al regno dei crociati con cui confinava a ovest. In
questo modo egli aveva le spalle coperte, mentre Gerusalemme disponeva
di una valida difesa a diaframma tra Palestina e territori di Zenki.
Ma ai primi del 1147 un armeno rinnegato che governava per conto di
Unur alcuni territori dello Hauran (tra Siria e Giordania attuali) si ribellò al
suo signore e chiese ai franchi di Gerusalemme di riconoscerlo come loro
vassallo. Si presentava così ai baroni di Terrasanta un’ottima occasione per
rafforzare la loro posizione in Transgiordania: d’altra parte, in questo modo
essi si giocavano l’amicizia di Unur. Scelsero il partito peggiore: mossero al
governatore di Damasco una maldestra guerra di offensiva e lo gettarono
così, malgrado la sua stessa volontà, fra le braccia del signore di Aleppo.
Quando, nel novembre 1144, Edessa era caduta per la seconda volta, i
franchi di Terrasanta avevano sentito ch’era giunto il momento d’appellarsi
all’Occidente. Tuttavia soltanto un anno dopo, nel novembre del 1145,
l’ambasciatore del regno crociato, Ugo vescovo di Gabala, giunse a Viterbo
dove si trovava papa Eugenio III, al quale la rivolta del comune romano
impediva il rientro in Roma.
Il papa ricevette Ugo e apprese affranto dalla sua voce le notizie che
provenivano dall’Oriente. Ma nella curia viterbese si trovava in quel
momento anche un grande personaggio del regno tedesco: il cistercense
Ottone di Babenberg, fratellastro di re Corrado e vescovo di Frisinga. Dal
suo collega di Gabala il nobile cistercense ascoltò non solo novelle di
sventura, ma anche parole di speranza. Si diceva che un principe cristiano-
nestoriano di nome Giovanni, proveniente dal centro di quella grande madre
di silenzi e di mostri ch’era l’Asia, avesse guerreggiato vittoriosamente
contro gli infedeli nella parte orientale della Persia, per quanto sembrasse
che il suo esercito si fosse poi misteriosamente dissolto.
La base storica di queste notizie non era poi così labile. Comunità
nestoriane esistevano veramente fra i tartari e in Cina come anche in India;
e nel 1141 il sultano selgiuchide Sanjar era stato battuto presso Samarcanda
da un principe della dinastia Liao dei khitan mongolo-cinesi, Yeh-lü Ta-
shih, molto probabilmente buddhista, ma che veniva forse considerato
cristiano oppure che annoverava dei cristiani nestoriani fra i suoi seguaci.
Nasceva così la leggenda di un re-sacerdote cristiano, il Presbiter Johannes,
il cui regno si estendeva ultra Persidem et Armeniam e che sarebbe giunto
dall’Asia profonda in aiuto dei cristiani di Siria contro l’Islam. È questi il
«Prete Gianni» della nostra tradizione leggendaria.
Il contenuto delle leggende che da Ottone di Frisinga ricevettero una
prima sommaria diffusione, rinvia a quello di una serie di scritti profetici
che da almeno due secoli circolavano per l’Occidente. Fra questi testi, noti
come «sibillini», era importante la profezia detta «Tiburtina», che era stata
manipolata nel X secolo da Adsone di Montier-en-Der nel suo trattato
sull’Anticristo dedicato a Gerberga, moglie di Luigi IV di Francia e figlia
dell’imperatore Ottone I. L’opera di Adsone aveva sempre trovato degli
appassionati lettori nei sovrani capetingi, dal momento che dal testo
rimaneggiato della «Tiburtina» scaturiva che il re di Francia avrebbe
regnato come sovrano negli «ultimi giorni» prima della venuta
dell’Anticristo. 3
Sulla religiosità non meno che sul senso di missione universale del re
Luigi VII di Francia confidava – incoraggiato da Bernardo di Clairvaux –
papa Eugenio III quando, sulla base delle pressanti richieste giuntegli a
Viterbo, bandì una nuova spedizione armata simile a quella indetta mezzo
secolo prima da Urbano II: un nuovo Jerosolymitanum iter al quale erano
chiamati quanti aspirassero a lucrare una generosa indulgenza. Una piccola
croce cucita sui loro abiti era il distintivo del loro voto. Erano cruce signati:
per quanto la parola «crociata» ancora non si usasse.
L’appello di Eugenio cadde su un terreno reso già fertile dalle emozioni
e dalle paure collettive. In tutta Europa, si spiavano preoccupati i «segni»
celesti: che – come ci assicurano i cronisti dell’epoca – non mancavano.
Tempeste, alluvioni, terremoti, carestie, epidemie: e, secondo la mentalità
del tempo, ogni sciagura, naturale o sociale che fosse, doveva
necessariamente trovare la sua spiegazione immediata nei peccati
dell’uomo e nell’approssimarsi dei Tempi Ultimi. Il mondo invecchiava: il
Signore era stanco dell’umanità. Ai segni palesi della Sua collera, Egli non
mancava di accompagnare i prodigi nel cielo: le eclissi di sole e di luna, gli
astri infocati vaganti. Nel 1129 era scoppiata una nuova epidemia del Mal
des Ardents, il «Fuoco di sant’Antonio»; nel 1140 v’era stata una terribile
eruzione del Vesuvio; nel 1144 si era avuto un inverno d’inaudita
inclemenza, subito seguito da una dura carestia. Gli zoccoli dei corsieri dei
Cavalieri dell’Apocalisse battevano il cielo d’Europa. Bisognava far
penitenza.
La crociata veniva comunque sentita, fino dalla grande spedizione di un
cinquantennio prima, essenzialmente come un grande pellegrinaggio
penitenziale. Iter, la dicevano principi e cavalieri, con un termine mutuato
dal linguaggio militare: spedizione. Ma peregrinatio, la chiamavano i
poveri e gli umili; e tale era anche nel lessico della Chiesa. Luigi VII di
Francia aveva già da tempo espresso al papa la volontà di peregrinare –
forse a sconto dei suoi peccati – fino al Sepolcro del Cristo. Ora il papa, con
una lettera datata da Vetralla il 1° novembre 1145, si rivolgeva proprio a
Luigi per esortarlo a partire per l’Oriente dove la caduta di Edessa
minacciava i fratelli in Cristo del regno di Gerusalemme. Nel Natale
successivo, a Bourges, il vescovo Goffredo di Langres – anch’egli
cistercense – rivolgeva in presenza del re ai nobili e ai cavalieri di Francia
un pressante appello per la crociata. Sembra tuttavia che i ceti dirigenti del
paese accogliessero l’esortazione in modo abbastanza tiepido. Luigi VII
sollecitò accorato, a quel punto, l’intervento di Bernardo di Clairvaux: il
quale si mosse però solo dopo che Eugenio III, con la bolla Quantum
praedecessores del 1° marzo 1146, ebbe ufficialmente bandito lo
Jerosolymitanum iter offrendo ai partecipanti la remissione dei peccati e
ponendone le persone, le famiglie e i beni sotto la protezione della Chiesa.
A quel punto fu Bernardo stesso a predicare, il 31 di quello stesso mese –
ch’era la domenica di Pasqua –, la crociata a Vézelay, la città francese sede
del celebre santuario dedicato a Maria Maddalena dal quale si avviava uno
degli itinerari del pellegrinaggio a Compostela, il Camino de Santiago.
L’abate di Clairvaux aveva allora cinquantasei anni ed era l’ombra del
bel giovane nobile dall’incarnato chiaro e dai capelli d’oro ramato ch’era
stato un tempo. Ma dalla sua figura incurvata dalla preghiera e smagrita dai
digiuni, e soprattutto dalla sua parola di fuoco, emanava una forza che
piegava i re. «La Voce», lo avevano chiamato. A Vézelay, aveva dovuto
fare a pezzi la sua povera veste cistercense di stoffa non tinta per ritagliarne
delle croci da distribuire al suo uditorio impazzito d’entusiasmo.
Appuntandosi o cucendosi quel segno sul petto, si formulava il voto
crociato. Anche re Luigi e la moglie Eleonora d’Aquitania avevano preso il
sacro distintivo.
Il gesto del sovrano, che sottolineava la sua ferma decisione di partire,
non aveva mancato di provocare apprensione e perplessità. Cinquant’anni
prima, era stato proprio grazie alla prima crociata, alla quale avevano preso
parte alcuni fra i più grandi signori di Francia, che il re – in loro assenza –
aveva consolidato il proprio potere. Ma se egli si fosse allontanato adesso,
non si rischiava la ricaduta del paese nell’anarchia feudale? Contrario alla
partenza di Luigi era senza dubbio il suo grande ministro, l’abate Sugero,
che da poco aveva inaugurato il proprio capolavoro, quell’abbazia di Saint-
Denis che con le sue vetrate policrome splendeva da lontano come un
immenso reliquiario e che con le sue volte ogivali apriva la grande era del
gotico francese. Sugero avrebbe preferito che fossero dei nobili a partire e
che il re rimanesse invece sulla sua terra impegnato a consolidare il suo
potere. Forse, anche il papa Eugenio era del medesimo avviso.
Ma nessuno dei due aveva calcolato l’imponderabile: Bernardo. Dopo
aver umilmente atteso le decisioni pontificie, da quando esse si erano
manifestate con chiarezza attraverso la bolla del marzo l’abate di Clairvaux
aveva posto da canto qualunque dubbio: e come al solito travolgeva ogni
ostacolo.
Di più: nella fattispecie, dovette semmai intervenire a ricondurre entro
ragionevoli confini disciplinari gli entusiasmi suscitati. Un suo confratello,
il monaco cistercense Rodolfo, andava sconvolgendo le città renane con la
sua ardente predicazione. Era uno strano personaggio, del quale sappiamo
ben poco: certo è che, nonostante la severa norma monastica della stabilitas
loci, egli si spostava di continuo. Era un Wanderprediger, un predicatore
itinerante: qualunque cosa dicesse, dunque, il suo atteggiamento
indisciplinato non era fatto per incontrare il favore del severo abate di
Clairvaux. Rodolfo predicò a Colonia, a Magonza, a Worms, a Spira, a
Strasburgo; trovava città sconvolte dalle lotte fra i principi-vescovi o i ceti
dirigenti che le reggevano e le borghesie locali, e si rivolgeva a queste
ultime e, forse, agli strati più umili della popolazione predicando contro gli
ebrei. Lo stesso era accaduto alla vigilia della prima crociata, allorché folle
di pellegrini e di emarginati avevano massacrato le comunità israelitiche
dell’area reno-danubiana: e anche allora erano comparsi, a eccitare gli
animi, strani prophetae vagabondi. Appelli escatologici, echi della prossima
venuta dell’Anticristo, attesa d’una conquista della «Gerusalemme celeste»
della quale quella terrena era solo pallido simbolo e nella quale i pauperes
sarebbero stati rigenerati, il regno della pace e della giustizia rapidamente
assicurato: tutto si mischiava in una tensione violenta dietro alla quale
s’individua l’emergere dei nuovi problemi sociali determinati dalla
convivenza in centri urbani sempre più densi di abitanti.
L’alto clero e il re di Germania non esitarono – com’era già accaduto
durante la prima crociata – a difendere le comunità ebraiche. Il vescovo
Sigfrido di Würzburg si rifiutò fermamente di canonizzare un giovinetto che
si pretendeva martirizzato dagli ebrei e le cui reliquie venivano già venerate
dal popolo; a Norimberga, il sovrano in persona intervenne a garantire la
sicurezza della comunità israelitica; e fu l’arcivescovo di Magonza ad
appellarsi, contro quello strano cistercense che predicava la purificazione
del «vero Israele» per mezzo del sangue dell’antico, a Bernardo. Questi
rispose in modo chiaro, duro, deciso: Rodolfo, predicando di città in città,
violava tanto la disciplina del suo Ordine quanto i diritti delle autorità
vescovili; non era strano che dall’indisciplina nascesse l’eresia, come
sempre suole accadere, e che contro la legge divina il pessimo monaco
incitasse a spargere del sangue; quanto agli ebrei, il loro dolore era
un’immagine vivente della Passione del Cristo, e la loro conversione
sarebbe senza dubbio giunta, ma liberamente alla Fine dei Tempi.
D’altronde, era proprio questa certezza che la Fine dei Tempi fosse ormai
alle porte ad animare la violenza delle folle: stava scendendo la sera del
mondo, il Signore era sul punto di tornare con verga di ferro, il vecchio
Israele doveva convertirsi o perire.
Rodolfo fu a quanto pare indotto a rientrare nei ranghi dall’autorevolezza
di Bernardo; ma la sua opera di predicatore della crociata – liberata,
beninteso, dagli aspetti violenti e apocalittici e riqualificata da un vigoroso
soffio mistico – fu ripresa dallo stesso abate di Clairvaux.
Dal canto suo, il re di Germania Corrado di Hohenstaufen non aveva – a
differenza del suo collega francese – alcuna intenzione di abbandonare il
suo regno in un momento tanto delicato, lasciando libertà d’azione a
un’aristocrazia riottosa e infida e alle turbolente forze che agitavano la
nascente vita cittadina. Inoltre la situazione romana non era sanata e grave
permaneva il pericolo che la spregiudicata politica normanna arrecasse altri
danni agli interessi di quel regno d’Italia la cui corona spettava
tradizionalmente al re tedesco. Di analogo parere sembravano il suo
ascoltato consigliere spirituale – ma anche politico – Wibaldo di Stavelot e
lo stesso pontefice, il quale aveva fino ad allora confidato nell’appoggio
imperiale per risolvere la sempre turbolenta situazione romana.
Alla fine del novembre 1146, Bernardo incontrò Corrado a Francoforte.
Si rinnovarono in quell’occasione le scene che accompagnavano sempre la
comparsa dell’abate di Clairvaux in qualche città: grandi e piccoli cadevano
in ginocchio alle parole del santo, vecchi nemici si riconciliavano fra loro
piangendo, milites e pauperes prendevano la croce. Ma il re oppose alle
pressioni di Bernardo un fermo rifiuto: le condizioni del regno non gli
consentivano di partecipare all’impresa. Il santo continuò nondimeno a
predicare la crociata, e proprio in territorio svevo: Friburgo, Basilea,
Sciaffusa, Costanza. L’annata era stata dura, l’incipiente inverno si
annunziava con i colori della fame: la gente umile accoglieva l’esortazione
di Bernardo come un incitamento a lasciare un esilio ingrato e a muovere i
passi come gli ebrei di Mosè verso la Terra Promessa, dove scorrono il latte
e il miele.
Una dieta regale avrebbe dovuto tenersi per Natale a Spira: l’abate di
Clairvaux intendeva esservi presente, ed era ormai noto che molti principi e
cavalieri tedeschi avevano preso o desideravano prendere la croce. Pochi
giorni prima, lo stesso Guelfo VI aveva deciso di formulare a sua volta il
voto: ma tale esempio poteva semmai risolversi in una ragione di più per
consigliare a Corrado di restare in Germania e rafforzarvi la sua autorità,
ora che tanti sudditi inquieti prendevano il cammino di Terrasanta. Sembra
quindi che il sovrano resistesse, sia pure forse con qualche turbamento, al
sermone natalizio tenuto dallo stesso Bernardo in quella splendida
cattedrale di Spira la cui cripta era il sepolcro tradizionale dei re di
Germania. Non poté d’altro canto se non arrendersi dinanzi a un nuovo
sermone recitato dall’abate cistercense durante una solenne riunione
dell’intera corte due giorni dopo, nella festa di Giovanni Evangelista, e nel
quale ci si rivolgeva al re direttamente, come se a farlo fosse il Cristo
stesso: «Uomo, che cosa c’è che avrei potuto fare per te e non ho fatto?».
Antichi cronisti e storici moderni hanno insistito nel dipingere a vivaci
colori il superbo episodio: il duomo di Spira rimbombante delle grida dei
nobili tedeschi che chiedono la croce, il santo fremente d’ardore che alla
fine stramazza esausto al suolo, Corrado che balza dal suo seggio, avvolge
l’esile corpo nel manto regale e lo porta in salvo dall’abbraccio terribile
della folla entusiasta.
Un miracolo, lo avrebbe poi definito Bernardo: un miracolo, avrebbero
ripetuto i suoi biografi. Ma Eugenio III accolse la notizia con disappunto: e
il messaggio – che non ci è pervenuto – nel quale commentava
indirizzandosi al re i fatti di Spira doveva essere improntato a una certa
freddezza.
Il giovane Federico di Hohenstaufen era nel duomo di Spira, al fianco
del sovrano, in quel San Giovanni del 1146. Quali pensieri siano passati per
la sua mente, quali emozioni lo abbiano agitato, non lo sapremo mai. Può
darsi che il suo senso politico lo avesse fino ad allora tenuto lontano dalla
tentazione del viaggio: ma chissà che l’avventura non lo tentasse, com’era
avvenuto pochi anni prima quando aveva partecipato alla rivolta di Guelfo
VI. È anche possibile che non gli dispiacesse di passare per Costantinopoli
dove la sua congiunta Bertha di Sulzbach, assunto il nome greco di Irene,
era dal gennaio divenuta imperatrice sposando il basileus Manuele. Ma può
soprattutto darsi che il Sepolcro del Cristo e l’idea della lotta contro i
saraceni lo attraessero.
Corrado, da parte sua, poteva ben aver preso la croce trascinato dal suo
entusiasmo o da quello dei nobili e dei cavalieri del regno; non per questo
trascurava però né interessi dinastici né doveri politici. Gli fu anzi più
facile, nel clima di mistico fervore che seguì l’assunzione della croce,
strappare all’aristocrazia tedesca il consenso necessario ad associarsi al
trono il giovane figlio Enrico. La discendenza era in tal modo assicurata.
Nella dieta di Francoforte del marzo 1147 si elesse re Enrico e si fece il
punto dell’organizzazione dell’impresa. Corrado avrebbe voluto partire per
Pasqua, che quell’anno cadeva il 20 aprile: ma a Bernardo, ancora una volta
presente, appariva evidente che i preparativi avrebbero richiesto più tempo.
Inoltre, anche in Germania come altrove, si andava facendo strada
l’interrogativo se fosse davvero il caso di andare a combattere i pagani
lontani. Che in fondo non davano fastidio, mentre ve n’erano di più vicini e
pericolosi ancora da debellare. Eugenio III aveva già autorizzato Alfonso
VII di Castiglia a combattere la sua crociata non già in Siria, bensì ai
confini del suo regno; e pochi mesi più tardi, nel giugno, il re del Portogallo
e il vescovo di Oporto avrebbero convinto un’intera flotta anglo-
fiammingo-frisonica ancorata alla foce del Duero in attesa di salpare per la
Terrasanta che non v’era alcun bisogno di navigare fino al Mar di Levante
per combattere gli infedeli: essi erano a due passi. Da questa diversione
scaturì la presa di Lisbona.
A Francoforte, tanto Corrado quanto Bernardo si trovarono in una
situazione analoga. La nobiltà del Settentrione tedesco, guidata dal
giovanissimo duca di Sassonia Enrico, chiese unanime di partecipare alla
crociata e di goderne i vantaggi spirituali: proponendo tuttavia come sua
specifica meta non già la Terrasanta, bensì le terre a est dell’Elba. Bernardo
rispose prendendo tempo e informò frattanto il papa: il quale, con la bolla
Divina dispensatione del 13 aprile 1147, autorizzò i cristiani dell’Europa
settentrionale a condurre il loro iter consacrato dal voto non già contro i
musulmani di Siria-Palestina, bensì contro gli slavi pagani oltre l’Elba. Non
si trattava più della difesa del Sepolcro, ma semmai – secondo una visione
«crociato-popolare» che da parte sua la Chiesa non aveva fino ad allora
fatta esplicitamente propria (v’era però il precedente iberico, già avviato
addirittura prima dell’iter del 1096-99) – di allargare i confini della
Cristianità e di convertire i popoli barbari. A capo della spedizione del nord
v’erano i vescovi Anselmo di Havelberg (il premostratense che nel 1136
aveva disputato a Costantinopoli sulla questione del Filioque e che ormai
era legato pontificio), Adalberto di Brema e i prelati di Magonza, di
Halbertstadt, di Münster, di Merseburgo, di Brandeburgo, di Olmütz; fra i
principi laici, primeggiavano Enrico duca di Sassonia e Alberto l’Orso
margravio del Brandeburgo; danesi e polacchi appoggiavano l’impresa, cui
partecipavano anche molti contadini sassoni affamati di nuove terre.
Crociata, evangelizzazione e colonizzazione tedesca delle brughiere oltre
l’Elba procedettero, da allora, di pari passo. La spedizione del nord
riprendeva del resto una vecchia tradizione espansionistica, il Drang nach
Osten. «Va’ a est, ragazzo!» si ripeteva da decenni ai poveri contadini
tedeschi in cerca di terra, di lavoro e di fortuna. Nel 1108, questa «nuova
frontiera» era stata così presentata (verrebbe voglia di dir quasi
«reclamizzata») in un proclama dell’arcivescovo di Brema: «Gli slavi sono
un popolo abominevole, ma la loro terra è ricca di carne, di miele, di grano,
di uccelli e abbonda incomparabilmente di tutto quel che la zolla può
fornire». Già verso il 1143 nuovi territori erano stati strappati agli slavi
nello Holstein, nel Meclemburgo e nel Brandeburgo. La nuova impresa nel
Nordest europeo, legittimata dal pontefice, offriva un’occasione per
riprendere e continuare con nuova e più forte legittimazione questa spinta
verso est.
Ma torniamo alla spedizione in Terrasanta. Nel maggio 1147 Corrado III
lasciava Bamberga diretto a Ratisbona, la porta della via danubiana; aveva
affidato a Wibaldo abate di Corvey e di Stavelot la tutela del giovane re
Enrico. I cronisti danno, quanto all’entità dell’esercito crociato tedesco,
cifre immense ma inattendibili. Esso doveva essere tuttavia imponente e
può darsi che raggiungesse circa le ventimila persone, la maggior parte
delle quali era tuttavia costituita di pellegrini inermi o quasi: il che poneva
un grosso problema militare. Ladislao duca di Boemia e Boleslao IV re di
Polonia, vassalli entrambi della corona tedesca, erano presenti con la loro
gente d’arme; molti poi i vescovi, tra cui quelli di Frisinga, di Metz, di Toul,
ciascuno con propri contingenti. Tra i principi laici, era chiaro che un ruolo
tutto speciale spettava al giovane congiunto e favorito del re, Federico di
Svevia, da poco duca anche formalmente dopo la morte del padre (sebbene
di fatto esercitasse da tempo le funzioni ducali).
Luigi VII di Francia fu un po’ più lento a muovere. Il suo esercito,
appesantito da una quantità di carri colmi di masserizie di lusso, si avviò da
Metz – punto di raccolta delle truppe francesi – soltanto dopo la Pentecoste,
cioè ai primi di giugno. Il re viaggiava in dimesso abito da pellegrino: ma il
suo seguito risplendeva grazie alla moglie Eleonora e alle fastose dame che
le facevano corona e tra le quali primeggiavano le contesse di Blois, di
Fiandra, di Tolosa, di Borgogna. Un cronista bizantino narra addirittura di
donne armate di tutto punto fra i crociati, voce questa ripresa non senza
malizia dai cronisti musulmani: ma la leggenda che Eleonora comandasse
un affascinante reparto di amazzoni si sparse anche per l’Occidente. Iter
militare o peregrinatio penitenziale che fosse, la spedizione crociata
francese somigliava comunque piuttosto a una lunga partita di caccia o a
una festa di maggio: caratteri disdicevoli a una sacra impresa. 4
Alla vigilia della partenza, Luigi aveva avuto lunghi, stretti, concitati
rapporti diplomatici con Ruggero di Sicilia. Alla dieta di Étampes, dal re
convocata ai primi dell’anno affinché vi si concentrassero tutti i baroni che
avevano accettato di prendere la croce, erano comparsi ambasciatori
normanni; in seguito, il re di Sicilia aveva di nuovo fatto pressioni su quello
di Francia per mezzo di vari messaggi. Egli invitava i crociati francesi a
raggiungere la Terrasanta via mare, facendo scalo in uno dei suoi porti;
sarebbe stato lui a provvedere alle navi. Data l’ostilità fra normanni e
bizantini, era d’altra parte evidente che accettare le proposte di Ruggero
sarebbe equivalso a una grave provocazione nei confronti del basileus e
indirettamente anche dei tedeschi che si presentavano in quel momento
molto legati a Bisanzio.
A Étampes re Luigi considerò anche l’offerta bizantina, che comportava
la scelta della via di terra per raggiungere la Terrasanta. Emerse in primo
piano, a quel punto, la questione antiochena. Il re di Sicilia si faceva
evidentemente portavoce e garante delle pretese normanne sul principato
latino di Antiochia, fondatore del quale era stato Boemondo figlio del
Guiscardo: ma a quel tempo il principato era nelle mani di Raimondo di
Poitiers, zio della regina Eleonora, il quale aveva reso atto di vassallaggio al
basileus di Costantinopoli. Accettando la proposta bizantina, Luigi VII si
sottraeva a un’eventuale strumentalizzazione normanna della crociata.
Frattanto, dopo Ratisbona, i tedeschi procedevano attraverso la pianura
balcanica, incontrandosi con gli ambasciatori ungheresi e bizantini. Le
prime battute del rapporto fra re Corrado e governo di Costantinopoli
furono esemplari: i problemi cominciarono più tardi, nell’estate inoltrata,
quando era già stata raggiunta e superata la città di Sofia. I tedeschi
cominciarono a darsi al saccheggio e Corrado, al quale era stato richiesto di
farli cessare, dovette ammettere che nelle loro file c’erano elementi ch’egli
non riusciva a dominare. Giunti poi a Filippopoli scoppiò una specie di
tumulto: i pellegrini se la presero con un povero prestigiatore che sperava di
guadagnare un po’ di soldi divertendoli con i suoi trucchi e che fu invece
accusato di far delle magie. A quel punto, i discreti accompagnatori
bizantini si ritirarono per lasciare il posto a contingenti militari ben decisi a
far rispettare l’ordine. Il momento politicamente più grave giunse presso
Adrianopoli, e suo protagonista fu proprio il giovane duca di Svevia: un
piccolo nobile tedesco, che si era un po’ distanziato dal grosso delle truppe
perché indisposto, fu ucciso da alcuni banditi. In quel frangente, Federico
rivelò uno dei tratti del suo carattere che lo avrebbero reso tristemente
famoso più tardi: incendiò un monastero nelle vicinanze del quale il
fattaccio aveva avuto luogo e ne sterminò gli occupanti: una rappresaglia in
pienissima regola. Le truppe bizantine reagirono a loro volta in modo
sconsiderato, dandosi alla sistematica corsa allo sbandato tedesco: e si
giunse così sull’orlo dello scontro aperto. Per un attimo, sembrò perfino che
il basileus Manuele intendesse impedire ai crociati di arrivare a
Costantinopoli.
Si situa a questo punto – alla fine dell’agosto o ai primi di settembre del
1147 – un episodio che i cronisti bizantini interpretarono come una
punizione divina per i tracotanti occidentali, ma che si rovesciò in un
personale signum electionis di Federico. Mentre i crociati erano accampati
nelle piane di Tracia, una tremenda tempesta s’abbatté sul loro
accampamento facendo annegare parecchi pellegrini e spazzando via le
tende. Soltanto il padiglione del duca di Svevia – ricorda con ammirazione
Ottone di Frisinga – rimase in piedi, e bagnati fradici ma indenni i suoi
uomini che si erano attardati su un’altura. Una cerimonia liturgica di
ringraziamento venne subito improvvisata attorno a quella parte
d’accampamento rimasta illesa: ma la crociata nasceva sotto una cattiva
stella.
Il 10 settembre l’esercito «franco» (in tal modo, frankoi o faranj, greci e
musulmani definivano gli europei occidentali) raggiunse Costantinopoli. Il
basileus aveva assegnato in residenza al suo regale cognato uno splendido
palazzo suburbano: ma i tedeschi lo ridussero in pochi giorni in uno stato
tale da obbligare il loro re a cambiare dimora. I crociati – e, più che gli
armati, i pellegrini – si abbandonavano inoltre a saccheggi continui, tanto
da giungere in breve sull’orlo della rottura. Forse soltanto il fatto che la
basilissa Irene fosse nata Frau Bertha von Sulzbach e, soprattutto, il
comune spauracchio costituito dai normanni di Sicilia, impedirono un
tentativo di conquista tedesca di Costantinopoli o uno di annientamento
dell’esercito di Corrado da parte dei bizantini. Alla fine, Manuele riuscì con
un sospiro di sollievo a traghettare al di là del Bosforo gli ingombranti
ospiti, ben foraggiati e colmi di doni (tutto, tutto, a patto che se ne
andassero: e subito…).
Quando i crociati tedeschi posero piede sul suolo dell’Asia, non avevano
praticamente la minima idea della situazione né politica né logistica che
avrebbero incontrato attraversando la penisola anatolica. Essa era di fatto
divisa in due zone d’influenza: a ovest la controllavano i dinasti della
famiglia danishmendita, con centri a Sivas (l’antica Seleucia) e a Melitene;
a sud e a est il sultano selgiuchide di Iconio (Konya), il cui dominio
giungeva a lambire l’Eufrate. Fra i due potentati non correvano buoni
rapporti, il che aveva fino ad allora consentito a Manuele di destreggiarsi
discretamente ristabilendo se non proprio la sovranità quanto meno
l’influenza sulle città costiere e sulla grande strada militare dell’interno, che
da Nicea conduceva a Dorileo (l’attuale Eskishehir). I tedeschi – ridotti
ormai, tra combattenti e pellegrini, alla metà della ventina di migliaia di
uomini fieramente partiti da Bamberga qualche mese prima – partirono da
Nicea alla metà di ottobre, mal vettovagliati e peggio organizzati. Ma
parecchi non-combattenti scelsero, su consiglio dei bizantini, una più sicura
via secondaria: li guidava Ottone di Frisinga. Bene o male, questo
contingente arrivò fino ad Attalia in Cilicia. I crociati di Corrado, invece,
furono attaccati alla fine di ottobre presso Dorileo mentre facevano
disordinatamente abbeverare i cavalli. Le ondate della cavalleria leggera
turca, con i suoi archi micidiali, seminarono il panico e il massacro. Quasi
tutti i pellegrini inermi lasciarono la vita nel disgraziato incidente – si esita
a definirlo una battaglia –, mentre una volta di più si ebbe la riprova di
quello che era uno dei principali limiti della pesante cavalleria occidentale:
l’incapacità di organizzare una linea di resistenza, di sostenere un
travolgente attacco nemico senza lasciarsi prendere dal panico e dandosi
anzi alla fuga disordinata. Quei guerrieri tedeschi, così fieri e coraggiosi
nell’assalto, persero la testa: nobili e cavalieri balzarono in sella e
ingloriosamente si dettero con il loro re alla fuga. Si confermò in quel
frangente un altro limite della società e della cultura feudali: limite non
militare stavolta, bensì etico-politico. I domini, i seniores, a cominciare dal
re, erano tali soprattutto dei loro vassi, dei loro milites. I populares, i
servientes appiedati, i pellegrini inermi o seminermi (dovevano ormai
essersi provvisti almeno di archi e di coltelli), vennero lasciati
spietatamente al loro destino. Il monarca feudale, da questo punto di vista,
si comportava come avrebbe fatto un vecchio re germanico responsabile
dinanzi al suo popolo di gente libera. D’altro canto, era proprio a quei
pellegrini – eccessivi di numero, incapaci di difendersi e smodatamente
indisciplinati – che il contingente tedesco doveva in parte la sua situazione.
Al clima di confusione e di barbarie che regnava nelle sue file, del resto,
Corrado vedeva aggiungersi ben altri disagi. Il disciplinato, agguerrito e più
raffinato contingente lorenese, per esempio, si era staccato dalle sue truppe
e aveva atteso a Costantinopoli l’arrivo di quelle del re di Francia per unirsi
a esse. La Lorena, con i suoi due ducati, aveva già avviato la «lunga
marcia» che nel giro di circa cinque secoli avrebbe condotto l’antica
Lotaringia a passare dall’area germanica a quella francese.
La crociata di Luigi aveva fino ad allora conosciuto più rosee vicende: i
Balcani erano stati attraversati felicemente, a parte qualche difficoltà
derivante dalla pessima memoria che i tedeschi avevano lasciato di sé fra le
popolazioni locali. Anche tra i francesi, come tra i tedeschi, circolavano
diffusa diffidenza e barbaro disprezzo per i bizantini: erano pregiudizi
correnti fra gli occidentali fino dalla prima crociata. Se ne era fatto araldo il
vescovo di Langres, cistercense, fautore addirittura di un colpo di mano che
avrebbe dovuto condurre alla caduta di Costantinopoli. Luigi aveva scelto
però la via della lealtà; inoltre, i suoi cavalieri erano molto più raffinati e i
suoi pellegrini minori per numero e migliori per disciplina di quelli
tedeschi. Il loro soggiorno a Costantinopoli fu quindi relativamente ordinato
e piacevole; e al principio di novembre anch’essi si trovavano dall’altra
parte del Bosforo, a Nicea. Toccò a Federico di Svevia l’ingrato compito di
recarsi per primo al campo francese e spiegare al re – poco più anziano di
lui – quale fosse la situazione dei tedeschi. A quel punto, era fatale che i
contingenti si riunissero. Con quello francese avevano viaggiato
probabilmente anche alcuni nobili «italici»: o che comunque avevano in
tutto o in parte le loro terre nella penisola italica ed erano quindi sudditi di
Corrado, re d’Italia oltre che di Germania. Si trattava di Amedeo III conte
di Savoia (vassallo anche di Corrado, ma in quanto quegli era altresì re di
Borgogna) e di Guglielmo V marchese di Monferrato, di Guido conte di
Biandrate, di Ermanno marchese di Verona, di Guido Guerra dei potenti
conti Guidi di Toscana, i quali avevano raggiunto il contingente francese o
si erano avviati verso Costantinopoli per loro conto, in colonne distinte
attraverso l’Illiria o l’Italia meridionale per imbarcarsi a Brindisi.
Dal novembre 1147 iniziò così – a colonne riunite – il secondo tentativo
di attraversare la penisola anatolica. Stavolta i due re convennero
sull’opportunità di seguire il più facile e comodo itinerario costiero e,
attraverso Pergamo e Smirne, giunsero a Efeso. Lì, però, dovettero prendere
atto che la situazione era insostenibile: tra francesi e tedeschi la tensione
cresceva – il cronista bizantino Cinnamo ricorda divertito le grida «Pousse,
Allemand!», che i primi lanciavano rivolti ai secondi –, e Corrado era da
parte sua allo stremo delle forze. Fu così che, da Efeso, egli e il suo seguito
rientrarono a Costantinopoli dove il sofferente re di Germania venne
letteralmente sedotto da Manuele Comneno. Il sovrano bizantino lo
circondò di cure e di attenzioni e trattò con lui il matrimonio del suo
fratellastro Enrico Jasomirgott con la principessa Teodora, figlia del proprio
fratello Andronico Comneno. Anche il seguito di Corrado – del quale
facevano parte Federico, Guglielmo di Monferrato e Amedeo di Savoia – fu
trattato con lo stesso riguardo: la basilissa Irene si occupava senza dubbio
della regia della cosa, il cui immediato scopo politico consisteva forse nel
sottrarre Corrado alle influenze antibizantine che si sapevano vive tra i
francesi. Difatti la situazione nello scacchiere greco-ionico era intanto
precipitata: Ruggero di Sicilia nell’autunno del 1147 aveva occupato l’isola
di Corfù, e da lì commandos normanni partivano a razziare la Grecia; Tebe
e Corinto erano state saccheggiate.
Quando nel marzo successivo il mare, dopo l’inclemente stagione
invernale, si fu riaperto alla navigazione, Corrado e i suoi furono trasportati
da una squadra bizantina in Terrasanta. Durante lo scalo nell’isola di Cipro
venne a morire il conte di Savoia; per il resto, il viaggio via mare procedette
senza incidenti – cosa non trascurabile, in quei tempi – e il re di Germania
sbarcò con Federico e altri suoi fedeli verso la metà d’aprile ad Acri, dove
fu accolto da re Baldovino III di Gerusalemme e dalla reggente Melisenda.
Unico rammarico del sovrano tedesco e del suo seguito fu forse quello di
non essere giunti in tempo – per pochissimi giorni – per assistere alla
cerimonia pasquale a Gerusalemme. Luigi di Francia sarebbe giunto in
Terrasanta soltanto un mese dopo; e ancora alcune settimane avrebbero
separato il suo arrivo dalla grande assise tenuta ad Acri il 24 giugno, festa
di San Giovanni Battista, durante la quale baroni franco-siriaci e capi
crociati avrebbero dovuto discutere come condurre – finalmente – la guerra
per la tutela della Terrasanta.
Quei mesi passati parte in una Costantinopoli serena, parte nella frescura
della traversata primaverile del Mar di Levante, parte tra la splendida Acri e
la santa Gerusalemme, furono senza dubbio i migliori vissuti dal giovane
crociato Federico di Svevia. Il clima di primavera, in Terrasanta, è dolce,
soave; la frutta, i dolci di miele, l’aroma degli sciroppi arabi allo zucchero
rinfrescati nelle nevi recate dai monti del Libano, tutto congiurava per
affascinare un ventenne che scendeva dalle selve della Svevia, anche se già
era passato attraverso gli splendori e, data la sua prestante età, le tentazioni
di Costantinopoli. Ma, intanto, si era consumato in Anatolia – dopo quello
tedesco – anche il dramma di Luigi VII. Il fiore della cavalleria di Francia
ascoltava con troppa fiducia i suoi giullari: per essa, la guerra contro gli
infedeli era fatta come nelle chansons di scontri e di cavalcate, di bei colpi e
di sonanti grida di guerra; l’Oriente era una ricca terra da predare prima di
piegarsi pregando, in lacrime, sulla pietra del Sepolcro. I conflitti orientali,
invece, erano una ragnatela tessuta di astuzie diplomatiche, proprio quelle
che ai guerrieri di Luigi parevano viltà; di astuzie che essi giudicavano
altrettante forme di tradimento. Manuele non era in guerra né con i
danishmenditi né con i selgiuchidi: anzi, manteneva con loro rapporti
diplomatici e cercava di far capire ai francesi che atti di ostilità in Anatolia
non sarebbero serviti a nessuno né avrebbero giovato alla causa crociata.
Che cosa poteva importare all’emiro di Sivas o al sultano di Iconio se i
crociati intendevano – perché tale era la realtà obiettiva – combattere
l’atabeg di Aleppo che minacciava Antiochia cristiana?
Ma per chi, inesperto di cose d’Oriente, sentiva risonargli nel cuore le
rime della Chanson de Roland, tutti gli infedeli erano uguali: e chi trattava
con loro era peggio di loro, un malus christianus. I francesi affrontarono il
freddo inverno anatolico guerreggiando, e le frequenti imboscate turche li
ridussero in gravi condizioni; seppero cogliere qualche successo militare,
ma l’attraversamento delle montagne cilicie in direzione di Attalia fu una
tragedia. Finalmente, alla fine dell’inverno, quel che rimaneva del loro
contingente e dei poveri pellegrini tedeschi della colonna di Ottone di
Frisinga che si erano uniti a esso riuscì a raggiungere Antiochia.
I crociati francesi erano certi che i loro guai fossero dovuti alla fellonia
di Manuele, il falso cristiano che trattava con i turchi d’Anatolia: ed erano
quindi ben disposti ad ascoltare la voce del principe antiocheno loro
conterraneo, Raimondo di Poitiers, il cui piano politico consisteva nel
liberarsi dall’ipoteca del vassallaggio bizantino senza per questo accettare
l’egemonia del re di Gerusalemme.
Ad Antiochia il dramma sfociò in commedia, ma a un pelo dal rasentare
la tragedia. Il tragitto da Attalia a Porto San Simeone, lo scalo marittimo di
Antiochia, era stato compiuto via mare. Antiochia era allora una delle più
splendide città del Vicino Oriente: lì la regina Eleonora ritrovò la dolcezza
della sua lingua d’oc e degli oliveti della sua terra insieme al sorriso di suo
zio di pochi anni maggiore di lei in età. Raimondo, figlio di Guglielmo IX
duca d’Aquitania, il trovatore, era difatti fratello minore di Guglielmo X,
padre della regina. Gli alteri e raffinati duchi d’Aquitania, signori di un
dominio ben più vasto di quello dei re di Francia, guardavano dall’alto in
basso i rozzi e bigotti Capetingi: e ciò, senza dubbio, dovette irritare fin dal
primo momento Luigi.
Il sire di Antiochia era alto, bello, abilissimo nei tornei e in quei giochi
cavallereschi ch’erano ormai tanto di moda nello stesso Oriente da
affascinare anche il basileus Manuele e gli stessi principi musulmani. Gli
piaceva, al pari del padre, la poesia, e alla sua corte si componevano versi
destinati a restare famosi. Ma il principe antiocheno – che aveva ottenuto il
principato pochi anni prima, grazie a un matrimonio politico – era anche
uno statista avveduto: e non era solo per vecchie questioni di personale
inimicizia che detestava la reggente Melisenda. Raimondo riteneva con
molta decisione e precisione che l’unico vero problema del momento fosse
riprendere Edessa, riconsolidare la frontiera dell’Eufrate e rintuzzare
l’offensiva di Norandino. Ma le spiegazioni che egli dovette in merito
fornire a Eleonora nella loro cara dolcissima lingua d’oc, che Luigi stentava
probabilmente a comprendere, non fecero che aumentare la diffidenza di
quest’ultimo. Così, scoppiò rapidamente un diverbio sul quale il cappellano
di corte Oddone di Deuil, diarista accurato della crociata, sorvola con
imbarazzo. Luigi VII obiettò, dinanzi alle proposte di campagne militari al
nord, che suo dovere di pellegrino era al contrario di puntare a sud; era un
crociato e Gerusalemme la sua meta, giunto alla quale egli avrebbe sciolto il
suo voto sulla pietra del Sepolcro. Eleonora intervenne sostenendo le
ragioni di Raimondo e addirittura minacciando di restare ad Antiochia con i
suoi vassalli aquitani; Luigi replicò vantando i suoi diritti di marito, che
includevano l’obbedienza della consorte; ed Eleonora ribatté – sfoderando
un’insospettabile competenza in questioni di diritto canonico… – che il loro
matrimonio era di legittimità abbastanza sospetta per questioni di parentela.
La consanguineità era la consueta giustificazione per lo scioglimento dei
vincoli nuziali.
Cronisti e soprattutto storici si sono dati un gran daffare nel concedere o
negare credito alla voce d’un colpevole legame sbocciato in mezzo ai
giardini antiocheni fra Eleonora e Raimondo. Inutile, in mancanza di prove
sicure, insistere su una diceria che non farebbe che aggiungere alla vicenda
un po’ di colore romanzesco. Certo è che né il senso politico né la forte
personalità di Eleonora potevano consentirle di sottostare agli scrupoli
devozionali e ai capricci testardi di Luigi VII. La volontà di questi, alla fine,
prevalse: ma Eleonora dovette venir trascinata via da Antiochia con la
forza. Era una coppia regale con i nervi a fior di pelle, sospesa fra il
dramma e il ridicolo, quella che giungeva a Gerusalemme.
All’incontro di Acri, del giugno 1148, mancavano molti fra i più grandi
signori di Terrasanta. Raimondo d’Antiochia, a parte la sua tensione con la
corte di Gerusalemme e con il re di Francia, sapeva che il suo posto era nel
suo principato, soggetto a gravissime minacce; Joscelin di Edessa, per
analogo motivo, non poteva lasciare Turbessel dove si trovava in prima
linea; Raimondo conte di Tripoli era assente invece perché sospettato – né
forse senza motivo – di aver causato per mezzo del veleno, con la
complicità di Melisenda, la morte del conte Alfonso-Giordano di Tolosa che
era giunto oltremare con il contingente francese e vantava diritti sul trono
tripolino.
L’assise di Acri fu comunque solenne e fastosa. Molti erano i capi
tedeschi presenti. Anzitutto, beninteso, il re Corrado; inoltre Enrico
d’Austria, Ottone di Frisinga, Guelfo di Baviera, Federico di Svevia. Si può
dire che – a parte Enrico di Sassonia e Alberto di Brandeburgo, impegnati
nella conquista dell’Europa settentrionale – tutta l’alta nobiltà tedesca fosse
schierata, al fianco del suo re, in Terrasanta. Anche i grandi francesi erano
presenti, dal conte Enrico di Champagne al conte Teodorico di Fiandra. È
ignoto come si sia giunti alla soluzione di attaccare Damasco, che restava
pur sempre l’unico potentato islamico dell’area sirogiordano-mesopotamica
disposto a comportarsi amichevolmente con i franchi. Ma sul principato
damasceno dovettero convergere due eterogenei impulsi: i baroni franco-
siriaci, da una parte, bramavano le ricchezze di quella terra; i guerrieri
giunti dall’Occidente, dall’altra, erano desiderosi di bottino e animati dalla
volontà di conquistare una terra che la Sacra Scrittura aveva reso loro
familiare.
Ciò non significa che nobiltà locale e capi dei nuovi arrivati avessero
davvero fraternizzato. Al contrario, i guerrieri venuti dall’Occidente
stentavano a riconoscere dei fratelli in Cristo in quegli strani personaggi
barbuti e abbigliati alla moda araba che vivevano secondo i costumi
orientali e parlavano la lingua gutturale dell’infedele. Falsi cristiani –
pensavano –, gente effeminata e corrotta. A loro volta, i nobili franco-siriaci
guardavano con fastidio e sospetto a quei barbari mangiatori di lardo di
maiale, alla loro rivoltante mancanza d’igiene, alla rozzezza dei loro gusti e
delle loro maniere. È strano che gente che si odiava e si disprezzava tanto
finisse poi col trovarsi d’accordo nel commettere il più grossolano e
madornale degli errori.
L’esercito, partito a metà luglio dalla Galilea, piantò una decina di giorni
dopo gli accampamenti al limite della fascia rigogliosa di orti, di giardini e
di frutteti che circondava Damasco. Per chi aveva superato l’ardente,
desolata depressione del Giordano, quell’oasi era un vero paradiso. Ecco la
terra dove scorrono il latte e il miele, ecco la Terra Promessa, si dicevano
tra loro i crociati. E cominciarono subito a litigarsi le spoglie d’una città che
non era ancora loro: la regina Melisenda aveva destinato Damasco al sire di
Beirut, mentre il conte di Fiandra era riuscito ad attirare dalla sua il parere
di Luigi, di Corrado e dello stesso Baldovino III. Intanto, il governatore
damasceno Unur lavorava con le armi della corruzione e della diplomazia:
versava sonanti somme di denaro a membri dell’aristocrazia franco-siriaca,
minacciava d’invocare l’intervento di Norandino ma al tempo stesso lo
teneva a bada. Ben presto, nel campo crociato scoppiarono apertamente le
polemiche: i poulains – i «bastardi», come i crociati chiamavano i franco-
siriaci – denunziarono l’errore commesso attaccando una città troppo ben
difesa, e che avrebbe per giunta potuto diventare preziosa alleata, e
imposero ai re di Germania e di Francia di togliere il campo. Questi
protestarono, ma non poterono far altro che adattarsi a una decisione la cui
logica politica sfuggiva loro. La ritirata – durante la quale non mancarono le
azioni di disturbo saracene – fu del resto rapida: ai primi di agosto l’esercito
era già in Palestina.
Corrado ne aveva abbastanza. Spese il puro tempo indispensabile a
riorganizzare i suoi e l’8 settembre salpò da Acri con una nave diretta a
Tessalonica. Il basileus Manuele lo aveva invitato a trascorrere a
Costantinopoli le feste di Natale: e il monarca tedesco aveva ormai tutta
l’aria di ritenere che l’unico obiettivo politico importante da consolidare
come risultato della disgraziata spedizione fosse l’alleanza con Bisanzio
contro Ruggero di Sicilia. Durante questa seconda visita furono celebrate
con grande sfarzo le nozze tra Enrico Jasomirgott e la principessa Teodora.
Il re di Germania lasciò il territorio bizantino nel febbraio 1149, dopo avere
stipulato con Manuele un’alleanza in base alla quale i due sovrani
stabilivano di attaccare il normanno e di spartirsi il Meridione d’Italia: per
quanto, su questo punto, non mancassero né attriti né malintesi.
Si consumava così anche la rottura fra il re di Germania e quello di
Francia, maturata fra Costantinopoli e Damasco. Luigi era rimasto a
Gerusalemme fino alle celebrazioni pasquali del 1149, indi si era imbarcato
su una nave di una flotta siculo-normanna messa a sua disposizione. La
regina, ormai in aperto dissidio con lui, aveva preso posto su un’altra nave.
La traversata fu molto avventurosa, anche a causa dei vascelli bizantini che
incrociavano nel Mediterraneo per catturarli. Alla fine di luglio la coppia
regale era in Calabria e poche settimane dopo in Francia, dove per un certo
tempo si pensò seriamente a una nuova crociata, diretta stavolta contro
l’impero greco. Lo stesso Bernardo, che nel suo De consideratione si era
posto in termini accorati il problema del significato del fallimento della
crociata, intervenne per indurre Corrado di Germania a aderire a questo
nuovo progetto: o comunque a riconciliarsi con Ruggero, quindi ad
allentare i legami stabiliti con la corte del basileus. Ottone di Frisinga
serviva forse da tramite fra Bernardo e Corrado: ma il sovrano svevo era
anzitutto stanco di pericolose e costose spedizioni lontane; poi, aveva già
fatto la sua scelta diplomatica nella direzione dell’alleanza con Bisanzio;
infine, comprendeva fin troppo bene che dietro questo nuovo disegno v’era
la politica mediterranea di Ruggero.
Diversamente da lui, il suo avversario Guelfo di Baviera aveva optato
per l’alleanza normanna: e tornando dalla crociata era passato per la Sicilia.
Ma forse nemmeno Federico condivideva del tutto la posizione del suo
congiunto e sovrano. Può darsi che non fosse insensibile alla propaganda
francese che voleva Manuele complice dei saraceni: e comunque
rimproverava al basileus i rovesci che i tedeschi avevano subìto in Anatolia
nell’autunno del 1147. L’atteggiamento che ne derivava era fatto apposta
per allontanarlo obiettivamente dalle tesi difese da Wibaldo di Stavelot. La
crociata, comunque, doveva avergli insegnato molto.
Anzitutto, durante l’impresa egli era entrato in contatto con i più grandi
signori d’Europa: il conte di Champagne, quello di Fiandra, il marchese di
Monferrato, il conte Guido Guerra. Lo stesso re di Francia lo avrà forse
interessato, con la sua devozione un po’ cupa, col suo strano misto di
debolezza e caparbietà. Ma non meno importante era il fatto che egli fosse
potuto entrare in maggior confidenza con alcuni fra i più importanti
personaggi del regno di Germania: non solo Ottone di Frisinga e Guelfo VI,
suoi zii, ma anche il vescovo Enrico di Ratisbona, Ladislao duca di Boemia,
il margravio di Stiria. Inoltre alla crociata egli si era definitivamente
guadagnato la stima e l’affetto del suo regale zio, fosse o meno sempre stato
d’accordo con lui.
Aveva inoltre ampliato in modo decisivo la sua visione del mondo; aveva
conosciuto le grandi città dell’Oriente; a Costantinopoli aveva ammirato le
grandiose vestigia che là erano state trasferite da Roma e aveva capito che
cos’era l’impero, che cos’era un potere concepito in termini sacrali e
universali. Il solenne e immenso palazzo imperiale presso il porto, con il
suo straordinario susseguirsi di mirabili edifici risplendenti di marmi e di
mosaici e di meravigliosi giardini, lo affascinò senza dubbio; il palazzo
delle Blacherne, residenza abituale del sovrano, dovette riempirlo di
ammirazione; e così le mistiche liturgie nella semioscurità di Santa Sofia
rischiarata dallo scintillare dei mosaici e delle icone colpiti dai barbagli
delle infinite lampade nutrite d’olio profumato; l’etichetta ieratica di corte,
nella quale il basileus detto Philochristos, «Amico del Cristo», e
Isapostolos, «Pari agli Apostoli», rifulgeva in trono come un dio; e i bagni,
le corse dell’Ippodromo, le cacce alle belve feroci con l’ausilio dei falconi e
dei ghepardi.
Dovette comunque esser soprattutto Gerusalemme a commuoverlo. La
città era molto più piccola e meno elegante di Costantinopoli, senza dubbio;
e forse c’era soltanto un monumento che avrebbe potuto rivaleggiare in
bellezza con quelli della capitale bizantina, cioè la Cupola della Roccia che
i crociati chiamavano il Templum Domini e che sorgeva al centro del grande
recinto quadrangolare custodito dai cavalieri templari. 5 La basilica della
Resurrezione invece, con la cupola dell’Anastasis e l’edicola del Santo
Sepolcro, alla metà del XII secolo era ancora un grande cantiere dove si
stavano terminando i lavori che avrebbero trasformato quel che restava
dell’impianto costantiniano nella più incredibile, caotica, affascinante
chiesa romanico-gotica della Cristianità. 6 Della residenza di Federico a
Gerusalemme e delle sue visite ai Luoghi Santi ci resta una sola, lieve
traccia diretta: il fatto cioè che più tardi, e ripetutamente, avrebbe ricordato
commosso di aver visto con i suoi stessi occhi le molte opere di carità che
ogni giorno si facevano nell’Ospedale della Città Santa grazie all’impegno
dei cavalieri di San Giovanni. 7
Federico si lasciò alle spalle Gerusalemme alla fine d’agosto o ai primi
di settembre del 1148; nel giorno della Natività della Vergine, le mura di
Acri scomparvero all’orizzonte; probabilmente le avrà guardate a lungo,
dalla poppa della sua nave, finché il cerchio azzurro del mare non le ebbe
inghiottite. Ma la Città Santa gli rimase forse da allora nel fondo del cuore,
ogni giorno della sua vita. Dice il salmo 137, quello della tristezza
dell’esilio:
Come cantare il cantico del Signore in paese straniero?
Se io ti dimentico, o Gerusalemme,
sia paralizzata la mia mano destra;
resti attaccata al palato la mia lingua, se io non ti ricordo,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia letizia.
Nell’esilio della sua patria tedesca e delle strade di Borgogna e d’Italia,
per quaranta lunghi anni, Federico non avrebbe mai dimenticato
Gerusalemme, l’ombra della vera patria celeste. E alle soglie della
vecchiaia avrebbe ripreso il bordone del pellegrino e la via dell’Oriente,
diretto ancora una volta verso quel suo lontano sogno di giovinezza. Verso
il ricordo di quel ragazzo generoso e feroce d’un tempo, quel giovane dai
capelli fulvi che aveva seguito oltremare il re Corrado.
Se ti dimentico, Gerusalemme…
VII
Di corona in corona
Non sappiamo con sicurezza a quale anno risalga il matrimonio di Federico
con Adela, sorella del margravio Gebhard di Vohburg. Secondo alcuni, le
nozze avevano avuto luogo prima ancora che egli divenisse duca di Svevia,
quindi entro i primi mesi del 1147; per altri, dopo la metà del 1149. I signori
di Vohburg erano sostenitori della casa di Svevia e Adela – che aveva
qualche anno più di Federico – aveva recato in dote allo sposo il feudo
dell’Egerland, direttamente dipendente dal re. Una cortina di nebbia
nasconde ai nostri occhi il volto di questa dama tedesca, che rimase a lungo
in disparte, non fu incoronata con il marito quando questi ascese al trono e
alla fine dovette adattarsi allo scioglimento del suo matrimonio. Poiché la
loro unione era stata priva di figli, e dal momento che per entrambi le
seconde nozze furono feconde, resta in effetti il dubbio che i loro rapporti
siano stati nell’ipotesi migliore molto rari. Fra crociata, cure del ducato e
poi lotta per la corona, a Federico non doveva restare molto tempo da
dedicare a una donna non più giovanissima e appartenente per giunta a un
casato di second’ordine.
Eluderemo pertanto – un senso di pietas ci induce a farlo – il tema
dell’adulterio, toccato da alcuni cronisti del tempo. Esso avrebbe bensì dato
al marito, secondo il diritto consuetudinario germanico, giustificazione per
il ripudio e addirittura per l’uccisione della coniuge: ma secondo il diritto
canonico non era in sé causa sufficiente per il divorzio. Le voci d’infedeltà
possono semmai aver fatto parte del corredo giustificativo
dell’annullamento del vincolo matrimoniale, ma è difficile che siano partite
da corte: o, quanto meno, da Federico. E ciò va detto nel momento in cui è
bene ricordare altresì che nei correnti atteggiamenti mentali della società
feudale il tradimento comportava sì l’infamia del traditore, ma per nulla –
cosa che si sarebbe semmai affermata più tardi, sull’onda del successo di
certi temi trobadorici e giullareschi – il ridicolo del tradito.
A ogni modo, lo sviluppo di tutta la faccenda fa piuttosto pensare che
Federico nutrisse, nei confronti dell’abbandonata Adela, sentimenti di
lontano rimorso, misti magari a insofferenza. Lo scioglimento del
matrimonio fu ottenuto facilmente, e con il consenso della Chiesa, sulla
base dell’allora consueto pretesto della consanguineità: v’era in effetti tra i
due coniugi una parentela di sesto grado e legami del genere erano del resto
frequentissimi – com’è ovvio – all’interno della cerchia dell’alta nobiltà,
cioè di pochi lignaggi dediti a una sorta di endogamia di rango. Beninteso,
di consanguineità così lontane ci si preoccupava solo se e quando la cosa
sembrava conveniente.
Adela si risposò con un cavaliere di condizione sociale inferiore alla sua,
Dietho von Ravensburg, un ministerialis, anche se si è incerti se in quanto
tale appartenesse agli Staufer o ai Welfen. Chissà che queste seconde nozze,
allietate da parecchi figli, non siano state da parte del sovrano un modo per
riparare indirettamente a un torto commesso e assicurare alla donna – come
consorte di un ministerialis – l’egida della protezione regia.
Il fatto è che comunque il legame con i Vohburg apparteneva ancora alla
«politica del piede di casa» cara agli ultimi anni di Federico il Losco;
serviva a consolidare la posizione feudale e patrimoniale degli Svevi, senza
prospettive più ampie. Una volta re, Federico avrebbe considerato come una
grave remora questo matrimonio senza eredi con l’esponente d’un così poco
significativo lignaggio.
Lasciamo quindi alla sua nebbia la memoria di Adela, senza farle carico
di un adulterio ch’essa non avrebbe peraltro forse mai avuto l’opportunità di
commettere neppure se avesse voluto; rispettiamo la tristezza di una donna
vittima prima d’un legame impostole dal suo casato, poi delle ragioni d’una
politica più grande di lei.
E torniamo al Federico pubblico, al suo ruolo di duca di Svevia e di
stretto collaboratore del re di Germania all’indomani della crociata. Dopo
questa peraltro infelice esperienza, Guelfo VI – reduce da una visita a
Ruggero di Sicilia e presumibilmente ben fornito di oro normanno – si era
dato a organizzare di nuovo senza perder tempo una rivolta nobiliare i
sintomi della quale serpeggiavano del resto un po’ in tutto il regno e alla
quale la lunga assenza del sovrano aveva fornito esca. Guelfo mirava
naturalmente a riprendersi la Baviera: ma il giovane re Enrico, che durante
l’assenza del padre impegnato nella crociata aveva dato buone prove di sé e
suscitato grandi speranze, lo vinse e quasi lo prese prigioniero in una
battaglia presso Flochberg, l’8 febbraio 1150, che assisté alla dissoluzione
del gruppo dei ribelli. In quell’occasione si posero in luce le doti di
moderazione politica e la capacità mediatrice del duca di Svevia: Federico
fece in modo che i prigionieri di Flochberg venissero celermente liberati dai
vincitori e che Guelfo potesse rientrare nei ranghi mantenendo la sua
dignità nonché riottenere beni in qualità e in misura per lui onorevoli.
Si andava ormai delineando comunque una situazione che vedeva, come
del resto altre volte era accaduto, l’equilibrio interno della Germania
strettamente connesso a quello internazionale. Dati infatti i rapporti fra
corona e nobiltà tedesca, era abbastanza logico che qualunque nemico
esterno del sovrano avrebbe cercato di creargli difficoltà alleandosi con
questo o con quello dei suoi grandi nobili. Ora, la tensione costante fra
Staufer e Welfen costituiva un’occasione ideale per quanti avessero voluto
minare dal di fuori la sicurezza interna del regno. E Corrado, da parte sua,
aveva abbastanza rigidamente limitato i campi del gioco delle alleanze
internazionali scegliendo senza possibilità di equivoci l’amicizia con la
corte di Bisanzio: anzi, sperava di ottenere una principessa bizantina in
sposa per suo figlio Enrico. Ciò rendeva automatica e irreversibile l’ostilità
nei suoi confronti da parte del re di Sicilia, che ben conosceva i diritti e le
pretese dei due imperi sui territori che costituivano appunto il suo regno;
ma, dopo la crociata, allontanava dal sovrano tedesco anche le simpatie del
papa e del re di Francia, convinti entrambi che Manuele Comneno avesse
congiurato con i potentati musulmani per sabotare la santa impresa.
Abbiamo del resto già veduto come, durante la crociata, la reciproca
antipatia fra tedeschi e francesi avesse avuto modo di manifestarsi in
termini non soltanto politici.
Ruggero di Sicilia aveva da parte sua non pochi problemi: l’impresa
contro Bisanzio avviata con la presa di Corfù non aveva avuto successo e
nell’estate del 1149 i bizantini, con l’aiuto dei veneziani, avevano
riconquistato l’isola; nel contempo, egli si trovava a sua volta a dover
fronteggiare una coalizione di nobili ribelli della quale avrebbe avuto
ragione soltanto nel febbraio seguente, più o meno – coincidenza? – nello
stesso periodo della battaglia di Flochberg. Ruggero comprendeva bene che
l’appoggio del pontefice gli sarebbe stato indispensabile per mantenersi
saldo nel suo regno: d’altronde, sapeva che dal concordato di Worms in poi
il papato vedeva nel re di Germania il suo naturale appoggio politico –
secondo la tradizione carolingia che Ottone I aveva rinnovato nel X secolo
– e che attorno al pontefice v’erano prelati che sull’equilibrio tra Santa Sede
e corona tedesca avevano impostato la loro concezione dell’ordine in
Occidente. Era pertanto necessario da un lato fomentare mediante la
corruzione qualunque possibile forma di rivolta o di difficoltà politica
interna alla Germania, dall’altro dimostrare al papa ch’era inutile attendersi
da Oltralpe un aiuto che – proprio a causa di quelle rivolte e di quelle
difficoltà – Corrado non era in grado di fornire, mentre c’era, vicino a lui,
pronto e valido, il braccio normanno che già aveva sostenuto Gregorio VII
al tempo della «lotta per le investiture». Solido appoggio alla politica di
Ruggero presso il pontefice era un grande rappresentante dell’aristocrazia
romana, Cencio Frangipani.
Roma era di nuovo in rivolta contro il papa; e dal 1148 il Senato pendeva
sempre più affascinato dalle labbra dell’agitatore Arnaldo da Brescia.
Eugenio III accettò quindi l’aiuto normanno dal momento che il sovrano
tedesco, ancora una volta impegnato a sedare la sollevazione nobiliare nel
suo regno, non poteva evidentemente soccorrerlo. Senonché, l’aiuto di
Ruggero costava molto caro: egli chiedeva in cambio non solo la conferma
dell’investitura feudale del regno di Sicilia, ma anche, in pratica, il diritto di
scegliere i vescovi delle sue città. Era molto più di quanto, dopo Worms,
avesse mai domandato il re di Germania: e nel Sacro Collegio vi erano
cardinali – fra cui il canonista dell’Università di Bologna Rolando
Bandinelli, che aveva da poco assunto la porpora – i quali consigliavano un
ridimensionamento dell’intesa con Palermo. Ruggero si rese conto ch’era
necessario mettere il pontefice davanti al fatto compiuto: e nella Pasqua del
1151, fece incoronare re suo figlio Guglielmo assicurandosi così la
discendenza dinastica.
La mossa del normanno era tanto più grave in quanto, nel frattempo,
Eugenio III era stato costretto ad abbandonare di nuovo Roma. Contrastanti
accorati appelli a Corrado partirono a quel punto, contemporaneamente, sia
dalla cancelleria pontificia sia dal Senato romano. Venisse a Roma a cingere
alfine quella corona imperiale che, da Ottone I in poi, spettava di diritto al
re di Germania: ciò chiedevano entrambi. E l’assumesse dalle mani del
papa come si faceva dai tempi di Carlomagno in poi, riaffermando il suo
ruolo di defensor Ecclesiae e ristabilendo l’autorità pontificia in Roma:
questo pretendeva Eugenio. La ricevesse invece da quel popolo romano
che, secondo l’antica tradizione, era il solo ad avere il diritto di conferirla:
ciò proponeva il Senato.
Un’ambasceria papale, formata dai cardinali Ottaviano di Santa Cecilia e
Giordano di Santa Susanna, si recò in Germania per comporre le varie
ragioni di dissidio che ancora dividevano Eugenio da Corrado. Fu in
quell’occasione che il cardinale Ottaviano allacciò con Federico di Svevia
un’amicizia destinata a dare, di lì a un decennio, inattesi frutti. Il papa era
disposto ad abbandonare l’alleanza con Palermo – considerata sempre un
momentaneo ripiego – e quindi il progetto d’una crociata franco-normanna
contro Costantinopoli (che tanto piaceva invece agli abati di Clairvaux e di
Cluny): ma in cambio l’intervento romano di Corrado doveva essere rapido
e risolutivo. Ruggero non restava intanto inattivo, e aveva le mani lunghe:
già nuovi fermenti di rivolta serpeggiavano in Sassonia.
Le pressioni congiunte del pontefice attraverso i cardinali e dei prelati di
corte, primo fra tutti l’ascoltato consigliere Wibaldo di Stavelot, ebbero alla
fine ragione delle perplessità di Corrado III. Il re teneva alla corona
imperiale: da parte sua, Wibaldo si proponeva di fungere da mediatore tra
Manuele e Corrado, mentre il basileus si dichiarava disposto a intervenire
entro breve tempo in Italia contro Ruggero.
Il fatto era che l’incoronazione di Guglielmo aveva colmato la misura,
ottenendo nei confronti della Santa Sede il risultato opposto a quello che
avrebbe voluto: ormai, anche il papa era d’accordo che una campagna
contro il re di Sicilia fosse indispensabile. In due successive diete, a
Ratisbona nel giugno e a Würzburg nel settembre, Corrado si dichiarò
deciso a compiere la sua Romfahrt, il viaggio-pellegrinaggio-spedizione in
Italia durante il quale avrebbe assunto la corona imperiale. È vero che le
cose tedesche non erano ancora in ordine e la rivolta del duca di Sassonia
perdurava: ma ormai era questione di quale priorità scegliere, e Corrado
aveva deciso. Stabilì che dodici mesi dovevano bastare per la preparazione
dell’esercito: alla metà del settembre dell’anno successivo, egli avrebbe
mosso alla volta dei passi alpini e i suoi fideles dovevano essere per quella
data pronti a raggiungerlo, ciascuno con i suoi contingenti. Alla Sassonia si
sarebbe pensato più tardi.
Partiva frattanto un’ambasciata tedesca costituita dal cancelliere regio
Arnoldo arcivescovo di Colonia e da Wibaldo di Stavelot: essa recava
missive non solo per il papa ma anche per varie città italiche che in un
modo o nell’altro erano interessate alla discesa del loro sovrano nella
penisola. V’era un messaggio anche per i riottosi romani, consigliati sì di
sottomettersi di buon grado, ma al tempo stesso trattati con un certo
riguardo. L’ambasceria regia aveva l’incarico di fare il possibile affinché il
rientro del papa in Roma avvenisse con il consenso del Senato. Il pontefice,
però, non fece da parte sua alcun passo per giungere a una composizione
con i suoi avversari romani.
A metà febbraio 1152, Corrado era a Bamberga dove si era recato per
tenervi una dieta. Era stanco e non più nel fiore degli anni: tuttavia non
c’erano veri motivi per temere della sua vita. Invece, inaspettatamente, egli
abbandonò questa valle di lacrime: e la sua dipartita alla vigilia del viaggio
d’Italia fu così inattesa per un verso e «tempestiva» per un altro, che si
sospettò – e Ottone di Frisinga raccoglie tale diceria – che egli fosse stato
fatto avvelenare da Ruggero. Può darsi che, più che di una voce, si trattasse
di una vera e propria falsa notizia messa in giro sotto forma di serpeggiante
ipotesi da quanti avevano interesse a rendere irreversibile l’ostilità tra
normanni (e quindi francesi) e tedeschi, perciò a rafforzare l’asse tra i
Comneni e gli Staufer. La scomparsa di re Corrado era tanto più grave in
quello specifico frangente in quanto poco prima suo figlio Enrico, il
vincitore di Flochberg ch’era stato associato al trono tedesco fino dal 1147,
era premorto al padre. Vero è che Corrado aveva anche un altro figlio,
Federico conte di Rothenburg: ma quegli era allora un ragazzo di sei-sette
anni. Morendo, il sovrano aveva affidato pertanto le insegne regali e la
tutela del suo giovanissimo figlio al nipote Federico di Svevia, che negli
ultimi cinque anni gli era stato di continuo accanto fornendogli parecchie
prove di fedeltà, di energia e d’intelligenza. Più tardi avrebbe preso a
circolare la voce di una vera e propria designazione di Federico quale
successore al trono da parte del morente Corrado: essa non è tuttavia
documentata né sembra poggiata su alcun serio fondamento.
D’altronde, il fatto che Federico fosse figlio di uno Staufer e di una Welf
nonché depositario delle insegne regali corrispondeva a due importanti
elementi in suo vantaggio, sul piano della candidatura al trono. Bisognava
tuttavia agire rapidamente, perché la posta in gioco era alta: da un lato, si
trattava di confermare l’autorità della corona prima che le tendenze
centrifughe della nobiltà tedesca avessero di nuovo il sopravvento,
qualcuno sollevasse la questione dei diritti ereditari del fanciullo
secondogenito di Corrado o si facesse avanti qualche altro pretendente e il
paese precipitasse insomma ancora una volta nella guerra civile; dall’altro,
era necessario impedire che il partito della stretta fedeltà al papato romano
riuscisse – come era accaduto nelle due ultime elezioni regali – a
egemonizzare l’elettorato imponendo come suo candidato un concorrente
più debole di Federico in modo da perpetuare quello stato d’insicurezza
della corona che giovava sia al papa sia ai principi tedeschi (ecclesiastici
soprattutto, ma anche laici).
Le trattative furono a quel punto direttamente condotte dallo Svevo non
solo con la massima spregiudicatezza, ma anche nella piena ed esplicita
accettazione di una logica di spartizione dei poteri territoriali e feudali che
in un certo senso rappresentava la conclusione pacifica di un’evoluzione
segnata da tre decenni di guerre civili. Enrico il Leone, duca di Sassonia e
ormai – nonostante i suoi circa ventidue anni appena – capo riconosciuto di
casa Welf, aveva di nuovo ottenuto dal 1142 il suo ducato, che Corrado
aveva prima tolto, come sappiamo, al padre; ma era da parecchi mesi in
rivolta, in quanto aspirava a rientrare in possesso di quella Baviera della
quale i suoi antenati erano stati duchi ereditari. In tale regione egli era
d’altronde titolare sia di numerosi allodi, sia di feudi d’origine non ducale:
quella regione era piena di suoi fideles. Federico si rese conto che la
mancata restituzione del ducato bavaro al cugino avrebbe significato il
perpetuarsi della guerra civile; inoltre il Leone, pur non avendo nessuna
possibilità di avanzare personalmente la sua candidatura alla corona regia,
poteva influenzare con molta efficacia una parte consistente dell’elettorato.
La sola ragionevole soluzione consisteva dunque nel negoziare il suo
appoggio, garantendogli in cambio entrambi i ducati: Sassonia e Baviera.
Soluzione del resto limpida, ma al tempo stesso sconcertante: il trionfo
della casa Welf attraverso l’ascesa al trono di un Hohenstaufen. E, di fatto,
una diarchia nel regno – e non era forse logico, visto che le due parti si
fronteggiavano da anni senza che nessuna delle due riuscisse a prevalere? –,
poiché chi fosse stato dichiarato signore di Baviera e Sassonia sarebbe
divenuto veramente, e non per modo di dire, padrone di mezza Germania.
C’era in tutto o in parte l’occulta regia della madre di Federico e zia di
Enrico il Leone, Giuditta della casa dei Welfen, in tutto questo? Era suo il
sogno del perpetuarsi dell’alleanza tra le due dinastie ducali di cui il suo
matrimonio era stato modello? Era lei a sperare con forza nel duraturo
accordo tra suo figlio e suo nipote?
Attorno all’asse dell’alleanza tra i due cugini si ordinarono le altre
potenze, le altre pretese, gli altri interessi; a Guelfo di Memmingen furono
promessi marca di Toscana e ducato di Spoleto; a Bertoldo di Zähringen,
suocero di Enrico il Leone e sire della Brisgovia, di Zurigo e di Berna, si
promise l’alta mano sulla Borgogna. Restava fuori dall’accordo Enrico
Jasomirgott di Babenberg, allora titolare del ducato di Baviera, che ben
comprendeva al contrario come si stesse delineando un’alleanza che lo
avrebbe privato della sua prestigiosa corona ducale. Ma allo stato dei fatti
egli era un isolato: d’altronde, gli restava pur sempre la «marca orientale»,
l’Austria. Permanevano incerte anche le posizioni di vari altri grandi del
regno: del conte palatino di Baviera Ottone di Wittelsbach, del conte Enrico
di Ratzeburg, di Alberto l’Orso margravio del Brandeburgo, di Adolfo II di
Schauenburg conte dello Holstein, del duca Ladislao di Boemia, di
Ermanno di Stahleck conte palatino del Reno e via discorrendo. È probabile
che la familiarità con alcuni di loro, che Federico si era guadagnato durante
la crociata, fosse determinante per il loro consenso. A ogni modo,
opposizioni davvero vigorose non pare che ve ne fossero. Restava un vero e
proprio ostacolo, costituito dal prelato che occupava il posto al quale per
consuetudine spettava la reggenza del regno nei periodi di vacanza del
trono: l’arcivescovo Enrico di Magonza, notoriamente fedelissimo al papa e
il cui principato episcopale era tradizionalmente avverso a franconi e a
svevi. Egli guardava inoltre con sospetto a Ottone di Babenberg, zio di
Federico, che come principe dell’impero era probabilmente del tutto
d’accordo col disegno del nipote e come vescovo di Frisinga, suffraganeo
quindi dell’arcidiocesi di Magonza, avrebbe magari amato liberarsi del suo
metropolita facendo in modo che la sua diocesi venisse promossa al rango
archiepiscopale.
Wibaldo di Stavelot, rientrato allora dalla missione italica, notò
immediatamente che qualcosa, nella politica dell’aristocrazia tedesca,
andava cambiando. Gli arcivescovi Arnoldo di Colonia e Hillin di Treviri
(grande amico di Federico) erano allineati sulla soluzione prospettata a
Bamberga, quella di una successione del duca di Svevia al trono; il clero
bavaro aveva manifestato di gradire tale soluzione; la nobiltà tedesca si
andava radunando a Colonia per una sorta di consenso pre-elettorale e la
città scelta per l’incontro non era casuale: si trattava di evitare Magonza e il
suo vescovo principe. Wibaldo aveva pro bono pacis incoraggiato un
avvicinamento fra Welfen e Weiblingen: ma ora si stava forse domandando
che cosa ne sarebbe scaturito per gli interessi della Chiesa in Germania.
Il 4 marzo 1152 l’arcivescovo di Magonza inaugurò com’era suo diritto
nella città di Francoforte, soggetta alla sua autorità, la dieta elettorale del
regno. Immediatamente, il copione studiato fra Bamberga e Colonia venne
messo in scena con abilità: l’arcivescovo di Colonia propose che le
decisioni (era tradizionalmente necessaria, per l’elezione, l’unanimità)
fossero demandate a una commissione composta dai grandi principi, dai
quali avrebbe dovuto uscire il re; essa – nella quale figuravano Federico di
Svevia, Enrico di Sassonia, Enrico di Baviera – si riunì celermente; ma
quasi contemporaneamente una voce tumultuosa si levò dagli
accampamenti e l’acclamazione «Fridericus Rex!» risonò dappertutto,
mentre i nobili svevi sollevavano il loro giovane duca sugli scudi. Egli
diventava ormai così re di Germania e in quanto tale rex Romanorum, «re
dei romani», titolo in sé privo di realtà concreta ma che gli conferiva per
tradizione il diritto a prendere in Roma la corona imperiale dalle mani del
papa. Le proteste dell’arcivescovo di Magonza vennero soffocate; Federico,
eloquentemente circondato dai suoi partigiani in armi, dichiarò chiusa la
dieta elettorale e convocò tutti i presenti entro cinque giorni, il 9, ad
Aquisgrana, dove avrebbe avuto luogo – con una tempestività che tradiva la
fretta – la cerimonia dell’incoronazione. La presunta «fretta» era
giustificata. L’elezione non conferiva alcun potere definitivo e riconosciuto:
era semplicemente un titolo giuridico per salire al trono. Ma quel che
«faceva il re» era appunto l’incoronazione. D’altra parte, va tenuto presente
che l’elezione a re di Germania costituiva in sé, automaticamente, una
piena, legittima, formale candidatura al trono romano-germanico. Il «re dei
romani» era sovente definito «imperatore eletto»: ed era tale.
Da Francoforte per via fluviale attraverso il Meno e il Reno, e poi da
Sinzig per via di terra, Federico giunse ad Aquisgrana. La cerimonia
dell’incoronazione si tenne la domenica Laetare Jerusalem, quarta di
quaresima (e, appunto, 9 marzo), nella Cappella Palatina, la grande chiesa
ottagonale eretta da Carlomagno a imitazione di San Vitale di Ravenna e
dove riposavano le spoglie del fondatore dell’impero franco. Il giovane
svevo poté sedere sul grande trono di pietra posto sul lato ovest del
deambulacro della chiesa, dove la corona gli fu cinta da Arnoldo
arcivescovo di Colonia; indi ricevette l’unzione sacramentale. «Re
d’Occidente», perché nell’area ovest della chiesa era posto il suo seggio,
aveva visto giungergli da Oriente – perché a est era, nel sacro edificio,
collocato il grande altare – la corona regale. A cinque anni dal suo viaggio
al Sepolcro, ora il Cristo gli si faceva liturgicamente incontro da oriente
verso occidente, dalla pietra dell’altare a quella del trono. Era la risposta al
suo stesso trionfale ritorno dalla crociata. Fortificato dal santo crisma,
Federico era ormai un «Cristo» (cioè un «unto») del Signore.
I WELFEN, GLI STAUFER E I BABENBERG
* Zio del Barbarossa. Grande alleato del fratellastro Corrado III, riceve il
ducato di Baviera che governa mantenendo il margraviato d’Austria.
** È il famoso storico del Barbarossa, di cui era zio.
*** Nel 1141 eredita i titoli del fratello maggiore. Sposa Gertrude,
vedova di Enrico il Superbo e figlia di Lotario III di Süpplingenburg, e in
seconde nozze Teodora, nipote di Manuele Comneno.
I vescovi di Bamberga e di Treviri, insieme con l’abate di Ebrach, furono
immediatamente inviati a Roma con una lettera per mezzo della quale il
sovrano informava il pontefice della sua elezione – ma senza chiedergliene
conferma, a differenza di quanto avevano invece fatto i suoi predecessori –
e lo assicurava della sua volontà di conservare fedeltà alla Chiesa e di
mantenere intatte le sue prerogative, d’instaurare la giustizia nel regno e di
rifondare la passata grandezza dell’impero.
Queste erano tuttavia espressioni più o meno di repertorio. La realtà
consisteva nel fatto che Federico, allora più o meno trentenne, era nel pieno
vigore delle sue forze; e, come discendente delle due case che da trent’anni
si disputavano il supremo potere in Germania, Welfen e Weiblingen, aveva
consapevolezza di essere la «pietra angolare» in grado di unire le due
tradizioni e di regnare quindi «in pace»: il che significava con poteri ed
energia politica quali forse nessun sovrano tedesco aveva più avuto a
disposizione dalla morte di Enrico III in poi.
La risposta del pontefice alla lettera di Federico giunse da Segni due
buoni mesi più tardi: anche tenendo conto della relativa lentezza delle
comunicazioni del tempo e della ponderazione necessaria per un documento
così importante, il ritardo era significativo. Il papa era già stato informato
dall’arcivescovo di Magonza e dai prelati tedeschi a lui più fedeli di come si
erano svolte le cose alla dieta di Francoforte. Anche Wibaldo di Stavelot gli
aveva scritto, lodando le doti d’intelligenza, di decisione, di coraggio, di
senso della giustizia (cioè, fuor di metafora, di alto concetto del proprio
ruolo) del nuovo sovrano: insomma, lo aveva avvertito che si preparavano
tempi più difficili nel controllo del regno da parte della Chiesa. Il fatto poi
che il nuovo re di Germania non domandasse al pontefice conferma alcuna
della corona ricevuta era il segno di una scelta: da allora, la Chiesa tedesca
avrebbe avuto grossi problemi quanto al mantenimento della sua libertas,
termine che significava la stretta dipendenza dalla Curia pontificia.
Eugenio III dichiarava dunque, nella sua lettera, di approvare benigno
favore sedis apostolicae l’elezione di Federico: era la risposta
«benignamente» affermativa a una domanda non formulata, a una richiesta
evitata. E sonava implicitamente ben più grave di un rimprovero. Fin
dall’età carolingia, l’imperatore era sempre stato incoronato dal papa: il che
sottintendeva che un principe germanico, per potersi dire «re dei romani» e
candidato quindi alla corona imperiale, dovesse preventivamente disporre
del favor apostolicus. Accordando quanto non gli era stato domandato, il
pontefice restaurava implicitamente un ordine che il re aveva
consapevolmente violato: Federico era ben accetto dall’apostolica sedes
malgrado la sua volontà. In un certo senso si può affermare che le contese
praticamente incessanti che Federico dovette sostenere per quasi
quarant’anni con sette diversi pontefici cominciarono da qui.
D’altra parte, Eugenio III non era in grado di guastarsi con il sovrano
tedesco: anzi, nella sua missiva gli raccomandava di scendere presto in
Italia per assumervi la corona imperiale adempiendo quelle promesse che
Corrado aveva formulato alla Curia e alle quali la morte gli aveva impedito
di tener fede. La ragione di tanta premura risultava chiara da una lettera che
qualche mese dopo, il 20 settembre del medesimo anno, il papa scriveva a
Wibaldo di Stavelot: i populares romani stavano tramando in segreto,
istigati da Arnaldo da Brescia; era necessario che il re di Germania venisse
al più presto a Roma e schiacciasse la testa della rivolta. La sottintesa
pretesa di superiorità pontificia espressa dal benigno favore della lettera a
Federico si adattava perfettamente alla richiesta d’aiuto della lettera a
Wibaldo: non era forse l’imperatore defensor Ecclesiae? Quel che si
chiedeva al re di Germania era di adempiere a un dovere, non di concedere
un favore. Il soccorso era l’atto dovuto di un dignitario della Chiesa di
Roma a colui che ne era il capo.
Sul piano politico il pontefice sapeva d’altronde bene che il soccorso del
re di Germania gli sarebbe stato fatto pagar caro: e tuttavia quel che
risultava evidentemente prioritario era lo sbarazzarsi una volta per tutte di
Arnaldo, anche se ciò avesse dovuto obbligarlo a pesanti concessioni al
sovrano tedesco. Del resto già la lettera di Federico al papa, se ometteva di
domandare l’approvazione, implicitamente – diciamo pur involontariamente
– la sollecitava promettendo in cambio un energico e pronto appoggio: e
ciò, in quel frangente, non costituiva per il pontefice un baratto
svantaggioso. Ma i romani, sostenuti dal magistero di Arnaldo e
dall’aspirazione all’indipendenza della loro città, non avevano intenzione di
assistere passivamente a queste transazioni. Già nel 1149 avevano
ripetutamente scritto a Corrado III per incitarlo a scendere a Roma e ad
assumervi la corona imperiale nonostante le macchinazioni del papa, dei
Frangipani, dei Pierleoni – eccetto beninteso Giordano – e del re di Sicilia.
Erano evidenti, in tali missive, i rapporti fra le tesi cristiano-popolari di
Arnaldo e la rinnovata ideologia «quirite» che, grazie anche alla coeva
rinascita del diritto romano, andava conquistando il Senato dell’Urbe. La
base giuridica per la rivendicazione del diritto del popolo romano ad
autogovernarsi e per la stessa sua pretesa a disporre della corona imperiale
era la Lex regia: appunto in nome di essa la corona era stata offerta a re
Corrado, al quale si erano proposti i due modelli imperiali e cristiani di
Costantino e di Giustiniano. E ora, proprio nel 1152, da Roma giungeva a
Federico la lettera di un sostenitore di Arnaldo che noi conosciamo col
nome di Wetzel e che quindi supponiamo fosse un tedesco. Vero nome o
pseudonimo che esso fosse, il documento che recava quella firma era
improntato a una solida cultura e a una chiara per quanto schematica e
unilaterale visione delle cose. Wetzel cominciava con il congratularsi per
l’incoronazione regale di Federico, dolendosi tuttavia del fatto che questi –
tratto evidentemente in inganno dai chierici, i quali tendono sempre a
confondere le cose umane non meno che le divine – avesse trascurato di
domandar conferma della sua elezione a re «dei romani», che
l’incoronazione regia germanica comportava, non già al papa, ma ai suoi
stessi sudditi; o meglio, a Roma stessa, a quella Roma «signora del mondo,
creatrice e madre degli imperatori».
Wetzel proseguiva argomentando, alla luce tanto delle Scritture quanto
del diritto giustinianeo, su quali fossero i diritti del popolo romano a gestire
la dignità imperiale: Roma veniva paragonata a Rebecca, la quale aveva
consentito a Giacobbe di ricevere la benedizione di Isacco; il clero era
eretico, apostata, nemico della legge di Dio; la «Donazione di Costantino»
una menzogna; arma precipua dell’imperatore era la legge; potere e dignità
dell’impero erano nelle mani dei romani, ai quali spettava pertanto il creare
gli imperatori. La missiva concludeva chiedendo l’invio di un’ambasciata
che avrebbe dovuto trattare con il popolo romano i particolari dei diritti
imperiali.
Federico non poteva né aveva certo l’intenzione di prestare orecchio a
questa voce forse isolata, certamente eccezionale: tuttavia, doveva tener
conto dell’esistenza anche di umori di questo genere, soprattutto se voleva
avere un quadro chiaro di quanto avrebbe potuto trovare in Italia. Ma sul
momento era necessario consolidare la situazione tedesca: a ciò lo spingeva
quella stessa aristocrazia laica che quasi unanime lo aveva elevato al trono
dopo aver imparato a sue spese – con un’esperienza trentennale – che la
scelta di un candidato debole conduceva non già a una maggiore libertà
nobiliare, bensì soltanto alla guerra civile. Per quanto la discesa in Italia
fosse necessaria anche per cingere le due corone, la regale italica e
l’imperiale, Federico intendeva prima provvedere a regolar le cose
tedesche, indi ad accordarsi con il pontefice in maniera da subordinare la
sistemazione delle faccende romane a una ridefinizione sia dei rapporti fra
impero e papato, sia delle prerogative regie sulla Chiesa tedesca.
Il biennio 1152-54 fu caratterizzato da una serie ininterrotta di diete nelle
quali Federico affrontò, una per una, le questioni più importanti: soltanto
dopo aver così impostato per linee generali la sua azione di governo,
avrebbero potuto passare le Alpi.
Celebrata la Pasqua a Colonia, il re inaugurò il 18 maggio seguente, a
Merseburgo, una grande assemblea generale di tutti i principi del suo regno.
Era il giorno di Pentecoste: il solenne evento sarebbe durato sino alla fine
del mese.
Che cos’era, come si presentava, la Germania d’allora? A prima vista, si
sarebbe tentati di rispondere che il quadro era quello di un paese in assetto
di transizione: le tracce del vecchio sistema di organizzazione etnica
rimanevano, ma stava affermandosi un nuovo modello, quello
dell’organizzazione territoriale, mentre faceva grandi progressi il sistema
feudale. I principati più forti o dotati di più ampia autonomia e di più ricche
risorse erano i ducati: la Sassonia a nord; la Svevia, la Baviera e la Carinzia
a sud; l’Alta Lorena a ovest (la Bassa Lorena, nata come una parte
dell’antico principato etnico di Lotaringia, era ormai scomparsa e il titolo
ducale che le spettava sarebbe stato rivendicato dal Brabante); la Boemia a
est. Il ducato etnico di Franconia era ormai scomparso, fagocitato da Svevia
e Baviera. Alle frontiere orientali stavano poi, a difenderne i confini, le
marche: il vecchio Nordmarck, ormai divenuto Brandeburgo; e poi ancora
le marche di Lusazia, di Misnia, d’Austria (l’Ostmarck), di Stiria, di
Carniola.
Tra un ducato e l’altro, tra una marca e l’altra, oppure all’interno degli
uni o delle altre, v’erano delle contee: si trattava senza dubbio di pubbliche
circoscrizioni, ma ciò non toglie che talune di esse fossero nate per
usurpazione dei diritti regi o in seguito allo smembramento di precedenti
compagini circoscrizionali. Erano nate in tal modo le contee di Franconia o
di Frisia; così – dalla scissione della Bassa Lorena – la contea di Fiandra
dipendente dal regno di Germania (ma un’altra contea fiamminga, più
ampia, dipendeva da quello di Francia), nonché quelle di Lussemburgo, di
Hainaut, di Olanda, di Gheldria. Alcuni conti erano riusciti a mantenere la
loro autorità su ampi territori, nei confini dei quali esercitavano anche l’alta
giustizia: erano i «landgravi», il più celebre dei quali era quello di Turingia.
Fra i conti, un ruolo speciale spettava a quelli detti «palatini» in quanto
esercitavano funzioni pubbliche presso la curia regis, il «Palazzo», cioè a
corte. Importanti il conte palatino di Sassonia e, ancora di più, quello
dell’Alta Lorena, di solito definito «conte palatino del Reno», il quale
amministrava la regione che avrebbe poi preso appunto il nome di
Palatinato.
A differenza dei principati laici, che di solito conservavano un carattere
rurale e i titolari dei quali usavano sempre più trarre la propria
denominazione da uno dei loro castelli, i principati ecclesiastici – Magonza,
Colonia, Treviri, Salisburgo, Amburgo-Brema, Magdeburgo – erano in
genere costituiti dalle città centro arcidiocesano del principe-arcivescovo e
da una porzione più o meno ampia dell’area circostante. Il regno contava
appunto le sei province arcidiocesane or ora menzionate, a loro volta
ripartite in una quarantina circa di diocesi; vescovi e abati dei monasteri
regi partecipavano di diritto all’elezione del sovrano.
I principi ecclesiastici e i duchi e marchesi laici, nonché i conti
dipendenti da loro o direttamente dal re, costituivano il più alto livello
dell’aristocrazia tedesca. Al di sotto di esso stavano i detentori di feudi
minori e i liberi proprietari di «allodi»: essi, con riguardo alla loro rispettiva
personale condizione, si distinguevano in domini (o Herren), cioè detentori
di feudi o di allodi estesi e di certe prerogative giurisdizionali; milites (o
Ritter), cioè cavalieri, liberi possessori di più piccoli feudi; ministeriales (o
Dienstmannen), spesso ricchi o potenti, ma di origine non libera e che
dovevano la loro nobiltà all’esercizio di un ufficio.
Gli abitanti del regno erano inseriti dunque, in qualità di sudditi,
all’interno di questa complessa rete signoriale. A meno che non abitassero
nelle città, le quali appunto nel XII secolo si andavano in Germania
moltiplicando ed estendendo: perché in quel caso essi potevano godere del
regime del tutto speciale di libertas che la corona accordava direttamente ai
centri urbani e ai relativi mercati. Se a questa selva di condizioni giuridiche
e sociali, di differenti livelli giurisdizionali, di prerogative variamente
distribuite, aggiungiamo le rivalità dinastiche e le lotte civili, ci si renderà
facilmente conto di come fosse difficile per il sovrano governare in modo
ordinato ed efficace; e come tale ordine non implicasse quell’uguaglianza
che pure esisteva negli antichi regni germanici. Le stesse libertates, non
uniformi nei loro pratici contenuti, erano concepite dal sovrano e dai sudditi
come altrettanti privilegia.
L’impegno con il quale Federico si pose al lavoro per riorganizzare il suo
regno va certamente attribuito alla sua energia: ma anche, senza dubbio
alcuno, alla volontà dell’alta aristocrazia che intendeva veder andare a
sollecito buon fine gli accordi conclusi con lui alla vigilia dell’elezione del
marzo. A Merseburgo si era verificato un fatto che era sembrato di buon
auspicio: i due contendenti al trono di Danimarca, Sveno e Canuto, si erano
rivolti al re di Germania per ottenere il suo arbitrato. Egli decise in favore di
Sveno, ma pretese che questi gli prestasse in cambio omaggio: il trono
danese diveniva in tal modo vassallo del regno germanico. Intanto, forse per
tener fede a una promessa fatta a Corrado, egli lasciava il suo ducato di
Svevia al giovanissimo cugino Federico di Rothenburg che in un certo
senso aveva privato di un trono (al quale comunque, in regime di monarchia
elettiva, questi non aveva in quanto figlio del defunto re pieni e totali diritti)
ma che non cessava di proteggere. Successivamente, alla dieta di Ratisbona
tenuta nel giugno, affidò in feudo a Guelfo VI marca di Toscana, ducato di
Spoleto, beni matildini, Sardegna. Più complesso si annunziava il problema
della Baviera, rivendicata da Enrico il Leone contro Enrico Jasomirgott:
Federico intendeva mantenere le promesse formulate in fase pre-elettorale,
ma la questione era talmente delicata che si dovette affidarla all’assemblea
dei principi del regno.
Allo stesso periodo appartiene la proclamazione del Landfriede, la
costituzione di pace valida per tutto il regno. Fin dall’inizio della sua
attività di governo, Federico dette segno di voler portare avanti in parallelo
– magari con alterne fasi tattiche – due disegni politici: da un lato la
feudalizzazione del regno impostagli dalla realtà di fatto del grande potere
dei principi senza i quali egli non avrebbe mai cinto la corona; dall’altro il
mantenimento e, dove e quando possibile, il potenziamento del principio
della superiore unità territoriale del regno stesso, per quanto l’autorità
pubblica fosse anche su questo piano largamente delegata ai principi. Alla
luce di ciò, la compresenza e la dialettica di un Landrecht (diritto
territoriale) e di un Lehenrecht (diritto feudale) sarebbero rimaste
caratteristiche inaggirabili e sia pur problematicamente complementari.
Scopo del Landfriede era l’affermazione del potere regio contro ogni
possibile forma di anarchia o di forza centrifuga o anche soltanto di
aspirazione indipendentistica: era il sovrano e lui solo a emettere la
costituzione di pace, per quanto convocasse poi in distinte assemblee locali
i principi e la facesse giurare a ciascuno di loro. In tale costituzione si
decretava la pena di morte per i casi di omicidio e si precisavano le pene per
quelli di ferita grave o di furto; si stabilivano ammende pecuniarie per altri
delitti, fra i quali si poneva l’accento sulle speculazioni a proposito dei
prezzi dei cereali; erano punite le usurpazioni dei poteri pubblici e varie
forme di abuso fin lì consuete, come la riscossione di pedaggi illegittimi; si
limitava rigorosamente il diritto di porto d’armi, escludendone i contadini;
il duello giudiziario veniva consentito soltanto a quei cavalieri i cui antenati
avessero già ricevuto la dignità cavalleresca. Ci si avviava con ciò alla
chiusura del ceto cavalleresco e alla sua trasformazione in una nobiltà di
sangue: Federico avrebbe confermato questa tendenza con le successive
leggi del 1156 e del 1186. 1
Due erano le novità salienti di questa costituzione: da un lato, essa
riaffermava al di là di ogni possibile ambiguità di fatto il carattere pubblico
delle funzioni che gli stessi principi esercitavano, quindi il ruolo delegato
dei loro poteri dinanzi al re; dall’altro, interessava tutti (dalla grande nobiltà
ai mercanti e ai contadini) e mostrava di aver colto con molta chiarezza –
con le norme volte a impedire il porto d’armi generalizzato, le speculazioni
sui cereali e i pedaggi illeciti – il nesso strettissimo fra violenza,
insicurezza, ingiustizia, malcontento e instabilità politica. Era il circolo
vizioso fra questi elementi, dannosi tutti alla pace e all’ordine, che il
sovrano intendeva spezzare.
Si usa distinguere il regno di Federico in grandi scansioni cronologiche,
affermando che dal 1152 al 1158 egli avrebbe sistemato le questioni di
Germania, di Borgogna e dell’impero; da allora in poi sarebbe passato a
quelle – che si sarebbero rivelate ben più ardue a risolversi – del regno
italico. Si tende però in sostanziale concordia anche a notare come nella sua
politica si possano individuare le fila di un disegno limpido e rigoroso
perseguito con tenacia, ma anche con notevole spirito empirico e
pragmatico di adattamento alle varie realtà politiche alle quali volta per
volta occorreva adeguarsi. Le linee portanti di tale disegno possono essere
riassunte in tre punti: alto senso della giustizia e fede nel principio che la
forza del potere pubblico doveva affermarsi soltanto attraverso il diritto;
chiara presa di coscienza che le istituzioni territoriali e feudali che ormai si
dividevano il regno di Germania non potevano venir messe da parte e che
quindi il sovrano doveva scendere a patti con esse senza tuttavia rinunciare
a far rispettare comunque e dovunque il principio che egli era la sola fonte
di diritto; comprensione della necessità di creare, ampliare e rafforzare un
Kronland, un territorio della corona, sul quale esercitare senza intermediari
il potere regio tenendo senza dubbio conto dei vari poteri locali ma
ribadendo il diritto all’irrinunziabile gestione delle prerogative superiori, in
particolar modo dell’alta giustizia. Alla sovranità suprema, l’honor imperii,
Federico era ben deciso a non rinunciare in alcun caso, pur rendendosi
conto che era poi necessario comportarsi con estrema duttilità nelle singole
questioni pratiche e dinanzi ai vari poteri e situazioni di fatto. Lotario e
Corrado avevano sostanzialmente fallito, nei loro compiti di sovrano, in
quanto non avevano tenuto sufficiente conto di tutto questo e nella misura
in cui le lotte fra i due clan, il «guelfo» e il «ghibellino», avevano loro
impedito d’impiantare una politica regia sufficientemente solida.
L’aneddotica ha a questo punto i suoi diritti e le sue giustificazioni,
purché se ne comprendano con chiarezza le funzioni. Una lunga tradizione
storiografico-erudita, magari d’intenzione e di segno opposti, ha tenuto per
lungo tempo a sottolineare la «durezza» e l’«inflessibilità» di Federico, in
contrasto con quelle stesse doti di generosità cavalleresca che distinguono
certi episodi della sua vita. «Durezza» e «inflessibilità», poi, ora recate a
modello di sovrana grandezza, ora computate a carico di feroce tirannia.
Ancor oggi molti italiani, i magari ormai non più giovani, anzi forse
decisamente anziani, ricorderanno di aver, durante la loro scuola
secondaria, dovuto meditare sul ritratto altero e impassibile che di Federico
tracciò il vecchio Giosuè Carducci – un poeta caro alle generazioni di
buona parte del Novecento – in un suo componimento, la Canzone di
Legnano, lo studiare se non addirittura il dover mandare a memoria il quale
era ritenuto indispensabile durante il trascorrere di quelle generazioni alle
quali s’insegnava ch’era importante «fatta l’Italia, fare gli italiani». Del
resto quei versi certo non bellissimi, dotati tuttavia di un forte senso storico
pur nella cosciente manipolazione d’una realtà storica che il Carducci –
gran conoscitore delle fonti medievali italiane – aveva d’altronde ben
presente, sarebbero ridivenuti nello scorcio tra XX e XXI secolo di nuovo
popolari grazie all’uso che ne avrebbe fatto una formazione politica in quel
torno di tempo affermatasi. Un passo di quel componimento poetico
richiamava gli eventi del 1162, ai quali tra alcune pagine giungerà il nostro
stesso racconto: dinanzi allo spettacolo delle durissime, cocenti umiliazioni
pubbliche alle quali il sovrano aveva costretto i cittadini milanesi ribelli alla
sua autorità e ora obbligati a piegarsi a essa dopo la resa, nessuno tra gli
astanti – neppure gli stessi «signori e cavalieri» tedeschi – seppe trattenere
le lacrime; lui solo
dritto, in piedi, presso
lo scudo imperial, ci riguardava
muto, co’l suo dïamantino sguardo.
Il Carducci, che seguiva appunto in questa descrizione una cronaca del
tempo, non aveva tracciato a caso il disegno di quello spietato rigore. Si
tramanda che nel giorno della sua incoronazione regia – giorno di gloria,
quindi di clemenza – il sovrano respingesse inflessibilmente la richiesta di
grazia invocata da un nobile ch’era stato colpito dal bando. Con la piena
coscienza d’aver giudicato secondo giustizia e senza alcuna personale
animosità, il nuovo re dichiarava, serenamente inflessibile, che in quel caso
non v’era – proprio nel nome della giustizia – alcuna possibilità di
clemenza. Più tardi, nel 1155, in occasione di una serie di guerre private
dilaganti nel territorio del principe-arcivescovo di Magonza, il Federico
ormai già incoronato imperatore – che pure si era ormai seriamente
confrontato con il diritto romano – non esitò a riesumare dalle costumanze
germaniche un vecchio uso, abbandonato forse da due secoli: nella dieta di
Worms, il giorno di Natale, obbligò uno ch’era pur stato suo sicuro seguace,
il conte palatino del Reno Ermanno di Stahleck, insieme con altri dieci conti
ribelli, a sfilargli davanti portando sulle spalle, in segno d’ignominia, un
cane. Morto poi il nobile che aveva dovuto sopportare quell’umiliazione,
Federico avrebbe infeudato il Palatinato del Reno al proprio fratellastro
Corrado – nato da un secondo matrimonio di Federico «il Losco» – in modo
da consolidare il diretto potere degli Hohenstaufen in Renania.
Ma riprendiamo il filo cronologico del nostro racconto. Dopo le diete di
Merseburgo e di Ratisbona, in quella di Ulm del luglio 1152 il sovrano
regolò alcuni problemi giuridico-territoriali svevi; e quella di Würzburg,
nell’ottobre seguente, lo pose di nuovo dinanzi alla questione di Enrico
Jasomirgott. Federico era assorbito dalle trattative con la Chiesa (nel
successivo marzo 1153 un’altra dieta, a Costanza, avrebbe condotto a un
accordo col papa) e col basileus: stava organizzando insomma il suo
ingresso nell’esercizio della dignità imperiale, e non gradiva di venir
ulteriormente distolto da una faccenda evidentemente fastidiosa. Il
Babenberg, indispettito da parte sua per quella che ormai pareva essere una
soluzione concordata a suo danno fra il re e i principi, addusse un pretesto
per non presentarsi a Würzburg; fece lo stesso per le due diete successive,
quella di Worms nella Pentecoste del 1153 e quella di Spira nel dicembre
dello stesso anno. Alla fine, il 3 giugno del 1154, i principi si riunirono per
una nuova dieta a Goslar: stavolta avevano deciso che il contegno dello
Jasomirgott sonava come un’intollerabile offesa alla loro dignità e anche il
sovrano – già su tutte le furie per la rivolta nobiliare nel principato
arcivescovile di Magonza – ne aveva abbastanza. Il ducato bavaro fu quindi
assegnato a Enrico il Leone, che del resto aveva da parte sua già assunto –
unilateralmente, ma sulla base degli accordi di un biennio prima – il titolo
di duca di Baviera e di Sassonia.
Enrico il Leone era il grande favorito del sovrano: il quale non ignorava
che la pace del regno dipendeva essenzialmente dal suo rapporto con i
principi, dei quali Enrico appunto era il più potente. Federico interveniva
quindi con cura, e con grande tatto, a sistemare come mediatore tutti i
possibili motivi e momenti d’attrito fra i grandi nobili: e se ne verificavano
parecchi, specie fra Enrico il Leone e Alberto l’Orso. Il re sosteneva Enrico
anche nella sua politica ecclesiastica: e difatti durante la dieta di Goslar fu
al duca di Sassonia che venne concesso il diritto d’investitura dei tre
vescovati di Oldenburgo, Meclemburgo e Ratzeburg e di tutti quelli che da
allora in poi si fossero fondati nel «paese dei Vendi» da poco conquistato.
Le proteste dell’arcivescovo di Brema, metropolita di quelle tre diocesi, non
valsero a nulla: poco dopo anche il papa ratificò le decisioni regie, grazie
alle quali il duca si trovava ad avere un gran potere sulla Chiesa di Sassonia
e a disporre di quelle prerogative sulle Chiese episcopali che,
tradizionalmente, erano detenute dal re. Difatti Enrico riplasmò secondo la
sua volontà il territorio ecclesiastico: trasferì il centro diocesano di
Oldenburgo a Lubecca e quello di Meclemburgo a un’altra sua fondazione
recente, Schwerin. D’altro canto, egli rispettò le prerogative metropolitane
dell’arcivescovo di Brema sulla regione: ma gestì con vigore tutti gli aspetti
temporali dell’organizzazione diocesana, dalle dotazioni territoriali,
patrimoniali ed economiche da assegnare ai nuovi vescovi – procurate per
mezzo delle confische di terre ai vari signori sassoni e di un’ottima
organizzazione di riscossione delle decime – fino al controllo diretto delle
avvocazie ecclesiastiche. Per tutta l’estensione dei territori a lui soggetti, il
duca non delegò mai le sue funzioni di detentore dell’alta giustizia: anzi,
non esitò a porre in atto una rigorosa politica di confisca e di attribuzione ai
suoi fedeli ministeriales delle terre dei nobili che eventualmente gli si
ribellavano. Nel frattempo, seguiva con interesse lo sviluppo del commercio
nel Baltico e dava il primo impulso a quello che sarebbe divenuto il mercato
anseatico.
Duca tanto di Sassonia quanto di Baviera, Enrico seguì tuttavia una
politica diversa in ciascuna di quelle due regioni. Se i criteri con i quali
impostò il suo governo in Sassonia furono essenzialmente territoriali, in
Baviera – dove le basi del suo potere in quanto esponente di casa Welf
erano più profonde – egli agì in modo da raccogliere in gran parte l’eredità
della vecchia tradizione etnico-tribale: in particolare, si servì largamente
dello strumento dei Landtage, le diete locali della tradizione bavara alle
quali egli convocava periodicamente i conti e i vescovi.
Il gioco di Enrico il Leone era risoluto e al tempo stesso molto sottile.
Senza dubbio egli conduceva una politica autonoma e disponeva della quasi
pienezza di poteri: si può dire che gli mancasse soltanto il titolo per essere
un re. Al tempo stesso, però, badava bene a non azzardare mai passi che lo
mettessero con evidenza fuori dalla pubblica legalità: in quanto duca,
teneva a che fosse chiaro ch’egli agiva costantemente come rappresentante
del sovrano nei suoi due ducati e in virtù di un potere delegato. Federico a
sua volta interveniva qua e là, sempre in modo condiscendente e, nelle
mediazioni – riguardo ad Alberto l’Orso, all’arcivescovo di Brema e così
via –, regolarmente seguendo una politica di favore nei confronti del
cugino. Ciò ha potuto far parlare di una sua qualche debolezza dinanzi a
quest’ultimo: ma si tratta di un’impressione errata nella misura in cui era
appunto attraverso queste pur sempre condiscendenti mediazioni che il
sovrano ribadiva ogni volta, pur con diplomatica cortesia, il ruolo
irrinunziabile e inaggirabile delle sue prerogative: a lui e solo a lui
spettavano comunque le decisioni ultime. D’altronde egli sapeva bene – e
dopo il suo viaggio del 1154-55 in Italia non avrebbe potuto esservi su ciò,
come vedremo, alcun possibile dubbio – che il suo disegno imperiale
passava attraverso il mantenimento della pace in Germania, obiettivo che
non avrebbe potuto in alcun modo conseguire senza tenersi amico il potente
cugino, appoggiandolo all’occorrenza anche se a contingenti (mai però
troppo gravose) spese dell’autorità regia, ma facendogli al tempo stesso
capire che il suo dinamismo doveva rispettare dei limiti. Ed Enrico aveva da
parte sua tutto l’interesse a frenare i suoi impulsi autocratici, in modo da
impedire che essi scatenassero, per reazione, delle rivolte nobiliari che
avrebbero imposto nuove sia pur «discrete» e «accomodanti» mediazioni
del sovrano. Era un rapporto sul filo del rasoio, nel quale però gli apparenti
cedimenti di Federico a Enrico costituivano l’indizio dell’esatto contrario di
quel che si è sovente ritenuto: non vi fu mai alcuna abdicazione di fatto dei
poteri regi né in Baviera né in Sassonia, né alcun loro abbandono
all’arbitrio ducale. Nella sostanza più profonda, come si sarebbe visto nei
durissimi conflitti che sarebbero più tardi insorti fra i due, dietro un
apparente gioco delle parti si celava una tensione sempre più dura e difficile
da gestire: il sovrano sapeva di non poter imporre al suo duca nulla di più di
quanto egli fosse disposto ad accettare; e questi era ben consapevole che la
costante legittimazione di quegli era per lui indispensabile e non bisognava
dunque tirar troppo la corda.
Nell’autunno del 1155, Federico tornava da quella spedizione italica
della quale dovremo, nel prossimo capitolo, parlare a lungo. Sulla sua
fronte brillavano due nuove gemme: la corona regale d’Italia, assunta a
Pavia in aprile, e quella imperiale cinta in Roma due mesi dopo, nel giugno.
Suo cugino Enrico il Leone gli era stato sempre accanto, distinguendosi
come uno dei suoi più preziosi collaboratori. Tra il sire di Weiblingen tre
volte incoronato e il giovane e volitivo figlio di Enrico il Superbo i rapporti
erano stretti, giustificati dalla comune coscienza del fatto che l’uno aveva
bisogno dell’altro. La cautela e la reciproca diffidenza ne facevano tuttavia
parte: Enrico, designato a Goslar quale duca di Baviera, non era ancora
stato investito come tale; e senza dubbio il fatto che il suo potere non avesse
ancora ricevuto quella definitiva – e, nel pensiero e nella prassi del tempo,
fondamentale – sanzione, lo impensieriva un poco. Fu soltanto nell’ottobre,
durante la dieta di Ratisbona, che la cerimonia dell’investitura ebbe luogo.
Era il primo gesto solenne che Federico compiva in territorio germanico,
dopo avervi posto piede cinto della corona imperiale: la circostanza non è
priva di significato. Ma non lo è neppure il fatto che sedici mesi erano
passati dalle decisioni di Goslar: in tale non lungo ma neanche poi
brevissimo lasso di tempo, Enrico sapeva di essere stato messo alla prova; e
sapeva anche che il suo rivale per la Baviera, il margravio d’Austria Enrico
Jasomirgott, aveva costantemente spiato le sue mosse pronto a porgere a
Federico una mano sicura alla quale il sovrano avrebbe potuto affidare il
vessillo ducale se le circostanze e i rapporti di forza fossero mutati. La
distanza fra la designazione di Goslar e l’investitura di Ratisbona copre
esattamente l’arco della spedizione italica. Federico, impaziente di cingere
le corone d’Italia e dell’impero, sapeva di aver bisogno di coprirsi le spalle
nell’eventualità d’iniziative da parte sia del Leone, sia dello Jasomirgott: e
con quel semplice espediente temporeggiatore aveva ottenuto quanto
desiderava. Le sue carte erano state ben giocate.
La cerimonia di Ratisbona non significava peraltro che Federico avesse
abbandonato al suo destino lo Jasomirgott o si fosse rassegnato alla
prospettiva di una sua possibile ribellione. Lo stesso nuovo duca di Baviera
sapeva bene che la sua vittoria comportava un alto prezzo. Si avviarono
dunque lunghe e laboriose trattative approdate a una nuova dieta tenutasi
anch’essa a Ratisbona nel settembre 1156, cioè quasi un anno dopo la
prima.
La scelta del luogo e del periodo era uno soltanto dei fattori che
convergevano a conferire all’evento un aspetto quasi addirittura di
riparazione rispetto a quello precedente. La cerimonia di riconciliazione si
svolse in un accampamento sontuoso che lo Jasomirgott aveva fatto erigere
a breve distanza dalle mura della città. Ladislao II di Boemia dette solenne
lettura di un documento che, nel ribadire la spettanza del ducato di Baviera
a Enrico il Leone, ne recideva però, per assegnarla a Enrico di Babenberg,
una cospicua porzione corrispondente al medio corso del Danubio e
incuneata fra Moravia e Stiria sino ai confini con l’Ungheria: la marca
d’Austria, appunto (cioè la Ostmark, la «marca orientale»), ora ampliata ed
eretta a sua volta in ducato alle immediate dipendenze del re di Germania. Il
nuovo duca d’Austria riconsegnò all’imperatore le insegne del potere
ducale bavaro, che fino ad allora aveva gelosamente conservato e che
furono affidate al Leone; ma le bandiere, simboli della giurisdizione sui
territori già bavari e ora passati al nuovo ducato orientale, gli furono
restituite.
L’istituzione della nuova compagine istituzionale non era soltanto un
ulteriore passo in avanti sulla strada dello smantellamento dei ducati etnici e
della loro sostituzione con quelli a base territoriale (e abbiamo visto come,
per la Baviera, Enrico il Leone avesse attuato una politica tendente a
ritardare tale soluzione). Il privilegio conferito da Federico a Enrico
Jasomirgott per l’occasione, quello che la tradizione storica conosce come
Privilegium minus, 2 andava ben oltre: anzi, andava in verità oltre qualunque
privilegio fin lì concesso a un principe dell’impero. Entro i confini del
ducato d’Austria, nessuno poteva esercitare una qualche autorità senza il
consenso del duca: nemmeno l’imperatore. Inoltre – resta però il sospetto
che queste clausole siano frutto di una successiva manipolazione del
documento – esso veniva conferito in feudo non solo a Enrico e a sua
moglie, la principessa bizantina Teodora congiunta del basileus Manuele
Comneno, ma anche ai loro discendenti di sesso tanto maschile quanto
femminile.
Il 1156 fu un anno importante nella vita e nella politica dell’imperatore.
Fino dal marzo 1153, in occasione del trattato di Costanza con il pontefice,
il matrimonio con Adela di Vohburg era stato sciolto; tale uno dei costi che
il sovrano aveva imposto al papa per l’accordo. Wibaldo di Stavelot aveva
messo a punto una minuziosa ricerca genealogica, dalla quale risultava che
effettivamente tra Federico e Adela esisteva un legame di consanguineità di
sesto grado, sufficiente a determinare la nullità del loro matrimonio. Il re di
Germania aveva ormai altre mire: bisogno di eredi, e Adela non gliene
aveva partoriti; e soprattutto prospettive di un nuovo più prestigioso
matrimonio. A tale riguardo, Federico aveva in un primo tempo pensato a
Bisanzio: e aveva anche intavolato con la corte di Costantinopoli qualche
trattativa che avrebbe proseguito la linea di alleanze matrimoniali tra i due
imperi (Bertha di Sulzbach e Manuele, Enrico di Babenberg e Teodora).
Insieme con l’offerta di alleanza contro i normanni di Sicilia e gli ungheresi
un ambasciatore straordinario, Anselmo di Havelberg, aveva recato già nel
settembre 1153 a Manuele una proposta di nozze tra Federico e la
sebastocratorissa Maria, nipote del basileus stesso. Altre ambascerie
seguirono: ma il deteriorarsi delle relazioni tra i due imperi vietò loro di
andare in porto.
D’altronde, ben presto la possibilità di nuove nozze si era profilata in
rapporto a un’altra importante questione politica. Il regno di Borgogna – o
di Arles – che comprendeva parte della Borgogna, la Provenza, la Val
d’Aosta e l’area occidentale di quella che sarebbe stata poi la Svizzera, era
passato dal 1032 al re di Germania; e nel 1038 un’assemblea della Chiesa
burgunda riunita a Soleure aveva sancito che da allora in poi esso sarebbe
appartenuto agli imperatori romano-germanici: ma i sovrani tedeschi non
erano mai riusciti a imporvi sul serio la loro autorità. Nel 1127 Lotario di
Süpplingenburg aveva investito dell’ufficio di rector Burgundiae la
famiglia degli Zähringen; e, nella dieta di Merseburg del 1152, Federico
aveva confermato tale carica al capo di quel casato, il duca Bertoldo. Questi
avrebbe dovuto in particolare provvedere ad arginare la politica aggressiva
che veniva condotta dal conte Guglielmo di Mâcon, vassallo del re di
Francia. Ma, il 9 giugno del 1156, colpo di scena: nel corso di una lunga e
solennissima festa che si protrasse un’intera settimana, l’imperatore si unì
in matrimonio con l’ereditiera della contea di Mâcon, Beatrice. Le nozze
comportavano la volontà da parte del sovrano di gestire direttamente da
allora in poi le questioni burgunde: a Bertoldo di Zähringen, esautorato
dalle funzioni di rector Burgundiae, fu affidata l’avvocazia delle diocesi di
Losanna, Ginevra e Sion. Il che non bastava certo a compensarlo in maniera
soddisfacente: ma egli non aveva scelta.
L’unione tra Federico e Beatrice segna una svolta nella storia della
Germania, in quella della Borgogna e soprattutto in quella del territorio fra
Reno, Rodano e Po sul quale l’imperatore intendeva far centro per la
costituzione d’un nucleo di potere al tempo stesso statale e familiare. Ma fu
una svolta forse anche – e soprattutto? – nella storia personale di Federico.
Si dice in genere che il XII secolo abbia inventato l’amore quale noi
moderni lo concepiamo; 3 e si aggiunge che tale amore era sempre e
comunque qualcosa al di fuori di quel contratto stipulato a fini politici,
economici o diplomatici ch’era il matrimonio. Ma è difficile penetrare
l’intimo incantesimo dell’innamoramento d’una coppia di quei tempi
lontani; anche i casi celebri di Abelardo ed Eloisa o di Tristano e Isotta
restano isolati nelle loro sfere perfette, inaccessibili. Impossibile, poi,
leggere dentro una storia privata che non ci ha lasciato tracce dirette: una
storia nascosta dietro il bagliore di troppe corone e celata dietro il fruscio
pesante di troppi documenti ufficiali. La pergamena è dura da srotolare. È
quindi inutile, anacronistico, antistorico chiedersi se Federico e Beatrice si
siano amati, e se è metodologicamente corretto porre in questi termini la
questione. Pure, al di là di corone e di pergamene, nel lungo e forse a modo
suo felice rapporto di quella coppia – in mezzo alle tempeste del regno, alle
avventure, alle guerre – qualcosa ci dice di sì; che in barba a tutti gli
anacronismi del mondo in quel rapporto ci fu qualcosa che doveva
somigliare all’amore. Quando la corona imperiale venne con le sue gemme
pesanti a posarsi sulla nube dei suoi capelli biondi, Beatrice aveva
vent’anni: avrebbe potuto quasi esser figlia del suo sposo, certo di dieci,
forse di quattordici anni più vecchio di lei. Ed era, per i tempi, una corretta
differenza d’età fra coniugi. Ma nel XII secolo vent’anni erano già molti, e
Beatrice era ormai una gran dama; inoltre, aveva la fortuna di vivere in una
qualche misura i fremiti e i sogni di quel periodo aurorale della cultura
europea così ben interpretato da una sua grande coetanea, la duchessa
Eleonora d’Aquitania, regina di Francia e poi d’Inghilterra.
La giovane imperatrice scriveva e cantava canzoni: in latino, in francese
d’oïl, in lingua d’oc, in tedesco, in qualche dialetto italico. Dalla Provenza
aveva saputo cogliere sul nascere il fiore della più dolce poesia d’amore del
tempo. Ed è sicuro che almeno in una certa misura a lei si debba
quell’ingentilimento della cultura tedesca che, fiorito alla corte sveva e
trasmesso attraverso i molti ministeriales-poeti, condurrà allo sbocciare di
quel Minnesang nel quale eros e fedeltà feudale sembreranno fondersi.
Ma torniamo alla politica. Matrimonio burgundo, allontanamento da
Bisanzio, sistemazione delle faccende in Baviera, creazione del nuovo
ducato d’Austria: tutto ciò appartiene al 1156, un anno che nella storia del
sovrano svevo si può considerare nodale.
L’impero aveva i suoi funzionari di governo: alla loro testa, v’erano
alcuni grandi prelati che costituivano al tempo stesso la cappella e la
cancelleria dell’imperatore. Arcicancelliere per il regno di Germania era
l’arcivescovo di Magonza; per quello d’Italia, l’arcivescovo di Colonia; per
quello di Borgogna, l’arcivescovo di Besançon. Ma la chiave di volta del
sistema era costituita dal ruolo del cancelliere imperiale che nella pratica
gestiva le tre cancellerie e gli affari di tutto l’impero. Nel maggio del 1156
era scomparso Arnoldo arcivescovo di Colonia, uno dei grandi elettori di
Federico, che aveva eccezionalmente retto insieme arcicancelleria di
Germania e cancelleria imperiale. L’imperatore ne approfittò per portare
avanti la sua politica di scelta di uomini nuovi, e si chiamò accanto un
nobile di grande famiglia ch’era già stato prevosto nei capitoli cattedrali di
Münster e di Hildesheim: Rainaldo di Dassel.
Nato verso il 1120, quindi più o meno coetaneo del sovrano, Rainaldo
aveva avuto un’ottima educazione ed era stato anche compagno di studi di
Ecberto di Schönau, il futuro grande mistico; può darsi che avesse
addirittura studiato a Parigi fra 1140 e 1146. Attivo, spregiudicato,
ambizioso, aveva conosciuto Federico nel 1149, quando questi era ancora
duca di Svevia aureolato dalla recente gloria crociata. Intanto, Rainaldo si
era guadagnato la stima e la simpatia di Wibaldo di Stavelot ch’era
ammirato per la sua conoscenza degli autori di Roma antica: per quanto in
realtà le sue vere competenze stessero piuttosto nelle questioni militari, che
lo appassionavano anche molto di più.
D’accordo con Wibaldo e con Arnoldo di Colonia, Rainaldo aveva avuto
la sua parte nell’elezione regia del marzo 1152; in seguito aveva assolto a
parecchi incarichi, sempre imponendosi con la sua abilità all’attenzione di
Federico. Premio di questo assiduo lavoro furono nel 1156 il cancellierato e
nel 1159 l’arcicancellierato d’Italia e la cattedra archiepiscopale di Colonia.
In questo nuovo collaboratore Federico aveva individuato il ministro che
gli era necessario per passare da una politica prevalentemente tedesca a
un’altra, che fosse davvero imperiale. Ma, alla base di essa, c’era un grande
bisogno di denaro: e soltanto le città italiche erano in grado di fornirne in
misura sufficiente. Si apriva quindi una fase nuova, che si sarebbe
inaugurata con la discesa del 1158 al di qua delle Alpi.
VIII
Mirabilia Urbis
Il ritratto del fisico e del carattere di Federico è arduo a disegnarsi. I cronisti
che l’hanno tracciato – e che talora sono stati molto vicini al sovrano –
hanno variamente unito osservazioni che noi considereremmo realistiche a
schemi desunti dall’etica e dalla topica del tempo: il che era, nel XII secolo
come anche prima, del tutto normale. Inutile ricordare il caso, di tre-quattro
secoli più vecchio, di Eginardo, il quale nella descrizione dell’aspetto e
dell’indole di Carlomagno che possiamo leggere nella sua Vita Karoli si era
ispirato agli schemi del De vita XII Caesarum di Svetonio, vissuto tra il I e
il II secolo dopo Cristo, cercando di adattare il suo eroe a questo illustre
modello tanto da far della sua biografia – com’è stato detto – la
«tredicesima Vita di un Cesare».
Bisogna d’altra parte guardarsi dal ritenere che Eginardo abbia tracciato
il semplice profilo di un Idealtypus. Certi sia pur generici caratteri fisici cui
egli fa cenno – l’alta e massiccia statura, per esempio – furono confermati
da un esame dei resti di Carlo effettuato nel 1861. A ogni buon conto, gli
schemi a carattere etico-politico restavano importanti, ed Eginardo fece
scuola nella fissazione di un genere letterario: la Vita regis. È facile
riscontrare come la suggestione di questo modello abbia agito per esempio
sulla Vita del re di Francia Roberto il Pio, scritta nel secondo quarto dell’XI
secolo da Elgado di Fleury, o nei Gesta Chuonradi II Imperatoris compilati
verso la metà del medesimo secolo dal cappellano di corte Wipone. Si
trattava intenzionalmente di biografie «esemplari», che dovevano costituire
un paradigma. Diverso fu invece lo scopo dei Gesta Friderici I Imperatoris,
redatti dallo zio di Federico, il cistercense Ottone di Babenberg vescovo di
Frisinga, il quale aveva studiato nella Parigi nella quale insegnavano Pietro
Abelardo e Gilberto de la Porrée ed era stato compagno di studi di uomini
quali Giovanni di Salisbury. Ottone fu autore di una Historia de duabus
civitatibus, storia universale in cui, seguendo il paradigma di sant’Agostino
e di Paolo Orosio, si tracciavano le vicende della civitas terrena e quindi
dell’impero romano come parabola di decadenza, di lento e d’altro canto
provvidenziale disgregarsi delle istituzioni temporali e al tempo stesso
come cammino verso la Parusìa, la Seconda Venuta del Cristo. Tuttavia, il
dotto e nobilissimo prelato aveva volto la sua attenzione anche a un tema
assai gradito all’imperiale nipote: quello della translatio imperii, il
passaggio della monarchia universale dai greci ai romani e da questi ai
germani. E proprio sulla translatio, e sulle grandi speranze inaugurate da
Federico riguardo al rinnovamento della dignità imperiale, si fondava il
racconto dell’avvento al trono del giovane principe svevo e dei suoi primi
anni di governo contenuto nei suoi Gesta Friderici.
La narrazione del dotto vescovo di Frisinga – intrapresa per desiderio
espresso del nipote – si arresta al 1158, anno della scomparsa del suo
autore; fu ripresa e continuata da Rahewino, che la portò al 1160 senza
tuttavia riuscire a immettervi quell’afflato, quel respiro che si avverte nelle
pagine di Ottone.
Ai Gesta Friderici dobbiamo un primo ritratto di Federico; altri ne
sarebbero seguiti, più o meno realistici e più o meno benevoli, nelle pagine
dei vari cronisti. Noi ci limiteremo, beninteso, a considerare quelli grosso
modo coevi. Ma qualche notizia almeno sul suo volto e in genere sul suo
aspetto fisico (tutte le fonti sono d’accordo sul suo sorriso affascinante,
sulle sue mani bellissime) ci proviene altresì da una tradizione iconografica
a sua volta ancora più insicura di quella cronistica, ancora più difficile a
utilizzarsi dal punto di vista storico, eppure tale da non potersi
sottovalutare. Ci restano alcuni suoi ritratti da considerarsi, con tutte le
cautele del caso, attendibili: il busto-reliquiario in bronzo dorato della
chiesa parrocchiale di Cappenberg in Westfalia; una sua effigie scolpita in
metallo sullo scrigno-reliquiario di Carlomagno in Aquisgrana; una
miniatura da un codice conservato nella Landesbibliothek di Fulda che ce lo
presenta in trono tra i figli Federico e Corrado; e infine un’altra miniatura,
conservata in un codice della Vaticana, che ce lo mostra in abito segnato dal
distintivo del voto di crociata. Fonti diverse, create in tempi differenti e per
scopi eterogenei; ma che hanno tutte – anche se è difficile controllarne il
livello di idealizzazione o di realismo nel senso che noi attribuiamo a questi
due termini – un’aria, si oserebbe dire uno spirito, comune. Da quel volto
affilato circoscritto dalla cornice di una corta barba fulva, da quelle labbra
atteggiate a un’ombra di misterioso sorriso – difficile dire se benevolo,
divertito, ironico o minaccioso: ma animato da un fondo di energia e di
decisione quasi feroci –, promana un senso di forza e al tempo stesso una
specie di messaggio inquietante, indecifrabile. I suoi sono occhi che hanno
contemplato gli arcana imperii: e sembrano averne conservato forse un
sovrano disprezzo, forse una severa superiorità, forse una segreta
stanchezza portata – e sopportata – con regale rassegnazione. È difficile
guardare il busto di Cappenberg o la miniatura di Fulda senza pensare a
quel ritratto – ben più che semplicemente fisico – che ce ne fornisce Acerbo
Morena, il cronista lodigiano che lo conobbe, lo vide da vicino e lo amò. Un
volto gentile – dice il Morena – che dava l’impressione di esser sempre sul
punto di ridere. Eppure, anche in quest’espressione ilare, anzi proprio in
questa, c’era qualcosa di ferino, di terribile: i denti bianchissimi, splendenti,
che balenavano nel sorriso perfino quand’era indignato. Un sorriso che
incuteva paura. Wibaldo di Stavelot, scrivendo del suo signore a papa
Eugenio III, non si perdeva in descrizioni fisiche, ma preferiva darne un
ritratto morale: «Bramoso di combattere, desideroso di gloria e pronto a
misurarsi nelle imprese più ardue; molto sensibile alle offese». Ottone di
Frisinga ne forniva un profilo morale lusinghiero ma anche stereotipato; e,
quanto a quello fisico-comportamentale, si atteneva a un discorso di
maniera che ricorda molto da vicino certe descrizioni, più o meno coeve o
di poco seriori, degli eroi dei romanzi cavallereschi.
Federico – dice infatti Ottone – è ben proporzionato: non lo si può dire
altissimo, ma la sua statura è comunque più elevata e il suo portamento più
nobile della media. La corporatura è agile, elegante, ma al tempo stesso
robusta. Ha capelli biondi e ricciuti, portati sempre abbastanza corti, che gli
coprono appena le orecchie; e barba biondo-ramata. Gli occhi sono d’un
azzurro chiaro e penetrante, la carnagione è bianchissima e soffusa di un
giovanile, delicato rossore; i denti – ancora i denti – splendono bianchi
come neve. Il sovrano, continua il suo biografo, ha incedere risoluto e voce
ferma; gode ottima salute, a parte qualche leggero attacco di febbre che lo
prende talvolta ma che dura un solo giorno. Amante della guerra, non perde
tuttavia mai di vista l’obiettivo della pace. È saggio, misericordioso con chi
lo supplica, cortese con quanti domandano la sua sovrana protezione.
Come passa il suo tempo quotidiano? Al mattino, solo o con ristretto
seguito, assiste ai servizi religiosi e si fa benedire con le reliquie; indi
attende alle questioni di governo. Talora si dedica però anche agli esercizi
fisici, alla caccia con cani e falconi, al tiro con l’arco. Alla sua mensa, i
pasti non sono mai né troppo frugali né immoderatamente sontuosi; e lo
stesso giusto mezzo mantiene quando siede in giudizio, senza mai lasciarsi
prendere la mano né da eccessiva condiscendenza, né da troppo rigida
severità, né tanto meno da cupa sete di vendetta.
Suoi modelli sono le Scritture e le gesta degli antichi sovrani.
Distribuisce con le sue mani le elemosine e versa con scrupolo le sue
decime alla Chiesa. Quanto agli abiti, egli ama la semplicità dei costumi
nazionali. Infine, è molto eloquente nella lingua materna e capisce
discretamente il latino, anche se non lo parla con scioltezza.
A questo ritratto ideale, Rahewino – scrittore meno abile di Ottone – ha
aggiunto una serie di luoghi comuni tratti da Sidonio Apollinare, da
Jordanes e soprattutto da Eginardo, col risultato che il suo testo è un
autentico puzzle di citazioni: ne deriva, fra Carlomagno e Federico, una
certa somiglianza nel fisico e nel carattere che in realtà non c’era affatto, ma
che non dispiaceva all’imperatore svevo. Questione, appunto, di topoi e di
modelli. Il Federico di Rahewino è anche straordinariamente colto: a
giudicare dai suoi discorsi, cita a memoria brani interi di diritto canonico o
romano e ricicla lunghi passi di Giuseppe Flavio. E non c’è da stupirsene,
dal momento che il suo modello, il Carlomagno di Eginardo, pur essendo
analfabeta leggeva abitualmente sant’Agostino!
La cronologia è uno dei grandi misteri della storia. Per anni, se
guardiamo agli accadimenti, sembra non succedere niente: poi, d’un tratto,
spesso senza ragione apparente, le vicende si rimettono in moto e i fatti si
sommano accavallandosi. Fra 1152 e 1156, cioè esattamente negli anni che
videro Federico assumere le sue quattro corone – la tedesca, l’italica,
l’imperiale, la burgunda –, le basi del vecchio mondo parvero sconvolgersi.
Se un certo equilibrio era stato raggiunto, se un assetto poteva dirsi
consolidato ormai da qualche anno, esso era legato ad alcuni protagonisti: i
quali però, nel breve volgere di un lustro, scomparvero tutti. Corrado III era
sceso nel sepolcro nel febbraio del 1152; papa Eugenio III fece appena in
tempo a rendersi conto che, col nuovo re di Germania, i rapporti fra regnum
e sacerdotium stavano ancora una volta cambiando rispetto al concordato di
Worms di trent’anni prima, in quanto morì a sua volta a Tivoli, ai primi del
luglio del 1153, poco dopo aver stipulato con Federico il trattato di
Costanza e aver chiamato il cardinal Rolando Bandinelli alla cancelleria
della Chiesa romana. Gli succedette Anastasio IV, il quale regnò tuttavia
meno di un anno e mezzo poiché morì a Roma ai primi di dicembre del
1154. Nell’agosto del 1153 intanto, poche settimane dopo Eugenio III, era
venuto a mancare anche il dittatore spirituale della Cristianità della prima
metà del XII secolo, Bernardo di Clairvaux. Nel febbraio del 1154 era
morto Ruggero II di Sicilia. Di lì a poco, sarebbero deceduti anche i
rappresentanti del vecchio equilibrio fra Chiesa e regni: Sugero di Saint-
Denis era già morto nel 1151, Wibaldo di Stavelot e Anselmo di Havelberg
sarebbero scomparsi nel 1158. E il 1154, l’anno che assisté alla prima
discesa di Federico nella penisola italica, vide anche Guglielmo I salire sul
trono di Sicilia ed Enrico d’Angiò su quello d’Inghilterra. Entro pochi anni,
la civiltà occidentale dette l’impressione di voltare una pagina della sua
storia.
Si è incerti sul giudizio da dare, al riguardo, al trattato di Costanza. Fu
l’ultima riga della pagina precedente o la prima della successiva? La Curia
pontificia era certo preoccupata per le future mosse del giovane sovrano
svevo, che era stato eletto re contro la volontà dei rappresentanti della
Chiesa tedesca più fedeli a Roma e che alla vecchia politica lotariano-
corradiana di subordinazione dell’impero al papato aveva voltato le spalle;
d’altro canto, papa Eugenio III aveva bisogno del sovrano tedesco per
reinsediarsi in Roma vincendo le resistenze del Senato e del popolo
affascinato dalla parola di Arnaldo da Brescia e per tutelarsi contro i
normanni di Sicilia. Qualche cedimento sul piano della libertas della Chiesa
tedesca dinanzi al regno sarebbe stato un modesto prezzo da pagare, in
cambio dell’appoggio del re per superare la situazione romana e sventare il
pericolo siculo-normanno. D’altro canto, Federico poteva ben mettere la
Chiesa tedesca dinanzi a una serie di fatti compiuti che chiarissero per
esempio come – con buona pace del concordato di Worms – egli non
intendesse di fatto rinunziare alle nomine vescovili e abbaziali: ma
comprendeva molto bene che il tenerla soggetta a furia di colpi di forza
sarebbe stato dispendioso e rischioso, mentre l’accordo col papato gli
avrebbe fornito quel prestigio e quella legittimazione di cui il suo ancor
giovane potere necessitava. A parte poi il fatto che egli aveva bisogno del
papa per sciogliere il matrimonio con Adela di Vohburg.
Dopo vari preliminari già avviati alla fine del 1152, in occasione della
dieta di Würzburg, una folta delegazione pontificia – della quale facevano
parte sette cardinali – era giunta nel marzo del 1153 a Costanza dove il re
teneva corte. I termini del trattato, in realtà già approvati dal papa fin dal
gennaio precedente, erano chiari e reciprocamente molto obbliganti: il
sovrano s’impegnava a non far pace con il re di Sicilia o con i romani senza
l’assenso del pontefice e ad aiutare quest’ultimo a sottomettere la città di
Roma; in quanto defensor della Chiesa, egli avrebbe tutelato i diritti e le
prerogative del soglio di Pietro e non avrebbe concesso al «re dei greci»
(cioè al basileus bizantino) alcuna terra «al di qua del mare», provvedendo
anzi a respingere eventuali tentativi d’invasione. Il papa assumeva da parte
sua l’impegno d’incoronare il re di Germania quando questi fosse venuto a
Roma appunto a tale scopo; di scomunicare chiunque si fosse opposto ai
diritti e alle prerogative del regno; di collaborare anche con le sue forze a
rintuzzare eventuali assalti da parte bizantina.
Il testo del trattato prevedeva quindi un’attiva cooperazione nel
mantenimento reciproco delle prerogative del papato e dell’impero e
un’alleanza contro possibili attacchi bizantini in Italia. Federico si
assumeva l’impegno di non far lega né con i normanni né con i romani: a
fronte di quest’obbligazione unilaterale ch’era del resto ovvia (il pontefice
era padrone di Roma secondo la «Donazione di Costantino» e dominus
feudale del re di Sicilia, per cui la promessa di quello di Germania si
limitava a esser quella – logica secondo il diritto e la mentalità feudali – di
non allearsi con chiunque fosse vassallo di qualcuno senza il consenso o
contro la volontà del suo senior), otteneva lo scioglimento del suo
matrimonio e anche una certa mano libera sulla Chiesa di Germania. In ciò,
a Costanza i legati si adeguarono al suo volere. Enrico arcivescovo di
Magonza, che aveva ostacolato l’elezione regia di Federico, si vide dai
legati papali sospeso dalle sue funzioni nonostante lo stesso san Bernardo
avesse preso le sue difese; e Federico chiamò – con le forme esteriori
dell’elezione – a occupare la cattedra maguntina il suo cancelliere Arnoldo
di Seelenhofen, che sarebbe morto nel 1156. Per contro, il re impedì che i
patti di Costanza regolassero anche una pendenza relativa alla diocesi di
Magdeburgo, per la quale egli preferì trovare poco dopo una soluzione da
solo e naturalmente secondo la sua volontà. Altre rimozioni furono
effettuate, talune per cause di vecchiaia e di malattia: e insomma Costanza
fu un’occasione per il rinnovamento episcopale della Germania. D’altronde,
il re agiva nei confronti della Chiesa tedesca nel senso della salvaguardia
dell’honor regni, cioè dei diritti della sovranità: per esempio, impedendo
che i beni della Chiesa venissero alienati. E il papato non poteva non essere
d’accordo su questo. Ma se Corrado era stato un Pfarrenkönig, un «re dei
preti», Federico provvedeva invece in questo modo e con questi metodi a
eliminare a poco a poco il vecchio episcopato fedele all’egemonia del
sacerdotium sul regnum che il suo predecessore aveva favorito o quanto
meno tollerato e a sostituirgli un ceto vescovile nuovo, più giovane, fedele
alla corona, al quale poter chiedere un maggior carico di compiti politici,
amministrativi, militari. In questo modo il re si garantiva anche contro le
tendenze centrifughe della nobiltà laica; e, nella misura in cui concedeva
poteri ai vescovi, attutiva le conseguenze di possibili radicamenti dinastici
feudali, in quanto i prelati, anche quando appartenevano – come accadeva
di solito – a grandi famiglie, non disponevano però di legittima discendenza
diretta e non aspiravano quindi alla fondazione di casati ereditari. Del resto,
Federico non esitò talora neppure a ricorrere a vecchie tradizioni giuridiche
che autorizzavano il sovrano a nominare direttamente i vescovi in caso di
elezione contestata o a impadronirsi dei beni episcopali a ogni decesso di
vescovo sulla base del cosiddetto «diritto di spoglio».
A Costanza si registrò comunque un grande assente: il concordato di
Worms. Esso non venne per la verità né contestato né denunziato, ma
neppure chiamato in causa. Il re si rese conto che era opportuno porlo da
parte senza pretese revisionistiche, semplicemente servendosene
riesumandolo se e quando ciò gli risultava utile e dimostrando altrimenti
che esso era di fatto superato.
Tuttavia, era ormai l’Italia a occupare i pensieri dello Svevo: e non solo
per la corona imperiale. Federico intendeva fondare tra Italia settentrionale,
Germania e Borgogna, sulle sue avite terre sveve e i loro immediati
dintorni, un forte nucleo di potere territoriale e dinastico che sarebbe
divenuto la roccaforte del suo dominio: da lì, egli aveva l’impressione di
poter intervenire rapidamente in qualunque parte dell’impero. D’altronde, a
Costanza, una forte rappresentanza di nobili e di ambasciatori delle città
«lombarde» (cioè, nel linguaggio del tempo, italosettentrionali) aveva fatto
ressa attorno al re dei romani per chiedere la conferma di antichi o meno
antichi privilegi o per sollecitare il suo intervento a riparare torti o
ingiustizie. Gli italici si erano già presentati nelle diete di Ulm, nel luglio
dell’anno prima, e di Würzburg nell’ottobre. A Würzburg erano presenti
parecchi signori lombardi, specie dell’area compresa fra Milano, Vercelli,
Novara e Pavia. A Ulm Federico si era dovuto occupare di una questione
territoriale riguardante i rapporti fra i centri di Como e di Chiavenna: ci
tornò più tardi, nell’agosto del 1153, per sancire che Chiavenna dipendeva
dal ducato di Svevia, per quanto la città di Como potesse tenerla in feudo.
Ciò significava ribadire che quel centro fondamentale per il transito alpino
sulla strada che collegava la Lombardia all’Alto Reno e al Danubio restava
parte del regno di Germania, pur concedendo al tempo stesso alla città
italica di Como di sfruttarne i ricchi proventi.
Ma a Costanza si levarono alte, soprattutto, le lamentele di alcune città
lombarde contro la politica egemonica condotta da Milano in tutta l’area
compresa fra il Po, le Alpi, il Ticino e l’Adda. La voce più accorata era
quella dei lodigiani: i milanesi, dopo una lunga guerra, avevano nel 1111
distrutto Lodi dalle fondamenta e ne avevano disperso gli abitanti; da allora,
era sempre stato impedito loro di riorganizzarsi in comunità civica, di
reggersi in autonomia, di tenere un libero mercato. Gli ambasciatori
lodigiani – i quali tuttavia non pare fossero detentori di un mandato ufficiale
da parte dei loro concittadini, troppo intimiditi dai milanesi per poter così
apertamente dispiacere loro – facevano presente al sovrano che, laddove
non si fosse posto riparo alla prepotenza di Milano, il suo stesso viaggio
verso Roma non sarebbe stato sicuro: ma, soprattutto, il loro appello sonava
come un duro rimprovero contro le omissioni dei doveri d’ufficio dei re
d’Italia da oltre mezzo secolo. Il potere regio era vacante nella penisola dal
tempo di Enrico IV: e, poiché era compito dei re mantenere iustitia et pax
(beni sentiti come inscindibili: e in quest’ordine di precedenza), ecco che
Federico doveva ai lodigiani una riparazione. Anche Pisa si associava alla
richiesta di Lodi. Lo Svevo non era uomo da consentire che una lezione del
genere gli fosse ripetuta. Senza dubbio, aveva ben presente sia il peso che le
città italiche avevano avuto nella lotta per le investiture, alcuni decenni
prima, sia la massa di denaro ch’esse sottraevano al fisco regio usurpandone
i diritti. Tuttavia, quel che colpisce nel dramma che si andava innescando è
l’irrimediabile opposizione obiettiva tra le istanze del sovrano e quelle delle
città italiche (anche delle non poche che gli furono a lungo fedeli). Non è
vero che egli fosse per principio contrario allo sviluppo urbano e che
appoggiasse pregiudizialmente i nobili feudatari. È stato dimostrato a
sufficienza che egli non era affatto sempre e comunque rigido: qualche
volta seppe dimostrarsi duttile e possibilista fino all’opportunismo. Il punto
è un altro: che cioè la sua visione del problema scaturiva dal principio che
la realtà del regno italico era istituzionalmente legata all’impero, mentre
quella dei comuni dipendeva dal dato di fatto del vuoto di potere
determinatosi in Italia da oltre mezzo secolo, in seguito al fallimento della
politica di Enrico IV. Il fatto è che non esisteva, nell’Italia settentrionale e
centrale, alcun «vuoto di potere» nel senso politico del termine. C’era certo
quello lasciato dai re di Germania, nella misura in cui essi erano stati
impossibilitati negli ultimi decenni a governare la penisola: il che aveva
però prodotto il contrario esatto del «vuoto di potere», cioè una corsa
spietata al predominio, all’egemonia, fra i vari centri urbani in lotta tra loro
e contro i titolari delle varie signorie feudali.
Verso la penisola il re di Germania era attratto peraltro non solo dalla
volontà di ristabilire un ordine regio ch’era stato illegittimamente turbato e
interrotto, ma anche dalla prospettiva di un’azione diretta contro il re
normanno di Sicilia: i baroni ribelli di Puglia gli inviavano messaggi che lo
incitavano a intervenire in loro appoggio, approfittando della debolezza
della posizione di Guglielmo I. Nell’ottobre del 1154, sistemata la questione
bavara, Federico moveva quindi da Augusta per la via del Tirolo e
attraverso il Brennero scendeva in Italia. La sua era una grande Heerfahrt,
una spedizione militare in piena regola. Anzi, la più importante e solenne:
la Romfahrt, il viaggio alla volta di Roma per l’incoronazione imperiale cui
l’elezione a re di Germania (quindi «dei romani») gli dava diritto. Pure, la
scorta che lo seguiva era abbastanza esigua: 1800 cavalieri, secondo una
sua lettera a Ottone di Frisinga, il che vuol dire circa quattro o cinquemila
armati in tutto calcolando la media allora consueta di un comitatus di un
due o tre servientes, cioè di armigeri anch’essi a cavallo per ogni vero e
proprio miles. Evidentemente il suo appello ai principi dell’impero affinché
lo accompagnassero era caduto nell’indifferenza, nonostante alle questioni
della corona imperiale e dell’ordine in Lombardia si fossero ora aggiunte
anche le richieste d’aiuto dei baroni italomeridionali ribelli al loro nuovo re.
Tuttavia, il cugino Enrico di Baviera e Sassonia era con lui.
Il 5 dicembre, nella piana di Roncaglia presso Piacenza, si apriva una
grande dieta del regno d’Italia. Ivi, il sovrano emanò una costituzione che –
impedendo per esempio ai vassalli di alienare un feudo senza
l’autorizzazione del loro signore e prescrivendo che ai rispettivi domini
originari tornassero i feudi restati vacanti più di un anno e un giorno –
sembrava mirare a una razionalizzazione del sistema feudale a vantaggio
dell’alta aristocrazia; Federico pareva, per il momento almeno, ignorare o
comunque non comprendere i problemi – non tanto e non solo giuridici,
quanto piuttosto politici – posti dalle città nelle quali il movimento
comunale era ormai maturo, e le più importanti delle quali si erano già
dotate di una nuova caratteristica magistratura, quella consolare (Milano
aveva propri consoli dal 1097, Genova dal 1099, Bologna dal 1123, Verona
dal 1136, Parma dal 1149). È comprensibile che tale fosse il suo
atteggiamento: nel regno di Germania non mancavano certo centri urbani
anche importanti, ma nel loro complesso le città non avevano lo stesso peso
né la stessa struttura sociale che in Italia; e, per lo stesso regno italico, egli
non trovava nelle esperienze dei suoi predecessori alcun indizio d’una così
grande importanza del fattore cittadino. Il che era appunto logico, nella
misura in cui i re germanici mancavano praticamente dalla penisola – a
parte la breve incursione di Lotario – dalla fine del secolo precedente, ed
era proprio nel corso della prima metà del XII che il movimento comunale
si era sviluppato.
Tuttavia, a Roncaglia anche i rappresentanti delle città si trovavano a
contatto di gomito con quelli della feudalità cisalpina. Presentavano doni,
profferte di fedeltà, proteste contro le città vicine. Gli inviati di Como, di
Lodi e di Pavia rinnovarono le loro accuse a Milano, che mirava a
sottomettere i vicini più deboli e usurpava i diritti regali. D’altra parte, i
messi milanesi risposero offrendo a Federico la bella somma di quattromila
marche d’argento affinché egli confermasse alla loro città il dominio su
Lodi e Como, per essa molto importanti in quanto l’una era la chiave alla
via fluviale del Po, l’altra agli itinerari terrestri che conducevano ai passi
alpini. La proposta fu naturalmente respinta con sdegno: Federico aveva
bisogno di denaro ed era ben deciso a ricavarne dal regno italico, ma non
barattando con un po’ di soldi le prerogative regie in una piccola e
svantaggiosa manovra che sapeva d’appalto. D’altra parte era chiaro che, in
linea di principio, egli era tutt’altro che alieno dal negoziare: questo, i
milanesi lo avevano ben compreso. Si trattava quindi d’individuare un
piano di discussione.
Si andava intanto delineando però, sotto gli occhi del sovrano, la mappa
dell’egemonia della grande città ambrosiana, del suo microimperialismo
regionale. Oltre a opprimere Lodi, Milano intralciava i traffici di Cremona
sostenendo la vicina Crema; appoggiava anche Brescia, il che danneggiava
Bergamo; le era inoltre nemica Pavia, l’antica capitale del regno
longobardo, la quale sopportava con particolare fastidio l’ormai vittoriosa
concorrenza milanese e cercava di crearle ostacoli appoggiandosi a Genova,
a Novara (avversaria di Milano soprattutto perché nemica dei conti di
Biandrate, amici stretti dei milanesi), a Cremona, a Mantova, a Parma.
Quest’ultima era d’altronde ostile a Piacenza, il che immetteva nella
«scacchiera» italo-settentrionale un elemento di contraddittorio disordine: i
piacentini si trovavano stretti fra Milano e le città a questa avversarie e
obbligati a scegliere tra due forme di soggezione. Tuttavia, quel che finiva
con il farli orientare verso Milano era l’inimicizia dei vicini potenti signori
appenninici, i marchesi Malaspina, che in odio a Piacenza guardavano a
Parma e a Pavia come alleate. Milano poi si serviva della fedele Crema per
controllare tanto Pavia quanto Cremona.
Insomma, la forza e l’intraprendenza dei milanesi costituivano il
catalizzatore dinamico di tutto il sistema politico-territoriale lombardo.
Alleati di Milano erano come si è visto gli stessi conti di Biandrate, i
possessi dei quali controllavano la regione tra Sesia e Ticino, quindi tra
Milano e Novara, e che erano peraltro fedelissimi del re; essi erano anche i
soli veri grandi feudatari vicini alla città di sant’Ambrogio, che anzi forse
proprio a questa scarsa presenza feudale nelle sue vicinanze doveva, almeno
in parte, lo sviluppo della sua potenza. I lodigiani, dal canto loro,
confidavano anche nel marchese di Monferrato, affinché questi intervenisse
in loro favore presso il sovrano. E il marchese stesso si querelava contro le
città ribelli di Asti e di Chieri (Asti lo aveva clamorosamente battuto nel
settembre precedente); il vescovo astigiano Anselmo, cacciato dalla sua
città, rincarava la dose; Asti e Chieri rispondevano appoggiandosi
ovviamente a Milano; lo stesso faceva Tortona, in odio alla vicina Pavia.
Per i milanesi l’amicizia di Tortona era quanto mai importante, poiché
quella città serviva loro d’appoggio per le comunicazioni con Genova e il
mare.
Anche dalla città marinara ligure, che si era distinta nelle lotte contro i
saraceni in Terrasanta e sulle coste iberiche, arrivarono a Roncaglia
ambasciatori: uno di loro, il venerando cronista Caffaro – un reduce della
prima crociata – affidò alla sua penna la memoria dell’incontro con il re
tedesco. Da parte sua, Ottone di Frisinga ci informa – visibilmente e
vividamente impressionato – dell’arrivo degli inviati di Genova con doni
non solo splendidi, ma soprattutto strani agli occhi di chi veniva d’Oltralpe:
leoni, struzzi, pappagalli. Federico aveva avuto durante la crociata il suo
assaggio d’Oriente, e può anche darsi che si fosse fatto un’idea
dell’importanza delle colonie latine in Terrasanta e a Costantinopoli. A ogni
modo, i ricchi doni dei genovesi dovettero lusingarlo, non al punto però da
fargli perdere di vista quello che si aspettava da loro: Caffaro riferisce
infatti – più allarmato che lieto per l’onore riservatogli – che il giovane
sovrano aveva messo gli inviati genovesi a parte dei suoi «piani segreti».
Doveva senza dubbio trattarsi del progetto di assalire il regno siculo-
normanno: il re tedesco si attendeva l’appoggio tanto di Pisa quanto di
Genova, ignorando o fingendo d’ignorare le reciproche rivalità dei due
centri marinari.
Alla metà del XII secolo, il movimento comunale era sviluppato
anzitutto a nord del Po: era quindi naturale che le inimicizie e le lotte
fossero particolarmente feroci in quell’area. A sud del fiume, cioè nella
regione compresa fra lo stesso Po, l’Adriatico e gli Appennini, l’elemento
dinamico delle lotte fra le città era costituito da Bologna, in contrasto sia
con Modena per il possesso dell’area del Frignano essenziale per gli scambi
con la Toscana, sia con Ferrara per il controllo del delta del Po, sia – infine
– con Faenza per il dominio sulla città di Imola. Ma tutta l’Italia
centrosettentrionale era un duello: Pisa contrastava con Genova per
l’egemonia sulle due isole di Corsica e di Sardegna e per il predominio sul
Tirreno; Padova contendeva a Verona il controllo delle vie commerciali
verso il Nordest della penisola e i passi del Tirolo e della Carinzia; Venezia
tesseva le fila d’una lega marchigiana contro Ancona, il cui porto stava
diventando troppo importante.
In quel groviglio di lotte, d’inimicizie, di tenaci rancori, Federico dovette
in un primo tempo credere di potersi comportare come Alessandro Magno
dinanzi al nodo di Gordio: tagliando con ferma decisione quel che sarebbe
stato arduo districare. Roma e la corona imperiale lo aspettavano: né egli
aveva ancora concepito i lineamenti d’una plausibile politica italica. Levate
le tende da Roncaglia, mosse anzitutto contro Milano devastando e
incendiando i castelli prossimi alla città e posti a sua avanguardia oltre il
Ticino, verso Novara: Rosate, Galliate (il giorno di Natale), Trecate, Torre
di Momo. Ma non osò attaccare Milano stessa, che a quel punto vegliava in
armi, chiusa, arcigna: era troppo ricca e potente perché Federico potesse
rischiarvi – alla vigilia della sua duplice incoronazione a re d’Italia e a
imperatore – la sua reputazione, con le poche forze delle quali disponeva.
Ai primi del 1155 il re si spostava verso Novara e Vercelli, attestandosi
nelle terre del fedele marchese di Monferrato. Attraversati poi i territori di
Vercelli e di Torino, tra il gennaio e il febbraio assaliva Asti e Chieri,
distruggeva la seconda e, quanto alla prima, la riconsegnava – devastata da
un incendio – al marchese di Monferrato; infine, a metà febbraio, si
accampava minaccioso presso Tortona, alla quale imponeva di abbandonare
l’amicizia per Milano e di passare all’accordo con Pavia. Al fiero rifiuto dei
tortonesi seguiva un duro assedio: condotto, beninteso, non tanto dalle
scarse truppe di Federico, quanto da quelle del marchese di Monferrato e
soprattutto dalle compatte e furibonde soldatesche pavesi.
E fu proprio a quelli di Pavia che la gente di Tortona rifiutò
ostinatamente per due lunghi mesi di arrendersi. Alla fine, la fame e la sete
la costrinsero ad aprire le porte: la città fu abbandonata alle fiamme; i
tortonesi, esuli, trascinarono la loro rabbia sino all’ospitale Milano. Intanto
Federico, imbaldanzito per un trionfo che per la verità gli era costato,
almeno in termini di tempo, un po’ troppo caro, cingeva il 24 aprile, quarta
domenica di Pasqua, nell’antica gloriosa chiesa di San Michele «in ciel
d’oro» dell’antica capitale longobarda di Pavia, la corona ferrea di re
d’Italia.
L’accoglienza dei pavesi – che il sovrano aveva liberato dall’incubo di
Milano – era stata esaltante, la cerimonia d’incoronazione fastosa: ma il
bilancio dei sei mesi passati in Italia non era tutto sommato, se si guardava
alla sostanza, dei più confortanti.
Ottone di Frisinga descrive con molto acume e anche con una discreta
dose di humour la vita delle città italiche, quale l’aveva vista di persona al
fianco dell’imperatore. Egli non condanna né che i «longobardi» accordino
la dignità cavalleresca a gente di umile estrazione, né che le loro città
tendano ad appropriarsi del circostante contado. L’unica cosa che non gli
piace è che abbiano approfittato dell’assenza degli imperatori romano-
germanici dall’Italia per impadronirsi delle prerogative sovrane. Quello da
lui tracciato è dunque un ritratto sostanzialmente benevolo, spregiudicato
quanto era possibile allora e dal suo punto di vista: dal quale emergeva
tuttavia con chiarezza la sensazione che qualunque duraturo equilibrio fra i
centri urbani e il sovrano sarebbe stato destinato a durare molto, ma molto
poco.
I latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nella struttura della città e
nel governo della cosa pubblica. Essi amano tanto la libertà che, per sfuggire alla
soperchieria dell’autorità, si reggono con il governo di consoli anziché di signori […] e,
per non mancare di mezzi con i quali contendere ai loro vicini, non disdegnano di
elevare alla condizione di cavaliere e ai più alti uffici giovani di bassa condizione e
addirittura artigiani praticanti spregevoli arti meccaniche, che le altre genti tengono
lontane come la peste dagli uffici più onorevoli e liberali […] In un punto tuttavia si
dimostrano immemori dell’antica nobiltà e rivelano i segni della rozzezza barbarica:
cioè che, mentre si vantano di vivere secondo le leggi, non obbediscono alle leggi.
Infatti, mai o quasi mai accolgono con il dovuto rispetto il sovrano a cui debbono
mostrare volenterosa obbedienza […] a meno che non si vedano costretti a riconoscerne
l’autorità dalla presenza di un forte esercito.» 1
La situazione italica si era rivelata insomma di gran lunga più difficile
del previsto: le decisioni regie di Roncaglia, accettate in compunto rispetto
dai convenuti, avevano però dovuto poi essere imposte con la forza. D’altra
parte, si deve comprendere che non è vero né che Federico improntasse fino
dal principio la sua politica italica all’antipatia e alla diffidenza per le città,
né che si prefiggesse di appoggiare sempre e comunque i feudatari contro di
esse. Come già si è rilevato, la sua tattica era in generale molto più
pragmatica e possibilista di quanto non sembrerebbe a giudicare da certi
episodi di esemplare durezza: è impossibile quindi ridurla a uno schema. In
linea di principio, egli non disapprovava neppure che le città si fossero date
proprie magistrature o che tendessero a estendere la loro autorità sul
territorio circostante: era questione di sperimentazioni nuove, che egli
avrebbe potuto anche approvare a condizione però che tutto avvenisse nel
quadro della legalità regia. Quel che egli mostrava di non tollerare – e
Ottone di Frisinga conferiva una veste storica alle sue idee – era che le città
si fossero avvantaggiate della lunga assenza dell’impero usurpandone i
diritti che si ostinavano ora a mantenere come se tali usurpazioni fossero
state legittime. Già dal suo primo viaggio italico, egli dette bensì in più
occasioni prova di esser disposto a consentire ai comuni il godimento dei
diritti regali (i regalia) che essi sfruttavano di fatto da tempo: a condizione
però ch’essi riconoscessero di detenerli in quanto concessi loro dalla
pubblica autorità, ristabilendo così almeno formalmente la legge; e in essa
rientrassero poi subito, osservandola anche nella sostanza. Il che significava
risarcimenti alla camera regia e nuovo assetto fiscale.
Insomma, Federico mirava al ristabilimento dell’ordine ed era pronto per
questo a concedere i privilegi e le deroghe necessari. Ma ciò non significa
ch’egli fosse pronto ad approvare qualunque situazione di fatto pur di
salvare la forma. Al contrario, vi erano cose che egli non aveva nessuna
intenzione di tollerare; per esempio, era ben deciso a impedire la creazione
di concentrazioni di potere tanto forti da creare squilibri e scontenti
impedendo la pacifica convivenza di feudatari e di città. Insomma, il suo
programma non era per nulla quello di «riportare indietro» la situazione
italica di cinquanta o di cento anni: si trattava semplicemente di riaffermare
l’autorità sovrana, il che poteva avvenire sia ristabilendo talune situazioni
turbate dallo sviluppo dell’attività comunale, sia approvando un nuovo stato
di fatto ma legittimandolo attraverso una sanzione ufficiale che lo
sistemasse nell’ambito di un ordine giuridico ripristinato e al tempo stesso
rinnovato.
Ma notizie e segnali allarmanti gli giungevano un po’ da tutte le parti; a
Tortona era stato preso prigioniero all’atto della resa della città un greco,
forse un messo del basileus, forse una spia. Che cosa stava organizzando o
tramando nell’Italia settentrionale?
Frattanto, la Cristianità aveva un nuovo papa in Adriano IV, l’inglese
Nicola Breakspear, anch’egli forse antico studente di Abelardo a Parigi e
condiscepolo di Rolando Bandinelli e di Giovanni di Salisbury; in seguito,
era stato prevosto dei canonici regolari di San Rufo presso Avignone.
Elevato da Eugenio III alla porpora cardinalizia, aveva svolto una notevole
attività come organizzatore della giovane Chiesa di Norvegia: grazie a lui
era stata istituita nel 1152 la diocesi di Drontheim, e in seguito egli aveva
dato un contributo fondamentale anche allo sviluppo delle istituzioni
ecclesiali svedesi. Eletto papa alla fine del 1154, Adriano mostrava di non
sopportare la situazione determinata nell’Urbe dalla ribellione anima della
quale era Arnaldo da Brescia, mentre c’era sempre il rischio che dal vicino
regno meridionale i siculo-normanni s’intromettessero nella complessa
questione romana. Verso il marzo del 1155 – allorché la sua permanenza in
Roma, come fra poco vedremo, era divenuta insostenibile – aveva dunque
spedito allarmate missive a re Guglielmo, il quale si trovava allora a
Salerno: ma il tenore di quei documenti, nei quali il sovrano aveva
volutamente ravvisato un oltraggio, era servito da pretesto per un’invasione.
Ceprano era stata data alle fiamme, Benevento attaccata; il papa aveva
risposto scomunicando Guglielmo e moltiplicando gli appelli al re di
Germania affinché intervenisse quanto prima.
Ai primi del maggio, Federico passava il Po; alla metà del mese, per la
Pentecoste, era a Bologna. L’eco delle sue gesta al di là del grande fiume si
era sparsa per l’Italia settentrionale, sollevando apprensione ma anche
curiosità. I bolognesi – guidati dal loro rector Guido da Sasso, uno dei
primi magistrati unici che si registrano nella storia comunale italica, quindi
anello di congiunzione fra sistema consolare e sistema podestarile – lo
accolsero solennemente; ma ancor più solennemente gli mossero incontro i
professori e gli studenti dello Studio cittadino dove, proprio in quel periodo,
si stavano riscoprendo in Occidente i fondamenti del diritto romano. I
rapporti fra il comune di Bologna e la popolazione universitaria – costituita
da stranieri, che occupavano una rilevante quantità di immobili nella città –
non erano buoni: la turbolenza degli studenti creava sovente problemi di
ordine pubblico e dava adito all’accumularsi di cause giudiziarie, querele,
rancori. Secondo gli usi del tempo, inoltre, gli studenti erano sottoposti in
quanto stranieri alle rappresaglie: qualunque bolognese offeso o
danneggiato nel territorio di un’altra città aveva il diritto di rifarsi sugli
studenti da questa provenienti e residenti in Bologna. La tradizione vuole
che Federico sia intervenuto imponendo che gli universitari fossero trattati
in modo più vantaggioso. Si fa risalire a questo primo incontro fra lui e
l’università il grande privilegio conosciuto come l’Authentica «Habita»,
che egli appunto concesse ai professori e agli studenti bolognesi
prendendoli sotto l’alta protezione imperiale: la costituzione non fu
promulgata tuttavia nel 1155, ma durante la successiva dieta di Roncaglia
del 1158. In ogni modo, da questo contatto del sovrano con lo studium di
Bologna (che chiameremo d’ora in poi «università», nel senso corporativo
di universitas studiorum) può essere germogliato il suo interesse per il
diritto romano e forse il primo seme dell’idea che tale diritto potesse servire
a ridefinire le prerogative regie in Italia.
Da Bologna Federico valicò l’Appennino prendendo con decisione la via
verso Roma: giunto a Pistoia, imboccò la Via Francigena che dal guado di
Fucecchio attraverso la Val d’Elsa lo condusse nel Senese. Lì, a San Quirico
d’Orcia, incontrò ai primi di giugno una missione guidata da alcuni
cardinali che il papa gli aveva inviato sia per saggiare il suo umore e i suoi
propositi, sia per indurlo a intervenire contro Arnaldo da Brescia che,
espulso da Roma, aveva trovato rifugio tra la Maremma e l’Amiata, nel
territorio dei conti Aldobrandeschi di Santa Fiora, alla rocca di Tintinnano.
Federico sapeva bene che quanto gli veniva richiesto rientrava nella lettera
e nello spirito dell’accordo di Costanza: egli avrebbe dovuto aiutare difatti
il pontefice a mantenere la pace e l’ordine in Roma. Non ebbe difficoltà a
farsi consegnare il ricercato e a metterlo nelle mani del prefetto pontificio.
Era difatti accaduto nel frattempo quel che nessuno avrebbe forse mai
potuto pensare: papa Adriano IV, stanco di Arnaldo e della protezione che il
Senato gli accordava e indignato per i continui tumulti, aveva scagliato
l’interdetto contro Roma: il che significava che entro la sua cinta muraria
nessuna cerimonia religiosa poteva venir celebrata. La desolazione era
scesa su una città abituata al suono delle campane delle decine e decine di
grandi chiese e per la quale i pellegrini ad limina Petri, le loro visite e le
loro elemosine erano una ricca e costante risorsa: non si amministravano
più i sacramenti; non si seppellivano i morti in terra consacrata. Nel periodo
pasquale, la pressione congiunta del fattore economico e di quello religioso
– evidentemente ben sfruttata dai partigiani del pontefice – era giunta al
massimo: tanto più che, in un tumulto, era stato ucciso il cardinale Guido di
Santa Pudenziana. I romani si erano sollevati e il 23 marzo, mercoledì
santo, avevano costretto il Senato a cacciare Arnaldo e i suoi. Solo allora
Adriano era uscito dalla Città Leonina nella quale si era asserragliato e in
processione solenne si era diretto alla volta di San Giovanni in Laterano,
dall’altra parte del Tevere e della città. L’Urbe era libera dall’interdetto.
Una volta che Federico ebbe catturato l’agitatore Arnaldo fu il prefetto
di Roma, Pietro I di Vico, a farlo uccidere quasi nascostamente a
Monterotondo; bruciato il cadavere, le ceneri furono disperse nel Tevere
affinché i suoi seguaci non ne facessero reliquie. Una fine oscura,
miserabile, immeritata, che rischiava di trasformarlo in martire: e un grande
pensatore ecclesiastico del tempo, Gerhoh di Reichersberg, non mancò di
rimproverarne il papato, ricordando come i sacerdoti debbano astenersi dal
versare il sangue.
Adriano non si sentiva tuttavia ancora sicuro in Roma, né poteva
rivolgersi altrove per soccorsi; e intanto la minaccia normanna premeva da
meridione i territori pontifici. Non restava che far buon viso al re di
Germania e d’Italia, che veniva quale re eletto dei romani e defensor
Ecclesiae a prendere dalle sue mani la corona imperiale, com’era suo diritto
secondo le consuetudini e gli accordi di Costanza. Ma il giovane sire svevo
avanzava quasi a marce forzate, con un seguito tutt’altro che protocollare:
un piccolo ma agguerrito esercito. Veniva da amico e da protettore, o da
padrone e da conquistatore?
Al papa, l’idea di riceverlo in Roma – consegnandogli così virtualmente
la città – non piaceva affatto. Si mosse quindi verso Viterbo, per accoglierlo
là: sotto il profilo formale lo si poteva presentare come un gesto di cortese
sollecitudine. Ma arrivato a Civita Castellana, appreso che un’ambasceria
regia cavalcava alla sua volta, decise di fermarsi e attenderla; anch’egli del
resto aveva spedito al re alcuni ambasciatori. I messi regi e quelli pontifici
s’incontrarono a metà strada e insieme si recarono presso Federico, che
aveva intanto raggiunto Acquapendente, dove c’era un famoso sacello
venerato dai pellegrini in quanto costruito ad instar sancti Sepulchri e dove
la Francigena abbandonava i confini meridionali della Tuscia. Fu
convenuto che papa e re si sarebbero incontrati a Sutri, un centro del
patrimonium Sancti Petri già a sua volta tradizionalmente celebre come
tappa dei pellegrini e perché il dono di quella città al vescovo di Roma da
parte del re longobardo Liutprando, nel 728, era stato il primo passo nella
costruzione del potere temporale dei papi.
L’incontro detto «di Sutri» ebbe luogo l’8 o il 9 giugno presso il campo
imperiale, eretto non lontano dall’arcigna città chiusa nei suoi bastioni
tufacei. E fu, come sovente accade nelle circostanze in cui etichetta
diplomatica formale e tensione politica si scontrano, tanto drammatico da
rasentare il ridicolo.
Federico attese difatti a piè fermo che il pontefice scendesse da cavallo e
s’assidesse sul trono preparato per lui: dopodiché, da buon cristiano e figlio
leale della Chiesa, si apprestò al bacio del piede. La sequenza rituale
prevedeva che a questo punto il papa gli posasse sollecito le mani sulle
spalle, lo rialzasse e gli desse l’osculum pacis. Ma il papa gli rifiutò quel
bacio in quanto il re non gli aveva prima prestato il servizio di strator, di
staffiere.
In effetti, secondo una tradizione che sembra risalire alla metà del IX
secolo – cioè all’incoronazione di Ludovico II – e che si fondava sempre
sulla «Donazione di Costantino», all’atto dell’incontro con il pontefice, il re
germanico usava prendere il cavallo del papa per il morso, guidarlo per un
tragitto lungo quanto un tiro di sasso, indi fermarlo e, tenendo ben salda con
la sinistra la staffa, aiutare il papa a smontare. Era, appunto, il servizio che
uno staffiere prestava abitualmente al suo signore: ma Federico vi si era
rifiutato poiché vi aveva ravvisato gli estremi d’un gesto vassallatico,
compiere il quale avrebbe potuto equivalere a dichiararsi fidelis del papa e a
riconoscere in questi il proprio senior.
Tutta la questione era estremamente ambigua. Il papa affermò che
l’atteggiamento del sovrano era prova del suo scarso rispetto per il Vicario
di Pietro, ammettendo con ciò di non attribuire alcun contenuto
sostanzialmente giuridico al servizio della staffa: il che avrebbe potuto
essere credibile nel IX secolo, quando istituzioni feudali e relativi corredi
gestuali erano ancora al loro primo nascere, ma non era granché sostenibile
in pieno XII secolo, soprattutto dopo il testo del Dictatus Papae –
qualunque valore si voglia attribuirgli – e il celebre affresco laterano nel
quale Lotario II era ritratto in un atteggiamento vassallatico commentato da
una non equivoca iscrizione.
Federico, preparandosi all’incontro, aveva avuto tutto il tempo e tutti i
mezzi necessari d’informarsi sull’etichetta e sul suo significato. Il suo
rifiuto non aveva pertanto nulla d’improvvisato: esso voleva giungere
intenzionalmente a indurre il pontefice a fare a meno di una cerimonia che
gli conferiva un obiettivo vantaggio formale, oppure a dichiarare
esplicitamente ch’essa era priva di contenuto vassallatico in modo che tale
dichiarazione gli impedisse di rivendicarlo in seguito. E avrebbe difatti
prestato il servizio della staffa successivamente, solo dopo aver raggiunto
uno di questi due risultati.
C’era, in questo comportamento, l’eco dei primi contatti del sovrano con
i giuristi di Bologna? Sembra difficile pensare che, in quel loro pur breve
incontro, non si sia parlato della ragione per la quale Federico stava
attraversando l’Italia: e quindi della dignità dell’incoronazione imperiale e
del fatto che l’impero – quello romano, cioè quello dei giuristi – precedeva
storicamente parlando il sacerdozio e non poteva essergli subordinato.
Un oscuro ma importante e significativo episodio s’inserisce a questo
punto nell’incontro di Sutri. Secondo una lettera diretta allo zio Ottone e da
questi inserita come introduzione ai Gesta, alcuni ambasciatori del comune
romano sarebbero giunti al cospetto di Federico per offrirgli in nome del
popolo di Roma – suo legittimo e diretto depositario, essi affermavano – la
corona imperiale. Ciò sarebbe equivalso, dicevano, a ristabilire le antiche
usanze e a riportare di nuovo in Roma il centro del mondo. Federico
rispose, stando alla nostra fonte, con una lunga, fluida, a suo modo perfino
elegante allocuzione, che sarà stata, beninteso, stesa nel migliore dei casi
dalla sua cancelleria: il suo aspro latino imparato dai monaci di Lorch non
gli permetteva tanto. Il contenuto della risposta, elaborata con attenzione sia
giuridica sia politica, era comunque molto chiaro. Egli non poteva accettare
una corona dai sudditi: se, in quanto re germanico, aveva diritto alla corona
imperiale, ciò dipendeva dal fatto cioè ch’essa era passata dai romani ai
germani. «Non per adattarsi al passeggero favore di un popolo turbolento»
era sceso in Italia, bensì «in quanto principe ben deciso a rivendicare – al
bisogno anche con le armi – l’eredità avita.» Abbiamo qui, esposta in
termini già chiari, l’ideologia della translatio imperii: l’impero romano-
germanico, che in quanto «romano» non apparteneva comunque al
pontefice – per quanto il Dictatus Papae dichiarasse che soltanto al papa
spettava di disporre delle insegne imperiali, solo a lui di deporre i sovrani –,
in quanto «germanico» era diverso dall’antico e non apparteneva più agli
abitanti di Roma.
Arnaldo non era comunque ancora battuto, se dal Campidoglio si era
osato sfidare in tal modo il papa. Tra la lettera di Wetzel a Corrado III e
questa proposta dei romani a Federico corre un sottile filo rosso, la proposta
di un’emarginazione del pontefice da tutto quel che riguarda il diritto
imperiale. Ma i legami tra regnum e sacerdotium erano ormai, dall’età
carolingia e poi soprattutto ottoniana, troppo forti, e il significato politico
dell’esperimento comunale e del Senato romano troppo debole, perché
Federico potesse accedere a un progetto del genere.
Roma, caput mundi, domina provinciarum. Ma chi erano, che cos’erano
al presente i suoi cittadini, che si proclamavano depositari della corona
imperiale, se non guerrieri rissosi arroccati nelle loro torri di mattoni
affumicati oppure osti, artigiani che vivacchiavano all’ombra delle chiese,
caprai? Diciamo di più. Che cos’era, allora, Roma? E come poteva
immaginarsela Federico che aveva ancora negli occhi lo splendore della
Nuova Roma, Costantinopoli? Il Foro, le colonne imponenti, le statue di
marmo e di metallo dorato, tutte queste cose le aveva già ammirate – ma gli
erano piaciute? lo avevano commosso? – sulle rive del Bosforo. L’antica
Roma o quel che ne rimaneva erano, per lui come per tutti i pellegrini del
suo tempo, soprattutto la tomba dell’apostolo Pietro. Gli uomini vedono
però non tanto quel che esiste nella realtà, quanto soprattutto quel che
vogliono vedervi. E della Roma del XII secolo – una città invasa dalle
rovine, dagli arbusti, dagli stagni e dai pascoli – i contemporanei vedevano
quel ch’era descritto in un testo eccezionale, i Mirabilia Urbis.
Straordinaria, complessa vicenda dei Mirabilia: in apparenza raccolta di
stravaganti leggende, nella realtà sincresi di una galassia di messaggi e di
progetti politici di alto significato. Fino dai secoli X-XI si erano andati
aggiungendo l’uno all’altro scritti che indugiavano sui simboli e sulle
cerimonie imperiali e che descrivevano i monumenti cittadini con riguardo
tutto speciale a quanto ancora – sia pur degradato – restava della Roma
imperiale: e quei ruderi del resto imponenti si rivestivano di magica
opulenza nella memoria o nella fantasia. Un Libellus de cerimoniis scritto
più o meno a cavallo dell’Anno Mille era stato unito – proprio alla vigilia
dell’arrivo del Barbarossa in Roma – ai veri e propri Mirabilia Urbis
Romae, composti intorno al 1140 da Benedetto canonico di San Pietro, per
costituire la Graphia aureae Urbis Romae, grande repertorio delle leggende
che aleggiavano sulle antiche vestigia cittadine. Centro di queste narrazioni
fantastiche era il Campidoglio, nel quale proprio allora si riuniva il Senato.
Secondo la storia che vi si poteva leggere, dopo il diluvio Noè era
approdato con i suoi figli (tra i quali Giano) nell’area sulla quale sarebbe
più tardi sorta Roma. Monumenti, itinerari di processioni e leggende si
mischiavano in questo testo che conobbe molteplici rifacimenti tra XII e
XIV secolo e che accompagnò generazioni di pellegrini e di visitatori della
città. Una precisa eco se ne coglie in un’opera cronachistica bavara redatta
fra quinto e ultimo decennio del secolo da un chierico di Ratisbona che
aveva seguito forse Federico nella sua Romfahrt, il testo detto appunto
Kaiserchronik. Per la verità, e nonostante il suo titolo, si tratta di un poema
in dialetto bavaro di 17.283 versi, nel cui estensore si è voluto da parte di
alcuni riconoscere il prete Corrado, l’autore del Rolandslied.
Il compilatore della Kaiserchronik, chiunque egli sia, è stato
impressionato soprattutto dal Laterano, nei pressi del quale si trovava la
statua equestre di Marco Aurelio, allora detta Caballus Constantini; ma
nella cronaca sono già presenti temi come quello della Salvatio Romae (i
sette automi del Campidoglio, corrispondenti ciascuno a un giorno della
settimana e ciascuno fornito di un campanello che annunzia qualunque
eventuale rivolta d’una provincia dell’impero). Altre leggende narravano di
simulacri bronzei semoventi, di specchi incantati, di tesori sepolti: se ne
sarebbe fatto eco, di lì a pochi decenni, anche il viaggiatore ebreo
Beniamino da Tudela. Può senza dubbio darsi che parecchie di queste
leggende siano state narrate a Federico. Ma la Roma delle statue di bronzo
dorato e dei tesori sepolti, egli non la vide. In realtà, la domina
provinciarum era ridotta a un centro ancora in fondo relativamente ampio
per le dimensioni medie delle città del tempo, ma che copriva solo una parte
della grande area compresa nella cinta delle mura aureliane. Abitati erano
soprattutto i quartieri fra il ponte di Castel Sant’Angelo e il ponte Milvio,
cioè la zona del Quirinale, del Palatino e dell’Aventino e la pianura che li
divide e che aveva – e ha – nel Campidoglio il suo centro topografico. Una
città di qualche decina di migliaia di abitanti, grande quindi per le
dimensioni urbane del tempo, ma ombra misera di quel che era stata. Una
città disseminata e cinta di orti, di campi intramurari, di pascoli. Dai suoi
antichi e venerabili edifici si strappavano pietre e marmi preziosi per le
molte chiese e anche per qualche costruzione civile (ancora poche, allora);
ma spesso statue, capitelli, frammenti di architrave servivano, spezzati,
come proiettili nelle frequenti lotte cittadine o come materiale per farne
calce. Spogliata dei marmi e dei bronzi dorati, Roma non splendeva più al
sole: assumeva pian piano il colore del mattone spoglio, della pietra brunita,
del rudere. D’altronde, quei ruderi venivano riattati e riabitati: chiese
sorgevano nei o sopra gli antichi templi, casupole e bottegucce si
drizzavano sotto i venerabili archi o fra gli intercolumni. Il Portico
d’Ottavia era già divenuto il mercato cittadino del pesce; la Colonna
Antoniniana apparteneva ai vicini monaci di San Silvestro; il Foro era
ormai Campo Vaccino, pascolo a tratti impaludato per le pecore e le bufale.
Città di chiese e di campi, Roma era anche – al pari, in ciò, di altri centri
italici coevi – una città di cupe, alte, arcigne torri: i fortilizi delle grandi
famiglie. L’Aventino, già residenza dell’imperatore Ottone III, era
fortificato dai Savelli; i Colonna tenevano saldamente l’area tra Quirinale e
Campo Marzio; i Frangipane avevano trasformato la zona tra Palatino e
Colosseo in fortezza alla quale gli archi di Tito e di Costantino servivano da
grandi portali d’ingresso; il Teatro di Marcello era stato ridotto a castello
dai Pierleoni. Oltre alle costruzioni gentilizie, molte chiese erano state
erette o restaurate da poco: i Santi Quattro Coronati, Santa Maria in
Cosmedin, Santa Maria in Trastevere con le splendide opere dei doctissimi
magistri marmorari, i Cosmati.
Ma anche di tutto questo splendore e di tutta questa desolazione Federico
dovette vedere abbastanza poco. I cittadini, dopo l’altera risposta che egli
aveva fornito a Sutri ai loro ambasciatori, gli avevano chiuso le porte in
faccia e vegliavano in armi dalle loro fortificazioni. Il «re dei romani» non
poté entrare nella città della quale un’assemblea di nobili tedeschi lo aveva
eletto sovrano: dovette accontentarsi della Città Leonina, la cinta fortificata
in Trastevere compresa fra San Pietro e Castel Sant’Angelo.
L’esercito imperiale giunse a Roma verso il 18 giugno, e in quel giorno
Federico cinse la corona imperiale in San Pietro. Era di sabato anziché di
domenica, come sarebbe stata usanza: e anche ciò prova che la cerimonia
dell’incoronazione si svolse all’insegna della fretta, forse della
preoccupazione per ciò che poteva nel frattempo maturare sull’altra sponda
del Tevere. La sera prima il cardinale Ottaviano Monticelli, quasi
segretamente, era penetrato nella cinta leonina con un piccolo reparto di
armati e aveva presidiato la basilica. Il giorno seguente, di primo mattino,
erano entrati nella medesima cinta anche il papa e i cardinali. Giunse poi
Federico, smontò da cavallo e prima di accedere alla grande chiesa giurò –
nella chiesetta di Santa Maria in Turri, che dodici anni più tardi le sue
truppe avrebbero incendiato – che sarebbe stato un fedele difensore della
Chiesa di Roma. Indi, in solenne corteo, il re e il suo seguito mossero verso
San Pietro, dove Federico ricevette l’unzione sacra e poi, durante la messa,
assunse dalle mani del papa i simboli del potere imperiale: l’anello
signaculum sanctae Fidei, la spada, la corona signum gloriae, lo scettro
virga virtutis, il globo.
Una serie di mutamenti liturgici rispetto a quella che era allora la
tradizione – sancita dall’Ordo composto nel 1085 da Benzone vescovo
d’Alba – fu allora immessa, a quel che pare, nella cerimonia: e taluni
assegnano a Adriano stesso la responsabilità dell’iniziativa. In sintesi, si
trattò fondamentalmente d’una limitazione dell’importanza dell’unzione,
che potrebbe sottintendere la volontà pontificia di ridurre il significato
propriamente sacramentale della cerimonia. Federico fu unto dinanzi a un
altare laterale, non a quello maggiore; tra le scapole e sul braccio destro,
non sulla testa (si santificava quindi la sede del suo potere fisico, con ciò
sottolineando il suo carattere di defensor Ecclesiae); con l’olio dei
catecumeni anziché con il crisma, a significare il carattere temporale e a
limitare la portata «sacrale» dell’ufficio imperiale. Tutte queste modifiche
sarebbero state troppe e troppo gravi se allora – e unilateralmente –
introdotte dal pontefice: evidentemente Federico se le attendeva, o era
comunque consenziente, o le aveva addirittura concordate con il papa.
L’unzione regia era stata inaugurata nell’VIII secolo, per fornire un
supporto carismatico all’usurpatoria incoronazione dei Pipinidi al posto dei
Merovingi quali re dei franchi. C’è da chiedersi se, in questo suo
ridimensionamento di quattro secoli più tardi, abbia giocato più il progetto
papale di «desacralizzare» la cerimonia – e quindi la funzione – imperiale, o
il nuovo concetto d’impero che si stava facendo strada nella mente dello
Svevo dopo l’incontro con i giuristi bolognesi, cioè con il diritto romano.
Gli antichi imperatori romani non avevano, va da sé, conosciuto il rito
dell’unzione. Comunque, e nonostante tutto, questa restava importante:
senza di essa, il sovrano non era un Christus Domini, un «Cristo» – cioè,
etimologicamente, un «Unto» – del Signore. Necessarie erano altresì le
laudes, le acclamazioni del popolo: ma il popolo romano non c’era, stava
sospettosamente chiuso nelle sue mura oltre il fiume. Alle laudes
provvidero quindi gli uomini del seguito imperiale, facendo risonare alte
come un tuono le loro voci sotto le volte della basilica.
La cerimonia dell’incoronazione, basata su una liturgia elaborata in età
franca e poi più volte rivista fino al tardo IX secolo, era satura di elementi
che sancivano la dipendenza dell’imperatore dal papa sino a far
concettualmente del primo un funzionario del secondo. La consegna della
spada deposta prima sull’altare di San Pietro, per esempio, era esemplificata
su quella della consegna delle armi benedette ai defensores degli istituti
ecclesiali ed era stata introdotta nel cerimoniale per la prima volta nell’823;
ma risentiva forse, nel maturo XII secolo, anche delle dottrine di san
Bernardo tra cui quella detta «delle due spade», che – ispirandosi a un passo
del Vangelo di Luca – dichiarava che al pontefice appartenevano
legittimamente «le due spade», i poteri spirituale e temporale, e che egli
usava direttamente la prima affidando ad altri la seconda. Ancora più
trasparenti erano le intenzioni pontificie nel fatto che il rituale non
prevedesse l’atto forse più significativo delle incoronazioni regali:
l’intronizzazione. Non ascendere al trono durante la cerimonia significava
non disporre di un trono: essere non un sovrano, bensì un funzionario
delegato. E ciò era sottolineato dallo speciale nesso con la città di Roma,
della quale l’imperatore rivestiva – in una certa fase del lungo cerimoniale –
le insegne di Patricius.
Non c’è dubbio che Federico tenesse molto a quello che i giuristi e
teorici del tempo chiamavano il nomen imperii, la dignità imperiale; e in
quanto fedele cristiano, ma soprattutto in quanto uomo del suo tempo, non
poteva certo sottovalutare una cerimonia d’incoronazione. Nel 1152 si era
affrettato a cingere in Aquisgrana la corona di re di Germania, ben sapendo
che il re eletto restava in una debole e difficile posizione finché il suo ruolo
non fosse stato liturgicamente sancito. Perché, allora, accettare una
cerimonia che – a quel che traspare dalle fonti – fu in fondo sommaria,
sbrigativa, quasi dimessa? Anzitutto, senza dubbio, in quanto egli intende
assumere al più presto e comunque il diadema imperiale dal quale si
attendeva – e con ragione – una straordinaria crescita di prestigio. E poi
perché in fondo si rendeva ben conto che qualunque intensificarsi
dell’apparato solenne dell’incoronazione romana avrebbe condotto, come
esito indiretto, a un’ulteriore esaltazione del ruolo del pontefice quale
depositario e gestore delle insegne imperiali – secondo la «Donazione di
Costantino» e il Dictatus Papae – e quindi dell’impero stesso. Già si stava
invece facendo strada una posizione nuova, che di lì a poco sarebbe stata
resa esplicita in Germania proprio da quel Gerhoh di Reichersberg il quale,
tuttavia, non era affatto un partigiano estremistico del potere imperiale: «…
la benedizione dei sacerdoti non crea affatto i re e i principi; ma […]
allorché essi sono stati fatti tali dall’elezione, allora i sacerdoti li
benedicono». 2
Un passo avanti verso la laicizzazione dei pubblici poteri? Col senno di
poi, e nella lunga durata, lo si potrebbe anche interpretare così: a parte il
pericolo di applicare a tale interpretazione delle etichette anacronistiche.
Ma ciò non deve far dimenticare che in quel momento la scelta di Federico
aveva scartato un’alternativa di tipo davvero «laico», sostenuta peraltro
dalla spiritualità arnaldiana: quella offertagli a Sutri dagli ambasciatori
romani. La sbrigativa cerimonia di San Pietro era soprattutto diretta contro
il Senato, per quanto Federico sottovalutasse forse quest’aspetto della
questione: optando per la corona assunta sul sepolcro dell’Apostolo anziché
per quella offertagli in Campidoglio, egli stava dalla parte della tradizione e
delle consuetudini avviate nell’VIII secolo, ma volgeva le spalle al nascente
comune. Può darsi che, proprio per assicurare il legame fra imperatore –
che in quanto tale era come abbiamo visto anche Patricius Romanorum – e
vicario del Principe degli Apostoli, fosse introdotta con Federico una
consuetudine nuova che certamente sarebbe stata consolidata con Enrico
VI, suo figlio e successore sul trono imperiale: quella secondo la quale
all’imperatore veniva anche attribuita la dignità di canonico di San Pietro.
Rivestito della dalmatica diaconale ed eletto canonico, il sovrano romano-
germanico veniva riconosciuto non solo come sacra persona, ma più
specificamente come partecipe in qualche modo della condizione chiericale.
La scelta proposta dal Senato, al contrario, sarebbe stata esclusivamente
«laica».
D’altronde, il comune non odiava tanto Federico quanto papa Adriano,
quell’inglese che non comprendeva la lingua parlata della città di cui era
vescovo e che aveva sempre trattato i romani con sdegno e durezza. Nel
pomeriggio del 18 giugno, mentre pontefice e imperatore festeggiavano
l’incoronazione sedendo a banchetto, gli uomini asserragliati dall’altra parte
del Tevere organizzarono una rapida sortita: passarono il ponte di
Sant’Angelo, penetrarono nella Città Leonina, uccisero qualche soldato
imperiale, assalirono alcuni prelati. Federico interruppe il banchetto e passò
a un duro contrattacco, durante il quale ebbe modo di distinguersi suo
cugino Enrico il Leone. I romani furono ricacciati indietro, e molti di loro
caddero uccisi nel Tevere mentre altri vennero presi prigionieri.
Ma era, quella, con ogni evidenza, un’alquanto misera vittoria – e
proprio, poi, sul «suo» popolo – di colui che poche ore prima era stato
acclamato in San Pietro come «pio» e «vittorioso» signore del mondo. Il
papa concesse l’assoluzione per gli imperiali che avevano massacrato in
battaglia le pecorelle della sua diocesi: ma un senso di amarezza, forse
d’imbarazzo, era ormai disceso sulla giornata. Le fonti imperiali
naturalmente cercano di presentare il fatto militare del 18 come un trionfo e
accusano i romani di avere agito in quanto corrotti dall’oro siciliano. In
effetti il re normanno di Sicilia era preoccupato della discesa di Federico, né
ignorava il tenore dei patti fra questi e il papa: che avesse agenti e
sostenitori a Roma, è fuori poi da ogni ragionevole dubbio. Ma nella sortita
dei romani è forse lecito vedere qualche cosa di più: probabilmente, perfino
un tentativo d’intervenire in favore di Arnaldo, che a quella data non era
stato ancora consegnato al prefetto. Se le voci ufficiali insistono sulla
vittoria, sta comunque di fatto che la situazione cittadina era insostenibile:
Federico aveva sì ricevuto dall’altare di San Pietro la spada di defensor
Ecclesiae, ma le sue forze limitate ce l’avevano fatta a fatica a rintuzzare il
tumulto e perciò – si può dire all’indomani – tanto il papa quanto
l’imperatore si affrettavano a lasciare Roma. Ancora una volta, le nostre
fonti affettano fra i due una concordia e una fiducia che non c’erano;
Adriano e Federico, unanimi, avrebbero preso la via del nord diretti in
Sabina dove, dopo una sosta nell’abbazia di Farfa, avrebbero celebrato
insieme la festa degli apostoli Pietro e Paolo non lontano di là, a Ponte
Lucano sull’Aniene. Fu allora che Arnaldo venne consegnato al carnefice: e
in quelle circostanze la sua esecuzione, più che atto di sovrana giustizia,
suona rabbiosa ritorsione contro una città ch’era stato impossibile piegare.
Si disse poi, e su ciò nacque una sorta di leggenda – una delle molte
leggende federiciane – che l’imperatore si era dispiaciuto per l’esecuzione.
Può darsi che suo zio il vescovo Ottone di Frisinga avesse qualche simpatia
per quell’uomo rigoroso, che gli ricordava forse i suoi anni parigini o
perfino le ardenti illusioni seguendo le quali egli stesso aveva vestito, anni
avanti, l’abito di Cîteaux. O può più semplicemente darsi che Federico non
escludesse di potersi in un futuro servire ancora dell’agitatore contro quel
papa intransigente che gli chiedeva con insistenza di tener fede agli accordi
di Costanza e di proseguire in armi la sua spedizione contro il regno
normanno dell’Italia meridionale. È difficile dire se l’imperatore a quel
punto avrebbe accettato più o meno volentieri una proposta di questo tipo:
certo è che non ne aveva le forze e che i nobili del suo seguito reclamavano
per giunta il rientro alle loro case. La Romfahrt era stata eseguita, la corona
imperiale cinta, il loro servitium debitum prestato: mancavano dai loro
castelli e dalle loro terre da otto mesi, ne avevano abbastanza.
Altre ombre, del resto, velavano ormai i rapporti tra Federico e Adriano.
Come suole spesso accadere, la contingente irritazione di entrambi per il
non brillante esito del soggiorno romano celava i motivi d’un più profondo
dissenso, altri nodi che lentamente stavano venendo al pettine. Federico non
aveva visitato il Laterano, quindi non aveva visto di persona l’affresco nel
quale era stato effigiato il suo predecessore Lotario di Süpplingenburg in
atto di rendere omaggio feudale ai piedi del pontefice. Ma lo avevano visto,
e se ne erano scandalizzati, i suoi ambasciatori. È vano e pretestuoso al
riguardo obiettare che quell’atto d’omaggio riguardava i beni matildini e
non la concessione della corona imperiale. Dalla statica monumentalità del
dipinto – qualunque ne fosse la giustificazione – promanava un messaggio
non già relativo, bensì assoluto: l’imperatore stava ai piedi del papa.
Federico ritrovò i toni della polemica aperta a Sutri a proposito
dell’ufficium stratoris e chiese che l’affresco fosse cancellato: cosa che,
sembra, gli fu promessa.
Egli indugiò ancora nei dintorni di Roma, in colloqui abbastanza
inconcludenti con il pontefice. Solo ai primi di luglio si decise – anche
perché le febbri estive cominciavano a mietere vittime nel suo esercito – a
muoversi dalla fedele Tivoli, e fu allora che visitò la grande e potente
abbazia di Farfa. Verso la fine di quel mese, procedendo sulla vecchia via
consolare Flaminia diretto verso la costiera adriatica che intendeva risalire,
arrivò presso Spoleto: e lì accadde un nuovo grave fatto di guerra.
L’imperatore si era accampato presso le Fonti del Clitumno, in un luogo
ameno e ristorato, nella calura estiva, dalle fresche acque sorgive. Era cioè
in vista della bella e ricca capitale di un ducato ritenuto la chiave del
controllo dell’Italia centrale. Chiese che la città gli corrispondesse il
fodrum, l’imposta dovuta a titolo di ospitalità per lui e le sue truppe durante
il passaggio su quel territorio. Insieme con lui, suo zio Guelfo VI – fino dal
1152 investito del ducato spoletino – contemplava dalla vallata la «sua»
città alta e arroccata attorno alle memorie romane e alle chiese, chiusa entro
le antiche mura che avevano visto ben altri eserciti prima di quello
imperiale. Anche all’interno di quella cinta era nato il movimento
comunale; anche lì come altrove il vuoto di potere creatosi da vari decenni
in seguito all’assenteismo dei re tedeschi era stato colmato dalle forze
locali. Spoleto si presentava forte e ben munita mentre l’esercito imperiale,
già relativamente debole, era ormai provato dalla lunga campagna italica e
spossato per le febbri e la calura dell’estate. Gli spoletani accettarono di
pagare il fodro, fissato in 800 libbre d’argento: ma poi dovettero sorgere
questioni per la quantità o la qualità del pagamento, che le fonti tedesche
sostengono effettuato in moneta «falsa» (cioè di scarso peso? o di lega
argentea scadente?). Più grave ancora, però, era il fatto che gli spoletani
avessero catturato e tenessero come ostaggio uno dei più grandi signori
feudali di Tuscia, quel Guido Guerra già compagno di Federico alla crociata
e suo fedele seguace.
Guido Guerra aveva coperto funzioni diplomatiche importanti, insieme
con quell’Anselmo di Havelberg che troviamo accanto a lui tra i firmatari di
parte imperiale del trattato di Costanza. Anselmo era stato inviato presso il
basileus Manuele, evidentemente scontento delle clausole antigreche
contenute in quel trattato; e Guido in Puglia, per saggiare la situazione e
forse predisporre la ribellione contro Guglielmo di Sicilia in vista di quella
spedizione imperiale nel Sud Italia ch’era stata però, come abbiamo detto,
per il momento rinviata. Sull’intero episodio della cattura del feudatario
toscano grava l’ombra di un possibile intervento greco o normanno sui
cittadini di Spoleto per indurli a fermare il conte: a meno che non vi fosse la
mano della principale avversaria toscana del conte Guido, Firenze.
Senza dubbio, comunque, gli spoletani volevano trattare con
l’imperatore: altrimenti non avrebbero accettato di pagare il fodro, sia pure
in modo discutibile. Ma evidentemente non avevano ancora capito –
nonostante gli episodi tortonese e soprattutto romano non dovessero essere
loro ignoti – che tipo di personaggio stava loro di fronte. Avevano forse
pensato che l’avere in ostaggio Guido Guerra fornisse loro una carta
vantaggiosa: si accorsero troppo tardi del contrario. Si dice tentassero una
sortita, il che li avrebbe posti in grave e immediato svantaggio: la loro forza
era nelle mura. Resta invece il sospetto che, vedendo l’imperatore avanzare
con le sue truppe schierate a battaglia, si siano troppo tardi impauriti e,
apertegli spontaneamente le porte, siano usciti a incontrarlo per cercare di
ammansirlo: e che gli imperiali abbiano invece approfittato di ciò per
riversarsi all’interno della città incendiando e massacrando.
Il bottino fu a quel che pare immenso: il cappellano imperiale Goffredo
da Viterbo nota che chi fra i cavalieri dell’imperatore era entrato in Spoleto
povero ne uscì carico di ricchezze. Il venerabile duomo della città crollò in
fiamme; gran parte degli abitanti fu passata per le armi.
Federico, scrivendo più tardi a suo zio il vescovo Ottone, si sarebbe
gloriato di quest’impresa: era così che si trattavano i ribelli all’impero.
Eppure, resta il dubbio che né il fodro pagato in cattiva moneta né la cattura
di Guido Guerra fossero motivi sufficienti per una così dura punizione:
saremmo piuttosto propensi a sospettare che i nobili dell’armata imperiale,
assetati di altro bottino con il quale rifarsi delle spese affrontate nella troppo
lunga Romfahrt, abbiano imposto al sovrano di conceder loro in preda
quella che a quel tempo era una delle città più famose e opulente dell’Italia
centrale; e che egli sia stato al gioco in parte perché non poteva fare
altrimenti, in parte sperando che, una volta rimpinguati, essi avrebbero
accettato di seguirlo alla volta del Meridione della penisola. Si rendeva
infatti conto che, in caso contrario, il pontefice gli avrebbe fatto pagar cara
l’inadempienza rispetto al trattato di Costanza. Ma non ci fu nulla da fare:
finita l’ebbrezza del saccheggio, spentisi i fuochi dei bivacchi, si dovette
proseguire verso nord.
L’armata dell’imperatore giunse quindi ad Ancona, cerniera italo-
centrale fra i due imperi, fra Oriente e Occidente. Là Federico s’incontrò
con gli ambasciatori del basileus Manuele, il quale giocava su altri due
tavoli: quello dei rapporti con il papa, cui stava facendo balenare la
possibilità della fine dello scisma fra Chiesa latina e Chiesa greca; e quello
dei baroni dell’Italia meridionale ribelli a re Guglielmo, ai quali offriva il
suo appoggio non solo militare ma anche – in quanto signore di diritto di
quelle terre – giuridico. Nella primavera l’imperatore aveva premiato il suo
abile e fedele Anselmo di Havelberg, reduce dalla missione diplomatica a
Bisanzio, facendogli conferire la cattedra arcivescovile di Ravenna: e con
ciò stesso sottolineando che la vecchia capitale della Pentapoli bizantina era
ormai definitivamente una città dell’impero romano-germanico. Non era
stato un atto distensivo nei confronti di Costantinopoli; e neppure nei
confronti del papa, giacché, per quanto esso rientrasse nei programmi di
Costanza consistenti nell’impedire ai greci di rimetter piede nella penisola
italica, perpetuava quella politica di egemonia del sovrano sulla Chiesa
tedesca e anche italica che andava contro lo spirito del concordato di
Worms. La sottintesa risposta di Manuele Comneno era chiara: Ancona, con
il suo ricco porto, stava infatti diventando sempre più una base greca in
Italia. Dalla Puglia giungevano esaltanti notizie sulle vittorie delle forze
congiunte dei bizantini e dei baroni ribelli: Federico cercò forse a quel
punto ancora una volta di convincere i suoi che sarebbe bastato un atto di
presenza in quella regione, sia per salvare i rapporti diplomatici con
Bisanzio, sia per impedire che l’eventuale cacciata del re normanno andasse
tutta e soltanto a vantaggio del basileus. Ma gli uomini erano stanchi; e
forse dalla Germania provenivano notizie poco rassicuranti. A malincuore,
il sovrano dovette quindi proseguire verso le Alpi pur inviando a
Costantinopoli una nuova ambasceria a capo della quale era –
significativamente – il più vecchio e venerando dei suoi consiglieri, l’uomo
della prosecuzione della politica di Corrado III di buoni rapporti sia con la
curia pontificia, sia con la corte bizantina: Wibaldo di Stavelot. Egli
avrebbe dovuto, fra l’altro, proseguire le trattative per le nozze greche
dell’imperatore (quelle che, come sappiamo, non sarebbero mai avvenute).
E la marcia di ritorno continuò nel calore estivo dell’Italia padana. Ai
primi di settembre, si passò l’Adige alla «Chiusa veronese»; l’imperatore
aveva fulminato contro Milano il bando dell’impero, le aveva tolto l’uso dei
regalia, aveva diffidato le città vicine dal commerciare con essa. Misure per
il momento destinate a restare senza esito, e che tuttavia ribadivano come
egli insistesse nel suo disegno di governare sul serio l’Italia. I regalia tolti a
Milano non furono affidati a nessun’altra città, con l’eccezione del diritto di
batter moneta concesso a Cremona (analoga concessione riguardò anche
Pisa). Ma alla «Chiusa» i veronesi posero in atto un sia pur maldestro
tentativo di fermare l’esercito imperiale. Un’altra pagina poco chiara, alla
base della quale v’è forse qualche imprudente iniziativa individuale:
l’imperatore, comunque, ne trasse nuovo motivo per guardare con ostilità e
durezza a quella terra a sud delle Alpi, alle sue ricche e tracotanti città, ai
suoi infidi feudatari.
Alla prima metà di settembre, Federico era già in territorio tedesco.
Molte questioni lo attendevano, prima fra tutte la contesa fra Enrico il
Leone e Enrico Jasomirgott, che egli risolse brillantemente – come già
abbiamo veduto – con l’assegnazione del ducato di Baviera al primo e con
la creazione del ducato d’Austria per il secondo. Sappiamo già altresì che
egli abbandonò la carta diplomatica del matrimonio con una principessa
greca per giocarne invece una burgundo-tedesca, unendosi con la contessa
Beatrice.
Wibaldo di Stavelot, tornando da Bisanzio nell’estate del 1156, trovava
quindi una situazione molto cambiata rispetto a quella che aveva lasciato
l’anno precedente: il matrimonio burgundo di Federico costituiva una causa
obiettiva di allontanamento diplomatico dal basileus, e difatti l’imperatore –
pur non troncando le trattative con la corte di Costantinopoli – mostrava di
volersi sganciare da un’alleanza che rischiava di non fornirgli alcun
vantaggio nell’Italia meridionale e che gli alienava sempre più il papa.
Questi, dal canto suo, aveva ormai fatto una scelta che si sarebbe alla
lunga rivelata decisiva, ma a proposito della quale fin dall’inizio non c’era
da farsi illusioni. Già fino dal novembre del 1155 aveva dato segno di voler
reagire alla manifesta impotenza di Federico ad appoggiarlo contro i
normanni, alle sempre più evidenti ingerenze greche in Italia meridionale e
alle ambiguità diplomatiche dell’imperatore tedesco nei confronti dei
bizantini: e così – rompendo da parte sua decisamente con lo spirito del
trattato di Costanza, cosa che Federico nonostante le sue esitazioni non
aveva mai inteso fare – avrebbe stipulato nel giugno successivo a
Benevento un trattato con Guglielmo d’Altavilla, che liberava dalla
scomunica e al quale riconosceva la sovranità del regno di Sicilia sotto
l’alta signoria feudale della Santa Sede prescindendo da qualunque preteso
diritto di entrambi gli imperi su quelle terre. Guglielmo prestò omaggio
feudale a Adriano e questi lo investì solennemente con la consegna del
vessillo, simbolo del suo potere sulle terre del Sud. Il momento era ben
scelto, e più per il re di Sicilia che per il papa.
Era in effetti stato il normanno a compiere il primo passo della nuova
alleanza: e non lo aveva mosso certo da vincitore. Era ormai messo alle
corde dai bizantini e dai baroni ribelli: e quel che offriva al pontefice – la
restituzione formale delle terre e dei poteri che aveva usurpato, quindi il
ritorno alla sua naturale condizione di vassallo per il regnum Siciliae – era
molto più di quanto poteva al momento dare. Ma, se ne rendesse egli conto
o meno, era esattamente quanto serviva al pontefice per prendere le distanze
dal sovrano tedesco. Con l’accordo di Benevento, Guglielmo rovesciò la
sua precedente situazione ricevendo una legittimazione che lo rafforzava
dinanzi alla sua aristocrazia sempre riottosa; e al tempo stesso offrì al
pontefice quel che l’imperatore non poteva garantirgli, cioè una costante
difesa e un appoggio sicuro contro il comune di Roma.
Federico era frattanto rientrato in Germania glorioso per le due corone
cinte in Italia, l’italica e l’imperiale. Ma si era lasciato alle spalle i ruderi
fumanti di Asti, di Chieri, di Tortona, di Spoleto; si era lasciato alle spalle
l’odio dei romani e dei veronesi. A Roncaglia, feudatari e città d’Italia
avevano imparato a temerlo, e qualcuno di loro aveva già cominciato a
odiarlo: ma da lì a farsi obbedire, la strada era ancora molto lunga. Nobili e
centri urbani che più si erano mostrati vicini all’imperatore si trovavano ora
soli dinanzi al «colosso» milanese, colpito certo dal bando imperiale, ma
forte e deciso a non lasciarsi intimidire né a farsi strappare un’egemonia
sulla pianura padana che i milanesi erano – al contrario – duramente
intenzionati a tener ben salda in mano loro. E chi si era troppo
compromesso con il sovrano germanico, si domandava ora quale concreta
difesa questi potesse porgergli. Ma Federico, uscendo da quell’Italia nella
quale sapeva di dover presto tornare se non voleva veder polverizzato quel
po’ di positivo che aveva ricavato dalla Romfahrt del 1154-55, volgeva le
spalle anche all’alleanza con il papa. Era ormai chiaro che la fase di pur
difficile equilibrio inauguratasi a Costanza non aveva retto alla prova dei
fatti: l’accordo beneventano fra Adriano IV e Guglielmo I ne era la prova.
Intanto, Federico si stava avviando alla rottura anche con quell’imperatore
bizantino che faceva sempre meno mistero dei suoi propositi
«neogiustinianei» di penetrazione del suo potere in Occidente.
Che cosa sarebbe accaduto se un’alleanza si fosse stretta fra papa, re di
Sicilia, basileus di Costantinopoli e nemici italici e tedeschi
dell’imperatore?
IX
«Quod principi placuit, legis habet vigorem»
Enrico Plantageneto era figlio di Goffredo, conte d’Angiò e duca di
Normandia, e di Matilde, a sua volta figlia di Enrico I re d’Inghilterra. Nato
a Le Mans nel 1133, nel 1150 era stato investito dal padre del ducato
normanno; l’anno successivo, scomparso Goffredo, aveva ereditato Angiò,
Turenna e Maine. Nel 1152 aveva sposato Eleonora, una dozzina d’anni più
anziana di lui e da poche settimane divorziata da Luigi VII re di Francia:
ella gli aveva recato in dote Aquitania e Poitou.
Forte di tutti questi territori che facevano di lui il più grande e potente
signore di Francia, Enrico era ben deciso a far valere i suoi diritti di nipote
d’un re d’Inghilterra e di discendente di Guglielmo il Conquistatore: nel
1153 aveva invaso il regno al di là della Manica e aveva costretto chi allora
debolmente vi regnava, Stefano di Blois, a riconoscerlo come suo
successore. Difatti l’anno seguente egli si trovava, appena ventunenne,
anche re d’Inghilterra.
Enrico era indubbiamente il più forte signore dell’Occidente. A
differenza del re di Francia, regnava su una grande estensione territoriale tra
Mare del Nord e Mediterraneo; e, a differenza dell’imperatore, la sua
autorità non era condizionata – per non dir minacciata – da una grande
feudalità con la quale doversi di continuo confrontare. Nonostante ciò, egli
aveva parecchie ragioni d’inquietudine: anzitutto, i suoi titoli di legittimità
per la corona d’Inghilterra erano tutto sommato dubbi; inoltre sapeva bene
che il re di Francia – del quale egli era vassallo per le terre al di qua della
Manica – non gli avrebbe mai perdonato di aver preso il suo posto nel
cuore, nel letto e nei castelli aquitani e pittavini della più affascinante
signora della Cristianità.
Per questo, Enrico si guardava attorno alla ricerca di un’auctoritas
assolutamente incontestabile alla quale appoggiarsi e dalla cui amicizia
poter ricavare una superiore legittimazione. E la individuò in Federico I, il
quale come imperatore godeva di una sorta di autorità morale, di
«patronato», sui re d’Occidente senza, beninteso, che ciò gli fornisse un
qualche effettivo potere politico su di loro. Quella imperiale era difatti,
secondo il giudizio di Ottone di Frisinga, «un’autorità alla quale attiene la
prominenza su tutto il mondo». A Federico scriveva il re d’Inghilterra nel
luglio 1157 per ringraziarlo delle ambascerie e dei doni che questi gli aveva
inviato e per rivolgergli espressioni che – nella versione almeno che ce ne
forniscono i Gesta di Ottone – suonano ossequio quasi formale: a Federico
apparterrebbe infatti l’imperandi auctoritas, l’autorità di comandare, agli
altri re la voluntas obsequendi, la volontà di sentirsi subordinati.
Quando la lettera del re d’Inghilterra giunse al destinatario, questi aveva
già dato segni di voler intraprendere sul serio quella politica universalistica
alla quale la corona imperiale lo predisponeva. Fin dall’inizio della
primavera, la vigilia della festa dell’Annunciazione di Maria, in una grande
dieta tenuta a Fulda l’imperatore aveva ribadito la sua fermissima
intenzione di piegare Milano, e in questa prospettiva debbono essere lette le
sue azioni di governo da allora alla tarda primavera dell’anno successivo,
quando egli varcò di nuovo le Alpi. V’erano molti residui problemi a est del
regno tedesco, in quello burgundo, nei rapporti con la grande feudalità e
soprattutto con il cugino duca di Sassonia e di Baviera: risolverli significava
anzitutto spianarsi la strada verso quel ricco regno d’Italia nel quale
Federico intendeva più che altrove esercitare il suo potere e dalle cui città
contava di trarre i mezzi necessari alla sua politica. Scrivendo allo zio
Ottone di Frisinga, egli esprimeva la sua alta coscienza di depositario, col
favore della divina clemenza, del potere di governo Urbis et Orbis, di Roma
e del mondo. È in quella prospettiva che vanno intesi due suoi atti:
accettando la dedica dell’Historia de duabus civitatibus di Ottone, dove in
toni agostiniani si trattava dell’avvicendarsi degli imperi terreni e del loro
fatale decadere fino alla vigilia della presa di potere da parte sua, Federico
esprimeva al dotto congiunto il suo desiderio di un’altra opera storica che
avrebbe dovuto avere stavolta come oggetto la nuova fase che egli aveva
aperto nella storia della Cristianità e del mondo. Ottone si sarebbe messo al
lavoro: ne sarebbero nati quei Gesta Friderici continuati, dopo la morte del
loro iniziatore, da Rahewino. I Gesta sono sotto un certo profilo la
palinodia dell’Historia: dopo l’irreversibile decadenza, con Federico la
storia si rinnova, un novum saeculum è alle porte. 1 Intanto, fra 1156 e 1158,
si perfezionava una serie di strane trattative con il duca Ladislao di Boemia
al quale Federico consentiva di poter cingere, in determinati giorni di festa,
la corona regale. Solo alla fine del secolo la Boemia sarebbe diventata
ufficialmente un regno: ma già da allora il suo duca si apprestava ad
ascendere a un tale rango. La concessione della corona regale da parte
dell’imperatore, in questo contesto, non preludeva affatto a un possibile
riconoscimento di distacco della Boemia dall’universo romano-germanico:
al contrario, era un gesto attraverso il quale Federico intendeva sottolineare
la funzione dell’imperatore come rex regum, supremo sovrano, padrone di
corone regali e creatore di re. Nell’ultimo secolo i papi avevano distribuito
o legittimato corone dall’Inghilterra alla Spagna alla Sicilia alla Terrasanta:
il programma universalistico di Federico tendeva ad arrogare all’imperatore
una tale prerogativa; per questo alla sua politica del momento giovava tanto
la lettera di Enrico d’Inghilterra. E nello stesso spirito si compiva,
nell’estate 1157, una grande spedizione polacca, per finanziare la quale
l’imperatore aveva varato una serie di provvedimenti che andavano dalla
regolamentazione del sistema daziario sul Meno alla protezione delle
comunità ebraico-tedesche dalle quali ci si aspettavano forti esborsi di
denaro, ma che al tempo stesso si ponevano esplicitamente al riparo da
qualunque rischio di conversione forzata. La Polonia aveva cercato di
affrancarsi dall’egemonia tedesca, che fra l’altro le costava un pesante
tributo annuo in argento: ma la svolta «imperiale» della politica federiciana
rendeva tanto più inaccettabile, da parte tedesca, questo tentativo che
sarebbe stato comunque difficilmente tollerato. Al termine del raid polacco,
nell’estate, il re Boleslao riconosceva l’alta sovranità imperiale sul suo
paese. In rapporto con questa riorganizzazione del territorio orientale fu
elevata a ducato la Slesia, cioè l’area circostante l’alto e medio corso
dell’Oder.
Dietro questa decisa, vigorosa politica egemonica, si può già scorgere il
profilo del nuovo energico cancelliere di Federico, Rainaldo di Dassel.
L’atto in certo senso dichiarativo del nuovo modo di considerare il potere
imperiale fu la dieta di Würzburg che si tenne nel settembre, alla vigilia
della festa dell’arcangelo Michele, al ritorno dall’impresa polacca. Lo
spettacolo ivi offerto era degno d’un sovrano che rivendicava il diritto al
dominium mundi: a rendergli omaggio erano venuti non solo da Germania,
Italia e Borgogna, ma anche dalla Danimarca, dall’Ungheria, da Bisanzio,
dall’Inghilterra. Fu appunto in quell’occasione che Federico ricevette la
lettera di Enrico Plantageneto, insieme con uno splendido dono: un enorme,
sontuoso padiglione da campo.
Un significato particolare acquista, nel contesto della dieta di Würzburg,
la presenza della legazione greca. Gli ambasciatori bizantini si espressero e
si comportarono con il consueto formale rispetto dell’etichetta, che tuttavia
in Occidente era solitamente interpretato – e avvenne anche in quel caso –
come superbia. Rahewino racconta che quasi ne nacque un incidente,
peraltro subito sedato: ma la tensione rimase nell’aria, anzi dovette tornar a
vibrare allorché gli ambasciatori di Manuele chiesero che Federico duca di
Svevia, il figlio di Corrado III che l’imperatore teneva sempre presso di sé –
molto per affetto, ma un po’ anche per timore che cadesse nella rete di
possibili manovre di avversari che avrebbero potuto strumentalizzare il
giovane per contestare la legittimità della sua elezione regia –, ricevesse in
loro presenza la cintura cavalleresca. Certo la basilissa Irene, cioè Bertha di
Sulzbach, era affezionata a quel suo nipote, e il sovrano greco amava molto
le cerimonie cavalleresche occidentali: ma la pretesa bizantina non celava
nella fattispecie un ricatto? Non si voleva, ricordandogli il giovane cugino,
far presente all’imperatore che la sua posizione si fondava anche
sull’appoggio di Bisanzio – secondo la linea politica di Corrado III – e che,
in caso di rottura diplomatica, a Costantinopoli si sarebbe potuto giocare
con il giovane duca la carta del legittimismo della linea diretta di
discendenza nella casa Hohenstaufen?
Pur irritato dall’invadente comportamento dei legati greci, Federico
sapeva di non poter rompere con l’impero costantinopolitano. Allo stesso
modo, sebbene al corrente del trattato di Benevento dell’anno prima fra
Adriano IV e Guglielmo di Sicilia, egli aveva chiara coscienza di non
potersi permettere una rottura con il papato. E il papa era, da parte sua, del
medesimo avviso: nel gennaio di quell’anno aveva scritto a Wibaldo di
Stavelot per chiedergli di servirsi della sua influenza presso il sovrano
affinché il conflitto, che stava ormai delineandosi, restasse quanto meno
contenuto. Anche Federico, un paio di mesi dopo, aveva da parte sua scritto
a Wibaldo per assicurarlo del suo affetto e avvertirlo che, per il momento,
non era in vista nessuna possibile spedizione greco-tedesca contro l’Italia
meridionale (questa era ormai la paura del papa, dopo gli accordi di
Benevento ai quali peraltro Adriano si era sentito costretto anche a causa
della vittoria di re Guglielmo contro i ribelli appoggiati da Bisanzio). In
fondo, però, lettere di questo tipo – Wibaldo ne ricevette un’altra in agosto,
sempre dall’imperatore – non gli facevano gran piacere: la prospettiva di
un’alleanza greco-germanica benedetta dal pontefice aveva mosso da tempo
la diplomazia dell’abate di Corvey. Ora, Federico stava voltando pagina. Il
trattato normanno-pontificio di Benevento, che infrangeva indubbiamente
lo spirito – se non la lettera – di quello tedesco-pontificio di Costanza,
doveva ancora essergli ufficialmente notificato. Adriano ne incaricò due
cardinali, il cancelliere della Chiesa Rolando Bandinelli e Bernardo,
cardinale-prete di San Clemente. Essi si posero in cammino per raggiungere
Besançon nel regno di Borgogna, dove – vicino ai suoi aviti possedimenti
svevo-alsaziani – l’imperatore aveva bandito per l’ottobre un’altra grande
dieta imperiale. La notifica dei fatti beneventani non era il solo ingrato
incarico affidato ai due cardinali: essi dovevano altresì interessarsi della
sorte d’un personaggio che stava tanto a cuore al papa quanto poco era nelle
simpatie dell’imperatore. Si trattava di un prelato della giovane Chiesa
scandinava che papa Adriano aveva potentemente contribuito a organizzare:
Eschilo, arcivescovo di Lund. Nobile, ricco di una vasta esperienza di cose
politiche e militari, attaccato alla potenza e alla ricchezza del suo lignaggio
(era d’altro canto stato a Cîteaux, aveva conosciuto Bernardo di Clairvaux e
aveva con decisione appoggiato l’insediamento dei cistercensi nel Nord),
egli era stato sequestrato mentre, di ritorno da Roma alla sua terra, stava
attraversando la Borgogna: certi nobili lo tenevano rinchiuso in attesa di
riscatto, il che senza dubbio violava la pax regis della quale Federico era
tanto geloso garante. D’altro canto, la nuova diocesi di Lund era venuta ad
attraversare i propositi di un’espansione cattolica al Nord gestita al
contrario dalla Chiesa tedesca e appoggiata alla diocesi di Amburgo-Brema.
Era stato Nicola Breakspear (non ancora diventato papa Adriano IV) a
organizzare nel 1152 come Legato pontificio le Chiese svedese e norvegese
sotto la primazia della sede metropolitana danese di Lund, in alternativa a
quella tedesca: il che equivaleva a dire che il lavoro impostato dal Nicola e
svolto dall’arcivescovo di Lund intralciava i progetti egemonici di Federico
– peraltro sire feudale del regno di Danimarca – sulla Svezia. Oltre alla
liberazione del prelato, papa Adriano chiedeva che ai legati pontifici fosse
liberamente permesso di visitare le diocesi tedesche.
Quel che pare sia avvenuto durante il convegno si potrebbe definire un
banale incidente diplomatico: «banale» al punto che il cercar di leggerne il
significato effettivo è in effetti cosa complessa. Nelle credenziali pontificie
erano incluse l’espressione beneficia conferre e la promessa di maiora
beneficia: il contesto, formalmente conciliante, era di tenore propositivo e
dispositivo. Il pontefice ricordava all’imperatore quanti fossero i beneficia
che già gli aveva conferito e ancora di maiora gliene prometteva se questi si
fosse dimostrato disposto ad accogliere le sue richieste.
Anche le cancellerie papali – come quella di Adriano guidata dal gran
giurista Rolando Bandinelli, legato a Besançon – e imperiali – come la
federiciana, diretta dal colto Rainaldo di Dassel – possono commettere degli
errori. Ma l’imbroglio terminologico affiorato a Besançon è troppo pesante
perché lo si possa credere involontario. Il termine conferre ha due
significati: l’uno, più ampio, equivale ad «attribuire»; l’altro, più ristretto e
con sapore tecnicamente più qualificato, significa «conferire» e indica un
rapporto discendente dal conferente al conferito. La parola beneficium, poi,
ha un significato estremamente generico (perfino troppo, in un documento
ufficiale) di «fatto» o «atto favorevole», e uno preciso, nel diritto feudale, di
«feudo». Si è detto che l’incidente scoppiò allorché il cancelliere imperiale
Rainaldo tradusse – con malevola intenzione, è stato da qualcuno
perentoriamente affermato – l’espressione conferre beneficia come
«conferire dei feudi»: dal che risultava che il pontefice ricordava
all’imperatore di avergli assegnato dei feudi, quindi sanciva la propria
superiorità gerarchica su di lui. Quali feudi? Nell’interpretazione più
benevola i beni matildini, sui quali era aperto un delicato contenzioso; a
voler essere malevoli, invece, la corona imperiale. Non aveva dichiarato il
Dictatus di Gregorio VII che solo al pontefice spetta di gestire le insegne
imperiali? E l’affresco laterano non recitava, nella sua iscrizione, che il rex
di Germania era homo papae?
Nessun sostenitore della tesi secondo la quale Rainaldo sarebbe un
perfido manipolatore di testi ufficiali – il che sembra un po’ la storia ante
litteram del principe di Bismarck e del «telegramma di Ems» – è mai
riuscito a spiegare in modo convincente perché, dinanzi al coro di proteste
sollevatosi quando i principi imperiali (laici, ma anche ecclesiastici) ebbero
ascoltato la tendenziosa versione che distorceva un testo innocente, il
cancelliere pontificio non sia intervenuto cercando di chiarire l’equivoco. In
fondo, proprio in quanto cancelliere – e soprattutto in quanto giurista – ne
era ben responsabile: è mai pensabile che quell’esperto studioso che aveva
frequentato le Università di Parigi e di Bologna non si sia accorto, mettendo
a punto il testo di un documento così delicato, dell’equivoco che sarebbe
potuto sorgere sulla parola beneficium? E quindi dell’arma tanto efficace
che in tal modo egli avrebbe posto nelle mani dei seminatori di discordia?
In ogni caso, la risposta che uno dei legati – forse lo stesso cardinale
cancelliere – sembra aver fornito alle proteste dell’assemblea fu olio
generosamente sparso sul fuoco: «E da chi altri mai» avrebbe esclamato
Rolando nel generale trambusto «l’imperatore ha avuto l’impero, se non dal
papa?».
A ben guardare, si tratta d’una frase in sé molto ambigua: alludeva al
diritto sulla base del quale era stata celebrata l’incoronazione imperiale, o al
puro fatto della cerimonia? Ma il contesto in cui la frase fu lanciata era
perentorio: e tutto sommato la sua stessa ambiguità era più formale e
occasionale che non sostanziale. Non c’era dubbio che essa si basasse di
fatto su una visione dei rapporti fra regnum e sacerdotium ispirata al
Constitutum Constantini e alle tesi d’origine carolingia secondo le quali la
scienza canonistica del tempo impostava la questione dell’impero; per non
dire al Dictatus Papae, se la natura di tale documento consentisse di
utilizzarlo senza perplessità.
Federico dovette personalmente interporsi per impedire un linciaggio.
Pare che il conte palatino di Baviera Ottone di Wittelsbach si gettasse con la
spada in pugno sul Bandinelli, che scampò all’assalto solo perché
l’imperatore gli fece scudo col proprio corpo; i due legati pontifici furono
poi fatti partire segretamente. E si resta incerti se il cardinale Rolando, con
il suo lavoro testuale e poi con la sua esclamazione, abbia voluto mettere
alla prova i partecipanti alla dieta per cercar di capire se davvero
l’imperatore aveva concorde dalla sua tutta la classe dirigente dell’impero,
o abbia semplicemente inteso creare un incidente insanabile. L’unico
beneficio del dubbio che si può accordare riguarda papa Adriano: davvero
non si era accorto neanche lui della pericolosità del termine beneficium? Ma
se è così, avrebbe dovuto in un modo o nell’altro prendersela poi con il suo
cancelliere: il che pare non sia avvenuto. Oppure gli premeva saggiare gli
umori di Federico e dei suoi in modo da meglio potersi regolare
nell’imminenza di una nuova discesa dell’imperatore in Italia? Ma
l’elemento forse più notevole dell’intera questione è che tanto Rolando
quanto – e soprattutto – Adriano avevano intenzione di verificare anzitutto
le posizioni dei grandi ecclesiastici dell’impero. Sarebbero stati più
propensi a schierarsi, in caso di conflitto, dalla parte del sovrano o da quella
del pontefice?
Il cardinal Bandinelli aveva giocato bene le sue carte. Il comportamento
della Chiesa tedesca poteva in realtà apparire un’incognita: ma il punto era
che da Besançon non sarebbe dovuto uscire un risultato suscettibile di
facilitare la discesa italica di Federico. In curia era influente un grosso
partito di cardinali guadagnati – anche con l’oro siciliano – alla causa di
Guglielmo I: secondo loro qualunque riavvicinamento fra papa e impero,
specie nel momento in cui l’imperatore si accingeva a passare di nuovo le
Alpi, era da impedire. Quanto a Rolando, non gli premeva affatto un
accordo col regnum, bensì la libertas Ecclesiae: egli si rendeva ben conto
che c’erano per essa rischi di gran lunga minori nell’alleanza con il re di
Sicilia che non in quella con il sovrano svevo. E, con l’incidente di
Besançon, aveva inteso provare ai cardinali che non condividevano la tesi
«siciliana» che Federico costituiva un effettivo pericolo per la Chiesa.
A tale riguardo d’altra parte il principale antagonista di Rolando, quel
cancelliere imperiale Rainaldo che sembra per certi versi il suo negativo
fotografico, era paradossalmente d’accordo con lui: capita spesso che i
fautori di posizioni estreme opposte fra loro si trovino, sul piano dei loro
contrastanti disegni, perfettamente concordi. La politica universalistica che
egli stava proponendo al suo signore non lasciava posto alla libertas
Ecclesiae: e il controllo sempre più stretto che Federico andava esercitando
sugli uomini, gli uffici e le prerogative della Chiesa di Germania lo prova a
sufficienza.
Il sovrano comprese comunque che, se era bene intervenire
immediatamente per fornire a proposito dell’incidente di Besançon una
versione il più favorevole possibile alla corona, non era però il caso di far
passi che avrebbero potuto condurre all’immediata e diretta rottura col
papa. In una specie di circolare inviata il giorno seguente la dieta a tutti i
vescovi e principi del regno tedesco, narrava quindi la sua versione
dell’accaduto ponendo l’accento sulla superbia e sull’arbitrio dei legati;
aggiungeva che, perquisito il loro bagaglio, si erano trovate lettere in bianco
munite del sigillo papale. L’imperatore mostrava di credere che tali
documenti fossero usciti dalla curia senza il consenso, anzi all’insaputa del
papa, e che sarebbero serviti a spogliare le Chiese tedesche dei loro tesori
attraverso illecite concessioni (si trattava verosimilmente, in realtà, delle
bolle in bianco necessarie per regolare sul posto varie questioni minori
relative alle diocesi tedesche per le quali il papa aveva concesso poteri
discrezionali ai legati). Ma più importante ancora era la dichiarazione
formale, quasi teorica, che Federico formulava a proposito dell’impero e
che aiuta a comprendere perché egli avesse accettato di ricevere la corona
nel contesto di una cerimonia relativamente dimessa a livello liturgico. La
corona gli veniva nella sostanza – riteneva l’imperatore – direttamente da
Dio attraverso l’elezione da parte dei principi, che l’incoronazione da parte
del pontefice si limitava a formalmente sanzionare e benedire. Su ciò, egli
si dichiarava disposto piuttosto a morire che a tollerare pretese offensive nei
confronti dell’honor imperii. La dottrina «delle due spade» era sì presente
nella lettera di Federico, ma interpretata nel senso che Dio, al quale
entrambe esse appartengono, ne consegna rispettivamente una al pontefice,
una al sovrano. Uno è Dio, una la Chiesa alla quale regnum e sacerdotium
appartengono: l’impero è stato provvidenzialmente creato per proteggere la
Chiesa da ogni male in questo mondo. Si è insomma davanti a un vero e
proprio manifesto relativo all’honor imperii:
La potenza divina, origine di ogni potestà celeste e terrena, ha confidato a noi, a noi che
siamo il Suo Cristo [cioè l’unto in Suo nome], il regno e l’impero da governare, e la
pace della Chiesa da difendere per mezzo delle armi imperiali….
Attraverso l’elezione dei principi, il regno e l’impero ci provengono da Dio soltanto;
da Lui che, con la Passione del Cristo Suo Figlio, ha confidato il governo dell’universo
alle Due Spade indispensabili – e questa è la dottrina che l’apostolo Pietro ha insegnato
al mondo proclamando: «Temete Iddio, onorate il sovrano»; per cui, chiunque dichiarerà
che noi abbiamo ricevuto in beneficium la corona imperiale dal signore il papa, andrà
contro il piano provvidenziale di Dio e la dottrina di Pietro, e sarà colpevole di
menzogna…
D’altronde il papa scrisse a sua volta ai vescovi tedeschi, lamentando
l’offesa recata alla Chiesa dal sovrano, dal cancelliere Rainaldo, dal conte
palatino Ottone. Essi risposero con una lunga dignitosa lettera,
evidentemente concertata con Federico: l’impero era provvidenzialmente
fondato per tutelare la Chiesa, ma la scelta di chi avrebbe dovuto cingerne
la corona dipendeva dall’elezione da parte dei principi; all’interno dello
stesso clero, quello romano non aveva il diritto di conculcare quello tedesco
(tale era anche il parere di un teorico dalle posizioni solitamente equanimi,
Gerhoh di Reichersberg); quanto ai legati pontifici, limitandosi a difendere
il ruolo e i diritti della corona Federico nulla aveva fatto per offenderli.
Davanti a questo compatto e coerente atteggiamento, non restava a papa
Adriano se non cedere: almeno a livello diplomatico. Nel giugno del 1158
una nuova ambasceria pontificia giungeva quindi presso l’imperatore con il
compito di spiegargli ufficialmente che beneficium, nel documento
dell’anno precedente, significava semplicemente «favore», non «feudo».
Beneficium: non feudum, sed bonum factum. Il papa non aveva mai voluto
affermare che spettasse a lui il disporre direttamente della corona
dell’impero. Intanto però, nella primavera di quello stesso anno, il re di
Sicilia dopo la pace col pontefice aveva proceduto a rappacificarsi anche
con l’imperatore greco. Si andava in altri termini delineando un
«rovesciamento delle alleanze»: papa e basileus, abbandonato il comune
referente imperiale romano-germanico – corrispettivo al comune avversario
siciliano – si rendevano adesso conto che era necessario arginare la potenza
del sovrano tedesco, intenzionato a imporre la propria autorità sull’Italia,
Patrimonium sancti Petri compreso, e ad affermare il ruolo imperiale con
una forza e una lucidità fin lì sconosciute in Occidente dopo gli anni di
Ottone I.
Intanto Federico, ormai pronto a scendere nuovamente in Italia per
attuarvi i propositi enunziati con decisione a Besançon, sistemava le residue
grandi questioni tedesche e burgunde. Nel novembre 1157, con una solenne
«bolla d’oro» (vale a dire un documento contraddistinto da un sigillo
aureo), conferiva i diritti e i regalia della città e della diocesi di Lione
all’arcivescovo primate delle Gallie. Nel gennaio dell’anno dopo, riceveva
da Enrico di Sassonia e Baviera e dalla di lui moglie Clemenza, sorella di
Corrado di Zähringen, una serie di beni dotali di quest’ultima, siti in Svevia,
in cambio di altri situati nello Harz. Il provvedimento tendeva, secondo la
linea politica costantemente seguita da Federico e che ormai conosciamo, a
creare per se stesso e il suo casato una solida base di potere dinastico-
territoriale tra Svevia, Alsazia e Franconia, cioè in quell’area che era stata
la culla della potenza degli Staufer e nella quale i tre regni di Germania, di
Borgogna e d’Italia venivano quasi a convergere. Enrico il Leone aveva da
poco fondato Monaco, a beneficio della quale avrebbe deviato la via del
commercio del sale – una delle più importanti strade mercantili tedesco-
meridionali – tra Reichenhall presso Salisburgo e Augusta, con grave danno
della città di Frisinga: 2 e Federico vegliava a che il cugino non acquistasse
un troppo esteso controllo sul meridione germanico, mentre dal canto suo
provvedeva a garantire la casa di Hohenstaufen di un solido ed esteso
potere che non sarebbe stato scalfito nemmeno se e quando essa avesse
perduto il controllo della corona romano-germanica.
Alla fine di giugno, ricevuta la chiarificatrice ambasciata pontificia – la
quale non aveva però del tutto diradato le nubi da un orizzonte ormai troppo
offuscato –, l’imperatore intraprese la sua seconda discesa in Italia. Lo
avevano preceduto due legati che non erano certo i più adatti a favorire la
distensione col papa: Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach. La loro
scelta era significativa: diciamo pure intimidatoria. Compito essenziale e
immediato dei due era catalizzare contro Milano le forze italiche
disponibili; e i milanesi, sapendo fin troppo bene che scopo della discesa
dell’imperatore al di qua delle Alpi era piegarli definitivamente, davano
segni sicuri di non aver alcuna intenzione di cedere. Al contrario: avevano
contribuito a riedificare Tortona, avevano di nuovo assalito Como e Lodi e
intanto avevano dato avvio a un colossale programma di fortificazione
urbana e di costruzione di macchine da guerra: appunto in questa
circostanza si andò affermando un nome che sarebbe stato consacrato alla
leggenda del «genio tecnologico» della città di sant’Ambrogio, quello del
magister Guitelmo. Pare che i costi di queste fortificazioni ascendessero
alla somma astronomica di 50.000 marche d’argento.
Dal canto loro i due legati imperiali, passato il Brennero, ricevettero in
rapida sequenza il giuramento di fedeltà da parte di Verona, di Mantova, di
Cremona, di Pavia: con esso, quelle città s’impegnavano a non appropriarsi
dei regalia. Rainaldo e Ottone si diressero quindi alla volta dell’Emilia e
della Romagna: visitarono Bologna e poi Ravenna, dove però – nonostante
la presenza dell’arcivescovo Anselmo di Havelberg – incontrarono già
qualche ostacolo. Alcuni maggiorenti ravennati, ben provvisti di oro
bizantino che si erano procurati nella vicina Ancona, si preparavano difatti
a resistere alla potenza imperiale. Pesaro, Fano, Senigaglia, insomma le
città marchigiane rivali di Ancona, prestarono invece volentieri ossequio ai
due messi dell’imperatore: non così però Ancona stessa, che si sentiva
appoggiata dai bizantini. Rainaldo e Ottone riuscirono comunque ad avere
un colloquio con l’inviato del basileus nella città, trovandolo abbastanza
disponibile. Il cancelliere imperiale riteneva che i giochi politici non fossero
ancora fatti e che – nell’imminenza della discesa di Federico – quel che
contava era impedire una convergenza di Manuele Comneno con Guglielmo
di Sicilia. Tuttavia – almeno secondo il suo stesso racconto, riferitoci dal
cronista Rahewino – Rainaldo non mancò di rimproverare aspramente i
greci, rei d’ingerenze nelle faccende di quell’esarcato che a suo avviso
faceva indiscutibilmente parte del regnum Italiae e quindi suscettibili di
essere accusati di lesa maestà. Il cancelliere intendeva usare a fondo quello
che in Occidente era ormai il nuovo strumento di legittimazione politica del
potere inteso come ecumenico, il diritto romano; e addirittura metteva in
guardia Federico dal fare in sua assenza troppo precipitosi passi di
pacificazione col papa, che come si ricorderà gli aveva spedito
un’ambasceria per chiarire l’incidente di Besançon. Rainaldo temeva che a
corte il partito della riconciliazione, ch’era forte e attivo, finisse col
conseguire il sopravvento; egli era convinto che la linea da seguirsi dovesse
mantenersi quanto più rigorosa possibile, ma sapeva bene che molti dei
consiglieri imperiali – e fra essi lo stesso Ottone di Frisinga – non erano del
medesimo avviso.
Dalla Romagna Rainaldo e Ottone entrarono in Toscana, dove si
occuparono di sistemare le rivalità locali: il conte Guido Guerra era da
pochi mesi scomparso e quindi bisognava riaffermare anche lì l’autorità
dell’impero. Procedettero poi, lungo la Francigena, verso nord. I piacentini
s’impegnarono a muover guerra contro Milano con un contingente di cento
cavalieri e cento arcieri e a versare alle casse imperiali un contributo di
seicento marche d’argento. Anche lodigiani, pavesi, cremonesi e comaschi
assicurarono che si sarebbero uniti all’armata del sovrano.
Il concentramento delle truppe era fissato ad Augusta per la Pentecoste,
che quell’anno coincideva con l’8 giugno. Federico aveva concepito un
piano grandioso che in realtà era qualcosa di più di un programma tattico-
strategico e che poneva in discussione l’intera politica imperiale di
controllo dei passi alpini. Il corpo principale di spedizione, guidato
dall’imperatore in persona e forte di un migliaio di cavalieri e di parecchie
migliaia di fanti, avrebbe passato le Alpi al Brennero e, toccando Trento e
Verona, avrebbe marciato verso il punto d’incontro delle varie colonne,
fissato il 10 luglio sul Mincio; altri contingenti sarebbero passati
dall’Engadina e da Como; quanto ai burgundi e ai lorenesi (cioè quelli
dell’area occidentale della compagine imperiale), essi avrebbero valicato il
Gran San Bernardo; quelli invece afferenti all’area orientale – vale a dire
quanti provenivano dall’Austria, dalla Boemia e dalla Carinzia – avrebbero
preso la via del Friuli. Fra i grandi alleati dell’impero, il re Geza d’Ungheria
aveva inviato cinquecento armati; tra i principi tedeschi laici erano presenti
il duca di Boemia, quello d’Austria, quello di Carinzia, Bertoldo di
Zähringen, il duca Federico di Svevia (cioè il figlio di re Corrado III), il
landgravio Ludovico di Turingia; fra quelli ecclesiastici, gli arcivescovi di
Treviri e di Colonia. Una rigorosa lex castrensis, vero prototipo di
disciplina militare, regolava il comportamento delle armate stabilendone
prerogative, limiti e sanzioni. La marcia dell’esercito imperiale doveva
essere implacabile ma ordinata; da essa doveva spirare un senso di forza
sostenuto dalla giustizia. I cronisti, parlando di tutto questo, ricordano
spontaneamente il modello di Cesare.
Il 10 luglio, avvenuto il ricongiungimento delle truppe, iniziava l’assedio
della prima sicura alleata di Milano che le schiere di Federico avevano
trovato sul loro cammino: Brescia. Con grande gioia dei bergamaschi, che
l’imperatore aveva invitato a unirsi a lui contro la loro nemica, il territorio
soggetto a essa venne devastato. Dopo una resistenza durata due settimane,
i bresciani si piegarono: accettarono di prestare giuramento di fedeltà al
sovrano e di fornirgli in garanzia non solo degli ostaggi, ma anche un
contingente di armati per l’assedio della loro ex amica, Milano.
Federico ordinò quindi la ricostruzione della sua fedelissima Lodi e
subito dopo – con mossa audace resa possibile dall’aiuto dei fidi boemi –
passò l’Adda; occupato il castello di Trezzo che dominava il fiume, il 5
agosto si accampò dinanzi a Milano. Fra i suoi consiglieri, era soprattutto
Anselmo di Havelberg – l’arcivescovo di Ravenna per il quale Federico
aveva riesumato l’antico giustinianeo titolo di esarca – a spingerlo contro la
città lombarda: e con tale spietata intransigenza che un cronista ha pensato
alla sua morte, avvenuta una settimana dopo sotto le mura della città che
aveva dimostrato di detestare tanto, come a una punizione divina per il suo
accanimento.
Ma com’era potuto giungere a tanto il pio Anselmo, monaco
premostratense e sereno studioso? Forse in seguito alle sue serrate
frequentazioni con la corte di Costantinopoli, che avevano finito col
guadagnarlo alla tesi dell’accentramento imperiale di cui in Italia Milano
era il principale ostacolo? Oppure a causa del suo ruolo di uomo politico
suo malgrado «italiano», che aveva finito per coinvolgerlo nel rovente
clima delle rivalità comunali?
La scomparsa di Anselmo di Havelberg non fu il solo evento a indicare
che nell’équipe dei consiglieri di Federico qualcosa stava cambiando. Il
medesimo anno vide scomparire anche Wibaldo di Stavelot e Ottone di
Frisinga: insomma, l’intero gruppo «moderato» che aveva coerentemente e
costantemente insistito per un mantenimento dei buoni rapporti con il
papato e con Bisanzio, e che soprattutto aveva creduto nella Sancta Romana
Res Publica, fulcro della quale erano l’armonia tra imperatore e sommo
pontefice. Ora, accanto a Federico restavano solo gli homines novi, a partire
dal cancelliere Rainaldo. E spingevano al confronto; anzi, allo scontro.
All’inizio di settembre, Milano capitolò di fronte all’esercito imperiale in
cui forti erano i contingenti delle città lombarde rivali, soprattutto di Pavia e
di Cremona (ma v’erano anche pisani, lucchesi, fiorentini, senesi).
L’accordo, steso grazie alla mediazione dell’arcivescovo cittadino Oberto e
del conte di Biandrate, prevedeva che i milanesi avrebbero dovuto giurare
fedeltà al sovrano, rinunciare ai regalia che avevano fino ad allora usurpato,
erigere per lui un palazzo nella loro città, pagare una forte indennità in
denaro (9000 marche d’argento), liberare tutti i prigionieri delle città
lombarde che avessero ancora presso di loro, riedificare Como e Lodi che
avevano ripetutamente distrutto, fornire all’imperatore trecento cittadini in
ostaggio. I milanesi avrebbero potuto continuare a eleggere i loro consoli:
ma questi avrebbero dovuto giurare nelle mani dell’imperatore o dei suoi
legati, i quali – al pari di lui – avrebbero avuto diritto a soggiornare nel
nuovo palazzo quando fossero venuti in città. A questi patti l’imperatore
accettava di sospendere il bando pronunziato tanto contro i milanesi quanto
contro i cremaschi: ma l’atto formale della sospensione del bando costava
120 supplementari marche d’argento.
Abbiamo detto accordo: e tale nella sostanza era, per quanto non vi fosse
dubbio ch’esso implicava condizioni tutte sfavorevoli alla città piegata. Ma
nella forma Federico pretese che non di accordo si parlasse, bensì di piena,
assoluta, incondizionata sottomissione. L’8 settembre, giorno della Natività
della Vergine Maria, i milanesi sfilarono in processione dinanzi al sovrano;
prima una selva di croci penitenziali di legno, poi l’arcivescovo e il clero
anch’essi in abito da penitenza e a piedi nudi; indi i consoli e i maggiorenti
cittadini a loro volta scalzi e in veste di sacco, le spade sguainate appese al
collo per mezzo di corde simili a capestri. Il continuatore della cronaca
ottoniana ci ritrae l’imperatore mentre rimira con occhio rasserenato il
pietoso spettacolo e rassicura benevolo i sudditi infedeli tornati
all’obbedienza, accetta le spade che essi gli offrono, li conforta con il bacio
della pace; nella sua allocuzione, afferma poi di preferir governare chi si
sottomette volentieri che non chi è obbligato a farlo, ma ricordando che la
vittoria spetta al più forte rassicura i vinti che a Milano, alla quale è toccato
in sorte di sperimentare la giustizia sovrana, spetta ormai di godere il favore
dell’impero.
Queste cose le sappiamo perché e nella misura in cui ce le raccontano le
cronache. Ma se c’è un argomento manipolato e adulterato, nei cronisti,
sono le allocuzioni: in esse, l’autore riversa non solo intenzioni concettuali
partigiane ma anche colori retorici e ornamenti letterari che appartengono
più al gusto del tempo che non alla realtà delle cose. Tuttavia, la nostra
fonte sembra riacquistare una perentoria attendibilità anche formale
allorché – dopo aver con tanto sfoggio di retorici paludamenti fatto parlar
Federico – riferisce l’umile ma anche fiera e dignitosa risposta dei milanesi:
non è in odio all’impero che essi hanno combattuto, ma per difendere la
terra e l’eredità dei padri dai loro vicini. Che sotto sotto questi orgogliosi
cittadini restassero simpatici al cronista tedesco? Certo è che – se il giovane
implacabile sovrano svevo stava già entrando nel mito italico – anche
Milano si trovava ormai circonfusa d’una grandiosa, terribile aura. La
formidabile spedizione del 1158 si era mossa per piegarla: tutta la forza
dell’impero contro una città. Per Federico, essa era stata l’avversaria
principale: in un certo senso, poteva andarne orgogliosa.
E infine, comunque si voglia affrontare la questione, resta primariamente
valido un problema territoriale connesso con le strutture socioeconomiche
di fondo: l’imperatore poteva imporre tutti i trattati di pace che voleva, ma
la politica economica cittadina – cioè in primo luogo la necessità di liberi
scambi, quindi di libere vie commerciali – condizionava la politica estera e
pertanto quella militare di Milano. Essa aveva bisogno di mantenere
sgombra la strada verso Genova, che la collegava al mare; quella alla volta
del Piemonte e quindi della Francia; quella in direzione di Chiavenna e
Coira, lungo la via del passo dello Spluga che portava in Germania e che
era sorvegliata da Como; quella che portava lungo la Via Francigena alla
Toscana settentrionale, a Lucca e a Pisa, la chiave della quale era Piacenza;
quella che conduceva a Verona, dando accesso al Veneto, alla valle
dell’Adige e al passo del Brennero. Milano era davvero Mediolanum, il
centro d’una rete stradale che si sviluppava in tutte le possibili direzioni. Ne
veniva di conseguenza che i milanesi dicevano la verità quando
sostenevano di non avercela affatto con l’impero: il punto era semmai, per
loro, l’impossibilità di far pace con il marchese di Monferrato che sbarrava
loro gli itinerari alla volta del Piemonte e della Francia; con i Malaspina e
con Pavia, che controllavano l’accesso a Genova e il passo appenninico
della Cisa che immetteva in Toscana. Essi dovevano inoltre controllare
Como per assicurarsi l’accesso alla volta di Chiavenna e di Coira; era per
loro necessario tener Cassano e la Ghiara d’Adda in modo da mantenere
sgombra la via verso Verona e verso Venezia; e bisognava che le loro scelte
politiche condizionassero Genova mentre, per contro, una politica della città
portuale ligure troppo ossequiosa della volontà imperiale avrebbe recato
gravi fastidi a Milano. Tutte queste ragioni sembravano accantonate se non
addirittura superate nel settembre del 1158: ma erano al contrario altrettanti
tizzoni accesi e duri a spegnersi, brace ardente che covava sotto la cenere
del trattato pronta a far divampare nuovi incendi.
Il vessillo imperiale sventolava sul campanile della cattedrale di Milano,
quando Federico volse le spalle alla città ch’egli aveva ben ragione – al
momento – di ritenere definitivamente piegata; soggiornò qualche tempo a
Monza, presso la chiesa già sacra ai fasti dei re longobardi d’Italia e dove
ebbe luogo una nuova grande cerimonia d’incoronazione, o meglio una
festa caratterizzata dalla stefanoforia: 3 il sovrano si presentava al popolo in
tutto il suo splendore regale, cingendo la leggendaria corona ferrea. Si
spostò in seguito fra Mantova, il Veronese, Cremona, sino a raggiungere
l’area dei beni matildini e a trovarsi per la festa di San Martino, l’11
novembre, a Roncaglia, dov’era stata fissata una grande dieta di tutto il
regno d’Italia. Nel frattempo, aveva rinviato in Germania una parte del suo
esercito, avendo cura peraltro di trattenere presso di sé quei feudatari
ch’erano per lui i collaboratori più preziosi… e che, al loro paese, sarebbero
invece stati in sua assenza pericolosi.
Sei anni prima, Federico aveva inaugurato il suo governo in Germania
con una pace generale: il che aveva significato, là, la composizione di
annose lotte dinastiche e feudali e la garanzia di libertà e sicurezza per i
commerci. Non per nulla egli si chiamava Fridericus, Friedrich, l’uomo
della Friede: il Princeps Pacis. Ora v’era evidente bisogno anche in Italia
di una pace generale: ma di poterla turbare erano sospettate, e certo non a
torto, quelle città che costituivano l’elemento politicamente ed
economicamente dinamico del regno e che tendevano ad appropriarsi – per
affermare il proprio dominio ed espandere i propri mercati – di aree
territoriali e di diritti che, nel vecchio assetto del mondo cisalpino, erano di
competenza non loro bensì del sovrano o dei detentori di signoria forniti di
delega per l’esercizio delle funzioni pubbliche. Il fatto era però che
l’usurpazione di diritti e di funzioni regie, da parte delle città, era avvenuta
magari de facto, non però né sempre e tantomeno necessariamente de iure,
dal momento che certe concessioni, nel corso dell’XI e della prima metà del
XII secolo, le città italiche se le erano comprate dai sovrani romano-
germanici pagandole bella moneta sonante e ricevendone anche fior di
documenti che ne comprovavano la legittimità. E queste concessioni-
cessioni, se e quando c’erano state, erano dipese da due condizioni
complementari: primo, la lunga vacanza dei re d’Italia dall’esercizio
effettivo della loro autorità e il «vuoto di poteri» – subito riempito,
legittimamente o no – che si era per questo andato creando negli ultimi
decenni; secondo, la straordinaria crescita demografica, politica ed
economica delle città centrosettentrionali, che rendeva certe vecchie pastoie
giuridiche del tutto inadeguate a una nuova realtà la quale si prospettava
essa stessa, e in quanto tale, «illegittima», «fuorilegge». D’altro canto, porre
fuorilegge una realtà nuova è molto facile al livello giuridico – è anzi si può
dire nell’ordine delle cose –, ma molto difficile a quello della concretezza
storica. L’usurpazione dei pubblici poteri, talora brutale talaltra concordata
o semiconcordata, accettata o tollerata, era stata un mezzo imperfetto e
provvisorio per sistemare comunque una realtà dinamica ch’era inevitabile
accettare e ardua da formalmente ridefinire in termini giuridici adeguati.
Non si può d’altronde retrospettivamente pretendere dal Federico della
dieta di Roncaglia del 1158 quel ch’egli non solo non voleva, ma nemmeno
– visto il modo nel quale aveva impostato il suo programma politico –
poteva concedere: e tantomeno gli si può chiedere la rapida comprensione
dei tempi nuovi e di nuove esigenze, quindi l’abdicazione rispetto a quei
princìpi giuridici e a quelle prerogative regie per stabilire rigorosamente i e
le quali – al contrario – egli si era appunto mosso, e nel cui ristabilimento
egli era fermamente convinto che coincidessero i suoi diritti e i suoi
interessi.
C’era, negli accordi tra Federico e Milano, un punto che rischia di venir
sottovalutato da noi moderni se non se ne intendono le implicazioni:
l’obbligo di costruzione all’interno della cinta muraria di un palazzo
imperiale, vero e proprio simbolo pietrificato del potere sovrano. Di palazzi
del genere, Federico in Germania ne costruì molti: e, in Italia, essi servirono
almeno in una certa misura da modello per gli stessi edifici pubblici
cittadini, i vari palazzi «della Ragione», «del Podestà», o, più tardi, «del
Popolo» fioriti nelle nostre città fra Due e Trecento. A Pavia, sorgeva un
palatium di questo tipo: era il simbolo dell’autorità dei re germanici d’Italia
e il centro amministrativo del regno dove si curavano la gestione e la
riscossione degli iura regalia, cioè dei diritti che si dovevano pagare
all’amministrazione regia per battere moneta, impiantare periodici mercati,
importare ed esportare generi alimentari, macinare cereali, usare certe
strade e certi approdi fluviali o marittimi e via dicendo. Alla morte di
Enrico II, nel 1024, il palatium di Pavia era stato incendiato durante una
sommossa; in seguito, l’amministrazione regia in Italia non aveva più
potuto essere ricostituita e quelli che ormai si era (e si è) soliti nell’uso
pratico definire i regalia erano non già passati in proscrizione, bensì
mantenuti in vita e riscossi in tutto o in parte da chi – zona per zona e volta
per volta – deteneva nel nome o meno del sovrano il potere effettivo:
domini laici, vescovi, più tardi anche comuni. È il solito vecchio discorso
del vuoto di potere che non esiste: o meglio che, quando c’è, viene subito
riempito.
Era davvero una pura imposizione «reazionaria», l’atteggiamento di
Federico durante la dieta di Roncaglia? Può sul serio essere interpretato
come la dura e ottusa volontà d’un sovrano capace di prestare orecchio solo
ai suoi diritti e incapace, per contro, di comprendere che in
centotrentaquattro anni dalla distruzione del palatium pavese le cose erano
molto cambiate ed era impossibile ricondurle ai tempi di Enrico II?
Nella realtà dei fatti, molti elementi impediscono di vedere in Roncaglia
una restaurazione dell’antico ordine regio o comunque un tentativo in tal
senso. Intanto, un fatto nuovo per l’Italia medievale e strettamente connesso
a quella grande primavera della cultura europea che fu il XII secolo ma
anche, e con maggior precisione, alle frequentazioni sveve di quel grande
centro di diritto e di teoria politica ch’era la corte imperiale di Bisanzio (e,
chissà, anche con quell’Università di Bologna sfiorata nel 1155). Tale fatto
nuovo era la rinascita del diritto giustinianeo, che proponeva – in un mondo
italico fino ad allora abituato a pensare all’impero romano-cristiano nella
sola dimensione di un Costantino che si era ritirato da Roma lasciando Urbe
e insegne imperiali nelle mani del Vicario di Pietro… – un aspetto nuovo e
diverso del potere imperiale. Nuovo, per quanto – in conformità con il
diffuso sentire del tempo, che in ogni novitas scorgeva un pericolo – ci si
rifacesse per poterlo legittimare a una venerabile antichità. Erano nuove le
universitates studiorum; era «nuova», nel mondo occidentale, la pur antica
scienza giuridica romana che in esse si insegnava e la cui importanza
cresceva del resto parallelamente a quella del diritto canonico; era nuova
(anzi, era inaudita: nel senso etimologico di quest’aggettivo) la pretesa di
applicare tale scienza al campo della politica.
Roncaglia fu, quindi, la sede per una grande proposta di riorganizzazione
dei rapporti fra potere regio e realtà politiche italiche. Da un lato la teoria
della legittimità dei regalia appoggiata all’autorevole parere degli esperti
universitari – convocati attorno al sovrano nella prima grande assise
politico-culturale di segno «laico» che l’Europa medievale ricordi – e alla
presenza dell’armata tedesco-boemo-burgundo-italica, una parte della quale
(l’italica, appunto) era, si badi bene, direttamente interessata alla
ridefinizione delle prerogative regie: e non è detto che le sue varie
componenti fossero tutte convinte che tale ridefinizione giocasse in loro
immediato favore. Dall’altro, la forza delle cose: una forza, e una logica a
essa legata, che poteva ben lasciarsi piegare dalle armi, ma ch’era destinata
a riemergere e a riaffermarsi una volta che la pressione militare si fosse
allentata. In palio c’era qualcosa di ben più importante delle pur ingenti
rendite finanziarie dei regalia.
Il colpo d’occhio offerto dalla piana di Roncaglia in quel giorno di San
Martino doveva essere straordinario: un convergere di feudatari ecclesiastici
e laici ciascuno con il proprio seguito, una varietà di genti e di costumi, un
incrociarsi di lingue e di dialetti, un colorito accorrere di mercanti e di
giocolieri e di avventurieri. Un po’ festa, un po’ mercato, Roncaglia doveva
essere diventata una specie di grande città mobile al centro della quale si
ergeva il grande padiglione d’onore che il re d’Inghilterra aveva donato
l’anno prima all’imperatore. Il cronista imperiale descrive magistralmente
la scena: ma forse la depura un po’ di quel tanto di colorito, di caotico – di
«medievale»? –, introducendo in cambio una lunga interpolazione di
Giuseppe Flavio che ha lo scopo e l’effetto di far somigliare il più possibile
il campo federiciano a un accampamento delle legioni di Roma antica. Fra i
grandi d’Italia convenuti a Roncaglia primeggiavano Oberto arcivescovo di
Milano, il marchese Guglielmo di Monferrato, il conte Guido di Biandrate;
e sarebbe spettato proprio al presule milanese, nell’allocuzione di risposta a
quella d’apertura della dieta pronunziata dal sovrano, il richiamare la
celebre massima del diritto giustinianeo: «Il volere del principe ha forza di
legge, poiché il popolo ha delegato a lui e in lui il suo diritto e il suo potere
di governo». 4 Era l’enunciazione della volontà del sovrano quale fonte di
diritto, appoggiata a quella Lex Regia nel nome della quale, tre anni prima,
Federico si era visto offrire la corona dal Senato romano. Rifiutato allora il
ricorso a tale principio in quanto alternativo all’incoronazione pontificia – e
soprattutto in quanto propostogli da chi non aveva né il diritto né la forza di
farlo –, il sovrano si era ormai assicurato con l’appoggio dei principi
tedeschi e dei nobili e delle città d’Italia (o almeno di alcune fra esse) il
diritto di ricorrervi ora: e tuttavia, se poteva a quel punto appoggiarsi a ben
altre forze che non il comune di Roma, Federico sentiva anche la necessità
di legittimare il suo ruolo cesareo alla luce d’una teoria autenticamente
antica e romana sul piano giuridico ma, al tempo stesso, del tutto nuova sul
piano politico. Essa astraeva – per la prima volta nell’Occidente medievale
– da questioni teologico-religiose per appoggiarsi e riallacciarsi a una realtà
fondata prima della stessa Chiesa. Ciò non comprometteva affatto,
beninteso, l’idea che l’impero fosse stato provvidenzialmente voluto da Dio
per preparare l’avvento del Salvatore e il Suo regno sulla terra, e quindi il
principio della derivazione divina del potere imperiale: ma consentiva di
prescindere dalla tesi di una qualunque mediazione papale tra Dio e
l’imperatore. Il Cristo aveva assegnato a ciascuno dei suoi due
rappresentanti in terra, rispettivamente, la spada del potere spirituale e
quella della giustizia materiale; ciascuno di loro era responsabile solo
dinanzi a Dio del modo in cui avrebbe – nel Suo nome – usata l’arma
affidatagli. Da questa diretta subordinazione a Dio l’impero usciva non già
«desacralizzato», bensì – e al contrario – investito (come del resto da secoli
era vero per quello bizantino) di una sacralità più alta, immediata, diretta:
parallela a quella pontificia, non dipendente da essa; inserita nella realtà
ecclesiale, anzi partecipe dello stesso ordine chiericale nella misura in cui la
cerimonia dell’incoronazione lo indicava, e tuttavia posta accanto al
sacerdotium a capo della Chiesa, fatta salva la reverenza che l’imperatore
doveva personalmente, come fedele del Cristo, al successore di colui
ch’Egli aveva istituito come principe degli apostoli. La Lex Regia, così
reinterpretata a Roncaglia, è la ferma risposta al Dictatus Papae. Se la
canonistica si rifaceva – come già abbiamo visto con le posizioni assunte a
Besançon da un canonista illustre quale il Bandinelli – a una visione
essenzialmente carolingia dello ius imperii, i civilisti dal canto loro si
appoggiavano al riscoperto diritto giustinianeo per affermare una visione
dell’impero che scavalcava, ignorandoli, Constitutum Constantini e
Dictatus Papae. Non si trattava di due «differenti» e coesistenti modi di
considerare il medesimo problema: si era dinanzi a due posizioni estranee
fra loro che pertanto, se fossero state costrette a confrontarsi, non avrebbero
potuto non entrare in conflitto.
In questo XII secolo, che secondo alcuni ha inventato l’amore così come
lo si intende nell’Occidente moderno, è stata notoriamente inventata anche
una figura a sua volta caratteristicamente, esclusivamente «moderna»,
l’intellettuale; e con lui si è inventata la sua funzione, la sua integrazione
organica rispetto al potere. I quattro grandi allievi e successori dell’illustre
giurista Irnerio, maestri celebri di diritto romano, stavano a Roncaglia a
fianco del giovane sire tedesco in quanto avevano individuato in lui il loro
nuovo Cesare, il loro redivivo Giustiniano; ed egli se ne serviva affinché
essi lo legittimassero in quanto tale. Se vogliamo abbandonarci un attimo –
solo un attimo – a considerazioni anacronistiche (se non metastoriche…),
Federico non è affatto un «reazionario», a differenza di quanto in troppi
hanno affermato dal romanticismo in poi: semmai al contrario, in questo
suo paradigmatico servirsi del «ritorno all’antico» per esautorare ed
eliminare «il vecchio», è un rivoluzionario. Se non addirittura un utopista.
La prestigiosa quadriglia dei giuristi bolognesi al servizio della
rivoluzione federiciana era costituita da Martino Gosia, detto Copia legum
(«Larghezza di leggi»); da Bulgaro, detto Os aureum («Boccadoro»); da
Ugo di Porta Ravegnana, detto Mens legum («Mente delle leggi»); infine da
Jacopo, che si dice Irnerio avesse definito Id quod ego («Un altro me
stesso», «Lo stesso che me»). Nella piana di Roncaglia, al pari che nella
Parigi di Abelardo, nasceva allora anche un fenomeno che sarà fedele
compagno dell’Europa moderna: il divismo dell’intellettuale, la sua
illusione di sentirsi compartecipe del potere politico nella misura in cui
questo lo manovra, lo strumentalizza e al tempo stesso lo corteggia; forse
addirittura l’illusione di essere in qualche modo lui a indirizzarlo, a
dirigerlo. Tuttavia, dinanzi alle perentorie pretese federiciane di
ristabilimento dei regalia i giuristi di Bologna indugiarono, quasi
indietreggiarono. Proprio in quanto buoni conoscitori del diritto imperiale
antico – ma d’altronde anche in quanto uomini che vivevano nella loro
stessa Bologna la realtà comunale, ne apprezzavano la novità ed erano ben
consapevoli della sua irriducibilità a schemi giuridici venerabili ma pensati
per una realtà sociale e culturale ben diversa –, essi avevano precisa
coscienza del fatto che le città non avrebbero mai potuto accettare sul serio
qualcosa che in realtà non era affatto la restaurazione di antiche
consuetudini, bensì un’assoluta innovazione. I comuni cittadini italici erano
nati e si erano sviluppati in parte anche durante la vacanza dei poteri regi,
anzi a causa di tale vacanza: l’accettazione da parte loro del programma di
Roncaglia, se completa e incondizionata, non avrebbe forse coinciso con
una sorta di suicidio?
Per questo, dinanzi al diktat dell’imperatore, gli esperti bolognesi
esitarono e chiesero la collaborazione dei rappresentanti dei vari comuni
interessati. Ma le fiamme di Tortona e di Spoleto bruciavano ancora;
bresciani e milanesi avevano ancora dinanzi agli occhi lo spettacolo
minaccioso degli accampamenti dispiegati sotto le loro mura. Erano
semmai, al contrario, i pavesi, i lodigiani, i comaschi, i cremonesi a
preferire di piegar la testa di fronte a un signore sentito comunque come
legittimo, ma lo facevano confidando nel fatto che sarebbe stato spesso,
anzi abitualmente, lontano da loro e persuasi che in fin dei conti tutto quel
ch’egli chiedeva era un giuramento di fedeltà (parole solenni: ma parole) e
una certa quantità di denaro: meglio il suo dominio esercitato da lontano o
di quando in quando a una prepotente e costante vicina come Milano, che
tagliava loro i mercati e imponeva sempre e comunque il suo volere.
Quanto ai domini presenti, nel sovrano germanico princeps militiae essi
riconoscevano uno di loro, come loro costretto a confrontarsi con le sempre
più invadenti città; e d’altronde avevano in molti casi già perduto a causa
dei comuni l’usufrutto dei regalia, per cui a Roncaglia avevano poco da
rimetterci. È per questo che, nella piana trasformata in accampamento,
vescovi, principi e città si piegarono – tutti insieme, ma per differenti motivi
e con ben diverse, rispettive intenzioni – dinanzi al nuovo Giustiniano. Il
problema della translatio imperii dai romani ai germani, che pure aveva
improntato la fiera risposta di Federico al Senato di Roma nel 1155, non
toccava la giornata di Roncaglia. L’impero, lì, si presentava quale lo
interpretavano i civilisti bolognesi: una prosecuzione dell’esperienza
giustinianea senza soluzione di continuità, come se non vi fossero stati né
un Romolo Augustolo né un Carlomagno.
Definire «assolutistica» o «feudale» la politica di Federico – sia in
genere, sia a più forte titolo in rapporto a Roncaglia – è dunque un non-
senso. Quel che soprattutto e anzitutto gli interessava, era rivendicare
all’impero il monopolio del potere pubblico; tale potere poteva certo
continuare a passare per delega nelle mani di singoli signori – o di singole
città –, ma a patto che se ne riconoscesse senza ambiguità e senza
confusioni la fonte nel sovrano. Il che postulava qualcosa di relativamente
chiaro a livello di principio, ma non facile a tradursi in termini pratici: la
costante distinzione tra possesso o controllo materiale e concreto di un
territorio, ed esercizio entro i suoi confini di quella giurisdizione ch’era e
restava segnata da un carattere pubblico. In quest’orizzonte, i regalia iura
erano tutti quei diritti e quei poteri – sulle strade, sulle vie d’acqua, sulla
moneta, sui beni vacanti – che potevano sì venir gestiti dai più vari soggetti,
ma che nondimeno restavano dipendenti dal sovrano e originariamente
concessi da lui: quindi da parte sua e in qualsiasi momento revocabili.
I giuristi bolognesi elaborarono dunque, con l’assistenza e l’appoggio
degli esperti delle varie città, una lunga lista di regalia desunta in gran parte
dal Corpus Iuris di Giustiniano, ma in qualche misura anche tenendo conto
del diritto consuetudinario e della pluralità delle concrete situazioni con
l’intrico di consuetudines che nel tempo si erano andate accumulando. Col
suo consueto pragmatismo, l’imperatore aderì volentieri alla loro richiesta
di affiancarsi degli esperti scelti nelle singole città: ciò avrebbe
immediatamente comportato il consenso – «volontario» – delle città stesse
al lavoro della commissione, quindi il loro pacifico ossequio ai suoi voleri.
Federico non aveva affatto, in altri termini, l’intenzione di rivendicare in
assoluto la sistematica diretta gestione dei regalia: peraltro – e lo sapeva
bene –, anche se avesse voluto farlo, non ne avrebbe avuto né la forza di
controllo politico né gli strumenti burocratici; al di là di ciò, prospettive
accentratrici di questo tipo erano del tutto fuori dalla mentalità sua e del suo
tempo. In realtà, egli confermò senza difficoltà il godimento dei regalia a
chiunque – signore o città – fosse in grado di comprovare di averne ricevuta
la concessione da un qualche sovrano e accettasse gli obblighi che di
conseguenza ne derivavano; quel che invece esigeva era il recupero di
quelli che erano stati fin lì illegittimamente gestiti e che avevano fruttato –
si poté calcolare – un gettito annuo globale di circa 30.000 marche
d’argento, pari grosso modo a una tonnellata di metallo pregiato. La politica
militare stava peraltro provocando, da parte dell’amministrazione imperiale,
una tale fame di liquidità che somme del genere, per alte che fossero, erano
lontane dal poter costituire una base sufficiente. Ed era d’altronde logico e
legittimo, nell’ottica giuridica e politica tanto di Federico quanto del suo
tempo, che gli stessi problemi tedeschi dovessero risolversi anche grazie
all’argento delle città italiche.
Ma al di là del pur ingente valore finanziario dei regalia, all’imperatore
premeva che fosse il principio giuridico a valere. Sulla base di esso, il suo
discorso politico a Roncaglia si articolò su due punti: primo, rivendicare
qualunque prerogativa che le leggi imperiali assegnassero al sovrano, salvo
poi gestirle nella maniera più varia secondo le opportunità delegandone
l’applicazione a signori o a città, ma sempre ristabilendo con ciò un legame
volta per volta diretto e immediato tra ciascuna di queste forze e l’impero;
secondo, impedire coalizioni feudali o cittadine o feudo-cittadine, e anzi
mantenere le singole forze separate fra loro affinché ciascuna avesse nel
sovrano il suo unico, esclusivo interlocutore. A Roncaglia, Federico non era
venuto per ramazzare un po’ d’argento: gli serviva anche quello, certo, e ne
chiedeva – come in seguito ne avrebbe chiesto – senza posa. Ma non era il
denaro a interessarlo in prima istanza. In altre due costituzioni promulgate
nella medesima dieta, la Constitutio pacis e la Constitutio de feudis, egli
avocava a sé ogni tipo di giurisdizione, proibiva la vendita dei diritti feudali
d’origine pubblica insieme con gli allodi (cioè con i beni privati), ribadiva il
suo diritto di nominare i rappresentanti dei pubblici poteri – anche se, nella
pratica, questo per i comuni poteva significare soltanto il dovere di
presentargli i nuovi eletti alle magistrature cittadine attendendo da lui la
loro rispettiva conferma, che in linea ordinaria ci si poteva aspettar come
cosa di routine –; egli proibiva inoltre non solo le guerre locali ma anche
qualunque forma di coniuratio o di conventicula. Quest’ultima norma
significava la dichiarazione che tutti i patti giurati su cui si reggevano i
comuni nonché le varie forme di consorterie gentilizie, le associazioni
mercantili e artigiane, le leghe fra città, gli accordi fra nobiltà feudale e
comuni erano ormai considerati fuorilegge. Era, questa, la condizione stessa
affinché il sovrano potesse ergersi a unico garante della pubblica pace. La
pretesa che in tutte le città nelle quali egli lo avesse imposto sarebbero
dovuti sorgere palatia regali era il simbolo tangibile di questa volontà.
L’autorità imperiale non intendeva impedire patti o legami di tipo
solidaristico: esigeva però di esserne la garante e di esercitarne il controllo.
In altri termini, si affermano a Roncaglia la plenitudo potestatis del
«successore di Giustiniano», il suo diritto concettuale al dominium mundi.
Da allora in poi, la Cristianità non si riconoscerà più nella Sancta Romana
Res Publica, bensì nel Sacrum Romanum Imperium: e nella diversità tra
queste due denominazioni la sostituzione dell’aggettivo sancta con sacrum
non era orpello linguistico-stilistico, bensì implicava un preciso rinvio allo
ius in sacris in forza del quale alla sfera delle competenze dell’imperatore
apparteneva anche il diritto di intervenire nelle stesse questioni
ecclesiastiche. L’eredità carolingia era con ciò, beninteso, tutt’altro che
rinnegata o accantonata: ma veniva inserita in un continuum, dall’antichità
romana al presente, che nessuno in Occidente aveva fino ad allora mai osato
né concepire né – tantomeno – sostenere. Che i pisani mostrassero a capo
scoperto e a ceri accesi il volume delle Pandette che avevano rapinato agli
amalfitani non è pura aneddotica, bensì indizio di questa profonda sacralità,
antichissima e nuova, che si andava circonfondendo attorno al nomen
imperii. E, con essa, si affermava il concetto pregnante, totalizzante, di
honor imperii. Esso era senza dubbio un concetto giuridicamente vago,
forse addirittura generico, usato tuttavia a qualificare il complesso dei diritti
e delle prerogative imperiali: diritti e prerogative che potevano altresì venir
gestiti direttamente dal sovrano oppure delegati, ma che in nessun caso
potevano essere alienati o posti da parte. Concetto giuridico vago, abbiamo
detto: ma espressione politica – e propagandistica – di straordinario vigore,
vera e propria idea-forza.
Non si può dire che Roncaglia sia stata un sogno; non si può accusare
Federico di scarso realismo politico nell’impostarla secondo le scelte che
abbiamo visto. Si trattò semmai di un punto di partenza, che il sovrano fece
tuttavia l’errore di ritenere un punto d’arrivo. In quell’estate di San Martino
del 1158, con Milano in ginocchio e i libri della sacrosanta legge romana
squadernati davanti – anche il Cristo Venturo dei timpani delle abbazie
romaniche reca spesso nella destra, come uno scettro, un libro –, i feudatari
tedeschi, boemi, burgundi e italici ai suoi piedi e le città che attendevano
dalle sue labbra la parola della giustizia, il giovane imperatore dovette
davvero sentirsi lex animata in terris. Quel che non comprese fu che il suo
successo su Milano era stato dovuto anche al fatto che egli si era immesso,
obiettivamente sfruttandolo, nel gioco di scacchi delle rivalità italiche. Ma
ora, pronunziando una legge uguale per tutti, poneva le premesse per la
cancellazione di quelle rivalità; proibendo a tutti i nobili e a tutte le città di
allearsi fra loro e imponendosi loro come unico interlocutore, indicava
anche se stesso – in prospettiva – come loro comune rivale.
Certo, i tempi per questa virata di rotta della realtà politica italica
maturarono lentamente. A Roncaglia era accaduto qualcosa di non facile a
intendersi da parte dei comuni: e d’altronde i testi delle varie Constitutiones
là emanate non furono immediatamente raccolti né dovettero cominciare
subito a circolare; a parte poi l’ambiguità di qualunque testo giuridico,
destinato per sua natura a passare attraverso una revisione interpretativa che
sovente sposta di molto i termini originali dei problemi da esso posti.
A ogni modo, le città lombarde si resero subito conto almeno di un fatto:
Federico aveva un gran bisogno di denaro e intendeva intascarne parecchio,
anche perché aveva ben compreso che esse potevano fornirgliene senza
sforzo ingenti quantità. Ed esse erano disposte, per esempio, a versargli
grosse somme per ricevere in cambio la conferma dei consoli che avrebbero
continuato nella pratica, Constitutiones imperiali o no, a essere liberamente
scelti; così come non erano in via pregiudiziale neppure contrarie a
restituirgli il godimento dei regalia. A conti fatti, la pace generale imposta
dal sovrano si sarebbe trasformata comunque perfino in un discreto affare
economico, visto il drenaggio continuo di denaro causato fin lì dalle
frequenti guerre comunali che ora dovevano per legge cessare. Un bel
risparmio.
Non erano però le pretese economiche o fiscali di Federico, bensì il suo
atteggiamento politico a mettere in allarme i sudditi italici. Immediatamente
dopo Roncaglia, egli formò una commissione guidata dai soliti due dioscuri
del suo nuovo corso politico, Rainaldo di Dassel e Ottone di Wittelsbach, e
incaricata di visitare le varie città lombarde per sostituire i relativi consoli
con dei rectores di nomina imperiale, che si sarebbero chiamati potestates.
Tali magistrati potevano anche essere scelti nell’ambito dei singoli centri
urbani e in accordo con gli abitanti (cioè con i ceti emergenti di ciascun
centro), ma venivano comunque a costituire un’ingerenza politica
dell’imperatore molto più forte di quanto lo stesso durissimo dettato di
Roncaglia non avesse dato a temere. Un altro elemento suscettibile di creare
paure e malumori era l’evidente avversione – per quanto non è detto fosse
del tutto programmatica – di Federico per Milano, anche dopo i patti del
settembre. Egli rifiutava costantemente, nella pratica, di trattare allo stesso
modo tutte le città e finiva per concedere regolarmente il suo favore a quelle
di antica e comprovata tradizione antimilanese, come Cremona, Pavia,
Lodi. Difatti, in esse i lavori della commissione non trovarono alcun
ostacolo. Ma diversamente andarono le cose per esempio a Piacenza, dove
già aveva suscitato inquietudine l’ordinanza che le torri le quali superassero
in altezza una data misura fossero abbattute. Certo, formalmente si trattava
di una coerente misura di pace: ora che a Roncaglia l’ordine era stato
ristabilito in tutto il regnum Italiae, che bisogno c’era di quelle difese? Il
fatto era che il sovrano tedesco tendeva a chiudere un occhio davanti
all’altezza delle torri di certe città, mentre era inflessibile con quelle di certe
altre. Insomma, il Princeps Pacis aveva sì stabilito nel regno una pace
uguale per tutte le città: ma senza dubbio, ai suoi occhi, v’erano città più
«uguali» delle altre. La contraddizione che ne scaturiva era grave e
insanabile: da una parte la prospettiva di una legislazione uniforme nei
confronti di tutti i sudditi era suscettibile di determinare la coerente e corale
resistenza di questi contro quella; d’altra parte la differenza di trattamento
riservata dal sovrano ad alcuni centri urbani nei confronti di altri faceva di
peggio che non, semplicemente, creare le premesse per la costituzione di
opposti schieramenti fra loro, ma coinvolgeva per forza di cose il sovrano
stesso in una logica di guerra civile all’interno della quale la coalizione
delle città che si sentivano maltrattate dal potere imperiale avrebbe visto nel
sovrano il capo della coalizione avversa. E questo sì avrebbe
irreparabilmente nociuto al nomen imperii.
Non si deve d’altronde pensare che sin dall’indomani di Roncaglia si
creassero schieramenti precisi. Quando diciamo che v’erano città più
«favorevoli» a Federico o che erano state più o meno «amiche» o
«nemiche» di Milano, intendiamo sostanzialmente riferirci a un
atteggiamento politico di quella parte dell’aristocrazia consolare cittadina
che in ciascuna di esse deteneva il potere. Ma ogni città era divisa al suo
interno tra opposti schieramenti politici; per cui a Cremona e a Pavia
c’erano fermi oppositori della politica imperiale mentre, a Milano e a
Brescia, Federico era in grado di contare su sicuri fautori. La lotta fra le
città si rifletteva e si trasferiva all’interno di ciascuna cinta muraria,
scomponendosi in una pluralità di situazioni locali che i consiglieri
dell’imperatore dovevano avere grosse difficoltà a padroneggiare. Ed era
anche a causa di questo complesso sistema di spinte e di controspinte che il
Princeps Pacis non avrebbe mai potuto essere davvero obiettivo ed
equidistante neppure se l’avesse voluto, e anche ammesso che obiettività ed
equidistanza possano in politica davvero darsi.
E tuttavia, già all’indomani di Roncaglia, aveva cominciato a farsi strada
fra i «lombardi», pur tra ambiguità e perplessità di vario genere, la
consapevolezza che Federico era senza dubbio temibile come nemico, ma
anche scomodo come alleato. Quegli stessi che avevano sperato di servirsi
della forza e del prestigio dello Svevo per ridimensionare l’imperialismo
territoriale di Milano e continuavano a giovarsi del suo favore per
migliorare la propria posizione politica, comprendevano tuttavia che questi
aveva davvero – a differenza di tutti i re tedeschi succedutisi dopo Enrico
III – la ferma volontà di governare il regnum Italiae anziché farsi vedere di
quando in quando al di qua delle Alpi per riunire un po’ di nobili signori e
di maggiorenti cittadini, per incontrare qualche papa o per spillare un po’ di
soldi in cambio di concessioni giuridiche garantite da ben sigillate e meglio
pagate pergamene.
In molti tuttavia – pensiamo anzitutto ai pavesi e ai cremonesi – l’odio
per i vicini avversari era tanto forte che essi avrebbero volentieri perduto a
loro volta qualche vantaggio pur di assistere alla loro inevitabile rovina. Ma
in altri casi, politicamente meno delineati, le cose andavano altrimenti.
Genova, per esempio, fece seccamente sapere al sovrano – ritorcendogli
contro, parola per parola, il decreto di Roncaglia – che gli avrebbe restituito
volentieri tutto quello che, fra i diritti da essa esercitati, egli fosse riuscito a
provare come di propria pertinenza: e, a eloquente commento della sua
risposta, si dette frattanto a rinforzare le fortificazioni urbane.
Intanto, la commissione imperiale aveva emanato nei confronti della
piccola città di Crema, testa di ponte della politica territoriale milanese di
fronte a Cremona, l’ordine di abbattere le fortificazioni. Per l’abbattimento
delle mura cremasche, i cremonesi offrirono a Federico 15.000 marche
d’argento, vale a dire grosso modo la stessa somma che a Roncaglia si era
calcolato potesse rendere l’esercizio globale dei regalia del regno durante
sei mesi. Sia che l’imperatore avesse bisogno di quel denaro, sia che avesse
deciso comunque di procedere contro Crema, egli accettò la proposta: senza
rendersi forse conto che, così facendo, scendeva agli occhi dei lombardi dal
piedistallo di Princeps Pacis al livello d’esecutore mercenario d’una
vendetta. Ma sul momento non poteva riuscirgli facile comprendere che la
complessa situazione italica lo stava coinvolgendo al punto di stravolgere lo
stesso significato politico che egli intendeva dare alle sue scelte.
Passato il Natale ad Alba, ai primi del gennaio del 1159 Federico era a
Torino, trionfalmente accolto dal vescovo al quale concesse una lunga serie
di regalia in città e oltre la cinta muraria per un raggio di dieci miglia.
Grazie al favore imperiale, il presule diveniva – contro gli interessi dei
grandi feudatari dell’area torinese, i Savoia – il signore della città e
dell’area circostante. Successivamente, nel febbraio, l’imperatore
riconosceva – grazie ai buoni uffici di Guglielmo marchese di Monferrato –
anche il comune di Asti, organizzandolo sotto tre cittadini da lui designati
come potestates.
Intanto Rainaldo di Dassel – che proprio in quel gennaio aveva ricevuto
la cattedra arcivescovile di Colonia – si avviava con Ottone di Wittelsbach
al difficile appuntamento con i milanesi, già irritati per la politica di
accerchiamento che – nonostante i patti del settembre precedente –
l’imperatore sembrava porre in atto nei loro confronti col pretesto
dell’attuazione dei decreti di Roncaglia. Il popolo milanese intendeva
insediare al governo cittadino consoli eletti direttamente, pur non essendo
contrario a che essi giurassero fedeltà all’imperatore; i plenipotenziari
imperiali insistevano invece per imporgli potestates di sua diretta nomina.
La questione sulla fonte dei poteri non era quindi assolutamente in causa: lo
era invece quella dell’autonomia cittadina delle scelte. Nella pratica, i
milanesi volevano scegliersi liberamente i loro governanti cittadini per
quanto fossero disposti ad accettare che l’imperatore li legittimasse;
Rainaldo e Ottone viceversa – interpretando il volere di Federico –
chiedevano che fossero i cittadini ad accogliere i rettori ch’essi, nel nome
del sovrano, avrebbero indicato. Lo scontro era inevitabile.
Pare che all’origine del tumulto che si verificò fossero non già elementi
del ceto dirigente cittadino, bensì gente del popolo. Erano ancora una volta
quei medi o bassi ceti milanesi, i turbolenti protagonisti del moto religioso-
popolare della patarìa di un secolo prima: riuniti nella cattedrale, essi
accolsero al grido di «Fora!» e di «Mora!» il diktat di Rainaldo e di Ottone:
i commissari imperiali e i maggiorenti cittadini che li circondavano, e che a
quel che sembra erano più o meno obtorto collo disposti a obbedire, furono
costretti a barricarsi nel palazzo del comune, da dove i messi imperiali
furono poi allontanati nottetempo.
Può darsi davvero che in quell’occasione il ceto dirigente cittadino si sia
lasciato prendere in contropiede. I consoli cercarono invano di calmare la
folla, mentre scongiuravano i messi imperiali di credere che essi non
avevano nulla a che fare col tumulto e offrivano loro perfino somme di
denaro per tenerli buoni. Pare addirittura che alcuni cavalieri si recassero di
soppiatto da Rainaldo per assicurarlo che, in un modo o nell’altro e prima o
poi, i milanesi sarebbero scesi a migliori consigli. Ma la commissione
imperiale capì comunque che tirava una pessima aria e si allontanò:
sdegnata certo, ma anche in tutta fretta. A Rainaldo non sfuggiva che il
tumulto era segno di un radicalizzarsi delle posizioni antimperiali in
Milano: e la faccenda di Crema avrebbe ulteriormente peggiorato le cose.
Per quanto una fonte vicina all’arcivescovo di Colonia affermi il
contrario, Federico non perse affatto la calma quando gli fu riferito
dell’incidente. Volle semmai vederci chiaro. Verso la metà di febbraio
ricevette a Marengo un’ambasceria milanese, alla quale ricordò con severità
le decisioni di Roncaglia e che dovette rispondergli rilanciando
un’interpretazione flessibile di tali decisioni. Poi si mosse rapidamente
attraverso la Lombardia, seguendo con cura tutta particolare la ricostruzione
di Lodi. Ma soltanto per Pasqua, il 12 aprile, mentre stava assistendo a una
festa a Modena, gli fu annunziato che i milanesi avevano riconquistato la
«chiave dell’Adda», il castello di Trezzo.
Su tutte le furie, riguadagnò allora Bologna, dov’era il suo esercito.
Nella dotta città universitaria riunì i suoi professori e proclamò Milano
ribelle all’impero. Giungevano intanto – in quella primavera che, nel
Medioevo, era la stagione degli amori e del risveglio della natura ma anche
dei giochi di guerra – i rinforzi che da tempo egli aveva chiesto in
Germania: li guidavano Enrico il Leone, Guelfo VI, Rainaldo di Dassel, il
quale rientrava dalla sua diocesi di Colonia in cui rapidamente si era
insediato, e la stessa imperatrice. Con queste nuove forze e con l’aiuto dei
vari contingenti dei comuni a lui fedeli, Cremona soprattutto, poté dare
inizio nel luglio all’assedio di Crema. Ma la gente della piccola città, che da
tempo si preparava all’evento, reagì con coraggio e con energia straordinari.
Data la struttura degli eserciti e le tecniche militari del tempo, un assedio
era sempre un affare serio per gli assedianti. Dinanzi a difese anche
mediocri, il più potente esercito nerbo del quale era la cavalleria
pesantemente armata si trovava in difficoltà: gli ordigni d’assedio, gli arieti,
le torri di legno, le macchine d’artiglieria a leva, erano ordinariamente non
troppo efficaci. In queste condizioni, un assedio poteva durare mesi e mesi:
l’esercito assediante, guardandosi ordinariamente da tentativi
d’espugnazione, adottava la più efficace risorsa di circondare il castello o la
città assediati in modo da impedire l’ingresso di vettovaglie dall’esterno; e
gli assediati abbastanza di rado venivano battuti d’assalto, mentre più
spesso erano costretti ad arrendersi per fame, per mancanza d’acqua, o in
seguito a un’epidemia scoppiata entro le mura. A meno che il nemico non
riuscisse a «minare» le mura (cioè a scavare sotto di esse delle gallerie e a
puntellarle con travi di legno che poi, spalmate di pece e incendiate,
causavano il crollo della cortina sovrastante) o a comprare un traditore che
gli aprisse le porte.
Gli assedi erano lunghi per mesi. Quello di Crema ne durò sei e mise
seriamente in pericolo la fama d’invincibilità che Federico si era da anni
accuratamente costruito attorno. Intanto, come fra poco vedremo, grosse
novità stavano maturando nel mondo cristiano: e l’imperatore era sempre
più irritato di dover perdere tanto tempo sotto le mura di una cittadina
lombarda mentre la sua presenza e le sue energie sarebbero state necessarie
altrove. Egli si rendeva conto che dall’alto dei bastioni cremaschi come
poco più in là, a Milano, ci si stava prendendo gioco dell’impero, del suo
honor, del suo nomen, delle leggi tanto solennemente sancite. Per questo,
come sempre in casi analoghi, divenne freddamente feroce. È noto che egli
giunse a far legare alle macchine d’assedio i prigionieri cremaschi, ponendo
gli assediati nel dilemma se versare il loro stesso sangue o consentire agli
assalitori di guadagnare le mura: e si tramanda con quale eroismo gli
sventurati esposti ai proiettili dei loro parenti, amici e concittadini li
supplicassero di tirare comunque, senza pensare a loro, e con quale desolata
rabbia la gente di Crema obbedisse a quegli incitamenti disperati. Come
sovente accade in guerra, eroismo e orrore, generosità e crudeltà
s’intrecciavano: e gli eroici cremaschi rispondevano a quel gesto disumano,
indegno di chi cingeva la corona d’imperatore cristiano, massacrando a loro
volta sulle mura – ben in vista dinanzi alle truppe imperiali – i prigionieri
italici e tedeschi dell’esercito di Federico caduti in loro mano. Al solito, non
era comunque tanto contro l’imperatore che Crema resisteva, quanto contro
gli invisi cremonesi che, primi nell’esercito imperiale, combattevano la
rivale con un accanimento che non mancava di stupire i tedeschi. C’è da
chiedersi se l’espediente dei prigionieri legati alle macchine da guerra non
l’avessero suggerito loro.
Verso la fine del gennaio del 1160 i cremaschi dovettero arrendersi:
erano allo stremo delle forze, privi d’acqua e di viveri, provati dalle
epidemie. La città fu distrutta senza misericordia. Ma il suo troppo lungo
assedio – come, cinque anni prima, quello molto più rapido di Tortona –
aveva provato che per quanto potenti fossero le armate imperiali la loro
compagine rischiava d’infrangersi contro qualunque ben munita fortezza. E
la Lombardia era costellata di città pronte a trasformarsi in munite fortezze:
la più forte di tutte, Milano, turbava ormai i sonni tanto di Federico quanto
del cancelliere Rainaldo. Nel settembre del 1158 l’imperatore si era
evidentemente soltanto illuso di poterla piegare, con un assedio durato
meno di un mese e terminato in trattative: ma ora capiva che in
quell’occasione essa non aveva voluto – o, per divisioni politiche interne,
potuto – mostrare appieno la sua potenza.
La chiave della situazione italica restava quindi sempre la medesima:
bisognava domare Milano. Le cose erano allo stesso punto di quando, un
anno e mezzo prima, Federico era sceso in Italia. Egli si rendeva conto di
non aver compiuto da allora alcun reale progresso; e che, se Milano non
fosse stata piegata, il ridicolo si sarebbe abbattuto su di lui e sul nome
dell’impero.
Frattanto, qualcosa di non meno grave stava avvenendo su un piano
sempre suscettibile di passare dal religioso al politico. Papa Adriano era
sempre più preoccupato per la presenza e la lunga permanenza
dell’imperatore al di qua delle Alpi, tanto più che a Roncaglia i regalia
erano stati revocati anche agli ecclesiastici e quindi ancora una volta il
concordato di Worms – o quel che ne rimaneva, date le infrazioni continue
alle quali Federico lo sottoponeva – appariva minacciato. La discesa in
Italia di Guelfo VI, nella primavera del 1159, aveva aggravato la situazione:
oltre che duca di Toscana e di Spoleto, egli era difatti il detentore dei beni
matildini per delega imperiale. La sua presenza riaccendeva le intricate e
ancora irrisolte questioni territoriali fra papa e imperatore nell’Italia
centrale. Il pontefice, offeso e allarmato per gli sviluppi della dieta di
Roncaglia, ribadiva che in Roma e nel «territorio di San Pietro» tutti i
regalia erano di pertinenza della Chiesa; richiamava il Constitutum
Constantini, la «Donazione di Costantino»; contestava la validità della
pretesa imperiale di omaggio da parte dei vescovi. Al di là di ogni altra
questione, la sovranità sulla città di Roma era divenuta – dopo l’intervento
dei giuristi bolognesi a Roncaglia – una questione primaria. Federico
rispondeva al papa affermando di non poter accettare nessuna limitazione
alla propria sovranità sull’Urbe: se avesse commesso un errore del genere,
si sarebbe trovato a gestire non già il potere imperiale bensì soltanto la sua
species… et inane nomen ac sine re, la sua parvenza, il suo nome vano e
senza contenuto. Una serie di contingenti motivi di attrito intervenivano a
complicare questo quadro: anzi – come forse più giustamente si dovrebbe
dire – venivano a costituire altrettanti pretesti per un peggioramento di
rapporti che ormai sembrava inevitabile. Dopo la morte di Anselmo di
Havelberg, per esempio, Federico aveva intenzione d’insediare sulla
cattedra arcivescovile di Ravenna Guido di Biandrate, figlio dell’omonimo
fedele conte lombardo che gli era quanto mai utile nella delicata questione
milanese nonché prezioso alleato nelle faccende lombarde. Ma il papa non
intendeva cedere a un partigiano dell’imperatore una sede prestigiosa come
quella ravennate, alla quale erano oltretutto annessi tanti ricordi giustinianei
venerabili per l’impero cristiano (e questa era una delle ragioni per cui tanto
Adriano quanto Federico ci tenevano particolarmente). Accampò perciò una
serie di pretesti per non cedere: e infatti non si giunse mai alla
consacrazione. Adriano interveniva frattanto anche in una questione politica
lombarda, la lite fra Bergamo e Brescia, impedendo un lodo imperiale fra le
due città con il pretesto che – essendo Bergamo nei favori del sovrano e
Brescia incorsa nella sua ira – il verdetto avrebbe potuto non essere equo. E
si affrettava anche a stringere ancor più i rapporti con Guglielmo di Sicilia,
al quale inviava il vexillum Sancti Petri, la bandiera simbolo del papato,
mostrando così di considerarlo non solo suo vassallo – ciò principalmente
un vexillum indicava: il dominus ne era il titolare, il vassus il ricevente – ma
anche il vero tutore della Chiesa (per quanto l’ufficio di defensor Ecclesiae
spettasse notoriamente e tradizionalmente all’imperatore).
Sembra che il vessillo pontificio fosse recato in Sicilia dallo stesso capo
del fronte «siciliano» all’interno del collegio cardinalizio, il cancelliere
Rolando Bandinelli. Il re di Sicilia era dal canto suo preoccupato per la
permanenza nella penisola di Federico, che così vicino costituiva un punto
di riferimento per i baroni meridionali ribelli: e intensificava i contatti con il
pontefice al tempo stesso cercando di dare un seguito ai suoi recenti e più
distesi rapporti con il basileus, allora preoccupato tuttavia per nuovi
problemi che stavano sorgendo in Asia Minore e non troppo incline dunque
– nonostante le sue propensioni – a guardare all’Occidente. Il papa
manovrava comunque accortamente le sue risorse diplomatiche in modo da
persuadere l’imperatore di Bisanzio che il siculo-normanno non era più,
tutto sommato, quel gran pericolo ch’era fin lì sembrato; e Guglielmo, da
parte sua, inviava a Roma somme di denaro tanto forti da consentire la
risistemazione delle difese murarie urbane, in evidente funzione
antitedesca.
Adriano non aveva comunque definitivamente scelto lo scontro diretto
con l’imperatore, tanto più che nella curia il partito «imperiale» contava
molti e influenti cardinali. E proprio quattro di loro – Enrico del titolo dei
Santi Nereo e Achilleo, Guglielmo di Pavia, Ottaviano Monticelli e Guido
di Crema – furono inviati a Bologna, dove Federico si era spostato dopo la
Pasqua del 1159, per proporgli di riallacciare l’interrotto discorso iniziato
nel 1153 a Costanza.
Era, quella del rilancio del trattato di Costanza, una proposta tendente da
parte del papa a inaugurare una tattica «del doppio binario» nei rapporti con
l’imperatore e col re di Sicilia? Oppure si trattava di un puro diversivo per
guadagnare tempo? Federico fu comunque irremovibile, soprattutto in
quanto non era disposto ad accettare alcuna limitazione al suo potere sulla
città di Roma: fra Costanza e Bologna, v’erano ormai di mezzo Roncaglia e
gli allievi di Irnerio. Solo in apparenza si mostrò più malleabile sulla
questione dell’omaggio dei vescovi: egli vi avrebbe rinunciato, ma a
condizione che quelli rinunciassero ai regalia, il che era esattamente – ed
egli lo sapeva benissimo – quanto essi non avrebbero mai accettato. Solo a
proposito delle rivendicazioni territoriali della Santa Sede, pur dichiarando
di ritenerle infondate, egli accettò la prospettiva di proseguire le trattative.
Lo spazio per un dialogo effettivo insomma si riduceva. Questo graduale
precipitare dei rapporti si nota perfino da certi tratti che a noi moderni
possono sembrare esteriori. Fra 1158 e 1159 la cancelleria imperiale andò
eliminando, nelle missive dirette al papa, tutta una serie di formule indicanti
rispetto e ossequio. Non si trattava certo di negligenza: in fondo, neppure di
provocazione. Federico intendeva semplicemente dimostrare che la sua
concezione della dignità imperiale non sopportava di venir postposta o
sottoposta ad alcun’altra autorità. Tentata invano la carta della moderazione,
nel giugno 1159 Adriano IV abbandonava Roma sempre più infida e si
trasferiva ad Anagni, più vicina ai confini col regno normanno. Da tempo il
suo era ormai un «gioco triangolare» condotto fra corte di Bisanzio, corte di
Palermo e città lombarde, soprattutto Milano. E proprio ad Anagni egli
riceveva i messi d’una ancor embrionale lega costituita da Milano stessa, da
Brescia, da Piacenza, nonché dall’assediata Crema. I lombardi
s’impegnavano a non venire a patti con l’imperatore senza il consenso del
pontefice; questi, dal canto suo, non assumeva alcun preciso impegno ma
era in cambio largo di promesse (addirittura, a quel che sembra, quella di
scomunicare entro breve tempo il sovrano germanico). Nell’agosto del 1159
Federico era ormai con certezza a conoscenza dell’esistenza di una societas
Lambardorum, poiché ne scriveva al nuovo vescovo di Frisinga. Da parte
imperiale, si sospettava che fosse l’oro siciliano e bizantino ad alimentare le
resistenze sia pontificie sia comunali al volere del sovrano. Dal canto suo,
l’imperatore riceveva benevolmente le ambascerie inviategli dal comune
romano e – per quanto ribadisse di aver diritto al governo supremo
dell’Urbe e mirasse forse a introdurvi un suo «prefetto», che avrebbe
vanificato l’autorità senatoria come i podestà imperiali andavano facendo
nei comuni centrosettentrionali – faceva capire che una politica cittadina
d’indipendenza dal papato avrebbe potuto contare sul suo appoggio. Le
cose stavano a questo punto allorché ai primi di settembre, mentre Federico
già da parecchie settimane si trovava sotto le mura di Crema, giunse la
notizia della morte improvvisa del papa inglese.
X
La tunica lacerata
La Santa Tunica di Treviri, detta «Inconsutile» perché tessuta senza
cuciture, era insieme con la Santa Lancia detta «di San Maurizio» una delle
più illustri reliquie dell’impero. Priva di cuciture, quindi costituita di un
solo panno tessuto, era figura del Salvatore che l’aveva indossata: e a Sua
immagine era garanzia della sacra e intangibile unità del corpus
christianorum.
Secondo una leggenda già accreditata da Gregorio di Tours, la Santa
Tunica era originariamente nascosta nel fondo di una cripta a Galatea, in
Asia Minore; di là, secondo un altro cronista, era stata trasferita alla fine del
VI secolo in Occidente. Ma di Sante Tuniche, stando a varie notizie,
dovevano essercene alquante in giro: non lontano da Treviri, ad Argenteuil,
ce n’era un’altra; un’altra ancora a San Giovanni in Laterano. Beninteso, al
fine di nascondere l’origine più recente di questa o di quella reliquia, si
mettevano di solito in scena dei trafugamenti e poi nuove, non di rado
romanzesche, inventiones o translationes. Sta di fatto che, per la Santa
Tunica di Treviri che la leggenda collegava a un dono fatto da sant’Elena,
non si dispone di documenti sicuri anteriori all’XI secolo. 1 Al tempo di
Federico la reliquia era tuttavia grandemente venerata; e viva era la
coscienza della Chiesa di Treviri e del suo presule, arcivescovo-elettore, che
con essa si custodisse il tangibile pegno dell’unità dell’impero e del mondo
cristiano. Un poema giullaresco, l’Orendel, narrava le avventure dell’eroe
omonimo detto Grauer Roc, «Mantello Grigio», che indossa la sacra
reliquia di Treviri. Orendel vince i pagani, cinge la corona di David e sposa
Bride regina di Costantinopoli, con la quale vive peraltro in castità e
insieme con la quale ottiene da Dio il dono di una santa e serena dipartita da
questa valle di lacrime.
Fiero e tenace cultore di questi simboli e delle realtà metafisiche delle
quali esse erano pegno, l’imperatore rimase senza dubbio sconvolto dai fatti
romani del settembre 1159 che lo colsero di sorpresa. Alla morte di
Adriano, i due opposti partiti cardinalizi presenti in curia si scontrarono con
aperta violenza. Da una parte v’erano quanti intendevano proseguire il
cammino aperto da Gregorio VII, quello d’un papato ierocratico deciso a
presentarsi come signore al di sopra degli stessi re della terra: ne era a capo
il canonista Rolando Bandinelli. Dall’altra c’erano invece i prelati disposti
ad accettare in un modo o nell’altro la tutela imperiale: li guidava Ottaviano
Monticelli, gran signore discendente dalla schiatta degli antichi conti di
Tuscolo e imparentato sia pure alla lontana con lo stesso imperatore, con i
re di Francia e d’Inghilterra, con i marchesi di Provenza e i conti di
Champagne. Dietro al primo partito stavano, evidentemente, le risorse
diplomatiche, politiche e finanziarie del re di Sicilia; mentre il secondo era
da parte sua strettamente collegato all’imperatore e all’alta nobiltà romana,
e Ottone di Wittelsbach era infatti a Roma per preparare l’ascesa di
Ottaviano al soglio pontificio.
Rolando Bandinelli aveva peraltro dalla sua qualcosa di più che non la
leadership sul partito che potremmo definire «curiale»: egli poteva anche
vantarsi di rappresentare la continuità rispetto alla politica di Adriano IV,
del quale era stato il cancelliere ma anche e soprattutto l’ispiratore. Per la
verità, ormai non sembra più possibile identificarlo col magister Rolandus
canonista bolognese: il che però nulla toglie né alla sua competenza in
materia di canoni, né al fatto che la sua azione pratica e le sue posizioni
teoriche nella Chiesa sarebbero impensabili senza la sistemazione del diritto
canonico attuata, pochi anni prima, dal canonista Graziano. Né le tesi
rolandiane sarebbero concepibili senza il retroterra di opere come il Summa
gloria de Apostolico et Augusto, scritto verso il 1125 e attribuito a quel
misterioso autore che va di solito sotto il nome di Onorio di Autun, e dove
la superiorità del sacerdozio sul regno è chiaramente proclamata. Il
riavvicinamento alla corte palermitana, l’incidente di Besançon, la politica
di stretta collaborazione con i comuni lombardi avversari di Federico erano
stati in tutto o in gran parte opera del Bandinelli; egli era stato si può dire il
protagonista della diplomazia pontificia dall’accordo di Benevento con il re
di Sicilia in poi.
I lavori del conclave furono faticosissimi, sempre sul filo di una violenza
pronta a scoppiare; i romani attendevano con ansia il responso anche se si
sapeva bene – o proprio in quanto lo si sapeva – che esso, qualunque fosse
stato, avrebbe condotto a uno scontro. Senza dubbio Rolando disponeva
comunque della maggioranza schiacciante: sui trentun membri del collegio
cardinalizio, almeno ventidue – più dei due terzi – stavano con lui. Ma
Ottaviano aveva dalla sua buona parte del Senato; e nel conclave si
respirava un’atmosfera d’intimidazione.
La cronaca della proclamazione pontificia del settembre 1159 sfuma
nella farsa. Riunitosi il conclave fra 3 e 4 settembre, dopo tre giorni
d’indugio i partigiani di Rolando – che pur si erano impegnati con la
controparte a ricercare l’unanimità – pretesero che si acclamasse
senz’ulteriore indugio il nuovo papa. Il Bandinelli fu designato dalla
maggioranza: si stava per procedere all’immantatio, a fargli cioè indossare
quello che Dante, un secolo e mezzo più tardi, avrebbe definito «il gran
manto», ma Ottaviano s’impadronì dell’indumento; un senatore romano –
uno dei pochi rolandiani di quel consesso – glielo strappò dalle mani;
Ottaviano ne aveva però in serbo un altro, fatto preparare in precedenza, e
rapidamente indossò quello (pare, nella fretta, a rovescio); irruppero a quel
punto degli armati elevando alte acclamazioni al Monticelli come nuovo
papa. Era, quello, un simulacro dell’acclamatio da parte del popolo romano,
altro irrinunziabile ingrediente liturgico. Rolando e i suoi vennero costretti
alla fuga mentre la folla acclamava Ottaviano e questi ascendeva
trionfalmente, al canto del Te Deum, al soglio pontificio. Si dovette a
Oddone Frangipani se il Bandinelli, dopo aver resistito una decina di giorni
a un assedio, poté lasciare incolume la città e riparare – dopo una rapida
marcia tra le paludi pontine – a Cisterna, e di lì a Ninfa, ai piedi delle
montagne ciociare, dove il 20 settembre sarebbe stato incoronato papa da
tre prelati rimastigli fedeli, assumendo il nome di Alessandro III, carico di
progetti di riforma e implicante forse un sottinteso omaggio all’avversaria
dell’imperatore, Milano: il suo predecessore nello stesso nome, Alessandro
II, altri non era stato che il milanese Anselmo da Baggio, sostenitore del
movimento patarino.
Dopo l’incoronazione, il nuovo papa raggiunse al più presto la vicina
Terracina, il più accosto possibile ai confini del regno di Sicilia; e infine
stabilì la sua sede in Anagni. Da parte sua, Ottaviano aveva i suoi problemi
a restare a Roma, dove imperversava lo scontro tra le fazioni. Oltretutto, è
fuor di dubbio che la maggioranza dei principi della Chiesa ritenesse
illegittima la sua elezione: e difatti egli stentò a trovare tre prelati disposti a
officiare la sua incoronazione, che fu rinviata fino al 4 ottobre allorché egli
poté finalmente assumere nell’abbazia di Farfa il nome di Vittore IV anche
grazie – particolare significativo – al vescovo di Melfi, un profugo del
regno di Sicilia in quanto avversario del suo re, che accettò di prendere
parte alla cerimonia liturgica. Indi, Vittore prese stanza solenne in Segni,
non lontano dalla sede del suo avversario. A proteggerlo c’erano Ottone di
Wittelsbach e Guido di Biandrate. Anagni e Segni distano in linea d’aria
pochi chilometri: da lì, come primo atto del suo rispettivo regno, ciascuno
dei due papi si affrettò a colpire il rivale con la scomunica.
Una farsa, si sarebbe appunto tentati di definirla. Un ennesimo episodio
della lotta tra le fazioni romane, che regolarmente coinvolgeva da parecchi
secoli il Santo Soglio. Ma è sottilissima la linea che separa la farsa dal
dramma: e in questo caso i fatti s’incaricarono di cancellarla molto presto.
Dal suo padiglione innalzato di fronte alle mura di Crema, Federico
seguiva con ansia lo sviluppo dell’intera faccenda. Se non c’è dubbio
alcuno che egli avesse contribuito a determinare l’elezione di Ottaviano, è
anche fuori discussione che lo scisma – ché ormai di questo si trattava – lo
aveva sorpreso, forse sconvolto. Ciò risulta con impressionante chiarezza
dai documenti della cancelleria imperiale di quei giorni: ed è superficiale
interpretarne il tono trincerandosi dietro la giustificazione stilistico-formale,
così com’è aprioristico fare il processo alle intenzioni di Federico e
supporre che il suo sdegno fosse solo il risultato di un calcolo. Il suo
giudizio si mostrò severissimo con i cardinali, tutti i cardinali, che nella
circostanza dell’elezione avevano cercato di compiere non già la volontà di
Dio, bensì la loro. Era comunque a suo avviso un dato di fatto che, bene o
male, Ottaviano era stato eletto e proclamato papa: per cui l’incoronazione
di Rolando a Ninfa veniva a porsi obiettivamente – qualunque ne fossero le
ragioni – come l’atto dal quale era scaturito lo scisma. L’imperatore non
aveva certo dubbi su quale dei due contendenti indirizzare il suo favore: ma,
se pur aveva favorito un’elezione-farsa, non aveva certo né preveduto né
tanto meno auspicato lo scisma. Per questo, già a metà settembre – ancor
prima delle due incoronazioni – aveva scritto all’arcivescovo Eberardo di
Salisburgo confermandogli che in quel momento v’era a suo avviso bisogno
di un pontefice che garantisse l’intesa con l’impero, ma anche
raccomandandogli di non concedere troppo precipitosamente il suo assenso
a nessuno degli eletti. Non era, quella, una missiva intimidatoria: era un
messaggio ispirato ad autentica sollecitudine. L’unitas Ecclesiae non poteva
stargli meno a cuore dell’honor imperii. Solo quando lo scisma si fu ormai
consolidato, verso la fine d’ottobre, Federico si decise a scrivere a tutti i
vescovi tedeschi. In quella sua lettera tornava il motivo di fondo dell’unità
della Chiesa e delle «due spade» affidate da Dio al papa e all’imperatore al
fine di governare le cose, rispettivamente, spirituali e terrene. Ma ora che la
Chiesa era lacerata, proseguiva Federico, bisognava ricomporne al più
presto l’unità. Per questo egli non si dilungava sulle rispettive ragioni dei
due pontefici: poteva ben darsi che a Rolando fosse andata la maior pars e a
Ottaviano invece la sanior pars dei suffragi in conclave, nel senso che i
fautori di Ottaviano erano immuni dalla congiura che – secondo la
propaganda imperiale – era stata tessuta da alcuni cardinali d’intesa con il
re di Sicilia e i milanesi per elevare alla tiara un nemico dell’imperatore; ed
era al momento abbastanza inutile continuar a discettare sul prevalente
valore dell’electio, come facevano i rolandiani, o dell’immantatio e del
consensus popolare, sui quali invece insistevano i sostenitori di Ottaviano.
Il punto era che il collegio cardinalizio era già talmente diviso al suo interno
prima di accedere all’elezione pontificia, che un accordo stipulato
precedentemente all’inizio dei lavori del conclave aveva stabilito la
necessità che il futuro papa uscisse da un voto unanime. Ma sappiamo
ch’era stata proprio l’impossibilità di giungere a tale voto a innervosire le
due parti e a far precipitare la situazione. Ora, è ovvio che Federico avesse
fra i due pontefici, quello di Anagni e quello di Segni, le sue preferenze;
soprattutto detestava Rolando, e in ciò veniva confortato e forse spronato
dal suo cancelliere, Rainaldo di Dassel. La sua posizione almeno teorica in
ordine allo scisma sembra però onesta e corretta: non uno dei due, bensì
entrambi i papi, avevano disatteso il bisogno di unanimità (e quindi di
unità). La Chiesa era perciò minacciata nel suo equilibrio vitale e spettava
all’imperatore, suo defensor, intervenire per scongiurare il peggio. A tal
fine Federico convocava nella sua fedele Pavia un concilio al quale furono
invitati non solo i due contendenti al soglio pontificio e tutti i prelati della
Chiesa latina, ma altresì i principali capi politici dell’Occidente. Il vescovo
della stessa Pavia fu inviato difatti a Luigi VII di Francia e a Enrico II
d’Inghilterra, allora in conflitto, per ragguagliarli sugli eventi romani e
proporre loro un’azione concertata onde risolvere al più presto lo scisma. E
non c’è dubbio che tanto le pressioni dell’imperatore quanto la notizia dei
fatti romani in sé e per sé ebbero la loro importanza nell’indurre i due re a
stipulare nel dicembre 1159 un armistizio che, nel maggio seguente, si
sarebbe trasformato in vera e propria pace.
Una volta convocato il concilio a Pavia è evidente che, dal punto di vista
dell’imperatore, fautore di scisma diveniva chi non avesse accettato questo
suo ruolo arbitrale. Ma è non meno evidente ch’era proprio tale ruolo – al di
là della questione tattica di un concilio proclamato in una città ch’era
roccaforte degli imperiali e da un sovrano che propendeva chiaramente
dalla parte avversa – a non poter essere accettato da Rolando-Alessandro, a
meno che questi non rinunciasse alla sua robusta concezione ierocratica e
non ponesse da parte (e definitivamente!) il tenore del Dictatus Papae, il
tema della libertas Ecclesiae e la loro eredità. Egli rispose quindi di essere
il solo pontefice eletto secondo i canoni: e pertanto l’unico ad avere
l’autorità di riunire un concilio. Alessandro sapeva bene – e lo sapeva anche
Federico – che quello scisma non era neppure alla lontana paragonabile a
quello, di un ventennio prima, fra Innocenzo II e Anacleto II. Quel ch’era
adesso in gioco era il ruolo stesso del papato e del sacerdotium in seno alla
Chiesa e alla Cristianità: accettare la convocazione imperiale avrebbe
significato accordare a Federico la dignità di «vescovo di quelli di fuori», la
dignità di un nuovo Costantino; avrebbe significato accreditare la lettura
imperiale della teoria «delle due spade» e dar mano libera ai giuristi
dell’impero che, a colpi di diritto giustinianeo, avrebbero ridotto il
pontefice a cappellano di corte. Al di là delle contingenze, tale soluzione
non sarebbe forse dispiaciuta all’aristocratico Vittore IV: ma faceva orrore
al canonista Alessandro III. Qui – e non solo nella coscienza tattica che un
concilio gestito da Federico avrebbe favorito questo e danneggiato quello –
sta la chiave per correttamente comprendere, al di là di troppo facili
riduttivismi, l’atteggiamento di entrambi. Il resto – il fatto che per esempio
Federico si rivolgesse epistolarmente a Ottaviano chiamandolo pontefice e a
Rolando attribuendogli il semplice appellativo di cancelliere, il che ne
sollevava le irate proteste – appartiene evidentemente alla sfera dei pretesti
diplomatici, non a quella delle ragioni seriamente causanti. A prova di ciò
uno dei più lucidi e intelligenti polemisti rolandiani, il cardinal Bosone,
proponeva nel suo Liber Pontificalis una visione delle cose basata non già
sul conflitto fra Alessandro III e Vittore IV, bensì su quello fra Alessandro
III e Federico. Papa Alessandro, secondo Bosone, non faceva che difendere
la libertà della Chiesa: Federico, avversandola, assumeva obiettivamente il
ruolo del tiranno, del persecutore; e Ottaviano Monticelli era solo una sua
squallida creatura, un idolo che il sovrano stava forgiando con le sue mani
per imporne l’adorazione. In questa visione è adombrata in effetti l’accusa
di cesaropapismo, di volontà dell’imperatore di gestire direttamente gli
stessi affari ecclesiastici. La sostanza politica del momento, insomma, stava
in questo: Federico voleva legittimare la sua posizione come arbitro al di
sopra delle parti, mentre Alessandro intendeva sottolineare che l’imperatore
era al contrario proprio una delle due parti in causa, la controparte del
pontefice legittimo, quindi un nemico della libertà della Chiesa. Ma questa
tesi implicava, da parte di papa Bandinelli, non tanto la contestazione delle
scelte di Federico quanto piuttosto una volontà revisionistica dei rapporti
fra regnum e sacerdotium nel loro complesso, ivi compresa la sistemazione
che ne era stata data un quarantennio prima col concordato di Worms. E non
solo l’imperatore non avrebbe mai accettato di rimettere in discussione
nulla di tutto ciò: ma nessuno lo aveva mai preteso neppure all’interno della
Chiesa. Vero è semmai che i fondatori del diritto canonico, Graziano alla
loro testa, avevano teso a minimizzare la questione dei deliberati di Worms.
Alla luce di tutto ciò si spiega il denso lavoro diplomatico svolto fra
l’ottobre 1159 e il gennaio 1160 sia dall’imperatore sia dal papa residente in
Anagni: tesi l’uno ad assicurare una massiccia presenza di prelati e di
principi al concilio, l’altro a indurre a disertare tale assemblea. Questa
tensione dà ragione in parte anche dell’accanimento posto da Federico nel
far cadere la disgraziata Crema: egli voleva giungere a Pavia circonfuso
dell’alone di Cesare vittorioso e di principe della pace; eppure, al tempo
stesso, proprio le efferatezze delle sue truppe sotto le mura della città
lombarda davano credito al profilo di tiranno che la propaganda rolandiana
stava tracciando di lui e spingevano gli indecisi a chiedersi che cosa sarebbe
mai potuto accadere se quell’uomo duro e implacabile fosse divenuto anche
solo indirettamente padrone della tiara pontificia.
Il concilio di Pavia si aprì il 5 febbraio 1160: da appena una settimana
Crema era una montagna di macerie annerite. Dei due convocati, solo
Vittore aveva risposto all’invito: Alessandro si era sdegnosamente rifiutato
di riconoscere la validità di quel concilio, al quale erano presenti solo una
cinquantina di vescovi di città tedesche o italiche tra quelle fedeli
all’imperatore. Mancava l’arcivescovo Eberardo di Salisburgo, che aveva
inviato a rappresentarlo un semplice canonico; mancavano quelli di Treviri,
di Lione, di Arles, di Besançon; erano invece presenti (o avevano
comunque aderito al concilio) i vescovi delle province ecclesiastiche di
Colonia, Magonza, Brema, Aquileia e i vescovi di Bergamo, di Mantova, di
Ravenna, di Faenza, di Fermo, di Ferentino, di Lodi, di Cremona, di
Vercelli, di Pavia. I re di Francia e d’Inghilterra avevano cautamente inviato
solo degli osservatori. A quel punto, le cose dovevano per forza seguire il
loro corso: era impensabile giungere per via di pacifica composizione alla
soluzione dello scisma. Fu a Pavia, e solo a Pavia, che Federico abbandonò
la linea moderata fin lì tenuta nei confronti del Bandinelli. Vittore fu
naturalmente confermato pontefice, mentre l’elezione di Alessandro fu
dichiarata nulla sostanzialmente per motivi politici. S’impose cioè la tesi
ch’essa fosse l’esito di una coniuratio fra alcuni cardinali, il re di Sicilia e i
milanesi con lo scopo di eleggere un papa che avrebbe scomunicato
l’imperatore: il che era, ai sensi della Lex Iulia, lesa maestà. Certo, gli
imperatori romani da Costantino a Giustiniano avrebbero legittimamente
agito nello stesso modo: come avrebbe potuto un suddito infedele accedere
al papato? Ma ormai i tempi erano mutati: e un papa che faceva sua la
massima del Dictatus di Gregorio, secondo cui il pontefice romano non può
esser giudicato da nessuno, non poteva che reagire indignato a quel
simulacro di concilio che Giovanni di Salisbury definiva, da parte sua, «uno
spettacolo da teatro». Una buffonata.
In effetti, al di là del tambureggiare della propaganda sveva, Pavia era
stata un semifallimento: poche le presenze, debole e unilaterale l’assunto
che aveva condotto alla deliberazione finale, scontato l’esito sulla base del
quale, l’11 febbraio, si era riconosciuto Vittore come papa legittimo. Questo
peraltro non significa che Federico avesse agito in maniera scorretta
nell’indire autonomamente il concilio, ché anzi sembra essersi attenuto alla
scrupolosa osservanza delle norme canoniche: certo però la mancata
adesione di Alessandro III, se da un lato non poteva non venir condannata a
Pavia pena l’inficiarsi dell’intero consesso, dall’altro spingeva lo scisma
all’irreversibilità. Alessandro e i suoi partigiani non persero quindi tempo.
Già il 28 febbraio, a Milano, Giovanni cardinale di Santa Maria in Portico e
l’arcivescovo milanese Uberto scomunicavano tanto Vittore IV quanto
Federico; e qualche giorno più tardi analoga scomunica toccava ai vescovi e
ai consoli delle città lombarde che avevano aderito al concilio nonché al
marchese di Monferrato e al conte di Biandrate. Il 23 marzo, finalmente, lo
stesso Alessandro scomunicava Federico, definito il primo persecutore della
Chiesa di Dio, colui che aveva confuso l’ufficio regale con quello
sacerdotale arrogandosi diritti che non gli competevano e aveva lacerato la
Tunica Inconsutile del Cristo. Per questo, e per aver ricevuto e appoggiato
«lo scismatico Ottaviano», l’imperatore veniva scomunicato e i suoi sudditi
sciolti dal giuramento di fedeltà che gli avevano prestato. Tuttavia – per
quanto tale scioglimento venisse in linea teorica ad annullare il potere di
Federico – il papa non volle o non osò giungere a una sua deposizione
formale: si limitò cioè a entrare nel merito dei rapporti tra sovrano e sudditi,
ma preferì non entrare nel merito dell’ufficio imperiale in sé e per sé e del
potere del pontefice su tale ufficio. Scrupolo giuridico o accorgimento
politico? Non c’è dubbio che gli avvenimenti relativi allo scisma turbassero
profondamente gli animi della Cristianità: e né Alessandro né Federico
sembrano essersi posti, per la verità, a cuor leggero su quella strada. La
scelta non era facile: e comunque ribadiva lo strappo, la lacerazione. I tre
grandi mistici tedeschi del momento – Elisabetta ed Ecberto di Schönau,
Ildegarda di Bingen – avevano tutti espresso un parere che propendeva più
per Vittore che per Alessandro. Vive erano d’altronde le istanze che – anche
sulla base di lucide elaborazioni teoriche quali quella di Ugo di San Vittore,
morto una ventina d’anni prima dello scisma – proclamavano la necessità di
una separazione dello spirituale dal temporale. A dirla appunto con Ugo,
«quel che riguarda la vita terrena è sottoposto ai poteri della terra»; e in ciò
la condotta di Alessandro sembrava ispirata a una forte volontà di
prevaricazione. Uomini come il cardinale Guglielmo di Pavia, l’arcivescovo
Eberardo di Salisburgo, il teologo Gerhoh di Reichersberg, i quali
avrebbero tuttavia finito tutti – chi prima chi poi – con lo scegliere il campo
alessandrino, si mostrarono sulle prime esitanti e turbati dinanzi a un evento
che sembrava risospingere la Cristianità occidentale indietro di un secolo, ai
tempi di Gregorio VII ed Enrico IV. In particolare Gerhoh, suddito fedele
dell’impero e nemico di ogni confusione fra cose dello spirito e cose
terrene, non era insensibile dinanzi alla probabilità che Alessandro potesse
essere stato eletto in seguito a una congiura ordita ai danni del sovrano
germanico: e considerava prezzo di simonia il denaro corso fra la corte
palermitana e i cardinali del partito «siciliano», nonché richieste simoniache
gli appelli lanciati da Alessandro per finanziare la sua causa.
Frattanto la questione, nata all’interno dell’impero e sulla base dei
rapporti fra questo e il papato, usciva, data la sua natura, fuori dei confini di
esso: e svelava crudamente i limiti dell’aspirazione di Federico al dominium
mundi. «Chi mai ha concesso ai tedeschi il diritto di giudicare le altre
nazioni?» trinciava con durezza Giovanni di Salisbury, scoprendo con
questa frase tagliente la debolezza storica e concettuale della teoria della
translatio imperii. E sempre più chiaro appariva che il problema politico – a
prescindere dai suoi contorni più propriamente ecclesiali – era, per i sovrani
e le Chiese d’Occidente, l’accettare o il rifiutare un papa loro proposto
dall’imperatore. I re di Francia e d’Inghilterra avevano sospeso il loro
conflitto ormai cronico per risolvere la questione dell’obbedienza pontificia
da seguire. Nel luglio del 1160, essi avevano rispettivamente convocato il
loro clero francese a Beauvais e normanno a Neufmarché, a poca distanza
fra loro sulla linea di confine fra regno di Francia e ducato di Normandia:
ma dei deliberati di quei due paralleli consessi poco si sa. Gerhoh di
Reichersberg parla di un sinodo tenuto a Tolosa, forse nell’autunno del 1160
o forse nella primavera del 1161, in cui la cosa sarebbe stata decisa: ma
poco si sa anche di quello. Intanto, nel luglio del 1160, anche i vescovi
inglesi si erano riuniti e, in merito all’obbedienza pontificia, avevano
deliberato di comportarsi secondo le scelte del loro sovrano. Si ha
comunque l’impressione di una prevalente opinione favorevole ad
Alessandro all’interno del clero, ma di molta indecisione – o di una scelta
temporeggiatrice – da parte dei sovrani. Inoltre, nell’autunno, le ostilità tra
Enrico II e Luigi VII ripresero coinvolgendo anche i legati del papa di
Anagni, i quali troppo precipitosamente si erano affannati a compiacere, in
varie questioni nelle quali entravano diritto canonico e poteri pontifici,
entrambi i sovrani: ne derivò un pasticcio dal quale la causa di Alessandro
uscì temporaneamente compromessa.
Ma, se la diplomazia di papa Bandinelli era intrigante, quella di Federico
e del suo cancelliere Rainaldo era in cambio superba e arrogante: e né il re
di Francia né quello d’Inghilterra avevano voglia di far la figura di gemme,
sia pur fulgide, incastonate nella corona del sire di Hohenstaufen.
In generale va quindi detto che la storia dello scisma aperto nel 1160 è
abbastanza strana. Alla fine del 1161, i giochi in tutta Europa erano fatti: il
18 settembre di quell’anno, a Coucy-sur-Loire, Luigi VII ed Enrico II
prestavano ad Alessandro III, fuggito in Francia all’inizio dell’anno,
l’ufficio di stratores mentre invano, tra la fine del 1161 e i primi del 1162,
Federico scriveva in tono minatorio al cancelliere di Luigi VII diffidandolo
dal concedere altra ospitalità al ribelle Rolando. Frattanto, tra il maggio e il
giugno precedenti, due sinodi italo-germanici, riuniti rispettivamente a
Cremona e a Lodi, avevano confermato i risultati di Pavia e la loro fedeltà a
Vittore IV.
Insomma, sia pure con parecchie reticenze e vari ripensamenti
diplomatici, i re di Francia e d’Inghilterra avevano finito per schierarsi con
Alessandro; e così i sovrani e le Chiese d’Ungheria, di Castiglia, d’Aragona
e della Terrasanta crociata. Favorevole a Vittore IV si dichiarava invece la
maggioranza dei prelati dei tre regni direttamente soggetti a Federico
nonché di quelli di Boemia e di Danimarca, che riconoscevano la sovranità
feudale dell’imperatore. Ma, per quel che riguarda l’Italia, l’obbedienza
all’uno dei due pontefici si sceglieva logicamente città per città e regione
per regione, a seconda dei rapporti con l’imperatore. In Lombardia, per
esempio, è logico che Milano fosse la grande sostenitrice di Alessandro e
che ciò determinasse l’intera geografia regionale delle adesioni al
Bandinelli e al Monticelli. In Toscana il margravio Guelfo convocò il 20
marzo, domenica delle Palme, una dieta a San Genesio, là dove la Via
Francigena iniziava il suo corso a sud dell’Arno. Vi convennero i grandi
feudatari della regione – dal giovanissimo Guido figlio di Guido Guerra a
Gherardo della Gherardesca a Ildebrandino degli Aldobrandeschi – e i
consoli pisani, fiorentini, lucchesi, pistoiesi, senesi. La dieta fu turbata da
un tumulto scatenato da fiorentini e lucchesi contro il conte Guido: è
comunque sintomatico della confusione esistente il fatto che il margravio
tedesco – cui sarebbe spettato il compito di convincere i toscani della bontà
della causa di Vittore – privilegiasse invece il parere dell’arcivescovo
Villano di Pisa, che proprio per la sua decisa scelta alessandrina era in rotta
con la sua città.
Ma le cose, viste da vicino, sono ancora più sfumate e complesse. Non
solo si registrano – e sarebbe ancora normale – defezioni e mutamenti di
campo, ma altresì una diffusa e anche abbastanza precoce «stanchezza dello
scisma». Intendiamo dire che in molti casi l’adesione di questo o di quel
prelato e di questa o di quella diocesi a uno dei pontefici sembra essere stata
dettata da motivi contingenti e resta fiacca e formale; né mancano i casi di
temporeggiamento e di vera e propria ambiguità. Insomma, nella
maggioranza dei casi il clero europeo subì lo scisma: però non vi aderì, non
scelse esplicitamente campo. Da parte loro, Alessandro e Federico
continuarono sempre e comunque a guardarsi, per così dire, direttamente
negli occhi, anche nei momenti di maggior tensione: protagonisti e
responsabili principali dello scisma, non vennero forse mai meno al
desiderio (e alla coscienza del comune dovere) di appianarlo. Alessandro
non depose mai formalmente Federico; e questi intervenne spesso con
pesantezza, ma talora anche con comprensione e sollecitudine quasi umile
nei confronti dei prelati dell’impero che – fatta salva la loro fedeltà al
sovrano – avevano optato per l’obbedienza alessandrina. Lo scisma si
sarebbe trascinato comunque a lungo, fino al 1177, e avrebbe fatto da
sfondo – invero sempre più sbiadito – alla lotta fra l’imperatore da una
parte, il papa e i comuni lombardi dall’altra.
Intanto, dal 1160 al 1162, Federico restò in Italia e intensificò le
operazioni nella pianura lombarda. Ma le sue forze e quelle dei comuni e
dei feudatari suoi alleati erano tutto sommato abbastanza esigue: egli
avrebbe stretto volentieri Milano d’assedio, ma la sua armata non era
neppure sufficiente a cingerne il perimetro. In queste condizioni poteva solo
razziare le campagne circostanti alla città per tagliarle i rifornimenti: ma
tale tattica, alla lunga, nuoceva alle sue stesse truppe che, dopo aver
desolato i dintorni, non riuscivano a trovare vettovaglie bastanti. E così il
dominus mundi, che aveva impiegato sette lunghissimi mesi a conquistare la
non certo formidabile città di Crema, nel giugno del 1160 veniva
sconcertato dai milanesi che – mentre egli devastava le campagne fra
Legnano e Rho – gli mandavano contro un corpo di spedizione
all’avanguardia nel quale figuravano un centinaio di carri corazzati e
«falcati», cioè muniti tutt’intorno di falci: pare che l’invenzione di questi
«protopanzer», che hanno tuttavia dei precedenti almeno teorici nell’età
grecoromana, si debba attribuire al solito mitico maestro Guitelmo. Il 9
agosto, poi, l’imperatore veniva battuto dai milanesi nella battaglia attorno
al castello di Carcano. La sconfitta non era importante sul piano
propriamente militare, ma costituiva il segno d’una generale debolezza
della quale lo Svevo era ben consapevole e per ovviare alla quale aveva da
tempo richiesto rinforzi in Germania. Ma là il suo più importante principe,
Enrico il Leone, si era proprio in quei mesi impegnato a domare e
organizzare i territori a est dell’Elba, dove pare che, contro le residue
resistenze dei Vendi, gli fossero di grande aiuto le cognizioni di poliorcetica
e d’ingegneria militare apprese in Italia. Nel luglio, durante una dieta
presieduta a Erfurt da Rainaldo di Dassel, si era in effetti deciso
d’intervenire in Italia: gli aiuti programmati erano rimasti però nelle
intenzioni. L’arcivescovo di Salisburgo, più volte pregato dallo stesso
imperatore, si era infine deciso a inviare un contributo in denaro: ma
Federico – lo stimasse inadeguato o fosse indispettito per l’atteggiamento
filoalessandrino del presule – aveva finito per respingerlo. Alla fine, nella
primavera del 1161, i rinforzi tedeschi arrivarono insieme con altri
dall’Ungheria: e allora – con l’aiuto delle macchine d’assedio inviate dai
vescovi di Novara, di Asti e di Vercelli nonché dal marchese di Monferrato,
dal marchese Malaspina, dal conte di Biandrate, da altri nobili lombardi e
dalle città di Como, Lodi, Bergamo, Cremona, Pavia e altre – furono riprese
le operazioni. Poteva così cominciare, fra la primavera e l’estate, l’assedio
sistematico e razionale alle formidabili fortificazioni milanesi ideate da
mastro Guitelmo.
Ma esso fu duro; e complicato per giunta da ogni sorta di manovre
politiche. Fra i principi tedeschi, v’era qualcuno che intendeva emergere e
affermare il proprio ruolo nei confronti dell’imperatore: soprattutto, molti –
specie nella cerchia dei parenti stessi di Federico – odiavano il cancelliere
Rainaldo ed erano disposti a fare qualunque cosa per scalzarlo dal suo posto
e per minare la fiducia che il sovrano mostrava di riporre nelle sue scelte e
nei suoi consigli.
L’importanza che Milano cadesse, addirittura ai fini della composizione
dello scisma, era una tesi di Rainaldo. In opposizione a essa alcuni nobili –
fra cui Corrado fratellastro di Federico e conte palatino del Reno, Ladislao
duca di Boemia e Ludovico landgravio di Turingia – cercarono di mettersi
in contatto con i consoli di Milano e d’intavolare trattative: pare che
Rainaldo intercettasse però i messi milanesi nonostante il salvacondotto di
quei principi e che questi ultimi, offesi dall’oltraggio, giurassero addirittura
di ucciderlo. L’imperatore dovette faticare non poco per comporre il
dissidio che ne seguì. L’assedio intanto continuava e Federico non mancava
di fornire agli assediati prove della sua inflessibile determinazione: come
quella di riconsegnare alcuni loro cittadini caduti suoi prigionieri dopo
averli accecati tutti salvo uno (al quale era stato però tagliato il naso)
affinché potesse guidarli. Ormai per lui la caduta della città era molto più di
un obiettivo militare: si disse che aveva giurato di non portare più la corona
prima di aver raggiunto il suo scopo.
Ai primi del 1162 la città, esausta, chiese di arrendersi. Federico era
intransigente, però in genere non amava forzare le cose. Dettò quindi
condizioni di pace rigorose, ma in fondo improntate allo spirito di
Roncaglia: ciò senza dubbio con soddisfazione dei nobili tedeschi e di
coloro che, come Guido di Biandrate, consigliavano la moderazione. I
milanesi avrebbero dovuto accettare un podestà tedesco oppure loro
concittadino, scelto però dal sovrano; mura e torri sarebbero state rase al
suolo e ricostruite solo quand’egli lo avesse consentito; comunque la città,
sia pure ridotta di dimensioni in seguito all’emigrazione di alcuni suoi
abitanti, sarebbe sopravvissuta. Fra i consiglieri dell’imperatore, soltanto
Rainaldo era contrario: secondo lui, Milano andava completamente
distrutta.
Ma anche nella città assediata serpeggiavano gli odi e le rivalità. Milano,
profondamente divisa al suo interno da contrapposte fazioni politiche e da
divergenti interessi economici, non era affatto concorde nella lotta: molti
erano i pareri, molti gli attriti, molti i rancori. E tutto ciò si rifletteva anche
nell’atteggiamento immediato: v’erano i fautori della resa; i partigiani della
resistenza a oltranza; perfino i sostenitori più o meno occulti di Federico,
come i monaci di Sant’Ambrogio o i membri della famiglia Scaccabarozzi,
vassalli forse del monastero di Sant’Ambrogio e del vescovo di Lodi. Così,
i negoziati erano quasi conclusi quando in città scoppiò un tumulto forse
dovuto alla generale stanchezza perché le trattative andavano troppo per le
lunghe, forse teso ad accelerarle o – per contro – a farle fallire. Nulla di
quelle vicende è troppo chiaro, se non che Federico avrebbe voluto chiudere
al più presto l’affare milanese che gli stava costando troppo tempo e troppo
denaro: anche perché intanto, nel gennaio, Alessandro III era arrivato a
Genova da dove meditava di raggiungere la Francia e porsi sotto la
protezione del suo nuovo amico Luigi VII; e i genovesi non solo lo avevano
accolto in trionfo, ma si erano rifiutati di accedere alle richieste
dell’imperatore che aveva proposto loro l’alternativa tra il consegnarlo a lui
o il custodirlo essi stessi. Gesto d’amicizia e di fedeltà vantaggioso,
peraltro, ché il pontefice lo avrebbe ricambiato nel marzo con un privilegio
che favoriva i loro interessi in Sardegna; e che ne avrebbe procurato poco
dopo, nel giugno, un altro – in concorrenza – da parte imperiale. Federico
infatti, qualunque fosse il suo umore effettivo, non poteva permettersi di
giocarsi del tutto l’amicizia della città marinara: da qui il bisogno di far
comunque buon viso a cattivo gioco.
Stando così le cose, l’imperatore non avrebbe visto male una resa
concordata con Milano. Ma i fatti del febbraio sembravano dar ragione a
chi, come Rainaldo, sosteneva che non c’era spazio né per trattare né per
fidarsi: la città era in preda alla disperazione e allo sfascio, non governava
più nessuno, insomma non c’era altra strada che proporle la resa
incondizionata.
In effetti Milano era esausta. Tagliate le comunicazioni con Brescia e
con Piacenza, da dove finché era stato possibile erano arrivati rifornimenti,
la città restava preda della più grande conquistatrice di piazzeforti del
Medioevo: la fame. Certo, i piacentini almeno rimanevano alleati sicuri:
non perdonavano a Federico di aver risolto una questione riguardante i
diritti di transito sul Po in favore del monastero di Santa Giulia di Brescia
anziché loro. Ma non erano in grado di fornire alcun valido aiuto.
E c’era forse di più: la «quinta colonna». Una fonte, peraltro tardiva e
molto partigiana, attribuisce la rovina di Milano a un cittadino «traditore»,
Giordano Scaccabarozzi, il quale – quando sembrava che l’accordo per la
resa condizionata fosse già cosa fatta – si sarebbe recato di nascosto
dall’imperatore, di notte, per comunicargli che la città era allo stremo per
mancanza di viveri e consigliarlo di sospendere quindi le trattative. Lo
Scaccabarozzi non era che la punta di un iceberg milanese filoimperiale
che, come sappiamo, era abbastanza consistente. Insomma, non c’era più
spazio per resistere ancora. Bisognava cedere.
Il 1° marzo 1162 i consoli milanesi comparivano a Lodi, le spade nude
appese al collo in segno d’umiliazione, e si gettavano come rei di alto
tradimento ai piedi del sovrano implorando clemenza. Il 4, seconda
domenica di quaresima, giunsero a Lodi trecento cavalieri: chiesero pietà
per la loro sciagurata Milano, consegnarono all’imperatore le loro bandiere,
dettero degli ostaggi. Il 6 arrivò infine il carroccio, simbolo della libertà
cittadina, accompagnato da un migliaio di armigeri. Fra la costernazione dei
milanesi in lacrime, vestiti di sacco e recanti croci penitenziali di legno, la
grande antenna del Carroccio si abbassò e l’imperatore stese la mano verso
il vessillo di sant’Ambrogio in segno di dominio. Perfino Guido di
Biandrate, vassallo fedele di Federico ma anche amico di Milano, chiese
pietà; intorno al trono i principi tedeschi piangevano, commossi dallo
strazio della scena. Solo Federico rimase impassibile, in silenzio; quindi
Rainaldo ricordò ai supplici che l’unica strada ch’essi potessero percorrere
era il giuramento d’incondizionata fedeltà: per il resto, l’indomani
avrebbero conosciuto il loro destino. L’umiliazione dei milanesi era la più
grande vittoria politica del cancelliere imperiale: rappresentava anche
l’umiliazione dei suoi nemici a corte, di quelli che in odio a lui avrebbero
voluto trattare con la città lombarda all’unico scopo d’impedirgli di cogliere
un nuovo successo.
All’indomani, il sovrano sciolse le riserve. Secondo la legge i milanesi
erano – in quanto traditori – passibili di condanna a morte: egli garantiva
comunque le loro vite e li scioglieva dal bando; tuttavia i consoli sarebbero
stati imprigionati, i cavalieri avrebbero dovuto fornire ostaggi, le mura
abbattute e i fossati cittadini colmati in modo da permettere all’esercito
imperiale di entrare in città schierato in ordine di battaglia. Era
un’umiliazione cocente, tanto più dura in quanto la condanna veniva
pronunziata in quella Lodi che i milanesi avevano conculcata più volte.
Può darsi che, in un verdetto così aspro, le tracce di relativa mitezza
fossero consigliate a Federico dai nobili tedeschi, ammirati del valore dei
milanesi; e forse da qualche feudatario lombardo, come il conte di
Biandrate. Ma Rainaldo aveva dalla sua le città nemiche di Milano, che non
avevano intenzione di vederla risorgere troppo presto. L’imperatore
presiedette in Pavia, a partire dal 13, una loro assemblea: e lì dovette
rendersi conto che era meglio accontentarle. Il 19 fece ordinare ai milanesi
di uscire dalla città; furono loro assegnate quattro vicine località nelle quali
potevano stabilirsi. Il giorno dopo cominciarono i lavori di totale
demolizione, eseguiti dai nemici lombardi di Milano: e con tale foga, con
tale rancore che neppure le chiese furono risparmiate e Federico fu costretto
a intervenire di persona per impedire la profanazione di alcune reliquie.
L’area di Porta Orientale col borgo prospiciente venne attaccata con gioia
feroce dai lodigiani, che da decenni aspettavano quest’istante; Porta
Romana fu abbattuta dai cremonesi; su Porta Vercellina si gettarono i
novaresi; Porta Comacina fu com’è logico assegnata ai comaschi; e
naturalmente Porta Ticinese spettò ai pavesi, mentre quelli del Seprio e
della Martesana si occupavano di Porta Nuova.
Per il 1° aprile, domenica delle Palme, la demolizione era terminata.
Federico prese l’olivo in Sant’Ambrogio: in segno di pace, senza dubbio,
ma anche di vittoria. Si spostò poi a Pavia, dove celebrò le feste pasquali e
tenne splendida corte bandita alla presenza di molti nobili e prelati tedeschi
e dei consoli delle città lombarde alleate: forse i più raggianti di tutti per la
tragedia di Milano. Fra i suoi vescovi, Federico aveva molto insistito – e,
alla fine, con successo – affinché lo raggiungesse a Pavia anche Eberardo di
Salisburgo, al quale nel marzo aveva scritto Alessandro pregandolo di
adoperarsi presso l’imperatore per il risanamento dello scisma. Con
Eberardo viaggiò alla volta degli accampamenti imperiali Gerhoh di
Reichersberg, che da poco aveva terminato il primo libro del suo De
investigatione Antichristi.
Una volta caduta Milano e imposto ai milanesi come primo podestà
imperiale Enrico vescovo di Liegi, nessuno in Lombardia poteva
ragionevolmente pensare a resistere all’imperatore. I bresciani e i pochi altri
fedeli alleati della città di sant’Ambrogio si affrettarono, ora, a piegarsi a
loro volta e a sborsare un’ammenda di 6000 marche d’argento. I piacentini,
rei di aver voltato le spalle al sovrano, ebbero anche loro mura abbattute e
fossati colmati e dovettero adattarsi a restituire i regalia dei quali avevano
fino ad allora continuato a godere, a pagare anch’essi l’indennità di 6000
marche e ad accettare un podestà nominato dall’imperatore.
Sulla faccenda dei funzionari di nomina – o almeno di gradimento –
imperiale, Federico non transigeva: perfino la fedelissima Cremona, che
pure fu riempita di privilegi (anche se dovette sborsare fior di quattrini in
cambio di alcuni di essi), fu costretta ad accettare che i suoi consoli
venissero eletti in presenza di un rappresentante del sovrano che procedette
poi alla loro investitura formale.
Stavano insomma emergendo, pur nel clima euforico della vittoria, anche
le linee di frattura all’interno della compagine federiciana: le città lombarde
antagoniste di Milano avrebbero semplicemente voluto prendere in tutto il
suo posto, sostituirsi alla sua egemonia e spartirsela fra loro; il sovrano
intendeva invece attuare il dettato di Roncaglia. La diversità di trattamento
riservata a Brescia o a Piacenza da una parte, a Cremona dall’altra, era
senza dubbio sufficiente a creare molte inimicizie e molti gravi rancori; e le
città che non senza ragione avevano ritenuto che la vittoria di marzo contro
Milano fosse anche loro si andavano a quel punto rendendo conto di quale
fosse la vera natura della politica imperiale; o meglio, si vedevano costrette
ad abbandonare la loro illusione che il sovrano non avrebbe seguito fino in
fondo, per quanto era in lui, il programma enunziato a Roncaglia. Tale
disincanto introduceva d’altronde nella situazione lombarda uno scontento e
un’inquietudine diffusi, le conseguenze dei quali erano difficili a valutarsi e
che neppure il cauto Rainaldo aveva saputo prevedere. Era davvero un
rischio andarsi a invischiare nelle complicate faccende delle città italiche.
Ma Federico aveva invece intenzione di invischiarvisi sempre più, forse
perché riteneva che ormai la maggior parte dei problemi fosse risolta.
Caduta Milano, ogni seria opposizione nel regnum Italiae sembrava cessata;
dalla sua corte di Pavia, dove sarebbe rimasto fino alla metà circa di giugno,
egli volgeva ora lo sguardo alla Sicilia. Ma, per piegare il regno di
Guglielmo, aveva bisogno dell’aiuto delle due città marinare di Genova e di
Pisa, allora in lotta fra loro. Giocando accortamente sulle loro reciproche
rivalità, Federico non intendeva certo pacificarle; gli bastava che entrambe
si adattassero ai suoi programmi e anzi, con quella premessa, non gli
sarebbe in fondo dispiaciuto se esse fossero rimaste fra loro avversarie.
L’imperatore concedette alla città di Pisa, con un importante privilegio, di
eleggere liberamente i suoi consoli e varie altre prerogative, ampliandone i
diritti comitali e riconoscendo come area di sua influenza tutto il litorale
compreso fra Porto Venere e Civitavecchia, cioè l’intera costa toscana. Al
solito, in questo documento egli elargiva anche prerogative rispetto alle
quali aveva un certo diritto giuridico, non però poteri effettivi; giungeva
addirittura ad assicurare ai pisani la metà di Palermo, di Messina, di
Salerno, di Napoli, l’intera Gaeta, Mazzara, Trapani, nonché una strada per
stabilirvi un fondaco in tutte le città del regno di Sicilia; e inoltre
l’esenzione completa da tasse su quel territorio e un terzo del tesoro di
Guglielmo I. Tutto questo, beninteso, una volta conquistato il regno siculo-
normanno: e al riparo da eventuali pretese del margravio di Tuscia, che
Federico s’impegnava a tenere a bada nel caso si fosse azzardato a
contendere qualcosa ai beneamati sudditi pisani.
Quando l’imperatore formulava tanto splendide ma alquanto incaute
promesse, aveva forse davvero l’intenzione di avviare nell’autunno
successivo la campagna contro il regno di Sicilia. Su questo punto, dovette
però ben presto ricredersi e spostare l’inizio dell’impresa all’anno seguente.
I pisani confidavano molto su questa loro stretta alleanza con l’impero,
per quanto ben sapessero che essa avrebbe loro procurato delle noie sia nel
Meridione d’Italia, sia a Bisanzio: cosa che, infatti, puntualmente avvenne.
Tanto più furono quindi contrariati nel venir a sapere che l’imperatore
offriva privilegi analoghi ai loro anche a Genova, alla quale – e lo si è già
accennato – egli nel giugno riconosceva fra l’altro il diritto a trattare come
propria area d’influenza la costa compresa fra Porto Venere e Monaco.
Concedendo a Pisa un privilegio altrettanto ampio, nell’aprile, Federico
aveva corso il rischio calcolato (ma quanto?) d’inimicarsi definitivamente
Genova, puntando invece sulla sua emulazione: e aveva comunque visto
giusto, ché i genovesi – allarmati e irritati al veder la rivale tanto favorita da
colui che allora sembrava l’assoluto e definitivo vincitore – avevano subito
tentato una manovra diplomatica d’avvicinamento, prontamente contrastata
da Pisa.
Tatticamente, l’ingelosire le due città favorendole entrambe – ma in
tempi e misure differenti – si era rivelato un successo. Ma strategicamente
era un errore: e difatti esse non tardarono a scontrarsi di nuovo, sia pure con
l’occasione di un tumulto avvenuto fra pisani e genovesi a Costantinopoli.
La piega assunta dalla situazione irritò profondamente Federico, che
invece riteneva necessario agire subito contro la Sicilia per consolidare il
suo successo lombardo e sfruttarlo sino in fondo. I suoi avversari si stavano
riorganizzando: e, fra l’aprile e il maggio, Alessandro III aveva da
Montpellier confermato la scomunica tanto contro di lui quanto contro
Vittore IV.
Nel giugno Federico si era già mosso alla volta della Romagna: ma forse
le notizie relative agli scontri fra pisani e genovesi, forse la necessità di
farsi vedere in Borgogna per sistemare anche lì varie questioni e sorvegliare
più da vicino le mosse di Alessandro lo convinsero a fare dietrofront
puntando a nordovest. I tempi per occuparsi della Sicilia non erano ancora
maturi.
Frattanto, il cancelliere Rainaldo si era recato in Toscana, dove Pisa non
aveva tardato a cercar di trarre il massimo profitto possibile da quel
diploma imperiale dell’aprile che faceva di lei la città più potente della
regione. Rainaldo aveva convocato una dieta a San Genesio, dov’erano
infatti convenuti nel luglio i consoli di Lucca, di Pisa, di Pistoia, di Firenze,
nonché i conti Alberti, Gherardeschi e Aldobrandeschi. La sua linea politica
in Toscana si rivelò ispirata a saggezza e a moderazione: fece in modo di
legare a sé e alla causa imperiale i feudatari e al tempo stesso riconobbe i
diritti e le aspirazioni delle città. Il fatto era tuttavia che, così agendo, egli
finiva con l’oscurare e l’umiliare obiettivamente – ma non certo senza
rendersene conto – i poteri delegati spettanti nella regione al margravio
Guelfo. Tutto ciò non avveniva certo senza il beneplacito dell’imperatore,
anche se non è il caso di giungere a sostenere che il cancelliere si limitasse
a eseguire la volontà del suo sovrano. È assai più facile che, in questo come
in altri casi, l’arcivescovo di Colonia forzasse anzi la mano del suo signore:
ma che d’altronde questi gli accordasse di buon grado la sua fiducia e la sua
copertura. Il che non era certo il modo migliore per conciliare a Rainaldo le
simpatie della nobiltà tedesca: ed è discutibile fosse un buon servizio reso
allo stesso Federico.
Ma torniamo appunto a lui: la sua presenza in Borgogna dipendeva certo,
in una qualche misura, dai problemi locali; e forse anche dal desiderio di
apprestarsi a rientrare in Germania, dalla quale egli mancava da molto
tempo e dove stavano accadendo varie cose. Fra l’altro, nel febbraio si era
avuto al Nordest un risveglio degli obodriti, che avevano attaccato
Meclemburgo e sui quali solo nel luglio Enrico il Leone aveva trionfato. Ma
il nuovo successo del cugino, che in Sassonia – e, forse meno, in Baviera –
si atteggiava a signore assoluto, faceva davvero piacere a Federico?
La cosa che più lo preoccupava era però il perdurare dello scisma e il
progressivo affermarsi di Alessandro III: ogni nuova adesione al Bandinelli
era – e l’imperatore se ne rendeva conto – un duro colpo inferto alla sua
persona e al suo prestigio nella misura in cui egli, dopo Pavia, si era tanto
impegnato a sostenere Vittore IV. Il pericolo maggiore era che i re di
Francia e d’Inghilterra ponessero da parte le loro ragioni d’inimicizia nel
segno della comune obbedienza ad Alessandro: ed era appunto quanto
minacciava invece di accadere. Nel settembre si era riunito a Dole, in
Borgogna, un altro concilio di fedeli di Vittore IV: lo patrocinavano
beninteso l’imperatore nonché il conte Enrico di Champagne, ed erano
presenti anche Enrico il Leone, Alberto l’Orso, Ottone di Wittelsbach.
Davanti a non molti prelati tedeschi e burgundi, Alessandro fu di nuovo
scomunicato e furono ribaditi i deliberati di un concilio vittorino che si era
tenuto a Cremona e Lodi nel maggio-giugno del 1161. Ma non si trattò
neanche in quel caso di un gran successo dell’imperatore.
Poco prima, al contrario, si era verificato un episodio preoccupante.
Federico aveva insistito a lungo per abboccarsi con Luigi VII e
riconsiderare insieme con lui la questione dello scisma in presenza dello
stesso Alessandro III. Quando il re di Francia fosse stato convinto della
bontà della causa di Vittore – riteneva Federico –, anche Enrico II
d’Inghilterra avrebbe dovuto adattarvisi. Lo Svevo poteva presentare a
Luigi VII uno schieramento vittorino, almeno sulla carta, imponente: i re di
Danimarca, di Norvegia, d’Ungheria; il duca (ormai provvisto di
prerogative e insegne regali) di Boemia; la maggior parte delle abbazie
cluniacensi. La propaganda imperiale stava lavorando febbrilmente in
Francia: al punto che cominciarono presto a correre voci secondo le quali re
Luigi era ormai acquisito alla causa di Vittore.
Ma proprio la pesantezza di queste pressioni e di queste dicerie urtò il
capetingio che, un po’ come tutti i deboli e gli indecisi, detestava venir
sottoposto a sollecitazioni e diveniva in quei casi caparbio e irremovibile.
L’incontro era fissato per la fine d’agosto a Saint-Jean-de-Losne, sul ponte
che scavalcava la Saône e sul quale passava la strada fra Dole e Digione. Il
convegno avrebbe dovuto aver luogo appunto sul ponte, «terra di nessuno»
fra regno di Francia e regno di Borgogna. Era stabilito che ciascun sovrano
avrebbe esposto le sue ragioni e che si sarebbe poi giunti a un accordo.
Alessandro III, dopo aver scongiurato Luigi di non andare a quel convegno,
rifiutò di accompagnarlo e spedì in vece sua alcuni cardinali come
osservatori.
Ma ciascuno dei due sovrani si recò in malafede e controvoglia al ponte
di Saint-Jean. Luigi temeva che gli venissero rinfacciati impegni che egli in
passato si era forse con leggerezza eccessiva assunto; Federico aveva paura
che il francese, non foss’altro per difendersi, facesse proprie le accuse
alessandrine contro Vittore.
L’incontro si risolse dunque in una ridicola commedia di mancati
appuntamenti sulle rive della Saône. In realtà, un ben più profondo motivo
d’irritazione e di diffidenza impediva al re di Francia di trattare
serenamente con l’imperatore: la consapevolezza cioè che Federico stava
facendo di tutto per attrarre nella sua sfera feudale la nobiltà francese
dell’Est, confinante con la Germania e con la Borgogna: i conti di
Champagne, di Nevers, di Fiandra, la nobiltà della Borgogna transaoniana.
L’incontro fu dunque aggiornato al 19 settembre successivo: nel
frattempo entrambe le parti si dettero molto da fare. La Chiesa vittorina
celebrò come s’è detto il suo concilio a Dole; Alessandro III da parte sua
non solo rafforzò la sua influenza su Luigi, ma ebbe un abboccamento
anche con Enrico d’Inghilterra a Coucy-sur-Loire e, pochi giorni dopo,
incontrò di nuovo – e stavolta insieme – i due sovrani. Era intanto fallito, il
19 settembre, il secondo convegno di Saint-Jean-de-Losne fra Luigi VII e
Federico; anche perché quest’ultimo – evidentemente contrariato per la
piega che le cose avevano preso – non si era degnato di venire
all’appuntamento e aveva inviato in vece sua Rainaldo a comunicare
bruscamente che l’imperatore non aveva intenzione di spartire con nessuno
la sua giurisdizione sulla Chiesa di Roma.
Alessandro III finì quindi col giovarsi dell’arroganza e dell’impazienza
di Federico e del suo cancelliere. Nell’area occidentale della Cristianità
latina, il suo trionfo era ormai definitivo; e lo si sarebbe visto nella
primavera del 1163, quando egli celebrò a Tours un concilio al quale
presero parte prelati provenienti dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’Italia:
circa centocinquanta fra cardinali e vescovi e più di quattrocento abati. La
Chiesa alessandrina si andava imponendo fra l’altro anche in Germania,
dove molti membri dell’alto clero avevano rotto riserve e ambiguità e si
erano decisamente schierati – pur sottolineando in genere che ciò non
inficiava la loro fedeltà all’imperatore – dalla parte di Alessandro. Fra loro,
il personaggio più autorevole era l’arcivescovo Eberardo di Salisburgo, che
Alessandro investì addirittura nel 1163 dell’ufficio di legato papale per la
Germania e che nonostante ciò rimase in rapporti sostanzialmente buoni,
addirittura affettuosi, con Federico. La questione era senza dubbio delicata,
e non mancarono momenti di tensione: ma in genere i prelati alessandrini
tedeschi mostravano di non tenere in alcun conto la scomunica che il loro
pontefice aveva comminato contro il loro sovrano; così come davano
l’impressione di giudicare il mantenimento dello scisma come risultato non
tanto della volontà del sovrano quanto della perversità del suo cattivo
consigliere, Rainaldo di Colonia. Ed era difatti nei confronti di quegli e di
papa Vittore – ma non, ed è significativo, in quelli di Federico – che il
concilio di Tours ribadiva la scomunica. Quanto ad Alessandro, egli non
mancava di far pervenire a Federico, specie tramite il legato Eberardo, segni
di distensione. Ma intanto inviati del basileus Manuele cominciavano a
circolare in Francia e prendevano contatto con Alessandro e con Luigi VII.
Si stava delineando un’alleanza imponente contro il sovrano tedesco.
Questi, dopo il secondo incidente di Saint-Jean-de-Losne, era frattanto
rientrato in Germania. La situazione che vi aveva trovato non era delle
migliori, ed egli aveva cercato di correre ai ripari là dove poteva. Aveva
cominciato con il punire duramente la città di Magonza, dove nel 1160 si
era verificato un tumulto di gravità inaudita durante il quale era stato ucciso
l’arcivescovo Arnoldo, compagno dell’imperatore nella discesa in Italia del
1158. Ma aveva ben presto dovuto rendersi conto che, dietro ai disordini
apparentemente causati da motivi politici o economici, si agitava spesso
anche un disagio morale e religioso che lo scisma rendeva ancor più
drammatico. E senza dubbio proprio sullo scandalo provocato dallo scisma
faceva leva la propaganda ereticale. Nell’agosto del 1163, in effetti, furono
scoperti a Colonia alcuni eretici guidati da un maestro di nome Arnoldo e
provenienti dalla Fiandra: furono mandati al rogo e lì dettero prova, in
tragiche circostanze, di grande fermezza d’animo. Ecberto di Schönau ne fu
impressionato al punto che fu allora che cominciò a scrivere i Sermones.
Anche Ildegarda di Bingen rimase colpita da quell’episodio; e del resto ella
aveva forse avuto modo già da prima di esporre le sue inquietudini
sull’avvenire della Chiesa all’imperatore, con il quale si era incontrata nella
primavera di quell’anno a Ingelheim. D’altro canto, Federico aveva fretta di
scendere di nuovo in Italia per affermarvi ancora il suo potere e riprendere
il disegno di offensiva contro la Sicilia. Intervenne nel Nord, dove già nel
1157 aveva eretto in ducato la Slesia per conferirla a un membro del casato
dei Babenberg e dove già esisteva la marca del Brandeburgo assegnata ad
Alberto l’Orso conte di Ballenstedt. Si andava così costituendo nel
Settentrione tedesco una sorta di coalizione di avversari di Enrico il Leone,
comprendente Alberto l’Orso stesso, il landgravio di Turingia,
l’arcivescovo di Brema, i vescovi di Halberstadt e di Hildesheim. Fornendo
a questi principi e prelati il proprio appoggio contro il vincitore degli
obodriti, Federico intendeva inviare al potente cugino un messaggio
affinché questi non pensasse di poter troppo approfittare delle frequenti
assenze dell’imperatore dalla Germania.
Fra l’agosto e il settembre del 1163 si tenne a Norimberga una grande
dieta imperiale. Si parlò ancora dello scisma, naturalmente, ma soprattutto
dell’ormai già decisa nuova campagna italica. Federico pensava certo a
Roma, da dove Alessandro era assente; pensava alla Sicilia, contro la quale
era ancora ben deciso a muovere; ma soprattutto era preoccupato per le
notizie di ripetuti contatti fra Alessandro III e il basileus.
In Italia era frattanto tornato Rainaldo di Dassel dopo l’infelice exploit
diplomatico di Saint-Jean-de-Losne. Alla fine del marzo 1163 era di nuovo
a Pisa da dove intraprendeva un lungo giro attraverso Toscana, Umbria e
Marche accompagnato da un folto seguito di vescovi d’obbedienza
vittorina, di nobili italici, di giuristi. Visitò molte città, chiedendo e
ottenendo sia il pagamento dei tributi, sia la deposizione e l’allontanamento
di quei governanti laici e di quei vescovi che si erano compromessi con
papa Alessandro; e in molti casi impose personaggi tedeschi o suoi uomini
di fiducia come podestà nelle città, come castellani nel contado. Tutto ciò
come se a capo dei ducati di Toscana e di Spoleto non vi fosse un grande
principe tedesco come Guelfo VI, zio dell’imperatore.
Federico doveva essere ammirato per l’abilità del suo cancelliere: e,
scendendo in Italia, era ben deciso a sfruttare un terreno tanto abilmente
preparato. Anzitutto bisognava confortare i lombardi fedeli e impedire
invece ai riottosi di rialzare la testa. Per questo egli faceva di nuovo
distruggere, nell’ottobre, le mura di Tortona, mentre per contro il 4
novembre presenziava di persona alla traslazione solenne delle reliquie di
san Bassiano dalla vecchia alla nuova Lodi. A Lodi, fedelissima, e al suo
santo era tanto più legato da quando là, nel 1159, era miracolosamente
sfuggito a un attentato.
Nel marzo del 1164 si teneva a Parma una grande dieta del regno
d’Italia. La missione di Rainaldo, che aveva il ruolo di sgombrare
all’imperatore la via di Roma, era riuscita: ed egli poteva ora
orgogliosamente dirsi pronto a puntare su Roma; da lì, si sarebbe poi tentato
il balzo per impadronirsi della Sicilia, e in effetti i pisani insistevano
affinché quell’impresa si facesse e addirittura avevano a tale scopo invitato
Federico dentro le loro mura. Non lo videro però arrivare: al suo posto
giunse Rainaldo, che peraltro vi si trattenne poco per dirigersi subito a San
Genesio, dov’era convocata per il 18-19 aprile una nuova dieta toscana.
Guelfo VI era ormai di fatto privato dei poteri su quella regione: e nella
stessa dieta di Parma le sue proteste erano state duramente respinte
dall’imperatore.
Pare che Federico, per evitare il viaggio da Parma a Pisa – che in fondo
non lo avrebbe troppo allontanato dalla strada per Roma –, si desse
ammalato. E forse lo era davvero: un attacco di malaria. Ma il fatto è
soprattutto ch’egli si sentiva la coscienza un tantino sporca nei confronti dei
fedeli pisani che per averlo appoggiato avevano perduto le loro basi in
Sicilia e subìto seri guai anche a Costantinopoli. Egli aveva difatti deciso –
proseguendo nella sua linea politica di dominium mundi che gli imponeva di
avere dei re come vassalli – di costituire la Sardegna (sulla quale dal secolo
prima gravava l’ipoteca d’un diretto dominio papale) in regno e di affidarla
a un oscuro avventuriero, Barisone d’Arborea, ch’era nell’isola lo
strumento della politica genovese contro Pietro di Cagliari, il quale era per
contro appoggiato dai pisani. Ancora una volta, com’era accaduto per i
privilegi del 1162, Federico si lasciava attirare nelle complicate
controversie delle due città marinare nell’illusione di mantenerle entrambe
amiche e di servirsene contro la Sicilia normanna.
La questione di Barisone d’Arborea generò in effetti un sacco di
complicazioni. Federico gli concesse solennemente l’investitura regia
nell’agosto successivo a Pavia, nella chiesa di San Siro; e Barisone
s’impegnò a versare in cambio la ragguardevole somma di quattromila
marche d’argento una tantum, oltre a un censo annuo. La cerimonia dette
beninteso luogo alle solite querele fra genovesi e pisani: che Federico sedò
pronunziandosi per le tesi genovesi, le quali fra l’altro gli davano il
vantaggio di dichiarare il regno di Sardegna direttamente dipendente
dall’impero. L’ingente debito contratto da Barisone nei confronti della
tesoreria imperiale venne pagato dal comune di Genova e da parecchi suoi
cittadini, il che legò ancor più strettamente Barisone alla città ligure. Ma
intanto la faccenda si complicava per il nascere di discordie nella stessa
Genova: e lo si era già visto il 29 giugno, quando lo sbarco nel porto di
quella città di Barisone diretto a Pavia aveva generato uno scontro tra
fazioni.
La vita del «re» Barisone non fu comunque facile. I pisani incitavano i
giudici di Cagliari e di Torres a invadere l’Arborea; ed egli, per mantenersi
sul trono, si vedeva costretto ad accordare privilegi sempre più ampi ai
genovesi, ai quali doveva anche alti interessi per i prestiti ottenuti. Ma il 12
aprile 1165, inaspettatamente, l’imperatore concedeva l’isola in feudo ai
pisani, con ciò stesso deponendo automaticamente Barisone. C’era sotto
senza dubbio una questione di soldi: ma al di là di ciò l’intera questione è
un esempio delle incertezze e della maldestra gestione di tutta la politica
mediterranea federiciana. Non era certo con questi colpi di testa che egli
avrebbe conciliato Genova e Pisa e le avrebbe indotte a collaborare al suo
disegno contro la Sicilia.
Ma torniamo alla primavera del 1164. Federico aveva fissato la sua
dimora italica nell’antica capitale del regno, Pavia, che gli era
straordinariamente fedele. Là fu raggiunto dalla notizia che Vittore IV era
morto a Lucca, il 20 aprile: era spirato sulla strada di Roma, senza che i
suoi ultimi giorni avessero conosciuto la luce di un vero e proprio conforto.
Il nobile Ottaviano Monticelli era troppo intelligente per non essersi accorto
da tempo che la sua causa era perduta, che tutta la Cristianità latina era
ormai orientata verso Alessandro e che dalla sua parte restavano solo
qualche ostinato e qualche opportunista. Fu sepolto quasi di nascosto,
perché né i canonici del duomo né quelli di San Frediano avevano voluto
accogliere il suo povero corpo di peccatore. Si disse che la sua non era stata
una fine serena: ma forse questa fu una chiacchiera messa in giro dai suoi
avversari per accreditare la voce che la sua scomparsa fosse il castigo che
Dio riservava ai seminatori di discordia.
La morte di Vittore avrebbe forse potuto appianare lo scisma: alla corte
dell’imperatore non mancavano i principi e i prelati a ciò disposti, e lo
stesso Federico – scosso forse soprattutto dall’atteggiamento di uomini
come Eberardo di Salisburgo, che egli amava e stimava pur definendolo un
vecchio pazzo ostinato – non doveva essere alieno dal lasciar cadere una
questione che certo non gli giovava. Ma sostenitore pervicace dello scisma
era il cancelliere Rainaldo, e almeno per due motivi: primo, odiava
cordialmente Alessandro fino dai tempi di Besançon; secondo, lo scisma gli
conferiva sulla porzione imperiale della Chiesa un potere ufficioso quasi
pontificio al quale egli non intendeva rinunciare. Fu così che, in fretta e
furia – certo perché temeva un esplicito divieto imperiale, al quale non
avrebbe potuto trasgredire –, aveva riunito nella stessa Lucca due giorni
dopo la morte di Vittore, il 22, qualche prelato condiscendente al quale
aveva fatto direttamente eleggere papa il cardinale Guido da Crema che,
incoronato il 26, assunse il nome di Pasquale III. Ottenuto con facilità il
consenso dei consoli cittadini e dei feudatari toscani al nuovo papa, il
cancelliere partì alla volta di Pavia, dove ottenne dal sovrano
l’approvazione al suo operato.
Era un altro dei colpi di testa di Rainaldo; ancora una volta l’imperatore
veniva da lui messo dinanzi a un fatto compiuto. Ora, Federico non amava
passare per debole: anzi, era alquanto suscettibile al riguardo, anche perché
ormai troppe e troppo insistenti erano le voci sul suo conto che, con severità
oppure – peggio – con ironia, lo dipingevano come succube del suo
cancelliere. Si rese conto che, se a proposito del nuovo pontefice
«imperiale» avesse manifestato anche solo una perplessità, avrebbe dato
credito a quelle mormorazioni malevole: non gli restava quindi che
mostrarsi fermamente e calorosamente convinto della scelta di Rainaldo,
quasi che questi avesse eseguito un suo ordine. Sul suo vero stato d’animo,
è lecito nutrire parecchi dubbi: certo è che seppe stare al gioco. Del resto,
non aveva scelta.
Ma a quel punto era in verità preoccupato per ben altro. In quello stesso
mese le tre città venete di Verona, Padova e Vicenza si erano strette in una
lega – che fu appunto denominata Lega veronese – contro i continui e ormai
intollerabili soprusi dei funzionari imperiali che le angariavano; dal canto
suo, anche Treviso dava segno di volervi aderire. Venezia, da tempo in rotta
con Federico, sosteneva l’iniziativa. Ora, non si trattava solo di una
violazione patente del divieto di stipulare patti intercittadini stabilito a
Roncaglia: c’era anche l’aggravante che le città venete alleate fra loro
bloccavano le vie d’accesso al vescovato di Trento e al Friuli, controllato da
Udalrico di Treffen patriarca d’Aquileia, allievo di Eberardo di Salisburgo e
pertanto certo seguace di papa Alessandro III, ma politicamente fedelissimo
a Federico. Chiari segni davano ormai a vedere che anche altre città
italosettentrionali del centro e dell’ovest dell’area padana, che per il
momento mordevano il freno data la presenza del sovrano a Pavia, si
sarebbero volentieri unite ai ribelli non appena ne avessero avuto
l’occasione.
I «ribelli», peraltro, non intendevano da parte loro esser tali. Quel che
volevano era che il loro rapporto con l’impero – che in quanto tale non
contestavano – rientrasse in quelle consuetudini che si erano consolidate
con i predecessori di Federico. Il loro era un appello alla tradizione, non
uno squillo di rivolta; non si attaccava l’imperatore, bensì i suoi rapaci e
corrotti funzionari, contro i quali si minacciava anzi il ricorso al sovrano
medesimo, ritenuto per definizione ignaro delle soperchierie che nel suo
nome si commettevano. D’altro canto è evidente che la loro era una
parafrasi legalistica per riaffermare la volontà di scrollarsi di dosso non più
de iure (per far ciò si sarebbe dovuto attaccare e denunziare apertamente,
esplicitamente, il dettato di Roncaglia), sì però de facto, il giogo imperiale:
visto che esso, prima del Barbarossa, tutto sommato non si era mai fatto
sentire in modo pesante. Che poi nel malumore delle città italosettentrionali
entrasse anche una componente di antipatia contro i tedeschi – che non va
certo letta nel senso proposto dai nostri padri del Risorgimento – è molto
probabile, e ve ne sono tracce nella letteratura satirica del tempo: ma non si
trattava di un dato decisivo. Semmai, il pericolo era che la Lega
intercittadina veneta potesse rafforzarsi grazie a un esplicito appoggio di
Alessandro III: cosa che Federico avrebbe sì potuto evitare, ma a patto di
cancellare lo scisma (e a tale scopo sarebbe bastato non eleggere un nuovo
papa imperiale a Lucca). Né andava dimenticato un altro rischio: che cioè,
tramite Venezia, la Lega ottenesse il sostegno del basileus.
Lo Svevo era a quel punto molto preoccupato: scrisse al vecchio presule
di Salisburgo, ordinandogli di scendere in Italia per sfondare lo
schieramento della Lega; fece pressioni sulla più incerta delle città
coinvolte, Treviso, per indurla a recedere dall’alleanza con i centri vicini;
cercò di indurre alla mobilitazione Pavia, Mantova e Ferrara concedendo
loro ampi privilegi scopo dei quali, con ogni evidenza, era non solo
invogliarle ad appoggiarlo e premiarle per la fedeltà fino ad allora mostrata,
ma anche rendere ben chiaro ai comuni che si poteva ottenere di più per
grazia sovrana che non tentando la via della ribellione.
Nel giugno l’imperatore entrava in armi nel territorio veronese,
distruggendo e bruciando. Ma disponeva di truppe scarse e raccogliticce, e
soprattutto – almeno quelle italiche – compromesse da un morale alquanto
basso che le rendeva svogliate. Nemmeno le città tradizionalmente più
fedeli lo seguivano con l’entusiasmo di un tempo: erano lontani i giorni
della primavera di due anni prima, lontano il feroce trionfo sulle rovine di
Milano. Forse una mezza eccezione va fatta solo per Pavia, entro le mura
della quale di lì a poco, nel luglio, Frau Beatrice gli avrebbe dato alla luce
un altro dei suoi numerosi figli (Federico, morto peraltro a sei anni, nel
novembre del 1170): tuttavia anche lì il sovrano doveva barcamenarsi fra il
comune e i conti di Lomello, suoi leali amici entrambi ma avversari fra
loro, col rischio di scontentare ambedue le parti. In genere, comunque, egli
sapeva bene quanto cara costasse in termini economici e politici la sua
presenza ai sudditi italici; né ignorava sostanzialmente – per quanto potesse
ignorare o fingere d’ignorare certi dettagli – che quello dei funzionari da lui
imposti in Italia era un rapace malgoverno. Fece ogni sforzo per domare la
ribellione veneta: ricorse alle lusinghe, alle minacce, al finanziamento di
congiure, alla nomina di nuovi funzionari ritenuti più energici o più capaci.
Ma invano. Nel settembre – sfumato a Verona un Putsch che avrebbe
dovuto consegnargli la città – si ritirò in Pavia e si dette a organizzare il
rientro in Germania. In ottobre, con un diploma siglato già sulla via del
ritorno, premiò della sua fedeltà Guglielmo V marchese di Monferrato, che
insieme con lui sopportava il giogo della scomunica alessandrina (senza,
beninteso, riconoscerne la validità); e per la festa d’Ognissanti, il 1°
novembre, lo troviamo già in Ulm.
Era stato costretto a rientrare in Germania da una serie di gravi problemi,
che comprendevano la successione da dare all’arcidiocesi di Salisburgo
dopo la morte dell’arcigno e beneamato Eberardo nonché la soluzione di
una contesa tra nobili che aveva coinvolto due suoi parenti, suo zio il duca
Guelfo e suo cugino Federico di Rothenburg. Lasciava in Italia – e lo
sapeva bene – una situazione bollente. I bolognesi avevano ucciso il suo
rappresentante Bosone; i piacentini erano insorti contro il rettore imperiale
Arnoldo di Dorstadt, detto Barbavaria o Barbavaira o Barbavara, il quale,
dopo aver retto per due anni di malgoverno una città ch’era fra le più ricche
dell’area padana, se l’era poco eroicamente data a gambe portandosi dietro
più tesori e più documenti che poteva. Non si è concordi, intendiamoci, nel
giudicare fino a che punto il suo sia stato davvero un malgoverno:
probabilmente egli non eccedette – o non più comunque di altri – rispetto
alle direttive che gli erano state impartite. Il fatto è che i piacentini
sentivano il suo potere come estraneo e illecito; e la loro ribellione divenne
un esempio.
Federico era al corrente di tutto ciò: dal suo osservatorio tedesco vedeva
Roma e la Sicilia sfuggirgli, papa Alessandro III trionfare sul suo Pasquale
ch’era sempre più circondato dal discredito, i comuni padani avversari
rialzare la testa e quelli fedeli cedere sempre più all’ambiguità e al
disorientamento.
Si dette quindi a preparare una nuova discesa, che avrebbe dovuto essere
di rivincita. Ma non si faceva illusioni: si rendeva conto che, stavolta, si
sarebbe trattato di una dura lotta contro un nemico che faceva sempre più
proseliti, in una terra che sempre più odiava il suo tallone di ferro. Ormai
era il Barbarossa, «di cui dolente ancor Milan ragiona», 2 come avrebbe
detto Dante oltre un secolo e mezzo dopo i fatti di allora. E certo in quei
giorni i milanesi – cittadini di una città che non esisteva più – avevano
senza dubbio motivo di esser dolenti: e di ragionare. Ma di vendetta.
XI
«Salve mundi domine»
Doveva essere uno strano corteo quello che, guidato da Rainaldo di Dassel,
moveva l’11 giugno 1164 da Milano alla volta della Germania. Seguendo
una tradizione assai antica, quella delle «pie rapine» di reliquie, il
cancelliere imperiale procedeva ora in sordina alla translatio nella sua
Colonia dei resti venerabili dei Re Magi nonché dei martiri Naborre e
Felice, prelevati dalla chiesa milanese di Sant’Eustorgio.
L’itinerario seguito dal cancelliere imperiale per raggiungere la città
renana della quale era arcivescovo dovette essere piuttosto complesso,
diverso forse da quelli più noti che passavano dal Gran San Bernardo, o dal
Gottardo, o dalla Borgogna. Forse Rainaldo era ben conscio delle molte
insidie che sulla strada avrebbero potuto attenderlo; e non è nemmeno certo
che quel suo viaggio avesse il consenso dell’imperatore.
Insomma, non si è affatto sicuri a proposito dell’itinerario ch’egli seguì.
A Gmünd in Svevia una lapide ricorda il transito di quelle reliquie: ma tra
Borgogna, Germania e Svizzera attuali molti luoghi sono stranamente e
leggendariamente legati al supposto passaggio di quelle reliquie. Del resto,
quello dei Magi si andò allora affermando anche come culto dei protettori di
chiunque viaggiasse: tra Danimarca, Boemia e Slovenia non si contavano,
nella vecchia Europa, gli alberghi e le locande che assumevano
denominazioni allusive a esso quali Zum Sterne («Alla Stella»), Zum
Möhren («Al Moro», con allusione a una delle tante tradizioni fiorite a
proposito dei tre Re, uno dei quali – di solito il più giovane – almeno dal
Duecento si cominciò a descrivere e raffigurare come «moro», cioè
africano), Zum Drei Königen («Ai Tre Re»), Zum Drei Krönen («Alle Tre
Corone»).
Il corteggio del cancelliere raggiungeva comunque Colonia il 23 luglio e
le reliquie venivano deposte nella chiesa carolingia di San Pietro, che
sarebbe stata più tardi trasformata nel celebre duomo gotico fondato nel
1248 e il cantiere del quale sarebbe durato secoli interi. L’immensa
cattedrale sarebbe sopravvissuta alla distruzione «a tappeto» della città, nel
’44, in quanto la sua mole ben visibile dall’alto serviva da punto
d’orientamento per le superfortezze volanti alleate.
Qual era il significato della translatio del 1164? Non siamo per la verità
troppo ben informati sull’importanza e sull’intensità del culto dei Magi
nella Milano dell’XI e XII secolo, anche se un’antica redazione della Vita di
sant’Eustorgio pare essere stata scritta nientemeno che da Landolfo Seniore.
Se tale culto era davvero importante e intenso, si potrebbe intendere la
spoliazione come un’ulteriore punizione nei confronti dei milanesi. I tre
«re» (che come tali venivano venerati), i quali avevano reso per primi tra i
popoli pagani (primitia gentium) omaggio – e questa connotazione feudale
è fortissima in tutta l’iconografia relativa fra XII e XV secolo – al Rex
regum et Dominus dominantium, non potevano certo continuare a venir
custoditi e onorati, loro, i pii e perfetti vassalli, in una città che si era
macchiata di tradimento nei confronti del suo signore. Ma oggi si dubita che
il culto dei Magi fosse poi talmente sviluppato a Milano prima che, nel
Duecento, ve lo diffondessero i domenicani: e s’insiste sul fatto ch’esso
sembra essersi piuttosto irradiato da Colonia proprio a partire dalla fine del
XII secolo. Se le cose stanno così, può davvero darsi che esso sia stato
all’origine il frutto di una trovata dell’arcivescovo Rainaldo. E se ne
intuiscono i motivi: primo, dotare la sua cattedrale di splendide e
prestigiose reliquie che ne avrebbero fatto meta di pellegrinaggi e centro
solenne di culto; secondo, sottolineare l’importanza di un culto santorale
strettamente legato alle dimensioni della regalità e del rapporto feudale. È
difatti con l’Epifania, la festa dei Magi, che il Bambino di Betlemme si fa
riconoscere e adorare come re. E proprio da allora il culto dei Magi quali
Reichsheilige, «santi dell’impero», si diffuse rapidamente e con l’appoggio
del sovrano. Una notizia che ha per la verità avuto scarsa risonanza, e che ci
vien fornita da Gilles d’Orval, sembrerebbe corroborare la seconda tesi. Le
reliquie dei Magi sarebbero state scoperte fortuitamente – ed è questo un
luogo comune nelle narrazioni dei ritrovamenti di reliquie – proprio nel
1164 (sembra invece secondo altre fonti che ciò possa essere accaduto nel
1158); e il primo potestas imperiale di Milano, Enrico vescovo di Liegi, le
avrebbe chieste all’imperatore per la sua cattedrale. Ma l’improvvisa sua
morte gli avrebbe impedito di compiere la translatio: e del venerando
bottino si sarebbe impadronito Rainaldo, che non doveva del resto amare
granché Enrico da quando questi, due anni prima, si era rifiutato di prestarsi
alla farsa della continuazione dello scisma facendosi incoronare papa dopo
la morte di Vittore IV.
Non ricostruiremo qui la complessa vicenda legata alle figure dei Magi,
al loro culto, alle loro reliquie. Basterà dire che secondo la tradizione
corrente e attestata (con molte varianti) dalle fonti, i loro corpi sarebbero
stati sepolti in un unico sepolcro a Gerusalemme da dove sarebbero stati
traslati a Costantinopoli dall’imperatrice Elena madre di Costantino, oppure
– appunto secondo una variante – dall’imperatore Zenone alla fine del V
secolo. Eustorgio avrebbe poi ricevuto le reliquie in dono da Costante o da
un altro imperatore e le avrebbe recate a Milano con un viaggio
estremamente avventuroso, toccando la Dalmazia, poi via mare fino in
Abruzzo (dove il santo avrebbe miracolosamente aggiogato al carro che
recava il pesante sarcofago di marmo un lupo reo di aver attaccato e ucciso
uno dei buoi che lo tiravano) e finalmente in un luogo presso Porta Ticinese
dov’era il fonte di San Barnaba, sacro ai battesimi dei primi cristiani
milanesi.
L’esegesi neotestamentaria e la filologia moderna hanno tormentato il
segreto dei Magi. La prima ha fatto di loro e dei doni che essi offrono il
simbolo ora delle età dell’uomo e delle dimensioni del tempo (passato-
presente-futuro), ora degli stati del mondo (in una prospettiva che rammenta
la «tripartizione funzionale» studiata per le civiltà indoeuropee da Georges
Dumézil e ripresa per il Medioevo da Georges Duby), ora delle tre stirpi
dell’umanità postdiluviana discese secondo il racconto biblico dai tre figli
di Noè: tutte queste ipotesi esegetiche convergono comunque
nell’intenzione di fornire di un significato cosmico la scena dell’offerta dei
doni nella grotta di Betlemme. La seconda ha collegato i Magi a un nome
etnico originario della Media – secondo un’indicazione che già si trova in
Erodoto –, oppure si è riferita all’antico termine persiano magu, «dono»,
con il quale si indicava il mazdaismo, la religione zoroastriana, per vedere
in loro dei maghavan, dei «partecipi del dono»: cioè dei fedeli di
Zarathustra intenti a scrutare negli astri i segni dell’arrivo sulla terra del
Saôshyans, «il Soccorritore», il terzo e definitivo dei Salvatori zoroastriani
destinati a comparire ciascuno alla fine di un millennio per ristabilire sulla
terra il regno del Bene. 1 Il Saôshyans avrebbe dovuto esser partorito da
«una fanciulla, senza che alcun uomo l’avvicini», e la sua nascita
annunziata da un astro fulgente nel cielo.
I cristiani occidentali conoscevano i Magi attraverso il testo di Matteo, 2
nel quale essi non sono né re né tre, ma in cui troviamo un riferimento
preciso alla loro origine orientale e alle loro cognizioni astrologiche. Ma di
re che portano ricchi doni si parla bensì in due testi veterotestamentari di
fondamentale significato messianico, il Salmo 71 e un passo di Isaia. 3
Quindi, se anche Matteo aveva inteso alludere forse soltanto ai magoi
caldaico-mesopotamici dei suoi tempi, noti interpreti del cielo stellato e
spesso in realtà semplici indovini e ciarlatani, molti testi siriaci, armeni,
arabi – con le relative influenze ora monofisite ora nestoriane – vanno ben
oltre, finendo con il convergere con gli apocrifi Atti di Tommaso del III
secolo d.C., anch’essi originariamente redatti in siriaco – ma tradotti in
greco e in latino e ben noti, per esempio, a Tertulliano – nei quali si narra
dell’evangelizzazione dell’India da parte dell’apostolo e dei suoi contatti
con re Gundofarne, cioè con un personaggio storico ben noto, il sovrano
Gudnafar, nome ch’è la traduzione in lingua greca dell’indopartico
Vindapharna, forse appunto il medesimo che in qualche modo
potrebb’essere adombrato in uno dei Re Magi della tradizione che porta
appunto un nome simile al suo in greco, Gaspare, e che regnò nell’area tra
India e Afghanistan proprio nello scorcio tra I secolo a.C. e I d.C. 4 Le
molteplici tradizioni orali circolanti sui Magi avevano dato loro nomi,
attributi, aspetto e così via: la Chiesa restava fedele allo scarno racconto di
Matteo, ma capitelli scolpiti, affreschi, vetrate istoriate narravano ai fedeli
un’antica storia che custodiva tutti gli echi e i riflessi d’un Oriente ancora
misterioso e sconosciuto. Un secolo dopo quello di Federico il veneziano
Marco Polo, addentrandosi appunto in quell’Oriente, vi avrebbe ritrovato, e
non per caso, i Magi e la loro leggenda: riflessa e ritessuta, da allora in poi,
dalla terra dei mongoli all’India, all’Etiopia, in un continuo scindersi e
riconvergere di miti e di simboli.
Ma – originariamente persiani o indiani (o, più tardi, mongoli o abissini)
che fossero – i Magi avevano avuto dei discendenti. E la loro più illustre
progenie era senza dubbio quel misterioso re-sacerdote cristiano
dell’Estremo Oriente, il cosiddetto «Prete Gianni», che compare in
Occidente proprio grazie a un congiunto dell’imperatore Federico che noi
d’altronde ben conosciamo, Ottone di Frisinga, al quale nel 1145 a Viterbo
un vescovo proveniente dall’Oltremare aveva parlato di lui e delle sue
vittorie sull’Islam. Fin dall’inizio, pertanto, i connotati della leggenda del
Prete Gianni si saldavano alla crociata e alla dimensione escatologica a essa
sottesa.
Questo nesso allora appena intravedibile, questo filo sottile che legava
l’idea di crociata, l’Asia profonda, la riscossa cristiana e le reliquie dei
Magi, era presente a Rainaldo mentre organizzava la translatio e magari
commissionava la redazione dei testi destinati a fondare una nuova
tradizione? Non lo sappiamo, ma è ragionevole ritenere in qualche modo di
sì. Nel 1165 – l’anno della dieta di Würzburg e della canonizzazione di
Carlomagno: l’anno cioè fondamentale nell’elaborazione e nella
manifestazione del concetto federiciano di regalità sacra – cominciò a
circolare per l’Occidente una lettera che si disse inviata dal Prete Gianni ai
tre «signori universali» della Cristianità: l’imperatore Federico, il papa
Alessandro e il basileus Manuele. Ovviamente si trattava di un testo
apocrifo, redatto – e si è pensato come suo possibile autore addirittura a
Cristiano di Buch arcivescovo di Magonza – a scopo propagandistico; è
forse azzardato ipotizzare che esso sia stato direttamente concepito nella
cancelleria imperiale, ma certo il carattere quasi di utopia politica che lo
anima invita alla riflessione. E pare lo si ritenesse autentico: il papa difatti
rispose con una sua missiva. Il Prete Gianni, che si fregia appunto
dell’umile titolo di presbyter (ma il legame semantico che unisce le nozioni
di «prete», «vecchio», «signore» è noto) quasi a emulare la formula
pontificia Servus Servorum Dei, è al tempo stesso re e sacerdote; regge
settantadue province (tanti quanti furono i primi discepoli del Cristo) e
regna quindi su altrettanti re. I suoi paesi sono popolati da meravigliose
razze di mostri e vi scorre un fiume che scende dal Paradiso Terrestre e i
ciottoli del cui letto sono pietre preziose. Dinanzi al suo palazzo, costruito a
somiglianza di quello che l’apostolo Tommaso eresse per il re indiano
Gundofarne, si trova uno specchio incantato nel quale si può vedere tutto
quel che accade nel regno.
Gli ingredienti mitico-leggendari di questo testo – gli echi del quale si
rifrangeranno a lungo nella letteratura di viaggio, nell’agiografia, nella
letteratura magico-ermetica, nei racconti cavallereschi, nell’iconografia, nel
folklore – sono abbastanza ben distinguibili: si rifanno alla leggenda
medievale di Alessandro Magno con i suoi elementi ellenistico-orientali e a
quelle raccolte nei Mirabilia Urbis Romae. Ma più ancora dei miti e delle
leggende, è la teologia politica a interessarci in questa sede: mentre
l’impero è dilaniato dalla lotta fra i due massimi poteri della Cristianità,
ecco proposta con il «Prete Gianni» l’immagine di un perfetto sovrano, a un
tempo re e sacerdote, che governa il mondo in serena umiltà ma anche con
piena autorità per il bene esclusivo del popolo, ch’è in verità il genere
umano. La si direbbe, da un lato, implicita condanna della mondanità del
potere religioso, ma dall’altro anche vagheggiamento d’una società
finalmente pacificata nel segno di un cristianesimo apocalittico, dominato
da un «Imperatore dei Tempi Ultimi» figura del Cristo. Il riflesso del
trauma dello scisma e la speranza del prossimo aprirsi di una nuova era –
connesso senza dubbio a una profonda dimensione escatologica – si
avvertono possenti in questo scritto, noto come Lettera del Prete Gianni,
rappresentazione intensa e vigorosa di un’ideale monarchia sacra
universale.
Il Prete Gianni è rex regum: settantadue re riconoscono il suo supremo
potere. E all’imperatore Federico inteso come «re dei re» si riferiva difatti a
più riprese Rainaldo di Dassel nel 1162, l’anno del concilio di Dole,
parlando dei vari re europei come di reguli provinciarum, «reucci delle
province». La Cristianità era una sola respublica christianorum, uno
l’imperatore, «reucci» gli altri. Il tema del potere supremo dell’imperatore
s’impone con vigore proprio nel 1162, l’anno della caduta di Milano: se ne
fanno portatori uomini come il notaio Burcardo e l’anonimo rimatore detto
«Archipoeta», entrambi non a caso legati all’ambiente di Rainaldo di
Dassel.
Burcardo esalta, in occasione della presa di Milano, la potenza e la gloria
del suo signore. Egli ci parla ripetutamente della politica di Manuele
Comneno nei confronti di Federico: e il modo in cui tratta l’argomento ci fa
comprendere quanto fosse profonda la sua convinzione che all’imperatore
romano-germanico spettasse il dominium mundi. Il bravo notaio si dimostra
ben informato a proposito dei contatti fra il basileus e Geza re d’Ungheria –
che si era avvicinato a papa Alessandro – e delle manovre dell’imperatore
bizantino orientate verso papa Alessandro III. Si andava difatti profilando la
possibilità che il papa si decidesse a proclamare la decadenza al trono e
quindi la deposizione di Federico in quanto scomunicato e che offrisse la
corona imperiale romano-germanica al basileus, il quale non celava
l’ambizione politica neogiustinianea d’un ritorno all’unità dell’impero
romano. A tale scopo, egli disponeva di una formidabile arma per
convincere il papa: l’offerta della composizione dello scisma. Conscio forse
di questi pericoli e comunque del fatto che le pretese di monarchia
universale del basileus facevano ombra a quelle del suo signore, il buon
notaio imperiale andava narrando come Manuele non avesse esitato a
esortare i principi infedeli, i «re di Turchia, di Babilonia (cioè del Cairo) e
della Persia», a unirsi contro il pericolo costituito dallo Svevo. Quanto
potesse esserci di vero in una notizia del genere è difficile valutare: certo la
cancelleria di Costantinopoli manteneva vivi e anche amichevoli i rapporti
con i potentati musulmani, il che in sé era del tutto normale ma poteva
beninteso venir strumentalizzato in Occidente, in un mondo cioè abituato a
veder la questione dei rapporti con l’Islam sotto l’unico plausibile profilo
dello scontro armato: cosa che tutti sapevano per nulla vera nella realtà, dati
i fiorenti commerci esistenti fra cristiani e musulmani, ma che così veniva
immaginata e concepita ad esempio dalla letteratura epica.
È ovvio l’effetto al quale puntava Burcardo: far figurare Federico come
l’unico principe autenticamente cristiano, contro il quale non potevano
congregarsi se non nemici della fede, «pagani» (un termine vago, che
poteva includere anche i musulmani e gli ebrei) o «falsi cristiani» (quindi
cristiani ipocriti oppure veri e propri eretici) che fossero. L’accusa era
ufficialmente rivolta a Manuele e ai saraceni, ma coinvolgeva tutti i nemici
dello Svevo a cominciare da papa Alessandro III e dai comuni italici ribelli.
Ma le intenzioni di Burcardo si spingevano probabilmente ancora oltre.
Se era vero che il nome di Federico faceva tremare tutti i suoi avversari, da
Costantinopoli al Cairo a Baghdad, era anche vero che egli era sicuramente
il dominus mundi, il sovrano chiamato a battere definitivamente i nemici del
Cristo e a instaurare il regno della pace. E di Federico come Princeps Pacis
parlano difatti tutti i suoi seguaci ed esaltatori. Lo stesso carattere
dell’imperatore come concepito al di sopra delle leggi (legibus solutus),
fonte egli stesso di diritto (conditor legis), quasi personificazione vivente
della legge (lex animata in terris) riposa appunto sul presupposto ch’egli sia
signore universale e che nessuno, a parte Dio, possa stargli al di sopra.
Beninteso, in questa rivendicazione del dominium mundi bisogna
distinguere l’affermazione di carattere metastorico dall’effettiva politica di
potere, che tuttavia in quegli anni senza dubbio – e lo si vedeva bene nei
rapporti di Federico con i re di Francia e d’Inghilterra – giungeva
quantomeno alla pretesa di una qualche preminenza sul piano della dignità.
L’espressione reguli provinciarum – già impiegata alla fine dell’XI secolo
da Benzone vescovo d’Alba, autorevole liturgista e acceso polemista
filoimperiale – utilizzata a indicare gli altri re cristiani, tutti sovrani di
«province» dell’impero ma nessuno signore supremo né fonte del diritto, va
intesa in tale senso. Il governo effettivo dell’orbe terracqueo non era
neppure oggetto di discussione: ma era il diritto obiettivo del sovrano
romano-germanico a regnare sul mondo e a legiferare quindi, sia pure nei
limiti del suo potere, come monarca universale, che veniva affermato. Il suo
primato universale consisteva nella sua dignità, nel ruolo di garante di pace
e di giustizia, nel suo ufficio provvidenzialmente disposto. Tale pretesa
investiva anzitutto i confini dell’antico impero romano, estendendosi
concettualmente anche sull’Oriente. Era difatti proprio in una lettera inviata
all’imperatore bizantino che quello romano-germanico poteva intitolarsi
Fridericus, divina favente clementia inclitus, triumphator, a Deo coronatus,
sublimis, in Christo fidelis, magnus, pacificus, gloriosus Caesar […]
semper Augustus.
La tensione tra i due imperatori non va quindi fatta semplicisticamente
derivare dalla politica di Manuele nei confronti di Alessandro III e dei
comuni italici o dalle mire di Federico sul regno di Sicilia e attraverso di
esso sul Mediterraneo. Essa scaturiva dalla coscienza profonda, in entrambi,
d’un ruolo concettualmente universalistico al quale nessuno dei due poteva,
in quanto imperatore «romano», rinunciare. In Federico l’adesione profonda
a tale realtà metastorica non offuscava – come del resto non l’offuscava nel
rivale – la coscienza della realtà politica: ma questa non andava disgiunta
da quella, e nei momenti speciali si ha la sensazione che fosse quella a finir
col prevalere.
Nessuno meglio del rimatore forse italico forse francese della cerchia di
Rainaldo, l’«Archipoeta», ha espresso all’indomani della caduta di Milano
la concezione della regalità sacra federiciana in termini di vera e propria
teologia imperiale. Possiamo coglierla nell’ode Salve mundi domine:
Salve o signore del mondo – o Cesare nostro, ave,
il cui giogo è dolce – per tutti i buoni […]
o principe dei principi della terra, – Federico Cesare,
che nessun saggio dubita – sia stato da Dio
costituito re – sugli altri re… 5
Questa visione cosmica e cristiana del potere imperiale poteva certo
appoggiarsi al diritto romano e alla tradizione romana, ma derivava
direttamente comunque dall’universalismo proprio della concezione
carolingia e ottomana della monarchia sacra. Il re costituito sugli altri re,
presidio del popolo cristiano, conforto dei buoni e terrore dei cattivi, spada
della vendetta di Dio e scudo a protezione del suo popolo, deteneva in tale
contesto decisi tratti apocalittico-escatologici: era il sovrano della fine del
mondo, l’«Imperatore dei Tempi Ultimi» che si sarebbe rivelato sulla terra
prima della venuta dell’Anticristo e dell’estrema battaglia tra i Figli della
Luce e i Figli delle Tenebre.
Lo scontro cosmico si respirava nell’aria del XII secolo. Così era
metastoricamente interpretata, al di là dell’esperienza storica concreta
ch’era fatta anche di scambi culturali, diplomatici e commerciali, la lotta fra
Cristianità e Islam. Allo stesso modo polemisti ecclesiastici e predicatori
catari – e la teologia catara, dualista, era a ciò la più adatta – anticipavano la
contesa fra Chiesa di Dio e Sinagoga di Satana, scambiandosi ovviamente
l’accusa di appartenere alla seconda. Proprio in quegli anni, attorno al 1163,
Ecberto di Schönau dedicava i suoi Sermones contra catharos a Rainaldo di
Dassel.
L’Anticristo era ormai presente, nella Cristianità occidentale dilaniata
dallo scisma. Fino dalla metà del X secolo Adsone, abate di Montier-en-
Der, aveva dedicato a Gerberga regina di Francia e figlia dell’imperatore
Ottone I un Libellus de Antichristo, largamente dipendente da testi
apocalittico-profetici quali la Sibylla Tiburtina e lo Pseudo-Methodius, in
cui si parlava in termini allegorici della lotta definitiva tra Bene e Male e si
evocavano potentemente due figure destinate a diventare mitiche: appunto
l’Anticristo e l’Imperatore dei Tempi Ultimi. Adsone prediceva la fine dei
tempi come prossima a venire allorché tutti i regni della terra si sarebbero
ribellati all’ordine voluto da Dio: allora un rex Francorum, erede
dell’impero romano e restauratore dell’ordine, avrebbe piegato le forze
nemiche e si sarebbe quindi recato pellegrino a Gerusalemme per deporre
corona e scettro sul Monte degli Olivi. Con quel gesto, l’impero romano e
cristiano avrebbe avuto termine: e a quel punto sarebbe comparso
l’Anticristo.
Le aspettative si erano addensate proprio negli anni dello scisma. Gerhoh
di Reichersberg scriveva il suo De Investigatione Antichristi fra 1160-61 e
1163, mentre stava appunto nella società di quel torno di tempo maturando
la convinzione che la causa di Alessandro III fosse quella giusta.
Contemporaneamente, nell’abbazia cistercense bavara di Tegernsee, un
monaco rimasto anonimo componeva un complesso dramma sacro con ogni
evidenza ispirato al testo di Adsone: il Ludus de adventu Antichristi, o, più
semplicemente, Ludus de Antichristo. Anzi, per la verità, si può datare il
Ludus a immediatamente prima del De investigatione proprio grazie a una
testimonianza contenuta in quest’ultimo testo, dove si biasimano con
durezza i chierici che sopportano di veder le loro chiese trasformate in teatri
per la rappresentazione dell’avvento dell’Anticristo.
Il Ludus de Antichristo, dramma a carattere non liturgico, è tuttavia
concepito per venir appunto recitato nel contesto dell’architettura sacra
della Germania del tempo, con le sue cattedrali dalle due grandi absidi,
l’occidentale e l’orientale. La scena s’impernia difatti sui due poli di Roma
– l’abside occidentale, quella dove trovava luogo il trono del sovrano – e di
Gerusalemme – l’abside orientale, dov’era situato l’altare. Il linguaggio è
alto, i riferimenti teologici, liturgici e scritturali di notevole impegno:
insomma, si ha la sensazione di uno spettacolo diretto a un pubblico tanto
colto quanto scelto.
La vicenda si svolge a Gerusalemme, dinanzi a quel che i cristiani
chiamavano il Templum Domini (cioè la Moschea di Umar). I personaggi
sono in parte allegorici – la Paganità, la Chiesa, la Sinagoga, la
Misericordia, la Giustizia, l’Ipocrisia, l’Eresia – in parte «storici», anche se
a loro volta trattati, beninteso, a livello archetipico-simbolico: il Papa,
l’Imperatore, il Re di Babilonia (vale a dire, nell’immaginario occidentale,
il capo dei musulmani), il Re dei Greci, il Re dei Franchi, il Re di
Gerusalemme. L’Imperatore chiede che tutti i Re gli si sottomettano; dopo il
rifiuto del Re dei Franchi, che è costretto però con la forza a deporre la sua
superbia, il Re dei Greci e quello di Gerusalemme accettano di buon grado
la sovranità dell’Imperatore, che salva a questo punto Gerusalemme
dall’attacco del Re di Babilonia ed entra quindi nel Tempio per deporvi
scettro e corona. Quando ne esce, egli è solo Re dei Tedeschi. Giunge allora
l’Anticristo, con il suo corteggio di ipocriti e di eretici. Egli, rivestito delle
insegne regali, s’insedia nel Tempio da dove viene espulsa la Chiesa;
seduce quindi tutti i Re della terra, ma, significativamente, adottando volta
per volta differenti metodi: le minacce per il Re dei Greci, i doni per quello
dei Franchi, i prodigi (cioè i falsi miracoli) per quello dei Tedeschi. Il Re di
Babilonia rinnega i suoi idoli per adorarlo. La Sinagoga riconosce in lui il
Messia. Ma l’ingresso sulla scena e il martirio dei profeti Elia ed Enoch
segna l’avvio della scena finale: l’Anticristo viene rovesciato dalla Parola di
Dio.
È difficile non riconoscere in questo testo, in trasparenza, tutti i grandi
temi della politica del tempo: l’aspirazione dell’imperatore romano-
germanico al dominium mundi, il conflitto con il re di Francia che non
intende riconoscerne la superiorità, la preoccupazione per lo scisma e il
dilagare dell’eresia, l’idea di crociata. Particolarmente significativo il
discorso diretto dall’Imperatore al Re dei Franchi, nel quale si ribadisce un
concetto che sappiamo caro a Federico, quello della translatio imperii:
Come ci narrano gli scritti degli storici, tutto il mondo fu un tempo in possesso dei
romani. Ne eresse la potenza il valore degli antichi, la distrusse l’ignavia dei loro
posteri; sotto costoro svanì quel potere imperiale, che ora compete alla maestà della
nostra potenza. 6
I sudditi fedeli, man mano che si piegano alla volontà dell’Imperatore,
cantano:
Noi veneriamo l’onore del nome del sovrano e ci gloriamo di servire Cesare
Augusto: del cui impero è temibile la forza e degni di venerazione l’onore e la gloria. 7
Propositi e minacce di punizione e di vendetta, dichiarazioni di
magnanimità e di giustizia: l’Imperatore del Ludus de Antichristo somiglia
in tutto a Federico. Non vogliamo con ciò affermare che questi sia servito
da ispiratore del tipo psicologico rappresentato, no di certo: l’autore ha
semmai riflettuto profondamente sul ruolo dell’impero nel suo tempo e si è
quindi espresso tenendo presente un modello che non poteva non essere lo
Svevo.
Mentre Federico cercava d’imporre il suo pontefice e si illudeva di avere
spezzato definitivamente la resistenza lombarda, una vorticosa propaganda
– in gran parte concepita e gestita dal suo cancelliere – lo proiettava
pertanto al centro di un progetto teologico-politico dal quale egli veniva
esaltato: con lui, la funzione imperiale tornava a rivestire i colori sacrali che
aveva assunto nell’impero romano e romano-cristiano. Già con Carlomagno
e con Ottone I ci si era avviati in questa direzione: tuttavia con Federico
essa veniva recuperata a un più alto livello, grazie alla convergenza della
sacralità imperiale cristiana con il risorto diritto romano che è tipica della
sua esperienza.
Abbiamo visto come, nell’autunno del 1164, l’imperatore fosse tornato
in Germania. Egli non intendeva abbandonare le faccende italiche, ma era
profondamente irritato con Rainaldo che lo aveva messo di fronte al fatto
compiuto imponendo in realtà anche a lui – e a lui prima che agli altri – la
prosecuzione dello scisma con la nomina pontificia di Pasquale III. Certo,
sappiamo che Federico non lo aveva sconfessato: al contrario, aveva con
vigore fatta propria quella scelta, anche e forse soprattutto perché non gli
piaceva – e lo abbiamo già rilevato – che lo si dicesse nelle mani del suo
potente consigliere, come in effetti correva invece voce ch’egli fosse. Fu
forse anche per questo che egli privò Rainaldo della carica di cancelliere
dell’impero per aggiudicarla al prevosto di Merseburgo Cristiano di Buch,
del quale erano noti i legami con l’entourage degli avversari del
potentissimo arcivescovo di Colonia. Il quale tuttavia restava, in quanto
appunto ordinario della città renana ora ulteriormente nobilitata dalla sua
nuova funzione di custode delle reliquie dei Re Magi, arcicancelliere del
regno d’Italia.
Verso la fine dell’anno Federico spediva nella penisola il nuovo
cancelliere imperiale Cristiano insieme con papa Pasquale III, che avrebbe
voluto insediare a Roma. Con milizie tedesche e toscane il prelato cercò di
adempiere al suo compito, ma invano: le adesioni al papa imperiale erano
poche e il più delle volte estorte con gravi intimidazioni. La situazione
italocentrale si faceva sempre più precaria per la casa sveva: e si sapeva con
certezza che Alessandro III, dal suo comodo rifugio francese, spiava il
momento adatto per rientrare nella città della quale era vescovo. Egli aveva
difatti nell’aprile abbandonato Sens, che per due anni era stata la sua sede,
per tornare nella penisola. A quel punto, poteva ben esser ancora pieno di
timori e preoccupazioni: ma il suo duello con la Chiesa d’obbedienza
imperiale si poteva dir vinto con la morte di Vittore IV. Difatti, molti prelati
che si erano dichiarati per quest’ultimo non avevano poi avuto la volontà o
il coraggio di continuare su quella strada: e ciò, nonostante le pressioni del
sovrano e del suo instancabile cancelliere. Tutto l’alto clero della Borgogna
aveva disertato la causa di Pasquale III. Corrado di Babenberg vescovo di
Passau, che pure era stato favorevole a Vittore, passò ad Alessandro non
appena diventato arcivescovo di Salisburgo come successore di Eberardo.
Corrado arcivescovo di Magonza, che pure apparteneva alla grande
famiglia dei Wittelsbach così fedele a Federico ed era anzi fratello del conte
palatino Ottone, aveva approfittato di un pellegrinaggio verso Santiago de
Compostela per render visita, passando per la Francia, ad Alessandro. Pian
piano anche gli arcivescovi Hillin di Treviri e Wichmann di Magdeburgo si
erano andati staccando dalla causa ecclesiastica dell’imperatore.
A questo plebiscito Federico non aveva molto da opporre: e ancora una
volta c’è da domandarsi se veramente fosse lui a imporre una politica
ecclesiastica che si stava rivelando perdente o se – nonostante la relativa
disgrazia in cui era caduto – fosse ancora Rainaldo a trascinarlo su quella
strada. In mancanza di migliori risorse, non gli restava che puntare sugli
imprevisti e sulle contraddizioni che venivano a emergere nel campo
avverso. E in quel momento il più pesante era quello scoppiato fra papa
Alessandro ed Enrico d’Inghilterra. Lo stretto rapporto d’amicizia tra
Alessandro e Luigi VII – il cui fratello, Enrico arcivescovo di Reims, era
legato pontificio in Francia – non era in sé certo il più adatto per conciliare
al pontefice le simpatie del Plantageneto: che, nel gennaio 1164, aveva
tentato nelle Assise di Clarendon di sottoporre al controllo regio sia le
elezioni dei prelati nel suo regno, sia il regime degli appelli alla curia
papale. Il primate del regno d’Inghilterra, quel Tommaso Becket che prima
di diventare arcivescovo di Canterbury era stato amico e cancelliere di
Enrico, si oppose alle risoluzioni di Clarendon e dovette fuggire dal regno:
riparò in Francia, dove fu amorevolmente accolto da Alessandro III e da
Luigi VII.
La vicenda di Tommaso Becket faceva sì che l’imperatore Federico e il
re Enrico si trovassero obiettivamente, ora, dalla stessa parte contro
Alessandro. Del resto, la loro politica di controllo della Chiesa nei rispettivi
paesi – una politica il cui grande modello restava quello siculo-normanno –
era comune, e i buoni rapporti fra corte tedesca e corte inglese datavano da
parecchio tempo. Enrico II, beninteso, non passò armi e bagagli al papa
imperiale per vendicarsi dell’appoggio che Alessandro dava all’esule
arcivescovo di Canterbury: scelse tuttavia la strada del ricatto, facendo
sapere che avrebbe ben potuto farlo.
Nell’aprile 1165 il re d’Inghilterra s’incontrò a Rouen con Rainaldo di
Dassel, al quale l’imperatore continuava ad assegnare importanti incarichi:
fu stipulato in quella sede un accordo in forza del quale Enrico s’impegnava
a riconoscere Pasquale III e a concedere sua figlia Matilde in sposa a Enrico
il Leone (tali nozze furono in effetti celebrate nel 1168). Gli esiti
dell’incontro di Rouen furono trionfalmente presentati da Rainaldo, nel
maggio successivo, alla dieta di Würzburg, dinanzi a quasi tutti i principi
laici della Germania e a parecchie decine di vescovi.
La regia di quell’assise era stata accuratamente studiata: anzitutto furono
ascoltati gli ambasciatori di Enrico II, che recarono alla causa di Pasquale
III l’appoggio dell’Inghilterra; quindi l’imperatore in persona giurò che non
avrebbe mai riconosciuto come papa né Rolando Bandinelli né alcuno dei
suoi successori, e tutti i presenti furono invitati a prestare analogo
giuramento. Con ciò Federico rinunciava chiaramente a recedere, nella
questione dello scisma, dalla linea dura proposta da Rainaldo. Resta però il
dubbio non infondato che quest’ultimo abbia in realtà preso in contropiede
l’intera assemblea, e l’imperatore prima degli altri. La trionfale e irruenta
proclamazione della scelta di campo del re d’Inghilterra ha l’aria di uno
stratagemma messo in atto dall’arcivescovo di Colonia per recuperare il
terreno politico perduto e costringere ancora il sovrano, almeno per quanto
riguardava la politica ecclesiastica, a adottare le tesi da lui proposte.
Siamo informati su quel che avvenne durante i lavori di Würzburg grazie
a due fonti diverse: il resoconto ufficiale redatto dalla cancelleria imperiale
e una relazione inviata invece segretamente ad Alessandro III. Secondo la
prima, tutti i presenti si allinearono alla volontà dell’imperatore. A detta
della seconda, invece, nonostante il clima intimidatorio che regnava
nell’assemblea si verificarono parecchi incidenti. Seguiamo questa seconda
fonte, che è senza dubbio di parte anch’essa ma che nella fattispecie
parrebbe più affidabile: sembra, stando a essa, che solo cinque vescovi
giurassero senza riserve; gli altri o rifiutarono il giuramento o lo
pronunziarono con restrizioni varie. Molte voci, poi, si levarono contro
Rainaldo, che oltretutto era in una delicatissima posizione: della «sua»
Colonia era soltanto arcivescovo eletto, non ancora però consacrato. Anzi,
non era ancora neppur acceduto al sacerdozio: era soltanto diacono. Alla
cosa si rimediò, è vero, rapidissimamente: il 29 maggio egli venne ordinato
sacerdote e il 2 ottobre riceveva la consacrazione episcopale.
A Würzburg e nei mesi immediatamente seguenti, Federico dimostrò di
aver esaurito tutte le sue scorte di pazienza relative alla questione
ecclesiastica. Era certo irritato con Rainaldo che lo aveva spinto su quella
strada irta di ostacoli e di pericoli; ma forse anche con se stesso, per essersi
lasciato imbottigliare dal suo astuto ed energico consigliere. Proprio per
evitare che risultasse evidente a tutti che Rainaldo l’aveva in un certo senso
di nuovo plagiato, l’imperatore aveva deciso di affrontare la situazione con
estrema energia: almeno per il momento. I cistercensi, che appoggiavano
Alessandro III, furono espulsi dalla Germania. Quanto ai vescovi che, pur
non mettendo in discussione la loro fedeltà all’imperatore, non se la
sentivano di rinnegare il papa romano, essi furono spietatamente
perseguitati: tale sorte toccò a Ulrico vescovo di Halberstadt, a Corrado
arcivescovo di Magonza – un Wittelsbach! – che fu sostituito da Cristiano
di Buch e perfino a Corrado di Babenberg arcivescovo di Salisburgo, che in
quanto fratello dello Jasomirgott era addirittura zio dell’imperatore. Il
Babenberg fu invitato a comparire a una dieta fissata a Norimberga per il
febbraio 1166: dal momento che in quella sede si guardò bene dal
presentarsi, l’imperatore gli rifiutò di rimando l’investitura dei regalia; più
tardi, lo avrebbe addirittura costretto a fuggire dalla sua diocesi. Ormai
Federico aveva posto da parte ogni reticenza e mostrava – sperando forse
che un suo atteggiamento intransigente avrebbe intimidito i dubbiosi – di
voler esercitare sulla Chiesa tedesca un controllo assoluto. Non deponeva
intanto la speranza di guadagnarsi se non altro la neutralità di Luigi VII,
con il quale s’incontrò per discutere il problema costituito dai mercenari del
Brabante che si erano resi responsabili di varie violenze.
Ma non era facile spuntarla con Alessandro. Questi nell’agosto
s’imbarcò a Maguelonne diretto in Italia e – dopo una fortunosa traversata
sotto la minaccia dei pisani e delle tempeste – sbarcò a Messina da dove,
sotto la protezione di re Guglielmo, raggiunse Roma per trionfalmente
insediarsi il 23 novembre in Laterano. Era stanco e pieno di debiti: tuttavia,
quel rientro era per lui una vittoria. Da Viterbo, Pasquale III cominciava a
disperare e inviava al suo signore accorate invocazioni di soccorso.
Federico, però, aveva al momento altri e più straordinari obiettivi. Ormai
sceso in primissima persona nella lotta che coinvolgeva la Chiesa, egli
intendeva giocare fino in fondo la carta ideologico-propagandistica della
regalità sacra. Per questo procedette a un’iniziativa sconvolgente: il giorno
di Natale 1165 fece annunziare dal suo papa la canonizzazione di
Carlomagno, cioè la sua proclamazione a santo; e il 29 successivo, festa
liturgica del re, profeta e salmista David, assisté alla solenne cerimonia di
canonizzazione nella Cappella Palatina d’Aquisgrana. Due i motivi che
avevano ispirato una decisione che non provocava del resto stupore, dati la
popolarità del grande imperatore franco e del suo seguito, i «paladini», a
livello epico e l’ossequio del quale la sua memoria era circondata anche
nella Chiesa. Le leggende epiche carolinge avevano avuto da poco, attorno
al 1140, uno sviluppo colto e semiagiografico a opera di un chierico
originario, pare, del Sudovest della Francia, il quale aveva composto una
Historia Karoli Magni meglio conosciuta come la «Cronaca dello Pseudo-
Turpino». In essa lo sviluppo della leggenda di Carlomagno giungeva ai
limiti della venerazione agiografica.
Federico santificava, con il suo fondatore, l’idea stessa dell’impero
romano-germanico; e intendeva al tempo stesso porre la Germania
imperiale a un livello di concorrenza rispetto a Francia e Inghilterra, che già
possedevano i loro sacrari regi. In particolare si rivendicava la germanicità
di Carlomagno, del quale – anche con la complicità delle chansons de geste
– si era appropriata la dinastia capetingia. Nella splendida chiesa abbaziale
di Saint-Denis, edificata dall’abate cluniacense Sugero che vi aveva profuso
tesori tali da trasformarla in uno splendido e ricchissimo reliquiario, si
conservavano lo stendardo di Carlomagno – l’«Orifiamma» –, nonché la
sua spada e la sua lancia. Il tessuto strettissimo di reliquie e di leggende
epiche del quale la dinastia capetingia avvolgeva il sovrano franco avrebbe
potuto condurre addirittura a una rivendicazione della dignità imperiale da
parte dei sovrani francesi. Non mancava neppure, per questo, l’abituale
corredo dei miti imperiali: le profezie a carattere escatologico. Si diceva che
alla vigilia della partenza per la seconda crociata Luigi VII avesse
misteriosamente ricevuto dal cielo una lettera nella quale gli si
profetizzavano straordinarie future conquiste: avrebbe mutato in seguito a
ciò l’iniziale del suo nome in «C», si sarebbe trasformato cioè in un nuovo
Costantino, l’Imperatore dei Tempi Ultimi.
Ma costituiva, la canonizzazione di Carlomagno, solo la risposta
germanica al re di Francia? Con molta probabilità, no: in qualche modo,
essa replicava anche alle pretese ecumeniche del basileus. Nelle cognizioni
storiche – e, ancor più, nella memoria epica del tempo – Carlomagno aveva
saputo rintuzzare le pretese bizantine e aveva cavalcato trionfalmente fino a
Costantinopoli e a Gerusalemme. Ed era una risposta anche alla politica
pontificia delle canonizzazioni dei re: si erano avute da poco quelle di
Edoardo il Confessore re d’Inghilterra e di Canuto re di Danimarca, con le
quali Alessandro III aveva inteso per un verso onorare, per un altro
ammonire quei due regni. Il pontefice romano stava perseguendo una
politica – nuova per quei tempi – intesa ad avocare al solo papa la
prerogativa della canonizzazione: fino ad allora, erano semmai i prelati
metropolitani di ciascuna provincia ecclesiastica a elevare agli altari chi
fosse oggetto di un culto locale. Anche su questo piano, il sovrano
germanico si rendeva conto che egli e il suo papa non potevano essere da
meno.
Il programma federiciano volto a configurare un campo sacrale
dell’impero si riflette nell’interesse, che Federico aveva più volte mostrato,
anche per certe reliquie o certi culti: per sant’Enrico per esempio, cioè
l’imperatore sassone Enrico II; o per san Sigismondo, il cui culto era legato
alla Borgogna. Federico era inoltre devoto all’apostolo Giacomo, uno dei
santi più venerati della Cristianità del tempo e nel nome del quale
s’intraprendeva il pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Il culto
giacobita non era a sua volta privo di rapporti con Carlomagno: le chansons
de geste erano nate sul camino de Santiago, attorno al passo di Roncisvalle,
teatro del martirio leggendario del paladino Rolando, e reliquie
dell’apostolo si conservavano in Aquisgrana presso il sepolcro
dell’imperatore Carlo.
La canonizzazione di Carlomagno era del resto in un certo senso il
logico esito di una politica e, più ancora, di tutto un modo d’intendere il
potere sovrano. Da tempo la cancelleria imperiale, emulando il modello
bizantino, usava nei documenti ufficiali un’aggettivazione che sottolineava
il carattere sacro del potere romano-germanico: l’impero era definito
sacratissimum imperium, le prerogative coercitive sovrane dette sacra
iussio, tutto quel che si riferiva alla corte illustrato da aggettivi come
augustalis. Si andava così configurando, di fronte a un papato deciso a
riprendere il cammino ierocratico tracciato dal Dictatus Papae, un impero
dotato di una sua autonoma sacralità, a capo del quale si ergeva una sacra
persona consacrata, partecipe dei carismi della Chiesa, chiamata a tutelare
la Cristianità contro eretici e infedeli.
La cerimonia della canonizzazione di Carlomagno ci è stata tramandata
in un documento imperiale del gennaio 1166, che la descrive. Il 29
dicembre, festa del re David, l’imperatore in persona presenziò al rito, nella
Cappella Palatina di Aquisgrana; officiavano l’ordinario diocesano
Alessandro vescovo di Liegi e il metropolita della provincia nella quale la
diocesi era compresa, Rainaldo arcivescovo di Colonia. Le reliquie
dell’imperatore Carlo furono prima solennemente trasferite dal sarcofago
dove avevano fino ad allora riposato a un reliquiario posto al centro della
cappella ottagonale. Si procedette quindi alla canonizzazione vera e propria,
vale a dire alla proclamazione della santità di Carlo. Una fonte tarda parla
di una bolla pontificia di Pasquale III, che sarebbe stata letta a quel punto:
ma non è certo che ciò sia avvenuto. Immediatamente dopo la
canonizzazione fu redatto un testo agiografico, la Vita Sancti Karoli, nel
quale di Federico si dice che «come un altro Carlomagno, egli illumina il
mondo».
Papa Alessandro evitò accuratamente di prender posizione contro questo
nuovo culto, che si sarebbe difatti apprezzabilmente diffuso nei paesi
d’impero e tracce del quale, a livello di culto locale, permangono anche ai
giorni nostri. Attorno a esso si andò organizzando tutto un complesso
simbolico architettonico-liturgico teso a fare di Aquisgrana e delle
cratofanie imperiali che vi si celebravano il centro sacrale dell’Occidente
cristiano. La forma ottagonale della Cappella Palatina si ispira, è vero, a
celebri modelli quali San Vitale di Ravenna e riprende i caratteri
simbologici dell’architettura dei battisteri, ma soprattutto si riallaccia al
tema dell’ottagono e della sacralità del numero otto, caro all’esegesi
patristica delle Scritture e collegato alla filosofia pitagorica. Simbolo della
resurrezione del Cristo e dell’affermazione del regno di Dio dopo la fine dei
tempi in quanto numero dell’«ottavo giorno», quello successivo ai sette
della creazione, l’otto è usato talora anche nell’iconografia della
Gerusalemme celeste, raffigurata di forma ottagonale in quanto con tale
figura «mediana» s’intendeva sintetizzare il quadrato (la perfezione umana,
finita) e il cerchio (la perfezione divina, infinita). L’ottagono veniva quindi
a proporsi come simbolo geometrico della compresenza nel Cristo della
duplice natura, l’umana e la divina.
San Gregorio di Nissa, nel IV secolo, ricorda che ogni fondazione di
chiesa equivale alla creazione di un nuovo cosmo e descrive quella di un
santuario da lui effettuata come l’esecuzione di una pianta architettonica
ottenuta unendo tutti i punti nei quali il disegno di una croce inscritta in un
cerchio incontra la circonferenza: il risultato è appunto un ottagono. Come
la Cappella Palatina, anche la corona imperiale di Ottone I ora conservata
nella Schatzkammer di Vienna è di forma ottagonale: composta di otto
placche d’argento dorato, essa è sormontata da un arco metallico che unisce
la sommità della piastra posteriore, quella che sovrasta la nuca del sovrano,
alla croce frontale che si erge sulla piastra anteriore. Quell’arco è un
«ponte» che allude alla funzione dell’imperatore quale mediatore fra Dio e
il suo popolo.
Anche la corona imperiale simboleggia, come la Cappella Palatina, la
Gerusalemme celeste: e importante a qualificar la funzione imperiale
concepita come quella di Rex et Sacerdos secondo il modello di Melqisedeq
è appunto la piastra frontale, un po’ più alta delle altre sette e adorna – al
pari del pettorale indossato dal Gran Sacerdote d’Israele – di dodici pietre
preziose, tante quante le tribù del Popolo Eletto (e tante quante gli apostoli).
Anche queste pietre preziose alludono alla Gerusalemme celeste che,
secondo l’Apocalisse, è fondata appunto su gemme. Ma tali gemme ne
circondano una più grande e preziosa, che per il suo splendore è detta der
Waise («l’Orfana», vale a dire «l’Unica», «la Senza Pari»), la quale rinvia al
Cristo come Pietra Angolare e ha forse influenzato la stessa letteratura
tedesca medievale: è difatti, a quel che sembra, identificabile con la pietra
donata dinanzi alle mura del Paradiso Terrestre ad Alessandro nel poema
Alexanderlied del prete Lamprecht, scritto verso la metà del XII secolo, e
addirittura con la pietra del Graal secondo il racconto del Parzival di
Wolfram von Eschenbach. Simbolo cristologico, pegno celeste sceso dal
cielo, essa sembra simboleggiare l’imperatore stesso quale fonte di diritto.
Tale quadro simbolico doveva esser presente a Federico se questi, proprio
poco dopo la cerimonia di canonizzazione di Carlomagno, cioè fra 1165 e
1170, dotò la Cappella Palatina di un grande lampadario di rame costituito
di otto segmenti curvilinei in forma di muraglia, vera e propria
Gerusalemme celeste (sintesi di cerchio e di ottagono), destinato a
illuminare col suo fulgore, nei giorni di festa, la volta dell’edificio sacro.
Non si può ricostruire in dettaglio tutto il sistema di segni del potere
utilizzato da Federico: bisognerebbe sapere particolari che non si conoscono
sulle cerimonie e sulla vita di corte, e avere un’idea precisa degli oggetti
usati, conoscerne forme e caratteristiche, sapere con certezza se essi furono
da lui commissionati direttamente o solo ereditati. Certo, fondamentale era
la corona, «sinonimo di monarchia, metafora del re, simbolo e sede del
potere regale»; 8 ma della massima importanza erano altresì il globo d’oro
sormontato dalla croce ed entrato nell’uso a quanto pare nell’XI secolo, lo
scettro, la spada, la cosiddetta «Sacra Lancia» che si diceva contenesse un
chiodo della croce del Cristo, i paramenti solenni, il trono.
Il 1165 segna l’acme della tensione ideologico-propagandistica «sacrale»
di Federico I: ma altresì, col ritorno di Alessandro III a Roma, l’inizio di un
periodo di gravi difficoltà. La decisione della dieta di Würzburg, con
l’obbligo del giuramento di fedeltà a Pasquale III, aveva fatto trapelare
contraddizioni, reticenze e ambiguità che sarebbe stato forse politicamente
saggio mantenere tali: e ormai quel che prima era accennato o sottinteso
stava drammaticamente affiorando, sospinto dalla forza stessa delle cose. Il
malumore diffuso nell’impero contro il sovrano e il suo cancelliere si
sommava drammaticamente ai rumori di guerra civile che ormai
percorrevano la Germania. Gli sforzi che il cugino dell’imperatore, Enrico
il Leone, stava facendo in Sassonia per imporre la pace territoriale e
costituire un ducato dotato di un governo efficiente e di un’ordinata e
accentrata amministrazione urtavano fatalmente contro gli interessi, le
particolari libertates, le antiche prerogative di signori e città. Lo stesso
Rainaldo di Dassel era avversario del possente duca della casa dei Guelfi,
che in Sassonia si comportava ormai come un re: non è un caso che lo
splendido leone di bronzo conservato nella città di Braunschweig,
capolavoro della scultura romanica, sia stato fuso a quel che sembra proprio
nel 1166. Esso vigila ancora la cattedrale in cui riposano le spoglie del
duca. Ma una forte coalizione si andava delineando contro Enrico: vi
partecipavano Corrado conte palatino del Reno, Federico duca di Svevia,
Ladislao II duca di Boemia. Peraltro, ancor più grave – per quanto meno
sicura – fu la notizia, che si diffuse all’inizio del 1166, di una congiura
contro lo stesso imperatore ordita da personaggi quali gli arcivescovi di
Treviri, di Magdeburgo e di Salisburgo, il duca di Svevia stesso, i duchi
Guelfo VI e Bertoldo di Zähringen.
Ubi rex, ibi regnum. Federico si sposta di continuo. Presiede diete,
amministra la giustizia, compone liti. Vuol far presto perché sa di dovere
scendere di nuovo in Italia. Lì, fra marzo e aprile, Alessandro III ha scelto
con cura il nuovo arcivescovo per una città che non esiste più, Milano, nella
persona di un prelato a lui fedelissimo, Galdino. Alla fine del maggio
Guglielmo I di Sicilia è morto e gli è regolarmente succeduto il figlio
Guglielmo II, con cui il basileus Manuele sta entrando in contatto per
un’intesa mediatore della quale è Alessandro III. L’imperatore bizantino ha
approfittato di questa circostanza per precisare la sua politica italica: ha
ormai fissato una stabile e solida testa di ponte medioadriatica in Ancona e
ora offre sua figlia in sposa al re di Sicilia. Federico invia presso il basileus
una legazione composta da Enrico di Babenberg – sposo come sappiamo di
una principessa greca – e da Ottone di Wittelsbach, con la proposta di
disimpegnarsi da parte sua delle faccende ungheresi (altro terreno di
contesa tra i due imperi) in cambio del disinteresse bizantino per la penisola
italica. Ma non sembra che la missione abbia buon esito. E sempre più netto
si profila il pericolo che Manuele non solo appoggi le città
italosettentrionali ribelli, non solo si allei con Guglielmo di Sicilia, ma
addirittura proponga al papa di riconoscerlo come unico imperatore
cristiano. Bisogna far presto. Bisogna reimporre l’autorità imperiale in
Lombardia, eliminare l’infiltrazione bizantina sul litorale adriatico, cacciare
Alessandro dal Laterano.
A metà ottobre, Federico parte da Augusta. Enrico il Leone non può
accompagnarlo, impegnato in una guerra civile in Sassonia contro una
coalizione il cui più illustre rappresentante è Alberto l’Orso: l’imperatore
non ha potuto impedire l’insorgere di questa ennesima contesa. Lo Svevo
attraversa le Alpi a marce forzate, passando per la Val Camonica in modo
da evitare le Chiuse dell’Adige ben sorvegliate dalla ribelle e troppo ben
munita Verona. Alla fine di ottobre è a Trento. A novembre, stabilisce per
qualche giorno la sua residenza in Lodi.
XII
«A lancia e spada il Barbarossa in campo»
Non si sa con precisione quando abbiano cominciato a chiamarlo
Barbarossa. L’epiteto Rubeus, nei suoi confronti, pare lo si sia usato già
abbastanza presto, ed era del resto non raro per i capi e i re medievali: Erik,
il capo vichingo che nel 985 raggiunse la Groenlandia, era detto «il Rosso»;
e Rufus era l’epiteto di Guglielmo II re d’Inghilterra, figlio di Guglielmo il
Conquistatore. S’è già detto che un topos diffuso sentenziava che si dovesse
diffidare della gente «di pelo rosso»: e proprio ai tempi di Federico il più
grande cronista della Terrasanta crociata, Guglielmo arcivescovo di Tiro,
ripete – a proposito di Folco d’Angiò re di Gerusalemme – che gli uomini
rossi sono in genere malfidi.
Con sicurezza, l’epiteto «Barbarossa» non sembra essere stato usato
prima del Duecento: ma risaliva al secolo precedente ed era logicamente
d’origine italica, anzi lombardo-padana. Viene spontaneo il confronto con
l’epiteto «Barbavaria», appiccicato dai piacentini ad Arnoldo di Dorstadt.
Ma soprannomi come Barbarubra o Enobarbus non sono «neutri», e
nemmeno semplicemente ironici o sarcastici. Essi possono implicare una
dura condanna: «Barba-di-Rame» era Nerone, il typus del rex iniustus, il
tiranno per eccellenza, il nemico dei cristiani. E può darsi che, scendendo in
Italia nell’autunno del 1166, per i milanesi, i piacentini, i veronesi e gli altri
Federico fosse già il Barbarossa. Non si rischia l’anacronismo chiamandolo,
d’ora in poi, anche noi così.
Sappiamo che in novembre era a Lodi, la diletta Lodi, la sua creatura.
Gli furono presentati con insistenza i reclami e le lamentele delle città
soggette al dominio – talora duro, più spesso rapace e venale – dei suoi
potestates. 1 Ma egli aveva fretta ed era insofferente di opposizioni: era
venuto in Italia per insediare Pasquale III a Roma, eliminare il pericolo di
una testa di ponte bizantina in Ancona dove Manuele aveva piazzato una
guarnigione e procedere alla da troppo tempo vagheggiata campagna di
Sicilia: ascoltò appena le rimostranze dei comuni lombardi senza conceder
loro speciale soddisfazione. L’unica cosa che realizzò con chiarezza fu che
ormai la maggior parte dei comuni erano o suoi nemici o infidi alleati: e
decise di comportarsi di conseguenza. Un po’ più condiscendente fu con
Genova e Pisa, di nuovo in guerra fra loro e presso le quali aveva spedito
rispettivamente Rainaldo e Cristiano: ma non riuscì ad accordarle,
contrariamente a quel che avrebbe sperato per poter finalmente avviare
l’avventura contro la Sicilia normanna.
I suoi obiettivi erano almeno due. A tale scopo divise in tre parti le sue
truppe: un contingente avrebbe puntato al suo diretto comando su Ancona
attraverso l’Emilia e la Romagna; le altre due colonne, agli ordini
rispettivamente di Rainaldo e di Cristiano, avrebbero dovuto puntare su
Roma, cacciare Alessandro e insediarvi Pasquale. Arrivato a Bologna nel
febbraio del 1167 dopo aver indugiato – comportandosi più da
conquistatore che da sovrano – nel territorio bresciano e bergamasco,
Federico le impose di consegnare degli ostaggi a garanzia del suo leale
comportamento; da lì, attraverso la Romagna, guadagnò Ancona sotto le
mura della quale veniva a trovarsi nel maggio. L’assedio durò tre settimane
e si chiuse secondo alcuni con la resa della città, secondo altri con un
compromesso.
Più brillanti i successi ottenuti da Rainaldo, che puntava decisamente su
Roma; e da Cristiano, che lo seguiva con truppe tosco-lombarde, con i
mercenari brabanzoni e con gli esuli siculo-normanni che, come i conti
Roberto di Bassavilla e Andrea di Rupecanina, speravano di rientrare in
patria al seguito dello Svevo. Presso Roma, a Monteporzio, si ebbe il 29
maggio uno scontro memorabile fra gli imperiali e i romani ch’erano usciti
dalla loro città per piegare Tuscolo, fedele a Pasquale. Fu una straordinaria
vittoria imperiale: tanto più che la sproporzione delle forze era a quanto
pare almeno di 10 a 1 a vantaggio dei romani. Mentre questi ultimi –
retoricamente invocando la memoria di Hannibal ante portas – si
rinchiudevano nelle loro mura attendendo l’assalto, Federico,
tempestivamente avvertito della vittoria, invertiva la marcia alla volta della
Puglia che aveva intrapreso all’indomani di Ancona e si precipitava
sull’Urbe.
Intanto, però, erano accadute molte altre cose. Appena l’imperatore
aveva abbandonato la Lombardia, una rivolta era scoppiata. Le città
angariate dai suoi potestates erano stanche di lui, delle sue esazioni, del
passaggio delle sue milizie: e se alcune di esse lo avevano dapprima accolto
con gioia – sia per il prestigio e la venerazione dovuta a quello che allora si
definiva il nomen imperii, sia perché ciascuna di esse sperava di potersi
servire di lui per liberarsi della forza e della concorrenza delle città vicine –,
ora tutte si rendevano concordi conto del fatto che la loro vecchia inimicizia
reciproca era tutto sommato più comoda e vantaggiosa che non l’«amicizia»
del sovrano. Perfino quella che, insieme con Lodi e Pavia, era la prediletta –
quella Cremona che Federico aveva colmato di favori e di privilegi – ora
insorgeva contro di lui. E proprio con centro in Cremona prendeva corpo
una lega nella quale, con un giuramento prestato l’8 marzo, convenivano
anche Mantova, Bergamo, Brescia. Le quattro città, liberatesi dei rettori
imperiali e tornate al loro tradizionale regime consolare, giuravano di
difendersi a vicenda, di risarcirsi reciprocamente i danni che si erano inferte
negli ultimi dieci anni, di combattere insieme contro i nemici comuni, di
difendere e tutelare tutti quei diritti che avevano acquisito dal tempo di
Corrado III a un secolo prima. Tale patto sarebbe stato valido un
cinquantennio. Anche Milano veniva chiamata a siglarlo.
Due i precedenti di questa lega, che in quanto tale rientrava fra le
associazioni vietate a Roncaglia: da una parte il comune giuramento di
milanesi, piacentini e bresciani nel 1159, durante l’assedio di Crema, di non
far pace con Federico senza il consenso di papa Adriano; dall’altra,
naturalmente, la Lega veronese del 1164. Nulla v’era nel patto che sonasse
ribellione contro l’impero: il riferimento al regno di Corrado, però, stava a
indicare una precisa reazione alle novitates introdotte da Federico che non
avevano corrispettivo in alcuna pretesa dei precedenti imperatori. I collegati
non negavano fidelitas al sovrano, anzi sottoponevano il loro accordo alla
pregiudiziale salva fidelitate domino imperatori: ma si rifiutavano di
fornirgli prestazioni che non fossero spettate all’impero al tempo di Enrico
V, di Lotario e di Corrado III.
Secondo la tradizione, l’impegno delle città lombarde fu solennemente
sancito in un incontro dei rispettivi loro rappresentanti il 7 aprile, nel
monastero di Pontida, fra Bergamo e Lecco. L’episodio è probabilmente
leggendario: o meglio, è tardiva leggenda che il convegno sia avvenuto
proprio in quel luogo. Sembra che in quella circostanza deliberasse tra
l’altro di ricostruire – in pegno di rinnovata concordia – le mura di Milano,
distrutte nel 1162 per ordine certo dell’imperatore, ma con l’entusiasta
manodopera fornita da molte città vicine. La ricostruzione delle
fortificazioni milanesi era quindi un atto simbolico di ritrovata concordia:
ma non poteva sfuggire a nessuno ch’era anche, al tempo stesso, una sfida
lanciata a Federico.
Il 27 aprile dello stesso mese i milanesi rientravano – e ce li possiamo
immaginare a vessilli spiegati, come li ritraggono i bassorilievi di Porta
Romana – nella loro città risorta a onta della volontà del sovrano. Poco
prima, la Lega aveva ricevuto nuove adesioni. Quella di Lodi fu per la
verità, più che offerta, estorta. Se i cremonesi – ora che Crema era distrutta
– ritenevano di poter tranquillamente far pace con una Milano che peraltro
sembrava allora lontana dal recuperare il suo vecchio ruolo egemonico, i
lodigiani non intendevano dimenticare troppo presto il debito di gratitudine
che li legava a Federico. D’altro canto, Lodi avrebbe potuto interrompere le
comunicazioni fra Milano da una parte, Cremona e Piacenza dall’altra: per
questo i collegati la volevano dalla loro. E, un po’ intimoriti e ricattati, un
po’ allettati da varie promesse, i lodigiani – sempre salva fidelitate
imperatori – giurarono. Giurò anche Piacenza, che approfittò per chiedere
alla lega un risarcimento dei danni subiti per colpa dell’esercito imperiale
nel suo territorio. E giurò più tardi Parma, che in quanto avversaria di
Piacenza temeva di restare isolata ora che la rivale aveva aderito alla Lega.
Il rappresentante imperiale in Lombardia, Enrico di Dietz, non poté far
nulla per impedire quegli avvenimenti: non aveva forze sufficienti. Dal
canto suo l’imperatore, ormai sull’Adriatico quando ebbe cognizione di
quello che stava accadendo, dovette stimare più opportuno risolvere le
questioni anconetana e romana rinviando al ritorno il regolamento della
faccenda lombarda.
Le notizie giunte forse fra il giugno e il luglio dal Settentrione d’Italia
alle orecchie del papa erano liete: ma egli non era nella miglior disposizione
di spirito per accoglierle. L’imperatore si avvicinava a grandi passi; intanto,
una squadra navale pisana bloccava tutto il litorale tirrenico fra Terracina e
Civitavecchia. Gli appelli disperati al re di Sicilia, l’unico che avrebbe
potuto recare soccorso, restavano vani. Il 24 luglio, Cesare giungeva in
vista di quella ch’era la sua sposa, secondo la propaganda imperiale; o,
secondo quella pontificia, il barbaro si appressava alle sante mura della città
di San Pietro.
La Città Leonina fu espugnata; durante l’assalto andò in fiamme la
chiesetta di Santa Maria in Turri, adiacente a San Pietro; il fuoco lambì la
stessa venerabile basilica. Papa Alessandro si salvò per un pelo trovando
rifugio nella grande fortezza dei Frangipane al Colosseo. S’intavolarono
allora le trattative. Vincitore, il sovrano sapeva bene che la sua vittoria non
avrebbe avuto senso se non fosse stata seguita dalla composizione dello
scisma. Giocò pertanto a fondo il ruolo del trionfatore generoso,
proponendo un bis del concilio pavese del 1160: una nuova assise
ecclesiastica alla quale avrebbero dovuto sottomettersi tanto Alessandro
quanto Pasquale e che avrebbe scelto liberamente il papa legittimo. Ma, se
Federico aveva nell’Urbe il vantaggio della forza, Alessandro aveva
nell’Orbe cristiano quello dell’appoggio della maggior parte della Chiesa: e
ben sapeva che – al di là del suo personale fato, se avesse accettato le
condizioni di Federico – la sua forza, proprio in quanto era sconfitto e
braccato, stava nel proclamarsi di nuovo, lui, il solo e legittimo pontefice.
Se non lo avesse fatto, otto anni di lotta avrebbero in un soffio perduto
senso.
Guidava le trattative da parte papale un grande nobile, quel Corrado di
Wittelsbach già arcivescovo di Magonza che l’imperatore aveva cacciato
dalla sua sede archiepiscopale per punirlo della sua fedeltà al Bandinelli: e
che questi aveva dal canto suo elevato alla porpora. Stretto collaboratore di
Federico era invece il fratello di Corrado, il prode e fedele Ottone. Si
sperava davvero in una soluzione? Era in buona fede il sovrano
proponendola? Al netto rifiuto di Alessandro, comunque, la propaganda
imperiale poté annunziare con amaro trionfo ai romani – ai volubili romani
– che la pace non si poteva fare solo perché il superbo Rolando teneva più
alla sua tiara che all’unità della Chiesa. E al superbo Rolando non restò che
fuggire, travestito da pellegrino, fino a Terracina: da lì si sarebbe diretto nel
regnum, a Benevento, sotto la protezione di Guglielmo II.
I vincitori cantarono il 29 luglio il Te Deum nella basilica di San Pietro,
riconsacrata dopo la battaglia. L’imperatore poteva celebrare il suo trionfo
sulla città e sul mondo, come patrizio romano – del quale rivestì le insegne,
il diadema d’oro e il manto verde – e come imperatore. Il 30 luglio il suo
pontefice, Pasquale, fu solennemente intronizzato in San Pietro. Il 1° agosto
egli poté così rinnovare a sua volta solennemente la cerimonia
dell’incoronazione di Federico: e stavolta al fianco del consorte c’era, a
differenza del 1155, la bella e fedele Beatrice che a sua volta veniva
incoronata. Era l’apoteosi.
Mutatio dexterae Excelsi. Un temporale estivo – uno di quei temporali
romani che mutano la città in un lago tempestoso – si abbatte su Federico e
sul suo accampamento il 2 agosto, proprio il giorno dopo l’incoronazione.
Gli fanno seguito la calura insopportabile, l’afa che sale dai gorghi pigri del
Tevere, i miasmi delle paludi che circondano la città. Ed ecco l’antica
febbre che uccide senza una ragione apparente, il vecchio male che si
annida nel ventre delle zanzare e che si beve con l’acqua imputridita.
Muoiono i vescovi dell’impero, i grandi feudatari, i coraggiosi guerrieri.
La tempesta e l’epidemia sono da sempre i segni dell’ira di Dio. È il
Signore Dio degli Eserciti, lo Jahvè del Vecchio Testamento che ha levato la
mano e ha colpito il nuovo Sennacherib, il nuovo Nerone. Esulta, o
Gerusalemme, perché Dio ti ha liberata! Questo si esclama trionfanti
attorno al fuggiasco e braccato Alessandro. Guai, guai allo scomunicato che
ha osato farsi incoronare da un falso papa scomunicato come lui! Guai al
profanatore del tempio di Pietro!
Anche attorno a Federico regnano ora lo sconforto e il terrore. Perché
Dio ha colpito, se non per esprimere il suo sdegno? Una sconfitta militare
sarebbe stata tollerata e virilmente sostenuta: ma questo!, l’aprirsi dei cieli e
la morte collettiva all’indomani della vittoria, è troppo! Di più: è un segno,
un presagio, un monito.
Federico non si perde d’animo: se ha dubbi, presentimenti, paure, li tiene
chiusi nel suo cuore. Nomina – arrogandosi una prerogativa papale – il
prefetto di Roma nella persona di Giovanni di Vico; e stipula un accordo
con i romani comprendente l’obbligo per loro di giurargli fedeltà, il diritto
dell’imperatore di investire e confermare i senatori, la concessione di ampie
esenzioni fiscali. Regna, per pochi giorni, sulla «sua» città.
Ma il 6 agosto si dovette por fine alla permanenza in Roma. Era
necessario sfuggire all’epidemia e allo sconforto che essa spargeva, insieme
con la morte, negli accampamenti. E poi le notizie relative ai fatti di
Lombardia erano sempre più gravi. All’indomani della festa della Madonna
della Neve – la grande festa della basilica di Santa Maria Maggiore –
l’esercito imperiale tolse le tende tirandosi dietro papa Pasquale, che come
si sapeva fin troppo bene non avrebbe mai potuto mantenersi da solo a
Roma. Egli fu di nuovo lasciato a Viterbo, mentre Federico procedeva verso
il Nord trascinandosi dietro una truppa di ammalati fra i quali la morte
mieteva di continuo vittime. Si spense così il cronista lodigiano Acerbo
Morena, che lo aveva seguito e servito nella spedizione romana e lodato
nella sua cronaca; morì Guelfo VII, figlio di Guelfo VI; morì Federico di
Rothenburg, duca di Svevia e cugino dell’imperatore; morì il 14 agosto
Rainaldo di Dassel che seppe concludere una vita non, forse, dissoluta –
nonostante quel che affermarono i suoi avversari – ma certo non
particolarmente pia con una morte devota, esemplare.
La fama degli eventi romani aveva corso la penisola: ma con le ali dei
messi pontifici. Federico risaliva le strade verso il Nord come uno sconfitto:
e non era la mano dell’uomo ad averlo piegato. Ora bisognava solo
obbedire alla volontà divina e colpire lo scomunicato, il nemico di Dio.
D’altronde, egli non aveva praticamente più un esercito: la sua ritirata
andava sempre più somigliando a una fuga. Quando gli abitanti di
Pontremoli bloccarono il passo della Cisa, dove la Via Francigena
abbandonava la Toscana per entrare in Emilia, non gli restò che aggirare il
colle per giungere faticosamente con l’aiuto del grande dominus loci, il
marchese Malaspina, il 12 settembre a Pavia.
Nella città, che gli era ancora fedele, l’imperatore fu più puntualmente
informato della ribellione. Apprese così che molte città di «Lombardia» (il
termine va al solito inteso come indicante l’intera Italia settentrionale)
avevano cacciato i rettori imperiali, si erano rifiutate di adempiere ai loro
obblighi feudali, avevano richiamato i vescovi fautori di Alessandro III. La
causa delle libertà comunali e quella della legittimità del Bandinelli come
papa non avevano intrinsecamente nulla in comune, stavano su due linee
concettuali diverse: ma ora venivano a unirsi se non proprio a saldarsi, e
tale unione sarebbe durata a lungo.
Federico accettò il confronto: le città che aveva contro erano, per lui,
nemiche a doppio titolo, come ribelli e come scismatiche: il 21, da Pavia,
fulminava contro le città della Lega il bando imperiale – facendo tuttavia
eccezione per Lodi e Cremona – e scagliava a terra con gesto teatralmente
cavalleresco il suo guanto in segno di sfida. Si era intanto chiamati attorno i
suoi fedeli: i pavesi, i novaresi, i vercellesi, Obizzo Malaspina, il marchese
di Monferrato, il conte di Biandrate. Con l’esercito così rinforzato si diede
subito a scorrere e saccheggiare il Milanese, validamente e immediatamente
contrastato da lodigiani, bresciani, bergamaschi, cremonesi, parmensi. Le
cronache lo ricordano passare vicino a Pavia, prendere un boccone senza
neppure smontare da cavallo e di là passare il Po per devastare il territorio
di Piacenza, da dove però viene subito fatto sloggiare. L’11 novembre, il
giorno di San Martino, i milanesi lo costringono a chiudersi in Pavia e ve lo
assediano.
A questo punto, i lombardi dovettero credere di averlo ormai in pugno:
dovettero essere in parecchi a pensar che ormai bastasse una stretta finale.
Ma a tale scopo non era certo sufficiente coordinare le forze: bisognava
dimostrargli che egli aveva definitivamente perduto, che le leggi di
Roncaglia erano un capitolo chiuso, che la sua unica alternativa per
conservarsi dei fedeli sudditi – ché tali essi volevano, nonostante tutto,
rimanere – era accettare che i rapporti tra impero e città tornassero quali
erano al tempo di Enrico V. Erano due princìpi giuridici, entrambi in fondo
legittimi, a contrapporsi: da una parte Federico si appoggiava al diritto
romano e alle antiche prerogative regie che erano sì a lungo cadute in
disuso, ma che non erano mai state formalmente abrogate; dall’altra i
comuni si appellavano a quella tradizionale fonte di diritto ch’era la
consuetudine per lunghi decenni osservata senza interruzione.
Il 1° dicembre 1167 i rappresentanti di sedici città, fra cui vi erano tutte
quelle della Lega veronese del 1164 e della posteriore Lega cremonese,
s’incontrarono e stabilirono di convergere in una sola Societas Lambardiae:
quella che noi chiamiamo la Lega lombarda. C’erano Venezia, Verona,
Padova, Vicenza, Treviso, Cremona, Brescia, Bergamo, Milano, Lodi,
Parma, Piacenza, Mantova, Ferrara, Bologna, Modena. Contro forze così
formidabili, non era possibile resistere. Federico lasciò alla chetichella
Pavia, sulla cui fedeltà – visto quel ch’era accaduto con Lodi e con
Cremona e visto l’isolamento nel quale si trovavano adesso i pavesi – non
contava neppure più granché: e si diresse verso le terre di Monferrato e dei
conti di Biandrate, nelle quali svernò in attesa di riprendere, alla fine della
cattiva stagione, la via per l’Oltralpe.
La Lega lombarda si andava frattanto rafforzando e, sempre almeno dal
dicembre 1167, si dava proprie istituzioni ben distinte da quelle di ciascun
comune partecipante: ogni città eleggeva un suo rettore per la Lega, con
carica valida per un anno; il collegio dei rettori si riuniva in una città della
Lega a sua scelta, in genere sempre diversa; le riunioni erano saltuarie, o
comunque non sembra avessero precisa periodicità; volta per volta i rettori
stabilivano le misure militari e diplomatiche da prendere, discutevano
sull’accettazione di nuovi aderenti, si costituivano in tribunale per dirimere
i contrasti sorti fra i partecipanti alla Lega.
Era inutile e d’altronde per il momento impossibile proseguire la
spedizione italica. Con la fine dell’inverno, l’imperatore si decise ad
affrontare le Alpi; intanto Filippo di Heinsberg, succeduto a Rainaldo di
Dassel come arcivescovo di Colonia, aveva insediato a Roma Pasquale III,
e Italia centrale e Toscana sembravano nel complesso ancora ligie a
Federico. Ma a Benevento Alessandro riceveva di continuo messi e tramava
con i comuni lombardi, con il re di Sicilia, con Venezia, con il basileus
Manuele. Federico aveva fatto un cauto passo nella sua direzione, cercando
una scappatoia per eludere il giuramento ch’egli stesso aveva reso a
Würzburg nel 1165: ma invano. Non gli restava che raggiungere la
Germania, nella quale attestarsi e riorganizzarsi: neppure ciò sembrava,
però, una cosa facile. Il conte Umberto III di Savoia, che si sentiva leso nei
suoi interessi dai privilegi concessi dall’imperatore ai vescovi della sua
contea, gli negava il passaggio per il passo di Susa: quando alla fine, grazie
anche alla mediazione del marchese di Monferrato, glielo concesse,
Federico si trovò in un’ancor più imbarazzante e umiliante situazione. La
sua decisione di far impiccare un nobile bresciano a titolo di feroce quanto
inutile rappresaglia provocò una specie di rivolta cittadina; egli dovette
liberare precipitosamente gli ostaggi e fuggire travestito da servo lasciando
la stessa imperatrice in mano alla gente di Susa, che tuttavia le permise
cavallerescamente di partire. Quella fu una delle peggiori pagine della sua
vita, una delle sue più tristi figuracce. Valicato comunque il Moncenisio,
attraverso una Borgogna che trovò quasi del tutto votata alla causa di
Alessandro, l’umiliato e stanco sovrano giunse a metà marzo a Basilea, al
confine fra il regno di Borgogna e il ducato di Svevia.
Da allora fino al settembre 1174, per sei lunghi anni, Federico non mise
più piede in Italia. Non che le questioni italiche – e pontificie – non lo
interessassero più: al contrario! Seguiva anzi con grande attenzione
l’evolversi quanto mai allarmante per lui dell’amicizia tra papa Alessandro,
i comuni, i re di Sicilia e il basileus: e in più occasioni avrebbe tentato,
come vedremo, d’intervenire. Nel contempo, avrebbe cercato di
riorganizzare la sua amministrazione del regnum Italiae e di rinnovarne il
personale, per esempio infeudando marca d’Ancona ed esarcato di Ravenna
a un suo collaboratore molto competente in cose italiche, Corrado di
Lützelhard (che comunque gli italici dovevano trovare di indole alquanto
bizzarra: lo avrebbero soprannominato «Moscaincervello»!), e facendosi
cedere da Guelfo VI (che dopo la morte del figlio Guelfo VII non aveva più
prospettive dinastiche) le sue prerogative sui beni matildini. Ma le questioni
tedesche erano importanti, ed egli troppo a lungo le aveva trascurate a
vantaggio di quelle italiche. Bisognava risolverle – e in particolare chiarire i
rapporti con il duca di Sassonia e riaffermare il predominio sulla Chiesa
tedesca per evitare o contenere scelte in favore di Alessandro III – prima di
tornare in Italia e fare i conti con la Lega: perché, quelli, Federico voleva
farli.
LEGA
LOMBARDA
Cominciò quindi con il convocare, fra maggio e giugno, una serie di
diete tra Bamberga e Würzburg: e lì regolò talune questioni fondamentali.
Anzitutto bisognava ristabilire la pace fra Enrico il Leone e la coalizione
dei signori e dei prelati sassoni con i quali egli era in guerra fin da due anni
prima: e ciò era tanto più importante in quanto da poco il duca di Sassonia
aveva ricevuto la sua giovane sposa Matilde d’Inghilterra, figlia di Enrico
Plantageneto dal quale Federico continuava ad attendere un sostegno nello
scisma. La pace in effetti fu raggiunta, e l’imperatore dovette molto
adoprarsi per indurre i signori sassoni a perdonare l’invadenza di Enrico:
una mediazione che del resto il sovrano si fece profumatamente pagare,
facendosi cedere di nuovo Goslar – l’avamposto sassone verso il massiccio
dello Harz e il Brandeburgo – che egli stesso aveva ceduto al cugino
all’inizio del suo regno e che era importante anche per le miniere d’argento.
La riappropriazione imperiale di Goslar ledeva l’integrità territoriale del
ducato di Sassonia; inoltre, sempre a Goslar, la cappella del palatium
conteneva il cuore di Enrico II, sant’Enrico imperatore, le memorie del
quale erano sacre tanto a Federico suo successore sul trono imperiale
quanto a Enrico suo erede nel ducato di Sassonia. Si può dire che fu dalla
questione di Goslar che i rapporti tra Enrico e Federico presero a
deteriorarsi: e tutto ciò mentre il Leone dava segni di voler imporre alla
stessa Danimarca, regno formalmente vassallo dell’impero, la propria
egemonia.
Altra decisione di Federico volta a rafforzare il potere regio in Germania
fu la devoluzione alla corona del ducato di Svevia, che con la morte di
Federico di Rothenburg in Italia era restato senza eredi diretti e che da
allora venne amministrato da ministeriales imperiali; lo stesso feudo di
Rothenburg, nella Franconia orientale, passò alla corona che così veniva ad
assicurarsi un’ancor più solida base territoriale nel Sudovest del regno.
Intanto la vedova di Federico di Rothenburg passava a seconde nozze con
Canuto, figlio di Sveno re di Danimarca, rafforzando la ritrovata intesa fra
quel regno e l’impero.
Il periodo immediatamente successivo all’incoronazione romana
dell’agosto 1167 e culminato nella vergogna di Susa era stato davvero cupo:
ma era passato e sembrava del tutto dimenticato. Ora, forte della
riorganizzazione di una compagine territoriale e istituzionale pacificata, il
24 giugno del 1169 l’imperatore faceva designare dalla dieta dei nobili
tedeschi il suo secondogenito Enrico, quattrenne, come re dei romani, e il 5
agosto successivo lo faceva incoronare in Aquisgrana. L’incoronazione
dell’erede designato era pratica consueta nell’impero di Bisanzio ma non
ignota nemmeno in quello romano-germanico per quanto l’ultimo
precedente del genere risalisse a due secoli prima, al 967. 2 Ignote le ragioni
della scelta secondo la quale per l’incoronazione fu deciso di lasciar da
parte il primogenito Federico: può darsi dipendesse dalle cattive condizioni
di salute di questi, che difatti – ma al riguardo i dati in nostro possesso non
sono né chiari, né certi – sembra morisse l’anno successivo. Ma può anche
darsi che Federico scegliesse il secondogenito per suggerire un limite e una
serie di deroghe possibili a quello stesso principio dinastico nella scelta dei
re di Germania: principio che egli naturalmente desiderava instaurare, ma
che non godeva delle simpatie dei nobili tedeschi. Oltre a ciò, Enrico non
era e non poteva essere in alcun modo legato al giuramento di Würzburg,
formulato prima della sua nascita. La sua elezione poteva pertanto
rappresentare un ulteriore segnale di distensione inviato a papa Bandinelli e
ai vescovi alessandrini di Germania, ch’erano sempre più numerosi.
D’altronde Pasquale III era morto nel settembre 1168 e la posizione del
nuovo papa imperiale, Giovanni abate di Strumi che aveva assunto il nome
di Callisto III, non sembrava molto forte. I prelati che si pronunziavano in
favore di Alessandro aumentavano ogni giorno in numero e in prestigio.
Esemplare, fra gli altri, il comportamento di uno di loro, Adalberto figlio
del duca di Boemia e nuovo arcivescovo di Salisburgo. Questi non solo si
era rifiutato di accettare l’investitura dallo scismatico arcivescovo di
Magonza per prenderla invece da Udalrico patriarca di Aquileia e convinto
alessandrino: ma, di fronte all’imperatore che irrompeva nei territori
salisburghesi, aveva risposto rinunciando a qualunque regale ius e possesso
feudale e mantenendosi soltanto il governo spirituale dell’arcidiocesi. Si
trattava di una lezione altissima sotto il profilo della dignità: ma anche di un
gesto allarmante per Federico, il quale sapeva bene che una delle armi più
efficaci nelle sue mani per attirare dalla sua i potenti ecclesiastici e
mantenere quindi l’egemonia sulla gerarchia chiericale della Chiesa era la
concessione dei beni e dei poteri temporali.
Ora, comunque, l’attenzione dell’imperatore si andava sempre più
concentrando su suo cugino Enrico il Leone che – per quanto potesse essere
stato umiliato nella faccenda di Goslar – continuava a comportarsi come
sovrano praticamente indipendente dei suoi ducati, nei quali era tanto più
sicuro da quando, nel 1170, era venuto a mancare il suo rivale Alberto
l’Orso margravio di Brandeburgo.
Enrico sfoggiava i poteri, il decoro, la magnificenza di un re. La scoperta
delle miniere d’argento di Freiberg, verso il 1170, l’aveva ripagato a usura
della forzata cessione di quelle di Goslar al cugino. Ed era regale anche la
sua politica estera: in sintonia certo con quella dell’imperatore, ma segnata
da una personalissima impronta. Il fatto che fosse genero di Enrico
d’Inghilterra gli conferiva inoltre un prestigio immenso, tale da poterlo far
considerare in ogni modo un alleato prezioso; anche la sua influenza sulla
Danimarca ne aumentava il prestigio. Il tutto era consolidato dal fatto
ch’egli manteneva rapporti a modo suo buoni con lo stesso Alessandro III,
che non riconosceva come papa ma che da parte sua era molto interessato
alla politica di crociata nel Nordest europeo che aveva nel duca un paladino.
Ai primi del 1172, Enrico partiva per un pellegrinaggio in Terrasanta:
segno questo che egli si sentiva nei suoi domini sicuro abbastanza da
potersi permettere una lunga assenza, ma anche indizio di una volontà
politica che Federico forse appoggiava, forse addirittura in certi casi
sollecitava, ma che fuor di qualunque ragionevole dubbio temeva.
È certo comunque che quella che il 13 gennaio 1172 partì dalla
Germania diretta in Terrasanta fosse anche una grande, splendida
spedizione politico-diplomatica. Enrico, passando per l’Austria – com’era
ovvio, dato che avrebbe preso la via della pianura danubiana – si arrestò a
rendere cortese e ossequiosa visita a Enrico duca d’Austria: ma soprattutto,
forse, alla duchessa Teodora Comnena. Una delle tappe privilegiate del suo
viaggio era infatti Costantinopoli, dove egli giunse il 15 aprile, Sabato
Santo: l’imperatore e l’imperatrice di Bisanzio lo colmarono di doni, ed è
poco credibile che non si facesse in quella sede parola della tensione fra i
due imperi, specie per quel che riguardava i comuni contrastanti interessi
nell’Italia adriatica e nell’area balcano-danubiana. Oltre al regno di
Gerusalemme, Enrico visitò poi le terre del sultano di Iconio, Kiliji Arslan,
signore di gran parte della penisola anatolica e in rapporti con lo stesso
Federico.
Nel dicembre successivo l’imperatore ricevette ad Augusta il potente
cugino reduce dal suo importante viaggio: sappiamo che l’incontro fu
affabile, ma ignoriamo che cosa i due si siano detti. Certo, a giudicare dalla
spedizione imperiale contro Ancona dell’anno seguente, si direbbe che la
missione distensiva di Enrico fra i due sovrani non avesse avuto successo.
Ma, dicendo ciò, restiamo nel campo delle congetture.
A ogni modo, Federico stava di nuovo pensando a una discesa in Italia.
L’aveva solennemente annunciata nel marzo 1172, durante la dieta di
Worms, e da allora aveva lavorato con vigore alla soluzione dei problemi
tedeschi che ancora rimanevano sul tappeto. Nel 1173 fondò nel regno di
Germania quattro nuove fiere annuali, delle quali due in Aquisgrana.
Cercava intanto di stringere nuovi legami con l’Ungheria, dove il nuovo re
Bela III conduceva una politica molto indipendente, e concedeva
l’investitura del ducato (ma praticamente già regno) di Boemia al figlio di
Sobieslao, il rivale del duca Ladislao che, vecchio, aveva tentato di abdicare
in favore del proprio figlio, ma al quale Federico non perdonava l’adesione
ad Alessandro III.
Sistemate le questioni tedesche e orientali, il sovrano si accinse a
scendere in Italia. Nel maggio 1174 ebbe un nuovo colloquio con Enrico il
Leone, a Ratisbona: sapeva che la nuova campagna sarebbe stata dura e
avrebbe perciò gradito l’appoggio del cugino; inoltre avrebbe forse preferito
averlo sott’occhio piuttosto che saperlo in Germania, ancora una volta
incontrollabile. Ma Enrico non prese parte alla nuova impresa.
Scendendo per la quinta volta in Italia, nell’autunno successivo, Federico
vi avrebbe trovato parecchie cose cambiate rispetto a sei anni prima. Che
cos’era accaduto?
In sintesi, si potrebbe dire che vi si erano verificate tre nuove,
significative realtà. Primo, Milano non solo era risorta dalle sue rovine, ma
aveva assunto ancora una volta il suo ruolo egemone in tutta l’Italia
settentrionale guadagnandosi la pur non del tutto incontrastata leadership di
una Lega lombarda ch’era intanto diventata un organismo colossale per
quanto non unitario né agile; secondo, il prestigio di papa Alessandro III era
divenuto universale, al punto che il mantenimento dello scisma sonava
ormai ridicolo; terzo, l’influenza del re di Sicilia e dell’imperatore di
Costantinopoli era cresciuta e i rapporti di entrambi con il papa e i comuni
lombardi si erano rafforzati ulteriormente.
La fuga di Federico dall’Italia, nel marzo del 1168, aveva lasciato i suoi
nemici in uno stato di grande euforia e nella convinzione che il ferro
andasse battuto finché era caldo. Nell’aprile immediatamente successivo
una nuova piccola città era stata fondata alla confluenza fra il Tanaro e la
Bormida, in un’invidiabile posizione strategica incuneata fra il territorio di
Pavia, le terre del marchese di Monferrato e quelle dei conti di Biandrate,
nonché in grado di controllare l’accesso dell’entroterra lombardo al mare di
Genova. Case di legno, tetti di paglia. Erano stati i comuni della Lega a
fondarla, sfidando il sire di Monferrato e i pavesi: ma, dal momento che la
fondazione di una città era una prerogativa regia sovrana, la sfida
obiettivamente vera era rivolta a Federico. Non a caso, in omaggio a papa
Bandinelli, il nuovo centro aveva ricevuto il nome di Alessandria. Molta
gente proveniente soprattutto dal Monferrato si spostò verso la nuova
fondazione, per abitarla: e pare che pochi mesi dopo quell’aprile essa
avesse ancora tetti di paglia, ma già mura solidissime. 3 La fondazione di
Alessandria aveva preceduto di poco la dieta di Lodi, nel maggio, durante la
quale era stato iterato – con qualche variazione – il giuramento del
dicembre 1167 e si erano assunte varie decisioni fra cui quella di stabilire
una sorta di tribunale arbitrale interno alla Lega che sostituisse il diritto
d’appello all’imperatore: in altre parole, la Lega si arrogava delle funzioni
pubbliche nel momento stesso nel quale – decretando l’invalidità di appelli
al sovrano – impediva l’esercizio di quelle giuridicamente parlando
legittime. Era evidente che ormai i lombardi non intendevano più recedere
dalle loro scelte. Il fatto che la Lega si dotasse di un suo sigillo nel quale era
effigiata un’aquila simile all’imperiale – ma con la testa provocatoriamente
rivolta a sinistra anziché a destra –, e forse di un proprio vessillo, era prova
di un’ormai evidente volontà di sostituirsi all’impero come autorità
pubblica, o comunque d’imporsi a esso come entità sovracomunale. Mano a
mano che le adesioni giungevano a rafforzarne la compagine i patti della
Lega venivano periodicamente giurati di nuovo; e attraverso la sua politica
si possono discernere le linee di un’organizzazione territoriale, d’una
politica viaria e commerciale comune, d’un sistema doganale.
Le adesioni alla Societas Lambardiae erano infatti pian piano aumentate
fino a comprendere tutti i centri principali di quelle che per noi sono le
regioni di Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto, Emilia-Romagna, ivi
comprese quelle città che, al pari di Como (che aderì alla fine del 1168) o di
Pavia (che aderì nel 1170), avevano alle spalle una tradizione imperiale
consolidata, ma che vennero indotte o addirittura costrette a collegarsi per
non subire l’isolamento e la pressione militare delle altre. Gradualmente, le
città aderenti erano giunte al numero di trentacinque, per quanto i rispettivi
rappresentanti non fossero mai presenti tutti nelle varie riunioni di quel
sodalizio.
A esso avevano dovuto anche, volenti o nolenti, unirsi dei feudatari:
Obizzo Malaspina provvisoriamente dal 1168 e in modo permanente dal
1170, tramite i suoi legami con Vercelli (ma egli dal 1169 si era legato
anche a Genova, impegnandosi a tenere aperte le vie verso la Lombardia); il
marchese di Monferrato nel 1172; in circostanze per lui umilianti il conte di
Biandrate; e altri più tardi.
La Lega aveva comunque tre punti deboli, che si sarebbero fatti sentire
in seguito: anzitutto era concepita per la guerra e non per la pace, e dunque
per ben funzionare aveva bisogno di un nemico comune senza il quale
avrebbe preso a languire; poi era il risultato del convergere di interessi
diversi e di forze disuguali, per cui era fatalmente candidata all’insorgere di
rivalità interne e al costituirsi di egemonie non gradite nella stessa misura
da tutti i suoi membri; infine esisteva una certa confusione fra i poteri dei
suoi rettori e le prerogative dei magistrati a capo dei singoli comuni.
Tuttavia, almeno nei primi mesi, la Societas sembrò funzionare alla
perfezione; e a meraviglia filava il suo idillio con Alessandro III, che si
sentiva sempre più forte per quanto il suo nuovo antagonista Giovanni di
Strumi fosse insediato a Roma. Il camaldolese Giovanni era un buon
monaco: ciò era gradito all’imperatore, che non perpetuava lo scisma
soltanto per motivi politici o per orgoglio di regnante, ma doveva esser
profondamente convinto che la sua causa era giusta. Al momento stesso,
però, Federico si rendeva sempre più conto che ormai la sua parte di
sostenitore del protrarsi di questa lacerazione in seno alla Chiesa stava
diventando insostenibile e cercava un pretesto per poterne onorevolmente
uscire. Assistiamo perciò, fra 1168 e 1170, a un fine e complesso lavoro
diplomatico che coinvolgeva varie potenze cristiane e il cui scopo ultimo
era senza dubbio l’uscita dalla situazione di stallo nella quale il permanere
di due pontefici aveva messo la Chiesa. Nell’autunno del 1168, si svolsero
fra Enrico d’Inghilterra e Luigi di Francia i negoziati che avrebbero portato,
nel gennaio successivo, alla pace di Montmirail. Federico inviò come
osservatori all’incontro Enrico il Leone, Cristiano di Magonza e Filippo
nuovo arcivescovo di Colonia. Si discusse in modo particolare
dell’organizzazione di una nuova crociata – può darsi che sia la missione di
Cristiano di Magonza a Costantinopoli l’anno seguente, sia il pellegrinaggio
di Enrico tre anni dopo, avessero anche questo scopo – e della
composizione dello scisma: e si pensò che forse i due abati di Cîteaux e di
Clairvaux, figure di spicco della Cristianità alessandrina, avrebbero potuto
interporre i loro buoni uffici per pacificare il papa e l’imperatore. Difatti nel
marzo i due autorevoli prelati furono spediti insieme con Eberardo di
Bamberga a Veroli, dove – abbastanza vicino sia a Roma, sia ai confini del
regno di Sicilia – Alessandro aveva fissato l’incontro. Si disse che fine
ultimo dell’ambasceria era, da parte di Federico, indurre il pontefice a
incoronare imperatore suo figlio Enrico: in cambio, questi avrebbe
riconosciuto lui come vero papa e lo scisma si sarebbe spento senza bisogno
che il sovrano rinnegasse il giuramento di Würzburg.
Il riconoscimento pontificio avrebbe significato certezza nella
successione al trono: la casa sveva ne sarebbe rimasta padrona. Alessandro
da parte sua considerava la sua causa strettamente connessa a quella dei
lombardi, alla presenza dei cui messi egli ricevette addirittura gli
ambasciatori imperiali: e ciò urtava contro l’evidente proposito del sovrano,
uno degli scopi del quale, offrendo la pace al pontefice, era proprio quello
di dividere il fronte unico costituito da lui e dalla Lega. D’altronde,
Federico poteva accettare di riconoscere i prelati ordinati da Alessandro, ma
non aveva alcuna intenzione di abbandonare al loro destino quelli che si
erano schierati dalla parte sua e dei papi che egli aveva accettato e
sostenuto. Per questo, le trattative fallirono: e l’imperatore le denunziò
ufficialmente nel giugno 1170, durante la dieta di Fulda.
Era quindi stato uno smacco, per lui, l’episodio di Veroli? Senza dubbio,
se si ritiene – ed esistono validi motivi di ritenerlo – che le intenzioni di
giungere a un accordo fossero, da parte di Federico, sincere; no, tuttavia, se
si tiene presente che il rifiuto del papa di accettare le sue offerte di pace era
fino dal principio suscettibile di essere usato da parte dell’imperatore per
dimostrare ai principi tedeschi che nessuna proposta ragionevole era in
grado di vincere la preconcetta ostilità del pontefice, anche a causa dello
stretto legame fra lui e la Lega lombarda: per cui, l’unico modo di risolvere
davvero la questione dello scisma consisteva nel battere la Societas. Se
ammettiamo come plausibile tale ipotesi, dobbiamo dedurne che
l’imperatore sollecitò la trattativa con lo scopo preciso di vederla fallire per
servirsi strumentalmente del suo fallimento presso i suoi più autorevoli
seguaci e vincere le loro reticenze a impegnarsi di nuovo in una campagna
militare italica, ora che ben se ne conoscevano i costi e i pericoli.
Intanto appunto dopo il fallimento delle trattative di Veroli, nel marzo
del 1170, papa Alessandro aveva concesso ai lombardi la bolla Non est
dubium, nella quale dichiarava: «Toccati dall’ispirazione divina, voi avete
stabilito un patto di pace e di concordia per la Chiesa di Dio e per difendere
la vostra pace e la vostra libertà contro Federico, cosiddetto imperatore». La
bolla ordinava di tagliare le vie di commercio fra Toscana e Lombardia, se i
toscani – che si mostravano ancora ligi all’impero – non avessero aderito
alla Lega, e comminava scomunica e interdetto nei confronti di quelle città
che avessero ordito delle coniurationes ai suoi danni. Dal canto loro, le città
della Lega risposero confermando e precisando il giuramento del 1167 in
una forma dalla quale emergeva senz’ombra di equivoco la loro decisione
di far guerra all’imperatore e ai suoi alleati.
Con tutto ciò, Alessandro non aveva evidentemente intenzione di
rompere del tutto con Federico. Confermandone la scomunica, confermava
anche il rifiuto di deporlo che di essa avrebbe dovuto essere conseguenza;
d’altro canto, accettava l’alleanza di Manuele – e proprio nel 1170
celebrava il matrimonio tra il suo fedele Ottone Frangipani e una
principessa greca – ma non accedeva alle sue pressanti richieste d’investire
lui della corona d’Occidente. D’altronde, Federico non trascurava da parte
sua di trattare: sembra che scopo principale della missione di Cristiano di
Magonza a Costantinopoli, nel 1170, fosse una proposta di matrimonio tra
Enrico – ormai a sua volta re dei romani – e una nobile bizantina. Poco
dopo, la figlia di Federico, la principessa Sofia, sarebbe stata offerta in
sposa al re di Francia: papa Alessandro III avrebbe scritto immediatamente
a Luigi per ostacolare questa progettata unione, scopo della quale, tuttavia,
era isolare non solo e non tanto il papa quanto, piuttosto, la Lega.
La risposta della corte di Bisanzio all’ambasceria di Cristiano fu
comunque, a modo suo, molto chiara. Ancona era ormai divenuta una vera e
propria fortezza greca mentre, nel 1171, era ricominciata la ricostruzione
delle torri di cinta di Milano finanziata anche dal basileus. A questo punto,
Federico aveva deciso di rompere ogni indugio: e aveva cominciato con
l’inviare in Toscana l’arcivescovo di Magonza per preparare la sua discesa e
impedire nuove affermazioni della Lega anche in quella regione, come
aveva viceversa auspicato il papa.
Il cancelliere imperiale era in Italia alla fine del 1171. Lì, riscontrava
altre verità: una delle città tradizionalmente fedeli all’impero, Pisa, aveva
stretto amichevoli rapporti con il basileus al fine di tutelare e ampliare i
suoi interessi commerciali a Bisanzio, cogliendo al balzo l’occasione
quanto mai propizia rappresentata dal fatto che, qualche mese prima,
Manuele aveva espulso dal suo impero i veneziani. Pisa e Firenze erano del
resto in guerra contro una minacciosa coalizione toscana guidata da Lucca
ed esternamente appoggiata da Genova.
Per quanto lo riguardava, Cristiano era uno splendido e generoso
principe e i mercenari brabanzoni che si portava dietro gli avevano
procurato anche una temibile fama militare: ma non era diplomatico.
Convocata nel 1172 la consueta dieta a San Genesio, egli non riuscì se non
a ingarbugliare ulteriormente la situazione: cercò di risolvere le cose
comminando il bando imperiale contro Pisa, dimentico sia del tradizionale
orientamento filoimperiale della città nonostante la contingenza che in quel
momento si era verificata, sia della costante politica di Federico che
consisteva nel non scontentare né l’una né l’altra delle potenti città
marinare; e finì con l’attirarsi la sanzione almeno verbale del suo signore.
Puntò poi su Tuscolo, dove sperava di cogliere di sorpresa Alessandro III,
ma neppure questo colpo gli andò bene. Si spostò quindi a Foligno, dove
risiedeva allora il papa imperiale, e – sicuro dell’appoggio di Venezia, che
intendeva far pagare ben cara al basileus la sua espulsione dagli empori
bizantini; ma ciò anche senza rompere con la Lega lombarda, che
evidentemente non apprezzava l’appoggio che essa stava per concedere a
Cristiano – marciò su Ancona, alla quale pose assedio all’inizio dell’aprile
1173. Rimini e altre città della Romagna e delle Marche erano con lui, oltre
ad alleati provenienti, pare, dalla Toscana e dal ducato di Spoleto; i
veneziani ponevano il blocco navale alla città con una formidabile flotta di
quaranta galee, il che significa una mobilitazione di circa novemila uomini
fra rematori e balestrieri. Ma Ancona resistette, validamente soccorsa da
una romantica figura di guerriera, Aldruda Frangipani contessa di
Bertinoro, e da Guglielmo Marchesella, ch’era uno dei membri più in vista
del gruppo dirigente di Ferrara. La tradizione ci ricorda, in termini quasi
fiabeschi, il rutilare delle bandiere imperiali bizantine in tessuto d’oro nelle
mani di Aldruda e del Marchesella. La Frangipani sarebbe stata celebrata
l’anno successivo in un panegirico greco da Eustazio, metropolita di
Tessalonica, gran retore e commentatore di Omero, con immagini che fanno
di lei una Pentesilea.
Furono sei mesi e mezzo di duri sacrifici, di eroici episodi, di fiero
confronto; ma alla fine, verso la metà di ottobre, Cristiano fu costretto a
togliere l’inutile assedio.
L’anno successivo, cioè nel settembre del 1174, Federico calava in Italia.
Aveva preso la via della Svevia, della Borgogna e del Moncenisio: come in
un feroce rituale magico di vendetta, stava facendo a ritroso la medesima
strada che aveva dovuto percorrere braccato e travestito nel marzo del 1168.
Scese dal Moncenisio come una tempesta d’estate, preceduto forse da un
vaticinium, la profezia detta «dell’Onagro e del Leone» che annunziava al
mondo la prossima restaurazione della giustizia, la fine dello scisma, la
vergogna dell’opulento e vile asino selvatico («l’onagro»), cioè il basileus,
e la trionfante gloria del nobilissimo e potente leone, Federico.
La vendetta fu in effetti il suo primo pensiero. Susa, la città che lo aveva
veduto umiliato e fuggiasco sotto gli occhi della sua stessa consorte –
un’umiliazione ulteriore –, fu distrutta. Asti si arrese subito dopo, e ai piedi
del sovrano accorsero – impauriti e desiderosi di perdono o avidi di rivalsa
sulla Lega che per anni li aveva costretti a subire la sua alleanza – i suoi
tradizionali alleati piemontesi e lombardi: il marchese di Monferrato, il
conte Uberto di Biandrate, le città di Alba, Acqui, Pavia, Como.
Il panico invase i collegati nella Societas, che rivelò in quel frangente
uno dei suoi punti deboli: la difficoltà e la lentezza nell’assumer decisioni,
corrispettive del resto alla sua mancanza di coesione. I lombardi ben
sapevano, e da tempo, che Federico stava preparando la vendetta; e
sapevano altresì che di certe tardive e coatte adesioni alla loro alleanza non
era il caso di fidarsi. Eppure, in quell’autunno, sembra si lasciassero
prendere in contropiede. Vero è d’altronde che giocavano la carta vincente
concentrando il loro potenziale difensivo su Alessandria. Lì doveva
giungere il Barbarossa.
Vi giunse, infatti. Come aveva scelto il Moncenisio non solo per evitare i
passi alpini dell’est, troppo ben sorvegliati dagli avversari, bensì anche per
vendicarsi del 1168, così pose l’assedio ad Alessandria – alla fine d’ottobre
– non tanto perché ritenesse quella città dai tetti di paglia (ma dalle mura
fortissime, per quanto ancora incompiute) un importante obiettivo militare o
perché non si volesse lasciare piazzeforti nemiche alle spalle, ma soprattutto
perché essa era il simbolo della resistenza contro di lui, della ribellione,
dell’immondo patto fra le riottose città lombarde e il falso papa scismatico.
Il nomen imperii esigeva che quella città, il cui stesso nome era una sfida,
venisse spazzata via dalla faccia della terra.
Pare che quel novembre, fra Lombardia e Piemonte, fosse molto
piovoso. Il marchese di Monferrato assicurava che quel miserabile
ammasso di legname e di pagliume abitato da cialtroni, da banditi, da servi
fuggitivi, non avrebbe retto. Contro Federico ci si misero però i temporali
d’autunno; poi gli imperiali scatenarono un attacco maldestro durante il
quale persero tutti gli ordigni d’assedio. A quel punto non c’era che piantare
dinanzi alla città dai tetti di paglia gli accampamenti invernali e rassegnarsi
al solito lungo blocco, in attesa che gli assediati si arrendessero costretti
dalla fame. Ma, come sempre accadeva in casi del genere, le truppe
assedianti cominciarono ad assottigliarsi: i mercenari levavano le tende, e
anche nelle file degli arruolati in forza del bando regio o degli obblighi
feudali parecchi, con una scusa o con un’altra, se la svignavano. L’inverno
fu, quell’anno, durissimo: e anche in quell’inclemenza del tempo c’era
ovviamente chi voleva vedere la mano di Dio.
Dalla parte degli alessandrini, la tradizione ha colorato la resistenza di
smalti epici, non senza qualche buffo tratto: come nella leggenda del villano
Gagliaudo e della mucca Rosina, che si racconta ancora ai bambini di
Alessandria. In breve, gli assediati sono allo stremo, non ce la fanno più;
allora il furbo contadino Gagliaudo si presenta al capitano della città
affamata e gli chiede di far rastrellare tutto il grano rimasto per offrirlo in
pasto a Rosina. C’è da immaginarsi quanto si sarà fatta pregare la povera
bestia, dopo mesi di stenti. Ciò fatto, la mucca viene condotta da Gagliaudo
a pascolare fuoriporta; e in men che non si dica il villano e la bestia sono
catturati e tradotti al cospetto dell’imperatore. Ma, squartata la bestia,
sorpresa! Dal suo smagrito pancione vien fuori, come dal ventre di
cartapesta del Re Carnevale, tutta quella grazia di Dio, palate e palate di
grano. Leviamo le tende, commenta Federico sconsolato, una città che in
pieno inverno mantiene le sue mucche a grano non la prenderò mai. Strano
che nessuno in quel frangente notasse il contrasto fra quel pancione pieno
d’ogni ben di Dio e l’aria smagrita del povero animale, dal momento che –
dopo tanto digiuno precedente la sua estrema, grande abbuffata – esso
doveva essere tutto pelle e ossa. Ma, si sa, la leggenda…
Comunque, più della dieta della mucca Rosina e del contraddittorio
mistero della sua ben pasciuta magrezza, a preoccupare Federico era il fatto
che, mentre egli perdeva tempo nell’inutile assedio, i collegati si andassero
riunendo, sia pur non senza incertezze e ambiguità (per esempio i soliti
cremonesi cercavano di guadagnar tempo). Fra gli imperiali, i pareri erano
discordi: era il caso di correre il rischio di un confronto in campo aperto con
forze che si sapevano di parecchio superiori? Federico, che non aveva
intenzione di commettere imprudenze, spedì Cristiano di Magonza con un
modesto contingente verso Bologna e la Romagna, in modo da stornare
parte delle forze della Lega: ma questo espediente ridusse ulteriormente la
consistenza dei contingenti a sua disposizione.
Dopo un inverno d’inutile assedio e di non meno inutili stratagemmi,
Federico si ritirò da Alessandria: anche perché aveva saputo che due
colonne nemiche, guidate da Ezzelino da Romano e da Anselmo da Dovara
e forti di parecchie migliaia di uomini, si andavano avvicinando. Era il 12
aprile, Sabato Santo.
Fu una strana veglia di Pasqua, quella notte. I campi di Marengo, poco
fuori Alessandria, videro Federico circondato dagli eserciti della Lega che,
tuttavia, pur in situazione di schiacciante, soverchiante superiorità di forze,
non osarono attaccarlo. Forse l’imminente festa della Resurrezione
consigliava di non turbare con un evento sanguinoso la solenne gioia d’un
giorno sacro; forse – come fu detto – il timore che il terribile Barbarossa era
in grado d’incutere, ma soprattutto la reverenza per il nomen imperii mai,
nonostante tutto, rinnegato dai lombardi, arrestarono il loro slancio. In una
sua celebre poesia carica di un misterioso senso di sacralità, Giosuè
Carducci ha rievocato quella notte di veglia, di attesa, di paura, e quindi,
all’alba, la sovrana e solare decisione di Federico: far squillare le trombe e
spiegare il santo vessillo imperiale accompagnato dalla stentorea
intimazione dell’araldo: in ginocchio, lombardi!, «passa l’imperator romano
/ del divo Giulio erede, successor di Traiano!»; e le soverchianti forze della
Lega che piegano ginocchia, lance e bandiere; e Cesare che passa muto,
solenne, tra quelle due siepi di armati che hanno anteposto nel sorgere del
sole del giorno della resurrezione la loro fedeltà di sudditi al loro compito di
guerrieri.
Ma torniamo alla cronaca degli eventi. Tortona si arrese all’imperatore,
anzi – per gelosia nei confronti di Alessandria – passò dalla sua parte. Pochi
giorni dopo, i due eserciti si trovavano ancora di fronte in un’altra piana
adatta alla prova delle armi, tra Voghera e Casteggio. È evidente che
Federico si stava dirigendo su Pavia, dove si sarebbe forse attestato; ed è
altrettanto evidente che i collegati non avevano alcuna intenzione di farcelo
arrivare. Tuttavia essi, pur disponendo della netta superiorità numerica,
esitavano di nuovo ad attaccar battaglia. Si giunse così – grazie anche alla
mediazione dei consoli di Cremona, ansiosi forse di farsi perdonare
dall’imperatore il voltafaccia del 1167 ma restii a rompere con la Lega –
alla «pace» che, dal luogo nel quale fu siglata, fu detta di Montebello. Le
trattative furono condotte da una commissione di tre membri per ciascuna
parte, con l’accordo che eventuali divergenze sarebbero state composte dai
consoli di Cremona, i quali in questo modo sottolineavano ulteriormente la
loro neutralità concettuale. Per l’imperatore due dei tre plenipotenziari
erano italici (uno torinese e uno di Pavia); per la Lega essi erano Ezzelino
da Romano, Anselmo da Dovara e il giudice milanese Gerardo Pesta.
Anche i messi papali furono invitati ai lavori, ma pare che il loro contributo
non riuscisse fattivo. La Lega chiedeva, fra l’altro: che lo scisma avesse
termine; che l’imperatore si accontentasse di quelle prestazioni che le città
avevano reso all’impero prima di lui, e sulle quali tuttavia ci si riservava di
trattare a parte; che ciascuna città potesse liberamente eleggere i suoi
consoli; che la Lega stessa fosse riconosciuta e legittimata. I collegati si
dichiaravano disposti a pagare all’impero certe tasse, ma volevano da esso
il diritto a disporre dei regalia.
L’arbitrato dei consoli di Cremona manteneva sostanzialmente queste
richieste introducendo però due modifiche: primo, non si parlava più di fine
dello scisma: secondo, Alessandria avrebbe dovuto essere distrutta, fatti
beninteso salvi vita e beni degli abitanti. L’imperatore era disposto a cedere
su molti punti anche essenziali: ma – non essendo riuscito a staccare le città
della Lega da Alessandro – non mollava sulla questione ecclesiastica e su
tutto quel che poteva recar pregiudizio al prestigio dell’impero. Quanto
all’esistenza stessa di Alessandria, essa era per lui un intollerabile affronto.
A quel punto la situazione precipitò. L’alleanza col papa e il
mantenimento di Alessandria erano i due punti moralmente qualificanti
della Lega. Essa contestò quindi l’arbitrato dei consoli di Cremona e
abbandonò le trattative; l’imperatore, da parte sua, si asserragliò in Pavia
con le poche forze rimastegli e prese a tempestare di messi la Germania
affinché gli giungessero aiuti; concedeva intanto vari privilegi a Como,
chiave dei passi alpini verso la piana del Reno; inviava ordini in Toscana e
apriva trattative con re Guglielmo II di Sicilia – il quale, irritato per il suo
fallito matrimonio con la principessa greca, aveva stretto con Venezia un
accordo in funzione antibizantina – per dargli in sposa la figlia Sofia. Ma
papa Alessandro riuscì a impedire quelle nozze: e difatti il monarca
normanno di Sicilia avrebbe sposato Giovanna, figlia di Enrico II
d’Inghilterra.
Passò un altro inverno: com’era d’uso, quella non era stagione di guerra.
Ma Federico era in ansia perché conosceva bene la situazione generale e
sapeva fino a che punto le sue forze fossero esigue. In tali frangenti, c’era
soltanto un uomo al quale egli poteva ormai rivolgersi per aiuto. Proprio in
quell’inverno fra 1175 e 1176 Enrico duca di Sassonia e di Baviera doveva
già avere fra le mani, e sfogliarlo con grande ammirazione, il Vangelo
miniato da lui commissionato tre anni prima al monaco benedettino
Herimann dell’abbazia di Helmarshausen. Nel 1983 il preziosissimo codice,
dagli ori e dai colori ancor tanto freschi da sembrar usciti da poco dallo
scriptorium dove aveva passato tante lunghe giornate di lavoro il bravo e
paziente Herimann, fu venduto a un’asta della Sotheby’s di Londra per oltre
otto milioni di sterline: e appunto a quel prezzo, il governo della Bassa
Sassonia poté assicurarselo. Quel codice splendido rappresenta molto bene
le ambizioni di Enrico il Leone, allora nel pieno vigore degli anni e
all’apice della sua potenza. Egli amava i libri, e anche attraverso di essi gli
piaceva organizzare un’abile propaganda. Già attorno al 1170 aveva affidato
al prete bavaro Corrado, chierico di quella Ratisbona ch’era uno dei grandi
centri della cultura del tempo, l’incarico di celebrare le gesta della
cavalleria cristiana con un Rolandslied, versione tedesca a rime accoppiate
della Chanson de Roland; e Corrado si era servito a questo fine di un
originale francese della Chanson che gli era forse pervenuto attraverso la
stessa duchessa Matilde, la quale alla corte del plantageneto Enrico II non
aveva difficoltà a procurarsi pregevoli esemplari librari. Pochi anni dopo,
un anonimo discepolo di Corrado si sarebbe ispirato a Enrico il Leone e alla
sua crociata del 1172 per narrare le glorie dei cavalieri sassoni e le
meraviglie d’Oriente in un altro poema, il Reinfried von Braunschweig.
Tuttavia, nonostante la sua politica fastosa e indipendente – e le sue
scoperte ambizioni regali – il duca non poteva negare un colloquio
all’imperatore. I due cugini s’incontrarono nel gennaio del 1176 a
Chiavenna, la cittadina poche miglia distante da Como sulla via fra
Germania e Italia: essa apparteneva da una ventina d’anni al ducato svevo.
La tradizione ha circonfuso di colori drammatici l’incontro: Federico
sarebbe giunto a inginocchiarsi dinanzi al superbo duca, implorandone
l’aiuto. Ma alla proposta di questi – il suo soccorso in cambio della contesa
Goslar – il Barbarossa si sarebbe irrigidito nel rifiuto. È costante, nella vita
dello Svevo, questa fedeltà a princìpi ai quali l’autorità imperiale non può
venir meno: la sua flessibilità, che in più occasioni non è arretrata neppure
dinanzi all’opportunismo, s’arresta sempre di fronte alla barriera di scelte
accettare le quali sarebbe suscettibile di sminuire il nome e l’onore
dell’impero. A Montebello, gli sarebbe forse bastato accettare che
Alessandria potesse continuare a vivere; adesso, lo stesso accadde per la
cessione di Goslar.
Ma, al di là della concezione altissima di sé e della dignità della corona
imperiale, in lui era d’altronde anche il senso politico a parlare. A
Montebello aveva compreso che, se avesse accettato la clausola su
Alessandria, il suo prestigio in Italia sarebbe crollato; ora, a Chiavenna, si
rendeva conto che se avesse ceduto su Goslar il potere e il successo del
cugino in Germania non avrebbero più avuto limiti.
Respinto l’aiuto del Leone, non gli restava che contare su quanto in
Germania poteva esser raccolto dall’imperatrice e dai vassalli fedeli e
stringere i rapporti con gli alleati italici. Anche la Lega si andava
preparando: in quello stesso gennaio, a Piacenza, i rettori rinnovavano il
loro giuramento.
Le nevi si sciolgono, in primavera; si può di nuovo marciare attraverso i
passi alpini. L’erba cresce e i cavalli si rinvigoriscono dopo il lungo torpore
invernale. Arriva maggio e il cavaliere balza ardito in sella, come nelle
sculture romaniche e nelle canzoni trobadoriche.
A maggio erano già arrivati i rinforzi tedeschi, guidati dal cancelliere
dell’impero Filippo arcivescovo di Colonia. Non erano granché: forse, con
loro e con i pochi italici rimastigli fedeli, Federico raggiungeva i
quattromila cavalieri. Oltre all’arcivescovo di Colonia li guidavano quello
di Magdeburgo, il landgravio di Turingia, il duca di Zähringen, il conte di
Fiandra e altri nobili e grandi signori. Giunsero attraverso il passo di
Lucomagno, per la via di Bellinzona, e si acquartierarono con l’imperatore
a Como. Da lì, si mossero poi per raggiungere le truppe del marchese di
Monferrato e di Pavia, che si erano concentrate attorno a quella città e si
stavano adesso dirigendo verso nord. Gli armati della Lega – i fanti
milanesi con il carroccio e poi i cavalieri di Milano, di Vercelli, di Novara,
di Lodi, di Brescia e delle città venete – si erano attestati a metà strada circa
fra Como e Milano, forse in località San Martino presso Legnano, in modo
da controllare sia la strada proveniente da nord, sia il guado sul fiume
Olona.
È dubbio che una delle due parti cercasse la battaglia. Federico sapeva
bene di essere in condizione d’inferiorità numerica e anche tattica, visto che
il nemico si trovava in posizione topograficamente favorevole; gli premeva
piuttosto raggiungere i suoi alleati. Quanto alla gente della Lega, il loro
stesso attestarsi è indice di una precisa volontà difensiva. Del resto, i
collegati avevano un esercito in cui abbondavano i fanti, che nella tecnica
militare e nella mentalità del tempo erano utili nelle difese di castelli e città,
non però negli scontri campali. Si trattava di truppe reclutate dalle città
quartiere per quartiere e che – armate di lancia e scudo – avevano il
compito di sistemarsi in quadrato attorno al carroccio e di far siepe contro
gli attacchi della cavalleria, permettendo così ai loro cavalieri di
riorganizzarsi dopo il primo scontro.
Si è molto fantasticato, sulla battaglia di Legnano: e già a partire dal
cronista trecentesco Galvano Fiamma. Si è parlato di «Compagnie della
Morte» legate a sacri giuramenti, di segni, di prodigi. Notizie
incontrollabili, che però è possibile provenissero da una tradizione orale
nata già all’indomani della battaglia, in un’atmosfera imbevuta di echi
eroici.
La realtà verificabile alla luce delle fonti è meno romantica: ma ha pure i
suoi colori. Il 29 maggio 1176 fra Ticino e Olona, sulla strada di Pavia, i
cavalieri dell’avanguardia dei due eserciti si scontrarono: e gli imperiali, per
quanto assolutamente inferiori di numero – trecento contro settecento, a
quel che pare – sbaragliarono i nemici e li volsero in fuga. Ma fu vera fuga
o stratagemma tattico? Sta di fatto che nello scontro intervenne Federico
con tutta la sua cavalleria. La corsa all’inseguimento dei fuggiaschi si
arrestò, tuttavia, dinanzi alla folta siepe di lance dei fanti: i cavalieri della
Lega ebbero così modo di contrattaccare, soccorsi tempestivamente da
rinforzi che, giunti proprio allora, assalirono le file nemiche di fianco
provocandone lo scompiglio. Le forze della Societas erano senza dubbio
maggiori di quelle imperiali: i guerrieri a cavallo più o meno si
bilanciavano, ma i comuni lombardi potevano contare anche su qualcosa
come forse quattromila fanti. Furono la resistenza della fanteria e il nuovo
attacco della cavalleria lombarda a scardinare, congiunte, la compagine
imperiale. Lo stesso Federico, che combatteva al centro della mischia, a
fianco del suo vessillo, scomparve inghiottito dai flutti della battaglia e fu
dato per morto. A questo punto, le truppe imperiali si dettero alla fuga
disordinata: molti furono uccisi o annegarono nelle acque del Ticino;
soltanto qualcuno riuscì a mettersi in salvo entro le mura di Pavia recando
l’incredibile notizia: Federico, il signore del mondo, non è più, giace nella
piana fra Olona e Ticino; tutto è perduto.
Molti furono i prigionieri, qualcuno anche di altissimo rango: opulento il
bottino, gloria del quale – come trionfanti scrivevano i milanesi agli alleati
bolognesi – erano lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia dell’imperatore.
Venerabili cimeli, sacri nella mentalità del tempo al pari di reliquie: ma, in
quel momento, anche splendidi trofei di guerra, superbi pegni di vittoria.
Quella «lancia dell’imperatore» non era tuttavia la reliquia della Lancia di
san Maurizio, una delle più prestigiose dell’impero, che i sovrani romano-
germanici recavano talvolta in battaglia.
Federico era sopravvissuto allo scontro: si era nascosto con pochi
compagni, celandosi ai vincitori. Ancora una volta eccolo quasi solo,
braccato, forse travestito. Quando giunse a Pavia per strade traverse e
fuorimano, l’imperatrice aveva già indossato l’abito di lutto.
Era vinto, stanco, senza più armata. Ma era vivo. E bastò che questa
notizia si spargesse per togliere alla Lega una parte dei frutti della vittoria.
La sconfitta cedeva il passo all’offesa: i ribelli che avevano osato atterrare
lui – l’Unto, il Cristo del Signore, il Prescelto, la Legge incarnata sulla terra
–, si erano resi rei di lesa maestà. Federico voleva vendetta: e, al suo solito,
la chiamava giustizia. E il diritto romano gli dava ragione.
XIII
«In virga ferrea»
Nel 1175, le trattative di Montebello erano andate a monte anche perché i
comuni non avevano accettato la proposta dell’imperatore tesa a staccarli
dall’alleanza col papa. Ora, però, Federico si rendeva conto che non sarebbe
stato impossibile – a differenza di quanto era accaduto nel 1170 durante i
negoziati di Veroli – ottenere il contrario, cioè che fosse il papa ad
abbandonare i comuni.
Ve n’erano i presupposti: Alessandro, per quanto in condizioni di netto
vantaggio, desiderava chiudere al più presto lo scisma e sapeva che ciò non
sarebbe stato possibile se non fosse giunto a un accordo con il sovrano.
Inoltre, fra i membri della Lega cominciavano a serpeggiare tensioni e
risentimenti che ne facevano facilmente presagire una prossima crisi. 1
Ancora, le prospettive di un’alleanza antimperiale a tre fra papa, comuni e
re di Sicilia andavano sfumando. Infine, non si poteva evidentemente più
contare sull’appoggio del basileus Manuele che il 17 settembre era stato
clamorosamente sconfitto fra le montagne frigie, presso Myriokephalon
(sulle sponde settentrionali del lago Egridir, non lontano dall’attuale
Akshehir in Turchia), dalle truppe del sultano di Iconio. Federico aveva
puntato da tempo sull’alleanza col potente signore musulmano d’Anatolia,
incoraggiandolo a resistere contro i bizantini coglieva adesso i frutti della
sua politica vicino-orientale, che bilanciava l’influenza greca nei Balcani e
nell’Italia adriatica. Si può dire che Myriokephalon ripagasse il Barbarossa
sia dello smacco di Ancona, sia del rovescio di Legnano.
La notizia della sconfitta del basileus raggiunse rapidamente l’Europa
occidentale, con grande soddisfazione del Barbarossa e dei veneziani.
Difatti verso la fine d’ottobre una solenne ambasceria tedesca della quale
facevano parte Cristiano di Magonza e Wichmann arcivescovo di
Magdeburgo si presentava ad Anagni, dove allora risiedeva il papa, per
avviare trattative. Pare che il pontefice e i cardinali che lo attorniavano
sollevassero immediatamente la pregiudiziale della necessità che messi dei
comuni lombardi, del re di Sicilia e dell’imperatore di Costantinopoli
assistessero ai lavori: ma, dinanzi all’insistenza dei tedeschi, cedettero ben
presto e di buon grado pur riservandosi il diritto di tenere gli alleati al
corrente della situazione.
Altre preoccupazioni consigliavano al papa – ormai stanco e alle soglie
della vecchiaia – la prudenza nei confronti dell’imperatore. Francia e
Inghilterra erano di nuovo in guerra, mentre dalla Terrasanta non
giungevano notizie rassicuranti. Intanto il meridione francese, la pianura
padana, la Toscana, si andavano riempiendo di nuovi predicatori eretici:
sembravano propagandare, al solito, il ritorno della Chiesa alla purezza
delle origini, ma fra loro vagavano austeri prophetae nerovestiti, ascetici,
rigorosamente vegetariani, che provenivano dalla penisola balcanica e
diffondevano un credo nuovo basato sulla coesistenza di due princìpi divini,
uno buono e uno malvagio, uno della luce e uno delle tenebre. Erano i
cosiddetti «catari», che fino ai primi decenni del Duecento avrebbero
costituito quasi una Chiesa alternativa, un’antichiesa, e a debellare i quali
sarebbe stata necessaria una crociata.
Gli eretici attecchivano anche nelle città della Lega: perfino nella stessa
Milano. In queste condizioni, Alessandro si rendeva conto che la
normalizzazione dei rapporti con l’impero era necessaria. Del resto, la
stanchezza dello scisma serpeggiava negli ambienti prossimi al papa non
meno che in Germania. Verso il 1171 un anonimo autore romano,
componendo il trattato d’argomento antiscismatico De vera pace, si era
rivolto al papa per ricordargli solennemente che, nonostante il suo altissimo
ruolo, egli era pur sempre membro della Chiesa e come tale corresponsabile
delle sue tristi vicende. Alessandro si rendeva conto che era giunto il tempo
degli accordi coraggiosi.
Ma i colloqui preliminari di Anagni consigliarono il rinvio del definitivo
trattato di pace a una prossima solenne occasione. Intanto, Federico
s’impegnava a riconoscere Alessandro III come unico legittimo papa
rinnegando il giuramento di Würzburg di undici anni prima; inoltre avrebbe
restituito al legittimo pontefice tutti i regalia e i possessi del cosiddetto
«Patrimonio di San Pietro» che la Chiesa deteneva dai tempi di Innocenzo
II, nonché la prefettura di Roma (il che significava la rinuncia da parte
imperiale al governo diretto della città). L’imperatore s’impegnava a
restituire al papa anche i beni matildini, restaurando la situazione qual’essa
era al tempo del suo predecessore Corrado. Egli assicurava altresì – ed era
una clausola che il pontefice aveva insistito affinché fosse inserita nel
«pacchetto» delle trattative – che avrebbe al più presto fatto pace anche con
i comuni padani, con il re di Sicilia e con l’imperatore di Costantinopoli.
Quanto alla situazione gerarchica interna della Chiesa, Federico era
intenzionato a restaurare ai loro posti – o a insediare in posizione da
contrattarsi – i prelati fedeli ad Alessandro, ma non era beninteso disposto
ad abbandonare al loro destino quanti avevano fino all’ultimo, per fedeltà
nei suoi confronti, appoggiato – magari controvoglia – il papa imperiale. Si
stabilì pertanto che a colui che fino ad allora gli imperiali avevano
riconosciuto pontefice con il nome di Callisto fosse assegnata un’abbazia; i
suoi cardinali avrebbero conservato la porpora; il cancelliere Cristiano
avrebbe naturalmente mantenuto la cattedra archiepiscopale di Magonza,
ma Corrado di Wittelsbach – che l’aveva perduta per restar fedele ad
Alessandro – si sarebbe in cambio visto assegnare la prima sede tedesca
adeguata che si fosse resa disponibile. Il pontefice s’impegnava dal canto
suo tanto a incoronare Beatrice (che nel 1167 aveva ricevuto la corona
dall’antipapa) ed Enrico di Svevia, quanto a convocare al più presto un
nuovo concilio.
Si convenne di ratificare solennemente in un futuro convegno, da tenersi
a Ravenna o a Venezia, la pace così delineata. Ma una clausola segreta
dell’accordo stabiliva che, se l’imperatore non fosse riuscito a intendersi
con la Lega, egli e il papa avrebbero unilateralmente risolto tutte le
questioni ancora in sospeso mediante la nomina di un collegio arbitrale.
Mentre Alessandro III procedeva nella sua tattica di sganciamento – sia
pur condizionato – nei confronti dei comuni della Lega, Federico lavorava
alla frammentazione della sua del resto non più solida compagine di
fedelissimi italici e al recupero dei «ribelli» stipulando, nel dicembre,
accordi separati con Cremona e con Tortona. Sembra che molte città non
attendessero altro: specie i centri minori, evidentemente stanchi
dell’egemonia che quelli maggiori – e soprattutto Milano – esercitavano
sulla Lega, si affrettavano ora a riallacciare i rapporti con l’imperatore. Ma
anche alcune grandi protagoniste della lotta degli anni passati (Genova,
Torino, Pavia) facevano lo stesso, mentre i vecchi alleati feudali, quali il
conte di Biandrate, tornavano volentieri fra le braccia del Cesare svevo.
Federico, da esperto pescatore diplomatico, gettava instancabilmente le sue
reti: verso la costa tirrenica e il Piemonte da una parte, verso i centri
emiliano-romagnoli dall’altra.
I risultati della giornata di Legnano, insomma, rischiavano di venir
vanificati. L’accordo fra la Lega e il pontefice, vincente sul piano politico e
militare, si mostrava aggirabile su quello diplomatico nella misura in cui
poggiava su un equivoco: tanto la prima quanto il secondo avevano
combattuto nel nome della «libertà», ma la libertas comunale (cioè il
mantenimento delle autonomie e dei privilegi garantiti dalla consuetudine)
non era per niente la libertas Ecclesiae (che s’identificava
nell’indipendenza del sacerdotium rispetto al regnum, anzi nel prevalere di
quello su questo). D’altronde, la stessa alleanza dei comuni della Lega fra
loro era impiantata su una base d’argilla: lacerate da interne lotte per il
potere, le varie città componenti la Societas Lambardiae avevano interessi
fra loro contrastanti; solo il comune nemico le aveva tenute unite. Se
avevano vinto la guerra, rischiavano ora di perdere la pace: l’abbozzo di
convivenza a base federalistica nato fra il 1167-68 e il 1174 sul presupposto
della lotta contro il Barbarossa, ora che essa veniva meno, si scioglieva
come la brina della pianura padana sotto i raggi del primo sole. Il fatto che
certe città appartenenti alla Societas avessero accettato la pace separata era
molto significativo: evidentemente ciascuna stava ormai riprendendo a
pensare a se stessa. L’imperatore sapeva bene tutto ciò: e lavorava
sottilmente, continuamente, per allargare le crepe nella compagine
avversaria. È ovvio che avesse cura di far circolare per le città lombarde
alquanti particolari sugli accordi di Anagni: era suo interesse che i comuni
prendessero atto di come il papa ricambiava la loro fedeltà dei giorni di
Montebello.
S’inscrive in questa manovra la proposta che egli lanciò alla fine del
gennaio 1177: un nuovo concilio che decidesse fra Alessandro III e Callisto
III. I patti di Anagni non lo avevano del tutto soddisfatto, ed ecco ch’egli
tentava ora da un lato d’intimidire Alessandro, dall’altro di approfondire il
dissenso fra lui e i comuni lombardi. Ma l’idea fu abbandonata perché i
consiglieri imperiali e gli stessi ecclesiastici più vicini al trono – a
cominciare dal cancelliere Cristiano di Magonza e dal patriarca d’Aquileia
Uldrico – si opposero all’ulteriore rinvio di un accordo col papa che
avrebbe permesso, fra l’altro, il consolidamento dell’autorità dell’impero in
Italia per via diplomatica anziché militare.
Non c’era quindi altra via che giungere al più presto a una pace
definitiva. Ma le trattative si annunziavano difficili, a cominciare dalla
scelta della città nella quale le parti avrebbero dovuto incontrarsi. Federico
e i suoi proponevano l’amica Ravenna: ma, proprio in quanto essa era
filoimperiale, la controparte la rifiutava. In un primo tempo pare che
l’imperatore accettasse come controproposta Bologna: e fu su questa base
che Alessandro s’imbarcò per Venezia su una nave messagli a disposizione
dal re di Sicilia. Dalla città lagunare egli avrebbe potuto, sempre per via
d’acqua sfruttando il sistema dei fiumi e dei canali tra Brenta e delta
padano, raggiungere Bologna. Ma a Venezia gli ambasciatori imperiali lo
informarono che il loro signore si rifiutava di incontrarlo a Bologna, città
che gli era da molto (dopo l’idillio dei tempi dei giuristi irneriani…)
tradizionalmente ostile: rilanciava la proposta di Ravenna e in alternativa
indicava come possibili luoghi dell’incontro Pavia o la stessa Venezia.
Il papa volle allora consultarsi con i lombardi: trasferitosi a Ferrara ne
ricevette la delegazione e beninteso dovette subirne le rimostranze per come
aveva condotto – senza tener conto di loro – le trattative di Anagni.
Giunsero poi a Ferrara anche gli ambasciatori imperiali: dopo laboriose
trattative si stabilì che l’incontro fra i due luminaria del mondo latino si
sarebbe tenuto a Venezia, nonostante l’insoddisfazione dei rappresentanti
della Lega, i quali dal tempo dell’assedio di Ancona non si fidavano più
della città di San Marco. Alessandro tornò in quella città per fermarvisi
aspettando l’imperatore, mentre questi a sua volta vi si avvicinava con
molta prudenza. Dopo essersi insediato a Ravenna per buona parte del mese
di maggio, nel giugno si spostò nell’abbazia di Pomposa.
È calda e poco salubre l’estate, sul delta del Po. Passata la «Pasqua di
Rose» – la Pentecoste – nell’ombrosa quiete dei chiostri pomposiani,
Federico indugiava ancora: era evidente che non intendeva stipulare col
papa un accordo che coinvolgesse anche i comuni lombardi, e difatti
provocava la Lega con ammonimenti che somigliavano a minacce e con
pretese che sembravano volte a respingere la situazione all’indietro, ai
tempi di Roncaglia.
Era evidente che quella messinscena non preludeva affatto a una nuova
fase di rigore: il Barbarossa stava «bluffando», la sua era una mossa
mercantile per vender più cara la propria merce politica e diplomatica.
L’intensa frequentazione degli affaristi delle città italiche gli aveva
insegnato evidentemente un sacco di trucchi per aumentare il guadagno.
Ma Alessandro mangiò la foglia e tagliò corto: anche a lui interessava
del resto far pace con il sovrano e rientrare, con il suo appoggio, in Roma.
Questo contava, nell’immediato. Propose dunque che tanto il re di Sicilia
quanto i comuni accettassero per il momento una tregua con l’impero,
rinviando a più tardi i problemi più complessi ma che potevano ben
aspettare. Il delegato siculo-normanno, ch’era poi il cronista Romualdo
arcivescovo di Salerno, capì e stette al gioco: quelli della Lega, vistisi di
nuovo isolati, non poterono opporre alcuna resistenza. Federico, ormai
deciso a far cadere la cosa dall’alto, per accettare impose in segreto al papa
la condizione che si rivedesse quanto meno l’ispida, vecchia faccenda dei
beni matildini. Dietro a quella pretesa c’era forse una nuova mossa
diversiva, tesa a saggiare se Alessandro era davvero deciso a stipulare la
pace. E naturalmente si trattava di un’altra mossa personale, non è chiaro se
all’insaputa o contro il parere del cancelliere Cristiano.
L’imperatore, che intanto aveva abbandonato i miasmi e le zanzare
padane dell’estate pomposiana e si era trasferito a Cesena, salpò quindi da
Ravenna in luglio per installarsi verso il 20 a Chioggia, a pochi colpi di
remo dalla sede scelta per il convegno. Eppure, era ancora riluttante a
stipulare una pace che – se non altro perché lo avrebbe sollevato dalla
scomunica, atto che richiedeva una cerimonia formale per lui umiliante –
egli avrebbe dovuto affrontare in obiettive condizioni d’inferiorità. Sembra
che addirittura giocasse all’ultimo istante una nuova carta intimidatoria,
quella della sollevazione della fazione popolana di Venezia che avrebbe
forzato la mano al doge Sebastiano Ziani e avrebbe dovuto impaurire il
papa. Ma il fermo contegno di Alessandro e l’appoggio che la delegazione
siculo-normanna gli fornì presso il doge fecero fallire anche questa
macchinazione: ch’era stata del resto disapprovata con fermezza dal
cancelliere imperiale, stufo di trovarsi regolarmente scavalcato dai colpi di
testa del suo signore.
Fallite comunque tutte le manovre diversive, l’imperatore si adattò a
stipulare a Chioggia, il 21 luglio, una tregua di quindici anni con Guglielmo
II – ch’egli riconosceva finalmente quale re di Sicilia – e una di sei con i
comuni lombardi. Fra quel giorno e il seguente si stese anche l’atto di pace
fra papa e imperatore, che avrebbe dovuto essere ratificato a Venezia, e che
sostanzialmente riprendeva il trattato di Anagni.
In sintesi, Federico accettava di riconoscere Alessandro come legittimo
papa e veniva in cambio assolto dalla scomunica; a Callisto III, ovviamente
deposto, sarebbe stato assegnato il governo di un’abbazia; i vescovi ex
scismatici, tanto in Italia quanto in Germania, avrebbero ricevuto un
trattamento caso per caso adeguato e gran parte di loro sarebbe rimasta in
carica previo riconoscimento dell’errore commesso e relativa, onorevole
ammenda. Infine si annunziava un futuro concilio ecumenico nel quale la
vita della Chiesa sarebbe stata regolarizzata.
Il 24 luglio, vigilia della festa dell’apostolo Giacomo, Federico sbarcava
a Venezia di fronte alla chiesa di San Niccolò del Lido, dove tre cardinali
procedevano a liberarlo ritualmente e solennemente dalla scomunica; indi,
accompagnato dal doge, giungeva a San Marco dove, nell’atrio della
basilica, lo attendeva papa Alessandro. La cerimonia che allora ebbe luogo
era destinata a restare a lungo impressa nella memoria storica
dell’Occidente. I due vecchi antagonisti erano entrambi commossi fino alle
lacrime. L’imperatore si prosternò, e l’anziano pontefice fu sollecito nel
sollevarlo e nell’abbracciarlo concedendogli il bacio della pace mentre
attorno a loro s’innalzava solenne e trionfale il canto del Te Deum.
Sembravano lontanissimi i tempi di Würzburg, quando Federico aveva
giurato che mai per tutta la vita avrebbe riconosciuto Rolando quale capo
spirituale legittimo della Cristianità.
L’aneddotica successiva si è sbizzarrita su quell’incontro, che ai primi
del Quattrocento Spinello Aretino avrebbe illustrato negli affreschi del
palazzo pubblico di Siena mediante i quali il governo cittadino aveva voluto
onorare – mentre ancora durava un altro e ben altro scisma, che si sarebbe
risolto solo nel 1417 alla fine del concilio di Costanza – il suo illustre
concittadino di due secoli e mezzo prima, papa Bandinelli. Secondo un
diffuso racconto, quindi, Federico, nell’atto di prosternarsi dinanzi ad
Alessandro nel gesto del bacio della pantofola pontificia, avrebbe
mormorato: Non tibi, sed Petro («Non è dinanzi a te che m’inginocchio, ma
dinanzi al Principe degli Apostoli»): e il papa avrebbe replicato Et ego sum
Petrus: «Ma io sono appunto Pietro». Tradizioni insicure, magari posteriori
invenzioni che forse falsano la sostanza dello spirito dell’incontro senza
nulla aggiungervi di valido.
Quel che semmai ci piacerebbe sapere, è piuttosto l’impressione che
Federico ricevette di Venezia. Da giovane aveva ammirato lo splendore di
Costantinopoli, ma ormai da trent’anni si moveva tra le città e i castelli
d’Italia e di Germania: può darsi che dinanzi alla visione di quella città sul
mare e del suo porto – anche se la cattedrale di San Marco non era ancor
decorata dei quattro fatidici bronzei cavalli razziati dalle rive del Bosforo –
il sovrano tedesco si rendesse intuitivamente appieno conto di che cosa
potesse rappresentare la forza della politica, del commercio, del danaro e
della diplomazia delle città italiche rispetto al suo mondo ancora arretrato e
arcigno. Venezia, certo, non era ancora la fastosa città di marmi e di bronzi
dorati che sarebbe divenuta dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204,
quand’essa si sarebbe abbellita delle spoglie della Nuova Roma. Il cronista
Goffredo da Viterbo testimonia comunque che l’imperatore rimase
impressionato dai veneziani – gli aristocratici che attorniavano il doge, ma
anche i mercanti, gli armatori, forse gli stessi popolani negli abiti di festa –,
tanta era la sontuosità delle loro vesti e l’eleganza del loro portamento.
Venezia era la porta dell’Oriente: ed era all’Oriente che Federico – ora che
la tregua con il re di Sicilia gli consentiva di tornare a pensare a una politica
mediterranea, sia pure su basi diverse da quelle che avrebbero presupposto
la conquista dell’isola – tornava a guardare. 2
Il 25, festa dell’apostolo venerato a Compostela, il papa celebrò
solennemente la pace con una messa e un lungo sermone in latino, che
Federico si fece puntualmente tradurre. Alla fine della cerimonia, il
pontefice trattenne a malapena l’imperatore che a ogni costo voleva
prestargli l’ufficio della staffa. Ventidue anni prima, il rifiuto di compiere
questo gesto aveva portato papato e impero sull’orlo della rottura: ma ormai
lo Svevo era cambiato. E, soprattutto, erano cambiati i tempi.
Con la sua splendida abilità a far buon viso a cattivo gioco, con la sua
intelligenza prontissima che – se talvolta lo conduceva a far qualche passo
falso – gli consentiva sempre di rimediare all’imprudenza e spesso alla
superficialità dettate forse dai connotati impulsivi della sua indole con una
duttile adesione alla realtà delle cose, a Venezia Federico seppe utilizzare a
fondo il suo fascino e il prestigio della sua corona. Il 1° agosto, ratificando
solennemente la pace col papa e la tregua col re di Sicilia e con i comuni,
pronunziò in tedesco un’allocuzione abilissima che traduceva nei termini
della regalità sacra il concetto cristiano dell’umiltà quale via regia verso
l’esaltazione: anche chi è rivestito del potere e della gloria dell’impero di
Roma può errare, per ignoranza, ché neppure la dignità imperiale preserva
dalla debolezza della condizione umana; eppure, ciò non toglie che tale
dignità permanga intangibile, al di sopra delle contingenze. C’è da chiedersi
quali reazioni avrà destato un discorso del genere nel cancelliere Cristiano
che lo traduceva in latino e che da mesi si era dato da fare in ogni modo per
impedire che la diplomazia approssimativa dello Svevo mandasse all’aria le
prospettive di pace mentre veniva adesso a sapere dalla viva voce del suo
signore che questi, se mai aveva commesso qualche passo falso, lo aveva
fatto per ignoranza, il che vuol dire mal consigliato!
Eppure, i suoi «cattivi consiglieri» nel complesso lo avevano servito
bene: ed egli lo sapeva. Il pur irruento e orgoglioso Cristiano di Magonza,
che non era stato in passato esente da errori nel condurre le trattative con i
comuni, aveva costantemente lavorato – dall’indomani di Legnano in poi –
a convincerlo che bisognava assolutamente battere l’alleanza tra papa e
comuni lombardi, e che l’unico modo per farlo consisteva nel rappacificarsi
senza possibilità di ritardi o di equivoci – costasse quel che costasse – con il
pontefice. Giocava in ciò anche la preoccupazione dell’ecclesiastico che
non intendeva rischiar di perdere l’opulenta cattedra archiepiscopale di
Magonza? Forse. Senza dubbio, comunque, la linea da lui proposta era
quella vincente: e il malumore del Barbarossa, i suoi tentati colpi di testa tra
il gennaio e il luglio del 1177, sono la prova migliore del fatto che il
sovrano sapeva benissimo che il suo cancelliere aveva ragione, per quanto
l’orgoglio gli impedisse di aderire a una scelta che avrebbe comportato
l’umiliazione di dover rinnegare una linea politica assunta con decisione
fino dai tempi di Rainaldo di Dassel.
Romualdo di Salerno, riferendoci il testo dell’allocuzione da lui tenuta il
1° agosto quale plenipotenziario del re di Sicilia, ci offre una chiave
interpretativa ulteriore. Il suo re non aveva mai inteso combattere contro un
sovrano che era suo fratello in Cristo e che anzi, come imperatore, era il
difensore più prestigioso della Chiesa. Missione dei re cristiani è non il
combattersi fra loro, bensì il guerreggiare tanto contro gli infedeli quanto
contro quei falsi cristiani che li appoggiano: come faceva il basileus
Manuele tanto in Anatolia quanto in Africa settentrionale, dove la
diplomazia bizantina brigava in ogni modo per impedire al re siciliano di
acquistare un’egemonia di fatto sui potentati musulmani. Era un discorso
abile, che teneva conto del fatto che Alessandro III aveva più volte
manifestato il desiderio di organizzare una nuova crociata e che i veneziani
odiavano il basileus Manuele dopo che questi li aveva cacciati, nel 1171,
dal suo impero. L’intesa a quattro fra imperatore, papa, re di Sicilia e
Venezia isolava ulteriormente la Lega lombarda e cancellava il paziente
lavoro bizantino di penetrazione in Italia, mentre riproponeva lo scacchiere
orientale – e non solo quello musulmano – come teatro della futura
espansione latina.
Nella pace di Venezia si delineano già, in embrione, le condizioni
spirituali e politiche che avrebbero presieduto alla terza e alla quarta
crociata.
Federico si trattenne a Venezia fin oltre la metà di settembre: furono
settimane di intensi rapporti diplomatici, dei quali ci resta puntuale traccia
nella documentazione della cancelleria imperiale. Infine partì per una lunga
ricognizione attraverso i due regni d’Italia e di Borgogna, che lo avrebbe
impegnato per un anno intero: sarebbe passato, quasi dappertutto
trionfalmente accolto, attraverso la Romagna, le Marche, l’Umbria, la
Toscana, nei confini della quale avrebbe dimorato l’intero gennaio 1178,
per visitare poi Genova, sostare fra il marzo e il maggio a Pavia,
attraversare le terre del marchese di Monferrato e il Piemonte e di lì recarsi
in Borgogna dove il 30 luglio, nell’antica e venerabile città romana di Arles
– sacra alle memorie epiche delle chansons e capitale del regno burgundo –
ne avrebbe nuovamente cinto la corona.
Beninteso, questo, che potrebbe sembrare un giro trionfale, aveva al
contrario una precisa funzione politica. L’imperatore sapeva bene che, come
sempre soleva accadere, la lunga ancorché necessaria assenza dai confini
della Germania – e dal regno tedesco mancava ormai dall’estate del 1174 –
gli sarebbe stata fatta pagare in termini politici molto pesanti: e,
apprestandosi a rientrarvi, intendeva riaffermare la sua piena autorità in
Italia e Borgogna in modo da guardarsi definitivamente le spalle, poiché
sapeva che una sua prossima discesa in quei paesi non avrebbe potuto
essere troppo ravvicinata nel tempo. Non era certo un caso che alla fine del
settembre 1177, cioè poco dopo la pace di Venezia, anche Luigi VII di
Francia ed Enrico II d’Inghilterra avessero stipulato fra loro, a Nonancourt,
una nuova pace. L’alibi era il solito, tipico del XII secolo: le difficoltà
attraversate dal regno di Gerusalemme e la necessità che i re cristiani
d’Occidente sostenessero la Terrasanta assediata dai musulmani. In realtà,
non è difficile scorgere in filigrana, dietro questa pace, la preoccupazione
d’una ripresa della politica ecumenica di Federico, ora che il papa sembrava
passato al suo fianco: e ciò è confermato dall’intensificarsi delle trattative
diplomatiche franco-bizantine in quel medesimo periodo.
In questa prospettiva l’incoronazione di Arles suonava dura
ammonizione al re di Francia: non credesse che l’imperatore, immerso nelle
questioni tedesche e italiche, fosse disposto a cedere un palmo del suo
regno occidentale, né a considerar solo formale il suo diretto potere fino al
Rodano!
Si andava frattanto perfezionando, alla luce della concordia finalmente
raggiunta, il risultato principale della pace di Venezia: la liquidazione dello
scisma e il reinsediamento di Alessandro III nella sua sede romana, ancora
occupata dall’antipapa. Questa era la consegna che Federico, partendo
nell’autunno 1177 da Venezia, aveva lasciato al cancelliere Cristiano.
Difatti, fra l’inverno del 1177 e la primavera del 1178 l’arcivescovo di
Magonza, divenuto scorta fedele del pontefice, lo accompagnò fino a Roma,
dove – non prima però di aver giurato di mantenervi il libero comune – il
papa fu trionfalmente accolto in marzo dai senatori e dal popolo romano, in
una selva di vessilli, di croci, di trombe, di rami d’olivo. Il povero Callisto
III, che non a torto si sentiva tradito, rifiutò di sottomettersi e continuò, da
Viterbo, a proclamarsi il solo e vero papa. Cristiano occupò allora la città
laziale col favore dei populares della città stessa e nonostante la resistenza
dei nobili che, sostenuti dal praefectus Urbi Giovanni di Vico, invocavano
l’aiuto di un partigiano dell’imperatore divenuto però fiero nemico del
cancelliere Cristiano: si trattava del già leggendario figlio di Guglielmo di
Monferrato, Corrado, al quale la nobiltà viterbese giunse a offrire la
signoria della città. La lotta per il potere fra nobili e popolani si aggiungeva
quindi ai postumi della lunga contesa tra il papa e l’imperatore,
complicandone l’appianamento. Tutto era però inutile: Callisto lo comprese
e, alla fine di agosto, si recò a Tuscolo, dove Alessandro teneva corte, per
sottometterglisi e tornare così Giovanni di Strumi. Era in fondo un
sant’uomo, e non sembra generoso pensare che non avesse agito in buona
fede: la sua stessa ingenua ostinazione, tutto sommato, parla il linguaggio
della sincerità piuttosto che quello della cieca sete di onori e d’un potere
che non aveva d’altronde mai esercitato. Alessandro III lo trattò con
clemenza, com’era senza dubbio giusto e ragionevole.
Frattanto, il pontefice andava predisponendo l’atto finale del suo trionfo
e del ritorno all’unità della Chiesa: un nuovo concilio ecumenico, che in
effetti si tenne tra il gennaio e il marzo 1179 in Laterano. Erano presenti
centinaia di prelati provenienti da tutta Europa e dall’Oltremare: fra gli altri
c’erano il filosofo Giovanni di Salisbury ch’era stato cancelliere di
Tommaso Becket, il cronista del regno franco d’Oltremare Guglielmo
vescovo di Tiro, il canonista e teologo Pietro Mangiatore, il non ancora
famoso scrittore Walter Map. Si regolarono i princìpi che sanzionavano le
elezioni papali; si dette un’ultima sistemazione alle varie questioni nate
dallo scisma che si stava allora concludendo; si definirono i caratteri
d’idoneità nelle funzioni dei vescovi e dei sacerdoti; si emanò una serie di
decreti relativi alla disponibilità dei beni temporali delle chiese; si presero
misure contro il traffico venale delle nomine ecclesiastiche, il concubinato
dei chierici, la sodomia; si proibirono l’usura e l’esportazione verso i paesi
musulmani di armi e di beni che potessero servire alla guerra. Ma
soprattutto si avviò la lotta contro le comunità ereticali che ormai erano
fortissime, specie in zone come la Provenza e la stessa Lombardia. In
particolare, il catarismo aveva trovato tanti adepti che anni prima il conte di
Tolosa aveva potuto scrivere che nel suo paese le chiese erano vuote.
I fedeli erano attratti non già dalla complessa sostanza mitico-teologica
del messaggio cataro, bensì dallo stile di vita dei santoni catari, i «perfetti»,
e dalla loro predicazione per una nuova Chiesa semplice e povera, a
somiglianza del Cristo. Il Concilio lateranense rispose con una serie di
misure rigorosissime, basate sull’equiparazione dell’eresia al crimen lesae
maiestatis. Tale principio poteva d’altronde appoggiarsi al dato obiettivo
secondo il quale, in quello stesso concilio, il papa rivendicava per sé la
plenitudo potestatis, cioè la supremazia in termini di auctoritas su
qualunque potere temporale. Alessandro III portava così a solenne
compimento la linea ierocratica inaugurata oltre un secolo prima da
Gregorio VII e che sarebbe stata, circa vent’anni dopo, ripresa con estremo
vigore da Innocenzo III. Eppure, una volta di più tornava la vecchia
contraddizione: per quanto si dicesse signore del mondo, e avesse fondati
motivi per dirsi tale e mezzi effettivi per esercitare sull’Occidente latino
questa sua signoria, il pontefice aveva sempre un punto debole, la sua città.
Nel giugno il papa che due anni prima aveva trionfato sul Barbarossa e che
da pochi mesi un grande concilio aveva acclamato dominus mundi dovette
di nuovo fuggire da Roma dove poco dopo sarebbe stato eletto, sia pure per
pochi mesi, un antipapa, Lando di Sezze, che prese il nome di Innocenzo III
(lo stesso nome che sarebbe stato poi assunto di nuovo nel 1198 da Lotario
di Segni, il grande papa del IV Concilio lateranense) e tenne la cattedra
pontificia fino ai primi del 1180, quando fu relegato nel monastero di Cava.
Cristiano di Magonza cercò disperatamente, secondo gli ordini ricevuti
dall’imperatore, di restaurare l’autorità pontificia entro i confini del
Patrimonio di San Pietro: ma si trovò contro il fiero e valoroso figlio del
marchese di Monferrato, Corrado. Questi lo odiava perché gli rimproverava
– e non a torto – di esser stato con i suoi consigli il maggior artefice della
tregua del 1177 tra comuni e imperatore: una tregua che certo non favoriva
gli interessi dei feudatari italici fino allora fedelmente schierati dalla parte
di Federico. Inoltre, grazie soprattutto ai suoi rapporti con i conti Guidi,
Corrado aveva notevoli interessi in Italia e nello stesso Patrimonio di San
Pietro, nel quale – come abbiamo visto – non esitava a mirare a forti poste
in gioco: per esempio la signoria della stessa Viterbo. Egli seppe porsi a
capo di una lega stipulata contro Cristiano che univa anche le città di
Firenze, Pisa, Pistoia e Lucca; e verso la fine del settembre 1179 riuscì
addirittura a catturare il cancelliere imperiale trascinandolo prigioniero
nell’area del Patrimonio che egli teneva sotto controllo.
Mentre Cristiano languiva nelle carceri di Montefiascone il fratello di
Corrado, Bonifacio, volava a Costantinopoli per trattare il trasferimento
dell’illustre prigioniero in territorio bizantino.
Il basileus, infatti, era ben lungi dal considerarsi battuto sul fronte
italico. Se papa, comuni e re di Sicilia avevano lasciato da parte l’appoggio
di Manuele per riaccostarsi a Federico, era evidente che tutti gli
insoddisfatti della pace del 1177 divenivano suoi potenziali alleati.
Cominciò da allora, di qui, la straordinaria avventura orientale dei
Monferrato che nel giro di un quarto di secolo avrebbe condotto prima e per
breve tempo Corrado sul trono di Gerusalemme e, più tardi, Bonifacio su
quello di Tessalonica. Pochi mesi dopo l’imprigionamento di Cristiano, cioè
nel febbraio 1180, l’ultimogenito del marchese Guglielmo V, il diciottenne
Ranieri, aveva sposato a Costantinopoli la principessa primogenita Maria,
figlia di Manuele, che aveva circa tredici anni più di lui. Secondo l’uso
bizantino, Ranieri assunse un nuovo nome, Giovanni, e ricevette il titolo di
Cesare. Oltre a questo matrimonio, nel febbraio 1180 si celebrava anche
quello tra Alessio (figlio di Manuele e già incoronato basileus) e Agnese,
figlia di Luigi VII di Francia. Le norme della successione stabilivano che,
qualora il matrimonio tra Alessio e Agnese fosse rimasto sterile, la corona
sarebbe passata alla primogenita del basileus Manuele, Maria, e alla sua
discendenza. In questo modo, il giovanissimo Ranieri-Giovanni vedeva
profilarsi addirittura, fra le sue possibili prospettive, il trono sul Bosforo.
Un sogno di fiaba, per un cavaliere piemontese.
Federico assisteva con perplessità e inquietudine, ma da lontano, a
queste vicende. Il suo impero, la Tunica Inconsutile del Cristo, si stava
strappando da tutte le parti: e di continuo, con una volontà di ferro e con
un’altissima coscienza della sua dignità e della sua missione, egli correva a
ripararne gli strappi. Se nel 1177 aveva sia pure di malavoglia accettato di
rimangiarsi lo scisma, far pace con papa Alessandro e tregua con i comuni
seguendo il consiglio del non mai particolarmente amato Cristiano di
Magonza e addirittura alienandosi con ciò le simpatie di alcuni dei suoi più
fedeli feudatari – e s’è ora brevemente considerato il caso emblematico dei
Monferrato – , il fatto era che ormai non erano più il papato e la penisola
italica a fornirgli le più gravi preoccupazioni. Notizie allarmanti gli
giungevano dalla Germania, da dove mancava da troppo tempo e dove la
politica di Enrico il Leone stava ormai scardinando le basi di quell’ordinato
viver civile che il Barbarossa aveva impiegato un quarto di secolo a
costruire. Egli agiva quasi da sovrano assoluto nei due ducati di Sassonia e
di Baviera, impedendo con la sua azione di governo quell’integrazione fra
le dimensioni territoriale e feudale del potere ch’era ormai diventata uno
degli obiettivi di Federico. L’imperatore, inoltre, non perdonava al cugino il
comportamento tenuto nel 1176, durante il colloquio di Chiavenna, al quale
probabilmente attribuiva – a torto o a ragione – la principale causa del più
umiliante e cocente insuccesso della sua vita: Legnano.
Federico era rientrato in Germania nell’autunno del 1178, dopo
l’incoronazione di Arles e dopo un devoto pellegrinaggio al santuario
occitano di Saint-Gilles-du-Gard. L’11 novembre, festa di San Martino, si
aprì a Spira una grande dieta dell’impero durante la quale vennero
presentate le querele contro Enrico da parte di alcuni nobili e soprattutto di
prelati quali Ulrico di Halberstadt e Filippo di Colonia. In effetti, il duca di
Sassonia e Baviera aveva sempre aderito allo scisma imperiale, e non certo
di ciò Federico avrebbe mai potuto fargli carico: aveva assunto però lo
scisma come alibi per appropriarsi di vasti domini ecclesiastici e per
esercitare nelle diocesi soggette al suo potere un controllo di gran lunga più
duro di quanto l’imperatore stesso non si sarebbe mai sognato di fare.
Era stato a causa sua se, addirittura, parecchi vescovi tedeschi avevano
dovuto disertare il Concilio lateranense del 1179. Era del resto naturale che
gli accordi di Venezia in materia ecclesiastica danneggiassero Enrico e certi
suoi sostenitori che egli aveva favorito: e che pertanto il duca non avesse
intenzione alcuna di aderirvi. Ma tutto ciò si configurava agevolmente, al
cospetto del sovrano, come tradimento. I fatti emersi durante la dieta di
Spira dettero a Federico il pretesto per toglier di mezzo una volta per tutte
un potere che aveva trasformato il regno tedesco in una sorta di diarchia e
per condurre a compimento l’opera, iniziata nel 1152, di eliminazione dei
ducati etnici e di razionalizzazione dei rapporti feudali.
Enrico fu condannato a due diversi livelli e secondo due diverse
procedure giudiziarie. Fra il gennaio e l’agosto del 1179, nelle successive
diete di Worms, di Magdeburgo e di Kayna, lo si giudicò – beninteso in
contumacia, giacché egli non si degnò di presentarsi – secondo il
Landrecht, il diritto territoriale: erano i nobili sassoni ad accusarlo, e il
processo si chiuse con il bando regio scagliato contro di lui.
Successivamente, fra gennaio e aprile del 1180, prima nella dieta di
Würzburg e quindi in quella di Gelnhausen lo si giudicò secondo il
Lehenrecht, il diritto feudale: e in tali assise egli fu dichiarato fellone e
ribelle al suo signore. Tutto ciò comportava sia il decadimento dai diritti
feudali, sia la confisca dei beni allodiali: data la straordinaria estensione nel
suo caso degli uni e degli altri, la sua condanna coincideva con la necessità
di una generale riorganizzazione del regno di Germania. Difatti il ducato di
Sassonia fu, appunto nell’aprile del 1180, definitivamente smembrato: la
parte orientale di esso passò – mantenendo il nome di Sassonia – a
Bernardo III di Anhalt, mentre quella occidentale – che noi meglio
conosciamo come Westfalia – veniva attribuita a Filippo, arcivescovo di
Colonia. In giugno, durante la dieta di Ratisbona, ci si occupò invece della
Baviera, che venne aggiudicata a Ottone di Wittelsbach dopo averne però
ritagliata la Stiria, la quale fu a sua volta elevata a ducato autonomo sotto
l’autorità della casa dei conti di Andechs. Questa ridefinizione feudo-
territoriale avrebbe trovato compimento nel 1182-87, allorché Federico
avrebbe staccato dal ducato di Boemia (ormai avviato a divenire un regno)
la Moravia, a sua volta elevata a ducato indipendente, e il principato
vescovile di Praga, subordinandoli entrambi direttamente alla corona. Si
compiva così in via definitiva la cancellazione di quanto restava degli
antichi «ducati etnici» e l’organizzazione del regno di Germania secondo
una rigorosa piramide gerarchica al vertice della quale, immediatamente al
di sotto dell’imperatore, stavano i Reichsfürsten, i «principi dell’impero»:
cioè quei duchi, marchesi o prelati che dipendevano direttamente dal
sovrano e che godevano di un’indipendenza territoriale relativamente
ampia.
Beninteso, le varie diete avevano definito sul piano giuridico la nuova
realtà: si trattava ora di porla in pratica, giacché il deposto Leone non
sembrava avere alcuna intenzione di ritirarsi in buon ordine. Federico aprì il
25 luglio del 1180 la campagna contro il cugino; una ventina di giorni dopo,
nella festa dell’Assunzione della Vergine, poteva promulgare solennemente
in Werla – antico centro della dinastia sassone – l’ordinanza che scioglieva
tutti i vassalli dell’ex duca Enrico dal giuramento di fedeltà: il che
implicitamente equivaleva a una sentenza di bando per quanti a tale
giuramento avessero voluto invece tener fede.
Accadde allora quel ch’era prevedibile: per quanto forse Enrico si fosse
a lungo illuso del contrario. Il suo temperamento gli aveva fatto commettere
tante soperchierie a danno dei suoi fideles che questi, pur temendolo, non lo
amavano: al momento opportuno lo abbandonarono quasi tutti, fuorché
alcuni con i quali egli contava di resistere a oltranza a nord, nello
Schleswig. Ma la diplomazia di Federico aveva lavorato con cura
nell’intenzione di privarlo di qualunque appoggio: sia quello del re di
Danimarca, sia quello di Lubecca, che l’imperatore accettò di riconoscere
come città libera direttamente ed esclusivamente dipendente da lui.
A quel punto Enrico, ottenuto qualche passeggero successo in Turingia,
si asserragliò in Stade, ma dovette ben presto riconoscere che la sua causa
era perduta: fu da sconfitto, in veste di penitente e di supplice, che egli si
presentò nel novembre del 1181 a Federico e ai nobili tedeschi riuniti nella
dieta di Erfurt. Erano anni che i due cugini non si vedevano: e lì, ancora una
volta, Federico palesò contemporaneamente due aspetti della sua
personalità se non contraddittori, certo difficili a coesistere: la tendenza alla
generosa – perfino sentimentale – commozione sul piano personale e la
durezza inflessibile a proposito di quanto atteneva all’honor imperii. Si
protese verso il cugino prostrato ai suoi piedi, lo rialzò commosso, lo
abbracciò, pianse con lui; ma come imperatore non poteva perdonarlo. Si
privò volentieri dei beni allodiali di Enrico, che aveva aggregato ai suoi
secondo il diritto di confisca, e glieli restituì per intero: ma gli negò quelli
feudali e lo condannò al bando per la durata di tre anni. Al Leone non
restava che riparare con triste dignità in Normandia, presso la corte del
suocero Enrico II.
Della strana, affascinante e «resistibile» ascesa di Enrico il Leone, a
guardarla a distanza, quel che oggi più profondamente tocca – assieme al
leone bronzeo e al sepolcro del duca nella diletta Braunschweig – è una
reliquia letteraria: e abbiamo già visto quanto egli amasse i bei libri e i
poemi che esaltavano le sue gesta. Lo Herzog Ernst («il duca Ernesto») è
un poema giullaresco scritto da un anonimo rimatore bavaro al tempo del
più duro conflitto fra il Barbarossa e il Leone: narra di un perfido
imperatore che, sulla base di vergognose calunnie, tenta di strappare la
Baviera al fido e buon duca Ernst ch’è pur suo figliastro. Questi, dopo
un’inutile resistenza, accetta di andare in esilio in Terrasanta e in Oriente. Lì
lo attendono le più meravigliose avventure attinte alla tradizione dei
favolosi viaggi di Alessandro Magno e alla letteratura teratologica antica:
gli incontri e le lotte contro le popolazioni dei pigmei, degli arimaspi da un
solo occhio, dei panoti dalle grandi orecchie, degli uomini-gru dal lungo
becco. All’antropologia fantastica fa riscontro la geografia fantastica che
coniuga Plinio con i viaggi di Sindbad: il Monte dei Gioielli, il Monte della
Calamita, il Mare Vischioso. Reduce molto tempo dopo da queste
avventure, il duca Ernst donerà al suo sovrano in segno di pace, durante la
messa della notte di Natale celebrata nel duomo imperiale di Bamberga, la
mirabile gemma dagli arcani poteri, der Waise, «l’unica», tratta dal Monte
dei Gioielli e che da allora adornerà la corona imperiale.
Va a questo punto sottolineato un evidente ma anche complesso gioco di
parole. Il nome proprio Ernst è nel linguaggio volgare sassone, poi passato
alla lingua tedesca, la stessa parola dell’aggettivo ernst, che significa
«serio», con un arco semantico che dal concetto di «severità» e di «lealtà»
giunge a sfiorare quello di «gravità» e perfino di «sventura». Il duca Ernst è
un eroe vittorioso, ingiustamente perseguitato eppure rimasto leale e fedele.
È così che si vedeva il duca bavaro divenuto sassone, che aveva combattuto
i barbari pagani dell’Europa orientale e aveva conosciuto i lunghi viaggi, il
fasto di Costantinopoli, i cieli della Terrasanta?
Sul piano effettivo, magari il duca Enrico non somigliava forse granché
al duca Ernst quanto a fedeltà: eppure si è tentati di immaginare che vi si
identificasse, nei tristi giorni dell’esilio, ripensando ai tempi gloriosi del suo
«pellegrinaggio» a Gerusalemme del 1172, quando pareva davvero che
nelle sue mani fosse, se non proprio il fulgido Waise, quanto meno il
destino dell’impero germanico.
Lo scardinamento del potere del Leone doveva, comunque, avere dei
contraccolpi: il più spettacolare di essi fu lo svincolarsi della Danimarca
dalla soggezione feudale rispetto all’impero. Re Valdemaro l’aveva
mantenuta, subendo tuttavia soprattutto l’influenza del duca di Sassonia: ma
Canuto VI, che gli succedette nel maggio 1182, non esitò a denunziarla. Fu,
quello, un grave smacco per Federico: se l’imperatore voleva continuare a
presentarsi come dominus mundi, quindi rex regum, aveva ben bisogno di
qualche regulus che ne riconoscesse la sovranità. E tuttavia, paragonata alla
vittoria su Enrico il Leone, quella perdita era – politicamente parlando –
poca cosa.
Gli anni della lotta contro Enrico il Leone segnano in effetti un
mutamento di rotta nella politica di Federico in Germania. Egli continua,
beninteso, a pensare alla sua dinastia: persevera quindi non solo in tutte
quelle scelte atte a legare definitivamente le corone imperiale, tedesca,
italica e burgunda alla casa di Svevia, ma anche nel disegno di rafforzare
l’autorità sua e del suo casato mediante la costruzione di un sempre più
esteso e solido patrimonio familiare arrogandosi territori importanti in
Svevia, Sassonia, Turingia e perfino Lusazia, in modo da poter sorvegliare
anche lo scacchiere nordorientale del regno di Germania. Su tutte queste
terre insedia fidi ministeriales e fonda solidi castelli.
Ma è all’organizzazione feudo-territoriale del regno tedesco che bisogna
guardare per comprendere in che senso, dal 1180 in poi, stia nascendo una
nuova Germania. I Reichsfürsten, i «principi imperiali», direttamente
dipendenti dall’imperatore e radicati ciascuno in ben precisi e delimitati
territori, con prerogative ampie ma anch’esse precise, ne costituiscono
ormai la solida struttura di fondo: e con ciò preludono a quel carattere
«feudale» che sarà da allora in poi tipico della storia tedesca (e che ha ben
pochi e superficiali legami, a parte il permanere di qualche norma e di
alcuni toponimi, con il suo precedente carattere «tribale»). I Reichsfürsten
prestano omaggio direttamente ed esclusivamente al sovrano: sono vassalli
suoi e solo suoi. Al di sotto di essi, si viene ordinando una gerarchia feudale
che si scandisce dapprima in tre Stände, tre Ordines (principi ecclesiastici,
principi laici, nobili) e più tardi si suddivide ancora, fino a raggiungere nel
XIII secolo il numero di sei o sette gradi gerarchicamente subordinati. È il
sistema che i successivi giuristi tedeschi hanno chiamato Clipeus militaris,
cioè Heerschild, la stabilità del quale è garantita dall’istituto del
Leihenzwang, la reinvestitura obbligatoria, in forza della quale nessun feudo
può rimanere vacante e le norme per l’attribuzione di ciascuno di essi sono
accuratamente stabilite. L’espressione Clipeus militaris, «Scudo
cavalleresco», dipende dal fatto che l’istituzione nasce dal diritto, detenuto
da ciascun titolare di feudo, di chiedere determinate prestazioni guerriere ai
suoi vassalli; ma il suo significato era destinato ad avere ben altro, diverso
peso storico-istituzionale.
In sintesi, il sistema piramidale delineato dallo Heerschild è molto
semplice. Al vertice v’è il re. Seguono i Reichsfürsten, poi i vari nobili
ecclesiastici o laici che dipendono da loro, indi i freie Herren, i «liberi
signori» (concetto in francese ordinariamente tradotto con la parola baron,
derivata alla lontana dal latino vir e indicante il concetto di «valoroso
vassallo» e anche di «uomo maschio», come il castigliano varón). In certe
zone si ammisero ben presto alla dignità cavalleresca anche i ministeriales,
che liberi non erano ma che anzi per nascita conservavano la macchia della
condizione servile e che ciò nonostante, insigniti della cintura cavalleresca e
divenuti pertanto Ritter, non potevano mai ambire alla qualifica di Herren,
«signori»: essi andavano a costituire una bassa «nobiltà di servizio» che
poteva bensì ricevere feudi, ma non concederne (non poteva quindi ricevere
giuramento di fedeltà da nessuno; non era in grado di avere vassalli).
Intanto i ranghi della cavalleria si andavano «chiudendo» in Germania,
com’era già accaduto in Inghilterra e nel regno siculo-normanno. Contro la
primitiva norma della libera cooptazione da parte di un gruppo di guerrieri,
ora che la dignità cavalleresca diventava un gradino d’una scala feudale
istituzionalizzata il suo accesso veniva limitato a quanti nascessero in un
lignaggio illustrato da membri già insigniti di essa. Con un’ordinanza del
1186, Federico l’avrebbe definitivamente chiusa proibendone l’accesso ai
figli dei contadini e ai chierici.
Ormai sistemate le cose in Germania, erano quelle del regno d’Italia a
tornare in primo piano. La tregua stipulata con la Lega lombarda nel 1177
stava per scadere, e gli stessi rapporti con la Sicilia – presupposto al rilancio
della politica mediterranea – erano in attesa di una sistemazione meno
provvisoria di quella conferita loro a Venezia. La Lega lombarda si era
riunita in un congresso a Verona già nel settembre 1178, sia per esaminare
la nuova situazione creatasi in Italia in seguito alla tregua di Venezia e alla
fine dello scisma, sia per discutere le misure da prendere contro le città che
avevano defezionato. D’altronde la Societas Lambardiae, se era nata sulla
base di una concordia più contingente che reale e più fittizia che strutturale
(quella cioè determinata dall’esistenza di un nemico comune), si era
sviluppata grazie anche all’appoggio del papa, del re di Sicilia e del
basileus: bisogna dire che fra 1177 e 1181 tutte queste condizioni erano
venute meno. La lunga assenza dell’imperatore dall’Italia aveva
naturalmente, se non eliminato, attutito le vecchie ragioni d’inimicizia per
lui che la tregua da sola non sarebbe bastata a cancellare; la morte, nel
settembre 1180, del basileus Manuele – al quale era succeduta una lunga
fase di crisi culminata nel 1182 con un massacro dei latini residenti in
Costantinopoli – e quella alla fine d’agosto 1181 di Alessandro III a Civita
Castellana (i romani non solo non lo avevano più accettato fra loro, ma ne
avevano addirittura insultato il cadavere), avevano sottratto alla lega i due
tradizionali referenti esterni. Ora pisani e genovesi erano preoccupati per gli
sviluppi della crisi dell’impero bizantino mentre, nella curia pontificia, il
nuovo papa Lucio III – cioè l’anziano cardinale Ubaldo, che aveva
partecipato alle trattative di Anagni e di Venezia – si mostrava molto
conciliante con l’impero. In queste condizioni, la cosa più saggia era
trasformare la tregua in vera e propria pace. Le trattative in tal senso, già
avviate alla fine del 1182, proseguirono nella prima metà dell’anno
successivo attraverso una serie di nuovi passi distensivi di modesta entità,
ma in cambio di sicuro effetto, da parte dell’imperatore. Questi, sempre
risiedendo in Germania, nel febbraio aveva concesso il perdono e la pace a
Tortona e ai primi di marzo si era addirittura riconciliato con Alessandria
attraverso una complessa cerimonia formale – cioè una «distruzione»
simbolica della città, seguita da una sua altrettanto simbolica rifondazione
imperiale con la simbolica ridenominazione di Cesarea («città di Cesare») –
e aveva assicurato ai suoi consoli l’investitura regia.
Nella primavera si tennero quindi a Piacenza i solenni preliminari di
pace, ratificati il 30 aprile: la delegazione imperiale era guidata dal vescovo
di Asti, quella della Lega non più dai rettori di essa, bensì dai rappresentanti
di ciascuna città fra quelle che avevano firmato la tregua del 1177: escluse
beninteso Venezia, Como e Alessandria che con la Lega avevano ormai
rotto. Erano rappresentate le città di Treviso, Padova, Vicenza, Verona,
Brescia, Bergamo, Milano, Lodi, Novara, Vercelli, Mantova, Bobbio,
Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna. C’erano anche i rappresentanti
di Ferrara, Imola e Faenza, che tuttavia non giurarono i preliminari
riservandosi di farlo in seguito, al pari di Feltre e di Belluno che non
avevano partecipato alle trattative.
Alla fine della primavera Federico si spinse fino a Costanza, nel suo
ducato di Svevia, là dove si dipartiva uno dei tronchi della strada che,
attraverso il passo dello Spluga, Coira e Chiavenna, conduceva in
Lombardia. Lì, il 25 giugno, egli ratificò personalmente la pace con i
comuni alla presenza dei delegati delle singole città e dei rappresentanti del
pontefice. La pace di Costanza costituiva, è vero, un’obiettiva sostanziale
vittoria dei comuni. Ma non è meno vero che, sul piano formale e
contingente – un piano che noi commettiamo talvolta l’errore di
sottovalutare –, l’imperatore aveva riportato un pieno successo. I comuni
membri della Lega (ma non la Lega nel suo complesso, che come tale era
implicitamente, ma anche sprezzantemente ignorata) venivano a Costanza
non già a trattare una pace, ma ad accogliere un magnanimo e benevolo
verdetto che non li riguardava nel loro complesso ma che atteneva a
ciascuno di essi. Il sovrano concedeva il suo perdono e restituiva il suo
favore a ciascuna comunità senza degnar né di una parola né di un gesto il
fatto che esse si fossero un tempo unite fra loro in Societas. Tutto ciò, a noi
moderni sembra equivalente e irrilevante. Non lo era nel XII secolo. Il
sovrano figurava come colui che da solo, spontaneamente e al di sopra di
costrizioni o di condizionamenti di sorta, emanava a vantaggio delle città
lombarde – che gli riconoscevano senza ombra di dubbio la superiore
autorità e che d’altro canto sborsavano in cambio della sua benevolenza dei
bei soldi – una costituzione che concedeva a ciascuna di loro certe libertà e
certi regalia, riservandosene naturalmente altri. Si ribadiva beninteso che i
regalia costituivano un diritto intangibile dell’impero: ma si accettava che
tale diritto potesse trovare un limite nell’esercizio delle consuetudines, a
loro volta fonte di diritto. La gestione dei regalia iura, che tali naturalmente
rimanevano (cioè «diritti del re»), comportava gli obblighi di mantenere
efficienti strade, ponti e via dicendo nonché di pagare il fodrum quando
l’imperatore fosse sceso in Italia. Il sovrano accettava inoltre di investire
dei pubblici poteri i rettori delle città (si era quindi non alla scelta diretta da
parte sua, ma alla ratifica di quelli scelti dalle città stesse), i quali avrebbero
dovuto prestargli in cambio giuramento di fedeltà. Ai consoli era altresì
demandato il potere di giudicare in casi comportanti una pena pecuniaria
sino al massimo di venticinque libbre di danari d’argento; dopodiché ci si
doveva appellare al sovrano. A fronte di questo loro ampio riconoscimento
dell’autorità imperiale, le città si vedevano riconosciuto il diritto di avere
fortificazioni e, salva fidelitate domino imperatori, di mantenersi
volontariamente strette in lega: un diritto rispetto al quale l’autorità sovrana
si disinteressava e che non comportava quindi conseguenze giuridiche
formali.
È indispensabile sottolineare – ma lo si è già esplicitamente accennato –
che il sovrano, a Costanza, figurava concedere tutto in libertà e di sua
volontà spontanea, senza che si facesse parola di obblighi, di necessità o di
trattative di alcun genere. Il giuramento richiesto invece da lui tanto ai vassi
quanto ai cives sottintendeva un parallelismo fra autonomie signorili e
autonomie cittadine, entrambe trattate alla medesima stregua nel quadro
della comune subordinazione all’impero. Pur nella considerazione della
concreta situazione locale, appare chiaro che in Italia Federico stesse
lavorando, non diversamente che in Germania, alla costruzione di una
«monarchia feudale». E chiaro è altresì che le «concessioni» di Costanza
tenevano a rimaner giuridicamente tali nella misura in cui l’imperatore non
intendeva in alcun modo ch’esse potessero divenire in futuro dei precedenti
per analoghe richieste da parte di altre città.
Vinto ed esiliato Enrico il Leone, pacificata l’Italia, sgombrato il campo
ecclesiastico dalla pietra d’inciampo della rivalità col papato e dallo
scandalo dello scisma (e non c’è dubbio che le fonti coeve avvertissero la
fine dello scisma come il principale avvenimento di quegli anni), Federico
poteva raccogliere ormai i frutti del suo lungo lavoro. Nel giorno di
Pentecoste del 1184, egli celebrava a Magonza una grande Curia, una
Hoffest: una festa di corte durante la quale i suoi figli Enrico – già
incoronato re – e Federico furono armati cavalieri. La splendida festa durò
tre interi giorni, fra banchetti e tornei che furono a lungo cantati, di castello
in castello, dai Minnesänger. L’imperatore in persona, ormai circa
sessantenne, fece atto di presenza in torneo, incedendo preceduto da una
lancia. Tra la città e la residenza imperiale di Ingelheim fu eretta per
l’occasione una specie di «capitale della festa» in legno, con un grande
palazzo per il sovrano e un’imponente cattedrale. Gli ospiti giunsero da
ogni parte di Germania, d’Italia, di Borgogna; fra loro c’erano poeti come
Guiot di Provins e Heinrich von Veldeke, che alla descrizione dell’evento
dedicano i loro versi. Per l’occasione, Federico e Beatrice cinsero
solennemente la corona – e sappiamo che la stefanofania/stefanoforia
(ostensione e uso liturgico sovrano della corona) era una cerimonia riservata
ai giorni di grande festa – ed Enrico, adorno di fresco della cintura
cavalleresca, fu acclamato coreggente del regno, mentre Federico suo
fratello ricevette ufficialmente il ducato di Svevia. L’imperatore fu poi
largo, secondo i costumi cortesi che erano penetrati dalla Francia forse
soprattutto grazie alla mediazione della raffinata imperatrice burgunda, in
magnifici doni ai «poveri cavalieri» e ai poeti di corte.
La festa sarebbe forse dovuta durare più a lungo: ma venne guastata da
un incidente che qualcuno interpretò come un cattivo segno. Un temporale
primaverile, quasi un ammonimento del cielo, intervenne facendo crollare
alcune strutture lignee e causando la morte di una quindicina di persone. Si
decise allora che ci si era divertiti abbastanza e con una punta d’amarezza,
carica probabilmente dell’inquieto presagio di future sventure, la Curia
venne conclusa.
Ma Federico mancava ormai dall’Italia da sei anni. Era necessario
scendere di nuovo dai passi alpini, visitare le città lombarde e toscane,
incontrarsi con il papa, ristabilire i contatti con il re di Sicilia. L’imperatore
passò il Brennero ai primi di settembre e si trattenne fino a metà ottobre
nelle città lombarde, dappertutto – e soprattutto a Milano – acclamato e
festeggiato. Nell’ottobre, a Verona, s’incontrò con Lucio III, col quale non
aveva più conferito dai tempi dei negoziati per la pace di Venezia allorché
quegli era ancora cardinale. L’incontro era stato fissato per la festa degli
apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno: e il vecchio pontefice – giunto a sua
volta in ritardo, fuggiasco con tutta la curia da Roma donde ancora una
volta era stato cacciato – aveva pazientemente atteso che Federico
terminasse il suo giro trionfale per la Lombardia. Al papa stava a cuore che
l’imperatore si associasse alla solenne condanna dell’eresia e che
s’impegnasse per la crociata, dato che la situazione del regno di
Gerusalemme, accerchiato dai saraceni, era di giorno in giorno meno
tollerabile: il patriarca di Gerusalemme e i Maestri degli Ordini militari del
Tempio e di San Giovanni, anch’essi presenti, sollecitarono a loro volta in
termini allarmati l’interesse imperiale per la loro causa. Quanto all’eresia,
l’imperatore non esitò ad allinearsi sulle posizioni della decretale Ad
abolendam, promulgata appunto da Lucio III e base di quella che di lì a
qualche decennio sarebbe stata la procedura inquisitoriale. Il papa era
particolarmente preoccupato per quanto stava accadendo a Milano, dove
l’eresia catara aveva fatto progressi tali che la città poteva ora essere
soprannominata fovea hereticorum, «sentina d’eretici». Le fonti ci hanno
tramandato il gesto teatrale di Federico – che amava i gesti teatrali – in
piedi, ardente di sdegno, mentre pronunzia con voce stentorea il bando
imperiale contro gli eretici e scaglia collerico a terra, in segno di sfida, il
suo guanto.
Che non amasse gli eretici e li ritenesse anche un pericolo sul piano
politico e sociale, è fuor di dubbio. Per quanto riguarda la crociata, non c’è
dubbio che vi fosse interessato. Nessuna insincerità quindi nel suo
comportamento. Tuttavia anch’egli aveva, da parte sua, un piccolo bagaglio
di richieste da presentare al pontefice: e, forse con sorpresa, dovette
rendersi conto in quell’occasione che Lucio era assai meno malleabile di
quanto sembrasse. Il papa non prese impegni, difatti, né per l’associazione
di Enrico di Svevia alla corona imperiale, né per la liquidazione del residuo
contenzioso riguardante i beni matildini, né per la reintegrazione di taluni
prelati ex scismatici la posizione dei quali stava a cuore al sovrano.
L’imperatore aveva risposto con generici forse ma fermi «sì» alle richieste
del papa e ne aveva ricevuto, in cambio, una deludente collana di «ni».
Le trattative di Verona, insomma, si rivelarono sostanzialmente sterili: e
per causa più della chiusura del papa che non di un irrigidirsi
dell’imperatore, che sopravvenne ma fu semmai una conseguenza. Forse a
rendere più difficile l’intesa furono i consigli che il pontefice aveva ricevuto
da certi prelati tedeschi ostili a Federico in quanto convinti che egli andasse
riproponendo la vecchia politica egemonica nei confronti della Chiesa del
regno di Germania: fra loro, particolarmente aspro doveva essere Filippo di
Colonia, che si stava ormai avviando a un’aperta rottura nei confronti del
suo signore temporale. Difficile invece – ma non impossibile – supporre che
a raffreddare i rapporti fra papa e imperatore fosse la notizia (che Federico
aveva cercato di mantener segreta, ma che era tuttavia filtrata) del
fidanzamento di Enrico di Svevia con la principessa Costanza d’Altavilla,
figlia di Ruggero II e quindi zia del sovrano siculo-normanno allora
regnante, Guglielmo II. È da escludersi che tale unione fosse intesa come la
premessa di una possibile successione sveva al trono degli Altavilla:
Guglielmo II, allora trentenne, aveva una moglie di diciotto anni e nulla
consentiva di pensare che la loro unione sarebbe stata sterile. Il papa poteva
comunque manifestar malumore per una decisione della quale non era stato
informato e che riguardava quel regno di Sicilia che era formalmente
vassallo della Chiesa.
La reazione indispettita del pontefice provocò le ritorsioni di Federico,
che fece orecchio da mercante alle richieste di aiutarlo a reinsediarsi in
Roma. Si era alle soglie di un nuovo raffreddamento tra i due massimi
poteri d’Occidente.
L’imperatore rimase entro i confini del regno d’Italia fino al giugno
1186, impegnato a riaffermare i suoi poteri in Lombardia e in Toscana.
Favorì molte casate feudali, come gli Estensi: ma soprattutto riempì di segni
di benevolenza la sua nuova beniamina e alleata, Milano. In questo giro di
timone non solo e non tanto della politica, quanto delle simpatie di
Federico, v’era un elemento logico ma forse anche uno passionale. Il primo
era senza dubbio costituito dal fatto che Milano, rasa al suolo poco più di
vent’anni prima, era risorta dalle sue stesse ceneri e aveva di nuovo imposto
la sua egemonia sulla pianura padana: dopo aver senza troppo successo
provato la formula della lotta contro la metropoli lombarda in appoggio alle
città sue antagoniste, l’imperatore sceglieva ora la linea alternativa, quella
dell’alleanza con chi si era dimostrato localmente più forte, quindi –
diciamo così – dell’accettazione e dell’avallo della funzione
subimperialistica di Milano fra le Alpi e il Po. Il secondo elemento della
scelta di Federico era però, forse, il desiderio di punire la principale
antagonista di Milano, Cremona. Se quella gli era stata sempre apertamente
e lealmente nemica, questa lo aveva tradito nel 1167 nonostante i molti
segni di favore che egli le aveva dedicato. È vero che nel 1175, al tempo
delle trattative di Montebello, una fazione almeno tra quelle che in città si
contendevano il potere aveva tentato un riavvicinamento: ma, se il sovrano
era – come lo celebrava, secondo una formula liturgica, la sua cancelleria –
«lento all’ira», più lento ancora era al perdono: e in materia di offese aveva
la memoria lunga. Nel gennaio del 1185 la Lega lombarda aveva rinnovato
per un trentennio il suo patto, sia pure con il puro pretesto del
mantenimento della pace di Costanza: e Federico aveva puntualmente
risposto siglando a Reggio l’11 febbraio con i milanesi un accordo, in base
al quale essi si impegnavano ad assisterlo e a imporre il rispetto dei diritti
imperiali in Lombardia, nelle Marche, in Romagna, nelle terre della
contessa Matilde; esattamente coeva, la rottura dell’imperatore con
Cremona, che – morto alla fine del novembre 1185 Lucio III – il nuovo
papa Urbano III aveva incoraggiato alla rivolta e che sarebbe stata piegata
nel giugno dell’anno successivo dalle forze congiunte del Barbarossa, dei
milanesi, dei piacentini e dei cremaschi.
Federico si rendeva comunque perfettamente conto che dopo la pace di
Venezia l’interesse della curia pontificia per le città italiche non era affatto
venuto meno, nonostante quanto era potuto sembrare. Tramite le Chiese
locali, i pontefici avevano continuato a far sentire sui centri urbani la loro
influenza, esercitando addirittura su di essi una certa forma di controllo. Il
sovrano stava quindi all’erta, ben sapendo di non aver definitivamente vinto
la gara col papato sul terreno dell’egemonia sulle città del regno italico; e
avendo anche ormai ben compreso che tutto si poteva fare e di tutto ci si
poteva aspettare al mondo tranne una duratura pace tra quei centri urbani
così ricchi, così vivaci, così intraprendenti ma anche così faziosi e litigiosi.
Fra 1185 e 1186 aveva intanto celebrato un nuovo trionfo. Trascorse le
feste di Natale entro la cinta muraria della vecchia amica Pavia, il 27
gennaio era a Milano dove si erano solennemente celebrate le nozze fra il re
dei romani Enrico di Svevia e la principessa Costanza d’Altavilla. La città
metropoli lombarda distrutta dal Barbarossa, ormai rinata e più fiorente di
prima, aveva visto sfilare per le strade i centocinquanta muli che portavano
il corredo della principessa normanna e la sua dote, quarantamila libbre
d’oro. In quell’occasione, secondo un cronista, si sarebbero addirittura
tenute tre incoronazioni: poiché Federico vi avrebbe di nuovo assunto la
corona di Borgogna già cinta nel 1178, Enrico quella d’Italia e Costanza
quella di Germania. La notizia non è sicura, anzi è piuttosto sospetta:
tuttavia, se rispondesse – come non è impossibile – a verità, significherebbe
due cose: da una parte, il sottinteso desiderio dell’ormai anziano imperatore
di cominciar a prepararsi l’uscita di scena, che forse sarebbe stata più facile
se Lucio III avesse accettato di cingere della corona imperiale la fronte di
suo figlio Enrico; dall’altra la sua ferma – e, questa, esplicita – volontà di
legare le corone di Germania, d’Italia e di Borgogna al fato dinastico degli
Hohenstaufen.
Ma c’è ancora di più. Il nuovo papa Urbano III altri non era se non
Umberto Crivelli arcivescovo di Milano, che una volta asceso al soglio del
Vicario di Pietro non per questo aveva abbandonato la cattedra
archiepiscopale milanese: e, appunto, nel suo ruolo di metropolita della
chiesa di Sant’Ambrogio avrebbe avuto il diritto tradizionalmente
riconosciutogli di procedere all’incoronazione dei re d’Italia. Viceversa,
quel 27 gennaio, tale ruolo era stato svolto dal patriarca d’Aquileia. Se si
era potuto fare a meno di lui come arcivescovo per l’incoronazione regale,
si sarebbe potuto fare altrettanto a meno di lui anche come pontefice per
quella imperiale?
Non possono esserci ragionevoli dubbi che il gesto di Milano fosse
insieme un’offesa, un ricatto, un ammonimento e una minaccia. E Urbano
III – che pure, scegliendo quel nome a ricordo di Urbano II, l’iniziatore
della prima crociata, aveva sottolineato come l’Oltremare avrebbe dovuto
essere la sua prima preoccupazione – non era da parte sua uomo da lasciar
passare un simile affronto senza replicare con durezza. Difatti il 1186 fu
caratterizzato da una nuova fase di tensione fra papa e imperatore e da
ripetuti attacchi del nuovo re d’Italia Enrico VI al Patrimonio di San Pietro,
sul quale l’impero rivendicava le prerogative temporali.
Federico approvava senza dubbio le azioni del figlio, anzi doveva averle
in gran parte direttamente ispirate: ma per quanto lo riguardava sapeva che
era di nuovo giunto, dopo circa due anni, il tempo di rientrare in Germania.
La situazione italica era sotto controllo, garantita da un’organizzazione
amministrativa dedicata specificamente a quel regno, una Curia costituita di
vicari ecclesiastici e di giudici laici. Indubbi successi avevano coronato
questa politica: il deciso reinserimento dei comuni lombardi nell’area
dell’impero e la rottura sia pure solo parziale dell’alleanza fra essi e il
papato, anzitutto; ma anche la conferma dell’egemonia imperiale sulla
Toscana e l’insediamento di ministeriales quali funzionari imperiali sui beni
della contessa Matilde, a conferma di un orientamento accentratore al quale
non si voleva rinunciare nonostante si potesse derogarvi (ma solo
spontaneamente, come sottolinea almeno la forma del trattato di Costanza);
e infine il legame matrimoniale – ch’era, come sempre all’epoca, anche
politico – con il regno di Sicilia. In Germania, invece, Federico aveva
motivo di temere soprattutto per l’atteggiamento dei principi ecclesiastici
che – Filippo di Colonia e Folkmar di Treviri in testa – non erano insensibili
agli appelli che il papa inviava loro affinché resistessero alla politica
imperiale.
Ma, dai giorni di Alessandro III, i tempi erano cambiati. Alla fine di
novembre Federico convocò una grande dieta nel nuovo palazzo imperiale
di Gelnhausen, appena ultimato; lì fu esaminata soprattutto la questione
relativa all’episcopato di Treviri, una faccenda abbastanza intricata ma in
relazione alla quale il clero tedesco reagì chiedendo quasi unanime che il
papa recedesse da posizioni che potevano compromettere nuovamente
l’unità della Tunica Inconsutile. Lo stesso arcivescovo Wichmann di
Magdeburgo, uno dei più autorevoli prelati tedeschi, insospettabile di
atteggiamenti ambigui nei confronti della Santa Sede, non esitava ad alzare
la sua voce contro Urbano, responsabile a suo dire di sentimenti
d’inimicizia nei confronti dell’imperatore e d’intrighi sia in Germania sia in
Italia. Immediatamente dopo, a Norimberga, Federico promulgava nuove
costituzioni di pace e si dava con durezza a stroncare l’ormai aperta rivolta
di Folkmar (insediato a Metz dopo aver perduto la cattedra di Treviri) e di
Filippo di Colonia.
Urbano III reagì più adirato che mai: sapendo che un’ambasciata
imperiale si stava dirigendo a Verona, dove in quel torno di tempo
risiedeva, per comunicargli i risultati della dieta di Gelnhausen, tentò di
sottrarsi all’incontro. Si disse che intendeva muovere alla volta di Venezia,
da dove avrebbe lanciato una nuova scomunica contro l’imperatore. Ma a
Ferrara, nella notte del 20 ottobre, trovò per un improvviso malore la morte.
Federico sembrava ormai dunque padrone incontrastato dell’impero e
delle tre corone che a esso afferivano: alla dieta di Magonza del 1188 lo
stesso Filippo di Colonia, l’ultimo dei ribelli alla sua potestà, si sarebbe
sottomesso. Sgombrato il campo dai suoi nemici, l’imperatore appariva
circonfuso di gloria, dolce e terribile come il Signore dell’Apocalisse che
governa i suoi popoli in virga ferrea, «con scettro di ferro».
XIV
Verso la casa del Padre
La strada. Sempre e soprattutto la strada. È la grande protagonista del XII
secolo: più dei castelli feudali, delle grandi abbazie, delle popolose città con
le ricche cattedrali, le floride scuole, gli opulenti mercati. Sia antico
tracciato romano mai caduto in disuso e più o meno restaurato, sia passo
alpino, appenninico o pirenaico, sia sentiero che taglia i boschi o le paludi o
via segnata ai margini delle colture, la strada innerva l’Europa: per le sue
vene scorre la linfa dei pellegrini, dei chierici vaganti, dei contadini in cerca
di terra nuova da sfruttare, dei mercanti, dei cavalieri a caccia di fortuna,
dei briganti, degli emarginati. Lungo le strade, ai crocevia segnati dalle
croci di pietra, sui ponti costruiti talvolta con tanto ardimento che la
memoria folklorica ne vuole architetto il diavolo in persona, si tramandano
le storie, s’imparano le canzoni nuove e si raccontano leggende di guerrieri,
di santi, di reliquie.
Strana Europa del XII secolo, questa dei monasteri dove i monaci sono
legati alla stabilitas loci e dove nasce la cultura sedentaria della città: a ben
guardarla, a guardarla da vicino, è un continente di nomadi. L’avventura, il
sapere, la ricchezza, la libertà: tutto si insegue percorrendo il nastro erboso
e polveroso della strada. Anche il meraviglioso s’incontra per strada. Capita
al viandante attardato d’imbattersi al crepuscolo, quando l’ospizio è
lontano, nella «caccia feroce», nel terribile esercito dei morti; e magari gli
capita d’incontrare un angelo, un santo, un demonio, e di accompagnarsi
per qualche miglio con loro. Ai pellegrini di Emmaus, non accadde forse di
viaggiare e di cenare col Cristo?
E, per strada, s’incontra il potere. Anche i vescovi col loro seguito, anche
i grandi della terra con le loro masnade risonanti di ferro viaggiano per
strada. Viaggiano i papi, con le loro mule e i loro tesori. Viaggiano i re, con
i loro documenti di cancelleria ben chiusi negli scrigni.
Rex ambulans. La monarchia medievale è un’istituzione itinerante. I re
del Medioevo non hanno una «capitale» nel senso antico o nel senso
moderno del termine. La loro cancelleria, la loro corte, se le trascinano
comunque dietro: ubi rex, ibi et curia. Vivono di palatium in palatium, di
castello in castello, di abbazia in abbazia; drizzano i loro accampamenti e vi
tengono corte, talora anche splendidamente; talvolta fanno costruire quasi
per gioco manieri e cattedrali di legno che restano in piedi pochi giorni, il
tempo d’una fiera o d’un torneo. Il fedele Goffredo da Viterbo, che per
decenni aveva seguito Federico Barbarossa come cappellano, si lamentava:
Dovevo sempre esser pronto, da cappellano: di giorno e di notte, per dir messa; e poi
a qualunque ora del giorno per stare a mensa, per seguire le diverse questioni, per
scrivere lettere, per provvedere giorno per giorno nuovi alloggi, per guadagnarmi le
paghe per me e per i miei; e poi dovevo sobbarcarmi importantissime ambascerie, e
sono stato due volte in Sicilia, tre in Provenza, una in Spagna, sovente in Francia e
quaranta volte a Roma dalla Germania…
Lo abbiamo seguito per più di sessant’anni, Federico: e lui ha continuato
a sfuggirci. Non solo perché non sappiamo ancora chi davvero egli sia: ma
anche perché non è mai stato fermo. Di rado si è stabilito in un luogo per
più di qualche giorno; solo eccezionalmente per poche settimane. Lo
abbiamo veduto discendere e risalire i passi alpini, fra il manto dei boschi e
il tappeto dei pascoli spesso magari innevati; traversare le brughiere
sassoni, le valli bavare, le nebbiose piane lombarde: eppure abbiamo colto
poco di lui, poche parole, pochi gesti. La sua solitudine ci appare, tutto
sommato, il prezzo che egli ha pagato alla sua volontà monocratica; così
come la sua continua necessità di spostarsi e la continua necessità di denaro
che ciò comporta, e che condizionava pesantemente la sua politica fiscale –
cose, queste, fino a un certo punto normali in un sovrano medievale –,
erano in lui anche una funzione della sua costante volontà di tutto
controllare. È strano: è onnipresente, e tuttavia rimane un’incognita. In
fondo, dei vecchi monarchi germanici – di Carlomagno, di Ottone I – ci
accorgiamo di sapere qualcosa di più: i loro biografi si concedevano al
gusto plutarchesco del ritratto, ci parlavano delle loro abitudini, dei loro cibi
preferiti, del loro modo abituale di vestire. Ma Federico ha troppo meditato
– complici i suoi consiglieri ecclesiastici e i dottori di Bologna – sugli
antichi Cesari romani e sugli ieratici basileis di Bisanzio: non ha mai
assunto le pose arcaiche e familiari del re-pastore, del capotribù secondo il
modello biblico o gli esempi germanici: ha imparato fin da giovanissimo a
recitare la parte della sacra persona, del Vicario di Dio sulla Terra, della
Spada del Signore. Ci restano pochi e convenzionali ritratti di lui, nelle
pagine dei cronisti, nelle carte dei codici miniati o nel bronzo dorato dei
reliquiari: ma anche se ne avessimo qualcuno su mosaico – e gli si
adatterebbe bene, come ai basileis in Santa Sofia, come ai re normanni nella
Cappella Palatina o a Monreale –, esso ci parlerebbe lo stesso linguaggio
dei suoi documenti di cancelleria, quello del gelido, immoto splendore del
potere.
Eppure, un uomo gelido non doveva essere. Nei suoi tratti, fissati per noi
dallo stilo dei cronisti e di qualche raro miniatore, filtra spesso il calore
della passione o dell’ira; e talvolta il tepore umano, quasi simpatico, della
commozione e dello humour appena contenuti. Certo, ci piacerebbe sapere
qualcosa di più intimo, di più «suo»: per esempio, che so, i suoi cibi o i suoi
colori preferiti, o che tipo di donna gli piacesse; o magari – ora che lo
abbiamo accompagnato fin sulle soglie della vecchiaia – quali fossero i suoi
crucci o i suoi acciacchi segreti, quali le sue piccole manie o le sue più o
meno inconfessabili paure, quanti denti gli restassero ancora in bocca e
quanti fili di rame nella barba che si andava argentando (ché i biondi
incanutiscono presto). Vorremmo sentire il suo respiro, i suoi colpi di tosse;
ameremmo sapere se soffriva il freddo e se era tormentato dalle piaghe che
il troppo viaggiare in sella gli avrà quasi certamente procurato. Ce lo
vediamo passare una volta davanti, di gran carriera, inseguendo il nemico
per le piane di Lombardia; non smonta nemmeno da cavallo, mastica un
boccone restando in sella e poi via di nuovo. Povero vecchio di Dio, al
quale l’ansia di rammendare di continuo la Tunica Inconsutile non lascia
nemmeno il tempo di prendere in pace una scodella di zuppa come l’ultimo
dei suoi monaci o dei suoi poveri! A Venezia, nell’agosto 1177, si alza a
parlare solenne, e il mantello gli scivola dalle spalle: splendido gesto d’una
regalità antica, provato magari chissà quante volte. Eppure, sotto quel
mantello c’è un uomo stanco che ha passato ormai abbondantemente la
sessantina, età di tutto rispetto ai suoi tempi, e che magari – per strada, sotto
il sole o la pioggia gelida, nella polvere aspra o nella nebbia umida – ha
sperato già tante volte che finalmente gli scivolasse davvero dalle spalle, un
giorno, presto, il sudario di porpora del potere.
Ed eccolo adesso, ormai nella gloria della sua venerabile vecchiaia: vinti
i nemici, pacificati i regni, cancellate almeno in apparenza e per il momento
le onte delle sconfitte. Ma, se si volge attorno a sé, si accorge di essere
rimasto solo: è il destino dei vecchi, invidiabile e auspicabile quando ancor
si è giovani, triste e malinconico quando ci si è arrivati.
Non è longeva, la gente, nel XII secolo. Statisti e guerrieri, poi, sono da
sempre categorie dalla vita breve. Chi resta, ormai, attorno a Federico? Il
XII secolo, il secolo del Barbarossa, sta morendo: e avanza un altro secolo,
un tempo che non gli appartiene. La morte gli ha fatto il vuoto intorno: nel
1179 ha chiuso gli occhi Ildegarda di Bingen, la profetessa dalle folgoranti
visioni che egli venerava e temeva; fra settembre 1180 e agosto 1181 sono
successivamente scomparsi i suoi due grandi antagonisti storici, che
condividevano con lui la gloria e il peso del dominium mundi, il basileus
Manuele e papa Alessandro III; nel settembre del 1180 è venuto a mancargli
un altro «cordiale nemico», il vecchio compagno d’arme della seconda
crociata, Luigi VII re di Francia; durante l’estate del 1183 se n’è andato
anche Cristiano di Magonza, il cancelliere che Federico non ha forse mai
amato ma che pur gli ha reso grandi servigi; nel novembre del 1184 è scesa
nel sepolcro la sua diletta Beatrice, più giovane di lui; e di lì a poco, nel
1189, moriranno anche Enrico II d’Inghilterra e Guglielmo II di Sicilia. È
un’intera generazione di regnanti e di protagonisti che scompare nel breve
volger di un decennio. Federico si guarda attorno e vede solo volti nuovi,
estranei, come quelli dei suoi stessi figli: almeno, di quelli che non gli sono
premorti. Il futuro che ancora gli sta dinanzi è un velo sottile: e
stranamente, ma come spesso suole accadere, ha l’aspetto del passato. È un
futuro che gli ricorda un tempo lontano e un giovane signore dai capelli
color d’oro fulvo, un ragazzo quasi, che percorreva in armi le vie
dell’Oriente…
La crociata era stata, dall’indomani del fallimento dell’impresa di Luigi
VII e di Corrado III, il cruccio segreto e l’orizzonte perduto dei sovrani
occidentali. La cosiddetta «lettera» che il Prete Gianni avrebbe inviato ai
sovrani cristiani si configurava, almeno sotto un certo aspetto, come
un’epistola excitatoria all’impresa d’Oltremare. Alcuni grandi nobili
europei – come Teodorico d’Alsazia conte di Fiandra, pellegrino in
Terrasanta nel 1139, poi con la seconda crociata e poi di nuovo nel 1157 –
sembravano disposti sul serio a offrire tutti se stessi per il Santo Sepolcro:
ma, in realtà, gli appelli dei re di Gerusalemme per una spedizione
occidentale che li liberasse dalla morsa islamica che si stava chiudendo su
di loro sembravano votati a cadere nel vuoto. È vero che, durante lo scisma
che aveva opposto Alessandro III ai papi voluti da Federico, di crociata si
era ripetutamente parlato da entrambe le parti in cui era divisa la Chiesa. Il
pontefice aveva esortato con calore i cristiani, prima nel 1165 e poi nel
1169, anno questo nel quale l’Europa era stata visitata da una grande
ambasceria del regno di Gerusalemme che si era incontrata col papa stesso
e poi con i re d’Inghilterra e di Francia. Ma la misura del disimpegno di
fatto dell’Europa nei confronti della Terrasanta si era avuta quando,
nell’autunno del 1168, il re di Gerusalemme Amalrico – approfittando di un
conflitto di potere scoppiato al Cairo – aveva invaso l’Egitto nel tentativo di
occuparlo e di sottometterlo. In quell’occasione gli occidentali non si erano
mossi: anzi, pochi anni dopo, nel 1173, i pisani si sarebbero formalmente
impegnati con i musulmani a esportare alla volta dell’Egitto armi, legname
e altre merci suscettibili d’impiego bellico.
Uno dei sia pur indiretti risultati del maldestro tentativo di re Amalrico
era stato, in prospettiva, l’unificazione dell’Islam vicino-orientale sotto un
unico capo, il prestigioso condottiero curdo Yusuf ibn Ayyub Salah ed-Din
(il «Saladino» delle fonti occidentali), che era riuscito a farsi riconoscere
sultano del Cairo e di Damasco e che minacciava di stritolare nella tenaglia
del suo principato siro-egiziano il regno di Gerusalemme stretto fra Mar di
Levante e Giordano.
Dall’Oltremare crociato si erano levate nuove invocazioni d’aiuto rivolte
all’Europa. E i principi d’Occidente non si erano dimostrati insensibili a
esse: a Nonancourt, nel 1177, Enrico II e Luigi VII avevano di comune
accordo siglato la pace prendendo la croce; due anni dopo, nel 1179, si era
parlato di crociata durante il Concilio lateranense; nel gennaio 1181 papa
Alessandro aveva esortato con l’enciclica Cor nostrum i principi occidentali
a correre in aiuto della Cristianità siro-palestinese minacciata; e di nuovo di
crociata avevano discusso nel 1184, a Verona, l’imperatore e papa Lucio III.
Ma le vere intenzioni dei potenti e gli autentici problemi dell’Europa del
tempo si verificavano sul piano delle azioni pratiche, piuttosto che su quello
delle dichiarazioni di principio. E le azioni pratiche erano queste: nel 1180
il giovane re Filippo II Augusto, succeduto sul trono di Francia a Luigi VII,
moveva guerra a Filippo d’Alsazia conte di Fiandra, che dal padre
Teodorico aveva pur ereditato la passione per la crociata 1 ma che aveva il
torto di essere un alleato del re d’Inghilterra; nel 1181 il legato pontificio
Enrico abate di Clairvaux guidava un raid in Linguadoca contro i
simpatizzanti catari; nel 1182 partiva dal centro della Francia una
«crociata» tesa a ripulire il paese dai mercenari-briganti che lo infestavano.
Federico, come abbiamo visto, stava conducendo a termine un’opera
trentennale di governo in Italia: e ora che, dopo sforzi inauditi e crudeli
rovesci, sembrava riuscito a trovare soluzioni solide e durevoli, non poteva
permettersi di lasciarsi distogliere da obiettivi per lui primari. I re
d’Inghilterra e di Francia, d’altro canto, si erano lasciati scuotere da una
nuova ambasceria gerosolimitana del 1184… e avevano di comune accordo
stabilito di manifestare la loro buona volontà gravando i rispettivi regni
d’una nuova tassa, il ricavato della quale avrebbe dovuto essere impiegato
per il finanziamento d’una spedizione crociata. Ma, una volta riscosso il
denaro, la loro passione si era intiepidita e i fondi raccolti erano stati spesi
altrimenti.
Se i principi d’Europa, del resto, si comportavano così, non è che quelli
di Terrasanta dessero miglior prova di sé. Sotto il debole anche se
pateticamente coraggioso governo del giovanissimo Baldovino IV, fin da
fanciullo colpito dalla lebbra, l’aristocrazia franco-siriaca, l’alto clero e gli
Ordini religioso-militari del regno di Gerusalemme si erano dissanguati in
continue lotte per il potere, nonostante il Saladino fosse alle porte: anzi, non
avevano esitato ad appoggiarsi alternativamente al sultano stesso nelle loro
trame.
Quando nel marzo del 1185 il povero Baldovino IV era morto, il
Saladino si era apprestato – mentre il regno cadeva nella più grande
confusione dalla quale emergeva, re senza poteri, un nobile del centro della
Francia, Guido di Lusignano vassallo del re d’Inghilterra – a dare l’ultimo
colpo al regno di Gerusalemme. Ai primi del luglio 1187, in una grande
battaglia presso la collina detta dei «corni di Hattin», in Galilea, in vista del
lago di Tiberiade, i crociati erano stati sconfitti e il re di Gerusalemme, con
alcuni fra i principali dignitari del regno, catturato. Da allora, le piazzeforti
cristiane erano cadute l’una dopo l’altra: finché il 2 ottobre – nel giorno di
venerdì, sacro ai fedeli dell’Islam, e per giunta anniversario della notte nella
quale secondo la tradizione islamica il profeta Maometto aveva visitato in
sogno Gerusalemme ed era di là asceso al cielo – il Saladino entrò
pacificamente nella Città Santa recandosi prima d’ogni altra cosa a pregare
nel Haram esh-Sharif, la «spianata del Tempio». I crociati, conquistando la
città nel 1099, avevano indiscriminatamente massacrato musulmani, ebrei e
cristiano-orientali (ch’erano fra l’altro incapaci di distinguere dagli
infedeli). Il Saladino permise a tutti i cristiani d’abbandonare Gerusalemme
sani, salvi e con i propri averi, pagando solo un modesto riscatto; ma in
realtà liberò quasi tutti coloro che non avevano mezzi sufficienti a
riscattarsi.
La conquista musulmana di Gerusalemme ebbe comunque in Europa un
effetto dirompente. La Vera Croce, la più santa e venerabile reliquia della
Cristianità, era nelle mani degli infedeli; e dappertutto in Europa si sparsero
notizie – false – di violenze e di profanazioni. Papa Gregorio VIII,
succeduto a Urbano III, ebbe tempo di regnare appena due mesi, fra
l’ottobre e il dicembre del 1187: e in così breve tempo emise ben due bolle
di crociata. Il suo successore Clemente III ne continuò l’opera, insistendo
presso i principi d’Europa affinché deponessero le loro lotte fratricide e
partissero non più, ormai, alla tutela, bensì alla riconquista del Sepolcro. La
perdita di Gerusalemme poteva sembrare un incubo, un brutto sogno dal
quale l’Europa avrebbe voluto svegliarsi subito, una condanna divina
marcata a fuoco sulle sue carni corrotte. Una vergogna, soprattutto, per i
suoi re.
In quell’ora cupa un solo guerriero, un avventuriero uscito dal brumoso
settentrione d’Italia per conquistare il favoloso Oriente, sembra ancora
degno del nome della cavalleria cristiana. Lo conosciamo, ne abbiamo già
parlato: è Corrado di Monferrato, membro d’un casato che ha davvero, a
quel che pare, scelto la via dell’avventura.
La principessa Sibilla di Gerusalemme, sorella del re lebbroso Baldovino
IV, aveva sposato nel 1175 Guglielmo detto Spadalunga, figlio primogenito
del vecchio marchese Guglielmo V di Monferrato; il clima d’Oltremare non
doveva peraltro giovare granché allo sposo, ch’era morto appena due anni
più tardi. Al loro figlio lo zio materno Baldovino, lo sventurato sovrano
lebbroso, avrebbe voluto lasciare il suo regno: e nel 1185 l’anziano
marchese Guglielmo, pacificatosi con l’imperatore Federico dal quale si era
allontanato, come abbiamo visto, all’indomani della pace di Venezia ma al
quale non aveva mai cessato di esser fedele nel segreto del suo cuore, era
partito alla volta della Terrasanta per tutelare gli interessi del nipote. A
Guglielmo era stata casualmente risparmiata, anni prima, l’onta del rovescio
di Legnano; ma nel 1187 non gli fu risparmiata quella di Hattin, dove fu
preso prigioniero. Pochi giorni dopo, verso la metà del luglio, giungeva nel
porto di Tiro, l’unica grande città costiera del regno ancora in mano ai
crociati, il secondogenito del marchese aleramico: Corrado.
Nato intorno al 1140, Corrado era allora nel pieno delle forze. Fra 1177 e
1179 aveva – come già sappiamo – tentato la fortuna in Italia centrale, dove
aveva combattuto anche contro Cristiano di Magonza. Nel 1183 suo fratello
Ranieri, che aveva sposato a Costantinopoli la principessa bizantina Maria,
era morto in circostanze misteriose; e due anni dopo – fallito un tentato
assalto normanno a Bisanzio – Corrado era a sua volta partito per la Nuova
Roma sul Bosforo, dove il basileus Isacco Angelo gli aveva destinato in
moglie la sorella Teodora. A Costantinopoli egli si era comportato da prode,
salvando fra l’altro da una rivolta il trono del cognato: ma questi – che ben
sapeva quanto i latini fossero malvisti nella sua capitale e che forse era
insospettito e geloso nei suoi confronti – lo aveva ricompensato
freddamente, limitandosi ad attribuirgli il titolo onorifico di Cesare. A
questo punto, forse addirittura temendo per la sua vita, Corrado aveva
scosso dai suoi calzari di rude guerriero occidentale la polvere dorata di
Costantinopoli e, su una nave forse genovese forse pisana, si era avviato
alla volta della Terrasanta. Lì aveva trovato che suo padre era in prigionia e
la situazione disperata; e, da Tiro, aveva energicamente organizzato e
guidato la riscossa. A giudicare dai suoi atti di governo, anzi, si direbbe che
egli si considerasse ormai il successore di suo cognato Baldovino IV e di
quel Baldovino V del quale era zio. Insomma questo nobile piemontese, già
Cesare bizantino, voleva diventare re di Gerusalemme (e ci sarebbe del
resto riuscito, per breve tempo, fra 1191 e 1192).
Il Saladino assediò ripetutamente Tiro: ma Corrado seppe tenergli testa
con l’energia e la genialità del cavaliere coraggioso e dello stratega di gran
razza, che si era fatto solide ossa in Italia e a Costantinopoli: pare che
usasse anche stratagemmi desunti dalla vita di Temistocle narrata da
Cornelio Nepote e da Frontino. Si dice perfino che il Saladino avesse
cercato di negoziare con lui, offrendogli, in cambio di Tiro, la vita e la
libertà del suo vecchio padre: ma Corrado avrebbe sdegnosamente risposto
che per il genitore egli non avrebbe mai ceduto la più insignificante
pietruzza di Tiro, e che anzi se il vegliardo si fosse presentato sotto le mura
l’avrebbe fatto colpire perché aveva vissuto abbastanza. Il condottiero
curdo era da parte sua troppo generoso e troppo intelligente per macchiarsi
di un delitto inutile: pare che liberasse comunque l’anziano marchese, che si
spense pacificamente nel 1188 in Italia.
Fu ancora Corrado a organizzare la propaganda psicologica per la nuova
crociata. Fece dipingere una tavola nella quale era raffigurato un truce
guerriero saraceno incombente sul Sepolcro di Cristo, mentre il suo cavallo
profanava il venerabile sacello orinandovi sopra: l’arcivescovo di Tiro Josse
fu incaricato di girar l’Europa mostrando quel dipinto per eccitar gli animi
alla commozione e allo sdegno. Corrado scrisse inoltre ai genovesi, ai
pisani, all’imperatore, al re d’Inghilterra e a quello d’Ungheria. E difatti, già
dai primi del febbraio 1188, assistiamo nelle città d’Italia ai preparativi per
la partenza dei contingenti crociati.
Alla notizia della caduta di Gerusalemme, Guglielmo II aveva rivestito il
cilicio e formulato il voto di impiegare tutte le sue risorse per la riconquista
della città del Santo Sepolcro. I suoi sforzi si unirono a quelli di Corrado di
Monferrato per incitare alla crociata soprattutto i suoi alleati e congiunti, il
suocero Enrico II d’Inghilterra e il parente acquisito Federico. Le canzoni di
crociata si spargevano per tutta l’Europa cristiana, in quella primavera del
1188. La primavera è tempo pasquale, tempo di preghiera. Ed è stagione di
guerra.
Il 27 marzo 1188, domenica Laetare Jerusalem, quarta di quaresima, si
tenne nella cattedrale di Magonza una grande Curia Jesu Christi, una «corte
di Gesù Cristo». L’imperatore non sedeva sul trono ch’era lasciato vuoto
affinché, come nelle raffigurazioni dell’Etimasia, si conoscesse ch’esso era
destinato al Cristo rex regum et dominus dominantium, del quale il sovrano
germanico era solo vicario e vassallo. Attorno a quel trono vuoto presero
posto, secondo il rigido protocollo gerarchico, l’imperatore, i suoi figli e i
grandi ecclesiastici e laici dell’impero. L’argomento della Curia Jesu
Christi era l’onta della Cristianità: caduta di nuovo Gerusalemme nelle
mani degli infedeli, non erano l’Anticristo e la fine dei tempi che si
appressavano? Il Ludus de Antichristo scritto qualche anno prima, ora che
la Città Santa era stata profanata di nuovo dagli infedeli, appariva quanto
mai attuale. Parlò per primo il legato apostolico, che dette lettura della bolla
pontificia di crociata; indi il vescovo Goffredo di Würzburg tenne un
commosso sermone sul dovere dei cristiani di liberare la Città Santa dal
giogo saraceno.
Si levò infine il canuto sire di Hohenstaufen: e, nella commozione più
intensa dei presenti, tenne l’ultima delle sue grandi allocuzioni, delle quali
doveva essere maestro. Egli, il suo primogenito Federico duca di Svevia e i
grandi del regno formularono quindi voto solenne e assunsero la croce. Si
disse che in quel giorno a Magonza avessero fatto il voto di crociata
tredicimila uomini, di cui quattromila erano cavalieri. Il peso della
reggenza, durante l’assenza del sovrano, sarebbe stato sostenuto da Enrico,
già incoronato re dei romani e d’Italia.
Federico era un veterano della crociata: aveva già partecipato
quarant’anni prima alla spedizione di suo zio, il re Corrado. Ma, soprattutto,
egli concepiva la difesa della Terrasanta come uno dei doveri precipui
dell’imperatore, sia in quanto monarca universale, sia in quanto defensor
Ecclesiae. Si è supposto che tra i suoi fini vi fosse quello di estendere
l’autorità dell’impero al regno di Gerusalemme, che fino ad allora era
rimasto fuori da quell’orizzonte: ma nel sentire di Federico questo aspetto
del problema doveva essere sottinteso, dal momento che l’imperatore
romano-germanico era erede naturale degli imperatori romani ai quali la
Palestina era appartenuta; e dal momento altresì che la Gerusalemme
cristiana era stata si può dire rifondata dall’imperatore Costantino e il regno
crociato inaugurato da un membro del casato dei duchi della Bassa Lorena
vassalli dell’impero, Baldovino di Boulogne.
Nel 1178 il basileus Manuele avrebbe scritto una lettera a Federico, il
quale, secondo una fonte a onor del vero abbastanza insicura, avrebbe
risposto l’anno successivo con una missiva nella quale egli si poneva al
centro del mondo cristiano e sottolineava perfino i suoi amichevoli rapporti
con il sultano di Iconio per mostrare al collega orientale come tutte le fila
del potere universale passassero per le sue mani. È dubbio che una tale
lettera sia mai uscita dalla cancelleria di Federico, e tanto meno probabile
che sia stata inviata: la provocazione nei confronti dell’autokrator greco
sarebbe stata troppo grave. Ma molto meno dubbio è che tale fosse il
pensiero profondo dell’imperatore romano-germanico; e la crociata
costituiva appunto il momento-chiave di una verifica, il punto più elevato
dell’affermazione di un’auctoritas e di una potestas a carattere universale.
Questo delle lettere apocrife circolanti per l’Occidente e attribuite a un
qualche sovrano è un importante argomento, che del resto si avvicina a un
altro celebre motivo propagandistico non a caso frequente durante la
crociata, quello delle lettere «cadute dal cielo». Sarebbe imprudenza e
superficialità riduttiva il limitarsi a definire questi documenti dei «falsi»: in
realtà, venivano messi in circolazione proprio per motivi politici e
propagandistici molto precisi, affinché a livello di opinione pubblica si
affermassero idee che sarebbe stato troppo rischioso dichiarare apertamente
e ufficialmente. A questo livello, e in quest’ordine di problemi, è molto
importante – al di là della sua «autenticità» – il «falso» scambio epistolare
tra Federico e il Saladino. 2
Il grande sultano ayyubide esaltava la potenza sua e quella del Principe
dei Credenti, il califfo di Baghdad; e Federico a sua volta gli aveva nel 1188
inviato un’ambasceria, guidata da Heinrich von Dietz. Di essa, o di una di
alcuni anni precedente, faceva parte Burcardo di Strasburgo, che del suo
viaggio ci ha tramandato un resoconto nel quale testimonianza diretta e
meraviglioso, realtà registrata con attenzione e fantasia sostenuta dall’antica
letteratura geografica e teratologica si fondono. Il grande porto di
Alessandria lo ha stupito, con i suoi traffici e le sue imponenti rovine
dell’età antica; ha poi visitato «Babilonia», cioè il Cairo, e sa distinguerla
da quella mesopotamica e anche da quella antica, la capitale «di Faraone»;
il Nilo, con la sua larghezza e con i navigli carichi di spezie «indiane» che
lo solcano, lo riempie di ammirazione; i giardini dolcissimi, la cortesia degli
abitanti, i ricordi dell’evangelica fuga in Egitto, insomma tutta la
delicatezza del paese lo affascina. E, beninteso, ha visto due grandi
«montagne quadrate di marmo», le Piramidi, e si abbandona a un pezzo di
bravura esotica descrivendo uccelli e coccodrilli.
A Burcardo dobbiamo la solita mediocre e confusa presentazione
dell’Islam – un topos in questo tipo di letteratura – ma anche
un’interessante ancorché fantasiosa ricostruzione della «Setta degli
Assassini» e del carattere iniziatico del sodalizio che fa capo al Veglio della
Montagna. La descrizione ch’egli ci offre di Damasco, nota con i suoi
giardini in Occidente già al tempo della seconda crociata, è commossa. Ma
questi empi infedeli, che certo non hanno diritto alla vita eterna, quante
dolcezze conoscono in questa! L’uomo del continente europeo, dove il
clima è duro e la terra sa essere avara, ci dice con quest’ultima osservazione
molte più cose sullo spirito di crociata di quante non potremmo ricavare
dalla lettura di parecchi saggi di critica storica.
A fronte di questa bella descrizione, che il Barbarossa può davvero aver
letto direttamente, ulteriore significato assume la presunta lettera che
Federico avrebbe inviato al Saladino appunto nel 1188; e non è,
intendiamoci, del tutto impossibile che l’abbia inviata, anche se in tal caso
la mossa diplomatica non può certo esser servita a granché; ma ben più
probabile è che egli ne abbia consentito o addirittura promosso la
circolazione in Occidente, ché il suo tenore si denunzia come tanto più
efficace nella misura in cui gli occidentali sono i suoi effettivi destinatari. È
sintomatico che il testo di questa lettera ci sia stato tramandato dalla
cronaca anglo-normanna di Benedetto di Peterborough. Federico, in quanto
imperatore nel nome e per volontà dell’Eterno Re, ingiunge al «capo dei
saraceni» di abbandonare immediatamente la Terrasanta, rammentandogli
quali e quante vittorie egli ha fin lì raccolto: si guardi pertanto, l’infedele,
dall’assaggiare a sua volta l’artiglio delle vittoriose aquile imperiali!
Restituisca quanto ha predato, liberi la Terrasanta dalla sua presenza impura
o si appresti a subire il giudizio di Dio, ché l’imperatore lo sfida a tenzone
«nel nome del vero Giuseppe» padre di Gesù (il Saladino, il cui nome
personale è Yusuf, usurpa secondo i cristiani il nome di Giuseppe) e,
secondo le tradizioni cavalleresche, stabilisce anche la data dello scontro: il
giorno d’Ognissanti del 1189. Si tratta di una vera e propria lettera di sfida.
Retorica, senza dubbio, a uso della Cristianità occidentale. Dalla quale
tuttavia traspaiono con chiarezza l’alto concetto federiciano d’impero e il
legame profondo fra esso e l’idea di crociata. La decisione di Federico nel
1188 di prender la croce e partire per l’Oriente non ha nulla quindi né di
«romanticamente» cavalleresco – a parte certe «forme» –, né di senilmente
commosso: è il riflesso d’una concezione politica che certo non esclude la
sincera commozione e magari nemmeno la nostalgia di un’impresa
giovanile, di un’aventure; ma che obbedisce sostanzialmente a un serrato
discorso logico. Ne sono prova le misure che egli prende prima di partire e
l’atteggiamento che assume nei confronti degli altri sovrani europei,
segnatamente dei re di Francia e d’Inghilterra. La crociata è opera di pace e
Federico deve guidarla appunto in quanto Princeps Pacis: guai se essa
nuocesse all’equilibrio interno di Germania, d’Italia o di Borgogna! Inoltre,
se l’imperatore ne sarà capo assoluto, l’impresa sottolineerà di nuovo che
uno solo è il dominus mundi, mentre gli altri sono soltanto reguli
provinciarum.
L’imperatore – dicevamo – non aveva alcuna intenzione di consentire
che in sua assenza i risultati d’un lavoro durato trentasei anni andassero alla
deriva. Oltre ad assegnare la reggenza al figlio Enrico, egli prese infatti una
serie di misure significative: nel maggio del 1188, a Seligenstadt, assegnò la
contea di Namur – elevandola addirittura a marca – a Baldovino conte di
Hainaut, che in questo modo diventava anche principe dell’impero. Era una
mossa che rientrava nel programma federiciano di consolidamento del
confine occidentale, per quanto i suoi rapporti con il giovane re di Francia
fossero buoni. Nella dieta di Goslar dell’agosto successivo Federico
affrontò di nuovo il cugino Enrico il Leone, reduce dalla corte anglo-
normanna, e gli propose la scelta fra un nuovo esilio ancora presso i
Plantageneti, la restituzione solo parziale di alcuni suoi domini e la
partecipazione alla crociata: Enrico scelse la prima soluzione. Infine,
com’era giusto che un crociato facesse (era parte del voto), Federico si
riconciliò nel marzo-aprile del 1189 con il papa: tale conciliazione segnò la
fine dell’aggressione di Enrico VI ai territori della Chiesa. Mancava
soltanto un’organizzazione definitiva dei beni degli Staufer in Svevia e in
Alsazia, cioè nel loro nucleo storico, e di quelli che la famiglia aveva
successivamente acquisito in Franconia, Baviera, Lorena, Turingia,
Sassonia e Lusazia. Dei suoi figli, Enrico re dei romani e d’Italia e Federico
duca di Svevia erano sistemati; al terzo figlio, Ottone, sarebbe andata la
Borgogna con il titolo di conte palatino; al quarto, Corrado, veniva
assegnata la contea di Rothenburg; infine il quinto, Filippo, avviato alla
carriera ecclesiastica, era destinato a governare il capitolo della Cappella
Palatina di Aquisgrana.
Ormai, tutto era pronto per la partenza. Federico, allora più o meno
sessantasettenne, aveva pensato agli interessi dell’impero, dei tre regni e del
suo lignaggio: e – al di là dell’abitudine di crociati e di pellegrini di far
testamento e di sistemare ogni cosa, prima della partenza, come se essa
dovesse essere definitiva – v’è davvero da chiedersi se in tanta cura non vi
fosse, più che un presentimento, una quasi certezza. È lunga e pericolosa, la
strada di Terrasanta: per i vecchi, lo è ancora di più. Gli uomini del XII
secolo, inoltre, sono profondamente convinti del fatto che mundus senescit,
che il mondo sta invecchiando e il Giudizio Universale è vicino. Ma infine,
e soprattutto, che senso ha tornare indietro dopo aver rivolto i passi a
oriente, verso la Casa del Padre?
Certo è comunque che quest’uomo, che ormai agisce come se fosse sul
punto di abbandonare la terra, continua a stupirci per l’energia con la quale
sembra pensare e governare: come se fosse certo di non dover mai morire.
Pensa come se fosse ormai già immerso nell’eternità, agisce come se fosse
convinto di essere fisicamente immortale. Il suo abbandono del trono di
fronte all’invisibile presenza del Cristo, durante la Curia di Magonza, per
sedere «umilmente» accanto al legato pontificio, ha un senso profondo.
Ormai l’imperatore ha assunto il suo ruolo – quasi nuovo Mosè – alla guida
del Popolo di Dio verso la Terra Promessa. A Magonza, dinanzi al trono
vuoto, Federico è veramente rex et sacerdos. Per un istante, il papato
sembra non esistere nemmeno più in Occidente; per un momento,
l’imperatore riveste una sacralità antica, anzi arcaica, patriarcale e
primordiale, che va al di là dello stesso linguaggio «romano» del suo
potere.
A Ratisbona, dove aveva convocato i crociati per il 23 aprile, festa del
santo-cavaliere Giorgio, si era radunata una gran folla di guerrieri: a evitare
all’armata inutili pesi e anche il rischio di quei disordini che solitamente la
presenza dei pauperes comportava, l’imperatore aveva prescritto che solo
chi poteva equipaggiarsi e mantenersi per due anni a proprie spese avrebbe
potuto prendere parte alla spedizione. Al solito, è molto difficile valutare in
termini numerici un esercito del XII secolo: ma forse non si esagera
supponendo (senza cedere alle iperboli numeriche di certi cronisti) che i
partenti fossero più o meno una ventina di migliaia. Oltre ai tedeschi,
v’erano alcuni contingenti provenienti dall’Italia, fra cui – sembra – i
cremonesi con il loro vescovo Sicardo, i veronesi col cardinale Adelardo, i
bresciani.
L’esercito crociato guidato dal Barbarossa si mosse da Ratisbona l’11
maggio del 1189. Si era scelta la via di terra – la medesima della prima
crociata – sia perché quella marittima sarebbe stata troppo costosa (e una
flotta era cosa troppo lunga da preparare), sia perché i bizantini e saraceni
controllavano il Mediterraneo orientale mentre i porti di Siria, esclusa la
sola Tiro, erano tutti nelle mani del Saladino. Prima di partire, Federico
aveva inviato messaggi amichevoli ai principi i territori dei quali avrebbe
attraversato: al re d’Ungheria, al principe di Serbia, al nuovo basileus
Isacco II Angelo ch’era succeduto ai Comneni, al sultano d’Iconio che non
vedeva male una nuova crociata in quanto diffidente e geloso della potenza
del Saladino. Il basileus, pur riluttante, aveva promesso aiuti e vettovaglie
per l’attraversamento della penisola anatolica; si sarebbe puntato sul regno
cristiano della Cilicia (la cosiddetta «Piccola Armenia», tra golfo di
Alessandretta, catena dell’Antitauro e sponda destra dell’alto corso
dell’Eufrate) per passare da lì in Siria e quindi in Palestina.
Toccando Vienna e Gran, i crociati entrarono nel regno d’Ungheria, dove
– forse contrariamente alle attese – i rapporti col re Bela furono ottimi, al
punto che si pensò a un matrimonio fra una sua figlia e Federico duca di
Svevia che seguiva il padre nella spedizione. Questa prima fase del viaggio
fu veramente – e non solo per motivi stagionali – una primavera. Possiamo
immaginare la cavalcata lieta lungo le valli e per le foreste danubiane e
ascoltare i versi del König Rother, dello Herzog Ernst, del Rolandslied che
parlano dell’Oriente favoloso e delle gesta dei cavalieri del Cristo. Certo
Minnesänger e giullari, presenti numerosi nell’esercito, li intonavano
spesso. Sarebbe bello poter liberamente immaginare che, nella schiera di
milites e di ministeriales che seguiva l’imperatore, cavalcasse anche un
giovane Minnesänger francone più o meno ventenne, familiare della cerchia
di Ermanno landgravio di Turingia, che di quel che avrebbe visto e appreso
durante quell’avventura d’Oriente avrebbe tratto materia alcuni anni più
tardi per un suo componimento originale, il Parzival, nel quale la «leggenda
del Graal» proposta da Chrétien de Troyes in termini d’immaginario celtico
veniva arditamente, originalmente rielaborata in un contesto arabo-persiano.
Attraverso Belgrado, Niš e Sofia, i crociati arrivarono a Filippopoli il 24
agosto. Lì le cose cominciarono a farsi difficili: già bande serbe e bulgare
avevano a più riprese tentato d’impedire la marcia ai «franchi», e può anche
darsi che dietro a questi attacchi vi fosse la mano bizantina; ma, più
probabilmente ancora, ad armare gli indigeni era il cattivo ricordo che le
spedizioni crociate precedenti avevano lasciato nei Balcani. Fu con le armi
in pugno che i crociati dovettero entrare in città.
Non è credibile che l’imperatore crociato sognasse di rovesciare, strada
facendo, l’impero bizantino per impadronirsene. Certo però il basileus
doveva sospettare qualcosa del genere: egli era inoltre molto inquieto per il
domani della stessa Terrasanta, che fino alla conquista musulmana del VII
secolo era appartenuta all’impero bizantino. L’occupazione musulmana, per
forte e duratura che fosse, era sul piano del diritto dai cristiani tutti
condiviso qualcosa d’indiscutibilmente illegittimo e usurpatorio: ma che
cosa avrebbe potuto accadere se agli infedeli si fossero sostituiti i barbari,
prepotenti «fratelli in Cristo» d’Occidente? Chi avrebbe potuto loro
impedire una rivendicazione di legittimo possesso della Terrasanta, che
senza dubbio sarebbe stata sostenuta dall’intrigante, arrogante vescovo
scismatico di Roma? E, se le cose stavano così, non era meglio che
Gerusalemme restasse nelle mani del colto, leale, ragionevole sultano di
Siria e d’Egitto? Di qui l’intesa, che ormai a livello diplomatico si andava
delineando, tra le corti di Costantinopoli e di Damasco, che avevano fra
l’altro un ulteriore comune nemico nel sultano di Iconio.
D’altronde, dopo le difficoltà affrontate nei Balcani e la presa di
Filippopoli, anche Federico sembrava aver cambiato idea: forse voleva
punire la perfidia bizantina, forse aveva cominciato anche lui a ritenere – ed
era un’idea che già durante la seconda crociata si era fatta strada, specie tra
i francesi – che Gerusalemme non sarebbe mai stata con sicurezza cristiana
finché fosse restato in piedi l’infido impero scismatico di Bisanzio, pronto
sempre a tessere trame con gli infedeli. Il fatto che il basileus avesse gettato
in prigione alcuni suoi ambasciatori fu troppo: in una lettera del 16
novembre il Barbarossa ordinò a suo figlio Enrico VI di mettere insieme
una flotta e di chiedere al papa di predicare una crociata contro Bisanzio.
Che cosa avrebbe potuto accadere se fosse stato ancora vivo Guglielmo II
di Sicilia, che cinque anni prima aveva già tentato l’assalto alle coste
greche?
Poco dopo, sempre nel novembre, i crociati conquistavano Adrianopoli e
mettevano la Tracia a ferro e fuoco. A quel punto il basileus Isacco II
ritenne molto più proficuo trattare: anche perché quel che egli voleva a tutti
i costi evitare era che l’imperatore e i suoi si affacciassero sul Bosforo e si
accampassero sotto la sua città. Si negoziò affinché il passaggio in Asia
avvenisse attraversando lo stretto dei Dardanelli, cioè salpando da Gallipoli
(l’odierna Gelibolu) per toccar il suolo asiatico a poche bracciate di mare.
Ciò avrebbe consentito di evitare il proseguimento della Via Egnazia e
l’attraversamento di Costantinopoli o comunque il percorso lungo l’esterno
delle sue mura meridionali, che comportava comunque un rischio che il
basileus intendeva evitare alla sua capitale. Ma ciò comportava una netta
deviazione verso sud delle truppe crociate e un percorso lungo strade molto
peggiori. Le condizioni proposte dal governo bizantino e forse anche le
ragioni da esso addotte dovettero esser convincenti, perché l’imperatore
accettò. Fra la prospettiva di un’incauta avventura costantinopolitana e il
sentimento del suo dovere crociato, questo trionfò su quella. Del resto
aveva fretta di arrivare: già nella lettera di metà novembre aveva
raccomandato al figlio di fargli trovare del denaro a Tiro utilizzando la
mediazione del mercante bavaro Bernardo che risiedeva a Venezia.
La marcia attraverso i Balcani era stata troppo lenta: e Federico sapeva
bene che l’inverno anatolico è duro. Si acquartierò quindi in Adrianopoli,
da dove sapeva di poter costituire sempre un pericolo per i bizantini se essi
avessero cambiato idea: solo nel febbraio del 1190 si mosse per raggiungere
Gallipoli e farsi traghettare dalle navi greche proprio nel periodo
equinoziale di primavera. Giunti presso la Bitinia, non lontani dalla collina
di Hissarlik che celava le rovine di Troia (ah, se Federico avesse potuto
anche solo immaginarlo…!), i crociati procedettero verso l’interno. Ai
primi di maggio, dopo uno scontro a onor del vero di scarsa portata – ma
secondo i crociati s’erano visti i santi Giorgio e Vittore combattere nelle
loro file – si passò per la piana di Myriokephalon, dove, al sole di
primavera, pare biancheggiassero ancora le ossa dei soldati di Manuele
Comneno là massacrati dai turchi quattordici anni prima, proprio nel
medesimo, infausto anno di Legnano. Erano ormai nel territorio di Kiliji
Arslan, il potente sultano di Iconio che da lontano gli aveva forse fatto
ampie profferte d’amicizia, ma che ora non era evidentemente granché
disposto a mantenerle. I continui raids degli arcieri turchi disturbavano la
marcia e rendevano difficile il vettovagliamento in un paese arido, povero.
Iconio fu conquistata il 18 maggio, dopo un’aspra battaglia: ma il sultano
si era ritirato. Deposte ormai definitivamente le speranze di un suo
appoggio, Federico – dopo una sosta ristoratrice nei giardini attorno alla
città – puntò decisamente verso sud-est, cioè verso le montagne del Tauro.
Alla fine del mese era a Karaman, da dove intraprendeva il passaggio della
catena montana a sud, verso la costa. Aveva grandi progetti: pare che il
principe armeno Leone si aspettasse da lui la corona reale e fosse disposto a
rendergli omaggio. Se fosse arrivato a Gerusalemme, come avrebbero
potuto i principi crociati non fare la stessa cosa? Era il rex regum, e come
tale stava per essere riconosciuto dai potentati cristiani d’Asia. Salve, mundi
domine.
È calda, la primavera in Anatolia. Anche vicino alla costa, in vista quasi
delle acque azzurre e profonde del golfo di Alessandretta, l’estate già
prossima si fa sentire; la calura può giungere a lambire anche i passi
montani, di giorno. Gli uomini del XII secolo amano i bagni; e lì fra le gole
del Tauro scorre un fiumicello a regime torrentizio. I greci lo chiamavano
Kalikadnos e lo conoscevano anche grazie alle gesta del grande Alessandro;
il suo nome arabo-siriaco è Salef; oggi, i turchi lo chiamano Göksu. Per la
verità, non si tratta proprio di un fiumicello: è lungo circa 240 chilometri,
più o meno come l’Arno (che difatti Dante definiva «fiumicello») o come il
Ticino, che Federico ben conosce. Ma, si sa, in Asia tutto è maestoso, tutto
è immenso. Non è la madre dei mostri?
Ha fredde acque e gorghi impetuosi, nel suo alto corso, il Salef. Un
invito al refrigerio dopo la polvere del cammino e l’aria secca dei monti.
Là, il Dio degli Eserciti alza la mano e comanda al Suo servo: «Fermati».
È il 10 giugno del 1190, di domenica: e non si sa con sicurezza come sia
successo. Forse Federico scese da cavallo tentato dalla frescura delle acque,
forse l’animale scivolò trascinando nel fiume il suo signore già avanti negli
anni, stanco, accaldato e appesantito dalla tenuta da viaggio. Può darsi che
sia morto annegato; può darsi che il suo cuore abbia ceduto al balzo
repentino di temperatura, tanto più che aveva da poco consumato il suo
pasto.
Il Saladino poteva ora trarre un sospiro di sollievo, lui che alla notizia
dell’avanzare dell’imperatore aveva fatto appello a Nasr califfo di Baghdad
chiedendo aiuti. Quel che per la Cristianità era un’altra dura prova, per i
musulmani era un miracolo di Allah.
La prostrazione più profonda s’impadronì dei crociati tedeschi: anche se
il figlio dell’imperatore, Federico duca di Svevia, assunse il comando della
spedizione e fece del suo meglio guidando l’armata verso Seleucia e di lì, a
Tarso fino ad Antiochia. Boemondo principe di quella città e poi Corrado di
Monferrato – giunto appositamente da Tiro – accolsero a braccia aperte il
duca prostrato e febbricitante per un malessere contratto in Cilicia: ma
ormai la spedizione tedesca non esisteva più, ridotta com’era a una massa di
gente disorientata che prendeva al balzo ogni occasione per defezionare. Lo
stesso duca Federico sarebbe morto poco dopo, nel gennaio 1191: un
cimitero dell’Ordine Teutonico ne accolse i resti. Molti altri grandi signori e
umili crociati avevano del resto, o avrebbero entro breve tempo, condiviso
la sorte del loro signore. Basti per tutti un nome: quello del Minnesänger
renano Friedrich von Hausen, il poeta della lacerazione fra servizio a Dio e
servizio ad Amore, del conflitto tra l’amore come ascesi e l’amore come
passione.
Il viaggio delle spoglie mortali di Federico dal Salef ad Antiochia
somiglia a un lungo funerale, scandito dai riti – per noi atrocemente
macabri – della riduzione di un corpo umano a reliquia. Al calore estivo, il
cadavere – per quanto trattato con aceto – andava corrompendosi. Lo si
dovette far quindi bollire, secondo un procedimento peraltro consueto,
sotterrandone poi gli intestini a Tarso e la carne nella cattedrale antiochena
di San Pietro, in un sarcofago marmoreo dinanzi all’altar maggiore. Le
ossa, che la lunga bollitura aveva consentito di perfettamente distaccare dal
tessuto carneo, proseguirono il viaggio: ed era certo intenzione del figlio e
dei crociati farle riposare a Gerusalemme, nella basilica del Santo Sepolcro.
Pare fossero sepolte a Tiro, ma secondo altri potrebbero aver trovato
definitiva, anonima pace ad Acri.
Lo sconforto incredulo, attonito, accolse nella Cristianità la notizia della
morte del grande sovrano. 3 Uno storico bizantino che sempre e duramente
gli era stato avverso, Niceta Coniate, scrive di lui un elogio commosso:
Lo zelo di quest’uomo fu degno degli Apostoli; la sua intenzione religiosa non
inferiore in niente alla santità di quanti, posti al di sopra della comune condizione
umana, si elevarono all’altezza del messaggio evangelico con tutta la forza del loro
animo e per tutta la vita stimarono al pari d’immondizia la vanagloria umana. Per questo
la sua morte fu felice.
Gli fa eco dolorosa l’autore della Kölner Kaiserchronik:
… la nostra penna inaridisce, mute divengono le parole
XV
«Er ist niemals gestorben…»
La repentina scomparsa di Federico nelle acque del Salef fu probabilmente
quel che più impressionò i contemporanei. Da una parte per il contrasto
evidente e drammatico fra una vita gloriosa e una morte che poteva
sembrare miserabile; dall’altra per il segno della Provvidenza, tracciato
attraverso il simbolo arcano e sacramentale dell’acqua. Era mai possibile
che l’imperatore, impegnato nella santa impresa, fosse potuto perire come
Faraone mentre insegue il Popolo Eletto? La chiave simbolica della fine di
Federico doveva per forza essere un’altra. Il cronista Alberto di Stade pone
sulle labbra dell’imperatore in procinto di annegare una giaculatoria ch’è
anche preghiera di ringraziamento:
Benedetto il Figlio crocifisso di Dio, che mi ha accolto per mezzo di quell’acqua che
mi ha rigenerato nel battesimo; e, quell’acqua stessa che mi fece cristiano, possa farmi
martire!
Il risultato di questa scena edificante è in sé un tantino ridicolo, come
quello degli eroi di Calderón de la Barca che spirando nelle più tragiche
circostanze si danno a pie e dotte, soprattutto lunghe riflessioni: ma mostra
comunque con chiarezza come la morte in acqua potesse venir trasfigurata
nell’esegesi degli uomini del tempo. Il poeta italo-meridionale Pietro da
Eboli, fedele a Enrico VI e a Costanza d’Altavilla, aveva composto un
poema dedicato al Barbarossa, i Gesta Friderici, che non ci è pervenuto; ma
di Federico egli parla anche nella sua opera più famosa, il De rebus siculis
carmen, dove l’imperatore è avvicinato a Noè e a Mosè, la testimonianza
dei quali fu qualificata dal confronto con la forza delle acque. E, nel
linguaggio esegetico del tempo, l’esodo del Popolo Eletto guidato da Mosè
verso la Terra Promessa era una figura della crociata. Sembra che a
Palermo, nel palazzo imperiale, fossero effigiati il santo pellegrinaggio
armato e il sacrificio di Federico.
La crociata conferì comunque un nimbo di gloria alla figura
dell’imperatore romano-germanico anche in ambienti come quello inglese,
dove la tradizione fondata da Giovanni di Salisbury e le consuetudini di
affinità con Enrico il Leone non sembravano predisporre a simpatie nei suoi
confronti.
La crociata di Federico aveva in effetti – insieme con la pacificazione
della Cristianità, che ne era stato sia pur effimero corollario – fatto tacere le
polemiche attivate negli anni precedenti dagli stessi apparati pubblicistico-
propagandistici imperiali e papali, rispettivamente impegnati a dimostrare
come Federico fosse rex iustus o tyrannus, e quindi a collegare il suo
«personaggio» alla fine dei tempi, come «imperatore dei Tempi Ultimi» o
«figura dell’Anticristo». Questo tipo di pubblicistica e di polemica sarebbe
beninteso proseguito nel XIII secolo, anche in seguito al diffondersi degli
scritti di Gioacchino da Fiore o di quelli comunque a lui attribuiti: ma in ciò
il ruolo di Federico sarebbe stato ereditato dal di lui nipote Federico II. E in
effetti proprio attorno alla memoria di quest’ultimo sarebbe nata la leggenda
dell’imperatore che «vive e non vive»: e che – non morto, bensì nascosto in
un luogo segreto – attende la fine dei tempi per tornare sulla terra. Un mito
ambiguo, sospeso fra teofanico e demonico, nel quale per un verso sembra
di poter cogliere il riflesso d’una dimensione viva in molti cicli culturali,
quella del «monarca sacro universale» – la leggenda iranica di Kereshâspa,
quella vedica di Puraçu-Râma, la tradizione popolare del Buddha Amida,
l’escatologismo musulmano sciita legato al tema dell’«Imam velato» e così
via – mentre per un altro paiono conservarsi i resti di antiche leggende
come quella della «caccia feroce».
Beninteso, credenze di questo tipo possono essere a lungo rimaste
dormienti nel sottosuolo folklorico d’Europa, per risvegliarsi – e riproporsi
in termini sempre diversi – in periodi di paura, di crisi, comunque di
contingenza. Dopo la prima crociata, in Germania si conservò il ricordo
d’una delle più truci e sanguinarie figure di cavalieri-predoni ch’erano state
a capo di spedizioni «popolari» risolte in massacri di ebrei, Emicho conte di
Leiningen, che – si diceva – era stato veduto entrare alla testa d’un terribile
esercito di larve nelle viscere d’una montagna infocata. Ancora, il tema
dell’«esercito dei morti» – un antico topos della mitologia germanica
rivisitato in termini cristiani di apparizioni di defunti dannati o tormentati
dalle fiamme del Purgatorio – si riproponeva nella leggenda di Carlomagno
che dorme nelle viscere del Gudenberg («Montagna di Wotan») o in quella
di Artù che, dopo la morte, sopravvive nell’isola di Avallon – o, secondo
un’altra versione, nelle viscere dell’Etna – e di là tornerà nel suo regno (nel
Medioevo si canzonavano i bretoni che aspettavano il ritorno di Artù:
Arthurus, rex quondam, rex venturus).
Queste leggende sono state talvolta alla base d’imprese politiche, come
quelle tentate verso il 1284 da due personaggi che, in Germania, si
spacciarono per Federico II tornato nel suo regno. Di questi «ritorni del re»
è piena la letteratura politico-escatologica tedesca fra Medioevo e
Rinascimento; anzi, si può dire che questo tipo di mitologia è una delle
componenti nelle quali affondano i presupposti della Riforma, ed è senza
dubbio legato al profondo disagio e al vasto disorientamento politico di
quegli anni; nel Portogallo tardocinquecentesco, analoghe radici sembrano
aver dato luogo al ciclo del «ritorno di re Sebastiano», al sebastianismo e al
quintomonarchismo.
Ma sul piano immediatamente storico la memoria di Federico
Barbarossa scomparve abbastanza presto, obliterata da quella del nipote e
sommersa dalle vicende posteriori; difficile valutare se la sua
«sopravvivenza folklorica» non sia stata, più che una sotterranea
prosecuzione, un dotto e politicamente indirizzato revival.
Anche in Italia, il ricordo di Federico non visse a lungo: anche lì, le
polemiche nate attorno alla figura di Federico II lo fecero dimenticare.
Anzi, se per la propaganda ghibellina egli poteva essere il prototipo
dell’imperatore forte, vittorioso e giusto, per quella guelfa continuava a
essere il primo dei tre «flagelli» della casa di Svevia, quel «vento di Soave»
che allo stesso Dante sembrava aver sconvolto la storia del XII-XIII secolo.
D’altra parte, Dante ricorda con grande rispetto Federico. Definendolo,
nella Divina Commedia, il «buon Barbarossa / di cui dolente ancor Milan
ragiona», 1 egli dimostra di volersi accostare all’immagine stessa che
l’imperatore intendeva dare di sé e del suo potere: giustizia e clemenza da
un lato, inflessibilità contro i ribelli dall’altro. E nella lettera spedita «agli
scelleratissimi fiorentini», erano ancora gli esempi di Spoleto e di Milano,
ribelli a Federico e quindi punite duramente, a tornare nella polemica
dantesca contro Firenze ribelle a un altro imperatore, Enrico VII di
Lussemburgo. Ancora, nel Convivio, Dante osserva che «… quasi dire si
può de lo Imperadore, volendo lo suo officio figurare con una imagine, che
elli sia lo cavalcatore de la umana volontade». Ed è, questa, un’immagine
che si avvicina molto all’idea che dell’impero come armonia di cavaliere e
di cavallo viene presentata dalla letteratura tedesca e che torna nell’esegesi
di una celebre scultura gotica conservata nella cattedrale di Bamberga e
chiamata appunto il Bamberger Reiter, il «Cavaliere di Bamberga», spesso
additata come un’allegoria dell’impero.
Ma Dante scriveva queste cose proprio quando l’ideale universalistico
dell’impero medievale stava venendo meno: e non è certo strano che egli
fosse, anche in ciò, inascoltato. Ben più attuale era, al confronto, la pur
tanto più povera e unilaterale visione di un Barbarossa annegato in
punizione delle persecuzioni che aveva inflitto alla Chiesa, secondo la
proposta del cronista guelfo fiorentino Giovanni Villani. Può comunque
darsi che all’eclisse di Federico I dalla memoria storica italiana abbia in
qualche modo contribuito il fatto che fra Tre e Quattrocento Milano fu, con
i Visconti, la roccaforte del ghibellinismo. Stando così le cose, la
storiografia encomiastica viscontea non poteva certo assumere a gloria
cittadina la lotta contro l’imperatore: e, tacendosi di essa, anche del
Barbarossa si taceva. Nella Patria Historia di Bernardino Corio, scritta alla
fine del Quattrocento per Ludovico il Moro, Federico ha il ruolo del
sovrano nemico e terribile, non senza tuttavia tratti di grandezza. E negli
episodi relativi alla lotta tra Federico e Alessandro III effigiati nel Palazzo
Pubblico di Siena e nel Palazzo Ducale di Venezia, se si vuol rendere
omaggio – rispettivamente – ad Alessandro come grande cittadino di Siena
e alla Repubblica di San Marco in quanto mediatrice della pace del 1177,
non si vogliono comunque certo eternare – in una sorta di pittura infamante
– la sconfitta e l’umiliazione dell’imperatore.
Che l’interesse per Federico Barbarossa in Italia fosse sopito, e tale
restasse per tre lunghi secoli, lo dimostra il fatto che l’Esame dell’antica
libertà dei Lombardi, e della pace di Costanza del vercellese Jacopo
Durandi, che pur aveva superato nel 1772 l’esame di censura a Torino ed
era quindi pronto per la stampa, non venisse edito che sessantasei anni
dopo, nel 1838, in un clima storiografico e – soprattutto – politico
completamente nuovo.
È appunto a questo mutamento di clima politico che noi dobbiamo, in
Germania come in Italia – con un significativo parallelismo di fatto, anche
se suscettibile, com’era naturale e come vedremo, di generare prodotti di
opposto segno –, la «resurrezione» del Barbarossa.
Nel Settecento tedesco, a Federico aveva dedicato uno studio biografico
edito nel 1722 il conte Heinrich von Bünau, erudito statista sassone. Ma il
rinnovamento degli studi federiciani si deve essenzialmente a due opere: la
Geschichte der Hohenstaufen und ihrer Zeit edita in sei volumi tra 1823 e
1825 da Friedrich von Raumer e la Geschichte der deutschen Kaiserzeit
pubblicata anch’essa in sei volumi, fra 1855 e 1895, da Wilhelm von
Giesebrecht. Nell’arco di tempo sotteso a queste due opere, che riempirono
di sé romanticismo e storicismo tedeschi, si snodano la vicenda della
nascita della nazione tedesca moderna e il dramma del sorgere – tra
Restaurazione e Quarantotto – del patriottismo tedesco e del suo degenerare
in nazionalismo. Che l’opera del Giesebrecht fosse tutta percorsa da un
messaggio politico di segno romantico-nazionale, quello teso a suscitare nei
tedeschi del suo tempo – e specie nei giovani – ammirazione per le
memorie del passato, è noto. E ancor più importante è l’accoglienza che
l’opinione pubblica tedesca riservò alla Entstehung des deutschen
Königstums del von Sybel, edita nel 1844, che condannava la politica
universalistica degli imperatori germanici del Medioevo come «non
tedesca» (undeutsch), e alle due opere del Ficker, Das deutsche Kaiserreich
in seinen universalen und nationalen Beziehungen e Deutsches Kaisertum
und Königtum, del 1861 e 1862, nelle quali la visione del von Sybel veniva
duramente contestata. Dietro questa polemica s’individuavano le linee
portanti di due diverse visioni politiche, quelle, rispettivamente, dei
«Piccoli Tedeschi» e dei «Grandi Tedeschi»: e il Barbarossa diveniva, con i
suoi caratteri di pater patriae per un verso e con i suoi sogni universalistici
per un altro, la cerniera della storia tedesca rivisitata in termini romantici.
Ma a questo punto Federico Barbarossa era già entrato nel mito: e il
vecchio ciclo leggendario del «nuovo Federico» che attende il giorno del
risveglio gli veniva ormai attribuito, con evidenti connotazioni politiche.
Federico arcanamente assopito nei secoli era la nuova Germania in attesa di
risvegliarsi. Cristianesimo, medievismo, culto della tradizione: tutto il
romanticismo tedesco dalla lotta di liberazione contro l’egemonia
napoleonica in poi convergeva su questo mito al quale nel 1815 il poeta
Friedrich Rückert aveva dato voce narrando in una celebre ballata la
leggenda del grande imperatore che non è mai morto («Er ist niemals
gestorben») e dorme sognando in una grande sala sotterranea:
Il vecchio Barbarossa,
l’imperatore Federico
sta, nell’incantesimo,
in un castello sotterraneo.
Egli non è mai morto,
e, chiuso là dentro, egli vive ancora;
si è nascosto nel castello,
ed è immerso nel sonno.
Egli ha portato con sé
tutto lo splendore dell’impero
e con esso tornerà alla fine,
quando sarà il tempo.
Tutto d’avorio è il trono
su cui siede l’imperatore;
ed è di marmo la tavola
sulla quale egli tiene piegata la testa.
La sua barba non è come lino,
ma come fuoco ardente,
e giace allungata sulla tavola
sulla quale egli tiene
reclinato il mento.
Come in sogno, egli muove la testa
e ammicca con gli occhi socchiusi;
e talvolta, a lunghi intervalli,
egli chiama con un cenno uno dei suoi servitori.
In sogno, così gli dice:
– Esci, o nano, dal castello,
e guarda se i corvi
volano ancora attorno al monte.
E se i vecchi corvi stanno
ancora volando,
questo è il segno che io debbo ancora
dormire nell’incantesimo, per altri cento anni –.
Fu grazie alla ballata del Rückert e all’opera di ricerca e di reinvenzione
delle tradizioni tedesche compiuta dai fratelli Grimm che il Barbarossa
rientrò fra le glorie germaniche, prendendo posto fra gli «eroi della patria
tedesca». È il protagonista magico di un racconto fantastico di Achim von
Arnim, Die Kronenwächter, edito nel 1817: esso parlava della
rigenerazione magico-mistica del Sacro Romano Impero e non a caso
divenne una delle letture preferite alla corte degli Hohenzollern. Ma tutto
ciò poneva un problema: quello del legame fra mito germanico antico e
realtà storica. Il problema fu in un certo senso risolto da Richard Wagner, il
quale in un «suo» Federico Barbarossa, reinterpretato e fatto protagonista di
un’opera che non fu peraltro mai scritta, ricollegava gli Staufer ai
Nibelunghi. L’imperatore svevo della famiglia di Weiblingen, eroe dei
Wibelungen, diveniva così l’anello mancante della catena che dal mito
conduceva alla storia.
Il poema Friedrich I, febbrilmente buttato giù nell’ottobre 1846, era
quanto di più rigorosamente storico l’artista potesse immaginare: egli
voleva appoggiarsi appunto alla storia, ai fatti della storia, per fondare
un’epica in grado di presentarsi come veramente popolare. Dietro questo
progetto si nascondeva l’idea solita di Wagner, quella dell’eroe popolare,
del grande capo in grado di guidare la rivoluzione salvatrice dall’alto. La
storia non poteva esser sufficiente a legittimare una tale visione: per essere
piegata a ciò essa doveva per forza di cose venir corrosa dal mito. Ed ecco
come Wagner stesso, nel Mein Leben, rivive appunto il passaggio dalla
storia al mito:
… pensai alla composizione di un dramma che avesse per eroe l’imperatore Federico
Barbarossa. L’idea di «sovrano» doveva esservi rappresentata nella sua più grande e
terribile importanza; di fronte all’impossibilità di realizzare la sua idea, l’imperatore
serbava una dignità che destava la simpatia e dava una chiara nozione della molteplicità
delle cose di questo mondo. Disegnai solo a grandi tratti l’abbozzo di quel dramma che
doveva essere in versi rimati popolari e nello stile dei nostri poeti epici del primo
Medioevo tedesco; qualche cosa che somigliasse al poema Alessandro del prete
Lamberto. L’azione era distribuita in cinque atti, come segue. Atto primo: riunione della
dieta nella pianura di Roncaglia; esposizione della sovranità imperiale che comprendeva
anche l’investitura dell’acqua e dell’aria. Atto secondo: assedio e presa di Milano. Atto
terzo: tradimento di Enrico il Leone e rotta di Legnano. Atto quarto: dieta di Augusta,
umiliazione e punizione di Enrico il Leone. Atto quinto: dieta e grande riunione della
corte a Magonza; pace con i lombardi, riconciliazione con il papa, presa della croce e
partenza per la Terrasanta.
Ma l’interesse che m’ispirava questo progetto drammatico fu distratto fin dal primo
momento dall’attrattiva assai più potente esercitata sul mio cervello dal lato mistico di
un altro argomento dello stesso genere, nella leggenda dei Nibelunghi e di Sigfrido. La
scoperta di questa analogia tra la storia e la leggenda, che qui si toccavano, mi portò a
scrivere in proposito una dissertazione, per la quale mi servii di monografie (non ricordo
più i nomi degli autori) trovate nella biblioteca reale, che mi diedero indicazioni precise
sui regni primitivi dei germani. Pubblicai in seguito con il titolo Wibelungen quello
studio abbastanza lungo, e dopo il Barbarossa non ho più trattato alcun soggetto storico
nel dramma. 2
Il mito del ritorno di Federico riempie di sé, variamente atteggiato, la
fantasia di Wagner, ma anche la storia della Germania di quei tempi. Un
biografo dell’artista, il Gregor-Dellin, commenta:
Tra i frammenti postumi di Wagner si sono trovate delle Parole conclusive per la
fantasia wibelungica […] «Quando tornerai, Federico, splendido Sigfrido? Quando
abbatterai il drago malvagio che tormenta l’umanità?»: che mescolanza di mito e di
storia contemporanea, di arte e di politica, di opera lirica e di quarantottismo!
Fu appunto nel ’48 che Wagner, rinunciando – come si esprime Robert
W. Gutman – alla «storia» per il «mito» trasfigurò i suoi diletti
Hohenstaufen nel saggio Die Wibelungen, «risoluto ma confuso tentativo» è
ancora il Gutman ad avvertirci «di organizzare e affinare le sue letture e i
suoi pensieri sui miti del Reno, Siegfried e il tesoro dei Nibelunghi, e il loro
rapporto con la storia tedesca». Giocando arditamente – e, inutile dirlo, del
tutto arbitrariamente sul piano filologico – sulla lontana assonanza fra
Weiblingen e Nibelungen, il Maestro faceva di Federico Barbarossa un
discendente diretto di Sigfrido, anzi un Sigfrido redivivo, mentre il tesoro
dei Nibelunghi subiva una duplice e in un certo senso contraddittoria sorte:
da una parte si spiritualizzava arcanamente sino a identificarsi nel Santo
Graal, oggetto ultimo della crociata in Oriente nella quale Federico avrebbe
sacrificato la vita (e quest’evoluzione del tesoro in mito spirituale sarebbe
stata patrimonio della coscienza tedesca); dall’altra si trasformava
gradualmente nel «possesso ereditario», cioè si storicizzava nella proprietà,
origine di tutti i mali. Questa visione negativa dell’evoluzione storica del
tesoro si compiva soprattutto nelle correzioni zurighesi che Wagner
introdusse al dodicesimo capitolo del suo saggio, sotto l’impressione della
sua grande avventura rivoluzionaria del ’48-’49: l’adesione al movimento
rivoluzionario, l’amicizia con Michail Bakunin, la tumultuosa lettura di
Proudhon, la partecipazione ai moti di Dresda, la fuga. In questo clima
nascevano i drammi dell’Anello del Nibelungo, concepiti nel ’48 e terminati
a Zurigo nel ’52. In questo medesimo clima, sempre a Zurigo, alla fine del
luglio del ’49 nasceva il saggio Arte e rivoluzione, ispirato a Proudhon e a
Feuerbach, con i suoi attacchi al cristianesimo e al mondo dell’industria, del
denaro, dello sfruttamento. L’operosità immorale o la corrotta indolenza,
«ideologia dei ricchi», sarebbero – nota il Gregor-Dellin – esattamente le
caratteristiche dei due personaggi negativi dell’Anello, Alberico e Fafner.
Nella visione wagneriana sembrano fondersi elementi desunti dalla critica
alla società industriale portata avanti dagli autori della Restaurazione («le
nostre fabbriche ci mostrano il quadro penoso della più abietta
degradazione dell’uomo: una fatica continua che uccide il corpo e lo spirito
senza gioia né amore»), temi esaltanti la natura sulla linea da Rousseau a
Proudhon e una certa individuazione del concetto di alienazione.
Nel 1870 l’impero federale tedesco degli Hohenzollern, il «Secondo
Reich», veniva proclamato solennemente nella Sala degli Specchi di
Versailles: il vecchio Barbarossa era risorto. In effetti una serrata
propaganda storico-demagogica si mise in moto. A Goslar veniva costruito
in stile neoromanico un solenne «palazzo imperiale» vigilato da due grandi
statue equestri: quelle degli «imperatori paralleli» Barbarossa e Guglielmo I
di Hohenzollern, al quale uno storico evidentemente sprovvisto di senso
dell’umorismo, il Dahn, aveva affibbiato anche un «soprannome parallelo»:
Barbablanca. Ed era ancora il Kaiser Guglielmo a sovrastare, colossale in
un altro monumento equestre, la cima della montagna turingia del
Kyffhäuser: nel piedistallo di quel monumento si ricavava la grotta del
Barbarossa dormiente, anzi ormai risvegliato. Correva l’anno 1871. Anche
a Goslar, nella sala d’onore, affreschi romantici narravano le gesta del più
medievale e più tedesco degli imperatori. Qualche anno più tardi, all’incirca
verso il 1897-98, il Kyffhäuserbund, la «Lega per le cerimonie sacre sul
Kyffhäuser», trovava nella montagna e nel monumento il suo centro, lo
spazio mistico e magico per le sue cerimonie patriottiche, vere e proprie
liturgie laico-militari.
Il «santuario turingio» del Kyffhäuser diveniva da allora il centro sacrale
di questo culto federiciano, che dall’escatologismo di una leggenda
medievale rivisitata in chiave romantica si avviava al liturgismo teatrale
della «nazionalizzazione delle masse».
Beninteso, il Kyffhäuser aveva dei rivali: per esempio il centro svevo di
Göppingen presso Weiblingen, culla degli Staufer, dove si inaugurava una
cappella votiva in stile neogotico; oppure il massiccio bavaro
dell’Unterberg, concorrente del Kyffhäuser – nel nome di quella Germania
meridionale che al Barbarossa aveva dato i natali – nell’offrire
all’imperatore dormiente la sua residenza.
In un contesto di questo genere assume un ambiguo significato
l’impresa, suggerita dal Bismarck, volta a rintracciare il vero sepolcro del
Barbarossa in Asia Minore. Vi parteciparono nel 1878 Johann Sepp e Hans
Prutz: il resoconto del loro lavoro sollevò una polemica nella quale entrò
anche il mentore dell’ipercritica del tempo, lo Scheffer-Boichorst. Ma che
cosa avrebbe voluto fare il principe di Bismarck della tomba orientale del
Barbarossa, se essa fosse davvero stata ritrovata? Un altro centro di culto
patriottico? Un elemento per eventuali rivendicazioni tedesche sul litorale
siro-libanese? O un argomento di razionalizzazione storica, giacché l’esatta
ubicazione della sepoltura avrebbe raffreddato gli entusiasmi dei mistici del
Kyffhäuser, riuniti attorno al mito nato sul dato obiettivo dell’assenza d’un
sepolcro effettivo?
Non lo sappiamo. Certo è che il Kyffhäuser continuò a esercitare il suo
fascino. A combatterlo da parte di chi guardava con inquietudine al crescere
di questa mitologia patriottica non bastarono i versi satirici che Heinrich
Heine dedicò alla leggenda nel poema Deutschland. Ein Wintermärchen,
dove l’imperatore dormiente diviene un furbacchione reazionario che
sonnecchia e non ha alcuna voglia di saltare a cavallo per vendicare la
Germania umiliata. L’incanto romantico e wagneriano, appoggiato alla
nevrosi nazionalistica, ebbe comunque la meglio sulla corrosiva satira di
Heine. Il mito federiciano venne costantemente invocato in appoggio al
radicamento della dinastia Hohenzollern nelle tradizioni tedesche e ancora
durante la repubblica di Weimar esso conobbe qualche fasto: come nella
celebrazione che Friedrich Gundolf – uno dei più interessanti esponenti
della cerchia di Stefan George – gli dedicava nel suo Caesar del 1924; e
vari gruppi e associazioni politiche continuarono, nel primo dopoguerra, a
ispirarsi al Barbarossa, alla sua storia e ai luoghi che lo avevano veduto nel
suo splendore, come il palazzo imperiale di Gelnhausen.
Lo stesso Hitler sfruttò almeno in parte il mito barbarossiano, facendone
una delle basi per il messianico «Terzo Reich» che sarebbe dovuto durare
«mille anni». La residenza estiva del cancelliere del Reich,
sull’Obersalzberg, era in vista dell’Unterberg, il «Kyffhäuser bavaro»; e al
Barbarossa s’intitolò la campagna di Russia del 1941 che più
opportunamente avrebbe semmai dovuto esser dedicata a Enrico il Leone,
in quanto – notoriamente – l’imperatore Federico non fu mai un interprete
del Drang nach Osten, ruolo che storicamente era stato sostenuto dal
cugino . Difatti, in realtà, la propaganda nazionalsocialista non si appoggiò
mai granché al mito barbarossiano, molto compromesso con il «Secondo
Reich» e la monarchia degli Hohenzoller. In ciò i nazisti si sentivano più
vicini al von Sybel che al Ficker e consideravano anch’essi undeutsch la
politica mediterranea di Federico. Egli era stato troppo cristiano, troppo
ecumenico, troppo mediterraneo per i loro gusti. Il che non toglie che fuori
di Germania – e segnatamente in Italia – si sia sviluppata nell’immediato
dopoguerra una visione pseudostorica tanto spudoratamente falsa quanto
dura a morire (sopravvive difatti ancora, in certi manuali scolastici) che
vuole scorgere nell’indole e nell’azione politica del Barbarossa una sorta di
nazismo avant la lettre.
Non metterebbe conto di occuparsi di volgarità di questo genere,
neppure per confutarle, se esse non derivassero da illustri e significative (sia
pur storicamente a loro volta forzate) origini. Alludiamo evidentemente alla
visione romantico-risorgimentale della storia del nostro Medioevo, che nel
secolo scorso indusse a vedere nella lotta fra il Barbarossa e i comuni della
Lega lombarda il primo capitolo della storia della lotta di liberazione
nazionale dallo straniero.
Dopo l’opera del Voigt dedicata alla storia della Lega lombarda, e
soprattutto dopo l’Histoire des républiques italiennes du Moyen-Âge di
Sismondo de’ Sismondi, andò affermandosi l’idea che quella dei comuni
italici contro il Barbarossa fosse la lotta degli oppressi contro l’oppressore.
Ma fu soprattutto con la Storia della Lega lombarda di Luigi Tosti, edita nel
1848, che l’analogia fra tedeschi del XII e austriaci del XIX secolo divenne
un topos al quale risultava quasi impossibile opporsi.
La sincronicità fra l’uscita dell’opera del Tosti e il famoso «anno
europeo», il Quarantotto, era da sola molto eloquente. Ma ancor prima il
Barbarossa e la Lega lombarda avevano ispirato scrittori che in essi
avevano trovato i referenti per un discorso che avrebbe dovuto essere,
romanticamente, storico, letterario e artistico nello stesso tempo. Era
ispirandosi alla lettura del Sismondi che Silvio Pellico aveva pensato di
scrivere una tragedia sul Barbarossa, mentre già fin dal 1816 Cesare Balbo
si era cimentato in un romanzo su La Lega di Lombardia. Nel 1828 Cesare
Cantù, nella novella in versi Algiso, aveva rievocato la distruzione di
Milano. E, in una delle celebri Fantasie di Giovanni Berchet, quella
dedicata al Giuramento di Pontida, lo spirito degli esuli dopo i fatti del ’21
si anima di uno straordinario colore eroico. Ancora alla Lega lombarda si
ispirarono il Mamiani per un poema, il D’Azeglio per un romanzo (ma poi,
accortosi che la realtà storica di quei tempi era sensibilmente diversa dalla
lezione politico-propagandistica che se ne voleva trarre, lasciò perdere) e
infine Giuseppe Verdi per La battaglia di Legnano, che – scritta su libretto
di Salvatore Cammarano – fu rappresentata per la prima volta a Roma, il 27
gennaio 1849, pochi giorni prima di quel 9 febbraio che avrebbe visto la
proclamazione della Repubblica Romana. Il Risorgimento rivelava, così, le
sue due anime: se l’opera verdiana dava alla lotta contro il Barbarossa un
significato laico e repubblicano, pochi mesi prima, nel ’48, era a Pio IX che
Luigi Tosti aveva dedicato la sua Storia della Lega lombarda, da leggersi
quindi in una prospettiva neoguelfa.
Giosuè Carducci, con la poesia Sui campi di Marengo e con il
frammento che avrebbe dovuto far parte dell’incompiuta Canzone di
Legnano, canonizzava quell’opposizione fra un mondo germanico chiuso e
feudale e un mondo latino aperto e mercantile che era ormai divenuta parte
di un retaggio risorgimentale passato nelle scuole e a sua volta stanco e
retorico. Intanto, una serie di pittori italiani – dal D’Azeglio stesso al
Landriani, al Mazza, al Giuliano, al Gastaldi, al Bianchi, al Cao, al Cassioli
– si davano a rappresentare momenti della vita del Barbarossa e della lotta
contro di lui, privilegiando episodi come il giuramento di Pontida e la
battaglia di Legnano.
I versi del Berchet e del Carducci, i dipinti del Cassioli, sono stati il pane
quotidiano di alcune generazioni di scolari italiani delle elementari e delle
medie inferiori: l’odio contro i «tedeschi», e l’identificazione di essi col
Barbarossa, è stato per decenni fra Otto e Novecento, se non succhiato col
latte, almeno imparato a memoria insieme con l’abbecedario. Verso il 1920
il popolare Vamba, cioè lo scrittore Luigi Bertelli, nel suo Giornalino di
Gian Burrasca, non aveva dubbi su chi fossero i tiranni: Federico
Barbarossa, Ezzelino da Romano e il feldmaresciallo Radetzky che il
pestifero Giannino Stoppani, protagonista del libro, riciclava con fiorentina
disinvoltura come «generale Radeschi».
Vecchia, vana, deleteria retorica, che anche da noi finì nel chiasso e nel
cattivo gusto del nazionalismo. Così, ora, sgombrato il campo dagli
equivoci del «secolare nemico», anche noi possiamo finalmente guardare
con chiarezza e serenità, da europei, alla figura di un grande sovrano
dell’Europa cristiana del XII secolo.
Di questo grande sovrano abbiamo rievocato qui la vita. Vorremmo
attenerci alla modestia del «genere» biografico, senza l’obbligo di tentarne
un vero e proprio bilancio storico. Si può tuttavia osservare che oggi non
hanno ormai più senso certe vecchie polemiche sul ruolo «reazionario» o
«innovatore» della politica di Federico, sul fatto che egli sia «riuscito» o
abbia «fallito», che sia stato un vincitore o un vinto.
Certo è che il Barbarossa seppe essere all’altezza di un secolo centrale,
nella storia dell’Europa, come il XII. Il suo profondo senso della dignità
dell’impero e l’alta considerazione che egli sempre dimostrò per il suo
stesso ruolo non gli impedirono di assumere sovente posizioni ispirate a un
deciso realismo politico, addirittura a spregiudicatezza: e, in reazione a
vecchie tesi che – a torto – parlavano di un suo eccessivo rigore o di un suo
unilaterale impegno in appoggio al sistema feudale contro qualunque altra
forza, specie quelle «innovative» della realtà comunale che gli sarebbe stata
invisa, oggi si preferisce sottolineare la componente «pragmatica» se non
addirittura «opportunistica» della sua politica, la sua flessibilità
condizionata solo dalla durezza con la quale usava sostenere quelle che egli
riteneva questioni di principio, quelle su cui si basava la sua sovranità.
D’altra parte, per quel che per esempio riguarda i suoi rapporti con le città
italiche, la chiarezza con la quale Federico si rese conto delle loro grandi
possibilità economiche fa da riscontro alla sua difficoltà a comprendere
anche la natura politica del movimento comunale: da qui un atteggiamento
dispotico e soprattutto un fiscalismo pesante che partiva dal concetto che a
così ricche città si potesse far pagare il peso di una politica di ampio
respiro, che richiedeva spese molto ingenti. Ma questa pesantezza finiva col
far giocare all’impero un ruolo obiettivamente eversivo nello sviluppo della
società comunale italica: e difatti, al di là dei risultati della pace di Costanza
del 1183, l’equilibrio imposto dal Barbarossa non poteva reggere a lungo.
Diversa la situazione in Germania, dove l’azione di Federico dette l’ultimo
colpo al sistema basato sull’equilibrio fra i gruppi etnici e fondò un nuovo
assetto a base territoriale e feudale, destinato a costituire le radici «federali»
della Germania moderna. Cadde, certo, il progetto di monarchia universale
appoggiata al diritto romano. Esso apparteneva troppo profondamente e
specificamente al XII secolo per sopravvivergli. Ma il vigore di un disegno
perseguito durante un regno durato quasi un quarantennio comportò una
serie di risultati obiettivi – in Germania come in Italia e in Borgogna –
destinati a perdurare nel tempo. Essere stato appieno un uomo del suo
secolo, un plasmatore del suo secolo; e quindi esser passato con esso.
Questo è il ruolo di Federico, questo il suo posto nella storia.
Note
I. Il tabernacolo di Mosè
1. Un «giro di orizzonti» sulla situazione bizantina tra XI e XII secolo in D. Obolensky, Il
Commonwealth bizantino, Roma-Bari 1974, pp. 289-337.
2. Cfr. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del XII secolo, Torino 1971.
3. Cfr. T. Husband, The Wild Man. Medieval Myth and Symbolism, New York 1980.
4. La tesi del rapporto tra certe leggende e i disboscamenti e le bonifiche è stata sostenuta in due
saggi (Cultura ecclesiastica e cultura folklorica nel Medioevo: san Marcello di Parigi e il drago,
e Melusina materna e dissodatrice) riediti in J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del
mercante, Torino 1977, pp. 209-55 e 287-318.
5. Per il bosco, cfr. Il deserto-foresta nell’Occidente medievale, in J. Le Goff, Il meraviglioso e il
quotidiano nell’Occidente medievale, Roma-Bari 1983, pp. 25-44.
6. Per tutto il complesso problema di come nel Medioevo si immaginava il cosmo, si veda il volume
di AA.VV., «Imago mundi». La conoscenza scientifica nell’Occidente medievale, Todi 1983.
7. Cfr. il saggio di C. Frugoni, La figurazione bassomedievale dell’Imago Mundi, in AA.VV., «Imago
Mundi», cit., pp. 225-69.
8. Per i mostri del Medioevo e l’Occidente, cfr. il libro di C. Kappler, Demoni, mostri e meraviglie
alla fine del medioevo, Firenze 1983, e il bel saggio di A. Appiano Caprettini, Mondo e
Antimondo. Il Sacro e il Mostro in un corpus tardomedievale, Torino 1983.
9. Sulla leggenda medievale di Alessandro, un utile contributo di sintesi è l’agile volume di C.
Frugoni, La fortuna di Alessandro Magno dall’antichità al medioevo, Firenze 1978.
10. Cfr. Vita bizantina di Barlaam e Ioasaf, a cura di S. Ronchey e P. Cesaretti, Milano 1980.
II. «A l’entrada del tens clar…»
1. Anonimo, A l’entrada del tens clar, in La poesia dell’età cortese, a cura di A. Roncaglia, Milano
1961, pp. 384-87.
2. Cfr. H. Focillon, L’An Mil, Paris 1970; G. Duby, l’Anno Mille, Torino 1976.
3. Un efficace quadro del X secolo in R. Fossier, I nuovi mondi 350-950, Torino 1984, pp. 383 sgg.
4. «… Era come se il mondo stesso, scuotendosi, volesse spogliarsi della sua vecchiezza per rivestirsi
di un candido mantello di chiese» (Rodolfo il Glabro, Storie dell’Anno Mille, a cura di G.
Andenna e D. Tuniz, Milano 1982, p. 106).
5. Per il complesso problema della demografia medievale, abbiamo adesso – almeno a proposito
dell’Italia – un ottimo strumento di lavoro nel libro Strutture familiari, epidemie, migrazioni
nell’Italia medievale, a cura di R. Comba – G. Piccinni – G. Pinto, Napoli 1984.
6. In questo campo, innovatrice risulta la prospettiva storica aperta dal libro di M. Montanari,
L’alimentazione contadina nell’Alto Medioevo, Napoli 1979.
III. «Come i pesci nel mare»
1. Se lo è chiesto R.S. Lopez, La nascita dell’Europa, Einaudi, Torino 1966, pp. 102 sgg.
2. Cfr. J.D. Mansi, Sacrorum conciliorum amplissima collectio, XVIII, coll. 265-66; cfr. Ps., 11,6.
3. Ibid., col. 284.
4. Questo aspetto della politica di Lotario è variamente interpretato: secondo alcuni, contribuì
irrimediabilmente ad abbassare prestigio e dignità della corona nei confronti dell’aristocrazia
feudale; secondo altri invece il re – con l’attenersi per primo e strettamente al nuovo diritto
feudale, e quindi con l’abbandono progressivo della difesa del concetto di pubblicità del potere –
avrebbe escogitato in qualche maniera un antidoto contro i rischi di un’anarchia feudale vera e
propria. Non a caso è tale la tesi di uno studioso inglese, J.W. Thompson, Feudal Germany,
London 1928, pp. 237 sgg., che giunge a definire il progetto lotariano come quello di una
«monarchia federativo-feudale». È comunque da notare come la monarchia sia chiamata in
Germania a svolgere un ruolo più federativo che centralizzatore, data la presenza di un’alta nobiltà
al cui vertice sta un’aristocrazia di principi. E sarà proprio Federico Barbarossa a formalizzare alla
fine del secolo XII questa tendenza, talmente chiara e pronunziata che Karl Bosl potrà parlare
della Germania come di «uno stato aristocratico con un re alla testa».
IV. Welf e Weiblingen
1. A tal riguardo, un «classico» punto di partenza è il libro di A. Overmann, La contessa Matilde di
Toscana, Roma 1980.
2. La donazione del 17 novembre 1102, alla presenza del cardinal legato Berardo, si configura come
conferma di una precedente donazione già effettuata dalla magna comitissa a papa Gregorio VII
(cfr. Overmann, La contessa Matilde, cit., pp. 151-52).
3. Fra il 6 e l’8 maggio del 1111 Enrico V fu ospite di Matilde a Bianello: in tale occasione essa lo
nominò suo erede universale (cfr. Overmann, La contessa Matilde, cit., p. 166).
4. Guelfo, V nella sua dinastia, è II come duca di Baviera: ciò va notato in quanto la doppia
numerazione ordinale, abitualmente usata dagli storici nei confronti dei Welfen, può causare
qualche confusione.
5. Rimandiamo, per le complesse vicende italo-normanne, al libro di P. Delogu, I Normanni in Italia.
Cronache della conquista e del regno, Napoli 1984, part., per Ruggero II, pp. 131 sgg.
6. Il premonstratense Anselmo di Havelberg, allievo prediletto di Norberto di Xanten, è appunto
famoso per aver composto tre libri di Dialoghi sulle conversazioni religiose avute a
Costantinopoli (cfr. H. Wolter – H.G. Beck, Civitas medievale XII-XIV secolo, Milano 1975, p.
61).
7. Nella storia dei pontefici, questo Gregorio è noto come l’antipapa Vittore IV: il suo breve regno
durò dal 15 marzo al 29 maggio.
V. Un giovane signore dai capelli fulvi
1. Cfr. la discussione in P. Munz, Frederick Barbarossa. A Study in Medieval Politics, London 1969,
p. 40.
2. Cfr. G. Duby, Il cavaliere, la donna, il prete, Roma-Bari 1981, pp. 128-30.
3. Tobia, 1,4.
4. Prov., 22,15; 19,18.
5. Cfr. R. Pernoud, La donna al tempo delle cattedrali, Milano 1982, pp. 50-58.
6. Per questo personaggio cfr. G. Beech, L’attribution des poémes du comte de Poitiers à Guillame
IX, in «Cahiers de civilisation médiévale», 31 (1988), pp. 3-16.
VI. Spira, Costantinopoli, Gerusalemme
1. Per tale problema, molto dibattuto nella storiografia recente, si veda Ph. Sénac, L’image de l’autre.
Histoire de l’occident médiéval face à l’Islam, Paris 1983.
2. Cfr. E. Christiansen, Le crociate del nord. Il Baltico e la frontiera cattolica (1100-1525), Bologna
1983.
3. Cfr. N. Cohn, I fanatici dell’Apocalisse, Milano 1976, pp. 83 sgg.
4. Cfr. J. Markale, Eleonora d’Aquitania. La regina dei trovatori, Milano 1980, pp. 36 sgg.; R.
Pernoud, Eleonora d’Aquitania, Milano 1983, pp. 51 sgg.
5. Si tratta dello Haram esh-Sharif («il nobile recinto»), tradizionalmente racchiudente l’area del
«monte Moria» e dell’antico Tempio di Salomone: vi sorgono le due moschee, «di Umar» e
al-’Aqsa (cfr. E. Hoade, Guide to the Holy Land, Jerusalem 1974, pp. 212-38).
6. Dopo la distruzione della basilica della Resurrezione a opera del califfo del Cairo Hakem, nel
1009, e la ricostruzione patrocinata dal basileus Costantino Monomaco a metà dell’XI secolo, i
crociati completarono verso la metà del XII secolo un rifacimento dell’edificio che, nelle sue
grandi linee, corrisponde all’aspetto di esso pervenuto sino ai giorni nostri.
7. Cfr. F. Opll, Amator Ecclesiarum. Studien zur religiösen Haltung Friederich Barbarossas, in
«Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», LXXXVIII, 1980, p. 75.
VII. Di corona in corona
1. Cfr. E. Otto, Von der Abschliessung des Ritterstandes, in AA.VV., Das Rittertum im Mittelalter, a
cura di A. Borst, Darmstadt 1976, pp. 106-29.
2. Su questo documento si sono addensate le polemiche; celebre anche il falso fatto redigere da
Rodolfo IV duca d’Austria fra 1358 e 1359 e conosciuto come Privilegium maius.
3. Alludiamo qui alla celebre tesi di D. de Rougemont, L’amore e l’Occidente, Rizzoli, Milano 1977.
Ma è necessario ormai andar oltre questo «classico» libro. Nella storiografia divulgativa, quella
scritta da «storici»-amateurs, ricorre un bizzarro fenomeno che gli studiosi di professione ben
conoscono: la frequente retrodatazione di usi e di tradizioni che appartengono al passato più o
meno prossimo e che vengono presentati – e in genere entrano nell’immaginario collettivo – come
ben più antichi di quanto non siano. Concorre, a configurare questo bizzarro effetto deformante,
una sorta di «superstizione progressista»: s’immagina la storia come una sequenza di eventi,
istituzioni e strutture in costante evoluzione positiva, in «progresso»; ed è quindi ovvio, se ne
deduce, che l’oggi sia migliore dello ieri e che il domani sarà ancora migliore dell’oggi.
In questi ultimi anni, per la verità, tale beata illusione fondata su un pesante determinismo
paleostoricistico è stata messa a dura prova, e forse nessuno l’adotterebbe per le cose
contemporanee. Ma sopravvive per il passato: difatti si parla di un «Medioevo» nel quale si
bruciavano le streghe, che invece poverine andarono piuttosto con i loro roghi a illuminare il già
«luminoso» Rinascimento, perché nel «buio Medioevo» erano quasi sconosciute. Oppure, ci
s’immagina l’aristocrazia feudale dei secoli XII-XIII come fatta tutta di «signorotti» a immagine
del manzoniano don Rodrigo, la cui nobiliare prepotenza era, invece, del tutto seicentesca, e
quattro-cinque secoli prima nessuno l’avrebbe tollerata.
Così accade quando s’immaginano i costumi sessuali. La pruderie ottocentesca discenderebbe
dal casto e represso Medioevo, in un rassicurante continuismo che solo di recente avrebbe lasciato
il passo a una crescente libertà sessuale. Inutile dire che così non era: tra il Medioevo e il casto
romanticismo si è incuneata la cultura libertina, che dà spesso dei punti alle nostre fantasie
«pornografiche» più osées. Ma che a sua volta, guarda caso, aveva nel medioevo molti più modelli
di riferimento di quanti non ci aspetteremmo.
Medioevo casto e represso. È uno dei più radicati fra i nostri luoghi comuni; come quello d’un
Medioevo igienicamente poco raccomandabile, ad esempio. Errore. La nostra età di mezzo
pullulava di «bagni» e di «stufe», in parte ereditati dall’età romana – ma anche da certe tradizioni
barbariche, ad esempio dal bagno di vapore turco-mongolo – in parte reimportati attraverso il
mondo musulmano a sua volta erede della tradizione bizantina. E nei bagni non ci si limitava a
lavarsi: «stufa» era sinonimo di bordello. D’altro canto, lo spettacolo della nudità – aborrito dalla
riforma protestante in poi – era nei secoli di mezzo alquanto comune e consueto.
E allora, il Medioevo mistico, innamorato della Vergine Maria e per il resto tutto onore e
gelosia, nel quale circolavano congegni come le «cinture di castità»? L’amore mistico e spirituale,
quello rivolto alla Madonna e passato poi, attraverso trovatori, trovieri e Minnesänger, all’amor
cortese e al culto della «donna angelicata», costituiva senza dubbio una grande forza spirituale,
etica ed estetica. Ma c’era anche ben altro.
L’amore fatale, l’amore-passione, travolgente e inestinguibile è secondo Denis de Rougemont
un’invenzione dell’Occidente medievale, i grandi modelli del quale sono uno romanzesco
(Tristano e Isotta) e uno storico (Abelardo ed Eloisa). Jack Goody (Il furto della storia, Milano
2006) ha obiettato che le cose non stanno proprio così: e che anche l’antico Egitto, e poi almeno
India, Cina e Giappone la sapessero lunga al riguardo. Certo comunque il Medioevo conosceva
bene la lussuria, che Dante tratta come un grave peccato (il più lieve tuttavia tra quelli mortali) e
ci mostra condannata nell’Inferno.
Ma eccoci al punto: la poesia cavalleresca e più tardi quella lirica e la novellistica, al pari di
certe magari dissimulate forme d’arte plastico-figurativa, sono molto meno avare di quel che
siamo abituati a pensare di esempi d’amore fisico anche alquanto spinto: al limite, non di rado, di
quel che per noi sarebbe l’erotismo se non addirittura la pornografia.
Un bel libro di Florence Colin-Goguel, L’image de l’Amour charnel au Moyen Âge (Paris
2008, Préface di Michel Pastoureau) ha offerto ampia materia di modificare, a proposito del nostro
Medioevo, parecchie idées reçues che pigramente ci portiamo dietro. Zavorrato dall’austera
continenza d’origine paolina e poi ascetica, ma insidiato non solo dall’eredità erotica della cultura
latina bensì anche da certi modelli biblici (il Cantico dei Cantici...), il Medioevo occidentale ha
coltivato un interesse e una propensione per l’amore fisico spesso sconfinato – come nella
tradizione goliardica – in forme grottesche, dissacratorie e paradossali, ma alimentato anche da
una raffinata tensione intellettuale che si sfogava in un’accurata trattatistica e raggiungeva,
invadendola, perfino la teologia morale. Del resto, tempo di gelosia e di segregazione, il
Medioevo era anche età di società di soli uomini e di donne sole, dove rapporti omosessuali e
autoerotismo avevano modo di espandersi. Dietro le stesse tradizioni cavalleresche e monastiche,
chiericali e universitarie, si avverte spesso, e nemmeno troppo nascosto, il brivido dell’androginia
e dell’eros «alternativo». Gli stessi cacciatori d’una «repressione della donna» in età medievale
avrebbero modo di ricredersi, quanto meno studiando la società aristocratica. In pieno XII secolo,
corti come quella di Eleonora duchessa d’Aquitania (la madre di Riccardo Cuor di Leone) erano
luoghi nei quali si praticava e si teorizzava l’adulterio, mentre più tardi nelle società mercantili
l’uso delle more, delle russe e delle circasse tenute come «schiave domestiche» avrebbe diffuso
forme di poligamia pratica e popolato il mondo di bastardi: che sovente avevano anzi un loro
ruolo sociale e perfino araldico riconosciuto.
Scorrendo le pagine e le immagini proposte dalla Colin-Goguel, allieva di Le Goff e di Chastel,
si resta addirittura stupiti nel constatare come dalla musica ai tornei, dai giochi alle passeggiate in
giardino, dagli usi enogastronomici alle stesse metafore religiose, il Medioevo fosse pervaso di
erotismo e di attrazione carnale. La stessa eresia catara, che proclamava come il massimo peccato
contro Dio fosse la riproduzione che perpetuava la schiavitù dello spirito entro la prigione carnale,
era poi molto meno severa nei confronti delle forme di erotismo che comportassero dispersione
del seme e non dessero quindi frutti. E questa considerazione attenua di molto lo stupore di
qualcuno, allorché constata quanto il catarismo fosse diffuso in contrade «gioiose» come la dolce
Provenza. Per tacer dei frequenti coiti diabolici. Immaginari, d’accordo, anzi illusori. Ma, dopo il
dottor Freud, la sappiamo lunga al riguardo...
Sul rapporto immaginario tra un amore impossibile per Beatrice di Borgogna, le lettere
d’amore di Eloisa e Abelardo e le gesta del Barbarossa insiste Umberto Eco nel suo romanzo
Baudolino, nel quale si propone un ritratto energico e simpatico dell’imperatore Federico pur nel
contesto di una vicenda del tutto inventata, in particolare riguardo alla sua morte.
VIII. Mirabilia Urbis
1. Ottonis et Rahewini, Gesta Friderici I imperatoris, a cura di G. Waitz – B. de Simson, Hannover-
Leipzig 1912, pp. 116-17.
2. Gerhoh, De investigatione Antichristi, I, 40, a cura di F. Scheibelberger, Linz 1875, p. 85.
IX. «Quod principi placuit, legis habet vigorem»
1. Cfr. B. Smalley, Storici nel medioevo, trad. it., Napoli 1979, pp. 136-37.
2. Il commercio del sale è molto importante nella storia di questo e del resto di ogni periodo della
storia dell’umanità: se ne veda un profilo in J.F. Bergier, Una storia del sale, trad. it., Venezia
1984.
3. Cioè dalla solenne ostensione della corona.
4. Quod principi placuit legis habet vigorem, cum populus ei et in eum suum imperium et potestatem
concessit.
X. La tunica lacerata
1. La storia di questa e di altre reliquie sarebbe tutta da riscrivere. Nel secolo scorso, ci si divertì
J.A.S. Collin de Plancy, del quale si veda il Dizionario delle reliquie e delle immagini miracolose,
Newton Compton, Roma 1982, pp. 124-25. Si tenga presente che, dopo aver composto il suo
dizionario-pamphlet che vide la luce nel 1821-22, Collin de Plancy si convertì a un rigoroso
cattolicesimo e divenne collaboratore dell’abate Migne, il grande editore della Patrologia.
2. Purg., XVIII, 119. Sull’epiteto «Barbarossa» torneremo anche infra.
XI. «Salve mundi domine»
1. Cfr. Testi religiosi zoroastriani, a cura di A. Bausani, Roma 1957, p. 83. L’itinerario seguito dal
cancelliere Rainaldo da Milano a Colonia è discusso con cura da T. Szabó, Da Milano a Colonia.
Le vie della translazione, in I tre saggi e la stella, Rimini 1999, pp. 171-79.
2. Mt., 2,1-2.
3. Ps., 71,10; Is., 60,6.
4. La proposta dell’identificazione tra il re Gudnafar e il mago Gaspare è un’affascinante ipotesi di
M. Bussagli – M.G. Chiappori, I re magi. Realtà storica e tradizione magica, Milano 1985; ma
cfr. al riguardo anche F. Cardini, I Re Magi. Storia e leggende, Venezia 2000, p. 39 e passim. Sui
magi e la relativa tradizione secondo Marco Polo, cfr. M. Montesano, Marco Polo, Roma 2014,
pp. 154-60. Un libro a cura di vari specialisti che riconsidera l’intera leggenda dei magi nella
prospettiva di nuove ricerche interdisciplinari, a cura di G. Macchia, è attualmente in corso di
stampa grazie all’interessamento dell’illustre iranista Antonio Panaino. Il sovrano indopartico
Vindapharna, nome in sanscrito trascritto in greco come Gudnafar, è stato collegato alla tradizione
dell’evangelizzazione dell’India da parte dell’apostolo Tommaso e quindi alla Chiesa cristiana
nestoriana ivi fiorente. Su tale tradizione cfr. M. Montesano, Marco Polo, cit., l. cit.
5. Salve mundi domine, in M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, III,
Heidelberg 1931, pp. 984-86.
6. Il dramma dell’Anticristo, in E. Franceschini, Teatro latino medievale, Milano 1960, p. 277.
7. Ibid., pp. 278-79.
8. M. Sbriccoli, Crimen laesae maiestatis, Milano 1974, p. 95.
XII. «A lancia e spada il Barbarossa in campo»
1. Durezza e rapacità restate proverbiali, come si vede nel Liber tristitiae sive doloris, cioè l’elenco
degli oneri ai quali i milanesi venivano sottoposti da un «implacabile aguzzino, Marcoaldo di
Grumbac», e che «contiene un’impressionante lista delle requisizioni di manzi e di carri di legno,
di coppie di buoi, di suini e di polli e di ogni altra tassazione che angariava quegli esseri umani
che, privati dei diritti civili, vivevano senza protezione alcuna» (P. Brezzi, Da Roncaglia a
Costanza, in AA.VV., La pace di Costanza 1183, Bologna 1984, p. 17).
2. Si tratta di Ottone II, incoronato per volontà del padre Ottone I.
3. Cfr. G. Pistarino, Alessandria nel mondo dei comuni, in «Studi medievali», s. III, vol. XI, 1970,
pp. 1-101.
XIII. «In virga ferrea»
1. A proposito dell’egemonia milanese sulla Lega e dei problemi che essa generava, si veda il saggio
di A. Haverkamp, La Lega lombarda sotto la guida di Milano (1175-1183), in AA.VV., La pace di
Costanza 1183, cit., pp. 159-78.
2. Sul tema dei rapporti tra Federico e Venezia, cfr. G. Rösch, Venedig und das Reich, Tübingen
1982, ad indicem.
XIV. Verso la casa del Padre
1. Per l’importanza di Teodorico e di Filippo rispetto alla crociata, al culto delle reliquie e ai romanzi
del Graal intesi in rapporto con la devozione al Sepolcro del Cristo, cfr. H. Adolf, Visio Pacis.
Holy City and Grail, Pennsylvania State University 1960, ad indicem.
2. Secondo alcune cronache tedesche già nel 1173 o 1179 ambasciatori del Saladino (o del sultano di
Iconio) avrebbero proposto un matrimonio tra il figlio del loro signore (o il sultano di Iconio
stesso) e la figlia di Federico, promettendo che in cambio essi si sarebbero convertiti al
cristianesimo. Anche qui, più che di «leggende» si tratta forse di voci messe in giro a fini di
propaganda (cfr. B.Z. Kedar, Crusade and Mission, Princeton 1984, p. 70).
3. Lo stesso Gioacchino da Fiore rimase colpito dalla morte di Federico, e ne trasse motivo per
meditare sull’inutilità della potenza degli uomini quando i loro disegni non coincidono con la
volontà di Dio. La scomparsa di Federico sarebbe divenuta – proprio per il grande prestigio che
egli e la sua memoria esercitavano sui posteri – uno degli argomenti tradizionali, nel Duecento,
per dimostrare l’inutilità della crociata (cfr. Kedar, Crusade, cit., p. 114).
XV. «Er ist niemals gestorben»
1. Purg., XVIII, 119.
2. R. Wagner, Autobiografia, Milano 1983, p. 377.
Nota bibliografica
La bibliografia sul Barbarossa è immensa e va crescendo di giorno in
giorno; queste pagine non hanno quindi alcuna velleità di completezza. Esse
vogliono limitarsi a fornire un panorama delle fonti e degli studi che
riguardano più da vicino Federico e il suo mondo, astraendo dalle molte
cose che sarebbe necessario citare per fornire un anche solo approssimativo
quadro del suo mondo, l’Europa del XII secolo. Un’eccellente e aggiornata
guida al riguardo può essere costituita dalle pagine dedicate a Fonti e
bibliografia in P. Grillo, Le guerre del Barbarossa, Roma-Bari 2014,
peraltro – al di là dei meriti specifici di quelle informazioni documentarie
non solo proposte, ma anche criticamente commentate – saggio critico di
storia militare, ma anche sociopolitica.
Fonti
Oltre alle ormai classiche raccolte come Acta imperii selecta, a cura di J.-F.
Böhmer e J. Ficker, Innsbruck 1870, e H. Simonsfeld, Jahrbücher des
deutschen Reichs unter Friedrich 1., I, Leipzig 1908 (ristampa, Berlin
1967), le raccolte documentarie più importanti su Federico I sono: Regesta
imperii, IV. 2, a cura di J.-F. Böhmer, riveduta e corretta da F. Opll, Wien-
Köln-Graz 1980; Die Urkunden Friedrichs 1., rielaborata da H. Appelt et
al., 2 voll., Hannover 1975-79 (M.G.H. Diplomata regum et imperatorum
Germaniae, X. 1-2); Constitutiones et acta publica imperatorum et regum,
a cura di L. Weiland (M.G.H. Legum sectio, IV. 1; per le leggi di Roncaglia
del 1158, cfr. nn. 175-78, pp. 244 sgg.).
Per l’Italia, oltre alla grande vecchia raccolta di J. Ficker, Forschungen
zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens, 4 voll., Innsbruck 1869-74, sono
particolarmente importanti per Federico il Codice diplomatico del Senato
romano, a cura di F. Bartoloni, I, Roma 1948, gli Atti del Comune di Milano
fino al 1216, a cura di C. Manaresi, Milano 1919, e naturalmente il famoso
C. Vignati, Storia diplomatica della Lega lombarda, n. ed. a cura di R.
Manselli, Torino 1966. Per Cristiano di Magonza in Italia, cfr. D.
Hägemann, Die Urkunden Erzbischof Christians 1. von Mainz als
Reichslegat Friedrich Barbarossas in Italien, in «Archiv für Diplomatik»,
XIV, 1968, pp. 202-301. Un ricco repertorio delle fonti federiciane con una
vasta bibliografia aggiornata alla metà degli anni Settanta del secolo scorso
e riferimenti specifici a tutti i movimenti documentati dell’imperatore tra
1152 e 1190 si trova in uno studio indispensabile a chiunque voglia
occuparsi del Barbarossa: F. Opll, Das Itinerar Kaiser Friedrich
Barbarossas (1152-1190), Wien-Köln-Graz 1978.
Tutti i cronisti italici e tedeschi (e molti di quelli francesi o inglesi) del
XII secolo parlano di Federico I. Per un primo orientamento, sono
indispensabili F. Böhm, Das Bild Friedrich Barbarossas und seines
Kaisertums in den ausländischen Quellen seiner Zeit, Berlin 1936, e O.
Engels, Federico Barbarossa nel giudizio dei suoi contemporanei, in
AA.VV., Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e in
Germania, a cura di R. Manselli e J. Riedmann, Bologna 1982, pp. 45-81.
Tra le cronache dedicate a Federico, s’impone per importanza quella
redatta da suo zio, il cistercense Ottone vescovo di Frisinga, e poi
continuata da Rahewino: cfr. Ottonis Frisingensis episcopi et Rahewini,
Gesta Federici I imperatoris, a cura di G. Waitz e B. von Simon, in M.G.H.
Script, rer. Germ., in usu schol., XLVI (n. ed. a cura di F.J. Schmale, 1965).
L’opera è stata, come del resto l’intero contributo storiografico di Ottone di
Frisinga, molto studiata. Ricordiamo: J. Hashagen, Otto von Freising als
Geschichtsphilosoph und Kirchenpolitiker, Leipzig 1900; A. Hofmeister,
Studien über Otto von Freising. I - Der Bildungsgang Ottos von Freising, in
«Neues Archiv», XXXVII, 1911, pp. 101-61; P. Brezzi, Le fonti dei «Gesta
Friderici I» di Ottone e Rahewin, in «Bullettino dell’Istituto storico italiano
per il Medio Evo e Archivio muratoriano», LXXV, 1963, pp. 105-21; J.B.
Gillingham, Why did Rahewin stop writing the «Gesta Frederici», in
«English Historical Review», LXXXIII, 1968, pp. 224-303; K.F. Morrison,
Otto of Freising’s Quest for the Hermeneutic Circle, in «Speculum», LV,
1980, pp. 207-36.
Nel novero delle fonti italiane, un ruolo a sé hanno anzitutto gli Annales
Mediolanenses minores (a cura di Ph. Jaffé, M.G.H.SS., XVIII) e maiores
(meglio conosciuti come Gesta Federici I imperatoris in Lombardia auctore
cive Mediolanensi, a cura di O. Holder Egger, M.G.H. Script, rer. Germ., in
usu schol., XVII; l’autore venne a lungo identificato come un «sire Raul»).
L’Historia Friderici I del lodigiano Ottone Morena, che giunge fino al 1160
ed è stata continuata da Acerbo Morena fino al 1164 e da un anonimo fino
al 1168, è invece un interessante documento di parte filoimperiale (a cura di
F. Güterbock, M.G.H. Script, rer. Germ., n. s., VII). Importante anche il
poema Ligurinus attribuito a un Gunther, che descrive le guerre lombarde di
Federico sostanzialmente attenendosi a Ottone di Frisinga: lo si trova in
P.L., CCXII. Il tema della storiografia filoimperiale è trattato in modo molto
interessante da R. Holtzmann, Das Carmen de Friderico I imperatore aus
Bergamo und die Anfänge einer staufischen Hofhistoriographie, in «Neues
Archiv», XLIV, 1922, pp. 252-313, e da E. Ottmar, Das Carmen de
Friderico imperatore aus Bergamo und seine Beziehungen zu Otto-
Rahewins Gesta Friderici, Gunther Ligurinus und Burchard von Urspergs
Chronik, in «Neues Archiv», XLVI, 1926, pp. 430-89. All’esaltazione di
Federico è votato anche il Carmen de gestis Friderici I di Goffredo da
Viterbo (M.G.H.SS., XXII), autore per il quale sono da vedere G. Baaken,
Zur Beurteilung Gottfried von Viterbo, in AA.VV., Geschichtsschreibung
und geistiges Leben im Mittelalter. Festschrift für H. Löwe, Köln-Wien
1978, pp. 373-96, ed E. Schulz, Zur Entstehungsgeschichte der Werke
Gottfrieds von Viterbo, in «Neues Archiv», XLVI, 1926, pp. 86-141.
Fra le molte altre testimonianze, un rilievo da non dimenticare hanno gli
Annales Ianuenses di Caffaro, che giungono fino al 1163 e sono stati
continuati da Oberto il Cancelliere fino al 1173 e da Ottobuono Scriba fino
al 1197: il loro carattere ufficiale, come voce della repubblica di Genova, fa
di questi Annali una testimonianza di molto interesse (ed. L.T. Belgrano,
F.I.S.I., Roma 1890). Si veda per una loro valutazione critica R.D. Face,
Secular History in Twelfth-Century Italy: Caffaro of Genua, in «Journal of
Medieval History», 6, 1, 1980, pp. 169-84, e G. Petti Balbi, Caffaro e la
cronachistica genovese, Genova 1982. Su particolari episodi di rilievo, si
veda per esempio Burchardi Argentinensis, Epistola de victoria Friderici I
et de excidio Mediolani; ma su questo notaio imperiale Burcardo si sono
addensati – anche a causa di varie omonimie – gli equivoci, per cui si deve
oggi ricorrere al saggio e all’edizione che ne ha proposto F. Güterbock, Le
lettere del notaio imperiale Burcardo intorno alla politica del Barbarossa
nello scisma ed alla distruzione di Milano, in «Bullettino dell’Istituto
storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoriano», LXI, 1949, pp.
1-65.
Oltre alla celeberrima punizione di Milano del 1162, un altro episodio
significativo è il fallito assedio di Ancona del 1173, sul quale è notevole la
testimonianza del magister Boncompagno da Signa (De obsidione
Anchonae, ed. G. Zimolo, R.I.S.2, VI, 3). Fra i cronisti non tedeschi né
italosettentrionali che hanno parlato dell’imperatore (cioè, insomma, fra
quelli che non vivevano in terra d’impero), particolare importanza hanno le
testimonianze di Romualdo arcivescovo di Salerno (Chronicon, a cura di C.
Garufi, R.I.S.2, VII, 1) e del bizantino Niceta Coniate (Historia, a cura di
J.L. van Dieten, Berlin 1975): due voci tanto più notevoli in quanto nessuna
di esse è portatrice di una visione politica filofedericiana, il che non
impedisce loro di esprimere a più riprese apprezzamento per il Barbarossa.
Molte le testimonianze di ecclesiastici coevi a Federico: anzitutto, vanno
considerate le lettere dei papi Adriano IV e Alessandro III (entrambe in
P.L., rispettivamente CLXXXVIII e CC); indi gli scritti del cardinal
Bosone, i cui Gesta pontificum Romanorum sono un monumento all’azione
politica antimperiale propria di Adriano e di Alessandro (cfr. O. Engels,
Kardinal Boso als Geschichtschreiber, in AA.VV., Konzil und Papst.
Festgabe H. Tüchle, München 1975). Molto meno partigiana, e ben più
sofferta, la testimonianza di Gerhoh di Reichersberg, per il quale vanno
consultati: P. Classen, Gerhoch von Reichersberg, Wiesbaden 1960; E.
Meuthen, Der Geschichtssymbolismus Gerhohs von Reichersberg, in
AA.VV., Geschichtsdenken und Geschichtsbild im Mittelalter, hrsg. W.
Lammers, Darmstadt 1965, pp. 200-46; A.M. Lazzarino del Grosso, Società
e potere nella Germania del XII secolo. Gerhoch di Reichersberg, Firenze
1974.
Ma le voci più malevole contro Federico vengono in un certo senso da
un gruppo di autori che si muovono nell’area franco-anglo-normanna e che
trasmettono al mondo euroccidentale le tesi antimperiali di Alessandro III:
essi sono soprattutto Giovanni di Salisbury, Arnolfo vescovo di Lisieux,
Gualtiero di Chatillon, Rodolfo di Diceto. Cfr. p. es. The Letters of John of
Salisbury, a cura di W.J. Miller – H.E. Butler – C.N.L. Brooke, 2 voll.,
Oxford 1955-79 (cfr. nel vol. I, ep. 124, pp. 206 sgg., il famoso giudizio:
«Chi ha mai costituito i tedeschi giudici su tutte le nazioni?»); The Letters
of Arnulf of Lisieux, a cura di F. Barlow, London 1939; K. Strecker,
Moralistischsatirische Gedichte Walthers von Chatillon, Heidelberg 1929.
In particolare per Giovanni di Salisbury, si veda il fondamentale volume di
K. Guth, Johannes von Salisbury. Studien zur Kirchen-, Kultur- und
Sozialgeschichte Westeuropas im 12. Jahrhundert, St Ottilien 1978. Per una
tesi molto interessante, che riconduce alla lotta contro Federico la dottrina
del tirannicidio in Giovanni di Salisbury, cfr. J. Spörl, Gedanken um
Widerstandrecht und Tyrannenmord im Mittelalter, in AA.VV.,
Widerstandrecht und Grenzen der Staatsgewalt, Berlin 1956, p. 21.
Studi
La posizione di Federico I nella storia tedesca è senza dubbio particolare, e
come tale l’ha trattata la storiografia almeno a partire dalla fine del
Settecento. Essa rientra comunque in un più vasto e complesso problema,
quello della Kaiserpolitik, la «politica imperiale», per il quale non si può
ancora astrarre dal classico libro di F. Schneider, Neuere Anschauungen der
deutschen Historiker zur Beurteilung der deutschen Kaiserpolitik des
Mittelalters, Weimar 1934. Che poi un problema barbarossiano sia nato per
tempo è vero, e va da sé: ma già dal Duecento esso è stato fagocitato nel più
ampio problema del ruolo storico della dinastia sveva, e difatti così in un
certo senso lo vedeva l’Alighieri: cfr. W. Cohn, Die Hohenstaufen im Urteil
Dantes und der neueren Geschichtschreibung, in «Deutsches Dante-
Jahrbuch», XV, 1933, pp. 146-84; H. Löwe, Dante und die Staufer, in
«Speculum historiale», 1965, pp. 316-33; B. Nardi, Dante e il «Buon
Barbarossa», in «L’Alighieri», VII, 1966, pp. 3-27.
È cosa evidente che tutta la critica storica tedesca dell’Ottocento vede il
Barbarossa non tanto e non solo in sé e per sé, quanto attraverso il filtro
della costruzione della nazione tedesca e del rapporto fra politica imperiale
e politica germanica. Da qui il giudizio negativo del von Sybel
sull’universalismo imperiale e la sua portata undeutsch, «non tedesca»; da
qui la difesa del Ficker il quale, proprio a proposito della süditalienische
Kaiserpolitik e dell’unio regni ad imperium, replicava che a indebolire
l’impero non era stata la politica mediterranea, anzi componente costitutiva
della sua tradizione, ma semmai un atteggiamento non abbastanza energico
nei confronti del papato: discorso questo dal quale scaturiva una tesi sulla
missione specifica dell’impero stesso (cfr. H. von Sybel, Entstehung des
deutschen Königstums, 1844; J. Ficker, Das deutsche Kaiserreich in seinen
universalen und nationalen Beziehungen, 1861, e Deutsches Kaisertum und
Königtum, 1862). Ma al «mito» del Barbarossa in Germania valse
soprattutto la commossa esaltazione dell’impero compiuta, con l’appoggio
di una sterminata erudizione, da W. Giesebrecht, Geschichte der deutschen
Kaiserzeit, 6 voll., Leipzig 1859-95; mentre pochi anni dopo K. Hampe,
con accenti molto meno mistico-romantici ma più marcatamente
nazionalistici, celebrava negli Staufer e nella loro politica le basi della
nazione germanica (cfr. K. Hampe, Deutsche Kaisergeschichte in der Zeit
der Salier und Staufer, Leipzig 1909, 1929 6).
Ben diverso, e in un certo senso opposto, come sappiamo, il ruolo del
Barbarossa nel pensiero del nostro Risorgimento: anche lì la
strumentalizzazione e se vogliamo la distorsione politica erano palesi, ma il
segno di esse era evidentemente opposto. Tuttavia, tra retorica
risorgimentale e rilettura storica, l’erudizione riconquistava una serie di
elementi storici obiettivi che preludevano a valutazioni meno anacronistiche
e meno passionali (cfr. L. Simeoni, Note storiche all’ode «Sui campi di
Marengo», in «Convivio», I, 1948). La mostra sul tempo degli Svevi
organizzata a Stoccarda nel 1977 e il suo monumentale catalogo restano a
testimonianza di un faticoso recupero del Barbarossa alla storia, dopo
decenni di polemiche passionali. Resta comunque importante, per la
ricostruzione di quelle polemiche (e di quel recupero), il volume di
AA.VV., Federico Barbarossa nel dibattito storiografico in Italia e in
Germania, Bologna 1982 (si tratta degli Atti di un seminario tenuto a
Trento nel settembre 1980, del quale si veda altresì la cronaca molto
intelligente di R. Dondarini, Federico Barbarossa in due storiografie, in
«Quaderni medievali», 11, giugno 1981, pp. 152-58.) Il colossale Die Zeit
der Staufer, 5 voll., Stuttgart 1977-79, non è che il catalogo della mostra del
’77: ma in realtà costituisce un fondamentale strumento di lavoro non solo e
non tanto per la storia di Federico e degli altri sovrani della dinastia sveva,
quanto per le ricchissime informazioni che offre a livello iconografico e
documentario. Sempre per l’iconografia sveva, prezioso il volume di C.A.
Willemsen, Die Bildnisse der Staufer, Göppingen 1977; molto utili ancora,
proprio a proposito dei luoghi natali di Federico, della culla del casato degli
Staufer e del culto romantico che vi ebbe centro nell’Ottocento e che non è
neppur oggi del tutto spento, i due libri di H. Schwarzmaier, Die Heimat der
Staufer, Sigmaringen 1976, e di AA.VV., Hohenstaufen. Staufer-
Forschungen im Stauferkreis Göppingen, a cura di W. Ziegler, Göppingen
1977. Ma, su quello che forse è il più celebre – e addirittura, a modo suo, il
più attendibile – «ritratto» di Federico, si deve consultare H. Grundmann,
Der Cappenberger Barbarossakopf und die Anfänge des Stiftes
Cappenberg, Köln-Graz 1959.
Sulla dinastia sveva in rapporto al suo territorio d’origine, ci limitiamo a
segnalare tre lavori tutti abbastanza recenti: E. Maschke, Das Geschlecht
der Staufer, Aalen 1970; K. Schmid, De regia stirpe Waibligensium,
Bemerkungen zum Selbverständnis der Staufer, in «Zeitschrift für die
Geschichte des Oberreheins», CXXIV, 1976, pp. 63-73; H. Schwarzmaier,
Staufisches Land und staufische Welt im Übergang, Sigmaringen 1978.
Gli Staufer sono stati duchi di Svevia: sul ducato di Svevia sia come
istituto «transpersonale», sia come oggetto di studio da potersi affrontare
con i metodi che si usano nella Landesgeschichte, è oggi disponibile un
grosso lavoro: H. Maurer, Der Herzog von Schwaben. Grundlagen,
Wirkungen und Wesen seiner Herrschaft in ottonischer, salischer und
staufischer Zeit, Sigmaringen 1978. È sempre difficile, per un re,
distinguere la «biografia» privata dalla vita pubblica; per un sovrano del XII
secolo, poi, è praticamente impossibile dato lo stato e la natura delle fonti a
nostra disposizione. Al riguardo – e prescindendo da pur apprezzabili
risultati – lavori come quello di E. Otto, Friedrich Barbarossa in seinen
Briefen, in «Deutsches Archiv», V, 1941-42, pp. 72-111, suscitano
perplessità – qualunque siano le cautele metodologiche usate – proprio per
una questione di metodo: è impossibile cioè (o è quanto meno molto
difficile) trarre informazioni o dar giudizi sicuri di carattere personale-
privato (posto che tali aggettivi, e specie il secondo, abbiano nel XII secolo
un senso avvicinabile in un qualche modo a quello che noi gli attribuiamo)
partendo da documenti che sono espressione stilizzata d’una cancelleria e
che comunque non riflettono, se non molto alla lontana, non diciamo idee e
intenzioni, ma quanto meno impressioni, umori e stati d’animo di un
sovrano. D’altro canto le questioni di metodo permangono sempre aperte, e
non è da escludersi che nuovi sistemi d’interrogazione delle fonti
conducano, anche in questo delicatissimo campo, a risultati molto lontani
da quelli che oggi sembrano possibili. Quanto sopra detto non va inteso
quindi nel senso d’una totale chiusura (e diciamo pure sordità) nei confronti
di future «nuove frontiere dello storico», di qualunque tipo esse siano: ma
semplicemente come un richiamo alla necessaria cautela. Nella fattispecie,
prima di accingersi a giudicare le varie biografie di Federico, è consigliabile
premunirsi almeno con la lettura di due saggi a mio avviso indispensabili:
W. Holtzmann, Quellen und Forschungen zur Geschichte Friedrich
Barbarossas, in «Neues Archiv», XLVIII, 1930, pp. 284-413, e O. Engels,
Beiträge zur Geschichte der Staufer im 12. Jahrhundert, in «Deutsches
Archiv», XXVII, 1971, pp. 432-56. Tale lunga premessa serve soltanto per
sottolineare – se ce n’è bisogno: e ne dubitiamo – che una «biografia» del
Barbarossa finisce sempre con l’essere non tanto un racconto della vita d’un
uomo, quanto piuttosto un discorso sulla regalità romano-germanica del XII
secolo.
Esistono molte biografie di Federico. Almeno a livello storiografico, non
si può prescindere dalle due grandi opere di F. von Raumer, Geschichte der
Hohenstaufen und ihrer Zeit, 5 voll., Leipzig 1840-42 2, e del Giesebrecht,
Geschichte, cit., i cui due ultimi voll., V e VI, sono dedicati a Federico.
Dopo l’ampio studio di H. Prutz, Kaiser Friedrich 1., 3 voll., Danzig 1871-
74 e quello di E. Otto, Friedrich Barbarossa, Potsdam 1940, l’agile profilo
di E. Maschke, Kaiser Friedrich 1., in AA.VV., Die grossen Deutschen, a
cura di H. Heimpel – Th. Heuss – B. Reifenberg, Berlin 1956, pp. 70-86,
costituisce una utile messa a punto, non tanto per il quadro événementiel,
quanto sul piano critico di sintesi. Interessante il pur non sempre critico (ma
piuttosto espositivo) e qua e là celebrativo disegno proposto da K. Jordan,
Friedrich Barbarossa, Kaiser des christlichen Abendlandes, Göttingen-
Berlin-Frankfurt 1959 (Göttigen 1967 2; trad. it. Federico Barbarossa,
Edizioni Paoline, Roma 1970). Un altro profilo di sintesi, quello proposto
da H. Heimpel, Friedrich 1., in AA.VV., Neue deutsche Biographie, V,
Berlin 1961, pp. 459-78, è notevole; così come F.J. Schmale, Konrad 3. und
Friedrich 1. als Könige und Kaiser, in AA.VV., Probleme des 12.
Jahrhunderts, Stuttgart-Konstanz 1968, pp. 33-52. Ma sono della fine degli
anni Sessanta due grandi studi biografici – entrambi, significativamente, di
autore non tedesco –: quello di M. Pacaut, Frédéric Barberousse, Paris
1967, che tuttavia ha suscitato perplessità nel suo atteggiamento volto ad
anticipare al XII secolo la divisione fra «guelfi» e «ghibellini», sulla quale
com’è noto molti sono i malintesi e le polemiche anche a proposito di
epoche successive; e quello di P. Munz, Frederick Barbarossa. A Study in
Medieval Politics, London 1969.
Dopo le due biografie del Pacaut e del Munz, sono ancora da segnalare:
A. Cartellieri, Das Zeitalter Friedrich Barbarossas 1150-90, Aalen 1972, e
la notevole raccolta di studi di AA.VV., Friedrich Barbarossa, a cura di G.
Wolf, Darmstadt 1975, strumento critico di primario valore. A un tema che
– contrariamente a quel che si potrebbe credere – non è affatto chiaro, si
dedica E. Assmann, Friedrich Barbarossas Kinder, in «Deutsches Archiv
für Erforschung des Mittelalters», XXXIII, 1977, pp. 435-72. Importante,
poi, A. Borst, Reden über die Staufer, Frankfurt a.M. 1978. Si vedano
ancora: E.W. Wies, Federico Barbarossa. Mito e realtà, trad. it., Milano
1991; F. Opll, Federico Barbarossa, trad. it., Genova 1994; P. Racine,
Frédéric Barberousse, 1152-1190, Paris 2009.
In Italia, molti sono gli studi relativi all’età del Barbarossa: ma essi non
riguardano in genere la sua biografia. Dopo la bella sintesi di R. Morghen,
Federico I, in Enciclopedia italiana, XIV, pp. 942-44, di Federico si è a
lungo occupato ancora R. Morghen, Gli Svevi in Italia, n. ed., Palermo
1974. Ma – a parte il moderato successo della traduzione italiana di un
autore tedesco, R. Wahl, Barbarossa, Torino 1945 (n. ed., Milano 1973) –
tra le biografie di autore italiano vanno ricordate quelle di R. Manselli,
Federico I, Milano 1967, e di E. Momigliano, Federico Barbarossa, Milano
1968 9.
Esistono anche studi su alcuni episodi e periodi specifici della vita
dell’imperatore. Per la sua giovinezza, ad esempio, si può ricorrere tuttora a
W. Berhardi, Konrad 3., Leipzig 1883.
Sulla politica di Federico in generale, sono notevoli i due libri di H.J.
Kifel, Weltherrschaftsidee und Bündnispolitik. Untersuchungen zur
auswärtigen Politik der Staufer, Bonn 1959, e P. Rassow, Honor imperii.
Die neue Politik Friedrich Barbarossas 1152-59, München-Berlin 1940,
ristampa Darmstadt 1961. Per alcuni particolari aspetti della politica
federiciana, cfr. per esempio: R. Holtzmann, Zum Strator und
Marschalldienst, in «Historische Zeitschrift», CXLV, 1932, pp. 301-50; H.
Mitteis, Die deutsche Königswahl, Brno 1943 2; W. Heinemayer, Die
Verhandlungen an der Saône im Jahre 1162, in «Deutsches Archiv», XX,
1964, pp. 155-89; F.J. Schmale, Friedrich 1. und Ludwig 7. im Sommer des
Jahres 1162, in «Zeitschrift für Bayerische Landesgeschichte», XXXI,
1968, pp. 315-68; J.P. Niederkorn, Die Datierung des
Tafelgütverzeichnisses. Bemerkungen zu einer Neuerscheinung, in
«Mitteilungen des Instituts für Österreichsgeschichtsforschungen»,
LXXXVII, 1979, pp. 471 sgg.; R.M. Herkenrath, Studien zum Magistertitel
in der frühen Stauferzeit, ibid., LXXXVIII, 1980, pp. 3-35; F. Opll, Amator
ecclesiarum. Studien zur religiösen Haltung Friedrich Barbarossas, ibid.,
pp. 70-93.
Fondamentale, per Federico come per qualunque sovrano del XII secolo,
la cancelleria, sulla quale esiste una letteratura davvero molto vasta. Ci
limitiamo a citare quindi: il classico studio di K.T. Stumpf-Brentano, Die
Reichskanzler des 10., 11. und 12. Jahrunderts, Innsbruck 1865-83; e poi i
più recenti R.M. Herkenrath, Regnum und Imperium. Das Reich in der
frühstaufischen Kanzlei (1138-55), Wien 1969; W. Koch, Die Reichskanzlei
in den Jahren 1167 bis 1174, Wien 1973; R.M. Herkenrath, Die
Reichskanzlei in den Jahren 1174 bis 1180, Wien 1977; W. Koch, Die
Schrift der Reichskanzlei im 12. Jahrhundert, Wien 1979; Id., Zu Sprache,
Stil und Arbeitstechnik in den Diplomen Friedrich Barbarossas, in
«Mitteilungen des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung»,
LXXXVIII, 1980, pp. 36-69.
Il discorso sulla cancelleria porta a quello relativo ad alcuni collaboratori
del Barbarossa; in certi casi, addirittura a coprotagonisti della sua attività di
governo. Anche qui, ci limitiamo a un’indicazione generale (R.M.
Herkenrath, I collaboratori tedeschi di Federico I, in AA.VV., Federico
Barbarossa, cit., pp. 199-232) e a qualche studio monografico, quale per
esempio: F. Keszycka, Kaiserin Beatrix, Freiburg 1923; F.J.Jakobi, Wibald
von Stablo und Corvey (1098-1158), benediktinischer Abt in der frühen
Stauferzeit, Münster 1979; W. Grebe, Studien zur geistigen Welt Rainalds
von Dassel, in «Annalen des Historischen Vereins für den Niederrhein»,
LXXI, 1969, pp. 30-36; C. Varrentrapp, Erzbischoff Christian I. von Mainz,
s. l. 1867; K. Pfisterer, Heinrich von Kalden Reichsmarschall der
Stauferzeit, Heidelberg 1937.
Ma il collaboratore, il coprotagonista e anche l’antagonista per
eccellenza di Federico resta Enrico il Leone. E anche su di lui la
bibliografia è ampia. Citiamo soltanto: F. Güterbock, Der Prozess Heinrichs
des Löwen, Berlin 1909; A.L. Poole, Henry the Lion, Oxford 1912; M.
Philippson, Heinrich der Löwe, Herzog von Bayern und Sachsen. Sein
Leben und seine Zeit, Leipzig 1918 2; J. Heydel, Das Itinerar Heinrichs des
Löwen, Hildesheim 1929; O. Haendle, Die Dienstmannen Heinrichs des
Löwen, s. l. 1930; G. Läwen, Die herzogliche Stellung Heinrichs des Löwen
in Sachsen, s. l. 1937; K. Jordan, Bistumgründungen Heinrichs des Löwen,
Stuttgart 1939; J. Bährmann, Die Städtegründungen Heinrichs des Löwen
und die Stadtverfassung des 12. Jahrhunderts, Köln-Graz 1961; J. Jordan,
Enrico il Leone e la Lega lombarda nella politica di Federico Barbarossa,
in AA.VV., Popolo e Stato, cit.; G. Scaramellini, Barbarossa ed Enrico il
Leone a Chiavenna, Chiavenna 1976; P. Barz, Heinrich der Löwe. Ein
Welfe bewegt die Geschichte, Bonn 1977; K. Jordan, Heinrich der Löwe,
München 1979; AA.VV., Heinrich der Löwe, a cura di W.-D. Mohrmann,
Göttingen 1980; K. Jordan, Friedrich Barbarossa und Heinrich der Löwe,
in «Blätter für deutsche Landesgeschichte», CXVII, 1981, pp. 61-71; K.
Heinemeyer, Der Prozess Heinrichs des Löwen, ibid., pp. 1-60.
Per la Chiesa nel XII secolo in generale, sia sufficiente il ricorso a: G.
Alberigo, Cardinalato e collegialità. Studi sull’ecclesiologia tra l’XI e il
XIV secolo, Firenze 1969; A. Fliche – R. Foreville – J. Rousset de Pina, Dal
primo concilio lateranense all’avvento di Innocenzo III, Torino 1974
(Storia della Chiesa, dir. A Fliche e V. Martin, IX); R. Foreville, Latran I,
II, III et IV, Paris 1965. A proposito dei rapporti con Adriano IV: M.
Maccarrone, Papato e impero dalla elezione di Federico I alla morte di
Adriano IV, Roma 1959; H. Schrörs, Untersuchungen zu dem Streite Kaiser
Friedrichs 1. mit Papst Hadrian 4. (1157-58), Bonn 1915. Sul convegno di
Besançon del 1157, cfr. W. Heinemeyer, «Beneficium – non feudum sed
bonum factum». Der Streit auf dem Reichstag zu Besançon 1157, in «Archiv
für Diplomatik», XV, 1969, pp. 155-236. A proposito di Alessandro III,
resta molto importante la biografia proposta da M. Pacaut, Alexandre III,
Paris 1956; notevoli, ancora, M.W. Baldwin, Alexander III and the Twelfth
Century, New York 1969; C. Ober, Papst Alexander III. und Friedrich
Barbarossa, München 1980; G. Tabacco, Empirismo politico e flessibilità
ideologica nelle relazioni fra Alessandro III e i due imperi, in «Bullettino
storico-bibliografico subalpino», LXXXI, 1983, pp. 239-46. Sullo scisma:
M. Meyer, Die Wahl Alexanders III. und Viktors IV., Göttingen 1871; A.M.
Ameli, La Chiesa di Roma e la Chiesa di Milano nella elezione di papa
Alessandro III, Firenze 1910; H. Karge, Die Gesinnung und die
Massnahmen Alexanders III. gegen Friedrich Barbarossa, Greifswald
1914; P. Brezzi, Lo scisma inter regnum et sacerdotium al tempo di
Federico Barbarossa, in «Archivio della deputazione romana di storia
patria», LXII, 1940; O. Capitani, Alessandro III, lo scisma e le diocesi
d’Italia, in AA.VV., Popolo e Stato, cit.; N. Gussone, Thron und
Inthronisation des Papstes von den Anfängen bis zum 12. Jahrhundert,
Bonn 1978, pp. 270-78; W. Madertoner, Die zwiespältige Papstwahl des
Jahres 1159, Wien 1978; J. Petersohn, Papstschisma und Kirchenfriede, in
«Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken»,
LIX, 1979, pp. 159-97; O. Capitani, Federico Barbarossa davanti allo
scisma: problemi e orientamenti, in AA.VV., Federico Barbarossa, cit., pp.
83-130. Ancora su Alessandro III, si vedano R. Somerville, Pope Alexander
III and the Council of Tours, Berkeley-Los Angeles-London 1977; K.
Schreiner, Geschichte, symbolische Handeln, standortbedingte
Urteilsbildung. Wirkungsgeschichtliche Studien zur Begegnung zwischen
Kaiser Friedrich Barbarossa und Papst Alexander III., Bielefeld 1981, e gli
Atti del convegno tenutosi nel marzo 1982 ad Alessandria su Alessandro
III.
Sul conflitto fra papato e impero nel XII secolo in generale, si può
inoltre ricorrere – oltre che al vecchio ma classico U. Balzani, Italia, papato
e impero nel secolo XII, Milano 1930 – a: G. Dunken, Die politische
Wirksamkeit der päpstlichen Legaten in der Zeit des Kampfes zwischen
Kaisertum und Papstum in Oberitalien unter Friedrich 1., Berlin 1931; K.
Jordan, Die Stellung des deutschen Episkopats im Kampf um die
Universalmacht unter Friedrich I. bis zum Frieden von Venedig, Würzburg
1939; F. Kempf, Der «Favor apostolicus» bei der Wahl Friedrich
Barbarossas und im deutschen Thronstreit, in AA.VV., Speculum Historiae.
Geschichte im Spiegel von Geschichtsschreibung und Geschichtsdeutung,
Freiburg 1965, pp. 469-78; H. Tillmann, Ricerche sull’origine dei membri
del collegio cardinalizio nel XII secolo, in «Rivista di storia della Chiesa in
Italia», XXIV, 1970, pp. 441-64; XXVI, 1972, pp. 313-53; XXIX, 1975, pp.
363-402; K. Jordan, Investiturstreit und frühe Stauferzeit, in Gebhards
Handbuch der deutschen Geschichte, a cura di A. Grundmann, I, Stuttgart
1973 9, pp. 323-426. Per il quadro storico generale, La riforma della Chiesa
e la lotta fra papi e imperatori, Milano 1979 (Storia del mondo medievale –
Cambridge, IV).
Il governo di Federico ha avuto importanza notevole sul piano – com’è
noto – del diritto. In generale si possono vedere le seguenti opere: C.
Wacker, Beiträge zur Geschichte der staufischen Reichstage, Leipzig 1882;
I. Ott, Der Regalienbegriff des 12. Jahrhunderts, in «Zeitschrift für
Rechtsgeschichte», Kan. Abt., LXVI, 1949; H. Appelt, Friedrich
Barbarossa und das römische Recht, in «Römische Historische
Mitteilungen», V, 1961-62, pp. 18-34; P. Costa, Iurisdictio. Semantica del
potere politico nella pubblicistica medievale, Milano 1969; H. Kellenbenz,
Das deutsche Reich, in Handbuch der europäischen Wirtschafts- und
Sozialgeschichte, a cura di H. Kellenbenz, II, Stuttgart 1980, part. pp. 521-
22 sugli iura regalia. Sui rapporti fra l’imperatore e i giuristi bolognesi e
sulla dieta di Roncaglia del 1158: G. Blondel, Les droits régaliens et la
constitution de Roncaglia, in AA.VV., Mélanges Paul Fabre, Paris 1902,
pp. 237-57; H. Koeppler, Frederick Barbarossa and the Schools of
Bologna, in «English Historical Review», LIV, 1939, pp. 577-603; A. Erler,
Die Ronkalischen Gesetze des Jahres 1158 und die oberitalienische
Stadtfreiheit, in «Zeitschrift für Rechtsgeschichte», Germ. Abt., LXI, 1941;
E. Rota, Il valore politico immediato per l’Italia della costituzione «De
Regalibus» del 1158, in «Studi sassaresi», s. II, vol. XXIII, 1950; W.
Ullmann, The Medieval Interpretation of Frederick I Authentic «Habita», in
AA.VV., L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di Paolo
Koschaker, I, Milano 1954, pp. 99 sgg.; G. de Vergottini, Lo Studio di
Bologna, l’impero, il papato, in AA.VV., Studi e Memorie per la storia
dell’Università di Bologna, n. s., I, Bologna 1956; A. Haverkamp, Die
Regalien-, Schutz- und Steuerpolitik in Italien unter Friedrich Barbarossa
bis zur Entstehung des Lombardenbundes, in «Zeitschrift für bayerische
Landesgeschichte», XXIX, 1966, pp. 3-156 (saggio fondamentale, come del
resto molte cose di questo studioso, per comprendere il rapporto fra diritto,
politica amministrativa e sistema tributario); V. Colorni, Le tre leggi perdute
di Roncaglia (1158) ritrovate in un manoscritto parigino, in AA.VV., Scritti
in memoria di Antonino Giuffrè, I, Milano 1967, pp. 113-70 (la scoperta del
Colorni ha impresso una svolta alle ricerche relative alla legislazione
federiciana dal 1158 in poi); G. Santini, L’origine bolognese di due leggi di
Roncaglia: le Constitutiones «Habita» e «Sacramenta puberum», in
«Archivio giuridico Filippo Serafini», s. VI, vol. XLIV, 1968, pp. 494 sgg.
Importanti, ancora, i due saggi di T. Szabó, Römischrechtliche Einflüsse auf
die Beziehung des Herrschers zum Recht. Eine Studie zu vier Autoren aus
der Umgebung Friedrich Barbarossas, in «Quellen und Forschungen aus
italienischen Archiven und Bibliotheken», LIII, 1973, pp. 34-48, e W.
Stelzer, Die Summa Monacensis (Summa «Imperatorie Maiestati») und der
Neustifter Propst Konrad von Albeck. Ein Beitrag zar Verbreitung der
französischen Kanonistik im frühstaufischen Deutschland, in «Mittelungen
des Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», LXXXVIII, 1980,
pp. 94-112.
Sulla «politica estera» di Federico, molti argomenti sarebbero degni di
attenzione. Ma gli studiosi – più che dalla diplomazia un po’ episodica nei
confronti della Francia capetingia o della Normandia-Inghilterra
plantagenete – sono stati giustamente attirati da due aspetti dell’azione
politica federiciana: quello rivolto al regno normanno di Sicilia e quello
indirizzato a Bisanzio. Per il primo, basti il rinvio a G. Baaken, Unio regni
ad imperium. Die Verhandlungen von Verona 1184 und die Ehendrebung
zwischen König Heinrich VI. und Konstanze von Sizilien, in «Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LII, 1972, pp.
219-97, e a G. Tabacco, Impero e regno meridionale, in AA.VV., Potere,
società e popolo tra età normanna ed età sveva, Bari 1983, pp. 13-48. Per il
secondo, oltre alla bella ricerca di P. Lamma, Comneni e Staufer. Ricerche
sui rapporti fra Bisanzio e l’Occidente nel secolo XII, 2 voll., Roma 1955-
58 (importante in realtà anche per un quadro molto più vasto di quanto il
titolo non prometta), si debbono ricordare W. Ohnsorge, Die Byzanzpolitik
Friedrich Barbarossas und der «Landesverrat» Heinrich des Löwens, in
Id., Abendland und Byzanz, Darmstadt 1958, pp. 456-91, e P. Classen, La
politica di Manuele Comneno tra Federico Barbarossa e le città italiane, in
AA.VV., Popolo e Stato, cit., pp. 265-79.
Per il ruolo di Federico nella storia tedesca, si vedano anzitutto: G.
Barraclough, Le origini della Germania moderna, Firenze 1957, e J.-P.
Cuvillier, L’Allemagne médiévale. Naissance d’un état (VIII e-XII e siècle),
Paris 1979. Sull’amministrazione e l’attività di governo sveve vere e
proprie, cfr.: J. Ficker, Die Reichshofbeamten der Staufischen Periode,
Wien 1862; O.V. Dungern, Die Staatreform der Hohenstaufen, München-
Leipzig 1913; K. Bosl, Die Reichsministerialität der Salier und Staufer, 2
voll., Stuttgart 1950-51 (uno studio fondamentale, e del resto ormai
classico); G. Rauch, Die Bündnisse deutscher Herrscher mit
Reichsangehöringen. Vom Regierungsantritt Friedrich Barbarossas bis zum
Tod Rudolfs von Habsburg, Aalen 1966; W. Hotz, Pfalzen und Burgen der
Stauferzeit, Darmstadt 1981; J. Fried, La politica economica di Federico
Barbarossa in Germania, in AA.VV., Federico Barbarossa, cit., pp. 311-
83.
Per la nascita dell’Austria: H. Fichtenau, Von der Mark zum Herzogtum.
Grundlagen und Sinn des Privilegium minus für Österreich, München 1958;
O. Brunner, Land und Herrschaft. Grundfragen der territorialen
Verfassungsgeschichte Österreichs im Mittelalter, Wien 1959 2 (ch’è senza
dubbio alcuno uno dei più bei libri di storia scritti nel secolo scorso); H.
Appelt, Privilegium minus. Das staufische Kaisertum und die Babenberger
in Österreich, Wien-Köln-Graz 1973; K. Lechner, Die Babenberger, Wien-
Köln 1977; E. Zöllner, Das Privilegium minus und seine
Nachfolgebestimmungen in genealogischer Sicht, in «Mitteilungen des
Instituts für Österreichische Geschichtsforschung», LXXXVI, 1978, pp. 1-
26; AA.VV., Das Babenbergische Österreich, a cura di E. Zöllner, Wien
1978, pp. 43-53. Per altri ducati, si veda per esempio: E. Heyck, Geschichte
der Herzoge von Zähringen, Freiburg 1891; T. Mayer, Der Staat der
Herzoge von Zähringen, s. l. 1935; A.K. Homberg, Westfalen und das
sächsische Herzogtum, Münster 1963.
Sulla riforma feudale: H. Gunia, Der Leihezwang, Düsseldorf 1938; W.
Goez, Der Leihezwang, Tübingen 1962.
Sulla politica federiciana relativa alle città: H. Planitz, Der deutsche
Staat in Mittelalter, Graz-Köln 1954; H. Boockmann, Barbarossa in
Lübeck, in «Zeitschrift des Vereins für Lübeckische Geschichte und
Altertumskunde», LXI, 1981, pp. 7-18; F. Schwind, Reichsstadt und
Kaiserpfalz Gelnhausen, in «Blatter für deutsche Landesgeschichte», CVII,
1981, pp. 73-96.
Una frontiera importante del regno tedesco nel XII secolo era quella
nordorientale, per la quale si può consultare: R. Kötzsche, Quellen zur
Geschichte der ostdeutschen Kolonisation im 12.-14. Jahrhundert, s. l.
1931 2; K. Hampe, Der Zug nach dem Osten, Leipzig 1935 3; E.
Christiansen, Le crociate del nord. Il Baltico e la frontiera cattolica,
Bologna 1983. Beninteso, per la politica di Federico in Germania e la
frontiera nordoccidentale, va ricordato quanto si è già segnalato, supra, a
proposito di Enrico il Leone.
La politica tedesca di Federico è strettamente congiunta a quella italiana:
su ciò molte sono le disparità di giudizio e molte quindi le polemiche, ma il
rapporto in sé è innegabile. Per criticamente definirlo, giovino: E. Jordan,
L’Allemagne et l’Italie aux XII e et XIII e siècles, Paris 1939; G. Fasoli, Città
e sovrani fra il X e il XII secolo, Bologna 1963; F. Opll, Effetti della politica
italiana di Federico Barbarossa in Germania, in AA.VV., Federico
Barbarossa, cit., pp. 265-309. Per l’Italia di Federico I, resta classica la
ricerca di J. Ficker, Forschungen zur Reichs- und Rechtsgeschichte Italiens,
Innsbruck 1868; allo stesso modo, non si può astrarre da G. von Below, Die
italienische Kaiserpolitik des deutschen Mittelalters. Mit besonderem
Hinblick auf die Politik Friedrich Barbarossas, München-Berlin 1927. Per
quanto molti studi in merito alla posizione dell’imperatore come rex Italiae
si siano ispirati in passato alla ricostruzione di questioni politiche e militari,
le grandi indagini circa il patrimonio imperiale nel regno hanno modificato
il tono della storiografia degli ultimi decenni. Alla base di questo
mutamento di rotta, possiamo quindi porre due ricerche a giusto titolo
famose: F. Schneider, L’ordinamento pubblico nella Toscana medievale,
Firenze 1975 (l’originale in tedesco è stato edito nel 1914), e K. Schrod,
Reichsstrassen und Reichsverwaltung im Königreich Italiens, Stuttgart
1931. Naturalmente, ha molto rilievo lo studio di H. Meyer, Die
militärpolitik Friedrich Barbarossas in Zusammenhang mit seiner
Italienpolitik, Berlin 1930: il discorso sulla politica militare (a parte le spese
che essa comportava, le questioni tecniche e quindi il necessario
riallacciamento di essa a questioni a loro volta generali) non era a ogni
modo quello globalmente più adatto a far avanzare gli studi. La via giusta,
sulle orme dello Schneider e dello Schrod, stava in ricerche quali quella di
G. Deibel, Die italienischen Einkünfte Kaiser Friedrich Barbarossas, in
«Neue Heidelberger Jahrbücher», 1932, pp. 21-58. Ed è su questa strada
che si è giunti alle fondamentali e innovatrici conquiste scientifiche del
Brühl e dello Haverkamp. Cfr.: C. Brühl, Fodrum, gistum, servitium regis, 2
voll., Köln-Graz 1968; Id., La politica finanziaria di Federico Barbarossa
in Italia, in AA.VV., Popolo e Stato, cit., pp. 195-208 (cfr. Id., Die
Finanzpolitik Friedrich Barbarossas in Italien, in «Historische Zeitschrift»,
CCXIII, 1971, pp. 13-37); A. Haverkamp, Herrschaftsformen der
Frühstaufer in Reichsitalien, 2 voll., Stuttgart 1970-71. Il fondamentale
studio dello Haverkamp ha provocato anche qualche polemica, ma ha senza
dubbio imposto un rinnovamento critico negli studi specifici, sia per la
massa di dati eruditi messi a disposizione degli specialisti, sia per la
ricchezza e la finezza degli spunti interpretativi. In particolare, lo
Haverkamp ha – e, crediamo, in modo sostanzialmente irreversibile –
ridimensionato la leggenda romantica di un Barbarossa duro, implacabile,
dalla ferrea volontà, disposto a spezzarsi pur di non piegarsi (una leggenda
suscettibile poi di due interpretazioni, di segno beninteso diametralmente
opposto) per sottolineare invece la flessibilità, il possibilismo, addirittura la
opportunistische Komponente della politica dell’imperatore. Un
ridimensionamento salutare, contro schematismi e interpretazioni
antistoriche: ma che a sua volta cela il pericolo di un certo anacronismo,
nella misura in cui – mirando a ristabilire il quadro dello sviluppo concreto
di una linea politica – può approdare a una sottovalutazione obiettiva delle
idee di giustizia e di dignità dell’impero del Barbarossa. È quanto è stato
per esempio notato da D. von der Nahmer, Zur Herrschaft Friedrich
Barbarossas in Italien, in «Studi medievali», s. III, vol. XV, 1974, pp. 587-
703. Osservatore attento di questo rinnovamento degli studi relativo al
regnum Italiae federiciano, ma al tempo stesso anche protagonista di tale
rinnovamento, è stato in Italia Giovanni Tabacco, che in parecchi contributi
ha lucidamente riconsiderato la politica amministrativa e finanziaria di
Federico, il suo confronto con la feudalità e via dicendo. Ricordiamo: G.
Tabacco, La costituzione del regno italico al tempo di Federico Barbarossa,
in AA.VV., Popolo e Stato, cit.; Id., recensione ad Haverkamp,
Herrschaftsformen, cit., in «Studi medievali», s. III, vol. XIV, 1973, pp.
226-237; Id., Alleu et fief considérés au niveau politique dans le royaume
d’Italie (X e-XII e siècle), in «Cahiers de civilisation médiévale», XXIII,
1980, pp. 3-15; Id., Gli orientamenti feudali dell’impero in Italia, in
AA.VV., Structures féodales et féodalisme dans l’Occident méditerranéen,
Roma 1980, pp. 210-37.
I rapporti fra l’impero e i comuni italiani sono un vastissimo e complesso
problema. In linea generale, si può partire da: P. Brezzi, I comuni cittadini
italiani e l’impero medievale, in AA.VV., Nuove questioni di storia
medioevale, Milano 1964, pp. 177-207; J. Riedman, Die Beurkundung der
Verträge Kaiser Friedrich Barbarossas mit den italienischen Städten, Wien
1966; AA.VV., Popolo e Stato, cit.; AA.VV., I problemi della civiltà
comunale, a cura di C.D. Fonseca, Milano 1971; C.G. Mor, La politique de
la maison de Souabe à l’égard des villes italiennes, in AA.VV., La ville.
Institutions administratives et judiciaires, Bruxelles 1954, pp. 297-317; G.
Fasoli – F. Bocchi, La città medievale italiana, Firenze 1973; J.K. Hyde,
Società e politica nell’Italia medievale, Bologna 1973; P. Racine, Nuove
vedute su Federico Barbarossa e i comuni italiani, in «Bullettino storico
piacentino», LXVIII, 1973, pp. 2-11; P. Classen, Die Communen und die
Kaiserkrone des Westens, in «Journal of Medieval History», III, 1977, pp.
207-44; AA.VV., Aristocrazia cittadina e ceti popolari nel tardo Medioevo
in Italia e in Germania, a cura di R. Elze – G. Fasoli, Bologna 1984.
Sui rettori federiciani delle città italiche: C. Ludwig, Untersuchungen
über die frühesten «Potestaten» italienischer Städte, Wien 1973.
In genere sulla politica cittadina: P. Brezzi, Caratteri, momenti e
protagonisti dell’azione diplomatica di Federico Barbarossa, in «Rivista
storica italiana», LII, 1940, pp. 192-205, 339-68; Id., Gli alleati italiani di
Federico Barbarossa (feudatari e città), in AA.VV., Federico Barbarossa,
cit., pp. 157-97; G. Fasoli, Federico Barbarossa e le città lombarde, in Id.,
Scritti di storia medievale, Bologna 1974, pp. 229-55; Id., Aspirazioni
cittadine e volontà imperiale, in AA.VV., Federico Barbarossa, cit., pp.
131-56.
La politica relativa ai passi alpini: K. Meyer, Blenio und Leventina von
Barbarossa bis Heinrich VII., Luzern 1911; G.L. Barni, La politica di
Federico I circa i passi retici e il problema del castello di Serravalle in Val
di Blenio, in Atti del Convegno di studi per i rapporti scientifici e culturali
italo-svizzeri, Milano 1956, pp. 197-204; R. Bordone, Una valle di transito
nel gioco politico dell’età sveva. Le trasformazioni del potere e
dell’insediamento nel comitato di Serralonga, in «Bullettino storico-
bibliografico subalpino», LXXIII, 1975, pp. 109-79.
Sui rapporti tra il Barbarossa e le varie città italiche fino alla Lega
lombarda, oltre al fondamentale, bel libro di P. Grillo, Le battaglie del
Barbarossa. I comuni contro l’imperatore, Roma-Bari 2014, ci limitiamo a
qualche riferimento regione per regione (prendendo per comodità quali
punti di riferimento le regioni odierne).
PIEMONTE
In generale sulla regione: F. Cognasso, Il Piemonte nell’età sveva, Torino
1968. Alessandria: G. Jachino, Le origini di Alessandria nella storia e nelle
tradizioni popolari, Torino 1926; C. Patrucco, Come e perché fu fondata
Alessandria, Casale Monferrato 1927; G. Pistarino, Alessandria nel mondo
dei comuni, in «Studi medievali», s. III, vol. XI, 1970; AA.VV., Popolo e
Stato, cit. (sul quale si veda la lucida recensione di A.A. Settìa in «Rivista
della Chiesa in Italia», XXVI, 1972, pp. 526-28); G. Airaldi, Giudici e notai
nella nascita di una città, in «Rivista di storia, arte e archeologia per le
province di Alessandria e Asti», LXXXII, 1973, pp. 137-60. Asti: R.
Bordone, Città e territorio nell’Alto Medioevo. La società astigiana dal
dominio dei Franchi all’affermazione del comune, Torino 1980. Novara:
Novara e la sua terra nei secoli XI e XII: storia documenti architettura, a
cura di M.L. Gavazzoli Tomes, Milano 1980. Monferrato: A.A. Settìa,
Monferrato. Strutture di un territorio medievale, Torino 1983.
IL TERRITORIO PADANO IN GENERALE
A.A. Settìa, Castelli e villaggi nell’Italia padana, Napoli 1984.
LOMBARDIA
Milano: G.P. Bognetti, Sopra la condizione dei cittadini milanesi dopo la
distruzione di Milano, in «Rivista storica del diritto italiano», I, 1928;
AA.VV., Dalle lotte contro il Barbarossa al primo signore (1152-1310),
Milano 1954 (Storia di Milano, IV); G.L. Barni, Riflessi giuridici della lotta
fra comuni e Federico I nelle consuetudini milanesi, in AA.VV., Studi in
onore di A. Calderini e R. Paribeni, I, Milano 1956, pp. 449-68; G.
Rossetti, Motivi economico-sociali e religiosi in atti di cessione di beni a
chiese del territorio milanese nei secoli XI-XIII, Milano 1967; A.M.
Ambrosioni, Il testamento del prete Ariprando (1166). Note sulla situazione
dei Milanesi dopo la distruzione della città, in «Ricerche storiche sulla
Chiesa ambrosiana», II, 1972, pp. 116-31; L. Fasola, Una famiglia di
sostenitori milanesi di Federico I. Per la storia dei rapporti dell’imperatore
con le forze sociali e politiche della Lombardia, in «Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken», LII, 1972, pp.
116-218; A.M. Ambrosioni, Le pergamene della Canonica di
Sant’Ambrogio, Milano 1974; M.S. Mazzi, Milano dei secoli IX-XII nei
contributi dell’ultimo trentennio, in «Archivio storico italiano», CXXXII,
1974, pp. 371-415; G. Soldi Rondinini, La canonica di Sant’Ambrogio e la
società milanese nel secolo XII, in «Nuova rivista storica», LIX, 1975, pp.
458-69; A. Haverkamp, Das Zentralitätgefüge Mailands in hohem
Mittelalter, in AA.VV., Zentralität als Problem der mittelalterlichen
Stadtgeschichtsforschung, a cura di E. Meynen, Köln-Wien 1979. Altre
città: A. Caretta, Le cinque ambascerie lodigiane presso Federico I, in
«Archivio storico lodigiano», VIII, 1960, pp. 55-74; C. Paganini, Spunti per
uno studio sui monasteri pavesi nel contrasto fra papato e impero nel
periodo del Barbarossa, in «Bollettino della Società Pavese di storia
patria», n. s., XX-XXI, 1968-69, pp. 179-201; A. Bosisio, Crema ai tempi
di Federico Barbarossa, in «Archivio storico lombardo», s. VIII, vol. X,
1960, pp. 206 sgg.; AA.VV., Storia di Brescia, dir. G. Treccani degli
Alfieri, I, Brescia 1961, pp. 597-638. Bisogna fare altresì riferimento al bel
volume di più autori, Pavia e il suo territorio nell’età del Barbarossa. Studi
in onore di Aldo A. Settìa, Milano 2005, nel quale ai nostri fini sono molto
importanti i contributi di P. Majocchi, «Papia civitas imperialis». Federico
I di Svevia e le tradizioni regie pavesi, pp. 19-53, e di L. Maffi, La
«diabolica» balestra fra XII e XIII secolo, pp. 135-60. Il volume si
conclude con una preziosa bibliografia generale degli studi del Settìa, ai
quali tanto dobbiamo sia per la storia del Settentrione italiano nel
Medioevo, sia per i fondamentali contributi di storia militare (fra i quali
spiccano appunto i saggi dedicati all’età barbarossiana, con precisazioni
sempre utili e in qualche caso rivoluzionarie sul piano delle acquisizioni
scientifiche).
EMILIA
F.S. Gatta, Il comune di Reggio e la Lega lombarda, in «Studi e
documenti», XXXIX, 1939, pp. 65 sgg.; A. Hessel, Storia della città di
Bologna dal 1116 al 1280, trad. it., p. 391, Bologna 1975.
TOSCANA
R. Davidson, Storia di Firenze, I, Firenze 1956; E. Tolaini, La costruzione
delle mura di Pisa negli anni 1155-61 secondo gli «Annales» del
Maragone, in «Bullettino storico pisano», XXVI-XXXVIII, 1967-69, pp.
37-49.
UMBRIA E LAZIO
A. Frugoni, Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XII, Roma 1954; P. de
Angelis, Roma e Spoleto contro Federico I Barbarossa per la libertà del
comune, Roma 1955; F. Gregorovius, Storia della città di Roma nel
Medioevo, 3 voll., Torino 1973; M. Petrocchi, Le sottomissioni alla città di
Perugia nell’età di Federico Barbarossa, in «VI Convegno di studi umbri»,
Gubbio 1968, pp. 253-69.
MARCHE
P. Giangiacomi, Ancona contro Barbarossa, Ancona 1927; AA.VV.,
Federico Barbarossa, Ancona e le Marche, Città di Castello 1972; A.
Carile, L’assedio di Ancona del 1173. Contributo alla storia politica e
sociale della città nel secolo XII, in «Atti e memorie della Deputazione
storica per le Marche», s. VII, vol. VII, 1971-73, pp. 25-27; Idem, Federico
Barbarossa, i veneziani e l’assedio di Ancona nel 1173, in «Studi
veneziani», XVI, 1974, pp. 3-31.
SARDEGNA
AA.VV., La Sardegna nel mondo mediterraneo. II - Gli aspetti storici, a
cura di M. Brigaglia, Sassari 1981.
In tutta la letteratura or ora segnalata, a proposito delle città italiche (ma
cfr. anche quanto abbiamo detto nel paragrafo dedicato alle Fonti), il tema
della Lega lombarda, dei suoi precedenti, delle sue istituzioni e del suo
sviluppo è largamente presente. Aggiungiamo qui solo alcuni titoli che ne
trattano specificamente: F. Bosdari, Bologna nella prima Lega lombarda, in
«Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per le province di
Romagna», s. III, vol. XV, 1896-97, pp. 12 sgg.; XVI, 1898, pp. 143 sgg.; F.
Güterbock, Die Rektoren des Lombardenbundes in einer Urkunde für
Chiaravalle, in «Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und
Bibliotheken», XVIII, 1926; M. Pacaut, Aux origines du guelfisme: la
doctrine de la Ligue lombarde, 1167-1183, in «Revue historique», CCXXX,
1963, pp. 73-90 (un saggio importante, tuttavia a nostro modo di vedere
compromesso da due preconcetti dell’Autore: primo, voler antedatare al XII
secolo lo scontro tra guelfismo e ghibellinismo che fu caratteristico di
quello seguente; secondo, il trattare appunto guelfismo e ghibellinismo
come due partiti politici basati su due ideologie contrapposte, il che è,
almeno tendenzialmente, antistorico); G. Fasoli, La Lega lombarda.
Antecedenti, formazione, struttura, in AA.VV., Probleme des 12.
Jahrhunderts, Konstanz-Stuttgart 1968, pp. 143-60; P. Brezzi, Gli uomini
che hanno creato la Lega lombarda, in Popolo e Stato, cit.; G. Vismara,
Istituzioni e concezioni della Lega lombarda, ibidem; R. Bordone, I comuni
italiani nella prima Lega lombarda: confronto di modelli istituzionali in
un’esperienza politico-diplomatica, in Kommunale Bündnisse Oberitaliens
und Oberdeutschlands in Vergleich, hrsg. H. Maurer, Sigmaringen 1987, pp.
45-58; A. Degrandi, La riflessione teorica sul rapporto città-contado nello
scontro tra Federico Barbarossa e i comuni italiani, in «Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e Archivio muratoriano»,
CVI.2, 2004, pp. 139-67; G. Raccagni, The Lombard League, 1167-1225,
Oxford 2010; P. Grillo, Alle origini della diplomazia comunale: amicizia e
concordia nei rapporti fra i comuni italiani nell’epoca della lega lombarda,
in Parole e realtà dell’amicizia medievale, a cura di I. Lori Sanfilippo e A.
Rigon, Roma 2012, pp. 159-67.
Per sigillografia e araldica della lega: C. Bascapé, I sigilli dei comuni
italiani nel Medioevo e nell’età moderna, in AA.VV., Studi in onore di C.
Manaresi, Milano 1953, p. 113; E. Dupré Theseider, Sugli stemmi delle
città comunali italiane, in Id., Mondo cittadino e movimenti ereticali nel
Medioevo, Bologna 1978, pp. 103-45; H. Zug Tucci, Un linguaggio
feudale: l’araldica, in AA.VV., Storia d’Italia. Annali, I, Torino 1978, p.
852.
Su un episodio per molti versi fondamentale, le trattative di Montebello:
F. Güterbock, Der Friede von Montebello und die Weiterentwickelung des
Lombardenbundes, Berlin 1895; W. Heinemeyer, Der Friede von
Montebello (1175), in «Deutsches Archiv», XI, 1954, pp. 101-39.
Per la battaglia di Legnano: F. Güterbock, Ancora Legnano!, Milano
1901; B. Hanow, Beiträge zur Kriegsgeschichte der staufischen Zeit: die
Schlachten bei Carcano und Legnano, Berlin 1905; R. Beretta, Della
Compagnia della Morte e della Compagnia del Carroccio alla battaglia di
Legnano, in «Archivio storico lombardo», XLI, 1914, pp. 240-56; P. Pieri,
Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 214 sgg.; A.
Marinoni, Ricostruzione storica e topografica della battaglia di Legnano, in
«Legnano», III, 1957, pp. 3-15; R. Beretta, Il giuramento di Pontida e la
Società della Morte nella battaglia di Legnano (storia o leggenda?), rist.,
Como 1970; G. Martini, La battaglia di Legnano: la realtà e il mito, in
«Nuova Antologia», CXI, 1976, pp. 357-71; AA.VV., Legnano e la
battaglia, a cura di G. d’Ilario, E. Gianazza, A. Marinoni, Legnano 1976; Il
Barbarossa in Lombardia: comuni e imperatore nelle cronache
contemporanee, a cura di G. Andenna, P. Ariatta, F. Cardini, Novara 1987;
P. Grillo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, Roma-Bari 2010.
Per il carroccio: H. Zug Tucci, Il Carroccio nella vita comunale italiana,
in «Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und
Bibliotheken», 65, 1985, pp. 1-104, e E. Voltmer, Il carroccio, trad. it.,
Torino 1994.
Sul «mito» di Alberto da Giussano, Alberto da Giussano: una leggenda
nella storia, a cura di G.G. Merlo, Giussano 2001.
Per la pace di Venezia, si veda: P. Brezzi, La pace di Venezia del 1177 e
le relazioni tra la repubblica e l’impero, in AA.VV., Venezia dalla prima
crociata alla conquista di Costantinopoli del 1201, Firenze 1965, pp. 49-
70; F.J. Schmale, Der Friede von Venedig, Bochum 1981.
Sulla pace di Costanza: W. Lenel, Der Konstanzer Frieden von 1183 und
die italienische Politik Friedrichs I, in «Historische Zeitschrift», CXXVIII,
1923, pp. 189-261; C.G. Mor, Il trattato di Costanza e la vita comunale, in
AA.VV., Popolo e Stato, cit.; AA.VV., La pace di Costanza 1183, Bologna
1984 (sono gli Atti di un convegno tenutosi a Piacenza nel 1983, e per cui
cfr. anche T. Zambarbieri, La pace di Costanza, in «Quaderni medievali»,
16, dicembre 1983, pp. 203-10). Quanto all’ultima fase della politica
italiana di Federico, cfr. H. Kauffmann, Die italienische Politik Kaiser
Friedrichs 1. nach dem Frieden von Konstanz, Greifswald 1933.
La nobiltà del regnum Italiae offre nei suoi rapporti con l’imperatore
svevo una quantità di elementi di grande interesse, anche se la bibliografia
non è così sterminata come nel caso delle città. Sul tema generale: J.
Fischer, Königtum, Adel und Kirche im Königreich Italien, Bonn 1965; M.
Strachwitz, Die Privilegierung des italienischen Adels durch Kaiser
Friedrich 1., Wien 1968; R. Manselli, La grande feudalità italiana tra
Federico Barbarossa e i comuni, in AA.VV., Popolo e Stato, cit.; A.
Haverkamp, Friedrich 1. und der hohe italienische Adel, in AA.VV.,
Beiträge zur Geschichte Italiens im 12. Jahrhundert, Sigmaringen 1971, pp.
53 sgg.; H. Keller, Adelherrschaft und städtliche Gesellschaft in
Oberitalien, Tübingen 1979. In particolare, sui Monferrato: L. Usseglio, I
marchesi di Monferrato in Italia e in Oriente durante i secoli XII e XIII,
Casale Monferrato 1926, e AA.VV., Aleramica, in «Bullettino storico-
bibliografico subalpino», LXXXI, 1983, pp. 451-762; sui Malaspina: G.
Guagnini, I Malaspina. Origini, fasti, tramonto di una dinastia, Milano
1973. Sul feudalesimo italo-settentrionale è comunque fondamentale lo
studio di P. Brancoli Busdraghi, La formazione storica del feudo lombardo
come diritto reale, Milano 1965.
Quanto alla Borgogna: P. Fournier, Le royaume d’Arles, Paris 1891; H.
Hirsch, Urkundenfalschungen aus dem Regnum Arelatense. Die
burgundische Politik Kaiser Friedrichs I., Wien 1937; J.-Y. Mariotte, Le
comté de Bourgogne sous les Hohenstaufen 1156-1208, Paris 1963; H.
Büttner, Friedrich Barbarossa und Burgund. Studien zur Politik der Staufer
während des 12. Jahrhunderts, in AA.VV., Probleme des 12. Jahrhunderts,
cit., pp. 79-119.
L’impero, l’idea d’impero, la liturgia imperiale, la politica sacrale
dell’impero in Federico, sono materia di studi che occupano un largo spazio
tematico. Sul piano liturgico, bisogna tener anzitutto presente Die Ordines
für die Weihe und Krönung des Kaisers und der Kaiserin, a cura di R. Elze,
Hannover 1960 (Fontes iuris Germanici antiqui, IX. Ordines coronationis
imperialis). Inoltre: M. Krammer, Der Reichsgedanke des staufischen
Kaiserhauses, Breslau 1908; A. Dempf, Sacrum imperium, Milano-Messina
1933; E. Dupré Theseider, L’idea imperiale di Roma nella tradizione del
Medioevo, Roma 1942; P. Brezzi, Roma e l’impero medievale, Bologna
1947; G. Tabacco, Le relazioni fra i concetti di potere temporale e di potere
spirituale nella tradizione cristiana fino al secolo XV, Torino 1950; R. Folz,
L’idée d’empire en Occident du V e au XIV e siècle, Paris 1953; P. Zerbi,
Papato, impero e repubblica cristiana dal 1187 al 1198, Milano 1955; P.A.
van der Baar, Die kirchliche Lehre der Translatio imperii bis zur Mitte des
13. Jahrhunderts, Roma 1956; A.J. Carlyle, Il pensiero politico medievale,
4 voll., Roma-Bari 1959; H.J. Kirfel, Weltherrschaftsidee und
Bündnispolitik. Untersuchungen zur auswärtigen Politik der Staufer, Bonn
1959; H. Appelt, Die Kaiseridee Friedrich Barbarossas, Wien 1967; M.
Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973; G. Martini, Regale sacerdotium,
ripubbl. in «Nuova rivista storica», LXV, 1981, pp. 73-156; C. Brühl,
Kronen- und Krönungsbrauch im frühen und hohen Mittelalter, in
«Historische Zeitschrift», CCXXXIV, 1982, pp. 1-31. Meno studiate le
tendenze contestative, che pure vi furono: cfr. B. Paradisi, Spunti polemici
contro l’impero in alcuni giuristi del XII secolo, in «Studi romani», XIX,
1971, pp. 11-21.
Sui simboli del potere: P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio,
Berlin 1929 (ristampa 1957); H. Sedlmayr, Die Entstehung der Kathedrale,
Zürich 1950 (part. pp. 125 sgg. per il cosiddetto «lampadario di
Aquisgrana»); P.E. Schramm, Sphaira-Globus-Reichsapfel, Stuttgart 1958
(part. pp. 81-91, per il globo imperiale svevo); P.E. Schramm – F.
Mütherich, Denkmale der deutschen Könige und Kaiser, I, München 1962
(importantissimo per l’iconografia contenuta); P.E. Schramm, Kaiser,
Könige und Päpste, 3 voll., Stuttgart 1968-69; R. Elze, Insegne del potere
sovrano e delegato in Occidente, in AA.VV., Simboli e simbologia nell’Alto
Medioevo, II, Spoleto 1976, pp. 569-93; R. Staats, Theologie der
Reichskrone. Ottonische «Renovatio imperii» im Spiegel einer Insignie,
Stuttgart 1976; R. Elze, Päpste-Kaiser-Könige und die mittelalterliche
Herrschaftssymbolik, London 1982.
Quanto al rapporto fra impero ed escatologia, cfr.: E. Sackur,
Sibyllinische Texte und Forschungen, Halle 1889; F. Kampers, Die deutsche
Kaiseridee in Prophetie und Sage, München 1896; M. Reeves, Joachimist
Influence of the Idea of a «Last World Emperor», in «Traditio», XVII, 1961,
pp. 323-70; B. Töpfer, Das kommende Reich des Friedens. Zur Entwicklung
chiliasticher Zukunftshoffnungen im Hochmittelalter, Berlin 1964. Sulla
leggenda dell’«imperatore dormiente»: L. Bechstein, Die Sagen des
Kyffhäusers, s. l. 1835, e J. Adamek, Vom römischen Endreich der
mittelalterlichen Bibelerklärung, Würzburg 1938. Per l’idea d’impero nella
poesia: R. Schnell, Die Reichsidee in der deutschen Dichtung des
Mittelalters, Darmstadt 1983.
Sulla leggenda dei Magi: U. Monneret de Villard, Le leggende orientali
sui Magi evangelici, Città del Vaticano 1952; L. Olschki, L’Asia di Marco
Polo, Firenze 1957; M. Elissagaray, La légende des Rois Mages, Paris
1965; Giovanni di Hildesheim, La storia dei Re Magi, a cura di A.M. Di
Nola, Firenze 1966; P. Spreafico, La basilica di Sant’Eustorgio. Tempio e
museo, Milano 1976; F. Cardini, I re magi. Storia e leggende, Venezia 2000.
Carlomagno è una presenza mitica fondamentale nel disegno
«ideologico» del Barbarossa: cfr. R. Folz, Le souvenir et la légende de
Charlemagne dans l’empire germanique médiéval, Paris 1950; Id., Études
sur le culte liturgique de Charlemagne dans les églises de l’Empire, Paris
1951; G. Martini, La memoria di Carlomagno e l’impero medievale, in
«Rivista storica italiana», LXVIII, 1966, pp. 255-81; AA.VV., Karl der
Grosse. IV-Das Nachleben, a cura di W. Braunfels – P.E. Schramm,
Düsseldorf 1967; N. von Holst, Zu den Jakobs und Nikolau- spatrozinien in
Italien der Stauferzeit, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Instituts in
Florenz», XXIV, 1980, pp. 357-61; G. Minois, Carlo Magno. Primo
europeo o ultimo romano, trad. it., Roma 2011; S. Weinfurter, Carlo
Magno. Il barbaro santo, Bologna 2015. Quest’ultima opera mi è
particolarmente cara in quanto a tradurla in italiano è stato uno dei migliori
allievi che – immeritatamente – mi sia mai capitato di avere, Alfredo
Pasquetti.
La terza crociata è, naturalmente, trattata in tutte le storie generali delle
crociate. Ma, più specificamente per quel che riguarda il contributo di
Federico, si deve anche ricorrere a: H. Patze, Kaiser Friedrich Barbarossa
und der Osten, in AA.VV., Probleme des 12. Jahrhunderts, cit., pp. 243-53;
H.E. Mayer, Der Brief Kaiser Friedrichs I. an Saladin vom Jahre 1188, in
«Deutsches Archiv», XIV, 1958, pp. 488-94; F.W. Wentzlaff-Eggebert, Der
Hoftag Jesu Christi 1188 in Mainz, Wiesbaden 1962; E. Eickhoff, Friedrich
Barbarossa in Orient. Kreuzzug und Tod Friedrichs I, Tübingen 1977
(fondamentale); H. Möhring, Saladin und der dritte Kreuzzug. Ayubidische
Strategie und Diplomatie in Vergleich vornehmlich der arabischen mit den
lateinischen Quellen, Wiesbaden 1980; B.Z. Kedar, Ein Hilferuf aus
Jerusalem vom September 1187, in «Deutsches Archiv für Erforschung des
Mittelalters», XXXVIII, 1982, pp. 112-22.
L’età di Federico fu nodale nella cultura tedesca. Lo si vede molto bene
già in quello straordinario scritto che è il Ludus de Antichristo, il testo del
quale va consultato in Geistliche Spiele. Lateinische Dramen des
Mittelalters mit deutschen Versen, a cura di K. Langosch, Darmstadt 1961,
pp. 181-239, e per cui si consulti altresì il saggio di K. Hauck, Zur
Genealogie und Gestalt des staufische «Ludus de Antichristo», in
«Germanisch-Romanische Monatschrift», XXXIII, 1951-52, pp. 11-26.
Sull’Archipoeta, cfr.: V.W. Stach, Salve mundi domine. Kommentierende
Beobachtungen zum Kaiserhymnus des Archipoeta, Leipzig 1939; K.
Langosch, Politische Dichtung um Kaiser Friedrich Barbarossa, Berlin
1943; F. Cairnis, The Archpoet’s Confession: Sources, Interpretation and
Historical Context, in «Mittellateinisch Jahrbuch», XV, 1980, pp. 87-103.
L’età di Federico e lo sviluppo socioculturale del ceto dei ministeriales
vengono indicati anche come l’ambiente nel quale si sviluppò
l’elaborazione tedesca di quella cultura cortese e di quelle tradizioni
cavalleresche che a metà XII secolo erano già sviluppate in Francia, ma non
ancora in Germania: cfr. M. Huby, L’adaptation des romans courtois en
Allemagne au XII e et au XIII e siècle, Paris 1968, e J. Flori, Les origines de
l’adoubement chevaleresque. Etude des remises d’armes et du vocabulaire
que les exprime dans les sources historiques latines jusqu’au début du XIII e
siècle, in «Traditio», XXXV, 1979, pp. 222-23 (l’addobbamento di Enrico e
di Federico di Svevia). Circa l’età federiciana nella letteratura, cfr. L.
Mittner, Storia della letteratura tedesca, Torino 1977, pp. 169 sgg., vol. I/1.
Per le tradizioni cavalleresche in Germania e il contributo in questo senso
dell’entourage di Beatrice di Borgogna, si veda anche: G. Fleckenstein,
Friedrich Barbaros-sa und das Rittertum. Zur Bedeutung der Grossen
Mainzer Hoftage von 1184 und 1188, in AA.VV., Festschrift Heimpel, II,
Göttingen 1977, pp. 1023-41.
Sull’uso politico del Barbarossa e sul suo «mito», si rimanda ai due bei
saggi di S. Soldani, Il medioevo del Risorgimento nello specchio della
nazione, e di M. Vallerani, Il comune come mito politico. Immagini e
modelli fra Otto e Novecento, entrambi in Arti e storia nel medioevo. IV. Il
medioevo al passato e al presente, Torino 2004, rispettivamente pp. 149-86
e 186-206.
Molti amici e colleghi mi hanno aiutato in questo lavoro con consigli e
suggerimenti dei quali sono loro molto grato: ma, naturalmente, essi non
sono responsabili dei miei errori. Non posso qui citarli uno per uno:
tuttavia, per la prima edizione di esso, un segno particolare di gratitudine
debbo a Thomas Szabó e un grazie anche a Livia Fasola e ad Hannelore
Zug Tucci. Un pensiero riconoscente a Gian Arturo Ferrari, che ha
«creduto» in questo libro; a Paolo Parlavecchia, che ne ha tenuto a
battesimo l’idea; e a Giovanni Quochi, che ne ha curato l’edizione. Ma
queste sono cose di oltre un trentennio fa: per la presente nuova edizione,
molto aiuto ho ricevuto dall’amico Antonio Musarra; debbo ancora un
ringraziamento a Giuseppe Ligato e a Luigi Russo nonché al mio carissimo
allievo Christian Grasso, tutti valorosi storici delle crociate, per avermi
aiutato a inquadrare in modo aggiornato la seconda e la terza. Né posso
dimenticare un altro straordinario allievo, Alfredo Pasquetti, espertissimo di
questioni germaniche del «pieno Medioevo».
Infine, dedico un affettuoso ricordo a un amico che purtroppo non è più
tra noi, al «fratello grasso» Mario Sanfilippo, mio complice in scorribande
tanto medievistico-wagneriane, nelle quali è entrato a suo tempo anche
Federico, quanto romanesche, alla ricerca dei migliori tra i Mirabilia Urbis,
i filetti di baccalà fritto. A Sanfilippo va il merito di aver disperatamente
cercato di impedire – sia pur senza saperlo – che questo libro uscisse; era
difatti sua perentoria convinzione che una biografia del Barbarossa non si
possa scrivere. Il che mi ha cacciato a suo tempo un sacco di pulci nelle
orecchie: e le fastidiose bestiole, da allora, non se ne sono più andate. Che
avesse ragione lui?
Gli eventi
1120-1126
Date entro le quali si situa la nascita di Federico.
1122
Concordato di Worms fra il papa Callisto II e l’imperatore Enrico V.
1123
marzo - I Concilio lateranense.
1125
maggio - muore l’imperatore Enrico V.
agosto-settembre - elezione e incoronazione di Lotario II a re dei romani.
1133
giugno - Lotario II incoronato imperatore a Roma.
1137
dicembre - morte di Lotario II.
1138
marzo - elezione e incoronazione di Corrado III a re dei romani.
1139
II Concilio lateranense.
1143
primo avvio delle istituzioni comunali nella città di Roma.
1144
caduta della contea di Edessa, conquistata dall’atabeg di Damasco e Mosul.
1145
dicembre - papa Eugenio III bandisce la seconda crociata.
1146
dicembre - durante la dieta di Spira, re Corrado III e Federico duca di Svevia prendono la croce.
1147
autunno - partenza dei crociati tedeschi da Ratisbona.
ottobre - disfatta dei crociati tedeschi presso Dorileo.
1148
inutile assedio di Damasco e dissidio tra Corrado III di Germania e Luigi VII di Francia.
1149
Federico di Svevia sposa Adela di Vohburg.
1152
febbraio - muore a Bamberga Corrado III.
marzo - Federico di Svevia eletto e incoronato re dei romani.
maggio - dieta di Merseburgo e bando contro le guerre private.
1153
marzo - dieta di Costanza: primi accordi di Federico con il papato e con alcuni feudatari e comuni
lombardi; annullamento del matrimonio tra Federico I e Adela di Vohburg.
1154
ottobre - prima discesa di Federico I in Italia.
novembre - prima dieta di Roncaglia.
1155
febbraio - saccheggio di Asti.
aprile - Federico I incoronato re d’Italia a Pavia; distruzione di Tortona.
maggio - incontro di Federico I con i giuristi bolognesi.
giugno - incontro di Sutri tra Federico I e papa Adriano IV; incoronazione imperiale di Federico I a
Roma.
luglio - distruzione di Spoleto.
settembre - Federico I torna in Germania.
ottobre - investitura ufficiale di Enrico «il Leone» duca di Sassonia a duca di Baviera.
1156
giugno - matrimonio tra Federico I e Beatrice di Borgogna. settembre - dieta di Ratisbona: Rainaldo
di Dassel cancelliere dell’impero; istituzione del ducato d’Austria affidato a Enrico di Babenberg.
1157
settembre - dieta di Würzburg.
ottobre - dieta di Besançon: scontro tra l’imperatore e il legato pontificio cardinal Rolando
Bandinelli.
1158
luglio - seconda discesa di Federico I in Italia; assedio di Brescia.
agosto - Federico I ordina la ricostruzione di Lodi distrutta dai milanesi; distruzione di Brescia;
assedio di Milano.
settembre - resa di Milano.
novembre, 11 - seconda dieta di Roncaglia.
1159
aprile, 16 - Milano dichiarata contumace e ribelle.
luglio - inizio dell’assedio di Crema.
settembre - morte di papa Adriano IV; contemporanea elezione di Rolando Bandinelli (Alessandro
III) e di Ottaviano Monticelli (Vittore IV).
ottobre, 23 - lettera di Federico I ai vescovi tedeschi circa la duplice elezione papale.
1160
gennaio - distruzione di Crema.
febbraio, 5 - concilio di Pavia: i vescovi convocati dall’imperatore confermano l’elezione pontificia
di Vittore IV.
marzo, 24 - Alessandro III scomunica Federico I.
1161
agosto - Federico I inizia l’assedio di Milano.
1162
marzo - resa di Milano.
aprile - distruzione di Milano.
agosto - Federico I in Borgogna: trattative infruttuose con il re di Francia.
1163, ottobre - terza discesa di Federico I in Italia.
1164
aprile - formazione della Lega veronese; muore Vittore IV ed è eletto papa di parte imperiale
Pasquale III.
giugno - Rainaldo di Dassel parte da Milano con le reliquie dei Re Magi.
luglio 23 - Rainaldo di Dassel arriva a Colonia.
settembre - ribellione di Piacenza contro il rettore imperiale.
ottobre - Federico I torna in Germania.
1165
maggio - dieta di Würzburg: l’imperatore e i nobili tedeschi giurano di non riconoscere mai
Alessandro III come papa legittimo.
novembre 23 - solenne ingresso di Alessandro III in Roma.
dicembre - canonizzazione di Carlomagno in Aquisgrana.
1166
ottobre - quarta discesa di Federico I in Italia.
novembre, 15 - dieta di Lodi.
1167
marzo, 8 - Lega tra Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova e invito di Milano a aderirvi.
aprile, 7 - data tradizionale del cosiddetto «giuramento di Pontida»; 27 - la Lega intraprende la
ricostruzione di Milano; maggio - primo assedio imperiale di Ancona; 23 - Lodi aderisce alla Lega
detta «cremonese»; 29 - vittoria degli imperiali contro i romani a Monteporzio.
agosto 1 - nuova incoronazione imperiale di Federico; epidemia nell’esercito imperiale.
settembre – bando dell’imperatore contro la Lega cremonese.
dicembre 1- si uniscono Lega veronese e Lega cremonese: nasce la Lega lombarda.
1168
marzo - Federico, sulla via del ritorno, sosta nella città di Susa.
primavera - fondazione della città di Alessandria.
maggio, 15 - dieta di Bamberga; 29 - dieta di Würzburg: lodo di Federico tra Enrico il Leone e i suoi
avversari.
settembre, 20 - morte di Pasquale III; elezione a papa imperiale di Callisto III.
ottobre, 24 - rinnovo dei patti della Lega lombarda.
dicembre, 1 - riunione della Lega lombarda a Lodi.
1169
giugno, 24 - dieta di Bamberga: elezione di Enrico di Svevia, figlio di Federico I, a re dei romani.
agosto, 15 - incoronazione di Enrico re dei romani.
1170
negoziati tra Federico I e Alessandro III a Veroli.
1171
marzo - il basileus Manuele Comneno fa arrestare i veneziani in tutto il territorio dell’impero di
Costantinopoli.
1172
Viaggio di Enrico il Leone in Terrasanta.
1173
aprile-ottobre - secondo assedio imperiale di Ancona.
1174
settembre - quinta discesa di Federico I in Italia.
ottobre - inizio dell’assedio di Alessandria.
1175
aprile, 12 - Federico I toglie l’assedio ad Alessandria; 16 - accordi di Montebello.
1176
gennaio - colloquio di Federico I ed Enrico il Leone a Chiavenna.
maggio, 29 - battaglia di Legnano.
ottobre - trattative fra papa e imperatore ad Anagni.
dicembre - accordi separati di Federico I con Tortona e Cremona.
1177
luglio-agosto - pace di Venezia tra imperatore e papa; tregua dell’imperatore con il re di Sicilia e con
i comuni.
1178
luglio, 30 - incoronazione di Federico I re di Borgogna ad Arles.
agosto, 29 - Callisto III si sottomette a papa Alessandro III.
settembre, 15 - congresso della Lega lombarda a Verona.
novembre, 11 - dieta di Spira.
1179
gennaio - Dieta di Worms contro Enrico il Leone.
febbraio-marzo - III Concilio lateranense.
giugno - dieta di Magdeburgo contro Enrico il Leone.
agosto - dieta di Kayna contro Enrico il Leone.
1180
gennaio - dieta di Würzburg contro Enrico il Leone.
aprile - spartizione dei beni di Enrico il Leone.
giugno-settembre - campagna militare contro Enrico il Leone e sua sconfitta.
settembre - muore a Costantinopoli il basileus Manuele Comneno.
1181
agosto, 30 - muore Alessandro III; gli succede Lucio III.
novembre - Enrico il Leone, graziato, va in esilio alla corte di Enrico II re d’Inghilterra.
1182
massacro dei latini a Costantinopoli.
1183
marzo, 14 - la città di Alessandria riconosciuta da Federico I e ribattezzata Cesarea.
aprile - accordi preliminari di pace tra Federico I e la Lega lombarda a Piacenza.
giugno - gli accordi di pace tra Federico I e la Lega lombarda ratificati a Costanza.
1184
maggio, 20 - festa di corte a Magonza: Enrico re dei romani e Federico armati cavalieri.
luglio - trattative fra l’imperatore e il papa a Verona.
novembre, 14 - morte di Beatrice di Borgogna.
1185
gennaio - i patti della Lega lombarda rinnovati per trent’anni.
febbraio, 11 - accordo di Federico I con Milano.
novembre, 25 - muore Lucio III; eletto papa Urbano III.
1186
gennaio, 27 - matrimonio a Milano tra Enrico IV e Costanza d’Altavilla; grande cerimonia
d’incoronazione.
luglio-agosto - Federico torna in Germania.
estate - assalto di Enrico VI ai territori della Chiesa.
novembre - diete di Gelnhausen e di Norimberga.
1187
luglio, 2 - l’esercito del re di Gerusalemme sconfitto dal Saladino nella battaglia dei «corni di
Hattin», in Galilea.
luglio, 10 - il Saladino conquista Acri.
ottobre, 2 - il Saladino prende possesso di Gerusalemme.
ottobre - muore Urbano III; eletto papa Gregorio VIII.
dicembre, 17 - muore Gregorio VIII; eletto papa Clemente III.
1188
marzo, 27 - Curia Jesu Christi a Magonza.
1189
maggio 11 - i crociati tedeschi partono da Ratisbona.
1190
marzo - i crociati tedeschi passano lo stretto dei Dardanelli.
maggio, 17 - conquista di Iconio.
giugno, 10 - morte di Federico I.
Indice
Copertina
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Il libro
L’autore
Frontespizio
Copyright
Il Barbarossa
I. Il tabernacolo di Mosè
II. «A l’entrada del tens clar…»
III. «Come i pesci nel mare»
IV. Welf e Weiblingen
V. Un giovane signore dai capelli fulvi
VI. Spira, Costantinopoli, Gerusalemme
VII. Di corona in corona
VIII. Mirabilia Urbis
IX. «Quod principi placuit, legis habet vigorem»
X. La tunica lacerata
XI. «Salve mundi domine»
XII. «A lancia e spada il Barbarossa in campo»
XIII. «In virga ferrea»
XIV. Verso la casa del Padre
XV. «Er ist niemals gestorben…»
Note
Nota bibliografica
Gli eventi