Il 100% ha trovato utile questo documento (1 voto)
33 visualizzazioni498 pagine

Cantu Storia Degli Italiani 15

Il documento è un e-book intitolato 'Storia degli italiani. Tomo XV' di Cesare Cantù, pubblicato nel 1877 e digitalizzato in collaborazione con Project Gutenberg. È disponibile in formato immagine su 'The Internet Archive' e distribuito senza diritti d'autore sotto una licenza specifica. L'opera esplora la storia della lingua italiana e le sue origini, con un focus sull'evoluzione linguistica attraverso i secoli.

Caricato da

doubleneckredd
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 100% ha trovato utile questo documento (1 voto)
33 visualizzazioni498 pagine

Cantu Storia Degli Italiani 15

Il documento è un e-book intitolato 'Storia degli italiani. Tomo XV' di Cesare Cantù, pubblicato nel 1877 e digitalizzato in collaborazione con Project Gutenberg. È disponibile in formato immagine su 'The Internet Archive' e distribuito senza diritti d'autore sotto una licenza specifica. L'opera esplora la storia della lingua italiana e le sue origini, con un focus sull'evoluzione linguistica attraverso i secoli.

Caricato da

doubleneckredd
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 498

Questo e-book è stato realizzato anche grazie al

sostegno di:

E-text
Web design, Editoria, Multimedia
(pubblica il tuo libro, o crea il tuo sito con E-text!)
www.e-text.it
QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia degli italiani. Tomo XV


AUTORE: Cantù, Cesare
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Il testo è presente in formato immagine su
"The Internet Archive" (https://www.archive.org/).
Realizzato in collaborazione con il Project Guten-
berg (https://www.gutenberg.org/) tramite Distribu-
ted proofreaders (https://www.pgdp.net/).
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828103592

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza


specificata al seguente indirizzo Internet:
https://liberliber.it/opere/libri/licenze

COPERTINA: [elaborazione da] "Sibilla Cumana (circa


1617)" – di Domenichino (1581–1641) - Galleria Bor-
ghese, Roma, Italia. - https://commons.wikime-
dia.org/wiki/File:Domenichino_-_The_Cumaean_Sibyl_-
_WGA06405.jpg - Pubblico dominio.

TRATTO DA: [Storia degli italiani] 15 / per Cesare


Cantù. - Torino : Unione tipografico-editrice, 1877.

2
- 386 p. ; 20 cm

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 15 ottobre 2023

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 2
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
HIS020000 STORIA / Europa / Italia

CDD:
945 STORIA. ITALIA

DIGITALIZZAZIONE:
Distributed Proofreaders, https://www.pgdp.net/

REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]

IMPAGINAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
Carlo F. Traverso (ePub)
Marco Totolo (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
Claudia Pantanetti, [email protected]
Ugo Santamaria (ePub)

3
Liber Liber

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri.


Fai una donazione: www.liberliber.it/online/aiuta.
Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo
realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione inte-
grale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video
e tanto altro: www.liberliber.it.

4
Indice generale

Liber Liber...................................................................... 4
APPENDICE I. DEI PARLARI D'ITALIA....................9
§ 1° Proposizione......................................................10
§ 2° Lingue de' prischi Italioti..................................13
§ 3° Origini del latino...............................................30
§ 4° Latino primitivo................................................43
§ 5° Seconda età del latino.......................................48
§ 6° L'età dell'oro e dell'argento..............................56
§ 7° La lingua scritta e la lingua parlata: la lingua
rustica.......................................................................60
§ 8° Della pronunzia.................................................72
§ 9° La traduzione della Bibbia................................79
§ 10° La lingua latina si sfascia. Età del ferro.........85
§ 11° Differenze del latino dall'italiano...................99
§ 12° Andamento consimile nelle evoluzioni di varie
lingue......................................................................115
§ 13° Influenza de' Barbari. Periodo di scomposizio-
ne............................................................................124
§ 14° Periodo di formazione dell'italiano nell'età
barbara...................................................................129
§ 15° Periodo d'organamento.................................153
§ 16° Prime scritture italiane.................................174
§ 17° Della lingua romanza e della siciliana.........182
§ 18° Del toscano...................................................202
§ 19° Riassunto e paragoni....................................212

5
§ 20° Illazioni. Sistema della trasformazione.........220
§ 21° Dei dialetti: loro antichità. Il libro del Vulgare
Eloquio....................................................................229
§ 22° La lingua italiana è patrimonio esclusivo d'una
provincia? Sue vicende...........................................255
APPENDICE II. DELL'ANNO E DE' CALENDARJ
.................................................................................... 273
APPENDICE III. INCERTEZZA DELLA STORIA
PRIMITIVA DI ROMA E FONTI DI ESSA..............287
APPENDICE IV. LE SIBILLE...................................318
APPENDICE V. NOMI E GENTI ROMANE...........323
APPENDICE VI. MONETE, MISURE E VALORI FRA
I ROMANI..................................................................353
APPENDICE VII. FAVOLE INTORNO A VIRGILIO
.................................................................................... 362
APPENDICE VIII. DANTE ERETICO.....................382
APPENDICE IX. STATISTICA.................................393
AGGIUNTE E CORREZIONI...................................409
INDICE ALFABETICO.............................................424

6
STORIA
DEGLI ITALIANI
PER
CESARE CANTÙ

EDIZIONE POPOLARE
RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI
EVENTI

TOMO XV

TORINO
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
1877

7
8
APPENDICE I.
DEI PARLARI D'ITALIA

(Vol. I, pag. 83)1.


Sermonem Ausonii patrium, moresque tenebunt.
VIRGILIO.

1
Tomo I cap. III par. “Potea però ottenersi…” di questa edizione. [Nota per
l’edizione elettronica Liber Liber]

9
§ 1°
Proposizione.

Senza toccare le origini del parlare, che è il problema


capitale nello studio dell'uomo, avvertiremo solo come
nel linguaggio trovasi una convenzione tacita per desi-
gnare le cose stesse colle stesse parole, esprimere gli
stessi giudizj colle stesse forme grammaticali; onde bi-
sogna supporvi condizioni fisiologiche, val a dire un or-
gano per produrre i suoni elementari, vocali o consonan-
ti; un organo di udito per raccoglierli dalla bocca altrui e
dalla propria; e condizioni soprorganiche, cioè un'attivi-
tà volontaria per mettere in moto gli organi fonici, e ri-
petere con intenzione i suoni semplici o complessi che
ciascuna lingua ammette; inoltre un'intelligenza capace
di idee generali e di una coordinazione per istituire delle
radicali, per recarle ad associazioni o derivazioni, per
istabilire regole di sintassi.
V'è dunque alcuna cosa nell'uomo che lo fa, non solo
superiore, ma essenzialmente diverso dal bruto; nè, spe-
riamo, si dirà inopportuno il cominciare da tale protesta.
Dalla quale raccogliendoci allo scopo del presente la-
voro, diremo come tre opinioni diverse corrono sull'ori-
gine dell'italiano. L'una che, per l'irruzione de' Barbari,
la lingua latina sia stata mutata e lessicamente e gram-
maticalmente, fino ad originarne una nuova, questo vul-
gare nostro; è il sistema di Castelvetro, Muratori, Ray-

10
nouard, Max Müller2. L'altra, che sia il latino, svolto
sotto gl'influssi degli idiomi indigeni nei paesi ove quel-
lo fu portato dalla conquista; sistema del Fauriel. La ter-
za, che questo nostro vulgare sia il latino anticamente
parlato, non cangiato di essenza e di natura, ma soltanto
modificato dal tempo e dagli accidenti.
Noi intendiamo provare che l'italiano non è se non
l'alterazione naturale della lingua che usava il Lazio an-
tico: sicchè la legge di continuità, dal Leibniz stabilita
nella fisica, e quella dell'evoluzione, oggi in moda, av-
veraronsi anche nell'idioma nostro; non sovvertimenti
improvvisi, ma successivi svolgimenti, conformi ai me-
todi con cui lo spirito umano crea, usa, trasforma la pa-
rola, e perciò somiglianti a quelli d'altri linguaggi. Tale è
la nostra opinione, e cercheremo dimostrarla storica-
mente, seguendo l'alterazione passo passo dall'età arcai-
ca e traverso al medioevo, sin quando, verso il 1200, an-

2
Max Müller, nella Scienza della religione, vede nelle religioni, come nelle
lingue, tre classi: turanica, ariana, semitica. All'ariana spettano il Veda, lo
Zendavesta, il Tripitaka, e le religioni di Brama, Budda, Zoroastro. Alla se-
mitica la Bibbia e il Corano. Alla turanica le religioni di Confucio e Lao-
tse, coi King e col Tao-te-King. Le otto religioni di cui abbiamo i libri sa-
cri, offrono elementi comuni, e hanno specialità distinte: e più che l'unità di
lingua, l'unità di religione mantenne le nazioni. L'antichissima religione
della famiglia turanica può dirsi quella degli spiriti, agenti universali. La
semitica adorò Dio nella storia, cioè come governante le forze della natura.
L'ariana ebbe il culto di Dio nella natura, cioè di Dio manifestantesi dietro i
misteri del mondo fisico. Tutte le famiglie hanno comuni i nomi delle prin-
cipali divinità, e le parole che esprimono gli elementi essenziali d'ogni reli-
gione, come preghiera, sacrifizio, altare, spirito, legge, fede: viepiù questa
comunanza si riscontra nelle singole famiglie, anteriore alla lor divisione in
tanti gruppi.

11
che nelle scritture si adoperò la nuova forma che si co-
stituiva, insieme coll'antica che si sfaceva. E al modo
che l'Ausonia, l'Enotria, l'Esperia si chiamò Italia senza
per questo mutarsi, così la lingua latina cangiò il nome
in italiana. Venuta a mano degli scrittori, i più insigni tra
questi, per un sapiente caso, furono toscani, e adopera-
rono francamente la propria favella, mentre a questa cer-
carono accostarsi coloro che parlavano altri dialetti; on-
de ebbero assicurato al toscano il vanto di lingua nazio-
nale tipica.
Meramente scolastico non crederà questo studio chi
sappia che la storia della parola è storia dello spirito
umano e talora segna le epoche. Questo solo noi voglia-
mo, senza ardire di inoltrarci in quella nuova filologia3,
che studia il linguaggio nelle sue relazioni collo spirito
umano, negli elementi costitutivi delle favelle, nell'inter-
na loro struttura; nell'attenzione ai dialetti, nell'indagine
paleontologica, che tanto innanzi portò la prova della
evoluzione delle lingue, e insieme tanto profittò all'etno-
grafia, all'archeologia, alla conoscenza delle religioni.
Noi ci limitiamo ad uffizio di storici.

3
Possono vedersi BOPP nelle indagini morfologiche, Giacomo GRIMM per le
leggi foniche; POTT per le etimologhe; e così PICHTET, ASCOLI ed altri che
crearono la scienza comparativa delle lingue ariane.

12
§ 2°
Lingue de' prischi Italioti.

Allorchè, sul terminare del medioevo, si rintegrò lo


studio dell'antichità, poteasi rivolgere l'attenzione alle
prische lingue, mentre tanta ne costava il purgare la lati-
na? Ma dopochè la filologia fu ajutata da ricca messe di
nuovi documenti, parve vergogna il porre all'indiano o
all'egizio maggior cura che non ai parlari italiani antichi,
e i dotti vi applicarono quell'assiduità che merita tutto
ciò che avvicina alla cuna d'una lingua com'è la latina,
studiata da tutt'Europa perchè ha monumenti in ogni
paese, dal lembo dei deserti africani sino ai perpetui geli
polari.
Però l'interpretare iscrizioni in favelle che non si co-
noscono e con caratteri per lo meno incerti, richiede cir-
cospezione insieme ed ardimento, quali non sempre ac-
coppiarono i moltissimi che, ai dì nostri, assunsero que-
sto tema4. Le conchiusioni, a cui arrivano questi e gli al-
4
LANZI, Saggio di lingua etrusca, e altre antiche d'Italia. Roma 1789.
VERMIGLIOLI, Antiche iscrizioni perugine, raccolte, dichiarate e pubblicate ecc.
Perugia 1833.
KÆMPFE, Umbricorum specimen. Berlino 1835.
EISCHHOFF, Parallèle des langues de l'Europe et de l'Inde. Parigi 1836.
DOEDERLEIN, Commentatio de vocum aliquot latinarum, sabinarum, umbrica-
rum, tuscarum cognatione græca. Erlangen 1837.
HENOCH, De lingua sabina. Altona 1837.
GROTEFEND, De singularum literarum apud Sabinos ratione.
‒ De lingua græca et sabina.
‒ Quæritur quem locum inter reliquas Italiæ linguas tenuerit sabina.
GROTEFEND, De linguæ sabinæ et latina ratione.

13
tri laboriosi cercatori, differentissime, eppur dimostrate
tutte con altrettanta certezza, attestano che non fu rag-
giunto ancora un vero assoluto, e neppure scientifico. È
pur doloroso che, mentre s'avanzò tanto la cognizione e
dei caratteri e delle lingue egiziana e babilonese e perse-
politana, restiamo così indietro quanto alla etrusca, fino
‒ Rudimenta linguæ umbricæ ex inscriptionibus antiquis enodata. Annover
1839. Interpreta le Tavole Eugubine; deriva il latino dall'umbro.
JANELLI, Tentamen hermeneuticum in etruscas inscriptiones, ejusque fundamen-
ta. Napoli 1840. Gli contraddice RAIMONDO GUARINI.
‒ Veterum Oscorum inscriptiones latina interpretatione tentatæ. Ivi 1841. Di-
chiarò ben cinquecento monumenti etruschi scritti, e ne teneva più di cenqua-
ranta altri. Vedi Bullettino di Corrispondenza archeologica. 1843.
LEPSIUS, De Tabulis Eugubinis. Berlino 1833.
‒ Inscriptiones umbricæ et oscæ quotquot adhuc repertæ sunt omnes, ad ecty-
pa monumentorum a se confecta etc. Berlino 1841.
AVELLINO, Iscrizioni sannite. Napoli 1841.
ZEYSS, De substantivorum umbricorum declinatione. Tilsitt 1847.
AUFRECHT e KIRCHHOFF, Die umbrischen Sprach Denkmähler. Berlino 1849.
Vorrebbero connesso l'umbro col sanscrito.
MOMMSEN, Die unter-italischen Dialekte. Lipsia 1849, con diciassette tavole li-
tografiche e due mappe.
EFFUSCHKE, Monumenti di lingua osca e sabellica (1856), raccolse tutti i fram-
menti di tali lingue, e ne trasse la grammatica e il glossario.
JANSENS, Musæi Lugdensis batavensis inscriptiones etruscæ.
LASSEN, Dissertazioni nel Museo filologico renano.
WILLIAM, Etruria celtica. Spiega la lingua etrusca coll'erso.
EDELSTAND DU MÉRIL, nei Mélanges archéologiques et littéraires (Parigi 1850),
ha una dissertazione sulla formazione della lingua latina, valutando i preceden-
ti indagatori.
DONALDSON, Varronianus. È un'introduzione all'etnografia italiana, e allo studio
filologico del latino.
Tra un'infinità di monografie tedesche, delle quali è assai se pure il nome ci ar-
riva, è a notare intorno ai grammatici latini HERTZ, Sinnius Capito, eine Ab-
handlung zur Geschichte der römischen Grammatik. Berlino 1844; e De P. Ni-
gidii studiis atque operibus. Ivi 1845.
Recentemente applicaronsi a queste ricerche Fabretti, Ascoli, Flechia, ed

14
a non accertare a qual gruppo essa appartenga.
Guglielmo Corssen (Ueber die Sprache der Etrusker,
Lipsia 1874) espone i lavori dei precedenti investigatori,
cominciando dal favoleggiatore Annio di Viterbo, fino
al Risi (Dei tentativi fatti per spiegare le antiche lingue
italiane e specialmente la etrusca, Milano 1863); e ri-
provando lo Janelli, il Tarquini, lo Stickel... che l'etrusco
reputano semitico, e peggio quei che lo danno per arme-
no, o finnico, o celto, o slavo; loda i nostri che, fino al
Conestabile e al Fabretti, adoprarono la comparazione
per attestarlo affine al latino, come egli pure lo crede.
Valendosi dei tanti monumenti scoperti ed esaminati ul-
timamente, e argomentando sull'epigrafia, l'archeologia,
la onomatologia, la fonologia, lo crede idioma flessivo,
di stipite indo-europeo, di famiglia italica, poco diffe-
rente dall'osco, dall'umbro, dal latino, ma più duro, con
inasprimento, e molte consonanti, con caratteri affini
agli altri idiomi italici. Alla sua opinione contrasta
l'autorità di Dionigi di Alicarnasso, che, al tempo
d'Augusto e mentre vivea Varrone, cercando in Roma le
antichità italiche, asseriva che gli Etruschi nel vivere co-
me nel parlare erano dissimili dalle altre genti. In fatti
egli troppo asserisce senza provare le deduzioni ardite, e
noi, dolendoci che non ce ne restino se non iscrizioni di
tombe e qualche specchio, eserciteremo l'ars nesciendi.
Aufrecht, professore di Edimburgo, che col Kirchhoff
esponendo le Tavole Eugubine, vi riconobbe il linguag-

altri che ci verrà occasione di nominare.

15
gio degli Umbri, testè alla Società filologica di Londra
indicò il suo parere sull'indole della lingua etrusca: ed
enumerava il poco che se ne conosce. Ciò sono i primi
sei numerali e loro composti: avils età; ril anni; clan fi-
glio; hinðial spettro; fleres statua; il suffisso al è affine
al latino ali; i suffissi asa, esa, isa, usa indicano i co-
gnomi di donne: p. es. pumpuasa, lecnesa, moglie di
Pomponio, di Licinio: e conchiude che l'etrusco differi-
sce da tutti gli altri linguaggi europei. In precisa opposi-
zione al Corssen è anche W. Deecke (Corssen und die
Sprache der Etrusker, Stuttgard 1875); ribatte tutte le
prove di questo, e crede col Mommsen gli Etruschi un
popolo estraneo agli altri d'Italia5.
Nella lingua sanscrita, che è la classica e sacerdotale
degli antichi Indiani, AVI significa vivere, e RIS tagliare,
da cui il greco ῥαίω, ῥέσσω), il latino rodo e rado, il te-
desco reissen, il russo riezu; RI esprime anche movere,
trascorrere, da cui il greco ῥέω, il latino ruo, il francese
rue, l'inglese ride. Il RIL etrusco potrebbe derivare
dall'uno o dall'altro, considerando l'anno come uno
scorrimento di tempo, o come una divisione.
Altre parole etrusche di non ben sicuro significato so-
no antar aquila, usil il sole, tutas il verbo tutari, lar si-
gnore, nepos lussurioso, clan figliuolo, see figlia. I filo-
5
Il Deecke (Etruskische Forschungen, 1876) troverebbe il c finale equiva-
lere al latino q. que; em all'et; l'al esser terminazione del genitivo: zathrum
cento; mach uno; ci cinque: lautni liberto. Il gesuita Camillo Tarquini, pro-
fessore al Collegio Romano, nei Misteri della lingua etrusca svelati (1857)
pretende che essa sia semitica, e affine coll'ebrea: nè s'accontenta a spiegar
qualche parola, ma tutta la famosa iscrizione di San Manno.

16
logi dalla somiglianza di queste voci con altre d'idiomi
viventi si fanno forti per aggregare l'etrusca alle lingue
indo-europee, anzichè alle semitiche.
Della lingua umbra il monumento principale sono le
Tavole Eugubine di bronzo, scoperte il 1444; cinque
scritte con caratteri etruschi; le due più grandi (che sono
il maggiore monumento di liturgia pagana) con lettere
latine, come pure undici linee d'una terza, che alcuni
non credono appartenere alla serie delle altre; tutte poi
di ortografia, scrittura e linguaggio differenti fra loro in
modo, da farle credere di età diversa; ma non si sa di
quale: nè veruna ragione fa piede alla congettura di Lep-
sius, che quelle scritte con caratteri latini sieno posterio-
ri a quelle d'alfabeto etrusco, e queste appartengano al
sesto, quelle al quarto secolo di Roma. Perfino il chia-
mare umbra la lingua in cui sono scritte è convenzione,
non fondata su d'altro che sul paese dove furono trovate;
anzi la bizzarria delle forme potrebbe trarre a vedervi un
esempio delle scritture arcane, usitate fra i sacerdoti
nell'antichità.
Bizzarrissime interpretazioni se ne diedero, seguendo
il capriccio, anzichè canoni di filologia comparata; Gori,
Lami, Bardetti pretesero leggervi i lamenti de' Pelasgi
per le sciagure sofferte, e tutti vi fanno le più arbitrarie
rimutazioni. Per esempio, in una d'esse Tavole si legge:

CVESTRE TIE VSAIESVESVVVEBISTITISTE TEIES.


Dividono
cuestre tie usaies vesv vvebis titiste teies,

17
per interpretare
cuestor tie οσας vesum vuebis τιθεστε deies
cioè
Questor dicit: quascumque vobis visum est,
constituite dies.

Opinione nuova mise fuori, poco fa, Guglielmo Ben-


tham nell'Accademia reale irlandese; l'antico etrusco es-
sere identico colla lingua iberno-celtica e coll'irlandese,
quale oggi si parla in quelle isole; e conforme a ciò die-
de la versione della quinta e settima delle Tavole Eugu-
bine, prescelte come di materia più importante. Secondo
lui, vi è esposta la scoperta delle isole Britanniche, fatta
dagli antichi Etruschi, e l'uso dell'ago calamitato nella
navigazione. La sesta comincia con invitare a scompar-
tirsi o prendere a fitto le terre occidentali, ove sono tre
isole di suolo ubertoso, con bovi e montoni assai, e
damme negre, oltre miniere e belle acque. La settima fi-
nisce col rammentare che le isole scoperte possono dare
incremento al commercio, protette dal mare contro i ne-
mici, e che offrirebbero asilo qualvolta il loro paese re-
stasse invaso da questi. L'iscrizione fu fatta trecento an-
ni dopo il gran fragore sotterraneo! Dopo il Baldo, il
Van Scrieck, il Dempster, il Maffei, l'Abati Olivieri, il
Passeri, il Gori, il Borgnet, il Lami, venne il Lanzi inter-
pretando qualche passo: Otfried Müller confermò che
non erano in etrusco ma in umbro: Lepsius, celebre egit-
tologo, e Lassen eminente indianista, Grotefend persia-
nista, vi applicarono la nuova linguistica comparativa.

18
Dalla sesta leviamo un brano d'una specie di litania, la
quale mostra un parallelismo ed il ritorno di certi voca-
boli, qual costumava fra gli Ebrei:
Tejo dei Grabove.
Dei Grabovi ocreper fisiv tota per iiovina
erer nomneper erar nomneper fossei pacersei
ocrefisei.
Di Grabovie tio esu bue peracrei pihaclu,
ocreper fisiu totaper iiovina erer nomneper
erar nomneper.
Di Grabovie orer ose persei ocrem fisiem pir
ortom est toteme iovinem arsmor dersecor su -
bator sent pusei neip hereitu.
Di Grabovie persei tuer prescler vasetom est
pesetom est peretom est prosetom est daetom
est tuer perscler viresto avirseto vas est.
Di Grabovie persei mersei esu bue perderei
pihaclu pihafei.
Di Grabovie pihatu ocrer fisier totar iiovinar
nome nerf arsmo veiro pequo castruo fri pihatu
futu fons pacer pase tua ocre fisi tote iiovine
erer nomne erar nomne.
Di Grabovie salvom seritu ocrem fisier totar
iiovinar nome nerf arsmo veiro pequo castruo
frif salva seritu futu fons paver pace tua ocre
fisi tote iiovine erer nomne erar nomne.
Di Grabovie tiom esu bue peracri pihiaclu
ocreper fisiu tota per iiovine erer nomneper
erar nomneper... ecc.
19
Esibiamo la seguente interpretazione come delle me-
no improbabili:
Jovi Grabovi subvoco.
Jovem Grabovem invoco in sacrificio pro tota jovina
(gente), eorum nomine, earum nomine, uti tu volens sis,
propitius sis sacrificio.
Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sa-
crificio pro tota jovina, eorum nomine, earum nomine.
Jupiter Grabovi, hujus rei ergo quoniam ad sacrifi-
cium ignis ortus est toti jovinæ, armi desecti subactique
sint tamquam sacrificio uno.
Jupiter Grabovi, prout pesclos mactare factum est,
positum est, dictum est, mactare pesclos fas jusque esto.
Jupiter Grabovi, disecto eximio bove, piaculo piatus
esto.
Jupiter Grabovi, piamine sacrificiorum totius jovinæ
nominibus, agrûm, virûm, pecus, oppido expiato, fia-
sque volens propitius pace tua sacrificio totius jovinæ
gentis, eorum nomine, earum nomine.
Jupiter Grabovi, salvo satu sacrificiorum totius jovi-
næ nominibus arvûm, virûm, pecudum, oppido satum
sospita, fiasque volens propitius sacrificio totius jovinæ
gentis, eorum nomine, earum nomine.
Jupiter Grabovi, macte esto eximio bove piaculo sa-
crificio, pro tota jovina gente, eorum nomine, earum
nomine.
Si scosta in varie parti e nella lettura del testo e nella
versione il Grotefend, il cui lungo e pazientissimo stu-
dio fu ben lungi dal condurre a risultamenti decisivi: e
20
che così legge e interpreta un brano:
Teio subocav suboco Dei Grabovi, Fisovi
Sansi, Tefra Jovi! ocriper Fisiu, tota per Iiovi -
na, erer nomneper, erar nomneper: fos sei, pa -
cer sei ocre Fisei, tote Iiovine, erer nomne,
erar nomne. Arsie! tio subocav suboco. Dei
Grabove. Asier fritte tio subocav suboco, Dei
Grabove! ecc.
Te bonas preces precor, Jovem Grabovem! Fisovem
Sansium! Tefram Joviam! pro monte Fisio, pro lota Igu-
vina, pro illius nomine, pro hujus nomine, uti sis volens
propitius monti Fisio, toti Iguvinæ, illius nomini, hujus
nomini. Benevole! te bonas preces precor, Jovem Gra-
bovem! Benevoli Fidicia, te bonas precor, Jovem Gra-
bovem!
Meglio Aufrecht e Kirchhoff, con sapienza e tatto
ravvicinando i passi simili, tennero i veri modi di tentare
quella interpretazione, invano conturbata da Huschke, e
spinta innanzi dai più recenti filologi.
Sono gli atti della fratrecate dei frater atijediur, cioè
fratelli attidiani, della città di Attidio, forse il moderno
Attigio, che dirigono preci a varj Dei, alcuni simili, altri
differenti dai romani; se ne prescrivono i riti, e pajono
appartenere al VI o VII secolo di Roma. Hanno qualche
relazione cogli atti de' Fratelli Arvali, che furono quasi
completati da recenti scavi; riferendosi entrambi a un
culto di divinità campestri dell'Italia antica, sopravvissu-
to alla invasione di Roma.
Chi si sgomenta de' libri, può vedere la serie delle ri-
21
cerche e delle scoperte in un articolo della Revue des
Deux Mondes, 1 novembre 1875. L'opera più recente
che conosciamo è BRÉAL, Les Tables Eugubines, texte,
traduction et commentaire, avec une grammaire et une
introduction historique, Parigi 1875.
La lingua più diffusa nell'Italia meridionale era l'osca,
che parlavasi da popolo estesissimo e suddiviso, e fin
nel Bruzio e nella Messapia ove nacque Ennio, il quale,
secondo A. Gellio (XVII. 17), tria corda habere se se di-
cebat, quod loqui græce, osce et latine sciret. Dalle
iscrizioni vi appajono elementi del latino estranei al gre-
co, sotto forme che nel latino perdettero e sillabe e ter-
minazioni, e con flessioni inusitate a quello. Il p si sosti-
tuisce spesso al q, come pid per quid, e forse opici per
equi; l'ei all'i; l'ou all'u; aggiungesi il d a molte voci ca-
denti in o. Gli Oschi dicevano akera, anter, phaisnum,
tesaur, famel, solum, quel che i Latini dissero acerra,
inter, fanum, thesaurus, famulus, solus..... Questa favel-
la, se crediamo a Klenze, non ebbe fondamentale diffe-
renza dalla latina, talchè se avessimo libri scritti in essa,
potremmo, se non tutte le parole, intenderne però il sen-
so. A Roma si poneano iscrizioni in quella lingua; Plinio
dice che scriveasi sulle case arse verse, cioè arsionem
averte; e si continuò a rappresentare burlette in osco,
delle quali il popolo si spassava grandemente. Strabone
ancora al tempo di Tiberio scriveva, nel v della Geogra-
fia: — Benchè sia perita la gente degli Oschi, la loro fa-
vella resta fra i Romani, talchè si recano sulla scena cer-
ti canti e commedie in una gara che si celebra per antica
22
consuetudine». E forse l'osco era il parlare fondamentale
dell'Italia, cioè del vulgo; e sempre visse fra questo an-
che quando le persone colte e gli scrittori adopravano il
latino, per poi prevalere allorchè le sventure scemarono
la coltura e allontanarono la Corte: talchè sarebbe esso il
vero padre del nostro vulgare.
Marsi, Sabini, Marrucini, Piceni parlavano il sabelli-
co, che forse era identico col volsco, ma differiva dal
sannita, il quale era osco, giacchè Tito Livio ( X. 20) dice
che, per esplorare l'esercito sannita, furono mandati uo-
mini, gnari oscæ linguæ. Varrone invece farebbe solo
affini le due favelle, dicendo che sabina usque radices
in oscam linguam egit (De lingua lat., VI. 3). Anche i
Volsci dovevano differirne in qualche cosa, poichè Titi-
nio poeta, contemporaneo del prisco Catone, in un passo
riferito da Festo alla voce Oscum, scrive che i popoli
abitanti intorno a Capua, Terracina e Velletri obsce et
volsce fabulantur, nam latine nesciunt. I Bruzj parlava-
no osco e greco, onde dicevansi bilingues Brutiates
(FESTO). Citano la voce hirpus, lupo, come comune ai
Falisci ed ai Sanniti (DIONIGI D'ALICARNASSO, I. 21). Ser-
vio attribuisce ai Sabini la parola hernæ, rupi, e Varrone
la voce multa (multæ vocabulum non latinum sed sabi-
num est; idque ad meam memoriam mansit in lingua
Samnitium, qui sunt a Sabinis nati; lib. XIX); e informa
che, invece di farena, diceano hasena (VELIO LONGO
grammatico), e tebas i colli; dall'embratur de' Sabini de-
riva l'imperator de' Romani. Infine, secondo Livio, i Cu-
mani chiesero ut publico loquerentur, et præconibus la-
23
tine vendendi jus esset (XL. 42): il che prova che fin a
quell'ora aveano usato lingua propria. I Marsi adottava-
no i caratteri romani e la lingua latina: i Sabini conser-
varono sempre l'osca.
Del dialetto volsco quest'iscrizione fu trovata a Velle-
tri, sul cui significato fu molto discusso fra Lanzi, Orio-
li, Guarini, Janelli ed altri:
Deve Declune statom sepis atahus
Pis velestrom fak esaristrom se
Bim asif vesclis vinu arpalitu sepis ‒ toticum
covehriu
sepu ferom pihom estu ec se cosrties ma ‒ ca
tafanies
medix sistiatiens.

Più facile a dicifrarsi parve questa osca, da Avella


portata nel seminario di Nola, e illustrata dal Passeri,
Simbole Goriane, tom. I:

Ekkuma... tribalac... liimit.... herekleis ‒


Ecce tribus limites herculis
-fissnu mefa ist entrar
fanum demensa est intra
einuss pu amf derl viam pusstis pui-
fines post circum per viam posticam per
ipisi pustin slaci senateis inim ink tri-
ipsius ibi loci senatus unum jugum tria
-barakinf
brachia
aufret puccahf sekss puranter teremss irik
24
aufert pauca sex puriter termini hircus
ecc.

Sul pendaglio d'una bella statua di bronzo, dissepolta


presso Todi nel 1835, si trovarono parole, le quali (a la-
sciar via le fantasie e le arguzie) furono diversissima-
mente interpretate dai dotti. Il bibliotecario Cicconi, ri-
correndo al greco, tradusse: Io lungamente tempestato
in mare, offersi; il Campanari spiegò dapprima Ahala
legato in onor di Marte offriva, dappoi: Ahala figlio di
Trottedio il Marte Fonione dedicò; il padre Secchi divi-
nò: Aveial Quirinus Vibii f. nomine Vibius; il Lanzi
coll'ebraico intese: Acco da Todi e Tito effigiarono il si-
mulacro della Vittoria; il Vermiglioli: Aeia L. Trutinus
punu mi vere, cioè Aeia figlia di Trutino pongo sono ve-
ro; il De Minicis, Trutino Fono figlio di Aeia fece. Tanto
vacilla ancora la paleografia italiota.
Nella guerra Sociale, ultima riazione degl'Italiani
contro il predominio di Roma, i popoli collegati assun-
sero per pubblico decreto il linguaggio natìo, e l'adopra-
rono nelle monete (LANZI, Disc. proem. alla Galleria).
Tardi poi visse l'etrusco: e che differisse molto dal latino
lo prova quel passo di A. Gellio, ove si narra che, aven-
do uno detto apluda e floces, voci antiquate, gli astanti,
quasi nescio quid tusce aut gallice dixisset, riserunt (XI.
7). Quintiliano (Inst. orat., I. 9), trattando delle parole
non di lingua, scrive: Taceo de Tuscis, Sabinis et Præ-
nestinis quoque; nam ut eo sermone utentem Vectium
Lucilius insectatur, quemadmodum Pollio deprehendit

25
in Livio patavinitatem. Chi potrà ora determinare quelle
differenze di dialetti? Tanto più che gli antichi non ave-
vano raggiunto il sentimento della natura delle lingue, e
dell'illustrazione che da esse deriva all'indole dei popoli,
sicchè vi scorgessero un interesse filosofico; laonde,
non si fermando sui caratteri essenziali di somiglianza,
faceano dell'idioma di ciascuna città indipendente una
lingua a parte, designata col nome degli abitanti.
Ariodante Fabretti, davanti al Glossarium italicum, in
quo omnia vocabula continentur ex umbricis, sabinis,
oscis, volscis, etruscis, ceterisque monumentis quæ su-
persunt collecta (Torino 1857) dice: «In una materia co-
sì difficile sarebbe strano desiderare un lexicon alla fog-
gia delle lingue conosciute, antiche o moderne; concios-
siachè accanto alle voci di sicura spiegazione avvene
molte che resistono alla critica, e non permettono che
congetture. Non tutte le voci sono chiarissime nel signi-
ficato al pari delle umbre: karne carne, vinu vino, pur-
ka porca, sif sues, vitlu vitulo, est est, fetu facito, se-
ritu servato, peturpursus quadrupedibus, alfir albis,
rofa rufa, salvom salvum, karu coram, prufe probe,
nomneper pro nomine, pupluper o popluper pro po-
pulo ecc.; ‒ delle osche: aasas aras, dolud dolo, ligud
lege, genetaí genitrici, kvaísstur quæstor, regaturei
rectori, aíkdafed ædificavit, deicum dicere, fefacust
fecerit, herest volet, prúfatted probavit, set sit, alt-
tram alteram, pús qui, amiricatud immercato, malud
malo, anter inter, contrud contra, inim enim, nep ne-
que ecc.; ‒ e delle etrusche: etera altera, clan natus,
26
phuius filius, avils ætatis, turce donum, tece posuit,
ecc. Un gran numero di vocaboli, ripetuti o modificati,
varrà, se non altro, a fermare certe leggi eufoniche che
governano gli antichi idiomi italici; ed alcuni nomi, che
è bene conoscere, dovranno entrare quando che sia nei
dizionarj della latina favella, come quelli delle tuscani-
che divinità Tina Juppiter, Thalna Diana, Turan Ve-
nus, Menrva Minerva, Sethlans Vulcanus; o passati di
Grecia in Etruria, come Aplu Apollo Turms Ἑρμῆς,
Thethis Thetis, oltre una folla di greci eroi, quali Her-
cle Hercules, Achle Achilles, Achmemrun Agamem-
non, Clutumita Clytemnestra, Menle Menelaus, Nep-
tlane Neoptolemus, Pentasila Penthesilea, Urusthe
Orestes ecc.
«Un'opinione male accreditata e la pubblicazione di
certi alfabeti antichi d'Italia guasti ed errati, fanno dire a
molti che nulla s'intenda delle vecchie epigrafi degli
Osci, degli Umbri e degli Etruschi; eppure ad ogni passo
si offrono chiare intere locuzioni. Nelle Tavole Eugubi-
ne per esempio: PVSEI. SVBRA. SCREHTO. EST uti
supra scriptum est; VITLV. TORV. TRIF. FETV vitulos
tauros tres facito; SALVA. SERITV. FVTV FOS (o
FONS). PACER PASE TVA. OCRE FISI TOTE IOVI-
NE. ERER NOMNE. ERAR NOMNE salva servato,
esto volens, propitius pace tua, colli Fisio civitati Iguvi-
næ, ejus (colli) nomine, ejus (civitatis) nomine; ‒ e nella
tavola osca di Banzia SVAE PIS CONTRVD EXEIC
FEFACVST si quis contra hoc fecerit: PIS CEVS BAN-
TINS FVST qui civis Bantinus fuerit. Nella epigrafia
27
etrusca un gran numero di leggende funerarie, più pre-
ziose se bilingui come questa
‒ P. VOLVMNI-
VƧ A. F. VIOLENS CAFATIA NATVS, ci dà una serie
di nomi di famiglie, che verosimilmente passarono
dall'Etruria in Roma, od hanno colle romane un riscon-
tro storico e filologico; anzi taluni di questi nomi rivela-
no altrettanti vocaboli dalla lingua parlata dagli abitatori
della media Italia, come i gentilizj cantini, capras,
crace, crespe, plaute, pumpu, senate, spurie, sa -
cria, salvis, vitli, ecc. Anche qualche etimologia,
professata ab antico, viene raddirizzata col soccorso
delle etrusche inscrizioni; per esempio la voce od
(usil), che in due specchi metallici indica il Sole
od Apollo, ivi rappresentato co' suoi attributi, ci ricon-
duce alla famiglia degli Auseli (Aurelii) a sole dictam
(PAUL., pag. 23, ediz. Müller) ed alla radice sanscrita
svar, forma primitiva di sur (splendere), respingendo il
detto di Cicerone (De natura Deorum, II. 68): Cum sol
dictus sit, vel quia solus ex omnibus sideribus est tantus,
vel quia cum est exortus, obscuratis omnibus, solus ap-
paret.
«La fratellanza dei vetusti dialetti sparsi in Italia, ri-
conosciuta dai segni alfabetici, si dimostra meglio coi
ripetuti raffronti delle voci umbre ed osche ed etrusche
in tra loro e coll'idioma latino; così l'osco deded, e con
etruschi caratteri tetet, era tez nell'Etruria e forse dede
nell'Umbria, dedet e dede (dedit) nelle bocche del po-

28
polo romano. Con gl'idiotismi ed arcaismi che occorro-
no spesso nella latina epigrafia, si avranno argomenti
per discorrere fondatamente intorno alla origine della
lingua italiana, più remota di quel che generalmente non
credesi: moltissime forme popolari verranno innanzi,
raccolte dai monumenti de' più bei tempi di Roma re-
pubblicana e dai modesti funebri ricordi dei primi marti-
ri della Chiesa».

29
§ 3°
Origini del latino.

Le primitive lingue italiche traggono interesse quasi


unicamente dalla loro connessione colla latina, la quale,
per quanta sia l'importanza del greco e degli idiomi asia-
tici, resta la più meritevole dell'attenzione di chiunque
fida negli insegnamenti della storia, come quella (dice
Du Méril) che meglio parve opportuna alla tradizione
delle idee altrui, e ad iniziare alla scienza del passato;
sicchè costituisce quasi un ponte fra l'antico mondo e il
nuovo. Lo studio filosofico del latino, risalendo alle sue
fonti e accompagnandone gli svolgimenti, dovrebbe
dunque essere introduzione allo studio dei suoi monu-
menti letterarj.
I dubbj sulla origine di esso sono cresciuti da certe
metafore incoerenti di lingua madre o lingua figlia. Non
volendo qui fare che da storici, ricorderemo come il car-
melitano Ogerio6 voleva dedurre il latino dall'ebraico:
frà Paolino di San Bartolomeo7 e Klaproth8 dal sanscri-
to, e in generale dalle lingue orientali; nel che concorda-

6
Græca et latina lingua hebraizantes, seu de græcæ et latinæ linguæ cum
hebraica affinitate. Venezia 1764.
7
De latini sermonis origine, et cum orientalibus linguis connexione. Roma
1802.
8
Asia polyglotta, p. 45.

30
no Calmberg9, Madvig10, Prasch11, Jäkel12. Vi fu persino
chi lo tirò dallo slavo13; nè era a credere vi facesse fallo
la scuola un tempo di moda dei Celtisti; onde il Funcke
pronunciò l'avola della latina lingua essere sconosciuta,
madre la celtica, maestra la greca 14. Oltre i già citati Do-
naldson e Edelstand Du Méril, abbiamo molte monogra-
fie di Tedeschi, fra le quali vogliamo distinguere i saggi
di Hertz intorno ai grammatici latini15.
L'artificio dei ciurmadori consiste nell'offrire un solo
aspetto; gli scolari ignoranti e i leggicchianti si lasciano
convincere, perchè non sanno che le medesime ragioni
appoggiano anche assunti diametralmente opposti. Fatto
è che il latino appartiene alla grande famiglia delle lin-
gue indo-europee. Perocchè dalle falde dell'Ecla fino al-
le rive del Gange, una folla di popoli, disgregati gli uni
dagli altri per secoli, quai civili, quai barbari, quali
oscuri, quali famosi, parlarono e parlano ancora lingue
estremamente diverse a prima vista, ma d'incontestabile
parentela, giacchè non solo hanno comune un certo nu-
mero di radicali, ma la grammatica di ciascuna ha pro-
9
De utilitate, quæ ex accurata lingua sanscrita cognitione in linguæ gracæ
latinæque etymologiam redundat.
10
Om kjönnet i sprogene isaer i sanskrit latin og graesh. Berlino 1836.
11
De origine germanica linguæ latinæ. Ratisbona 1686.
12
Der germanische Ursprung der lateinischen Sprache und des römischen
Volks. Breslavia 1830.
13
Osservazioni sulla somiglianza fra la lingua dei Russi e quella dei Ro-
mani. Milano 1817.
14
De origine linguæ latinæ, cap. I.
15
HERTZ, Sinnius Capito, eine Abhandlung zur Geschichte der römischen
Grammatik. Berlino 1844; e De P. Nigidii studiis atque operibus. Ivi 1846.

31
fonde analogie colle grammatiche di tutte le altre, anzi
tutte ne formano propriamente una sola. Al sanscrito,
che di essa grande famiglia sta in capo, seguono come
derivati l'antico e moderno persiano, il greco, il latino
con tutti gli idiomi da questo rampollati, italiano, fran-
cese, spagnuolo, ecc.; infine gli idiomi germanici, gli
slavi, e sino i celtici16.
16
Nella Grammatica comparata di Bopp sono date per lingue sorelle il san-
scrito, lo zendo, l'armeno, il greco, il latino, il lituano, l'antico slavo, il goti-
co, il tedesco.
Certamente nella lingua sanscrita, nella quale si cercano le etimologie delle
europee appartenenti al gruppo che intitolano indo-germanico, può trovarsi
l'origine o la somiglianza di molte fra le più usuali e semplici voci del lati-
no, e in conseguenza dell'italiano; di che ci si lasci qui produrre un saggio.
Crediamo inutile lo scaltrire che in tali indagini non deve badarsi alle voca-
li, che sono carattere accidentale, ma alle consonanti, forma costitutiva.
Adja hodie, agnis ignis, aicadaçan undecim, anilas anima, antaras alter,
antran antrum, asmi sum, asi es, asti est, bhràtar frater, cadà quando, ça-
tam centum, catur quatuor, idam idem, iti et, ittham item, jalad gelu, kas,
ka kad, qui, quæ, quod, kulam collis, màm, me me, masa mensis, mat meus,
màtar mater, vàri mare, catvarinçat quadraginta, cva quo, çvas cras, daçan
decem, daçamas decimus, dadami, dadasi, dadati do, das, dat (δίδωμι),
dhara terra, djana genus, dina, divas dies, dvadaçan duodecim, dvi duo, ad
edo, ganitar genitor, vartate vertitur, vas vos, vàtas ventus, vid video, vi-
nçati viginti, viras vir.
Ecco nomi di animali e piante: acvas equus, hansas anser, mar mori, na,
nau non, nabhas nubes, nàman nomen, naus navis, mavamas nonus, navan
novem, niç nox, nu nunc, palvala palus, pitar, tàta pater, putra puer, pra-
thamas primus, santi sunt, sjàta sitis, saptan septem, sas sex, sastas sextus,
saptati septuaginta, sjàm sim, sjàma simus, sjàs sis, sjàt sit, sjus, sint, smas
sumus, stha estis, svas suus, suta satus, svanas sonus, tan tendo, tistati stat,
tri tres, trinçat triginta, tvan tu, te, tvat tuus, vahati vehit, vamati vomit,
muran murus, nidas nidus, patra patera, pulas pilum, ràs res, sala aula (sa-
la ital.), vahas veho (via), vallas vallus, alitas altus, camat amans, anaicas
iniquus, candat candens, deiram durus, miçritas mixtus, madhjas medius,
maduras maturus, malas malus, malinus malignus, mertas mortuus, avis
ovis, calamus calamus, cauchilas cuculus, çvan canis, maxica musca, mu-

32
Che il latino sia figlio del greco sostennero gli anti-
chi, massime dacchè, coll'imitare gli autori greci, si ven-
ne a ravvicinarlo17. Ma il vocabolario ha le origini stesse
che le tradizioni e la vita d'un popolo, e la lingua non
può essergli imposta da una potenza estrania alla sua vi-
ta. Molte voci latine derivano dal sanscrito senza passa-
sas mus, paçus pecus, palas palea, pikas picus, sarpas serpens, stariman
stramen, ulukas ulula, varahas verres.
Quanto al corpo: caisaras cæsaries, capalas caput, çiras cranium, cirrajas
cirrus (crinis), cucsas coxa, dantas dentes, galas gula, janu genu, jakert je-
cur, lapas labium, nasa nasus, pad pes, pannas penna, tantus tendo.
E così in altri oggetti: calacas calyx, cùpas cupa (coppa ital.), dhaman do-
mus, matram metrum, tapat tepens, uttas udus, varmitas armatus, yuvan ju-
venis.
Nelle parole composte, ove i Latini pongono a, in, inter, ab, præ, il sanscri-
to colloca à, ni, antar, apa, pra; onde: acar accurro, ada addo, alig alligo,
antarbhù interfui, antari intereo, apai abeo, apasthà absto, atul attollo, ni-
dic indico, mùcas mutus, navas novus, prativid providus, putas putis, sa-
kias socius, sudin sudus, svàdus suavis, nisad insideo, nisthà insto, pradà
prodo, pradic prædico, prasad præsideo, prasthà præsto.
L'a nega in sanscrito come in greco; una di quelle particolarità, che
dell'analogia di due lingue fanno prova ben più che cento parole conformi.
17
Lingua latina, si exceperis ea quæ vel ex primogenia lingua retinuit, vel
a vicinis Celtis accepit, tota pene fluxit a Græcis, dice Vossio (De vitiis
sermonis, præf.); Scaligero, nel commento su Festo, eamdem pene cum ve-
teri græca veterem linguam fuisse; e Grozio, est veterum Latinorum lingua
tota græcæ depravatio. Di Döderlein si ha un commento sulla parentela
greca delle voci latine, sabine, umbre, tusche. Walchio, tenuto come il mi-
gliore storico della lingua latina, asseriva che, usque ad Numam Pompilium
græca lingua magis quam latina viguit, quoniam primi urbis incolæ græci
fuerunt.
Neppur oggi difettano eruditi, i quali a tutte le lingue italiche cercano spie-
gazioni dal greco, e vaglia per altri De Gournay nella dissertazione sul
Canto dei Fratelli Arvali. Caen 1845. Ma l'indipendenza del latino dal gre-
co propugnarono recentemente LASSEN, Beiträge zur Deutung der eugubini-
schen Tafeln; POTT, Forschungen auf dem Gebiete der indo-germanischen
Sprachen; KUHN, Beiträge zum ältesten indo-germanischen Völcker, e altri.

33
re pel greco; e fin nomi che più tenacemente si conser-
vano perchè più aderenti alla famiglia: onde soror da
svasar che in greco è ἀδελφὴ, frater da bhràtar: vidua
da vidhavà, che in greco è χήρη: puer da putra: juvenis
da juvan: vir da vira, che i Greci dicono παῖς, νεανίας,
ἀνήρ.
Nella costruzione grammaticale, al latino vennero dal
sanscrito senza intermedio del greco la terminazione in
bus del dativo plurale, e in i del genitivo singolare, e
quelle in bilis, bundus, brum, viepiù notevoli perchè il b
occorreva rarissimo nel latino prisco. Il latino proceden-
do s'avvicinò al greco, anzichè se ne scostasse: Tirone 18
dice che veteres Romani græcas literas nesciverunt, et
rudes græca lingua fuerunt; Festo aggiunge, che nel
quinto e sesto secolo storpiavano i nomi ellenici, nec-
dum adsueti græcæ linguæ.
Effettivamente nel latino possono discernersi due ele-
menti; uno originale, uno affine al greco, benchè abba-
stanza distinto da quello. Massimamente s'accosta al
dialetto eolico, con affettazione di accento; onde Dioni-
gi d'Alicarnasso disse che «i Romani parlano lingua nè
affatto barbara, nè del tutto greca, la cui maggior parte è
dall'eolico»19. Asserì alcuno che nel latino derivino dal
greco le parole di economia domestica e rurale, non
quelle attenenti a guerra e a governo. Sarebbero delle
prime bos, vitulus, ovis, aries, e arvigna, agnus, rus, ca-
18
Presso A. Gellio, XIII. 9.
19
Ῥωμαῖοι δὲ φωνὴν μὲν οὔτ' ἄκραν βάρβαρον οὐδ' ἀπηρτισμένως Ἑλλάδα
φθέγγονται, μικτὴν δέ τινα ἐξ ἀμφωῖν, ἧς ἐστιν ἡ πλείων Αἰολίς. I. 90.

34
per, porcus, pullus, canis, ager, silva, aro, sero, vinum,
lac, mel, sal, oleum, lana, malum, ficus, glans; oltre for-
ma travolto da μορφή, repo da ἕρπο, specto da σκοπέω:
mentre non hanno a fare col greco tela, arma, currus,
lorica, scutum, hasta, pilum, ensis, gladius, sagitta, ja-
culum, clypeus, cassis, balteus, ocrea; nè i termini fo-
rensi jus, lis, forum, mutuum, vas, testis; nè rex, popu-
lus, plebs20; ἄριστος diceano i Greci l'uom migliore, da
Ἄρες dio della guerra: optimus lo dicono i Latini, da
opes ricchezza. Chi peraltro da ciò volesse, come il Nie-
buhr, arguire che una popolazione aborigena pacifica vi
rimanesse soggiogata da una bellicosa, ricordi che in
tutte le lingue indo-europee trovasi somiglianza de' ter-
mini riferentisi alle pacifiche occupazioni, mentre sono
più speciali di ciascun popolo quelli di caccia e guerra.
Inoltre l'asserzione del Müller è troppo assoluta, giac-
chè vitulus (ἴταλος) non si trova che nel dialetto sicilia-
no, ove molte parole italiche introdussero gli Enotri; e
vacca, mulus, juvencus, verres non hanno a fare col gre-
co; agnus e aries sono troppo stiracchiati da ἀρνός e da
κριός: asinus ed equus poco tengono a ὄνος e ἵππος; e
πῶλος nel senso ristretto di pullus è poco antico: mentre
invece equus somiglia al sanscrito AÇVA, pecus a PAÇV,
ovis ad AVI, canis a ÇVAN, anser a HANSA; e con parole
tutt'altro che greche si esprimevano i prodotti dell'agri-
coltura, ador, avena, cicer, faba, far, fœnum, hordeum,
seges, triticum. Nei pochi frammenti rimasti di Epicar-

20
OTTFRIED MUELLER, Die Etrusker, tom. I. 3. nota 21.

35
mo e Sofrone siciliani s'incontrano altre voci ignote al
greco e affini al latino, γέλα gelu, κάρκαρον carcer,
κάτινον catinus, πατάνα patina21.
Ma derivate da ceppo comune, le lingue italiche, col
lungo errar de' popoli, col lasso del tempo, colle mesco-
lanze, si alterarono in modo, che differente parlarono gli
Umbri, gli Osci, i Volsci, i Sabini 22. Noi crediamo che le
21
Possono aggiungersi κάμμαρος (EPICH., 35), κάμπος (ESICHIO), κλάξ cla-
vis (THEOCR., XV. 33), γάρυω garrio (THEOCR., VIII. 77), νόμος e νοῦμμος
(EPICH., 92. 93), θήρ ferus (THEOCR., XXIII. 10), ῥόγος rogus (POLLUCE, IX. 45),
πεντόγκιον (EPICH., 5). E vedi AHRENS, De dial. dor., I.
Alcune parole latine trovansi già nel greco de' Siciliani. Così essi dicevano
μοιτός quel che i Latini mutuus (Mutuum, quod Siculi μοῖτον. VARRONE, de
L. L., V. 36), dicevano πανός il pane (ATENEO, L. III) e πόλτος la polta, la
quale (secondo PLINIO, XVIII. 8, 19) videtur tam puls ignota Græciæ fuisse,
quam Italiæ polenta.
È notevole che le colonie calcidiche e dorie chiamavano νόμος il denaro
d'argento (nummus) ed ἡμίνα la misura che diceasi hemina nel Lazio; e così
i nomi di libra, triens, quadrans, sextans, uncia, riferibili a pesi e valori,
passarono nel greco di Sicilia, ove diceasi λίτρα, τριᾶς, τετρᾶς, ἑξᾶς,
οὐγκία.
22
Non devono cercarsi le etimologie nelle lingue lontane, finchè non siansi
esaurite le ricerche nelle vicine. Ciò viepiù ne fa dolere che sì scarsamente
conoscansi le prische lingue italiote. Sarebbe a sperare gran lume dall'opera
di Terenzio Varrone, che già ottagenario scrisse i libri De lingua latina, e
non si cessa di deplorarli come tesori di filologia; ma se dei quattro perduti
argomentiamo dal quinto e sesto che ci rimangono, non troppo dovremmo
promettercene. Egli non ne rintraccia le origini nelle anteriori, che pure al
suo tempo rimanevano ancora sulle bocche; tutt'al più ricorre al dialetto eo-
lico, che somiglia al latino quanto a questo l'italiano. E mentre negli idiomi
non si fa che imprestare e derivare, egli suppone che i Latini creassero o
piuttosto componessero il proprio, sicchè d'ogni loro parola trae l'etimolo-
gia da altre latine. Pertanto deriva terra da terere, spica da spes perchè è la
speranza del ricolto, frater da fere alter, un altro se stesso, legume da lege-
re, perchè si raccoglie ne' campi, capra da carpere, venus da venire, via da
vehere, humor da humus, amnis da ambitus, lectus da legere perchè si rac-
colgono gli strami su cui dormire, fœnus da fœtus perchè il denaro a interes-

36
varie lingue dell'Italia meridionale fossero tutte dialetti
d'una sola, ciascuna ritenendo però alcune parole e for-
me proprie, e tutte contribuirono alcun che alla forma-
zione o trasformazione del latino. Grotefend 23 forse esa-
gerò l'influenza che ebbero in ciò i prischi idiomi italici,
massime l'osco; ma, per quanto questo restasse comune,
un'altra lingua, che, almeno nella pronunzia, ne differiva
assai, dovette contribuire a formare il latino, se in que-
sto vediamo al P degli Oschi e de' Greci surrogato sì
spesso il Q fino in nomi proprj, come ἵππος equus, da

se ne partorisce dell'altro, quasi fœtura quædam pecuniæ parientis: soror


da seorsum perchè le figliuole van fuori di casa; cœlibes da cœlites perchè
son beati, vindicta da vim dico, al modo che judex viene da jus dico.
A questo meschino metodo si attennero gli altri Romani: onde Cicerone di-
ce così nominata la legge quia legi soleat, e Neptunus a nando, e la luna a
lucendo; Catone deriva locuples dai luoghi che i ricchi possedono, e pecu-
nia dalle pecore che v'erano improntate; Servio, la segale da seco, il libro,
corticis pars interior, a liberato cortice, i mantili a tergendis manibus; Pli-
nio deduce vello da vellere perchè le lane si strappavano; Festo, pratus per-
chè paratus alla mietitura, immolare da mola, idest farre molito; Ulpiano
dice il legato così chiamarsi quod legis modo testamento relinquitur, e i li-
beri quia quod libet facere possunt; e Isidoro, mulier a mollitie, vena quod
sanguinem vehit, venenum quod per venas vadit, carmen da carere mente;
Minerva da munus artium variarum. Noi pertanto non facciamo gran conto
di quelle etimologie che, pel dizionario del Tramater, Pasquale Borrelli an-
dò a ripescare nel persiano. Oltre che bisognerebbe dimostrare donde venne
la parentela dei Persi coi Latini, ognun sa che il persiano è lingua relativa-
mente moderna, e ci ritorna ancora alla derivazione comune, cioè al san-
scrito. Migliore è il lavoro comparso a Bonn (1855-64) col titolo: JOHANNIS
AUGUSTI VULLERS, Lexicon persico-latinum etymologicum, cum cognatis lin-
gua sanscrita imprimis et zendica et pehlevica comparatum: ove, oltre
l'interpretazione latina, dà le forme più antiche che illustrano il persiano.
23
Lateinische Grammatik, II. 194. Vedi nello stesso assunto DORN, Ueber
Verwandschaft der persich-germanischen und griechisch-lateinischen
Sprachstammes, p. 88.

37
ἔπω sequor, da ἦπαρ jecur, da λείπο linquo, da κόπυς
coquus, da Ταρπίνιος Tarquinius, ecc. Schwegler24 persi-
ste nel considerare la lingua latina come mista di due
dialetti italici, affini tra loro. Ma i linguisti più speri-
mentati, qualora una lingua sia presentata come una
transizione fra due altre, la riguardano come uno svilup-
po organico, anzichè una reale mescolanza. Certo non vi
si riscontra l'elemento sabino.
Il latino conservava dalle lingue precedenti alcune
flessioni, che riescono anomale nell'organismo suo: così
memini, odi, cæpi, novi, di forma pelasgica: il sum e
possum di forma ariana: i verbi deponenti e comuni, che
forse, negli antichi parlari, precedettero il verbo attivo,
non essendo naturale che si inventasse una forma passi-
va ad esprimere quel che già dava l'attiva. Così perdette
l'aoristo, il duale, salvo nei nomi duo, ambo, uterque;
perdette il caso locativo, salvo humi, belli, domi, mili-
tiæ. Della radice es si perdette la vocale, restando sum,
sumus, sunt, invece di esum, esumus, esunt, e la conser-
vò in eram, essem, esse: e sopprimendola affatto in fui,
fuisse.
Noi più volentieri consideriamo il latino, non come
una miscela di varie lingue italiote 25, contratte, accorcia-
24
Storia Romana, I. 184, 193.
25
Max Müller (Historisch-kritische Einleitung zur nöthiger Kenntniss und
nützlichem Gebrauche der alten lateinischen Schriftsteller. Dresda 1847-
51) vuole che una lingua che appartenga a due famiglie differenti, non già
per le parole ma per la sintassi, è impossibile: nessuna radice fu aggiunta
alla sostanza d'una lingua, come nessun atomo al mondo materiale; tutte le
modificazioni non furono che di forma, sicchè la storia delle lingue è piut-

38
te, addolcite al modo che fanno sempre le più moderne,
ma come germogliato, al pari del greco, da altri polloni
del tronco indo-europeo; sviluppato diversamente, come
succede nelle individualità. La costituzione romana, per-
soneggiata fin nella origine in una banda di fuorusciti di
varj paesi, che si cercano mogli in un'altra gente, poi
ammettono alla cittadinanza i Sabini, gli Albani, indi i
Latini tutti, poi tutti gli Italiani, infine la classe eletta di
tutto il mondo, rinnovava di continuo gli elementi civili,
ma insieme doveva portare alterazioni nella favella
(Μυρίa ὅσα οὔτε ὀμόγλοσσα, οὓτε ομοδίαιτα. Dionigi,
I. 7).
Secondo Mommsen, sette alfabeti appajono nelle pri-
sche iscrizioni: il greco delle colonie, l'etrusco, il pela-
sgico, un antico che sta di mezzo fra l'etrusco e il pela-
sgico, l'umbro, il sabellico, il latino.
Sembra che il primo modo di scrivere de' Latini fosse
quello che intitolano bustrofedon, pel quale, giunti al
termine d'una linea da sinistra a dritta, si ripiglia la se-
guente da dritta a sinistra, a modo del bifolco nello ara-
re. Da ciò chiamavasi versus la linea, e arare, exarare,
sulcare lo scrivere.
L'alfabeto latino era mal determinato da principio: si
scambiavano le vocali: alcune lettere avevano espressio-
ne diversa; altre più d'un valore, come vedremo più

tosto quella della loro decadenza che del loro sviluppo.


Il Corssen, Ueber Aussprache, Vokalismus und Betonung der lateinischen
Sprache (Lipsia 1868-70) è ritenuto canone per lo studio scientifico del la-
tino, in relazione coll'osco, coll'umbro.

39
avanti: a molte parole finite per vocale si soggiungeva
n, d, t (men, allod, marit, per me, alto, mari): le conso-
nanti non si raddoppiavano, bensì talvolta le vocali per
esprimere le lunghe, come juus, feelix: le brevi erano
spesso fognate nella consonante che le precede, come
krus, cante, per carus, canite; e più spesso l'i, come
ares, evenat, per aries, eveniat; e le m, n, s, onde Pope-
ju, cosul, cesor, per Pompejus, consul, censor: i ditton-
ghi ei per i, ai per æ sono frequentissimi, come Juno-
neis, sei, altai. Vuolsi che solo a mezzo il sesto secolo
introducessero il g, non avessero il p nè il q, e invece
della r usassero la s o il d; tardi certamente furono ado-
prate le k, y, x, z pei nomi forestieri; invece del b si trova
in principio di parola dv e nel mezzo p, come dvellum
per bellum, optinvit: la m finale si sopprime spesso,
massime quando seguita da nome cominciante per voca-
le, forse perchè si pronunziava nasalmente come l'on e
l'en nel francese e nei dialetti lombardi.
Nelle iscrizioni antiche la L somiglia alla greca, qual
faceasi ne' prischi monumenti cioè V; e che poi si mutò
in A. Gli Eolj usavano un'aspirazione che indicavano col
digamma F: questo non appare mai nell'alfabeto attico:
eppure come cifra ha il sesto posto e la significazione di
sei , poi passò nell'alfabeto latino come f. Segno
d'aspirazione era anche la H, ma scompare nei monu-
menti posteriori; solo rimase come lettera nel latino. Il
Q, ignoto ai Greci, deriva dal coph fenicio, che come
cifra numerica era pure usato nella scrittura attica.

40
Tacito e Quintiliano si accordano nel dire che l'impe-
ratore Claudio aggiunse tre lettere all'alfabeto latino,
delle quali sono conosciute il digamma eolico e l'anti-
sigma. Il primo era un F capovolto ed equivaleva a V,
per esempio TERMINA IT, AMPLIA ITQUE, DI I AUGUSTI.
L'antisigma faceva le veci dello Ψ greco (psi), e scrive-
vasi ƆC. La terza lettera alcuni pretendono fosse il dit-
tongo AI, che trovasi nella maggior parte delle iscrizioni
del tempo d'esso Claudio, come ANTONIAI, DI AI, ma
siam certi che era usato molto prima. Altri da un passo
di Velio Longo hanno voluto inferire male a proposito,
che cotesta lettera servisse solo a raddolcire il suono
troppo aspro della R. Secondo altri, dev'essere stata la
X; ma da Isidoro (De origin.) impariamo che questa fu
usata fin sotto Augusto. Il φ dei Greci, come osserva
Quintiliano, ha un suono diverso dal ph dei Latini; dal
che alcuni congetturarono che Claudio inventasse una
lettera corrispondente al φ greco. Ancora privato, Clau-
dio pubblicò un libro sulla necessità di queste lettere;
salito al trono, le impose per legge; ma appena morto lui
se ne tralasciò l'uso, sebbene ai tempi di Svetonio e di
Tacito comparissero ancora sulle tavole di rame dove si
scolpivano i decreti del Senato per pubblicarli (SVETONIO,
in Claud., IV; TACITO, Ann., XI. 14).
Notevole progresso dell'alfabeto latino è l'aver indica-
to le lettere non con denominazione speciale, ma col pu-
ro suono di ciascuna; e mentre il greco dice alpha, beta,
gamma, delta, l'ebraico alef, bet, ghimel, dalet, lo slavo
as, buki, viedi, glacol, dobra, il romano disse a, be, ce,
41
de. Peccato che abbia posto senza ragione la vocale or
prima or dopo dell'articolazione, dicendo ef, el, er, inve-
ce di fe, le, re; e dispostele a capriccio, anzichè secondo
gli organi o la natura loro propria.
La forza delle armi e la espansione del cristianesimo
resero quest'alfabeto quasi universale in Europa, adat-
tandolo ciascun popolo all'opportunità dei nuovi idiomi;
in esso fu conservato il poco che ci rimane de' parlari
celtici; Ulfila, con alcuni cambiamenti, lo adattò al goti-
co, donde venne il tedesco d'oggi; anche molti popoli
slavi il piegarono ai suoni di lor favella, mentre altri si
valsero del greco.
Del resto è noto che scriveasi colle lettere da noi chia-
mate majuscole, e tardi come tachigrafia s'introdusse il
corsivo. Però dalle iscrizioni graffite sulle mura di Pom-
pej appare un altro alfabeto, usitato dai Latini, che chia-
meremmo lineare, con lettere quasi affatto fenicie, ec-
cetto il g che è tutto latino; e formate di lineette disunite,
quasi a modo dei caratteri cuneiformi. Probabilmente
era consueto nei paesi de' Vestini, de' Rutuli, de' Marsi,
de' Marrucini, anteriormente al latino.
Vedi GARRUCCI, Iscrizioni graffite sui muri di Pompej.
Bruxelles 1853.
MASSMANN, Libellus aurarius, sive tabulæ ceratæ ro-
manæ in fodina auraria apud Abrudbangam oppi-
dulum transylvanum nuper repertæ. Lipsia 1840.
Parla molto del corsivo latino.

42
§ 4°
Latino primitivo.

«Le parole de' prischi Latini sentivano d'aglio e cipol-


la», scrive Varrone. Dov'eransi accolti uomini di ogni
paese, si poteva ripromettersi unità ed armonia nella lin-
gua? Schiusa a tutte le importazioni, sottomessa a tutte
le influenze successive, cambiava continuo fra tanto
movimento. Al tempo di Polibio non erano più intelligi-
bili i trattati conclusi coi Cartaginesi dopo la cacciata
dei re: Τηλικαύτη γὰρ ἡ διαφορὰ γέγονε τῆς διαλέκτου,
καὶ παρὰ Ῥωμαίοις, τῆς νῦν πρὸς τῆν ἀρχαῖαν, ὥστε
τοὺς συνετωτάτους ἔνια μόλις ἐξ ἐπιστάσεως
διευκρινεῖν (III. 22).
Il radunare tutti i frammenti che ci rimangono della
lingua latina, per accompagnarla via via sinchè si tra-
sforma in questa nostra italiana, sarebbe necessario pro-
dromo alla conoscenza de' classici; noi nol faremo che
quanto è mestieri al tema assunto.
Regnante Tarquinio Superbo, Sesto e Publio Papirio
raccolsero le Leggi Regie romane; ma del codice Papi-
riano restano solo alcuni frammenti. Ulpiano tramandò
questa legge di Romolo: Sei pater filium ter venunduit,
filius a patre liber esto; e Festo quest'altra, anteriore a
Servio Tullio: Sei parentem puer verberit, ast oloe (ille)
plorasit, puer direis parentum sacer estod; sei nurus,
sacra direis parentum estod.
In Varrone abbiamo un frammento del carme dei Salj,

43
così disposto dal Grotefend26:
Cozoiauloidos eso: omina enimvero
Ad patuila' ose' misse Jani cusiones.
Duonus Cerus eset, dunque Janus vevet
... Melius eum regum.
Che s'interpreta: Choroiauloidos (re dei canti) ero:
omina enimvero ad patulas aures misere Jani curiones.
Bonus Cerus (nome mistico di Giano) erit, donec Janus
vivet. Melior eorum regum. Si sa che il carme Saliare è
forse il monumento più antico; Varrone lo dice prima
verba poetica latina (lib. VI), e nomina Elio valentissimo
latinista, che cercò interpretarlo, pure molte cose la-
sciando oscure (lib. VII).
La scoperta del canto degli Arvali nel 1778, quando
non avesse altra importanza, attestò quanta mutazione la
lingua subì dal tempo di Romolo, a cui forse risale, fin
al tempo delle XII Tavole. I frammenti di queste ci ven-

26
Rudimenta lingua umbricæ, II. 20. ‒ Vedi E. FUNK, De adolescentia lin-
guæ latinæ. C. DAMIO, Tractatus de causis amissarum linguæ latinæ radi-
cium.
Sanchez, Walchio, Niess, Borrichio, Inchoffer, Cellario, Krebs, Oberlin rac-
colsero monumenti del primitivo latino, senza critica nè induzioni. Struve e
Diefenbach agitarono le quistioni intorno all'origine e natura delle flessioni.
Nata ultimamente l'idea di esaminare la costruzione e le ragioni che deter-
minano la disposizione delle parole, Gehl, Bröder, Görenz si attennero alla
superficiale considerazione di talune particolarità; nè con bastante ampiez-
za vi guardarono Raspe (Die Vorstellung der lateinischen Sprache) e Dün-
tzer (Die Lehre von der lateinischen Wortbildung und Komposizion). È pre-
zioso in tal conto MUELLER, Historisch-kritische Einleitung zur nölhiger
Kenntniss und nützlichen Gebrauche der alten lateinischen Schiftsteller.
Dresda 1847-51.

44
nero trasmessi modificati. Quintiliano27 dubita se i Salj
intendano essi stessi il loro proprio canto; sed illa muta-
ri vetat religio, et consecratis utendum est; scrupolo che
non cadeva sulle leggi, i cui vocaboli erano perciò svec-
chiati.
Oltre l'iscrizione posta a Duilio nel 494 di Roma, do-
po la prima vittoria navale sopra i Cartaginesi, che vede-
si in Campidoglio sotto alla colonna rostrata, nel 1780
scopertesi le tombe degli Scipioni, se ne trassero epitafj,
che sono documenti, non trascritti come i predetti, ma
autentici e originali. Il più antico è di Cornelio Barbato,
console nel 456 di Roma, 298 av. Cristo, e dice:
Cornelius Lucius Scipio Barbatus
Gnaivod (GNAEO) patre prognatus fortis vir sapiensque
Quoius (CUJUS) forma virtutei parisuma fuit
Consol censor aidilis quei fuit apud vos
Taurasia Cisauna Samnio cepit
Subigit omne Loucana opsidesque abdoucit.
Ove si noti l'o scambiato coll'u28, che confondevansi
nella pronunzia; l'ei per i alla greca, la m finale taciuta; e
il subigit e abducit, non distinguendo il presente dal pas-
sato.
27
Inst. orat., I. 6. § 40.
28
Anche nel senatoconsulto de' Baccanali mostrasi questa prevalenza
dell'o, e nelle monete della media e bassa Italia, nelle quali Eckhel (Doctri-
na numm. vet., I. 127) notò Aisernino, Aquino, Arimno, Caleno, Cozano,
Hampano, Messano, Paestano, Recino, Romano, Suesano, Tiano. ‒ Priscia-
no scrive al contrario: O aliquot Italia civitates, teste Plinio, non habebant,
sed loco ejus ponebant U, et maxime Umbri et Tusci. Nelle Tavole Eugubi-
ne troviamo colle terminazioni moderne poi per postquam, pane, capro,
porco, bue, atro, ferina, sonito.

45
Benchè posteriore di qualche anno al 500, sa più
d'arcaico l'epitafio di suo figlio Lucio Scipione:
Honc oino ploirume cosentiont R...
Duonoro optumo fuise viro
Luciom Scipione filios Barbati
Consol censor aidilis hec fuet a...
Hec cepit Corsica Aleriaque urbe
Dedet tempestatebus aide mereto...
che s'interpreta: hunc unum plurimi consentiunt Romæ
bonorum optimum fuisse virum, Lucium Scipionem fi-
lium Barbati, consul, censor, ædilis hic fuit apud vos,
hic cepit Corsicam, Aleriam urbem, dedit tempestatibus
ædem merito.
Nelle iscrizioni di quel tempo molte cadenze somi-
gliano alle odierne più che alle latine: per esempio Op-
tenui laudem; Pomponio Virio posuit; dono dedro, ecc.
Invitiamo a vedere nella deca XXXIX, cap. 8 e 9 di Tito
Livio, come da questo elegante scrittore fosse ringiova-
nito il senatoconsulto contro i Baccanali, dato circa il
568 di Roma. In quell'intervallo non era avvenuta irru-
zione di stranieri; eppure il cangiamento è ancor più no-
tevole che non dall'età di Augusto all'età di Dante.
Del VI secolo di Roma o di poco posteriore sembra
una remissione del Senato a quei di Tivoli che leggesi
s'un bronzo trovato in quest'ultima città nel secolo XVI
presso all'antico tempio di Ercole, e deposto nella bi-
blioteca Barberini, donde sparve senza che più se ne ab-
bia traccia. Portava:

46
L. Cornelius Cn. f. pr(ætor) sen(atum) cons(uluit) a.
d. III. nonas maias sub æde Kastorus; scr(ibendo)
ad(fuerunt) A. Manlius A. f. Sex. Iulius, L. Postumius
S(p)f. quod Teiburtes v(erba) fecistis, quibusque de re-
bus vos purgavistis, ea senatus animum advortit ita utei
æquom fuit: nosque ea ita audiveramus uti vos deixsi-
stis vobeis nontiata esse: ea nos animum nostrum non
indoucebamus ita facta esse propter ea quod scibamus
ea vos merito nostro facere non potuisse; neque vos di-
gnos esse, quei ea faceretis, neque id vobeis neque rei
poplicæ vostræ oitile esse facere: et postquam vostra
verba senatus audivit tanto magis animum nostrum in-
doucimus ita utei ante arbitrabamur de eieis rebus af
vobeis peccatum non esse. Quonque de eieis rebus se-
natuei purgati estis, credimus vosque animum vostrum
indoucere oportet, item vos populo Romano purgatos
fore.

47
§ 5°
Seconda età del latino.

La seconda età della lingua latina contasi dal tempo


che la conquista della Magna Grecia e le spedizioni nel-
la Grecia propria introducevano straniera coltura. Conti-
nua la bella serie degli epitafj degli Scipioni:

L. Corneli L. E. P. N. (figlio di Scipione Asiatico)


Scipio quaist
tr. mil. annos
gnatus XXXIII
mortuos pater
regem Antioco
subegit.

Tacendo altre, chiameremo l'attenzione sulla seguen-


te, per formole tanto vicine all'italiano (miei, optenui).
Cn. Cornelius Cn. F. Scipio Hispanus (pretore verso
il 612 di Roma) pr. aid. cur. q. tr. mil. II. xvir. sl. iudik.
xvir. sacr. fac.

Virtutes generis mieis moribus accumulavi.


Progenie mi genui facta patris petiei
Maiorum optenui laudem ut sibei me esse creatum
Lætentur stirpem nobilitavit honor.

Del 645 è questa formola di dedica, scavata a Capua


(ap. ORELLI, 2487):

48
N. Pumidius Q. F. M. Rœcius Q. F.
M. Cottius M. F. N. Arrius. M. F. ecc.
heisce magistreis Venerus Ioviæ
murum aedificandum coiraverunt
ped. CCLXX et loidos fecerunt
Ser. Sulpicio M. Aurelio coss.

Ma già la lingua riceveva regola e affinamento me-


diante la greca letteratura, e qui trovano luogo i fram-
menti di Nevio, di Pacuvio, di Cajo Lucilio, di Ennio, il
quale fece per se stesso il seguente epitafio:

Adspicite, o ceiveis, senis Ennii imagini' formam,


Heic vostrûm panxit maxuma facta patrum.
Nemo me lacrumeis decoret, nec funera fletu
Facsit. Quur? volito vivo' per ora virûm29.

Il latino, ch'era rauco e incolto nel carme Saliare, in


Ennio risuona breve e marziale: malgrado il fare arcai-
co, questi poeti erano studiati nel secolo d'oro della lin-
gua, come da noi i Trecentisti, sebbene Orazio non aves-
se per essi che disprezzo iracondo. Noi (qui non acco-
gliendoli che come documenti storici) vi scorgiamo co-
me allora si vacillasse nell'uso di certe lettere:
29
Vedi SCHUELTE, De Cnæo Nævio poeta. Wurzburg 1841.
Q. ENNII poetæ vetustissimi fragmenta quæ supersunt ab HIERONYMO
COLUMNA conquisita, disposita et explicata. Amsterdam 1808.
ORELLI, Eclogæ poetarum latinorum. Zurigo 1833.
EGGER, Latini sermonis vetustioris reliquiæ selectæ.
È probabile che gli autori, che citavano que' versi, ne svecchiassero le for-
me.

49
E per a (defetiscor, edor), per i (Menerva, magester,
amecus), per o (hemo, peposci);
I per a (bacchinal, beneficere), per e (luciscit, quati-
nus, consiptum), per o (quicum, abs quivis);
EI per i lungo (inveisa, ameiserunt);
O per au (coda, plostrum, clostrum), per e (advorsum,
voster), per i (agnotus, olli), per u (folmen, fonus), prin-
cipalmente quando segue al v (volgus, vivont, servom);
U per e (dicundum, legundum), per i (existumo, dissu-
po, optumus), per o (adulescens, fruns, epistula).
AI per æ, AU per o, Œ per i o per u (triviai, caudex, po-
plœ);
B per v, e viceversa (ferbeo, amavile, vibus);
C per g, qu, x (macistratus, cotidie, facit per faxit);
S per r e x (esit, arbos, nugas);
D per l e r (dacrume, medidies);
F per l'aspirazione h (fostis, fircus);
M per s, e viceversa (prorsum, domus), ecc.
Talvolta si sopprime qualche vocale nel mezzo 30 o in
fine di parola31: ed anche intere sillabe32, mentre in altre
occasioni si appicciano lettere e sillabe33.
Molte voci offendono, che poi furono abbandonate
dai classici34.
30
Defrudo, audibam, caldus, repostus; sis e sos per suis e suos; periclum,
vinclum, seclum.
31
Volup, facul, luxu, vivtu, sati, priu.
32
Conia per ciconia, momen per monumentum, dein per deinde.
33
Stlis, stlocus, stlatus, gnatus ‒ foretis, frucmentum, trabes, ips ‒ exem-
pleu, sale ‒ postidea, mavolo, donicum.
34
Come anquinæ corde; aplude suono; aqualis gocciolatojo; aquula dimi-

50
Altre portavano significato differente da quel ch'ebbe-
ro poi; arrhabo per arra o caparra; caudex per un imbe-
cille, come noi diciamo ceppo; flagitium per flagitatio;
heres per proprietario; hostis per straniero; labor per
malattia; nugæ per nenia; usus per opus...; o vi diedero
terminazione diversa.
Adoprarono al singolare parecchi nomi, usati poscia
unicamente in plurale (mœne per mœnia); formarono di-
minutivi, che poi disparvero (digitulus, diecula); decli-
narono sul terzo modello varj nomi, relegati poi al pri-
mo (angustitas, concorditas, differitas, impigritas, in-
dulgitas, opulentitas, pestilitas, tristitas); e così dissero
autumnitas, amicities, avarities, luxuries, duritudo,
ineptitudo, miseritudo, mœstitudo. Mettevano nomi in
generi diversi, come gladium, nasum, collus: servivano
ai due generi agnus, lupus, porcus: ærarium, ætas,
grando, guttur, murmur, frons, stirps, lux, crux, calx, si-
nutivo di acqua; axicia forbici; bucco scroccone; bulga borsa; bustirapus
chi tutto arrischia per denaro; capronæ il ciuffo; casteria arsenale; carina-
rius e flammearius tintore in giallo e in rosso; conspicillum vedetta; cordo-
lium cordoglio; dividia dolore; estrix goloso; fala torre di legno; famigera-
tor novellatore; grallator che va sui trampoli; hamiota pescatore coll'amo;
legirupa violator della legge; lenulus ruffianello; limbolarius fabbricatore
di frangie; linteo tesserandolo; luca bos elefante; mando pacchione; man-
tellum mantello; mellinia idromele; ocris montagna erta; offerumentum of-
ferta; perduellis nemico; petimen guidalesco; perlecebra allettativo; petro
villano; proseda meretrice; sedentarius calzolajo; statutus uomo di gran
prosopopea; struix costruzione; suppromus sotteconomo; suras piccolo; su-
tela furberia; temetum vino; tenus laccio; terginum frusta; trico malpaga;
vesperugo stella della sera. Probabilmente dicevasi or e ura per urbs, con-
servato in subura sobborgo e in Orvieto. Tacio i nomi speciali di abiti, per
avventura dismessi, o di mestieri o di storia naturale, che ai successivi non
venne occasione di nominare.

51
lex furono concordati col mascolino; finis, præsepe, me-
tus col femminino; col neutro sexus: deliquio, emenda
erano neutri con questa terminazione inusata; così dice-
vasi similitas e similitudo, vicissitas e vicissitudo, dulci-
tas e dulcedo, claritas e claritudo, inania e inanitas, cu-
pedia e cupiditas, largitas e largitio; ed anche artua e
raptio per artus e raptus. Si declinavano come della se-
conda genum, cornum, gelum ecc.; nella prima il geniti-
vo termina spesso in ai o as alla greca; nella seconda fi-
nisce in semplice i il genitivo dei nomi in ius e ium, ag-
giungesi un e al vocativo dei nomi in r (puere); il geniti-
vo plurale spesso contraesi in ûm; gli accusativi e dativi
della terza si terminano in im o em, i od e; si fa il nomi-
nativo plurale in is, il genitivo in um o ium. La quarta
scambiasi sovente colla seconda declinazione; se ne fa il
genitivo uis (domuis, exercituis), e levasi l'i del dativo
(anu). Nella quinta il genitivo non si discerne dal nomi-
nativo, e si toglie l'i dal dativo (facie per faciei).
Si abusava di termini greci35 e di composizione di pa-
role che parvero mostruose ai contemporanei di Augu-
sto36.
Non indico i nomi scherzevolmente formati per ono-
matopeja da Plauto ed altri, bilsbare, pubulicottabi, but-
tubata, taxlas.
35
Architecton per architectus, batiola da βάτιον, gaulus da γαυλός, alopha-
nia da ἀλοφανής bugiardo, horæum da ὡραῖον, incloctor da κλωγμής fru-
statore, lepada da λέπας, madulsa da μάδαν briaco, ecc.
36
Argentienterebronides, dammigeruli, dentufrangibula, feritribaces, fla-
gritribæ, gerulifigulus, nucifrangibula, oculicrepidæ, parenticida, plagipa-
tidæ, sandaligerulæ, subiculumfragri, ecc.

52
Più libera andava la formazione degli aggettivi, decli-
nati spesso differentemente37; talora anche intesi diver-
samente da quel che usò dappoi38.
Alter, solus, nullus e loro conformi non cadevano al
genitivo in ius e al dativo in i: celer in neutro faceva ce-
lerum; dicevasi gnarures per gnari, gracila per gracilis,
hilarus per hilaris, utibilis per utilis, munificior per mu-
nificentior, spurcificus per spurcus, tentus per extentus.
Così ipsus per ipse, ipsipsus per ille ipse, qui e quips per
quis, ips per is, cujatis per cujus, em e im per eum,
emem per eundem; hic, hæc, isthæc per hi, hæ, hæc; hi-
sce per his, quojus per cujus, vopte per vos ipsi, me per
mihi, sum, sam, sas, sos per suum, suam, suas, suos;
ibus per iis ecc.
Molti verbi, consueti in quelle prische scritture, furo-
no repudiati dall'uso, ritenuto arbitro supremo del parla-
re tanto da Orazio come da Quintiliano39.
37
Come crucius che crucia, deliquus, dierectus, helleborosus, exsinceratus,
gravastellus, inaniloquus, labosus, macellus, malacus, medioximus munis
(da cui immunis), oculissimus, privus, stultividus, voluptabilis.
38
Assiduus significava ricco, non derivandolo da ad-sedeo, ma ab assibus
duendis; cupidus desiderabile, curiosus magro, immemorabilis attivamente
per chi non vuol parlare, incredibilis che non merita fede, intestabilis senza
testicoli, superstitiosus che predice l'avvenire.
39
Abjugo separo; averrunco averto; alludio alludo; ambabedo circumqua-
que arrodo; betere ire; cæcultare male videre; calvire frustare; cuperare ag-
grottar le ciglia; causificari accusare; cette cedite; cicurare mansuefare;
collabescere dimagrare; collutulare gettar nel fango; compotire compotem
facere; concenturiare colligere; concipilare compilare; convasare, corvita-
re circumspicere; deartuare smembrare; dejuvare contrario di juvare; deli-
care indicare; depucere cædere; dispennere exspendere; elevit maculavit;
elinguare, esitare, mangiare, exdorsuare, frigullire e vitulari trasalire; fuo
sum; gnarigo narro; imbito ineo; inconciliare negativo di conciliare; info-

53
Alcuni vennero usurpati in altro senso, o sotto forme
e cadenze che poi deposero quando la conjugazione re-
stò fissata; come corporare far morire, decollare priva-
re, grassare andare e adulare, innubere mutarsi da luogo
a luogo, latrocinari militare. Usavano attivamente alcu-
ni che in appresso si ritennero solo al deponente 40, e di
rimpatto usavansi come deponenti adjutor, bellor, cer-
tor, consecror, copulor, emungor, punior, sacrificor, spo-
lior. Diversamente dai moderni terminavano accepto
per accipio, augifico per augeo, blatio per blatero, con-
grueo per congruo, viveo, diceo, duo per do, creduo,
perduo, moriri, scalpurire per scalpere. Diceano poi
estur per editur; facitur per fit; osus sum per odi; pote-
stur, posetur e poteratur; donunt per dant; nequinunt,
soliunt per nequeunt, solent; ferinunt, prodinunt, sci-
bam, capsi per cepi; descendidi, exposivi, loquitatus,
morsi per momordi; parsi, sapivi, soluerim per peperci,
sapui, solitus sum. Il futuro della terza e quarta conjuga-
zione usciva talora in ebo e ibo, onde Plauto disse scibo:
così gl'imperativi duce, face, dice; e siem, volam, edim
per sim, velim, edam; faxo e faxim per faciam, axim per
egerim, passum per pansum, sustollere per auferre, ecc.
rare trarre al foro; lamberare scindere; lapire indurire; lurcare mangiar in-
gordo; mutire parlare; obscavare essere di mal augurio; obsipare aspergere;
obsarduit obsolevit; accentare ingiuriare; paritare parare; præstinare eme-
re; protollere differire; quiritare clamare; redhostire gratiam referre; regre-
scere crescere; repedare recedere; sordare intelligere; succussare sursum
excutere; curvare circumdare; verunco verto.... Oltre alcuni affatto greci,
badizare, clepere, parpagare, imbulbitare, patrissare, protelare...
40
Arbitro, aucupo, auspico, cohorto, congredio, consolo, contemplo, cunc-
to, digno, elucto, expergisco, ecc.

54
Al passivo infinito aggiungevano talvolta er, come il di-
cier che neppure spiacque a Persio; dixe per dixisse che
è in Varrone. Un'iscrizione presso il Lanzi porta FERONIA
STATETIO DEDE.
Nè minor divario correva negli avverbj41 e nelle pre-
posizioni; dove am per circum, apor per apud, ar e ab
per ad, af per a, se per sine, endo per in; e più nelle frasi
che se ne formavano42.
De' quali modi si dilettarono anche taluni d'età mi-
gliore, specialmente Catullo e Sallustio, affettanti
l'arcaismo, che è un'altra delle forme della decadenza.

41
Ætatem per diu, ampliter, antidhac, assulatim, astu per astute, eccere per
ecce, fabre, facul, difficul, furatim per furtim; insanum per valde, minutabi-
liter, nox per noctu, nullus per non, numero per nimium cito, pauxillisper,
perpetem, postidea, præfiscine, prognariter, prossinam, publicitus, quam-
de, simuli, unose per simul, pollutum, tapper per cito, tuatim, vicissatim.
42
Adire manum alicui; gallam bibere ac rugas conducere ventri; cædere
sermones; colere vitam; quadrupedem constringere; dapinare victum; dare
bibere; suum defrudare genium; herbam dare; follitim ductitare; paratim
ductare; emungere aliquem argento; ex aliquo crepitum polentarium excie-
re; exporgere frontem; curculiunculos minutos fabulari; expeculiatus fieri;
fraudem frausus est; musa loqui; datatim ludere; obsipare aquulam; obtru-
dere palpum; ornare fugam; os occillare; percutere animum; sub vitam
prœliari; sermonem sublegere; fulmentas suppingere soccis; thermopotro
gutturem; pugilice et athletice valere; asyarebolum venire; de symbolis es-
se; æstive viaticari.

55
§ 6°
L'età dell'oro e dell'argento.

Fomentato dal patriotismo e dalla libertà, invigoritosi


nelle lotte esteriori ed interne, fatto robustamente conci-
so dall'orgoglio nazionale, arricchito dalle spoglie altrui,
perfezionato da tanti scrittori, il latino negli ultimi tempi
della repubblica aveva acquistato nobiltà di forme, pie-
nezza di senso, eleganza degna del popolo re; e dalle
conquiste fu portato sin all'estremità dell'Europa e
dell'Oriente.
Eppure Cicerone collocava il miglior parlare ai tempi
di Scipione e Lelio, lamentandosi che in Roma fossero
accorsi tanti che parlavano scorretto; e piacevasi sulla
bocca di Lelia sua suocera udire quella vecchia loquela
incorrotta, che gli rammentava Plauto e Nevio: appunto
come noi in qualche vecchia fiorentina o in qualche
montanaro pistojese crediamo udire Giovan Villani o il
Firenzuola.
Via via si andò declinando sotto gl'imperatori. La lin-
gua accettò dall'adulazione parole inaudite alla prisca
semplicità; e se non bastarono i titoli di cœlestis e divi-
nus, fin cœlestissimus si volle dire, e sacre si chiamaro-
no le occupazioni del principe, e majestas la sua perso-
na, innanzi alla quale l'uomo cercò quasi annichilarsi,
non parlando più di sè ma della sua parvitas, mediocri-
tas, sedulitas. I quali nomi astratti, sostituiti all'aggettivo
concreto, sono un carattere di decadenza che vediamo

56
ognor più dilatarsi nelle scritture odierne, ad imitazione
dei Francesi dicendo il pauperismo, le notabilità, le ca-
pacità, il commercio, il brigantaggio, ecc.
A ribocco furono allora introdotti i modi greci 43;
s'accomunarono alla prosa traslati affatto poetici: e prœ-
mia per spolia, limen belli, claudæ naves, moriens liber-
tas, exedere rempublicam, laudare annis leggiamo in
Tacito.
Mentre poi da una parte s'affettava l'arcaismo,
dall'altra si foggiavano voci nuove, o vi si attribuiva
senso diverso, terminazione variata, alterata costruzio-
ne44. Mutarono o estesero il proprio senso ægritudo per
malattia, advocatio per dilazione, fiscus, famosus per ce-
lebre, ingenium applicato a cose inanimi, avus per ata-
43
Opus habere, clari genus, animum conversi, lætus animi miles, modicus
pecuniæ, canere tibiis, bonus militia son tutti di Tacito, come amare per so-
lere. Aggiungi analogia, barbarismus, hetæria, monopolium, apologare da
ἀπολογεῖν per rejicere, malacizo da μαλακίζω, moror impazzare.
44
Nuove voci sarebbero breviarium, dormitorium, conversatio, gratitudo
ed ingratitudo, inquisitio, ligatura, adversitas, nimietas, puerilitas, summi-
tas, superfluitas, voracitas, salvator, sustentaculum, diflugium: gli aggettivi
amanuensis, exurdatus, famigeratus, fænebris, fictitius, frigidarius, imma-
culatus, indubius, inerrabilis, infruitus, intelligibilis, invisibilis, lapsabun-
dus, lychnobius, neutralis, occallatus, præsentaneus, rationabilis, rationa-
lis, rorulentus, sapidus, segrex, spontaneus, stigmosus, superciliosus, vale-
tudinarius, visibilis; i superlativi fidissimus, piissimus, prudentissimus; i
verbi adunare, annodare, auctitare, collatrare, columbare, confiscare, cor-
rotundare, crucifigere, explantare, extimare, molestare, nepotari, remedia-
re, restaurare, sagittare; i composti transmutatio, coæqualis, conversari,
imprecari, concivis, conterraneus, se pure si ha a leggere così in Plinio.
Hactenus si usò anche pel tempo; adhuc, che significa sinora, adoprossi per
anche adesso; interim per interdum, subinde per spesso; e nuovi aliquate-
nus, clamose, exacte, favorabiliter, obiter, recenter, specialiter, insimul,
neoterice, adducte per severe, an an invece di utrum..... an.

57
vus, gener per marito della vedova del figlio 45, subaudi-
re per sottintendere, decollare per decapitare, imputare
per chiedere ci si tenga conto d'alcuna cosa come d'un
favore, studere assoluto.
Variaronsi le terminazioni46; costruzioni alterate piac-
quero47. Dalle provincie, massime dalla Spagna, veniva-
no alla metropoli elementi ed esempj di guasto; Seneca
stesso, gran corruttore, lagnavasi fosse disimparato il
parlare latino48, altrove49 dice che molte voci erano ca-
dute in disuso, come asilo, che Plinio già chiamava ta-
vano50 e deride coloro che prediligevano solo parole vie-
te, mentre altri non soffrivano se non le più divulgate,
guastando e vituperando così la favella col seguir l'uso
particolare51. A. Gellio52 si duole che ai giorni suoi le pa-
role latine, dal senso ingenuo, fossero passate ad altro o
simile o diverso; per abuso od ignoranza di chi le adope-
rava senza averne appreso il significato. Quintiliano53
45
TACITO, Ann., V. 6; VI. 8.
46
Audentia, æmulatus, consortium, corporalis, crepax, nutricius, occiden-
talis, orientalis, perniciabilis, rubeus, sternutatio, superfluus, vaticinium,
viror, voluptuosus, ove i precedenti dicevano audacia, æmulatio, consortio,
corporeus, crepans, nutricatus, occidens, oriens, pernicialis, rufus, sternu-
tamentum, superfluens, vaticinatio, virilitas, voluptuarius.
47
Invidere alicui rei per aliquid; versari circa rem per in re; quod me atti-
net per quod ad me; egredi urbem per urbe; adipisci alicujus rei; adversari
aliquid; benedicere quemquam; jubere alicui; pœnitentiam agere assoluto.
48
Ep. 39. Hæc quæ nunc vulgo breviarium dicitur, olim, CUM LATINE
LOQUERENTUR, summarium vocabatur.
49
Ep. 58.
50
Asilo, sive tabanum dici placet. Nat. hist., II. 28, 34.
51
Ad Lucilium, 114.
XIII, 27.
52
53
Inst. orat., I. 9.

58
distingue le parole in latine e peregrine, così chiamando
quelle che ex omnibus prope dixerim gentibus vennero;
e cita rheda e petoritum derivati dai Galli, mappa dai
Cartaginesi, gurdos dagli Spagnuoli.

59
§ 7°
La lingua scritta e la lingua parlata: la lingua
rustica.

Tutto ciò si riferisce alla lingua degli scrittori. Ma v'è


paese dove si scriva appunto la lingua che si parla? Che
i Romani usualmente adoprassero la sintassi artifiziosa
che troviamo in Livio o in Cicerone, ci vieta di crederlo,
primo, il conoscere come i Greci, maestri dei Latini,
scrivessero semplicemente e disponessero le parti del
discorso alla schietta, anche coloro che facevano studio
speciale dello scrivere, cioè i retori. Cresciuti in repub-
blichette, sublimi nella loro piccolezza, piene di attività,
governate a popolo, a questo voleano piacere coll'arte
del bello, del cui sentimento ebbe dono specialissimo la
Grecia.
I Romani invece ebbero assai di buon'ora l'orgoglio
del dominio, s'intitolarono rerum dominos, gentemque
togatam, e come i Greci l'originalità e il limpido gusto,
così essi ebbero propria la maestà, della quale ai Greci
mancava sin la parola. Lo scrivere per essi era uno squi-
sito piacere, procurato all'intelligenza delle persone col-
te, cioè dei signori, o di quella porzione di cittadini che
poteano esercitare la pienezza de' diritti civili. I bei par-
latori aveano forbito la lingua col delectus verborum,
cioè mediante l'eufonia e l'analogia, rimovendo le parole
troppo usuali od aspre, per attenersi alle dolci, tornite,
numerose.

60
Facile era cadere nella gonfiezza; nè di questa si ten-
nero mondi i sommi autori. È proverbiale l'esse videatur
di Cicerone; il quale, ne' libri retorici, si dilata sul modo
di formare i periodi, sulle varie cadenze col giambo o
col trocheo; e racconta con che meraviglia il popolo ac-
coglieva certi periodi, fino a prorompere in applausi.
Per poco che uno abbia familiarità coi classici, gli si
fa evidente la differenza che corre fra gli oratori e in ge-
nerale i prosatori d'arte, e quelli semplici, come Cesare
negli aurei commentarj, o Cicerone stesso nelle epistole,
e più in quelle che a lui dirigevano gli amici e familiari
suoi.
Lo scrivere tramandatoci dai classici era dunque ben
discosto da quello che appellavano quotidianum sermo-
nem, quo cum amicis, conjugibus, liberis, servisque lo-
quimur. Talora quella favella senza grammatica trafora-
vasi nelle scritture: onde Cecilio ebbe ad avvertire cento
generi di solecismi, ad evitarsi da chi volesse scrivere
corretto54; di Curione si disse che favellava latino non
pessimamente, condotto dalla sola domestica usanza, e
benchè affatto di lettere digiuno55; Tullio vuole l'oratore
parli latinamente, il che apprenderà colle lettere e colle
scuole elementari56; A. Gellio avverte che, quei che
chiamansi barbarismi, non dai Barbari vengono, ma da
locuzioni del vulgo: quod nunc autem barbare quemque
loqui dicimus, id vitium sermonis non barbarum esse,
54
ISIDORO, Etym. I. 32.
55
CICERONE in Bruto, 58.
56
De orat., III. 10.

61
sed rusticum; et cum eo vitio loquentes, rustica loqui
dictitabant57; e sant'Agostino cita alcuni modi vulgari e
poco latini58.
I grammatici con Fortunaziano insegnavano che lon-
gioribus verbis decora et lætior fit oratio; onde si accet-
tarono i composti come inaurare, aggregare, apparere,
extinguere, obserare, exprimere, non i loro semplici, i
quali però dovettero restare nella lingua del popolo.
Anellus e scutella abbiamo in Cicerone, adjutare in Pa-
cuvio, minacias, agnellus e bucca in Plauto, in Lucrezio
bene sæpe, come bene impudentem in Cicerone59; bellus
e russus in Catullo, e russata era una delle fazioni del
circo; caballus in Orazio; casa in Apulejo; bellissimum
in Terenzio; adjutus in Macrobio; campsare per cansare
è in Ennio; cooperculum in Plinio il vecchio; nel glossa-
rio d'Isidoro campsat, flectit; santra, apocope d'Alessan-
dra, è in Marziale; in Nonio e nel codice Teodosiano bi-
rotta e birotium il biroccio. Cesare già diceva postridie
hujus diei (de B. G., I, 23) come noi diciamo oggidì. Fe-
sto asserisce che subulo tusce tibicen dicitur, ch'è il no-
stro zufolo. Pinna chiamavasi la crista cassidi imponi
solita, che noi diciamo penna o pennacchio. Tata in varj
dialetti odierni chiamasi il babbo; e Valerio Flacco scri-
ve, Attam pro reverentia cuilibet seni dicimus; quasi
XIII.
6.
57
58
De vita beata.
59
Altri in Cicerone notarono multissimus, tornare, vietum, compromissum,
inantediem, indolentia, nigror, rotundare, sequestrium, cancelli, suspicio-
sus, laboriosus, ordinare, procrastinare, quadrare, ecc. Vedi Cicero a ca-
lumniis vindicatus, cap. VII.

62
eum avi nomine appellemus et atavus, quia tata est avi,
idest pater. Servio, nei commenti alla Georgica, c'infor-
ma che, invece di fimus, plebeamente dicevasi letamen;
e A. Gellio60 che il pumilio dal volgo imperito chiama-
vasi nano: due voci ora vive in Italia.
Così si ha testa per capo in Ausonio; ruvido in Pli-
nio61, fracidus in Catone de re rustica; cribellare in Pal-
ladio; minare per menare in Apulejo; jornus e tonus per
giorno e tuono in Seneca; in altri retornare, putilla, pu-
ta, strata, per redire, puella, via; in Plinio molli fermen-
tati panis; in Vitruvio remi strophis religati: il quale
stropa per vinco rimane in qualche dialetto (struppolo in
napoletano): in molti vadere per ire62, basium per oscu-
lum, belare per balare: campania per campagna l'abbia-
mo nel nome della Campania felix.
Svetonio narra che Augusto diceva, pro stulto, baceo-
lum, come noi bacello; e tolse la dignità consolare ad
uno che, invece di ipsi, avea scritto ixi (essi). Così dice-
vasi granarium, jubilare, pausa, bassus, morsicare, au-
ca (oca), planuria quel che nobilmente chiamavasi hor-
reum, quiritare, mordere, anser, planicies; e sanguisuga
60
XIX, 13.
61
Major pars Italia ruido utitur pilo. Nat. hist., 18. 10.
62
Tertulliano ha anche vasit. Il nostro verbo andare, tanto eteroclito, che
trarrebbero da ἀντάω vo incontro, ha forse origine dall'adnare, che Papía
interpreta per venire, e che derivasi da nare nuotare, come arrivare da riva;
e che, in alcuni dialetti e nel provenzale, pronunziasi anare. Potrebbe anche
trarsi da ambulare, che nel basso latino usavasi per andare; onde nel Vange-
lo, tolle grabatum tuum et ambula, e nel Codice longobardo ad maritum
ambulare; o meglio da aditare, frequentativo di adire: e che troviamo in
Ennio (ad eum aditavere).

63
per hirudo, majale per verres, rasores per novaculæ,
cloppus (clopin fr., zoppo it.) per claudus, parentes per
affines, pisinni per filii (piccini). Molto potrebbe spigo-
larsi negli scrittori d'agraria e d'agrimensura raccolti dal
Goes, come botones per mucchi di terra (butte fr.),
brancam lupi, campicellus, monticellus, flumicellus,
montaniosus, fontana, quadrum e ben altri modi, ignoti
allo scrivere letterario. È probabile si dicesse nascere,
sequere, irascere, piuttosto che nasci, sequi, irasci; pa-
rescere anzichè videri; e così volere e potere per velle e
posse: e già ne' vecchi latini troviamo potesse.
Isidoro (19,1) nomina barca, quæ cuncta navis com-
mercia ad litus portat: san Girolamo dice che solent mi-
litantes habere linteas, quas camisias vocant: e Isidoro:
Camisias vocamus quod in his dormimus in camis, e
spiega che camus è lectus brevis et circa terram: e altro-
ve dice che «cortinæ sunt aulea, idest vela de pellibus»;
e che «mantum hispani vocant quod manus tegat tan-
tum, est enim brevis amictus». Sulpicio Severo dice che
vestem respuit grossiorem.
Certi, che ora ne pajono idiotismi italiani, non sareb-
be difficile riscontrarli nell'età migliore:
Orazio. Præter plorare.
Virgilio. Dispeream nisi me perdidit iste putus63.
Lucrezio. Tota nocte pluit. Ad levare sitim fontes flu-
viique vocabant.
Giustino. Facere amicitiam, literas, fœdus, classes.
63
Me me adsum qui feci è di Virgilio: e il milanese anche oggi direbbe Mi
mi: son staa mi.

64
Quintiliano. Sic descernet hæc discendi magister,
quomodo palæstricus ille cursorem faciet, aut pugi-
lem aut luctatorem... Omnes tres de bonis conten-
dunt.
Plauto. Quid hic vos duæ agitis? ‒ Et nescio quid vos
velitati estis inter vos duos. Foris cœnaverat tuus
gnatus (Mostell., II. 2. 53). Tribus tantis reddit
quam obseveris: rende tre tanti di quel che semini.
Marciano Capella. Il triangolo scaleno omnes tres li-
neas inter se inæquales habet.
Seneca. Bella res est mori sua morte.
Festo. Ne mutum quidem facere (ad mutire et mussa-
re) che è il nostro far molto.
Catone (De re rust., CLXII) insegna una preghiera da
dirsi agli Dei ed a Marte in particolare, «uti tu fru-
ges, frumenta, vina, virgultaque grandire, beneque
evenire sinas»; che è il nostro ingrandire e venir
bene.
Ovidio. Quantum ad Pirithoum.
In quantum quæque secuta est.
E nei Fasti:
Hei mihi! credibili fortior illa fuit.
Signatur tenui, media inter cornua, nigro;
Una fuit labes: cetera lactis erat.
(cioè più del credibile; segnata di nero in mezzo alle
corna; il resto era latte).
Festo scrive res minimi pretii, cum dicimus non hettæ

65
te facio: e noi, Non ti stimo un ette64.
Non si doveano unire due infiniti, eppure abbiamo in
Livio (IV. 47) jussit sibi dare bibere; che è il nostro dar
bere, dar mangiare.
Tutto ciò ne fa argomentare che, fra i patrizj latini
prevalendo elementi etruschi e greci, di questi si nutris-
se la loro lingua, mentre gli oschi e sabini dominavano
nella rustica, adoperata dai plebei, la quale noi crediamo
sia la stessa che oggi parliamo, colle modificazioni por-
tate da trenta secoli e da tante vicende.
Oltre i comici, che al vulgo mettono in bocca modi
affatto insueti agli scrittori colti, troviamo direttamente
indicata la lingua plebea e rustica, che doveva essere più
analitica, alle desinenze supplendo colle preposizioni,
cogli ausiliarj alle inflessioni de' verbi; e determinava
meglio le relazioni mediante gli articoli.
Plauto discerne la lingua nobilis dalla plebeja: la pri-
ma dicevasi anche urbana o classica, cioè propria delle
prime classi; l'altra rustica o vernacola dal nome de' ser-
vi domestici (vernæ), e anche da Vegezio pedestris, da
Sidonio usualis, quotidiana da Quintiliano, il quale
muove lamento che «interi teatri e il pieno circo s'odano
spesso gridare voci anzi barbare che romane», e avverte
che in buona lingua non dee dirsi due, tre, cinque, quat-

64
Mica per negazione, in qualche volgare negot, negotta, doveano certo vi-
vere nel latino; come flocci facere, non pili facere, così non micæ, non gut-
tæ. Il primo è conservato nel valacco nemic, ne mica; l'altro nel romancio
ne gutta. Da questo gutta viene il vergotta lombardo, qualche cosa, dove
sentesi la radice di veruno.

66
tordice65, e geme che ormai il parlare sia mutato del tut-
to66.
Cicerone scriveva a Peto (lib. IX, ep. 21): Veruntamen
quid tibi ego in epistolis videor? Nonne plebejo sermo-
ne agere tecum?.. Epistolas vero QUOTIDIANIS verbis tene-
re solemus. Marziale ricorda certe parole da contado, ri-
sibili a delicato lettore,
Non tam rustica, dilicate lector,
Rides nomina?
A Virgilio fu apposto d'usare voci da villa, e nomina-
tamente il cujum pecus e il tegmen67. Che v'avesse mae-
stri del ben parlare latino l'accerta Cicerone, aggiungen-
do che non è tanto gloria il sapere il latino, quanto ver-
gogna l'ignorarlo68; ed esortando, giacchè s'ha il lin-
guaggio di Roma corretto e sicuro, a seguir questo, ed
evitare non solo la rustica asprezza, ma anche l'insolito
forestierume69, Ovidio raccomanda ai fanciulli romani
65
Inst. or., I. 5. In un'iscrizione pubblicata dal Marini Gaetano, pag. 193, n°
169 leggiamo Irene defuncta est annorum decedocto.
66
Totus pene mutatus est sermo. De inst. or., VIII. 3. Il grammatico Diomede
parla di scrittori qui rusticitatis enormitate, incultique sermonis ordine sau-
ciant, imo deformant examussim normatam orationis integritatem, posi-
tumque ejus lumen infuscant ex arte prolatum. De oratione, lib. I. prol.
67
Tityre, si toga calda tibi est, quo tegmine fagi?...
Dic mihi, Dameta, cujum pecus, anne latinum?
Non, verum Ægonis; nostri sic rure loquuntur.
Questa graziosa parodia è riferita da Donato nella vita di Virgilio.
68
Præcepta latine loquendi puertiis doctrina tradit. ‒ Non tam præclarum
est scire latine, quam turpe nescire.
69
Cum sit quædam certa vox romani generis urbisque propria, in qua nihil
offendi, nihil displicere, nihil animadverti possit, nihil sonare aut olere
peregrinum, hanc sequamur; neque solum rusticam asperitatem, sed etiam
peregrinam insolentiam fugere discamus. De oratore, III. 12.

67
d'imparare linguas duas, cioè il latino e il greco, e di
scrivere agli amanti in lingua pura e usitata 70. Che se la
passionata imitazione del greco diede al latino una con-
sistenza che lo preservava almeno dalle profonde e re-
pentine alterazioni, al popolo non importarono questi
raffinamenti, e perseverò nell'abitudine di ciò che avea-
no detto il nonno e la nonna71.
Abbiamo uno strano libro, sul quale forse non fu an-
cora detta l'ultima parola, il Satiricon di Petronio. Leg-
gendolo, sentesi un parlare disforme dal consueto; com-
posizioni insolite di parole, come: pietaticultrix, gracili-
pes, choraula, præfiscini, fulcipedia e gallinæ altiles, e
periscelides tortæ, e domefacta per domita; frequenti di-
minutivi: taurulus, alicula, amasiunculus, manuciolum,
palliolus, tunicula, vernaculæ meliusculæ; frasi insolite:
non sum de gloriosis; Capuæ exierat; invado pectus
amplexibus; defunctorio ictu; e parole che per avventura
trovansi anche altrove, ma qui colpiscono per essere in
tanto numero: come lautitia, tristimonium, barbatoria;
ingurgitare; vicinia, gingillum, catillum, candelabrum,
camella, bisaccium, capistrum; plane matus sum: vinum
mihi in cerebrum abiit.
Altre sue frasi di schiavi s'accostano alle nostre mo-
70
Munda sed e medio, consuetaque verba, puellæ
Scribite: sermonis publica forma placet
Ah! quoties dubius scriptis exarsit amator,
Et nocuit formæ barbara lingua bonæ.
Ars. am., III. 489.
71
Sic maternus avus dixerit atque avia.
CATULLO, 84

68
derne: — «Non potei trovare una boccata di pane. —
Quello era vivere! — Come un di noi — Mi sono man-
giato i panni». (Non hodie buccam panis invenire potui.
— Illud erat vivere! — Tamquam unus de nobis — Jam
comedi pannos meos).
Catone, che scriveva pei campagnuoli, dice, Arundi-
nem prende.
Nell'Asino d'oro, un soldato domanda a un giardiniere
quorsum vacuum duceret asinum? Quegli non compren-
de, onde l'interrogante replica: Ubi ducis asinum istum?
e l'altro capisce e risponde. Ciò significa che la voce
quorsum non avea corso tra il popolo. Avea corso invece
quella di boricco per cavallo di vettura, non usata negli
scritti; onde san Girolamo (in Eccles., X) Mannibus,
quos vulgo buricos appellant. Il popolo, ne' migliori
tempi, dicea scopare, stopa, basium, bellus, caballus,
bigletum, bramosus, brodium, dove gli aristocratici usa-
vano verrere, linum, osculum, pulcher, equus, schedula,
cupidus, jusculum.
Maggior colpo mi fa Varrone, dove attesta che i Lati-
ni usarono il solo ablativo, e la inflessione fu introdotta
soltanto per utile e necessità72. Non stiamo ad appuntar-
gli che un sì importante elemento non può intromettersi
per proposito; ma consideriamo che le parole nostre ita-
liane sono, la più parte, l'ablativo delle latine. A. Gellio
menziona un libro di T. Lavinio de sordibus verbis, il

72
Sexto casu qui est proprius; Latineis enim non est casus alius. De L. L., I.
9. Declinatio inducta est in sermones..... utili et necessaria de causa, I. 3.

69
quale sarebbe prezioso al caso nostro73, ma è perduto; ed
egli stesso dice che arboretum ignobilius est verbum,
arbusta celebratius; e mette fra i verba obsoleta et ma-
culantia ex sordidiore vulgi usu, botulus, voce che è in
Marziale, e da cui il nostro budello74: e così dice che
sermonari rusticius videtur sed rectius: sermocinare
crebrius est sed corruptius75: taxare pressius crebriu-
sque est quam tangere76, donde il nostro tastare77.
I legionarj nelle colonie e ne' campi esteri adottarono
parole germaniche, e in Vegezio abbiamo, Castellum
73
N. A., IX. 13.
74
N. A., XVII. 2 e 7.
XII. 2.
75

II. 6.
76
77
Sopra la duplice lingua dei Latini, dopo Leonardo Aretino che diceva:
Pistores et lanistæ et hujusmodi turba sic intellexerunt oratoris verba, ut
nunc intelligunt missarum solemnia: (ep. VI. p. 273); e il Poggio nella Dis-
sertazione convivale: Utrum priscis Romanis latina lingua omnibus com-
munis fuerit, an alia doctorum virorum alia plebis et vulgi, vedansi:
HERMANN, De latinitate plebeja ævi ciceroniani.
PHILMAN, Romanus bilinguis, sive dissertatio de differentia linguæ plebejæ
et rusticæ, tempore Augusti, a sermone honestiore hominum urbanorum.
HAGEDORN, De lingua Romanorum rustica.
FER. WINKELMANN, Ueber die Umganzsprache der Römer.
CELSO CITTADINI, Della vera origine della nostra lingua.
Il dotto Bartio non metteva dubbio sulla differenza del parlare comune dal
latino scritto: Veterum Latinorum in loquendo longe aliam linguam fuisse
quam quæ a nobis usu frequentatur, dubium minime esse debet. Advers.,
lib. XIII. c. 2.
In senso contrario l'Orioli nel Giornale Arcadico del 1855 pose un articolo
di affettata erudizione, «Che il latino rustico è falsamente creduto essere,
con forme poco mutate, lo stesso che il nostro volgare italiano». Nulla vi
ho appreso: bensì molto da MAFFEI SCIPIONE, Verona illustrata, tom. II. p.
540 e segg.; GIO. GALVANI, Delle genti e delle favelle loro in Italia (Firenze
1849); SEB. CIAMPI, De usu linguæ latinæ saltem a sæculo quinto; DOMENICO
BARSOCCHINI, Sullo stato della lingua in Lucca avanti il Mille (Lucca 1830).

70
parvulum, quem burgum vocant. Poichè la lingua scritta
era diversa dalla parlata e doveasi impararla, tanto valea
studiare quella o la greca78. Onde usavasi indistintamen-
te il greco; fin i primi cristiani se ne valsero, e Giustino
e Taziano, che pur pubblicavano le loro apologie a Ro-
ma: e Tertulliano fu il primo cristiano che scrivesse in
latino, benchè il facesse anche in greco: lo stesso Giu-
seppe Ebreo, onde presentare la sua storia all'imperatore
romano, la fece tradurre dall'ebraico in greco: greche so-
no spesso le iscrizioni anche mortuarie, e con caratteri
greci.

78
Questo fenomeno si riproduce anche oggi fra gli Arabi, dove la lingua del
Corano è sol propria della letteratura, e fra gli Armeni, ove l'haikano si usa
solo nelle scuole.

71
§ 8°
Della pronunzia.

Occorre dimostrazione per far convinti che la pronun-


zia volgare fosse diversa da quella delle persone colte?
È essa un accidente sfuggevole, per modo che non si co-
nosce se non per congetture; ma abbiamo qualche noti-
zia certa di alterazioni fonetiche. In essa elidevano spes-
so la m, la c, la s finali. Oltre l'uso dei poeti antichi che,
per esempio, finiscono l'esametro con Ælius sextus, ov-
vero optimus longe, questo detrimento è attestato da Vit-
torino (De orthogr.): Scribere quidem omnibus literis
oportet, enuntiando autem quasdam literas elidere.
Quintiliano (IX. 4) dice che la m appena pronunziavasi:
Atqui eadem illa litera, quoties ultima est, et vocalem
verbi sequentis ita contingit, ut in eam transire possit,
etiam si scribitur, tamen parum exprimitur, ut MULTUM
ILLE et QUANTUM ERAT, adeo ut pene cujusdam novæ literæ
sonum reddat. Neque enim eximitur, sed obscuratur, et
tantum aliqua inter duas vocales velut nota est, ne ipsæ
coeant. Cassiodoro79 cita un passo di Cornuto, ove dice
che il pronunziare la m avanti a vocale durum ac barba-
rum sonat; par enim atque idem est vitium, ita cum vo-
cali sicut cum consonanti m literam exprimere. Era que-
sta una fina distinzione che al volgo dovea sfuggire. E
però la m è taciuta in molte epigrafi80, come per esempio
79
De orthogr., cap. I.
80
Cerca l'Index del Grutero.

72
ante ora positu est. La m finale dovea dare alla sillaba
un suono nasale, simile all'on, en francese, conservatosi
in alcuni dialetti italiani, dove pure non toglie l'elisione
colla vocale susseguente. Infatti il cum diede origine a
confondere, constantia, conquero; e in italiano originò e
il come e il con.
Anche mutavano l'u in o (servom, voltis); pronunzia-
vano o invece di e o di au (vostris, olla per aulla), e il v
pel b (vellum per bellum); col che da culpa, mundus, fi-
des, tres, aurum, scribere, sic, per hoc, escono colpa,
mondo, fede, tre, oro, scrivere, sì, però. Onde Festo81
scrive: Orata genus piscis appellatur a colore auri,
quod rustici ORUM dicebant, ut auricolas ORICOLAS.
È dell'indole dell'italiano l'omettere la nasale avanti la
sibilante, sicchè da mensis, impensa femmo mese, spe-
sa. Ora questo usava già fra gli antichi, e Cicerone pro-
nunziava foresia, hortesia, megalesia, e nelle lapide ri-
corrono albanesis, alliesis, ariminesis, africesis, atenie-
sis, castresis, miseniesis, narbonesis, ostiesis, picenesis;
come anche clemes, pares, potes per clemens, parens,
potens.
Sembra poi che gli Umbri trascurassero regolarmente
le finali, massime le nasali, poichè nelle loro iscrizioni
troviamo vinu, vutu, nome, tota jovina per vinum, vul-
tum, nomen, totam jovinam (civitatem iguvinam); e an-
che dagli Osci abbiamo scritto via pompaiiana terem-
nattens per viam pompejanam terminaverunt. Negli

81
De verb. signif., XVI.

73
Umbri ancora riscontriamo fuia, habia, habe, portaja,
mugatu per fuat, habeat, habet, portet, mugiatur, e fasia
per faciat, che ricorre nel volsco.
La terminazione culo dagli Osci e dagli Umbri con-
traevasi in clo, e lo facevano pure i Romani, sicchè ne
nascevano apicla, oricla, circlus, cornicia, oclus, panu-
cla, pediclus, masclus,... che facilmente convertivansi
ne' nostri pecchia, orecchia, cerchio, occhio, cornac-
chia, pannocchia, pidocchio, maschio.
È presumibile che nella parlata de' Latini già usassero
certi scambj di lettere che troviamo tuttodì nelle nostre,
e massime nella toscana. In planus, plenus, glacies e si-
mili, la l fu cambiata in i, come tuttodì fa il volgo dicen-
do i ‒ padre ‒ voi fare ‒ ai campo ‒ moito ‒ aito. Già
Catullo beffava un Arrio, che aspirava le vocali, dicendo
hinsidias, hionios, e fu chi quell'Arrio suppose toscano,
per indurre che già allora adopravasi in quel paese
l'aspirazione, che ora ne è quasi caratteristica. Certa-
mente l'aspirazione del c doveva essere abbastanza usa-
ta, se alterò alcune voci greche, come camus in amus,
chortos in hortus, cheimon in hiems. Il c confondeasi
col t, dicendo indifferentemente condicio, nuncius, ser-
vicium, e conditio, nuntius, servitium, come oggi si dice
schiantare, schietto, maschio, al par di stiantare, stietto,
mastio, e nel volgo andache, ho dacho.
Il v talvolta è soppresso, come in facea, fuggìa, e tra i
volgari in arò, arei, laoro, faorire; e forse già diceasi
caulis e cavolis, come oggi caolo e cavolo, manualis e
manovalis.
74
Molte volte al semplice o latino è sostituito nell'italia-
no l'uo, come vuole, duolo, suolo, e probabilmente già
faceasi dal volgo, che anche da noi usa ancora pote, vo-
le, dolo.
Inclina anche oggi il volgo a trarre tutti i verbi alla
prima conjugazione; e fa vedano, leggano, sentano
all'indicativo, e al congiuntivo vedino, legghino, sentino.
Molto si studiò recentemente sopra gli accenti, e se
non si saprebbe alla prima indicare come da dixerunt,
fecerunt derivassero gli sdruccioli dissero e fecero, non
sarebbe difficile provare che vecchiamente si usava dis-
serono, fecerono: da cui disseno, feceno per sincope.
Quella desinenza no è caratteristica del plurale, talmente
che il popolo talvolta l'applicò anche ad altre voci che ai
verbi, come ad eglino ed elleno. Del resto il popolo dice
andàvamo, volèvamo dove i colti fanno piana la voce,
cioè mantiene l'accento sulla radicale, come fanno co-
stantemente i Tedeschi82.
Molte voci contraevansi, come populus, circulus, sol-
dum, lardum, sartor, posti, del che è qualche vestigio
pur nello scritto; e Quintiliano ( I. 6) dice che Augusto
pronunziava calda invece di calida. Meus dovette dirsi
mius, del che è restato il vocativo mi: e in Ennio abbia-
mo debil homo.
E che veramente il modo di pronunziare s'accostasse
più che lo scritto a questo che usiam noi, ce ne sono ar-
gomento i tanti errori delle iscrizioni. Un vaso trovato a

82
Fra altri vedi SCHUCHARDT, Der Vokalismus des vulgärlateins. Lipsia 1866.

75
Pompei porta scritto, Presta mi sincerum (vinum). Le
bizzarre iscrizioni, ivi graffite da mani plebee e soldate-
sche, oltre le scorrezioni ortografiche, hanno anche erro-
ri grammaticali e modi plebei. Per esempio: Saturninus
cum discentes rogat. Cosmus nequitiæ est magnissimæ
‒ O felice me83.
Crescono tali errori nelle epigrafi de' primi tempi cri-
stiani, errori che ravvicinano le parole alle nostre italia-
ne. Nei recenti scavi a Ostia: Loc. Aphrodisiaes cum
deus permicerit. ‒ Cœlius hic dormit et Decria quando
Deus boluerit. Dal cimitero di Sant'Elena in Roma fu
scavata questa del terzo o quarto secolo:
Tersu decimu calendas febraras
decessit in pace quintus annoro
octo mensorum dece in pace.
In un'altra sta:
Gaudentius in pace qui vixit annis XX
et VIII mesis cinque dies biginti
apet depossone X kal. octobres.
Il Muratori84 adduce epitafj del cimitero di Santa Ce-
cilia in Roma, d'età certo antica, che dicono:
Qui jacet Antoni
Dio te guardi
et Jacoba sua uxor.
Madoña Joaña
83
V. GARRUCCI. Inscriptions gravées au trait sur les murs de Pompei, e ARM.
a GUERICKE, De lingua vulgaris reliquiis apud Petronium et inscriptionibus
parietariis pompejanis. Lipsia 1875.
84
Novus thesaurus, vol. IV. pag. 1829.

76
uxor de Cecho
della Sidia
e in San Biagio sotto al Campidoglio:
Ite della dicta echiesa.
In più d'un sigillo antico è scolpito vivat in Dio o in
Diu85.
In altre iscrizioni l'apostrofe sta spesso in luogo della
m, onde clarissimu', multo', annoro': Zulia per Julia è
citato da Celso Cittadini86, in una lapide presso il Bosio;
Olympios bixit annos tres, meses undeci, dies dodeci in
pace; in altre bresciane si ha Asinone, Caballaccio, Ma-
rione, Musone, Paulacius.
In alcune incontri perfino l'i efelcustico, che sembra
singolarità del nostro vulgare, leggendosi in una iscri-
zione delle Grotte vaticane AB ISPECIOSA. In una pit-
tura delle Catacombe è figurata un'agape, e vi si legge
Irene da calda ‒ Agape miscemi 87. E in un'altra iscrizio-
ne: Bellica fedelissima virgo impace.
Quello che Quintiliano dice che «ciò che mal si scri-
ve, di necessità mal si pronunzia», può anche voltarsi a
dire che mal si scrive ciò che mal si pronunzia: e l'essere
le iscrizioni per lo più di cristiani, cioè di gente ineduca-
ta e affettuosa, appoggia sempre meglio il mio assunto,
che il parlare nostro odierno sia il vulgare medesimo di
Roma antica.
85
Bullett. di archeol. cristiana, anno v. 78.
86
E nel Corpus Inscript. Græc., n° 6710, vedesi Ζουλιαε per Juliæ in epi-
grafe pagana: Zesus per Jesus è in Boldetti, pagg. 194, 205, 208, 266.
87
Bottari, Pitture, tom. II. tav. 112.

77
Questo accadeva nelle vicinanze di Roma; ora che
doveva essere nelle provincie, discoste dal luogo dove
meglio si parlava e proferiva, e dove sopravviveano i
prischi dialetti? Racconta Erasmo che, essendo venuti
ambasciatori d'ogni gente d'Europa per congratularsi
con Massimiliano d'Austria fatto imperatore, recitarono
un'orazione, tutti in latino, ma pronunziandola ciascuno
a modo del suo paese, sicchè fu creduto si fosse ognuno
espresso nella lingua materna88. Argomentatene come
dovesse alterarsi il romano idioma su bocche sì diverse,
e come soffrirne l'ortografia, attesochè, quando più la
coltura scemava, gli scrivani s'attenevano mentosto al
letterario che all'uso della pronunzia.

88
Quando il generale La Romana riconduceva verso la patria il corpo di
Spagnuoli che Napoleone l'avea costretto menare in Pomerania, i professori
di Gottinga vollero festeggiarlo con un'accademia. Recitarongli anche un
indirizzo in latino, ma egli dichiarò non poter rispondere, perchè non capi-
va il tedesco.
La discordanza fra la pronunzia e la scrittura nasce o dal mancare segni che
esprimano certi suoni, o dall'essersi alterata la pronunzia. Ciò rende proba-
bile che in Francia si pronunciasse anticamente come ora si scrive: e ciò
rendesi più credibile da chi oda in Piemonte proferirsi autr, aut.

78
§ 9°
La traduzione della Bibbia.

Se dunque si avesse a scrivere un libro, non più per la


classe eletta e letterata, ma pel popolo, sarebbe dovuto
riuscire pieno di que' modi, che noi asseriamo correnti
fra il vulgo, e inusati alla raffinata letteratura. Or questo
libro c'è, non fatto dopo già sfasciato il latino, ma ai
tempi di Tacito e di Svetonio, quando appena l'età
dell'oro cedeva a quella d'argento, quando Barbari non
erano intervenuti ancora a mescolare elementi eteroge-
nei. Alludiamo alla versione della Bibbia, che risale al
primo secolo; e fu poi riformata da san Girolamo, il
quale pure viveva prima dell'invasione dei Barbari 89.
89
È notevole che san Girolamo avverte che la sua traduzione diversificherà
dalle precedenti, ma che mal lo appunterebbero quei maligni, che, mentre
chiedono piaceri sempre nuovi, sol nello studio delle Scritture prediligono
il sapore antico. Editio mea a veteribus discrepant... Perversissimi homi-
nes! cum semper novas expetunt voluptates... in solo studio Scripturarum
veteri sapore contenti sunt. Pref. ai Salmi.
La traduzione latina della Bibbia anteriore a san Girolamo, detta l'italica,
vorrebbe porsi verso il 185 dopo Cristo, cioè imperando Commodo, ponti-
ficando Vittore. Alcuni, e particolarmente il Tischendorf nel Nuovo Testa-
mento stampato a Lipsia il 1864, la credono fatta in Africa, atteso che in
Italia usavasi comunemente la lingua greca: opinione sostenuta dal Wise-
man, dal Lachman, dal Ranch, dal Lahir.
I loro argomenti non mi persuadono.
I. Sant'Agostino, africano, la chiama itala.
II. Il Wiseman ne adduce prove filologiche, perchè quella versione ridonda
di modi antiquati, i quali sogliono ritenersi viepiù nelle provincie lontane
dalla capitale. Tali sarebbero i verbi deponenti in significato passivo (ho-
stiis promeretur Deus. Hebr., XIII. 16): composizioni di verbi col super; su-
perædifico, superexalto, o coll'in come intentator: i verbi in ifico, come

79
Ora, in essa abbondano gl'idiotismi, che sono sentenziati
per errori e barbarismi, sebbene molti abbiano riscontro
nei classici. Quell'in sæculum sæculi ripetuto, è in Plau-
to: (Perpetuo vivunt ab sæculo ad sæculum: (Miles
glor., IV. 2). «Viderunt Ægyptii mulierem quod esset
pulchra nimis» (Genesi, XII. 14) risponde al plautino Le-
mortifico per uccido, vivifico, clarifico, magnifico ecc.: altre composizioni
rozze, come multiloquium, stultiloquium, sapientificat, e terminazioni in
osus, come herniosus, ponderosus; inusitate costruzioni di verbi, come do-
minor col genitivo, zelare coll'accusativo, faciam vos fieri piscatores homi-
num (Matt., IV 19); mutazioni di tempi, cum complerentur dies pentecostes
invece di completi essent, e in san Luca: Ad faciendam misericordiam cum
patribus nostris et memorari testamenti sui. Il Maj, il Rancke, il Vercellone,
il Cavedoni notarono nella versione itala moltissime voci non usate da clas-
sici, e il De Vit le raccolse nella ristampa del Lexicon totius latinitatis:
Retia rete
abiutus
advenio accadere
ascella
maletracto
manna manata
martulus martello
prendo
regalía
satullus
combino congiungere
glorio lodare
scamellum scannello
boletarium catino
altarium altare;
forme grammaticali errate, plaudisti, avertuit, odiet, odiunt, odivi, lignum
viridem, demolient per demolientur, sepelibit, eregit, prodiet, prævarico per
prævaricor, partibor, metibor, exiam, exies, perient, scrutabitis, abstulitum
est. Ma tutto ciò perde valore ove si ammetta con noi la persistenza d'un
parlar vulgare, distinto dal letterario, in Roma stessa; aggiungendo che que-
sti modi e queste enallagi riscontransi talora o in Plauto o nei più antichi. Il
Cavedoni (Saggio sulla latinità biblica dell'antica vulgata itala. Modena

80
giones educunt suas nimis pulchris armis præditas (Am-
phitr., I, 1). Il Servitutem qua servivi tibi (Gen., XXX. 26)
all'Amanti hero servitutem servit (Aulul., IV. 4): l'Ignoro
vos (Deut. XXXIII. 9) al Ne te ignores (Captiv., II. 3): il
Feci omnia verba hæc (III Reg., XVIII. 36) al Feci ego
isthæc dicta quæ vos dicitis (Casina, V. 4). Bonum est
confidere in Domino quam confidere in homine, dice il

1860) prova col Simom, col Westenio, col Millio, col Griesbach, col Mar-
tianay, coll'Hug, non presentar essa versione alcun carattere che sforzi a
crederla africana: al più, concedendo fosse eseguita a Roma da qualche
africano.
III. Tertulliano (de Præscript., c. 36) dice che la fede penetrò in Africa in
un colle sacre Scritture per opera della Chiesa romana. Occorrerebbero
prove più dirette per mostrare che queste Scritture v'andarono in greco, e
per dar ragione dell'esser dappertutto chiamata itala quella versione, se fos-
se venuta dall'Africa. In Africa poi il latino era stato introdotto dai soldati
romani, i quali doveano parlar la lingua popolare, anzichè la classica: tal-
chè, se anche potesse provarsene l'origine africana, nulla pregiudicherebbe
al nostro assunto. Al quale serve un passo d'oro di sant'Agostino, De doctr.
Christiana, l. II. c. 15, n. 21: Tanta est vis consuetudinis etiam ad discen-
dum, ut, qui in Scripturis sanctis quodammodo nutriti et educati sunt, ma-
gis alias locutiones mirentur, easque minus latinas putent quam illas quas
in Scripturis didicerunt, neque in latinæ linguæ auctoribus reperiuntur. Ec-
co già allora la distinzione fra il latino classico e il popolare che diveniva
ecclesiastico. Esso Agostino nota spesso nella Vulgata espressioni che non
sunt in consuetudine literaturæ nostræ, o magis exigit nostræ locutionis
consuetudo (De locutionibus Scripturarum). Così appunta il mane simul ut
oritur sol manicabis; e dice: Manicabis latinum verbum esse mihi non oc-
currit. Eppure, nel senso di levarsi di buon mattino, trovasi nell'antico sco-
liaste di Giovenale. Altrove appunta il florierat e floriet, eppure si trovano
senza osservazioni in Ilario (in Psal. 133); e in un'iscrizione metrica di Ma-
gonza si legge, Rosa simul florivit et statim perit. Sicchè le attenzioni di
sant'Agostino sulla latinità della Vulgata voglionsi intendere come relative
al latino classico. Ed egli stesso (contro Fausto Manicheo, IX. 2) vuole si ri-
corra ad veriora exemplaria della Bibbia, e tali esser quelli della Chiesa ro-
mana, unde ipsa doctrina commeavit.

81
Salmo CXII. 8; e Plauto: Tacita bona est semper quam lo-
quens (Rudens, IV. 4). Il Miscui vinum de' Proverbj, (IX.
5) è sostenuto dal Commisce mustum della Persa, I. 3; il
Tibi dico surge di san Marco, V. 41, dall'Heus tu, tibi di-
co, mulier del Pœnul., V. 5; il Dispersit superbos mente
cordis sui di san Luca, I. 51, dal Pavor territat mentem
animi dell'Epidic., IV. 190. Anzi io credo che i siffatti fos-
sero forme popolari, già vive al tempo di Nerone, e so-
pravvissute ne' vulgari odierni, come tant'altri di cui dia-
mo un saggio:
Mensuram bonam... et supereffluentem dabunt in si-
num vestrum. Luca, VII. 38.
Repone in unam partem molestissima tibi cogitamen-
ta. IV Esdra, XIV. 14.
Et nemo mittit vinum novum in utres veteres. Luca, V.
37.
Populus suspensus erat audiens illum. XIX. 48.
Quærebant mittere in illum manus. XX. 19.
Sed meno misit super eum manus. Giov., VII. 44.
Quasi absconditus vultus ejus et despectus, unde nec
reputavimus eum. Isaia, LIII. 3.
Non est dicere, quid est hoc, aut quid est istud. Eccl.,
XXXIV. 26.
In electis meis mitte radices. Eccl., 24.
In tempore redditionis postulabit tempus. XXXIX. 6.
90
Vedi DOM MARTIN, Explications de plusieurs textes difficiles de l'Écriture.
Herman Rönsch, Itala und Vulgata. Marburg 1875, mostra la grande in-
fluenza di queste due versioni sulla civiltà e gli studj in Occidente, e sulla
trasformazione delle lingue.

82
Habebat Judam semper charum in animo, et erat viro
inclinatus. II Macab., XIV. 24.
Ipsi diligunt vinacia uvarum. Osea, III. 1.
Sed rex, accepto gustu audaciæ Judaeorum. IV Ma-
cab., XIII. 18.
Etiam rogo et te, germane compar, adjuva illas. Paolo
ad Philip., IV. 3.
Moyses grandis factus. Paolo ad Hebr., XI. 24.
Cum dixerint omne malum adversum vos. Matteo, V.
11.
Et omnes male habentes curavit. VIII. 16.
Mulier, quae sanguinis fluxum patiebatur. IX. 20.
Corripe eum inter te et ipsum solum. XVIII. 15.
Apud te facio pascha. XXVI. 18.
Par turturum. Luca, II. 24.
Spero os ad os loqui. II Giov., 12.
Oblatus est... et non aperuit os suum. Isaia, LIII. 7.
Voi ci vedete i nostri modi «dar la buona misura, met-
ter radice, mettere da una banda, essere inclinato ad uno,
prenderci gusto, compare, diventar grande, dire tutti i
mali, aver male, patir un male, tra sè e lui, far pasqua,
bocca a bocca, non aprir bocca, stare sospeso, mettere le
mani addosso, non crederlo lui, ecc.». Notiamo per ulti-
mo questo di san Luca, VII. 40: Simon, habeo tibi ali-
quid dicere. E in illa hora, come diciamo in allora.
Mentre i precettori sentenziano la versione della Bib-
bia di corruzione e barbarie, il buon critico in quei salmi
sente l'idioma del Lazio prendere un vigore inusato, e,
per secondare la sublimità de' concetti e l'idea dell'infi-
83
nito, ripigliare la nobile altezza che dovette avere nei sa-
cerdotali suoi primordj, un'armonia diversa da quella
che i prosatori cercavano nel periodeggiare e i poeti
nell'imitazione dei metri greci, e che pure è tanta, da far-
la ai maestri di canto preferire persino all'italiano.
Questo rifarsi della favella plebea, questo ritorno ver-
so l'Oriente dond'era l'origine sua, avrebbe potuto rin-
giovanire il latino, infondendogli l'ispirato vigore delle
belle lingue aramee e la semplice costruzione del greco;
ma troppo violenti casi sconvolsero quell'andar di cose;
e quando l'Impero cadeva a fasci, era egli a promettersi
un ristoramento della letteratura?

84
§ 10°
La lingua latina si sfascia.
Età del ferro.

Nell'età che intitolarono del ferro, la crescente adula-


zione trovò qualificazioni enfatiche a lusingare i fortis-
simi e felicissimi ed incliti e provvidentissimi e vittorio-
sissimi monarchi, e quella serie di illustri e magnifici
conti, patrizj, maestri ed altri. Gl'imperatori, man mano
che scadevano di grandezza e potenza, si puntellavano
con titoli ampollosi, parlando in nome della loro sereni-
tas, tranquillitas, lenitudo, clementia, pietas, mansuetu-
do, magnificentia, sublimitas, perfino æternitas come
fece Costanzo. Al greco si ricorse non solo dagli scien-
ziati, ma anche negli uffizj civili e domestici, massime
dopo trasferita la capitale a Costantinopoli91. Partita al-
91
Allora troviamo acedia e acidia; agon per agonia; angariare per costrin-
gere: anathema, anatomia, apocrisarius, blasphemare camelasia carica di
mantenere i camelli; blatta per porpora; canceroma per carcinoma; chaos;
decaprotia dieci primi, diabolus, elogiare, enlogium, hypocrisis, idolatria,
neotericus, plasma, sitarcia provvigione pei vascelli, sitona intendente alla
compra dei grani, ecc. ecc., mastigare (μαστιγῶ), come pure abominatio,
beatitudines in plurale, burgus, capitatio, cervicositas caparbietà, collurci-
natio per comissatio, computus, concupiscentia, consistorium, constellatio,
creatura, cuprum, desitudo, desolatio, dominicum per templum, exibitor,
figmentum, habitaculum, hortolanus, incentivum, incentor, incolatus, infe-
minium e fœminal, inordinatio, juratio e juramentum, latrunculator, legu-
lus, localitas, magistratio, matricula, mediator, notoria lettera, partecipa-
tio, prævalentia, protectio, rectitudo, sanctimonium, sufficientia, triumpha-
tor, ecc. E ciò oltre le voci cristiane di abyssus, agape, anastasis, apostata,
baptizare, cœnobium, catholicus, clericus, eleemosyna, eremita, ethnicus,
gehenna, laicus, martyr, monasterium, orthodoxus, papa, propheta, proto-

85
lora la gente meglio stante colla Corte, ringhiera e sena-
to a Roma ammutoliti, nè corpo di scrittori o impero di
tradizioni conserva l'aristocratica castigatezza; sicchè il
latino, come uno stromento complicato in mani inesper-
te, dovette alterarsi viepiù quanto più sintetico, e perchè
non procede per mezzi semplici secondo il rigoroso bi-
sogno delle idee, ma con tanti casi e conjugazioni e arti-
ficiosa inversione di sintassi.
Sottentra allora il pieno arbitrio dell'uso, cui stromen-
ti sono il tempo e il popolo, operanti nel senso medesi-
mo. Il popolo vuole speditezza, e purchè il pensiero sia
espresso, non sta a curarsi d'esattamente articolare la pa-
rola o di valersi di tutti gli elementi, lusso grammaticale.
Alla finezza di declinazioni e conjugazioni sostituì la
generalità delle proposizioni e degli ausiliarj, specificò
gli oggetti coll'articolo, mozzò le desinenze. Pei quali
modi la lingua latina non imbarbariva come suol dirsi,
ma tornava verso i principj suoi, riducendosi in una più
semplice, poco o nulla distante dalla nostra odierna; la
lingua scritta accolse in maggior copia voci e forme del-
la parlata, modificate secondo i paesi: donde quel la-
mento di san Girolamo, che la latinità ogni giorno mu-
tasse e di paese e di tempo92.
Ajutarono siffatta evoluzione gli scrittori ecclesiasti-
ci, che più non dirigendosi a corrompere ricchi e ingra-

plastes primo creato, scandalum, ecc. E sant'Agostino scrive pausare arma


josum, posar giù le armi.
92
Quum ipsa latinitas et regionibus quotidie mutetur et tempore. Comm. in
ep. ad Galatas, II. prol.

86
ziante letterati, ma recando al vulgo le parole della vita
e della speranza, non assunsero la lingua eletta, ma la
comune, la vernacola. Essi mostrano sprezzare l'elegan-
za e persino la correzione; sant'Agostino dice che Dio
intende anche l'idiota, il quale proferisca inter homini-
bus; san Girolamo professa voler abusare del parlar co-
mune per facilità di chi legge93. Gregorio Magno era uno
degli uomini più colti del suo tempo, amava le belle arti,
come provano e gli edifizj che procurò e l'innovamento
della musica; a' suoi giorni ancora nel Foro Trajano si
tenevano circoli per leggere Omero e Virgilio, come og-
gi a Napoli e a Roma si legge l'Ariosto. Eppure Grego-
rio sentenziava di affettazione il voler ridestare le tradi-
zioni della grammatica classica; e guidato dal senso pra-
tico, vide che quei che diceansi barbarismi non erano
che trasformazione, e non esitava a dichiarare che non
evitava il barbarismo e il solecismo. Or quando esso ed
altri santi Padri professavano non volersi attenere alla
grammatica, nessuno li supporrà così bizzarri da far er-
rori di proposito; bensì scrivevano come si parlava dal
popolo pel quale scrivevano, e farsi capire da questo
premeva a loro ben più che l'evitare gli appunti dei
grammatici.
A torto però si attribuisce ai soli scrittori ecclesiasti-

93
Volo, pro legentis facilitate, abuti sermone vulgato. Ep. ad Fabiolam.
Sant'Agostino, Et potui illud dicere cum tracto vobis: sæpe enim et verba
non latina dico ut vos intelligatis (Enarr. in Psalm., 123, 8). Sic enim potius
loquamur; melius est reprehendant nos grammatici, quam non intelligant
populi (In Ps., 138, 20. 8).

87
ci94 il peggioramento del latino. Anche gli scrittori pro-
fani rifuggivano al rancidume, adoprando fortivile, inte-
ribi e postibi, obaudire per obedire, penitudo, pigrare e
repigrare, prolubium, rancescere, repedere per reddere,
rhetoricare, sublimare, usio per usus. Quali abbandona-
vansi a incondite novità di parole, di composti 95, di desi-
nenze, di significato: crebbero gli astratti 96; formaronsi

94
È a vedere con che ginnasiale compunzione David Runkenio (Prefazione
al lessico latino-belgico di G. Sheller. Leida 1789) si lagni dello stile di
Tertulliano: Fecit hic quod ante eum arbitror fecisse neminem. Etenim,
cum in aliorum vel summa infantia appareat tamen voluntas et conatus be-
ne loquendi, hic, nescio qua ingenii perversitate, cum melioribus loqui no-
luit, et sibimet ipse linguam finxit, duram, horridam, Latinisque inauditam,
ut non mirum sit per eum unum plura monstra in linguam latinam, quam
per omnes scriptores semibarbaros esse invecta. Ecce tibi indicem atrum
paucorum e multis verborum qua viris doctis non puduit in lexica recepis-
se: Accendo pro lanista, captatela pro captatio, diminoro pro diminuo, ex-
tremissimus, inuxorius, irremissibilis, libidinosus gloriæ, pro cupidus glo-
riæ, linguatus, multinubentia pro polygamia, multirorantia, noscibilis, no-
lentia, nullificamen pro contemptus, obsoleto pro obsoletum reddo, olentia
pro odor, pigrissimus, postumo pro posterior sum, polentator, recapitulo,
renidentia, speciatus, templatim, temporalitas, virginor, visualitas pro fa-
cultas videndi, viriosus pro viribus præstans.
95
Historiographus, psalmographus, antecantamentum, suppedaneum,
mundipotens, semijejunus, justificare, glorificare, congaudere e simili;
multilaudus, multiscius, multivira e simili; disunire, abbreviare, exambire,
compatior, compeccator, confœderatus, superintendens, multimodus, urbi-
cremus, ventriloquus, unigenitus, deificus, ludivagus, parvipendulus, ovi-
parus, blandificus, docticanus, inaccessibilis, incarnatio.
96
Accessibilitas, calamitas, almitas, antistatus, christianitas, deitas, infini-
tas, negotiositas, nescientia, nimietas, populositas, possibilitas, secabilitas,
summitas, supremitas, ternitas, uniformitas, visibilitas, ecc. Indi adjacen-
tia, allodium, cambium, mansum, benefactor, epistolarius, disciplina cor-
poralis per supplizio, farinarium per mulino, incultio per oratio inculta.

88
nuovi aggettivi97, nuovi verbi98.
Di desinenze cambiate offrono esempio i nomi adop-
tatio, ædifex, agrarium per ager; albedo, altarium, al-
ternamentum, baptismum, cautela, colludium, concin-
natio, ecc.99 e i verbi effigiare, exhereditare, honorifica-
re, magnificare, obviare, significare, resplenduit, ecc.
97
Abecedarius, affectuosus, bestialis, caminatus, carnalis, clericalis, coæ-
vus, coætaneus, complex, disciplinatus, doctrinalis, dulciosus, æquanimus,
flectibilis, incessabilis, incitator, interitus (perditus), labilis, localis, magi-
stralis, momentaneus, noscibilis, ottatus, partibilis, passibilis, populosus,
præfatus passivamente, primordialis, proficuus, pusillanimus, sensatus,
sensualis, spiritualis, superbeatus, vassionalis.
98
Annullare, aptificare, assecurare, augmentare, calculare, captivare, cas-
sare, certiorare, coinfantiare, confortare, contrariare, decimare, deteriora-
re, deviare, excommunicare, exorbitare, familiarescere, fœderare, fructifi-
care, humiliare, intimare, jejunare, justificare, latinizare, meliorare, men-
surare, minorare, propalare, rationare, repatriare, salvare, sequestrare, su-
bjugare, tenebrare, unire, ecc. Dai quali si trassero moltissimi avverbj in
iter, oltre medio per mediocriter, e contra per e contrario, quoquam per un-
quam, non utique per neutiquam, efficaciter per certe, taliter qualiter, ubi
per quo, ecc.
99
Potremmo aggiungere confœderatio, crassedo, creamen, cruciatio, devo-
tamentum, dubietas, dulcitudo, effamen, erratus, exercitamentum, expecta-
men, favum, honorificentia, humiliatio, gratiositas, indages, infortunitas,
interpolamentum, interpretator, interpretamentum, malitas, malum (pomo
albero), missa e remissa per missio e remissio, nigredo, noscentia, oramen
per oratio, otiositas, pascuarium per pascuum, peccator-trix, peccamen,
præconiatio per præconium, profunditas, rationale per ratio, refrigerium,
rescula e recula (cosetta), regimentum, scrutinium, sensualitas, signacu-
lum, speculatio e speculamen, vindicium per vindicta, vitupero per vitupe-
rator, unio, ecc. E gli aggettivi abominabilis, accessibilis, addititius, æter-
nalis, anxiatus, astreans per astricus, coactius, cœlicus, concupiscibilis,
congruus, cordax per cordatus, creabilis, despicabilis, divinalis, dubiosus e
dubitativus, fallibilis, illustris, infernalis, infirmis, meridialis, multiplicus,
mundialis, notorius, pagensis, participalis, peculiaris, prædicatorius, sa-
pientialis, scholaris, somnolentus, temporaneus per temporalis, urbanicia-
nus, vigilax, ecc.

89
Diez (Grammatik der romanischen Sprache. Bonn
1836) fa ricche e metodiche comparazioni di tutti gli
idiomi romanzi, donde appajono le trasformazioni del
latino, sia successive in uno stesso paese, sia contempo-
ranee in paesi diversi. Poi dagli scrittori della bassa lati-
nità Gellio, Palladio, Tertulliano, Petronio, Celio Aure-
liano, Arnobio, Giulio Firmico Materno, Lampridio e gli
altri della Storia Augusta, Ausonio, Ammiano Marcelli-
no, Vegezio, Sulpicio Severo, i santi Gerolamo e Agosti-
no, Marciano Capella, Macrobio, Sidonio, trae una
quantità di voci, inusate dai classici, e passate nelle sei
lingue romanze.
Trascegliamone qualcuna, attinente all'italiano:
acredo (PALLADIO) acredine.
æramen (TEOD. PRISC.) rame.
acicula e acucula (Cod. Theodos., III. XVI. 1) agucchia.
albedo (SULPICIO, ecc. ecc.) albedine.
ambrex (FESTO) embrice.
astur (FIRM. MAT.) astore.
augmentare (ID.) aumentare.
bacar (FESTO) bicchiere, che suol trarsi dal tedesco beker.
baceolus (S. AGOST.) baggeo, che già notammo.
badius (VARRONE) bajo.
battualia, quae vulgo dicuntur, e
battalia (CASSIODORO) battaglia.
bisaccium (PETRONIO) bisaccia.
burgus (VEGEZIO, castellum parvum quem burgum
vocant).
caballarius (GIULIO FIRMICO) cavaliero.
90
cambire (APULEJO) cambiare.
capsa (ploxinum capsam dixerunt. FESTO) cassa.
carricare (S. GIROL.) caricare.
carruca (SPARZIANO, VOPISCO, ecc.) piccol carro, carrozza.
compassio (TERT., S. AGOST., ecc.) compassione.
confortare (LATTANZ., S. CIPRIANO) confortare.
coopertorium (PANDETTE) copertoio.
coquina (ARNOB., ecc. ecc.) cucina.
falco (F. MATERNO) falcone.
falsare (S. GIR.) falsare.
fanicosus (FESTO) fangoso.
filiaster (in una iscrizione e in ISIDORO di Siviglia) figlia-
stro.
gluto (FESTO) ghiottone.
grossus (SULP. SEVERO).
hereditare (SALVIANO).
hortulanus (MACROB.)
jejunare (TERT.)
juramentum (PANDETTE e altrove).
lanceare (TERT.)
meliorare (PANDETTE).
mensurare (VEGEZIO).
minorare (TERT.)
molestare (PETRONIO)
molina (AMM.) mulino.
papilio (LAMPRIDIO) padiglione.
pausare (VEGEZ. e altri).
pejorare (CEL. AUREL.)
pilare (AMMIANO) pigliare e sacheggiare, piller, pillar.
91
pipio (LAMPRID.) pippione, piccione.
plagare (S. AGOST.) piagare.
populosus (APUL. e altri) popoloso.
pullicenus (LAMPR.) pulcino.
rancor (S. GIR.) rancore.
refrigerium (TERT., ecc.)
regimentum (FESTO) reggimento.
repatriare (SOLIN.)
somnolentus (APUL.)
species (MACROB., PALLAD., ecc.) spezierie.
strata (EUTROP.)
summitas (PALLAD. e altri) sommità.
testa (PRUD. e altri).
tribulare (TERT.) tribolare100.
Contro i solecismi non aveasi più per salvaguardia la
schiettezza della favella corrente, onde dicevasi: pacem
alicui tribuere; vilissime natum esse; bona opera face-
re; peccata remittere; homo pleraque haud indulgens,
per in plerisque; vita interficere; contemplatione alicu-
jus; affectionem habere per habere in animo; profugere
villam per e villa; in pendenti esse; insuper habere; erat
in sermone per rumor erat; urinam facere; trahere san-

100
La lunga dimostrazione che noi abbiamo qui fatta sembra superflua al
Diez, poichè dice: «Le lingue romanze hanno la principale fonte dal latino;
non già dal classico usato dagli autori, ma dal popolare. Che questo si usas-
se accanto al latino classico s'è avuto cura di dimostrarlo con testimonianza
anche di antichi; ma non che fosse bisogno di prove, s'avrebbe, al contrario,
il diritto di chiederne per sostenere il contrario, giacchè sarebbe un'eccezio-
ne alla regola». Vedasi pure il suo Etymologisches Wörterbuch der romani-
schen Sprache. Bonn 1853.

92
guinem per genus ducere. Nè si schivavano inusati reg-
gimenti de' verbi; benedicere, fungi, frui, erudire
coll'accusativo; incumbere, queri, renunciare, contrahe-
re, petere col dativo; amare in aliquo, privare a re, am-
bire ad aliquid.
Come avviene quando la lingua e la letteratura si
staccano dal supremo canone del senso comune, si sbiz-
zarrì a segno, che un tal Virgilio Marone a Tolosa inse-
gnava a' suoi discepoli dodici latinità «per circondare
l'eloquenza di un nuovo lustro, e non comunicare ai pro-
fani le alte dottrine che devono essere privilegio di po-
chi». L'una chiamavasi usitata ch'era la lingua comune;
poi l'assena o abbreviata, la semedìa tra il parlar volgare
e il dotto; la numerìa che alterava il numero dei nomi; la
lumbrosa che allungava il discorso, adoprando quattro
vocaboli invece di uno; la syncolla che invece ne abbre-
viava quattro in una; seguivano la metrofia, la belsabia,
la bresina, la militena, la spela, la polema; tutte produ-
cendo alterazioni, di cui non conosciamo la ragione. E,
per un esempio, invece di ignis, il fuoco era chiamato
ardor, calax, quoquevihabis, spiridon, rusin, fragon, fu-
maton, ustrax, vitius, saluseus, ænon; e con questo ger-
go scriveansi opere di sistematica barbarie.
Un tal fatto, nuovo nella storia della letteratura latina,
raccogliamo dai Classicorum auctorum fragmenta, pub-
blicati dal Maj, e vaglia questo esempio: Bis senos
exploro vechros, qui ausonicam lacerant palatham. Ex
his gemella astant facinora, quæ verbalem sauciant
vipereo tactu struem. Alterum barbarico auctu
93
loquelarem inficit tramitem, ac gemello stabilitat
modello, quaternaque nectit specimina: inclytos
literaturæ addit assiduæ apices: statutum toxico rapit
scripturæ dampno; literales urbanæ movet characteres
facundiæ; stabilem picturæ venenoso obice trasmutat
tenorem. Alius clarifero ortus est vechrus solo, quo
hispericum reguloso ortu violatur eologium, sensibiles
partimi num corrodit domescas. Cetera notentur
piacula, qua italicum lecti faminis sauciant obrizum,
quod ex his propriferum loquelosi in hac assertione
affigis facinus101.
Un singolare documento ci rimane nei comandi, onde
i tribuni dirigevano l'esercizio militare: Silentio manda-
ta implete ‒ Non vos turbatis ‒ Ordinem servate ‒ Ban-
dum sequite ‒ Nemo dimittat bandum ‒ Inimicos se-
que102. Quel bandum per vexillum, quel sequite e seque e
turbatis, imperativi insoliti, corrispondono alle contor-
sioni, che in ogni parlare si fanno pel comando delle mi-
lizie.
Dell'anno 38 di Giustiniano conservasi un istromento
sopra papiro, fatto in Ravenna e già pieno di modi
all'italiana, come domo quæ est ad sancta Agata; intra
civitate Ravenna; valentes solido uno; tina clusa, buti-
cella, orciolo, scotella, bracile, bandilos 103. Ammiano
101
Hisperica famina, tom. V. p. 483.
102
Leggonsi a caratteri greci in un codice latino di Urbicio, scrittore d'arte
militare sullo scorcio del V secolo; donde li copiò il Fabretti, v. 390.
103
Sta in fine della Diplomatica del MABILLON, e in TERRASSON, Hist. de la
jurispr. rom. Vedasi anche FRANCISQUE MASDEU, Hist. de la langue romaine.
Parigi 1840.

94
Marcellino dice che i Romani del suo tempo giacevansi
in carruccis solito altioribus104; e carroccia per carrozza
dice oggi il vulgo lombardo. La Storia Miscella riferi-
sce, al 583, che, mentre Commentiolo generale guerreg-
giava gli Unni, un mulo gittò il carico, ed i soldati grida-
rono al lontano mulattiere nella favella natia, Torna, tor-
na, fratre; onde gli altri lo credettero un ordine di torna-
re indietro, e fuggirono105. Ajmonio racconta che Giusti-
niano ebbe prigioniero il re di certi barbari, e fattoselo
sedere a lato, gli comandò di restituire le provincie con-
quistate, e poichè quegli rispose Non dabo, l'imperatore
replicò, Daras; forma nostrale del verbo dare al futu-
ro106. Il Maj pubblicò una glossa del grammatico Placi-
do, che dice: Mu adhuc consuetudine est; e tuttora usia-
mo mo. Il De Rossi nel Bullettino Archeologico reca un
epitafio anteriore a Costantino, ove è detto Spiritum
Maximi refrigeri Januarius, forma ottativa per refrige-
ret, quale l'usiamo oggi107.
104
Historia, XIV. 6. 9-10.
105
Τῆ πατρώᾳ φωνῇ, τόρνα, τόρνα, φράτρε. THEOPHAN., Chronogr., fol. 218.
‒ Επιχωρίῳ τε γλώττῃ.. ἄλλος ἄλλῳ.., ῥετὸρνα. THEOPHILACT., lib. II. 15.
106
Cui ille, non, inquit, dabo. Ad hoc Justinianus respondit daras. Lib. II. 5.
Ma la voce appartiene piuttosto al cronista, del X secolo, che all'imperatore.
In una lapide pesarese presso il Lanzi leggesi Dono dedro; e in Festo si in-
dica danunt per dant.
107
Nella preziosa raccolta di iscrizioni cristiane, pubblicate dal De Rossi,
incontro altre prove di quanto ho sostenuto.
In una latina con caratteri greci del 269 v'è Consule Kludeio ED Paterno...
ED ispeireito Santo... mortova annorum LV ED mesorum XI: cioè coll'i e col
d efelcustici all'italiana.
Scompare la differenza tra l'accusativo e l'ablativo; onde a pag. 82 abbiamo
un Pellegrinus che vivea in pace cum uxorem suam Silvanam; a pag. 198

95
Nell'Historia Augusta si trova vos ipse: ad fratre suo:
ad bellum Parthis inferre: in Cassiodoro abbiamo pre-
tiare per estimare; in Sidonio cassare, cervicositas, pa-
pa, serietas.
Dopo altri, il Muratori108 adduce iscrizioni del 260, e
fino del 155 dopo Cristo, cioè del tempo degli Antonini,
che potrebbero credersi di età barbara, eppure contengo-
no atti ufficiali. Un istromento ravennate del 540 è poco
men rustico che uno dell'800. Per non esser troppo lun-
ghi noi torremo solo dal lib. VI, p. 546 delle Miscellanee
del Baluzio una formola del 422, che può stare con
qualsivoglia de' secoli barbari: Ob hoc igitur ego ille, et
conjux mea illa, commanens orbe Arvernis in pago illo,
in villa illa. Dum non est incognitum, qualiter cartolas
nostras, per hostilitatem Francorum, in ipsa villa illa,
manso nostro, ubi visi sum manere, ibidem perdimus; et
petimus, vel cognitum faciemus, ut qui per ipsas
stromentas et tempora habere noscuntur possessio
nostra, per hanc occasionem nostrorum pater inter
epistolas illas de mansos in ipsa villa illa, de qua ipso
Agrippina pone un monumento al marito, cum quem vixit sine lesione ani-
mi: a pag. 133 si invita pro hunc unum ora sobolem: a pag. 103 e 133, de
sua omnia, e decessit de seculum. Anche nelle iscrizioni delle catacombe
giudaiche, pubblicate dal padre Garrucci, leggiamo cum Virginium (pag.
50), cum Celesinum (pag. 52), inter dicais (fra i giusti). Qua su vedemmo
mensorum: e altrove pauperorum, omniorum amicus. E così santa per
sancta; sesies per sexies; e posuete per posuit, cioè colla coda al modo to-
scano; come altrove c'è l'iniziale efelcustica, ispiritus, iscribit (pag. 228 del
De Rossi); e la h resa pronunziabile in michi, o tralasciata in oc, ic, ilarus,
ora, Onoriu, o eccessiva in hossa, hoctobres, hordine. In una delle giudai-
che parlasi d'una Venerosa, che ebbe marito per 15 mesi.
108
Antiq. Medii Ævi, diss. XXXII.

96
atraximus in integrum, ut et vindedit ista omnia superiu
conscripta, vel quod memorare minime possimus
judicibus brevis nostras spondiis incolcacionibus, vel
alias stromentas tam nostris, quam et qui nobis
commendatas fuerunt, hoc inter ipsas villas
suprascriptas, vel de ipsas turbas ibidem perdimus. Et
petimus, ut hanc contestaciuncula, seu planetaria, per
hanc cartolas in nostro nomine collegere vel adfirmare
deberemus. Quo ita et fecimus ista, principium Honorio
et Theodosio consulibus eorum ab hostio sancto illo
castro Claremunte per triduum habendi, et
custodivimus, seu in mercato publico, in quo ordo curiæ
duxerunt, aut regalis, vel manuensis vester, aut
personarum ipsius castri, ut cum hanc contestaciuncula
seu plancturia, juxta legum consuetudinem, in
præsentia vestra relata fuerit, nostris subscriptionibus
signaculis subroborare faciatis; ut quocumque
perdiciones nostras de supra scripta per vestra
adfirmatione justa auctoritas remedia consequatur, ut
nostra firmitas legum auctoritas revocent in
propinquietas109. Il Marini adduce una carta del 564, do-
ve leggesi uno orciolo aureo, uno butte, una cuppa, uno
runcilione110.
A questa età ritroviamo dichiaratamente il nome di
lingua italiana; poichè verso il 560, Venanzio Fortunato,
poeta trevisano, cantava:
109
Vedasi SEBASTIANO CIAMPI, De usu linguæ italicæ saltem a seculo quinto,
acroasis.
110
Papiri dipl., p. 124.

97
Ast ego sensus inops, italæ quota portio linguæ.
Importerebbe di colmare la lacuna che resta fra il les-
sico del Forcellini e quello del Ducange. L'uno dà il lati-
no classico, l'altro il latino barbaro: ma realmente nei
tempi di decadenza, nel IV, V e VI secolo, si usarono mol-
te voci, che il Ducange non appoggia che ad autorità del
IX e X secolo. Il vocabolario dunque di que' secoli toglie-
rebbe ogni soluzione di continuità. Un buon avviamento
vi diede Quicherat (Addenda lexicis latinis investigavit,
collegit. Parigi 1862) aggiugnendo al Forcellini circa
7000 articoli, tolti da autori della decadenza.

98
§ 11°
Differenze del latino dall'italiano.

In quel parlare comune, se non ce ne restasse così po-


co, io penso troveremmo già l'italiano nelle sue maniere
e lessiche e grammaticali.
Quanto al fondo, una lingua è l'altra, giacchè quasi
tutte le parole nostre son latine. Ma troppo difficile sa-
rebbe l'indovinare perchè, di due parole viventi nel lati-
no, l'una fosse preferita; così:
propter e per
magis e plus
jubere e mandare
utinam e sic
coram e in præsentia
sumo e prehendo
cogitare e pensare
nequeo e non possum
cras e de mane
vespere e sero
cogitare e pensare
intelligere e capere.
Possiamo credere avvenisse così di altre voci che ora
usiamo diverse affatto, ma che forse avevano un sinoni-
mo, non mai usato dagli scrittori che possediamo, ma
passato nella lingua, come enim, nunquam, etiam, igitur,
ergo, ideo.
Abbiamo mora e remora, forse v'era demora, donde il

99
nostro dimora. Potea esservi sucursus, come cursus e
recursus. Fatigare ci lascia presumere vi fosse fatica,
come litigare, fustigare, navigare, da lis, fustis, navis.
Talvolta il nome si formò da un aggettivo, come anna-
les e diarii sottintendendo libri; come ficatum jecur il
fegato che mangiavasi coi fichi.
Dedotta una parola dal latino, se ne derivarono altre;
come da obblio obbliare, da pettine pettinare, da prezzo
prezzare e i suoi figliuoli; da scimia scimiottare. Talvol-
ta la derivazione è diversa da quel che parrebbe: e p. es.
posare e riposare derivano il primo da ponere, il secon-
do da pausare.
In alcune voci variò l'accento, come in ardere, move-
re, ridere, rilucere, mordere, mungere, nuocere, rispon-
dere, ora abbreviate e più di rado allungate, come in sa-
pere, cadere, e principalmente in nomi, quali filiolus,
linteolus, cristallinus.
Il nostro avverbio in mente viene spontaneo da forme
latine, avendo in Ovidio celeri mente e insistam forti
mente, in Quintiliano bona mente factum, in Claudiano
devota mente, e già in Virgilio Manet alta mente repo-
stum111.
Nella negazione punto, mica, fiore, negotta ci rimase
solo la cosa a cui si paragonava; onde Plauto (Pseudo-
lus, I. 4) neque guttam boni consilii: e Festo dice: rem
nullius pretii dicimus non hecte te facio. E già nel basso

111
Lapo Gianni nella ballata 2 ha
Io non posso leggera mente trare.

100
latino troviamo quel vezzo nostro di unire due negative;
Petronio ha nemini nihil boni facere; poi nelle formole
del Mabillon: nec per meum nullum ingenium nunquam
perdedit; e nel Berquigny (Diplomata, t. I. 1086) nullus
non praesumat de his speciebus nihil abstraere. Il modo
era greco: οὐκ ἐποίησε τοῦτο ὀυδᾶμον ὀυδείς.
Talvolta una parola cambiò senso: ammazzare non si-
gnificò più uccidere colla mazza; necare fu ristretto
all'annegare; tropus del basso latino ci diede troppo; via
dovea dirsi per volta, rimastoci in tuttavia, e un via uno.
Quanto alla forma, alla grammatica, le principali diffe-
renze consistono,
1. nell'indicare la relazione con preposizioni, anzichè
col variare le desinenze; ossia surrogare le pre-posizioni
alle post-posizioni degli idiomi agglomeranti;
2. nel premettere ai nomi l'articolo determinato o in-
determinato;
3. nel formare coll'ausiliario molti tempi del verbo at-
tivo e tutti quelli del passivo: smettendo cioè il verbo
che esprime la passione in atto (legor), per prendere
quello dell'azione in effetto (ho letto)112.
Lasciam via alcune varietà particolari, come i compa-
rativi, come il neutro113, come il verbo deponente, che
112
Vedasi OBRY, Sur le verbe substantif et son emploi comme auxiliaire
dans les conjugaisons sanscrite, grecque et latine.
Sur le participe français et sur les verbes auxiliaires (Nelle Memorie
dell'Accademia d'Amiens).
113
Romani vernacula plurima et neutra multa masculino genere potius
enuntiant, ut hunc theatrum et hunc prodigium. CURIUS FORTUNATIANUS in
PITHOU, Rhetores antiqui, p. 71.

101
non falsarono l'analogia ma l'estesero, e che del resto
sono sporadiche, e derivanti esse pure, per vie indicate
dai filologi, da un tipo anteriore e comune114.
Gli usi grammaticali che accenniamo si riscontrano
anche in altri idiomi del ceppo indo-europeo; fra gli altri
nel persiano e nel tedesco; il che autorizza a credere esi-
stessero già nella lingua parlata a Roma 115. Ce lo confer-
ma il vedere come talvolta scivolassero anche nello
scritto.
E prima le declinazioni sembra che, col tempo, si ri-
ducessero tutte alla II, col plurale in i quale passò
nell'italiano; nel quale del resto sopravvive qualche trac-
cia di declinazioni in io e me, egli e lui, che e cui; sicchè
non può dirsi un sistema innovato di grammatica116.
114
In Prisciano son già citati fabulare, jocare, luctare, nascere, consolare,
dignare, mentire, partire, precare, testare; che nei classici son deponenti.
115
Nel romancio di Coira, invece del passivo laudor, si dice veng ludans;
sunt vegnieus ludans.
116
Nel pronome personale io, tu, noi, voi conservammo dal latino; egli vie-
ne da ille, che forse in dativo faceva illui, prima d'essere contratto in illi; e
di là il nostro lui; e da eccum illui il colui. Al plurale vi affiggemmo il no,
suffisso de' verbi plurali (ama-no, soffro-no) e s'ebbe eglino, elleno. Loro,
coloro, costoro, sono figliati da illorum, istorum; onde si può tacere il se-
gnacaso, e dire il loro consiglio, il costoro piacere, io dissi lui, alma gentil
cui tante carte vergo. Voster è analogo di noster e noi lo preferimmo. Gli
antichi diceano tui, sui, meo, più analoghi al latino.
Me pro mihi dicebunt antiqui, asserisce ancora Festo, e noi pronunziamo
tuttodì me fece, me diede. Anche nis per nobis, donde il ne; ne dissero ecc.
La forma fissionale unica del nome italiano non deriva piuttosto dall'ablati-
vo o dall'accusativo, ma è un esito fonetico, nel quale convergevano i di-
versi casi obliqui del latino casa, ad casa(m), de casa; donu(m), ad do-
nu(m), de dono; nome(n), nomi(na) coi detrimenti fonetici che prima fecero
sparire l'm, poi anche l's, conservata però in tanti linguaggi neolatini (pa-
dres, matres, menos spagnuolo: frades, tempus sardo).

102
Già anticamente, per esprimere le relazioni, ricorreva-
si, oltre le cadenze, spesso alle preposizioni, quando per
ragioni di chiarezza, quando di varietà. Quintiliano (I. 4)
dice: Noster sermo articulos non desiderat; e Gellio (N.
Atticæ, II. 25) che il volgare differisce dal latino perchè
manca di declinazioni e della varietà di desinenze; e
Nonnio reca molti esempj di preposizioni adoprate per
la maggior chiarezza. Ad Augusto, Svetonio appone di
scrivere meno colla retta ortografia, che secondo la pro-
nunzia, tralasciando lettere e fin sillabe, errore comune
(cap. 88); e facendo prima cura l'esprimersi chiaramen-
te, soggiungeva le preposizioni ai verbi, e iterava le con-
giunzioni, alla chiarezza sagrificando la grazia (cap. 86).
Di fatto nel famoso suo testamento troviamo impendere
in aliquam rem, invece di alicui rei; includere in car-
men invece di carmine o carmini. Nè questo vezzo è ra-
ro ne' classici:
Plauto. Filius de summo loco ‒ Hunc ad carnifi-
cem dabo.
Terenzio. Ne partis expers esset de nostris bonis ‒ Si
res de amore secundae essent ‒ Alere canes
ad venandum.
Lucrezio. Portante de genere hoc.
Cicerone. Homo de schola ‒ Declamator de ludo ‒
Audiebam de parente nostro. E così
Efugere de manibus (Rosc. Am., 52).
Cæsar de transverso rogat ut veniam ad se
(15. Att. 4).
Se gladio percussum ab uno de illis.
103
(Milon. 24).
Ecco altri usi del de al modo nostro:
Ut jugulent homines surgunt de nocte latrones.
ORAZIO, Epist.
Una pars orationis de die dabitur mihi.
PLAUTO, Asin., III. 1.13.
Fac ut considerate naviges de mense decembre.
CIC. ad Quint., 2, 5.
Vos convivia lauta de die facitis.
CATULLO, 47, 5.
De principio studuit animus occurrere magnitu-
dini criminis.
CICERO, Sull., 24.
E altrove:
Atticus pecuniam numeravit de suo.
CIC. ad Planc.
Succus de quinquefolio.
PLIN., 26. 4. 11.
Orazio. Cætera de genere hoc ‒ De medio potare die
‒ Rapto de fratre dolentis.
Virgilio. Solido de marmore templa instituam, fes-
tosque dies de nomine Phœbi ‒ Quercus de
cœlo tactas.
Fedro. De credere (in un titolo).
Ovidio. Arbiter de lite jocosa ‒ De duro est ultima
ferro ‒ Nec de plebe deus ‒ De cespite vir-
go se levat.
Plinio. Genera de ulmo.

104
Svetonio. Partes de cœna117.
Negli Agrimensori si ha «caput de aquila, nostrum de
ave, monticelli de terra».
In Cicerone abbiamo: Ad omnes introitus, armatos
opponit ‒ Ad meridiem spectans ‒ Quid ad
dextram, quid ad sinistram sit ‒ Esse sa-
pientem ad normam alicujus.
Varrone. Turdi eodem revolant ad aequinoctium ver-
num ‒ Quod apparet ad auricolas.
Cesare. Magnam hæc res contemptionem ad omnes
attulit.
Livio. Patrum superbiam ad plebem criminari ‒
Incautos ad satietatem trucidabitis ‒ Resti-
tuit ad parentes (II. 13). ‒ Restituti ad Ro-
manos (XXIV. 47).
Parimenti nei classici troviamo il pronome usato al
modo italiano, e l'inde per l'onde o il ne nostro:
Plauto. Cadus erat vini; inde impievi cirneam.
Cicerone. Romani sales salsiores quam illi Atticorum.
Virgilio. Ille ego qui quondam ecc.
Ovidio. Stant calyces, minor inde faba, olus alter
habebat118
E nel Vangelo: «Exiit Petrus et ille alius discipulus ‒
Currebant duo simul, et ille alius præcurrit».
117
Molti esempj siffatti raccolse A. Fuchs nelle Lingue romancie in relazio-
ne col latino (Halle 1849).
Nelle iscrizioni abbiamo miles de stipendiist curator de sacra via, oppida
de Samnitibus.
Il da non si trova prima del quinto secolo.
118
Da inde, ama inde convertivansi in dacci, amane.

105
Da ciò era ovvio il passaggio all'articolo determinan-
119
te : ma neppur dell'indeterminato scarseggiano esempj.
Cicerone. Cum uno forti viro loquor ‒ Sicut unus pa-
terfamilias ‒ Ita nobilissima Græciæ civitas
sui civis unius acutissimi monumentum
ignorasset ‒ Tamquam mihi cum M. Crasso
contentio esset, non cum uno gladiatore ne-
quissimo.
Orazio. Qui variare cupit rem prodigaliter unam.
Cesare. Inter aures unum cornu existit.
Curzio. Alexander unum animal est temerarium,
vecors.
Seneca. Historici, cum unam aliquam rem nolunt
spondere, adjiciunt, ecc.
Plauto. Qui est is homo? unus ne amator? ‒ Est
huic unus servus violentissimus ‒ Unum vi-
di mortuum efferri foras.
Plinio. Tabulam aptatam picturæ anus una custo-
diebat.
Plinio il giovane. Tanta gratia, tanta auctoritas in una
vilissima tunica. Vedi pure Cornelio Nipote
in Hannib., XIII; e TACITO, Ann., II. 30. Uni
libello.
Terenzio. Inter mulieres quæ ibi aderant, forte unam
adspicio adolescentulam ‒ Ad unum ali-
quem confugiebant.
119
È degna d'avvertenza l'analogia comune dell'articolo col pronome dimo-
strativo: in greco ὁ, ἡ, τὸ e ὅς, ἡ, ὁ: in tedesco der, die, das, e dieser, diese,
dieses: in inglese the, this, that: in francese il, le, la.

106
Del qual ultimo verso vienmi a grand'uopo un com-
mento, appostovi da Donato mentr'era ancor viva la lati-
na lingua: Ex consuetudine dicit UNAM, ut dicimus UNUS
est adolescens. Unam ergo τῷ ἰδιοτισμῷ dixit, vel unam
pro quandam.
Si sa che in Omero non si trova l'articolo, onde Ari-
starco asserisce ἐλλείτει γὰρ ὁ ποιητὴς τοῖς ἄρθοις ἀεί.
Quando lo s'incontra, ha un valore diverso. Così τῆ
δεκατῆ non vuol dire il decimo giorno, ma quel giorno,
che era il decimo.
In ciò forse l'imitarono gli scrittori latini, tralasciando
gli articoli, ma ricompajono abbondanti nella Bibbia,
come i segnacasi: Et ecce una mulier fragmen molæ de-
super jaciens, illisit Abimelech. Giudici, IX. 53.
Petrus sedebat foris in atrio, et accessit ad eum una
ancilla. Matteo, XXVI. 69.
Per diem solemnem consueverat præses populo dimit-
tere unum vinctum, quem voluissent, XXVII. 15.
Et videns fici arborem unam, venit ad eam. XXI. 19.
Interrogabo vos et ego unum sermonem. Ivi. 24.
Interrogabo vos et ego unum verbum. Marco, XI. 29.
Unus autem quidam de circumstantibus. XII. 47.
Nella flessione dei verbi, delle sei forme organiche
amo, amabam, amavi, amaveram, amavero, amabo, le
sole tre prime ritenemmo: le altre si circoscrivono cogli
ausiliarj. Ma già il verbo si trova conjugato al modo no-
stro. Invece del futuro usano il passato futuro, duravero,
respiravero, il quale sincopato in duraro, respiraro,
equivale all'odierno, o piuttosto potè formarsi
107
coll'habeo: dicere habeo usavano, e il vulgo a dir ho,
donde dirò; siccome i nostri dicono fu nato per nacque,
ebbe trovato per trovò, fece offensione per offese, ecc.
Parimente si ha in provenzale dir vos ai, in ispagnuolo
hacere lo he; e nel greco moderno θελω pel futuro, εκω
pel passato120. Di fatto quando anticamente si diceva io
120
Il sardo ha il futuro aggi' abè (avrò): a bider l'hamus (a veder l'abbiamo,
vedremo): benner hat a innoge (ha da venir qua, verrà): lu deemus bider:
hamus a mangicare (vedremo, mangeremo).
Nel Bonvisin, poeta milanese del XIII secolo, leggiamo:
Plu he lusir ka l sol quando ha venir quel hora;
più lucerà che il sole quando verrà quell'ora.
E altrove: Se nu speram in lu el n'ha sempre defende
ni n'ha abandonar in tute le nostre vicende:
cioè difenderà e abbandonerà.
E altrove: Quanto plu tu he scombate alcun meo benvojente
tanto ha lo piu meritar aprovo l'onnipotente:
cioè tanto più meriterà.
Quilli k han esse toi amisi fortemente scombaterò:
cioè saranno.
E nel Bescapè, pur poeta milanese di quel tempo:
Et a lor si fe una impromessa
Ked el no li a abandonare
Fin kel mond si a durare.
Così leggo, dove il Biondelli legge nolia (nolit) e sia: e vuol dire che a loro
(agli apostoli) si fe promessa che egli non li abbandonerà fin che il mondo du-
rerà.
Altrettanto avviene del condizionale. Così in Bonvisin:
«Eo gh'heve vontera offende sed eo n'havesse balìa;
io volentieri l'offenderei se n'avessi il potere.
«Ben sope, anze k el te creasse ke tu havissi perire
ke tu per toa colpa havissi dexobedire,
cioè periresti, disobediresti.
«Se l peccador no fosse, segondo ke tu he cuintao
lo fijo dr onnipoente de ti no have esse nao:
non sarebbe nato.
«Quand el saveva dnanze k'um have pur esse perdudi:

108
abbo, io aggio, usavasi pure io amarabbo, io amarag-
gio; ora che si declina ho, hai, ha, si dice amer-ò, amer-
ai, amer-à. La stessa coincidenza appare nel francese e
nel provenzale, nello spagnuolo, nel portoghese: anzi
nel provenzale antico si ha pregarai vos, o pregar vos
ai.
Già nella legge longobarda di Luitprando, tit. 108, §
1, si ha: veni et occide dominum tuum, et ego tibi facere
habeo bonitatem quam volueris ‒ Feri eum adhuc, nam
si feriveris ego te ferire habeo. Il Grutero porta un'iscri-
zione del VII secolo, che legge: Quod estis fui, et quod
sum essere habetis (N° 1062). D'origine simile sarebbe
il condizionale. Or ecco esempj degli ausiliarj avere e
stare:
Cicerone. Satis hoc tempore dictum habeo ‒ Clodii
animum perfecte habeo cognitum, judica-
tum ‒ Bellum nescio quod habet susceptum
consulatus cum tribunatu ‒ Domitas habere
libidines ‒ Si habes jam statutum quid tibi
agendum putes ‒ Aut nondum eum satis
habes cognitum? Nimium sæpe exspertum
habemus ‒ Haec fere dicere habui de natu-

sapeva innanzi che noi saremmo perduti.


In Bonvisin trovasi pure spesso il participio del verbo avere col verbo essere,
al contrario di quel che usa in francese.
«E s'eo no fosse habindho, tu no havrissi quel honor
«Dond tu serissi habindo d'omiunca godbio plen
«Eo sont habindo trop molle:
fosti avuto, saresti avuto, son avuto, per stato.
I Siciliani dicono anche oggi aju statu, ai statu, annu statu.

109
ra Deorum ‒ Bellum habere indictum Diis
‒ Habeo absolutum epos.
Cesare. Idque se prope jam effectum habere ‒ Quo-
rum habetis cognitam voluntatem in rem-
publicam ‒ Præmisit equitatum omnem
quem in omni provincia coactum habebat ‒
Vectigalia parvo prætio redempta habere.
Terenzio. Quo pacto me habueris praepositum amori
tuo ‒ Quae nos nostramque adolescentiam
habent despicatam.
Virgilio. Quem semper honoratum habebo.
Plinio. Cognitum habeo insulas.
Lucrezio dice che alcuni filosofi errarono, «amplexi
quod habent perverse prima viai». A. Gellio riferisce
l'editto antico d'un pretore su quelli qui flumina retanda
publice redempta habent.
La legge Tres tutores porta: «Cum destinatum habe-
ret mutare testamentum». Tale è il frequentissimo com-
pertum habere: e habere conductas. In Plauto trovo an-
che avere per essere, come da noi usa: «Quo nunc ca-
pessis tu te hinc advorsa via cum tanta pompa? ‒ Huc. ‒
Quid huc? quid isthic habet? (che ci ha?) ‒ Amor, Vo-
luptas, Venus, ecc.».
E Tertulliano più alla moderna: «Etiam filius Dei mo-
ri habuit ‒ Si inimicos jubemur diligere, quem habemus
odisse?» che noi diremmo ebbe a morire, abbiamo a
odiare.
A Pompei vedesi scritto: Abiat Venere pompejana
irada qui hoc læserit.
110
Nè mancano esempj di essere come ausiliario. Così
Ovidio: «Quassus ab imposito corpore lectus erat» per
quatiebatur: e in altri, casus esto, vinctus erit, si furtum
conceptum erit, si mortuus erit.
Lucrezio. Manus et pes atque oculi partes animantis
totius extant.
Orazio. Hoc miseræ plebi stabat commune sepul-
crum: e in Virgilio Dum Troja staret: nondum Ilium ste-
terat: ubi transmissæ steterant trans æquora classe; e in
altri stabat acuta silex; stant belli causæ; deserta stat
domus. Del quale stare ci sopravanzò stato, verbale di
essere. Anzi anche l'andare come ausiliario mostrasi in
Virgilio (ite solutæ) e in Orazio (dimissus abibis).
Colla lingua dunque a terminazione variata, consueta
negli scritti, viveva quella a terminazione fissa che par-
lavasi, e che crebbe col volgere de' secoli, tanto che
nell'italiano noi ci troviamo aver conservato le parole
che escono in vocale (acqua, stella, porta...), mentre a
quelle in consonante appiccicammo una vocale, o ne
prendemmo l'ablativo (fronte, arbore, libro...)
Il Galvani121 mostrò che ne' primitivi itali c'era si su,
nominativo del sui, sibi, se, e che di là viene il nostro si
in si dice, si vuole. In una iscrizione presso il Muratori122
leggesi: ultimum illui spiritum, come chi dicesse l'ulti-
mo di lui spirito.
L'aggiungere spesso le preposizioni intro e foris tiene
del modo nostro: ‒ Ingressus intro (Matteo, XXVI. 58);
121
Lezione della voce italiana Si.
122
Thes., 2088. 3.

111
egressus foras (ivi, 75). Hypocritæ, quia mundatis quod
deforis est calicis; (XXIII. 25). Aforis quidem paretis ho-
minibus justi (ivi, 28, dove riconosci il nostro parere,
sembrare). Exeuntes foras de domo (X. 14), pleonasmo
affatto italiano. Et cum intrasset in domum, prævenit
eum Jesus (XVII. 24).
Oltre i vicecasi e i vicetempi, altra differenza gram-
maticale dell'italiano è il risolvere col che (siccome
coll'ὄτι il greco) le proposizioni dipendenti, che il latino
mette all'infinito coll'accusativo. Il basso latino, o, come
noi crediamo, il parlar popolare v'adoprava il quia e
quod, e non ne mancano i classici123. La Bibbia ne offre
molti esempj. ‒ Ut cognovit quod accubuisset in domo
Pharisæi (Luca, VII. 37). Prædicate dicentes quia appro-
pinquavit regnum cœlorum (Matteo, X. 7). Spesso lo usa
un autore che scriveva prima dell'invasione dei Barbari,
ch'era maestro di retorica, e che pecca di affettazione
piuttosto che di negligenza, sant'Agostino. Apriamo a
caso le sue Confessioni, e al libro VII. c. 9, narrando co-
me i libri platonici lo avviassero al cristianesimo, dice
che in quelli «legi quod in principio erat verbum... quia
hominis anima non est ipsa lumen... quia in hoc mundo
erat... quia in sua propria venit.... Item ibi legi quia
Deus verbum non ex carne, sed ex Deo natus est. Sed
quia verbum caro factum est non ibi legi... quia seme-
tipsum exinanivit... quia Dominus Jesus in gloria est
123
Mirari Cato se ajebat quod non rideret haruspex, haruspicem cum vidis-
set. CICERONE, Minus quindecim dies sunt quod minas quadraginta accepi-
sti.

112
Dei patris non habent illi libri. Quod enim ante omnia
tempora unigenitus filius tuus coæternus tibi, et quia de
plenitudine ejus accipiunt animæ... est ibi». E così pro-
segue mettendo quia e quod ove i classici avrebbero
messo l'infinito, e ove noi mettiamo il che124.
Senza più dilatarci in esempj, a sovrabbondanza ab-
biamo veduto come la lingua latina potesse tralasciare
qualche sillaba finale; facoltà conservata dalla italiana,
ove tronchiamo tante voci, e diciamo ardor, furo, fero,
124
Non è fuor proposito l'accennare che nella pronunzia i Latini pare faces-
sero come i Francesi d'oggi, leggendo chi, chia, chod, ove scrivessi qui,
quia, quod. Lo induco da una delle facezie attribuite a Cicerone; il quale,
essendo sollecitato dal figlio d'un cuoco pel suo voto a non so quale digni-
tà, gli rispose Tibi quoque favebo; scherzando sulla consonanza di quoque
con coche. E Plauto chiama inquilina (in culina) una cuoca; indifferente-
mente si usava sequutus e secutus, quum e cum, quotidianus e cotidianus.
Anche in lombardo per qui dicesi chi. Il chi italiano invariabile rappresenta
le diverse inflessioni del qui latino. Plinio dice: Ex superiori basilicæ par-
te, qua feminæ qua viri imminebant, e Giovanni Villani: «Federico regnò
anni 37, che re dei Romani, e che imperadore. ‒ Con 300 cavalieri, che te-
deschi e che lombardi».
Plauto: Quei dixti tu vidisse me osculantem? Che di' tu?
Terenzio. Invenite, efficite qui detur tibi: ego id agam mihi qui ne detur. È
il nostro, Fate che vi sia dato.
Il qui è spesso cambiato in italiano con ci: quinque, cinque: quicumque,
chiunque: quisque unus, ciascuno.
In un epitafio del 530 leggesi Petrus filius CONDUM Asclipi. E a vicenda
s'una tazza di vetro Dianan (Giona) de ventre QUETI (cheti) liberatus. Vedi
Bull. d'archeologia cristiana, 1874, pag. 145, 154; e il De Rossi l'ha per
un'altra prova della pronunzia dura del c avanti le vocali e, i, sostenuta dal
Corssen, dallo Schuchardt, Der Vokalismus des Vülgarlateins, dal Neu-
mann, Prononciation du c latin. Unde promitto me ego chi supra (qui so-
pra). Arioald pro me et meos heredes tibi Gaidoaldi vel ad tui heredes ipsa
suprascripta terra vidata...ab omni homine defensare. LUPO, I, 599. ‒ Que-
sta formola ego chi sopra ricorre frequentissima nelle carte successive ber-
gamasche in esso Lupo.

113
ecc. Ascoltate un contadino toscano, e vi dice a cà, mi
pa, u' o a ì? (dove ho a ire?). Di tali mozzamenti mag-
gior uso fanno ancora i vulghi d'altre contrade. E già il
facevano i loro padri all'età romana; e con ciò invece di
da mihi illum panem, compendiavano da mi il pane; e
Cicerone potè udire questa frase senza meravigliare o
frantendere, nè sognarsi che derivasse da imitamento di
Barbari.
Le somiglianze o differenze grammaticali, di cui va
tenuto maggior conto che delle lessiche, ci autorizzano
ad asserire che, delle principali mutazioni nella nuova
lingua, nessuna fu portata da imitazione esterna, bensì
da evoluzione interna e naturale.
Perocchè, lo ripetiamo, la natura non procede di salto,
e ciò ch'è oggi, nasce da quel di jeri. Potreste immagina-
re un giorno, nel quale gli abitanti d'Italia abbiano cessa-
to di parlare la latina per adottare la lingua del vincitore,
o formarsene un gergo, barbarico affatto, e dal quale
uscisse poi questa bellissima e organica favella nostra?
Non ne aveano essi già tutte le parole dal latino, e tutte
le forme dal greco?
Le diversità grammaticali indicano che l'italiano deri-
va dal latino parlato, anzichè dallo scritto. Questo svol-
geasi in ampj periodi e trasposizioni; l'italiano no: quel-
lo ha flessioni variate, finali consonanti, mentre l'italia-
no termina in vocali, e ciò viepiù dove meno Barbari in-
tervennero: segno che persisteva una lingua popolare, in
cui era stato introdotto il lessico del latino colto, ma non
la grammatica.
114
§ 12°
Andamento consimile nelle evoluzioni di varie
lingue.

Che se guardiamo ad altre favelle della famiglia indo-


europea, le vedremo tutte tramutarsi da un'antica in una
moderna per andamento somigliante, attesa l'identità
d'inclinazione e di principj; e passare dal prisco sintetico
al moderno analitico.
D'una favella possono alterarsi o l'interna struttura
delle parole, o le forme grammaticali. Le parole anti-
quandosi tendono a surrogare alle consonanti gagliarde
e dure le deboli e dolci, alle vocali sonore le sorde dap-
prima, poi le mute; i suoni pieni s'estinguono a poco a
poco e si perdono, le finali dispajono, le parole si con-
traggono; in conseguenza le lingue divengono meno
melodiose; parole che lusingavano l'orecchio, non offro-
no più che un senso mnemonico e quasi una cifra.
Le forme grammaticali, che possiamo chiamare l'ani-
ma delle lingue, di cui le parole sarebbero il corpo, col
tempo si confondono fra loro, o si trascurano; s'impiega-
no fuor di proposito, o si smettono: onde viene un lin-
guaggio mutilato, che, per vivere, conviene adotti orga-
namento nuovo.
E qui rivelasi l'azione rigeneratrice; diremmo oggi, la
lotta del vivere. Perita l'antica sintesi grammaticale,
smesse le inflessioni, mal distinti i casi de' nomi, i tempi
de' verbi, i rapporti che prima erano espressi dai segni

115
grammaticali aboliti si dinotano con parole separate, per
evitare la confusione; con preposizioni si supplisce alle
desinenze che distinguevano i casi con ausiliarj a quelle
che indicavano i tempi de' verbi; i generi si dinotano co-
gli articoli, le persone coi pronomi. Di tal passo dal san-
scrito nacquero il pali e i diversi dialetti pracriti; dallo
zendo il persiano, dal greco classico il moderno, il tede-
sco odierno dall'antico, l'inglese dall'anglosassone,
l'olandese dal frisone ch'è affine al sassone, il danese e
svedese da quello scandinavo ch'è conservato in Islanda.
Così pure dal latino derivarono le lingue neolatine, e
specialmente la nostra.
È della natura umana, che una parola che ricorre fre-
quente, la si scorci per parlare più spiccio; si sostituisca
un segno semplice a uno complicato: si confondano le
gradazioni, si trascurino le distinzioni delicate; e questo
svolgimento delle lingue non è sospeso se non quando
scrittori classici fanno legge e prefiggono un canone. Il
popolo tende a contrarre, a fognare, giacchè parla per
parlare, non per parlar bene; e purchè una parola renda
il suo pensiero, poco gli cale l'articolarla con esattezza o
trascurarne alcun elemento. I' so per io sono; gnor sì per
signor sì; vello per vedilo, Cecco, Bista, Cola, Gino, du-
genvenzei sono contrazioni usitatissime; la lingua de'
trecconi è una perpetua contrazione; e così la più parte
de' dialetti. L'uso vulgare confonde le desinenze che di-
stinguono i casi e le persone; darà il genere mascolino
ad un sostantivo femminile, o il contrario; dirà voi eri,
voi andavi, un poca d'acqua, una libbra e mezzo; porrà
116
l'indicativo pel soggiuntivo, il passato definito per
l'indefinito, e ciò non per solecismo ignorante, come chi
parli una lingua non sua, ma con regola istintiva, tal che
resta comune a tutto un paese, a tutta una classe. Come
dunque lo scomporsi, così il ricomporsi delle lingue tie-
ne all'indole dello spirito umano, essendo naturale il
rendere con preposizioni od ausiliarj, vale a dire con una
sorta di perifrasi, ciò che le modulazioni grammaticali
del nome e dei verbi esprimono o male o non più. Se pa-
ragoni le lingue primitive colle loro derivate, trovi dap-
pertutto l'accorciamento delle parole. Inoltre ciascun
idioma derivato è assai meno ricco di forme grammati-
cali che i primitivi; il numero duale, che esisteva nel
sanscrito, sparve nel pali e nel pracrito; le declinazioni,
sì ben distinte nel sanscrito, si confondono nel pali, ch'è
suo figlio diretto, nel quale molte voci dell'ottava seguo-
no la prima; di rado si adopera il passivo; la conjugazio-
ne offre appena i tempi indispensabili, e uno solo ri-
sponde all'imperfetto, al perfetto o all'aoristo del san-
scrito.
Come l'alterazione e lo sfasciamento della lingua si
manifestano per effetti quasi simili in tutti gli idiomi
della famiglia indo-europea, in quasi tutti vi si oppone
lo stesso rimedio. Dove i casi divennero troppo scarsi ai
bisogni del pensiero, o troppo raffinati per l'uso comune,
l'eguale terminazione si adottò per casi differenti, rimo-
vendo la confusione coll'anteporre preposizioni al so-
stantivo. Ai modi e tempi semplici dei verbi ne furono
surrogati di composti cogli ausiliarj essere, avere, vole-
117
re, fare, venire, divenire. Nel bengali, derivato dal san-
scrito, se ne formano quattro modi; potenziale, ottativo,
inceptivo, frequentativo, e molti tempi. Nell'indostani,
dialetto più alterato che il bengali per straniere influen-
ze, si adoperano essere e dimorare come ausiliarj, il pas-
sivo formasi con raddoppiare il verbo essere, e n'è ausi-
liario il verbo andare. All'antica declinazione zenda, che
è conforme alla sanscrita, nel persiano moderno in molti
casi si supplì colle preposizioni der, be, ez; sono compo-
sti il passato e il futuro, e la voce passiva formasi col
verbo essere. Il greco vulgare perdette il passato perfet-
to; il piuccheperfetto forma mediante il verbo avere, e il
futuro mediante il volere, come in inglese; avanti al sog-
giuntivo pone il να, come in francese il que.
Anche le germaniche sostituirono preposizioni alla
terminazione dei differenti casi; tutte si valsero degli au-
siliarj dovere, diventare o volere pel futuro, il quale uso
degli ausiliarj fu già conosciuto, sebbene non sempre
usato da Ulfila, che nel quarto secolo tradusse in gotico
la Bibbia. Altrettanto nei dialetti slavi moderni.
Nell'antica lingua slavona già si trova il preterito, com-
posto con iesmi (io sono), e due altri tempi formati con
ausiliarj. Fra le celtiche, l'irlandese, che conserva i mo-
numenti più vetusti, presenta pure forme grammaticali,
mancanti a tutti gli altri dialetti, e vestigia di declinazio-
ni, e specialmente il dativo plurale in aibh, analogo al
sanscrito bhyas, e al latino abus. I dialetti bretoni e cor-
novalesi, più discosti dal tipo primitivo che non il galle-
se, hanno l'ausiliario io fo; mi a gura in cornovalese, me
118
a gra in bretone. Il gallese esprime il passivo con termi-
nazioni speciali; il bretone non le possiede più, e si vale
del verbo essere come le lingue neolatine: il cornico sta
di mezzo, conservando le forme passive del gallese, e
adoperando il verbo essere come il bretone.
Anche noi nel verbo perdemmo molti tempi, e il ge-
rundio, il supino: nei conservati si soppresse general-
mente la consonante finale; gli altri si formarono cogli
ausiliarj. Del passivo ci restò solo il participio passato,
che serve a formare, coll'avere, i tempi dell'attivo, e
coll'essere quei del passivo, contenendo però in sè la so-
la determinazione, mentre tutte le relazioni del soggetto,
numero, persona, tempo, modo spettano all'ausiliare.
Perduto è affatto il deponente. Il comparativo sparve
quasi in italiano, ma già i Latini vi sostituivano il magis,
come magis pius, conservato in altre lingue romanze
(mas dulce spagnuolo): e talvolta il plus, come plus lu-
bens, in Plauto, plus formosus in Nemesiano.
L'analogia degli accidenti alfabetici s'incontra dapper-
tutto. Come lavo fa lotus, così causa fa cosa; amavit fa
amò. I dittonghi si contraggono, e come seibi in sibi,
jous in jus, così audio in odo. Alcune lettere si ommetto-
no, altre si aggiungono per eufonia, o mutansi secondo
l'affinità di organi; talune si traspongono sì, che da me-
tuo viene timeo; da magro gramo; da peramare bramare,
da metipsum medesimo, fa verecundia vergogna, da
dum interim dommentre, poi mentre. La h non fu più
aspirata, sicchè divenne superflua; la j cambiossi in g; la
x in s; crebbe l'uso della z.
119
Ognuno vede come facilmente, coi processi indicati,
si venisse a fare ciò da ecce hoc, colà da ecce illuc; così
da æque sic, ac si, che ne' dialetti è ancora acsì e ixì; co-
me e como da quo modo; da hanc horam e illam horam
ancora e allora; da ad ipsum tempus adesso; da tunc
dunque; da ab ante avanti; da post dopo; da retro dietro;
da per hoc quid (allungamento invece di nam) l'imper-
ciocchè; il quale da ille qualis, come nel neogreco ὁ
ὁποῖος: da ecc'ille quello; da ecc'iste cotesto, cotestui,
questo; da veh vai e guai, come in guasto mutossi vasto,
in guado vado. Le tre forme di affermazione sì, oil, oc
sono dal latino sic est; illud est; hoc est125.
Da per tutto ci salterà all'occhio questo studio, o dirò
meglio istinto del raddolcimento, manifestato col tron-
care, aggiungere, trasporre: nè di più si richiede per ri-
durre italiane la più parte delle voci latine.
Non sono abbastanza spiegate certe ragioni eufoni-
che, per cui una lingua predilige un tale accento, una ta-
le cadenza, una tale combinazione di vocali e consonan-
ti. Quando la favella si trasforma per costituirsi in lin-
guaggio, le parole assumono alterazioni successive pic-
colissime, finchè incontrano una tale combinazione di

125
A. W. Schlegel argutamente osserva che la voce verbum non fu conser-
vata in nessuna delle lingue neolatine. E ciò forse perchè la teologia le avea
dato un senso mistico, che temeasi profanare coll'uso giornaliero. Invece
adottarono la voce parabola (in italiano parola, in francese parole, in pro-
venzale paraula, in ispagnuolo palabra, in portoghese palavra), voce di
origine greca, e che non potè derivarsi che dai libri santi, dove significa al-
legoria, similitudine. Observations sur la langue et la littérature proven-
çales. Parigi 1818, p. 109.

120
suoni che resta prevalente, e determina l'indole eufonica
d'essa lingua. Così l'italiano finisce le parole o piane o
sdrucciole in vocali, il francese in consonanti coll'accen-
to sempre sull'ultima sillaba e colle nasali; lo spagnuolo
ha vocali chiare ma strette, mentre il portoghese le ha
cupe: nell'inglese sibilano i suoni fra i denti; nel tedesco
si conserva l'accento su ciascun componente delle paro-
le e si pronunzia per tono di voce, anzichè per accento
prosodico: nelle lingue semitiche abbondano suoni gut-
turali e fortemente aspirati. Introducendo in quelle lin-
gue parole forestiere, queste s'acconciano al tipo eufoni-
co.
L'alterazione prodotta dall'uso è viepiù sensibile,
quanto più la lingua alterata avanza di età, e più risente
delle abitudini popolari, cioè è più parlata e meno scrit-
ta. Il vecchio latino appare aspro nel rozzo numero sa-
turnino; e tale si conservò in gran parte nello scritto: ma
favellando si temperava per sentimento di eufonìa, sin a
ledere la grammatica. Quest'alterazione, già operata dal
vulgo ne' bei tempi romani, e talora accettata dagli scrit-
tori126, io penso tenesse ai prischi idiomi italici, e vorrei
dedurne che la nostra lingua non originò dalla conquista
germanica. Il latino volgare avea forme più povere e pa-
role differenti dalle classiche. Da una letteratura esotica,
tutta artistica, non nata col popolo nè svolta con esso,
126
Impetratum est a consuetudine ut peccare suavitatis causa liceret ‒ Sæpe
brevitatis causa contrahebant, ut ita dicerent, multimodis, vas'argenteis,
palm'et crinibus, tecti fractis. CICERONE in Bruto ‒ Ego sic scribendum quid-
quid judico, quomodo sonat. QUINTILIANO, Inst., cap. II.

121
venne la lingua scritta, senza impedire che, in bocca al
popolo, seguisse la legge universale del movimento, a
segno che quando quella potè prodursi in iscritto, si tro-
vò ben differente, modificata senza scrupoli filologici.
Ne segnammo le vestigia nelle iscrizioni, massime
dei primi Cristiani, fatte da persone vulgari, cioè che
scriveano secondo uso, non secondo grammatica; e più
la coltura diminuiva, più gli scriventi s'avvicinavano alla
pronunzia, piuttostochè all'uso letterario. I Padri greci
continuarono a scrivere meglio de' latini, perchè la loro
lingua essendo più naturale cioè conforme alla parlata,
non richiedeva molta coltura; mentre la latina, così arte-
fatta, corrompevasi col diminuire degli studj ad essa ne-
cessarj. Oltrecchè l'uditorio de' Greci era di persone ci-
vili, mentre quel de' Latini componeasi spesso di schiavi
o liberti o stranieri importati.
I popoli germanici importando molte voci, indiretta-
mente ajutarono la decomposizione del latino, mentre le
tradizioni e le abitudini letterarie da cui erane protetta la
purezza, si corrompeano, e il negletto linguaggio delle
classi incolte, di quei Casci, di cui dice Cicerone che la
lingua non istudiavasi, prevaleva nell'uso all'accurato
della classe forbita. Una lingua non perisce se non colla
società che la parla: e qui appunto periva la società col-
ta, e con essa il parlare accurato, e riviveva il popolare.
Onde alla lingua latina si surrogarono gli idiomi neolati-
ni in virtù di leggi intrinseche e generali, e non per parti-
colari avvenimenti.
La filologia comparata provò che non fu sempre la
122
lingua più organica, in conseguenza la più bella, che
venne ricevuta per nazionale. L'alto tedesco è inconte-
stabilmente inferiore al basso tedesco, eppur divenne
lingua letteraria dacchè Lutero lo adoprò a tradurre la
Bibbia.

123
§ 13°
Influenza de' Barbari. Periodo di scomposizio-
ne.

Le cause di alteramento della lingua letteraria latina


crebbero dacchè irruppero i Barbari, e scossero prima,
poi annichilarono l'impero romano. È notevole che gli
elementi lessicali germanici, divenuti parte dei parlari
latini (contano da 300 voci comuni a tutti), s'incontrano
egualmente in tutti questi nelle diverse regioni romane.
Ciò è indizio che tale immissione è ben più antica
dell'ultima invasione, e risale a un tempo quando il lati-
no aveva ancora tanta vitalità, da non poterne venir mo-
dificato secondo le varie contrade. E forse si identifica-
va coll'estendersi del latino fuori delle regioni natìe per
mezzo delle colonie e degli accampamenti.
Ormai nessuno più crede che i Barbari fossero fiumi
di popoli, che affogassero gli indigeni, e portassero non
solo devastazione e micidio, ma sovvertimento generale.
Fossero anche stati numerosissimi, sarebbe insolito il fe-
nomeno d'un popolo conquistatore, che al conquistato
impone la propria lingua. Nelle due Americhe le colonie
antiche conservano la favella materna, mentre la conser-
vano anche i prischi abitanti. Che se talvolta quella pre-
valse, ne fu causa la sua maggior coltura; come nelle co-
lonie eoliche e doriche della Sicilia e della Magna Gre-
cia. Pei Barbari in Italia il caso era l'opposto: una gente
rozza sovrapponevasi ad una colta; e se a questa impo-

124
neva le leggi sue, doveva ricorrere ad essa fin per iscri-
verle.
Dov'è però a notare che l'esclusivo patriotismo degli
antichi idolatrava la patria favella, repudiando ogni al-
tra. Fra le servitù che Roma imponeva ai vinti, era
l'obbligo di parlar latino127; Claudio imperatore tolse la
cittadinanza ad uno di Lisia, il quale non seppe rispon-
dergli in latino128; davanti al Senato contendevasi se av-
venturare o no un tal vocabolo di greca etimologia, e Ti-
berio imperatore voleva ricorrere ad una circonlocuzio-
ne, piuttosto che dire monopolio.
Da ciò alle antiche favelle l'unità, il carattere specifi-
co, non alterato nelle derivazioni e ne' composti, mentre
le moderne sono formate dei frantumi di varie, sicchè in
un solo periodo potresti incontrar voci delle origini più
disparate129: oltrecchè più popolare essendo la letteratu-
127
PLUTARCO, in Temist.; GIUSTINO, XX; VALERIO MASS., II, 2; TRIFONINO, in lib.
48, ff. De re judic. ‒ SANT'AGOSTINO: Opera data est, ut imperiosa civitas
non solum jugum, verum etiam linguam suam domitis gentibus per pacem
societatis imponeret.
128
DIONE, lib. X: all'anno 796 di Roma. SIFILINO, in Claudio.
129
«Dalla magione del meschino gastaldo passato nel palazzo ove stava ad
albergo, il conte scôrse nell'alcova il signore in giubba e colla camicia, so-
pra un sofà bigio ricamato e colla tazza e con un limone, attorniato da gio-
viale brigata e da paggi; scudieri cogli sproni facevano guardia, e un astro-
logo spiegava l'almanacco, ecc.». In questo solo periodo paggio, astrologo,
sono greci: gioviale, palazzo è latino antico; signore, scudiero, conte, latino
basso; sofà ebraico (sophan alzare); almanacco, ricamato, giubba, cami-
cia, meschino, alcova, limone arabo; magione celtico; gastaldo, brigata,
sprone, guardia tedeschi; bigio ibero, ecc.
Così nel vivere usuale ci vestiamo di damasco, di mussolina, di indiane, di
nankin, di frustagno (fostat), marocchino, cordovano, bulgaro, pantalone,
makintosh, kirie, spencer, brandeburgo, pompadour; adopriamo majoliche,

125
ra, meno squisita riesce la forma. Così avvenne del lati-
no, introdotto in paesi, la cui gente aveva gli organi abi-
tuati ad altri suoni, e lo spirito ad altra sintassi. Se, come
pretende Fauriel, la lingua latina fosse stata decomposta
dalle indigene di ciascun paese, dovrebb'essere riuscita
differentissima, mentre da per tutto appare simile a quel-
la de' paesi dell'antico Lazio.
La località fu però uno de' fattori de' nuovi linguaggi:
e per es. nell'Italia dove il latino parlavasi, le parole con-
servarono l'estensione; nella Gallia si raccorciarono. Ma
che a generare le lingue, dette romanze perchè uscite dal
romano, principal parte contribuissero i Barbari, è
tutt'altro che provato. I Goti dominarono lungo tempo la
Spagna, eppure a stento riscontri alcun vocabolo gotico
in quell'idioma, che dall'invasione araba confinato tra le
montagne delle Asturie, colla vittoria e colla croce ne
discese, e s'impossessò di alcuni termini arabi, di alcuni
francesi, ma in fondo rimase latino. Venezia non fu in-
vasa da alcun Barbaro, Verona da tutti, e i loro dialetti si
somigliano ben più che non il veronese col contiguo
bresciano, o questo col bergamasco, o il bergamasco col
milanese, separati appena da qualche fiume. E appunto
un corso di acque o la cresta d'un monte frapponevasi a
due linguaggi diversissimi, quant'è il toscano dal bolo-
gnese. Qui che hanno a fare i Barbari? Se l'articolo ci
bielle, bajonette, pistole, campanelli (campania), crovatte; andiamo in ber-
line, in landau, in brougham; mangiamo persiche, ciriege (kerras), cotogne
(da cydon), granoturco, gransaraceno, castagne (castannan nell'Asia Mino-
re), avellane (da avellino), scolopini; adopriamo pasquinate, arlecchinate, i
ciceroni, urbanità, palazzi, denaro.....

126
fosse dato dal tedesco, qualche traccia propria ne reste-
rebbe, mentre non ve n'ha alcuno, anche de' varj dialetti,
che non si derivi e spieghi col e pel latino130.
La lingua è tradizione, che si fa dalle madri, onde ben
dicesi materna; nè gli stranieri ci hanno a vedere. Il
cambiamento è neologismo, non barbarismo. Fosse an-
che durato l'impero, la trasformazione sarebbe avvenuta.
Spagna, Portogallo, Francia hanno lingua simile all'ita-
liana e come questa derivata dal latino, ma dal latino po-
polare non dallo scritto. Ora è certo che i dialetti conser-
varonsi fra i varj popoli, malgrado il latino; e che colà
130
Max Müller sostenne l'efficienza delle lingue tedesche, in modo che i
nuovi idiomi sarebbero il latino, venuto in bocca dei Tedeschi. Non espon-
go i suoi argomenti, perchè riguardano principalmente il francese; ma la
sua teoria vacilla se si ammetta quel che noi sosteniamo, che nel latino
scritto ci si conservò solo una parte della lingua; e nel non scritto e parlato
poteva essere un'infinità di parole; che noi supponiamo d'origine forestiera;
mentre derivavano da quel ceppo che è comune al latino, al greco, al tede-
sco.
Insistiamo solo su questi punti:
1° I Tedeschi erano piccol numero a fronte degli Italiani: altrimenti e il loro
paese natìo sarebbe rimasto spopolato, e nel nuovo avrebbero fatto prevale-
re il linguaggio tedesco.
2° Con poche parole nuove introdotte, e alcune forme grammaticali impo-
verite, la lingua italiana, o (per non dare come assentato quel che ora cer-
chiamo) il latino del medioevo è simile al latino, mentre diversifica grande-
mente dal tedesco e per le voci e per la costruzione.
3° Questa somiglianza è tanto maggiore quanto più si va indietro, cioè
presso all'invasione; mentre dovrebb'essere il contrario se gl'invasori aves-
sero introdotto la nuova lingua.
4° L'accento latino è, generalmente, conservato nell'italiano; e nulla abbia-
mo di quella proprietà speciale, per cui, in tedesco, la radice mantiene
l'accento e nelle derivazioni e nelle composizioni. Ora l'alterazione sarebbe
avvenuta naturalmente, se il latino fosse stato trasformato dalla lingua de'
Tedeschi.

127
mai non fu parlato il latino proprio. Raynouard sostenne
si fosse formata una lingua comune romanza, da cui de-
rivarono le altre. Ma ciò supporrebbe che già fosse co-
munemente parlato il latino, val a dire che si fosse cam-
biata la grammatica originale di que' paesi nel breve
tempo della dominazione romana. Provasi che ciò non
fu. E ripugnerebbe pure che il latino, mescolandosi colle
lingue originarie differenti, producesse una lingua simile
in tutte.

128
§ 14°
Periodo di formazione dell'italiano nell'età
barbara.

In somma la lingua parlata scostavasi più sempre dal-


la scritta, fino a riuscirne due diverse; anche i Barbari
conservavano la favella nazionale, ma per ispiegarsi coi
vinti adottavano un gergo fra il tedesco e il latino, bilin-
gui anch'essi. Che se in altri paesi il vinto ingegnavasi di
usare la lingua del vincitore come segno di emancipa-
zione, l'Italiano preferiva l'antica come ricordo di gloria;
e il vincitore stesso che non avea letteratura, valeasi di
quella del vinto. Nè solo i preti e i notaj erano latini, ma
in latino furono scritti e l'Editto di Teodorico, e le sue
lettere, e le leggi de' Longobardi, sebbene sia dimostrato
che queste non doveano servire se non pei conquistatori.
In esse sovente alle parole latine s'aggiunge il sinonimo
vulgare131: prova evidente dell'esistenza di questo, e che
trapela anche dalle poche carte di quell'età. Nel feudali-
smo, i signori trovandosi diffusi nei castelli, in contatto
cogli indigeni anzichè coi loro nazionali, smetteano più
sempre il tedesco, e diventava comune anche a loro il

131
Ciò è frequentissimo nel Codice Longobardo; e tacendo quelle che spie-
gano voci meramente tedesche, vi leggo barbam, quod est patruus (Rot.
164); novercam, idest matriniam (ib. 185); privignum, idest filiastrum (ib.);
si quis palum, quod est caratium, de vite tulerit (ib. 298); cerrum, quod est
modo laiscum o hiscum (ib. 305). Sulla lingua dei Longobardi e l'influenza
di essa sulla latina, vedasi FEDERICO BLÜHME, Die Gens Langobardorum, ih-
re Sprache. Bonn 1874.

129
vulgar nostro nel parlare, il latino nello scrivere.
Quando gli studj erano così scarsi, difficile dovea riu-
scire lo scrivere questa lingua, mentre già in un'altra si
pensava e parlava; ciascuno v'inseriva gli idiotismi del
proprio paese; e, come in idioma non famigliare, vacil-
lavasi per l'ortografia, pei reggimenti, pei costrutti 132.
Laonde ne' rozzi scrittori di carte e di cronache è a cer-
care l'origine dell'italiana, o dirò meglio l'inconscio mu-
tarsi dell'antica nella nostra favella, prima che fosse
adottata per libri.
Il Codice Longobardo abbonda di modi traenti agli
odierni: Rotari, leg. 218. Vadat sibi ubi voluerit: riempi-
tivo tutt'italiano, se ne vada.
299. Si quis vitem alienam de una fossa scapellaverit.
Quest'ultima voce dicesi ancora in Piemonte, co-
me masca per strega: Striga, quod est masca.
Ivi, 197.
302. Capistrum de capite caballi.
303. Pistorium per pastoje, come alla 296 sogas per so-
ghe; alla 306 pirum aut melum; alla 345 caballi-
care per cavalcare; alla 382 cassinam per casa
campestre; alla 387 genuculum per ginocchio.
132
Nel 730 due notari di Pisa sottoscrivevano, uno Ego Ansolf notarius ro-
gitum et petetum subscripsit et deplevit: e l'altro, Ego Rodualt notarius
scripsi et explevi; nel 750 Ego Teofrid notario rogito ad Raculo hanc car-
tula scripsit; nel 757 Ego Alpertus notarius hac cartula scripsit. Ne' Docu-
menti Lucchesi, in uno del 765 è soscritto Ego Rixolfu presbitero, Ego
Martinus presbiter: in uno del 713 Ego Fortunato religioso presbiter. In
una carta del 722, uno sottoscrive Ego Talesperinus eximius episcopus ro-
gatus ad filio meo Ursone testi subscripsi: e un altro, Ego rogatus ad Or-
sum testi subscripsi.

130
Nelle leggi di Liutprando, alla VI, 68 occorre scemus;
alla III, 4, Faciat scire per judicem; alla IV, 3, In manus
de parentibus suis, et in præsentia de parentibus suis;
alla V, 3, matrina aut filiastra.
Il Canciani trasse dall'archivio di Udine una Legge
Romana; e sia, come a lui sembra, dei tempi carolingi, o
sia piuttosto un'irrazionale accozzaglia, noi, guardando-
la solo filologicamente, vi troviamo: Con mandatis
principum ‒ Ipsa uxor da marito suo ‒ Prosequat cujus
essere debeat ‒ Si hoc scusare potest (lombardismo fre-
quentissimo) ‒ Ancilla quam in conjugio prese ‒ Ante
per suam tema (timore). ‒ De aliorum facultates male
favellant ‒ Si illa judiciaria per sua cupiditate prendere
presumserit ‒ Per fortia violaverit ‒ De furtivo cavallo ‒
Cujus causa minare voluerit ‒ Ad unum de illos judices
‒ Per sua culpa ‒ Ad unum dare voluerit plusquam ad
alium ‒ Quod minus precium presisset, quam ipsa res
valebat.
Nelle formole sulle Leggi Longobarde, dal Canciani
stesso riportate al vol. V, pag. 85 delle Leges Barbaro-
rum, incontrasi:
Petre, te appellat Martinus, quod tu comprasti decem
modios de frumento.
Tu tenes sibi unum suum bovem.
Plus valebat quando tibi dedit ‒ Non est verum.
Tu minasti Mariam ad aliam partem.
Volo tollere eam ad uxorem.
Invenisti unum suum caballum, et minasti ad clausu-
ram.
131
De torto.
Tene tuum bovem, et da michi debitum.
Ora disponiamo, secondo la loro età, alcuni testi.
Anno 715. Il prete Aufrit interrogato, risponde: Quando
veniebat Angelo de Sancto Vito, faciebat ibidem
officio; et quod inveniebat a Christianis, totum
sibi tollebat... e termina l'interrogatorio: Sed po-
stea quam ego presbiter factus sum, semper ego
ibidem missa faciebam. Nam in isto anno Deo-
datus episcopus de Sena... presbiterum suum po-
suit uno infantulo de annos duodecim etc.... (An-
tiq. ital., VI. pag. 375). Orso prete disse: Vecinus
sum cum istas diocias... Nam episcopus Senen-
ses numquam habuit nulla dominatione... Iste
Adeodatus episcopus fecit ibi presbitero uno in-
fantulo, habente annos non plus duodecim, qui
nec vespero sapit, nec madodinos facere, nec
missa cantare. Nam consobrino ejus coetaneo
ecce mecum habeo: videte si possit cognoscere
presbiterum esse. Ib., p. 378.
715. Idio omnipotens. Ib., III. 1007.
‒ Fortia patemus, et non presumemus favellare. Carta
senese appresso BRUNETTI, I. 439.
720. Medietate de casa mea infra civitatem, cum gronda
sua libera. Ant. it., III. 1003.
‒ Garibaldus Tosabarba riceve a fitto un campo di santa
Maria di Cremona, nei documenti del TROYA, n.
441.
723. Post nostrum decessum, quem ivi ipsi monaci de
132
ea consacrationem eligere ipsum aveat ordina-
tum. BRUNETTI, I. 275.
730. Et Gagiolo illo prope ipsa curte, ora præsepe. Ib.,
518.
‒ De uno latere corre via publica. Ant. it., III. 1005;
bell'idiotismo toscano, ancora vivo; e così al
760, De suptu curre fossatum, et ab alio latere
curre vigna. BRUNETTI, I. 570; e al 746: Cui de
uno latum decorre via publica. Doc. lucch., II.
23.
736. Si eum Taso aut filiis ejus menare volueris, exeas.
BRUNETTI, I. 491.
743. In via publica, et per ipsam viam ascendente in su-
so. E ivi stesso gambero, molino, capanna. Ant.
ital., I. 517.
746. Da capo pedes sexaginta... di una parte terra... di
alia parte... da capo vinea et da pede... di presen-
te solutum. Carta di Chiusi ap. BRUNETTI, I, 522.
754. Mezzolombardo chiamasi un diacono cremonese
nel codice del Troya, n. 683.
762. Fratellum presbiterum scribere rogavi: e nella so-
scrizione: Fratellus presbiter. Doc. lucch., LVI.
763. In una carta pisana: Et si ego non adimpliro ita, in
ipsorum sacerdotis sia dominio hæc adimplendo.
Ant. ital., III. 1009.
765. In una lucchese: Gustare eorum dava: Sua volunta-
te dava. Ib., 745.
766. Ita decrevimus ut per ipsum monasterium sancti
Bartholomei fiant ordinata et disposita.
133
BRUNETTI, I. 289.
767. Excepto silva qui fue de ipsa corte... Excepto forte
Fosculi, qui fue barbano (barba, zio) ejus. Ant.
ital., V. 748.
770. Hoc decerno, ut cum ipsis rebus quas vobis conci-
do, vel pos meo decessu reliquero, siatis in mo-
nasterio, ut per singulos annos persolvere de-
beatis pro anima mea in ecclesia Sancti Salvato-
ris... per quam abueritis, reddatis in ipsa eccle-
sia vel ad ejus rectores in aureo soledo uno, aut
pro auro, aut per circa, vel pro oleo, aut per
quem volueritis in ipso Dei templo, pro anima
mea reddere debeatis. BRUNETTI, I. 287.
Frasi italiane da un pessimo latino traspajono negli
insegnamenti d'un chimico dello stesso secolo, ove si
legge: Cuse ipsas pelles, laxa dissicare, batte lamina; et
post illa battuta, per martellum adequatur, tam de latum
quam de longum; scaldato illo in foco, batte, et tene il-
lud cum tanalea ferrea; sed tornatur de intro in foras;
dextende eum, ibi scalda, pone ad battere, sufficienter;
modicum laxa stare, et lixa illud, ecc. ‒ Imple carboni-
bus et decoque, ut superius diximus, josu (giuso) ligna
et sus carbones. ‒ Et si una longa fuerit vel curta, per
martellum adequatur (Ant. italicæ, II. 380). Chi negherà
che costui parlava italiano?
Nel musaico che da papa Leone III ponevasi in Late-
rano il 798, cioè nella città più colta del mondo e dal ri-
stauratore degli studj, è scritto: Beate Petrus, dona vita
Leoni pp. e victoria Carulo regi dona; dove già vedete
134
abbandonate le desinenze, e raccorcia la congiunzione.
Allora il popolo alle preci rispondeva Ora pro nos. Tu
lo adjuva. Nel testamento di Andrea arcivescovo di Mi-
lano nel 903 si legge: Xenodochium istum sit rectum et
gubernatum per Warimbertus humilis diaconus, de ordi-
ne sancte mediolanensi ecclesie nepote meo et filius b.
m. Ariberti de befana, diebus vite sue. E quattro anni più
tardi un altro: Pro me, et parentorum meorum, seu dom-
ni Landulphi archiepiscopi seniori meo, animas salu-
tem. E altrove: Foris portæ qui Ticinensis vocatur ‒ Ego
Radaperto presbitero edificatus est hanc civorio sub
tempore domno nostro...
Strafalcioni così madornali, e fra persone addottrinate
come erano prelati roganti e notaj rogati, convincono
che il latino non parlavasi più nemmeno fra la classe
elevata; giacchè chi detta in lingua propria accorda nomi
e verbi senza dar in fallo, mentre in bizzarre sconcor-
danze inciampa chi presume adoperarne una differente.
Di qui pure la durezza delle costruzioni, l'ineleganza de-
gli idiotismi, la mancanza di spontaneità, la varietà degli
stessi solecismi, attesochè non provenivano da un comu-
ne modo di favellare, ma dal capriccioso faticarsi di cia-
scuno per latinizzare il proprio linguaggio.
Ne è novella prova il vedere che spesso il notaro o lo
storico credesi obbligato a spiegare in vulgare il nome
latino. Così san Gregorio Magno circa il 594: Ferra-
menta, quæ usitato nomine nos vangas vocamus.
In un sermone del beato Ramperto dell'838 a Brescia,
raccontasi d'una bambina che correva nelle braccia del
135
padre gridando vulgari voce, Atta Atta, che è il tatta di
cui già dicemmo.
Nella vita di san Colombano, scritta il decimo secolo
(Acta SS. sec. VII, pag. 17): Ferusculam, quam vulgo
homines squirium vocant (écureuil, ghiro).
Nel monaco di Bobbio (Ant. ital., II. 350): Legumen
pis, quod rustici herbiliam vocant; e ancora il pisello dal
vulgo lombardo chiamasi erbii, erbei, erbion.
Il monaco di Sangallo dice che i levrieri in lingua
gallica si chiamano veltri.
Elgando nella storia di re Roberto: Exuens se vesti-
mento purpureo, quod rustice dicimus campum.
Raterio di Verona: Cum calcariis, quos sparones ru-
stice dicimus.
Nella vita di sant'Ermelando, scritta nel 700: Aderat
tunc quispiam, qui dicerit nannetensem episcopum ha-
buisse piscem, quem vulgo nampredam vocant (lampre-
da).
Incmaro (tom. II. p. 158), Bellatorum acies, quas vul-
gari nomine scaras (schiere) vocamus. ‒ Tanta dedit mi-
litibus, quos soldarios vocari mos obtinuit.
Lo stesso nella vita di san Remigio dice che questo
diede a re Clodoveo plenum vas, quod vulgaris consue-
tudo flasconem appellat, de vino quod benedixit.
In un decreto della contessa Matilde: Casa salariata,
a petra et a calcina seu arena constructa (Ant. ital., I.
489).
Nel 941: Subtus vites que topia vocatur. Rer. ital.
script., I. 953.
136
Gran conto si fa dei numerali nello stimare le somi-
glianze fra le lingue. Or eccone qualche esempio:
715. Habeo annos plus cento. Ant. ital., VI. 379.
730. Soldos trentas, III. 1004.
767. Casa quod in cambio evenne locus qui vocatur cin-
quantula, 145.
777. Persolvere debeamus uno porco, uno berbice, va-
lente uno tremisse. I. 723.
804. Debeamus uno soledo argento. III. 1019.
816. In una carta pisana: Quarta petia cum vitis in dul-
lio, avent in longo pertigas quatordice in traver-
so, de uno capo pedis dece. Secunda petia cum
vitis in long, perticas nove in traverso, de uno
capo duas pedis, cinque de alio capo.
914. In una lucchese: Numero tre.
Meglio che una lunga serie di voci è valutato dai filo-
logi il trovare le alterazioni di nomi, inusitate alla latina,
e proprie della favella odierna. Recammo qui sopra più
d'un esempio dell'i efelcustico preposto alla s impura. I
Documenti Lucchesi ci danno all'anno 726 iscripsi per
scripsi; al 749 istabilis presbiter; al 772 iscriptor, ed
hec meam offensionem firmam et instabile valeat per-
manire. Poi abbiamo:
747. In loco qui dicitur Castellone. Doc. lucch., II. 24.
754. De suprascripto casale Palatiolo. BRUNETTI, I, 550.
Trattasi di san Pietro in Palagiolo a Lucca.
‒ Locus qui vocatur Palagiolo... abeat in simul casa Ma-
gnacioli; e al 977 terra quæ esse videtur Orticel-
lo. Doc. lucch., II. 154.
137
775. Reddere uno porcello annotino. Ib.
781. A Pavia per silvam de Mallo, et inde in collinam.
Ant. ital., V. 86.
828. In fondo Veterana Casale, qui vocatur Granariolo.
Doc. Lucc., II. 142.
975. A Pisa, de omnis nostris casis et casinis. Doc. luc-
ch., III. 41.
1092. Res quæ rejacent juxta ponticelli Rodani. II. 186.
1196. Guiglia Balzana quæ est in Gotticella. 90.
Nell'inventario dei beni del vescovado di Luc-
ca all'VIII secolo: Reddit de una orticello den. VI.
Urso de una crotta et de uno orticello den. XII...
In Elsa, casa dominicata, kanava, et granario, fe-
nile, curte, et orto, ecc.
Ripigliando il nostro andare cronologico, troviamo:
770. Hic Luca propter chrisma nos mittebant (è l'idioti-
smo nostro mandare per una cosa) ad tollendum
ab episcopo, et cavallicaturam cum ipsis presbi-
teris faciebamus. Rogito in Collina. BRUNETTI, I.
612.
771. Uno capo tene in vinea de filio qm. Lopardi. Ib.,
73.
777. Et si nos parati non averemus; et nos redderemus
ipso capital in integro, licentia aveatis tu, aut
tuos heredes supradicta terra avire, et dominare.
Ant. ital., III. 1014. Di quest'anno riferisce il Mu-
ratori un istrumento, ove molti testimonj son fir-
mati con nomi all'italiana. (Ib. II. diss. XXXII).
780. Calsato e vestito trovo presso il Barsocchini, ove
138
pure donna per domina al 778, desti per dedisti
all'839, nera all'873, sunnominato al 962.
Carlo Magno, l'anno che calò in Italia, faceva
all'abate di Nonantola una donazione ove si leg-
ge: Hanc vera paginam Ortuino notario a scri-
vere tolli (tolsi a scrivere), et roboriada con te-
stibus complevi. Ant. ital., V. 649.
In Agnello da Ravenna, scrittore del IX secolo,
che adopera banda per schiera, siclum per sec-
chio, ecc., è raccontato che, mentre esso Carlo
pranzava colà da Grazioso arcivescovo, questi
gli diceva Pappa, domine mi rex; e poichè
l'imperatore non capiva questa parola, gli spiegò
che pappare vuol dir mangiare.
In altri documenti presso il Muratori leggiamo
colonna, rio torto, allegro, piccioni, conquisto.
785. Respondebat joannes cum fratello advocato suo...
Et per singulos annos gustare eorum dava in ip-
sa casa. Doc. lucch., IV. 118.
786. Sicut promise diligentibus sivi... tunc siamus com-
penituri... hanc cartulam iscrivere rogavi. Doc.
lucch., IV. 121.
796. I scio Ascansuli pater istorum esse (i' so). Ant. ital.,
III. 1015.
805. Via currente de medio die et sera.... alia terra ara-
toria campiva... apparuit quod pars ecclesie pe-
giorata non recepisset. LUPO, I. 637.
806. Una petiola de terra mea vidata posita inter fines
da mane Deusdedit de Bonate, et da monte viam,
139
da medio die et sera fines nostre basilice. Ib.
641.
808. Per singulos annos reddere debeamus vobis una
turta, duo focacie bone, un pullo et animale, va-
lente dinari septe. Doc. lucch., II. 209.
815. Mihi dedit ad lavorandum quondam Ghisprando
negotiante. Ant. ital., I. 568.
819. Licentia abeatis vos nobis pignorare bovi, cavalli,
serbi, sive alia pignora nostra, quali a nobis
jungere potueritis. Doc. lucch., II. 257.
827. Et insuper admonuit, ut ipsa causa diligenter in-
quireret, et ea secondo leggi vel justitia liberare
fecisset. I. 481.
831. Minuti noi Lombardi diciamo i ricolti minori; e un
documento lucchese dà: Et quarta parte de lavo-
ro minuto, lino, fasiolo seu vecia.
836. Nel capitolare di Sicardo principe di Benevento
(ap. PEREGRINI, Hist. princ. long., pag. 75) si tro-
va Neque per exercito aut cursas, neque per
scammeras ‒ De aliis personis vel rebus habeat
sicut proprium suum menandum et gubernan-
dum ‒ Si quispiam militem ligare aut battere
presumpserit ‒ Et si quispiam homo super fur-
tum inventus fuerit, et non dedierit manum ad
prendendum se ‒ Non abeat licentiam a partibus
foris civitatem cavallum aut bovem comparare.
847. Ipsa terra casata, et due pecie de terra curtiva...
quod pertinet de ipso visitando valleringasco.
LUPO, I. 728.
140
866. Tibi trado et vendo cum cesis et fossis. Doc. lucch.,
II. 476.
In Lombardia diconsi sces le siepi, come dice-
si topia il pergolato, che trovammo qui sopra.
877. In presentia bonorum hominum presi vestitura de
res illas.... sic vestitura preserunt. Cod. Dipl.
lomb.
898. Quarta pecia ubi dicitur Pradello... quinta pecia
ubi dicitur Runculo... prima pecia est in loco ubi
dicitur Busariola. LUPO, I. 1077.
902. Potere approvare. Doc. lucch., II. 476. E al 928
Sotto monte; al 983, montanino; al 984, ingordo,
detto a proposito di misura: ad legittima galletta
et non ingorda, che in lombardo dicono agordo.
960. Nell'archivio di Montecassino è una carta del 960
contenente una sentenza di Arigiso, che giudica
in favore di quel monastero per una lite di confi-
ni. La deposizione de' testimonj è in pretto vul-
gare. Il giudice propone ad essi che testificando
dicant: Sao che chelle terre per chelle fini che
contiene, per trent'anni le possete parte Sancti
Benedicti (GATTOLA, Accessiones).
In un'altra dei primi anni del 900: Sono pront
di obedire et facere lo che me comanda lo dicto
iudice Opizone.
988. Et ille quarta dicitur Longovia.... et ille quinta di-
citur Fossa.... in loco et finibus ubi dicitur Cam-
po Calderale. Doc. Lucch. Questo ille è l'artico-
lo: onde in un livello di beni di casa Rinuccini
141
nel 1003 s'indicano varie pezze di terra, illa una
in loco Ponano, illa alia in loco Versinne, illa
terza pezza in loco Ordinnano. ‒ Ricordi storici
del RINUCCINI, p. 83.
Monsignor Fontanini, Dell'eloquenza italiana,
lib. II, diede una vita di san Pietro Orseolo del
decimo secolo, dove si legge: Abba, rogo, frusta
me; e poi: Credule mihi (credilo a me).
Molti nomi di luoghi trovansi affatto italiani, oltre i
già addotti:
715. Ecclesia sancti Antonii De Castello. Ant. ital., V.
377.
767. Fundum centu colonna, qui vocatur Runco. Ant.
ital., III. 890.
‒ In una carta bresciana; Donna Anselberga, abatissa
monasterii sancti Salvatori, in loco qui noncupa-
tur Rio Torto, uno capo tenente in ipsa chesa, et
de alio capo Ioannes etc. Ib., II. 219.
772. Monasterio Sancti Petri in loco qui dicitur Mon-
sverde. BRUNETTI, I. 282.
774. Silva nostra cum corte, quorum vocabulum est
Montelongo. Ant. ital., I. 1003.
776. A tramuntanu Riu rosso, II. 199.
781. Deinde in locum qui dicitur La Verna, III. 86.
783. Monasteriolum in loco La Ferraria. Diss. XXXII.
799. S. Cassiani finibus Castellonovo. Doc. lucch., II.
163.
807. Vendo tibi una casa mea massaricia, quem habeo
in loco Pulinio, ubi resede Ouriprandulo massa-
142
rio meo. Ib., 208.
819. Una petia de terra quod est saliceto, quæ est ubi
dicitur a rio Tiola....et alio lato tenet in padule.
Ib., 259.
822. Et ponimus in ista sorte petiole ille de vinee qui di-
citur da Baraccio in integrum, et medietate de
vinea nostra, ad Pastino. Ib., IV. part. II. app. p.
32.
843. In locum quo nominatur Casa alta, leggesi in un
mattone trovato in San Faustino di Brescia.
879. Intra hanc civitatem Mediolani, non longe a foro
publico quod vocatur Assemblatorio. Ant. It., III.
774.
883. In loco qui vocatur Fontane comitatu brixiensi. II.
205.
891. Concedimus in præfato monasterio, pro mercede
animæ nostræ vadam unum in Pado ad piscan-
dum, ubi nominatur Caputlacti, habentem termi-
num superiorem in Cocuzo Gepidasco. Ant. ital.,
III. 44.
896. Domum novam quæ vocatur Masons. I. 454.
898. In loco qui dicitur Venero Sassi, V. 604.
940. Costantino Porfirogenito dà a Benevento e a Vene-
zia il nome di città nova. De admin. imp., c. 27 e
28.
944. Decimus de Villa quæ vocatur Casale grande. Ant.
ital., V. 204.
948. Totum et integrum fundum qui vocatur Due Rove-
re. II. 475.
143
957. Dagiperto vescovo di Cremona permuta alcuni be-
ni, fra cui Roca una, idest monticello. ODORICI,
Cod. dipl.
964. Una cappella in comitaua brixiensi, locus ubi dici-
tur Casal alto. DIONISII, Vet. Ver. agri topog., diss.
XXIII.
967. Valle quæ dicitur Torre. Ant. ital., V. 466.
970. In un placito si rammenta che Ottone fece in Ra-
venna fabbricare un palazzo, penes muros qui
dicitur Muro Novo.
972. In fundo qui dicitur Bagnolo. Ant. ital., III. 494. ‒ In
un placito del marchese Oberto d'Este, nelle An-
tichità estensi, par. I. Piscina quæ dicitur Pelosa
de manca et alia parte ascendentem per fossa-
tum qui dicitur Romdeso.
991. In un catalogo dei possessi del vescovo di Lucca:
Alio capo tenet in terra Bonafedi... uno capo in
terra del Cavatorta, alio capo in terra Signorec-
ti... campo in via Mezana... alio lato in terra qui
fuit qd. Ughi da S. Miniato: in loco casale quod
est boscho; alio capo in terra del Wamesi... uno
capo in terra del Manciorini.
E in un altro catalogo contemporaneo: Terras
et vineas cum bosco; In Col di carro dimidiam
masiam... Anselmuccio casam unam.
Nella già citata vita di san Colombano, un
monte presso Bobbio è denominato in lingua ru-
stica Groppo alto.
994. Sancta Maria da li Pluppi. Ant. ital., II. 1035.
144
1005. In loco prope ecclesia Sanctæ Juliæ, ubi dicitur
Fondo maggiore, III. 1069.
1023. Nella Permutatio de Monte Cretactio nelle Rege-
sta Permana: Ipsam meam curtem de Moteria-
no... et in ipso colle de la curte... da capo terra
de singulis hominibus; da pede litoris maris.
Ivi stesso in carta del 1010: habet finem da ca-
po, rigo qui dicitur fluvio; da pede cum littore
maris.
1026. Quædam bona in civitate Placentiæ, ubi dicitur
Campagna. Ant. Ital., V. 679.
1029. Prope loco qui dicitur a le Grotte. Annali camal-
dolesi.
1034. Monasterium sanctæ Dei Genitricis Mariæ, quod
dicitur Maggiore. Testamento dell'arcivescovo
Ariberto, ap. PURICELLI, Mon. basilicæ Ambrosia-
næ, p. 370.
1041. Integram terram nostram al Pojo dictam nel orto
de predicto monaste. Ricordi storici del
RINUCCINI.
1047. Carta di vendita in loco et finibus Selva longa,
cum via andandi et regrediendi. Ant. ital., II.
1033.
1052. Fine al capo del monte. Ant. estensi, part. I. c. 24.
1058. Scilicet a mane flumen quod dicitur Gallicus, a
meridie strada quae dicitur Claudia, a sera via
quæ ducit per Albereto et in josum (in giù) per
zesen usque ad limitem quæ dicitur de Ploppe.
Ant. ital., III. 242.
145
1068. Juxta flumen quod dicitur Gambacanis. II. 680.
1075. In loco qui dicitur Barche. I. 581.
1078. In loco et finibus Colignole campo de l'Arno. v.
680.
1084. De rebus illis quæ videntur esse ine la plebe di
Radicata. II. 269. (Avverti l'in nella del vulgo
odierno e de' trecentisti).
In una carta côrsa del 900: In loco ubi dicitur lo Cavo
tutto lo suo circulo, quomo est terminato et circumdato
da ogni parte de nostro proprio allodio... sicut sunt ter-
minate de pied in Ficatella in Busso, et mette alle saline,
et mette allo livelli, et mette in via publica.
In un'altra pur côrsa del 936: Uxor de domino Guliel-
mo, la quale habitabat ad locum ubi dicitur a Cocovello
di lo plebajo di Ampogiano. E vi è sottoscritto: Actum
ad S. Luciam de la Bachereda: e in una terza del 951
Rosanello del Querceto, Raynuccius de Monte d'Olmo,
Johanello Sambuchello.
In una del 981: Terminata per terminis da piede, lo
ponte della Leccia, et da capite lo castellazzo, ex latere
la strada et lo molino et lo Gargalo de casa Luna... Item
damus vobis lo piano dello cerchio.
E in una del 1039: ‒ Concedo allo dicto monasterio...
Harnosa col poccio arenoso; et lo podio delle mortelle,
quomodo sunt terminata da via pubblica, et mette alla
Bertolaccia et descende per senone usque in Petra rossa,
et mette in Gargalo cacciapanio, et drietro Sancti Mar-
celli, et mette in mare.
Il Trucchi adduce istromenti, ove son nominati Rio
146
freddo (1092) e Casanova; Rocca dei Cori (1052); il po-
tere delle querce (900); Fonte buona (800); una tenuta a
Cintoja (724).
In simil modo le persone son nominate per mestieri o
per soprannomi all'italiana.
761. In una carta lucchese (Mem., doc. 54): Alpergula
de Lamari; Gunderadula qui est in casa Baro-
nacci cum due filie sue; Teodulo de Monacciati-
co, consulo de Serbano... Uno filio ed una filia
nomine Visilinda, Ratpertula de Tramonte, Gau-
doperto pristinario (voce di derivazione latina,
non più intesa in Toscana, e viva in Lombardia);
Liutperto vestorario, Mauripertolo caballario,
Martinulo clerico, Gudaldo cuocho, Barulo por-
cario, Ratcansulo vaccario, ecc.
822. In un placito di Limonta: Johannes qui vocatur Pe-
luso; Johannes Russo. E in una carta milanese
dell'anno stesso: Ursulo qui Mazuco vocatur;
Bonellus qui dicitur Magnano.
905. Berengario donò a un monastero i beni di Johan-
nem, qui alio nomine Bracacurta vocitatur.
921. Rosanello dal Querceto. Ant. ital., II. 1064.
999. In un decreto di Ottone III imperatore: Arderci de
Magnamiculo (Magnamiglio). VI. 317.
1061. Arardo qui vocatur Alegneto; Johannes qui voca-
tur de la Valle. V. 640.
1079. Aldeprandus qui Bello sum vocatus. I. 322.
Il Petroni nella Storia di Bari (Napoli 1858) trova nel
1075 i cognomi Mangiaviti, Manimarzo, Scolmaotre,
147
Vinivendule, Rapinoce, Novepani, Garofolo, Maniape-
curo, Navicella, Azuccabello.
Crescono tali cognomi dopo il 1100. Nel 1126 trovia-
mo Hildeprandus Papatacula (Ant. ital., III. 1142). Nel
1136 Per quem filii Grimaldelli tenent; nel 1140, Cagai-
nos era console di Milano; nel 1141, Albericus Gratacu-
lum (IV. 714); nel 1153 Benteveniat giudice; nel 1155, il
Guerzo; nel 1168, Ugo Boxardo de Novaria; nel 1170,
Boso, Tosabò; nel 1177, Maladobatus de Placentia; nel
1181, Musso Circamondo è in carta lodigiana: al collo-
quio di Piacenza del 1183 è firmato Grimerius Co de
porco (Ant. ital., IV. 291). Nei testimonj al giuramento
fra Lodigiani, Cremonesi, Milanesi, Bresciani, Berga-
maschi del 1167 (ap. VIGNATI, pag. 126) compajono Al-
bertone Buca de torculo, Otto Malalberghi, Lanfrancus
de Pescarolo, Albertus de la Ecclesia, Salamus de Ga-
liardis, Tetavaca, Conradus Grataculum, Basacaponus,
Odeprandus Verza, Zanebonus Caga in pozo, Guidotus
Polentonus, Squarzaparte, Bertrame Scacabarozo, Al-
bertus Pocaterra, Jacobus de la pusterla. Altrove abbia-
mo, nel 1183, un Brosamonega; nel 1184, Nicola Bra-
gadelana; nel 1198, Dexedatus de Solbiate; nel 1199,
Interfuerunt testes ser Guifredus Grassus, ser Martal-
liatus de Melegnano (GIULINI, ad annos). A Genova nel
1228, Mezzabura, Molinaro, Pedeorso, Scurlazuca,
Zoppo; nel 1229, Parpajone; nel 1232, Strejaporco; nel
1251, Banchiere, Belmosto, Bencivegna, Cavaronco,
Falamonica, Ligaporco, Manjavaca, Menabò, Pizzami-
glio (Liber juris).
148
Abbastanza ci apparve come le preposizioni e gli arti-
coli alla moderna abbondassero: pure scegliamo altri
esempj fra gl'innumerevoli:
528. Rivulus qui ipsas determinat terras, et pergit, ipsus
finis... per ipsam vallem et rivulum vadit.
552. Calices argenteos II... ille medianus valet solidos
XXX, et ille quartus valet solidos XIII.
629. Illi Senones... persolvant de illos navigios... Ut illi
negociatores de Longobardia.
721. Dono... præter illas vineas, quomodo ille rivulus
currit... totum illum clausum.
753. Dicebant ut ille teloneus de illo mercado ad illos
necuciantes. Presso RAYNOUARD, De la langue
rom., I. 40, e nel MURATORI, Antiq. It., diss. XII:
Una ex ipse regitur per Emulo, et illa alia per
Aripertulo.... Ipsa prænominata ecclesia....
760. Manifestum est mihi... quia stetet inter me et vene-
rabili Peredeo ut cambium de casas massaricias
inter nos facere debuerimus. Doc. lucch., V. 26.
847. Vel da omnes homines vobis defendere non potueri-
mus. II. 389.
853. Sicut consuetudo fuit da ipsa casa. 424.
898. Has predictas casa et cassina seo rebus superius
dictis... quod est inter totas per mensura ad justa
pertica mensuratas mediorum quinque in inte-
grum ab te eas in comutationem recepi. 630.
910. Homini illo qui ipsis casi et predicta ecclesia da
nobis in beneficio abuerit. III. 57.
961. Nel testamento di Raimondo I, conte di Rovergue:
149
Dono ad illo cœnobio de Conquas illa medietate
de illo alode de Auriniaco et de illas ecclesias...
Illo alode de Canavolas, et illo alode de Cruclo,
et illo alode de Pociolos, et illo alode de Garri-
guas, et illo alode de Vinago, et illo alode de
Longlassa, et illos mensos de Bonaldo, Poncioni
abbati remaneat.
In un livello del 1033: Manifestum sum ego Theude-
rico filio b. m. Ildebrandi, secundum convenenza no-
stra, et quia dare atque abendum et cassina ibidem le-
vandum, et per hominem tuum ibi resedendum... idest
terre pezze tres, quæ sunt posite illa una in loco Pocca-
no, et illa alia in loco Versinne ubi dicitur Salingo, et illa
terza pezza in loco ordinanna ecc. (Ricordi storici di
FILIPPO DI CINO RINUCCINI. Firenze 1840).
Qui ille fa appunto le veci di il, lo, le, l'una, l'altra.
L'ipse fu adottato dai Sardi, dicendo so invece di lo133.
Del verbo sostantivo, declinato all'italiana, ecco altri
casi: Doc. lucch. al 732, Semper nobiscum sia; al 786,
Eravamu; al 992, Una petia de terra quod è sterpeto; e
al 999, Retta fu per Gualperto massario.
Che che ne sia delle diffamate carte d'Arborea,
nell'archivio di Pisa ne esiste una del tempo del vescovo
Gerardo, che morì nel 1080, dove, tra molt'altre vestigia
d'italiano, si trovano parole con suffissi; p. es. et ego do-
nolislu, ed io donoglielo; de levarelis teloneum, di levar-
gli teloneo; de facerlis justitia, di fargli giustizia; ego

133
Anche in sanscrito il pronome dimostrativo è sas, sa, tat.

150
faciudelis carta, io fecigli carta, et fecila pro honore de
omnes amicos meos, fecila per onore di tutti gli amici
miei.
In fronte al volume V dei Documenti lucchesi fu dal
Barsocchini messo un piccolo dizionario delle voci e
modi italiani che vi si riscontrano134, e da carte prece-
denti o vicine al Mille scegliamo i seguenti modi e vo-
caboli: abitatori in plurale; acquaticcio per luogo dove
l'acqua ristagna; al pari, altercagione, assalto, avere co'
suoi declinati avea, avendo, avente (per es. nel 997 Cum
duo libelli, quos abeba fatti); exungia pel grasso d'ani-
mali, sugna; baroccio, bifolco, bigoncia misura di vino;
briga e brigare; buonafede, mura a pietre et calcina et a
rena construite; caldararo, canapajo, canova, cantone,
capanna murata, castagneto, cerreto, commare; ille in
cui nos ecc. Ildebrando dalla petra da dosso, duomo, fe-
nile, filiastro, guardare e riguardare, imboccare, inante,
involare, in ultimo, ivi, lamento, legname, luccio pesce;
mandrile, miccio e merlo animali; molino, moaetario,
torre muzia; necessario per latrina; uno pario pulli, ho-
mo parmisiano, pogio, porcile; potere co' suoi declinati
possa, possiamo, se puoti; riposterio, roncare, ruscello,
scaldare, segatura, setacciare, socero e socera, stacca-
re, torto per ingiustizia, trasmontana; e così i diminutivi
Anselmuccio, casalino, carboncello, collina, fiumicello,
fontanella, monticello, ponticello, stanza con stanziola e
stanzetta; e i numeri sette, nove, diece, undici, tredici,
Vedi BARSOCCHINI, Sullo stato della lingua in Lucca avanti il Mille. Lucca
134

1830.

151
quattordeci, quindici, venti, dugento, cinquecento.

152
§ 15°
Periodo d'organamento.

Siccome Romani erano chiamati dal conquistatore


tutti i vinti, così romana o romanza fu detta la loro fa-
vella non solo in Italia, ma dovunque a colonie latine si
sovrapposero i Barbari135. Riprotestiamo d'esser lungi da
quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in
tutta l'Europa latina; fatto da nessun documento provato,
e dall'analogia smentito. Se latino non parlavano le pro-
vincie neppure ai tempi più robusti dell'Impero, allorchè
da Roma vi andavano e leggi e magistrati, quanto meno
dopochè furono inondate da popoli di vulgari differenti
e incolti?
Papa Gregorio V nel suo epitafio del 998 è lodato
perchè
Usus francisca, vulgari et voce latina,
135
Anche nell'impero orientale fu detta romaica la lingua dei Greci; e ro-
mancio chiamasi tuttora il dialetto semilatino che parlasi in alcune valli de'
Grigioni. Alberico, nella Cronaca ad an. 1177: Multos libros, et maxime vi-
tas sanctorum et actus apostolorum, de latino vertit in romanum.
San Pier Damiani dice di un francese, vivente in Roma, che, scholatisce di-
sputans (cioè in latino, in parlar da scuole), quasi descripta libri verba per-
currit; vulgariter loquens, romanæ urbanitatis regulam non offendit, cioè
non lede le grazie del parlare romanzo (Opusc. XLV. c. 7).
Secondo Benvenuto da Imola, la contessa Matilde linguam italicam, ger-
manicam et gallicam bene novit. Antiq. ital., I. 1252; e soggiunge che Gal-
lici omnia vulgaria appellant romantia; quod est adhuc signum idiomatis
romani, quod imitari conati sunt. Ib., I. 1229.
Giovanni Mandeville nell'Itinerario: Et sachez que j'eus cest livre mis en
latin pour plus brievement diviser: mais pour ce que plusieurs entendent
mieu roumant que latin, je l'ay mis en roumant; cioè in francese.

153
Instituit populos eloquio triplici.
Ambrogio vescovo di Patti in Sicilia nel 1081 fa sten-
dere una carta di memoria nel linguaggio officiale, che è
tradotta in vulgare pel popolo.
Verso il 1090 Augerio vescovo di Catania concede ai
catecumeni che non sanno di greco e latino di risponde-
re in vulgare all'amministrazione del battesimo.
Troppo m'è dubbia l'iscrizione che il Baruffaldi reca,
nella prefazione ai poeti ferraresi, del mile cento tremp-
ta cinque nato: ma qualcuna se n'ha di quell'età a Pisa.
Quella del Duomo del 1068 porta:
Anno, quo siculas est stolus factus ad horas; e fare
stuolo è modo affatto italiano. Alessandro da Morena
(Pisa illustrata, p. 303) dà come esistente sulla verruco-
la in un bastione verso ponente quest'altra:
A di dodici gugno MCIII.
Sebastiano Ciampi trasse queste due dal Camposanto:
† Biduinus maister fecit hanc tumbam ad domn Gira-
tium.
† Hore vai. p. via. pregando dell'anima mia si come
tu se ego fuit sicut ego fu tu dei essere.
Biduino lavorava nel 1180.
Il latino fin al VII secolo si accorge ch'era parlato; dap-
poi non è che affettazione dello scrivente, è lingua mor-
ta; nei libri scritti del XII secolo perdette ogni sapore an-
tico, e parole, costrutti, frasi sono alterati in modo, da
far accorgere che lo scrittore traduce il suo pensiero da
una differente favella. Quel che sapevano di latino pote-
va farli schivare le flessioni popolari e le parole nuove,
154
ma non i costrutti e la collocazione di parole speciali a
ciascun dialetto, in cui pensavano e parlavano.
Questa lingua vulgare in Italia teneva molta confor-
mità col latino letterale; talchè Gonzone, italiano del
960, dice che nel parlar latino gli era talvolta d'impaccio
l'abitudine della lingua vulgare, tanto a quella somi-
gliante136. Talvolta ancora lo storico pone detti vulgari in
bocca de' suoi personaggi137, o lasciasi per abitudine ca-
scar dalla penna idiotismi e frasi, quali usavano nel par-
lare casalingo, e che ritraggono non meno dell'ignoranza
dello scrittore, che del paese ond'egli è. Tutte prove che
già era distinto il linguaggio nuovo dall'antico.
Il domandare però quando la latina lingua nell'italiana
si trasformasse, equivale al domandare in che giorno un
fanciullo diventò giovane, e di giovane adulto. Ai pochi
scienziati tornava comoda e gradita una lingua comune,
per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche a quelli
d'altra nazione; onde coltivarono il latino, negligendo i
vulgari. I signori avranno trattato gli affari in dialetti te-
136
Falso putavit Sangalli monachus me remotum a scientia grammaticæ
artis, licet aliquando retarder usu nostræ vulgaris linguæ, qua latinitati vi-
cina est. MARTÈNE, Vet. script. ampla collectio, I. 298.
137
Quando l'arcivescovo Grossolano ebbe dal pontefice il palio, il popolo
milanese gridava: Heccum la stola (LANDOLFO JUN., nei Rerum italic.
Script., V. 476). Nella vita del beato Pietro Orseolo (Antiq. ital., II. 1031):
Ait abbati lingua propriæ nationis, C abba, frusta me; hoc est, Virgis cede
me. Poco poi abbiamo il grido d'arme de' Crociati Deus lo volt. Nel 1179
Alberto Studense, Data sententia volenti loqui deposito non est data au-
dientia; sed hostiarii clamabant, Levate, andate. Le donne romane all'anti-
papa Ottaviano davano lingua vulgari il titolo di smanta compagno.
BARONIO, ad ann. 1154.
I Milanesi contro il messo di Federico Barbarossa gridavano Mora, mora.

155
deschi; ma quando aveasi a ridurli in iscritto, ricorreano
a cherici nostrali, che si servivano di quel gergo da loro
chiamato latino; gli istrumenti stendevansi da notaj colle
formole antiche; in latino erano dettate leggi e conven-
zioni; nè verun grande interesse spingeva ad educare la
lingua vulgare. Le prediche possiam credere fossero ca-
pite dalla gente comune, come sono oggi quelle che, per
mezza Italia, si recitano in lingua diversa dai dialetti:
qualche volta però il predicatore esponeva in latino, poi
egli stesso o un altro spiegava in vulgare. Nel 1189 con-
sacrandosi Santa Maria delle Carceri, Goffredo patriarca
d'Aquileja predicò literaliter et sapienter, Gherardo ve-
scovo di Padova spiegò al popolo maternaliter138. Nel
1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura in-
corsa per aver aggravezzato beni d'ecclesiastici, vien let-
to l'atto in presenza di molti congregati, primo literali-
ter, et secundo vulgariter, diligenter per seriem de verbo
ad verbum139.
E già poco dopo il Mille riscontriamo scritture, che
non per qualche solo accidente, ma in intero sono a dire
italiane. Il Federici, nella Storia dei duchi e ipati di
Gaeta, produce un ritmo del 1070, molto per verità con-
fuso, ma dove appariscono forme italiane. Incomincia:

Eo, Sinjuri, seo fabello lo bostro audire compello


138
MURATORI, Ant. estensi, I. c. 36.
139
Documenti conservati nell'archivio della curia di Milano. 1854. pag. 20.
Al Concilio IV lateranense del 1215 Rodrigo di Toledo fece un discorso in
latino, e perchè anche i laici lo comprendessero, fu ripetuto in tedesco, spa-
gnuolo e francese.

156
De questa bita interpello, ed dell'altra bene spello
Poiche un altu meo castello ad altri biarenu bello
Et me becendo flagello: et arde la caude se be libera
Et altri mustra bia del libera...

Al 12 dicembre 1095 il conte Ruggero concede al


monastero di San Filippo di Fragalà alcuni feudi, con at-
to steso in greco, e pubblicato dallo Spata: vi va unita
una traduzione o piuttosto riassunto in vulgare, fatto
certamente per uso de' vassalli, e probabilmente contem-
poraneo. Dice: «Conti Rogeri di Sicilia et di Calabria,
ayutaturi di li christiani. Impero hi scelliysti lu divinu
amuri di la pichulitati di li tenniriti di li ungi et di exiri a
la vita monastica et viviri silenziusamenti et quietamenti
et praticando secundu lu dictu di lu apostulu di nocti et
di jornu petendu et pregandu lu signuri deu pir lu sthabi-
limentu pachificu pir tuctu lu populu christianu adunca
ricolligasti bene plachenti a deu....».
Nella base del campanile di Reclus presso Forogiulio
nel Friuli sta scolpito:
MCIII XP. DM. fo començat lo tor de Reclus lo pri-
mo di de gugno pieri et toni so fradi di Yia.
Cioè: «1103 Christi Domini, fu cominciato il campa-
nile di Reclus, il primo giorno di giugno. Pietro e Anto-
nio suo fratello di Uja». Si impugnò questa data: ma il
Piloni nelle Storie bellunesi riferisce, sotto al 1196, uno
scritto latino, nel quale si trovano questi versi, allusivi
ad un avvenimento di quell'anno:

157
De Casteldart havì li nostri bona part;
I lo zettò tutto intro lo flume d'Art:
E sex cavaler de Tarvis li plui fer
Con se duse fe i nostri presoner140.

L'iscrizione sull'angolo esteriore della stanza del teso-


ro di San Marco presso alla mirabile porta della Carta a
Venezia, male dal Gamba riferita al X secolo, e dal Cico-
gna al XIII, parrebbe della fine del XIV, e dice:

L'om po far e
die in pensar
e vega quelo
che li po inchontrar.

Più certa è questa sepolcrale:


MCCXIX de sier Michiel Amadi franca per lu e per i
so heredi141.
140
Alludono all'impresa di Casteldardo, ripigliato dai Bellunesi l'aprile
1196:
Un'iscrizione italiana del 1360, sulla porta della chiesetta di S. Cristoforo a
Longarone di Belluno, dice:
MCCCLX fo fata questa glexia al onor de
misier Jexu Χρο e de madona sa Maria e de
misier ser Xροforo e de mis. s. Jachomo,
fata p. Charlo q. maistro Dlavazo (Delavanzio) dotor de
gramadga d. Cividal.
141
Non ha adunque ragione Scipione Maffei (del quale va utilmente consul-
tato, intorno all'origine della lingua, il vol. II, pag. 540 e segg. della Verona
illustrata) quando nella parte IV, cap. 4, adduce una epigrafe veronese, asse-
rendola la più antica, come la più insigne italiana. Sulla iscrizione veronese
una lunga dissertazione pubblicò Carlo Cipolla nell'Archivio veneto del
1876, vol. XI, p. II, pag. 277 e segg., dando le varie lezioni di essa, e di altri

158
In S. Fridiano di Lucca è una tomba marmorea con
quest'iscrizione:

Discendenti di ser Aldobrandino


E del suo fratello Paganino
Giaceno in questo lavello

scritti del tempo. Esso dal marmo la lesse a questo modo:


MERAVEIARTE PO LETORCHE MIRI LAGRANMAGNIFICENCIAEL NOBEL QUARO
QUAL MONDO NONAPARO . NEAN SEGNOR . CUMQUELCHEFE MEYZIRI
OUERONESE POPOL . DALUYSPIRI . TENUTOENPACE . LAQUAL EBE RARO
ITALIANNELKARO . TE SATURO LA GRATIA DEL GRAN SIRI
CANSIGNO FO QUEL CHE ME FECI INIRI. MILLE TREXENRO SETATATRI EFARO
POZONSEEL SOLUNPARO DE ANI CHEL BON SIGNO ME FE FINIRI.

Si interpreta:

Maraveiar te po, lector, che miri,


La gran magnificencia, el nobel quaro
Qu' al mondo non à paro
Ne an segnor com quel che fe mei ziri.
O veronese popol, da luy spiri
Tenuto en pace, la qual ebe raro
Italian. Nel karo
Te saturò la gratia del gran siri.
Cansignor fo quel che me fece iniri,
Mille trexento setantatri e faro,
Po zonse el sol un paro
De anni ch'el bon Signor mi fe finiri.

Dopo più di 100 pagine il Cipolla chiude esortando a nuova illustrazione.


Poc'anzi a Genova fu trovato un loculo del XIII secolo con epigrafe dei Lercari,
scolpita attorno ad un bel bassorilievo di metallo con Maria SS. e il Bambino.
L'epigrafe è siffatta:

† MCCLVIIII AD. DIES. XVI.


AuGVSTI ANTE TE

159
Per lor fatto sì bello
Ditti figliuoli Guidiccioni
Preghiamo Dio che lor perdoni.
Questo è per li maschi fatto
Per le femine l'altro.
In MCCXC
Ajutili la Vergine santa.

Il Molini copiò dalla biblioteca dell'Arsenale di Parigi


una cronaca di Pisa che finisce al 1175, e dove si leggo-
no frasi come questa: Plus de trecente milia inter milites
et pedites et arcatores et balestreros per andare et pren-
dere et subjugare Damasco et tota terra paganorum,
per stare mai sempre in terram jerusalem et tota terra
Christianorum. E altrove: Tunc fuit ibi sconficto per fa-
me et mortui più di CC milia (Documenti di storia italia-
na).
In una carta del 1122 presso l'Ughelli (Italia sacra,
archiep. Rosianen., tom. IX) i confini sono determinati
così:
Incipiendo da li Finaudi et recte, vadit per Serram
RCIAm.TRANSIERV
NT. De. HOC. SeCuLO. DOMIN
A. SIMONETA. et. PRE
CIVARIus LERCARIus. EIus
FRATER:. QuE ANIME. IN PACE. RE
QuIESCANT. ANTE. DEVM. AMEN:.
TU. QI. QI. NE. TrOVI. Per. DE. NO. NE. MOVI.

Questa ultima linea ci sembra in volgare, e noi la spieghiamo così:


Tu che qui ne trovi, in grazia, o per dio non ci muovere.

160
sancti, et la Serra ad hirto (ad herto) esce per dicta Serra
Groinico; e li fonti aqua trondente inverso torilliana; e
esce per dicto fonte a lo vallone de Ursara; e lo vallone
Apendino cala a lo forno, et per dicta fiumana ad hirto
ferit a lo vallone de li Caniteli, et predicto vallone ad
hirto esce supra la Serra de li Palumbe a la Crista cussa;
et deinde vadit a lo vado drieto da Thomente, et dieta
ecclesia sancto Andrea abe ortare unum, et non aliud. Et
dieta Serra Apendino cala a lo vallone de Donna Leo; et
lo vallone Apendino ferit a l'aria de li Meracieri et ferit a
la Gumara de li Lathoni ecc.
Nel 1144 i consoli di Bergamo concedono agli uomini
di Ardesio di tagliar legna per le cave del ferro, salva
cacia seu venatione episcopi; ma che non debent tra se
conversare ut damnum episcopus patiatur. Ap. LUPO.
Nè tanta parte d'italiano basta. Il Muratori trasse dagli
archivj côrsi scritture di data corrotta (e già le accen-
nammo), ma che la conformità di nomi metterebbe al
900, e sono in vero italiano. Che un notaro ricopiandole
le vulgarizzasse, sarebbe pratica insolita: oltre che il no-
taro il quale le trascrisse nel 1354, dice averle tratte
dall'autografo de parola in parola come si contiene qui
appresso; nè il Muratori trova altra ragione onde diffida-
re di loro antichità, se non l'essere in italiano; circolo vi-
zioso. Ecco una donazione fatta a Silverio abate dell'iso-
la di Montecristo da Ottone conte in Corsica.
Ad honorem Dei et beatæ Mariæ et beato Stefano et
beato Benedetto, anno dominicæ naptivitatis quadra-
gentesimo settimo (?) regnando messer Berlinghiero re
161
et giudice. Sia manifesto a tutte persone che leggeranno
et che odiranno questa carta. Quando venne messer Ot-
to, et messer Domenico, et messer Guidone de' conti
dell'isola di Corsica, et questi vennono in presentia di
messer l'abate Silverio abate di sancto Mamiliano
dell'insula di Monte Cristo. Et questi sopradecti signori
li dedono sua possessione, ch'elli avevano in Venaco in
l'isola di Corsica, che sono case, casamenti, terre, vi-
gne, boschi e selve agresti et domestiche, le quali sono
terminate, et per termini sopra lo piano chiamato lo Fe-
lice, e mette atto fiume di Rissonica, et mette in Tavi-
gnano, et mette allo Poio nello Palazzo, mette allo Vado
delle Carcere, et mette allo Polo delle Tavole, et mette
allo Tuisano, et mette allo Vado delle Rondini, con due
carte dello Gualdo delle Lentigini. Et questa possessio-
ne diamo per noi e nostri heredi in perpetuum ecc. E fi-
nisce:
Actum in Marrana, innanzi la chiesa di Sancta Ma-
ria, in presentia di me notario insoprascripto et di mes-
ser Sinibaldo legato. Testes prete Grisogano, prete An-
tonio, et messer Bonaparte, et messer Manfredo di Som-
ma, ed altri più che vi erano.
Un'altra donazione e una querimonia vanno del mede-
simo fare; e men incredibile pare la loro antichità, per-
chè i modi stessi incontrammo più o meno anche altro-
ve.
Le Carte d'Arborea, pubblicate dal Martini nel 1846 e
seguenti, farebbero molto al nostro proposito: ma i gra-
vissimi dubbj elevati sulla loro autenticità mi trattengo-
162
no dal valermene.

Nel Bullettino archeologico sardo del 1855, il signor


Pellito ragiona d'una canzone di ducencinquantasei versi
in lode di Costantino II, che fu giudice d'Arborea prima
del 1131, composta da Lanfranco di Bolasco genovese,
e ne dà questo saggio, che lasciamo in tutto a sua fede:

Lo non poder di mente in me trovato


De labore disgrato
Che for onne valere e anco volere
Meglio cherlo l'uom disapprestato.

Ma dopo il 1073, e prima del 1130 fu giudice d'Arbo-


rea un Torbetano, del quale nei Monumenta historiæ pa-
triæ si pubblicò una concessione a Nibatta moglie sua,
di disporre di due case, dette Nurage Nigella e Massone
de Capras. È dettata in lingua sarda, ed espresse le con-
dizioni, viensi alle imprecazioni contro chi ardisca pu-
gnare, adisbertinare istu arminatu: Siat illi sterminata
in istu seculum de magione sua: siat cecum et surdum e
grancatu (aggranchito) et de magione sua totu istrama-
tu (sterminato): et siat dannata co Core et Habiron et
Anna et Caipha et Pilatu de Ponza ciest in iscrinio fer-
reo, u (ove) bellu (belva) mandicat fera acreste (fiera
agreste) et animas eorum sepulta sunt in infernu142. Vi
tiene dietro un'altra di vendita, stilata al modo stesso: A
Gostantine dorrubu fidele meu abeat benedizione de
142
Monumenta Hist. patriæ, Chart. I. 765.

163
Deus et de omnis sanctus, et sanctus dei amen: et qui de
aixtruminare boluberite, e dixerit quia non sit, instrumi-
net Deus magione isoro in istu secolo, et deleatur nome-
ne sus de libro bite, e abiat porzone cun Erode e cun Ju-
da traditore et cun diabulu in infernus.
Nel 1165 Barisone re d'Arborea faceva una donazione
a sua figlia, che comincia: Ego judice Barusone d'Arbo-
rea faço custa carta ad Susanna filia mia et a fios catos
ad faguer pro bene quod illis faço cum voluntate bona
de donna Algabursa mugere mia... Et quod abet dicere
qua bene et fu kést iscrita in icusta carta (chi dirà che è
bene ciò ch'è scritto in questa carta) abat benedictionem
de Deus. Seguono le imprecazioni, poi: Custu privilegiu
exempladu davas autenticu fudi bulladu cum bulla de
plumbu, cum corda de seda niella sugale bulla est tunda
etc.143
Nel 1170 Alberto arcivescovo di Torres esimeva la
badia di Montecassino da certi pesi:
«Ego Albertu monachu arckiepiscopo de Torres, kigla
fhato custa carta pro ca mi pregait su abbate de Monte
Cassinu domno Raynaldu pro indulgere li sus censu, ki
davan sos priore de Nurr ki ac sancto Gavinu pro sancto
Jorgi de Baraggie, et pro sancta Maria de Eenor una li-
bra de argentu, et viginti solidos de dinares, kandonke
benniat su missu desso papa (qualunque volte veniva lo
messo dello papa), et levarende dessu ki aviat sanctu
Benedictu in Sardinia. Et ego Pusco Toraive Namana in

143
Ib., 843.

164
Sardinia petuli boluntate assu domna mea a judice Bari-
sune de Laccon.... Et ego cum boluntate de Deus, et des-
su domnu meo judice Barisune de Laccon, e dessa mu-
jere domna Pretiosa de Orrobu regina, e dessu fuiu dom-
na Gostantine rege, et cum boluntate desso episcopos
soprascriptos, e desso arkaiprete, e dessos calonicos in
Tulgoli custo censu a sancto Benedictu, ki siat nulla ar-
kiepiscopo pus me, neque nulla homine Kindali fathat
hertu baytee kinde apat pro de usque in sempiternum,
etc.»
Nel 1153 Gumario Torritano, giudice in Sardegna,
privilegiava così lo stesso monastero di Montecassino:
«Ego judice Gumari de Laccon ki laco custa carta
cum boluntate de Deu, et de fuius meus Barisune rege,
et de sa mujere Pretiosa de Orrobu regina, de sancta
Maria de Tergu, cum boluntate Deum et pro remissione
dessos peccatos meos, et de parentes meos, et pro servi-
tu bonu hispi in Monte Cassinu cando andai ad Sanctu
Sepulcro, ad ultra mare, kaime feliciter, abbate Raynal-
du, ki fuit abbate de Monte Cassinu, et cardinale de Ro-
ma, et pro sanctitate revidi in cussa sancta congregatio-
ne et procamiglole scrum si anima mia, et de parentes
mios in suo ufficio, et in ipsas orationes cantu sait facter
in cussu locu, et in tuto sos atteros locos in sero kenciti-
mos l'abbate et totu sos monachos».
Verso il 1182 il predetto Barisone concedeva questo
privilegio alla chiesa e al monastero di San Nicola di
Urgen.
«Ego judice Barisune, podestando totu logu d'Arbo-
165
rea, simul cum mugera mia domna Algaburga regina de
Logu, et arkiepiscopu Comita de Laccon... fago quista
carta a sanctu Nigola de Urgen, ch'est post in Ficusma-
ra, de chi fabricarat judice Gostantina au meu, et judice
Comita patre meus. Et non apat ausu, non judice cataer
depus me, non arkiepiscopu, et non piscopu, et non prio-
re de Monte Casinu, non monachu, non combersu, nec
nulla homine mortale, a levar ende dessa causa de Sanc-
tu Nigola, non de spirituale, ninque de temporale, nin
dintro de domu, nin de foras domu keria voluntate des
abbades et de sos monachos cantesset in sanctu Nigola,
et in custa domo de sanctu Nigola, cum omnia cantu, et
ad aver dare como innanti, et ivi, et ateras cortes suas
siat libera...»
È un'altra delle stranianze del libro di Dante De vul-
gari eloquio quell'imputare i Sardi di non avere dialetto
proprio (egli che pur tutti i dialetti riprova), ma di scim-
miare il latino: soli sine proprio vulgari esse videntur,
grammaticam tamquam, simiæ homines imitantes; nam
domus nova, dominus meus loquuntur144. Noto è infatti
quanta parte di latino conservi quel dialetto, nel quale si
fecero interi poemi bilingui145. Or bene, la Sardegna non
144
Libro I, c. XI.
145

Canto pro quale causa


Gemat Sardinia misera,
De tristi vultu et lacrimas
Mandet inconsolabiles.
Il Madau nel 1778 in lode dell'arcivescovo Melano stampò versi, che sono
latini, e insieme sardi del dialetto di Logudoro:
Melani nomen celebre

166
fu invasa da Settentrionali, che potessero introdurvi le
forme di loro favella, siano lessiche o grammaticali.
Fin del 1133 il De Gregorio (Considerazioni sulla
storia di Sicilia, I, c. V.) reca una pergamena dell'archi-
vio vescovile di Patti, ove, in una controversia, il re or-
dina si legga una carta di memoria del 1080, vulgariter
exposita.
Nel Codice Cassinese della Divina Commedia, con
diligentissima scienza pubblicato da quei Benedettini
nel 1865, fu prodotta una poesia, che vorrebbesi provare
del secolo XI. Eccone alcuni versi:

Questa bita regnare


deduceve de portare
morte non guita gustare
cumqua de questa sia pare
ma tanto questu mundu a gaudebele
Ke lunuellaltro (l'uno e l'altro) face mescredebele.
Ergo ponete la mente
La scriptura como sente

Cantet superba Calaris,


Et Sarda terra applaudat
Cum jucunda memoria.
Ipse venit de nobile
Et illustre prosapia,
Et veras etiam glorias
Occultat pro modestia
e così segue per 18 strofe. In Sardegna si sente tuttodì claros dies, obscuras
noctes, nemos (bosco), pecus. Chi vi ode proverbj come questo, Opus bonu
non queret pressa (opera buona non richiede fretta), inclina a credere che la
voce pressa vivesse nell'antico latino.

167
Calasse mosse d'oriente
unu magnu vir prudente
et un altru d'occidente
fori junti nalbescente
addemandaru se presente,
ambo addemandaru de nubelle
l'unu ell altru dicu se nubelle....

Nel 1186, Bonanno di Pisa fondeva le porte di bronzo


del duomo di Monreale in Sicilia, e ne' quarantadue
scompartimenti istoriati poneva iscrizioni, delle quali al-
cune sono quasi, altre affatto italiane: Eva serve a Ada.
‒ Caim uccise frate suo Abel. ‒ Iosep, Maria, puer fuge
in Egitto. ‒ Battisterio. ‒ La Querrentina. ‒ Iudi tradì
Cristo.
Contemporaneo si fa un marmo di Firenze, che il Cre-
scimbeni distribuì in versi, ov'è raccontata l'avventura
d'un Ubaldini al tempo di Barbarossa: ma all'autenticità
di quello gravissimi dubbj oppone la critica.
In quell'anno era già nato san Francesco d'Assisi, del
quale è affatto italiano il Cantico del sole. Ma potrebbe
essersi rimodernato da Bartolomeo di Pisa, che lo tra-
scrisse in un libro del 1383, censessant'anni dopo morto
il santo.
Del quale anche altri versi sono riferiti da san Bernar-
dino da Siena, ma probabilmente ringiovaniti; anzi il
dotto Affò, nella Dissertazione sui cantici vulgari di san
Francesco, nega sieno del serafico, o veramente ch'esso
dettolli in prosa, ed altri li rimò. Pure in italiano doveva

168
egli predicare, atteso che ne' Fioretti leggesi che in
Montefeltro prese per testo il proverbio vulgare «Tanto
è il ben che aspetto, Ch'ogni pena mi è diletto».
E quest'usanza era d'altri. Farinata, per difendere a vi-
so aperto Firenze contro quei che consigliavano a torla
via, cominciava da due proverbj: «Siccome asino sape,
così sminuzza rape. Si va la capra zoppa se il lupo non
la intoppa». Il consiglio d'uccidere il Bondelmonte fu
espresso con altro proverbio: «Cosa fatta capo ha». Frà
Salimbeni al 1235 cita un proverbio de' Toscani:
«D'omo alevadizo e di piuolo apicadizo non po l'hom
gaudere»; e spesso dà canzoni e satire correnti: come al
1241 quando era podestà di Reggio Lambertesco de'
Lamberteschi, quidam fecerunt rithmos de eo dicentes:
«Venuto è 'l lione De terra fiorentina Per tenire rasone In
la città reggina». E altrove: «Tu no cura de me, e no cu-
rarò de te ‒ Or ritorna frate Elìa che pres'ha la mala
via»: e dice che frà Cornetta, uno dei molti predicatori
di pace, faceva cantare al popolo preghiere vulgari, co-
me queste: «Laudato et benedetto et glorificato sia lo
Patre, sia lo Fijo, sia lo Spirito Sancto, alleluja, allelu-
ja».
Nel 1233, 3 dicembre, Federico II scriveva a papa
Gregorio IX che mandasse missionarj per convertire gli
Arabi di Lucera, avvertendo che capivano l'italiano.
Quia vero placet sanctitati vestre aliquos fratrum ordi-
nis predicatorum transmittere ad conversionem Sarace-
norum, qui Capitanata Luceriam incolunt, et intelligunt
italicum idioma, gratum est nobis ut iidem predicatores
169
veniant, et incipiant nomen domini predicare146.
Basta guardare i discorsi rimastici di quei tempi per
convincersi che chi li faceva, se anche usasse il latino,
parlava però l'italiano; e l'italiano quei che gli udivano.
Il famoso Odofredo, terminando di leggere il Digesto
all'Università di Bologna, così congedava gli scolari:
Dico vobis quod in anno sequenti intendo docere ordi-
narie bene et legaliter sicut unquam feci. Non credo le-
gere extraordinarie, quia scholares non sunt boni paga-
tores: quia volunt scire sed non volunt solvere, juxta il-
lud, SCIRE VOLUNT OMNES, MERCEDEM SOLVERE NEMO. Non ha-
beo vobis plura dicere: eatis cum benedictione domini.
Di sant'Antonio di Padova è scritto che italico idiomate
adeo polite potuit quæ voluit pronuntiare, ac extra Ita-
liam nunquam posuisset pedem (WADINGI Annales): e le
sue prediche ci sono conservate in latino, ma di eviden-
tissima origine italiana. E tale parlava certamente
quell'Andrea da Firenze che, secondo Benvenuto da
Imola, diceva in pulpito: O domini et dominæ, sit vobis
raccomandata Monna Tessa cognata mea, quæ vadit
Romam: nam in veritate, si fuit per tempus ullum satis
vaga et placibilis, nun est bene emendata: ideo vadit ad
indulgentiam.
D'altre siffatte bizzarrie potremmo ricreare la noja di
questo discorso; ma tornando al serio, nomineremo
Gaufrido Malaterra, storico ben noto de' re Normanni di
Sicilia e buono scrittore latino, il quale però, ad istanza

146
HUILLARD BRÉHOLLES, Cod. Dipl., tom. IV, p. 457.

170
del principe, scriveva canzoni plano sermone et facili
ad intelligendum, quo omnibus facilius quicquid dicere-
tur patesceret. E ne adduce alcune, fra cui questa allor-
chè a re Ruggero nacque Simone, appena morto il pri-
mogenito:

Patre orbo gravi morbo sic sublato filio


Unde doleret quod careret hæreditatis gaudio,
Ditat prole quasi flore superna prævisio.

Qui voi avete notato e la misura e il ritmo moderno, cioè


la sostituzione della poesia ritmica alla metrica.
Poco divago dal tema se tolgo a provare che qui pure
la poesia originaria de' prischi Itali era ritmica, quale ap-
pare ne' versi Saturnini, nel Carme Arvale e in altri car-
mi deprecatorj, medici, magici, che recitavansi assa vo-
ce, vale a dire senza accompagnamento musicale, ma
marcando col piede l'accento; e le canzoni convivali ri-
cordate da Catone; e forse i versi Fescennini, e certo
que' versi popolari che Svetonio, inesorabile raccoglito-
re di aneddoti, ci conservò, e giù fino ai notissimi di
Adriano morente, indocili alle conosciute misure.
L'imitazione greca introdusse i metri dattilici, ma co-
me armonia fittizia, arbitraria, non connaturata alla lin-
gua, e preoccupandosi delle convenienze accidentali del
metro, e di pretese analogie coi modelli greci, anzichè
della vera pronunzia: segno che il tono cadea spesso sul-
le brevi, e gran numero di sillabe rimanevano comuni,
cioè incerte. Tutt'artifiziale essendo tale melopea, la

171
quantità diveniva facilmente corruttibile, e per quanto i
poeti cercassero aumentare l'armonia de' loro versi col
sottomettere a un ordine sistematico i piedi liberi, cioè
determinare la successione de' dattili e degli spondei, o
prefiggere il posto delle cesure e fin la lunghezza delle
parole, l'armonia fra' Romani non acquistò tampoco la
forza d'un'abitudine. Quando poi la pronunzia restò uni-
ca signora della lingua, essa ricondusse le convenzionali
differenze a una qual si fosse uniformità, dedotta
dall'accento; e i poeti dapprima variarono ad arbitrio le
regole prosodiche, poi confessarono ignorarle, e sul tipo
dell'antico esametro congegnarono versi, che non tenea-
no punto alla melopea antica. Aggiungete che, al deperi-
re della squisitezza classica, rivalsero le forme indigene;
e qui pure assai operarono i Cristiani, dove l'ispirazione
essendo personale, e predominante il sentimento, non
subordinavansi le emozioni ad una misura materiale,
bensì questa appropriavasi ai pensieri, e l'espressione
melodica sostituivasi alla plastica regolarità. Lo vedia-
mo negli inni della Chiesa, ove negligevasi la quantità
per cercare soltanto il numero delle sillabe e far agevo-
lezza alla musica. E anche degli altri versi si variò la mi-
sura, sempre con riguardo al numero, non alla lunghezza
o brevità delle sillabe.
Questa digressione valga di riprova al nostro assunto,
giacchè qui vedrebbesi riprodotto lo stesso andamento
che nella lingua. Abbiamo canzoni popolari che si usa-
rono in varj tempi, dal canto delle sentinelle sugli spalti

172
di Modena minacciati dagli Ungari147, fin alle invettive
contro Federico II. Erano latini almeno di desinenza; il
che prova quanto fosse vulgarmente conosciuta la lin-
gua latina, ridotta però alla sintassi popolare, che forse
costituiva la sola differenza dall'italiano, insieme colla
trascuranza delle terminazioni, che, dapprima soltanto
propria della plebe e de' parlanti, allora s'accomunò an-
che agli scriventi.

147
Sta nella Storia degli Italiani, vol. V. p. 340*. Nel ritmo per la cattura di
Lodovico II imperatore a Benevento l'871 leggo:

Audite omnes fines terræ orrore cum tristitia


Quale scelus fuit factum Benevento civitas.
Ludhovicum comprehenderunt sancto pio augusto
Beneventani se adunarunt ad unum concilium ecc.

Che vi manca a divenire, e vorrei dire a tornar italiano?


Il Maj (Class. Auctores, v. 492) reca un trattatello sulla medicina, in versi,
copiato nel XV secolo da Pier Cennini di Firenze, che al fine scrive: Crispi
mediolanensis diaconi ad Maurum mantuensem præpositum explicit: Sed
profecto Crispus iste neque poeta est, nec versificator bonus: quippe non
ex lege metrorum, sed ad suarum aurium sonum versus composuit, idest
rythmum tantum.

* Tomo V cap. LXXII par. “Modena fu difesa a lungo…” di questa edizio-


ne. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

173
§ 16°
Prime scritture italiane.

Non sorgeano dunque le lingue nuove per arte e pro-


posito, ma dietro all'eufonia e all'analogia, secondo la
logica naturale e quell'istinto regolatore, che così mera-
viglioso si manifesta ne' fanciulli. In conseguenza varia-
va secondo i paesi, cioè formavansi dialetti. Alla parte
poetica, anima di ciascun dialetto, si univa l'erudizione,
cioè gli elementi trasmessi dal mondo antico; e così le
lingue moderne, poetiche e popolari di natura, si rimpu-
lizzirono sull'esempio delle precedenti.
Pargoleggiarono esse finchè scarse le comunicazioni
e gli affari in cui adoperarle; ma quando anche il popo-
lo, redento dalla servitù feudale, fu chiamato a discutere
dei proprj interessi, dovettero acquistare estensione e
raffinamento i dialetti, non volendo l'uomo nei consigli
parlare altrimenti che nell'usuale conversazione, nè po-
tendo ciascuno avere in pronto il notaro che esponesse i
suoi pensamenti in latino. Così il vulgare sollevavasi
dalle faccende casalinghe, in mezzo a cui erasi formato.
La separazione dei Comuni e dei Feudi avea portato
prodigiosa varietà di loquele. Quando si fusero in picco-
li Stati, poi i piccoli in grandi, un dialetto speciale fu
adottato di preferenza, in prima nelle canzoni, poi nella
prosa, accostandosi sempre più all'unità, non fra chi par-
la ma fra chi scrive, deponendo ciò che v'era di più spe-
ciale, e formandosi una tradizione letterale; e le nazioni

174
acquistarono anche quel che n'è distintivo primario, la
lingua.
Anche in questa si rivela la condizione politica; e
mentre la Francia restringevasi in unità di dominio, e
con essa veniva unità di linguaggio148; da noi, fra tanto
sminuzzamento di Stati, altrettanto se n'ebbe dei parlari,
148
È pregiudizio volgare che sia una particolarità dell'Italia l'avere tanti dia-
letti, mentre, principalmente in Francia, si parli dappertutto una sola lingua.
Nulla di più falso, e n'abbiamo una prova recentissima. L'abate Sire, diret-
tore del collegio di San Sulpizio, fa tradurre in tutte le lingue del mondo la
Bolla che definisce il dogma dell'Immacolata Concezione. Volle pur farla
mettere nei varj dialetti di Francia.
La Francia settentrionale diede cinque traduzioni: in fiammingo, in picardo,
in sciampagnino, in vallone, nel vecchio normanno, qual conservasi ancora
nel Calvados, nella Manica e nelle isole di Jersey e Guernesey.
La Francia orientale diede nove traduzioni: la Lorena in lorenese tedesco
ed in lorenese francese; l'Alsazia nel dialetto del Basso Reno ed in quel
dell'Alto Reno; la Franca-Contea in due dialetti dell'Alta Saona, del Doub,
del Jura; la Borgogna in borgognone della Côte-d'Or, in maconese di Saona
e Loira; in bressino dell'Ain.
La occidentale diede la traduzione bretone nei quattro dialetti di Saint-Pol
de Leon, di Tréguies, di Quimper, di Vannes; la poitevina, la vandeana.
La Francia centrale diede la traduzione berrisciona, la nivernese, la borbo-
nese, la limosina, quella delle Marche; in quattro varietà della lingua
d'Auvergne; ne' due dialetti più interessanti del Lionese. Ancor più la Fran-
cia meridionale. La Savoja porse tante traduzioni quasi quante le valli. Il
Delfinato nei dialetti dell'Isero, della Drôme, delle Alte Alpi. Il Contado
nella lingua degli antichi trovadori. La Provenza in quelli di Marsiglia e di
Aix; le Alpi Marittime nell'italiano nizzardo; la Corsica nei dialetti di Ba-
stia e di Ajaccio. La Linguadoca nelle lingue antiche delle Sevenne, e nel
linguadochese puro di Montpellier e in quel di Tolosa, coltivato nei giuochi
floreali; la Guienna nei dialetti di Rouergue e di Quercy, dell'Agenais, se-
gnalato ultimamente da Jasmin; del Périgord, del Bordelese, del Medoc,
delle Lande. La Guascogna coi dialetti di Dax, d'Auch, di Bigorre, e col ba-
sco del Labour, della Soul, della Bassa Navarra. Il Béarn diede il suo dialet-
to; il paese di Foix l'ariegese, il Rossiglione quel della Cerdagna.
Le provincie ove non rimase che la lingua nazionale sono la Turena,

175
e più di uno recò innanzi pretensioni di priorità o di col-
tura.
Dante asserisce che cose per rima vulgare in lingua
d'oc, cioè in provenzale, e in lingua di sì non siensi dette
se non 150 anni prima di lui, lo che rimonterebbe al
1150, e lo rincalza Benvenuto da Imola nel suo com-
mento. Quanto al provenzale, egli è smentito da nume-
rosi documenti149. L'italiano, tardi fu sentito il bisogno
d'usarlo letterariamente, attesochè possedevamo il lati-
no, formato e nazionale.
Che Folcalchiero de' Folcalchieri, cavaliere senese,
fosse contemporaneo alla pace di Costanza, lo inducono
dal principio di quella sua canzone:
Tutto lo mondo vive sanza guerra,
Ed eo pace non posso aver neente.
O Deo, come faraggio?
O Deo, come sostenemi la terra?
E par ch'eo viva en noja de la gente.
Ogni omo m'è selvaggio:
Non pajono li fiori
Per me com'già soleano,
E gli augei per amori
Dolci versi facevano agli albori150.

l'Angiò, il Maine, l'Orleanese e l'Isola di Francia.


149
Si noti che ne' Trovadori ci ha i Discordi, componimenti ove si alternano
due o tre lingue, e fra esse l'italiana. Così in Rambaldo di Vacchiera, citato
dal Crescimbeni, abbiamo
Io son quel ben che ben non ho.
150
Siam costretti a mettere da banda la canzone e due sonetti di M. Aldo-
brando da Siena, che vorrebbesi nato nel 1112, morto nell'86. Oltre che si

176
Di Lodovico della Vernaccia da Firenze, verso il 1200
versato in civili maneggi, il Crescimbeni reca un sonet-
to, che comincia:
Se 'l subjetto preclaro, o cittadini,
Dell'atto nostro ambizioso e onesto
Volete immaginar, chiosando il testo
Non vi parrà che noi siamo fantini?
S'alli nostri accidenti, ed intestini
Casi ripenserete, con modesto
Aspetto inchinerete il cor molesto;
Fien radicati al cor in duri spini.
Dalle poesie di Noffo, notaro d'Oltrarno, vivente nel
1240, scelgo una canzoncina:
Vedete s'è pietoso
Lo meo signore Amore,
A chi 'l vuol obbedire,
E s'egli è grazïoso
A ciascun gentil core
Oltre a l'uman desire.
Ch'io stava sì doglioso
Ch'ogni uom diceva, el muore,
Per lo meo lontan gire
De quella in cui io poso
Piacer tutto e valore
Dello mio fin gioire.
E stando in tal maniera,
Amor m'apparve scorto,
credette error di cifra per 1212, vengono dalla troppo sospetta officina sar-
da.

177
E 'n suo dolce parlare
Mi disse umilemente:
Prendi d'Amore spera (speranza)
Di ritornare a porto,
Nè per lontano stare
Non dismagar (iscoraggiarti) neente.
Guido delle Colonne da Messina, nella seconda metà
di quel secolo, «poetava gravemente», come disse Dante
nel Vulgare eloquio:
Ben passa rose e fiori
La vostra fresca ciera,
Lucente più che spera;
E la bocca aulitusa151
Più rende aulente odore
Che non fa una fera
Che ha nome la pantera,
Ch'in India nasce ed usa.
Benchè paja anteriore, Odo delle Colonne gli è coe-
vo:
Va, canzonetta fina,
Al bono avventuroso,
Ferilo a la corina: (cuore)
Se il trovi disdegnoso,
Nol ferir di rapina,
Che sia troppo gravoso;
Ma feri lei che 'l tene,
Ancidela sen (senza) fallo;
151
Ciera per faccia, rimasto ai Lombardi: gli Spagnuoli dicono cara. Spera
specchio. Aulitusa olente, odorosa.

178
Poi fa sì ch'a me vene
Lo viso di cristallo;
E sarò fuor di pene,
E avrò allegrezza e gallo152.
Quell'Jacopo notaro da Lentino, che Dante mette a fa-
scio con frà Guittone d'Arezzo, cantava di qua dal dolce
stile:
Mia canzonetta fina,
Va, canta nuova cosa;
Moviti la mattina
Davanti alla più fina,
Fiore d'ogn'amorosa,
Bionda più ch'auro fino:
Lo vostro amor ch'è caro,
Donatelo al notaro
Ch'è nato da Lentino.
Di Rinaldo d'Aquino, messo dall'Alighieri fra' buoni
trovadori, s'ha otto canzoni, di cui ecco un saggio:
Guiderdone aspetto avire
Da voi, donna, a cui servire
No m'è noja.
Ancorchè mi siate altera,
Sempre spero avere intera
D'amor gioja....
Donna mia, ch'io non perisca
S'io vi prego, non v'incrisca
Mia preghiera.
152
Radice perduta di galante, ringalluzzire ecc. Gallare d'allegrezza fu regi-
strato dalla Crusca.

179
La bellezza che in voi pare
Mi distringe, e lo sguardare
Della ciera.
A re Manfredi, che governò le Sicilie dal 1258 al 66,
è diretto il Fior di retorica, dove frà Guidotto da Bolo-
gna, a vantaggio de' laici che non sono alliterati, cioè
non sanno di latino, raccolse alcuni precetti di Cicerone
volgarizzandoli; avvegnachè mal agevolmente si possa
ben fare, perchè la materia è molto sottile a me non ben
saputo, e le sottili cose non si possono bene aprire in
vulgare. V'avea già dunque persone che adopravano
l'italiano a componimenti studiati, se per loro il frate bo-
lognese preparò un trattato di retorica. E diceva loro:
«Qualunque persona vuole sapere ben favellare piace-
volmente, si pensi di avere prima senno, acciocchè co-
nosca e senta quello che dice; poi prenda ferma volontà
di operare giustizia e misura e ragione, acciocchè dalla
sua parola non possa altro che ben seguitare; e questo li-
bro legga sicuramente, e senta meco certi ammaestra-
menti che sono dati dalli savj in sul favellare; e da che
gli ha letti e ben impressi, si usi spesse volte di dire;
perchè il ben parlare si è tutto dato alla usanza, che ogni
cosa si acquista per uso, et abbassa molto per disusare, e
senza usare non può essere alcuno bono parlatore».
Già adducemmo canzoni popolari.
In tutta Europa vicino al Mille si ha esempj di Ludi e
Rappresentazioni, ma sempre latini. Nessuno invece ne
resta in Italia: forse perchè si fecero subito in italiano; i
quali modificati poi col variar della lingua, giunsero fi-
180
no a noi, creduti d'età più tarda. Tale forse la rappresen-
tazione che, nel 1243, si fece in Prato della Valle a Pa-
dova; e quella che nel 1273 a Siena, per festeggiare
l'assoluzione dalla scomunica.

181
§ 17°
Della lingua romanza e della siciliana.

Non è del nostro assunto il librare il merito de' poeti


di Sicilia e del Reame: ma quanto alla lingua, non cre-
diamo usassero quella del loro paese, bensì se ne propo-
nessero una, comune alla gente colta; quella che Dante
intitolò cortigiana.
Se fosse dimostrato che, prima d'altrove, in Sicilia
siasi parlato italiano, n'avrebbe rinfianco il nostro asser-
to sulla scarsa efficienza dei Barbari. Ma altro è parlare,
altro è scrivere, e immiseriscono la questione quelli che
attribuiscono la formazione delle lingue ad alcuni, e
foss'anche a tutti i letterati, mentre solo dal popolo esse
riconoscono vita e sovranità. Forse che filosofi e poeti
hanno l'intelligenza che inventa e la possanza che fa
adottare le parole? Al più, sanno dall'uso arguire le leg-
gi. Per ispiramento ghibellino e per adulazione a Federi-
co II e sua Corte si asserì che in questa siasi primamente
sostituita nel poetare la lingua italiana alla provenzale; e
Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Si-
cilia, accadde che tutto quello che i nostri precessori
composero in vulgare si chiama siciliano: il che rite-
nemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno mutare»153.
Or bene, noi sfidiamo a trovare verun altro che mai inti-
tolasse siciliano il parlar nostro. Solo il Petrarca, per
condiscendenza d'erudito, scrive che il genere della lin-
153
Vulg. eloq., lib. I. cap. 12.

182
gua poetica apud Siculos, ut fama est, non multis ante
seculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius
manavit154. Ove del resto s'intende di poesia, non di lin-
gua; e potrebbe darsi che Federico, udite in Germania le
canzoni che i Minnesingeri ripetevano per le Corti, vo-
lesse averne alla sua in lingua italiana 155. Era dunque la
Corte siciliana un centro di poesia erotica, colta, alla
foggia provenzale. Dante stesso, quando antepone i Si-
ciliani, non vuole intendere del loro parlare; anzi i parla-
ri riprova tutti, e quel della gente media di Sicilia non
trova migliore degli altri; ma poichè colà sedevano que'
da lui vantatissimi Federico e Manfredi, e accoglievano
il fior di tutta Italia, al contrario de' sordidi e illiberali
principi del restante paese, dice che gli scrittori riusciva-
no in nulla diversi da ciò ch'è lodevolissimo. Nè si creda
(conchiude) che il siculo e il pugliese sia il più bel vul-
gare d'Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne di-
scostarono156.
154
Præf. ad epist. famil.
155
Dico dubitando, perchè il Castelvetro sostiene che alla Corte di Federico
non si scrisse che provenzale e siculo, nulla d'italiano. Il Trucchi toglie a
mostrare che molte delle poesie attribuite a Federico II e a Pier della Vigna
(come quella Poi che a voi piace, amore) son di tutt'altri.
156
Quod si vulgare sicilianum accipere volumus, scilicet quod prodit a
terrigenis mediocribus, ex ore quorum judicium eliciendum videtur,
prælationis minime dignum est. Si autem ipsum accipere nolumus, sed
quod ab ore primorum Siculorum emanat, ut in præallegatis cantionibus
perpendi potest, nihil differt ab illo quod laudabilissimum est... Quapropter
superiora notantibus innotescere debet, neque siculum neque apulum esse
illud quod in Italia pulcherrimum est vulgare; cum eloquentes indigenas
ostenderimus a proprio divertisse.
Nei diplomi dei re di Sicilia trovansi i titoli di ρήξ, δοῦκας, πρίνκυπος,

183
Non basta quest'ultima confessione a scassinare il suo
edifizio?
Plauto, nel prologo dei Menecmi, professa non avere
atticizzato, ma sicilizzato (atque ideo hoc argumentum
græcissat, tamen non atticissat, verum at sicilissat).
Anche Cicerone (in Verrem) rinfaccia al suo competi-
tore Cecilio d'avere imparato le lettere greche non in
Atene ma al Lilibeo, le latine non a Roma ma in Sicilia.
E forse la poca finezza del parlare nascea dall'usarsi in
quell'isola insieme il greco e il latino e fors'anche il car-
taginese pel commercio. Infatto Diodoro vanta d'aver
imparato la lingua di Roma in grazia del commercio che
i Romani faceano in Sicilia (Introduzione).
Certo però il siciliano odierno tiene molto dell'anti-
chissimo latino, giacchè vi si dice argentu, locu, pani,
che è il latino pretto, colla m e la s fognate all'arcaica; vi
si dice jocu, jugu, judici dove il toscano fece giuoco,
giogo, giudice: e amau, laudau per amò, lodò, e così
via. E senza ricorrere al paradosso del Galiani, una ri-
prova del nostro assunto si trova in monsignor Crispi,
Sul dialetto parlato e scritto in Sicilia: e in Di Giovanni
De div. Sicul. officiis, dove mostra le mutazioni di lin-
gua, che prevalsero in Sicilia secondo i tempi.
Giulio Perticari, oltre adottare le teoriche del Cesarot-
ti, del Muratori, del Napione nel rattizzare col Monti

φουρεστερίος, κανονίκος, βισκομιτος. In carte siciliane leggiamo στράτα,


κολτούρα, κάμπος, φωσσα nel 1091: nel 92 καστέλλος, γρούττα; nel 94
σκάλα; nel 1101 πετζα, nel 1112 υιλλάνοι; e così altrove φούνδακα,
φούρνον, πόρτα, δεφενδεύειν, ὀρδινάμος, κογνατοι.

184
quistioni sopite, trapiantò fra noi il paradosso del fran-
cese Raynouard, supponendo che dalla corruzione della
lingua latina uscisse una comune, che si parlava da tutte
le nazioni neolatine, le quali poi separandosi formarono
lingue proprie; opera di letterati più che del popolo 157.
Argomentò in conseguenza, che in ogni parte d'Italia si
scrivesse con pari correzione o scorrezione. Per soste-
nerlo recò passi d'autori di vario paese: nè prese scrupo-
lo di far qualche alterazione al loro dettato, sicchè pares-
sero meno corretti i toscani, meno scorretti gli altri; don-
de conchiudere contro la superiorità, che ai Toscani con-
cedono tutti, almen nella pratica. Senza tener conto delle
mutazioni a lui imputabili, si noti che di quelle poesie
non abbiam forse nessun esemplare contemporaneo e
autentico; e nel trascriverle avrà molto operato o l'impe-
rizia o il capriccio degli scrivani: fors'anche passarono
tradizionalmente per le bocche, modificandosi secondo
e i tempi e il paese; quello poi che o primo le ridusse in
iscritto o le ricopiò, adattolle al gusto e alla pronunzia
sua: e i Toscani poterono intoscanare le poesie d'altri
paesi, come i Lombardi avranno guasto le toscane158.
157
Scrittori del Trecento. L'opinione del Raynouard fu ripudiata da chiun-
que trattò poi dell'origine delle lingue romanze; ed espressamente da M.
AMPÈRE, Formation de la langue française, cap. III, p. 23-34; ED. DU MÉRIL,
Introduction à Floire et Blancefort; FAURIEL, Leçons sur Dante et les ori-
gines de la littérature italienne. Intorno agli errori di fatto del Perticari è a
consultare GIOVANNI GALVANI, Dubbj sulla verità delle dottrine perticariane
nel fatto storico della lingua. Milano 1845.
158
Francesco Palermo nell'esaminare i Mss. della già Biblioteca Palatina di
Firenze, de' quali formò il catalogo, si convinceva a molte prove, il tosca-
nesimo che si trova nelle scritture antiche di altri paesi d'Italia esservi stato

185
N'è conseguente la poca diversità che si nota fra i primi
poeti; e che anch'essa deriva dalla differente coltura dei
singoli, e dalla trascrizione, in cui si perde l'immagine
del primitivo idioma.
Poi anche oggi potrebbero addursi deh quanti Toscani
che scrivono men bene del Giordani e del Puoti (rimo-
viamo l'invidia col nominar solo i morti); ma domande-
remmo se questi si proponessero scrivere il parmigiano
e il napoletano, o se piuttosto cercassero il toscano, anzi
il solo toscano senza fiato del dialetto natio: e vi riuscis-
sero con arte maggiore di quei troppi che, avendolo dal-
la madre, ne sconoscono il merito e le finezze.
Pel proposito dunque del Perticari sarebbe importato

introdotto da trascrittori toscani. Quindi l'apparenza, abbracciata in luogo di


realtà, che in su' principj fosse spontaneo il parlar toscano per tutta Italia,
ovvero vi fosse una lingua nobile italiana, fino dai primi tempi. «I trascrit-
tori toscani, non servili come gli odierni copisti, nello abbattersi a voci e
maniere che sentissero del forestiero (e cominciava il forestiero dai confini
delle proprie terre), o per necessità di riuscire più intelligibile, o per avver -
sione al disarmonico e al rozzo, lo riducevano nel loro volgare. E anche
nella stessa città, quelli che di tempo in tempo trascrivevano lo stesso libro,
l'uno riformava più o meno la scrittura dell'altro, cambiando parole e frasi,
conformandosi al modo corrente del favellare. Il quale vezzo continuarono
anche gli stampatori. E così poi, come gli scrittori e stampatori toscani rin-
toscanivano le opere di altre provincie italiane, gli amanuensi e stampatori
del di là di Toscana imbarbarivan del loro dialetto i libri di questa provin -
cia». Discorso Proemiale, IX. Fra mille esempj ne citerò un solo. In essa Bi-
blioteca Palatina abbiamo una Devozione, cioè una rappresentazione pel
venerdì santo, che evidentemente mostrasi scritta in romano, ma copiata nel
1375 da qualche veneto, che trasformò al modo del suo paese assai parole o
frasi; talchè le sono scritte or alla romana or alla veneta, p. e. zornata e jor-
nata; e qualche volta ne resta fino tolta la rima. Per es., trovava a mene, e
correggeva a mi, e così mancava la rima con pene.
Vedasi pure il Salvini nelle note alla Perfetta Poesia del Muratori.

186
provare che nel regno di Federico II si parlava qual ve-
ramente troviamo scritto da lui e da' suoi. Prove dirette
ci mancano; forse n'è alcuna in contrario.
Ciullo d'Àlcamo vorrebbero vivesse col Saladino,
cioè fra il 1174 e il 1193, giacchè canta,

Se tanto aver donassimi


Quant'ha lo Saladino;

ma la menzione che fa degli agostari lo tirerebbe a più


tarda età, essendo essi battuti da Federico II il 1222: se
non che rifletterono che il loro nome è più antico, e fin
de' tempi longobardi, a fede del Muratori159.
Di Ciullo è notissima una lunga cantilena a botta e ri-
sposta; della quale non conosciamo veruna lezione buo-
na, nè manoscritti antichi che ce la possano sincerare. A
me parve che il poeta in essa mettesse a dialogare
l'amante in lingua toscana o cortigiana, coll'amica nel
suo dialetto pugliese, mal riprodotto da lui o dal copista
siciliano. Così (mutando qualche parola a idea, piuttosto
che coll'appoggio di codici) leggeremmo:
Amante. Rosa fresca aulentissima
Cha pari in ver l'estate,
Le donne ti desiano,
Pulzelle e maritate.
Tragemi d'este focora
159
Diss. XXVIII. Nelle Nuove Effemeridi siciliane 1875 luglio-agosto, Giu-
seppe Pitré epilogò le ultime opinioni sulla natura e sul tempo del Contra-
sto di Ciullo d'Alcamo, e conchiude portandolo dopo il 1231, ma travestito
dai varj copisti.

187
Se t'este a bolontate:
Per te non ajo abent o nocte o dia,
Pensando pur di voi, madonna mia.
Madonna. Se di mene trabàgliti,
Follia lo ti fa fare,
Lo mar potresti arrompere
Avanti e semenare,
L'abere d'esto secolo
Tutto quanto assembrare...
Averimi non poteria esto monno...
Cerca la terra ch'este granne assai
Chiù bella donna di me troverai.
Amante. Cercata ajo Calabria,
Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli,
Genua, Pisa, Soria,
Lamagna, Babilonia
E tutta Barberia,
Donna non vi trovai tanto cortesi,
Perchè sovrana di mene te presi.
Madonna. Poi tanto trabagliastiti,
Facioti meo pregheri
Che tu vadi, eddomannini a mia mare e a
mon peri,
Se dari mi ti degnano, menami a lo mona-
steri (al monastero),
E sposami davanti della genti
E poi farò li tuoi comannamenti.

188
Qui è sentita abbastanza la differenza fra i due parlari,
e come nel secondo abbondino gl'idiotismi siculi.
Dante, inteso a menomare il vanto de' Toscani, e sup-
ponendo che la lingua fiorisca per le Corti e per gli stu-
dj, non rifina di vantare il siciliano dialetto: ma ciò pro-
va di già che era distinto dal toscano, mentre nol sono le
poesie che sopra accennammo o recammo.
I Siciliani misero grande impegno, in questi ultimi
tempi, a trovare vestigia antichissime di loro vernacolo.
Le poesie addotte da Lionardo Vigo (Canti popolari si-
ciliani, Catania 1857), quand'anche potesse provarsi che
appartengono all'età di Guglielmo il Buono, poco giove-
rebbero all'assunto nostro, giacchè nulla è più facile a
mutarsi dietro ai tempi che le canzoni in bocca al popo-
lo. Sol proverebbero che un vulgare esisteva, e in fatto
un rituale del bretone Augerio, che fu il primo vescovo
di Catania, prescrive le formole pel battesimo degli
adulti, soggiungendo che, si nescit literas, hæc vulgari-
ter dicat. Si ha un atto di permuta di case fra Leone Bi-
sinianos ed Effimio abate di Santo Nicola di Xurguri,
scritto in greco, che a tergo della pergamena è tradotto
in vulgare, che da buoni argomenti credesi contempora-
neo160. E comincia: «Eu Leon Bisinianos cum la Madon-
na mia mugleri et Nicolao lu meu legitimo figlo, cum lu
nomu di la santissima cruchi, cum li manu nostri propri
scriviamo insembla cum lu meu figlo Nicolao cum tutta
lu nostru bona voluntati et intentioni senza dolo alcuno

160
V. MORSO, Palermo antico, p. 466; Palermo 1827.

189
lu presenti cambiu et permutationi chi fazo cum li nostri
possessioni, li quali suno siti et positi a la citati vechia a
Palermo a la rimini menzo di Ximbeni di la parti di fora
di la porta de Xaltas chi confina cum lu muro, etc. etc...
A li misi di ottubre a lo sexto jornu di lo dicto misi di la
seconda indictioni in tu annu milli e sexantadui.
Questa data, impastata dell'êra romana e della bisanti-
na, risponde al 1153; e l'essere nel testo indicato soltan-
to l'ottobre, e non il giorno come nel transunto, fa crede-
re che questo sia contemporaneo161.
Di un anonimo siciliano il Trucchi pubblicò un fram-
mento cavato dal Libro reale della Vaticana, n° 3793,
giudicato della prima metà del millecento, quando a Pa-
lermo fiorivano nel palazzo reale le manifatture di seta,
dalle quali nel 528 dell'egira, 1133 di Cristo, fu lavorata
l'insigne dalmatica di re Ruggero. In esso frammento si
legge:
Levasi allo mattin la donna mia
Ch'è vie più chiara che all'alba del giorno:
E vestesi di seta caturìa (di Catura)
La qual fu lavorata in gran soggiorno
Alla nobile guisa di Soria
Che donne lavorarlo molto adorno.
Il su colore è fior di fina grana,
Ed è ornata nella guisa indiana.
Ed ha un'ammantadura oltremarina
Piena di molte perle prezïose...

161
Vedi la prefazione del Vigo all'accennata raccolta.

190
Quand'ella appar con quella ammantadura
Allegra l'aire, e spande la verdura,
E fa le genti star più gaudïose.
Della Corte di Sicilia sopravvive qualche frammento
di Federico II, di Enzo suo figlio.
Il Barbieri, nell'Origine della poesia rimata, cap. XI,
riferisce il principio d'una canzone in siciliano del re
Enzo:
Allegra cori, plenu
Di tanta beninanza
Suvvegnavi, s'eu penu
Per vostra innamuranza,
Chil non vi sia in placiri
Di lassarmi muriri talimenti
Chiu v'amo di buon cori e lialmenti.
Or dello stesso principe infelice n'abbiam una in ita-
liano, che suona ben diversa:
Va, canzonetta mia,
E saluta messere,
Dilli lo mal ch'i' aggio,
Chè lei che m'ha in balia
Sì distretto mi tiene
Ch'eo viver non poraggio.
Salutami Toscana
Quella ched è sovrana,
Ed in cui regna tutta cortesia.
E vanne in Puglia piana,
La magna capitana,
Là dove è lo mio core notte e dia.
191
Di Pier della Vigna, che «tenne ambe le chiavi del
cuor di Federico», recheremo questo sonetto:
Perocchè amore no se po vedere
E no se tratta corporalemente,
Quanti no son de sì folle sapere
Che credono ch'amore sia neente!
Ma po' ch'amore se faze sentere
Dentro dal cor signorezar la zente,
Molto mazore pregio de' avere
Che se 'l vedesse visibilemente.
Per la virtute de la calamita
Come lo ferro attra' e non se vede,
Ma si lo tira signorevolmente.
E questa cosa a credere me invita
Che amore sia, e dammi grande fede
Che tutto sia creduto tra la gente.
I seguenti versi di Ruggerone da Palermo s'accostano
all'anno 1230:
Canzonetta giojosa,
Va allo fior di Soria,
A quella che lo mio core imprigiona:
Di' alla più amorosa,
Che per sua cortesia
Si rimembri del suo servidore.
Altri di Rinieri da Palermo, sono citati dal Trissino.
Il suddetto Barbieri adduce un'altra canzone di Stefa-
no protonotaro da Messina, vissuto attorno al 1250, che
comincia:
Pir meu cori allegrari
192
Ki multi longiamenti
Senza alligranza e joi d'amuri è statu,
Mi ritorno in cantari,
Cà forsi levimenti
Da dimuranza turneria in usatu
Di lu troppu taciri.
E quandu l'omo a rasuni di diri,
Ben de' cantari e mustrari allegranza;
Ca senza dimustranza
Joi siria sempre di pocu valuri,
Dunca ben de' cantar onni amaduri.
Questa è in siciliano, ma quest'altra in italiano scrisse
il medesimo:
Assai mi piacerìa
Se ciò fosse che Amore
Avesse in sè sentore
D'intendere e d'audire;
Ch'eo li rimembreria,
Come fa servidore
Perfetto a suo signore,
Meo lontano servire,
A fariali assavire
Lo mal di che non oso lamentare
A quella che 'l meo cor non può obliare:
Ma Amor non veo, e di lei son temente,
Per che 'l meo male adesso è più pungente.
Ci resta il processo per assassinio tentato sopra Fede-
rico II, ma le risposte sono stravolte dal notajo.
Nelle Effemeridi letterarie di Roma del 1772, tom. IX,
193
p. 158, si riportano alcuni brani di un codice Chigiano,
che pretendesi scritto in Sicilia e prima dei Vespri, e for-
se versione dal provenzale. Una cronaca anonima dal
1279 all'82, stampata dal Gregorio162, e che in miglior
lezione trovavasi manoscritta presso il principe di San-
giorgio Spinelli in Napoli, comincia: «Quistu esti lu ru-
bellamentu di Sichilia, lu quali hordinau, effichi fare
messer Iohanni di Prochyta contro lo re Carlo». S'anche
non è contemporanea, certo è antica; e vi sentite tutti
gl'idiotismi moderni di Sicilia: «Multu corrucciatu in vi-
su (Procida esortava a) non lassari quista cussi fatta im-
prisa, cussi grandi... Lu papa lu conuxia, e ricippilu gra-
ziosamenti»163.
162
Conspiratio Johannis Prochytæ ex Bibl. script. qui res in Sicilia gestas
sub Aragonum imperio retulere, a ROSARIO GREGORIO edita; Panormi 1791.
163
Aggiungono la Vinuta de lu re japica a la gitati di Catania, scritta da
frate Atenasio di Aci nel 1287, e la cronaca di frà Simone da Lentini.
Ego frater Simon de Lentinio instandu in Chifalù anno domini 1358 in la
quatragesima mi misi in cori incomenzari la conquesta di Sicilia, fatta per
li Normandi, la quali era in gramatica (cioè in latino) scrubulosa et gros-
sa, et mali si potia intendiri: secundu lu meu pocu vidiri la volsi traslatari
in nostra lingua ecc.
Ne vide una copia nella Biblioteca di Parigi Antonio Marsand (Mss. Italia-
ni della regia Biblioteca Parigina. Parigi 1835), bibliografo lodato e citato
da chi vanta e biasima senza aver veduto. Oltre ignorar chi sia questo frà
Simone, mentre poteva raccorlo dal Mongitore e dal Di Gregorio, lo crede
contemporaneo alla conquista normanna, cioè avanti il 1100, ed «è in lin-
gua siciliana, stranamente barbara: poichè i Siciliani ed i Barbari, cercando
allora d'intendersi scambievolmente, ed affaticandosi di pronunciare alcune
parole barbare latinamente, ed alcune latine barbaramente, venne così ad
introdursi allora fra i Siciliani una terza lingua, che potremmo veramente
chiamare la lingua madre di tutte le lingue barbare»!!
Vedasi pure DE GIOVANNI, Cronache siciliane de' secoli XIII, XIV, XV. Bolo-
gna 1865.

194
Fu raccolta dalle labbra popolari una canzone, o
frammento di poesia, dove, tra altro, si ode:
Senti la Francia ca sona a mortoria:
No, ca la Francia un veni cchiù'n Sicilia.
Viva Sicilia ca porta vittoria!
Viva Palermo! fici mirabilia.
Sunati tutti li campani a gloria,
Spinciti tutti l'armi terribilia,
Ca pr'in eternu ristirà a memoria
Ca li Francisi ristaru 'n Sicilia...
Nun v'azzardati a veniri 'n Sicilia
Ch'hannu juratu salarvi le coria (uccidervi).
E sempre ca virriti 'ntra Sicilia
La Francia sunirà sempri mortoria.
Oggi a cu' dici scisciri 'n Sicilia
Si cci tagghia lu coddu pri so gloria:
E quannu si dirà qui fu Sicilia
Finirà di la Francia lu mimoria.
Il canto ha tutta l'aria d'essere contemporaneo dei fa-
mosi vespri, ma via via s'ammodernò: pure attesta che
avevasi una poesia alla moderna, e che vi s'adoperava il
dialetto corrente.
Il Giambullari, il quale, nel Gello, sostiene un'opinio-
ne conforme alla nostra, dice che Guglielmo Ragonesi
Nel vol. III delle Memorie di Sicilia è inserita una dissertazione di Giuseppe
Crispi, intorno al dialetto parlato e scritto in Sicilia quando fu abitata dai
Greci, corredata d'esempj che scendono fino alla dominazione normanna,
cioè al sottentrare dell'italiano. Il dizionario forse più antico a stampa, certo
il primo che s'occupasse di dialetti, è il siciliano-italiano-spagnuolo di Cri-
stoforo Scobar. Venezia 1520.

195
affermava essere stato Beltrano Ragonesi di Gaeta il pri-
mo che innestò il siciliano col toscano: ma ch'egli attri-
buisce tal merito a Lucio Drusi. Perocchè «que' nostri
antichi terminavano la maggior parte delle parole con
lettere consonanti, ed i Siciliani, per l'opposito, le fini-
vano con le vocali; Lucio, considerando la nostra pro-
nunzia e la siciliana, e vedendo che la durezza delle
consonanti offendeva tanto l'orecchio, cominciò, per ad-
dolcire e mitigare quell'asprezza, non a pigliare le voci
de' forestieri, ma ad aggiugnere le vocali nella fine delle
nostre. Il che, sebbene per allora non piacque molto se
non a pochi, dopo la morte di esso Lucio, conoscendosi
manifestamente la soavità e la dolcezza di tal pronunzia,
cominciarono i Toscani a seguir la regola detta, e non
solamente nelle composizioni rimate, ma nelle prose an-
cora e nel favellare ordinario dell'uno con l'altro. Di qui
venne questa pronunzia».
Ripugna affatto alla natura delle cose che un uomo
solo cangi il sistema d'una favella: può bene cambiar
qualcosa di ortografia, come fecero il Trissino e Voltai-
re, ma non il parlare d'un popolo. E tanto più chi veda
come i Toscani, neppure i più plebei e più isolati, non
soffrano voci terminate in consonante, e anche alle fore-
stiere appiccino una vocale.
Nel dialetto napoletano il Mazzocchi164 dice che fa-
164
De cathedralis ecclesiæ neap. semp. un.
Pugliese si chiamò sempre il dialetto della bassa Italia, e in quello scrissero
molti, nessuno nel napoletano prima che il Sannazzaro l'adoprasse nella
farsa lo Glomero. Re Alfonso nel 1442 ordinava gli atti si scrivessero non
più in latino, ma in pugliese. Ne discorsero ampiamente il Galeani e Rafae-

196
ceansi tutte le iscrizioni del XIV e XV secolo: oggi però o
niuna o ben poche se ne trovano. In Napoli, sulla piaz-
zetta di San Pietro Martire, sopra un sepolcreto dodici
versi fanno corredo ad uno scheletro portante il falcone
in una mano, il logoro nell'altra, e dicono:
Eo so lo morte, chachacio (che caccio)
sopera voi jente mondana
amalata e la sana,
dì e notte la perchaccio
no fugia nesuno ine tana
p. scampare de lo mio lactio
che tucto lo mundo abractio
e tucta la gente umana
perchè nessuno se conforta
ma prenda spavento
le Liberatore, considerandone l'indole come grandemente diversa da quella
degli altri tutti dialetti d'Italia per vocali più aperte, pronunzia più larga e
rotonda, sostituire vocali più molli e liquide, mutare il g e il b in v, affigge-
re i pronomi possessivi (patreto, vitama, casata); a tacer quelle ch'essi di-
cono gagliofferia e scurrilità, poichè queste tengono piuttosto all'indole dei
parlanti che alla parlata.
Vogliono alcuni che le antiche Atellane continuassero nel Napolitano, e fos-
sero quelle che poi si chiamarono farse cavajuole (Vedi MINTURNO, Poetica,
lib. II. p. 169), specie di egloghe o dialoghi contadineschi, probabilmente
così dette da Cava, poichè «i popolani di Cava erano stimati in Napoli biz-
zarri, pronti di mano e feroci», dice il Capecelatro ne' Diarj, II. 1, 139, 214.
Il Partenopeo, cioè Giovan d'Antonio, ha una farsa intitolata Scola Cavajo-
la, che è un chiasso ridicolo, riuscente a zuffe e picchiate. Il Niebuhr ve-
drebbe nelle Atellane l'origine del Pulcinella.
Il Galiani, con lodi senza misura nè riflessione, sostenne che il dialetto na-
politano fu la lingua primitiva d'Italia, usata sul serio fino a mezzo del Cin-
quecento. È un paradosso, come allora, e come egli principalmente ne usa-
va; e si conosce la lepidissima risposta fattagli da Luigi Serio nel Lo Ver-
nacchio, ma tutte le ragioni che egli adduce appoggiano il nostro assunto.

197
ch'eo per comandamento
de prendere a chi ven la sorte
siave castigamento
questa fegura de morte
e pensavie de fare forte
in via de salvamento.
Da sinistra un mercante versa un sacco di moneta
sull'ara, e fa colla Morte il seguente dialogo:
Merc. Tuto te voglio dare se mi lasi scampare.
Morte. Se tu me potisse dare quanto se potè ademan-
dare, no te scampara la morte se te ne vene la sorte.
Sugli orli corre questo scritto:
† mille laude factio a dio patre e a la santa
trinitate che due volte me aveno
scampato e tucti li altri foro annegate.
Francischino fu dr. Brignale feci fare
questa memoria ale m. CCCLXI de
lo mese de agusto XIIII indiccionis.
Ben anteriore sarebbe la cronaca di Giovanni Villani,
ma fu raffazzonata da Leonardo Astrino di Brescia nel
1626, colla pretesa di quello alla prima composizione
restituire. Dal Pelliccia165 recasi un istrumento del 1208,
ove si sente quel dialetto, ma sono avvertito che è falso.
Teniamo però questo «Banno et commandamento per
parte de monsignor lo re Lanzolao re di Sicilia etc. che
Dio lo salva e mantenga etc. de lo vicemiralia de lo ditto
riame per parte de la maiestà de lo ditto segnore re, che
165
Raccolta di varie cronache e diarj ed altri opuscoli appartenenti alla
storia del regno di Napoli.

198
ben se guarde omne pescator che va pescanno che non
pescano a li mari de s. Pietro ad Castello senza licenzia
de li gabellotti ad pena de uno augustale per uno, et chi
lo accusa ne avrà lo quarto».
Gio. Boccaccio ha una burlevole «pistola in lingua
napoletana», che comincia: «Facciamote, caro fratiello,
a saperi che, lo primo jorno de sto mese, Machiuti filiao,
et appe uno biello figlio masculo, che Dio nee lo garde,
e li dea bita a tiempo e a hiegli anni ecc.». Egli sul mise-
rando caso della Lisabetta di Messina cita una canzone,
usata dai Siciliani, i cui primi due versi
Qual esso fu lo mal cristiano
Che mi furò la grasta?
son di fatto del dialetto di Sicilia.
Giovan Villani fiorentino fa parlare molti nel dialetto
ad essi natio, e da quei di Sorrento dire a Ruggero di
Lorìa:
«Messere l'ammiraglio, come te piace, da parte del
comune de Surienti; istipati queste palombole, et prindi
quissi augustarj per un taglio de calze, e piazesse a Dio,
com'hai preso lo filio, avessi lo patre».
Una cronaca della morte di Manfredi leggesi nel lavo-
ro del De Renzi sopra Gio. da Procida, pag. 234: come
un'altra cronaca a pag. 299.
Matteo Spinelli da Giovenazzo, dal 1247 al 68 vergò
le cronache napoletane mescendovi il dialetto del suo
paese (Rer ital. Scrip., tom. VII):
«Me venne proposito di notare, per una delle gravi
cose successe in vita mia, lo fatto di quisto messer Ru-
199
giero de Sanseverino, come me lo contao Donatiello di
Stasio da Matera servitore suo. Me disse che, quando fo
la rotta da casa Sanseverino allo chiano de Canosa, Ai-
mario de Sanseverino cercao de salvarse, et fugio inver-
so Biseglia per trovare qualche vasciello de mare, per
uscirne da regno. Et se arricordao di questo Rugiero,
che era piccierillo di nove anni; et se voltao a Donatiello
che venia con isso, et le disse: A me abbastano questi
dui compagni: Va, Donatiello, et fòrzati di salvare quel-
lo figliuolo. Et Donatiello se voltao a scapizzacollo, et
arrivao a Venosa alle otto ore, et parlao allo castellano;
et a quillo punto proprio pigliao lo figliuolo, et fino a
quaranta augustali, et un poco di certa altra moneta, et
uscio dalla porta fauza, senza che lo sapesse nullo de li
compagni, et mutao subito li vestiti allo figliuolo et ad
isso, con un cavallo de vettura, con nu sacco di amman-
dole sopra, pigliaro la via larga, allontanandose sempre
da dove poteva essere conosciuto»166.
166
È autentico? lo nega affatto Guglielmo Bernhardi, in un lavoro pubblica-
to a Berlino il 1868, Eine Fälschung des XVI Jahrhunderts. Già faceva sen-
so il vedere alterati i fatti e i tempi: taluno li supponeva tradotti dal latino;
il duca di Luynes, che ne fece un commento storico e cronologico (Parigi
1839), suppose avesse lo Spinelli notato gli avvenimenti senza indicar
l'anno, e un copista li disponesse come credeva: sul qual dato arbitrario es-
so Luynes prese a riordinarli poco felicemente, come fece pure il Pabst ri-
stampandoli nel vol. XIX dei Monumenta germanicæ hist. Camillo Minieri
Riccio stampò quella Cronaca ridotta alla sua vera dizione e alla primitiva
cronologia (Napoli 1865). Il Bernhardi sostiene che sia una contraffazione
del XV secolo, probabilmente opera del Di Costanzo, che pel primo ne fe
cenno nel 1572, e che volle così dare a Napoli la gloria d'aver prodotto il
primo storico italiano, e incensar alcune famiglie facendole partecipi agli
avvenimenti d'allora. Le ragioni di lui sono confutate dal Minieri Riccio (I

200
Si accosti questo scrivere a quello di Ricordano Male-
spini fiorentino. Il quale dice aver cominciato il 1200 la
storia sua; e forse vi corre sbaglio, ma ad ogni modo
passò finora pel primo che scrivesse storie in toscano167.
«Io Ricordano fui nobile cittadino di Firenze della ca-
sa de' Malespini, e ab antico venimmo da Roma. E' miei
antecessori, rifatta che fu la città di Firenze, si puosono
presso alle case degli Ormanni in parte, e in parte al di-
rimpetto delle case dette degli Ormanni; e dirimpetto al-
le nostre case era una piazzuola, la quale si chiamava la
piazza de' Malespini, e chi la chiamava piazza di Santa
Cecilia. E io sopradetto Ricordano ebbi in parte le so-
pradette iscritture da un nobile cittadino romano, il cui
nome fu Fiorello: ebbe le dette iscritture di suoi anteces-
sori, scritte al tempo, in parte quando i Romani disfecio-
no Fiesole, e parte poi; perocché 'l detto Fiorello l'ebbe,
che fu uno de' detti Capocci, il quale si dilettò molto di
scrivere cose passate, ed eziandio anche molto si dilettò
di cose di strologia. E questo sopradetto vide co' suoi
proprj occhi la prima posta di Firenze, ed ebbe nome
Marco Capocci di Roma».

notamenti di M. S. difesi ed illustrati, Napoli 1870).


167
Rer. Ital. Script., VIII. pag. 906 e 927. Recentemente ne parlò Arnoldo
Busson, Dier florentinische Chronik des Malespini, und deren Benutzung
durch Dante, Innspruck 1869. Sostiene egli che il Malespini ebbe sottoc-
chio la cronaca di Martin Polacco, sicchè non potette cominciare a scrivere
che nel 1278, e forse solo nel 1293, e ancora se n'occupava nel 1299: pro-
babilmente la continuazione di Giacchetto fu dal 1302 al 1309 quando morì
Carlo II di Napoli.

201
§ 18°
Del toscano.

Chi si ostinasse nella priorità del siciliano, dovrebbe


dire che questo avesse un peccato d'origine, e che, nato
nella Corte, colla Corte perisse, mentre il toscano si per-
fezionò col popolo. Ma non fa mestieri d'altri argomenti
per farci credere che, all'organarsi dell'italiano, nè a Na-
poli nè in Sicilia si parlasse un dialetto che sia divenuto
lingua comune; mentre ciò si prova del toscano, ove,
dando alla parlata la terminazione e l'ortografia latina, si
aveva una fortunata conformità col vocalismo popolare.
Dopo i poeti citati potremmo addurre esempj di Noffo
notaro d'Oltrarno, di Gallo pisano, di Buonagiunta Urbi-
cani da Lucca, di Meo de' Macconi da Siena, di Guitto-
ne d'Arezzo, di Chiaro Davanzati di Bondie Dietajuti, di
Brunetto Latini, col quale tocchiamo a Dante.
Che se diffidiamo delle prove tratte da poesie, non ce
ne mancano altre. Già n'è occorsa qualche iscrizione.
Nel camposanto di Pisa leggesi questa:

† DIE SCE MARIE DE SECTEBRE ANNO DNI MLLO CCXLIII


INDICT. I. MANIFESTO ANNOI E AL PIÙ DELLE PERSONE CHE NEL
TEMPO DI BUONACOSO DE PALUDE LI PISANI ANDARO CUM GALEE
CV E VE VAC. C. A PORTO VENERE STEDTERVI P DIE XV E
GUASTARO TUCTO E AREBBERLO PreSO NON FUSSE LO CONTE
PANDALO CHE NON VOLSE CHESA TRAITORE DE LA CORONA E POI N
ANDANMO NEL PORTO DI GENOVA CUM CIII GALEE DI PISA E C

202
VACCHECTE E AVAREMOLA COBADUTA NO FUSSE CHEL TEMPO NO
STROPIO. DNS DODUS FECIT PUBLICARE HOC OPUS.

Una siffatta sta al Mulino del Palazzo in val di Merse


senese:

MCCXLVI AL TEPO DE GUALCIERI DA CALCINAIA PODESTÀ ‒


GUIDO STRICA ‒ RANIERI DI LODI; ORLANDINO DE CASUCCIA FEICE.

La riferisce il Repetti168: mal però asserisce che que-


sta lingua non fu «mai, almeno nelle cose pubbliche,
usata innanzi la metà del secolo decimoterzo». Oltre i
già detti, abbiamo scritture originali, quali d'ufficio,
quali pagensi, che provano come fosse comune colà il
parlare che fu adottato dagli scrittori; tanto da acconten-
tare il Muratori che si querelava più volte di non aver
potuto ritrovare nulla dell'italiano, che pure dovette ado-
perarsi per secoli nelle prediche e nei conti mercantili.
In un bel documento senese, pubblicato nell'appendice
n° 20 dell'Archivio storico del Vieusseux, portante le
spese e le entrate di madonna Moscada dal 1234 al 43, il
vulgar nostro vedesi bell'e formato:
«Queste sono dispese de la casa a minuto da
chinc'indrieto.
Anno Domini MCCXXXIIII del mese di dicembre... Si à
dato madona Moscada e Matusala lo mulino di Paterno-
stro ad afito alo priore di san Vilio per VII mogia meno VI
staja di grano di chieduno ano, ed ene ricolta chiuso da
168
Dizionario Geografico ad vocem.

203
san Cristofano del deto afito. E ano impromesso di reca-
re a loro dispese overo grano overo farina, per ciasche-
dun mese, tredici staja e mezo di grano o di farina, qual
noi piacese; a pena del dopio. La pena data, lo contrato
tenere fermo. E Matusala impromise di fare, se la casa si
discipasse, di farla a le sue dispese per la sua parte; e se
bisciogno v'avesse macine, per la sua parte, di recavile
ale sue dispese fino al mulino e di murare lo petorale al-
le mie dispese... E se lo steccato si disfacese per aqua o
per altro fare del mulino, lo deto priore lo dee rifare de
legname comunale a le sue dispese...
Anno Domini MCCXXXVII da genajo indrieto, ala signo-
ria de l'escita di Giacopino e per tutte le signorie que 169
sono iscrite di che in chesta carta, si è compito sere
Lambertino; e da genaio indrieto, com'è scrito di sopra,
si è chiamato pagato da Matusala per la quarta parte de-
le piscioni di val di Montone: et o riscrivo lo compimen-
to qued eli che per queste razoni di soto ecc.».
E di questo tenore seguita per quarantacinque carte
in-4° piccolo. Ivi pure furono stampate le Ricordanze di
Guido di Filippo di Ghidone dell'Antella, quaderno do-
mestico e d'affari, chominciate a scrivere in kalen di
marzo anno MCCXXXXVIII; e sentite s'egli è italiano compi-
to.
«Ne l'anno MCCLXXVIII andai a dimorare con la compa-
169
Sul que per che dicemmo a pag. 89*. Nella poetessa anglo-normanda
Maria del XIII secolo troviamo questo proverbio, bien seit chat cui barbe il
loiche: ben sa il gatto cui lecchi la barba.
* § 11° par. “Oltre i vicecasi e i vicetempi…” di questa edizione. [Nota per
l’edizione elettronica Liber Liber]

204
gnia de li Schali e chon loro stetti dodici anni, tra in Fi-
renze e fuori di Firenze. Per la detta compagnia tenni ra-
gione in mano in Proenza. Per loro stetti nel reame di
Francia, in Proenza, in Pisa, in Corte, Napoli et in Acri,
et fui loro compagno».
Nell'arcivescovado di Firenze si conserva una dona-
zione ai frati Umiliati, che mostra si stendeano già in
italiano i protocolli.
«Anno MCCL etc., in palatio de Gàligariis... ad sonum
campane ad consiglium vocati fuerunt consules judicum
mercatorum...propositum fuit ‒ se si debbano concedere
a' frati di San Donato a Torre, stante l'utilità che apporta-
no alla città per l'esercizio dell'arte della lana, terre e ca-
se poste nel popolo di San Paolo e di Santa Lucia, e si
concedono»170.
Corrispondenze del 1290 e 91 della ditta Consiglio
de' Cerchi e Compagni in Firenze e Giacchetto Rinucci
e Compagni in Inghilterra, convincono come frequente e
regolare si tenesse il carteggio in italiano171:
«Diciesette dì di febbrajo avemmo due lettere che ne
mandaste;... Recollene il primo corriere di Langnino: e
del mese di marzo n'avemo avuto anche cinque piccole
lettere che m'avete mandate per altre genti; e sedici dì di
marzo avemo anche una lettera che la ci recò il corriere
di pagamento di Langnino ecc...
Noi avemo pagata per voi, per vostre lettere, a Cam-
bino Bonizzi e a Paganello Bencivenni e alla moglie di
170
Vedi RICHA, Notizie storiche delle chiese fiorentine, t. IV, part. II. p. 253.
171
Ap. EMILIANI GIUDICI, Storia della letteratura.

205
Diotajuti Montieri quella quantitade della moneta che ne
mandaste dicendo. In altre lettere v'avemo iscritto il pa-
rere nostro di quello che volemo che per ugnanno si fac-
cia per noi in Inghilterra e in Iscozia sopra la coglietta, e
ancora in lane di magioni. Nostro intendimento si è di
volere che si faccia 200 sacca di lana coglietta tra in In-
ghilterra e in Iscozia, in quelle luogora che più utilitade
credete che si ne possa fare.
... Sopra 'l fatto delle saje di Luja non fae mestiere più
di scrivere, ch'assai vi n'avemo scritto per altre lettere;
ed è nostro intendimento che, quando avrete questa let-
tera, quelle che rimandare ci dovete per ugnanno ci
avrete rimandate in Fiandra».
In alcuni capitoli del 18 giugno 1297 della Compa-
gnia d'Or San Michele sta:
«Anche ordiniamo che, conciossiacosachè, per cagio-
ne del mercato del grano e per altre cose che si fanno
nella detta piazza sotto la loggia, la tavola di messer
santo Michele si impolveri e si guasti, li capitani siano
tenuti di farla stare coperta acciò kessi (che si) conservi
nella sua bellezza et non si guasti. Salvo kel sabbato di-
po' nona, disfacto il mercato, la debbiano fare discoprire
et stare discoperta per tutto il dì de la domenica, et così
si faccia per le feste solenne che mercato non si faccia.
Che non si mostri, overo si scuopri la figura di detta no-
stra donna senza torchi accesi».
Nell'archivio di Siena è lettera, che nel 1253 scrivea
Tuto Enrico Accattapane a Ruggero di Bagnole, capita-
no di quel popolo per Corrado re de' Romani e di Sici-
206
lia:
«A voi, mesere Rugiero da Bagnole, per la grazia di
Dio e di domino re Currado capitano del comune di Sie-
na, Tuto Arrigo Acatapane vi sie va raccomandando.
Contio vi sia, che io sono in Peroscia, e giosevi giovedì
due die entrante ottobre, con una grande quantitae di ca-
vaieri della valle di Spuleto e delle contrade di la giuso;
e quandio gionsi in Peroscia sì vi trovai Aldobrandino
Gonzolino, unde sappiate che io me ne volea venire coi
detti cavaieri per chello che io voleva esere in Siena col-
loro innanzi voi per vedervi, e perchè voi intendeste i
pati che sono da me e dalloro anzi ch'ellino vi scrivesse-
ro, i quali pati apaiono per carta a mano di notaio; unde
io facio contio che i pati son cotali ch'eglino vi deano
servire a vostra volontà di die di notte con buoni cavalli
domi».
La città di Siena possiede una serie di statuti, dettati
in lingua volgare nei secoli XIII e XIV; il più antico dei
quali (Statuto di Montagutolo, n° 50 nel R. Archivio) va
dal 1280 al 1297. Il principio è tale: «Questo ene il bre-
ve e li statuti e li ordinamenti del Comune e delli uoni
(uomini) da Montagutolo dell'Ardinghesca, facto et or-
dinato et composto per li massari del decto Comune sot-
to gli anni del nostro Signore Mille CCLXXX del mese di
Iennaio Indictione VIIII. Ad honore e buono stato del Co-
mune di Siena e de' Conti da Civitella et ad honore et ri-
verentia Didio e de la beata Vergine Maria e di tucti
Santi e le Sante di Dio et ad mantenimento e buono sta-
to del Comune e delli uomini del decto Castello e de la
207
sua corte e distrecto e di tutti coloro che avessero ragio-
ne col decto Castello e nel suo distrecto».
Di data legale abbiamo al 1265 la pace concordata in
Tunisi fra l'ambasciatore pisano e quel re:
Terminus pacis.
«Et fermosi questa pace per anni XX. La quale pace
sempre sta ferma in de lo soprascripto termine a di XIII
de lo mese di sciavel anni LXII, et DC secondo lo corso de
li Saracini, e sub annis Domini M CC LXV, indictione VII,
tertio idus augusti secondo lo corso de li Pisani...
Lo testimoniamento et lo datale di questa pace.
Et testimoniove dominus Parente per culoro che lui
mandono in sua buona volontade et in sua buona memo-
ria et in sua buona sanitade, che questa pace a lui piace,
et cusì la ricevette et fermove. Et inteseno li testimoni
da lo scheca grande et alto et cognosciuto secretario et
faccia di domino Elmira Califfo Momini, et faccitore di
tutti li suoi fatti, lo quale Dio mantegna et in questo
mondo et in de l'altro. Et rimagna sopra li Saracini la
sua benedicione. Baubidelle filio de lo Scheca, a cui Dio
faccia misericordia. Buali Aren filio de lo Scheca alto,
cui Dio faccia misericordia».
Tale mistura d'italiano e di latino rivela un notajo, o
piuttosto un traduttore rozzo, che conserva alcune for-
mole notarili quali usavansi negli istrumenti, e vi me-
scola il parlare che aveva consueto, vergato a guida del-
la pronunzia. E appunto a tal modo venne formandosi
l'italiano. Dapprincipio nel latino s'insinuarono alcune
voci e frasi, insolite allo scrivere eletto, ma quali usa-
208
vansi dal vulgo. Via via ch'erano adoperate, acquistava-
no una specie d'autenticità; e alle giù ammesse unendo-
ne altre ancora insolite, il numero ne aumentava, sin al
punto che le italiane furono il maggior numero, e il mi-
nore le latine172.
La mistura appare cresciuta nel testamento della con-
tessa Beatrice di Capraja del 1278173, il quale da Seba-
stiano Ciampi fu stampato con tutte le scorrezioni gram-
maticali e grafiche, ponendolo a confronto colla tradu-
zione dei Trattati morali di Albertano Giudice, fatta
l'anno stesso da Soffredo del Grazia, notaro pistoiese, e
ch'esso Ciampi stampò colla medesima improba pazien-
za. Questi trattati terminano così:
«Or finisce lo libro del consolamento e del consiglio,
lo quale Albertano giudice di Brescia de la contrada di
sancta Agata compuose' ne li anni d. MCCXLVI del mese
de aprile, ed imagoregato in su questo vulgare 'ne li anni

172
La contropruova l'abbiamo nel francese, senza uscir di casa nostra. Fra
le carte angioine conservate nell'Archivio di Napoli, v'ha registri, dove a
caso scegliamo, fra i pubblicati da Camillo Minieri Riccio (Napoli 1852):
A Raulin de Quilon chatelain du chatel de leuf (di Castel dell'Ovo) militi
familiari provisio pro reparatione dicti castri previa extimatione, in qua
sint presentes sindici universitatis Neapolis... fol. 102 cujus vigore Johan
Buczut et seigneur de Grif de Naple despendeurs deleuvre de reparatio du
chatel de salvateur pour la Universitè de Naple, recipiunt quantitatem a
Thesaurariis regiis etc. E così via: sono del 1281. Nel dialetto di Cambray,
nel 1300 dicevasi: Le sir de Creki adonc ne fut occhi (ucciso)... Ravisez
bien, chey my, maugrey tant de misère. (Ravvisatemi bene, son mi, malgra-
do tante miserie).
173
Era stato stampato dal Lami Monum. della Chiesa Fiorentina, tom. I,
pag. 75, poi con maggior diligenza da Filippo Brunetti; infine da L. Ferri a
Padova nel 1841.

209
d. MCCLXXV del mese di sectembre.
«Chi scrisse questo vulgare
Dio li dia bene e capitare,
Chi scrisse ancora scriva
Sempre e ognora».
Una lingua, in cui stendeansi atti importanti pubblici
e privati, in cui già si trovava opportuno tradurre le ope-
re di quella che un tempo era stata nazionale, doveva es-
sere adulta, e conosciuta ai lettori più che non quella da
cui si traslatava. Già erasi compreso che l'intelligenza
umana aveva acquistato un nuovo istromento, non infe-
riore in forza e bellezza a verun'altra forma della loque-
la; e mentre prima riservavasi agli usi giornalieri
dell'esistenza materiale, si vide bastava a dipingere la
natura con tutti i suoi particolari, enunciare il pensiero
con tutte le sue finezze, prestare una voce potente a cia-
scuna passione.
Erra dunque il Bembo che trae tutto dai Provenzali, e
asserisce che pochi scrittori di prosa si vedano in quel
primo secolo, fuor dei Toscani (Sulla vulgar lingua). Er-
ra G. B. Niccolini (Qual parte aver possa il popolo nel-
la formazione di una lingua) scrivendo che «in prosa
volgare si può dire che quasi niuno al tempo di Dante
scrivesse, non essendo ancora in credito la lingua volga-
re, e scrivendo i dotti in latino e facendo commenti in
latino». Erano già note allora, e furono meglio divisate
poi molte anzi moltissime cronache in romanesco, in na-
poletano, in siciliano, e prose devote, e didattiche, e
poesie, donde si chiarisce che Dante trovava una lingua
210
già molto esercitata.
Bologna è di mezzo fra l'Italia settentrionale e la me-
ridionale: vi sono professori e scolari d'ogni paese, il
che doveva facilitar l'avvicinamento. Perciò Dante la
esaltava; e di fatto s'avvicinava al tipo latino più che al
provenzale, e vi si fissavano la fonologia e la morfolo-
gia. Pure il toscano avea meglio contemperato la tradi-
zione latina col dialetto; delle due estremità evitato i di-
fetti; avea chiarezza, trasparenza; era fra i dialetti italia-
ni quel che l'italiano fra le lingue romanze; con minore
mescolanza di parole tedesche, francesi, arabe.
Alcuni scrittori accettarono gli idiotismi, di che Dante
li rimprovera; i migliori li abbandonavano, di che venne
questo meraviglioso stromento del pensiero; il quale alla
Toscana va debitore del suo splendore.

211
§ 19°
Riassunto e paragoni.

Con questo noi abbiamo inteso combattere l'opinione,


che si sorbisce nelle scuole, derivasse la lingua nostra da
mistura colle tedesche. Queste ci diedero bensì alquante
voci, come rubare, bicchiere, fiasco, sprone, sciabola,
arnese, stivale, fallo... ma non un complesso, nè tanto
meno un sistema grammaticale. Nella nostra rimasero
ben pochi termini d'origine teutonica, e questi significa-
no armi e generi nuovi di oppressione; i pochi che si ap-
plicano alle occorrenze della vita, hanno a fianco ancora
vivo il sinonimo latino174; a ogni modo son meno assai
che non le voci latine, le quali furono accettate dai Tede-
schi. E alla storia dice qualche cosa il vedere che le pa-
role de' vincitori, adottate dai vinti, furono spesso tratte
al peggior senso; land che pei Tedeschi è terra, per noi
fu un terreno incolto; ross non espresse un cavallo, ma
un cavallaccio; barone divenne sinonimo di paltoniere e
birbo; grosso significò tutt'altro che grandezza; volk non
indicò popolo ma popolaccio.
Troveremo nel parlar nostro voci e locuzioni assai,
174
Così bara e feretro; brando e spada; alabarda, partigiana e asta, lancia;
forbire e pulire; gonfalone, bandiera e vessillo; flotta e armata; bizzarro e
iracondo; laido e brutto; giardino e orto; ricco e dovizioso; guadagnare e
lucrare; snello e rapido; guiderdone e premio; magione e casa; e così via.
Non mi si oppongano voci tedesche di più antica data, giacchè queste non
derivarono dagli invasori, bensì dalla lingua ariana, madre comune del te-
desco e del latino; del qual latino, del resto, ripeto che non possediamo se
non la piccola parte adoperata dai pochi scrittori che ce ne sopravanzarono.

212
che non traggono origine dalle latine, o dirò più preciso,
non dalle latine scritte; e queste sono spesso delle più
necessarie; molte fiate la radice loro non si riscontra
neppure fra i Settentrionali; e più frequentano nei paesi
ove i Nordici men posero nido, come sarebbero Tosca-
na, Sicilia, Venezia, Romagna. Ora, donde vennero elle
se non dai prischi dialetti, ch'erano sopravvissuti alla
dominazione romana? e non n'è altra prova la conformi-
tà mantenutasi tra dialetti di paesi ove pure si parlano
due lingue differenti?175. Per mettere tutto ciò in sodo,
bisognerebbe rimontare alle origini, quando della stirpe
indo-europea, o come meglio dicono, ariana, un ramo si
spinse verso i nostri paesi, nei quali viveano affratellati
Celti, Greci, Latini. Si divisero poi, e il greco tenne le
felici contrade dell'Arcipelago, estendendosi dall'Emo
all'Asia Minore, e occupando anche la Sicilia e l'estre-
mità meridionale d'Italia. Il celtico s'attendò nell'Europa
centrale per le valli del Danubio e del Reno; e circuite le
Alpi, popolò anche la Svizzera, la Francia, l'Italia set-
tentrionale, la Spagna, mentre elevavasi fino all'Anglia e
all'Islanda. Il ramo italico forse era durato in maggior
comunanza col celtico, se vediamo nel parlar suo
l'assenza di aspirate, e di certe modificazioni del verbo,
come il futuro e il passivo. Men numeroso del celtico,
men del greco dotato del sentimento estetico, s'allungò
nella penisola nostra, sovrapponendosi ai Casci, agli
Aborigeni, alle razze, non dirò indigene, ma preistori-

175
Il vernacolo di Marsiglia è somigliantissimo a quello di Milano.

213
che, e la cui esistenza ci è ora attestata dai ruderi lacu-
stri, e dalle terramare. Queste genìe selvatiche non peri-
rono, non cessarono di parlare; e la loro loquela modifi-
cò in parte quella de' sopravvenuti, in parte conservossi,
e si troverebbe in fondo ai dialetti, chi li cercasse con
quell'artifizio di eliminazione, che ora si pratica con tan-
ta e pazienza e sapienza dai glottologi.
Attenendoci alle modeste e storiche proporzioni del
nostro tema, diremo come anche il provenzale, da cui
altri volle dedurre il nostro idioma, era di fondo latino,
ma per le terminazioni teneva maggiormente del tedesco
che non l'italiano. Pure dee farne gran conto chi voglia
tessere la storia della lingua e de' dialetti italici. Nei tro-
badori, e massime in alcuni canti delle valli alpine, si ri-
scontra un dire, che con poche mutazioni si riduce italia-
no176; ma, o fallo, o dovranno tirarsene tutt'altre illazioni
che quelle che ne trasse il Perticari negli Scrittori del
176
Tale è la Nobla Leycon de' Valdesi, che vorrebbesi del 1100. Appartiene al-
le poesie valdesi anche la Barca, da cui leviamo questi versi:

De quatre element ha Dio lo mont formà,


Fuoc, ayre, ayga e terra son nommà;
Stelas e planetas sont fey de fuoc;
L'aura e lo vent han en l'ayre lor luoc;
L'ayga produy li oysel e li peyson,
La terra li jument e li om fellon.
La terra es lo plus vil de li quatre element,
De lacal fo fayt Adam, paire de tota gent.
O fanc! o polver! or te ensuperbis!
O vaysel de miseria, or te enorgolhis!
Horna te bene quer vana beota (beltà),
La fin le mostrare que tu aures obra.

214
Trecento.
Nè si avranno a trascurare i dialetti, mantenutisi in
paesi dove si piantarono colonie latine e legioni di dife-
sa, come la Rezia e i Principati Danubiani 177. De' quali
toccando, ha maternità simile all'italiana la lingua valac-
ca, parlata da popoli che ancora s'intitolano Rumeni, co-
RAYNOUARD, Choix des poésies orig. des Troubadours, tom. II, pag. 103.
177
In Lombardia dicesi rasol della vite, dal sanscrito rasà, cui somiglia più
che il greco ῥάξ e il racemus latino. In Calabria si dice piria e piriare, e Pe-
tronio ha pyriare per scaldare, da πύρ. E così flaga per un gran fuoco che
serve a far lume, da φλέγω.
La Grammatik der romanischen Sprachen di Federico Diez (Bonn 1836-
44, in 3 volumi, e 2a edizione 1856-61) è un vero codice delle leggi fisiolo-
giche e patologiche, secondo le quali i vocaboli si formano e sformano nel-
le lingue romanze. Esso non ricorre a lingue straniere, ma al solo latino,
mostrando le norme con cui una voce di questo si trasforma nell'italiano,
nel francese, nello spagnuolo, nel portoghese, nel provenzale. Vedasi anche
sir G. LEWIS, An essay on the origin and formation of the romance langua-
ges, containing an examination of M. Raynouard's theory on the relation of
the Italian, Spanish, provençal and french to the latin. Londra 1863.
G. I. Ascoli, in questo genere facile princeps, nell'Archivio Glottologico
italiano (1875 e seguenti) indaga come nessuno mai fece il processo gene-
rale della formazione dell'italiano, e del modo di farne stromento o segno
dell'unità intellettuale e civile, credendo a ciò conduca ancor più la penna
che la lingua, e la fusione idiomatica dipenda dalla civile e intellettuale.
Non assentendo a coloro che vanno troppo a cercare le etimologie o deriva-
zioni degli idiomi nostri negli ariani, neppure arride a quelli che la base ita -
lica della parola romanza credono affatto aliena dal latino letterario, mentre
lo studio rivela più sempre le diversità simultanee o successive, portate
dall'evoluzione storica, e le salde e dirette attinenze fra il latino delle scuole
e ciascuna delle lingue romanze, e massime il ragguaglio fra quello e que -
ste e l'ampia tela geografica e cronologica in cui la parte latina si trasformò.
Saviamente avverte come facilmente acquisti gloria o nominanza chi si
mette a studj nuovi (l'abbiamo visto testè colla geologia)... laonde taluni col
pretesto di glottologia negligono la filologia, e vilipendono lo studio dei
classici.
Il nostro Saggio è molto anteriore alla propagazione di questi studj, oltrec-

215
me di rimpatto noi Italiani dai Tedeschi siamo chiamati
Wälschen, nome affine a Walachen, e dai Polacchi Wo-
loch, dai Boemi Wlach. Il fondo del valacco è di parole
latine, miste a slave e aplo-elleniche, a tedesche, a tur-
che, per necessità di comunicazione; ma le somiglianze
lessiche col latino sono tante, da potersi dire identiche le
due favelle178. La valacca poi conservò molte radici, del-
le quali a noi restano solo i derivati179; come albo, fur,
chè l'intento nostro era puramente storico, come poneva il tema proposto
nel 1863 dall'Accademia Pontaniana, al quale noi rispondevamo.
178
Adduciamone alcune poche, classificandole:
Parentela e affinità. ‒ Fui, fia, fiastru, frate, sora, nepotu, genere, nuora, so-
cra, muiiere, vechiu, june, veduva, amica, vecinu.
Cariche e mestieri. ‒ Principu, principesa, duca, duchesa, capitanu, conte, gu-
bernator, ministru, cancellariu, consiliariu, secretariu, assessor, nobilu, resi-
dente, jude, procurator, medicu, doctor, ingenieru, majestru, negotiatoriu, pic-
tor, musicu, comediantu, carbonariu, spreziariu, barbieru, macelariu, caldara-
riu, funariu, olariu, ciabotariu (ciabattino), fauro, argentariu, ferariu, mura-
riu, pescariu, pastoriu, boariu, vacariu, porcariu, pecurariu....
Abitazione e vestito. ‒ Casa, castelu, corte, palatu, portioriu, fondamenta, pa-
riete, camera, cucina, stala, granariu, armariu, arca, scamnu, candelabru,
candela, lumina de cera o de sevu, foca, fumo, esca, caminu, fumariu, carbo-
ne, vestamentu, camiscia, calciuni, maneca, colaru, vas, acu, forfeci, scope,
fusu, secure, chiae, bastonu, sacu....
Vitto. ‒ Prandgiu, cina, colazie, pastetu, merinda, pane, farina, lardu, untu,
aceto, rosol, vinu de doi, dei trei qui; albu, rosciu, muscatu, butelia, ola....
Corpo. ‒ Capu, vultu, facie, fronte, temple, nasu, ochiu, orechie, buca, dinte,
umero, dosu, braciu, mana, palmo, degetu, unghie, sinu, latu, costa, stomachu,
genunchiu, polpa, nerva, vena, carne, sange, pele, os, cornu....
Azioni. ‒ Stà, sedè, dormè, saltare, avere, vedere, tacere, cadere, ausculta-
re, sonare, fàcere, stringere, arare, jocare, ducere, ardere, armare, cantare,
cercare, dare, frangere, figere, fermare, gustare, implere, rinascere, pasce-
re, perdere, piacere, radere, curere, vendere.
179
In Lombardia dicesi cicion (coccolo), dessedà, impremudà; e possiamo
supporre si usassero in latino, giacchè il valacco ha coconu, desceptare, im-
prumutare.

216
ove, da cui noi serbammo albore, albume, furtiva, ovile;
e così ningere, querere, cucurbitu, vulture, venare. Co-
me usa in italiano e non in latino, il nome degli alberi si
fa maschile, femminile quel de' frutti, pruni e prune, pe-
ri e pere: come in italiano e non in latino abbondano i
diminutivi, peggiorativi, vezzeggiativi: muiierone una
donnona; omoiu un omaccione; domicelu signorino; ca-
nubin il canino; mariutia, negrutiu, orbetiu, fiiastro;
d'onde io argomenterei esistessero già tali alterazioni nel
linguaggio parlato dai Latini al tempo che fondarono
queste colonie.
Forma i plurali, non con affiggere la s come altre lin-
gue neolatine, ma col cambiare l'a in e, l'u in i; molti fi-
niscono in uri, come da jugu juguri, da nodu noduri, da
fumu fumuri, somiglianti a donora, pratora, campora,
che diceano i nostri vecchi. Abbandonò il genere neutro;
l'articolo derivò da ille, ma invece di prefiggerlo, il suf-
figge dicendo parinte-le il parente, domn'ul il donno,
omu'l l'uomo; e pel femminile a, ovvero oa se termina
in è. Vale a dire che il valacco adottò i suffissi degli Epi-
roti180, valendosi dell'articolo italiano. I pronomi sono i
nostri: eu, tu, elea; nei, voi, ei; così nostru, vostru, loru,
acest, acelu, unu, tot, nimene, amendoi, quest; questu,
quel, quelu; un, uno, tot, totu; e gli avverbj che, dapò,
valacco ‒ quum è? lombardo ‒ comè?
» nòma, numai » nomà (appena).
180
Xilander prese ad esame lo skip che si parla dagli Albanesi e dagli Ar-
nauti, e mentre prima credeasi in parentela colle lingue tartare, o misto in-
forme di neo-latine, attestò fosse ramo antichissimo delle indo-europee, de-
rivato dal parlare che si osava colà prima della conquista romana.

217
dapòque, o, altrmentrile, de qui, ma, giosu, sum, dinsu-
so, de aqui in ante, jeri, forte. Il superlativo e compara-
tivo forma alla francese; maí bon, cel maí bon, che del
resto non è insolito ai Latini (magis dives ecc.). I nume-
rali ha identici ai nostri fin al cento, che dicesi sata co-
me nel sanscrito. I verbi han quattro desinenze dell'infi-
nito, sincopate come si fa nei dialetti dell'alta Italia, in
à, è, e muta, ì; e sono preceduti sempre dall'a, come
gl'inglesi dal to; per es. a cantà cantare. Perdettero il fu-
turo semplice, supplendovi con voiire volere, ma con-
servarono il trapassato: eu avusem, io avea veduto. Pel
passivo fanno eu me vedu, io sono visto; el se vede, egli
è visto; affiggono i pronomi come noi: dami, dai, dali,
per dammi, dagli, danne181.
La conjugazione valacca è simile e spesso eguale
all'italiana: semplice e diretto il periodo e la sintassi. I
nomi equivalgono spesso all'ablativo latino, come pul-
vere, sore (sole), munte, margine, facie, vale (valle),
morte, langore.
Frequentissimi i participj in utu, avutu, credutu, cre-
scutu, conosciutu, implutu, battutu, alcuni de' quali non
si hanno in latino (batuto), altri assai differenti (cogni-
tus, cretus) mentre in italiano son eguali.
181
ELIADE, Parallelismu dal intre limba romena sci italiana. Queste affissio-
ni di particelle, che pajono differenziare la lingua italiana dalla latina, in
questa non sono inusitate, avendovi tune, quippe, cuivis, eccum, eccillum,
ergone, intellestin'. Forse ce n'aveva altre, più simili alle nostre: forse gli
elementi delle nostre non aveano in latino le ragioni eufoniche o anche
grammaticali, per cui noi le unimmo. Basti l'accertare che non è un sistema
nuovo.

218
Hanno bolta, usia (uscio e volta), stala, cucina, supa,
sala, sappa, vechiu, rosiu (rosso), verde, fiastra, sora
(suora), caldura, ochi, urechi, voja (voglia), ajutare, be-
re, chiamare, cercare, discarcare, inaltiare, manciare
(mangiare), tocare, repansare, adunare, lasare, jocare...
che sono molto piu simili all'italiano che al latino scrit-
to.
È rara nel latino la terminazione in esco, mentre noi
abbiamo conosco, patisco, nutrisco, ardisco, ecc., e così
nel valacco nutrescu, nodescu, amutesco, impartiesco.
Anche nel moldavo oggi si dice porta, bove, vacca,
leo, lupe, volp, urs, passere, niegro, verdie, alb, vin, aer,
argint, aur (oro), fier (ferro), plumb, flore, uccis; e così
domne, femaya, ferestra, yerba, sordisce, vulture, magi-
ne, ciudad, alterazioni ben facili di domine, fœmina, fe-
nestra, herba, sorex, vultur, margo, civitas; e i verbi cre-
sk, floresk, nesk, schio, per cresco, floresco, nascor, scio.
Sui dialetti ladini sarebbe superfluo e incompleto
ogni studio dopo i Saggi ladini dell'Ascoli. Suo scopo
non era tanto di comparare singoli idiomi, quanto di ri-
comporre nello spazio e nel tempo una delle grandi uni-
tà del mondo romano, e come essa si colleghi con altre
contigue, e confluisca col veneto e col lombardo.

219
§ 20°
Illazioni. Sistema della trasformazione.

Or queste colonie della Romania e della Rezia furono


piantate avanti l'irruzione dei Barbari. Dunque la lingua
ch'esse serbarono, era già in corso mentre l'Impero sus-
sisteva; dunque arriviamo anche per questa via alla con-
clusione, che la lingua italiana non sia se non la latina,
qual era parlata già ai tempi classici, e forse prima; non
essendovi ragione perchè un popolo, il quale non cam-
biò di patria, smetta il parlar suo per adottare quello dei
conquistatori; tanto più che questi erano pochi, viveano
sceveri dai conquistati, ed erano meno colti di essi182.
Altre prove ne troverà chi osservi come noi tuttodì
usiamo termini che il latino classico repudiava come an-
tiquati o corrotti, ma che doveano essersi conservati tra
il popolo, giacchè li vediamo resuscitare quando si gua-
sta o ammutolisce il linguaggio letterario. E poichè noi
182
Non voglio dire che la conquista non operi mai sulla lingua d'un paese,
ma ci vogliono certe condizioni, di coltura superiore o almeno pari, di nu-
mero proporzionato, di spodestamento degli indigeni, di mancanza di pre-
cedente letteratura: tutte condizioni che non esistevano per l'Italia, mentre
si riscontrano eminentemente nell'inglese, lingua ibrida, dove si combinano
due elementi distintissimi, benchè entrambi d'origine ariana; l'anglo-sasso-
ne e il franco-normando. Su di ciò vedasi l'opera di Giorgio Marsh (mini-
stro degli Stati Uniti presso il re d'Italia) The origin and history of the en-
glish language and of the early literature it embodies. Londra 1862.
Per coloro che nei nostri dialetti gran parte vorrebbero attribuire al celtico,
noteremo com'egli riscontri che, in paese di tanta ingerenza celtica com'è
quell'isola, pochissimo abbia tal lingua contribuito alla composizione de'
dialetti inglesi, neppure nella Scozia, ove moltissimi resti di cimrico appa-
jono nei nomi geografici e genealogici.

220
non nasciamo dai pochi letterati, ma dal grosso della po-
polazione latina, perciò le parole d'oggi tengono il signi-
ficato de' bassi Latini, anzi che quello degli aurei. Clo-
strum, coda, vulgus, magester, audibam, caldus, repo-
stus, cordolium, bolga, mantellum; finis e frons al fem-
minile, che passarono all'italiano, erano negli antichissi-
mi, e furono abbandonate dai classici. Nel latino classi-
co era comune il fortis, non forcia ch'è poi nel basso e in
tutte le lingue romanze. Così è di giardino, di gatto.
Blanch c'è nello spagnuolo, nel valacco, nel ladino, co-
me in italiano. In valacco dicesi boje, in romancio bojer,
in ispagnuolo boja quel che in latino carnifex. In valac-
co abbiamo inaltzà, bâte, per inalzare e battere; e così
citu per zitto, come lo pronunziano i Lombardi. Manna-
ja sarebbe nome nuovo, ma nel romancio abbiamo ma-
nera, e in dialetti lombardi manerin. Tacio il capitaneus
che è già in un papiro del 551 presso il Marini. Or don-
de vennero se non dal parlato?
Nel daco romano abbiamo nu erà niminea; nimenui
nù së convine; nù zicë nimic, come in italiano diciamo
«Non era nessuno; a nessuno non conviene; non dica
nulla». Ne' classici le due negative affermavano; ma il
trovar l'opposto nel vulgare di due paesi così distinti ci
fa credere che altrimenti usasse il vulgo183.
183
Vedi a pag. 78.*
Altra particolarità della nostra lingua è l'accoppiare l'aggettivo singolare al
pronome plurale; voi siete stato allegro. Quest'è proprio delle lingue semiti-
che, come può vedersi nei primi versetti del Genesi.
* §11° par. “Nella negazione punto, mica, fiore, negotta…” di questa edi-
zione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

221
Indicammo a pag. 77184 di non poter determinare per-
chè, fra due sinonimi, i nostri preferissero l'uno, come
grandis, fames, niger, senior, totus, piuttosto che ma-
gnus, esuries, ater, omnis185; e così piuttosto di sicut il
quomodo186; de mane piuttosto di cras; subito piuttosto
di cito; penso piuttosto che cogito; e supponiamo che
già il popolo dicesse più volentieri plus che magis; hac
hora (ora) che nunc; illa hora (allora) che tunc; ad mi-
nus (almeno) che saltem; per hoc (però) che ideo e nam;
perfecta mente che perfecte.
Deperita la correzione che era mantenuta dagli scrit-
tori, l'uso prevale colla sua mobilità; e le parole latine

184
§11° par. “Quanto al fondo, una lingua è l'altra…” di questa edizione.
[Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
185
Queste voci erano perfetti sinonimi nel latino? Il loro passaggio all'ita-
liano potrebb'essere un criterio per determinarlo, e così aggiungere qualco-
sa al bellissimo trattato di Luigi Döderlein (professore di Colmar morto nel
1863) dei sinonimi e delle etimologie della lingua latina (sei volumi, Lipsia
1826-1838). Egli raccomanda immensamente lo studio delle sinonimie, co-
me lavoro filosofico già accessibile all'ultima infanzia e alla prima giovi-
nezza, e che porge al maestro l'opportunità di famigliarizzare l'intelletto
colla luce, arricchire di molte nozioni positive, ampliare anche l'orizzonte
del pensiero.
Il Döderlein distingue tre classi di sinonimi:
I. Quelli che hanno una parentela apparente, fondata solo sul tradursi colla
stessa voce nella lingua nostra, come liberi e infantes; animal e bestia; hæ-
rere e pendere. Il confonderli in latino è un vero solecismo.
II. Quelli tra cui si può stabilire non distinzione sicura, ma che esprimono
idee tanto vicine, che fin gli antichi prendeano talvolta l'uno per l'altro: p. e.
ater e niger, lascivus e petulans.
III. Quelli la cui differenza non potrebbe assicurarsi sopra testi classici, e
che probabilmente neppur gli antichi distinguevano, come fatigatus e fes-
sus, etiam e quoque, pene e prope.
186
Como. In chiozzoto dicesi «cummodo che può farlo»

222
divengono italiane mediante que' cambiamenti che i
grammatici classificarono, intitolandoli protesi quando
s'aggiunge una lettera o una sillaba al principio; aferesi
quando la si toglie, come da rotundo tondo; apocope
quando levasi la finale; sincope quando di mezzo alla
parola si leva una lettera o una sillaba; onde da rubigine
ruggine, da parabola parola, da civitas città, da Pado,
viginti, bonitas, facere, mensura, pensare, Po, venti,
bontà, fare, misura, pesare; epentesi quando s'introduce
una lettera nuova, come pietra e fiera in petra, fera; an-
titesi quando si cangia una lettera, onde diurnus, de ma-
ne, hordeum, vestro, radium diventano giorno, domani,
orzo, vostro, raggio; metatesi quando si muta ordine alle
lettere, col che aer, luscinia, super divengono aria, usi-
gnuolo, sopra; antifrasi quando alla parola si dà un sen-
so contrario, come da vir bonus, birbone. L'eufonia, cioè
la dolcezza di pronunzia, è poi una principale ragione, la
regola forse suprema di tutti i cambiamenti.
Alcune voci ne tornarono dal greco più direttamente;
e p. e. ripigliammo palla, di cui i Latini aveano fatto pi-
la, e le terminazioni in osus, ontius, entius, così comuni
nei primi cristiani187. In molte la radice latina fu conser-
187
DE ROSSI, Inscriptiones Christianæ ecc.
Anche nel materiale potrebbero mostrarsi infinite somiglianze di idiotismi
nostri coi greci. Per nè più nè meno diciamo a capello; e il greco προς
τρικα: noi allevarsi la serpe in seno, ed essi οφιν εν τῳ κολπῳ θαλτειν: noi
per bevere molto, alzare il gomito, ed essi μασχαλην αιρειν: noi amarsi co-
me il lupo l'agnello, ed essi ως λυκος αρνα φιλει: noi alzar le mani per dare
busse, ed essi αιρειν τας χειρας: noi andare secondo la corrente, ed essi
κατα ρουν φερισθαι: noi aver a mano per avere in pronto, ed essi δια
χειρας εχειν: noi aver il ventre di pollo per non essere mai satollo, ed essi

223
vata soltanto nei composti: onde non avemmo struere,
ma costruire; non ducere, ma condurre, addurre, produr-
re; non voco ma convoco, invoco; non clamo, ma decla-
mare; non pingo, ma dipingo.
Il fondo però, o, come oggi dicesi, il tipo, rimase
sempre latino, ed è noto che in varj dialetti d'Italia oc-
κοιλιαν εχειν αλεκτρυονος: noi aver in bocca alcuno per parlarne, ed essi
εχειν εν στοματι: noi comperar le brighe, ed essi πριάσθαι πραγματα: noi
dar il cane ad uno per canzonarlo, ed essi λυειν κυνα ετι... noi a chi è affio-
chito diciamo vedesti il lupo, ed essi λυκον ειδες. Il nostro cantar a sordi è
il greco κωφῳ αειν: il nostro dir un carro di villanie è il greco αμαξην
βρασφημιον κατασκεδαζειν: il nostro tutto da capo a piedi è il loro παντα
εκ των ποδων εις την κεφαλην: d'uno scemo diciamo non ha sale, e i Greci
αλμην ουκ ενεστιν αυτῳ: d'un seccante m'empie le orecchie, e i Greci
πληρει μοι ωτα.
Anche i Greci dicono bocca (στομα) per foce d'un fiume, e cielo della boc-
ca ουρανος: belare (βληχισθαι) per piangere: accasarsi per maritarsi
(συνοικειν): essere in istrada (εν τῃ ωδῳ ειναι) per esser incamminato: star
fra l'incudine e il martello (μεταζυ του ακμονος και σφορας): esser in pen-
siero per alcuno (ειναι εν φροντιδι περι τινος): gettarsi nel fuoco (δια πυρος
ριττειν εαυτον) per esser pronto a far di tutto: nè anche per sogno
(ουδ'οραν): mettere le mani addosso (την χειρ επιβαλειν) per catturare:
scommettere la testa (περι της κεφαλης τεριδοσθαι): stuzzicare il vespajo
(τας σφηκιας ερεθιζειν): temere della propria ombra (την αυτον σκιαν
φοβεισθαι).
I nostri proverbj «chi va collo zoppo impara a zoppicare ‒ chi troppo tira,
la corda si strappa ‒ far d'una mosca un elefante ‒ metter il carro innanzi a'
buoi ‒ il lupo cangia pelo non natura ‒ il ventre non ha orecchi ‒ insegnar
nuotare ai pesci ‒ lavar il capo all'asino ‒ tenere l'anguilla per la coda ‒ una
rondine non fa primavera» equivalgono ai Greci ανχωλῳ περοικησεις
υποσκαζειν μαθασῃς: πορραγησεται τεινομενον το καλωδιον: ελεφαντα εκ
μυιας ποιειν: ἠ αμαξα τον βουν ελαυνειν: ο λυκος την τριχα, ου την γνωμην
αλλαττει: γαστρην ουκ εχει ωτα: ικθον νηκεσθαι διδασκειν: ονου κεφαλην
πλυνειν: απ' ουρας την εγχελην εχειν: μια χελιδων εαρ ου ποιει.
Chi s'aspetterebbe di trovar in Tucidide il latte di gallina, ορνιθων γαλα? e
così mangiar cipolle (κρομμυα εσθιειν) per piangere: e voler mangiare uno
(φαγειν τινα) per isbranarlo: e mostrare le calcagna (το κοιλον του ποδες

224
corrono intere frasi prettamente latine; il friulano, per
esempio, dice, Vos statis in tantis miseriis: oltre quel che
riferimmo del sardo.
Certo non si venne di tratto al bel vulgare odierno.
Una lingua che succede ad un'anteriore, difficilmente sa
sciogliersi dall'imitarla, anche dopo che, formata ed in-
grandita, viene assunta dagli scrittori. Così avvenne del-
la nostra, ove nel Trecento si riscontra ancora la fisiono-
mia materna nel non restringere l'au in o, non mutare la
l in i avanti ad a b c f p, nè lo j in g, nè inserire la i avan-
ti ad e188. Che se de' primi scrittori, Dante compreso, vo-
lessimo raccorre le differenze da noi moderni, che mo-
strano cominciante esperienza, troveremmo che ancora
usavano molte parole latine: dece, il libito fe licito,
sperma, pretio, carpe, parco, cogitare, manduca, un-
qua...; e i plurali, campora, ramora, palcora, nomora...;
δειξαι) per fuggire: e menare per il naso (της ρινος ελκειν): e un chiodo
caccia l'altro (ο πατταλος εξεκρουσε πατταλον).
188
Thesauro, templo, clarezza, judicio, tene, pensero...
In principio si tenne la preposizione a nel valore del latino: onde in frà
Guittone abbiamo «Lungiando a se peccato e villania» (Rime, 1, 59): «Io
non posso o non voglio a femina astenere... buono scernendo a male e male
a buono» (Lettera 35); e nel Bencivenni (Esposizione del paternostro, 75):
«Chi vuole ordinatamente fare, elli dee cominciare a se medesimo». (Fior.
Virtù, 24). «Insino a ora (da ora) chiunque di voi chiederà, io adempirò la
sua domanda». Questo segno dell'ablativo facea confusione con quello del
dativo, onde si sostituì da.
Molte volte è usata dai primi scrittori dove i latini metterebbero ad; non
imitati dai successivi. Così frà Giordano da Rivalta, nella pred. 139: «Maria
era povera, e non si pur parea; ed elessela in così grande stato a far vergo-
gna alla prima reina»: e Giovanni Villani, 467: «Partita sua masnada a più
bandiere»; Ott. comm. di Dante, 3. 639: «Alla memoria si è da sapere»
(quo ad).

225
altre scriveano perchè forse pronunziavano alla latina,
come umeri, triumphi, justo, jurare. Vi scambiavano di
lettere, resurressione, terso, penza, perzona, respren-
dente, stiaffo, stiena, dovunche, oblico, fragello, boce,
forvici, paravole, brivilegio, fedita, adasio, Cicilia, sa-
vere, navicare, beano, granne, foi, mobole, rimore, san-
za, neente, Deo, eo; o di generi, le sacramente, la fiore,
la mare, l'oblìa, il nojo, il sedio, e in Dante il domando e
il velo; e massime dell'articolo lo per il; od eccedevano
in quelle desinenze provenzali d'anza, aggio. Talora so-
no lettere trasposte, come preta, grolia, impretare, gril-
landa, stormenti, gralimare, palora, frebbe, aire; o lette-
re fognate, come in memora, desidero, manera, molesta,
lussura, sciutto, scoltato, rede, pitafio, dificio, subitano,
brobbio, propiamente, gioane, stribuire, douto; o ag-
giunte superfluamente, come triemare, bointà, Europie,
superbio, istando, auccidere, ausare, aoperare, appruo-
vare, puose, bascio, resgione, tegnendo, vogliendo, co-
gnosco, vuogli, o non ancora assimilate, come adsai,
ciptadini, ecceptiamo; o sciolgonsi i dittonghi, come in
audire, tesauro, aulente, claudo, pausare, gaudere; o
mutasi una delle vocali in consonante, come blasmo,
claro, galdio, laldare, aldire. Talora vi appajono sincopi
strane: semmana, volno, venno, pensrà, sen (senza),
avan', soven', ca, foss, fi, fol, nul; quando allungamenti,
massime nelle desinenze (partiraggio, rifitoe, piue, sa-
rabbo, farajo, saccio, pietanza e coraggio per pietà e
cuore, e tue, mene, quici, mee). Le finali sono spesso vi-
ziate (interesso, crimo, leggisto, pianeto, nomo, giova-
226
no, comuno, le porti, febbra, adessa). Talvolta si tace la
preposizione (dico voi, grazie voi sia, fa noi grazia) o si
pone a sovrabbondanza (in ninferno).
I verbi vi sono conjugati a sproposito, trovando spe-
gnare, allegrere, parire, finare, sentere, abbassirsi;
schermare, favorare, giojare, pentere sono in Dante; e
in lui e in altri dissono, vedia, sentette, dicette, abbo, ei
(ebbi), ablavano, avemo e avamo, sentimo, sappie, vin-
sono, parlasseno, passarebbe, io vorrebbi avere, porìa,
dea; e i participj feruto, falluto, pentuto. Essi participj
sono spesso adoprati pel nome: il destinato, il pensato,
il gloriato, l'imperiato, i falliti, la finita, per destino,
pensiero, gloria, impero, falli, fine; del che ci sono rima-
sti il concordato, l'arbitrato, il giudicato e simili.
Alquante voci di quell'età abbiamo di poi affatto di-
smesse, come disianza, dolciore e dolzura, perdigione,
bellore, increscenza, incominciaglia, usaggio, rancura,
smagare, dottanza e dotta, vengiare, issa, grazire,
amanza, gelore e gelura, sezzajo, primajo, tostano,
prossimano, temorente, bontadioso, pensivo, allegran-
za, acceleranza, tristanza ecc. Smettemmo pure gli af-
fissi in fratel-mo, moglie-ma, casa-ta, signor-so, e il su-
to dal verbo essere, che sarebbe giovato tanto ad evitare
sgarbate consonanze (è stato portato).
Ne' versi poi, oltre la generale deficienza d'armonia,
occorrevano frequenti le cacofonie, le dieresi stentate, o
le contrazioni malsonanti; la rima o era mal determinata,
o con parole alterate, facendo consonare ora e ventura,
destro e presto, lusinga e rimanga, pietate e matre, mor-
227
te e raccolte, luna e persona, ottima e cima, majesta e
gesta;
E men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Che andate pensando sì voi sol tre?
(DANTE)
Chi bestia, chi sgraziato, chi cattiv'è,
Chi sciocco, chi invidiato sempre vive?
(MEO ABBRACCIAVACCA).
Insomma qui pure si ripete l'andamento, che seguim-
mo riguardo alla lingua latina.

228
§ 21°
Dei dialetti: loro antichità. Il libro del Vulgare
Eloquio.

Già toccammo del dialetto napoletano, e del siciliano,


nobilissimi fra gli italici, massime per la tanta parte che
ritengono di greco. Ma quel che di essi dicemmo s'appli-
ca ben più ai tanti che si parlavano per Italia. Ove noi
dobbiamo asserire quel che già per analogia si argomen-
ta, che, ne' varj paesi, la lingua latina parlata variava.
Roma era quel che Firenze o Siena oggi, distinta per
quell'urbanità, di cui, al dir di Cicerone, si avverte più
la mancanza in provincia che la presenza in città. Del
resto è a credere che tutto il Lazio usasse originariamen-
te quella lingua, la quale fu detta latina appunto come la
moderna si dice toscana, per quanto ne piglino scandalo
i pedanti. E come noi discerniamo gli scrittori toscani da
quelli d'altro paese (fiorentino mi sembri veramente
quand'io t'odo; DANTE), così avveniva allora, e Asinio
Pollione tacciava Tito Livio di patavinità, conchiuden-
do: Quare, si fieri potest, et verba omnia et vox hujus
alumnum urbis oleant; ut oratio romana plane videatur,
non civitate donata189.
189
Vollero dare come padovanismo la frase del libro I, § 39, ove dice che gli
Albani vengono trasportati a Roma, raptim quibus quisque poterat elatis.
Ma questo è piuttosto un ellenismo, χρῶμαι ὧν ἔχω. Morkof ha una disser-
tazione De patavinitate liviana. Questi provincialismi sono tanto più note-
voli, in quanto il commentatore di Virgilio, pubblicato dal Maj (Classico-
rum auctorum fragmenta, tom. VII, p. 269), scrive: Dicunt Patavini gentiles

229
Agli Urabro-Tusci mancava l'o, e ancora in que' dia-
letti sentiamo spesso l'u al luogo dell'o; come in dopo,
quattordici, Giorgio, posto: lo che avviene pure in Sici-
lia.
L'etrusco forse era lingua di conquistatori, onde il po-
polo non l'aveva adottata, e perciò perì, ma dicono ab-
bondasse (e il Lanzi credè provarlo) di vezzeggiativi, di-
minutivi, donde venne ai dialetti moderni tal facoltà,
scarsissima nel latino. Nel latino terminavansi spesso le
voci in consonante; nell'etrusco preferivasi la vocale,
siccome conservarono i moderni Toscani.
Giovanni Galvani volle, in molte contrazioni di voci
osche, riconoscere la pronunzia de' rustici odierni: come
combner per convenire: Kapfa per Capua, siccome alcu-
ni proferiscono afdace, aftunno; fi e fia per filius e filia;
faka e facat per faciat. Embratùr per imperator segne-
rebbe ancora la pronunzia d'un abruzzese.
A Bologna, città potente dell'Etruria, dicesi ancora
pzein, dla, vgnè, cminzò, cm'un (piccino, della, venne,
cominciò, come uno), che son contrazioni usate nel po-
co d'etrusco che conosciamo: e v'era comune il mutare
l'e in ei, come oggi in veina, lein, canteina, per vena, li-
no, cantina.
Festo il nome di famuli deriva dagli Oschi, fra cui
servus FAMEL nominabatur; e famei in molti dialetti si di-
ce anche oggi il mandriano. Lo stesso dice che aruscare
significa undique pecunias colligere; e ruscà su dicesi

se Romanorum.

230
ancora in Lombardia per raccogliere d'ogni dove. Lo
stesso nota antios per excruciatus; e sarebbe la voce no-
stra ansioso. Bacar o baccar era un vaso da bere il vino,
e sarebbe l'origine indigena del bicchiere o pechero.
Servio vuole che Sabinorum lingua, saxa HERNA vocan-
tur, ed ecco l'origine di caverna.
Certamente la Gallia Cisalpina, popolata prima, do-
minata poi da Cimri, da Celti, da Galli, doveva usare
una lingua diversa da quella del Lazio, popolato dagli
Aborigeni, o della Toscana dagli Etruschi, o de' paesi
meridionali, traenti la popolazione da Fenici e da Greci.
La conquista vi introdusse la lingua latina, non però così
che cancellasse la primitiva. Dovendo Bruto andar pro-
console a Milano, Cicerone l'avverte che vi udrà verba
parum trita Romæ. A Decimo Bruto, negli ultimi aneliti
della repubblica, fu agevolata la fuga da Bologna verso
Aquileja dal sapere il dialetto di quei paesi 190. Pompeo
Festo si duole che ormai non si conoscesse il latino in
quel Lazio, da cui aveva dedotto il nome 191. A. Gellio
narra che un oratore avendo detto apluda e floces, voci
antiquate, gli astanti, quasi nescio quid tusce aut gallice
dixisset, riserunt192: il che significa che il tosco era ben
disforme dal latino.
Viepiù dovevano le prische lingue sussistere fuori
d'Italia, e basterebbe a provarlo il consulto d'Ulpiano,
190
Sumpto cultu gallico, non ignarus linguæ fugiebat, pro Gallo habitus.
VAL. MAX., lib. III.
191
Latine loqui a Latio dictum est, quæ locutio adeo est versa, ut vix ulla
ejus pars maneat in notitia. De verb. signif.
192
A. GELLIO, XI. 7.

231
che consente di stendere i fedecommessi non solo in la-
tino e greco, ma in lingua punica, gallica, o di qualsiasi
altra gente193. Le legioni nostre che per le province ac-
campavano, e quelle reclutate di stranieri che s'assideva-
no poi in Italia, dovevano trasportar qui voci e modi
ignoti ai colti parlatori. Conosciamo storicamente quan-
do i Marsi adottarono i caratteri e la favella latina: i Cu-
mani chiesero ut publico latine loquerentur, et præconi-
bus latine vendendi jus esset194. Titinio poeta, contempo-
raneo del prisco Catone, scrive che i popoli abitanti at-
torno a Capua, Terracina, Velletri, obsce et volsce fabu-
labantur, nam latine nesciunt195: e bilingues Brutiates
diceansi i Bruzj perchè parlavano osco e greco. Nella
guerra Sociale, ultima riazione delle italiane autocrazie
contro il funesto accentramento romano, i popoli colle-
gati, come protesta, assunsero per pubblico decreto il
linguaggio natio, e l'adoprarono fin nelle monete.
In questi ultimi tempi s'è rivolta l'attenzione dei dotti
napoletani sui dialetti italioti, e basti accennar gli studj
di Guarini, Avellino, Minervini, Garrucci; pure siamo
ancora lontani dal possederne una teorica nè una storia.
Se noi dovessimo a ciò fermarci, dopo Jannelli 196 e Lep-
193
Lib. XXXII. c. 21. Fin al tempo di Cicerone la lingua latina in Spagna pa-
reva pingue quiddam atque peregrinum sonare (Pro Archia, 10); e san Gi-
rolamo esortava una madre a insegnare presto a suo figlio la latina lingua,
quæ, si non ab initio os tenerum composuerit, in peregrinum sonum lingua
corrumpitur, et externis vitiis sermo patrius sordidatur. Ad Laetam, ep.
107.
194
LIVIO, XL. 42.
195
FESTO ad vocem Oscum.
196
Nelle Veterum Oscorum inscriptiones (Napoli 1841), Jannelli pretende

232
sius197 e Fabretti e Mommsen, vorremmo portare studio
speciale sull'osco, la lingua più diffusa nell'Italia meri-
dionale, che parlavasi da popolo estesissimo e suddivi-
so, e sin nel Bruzio e nella Messapia ove nacque Ennio,
il quale tria corda habere se se dicebat, quod loqui græ-
ce, osce et latine sciret198.
È conforme alla natura dei vulghi, che, colla lingua a
parole finite, adoprata negli scritti, resti la parlata a pa-
role tronche. Ma oltre il toscano, che fu poi elevato a
lingua nazionale, io penso che anche gli altri dialetti
avessero già nei primissimi secoli preso il carattere pro-
dichiarare da 300 monumenti scritti.
197
Inscriptiones umbricæ et oscæ quotquot adhuc repertæ sunt omnes ecc.
Berlino 1841.
198
A. GELLIO, XVII. 17. Le iscrizioni osche sono le più facili a intendere, co-
me aasas aras, dolud dolo, ligud lege, genetai genitrici, kvaisstur quaestor,
regaturei rectori, aikdafed ædificavit, deicum dicere, fefacust fecerit, herest
volet, prufatted probavit, set sit, alttram alteram, pùs qui, amaricatud im-
mercato, malud malo, anter inter, contrud contra, inim enim, nep neque
ecc.; ‒ mentre le etrusche danno etera altera, clan natus, phuius filius, avils
ætatis, turce donum, tece posuit. Nella tavola osca di Banzia SUVE PIS
CONTRUD EXEIC FEFACUST si quis contra hoc fecerit: PIS CEUS BANTIUS FUST qui
civis Bantinus fuerit. Esso Fabretti conchiude: «La fratellanza dei vetusti
dialetti sparsi in Italia, riconosciuta dai segni alfabetici, si dimostra meglio
coi ripetuti raffronti delle voci umbre ed osche ed etrusche in tra loro o
coll'idioma latino; così l'osco deded e con etruschi caratteri tetet, era tez
nell'Etruria, e forse dede nell'Umbria, e dedet e dede (dedit) nelle bocche
del popolo romano. Con gl'idiotismi ed arcaismi che occorrono spesso nella
latina epigrafia, si avranno argomenti per discorrere fondatamente intorno
alla origine della lingua italiana, più remota di quel che generalmente non
credesi: moltissime forme popolari verranno innanzi, raccolte dai monu-
menti de' più bei tempi di Roma repubblicana, e dai modesti funebri ricordi
dei primi martiri della Chiesa». Vedi qui sopra, a pag. 160*.
* § 17° par. “Ripugna affatto alla natura delle cose…” di questa edizione.
[Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

233
prio che tennero dappoi, e che traevano da fonti più lon-
tane. Che se il Lombardo pronunzia l'eu, l'u e l'on e l'an
nasali a modo francese, e contrae au e al in o, forse è
dovuto alle immigrazioni de' Galli, anteriori ai Romani;
donde pure i tanti nomi di località, affatto gallici o celti,
e l'udirsi dal vulgo lombardo voci proferite come le anti-
che galliche199. In altri dialetti si rinvengono modi non
adottati dagli scrittori, e nello studiare i dialetti sariano a
fare certi raffronti, fecondi di alte conseguenze. Quanta
distanza di vie, di origini, di linguaggio, di civiltà fra il
Milanese e le Calabrie! Ebbene, in queste si pronunzia
onza, panza, vittura, fasuli, citto, Michè, stu e sta, na
donna, vedè, sentì... per oncia, pancia, vettura, fagiuoli,
zitto, Michele, questo e questa, una donna, vedere, sen-
tire..... come appunto si pronuncia in Lombardia. Addur-
remmo anche forme lessiche ben più significanti, come
199
Braich diceva l'antico gallo, e i lombardi brasc; come dicono cadenn al
modo del bretone e dell'irlandese; provecc (Ciascun fait gran provecc qui
bien tient ce qu'il oie) come nel francese antico; fioeu come nell'Anjou;
ciao come nel gallese; uss come in altri francesi dialetti. Il milanese bagai
risponde al bugale in bretone, come smorzà per ispegnere: sango de mi,
dove te cascet sentesi nel Berry come nel Milanese: cova per gallina nel
Delfinato. Moltissime voci lombarde sono identiche colle provenzali. Alcu-
ne vennero dal greco senza attraversare il latino, come toma (πτῶμα), usmà
(οσμᾗ) annusare, peston (πιστὸν), trabescà (τρέπω), rud (ῥύπος), magàri
(μάκαρι): altre dal latino che non furono adottate dall'italiano comune, qua-
li sidella (situla), offella (offa), mica (mica panis); medina per zia, cogoma
per bricco, prestin per forno, pasquèe per piazzuolo erboso, sbergnà per
canzonare da spernere, e assai altre, massime nella montagna. Navascia di-
ciamo la bigoncia in cui si pigia l'uva; e Festo definisce nevia lignum cava-
tum ut navis, quo in vendemiis uti solent. Illò per in quel luogo dicono i vil-
lani, e Festo ci avverte pure che pro huc, HOC veteres dicere solebant, sicut
pro illuc, ILLO.

234
mi vegl pa, io non voglio, rispondente affatto al piemon-
tese mi voeuj pa e al milanese mi vuj no, e parallelo al
tedesco Ich will nicht; se non che ci si può affacciare il
dubbio che questi modi provengano dalle colonie valde-
si, migrate colà dalle valli di Pinerolo 200. In Sardegna si
ode pè, crù, conchetto (piede, crudo, truogolo) come in
Lombardia201.
I deputati alla correzione del Boccaccio chiamano il
Trecento «quel buon secolo, quando, come gli abiti e le
monete, così usavano tutti li medesimi modi e parole».
Intendono dei soli Fiorentini, ma è asserzione assurda.
Che diremo di quella del Perticari, che «tutte ad un tem-
po le città d'Italia vennero a parlare nella stessa maniera
l'idioma vulgare?» È fatto ripugnante a natura,
quand'anche non restassero prove del contrario. Peroc-
chè potrebbonsi ripescare parole, pronunziate ne' varj
paesi come si usa tuttodì, e scivolate nelle scritture lati-
ne e nelle prime italiane.
Nei patti fra Obizzo Malaspina e la Lega Lombarda
200
Vedasi Il Vangelo di S. Matteo volgarizzato in dialetto cosentino... del
principe L. LUCIANO BONAPARTE. Londra 1862.
201
Per brevissimo saggio di dialetti di paesi lontani accenniamo:
Friulano Milanese Reggino
sang sang sangu sangue
madonne madonna madonna suocera
diaul diavol diaulu diavolo
ligrie legria lligria allegria
brazz brazz brazzu braccio
trezzis trezz trizzi treccie
mollar mollà mollar lasciarsi cadere di mano
ven ven veni vieni
lusive la luna lusiva la luna dduciv'a luna splendea la luna.

235
del 1168 leggesi: Novum dicimus statutum a triginta an-
nis infra, sive in zae. E in una carta dei 1153 ap. GIULINI:
Et hoc vidi per annos octo et plus a terremotu in za, et a
decem annis in là. Noi diciamo tal quale anche oggi 202.
Nel Novellino abbiamo che fu condotto ad Ezelino un
ollaro cioè pentolajo; e che egli avendo inteso uno laro,
cioè un ladro, mandollo alla forca.
Già le carte venete del XII secolo mutano il g in z (ver-
zene, Zorzi)203; le bolognesi ci offrono altare sanctæ Lu-
202
Vedi MAZZONI TOSELLI, Origine della Lingua Italiana, p. 120. Egli parla
d'un poema del 1360 in dialetto bolognese.
203
Vedi Scorsa d'un Lombardo negli Archivj Veneti, per C. CANTÙ. Milano
1855. Nell'archivio notarile di Venezia è un testamento di Maria vedova
Gradonio de Troja del 1297 settembre, che dice:
«Questo sie lo testamento de Maria, relicta de gradonio de troja. Ordeno
soldi XVI de grossi per mese (messe). Eba mio fio Antonio adeso soldi XXX
de grossi che lo voi andar a lo pasazo per mi quando elo andera: ese elo
non andase, sia tegnuto un altro per mi mandar. Per congregacion grossi VII
per zascuna. Laso ad almengarda soldi VI de grossi. A nida soldi VI de
grossi cheo li de dar. A dona lena grossi VII A sor Margherita soldi II de
grossi. A lo nodar che fa lo testamento mio grossi XXII questo cheo e orde-
nato si sia trato delo fito dela casa e si sia pagato quelo che lago per lanema
mia eo elagato ecc.». V. Atti dell'Ist. Veneto, 1862, p. 363.
In un poema in terza rima di Francesco di Carrara il vecchio, pubblicato dal
Lami nelle Delizie, occorrono idiotismi veneti; impazzo, fiòlo, maraveia,
angossa, fazza. Nelle carte di Emanuele Cicogna è un poema sulla vita di
Gesù Cristo, copiato nel 1420, dove si trova, fra tant'altre bizzarrie, stagno
per fermo, qual si usa tuttora in Lombardia; e «dumente che de la catolica
fede sia zelatore» invece di purchè, come anche oggi dicesi in Lombardia
domà. Per quanto l'amor patrio la ripudii e la critica la appunti, non si può
con certezza asserire falsa la lettera di Dante a M. Guido da Polenta, scritta
da Venezia il 30 marzo 1313. In essa egli lamenta che il Consiglio veneto
non intendesse il latino. «Giungendo alla presenza di sì canuto e maturo
collegio, volsi fare l'ambasciata vostra in quella lingua, la quale, insieme
con l'impero della bella Ausonia, è tuttavia andata ed anderà sempre decli-

236
ziæ, Cazzavillanus, Cazzanimicus, Bonazunta, rivum
Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de Amizo, Mulus de
Bataja, Arderici de Magnamigolo; Boso Tosabò è uno
de' cinque consoli di giustizia, che nel 1170 compilaro-
no gli statuti di Milano.
Nel secolo XIII, mentre a Firenze cantavansi le Laudi
nando: credendo forse ritrovarla in questo estremo angolo sedere in maestà
sua, per andarsi poi divolgando, insieme collo Stato loro, per tutta Europa
almeno. Ma ohimè! che non altramente giunsi nuovo ed incognito pellegri-
no, che se testè fossi giunto dall'estrema ed occidentale Tile: anzi io poteva
assai meglio qui ritrovare interprete allo straniero idioma s'io fossi venuto
dai favolosi antipodi, che non fui ascoltato colla facondia romana in bocca.
Perchè, non sì tosto pronunciai parte dell'esordio, ch'io mi avea fatto, a ral-
legrarmi in nome vostro della novella elezione di questo ser Doge, che mi
fu mandato dire o ch'io cercassi di alcuno interprete, o che mutassi favella.
Così mezzo fra stordito e sdegnato, nè so qual più, cominciai alcune poche
cose a dire in quella lingua che portai meco dalle fasce; la quale fu loro po -
co più familiare e domestica che la latina si fosse».
Ciò attesterebbe che fin d'allora usavasi il dialetto veneto anche in materie
gravi e di Stato. Del qual dialetto abbiamo nuovi documenti nelle parole e
frasi che il signor Luigi Pasini racimolò in carte dell'Archivio generale, do-
ve fin nell'XI secolo abbiamo i nomi Valentino de pantano, Orso Zorzi
Gambaserica, Stephanus de Calle, Dominicus Zane, e i luoghi de Dorsodu-
ro, da Cavanna, patriarcado, i fondamenti dananti ripa, e bene repremere
et sapare l'uva e pigiarla a pede coverto. Questa messe cresce ne' secoli se-
guenti, ma è a dolere ch'egli ce ne dia le voci staccate, anzichè la frase stes-
sa. Il documento del 1223 porta la denunzia e stima di alcune proprietà, do-
ve troviamo:
la casa et la terra de loponte de albrigeto et cognato ejus, libre CCCC
la casa et la terra de tomao ferrario, libre CXIJ ecc.
e nell'anno seguente:
illi de ca viadro laboraverunt domum suam da riauto
sine parabola
illi de ca zorzo laboraverunt domum suam da rialto
sine parabola
matheo barbani de san paulo gita motiglioni IIJ per
far atana (altana?) super rivo.

237
in un vulgare così caro, in altre città d'Italia correvano
canzoni che possono dar saggio della lingua parlata. Gli
esempj addotti dal Perticari proverebbero soltanto per la
scritta, e perciò non appoggiano la tesi di lui, avvegna-
chè tutti s'ingegnassero di scrivere il toscano. La se-
guente fa parte di una raccolta pei Battuti di Cremona:
Com fo trahit el nos Signor
E vel dirò cunt grant dolor.

Al temp de quei malvas zudè


Un grand consey-de-Crist se fe
Chel fos trahit et ingannath
E su la cros crucificath.

Inter lo corp de quey malvas


Denter gintrava (gli entrava) el setenas

Oltre le carte già addotte da me e dal Romanin, n'è del 1260-61, dove si
legge: Ancora fo ordenado che se alcun frar de la scuola sera infermo, lo
gastoldo coli degani sia tegnudo de visitar quelo do fiade alla domada, o
alcun delli a saver le soe condicion e farli ogni consolacion per si e per li
suoi frari.
Più n'abbondano in appresso. Un bando del 1374 in lingua padovana co-
mincia: «De comandamento del magnifico segnor messer Francesco de
Carrara, de la cità de Pava e del destreto imperial vicario, per uno trombeta
sia fato publica crida in gi logi uxè (usati) en la forma enfrascrita ecc.». E
segue l'enumerazione de «zascheduna generazion e qualitè de delito del
quale, secondo raxon o ver statuti de le dite citè de Verona o de Vicenza o
de i so destriti, o de zascheduni altri logi subieti al magnifico predicto Can-
signore, encora en pena personale, o ver se cum arme ree atrocelmente
avesse ferio o empiagò alguno ecc.».
Dov'è a notare la caratteristica de' dialetti veneti di scempiar, le consonanti;
e quel che Dante già avvertiva che «i Padovani in tutti i participj in tus e i
denominativi in tas fanno brutta sincope, come è mercò e bontè».

238
Zosin fo Yuta Scariot
Che Crist trathiva dì e not.

Quel Yuta fais et renegath


Ay sovra princep fo andath
E si ye dis, quem volef da
Se vel tradis illy vosy ma?

Respos illora quey zudè,


Trenta diner tinì de accè
Stul po trady ed ingannà
Deraz de no apresentà...

E quant ey laf sflagelath


Mult tosto ey laf incoronath
De spini grossi et ponzent
Per che el so volt fo sanguanent, ecc.
Una laude di Monza fu da me pubblicata nella Mar-
gherita Pusterla: e di somiglianti ne ha per avventura
ogni città di Lombardia. Pietro de Bescapè milanese, di
cui si ha un bellissimo manoscritto del 1264, dà una roz-
za storia del Vecchio Testamento:

Como Deo a facto lo mondo


E como de terra fo lo homo formo,
Cum el descendè de cel in terra
In la Vergene regal polzella,
E cum el sostenè passion,
Per nostra grande salvation,

239
E cum verà el dì del ira
Là o sarà grande rovina
Al peccator darà grameza
Lo iusto avrà grande alegreza
Ben a rexon ke l'om intenda
De que traita sta legenda...
In mille duxento sexanta quatro
Questo libro si fo facto.
Et de iunio si era lo primier dì
Quando questo libro se finì;
Et era in secunda diction
In un venerdì abbassando lo sol.
Di Buonvexin da Riva, frate umiliato, vivente circa il
1290, si ha nella biblioteca Ambrosiana un trattato di
buone creanze, ove, fra lo studio di italianizzare le paro-
le, sentesi il fondo lombardo. Comincia:
Fra Bonvexin de Riva che sta in borgo Legniano
D'le cortesie de descho ne disette primano;
D'le cortesie cinquanta che s'de' osservare a descho
Fra Bonvexin de Riva ven parla mo de frescho.
Esso frà Bonvicino ha un dialogo fra la Madonna e un
villano, che comincia:
Chi loga se lumenta lo satanas rumor
D'la verzene Maria matre del Salvator;
e anch'oggi in villa dicono chi loga per qua (hoc loco) e
lumentà per ricordare, rammentare.
In questo poeta già avvertimmo la formazione della
conjugazione odierna mediante l'affissione del verbo au-
siliare.
240
E che il dialetto milanese già si parlasse anteriormen-
te, lo raccogliamo dal trovare, nel poeta Cumano che
cantò la guerra decenne contro i Comaschi, nominati un
Pagano prestinaro, un araldo Pandisegale: sull'arco che
i Milanesi eressero dopo riedificata la patria nel 1174,
son nominati Passaguado da Setara, Arnaldo de Mario-
la, Gerardo de Castagnianega, prevede per prete, che
sono pronunzie ancora usate. A difesa del carroccio i
Milanesi istituirono la compagnia de' Gajardi, e n'era
capo un di Monza, detto Mettefogo: parole del dialetto;
come sono i cognomi usitati in quel tempo, Bragacurta,
Bragadelana, Cavazocco, Brusamonega, e simili. An-
che a Brescia trovo nel 1177 Martinus Petenalupi, Oge-
ro de Cavalcacane; e nel 1192 Landolfo Scanamojer,
Carnevale de Codeferro, ecc.
Agli incunabuli della stampa appartiene El vocaboli-
sta ecclesiastico ricolto et ordinato dal povero sacerdo-
te de Christo frate Johanne Bernaldo savonese, stampa-
to a Milano per Leonardo Pachel, 1489, nel quale son
registrate parecchie voci nel dialetto milanese vive fin
oggi, quantunque egli vi desse la terminazione italiana;
come aguccia ago, amolato arrotato, assetarse sedersi,
barba zio, brancata manciata, camola tignuola, copo te-
gola, dar fora pubblicare, despresio malizia, fiadare re-
spirare, fidigo fegato, fronza fronda, gera ghiaja, gialdo
giallo, la grassa l'adipe, impressa in fretta, ingualare
eguagliare, lentigia lenticchia, lisca carice, lumisello go-
mitolo, meda mucchio, messedare mescolare, mezena
lardone, mocare smoccolare, morone gelso, mufolento
241
ammuffito, pagura paura, rampegar arrampicare, ro-
gnoni arnioni, rosegato roso, sbadagiare sbadigliare,
scarcare sputare, scoder riscuotere, semeso sommesso,
sesa siepe, spegazzato imbrattato, temporito precoce.
A Gabriele Rosa fu esibita una composizione in ber-
gamasco, che nell'archivio notarile di Bergamo esisteva
fra istrumenti privati in un volume di pergamena del
1253, sicchè vorrebbesi crederla dell'anno stesso. Sareb-
be dunque anteriore a tutti questi saggi di dialetti; ma
per ciò appunto si desidererebbero più concludenti pro-
ve d'autenticità, e meglio ancora un fac-simile.
Il Lasca, negli Inganni, atto III. 5, introdusse un Pider
da Valsassina che parla il suo dialetto; e così si fa in al-
tre commedie del Cinquecento, ma in modo sì sformato,
da non riconoscersi più il lombardo. Anche Franco Sac-
chetti fa parlare molti in dialetto, massime in friulano e
genovese; ma sempre piccol conto si può fare sopra chi
riporta vulgari altrui. Perciò fallisce la prova fatta dal
Salviati di tradurre in milanese una novella del Boccac-
cio204; e perfino la più diligente disquisizione in tal pro-
posito pubblicata testè dal signor Biondelli.
Pel dialetto piemontese è a veder la traduzione degli
statuti della società di S. Giorgio di Chieri, pubblicata
dal Cibrario nel t. II, p. 287 della Storia di Chieri e asse-
gnata al secolo XIV205. Del qual tempo sembra pure un
204
Questa prova fu testè con maggior ampiezza e diligenza rinnovata dal si-
gnor Giovanni Papanti: I parlari italiani in Certaldo alla festa del V cente-
nario di monsignor Giovanni Boccaccio. Livorno 1875.
205
Alo nom del nostr segnor Yhu Xpst amen. A lan de lassoa natività
MCCCXXI ala quarta indicion en saba a XXV dì del meis de loign en lo pien e

242
uffizio ad uso de' confratelli disciplini di Saluzzo, ove
sono 32 laude in un cattivo italiano che tirerebbe al ve-
neto. P. e.:

Or s'aprossimo lo tempo che lo rey del paradiso


Si dey nascer da una vergen como n era empromisso
Deo pure n'a tramisso lo so figlol glorioso
L'agnelo sanza peccao Ihu Xre pietoso, ecc.

Inoltre vi sono diciotto recomendaciones in vero pie-


montese.
Non mancò chi tolse a provare che il piemontese for-
se più ch'altri dialetti ritenne del latino, perocchè dice
ses e sömo da es e sumus; is, ist pronomi; om, dom, ma-
gister, liber, papaver, cadaver, setember, otober, par, di-
spar, vas, sal, gius, ses, dominica, fumela, pansa, spuè,
stranuè, (da spuere e sternuere, anzichè dal frequentati-
vo), fenestra, ceresa, ecc.; modi comuni, del resto, ai
parlari dell'Italia alpina.
Del principio del 1300 si ha una cronaca saluzzese di
Gio. Andrea Saluzzo signor del Castellaro, in rozzo ita-
general consegl de la compagnia de messer saint Georz de Cher a son de
campana et a vox de crior. En la caxa de lo dit comun de Cher al mod uxà e
congregà el fu statuì e ordonà per col consegl e per gle consegler de lo dit
consegl e per gle rezior de la dita compagnia gle quai adonch gli eran en
gran quantità e gnun de lor discrepant fait apres solemn parti che gli infra-
script quatrcent homegn de la dita compagnia seen et debien esser perpe-
tuarmeint e se debien nominer un hospicii co e hospicii de la compagnia de
sein Georz. I quagl homegn debien e seen entegnu perpetuarmeint conse-
gler a drit e learmeint la ditta compagnia e i consol e gli homegn de colla
compagnia a bona fay, non declinand a alcuna voluntà se no alchuna utilità
del corp de colla compagnia.

243
liano misto a parole prette piemontesi, come gesia,
eschalero (scala), quiglieri (cucchiaj), governore (go-
vernatore), servanta (serva), fruita (frutta), largour (lar-
ghezza), Menia (Domenica), chatar (comprare), rabelar
(strascicare), penta (dipinta) ecc.
Delfino Muletti, nelle Memorie di Saluzzo, vol. IV, re-
ca delle laude del 1400 nel dialetto saluzzese, e una
iscrizione posta il 1403 sulla chiesa di San Sebastiano:
ma questa può piuttosto dirsi in rozzissimo italiano che
in dialetto; quelle orazioni sono l'anello fra il dialetto
piemontese e il valdese, che si connette con quei della
Linguadoca:
«Noe ce tornerema devotament al altissim De nostro
Segnor Yhu Christ, da qual venen tuit gli bin e tute le
grasie che nos n'a dait grasia en cast beneit di de fer
questa disciplina ch'el nos dea grasia che noi la pussèm
e voglièm fer a tuit gli temp de la nostra vita al sò los,
onor e gloria, e a recordament de la soa santissima pas-
sion, e a esmendament di nostri peccai, asiò che quant
noi passerema da questa misera vita, el nos condua tuit a
la gloria de vita eterna».
Del dialetto nizzardo il primo esempio a stampa è il
Compendion del Abaco per Francesco Pellos di Nizza,
Torino 1492. Comincia:
«Jesus done a mi gratia et sia en so plaser che fassa
principi he fin de aquest compendio de abaco de art de
aritmetica he semblament dels exempels de jeometria
contegnut en los presents sequents capitols, lo quals tra-
cleray coma a mi sera possible, perchè les citadins de lo
244
ciutat de Nisa son sotils et speculatieus en ogni causa, et
specialment de las dichas arts».
Stranissimo è il dialetto genovese; e raccontasi vul-
garmente d'un commissario, il quale non volle segnare il
foglio di via ad un cittadino per Cogoleto, atteso che
non sapeva trascrivere in lettere la bisbetica pronunzia
di quel nome. Lo stesso caso dev'essere intervenuto ad
un notajo nel 1110, che di molti testimonj non indica il
nome, quorum nomina sunt difficilia scribere (Mon. Hi-
st. patriæ, Chart. II. 186).
Di esso genovese dialetto Matteo Mollino conserva
manoscritte alcune poesie d'autore ignoto, tra il 1270 e il
1320 (SPOTORNO, Storia letteraria della Liguria, tom. I.
p. 283). Una, celebrando la vittoria riportata nel 1294 a
Lajazzo, comincia:
L'alegranza de le nove
Chi noamente son vegnue
A dir parole me commove
Chi non son de ese taxue...
Quelli se levan lantor
Como leon descaenai
Tutti criando alor alor...
Ben fè mestè l'ermo in testa,
Si era spessa la tempesta;
L'aere pareia nuvelao...
Correa mille duxenti
Zunto ge novanta e quatro.
Or ne sea De lodao,
E la soa doze maire
245
Chi vitoria n'ha dao...

Ha pure un componimento giocoso intorno ai marroni:

Non trovo in montagna


Mei fruto da castagna;
La qua s'usa, zo se dixe,
Ben in pu de dexe guise;
Boza, maura, cota e crua ecc.

Nella Çittara zeneise di Gian Giacomo Cavalli è data


come antica un'ode di Barnaba Cicala Cazero, che al to-
no direbbesi contemporanea de' trovadori:

Quando un fresco, suave, doçe vento


A ra saxon ciù bella, a ra megiò
Treppà intre fœugge sento
E pà ch'o spire amò;
Me ven in mente quella
No donna za ma stella,
Quando ro ventixœu ghe sta a treppà
Dent'ri cavelli e ghe ri fa mescià.
Rambaldo di Vaqueiras, trovadore del secolo XII, ha
una tenzone in forma di dialogo fra l'autore e una dama
genovese, la quale gli risponde:
Jular, voi no se corteso
Che me charcheai de chò206
Che niente non farò
206
Che mi cercate di ciò.

246
Anche fosse vos a peso207,
Vostr'amia non sarò,
Certa ja ve schernirò;
Provensal mal agurano,
Tale noja ve darò,
Sozo, mozo, esclavado,
Nè jà voi non amarò
Ch'ec un bello mario,
Che voi no se, ben lo so208.
Andè via, frar, en tempo megliorado.
Al Vocabolario genovese latino sono premessi saggi
di scritture in quel dialetto, di varj secoli, volendosi mo-
strare che a principio era similissimo all'italiano, dappoi
se ne scostò. I passi qui addotti nol confermerebbero; ol-
trecchè, se sono simili all'italiano, come provare che sia-
no in dialetto?
Negli Atti della Società Ligure di storia patria (1859,
vol. I, p. 129) si indicano come segni dell'esistenza del
dialetto genovese le voci miexi nel 1019; pixone, monte-
nello in altre del 1143 e 1148; poi Lunexana, Palavixi-
no, e così frexia, Sardena, fregabrena, merdenpè, noxe-
do, labuxada nel secolo XII; e nel XIII toagia, toffania, to-
mao, ruxentarium. Nel vol. VI, pag. 708 d'essi Atti si
portò una relazione all'uffizio del Banco di S. Giorgio
del 1457, in pretto idioma genovese. «Segnoi, a noi è
staeto molesto acceptar questo officio, non per recusar

207
Vi fossi anche a peso, vi dispiacessi.
208
Che ho un bel marito, che voi non siete, ben lo vedo.

247
de portà li carrighi publici, li quae poessimo ben fa, ma
considerando che anti che a queste compere fussen ar-
rembe et tranferte, ecc.».
Nell'Archivio glottologico, vol. II, p. 162, si reca una
quantità di rime genovesi della fine del secolo XIII e del
principio del XIV209.
Il signor Tozzetti Mazzoni (Origini della lingua ita-
liana, Bologna 1831) vanta assai il bolognese dialetto,
appoggiandosi a Dante, e soggiunge a pag. 1111: — Del
nobile vulgare bolognese, uno de' più antichi documenti
che si conservano, è, a parer mio, la lettera diretta al
marchese Maroello Malaspina, scritta nell'anno 1297».
Eccola:
«Al nobelle e al savio e posente mis. lo marchexe
Maroello Malaspina honorevolle podestà e capitano ge-
nerale de guerra del chumuno e del povolo de bologna,
Zame de mis. Aldrovandrino di Symipuzuli e Paolente
Dipananisi, capitani del castello de Savignano, ve se
mandano raccomandando. Conta cossa sia a vui mis.
(siavi conto) che di domenega Zoane de mis. Landolfu
de la capela de s. Apolito e Zoane dal lotino de la capela
de santa Maria majore si ferno grande romore. in somo
e dagandosse de la pugne l'uno al altro in suso lo volto,
e per questa rissa sinfo (si ne fu) grande romore in lo
209
I documenti più antichi de' varj dialetti sono raccolti in molti lavori re-
centi. Scritture in modenese del XIV e forse XIII secolo stanno nel fascicolo
VIII degli Opuscoli religiosi, letterarj e morali di Modena, t. III. p. 211; sono
laude de' Battuti, esistenti in un codice, finito di scrivere il 17 luglio 1377;
ma i cui componimenti sono forse da riferire al tempo che quelle Compa-
gnie vennero istituite, cioè verso il 1260.

248
borgo del castello di Savignano, e loro miseno a sagra-
mento e confessorno che quisi era la verità per esso sa-
gramento, e sovra goderno a loro de termene a fare soa
defessa e nessuna nonanfatta, ecc.».
Anche altri esempj reca egli, massime a pag. 909; ma
sono sempre di persone che s'ingegnano scrivere tosca-
no. È però curioso un libretto di Ovidio Montalbani, Vo-
cabolarista bolognese, nel quale con recondite historie
e curiose erudizioni si dimostra il parlare più antico
della madre degli studj come madre lingua d'Italia. Bo-
logna 1660, in-12°, di pag. 272.
Uno de' primi lavori della patria letteratura è il De
Vulgari Eloquio di Dante. Potrebbesi parlare delle origi-
ni della lingua senza tornar più volte su questo gran ri-
velatore? Non per questo vogliam portarci all'idolatria, o
a crederlo forte in etnografia e in filologia: e già repu-
diammo chi lo chiama creator della lingua. Tutto fatto
egli vi trovò, perfino la versificazione: erano abbozzi,
ma preparati a ricevere splendida coloritura; ed egli
stampò l'impronta del suo genio sopra un idioma che fin
allora non aveva se non quella d'una timida fatica. Egli
stesso da principio fu ben lontano dal conoscerne la po-
tenza; nella Vita Nuova ne parla con disprezzo, come di
lingua soltanto adatta a cose leggiere; nel Convivio non
mostra intenderne gran fatto, poi ne discorre espresso
nella Vulgare Eloquenza. Ne componeva il primo libro
fra il 1302 e il 1309; poi lo sospese: più tardi scrisse il
secondo, e lasciò interrotta a mezzo la dimostrazione
ch'era richiesta dalla proposta messa all'entrare del capo
249
XIV. Trattato nel libro secondo delle stanze, forse nel ter-
zo avrebbe dimostrato la struttura della canzone e della
licenza, poi nel quarto avrebbe discorso delle rime, e
specialmente delle ballate e dei sonetti, sempre come
stile, non come lingua; forse anche dovea seguirne un
quinto sui poemi più lunghi. Insomma è un'arte poetica,
e della lingua poetica (giacchè in prosa poco usavasi il
vulgare) è il ragionar suo, il che troppo pérdono
d'occhio coloro che ne fanno fondamento a teoriche so-
pra il parlar comune. Ivi colpisce di «perpetuale infamia
i malvagi uomini d'Italia, che commendano lo vulgare
altrui e il proprio dispregiano..... abominevoli cattivi
d'Italia ch'hanno a vile questo prezioso vulgare»; e rico-
nosceva esser esso già distinto, perfetto e civile ridotto,
qual si vedeva in Cin da Pistoja e nell'amico suo (Dante
stesso); e lo erige sopra al latino, al francese, al porto-
ghese, come dolce e sottile210. E questo vulgare non è
già la lingua cortigiana di cui altrove egli si fa predica-
tore; bensì «quello il quale, senz'altra regola, imitando la
balia; s'impara»211: ma lo scrittore lo rende perfetto con
«eleggere i vocaboli adatti, gettando i rozzi e rabbuffati,
e cogliendo i soavi, i gentili, gli efficaci»212.
Alla qual opera accintosi, conosceva già allora quat-
tordici dialetti in Italia: «Ad minus quatuordecim
vulgaribus videtur Italia variari; quæ omnia vulgaria in
210
Vulg. El., I. 11 e 10.
211
Vulg. El., I. 1.
212
Vulg. El., II. 17. Manzoni esaminò quest'opera per confutare il Perticari e
il Trissino (1868); e meglio il D'Ovidio nell'Archivio Glottologico, 1873:
tutti dunque posteriori al nostro lavoro e con altri intenti.

250
se se variantur, ut puta in Tuscia Senenses et Aretini; in
Lombardia Ferrarienses et Piacentini: nec non in eadem
civitate aliqualem varietatem perpendimus. Quapropter
si primas et secundarias et subsecundarias vulgares
variationes calculare velimus, in hoc minimo mundi
angulo non solum ad millenas loquelæ variationes
venire contigerit, sed etiam magis ultra». E adduce al-
quante frasi di ciascun dialetto, tali però che poco ajuta-
no le ricerche nostre, a mala pena riconoscendosi 213. Ma
qui ci basta l'attestarne non già che sussistevano, fatto
213
P. E. del lombardo burla quella frase Inte l'ora del vesper ziò fu del mes
d'october, che gli par rea più del vero. Non è qui il luogo a discutere le biz-
zarre dottrine di Dante in quest'opera, sol noteremo alcuni punti:
«Il vulgare italiano antico illustre cortigiano (egli dice) è quello il quale è
di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna; al quale i vulgari di tut-
te le città d'Italia s'hanno a misurare, ponderare, e comparare».
Sembra voglia dire che la lingua che si scrive è una che non si parla in nes -
sun luogo. Chi s'adagerebbe a tale sentenza? Rimproverando i Fiorentini
perchè «arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre», rin-
faccia loro due vocaboli, introque e manicare. Or bene; questi due vocaboli
egli stesso adopera nella Divina Commedia:
Sì mi parlava, ed andavamo introcque. Inf., XX.
E quei pensando ch'io 'l fessi per voglia Di manicar. Inf., XXX.
Ma il suo scrivere, quanto alle parole, è identico con quel dei toscani suoi
contemporanei, sicchè, s'egli asserisce d'aver usato lingua diversa, «ciò tan-
to gli si dovrebbe credere (dice il Machiavelli) quanto ch'ei trovasse Bruto
in bocca di Lucifero».
Del toscano fa altrove grandi elogi, e dice essersi valso del vulgare fiorenti-
no, propriamente quello che parlavano suo padre e sua madre. «Questo vul-
gare fu congiungitore delli miei parenti, che con esso parlavano... perchè
manifesto è lui esser concorso alla mia generazione, e così essere alcuna
cagione del mio essere... e così è palese e per me conosciuto esso essere
stato a me grandissimo benefattore... Se l'amistà s'accresce per la consuetu-
dine, manifesto è in me sommamente cresciuta, che sono con esso vulgare
tutto mio tempo usato». Convivio, Trattato I, cap. 13.

251
troppo naturale, ma che sapeansi essere i tipi idiomatici
de' varj dialetti. E per quanto egli s'industriasse a sverta-
re il toscano, esaltandone alcuni che certo non pretesero
mai a primato e per fino lo squallido bolognese, il tosca-
no prevalse, anche per merito di lui, che adoprollo a
«descriver fondo a tutto l'universo», e divenne il lettera-
rio, come il dialetto attico in Grecia dopo Alessandro,
come il turingio per la Germania.
Oltre i dialetti di fondo italiano, ce ne rimangono di
altra filiazione; in Malta il punico antico; in Algheri di
Sardegna il catalano; il teutonico nei Sette Comuni del
Vicentino, ne' Tredici Comuni de' monti Lessini sul Ve-
ronese, a Bosco nel Canton Ticino, e in qualche lembo
del Trentino; il romancio nella limitrofa Engadina, e in
alcuna parte della Val Leventina e della Val di Blenio
nel Canton Ticino; in qualche valle della Sicilia e della
Calabria l'albanese o romaico.
Altre voci di dialetti serbano l'impronta delle domina-
zioni o comunicazioni forestiere, greche a Ravenna, te-
desche e spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Si-
cilia, levantine a Venezia, francesi in Piemonte, mentre
ne' paesi de' Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci, Sanniti si ri-
conosce il vecchio latino. Tant'era lontano che tutte le
città italiche parlassero il linguaggio stesso.
I dialetti serbansi più fedeli alla loro origine; onde
sentiamo tutto di pronunziare e cantare: Lo santo padre
si scoprì lo viso ‒ I' te voglio ben assai ‒ Da li capelli a
la fronte e a li occhi ‒ chesto loco, quisto, chillo, ello.
Essi conservano parole che non hanno analogia col gre-
252
co nè col latino o col celtico; e fin elementi grammatica-
li estranei alle lingue indo-germaniche: segno (lo ripe-
tiamo) che sopravvissero durante la dominazione roma-
na, e rivalsero quando il latino officiale periva.
Gli studj sui dialetti richiedono tal profonda cognizio-
ne delle loro finezze, che difficilmente un uomo può at-
tendere a più che a quello che ha dalle labbra materne.
Onde trarne utilità filologica, più che i soliti dizionarj,
crederei opportuno lo sceverare da ciascuno le parole
che, più o meno alterate, derivano dal latino o dal greco;
e soltanto sulle residue esercitare l'analisi: le loro corri-
spondenze o differenze ci avvicinerebbero, o m'inganno,
alle favelle primitive degli Italiani. Qualche cosa di si-
mile tentò il barone di Hormayr sui dialetti romanzi del
Tirolo, e pretese nelle voci estranee riconoscere il lin-
guaggio degli Etruschi, popolatori antichissimi di que'
paesi, a creder suo214. La ricerca fatta con esteso accordo
214
Questo partito sembrerebbe opportuno anche per un dizionario etimolo-
gico italiano, dove s'abbandonassero le voci derivate più o meno diretta-
mente dal latino e dal greco, e si esaminassero quelle che hanno origine di-
versa: p. e. ammiccare, astio, avello, avventare, baccello, bagliore, balza,
berlina, bieco, bigoncia, bilenco, bisbiglio, bolso, boria, broncio, brutto,
bufera, bussare, caffo, ceffo, ciacco, cimento, covone, crusca, dileggiare,
elsa, foggia, frasca, gara, gire, gozzo, masso, minestra, melma, nastro,
pazzo, pentola, pergamo, peritarsi, pezzente, pignatta, salassare, schiaffo,
ticchio, tomajo, topo, tralcio, vetta, vizzo, vuoto, zolla, zuffa.
Molte voci abbiamo derivate dal greco, che non trovansi in latino, come
masticare da μασταζειν zio θεἳος
spata σπάθη liscio λισσός
tomba τύμβος mustacchi μύσταξ
ballare βαλλίζειν piatto πλαύτς
botte βύτις pitocco πτωχός
borsa βύρσα tapino ταπεινός.

253
potrebbe guidare a importanti conclusioni, e a provare
che i dialetti non son altrimenti una corruzione dell'ita-
liano, bensì linguaggi antichi, che per circostanze non si
elevarono a lingua officiale e letteraria.
Ma è scienza affatto nuova quella che ora nello studio
dei dialetti porta una veduta generale che tutte le parti-
colarità lessiche, morfologiche, fonetiche riferisce ad un
insieme; uno spirito geometrico che alle singole nazioni
assegna un posto conveniente; così si cessa di parlarne
come di bizzarrie vulgari, accorgendosi che ciascuna so-
cietà particolare, arbitra di sè, foggiò un dialetto, e che
le anomalie, anche in storia naturale, diedero ai giorni
nostri le teorie che cambiarono faccia alla botanica.

Girare, che è in Plinio, Nat. Hist., viene da γῦρος, donde noi traemmo giro.
Magari!, che i Latini diceano utinam, è dal greco μακάριος, e trovasi già in
Ciullo d'Alcamo (macara se dolesseti), e in altre lingue romanze, come nel
romancio di Coira, magari ca ei fuss bucca ver, così non fosse vero! e nel
valacco màcar cë: nel serbo makar; nell'albanese màcar.
In Calabria si dice tuttora crai, poscrai per domani e posdomani; velte per
tronco; vertola per bisaccia.
I grammatici ne dicono che gli Etruschi chiamavano καῶρα la capra: come
i Siculi καγχαλος il ganghero.
Il napoletano dice strata, più vicino al latino che strada; e annare, coman-
nare, siccome nel latino primitivo imbattiamo innulgentia, verecunnus, e in
Plauto, tenno, distenno, dispenno.

254
§ 22°
La lingua italiana è patrimonio esclusivo
d'una provincia? Sue vicende.

Per quanto in lavori di tal genere s'abbia sempre ad


aggiungere e resti sempre a spigolare, noi crediamo aver
dimostrato che que' primi scrittori, di qualunque parte
nascessero, e comunque il lor paese natio parli trinciato,
o squarti e scortichi le parole, o sdruccioli sulle desinen-
ze, o le strascichi, o adoperi voci bazzesche e croje, qua-
li le lombarde già parevano a Dante, o accumuli frasi
sgraziate e villani costrutti, ingegnavansi, come oggi an-
cora si fa, d'accostarsi all'idioma toscano, non foss'altro
perchè più vicino all'ortografia latina.
Il qual fatto generale, se non si fosse voluto discono-
scere da coloro che vennero a ragionar poi sopra ciò che
generalmente si praticava, avrebbe evitate assai sofiste-
rie e discussioni, che empirono biblioteche intere per
rendere avviluppato e controverso ciò che è lampante e
consentito col fatto. Perocchè il linguaggio somiglia al
diritto. Una logica naturale domina la sua prima forma-
zione; poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel costi-
tuirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso,
ne trae il meglio, e dà norme alla lingua e la fissa. In
quell'alto ingegno il popolo non vede un tirannico co-
mando, bensì la espressione autorevole del suo modo di
essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato.
Noi ci appoggiammo assai sulla analogia, e questa ci

255
mostra che le varie contrade parlano variamente, sia per
indole, sia per derivazione, donde i molteplici dialetti.
Un dialetto viene adottato dagli scrittori come lingua co-
mune; essi lo determinano, lo regolano, lo fissano, e in
tal forma resta nel tesoro letterario della nazione. Ben
altra è la natura dei quattro famosi dialetti greci, dove la
varietà riducevasi a pochi accidenti, tantochè tutti pote-
rono adoprarsi mescolatamente in Omero, e il dialetto
comune prevalse negli ultimi tempi, e da quel solo, mi-
sto ad elementi slavi, derivò il greco moderno. Nell'anti-
ca Italia fu il dialetto del Lazio che ottenne la preferenza
legale e letteraria: come in Inghilterra quel di Londra, in
Francia quel di Parigi, in Ispagna e in Portogallo quel di
Madrid e Lisbona, in Germania il sassone, in Polonia il
varsaviano e via discorrete.
In Italia il dialetto che gli autori preferirono fin
dall'origine fu il toscano, men contaminato di mescolan-
za forestiera, e più consono al latino. Di esso si valsero i
grandi triumviri della nazionale letteratura; donde gli
venne tal dignità e importanza, che ad esso cercarono
accostarsi tutti quelli d'altri paesi. Abbiamo componi-
menti ne' varj dialetti; ma quando il Bernieri celebrava
Meo Patacca, Carlo Porta sbertava i Milanesi nel Gio-
vannin Bongee, o Sgruttendio sbizzarriva le Mattinate, o
il Meli cantava stupendamente l'Apuzza o la Cicaletta 215,
Veramente le poesie del Meli, a cambiar ben poco, riduconsi italiane, dal
215

che sono troppo lontane quelle degli altri:


Già nni invita, già nni chiama
Primavera 'ntra li ciuri (fiori):
Ogni frunda nni dici, ama;

256
essi sapeano di far lavori, ristretti al proprio paese, non
destinati a tutta Italia. Abbiamo dizionarj che le voci e le
frasi proprie di ciascun dialetto traducono in italiano; a
chi venne mai in mente di farne uno pel toscano? La dif-
ferenza sua dall'italiano non consisterebbe che in varietà
di pronunzia, o in quelli ora vezzi ora sgarbi che mette il
popolo nella lingua di cui si serve; incolta se vogliasi,
scorretta di grammatica, insulsa di cose, ma pura, pro-
pria, calzante.
Le gare municipali, che furono il disastro ma insieme
la vita della nostra Italia, tolsero che, in teorica, si voles-
se accettare la supreminenza del toscano; eppure in pra-
tica era adottato da tutti. Ad ogni modo, se alcuno prete-
se che al toscano possano contribuire voci anche il mila-
nese, il romagnuolo, il napolitano, non credo verun mai
sostenesse da buon senno che la letteratura nazionale
possa farsi in romagnuolo, in napolitano, in piemontese.
Lo straniero che chiede d'imparare la lingua nostra,
intende sempre la toscana. Quando interroghiamo come
si nomini un oggetto, intendiamo come si nomini in to-
scano. Io penso che ogni dialetto sia una lingua compiu-
ta, ed abbia tutti i termini che le bisognano; nè il toscano
L'aria stessa spira amuri.
Vola un zefiru amurusu
'ntra na nuvola d'oduri;
Chi suavi e graziusu
Scherza e ridi cu li ciuri.
Manna lampi d'alligria
Lu pianeta risplennenti,
Chi rinnova, chi arricria,
Chi abbellisci l'elementi.

257
manca d'alcuno; giacchè, forse, non è possibile il pensar
a un oggetto senza avere la voce a cui fissarlo. V'ha og-
getti che la Toscana non ha, non conosce; ma se v'ha
paesi dove si trovano ghiacciaj e steppe, coll'acquisto di
quella nozione acquistò anche la parola, l'ha fatta sua.
Ciò s'avvera pei trovati nuovi, puta quelli dell'elettrogra-
fia o delle strade ferrate. Il toscano accetta i nomi de'
singoli oggetti da chi glieli recò, pur talvolta,
nell'immensa potenza dell'uso popolare, riconosce in
quegli oggetti o gli assimila ad alcun altro che dapprima
v'aveva un nome, o cui può darsene uno derivato e intel-
ligibile. Quindi il Kreuzer diventò crazia, il Semel e il
Kifel semello e chifello: e allorchè gli dicono i wagons, i
rails, il tender, gli slippers....... egli traduce i carrozzoni,
i regoli, il magazzino, il bagagliajo, le traversine.....
Se da ciascun dialetto avesse a scernersi il meglio, se-
condo fantasticano taluni, verrebbe la necessità di cono-
scerli tutti, il che è impossibile, e porterebbe all'esitanza,
ch'è lo stato peggiore nelle scritture come nelle azioni.
D'altra parte scegliere il meglio indica avere un tipo al
quale raffrontare; sicchè più breve e men fallibile sarà
l'attenersi a questo tipo stesso. Se dai singoli dialetti po-
tesse desumersi qualche parola, ne verrebbe che ciascu-
no scrittore adoprerebbe una lingua diversa, mentre su-
premo bisogno d'una nazione è l'unità della lingua, die-
tro alla quale vengono le altre unità.
Primo scopo del parlare e scrivere è il farsi intendere.
Meglio a ciò si riesce quanto maggiore è la precisione.
In matematica chiunque scrive 7+9 = 16: oppure
258
(a+b)2=a2+2ab+b2, è certo di essere inteso da ognuno
che sappia leggerli, di qual nazione egli si sia, perchè
quella forma è unica, nè può essere surrogata da altra.
La parlata non raggiungerà mai siffatta precisione, ma vi
si accosterà, quanto più fissi e convenuti saranno i signi-
ficati delle parole. E come un grande acquisto è l'avere
un peso, un tipo, un titolo solo per le monete, un modulo
unico per le misure e i pesi, così sarà prezioso l'aver nel-
la nazione una lingua sola, cioè un solo uso al quale ri-
ferirsi.
Il napolitano ha grandemente meritato della favella
nazionale, perocchè, oltre le origini greche, in codesto
paese avea nido il parlare osco, prevalente tra i vicini e
usato altrove nelle Atellane (vedi pag. 12)216; poi fu dei
primi a usar l'italiano. Pure non credo pretenderebbe so-
stituirsi al toscano, e neppure in questo introdurre parole
sue. Avesse pure voci, frasi e dizioni più logiche, più
calzanti, più espressive che non le corrispondenti tosca-
ne; non le consacrò l'uso, quem penes arbitrium est, et
jus, et norma loquendi. A Napoli si fece una ristampa
del Vocabolario della Crusca, forse la più notevole per
quantità d'aggiunte, e inserzione delle etimologie e sino-
nimie: ma non so che il Liberatore, il Borrelli, il Rocco,
gli altri che vi collaboravano, abbiano messa a registro
neppur una voce napolitana.
Distinguasi però la lingua toscana, ch'è una cosa posi-
tiva, da stile toscano, che è un non senso. Una è la lin-
216
§ 2° par. “La lingua più diffusa nell'Italia meridionale…” di questa edi-
zione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

259
gua, differentissimi i modi d'usarla; e se quella può im-
pararsi in Toscana o da Toscani, tutt'altro si richiede per
riuscire grande scrittore, cioè gran pensatore. A tutte le
armonie immaginabili bastano sette note, e con esse si
resero sommi Jomelli, Rossini, Bellini, Verdi, senza so-
gnare di voler mostrare originalità coll'inventarne di
nuove.
Un insigne scrittore, che tanto tien conto della lingua
da aver avuto il coraggio di rifare un proprio libro, gra-
ditissimo all'Italia, sol per uniformarlo all'uso toscano,
ripose la sovranità di tal uso in ciò che si dice in Firen-
ze. Sempre è l'amor della semplificazione, dell'unità,
della vitalità progressiva, surrogato alla pedanteria di un
dizionario, che non s'appoggia se non ad un'autorità se-
condaria, qual è quella degli scrittori. Perocchè gli scrit-
tori son buoni (dico per lingua) in quanto fan testimo-
nianza dell'uso. Nè a concedere ciò troveranno difficoltà
quelli (e non sono molti) che sanno separare la quistione
della lingua da quella dello stile.
Ma esso autore fece troppo scarsa la parte degli scrit-
tori in fatto di lingua. Una lingua morta non può essere
che imitazione, ricalco; tutto si circoscrive negli scritto-
ri; non si può dire se non quel ch'essi dissero, a rischio
d'esser barbari. Non così delle lingue vive. Se gli scri-
venti non hanno diritto di creare alcuna parola, molto
contribuiscono, sia collo scegliere, sia col fissare, sia col
derivare o comporre, siccome avviene a chi non parla
soltanto, ma riflette alla parola. La quale poi è scritta in
libri che la nazione adotta; e quei libri servono di testi-
260
monianza e di scuola, si citano, si imitano; e riducono,
non immobile, chè non è nella natura di cose umane, ma
più durevole lo stato d'una favella.
Il latino aveva l'autorità dell'uso al tempo dei precinti
Cetegi come sotto i Costantini; eppure latino intendiamo
quel ch'è scritto ne' classici, anzi negli ottimi di questi.
Il latino stesso però, benchè si estendesse official-
mente, ne' varj paesi restava alterato dai linguaggi pree-
sistenti, pur rimanendo sempre latino. Quando gli autori
natii di Roma cessano, e ne sottentrano di provinciali e
massime di spagnuoli, anche il parlare si altera. Chi
scriveva dopo caduto l'Impero, ingegnavasi sempre e
dappertutto imitare il latino classico: perciò lo scritto ri-
sentiva dell'individualità, essendo più o men rozzo se-
condo lo scrivente, perchè era studiato, non parlato.
Ignoranti notari e legulei vi mescolano parole che non
soleansi dai più corretti, ma che si usavano dal vulgo;
gli ecclesiastici, volendo al vulgo farsi intendere, ado-
prano a tutto pasto i modi e le costruzioni di questo; e
così il latino forbito degli scrittori s'accosta al parlato.
Come ne' paesi artici l'aurora comincia ad albeggiare
prima che siano scomparsi gli ultimi rossori del tramon-
to, così l'italiano sbocciò mentre era vivo tuttora il lati-
no; crebbe via via che questo decresceva, e trovossi per-
fezionato prima che l'altro disparisse.
L'ingerenza di questo va estendendosi, finchè taluno,
per iscrivere i proprj ricordi, le spese, le lettere, adopera
affatto il parlar suo, cioè il vulgare: scritto, è vero, anco-
ra con ortografia o alla vecchia o inesperta, ma pur vero
261
italiano; lo usano i predicanti; i narratori di vite di santi
o d'altri racconti per la plebe o per la gaudente società, e
prima ancora in canti d'amore o di prodezze.
La vitalità di quel tempo trapela anche nell'adottarsi
parole straniere e assimilarsele, acconciandole al pro-
prio sistema, dicendo Parigi, Basilea, Brugia, Magonza,
Loira, Aquisgrana; il che più non si fa quando la lingua
cessa di essere indecisa; introducendole vi si lascia l'aria
straniera.
In questo parlare plebeo, in questo vulgare «che se-
guita uso mentre il latino seguita grammatica», potrebbe
egli stendersi una grande epopea, che abbracciasse tutto
lo scibile, e cielo e terra? Dante tenzona fra il sì e il no,
fra l'opinione de' suoi amici e il sentimento proprio, fra
la negativa espressa nella Vita Nuova e nel Convivio, e
la potenza acquistata coll'uso: frate Ilario non credea
possibile quegli altissimi intendimenti significare per
parole di vulgo, nè giudicava conveniente che una tanta
e sì degna scienza vestisse a quel modo plebeo 217. E
Dante gli risponde: «Avete ragione, ed io medesimo lo
pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose pre-
sero a germogliare, scelsi quel dire che n'era più degno;
e presi a poetare così:

Ultima regna canam, fluido contermina mundo,

Anche il Boccaccio dice che «molti uomini savj moveano generalmente


217

una quistione che, conciossiachè Dante fosse in iscienza solennissimo uo-


mo, perchè a comporre così grande, di sì alta materia e sì notabile libro
com'è questa sua Commedia, nel FIORENTINO IDIOMA si disponesse?».

262
Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt
Pro meritis cuicumque suis.

Ma poi, pensando che la gente colta non bada ai poeti e


li lascia a' plebei, temprai la lira in modo conveniente
all'orecchio dei moderni».
In Dante, che chiamava Virgilio la maggior nostra
Musa, e faceva dire da Sordello lingua nostra la lati-
na218, è visibilissima ancora l'esitanza fra l'uso e la gram-
matica, ossia la lotta del latino coll'italiano.
Questo appare già staccato definitivamente nel Petrar-
ca; ma perchè credeva che «le note dei sospir suoi in ri-
ma» fossero solo per donne e pel popolo, esso Petrarca
riprometteasi la gloria da un poema latino, e latine sten-
dea per lo più le lettere. Il Boccaccio, nel Decamerone,
si valse stupendamente de' modi vivi del popolo, ma la-
tina credette dover tenere la costruzione; donde quel pe-
riodare aggrovigliato e ingombro, più lodato che imita-
bile; che non lieve guasto recò alla letteratura patria
dandovi un'aria di ricercata, di attorta, di oratoria, di
pretensiva, anzichè la ingenuità, la spigliatura, la conci-
sione che aveva in que' trecentisti, i quali scriveano co-
me parlavano. Perocchè dall'eloquenza vengono alterate
grandemente le lingue, cioè dallo studiar alle parole più
che alle cose. E appunto in grazia del Boccaccio fra noi

218
Purg., VII. 17: Di rimpatto Virgilio domanda a Ciampolo: «Conosci tu al-
cun che sia latino sotto la pece?» cioè italiano: e altrove dice a Dante: «Par-
la tu, questi è latino»; ed era Guido da Montefeltro, cui poi, nel Convito,
Dante chiama «il nobilissimo nostro latino»; e terra latina l'Italia.

263
si radicò il concetto insulso, o la sciagurata pratica di
due lingue; una dotta, azzimata, compassata, col periodo
ritondeggiante, la cadenza studiata; lingua grammaticale
o accademica, che titilla le orecchie, lascia gelato il sen-
timento e nebbiosa l'intelligenza; l'altra schietta, inge-
nua, perspicua, nè per questo trascurata, che anzi «le ne-
gligenze sue sono artificj».
Quantunque fosse compita la trasformazione del lati-
no nell'italiano, pure la pedanteria nel Quattrocento in-
trodusse un latino tutt'affatto italianizzato 219, e un italia-
no che poco differisce da quel fidenziano che altri ma-
neggiò per celia, e che quelli farebbe creder libri del XIII
o XIV secolo, allorchè appena svolgeasi l'italiano dalle
fasce latine.
Prendendo la prima opera che mi cade sotto mano,
nel vulgarizzamento del leggendario di Jacopo da Vara-
gine, fatto dal Malermi e stampato a Venezia nel 1475,
leggo che «Niccolò Jenson franzese, dapoi li instaurati
quasi infiniti divini et preclari volumi, li quali per l'anti-
quità erano stati deperditi et quasi extincti, el divino, del
quale fase mentione, volumo de le legende de' sancti
vulgarizzato, con mirabile ingegno et divina arte ha im-
presso et stampito». Direte che trattasi di uno stampato-
re ignorante? nol concedo; ma questo stile era comune,
e Cesare Ciseriano, nel commento a Vitruvio, stampato
219
Cicco Simonetta scrive nel suo taccuino: 1476 die lunæ XXI octobris, ivi
ex Mediolano ad S. Mariam de Gratiis de Modœtia, ibi audivi duas missas
ab fratribus loci, et ibi vovi non comedere in die veneris de pinguedine sive
de grasso. E tale è l'andare di tutto il latino d'allora.

264
il 1521, ha: «Infine alla sua etate (di Francesco Sforza)
nulla symmetria di opera de ornamenti che Vitruvio ha
descripto non era stata quasi mai dal tempo de' Romani
usque ad id tempus usata in Milano. Ma imperante Ga-
leatio et successive Johanne Galeatio suo filio, et dapoi
Lodovico, con più somma opera che poteno curaro ha-
vere architecti, che con queste vitruviane symmetrie fa-
cessero fabricare et ornare li mediolanensi edificj».
Ed erano già vissuti Dante e Boccaccio non solo, ma
il Pulci e il Poliziano. Con buona licenza del Puoti e de'
suoi concittadini, io metto fra questi mal latineggianti
anche il Sannazzaro; e senza citare il non t'irascere, il
cominciava a tangere, il munger gli uberi, e gli opachi
suberi, e l'inducere e producere; non mancano che le de-
sinenze per far latina molta parte delle sue prose. Per
esempio: «Napoli è nella più fruttifera e dilettevole par-
te d'Italia, al lito del mare posta, famosa e nobilissima
città di armi e di lettere, felice forse quanto alcun'altra:
sovra le vetuste ceneri della sirena Partenope edificata,
prese et ancora ritiene il venerando nome della sepolta
giovane».
Il buon italiano era però conservato da quei che scri-
veano naturalmente e come parlavano: poi a quello tor-
narono gli scrittori del Cinquecento, nuova fioritura del-
la nostra favella. Pure la cognizione e la pratica del lati-
no era tanto comune, che s'insinuava in tutti gli scritti; le
lettere, persin le famigliari, portano l'intestazione e la
chiusa latina, qualche periodo esce in latino, qualche
frase latina vi s'incastra, come oggi facciamo col france-
265
se.
Al 14 febbrajo 1525 il cardinale Rorario scriveva al
Sadoleto, due prelati tanto colti:
«Sua Santità extima non esser decente a un pontefice
prender le arme fra christiani, et se li suoi predecessori
lo havevano facto, già se vedea de quanti mali erano sta-
ti causa: onde havendo sua santità deliberato gerere se
tamquam patrem omnibus communem et servare la neu-
tralità, el re di Franza.....inviò un exercito per lo Stato
della Chiesa ad temptandum regnum neapolitanum:
donde S. S. fu costretta aut sumere arma, quibus nec po-
terat nec volebat uti, aut dare fidem regi neutralitatis
ecc.».
Il famoso cardinale Aleandro, stando legato in Ger-
mania nel 1522, scrive: «Accedit ad id il fastidio
dell'animo per le tante paure, che costoro mi dipingono
contra omnes ecclesiasticos: et voleano mutarsi habito
et nome; del nome si è fatto, saltem del cognome. Del
resto vado modestamente ut sacerdos, non facendo però
le grida quia agitur de alia re quam de lana caprina: nè
mi piace miglior consiglio quam confiteri Christum qui
et me confitebitur coram Patre».
Su questo tenore leggo moltissime lettere di quel tem-
po, e alla ventura prendo una dell'elegante scrittore car-
dinale Campegio, che al 22 agosto 1524 scriveva all'or
lodato Sadoleto: «In Augusta el predicatore che era in S.
Mauritio, già corrotto di questa heresia, rediit: et perse-
veranter, non obstante queste turbolentie, predica pro fi-
de. Intendo la canonizatione di san Brunone essere stata
266
publicata magno populi concursu et devotione».
Ed egli stesso il 25 giugno 1530 al Salviati: «Nunc in-
tendo quam in hoc cedent. S'è etiam proposto di voler
eodem tempore cum articulo fidei miscere li gravamini
della natione cum sede apostolica, de' laici contra eccle-
siasticos et e contra, ed è stato risoluto che no: ita che la
prima sarà la cosa della fede. Io conosco, etiam per
quello che vidi a Bologna, che tutte queste cose son
troppo peso sopra le mie spalle... Ingenia parva materias
grandes non sufferunt, sed in ipso conatu postea suc-
cumbunt. Pur mi forzerò di non mancare del debito et
omnia consulte agere. S'è ragionato di fare electione di
alcuni per restringere le negociationi. Li nominati sono
cardinalis Salzburgensis, episcopus Augustæ, de quo
nunc aliquid sinistri audio, al qual pur gli ho dato il suo
breve ed exhortatolo fingens me longius ire...».
Che più? trovo ora appunto alcune nuove lettere di
uno scrittore dei più leggiadramente italiani, Lodovico
Ariosto; e sempre cominciano col Magnifici et potentes
domini mihi observandissimi: per entro gli cascano in-
tervenientibus utrinque commissariis, e converso, inve-
teratus malorum, versa vice, et, quæ bene valeant, feli-
citer valeant, data paritate, Baldaxare, suspecto, ipso,
damno, dicto, excellentia, advenire, subditi, prompto; e
chiude, ex Castelnovo Carfagnanæ, XII aprilis: obser-
vantissimus S. A. comes et ducalis commissarius gene-
ralis220. Qual meraviglia se alcuno persuadeva all'Ario-
220
Archivio storico italiano, n° 29 del 1862. Anche adesso, ma più pochi
anni fa, i Piemontesi mescolavano moltissime parole prettamente francesi

267
sto di scrivere in latino quel poema, che più di qualsiasi
non toscano accolse e crebbe le ricchezze del parlar na-
zionale?
Giorgio Trissino, nella dedica della Sofonisba, prega
Leon X a non «attribuirle a vizio l'essere scritta in lin-
gua italiana». Anche il Bibbiena, nel prologo alla Ca-
landria, dice che «non è latina, perocchè dovendosi re-
citare ad infiniti, che tutti dotti non sono, lo autore ha
voluto farla volgare alfine che, da ognuno intesa, pari-
menti a ciascuno diletti».
Già pensavasi sottoporre a leggi convenzionali il fatto
spontaneo della parola; ma i primi studj precettivi intor-
no alla lingua italiana la modellavano sulla latina; nelle
grammatiche figuravano ancora verbi deponenti, casi,
ordini de' verbi secondo il reggimento, e così via. Il Vo-
cabolario della Crusca, il primo di lingue moderne, fu
ideato sui latini, perciò registrando solo le parole che si
trovassero in autori e appoggiandole ad esempj, appunto
come si farebbe d'una lingua morta; e perciò non sempre
bastando alle infinite gradazioni ed evoluzioni del senti-
mento e della dottrina.
Molte scienze, oltre la teologica, si insegnavano an-
cora in latino; in latino si trattavano spesso le cause,
sempre gli affari ecclesiastici. I tanti stranieri, che dalla
devozione, dall'estetica curiosità, dalle scuole, dalla vo-
luttà, dall'ambizione erano chiamati in Italia, si faceano
al loro idioma; e aveano sempre in bocca cependant, jamais, ce matin, dé-
sormais, en attendant, vite, c'est à dire, à mon tour, au pis aller, voilà, c'est
ça, ecc. L'aristocrazia non avrebbe mai detto altrimenti.

268
intendere, non che dai preti e dai notari, ma fin dagli
ostieri col latino; di qual natura latino è facile compren-
derlo. I governi, la religione, la scienza continuavano
anche fra gli stranieri ad usar quell'idioma, siccome più
estesamente conosciuto, e già addestrato alle trattazioni;
sicchè doveano averlo comune i nostri che in tanta
quantità andavano fuori, in virtù della supremazia che la
Corte di Roma mantenne all'Italia. E i grandissimi sforzi
fattisi dal clero e dai letterati per conservare, non che il
primato, ma quasi l'unicità del latino nelle scritture,
mentre era non solo comune nel popolo, ma bellissimo
nelle composizioni l'italiano, mi adombra e spiega l'ope-
ra degli aristocratici romani nel far prevalere la lingua
letterata a quella ch'era popolare, e che, mantenutasi ne'
vulghi, ricomparve allorchè la favella colta degradò al
mancare degli artificiali sostegni.
Solo al tempo della Riforma, come al resto, così si fe-
ce guerra al latino; i Riformati tradussero la Bibbia nelle
loro parlate, volendo surrogare l'idea di nazionalità alla
grande unità cattolica del medioevo; nelle lingue vulgari
dibatterono le controversie religiose, poi anche le politi-
che e le scientifiche; e le adoperarono alle preci e ai sa-
cramenti, sicchè il latino fu relegato nei santuarj cattoli-
ci. Molti nel Cinquecento l'adoprarono alla storia, alla
poesia; ma non l'aveano raccolto dalle bocche coi sole-
cismi e i neologismi d'una lingua parlata, bensì eransi ri-
fatti ai classici, e il vanto loro consisteva nello esprime-
re interessi, fatti, sentimenti nuovi, senza dipartirsi dalle
frasi di Virgilio, d'Orazio, di Livio, di Cicerone; e tanto
269
vi s'industriarono, che la prosa, e più la poesia latina po-
tè avere un'altra età dell'oro. Almeno v'è chi tale la giu-
dica, quantunque io sia ben lontano dall'accettare quel
giudizio; e tal lingua restava separata affatto dal popolo,
e non appoggiata che alle reminiscenze. Il Bembo scri-
veva l'italiano coll'arte e colla fatica stessa del latino.
Dov'è a notare che sull'italiano operarono poco o pun-
to due fatti, di somma efficacia sopra le altre lingue, la
stampa e la riforma.
Nel 600 s'applicarono maggiori studj all'italiano, ben
determinandone la natura, affinandone l'arte, scostando-
si, è vero, dal naturale per renderlo artefatto e con im-
magini e metafore secondo il gusto del secolo; pure sce-
verandolo non solo da ogni influsso esotico, ma anche
dal latino. È comune in que' precettori la raccomanda-
zione di usare, fra due sinonimi, quello che più si scosta
dal latino. Il Buonmattei, Celso Cittadini, il Cinonio, lo
Sforza Pallavicino (che definiva nascer l'eleganza da
piccioli lumi, come da piccole stelle la via lattea), il
Bartoli, il Corticelli, Udeno Nisieli diedero buoni avver-
timenti; ma non credo giovassero gran fatto al bene scri-
vere, che in verità allora si scombussolò nelle smancerie
secentistiche, dilatatesi dappertutto, eccetto che fra que'
Toscani che osavano scrivere come parlavano.
Nel secolo seguente prevalsero i Lombardi, deridendo
il toscano, e contaminati d'una fanghiglia di francesume,
la cui inondazione parve ricchezza al Cesarotti, che la
eresse anzi in teorica, volendo l'italiano si rifiorisse con-
tinuamente con vocaboli e modi forastieri. Nel secolo
270
nostro si tornò alla correzione; ma, ripigliando la primi-
tiva funesta scissura, alcuni adottarono una lingua che
intitolano illustre, accademica, cortigiana, letteraria 221;
altri, con opere più che con dispute, assicurarono bel po-
sto alla schietta e limpida, che si arricchisce colla favel-
la popolare e coi modi che provengono da passione. Pur
sempre restiamo alla miseria di non avere peranco ac-
certato qual delle due maniere sia la migliore, e da talu-
ni son decantati come sommi maestri quelli che per altri
non son che retori e pedanti; e stiamo incerti se ammira-
re il Bembo o il Caro, il Redi o il Bartoli, il Bresciani o
il Manzoni.
A levar questo ingrato dissenso, a toglierci da questo
bivio della lingua illustre o plebea, gioverà il porre in
sodo e le origini e la costituzionale natura del parlar no-
stro. Perocchè, se vi ha sguajati che stampano libri pro-
fessando di non conoscere la lingua, i savj sentono come
vadano inseparabili il pensar bene e lo scriver bene; e
come il senso comune giudichi ingegnose e incivilite le
persone e le nazioni che meglio parlano e scrivono. Si
procuri dunque una lingua nervosa, abbondante, chiara,
facile, aggiustata, animata, uguale, non vaga, inesatta,
esitante: una lingua che possa portare la divisa di Bajar-
do, Sans peur et sans reproche; con essa si espongano
non baje ma cose, non frivolezze corruttrici ma scienza
educatrice; sicchè infine si vada a imparar il bene scri-
221
Il Cesari e il Puoti cercarono nella lingua l'eleganza ma non ne spiegaro-
no la natura. ‒ Fr. H. Jacobi diceva che ogni filosofia, in ultima analisi, non
è che lo studio sempre più profondo dell'invenzione del linguaggio.

271
vere dagli autori che insegnano il ben pensare; si adopri
la lingua di tutti, ma per dir cose che non tutti sanno di-
re; e coll'eletta concisione di stile, colla precisione di
senso e la delicatezza e la grazia, riducansi alla più sem-
plice espressione gli svolgimenti d'un'idea originale.
Così venga, per l'accordo comune, a formarsi anche
nella prosa una lingua scritta che si conformi alla parla-
ta; lingua dotta e popolare, semplice e colta, istruttiva
senza pedanterie, dilettevole senza trivialità, forbita dai
dotti, compresa anche dagli indotti, aggradita dalla inte-
ra nazione. Del quale studio viepiù sentesi il dovere or
che tutto vien mandato alla peggio da questo sproloquio
di sofisti, micidiali non meno alla repubblica letteraria
che alla civile. La divina pietà ne salvi una volta questa,
per loro colpa, abjettita nazione!

272
APPENDICE II.
DELL'ANNO E DE' CALENDARJ

(Vol. I, pag. 81)222.

I Romani non contavano i giorni del mese progressi-


vamente come noi, ma v'avevano tre punti distinti: le
Calende, primo giorno di ciascun mese; le None, al
quinto nei mesi di gennajo, febbrajo, aprile, giugno,
agosto, settembre, novembre, dicembre, e al settimo ne-
gli altri; gli Idi, al tredicesimo dei prenominati mesi, al
quintodecimo degli altri. I giorni intermedj si denomina-
vano dalla distanza loro da questi punti: metodo certa-
mente incomodo.
Chi voglia tradurre i giorni del mese romano nei no-
stri, deve alla cifra reale di ciascun mese aggiungere 2,
poi da questo numero sottrarre la differenza tra la data
che si vuol convertire, ed essa cifra aumentata. ‒ Chie-
dasi a che giorno corrisponde il septimo kalendas maii:
aprile ha 30 giorni; se n'aggiungano 2, e si avrà 32; si
sottragga il 7, e resterà 25 d'aprile, giorno corrisponden-
te al domandato. Se chiedasi come si chiami in latino il
25 aprile, si sottragga questo da 32, e resterà 7 avanti le
calende di maggio. ‒ Pel sexto kalendas martii: ai 28
giorni di febbrajo s'aggiungano 2, e dai 30 che risultano
222
Tomo I cap. III par. “Versati nell'astronomia, gli Etruschi…” di questa
edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

273
si levi 6, e resterà 24. Se l'anno fosse bisestile, si avreb-
be pel bis sexto il 25.
Dalle calende trasse nome il Calendario, tavola su cui
i pontefici notavano le feste. Il sovrantendere ai calen-
darj fu sempre spettanza de' sacerdoti, in grazia delle fe-
ste da celebrarsi a tempi prefissi. Non servivano che per
ciascun anno, e vi s'indicavano i giorni fasti e nefasti,
ne' quali cioè era lecito o no rendere giustizia; i comitia-
les e atri di sinistro augurio; le nundinæ o mercati; e ne-
gli ultimi tempi, quelli in cui fare omaggio ai membri
della famiglia imperiale.
Alcuni calendarj, più o meno compiti, furono trovati,
scolpiti su pietra o su metallo. Tale è il Calendarium
Prænestinum scoperto nel 1770, compilato da Verrio
Flacco, ma che si estende solo ai quattro primi mesi e al
dicembre. Il Foggini ne riunì i frantumi, e da diversi al-
tri calendarj cercò formarne uno dell'intero anno nelle
Fastorum anni romani a Verrio Flacco ordinatorum re-
liquiæ. Roma 1779. Vedansi pure WAASSEN, Animadver-
siones ad Fastos romanos sacros. Utrecht 1795; IDELER,
Handbuch der matematischen und technischen Crono-
logie. Berlino 1826.
Gli altri calendarj sono il marmo rotto de' Maffei con-
servato a Roma, che contiene tutti i dodici mesi; quello
de' Capranica per agosto e settembre; quel di Amiterno,
frammenti dei mesi da marzo a dicembre; l'Anziatino,
frammenti de' sei ultimi mesi; l'Esquilino, frammenti di
maggio e giugno; il Farnesiano con parte di febbrajo e
marzo; il Pinciano, frammenti di luglio, agosto, settem-
274
bre; il Venosino, con maggio e giugno compiti; il Vatica-
no, con pochi giorni di marzo e aprile; l'Allifano, con
pochi di luglio e agosto. Ultimamente si scopersero a
Cuma alcune parti di uno dell'età di Augusto.
Particolare è il calendario rustico Farnese, sculto so-
pra le quattro faccie d'un cubo, ciascuna delle quali divi-
sa in tre colonne d'un mese ognuna. In capo v'ha il se-
gno dello zodiaco; seguono il nome del mese, il numero
de' giorni, la posizione delle none, la durata del giorno,
il nome del dio a cui è sacro, e le operazioni agricole.
Per maggio e giugno dice:
♊ ♋
MENSIS MENSIS
MAIVS IVNIVS
DIES XXXI DIES XXX
NON. SEPTIM. NON. QVINT.
DIES HOR. XXIIII S. DIES HOR. XV
NOX HOR. VIIII S. NOX HOR. VIIII.
SOL. TAVRO. SOLIS INSTITIVM
TVTELA APOLLIN. VIII KAL. IVL.
SEGET RVNCANT. SOL GEMINIS.
OVES TONDENT. TVTELA
LANA LAVATVR. MERCURI.
IVVENCI DOMANT. FŒNISICIVM.
VICEA PABVL. VINEÆ
SECATUR. OCCANTVR.
SEGETES SACRVM
LVSTRANTVR. HERCVLI.
SACRVM MERCVR. SACRVM

275
ET FLORÆ. FORTIS. FORTVNÆ.
Altri calendarj s'aveano, somiglianti ai nostri ciarlata-
neschi e profetici. Uno ne fece nel VI secolo Lido, vene-
rabile magistrato, pei signori e dotti di Costantinopoli,
edito poco fa da Hase. Insegna esso che, se tuona quan-
do il sole sta per entrare nel Capricorno, vi saranno den-
se nebbie, le quali, se durino fino al levar della canicola,
porteranno malattie, estrema penuria, massime in Mace-
donia, Tracia, Illiria, nell'India alta, nella Gedrosia, pae-
si sottoposti all'influenza del capricorno. Se la luna
eclissa ne' gemelli, le cose politiche saranno turbate, e
muteranno di mano. Un tremuoto fra una neomenia e il
quinto giorno del mese lunare annunzia la morte di mol-
ti; se è fra il nono e il diciannovesimo, un disastro pel
capo del governo; se fra il ventesimoquinto e il trentesi-
mo, tempeste, guerra, caduta d'un gran personaggio.
Il calendario Viennese, pubblicato dal Lambeccio, tie-
ne già la divisione della settimana cristiana, ed è di circa
la metà del IV secolo. L'uso di scolpire calendarj in pie-
tra durò fra' Cristiani; e nel demolire il castello di Coë-
dic in Bretagna se ne trovò uno, spiegato nelle Memorie
dell'Accademia delle iscrizioni dal Lancelot, che lo cre-
de del 468.
Se mai sforzo d'erudizione recondita fu fatto per so-
stenere un errore, è certo quello con cui il danese Nie-
buhr tolse a provare che il primitivo anno degli Italiani,
adottato alle origini da Roma, constava di trecentoquat-
tro giorni in dieci mesi. Quest'anno era lunare, e rimette-
vasi in accordo coll'anno solare mediante l'intercalazio-
276
ne trieterica in periodi di ventidue anni, adattandovi,
dieci volte per ciascuno, un mese supplementare, alter-
nativamente di ventidue e di ventitre giorni, e trascuran-
do l'ultimo triennio. Come cinque anni facevano un lu-
stro, cinque di tali periodi facevano un secolo di cento-
dieci anni. L'anno è istituito per comodo della vita e pel
periodico ritorno di certe feste; onde sempre fu messo in
accordo più o meno esatto con una rivoluzione della ter-
ra attorno al sole, e con un periodo delle fasi lunari.
Pertanto già gli antichi trovavano assurdo il supporre
un anno siffatto, senza correlazione nè col sole nè colla
luna. Plutarco dubitò se mai fosse adoperato, e Giuseppe
Scaligero lo tratta di favola, supponendolo fin da princi-
pio di dodici mesi. Il Niebuhr attribuisce questa repu-
gnanza all'abitudine; ed oltre le precise indicazioni di
Censorino e di Macrobio, troverebbe prove della sua ap-
plicazione in tempo più recente. Inoltre, atteso i rapporti
ciclici di quest'anno col lunare intercalato che dicemmo,
e col suo periodo secolare, si vede che da una parte po-
tea servire di correzione perpetua, dall'altra era preferi-
bile per l'uso scientifico.
La chiave di questo sistema gli è data da Censorino,
De die natali, XVIII, dicendo che il lustro era l'antico an-
no grande di Roma, e il ciclo in cui il cominciamento
dell'anno civile coincideva con quello dell'anno solare.
Cinque anni solari egizj, da 365 giorni, ne contengono
1825; sei anni di Roma da 304, fanno 1824: onde in cin-
que anni la cronologia romana perdeva un giorno a fron-
te dell'egizia civile, che non aveva anni bisestili, e che in
277
capo a 1461 anno tornava al suo punto di partenza colla
perdita di un anno, siccome chi fa il giro del globo perde
un giorno tra via. La cronologia romana, a confronto
coll'anno giuliano, perdeva circa un giorno e un quarto:
deviazione sì forte, che, se altre divisioni del tempo, nel
sistema medesimo dell'anno di dieci mesi, non avessero
somministrato un'intercalazione sistematica facile e di
evidente concordanza, bisognerebbe credere assoluta-
mente inverosimile l'uso ciclico di anno siffatto.
Queste divisioni di tempo sono il più grande e il più
piccolo fra i periodi etruschi, il secolo e la settimana di
otto giorni. Il secolo era pure la misura dell'anno lunare,
intercalato: la settimana si conservò presso i Romani,
talmente che ogni nono giorno era mercato (nundinæ).
Fra gli Etruschi questo nono dì era pure chiamato nonæ;
e in armonia con siffatta divisione di tempo, un tal nome
fu sempre appropriato al nono giorno avanti agli idi. Ma
le nundinæ di Roma non stavano in veruna relazione
coll'anno, ed erano semplicemente un giorno del mese;
mentre fra gli Etruschi formavano vere divisioni di setti-
mana, ogni nono dì essendo quel degli affari, e in cui i
re davano udienza e rendevano giustizia (MACROBIO, Sa-
turn., I. 13). L'anno di dieci mesi e di trecentoquattro
giorni si risolve appunto in trentotto ottave; onde conta
altrettante none, ed è precisamente il numero de' giorni
chiamati fasti nel calendario giuliano. Così questo nu-
mero si conservò dai Romani; ma essendo insufficiente
per gli affari del fôro, molti altri giorni furono aggiunti
con nomi diversi.
278
Cominciando le settimane sempre al medesimo gior-
no del mese, anche i mesi intercalari doveano essere di-
visibili per otto. Ora, se nel secolo del periodo ciclico,
composto di cendieci anni o ventidue lustri, s'intercalas-
se all'undecimo ed al vigesimosecondo lustro un mese di
tre ottave, cioè di ventiquattro giorni, ne risultava al fine
del periodo un'approssimazione alla verità e una corre-
zione del cielo lunare inaspettatissima; giacchè, secondo
il calcolo dello Scaligero, che non aspirava ad esattezza
maggiore di quella del calendario giuliano, i cinque pe-
riodi di secolo facevano 40,177 giorni, intanto che la
somma degli anni ciclici, giusta siffatta intercalazione,
ne dava 40,176. Mentre dunque la cronologia giuliana
suppone l'anno tropico di 365 giorni e 6 ore, l'antica lo
fa di 365 giorni 5h40'22", cioè solo 8'23" meno del vero,
non di 11h e 15' come il giuliano. Le 15h22'10" che man-
cavano al periodo etrusco di centodieci anni, e che in
capo a centosettantadue anni producevano un giorno di
perdita, dovettero essere supplite con ulteriori intercala-
zioni: ma le regole di calcolo non poteano spingersi fino
ai minuti secondi, ed è molto verosimile che gli Etruschi
abbiano determinato l'anno tropico a 365 giorni 5h40'.
Dalla scientifica esattezza di quest'anno, che era una
forma di cui erasi perduto il senso, consegue l'uso che se
ne poteva fare accanto dell'anno civile già costituito.
Nell'ultimo periodo, invece d'un mese intercalare di 25
giorni, bisognava armonizzare i due sistemi, intercalan-
done uno di 22. Purchè dal principio del secolo fino al
suo termine si contasse esattamente, la correzione suc-
279
cedeva; e per evitare la confusione minacciata dal co-
minciare così vario dell'anno dei Fasti, si adottò la prati-
ca di conficcare un chiodo nel tempio del Campidoglio.
A mezzo il VI secolo erasi dimenticato il senso di questa
solennità, tanto che eccitava solo il riso; e forse erasi ab-
bandonata da che il consolato passava senza interregno
ai successori eletti: perciò Cincio (ap. LIVIO, VII. 5) dicea
d'avere trovato i medesimi segni nel tempio di Norcia a
Vulsinia, aggiungendo che era l'indicazione degli anni
nel tempo che raro si scriveva. Scopo di questa cerimo-
nia era di segnare quanti lustri fossero trascorsi dopo co-
minciato il secolo. A tutto ciò Niebuhr confessa che
manca l'appoggio di testi antichi; ma è forza scegliere
fra due supposizioni: o i prischi Romani, ignoranti
quanto sciocchi, usavano un calendario non fondato su
veruna analogia colla natura nè colla scienza; o i Roma-
ni adottarono un calendario, frutto d'un popolo addottri-
nato. Ammettere con Macrobio, che quando i mesi non
si acconciavano più colle stagioni, i Romani lasciassero
trascorrere un certo tempo senza denominarlo, è un farli
più barbari degli Irochesi.
Gli archeologi supposero che il calendario di dieci
mesi fosse dapprima il solo usato, e presto venisse ab-
bandonato del tutto. Ma Niebuhr riflette che quel calen-
dario è in relazione coll'anno ciclico lunare, per modo
che dovette essere formato simultaneamente; e d'altro
lato è possibile che il più antico usato fra il popolo fosse
collegato ad osservazioni sulle fasi della luna; e un ca-
lendario adattato alle stagioni dovette sempre essere in-
280
dispensabile.
Che poi il calendario di dieci mesi rimanesse in uso
anche dopo la cacciata dei re, parrebbe da applicazioni,
di cui le generazioni successive non conobbero l'origine.
Gli Etruschi avevano adottato di non concludere trattati
di pace che sotto forma d'armistizio e per un tempo pre-
finito. Quasi tutti i trattati conchiusi dai Romani con Ve-
jo, Tarquinia, Cere, Capena, Vulsinia sono qualificati
per tregue, esprimendo per quanti anni durerebbero; ma
agli Etruschi non si rinfaccia mai di averle violate, ben-
chè le ostilità comincino quasi sempre prima che gli an-
ni dell'armistizio sieno compiti. Per dirne uno, il trattato
con Vejo nel 280 si stipula che durerà quarant'anni: ora
nel 316 si parla della defezione di Fidene che si unisce a
Vejo, il che suppone che questa repubblica fosse già in
guerra con Roma; e i Romani, per quanto irritati della
diserzione di Fidene, non accusano i Vejenti d'aver falli-
to il patto. Più decisivo è l'udire da Tito Livio, sotto il
347, che la tregua di vent'anni conchiusa nel 329 era
spirata; mentre, secondo i Fasti, non sarebbero trascorsi
che diciotto anni. Questi fatti non si possono spiegare se
non applicando l'anno di dieci mesi, quaranta dei quali
equivalgono a 33 1/3, e venti a 16 2/3; per modo che nel
primo esempio la tregua era spirata col 314, nel secondo
col 346.
Tali sono le ragioni del Niebuhr, raccolte con quella
sottigliezza che eccita la meraviglia, ma non soddisfa la
ragione. Siffatta cronologia, che a lui pare semplice e re-
golare, cadde in disordine, atteso l'ignoranza delle mate-
281
matiche e dell'astronomia, di cui gli Etruschi avevano
bensì comunicato ai Romani i risultamenti, ma non la
scienza: e fu aumentato dalla mala fede de' pontefici,
che acquistato il diritto di fare intercalazioni ad arbitrio,
favorivano o sfavorivano i consoli o i questori, prolun-
gando o accorciando l'anno della loro magistratura.
Dell'anno di dieci mesi trovasi però vestigio nel lutto
prescritto alle vedove, nel tempo da pagare le doti e i le-
gati, nel credito per vendita di frutti, e forse negli inte-
ressi del denaro.
Riguardo agli altri popoli italiani, i Latini e gli Ernici
usavano calcoli del tempo loro proprj; e Censorino, il
quale c'informa della cronologia de' diversi popoli, av-
verte che ne' calendarj di Alba, Lavinio, Tusculo, Ericia,
Ferentino i mesi variavano dai 39 fino ai 16 giorni.
Dell'anno de' popoli Ausonj sappiamo soltanto che era
differente dal civile di Roma, la quale perciò con essi,
co' Volsci e cogli Equi calcolava la durata delle tregue
secondo gli anni ciclici.
Del resto fa meraviglia come i Romani, che tanto si
occuparono del calendario, rimanessero sempre in som-
ma incertezza di date e di epoche: colpa appunto del
mescolarvisi tanto la politica, e valersene patrizj e sacer-
doti per governare il popolo. Genti antichissime e fin
barbare possedettero esattissimi calendarj; i Romani
l'ebbero vacillante sino alla riforma di Giulio Cesare.
Quanto all'êra, la deducevano dalla fondazione della
loro città, nel 753 o 754 a. C.: ma ne erano talmente in-
certi, che presero lo spediente di notare ciascun anno dal
282
nome de' consoli. Divennero perciò importantissimi ai
cronologi i Fasti consolari, vale a dire la serie de' con-
soli. Erano scolpiti in Campidoglio, e una parte ne fu
dissepolta il 1547, e dal cardinale Alessandro Farnese
donata al senato romano, che la fece riporre in una sala,
da Michelangelo disposta in Campidoglio. Ma non era-
no compiuti; ed altri furono scoperti il 1503 a' piedi del-
le Esquilie, altri nel 1816 presso al tempio di Castore,
altri nel 1876.
Questi Marmi Capitolini contengono non solo i con-
soli annuali, cominciando dal 295 di Roma, ma le liste
degli altri magistrati e de' pontefici, e alcuni avvenimen-
ti. Eccone un esempio:

AN. VRB. COND. CCXX. L. TARQVINIVS L. F. DAMARATI N.


SVPERBVS REX POPVLI INIVSSV ET SINE PATRVM AVCTORITATE ISQVE
VRBEM CAPITOLINO TEMPLO AVGVSTIOREM REDDIDIT FERIAS
LATINAS INSTITVIT LIBROS SIBILLINOS REIPVBLICÆ COMPARATOS II
VIRIS INSPICIENDOS SERVANDOSQVE DEDIT.

Onofrio Panvinio li credette opera di Verrio Flacco, il


quale, secondo Svetonio, fastos a se ordinatos et mar-
moreo parieti incisos publicarat. Mutilati com'erano,
venivano scarsi all'uopo, onde molti si diedero a supplir-
li, ossia a compilare nuovi fasti, e l'edizione più recente
è: Fasti consulares triumphalesque Romanorum, ad fi-
dem optimorum auctorum recensuit et indicem adjecit J.
G. BAITER, Zurigo 1837.
L'arbitrio lasciato ai sacerdoti di mettere in accordo il

283
corso del sole e le lunazioni, e la mala pratica nel fare le
intercalazioni, aveano prodotto nel calendario romano
grave disordine, al quale volle riparare Cesare, 46 anni
prima di Cristo. Sosigene, principale autore di tale rifor-
ma, fissò l'equinozio di primavera al 25 marzo: ma la
differenza di 11 minuti e 12 secondi fra l'anno suo e il
vero, ogni centoventinove anni facea precedere d'un
giorno esso equinozio, sicchè al tempo del concilio di
Nicea, cioè nel 325 dell'êra vulgare, cadeva al 23 marzo.
Già agli antichi Ebrei, che rozzamente regolavano
l'anno secondo le lune, era stato cagione di darvi miglior
ordine la celebrazione delle feste: imperocchè a Pasqua
doveano essi mangiare l'agnello, e offrire le primizie
dell'orzo; a Pentecoste, due pani fatti col frumento nuo-
vo; le solennità de' Tabernacoli doveano succedere dopo
finita la vendemmia e raccolti gli ulivi: era dunque ne-
cessaria l'intercalazione acciocchè tornassero tali feste
in tempi da poter consumare quei riti. Per egual modo il
doversi celebrare la Pasqua nel plenilunio che succede
all'equinozio di primavera, fece che i Cristiani ponesse-
ro mente all'accennata variazione, della quale i Padri, ra-
dunati nel concilio Niceno, non seppero trovare la ragio-
ne.
Nel 1257 la precessione era di 11 giorni: tre anni do-
po, l'inglese Giovanni di Sacrobosco avvertiva la neces-
sità d'una nuova riforma; alcuni la tentarono nel secolo
XIV; se ne trattò pure in varj concilj, alfine la ordinò quel
di Trento. Gregorio XIII occupò dieci anni a discutere le
diverse formole a ciò presentategli, singolarmente dal
284
perugino Ignazio Danti domenicano, autore del gnomo-
ne di San Petronio a Bologna, e dal gesuita Clavio di
Bamberga. Intanto Luigi Lilio, medico calabrese di nes-
sun nome, ideava il metodo più spediente a correggere
l'errore; ma morto prima di darvi compimento, suo fra-
tello Antonio terminò il lavoro e l'offerse al pontefice,
che nel 1577 ne mandò copia a tutti i principi, alle re-
pubbliche e alle accademie cattoliche. Avutone l'appro-
vazione, Gregorio pubblicò il nuovo calendario l'anno
1582, sopprimendo dieci giorni fra il 5 ed il 15 di otto-
bre. In esso è fissato l'anno a 365 giorni 5h49'; e che,
ogni quattro anni, uno sia bisestile, eccetto il quarto se-
colare, come fu il 1800. Questa correzione s'approssima
tanto al vero, che solo dopo 4238 anni i minuti residui
sommeranno ad un intero giorno, di cui sarà preceduto
l'equinozio. Chi allora vivrà, ci provveda.
Per rispetto all'abitudine, il calendario gregoriano la-
sciò sussistere la divisione del giuliano in mesi capric-
ciosamente lunghi di 30 o di 31 giorno; e il cominciare
l'anno circa otto giorni dopo il solstizio, in modo che il
principio dei mesi non corrisponde coll'entrare del sole
nei varj segni dello zodiaco. E semplicità e naturalezza e
venustà si sarebbe potuto ottenere cominciando l'anno
col giorno solstiziale, e facendo i mesi alternamente di
30 e di 31 giorno, eccetto l'ultimo di 29, e di 30 nei bise-
stili; o meglio ancora, facendo di 31 giorno i mesi tra
l'equinozio primaverile e l'autunnale, di 30 gli altri, e
scemo il dicembre; col che i principj dei mesi avrebbero
combinato quasi appunto coll'ingresso del sole ne' segni
285
dello zodiaco.

286
APPENDICE III.
INCERTEZZA DELLA STORIA
PRIMITIVA DI ROMA E FONTI DI
ESSA

(Vol. I, pag. 157)223.

Tardissimo si scrisse delle origini di Roma, e primi lo


fecero Greci, i quali, stipendiati come precettori nelle
case patrizie, inventavano o alteravano i fatti per dare
lustro all'una o all'altra di queste, senza badare più che
tanto alla verità, e spesso indulgendo al patriotismo col
dare risalto alla civiltà greca. I due più celebri furono
Dionigi d'Alicarnasso e Polibio: ma essi mostrano non
riporre veruna fiducia negli autori che li precedettero
nell'illustrare le antichità romane. Dionigi d'Alicarnasso,
vivo all'età d'Augusto, abbracciò i tempi dall'origine di
Roma fino all'anno in cui cominciò Polibio la sua storia.
I primi undici libri giungono al 433 avanti Cristo: il re-
sto è perduto, salvo alquanti frammenti, alcuni de' quali
pubblicati non ha molto dal Maj. Per quanto siasi detto a
suo appoggio, è facile comprendere che sì egli, sì Tito
Livio, non fanno che accumulare favole, mal palliate
dalla retorica di quello e dalla grandiloquenza di questo.
223
Tomo I cap. VI par. “A tali nomi e storie…” di questa edizione. [Nota
per l’edizione elettronica Liber Liber]

287
Livio confessa tratto tratto di non sapere il certo; riferi-
sce sovente con forme dubitative: dopo le quali è strano
come egli scenda a particolarità, dicevoli solo a chi
avesse direttamente udito o visto. Mancando poi del
sentimento dell'antichità e della pieghevolezza di spirito
che s'adatta ai varj tempi e ai varj popoli, non ci presen-
ta che ideali di vizj e di virtù.
Plutarco, greco e vissuto ancor più tardi, nelle vite di
Romolo, Numa, Coriolano, Catone, Publicola, Camillo,
mostra aver conosciuto documenti ignoti a Livio e a
Dionigi, onde qualche importanza acquista nel darcene
informazione. Ma oltre le vite, egli stese Paralleli della
storia greca e romana, ove riferisce molte tradizioni
greche, corrispondenti alle romane. Filonome, figlia di
Nictimo, concepì dal dio Marte due gemelli, che furono
gittati nel fiume Erimanto: l'acqua li trasportò nel cavo
d'una pianta, ove una lupa gli allattò: poi tolti ad alleva-
re da un pastore, divennero re d'Arcadia. ‒ I Tegeati e i
Feneati in guerra fra loro, convengono di terminarla ri-
mettendosi al duello di tre gemelli contro tre altri, figli
di Demostrato e di Ressimaco. Critolao, ch'era il secon-
do di questi ultimi, vedendo i fratelli caduti, finge fuggi-
re, poi si rivolge a combattere i tre avversarj che a spa-
zio disuguale lo inseguivano, e ne trionfa. Tornato, ucci-
de una sorella; e accusato dalla madre, è assolto dal po-
polo. ‒ Brenno re dei Galli assedia Efeso, e Demonica
gli promette tradirgli una porta, patto che le dia in ri-
compensa tutte le ricchezze del tempio. Avutala, il Gallo
fa gettare su costei tante preziosità, che la soffoca.
288
Sì evidente rispondenza coi fatti di Romolo, degli
Orazj, di Tarpea potrebbe essere accidentale? Attento
poi sempre com'era al concetto morale e all'arte, Plutar-
co svisava anche i fatti o non li chiariva; onde un mo-
derno, il quale all'arguzia sentitissima univa una profon-
da cognizione degli antichi, disse che Plutarco «farebbe
guadagnare a Pompeo la battaglia di Fàrsalo se ciò po-
tesse rendere alquanto più rotonda la sua frase»
(COURIER, Lettera a Thomassin, 25 agosto 1809).
Ogni anno, presso i Romani, il magistrato supremo
conficcava un chiodo in un tempio, chi dice per segnare
gli anni, chi per un fine religioso. In occorrenza di peste
si eleggeva un dittatore apposta per piantarlo; dictator
clavi figendi causa. Quest'uso darebbe a pensare che
non sapeasi o non soleasi scrivere, e quindi era impossi-
bile che ci venisse tramandata la storia dei primi tempi
colle particolarità che alcuni storici spacciano. I quali
medesimi, dopo averci regalato come indubitabili alcuni
minutissimi ragguagli, mostrano poi peritanza e oscurità
in avvenimenti di capitale rilievo. Lo stesso Livio, del
quale il Niebuhr disse che non conosce il dubbio, mostra
più volte esitare sui cominciamenti della romana storia;
ignora gli anni di avvenimenti insigni, quali, per esem-
pio, la battaglia al lago Regillo e la creazione del primo
dittatore, e chi fosse; ripete ogni tratto che non facile est
aut rem rei, aut auctorem auctori præferre (VIII. 40); che
certam derogat vetustas fidem (VII. 6); che basta in rebus
tam antiquis, si quæ similia veri sint, pro veris acci-
piantur (v. 21); e conta come favole parecchi di quei fat-
289
ti, e come aptiora scenæ, gaudentis miraculis, e che non
val la pena di affermarle nè confutarle (v. 21). Cicerone
ride delle storielle de' primi tempi, dove «appena i nomi
dei re sono conosciuti» (De Rep., II. 18): il resto di quel-
la storia est nostris hominibus adhuc aut ignorata, aut
relicta (De Leg., I. 2).
Eppure si sa che Porcio Catone pel primo, poi Cintio
Alimento, Valerio d'Anzio, Licinio Macro, Elio, Gellio,
Calpurnio ed altri aveano scritto sulle origini romane;
ma tutti lontani sei secoli da queste, come anche Fabio
Pittore, da Livio chiamato longe antiquissimus, e da Po-
libio dichiarato leggero e poco cauto. Qual fondamento
dunque fare sopra esso Polibio e sopra Dionigi, che del-
la costoro autorità si appoggiarono? E quando, come
spessissimo accade, l'uno contraddice all'altro e a Tito
Livio, a quale dare fede? Poi qualche grammatico ci
conservò brandelli e testi sconnessi d'autori perduti, che
vengono ancora a insinuare nuovi dubbj e differenze
nuove, in modo che si potrebbe dire disperata la cono-
scenza della storia primitiva di Roma.
Oltre gli scrittori, questa cercasi dedurre, 1° dai gran-
di annali, Annales maximi o publici, Annales pontificum;
2° dagli atti pubblici; 3° dagli atti de' magistrati, che for-
se sono tutt'uno coi Libri lintei, contenenti l'elenco de'
magistrati superiori; 4° dalle cronache delle famiglie
censorie e dagli elogi funebri, Laudationes funebres, già
da Cicerone indicati come fonte di menzogne. V'è chi
crede che i re abbiano lasciato delle memorie, Commen-
tarii regum, tra legali e storiche, concernenti la loro am-
290
ministrazione.
La presa di Roma per opera de' Galli mandò a male
tutto quello ch'era anteriore; gli annali de' pontefici vi
perirono in gran parte; il resto custodivasi arcano; il se-
nato non cominciò a registrare i suoi atti che sotto Giu-
lio Cesare. Ma sebbene si perdessero in quell'incendio i
documenti primitivi, quai ch'essi fossero, sopravvissero
nelle memorie alcuni canti nazionali (non già una rego-
lare epopea), dove un fondo di verità era stato, come
suole, abbellito dall'immaginazione, e che prima di Ca-
tone solevansi cantare nei banchetti (Varrone ap. NONIO,
ad assa voce). Cicerone nelle Tusculane, IV. 2 dice: Mo-
rem apud majores hunc epularum fuisse, ut deinceps qui
accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum lau-
des atque virtutes.
Aggiungi alcune feste nazionali, come sarebbero le
Palilie, che si celebravano all'anniversario della fonda-
zione di Roma il 21 aprile. Dionigi dubita se fossero an-
teriori a questa, al che propenderebbe anche Plutarco, e
siasi scelto quel giorno come fausto, per inaugurare la
nuova città; o veramente se sieno nate colla città stessa,
alla cui inaugurazione si credette bene invocare anche le
divinità pastorali. Altre feste ancora rammentavano fatti
della Roma antica: ma potrebbe darsi o che vi fossero
applicate le leggende tradizionali, o che queste ne alte-
rassero il senso primitivo.
I pontefici solevano riferire s'una tavola gli avveni-
menti più importanti di ciascun anno, i nomi de' magi-
strati, i trionfi, gli eclissi, il caro de' viveri, i prodigi, le
291
calamità pubbliche; e cominciando dal 350 di Roma, of-
frivano, se non altro, una serie cronologica. Pare non
siano periti affatto nell'incendio suddetto, poichè li tro-
viamo citati a proposito di fatti anteriori; ma ristretti in
iscrizioni, ognuno vede come poco potessero servire a
quella che è storia d'uomini.
Anche documenti pubblici scolpiti su tavole sopra-
vanzarono, in caratteri e in lingua antiquata: che se Li-
vio od altri non vi posero mente, le consultò Polibio a
gran vantaggio. Nello splendore di Roma repubblicana,
l'uomo, assorto nella vita attiva, non curavasi di rovista-
re negli archivj, dissotterrare lapide, dicifrare tavole; e
la storia d'allora sente la pienezza della pubblica vita più
che l'indagine dell'erudito, l'entusiasmo più che la pon-
derazione scientifica. Mutati i tempi, gli imperatori ani-
marono le ricerche: Vespasiano fece trarre in luce tremi-
la tavole di rame, che diceansi campate dall'incendio de'
Galli, e che contenevano trattati, senatoconsulti, plebi-
sciti, privilegi, risalenti fin quasi all'origine di Roma
(SVETONIO, in Vespasiano, cap. VIII). A queste avranno po-
tuto ricorrere Tacito e Plinio, e trovarvi, per esempio, il
trattato vergognoso de' Romani con Porsena, e tant'altri
fatti che avrebbero al certo mutato aspetto alla primitiva
romana storia, se essi o qualche par loro l'avessero scrit-
ta.
Questo basti a dar ragione delle numerose contraddi-
zioni fra gli uni e gli altri scrittori, fino a non saper certo
nè il fondatore della città, nè il tempo, nè quali i primi
abitatori, nè come nascessero i comizj per tribù, nè se
292
Porsena pigliasse la città, nè se i Galli la distruggessero.
Serva pure a tôrne lo scandalo a coloro che, nel vedere i
moderni riconvenire d'ignoranza o di mala intelligenza
gli antichi, adducono che questi, essendo più vicini ai
fatti, sono meglio attendibili. Assai tardi il dubbio si in-
sinuò, se pure non si dia per tale il ridersi del rasojo di
Nevio e delle oche del Campidoglio, baje già per gli an-
tichi. Il medioevo credea; e avvezzo a riposare sull'auto-
rità nelle materie sacre, anche nelle profane non sotti-
gliava; tanto più che l'erudizione difettava di mezzi,
quand'anche avesse posseduto la critica. Al risorgimento
delle lettere, la venerazione per tutto ciò che era antico
s'insinuò negli animi per modo, da influire non soltanto
sulla letteratura, ma sulla legislazione e sulla vita. Adun-
que la storia romana fu accettata siccome di fede, e trat-
tata con quella sommessione di spirito e di giudizio alla
lettera scritta, che dominava tutto l'insegnamento. Dubi-
tare di quel che aveano detto un Livio, un Dionigi, un
Plutarco, sarebbe parso colpa di lesa antichità: tutt'al più
s'applicavano di ridurre in accordo le loro contraddizio-
ni, calcolare qual di due autorità avesse maggior peso.
Ben si meritarono egregiamente i critici del Cinquecen-
to col faticarsi a raccorre dalla superstite letteratura tutti
i brani che rischiarassero le antichità romane; e vanno
lodatissimi da chiunque non faccia colpa ad uno scritto-
re s'egli non sorpassa le idee e la erudizione del suo se-
colo. Fra gl'Italiani meritano special lode Paolo Manu-
zio, il Sigonio, De antiquo jure Italiæ, De antiquo jure
provinciarum, De judiciis, e il Gravina più tardi. Ma-
293
chiavelli accettava come oracolo che che trovava in Tito
Livio, non pensando a discuterne, ma volendo soltanto
farsene un testo di discorsi o di opportuna allusione.
Pure non mancò qualche arguto, che avvisasse le con-
traddizioni e gli assurdi. Il nostro Lorenzo Valla, in una
disputa sopra Tito Livio, pose a nudo le magagne della
prima storia di Roma. Fin dal 1677 Lancelotto Secondo,
ingegno bizzarro, scrisse gli spiritosi Farfalloni degli
antichi storici, ove mette in rilievo le costoro incoerenze
e ciancie, ma con intento di celia e negazione. Con mag-
giore franchezza lo svizzero Glareano mostrava gli svarj
di Livio: ma restò oppresso dalla universale indignazio-
ne del dotto vulgo. Con erudizione ponderata Giuseppe
Scaligero e Giusto Lipsio tolsero ad esame quegli stori-
ci. Con violenza Perizonio professore di Leida (Ani-
madversiones, 1685) oppose testi a testi, e pel primo av-
visò che, nel racconto di Livio, una parte vada attribuita
ad antichi canti nazionali: ebbe la sorte di chi di buon
tratto precede i suoi tempi, restando ignorato e incom-
preso; eppure dalla minuzia de' particolari seppe sorgere
a generali ed estese osservazioni, che annunziavano una
nuova êra dell'arte critica.
La quale, associandosi al progresso delle altre scien-
ze, usciva di tutela, e non guardava più con cieca rive-
renza i libri siccome unico campo degli eruditi, ma vole-
va che a questi l'uomo si accostasse col giudizio e col
sentimento proprio e coll'esperienza delle cose del mon-
do. Pietro Bayle, che nel suo Dizionario critico recava il
dubbio e lo scherno anche su punti molto più sacri che
294
non la ninfa Egeria e il bastone incombustibile di Ro-
molo, poco si prevalse del lavoro di Perizonio, già da
dodici anni pubblicato, e che pure egli chiamava l'errata
degli storici e de' critici; ma suppose che, come nei mo-
nasteri si dava per esercizio agli studenti di comporre
vite, martirj e miracoli di santi, che poi da taluni furono
scambiati per leggende vere, così la storia dei primi re
fosse dedotta da esercitazioni retoriche.
Luigi di Beaufort (Sur l'incertitude des cinq premiers
siècles de l'histoire romaine, 1738) non più da scorrido-
re, ma di proposito e con giusta arte di guerra la storia
primitiva romana tutta relega tra le finzioni poetiche. Il
suo libro, pel tono stesso frizzante, venne accolto con
applauso, per quanto egli ecceda nell'abbattere, e vacilli
le poche volte che tenta ricostruire: gli uomini d'ingegno
lo lessero, l'applaudirono, pure seguitarono a contare i
sette re, e gli storici a descrivere i primi tempi di Roma
con intrepida sicurezza. Lo stesso Montesquieu, il quale
spiega tant'ala allorchè Roma assume politica fisiono-
mia, e l'elemento italico lotta e si fonde collo straniero,
vagella nella cognizione di Roma primitiva e delle sue
antichità; e i sette re sono per lui, come pel Machiavelli,
personaggi delle corti e de' gabinetti moderni.
In mezzo però a tutte quelle fatiche di demolizione,
un Italiano, solo, sconosciuto, aveva assunto
quest'impresa con idea più vasta, mostrando che la sto-
ria romana, quale fin allora intendevasi, era più incredi-
bile che non la favolosa di Grecia; perocchè questa non
si comprende che cosa voglia dire, quella ripugna
295
all'andamento della natura umana. Non contentandosi
però di abbattere come i critici puramente negativi, ave-
va adoperato quei rottami a rifare un edifizio grandioso.
Parliamo di Giambattista Vico napoletano, il quale
nelle due Scienze nuove e nelle opere latine investigò
nella romana la storia ideale dell'umanità, interpretò
que' racconti come simboli, e mostrando che l'umanità si
costruisce da se stessa, ne seguitò i passi e i faticosi ac-
quisti. Gli uomini che s'incontrano nella storia infinita-
mente superiori all'umanità, non sono, al dire di lui, che
una creazione di essa umanità, la quale accumulò sopra
un solo la lenta opera dei secoli e le imprese dei molti
che essi riassumevano. Romolo, Numa, Servio, le XII
Tavole sono meri enti di fantasia, idoli storici, epiloghi
d'un ciclo poetico: Romolo e i padri d'illustri parentele
(gentes) fondarono la città sopra la religione degli auspi-
zj, e sopra l'asilo aperto ai vinti e ai deboli che alla loro
tutela rifuggivano: di qui vennero, come in tutte le città
eroiche, due Comuni; patrizj che comandano, plebei che
obbediscono.
I patrizj avevano impero familiare e impero civile o
pubblico: il primo estendeasi sopra i figliuoli e le fami-
glie, donde i nomi di patritii, patria, res patrum; e sopra
i possedimenti, che godevano immuni da tributo. Tutti
insieme tenevano l'impero pubblico, governando i co-
muni interessi nelle adunanze che erano i comizj curiati,
dove interveniva il popolo de' Quiriti (detti così da quir
asta), cioè i soli nobili; ed il senato, composto dei capi
delle parentele e presieduti da un re.
296
Essi patrizj, come facevano i nostri baroni del me-
dioevo, abitavano su alture fortificate: la plebe tenevasi
al basso (onde humili loco natus), per nulla partecipan-
do alla cittadinanza, vivendo col lavorare a giornate le
terre de' nobili, cui era obbligata servire in guerra senza
soldo, e rendere tutte le derrate, se non volesse essere
chiusa nelle carceri private di essi. Leggi scritte non
v'erano, ma il popolo, cioè i nobili raccolti, provvedeva-
no secondo i casi alla pubblica sicurezza: quindi i nomi
lex ed exempla.
Tale fu il governo sotto i re, i quali non sono altri-
menti ad intendere per effettive persone, ma per caratteri
eroici e poetici, sui quali s'accumularono diversissimi
casi e ordinamenti; attribuendo, per esempio, a Romolo
tutte le leggi intorno agli istituti civili, a Numa quelle
concernenti le cose sacre, a Tullo le militari, a Tarquinio
le divise della maestà, a Servio le costituzioni sul censo
e quelle che avviarono la libertà popolare.
Regnante il qual Servio, erasi operato un insigne mu-
tamento. I plebei, oppressi sempre peggio dai nobili,
sentirono quanta abbiano forza il numero e la concordia,
pretesero una legge agraria, e ottennero il dominio boni-
tario, o vogliam dire il naturale possesso dei campi pub-
blici, che conservarono a maniera di feudi rustici, pa-
gando un annuo censo ai nobili, presso cui rimaneva il
dominio quiritario, cioè patronale, ed obbligandosi ad
assisterli nel ricuperarne il possesso qualora lo perdesse-
ro (juris auctores fieri).
Dovunque le cose trovansi a simile condizione, il re si
297
mostra tutore dei diritti popolari incontro ai nobili; e tale
uffizio sostennero Servio e Tarquinio Superbo: del che
forse scontenti, i nobili cacciarono quest'ultimo, operan-
do quella rivoluzione che a torto viene considerata come
popolare e liberale. Allora i nobili tornarono ad insolen-
tire, ritoglievano i campi, aggravavano il censo alla ple-
be, che avea già cominciato a tenere i comizj delle sue
tribù. Per ovviare la tempesta, il senato comandò che il
censo dei campi non si pagasse più al privato dominato-
re o feudatario, ma al tesoro pubblico, il quale si assu-
meva le spese per la guerra.
La plebe però non avendo azione civile, mancava di
mezzi onde garantirsi dalle usurpazioni de' magnati; e
per questo si ritirò sul monte Sacro, finchè ottenne pri-
ma i tribuni per difendere la sua libertà naturale e il do-
minio bonitario de' campi, poi una legge scritta e paten-
te, obbligatoria ai patrizj non meno che ai plebei. Fu
quella delle XII Tavole, per cui la cognizione delle leg-
gi, uscendo di mano de' nobili e sacerdoti, cessò d'essere
un arcano. Fu essa ordinata, non secondo le greche ma
secondo le consuetudini latine e romane, siccome appa-
re evidente se si spogli dalle aggiunte fattevi come a ca-
rattere poetico.
Questa legge garantiva a' plebei il dominio quiritario,
ma interdiceva loro le nozze legittime, il connubio, vero
fonte della cittadinanza e del diritto privato: laonde ri-
dotti a maritaggi naturali, non potevano trasmettere
l'eredità dei loro campi, che perciò tornavano ai nobili
ogniqualvolta i vassalli morissero. Chiesero dunque fos-
298
se comunicato il connubio, e l'ottennero per la legge Ca-
nuleja, con cui entrarono a parte della cittadinanza ro-
mana.
Allora aspirarono anche al dominio pubblico, a parte-
cipare alle magistrature da cui rimanevano esclusi come
gente priva della religione degli auspizj, ed a formare le
leggi. Ne' comizj tributi, che potremmo assomigliare ai
convocati comunali, la plebe statuiva intorno ai proprj
occorrenti, e due volte ottenne che la sua volontà (plebi-
scita) venisse rispettata dai nobili: nel 305 di Roma,
quando si ritirò sull'Aventino, e per la legge Orazia ot-
tenne che nessun magistrato potesse crearsi senza suo
consenso; e nel 367, quando si negava di comunicarle il
consolato. Dappoi pretese che anche le sue leggi diven-
tassero obbligatorie per tutti, talchè venivano ad esistere
contemporaneamente due podestà legislatrici. Fu dun-
que eletto dittatore Filone Publilio, il quale ordinò che i
plebisciti fossero obbligatorj per tutti i Quiriti; il senato,
per la cui autorità soltanto le deliberazioni popolari ac-
quistavano vigore, non facesse più che promuovere e
consigliare ciò che farebbe il popolo radunato ne' comi-
zj; e alla plebe venisse comunicato eziandio l'uffizio di
censore.
Si trovarono dunque pareggiati i plebei co' nobili: ma
a questi rimaneva la facoltà d'imprigionare i plebei debi-
tori, finchè l'abuso fattone provocò la legge Petilia del
419, che tolse il carcere privato ai feudatarj. Al senato
pertanto non rimaneva più che l'eminente dominio dei
fondi della repubblica, cui mantenne talvolta anche
299
coll'armi, come nella sedizione dei Gracchi. Però il se-
nato non componevasi più di soli patrizj; e Fabio Massi-
mo dittatore avea tolta di mezzo la distinzione fra nobil-
tà e plebe, ordinando il popolo in tre classi, di senatori,
cavalieri e plebei, a misura non dell'origine ma delle ric-
chezze. Con ciò rimaneva dischiusa alla plebe la strada
per tutti gli ordini civili; e il popolo, distinto in quelle
tre classi, conveniva ai nuovi comizj centuriati ove si
formavano le leggi consolari, mentre le tribunizie si or-
dinavano ne' comizj tributi, e nei curiati le leggi sacre e
le arrogazioni. Il corso naturale delle nazioni recò poi
questa città, prima aristocratica, indi popolare, a cadere
sotto la podestà d'un solo.
Sin qui quel profeta della storia congetturale: e sebbe-
ne fuori d'Italia non uscisse grido della sua sapienza, e
in Italia ne lasciasse dimenticare i libri la neghittosa
prontezza degl'ingegni, ingordi solo di facili letture; e
sebbene le posteriori scoperte in fatto di storia e di filo-
logia abbiano sminuito il merito di lui, gli rimarrà sem-
pre la gloria di chi viene primo in una scoperta; e se altri
gli porranno avanti il passo, non ne cancelleranno però
le orme.
Nè in Italia era rimasto infruttuoso il seme gettato dal
Vico. Emanuele Duni, quantunque nomini appena que-
sto forte pensatore, pubblicò in Roma nel 1763 Origine
e progressi del cittadino e del governo civile di Roma,
ove sotto alle tradizioni indaga i fatti veri e la storia del
diritto. Fonte d'ogni privata e pubblica ragione è in lui,
come nel Vico, la religione degli auspizj; in virtù della
300
quale, cittadini non erano che i patrizj, signori della leg-
ge, ad esclusione del vulgo innominato, che non aveva
nè padri certi nè auspizj. Come questo arrivasse alla
questura, al consolato, al pontificato, acquistasse il dirit-
to di suffragio ne' comizj centuriati (istituiti, dic'egli, da
Tullo, per comodo della milizia, per lo spartimento del
censo, e per bandirvi i decreti del re e del senato, le nuo-
ve leggi, i magistrati eletti) viene discusso nel primo li-
bro del Duni, il quale nei nomi di classi e centurie non
vede che istituzioni militari.
Svolge dappoi il procedimento del governo civile sot-
to i re. Due soli ordini sussistevano allora; il popolo,
cioè i patrizj, e la plebe: celeri, flessumeni, trossuli, ca-
valieri non erano che gradi della milizia, occupati dalla
gioventù patrizia. Questa forma perseverò sin quando le
tribù plebee si ritirarono sul monte Sacro, donde non
scesero che ottenuta la tutela de' tribuni. Allora anche i
plebei s'adunarono ne' comizj tributi, ove condannarono
talvolta anche i patrizj, come nel caso di Coriolano. Per
la forza espansiva dei diritti, ottennero di convocare i
comizj indipendentemente dal senato, poi una legge
agraria, poi la limitazione della podestà consolare colla
pubblicazione della legge decemvirale. Gli abusi dei
Decemviri fruttarono che nessun magistrato potesse
crearsi senza consenso della plebe, ed i patrizj dovesse-
ro osservare i plebisciti.
La plebe, che fin allora non avea fatto che garantirsi
dall'oppressione, da quel punto comincia a cercare dirit-
ti. Il Governo mantenevasi sempre aristocratico puro,
301
mancando alla plebe la ragione privata e pubblica e il
gius dei suffragi: onde, vedendo come senza di ciò non
potesse conseguire alcuno de' vantaggi sperati, pretese e
ottenne il connubio, e così i plebei furono cittadini di ra-
gione privata; poi parteciparono alle magistrature, e in
conseguenza acquistarono i diritti di ragion pubblica, e
l'aristocrazia mutossi in democrazia. Acciocchè le due
podestà non cozzassero, il dittatore ordinò che i plebi-
sciti obbligassero del pari tutti i cittadini, e che la censu-
ra fosse comunicata anche alla plebe. Sono dunque pa-
reggiati plebei e patrizj; questi pérdono il diritto del car-
cere privato, quelli conoscono l'ordine de' giudizj. Se
non che i patrizj ricchi non vogliono accomunarsi coi
meno facoltosi, e ne sorgono tre ordini, di patrizj, cava-
lieri, plebe. Coi Gracchi poi la plebe comincia a voler
soperchiare la nobiltà.
La parte più prestante del lavoro del Duni è quella
ove tratta dello stato delle famiglie; e fu fatto conoscere
in Germania da Eisendecher, Ueber die Entstehung,
Entwickelung und Ausbildung des Bürgerrechts in altem
Rom, 1829. Il Duni anticipa forse il fatto della democra-
zia, giacchè la città ben più tardi stava spartita in plebe e
in nobili; mal confonde il senato colle curie: pure dimo-
stra come si sapesse fra noi tener fisso gli occhi nello
splendore romano senza rimanerne abbagliati. E ve li
tennero Mario Pagano ne' Saggi, e Melchiorre Delfico
nei Pensieri sull'incertezza e inutilità della storia, e nel-
le Antichità di Adria Picena, senza però dipartirsi dalle
orme del Vico, se non in quanto v'innestavano alcuni
302
concetti degli Enciclopedisti; e colle idee di quello inter-
rogò la civiltà antichissima degl'Italiani Vincenzo Coco
nel Platone in Italia.
Qualch'altro potremmo menzionare fra i nostri.
L'Algarotti, nel Saggio sopra la durata de' regni dei re
di Roma, avvertì come fosse incredibile che sette re elet-
tivi, i quali tutti, eccetto Romolo, vennero al trono in età
già piena, e quattro morirono violentemente, durassero
ducenquarantaquattro anni, cioè trentacinque anni di re-
gno medio. In Venezia, quando ancora non si eleggeva-
no soli vecchi, e il doge era vero capo dell'esercito e del-
lo Stato, dall'894 al 1311 sedettero quaranta dogi, cioè
dodici anni e mezzo caduno. Dal 1587 al 1764 in Polo-
nia furono sette re elettivi; durata lunghissima, eppure
molto minore di quella dei romani. I sette precedenti
erano regnati cenquarantun anno, dal 1445 al 1587. I re-
gni ereditarj danno per lunghezza media venti o venti-
due anni. ‒ Federico Cavriani ripudia anch'esso l'esi-
stenza di Romolo, e crede che i Sabini abbiano soggio-
gato la banda di fuorusciti assisa sul Palatino, imponen-
dole e re e dio e nome.
Ma anche l'uffizio di distruggere è inconcludente qua-
lora non facciasi con ordine e per sistema.
Nella generazione precedente alla nostra, la Germania
si afforzava di studj robusti, e colla filologia accoppian-
do la critica indipendente e profonda, sentivasi chiamata
mediatrice fra le età più lontane e le nostre. Dopo Les-
sing e Voss più non si vollero tollerare quelle parole in-
definite, quelle idee vaghe, comprese soltanto per metà;
303
le osservazioni superficiali cedettero alle positive; si
volle ne' classici interpretare quel che essi accennavano
appena supponendolo conosciuto, e penetrare nella vita
intima, nelle idee religiose, nelle forme più minute del
governo, come si farebbe con gente divisa soltanto per
ispazio non per tempo: le grandi esperienze dei moderni
soccorrevano a rialzare il velo che copriva l'enigma anti-
co.
Più ardita mano portò nei santuarj della romana Vesta
il danese Giacomo Niebuhr. Studiosissimo dell'antichità,
adoprato in impieghi dalla Prussia, ch'ebbe sempre l'arte
di non mostrarsi gelosa de' gagliardi pensatori, arrestò
l'attenzione sopra la storia romana; e sceveratosi affatto
dalle opere moderne per aspirare pieno l'alito degli anti-
chi, indipendente nelle opinioni, indefesso nelle indagi-
ni, immaginoso nelle ristaurazioni, rifabbricò l'antica
città con tentamento sempre ardito, se non sempre fortu-
nato. Pubblicava egli la prima parte della sua Römische
Geschichte nel 1812; e dopo che la guerra delle nazioni
cessò di tenere occupata la sua penna e il suo tempo
nell'incitare l'amor dell'indipendenza, venne spedito in
Italia perchè trattasse colla santa Sede, o forse per allon-
tanarlo da un paese, a' cui principi cominciava a fare
ombra quell'ardore patriotico, di cui tanto aveano prima
fatto profitto. Qui ricevette l'ispirazione che nessun libro
può dare, quella dei luoghi, ed ebbe la fortuna di scopri-
re nell'archivio capitolare di Verona, o, dirò meglio,
pubblicare gli Istituti di Gajo, al tempo stesso che usci-
vano in luce Lido De magistratibus reipublicæ romanæ,
304
i libri della Repubblica di Cicerone, i frammenti di
Frontone. Nuova messe si offriva dunque alle sue inda-
gini; ed egli rifuse il proprio lavoro, portandolo da due a
tre volumi (Roma 1824), cambiando anzi affatto il modo
di vedere intorno ai prischi abitanti della città eterna. In
una terza edizione poi lo riformò di nuovo in molte par-
ti, e principalmente quanto all'origine dei Luceri, che
più non tenne come Etruschi.
Certamente allorchè egli rintegra a suo senno una
iscrizione, di cui non rimasero che pochi frammenti, e
vuole indurne un fatto nuovo; quando trova che Cicero-
ne o Livio errarono nel capire la costituzione del loro
proprio paese, e suggerisce il come dovevano intender-
la; quando vi pianta le asserzioni più nuove colla formo-
la tutti sanno, o nessuno ignora; quando v'incontrate in
modi sul fare di questi: Erodoto in un momento di catti-
va ispirazione giudica che...; ‒ Questo avrebbe dovuto
dire la tradizione: ‒ Gajo fallò nello scrivere a tal mo-
do, e doveva scrivere al tal altro; ‒ Son io che fo fare a
Camillo questa preghiera nel tempio; ma è certo che
ciò è secondo lo spirito della tradizione; ‒ Nessuno sto-
rico parla di siffatto assegnamento, ma era indispensa-
bile...; voi domandate a voi stessi se forse non sia me-
glio che un paradosso da sofista questo spingere le av-
ventate ipotesi, e con frammenti sconnessi distruggere
ciò che altri ha posto in sodo. Quando poi abbracciate il
complesso, non sapete indurvi a credere ad una costitu-
zione, non solo contraddittoria all'indole dell'antichità,
ma, per confessione dell'autore, contraria ad ogni analo-
305
gia nella storia.
Pure la sconfinata sua erudizione, la felicità con cui
ripristina od emenda passi di cento autori, la franchezza
onde passeggia sul suo campo, e raffronta le antiche col-
le istituzioni moderne più minute e complicate, la con-
vinzione infine che egli reca nelle sue ricerche, sin talo-
ra a pregarvi di credergli sebbene nol provi, soltanto
perchè egli n'è intimamente persuaso, v'inducono a ri-
spettarlo anche là dove da lui dissentite, anche là dove
vi pare si contraddica, anche là dove (ciò che troppo
spesso gli avviene) s'avvolge in un linguaggio oscuro e
sibillino. Egli scriveva a Lerminier: — Quel che
m'importa soprattutto di vedere riconosciuto, si è che la
mia cura è di comunicare ai lettori la persuasione di cui
sono penetrato io stesso. Il libro dee da se medesimo
convincere chi se ne occupa di buona fede. Non v'ha pa-
rola che non sia posta colla possibile esattezza onde
esprimere una maniera di vedere o una convinzione mia.
Sarebbe il sommo dell'ingiustizia l'attribuirmi la smania
de' paradossi».
Singolarmente meritano riguardo le sue riflessioni
sull'Italia primitiva, sulle famiglie patrizie e le curie, sul
Comune e le tribù plebee, sulle centurie e la costituzione
di Servio Tullio, e sui nexi. Suppone che le favole de'
primi tempi nascessero dalle nenie onde si celebravano i
morti, e dai canti che dicemmo usarsi nei banchetti; tal-
chè le prime avventure di Roma sarebbero o canti isolati
o epopee. La storia di Romolo costituisce da sè un poe-
ma; brevi canzoni separate si riferiscono a Numa; un al-
306
tro poema comprende Tullo Ostilio, gli Orazj, la ruina
d'Alba; la storia d'Anco Marzio non dà sentore di poe-
sia, ma con Tarquinio Prisco comincia un altro poema,
che finisce alla battaglia affatto omerica del lago Regil-
lo, poema più grandioso di quanto Roma abbia mai più
immaginato, e che non è ristretto all'omerica unità, ma
piuttosto corrisponde alla varietà dei Niebelunghi, cioè
del gran poema della primitiva Germania, scoperto
anch'esso a' nostri giorni.
Conobbe egli il Vico? Egli concorda con questo nel
considerare poetica la natura della storia romana, para-
gonarla alle più antiche, e rischiararla con le moderne.
Entrambi videro la città fin dall'origine ripartita in due
classi, patroni e clienti; ma in questi il Vico scorge subi-
to l'origine della plebe romana, mentre il Niebuhr non la
fa nascere se non quando Anco aggrega i vinti alla poli-
zia di Roma. In Servio notano entrambi un progresso de'
plebei verso l'equità civile: ma il Vico trova concesso lo-
ro soltanto il diritto naturale o il bonitario possesso dei
campi, pagando un annuo censo, e obbligandosi a servi-
re nell'esercito; mentre il Niebuhr, oltre la conferma del
dominio quiritario, fa concesso a loro il suffragio ne'
pubblici affari, quindi un censo pubblico, e soldo dato ai
guerrieri. Il Vico poi mette principalissimo fondamento
del suo sistema storico la religione degli auspizj, mentre
il Niebuhr non ne tocca tampoco; e questa è forse la ra-
gione che più vaglia per quelli che asseriscono non ave-
re il Danese conosciuto il nostro pensatore, del quale
mai non fa cenno.
307
Guglielmo Schlegel, negli Jahrbücher von Heidel-
berg, 1816, N° 53, entrò quasi a piè pari nell'opinione
del Niebuhr, sebbene in alcune particolarità lo confuti, e
massime neghi che i poemi cantati ai conviti potessero
essere epici, supponendoli soltanto canzoni brevi e
sconnesse, quali convenivano ai Latini, diseredati del
genio epico della Grecia. Staccossi invece affatto dal
Niebuhr Nicolò Wachsmuth nella Aeltere Geschichte
des römischen Staats, pure combattendo Tito Livio e le
scolastiche opinioni.
Carlo Peter continuò la storia del Niebuhr dal punto
ove questo l'avea lasciata in tronco. Fiedler sostiene che
molti documenti scamparono dall'incendio gallico; ed
anche altre città ne conservarono, quantunque i più anti-
chi storici non se ne valessero. Più ameno il francese
Michelet, nella Histoire romaine profittò di tutti i prece-
denti, come il mostrano le copiose note di cui la arric-
chì; mentre nel testo espone i risultamenti della critica,
volendo fare una storia, non una dissertazione. Segua-
ce, non ligio del Niebuhr sul principio, ha sopra questo
(oltre il metodo e l'esposizione) l'avvantaggio di consi-
derare intera la vita di quel popolo, non le origini soltan-
to. Distingue egli nella civiltà romana tre età: l'italiana
fino a Catone; la greca, cominciata cogli Scipioni, e che
produce il secolo d'Augusto in letteratura, e di Marco
Aurelio in filosofia; l'orientale, che vince i vincitori
dell'Oriente. Quanto alla storia politica, nella prima epo-
ca la città si forma col pareggiamento e la mistione dei
due popoli, patrizio e plebeo, fino al 350; nella seconda
308
si forma l'impero colla conquista e l'ammissione degli
stranieri; poi dopo la guerra Sociale, la città è aperta a
tutti i popoli.
Fu pubblicato a Londra An inquiry into the credibility
of the early roman history, 1855, vol. II, di GIORGIO LEWIS
CONWALL cancelliere dello Scacchiere della regina
d'Inghilterra, ove si sostiene che quasi nulla sappiamo
delle cose romane prima dell'invasione di Pirro. Invece
GERLACH e BACHOFEN (die Geschichte der Römer, Basilea
1851) sostengono la verità de' primi fatti romani.
Vedasi pure H. TAINE, Essai sur Tite Live; saggio pre-
miato dall'Accademia Francese nel 1856.

Stimiamo opportuno soggiungere una lista di autori


che giova consultare.
CLUVERIUS, Italia antiqua. Miniera di tutti quelli che
parlarono delle origini italiche, e che agevolmente pote-
rono darsi aria di eruditi mercè le copiosissime sue cita-
zioni.
GRÆVIUS e SALLENGRE, Thesaurus antiquitatum roma-
narum.
CONRADINI, De priscis antiqui Latii populis.
VULPI, Latium vetus.
LACHMANN, Commentatio de fontibus Titi Livii in pri-
ma Historiarum decade.
HEEREN, De fontibus et auctoritate Vitarum Plutarchi.
KRAUSE, Vitæ et fragmenta veterum historicorum ro-
manorum.
PETERSEN, De originibus historiæ romanæ.

309
HAECKERMANN, Vindiciæ antiquitatum romanarum.
SPANGENBERG, De veteris Latii religione domestica.
DAUNOU, Cours d'études historiques.
HOOKE, Discours et réflexions critiques sur l'histoire
et le gouvernement de l'ancienne Rome.
LEVESQUE, Doutes, conjectures et discussions sur dif-
férents points de l'histoire romaine.
‒ Histoire critique de la république romaine.
Severo esame della millantata gloria latina, ma arbi-
trario e inferiore a' suoi predecessori.
NITSCH, Beschreibung des häuslichen, wissenschaftli-
chen, gottesdienstlichen, politischen, und kriegerischen
Zustandes der Römer, nach den verschiedenen Zeital-
tern der Nation.
FERGUSSON, The history of the progress and termina-
tion of the roman republic.
ADAM, Roman antiquities.
RUPERTI, Handbuch der römischen Alterthümer.

Per la descrizione dei luoghi e la rappresentazione:


NARDINI, Roma vetus.
PIRANESI, Antichità di Roma.
ROSSINI, I sette colli di Roma antica e moderna.
VENUTI, Descrizione topografica delle antichità di
Roma, edita da Ennio Quirino Visconti, i lavori del qua-
le sono una miniera d'altre notizie.
VALLADIER, Raccolta delle più insigni fabbriche di Ro-
ma antica e sue adjacenze, con illustrazioni di F. A. Vi-
sconti.

310
DESGODETS, Les édifices antiques de Rome, con buoni
disegni.
PLATNER, BUNSEN, GERARD e altri Tedeschi, Beschrei-
bung der Stadt Rom.
Vi è premesso un catalogo di tutte le descrizioni di
Roma, cominciando dal Curiosum urbis Romæ. La parte
topografica fu confutata da G. W. BECKER nel Manuale
delle antichità romane, Lipsia 1843. Vedansi pure PIALE,
Dissertazioni accademiche XXIV, sopra la topografia di
Roma, 1832-34, e RIVA, Dell'antico sito di Roma; PIETRO
ROSA, Topografia della città e campagna di Roma, 1857,
nella proporzione di 1 a 200,000.
Illustrazione alle antichità e ai dintorni di Roma por-
tarono Carlo Fea (Sul ristabilimento della via Appia,
1835), Antonio Nibby (Viaggio antiquario nei contorni
di Roma, 1819. Analisi della carta dei contorni di Ro-
ma, 1837), il Poletti, Pier Ercole Visconti (La via Appia,
1832) e Luigi Canina. Quest'ultimo nel 1839 stampava a
Roma il volume V della Storia e topografia della Cam-
pagna romana antica, ove nel discorso preliminare dà
ampia informazione di quelli che espressamente o indi-
rettamente trattarono dell'argomento stesso. Il suo con-
cetto sulla credibilità de' primi storici così esprime: ‒ È
vero che i fondamenti su cui si basano le narrazioni sto-
riche de' primi tempi d'Italia, sono poco stabili; ma al-
lorchè non se ne trovano dei migliori per quanto profon-
damente si scavi, reputo essere più prudente attenersi a
quei che ci prestano gli strati più sicuri, che di fabbricar-
ne superficialmente degli artifiziali. Quindi sono di pa-
311
rere che sieno più nocivi che utili alla maggior cognizio-
ne delle cose antiche gli scritti di coloro che, nulla ap-
prezzando l'autorità de' prischi documenti, cercano di
distruggere un edifizio basato sulle più profonde radici,
senza saper edificare niente di buono».
Dello stesso si hanno L'antica città di Vejo, L'antica
Etruria marittima. Descrizione dell'antico Tusculo, ed
altre monografie.
TUSCULO, Sostruzioni della via Appia; Esposizione to-
pografica della prima parte dell'antica via Appia; ed al-
tre monografie.
Possono anche vedersi JACOBINI, Memorie sullo scavo
della via Appia fatto nel 1851.
VIOLA, Tivoli nel decennio della deviazione del fiume
Aniene, nel traforo del monte Catillo; 1848.
BORMAN, Altlatinische Chorographie und Stadtge-
schichte. Halle 1852.
Kudscheit, Tab. geographica Italiæ antiquæ. Berlino
1851.
PONZI, Mémoire sur la zone volcanique d'Italie, nel
Bull. de la Société géologique de France; 1853.
LATEROULLY, Plan topographique de Rome antique et
moderne. Parigi 1841.
LEVEIL, Plan de Rome au temps d'Auguste et de Ti-
bère. Ivi, 1847.
Un riassunto di tutti in ERNEST DESJARDINS, Essai sur
la topographie du Latium. Ivi, 1854; e in DYER nel Dic-
tionary of greek and roman geography. Londra 1856.

312
Per la cronologia:
Fasti romani, editi dal GREVIO e da ALMELOVEEN.
GHIGI, Annales Romanorum, che vanno sino a Vitellio.
E tutti gli illustratori dei Fasti consolari.

Per le costumanze:
BOETTIGER, Sabina. Suppone di descrivere le occupa-
zioni d'una elegante romana.
BECKER, Gallus. Viaggio sul modello di quelli del gio-
vane Anacarsi.
MAZOIS, Palais de Scaurus, ou description d'une mai-
son romaine.
‒ Ruines de Pompej.
HAUDEBOURT, Le Laurentin, maison de campagne de
Pline le Jeune.
DESOBRY, Rome au siècle d'Auguste.
MEIEROTTO, Sitten und Lebensart der Römer in ver-
schiedenen Zeiten der Republik.

Sul diritto:
SIGONIUS, De antiquo jure civium romanorum.
BEAUFORT, La république romaine, au plan général de
l'ancien gouvernement de Rome.
‒ Histoire critique du gouvernement romain.
TEXIER, Du gouvernement de la république romaine.
SAVIGNY, Gesch. des römischen Rechts in Mittelalter.
Quivi e nelle illustrazioni delle tavole d'Eraclea diede
idee del diritto italico ben più precise che non il Sigo-
nio, l'Eineccio e gli altri precedenti.

313
COSMAN, Disputatio historiæ juridicæ de origine et
fontibus legum XII Tabularum.
GRAUERT, De XII Tabularum fontibus atque argumen-
to.
BACH, Historia jurisprudentiæ romanæ.
GIRAUD, Histoire du droit romain.
WALTER, Gesch. der Römischen Rechts.
MACKELDEY, Storia delle fonti del diritto romano (in-
glese).
HUGO, Elementi della storia del diritto romano (tede-
sco).
ORTOLAN, Histoire de la législation romaine.
‒ Explication historique des Institutes de Justinien.
HAUBOLD, Institutiones, con preziose aggiunte di C. E.
Otto.
LAURENT, Histoire du droit des gens et des relations
internationales.
PELLAT, Droit privé des Romains.
LA FERRIÈRE, Histoire du droit civil de Rome.
ZIMMERN, Gesch. der römischen Privatrechts.
MACÉ, Sur les lois agraires.
MOMMSEN, Die römische Tribus in administrativer Be-
ziehung. Altona 1844.

Per la milizia, omettendo i più antichi:


GHICHARD, Mémoires militaires sur les Grecs et sur les
Romains.
LANGE, Historia mutationum rei militaris Romanorum
ab interitu reipublicæ usque ad Constantinum Magnum.

314
LOEHR, Das Kriegswesen der Griechen und Römer.
SONKLAR, Abhandlung über die Heeresverwaltung der
alten Römer in Frieden und Krieg.

Per la religione:
LACROIX, Sur la religion des Romains, d'après les
fastes d'Ovide.
HARTUNG, Die Religion der Römer nach den Quellen
dargeslellt.
AMBROSCH, Ueber die Religionsbücher der Römer.
‒ Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömi-
schen Bodens und Cultus.
KLAUSEN, Æneas und die Penaten.
WOENIGER, Das Sacralsystem der Römer.
Su singoli punti occorrono dissertazioni negli atti del-
le Accademie, specialmente in quella delle Iscrizioni di
Parigi, e in quelle di Gottinga e di Torino. In Germania
non va anno, massime dopo il Niebuhr, che non si pub-
blichino molte monografie; e singolarmente lodate furo-
no quelle del Savigny, Warnkönig, Schutz, Huscke, Ger-
lach, Drumann, Göting, Hullmann, ecc. Tra le francesi
sono importanti
DUREAU DE LA MALLE, Économie politique des Ro-
mains.
LECLERC, Des journaux chez les Romains. Tende ad
acquistare alcuna certezza ai racconti anche primevi.
Francesco Greuzer, nell'Abriss des römischen Anti-
quitaten, ad ogni capitolo offre una serie d'opere a con-
sultarsi in proposito, poi una sequela di quesiti, indican-

315
do succintamente le risposte, e lasciando che fra le varie
scelga il lettore. Per fermarci a quelli che ora ci occupa-
no, ecco parte del primo capitolo: «Sulle origini, diffe-
renti opinioni degli antichi e de' moderni, vedasi
SCHWARTS, Osservazioni su Nieuport, Compend. antiq.
rom., pag. 13. ‒ FABRICIUS, Bibl. antiquar., pag. 215-16.
‒ RUHNKEN, Prælect. academ. in antiq. rom., I. 1. ‒
CICERONE, De Rep., II. 7. Tradizione che fa Roma colonia
d'Albalonga. Id., II. 2. Concedamus enim famæ homi-
num, e poi Ut jam a fabulis ad facta veniamus. Osserva-
zioni su questo passo da paragonare colla storia romana
di LEVESQUE, pag. 434, e d'altri moderni. Erodoto sopra
Turio in Enotria, anno 310 di Roma, non sa nulla di Ro-
ma, ma parla assai de' potenti Tirreni che combatterono i
Focei, I. 166 (confrontisi NIEBUHR, Hist. rom., I. 84), e
che diedero il loro nome a tutta l'Italia occidentale fino
al 420 (DIONIGI D'ALICARN., I. 23, 29). Spesso la nazione
tirrena ha per capo un lucumone distinto per sapere
(LIVIO, I. 2; V. 33. ‒ ATENEO, IV. 153; XII. 517. ‒ MAFFEI,
Verona illustrata, I. ‒ LAMPREDI, Del governo civile degli
antichi Toscani, 1760. ‒ LANZI, Saggio di lingua etrusca,
1789. ‒ MICALI, L'Italia avanti il dominio dei Romani,
1810. ‒ INGHIRAMI, Monumenti etruschi, 1820). Roma fu
fondata dagli Etruschi o dai Tirreni? Roma è colonia di
Cere? (NIEBUHR, I. 162. ‒ SCHLEGEL, Annali letterarj di
Heidelberg, 1816, pag. 892). Cere, già Agilla, sulla sini-
stra del Tevere, ha comunicato ai Romani il nome di
Quiriti, dall'antica parola Cairites, Ceriti (SCHLEGEL, ib.).
Trattasi di questi Ceriti ove è detto che i Cartaginesi e i
316
Tirreni diedero battaglia navale ai Focei? (NIEBUHR, I.
84). Il fondo della popolazione romana era etrusco (ce-
retico)? I patrizj sono una casta sacerdotale di questa na-
zione? (NIEBUHR, SCHLEGEL). Gli antichi Etruschi sono
forse i soli sudditi di Romolo? Roma è d'origine greca o
pelasga? (BONSTETTEN, Viaggi in Italia, I. 225. ‒
WACHSMUTH, pag. 100. ‒ RAOUL-ROCHETTE, Sist. de l'éta-
blissement etc., II. 360), ecc.».

317
APPENDICE IV.
LE SIBILLE

(Vol. I, pag. 157)224.

Le Sibille, vergini conscie dell'avvenire e del modo di


stornare le sventure e di esorare gli Dei, le quali palesa-
vano i loro oracoli in versi, sono un altro problema
dell'antichità profana; poi anche della ecclesiastica, dac-
chè parvero aggiungere un testimonio all'aspettazione
giudaica del rinnovamento de' tempi.
Quasi simultanei trovansi apparire questi esseri miste-
riosi in diversi luoghi del mondo civile: ma le tradizioni
variano fin sul loro numero, che alcuni portano a dieci,
altri riducono a quattro, altri anzi restringono alla sola
Eritrea. Questa, secondo Pausania, scrittore d'un viaggio
in Grecia, dicevasi or donna, or suora, or figlia d'Apollo,
e che da Samo passò a Claro e a Delfo, indi nella Troa-
de, ove la tomba sua vedevasi nel bosco d'Apollo, con
epitafio che ne attestava l'ispirazione e la verginità: era
anteriore alla guerra di Troja, della quale predisse l'esito.
Va aggiunta la Sibilla Libica, forse identica con Erofile,
figliuola di Giove e di Lamia; è la più antica di tutte, e
un inno a lei attribuito era popolare fra gli abitanti di
Delo al tempo di Pausania. La Sibilla di Samo era stata
224
Tomo I cap. VI par. “E d'oracoli abbondava la prisca Italia…” di questa
edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

318
sacerdotessa nel tempio di Apollo Sminteo, e talora è
confusa colla Eritrea. Pausania applica il nome di Sibille
a tutte le indovine antiche; già ai tempi d'Euripide e di
Platone se ne avevano e veneravano gli oracoli a paro
con quelli di Orfeo e Museo; onde possiamo crederle un
eco di quelle tradizioni patriarcali, che per tutto il mon-
do risonarono con maggiore o minore mescolanza di fa-
vole.
De' libri ad esse attribuiti l'esistenza è accertata, come
qualsiasi fatto della storia antica. A Roma la Sibilla Cu-
mana era venuta offrirli a Tarquinio il Superbo; ed aven-
do egli ricusato comprarli, essa ne arse tre dei nove che
erano, e tornò al re chiedendone il prezzo stesso. Avuto-
ne ancora il rifiuto, bruciò tre altri libri, e tornò doman-
dandone l'egual prezzo; ond'egli per curiosità li comprò,
e trovò che conteneano fata urbis Romæ, come dice
Lattanzio, I. 6, appoggiandosi a Varrone. Vedi pure
DIONIGI, IV; A. GELLIO, I. 19. Ciò vuol dire ch'essi libri ri-
salgono al tempo dei re; e scritti su tela o su foglie di
palma, conservavansi entro urna di pietra in un sotterra-
neo del tempio del Campidoglio. In tempi che l'incredu-
lità religiosa veniva di moda, Silla prepose quindici sa-
cerdoti a custodirli; Augusto li fece in gran solennità tra-
sferire dal Campidoglio al tempio d'Apollo Palatino.
Quando si consultavano, i sacerdoti doveano prepararsi
con riti ben diversi dai consueti, cioè col digiuno e colla
preghiera: indizio che contenessero una dottrina più pu-
ra; e forse perchè questa combatteva il politeismo vulga-
re ed uffiziale, erano celati con tanta cura. In qual modo
319
si consultassero non appare, ma sembra si facesse
coll'aprire a caso il volume, e leggere le prime parole
occorrenti. Le risposte che se ne traevano, riguardavano
soltanto cose ed effetti religiosi, nè sembra che, ai tempi
della repubblica, si consultassero per fini politici o per
indovinare il futuro.
Quando, nelle guerre civili, incendiatosi il Campido-
glio 83 anni avanti Cristo, que' libri bruciarono, parve
pubblica sciagura; si diede opera a procacciarne una co-
pia; i consoli Ottavio e Curione adunarono sopra tal bi-
sogna il senato, che mandò tre deputati nella Grecia, in
Sicilia, a Eritrea, a Delfo, a Cuma, per raccorre quanto
fosse rimasto di quelle vecchie predizioni. Tali fram-
menti formavano più di mille versi, e furono cerniti e
ordinati con uno studio, che attesta l'importanza attribui-
ta a siffatte profezie, e all'opinione d'un rinnovamento
de' tempi in esse annunziato, e che, secondo Plutarco,
doveva essere una palingenesi del mondo antico, il ter-
mine del periodo umanitario. Queste forse erano soltan-
to idee popolari, non volute dal Governo, che tosto rin-
serrò e ascose que' frammenti, fra' quali molti spurj si
erano insinuati, e da cui il vulgo traeva augurj ed altre
superstizioni. Augusto, fatto pontefice massimo 13 anni
avanti Cristo, temendo che la pace pubblica non venisse
sommossa da cotesta aspettanza d'un nuovo ordine di
cose, comandò che in un dato giorno fossero consegnati
al pretore urbano tutti i libri o versi Sibillini che alcuno
possedesse, e più di duemila ne mandò al fuoco; fece ri-
vedere gli autentici, sigillare in doppia cassa dorata, e ri-
320
porre sotto l'altissima base dell'Apollo Palatino. Tiberio
imperatore ne decretò poi un nuovo esame, molti espun-
gendone. Poco stante vi fu aggiunto un nuovo volume.
Sotto Nerone andarono in fiamme, ma ancora furono re-
staurati. Arsero di nuovo al tempo di Giuliano apostata,
poi sotto Onorio nel 395 dopo Cristo, e sempre furono
ripristinati. Finalmente, nel 405, Stilicone bruciò il codi-
ce delle Sibille, nè più si cercò serbarne traccia, atteso-
chè le profezie erano adempite.
La raccolta dei versi Sibillini fu pubblicata da Galleo
ad Amsterdam nel 1689, con moltissimi falsi, special-
mente quelli che riguardano Cristo. Il Maj nel 1817 diè
fuori altri frammenti, e Struve ne fece la raccolta più
compita, Sibyllinorum librorum fragmenta, Königsberg
1818. Ma a quanto or ne possediamo manca ogni carat-
tere di autenticità. Pure Giuseppe Ebreo, nell'Archeolo-
gia giudaica, cita un pezzo dei libri Sibillini, ove si rac-
contano quasi come nella Genesi la confusione delle lin-
gue e la torre di Babele; e il citarli mostra fossero cono-
sciuti al suo tempo. Poco dopo, san Giustino e Teofilo
d'Antiochia adducono versi delle Sibille a favore del cri-
stianesimo. Altri Padri se ne valgono nelle controversie,
cioè dove poteano essere impugnati se finti fossero o re-
centi. San Clemente Alessandrino mette in bocca
all'apostolo Paolo un appello ai versi della Sibilla.
Non conchiuderemo per questo che le Sibille fossero
ispirate dallo Spirito Santo e vere profetesse. Forse
aveano esse raccolto con maggior attenzione e minori
mescolanze quelle verità, che al paganesimo erano rima-
321
ste dalla rivelazione primitiva, e che insegnavansi ai mi-
stagogi in grande segretezza, e le aveano deposte in li-
bri. In questi sembra si contenessero teogonie molto più
precise ed elevate che non le diffuse nelle scuole e nei
tempj; e profezie, i cui punti principali erano il fine del-
le cose, finem ævi, e il Dio re, Deum regem. Fine delle
cose, per gli uomini di sangue e di gloria, non poteva es-
sere che il termine del sistema delle conquiste e della ni-
micizia universale. Seneca stesso trae da questa aspetta-
zione qualche tinta melanconica, e vi si premunisce col
suo stoicismo.
Il più insigne interprete degl'insegnamenti delle Sibil-
le è Virgilio, il quale, nel libro VI dell'Eneide, dalla Cu-
mana fa esporre una filosofia, che la più elevata non
aveva mai inteso il paganesimo; quasi già il Verbo divi-
no si fosse accostato alla terra, tanto da balenare a qual-
che intelletto privilegiato. Poi, nell'Egloga IV, dipinge
con colori mitologici e pastorali un'imminente età
dell'oro, una rinnovazione del secolo, attribuendo ancora
la predizione alla Sibilla Cumana. ‒ Vedi l'Appendice
VII.

322
APPENDICE V.
NOMI E GENTI ROMANE

Ogni Romano libero aveva tre nomi, prænomen, no-


men, cognomen; alcuni v'aggiungeano l'agnomen. A tale
attribuzione s'innesta una delle quistioni più controverse
fra gli archeologi e i giurisperiti, che cosa s'intendesse
per gens e gentilis. Cicerone, nelle Topica, VI, volendo
dare un esempio della definizione, adduce questa: «Gen-
tìli sono coloro che hanno lo stesso nome; non basta:
che sono d'origine ingenua; non basta: de' cui ascen-
denti nessuno fu in servitù; manca ancora qualcosa: che
non furono diminuiti del capo; tanto forse basta, nè altro
vedo v'abbia aggiunto Scevola pontefice». Il luogo degli
Istituti di Cajo, ove la quistione era trattata, manca: sic-
chè molti sistemi si formarono sopra tal punto.
Credono alcuni che ciascuna gente si dividesse in
stirpi, e le varie stirpi in famiglie, con un nome comune
per tutta la gente, un agnome per ciascuna stirpe, un co-
gnome per ciascuna famiglia: agnati sarebbero i membri
della stessa famiglia o stirpe; gentili gli altri. Secondo
alcuni, gli agnati si fermerebbero al decimo grado; più
in là sarebbero gentili. Altri fermano gli agnati ai colla-
terali, provenienti da avo o da padre comune, e dalla lo-
ro discendenza; e gentili chiamano i collaterali, prove-

323
nienti da bisavoli, trisavoli, o altri ascendenti più remoti.
Distinzioni arbitrarie, e tanto più il supporre che la gente
si componga di famiglie, fra cui il nome comune indica
comune origine, sebbene lontana a segno, che fra i
membri non si potrebbero provare legami civili d'agna-
zione.
Il Niebuhr farebbe la gente un'aggregazione politica
di famiglie patrizie, senza legami di sangue o di podestà
patria, bensì consociati sopra una divisione territoriale
della città, per esempio un quartiere, con nome e riti co-
muni, e partecipazione complessiva alle funzioni politi-
che della città. Non sarebbe stata propria che de' nobili:
pure il Niebuhr è costretto riconoscere che i clienti e i li-
berti facevano parte della gente; e vi erano genti plebee,
come la Popilia, la Elia ed altre, fra cui non compajono
cotesti legami politici.
Certo i Romani all'espressione di gente affissero
l'idea d'una derivazione comune: ma tale derivazione
poteva essere o naturale o civile. Nella convivenza civi-
le o naturale de' Romani voglionsi distinguere, 1° la fa-
miglia, a cui corrisponde l'agnazione; 2° la gente, a cui
corrisponde la gentilità; 3° la cognazione.
La famiglia ha luogo per tutti i cittadini, patrizj siano
o plebei, di razza ingenua o liberti: fondasi sopra una
base affatto civile, qual è la podestà paterna o maritale,
che tutti congiunge sotto un capo comune, qual è il ca-
postipite se fosse ancora vivo.
La gente non abbraccia tutti, ma quei soli che stettero
sempre liberi, e i cui ascendenti non furono mai in servi-
324
tù nè in clientela, e perciò tessono la propria genealogia
di generazione in generazione; mentre quelli, un cui
ascendente fu cliente o schiavo, devono la loro genera-
zione civile alla stirpe di cui assunsero il nome e i riti.
Adunque i membri delle famiglie sempre ingenue sono
fra loro agnati e gentili: inoltre sono gentili de' membri
di tutte le famiglie di clienti annesse alla loro gente, o di
quelle prodotte dalla famiglia loro mediante l'emancipa-
zione. Questi ultimi hanno dei gentili, ma essi non sono
gentili di nessuno: portano il nome e partecipano ai riti
della gente cui si attaccano o da cui emanano; possono
essere deposti nel sepolcro di quella gente; ma non han-
no la qualità di gentili, nè i diritti di eredità e di tutela
annessi a tale qualità. In siffatta ipotesi regge la defini-
zione di Cicerone, mentre cade in quella del Niebuhr.
La cognazione, al pari che la famiglia, ha luogo indi-
stintamente per tutti i cittadini, esprimendo il legame fra
persone unite per sangue naturalmente, o che la legge
reputa tali. Perciò ogni membro della famiglia è pur
membro della cognazione; membro anche della gentili-
tà, se trattasi di famiglia perpetuamente ingenua. Laon-
de tutti gli agnati sono anche cognati fra loro; e nel caso
di famiglie sempre ingenue, tutti gli agnati sono anche
gentili e cognati fra loro; oltre che son gentili di tutti i
membri delle famiglie derivate dalla loro gente.
Ciò condusse alcuni nella falsa credenza che la fami-
glia e la gente fossero una cosa sola; siccome fece il Vi-
co, al quale rimase sconosciuto il carattere speciale e ci-
vile di tale istituzione (De constantia philologiæ, tom.
325
III.p. 198, 279: De uno universi juris principio et fine,
tom. III. p. 58-107, ediz. dei classici). Erra egli egual-
mente nel supporre che la gentilità non si perde da chi
esce dalla famiglia per adozione: il che ripugna e col
senso del diritto civile romano, e colla definizione sud-
detta di Cicerone. Perocchè ogni membro escluso dalla
famiglia cessa d'essere agnato; cessa pure d'essere genti-
le se trattasi di famiglia gentilizia; ma non cessa di esse-
re cognato di quelli cui è legato per sangue, atteso che
l'agnazione e la gentilità sono legami civili, mentre la
cognazione è legame naturale.
Adunque la gente, nelle varie agnazioni ond'è compo-
sta o che ne dipendono, comprende: 1° la famiglia o
agnazione, d'origine perfettamente ingenua; 2° in posi-
zione subordinata, le famiglie o agnazioni plebee dei
clienti, le quali fra loro nella famiglia rispettiva sono
agnati e cognati, ma tutti hanno per gentili i membri del-
la gente superiore di cui portano il nome; 3° al di sotto
ancora le famiglie o agnazioni ingenue adesso, ma che
provengono da un'emancipazione operata dalla gente.
Se di molta oscurità è involto il legame della clientela,
non è meraviglia, giacchè su questo privilegio patrizio
pochi documenti rimangono, e cessò presto, mentre du-
rarono sempre la schiavitù e l'emancipazione.
Come dunque l'agnazione è fondata sopra un legame
comune di podestà patria o maritale, così la gentilità
fondasi sopra un legame di patronato, comunque antico;
e l'una e l'altra portano comunanza di nome e di riti,
mentre la cognazione si deduce soltanto dai vincoli del
326
sangue; quelle sono legame civile e religioso, questa è
di mero diritto naturale.
La gentilità in conseguenza rimane ristretta a quelle
poche famiglie che in nessun tempo trovaronsi sotto pa-
tronato nè in servitù. In origine non furono tali che i pa-
trizj; ma poi s'introdussero nella città stirpi plebee, le
quali non erano state sottomesse alla clientela dei patri-
zj, come soleano i primitivi plebei; poi, come dicemmo,
la clientela andò in dileguo, mentre rimasero la schiavi-
tù e l'emancipazione. Le famiglie plebee poterono dun-
que costituire genti, col diritto di gentilità, non relativo a
clienti che mai non ebbero, ma ai membri delle famiglie
derivate da loro per l'affrancazione. E di fatto Cicerone,
nella definizione a cui ci appoggiamo, non mette per
condizione della gentilità il patriziato.
Da tutto ciò s'inferisce che il titolo e i diritti di gentile
spettavano soltanto ai membri della famiglia patrizia del
patrono, o della famiglia che essa affrancava, riguardo a
quelli della famiglia de' clienti o de' liberti. Gentile indi-
cava chi apparteneva ad una stirpe primitiva, con genea-
logia, propria e sempre ingenua. Il diritto di gentilità
sparve di buon'ora: Cicerone già lo diceva raro; Gajo lo
dà come disusato (III. 17). E la ragione è chiara, poichè
la clientela rimase tolta dall'uguagliamento de' plebei co'
patrizj: quanto alle emancipazioni, moltiplicandosi
all'infinito la successione delle razze, le affrancate ne af-
francavano altre; che generavano altre famiglie, consi-
derantisi di maggiore ingenuità quant'era più lontano il
tempo del loro affrancamento; per modo che dovettero
327
smarrirsi le traccie della gentilità; si moltiplicavano ed
appuravano le famiglie secondarie, mentre nelle succes-
sive perdeansi le famiglie primitive. Il diritto di gentilità
sopravvisse solo in alcune famiglie poderose, che mette-
vano onore e interesse nella loro genealogia. Ma mentre
i giureconsulti e gli eruditi discordavano intorno a siffat-
ta istituzione, il popolo ne conservò il vero senso nelle
voci di gentile, gentilizio, gentiluomo, e ne' corrispon-
denti che negl'idiomi diversi esprimono una persona di
buona estrazione, di puro sangue.

Tornando alle particolarità dei nomi, il prenome indi-


cava l'individuo, come i nostri di battesimo; e davasi al
bambino nove giorni dopo la nascita. I prenomi arriva-
vano appena alla trentina; alcuni erano prediletti in certe
famiglie, e aveano da principio qualche significato. Noi
gli esibiamo colle etimologie, comecchè spesso forzate,
de' grammatici:
Agrippa da ægre partus, nato con difficoltà.
Appius, variazione di actius, indicava qualche azione
particolare: era proprio d'un ramo di casa Claudia, che si
estinse colla repubblica: dappoi diventò nome di fami-
glia.
Aulus da alere, consacrato agli Dei alimentatori.
Cœso da cœdere, tratto dal seno materno con un ta-
glio.
Cajus o Gajus da gaudium, gioja de' genitori.
Cnæus da nævus, neo, macchia sulla pelle.
Decimus, Sextus, Quintus ecc.; numero progressivo

328
de' figliuoli del padre stesso.
Faustus, felice, caro agli Dei.
Hostus da hostis, nato in terra straniera; quod esset in
hostico procreatus, dice Macrobio.
Lucius da lux, nato all'aprirsi del giorno.
Mamercus, nome osco del dio Marte: era usitato in
casa Emilia.
Manius da mane mattina, o da manus, che anticamen-
te significava buono.
Marcus, nato in marzo.
Numerius. Uccisi tutti i Fabj a Crèmera, ne sopravan-
zò un solo, che sposò la figlia d'un cittadino di Beneven-
to detto Numerio Otacilio, il quale volle che il primoge-
nito si chiamasse Numerio; donde questo prenome ven-
ne in quella famiglia.
Opiter, ob patrem, nato dopo la morte del padre, ma
vivo l'avo che gliene fa le veci.
Posthumus, nato dopo sepolto il padre.
Proculus, nato nell'assenza del genitore, o nella vec-
chiaja; quasi procul progressa ætate.
Publius, divenuto orfano prima d'aver nome, pupilli
facti priusquam prænomina haberent. Fors'anche si rife-
riva alla forza del corpo o ad augurio, da pubes.
Servius, nato da madre schiava.
Spurius, di padre incerto.
Tiberius, nato presso al Tevere.
Titus deriva da un Sabino di questo nome.
Tullus da tollere, indicante l'intenzione che il padre
aveva di accettare e allevare il neonato.
329
Volero da volo: volentibus nasci liberis parentibus in-
debatur, dice un grammatico ch'io non intendo. Era pro-
prio della gente plebea Publilia.
Vibius?
Vopiscus, usato in casa Giulia; e dicono indicasse un
gemello venuto a maturità, mentre l'altro uscì abortito.
Sotto gl'imperatori, parecchi nomi che indicavano fa-
miglie e rami, diventarono personali, come Cossus,
Drusus, Paulus, e principalmente Flavius dopo che im-
perarono i Flavj.
Le donne avevano il prenome? Qualche esempio
sembra provare il sì; ma generalmente s'indicarono col
nome di famiglia del padre o del marito, distinguendole
una dall'altra cogli epiteti di major, minor, tertia, e per
vezzo primilla, secundilla, tertilla ecc.
Il nome dicemmo come indicasse la gente, cioè la ca-
sa. Primieramente esprimeva l'origine d'essa casa, o il
luogo donde veniva; perciò finivasi per lo più in ius. Al-
cuno traevasi da antichi prenomi, come Marcius da
Marco, Postumius da Postumo; o da qualche animale,
Porcius, Asinius; o da funzioni sostenute, o da altra ac-
cidentale particolarità.
Dal non avere gli Etruschi usato il nome, volle arguir-
si non conoscessero la divisione per genti; ma conviene
ricordare che neppure i Romani lo adoprarono nei primi
tempi.
Ogni casato distinguevasi in più rami, chiamati stir-
pes che si dividevano in familiæ, a cadauna delle quali
si affiggeva un nome particolare, che era il cognome.
330
Per lo più deducevasi da circostanze speciali del capo-
stipite, buone o cattive qualità, difetti corporei, imprese
e simili. Non termina in ius, ma in us, in or, ecc.
L'agnome s'aggiungea talvolta ai tre precedenti per
indicare la stirpe, o per memoria di qualche splendido
fatto, o per esprimere che uno era entrato nella famiglia
per adozione. In quest'ultimo caso, un figlio di famiglia
rinunziava ai suoi diritti di nascita, e diveniva membro
della famiglia in cui entrava; e conservando il prenome
suo, assumeva il nome del casato e della famiglia del
padre adottivo; se conservasse l'antico suo casato, muta-
vane la desinenza in ius o anus, e lo collocava come
agnome dopo il nuovo nome e cognome. Publio, figlio
di Paolo Emilio vincitore di Perseo, quando fu adottato
da Publio Cornelio Scipione Africano, s'intitolò Publius
Cornelius Scipio Africanus Æmilianus, al che poi ag-
giunse il soprannome di Numantinus.
Taluni, in luogo dell'agnome, portavano il nome della
tribù o curia a cui appartenevano, ponendolo all'ablati-
vo: per tal modo gli ablativi Curio, Capito ecc. divenne-
ro nomi di famiglia.

Le genti o casati romani, ricordati dalla storia prima


degl'imperatori, sono da censettanta, di cui un terzo pa-
trizj, gli altri plebei. Fra i primi, tredici o quattordici
pretendeano derivare da Troja o da Alba, e avere costi-
tuito il senato de' prischi re, onde chiamavansi majorum
gentium. Secondo Dionigi d'Alicarnasso, appena un cin-
quanta famiglie patrizie sopravvivevano al finire della

331
repubblica; e Tacito (Ann., XI. 21) asserisce che nessuna
ne avanzava al tempo di Claudio. Ne poniamo qui la se-
rie, anche perchè giova conoscerle per interpretare le
epigrafi:
1. GENS ÆMILIA asseriva discendere da Emilio figlio
d'Ascanio. Spesso adottava il prenome Mamercus, che
indicò poscia un dei rami, mentre l'altro fu detto Lepi-
dus. Dai Mamerci si formò il ramo Paulus, diviso esso
pure in Pauli e Lepidi. V'apparteneano anche gli Scauri;
dei quali l'ultimo Mamerco Scauro, poeta e oratore, fu
ucciso sotto Tiberio per lesa maestà, adulterio e sortile-
gio. Dei Lepidi molti compajono ancora sotto i primi
imperatori; Marco Lepido, nipote d'Augusto, cognato e
complice di Caligola, congiura con Agrippina e Giulia,
ed è ucciso.
2. GENS ANTONIA voleva derivare da Ercole.
3. GENS CLELIA, da un compagno d'Enea, ed ebbe fra'
suoi la celebre Clelia.
4. GENS FABIA, da un fratello d'Ercole. Trecentosei pe-
rirono a Crèmera, rimanendo solo Fabio Vibulano. Que-
sto cognome voleano derivare da Vibo, città dei Bruzj
fondata da Ercole: fu mutato in Ambustus per una saetta
che colpì uno di quella casa. Il ramo più celebre degli
Ambusti era il Maximus, da cui fu Fabio Massimo che
salvò Roma da Annibale, e che venne chiamato Verru-
cosus in grazia di un porro che aveva sul labbro, Avicula
per la naturale sua bontà, Cunctator pel temporeggiare
con cui ripristinò le cose. Questa casa finì nel primo se-
colo dopo Cristo.
332
5. GENS GEGANIA, da Gia compagno di Enea.
6. GENS JULIA, da Julo figlio d'Ascanio. Da Cajo Giu-
lio Julo, console nel 265 di Roma, veniva il ramo dei Li-
bo, che uscente il V secolo prese il nome di Cesare, o
perchè uno de' suoi membri fosse venuto in luce pel ta-
glio cesareo, o perchè avesse ucciso un elefante, che tal
nome porta in lingua punica.
7. GENS JUNIA, da un Giunio compagno d'Enea. Era di
questi Giunio Bruto, espulsore dei re. Coi due figli ch'e'
mandò al supplizio finì quella casa, essendo plebei i
Giunj che dappoi s'incontrano.
8. GENS NAUTIA, da Naute compagno d'Enea, nella cui
famiglia era il privilegio del sacerdozio di Pallade. I
membri di questa casa presero il soprannome Rutilus, e
spesso il prenome Spurio; e l'ultimo nominato fu il con-
sole del 467.
9. GENS QUINTIA. Tre rami s'illustrarono, il Capitoli-
nus, il Cincinnatus, il Flaminius. Nel VI secolo ai Capi-
tolini e ai Barbati succedono i Crispini, detti dai capelli
crespi. Anche i Cincinnati sono detti dai ricci, suddivisi
poi in due rami, di cui il cadetto si chiamò Pennus: nel
403 cessano di comparire nella storia, sopravvivendo
oscuri; Caligola vietò loro i capelli ricci. I Flaminj ebbe-
ro tal nome dall'essere flamini di Giove: dopo il vincito-
re di Filippo, console nel 631, più non si parla di questo
casato.
10. GENS SERGIA, da Sergeste compagno d'Enea: suoi
rami principali i Fidena e i Silo. L'ultimo de' Fidena co-
nosciuti era tribuno militare nel 375. I Silo, così detti dal
333
fondatore di questa casa che avea il naso ritorto, diedero
il famoso Catilina.
11. GENS SERVILIA: principali rami i Prisci e i Cepio-
nes. Alcuni dei quali portarono il soprannome di Ahala
o Axilla, da un difetto nelle spalle; e scompajono dopo il
V secolo. Da' Cepioni usciva la madre di Marco Bruto,
che adottato dallo zio, prese i nomi di Servilio Cepione
Bruto: con lui finirono i Servilj. Più avanti accenneremo
l'altra famiglia plebea.
12. GENS VALERIA, stratta da Voluso, venuto a Roma
con Tazio. Publio Valerio Voluso fu console il primo an-
no della repubblica, ed ebbe il titolo di Poplicola. Suo
fratello, dittatore nel 260, chiamossi Massimo per aver
riconciliato il senato col popolo. Da questi due fratelli
discesero due linee. Quella del maggiore si suddivise in
due collaterali, i Poplicola e i Potitus, detti poi Flaccus
nel V secolo. La linea del Massimo prese anche il nome
di Corvius o Corvinus, in memoria del combattimento
con un Gallo, sostenuto dal più famoso di loro casa. Il
pronipote suo v'aggiunse il nome di Messala per aver
preso Messina. Discendea da loro Messala Corvino,
protettore di Tibullo. Altri rami di questa casa erano i
Levinus, i Falto ecc., oltre i plebei.
13. GENS VETTIA, oriunda sabina. Un Vettio fu interrè
fra Romolo e Numa. Judex chiamavasi una sua linea.
14. GENS VITELLIA è delle antichissime; volea proveni-
re da Fauno re degli Aborigeni, e dalla dea Vitellia: ma
restò oscura fino all'imperatore Vitellio.

334
Da queste quattordici case, sangue purissimo di semi-
dei, veniamo alle minores gentes:
1. GENS ÆBUTIA. Dal ramo Elva uscirono varj consoli
nel III e IV secolo.
2. GENS ÆTERIA o ATERIA, in cui erano i Fontinales.
3. GENS AQUILIA, da aquilus nero. Erano di essi quello
cui Mitradate VII fece colar oro in gola, e il giurecon-
sulto che fu pretore con Cicerone.
4. GENS ATILIA, col soprannome di Longus.
5. GENS CASSIA. Suoi rami i Longini e i Viscellini: soli
i primi s'illustrarono.
6. GENS CLAUDIA. Atto Clauso Regillense, ricco sabi-
no, mutatosi a Roma dopo la cacciata dei re, prese il no-
me di Appio Claudio, donde la gente più arrogante. Suo
nipote fu decemviro: un altro costruì la via Appia, ed
ebbe il soprannome di Cieco. Un suo figlio diede il so-
prannome di Pulcher alla sua linea, estintasi nella guer-
ra civile. Il Clodio famoso si fece adottare da un plebeo
per divenire tribuno, mentre, fino a Nerone, nessun ple-
beo era stato adottato dai Claudj. Da un altro Claudio,
soprannominato Nero che in sabino significa prode, di-
scesero gl'imperatori Tiberio, Claudio, Caligola, con cui
finì la gente Claudia patrizia, stata cinque volte alla dit-
tatura, ventotto al consolato, sette alla censura, e che
avea menato sei trionfi e due ovazioni.
7. GENS COMINIA: due rami, Aruncus e Laurentinus.
8. GENS CORNELIA, la più numerosa e illustre pei più
grand'uomini. De' molti suoi rami quattro sono certa-
mente patrizj:
335
I Lentuli, detti da uno che aveva la pelle chiazzata di
lentigini, o che introdusse la coltivazione delle lenti. Il
primo console loro trovasi nel 451, l'ultimo nel 736. Pu-
blio Cornelio Lentulo console nel 683, fu cognominato
Sura, polpaccio della gamba, perchè avendogli Silla
chiesto conto del denaro amministrato come questore,
egli rispose che la sua gamba ne renderebbe ragione, al-
ludendo a un trastullo fanciullesco, ove era percosso su
quella parte chi mancava di sveltezza.
I Maluginenses. Un ramo ebbe nome di Cossus cioè
rugoso, poi di Arvina grasso.
I Rufini, nominati dal colore de' capelli, illustrati prin-
cipalmente da Silla dittatore, il cui bisavo avea avuto ta-
le soprannome perchè l'oracolo sibillino l'avea incarica-
to di celebrare i giuochi ad onore di Apollo.
Gli Scipiones, più famosi, provengono da uno che al
padre cieco serviva di bastone (σχηπιον). Nel IV secolo
si divisero in quattro linee, Hispallus, Nasica, Africa-
nus, Asiaticus. Gli Ispalli furono i meno illustri, detti da
Hispanus, un di loro che portò primo la notizia della
conquista di Spagna fatta da suo fratello. I Nasica dura-
rono a lungo, e sotto Nerone uno d'essi era sposo di
Poppea. Gli Africani e gli Asiatici venivano dai due fra-
telli vincitori d'Annibale e di Antioco: il primo adottò il
figlio di Paolo Emilio, che non ebbe discendenza; degli
Asiatici trovasi un console nel 671. Dice Cicerone che,
fino a Silla, il cadavere di nessun Cornelio era stato bru-
ciato, costumandosi di sepellirli. Sotto i primi imperato-
ri troviamo ancora un Publio Silla, genero di Claudio,
336
esule a Marsiglia, ucciso da Nerone; Publio Cornelio
Scipione, marito della prima Poppea; molti Lentuli con-
soli; un Gneo Dolabella, scannato per ordine di Vitellio;
Gneo Cinna, graziato da Augusto; un Maluginese flami-
ne diale. Altri erano plebei.
9. GENS CURTIA, oriunda del paese dei Sabini.
10. GENS FOSSIA. Uno de' suoi soprannomi era Flacci-
nator, quasi infiacchitore.
11. GENS FURIA o FUSIA da Medullia ne' Latini venne a
Roma sotto Romolo. Due rami s'illustrarono, il Medulli-
nus e il Camillus: dopo il 429 non appajono nella storia
fino al 780, quando un Furio Camillo proconsole d'Afri-
ca è nominato da Tacito. Un altro ramo dei Furj chiama-
vasi Pacilus. Ebbero sette dittatori, venti consoli, venti-
tre tribuni militari, quattro censori, sette trionfanti.
12. GENS GENUCIA. È notevole il ramo Augurinus.
13. GENS HERMINIA. Un suo ramo diceasi Esquilina.
14. GENS HORATIA. Uno fu console l'anno della caccia-
ta de' re, e chiamossi Pulvillus dal nome dei letti che fa-
ceansi a onore degli Dei. Ne uscirono Orazio Coclite e i
tre vincitori de' Curiazj.
15. GENS HORTENSIA. Il celebre oratore Quinto Orten-
sio era del ramo Ortalus.
16. GENS HOSTILIA. Diversi portano il soprannome di
Mancinus, altri di Cato.
17. GENS LÆTORIA, forse tutt'uno colla Plætoria ple-
bea.
18. GENS LARTIA. Lars indicava i capi degli Etruschi.
19. GENS LUCRETIA. I più famosi sono il Tricipitinus e
337
il Vespillo, detto da Claudio Lucrezio edile, che fece
gettar nel Tevere il cadavere di Tiberio Gracco; e vespil-
lo vuol dire becchino.
20. GENS MÆLIA. Suo soprannome fu Capitolinus.
21. GENS MANLIA: principali rami, Vulso, Capitolinus e
Torquatus. Un Vulso fu console nel 280; poi prese nome
dal Manlio salvatore del Campidoglio. Un nipote di
questo fu nominato Imperiosus per l'arroganza onde co-
mandò a' cittadini di prendere le armi. Suo figlio mag-
giore lo conservò; il minore prese quello di Torquatus da
un monile (torques) ch'e' tolse a un Gallo vinto in duel-
lo, e che i suoi portarono per distintivo finchè Caligola
il vietò.
22. GENS MENENIA. Costumava i soprannomi d'Agrip-
pa e di Lanatus.
23. GENS MINUCIA. Il ramo che arrivò ai primi onori,
massime nel III secolo, chiamavasi Augurinus, da qual-
che augure: un altro diceasi Rufus.
24. GENS NUMICIA, col soprannome di Priscus.
25. GENS OCTAVIA. Della famiglia patrizia trovansi i ra-
mi Rufus e Balbus.
26. GENS PAPIRIA. I suoi rami patrizj Mugillanus, Cur-
sor, Crassus, Masso scompaiono dopo il secolo VI.
27. GENS PINARIA. I Pinarj e i Potizj volevansi far di-
scendere da due Arcadi, venuti con Evandro in Italia.
Godevano per eredità il sacerdozio d'Ercole, il quale di-
cevano gli avesse iniziati ai misteri del suo culto. I due
rami erano uguali, finchè una negligenza de' Pinarj die-
de la prevalenza ai Potizj. Ma avendo questi consentito
338
che alcuni schiavi appartenenti alla repubblica adempis-
sero certe funzioni del loro sacerdozio, gli Dei ne prese-
ro tal collera, che in un anno estinsero tutti e dodici i ra-
mi di quella famiglia; e Appio Claudio, che vi avea con-
sentito, rimase cieco.
28. GENS POSTUMIA: avea il privilegio di far sotterrare i
suoi morti in città. Il ramo principale chiamasi Tubertus.
Una delle sue suddivisioni, Albus o Albinus, unì l'epiteto
glorioso di Regillensis quando Albo Postumio vinse i
Latini al lago Regillo. Sussistettero i Postumj quanto la
repubblica.
29. GENS QUINTILIA. Nel 301 Sesto Quintilio fu conso-
le: suo figlio chiamossi Varus, perchè era sbilenco: e tal
nome passò ai successivi.
30. Gens Sempronia. I patrizj portavano anche il no-
me di Atratinus: ma i più celebri furono plebei.
31. GENS SESTIA, soprannominati Capitolini.
32. GENS SICINIA, soprannominati Tusci e Sabini.
33. GENS SULPITIA, generata da Giove e Pasifae. Il ra-
mo anziano nomavasi Camerinus da Cameria, già noto
ai primi tempi della repubblica, e ancora sotto Nerone; il
ramo Galba s'estinse coll'imperatore di questo nome.
34. GENS TARQUILIA, col soprannome di Flaccus.
35. GENS TITINIA.
36. GENS VETURIA, spesso ricorre nei fasti consolari
del III secolo; un suo ramo chiamavasi Geminus Cicuri-
nus, uno Crassus Cicurinus, uno Calvinus, una Philo.
37. GENS VIRGINIA, illustre nel III e IV secolo, portava il
soprannome di Tricostus, cui alcuni aggiunsero Cœli-
339
montanus, altri Rutilius.
38. GENS VOLUMNIA. Vi si nota il soprannome d'Amin-
tinus e di Gallus.

Ora enumeriamo le case plebee, salite ad onori, mas-


sime in tempo della repubblica:
1. Gens Acilia. Durante la repubblica questo casato ri-
corre quattro volte fra' consoli, e dodici ne' tre primi se-
coli di Cristo. Altri rami v'erano, come i Balbi.
2. GENS ÆLIA, per antichità è lodata da Orazio, (Od.
III. 1). I rami dei Pœtus e dei Tubero ricorrono spesso
dopo il 317. Avvi pure i Ligur, i Gallus, i Lamia, de'
quali ultimi era Sejano. A un Lamia l'imperatore Domi-
ziano tolse la moglie e la vita.
3. GENS AFRANIA.
4. GENS ALBIA.
5. GENS ALFINIA.
6. GENS ANICIA.
7. GENS ANNIA, coi rami Luscus, Bassus, Rufus, Ca-
pra.
8. GENS ANTISTIA, ebbe parecchi tribuni del popolo; al
consolato giunse solo il 748; un ramo erano i Labeo o
Veteres, di cui fu Antistio insigne giureconsulto.
9. GENS ANTONIA, fu tra le plebee consolari sotto la re-
pubblica. La rovina del famoso Marc'Antonio triumviro
involse pure i suoi figliuoli; ma delle figlie una fu ava di
Nerone, l'altra bisava: e i Gordiani, imperanti nel III se-
colo, pretendevano discender pure da Antonio.
10. GENS APULEJA. Due rami, Pansa e Saturninus.

340
11. GENS ARRUNTIA. Lucio Arrunzio, console il 759, è
lodato per innocenza di vita e ben adoprata eloquenza:
accusato, dovette svenarsi.
12. GENS ASINIA, affatto nuova. Asinio Urio fu genera-
le degli Alleati contro Roma. Suo nipote è il celebre
Asinio Pollione, console nel 714. Asinio Gallo, figlio di
questo, sposa Vipsania repudiata da Tiberio, ed è obbli-
gato a morir di fame.
13. GENS ATIA. N'usciva la madre d'Augusto, onde
Virgilio la fa venire da un compagno d'Enea ( V, 368):
non salì oltre la pretura.
14. GENS ATILIA, da cui Marco Atilio Regolo.
45. GENS AUFIDIA.
16. GENS AULIA.
17. GENS AURELIA, detta Ausalia, che in sabino signifi-
ca sole, perchè a Cajo Aurelio Cotta, quando si stanziò a
Roma, fu dato un posto dove far al Sole i sacrifizj costu-
mati nella sua famiglia. Suo nipote fu console nel 502: i
discendenti si divisero in tre rami, Cotta, Orestes, Scau-
rus. Aurelj eran pure i Simmachi, illustri nel IV e V seco-
lo dopo Cristo; ma non sappiamo se di questo casato.
18. GENS AUTRONIA.
19. GENS BÆBIA.
20. GENS CÆCILIA plebea, benchè pretendesse venire
da un compagno d'Enea. Il ramo Metellus dopo il 470
diede molti grandi, fra cui il Macedonico, il Dalmatico,
il Numidico, il Cretico, oltre il Celere e il Pio. In ducen-
cinquant'anni, diciannove di questa casa ottennero quat-
tro volte il pontificato massimo, due la dittatura, dodici
341
il comando della cavalleria, venti il consolato, sette la
censura; i Creticus trionfarono nove volte, Pomponio
Attico v'entrò per adozione. Tutte le donne chiamavansi
Caja, in memoria di Caja Cecilia Tanaquilla.
21. GENS CÆDICIA.
22. GENS CALPURNIA plebea, ma voleva attaccarsi a
Calpo preteso figlio di Numa, e ostentava orgoglio ari-
stocratico. Arrivò al consolato nel 574, e d'allora portava
il nome di Piso, cui un ramo aggiungeva Cæsonius. Lu-
cio Calpurnio Pisone, console nel 621, fu cognominato
Frugi per la sua morigeratezza; il qual titolo passò a'
suoi discendenti, poi a tutti i rami dei Pisoni. Lucio Pi-
sone, uom d'antichi costumi, sarebbe stato ucciso
dall'imperatore Tiberio se non moriva a tempo. Un altro,
console nell'810, fu ucciso in Africa per ordine di Ve-
spasiano. Cajo Pisone cospirò contro Nerone.
23. GENS CANIDIA.
24. GENS CANINIA. Entrante l'VIII secolo, trovansi i due
rami Gallus e Rebilus.
25. GENS CARVILIA.
26. GENS CASSIA, il cui ramo principale chiamavasi
Longinus. Il più famoso è l'uccisore di Cesare: Cassio
Longino, console nel 783, sposò Drosilla figlia di Ger-
manico: Lucio Cassio, insigne giureconsulto e di gravità
antica, conservava l'effigie del suo antenato col titolo
Duci Partium: Cassio Cherea assassinò Caligola: Cassio
Ovidio si rivoltò contro Marc'Aurelio.
27. GENS CLAUDIA. Il ramo più celebre plebeo dei
Marcelli produsse insigni uomini, e si estinse in Marcel-
342
lo nipote e genero d'Augusto.
28. GENS CÆLIA. Molti Celj hanno il soprannome di
Rufus o di Caldus.
29. GENS CORNELIA. Parecchi rami plebei; il più noto è
quello dei Cinna. Era di questa casa il poeta Gallo pri-
mo prefetto dell'Egitto, poi Tacito e Nepote storici, Cel-
so medico; altri Cornelj erano i Dolabella, i Balbo, i
Merula, i Mammula, i Blesio.
30. GENS CORNIFICIA.
31. GENS CORUNCANIA. Un d'essi fu il primo pontefice
plebeo.
32. GENS CURIA.
33. GENS DECIA. Il ramo detto Mus giunse al consolato
nel 414. Famosi quei che si sacrificarono superstiziosa-
mente per la patria.
34. GENS DOMITIA, una delle plebee più illustri, venuta
all'impero con Nerone. Due rami più conosciuti, Calvi-
nus ed Ahenobarbus, così detto da uno, cui Castore e
Polluce comparvero annunziando una vittoria de' Roma-
ni, e carezzandogli la barba, che divenne rossa di rame.
Ebbero sette consoli, un censore, un trionfante, e passa-
vano per orgogliosi e violenti. Gneo Domizio Enobarbo,
console nel 785, sposò Agrippina di Germanico, da cui
ebbe Nerone, nel quale finirono gli Enobarbi ed i Cesa-
ri. L'ultimo Calvino nominato nella storia fu console nel
714.
35. GENS DUILIA.
36. GENS FABRICIA.
37. GENS FANNIA.
343
38. GENS FLAVIA. Dal ramo Fimbria uscirono uomini
illustri; dal Sabinus, l'imperatore Vespasiano; poi nel se-
colo IV ricomparve questo nome in Valentiniano, Valente
e Teodosio. Dopo il qual secolo divenne comunissimo
per adulazione, e quasi tutti i consoli lo assunsero, poi
per imitazione alcuni re barbari.
39. GENS FUSIA.
40. GENS FULVIA, molto illustre. Vi troviamo i rami
Maximus, Centimalus, Pœtinus, Nobilior, Flaccus. Ful-
via, sposa di Marcantonio, nasceva da un liberto.
41. GENS FUNDANIA.
42. GENS FURNIA.
43. GENS GABINIA.
44. GENS GENUCIA.
45. GENS GETTIA.
46. GENS HERENNIA, coi soprannomi di Balbus e Gal-
lus.
47. GENS HIRTIA.
48. GENS HOSTILIA.
49. GENS JUNIA. Tutti i Giunj che troviam nella storia
dopo Giunio Bruto, sono plebei. Per due secoli non n'è
parola, poi occorre un console nel 429; indi scontriamo
altri coi soprannomi di Bubulcus, Pennus, Silanus; ab-
biamo pure i Norbanus, Rusticus, Otho. I più conosciuti
sono Marco e Decimo Bruto, uccisori di Cesare. Cinnia,
moglie di Cassio uccisor di Cesare, sorella di Bruto e ni-
pote di Catone, fu l'ultima di sua stirpe. A' funerali di es-
sa apparvero le immagini di venti nobili famiglie; quelle
di Bruto e Cassio spiccavano viepiù perchè non v'erano
344
(TACITO, Ann., III. 76). I Silani furono scopo alle persecu-
zioni degli imperatori.
50. GENS JUVENTIA.
51. GENS LÆLIA. Famosi Cajo Lelio, amico di Scipione
Africano Maggiore; e suo nipote, amico dell'altro Afri-
cano.
52. GENS LICINIA, cioè dai capelli ritorti indietro. Il pri-
mo tribuno militare con autorità consolare fu Licinio
Calvo. Suo nipote Licinio Calvo Stolone fu il primo
console plebeo. Tre rami illustri, Crassus, Lucullus, Mu-
rena. I Crassi chiamaronsi Dives dopo Licinio Crasso,
nominato pontefice massimo senza passare per gl'impie-
ghi curuli; eccezione onorevole. Suo figlio adottò un
fratello del sommo pontefice Muzio Scevola maestro di
Cicerone; il quale, col nome di Licinio Crasso Muciano
Dives, propagò il ramo primogenito de' Crassus. Dal se-
condogenito venne il Crasso triumviro. Un suo discen-
dente adottò il fratello di Calpurnio Pisone che aveva
cospirato contro Nerone. Il giovane Pisone recò nella
casa Licinia il nome di Frugi, cui i suoi figli aggiunsero
quello di Scribonianus, in onore della loro madre. Il ra-
mo Lucullus fu illustrato dal vincitore di Mitradate; il
Murena dal trionfatore del re del Ponto. Sotto gl'impera-
tori, troviamo dei Crassi provenienti per donne da Pom-
peo, e che perciò avevano il soprannome di Magni, che
Caligola proibì loro di portare. Un Crasso Frugi fu ban-
dito da Trajano, e ucciso da Adriano nel 117 dopo Cri-
sto.
53. GENS LIVIA, benchè plebea, ebbe prima d'Augusto
345
otto consoli, due censori, tre trionfatori, un dittatore, un
maestro della cavalleria. Il primo Livio menzionato era
dei Dexter, uno de' quali fu console nel 452: un altro nel
535 e 547, fu cognominato Salinator per aver imposto la
tassa del sale. Più illustre è il ramo Drusus, nome deri-
vato da Livio Emiliano che vinse Drauso capo gallo. Da
lui vennero i famosi tribuni della plebe Marco Livio
Druso padre e figlio. Livia, sorella di questo, fu madre
di Catone d'Utica e di Servilia, che generò Marco Bruto.
Il fratello di lei adottò un Livio Druso Claudiano, e
s'uccise dopo caduta la repubblica a Filippi: sua figlia
Livia Drusilla generò Tiberio.
54. GENS LOLLIA. Cicerone nomina molti Lollj, ma
nessuno pervenne al consolato fin a Lollio Paolino nel
733, che fu ajo di Cajo Cesare nipote d'Augusto. Fu
sconfitto dai Germani, e arricchì sua famiglia colle spo-
glie dell'Asia. Lollia Paolina sua figlia sposò Caligola,
poi volle sposare Claudio, ed Agrippina la fece perire
nel 49.
55. GENS LUCINIA. I rami Balbus, Bassus, Longus, Ca-
pito ecc. ebbero tribuni della plebe.
56. GENS LUTATIA. Il ramo Catulus, venuto al consola-
to nel 512, diede letterati e statisti insigni.
57. GENS MÆNIA.
58. GENS MALLIA.
59. GENS MAMILIA, oriunda di Tusculo, dal cui fonda-
tore Telegono pretendea provenire, cioè da Ulisse. A Ro-
ma era plebea. Son noti i rami Vitulus, Turinus, Limeta-
nus.
346
60. GENS MANILIA.
61. GENS MARCIA, coi rami Philippus, Figulus, Rex,
Censorinus. Marcio Filippo, console nel 698, sposò
Azia nipote di Giulio Cesare e vedova di Cajo Ottavio,
divenendo così suocera d'Augusto.
62. GENS MARIA, illustrata da Cajo Mario.
63. GENS MEMMIA. Virgilio la deriva da Mnesteo com-
pagno d'Enea: un suo ramo era Regulus.
64. GENS MESSINIA.
65. GENS MUCIA, soprannominata Scevola dall'assassi-
no di Porsena. Da padre in figlio trasmetteansi lo studio
della giurisprudenza.
66. GENS MUMMIA. Il più illustre ne è l'Acaico, distrut-
tore di Corinto.
67. GENS MUNATIA.
68. GENS NÆVIA. I Balbi e Sardini ne sono i rami.
69. GENS NONIA.
70. GENS NORBANA.
71. GENS NUMITORIA.
72. GENS OCTAVIA, già patrizia. Un ramo divenne ple-
beo, non si sa come, finchè Cesare le rese il patriziato.
Gli Ottavj plebei furono più illustri. Cajo Ottavio, d'anti-
ca famiglia di Velletri, fu il primo che ottenesse dignità;
e da Azia nipote di Cesare generò Ottaviano, che si
chiamò poi Augusto, e che non lasciò figliuoli.
73. GENS OGULNIA.
74. GENS OPPIA.
75. GENS PAPIRIA. Il ramo plebeo chiamavasi Carbo.
76. GENS PEDANIA o PEDIANIA.
347
77. GENS PÆTILIA.
78. GENS PLÆTORIA.
79. GENS PLANCIA.
80. GENS PLAUTIA o PLOTIA. Ne conosciamo i rami
Proculus, Silvanus, Hypsæus, Venno, Tucca, tra cui
l'amico di Virgilio. Un Plauzio è ucciso orribilmente da
Nerone, uno fu pontefice, un altro console nell'834.
81. GENS POMPEIA. Una linea dei Rufus fu detta Bithy-
nica per una vittoria sui Bitini: l'altra degli Straboni, ce-
lebre pel Magno Pompeo, pare essersi estinta co' due
suoi figli Gneo e Sesto nelle guerre civili; però qualche
Pompeo appare sotto gl'imperatori.
82. GENS POMPONIA pretendea discendere da Numa: vi
troviamo i soprannomi di Matho, Græcinus, Secundus
ecc. e n'uscì l'amico di Cicerone. Lucio Pomponio con-
solare, guerriero, poeta, è mentovato da Tacito.
83. GENS PONTIA.
84. GENS POPILIA.
85. GENS POPLICIA.
86. GENS PORCIA. Un Porcio Prisco tusculano fu capo
d'un ramo, ed ebbe titolo di Cato per la sua prudenza, e
di Censorinus per la sua severità nell'esercitare la censu-
ra. I due suoi figli, portanti egual nome, si distinsero col
soprannome di Licinianus e Salonianus desunto dalla
madre. Da quest'ultimo venne Catone Uticese.
87. GENS PUBLILIA. Quinto Filone di questa casa fu
console quattro volte, 415-439, si segnalò nella guerra
sannitica, e fu il primo pretore plebeo. Dopo di lui que-
sta stirpe scompare.
348
88. GENS ROSCIA.
89. GENS RUBRIA.
90. GENS RUPILIA o RUBELLIA. Rubellio Plauto, accusa-
to d'aspirare all'impero, è ucciso da Nerone.
91. GENS RUTILIA. Due rami Rufus e Lupus. Il più cele-
bre fu Publio Rutilio Rufo, oratore, filosofo, storico, e
console nel 649.
92. GENS SALIA. Ne uscì Lucio Salvio, buon capitano,
da cui nacque l'imperatore Otone, che non lasciò poste-
rità.
93. GENS SCRIBONIA. Curio e Libo erano i rami princi-
pali, e quest'ultimo discendeva da una figlia di Pompeo.
Scribonia, maritata in un Crasso, fu uccisa col marito
sotto Claudio.
94. GENS SEMPRONIA. Oltre il ramo Atratinus patrizio,
erano plebei i Blæsus, Longus, Tudytanus, e i Gracchi
famosi. Un Gracco amante di Giulia fu esigliato da Au-
gusto, ucciso da Tiberio.
95. GENS SERVILIA. Il Priscus certamente, e i Cœpio
probabilmente erano patrizj; plebei i Casca, Rullus, Va-
tia, ecc. Un di questi ultimi ebbe il soprannome di Isau-
ricus.
96. GENS SEXTIA.
97. GENS SILIA. Cajo Silio fu vincitore di Sacrovir, e
Sejano l'obbligò ad uccidersi. Silio suo figliuolo sposa
Messalina, e Claudio imperatore lo condanna a morte
nel 49 dopo Cristo. Silia, moglie d'un senatore, è esiglia-
ta come sospetta d'aver divulgato le secrete lascivie di
Nerone.
349
98. GENS SOLIA.
99. GENS STATILIA.
100. GENS SULPICIA. Fra' plebei conosciamo i rami
Olympius, Quirinus, Rufus.
101. GENS TERENTIA. S'illustrò il ramo Varro, donde il
famoso erudito Marco Terenzio.
102. GENS TITINIA.
103. GENS TITIA.
104. GENS TREBONIA, TRIBONIA.
105. GENS TULLIA. Il ramo dei Cicero fu illustre. Non
n'è più traccia dopo Marco, figlio dell'oratore, gran beo-
ne, e che essendo console nel 724 con Augusto, fece dal
senato condannare la memoria d'Antonio.
106. GENS VALERIA ebbe molti oratori. Messala Barba-
to, console nel 742, sposò Marcella nipote d'Augusto, e
fu avo di Messalina. Valerio Messalino salì al consolato
nell'826.
107. GENS VALGIA.
108. GENS VARGUNTEJA.
109. GENS VENTIDIA.
110. GENS VIBIA.
111. GENS VILLIA.
112. GENS VINICIA.
113. GENS VIPSANIA fu illustrata da Marco Vipsanio
Agrippa, amico d'Augusto. Vipsania, sua figlia, moglie
repudiata di Tiberio, morì naturalmente: ma gli altri cin-
que figli, avuti da Giulia d'Augusto, perirono per opera
di Livia.
114. GENS VITELLIA, proveniente da un liberto calzola-
350
jo. Lucio Vitellio censore e tre volte console, fu adorator
di Caligola, e adulatore di Messalina, della quale porta-
va come reliquie una pantofola. L'imperatore e il fratello
furono uccisi: sua figlia andò sposa a Vespasiano.
115. GENS VOCONIA. Suoi rami Saxa, Naso, Vituli.
116. GENS VOLCATIA.
117. GENS VOLUMNIA. Flamma Violens fu console nel
447 e 458.
118. GENS VOLUSIA antica, ma sotto la repubblica non
era giunta che alla pretura, e sfuggì alla gelosia degli
imperatori. Lucio Volusio, morto l'anno 20 dopo Cristo,
fu il primo che fosse console; e acquistate grandi ric-
chezze, assicurò il credito di sua famiglia. Un altro Lu-
cio Volusio morì nel 57 nonagenario, avendo traversato
il regno di tanti Cesari senza nimicarsene alcuno, ben-
chè ricco.
Sarebbe pure ad annoverare la gente ANNIA spagnuo-
la, da cui i due Seneca, Marco filosofo, Lucio maestro
di Nerone, Anneo Mella suo fratello e padre di Lucano.
Marco Annio Novato, per adozione chiamato Giunio
Gallione, ebbe a fare con san Paolo.
Nei tempi successivi è viepiù difficile seguir le trac-
cie delle famiglie, prima per la scarsezza di documenti,
poi per la confusione dei nomi, applicandosi questi po-
chi a troppe famiglie diverse; poi per le adozioni, che i
membri dell'una trasferivano in un'altra. Aggiungasi la
facilità con cui sotto gl'imperatori cangiavansi i cogno-
mi: la quale è pure indizio del deperimento delle schiat-
te primitive, desiderato e sollecitato dagli imperatori,
351
accelerato dalla scostumatezza, che disperdeva i patri-
monj, conculcava la dignità, e impediva o sciupava la
generazione.

Su questo proposito possono consultarsi


C. SIGONIO, De nominibus Romanorum.
O. PANVINIUS, De antiquis Romanorum nominibus.
R. STREINNIUS, De gentibus et familiis Romanorum.
A. AUGUSTINUS, De familiis Romanorum.
F. URSINIUS, Familiæ romanæ nobiliores.
Sono nei vol. II e VII del Thesaurus antiquitatum ro-
manarum di Grevio.
G. A. RUPERTI, Tabulæ genealogicæ, seu stemmata nobi-
lium gentium Romanorum. Gottinga 1794.
ORTOLAN, Explication historique des Instituts de l'empe-
reur Justinien, Parigi 1854, al lib. III, tit. 2.

Drumann (Storia di Roma nel passaggio dalla repubbli-


ca alla monarchia, per ordine di genti, 1830-38)
porge le particolarità delle famiglie romane note-
voli al tempo di Cesare e d'Augusto.

352
APPENDICE VI.
MONETE, MISURE E VALORI
FRA I ROMANI

Affatto incerta è la valutazione delle monete antiche,


e i ragguagli dati dagli eruditi differiscono può dirsi in
ciascuno, anche di buon tratto. Dopo degli altri, e perciò
profittando di tutti, ne ragionò Boeckh, Metrologische
Untersuchungen über Gewichte, Münzfüsse und Mässe
des Alterthums in ihren Zusammenhange. Berlino 1838.
L'asse, prima unità monetaria romana, era una libbra
da dodici oncie di bronzo non coniato, æs rude.
Un'impronta vi si pose sotto Numa o Servio Tullio, che
fu una pecora, donde il nome di pecunia.
La prima moneta d'argento fu battuta nel 485 di Ro-
ma, ed era il denaro (dena æris), equivalente a dieci assi
di bronzo: sua metà fu il quinario; suo quarto il sester-
zio, sesquitertius, cioè due assi e mezzo. Per comodo di
cambio ebbero la libella = 1 asse, o ad una libbra di ra-
me; la sembella = 1/2 libbra; il teruncio = 1/4 libbra. In
una libbra v'avea quaranta denari d'argento e voleansi
dieci assi per fare un denaro, sicchè la proporzione del
rame all'argento era:: 400:1.
Al fine della prima guerra punica, l'asse fu ridotto da
dodici oncie a due; e quindi il denaro a 1/84 della libbra,
ossia grani 73 333; essendo il grano di marco = 0 0531

353
gramme di peso metrico. La proporzione dunque fra
l'argento e il rame monetato era:: 84 x 10: 6, ossia::
140:1. Nell'anno di Roma 536, l'asse fu ridotto al peso
d'un'oncia, e il denaro, senza alterarne il valore, fu alza-
to a sedici assi, il quinario a otto, il sesterzio a quattro;
onde la proporzione dell'argento al rame coniato stette::
112:1. La legge Papiria del 562 abbassò l'asse a
mezz'oncia di rame; il denaro restò uguale, e valse anco-
ra sedici assi; quindi la proporzione fra il rame coniato e
l'argento fu :: 1: 56. Ma non era un valor mercantile,
bensì arbitrario; l'asse non restava più che moneta di
conto; e unità monetaria divenne il sesterzio.
Questo sestertius non va confuso col sestertium, mo-
neta di conto che valea mille sesterzj. Spesso negli auto-
ri si trova sestertium, genitivo contratto di sestertiorum.
È marcato IIS o HS, cioè assi due e mezzo: e cogli av-
verbj semel, bis, ter, decies esprime 100,000 sesterzj,
presi una, due, tre, dieci volte. Così ter HS varrà
300,000 sesterzj.
I Romani nel 547 batterono la prima moneta d'oro al-
la ragione di uno scrupolo per venti sesterzj; e abbiamo
di tali monete coll'impronta del XX, XXXX, IX. La libbra
romana è ducentottantotto scrupoli; perciò conosciuto il
peso dello scrupolo, s'avrà la libbra. Le esperienze più
squisite diedero grani 6154.
Mentre da principio in Roma l'aureus si riferiva allo
scrupolo, dappoi si riferì anch'esso alla libbra, come il
denaro. Tale cambiamento non sappiano bene quando si
facesse, ma pare dopo Cesare; quantunque Eckhel
354
(Doctrina nummorum) neghi che durante la repubblica
siansi coniate monete d'oro, per la ragione che troppo
bello n'è il conio, e somiglia a quello de' Siciliani e de'
Campani. Ma Roma non poteva adoperare a ciò qualche
Greco?
Dopo il 705, la moneta d'oro fu la quarantesima parte
della libbra, e venticinque denari di valore. La propor-
zione dunque fra i due metalli era:: : 1, ossia
press'a poco come 12 a 1.
Ai tempi d'Erodoto, l'oro valea tredici volte l'argento;
a quelli di Platone, dodici; alla morte di Alessandro, die-
ci; e così al tempo del trattato fra gli Etolj ed i Romani.
In Italia non troviamo antiche miniere d'oro e d'argen-
to, talchè sino al 247 avanti Cristo non corse nella set-
tentrionale che moneta di rame, e sembra che le colonie
della meridionale tirassero dalla Grecia l'argento per le
monete loro. Roma esigeva i tributi in argento, lo che
mantenne l'oro ad una proporzione superiore alla greca.
Sotto gl'imperatori succeduti ad Adriano, la moneta an-
dò in disordine: la proporzione dell'oro coll'argento sot-
to Domiziano era di 11 1/2. Verso il regno di Postumo
l'argento scompare, poi ricompare con Diocleziano.
Usandosi allora moneta scadente, l'oro dovette crescere
enormemente di prezzo e uscire d'Italia; onde sotto Co-
stantino la proporzione era di 1 a 15; sotto Teodosio il
Giovane, di 1 a 18; ma al tempo di Giustiniano il trovia-
mo ancora di 1 a 15.
Sebbene le monete deteriorassero di peso, il titolo re-

355
stò quasi eguale, fra 0.998 e 0.991 di fino per l'oro, e per
l'argento da 0.993 a 0.965. Regolator del valore era
l'oro, come oggi in Inghilterra; perciò conservasi inalte-
rato di peso e di titolo, e una Novella di Valentiniano III
porta: — L'integrità e inviolabilità del segno favorisco-
no il commercio, e mantengono la stabilità del prezzo
delle cose venali».
Così valutando, senza tener conto delle spese di mo-
netazione, Letronne riscontra il denaro d'argento dalla
repubblica sino a Domiziano rappresentare un valore da
centesimi 83 fino a 70, ossia precisamente:

Ma le tabelle date da Dureau de la Malle, il quale trat-


tò espresso dell'Economia de' Romani, fanno il denaro
al principio della repubblica = lira 1.63; sotto Cesare =
lire 1.12; sotto Augusto = lira 1.08; sotto Tiberio = lira
356
1; sotto Claudio = lira 1.05; sotto Nerone = lira 1.02;
sotto gli Antonini = lira 1.
Sotto Costantino Magno, il solido, di cui tagliavansi
settantadue alla libbra d'oro, può valutarsi a lire 15.53, il
resto in proporzione: sotto i suoi successori, cioè nel
Basso Impero, a lire 15.10.
La libbra d'oro, così spesso menzionata, può valutarsi
a lire 900; a 75 quella d'argento. Sul declinare dell'impe-
ro, la libbra d'oro valse lire 1066.
Nel trattato d'Antioco coi Romani, riferito da Polibio
e Tito Livio, si stipula che il tributo si paghi in talenti at-
tici di buon peso, e che il talento pesi ottanta libbre ro-
mane. Sapendo d'altro luogo che il talento era seimila
dramme, otterremo il peso della dramma = grani 82 1/7.
Il talento attico si può approssimare a lire seimila.

Ecco le tabelle dei pesi e delle misure romane, secon-


do Letronne:
PESI
grammi Chilogr. grammi
Scripulum o scriptum 1. 136 Dupondium 2 ‒ 654. 347
asses
Sextala 4. 544 Tressis 3 » ‒ 981. 316
Sicilicus 6. 816 Quadrussis 4 » 1. 308
Duella 9. 88 Quincussis 5 » 1. 636
Semuncia 13. 633 Sexcussis 6 » 1. 963
Vncia 27. 265 Septussis 7 » 2. 290
Sescuncia 1-1/2 unc. 40. 898 Octussis 8 » 2. 617
Sextans 2 » 54. 531 Nonussis 9 » 2. 945
Quadrans 3 »225 81. 797 Decussis 10 » 3. 272

357
Triens 4 » 109. 62 Vigessis 20 » 6. 544
Quincunx 5 » 136. 328 Trigessis 30 » 9. 815
Semis 6 » 163. 593 40 » 13. 87
Septunx 7 » 190. 859 50 » 16. 359
Bis 8 » 218. 125 60 » 19. 631
Dodrans 9 » 245. 390 70 » 22. 903
Dextans 10 » 272. 656 80 » 26. 175
Deunx 11 » 299. 922 90 » 29. 447
As, o libra romana 327. 187 Centussis 100» 32. 718

Così nel testo: probabilmente Triens e Quadrans devono essere invertiti.


225

[Nota per l'edizione elettronica Liber Liber]

358
359
Senza ingolfarci in particolarità, difficilissime come
sono tutte quelle che concernono i valori, indicheremo
che nel 454 un montone compravasi per dieci assi, un
bue per cento. A Roma si faceano distribuzioni di grani
a bassi prezzi: questi sono conosciuti, ma non danno il
reale ragguaglio fra il grano e il denaro. Il medio pare
fosse di tre sesterzj al moggio. Il moggio di frumento
pesava da sedici libbre francesi: stava dunque allo

360
stajo :: 1: 15 (ettolitri 0,101). Perciò lo stajo sarebbe co-
stato a Roma sesterzj 45 o denari 11 1/4, cioè 825 grani
d'argento. Adunque al tempo della repubblica il rapporto
fra l'argento e il grano era come 2.681 a 1.
Si può credere che l'Italia, all'epoca delle maggiori
sue conquiste, possedesse più ricchezze che ora verun
altro paese d'Europa. Ma ben presto cessarono d'entrare
nuovi tributi, mentre cresceva l'asportazione dei metalli
verso l'Arabia, l'India e la Persia, onde ottenerne le deli-
cature; poi gl'imperatori pagarono tributo ai Barbari, poi
i Barbari stessi vennero a far preda; scemò in conse-
guenza il prezzo del grano. Una legge di Valentiniano
III del 446 stabilisce che il soldo italico è il valore di
quaranta moggia di grano; il che dà fra l'oro coniato e il
grano la proporzione di 73.911 a 1; ed essendo allora
l'oro coniato all'argento in verghe come 18 a 1, ne viene
che l'argento stava al grano come 4.106 a 1; ossia lo sta-
jo di grano sarebbe valso appena 538 grani d'argento,
non più 825 come al principio dell'êra vulgare.

361
APPENDICE VII.
FAVOLE INTORNO A VIRGILIO

La tradizione, che trasfigurò san Giorgio in un cava-


liere, il filosofo Abelardo nel libertino Pietro Bagliardo,
Carlo Magno in un capo di venturieri, Silvestro II papa
in un mago, e pose in cielo Seneca, Plinio, Trajano, fece
una trasformazione ancor più degna d'essere studiata;
quella di Virgilio in un necromante.
Al suo tempo, diversissima fama correva de' costumi
di lui, chiamato verginale da chi per castità, da chi per
troppo amore alle ragazze, e non alle ragazze soltanto.
Ma già allora veniva onorato sovranamente; Properzio
prenunziava in lui qualcosa maggiore d'Omero: Nescio
quid majus nascitur Iliade; commentatori e biografi di
poco posteriori dicono che il popolo si alzava al compa-
rir suo in teatro, come all'imperatore; la vita sobria e ri-
tirata, cui la gracile salute lo induceva, aggiungevagli il
prestigio dell'ascetismo e del mistero. Narrossi ben pre-
sto che sua madre aveva sognato partorire un lauro: ch'e'
nacque senza vagiti; che il platano piantatosi, secondo il
costume del suo paese, al nascer di lui, trascese tutti gli
altri in grossezza. Gli s'attribuiva una scienza portento-
sa, e la facoltà di scoprire i difetti nascosti e le qualità
arcane degli animali. Appena morto gli furono poste sta-
tue, e alcuni imperatori, come Alessandro Severo, ne te-

362
neano fin nel sacrario domestico: al tempo di Plinio ce-
lebravasi il natalizio di lui: al suo sepolcro venivano a
raccomandarsi le gravide e i poeti: coll'aprire a caso il
suo poema si chiedeva risposta a quesiti, detti sortes vir-
gilianæ, tali perfino da decider uno ad accettare o no
l'impero (pag. 242, vol. III)226. Proba Falconia con emi-
stichj di lui tessè un poema sul nuovo Testamento; e i
Cristiani vollero leggere una predizione della venuta del
Messia nella famosa Egloga IV.
E davvero fa stupore rincontrare nella limpida facilità
de' Bucolici quell'egloga, tanto misteriosa, che gli sforzi
per raccoglierne il concetto generale uscirono vani fin
ora. Festeggia essa la nascita vicina d'un bambino, che è
figlio del cielo, che rinnovellerà il mondo, che redimerà
i peccati:

Ultima Cumæi venit jam carminis ætas:


Magnus ab integro sæclorum nascitur ordo.
Jam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna;
Jam nova progenies cœlo demittitur alto.
...Incipient magni procedere menses.
Te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
Inrita perpetua solvent formidine terras.
Ille deûm vitam accipiet...
Cara deûm soboles, magnum Jovis incrementum.

Presagi tanto superbi a chi potevano mai convenire?


Tomo III cap. XXXVIII par. “Fra le altre superstizioni, gli antichi…” di
226

questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

363
S'accordano i critici nel fare quest'egloga scritta il
714 di Roma, e vorrebbero attribuire questi vanti a un
figlio di quel Pollione, cui è diretto il canto, come ad au-
tore della pace in quell'anno conciliata a Brindisi fra An-
tonio ed Ottaviano: ma, prima, è ignoto che quell'anno
alcun figlio nascesse al console; poi, come mai accumu-
lare sul capo d'un neonato tanti augurj, quel Virgilio che
tanta sobrietà di lodi usò fin con Augusto e colla fami-
glia di questo?
Pertanto altri (contro l'asserzione di Servio) suppose-
ro alludesse a Marcello, gravida del quale, Ottavia, so-
rella d'Augusto, andava allora sposa ad Antonio: ma per
quanto questo pegno di pace potesse parere meritevole
di canti, bisogna considerare ch'e' non era germe del
triumviro, bensì dell'antecedente marito d'Ottavia, sic-
chè nulla aveva a fare collo sperato pacificatore del
mondo. Altri pensarono che Virgilio alludesse alle nozze
allora conchiuse fra Ottaviano e Scribonia: ma come po-
tersi pronosticare l'impero del mondo al figlio di
quell'Ottaviano che allor allora avea spartito le provin-
cie coi due colleghi, e lasciava sperare rintegrata la re-
pubblica, anzichè stabilire una monarchia?
Non trovandosi fanciullo cui s'appropriassero tali au-
gurj, si credette che il poeta indicasse l'intera generazio-
ne migliore, che la benevola sua immaginazione gli da-
va fiducia di vedere. Chi così la pensa voglia spiegarci
di grazia queste frasi:

Tu modo nascenti puero...

364
Casta fave Lucina...
Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem;

e la culla sotto cui sorgono l'ellera e l'acanto; e l'aggirar-


si del giovane fra gli eroi e gli Dei, prima di frenare i
venti e pacificare il mondo.
De Vignoles immaginò che il poeta celebrasse l'êra
alessandrina, ordinata nel 724 di Roma dal senato roma-
no: e se rifletteremo ch'essa non fu introdotta se non il
29 agosto 729, ci potrà benissimo rispondere che a
quest'anno va riferita l'egloga. Ma che ragion v'era di
tanto magnificare un'êra arbitraria e speciale d'un popo-
lo vinto? che novità aspettarne? che progenie dovea
scendere dal cielo?
Cadendo tutte le altre supposizioni, alcuni eruditi ri-
tornarono all'antica, che vedeva in quel fanciullo il Cri-
sto. Non già che Virgilio fosse profeta; ma la tradizione
d'un vicino redentore era molto diffusa in quei tempi per
l'Oriente; potea Virgilio averla udita, e trovatala bel sog-
getto di canto, ove dipingere estesa a tutto il mondo
quella felicità, ch'egli inclinava a vedere ne' suoi pastori.
Virgilio tutte o quasi tutte le altre egloghe dedusse da
poeti alessandrini a noi conosciuti: chi ardirebbe negare
che questa pure avesse tratta da alcuno a noi ignoto, il
quale dagli Ebrei, allora numerosi in Alessandria, avesse
avuto conoscenza dell'aspettato Messia, e de' colori con
cui Isaia e gli altri profeti dipingeano la nuova età? E
veramente chi ben guardi, trova in quest'egloga de' pen-
sieri e de' colori che tengono forte dell'orientale, anzi

365
del profetico; e il poeta stesso dice d'esporre i vaticinj
della Sibilla Cumana.
E noi accettiamo volentieri Virgilio come il più insi-
gne interprete degli insegnamenti delle Sibille, quali che
coteste si siano (vedi l'Appendice IV). Il libro VI
dell'Eneide palesa credenze elevate, quali in niuna parte
riscontransi del paganesimo; una filosofia che sente di
cristiano; quasi che il Verbo divino siasi già accostato
alla terra tanto da balenare a qualche intelletto privile-
giato. Ebbene, tutti que' dogmi pone Virgilio in bocca
alla Sibilla.
In essa egloga poi egli dipinge con colori pastorali e
mitologici un'età dell'oro, ma sul fine cangia di tono;
sicchè Schmidt, nella Redenzione del genere umano, vi
pose rimpetto le due profezie di David e d'Isaia sulla ve-
nuta del Salvatore, come prova che avessero un'origine
comune. Isaia esclama: «Un fanciullo ci è nato, che por-
terà sulle spalle il segno della dominazione. Sarà detto
l'Ammirabile, Dio forte, Principe della pace; il suo im-
pero si estenderà ognora più, e la pace sua non avrà fine.
Sederà sul trono di Davide. La giustizia sarà cingolo
sulle reni, e la fede sua bandoliera. Il lupo dimorerà
coll'agnello, il leopardo coricherassi col capriolo, il leo-
ne e la pecora stabbieranno insieme, e un fanciullo li
guiderà... Il deserto s'allegrerà; la solitudine, nella gioja,
fiorirà come il giglio, germoglierà d'ogni parte in
un'effusione di letizia e di lode; nelle caverne, dove
stanno i dragoni, crescerà la verzura delle canne e de'
giunchi, ecc.».
366
E David: — Tu vinci in bellezza i figli degli uomini, e
grazia ammirabile è diffusa sulle tue labbra; lo perchè
Iddio ti ha benedetto in eterno. Tu onnipotente, cingi la
spada sopra il tuo fianco, t'armi e trionfi, e stabilisci il
tuo regno mediante la dolcezza, la verità, la giustizia...
Giudichi i popoli secondo la giustizia, e i poveri con
equità. Le montagne ricevano la pace pel popolo, e le
colline la giustizia. Egli salverà i figli dei poveri, e umi-
lierà il calunniatore. Discenderà come pioggia sul vello,
e come acqua dal colmo de' tetti. La giustizia apparirà al
suo tempo con un'abbondanza di pace, che durerà quan-
to la terra, e regnerà dall'uno all'altro mare».
È evidente che il fondo è il medesimo come in Virgi-
lio, sol differendo nelle diverse idee di grandezza fra i
due popoli, e nella maggiore incertezza che avvolge i
Gentili. Fra i quali è notevole come si fossero allora dif-
fuse le profezie a segno da sgomentare i potenti: Augu-
sto bruciò duemila libri di vaticinj, gli altri riveduti ed
appurati chiuse sotto al piedistallo dell'Apollo Palatino:
vivo Augusto, erasi annunziato a Roma che la natura
partoriva un re al popolo romano (Regem populo roma-
no naturam partorire. SVETONIO in Aug., 94): la credenza
antica e costante in tutto l'Oriente d'un liberatore del ge-
nere umano erasi rinfrescata, e che la Giudea diverrebbe
signora del mondo (Percrebuerat toto Oriente vetus et
constans opinio... esse in fatis, ut eo tempore Judæa
profecti rerum potirentur. SVETONIO, in Vesp., 4. ‒ Eo ip-
so tempore fore ut valesceret Oriens, profectique Judæa
rerum potirentur. TACITO, Hist., V, 13): indovini predis-
367
sero a Nerone che stavano per perire il regno di Gerusa-
lemme e l'impero d'Oriente (SVETONIO, in Ner., 40): poco
dopo, l'oracolo del Carmelo con promesse di gloria ecci-
tava gli Ebrei all'ultima ribellione: e Gioseffo ebreo al
generale Vespasiano per adulazione applicava gli oracoli
relativi al liberatore dell'uman genere. Plutarco poi rife-
risce che, verso l'età di Tiberio, veleggiando una nave
presso l'isola di Paxò, mentre tutti erano svegli e a tavo-
la, i naviganti da una delle isole udirono una voce che
chiamò il piloto Tamo, in modo sì chiaro che tutti stupi-
rono; alla prima e seconda volta e' non rispose, alla terza
sì, e allora la voce soggiunse: — Arrivato all'altura di
Palode, annunzia che il gran Pan è morto». E così fece,
e allora parve udire esclamazioni di meraviglia, e chias-
sosi lamenti di molte persone: e i testimonj del fatto lo
raccontarono a Roma, e Tiberio il seppe e lo tenne per
certo (De oracul. defect., 44).
In somma tutto era effusione o ispirata o mentitrice di
spirito fatidico, e Virgilio ne accolse e poetizzò qualche
parte in sublimi versi. Vi accoppiò l'altra tradizione di
un grand'anno revolventesi, nel quale alta fede riponeva-
no gli Etruschi, e il credevano i Romani, come può ve-
dersi nel Sogno di Scipione. E l'uomo è così fatto, che
suppone ad una grande innovazione di fenomeni celesti
dover accompagnarsi un mutamento o un'alterazione di
queste basse venture umane.
Tale interpretazione cristiana fu accolta dai Padri del-
la Chiesa; e Costantino, nell'arringa che recitò davanti ai
vescovi radunati a Cesarea, ripetè quell'egloga tradotta
368
in greco, siccome un argomento della divina missione di
Cristo, provata fin da testimonianze pagane.
È notevole che Virgilio proclama così sublimemente
la gran legge del progresso; allorchè poetizza le ispira-
zioni profetiche, gli oracoli; ma gli mancano questi? ri-
cade nella persuasione degli antichi, che il mondo vada
continuamente in peggio, e che gli sforzi degli uomini
non valgano contro quella corrente che seco trae il navi-
glio umano:

Sic omnia fatis


In pejus ruere ac retro sublapsa referri.
Non aliter, quam qui adverso vix flumine lembum
Remigiis subigit, si brachia forte remisit,
Atque illum in præceps prono rapit alveus amni.

Nelle Georgiche, lib. I.

Comunque sia, questo presentimento d'un avvenire


diverso, d'una rinnovazione del secolo, attirarono il ri-
spetto, anzi il culto popolare a un poeta sì poco popolare
qual fu Virgilio. Nel medio evo l'ingegno, perchè raro,
otteneva maggior venerazione, e credeasi capace d'ogni
virtù; sicchè Ovidio, Orazio, Livio furon tenuti per gran-
di sapienti; e, il che allora vulgarmente vi equivaleva,
per maghi Aristotele e Ruggero Bacone. Perocchè qual
scienza più utile che l'arcana, potente a signoreggiar con
parole e con atti la natura e gli spiriti? E già per gli anti-
chi carmen esprimeva i versi non meno che il fascino; lo

369
che fu ritenuto nella lingua francese (charmer).
Virgilio studiò la natura, come il mostrano le sue
Georgiche: nei Bucolici accenna spesso a superstizioni
dominanti al suo tempo:

De cœlo tactas memini prædicere quercus...


Aspice; corripuit tremulis altaria flammis
Sponte sua, dum ferre moror, cinis ipse. Bonum sit!
Nescio quid certe est, et Hylax in limine latrat...
Quod nisi me quacumque novas incidere lites
Ante sinistra cava momiisset ab ilice cornix;

il VI libro dell'Eneide, chi volgarmente lo consideri, è


uno spettacolo di necromanzia ed uno sfoggio di scienza
arcana. Virgilio non aveva ordinato morendo di bruciare
il suo poema? ora tutti gl'incantatori si davano premura
di non lasciar sopravvivere i libri che attestassero i loro
patti col demonio, o v'addottrinassero altri.
Virgilio aveva predetto la venuta di Cristo; laonde
nelle feste spettacolose si facea figurare l'immagine di
lui insieme colle Sibille. In quell'inclinazione ad acqui-
stare al cielo gli spiriti più elevati, alcuno suppose che
san Paolo intraprendesse un viaggio a bella posta per
andar a convertire Virgilio, ma lo trovò già morto;
avrebbe desiderato tanto acquistare i libri magici di es-
so, ma non riuscì. A Mantova era tenuto a vicenda per
mago e per santo; e fin nel secolo XV vi si cantava un in-
no nella messa di san Paolo, supponendo che l'apostolo
delle genti, nel giungere a Napoli, volgesse uno sguardo

370
verso Posilipo, ove riposavano le gloriose ceneri di Ma-
rone, dolendosi di non esser giunto in tempo per cono-
scerlo e convertirlo:

Ad Maronis mausoleum
Ductus, fudit super eum
Piæ rorem lacrimæ:
Quem te, inquit, reddidissem,
Si te vivum invenissem,
Poetarum maxime!

Ma poichè non potevasi ammettere in paradiso chi


fosse mancato di fede ne' piè passi o ne' passuri, si volle
almeno a Virgilio attribuire la massima potenza che uom
possa avere in terra, e ch'ei se ne servisse soltanto a van-
taggio altrui. Pertanto egli fu supposto fondatore di città
ed autore de' benefizj che Italia tiene dalla natura. I Na-
poletani narravano mille storie intorno alla grotta di Po-
silipo, ove additano la scuola di Virgilio, e dove suppon-
gono si ritirasse a far sortilegi ed insegnare le arti segre-
te a pochi adepti, che con quelle principalmente riusci-
vano a prosperare le campagne. Con quelle il poeta, in
una notte sola, aprì nel masso la famosa grotta; costruì i
bagni di Pozzuoli, e su ciascuna vasca il nome dell'infer-
mità che guariva; fece una statua che soffiava in modo,
che le ceneri del Vesuvio (per verità non ancora ignivo-
mo) restavano respinte dalle campagne napoletane; fece
un cavallo di metallo, che guariva ogni cavallo malato; e
una mosca pur di metallo, mercè della quale nessuna

371
mosca più v'ebbe in Napoli. Fu sin detto ch'egli fondas-
se la città di Napoli, il cui greco nome di Partenope sa-
rebbe traduzione di Virgilio: e soggiungevano che Au-
gusto l'avesse donata a quel poeta con tutta la Calabria.
Altre volte egli fa del male, ma contro Augusto, presen-
tato in tal caso come un tiranno o uno stupido, e che lo
avea spogliato dell'aver suo; e contro il soldano di Babi-
lonia, aggiunta fatta al tempo delle crociate, quando pu-
re vien fatto educare a Toledo, invece di Atene come di-
ceano i precedenti. Fin al principio del secolo XVII mo-
stravasi a Firenze lo specchio di cui si serviva per le
operazioni di necromanzia, e un altro nel tesoro di San
Dionigi a Parigi: l'immagine di lui portavasi al collo co-
me un talismano contro gl'incanti: il suo sepolcro crede-
vasi recar felicità al paese: e qualvolta fosse toccato, ne
seguiva tremuoto.
Innumerevoli poemi, racconti, romanzi, storie narrano
questi prodigi di Virgilio; ma nessuno ha baje più strane
che I fatti meravigliosi di Virgilio, figliuolo d'un cava-
liere delle Ardenne, nella Margherita poetica di Alberto
di Eyb (Norimberga 1472). Un rozzissimo Bonamente
Aliprandi, vissuto al fine del XIV secolo, stese una Cro-
naca mantovana in terzine, ove le favole più assurde so-
no accumulate sopra Marone; e ci perdoni questo genio
dell'ordine e dell'armonia se alcun che ne produciamo.
La madre di Virgilio fu avvertita in sogno che dovreb-
be partorire un gran poeta:

La donna fece l'animo jocondo;

372
E quando venne lei al partorire,
Nacque il figlio maschio tutto e tondo.

Seguono le tirannidi esercitate sopra Mantova da un tal


Arrio centurione; per cui Virgilio mutatosi a Roma, ot-
tiene il favore d'Augusto e la restituzione de' beni suoi, e
si mette tutto al poetare:

Ciascuno gli facea grande onore;


Filosofo, e poeta di grandezza,
Di retorica si era lo maggiore.
L'avvenimento di Cristo profetoe,
Nella Bucolica sua di valore...

In mezzo a Roma fece un gran fuoco che ardeva con-


tinuo, a ristoro de' poveri, e con un arciero che ver quel-
lo tendeva una freccia: un imperatore sperando che que-
sta indicasse qualche tesoro, fece scoccare quella frec-
cia, ed essa colpì il fuoco e lo spense per sempre. Nel
palazzo imperiale inalzò tante statue quante erano le
provincie dell'impero, con campanelli al collo; e qualun-
que volta una provincia si ammutinasse, la statua corri-
spondente scotevasi e sonava, talchè gl'imperatori sape-
vano ove dirigere l'esercito. Fabbricò uno specchio alto
ben cento piedi, sicchè illuminandolo rischiarava tutta la
città, oltre che indicava i ladri, i nemici, le guerre. Com-
binò pure una gola di rame, nella quale chi fosse sospet-
tato di colpa metteva la mano per purgarsi; e se era in-
nocente, la ritirava senza pericolo; se mentiva, non po-

373
tea ripigliarla finchè non avesse palesato la verità.
Ma l'uomo è soggetto a peccare, massime per amore,
e Virgilio vi cascò; il quale da una nipote d'Augusto si
lasciò gabbare in modo, che essa, consigliata da un ca-
valiero suo vago, il persuase a salir da lei entro un pa-
niere che gli calò dalla finestra: ma come fu a mezz'aria,
ivi lo tenne sospeso, talchè la mattina tutti si preser la
baja di lui. Il poeta se ne vendicò in terribile modo, fa-
cendo che in tutta Roma non si potesse più aver fuoco o
lume, se non dalle parti posteriori della sua tiranna: bef-
farda beffata.

La donna in quattro piè posta si giace,


..................
Per foco va a chi bisogno face.
L'uno all'altro dar foco non potìa,
Perchè e l'uno e l'altro s'ammorzava;
Per sè ogni casa tor ne convenìa.
Molti giorni passati già si stava
Anzi che Roma di foco fornesse;
Lo cavalier gran dolore portava.
Ma Virgilio che a lui non incresse
Per vendicarsi allegrezza facìa,
Contento era che ciascun sapesse
Che quello incanto lui fatto l'avìa,
Per voler la sua beffa vendicare,
Non curando di quel che si dicìa.
Di foco fornita senza mancare
Che fece Roma tutta a compimento,

374
La donna a casa fu fatta tornare.

Dolse ad Augusto dell'oltraggio; e istigato dal cava-


liere, fece cacciar prigione Virgilio. Ma tener rinchiuso
un necromante sarebbe stato difficile; e

Virgilio d'andarsene pensava.


Nel cortile una nave disegnoe;
Li prigionieri tutti dimandava,
D'andar seco tutti loro pregoe,
Dicendo se con lui volìa andare:
Alcun per beffa andar accettoe.
In quella nave sì li fece entrare;
A ognun per remo un baston dasìa,
Ed egli in poppa se mise a settare;
E a ciascun di loro si dicìa:
«Quando comanderò che navigati,
Ciascun di voi a navigar si dia,
E niente a farlo non ve ne indusiati.
Da le prigioni tutti ci usciremo,
Condurrovvi, e sarete liberati».
Quando gli parve, disse: — Date a remo».
Ciascun mostrava forte a navigare,
La nave si levò. Disse: — Anderemo».
Fuor del cortile si vedea andare,
In verso Puglia la nave tirava,
Per aria la detta si vedea tirare.
I prigionieri, che in prigione stava,
Che nella nave non vollero entrare,

375
Veduto il fatto, tutti lamentava.

Augusto si querelò co' suoi baroni d'averlo indotto ad


offendere un uomo, cui il cielo «accordoe Tutte le scien-
ze che il mondo avìa», e promise, se tornasse in corte,
usargli ogni onore.
Virgilio intanto, sceso dalla nave, s'indirizzò a Napoli,
ma fallata la via,

Passati li vespri, si se trovava


Appo una casa, chiedendo albergare.

Non c'è vino; che importa? Virgilio ordina che amma-


niscano una corbella d'uva ancor ghezza, e la mettano in
un tinozzo con acqua. Non c'è prebenda; che importa?
Virgilio manda uno spirito che proprio dinanzi ad Augu-
sto toglie

Un gran taglier di carne allesse


Con molti polli, e si se portò in mano.

Augusto comprese che Virgilio solo poteva avergli gio-


cato quel tiro; e a spese di lui si cenò a dovizia e si bev-
ve a josa.
In Napoli fur le feste grandi quando si seppe che Vir-
gilio vi stava s'un'osteria, e il pregarono

Che in Napoli memoria lasciasse


Del gran saper, che di lui fa parlare

376
Egli adunque scrisse a un tal Melino «suo discepolo
valente», che da Roma venisse a lui tosto; e come ci fu,

Tornare a Roma sì gli comandoe:


— A Roberto di' che 'l mio libro ti dia».
Di non legger su in quello lo pregoe.
Melino tosto si se mise in via,
Dì e notte non cessò di camminare
Tanto che lui a Roma giugnia.
Andò a Roberto a dimandare
Lo libro del maestro, che 'l mandava:
Gliel diè Roberto senza dimorare.
Avuto il libro, indietro ritornava;
Di Roma uscito voglia gli venìa
Di legger lo libro lui sì bramava.
Come a legger lo libro si mettìa,
Di spiriti moltitudine granda
Contro di lui tutti se ne venìa:
— Che vuoi tu? che vuoi tu?» tutti dimanda.
Melino allor tutto si spaventoe
E de morir ebbe la tema granda.
Melino si prese ad argumentare,
E di presente a loro comandava
Che quella via debban salegare (selciare)
Da Roma a Napoli a compimenti,
Che sempre quella netta debba stare,
Gli spiriti sì furon ubbidienti.
Quella strada si fece salegare
Di sassi vivi senza mancamenti.

377
Melino a Napoli vien a arrivare:
Virgilio molto forte 'l riprendìa;
Dicea: — Rott'hai lo mio comandamento;
Pena ne porterai per fede mia».

Eccovi come le cronache fanno fabbricare la via Ap-


pia.
Virgilio, risoluto di dare più bella prova di necroman-
zia, fece compiere un'altra fabbrica meravigliosa:

Castel dell'Ovo quello si fe fare,


E nell'acqua quello si fabbricoe,
Che ancor si vede e per opera pare.
Ancora oltra di quello si incantoe,
Una mosca in un vetro incantava,
Che tutte l'altre mosche si caccioe.
Alcuna mosca in Napoli non entrava,
Questo al popol grandemente piacìa.
Ma un'altra fece che più si montava:
Una fontana d'incanto facìa,
La quale sempre olio si gittava,
E dal gittare mai non s'astenìa;
E quell'olio si continuava
A bastamento di quella cittade:
Grand'allegrezza il popolo menava.
Altre cose e di grandi novitade
Virgilio in quella terra facìa
Maravigliose e di grande beltade.

378
Preso dalla fama di tanti portenti, Augusto chiamò ri-
solutamente a Roma Virgilio. Ma quando l'imperatore
ritornava d'Asia vincitore, il poeta se gli fece incontro
fin a Brindisi, e «dal gran caldo sì fu combattuto» che
ammalò e morì.

Ottavian, che venia con sua schiera,


Come la morte di Virgilio udia,
Di gran dolor fe lamentanza fera.
Ai suoi baroni allora sì dicia:
— Di scïenza è morto lo più valente,
Non credo che nel mondo il simil sia».

I moralisti del medioevo da tutti questi fatti traevano


buoni insegnamenti; ed anche la fine di Virgilio, secon-
do una tradizione diversa, doveva istruire quanto sia fal-
lace la scienza umana. Perocchè avendo promesso (dice)
ad Augusto di fare che gli alberi portassero tre volte
l'anno, ed insieme fiori e frutti maturi e acerbi, e che i
vascelli rimontassero i fiumi, e si guadagnasse denaro
colla facilità con cui si perde, e le donne partorissero
coll'agevolezza con cui concepiscono, ed altre meravi-
glie, pensò tornar giovane per aver tempo a compierle.
A un fedelissimo servo insegnò dunque che il tagliasse a
pezzi, poi lo salasse in un barile, mettendo la testa sotto,
e il cuore in mezzo, e altre avvertenze da fare nel massi-
mo secreto, finchè egli si ravviverebbe. L'imperatore,
inquieto della lontananza di Virgilio, fece tanto e tanto,
che obbligò il servo a menarlo nel castello difeso da in-

379
cantesimi, ove il poeta giaceva a pezzi: il che vedendo, e
credendolo assassinato, egli uccise il servo. L'opera re-
stò interrotta, e Virgilio più non rivisse.
Traverso alla mitologia del medioevo arrivò la cono-
scenza di Virgilio, come degli altri antichi, a Dante, il
quale non seppe scegliersi guida migliore per giungere,
fra i pericoli del mondo, a vedere le pene dei reprobi e
le speranze de' purganti, e fin alla cognizione delle cose
superne e della verace beatitudine. Conformavasi egli
alle credenze popolari allorchè facea dirgli, per niun al-
tro peccato aver perduto il cielo, che per non avere pos-
seduto la fede; e fa che Stazio rimanga convertito alla
verità pel lume appunto venutogli dai vaticinj dell'eglo-
ga citata, sicchè dice a Virgilio:

...Tu prima m'inviasti


Verso Parnaso a ber nelle sue grotte,
E poi appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
Che porta il lume dietro, e sè non giova,
Ma dopo sè fa le persone dotte,
Quando dicesti: Secol si rinnova,
Torna giustizia e primo tempo umano,
E progenie discende dal ciel nuova.
Per te poeta fui, per te cristiano. Purg., XXII.

Una bella e rarissima incisione di Luca d'Olanda rap-


presenta il poeta entro una corba, spenzolante a
mezz'aria; e una femmina alla finestra vicina pare che

380
inviti i viandanti a berteggiarlo.
Ad Amsterdam nel 1552 fu stampata Ene schone hi-
storie von Virgilius, von zijn leven, doot, ende van zijn
wonderlike werken di hj deede by nigromantien, ende
by dat Behulpe des Dugrels.
Görres, nei Volksbücher, ragiona a lungo l'istoria po-
polare di Virgilio nel medioevo.
Vedansi pure GENTHE, Virgil als Zauberer in der
Volkssage.
SIEBENHAAR, De fabulis, quæ media ætate de Publio
Virgilio Marone circumferebantur.
EDELSTAND DU MÉRIL, De Virgile l'enchanteur.
FRANCISCUS MICHEL, Quæ vices, quæque mutationes et
Virgilium ipsum et ejus carmina per mediam æta-
tem exceperint, explanare tentavit. Un capitolo di
questa tesi per laurea è intitolato: De scriptoribus
medii ævi, qui quædam de magica Virgilii scientia
retulerunt.

381
APPENDICE VIII.
DANTE ERETICO

Il concetto di Dante eretico fu ridesto dal signor Eu-


genio Aroux, che ne formò un'opera espressa, col titolo
Dante hérétique, révolutionnaire et socialiste; révéla-
tions d'un catholique sur le moyen-âge. Parigi 1854.
L'opera è dedicata a Pio IX comme une protestation
contre l'erreur et le mensonge, que le génie même ne
saurait absoudre. Mentre il silenzio stagna sulle opere
italiane, le francesi sono proclamate in paese, echeggia-
te di fuori; e così avvenne di questa. Noi dirigemmo
all'autore una lettera, che qui stimiamo opportuno ripro-
durre.

All'amico E. Aroux, Parigi.

Milano, 5 febbrajo 1854.

Mi permettete che, invece di storpiar la vostra bella


lingua, io vi risponda nella mia e in quella del vostro
Dante per ringraziarvi dell'invio del vostro libro? Ma
ringraziarvi non basta, giacchè me pure metteste in cau-
sa; e, comunque cortesissimo, mi rinnovate il rimprove-
ro già fattomi, nella vostra traduzione della mia Storia
universale, d'aver io dichiarato «delirio o piuttosto ca-
priccio» quel di due nostri Italiani che vollero dimostrar

382
Dante eretico. Voi campeggiate per loro, e togliete a so-
stenere che tutte le opere di Dante sono esposizione ere-
ticale, ed aspirazioni rivoluzionarie e socialiste.
È destino dei libri che divengono nazionali e popolari
il trovarvi ciascuno ciò ch'e' vuole; e non abbiam visto
cercare nel Vangelo prove contro la divinità di Cristo,
come altre volte cabalisti e alchimisti scoprivano nella
Bibbia i numeri onnipotenti e la polvere di projezione?
Primo ch'io sappia il padre Hardouin, che volle celebrità
mediante i paradossi, nel 1727 sostenne che l'autore del-
la Divina Commedia fosse un impostore, seguace di
dogmi eterodossi. Ugo Foscolo, trovata ospitalità fra gli
Inglesi, a cui potea piacere un ascendente illustre nella
gran negazione della unità cattolica, resuscitò quest'ere-
sia di Dante, ma come un paradosso pruriginoso, senza
corredo di prove. Il nostro amico Rossetti, sbalzato dalla
patria a roder anch'egli il duro pane dell'esiglio fra
gl'Inglesi, volle forse blandire a questi, nei Misteri
dell'amor platonico, fecondando quel germe, e in cinque
grandi volumi assunse che, non Dante solo, ma tutti i
poeti erotici volevano cantar tutt'altro amore da quello
ch'esprimevano: assunto pio per salvare que' begli inge-
gni dalla taccia d'essersi logorati in cantar begli occhi,
sen di neve e treccie d'oro. Anche Graul, ministro prote-
stante che nel 1848 stampò a Lipsia una traduzione te-
desca dell'Inferno, vuole a tutt'uomo dimostrare che
Dante sviava dal dogma cattolico, e nel veltro ravvisa
Lutero, al quale corrispondono perfino le lettere del no-
me. Voi vi valete di tutti, e venendo a mezza spada, e
383
colla sicurezza che vi danno la conoscenza d'un poeta
che avete con tanta abilità tradotto, e un'erudizione este-
sissima, dedotta dalle fonti più diverse, assalite Dante
quasi avesse voluto dimostrare che la supremazia papale
è il regno visibile di Satana. Chi vorrà rivedervi il pelo,
potrà appuntare errori di particolarità e sovrattutto di
quegli eccessi che son forse inevitabili in chi toglie a so-
stenere una tesi distaccata dal senso ordinario. Che
monta? Non la mancanza di difetti, ma l'abbondanza di
meriti rende vitale un libro; e il vostro gli ha: ma voi
stesso m'insegnate che la plus grande preuve d'estime,
qu'on puisse donner à ses amis, c'est de leur dire la vé-
rité.
Vi ricordate del Biagioli, pedantesco ammiratore di
Dante, che portando costà a battezzare un suo neonato,
voleva mettergli nome Dante; e chiedendogli il parroco
se san Dante ci fosse, — Se vi sia un Dante santo io nol
so; so che v'è il dio Dante». Voi invece me ne fate un
Dante satana, e trovate ignorance, prévention, esprit de
parti, mauvaise foi in chi leggermente ripudia questa te-
si. Io mi confesso francamente fra questi; onde vi tengo
obbligato a permettermi che, senza sentirmi a gran pez-
za capace di lottar con voi di argomenti, vi opponga al-
cuni pregiudizj legittimi.
E in prima, ella è regola del processo inglese, e do-
vrebb'essere d'ogni buona legislazione, il non aggravare
un imputato finchè non siano esausti gli argomenti in
suo favore. Or bene; noi cattolici crediamo al Testamen-
to vecchio e al nuovo; ma poichè questi sono lettera
384
morta e bisognano di supplemento e d'interpretazione, ci
atteniamo alla tradizione della Chiesa e alla decisione
dei papi. Uno dunque che c'intimasse di credere nella
Bibbia e al papa se vogliamo esser salvi, e di non abban-
donarci al senso individuale, lo pensereste voi perfetto
ortodosso? Ebbene, gli è quello appunto che usa Dante,
facendo ai Cristiani intimare da Beatrice:
Avete il vecchio e il nuovo Testamento
E il pastor della Chiesa che vi guida;
Questo vi basti a vostro salvamento...
Non fate come agnel che lascia il latte
Della sua madre, e semplice e lascivo
Seco medesmo a suo piacer combatte.

Io corsi avidamente alla spiegazione di questi versi


nella bizzarra analisi, onde passo passo voi accompa-
gnate quella che chiamate Commedia del cattolicismo,
per vedere come questo passo decisivo interpretavate.
Tenendo i due Testamenti, che abbiamo comuni cogli
eretici, voi dite che per pastor della Chiesa vuolsi inten-
dere il capo di quell'arcana religione, di quella framas-
soneria di cui Dante era adepto non solo, ma apostolo.
Eppure la parola di pastore è da lui applicata sempre ai
papi, sia quando li chiama in veste di pastor lupi rapaci;
sia quando intima, di voi pastor s'accorse il vangelista;
sia quando si lamenta che sia usurpata per colpa del pa-
stor la giustizia di Firenze.
Quel medioevo, che da taluni vuolsi dipingere sentina
di vizj e dormitorio di servilità, esaminò, discusse, negò:

385
e voi trionfalmente l'avete mostrato. Ma corre gran diva-
rio tra scoprire le piaghe d'un malato, e ucciderlo; tra di-
chiarare che una casa è scassinata e ha bisogno di rin-
fianchi, e il darvi d'urto per abbatterla; insomma tra ri-
formare la Chiesa e distruggerla. Vero è che anche nel
primo uffizio si può errare sino all'eresia; e al tempo di
Dante i Fraticelli erano monaci, buttatisi a straordinario
rigor di vita, e che pretendevano dover la Chiesa depor-
re il lusso e le ricchezze per tornare alla indotata sempli-
cità primitiva. Gli è quello che Dante ripete in cento
modi, e lo ripetevano persone piissime, gran santi, pon-
tefici, che più? i concilj, nessun dei quali passò senza
gravi lamenti del tralignato costume e della sciolta disci-
plina, e senza fare decreti di riforma. Io collocherei
Dante fra questi, e con Pier Damiani, con san Bernardo.
E se quei Fraticelli ammoniti reluttarono, e inorgogliti
da una rigida perfezione, sconobbero l'autorità suprema,
allora solo uscirono dalla Chiesa, allora cessò la discol-
pa della buona fede. E così fecero gli Albigesi al tempo
di Dante, poi i grandi negatori del Cinquecento. Voi ave-
te descritto maestrevolmente, cioè in breve, la guerra
degli Albigesi. Erano fuor della Chiesa; e furono perse-
guitati con buon diritto, sebbene con modi atroci, conve-
nienti alla ferocia del tempo e d'una guerra civile, più
che non alla mitezza cristiana.
Dubbia ancora è la colpabilità ereticale de' Templari;
e non la Chiesa, ma un papa, non con bolla definitiva,
ma con breve provvisionale li soppresse; nè sulla loro
eresia fu proferita la parola che non falla. Ora, secondo
386
voi, Dante apparteneva all'ordine de' Templari, stipite
della moderna framassoneria, e voleva vendicare sui pa-
pi la crociata contro gli Albigesi e la distruzione dei
Templari. Ma che? degli Albigesi non una sola volta io
trovo cenno nella Divina Commedia, non una; nè voi ce
l'avete potuto vedere che a forza di allusioni, di premes-
se, d'interpretazioni; mediante le quali non vi sarebbe
stranezza che non poteste trovarvi. Sembra che il fondo
di lor dottrina fosse il manicheismo; eppure in Dante
tutto spira la libera azione di Dio uno e trino nella crea-
zione e conservazione del mondo, e le quistioni princi-
pali versano attorno al combinare la Provvidenza e la
Grazia col libero arbitrio dell'uomo.
Quanto ai Templari, ho due pregiudizi: che il loro Or-
dine ricevette la regola, da chi? da Misraim? da Valdo?
no: da san Bernardo. Io non credo che il retto vostro
senso vi lasci scorrere fin ad asserire con Lenoix (Origi-
ne de la Framaçonnerie, p. 235) che san Bernardo stes-
so era un francomuratore. Dante poi, una volta nomina i
Templari: ma dove? dove scagliasi contro Filippo il Bel-
lo, perchè spinse le vele nel Tempio, e perchè (soggiun-
ge) crocifisse Cristo nel suo vicario, che stava in Ana-
gni. E quel vicario chi era? Bonifazio VIII, la persona
più esecrata da Dante (le ragioni son note), il quale ben
nove volte lo bestemmia nel suo poema. Lo bestemmia,
ma come contrariatore dei Ghibellini, come causa del
suo esiglio, come attizzatore delle discordie di Firenze.
Ma il vede oltraggiato da un re e da un avvocato? più
non ricorda l'uomo, sibbene il papa, il pastor della
387
Chiesa, il vicario di Cristo.
Pigmalione che s'innamora della propria statua, è im-
magine che deve affacciarsi a chi legge il vostro libro:
ma sarete perciò inesorabile a chi le nega l'incenso mi-
gliore, il consenso? Che un autore da capo a fondo dei
libri suoi dica il contrario di quel che pensa, ogni sua
frase deva spiegarsi in altro senso da quel che suona;
quando dice santi intenda eretici; quando pecore, inten-
da capre; quando inveisce contro gli increduli e la loro
presunzione e chi li segue, intenda i cattolici; che ove
loda il donare deva leggersi dona re; che quando profes-
sa le verità più austere sulla Trinità, sul papa, vere clavi-
ger regni cœlorum, il quale, secundum revelata huma-
num genus perducit ad vitam æternam, o loda il santo
sene Bernardo, o Domenico santo atleta della cristiana
fede, faccialo per ironia; che la distinzione de' linguaggi
nel Vulgare eloquio esprima distinzione di partiti e di
credenze; che nel Convivio, dove commenta le sue Can-
zoni, si proponga invece di commentare la Divina Com-
media, della quale nè un cenno vi fa tampoco; e trovi
modo di commentarle così che i Ghibellini v'intendano
una cosa, e i Guelfi la precisa opposta; che un autore,
insomma, i suoi sentimenti e la sua gloria appoggi a li-
bri scritti perpetuamente in gergo, perdonatemi, ma sa-
rebbe artifizio degno del vostro Talleyrand, che diceva
la parola esser data all'uomo per dissimulare il pensiero,
anzichè del poeta il quale cantava:

Io mi son un che, quando

388
Amore spira, noto; ed in quel modo
Ch'ei detta dentro, vo significando.

So che quella parola Amore è la chiave della vôlta di


tutto il vostro edifizio: ma non è bastante fatica il dici-
frare i passi oscuri, senza proporsi d'oscurare gli eviden-
ti? E certo il supporre in Dante ed errori e verità è men
difficile, atteso le tante sue obscurités, que ne sont pas
encore parvenu à éclaircir toutes les gloses des com-
mentateurs. Ma se così è, qual idea è mai cotesta d'un
settario di farsi per più anni macro onde esporre una
dottrina in un linguaggio che non sarà inteso se non da
pochi adepti, il che sarebbe un predicare a convertiti?
Eppure Dante in un'opera espone pienamente il sistema
della monarchia ghibellina a contrasto della papale: e
quella è la più chiara, voi dite, anzi la sola chiara; e in-
fatti subì condanne che le altre no.
Nessuno più di me aborre la tracotanza di chi, in una
pagina, buttata giù, come voi direste, entre la pomme et
le fromage, pretende sventare un'opera di lunga lena, di
meditata pazienza. Il cielo mi guardi dal voler così usare
colla vostra, benchè io, ammirando quella paziente osti-
nazione nel cercar le traccie rivelatrici, non possa ac-
cettarne le risultanze. Nè le accettarono i contemporanei
di Dante, i quali pure seppero apporre all'amico suo Ca-
valcanti di strologare sulla mortalità dell'anima. Appena
Dante morì, vestito, come chiese, dell'abito di francesca-
no, dicesi che il cardinale Poget cercò turbare le ceneri
del nostro poeta. Poget, cattivo prete e cattivo generale,

389
che non portava in Italia le benedizioni dell'esule pasto-
re, ma ne menava gli eserciti a devastarla, doveva abor-
rire il Ghibellino che non risparmiò mai improperj ai pa-
pi, e che nella Monarchia proclamò canoni diametral-
mente opposti alle libertà guelfe e alla primazia del pen-
siero sopra le spade. Ma, non foss'altro, gli ultimi avve-
nimenti m'hanno insegnato a distinguere ciò che uno fe-
ce da ciò che volea fare: e certo il Poget non processò nè
disturbò il cadavere del grand'italiano, benchè sia un
luogo comune il ripetere che voleva farlo. Dante vivo
«invocava mattina e sera il nome del bel fiore» cioè di
Maria (Parad., XXIII). Morto appena che fu, la sua Firen-
ze, la capitana del guelfismo, lo facea leggere e com-
mentare: e dove? in chiesa e in domenica; e da chi? dal
Boccaccio, che voi dite era en communauté de doctrines
avec le poète, e che pure non ci lasciò detto nulla di più
chiaro. E l'immagine di Dante fu dipinta in Santa Maria
del Fiore, e il suo viaggio nel duomo d'Orvieto e nel
camposanto di Pisa; un arcivescovo di Milano istituì una
cattedra, ove due filosofi e due teologi il doveano spie-
gare; al concilio di Basilea si tenevano lezioni sopra la
Divina Commedia; finchè Rafael Sanzio dovea, per
commissione d'un papa, e quando la riforma religiosa
già ruggiva, proprio nelle sale del Vaticano dipinger
Dante fra i gran maestri in divinità che coronano l'altare
del ss. Sacramento.
Che più? quel risolutissimo campione delle ragioni
pontifizie, il gesuita cardinale Bellarmino, alla sua opera
De summo pontifice soggiunse una dissertazione contro
390
un francese protestante (dicono François Perot), il quale
dava Dante come eretico. Esso Bellarmino sostiene non
trovarvisi cosa che contraddica alla verità cattolica, anzi
andar l'intero poema in confutare i protestanti, e assume
a recare testimonia plurima atque apertissima Dantis,
non solum pro summa romani pontificis auctoritate et
dignitate, sed etiam pro aliis nonnullis fidei nostræ ca-
pitibus, ut adversarius intelligat, se, Dante judice, non
modo causa cecidisse, sed etiam plane hereticum et im-
pium esse.
Che vuol dir ciò? che la Chiesa e i preti, nello stolido
e feroce medioevo, cioè quando teneano in mano e i giu-
dizj e la forza per farli eseguire, si porsero meno intolle-
ranti, che non cerchino esserlo alcuni d'oggi, i quali, ri-
dotti unicamente alla penna, vogliono almeno con que-
sta sostenere il diritto della persecuzione e la opportuni-
tà dell'intolleranza. Lasciamoli dire, caro Aroux; e se
verrà mai tempo che essi di nuovo si cerchino salvezza
dietro alla tolleranza, serbiamoci il conforto di non aver-
la rinnegata, nemmeno quando ce ne faceano delitto. Voi
pure siete persuaso che una causa si serve meglio col
mostrare che ella fu abbracciata dai pensatori e dai va-
lentuomini, anzichè coll'indagar parole e atti di questi, i
quali accusino infedeli anche coloro che del proprio in-
gegno fecero docile omaggio alla verità.
E se in Dante vogliam pure trovare l'eresia, abbiamo-
la nell'ira a cui s'inspirò; nel disamore che sparse tra le
città d'Italia, preparando nomi d'improperio con cui in-
sultarsi prima d'uccidersi; nel farsi giudice fin di pene
391
eterne per rancori, o almen per giudizj privati; dimenti-
cando che «dove non è carità non è Cristo.
Voi però ecc.».

La quistione di Dante eretico fu ripigliata nel Calen-


dario Evangelico che si stampa a Berlino, dove il dotto-
re Ferdinando Piper, professore di teologia in quella
Università, nel 1865 trattò di Dante und seine Theolo-
gie. Egli conviene che Dante pone come supremo bene
Iddio, nè poter l'uomo raggiungere esso bene se non ac-
quistando la beatifica visione: questa acquistarsi colle
virtù teologiche: alle quali ci ajutano le sacre carte,
l'esperienza e la ragione, che però nelle cose soprasensi-
bili piegasi alla rivelazione. Dante propriamente non
può dirsi uscito dalla Chiesa di Roma: le sue dottrine
però menano dritto alla evangelica. E non solo quanto
alla riforma del capo e delle membra, e quanto al potere
temporale: ma anche nel dogma. In fatti (è sempre il Pi-
per che ragiona) egli non ammette l'infallibilità del pa-
pa, giacchè colloca fra gli eretici Anastasio II papa: non
ammette che niun altro che il presbiterato possa ingerirsi
nella Chiesa, poichè egli stesso se ne ingerisce racco-
mandando la riforma: non ammette che le decretali pos-
sano esser fonte del vero quanto le sacre carte.
Veda ogni cattolico se questi siano argomenti valevoli
a segregar uno dalla nostra unità.

392
APPENDICE IX.
STATISTICA

Dal libro XI di Giovanni Villani possiamo ricavare,


comecchè imperfetto e inesatto, il conto discusso della
repubblica di Firenze attorno al 1343. Il fiorino d'oro, di
ventiquattro carati e del peso di settantadue grani, vale-
va lire tre e soldi due.

Entrate

Gabella alle porte; diritto d'entrata e uscita


delle vettovaglie appaltavasi l'anno
fior. 90,200
Gabella pel vino a minuto, a un terzo del
valore » 58,300
Estimo del contado a soldi dieci per lire »
30,100
Gabella del sale a quaranta soldi lo stajo ai
cittadini, e venti ai contadini. » 14,450
Queste quattro maggiori gabelle desti-
navansi alla guerra di Lombardia,
che in due anni e mezzo costò sei-
centomila fiorini.
Beni dei ribelli e condannati » 7,000
Gabella sui prestatori e usuraj » 3,000
393
» dei contratti (registro) » 11,000
» del macello in città » 15,000
»» in campagna » 4,400
Gabella delle pigioni » 4,250
» degli albergatori di campagna » 2,550
» delle farine e macinatura » 4,250
» delle accuse e scuse » 1,400
» sul mercato di bestie in città » 2,150
» sul bollo dei pesi e misure » 600
» sulle pigioni del contado » 550
» sui mercanti di contado » 2,000
» sulle trecche e fruttajuoli » 450
» sugli sporti delle finestre di Firenze »
5,550
» dei sergenti » 100
» sulle zattere d'Arno » 100
» de' revisori delle garanzie date al Comu-
ne » 200
» delle prigioni » 1,000
Prestazioni dei nobili del contado » 2,000
Tassa delle signorie, cioè sui cittadini che
andavano di fuori in uffizio » 3,500
Lucro della zecca sulle monete d'oro »
2,300
»» di rame » 1,500
Beni del Comune e pedaggi » 1,600
Spazzatura e affitto delle bigoncie d'Or
San Michele » 750
Ammende e con dannazioni » 20,000
394
Difetti di soldati a cavallo e a piedi, cioè
per dispensa dalla milizia o per multe
incorse durante il servizio » 7,000
Licenza di portar arme; venti soldi per te-
sta » 1,300
Parte dei diritti percetti dai consoli delle
arti per richiami » 300
La gabella sui cittadini abitanti in campa-
gna, le gabelle sulle possessioni rurali,
sulle battaglie senz'armi, sui mulini e
la pesca, e quella di Firenzuola, facea-
no giungere l'entrata a circa fior.
306,000

Spese ordinarie.

Salario del podestà e sua famiglia lire


15,250
» del capitano del popolo e sua famiglia »
5,880
» esecutore degli ordini della giustizia
contro i grandi » 4,900
» conservatore del popolo e sopra gli sban-
diti con cinquanta cavalieri e cento
fanti »26,000
» giudice delle appellazioni sopra le ragio-
ni del Comune » 1,100
» uffiziale sopra il lusso delle donne »
1,000

395
» uffiziale sopra il mercato della biada
d'Or San Michele » 1,300
» uffiziale sopra il soldo delle truppe »
1,000
» uffiziale sopra le paghe morte ai soldati »
250
Tesoriere del Comune, notaj e messi »
1,400
Uffizio delle entrate proprie del Comune »
200
Soprastanti e custodi alle prigioni » 800
Mensa de' priori e loro famiglia in palazzo
» 3,600
Salario de' donzelli, campanaj e servidori
del Comune, guardiani delle torri del
podestà, ecc. » 550
Sessanta arcieri e loro capitano a servizio
de' priori » 5,700
Notajo forestiere sopra le riformazioni »
450
Pasto de' leoni, lumi e fuoco in palazzo »
2,400
Notajo al palazzo de' priori » 100
Salario degli arcieri e uscieri » 1,500
Trombetta del Comune, naccherini, sve-
glia, cennamella » 1,000
Limosine a religiosi e spedali » 2,000
Seicento guardie di notte » 10,800
Stendardi e palj per feste e corse » 310
396
Spie e messi » 1,200
Ambasciatori » 15,000
Castellani e guardie di fortezze » 12,400
Per armi, balestre, freccie » 4,650
Da quarantamila fiorini d'oro per i soldati, che in tem-
po di pace si riducevano a settecento in mille a cavallo e
altrettanti a piedi; e per le riparazioni a mura, ponti,
chiese, erano le spese straordinarie, cui supplivano le
borse de' cittadini.
Una lezione diversa è data nelle Delizie degli eruditi
toscani, vol. XII. p. 349.

Dönniges (Acta Henrici VII imperatoris, part. I. p. 95.


Berlino 1839) stampò come del tempo di Enrico VII un
bilancio della repubblica di Pisa, steso da Vani di Zeno,
e riveduto da Bernardo notajo; ma non può essere di
quel tempo, bensì del 1340 circa.

Le entrate nel distretto erano

Dal regno Calaritano in Sardegna fior.


d'oro 70,000
» di Gallura » » 20,000
Dalle condannagioni in essi due regni »
10,000
Dall'isola d'Elba, netto di spese » 50,000
Dai castelli di Castiglione, della Pescaja e
dalla badia del Fango, netto » 12,000
Dal castello di Piombino, fra sale e diritti,

397
netto 6,000
Mancano l'isola del Giglio ed altri paesi del distretto.
Le entrate della città e del contado som-
mavano 168,000
Gabelle nette fior. 48,000
Condannagioni de' giudici. » 30,000
78,400
Entrata totale 246,400

Spese nel distretto.

Nel regno Calaritano per stipendio di ven-


ticinque uomini a cavallo fissi, a otto
fiorini d'oro il mese ciascuno fior.
2,400
Centoventi soldati a piedi per guarnigione
de' castelli, con lire sei al mese » 2,804
Nel regno di Gallura, venticinque uomini a
cavallo » 2,400
‒ cinquanta a piedi » 1,161
Nella città e contado:
Per stipendio del podestà e capitano del
popolo » 3,225
Per stipendio di trecensettanta pedoni per
custodia de' castelli a lire tre, soldi die-
ci al mese; e lire 3: 2 fanno un fiorino »
17,144
in tutto » 29,144
Erano spese straordinarie le truppe tolte a stipendio

398
secondo il bisogno. Il quadro è affatto incompleto, man-
cando fin le spese per armare venti galere, per le fortifi-
cazioni, le spedizioni di consoli e ambasciadori, e ponti,
vie, canali, abbellimenti. L'entrata sarebbe quattro quinti
di quella di Firenze.
Raccogliamo dal Ghirardacci il bilancio di Bologna
nel 1381.

Entrate.

I mulini, a soldi quattro la corbalire 97,000


Vino »
60,000
Sale, a soldi otto la corba »
60,000
Mercatanzia »
24,000
Imbottato di pane, cera, prigioni »
50,000
Dazio alle porte, a soldi quattro il carro »
25,000
Bestie e ritaglio »
20,000
Macinatura e pane »
20,000
Folecelli »
12,000
Condanne e pubblici »
10,000

399
Affitti e pigioni »
10,000
Carteselle »
7,000
Sgarmiato »
8,500
Buratteria » 7,000
Ritenzioni per difetti » 4,000
Gualchieri » 2,000
Frutti e pesci » 3,000
Fieno e paglie » 2,000
Prigioni e banditi » 4,000
La massa » 2,000
Contado d'Imola »
2,000
Prestatori cristiani » 1,360
427,860

Spese.

Lancie trecento, a tre cavalli per lancialire


119,300
Fanti tremila » 157,600
Riparazioni delle mura » 20,000
Munizione a artiglieria » 30,000
Podestà » 7,000
Spesa per gli anziani » 5,670
Vestire la famiglia de' signori » 1,500
Al vicario del papa » 1,320

400
Resto di censo » 1,300
Salario dei dottori » 8,000
Corrieri e spie » 6,000
Ambasciatori » 6,500
364,190

Marin Sanuto, poco dopo il 1450, ci offre un quadro


statistico comparativo delle forze ed entrate delle poten-
ze cristiane, che qui compendiamo.

Il re di Francia può mandar fuori cavalli


15,000
Il re d'Inghilterra altrettanti »15,000
Il re di Scozia » 5,000
Il re di Spagna »15,000
Il re di Portogallo » 3,000
Il re di Bretagna (?) » 4,000
Il mastro di San Jacopo di Galizia » 2,000
Il duca di Borgogna » 1,500
Il re Rinieri » 3,000

Tutti possono averne il doppio in casa; e così i se-


guenti:

I Barcellonesi » 6,000
Tutta l'Alemagna alta e bassa, co' signori
spirituali e temporali, colle città fran-
che e non franche, e l'imperatore »
30,000

401
Il re d'Ungheria con tutti i duchi, signori,
principi, baroni, prelati, cherici e laici »
40,000
Il granmaestro dei Portaspada di Prussica »
15,000
Il re di Polonia » 25,000
I Valacchi » 10,000
La Morea » 10,000
Tutta l'Albania, Croazia, Schiavonia, Ser-
via, Russia e Bosnia » 15,000
Il re di Cipro » 1,000
Il duca di Nisia nell'Arcipelago » 1,000
Il granmaestro di Rodi » 2,000
Il signore di Metelino »
1,000
L'imperatore di Trebisonda » 15,000
Il re di Giorgiana » 5,000
Il duca di Savoja »
4,000
Il marchese di Monferrato »
1,000
Il conte Francesco Sforza duca di Milano »
5,000
Il marchese di Ferrara » 1,000
Il marchese di Mantova »
1,000
La comunità di Bologna »
1,000
La comunità di Siena » 1,000
402
La signoria di Firenze, con tutte le sue en-
trate, del 1414 avrebbe messo fuori ca-
valli 10,000, al presente »
2,000
Il papa s'è veduto del 1414 mettere cavalli
8,000; al presente »
3,000
Il re d'Aragona nel reame di Napoli» 6,000
I principi del reame che sono potenti, in
casa sua possono fare » 2,000
La comunità di Genova del 1414 avrebbe
potuto tenere cavalli 5,000; ma per le
divisioni e le guerre, al presente po-
trebbe tenere fuori di casa cavalli »
2,000
De' signori infedeli, il Turco » 200,000
Il Caramano » 30,000
Ussum-Cassan metterebbe cav. 200,000 in
servizio di Maometto; fuori » 100,000
Il Corassan » 10,000
Zanza » 100,000
Tamerlano con tutta la sua potenza dei
Tartari » 500,000
Il re di Tunisi, di Granata, e le altre città
della Barberia fanno galere e fuste a
danno de' Cristiani; in casa hanno ca-
valli 100,000; fuori di casa » 50,000

Entrata di alcuni principi cristiani.

403
Il re di Francia dell'anno 1414 avea
d'entrata ordinaria due milioni di duca-
ti; ma per le continue guerre già d'anni
quaranta227 è ridotto all'entrata ordina-
ria di duc. 1,000,000
Il re d'Inghilterra avea d'entrata ordinaria
due milioni di ducati; le continue guer-
re hanno disfatto l'isola, e al presente
ha d'entrata » 700,000
Il re di Spagna del 1410 aveva d'entrata
ordinaria tre milioni di ducati; ma per
le continue guerre è ridotto a » 800,000
Il re di Portogallo aveva d'entrata ducati
ducentomila; per le guerre è ridotto a »
140,000
Il re di Bretagna del 1414 aveva d'entrata
ducati ducentomila; per le guerre è ri-
dotto in » 140,000
Il duca di Borgogna del 1400 aveva di en-
trata tre milioni; per le guerre è ridotto
in » 900,000
Il duca di Savoja, per essere paese franco,
ha di entrata » 150,000
Il marchese di Monferrato, per essere pae-
se franco, ha di entrata » 100,000
Il conte Francesco duca di Milano (del
1423 il duca Filippo Maria aveva di
Questa lista sarebbe dunque stata scritta verso il 1454; non nel 1423, co-
227

me porta ordinariamente.

404
entrata un milione di ducati) al presen-
te per le guerre ha solamente » 500,000
La signoria di Venezia aveva nel 1423
d'entrata ordinaria duc. 1,100,000; per
le grandi guerre che hanno distrutte le
mercanzie, ha d'ordinario » 800,000
Il marchese di Ferrara in detto anno, aveva
d'ordinario ducati settecentomila; per
le guerre d'Italia egli, per stare in pace,
ha » 150,000?
Il marchese di Mantova aveva ducati cen-
cinquantamila; ora » 60,000
I Bolognesi avevano d'ordinario ducati
quattrocentomila; ma per le guerre son
venuti in » 200,000
Firenze aveva d'entrata ducati quattrocen-
tomila; ma poi per le grandi guerre è
ridotta in » 200,000
Il papa ha d'ordinario, benchè avessene più
» 400,000
I Genovesi per le grandi divisioni tra loro
sono ridotti in » 180,000
Il re d'Aragona in tutto il suo reame colla
Sicilia ha d'entrata, benchè ne avesse
assai più » 310,000

Un conto riferito nelle Delizie degli eruditi toscani,


vol. XX. p. 170, dà al 1427 le rendite di Milano fiorini
ventimila; Novara e Vercelli quattromila; Asti, Pavia,

405
Como, Lodi, Piacenza, Parma, Perugia duemila; Ales-
sandria, Tortona mille; Cremona tremila; Crema quattro-
mila; Bergamo tremila; Genova e Savona seimila; cioè
in tutto fiorini cinquantaquattromila al mese.
Or segue il Sanuto a dare le

Entrate di terraferma della Signoria veneta, e spese di


quelle terre.

entrata spesa restano


duc. duc. duc.
La patria del Friuli rende
all'anno 7,500 6,330 1,170
Treviso e il Trevisano 40,000 10,100 29,900
Padova e Padovano 65,500 14,000 51,500
Vicenza e il Vicentino 34,500 7,600 26,900
Verona e il Veronese 52,500 18,000 34,500
Brescia e il Bresciano 75,500 16,000 59,500
Bergamo e il Bergama-
sco 25,500 9,500 16,000
Crema e il Cremasco 7,400 3,900 3,500
Ravenna e il Ravennasco 9,000 2,770 6,230
Totale 317,400 88,200 229,200

Entrate di Venezia.

Governatori delle entrate riscuotono


Annualmente duc. 150,000
Uffizio del sale riscuote » 165,000
Otto uffizj obbligati alla camera
degl'imprestiti riscuotono » 233,500

406
Uffizj rispondono all'arsenale » 73,280
Per un pro alla camera degli imprestiti »
150,000
771,780
228
Spese ordinarie duc. 133,680
Salariati » 26,500
Netto duc. 611,600
Terre marittime rendono annualmente »
180,000
» 1,020,800

Altre entrate straordinarie.

Entrate di decime di case e di possessioni


nel dogato duc. 25,000
Pro d'imprestiti che si pagano de' contanti
la metà delle decime, e l'altra si tiene
in camera » 15,000
Possessioni di fuori e case di stazio » 5,000
Preti per le entrate loro » 22,000
Giudei da mare per le decime, due all'anno
» 600
Giudei da terra ducati cinquecento per de-
cima, due decime » 1,000
Decime della mercatanzia » 16,000
Noli e gioje, cioè entrate » 6,000
228
Questa cifra manca nell'originale: io l'ho posta presuntivamente. Nel
1490 la rendita totale fu di ducati 1,149,400; le spese ordinarie, d. 211,400;
i salariati d. 37,570.

407
Tanse e cambj » 20,000
1,131,400
Nota che s'ha da diffalcare dalla
entrata, per le persone impoten-
ti a pagare duc. 6,000
Per la metà della decima de' pro
della camera degl'imprestiti
duc. 7,500
Pei preti, da essere diffalcati pel
patriarca duc 2,000
} 37,500

Per la mercatanzia, l'entrata duc


6,000
Per noli e gioje duc 4,000
Per tanse e cambj duc 12,000
Restano

1,093,9
00

408
AGGIUNTE E CORREZIONI

Vol. I, pag. 190, linea 28229, aggiungi in nota:

Nel Congresso internazionale geografico del 1875 a Parigi si


disputò sopra i Galli, invasori dell'Italia nel V e IV secolo a. C., se
provenissero dalla valle del Danubio, o dal centro della Gallia, e
si conchiuse per quest'ultima opinione.

Pag. 433230, aggiungi in nota:

Nuova luce alla storia civile di Roma hanno recato le scoperte


recenti di iscrizioni, di monete, principalmente di tavole, fra cui
preziosi i bronzi di Ossuna in Spagna, che fecero comprendere
necessario uno studio nuovo e profondo del governo municipale
di Roma. Sigonio, Paolo Manuzio, Rosino (De Roszfeld) ne
avean dato molte nozioni; poi Everardo Otton si giovò dei lavori
di Grutero, Grevio, Gronovio per trattare delle colonie e dei mu-
nicipj, ma non conobbe la tavola d'Eraclea, trovata solo nel 1732,
nè la legge per la Gallia Cisalpina trovata nel 1760, nè se ne gio-
varono Bimard, Goez, Beaufort. Bensì ne profittò il Mazocchi
(1755), sospettando che la tavola d'Eraclea fosse un frammento di
legge municipale che attribuiva a Giulio Cesare, ma passò inav-
vertito, come avviene delle cose italiane, a segno che mezzo seco-
lo dopo il Savigny ritentò gli stessi problemi. Nè lo conobbe Roth
(De re municipali Romanorum, 1801) che vi cercò piuttosto il la-
229
Tomo I cap. VIII par. “Già vedemmo…” di questa edizione. [Nota per
l’edizione elettronica Liber Liber]
230
Tomo I cap. XVII par. “Anche dopo che l'interesse…” di questa edizio-
ne. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

409
to politico che le particolarità archeologiche, nè sospettò che la
tavola d'Eraclea fosse identica colla legge municipale di G. Cesa-
re, come poi dimostrò Savigny, e della quale non ancora s'è sco-
perta la totalità.
Sotto nuovo aspetto presentò le colonie e i municipj Niebuhr, e
diede la volontà di innovare, per quanto egli sia criticato dal Mad-
vig, colla fredda applicazione dei testi, e dell'epigrafia. Mommsen
avanzò l'opera, che ajutata dalle tavole di Malaga e Salpensa e da
queste di Ossuna, ci darà la vera condizione del municipio
dell'antica Italia, le cui istituzioni ebbero carattere municipale fin
sotto l'Impero.
Le cinque tavole di bronzo di Ossuna, cui appena testè se ne
aggiunsero altre, portano lo statuto comunale di Giulia Genetiva,
fondata da Giulio Cesare nel 710 U. c., 44 a. C. Rivelano esse
nelle massime particolarità la costituzione di una colonia, coi ma-
gistrati e ufficiali, i littori e uscieri assegnati a ciascuno, e i distin-
tivi: poi il servizio militare, gli stipendj, l'erogazione delle multe,
il culto, l'edilizia, le sepolture.
Vedansi WILLEMS, Droit publique romain, 1872.
CAMILLO RE, Le tavole di Ossuna, Roma 1874.
CH. GIRAUD, Bronzes d'Ossuna, 1874.
Enchiridion juris romani, 1875.
I lavori dell'Istituto di Francia nel 1874 e nel 1876, pag. 800,
poi nel 1877.
Ernesto Desjardins fece uno studio sul Paese gallico e la pa-
tria romana, mostrando che non è vero che le provincie fossero
assimilate alla metropoli. Roma non pensò distruggere i paesi che
assoggettava, ma trasformare il senso della parola patria.
Il senato che organizzava le conquiste, proponevasi di distrug-
gere le antecedenti confederazioni e sostituirvi la città; ruinare la
patria nazionale e far prosperare la patria municipale: stabilendo
un'autonomia municipale, garantita dalla protezione di Roma, e
colla lusinga d'entrare nella cittadinanza romana. A ciò non ri-

410
chiedeasi violenza, ma guadagnare gli spiriti, troppo inclini alla
discordia, alle invidie, alla guerra fraterna. Per quelle gelosie, Ce-
sare potè sempre aver alleato qualche popolo gallo contro gli altri.

Vol. II, pag. 322231, lin. 12:

territoristi, leggi terroristi.

Vol. III, pag. 33232, lin. 5, aggiungi:

In effetto non definisce nè il bene nè il male, nè la


legge: per criterio della morale non porge che una natura
vaga, ragionevole; non nomina Dio, non l'anima o
l'immortalità, non il libero arbitrio: della scienza stessa
non tiene conto se non in quanto è pratica; vede unica-
mente la repubblica, l'onestà politica; l'amor di patria
pone al di sopra dell'amor di famiglia. In somma la sua è
quella che or dicesi morale indipendente; alla ricerca di
questa sono diretti i primi cinque capitoli, e sempre non
fa che dimostrare la virtù esser utile233.

231
Tomo II cap. XXIX par. “Que' territoristi s'inebbriavano…” di questa
edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
232
Tomo III cap. XXXI par. “E vivissimo è il sentimento…” in fondo di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
233
Sotto nuovo aspetto considerò Cicerone il sig. D'Hugues professore di
Tolosa, cioè come proconsole in Cilicia (Une province romaine sous la ré-
publique, Parigi 1876), mostrando in che orribile servitù fossero le provin-
cie sotto la sfrenata podestà dei proconsoli, che cambiavansi ogni anno con
tutti gl'impiegati; colonia di aristocratici affamati che succedeva alla colo-
nia dei satolli.

411
Vol. III, pag. 211234, lin. 13:

Bedriaco, leggi Bebriaco.

Vol. IV, pag. 801235, lin. 10:

Papiriano, leggi Papirio.

Pag. 271236, aggiungi:

Sulle catacombe lavorarono inoltre Desbassyns de Richemont,


Kraus, Northcote, Brownlow, riassunti da Doen Guéranger: e
compendiati da Enrico de l'Epinois, Les catacombes de Rome, e
W. H. WITHROW, The Catacombs of Rome and their testimony re-
lative to primitive Christianity. Londra 1876.

Vol. V, pag. 52237, alla fine del capitolo aggiungi:

Una lettera secreta di Sidonio Apollinare ad Agricola


ci dà molte particolarità intorno a Teodorico e alle sue
abitudini. Levavasi per tempo; adunati i sacerdoti, «li
venerava con gran raccoglimento», mentosto per devo-
zione che per costume inveterato. Passava allora
234
Tomo III cap. XXXVI par. “Per togliersi a quell'intradue…” in fondo di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
235
Così nell’originale. Ma si deve leggere Tomo IV pag. 301 e Papiniano an-
ziché Papiriano.
Tomo IV cap. LIII par. “Seguirono altri giureconsulti…” di questa edizione.
[Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
236
Tomo IV cap. LII par. “Fin dal loro nascere i Cristiani…” in fondo di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
237
Tomo V cap. LIX par. “Ma non i rimorsi…” in fondo di questa edizione.
[Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

412
all'udienza, sedendo sul trono con a fianco gli armigeri,
mentre soldati goti stavano fuori, pronti ad accorrere al
bisogno, in qualche distanza per non recare disturbo. A
chi veniva, Teodorico rispondeva breve: e dopo due ore
levavasi e andava a visitare i tesori e le scuderie. Sedeva
poi a pranzo, da solo ne' giorni ordinarj, nei festivi a
sontuoso banchetto, ove le tavole erano coperte di tap-
peti di Babilonia e vasi cesellati; l'eleganza greca, la co-
pia francica, la prestezza italica, la pompa pubblica, la
diligenza privata, il cerimoniale regio risplendevano a
gara, mentre i convitati per riverenza parlavano poco:
vivande buone ma non costose: impossibile l'inebbriarsi,
anzi si lamentava lo scarso bere. Sopradesinare, di rado
egli dormiva, e più spesso si poneva a giocare, e posta
da banda la gravità reale, invitava alla libertà, agli
scherzi, alla familiarità, solo temendo di esser temuto. E
come in battaglia, così al giuoco sapea vincere senza
imbaldanzirne, e godendo e adirandosi secondo la sorte
dei dadi, e spesso filosofando. Il miglior momento di
domandargli una grazia era quando il compagno perdes-
se.
Sull'ora nona le guardie faceano largo, e il re tornava
ad occuparsi degli affari di Stato, la turba dei litiganti
susurrava fino a sera, quando Teodorico si levava per la
cena. Durante questa, usciva in motti piacevoli, sempre
tali però da non offendere i convitati.
Terminata la cena, le guardie palatine disponevano
per le scolte notturne; gli armigeri metteansi a guardia
delle porte del palazzo: e il re vegliava sino a mezzanot-
413
te, piacendosi di suoni e canti.

Vol. V, pag. 489238, lin. penultima:

Vedasi DOMENICO FORGES DAVANZATI (Napoli 1791),


Della seconda moglie di Manfredi.
Dappoi ne discorsero il De Cesare in una dissertazio-
ne apposita, e quelli tutti che ragionarono de' vespri sici-
liani.

Vol. VI, pag. 15239, lin. penultima, aggiungi:

Ugo vescovo di Parma, nel 1029, ebbe da Corrado il


contado della città e del territorio, e in segno della auto-
rità spirituale e temporale ufficiando teneva la mitra al
corno destro dell'altare, al sinistro la spada sguainala.

Pag. 72, lin. 7240:

Parma, dopo la vittoria su Federico II: Hostis turbe-


tur quia Parmam Virgo tuetur.

Pag. 113241, alla nota aggiungi:


238
Così sull’originale ma è Tomo VI nota 407 [Nota per l’edizione elettroni-
ca Liber Liber]
239
Tomo VI cap. LXXXI par. “Il vescovo di Mantova…” in fondo di questa
edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
240
Tomo VI cap. LXXXII par. “Monza, posseditrice della corona ferrea…”
dopo le parole “Christus Florentia vere” di questa edizione. [Nota per l’edi-
zione elettronica Liber Liber]
241
Tomo VI nota 111 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]

414
Questo poema, sì caro agli umanisti tedeschi, vollero alcuni
crederlo finto nel XVI secolo. Ma le recenti disquisizioni del
PANNENBORG (Forschungen zur deutschen Geschichte, tom. XI, pag.
163 e segg.), e del PARIS (Compte rendu des Séances de l'Acad.
des Inscriptions, gennajo 1871) accertano che è opera contempo-
ranea, non di Guntero nè d'un pavese imperialista, ma d'un tede-
sco, addottrinato nell'Università di Parigi, e che verseggiò dietro
al racconto di Ottone di Frisinga.

Vol. VI, pag. 501242:

Carlo convocò in Napoli due sindaci di ciascuna città,


ecc.
Questa asserzione, accettata dal maggior numero di
storici, è confutata vittoriosamente dal signor Del Giudi-
ce, Il giudizio e la condanna di Corradino, Napoli 1876.
Giudici e baroni furono convocati solo per assistere al
supplizio.

Pag. 532243, alla nota 16 aggiungi:

Il granoturco, in haitiano chiamasi mahis.


Il primo botanico che lo descriva come conosciuto in
Europa è Gerolamo Bock, De stirpium Germaniæ no-
menclaturis, 1552, Argents: nel 1571 non era ancora
coltivato in Ispagna, del che si duole Hernandez, Theatr.
mexicanum, pag. 242.
242
Tomo VI cap. XCII par. “La Chiesa ribenediva, il re esultava…” di que-
sta edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
243
Tomo VI nota 438 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]

415
La nota carta d'Incisa, pubblicata primamente dal
Giuseffantonio Molinari nella Storia d'Incisa, 1810, e
accettata dal Michaud e dalla più parte; il De-Candolle
sostenne si trattava non del granturco ma del sorgo. Ora
poi nella Revue des Exceptions historiques, anno XI,
gennaio 1877, pag. 160, Comte Riant dimostra, ciò che
altri già avevano dubitato, che quella carta è affatto fal-
sa.

Vol. VII, pag. 34244, alla nota 3 si aggiunga:

Sulle origini di Firenze e sui narratori di quelle, non abbastan-


za lavorarono i nostri, e ancora meno Gino Capponi. Furono gli
stranieri che primi repudiarono Ricordano Malespini, Dino Com-
pagni, il Chronicon, Brunetto Latini.
Ultimamente G. Hartwig pubblicò Quellen und Forschungen
zur ältesten Geschichte der Stadt Florenz, stampando le Gesta
Florentinorum del Senzanome, che come testimonio oculare de-
scrive le lotte dei Comuni contro i castelli e le città, convinse che
i primi narratori ebbero alla mano ben pochi documenti, ma si
valsero di leggende divulgate, e conclude che Firenze fu fondata
dai Romani due secoli a. C., non fu distrutta da Totila, nè rifabbri-
cata da Carlomagno: nel medioevo era di pianta quale al tempo
romano: la cerchia antica fu distrutta probabilmente al tempo del-
le Ordinanze di Giustizia; Fiesole fu distrutta, non nel 1010, ma
nel 1125; Firenze ebbe poca importanza nel secolo XI, e nel suo
mezzo aveva terreni coltivati. Poi divenne centro del movimento
antimperiale in Toscana e alleato principale del papato.

244
Tomo VII nota 20 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]

416
Vol. VII, pag. 265245, alla nota aggiungi:

Quali il De Giovanni, Ant. Cappelli, Renzi, Robieri.


Nell'ultima edizione del 1876, grandemente ampliata, l'Amari
conchiude ancora che, «cimentato quel gran nome con le forze
che ha oggi l'istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura;
gli resta soltanto la destrezza dei maneggi di Stato, e la infamia
del tradimento contro la Sicilia».

Pag. 518246, lin. 5:

Francesco Sacchetti, leggi Franco Sacchetti.

Vol. IX, pag. 263247.

Uberto Foglietta: poni in nota:


Il sig. Neri nel Giornale Ligustico del novembre e dicembre
1876 pose una estesa memoria sul Foglietta, giudicandolo rigoro-
samente quanto al concetto politico di irragionevole democrazia,
e lodandone molto lo stile, sì del testo latino, sì della traduzione
fattane dal Serdonato. Lo rimprovera della sua malevolenza verso
gli altri storici, massime il Giustiniani che lo precedette, e il Biza-
ro che ad Anversa pubblicò contemporaneamente la sua storia
(1579).

245
Tomo VII nota 199 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]
246
Tomo VII cap. CIX par. “Francesco Sacchetti fiorentino…” di questa edi-
zione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
247
Così sull’originale ma è Tomo IX cap. CXXXIII pag. 267 par. “Gli Anna-
li di Genova stese Agostino Giustiniani...” [Nota per l’edizione elettronica
Liber Liber]

417
Vol. X, pag. 476248, lin. 12, aggiungi:

Il duca d'Alba nel 1556 assale Veroli, risoluto a di-


struggerla, e il cavallo gli cade e nega procedere più in
là del luogo ove fu trovato il corpo di S. Salome.

Vol. XI, pag. 392249, lin. 4, aggiungi:

In mezzo alle sue melanconie talvolta era vivo, chias-


soso; ai carnevali di Ferrara danzava, donneava, strabe-
veva: amava i cibi squisiti e lo zucchero più fino.

Pag. 397, lin. 15250, aggiungi:

Il Tasso in prigione era trattato decentemente, poteva


passeggiare, ricevea visite di personaggi, fra cui il duca
di Mantova: denaro dal duca di Guastalla: doni di libri e
manoscritti, come le edizioni di Aldo; leggeva la Som-
ma di san Tommaso e le Storie del Bembo; l'incisore
Francesco Terzi lo consultava sui suoi lavori: Giulio Se-
gni gli dedicava i suoi versi: il padre Angelo Grillo veni-
va a tenergli compagnia; colà stesso voleva esser vestito
de' più bei velluti di Genova e con berretti ricamati.

248
Tomo X cap. CXLVI par. “Quanto il sentimento religioso…” dopo le pa-
role “si fabbricò la Madonna de' miracoli” di questa edizione. [Nota per
l’edizione elettronica Liber Liber]
249
Tomo XI cap. CLVII par. “Nella Corte d'Alfonso II di Ferrara…” di que-
sta edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
250
Tomo XI cap. CLVII par. “Cosi penò sette anni…” di questa edizione.
[Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

418
Vol. XI, pag. 446251, alla nota 13 aggiungi:

La regina Cristina ebbe carissimo il cardinale Azzolino di Fer-


mo, che chiamava «il massimo, non meno di tutti i cardinali che
di tutti gli uomini», e lo reputava inferiore soltanto all'Oxenstiern.

Pag. 500252 in fine:

Pier Giovanni Capriata. I 3 volumi della sua Storia d'Italia


pubblicaronsi a Genova il 1638, 1649, 1663, il terzo postumo.
Favorevole agli Spagnuoli, contrario al duca di Savoja Carlo
Emanuele, tacciandolo non solo di astuzia e falsa politica, ma di
viltà.
Eppure trescò nella sozza congiura del Vachero: la Signoria
veneta cercò farlo ammazzare per averne palesato la vergognosa
rotta a Valleggio; la Corte romana mosse doglianze dell'averlo la-
sciato stampare.

Pag. 501253:

In un articolo del Giornale Ligustico, 1877 genn. feb-


br., mi si avverte che il Casoni avea compito anche la
seconda sua storia.

Pag. 503254, lin. 24, aggiungi:


251
Tomo XI nota 258 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]
252
Tomo XI cap. CLVIII par. “Pari ai grandi…” di questa edizione. [Nota
per l’edizione elettronica Liber Liber]
253
Tomo XI cap. CLVIII par. “Pari ai grandi…” di questa edizione. [Nota
per l’edizione elettronica Liber Liber]
254
Tomo XI cap. CLVIII par. “Strana è la facilità…” in fondo di questa edi-
zione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

419
Pratillo e Tafuri sono cattivissimi inventori di baje,
invan difese avvocatescamente dal De Meo, del quale
deturparono gli Annali di Napoli dall'800 fino ai Nor-
manni.

Vol. XII, pag. 297255, lin. 10, aggiungi:

Carlo Amoretti d'Oneglia, poligrafo e naturalista,


uscito di frate, fu professore a Parma, ove era accusato
di spargere dottrine empie e dubbj sulla integrità della
B. Vergine. Fu secretario della Società Patriotica a Mila-
no, dottore della biblioteca Ambrosiana e membro
dell'Istituto (1740-1816).

Vol. XII, pag. 499256, lin. 1:

Zanetti, leggi Zanotti.

Vol. XIII, pag. 535257:

Ai viaggiatori vanno aggiunti il Flores, che studiò la


mineralogia del Messico; come De Angelis e De Scalzi
nel Buenos Ayres: Lavarello scoprì gli affluenti del Pa-
rana nella repubblica Argentina.

255
Tomo XII cap. CLXVII par. “L'apertura del naviglio di Paderno…” di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
256
Tomo XII cap. CLXXII par. “Francesco Maria Zanetti bolognese…” di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
257
Tomo XIII cap. CLXXXVII par. “Quanto a viaggiatori…” di questa edi-
zione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

420
Pag. 572258, lin. 28, aggiungi:

Carlo Barabini rese accessibili le vie di Genova, fece


il passeggio dell'Acquasola e il teatro Carlo Felice.

Vol. XV, pag. 5259, lin. 27:

Effuschke, leggi E. Husche.

Pag. 12260, lin. 4, aggiungi:

Dopo le Tavole Eugubine viene il cippo quadrangola-


re, scoperto presso Perugia il 1822, etrusco con 656 ca-
ratteri, attorno al quale lavorarono il Vermiglioli, il
Maggi, l'Orioli, il Canepari ed altri, costretti a confessa-
re di non accertarne il contenuto.

Pag. 15261, lin. 5, aggiungi:

Il Tarquinj aieanatus feci levigabat pulcre Phebe: lo


Janelli supremus director et custos annonæ.

258
Tomo XIII cap. CLXXXVIII par. “All'architettura si offersero…” di que-
sta edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
259
Tomo XV nota 4 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber
Liber]
260
Tomo XV APPENDICE I. par. “Sono gli atti della fratrecate dei frater
atijediur…” in fondo di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica
Liber Liber]
261
Tomo XV APPENDICE I. par. “Sul pendaglio d'una bella statua di bron-
zo…” dopo le parole “figlio di Aeia fece” di questa edizione. [Nota per
l’edizione elettronica Liber Liber]

421
Pag. 18262, lin. 10, aggiungi:

Nel procedere del suo glossario trovò moltissime pa-


role inesplicabili, come ansif, apohtre, arsmatiam, avie-
holeirs, abetrafe, efurfatu, esariaf, eclacrus, che pur ri-
corre almen venti volte: oltre le molte dubbie.

Pag. 26263, lin. 26, aggiungi:

Die nordetruskischen Alphabete aus Inschriften und


Münzen; nei Mittheilungen della Società antiquaria di
Zurigo.
Wilhelm CORSSEN, De Volscorum lingua. Norimberga
1858.

Vol. XV, pag. 40264, lin. 16:

Statetio, leggi Statebio.

Pag. 62265, alla nota aggiungi:

Sarebbe importante colmar la lacuna che vi è fra il Dizionario


del Forcellini e quello del Du Cange. L'uno dà il latino classico,
l'altro il latino barbaro. Ma realmente nei tempi di decadenza, nel
262
Tomo XV APPENDICE I. par. “La fratellanza dei vetusti dialetti…” in
fondo di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
263
Tomo XV nota 25 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]
264
Tomo XV APPENDICE I. par. “Alcuni vennero usurpati…” in fondo di
questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]
265
Tomo XV nota 89 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]

422
IV, Ve VI secolo si usavano molte voci che il Du Cange non pone
che coll'autorità del IX o X. Resta ancora a compire il lessico di
quei secoli, e un buon principio vi diede il signor Quicherat (Ad-
denda lexicis latinis, investigavit, collegit, digessit L. QUICHERAT.
Parigi 1862), aggiungendo al Forcellini circa 7000 articoli, tolti
da autori della decadenza.
Ciò toglierebbe la soluzione di continuità.

Pag. 106266, lin. 10:

Mezzolombardo, leggi Mezzolambro.

266
Tomo XV APPENDICE I. par. “Nelle formole sulle Leggi Longobar-
de…” all’anno 754 di questa edizione. [Nota per l’edizione elettronica Li-
ber Liber]

423
INDICE ALFABETICO

Aborigeni, I. 43.
Accademia del Cimento, XI. 585 ‒ Ercolanense, XII. 517.
Accademie, X. 142.
Acciajuoli Roberto, XI. 254.
Accolti Francesco, VIII. 347.
Accursio, VI. 376; VIII. 346.
Accuse pubbliche a Roma, II. 110.
Acoramboni Vittoria, XI. 347.
Acquedotti romani, III. 411.
Acton, XII. 355.
Acuto Giovanni, VIII. 12. 177.
Addison, XII. 448.
Adriano imperatore, III. 242 ‒ suo eclettismo, 407.
Adriano papa, V. 236.
Adriano VI, IX. 249; X. 370.
Affò, XII. 243. 540.
Agatocle, I. 249.
Agilulfo, V. 87.
Agincourt, XII. 533.
Agiografia cristiana, IV. 256.
Agostino (s.), IV. 260.
Agricola (Giulio), III. 229.

424
Agricoltura nel Seicento, XI. 304 ‒ primitiva, I. 129.
Agrigento, I. 232. 283.
Agrippa Vipsanio, II. 339.
Alamanni, X. 187.
Alarico, IV. 354-374.
Alba, I. 138.
Albanesi in Italia, VIII. 219.
Albani pittore, XI. 365.
Alberico da Barbiano, VII. 575; VIII. 177.
Alberoni, XII. 115.
Alberti Leon Battista, X. 5.
Alberto d'Austria, VII. 366.
Albertolli, XII. 531.
Albinaggio, V. 392; VIII. 450.
Albizzi, VIII. 239. 243. 253.
Alboino, V. 73.
Albornoz, VII. 550. 562. 567.
Alchimia, VI. 409; VIII. 426; X. 318; XI. 290.
Alciato, X. 130.
Aldo, VIII. 367; X. 125.
Aldrovandi, XI. 536.
Alessandria, VI. 139.
Alessandro e i Romani, I. 268.
Alessandro III, VI. 135.
Alessandro Severo, IV. 31.
Alfieri, XII. 557.
Alfonso il Magnanimo, VIII. 81.
Algardi, XI. 367.
Algarotti, XII. 503. 532.
425
Allacci, X. 127.
Alleanza (santa), XIII. 293.
Alpi, loro popolazioni, II. 373.
Alpi passate da Annibale, I. 307.
Amalasunta, V. 52.
Amalfi, VI. 105.
Amanuensi, VIII. 355.
Ambasciadori, loro franchigie a Roma, XII. 26.
Ambrogio (s.), IV. 220.
Ammiano Marcellino, IV. 245.
Ammirato, IX. 260.
Amoretti, XII. 297 e aggiunte.
Anatomisti, XI. 546.
Ancre (maresciallo d') XI. 249.
Andres, XII. 539.
Andronico, I. 350; III. 3.
Anguillara, X. 243.
Anichino, VII. 568.
Annibale, I. 303. 339.
Annibale Porrone, XI. 275.
Annio da Viterbo, VIII. 341.
Anno, XV. 227.
Anselmo (s.), VI. 362.
Ansprando, V. 204.
Antioco il Grande, I. 336 ‒ Epifane, 353.
Antiquarj, X. 127.
Antitrinitarj, X. 405.
Antonino Pio, III. 252.
Antonio (s.), VI. 350.
426
Aonio Paleario, X. 429.
Aosta, VII. 445.
Apollonio Tianeo, IV. 97.
Apologisti cristiani, IV. 115. ‒ X. 363.
Apparizioni, X. 475; IX. 382.
Appiani Andrea, XII. 532.
Appio Claudio, I. 176. 275. 324.
Apuleio, III. 379.
Arcadia, XI. 446; XII. 495.
Archi romani, III. 408.
Archimede, I. 255.
Archita, I. 223.
Architetti del medioevo, VII. 178 ‒ toscani, 179 ‒
dell'Alta Italia, 182 ‒ del secol d'oro, X. 2 ‒ del Sette-
cento, XII. 528.
Architettura romana, III. 399 ‒ gotica, VII. 171 ‒ risorgi-
mento, X. 92 ‒ militare, 104.
Arco acuto, VII. 168.
Arduino Giovanni, XII. 584.
Arduino re, V. 369.
Aretino Pietro, X. 255.
Argonauti, III. 363.
Aria (gente), I. 61.
Arialdo, V. 490.
Arianesimo, IV. 174.
Arimanni, VI. 17.
Ariosto, X. 177. 237.
Aristotele, VI. 359.
Armi da fuoco, VII. 578.
427
Armi mercenarie, VII. 456. 570. 574.
Arnaldo di Brescia, VI. 108. 118.
Arnobio, IV. 214.
Arnolfo di Cambio, VII. 187.
Arrabbiati e Palleschi, IX. 404.
Arte (scrittori di), XII. 532.
Arteaga, XII. 506.
Arti belle a Roma, II. 122; III. 392 ‒ in Sicilia, 430 ‒ nel
basso impero, IV. 269 ‒ cristiane, 273 ‒ sotto i Goti, V.
42 ‒ i Longobardi, 143 ‒ i Franchi, 277 ‒ nel medioe-
vo, VII. 160 ‒ nel Quattrocento, VIII. 374 ‒ nel Cinque-
cento, X. 2 ‒ nel Seicento, XI. 350 ‒ moderne, XIII. 559.
Artisti italiani all'estero, X. 115.
Ascoli, XV. 176.
Asdrubale, I. 304.
Assedio di Genova, XIII. 123.
Assise di Gerusalemme, V. 559.
Assisi, VII. 171.
Asti, VII. 6.
Astolfo longobardo, V. 217.
Astrologia, VI. 401; VIII. 427; X. 318.
Atanasio (s.), IV. 178.
Atti di fede, X. 417.
Attila, IV. 385.
Attilio Regolo, I. 290.
Auguri, I. 413. 415.
Augusto, II. 310. 347-390 ‒ il nome, 349.
Augustolo, IV. 431.
Aureliano, IV. 49.
428
Aurelio Vittore, IV. 244.
Ausonio, IV. 251.
Austro-Russi in Lombardia, XIII. 99.
Autari, V. 82.
Averroe, XI. 531.
Avidio Cassio, III. 262.
Avignone, VII. 522.
Aroux267, XV. 325.
Avvocati servili, VII. 425.
Azuni, XII. 267.

Baccanali romani, I. 371.


Bacone, XI. 569.
Baglivi, XI. 552.
Bajamonte, VII. 78.
Bajardo, IX. 206.
Balbo Cesare, I. 31; XIV. 62.
Balbo Gaspare, VIII. 559.
Balde, VI. 376.
Baliaggi svizzeri, XIII. 67.
Balilla, XII. 150.
Baluardi, X. 104.
Banchetti, VIII. 393.
Banchi, VII. 110; VIII. 493.
Banchieri, VIII. 482. 488.
Banco di S. Giorgio, VII. 112; VIII. 509.
267
Sull’originale Avoux [Nota per l’edizione elettronica Liber Liber]

429
Bandini, XII. 238.
Barbacovi Vigilio, XII. 267.
Barbari invasori, IV. 65.
Barbaro Ermolao, VIII. 322.
Barbo Mario, VIII. 321.
Baretti, XII. 535.
Barletta Gabriele, VIII. 173.
Barnabiti, X. 483.
Barnabotti, VII. 89.
Barocco, XI. 360.
Baronio, V. 353; VII. 351. 551.
Bartoli Daniele, XI. 429.
Bartolini, XIII. 564.
Bartolo, VI. 376.
Bartolozzi, XII. 526.
Basiliche cristiane, IV. 279.
Bassville, XIII. 12.
Battaglia alle Egati, I. 294 ‒ Canne, 311 ‒ di Zama, 321
‒ di Magnesia, 337 ‒ del monte Ossa, 341 ‒ di Pidna,
342 ‒ de' Campi Raudj, II. 31 ‒ di Pistoja, 151 ‒ di
Farsalo, 217 ‒ di Munda, 231 ‒ di Azio, 345 ‒ di
Teutberga, 375 ‒ di Idistaviso, 375 ‒ di Bedriaco, III.
311 ‒ di Strigonia, 261 ‒ di Pollenza, IV. 349 ‒ di
Chalons, 388 ‒ di Legnano, VI. 141 ‒ di Benevento,
488 ‒ di Cortenova, 450 ‒ della Meloria, 450 ‒ di Ta-
gliacozzo, VI. 499 ‒ di Desio, VII. 29 ‒ di Montaperti,
47 ‒ di Campaldino, 53 ‒ della Meloria, 59 ‒ di Alto-
pascio, 387 ‒ di Parabiago, 417 ‒ di Pola, VIII. 43 ‒ di
Chioggia, 47 ‒ di Ponza, VIII. 83 ‒ di Arbedo, 93 ‒ di
430
Maclodio, 109 ‒ di Fornovo, IX. 77 ‒ di Agnadello,
192 ‒ di Ravenna, 210 ‒ di Mohacz, 278 ‒ di Pavia,
344 ‒ di Landriane, 380 ‒ di Gavinana, 419 ‒ di
Montemurlo, 439 ‒ di Ceresole, 459 ‒ di Lepanto,
536 ‒ di Staffarda, XII. 89 ‒ di Cassano, 103 ‒ di Vel-
letri, 146 ‒ di Marengo, XIII. 125 ‒ Austerlitz, 155 ‒
Wagram, 193 ‒ Lipsia, 253.
Battaglia del 48, XIV. 167. 225.
Battaglia di Lissa, XIV. 360.
Battisteri, IV. 283.
Beatrice Tenda, VIII. 35.
Beaufort, XV. 246.
Beccaria Cesare, XII. 248.
Bedmar (congiura del), XI. 149.
Belisario, V. 54.
Bellarmino, X. 508.
Bellini, pittori, X. 25.
Belve nel circo, III. 126.
Bembo Pietro, X. 137. 265.
Benedetto (s.), V. 161.
Benedetto XII, VII. 525.
Benedetto XIV, XII. 186.
Benevento, suo ducato, V. 245.
Bentivoglio Guido, XI. 509.
Berchet, XIII. 445.
Berengario imperatore, V. 330. 339.
Bergamo, antico Comune, VI. 63.
Bernardino (s.) da Siena, VIII, 169.
Bernardo (s.), VI. 96.
431
Berni, X. 195.
Bernini, XI. 358.
Bertola, XII. 548.
Bertoldo, V. 124.
Bessarione, VIII. 306.
Bettinelli, VII. 354; XIII. 505.
Bianca Capello, XI. 231.
Bianchini Francesco, XI. 518.
Biandrata, X. 410.
Bibbia tradotta, IV. 217; XV. 60 ‒ sua lingua, 255 ‒ vol-
gare, IX. 332 ‒ vulgata, X. 449.
Biblioteca Italiana, XIII. 441.
Biblioteche romane, III. 18.
Biblioteche, VIII. 359; XI. 443.
Birago, IX. 462.
Blasone, VI. 529.
Blocco continentale, XIII. 185.
Boccaccio, VII. 247. 480. 508; X. 169. 495.
Boccalini, X. 149; XI. 433.
Boccanegra, VII. 67; VII. 421.
Bodoni, XII. 351.
Boezio, V. 37. 50; VI. 357.
Bogino, XII. 336. 344. 350.
Bojardo, X. 176.
Bolla in Cœna Domini, X. 505.
Bollario, X. 467.
Bolle papali, X. 120.
Bologna (congresso di), IX. 233.
Bologna repubblica, VII. 14.
432
Bologne, VII. 407.
Bombarde, VII. 578.
Bonacolsi, VII. 406.
Bonamici, X. 121.
Bonaventura (s.) VI. 370.
Bondi, XII. 214.
Bonifazio di Toscana, V. 499.
Bonifazio VIII, VII. 280. 303. 373.
Bonomo, X. 455.
Borelli, XI. 583.
Borgia, VIII. 273; IX. 23. 121.
Borri Francesco, XI. 341.
Borromei, VIII. 117.
Borromini, XI. 359.
Boschi, VII. 572.
Boscovich, XII. 577.
Botero, XI. 486.
Botta Carlo, XII. 216. 286. 312; XIII. 489.
Boucicault, VIII. 50.
Braccio di Montone, VIII. 77.
Bracciolini, XI. 438.
Bragadino, IX. 534.
Bramante, X. 9.
Bravi romani, XI. 22 ‒ lombardi, 93 ‒ napoletani, 119 ‒
italiani, 278.
Brescia assediata, VIII. 113 ‒ dai Francesi, IX. 209.
Brigantaggio, XIV. 345.
Briganti Filippo, XII. 237.
Brigida (s.), VIII. 153.
433
Brugnatelli, XII. 587.
Brunelleschi, X. 4.
Brunetto Latini, VII. 240.
Bruno Giordano, XI. 456.
Bruto (Giunio), II. 240. 309. 325.
Buonafede, XII. 277.
Buonaparte Giuseppe, XIII. 197.
Buonarroti il Giovane, XI. 434.
Buondelmonti, VII. 43.
Burchiello, VIII. 416.
Burigozzo, IX. 358.
Burlamacchi, IX. 468.
Busini, IX. 259.
Bussola, VIII, 538.

Cabotto, VIII. 550.


Caccia, VII. 146.
Cagliostro, XII. 227.
Cagnola, XIII. 560.
Calendario siciliano, II. 122 ‒ riformato, X. 467.
Calendarj, Xv. 227.
Caligola, III. 92.
Callicrate, I. 349.
Camaldolesi, VI. 328.
Cambiali, VIII. 490.
Cambisti, VIII. 482.
Camillo, I. 190.

434
Camillo de Lellis (s.), X. 488.
Campanella, sua congiura, XI. 127 ‒ sua scienza, 465.
Campania antica, I. 108. 198.
Campi, pittori, XI. 375.
Campi Raudj, II. 31.
Canaletto, XII. 513.
Candia, VII. 90; XII. 44.
Canea, VI. 267.
Cangrande, VII. 423.
Canosa (principe di), XIII. 300. 308.
Canova, XII. 570.
Canto de' Salj e degli Arvali, XV. 30.
Cantofermo, VI. 414.
Canto gregoriano, V. 183.
Capitale trasportata a Firenze, XIV. 351 ‒ a Roma, 363.
376.
Capitolari di Carlomagno, V. 289.
Capponi Gino, VIII. 248.
Capponi Nicolò, IX. 404.
Capua, 311.
Caracalla, IV. 23.
Caracci, XI. 368.
Caraccioli Luigi Antonio, XII. 206.
Caracciolo Domenico, XII. 362.
Caracciolo frà Roberto, VIII. 172.
Caracciolo Galeazzo, X. 423.
Caravaggio Michelangelo, XI. 366.
Carbonari, XIII. 212. 260. 315. 365.
Cardano, X. 324; XI. 561.
435
Carducci Baldassarre, IX. 405.
Carlalberto, XIII, 360. 400; XIV. 13. 90. 232.
Carli Gianrinaldo, XII. 233.
Carlo Borromeo (s.), X. 352. 440. 450. 569.
Carlo d'Angiò, VI. 472; VII. 262.
Carlo Emanuele di Savoja, XI. 65. 198.
Carlo Emanuele II, XII. 83. 144.
Carlo Emanuele III, XII. 341.
Carlo III di Napoli, XII. 160. 196. 210.
Carlo il Calvo, V. 323.
Carlo il Grosso, V. 327.
Carlo IV, VII. 534.
Carlo Martello, V. 213.
Carlomagno, V. 231. 281 ‒ sua coronazione, 251 ‒ suoi
capitolari, 289.
Carlo V, IX. 239. 345. 389. 447. 508.
Carlo VI imperatore, XII. 131.
Carlo VI in Sicilia, XII. 159.
Carlo VIII, IX. 57.
Carlone pittore, XI. 377.
Carmagnola, VIII. 36. 109.
Carneade, I. 329.
Carnesecchi, X. 431.
Carnevale, VII. 150.
Caro (Annibal), X. 159.
Caroli, IX. 116.
Carolina d'Austria, XII. 354.
Caronda, I. 227.
Carrara (i), VII. 424; VIII. 17. 43.
436
Carta di cenci, VIII. 361 ‒ da giuoco, 442.
Cartagine, I. 280 ‒ distrutta, 387 ‒ parallelo con Roma,
383.
Carte di Comune, VI. 29.
Cartesiani, XI. 477.
Casati romani, XV. 283.
Case romane, III. 416 ‒ del medioevo, VII. 115 ‒ magna-
tizie romane, XI. 20.
Caserta, XII. 165.
Casistica, XII. 19.
Cassini, XI. 595.
Cassio, II. 240. 325.
Cassiodoro, V. 37. 269.
Casta, VIII. 501.
Castelfidardo, XIV. 337.
Castelvetro, X. 162. 395.
Casti, XII. 553.
Castiglioni Baldassarre, X. 289.
Castruccio, VII. 387. 396. 425.
Catacombe, III. 200; IV. 271.
Catari, VI. 330.
Catechismo, X. 449.
Caterina Cornaro, VIII. 233.
Caterina (s.), VIII. 149.
Catilina, II, 137.
Catone censore, I. 373.
Catone uticense, II. 167. 227. 259.
Cattolicesimo trionfa, IV. 225.
Catullo, III. 37.
437
Cavalieri Bonaventura, XI. 589.
Cavalieri romani, I. 403.
Cavalieri di Malta, IX. 277.
Cavalleria, V. 561; VII. 141.
Cavallette, VII. 97.
Celestino V, VII. 281.
Celio Magno, XI. 381.
Celio Curione, X. 390.
Cellini, X, 109. 271.
Celso, III. 317.
Celti, I. 46.
Cenci Beatrice, XI. 345.
Censori romani, I. 405.
Censura teatrale, III. 10.
Cerati, XII. 287.
Certosa di Pavia, VII. 185; X. 76.
Cesalpino, X. 537. 542.
Cesare, II. 170. 203-242. 330 ‒ storico, III. 22.
Cesari Antonio, XIII. 454.
Cesariano, VII. 184.
Cesarotti, XII. 550.
Cesellatori, X. 109.
Ceva Tommaso, XI. 451.
Chiabrera, XI. 441.
Chiaravalle VI. 314.
Chiari abate, XII. 484.
Chiavenna, X. 396.
Chieri (società di), VI. 205; VII. 444.
Chiese fondate dai discepoli, IV. 86.
438
Chiese cristiane, IV. 277.
Chiesa e i Barbari, V. 150 ‒ suoi incrementi, 468.
Chiesa e Impero, VI. 416.
Chiesa corrotta nel Cinquecento, IX. 284.
Chinea, XII. 281.
Chirurgia, VI. 399.
Cholera, XIII. 411.
Cia degli Ordelaffi, VII. 563.
Cicerone, II. 111. 131. 183. 227. 313 ‒ storico, III. 27 ‒
filosofo, 29 ‒ sue lettere, 35.
Cicognara, XIII. 562.
Cifre arabiche VI. 412.
Cignaroli, XII. 515.
Cimabue, VII. 197.
Cimarosa, XII. 473.
Cimbri, II. 27 ‒ IX. 197.
Cincinnato, I. 188.
Cino da Pistoja, VI. 377.
Ciompi, VIII. 240.
Cipro (guerra di), IX. 531.
Circo, II. 87.
Circolazione del sangue, XI. 550.
Cistercensi, VI. 314; VII. 96.
Ciullo d'Alcamo, XV. 152.
Civile imperatore, III. 222.
Clarisse, VI. 321.
Classici riprovati, X. 493.
Claudiano, IV. 249. 346.
Claudio imperatore, III. 100.
439
Clefi, V. 79.
Clemente V, VII. 313.
Clemente VII, IX. 339. 369. 401; X. 373.
Clemente VIII, XI. 42.
Clemente XIV, XII. 206.
Cleopatra, II. 222. 334.
Clodio, II. 189.
Cocchi, XII. 592.
Codice Gregoriano, IV. 304 ‒ Teodosiano, 305 ‒ Giusti-
nianeo, 306 ‒ di Teodorico, V. 33 ‒ di Rotari, 104.
122 ‒ di Napoleone, XIII. 168.
Cognomi, VI. 75.
Cola di Renzo, 530. 558.
Cola Montano, IX. 47.
Coleoni Bartolomeo, VIII. 136.
Colombo Cristoforo, VIII. 562.
Colonie greche, I. 206. 230 ‒ cartaginesi, 281 ‒ romane,
421; III. 406.
Colonna e Orsini, VII. 527. 534.
Colonna (frà Francesco), VIII. 338.
Colonna Marcantonio, IX. 533.
Colonna Vittoria, X. 403.
Comendone, X. 444.
Comizj romani, I. 160. 400; II. 299. 351.
Commedia latina, III. 2.
Commedie italiane, X. 210.
Commercio romano, III. 300 ‒ veneto, V. 531; VIII. 93.
Commercio nel Quattrocento, VIII. 446.
Comodo imperatore, IV. 5.
440
Como (guerra di), VI. 95.
Compagnie di ventura, VII. 449 ‒ bianca, VII. 569 ‒ della
stella, 573.
Comunanze mercantili, VI. 22.
Comuni. Origine, V. 362 ‒ milanese, V. 447.
Comuni, persistenza sotto i Barbari, VI. 1 ‒ origine, 23.
61 ‒ di campagna, 51 ‒ paragone coi municipj, 64 ‒
loro governo, 65.
Comuni lombardi, VI. 89 ‒ loro lotte, 91.
Comuni sottoposti a Comuni, VI. 201.
Conche, X. 7.
Conciliatore, XIII. 440.
Concilio Niceno, IV. 177 ‒ costantinopolitano, 225.
Concilio Laterano, VI. 106. 415 ‒ di Lione, 458.
Concilio di Vienna, VII. 316.
Concilio di Pisa, VIII. 187 ‒ di Costanza, 191 ‒ di Firen-
ze, 197.
Concilio lateranense, IX. 318 ‒ di Trento, X. 373. 443 ‒
sua storia, 545.
Concilio di Pistoja, XII. 324.
Concordati, XIII. 320.
Concordato di Worms, V. 517.
Concordato con Pio VII, XIII. 131.
Condottieri, VII. 458; VIII. 88. 114.
Congiura de' Pazzi, VIII. 281 ‒ de' Baroni, 293 ‒ molte,
405.
Congiura del Bedmar, XI. 149 ‒ del Vachero, 73 ‒ del
Campanella, 127.
Congregazioni romane, XI. 31.
441
Congressi scientifici, XIV. 57. 126.
Congresso di Vienna, XIII. 276. 285 ‒ di Troppau, 343.
Consolati commerciali, VIII. 480 ‒ marittimo, 481.
Consoli romani, I. 409.
Consoli di Comune, VI. 62. 167.
Consulta di Lione, XIII. 135.
Conti palatini, VII. 560.
Controversie religiose, XII. 169. 179. ecc.
Convenzione colla Francia, XIV. 351.
Copernico, XI. 571.
Cordara, XII. 195.
Corelli, XII. 474.
Corio, IX. 268.
Coriolano, I. 175.
Cornaro Caterina, X. 138.
Cornelio Nepote, III. 26.
Corona ferrea, V. 86.
Coronazione di Gian Galeazzo, VIII. 25 ‒ di Luigi
d'Angiò, 70 ‒ di Carlo V, IX. 389.
Corporazione di arti, VIII. 465.
Corradino, VI. 474. 495.
Corrado di Franconia, VI. 107.
Corrado IV, VI. 473.
Corrado Salico, V. 439.
Correggio (il), X. 82.
Corsica antica, I. 112; V. 538 ‒ sotto Genova, XII. 373 ‒
insorge, 381-399 ‒ fatta francese, XIII. 7.
Corso Donati, VII. 375.
Corssen, XV. 6.
442
Cortigiane del Cinquecento, X. 286.
Cosmo De Medici, VIII. 257.
Costantino Magno, IV. 80 ‒ sua tolleranza, 121 ‒ tra-
sporta la capitale, 125 ‒ legislatore, 161 ‒ giudizj su
lui, 161 ‒ sua donazione, 171.
Costantinopoli fondata, IV. 127.
Costantinopoli presa dai Latini, VI. 259 ‒ dai Turchi, VIII.
215.
Costanzo (di), IX. 268.
Costituzione Sillana, II. 105.
Costituzioni Egidiane, VII. 567.
Costituzione del 48, XIV. 113.
Costumi delle repubbliche, VII. 114 ‒ nel Quattrocento,
VIII. 373 ‒ nel Cinquecento, X. 284.
Crasso, II. 108. 166. 199.
Crasso Licinio, I. 341.
Cremona, suoi artisti, X. 91.
Crescenzi, VII. 506.
Crescenzio, V. 365.
Crevenna, XII. 521.
Crimea, VIII. 501.
Cristianesimo, suoi primordj, III. 193 ‒ cresce, IV. 85 ‒
suoi effetti civili, 165 ‒ sua organizzazione, 167 ‒ in-
fluenza sul diritto, 338 ‒ ostacoli alla sua efficacia, IV.
411.
Cristina da Pizzano, VIII. 343.
Cristina di Svezia, XI. 444.
Cristo, III. 189.
Critica, X. 163; XIV. 368.
443
Crociate, V. 540.
Crociati a Costantinopoli, VI. 260.
Crociata quarta, VI. 231 ‒ quinta, 421 ‒ sesta, 434 ‒ con-
tro gli eretici, 343 ‒ loro fine, effetti, 506.
Crociate contro i Turchi, VIII. 220. ‒ IX. 272.
Cronaca (il), X. 11.
Crotone, I. 216.
Crusca (Accademia), X. 143; XI. 425; XII. 549; XIII. 455.
Curzio (Quinto), III. 385.

D'Agincourt, VII. 359.


Damaso, V. 169.
Damone e Pitia, I. 244.
Dandolo Enrico, VI. 253.
Dante, VII. 244. 287. 291. 496 ‒ de vulgari eloquio, XV.
206 ‒ eretico, XV. 325.
Davanzati, X. 150.
Davila, XI. 511.
De Brosse, XII. 445.
Decebalo, III. 230.
Decio, I. 199.
Decio imperatore, IV. 41.
Decretali, vi. 379; X. 466.
Decretali false, V. 472.
De Dominis, X. 548; XI. 591.
De Gregorio Rosario, XII. 491.
Delfico Melchiorre, XII. 547.

444
Della Casa (monsignor), X, 145. 155.
Della Porta Giambattista, XI. 534. 539. 591.
Delmino, X. 251.
De Maistre, XIII. 18. 323.
Denina, VII. 354; XII. 549.
Dentato, I. 176.
Depravazione imperiale, III. 121.
De Rossi Gian Bernardo, XII. 491.
Desiderio longobardo, V. 230.
Dessaix, XIII. 125.
Devonshire (duchessa di), XIII. 309.
Dialetti, XV. 151. 160. 181.188.
Dieci (Consiglio dei), VII. 81; XII. 35.
Diez, XV. 176.
Digesto, IV. 308.
Dino Compagni, VII. 287. 331.
Didio Giuliano, IV. 12.
Diocleziano, IV. 59. 119.
Dione Cassio, III. 389.
Dione, I. 246.
Dionigi d'Alicarnasso, I. 41; III. 15.
Dionigi tiranno, I. 242.
Diritto augurale, I. 413. 415 ‒ latino, 419 ‒ italico, 420.
Diritto romano, sua storia, IV. 286; VI. 372.
Diritto canonico, V. 170; VI. 378. 382 ‒ feudale, VI. 378.
Diritto marittimo, VIII. 481.
Dittatori romani, I. 409.
Dittatura di Silla, II. 72 ‒ di Cesare, 221.
Divertimenti del medioevo, VII. 136.
445
Divinità etrusche, I. 75 ‒ romane, 153 ‒ nuove a Roma,
I. 370.
Divise, X. 309.
Dizionarj, X. 124.
Domenicani, VI. 325.
Domenichi, X. 269.
Domenichino, XI. 364.
Domiziano, III. 228.
Donatello, X. 14.
Donativi di corti, XI. 17.
Doni Francesco, X. 268.
Donne romane, II. 267; IV. 316 ‒ sotto i Longobardi, V.
119.
Donne nel Quattrocento, VIII. 395.
Donne letterate, VII. 507.
Doria Andrea, IX. 385 ‒ e Fieschi, 463.
Dragoni (monsignor), VI. 62.
Dragut, IX. 530.
Drusi, XI. 236.
Duca d'Atene, VII. 471.
Duelli, XI. 272.
Duello giudiziario, V. 113. 119.
Duilio, I, 289.
Duni, XV. 250.
Duomo di Milano, VII. 183; X. 76 ‒ di Firenze, IX. 4.
Durando Giacomo, XIV. 70.
Dürer, X. 25.
Dutillot, XII. 202. 288.

446
E

Ebrei, loro fine, III. 225.


Ebrei nel medioevo, VIII. 486.
Economia pubblica sotto gli Antonini, III. 272.
Economisti del Seicento, XI. 488 ‒ moderni, XII. 230.
Edda, IV. 69.
Editto perpetuo, III. 246; IV. 296.
Edizioni, VII. 369; X. 124.
Educazione romana, I. 362 ‒ nel Quattrocento, VIII. 334
‒ nel Cinquecento, X. 493; XIV. 373.
Elagabalo, IV. 27.
Elba antica, I. 112.
Eleatici, I. 224.
Elezioni nei Comuni, VI. 177.
Elisabetta Farnese, XII. 116.
Elisa regina d'Etruria, XIII. 160.
Eloquenza in Roma, II. 106. 302 III. 326.
Eloquenza sacra odierna, XIII. 477.
Emancipazione di schiavi, V. 405. 419.
Emancipazione, VI. 82.
Emanuel Filiberto, IX. 521; XI. 54.
Emo Angelo, XII. 434.
Empedocle, I. 223.
Enciclopedia italiana, XII. 273.
Enciclopedisti, XII. 221. 255.
Enea in Italia, I. 146.
Eneide, I. 38.
Ennio, I. 361; III. 3. 36.

447
Ennodio, V. 38.
Enrico VI in Sicilia, VI. 229. 235 ‒ coronato, 233.
Enrico VIII, VII. 365-372.
Enzo, VI. 464.
Epicurei, I. 330.
Epicureismo a Roma, III. 177.
Epifanio (s.), V. 38.
Epigrafi romane, III. 432. 446.
Epopea latina. III. 64.
Erasmo, IX. 323; X. 363.
Ercolano, III. 440 ‒ scoperto, XII. 164.
Eresie, IV. 172. 231; VI. 329 ‒ persecuzioni, 348.
Eriberto arcivescovo di Milano, V. 437.
Erlembaldo, V. 490.
Erminio, II. 375.
Eruditi, X. 133 ‒ del Settecento, XII. 518 ‒ moderni, XIII.
479. 483.
Esarcato di Ravenna, V. 186.
Esattori romani, II. 61.
Eserciti romani, I. 296.
Esercito romano imperiale, II. 367; IV. 3 ‒ sotto Costanti-
no, 145. 243.
Eserciti del Cinquecento, IX. 164.
Este (casa d'), VI. 89; VII. 405. 430.
Etna, I. 230.
Etruschi, origine, I. 63 e segg. ‒ in Scandinavia, 79 ‒ se-
polcri, 87 ‒ vasi, 92 ‒ vinti, 201. 299; XV. 5.
Etruria, sue città, II. 38.
Eufemio di Messina, V. 301.
448
Eugenio Beauharnais, XIII. 162. 251. 266.
Eugenio di Savoja, XII. 53. 100.
Eugenio IV, VIII. 195. 269.
Eumene, I. 346.
Euno, II. 12.
Eusebio (s.), IV. 219.
Ezelini, VII. 17.
Ezio, IV. 380. 387.

Fabbriche romane antiche, III. 395.


Fabj, I. 188.
Fabretti Rafaele, XI. 516.
Fabrizio, I. 276.
Fabrizio d'Aquapendente, XI. 549.
Facino Cane, VIII. 35.
Falansteri, VI. 313.
Falaride, I. 232.
Faliero (Marin), VII. 80.
Fallimenti, VIII. 478.
Falloppio, XI. 548.
Fansaga, XI. 374.
Farinacio, XI. 495.
Farinata, VII. 46.
Farinelli, XII. 476.
Farnese Pier Luigi, IX. 471 ‒ Alessandro, 520; XII. 11 ‒
Elisabetta, 116.
Farsaglia, III. 360.

449
Fatucchieri, VIII. 425; XI. 288.
Febronio, XII. 191.
Federici, XII. 487.
Federico Barbarossa, VI. 112 ‒ e i Lombardi, 130 ‒ a Ve-
nezia, 145 ‒ ed Enrico il Leone, 149 ‒ sua fine e sto-
ria, 153.
Federico II, VI. 313. 418.
Federico I di Sicilia, VII. 278. 383.
Federico d'Austria, VIII. 136.
Federico di Prussia, XII. 216.
Fedro, III. 46.
Fenicie colonie, I. 110.
Ferdinando I di Napoli, XII. 353. 368; XIII. 85.
Ferdinando II di Napoli, XIV. 18.
Ferdinando III granduca, XIV. 1.
Ferdinando il Cattolico, IX. 135. 195. 331.
Ferdinando I d'Austria, XIV. 36.
Ferracina, XII. 529.
Ferrara, VIII. 522 ‒ suoi artisti, X. 83; XII. 3.
Ferrari Gaudenzio, X. 73.
Ferrario Giulio Emilio, VII. 339.
Ferruccio, IX. 417.
Feste del medioevo, VII. 148 ‒ veneziane, 153 ‒ del
Quattrocento, VIII. 384 ‒ fiorentine, IX. 392.
Feudalismo, V. 373. 444; IX. 4.
Fiamma Galvano, VII. 326.
Fibonacci, VI. 412.
Fiere, VIII. 452.
Fieschi (congiura de'), IX. 465.
450
Filangeri Gaetano, XII. 269.
Filantropi del XVIII secolo, XII. 244.
Filelfo, VIII. 315.
Filicaja, XI. 447.
Filippo II, XI. 4.
Filippo Neri, I. 273 ‒ (s.), X. 484.
Filippo V di Spagna, XII. 116.
Filologia ridestata, VIII. 323.
Filosofia greca e orientale, I. 326.
Filosofia romana, II. 291; III. 28. 305.
Filosofia cristiana, IV. 259 ‒ della storia, 267.
Filosofia del Cinquecento, IX. 309.
Filosofia moderna, XIII. 507.
Filosofismo, XII. 607.
Finanze di Roma repubblicana, I. 434 ‒ imperiale, II. 365
‒ dei Comuni, VI. 208; IX. 14 ‒ del regno italo-franco,
XIII. 182.
Fine del mondo, V. 432.
Fioravanti, X. 106.
Fiorentini, usi nel Seicento, XI. 306.
Firenze, antico Comune, VI. 52. ‒ assediata da Radagai-
so, IV. 351 ‒ sua origine, VII. 34 ‒ incrementi, 41 ‒ sue
fabbriche, 179 ‒ suoi storici, 333 ‒ ed Enrico VII,
376 ‒ suo commercio, VIII. 524 ‒ sua floridezza, VII.
469 ‒ decadimento, VIII. 234 ‒ suoi stemmi, 438 ‒ as-
sediata, IX, 391 ‒ sotto i Medici, 428 ‒ capitale d'Ita-
lia, XIV. 351.
Flagellanti, VIII. 184.
Flaminio Marcantonio, X. 404.
451
Flaminino T. Quinzio, I. 333.
Flavj, III. 217.
Floro, III. 384.
Folengo, X. 197.
Fontana Domenico, XI. 38. 352.
Fontanini, XII. 540.
Formole giuridiche, I. 182.
Formoso papa, V. 350.
Foro ecclesiastico, V. 159.
Forteguerra, XI. 439.
Foscari Francesco, VIII. 93. 105. 141; XII. 425.
Foscarini Antonio, XII. 37.
Foscarini Marco, XII. 541.
Foscolo, VII, 513; XIII. 421.
Fracardino, XI. 236.
Fracastoro, XI. 542.
Fra Moriale, VII. 460. 550.
Francescani, VI. 321.
Francesco d'Assisi, VI. 316.
Francesco di Lorena, XII. 305.
Francesco di Sales (s.), X. 558.
Francesco I di Francia, IX, 229. 345.
Francesco IV di Modena, XIII. 383.
Francesi ad Ancona, XIII. 409 ‒ a Roma nel 49, XIV, 244.
Franchi, IV. 76.
Franchi, re invocati dal papa, V. 211.
Franchi muratori, VII. 172; XIII. 224 ‒ a Napoli, XIII. 13;
XIV. 349.
Francia (il), X. 82.
452
Francia rivoluzionaria del 48, XIV. 120.
Frangipani, VI. 101.
Fratelli Arvali, I. 415
Frati, VI. 313 ‒ pacieri, VI. 440.
Fraticelli, VI. 354; VIII. 162.
Fregoso Paolo, VIII. 134.
Friuli sottomesso a Venezia, IX. 186.
Frontone, III. 334.
Frugoni, XII. 499.
Fucili, VI.. 582.
Fuentes governatore, XI. 137.
Fugger, IX. 512.
Funerali, VIII. 444.
Fusione de' metalli, VI.. 189.

Gaeta assediata, XI.. 340.


Gaetano (s.), X. 482.
Gaffurio, X. 215.
Gajo, IV. 300.
Galba, III. 207.
Galee veneziane, VIII. 515.
Galeno medico, III. 319.
Galiani, I. 233; XII. 503. 235.
Galilei, XI. 563.
Galla Placidia, IV. 375.
Gallerie, XII. 515.
Galli, I. 187. 297.

453
Gallia Cisalpina, I. 195. 323 ‒ sue città, II. 35. 175.
Gallia conquistata da Cesare, II. 177.
Gallicane libertà, XII. 23.
Galluzzi, XII. 546.
Galuppi, XII.. 507.
Galvani, XII. 589.
Garibaldi sbarca in Sicilia, XI.. 337 ‒ suoi tentativi, 341
‒ ad Aspromonte, 346 ‒ a Mentana, 362.
Gastaldi,V. 427.
Gastaldi Pamfilo, VIII. 363.
Gattinara, IX. 352.
Gaudenti (frati),V. 566.
Gaufrido Malaterra, VI.. 324.
Gazarra, VIII. 500.
Gazzette, XI. 504.
Gelasio,V. 172.
Gelone, I. 235.
Gelsi, VIII. 470.
Gemelli Carreri, XI. 512.
Gemme, X. 110.
Genova,V. 533.
Genova, antico Comune, VI. 31; VII. 11 ‒ suo governo,
61 ‒ assediata, VII. 389. 421 ‒ suo commercio, VIII.
499 ‒ presa dai Francesi, IX.173 ‒ saccheggiata, 248 ‒
insidiata dai duchi di Savoja, XI. 68.
Genova e Luigi XIV, XII. 74 ‒ bombardata, 76 ‒ oppres-
sa dagli Austriaci, 148 ‒ assediata, XIII. 123 ‒ data al
Piemonte, 290.
Genovesi a Galata, VIII. 202.
454
Genovesi Antonio, XII. 234. 275.
Genserico, IV. 381. 423.
Gentile Alberico, X. 407; XI. 482.
Genti romane, X.. 273.
Geografi romani, III. 315.
Gerarchia ecclesiastica,V. 157.
Gerberto papa,V. 480.
Gerdil, XII. 278.
Germani, IV. 67. 203 ‒ costumi e costituzioni,V. 92.
Gerone, I. 235. 314.
Gesuiti, X. 378. 479 ‒ soppressi, XII. 188 ‒ osteggiati, XI.
69.
Ghibellini, VI. 89. 289; VI.. 43.
Ghiberti, X. 13.
Ghiottoneria romana, II. 265.
Ghislieri Michele, X. 421. 459.
Giambullari,V. 341; X. 139; X.. 159.
Giannone, IV. 116; VI. 354; IX. 455; X. 505; XI. 127. 163;
XII. 171. 283.
Giano, I. 114.
Giano della Bella, VI.. 55.
Giansenisti, XII. 18 ‒ e Gesuiti, 21.
Giardini, XI. 303.
Gigli Girolamo, XI. 425.
Gildone, IV. 345.
Ginevra (scalata di), XI. 67.
Ginguené, VII. 359; XIII. 99.
Ginnastica, I. 215.
Gioberti, XII. 197; XIII. 512; XIV. 60. 69. 150. 220.
455
Giocondo (frà), X. 10.
Gioja Melchiorre, VI. 87; VIII. 563; XIII. 517.
Giotto, VII. 199; X. 19.
Giordani Pietro, XIII. 174. 428.
Giordano (frà), VIII. 170.
Giornali, XII. 536; XIV. 364.
Giornali romani, III. 23.
Giostre, VII. 138.
Giovane Italia, XIII. 403; XIV. 48.
Giovanna I di Napoli, VIII. 59.
Giovanna II, VIII. 74.
Giovanni dalle bande nere, IX. 252.
Giovanni da Procida, VII. 267.
Giovanni da Schio, VI. 445.
Giovanni di Capistrano, VIII. 221.
Giovanni di Luxenburg, VII. 400.
Giovanni d'Oleggio, VII. 565.
Giovanni XII, VII. 415. 521.
Giovanni XXII, VIII. 189. 569.
Giovenale, III. 373.
Gioviano, IV. 200.
Giovio Paolo, IX. 257; X. 123. 244.
Girardo cremonese, VI. 403.
Girolamo Miani (s.), IV. 215. 486.
Giubileo, VII. 285. 547.
Giudizj di Dio, V. 111.
Giudizj fra' Romani, II. 127. 148. 200.
Giudizj nei Comuni, VI. 191.
Giugurta, II. 22.
456
Giuliano apostata, IV. 181.
Giuliano da Majano, X. 11.
Giulio II, IX. 179-217. 299.
Giuochi circensi, II. 87.
Giureconsulti romani, IV. 290. 300 ‒ nel Quattrocento,
VIII. 347 ‒ del Seicento, XI. 492. ‒ moderni, XIII. 523.
Giuseppe Flavio, III. 388.
Giuseppe II, XII. 298. 332.
Giusti, XIII. 473.
Giustino storico, III. 384.
Giustizia migliorata, IX. 5.
Gladiatori, II. 88.
Goldoni, XII. 485. 497.
Gonzaga nel Monferrato, XI. 196. 201.
Gorani, XII. 450; XIII. 21.
Gordiano, IV. 37.
Goti, IV. 75. 204 ‒ lor regno in Italia, V. 25.
Gotica architettura, V. 43; VII. 171. 176.
Governatori romani tirannici, II. 60.
Gozzi Carlo, XII. 486.
Gozzi Gaspare, XII. 552.
Gracchi, I. 453.
Grandi Guido, XII. 309.
Grano turco, XI. 294.
Gravina, XI. 498.
Graziano, IV. 204.
Grecia Magna, I. 205. 266; II. 40.
Grecia soggiogata, I. 347.
Greci servono, istruiscono, corrompono Roma, I. 358 ‒
457
lor governo in Italia, V. 68.
Greco studiato in Italia, VIII. 305.
Gregorio Magno, V. 177.
Gregorio VII, V. 483. 507.
Gregorio XIII, X. 465.
Gregorio XV, XI. 45.
Gregorio XVI, XIV. 73.
Grigioni, VIII. 91.
Grimoaldo, V. 196.
Grossi, XIII. 444.
Guarnieri, VII. 459.
Guarnacci, I. 35. 99; XII. 520.
Guastalla, XI. 195.
Guelfi, VI. 89. 289; VII.43.
Guercino, XI. 365. 367.
Guerra Macedonica, I. 333. 321 ‒ puniche, I. 286. 303.
385 ‒ Servile, II. 14 ‒ Giugurtina, 19 ‒ Sociale, 42 ‒
Cimrica, 28 ‒ Civile, 68. 291. 306 ‒ di Spagna, 78 ‒
di Modena, 314 ‒ di Perugia, 336 ‒ di Castro, XIII. 13
‒ di Candia, 44 ‒ di Morea, 52 ‒ della successione
spagnuola, 95.
Guerra santa del 48, XIV. 143.
Guerrazzi, XIII. 466; XIV. 200.
Guerrieri, IX. 521. 535.
Guerrino Meschino, VII. 248.
Guglielmo il Malvagio, VI. 226 ‒ il Buono, 227.
Guicciardini, IX. 255; X. 149.
Guidi Alessandro, XI. 447.
Guido Bonato, VI. 405.
458
Guido Guinicelli, VII. 241.
Guisa (duca di) a Napoli, XI. 180.

Hayez, XIII. 566.


Hoffer, XIII. 191.
Hutten, IX. 324.

Iberi, I. 44.
Iconoclasti, V. 205.
Ignazio (s.), X. 377.
Ildebrando, V. 483.
Imelda de' Lambertazzi, VII. 267.
Immunità vescovili, VI. 10.
Impero romano antico, II. 350 ‒ sua nuova costituzione,
IV. 131 ‒ sua caduta, 392.
Impero d'Occidente rinnovato, V. 231. 252.
Imperatori italiani, V. 322.
Imperatori, loro diritti, VI. 416.
Impero d'Oriente, sua caduta, viii. 200. 217.
Impostori (i tre), VI. 453.
Imprese, X. 309.
Improvvisatori, XII. 497; XIII. 174.
Incisione, X. 28; XII. 526.
Indice (l'), X. 591.
Indovinamenti, III. 242.

459
Indulgenze, IX. 291.
Industria romana, III. 295 ‒ nel basso impero, IV. 155.
Ingegni bizzarri, XI. 328.
Inghirami, XIII. 537.
Inglesi in Sicilia, XIII. 210.
Innocenzo III, VI. 242. 313.
Innocenzo IV, VI. 458.
Innocenzo VIII, VIII. 291; IX. 67.
Inquisitori veneti, VII. 84.
Inquisizione (santa), VI. 346 ‒ a Firenze, VIII. 13; X. 414.
Insegnamento mutuo, XIV. 374.
Intieri Bartolomeo, XII. 247.
Investiture, VI. 274.
Irnerio, VI. 374.
Iscrizioni, X. 18.
Italia, descrizione, I. 9 ‒ il nome, 10; II. 46 ‒ sue fasi
geologiche, 13 ‒ sua antichità, 35 ‒ sue primitive isti-
tuzioni, 113 ‒ sapienza primitiva, 135 ‒ sua popola-
zione antica, 301 ‒ nell'impero, 371 ‒ sua geografia a.
C., 34 ‒ alla morte di Cesare, 244 ‒ sotto gli Antoni-
ni, III. 276 ‒ sotto Costantino, IV. 133 ‒ spopolata, 355
‒ sotto Teodorico, V. 31 ‒ sotto i Greci, 68 ‒ sotto i
Franchi, 283 ‒ feudale, 295 ‒ al tempo di Ottone Ma-
gno, 361. ‒ dopo caduti gli Hohenstaufen, VII. 5 ‒ nel-
le repubbliche, 93 ‒ al fine del medioevo, VIII. 565 ‒
nel Seicento, XI. 6. 257 ‒ costumi del Settecento, XII.
435 ‒ al fine del Settecento, XII. 597 ‒ nel secolo XVIII,
XII. 155 ‒ ricomposta nel 1815. XIII. 287.
Italiano (prime scritture in), XV. 140.
460
Itinerarj, VI. 533.

Juvara, XII. 528.

Kircher, XI. 543. 554.

Labeone, II. 233.


Ladislao di Sicilia, VIII. 69.
Lagrangia, XII. 574.
Lalande, XII. 445.
Lami, XII. 522.
Lampredi, XII. 266.
Lana (arte della), VIII. 467.
Lancellotti, XI. 435.
Lancisi, XI. 552.
Landi Ortensio, X. 253.
Lando, VII. 567.
Lando (Michele di), VIII. 241.
Lanfranco di Pavia, VI. 631.
Lanzicnecchi, XI. 207.
Latina lingua: vernacola, VII. 209 ‒ continua nel medioe-
vo, 229; X. 118 ‒ sue vicende, XV. 18 ‒ differenze
dall'italiano, XV. 77.

461
Latinisti, XII. 488.
Lattanzio, IV. 214.
Laura (madonna), VII. 482.
Lazio, I. 137.
Lebbrosi, VI. 396.
Lega Achea, I. 331. 351 ‒ Etolia, 331 ‒ Lombarda, VI.
135. 430 ‒ Toscana, 248 ‒ di Cambrai, IX. 187 ‒ san-
ta, 207. 354.
Leggendarj, V. 271.
Legge personale, V. 135 ‒ (professione di), 136.
Leggi agrarie, I. 439; II. 132 ‒ Licinia, I. 442 ‒ Toria, 471
‒ Giulia e Plauzia, II. 50 ‒ Cornelie, 75 ‒ Gabinia, 96
‒ Manilia, 101 ‒ Suntuarie, 264 ‒ di Cesare, 235 ‒
Regia, III. 79. 281 ‒ Papia, IV. 319 ‒ feudali, v. 393.
445. ‒ Canoniche, 170 ‒ suntuarie, VII. 124; VIII. 383 ‒
x. 308.
Legione romana, I. 296.
Legislazione romana, II. 295.
Leiva (Anton de), IX. 357.
Leonardo da Vinci, X. 51.
Leone iconoclasta, V. 209.
Leone III, V. 249.
Leone X, IX. 223. 237. 299; X. 1. 229. 366.
Leone XII, XIII. 397.
Leon Leoni, X. 78.
Leopardi, XIII. 430.
Leopoldo II granduca, XIV. 3. 196.
Lepido, II. 308-340.
Lesdiguières, XI. 63.
462
Leti Gregorio, XI. 27. 339.
Letteratura corruttrice de' Romani, II. 279 ‒ secol d'oro,
III. 1 ‒ d'argento, 304 ‒ del basso impero, IV. 236.
Letteratura al Mille, V. 430 ‒ protetta nel Quattrocento,
VIII. 328 ‒ IX. 270 ‒ del Cinquecento, X. 222 ‒ nel Sei-
cento, XI. 384 ‒ nel Settecento, XII. 437.
Letteratura imperiale, XIII. 169.
Letteratura abjettita, XIV. 363. 372.
Letteratura legale, IV. 291 ‒ del medioevo, V. 15. 40.
Letteratura paganizzata, IX. 306.
Liberalismo, nasce, XIII. 299 ‒ religioso, 329.
Liberalismo, XIV. 41. 378.
Liberio papa, IV. 179.
Liberti, II. 9. 272.
Libri Guglielmo, VI. 87. 383.
Libri raccolti, VIII. 300. 311. 331. 353. 368.
Libro d'oro veneto, VII. 89.
Licinio Stolone, I. 185.
Liguori Alfonso, XII. 182.
Liguri antichi, I. 46. 104.
Lingua italiana, VII. 205. 223 ‒ di Dante, 255 ‒ nel Quat-
trocento, VIII. 336; X. 134 ‒ nel Settecento, XII. 549 ‒
questioni ultime, XIII. 452; XV, 1.
Lingue (studio di), X. 126.
Lippi, XI. 439.
Litta Pompeo, XIII. 500.
Liutprando di Cremona, VII. 323.
Liutprando, V. 209. 213.
Livio Druso, II. 43.
463
Livorno, VIII. 526 ‒ sue origini, XI. 244.
Lodovico II, spedizione in Calabria, V. 315.
Lodovico il Bavaro, VII. 392. 415.
Lodovico il Pio, sua donazione, V. 291.
Lombardi artisti, X. 69.
Lombardia meridionale, V. 449.
Lombardia sotto gli Spagnuoli, XI. 77 ‒ sotto Maria Te-
resa, XII. 292.
Lombardo-veneto (regno) dopo il 1830, XIV. 26 ‒ solle-
vazione, 125 ‒ rioccupata, 171.
Longobardi, V. 70. 90. 131 ‒ convertiti, 85 ‒ loro re, 186
‒ lor fine, 241.
Lorenzino de Medici, IX. 433.
Lorgna, XII. 578.
Lotto, VIII. 440.
Lotto, XI. 79.
Luca della Robbia, X. 15.
Luca Giordano, XI. 372.
Lucani, I. 109.
Lucano, III. 358.
Lucca, antico Comune, VI. 37. 161. 194; VIII. 255; IX.
468; XII. 370.
Lucca sotto i Borboni, XIV. 9. 103.
Lucca (riformati a), X. 434.
Lucchesini Girolamo, XIII. 152.
Lucrezia Borgia, IX. 138.
Lucrezio, III. 38.
Lucullo, II. 101.
Luigi d'Angiò, VIII. 65.
464
Luigi II d'Ungheria, VIII. 60.
Luigi XII, IX. 102. 135.
Luigi XIV, XII. 59.
Luini, X. 70.
Lusso romano, II. 255.
Lusso nell'età imperiale, III. 131 ‒ del Quattrocento, VIII.
378 ‒ del Cinquecento, X. 307 ‒ nel Seicento, XI. 298.
Lutero, IX. 325.

Macdonald, XIII. 107.


Macedonia vinta, I. 343.
Machiavelli, VII. 350; IX. 121. 145. 147. 163. 262; X. 151.
275.
Madama Reale, XI. 222.
Maderno, XI. 355. 356.
Maffei Pietro, XI. 509.
Maffei Scipione, X. 357; XII. 541.
Maggi Carlo, XI. 449.
Magliabechi, XI. 332.
Magnetismo, XII. 590.
Magone, I. 283.
Mainardino, VIII. 159.
Maj, XIII. 479.
Majoliche, X. 114.
Malacrida, XII. 195.
Maliardi, VIII. 165.
Malpighi, XI. 550.

465
Manfredi, VI. 476. 487.
Manfredi Eustachio, XII. 579.
Manilio poeta, III. 47.
Manlio Torquato, I. 199.
Mantova, antico Comune, VI. 45; VII. 406 ‒ ultimi suoi
duchi, XI. 201 ‒ saccheggio, 216.
Manuzio Paolo, X. 448. 449.
Manzoni, XIII. 445.
Manzoni, sulla lingua, XV. 216.
Maometto II, VIII. 213. 227.
Mappe geografiche, VIII. 537.
Maratta, XI. 372.
Marcantonio oratore, II. 108 ‒ console e triumviro, 308-
346.
Marchesi, VII. 17.
Marchi, X. 107.
Marciano Cappella, IV. 239.
Marco Aurelio, III. 258.
Maramaldo, IX. 419.
Mare chiuso, VII. 72.
Maria Teresa, XII. 140.
Maria Vergine, sue lettere, IV. 256 ‒ (culto a), VI. 355.
Marin Sanuto, VI. 519.
Marini poeta, XI. 401.
Mario (Cajo), II. 19. 26. 52.
Marozia, V. 342. 352.
Marsigli (conte), XII. 113.
Marsilio Ficino, VIII. 307.
Martinengo, IX. 277.
466
Martini G. B., XII. 479.
Martino IV, VII. 269.
Martiri, IV. 106.
Marziale, III. 355.
Masaniello, XI. 170.
Maschere, VIII. 439.
Massenzio, IV. 79.
Massimiliano d'Austria, IX. 109. 239.
Massimino, IV. 39.
Massinissa, I. 385.
Mastino della scala, VII. 427.
Masuccio, X. 80.
Matematiche, VI. 412; XI. 559.
Matematici del Settecento, XII. 573 ‒ moderni, XIII. 539.
Matilde contessa, V. 500. 514.
Matranga, I. 37.
Matrimonio romano e cristiano, IV. 314. 319.
Maurolico, XI. 559.
Mazarino, XI. 216. 183. 225.
Mazocchi, XII. 521.
Mazza Angelo, XII. 555.
Mazzini, XIII. 403.
Mazziniani, XIV. 348.
Mazzolini, X. 362.
Mazzuchelli Gianmaria, XII. 539.
Mecenate, II. 339. 355 ‒ suoi versi, III. 77.
Mecenati del Cinquecento, X. 226.
Medaglie, X. 111.
Medici (Caterina de), XI. 246 ‒ Maria, 250.
467
Medici (de) Gian Giacomo, IX. 350.
Medici (de), origine, VIII. 253 ‒ Cosmo, 263 ‒ Lorenzo,
265. 285. 294; IX. 218; X. 135 ‒ IX. 396. 402. 423 ‒
Alessandro, 426 ‒ Lorenzino, 433 ‒ Cosmo, 436.
479. 498.
Medici romani, III. 316; IV. 249.
Medici nel Quattrocento, VIII. 350 ‒ del Settecento, XII.
591.
Medici moderni, XIII. 549.
Medici ultimi, XII. 127.
Medicina pitagorica, I. 226.
Medicina, VI. 393.
Medioevo, V. 1 ‒ suoi storici VII. 321 ‒ sua fine, VIII. 562.
Melloni, XIII. 543.
Melodrammi, X. 217.
Melzi d'Eril, XIII. 139.
Mengs, XII. 515.
Menochio, XI. 495.
Meo Patacca, XI. 447.
Mercanti, VIII. 411.
Mercati Micheli, XI. 541.
Mercenarie armi, VII. 456. 570. 574.
Merlin Coccaj, X. 197.
Messalina, III. 105.
Messina in gara con Palermo, XII 66 ‒ sollevazione e
danni, 68.
Messi regj, VI. 158.
Metastasio, XII. 469.
Metelli, II. 21. 25.
468
Metri italiani, VII. 232.
Mezzofanti, XIII 481.
Micali, I. 102.
Michelangelo, X. 36. 229. 280 ‒ suoi seguaci, 63.
Michelet, IX. 455; XV. 257.
Micheli Pier Antonio, XII. 581.
Milano capitale dell'impero romano, IV. 60 ‒ distrutta da
Uraja, V. 58 ‒ rifuggiti a Genova, 76 ‒ suoi arcivesco-
vi, 436 ‒ il Barbarossa, VI. 124 ‒ Comune; VII. 7. 19 ‒
antico Comune, VI. 47 ‒ suoi arcivescovi, VI. 69 ‒ suo
governo sotto i Visconti, VIII. 21. 117 ‒ repubblica,
122 ‒ straziato dagli Spagnuoli, IX. 359 ‒ occupato
dai Gallosardi, XII 133.
Militari italiani, XII. 112.
Milizie comunali, VII. 450.
Milizia Francesco, XII. 534. 571.
Milone, II. 196.
Milton, XI. 427 ‒ tradotto, XII. 499.
Mimi, II. 233.
Mine, IX. 176.
Miniature, VII. 194; X. 108.
Mino da Fiesole, X. 16.
Miollis, XIII. 225.
Miracoli, X. 475; IX. 382.
Missionari in Oriente, VI. 509.
Missionarj, XI. 46.
Missioni, X. 469. 491.
Mistici, VI. 369.
Misure romane, XV. 259.
469
Mitra, IV. 185.
Mitradate, II. 59. 98.
Mocenigo doge, VIII. 94.
Modena (riformati a), X. 393 ‒ suoi duchi, XII. 142 ‒ suoi
uomini illustri, XIII. 172 ‒ (Francesco IV di), 383.
Monache nel Seicento, XI. 263.
Monaci, origine, IV. 232; V. 161; VI. 313.
Moncalvo pittore, XI. 377.
Monete romane, II. 435; XV. 299. ‒ dei Comuni, VI. 211.
Monferrato, IX. 450; XI. 196.
Monferrato (marchesi di), VII. 434. 441.
Mongoli, VI. 507.
Monluc, IX. 487.
Montaigne in Italia, XI. 322.
Montalembert, XIV. 105.
Montecassino, V. 166.
Montecuccoli, XII. 113.
Monteverde, XII. 463.
Monti di Pietà, VIII. 493.
Monti Vincenzo, XIII. 172. 418. 456.
Moralisti del Cinquecento, X. 154.
Morata, X. 419.
Morellet, XII. 255. 257.
Morelli Jacopo, XIII. 183.
Moretto, X. 92.
Morgagni, XII. 594.
Moro Lazzaro, XII. 585.
Morone Girolamo, IX. 316 ‒ cardinale, X. 395. 445.
Morosini Tommaso, XII. 46.
470
Morte nera, VII. 474.
Movimenti del 1847. XIV. 80. 119.
Müller Max., XV. 2. 26. 100.
Müller Ottfried, I. 102.
Municipali storie, IX. 268.
Municipj romani, I. 417 ‒ nel basso impero, IV. 148 ‒
greci, V. 69 ‒ sotto i Longobardi, 144.
Murat, XIII. 207. 251. 259. 277. 283.
Muratori, V. 31. 147. 353. 371; VII. 321. 328. 340. 342.
353; XII. 491.
Muro caledonio, IV. 20.
Musaici, VII. 188.
Musica, VI. 413; X. 215. 496 ‒ nel Settecento, XII. 462 ‒
moderna, XIII. 575.
Mussato Albertino, VII. 327.
Muzio, X. 165. 362.

Napoleone Buonaparte, XIII. 24 ‒ in Lombardia, 29 ‒ in


Egitto, 75 ‒ ritorna, 119 ‒ vince e organizza, 131 ‒
imperatore e re, 145 ‒ in Russia, 240 ‒ detronizzato,
267 ‒ ritorna, 278.
Napoletano conteso fra Austria e Francia, XII. 99.
Napoletano dialetto, XV. 160.
Napoli sotto i vicerè, XI. 97.
Napoli sotto i Napoleonidi, XIII. 194 ‒ sua rivoluzione,
336 ‒ dopo il 1821, XIV. 17 ‒ costituzione del 48, 113.
162 ‒ ribellata, XIV. 339 ‒ scontenta, 344.

471
Napoli, suoi artisti, X. 79.
Nardi, IX. 258.
Narsete, V. 65.
Naturalisti, XI. 534.
Naturalisti del Settecento, XII. 583.
Naturalisti moderni, XIII. 544.
Negri Francesco, X. 396.
Negroponte perduto, VIII. 227.
Neoguelfi, XIV. 58. 70.
Neri Pompeo, XII. 233.
Nerone, III. 106.
Nerva, III. 235.
Nestorio, IV. 231.
Nexi, I. 170.
Nicolò III, VII. 268.
Nicolò V, VIII. 271.
Niebuhr, I. 102; XV. 253.
Nielli, X. 29.
Nifo, IX. 312.
Nobiltà veneta, VII. 72 ‒ milanese, XI. 89 ‒ toscana, 242
‒ italiana, 268.
Nobili e plebei nelle repubbliche, VI. 281; IX. 11.
Nomi romani, XV. 273.
Non intervento, XIII. 389.
Normanni, V. 450.
Normanni in Sicilia, VI. 218 ‒ loro fine, 237.
Note musicali, VI. 413; X. 207.
Note tironiane, II. 113.
Novaro, VIII. 349.
472
Novelle moderne, XIII. 471.
Novellieri, VII. 519; X. 151.
Nudità artistiche, X. 40. 64.
Numanzia, I. 392.
Numismatici del Settecento, XII. 522.

Obelisco del Vaticano, XI. 39.


Ochino, X. 388.
Odissea per l'Italia, I. 37.
Odenato, IV. 45.
Odoacre, IV. 131; V. 19.
Omero italiano, I. 37.
Onorio imperatore, IV. 342.
Onorio IV, VII. 273.
Oratoriani, X. 485.
Orazio, III. 49.
Orchi Emanuele, XI. 421.
Ordini monastici, V. 477 ‒ cavallereschi, 565.
Oriani, XIII. 536.
Orientalisti, XII. 490.
Orobj, I. 103.
Orsini Isabella, XI. 346.
Ortensio, II. 116
Ortes, XII. 231.
Osci, I. 105.
Osco, XV. 12. 192.
Ospedale di Milano, XII. 531.

473
Ossuna governatore di Milano, XI. 79 ‒ di Napoli, 139.
Otone imperatore, III. 209.
Ottaviano, vedi Augusto.
Ottone il grande, V. 355.
Ottone IV, suo giuramento, VI. 272. 310.
Ovidio, II. 283; III. 42.

Pace del principe, VI. 122 ‒ di Costanza. 147 ‒ di Paqua-


ra, 446 ‒ di S. Ambrogio, VII. 21 ‒ di Calatabellota,
276 ‒ di Torino, VIII. 48 ‒ di Bagnolo, 289 ‒ di Bar-
cellona, IX. 387 ‒ di Crepy, 461 ‒ di Cateau Cambré-
sis, 519 ‒ di Cherasco, XI. 217 ‒ dei Pirenei, 228 ‒ di
Carlowitz, XII. Passarovitz, 57 ‒ Utrecht, 109 ‒ Vien-
na, 139 ‒ Aquisgrana, 153 ‒ di Campoformio, XIII. 61
‒ di Lunéville, 126 ‒ di Firenze, 129 ‒ di Presburgo,
155 ‒ di Vienna, 193.
Pacioli Luca, VIII. 348.
Pacuvio, III. 3.
Padova, VII. 424.
Padri santi, IV. 212. 229. 235. 263.
Paganesimo persistente, IV. 183. 210. 223. 229.
Pagano Mario, XII. 267.
Palagi, XIII. 567.
Palazzi, VIII. 375.
Palazzo ducale, X. 95.
Palecope, I. 24.
Paleologhi, VIII. 205. 220.

474
Palermo, VI. 219.
Palestrina, X. 497.
Palimsesti, VIII. 356. 372.
Palladio, X. 98.
Pallavicini, IX. 244.
Pallavicino Ferrante, X. 549; XI. 337. 430.
Palleschi e Arrabbiati, IX. 403.
Palma pittore, XI. 379.
Palmira, IV. 45.
Paludi pontine, XII. 328.
Pandette, IV. 307; VI. 373.
Pandolfini, VIII. 414.
Panegiristi romani, IV. 246.
Panigarola. XI. 419.
Panvinio, X. 128.
Paolino diacono, V. 274.
Paolino (s.), IV. 218.
Paoli Pasquale, XII. 390; XIII. 7.
Paolo Diacono, V. 77.
Paolo Emilio, I. 342.
Paolo III, IX. 471; X. 376. 382.
Paolo IV, IX. 514; X. 413.
Paolo V, XI. 44.
Paolo Veronese, X. 89.
Papessa Giovanna, V. 348.
Papi, loro elezione, V. 171 ‒ loro primato, 175 ‒ e gli
imperatori greci, 192 ‒ origine della loro signoria,
227 ‒ e gli imperatori franchi, V. 291 ‒ loro età ferrea,
347 ‒ loro ingrandimento, 170 ‒ loro apogeo, VI. 415
475
‒ in Avignone, VII. 314. 520; VIII. 145 ‒ lor dominazio-
ne, 155 ‒ doppj, 180 ‒ in lotta coi principi, XII. 280.
Parini, XII. 556.
Parma assediata, VI. 464 ‒ signoria dei Bossi, IX. 52.
Parma (Ferdinando duca di), XII. 284.
Parmigianino, X. 85.
Paruta, IX. 266; XI. 483.
Pasquinate, III. 376; X. 391.
Passaggi alpini, I. 27.
Passavanti, VII. 506.
Passeroni, XII. 555.
Patarini, V. 488; VI. 337.
Patrizj e plebei di Roma, I. 397.
Pazzi (congiura de'), VIII. 281.
Pedagoghi romani, III. 322.
Pelasgi, I. 50.
Pellegrinaggi, V. 543.
Pellegrini Tibaldi, X. 102.
Pepino, V. 213. 219 ‒ sua devozione, 225.
Pepoli, VII. 408. 553.
Perfetti, XII. 497.
Pergolesi, XII. 473.
Persecuzioni de' cristiani, III. 197; IV. 105. 117. 190.
Perseo, I. 340. 345.
Persia, IV. 34.
Persio, III. 373.
Pertinace, IV. 10.
Perugino, X. 50.
Pescara, IV. 346.
476
Peste, I. 203 ‒ del 1575 e 1630, VI. 210.
Pesto, I. 211.
Petrarca, VII. 423. 481. 530. 544. 557; VIII. 38. 339.
Petrarchisti, X. 165.
Petronio, XV. 50.
Petronio Arbitro, III. 377.
Piazzi Giuseppe, XIII. 336.
Piccinino Nicola, VIII. 111. 282.
Piccolomini Alfonso, XI. 25.
Piccolomini (Enea Silvio), VIII. 198. 271.
Pico della Mirandola, VIII. 308; IV. 313; X. 339.
Piemonte annesso alla Francia,
VIII. 95. 153 ‒ rivoluzione del 1821, XIII. 351 ‒ dopo il
1830, XIV. 10 ‒ riforma, 94 ‒ guerreggia l'Austria,
136.
Pier Damiani (s.), V. 475.
Pier della Valle, VIII. 560.
Pieri Mario, XIII. 442.
Piermarini, XII. 530.
Pietro e Paolo (ss.), III. 195.
Pietro eremita, V. 549.
Pietro Leopoldo, XII. 307.
Pietro Lombardo, VI. 363 ‒ D'Abano, 406 ‒ dalle Vigne,
428. 468 ‒ di Aragona, VII. 270.
Pietro martire (s.), VI. 351.
Pigafetta, VIII. 552.
Pignotti, XII. 547.
Pilati, XII. 268.
Pino Ermenegildo, XII. 276.
477
Pio IV, X. 439.
Pio V, X. 459.
Pio VI, XII. 218. 326. 331.
Pio VII. Ostilità, contro di lui, XIII. 214 ‒ prigioniero,
219 ‒ ristabilito, 275. 374.
Pio VIII, XIII. 383.
Pio IX, XIV. 79. 155. 192.
Pirati, II. 94.
Pirro, I. 272.
Pisa, II. 37; v. 535 ‒ antico Comune, VI. 34. 57 ‒ suoi
edifizj, VII. 166. 192 ‒ decade, VIII. 9. 523.
Pistoja (sinodo di), XII. 324.
Pitagora, I. 217.
Pitti, VIII. 263 ‒ Bonaccorso, 418. 450.
Pittori romani, III. 426.
Pittori rissosi, XI. 368 ‒ macchinisti, 371.
Pittura risorge, VII. 194; X. 19 ‒ a olio, 22.
Pitture, lor prezzo, XI. 365.
Plana, XIII. 537.
Platina, VIII. 276.
Plauto, I. 363; III. 5.
Plebisciti romani, I. 407.
Pletone, IX. 308.
Plinio Cecilio, III. 339; IV. 103.
Plinio Secondo, III. 309.
Plutarco, II. 162; III. 389.
Podestà, VI. 170.
Poemi cavallereschi, X. 186.
Poesia pastorale in Sicilia, I. 253.
478
Poetesse, X. 201.
Poeti antichi di Roma, I. 361.
Poeti erotici, romani, II. 280.
Poeti latini, III. 36. 48 ‒ imitano i Greci, 72 ‒ del basso
impero, IV. 247 ‒ cristiani, 252 ‒ scolastici, V. 40 ‒
italiani primi, VII. 239 ‒ latini in Italia, VIII. 335 ‒ del
Cinquecento, X. 170 ‒ latini nel Seicento, XI. 452 ‒
odierni, XIII. 468.
Poggio, VIII. 309.
Polibio, I. 358; III. 14.
Poliziano, VIII. 300. 335; X. 135.
Pollione, III. 77.
Polo Marco, VIII. 531.
Polvere, VII. 576.
Pompej, III. 441 ‒ scoperto, XII. 164.
Pompeo Magno, II. 82. 163-220 ‒ Sesto, 337.
Pomponazzi, IX. 309.
Pomponio Leto, VIII. 341.
Pontida, VI. 134.
Pontifizie autorità, IX. 19.
Popolo sotto il feudalismo, V. 400.
Porcari, VIII. 272.
Porta (G. B. della), X. 328.
Porziuncula, VI. 323.
Possevino, X. 471; XI. 508.
Possidenza in Roma repubblicana, I. 440; II. 130.
Po, suoi cambiamenti, I. 23.
Poveraglia a Roma, II. 251.
Pozzi artesiani, XI. 544.
479
Predicatori grotteschi, VIII. 172.
Predicatori, IX. 288 ‒ secentisti, XI. 419 ‒ moderni, XII.
510.
Preistoriche antichità, I. 60.
Prestiti, VII. 110.
Pretori romani, I. 411.
Prina, XIII. 184. 269.
Processo inquisitorio, VI. 345.
Professioni di legge, VI. 66. 184.
Prony, suoi studj sull'Italia, I. 24.
Properzio, III. 40. 62.
Proscrizioni, II. 56. 71. 317.
Provenza, II. 20.
Provincie romane, I. 429.
Provincie senatorie, II. 361.
Prudenzio Aurelio, IV. 253.
Publio Siro, II. 233.
Pulci, X. 175.
Punto d'onore, XI. 270.

Quadrio Saverio, XII. 539.


Quintiliano, III. 333.
Quirini Angelo, XII. 518.

Radagaiso, IV. 350.

480
Radicati Alberto, XII. 176.
Rafaello, X. 32 ‒ suoi scolari, 60.
Ragusa, VIII. 521.
Ragusi, XII. 56.
Ramazzini, XI. 544.
Ramorino, XIV. 231.
Rappresaglie, VIII. 451.
Rappresentazioni nel Seicento, XI. 301.
Rappresentazioni teatrali, VIII. 434.
Rasori, XIII. 550.
Ratto delle Veneziane, V. 526.
Ravenna, edifizj gotici, V. 44 ‒ suo esarcato, 186 ‒ presa
da Liutprando, 209 ‒ suoi arcivescovi, V. 313 ‒ suoi
edifizj, VII, 160. 404.
Re di Roma, I. 137.
Re Filippo, XII. 246.
Redenzione (la), III. 183.
Redi, XI. 545.
Regalie, VI. 155.
Reggio, I. 243.
Regisole, IX. 375.
Regno d'Italia nel medioevo, VI. 98.
Regno d'Italia, XIII. 148. 160. 271 ‒ d'Etruria, 152.
Regno d'Italia nuovo, XIV. 341.
Religione a Roma imperiale, III. 176.
Religioni italiche primitive, I. 120.
Reliquie, V. 541; VI. 527.
Renata, X. 385.
Reni Guido, XI. 366.
481
Repubblica ambrosiana, VIII. 122.
Repubblica cisalpina, XIII. 36. 63. 135 ‒ ligure, 71 ‒ ro-
mana, 83 ‒ partenopea, 89. 104 ‒ italiana, 137.
Repubbliche Italiane, VI. 153 ‒ loro sviluppo, 268.
Rezia, VIII. 91.
Rezzonico Gastone, XII. 501.
Riccioli, XI. 513. 594.
Ricci Lodovico, XII. 233.
Ricci Scipione, XII. 321 ‒ sua ritrattazione, 617.
Riccoboni, XII. 483.
Ricimero, IV. 427.
Riforma religiosa, IX. 281; X. 661 ‒ in Italia, 385 ‒ a Ve-
nezia, 513 ‒ ne' baliaggi svizzeri, 566.
Rima, VII. 233.
Rinuccini, VIII. 421.
Riso, VIII. 461.
Ritmo di Modena, V. 340.
Ritratti romani, III. 409.
Rivoluzione francese, XIII. 1.
Rivoluzioni del 1831, XIII. 391. 468.
Roberti G. B., XII. 509.
Roberto di Napoli, VII. 384.
Roberto Guiscardo, V. 461.
Roberto il Savio, VIII. 56.
Robertson, IX. 242.
Rodi assediata, VIII. 231.
Rodolfo d'Absburgo, VI. 505; VII. 3.
Roma, sua descrizione, III. 420.
Roma, sue origini, I. 140; XV. 239 ‒ Governo primitivo,
482
I.165 ‒ incivilita e corrotta, 357.
Roma repubblica, sua costituzione, I. 158. 396.
Roma nel cader dell'impero, IV. 364. 415 ‒ assediata da
Alarico, 368 ‒ saccheggiata da Genserico, 423 ‒ pre-
sa dai Goti, V. 65 ‒ nel medioevo, VI. 99 ‒ e il Barba-
rossa, 120 ‒ senza i papi; VII. 527 ‒ nel Cinquecento,
IX. 129 ‒ saccheggiata dai Colonnesi e dai lanzi, IX.
365 ‒ restaurata, XI. 37.
Roma (Stato) nel 1600, XI. 16. 34 ‒ XII. 7.
Roma conquistata dai Francesi, XIII. 80 ‒ occupata da
Napoleone, 224 ‒ repubblica nel 49, XIV. 193 ‒ difesa
e vinta, 247.
Romagnosi, XIII. 520.
Romani in Grecia e in Oriente, I. 325.
Romani sotto i Longobardi, V. 126. 145.
Romantici, XIII. 434.
Romanzi, VIII. 443; XI. 432 ‒ cavallereschi, X. 173 ‒ mo-
derni, XIII. 449. 464.
Romualdo (s.), V. 479.
Roncaglia (diete di), V. 442; VI. 125.
Roscio comico, III. 12.
Rosmini, XIII. 510.
Rosmunda, V. 78.
Rossini, XIII. 576.
Rossi Pellegrino, XIII. 531; XIV. 180.
Rubicone, II. 208.
Ruggero di Flora, VII. 454.
Ruggero di Sicilia, VI. 103.
Ruggero normanno, V. 465.
483
Russia (campagna di), XIII. 240.
Rutilio Numaziano, II. 38.

Sacchetti Franco, VII. 519.


Sacchi Giovenale, XII. 480.
Sacchini, XII. 473.
Saccone Piero, VIII. 245.
Sacerdoti romani, I. 415.
Sacile, IX. 196.
Sagornino, VII. 329.
Sagrifizj umani, I. 124.
Salerno (scuola di), VI. 394.
Sallustio, II. 155. 168.
Salvator Rosa, XI. 369.
Salviano, IV. 407.
Salviati, X. 139.
Salvini, XI. 427.
Sammicheli, X. 103.
Sampiero, XII. 375.
Sangallo, X. 93.
San Leucio, XII. 369.
San Marino, IX. 139.
San Marino, XII. 124; XIII. 47.
Sannazaro, X. 118.
Sanniti, I. 202.
Sansovino, X. 97.
Sante Bartoli, XI. 381.

484
Santi Padri, IV. 212. 229. 235. 263.
Santi del Cinquecento, IX. 293.
Santi, X. 479 ‒ fiorentini, 489.
Sant'Uffizio, X. 344; XI. 291; XII. 315.
Santi del XVIII secolo, XII. 182.
Sardegna, V. 535.
Sarpi frà Paolo, X. 518. 525.
Saracini in Sicilia, V. 299. 450 ‒ in Sardegna, 537.
Saracini in Sicilia, VI. 220.
Sardegna, origini, I. 111; XII. 344.
Sassetti, VIII. 558; XI. 515.
Sassoferrato, XI. 373.
Satira latina, III. 36. 54. 368.
Saturno, I. 114.
Sauli (s. Alessandro), X. 483.
Sanfedisti, XIII. 336. 387.
Savoja (conti di), VII. 431 ‒ duchi, 443; IX. 449; XI. 50.
Savoja (ducato) nel Seicento, XII. 82 ‒ incrementi, 110 ‒
invasa dai Francesi, XIII. 11 ‒ ceduta, 43.
Savonarola, IX. 23-101.
Scacchi, VIII. 441.
Scaligeri, VII. 427; VIII. 8; X. 248.
Scamozzi, X. 100.
Scarella, XII. 275.
Scarpa, XII. 596.
Scaruffi, XI. 490.
Schiavi, II. 1; IV. 146. 324; VI. 81 ‒ sotto i Longobardi, V.
122 ‒ sotto il feudalismo, 403 ‒ emancipati, VI. 81;
XII. 51.

485
Schinner Matteo, IX. 203.
Scipione Africano, I. 316. 393 ‒ altri, 357. 379. 463.
Scienze occulte, VI. 400; X. 327.
Scioppio, XI. 510.
Scisma (gran), VIII. 181.
Scolastica, VI. 356.
Scomunica, V. 495.
Scoperte geografiche, VIII. 540.
Scoperte archeologiche, XII. 517.
Scoppa Antonio, XIV. 374.
Scrittori del cinquecento, XV. 220.
Scultori romani, III. 428.
Scultura risorge, VII. 191; X. 15.
Scuole giuridiche, IV. 299.
Scuole romane, IV. 237.
Secentisti, XI. 416.
Segesta, I. 263.
Segneri Paolo, XI. 430.
Segni, IX. 258.
Segretarj, X. 159.
Sejano, III. 87.
Selinunte, I. 261.
Sella Quintino, XI. 542.
Senato romano, I. 401.
Senato di Milano, XI. 81.
Seneca, III. 167 ‒ tragedie, 367 ‒ cristiano, IV. 111.
Sepolcri etruschi, I. 87.
Sepolcri, VII. 175; X. 17.
Serra Antonio, XI. 491.
486
Serrar del gran Consiglio, VII. 77.
Sertorio, II. 78.
Seta, IV. 54.
Sette Comuni (i), IX. 197.
Settimio Severo, IV. 15.
Sforza Attendolo, VIII. 75 ‒ Francesco, 110. 130 ‒ Ga-
leazzo Maria, IX. 47 ‒ Lodovico il Moro, 52-118 ‒
Massimiliano, 213. 231 ‒ resi a Milano, 245 ‒ ultimi,
445.
Sibari, I. 214.
Sibille, XV. 267.
Sicilia primitiva, I. 229 ‒ sua letteratura, 253 ‒ arti belle,
261 ‒ suo dialetto, XV. 151. ‒ provincia, II. 120 ‒ inva-
sa dai Saracini, V. 299 ‒ sotto Enrico, VI. 236 ‒ sotto
gli Svevi, 249. 423 ‒ dopo il vespro; VII. 276 ‒ sotto la
Spagna, XI. 129 ‒ nel Seicento, XII. 64 ‒ sotto i Borbo-
ni, 361 ‒ nel 1848, XIV. 109. 159. 235 ‒ ribellata, XIV.
338 ‒ sollevata, 361.
Siena (guerra di), IX. 479.
Sigismondo imperatore, VIII. 119. 123. 147.
Signorotti italiani, VII. 10. 404.
Sigonio, VII. 340; X. 128.
Silio Italico, III. 364.
Silla, II. 52.
Silvestro papa, VI. 408.
Simbolo apostolico, IV. 173.
Simmaco, IV. 210. 246.
Sinodo di Parigi, XIII. 230.
Siracusa, I. 237. 315 ‒ sue ruine, 263.
487
Siri Vittorio, XI. 503.
Sismondi, VII. 355. 361; XIII. 491.
Sisto IV, VIII. 279. 290.
Sisto V, XI. 27.
Smalti, X. 113.
Soave Francesco, XII. 275.
Società commerciali, VIII. 494.
Società secrete, XIV. 50.
Socj latini, II. 41 ‒ italici, 351.
Sofisti, I. 328.
Solino, III. 314.
Solino, X. 409.
Sordello, VII. 227.
Spagna insorta, I. 390.
Spagna (campagna di), XIII. 237.
Spagnoletto, XI. 370.
Spagnuoli scrittori italiani, XII. 197.
Spallanzani, XII. 582.
Spartaco, II. 92.
Specchi ustorj, I. 259.
Speronella, VIII. 399.
Spettacoli del Cinquecento, X. 203.
Spezierie, VIII. 461.
Spinelli Matteo, VII. 325.
Stampa, VIII. 363.
Stancari, X. 411.
Statistiche del medioevo, XV. 335.
Statuti comunali, VI. 185; VII. 443; IX. 7.
Stazio, III. 353.
488
Stellini, XII. 277.
Stemmi, I. 261; V. 564 ‒ delle città, VI. 71.
Stilicone, IV. 344.
Stipendj di professori, VI. 386. 393.
Stoicismo a Roma, III. 162 ‒ in trono, 235.
Storia del medioevo, VII. 321.
Storia morale e critica, XIII. 503. ‒ universale, 504.
Storici primi, I. 41.
Storici primi di Roma, I. 361.
Storici romani, II. 154; III. 13. 386; IV. 244 ‒ longobardi,
V. 203 ‒ siciliani, III. 16.
Storici (raccolte di), VII. 341. 361 ‒ lombardi, 338. 343 ‒
municipali, 345; X. 368 ‒ moderni, 363.
Storici nel Quattrocento, VIII. 342 ‒ del Cinquecento, IX.
255; X. 149 ‒ del Seicento, XI. 483. 500 ‒ del Sette-
cento, XII. 542 ‒ moderni, XIII. 485.
Storie letterarie, XII. 538.
Strada Famiano, XI. 510.
Strade romane, III. 413. 419.
Strade nel Quattrocento, VIII. 454
Streghe, VIII. 165; X. 331; XII. 461.
Strozzi Filippo, IX. 430 ‒ Pietro, 485. 522.
Superstizioni romane, II. 287.
Superstizioni, XI. 287.
Supplizj nel Quattrocento, VIII. 425.
Sutri (privilegio di), V. 511.
Suwaroff, XIII. 99.
Svetonio, III. 118; 382.
Svevi, loro fine, VI. 472.
489
Svizzeri, VIII. 88; IX. 50. 203.

Tabacco, X. 305.
Tachigrafia, VIII. 357. 371.
Tacito, III. 119. 381.
Tacito imperatore, IV. 55.
Tancredi di Lecce, VI. 231.
Tanucci, XII. 201. 354.
Taranto, I. 213. 270.
Targioni Tozzetti, XII. 238.
Tarlati, VIII. 245.
Tarquinj (padre), I. 62.
Tarsia, X. 112.
Tartaglia, X. 105; XI. 561.
Tartarotti, X. 357.
Tartini, XII. 474.
Tasso Bernardo, X. 189. 242 ‒ Torquato, XI. 385.
Tassoni, XI. 435.
Tattica romana, IV. 243.
Tavola Isiaca, XI. 210. 518.
Tavole (le XII), I. 179 ‒ alimentari, III. 237. ‒ Eugubine,
XV. 8 ‒ di Osunna, 347 ‒ di Eraclea, ibid.
Teatri romani, III. 11.
Teatri, X. 205 ‒ loro moralità, 495.
Teatro italiano, VIII. 436 ‒ nel Seicento, XI. 450.
Telesio, XI. 456.
Tempj romani, III. 397.

490
Templari, VII. 316.
Teocrito, I. 253.
Teodolinda, V. 83.
Teodorico, V. 25.
Teodoro (re), XII. 385.
Teodosio, IX. 205. 344. 379.
Teologi moderni, XIII. 527.
Teosofi, XIII. 323.
Terenzio, I. 364; III. 5.
Testi Fulvio, XI. 440.
Thiers, XIII. 230.
Tiberio, III. 79.
Tibullo, III. 39.
Timoleone, I. 247.
Tintoretto, X. 88.
Tiraboschi, VII. 357; XII. 538.
Tiranni d'Italia, VII. 404. 410.
Tirannie, come nascono, VI. 311.
Tirolo, VII. 9 ‒ sollevato, XIII. 191.
Tirone, II. 113.
Tirreni, I. 43.
Tito imperatore, III. 225.
Tito Livio, II. 157; III. 24.
Tiziano, X. 86. 237.
Toaldo, XII. 587.
Tommasini, XIII. 551.
Tommaso da Kempis, VIII. 344.
Tommaso (s.), VI. 351. 364.
Tonti, VIII. 440; XI. 335.
491
Torbia, suo monumento, II. 373.
Torino, VII. 5 ‒ assediata, XII. 104.
Torriani, VII. 20. 369.
Torriani Giovanni, IX. 510; XI. 593.
Torricelli, XI. 584.
Torri cittadine, VII. 186.
Toscana nel Seicento, XI. 229.
Toscana, successione disputata, XII. 126 ‒ sotto i Lorene-
si, 302.
Toscanelli, VIII. 349.
Totila, V. 61.
Traballesi, XII. 532.
Tragedie romane, III. 9 ‒ italiane, X. 208; XII. 557 ‒ mo-
derne, XIII. 448. 475.
Trajano, III. 235.
Trasea Peto, III. 113.
Tre capitoli, V. 173.
Tregua di Dio, V. 434; VI. 151.
Trenta Tiranni, IV. 110.
Tremuoti di Calabria e Messina, XII. 365.
Tribù romane, I. 159. 398.
Tribuni della plebe, I. 173.
Trieste, VIII. 126.
Trimalcione, III. 137.
Trionfe, VIII. 158.
Trionfi, I. 343.
Triregno, VII. 285.
Trissino, X. 194.
Triumvirato primo, II. 174 ‒ secondo, 316.
492
Trivulzio, IX. 113. 231.
Trogloditi, I. 55.
Trovadori, VII. 223.
Troya, VI. 3.
Turamini, XI. 494.
Turchi Adeodato, XII. 511.
Turchi s'avanzano, VIII. 210 ‒ crociata contro, 221 ‒ in
Italia, 229; IX. 271. 455. 529.
Turchi (vescovo), XII. 286; 511.

Ugo di Provenza, V. 342.


Ugo Falcando, VI. 227.
Uguccione della Faggiuola, VII. 382.
Ulpiano, IV. 301.
Umbria, sue città, II. 38.
Umbri, I. 49.
Umiliati, VI. 314.
Ungheri, V. 334.
Unigenitus (bolla), XII. 22.
Unità italiana, II. 46.
Università, VI. 384; VIII. 326.
Unni, IV. 383.
Untori, XI. 214.
Urbino, IX. 125 ‒ (corte di), X. 290; XII. 5.
Urbano VIII, XII. 1.
Uscocchi, XI. 146.
Usanze del medioevo, VII. 120.

493
Usura, VIII. 484.

Vachero (congiura del), XI. 73.


Vajuolo, XII. 593.
Valacco, somiglianze coll'italiano, XV. 177.
Valdesi, VI. 329; X. 553.
Valentiniano, IV. 201 ‒ Secondo, 207 ‒ Terzo, IV. 379.
Valentino (duca), IX. 140.
Valeriano, IV. 43.
Valerio Flacco, III. 363.
Valerio Massimo, III. 383.
Valla, VIII. 314. 349; XV. 245.
Valtellina, insurrezione, X. 569; XI. 190 ‒ resa all'Italia,
XIII. 70.
Vangelo; codice antico, IV. 86.
Vanini Lucilio, XI. 336.
Vanvitelli, XII. 528.
Vapore (battelli a), XIV. 37.
Varano Alfonso, XII. 506.
Varo sconfitto, II. 375.
Varrone, I. 42; III. 19; XV. 24. 52.
Vasari, X. 65.
Vasi etruschi, I. 93.
Vasi murrini, III. 132.
Vaticana (basilica), X. 43.
Vegezio, IV. 241.
Vella Giuseppe, XII. 490.

494
Vellejo Patercolo, III. 383.
Venanzio Fortunato, V. 41.
Venesino contado, XIII. 10.
Veneti antichissimi, I. 104.
Venezia antica, sue città, II, 37 ‒ primordj, V. 518 ‒
usanze. Dogi, 527 ‒ elezioni, VI. 181 ‒ e i Crociati,
253 ‒ estendesi, VII. 11. 69 ‒ sua costituzione, 57 ‒
sue fabbriche, VII. 165 ‒ suoi storici, 329 ‒ guerre con
Genova, VIII. 40. 511 ‒ sue industrie, 475 ‒ sua ric-
chezza, 518 ‒ suo commercio, VIII. 93 ‒ sua maggior
potenza, 128 ‒ nel Cinquecento, IX. 181 ‒ suoi statuti,
IX. 8 ‒ architettura, X. 86. 94 ‒ sue feste, 299 ‒ (eretici
a), 513 ‒ interdetta, 525 ‒ e i Turchi, XII. 31 ‒ nel Sei-
cento, 33 ‒ contro i papi, 281 ‒ nel Settecento, 400 ‒
tradita, XIII. 49 ‒ unita al regno, 157 ‒ bloccata, 257 ‒
si difende, XIV. 175. 253 ‒ acquistata al regno, XIV.
356.
Veneziani in Grecia, VI. 260 ‒ in Levante, VIII. 512 ‒ loro
marina, 515.
Venturieri, VII. 449.
Vercelli, VII. 7.
Verdi, XIII. 576.
Vergerio, X. 399.
Verona. Le pasque, XIII. 51.
Verre, II. 120.
Verri Alessandro, XII. 510.
Verri Pietro, XII. 239.
Vesalio, XI. 547.
Vescovi potenti nel medioevo, VI. 11 ‒ decadono, 68.
495
163.
Vespasiano, III. 218.
Vespasiano de' Bisticci, VII. 338.
Vespri siciliani, VII. 270.
Vespucci, VIII. 551.
Vestali, I. 416.
Vesti ecclesiastiche, V. 155.
Vesti nel Quattrocento, VIII. 381.
Vetri, VIII. 475.
Vetriate dipinte, VII. 175.
Viaggiatori, VIII. 530; XI. 512 ‒ loro racconti, 556.
Viaggiatori in Italia, XII. 445.
Viaggiatori moderni, XIII. 355.
Vico, I. 134. 183; VII. 351; XI. 519; XV. 246.
Vida, X. 119.
Vigilio papa, V. 173.
Vignola (il), X. 94.
Villani, storici, VII. 332.
Villars, suoi consigli a don Carlos, XII. 136.
Vindice imperatore, III. 116.
Virgilio, II. 57 ‒ mago, XV. 307.
Viriato, I. 392.
Visconti E. Q., XII. 525.
Visconti Ottone, VII. 27 ‒ Matteo, 371. 390 ‒ Galeazzo,
391 ‒ Azzone, 416 ‒ Lodrisio, 417 ‒ Luchino e Gio-
vanni, 419 ‒ loro dominj, 423 ‒ Bernabò e Galeazzo,
563; VIII. 2 ‒ Gian Galeazzo, 1 ‒ Gian Maria, VIII. 33 ‒
Filippo Maria, 88. 120 ‒ Galeazzo Maria, 401. 431 ‒
protegge le lettere, 327.
496
Vitellio, III. 211.
Vitige, V. 56.
Vitruvio, III. 426.
Vittorio Amedeo, XI. 218.
Vittorio Amedeo II, XII. 86. 174. 336 ‒ III, 350.
Vittor Pisani, VIII. 46.
Viviani, XI. 586.
Volpato, XII. 526.
Volta, XII. 589; XIII. 541.
Voltaire, VI. 101; VII. 505; XII. 454. 505.

Waldstein, XI. 206.

Zaccaria, XII. 493. 537.


Zaleuco, I. 227.
Zamet, XI. 334.
Zanchi, X. 397.
Zappata cardinale, XI. 162.
Zecche, VI. 211.
Zendrini, XII. 579.
Zeno Apostolo, XII. 469.
Zeno, viaggiatori, VIII. 536.
Zenobia, IV. 48. 53.
Zingari, VIII. 430.
Zizim, IX. 67.

497
Zorzi, XII. 273.

498

Potrebbero piacerti anche