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Filologia Romanza

La filologia romanza si concentra sullo sviluppo delle lingue romanze dal latino, analizzando testi e mutazioni linguistiche nel tempo. Si distingue tra Romania linguistica e Romania perduta, evidenziando le aree in cui si parlano lingue romanze e le influenze storiche su di esse. Le competenze linguistiche si adattano ai contesti d'uso, e il documento esplora vari fenomeni di vocalismo e consonantismo che hanno contribuito all'evoluzione delle lingue romanze.

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Filologia Romanza

La filologia romanza si concentra sullo sviluppo delle lingue romanze dal latino, analizzando testi e mutazioni linguistiche nel tempo. Si distingue tra Romania linguistica e Romania perduta, evidenziando le aree in cui si parlano lingue romanze e le influenze storiche su di esse. Le competenze linguistiche si adattano ai contesti d'uso, e il documento esplora vari fenomeni di vocalismo e consonantismo che hanno contribuito all'evoluzione delle lingue romanze.

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FILOLOGIA ROMANZA/ NEOLATINA/ ROMANISTICA: quella che facciamo noi si occupa dello

sviluppo delle lingue romanze nell’arco temporale del Medioevo, altri lo fanno in modo
diacronico, dalla nascita fino ad oggi. Il compito del filologo (filos-amico, logos-parola/
discorso) è quello di cercare di avvicinarsi il più possibile alla forma originaria di un testo,
correggendo “errori” o mutazioni che nel corso del tempo hanno variato l’intento
originario dell’autore. Perché neolatina? La nostra filologia si occupa delle lingue che
derivano dal latino, per cui è detta anche neolatina. Perché romanza? Con l’editto di
Caracalla nel 212 d.C. tutti gli abitanti dell’Impero Romano (dal Portogallo alla Romania)
ottengono la cittadinanza, diventano tutti Romanus, nonostante la distanza da Roma;
allora si crea il nuovo termine Romanicus e l’Impero viene definito Romania (da qua la
nazione Romania e la regione italiana Romagna, rimasta anche sotto l’Impero d’oriente). Il
modo di parlare era detto inizialmente latine loqui (parlare la lingua dei latini), poi romane
loqui (parlare la lingua dei romani) e infine romanice loqui (parlare la lingua della Romania,
dell’Impero); con la sincope, caduta della vocale atona post tonica, passa da romanice a
romance e con un’evoluzione consonantica, la sonorizzazione, diventa romanze
(romanistica deriva sempre da romanza). La filologia romanza studia quindi le lingue e le
letterature del territorio che era stato dell’Impero e che ne ha continuato la lingua in
varianti che si sono allontanate dalla forma originaria.
ROMANIA: è l’area dell’Impero Romano nella sua massima espansione (III d.C.); andava
dalla zona tra l’Elba e il Reno a Est (una linea oscillante tra i due fiumi), le isole britanniche
fino al Vallo Adriano (oltre, nelle Highlands, c’erano gli Scoti e i Pitti, chiamati così perché
combattevano col volto dipinto di blu per mostrare un’alterazione della personalità), poche
infiltrazioni in Irlanda ma non stanziare, la penisola iberica, Francia, le regioni del Magreb a
Nord del Massiccio dell’Atlante (a ridosso del Sahara), nel Medio Oriente il Libano, l’Egitto
e la Palestina, la Grecia, l’Asia minore (Turchia mediterranea), la Pannonia fino al Mar Nero
(Ungheria), la Dacia (Romania) e la Rezia (Svizzera e Austria). Nonostante avessero
occupato la Grecia e le sue aree, i romani non imposero mai la lingua latina perché
riconobbero il prestigio culturale e linguistico della culla della civiltà mediterranea, per
rispetto, quindi non fa parte della Romania linguistica. In Dacia, nonostante il breve
periodo di un secolo di permanenza nell’Impero, ancora oggi si parla una lingua romanza,
anche se influenzata da quelle slave (molte parole hanno sinonimi slavi e latini, la maggior
parte delle parole legate all’agricoltura e artigianato hanno origine slava mentre i termini
culturali derivano dal latino); probabilmente questo perché si trasferirono molti funzionari
in Dacia ma soprattutto grazie agli abitanti che volevano mantenere il latino per prestigio
(secondo loro parlare la lingua dell’Impero Romano era simbolo di forza). In Inghilterra
invece, nonostante i 4 secoli di permanenza, la lingua non deriva dal latino; è una lingua
germanica ma oltre il 60% dei termini ha origine latina (quasi più del rumeno ma per
struttura e sintassi è germanica) perché dopo gli Angli e i Sassoni ci fu un’invasione dei
Normanni nel 1066 con Guglielmo il conquistatore, che parlava una lingua romanza. Quindi
non tutto il territorio della Romania corrisponde alla Romania linguistica: si tratta allora di
Romania perduta (Inghilterra, fascia mediterranea del Magreb, Pannonia), mentre
Romania nuova indica i territori in cui si parla una lingua romanza non perché rimasta dal
latino parlato ma perché imposta dai conquistatori (Québec, America centro-meridionale,
Macau in Cina, territori africani, …).
Distinguiamo 5 AREE principali di lingue romanze:
-iberoromanza (penisola iberica): 3 lingue predominanti: portoghese, castigliano e
catalano, e il gallego più che altro per la letteratura, le cantigas; il basco invece non è
romanza.
-galloromanza (Francia): 2 lingue: lengue d’oc/provenzale/occitano e lengue d’oil/antico
francese; dal 1215, inizio dell’espansione dei francesi del Nord verso Sud, il provenzale si è
rinchiuso sempre di più fino a diventare poco più di un dialetto. C’è poi una lingua di
transizione, il franco provenzale, molto usata per lirica e letteratura che è tuttora parlata in
Valle d’Aosta.
-italoromanza (Italia): 2 lingue: italiano e sardo; il sardo non è un dialetto perché ha
caratteristiche morfosintattiche e fonologiche diverse dall’italiano. È la lingua più vicina al
latino (la più arcaica) perché il centro dell’isola non è quasi mai stato a contatto con gli
invasori e non interessava molto il territorio.
-retoromanza (Rezia frammentata): 4 lingue: romancio ed engadinese (Est della Svizzera),
ladino (Dolomiti) e il friulano.
-balcanoromanza o dacoromanza (Dacia): adesso c’è solo il rumeno ma ce n’era un’altra, il
dalmatico (ora morta, senza parlanti vivi): l’ultima persona parlante dalmatico fu Tuone
Udaina, un vegliota (abitante dell’isola di Veglia, Krk, nell’adriatico) che morì nel 1898.
Venne intervistato dal linguista Bartoli che pubblicò due volumi su questa lingua ma già
Tuone non la parlava più da almeno 15 anni, da quando rimase vedovo, in più era anziano,
di conseguenza non fu una ricostruzione perfetta.
Le competenze linguistiche di un parlante si adeguano comunque al contesto in cui la
lingua viene utilizzata; si chiamano registri, in latino sermi: sermo urbanus (quello che
insegnano a scuola), sermo familiaris, sermo plebeius e SERMO RUSTICUS. Il più diffuso al
tempo è quello rusticus che noi intendiamo come volgare perché parlato dal volgo, dal
popolo, ed è proprio il latino volgare che diede vita alle lingue romanze; il problema è che
era orale quindi abbiamo bisogno di fonti per risalire ad esso: testi letterari, pronuncia del
latino in altre lingue, scritture esposte e annotazioni dei grammatici.
1) i testi letterari li dividiamo in tre tipi: testi mimetici, testi col sermo familiaris e trattati
tecnici. Testi mimetici: di solito per i testi si usa il latino classico ma in molti casi l’autore ha
cercato di riprodurre il linguaggio di alcune categorie (come Verga con I Malavoglia)
utilizzando un linguaggio mimetico; es. Plauto (II d.C.) scrisse commedie di strato sociale
basse come prostitute, che quindi non sanno parlare il latino colto; nelle sue opere
compare ad esempio la parola caballus anziché equus (equus era il cavallo da carrozza
mentre caballus era il ronzino, presente in ambienti popolari). Altro esempio è il Satiricum
di Petronio (I d.C.), di cui ci è rimasto il xv capitolo e frammenti del xiv e xvi: è un
prosimetro, prosa e versi, ed è stato trovato in Dalmazia nel 1600, ma probabilmente è la
copia fatta fare dall’umanista Poggio Bracciolini, persa così come l’originale. Ne rimane
però un’altra copia che racconta la cena di Trimalcione in cui un ex schiavo proveniente
dall’Asia minore alla morte del padrone ne eredita gran parte dei beni diventando uomo
libero, liberto, ma privo di cultura.
Testi con sermo familiaris: soprattutto nel genere epistolare in lettere tra amici e parenti;
venivano redatte su tavolette di cera da liberti sotto dettatura due volte, una veniva inviata
e una conservata. Importanti le Epistole ad familiaris di Cicerone, scritte dal liberto Tirone;
non sono proprio uguali al parlato perché venivano rilette o aggiustate da chi scriveva.
Trattati tecnici: ci permettono di conoscere i linguaggi settoriali; molti riguardano
l’agricoltura (De re rustica di Columella) o l’architettura (De architectura di Vitruvio) ma
sono importanti il De re militari di Vegezio e le Georgiche di Virgilio.
2) pronuncia del latino in altre lingue: la C era sempre velare anche davanti a vocali
anteriori e lo sappiamo perché in Germania si dice Kaiser (Cesare) oppure Keller (Cellario);
inoltre, V+vocale all’inizio di parola in inglese diventa W+vocale quindi non c’è più
distinzione tra U e V (vino-wine, vallo-wall).
3) scritture esposte tipo sovrapporta, muri o monumenti e possono essere ufficiali, fatti da
gente colta su monumenti pubblici, o non ufficiali, fatti da gente comune o non colta. Il
Corpus Iscriptionum Latinorum (CIL) nasce nel 1847 all’Accademia di Berlino e raccoglie le
scritture esposte dividendole in aree geografiche in 17 volumi; nel xiii volume, relativo alla
Gallia, troviamo una lapide con la scritta FERA COM ERA=assieme alla feroce Era,
mostrando come la congiunzione CUM sia diventata nel parlato COM. Il iv volume è
dedicato solo a Pompei ed Ercolano, sepolte nel 79 d.C., e mostra come si scriveva
tantissimo sui muri. Dopo tutte queste scoperte vennero smentite alcune ricerche passate.
4) annotazioni dei grammatici: i grammatici si occupano per lo più del latino classico quindi
ci dicono poco sul sermo rusticus. In un trattato grammaticale ci viene detto che il gruppo
consonantico di L geminata (LL) viene pronunciato in alcune parti d’Italia con un suono
aspro, per asperum sonum; non è molto chiaro ma sembra trovar ragione in Sicilia dove
BELLO si dice quasi BEDDO. In un altro trattato si dice che quando L è seguita da un’altra
consonante, la sua pronuncia è pinguius, più grassa; anche qui il termine usato non è
chiaro ma ci si rifà alla velarizzazione della L davanti a una consonante nel francese o nei
dialetti italiani settentrionali (ALTER diventa AUTRE /’otr/).
APPENDIX PROBI: l’Appendix Probi non è l’Appendice di Probo ma è l’Appendice a Probo, a
un libro di Probo. Probo era un grammatico latino del I secolo d.C. che aveva composto un
testo di grammatica, l’Instituta Artium Grammaticarum, molto fortunato perché venne
utilizzato tantissimo. È stato copiato tante volte ma una copia è più importante delle altre,
quella degli inizi del VIII secolo copiata nella biblioteca di Bobbio, perché contiene
un’appendice che non è di Probo (l’appendice risale al III secolo d.C.): un maestro, nelle
pagine vuote finali del manuale, aveva segnato gli errori grammaticali più comuni dei suoi
discepoli utilizzando una forma tipo “si scrive VIRIDIS, non VIRDIS”; sono 227 parole latine
seguite da NON seguito dalla forma scorretta riscontrata negli allievi. Del maestro non si sa
molto se non che era maestro di retorica o a Cartagine o a Roma, perché nel III secolo
quelle erano le due scuole principali; il manoscritto copiato nel 700 a Bobbio è stato
trovato intorno al 1493 da un umanista che lo affidò a un altro umanista, Parrasio, il quale
probabilmente lo portò con sé a Napoli dove nel 1700 viene trasferito a Vienna dagli
Asburgo che lasciarono l’Italia. Dopo la Prima Guerra Mondiale, dato che l’Austria aveva
perso, i manoscritti rubati vengono restituiti tra cui l’Appendix Probi che ritorna a Napoli,
dove è tuttora nella biblioteca nazionale di Napoli, Neapolitano Latino 1. Negli errori degli
allievi notiamo le trasformazioni del latino classico in volgare e si scoprono che alcuni
errori annotati erano già presenti nei muri di Pompei ed Ercolano nei secoli precedenti. Noi
li abbiamo suddivisi in vari punti in base ai fenomeni di vocalismo, consonantismo, cambi
di declinazione e altri.
Il VOCALISMO contiene a sua volta 4 fenomeni:
1) sincope: caduta della vocale atona post tonica; tutte le parole hanno un solo accento
(nell’italiano la maggior parte delle parole sono piane o parossitone).
Es. VIRIDIS, NON VIRDIS -> verde (fr.) / CALIDA, NON CALDA -> chaux (fr.)
Es. VETULUS, NON VETLUS -> vecchio (gr. primario TUL -> gr. secondario TL -> diventa CCH)
Es. OCULUS, NON OCLUS -> occhio (gr. primario CUL -> gr. secondario CL -> diventa CCH)
Spesso quindi le parole perdono consistenza tonica, ci sono però parole molto brevi come
AURIS che rimarrebbe solo con AUR; per rimediare, la parola viene allungata con un
diminutivo o vezzeggiativo.
Es. AURIS-AURICOLA-ORECCHIA / AVIS-AVICELLUM-UCCELLO / APIS-APICULA-ABEILLE (fr.)
2) sviluppo di yod (semivocale) nel gruppo “consonante+vocale anteriore (e/i)+vocale”
Es. VINEA, NON VINIA / LANCEA, NON LANCIA
3) passaggio di U breve tonico a O: nel latino le vocali brevi si pronunciavano più aperte.
Es. COLUMNA, NON COLOMNA / TURMA, NON TORMA
4) riduzione di AU protonico (prima dell’accento) a O
Es. AURIS, NON ORICLA
Il CONSONANTISMO invece contiene 6 fenomeni principali:
1) caduta della M finale: l’accusativo si indicava spesso con M finale ma era difficile da
pronunciare quindi c’è stata una progressiva perdita di consistenza fonica (non essendo più
percepito si leva).
Es. NUMQUAM, NON NUMQUA -> nunca (sp.) / PRIDEM, NON PRIDE
2) caduta di H: era inspirata ed è successo come con la M
Es. HOSTIA, NON OSTIA / ADHUC, NON ADUC
3) riduzione del gruppo NS intervocalico a S
Es. MENSA, NON MESA -> mesa (sp.); in italiano si assimila con doppia S in messa ma con
significato diverso [vedi semantica]. Si è assimilato anche un altro termine: PERSICA (deriva
da Malum Persicum, frutto della Persia, con il determinante che assume anche il
determinato diventando solo Persicum e poi Persica) -> PESSICA che diventa dopo la
sincope pesca, oppure GRUNDIO -> GRUNNIO e poi grugno.
4) caduta di V intervocalica davanti a vocali posteriori (o, u)
Es. RIVUS, NON RIUS -> rio (sp.) / PAVOR, NON PAOR -> paura
5) confusione tra B e V
Es. BACULUS, NON VACLUS / CABALLUS, NON CAVALLO
6) esitazione tra scempie (consonante singola) e geminate (consonante doppia)
Es. AQUA, NON ACQUA / GARRULUS, NON GARULUS
SEMANTICA STORICA (come le parole si affermano nella storia): le innovazioni si
espandono come i cerchi prodotti da un sasso lanciato in acqua: le onde perdono intensità
all’allontanarsi dal centro, in questo caso Roma, da cui partono onde disomogenee che
incontrano ostacoli naturali come monti, mari o fiumi (teoria delle onde). Da quando Roma
inizia a perdere potenza, le onde delle innovazioni diventano più deboli perché ad esempio
il sistema scolastico non funziona più come prima e non arrivano quindi agli estremi
dell’Impero. È il caso del TAVOLO: i romani mangiavano sdraiati su un triclinio, una sorta di
divanetto, ma col tempo si inizia a utilizzare una tavola in legno con due cavalletti per
mangiare più comodi; si diffonde questa innovazione con il termine TAVOLA ma, data la
scarsa potenza di Roma, l’innovazione linguistica non riesce ad arrivare in Spagna
fermandosi ai Pirenei (ostacolo naturale); infatti in Spagna si utilizza MESA che deriva da
MENSA (momento del pasto) mentre in Italia si dice TAVOLO e in Francia TABLE. Le aree
laterali e quelle isolate quindi conservano la fase più arcaica di una lingua e sono estranee
all’innovazione (Spagna, Romania, Sardegna).
Un altro caso è formaggio: i latini utilizzavano CASEUM (ancora oggi troviamo caseificio,
prodotti caseari); il problema era che il formaggio fresco non durava tanto e non c’erano
luoghi per conservarlo a lungo. Si inizia allora a provare a conservarlo in forme, per cui
inizia a chiamarsi CASEUM FORMATICUM (formaggio messo in una forma); da qui come nel
caso di MALUM PERSICUM, rimane solo FORMATICUM. Per lo stesso discorso di
tavola/mesa, l’innovazione linguistica non arriva in Spagna dove rimane QUESO (in italiano
FORMAGGIO, in francese FROMAGE).
Il fatto che il determinante assume anche il determinato lo troviamo in un altro caso: il
termine latino per fegato è IECUR, che non ha uscite nelle lingue. I greci, tra i piatti tipici,
avevano quello che conosciamo oggi come foie gras, fegato grasso, e rendevano il fegato
delle oche grasso dando frutta secca a questi animali, in particolari i fichi; dopo l’invasione
in Grecia, questa tecnica viene trasmessa ai romani che la fanno propria chiamandola
IECUR FICATUM, fegato ingrassato a causa dei fichi. Da qui, il determinante assume il
determinato e inizia a chiamarlo FICATUM, che diventerà poi FEGATO.
Origine di altre parole: AGNELLO: per contrastare la sincope che riduceva troppo le parole,
si aggiunse il diminutivo ad AGNUS facendolo diventare AGNELLUS -> agnello/agneux (fr.).
in area iberica invece si è scelto di contrastare la sincope affiancando un determinante,
CORDUS (usato per indicare gli ultimi frutti, i più piccoli e tardivi), diventando AGNUS
CORDUS che diventa cordero.
PARLARE: esisteva il termine LOQUOR, un verbo deponente ossia attivo ma di aspetto
passivo; spesso si cercavano di mantenere forme semplici scartando quelle più strane e
difficili, ad esempio loquor. Viene quindi sostituito da forme ex novo che nel caso
italoromanzo e galloromanzo è stato influenzato dalla realtà cristiana e dalla parola
PARABOLA (i piccoli racconti che usava Gesù per spiegare argomenti): da PARABOLA a
PARABOLARE a PARLARE e anche da PARABOLA a PAROLA, perché il termine VERBUM
confondeva dato che aveva due significati (verbo e parola). In area iberoromanza invece si
sceglie un termine diverso ma affine: FABULA (quasi sinonimo di parabola ma non relativo
al campo cristiano) che diventa FABULARE e poi HABLAR.
ARRIVARE: molti verbi di moto latini hanno avuto un riassestamento nelle lingue romanze
in quanto avevano un significato diverso solo in base a delle preposizioni. A partire dallo
stesso significato, quello di arrivare, per esprimerlo sono nate due forme verbali diverse
ma con la stessa strategia, ossia appartengono allo stesso campo semantico, quello
marinaresco: le lingue italoromanze e galloromanze hanno scelto ADRIPARE (arrivare a
riva, una nave che attracca al porto) che diventa ARRIVARE; le lingue iberoromanze
prendono PLICARE (piegare le vele in arrivo al porto) e si arriva a LLEGAR. Quindi c’è stata
la stessa strategia linguistica ma con scelte diverse.
FENOMENI DI SOSTRATO: la ricchezza lessicale delle lingue romanze proviene da altre
lingue perché la lingua è stratificata e va intesa come una torta con alla base le lingue di
sostrato (nel nostro caso, le lingue dei popoli conquistati subito dai romani) poi le lingue di
adstrato (quelle conosciute grazie a contatti economici, culturali o linguistici; ad esempio
per nuovi oggetti o concetti si prendevano termini di altre lingue) e infine le lingue di
superstrato (entrate dai popoli che hanno conquistato l’Impero Romano). Il latino è quindi
uno strato che poggia su uno strato precedente, le lingue dei popoli che i romani hanno
invaso e che sono scomparse dall’imporsi del latino o assimilate dal latino stesso (il
sostrato). Le lingue di SOSTRATO, per quello che riguarda il latino, sono 4: lingue italiche,
etrusco, celtico, e una lingua iberica sconosciuta che oggi non riconduce a lingue note.
1. SOSTRATO ITALICO: il latino è considerato una variante delle lingue italiche (parlate a
sud di una linea immaginaria che va da Grosseto all’Umbria fino ad arrivare alla Sicilia); tra
le lingue italiche si parlava anche il latino e a mano a mano che Roma si espandeva, lo
imponeva su popolazioni che parlavano lingue affini al latino: osco e umbro in Umbria
(quelle che hanno resistito di più), marsicano in Abruzzo, sabino e sabello nel Lazio, àpulo
in puglia, campano in Campania, siculo e sicano in Sicilia. Essendo affini sono facilmente
assimilabili alla norma latina ma lasciano pochissime tracce di sé nel latino classico e
volgare ad esempio la L geminata pronunciata con un suono aspro in Sicilia si pensa possa
essere un residuo del sostrato italico.
2. SOSTRATO ETRUSCO: l’area è limitata dalla linea che collega l’Umbria occidentale a
Grosseto fino a La Spezia, la cosiddetta Etruria. Lasciano pochissimi elementi passati nel
latino: secondo alcuni il nome Roma, il termine satellite (satelles, satellitis: indicava gli
uomini di scorta che stavano intorno a una persona, oggi ha un significato diverso), istrione
(histrio, histrionis: indicava un attore di un genere di teatro etrusco probabilmente
sconosciuto ai romani, altrimenti non lo adottavano come termine) e forse la gorgia
toscana (la C aspirata, anche se sembra risalga solo al XV secolo).
3. SOSTRATO CELTICO: i celti (o galli) arrivano in Europa nel 700 a.C. da est insediandosi in
Gallia, per poi arrivare nella penisola iberica e nelle isole britanniche; forse per eccesso di
popolazione (troppe persone per poco spazio) alcune tribù celtiche tornano verso est
occupando la Galazia, in Asia minore: si parla di pendolo celtico (da est a ovest a est).
Conosciamo questi spostamenti dai toponimi (Gallia transalpina e cisalpina, la Galizia in
Spagna, il Galles e la Cornovaglia, in inglese cornwales ossia “Gallia cornica”). I celti non
hanno mai fatto un impero ma hanno continuato a mantenere un’organizzazione
sociopolitica clanica, organizzata su clan e tribù; infatti, tutte le grandi città della Francia
riconducono al clan o al gruppo dei celti che la abitavano (Parigi, dei galli parisi, Reims, dei
galli remi), con l’eccezione delle città del sud della Francia e della Costa Azzurra che
ricordano la loro fondazione greca, come Marsiglia e Nizza. Quindi, il sostrato celtico si
estende a nord e nord-ovest di un’immaginaria linea che unisce La Spezia e Rimini, e ha un
peso maggiore rispetto agli altri sostrati, sia dal punto di vista qualitativo (quanto usiamo i
termini celtici) sia quantitativo (quanti sono i termini celtici). I celti ci hanno lasciato tante
parole e testimonianze artistiche ma non letterarie perché la loro cultura si basava
sull’oralità; infatti le iscrizioni celtiche non sono né letterarie né narrative. I celti sapevano
scrivere ma scrivevano per lo più elenchi di nomi che non ci aiutano a conoscere la loro
cultura. Nonostante questo, gran parte dei miti e delle leggende che abbiamo oggi
derivano dalla tradizione celtica (Graal, fate, Tristano e Isotta, Lancillotto, re Artù) e questo
lo sappiamo grazie a reperti artistici o manufatti, e grazie al recupero letterario del
medioevo nell’antico francese. I celti sono molto colti e hanno una forte identità, perciò
quando furono conquistati, i romani li assimilarono in quanto vedevano qualcosa
culturalmente simile a loro: vivevano in città (i germani invece preferiscono villaggi isolati,
motivo per cui i borghi francesi hanno toponimi germanici) ed erano raffinati. Si può dire
che ci fu un’assimilazione perfetta che portò a una civiltà galloromana (grazie anche a
matrimoni misti); non avevano neanche ostacoli religiosi dato che erano pagani
(veneravano tanti dei quindi inglobarono divinità celtiche). Il termine Francia ricorda un
popolo germanico, i Franchi, che invase e conquistò la Gallia militarmente ma non
culturalmente: erano più arretrati della civiltà galloromanza infatti la lingua che decisero di
parlare fu una romanza e non germanica. I rapporti tra romani e celti non furono bellicosi
ma di scambio quindi tanti termini che usiamo oggi sono entrati nel latino ma tramite
adstrato, non sostrato, e ci viene attestato ciò in opere di Plauto o Plinio. Una delle
differenze principale tra romani e celti è l’abbigliamento, i romani indossavano tuniche e
gonnellini mentre i celti brache e camisia (questi termini sono stati adottati dai romani
perché non conoscevano i pantaloni e la casacca); usavano le brache perché si spostavano
tanto a cavallo e dato che non esisteva la biancheria intima, erano più comodi rispetto ai
gonnellini per cavalcare). Altro termine adottato è camminus, che significava strada, e
carrum, il carro a 4 ruote dell’agricoltura celtica: nella zona italica del nord i terreni sono
molto grassi, fangosi e pesanti ed è necessario l’uso del carrum a 4 ruote, mentre nella
zona centrale dell’Italia più secca, era sufficiente la biga a due ruote. Vi era comunque
l’esigenza di disambiguare, togliere ambiguità tra due termini che avevano un aspetto
fonico simile ma significati diversi, ad esempio equs-cavallo ed equus-equo/uguale; quindi,
lentamente preferirono utilizzare il termine celtico caballus. Il vero significato di caballus è
ronzino, il cavallo del contadino molto usato dai celti ma sconosciuto dai romani; infatti,
per l’agricoltura i romani usavano i buoi ma per i terreni pesanti erano meglio i ronzini
perché più forti (in Plauto troviamo ancora la differenza tra caballus ed equs ma col tempo
caballus soppianterà il vecchio termine). Per quanto riguarda il sostrato e non l’adstrato, si
tratta di 180 termini, di cui il 90% sono attestati nel francese:
- charpentier (fr.) e carpentiere, perché i celti erano bravi costruttori in legno.
- brasser (fr. fare la birra) e brasserie (fr. birreria): i latini bevevano soprattutto vino mentre
i celti preferivano la birra (in latino cervogia che diventa in spagnolo cerveza).
- salmon (fr.) e lotte (altro pesce): pesci che i latini non conoscevano.
- combe (fr. valle): abbiamo alcuni toponimi riconducibili a questo, soprattutto nelle zone
dove si parla occitano o franco provenzale quindi nella zona delle Alpi ad esempio
Comboscuro (valle-scura, vicino Cuneo, dove ci sono ancora tradizioni medievali) o
Combafreida (valle-fredda, nelle valli del Gran San Bernardo in Valle d’Aosta).
- lande (fr. landa): pianura arida e non coltivata (è anche una regione francese).
- brughier (fr. brughiera): altro paesaggio non italiano.
- breuil /broil/: equivale all’inglese bush, cespuglio o zona cespugliosa e di vegetazione
bassa (in Valle d’Aosta esiste Breuil Cervinia, perché nonostante l’altitudine è una piana
ricca di cespugli); da breuil (cespuglio/intreccio di rami) deriva anche broglio (qualcosa di
ingarbugliato) e imbroglio (fare in modo che le cose non siano chiare per avere un
vantaggio illecito).
- truand (fr. vagabondo)
- bler: molti termini celti per indicare i colori si riferivano al manto degli animali, quindi a
qualcosa di concreto, non di astratto; bler significa grigio pezzato (con macchie). In latino
tasso si diceva taxus; era un animale molto temuto dagli agricoltori perché rovinava i
raccolti. In francese prima si chiama tassom, poi si inizia a chiamare blaireau /blerò/ per un
caso di tabuizzazione del nome: quando un animale può essere pericoloso si preferisce non
nominarlo perché si pensa che non chiamandolo non faccia danni, e quindi si usa un
termine tabuizzante, in questo caso blaireau, letteralmente animale chiazzato (oggi
blaireau in francese vuol dire anche pennello da barba perché i più costosi erano in pelo di
tasso); stessa situazione per la donnola, che uccide le galline, quindi non la si chiama più
col termine originale ma in italiano diventa donnola (tipo donnina, signorina) e in francese
bellette (bellina, carina).
- dru: in celtico significava erba fitta ma per evoluzione semantica delle parole da concreto
ad astratto, assume un altro significato: per estensione, se l’erba è fitta il terreno è fertile;
poi, per astrazione diventa l’amante vero con cui c’è un rapporto fertile dal quale possono
nascere figli (il termine drudo e druda è usato nella letteratura italiana del 1300 da Dante
per indicare un rapporto carnale).
- toponimi che finiscono in -briga/-braga (Brigasca, tra Francia e Italia, o Braga, in
Portogallo), -dumum (Lugdunum-Lione, o Autessudurum-Auxerre), -asco/-usco /-ate
(Cravasco, Lambrate, Calvairate).
4. ENIGMA IBERICO: della penisola iberica preromana sappiamo qualcosa dagli antichi
geografi greci che si basavano su notizie di naviganti e commercianti; di conseguenza, ci
dicono molto sulle coste ma non penetrano mai all’interno (commerciavano quasi solo con
zone costiere, infatti Nizza e Marsiglia hanno toponimi greci). I geografi greci ci parlano di
due popolazioni che abitavano la penisola iberica: jacitani e llergetes; jacitani ricorda il
termine aquitani, quindi è probabile che la popolazione aquitana si estendesse da una
parte all’altra dei Pirenei, mentre llergetes ci riconduce al toponimo di Lleida, in Spagna.
Alcuni pensano che i jacitani corrispondono ai baschi ma è poco probabile perché i baschi
vivono a nord ed è difficile che i greci siano mai entrati in contatto con loro, dato il loro
commercio sul Mediterraneo. Questo ci porta a dedurre che i due popoli siano i celtiberi, i
celti che vivevano nella penisola iberica. I greci però chiamavano iberes una popolazione
che viveva sul Caucaso, quindi è strano che il termine iberes sia stato poi applicato alla
penisola iberica; un ipotesi è che il Caucaso, essendo laterale rispetto ai centri propulsori di
lingua e cultura, abbia conservato a lungo stadi arcaici di lingua e tradizione, infatti è stata
rilevata una certa affinità tra il basco e alcune lingue ancora parlate nel Caucaso. Ciò fa
pensare che i baschi provengano dal Caucaso o che questi popoli abbiano un origine
comune. Il basco è attestato in forma scritta molto anticamente nei libri per i pellegrinaggi,
ad esempio il Romeo (che conduceva a Roma), il gerosolimitanum (a Gerusalemme) e lo
iacobeo (a Santiago di Compostela): erano testi guida che indicavano le strade migliori da
seguire, i posti migliori per dormire o luoghi artistici da visitare lungo il percorso. Uno di
questi è il Codex Callixtinus, degli inizi del XII secolo, che ci dice come sia abbastanza
rischioso passare nei Paesi Baschi e fornisce anche un vocabolario minimo del basco (il
basco non ha mai avuto un rapporto linguistico con il latino, non è né lingua di adstrato né
di sostrato). Sappiamo che, oltre ai celtiberi e ai baschi, nella penisola iberica c’era un terzo
popolo a noi completamente sconosciuto che utilizzava parole che per effetto di sostrato
sono entrate nel castigliano: perro-cane, zorro-volpe, cama-letto, izquierda-sinistra (il
termine riferito alla mano sinistra tende ad essere tabuizzato: il termine sinister latino non
ha praticamente continuazione in nessuna delle lingue romanze, infatti gauche fr.,
izquierda sp. e anche in italiano prima si diceva manca, da cui deriva mancino; oltre che il
lato sinistro indica anche qualcosa di pericoloso perché la Chiesa identificava la sinistra con
la figura diabolica) e manteca-burro (da cui l’italiano mantecare ossia amalgamare col
burro; i latini non avevano termini per il burro perché non lo usavano, usavano l’olio,
oleum, che continua in quasi tutte le lingue. La parola latina butirrum deriva dal greco
tramite adstrato perché grazie ai greci l’hanno scoperto, e continua in molte lingue: burro,
beurre fr., butter ingl., butter ted. Il termine non sorpassa i Pirenei perché loro lo usavano
già, e avevano anche il nome per indicarlo; in penisola iberica per l’olio dicono aceite, un
termine arabo, perché evidentemente non lo usavano, sostituendolo con il burro, e solo
con l’invasione araba nel 711 si diffonde l’uso arabo nella cucina dell’olio e quindi la parola
entra nel vocabolario).
FENOMENI DI ADSTRATO: l’influenza che hanno avuto le lingue dei popoli vicini al mondo
romano con cui esso ha intrattenuto rapporti di tipo culturale o commerciale; nella
metafora della torta si troverebbero intorno allo strato centrale del latino. Le lingue di
adstrato del latino sono 3: il greco, il celtico e il germanico.
1. ADSTRATO GRECO: l’Impero Romano aveva conquistato politicamente i territori in cui si
parlava greco (Egitto, Giordania, Asia Minore) ma non aveva mai imposto l’uso del latino;
in questi territori veniva parlato il latino dai romani che avevano incarichi pubblici o
amministrativi, e il greco dal resto del popolo. Questo perché i romani vedevano nei greci
un esempio di civiltà da seguire e nel greco una grande importanza letteraria e artistica
(infatti la letteratura latina nasce con imitazioni o traduzioni di opere greche epiche e
teatrali). Per alcune zone ristrette (Puglia e Calabria, dove c’erano ventine di comunità
greche) si parla invece di sostrato: ancora oggi ci sono 4 comunità di parlanti greci ma con
una conoscenza passiva della lingua perché le occasioni di parlare greco sono scomparse,
molte persone anziane che lo parlavano sono morte e soprattutto a causa del diffondersi
dell’italiano standard. Il linguista Rohlfs ha individuato nella variante di greco del Sud Italia
il greco dorico; di conseguenza, è emerso che queste sacche alloglotte in cui si parla greco
sono la continuazione dei coloni greci che fondarono colonie nel meridione. Quando
invasero la Grecia, i romani presero come schiavi persone di alta qualità: persone che
sapevano scrivere (per farli tradurre testi di letteratura), medici (la medicina greca era più
progredita; molte parole mediche italiane infatti derivano dal greco) e cuochi (la cucina era
più raffinata; es. già visto butirrum-burro); un altro ambito preso in considerazione era
quello culturale: schola, camera, cathedra (il senso originario era seggiola, infatti in alcuni
dialetti del Nord si dice carega). I romani presero anche molte parole legate al
Cristianesimo (perché il Cristianesimo si diffuse dalla Palestina attraverso la Siria e l’Asia
Minore, dove si parlava greco, e perché i primi vangeli in aramaico vennero tradotti in
greco): ecclesia (sia nel senso di edificio, sia di comunità di fedeli), episcopus (vescovo),
presbyter (prete, colui che faceva la messa; presbyter-prester-prestre-pretre-prete),
angelus e diabolus (figure che i pagani non conoscevano perché non avevano distinzione
tra divinità buone e cattive, gli dei a seconda della situazione si comportavano in un certo
modo; col Cristianesimo invece esiste un solo Dio, che è buono, ma per spiegare l’esistenza
del male si usano i diavoli, angeli che si sono ribellati), parabola (parola, brevi narrazioni
con cui Gesù spiegava concetti complessi) e parabolare (parlare). Ci sono poi casi difficili da
spiegare, ossia la sostituzione di termini latini molto usati con parole greche: petra (pietra,
sostituisce il latino lapis, da cui deriva lapide), colaphus (colpo, sostituisce il latino ictus),
chorda (corda, sostituisce il latino funis, da cui deriva fune) e platea (platea del teatro o
piazza, sostituisce il latino forum).
2. ADSTRATO CELTICO: alcuni termini sono stati introdotti prima dell’invasione con scambi
commerciali o culturali: bracae, camisia, carrum, camminus, caballus (vedi prima).
3. ADSTRATO GERMANICO: i confini dell’impero erano tra i fiumi Elba e Reno; al di là
c’erano i Germani, che premevano anche a Nord della Grecia. Le tribù di Germani a
contatto con l’impero avevano origine simile ma caratteristiche diverse e sono: Alemanni,
Marcomanni, Vandali, Burgundi e Goti (Visigoti e Ostrogoti). Tra romani e germani c’erano
rapporti bellici ma anche pacifici; con i tentativi di ampliamento dell’impero si fa ricorso a
mercenari germanici, pagati con i soldi versati dai ricchi romani che si volevano sottrarre al
servizio militare; di conseguenza la maggior parte dei termini di adstrato germanico
riguardano il settore militare. Abbiamo poche attestazioni scritte sulla lingua germanica e
sono di Tacito, Plinio il Vecchio e Palladio. Tacito scrisse il trattato “Germania” pur non
recandosi mai lì, ma ci andò il suocero Agricola; ci narra gli usi e costumi dei germani e in
quest’opera c’è solo un termine della lingua dei Goti: framea, un tipo di lancia usata da
loro che era diversa dalle lance romane. Grazie a Plinio il Vecchio sappiamo invece di un
uso diffuso nei germani: l’utilizzo del sapo-saponis, una pasta grassa rossa usata per rizzarsi
i capelli prima di andare in battaglia (tipo gel) per incutere timore. Palladio infine scrisse il
“De Agricoltura” in cui ci parla della vanga, un attrezzo usato dai germani ma sconosciuto
dai romani. Di tutti gli altri termini che pensiamo siano penetrati nella lingua tramite
adstrato non abbiamo attestazioni scritte e sono: war (guerra, che sostituisce il latino
bellum per motivi psicologici. La parola veniva usata più spesso da chi andava in guerra e
andavano in guerra più mercenari germani che legionari romani. Altro motivo è per
l’omofonia, ossia le parole diverse pronunciate in modo simile si cercano di eliminare:
l’ambiguità è con la parola bello; nel latino classico esisteva pulcher ma è andato in disuso
perché la declinazione era complicata), harribergo (albergo; indicava l’accampamento
militare e deriva da hari-uomini con armi e berg-casa/capanna), marka (territori di
frontiera, da cui deriva marchese), triuwa (tregua), harpa (arpa, diversa dalla lira romana),
binda (benda), sparanian (risparmiare, da cui deriva sparagnino, avaro), waidanian
(guadagnare; il significato concreto originale era mietere le spighe, se mieti le spighe
ottieni il raccolto, se ottieni il raccolto guadagni soldi), kratton (grattare), likkon (leccare),
raubon (rubare). Infine, entrarono nel latino anche alcuni termini dell’ambito dei colori:
brun (bruno, riferito al manto dei cavalli), falwa (fulvo-rossiccio, riferito sempre al manto
dei cavalli), blund (biondo, riferito al colore dei capelli) e blank (bianco; i colori nel latino
avevano una lessicalizzazione generica, bianco si diceva albus perché riconduceva all’alba,
il cielo appena illuminato da una luce chiara prima che diventi rosso; è rimasto nelle parole
alba, albedine e albume ma ha ceduto il posto a blank, il cui senso concreto è il luccicare
della spada affilata sotto il sole).
FENOMENI DI SUPERSTRATO: le lingue romanze hanno conservato la struttura morfo-
sintattica del latino nella sua evoluzione verso il volgare ma hanno acquisito un patrimonio
semantico derivante dal contatto con parlanti di altre lingue sovrapposte, le lingue dei
popoli che hanno invaso l’impero. L’impero cadde nel 476 quando l’ultimo imperatore
romano Romolo Augustolo fu deposto dal barbaro Odoacre; è una data formale perché
ormai le popolazioni barbare avevano già penetrato gli usi e i costumi romani. Romolo
Augustolo era molto giovane ed era un imperatore “fantoccio” perché il governo di Roma
era praticamente gestito da Odoacre Erulo (della tribù degli Eruli), che deteneva già il
potere militare e politico perché era il capo delle guardie del palazzo, e con la deposizione
dell’imperatore gli viene confermato il potere in modo formale quindi non fu una caduta
cruenta (Romolo Augustolo verrà mandato in esilio in Campania ma viene assassinato poco
dopo e Odoacre verrà spodestato da un altro barbaro). Il confine tra l’Elba e il Reno era già
debole ma ancora più ad Est nel III secolo in Dacia la pressione dei Goti era forte tanto da
provocare la cacciata dei romani dopo solo un secolo, nel 270. Questo perché i popoli che
vivevano nel grande territorio pianeggiante dell’Eurasia (dal Caucaso alla Cina) premevano
verso i confini dell’impero cinese dato che era ricco, prospero e pacificato, portando alla
costruzione della grande muraglia cinese per respingerli; di conseguenza questi popoli
cambiano direzione e si muovono verso Ovest spingendo le popolazioni confinanti sempre
più ad Ovest; gli ultimi che ricevettero la spinta furono i Goti che, confinando con l’Impero
Romano, lo invadono. Due popoli penetrano nell’impero stazionandosi lungo i confini, gli
Eruli e i Marcomanni, ma subirono presto anche loro la pressione di altri popoli.
1. SUPERSTRATO VANDALO, ALANO E SVEVO (V SECOLO): la prima vera ondata di invasione
fu quella dei Vandali, degli Alani e degli Svevi nel V secolo, che percorrono l’Europa
lasciando poche tracce. I Vandali provano a stanziarsi nei territori della Gallia a ridosso dei
Pirenei, poi si stabilirono per almeno un secolo nella penisola iberica, passarono lo stretto
di Gibilterra instaurando un regno vandalo in Tunisia (con capitale Cartagine) e da lì
trovarono il modo di arrivare a Roma provocando il sacco di Roma. Non ci lasciano molto
dal punto di vista linguistico se non il loro nome che diventa un’antonomasia (da nome
proprio a comune): vandalo è una persona che rovina o distrugge cose; ci lasciano anche
un toponimo, Andalusia (vandali-vandalusia-andalusia). Anche gli Alani ci lasciano pochi
toponimi, tra cui Villalan, la città degli Alani (vicino a Valladolid) e dagli Svevi rimangono 4
toponimi, ad esempio Suevos, nella provincia della Coruña, dimostrando che si stanziarono
in Galizia.
2. SUPERSTRATO VISIGOTO (V SECOLO): ci sono poi due popolazioni maggiori gemelle, gli
Ostrogoti e i Visigoti, molti affini linguisticamente e culturalmente (visigoto-goto saggio/
ostrogoto-goto brillante); gli Ostrogoti premevano ai confini dell’impero a oriente mentre i
Visigoti premevano più sul confine Nord del Danubio e del Reno. I visigoti si stanziano in
Gallia brevemente, superano i Pirenei e stabiliscono un regno visigoto in Spagna fino al 711
quando ci fu l’invasione araba. Il problema era che questi popoli conoscevano e
apprezzavano il mondo latino ma erano già cristiani: il Cristianesimo di cui parliamo è
ariano che trova in Gesù la natura umana (deriva dalla Bibbia tradotta in gotico da Wulfila),
il Cristianesimo cattolico invece si basa anche sulla natura divina di Gesù; nel 325 con il
concilio di Nicea vi è la scissione tra la dottrina ortodossa di Nicea e l’eresia ariana, che
continua a diffondersi tra i Germani. Essendo cristiani ariani, i Visigoti non potevano
convertirsi al Cattolicesimo e non potevano sposarsi con i romani; di conseguenza, non
potevano fondersi popolazioni di religioni diverse. In penisola iberica i Visigoti non si
assimilarono con i cattolici Celtiberi quindi ci fu un bassissimo apporto linguistico nelle
lingue romanze; al contrario, gli arabi permettevano agli uomini islamici disposare donne
cristiane portando all’assimilazione dei due popoli e un grande apporto arabo alla lingua. Il
superstrato visigoto ci lascia: alcuni toponimi, nomi di persona (Fernando, Ramiro, Alfonso,
Elvira), parole legate alla tessitura come haspa (rocchetto del filo) e rukka (rocca attorno
alla quale si avvolge il filo), e spiuts (spiedo, un tipo di spada usata dai visigoti). Poi, nel 589
Recaredo, re dei Visigoti, si converte al cattolicesimo; la nobiltà lo imita e cade
l’interdizione ai matrimoni misti. Un secolo dopo ci fu l’invasione araba nel 711 che spinse i
visigoti verso il Nord della penisola dove formarono i primi regni cattolici; da quel
momento inizia la Reconquista che termina nel 1492 con la caduta di Granada.
3. SUPERSTRATO BURGUNDO (V SECOLO): dopo i Visigoti entrarono nell’impero i Burgundi,
gli Alamanni e i Bavari; la vicenda dei Burgundi darà spunto a molte opere epiche della
lingua germanica tipo “i Nibelunghi” (Burgundi e Alamanni erano divisi da una
contrapposizione etnica). Nel 437 i Burgundi pagarono cara l’adesione alla politica di
Giovino e quando morì, i Burgundi furono oggetti di una feroce vendetta dell’esercito
romano guidato da Ezio e formato da mercenari Unni per cui furono sterminati; i pochi
superstiti furono deportati sul lago di Ginevra dove allargarono il loro dominio accettando
però lo statuto di federati dell’impero: era umiliante ma permetteva comunque lo sviluppo
di un’economia e una cultura. Assimilarono gli usi linguistici del latino e il territorio in cui
furono costretti a stanziarsi corrisponde oggi all’area dove si parla franco-provenzale, la
lingua di passaggio tra l’occitano (d’oc) e l’antico francese (d’oil). Il fatto che questa lingua,
conosciuta dal Medioevo, sia stata conservata fino ad oggi deriva da una forte coesione
sociale e linguistica determinata dai Burgundi, che ormai avevano lingua, cultura e usi affini
ai latini. I Burgundi ci lasciano pochissimo, ossia il toponimo Burgundia: dall’area del lago di
Ginevra si spostarono verso Lione e si stanziarono in Borgogna (Burgundia).
4. SUPERSTRATO ANGLO E SASSONE (V SECOLO): le isole britanniche erano state
conquistate da Giulio Cesare e ci fu una forte integrazione tra romani e celti ma la lingua
latina imposta dai romani fu spazzata via da Angli, Sassoni e Iuti che impongono una lingua
germanica (questa invasione è all’origine del mito di Artù). Gli Angli risiedevano nel Nord
della Sassonia, i Sassoni nel Sud della Sassonia e gli Iuti nella penisola dello Jutland in
Danimarca; mentre le invasioni viste finora erano di terra, le invasioni di queste
popolazioni furono di mare (la prima invasione con una flotta). Nel frattempo, c’era
comunque una tensione interna tra romani e celti, ostili alle forme di governo centrale, le
cui tribù si contendevano il potere causando delle guerre; in più a Nord c’erano i Pitti
(origine celtica) e gli Scoti (origine incerta) nelle Highlands che premevano. Il capo celto-
romanzo Vortigern cerca aiuto militare negli Angli, Sassoni e Iuti che però non si
accontentarono di aiutarli ma cercarono di conquistare le isole britanniche; importante fu
la battaglia di Badon Hill nel V/VI secolo perché è uno dei pochi casi in cui un’invasione
germanica viene respinta e perché il condottiero di questa battaglia è Artù: viene chiamato
Arturus Britannus, il britanno Artù, e non è definito re ma dux bellorum, condottiero; era
figlio di un importante soldato romano e di una donna celta (un celto-romano). Per almeno
50 anni le isole britanniche sono al sicuro da questi popoli fino a quando muore Artù e non
c’è più coesione tra i celto-romani; la debolezza viene sfruttata dai tre popoli germanici che
invasero definitivamente l’isola. Da quel momento l’uso del latino diminuì fino a
scomparire ma nonostante questo l’inglese è la lingua germanica più romanza perché nel
1066 ci fu l’invasione dei Normanni, che parlavano normanno (una parte dell’antico
francese), che influì molto nel lessico inglese. Dal superstrato anglo e sassone ci restano: i
nomi dei punti cardinali (prima si indicavano con il nome dei venti ad esempio tramontana-
Nord, austro-Nord Ovest, scirocco-Sud Est), battello (in francese bateau) e rada (luogo
dove si gettava l’ancora; le navi anglosassone non necessitavano per forza di un porto ma
si gettava l’ancora e si scendeva con le scialuppe o a nuoto, quindi era il punto in cui finiva
la navigazione; ne deriva l’inglese road-strada).
5. SUPERSTRATO OSTROGOTO (VI SECOLO): i Goti sono divisi in due tribù, Visigoti (che si
stanzieranno in Spagna) e Ostrogoti (in Italia); i Goti erano a Est dell’Impero Romano, in
particolare gli Ostrogoti erano più a sud e premevano sui confini dell’Impero Romano
d’oriente (con capitale Bisanzio-Costantinopoli-Istambul). Così come sui confini del Reno,
questi popoli avevano rapporti commerciali con l’impero ossia fornivano dei mercenari;
quando però la presenza degli ostrogoti inizia a diventare una minaccia, gli imperatori
romani d’oriente convinsero gli ostrogoti, anche con denaro, che c’era una terra ricca,
fertile e più facile da conquistare rispetto all’impero: l’Italia. In Italia era appena stato
deposto Romolo Augustolo dall’erulo Odoacre, che dopo appena 13 anni verrà cacciato
dall’arrivo degli ostrogoti, guidati da Teodorico, e stabiliscono il regno ostrogoto con
capitale Verona. Gli ostrogoti erano abituati ad avere a che fare con i romani, li
ammiravano e apprezzavano la cultura, la capacità giuridiche e li vedevano come un
modello da seguire per crescere. Teodorico era molto intelligente, capace e attento alle
esigenze del popolo infatti si può parlare di un regno romano-barbarico, nel quale le leggi
ostrogote non venivano imposte in modo assoluto ma vi era un compromesso con quelle
dei romani; alcuni senatori romani lo aiutarono a regnare e a creare uno stato con un
apparato giuridico sviluppato. Culturalmente non ci fu integrazione tra ostrogoti e romani
perché di religioni diverse, ma ci fu un’integrazione dall’alto, dal governo: l’aristocrazia
ostrogota lavorava insieme ai senatori romani; si rivelò comunque un fallimento perché gli
aristocratici ostrogoti consideravano i senatori romani come una limitazione alla loro
autonomia. Gli intellettuali Cassiodoro e Boezio cercarono in modo attivo di far sì che gli
ostrogoti assimilassero le caratteristiche amministrative e giuridiche dei romani ma quando
l’aristocrazia si ribella a Teodorico per far cacciare i senatori romani, verranno incarcerati
perché temeva che volessero togliergli il potere (accusa falsa). Nel carcere Boezio scrive il
“De consolationae philosophie” (La consolazione della filosofia) perché sa che verrà ucciso
e sentendosi tradito dalle persone con cui aveva lavorato, compone quest’opera; è la
prima opera allegorica: l’allegoria è un espediente retorico attraverso il quale concetti
astratti vengono resi concreti incarnandoli in una persona (il primo esempio di letteratura
allegorica, che troveremo in Dante). L’immagine astratta della filosofia diventa quella
concreta di una donna che tutti i giorni lo va a trovare per parlargli e consolarlo. Del
superstrato ostrogoto possiamo dire poco perché molti termini si confondono con
l’adstrato germanico (parole portate dai mercenari) e con il superstrato longobardo (che
cacciano gli ostrogoti e che parlano lingue affini); siamo certi però di due termini: zolla, di
terra, e tasca, non la tasca dei vestiti ma la sacca che poteva essere legata al cavallo o
portata dalle persone.
6. SUPERSTRATO FRANCO (VI SECOLO): i Franchi cacciarono dalla Francia i precedenti
popoli barbari che l’avevano occupata mentre i Longobardi fanno lo stesso in Italia;
entrambe le popolazioni non sono mai entrate in contatto con l’Impero Romano a
differenza degli ostrogoti. Erano popoli arretrati ma pagani quindi convertendosi al
cristianesimo si integrarono rapidamente con la popolazione a loro soggetta; come
avevamo già visto, nonostante avessero conquistato militarmente la Francia (terra dei
Franchi) i Franchi abbandonarono la loro lingua germanica e vennero conquistati da una
cultura superiore alla loro, quella avanzata e coesa gallo-romana (tra il VII e VIII secolo c’è
questa unione tra le due lingue che apporterà molti termini germanici alla lingua romanza;
lo vedremo ad esempio nella Chanson de Roland, un testo in lingua d’oil che contiene molti
termini germanici). In realtà i Franchi erano un insieme di tribù che intorno alla metà dal V
secolo erano stanziate in Olanda e Belgio; la tribù più importante era quella dei Franchi
Salii (Franchi abitatori del mare). Il primo spostamento franco fu nella zona tra il Somme e
la Loira (due fiumi francesi), chiamata Neustria (nuova terra); il primo sovrano fu Clodoveo
che, grazie a sua moglie, si battezza e con lui tutto il popolo diventa cristiano. I Franchi non
amavano la vita cittadina preferendo gli insediamenti rurali; infatti, le grandi città francesi
hanno toponimi celtici mentre i piccoli paesi li hanno germanici. Il superstrato franco ci
lascia: Francesco (significa franco), busk (bosco), sparwari e haigiron (sparviero e airone),
happja (ascia), krippja (greppia, luogo dove mangiano gli animali), halle (hall dell’albergo
ma anche mercato), salle (sala, in origine la casa era un’unica grande stanza, c’era una sola
salle), borde (capanna/casa malmessa; il diminutivo francese bordel significa sia il bordello
sia il rumore, con lo stesso processo in italiano da casa il diminutivo casino significa
rumore), gardo (giardino), loge (loggia; un tempo era il pergolato, luogo coperto in alto
dalla vegetazione, diventa poi la loggia, luogo scoperto ai lati ma non in alto), thwahlja
(tovaglia, in origine l’asciugamano), fauteuil (poltrona, in origine sedia pieghevole), bacòn,
gateaux (torta), flan (budino), robe (vestito; deriva da rauba-preda di caccia dalla qual si
prendevano le pelli per i vestiti), echarpe (sciarpa), fard (le donne franche si truccavano),
danser (danzare), estampir (tipo di ballo in cui si battono forte i piedi per terra da cui
deriva: l’estampida, genere lirico di danza, e stampare/stampa, perché era l’esito di un
processo che implicava una forte pressione fatta sui fogli, tipo un timbro), trescher
(trescare/imbrogliare; indicava un tipo di ballo in cui si era intrecciati) e gigue (altro tipo di
ballo). Riguardo la gestione dello stato nasce una nuova forma di organizzazione politica, il
feudalesimo; molti termini legati al feudalesimo quindi derivano dal superstrato franco:
marquis (marchese, deriva da marka-territorio di frontiera ed è un nobile che governa un
territorio di frontiera; le parole conte e duca invece hanno origine latina-comites e dux),
beròn (barone, nobile di alto rango; deriva da ber-coraggioso), gars (apprendista cavaliere,
da cui deriva garçon), camerlengo (la persona più vicina al re), siniscalco (funzionario di
alto grado; skalk significava servitore inteso però come funzionario, una persona che ha
una funzione o un compito), mareskalk (skalk vuol dire funzionario, il termine mare indica
in germanico il cavallo; un residuo di questo termine lo troviamo nelle traduzioni di incubo,
letteralmente “dormo sopra”, in inglese e in francese: nightmare e cauchemar. Nightmare-
la cavalla della notte- perché nel mondo celtico c’era una dea-cavalla temuta dai contadini
di notte perché infastidiva i cavalli intrecciando i loro crini; da questa tendenza ne esce
l’uso del ferro di cavallo come portafortuna, si metteva sulla porta della stalla per
minacciare la dea-cavalla. Cauchemar-la cavalla che ti dorme sopra- coniuga sia questa
credenza celtica sia la sensazione di un incubo, di sentirsi opprimere il petto. Questa
concezione di incubo la troviamo nel quadro “l’incubo di Fussli” che rappresenta una
persona dormiente con sopra al petto un diavoletto e sullo sfondo il muso di un cavallo.
Mareskalk è la persona che si occupa dei cavalli, e i cavalli ai tempi erano di estremo lusso
quindi il grado di questa persona era importante ed elevato; da mareskalk poi diventa
marechal/maresciallo che designava uno dei nobili con maggiori poteri. Nel periodo di
Enrico II, nella metà del XII secolo, troviamo la figura di Guglielmo il maresciallo, uno dei
migliori cavalieri del secolo. Da mareskalk ne deriva anche il termine maniscalco, colui che
mette i ferri agli zoccoli dei cavalli), feudo (territorio affidato ad un feudatario che il re
riteneva adatto a governare. Il sistema feudale consisteva nel fatto che il re era padrone di
tutti i terreni e affidava le varie parti ai feudatari, alla morte i terreni tornano al re che li
affida ad altri; in cambio il re voleva auxilium, aiuto militare quindi fornire uomini
equipaggiati per eventuali guerre, e consilium, il re feudale non è un sovrano assoluto ma
prendeva decisioni dopo i consigli dei feudatari). Il termine ban dà vita a molte parole:
bando (disposizione emanata dal re in un territorio e diffusa dal banditore, l’attuale legge),
bandiera (immagine concreta della collettività che sottostava al barone o al re), bandire
(allontanare, l’effetto di un bando ovvero l’espulsione di una persona dalla collettività
perché ha commesso un reato), bandito (colui che è stato allontanato; oggi è un
fuorilegge), bandita (in molti toponimi troviamo questo nome; era una terra che dopo un
bando veniva concessa all’uso comune), mettere a bando (rendere pubblico e comune),
abbandonare (era nato un nuovo sistema agricolo, la rotazione triennale, per sfruttare la
terra al meglio: il terreno veniva diviso in tre parti, in tre campi con scopi diversi, e ogni
anno le funzioni ruotavano. Un campo destinato al grano assorbiva molto nutrimento dal
terreno, l’altro per i legumi forniva nutrimento al terreno perché dopo averli raccolti
venivano fatte marcire le piante sulla terra, e l’ultimo lasciato a bandòn, abbandonato, a
maggese, dove tutti potevano far pascolare gli animali), banale (qualcosa al servizio della
comunità; ad esempio il forno banale e il mulino banale, erano molto costosi quindi
c’erano quelli comuni per tutti. Oggi il termine indica qualcosa di comune, non originale).
Essere cavaliere era molto costoso perché i cavalli da guerra richiedevano particolari
strategie e inoltre, per non farlo stancare, i cavalieri andavano sul luogo di guerra con un
cavallo di qualità inferiore tenendo con la mano destra le briglie di quello da guerra (da
qua deriva destriero); quindi, un cavaliere doveva avere almeno due cavalli e un aiutante,
un giovane aspirante cavaliere che lo aiutava negli spostamenti portando armi e corazza.
Dal mondo bellico ci arrivano i termini: haste (lancia lunga in legno con la punta di metallo;
trapassava i corpi anche attraverso un armatura e si posizionava in un apposito punto sotto
l’ascella). Per i cavalli menzioniamo due innovazioni: le staffe per appoggiarci i piedi, e il
morso che legato alle labbra dei cavalli faceva sì che obbedissero subito, dardo (freccia
usata con la balestra), fleche (freccia), giavellotto (lancia poco nobile), elmo e gant (guanto,
per proteggere le ferite alle mani). Tra gli aggettivi invece ricordiamo ricco (che ha molti
beni, oggetti o gioielli, non denaro), laido (riprovevole, inaccettabile riferito alla moralità) e
snello (in origine veloce, oggi magro), mentre riguardo i colori rimane bleu (blu; né il greco
né il latino danno un nome al blu, anche il termine latino che sembra vicino, celestis, non
indicava il colore celeste ma era un aggettivo riferito agli dèi. Il blu nel Medioevo era un
colore difficile da applicare ai vestiti perché necessitava di un fissante, l’allume, che era
costoso e raro).
7. SUPERSTRATO LONGOBARDO (VI SECOLO): i Longobardi erano molto simili ai Franchi
linguisticamente ma erano molto arretrati culturalmente; arrivano in Italia nella metà del
VI secolo guidati da Alboino e spazzano via il regno romano-barbarico dei goti. Mentre
“Franchi” voleva dire “uomini liberi” o indipendenti (franco-libero), “Longobardo” vuol dire
“dalla lunga barba”; si convertono al cristianesimo rendendo facile l’assimilazione con i
romani e la prima città conquistata è Milano ma la sede del sovrano diventa Pavia. Ci
lasciano i toponimi che finiscono in -engo o che hanno all’interno -fara/-braida; avevano
poi una legislazione raffinata, ricordiamo l’editto di Rotari, un re longobardo: il diritto
romano prevedeva un rapporto indiretto tra le parti in causa infatti vi era un giudice che
attribuiva colpe e ragioni (usato ancora oggi in quasi tutto il mondo); il diritto longobardo
prevedeva un rapporto diretto tra le parti in causa quindi se io faccio un torto a uno,
questa persona può rifare il torto a me. Da questo deriva il termine faida (farsi giustizia da
soli) e guidrigildo (un danno fisico poteva essere compensato con una somma di denaro);
ricordiamo poi strale (freccia), melma (fango spesso), scricciolo (uccello piccolo), zecca e
stamberga (casa, composto da staim-pietra e berg-casa). Come detto, la differenza con la
lingua dei Franchi è minima: il franco balco diventa palco (qualcosa di elevato e aperto), il
franco balla diventa palla e la parola franca banca (nel senso di asse di legno) è detto dai
longobardi panca (i Franchi usavano la banca/asse di legno per appoggiare i soldi da dare
in prestito per cui diventa in italiano la banca ma anche il banco della scuola. Il termine
longobardo panca invece diventa panchina, l’asse in legno su cui ci si siede). Riguardo il
corpo sono longobardi i termini: stinco, strozza (gola, da cui deriva strozzare/strangolare),
schiena, guancia, zanna, zazzera (capelli lunghi) e skos (pancia/grembo; in latino si diceva
grembo, da cui deriva grembiule, mentre in longobardo si diceva skos, da cui deriva
skosale-grembiule nei dialetti nordici). Tra i verbi ricordiamo bisticciare, scherzare, bussare,
spiare e tra gli aggettivi guercio (privo di un occhio), lesto (veloce) e gramo (in origine
qualcosa di cattivo al gusto, oggi è qualcosa di brutto, una persona cattiva e negativa).
8. SUPERSTRATO SCANDINAVO (IX-X SECOLO): l’ultima grande invasione germanica è
quella dei germani Scandinavi, abili navigatori. Intorno al VIII secolo iniziarono ad
allontanarsi dalla Scandinavia in 4 direzioni diverse:
-1 verso Sud-Est penetrando nell’odierna Russia, la tribù Varega che arrivò sulle coste del
nord con delle navi ed entrò nel territorio russo attraverso i fiumi; le navi erano grandi ma
leggere perciò quando le acque dei fiumi erano troppo basse, venivano portate in spalla
dai vareghi fino al prossimo fiume. A Mosca commerciavano l’ambra, che aveva virtù
mediche e funzione di talismano, con i bizantini; i commerci arrivavano da Mosca fino al
Mar Nero, la cosiddetta via dell’ambra.
-2 verso Ovest occupando le isole Far Oer, l’Islanda e da qui alcuni piccoli gruppi
raggiunsero la Groenlandia; letteralmente “terra verde” perché non c’era ancora stata la
piccola glaciazione quindi c’erano buone condizioni climatiche e si poteva coltivare. Da lì
raggiunsero per primi le coste del nord America, senza stanziarsi, dove commerciavano con
le popolazioni locali; con la piccola glaciazione nel XII secolo (il clima si raffreddò molto) i
raccolti scarsi portarono a carestie ma le piccole comunità di Scandinavi in Groenlandia
decisero di rimanere lì morendo di stenti o freddo.
-3 verso Sud, circumnavigando la penisola iberica arrivando in Sicilia
-4 verso il Nord della Francia: questo gruppo non cercava un luogo dove stanziarsi
stabilmente ma saccheggiava i territori sotto il dominio dei Franchi; questo fino agli inizi
del X secolo quando Carlo il semplice, stanco delle scorrerie, prova a renderli stanziali,
alleati e inoffensivi. Offre al capo scandinavo Rollone una terra, la Normandia (perché li
chiamavano Normanni-uomini venuti dal Nord), e una donna, Giselle, sua figlia. I Normanni
si convertono presto al cristianesimo assimilandosi perfettamente con i Franchi e smettono
di parlare la loro lingua germanica in favore della lingua galloromanza dei Franchi; il ducato
di Normandia diventa molto potente e nel 1066 una spedizione normanna, guidata dal
figlio del duca di Normandia Guglielmo il conquistatore, entra nelle isole britanniche
sconfiggendo gli anglo-sassoni nella battaglia di Hastings. Questo segna il ritorno di una
lingua romanza nelle isole britanniche, l’antico francese/langue d’oil, fino almeno al 1250;
si era comunque in una situazione di trilinguismo: le persone colte e il re parlavano inglese,
antico francese e latino (infatti l’inglese è la lingua germanica più romanza, oltre il 60% dei
termini ha origine latina ma la struttura morfo-sintattica è germanica). La battaglia di
Hastings viene rappresentata sull’arazzo “Tapisserie de Bayeux”, messo nella navata
centrale della chiesa di Bayeux (vicino ai luoghi dello sbarco in Normandia), alto un metro e
lungo 70 metri nel quale vengono esposti gli avvenimenti della battaglia, ad esempio la
partenza con le navi o il fatto che portarono un fortino in legno smontabile per avere una
difesa appena arrivati sulla terraferma.
La maggior parte dei capolavori della letteratura medievale è in lingua anglo-normanna,
una variante della langue d’oil parlata nei territori britannici e francesi del regno di Enrico II
Plantageneta. Se gli Scandinavi ci hanno dato molto storicamente (ad esempio i Normanni
di Sicilia con le architetture), hanno lasciato poco dal punto di vista del superstrato (termini
legati alla navigazione): bitta (la bitta dove vengono legate le navi in porto), equipe (gruppo
di persone presenti sulla nave/equipaggio; da qui deriva equiper-equipaggiare una
nave/prepararla per un viaggio) e i toponimi che finiscono in -bec (Balbec, città inventata
da Proust nella “Ricerca del tempo perduto” sulla base del fatto che le città scandinave
terminano in -bec) o che contengono -torp.
9. SUPERSTRATO SLAVO (X SECOLO): non fu una vera e propria invasione quella degli slavi
ma una lenta penetrazione nei confini dell’impero; già attorno al VII secolo si erano
stanziati nella Pannonia (Ungheria) e da lì erano penetrati nell’Illiricum (ex Jugoslavia). Una
vera offensiva slava vi fu intorno all’anno 1000 quando cercarono di entrare nei territori
dell’attuale Germania (ormai l’Europa era già abbastanza definita): l’imperatore del Sacro
Romano Impero era Ottone di Brunswick, che aveva un’ottima struttura statuale, giuridica
e militare, e vede gli slavi sconfitti nella battaglia di Lechfield; i pochi superstiti slavi
vennero ridotti in schiavitù. L’unica parola che ci arriva da loro è proprio “slavo”,
germanizzato in sklave e latinizzato in sclavus (schiavo, persona priva di diritti civili); da
sclavus deriva poi “ciao” (un’evoluzione dell’Italia del Nord-Est): dalla forma “schiavo
vostro” (forma di cortesia) diventa sciao (sчao) e poi ciao.
10. SUPERSTRATO ARABO (VIII SECOLO): gli arabi sono originari di Deccan, zona desertica
sulle coste orientali del Mar Rosso, e sono una popolazione arretrata, nomade e politeista.
Trovarono una guida che li fece superare la loro arretratezza nel 570 quando nasce
Maometto a La Mecca; faceva parte delle carovane di mercanti che andavano verso la
Palestina per acquistare e vendere beni. In Palestina entra in contatto con la religione
ebraica e quella cristiana rendendosi conto dei vantaggi di una religione monoteista; sposa
Kadja, la vedova di un ricco mercante, e inizia a sostenere lo sviluppo della nuova religione
dell’Islam (che riprende tratti ebraici e cristiani come base). Maometto ha una visione nella
quale gli viene dettato il Corano e cerca di diffonderlo a La Mecca ma viene cacciato a
Medina (ritornerà poi trionfalmente a La Mecca). L’espansione degli arabi viene detta
tenaglia islamica ed è verso Nord e verso Ovest: a Nord senza successo con l’Impero
d’oriente e Bizantino, a Ovest invadono il Nord Africa dove c’erano popoli politeisti. Nel
711 il capo islamico berbero Tariq passò lo stretto di Gibilterra con un piccolo esercito e
invase la Spagna visigota (non integrata perché i visigoti erano prima ariani; gli uomini
musulmani potevano invece sposare donne non musulmane); il luogo dove sbarcò ha
preso il suo nome, Gabal-Tariq (Gibilterra) in arabo “il monte di Tariq”. Nella Spagna
islamica, Al-Andalus, si crearono le condizioni per far convivere tre culture diverse:
cristiana, ebraica e araba (durante i loro spostamenti avevano conosciuto la cultura greca e
portarono queste conoscenze in Europa, ad esempio traduzioni di opere filosofiche prima
dal greco all’arabo e poi dall’arabo al latino). Gli arabi invasero gran parte della Spagna con
eccezione del Nord dove si erano rifugiate le popolazioni cristiane dei visigoti; questo
perché erano terre non interessanti per gli arabi dato che erano fredde e montuose; la
conseguenza è che la Spagna risulta divisa in due: a Sud gli arabi, a Nord i cristiani (lungo
questo corridoio tra le due parti si sviluppa il cammino di Santiago de Compostela). Da
quelle terre del Nord parte la Reconquista che termina nel 1492 con la caduta di Granada;
è l’anno della fine del Medioevo per questo motivo, non tanto per la scoperta dell’America
(Isabella di Castiglia diede pochi soldi a Colombo per la spedizione), ma perché con la
caduta di Granada l’Europa raggiunge unità linguistica e religiosa. La lingua araba arriva in
Europa in due modi: una nel 711 attraverso la penisola iberica, l’altra tramite l’Italia
meridionale in varie riprese (Federico II creerà un insediamento musulmano a Lucera in
Puglia); gli arabi che occuparono queste zone non sono veri e propri arabi ma sono
magrebini arabizzati (venivano chiamati berberi, sinonimo di barbari, perché i greci
chiamavano così i popoli che non parlavano la loro lingua). L’espansione araba implicava
l’adesione all’Islam, saper leggere il libro sacro (Corano) e imparare l’arabo; il problema è
che le popolazioni berbere, come i latini, non avevano l’articolo e non ne capiscono
l’utilizzo nelle lingue che lo hanno. L’arabo ha AL o EL che ha valore determinante ma non
si possono declinare (non c’è genere e numero) e ci permette di distinguere la provenienza
delle parole arabe, se dalla penisola iberica o dal Sud Italia: gli invasori del Sud Italia
venivano dall’Egitto o dalla Libia e sapevano l’arabo per cui conoscevano l’uso di AL e EL
come determinanti; gli invasori iberici venivano dal Marocco, avevano imparato da poco
l’arabo e non conoscendo l’uso di quei determinanti pensavano che facessero parte della
parola (per questo molte parole spagnole iniziano per A- o AL-, ad esempio algodon-cotone
e azucar-zucchero). Gli arabi di Sicilia avevano chiamato un monte “Gabal” pensando che
fosse un nome proprio quando in realtà significa monte; oggi è Mongibello (monte Monte).
Derivano dall’arabo i toponimi in -guad (Guadalquivir, fiume spagnolo; guad significa fiume
e ne deriva l’italiano guado: parte bassa del fiume dove si attraversa a piedi senza ponti);
gli arabi apprezzavano la fertilità dei terreni iberici dato che provenivano da zone
desertiche quindi sfruttavano al meglio l’acqua; il sistema di irrigazione arabo prevedeva
pozzi a partire dai quali si distribuiva l’irrigazione in piccoli canali circolari. Dal meccanismo
di tirar fuori l’acqua dal pozzo per distribuirla deriva il detto “dar la vuelta a la noria” (fare
un lavoro noioso), perché un animale veniva legato alla noria e girando intorno con un
sistema di pale si ricavava l’acqua. Erano anche abili agricoltori ma trattavano
un’agricoltura diversa (coltivazione da oasi) basata su tre livelli: gli alberi alti tipo palme da
dattero che impediscono ai raggi solari di arrivare agli strati sottostanti, poi gli agrumi e i
melograni, protetti dalle palme, che a loro volta ombreggiano l’orto.
-Ricordiamo i termini: alcachofas (carciofi, nel dialetto ligure ardiciocche), arroz, alfalfa
(pianta usata come cibo per animali), azucar, algodon, naranja [naragna], limon, aceite (gli
iberici non usavano l’olio ma la manteca finché non arrivarono gli arabi), jazmin
(gelsomino) e azahar (fiore d’arancio, da cui il siciliano zàgara [scompare la A perché
sapevano l’utilizzo] ossia il profumo derivato dai fiori d’arancio).
-Altri settori influenzati sono quelli della casa: barrio (centro murato della città), azulejo
(ceramica dipinta d’azzurro tipica delle case arabe nella penisola iberica, usata sia per gli
interni sia per il patio, il giardino), alcoba (alcova, camera da letto dei nobili), jarra (giara),
taza (tazza) e tambor (tamburo);
-dell’abbigliamento: babuchas (babbucce, pantofole), aljuba (algiuba, veste lunga usata
dagli arabi maschi. Nella gran parte delle lingue romanze si riferisce alla parte superiore
dell’abbigliamento, il giubbotto, perché in Occidente l’uomo non usava vesti lunghe quindi
era una novità; i francesi invasero Gerusalemme, vissero a contatto con gli arabi e
acquisirono questo termine come jupe-gonna, è l’unico termine francese preso in modo
diretto dagli arabi) e recamar (ricamare);
-nel mondo mercantile: tarifa (tariffa; Tarifa è una città spagnola dove si pagava la tassa
d’ingresso per entrare in Spagna), aduana (dogana), almacen (magazzino), arsenal
(arsenale), quintal (quintale) e alcazar/cassero (hanno etimologia latina castrum=castello, e
viene assimilato dall’arabo csar=castello, da cui derivano il termine spagnolo alcazar,
castello, e l’italiano cassero, castello di poppa delle navi/la parte coperta);
-riguardo i colori: azul (l’azzurro del lapislazzulo, una pietra preziosa [lapis azul], che è il
colore dell’azulejo), carmesì (vermiglio/porpora. Questo colore si fa a partire da un
mollusco di una conchiglia, estratto per essere lavorato, che sembra un verme; vermiglio
letteralmente è “piccolo verme” e nell’arabo c’è stato lo stesso processo perché kerm
voleva dire verme e kermisi era piccolo verme) ed escarlata (scarlatto. La tinta più utilizzata
per stampare le stoffe attraverso stampi di legno; il termine latino era textum sigillatum-
tessuto stampato da cui deriva l’arabo siquillat e poi escarlat);
-l’ambito scientifico e dei numeri (prima si usavano i numeri romani, difficili per operazioni
matematiche; i numeri arabi avevano un vantaggio su tutti, il numero Zifr-zero, che
permetteva calcoli negativi; da zifr deriva cifra): algebra, zenit (punto in cui il sole è
perpendicolare), nadir (opposto dello zenit), azimut (termine di astronomia marittima),
alchimia (chimica), alambicco (strumento per condensare le essenze oleose delle piante) e
alcol;
-infine ci sono mezquin (piccolo/giovane. Uno dei romanzi cavallereschi principali del 1400
è Il Guerrin Meschino, Guerrino il Giovane; si passa dal concreto all’astratto, se sei piccolo
sei debole e fragile- in italiano sei un meschino) e raha (palmo della mano; non entra con
questo significato nell’italiano ma diventa racchetta, es. da tennis, che si tiene in mano).
VOCALISMO (FOGLI STAMPATI)
CONSONANTISMO (FOGLI STAMPATI)
MORFOLOGIA E SINTASSI, I SOSTANTIVI: il latino era una lingua declinata composta da 5
declinazioni, ognuna delle quali aveva 6 casi: nominativo (soggetto), genitivo (compl di
specificazione), dativo (compl di termine), accusativo (compl oggetto), vocativo
(invocazione) e ablativo (tutti gli altri complementi, retti da preposizioni dato che era anche
una lingua preposizionale). Le prime 3 declinazioni sono più antiche e contengono la
maggior parte delle parole mentre le ultime 2 sono nate più tardi e contengono poche
parole ma comunque molto usate, ad esempio dies (giorno) e res (cosa).
Nella I declinazione troviamo sostantivi maschili (molti meno, es. agricola) e femminili (la
maggior parte, es. rosa) che terminano in A; per questo oggi in italiano se una parola
finisce in A pensiamo che sia femminile. Nella II declinazione ci sono per lo più sostantivi
maschili in US, ma anche femminili o neutri in UM; col tempo sia le S sia la M non si
pronunciano e per fenomeni vocalici diventano parole italiane in O (lupus-lupu-lupo/linum-
linu-lino), quindi pensiamo che le parole che finiscono in O siano maschili. Nella III
declinazione troviamo maschili, femminili e neutri senza una terminazione fissa, ma di
solito i neutri finiscono in AL (animal), AR (calcar) o E (mare).
RIDUZIONE DEI GENERI A 2: nelle lingue romanze non si sa se trattare i neutri come
maschili o femminili, ad esempio la parola mare diventa femminile in francese, provenzale,
catalano e rumeno, ma maschile in italiano e castigliano (prima era femminile in spagnolo).
In questo caso si è ragionato per opposizione: il mare è l’opposto della terra (f.) quindi
deve essere maschile/il mare è l’opposto del cielo (m.) quindi deve essere femminile.
I sostantivi neutri al nominativo e accusativo plurale terminano in A, che ricorda il
femminile, quindi le parole neutre usate soprattutto al plurale tendono a diventare
femminili (opus-opera); nel francese e nel castigliano tutti i neutri plurali in A diventano
singolari, oevre/obra). In altri casi la differenza della terminazione viene mantenuta quindi
il singolare (brachium) diventa maschile (braccio) e il plurale (brachia) diventa femminile
(braccia). Ultimo caso è la duplicazione ossia due significati diversi per singolare e plurale:
in francese brachium dà bras (braccio) e brachia dà brasse (bracciata di nuoto).
RIDUZIONE DELLE DECLINAZIONI: scompaiono la IV e V declinazione e con esse anche
parole molto usate come res e dies che non hanno seguito nelle lingue romanze (da dies
passa a diuturnus a giorno).
-La I declinazione si specializza come femminile e accoglie termini femminili di altre
declinazioni adattandoli a una terminazione in A: nurus (della IV) diventa nura (nuora)/
socrus (della IV) diventa socra (suocera). I pochi maschili presenti vengono sostituiti da
neoformazioni: agricola diventa contadino/ nauta diventa marinaio.
-La II declinazione si specializza come maschile e accoglie termini maschili in US e quelli
neutri in UM di altre declinazioni; i femminili presenti diventano maschili, ad esempio i
nomi di piante e alberi (in latino sono femminili perché generano frutti, come la donna):
populus (f.) diventa populus (m.) che sarà pioppo.
-Gli imparisillabi ad accento fisso della III declinazione sono resi parisillabi (stesso numero
di sillabe tra nominativo e genitivo, es. collis-collis parisillabo, opus-operis imparisillabo):
mons-montis diventa montis-montis. Il genere degli imparisillabi ad accento fisso con
terminazione in OR è diverso nelle lingue romanze: color-coloris diventa maschile in
italiano e spagnolo ma femminile in francese (la couleur) e lo stesso con amor e dolor.
-Gli imparisillabi ad accento mobile (imperàtor-imperatòris) della III declinazione
conservano una loro declinazione autonoma in antico francese e antico provenzale.
CONSERVAZIONE DELLE DECLINAZIONI IN ANTICO FRANCESE E ANTICO PROVENZALE:
DECLINAZIONE BICASUALE: queste due lingue conservavano solo 2 casi nelle declinazioni, il
nominativo (cas soujé) e l’accusativo (cas régime, che implicava tutti i complementi con
delle preposizioni).
-I declinazione, solo femminili e deriva dalla prima latina: nominativo e accusativo singolari
sono uguali e nominativo e accusativo plurali sono uguali:
sing. latino -> capra (nom) capram (acc); sing. antico fr. -> chevre (nom) chevre (acc)
plur. latino -> caprae (nom) capras (acc); plur. antico fr. -> chevres (nom) chevres (acc)
-II declinazione, solo maschili e deriva dalla II e III latina: è un modello a chiasmo dove il
nominativo singolare è uguale all’accusativo plurale e l’accusativo singolare è uguale al
nominativo plurale:
sing. latino -> murus / murum; sing. antico fr. -> murs / mur
plur. latino -> muri / muros; plur. antico fr. -> mur / murs
sing. latino -> montis / montem; sing. antico fr. -> monz / mont
plur. latino -> montes / montes; plur. antico fr. -> mont / monz
-III declinazione, solo maschili e deriva dalla III latina di imparisillabi ad accento mobile: c’è
differenza tra nominativo e accusativo singolare ma non tra i plurali:
sing. latino -> latro / latronem; sing. antico fr. -> laire / lairon
plur. latino -> latrones / latrones; plur. antico fr. -> lairons / lairons
Questa declinazione acquisisce anche parole germaniche che vengono adattate alla
struttura ad esempio ber-beròn, gars-garçon o fel-felòn.
La declinazione bicasuale verrà conservate in queste lingue fino a metà del ‘300.
CONSERVAZIONE DELLE DECLINAZIONI IN RUMENO: DECLINAZIONE BICASUALE CON
ARTICOLO AGGLUTINATO: il rumeno è l’unica lingua romanza che mantiene un sistema
bicasuale, anche se elementare. Nel latino non c’erano gli articoli perché le lingue molto
determinate (quelle con i casi) non hanno bisogno di articoli, che servono nelle lingue poco
determinate per togliere le ambiguità. Gli articoli in rumeno sono presi da un pronome
personale latino: illa, ille, illud (quello, da cui deriva in italiano l’articolo lo e il pronome lo),
e vengono agglutinati alla fine del sostantivo; quindi si declina sia il sostantivo sia l’articolo.
-I declinazione, solo femminile e deriva dalla prima latina:
capra->capra (nom sing); capram->caprei (acc sing);
caprae->caprele (nom plur); capras->caprelor (acc plur)
-II declinazione, solo maschile e deriva dalle II e III latina:
dominus->domnul (nom sing); dominum->domnului (acc sing)
domini->domnii (nom plur); dominos->domnilor (acc plur)
MORFOLOGIA E SINTASSI, GLI AGGETTIVI (COMPARATIVO DI MAGGIORANZA E
SUPERLATIVO ASSOLUTO): in latino l’aggettivo aveva due classi, la prima, con una
declinazione simile alla I e II dei sostantivi, e la seconda, simile alla III del sostantivo; quindi,
gli aggettivi si comportavano come il sostantivo, ma non il comparativo di maggioranza e il
superlativo assoluto.
Comparativo di maggioranza: in latino era espresso in modo sintetico e aveva una
declinazione a parte (altus -> altior m/f – altius neutro); la semplificazione avviene usando
delle risorse già presenti nella lingua e in questo caso era necessario per evitare una
pronuncia complicata di alcuni termini (equus diventava equuior con 4 vocali di seguito). Si
passa dalla forma sintetica alla forma analitica utilizzando “magis quam” o “plus quam”
(che riprende il comparativo di minoranza “minus quam” e di uguaglianza “tam quam”); da
plus deriva più (it), plus (fr) e prus (sardo) mentre da magis deriva más (sp), mai (rum) e
mes (catalano).
Superlativo assoluto: veniva espresso in modo sintetico con una declinazione a parte
(issimus, issima, issimum) e viene semplificato con le forme analitiche “multum” e “trans”;
da multum deriva molto (it), mucho e muy (sp) e mult (rumeno) mentre da trans deriva
très (fr). Solo dal 1200 con la filosofia di Tommaso d’Aquino si inizia ad usare la forma in
issimus che si alternerà alla forma analitica. Ci sono comunque delle eccezioni per questi
gradi di aggettivi che hanno una forma diversa dall’aggettivo di partenza: buono-migliore-
ottimo, cattivo-peggiore-pessimo, grande-maggiore-massimo, piccolo-minore-minimo.
MORFOLOGIA E SINTASSI, I VERBI: il sistema verbale latino consisteva in 4 coniugazioni
verbali con forma attiva e passiva; la forma passiva era sintetica quindi con una
coniugazione a parte (amaris: sei amato). Esistevano tuttavia forme analitiche per il
passato remoto passivo (amatus sum: fui amato) e da qua si sviluppa la semplificazione
verso la forma analitica: verbo essere + participio passato (sum amatus: sono amato).
Un’altra particolarità del sistema verbale latino era la presenza dei verbi deponenti (di
aspetto passivo ma con valore attivo) e semideponenti (di aspetto in parte passivo e attivo
ma con valore sempre attivo), che vengono sostituiti da neoformazioni, ad esempio loquor
che viene sostituito da parabolare/fabulare.
INNOVAZIONI:
1)PARTICELLA AFFERMATIVA: in latino non esisteva ma si usavano altre forme di
affermazione legate alla struttura sintattica (vuoi uscire? voglio); la creazione della
particella affermativa è a partire da elementi già esistenti:
-sic (così), da cui deriva sì italiano e spagnolo
-hoc (questo), da cui deriva oc in antico provenzale
-hoc ille (questo lui), da cui deriva oil in antico francese e oui in francese.
La particella affermativa è importante perché Dante nel De Vulgari Eloquentia classifica le
lingue più importanti del 1300 chiamandole in base al modo in cui dicevano sì: lingua del sì,
langue d’oc e langue d’oil (da qui deriva l’aggettivo oitanico, che riguarda la langue d’oil).
2)ARTICOLO DETERMINATIVO E INDETERMINATIVO: in latino non c’era perché essendo una
lingua molto determinata non era essenziale. Il processo di creazione dell’articolo
determinativo si basa su:
-ille (quello), per l’italiano (il/lo), francese (le), provenzale (le), castigliano (el) e rumeno (gli
agglutinati a, ei, le, lor, lui, i)
-illum (quello, neutro), per il portoghese (o)
-ipse (stesso), per il sardo (su)
Per l’articolo indeterminativo si scelse di usare l’aggettivo numerale unus-una, con
un’inevitabile ambiguità.
3)NEOFORMAZIONE DEL FUTURO: il latino aveva un futuro sintetico ma creava confusione
per tre motivi: le terminazioni tra le 4 coniugazioni non erano omogenee (-abo ed -ebo
sono simili, -am e -iam sono simili), la prima coniugazione futura si confondeva con
l’imperfetto (amabo-amerò/amaba-amavo) e la III e IV coniugazione futura era uguale a
quella del congiuntivo presente (legam-leggerò/che io legga). Di conseguenza nel latino si
usava poco il futuro sintetico preferendo perifrasi verbali, che erano molto usate:
habeo+infinito (ho da…), debeo+infinito (devo…) e volo+infinito (voglio…).
Esempi con cantare: cantare habeo (l’ordine delle parole non aveva importanza in latino)
diventa cantarào e canterò; questo processo vale per l’italiano, antico francese, antico
provenzale, spagnolo e portoghese. Il sardo parte da debeo cantare per arrivare a depo
cantare, mentre il rumeno utilizza volo cantare che diventa voi cinta.
4)CREAZIONE DEL CONDIZIONALE: nel latino non esisteva il tempo verbale del
condizionale; usavano il periodo ipotetico che aveva tre tipi ed era molto complesso. Il
condizionale è considerato come un passato nel futuro (se piovesse prenderei la macchina:
prima prendo la macchina) quindi si è deciso: infinito seguito dal passato
habeo/debeo/volo. Dato che i verbi avevano due passati (habebat e habui) la scelta era
libera: francese, portoghese e spagnolo scelsero habebat quindi cantare habebat diventa
“canterait” e “cantarìa”; l’italiano scegliendo habui ha: cantare habui, da cui “canterei”. In
Italia fino al XV secolo c’è esitazione tra le due forme e ancora oggi nei dialetti italiani del
Nord-Est si utilizza la forma cantarìa. Il portoghese invece conserva una memoria della
forma originaria della perifrasi quando si inserisce un pronome: dirìa (direi) e dir-se-ìa (si
direbbe).
5)NEOFORMAZIONI: create soprattutto a partire da pronomi e aggettivi dimostrativi: ab
hoc (avec in francese), ecce hoc (ciò in italiano e ce in francese), ecce ille (ici in francese),
per hoc (però e pero in spagnolo), ecce hic (qui e aquì in spagnolo), ecce hac (qua e acà in
spagnolo), hanc oram (ancora ed encore in francese), ad satis (assai e assez in francese) e
in simul (assieme ed ensemble in francese).
IL GLOSSARIO DI REICHENAU: glossare significa spiegare il significato di una parola
attraverso un’altra e si può rendere tramite la sua traduzione in lingua diversa o registro
diverso oppure con tante parole che ne spiegano il significato; può essere interlineare (la
glossa sta sopra la parola sconosciuta) o marginale (le glosse stanno ai lati). I glossari erano
volumi che raccoglievano tutte le glosse quindi sono simili ai nostri dizionari; uno di questi
è il glossario di Reichenau, di cui ne abbiamo un manoscritto. È del VIII/IX secolo ed è
conservato nella biblioteca di Karlsruhe; proviene dal monastero di Reichenau ma non
stato scritto lì bensì nel monastero di Corbie (in Piccardìa, nel Nord della Francia) da un
autore del posto. Sono 3152 glosse che traducono dal latino classico a quello volgare (tipo
dizionario monolingue) ed è diviso in due parti:
1. Sono glosse delle parole della Bibbia in ordine di apparizione, utile per i monaci che
dovevano studiarla tutta; un manoscritto è composto da tanti fascicoli/quaderni (4 fogli)
legati tra loro, ogni fascicolo viene dato a un copista affinché lo copi e in questo modo si
hanno tante copie dello stesso manoscritto. Una conseguenza è che è stato riassemblato
male infatti inizia con la Genesi, arriva fino alla seconda parte del libro dei Maccabei e
continua con il nuovo testamento; finito il secondo testamento ritorna alla seconda parte
dei Maccabei.
2. Le stesse glosse della prima parte sono in ordine alfabetico ed era utile per i sacerdoti
che prendevano parti della Bibbia per fare l’omelia.
Sappiamo che l’autore era del Nord della Francia, dell’area oitanica, perché ha glossato
parole che non avrebbe tradotto un autore di altre zone (Italia, Spagna, Sud della Francia)
perché si capivano benissimo e venivano usate: dare (lat.) viene glossato in donare (oil) che
diventa donner in francese (un italiano non avrebbe glossato dare perché lo conosceva);
arena glossato in sabula che diventa sable; uva glossato in raccemo che diventa raisims;
vespertiliones (pipistrello; deriva da vesperus-sera, vipistrello, pipistrello) glossato in
calvasorices (topo calvo anche se calva deriva dal celtico kawas-uccello notturno, da cui
deriva anche chouette-civetta) e diventa chauve-souris.
LE GLOSSE DI KASSEL: ci rimane una sola copia del manoscritto risalente all’VIII/IX secolo
conservata a Kassel; proviene dal monastero di Fulda ma è stato scritto in Baviera e sono
glosse dal latino volgare al bavarese (tipo dizionario bilingue). È diviso in due parti:
1. 180 glosse strutturate come un’intervista etnografica (si cercano di scoprire le parole
della realtà quotidiana di una lingua nuova) e riguardano le parti del corpo, animali, casa,
vestiti e utensili.
2. 65 glosse in un manuale di conversazione; in quel periodo la Baviera era una zona di
conflitto tra il futuro impero carolingio e i bavaresi che alloggiavano in un monastero dove
si parlava latino volgare, quindi troviamo conversazioni tra bavaresi e monaci per sapere
come si dicevano certe frasi nelle rispettive lingue (es. “coloro che parlano una lingua
romanza sono stupidi, i bavaresi sono intelligenti, nella popolazione romanza c’è poca
intelligenza, hanno più stupidità che intelligenza”).
LE GLOSSE SILENSI ED EMILIANENSI: provengono da due monasteri della penisola iberica:
S. Domingo de Silos (le silensi) e S. Millan de Cogolla (le emilianensi); sono sia interlineari
sia marginali e glossano dal latino all’ibero-romanzo (per la prima volta le glosse sono in
una lingua romanza). Dall’inizio del IX secolo non era più necessario glossare le parole dal
latino a una lingua romanza nella zona italiana e francese, ciò non vale però per l’area
iberica infatti queste glosse risalgono all’XI secolo (approfondimento su Elcock).
LA RIFORMA CAROLINGIA: il diritto germanico diceva che il territorio della nazione era
proprietà privata del re e alla sua morte andava diviso tra i suoi figli maschi (la
conseguenza è una debolezza perché c’è difficoltà a continuare i progetti del padre);
nell’VIII secolo il re dei Franchi salii (molto potenti con politica espansionistica) Pipino
aveva intrapreso un’alleanza con i Longobardi sancita dai matrimoni dei suoi figli Carlo e
Carlomanno con le figlie del re longobardo Desiderio. La divisione del regno franco alla
morte di Pipino avrebbe portato a debolezze ma Carlomanno muore e Carlo rimane l’unico
erede; preso il potere si separa da Desiderata e sposa una nobildonna franca per poi
conquistare la Longobardia (Italia). Viene incoronato imperatore del Sacro Romano Impero
dal papa nella notte di Natale del’800 e subito capì l’importanza di avere una lingua
comune per tutto il popolo così da far capire cosa dicono leggi e ordini (la lingua è potere).
Crea un sistema di comunicazioni basato su stazioni di posta per inviare notizie, leggi o
lettere rapidamente in tutto l’impero; chi le trasportava doveva sempre avere a
disposizione dei cavalli: alle stazioni di posta si lasciava il cavallo stanco a riposare e si
prendeva quello riposato che aveva lasciato un’altra persona. Carlo Magno amava la
letteratura ma non sapeva scrivere; si circonda degli intellettuali più importanti e con lui
nasce la SCHOLA PALATINA (scuola di palazzo) guidata da Alcuino di York, Eginardo (poeta
latino), Paolo Diacono (storico) e Angilberto (intellettuale), con il compito di fare in modo
che il latino classico sia di nuovo capito da tutti, che torni a essere lingua di comunicazione
(lo sviluppo del volgare verso le lingue romanze portava le persone a non capirsi tra loro se
provenienti da zone distanti). Per la prima volta possono studiare anche le donne (nobili)
tra cui le figlie di Carlo Magno, in particolare Berta che ha una relazione con Eginardo dalla
quale nasce Nitardo (importante per la prima attestazione delle lingue romanze). Le glosse
servono quindi solo nella zona iberica perché non essendo sotto i Franchi non era andata
incontro alla riforma carolingia. La riforma riguarda anche la grafia: la scrittura merovingica
(molto complessa) viene sostituita da quella carolina che era chiara, facile da leggere e
semicorsiva/tondeggiante. In conclusione, le persone colte si disinteressano del latino
volgare che viene ancora parlato dal popolo e che si evolve velocemente nelle lingue
romanze, le quali nascono in questo periodo.
CONCILIO DI TOURS (813): voluto da Carlo Magno, il XVII canone dice: “ciascuno abbia cura
di tradurre le omelie in lingua romanza o tedesca in modo che tutti possano capire più
facilmente quello che si dice”; la messa cattolica è sempre stata in latino fino al 1963
quando il concilio vaticano II permise di usare i volgari (italiano, francese,…) ma dall’813 i
sacerdoti sono obbligati a fare la predica in lingua volgare in modo che gli insegnamenti
(indurre i fedeli a fare certe cose o ad evitarle) arrivino chiaramente. Questo dimostra che
il latino classico non era più comprensibile tra i fedeli.
GIURAMENTI DI STRASBURGO (14 FEBBRAIO 842): è la prima attestazione scritta di una
lingua romanza (antico francese). Il successore di Carlo Magno era Ludovico il Pio che
aveva tre figli maschi: Lotario (primogenito), Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (il
minore ma il preferito dalla madre). La moglie di Ludovico il Pio convinse il marito ad
affidare a Carlo il Calvo l’attuale Francia (la zona migliore perché ricca, pacificata e
omogenea linguisticamente), a Ludovico il Germanico l’attuale Germania (non la migliore
ma comunque molto buona) e a Lotario un piccolo territorio tra il Mediterraneo e il Mar
Baltico, un corridoio comprendente Italia, parte della Svizzera e della Francia quindi una
zona disomogenea e frammentata (da Lotaringia deriva l’attuale Lorena). Lotario,
contrariato, dichiara guerra ai suoi fratelli che si alleano il 14 febbraio 842 a Strasburgo
(sede dell’Europa anche oggi): Carlo il Calvo giura in antico tedesco per farsi capire
dall’esercito di Ludovico e Ludovico giura in antico francese per farsi capire da quello di
Carlo; in seguito, gli eserciti giurano nella propria lingua. Questi giuramenti sono stati scritti
da Nitardo (cugino) in antico tedesco e antico francese (è una lingua di koinè, della quale
non si può risalire alla zona di origine, compresa da tutti i soldati anche se venivano da
zone diverse della Francia); Nitardo non ne ha modificato il contenuto né perfezionato lo
stile infatti morendo nell’844 in battaglia non avrebbe avuto il tempo per farlo.
LE PRIME ATTESTAZIONI LETTERARIE IN LINGUA ROMANZA: la CANTILENA DI
SANT’EULALIA (880-882) è la prima attestazione letteraria in antico francese ed è
conservata in un solo manoscritto in cui c’è anche il Ludwigslied (scritti in periodi diversi e
forse, come l’Appendix Probi, uno è stato aggiunto dopo); nel Ludwigslied si parla di
Ludovico III ancora vivo e vincitore della battaglia di Saucort e, sapendo che morì nell’882,
abbiamo la prova che queste due opere sono state composte prima dell’882. La definiamo
cantilena perché non ha struttura metrica precisa, sono 29 versi non omogenei senza rime
ma con assonanze; la lingua usata mostra che l’autore proviene dalla Piccardìa. La nascita
delle lingue romanze ha un rapporto contenutistico forte con la religione perché chi sapeva
scrivere erano soprattutto sacerdoti e monaci. Del X secolo sono la PASSION DU CHRIST e
LA VIE DE SAINT LEGER, dell’XI secolo la CANZONE DI SANTA FEDE, riguardo il
trasferimento delle sue reliquie, e il BOECIS, sulla storia del senatore romano Boezio alla
corte di Teodorico (creatore del genere allegorico e martire della Chiesa); risale alla metà
dell’XI secolo LA VIE DE SAINT ALEXIS, il primo capolavoro della letteratura in antico
francese: sono 125 strofe di 5 versi legati da assonanze (è il modello per la metrica delle
chanson de geste infatti i versi delle lasse sono legate da assonanza) e racconta la vita di
Sant’Alessio. Alessio era figlio di nobili romani che, dopo aver sposato una nobile, sceglie la
vita religiosa andando in Oriente nella povertà e nella preghiera; 7 anni dopo torna a Roma
ma la famiglia non lo riconosce per cui vive nel sottoscala della sua casa fino alla morte;
diventa santo per la sua dedizione alla preghiera e la famiglia si convertirà al Cristianesimo.
EPICA: le principali letterature medievali sono quella provenzale e quella oitanica; nel
Medioevo c’era uno stretto collegamento tra i generi e le lingue infatti il provenzale si
utilizzava per la lirica e la langue d’oil per i romanzi. L’epica è il genere letterario più antico
(le prime opere sono della fine dell’XI secolo) e si continueranno a scrivere opere epiche
fino all’inizio del 1300, anche se con caratteristiche diverse. Le più antiche attestazioni
letterarie mondiali sono i poemi epici: l’Epopea di Gilgamesh (India), Iliade di Omero (sulla
guerra di Troia), Odissea di Omero (Ulisse, punito dagli dèi per aver conquistato Troia con
l’inganno è condannato a vagare per 10 anni nel Mediterraneo prima di tornare a casa) e
l’Eneide di Virgilio (epica romana e ha elementi anche non epici). Le opere per tradizione
diretta sono quelle che abbiamo grazie a manoscritti, quelle per tradizione indiretta sono
quelle che conosciamo perché ne parlavano i contemporanei ma che non sono mai
arrivate. Per molto tempo si è creduto che l’Iliade e l’Odissea fossero stati scritti
collettivamente da un popolo ma sono stati scritti da Omero (un aedo/cantore) in quanto
hanno un’omogeneità stilistica; oggi si pensa però che non siano stati inventati da lui ma
che abbia scritto poemi che circolavano oralmente.
Il Romanticismo nasce come reazione al Neoclassicismo e ha interesse per il Medioevo; il
Medioevo era un periodo politicamente turbolento infatti Germania e Italia non avevano
ancora raggiunto unità politica e linguistica. La letteratura appoggiava la volontà di
diventare stato con due personaggi principali: Manzoni, che diventa senatore della
Repubblica, e il musicista Verdi, al quale associavano l’acronimo Vittorio Emanuele Re
D’Italia. Il Romanticismo considera il Medioevo una mescolanza di popoli e lingue, la culla
della nascita delle nazioni (Francia, Italia e Germania) e come qualcosa che continua a
esistere nella cultura popolare; infatti, in Germania i fratelli filologi Grimm raccolgono fiabe
tipiche dei contadini tedeschi che conservano elementi medievali, o in Italia Tommaseo,
che raccoglie canti tradizionali dell’Illiria (Balcani), e Costantino Nigra, che si concentra sul
Piemonte. Tra i punti focali del Romanticismo troviamo la storia oltre al Medioevo e al
popolo; in quegli anni l’archeologo Schliemann va in Asia Minore e seguendo alla lettera i
racconti di Omero trova le mura della città di Troia.
L’Eneide di Virgilio non è però un poema epico a tutti gli effetti perché non ha rapporti con
la storia e non risale a tradizioni orali (commissionato dall’imperatore Augusto per
celebrarne la grandezza). Le caratteristiche del poema epico sono:
-diffusione orale: non viene letto ma cantato da persone che probabilmente non sapevano
leggere o scrivere;
-il pubblico a cui si rivolge era socialmente eterogeneo, dai poveri ai colti;
-l’intento era di intrattenere ma anche di istruire, in modo che il pubblico si senta unito;
-l’ottica manichea: la visione del mondo è senza sfumature, noi siamo buoni e gli altri sono
cattivi; nella Chanson de Roland l’arcivescovo Torpino assolve dai peccati i cavalieri a patto
che uccidano tutti gli infedeli perché loro hanno torto, noi abbiamo ragione;
-il pubblico si riconosce nell’eroe: il noi è incarnato dall’eroe e si rafforza l’unità del popolo
mediante l’individuazione di un nemico comune;
-hanno uno stretto rapporto con la storia: non tutti i fatti narrati sono avvenuti
esattamente così ma la storia rende veridico quello narrato;
-il nucleo centrale è il vero e l’autentico: la città di Troia è esistita davvero (Iliade), la
battaglia di Roncisvalle è successa veramente nel 778 anche se nella Chanson de Roland è
narrata diversamente e gli spostamenti del Cid nel Cantar del Mio Cid sono reali e
coincidono con la situazione storico del tempo (cosa che era difficile perché i confini della
Spagna musulmana si modificavano spesso).
A volte passava molto tempo tra l’evento storico e l’attestazione scritta ad esempio la
Chanson de Roland (1090) e la battaglia di Roncisvalle (778); questo perché, come l’epica
omerica, i fatti che avevano avuto un forte impatto nella gente hanno continuato a
circolare sotto forma di poemi epici, tramandati oralmente dai cantori. Gran parte degli
elementi del romanzo sono di origine celtica e lo si capisce dai toponimi e dal fatto che
anche la cultura celtica veniva trasmessa oralmente, dai druidi (sacerdoti celti) che
trasmettevano la tradizione letteraria che conoscevano al futuro druido. A un certo punto,
persone come Omero hanno deciso di mettere per iscritto questi poemi epici; non
sappiamo quindi quanto siano cambiati e cosa sia cambiato nel tempo. Probabilmente
c’erano più versioni dei poemi poi un chierico ha deciso quale fosse la migliore e la scrisse
(la Chanson de Roland comprende 4002 versi di cui la seconda metà aggiunti dopo). I
cantori non potevano conoscerli a memoria tutti e due studiosi americani, Perry e Lorz,
hanno cercato di capire come funzionava la diffusione dei poemi epici andando in Serbia,
perché era l’unico posto dove nel 1900 l’epica era ancora viva e diffusa; parlano con i
cantori che avevano la stessa tecnica di aedi greci e giullari medievali e che conoscevano
alla perfezione gli elementi della storia. Per venire incontro alle esigenze del pubblico la
storia veniva allungata (in inverno di solito) o accorciata (se la gente si annoiava o d’estate
quando volevano passare velocemente in un altro villaggio per guadagnare più soldi); i
cantori quindi avevano l’abilità di adattarli al contesto, situazione e pubblico. Il poema
veniva cantato in più giorni nei momenti di svago e utilizzavano la tecnica formulare,
formule che consentivano di trovare velocemente rime (se poemi brevi) e assonanze (se
poemi lunghi): la prima parte del verso riguardava il contenuto mentre la seconda
comprendeva formule stereotipate per mantenere la stessa rima o assonanza (es. Carlo
Magno veniva sempre descritto con una barba fiorita-florie, e questo faceva assonanza con
Garmie che era la Francia).
METRICA: chanson de geste: chanson perché è un’esecuzione cantata, non abbiamo
riscontri sul ritmo o la musica ma sappiamo che c’era dal nome e delle tradizioni letterarie
che ce lo dicono; geste deriva dal latino res gestas e significa imprese o atti eroici, anche se
in antico francese voleva dire lignaggio/famiglia. La metrica era legata al genere e per le
chanson de geste si usava il decasyllabes (non tutte infatti la più antica, Gormon et
Isembart, era in octosyllabes e quelle più tardive saranno in dodecasyllabes). La maggior
parte delle chanson de geste sono quindi lasse di decasyllabes assonanzati: la lassa è un
insieme di un numero variabile di versi che sviluppa compiutamente un momento
narrativo; ha una certa autonomia infatti può essere lunga, se contiene molti eventi, o
breve, se sono pochi. Le lasse sono legate tra loro da riprese: l’inizio di una lassa riprende
l’ultimo verso di quella precedente; ci sono poi le lasse similari che raccontano lo stesso
contenuto ma con variazioni minime. Decasyllabe può essere un verso di 10 sillabe con
sillaba tonica finale (decasyllabe maschile) o di 11 sillabe con penultima sillaba tonica e
l’ultima atona (decasyllabe femminile); da quello femminile nasce l’endecasillabo italiano.
L’assonanza è l’identità/uguaglianza delle ultime due vocali di due parole ma non delle
consonanti ed è più frequente e facile da improvvisare della rima. Infine, troviamo la
cesura epica: il momento in cui, nel verso, la voce prende una pausa e nelle chanson de
geste è dopo la quarta sillaba con la quinta che diventa muta/soprannumeraria.
CICLI EPICI: ci rimangono circa 70 chanson de geste oitaniche; non siamo sicuri del numero
perché è difficile capire se alcune sono rielaborazioni o autonome (della Chanson de
Roland abbiamo 5/6 testi diversi di varia lunghezza, la più antica è di un manoscritto di
Oxford). Dalla seconda metà del 1800 vi è un dibattito avviato da Fauriel (Manzoni si
scambiava lettere con lui) nel quale afferma che: visto che la Provenza era il luogo dove si
svolgeva la maggior parte delle azioni delle chanson de geste, la lingua che le narrava
doveva essere il provenzale; secondo lui quindi venivano poi riscritte in antico francese
(paradosso di Fauriel). Questa ipotesi è stata smentita dai manoscritti e quindi le chanson
de geste sono nate nel Nord della Francia (la Chanson de Roland è scritta in anglo-
normanno, il francese parlato in Inghilterra). Il filologo romanzo Jean Frappier, studiando le
chanson de geste e le loro datazioni, ha coniato la frase “i figli generano i padri” aiutandoci
a capire come si crea un ciclo epico: la prima chanson di un ciclo riguarda un eroe e se
viene apprezzato dal pubblico si continua a raccontare di lui con sequel (chanson de
Guillaume); se l’eroe muore (ad esempio Roland) ci possono essere prequel (racconti di
com’era da bambino, gli enfances) o racconti dei suoi genitori, nonni e parenti. La chanson
de Guillaume è il ciclo epico più esteso nel tempo arrivando a epoche molto lontane
rispetto ai fatti narrati nella chanson principale. “I figli generano i padri” perché le chanson
che raccontano fatti successi prima rispetto a quelli della chanson principale sono state
composte dopo. Bertrand de Bar-sur-Aube scrisse il poema epico Girart de Vienne
spiegando come era percepita la suddivisione dei poemi epici all’interno dei cicli,
individuando 3 cicli: gesta del re di Francia (il più nobile), gesta di Garin de Monglaine
(Guillame d’Orange) e gesta di Doon (casata dei Magonza e riguarda i traditori). Jean Bodel
scrisse invece la chanson de Saisnes in cui contrappone l’epica al romanzo: l’epica riguarda
la materia di Francia mentre il romanzo riguarda la materia arturiana e antica.
GESTA DEL RE DI FRANCIA: il sovrano è giusto (es. Carlo Magno) e il vassallo è fedele e
valoroso (Roland); all’interno di questo ciclo troviamo la chanson de Roland (nipote di
Carlo Magno), la chanson d’Aspremont (Roland è morto e per accontentare il pubblico
viene raccontato cosa è successo prima; in Calabria i cavalieri dovevano raggiungere i
crociati a Gerusalemme per combattere ma il mare è tempestoso e non possono partire;
annoiati, volevano sentire narrazioni in cui rispecchiarsi per farsi coraggio e ci viene
raccontato come il giovane Roland ha acquisito attributi epici: la spada Durendal, il cavallo
Veillantif e il corno Olifant), Ronsasvals (in provenzale, si limita alla battaglia di Roncisvalle)
e Roulant a Saragossa (in provenzale e troviamo una sorta di umorismo/comicità).
GESTA DI GARIN DE MONGLAINE: i sovrani sono ingiusti ma i vassalli sono fedeli, non si
ribellano alle ingiustizie ma vanno a conquistare terre ai musulmani; il ciclo più importante
è quello di Guillaume d’Orange e ricordiamo:
-la chanson de Guillaume: sembra essere l’unione non riuscita di due precedenti chanson.
Inizia con Vivien, nipote di Guillaume (nella cultura medievale il padre allevava il figlio
maschio della sorella), che deve affrontare da solo una battaglia perché lo zio è un codardo
e quando sta per morire si trascina verso un fiume per bere ma nell’acqua ci sono sangue e
cervelli (parte molto cruda); nella lassa successiva però alcuni messaggeri informano
Guillaume che Vivien era in pericolo e lo trovano ancora vivo, morirà tra le braccia dello
zio. Questo ci fa pensare che esisteva una Chanson de Vivien che poi è stata integrata a
quella di Guillaume. Le zone delle vicende sono delle Provenza, ad Arles, con le incursioni
saracene ma questi saraceni sembrano vichinghi sia di aspetto sia di usi e costumi; può
essere quindi che la chanson de Guillaume sia un adattamento alle nuove necessità di una
chanson già creata (i vichinghi non fanno più paura, i musulmani invece si).
-Couronnement Luis: è un prequel che racconta perché Guillaume aveva dovuto lottare da
solo contro i saraceni; Luis è Ludovico il Pio, sovrano giovane e ingiusto che viene
adocchiato da un siniscalco che vuole regnare al posto suo. Guillaume è a Roma e
combatte contro il capo dei saraceni, un gigante, che gli taglia un pezzo di naso (da qui
l’epiteto Guillaume dal naso mozzo); dopo averlo ucciso, Guillaume torna a Saint-Denis, si
accorge del piano del siniscalco e lo uccide incoronando di nuovo Ludovico, il quale regala
terre a tutti dimenticandosi di Guillaume.
-Charroi de Nismes: Guillaume non si ribella e si conquista un suo feudo, il feudo di Nismes;
assieme ai cavalieri si travestono da mercanti, nei carri mettono delle armi e una volta
entrati a Nismes si tolgono i vestiti e conquistano il feudo.
-Prise d’Orange: Guillaume, guardando malinconico Orange, vuole sia la città sia la regina
musulmana Orable; uccide il re e sposa la regina che cambia nome in Gibourc, che sarà un
aiuto fondamentale per lui.
-Moniage Guillaume: è il sequel e Gibourc muore; Guillaume abbandona le armi e va in un
convento dove compie molte azioni comiche.
Non fa parte del ciclo di Guillaume ma delle gesta di Garin de Monglaine il Cantar del mio
Cid, in castigliano, diviso in tre parti: cantar del destierro, cantar de las bodas e l’enfrenta
de corpes. Il Cid (parola araba: signore) viene accusato ingiustamente di aver tenuto dei
soldi delle tasse musulmane e viene esiliato; il manoscritto che abbiamo comincia in
medias res (nel mezzo dell’azione) perché mancano le prime pagine ma sappiamo cosa è
successo prima grazie alle cronache del tempo.
GESTA DI DOON: della casata dei Magonza e si concentra sui traditori e sui vassalli ribelli:
-Gormon et Isembart: è la chanson de geste più antica, è in octosyllabes, e Isembart è un
vassallo rinnegato che dopo esser stato offeso dal re si ribella; rinuncia al cristianesimo
scegliendo il paganesimo di Gormon ed è una chanson molto cupa alla fine della quale
muoiono tutti.
-Raoul de Cambrai: Raoul è orfano di padre e va in un monastero dove viene allevato dal
re; quando diventa maggiorenne nota una situazione simile alla sua: una signora vedova ha
un figlio che va in un convento; Raoul vuole quel feudo e c’è una lotta tra le due famiglie
con gli eserciti che assediano e incendiano Parigi.
-Girart de Roussillon, in franco-provenzale: a re Carlo e al vassallo Girart vengono offerte
due sorelle come mogli; Carlo vuole quella assegnata a Girart perché è più bella e Girart
accetta in cambio di essere liberato dal patto di vassallo. Si scambiano le mogli e ne
seguono dissidi violenti tra i due; Girart e Berta, la moglie, fondano un’abbazia e vanno ad
abitarci ponendo fine alle lotte.
CICLO DELLA CROCIATA: Bertrand de Bar-sur-Aube non ne parla perché non esisteva
ancora dato che fa riferimenti ad eventi storici recenti; il tema è delle crociate a
Gerusalemme e in Palestina:
-chanson d’Antioche: è la più antica ed è basata sulla narrazione di Richard le Pelerin
(pellegrino voleva dive crociato, il pellegrinaggio armato era la crociata) che aveva vissuto
in prima persona gli eventi; l’autore è anonimo e tratta la presa dell’Antiochia, vi è anche
una versione in provenzale.
-chanson de Jerusalem, sulla presa di Gerusalemme.
-chetifs (prigionieri): scritto dopo le crociate non da una sola persona ma da una memoria
collettiva, ricordi di più persone che avevano partecipato.
Questi tre cicli hanno protagonisti comuni e finito il racconto degli eventi si torna indietro
con il ciclo di Goffredo di Buglione, colui che conquistò Gerusalemme (c’è lontananza dalla
realtà storica).
Ricordiamo poi la canzone della crociata contro gli albigesi, in provenzale: gli albigesi (o
catari, parola greca che significa “puro”) erano un’eresia con centro nella città di Albi in
Francia fondamentale per la filologia romanza perché con la crociata contro questi c’è la
fine della cultura e della lingua provenzale. Molti sostengono che ha un legame con
un’eresia simile nata poco prima in Ungheria, il bogomilismo (amati da Dio); gli albigesi non
credono alla trinità di Dio ma la loro fede si basa su un concetto dualistico: Dio è
infinitamente buono e controlla le cose spirituali, il male è stato creato dal diavolo che
controlla le cose concrete. Loro rifiutano tutto ciò che è corporeo per arrivare a Dio puri,
rifiutano i sacramenti perché comportano degli elementi naturali e ne riconoscono solo
uno, il consolatio/l’imposizione delle mani: far passare la forza spirituale a chi ne ha
bisogno senza contatto. Credevano nella trasmigrazione delle anime: dopo che si è morti le
anime passano in corpi diversi in base ai peccati commessi; sono i primi vegani della storia
dato che non mangiavano animali e derivati perché poteva esserci lo spirito di una
persona. Il peccato massimo era l’uccisione, anche di animali, e non riconoscevano
l’autorità della Chiesa per cui non pagavano le decime; era per lo più tessitori e pensano
che Dio vincerà una volta su tutte sul diavolo quando noi toglieremo al diavolo la
possibilità di dominare i nostri corpi. La soluzione era evitare di produrre altri esseri umani
(per i sacerdoti/perfetti) e una sorta di eutanasia: se una persona era gravemente malata
non mangiava e beveva più per non far entrare materiali nel corpo sporcando l’anima. Nel
1215 la Chiesa ordina una crociata contro gli albigesi/catari per sterminare gli eretici con
delle truppe del Nord della Francia guidate da Simone di Montfort. La canzone della
crociata contro gli albigesi è divisa in due parti, la prima con autore schierato dalla parte
dei crociati (ottica manichea) e la seconda più oggettiva e imparziale.
CHANSON DE ROLAND: è la chanson de geste più antica che ci è arrivata completa e
racconta di come l’esercito di Carlo Magno assediava Saragozza, che era dei saraceni.
L’assedio era lungo e creava disagi tra i grandi feudatari che non tornavano da tanto nelle
loro terre; questo malumore viene portato avanti da Gano, potente feudatario cognato di
Carlo Magno. Opposti ai feudatari c’erano gli juvenes, i cavalieri giovani, che avevano come
unico guadagno la guerra e avrebbero voluto continuarla; a capo di essi c’è Roland, nipote
di Carlo Magno e figliastro di Gano. Il consiglio dei baroni decide di inviare qualcuno a
chiedere una tregua al re di Saragozza e Roland propone Gano (di solito i messaggeri
venivano ucciso, voleva liberarsi di lui); Gano va in ambasceria e ritorna. Il consiglio ora
deve decidere chi deve essere a capo della retroguardia e Gano propone Roland; l’esercito
torna in Francia mentre la retroguardia rimane indietro e viene assalita dai saraceni a
Roncisvalle: è un massacro totale. Roland aveva un amico fedele, Olivieri, che gli chiede di
suonare il corno Olifante così che l’esercito, sentendolo, sarebbe tornato ad aiutarli;
Roland per tre volte rifiuta e quando sta per morire abbraccia la sua spada e suona il corno
così forte che gli esplode il cervello. La canzone originale finisce qui ma in quella che
abbiamo noi Carlo sente il corno, torna a Roncisvalle e vendica la morte di Roland
sconfiggendo i saraceni. Gli avvenimenti sono successi davvero: il 15 agosto 778 ci fu la
sconfitta della retroguardia di Carlo Magno a Roncisvalle; la stesura dell’opera risale però
al 1190, molto tempo dopo. Il codice che lo contiene si chiama Digby 23 O ed è della metà
del XII secolo a Oxford. La chanson de Roland sono 4002 versi decasyllabes in anglo-
normanno e l’ultimo verso dice che “qui finisce il poema che Turoldo declinet”: declinet si
può tradurre con ha composto, ha copiato o ha recitato quindi non sappiamo esattamente
il ruolo di Turoldo. Eginardo, nell’830, scrisse La vita di Carlo Magno dicendo che a capo
della retroguardia c’era Rolando, che non è il nipote di Carlo; inoltre, fonti storiche
dell’epoca dicono che lo sterminio è avvenuto ad opera dei baschi (cristiani) per ottenere il
bottino, quindi probabilmente la storia è stata modificata per propaganda: era più utile
identificare come nemici i musulmani che i cristiani. Di questo evento se ne parlerà solo 60
anni dopo, forse perché era scomodo da raccontare dato che danneggiava l’immagine dei
Franchi o forse perché l’evento è stato manipolato per farlo sembrare diverso da quello
che era. Si pensa infine che i saraceni abbiano assalito la retroguardia con l’aiuto dei baschi
per poter riprendersi l’ostaggio che durante una tregua veniva preso; probabilmente non è
stato un evento banale e non solo una confitta parziale dei Franchi.
NOTA EMILIANENSE: scritta in latino negli spazi bianchi a fine volume, è una specie di
riassunto del 1150 di un’altra chanson de Roland; non si fa riferimento a Gano ed è stato
trovato nel monastero di San Millan de la Cogolla. I pellegrini sostavano qui perché era
lungo il cammino per Santiago e c’erano giullari che li intrattenevano; nel 1150 qualcuno
ha messo per iscritto il racconto sentito in questo monastero. La nota dice che: “Nell’anno
778, re Carlo venne a Saragozza. A quell’epoca aveva 12 nipoti, ciascuno dei quali
comandava 3000 cavalieri. I loro nomi erano Rolando, Bertrando, Oggieri, Guglielmo,
Olivieri e il vescovo Turpino. Accadde che il re si fermò a Saragozza con il suo esercito e
poco dopo gli fu consigliato dai suoi di accettare molti doni per non morir di fame e poter
tornare a casa, e così fu fatto. Per garantire la salvezza dell’esercito decise che Rolando
guidasse la retroguardia ma quando arrivò a Roncisvalle venne ucciso dai saraceni”.
Questo riassunto può riferirsi a una versione castigliana dell’opera per due motivi: c’è
scritto che Carlo aveva 12 nipoti ma non è vero, l’unico nipote era Roland; aveva 12 pari,
persone importanti legate a lui, che in antico francese si diceva primis (primo in spagnolo è
cugino e se aveva 12 cugini allora aveva anche 12 nipoti); l’altro motivo è la pronuncia
ossitonica di Roland e Bertrand, diversa dal castigliano per cui viene aggiunta una E
paragogica (Rodlane, Bertlane). Si pensava quindi che esistesse una versione in castigliano
della chanson de Roland o che chi avesse scritto la nota emilianense fosse stato
madrelingua castigliano; il fatto che è una versione diversa deriva dal fatto che un giullare
l’ha modificata per attirare l’interesse del pubblico.
LA LIRICA: la lirica romanza ha come tema principale l’amore e si sviluppa soprattutto in
Provenza a partire dalla fine del X secolo. Il primo trovatore di cui ci sono giunte delle
liriche è Guglielmo IX duca di Aquitania; nasce nel 1070 e muore nel 1130 e abbiamo 9
liriche di lui (non tutte amorose). Ha imparato a scrivere liriche alla scuola di Ebolo di
Ventadorn, di cui non ci è rimasto niente. La lirica era sempre accompagnata dalla musica
che ci è giunta trascritta su tetragrammi, non pentagrammi; oggi questa musica è difficile
da suonare correttamente perché non si segnava la durata delle note nel Medioevo. Come
già detto, il Romanticismo vede nel Medioevo un grande interesse e importanza, da cui
nascono due ipotesi di origine della lirica, una popolare e una colta/ecclesiastica:
1.Alfred Janroy trova l’origine della lirica nei canti femminili di Maggio (Maggio era il mese
dedicato alle donne, la primavera significava fertilità ed era l’unico mese in cui prendersi
delle libertà, ad esempio avere un amante, era accettabile). Il tema principale della lirica è
l’amore adulterino e la tesi viene ripresa dal suo maestro, Gaston Paris (inventa la filologia
romanza) che afferma con certezza che la lirica ha origini nel canto femminile di Maggio. Il
problema era che il trovatore di tutte le liriche era un maschio, solo dopo nascerà la figura
della trobariz femminile; in ogni caso entrambi raccontano vicende d’amore adulterino dal
punto di vista dell’amante, non della donna. La parola provenzale “trobar” significa
comporre una lirica.
2.l’ipotesi di un’origine colta ed ecclesiastica deriva dalla parola trobar che secondo alcuni
deriva dal latino volgare “tropare” ossia comporre un tropo: nulla musica medievale dei
conventi, il coro cantava i canti gregoriani ed era diviso in due parti, una parte reggeva a
lungo la vocale conclusiva di una frase, l’altra parte, su quella tonalità, cantava un breve
testo; se la vocale finale era una A il testo di chiamava sequenza, se era un’altra vocale si
chiamava tropo. Il tropo è quindi una breve composizione lirica perfetta nella durata per
l’altra parte del coro. Il problema è che i tropi e le sequenze avevano argomenti religiosi,
non amorosi; forse trobar deriva allora dal latino volgare “trovare”, che a sua volta
riprende il latino classico “invenire”, da cui inventio ossia la capacità di creare opere
letterarie (da qui deriva invenzione).
Nel 1948 l’esperto in lingue semite Samuel Stern scopre delle composizioni letterarie nella
biblioteca del Cairo; nota che i versi finali di un genere letterario molto diffuso nel mondo
arabo ed ebraico sono scritti in caratteri arabi ma non in lingua araba. Si tratta delle
MUWASSAHA (muascià), letteralmente “cintura/collana di perle colorate”: è un
componimento molto conosciuto nel mondo arabo ed ebraico, scritto in arabo/ebraico
classico con una voce narrante maschile; gli argomenti sono convenzionali (elogio di una
città, di una donna, amore, amicizia o gioia per l’arrivo della primavera), ci sono le rime e
terminano con una harga (arsgia), letteralmente “fibbia/chiusura”, dal registro volgare
dell’arabo o dell’ebraico. Il testo scoperto da Stern però aveva una harga in mozarabo, una
lingua romanza parlata in area iberica nel IX/X secolo. La harga impone le rime alla
muwassaha (è un genere raffinato e complesso) e ha una voce narrante femminile; il tema
è l’amore lontano o l’amore che non c’è più quindi mostra la sofferenza della donna
disperata. Non è perciò collegata alla muwassaha dal punto di vista linguistico, del
contenuto e del genere di chi narra. Ci sono due ipotesi sulla nascita delle harga: è
un’invenzione dell’autore delle muwassaha, o l’autore delle muwassaha ha preso le harga
da componimenti che aveva sentito recitare in area iberica; se la seconda ipotesi è vera,
resta da capire se fossero canti molto brevi o se fossero ritornelli di canti lunghi.
In area iberica c’erano anche le cantigas de amigu, un genere lirico su una donna che canta
un amore lontano, mentre in area oitanica le chanson de femmes, dove una donna si
confida con un’altra donna lamentando il dolore della perdita del suo amore; hanno quindi
degli aspetti in comune con le harga.
In ogni caso, le prime liriche che ci sono giunte sono quelle di Guglielmo IX d’Aquitania alla
fine del X secolo, ma sono così perfette che non possono esser state create dal nulla ma ci
dovevano essere dei componimenti di base scritti prima.
LIRICA AMOROSA: il tema è la fin’amor, definita anche amor cortese da Gaston Paris (la S si
pronuncia) ossia l’amore che si sviluppa nelle corti; la lirica provenzale era formale, non ha
nulla a che vedere con quello che oggi pensiamo che sia la lirica amorosa anche perché
aveva uno schema metrico molto complesso, fatto di assonanze e omofonie (parole con
stesso suono ma significato diverso). Esprime un tipo di amore che rispecchia l’ideologia
feudale, un’ideologia e governo di tipo gerarchico: i conti e baroni erano legati al padrone
o al sovrano con un vincolo di fedeltà, ricevono un feudo ma devono dare auxilium e
consilium, e il re è obbligato a dare un feudo ma a ricevere aiuti e consigli; è quindi basato
sulla reciprocità di obblighi e questo si rispecchia nella fin’amor. La donna cantata dal
poeta non viene chiamata col suo vero nome ma con il senhal (pseudonimo) di “midons”
(mio signore), lo stesso nome con cui ci si rivolge al superiore gerarchico, o altri tipo “bel
cavalier”, è definita amie (nel senso di amata) ed è sempre di rango superiore dell’amante.
“Fin” è inteso come fine/raffinato/privo di impurità, per cui la fin’amor rende migliori e
superiori di nobiltà d’animo perché libera l’amante dalle cose negative, c’è il
perfezionamento spirituale che culmina con un rapporto fisico. L’amore che si tratta è
adulterino con la donna che era sposata; il matrimonio ai tempi non era accessibile a tutti,
solo il primogenito si sposava, i cadetti prestavano servizio militare presso altre casate
sperando di ottenere feudi e di sposare donne ricche (figlie di genitori senza eredi maschi).
I cadetti erano detti juvenes (non sposati) e da questo termine deriva joven (giovinezza) e
joi (la gioia derivata dal rapporto amoroso), due caratteristiche dell’amante. L’amore
adulterino ha la necessità di “celàr”, l’amore deve rimanere segreto, per questo viene dato
un senhal alla donna, per nasconderne la vera identità. Ci sono poi due personaggi
negativi: i lauzengiers, che parlano male dell’uomo alla donna e che raccontano in giro del
loro amore, e il gilòs, il marito geloso che ostacola l’amore (la gelosia è considerata uno dei
peccati peggiori in quest’ideologia; nel Medioevo si è signori non in base a quanto hai ma a
quanto doni, e se necessario donare anche la moglie). Il corteggiamento è un servizio che
l’uomo offre alla donna amata e, come nel rapporto tra cavaliere e signore, lei deve dare
qualcosa in cambia (prima un sorriso o sguardo e poi un bacio o un rapporto fisico); questo
qualcosa è la mercè (merZè), ciò che la donna concede all’amante in cambio del suo
servizio amoroso, e dal rapporto amoroso entrambi ne ricavano il pretz, il prestigio.
Ci sono due generazioni di trovatori:
1) i trovatori della prima generazione sono Guglielmo IX d’Aquitania (il centro per lui è
l’amore carnale), Marcabrù (per lui è la morale, si oppone a Guglielmo) e Jaufrè Rudel con
una poesia raffinata sull’amor de lonh (l’amore da lontano) per cui non serve la presenza
della donna perché venga cantata.
2) i trovatori della seconda generazione (del XII secolo) hanno un dibattito sul perché si
parla d’amore, le motivazioni e gli obiettivi di esso e si danno delle risposte. Bertrand de
Ventadorn, proveniente da una classe sociale medio-bassa, scrisse Can vei a la lauzeta
mover (quando vedo la piccola allodola muoversi), una delle liriche medievali più famose in
cui esprime il suo concetto di amore: la natura in primavera lo ispira ad amare e quando
vede l’allodola volare in cielo, lui pensa che canterebbe l’amore per la donna anche se lei
non l’amasse perché la cosa più importante è il suo servizio amoroso. Rimbaut d’Aurenga
(il provenzale di d’Orange) era un feudatario molto potente che scrisse Non chant per
auzel ni per flor (Non canto né per uccelli né per fiori) dicendo che non ha bisogno che ci
sia la primavera per cantare, lui canta perché è innamorato e se la donna non lo amasse lui
ne cercherebbe un’altra. Chretien de Troyes (truà) era un poeta e romanziere della
letteratura in langue d’oil e scrisse D’Amors qui m’a tolù a moi (dell’Amore che mi ha tolto
a me stesso) in cui mostra come l’importanza non sia la donna o l’amore ricambiato ma
l’amore in sé; è il primo esempio di lirica in langue d’oil e ha un’impostazione diversa da
quella provenzale, si basa sulla morale cristiana (non c’è il joi tipico della Provenza) ed è
contrario all’amore adulterino. Dopo di lui ci saranno i trouvieres (trovieri), la traduzione in
langue d’oil del provenzale troubadours (trovatori).
ALTRI GENERI LIRICI MINORI: non per importanza ma perché ce ne sono rimasti di meno:
1. ALBA: l’alba è il momento in cui gli amanti, dopo aver consumato una notte felice, si
devono separare perché il loro amore è adulterino; l’alba viene annunciata da sentinelle,
dalla fine del canto dell’usignolo (uccello notturno) o dall’inizio del canto dell’allodola.
2. PASTORELLA: nasce con la prima generazione trobadorica in Provenza con Marcabrù ma
si sviluppa soprattutto in zona oitanica. Mette a confronto il cavaliere con una donna di
classe sociale bassissima: una mattina di primavera il cavaliere va in campagna e si sente
attratto dal canto di una donna pastora che accudisce il gregge. La pastorella può essere
soggettiva o oggettiva: la soggettiva (più frequente) è il racconto del cavaliere che si
avvicina alla donna e le chiede esplicitamente di fare l’amore, la donna di solito rifiuta
quindi o viene convinta con regali, o il cavaliere la violenta oppure viene messo in fuga da
altri pastori; quella oggettiva mostra il cavaliere come uno spettatore malinconico di
un’idillica felicità campestre in cui si esalta la bellezza della donna e del suo canto.
3. SIRVENTÈS: deriva da sirvèn-chi serve e si chiama così perché serve una causa politica e
si serve di una melodia già nota (liriche con già successo) ma con contenuti nuovi tipo
elogiare un signore o prenderlo in giro. L’autore più famoso è Bertrand de Born, il cantore
delle armi, che canta la primavera non perché mette voglia di amare ma perché è la
stagione in cui iniziano le guerre.
4. PLANH: vuol dire pianto/compianto e punta a ricordare e onorare una persona morta;
l’autore più famoso è Sordello, che scrisse in onore del suo signore.
5. CHANSON DE TOILE: in area oitanica con voce femminile (scritta però da maschi) e narra
di una donna non sposata che canta la distanza dall’amato, la tristezza o la gioia per aver
organizzato un piano per fuggire con lui.
6. CANZONI A BALLO: fatte per la danza collettiva, che può essere in caròla (in cerchio) o in
tresca, intrecciati; il sottogenere più importante è l’estampida che consiste nel colpire i
piedi per terra con forza e la più famosa è la Calenda Maia di Rimbaut de Vaqueiras.
La civiltà del sud della Francia (il midì) si è dissolta con la crociata contro gli albigesi quindi
vengono meno i caratteri favorevoli alla sviluppo della poesia della fin’amor (gli autori del
nord sono più moralisti e vogliono eliminare tutto ciò che riconduceva all’eresia albigese). I
trovatori perciò cercano una condizione migliore trovandola in Germania (nascita dei
Minnesanger, i cantori d’amore) e in Italia nella metà del 1200; nonostante fosse nata la
borghesia, resistevano nell’Italia del nord-est delle corti (Padova, Venezia) simili a quelle
provenzali dove i trovatori, tra cui Uc de Saint Circ, introducono le loro liriche in antologie
trobadoriche (le liriche sono precedute da un metatesto, introduzione, e seguite da
spiegazioni). Una di queste antologie viene donata a Federico II di Svevia e grazie a questa
nasce la scuola siciliana, dove si sviluppa la lirica in volgare italiano, prima con traduzioni di
quelle liriche, poi rielaborazioni e infine creazioni originali (Dante, Cavalcanti, Petrarca).
ROMANZO: nasce nel Medioevo; non esistevano romanzi in latino classico o greco e prima
c’erano pochissime cose che assomigliavano al romanzo, ad esempio il Satyricon di
Petronio, ma ci è arrivato frammentato. La parola romanzo deriva da romanice loqui-
romance-romanz e indicava prima una lingua volgare derivata dal latino, poi i
componimenti in una lingua volgare derivata dal latino e infine il genere letterario. A
differenza della lirica e dell’epica, si rivolge a una classe sociale precisa, la nobiltà; prevede
una fruizione circoscritta ma comunque collettiva (si legge in piccoli gruppi nelle corti) ed
esige il supporto della lettura, non si può cantare a causa della struttura metrica rigida. Il
fine del romanzo è lo svago e l’intrattenimento (l’epica diffondeva ideologie) e i temi sono
l’amore e l’avventura (il cavaliere per amore affronta molte avventure); la guerra non è un
tema ma uno sfondo perché nel XII secolo era cambiata la situazione storica: le guerre di
conquista erano finite, i possedimenti musulmani in Spagna ridotti e non c’erano epidemie
e carestie quindi la letteratura ha l’esigenza di passatempo. Il contesto è astorico,
accadono eventi a prescindere dal momento storico, e anche i luoghi sono trasfigurati e
non reali. Importante è l’entrelacement, l’intreccio: c’è una vicenda principale, le
avventure del cavaliere alla ricerca di qualcosa, alla quale si intrecciano vicende secondarie
non fondamentali ma che intrattengono. Ci sono poi due motivi narrativi, la quest e il don
contraignant; la quest è la ricerca del cavaliere che è fine a se stessa e gli permette di fare
tante avventure; il don contraignant, il dono che costringe, era il più grande gesto di
generosità (deriva dalla cultura celtica): un signore accettava di fare un dono ancora prima
di sapere cosa fosse (nel Lancelot di Chretien de Troyes uno sconosciuto arriva a corte,
chiede un dono a re Artù che accetta, il dono è la regina ma il re comunque rispetta il
codice). Troviamo anche la componente del meraviglioso/magico: in un mondo astorico c’è
spazio per la magia (fate, draghi, meraviglie, mostri, pozioni magiche). Fino all’inizio del
1200 il romanzo era in rima (identità/uguaglianza delle ultime vocali di due parole e della
consonante o gruppo consonantico interposto) ed erano couplèts (distici) di octosyllabes
(8/9 versi, dipende dall’accento) a rima baciata quindi era impossibile da memorizzare ma
lo si doveva leggere ad alta voce. Questo metro detto narrativo sarà anche quello delle
narratio brevis, che diventeranno i racconti.
ORIGINI DEL ROMANZO: le origini del romanzo le troviamo nella Historia regum britannie
(la storia dei re di Britannia) di Goffredo di Monmouth, un testo storico del 1136 che
comprende 12 libri, 5 dei quali trattano la figura di Artù. Poco dopo, Robert Wace (vas)
traduce il testo e nel 1155 crea il primo romanzo della letteratura medievale, incentrato
sulle vicende di Artù; di Wace sappiamo che era un chierico letterato al servizio dei duchi di
Normandia e che ha scritto 5 narrazioni brevi agiografiche e 2 romanzi, Cronaca dei duchi
di Normandia e Brut. Ai tempi c’erano due dinastie importanti, i duchi di Bretagna e di
Normandia; dalla dinastia normanna deriverà il re Enrico II il Plantageneto, re della Gran
Bretagna e di mezza Francia, dato che aveva sposato Eleonora d’Aquitania (nipote di
Guglielmo IX). Opposto a Enrico II c’era il re di Francia; il re di Francia ha come antenato
Carlo Magno, il personaggio letterario più famoso dell’epoca, mentre i Plantageneti non
hanno una tradizione letteraria importante; quindi, gli intellettuali cercano di trovare
possibili rapporti con grandi nomi del passato e Wace indica tra gli antenati di bretoni e
normanni Enea (protagonista dell’Eneide di Virgilio) perché arrivato a Roma aveva creato
una nuova dinastia e suo nipote Brut, che prosegue le gesta del nonno e conquista la
Britannia (gioca sul fatto che Brut e Britannia siano omofoni, suonano simili, e che quindi
era evidente il rapporto). In realtà Brut non è mai esistito ma in questo modo hanno
mostrato che le loro origini erano più antiche di quelle dei re di Francia, essendo troiane.
Wace ha introdotto due elementi fondamentali: la tavola rotonda, rotonda perché nessuno
deve essere più importante degli altri ed è il simbolo del modello gerarchico feudale (il re è
primo fra i pari), e che i cavalieri compiono le imprese per amore e per le amate. Artù è un
personaggio storico della prima metà del 500, non era re ma dux bellorum (condottiero di
guerra) con origine metà celta e metà romana; nelle isole britanniche c’era instabilità per
le lotte interne tra le tribù celtiche (non c’era organizzazione statale) e a cause delle
incursioni dei Pitti per cui un capo dei celti, Vortigern, chiede aiuto ad angli, sassoni e iuti.
Questi popoli, dopo averlo aiutato, tentano di invadere il territorio ma Artù riesce a riunire
in una coalizione le tribù celtiche e nel 493 a Badon Hill sconfigge i tre popoli. Quando Artù
muore, la coalizione si scioglie e c’è una nuova invasione, questa volta definitiva. Abbiamo
notizia della battaglia di Badon Hill da:
-Gildas, che dice che la battaglia è stata vinta non da Artù ma da Ambrosius Aurelianus;
forse non voleva nominarlo perché gli aveva causato dei danni o forse era il suo vero nome
e Artù era il soprannome che significava orso, simbolo del coraggio.
-Nennio, che associa per la prima volta il nome del dux bellorum Artù alla battaglia e parla
delle origini troiane dei bretoni.
-le Triadi delle isole della Britannia e negli Annales cambriae, in cui si fa riferimento alla
battaglia di Camlann del 537, che segna la morte di Artù: nello scontro col suo peggior
nemico Mordred rimane ferito mortalmente e viene portato sull’isola magica di Avalon
dove dorme in attesa di una cura; per secoli i bretoni sperano che Artù si risvegli per
aiutarli dato che erano soggiogati dai Normanni e Plantageneti (speranza bretone).
MATERIE ROMANZESCHE: Jean Bodel nella Chanson de Saisnes fa una suddivisione dei
romanzi che vengono divisi per materie; individua due materie romanzesche: materia di
Bretagna (testi divertenti per svago e intrattenimento) e materia di Roma (testi saggi e
istruttivi che hanno un rapporto con la storia); c’è poi una terza materia romanzesca di cui
lui non parla perché forse non la si considerava a sé ma era integrata alla prima.
MATERIA CLASSICA O ANTICA: prende spunto anche dalle radici troiane e romane dei
bretoni che ha individuato Wace nel Brut e sono:
1. Roman d’Eneas: grazie a questo i bretoni vengono a conoscenza di chi era Enea ed è la
trama dell’Eneide trasportata in un romanzo; i personaggi e gli eventi vengono attualizzati
e rappresentati non come se fossero esistiti nell’antica Roma ma come se fossero
medievali per essere compresi e capiti meglio.
2. Roman de Troie (truà): è la storia di Enea prima che arrivasse a Roma quindi di Troia; il
problema è che l’Iliade di Omero era in greco e i medievali non lo capiscono, quindi usano
gli epìtomi, i riassunti in latino dell’Iliade, scritti in epoca classica per gli studenti.
3. Roman de Thebes: fa riferimento alla Tebaide di Stazio per capire perché i greci
consideravano nemici i troiani; sono le vicende leggendarie di Tebe, città dell’Asia Minore.
4. Roman d’Alexandre: parla di Alessandro Magno e si basa su “pseudo-callìstene”, un
testo molto difficile da capire (pseudo perché forse non l’ha scritto Callìstene); ci sono
varie versioni:
-il Roman d’Alexandre di Alberic Pisançon del 1130 di cui ci son rimasti solo 105
octosyllabes e tratta la prima parte della sua vita, finché diventa cavaliere.
-il Roman d’Alexandre di un anonimo chierico pittavino (Poitu, una zona della Francia) del
1160 che riadatta l’opera di Alberic in lasse di decasyllabes e abbiamo 800 versi.
-Fuerre de Gadres di Eustache del 1170 in decasyllabes e in tonalità epica.
-l’Alexandre en Orient di Lambert le Tort del 1170 in decasyllabes e tratta fino alla
spedizione in India dove muore.
-Mort d’Alexandre di un anonimo del 1170 in decasyllabes sulla sua morte.
-il Roman d’Alexandre di Alexandre de Bernay del 1180, è l’opera che conosciamo oggi e
rielabora i precedenti testi: per l’infanzia il testo di Pisançon e del chierico e per dopo la
giovinezza gli altri tre; è in dodecasyllabes, un verso mai usato prima, rinominato
alessandrino per l’enorme fama del romanzo (sarà il verso del mester de clerecia).
Alessandro viene attualizzato, è un giovane macedone che studia latino da Aristotele
(impossibile cronologicamente), si veste come un cavaliere e ama la caccia medievale; sarà
il più diffuso nel Medioevo e viene tradotto dalla langue d’oil in latino e castigliano.
Tutti i romanzi di materia classica hanno un’attenzione per la psico-patologia amorosa di
Ovidio, gli effetti concreti e fisici che l’amore produce in chi lo prova; gli eroi vivono in
maniera esplicita e forte gli effetti dell’innamoramento (nel Roman d’Eneas Lavinia si
innamora a prima vista di Enea, arrossisce, non riesce a dormire ed Enea suda solo
vedendola). Il XII secolo è quindi l’Etas Ovidiana, l’età di Ovidio, perché si leggono e si
approfondiscono le sue opere in cui si parla dell’amore in modo fisico e concreto.
MATERIA BRETONE O ARTURIANA: la maggior parte dei romanzi che ci sono giunti sono di
questa materia; Artù accoglie i migliori cavalieri alla propria corte e questi cavalieri per
amore e per l’amata compiono delle imprese (che sono però fini a se stesse, non per
ottenere qualcosa). Una delle figure più importanti di questa materia è CHRETIEN DE
TROYES, che aveva avviato la produzione lirica in area oitanica; scrisse opere che non ci
sono giunte e lo sappiamo perché nel suo romanzo Cligès del 1176 fa un elenco delle opere
che ha scritto ad esempio la storia di Procne e Filomena, di Tristano e che ha tradotto
opere di Ovidio come Ars amandi e Remedia amoris. Chretien era forse un chierico o un
araldo d’armi (tipo arbitro nei tornei) originario di Troyes e per lui era importante la
morale e l’amore coniugale del matrimonio. 4 dei suoi 5 romanzi sono stati composti alla
corte di Maria di Champagne, figlia di Eleonora d’Aquitania e re Luigi (Eleonora, nipote di
Guglielmo IX, era molto potente e dopo l’annullamento del matrimonio con Luigi, si sposa
con Enrico II il Plantageneto dando vita a un regno molto grande); i romanzi sono:
-Erec et Enide del 1170; Erec si innamora di Enide, la conquista e la sposa ma una volta
conquistata smette di fare le imprese che bisogna fare per l’amata; Enide dice che l’amore
non deve allontanare dai propri compiti e doveri sociali allora Erec attraverso avventure
arriva alla prova finale, sconfigge un cavaliere e viene perdonato.
-Cligès del 1176; si ispira alla storia di Tristano e Isotta ma la capovolge completamente.
Nell’originale Tristano e Isotta (Isotta è la moglie dello zio di Tristano) bevono un filtro
d’amore per sbaglio e nasce l’amore tra i due; in Chretien Isotta chiede alla nutrice un filtro
per far credere al marito Tristano di avere rapporti sessuali quando non era vero; Cligès
chiede a Isotta di diventare suo amante (proposta classica della letteratura del tempo) ma
lei rifiuta dicendo che se il suo cuore era innamorato di uno, anche il corpo doveva
dedicarlo solo a lui; Isotta fa bere il filtro a Tristano e lei ne beve uno grazie al quale finge
di essere morta per vivere una vita felice e nascosta con Cligès.
-Yvain, le chevalier au lion del 1180: il cavaliere Yvain scopre che esiste una fontana
meravigliosa che se si rovescia dell’acqua sul bordo evoca una tempesta e un cavaliere, il
quale non è mai stato sconfitto; per aumentare il suo prestigio, Yvain cerca e trova la
fontana, versa l’acqua e combatte con il cavaliere ferendolo mortalmente. Lo insegue
verso il suo castello ma si trova imprigionato tra le due porte del castello; Lunette, dama di
compagnia della signora del castello, interviene e lo salva nascondendolo con un anello
magico dell’invisibilità. La ragazza vede in Yvain il giusto nuovo marito per la signora del
castello Laudine e si sposano; nonostante il matrimonio, Yvain vuole partecipare ai tornei e
Laudine accetta a patto che dopo un anno lui debba tornare da lei. Un anno dopo Yvain si
dimentica di lei allora viene inviata Lunette a togliergli l’anello di matrimonio; il cavaliere si
rende conto di aver fatto uno sbaglio, impazzisce (è l’ispirazione per pazzia di Orlando) e
inizia a compiere varie imprese per riconquistare Laudine, riuscendoci.
-Lancelot, le chevalier de la charette del 1180: Maria di Champagne chiede a Chretien di
comporre un romanzo dedicato a Lancelot (uno dei personaggi più noti della tavola
rotonda) e lo dice lui stesso all’inizio che gli è stato chiesto. Tratta l’amore adulterino (per
questo non gli piaceva e non voleva farlo lui) tra Lancelot e Ginevra, moglie di Artù:
Meleagant, cavaliere importante, va alla corte di Artù chiedendogli un dono ma senza dire
cosa; per l’etica feudale, Artù accetta ma il dono è la regina quindi Meleagant porta
Ginevra nel regno di suo padre Gore, dove c’erano prigionieri molti cavalieri di Artù.
Lancelot chiede di poter andare a liberare la regina e parte con Galvano; incontrano un
nano su una carretta che portava le persone che si erano comportate molto male in modo
che tutti potessero insultarle o colpirle coi sassi. Chiedono al nano se ha visto passare
Meleagant ma il nano dice che risponde solo se salgono sulla carretta; Galvano rifiuta e
prosegue a piedi, Lancelot accetta. Il regno di Gore si trovava oltre un fiume impetuoso
infatti Galvano viene travolto dalle acque, Lancelot riesce ad attraversare il fiume passando
sul ponte della spada (ponte fatto di una lama sottile e tagliente) e arriva ferito. Gore lo
accoglie ammirandolo per il coraggio ma Ginevra è arrabbiata con lui perché aveva esitato
prima di salire sulla carretta, era indeciso; i due poi fanno pace, c’è il duello tra Lancelot e
Meleagant, vince Lancelot che si prende Ginevra e i cavalieri che erano prigionieri.
Chretien aveva chiesto a Goffredo di Lagny di finirlo perché a lui non piaceva (amore
adulterino) e in generale non gli piaceva stare nella corte di Maria quindi accetta la
richiesta di un altro signore, Filippo d’Alsazia, che era più vicino al suo modo di vedere le
cose per diventare il tutore del figlio; Filippo era molto devoto e aveva portato da un
pellegrinaggio in Terrasanta una fiala con il sangue di Gesù.
-Perceval, le conte du graal del 1180: è incompiuto perché Chretien muore prima di finirlo
e si era ispirato a un libro che Filippo aveva portato dalla Terrasanta (mai trovato, forse
detto per aumentare il prestigio): è la storia di un giovane gallese che viveva in una tenuta
in un bosco con la madre, la quale non voleva che diventasse cavaliere dato che il marito e
gli altri figli erano morti da cavalieri; un giorno Perceval incontra due cavalieri della corte di
Artù, chiede il permesso di andare alla madre che accetta controvoglia e diventa cavaliere.
Un giorno, in cerca di avventure, vede un castello misterioso con un lago dentro al quale su
una barca c’è un uomo senza gambe che pesca; viene accolto nel castello dal re che era
quell’uomo sulla barca. La sera, arrivano ragazzi che portano un graal con all’interno
un’ostia, e ragazze che portano una lancia dalla quale cola sangue (forse la lancia di
Longino, che colpì al costato Gesù); il graal viene dato al re che mangia l’ostia, Perceval non
capisce ma non chiede nulla. La mattina dopo, Perceval scopre di essere in un castello
deserto e che avrebbe potuto salvare il re dal disagio fisico se solo avesse chiesto cosa
fosse il graal; non aveva fatto la domanda perché la sua anima era macchiata da un
peccato enorme: quando aveva salutato la madre, lei si era accasciata a terra, Perceval
pensava fosse svenuta per l’emozione ma in realtà era morta per il dolore. Ritornando dal
castello incontra suo zio che gli dice che potrà risolvere questo mistero solo una persona
dall’animo puro, non lui. Chretien muore quindi non sappiamo come finisce la storia; il
graal non è una sua invenzione e neanche qualcosa di misterioso, è una parola dell’antico
francese per indicare un piatto (fondo e grande di qualsiasi materiale), spesso nel graal si
metteva il pesce (simbolo di Cristo) ma nel Perceval il pesce è sostituito dal suo equivalente
mistico: l’ostia (il corpo di Cristo).
Altra figura importante è ROBERT DE BORÒN: anche lui era alla corte di Filippo d’Alsazia
ma era più giovane di Chretien; scrive romanzi in versi (Joseph d’Arimathie e Merlin) e i
primi tre romanzi in prosa (la versione in prosa di quei due e Perceval). Con lui, il graal
acquisisce la dimensione che ha tutt’ora, era il vaso che conteneva il sangue di Cristo;
Gesù, quando è morto, è stato messo nella tomba di Giuseppe d’Arimatea perché essendo
giovane non si era ancora procurato una tomba, Giuseppe d’Arimatea ha raccolto il sangue
uscito dal costato di Cristo nel graal e ne è stato il custode fino a Perceval. Merlin tratta di
Merlino, mago e profeta (Goffredo di Monmouth ha scritto Le profezie di Merlino), che è il
punto di aggancio tra i successori di Giuseppe e il mondo arturiano.
Fa poi parte della materia bretone pur non parlando della corte di Artù la GALASSIA
TRISTANIANA: conosciamo la storia di Tristano grazie a Gaston Paris che scrive due romanzi
su di lui ma che ci sono giunti in modo frammentario. Tristano è un giovane orfano (da qui
deriva il nome) che viene accolto alla corte di Cornovaglia da suo zio Marco e diventa il
cavaliere più valoroso; la corte è minacciata dal gigante Moroldo che ogni anno vuole
fanciulli per mantenere la pace ma Tristano decide di andare in Irlanda (terra di Moroldo) e
lo uccide, rimanendo ferito gravemente da un’arma avvelenata. Isotta, principessa
d’Irlanda e la madre lo trovano e lo curano non sapendo che era stato lui ad uccidere
Moroldo. Tristano torna in Cornovaglia e, per sancire la pace tra le due terre, Marco chiede
in sposa Isotta; Tristano va a prenderla con una nave per portarla dallo zio e nel frattempo
la madre e la governante di Isotta creano un filtro d’amore affinché lei si innamori di Marco
e sia più felice, dato che non l’aveva mai conosciuto. Sulla nave, i due hanno mal di mare e
per sbaglio gli viene dato il filtro d’amore al posto del vino, quindi i due si innamorano.
Isotta, detta “la bionda”, sposa comunque Marco ma ama Tristano; Marco se ne accorge e
allontana il nipote dalla corte, che si rifugia in Bretagna (Francia) dove sposa un’altra Isotta,
detta “dalla mani bianche”. Tristano si ammala, sta per morire e chiede che una nave vada
in Cornovaglia per portare a lui Isotta la bionda in modo che lo curi con le sue arti magiche;
dal letto, chiede alla sua Isotta se la nave sta arrivando e gli risponde che la nave c’è ma
che le vele sono nere (aveva chiesto ai suoi di mettere le vele bianche se Isotta avesse
accettato di andare, e nere se avesse rifiutato); in realtà sono bianche le vele ma la moglie
era infastidita dal fatto che Tristano amasse l’altra Isotta. Tristano muore di dolore e
quando Isotta la bionda arriva, vede che lui è morto e muore anche lei di dolore. La
galassia tristaniana comprende 2 romanzi, 3 narrazioni brevi e un’opera perduta:
-Roman de Tristan di Beroul: molto antico, mancano inizio e fine, ha caratteristiche
arcaiche lontane dal mondo cortese, Tristano ha origini celtiche qua ed è molto crudo.
-Roman de Tristan di Thomas: è un romanzo cortese con scene d’amore, dialoghi raffinati e
temi di amore e dolore causato dall’amore; ci sono giunti 10 frammenti di cui 3 molto ampi
e gli altri corti, forse perché a un certo punto aveva perso interessa e non lo si copiava più.
-Lai du chevrefeuille di Maria di Francia (unica grande letteraria donna del periodo): il lai è
un breve componimento e racconta un episodio molto breve: Isotta, con il suo seguito,
attraversa una landa per andare in una sua casa e Tristano, cacciato da corte, fa di tutto
per vederla; pianta un bastone vicino a un nocciolo coperto dal caprifoglio (chevrefeuille,
pianta rampicante) con un’iscrizione che dice “come il nocciolo non sta senza caprifoglio, io
non sto senza di te”; Isotta capisce che è stato lui, si allontana dagli altri, lo trova e passa
un pomeriggio d’amore con lui.
-Folie Tristan di Berna (simile a quello di Beroul) e Folie Tristan di Oxford (simile a quello di
Thomas); Berna e Oxford sono i luoghi dove sono conservati i manoscritti e sono molto
simili tra loro in quanto raccontano lo stesso episodio della vita di Tristano: Tristano è in
Bretagna ma vuole rivedere Isotta, allora si imbarca, va in Cornovaglia ma per non essere
riconosciuto, si veste da pescatore, si tinge la faccia di giallo e si rasa a metà la testa; va alla
corte di Marco presentandosi come un folle (ai tempi erano tipo dei giullari) ma Isotta lo
riconosce perché il suo cane le va incontro; con una scusa Isotta lo porta nella sua camera
e passano un pomeriggio d’amore.
-Tristan di Chretien de Troyes: nel prologo del Cligès (1176) dice di aver scritto quest’opera
ma non ci è mai giunta quindi non sappiamo se è un romanzo o una narratio brevis; ci
stupisce perché nel Cligès aveva criticato molto la materia arturiana.
MATERIA REALISTICA: è la materia meno usata e Jean Bodel nella chanson de Saisnes non
ne aveva parlato; viene considerata a sé solo dopo, forse perché è molto diversa dalle
altre: la struttura, la metrica e lo scenario sono gli stessi delle altre materie ma il mondo
non è magico e gli eventi narrati possono essere successi davvero (sono verosimili).
L’autore più importante è JEAN RENART che scrisse due romanzi, Guillaume de Dole e
L’escoufle. Guillaume de Dole: i personaggi hanno corrispondenze con persone realmente
esistite anche se sono romanzati e narra di Guillaume, feudatario potente, che si innamora
di una nobile fanciulla solo avendola vista in un ritratto e vuole sposarla; a corte un
dignitario è contrario al matrimonio allora dice in giro e si vanta di sapere che la ragazza ha
un neo/voglia a forma di rosa sulle parti intime, in questo modo lei non era più degna di un
matrimonio così importante perché si era fatta vedere senza vestiti o aveva avuto un
rapporto amoroso con un altro. Dopo molte peripezie, Guillaume scopre che il suo
dignitario aveva mentito (ne era venuto a conoscenza non perché lei gli si era concessa ma
perché la nutrice di lei lo aveva raccontato), lo caccia dal palazzo e sposa la fanciulla.
L’escoufle: è una parola in langue d’oil che significa nibbio, un uccello rapace poco
importante perché non si può addomesticare e cacciare. L’amore tra un cavaliere e una
ragazza è ostacolato e i due fuggono in una foresta; l’anello che lui ha donato a lei viene
conservato in un sacchetto di velluto rosso ma viene scambiato per un pezzo di carne dal
nibbio che lo prende e vola via. Il cavaliere lo insegue allontanandosi e la giovane perde di
vista l’amato; dopo numerose peripezie alla fine i due si ritrovano.
ROMANZO ALLEGORICO: l’allegoria è quando dei concetti complessi vengono resi
accessibili al pubblico attraverso la personificazione; il romanzo allegorico è stato inventato
da Boezio con De consolatio philosophie ma il più importante della storia è il Roman de la
Rose, che ebbe molto successo sulla cultura europea. Il Roman de la Rose viene iniziato da
Guillaume de Lorris nel 1237 ma è incompiuto, si interrompe dopo 4000 octosyllabes e non
si sa il motivo: un cavaliere cammina in campagna, entra in un giardino e vede una fontana
di acqua limpida (era la fontana dove era morto Narciso; Narciso non amava nessuno, un
giorno vede la sua immagine riflessa in una fonte e si innamora, annega nell’acqua
cercando di unirsi all’immagine e Zeus, impietosito, lo trasforma in un fiore, il narciso);
all’interno della fontana c’è un prisma di cristallo che riflette tutto il giardino, lui si
innamora dell’immagine di un bocciolo di rosa riflessa e inizia a cercarlo (è l’allegoria della
donna); appena la vede e sta per prenderla, dei personaggi allegorici (incarnano concetti
astratti) lo cacciano dal giardino. L’opera si interrompe e viene ripresa oltre 40 anni dopo
da Jean de Meun, un universitario studente di una filosofia nuova attenta ai dati reali e
concreti; il testo finale è di 21 mila octosyllabes e Jean mantiene gli stessi personaggi di
Guillaume ma ne aggiunge di nuovi, che hanno lo scopo di spiegare al protagonista i
principi e le caratteristiche della nuova filosofia; il cavaliere intraprende un percorso di
formazione intellettuale e filosofica. Il romanzo quindi passa dall’essere allegorico a essere
enciclopedico, l’elemento letterario si intreccia con quello didattico: ad esempio viene
spiegato che i nomi sono convenzionali, non c’è corrispondenza tra un nome e il suo
significato, o che non si può credere nella magia perché non si può motivare
razionalmente. Alla fine del romanzo, il cavaliere trova il bocciolo di rosa e lo prende quindi
compie l’atto sessuale con l’amata dopo un progresso interiore morale e intellettuale.
NARRATIO BREVIS/NARRAZIONE BREVE: è un genere innovativo in versi, non in prosa, che
segue lo stesso schema metrico del romanzo (couplets di octosyllabes a rima baciata).
Narratio perché è la narrazione di una vicenda, brevis perché lo svolgimento della trama è
lineare, senza intrecci, episodi aggiuntivi, anticipazioni, flashback, si inizia da un punto e si
arriva alla conclusione; il numero dei personaggi è limitato alle esigenze della trama.
NARRATIO BREVIS MEDIOLATINA: di tipo religioso o laico e ci sono 3 generi:
1.VITE DEI SANTI: molto usate nelle omelie o nelle preghiere personali e segue il modello
dei Vangeli (vita di Cristo) e la sequenza vita-morte-miracoli (o riguarda uno o tutti e tre).
Ricordiamo la Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, arcivescovo di Genova; legenda perché
sono cose che devono essere lette e aurea per la preziosità del contenuto. È la narratio
brevis più famosa e importante e tratta la vita, morte e miracoli dei santi “per curriculum
anni”, ossia nell’ordine in cui vengono festeggiati nel cattolicesimo (dal 1 gennaio in poi).
2.EXEMPLA: deriva da exemplum-esempio, ossia un breve racconto che spiega concetti
liturgici attraverso esempi; la transustanziazione (l’ostia diventa il corpo di Cristo) viene
spiegata a un miscredente con degli esempi tipo che pugnalando un’ostia esce del sangue;
per il peccato di gola (si mangia qualcosa che non è necessario) l’esempio della suora che
va nell’orto per prendere l’insalata per il pranzo collettivo, ne mangia una foglia e diventa
indemoniata perché lì c’era seduto un diavoletto, un esorcista allora la libera e spiega le
conseguenze del peccato di gola. Venivano scritti in latino ma trasmessi oralmente in
volgare nelle prediche a messa; solo gli exempla di San Bernardo di Siena ci sono stati
trasmessi in volgare perché trascritti dai seguaci mentre li raccontava. Sono riuniti in
raccolte che possono essere per ordine alfabetico del concetto che spiegano (l’Alphabetum
narrationum) o per materia/soggetto, il più frequente, tra cui ricordiamo il Trattato sui
diversi argomenti che possono essere oggetto di predicazione di Etienne de Bourbon o il
Dialogus miraculorum di Cesario Heisterbach, diviso in 12 ambiti che formano un dialogo
tra un novizio e il suo magister, che gli spiega gli argomenti con degli exempla.
3.FAVOLISTICA: molto diffuso, si basa sulle favole di Esopo (tradotte in latino) e Fedro ad
esempio animali con caratteristiche simili a quelle umane (la volpe e l’uva, il topo di città e
di campagna); è usato perché le favole sono semplici dal punto di vista strutturale e
sintattico ma hanno una morale finale; la raccolta di favole più importante è il Romulus.
Una caratteristica generale delle narratio brevis è l’umorismo: un abate fa una predica ai
suoi fedeli che si stanno addormentando, a un certo punto dice che inizierà a parlare di
Artù e tutti si svegliano e vengono rimproverati.
NARRATIO BREVIS IN VOLGARE: spesso deriva da quella latina, soprattutto agiografica;
molti autori di romanzi nel Medioevo sono anche autori di narrazioni brevi, ad esempio
Wace, inventore del genere romanzesco, che inizia la sua attività letteraria con 5 narrazioni
brevi, 3 dedicate alla madonna e 2 dedicati ai santi (tutte delle prima metà del XII secolo):
VITA DI SANTA MARGHERITA: è la prima narrazione breve scritta in volgare narra la storia
di Santa Margherita, la santa protettrice del parto. Era una giovane di Antiochia (Turchia)
che aveva preso i voti ma un perfetto pagano la vuole sposare; lei rifiuta e lui si vendica
torturandola e mandandola in carcere, dove un demone in forma di drago la inghiottisce.
Riesce ad uscire illesa dalla pancia del drago o facendo il segno della croce o squartandola
col crocifisso, per cui chiede una grazia a Dio: così come lei è uscita illesa dalla pancia del
drago, vuole che tutti i bambini escano illesi dalla pancia della madre e che lei sopravviva.
VITA DI SAN NICOLA: Nicola, vescovo di Myra (Turchia), passeggiando per strada sente un
padre che dice alle sue tre figlie che, a causa della sua povertà, non può pagare le doti
quindi che sono destinate al bordello; Nicola torna a casa, scioglie tutto l’oro che ha
formando tre palle d’oro e di notte, per non essere visto, le butta giù dal camino della loro
casa. Il giorno dopo il padre le trova e può permettersi di pagare le doti alle figlie; San
Nicola diventerà poi Santa Klaus, Babbo Natale, che appunto getta i regali dal camino.
Anche Gonzalo de Berceo scrive delle narratio brevis che dedica alla Madonna: i Milagros
de Nuestra Señora, del 1260 (in Spagna è sempre più tardivo), che mostra i suoi miracoli.
LAIS (lais/lè): la parola lais deriva dal celtico laid, un genere di cui sappiamo poco che aveva
a che fare con la musica (forse narrazioni accompagnate dalla musica, forse cantate sulla
musica o forse erano componimenti solo musicali con un titolo che evocava una leggenda);
nel tempo i lais hanno perso il rapporto con la musica e sono testi letterari in couplets di
octosyllabes in rima baciata suddivisi per materie, come i romanzi:
MATERIA CLASSICA O ANTICA: ricordiamo il Lai d’Aristote: Aristotele, maestro di
Alessandro Magno, cerca di spiegare a lui che bisogna sfuggire all’influsso negativo delle
donne; mentre parla, la moglie di Alessandro ascolta da una finestra e vuole far capire ad
Aristotele che è impossibile sfuggire al fascino delle donne, quindi lo inganna e lui si
innamora di lei. Lei gli dice che se lo ama davvero, deve mettersi a 4 zampe a farsi
cavalcare da lei come se fosse un cavallo, lui lo fa ma Alessandro Magno vede la scena e
capisce che l’insegnamento di Aristotele era privo di fondamenti.
MATERIA BRETONE O ARTURIANA: Maria di Francia, la più grande letterata del Medioevo,
tradusse una raccolta di favole inglese, il trattato sul Purgatorio di San Patrizio dal latino e
scrisse 12 lais, di cui ne ricordiamo 3:
LAI DE LANVAL: un cavaliere, dimenticato dal re dalla distribuzione di terre e donne, vaga
per la campagna finché il cavallo comincia a fremere come se sentisse qualcosa; Lanval
scende e si sdraia all’ombra ma arrivano due fanciulle che gli dicono che la loro signora
voleva conoscerlo. La signora (è una fata) gli dice che vuole dargli il suo amore e qualsiasi
ricchezza voglia a patto che non parli a nessuno del loro amore; lui accetta ma un giorno
una regina, innamorata di lui, gli chiede di diventare suo amante. Lanval rifiuta dicendo che
aveva già un’altra donna e la regina si arrabbia pensando che le abbia mancato di rispetto
inventandosi la relazione; gli viene chiesto di dimostrarlo e lui è disperato perché avendo
parlato della fata, non aveva mantenuto la promessa e aveva paura di non rivederla più. La
fata arriva per aiutarlo e se ne va; Lanval si allontana con lei e da quel momento nessuno
l’ha mai più visto.
LAI DE BISCLAVRET: un cavaliere sposato, Bisclavret, era stato vittima di una maledizione
per cui una volta a settimana usciva di casa, si spogliava, metteva i vestiti sotto un sasso e
si trasformava in lupo mannaro per poi la mattina dopo rivestirsi e tornare umano;
racconta questo alla moglie, che aveva una amante, e una notte i due gli prendono i vestiti
da sotto al sasso costringendolo a essere un lupo mannaro per sempre. Un giorno, il re è a
caccia e vede il lupo avvicinarsi a lui e inchinarsi perciò decide di portarlo a corte dato che
era qualcosa di meraviglioso e strano; a una festa di corte, Bisclavret vede sua moglie col
nuovo marito e le salta addosso strappandole il naso. Un consigliere del re capisce che
qualcosa non andava perché lui era sempre stato buono allora lo porta in una stanza dove
ci sono dei vestiti; Bisclavret li indossa, torna umano e racconta tutto al re che gli
restituisce il suo feudo e da quel momento tutte le discendenti femmine della donna
nasceranno senza naso per ricordare quel grave tradimento. Bisclavret viene tradotto con
Werwolf, lupo mannaro (il titolo era in 3 lingue: bretone, langue d’oil e medio inglese).
LAI DE CHEVREFEUILLE: già visto, su Tristano e Isotta.
MATERIA REALISTICA: ne abbiamo pochissime e come per i romanzi, le vicende sono
verosimili senza elementi fantastici o del passato lontano; ricordiamo il Lai de l’ombre di
Jean Renart: ombre significa sia ombra sia immagine riflessa ed è la storia di un cavaliere
innamorato di una donna sposata, la quale non vuole però avere amanti e lo rifiuta
sempre; un giorno lui la accompagna a un pozzo per dirle addio, prende un anello e le dice
che l’anello lo aveva preso per lei ma che poi aveva trovato un’altra donna più bella e
meritevole, il suo riflesso nell’acqua, e lo getta nel pozzo; lei cede e diventano amanti.
MARIA DI FRANCIA: non sappiamo molto di lei; forse è Maria de Beaumont de Meulan,
figlia di Garelan de Meulan, moglie di Hugues (hug) de Talbot (barone cambro-normanno,
del Galles, che aveva partecipato alla conquista cambro-normanna dell’Irlanda) e cugina di
Richard de Claire dall’arco forte (anche lui partecipe alla conquista dell’Irlanda).
Deduciamo queste cose dal Trattato sul Purgatorio di San Patrizio, un testo molto
complesso tradotto da Maria di Francia nel 1190 in cui viene inventata la figura del
purgatorio. Prima di quest’opera c’erano inferno e paradiso, il purgatorio rendeva le
persone più tranquille perché gli permette di espiare le colpe in vista del paradiso; è stato
oggetto di discussione durante la riforma luterana infatti ancora oggi i protestanti non lo
riconoscono. L’ipotesi sull’identità di Maria è confermata dal fatto che nei possedimenti in
Irlanda del marito e del cugino ci sono le abbazie dove è stato creato il purgatorio. San
Patrizio era andato in Irlanda per convertire il popolo al cattolicesimo ma era difficile; Dio
gli dice che per credere devono vedere quindi deve mostrare alla gente a quali pene vanno
incontro se non si convertono. Nel suo trattato sul purgatorio San Patrizio sceglie come
protagonista un cavaliere che compie avventure non per una dama o per prestigio ma per
espiare le sue colpe. Maria di Francia ha tradotto quest’opera in 5 anni prima ancora che si
diffondesse, dato che aveva accesso ai manoscritti; scrisse anche 12 lais tra il 1160 e il
1175, ispirate alla tradizione orale bretone (il titolo veniva scritto in tre lingue: bretone
perché lingua originaria, anglo-normanno perché scrive in quella lingua e medio-inglese
perché forse viveva alla corte di Enrico II Plantageneta). Infine, scrisse le Fables, raccolte di
favole composta tra il 1167 e il 1189; lei dice che le favole sono state scritte in greco da
Esopo, poi tradotte in latino, poi in medio-inglese da re Alfredo e infine in anglo-normanno
da lei. Il problema è che non abbiamo mai trovato la traduzione in medio-inglese, re
Alfredo non hai mai scritto un’opera simile, alcune fiabe si ispirano al Romolo di Milanzio
(molto diffuso) e di altre non si conoscono le fonti (potrebbe averle scritte ex novo). In
alcuni casi i protagonisti non sono animali ma uomini e la morale è fittizia e ironica quindi
troviamo l’umorismo, un aspetto comune con il fabliaux, sottogenere della narratio brevis.
FABLIAUX: deriva dal latino fabellum che diventa fabliaux in piccardo (variante dell’antico
francese molto complessa e difficile da tradurre); nasce in Piccardia e dal punto di vista
quantitativo abbiamo molti testi. I fabliaux sono brevi racconti comici con una morale
finale (spesso non collegata alla narrazione aumentando la comicità) e in un contesto
cittadino che anticipa la classe sociale della borghesia; le figure più importanti sono Jean
Bodel, Gautier de Leu (Gualtiero il lupo) e Rutebeuf (bue rude). JEAN BODEL: viene dalla
città di Arràs in Piccardia, la prima città francese che si allontana dal mondo feudale
avvicinandosi al mondo dell’artigianato, commercio e banche; nasce qui una nuova classe
sociale che diventerà la borghesia (la società passa dall’essere tripartita, chierici-nobili-
contadini, a quadripartita, chierici-nobili-borghesi-contadini). Insieme a Chretien de Troyes
è il miglior scrittore in lingua romanza prima di Dante; apparteneva alla confraternita dei
giullari e la sua produzione comprende 9 fabliaux, un’opera teatrale (Le jeu de Saint
Nicolas), 5 pastorelle, la Chanson de Saisnes (chanson de geste dove suddivide i romanzi
per materia) e Congès (consgè): è la prima opera della letteratura romanza medievale in
cui c’è l’individualità dell’autore; nel 1205 Bodel prende la lebbra e viene portato in un
lebbrosario per non contagiare e ci muore 5 anni dopo. Prima di entrarci scrive Congès
dove si congeda salutando in forma poetica la sua città, gli amici e chi gli era stato vicino, in
maniera personale senza le caratteristiche della poesia formale; descrive gli effetti della
lebbra (pezzi di corpo e capelli si staccano) e con questo nasce la poesia soggettiva. Tra le
fabliaux ricordiamo Brunain, la vache au pretre (Brunain, la mucca del prete): due poveri
contadini ascoltando la predica della messa sentono dire dal prete che chi dà a Dio
qualcosa, ne riceverà il doppio; a casa ci ripensano, vedono la loro mucca Blerain molto
magra, quindi non molto utile, e decidono di donarla a Dio portandola dal prete. Il prete,
disonesto, non gli spiega che era una narrazione metaforica, si prende la mucca e la porta
nella stalla insieme alla sua mucca Brunain. Di notte Blerain, molto affezionata ai vecchi
padroni, scappa trascinando Brunain e torna nella stalla dei contadini; il giorno dopo, i due
vedono le mucche quindi la morale è che è vero che Dio ti restituisce il doppio di quello
che gli dai. Le fabliaux diventeranno un’ispirazione per il Decameron di Boccaccio e per il
Fabulazzo Osceno di Dario Fò.
NARRATIO BREVIS IN LANGUE D’OC: è legata alla cultura trobadorica e per la prima volta
troviamo narrazioni brevi in prosa con le Vidas e i Razos. VIDAS: sono in prosa, della metà
del 1200, e tratta le vite dei trovatori, a volte fittizie perché ci si basava sui contenuti delle
loro liriche che non rispecchiano veramente le vicende dell’autore. RAZOS: deriva dal latino
rationem-spiegazione, sono in prosa e sono spiegazioni/commenti delle liriche (ispira la
Vita Nova di Dante). NOVAS: queste invece sono in couplets di octosyllabes a rima baciata,
significa notizie/racconti di fatti nuovi, e ce ne rimangono solo 4; le tematiche sono
trobadoriche soprattutto sulla funzione etica e sociale del giullare.
TEATRO: ci restano pochissimi testi del teatro per cui è difficile capire quale fosse la loro
rappresentazione; non si tratta di letteratura teatrale ma di copioni usati dagli autori. Nel
mondo classico il teatro aveva molta importanza, era un modo attraverso il quale Roma
affermava la sua presenza anche nei territori più remoti dell’impero (ogni città aveva vie
d’accesso, scuole, tribunali e teatri). Il teatro romano deve comunque molto a quello greco
e la struttura era a emiciclo (semicircolare) con gli spettatori seduti sui gradoni (si sfruttava
di solito una collina); il palco aveva alle spalle un paesaggio come sfondo (spesso il mare) e
nella parte inferiore c’erano giare di terracotta vuote per amplificare la voce, nella parte
superiore il palco vero e proprio con gli attori. Gli attori vestivano scarpe rialzate per essere
più visibili e indossavano maschere per farsi riconoscere da lontano o per rappresentare
personaggi tipizzati o femminili (tutti gli attori erano maschi); inoltre, le maschere avevano
funzione megafonica, amplificavano il suono. LA CONDANNA CRISTIANA: con l’avvento del
cristianesimo il teatro venne criticato dalla Chiesa in quanto gli attori fingevano di essere
qualcuno che non erano (il teatro dava la possibilità all’uomo di essere due persone
contemporaneamente); poi, secondo la visione cristiana, l’uomo è fatto a immagine e
somiglianza di Dio quindi indossare una maschera o truccarsi il volto equivale a una
bestemmia perché rifiuti di accettare la somiglianza a Dio. Questo concetto viene espresso
da Tertulliano, un padre cartaginese della Chiesa, nel De Spectaculi e nel De Ornamentu
Feminarum; inoltre, dice che è stupido andare a teatro e che l’unico spettacolo degno di
essere visto è il giudizio universale. L’Impero Romano si stava indebolendo, vengono dati
meno fondi, di conseguenza non c’erano più spettacoli teatrali e i teatri venivano
abbandonati diventando cave di pietra o venendo usati per costruire case (es. piazza ovale
a Lucca, i muri del teatro ovale son stati usati per fare i muri delle case). Nel X secolo il
teatro rinasce in forme diverse e in Chiesa ad esempio con il Quem Queritis, scritto nel 923
e trovato nell’abbazia di Limoges; è stato creato nella notte di Pasqua da dei monaci e non
ha nulla a che vedere con il teatro classico. L’altare diventa il sepolcro di Cristo, un monaco
impersona un angelo e tre monaci diventano le tre Marie (le prime che si accorsero della
resurrezione); non sappiamo se c’erano elementi scenici, se il monaco dell’angelo aveva
una tunica bianca o se gli altri tre avevano qualcosa che permetteva di identificarli come
donne (in un capitello spagnolo, nella Visitatio Sepulchri 3 monaci hanno in testa 3
tovagliette da altare per mostrare che erano donne, quindi era possibile). Il testo dice:
“Domanda: Cosa cercate nel sepolcro, o seguaci di Cristo? Risposta: Gesù Nazareno, o
abitante del cielo. Angeli: Non è qui. È risorto, com’era stato profetizzato. Andate,
annunciate che è risorto dal sepolcro”. Vediamo quindi il nucleo minimo della
rappresentazione teatrale: qualcuno si finge qualcun’altro, qualcosa rappresenta
qualcos’altro e c’è la struttura del teatro futuro (domanda e risposta). DRAMMA
LITURGICO: il dramma liturgico è una rappresentazione teatrale inserita nella
liturgia/messa quindi svolta in chiesa. Il Quem Queritis si amplia di personaggi e si sviluppa
evolvendosi nell’ORTOLANUS: l’ortolanus è la persona che le tre Marie incontrano mentre
vanno al sepolcro e hanno un breve dialogo con lui (in realtà lui è Cristo); viene anche
inserita qui la figura dello speziale, che vende alle tre donne le essenze profumate per
lavare il corpo di Cristo. È una rappresentazione complessa fatta di dialoghi e narrazione,
rappresentata nella liturgia pasquale. Nella liturgia natalizia veniva rappresentato invece
l’ORDO STELLAE (XI secolo), di cui ce ne sono molti e riguarda la stella cometa che conduce
i re magi a Betlemme (ordo indicava le regole per effettuare un qualcosa di liturgico, in
ambito teatrale è il copione); da questo ne derivano gli Autos de los Reyes Magos, in
Spagna del XII secolo, di cui ci rimane solo un frammento di 147 versi ma è la prova di
come le rappresentazioni teatrali hanno raggiunto la dimensione del volgare. Altro
dramma liturgico natalizio è l’ORDO PASTORUM in cui i pastori vanno a Betlemme per
rendere omaggio a Gesù appena nato.
JEU D’ADAM: è la prima opera teatrale in volgare romanzo giunta per intero; il titolo vero
era Ordo Rappresentationis Ade (copione per la rappresentazione della storia di Adamo) e
risale alla prima metà del XII secolo. Era in anglo-normanno ma il testo che ci è giunto è
stato copiato in Provenza e lo sappiamo perché ci sono errori di trascrizione fonetica che
un copista provenzale poteva aver fatto e perché il manoscritto è in carta (è il primo della
letteratura volgare romanza) e la carta la aveva solo gli arabi o i territori che confinavano
con loro. È un dramma para-liturgico perché si rivolge sia ai fedeli sia a un pubblico più
ampio forse sul sagrato della chiesa; è scritto per il periodo della settuagesima (precede la
quaresima). Il manoscritto era in una biblioteca del Sud della Francia ma è stato venduto e
infine venne messo nella biblioteca di Tours, dov’è oggi; nel 1940 però l’avanzata tedesca
incendiò la biblioteca minacciando molti manoscritti, tra cui questo, che venne portato in
un bunker dall’esercito algerino alleato dei francesi. Si era salvato, nonostante fosse
brutto, perché un filologo ne aveva reso nota l’importanza; è diviso in tre parti: storia di
Adamo ed Eva (dalla creazione alla cacciata e una breve permanenza sulla Terra), storia di
Caino e Abele (i figli) e l’Ordo Prophetarum (sfilata dei profeti, in cui 12 profeti
pronunciano ognuno la loro profezia). Ha una visione positiva di speranza perché dopo il
peccato originale e il primo omicidio c’è la redenzione annunciata dai profeti: arriverà
Cristo che cancellerà il peccato originale col battesimo. Le parti recitate sono in volgare e
sono couplets di octosyllabes a rima baciata alternati a quartine di decasyllabes monorimi;
le note di regia sono in latino e spiegano la tonalità di voce, la postura da tenere e la
scenografia che comprendeva il paradiso terrestre (drappi di seta e alberi con frutti) e
l’inferno (con fumo, rumore e diavoli che tentano Eva e portano via le persone che
dovevano andare all’inferno; giravano per la piazza spaventando il pubblico). Il Jeu d’Adam
è perfetto per stile, scenografia e bilanciamento tra elementi dialogici e dinamici.
JEU DE SAINT NICOLAS DI JEAN BODEL: è la prima opera teatrale in volgare non liturgica; è
scritta in piccardo e venne rappresentata per la prima volta il 5 dicembre 1200. Non è
liturgica anche se il protagonista è un santo, San Nicola, patrono di chierici, studenti,
bambini (diventerà Babbo Natale), mercanti e ladri (questo perché lui era vescovo di Myra,
dove c’è il suo sepolcro, ma dei mercanti hanno preso il corpo per portarlo nella loro città
di origine, Bari, per arricchirla di reliquie quindi fu un furto). È in couplets di octosyllabes a
rima baciata e l’inizio è epico: dopo un combattimento tra musulmani e cristiani (ci si
avvicinava alla terza crociata in quel periodo), i musulmani vincono e massacrano tutti;
rimane solo un vecchio, inginocchiato davanti alla statua di San Nicola. L’emiro lo vede ed
è stupito dal fatto che sia vivo e che sia inginocchiato davanti a un “idolo cornuto”
(essendo vescovo aveva la mitra in testa che sembrava due corna) quindi, al palazzo
dell’emiro ad Arras, gli chiede chi sia e che poteri abbia; gli risponde che è San Nicola e che
protegge i tesori e fa ritrovare i tesori persi. L’emiro vuole che lo dimostri perciò mette in
piazza tutto il suo tesoro con sopra una statuetta di San Nicola per vedere se lo protegge
davvero; di notte 3 ladri rubano il tesoro e ne sprecano gran parte in una taverna. La
mattina l’emiro scopre che il tesoro è scomparso e condanna a morte il vecchio; in carcere,
il vecchio prega San Nicola affinché lo salvi e il santo scende dal cielo, va nella taverna,
rimprovera i ladri e li costringe a restituire il tesoro. Il giorno dopo il tesoro è tornato,
l’emiro dice che San Nicola è il più potente dei suoi dei (nel Medioevo per screditare i
musulmani li si paragonavano ai pagani dicendo che erano politeisti e che avessero una
trinità: Maometto, Apollo e Tervagan) e si converte al cristianesimo. La conversione non è
totale infatti l’emiro di oltre l’albero secco non si converte perché nel suo paese non
esisteva il denaro, si facevano solo scambi; di conseguenza, San Nicola risulta inutile se non
c’è denaro.
ADAM DE LE HALLE: detto Adamo il gobbo non perché era gobbo ma per la dimensione
satirica delle sue opere; nasce ad Arràs nel 1237 e muore a Napoli alla corte d’Angiò nel
1288. È importante soprattutto per la musica polifonica (più voci contemporaneamente) e
scrive in piccardo; di lui ci sono rimaste liriche polifoniche (ballate, virelai, mottetti,
rondeau), un congès, una chanson de geste dedicata a Carlo d’Angiò (Le roi de Sicile) e due
opere teatrali (Jeu de Robin et Marion e Le jeu de la feuillée). JEU DE ROBIN ET MARION: è
la rappresentazione teatrale di una pastorella soggettiva, l’autore si ferma incantato a
guardare la gioia spensierata dei pastori che cantano e ballano e Robin tenta di sedurre
Marion; è la prima opera teatrale in musica che ci è arrivata e i nomi sono stereotipati
(Robin è il nome tipico dei pastori e Marion delle pastore). LE JEU DE LA FEUILLÈE (fogliè): è
il suo capolavoro ed è la rappresentazione teatrale del congès; è stato messo in scena tra il
3 e il 5 giugno del 1276, commissionato da dei giullari per una festa della Madonna (il 4
giugno). La Madonna aveva salvato i 3 giullari dal fuoco di Sant’Antonio quindi loro
avevano creato una capanna (una feuillée) di rami e foglie con all’interno immagini della
Madonna e tre candele per ringraziarla. Ogni anno ad Arràs i giullari costruivano questa
capanna e distribuivano candele in modo che si salvassero dalla malattia. Nella notte della
festività, Adam (il protagonista è l’autore) si lamenta con l’amico Richesse d’Auris (Rikes
d’Auris, ricchezza d’oro) della sua infelicità: aveva rinunciato gli studi a Parigi per sposare
una ragazza che ora non gli piace più quindi vuole abbandonare tutto e andare a studiare a
Parigi, per cui scrive il congès. Durante la festività succede di tutto: c’è un venditore di
reliquie false di Sant’Acario (cura la pazzia), un predicatore che vende prediche per soldi e
ci sono le fate, alle quali si può chiedere un dono o di realizzare un desiderio ma bisognava
accoglierle bene. Adam e Richesse preparano una tavola imbandita e le fate elogiano la
perfezione di essa, tutte tranne una perché si erano dimenticati di metterle il coltello; i loro
desideri erano di andare a Parigi e di diventare ancora più ricco ma mentre due fate sono
d’accordo, la terza non vuole acconsentire perché non gli era stato dato il coltello. Le altre
due la convincono a fare un dono e lei vorrà che Adam non vada a Parigi ma resti sempre lì
con sua moglie e che Richesse diventi pelato (i capelli lunghi erano simbolo di ricchezza).
Quindi quello di prima era un falso congedo dato che dovrà rimanere lì.

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