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Letteratura Italiana Ecampus

Il corso di Letteratura Italiana 1, tenuto dalla Prof.ssa Anna Di Veroli, copre la storia della letteratura italiana dalle origini all'Unità d'Italia, con focus su autori, opere e generi letterari. Gli studenti devono approfondire la Divina Commedia di Dante attraverso letture e analisi testuali, e sono incoraggiati a consultare la Scheda Corso per i testi obbligatori. Il programma include anche una riflessione sulla periodizzazione della letteratura e sull'evoluzione della lingua italiana.

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Valina Babi
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Il corso di Letteratura Italiana 1, tenuto dalla Prof.ssa Anna Di Veroli, copre la storia della letteratura italiana dalle origini all'Unità d'Italia, con focus su autori, opere e generi letterari. Gli studenti devono approfondire la Divina Commedia di Dante attraverso letture e analisi testuali, e sono incoraggiati a consultare la Scheda Corso per i testi obbligatori. Il programma include anche una riflessione sulla periodizzazione della letteratura e sull'evoluzione della lingua italiana.

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Letteratura italiana

FACOLTÀ: LETTERE CORSO DI LAUREA: LINGUE E LETTERATURE STRANIERE


INSEGNAMENTO: LETTERATURA ITALIANA 1 - 6 CFU DOCENTE: Prof.ssa Anna Di Veroli
indirizzo e-mail: [email protected]

CONTENUTI DEL CORSO: -La Storia della letteratura italiana dalle origini all’Unità
d’Italia inclusa: i periodi storicoletterari, gli autori, le opere principali, e i vari generi
letterari/correnti letterarie; -Conoscenza approfondita della storia, della struttura e
della suddivisione in cantiche della Divina Commedia di Dante; -Lettura, parafrasi ed
analisi testuale di 6 canti della Divina Commedia indicaproti nella bibliografia a seguire;
lo studente dovrà dimostrare di sapersi orientare all’interno dei brani proposti, di
saperli leggere correttamente, saperli parafrasare ed analizzare, saper collocare
l’autore correttamente e di conoscere le figure retoriche e gli stili in essi contenuti oltre
che capirne il significato e saperlo commentare; -Studio di monografie specifiche sui
temi affrontati (vd. Scheda Corso)

PROGRAMMA DEL CORSO: Ogni nuovo anno accademico il programma può essere
modificato, o restare lo stesso dell’anno precedente. Per questa eventualità lo
studente deve essere al corrente del fatto che esistono dei testi indicati come
obbligatori nella Scheda Corso e che pertanto sono necessari alla preparazione
dell’esame. La Scheda Corso dell’anno accademico in cui si sostiene l’esame è un
importantissimo strumento-guida per lo studio della disciplina.

E’ FONDAMENTALE SCARICARE LA SCHEDA CORSO DELL’ANNO ACCADEMICO IN


CORSO, SEMPRE PRESENTE SUL PORTALE ECAMPUS, E SEGUIRE LE INDICAZIONI
CONTENUTE PRIMA DI INIZIARE LA PREPARAZIONE DELL’ESAME NON SCARICATE
UNA SCHEDA CORSO DI UN ANNO PER POI SOSTENERE L’ESAME NELL’ANNO
SUCCESSIVO, MA SCARICATELA APPENA PRIMA DI INIZIARE A PREPARARE L’ESAME, O
COMUNQUE NEL MEDESIMO ANNO ACCADEMICO IN CUI SOSTENERLO

PRESENTAZIONE Preliminari I. Il corso si prefigge la conoscenza dei fatti salienti della


letteratura italiana dai primi documenti scritti fino all’Unità: ovvero 600 anni di
letteratura. La scelta è caduta su autori e movimenti che hanno avuto importanza per la
loro continuità, per avere cioè fatto da modelli e anti-modelli ineludibili per la
letteratura successiva.

Si è quindi cercato di mettere in evidenza i nessi fra i diversi autori e movimenti e i


diversi periodi storico-letterari, in modo scarno ma il più possibile diretto (talora le
connessioni con altri temi o autori sono indicate anche da una freccia →). Le citazioni
(di cui talora fornisco anche la parafrasi) sono ridotte al minimo, ridotte cioè alle “pezze
d’appoggio” la cui conoscenza costituisca un chiarimento e faciliti la memoria.
La stessa definizione di testo letterario può essere oggetto di discussione. Potremmo
tuttavia affermare (con Ernst Cassirer) che, se tutti gli animali comunicano, all’uomo e
solo a lui spetta la possibilità di significare, cioè rappresentare il mondo attraverso
sistemi di significazione simbolici. Di questi ultimi fan parte mito, arte, filosofia,
scienza, tecnologia... Codici culturali che tutti insieme formano un sistema culturale
dotato di tratti distintivi riconoscibile. In una data società essi entrano in relazione e si
trasformano, sia seguendo linee di sviluppo autonome, sia intrecciandosi e
influenzando reciprocamente gli altri. Tutti, per di più, sono soggetti ai mutamenti
economici e sociali che, sia pure indirettamente, finiscono per influenzarli.

Case editrici e collane. Il prestigio di una casa editrice e di una collana (ovvero un
numero di volumi raggruppati per una qualche omogeneità di contenuto, stile o altro
cui corrisponde una omogeneità di veste editoriale) può essere un primo orientamento
per la scelta di una buona edizione di un’opera corredata di introduzione, commento e
glossario che chiariscano il testo, e un testo affidabile*. Per testo “affidabile” si intenda
un testo riscontrato, se esiste, sull’autografo o sulle più autorevoli testimonianze così
da restaurare la versione più vicina all’originale, scrostando via errori, fraintendimenti,
ammodernamenti illegittimi insinuatisi nelle varie edizioni (tale testo critico, se è fornito
di una giustificazione del percorso seguito lo chiamiamo edizione critica)

Per testo “affidabile” si intenda un testo riscontrato, se esiste, sull’autografo o sulle più
autorevoli testimonianze così da restaurare la versione più vicina all’originale,
scrostando via errori, fraintendimenti, ammodernamenti illegittimi ecc. insinuatisi nelle
varie edizioni (tale testo critico, se è fornito di una giustificazione del percorso seguito
lo chiamiamo edizione critica).

Prive di commento, oltre alle Edizioni Nazionali di autori quali Dante, Aretino, ecc.,
sono le pubblicazioni della Commissione per i Testi di Lingua (Bologna, ma con ottimi
glossari), la collana di Scrittori d’Italia di Laterza (Bari-Roma); anche commentate le
edizioni Antenore (Padova), Salerno (Roma) e i Nuovi Classici Annotati della casa
editrice Einaudi (Torino), ecc. Ma ottime edizioni si possono avere anche in collane
economiche BUR Rizzoli, Oscar Mondadori, ecc.

Biblioteche digitali. Si può disporre di sempre più fornite biblioteche digitali (non a
pagamento), contenenti trascrizioni elettroniche di testi e documenti. Tra queste, le
principali sono: Progetto Gutenberg: http:/promo.net/pg; e Progetto Manuzio:
http://www.liberliber.it; Biblioteca della Letteratura Italiana: www.bibliotecaitaliana.it.
Vi sono poi biblioteche digitali specializzate in singoli autori, come il Darmouth Dante
Project: library.darmouth.edu e www.danteonline.it (della Società Dantesca Italiana) e
etcweb.princeton.edu/dante. Se ne può avere un elenco in Griselda (che insieme a
Bollettino 900 è una rivista di letteratura italiana online: Griselda:
www.griseldaonline.it; Bollettino 900:
http://www.comune.bologna.it/iperbole/boll900/).
Costituisce una banca dati ma anche, volendo, una biblioteca di più di 1000 opere della
letteratura italiana dalle Origini al Novecento, e che può essere interrogata per parole,
gruppi di parole, ecc. la LIZ = Letteratura Italiana Zanichelli in CD rom, periodicamente
aggiornata (siamo alla versione n° 4). Cataloghi on-line. Un’ottima introduzione
all’informatica applicata al campo umanistico si trova in Calvo-Ciotti-Roncaglia-Zela,
Internet ’98. Manuale per l’uso della rete, Laterza, 1998. Per ottenere informazioni
bibliografiche su un libro e sapere se e in quali biblioteche sia disponibile è possibile
investigare l’OPAC (= Online Pubblic Access Catalogue, www.internetculturale.it,
dopodiché si clicca su Ricerca bibliografica): esso riunisce i cataloghi di moltissime
biblioteche italiane. Vi sono poi cataloghi online di poli universitari: www.cib.unibo.it
per Bologna, www.regionepiemonte.it/opac per il Piemonte, ecc. Per le riviste, si ricorre
al Catalogo Italiano dei Periodici: www.cib.unibo.it/acnp

Legenda. ‘ ’ = le virgolette alte contengono il significato di una parola o di una citazione


precedente * = l’asterisco significa ‘vai a Beccaria, Dizionario di linguistica, Torino,
Einaudi, 1994’ → = la freccia significa ‘vai alla lezione numero (segue numero di lezione)’
[...] = le parentesi quadre significano che la citazione è tagliata [ ] = inserisco tra
parentesi quadre – all’interno di citazioni da testi antichi – l’ equivalente moderno di
una parola altrimenti di difficile interpretazione ante = prima di (ad es. ante 1289: ‘prima
del 1289’) post = dopo lat. = latino

PERIODIZZAZIONE E “ORIGINI”

• Periodizzazione I. Per letteratura italiana non si può intendere la semplice sequenza di


una serie di autori. È più produttivo organizzare la letteratura italiana in modo da
costruire uno o più fili conduttori: il genere, il periodo storico, il movimento letterario,
ecc. Tale divisione in blocchi cronologici (periodizzazione, appunto) evita una visione
astratta e isolata della letteratura, e ne dà, più realisticamente, un’immagine di società
letteraria (di letterati che dialogano fra loro, si influenzano, reagiscono, ecc.), o di realtà
in qualche modo legata, sia pure attraverso svariati anelli, alla società (di cui può
essere specchio, rappresentazione, parte, reazione a seconda delle inclinazioni di chi
produce la periodizzazione).

• Uno dei criteri più comune è il criterio storico, che consiste nel dividere la storia della
letteratura in periodi in genere paralleli a quelli della storia vera e propria e
raggrupparne gli autori secondo un comune denominatore. Tuttavia molto di rado i
grandi mutamenti storici si realizzano con un evento unico circoscritto, producendo
effetti immediati anche nelle arti.

Periodizzazione II. Inoltre non si può dare un’identità meccanica e totale fra storia e
letteratura. Vi sono infatti eventi letterari che di per sé pesano enormemente sulla
letteratura successiva (si pensi a Dante, per dire di uno scrittore complesso che solo
con difficoltà o superficialità può essere incasellato al 100% dentro un contesto
storico). • All’interno di questi periodi si dà quindi spazio ai singoli movimenti e
tendenze e ai singoli scrittori che hanno ipotecato il futuro letterario.

Periodizzazione III. Ogni criterio, cade prima o poi in contraddizione. Prendiamo un


criterio di raggruppamento per genere; e sia pure i due generi più ampi e comprensivi:
prosa e poesia. Raramente un autore produce solo e unicamente entro uno di questi
due generi. Si cimenta invece in generi diversi: dal teatro alla poesia alla prosa, ecc. Di
conseguenza l’ipotetico autore (poniamo il solito Dante) dovrà essere trattato
separatamente nei diversi raggruppamenti. • La comparsa e la scomparsa, la
diffusione, di tali generi è un fatto che andrà registrato. Lo stesso, per un
raggruppamento per correnti. Tutte le correnti, dallo Stil Novo all’Espressionismo al
Neorealismo, ecc. sono dei contenitori riempiti di scrittori che, se anche vi possono
avere aderito esplicitamente, non sempre vi hanno esaurito tutta la loro carriera
artistica. Un altro criterio possibile è quello delle generazioni, che si avvicina a un
criterio più legato alla storia. • La nostra scelta, avendo come obiettivo la concisione, è
caduta su una prima sistemazione storiografica, sono stati cioè selezionati i fatti
letterari sulla base della loro importanza per gli altri fatti che seguono e non sulla base,
del loro valore intrinseco, ecc.

“Origini”. Innanzitutto due parole sulla lingua italiana. Essa deriva dalla lingua latina
parlata, o volgare (non dalla lingua letteraria di Cicerone, Cesare, ecc.). Ad es. la parola
italiana cavallo deriva dal latino comune caballus, mentre il latino classico e letterario
aveva equus (con cui sono invece imparentate equino, equestre, successivamente
recuperate dal latino: tali parole sono dette “di tradizione dotta” anziché “di tradizione
ininterrotta” come le prime). • Il concetto di lungo periodo coinvolge anche la lingua:
graduale è infatti il passaggio dal latino all’italiano, anzi, meglio: al volgare . Tuttavia,
nel sec. IX la trasformazione è ben visibile. • L’ inizio della letteratura, poi, coinvolge il
concetto stesso di letteratura. Cos’è letteratura? cosa non lo è? È letteratura un gruppo
di versi in italiano presenti in una poesia di un poeta provenzale contenente versi in
altre lingue e per di più con intento comico? La composizione in versi – da
accompagnare con la musica – in cui S. Francesco invita al ringraziamento del Signore
è poesia o preghiera? E il ritmo di un giullare? È appunto con una delle due
composizioni, Laudes creaturarum (1224) o Ritmo Laurenziano, che si fa
tradizionalmente cominciare la letteratura italiana.

PERIODIZZAZIONE E “ORIGINI” III • Prime testimonianze scritte. Paragonati alle prime


tracce di francese, quelle del volgare italiano sono tarde. L’Indovinello veronese è di
fatto un ibrido di latino e volgare: • Se pareba boves alba pratalia araba • et albo
versorio teneba et negro semen seminaba. • (Spingeva buoi davanti a sé, arava un prato
bianco, teneva un aratro bianco, seminava un seme nero. La soluzione dell’indovinello
è: la mano di chi scrive spingeva le dita [i buoi] davanti a sé scriveva sulla pagina bianca
[i prati bianchi], e teneva una penna d’oca bianca [l’aratro bianco], e seminava
inchiostro [seme nero]). • I placiti (‘dichiarazioni giurate’) di Capua, Teano e Sessa (960
ca.) sono documenti giuridici in latino (che a lungo rimarrà la lingua
dell’amministrazione) che riportano dichiarazioni di testimoni in un volgare "ripulito". •
Più vicina al volgare la traccia contro il cliente Capocotto, appuntata dal notaio
Rainiero nel 1087 alla fine di un documento (per impedire manomissioni).

Un intento artistico (versi, rime, ecc.) hanno invece il R. di S. Alessio e soprattutto il


Ritmo cassinese (entrambi fine dodicesimo-medio tredicesimo sec.). E anvche il Ritmo
laurenziano; composto fra il 1150 e il 1171 (il nome deriva dalla Biblioteca fiorentina
che lo conserva; è aggiunto in calce a un martirologio ovviamente latino). Non sempre
di agevole lettura, quest’ultimo è l’adulazione di un vescovo scritta da un giullare per
ottenere un cavallo in dono, in cui domina il valore della prodigalità: Salv’a lo Vescovo
senato, | lo mellior c’umque sia nato. [...] | Se mi dà caval balçano, | monsteroll’ al bon
Galgano, | al Vescovo Volterrano | cui bendicente bascio la mano. | Lo Vescovo
Grimaldesco | cento cavaler’ a [desco], | d’in un tempo no ll’i[n]rescono, | ançi plaçono
et abbeliscono. Ecc. • Traduzione: Salute al vescovo saggio, | il migliore che sia mai
nato. [...] | Se mi dà un cavallo balzano, | lo sfoggerò davanti al buon Galgano, | il
vescovo di Volterra | al quale bacio la mano benedicente. | Al vescovo Grimaldesco |
cento cavallieri da [sfamare] | nello stesso momento, non lo infastidiscono, | anzi gli
piacciono e lo abbelliscono

Il sistema culturale I. Non sfuggirà che gli autori dei primi documenti in volgare sono
spesso notai. Essi, che avevano studiato diritto, erano infatti fra i non molti a detenere il
potere della cultura e quindi della scrittura. Oltre ai notai, di questo gruppo privilegiato
fanno parte i chierici, sacerdoti, monaci, che qui abbiamo incontrato nel Ritmo
laurenziano nelle vesti di destinatario. • I chierici sono di fatto i rappresentanti della
cultura per secoli dominante (gli oratores, come la scala sociale medievale dettava
oltre ai bellatores ‘cavalieri’ e ai laboratores ‘lavoratori’): sono i codici religiosi che
costituiscono il modello, il paradigma, a cui tutto il sistema culturale si assoggetta. (Ad
es.: pietre o animali possiedono virtù o proprietà taumaturgiche, la Natura rispecchia
un Ordine divino di simmetrie, ecc.)

Il sistema culturale II. Va poi ricordato che clerici sono anche parte dei giullari, ma
clerici vagantes, cioè persone più o meno legate alla chiesa, magari eterni studenti
fuoricorso, che vagavano, cioè ‘viaggiavano’. • La richiesta del dono è parte integrante
di tale società, dove la letteratura è : • 1) privilegio di chi comunque trae guadagno da
altro (rendite, notariato, insegnamento, ecc.) • 2) richiesta di protezione,
mantenimento, elargizioni (in una parola: mecenatismo) • Solo in seguito, con
l’invenzione della stampa (fra Quattro e Cinquecento) gli scrittori cominceranno a
vivere della vendita dei loro libri (sulla strada che li porterà a vivere dei diritti d’autore).

I luoghi di produzione culturale. I centri da cui escono i giuristi (notai, giudici, ecc.) e i
chierici sono rispettivamente le Università e i Monasteri, che sono, anche, due diversi
centri di produzione culturale, si può dire che se le Università costituiscono un luogo di
produzione e giustificazione per l’ideologia filo-imperiale, i monasteri producono una
cultura ideologica più legata al potere papale. Un terzo luogo di produzione è poi la
corte dove ha sede un feudatario, che, in qualche caso, protegge e favorisce lo sviluppo
della cultura. • Ora, la nuova classe dirigente due- e trecentesca ha bisogno di repertori
di conoscenze di facile consultazione e che rispondano man mano alle nuove esigenze
più “laiche” e legate all’amministrazione e al commercio. A quest’ultimo proposito non
andrà dimenticato che è questo un periodo di notevoli scambi commerciali e dello
sviluppo di tecniche finanziarie innovative (lettera di cambio, partita doppia, ecc.).

Retorica. La stesura di lettere (famose quelle di Guittone → 06) e delle orazioni della
cancelleria pontificia si basava sui precetti delle Ars dictandi (‘Arti del dire’). Esse
influenzarono tutta la scrittura artistica, in prosa e in versi, del Medioevo: nelle
ripartizioni (saluto, inizio, proposta, racconto, richiesta, chiusura); nella complicata
elaborazione di figure come riprese di parole con stessa etimologia, iperbati*, ecc. •
Fra le Artes, naturalmente scritte in latino e per il latino, spiccano il trattato del
bolognese Boncompagno da Signa. Appunto di Bologna è tuttavia il primo a trasportare
le regole al volgare, il notaio Guido Faba, che in Parlamenta et epistole (1242-3), offre 3
esempi latini di difficoltà decrescente e uno in volgare (un bolognese “formale”), per
ogni diversa situazione (richieste e risposte di raccomandazione, prestito, ecc.)

De filio ad patrem pro pecunia • Andato sono al prato de la Filosofia bello, delectevole e
glorioso, e volsi cogliere flore de diversi colori, açò ch’eo facesse una corona de
merevegliosa belleçça, la quale resplendesse in lo meo capo, et in la nostra terra a li
amisi e parenti reddesse [rendesse, desse] odore grazioso. Ma lo guardiano [anche
‘superiore del collegio universitario (come ancora il tedesco warden ‘guardiano’)] del
çardino contradisse [disse no, rifiutò], s’eo no li facessi doni placevoli et onesti. Unde,
in per quello che no v’è che despendere [cosa che io possa spendere], si la vostra
liberalità vole che vegna a cotanto onore, vogliatime mandare pecunia in presente, scì
che in lo çardino in lo quale sono intrato, possa stare e cogliere fructo pretioso. •
Traduzione: • [Lettera] di un figlio al padre per chiedere soldi • Sono andato al prato
della Filosofia, bello, piacevole e glorioso, e volli cogliere fiori di diversi colori, per fare
una ghirlanda di meravigliosa bellezza, che mi splendesse in capo, e rendesse un odore
grazioso ad amici e parenti della nostra terra [fuor di metafora intende: sono allo
Studio, all’Università per ottenere la laurea]. Ma il guardiano del giardino disse di no, a
meno che non gli facessi regali gradevoli e onesti. Per cui, siccome non m’è rimasto
niente da spendere, se la vostra generosità vuole che io assurga a tanto onore, mi
voglia inviare soldi sùbito, così che nel giardino dove sono entrato, io possa rimanere e
cogliere il frutto prezioso.

Compilazioni enciclopediche e trattati scientifici. L’intento di apprestare un prontuario


per le nuove classi dirigenti si ha in compilazioni quali il Tresor (1260-66) di Brunetto
Latini, scritto in lingua d’oїl (francese) per una maggiore diffusione. Si va dalle nozioni di
anima e Dio, alla storia da Adamo alla contemporaneità, a elementi di fisica,
astronomia e zoologia; quindi, un compendio dell’Etica aristotelica (cioè un’etica
“laica”) corredato di considerazioni su vizi e virtù; e, nel terzo libro, la costruzione del
discorso pubblico e il governo cittadino (destinatari ideali, quindi, i podestà). • La
Composizione del mondo con le sue cascioni (1282, cioè ‘Il mondo fisico e le cause
che lo muovono’) di Restoro d’Arezzo è un trattato di divulgazione scientifico-
naturalistica, basato su fonti latine, greche e arabe. La spiegazione di perché sia il
pianeta Venere a scintillare e non Marte, in ragione del loro significato opposto di
amore vs guerra è indicativa dell’andamento oppositivo del suo ragionare e di molte
spiegazioni simboliche. Tra gli altri argomenti: lo zodiaco e le equivalenze sulla terra
corrispondenti allo zodiaco: il dolce e l’amaro dei frutti, il freddo e il caldo, ecc. Si
riorganizza per opposti la fisica della natura.

Relazioni di viaggio. Accanto a portolani, relazioni missionarie, itinerari in Terra Santa,


pratiche di mercatura (listini di prezzi e merci per provenienza), che portano notizie
dell’Oriente, spicca Le divisament dou monde che Marco Polo detta al romanziere
Rustichello da Pisa, che lo stende, come già Brunetto la sua compilazione, in francese.
• Il viaggio di Marco Polo diventa subito diffusissimo ed è tradotto in molte lingue
(Milione -da [E]milione, il soprannome di Marco, è il titolo del volgarizzamento toscano).
La struttura è quella di una pratica di mercatura che descrive luoghi e abitudini che la
famiglia di Marco incontra lungo il percorso: Siria-Persia-Korassan-Gobi-Turchestan-
Mongolia-Pechino.
CARATTERI ORIGINALI I Importazione. Rapporti della letteratura italiana con le altre
letterature: innanzitutto con la letteratura della confinante Francia (specie nel Due-
Trecento, nel Settecento dell’Illuminismo, nei primi del Novecento delle Avanguardie e
negli Anni Cinquanta-Settanta di Esistenzialismo e Semiologia) e con i suoi volgari
medievali francese e provenzale; poi con la Spagna (nel Seicento del Concettismo); e
infine con l’Inghilterra e l’America, queste influenze si possono suddividere in due tipi:
formali: importazione di generi (il genere del romanzo storico dall’Inghilterra nel primo
Ottocento, ecc.), lingua (parole ed espressioni più o meno adattate, sintassi), metrica
(il decasillabo* francese da cui l’endecasillabo* italiano, ecc.) contenutistiche:
descrizioni e situazioni tipiche ricorrenti (un topos* o una rete di topoi come quella
della ideologia cortese, importata dalla poesia provenzale francese nella lirica
duecentesca ecc.)

L’influenza si misura anche in tempestività e quantità di traduzioni. Esse fanno quindi


parte del sistema letterario (anche di più quando portano la firma di scrittori in proprio),
e ne segnano una tendenza (si pensi alla reinvenzione della classicità greca nelle
diverse traduzioni da Omero, approntate, pressappoco nello stesso giro di anni, da
Pindemonte, Monti, Foscolo, ecc.). L’nfluenza può trasformarsi in scrittura in una
lingua non “italiana”, e allora si scivola al confine con letterature straniere (ess. il
Tresor di Brunetto Latini maestro di Dante nel Duecento, o le memorie in francese di
Casanova, Metastasio, Goldoni nel Settecento, che sono come un segno della simbiosi
con la letteratura francese nelle due epoche) CARATTERI ORIGINALI III Esportazione: La
fase di maggiore esportazione della letteratura italiana è quella del Due-Trecento
(Dante, Petrarca, Boccaccio) e poi di nuovo quella del Cinquecento (Machiavelli,
Castiglione e, parzialmente, Ariosto e Tasso). D’altra parte, in quest’epoca, il termine di
confronto degli scrittori italiani sarà principalmente con la letteratura classica: latina e
greca. Altro periodo di esportazione ma legato al melodramma (Metastasio, Da Ponte),
è quello del SetteOttocento.

Dialetti. Oltre a queste relazioni con altre letterature, la letteratura italiana è


caratterizzata da due situazioni particolari: • la presenza delle letterature in dialetto
(cioè non in toscano) • La presenza della letteratura latina. La letteratura dialettale, a
seconda che lo scrivente (a) sappia scrivere solo in dialetto, o (b) lo faccia per scelta,
può suddividersi in (a) spontanea, e (b) riflessa (la fortunata distinzione si deve a Croce)
La sopravvivenza dei dialetti è stata favorita da due circostanze: 1) conformazione
geografica del nostro paese, che ostacola la circolazione e la comunicazione, per cui
gli Appennini costituiscono un ulteriore ostacolo 2) condizioni storiche che ne hanno
impedito l’unificazione e la costituzione in stato nazionale fino al 1860, quando la
lingua italiana divenne anche lingua nazionale parlata, dopo essere stata per secoli una
lingua soprattutto scritta. Le quattro grandi zone dialettali sono: settentrionale,
toscana, mediana, meridionale
Latino. Il latino non è solo la lingua dell’amministrazione, della scuola, dell’università e
del pensiero: molti scrittori vi ricorrono normalmente almeno fino al Cinquecento. Se
poi consideriamo letteratura anche la prosa scientifica, e se è vero che ci fu bisogno di
letterati-scienziati come ad es. Galilei per reinventare e piegare la lingua a nuove
esigenze di contenuto (scientifico, nel caso), allora in certi settori è solo nel Seicento
che l’italiano comincia a sostituire il latino. Es. Dante scrive in latino i trattati De vulgari
Eloquentia (linguistico-letterario), De Monarchia (politico), Questio de Acqua et terra
(scienza), le Epistole; nel Quattro- Cinquecento si avrà perfino un incremento di autori
che scrivono in latino. (Anche nel Novecento non mancheranno esperimenti in tal
senso come quelli di Pascoli, Fortini e pochi altri). A lungo la lingua volgare innova,
talora polemicamente, dentro un contesto che vede dominante la letteratura latina,
con la quale pure dialoga.

VOLGARIZZAMENTI DEFINIZIONE ED EFFETTI Volgarizzamenti* sono le traduzioni in


volgare dal Due- al Quattrocento. I due grandi gruppi di letterature tradotte, la latina e la
francese, possiedono rispettivamente due caratteri fondamentali: • mantenere il
rapporto con la tradizione • essere parte di un percorso scolastico e universitario le
prime; le seconde, invece, sono più legate alle esigenze di una maggiore attualità
Sebbene dal secolo IX la letteratura in latino sia rifiorita e conti autori come S.
Bonaventura da Bagnoregio (1218-1274), Boncomapagno da Signa (1165-1240), S.
Tommaso (1225-1274), tuttavia la nuova classe media, che talora sa poco o niente di
latino, trova soddisfazione alle sue modeste esigenze di conoscenza della cultura
latina appunto attraverso i volgarizzamenti. Dapprima timidamente nel Duecento
(prontuari e manuali), poi, nel Trecento, con traduzioni da opere letterarie e filosofiche
di maggior momento.

VOLGARIZZAMENTI DAL LATINO

Va precisato che le opere latine e greche giacevano in gran parte ancora nelle
biblioteche e sarebbero state scoperte solo con l’Umanesimo (il cui carattere
principale consiste appunto nel recupero del filo interrotto con il passato classico). Il
confronto con il latino introdusse fra l’altro nel volgare una maggiore articolazione
sintattica (con effetti, quindi, sulla prosa originale in volgare). • Dal latino. Poste le
esigenze di soddisfare una necessità didattica, se non colta, non stupirà la presenza fra
i volgarizzamenti dal latino di raccolte di “pillole di saggezza” (o meglio: sententiae): i
Disticha Catonis, e il Liber consolationis di Albertano da Brescia, volgarizzati in toscano
e veneziano (il primo anche in napoletano).

VOLGARIZZAMENTI Dal francese (oil). È normale che una letteratura più antica come
quella francese, in cui sono presenti importanti filoni narrativi come i fabliaux, assenti
nelle regioni italiane, emani un fascino irresistibile sulla neonata letteratura dei volgari
italiani. Ciclo bretone. La grande diffusione dell’epico-amoroso Ciclo bretone, ovvero
delle vicende di Lancillotto, degli innamorati Tristano e Isotta, è testimoniata da
numerose traduzioni e volgarizzamenti: quella di ambiente mercantile in umbro-
cortonese (Tristano Riccardiano), e quella, più vicina al francese, in veneziano (Tristano
Veneto e T. Corsianiano). A parte l’episodio emblematico dei personaggi danteschi
Paolo e Francesca che s’innamorano leggendo di Tristano e Isotta, la diffusione
popolare (anche grazie a queste traduzioni) creerà la base per la nascita, nel
Quattrocento, di romanzi di cavalleria (Pulci, Boiardo, Ariosto, Tasso e non solo).
Immediate furono anche le traduzioni di opere di italiani scritte in francese, quali i già
ricordati Tresor di Brunetto e il Divisament dou mond di Marco Polo-Rustichello.

LETTERATURA DI VIAGGIO

Letteratura di viaggio. Oltre ai volgarizzamenti, un altro modo di entrare in contatto con


altre culture è la letteratura di viaggio. Le vie di comunicazione (anche le grandi arterie
consolari romane) furono trascurate nell’alto Medioevo (per convenzione, quella
periodo del Medioevo che va dalla caduta dell'Impero Romano d’Occidente, avvenuta
nel 476, all'anno 1000 ca. (o 1066), cioè prima delle rinnovate esigenze commerciali).
Tuttavia sopravvissero le vie di comunicazione che conducevano nei luoghi sacri della
cultura cristiana: Santiago di Compostella, la tomba di S. Pietro a Roma e il Santo
Sepolcro a Gerusalemme. Il percorso – che da Canterbury conduceva alla prima meta –
era la via francigena, o romea. Su questa via si diffuse la letteratura francese (dalla
Chanson de Roland al ciclo bretone), ma fu anche essa stessa occasione di una
produzione letteraria di pellegrinaggio. La letteratura di viaggio si incrocerà poi con le
rotte commerciali verso l’Oriente (come per il cosiddetto Milione di Marco Polo), e le
nuove rotte verso l’America con i diari di bordo di Vespucci, ecc.

GEOGRAFIA E POESIA IL CENTRO Centro. I ritmi citati nel capitolo sulla Periodizzazione
(→) testimoniano un’attività poetica giullaresca nell’area centrale, nelle Marche. Umbro
è il primo autore noto di un testo letterario, S. Francesco (1182-1226, il nome
testimonia l’influsso francese dell’epoca), fondatore dell’Ordine francescano. Le sue
Laudes Creaturarum (o Cantico di Frate Sole), rivelano: • l’idea francescana di
predicazione come umile dialogo con il popolo • scelta del volgare; probabile
accompagnamento musicale (secondo l’uso dei giullari, S. Francesco è il “giullare di
Dio”) • presenza di forti assonanze* in fine verso (nonostante la sequenza di accenti
costituisca dei cursus* tipici del latino). Si tratta comunque di una preghiera (con
citazioni, espressioni e ripetizioni bibliche: Laudato si’, mi’ Signore). Nella lode della
bontà della natura c’è una presa di distanza dall’eresia catara (siamo nel 1225), che
vedeva il bene nello spirito e il male nel resto, anche nella natura

. Francescano sarà anche Jacopone da Todi. Influenzato dai Flagellanti, nella lotta
interna ai francescani fu un leader degli Spirituali, schierati contro i Conventuali, e con
gli Spirituali chiese la deposizione di papa Bonifacio VIII e la convocazione del concilio,
tanto da esser imprigionato fino alla morte del papa (1303). Anch’egli autore acceso,
perfino violento, di laude*, che hanno a tema l’elogio di Cristo, della castità e della
povertà; ma anche attacchi a Bonifacio. Non più ritenuto suo, ma notevole, è il coevo
pianto della umanissima Madonna davanti alla croce, lo Stabat Mater (poi musicato da
Palestrina, Pergolesi, Haydn, Rossini, ecc.). Le laudi (destinate a un’esecuzione
canora), e i cosiddetti laudarii, sono peraltro molto diffusi in Umbria.

GEOGRAFIA E POESIA. IL NORD

Nord. Nel Nord, come già nella vicina Francia, la poesia ha intenti didattici, soprattutto
in ambito etico (cosa sia giusto e cosa sia sbagliato): Girard Pateg (Splanamento e
Noie), Pietro da Bescapè (Sermoni), e soprattutto il milanese Bonvesin dalla Ripa (m.
1315 ?) che nel Libro delle tre scritture cataloga l’Inferno, la passione di Cristo e le gioie
del Paradiso. I riflessi di questa tradizione in Toscana si hanno in Brunetto Latini
(1220?-1294) che nel Livres dou Trésor (ca. 1265), in francese, e nel Tesoretto, in
settenari a rima baciata, racconta come ritrova la Virtù e la Conoscenza attraverso un
percorso didattico, dopo essersi perso in un bosco oscuro. Quando scriverà la
Commedia Dante sarà influenzato dal racconto del suo maestro, per altro “sistemato”
senza troppi riguardi all’Inferno. Ed è forse da attribuire a Dante, il Fiore, traduzione-
parafrasi in 232 sonetti* del poemetto francese Roman de la rose (allegoria* di Amore
che desidera approdare alla conoscenza).

GEOGRAFIA E POESIA. IL SUD

Sud. Col regno di Federico II Hoenstaufen (1194-1250) in Sicilia si crea una grande
corte, una burocrazia con una classe intellettuale solida, con interessi scientifici,
giuridici, filosofici e apporti arabi, normanni, tedeschi e bizantini. Accanto al latino,
dagli anni ’30 la nomenklatura di notai-burocrati (in maggioranza di origini nobile)
coltiva l’interesse della poesia in volgare. Oltre allo stesso Federico, a Guido delle
Colonne e Pier Della Vigna (il cui amore per le antitesi* tipico di lui e della cosiddetta
Scuola Siciliana sarà mimato, nell’Inferno dantesco, dove lo incontriamo), spicca certo
Giacomo da Lentini, detto il Notaro (notaio, come del resto molti altri “siciliani”, →
TRATTATI).

GEOGRAFIA E POESIA. IL SUD

La scuola della Magna Curia del Regno di Sicilia venne istituita nel 1198 dal re Ruggero
II di Sicilia con il compito di: 1 ) rimettere in vigore ordini e istituzioni dei predecessori 2 )
deliberare e adattare nuove riforme 3 ) recare a forme migliori istituzioni antiche ,
vengono inoltre apportate severe modifiche anche a diverse tradizioni linguistico -
culturali, quella greco-bizantina, quella arabomusulmana e quella latina La Magna
Curia è quindi importante per dignità sociale: per la prima volta – dopo le corti
provenzali – si ha una comunità poetica-intellettuale che dialoga tra sé e conta
sull’appoggio dell’Imperatore fungendo da filtro alla lirica provenzale verso la Toscana

GEOGRAFIA E POESIA. IL SUD


caratteri che la connotano riguardano principalmente: 1) tematica amorosa: qual è la
natura dell’amore? Ha natura razionale, quindi controllabile, fonte di elevazione e
miglioramento etico, o irrazionale e fonte di degradazione etica? L’elogio della bellezza
dell’amata (talora spietata), cui si chiede amore come a un feudatario una ricompensa
(→ 04.03 e 04.04) 2) metrica: alcune forme metriche fondamentali della lett. it. trovano
origine (sonetto*) o diffusione (canzoni*) presso i poeti siciliani 3) lessico e più in
generale, lingua: anche se sul volgare siciliano, screziato di latinismi e francesismi, si
stenderà nei canzonieri dei copisti toscani una patina di toscanismi non autentici a
livello fono-morfologico (non lessicale)

GEOGRAFIA E POESIA. I TOSCANO-SICULI

I “Siculo-toscani”. I modi e temi della poesia siciliana vengono presto imitati a Pisa,
Lucca e a Firenze. Gli autori sono sempre notai, giudici, ma anche medici e banchieri,
quindi i destinatari, si allargano alla borghesia mercantile. In Toscana, infatti, non
esiste una grande corte, ma vari comuni lacerati spesso anche al loro interno dalle
opposte fazioni dei filoimperiali (ghibellini) e filopapali (guelfi). Così, anche la politica è
annessa ai temi della poesia. Di questo allargamento come dell’eredità siciliana e
provenzale è chiaro esempio Guittone d’Arezzo (1235 ca-1295)

GEOGRAFIA E POESIA. GUITTONE D’AREZZO

Guittone d’Arezzo (1235 ca-1295) è il primo autore italiano a costruirsi un libro di versi
suddiviso in parti omogenee e forse progressive, che propone al lettore una conquista
stilistica e morale. Il lessico è persino più fitto di provenzalismi e latinismi che nei
siciliani, ricchissimo l’influsso dell’ars dictandi (rime difficili*, etimologiche*,
parallelismi*, analogie*; → TRATTATI). Ma soprattutto la sintassi, ampia di subordinate,
rende possibile affrontare anche temi argomentativi come la politica (di parte guelfa), lo
slancio religioso, i valori di dignità, prudenza ed equilibrio; e, nell’ambito amoroso,
l’aspetto energico (i mezzi per avere la donna, la sfida fra i due) più che il
vagheggiamento o la lamentela per il rifiuto.

DOLCE STIL NUOVO GUINIZELLI

Dolce Stil Nuovo è la definizione che Dante definisce nella Commedia (Purgatorio XXIV,
19-63) lo stile a cui la sua lirica appartiene, vedendo in Guido Guinizelli (1230 ca.-1276
ca.) l’iniziatore (e fra gli “adepti” l’insigne giurista Cino da Pistoia). G. aveva ereditato,
specie tramite Guittone, i temi e i modi della lirica siciliana, e quindi provenzale
insistendo sull’ingrediente della nobiltà non di nascita ma di costumi (idea ribattuta da
Andrea Cappellano e altri – fra cui Dante in Convio IV –, e assai adatta a una società
mercantile borghese), e, soprattutto, vi collega la reciprocità di nobiltà di cuore-amore
(Al cor gentil rempaira sempre amore). L’estrazione media-alto borghese induce ad un
senso di superiorità, quasi di cenacolo degli adepti, di scuola che guarda con disdegno
gli esclusi. Del repertorio precedente, G. seleziona e diffonde i temi della lode della
donna-angelo, paragonata alle cose più belle della natura, il suo saluto e la sua
presenza beatificanti; la finzione degli occhi quali tramite dell’amore; l’avvento
dell’amore come battaglia che causa la morte degli spiriti (le facoltà vitali).

DOLCE STIL NUOVO. CAVALCANTI

Cavalcanti (ca. 1259-1300), nato da una potente famiglia guelfa bianca (cioè filopapale)
partecipò alla vita politica di Firenze, sostenendo i Cerchi contro i Donati (perfino
ferendo Corso Donati in uno scontro). Il suo libro di rime tratta del suo amore per
Giovanna (la Vanna ricordata da Dante nella Vita Nuova) e Mandetta di Tolosa
incontrata nel 1292 in un pellegrinaggio a Santiago di Compostella (→ Volgarizzamenti);
e, tra l’altro, l’esilio a Sarzana (sottoscritto anche dall’amico Dante in qualità di priore),
dove s’ammalò di febbri malariche che ne furono la probabile causa di morte. Nella
canzone filosofica Donna me prega, il nucleo ideologico: amore come passione
irrazionale dei sensi, foriero non di salvezza ma di una disperazione minuziosamente
descritta negli effetti (pianto, paura, sospiri, perdita di facoltà vitali). L’immagine della
donna, senza volto e senza paragoni terreni (a differenza dell’altro Guido) va agli occhi e
di qui al cuore, creando un teatro intellettuale, non fisico, di passioni ossessive.
Forniscono forte unità alla raccolta il ritorno ossessivo di situazioni e parole chiave
(angoscia, anima, cuore, doglia, dolcezza, dolente, sbigottito, spiriti, sospiri, tremare,
ecc.) che cessano di essere esperienze personali per diventare universali

DOLCE STIL NUOVO.TEMI E PERSONALITÀ


DOLCE STIL NUOVO
STILE MEDIO E COMICO
Rimatori comico-realistici. Si ricordano il lucchese Pietro dei Faitinelli (?-1349), i senesi
Bindo Bonichi (1260 ca.-1338), Meo e Jacopo dei Tolomei, il Muscia; e i fiorentini
Pieraccio Tedaldi (1290 ca.-1353), Rustico Filippi (1235-1300 ca.), dedicatario del
Favolello di Brunetto Latini. Folgóre da San Gimignano è autore di una corona di sonetti
in cui fa dono di ciascun mese dell’anno e giorno della settimana, esaltandone i pregi,
in uno stile di cortese medietà. L’aretino Cenne da la Chitarra, un cavaliere, non un
giullare come lui, gli rispose in stile più basso, ribattendo per le rime in modo allusivo,
facendo sempre dono di mesi e settimane, elencandone però i fastidi e gl’inconvenienti
(non di rado allusivi).
Poesia popolareggiante. Dotato di una certa cultura è infatti Cielo d’Alcamo, autore di
Rosa fresca aulentissima (ante 1250), tipico contrasto fra un uomo e una donna che
minacciando il ricorso alla famiglia, vanta la sua purezza e la sua superiorità estetica
sullo spasimante, ma poi capitola e si concede anche senza bisogno di nozze. Chiaro è
l’intento parodico verso la letteratura cortese coeva. È l’inizio di una linea
popolareggiante (amore carnale, ammicco al vernacolo*, ecc.) che farà molta strada,
fino a Boccaccio, Lorenzo de’ Medici, ecc. Boccaccio nel Decameron riporta un
esempio di ballata, quindi presumibilmente musicata, fra popolare e popolareggiante:
la Ballata di Madonna dolciata. Altri noti esempi sono i Lamenti della sposa padovana e
la canzone di Rinaldo d’Aquino Per la partenza del crociato
NARRAZIONI BREVI PRESUPPOSTI E TIPOLOGIE

In Italia mancò una letteratura narrativa vera e propria. Vi fu tuttavia una tradizione di
narrazioni brevi, suddivisibile in due filoni: a) filone edificante, cioè puntato al
miglioramento, all’edificazione morale: exemplum*, ecc. b) filone borghese e laico,
destinato allo svago o alla promozione sociale: novelle. Di fatto questi settori si
uniscono ai trattati in volgare, le narrazioni di viaggio, ecc. e vanno a costituire la
tradizione prosastica duecentesca su cui nascono capolavori come i danteschi Vita
Nuova, Convivio e il boccacciano Decameron. Tali “generi” non sono codificati dai
trattati di retorica, quindi sono in una situazione di inferiorità rispetto ad altri generi
(epico, lirico, romanzesco) Tanto che: a) gli autori non si curano di lasciare il loro nome,
e quindi è possibile appropriarsi indebitamente di materiale altrui.

NARRAZIONI BREVI EXEMPLA E LIBRO DI NOVELLE Exempla. (lat., ‘esempi’) Sono le


raccolte di forme brevi sviluppatesi nei sec. XII e XIII, ovvero serbatoi a cui attingono
predicatori e trattatisti a scopo esemplificativo. Per questo motivo gli exempla
dovevano contenere, oltre al nucleo edificante, anche quello piacevole. Talora questo
secondo predomina, come nella Disciplina clericalis in cui Pietro Alfonso finge gli
exempla, inframezzati da sentenze, raccontati da Balaam al figlio come
ammaestramenti di vita. Il testo ebbe traduzioni in molte lingue, e in particolare una
toscano in cui viene ancor più potenziata la vena narrativa. Il libro di novelle. Da questo
filone nasce il libro di novelle. Fra il 1271 e il 1275 furono scritti i Fiori e vita di filosofi ed
altri savi ed imperadori: un rifacimento in volgare della raccolta di massime di
ventinove personaggi antichi Flores historiarum di Adamo di Clermont (1271), a sua
volta derivato dallo Speculum historiale del domenicano Vincenzo di Beauvais. Esso
influenzò i Conti di antichi cavalieri e l’importante Novellino.

Cento novelle antiche (post 1280 ?) è il nome convenzionale di una raccolta eterogenea
di brevi novelle, che ebbe straordinario successo nel Duecento (mentre Novellino è il
titolo pure convenzionale scelto da Della Casa nel Cinquecento sulla base
dell’avantesto*). Se le novelle ambientate nei tempi antichi hanno fonti riconoscibili,
quelle di ambientazione duecentesca risentono più di tradizioni orali. L’ignoto
collettore (e autore delle più recenti novelle) si propone esplicitamente come obiettivo
l’avanzamento sociale dei lettori attraverso l’esempio dell’eleganza di conversazione,
comportamento, pensiero dei grandi re, filosofi, dei tempi andati, quando erano ancora
in auge i valori della cavalleria (a contrasto con la venalità del presente).

NARRAZIONI BREVI

Il motto. In particolare nel cosiddetto Novellino abbiamo numerosi esempi di motto:


‘battuta salace’. I grandi uomini sono còlti nella loro quotidianità, e spesso danno o
ricevono risposte salaci e istruttive. Così, il racconto breve tende a risolversi in un
motto, battuta di spirito, frase acuta, come una molla pronta a scattare; la tecnica del
sermo brevis gioca il suo effetto insieme all’uso appropriato del discorso diretto, che
costituisce uno dei tratti moderni della raccolta, al quale Boccaccio non sarà
indifferente. Qui conta d’uno filosafo [filosofo], lo qual era chiamato Diogene. Fue uno
filosafo molto savio, lo quale aveva nome Diogene. Questo filosafo era un giorno
bagnato in una troscia d’acqua [‘rigagnolo d’acqua corrente’], e stavasi in una grotta
[‘roccia’] al sole. Alessandro di Macedonia passava con grande cavalleria. Vide questo
filosafo; parlò, e disse: - Deh, uomo di miseria, chidimi, e daròtti [ti darò] ciò che tu
vorrai -. E ’l filosafo rispuose: - Priegoti che mi ti levi dal sole - .

DANTE I. Biografia

Biografia. Non moltissimo sappiamo della sua vita privata (tra l’altro non restano
documenti di sua mano). Dante Alighieri nasce a Firenze nel 1265, a maggio, da una
nobile famiglia guelfa decaduta. Partecipò alle campagne militari contro Pisa nel 1289
(Campaldino e Caprona) e sempre dal 1289 cominciò ad assumere cariche politiche
cittadine, proprio in un periodo di laceranti divisioni, quando la parte guelfa, cioè
filopapale, si divide in Bianchi e Neri. Nel 1300 D. assurge alla massima carica politica:
è uno dei sei priori. Un anno dopo, i Neri, alleati di Bonifacio VIII, appoggiano l’arrivo in
armi di Carlo di Valois nel novembre del 1301, proprio quando D. – già vagamente vicino
ai Bianchi – si trova in missione diplomatica a Roma per cercare di pacificare le parti.
Viene condannato a morte in contumacia. Cominciano per Dante gli anni dell’esilio a
cui resterà condannato sino alla fine dei suoi giorni. Dopo una iniziale solidarietà con i
Bianchi, se ne allontana, cominciando a cercare ufficio di segretario presso importanti
signori. Nel 1305 si stabilisce a Treviso, poi alla corte dei Malaspina in Lunigiana (1306),
ancora presso i conti Guidi (1307) in Casentino, successivamente a Lucca (1308?).
Sono anni in cui si occupa più di filosofia che di letteratura. Dal 1311 al 1312 si avvicina
all’imperatore Enrico VII, ma mentre questi stringe d’assedio Firenze (sett.-ott. 1312),
ripara infine alla corte di Guido Novello da Polenta nella guelfa Ravenna, dove muore, il
13 settembre 1321.

Vita nova. Dedicata a Cavalcanti e scritta forse nel 1293-5, è una selezione di 31 poesie
che scandiscono la sua storia d’amore con Beatrice, alternate a passi di prosa in cui
l’autore spiega e commenta le poesie (circostanze e significati). L’alternarsi di prosa e
poesia, cioè il prosimetro, avvicina l’opera ai canzonieri provenzali in cui le poesie dei
trovatori erano state raccolte e inframezzate da brani in prosa sul significato delle
poesie (razos) e sulla vita del poeta (vidas), stabilendovi un nesso. Due piani si
intrecciano nella V.N.: il poeta antologizzato e l’intellettuale collettore; la propria
educazione sentimentale e lo sviluppo dello scrittore. Un polo e l’altro sono anche un
prima e un poi, e sono due opposti mediati da uno sviluppo: dall’amore passione (nel
segno di Cavalcanti) all’amore-lode (un Guinizelli estremizzato).

Quando il sogno si avvera, si rivela una premonizione della morte di Beatrice e si hanno
gli stessi segni che alla morte di Cristo: eclissi, terremoto... (è l’universale vicenda di
caduta-redenzione- salvezza di Gesù che, come deve fare ogni cristiano, Dante vede
nella sua personale biografia). Beatrice dunque è assunta in cielo. Dopo un anno di
lutto, Dante scorge una donna che lo osserva da una finestra, e siccome la sua pietà lo
turba, Beatrice lo rimprovera in sogno: è dall’amata che ogni consolazione deve venire.
L’ultima poesia è una misteriosa visione da cui procede la rinuncia a scrivere. Forse
non del tutto a torto si è visto in quest’ultima rinuncia l’implicita intenzione un primo
progetto della Commedia.
COMMEDIA ELEMENTI CLASSICI

Nell’Inferno domina la mitologia classica greco-latina: ambientazioni (il fiume


Acheronte, le mura di Dite, ecc.) e personaggi (Minosse ad es. smista i dannati) riusati
nel nuovo contesto ma con le stesse caratteristiche (definitivamente rivelate dalla
verità cristiana). Per contro, i personaggi letterari e storici pre- cristiani si mescolano a
quelli contemporanei: ad es. Francesca da Rimini è nello stesso girone della virgiliana
Didone, entrambe hanno infatti rotto la promessa nuziale. I personaggi storici
duecenteschi dominano nel Purgatorio, specie conoscenti e concittadini (con
l’eccezione di Catone, che si uccide pur di non vivere sotto la tirannide cesariana), e nel
Paradiso, soprattutto grandi personalità (solo Rifeo, ripreso dall’Eneide virigiliana, è un
soldato pre-cristiano). La grande passione per il mondo greco-romano precristiano nel
Purgatorio riflette la convinzione che l’Impero sia stato il veicolo scelto da Dio per la
diffusione del cristianesimo. Lo stesso Virgilio è visto come un saggio-filosofo e profeta,
specie per la sua quarta egloga, che profetizza l’arrivo di un portatore di pace che nel
Medioevo viene riconosciuto in Cristo. Tuttavia Virgilio non è stato visitato dalla Grazia:
non potrà procedere oltre il Purgatorio.

COMMEDIA CONTRAPPASsO, PAESAGGI, UMANITÀ DI DANTE

La condanna dei dannati dell’Inferno e del Purgatorio oltreché nella privazione della
vista di Dio, consiste nel contrapasso (concetto filosofico ripreso da S.Tommaso): che
può essere per analogia o per antitesi, cioè analogo al peccato ma estremizzato (i
lussuriosi, trasportati in vita dalla passione, sono ora trascinati da una bufera
inarrestabile: Inf. V) o ad esso antitetico (i superbi, che in vita alzarono troppo la testa,
sono ora gravati da massi enormi: Purg. X). Nell’Inf. tale pena fissa per l’eternità il loro
principale peccato: sia esso l’unico compiuto, o il tratto saliente e definitorio della loro
umana esistenza. Al progressivo aggravarsi dei peccati e delle pene (dannati frustati,
battuti, bruciati, macellati, trasformati in serpenti, immersi nelle feci, in sangue
bollente ecc.) D. reagisce diversamente: si compiace dei tormenti di Vanni Fucci, tira
un calcio in faccia a Bocca degli Abati ma si commuove incontrando Francesca da
Rimini. Nel Purg. si attende l’espiazione previa preghiera, quindi ritorna il tempo
insieme con il paesaggio e la luce, mentre l’Inf. era un cieco carcere senza orizzonte di
tempo e di spazio. La maggior sofferenza è per la distanza da Dio; il maggior piacere è
nell’avvicinarvisi. D. si sente un pellegrino come gli altri verso il Par., dove il viaggio sarà
una vera sfida, scientifica, teologica, e in un non-paesaggio fatto di puri suoni, colori,
emblemi, figure geometriche, e soprattutto la Luce; e come una sfida visiva- visionaria
Dante vive l’esperienza: battaglia de’ debili cigli (Par. XXIII 78)

COMMEDIA POLITICA E SOCIETÀ

Poiché Dante finge che il suo viaggio ultraterreno abbia luogo nel 1300 ma in realtà lo
inventa e lo compone a partire dal 1308-10, gli eventi che storicamente si realizzano
dopo il 1300 possono (e in un certo senso “devono”) essere presentati da Dante –
anziché come fatti storici – come profezie. Tanto più che può parlare “dall’alto” di chi
ha ricevuto – il suo viaggio ne fa fede – la Grazia. Nondimeno, forte dell’autorevolezza
acquisita, è da qui che Dante può scagliare – o dar voce a – i più feroci attacchi contro
la Chiesa, Firenze, ecc. Dante non risparmia colpi a nessuno (re, papi, ecc.), vedendo
soprattutto nella cupiditas (‘smodato desiderio di beni terreni’), la radice delle divisioni
e delle lotte che infestano la terra e, soprattutto, Firenze.

Dante affida, nel XVI canto del Paradiso, al suo avo Cacciaguida una sorta di
“manifesto politico” contro quella nuova formazione sociale che aveva già stigmatizzo
nell’Inferno come la gente nuova e i subiti guadagni (‘i parvenus e i guadagni
improvvisi’, Inf. XVI 73) e contro la mobilità sociale (confusion de le persone
‘mescolanza di famiglie’ Par. XVI 67), causa della degenerazione morale della città. La
Firenze del passato (una Firenze che non era mai esistita) si carica così di tutti i valori
positivi di un’Utopia. Non vedendo possibilità di uno sviluppo politico positivo, le
reazioni di Dante sono inevitabilmente profezie minacciose da una parte e dall’altra
l’Utopia della Firenze passata e della pace universale (teorizzata nel De Monarchia).

BOCCACCIO. LA FORMAZIONE CULTURALE

La fama di Boccaccio è legata essenzialmente a una sola opera, assai diversa dalle
altre della sua carriera letteraria, il Decameron. In quest’opera le esigenze della
narrazione realistica fanno quasi dissolvere la cultura medievale fatta di simbologie e
che domina in altre sue opere. Nasce nel 1313 forse a Certaldo, figlio illegittimo ma
riconosciuto del finanziere Boccaccino di Chellino, dal quale fu avviato, obtorto collo,
alla pratica della mercatura, seguendo il padre a Napoli (1327) – dove questi dirige
l’agenzia dei Bardi -. Ma subito passò allo studio del diritto canonico, seguendo le
lezioni del giurista-poeta Cino da Pistoia e stringendo amicizia con Dionigi da Borgo di
San Sepolcro, teologo e scienziato amico anche di Petrarca. E’ un autodidatta, che
scrive in latino, ha curiosità per il greco (ancora pochissimo noto in occidente), ma non
è insensibile alla cultura popolareggiante. La Napoli che Boccaccio conosce è quella
della corte degli Angiò, ed è in questo clima sociale e culturale, che B. rimpiangerà per
tutta la vita che egli colloca il mito del suo incontro con “Fiammetta”, dietro cui a dire di
Boccaccio si nasconderebbe Maria d’Aquino, figlia illegittima del re Roberto d’Angiò.

Ritorno a Firenze. Nel 1340 è richiamato dal padre a Firenze a causa delle difficoltà
economiche derivate dal crack finanziario dei Bardi. Questa famiglia di banchieri,
insieme all’altra, sempre fiorentina, dei Peruzzi, aveva emesso forti prestiti alla corona
francese, che vi ricorse per la guerra contro l’Inghilterra. I prestiti non poterono essere
restituiti. Di qui l’impossibilità da parte dei due gruppi bancari a fare prestiti, e quindi la
grande crisi finanziaria che ne seguì. Fino al 1349 abbiamo poche notizie: a Ravenna
presso Ostasio da Polenta, a Forlì presso Francesco degli Ordelaffi. Nel 1349 è a
Firenze, per la morte del padre, ma forse vi si trovava già nel 1348, per assistere agli
effetti devastanti della Morte Nera (che narrerà nel Decameron). La peste, che portata
dai topi sui bastimenti dall’oriente, si era diffusa grazie al sovraffollamento e alla scarsa
igiene delle città. Nel 1350 conosce Petrarca, che ha sempre ammirato. Il che produce
un approfondimento degli interessi umanistici e una più severa introspezione. Prima
che la malattia gli impose di ritirarsi a Certaldo, dove morì nel 1375, fu incaricato di
commentare la Commedia pubblicamente, nella chiesa di santo Stefano di Badia.

Filocolo. Il titolo, nelle intenzioni di Boccaccio doveva significare ‘Fatica d’amore’, è lo


pseudonimo di uno dei protagonisti del romanzo in prosa che narra gli amori di Florio e
Biancifiore. Figlio il primo del re di Spagna viene educato insieme alla bellissima
Biancifiore; i due s’innamorano l’uno dell’altro sin da bambini. Ma i genitori del nobile
Florio cercano di ostacolare la passione, anche cercando di far sedurre il giovane da
due ragazze, finché vendono Biancifiore a dei mercanti che la cedono all’ammiraglio di
Alessandria. Qui la raggiunge Florio, penetra di nascosto nella torre dove la donna è
nascosta, ma è sorpreso con lei dalle guardie. Entrambi sono condannati al rogo;
senonché all’ultimo momento l’ammiraglio scopre che Florio è suo nipote, e si viene a
conoscere l’origine nobile di Biancifiore. Segue il matrimonio e la conversione dei
pagani al cristianesimo. La materia è quella popolare del Cantare di Florio e Biancifiore,
rivestita di un prosa che risente di Ovidio e Apuleio arricchita di introspezione
psicologica e di piccole intromissioni autobiografiche.

Filostrato (‘Vinto d’amore’). É un poema in ottave* della tradizione dei cantari – che a
questa forma strofica ricorrevano – talora di carattere popolareggiante. Tròiolo, figlio
del re Priamo, ama la vedova Criseida, figlia di Calcante, indovino troiano passato al
campo dei Greci, e, per mezzo di Pandaro, suo amico e cugino di lei, riesce facilmente
a farsi riamare. Nell’occasione però di uno scambio di prigionieri, Criseida viene
richiesta dal padre e parte per il capo greco dopo aver giurato all’amante eterna
fedeltà. Poco dopo, invece, lo tradisce concedendosi a Diomede. Quando Tròiolo è
sicuro del tradimento, si getta nella battaglia per uccidere il rivale, ma viene ucciso da
Achille. La materia è qui quella del Roman de Troie. Tuttavia, nella galleria di
approfondite psicologie (Criseide la donna volubile e scaltra; Pandaro, fine conoscitore
dell’animo femminile; Diomede, il corteggiatore nient’affatto romantico) traspare
l’elemento autobiografico: non solo nella volubile Fiammetta-Criseide, ma soprattutto
nell’appassionato e ingenuo Troiolo.

Opere napoletane

Rime. Boccaccio non raccolse mai le sue rime sparse, anzi – come dichiara in una
lettera a Petrarca – distrusse le sue poesie giovanili non appena lesse quelle di
Petrarca. Sono in maggioranza sonetti e poesie amorose, ovvero dedicate a Fiammetta
(Maria). Si muovono fra avventura, corteggiamento, favore, tradimento, come le sue
prose (Crescini), sia pure con una curvatura stilnovista. Teseida. Poemetto in ottave
scritto forse fra il ’39 e il ’40. Ne possediamo l’autografo*. Come tradisce il titolo (‘gesta
di Teseo’), si tratta di un poema di ambizioni epiche, sul modello dell’Eneide e della
Tebaide. Sulle imprese dell’eroe greco Teseo che combatte contro le Amazzoni e
contro Tebe, prevale però la vicenda dei due prigionieri tebani, Arcita e Palemone,
entrambi innamorati di Emilia, giovane cognata del re d’Atene, giungono a
contendersela in regolare torneo. Vince Arcita, che, tuttavia, ferito a morte, chiede a
Emila la promessa di sposare Palemone.

Opere fiorentine

Ninfale fiesolano. Poemetto in ottave. Il pastore Africo, s’innamora della ninfa Mensola
e con uno stratagemma riesce ad ottenerne i favori. La ninfa, pentita del suo errore e
timorosa d’incorrere nell’ira di Diana (ai cui ordini è, come ogni ninfa), risolve di non
lasciarsi più rivedere dall’amante, il quale, disperato, si uccide. Il suo corpo cade nelle
acque di un torrente. Mensola dà alla luce un bambino, ma poco dopo, scoperta e
maledetta da Diana, si discioglie nelle acque di un fiumicello. Dai due protagonisti
prendono il loro nome i due fiumi presso i quali sono morti; il loro figlio, Pruneo,
diventerà siniscalco del fondatore di Fiesole Attalante, distruttore dei crudeli costumi
imposti da Diana alle sue ninfe. E’ un poemetto sul mito eziologico di Fiesole e di
Firenze, come accennato non immemore delle Metamorfosi di Ovidio, ma si avverte
l’eco dei cantari*, degli strambotti*, e dei rispetti* toscani.

Il Corbaccio, scritto tra il ’54 e il ’55, forse incompiuto (donde la sintassi non sempre
rifinita ma perciò molto brillante), prende il titolo dall’abitudine che i bestiari
attribuivano al corbo (‘corvo’) di mangiare gli occhi ai cadaveri, come Amore agli
innamorati. E’ una scrittura in prosa nella quale l’autore, afflitto dagli “accidenti del
carnale amore”, ha in sogno la visione del suo smarrimento in un luogo selvaggio
(“Laberinto d’Amore” per alcuni, per altri “Porcile di Venere”). Il suo Virgilio è un’anima
condannata al Purgatorio per avarizia e per eccessiva pazienza usata verso la seconda
moglie, donna terribile, che, ora vedova, è vanamente amata dall’autore. Il genere
dell’improperio contro la donna ha qui una vibrante realizzazione.

Esposizioni sopra la Commedia. Quando nel 1373 si trattò di decidere a chi affidare la
lettura pubblica della Commedia, la scelta cadde su Boccaccio, che si era occupato
della diffusione del poema. La lettura-commento ebbe luogo a Santo Stefano a Badia, e
rimane testimoniata dalle Esposizioni: L’impostazione è medievale, punta
all’interpretazione allegorico-simbolica, mescolando nelle spiegazioni dati storici e
mitici, e, talora, fittizi. Sono introdotte da una Vita (autografo di Toledo). Va poi
segnalata l’attività erudita di Boccaccio, il quale, in alcune opere di pura raccolta
enciclopedica, compendiò notizie su origini, significati, parentele di donne famose (De
claris mulieribus), luoghi, boschi, fonti, laghi, ecc. (De montibus, silvis, fontibus,
lacubus, ecc), e sopratutto divinità mitologiche, con le spiegazioni, tipicamente
medievali, in chiave allegorico-mitologica: De genealogiis deorum gentilium (‘Sulla
genealogia degli dei pagani’). Di particolare interesse sono gli ultimi due libri,
contenenti una difesa della poesia nella concezione estetica medioevale, (arte come
retorica e verità filosofica sotto le spoglie dell’allegoria*, ma anche un concetto che
sarà fortunato come quello dell’ispirazione) e una difesa dello scrittore.

Il decameron

Il titolo, la “cornice” e il paratesto. Il Decameròn completato nel 1350, è stato


certamente scritto dopo la peste del 1348. La sua descrizione occupa infatti buona
parte dell’introduzione e costituisce la premessa narrativa della raccolta di novelle:
sette ragazze e tre ragazzi si incontrano per caso nella chiesa di S. Maria Novella, e
decidono di sfuggire la peste e i suoi effetti di degradazione e confusione morale e
sociale, ritirandosi insieme per un po’ di tempo in un locus amoenus: una villa lontana
dalla città. Qui, per dieci giorni, i dieci narratori alternano vari passatempi: oltre a
danze, musiche, banchetti, conversazioni, giochi, anche la narrazione di novelle, che
raggiungeranno quindi il numero di 100. Da qui il nome Decameron cognominato
prencipe Galeotto: ‘Cento giornate, che ha per soprannome principe Galeotto’ (chi cioè
fa incontrare Tristano e Isotta; il riferimento è quindi alla vicenda dantesca di Paolo e
Francesca, la cui passione è assecondata dalla lettura dei fatti di Tristano e Isotta
Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse). A fine giornata alla regina o re della giornata
successiva, che intona una ballata, tocca di decidere il tema per l’indomani (che in
alcuni casi sarà, almeno apparentemente, libero). L’autore e i destinatari. La
cosiddetta “cornice”, che fa dei ragazzi i narratori, delle novelle e di coloro che
decidono il gioco e i temi. Boccaccio è, quindi, narratore di una narrazione che contiene
un’ulteriore narrazione). Ma l’autore compare, guidando in qualche modo la lettura,
nelle varie parti del paratesto* (da cui i ragazzi sono, ovviamente, esclusi).

Proemio: Boccaccio propone una visione consolatoria della letteratura, facendo di sé


stesso l’esempio di chi è riuscito a uscire dalle sofferenze amorose; disegna il lettore
ideale (non per forza coincidente con quello reale) dei piacevoli e nuovi ragionamenti:
le donne, che dalle costrizioni sociali sono impedite nel trovare distrazioni dalle loro
passioni amorose (escluse le donne prive di fantasia, che si contentano di filare). Oltre
al diletto esse trarranno utile consiglio. L’intento di piacevolezza e diletto è innovativo
accanto a quello dell’insegnamento. Introduzione: si dà il contesto della peste, e delle
fuga dei 10 giovani nel ritiro ameno, dove avverranno le narrazioni. (L’alternativa
narrazione/morte è già reperibile presso Apuleio, Mille e una notte, Macrobio, ecc.). IV
giornata: Boccaccio difende dall’accusa di licenziosità le sue novelle (che,, avevano
avuto probabilmente una circolazione precedente al completamento dell’opera).

Conclusione: si riallaccia al proemio e all’introduzione alla IV novella, difendendo la


“leggerezza” delle novelle. Rubriche: in testa a ogni novella, sintetizzano il plot, ma con
tagli e allusioni ad hoc, atti a incoraggiare la lettura più che a surrogarla; forniscono
anche una sorta di commento da parte dell’autore

Introduzione: motivazione e fini dell’opera. Proemio: occasione del narrare. I giornata:


argomento libero (Pampinea regina). Ma all’inizio della giornata si trova l’Introduzione,
in cui Boccaccio descrive minuziosamente la peste e narra dell’incontro a S. Maria
Novella dei 10 ragazzi, che, su suggerimento di Pampinea, decidono di ritirarsi in
campagna II giornata: chi risolve soluzioni disperate (Filomena) III giornata: chi ottiene
o recupera la cosa desiderata (Neifile) IV giornata: amori finiti male (Filostrato); oltre
all’introduzione in cui Boccaccio si difende dall’accusa di licenziosità V giornata:
amanti felici dopo eventi sfortunati (Fiammetta) VI giornata: chi evita pericoli o sconfitte
con un’immediata soluzione o risposta (Elissa) VII giornata: donne che beffano i mariti
senza che questi se ne accorgano (Dioneo) VIII giornata: beffe che uomini e donne si
fanno fra loro (Lauretta) IX giornata: argomento libero (Emilia) X giornata: chi compie
atti grandiosi o splendidi nell’ambito amoroso (Panfilo)

Esempi

Ed ora alcuni esempi, in parte reperibili e leggibili nell’antologia. Il primo numero si


riferisce alla giornata, il secondo alla novella all’interno della giornata. I.7. Bergamino,
celebre intrattenitore si reca alla corte di Can Grande della Scala a Verona, famoso per
la straordinaria generosità. Questi, però, alla vista del pessimo aspetto di Bergamino,
viene preso da un raptus di avarizia, disdice il pranzo e licenzia tutti. A tutti fa però un
dono, tranne a Bergamino, il quale decide tuttavia di restare in una locanda in attesa di
tornare eventualmente utile, pagando l'oste con le sole tre belle vesti che possedeva.
Quando aveva già impegnato l'ultima veste, Can Grande decide di andare a trovarlo,
per schernire la sua testardaggine. Bergamino inizia a raccontargli una novella di un
caso simile al suo: un certo Primasso, grande grammatico parigino, decise di provare la
proverbiale ospitalità dell'abate di Cluny. Quando l'abate lo vide seduto alla sua
mensa, senza riconoscerlo si fece prendere da un'improvvisa avarizia e vietò di servire i
pasti, al che Primasso iniziò a mangiare i tre pani che aveva con sè; arrivato al terzo
l'abate si incuriosì della sua cocciutaggine e si pentì della propria avarizia insensata.
Dopo aver fatto servire il pranzo venne a sapere dell'ospite illustre e lo ricoprì di doni.
Con questo racconto Bergamino risolve la sua situazione e può finalmente godere della
generosità di Can Grande.

II 5. Essendo i familiari più grandi fuori casa, tocca ad Andreuccio andare alla fiera dei
cavalli di Napoli. Una bellissima prostituta siciliana, Fiordaliso, adocchia la borsa di
fiorini che lui ostenta, e incarica una ragazzina di invitarlo a casa, con l’intenzione di
impadronirsi dei soldi. Avvalendosi di informazioni avute da una vecchia che lo
conosce, si spaccia per sua sorella naturale e gli fa servire un’ottima cena. Quando,
nella caldissima notte, Andreuccio va a soddisfare un bisogno, mette il piede su uno
scalino rotto e precipita in fondo alla latrina, imbrattandosi tutto. Mentre Fiordaliso
corre a prendere i fiorini, Andreuccio scavalca il muretto e, dalla via, grida e lancia sassi
per essere riammesso ma la serva di casa gli chiude la finestra. Due ladri, attirati dal
puzzo, lo scovano e lo arruolano per un furto alla tomba dell’arcivescovo, sepolto il
giorno prima.

Lungo la strada, per lavarlo, lo calano in un pozzo, ma all’arrivo dei gendarmi lo


lasciano cadere. I gendarmi, tirando su l’acqua per dissetarsi, all’apparire di
Andreuccio, credono a un’apparizione diabolica e fuggono. Di nuovo incontra i due
ladri, dai quali, giunto al duomo, è costretto a entrare nell’arca, e, appena dice
(fingendo) di non trovare il prezioso anello, viene chiuso dentro. Un’altra banda di ladri
arriva, e riapre l’arca. Andreuccio morde il polpaccio del ladro (un prete) che si sta
introducendo nell’arca. Credendo che sia un morso del defunto, il trio fugge, lasciando
ad Andreuccio l’anello, di valore pari ai soldi derubati dalla bella siciliana.
IV.1. Ghismonda, figlia di Tancredi principe di Salerno, viene concessa in sposa dal
padre al figlio del conte di Capua, del quale rimane presto vedova. Tornata nella casa
paterna, Ghismonda, si innamora di un valletto di Tancredi, Guiscardo, un uomo di
animo nobile ma di umili origini, adottato dal padre sempre in nome di un’etica
dell’onestà interiore a svantaggio di un’etica di censo. Ghismonda e Guiscardo
diventano presto amanti. Una sera Tancredi si reca in camera della figlia, che in quel
momento non si trova nella sua stanza, e si addormenta. Ghismonda si ritira nella sua
stanza e ignara della presenza del padre riceve Guiscardo. Tancredi si sveglia durante
l’appassionato incontro.

Il principe di Salerno ordina a due guardie di picchiare Guiscardo e di farlo imprigionare;


poi si reca in camera di Ghismonda, che difende il suo amore in nome della naturalezza
della passione amorosa e dell’etica della nobiltà interiore sempre ostentata anche dal
padre. Dopo il colloquio, Tancredi, dà l’ordine di uccidere Guiscardo, di strappargli il
cuore e di farlo pervenire all’interno di una coppa d’oro a Ghismonda che si uccide. Il
padre, pentitosi, decide di onorare Ghismonda e Guiscardo tumulando entrambi i corpi
nello stesso sepolcro.

DECAMERON. TEMI E SIMBOLOGIA

Temi. Nella cosmologia delle forze boccacciane centrale è la Fortuna, il caso, dal cui
imperscrutabile giudizio tutto dipende: si pensi, fra gli esempi fatti, all’intervento, con
esito positivo, della seconda banda di ladri nella novella di Andreuccio, o, con esito
negativo, nella vicenda di Ghismunda. Legata alla Fortuna è la Natura, che prende
spesso la forma dell’amore, naturale e irresistibile. Di fronte alla fortuna si reagisce con
l’intelligenza (e il suo contrario: la dabbenaggine). La Natura prende la forma di
passione amorosa, di eros in così tante novelle (ca. 70, la IV, V di diritto, e, di fatto, la III
e VII, ecc.) da essere più che un motivo, un “macromotivo” (Asor Rosa) che s’intreccia
con altri. Dove non è centrale può spesso essere molla scatenante: ad es. è ciò che
spinge Andreuccio a casa della siciliana, il motivo della passione carnale traspare
anche nelle relazioni più sublimi, perfino tragiche (Guiscardo e Ghismunda).

Psicologia e simbologia dei 10 ragazzi-narratori. Il numero dei ragazzi, 7 donne e 3


uomini, sembra significare le virtù (teologali e cardinali) + la trinità. Tutti i hanno una
loro psicologia e tutti rimandano a opere di Boccaccio o di altri autori. Panfilo, l’amante
fortunato, all’Elegia di Madonna Fiammetta; Filostrato, l’amante tradito e disperato, al
Filostrato; Dioneo, il carapulone spregiudicato, alla Commedia delle Ninfe fiorentine;
Pampinea, saggia e serena amante riamata, alla Commedia delle Ninfe fiorentine e
Buccolicum carmen; Filomena, saggia e discreta ma piena di desiderio, al Filostrato;
Emilia, narcisista, alla Commedia delle Ninfe fiorentine; Lauretta, amante gelosa, al
Petrarca; Elissa, adolescente schiava di un’acerba passione, a Virgilio; Neifile,
adolescente gioiosa, allo stilnovo e a Dante; Fiammetta, amante ricambiata ma
timorosa di perdere l’amore, alla Commedia delle Ninfe fiorentine, Elegia, Filocolo.
PETRARCA

Biografia. Francesco Petrarca nasce il 20 luglio 1304, dal notaio fiorentino Pietro di
Parenzo, detto Petracco, ad Arezzo, dove il padre, guelfo bianco (come Dante) si trova
bandito. Dal 1312, la famiglia è a Carpentras, presso Avignone, dove risiede la corte
papale. Francesco si laurea in giurisprudenza a Bologna, prende gli ordini minori ad
Avignone che gli consentiranno diversi canonicati (Lombez, Pisa, Padova, Parma). Nei
suoi viaggi scoprirà le lettere di Cicerone ad Attico (nella biblioteca capitolare di
Verona). L’8 aprile 1341 ottiene dal re di Napoli Roberto d’Angiò, la laurea come
magnum poetam et historicum (in ragione del De viris illustribus e dell’Africa, in latino;
non dei Trionfi, in volgare). Nel 1347 si reca a Roma, interessato alla Repubblica di Cola
di Rienzo, morto il quale torna nell’Italia del nord. Nel 1350, al ritorno dal Giubileo,
incontra a Firenze Boccaccio, con cui instaura una forte amicizia. Con l’elezione di
Innocenzo VI i già tesi rapporti con la curia avignonese peggiorano e Petrarca si
allontana da Avignone.

Si reca dunque presso i Visconti di Milano, dove svolge alti uffici, (come presso
l’imperatore Carlo di Boemia e altri protettori), lavorando su opere filosofiche tra cui il
Secretum, più che poetiche (comincia intanto però a raccogliere le rime). Si stabilisce
infine a Venezia, con la sua biblioteca e i suoi autografi, che promette, in cambio di una
residenza, in eredità alla città. Qui si avvale della collaborazione del segretario
Giovanni Malpaghini, cui dobbiamo una copia delle lettere Familiares, e del canzoniere,
che a questo punto si trova alla quarta stesura, ma Petrarca continuerà a limarlo fino
alla morte avvenuta il 18 luglio 1374, ad Arquà, dove si era definitivamente stabilito.

Petrarca fu incoronato a Napoli da Roberto d’Angiò, nel 1341, come ‘grande poeta e
storico’ (magnum poeta et historicus) per aver scritto opere poetico-storiche o erudite-
storiche, tutte in latino. Le principali sono l’Africa e il De viris illustribus. Africa. Poema
epico in esametri* in nove libri, pensato in Valchiusa nel ’38 o nel ’39, condotto a
termine verso ’41 (e ritoccato negli anni successivi). La materia è la seconda guerra
punica che consente un panorama della storia romana anteriore e posteriore, con
molte digressioni. Vi si trovano reminiscenze di Livio, Virgilio e soprattutto il Somnium
Scipionis di Cicerone, con cui condivide l’opinione sull’eroe protagonista, Scipione.

De viris illustribus Serie di biografie dei romani illustri, da Romolo a Cesare, e dei
maggiori personaggi biblici. Importante è l’ampiezza della ricerca, grande lo scrupolo
nel vaglio delle fonti e profonda l’attenzione al quadro psicologico dei caratteri (cui
talvolta rischia di ridursi la storia). Bucolicum Carmen Raccolta delle egloghe scritte a
Valchiusa fra il ’46 e ’47, riviste poi a Milano (1350). Sono componimenti allegorici
(d’ispirazione virgiliana) di vario tema: l’amore per Laura, il dolore per la sua morte, le
ansie e le inquietudini religiose. Ad es. nella prima, due personaggi, Silvio (maschera di
Petrarca) e Monico (il fratello Gherardo) rappresentano rispettivamente la vita
mondana e studiosa e la vita contemplativa e ascetica
Secretum Il titolo più autorevole è De secreto conflictu curarum mearum liber. Il titolo,
l’assenza di revisione ultima e le dichiarazioni dello scrittore non devono ingannare:
non si tratta di appunti ad uso personale. Il dialogo latino descrive tre giornate di
colloquio con S. Agostino, a 16 anni dall’incontro con Laura, l’insistenza sull’ipotetica
morte di Laura induce a pensarla come già avvenuta (nel 1348 durante l’epidemia di
peste). L’influenza di opere latine e di alcuni temi stoici porta verso il 1353: mentre
Francesco, sul Monte Ventoso (vicino ad Avignone), medita sulla condizione umana, gli
appare una bella donna di età imprecisabile, è la Verità; insieme a lei, un anziano di
nobile aspetto, S. Agostino. La Verità prega il padre della Chiesa di fare qualcosa per
salvare Francesco, spiritualmente moribondo; Agostino si meraviglia: non lo farebbe
meglio Lei? No, risponde, a orecchio mortale suona più facile una voce mortale.
Tuttavia, Ella assisterà, muta. Seguono i tre giorni di conversazione, in ‘luogo appartato’
(secretum), narrati nei tre libri.

Secretum I. Francesco è diviso fra l’idea che nessuno è senza peccato e il desiderio di
voler redimersi, e ma ci si deve adeguare a tale imperfezione. E’ la morale peripatetica
contro la ragione stoica. La soluzione è la filosofia, la meditazione e non la
disperazione, ripete A., che oltre a essere il filosofo dei Soliloquia e del De civitate Dei,
è pur sempre il tormentato protagonista delle Confessiones (opere a cui si allude e
parafrasate nel dialogo) che può ben immedesimarsi in P. (Ognuno, ha notato Rico, è
l’immagine dell’altro in una diversa fase della propria parabola). II. Esame di coscienza
attraverso i sette peccati capitali (entro cui spicca quantitativamente la lussuria,
l’ostacolo alla contemplazione degli archana divina, i ‘misteri divini’).

III. L’attenzione si stringe sulle grandi passioni P. l’amore (cioè la poesia volgare) e la
gloria (cioè la poesia latina). Quanto al primo, il poeta dice di amare l’anima di Laura,
che le sue virtù sono doni di Dio e amando lei, ama Dio. A. oppone che le creature
terrene sono transitorie e imperfette e l’amore per esse non può che finire deluso dalle
illusioni e dalla morte. Inoltre non si può amare la creatura per arrivare al Creatore ma,
il contrario. Pressappoco lo stesso quanto alla gloria letteraria: le scritture dispersive,
futili, stancanti, incompiute, vanno sostituite con la meditazione. P. s’impegnerà subito
a raccogliere i frammenti dei suoi lavori per potersi dedicare alla meditazione

FORMAZIONE DEL CANZONIER

Dopo la peste del 1348 si verificò un mutamento in Petrarca per cui giunse a
maturazione un processo di ripensamento e di ridefinizione non solo del proprio mondo
interiore, ma anche del proprio ruolo di intellettuale. La scomparsa di Laura assume
per Petrarca un valore simbolico, il mondo della sua gioventù scompariva con lei.
Emergeva l’esigenza di una mutatio animi che si riflettesse in una mutatio vite, un
cambiamento spirituale che si traducesse in un cambiamento esistenziale e in un
progetto di sistemazione della propria opera, riunendo la propria produzione "sparsa"
precedente in tre grandi raccolte di epistole in prosa e in versi e rime in volgare.
Fino agli anni 1348-49, Petrarca aveva divulgato i suoi componimenti poetici in modo
occasionale, man mano che li andava scrivendo, secondo l’uso comune dell’epoca.
Nugae, inezie, cioè pezzi "leggeri" e contingenti, li definiva il grande umanista che aveva
affidato la sua fama alla composizione in latino. Ora, il desiderio di spostare il campo
d’interessi verso l’introspezione e l’analisi morale, lo conduce all’idea di raccoglierli in
un grande liber che restituisse loro il senso di una vicenda esemplare che
ricomponesse i "frammenti" in un "ordine" superiore capace di riassumerli in un senso
più ampio e universale. Nacque così il progetto, praticamente mai tentato sino ad
allora (a parte l’eccezione del poeta latino Catullo), di costruire un volume in cui i
singoli "microtesti", adeguatamente disposti, assumessero il loro significato solo
all’interno del "macrotesto".

STRUTTURA DEL CANZONIERE

Nella raccolta delle rime si viene così a configurare un itinerario interiore, il cammino
dell’ "io", dall’errore giovanile dell’amore "alienante" all’affrancamento della maturità,
in un’esperienza che è al tempo stesso individuale in quanto propria della sensibilità
dell’autore, e universale, in quanto applicabile all’esistenza di ciascuno. Il titolo è, non
a caso, Rerum Vulgarium Fragmenta ed è il primo “Canzoniere" della storia della lirica
europea (anche se il titolo Canzoniere oggi divulgato, gli verrà attribuito solo all’inizio
del XVI secolo). Petrarca lavorò all’ elaborazione dell’opera sino alla morte: nella loro
struttura finale, i RVF erano costituiti da 366 componimenti (uno per ogni giorno
dell’anno, oltre il sonetto proemiale), distribuiti in 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7
ballate e 4 madrigali.

I criteri con cui Petrarca dispose i singoli testi rispondono a un ordinamento calcolato
meticolosamente il cui aspetto principale consiste nella divisione dell’opera in due
parti e nella collocazione particolare di alcuni componimenti che svolgono la funzione
di marcare i momenti salienti del suo percorso interiore ed "esemplare".

La bipartizione (divisione "in vita" e "in morte" di Laura,) funzionò nel corso
dell’elaborazione come "spazio bianco" nel quale inserire i testi che via via il poeta
veniva componendo o quelli che recuperava e riadattava. Il suo significato consiste nel
senso di rottura, del cambiame nell’animo del poeta, provocato, quanto meno nella
sua ricostruzione letteraria, dalla morte dell’amata. Nella raccolta l’accento è posto
con più forza sulla svolta interiore, sulla mutatio nell’animo dell’autore, secondo lo
schema tipico delle parabole esistenziali dei grandi intellettuali occidentali.

La seconda sezione non inizierà con il pianto in morte di Laura (sonetto 267, Oimè il bel
viso, oimè il soave sguardo), ma con l’annuncio problematico della "conversione"
interiore (canzone 264, I’ vo pensando, et nel pensier m’assale). All’interno del testo,
altri componimenti assumono una posizione di particolare rilievo: il sonetto proemiale,
la canzone 264 (I componimento della seconda parte), la canzone 366, invocazione
conclusiva alla Vergine, oltre a tutta una serie di gruppi tematici e corrispondenze
interne.

PETRARCA TEMI DEL CANZONIERE

Il Canzoniere, essendo la ricostruzione a posteriori di una vicenda biografica e


psicologica, interiore ed esteriore, è intriso di tutti gli aspetti e le inquietudini della
personalità dell’autore: il desiderio di gloria (il «lauro»); le spinte alla sensualità; la
nostalgia della sua terra (l’«aura») intimamente connessa al sentimento di
"alienazione", il distacco (il «peregrinus»); l’evocazione della natura (il «locus
amoenus», l’«aurora») che in ogni parte riflette le vestigia dell’amata; il senso del
trascorrere inesorabile del tempo registrato nella rievocazione degli "anniversari"
dell’innamoramento; il riconoscimento della virtù eternatrice della poesia, capace di
annullare nel canto la morte; l’amicizia cui è riservato tanto spazio.

Le tematiche del Canzoniere sono in gran parte di tipo amoroso. La "storia d’amore",
che inizia nel «dì sesto d’aprile» del 1327 e dura sino alla morte di Laura ma va avanti
sino alla fase della rievocazione, è il filo conduttore. Laura rappresenta un intero
sistema ideologico: è metafora de l’aura, cioè di un mondo di passioni, aspirazioni,
tormenti che lottano nell’animo del soggetto; è il lauro, cioè l’alloro, pianta con cui
tradizionalmente era coronato Apollo, il dio della poesia e dei poeti, allegoria quindi
della gloria letteraria. Laura è anche il motivo del dissidio dell’amante, della sofferenza
derivante dalla coscienza del vuoto, della vanità, dell’errore prodotto dall’amore
indirizzato alla creatura piuttosto che al Creatore. È un significante che rimanda a una
molteplicità di significati che trascendono non solo la persona in sé, ma anche la
tematica amorosa. Tutti i grandi temi della lirica romanza, dai provenzali agli stilnovisti,
compaiono nel Canzoniere riunificati e dotati del nuovo significato conferito loro
dall’essere inseriti all’interno della parabola esemplare dell’ "io": l’assenza, il tormento,
soprattutto la morte che getta la sua ombra particolarmente sull’intera seconda parte
del testo.

Sono presenti anche testi di taglio politico. Preponderante, o quasi esclusiva, è la


presenza della famiglia dei suoi antichi protettori, i Colonna. Salvo la canzone 128,
Italia mia, tutti gli altri componimenti di questo tipo sono dedicati alla famiglia romana,
a volte con prese di posizione anche violente: i componimenti per la crociata (27 e 28),
la canzone "romana", Spirto gentil (53), il sonetto 103, Vinse Hanibàl, et non seppe usar
poi, in cui Petrarca incita Stefano il giovane a sterminare i nemici Orsini, sino al pianto
che accomuna Laura e il Cardinale nel sonetto 269, Rotta è l’alta colonna e ‘l verde
lauro. Eppure, da tempo era avvenuto il distacco dalla potente famiglia nobiliare, che
peraltro, alle soglie degli anni Cinquanta era ormai dispersa: ciononostante «Petrarca
non poteva tradire la fedeltà ai Colonnesi, semplicemente perché i Colonna insieme a
Laura, erano stati il pilastro di quella vita passata che col Canzoniere egli stava
rivivendo» (Santagata). A parte vanno considerati gli sdegnati sonetti contro la curia
avignonese, l’«avara Babilonia» (in particolare i sonetti 136-138, ma la figura della città
corrotta si staglia con prepotenza nel libro, contrapposta alla serena tranquillità del
rifugio campestre di Valchiusa, come, per esempio, nel sonetto 114 , De l’empia
Babilonia ond’è fuggita / ogni vergogna).

PETRARCA CANZONIERE LETTURA DI UN SONETTO

Si confronti ancora una volta il tema dell’apparizione della donna, di cui abbiamo dato
esempi da Dante, Guinizzelli, Cavalcanti, nella realizzazione del seguente sonetto
petrarchesco (RVF CLIX). Si tenga presente soprattutto il noto sonetto di Dante (Tanto
gentile ecc.) in cui la trascendenza “mistica” del poeta (e dello stilnovo), fatto
miracoloso, è una esperienza nuova nella sua vita; nella poesia di Petrarca, l’effetto
sembra di confusione psicologica, mentre in Dante c’è una progressione logica dalla
visione agli effetti, fino all’apice di impossibilità a parlare (Sospira), in Petrarca domina
una sorta di circolarità che parte dalla descrizione, prosegue negli effetti e ritorna alla
descrizione. Si noti, assieme alla circolarità, anche la costante contraddizione (le virtù
colpevoli, Amore che sana e uccide).
PETRARCA. COMPOSIZIONE DEL CANZONIERE

L’ultima versione del RVF si trova nel ms. Vaticano Latino 3195 della Biblioteca
Vaticana, è in gran parte autografo, per il resto dettato direttamente dall’autore al suo
segretario, ingaggiato nel 1366, Giovanni Malpaghini (olografo). Petrarca avrebbe
probabilmente apportato ulteriori modifiche, finché la morte non lo colse (nel luglio
1374). Delle varianti petrarchesche abbiamo abbondante documentazione grazie ad
altri ms. (anche autografi). Dubbi tuttavia rimangono sulle cronologie di sonetti come
quello d’apertura Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, ecc. I problemi di cronologia
sono interessanti perché la cronologia della storia del suo amore con Laura, sembra
strutturare la raccolta.

Il RVF contiene 366 poesie (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali). La
maggioranza delle poesie è d’ispirazione amorosa. Si aggiungano alcune canzoni
politiche (all’Italia, sulla crociata del 1333, sulla grandezza decaduta di Roma, in
occasione della sua laurea poetica nel 1341, sonetti di corrispondenza). Il “corpo” del
RVF può essere suddiviso in due parti: dopo il sonetto introduttivo-riepilogativo che
suggerisce una lettura cronologica (giovinezzamaturità impostata sul senso della vanità
del tutto), una canzone finale alla Vergine Maria.

PETRARCA. STRUTTURA E VICENDE DEL CANZONIERE

Parte I. Con l’incontro di Laura (III) comincia la storia dei RVF (è il venerdì santo del
1327) e l’altalena di opposti sentimenti: illusione-disillusione, piacerepena che
costituiranno la tessitura di tutto il canzoniere e soprattutto il senso di prigionia,
l’incapacità di scegliere, la solitudine, il senso del passare del tempo, il fluttuare dei
sentimenti. (Si guardi la stanza* iniziale della canzone Di pensier in pensier, CXXIX 1-
13). Su tutto domina il tentativo di cercare la pace davanti all’ossessione per Laura. A
tale ossessione il poeta reagisce o con la rassegnazione o con un moto di ribellione,
specie a partire dal sonetto citato all’inizio in cui Laura è riconosciuta come una Idea
prototipica e le è attribuita una superiorità delle virtù. Comincia anche a farsi strada il
bisogno di redenzione, di salvezza e l’auto-analisi. Dietro tali contrasti c’è anche la
contraddizione fra il sentire (stoico) di autoaffermazione personale e quello (cristiano)
di affermazione di sé attraverso Dio

Parte II. Con la morte di Laura, non viene meno la psicologia contraddittoria di Petrarca
ma il contrasto fra attrazione carnale e distacco dalle cose terrene e indegne
dell’attenzione che va invece rivolta a pensieri e studi più profondi. Laura diventa una
guida morale. La soluzione del tutto cristiana (senza tentazioni “stoiche”) sembra
profilarsi nella canzone finale alla Vergine. Tuttavia, le contraddizioni hanno convissuto
così in profondo che anche questa non sembrerebbe una soluzione quanto una delle
infinite contraddizioni.

Le contraddizioni profonde della psicologia di Petrarca trovano corrispondenza nella


sua tecnica compositiva. Ad es. l’inaspettato verso 8 della poesia che abbiamo letto (In
qual parte del ciel): dopo aver parlato delle virtù di Laura, scrive «benché la somma è di
mia morte rea»: in genere, come in questo caso, l’affermazione contrastante le
precedenti (l’antitesi, diciamo) arriva all’inizio della seconda parte della poesia

PETRARCA. TECNICA DEL CANZONIERE

Dal punto di vista lessicale non si trova nel RVF un grande repertorio: i termini si
ripetono. Tuttavia P. ha cura di evitare ripetizioni troppo ravvicinate, e molte varianti
emerse dai vari ms. testimoniano questa attenzione. Dal punto di vista sintattico si può
notare l’attenzione, quasi ostentata, alla consequenzialità logica, nell’uso di connettivi
quali: onde (‘per cui’), quando, se non che, ecc. che rivelano l’importanza dell’’analisi
delle proprie reazioni psicologiche. Da un punto di vista retorico abbondano l’antitesi*
(aspetto pensoso...anima lieta) e l’ossimoro* (dolci ire, dolce mal). In genere va poi
rilevata l’alta densità di allusioni classiche e mitologiche che si affiancano a quelle
cristiane, provenzali, siculo-toscane e stilnoviste. Riguardo le prime ad es. i RVF non
sono esenti dal ricordo delle Metamorfosi di Ovidio e della mutevolezza che ne
costituisce uno dei temi di fondo (mito di Dafne e Apollo).

PETRACA. I TRIONFI

Petrarca ne iniziò la scrittura nel 1350 e vi lavorava ancora nel 1374. Sotto la protezione
di una guida sconosciuta Petrarca ha delle visioni: il trionfo è infatti una sorta di
processione allegorica. Il primo è il trionfo d’Amore, nel quale P. parla con le vittime
della passione amorosa, tra cui Dante e Cino da Pistoia. Seguono i trionfi della Castità,
Morte, Fama, Tempo ed Eternità (dove di nuovo Petrarca si intrattiene a parlare con i
personaggi che incontra). Ovunque Laura è ricordata come modello, l’influenza
dantesca è percepibile nell’uso della terza rima, nella divisione in canti di alcuni trionfi
oltre che nell’idea della visione ma si ritrovano accenti ben vicini al quelli del
canzoniere, come in questa terzina del Trionfo della Morte: che’ vostri dolci sdegni e le
dolci ire, le dolci paci ne’ belli occhi scritte, tener molti anni in dubbio il mio desire (III,
ii, 82-84)

PREDICAZIONE E TEATRO. PREMESSA

Non deve stupire la scelta di unire predicazione e teatro, poiché entrambe sono due
forme di espressioni che coinvolgono l’oralità e la pubblica esecuzione. Entrambe
furono quindi, un mezzo potente di diffusione delle lingue volgari. La predicazione fu
uno dei primi veicoli dei volgari. L’esigenza di comunicare con gli illetterati fu risolta
appunto con il ricorso al volgare, per ovviare alla loro ignoranza del latino. La
predicazione non a caso è intrecciata con la storia dei volgarizzamenti. In entrambi i
campi infatti spicca l’opera dell’Ordine dei Domenicani: nel convento di Pisa Domenico
Cavalca (1270-1342) e Bartolomeo da San Concordio (m. 1347) composero alcuni
“trattati” ispirati alla loro predicazione e volti a fornire materiali e suggerimenti per altri
predicatori.

Jacopo Passavanti e Giordano da Pisa Il domenicano Jacopo Passavanti (1302-57),


raccoglie la sua esperienza di predicatore a Santa Maria Novella a Firenze nello
Specchio di vera penitenza, una raccolta a posteriori dei suoi temi favoriti e delle sue
prediche che avrebbero costituito un repertorio per i successivi predicatori. Ma
sicuramente il più influente predicatore il primo tra l’altro di cui possediamo le
prediche, fu Giordano da Pisa (m.1311). In qualità di lettore a Santa Maria Novella, oltre
alla lectio e alla disputatio, gli spettava anche la predicatio. I suoi sermoni restano nelle
trascrizioni piuttosto fedeli (parlata pisana bagnata nel fiorentino) approntate da alcuni
ammiratori (notai). Il linguaggio utilizzato è semplice e a tratti popolare e dall’altro lato
grande è anche lo sforzo di fornire spiegazioni chiare di concetti complessi teologici e
filosofici di non facile comprensione, i destinatari delle prediche potevano infatti
provenire da un ampio bacino socio-culturale.
PREDICAZIONE E TEATRO: L’ORDINE FRANCESCANO L’altro ordine coinvolto nelle
predicazioni fu quello francescano, che vide soprattutto nel riflesso scritto dei Fioretti
di San Francesco, tratto dagli Acta beati Francisci et sociorum eius, il suo frutto più
popolare. Tra i francescani spicca Giovanni Colombini (1304-67), che raccolse in
lettere molte delle sue prediche. Ma è Santa Caterina la scrittrice di lettere a fini devoti
più importante, con le sue quasi quattrocento lettere a papi, sacerdoti, re, artisti, sullo
sfondo di viaggi a fini diplomatici e soprattutto con le lettere che affrontano la più
importante questione religiosa del momento, ovvero lo scisma che ebbe luogo nel
1378. Nata da una famiglia povera, imparò a scrivere molto tardi, il suo stile ricorre a
una notevole vastità di registri (il ruolo di mediazione svolto dai suoi segretari nel
confezionare le lettere non è ancora chiarito).

Teatro

La Chiesa, tollerava le rappresentazioni profane solo durante il carnevale. Il teatro


come lo conosciamo oggi si sviluppò solo nel Cinquecento. Questo non vuol dire che
prima non si ebbero rappresentazioni (in genere religiose) con personaggi e testi da
recitare. A parte la possibile interpretazione della liturgia come messa in scena della
morte e resurrezione di Cristo, le rappresentazioni di tipo religioso, invece, erano parte
costitutiva talora delle cerimonie, come ad es. i misteri, le laudes, le sacre
rappresentazioni (queste ultime due, non sono sempre cosí distinguibili: un esempio
che copre entrambe le definizioni è reperibile nello Stabat Mater pseudo-jacoponico).
Messe in scena dapprima dentro alla chiesa, le rappresentazioni si spostarono poi
fuori, sul sagrato, coinvolgendo (almeno in una fase inizale) anche istrioni e giocolieri.

STORIOGRAFIA CRISTIANA E MEDIEVALE

La prosa letteraria del Trecento italiano è dominata dalla storia, per due aspetti: a) la
scrittura di fantasia, in prosa e in poesia, spesso dipende da, o risponde a, processi ed
eventi storici b) molti testi hanno lo scopo esplicito di registrare o interpretare eventi
storici Nonostante narrazione e storiografia siano due cose che si intrecciano ancora
nella storiografia odierna, dove inevitabilmente le tecniche narrative possono
influenzare i contenuti, va anche detto che, in particolare, la linea che separa ‘storia’ e
‘finzione’ nel Trecento è molto meno chiara rispetto a quella poi tracciata dal metodo
storiografico ottocentesco.

Gli storici più conosciuti del XIV secolo sono due fiorentini, autori di cronache relative
alla prima metà del secolo: Dino Compagni (1255/60-1324), autore della Cronica delle
cose occorrenti ne’ tempi suoi (1310-12), e Giovanni Villani (c. 1276-1348). La Cronica
di quest’ultimo fu probabilmente cominciata attorno agli anni Venti e continuata dopo
la sua morte dal fratello Matteo (c. 1285-1363) e da Filippo, figlio di Matteo (c. 1325-
1405) che portò gli annali fino al 1364. Il fatto che a Firenze vi fosse un tale profondo e
radicato interesse per la storia, ha finito per oscurare non solo gli scritti storiografici
prodotti in altre zone ma anche le storie in latino di altre città. A parte quest’ultime,
andrà ricordata almeno la cronaca che il così chiamato Anonimo Romano fece delle
vicende (1327-54) legate a Cola Di Rienzo.

Dino Compagni. La storia di Compagni della sua epoca è soprattutto la storia


dell’importante ruolo da lui svolto nella storia fiorentina. Così la sua vivacità
autobiografica e l’acuta intelligenza dei fatti della storia contemporanea ne fanno
un’opera che spiega il suo costante successo. Naturalmente le opere variano
ampiamente per contenuto e qualità. Il lavoro di Villani ha uno scopo più ampio e un
approccio più teorico, egli infatti, oltre alla cronaca dei fatti e ad un ricchissimo e
utilissimo lavoro di dati statistici (frutto della sua mentalità di banchiere), si interroga
sulla logica che sta dietro alla storia. La risposta è data in termini di peccato e
ricompensa, che muoverebbero l’intera storia universale, di cui quella di Firenze è
parte.

L’EREDITÀ DI PETRARCA

Tutte le opere di Petrarca (tranne il Canzoniere e iTrionfi) sono in latino. Scoprì


importanti testi antichi, tra i quali un ms. delle lettere di Cicerone ad Attico e l’orazione,
sempre ciceroniana, Pro Archia, dove si trova un’importante difesa del ruolo civile del
poeta (ben distante dalle posizioni platoniche). La sua preferenza per una religiosità
intima, agostiniana, lo allontana da quella, più comunicativa, domenicana e
francescana. I suoi trattati-invettive hanno una grossa fortuna nell’Umanesimo ciò vale
specialmente per il De suis ignorantia e in Contra medicum in cui difende la funzione
sociale dello scrittore e dell’intellettuale e cerca di mostrare come Platone sia
compatibile col sistema filosofico cristiano più di Aristotele. Tutto ciò, e altro, produsse
un’importante effetto sulla cultura successiva. Il lascito di Petrarca poi nella
storiografia è altrettanto profondo: egli cercò di accorpare tutti i libri delle Decadi dello
storico latino Tito Livio, per darne la versione più completa.

LA STORIOGRAFIA UMANISTICA

L’Umanesimo ebbe come protagonisti soprattutto insegnanti e tutori, il cui metodo


poggiava esclusivamente sulla conoscenza del latino, dei poeti (Virgilio, Ovidio,
Lucano) e prosatori (Cicerone, Valerio Massimo, Cesare e Livio). Talora (come nel caso
di Guarino Veronese che operò a Ferrara), anche il greco entrava a far parte di questo
percorso educativo. L’educazione culturale ideale avrebbe dovuto formare un uomo
laico dedito ai doveri della gestione del bene pubblico. I casi più lampanti sono quello
dei Guarino, precettori dei figli della famiglia d’Este. Uno dei generi che, in quest’ottica
di preparazione del gestore della cosa pubblica, conquistò importanza fu la
storiografia, che, ancora una volta in Petrarca (con la sua raccolta delle Decadi di Livio)
aveva avuto il suo modello. La raccolta in una biblioteca di testi rari e introvabili diventò
quasi un dovere per i nuovi umanisti (secondo, anche in questo caso, l’esempio
petrarchesco).

LA FILOLOGIA UMANISTICA

Diamo alcuni esempi di famosi pre-umanisti e umanisti, rilevanti per lo sviluppo della
filologia. Coluccio Salutati (1331-1406), cancelliere di Firenze, scoprì le lettere Ad
Familiares di Cicerone, fino ad allora sconosciute. Coluccio possedeva inoltre una
notevole biblioteca. Il latino delle lettere di Coluccio sarà decisamente innovativo, in
quanto recupererà con gusto sottile la tecnica della prosa latina. Lorenzo Valla (1407-
57) considera il linguaggio il principale problema dei filosofi, e per linguaggio intende il
latino. Fra le molte opere si segnala per l’intreccio di filologia e storia, la dimostrazione
della falsità della Donatio Constantini (Donazione di Costantino) con cui la Chiesa
reclamava la legittimità del possesso del proprio dominio in nome della donazione che
l’imperatore Costantino avrebbe compiuto a favore della Chiesa. Angelo Poliziano. Il
suo nome costituisce una tappa importante per quanto riguarda il recupero e lo studio
della poesia latina, solo più tardi per la sua produzione in volgare. Di particolare rilievo
nella sua attività di umanista è il suo metodo di confronto fra i vari testimoni*
disponibili, al fine di ricostruire le lezioni che considera più attendibili.

FILOLOGIA E STORIOGRAFIA: ETICA, POLITICA ED ECONOMIA

Leonardo Bruni (1370-1444) fu cancelliere della repubblica fiorentina. Cominciò a


tradurre dal greco testi centrali per la formazione dell’uomo umanistico (come l’Etica e
la Politica di Aristotele) che supportavano l’idea che 1. l’ascetismo contrasta alla
realizzazione della felicità per la quale alcuni beni sono necessari; 2. l’uomo è un
animale naturalmente politico. Diffuse queste idee nelle sue opere, quasi tutte in
latino, prima fra tutte la Laudatio florentinae urbis (Lode della città di Firenze). Leon
Battista Alberti (1404-72) si applicò a diversi generi e produsse in latino e in volgare. A
questo proposito, nel 1441 fu lui a organizzare il Certame Coronario, gara poetica in
volgare. Grande importanza dei Libri della famiglia. In essi tre generazioni degli Alberti
discutono i valori mercantili e civili. In particolare: libro I educazione dei giovani; libro II
sul matrimonio; libro III sulla gestione dell’economia familiare; libro IV sull’amicizia. Il
III libro, con la sua rivalutazione del denaro contro la tradizione cristiana ma
recuperando la tradizione greca e latina, è fra tutti il più radicale.

UMANESIMO: PREMESSE

Negli studi letterari sulla letteratura italiana, il Quattrocento è spesso identificato come
la personificazione della Filosofia di Petrarca, povera e ignuda: Un secolo trascurato
quello del Quattrocento rispetto al Trecento da una parte e il Cinquecento dall’altra.
Alcune ragioni dipendono dai fenomeni culturali del secolo stesso, altre dalle
interpretazioni dei fenomeni. Con la morte di Petrarca e Boccaccio, rispettivamente nel
1374 e nel 1375, non emerse nessuno di eguale statura a rimpiazzarli, il secolo
successivo, all’incirca dal 1375 al 1475, è stato visto come un periodo di desolazione
letteraria, un ‘secolo senza poesia’, intendendo con ‘poesia’ la letteratura di fantasia in
volgare.

UMANESIMO

Secondo questa visione, piuttosto datata e ormai superata, la ragione sarebbe da


rintracciare nell’eccessiva sopravvalutazione della lingua della letteratura e dei valori
della latinità classica. Il posto dei poeti fu preso da studiosi che si diedero a imitare una
letteratura morta. L’élite colta della penisola italiana perse confidenza con la propria
cultura, e soltanto l’invasione dell’Italia, prima a opera dei francesi negli anni ’90 del
1400, e dopo delle truppe di Carlo V negli anni ’20 del 1500, avrebbe risvegliato le
coscienze di quelli che, in quest’ottica, erano visti come classicisti decadenti. L’ambito
culturale del Quattrocento è stato estesamente indagato dagli storici della cultura,
dell’immaginario, dell’arte, della filosofia che hanno scorto in questo secolo il periodo
nodale del Rinascimento in Italia.

Umanesimo il latino

Il primo modo in cui affronteremo la letteratura italiana è in senso geografico, la


letteratura prodotta appunto nella penisola italiana, sia latina che volgare, piuttosto
che come letteratura scritta in italiano. Molti autori, dopo tutto, scrissero in entrambe
le lingue, ma usarono anche il greco e perfino lingue ‘macaroniche’ ibride inventate.
Scrivere in lingue diverse dal volgare deve essere considerato come un fenomeno che
finì per arricchire quel che fu poi conosciuto come essere la lingua e la letteratura
“italiana”. Inoltre, nemmeno lo studio del latino va visto come un elemento che
conduce all’atrofia della letteratura volgare pur generando atteggiamenti snobistici, di
avversione alla lingua quotidiana.

La letteratura latina e greca allargò il canone degli autori che una persona colta poteva
studiare e a cui poteva attingere per le sue opere personali. Come risultato, si ebbe la
nascita di nuovi generi, come il dialogo, l’epistola letteraria, la letteratura parodica e
satirica. L’intenso studio del latino e del greco condussero anche a una nuova
consapevolezza critica del linguaggio stesso e del bisogno di definitezza e precisione di
vocabolario per giungere ad un uso standardizzato della lingua. Questo bisogno del
resto, indusse a compilare dizionari, grammatiche e manuali di stile. Una più profonda
comprensione della retorica e della dialettica latina e greca promossero in generale
una maggiore sensibilità per differenti tipi di stili o registri linguistici e per differenti
generi.

Umanesimo divulgazione

Gli umanisti realizzarono un programma di scoperta di testi, studio grammaticale e


produzione letteraria maggiore e più diffuso che in ogni epoca precedente. Queste
attività possono essere considerate ‘elitarie’ per il fatto che solo poche persone, molto
colte, potevano intraprenderle, in realtà esse non erano ‘elitarie’ né nelle intenzioni né
nell’effetto. Il numero di traduzioni nel Quattrocento sorpassò di gran lunga quello di
ogni altro secolo, specializzarsi infatti nella traduzione di un testo dal greco in latino e
dal latino in volgare fu visto come la via per acquistare tutti gli insegnamenti di un
patrimonio culturale e dunque di diffondere il bagaglio di conoscenze disponibili a un
pubblico sempre più vasto. L’atteggiamento critico verso l’Umanesimo, interpretato
come momento elitario e impopolare della storia della letteratura italiana, si rovescia
nell’ottica di un momento di apertura, quanto meno negli effetti prodotti (fino
all’Ottocento l’alfabetizzazione rimane un’esperienza minoritaria, relativamente diffusa
soprattutto nei maggiori centri urbani).

Umanesimo strumenti e metodi

Grammatiche, dizionari, manuali, prontuari di citazioni, liste di autori canonici, manuali


per le scuole furono gli strumenti che gli umanisti approntarono per gli studi linguistici e
letterari. Questi strumenti furono alla base di un lungo percorso di popolarizzazione
della cultura letteraria alta, rappresentando la base per lo sviluppo di metodi di studio
delle lingue e delle letterature, applicati poi a tutte le lingue europee. Chiunque avesse
voluto leggere, scrivere e interpretare testi con maggiore pregnanza, avrebbe potuto
usarli. Gli umanisti resero i testi scritti più leggibili, quindi più accessibili, con le riforme
della grafia e della mise en page del manoscritto, tali tecniche determinarono l’aspetto
dei libri nell’aspetto moderno da noi più conosciuto.

La maggiore rivoluzione quattro-cinquecentesca nel campo della produzione letteraria


e nella diffusione della cultura fu il libro a stampa che stimolò, facilitò e moltiplicò la
possibilità di confrontare liste, dizionari, tavole, di apporre correzioni e diffondere
nuovamente. In tal modo, libro a stampa e metodo umanista si sostennero e
potenziarono a vicenda. DONNE UMANISTE: OSTACOLI Le conquiste delle donne in
quanto umanisti furono considerevoli nonostante non ebbero alcuna parte nella
scoperta dei manoscritti, nell’edizione di testi, nella direzione di scuole, nei negoziati
delle cancellerie o nelle discussioni pubbliche. Molti erano gli ostacoli per loro da
superare soprattutto la possibilità di ricevere un’educazione dopo l’apprendimento
elementare del ‘volgare’; alle donne infatti non era consentito frequentare una scuola
pubblica con i ragazzi. I loro studi classici dovevano proseguire a casa, con un tutore
privato sotto la guida dei fratelli o del padre promettendo di avere come unica
intenzione quella di un personale arricchimento.

Dal momento che la superiorità intellettuale era considerata virtù maschile, donne
colte corsero il rischio di veder bollato il loro interesse come ‘contronatura’, persino
per alcune mistiche «scrivere» in sé era considerato moralmente sospetto: una
pubblicità immodesta di sé, che in una donna era associata a vanità. Le donne scrittrici
giustificavano continuamente l’atto dello scrivere, assicurando lettori e lettrici polemici
che la loro cultura non aveva messo nelle loro teste pensieri di immortalità né le aveva
indotte a dubitare di o ribellarsi all’autorità maschile

Donne umaniste

Generi caratteristici delle opere delle donne del Quattrocento furono le epistole
letterarie e le orazioni. Costanza Varano, nipote di Battista da Montefeltro Malatesta
(1383-1450) che fu sua nutrice, da giovane scrisse lettere in latino, orazioni e poemi.
Una volta sposata, i suoi studi cessarono, e morì nel 1447, a diciannove anni, poco
dopo aver dato alla luce il suo secondogenito. Spicca in questa prima parte del secolo
Isotta Nogarola (1418-1466) che eccelleva in latino e in greco e fu allieva con le sorelle,
Ginevra e Angela, della cerchia di umanisti raccolta attorno a Guarino Veronese. Isotta
corrispondeva in latino con uomini colti ma quando scrisse a Guarino egli dapprima la
snobbò non rispondendole, poi le rispose solo su insistenza di altri. Isotta fu anche
oggetto, nel 1438, di lettere diffamatorie che la accusavano di incesto con il fratello.

Andando ancora più contro le aspettative sociali, Isotta rifiutò sia il matrimonio che la
vita conventuale. Isotta discusse anche con il veneziano Lodovico Foscarini una
questione teologica non secondaria: se abbia peccato più Adamo o Eva nel Giardino
dell’Eden. Alla sbarra era la natura maschile e femminile come creata da Dio, e la
naturale relazione fra uomo e donna come decisa da Dio, supremo legislatore. Isotta
aveva letto accuratamente la Genesi, i commenti di Agostino e anche Aristotele;
sapeva che i teologi e i filosofi concordavano nel dichiarare la donna moralmente
debole e meno razionale dell’uomo.

Alla fine del Quattrocento, sia Cassandra Fedele (1465-1558) che Laura Cereta (1469-
1499) venivano da due famiglie di professionisti, rispettivamente di Venezia e Padova,
dove i loro padri le incoraggiarono e le diressero negli studi di latino e greco. Cassandra
scrisse e inviò orazioni al doge di Venezia, ai cittadini veneziani e perfino all’Università
di Padova dove, poté giovarsi degli studi filosofici di un parente (maschio). A nessuna
donna era permesso studiare a quel tempo o di conseguire una laurea all’università,
apprezzata persino da Poliziano. Dopo il matrimonio nel 1497, i suoi studi letterari
vennero meno.

Laura Cereta scrisse molte raccolte di lettere, alcune pubblicate nel 1460. Ella è forse
la più completa donna scrittrice del Quattrocento: studiò Petrarca, i classici latini e
greci, compose ecloghe pastorali, entrò nei territori maschili dell’astrologia,
dell’invettiva e della polemica. Dovette difendersi oltre che da uomini che negavano
che potesse avere scritto lettere latine così eleganti anche da donne risentite che la
incolpavano delle sue conquiste non femminili. La sua difesa dell’istruzione femminile
(1488) presenta per la prima volta un canone di donne scrittrici (poetesse e filosofe)
attraverso le epoche, approntato da una donna scrittrice essa stessa. Isotta Nogarola e
Cassandra Fedele conclusero la difesa argomentando che donne e uomini condividono
la natura umana, che dà a entrambi i sessi la stessa libertà di imparare; se non ci sono
abbastanza donne eccezionali, ciò non ha a che fare con una differente natura dei due
sessi ma con una differente divisione dei compiti. Nessuna di queste donne vide i suoi
lavori stampati nel Quattrocento. Le donne scrittrici raggiunsero una loro autonomia
solo nel secolo successivo, quando acquistarono importanza nella poesia volgare.

POTERE, MECENATISMO E ASSOCIAZIONI LETTERARIE: premesse

Nell’Italia del Quattrocento esistono vari tipi di organizzazioni sociali: religiose (la
Chiesa e gli Ordini religiosi), educative (università, scuola, accademia) o politiche,
specialmente la corte. In tutti i casi il mecenatismo ebbe parte determinante per
l’autore, per il tipo di opera, la lingua usata, gli argomenti e il pubblico prescelto. Gli
autori ancora sono molto legati a docenti, amici, colleghi, copisti, bibliotecari e librai
ma dopo l’invenzione della stampa, essi ebbero bisogno anche di editori e ulteriori
sponsor per coprire le spese di stampa e ancora più di amici in alto loco per scrivere
lettere (spesso stampate assieme al libro).

Le corti, con le loro tradizioni di mecenatismo, erano i centri che attraevano un largo
numero (non sempre talentuoso) di artisti, scalatori culturali e sociali. Napoli e Ferrara
divennero fiorenti centri di attività letteraria nel Quattrocento, ciascuna in modi molto
differenti. Di regola, la produzione di libri stampati interessava i centri urbani con una
forte economia o che potevano garantire uno stipendio. Firenze e Venezia
rispondevano al primo parametro, Roma e Napoli al secondo. In questa lezione
prenderemo in considerazione alcuni dei principali centri di produzione.

Firenze

Il mecenatismo dei Medici, in particolare di Cosimo, promosse gli studi greci e latini
con grande successo, soprattutto la traduzione di autori classici. La sua iniziativa di
commissionare a Marsilio Ficino la prima traduzione completa di Platone in latino ebbe
un’importanza enorme nella diffusione della cultura neo-platonica che influenzò la
poesia e l’arte della successiva generazione. Cosimo invitò anche il greco Giovanni
Argyropoulos a tenere lezioni presso il locale Studio fiorentino (l’università) su
Aristotele e i suoi commentatori greci e a tradurre Aristotele ex novo. Anche il
mecenatismo dei Medici sul volgare ebbe importanti conseguenze, fu tra l’altro un
mezzo per disarmare le fazioni anti-medicee e promuovere un sentimento di identità
fiorentina. Autori umanisti, quali Leonardo Bruni e Giannozzo Manetti, fecero delle
biografie di Dante, Petrarca e Boccaccio, incarnazione dei valori nazionali. Il
mecenatismo di Cosimo fu proseguito da Lorenzo, ottimo poeta egli stesso, che diede
un nuovo impulso alla poesia volgare al cui interno Luigi Pulci diede vita alla prima
grande poesia epica.

Roma
Dopo che il Papa abbandonò Roma durante il periodo della cattività avignonese (finita
nel 1440), la città vide diminuire notevolmente l’importanza e la popolazione.
Ciononostante, il mecenatismo di papi e cardinali fu costante come pure il bisogno di
preparare una classe di burocrati per la Curia. Ciò che mancò fu una cultura volgare né
Roma produsse umanisti di rilievo, che vennero invece da fuori, fatta eccezione per
Lorenzo Valla. Spicca inoltre il senese Enea Silvio Piccolomini (1404-64), ovvero papa
Pio II, prolifico autore umanista soprattutto, prima di salire al soglio pontificio, della
scollacciata commedia Chrysis e, dopo, dei Commentaries, un diario in terza persona
sugli eventi e i fatti del suo pontificato. Va puntualizzato che: 1) Roma fu la sede di una
burocrazia e di una diplomazia che tennero particolarmente vivo l’uso scritto e orale del
latino 2) la teocrazia romana trovò nelle biografie dei papi, nella storia di Roma, alcuni
generi da coltivare 3) molti intellettuali greci si rifugiarono a Roma dopo la caduta di
Costantinopoli.

Napoli

A Napoli, la letteratura dipese quasi esclusivamente dal mecenatismo di corte e da due


re spagnoli originari dell’Aragona: Alfonso (1443-1458) e il suo unico figlio, illegittimo,
Ferdinando o Ferrante (1458-94). Napoli era con Venezia la città più popolata d’Italia,
entrambe dipendenti dal commercio, ma non aveva una classe media con un’alta
cultura come la sua rivale. Per evitare di esser giudicato straniero e incolto, Alfonso
volle dare di sé l’immagine di un re che porta pace, prosperità e cultura aiutando Valla,
il finissimo poeta latino Pontano (1426/29-1503), Sannazaro (1458-1530), Biondo a
produrre le loro opere. Ma soprattutto egli portò Panormita (1394-1471) a corte nel
1434, gli diede cariche di prestigio, gli affidò il compito di fondare la biblioteca reale.
Dagli incontri di intellettuali a Castel Capuano si creò, sotto la guida del Pontano,
l’Accademia Pontaniana, che contava anche politici in esilio, scienziati e soldati.

Venezia

Anche il sostegno all’editoria fu una peculiarità rilevante della realtà veneziana. Almeno
in qualche misura, gli aiuti all’editoria (non sempre disinteressati) furono una forma di
mecenatismo, basato sull’assunto di principio dell’importanza dell’educazione e della
letteratura per l’intera società. Nell’editoria va certo ricordato l’umanista-editore Aldo
Manuzio, dai cui torchi usciranno, fra l’altro, il Petrarca curato da Bembo, ma anche
l’opera del domenicano Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia Poliphili, un impasto
sconcertante e originalissimo di volgare latineggiante. Un aspetto dell’umanesimo
veneziano era l’attrazione per i viaggi e i relativi resoconti (talora relazioni di
spionaggio). Va inoltre considerato che nell’orbita di Venezia ricadono anche, almeno
in parte, Padova e la sua Università.

Napoli
In genere, per l’umanesimo a Napoli, andranno ricordate tre caratteristiche 1)
l’altissimo livello raggiunto dalla prosa e dalla poesia in latino; 2) La possibilità per i
letterati di essere integrati nell’amministrazione pubblica (a discapito anche dei baroni
locali); 3) Il carattere per così dir “laico” della cultura locale: cioè la libertà dai dogmi e
dalle ingerenze della Chiesa, con cui Alfonso ebbe scontri territoriali, non a caso Valla
durante i suoi tredici anni a Napoli ricevette notevole supporto alla composizione del
libello sulla donazione di Costantino, dedicato appunto ad Alfonso. Napoli sarà in
seguito un centro del movimento di riforma in Italia.

Venezia

A Venezia, gli aspetti principali della scena letteraria riguardano il ruolo delle scuole e
della classe patrizia al governo e la forte attenzione agli studi sul greco. Attorno alle
scuole si raccolsero gli intellettuali che produssero commenti, testi, e stimolarono gli
studi greci. Tra essi spiccano Guarino Veronese e Gasparino Barzizza. Tra le famiglie
patrizie dell’oligarchia senatoria si distinsero per meriti culturali: Barbaro, Bembo,
Contarini, Donà, Foscarini, Giustiniani. Soprattutto l’editoria fu il nodo di valore
europeo della realtà veneziana. Gli aiuti all’editoria (non sempre disinteressati) furono
una forma di mecenatismo basato sul principio dell’importanza dell’educazione e della
letteratura per l’intera società. Nell’editoria va ricordato l’umanista-editore Aldo
Manuzio, dai cui torchi usciranno, fra l’altro, il Petrarca curato da Bembo, ma anche
l’opera del domenicano Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia Poliphili, un impasto
sconcertante e originalissimo di volgare latineggiante. Un aspetto dell’umanesimo
veneziano era l’attrazione per i viaggi e i relativi resoconti (talora relazioni di
spionaggio). Va inoltre considerato che nell’orbita di Venezia ricadono anche, almeno
in parte, Padova e la sua Università.

Ferrara

Ferrara, città degli Este, è un esempio (come Mantova e Urbino) di corte del Nord che si
distinse per gli alti livelli culturali raggiunti nell’arte, nell’architettura e nelle lettere
classiche e volgari. La supremazia di quelle volgari dipese certo dall’alto numero di
donne mecenati, che commissionarono specifici lavori ai migliori poeti e artisti del
tempo. Due donne della famiglia, Isabella e Beatrice furono allieve di Battista Guarino.
La prima ricevette lezioni di latino dal famoso studioso Mario Equicola e, dopo aver
sposato Francesco Gonzaga di Mantova, anche quelle di poesia volgare dal poeta
Antonio Tebaldeo (1463-1537) e a sua volta sostenne un altro poeta molto alla moda,
Serafino Aquilano.

PROSA VOLGARE: PREMESSE

In generale, il giudizio di superiorità del latino sul volgare, in quanto sottoposto a regole
fisse e degno dello studio dei grammatici (e non a caso definito grammatica) era
prevalente. Alcuni umanisti ritenevano inoltre che l’opposizione quattrocentesca tra
ambiti d’uso del latino e del volgare (una situazione definibile oggi dai sociolinguisti
diglossia*) risalisse fino a Roma antica, con grande stupore di chi ravvisava invece in
quel periodo una situazione di monolinguismo (ad es. Biondo). Il principale sostenitore
della tesi della diglossia a Roma antica fu Leonardo Bruni nel 1435. Leon Battista
Alberti si spinse oltre, scrivendo la prima Grammatichetta del volgare a dimostrazione
di come anche il volgare fosse sottoposto a un sistema di regole. L’iniziativa è in linea
con quella, pure albertiana, del Certame coronario, gara poetica per incentivare l’uso
del volgare in letteratura.

I più riconducevano la trasformazione del latino classico in latino medioevale e poi in


volgare al cosiddetto modello organicistico secondo cui le lingue nascono, si
corrompono, muoiono. Via via che il volgare acquistava importanza, le dispute si
accentrarono attorno a quale dialetto, o meglio varietà locale, fosse il migliore entro la
Babele linguistica dei volgari italiani. La prosa e la poesia in volgare o in vernacolo, non
si distinguono in due categorie facilmente distinguibili nel Quattrocento dal punto di
vista squisitamente linguistico; né vigevano differenziazioni secondo il criterio dell’
argomento. A essere in gioco erano altri criteri: la tradizione letteraria scritta e orale; il
livello di decorum; il pubblico a cui indirizzarsi. Dante e Boccaccio erano già modelli
per una prosa e una poesia volgare, Petrarca per una poesia particolarmente raffinata e
classicizzante; ma un autore poteva riplasmarli ricorrendo a vigorose iniezioni di fonti
orali (la cosiddetta cultura ‘popolare’).

Oltre al rispetto del principio retorico del decorum, o conveniens (‘ciò che
corrisponde’) secondo il quale a soggetto basso deve rispondere uno stile basso e a
soggetto alto, uno stile alto, si fece strada la pratica di incrociare stile alto e soggetto
basso a fini di parodia. Scegliendo il volgare, uno scrittore, soprattutto dopo
l’invenzione della stampa poteva rivolgersi a un pubblico più ampio che non conosceva
la grammatica (cioè il latino) e soprattutto alle donne, di regola non alfabetizzate che
non potevano essere raggiunte altrimenti. Ma quale volgare scegliere? La questione,
quella della ‘imitazione’ in genere fu un elemento di polemica per citare un fatto
esemplare (anche se inerente al latino, non al volgare) fra l’umanista romano Paolo
Cortese e Poliziano. Il primo, accusato di imitare pedissequamente Cicerone, si difese
obiettando che, senza imitazione, si cade nell’anarchia e poi nella incomunicabilità. Lo
sperimentalismo di un Poliziano e di un Lorenzo si sarebbe di lì a un po’ arreso davanti
alla legge dell’imitazione promulgata da Bembo.

La novella in toscana

La novella (una storia breve) divenne un genere letterario molto comune nel
Quattrocento: non solo molti scrittori (quali Bruni, Filippo Beroaldo, ecc.) tradussero
novelle di Boccaccio in latino (sull’esempio di Petrarca traduttore di Griselda), ma ne
composero direttamente in latino. La novellistica seguì l’esempio di Boccaccio,
soprattutto nella costruzione di una struttura, di un contenitore (la cornice) ma anche
organizzando il materiale secondo criteri tematici, di genere o adeguandosi ad una
‘cornice’. Alcuni scrittori di novelle si specializzarono nella scrittura di beffe (narrazioni
di scherzi). Anche la beffa, naturalmente aveva avuto una larga parte nel Decameron di
Boccaccio: le giornate VII e VIII erano dedicate esclusivamente a questo sottogenere

Le Novelle di autore senese che va sotto il nome di Gentile Sermini (l’immotivata


identificazione, oggi messa in dubbio, risale all’erudito Apostolo Zeno, m.1750),
raccolte dopo il 1426, hanno in comune l’ambientazione, le terme di Siena, tipico luogo
di incontri, di storie e di pettegolezzi. Al tentativo di imitazione del Decameron e al
gusto per le espressioni idiomatiche di parlate diverse (come il perugino) non
corrisponde però una tecnica narrativa troppo scaltrita.

La novella fuori dalla toscana

Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati di Salerno, 1410-1475) organizza le sue


novelle come Boccaccio, per giornate; ogni giornata a tema, è affidata a un diverso
narratore. Anche i temi sono quelli di Boccaccio: le donne incontinenti, i mariti gelosi,
la polemica contro il clero corrotto, ecc. L’intento pedagogico è tuttavia più greve che in
Boccaccio e si condensa nei commenti moralistici in coda a ogni novella. Ad esempio
nella novella III, 28 racconta di una donna che tradisce il marito con un nano orrendo, il
marito li coglie sul fatto e li infilza nel letto con una lancia usata per cacciare i cinghiali,
poi abbandona i loro corpi in cima a una montagna in pasto agli uccelli rapaci. Ariosto
rovescia questi racconti offensivi nel canto XVIII dell’Orlando Furioso, dove un oste,
dietro cui riconosciamo Masuccio, racconta a Rodomonte una novella su donne
depravate, mogli di mariti modello. Un saggio che ascolta il racconto fa notare che
storie simili non sono veritiere e che chi le racconta è un bugiardo.

Nel nord Italia, Giovanni Sabadino degli Arienti (c. 1445-1510), cortigiano a Bologna, poi
(dal 1491) alla corte di Ercole d’Este a Ferrara completò nel 1468 Le porretane, che
furono stampate a Bologna nel 1483. Le sessantuno novelle sono inserite in una
cornice: un gruppo di gentildonne e gentiluomini della corte bolognese passa cinque
giorni raccontandosi storie ai bagni di Porretta (l’ambientazione termale, che giustifica
il clima di ozio, è un elemento in comune alla raccolta attribuita al Sermini). I luoghi e i
personaggi sono principalmente bolognesi, il dialogo è vivace e non mancano numerosi
aneddoti di interesse storico e sociale.

PROSA VOLGARE: LA BEFFA

Oltre a L’istorietta amorosa fra Leonora de’ Bardi e Ippolito Bondelmonti, attribuita ad
Alberti, che parla di una vera storia d’amore fra due giovani di due famiglie nemiche, la
più apprezzata storia del ‘400 è l’anonima Novella del grasso legnaiuolo. In essa si
narra della beffa ordita nel 1409 da Filippo Brunelleschi, l’architetto della cattedrale di
Firenze e dalla sua cerchia di artisti, architetti e artigiani. Nella novella la vittima è il
rozzo falegname è Manetto Ammannatini. La beffa, che svolge il motivo dell’identità in
crisi, diffuso dal teatro medioevale fino a Pirandello, consiste nel convincere il Grasso
ad essere qualcuno diverso da sé, di essere cioè un tale Matteo (che stava al gioco), e
accordarsi con tutti gli amici e i conoscenti per portare avanti la finzione. Il grasso
(‘rozzo’) ne uscì così scosso che prese a dubitare della sua sanità mentale e
abbandonò Firenze per l’Ungheria da cui tornò a Firenze per riconciliarsi solo alcuni
anni dopo.

La facezia

Anche Boccaccio aveva dedicato buona parte della VI giornata a racconti incentrarti su
motti e facezie, cioè sul motto di spirito in cui i fiorentini eccellevano. Di qui, la
composizione di libri di facezie (in genere più brevi delle novelle): il Liber facetiarum, le
Facezie, i Proverbi in facezie, i Detti piacevoli, rispettivamente di Poggio Bracciolini,
Lodovico Carbone e Antonio Cornazzano e soprattutto i Motti e facezie del piovano
Arlotto di Arlotto Mainardi (1396-1484), parroco noto per la sua disinibita prontezza di
spirito. Egli si presenta come un cittadino che rimpiange i valori della vecchia
repubblica (gli stessi apprezzati da Dante: sobrietà, lavoro duro e fraternità) scomparsi
nell’avida e competitiva società del tardo ’400 in cui il valore si misura col denaro.

Per Piovano, religione e virtù rappresentano opere pratiche di pietà per la popolazione
disperatamente povera di Firenze e soprattutto per i suoi parrocchiani del contado. I
motti e le facezie sono modi di pungere l’arroganza e la superbia. Alla Madre di Lorenzo
de’ Medici, Lucrezia Tornabuoni, racconta una storia su un modo di fare la carità
migliore di quello a lei caro (che consiste nell’ offrire la dote alle figlie di poveri), ovvero
di non opprimerle. A un cardinale arrivista che ha invitato Arlotto a cena, e che ora si fa
gioco del suo abito dimesso, il Piovano risponde di essere più contento lui con quel che
ha che non il cardinale, che, rivela, sembrerebbe voler nascondere le sue umili origini.

: IL CASO DELL’HYPNEROTOMACHIA POLIPHILI

L’Hypnerotomachia Poliphili, attribuita al frate domenicano Francesco Colonna


(1433/34-1527), fu la prima pubblicazione in volgare latinizzato di Manuzio che nel 1499
gli riservò una raffinatissima esecuzione grafica. Il protagonista, Poliphilo, si
addormenta al tramonto e sogna di cominciare un viaggio su una spiaggia solitaria.
Entra in una selva oscura e passa attraverso una serie di rovine classiche descritte con
la precisione di un architetto che si intende di antichità. Poliphilo, giungendo a tre porte
simboliche, sceglie liberamente quella che conduce al piacere e trova la sua ninfa,
Polia che sposa dopo essere stato introdotto ai segreti dell’Amore. Il viaggio si
conclude sull’isola di Venere. La seconda parte mette a fuoco la loro storia d’amore
sullo sfondo di una Treviso mitologica. Questa favola di iniziazione, vista attraverso
lenti classiche, affascinò lettori di romanzi attratti dai significati reconditi. Ma il volgare
iperlatineggiante nel quale fu scritta la rese di fatto incomprensibile per lettori non
esperti di latino e mitologia.
LA POESIA SANNAZARO

La maggior parte dei poeti del ‘400 fu accumunata dall’imitazione dei temi e del
linguaggio del canzoniere petrarchesco, ciò contribuì a creare un’omogeneità
linguistica, fatto che risulta evidente per Giusto de’ Conti, Gasparo Visconti, Niccolò da
Correggio e diventa ancora più chiaro quando si parte da un dialetto assai lontano
come il napoletano di Pietro Jacopo de Jennaro (1436-1508). L’opera italiana più
fortunata del Quattrocento è una combinazione di poesia e prosa (un prosimetro). Il
Libro pastorale nominato Arcadia di Sannazaro, di cui apparve una versione incompleta
a metà del 1480 e quella definitiva nel 1504. Il testo fu ristampato più di sessanta volte
soltanto in italiano e ampiamente imitato in Francia, Spagna, Portogallo e Inghilterra,
dove la voga per le composizioni pastorali dovette molto all’esempio di Sannazaro.

A partire dalle fonti greco-latine (specie le egloghe* di Teocrito e Virgilio), Sannazaro


ideò una nuova struttura (o meglio adattò al suo progetto il genere medievale del
prosimetro), realizzando, anziché semplici raccolte di componimenti poetici, un misto
di prosa narrativa e di poesia bucolica in varie forme metriche: terza rima, sestina, e
frottola. I dodici episodi, tematicamente connessi, l’amore, la morte, l’amicizia, sono
trattati entro un pesante clima di malinconia, formano un romanzo pastorale, in larga
misura autobiografico. Sul piano stilistico i brani poetici sono caratterizzati da
un’artificiosamente elevata e artificiosa presenza di parole sdrucciole* in rima (gli
sdruccioli erano già stati impiegati come una caratteristica del genere bucolico in
volgare).

La trama dell’arcadia

L’azione dell’Arcadia si svolge in primavera e si apre con Selvaggio che tenta di


consolare Ergasto, affranto dal dolore per la perdita di sua madre Massilia e del suo
amato Androgeo, leader dell’Arcadia. Il dolore di Ergasto è alleviato da un gentile
dialogo fra Montano e Uranio sui loro pastori e dalla narrazione di una cerimonia in
onore della dea della pastorizia, Pale (con dettagliate descrizioni delle pitture sulle
porte del tempio che rappresentano racconti di antiche ninfe e satiri). In questo felice
momento, Galizio prega per il ritorno dell’Età dell’Oro, quando anche fra gli innamorati
non c’era sofferenza. Come Astrea, la sua amata Amaranta, sta per riportare la giustizia
sulla terra

Logisto e Elpino lamentano la loro penosa esperienza amorosa, seguita da espressioni


di dolore sulla tomba di Androgeo e da un universale lamento sulla scomparsa dei veri
amici e il dilagare del disprezzo e dell’avarizia. Un epicedio di Sincero sulla sofferenza
d’amore contrasta con la nota di speranza offerta da Carino. Nella ottava egloga
Eugenio e Clonio ingaggiano un duetto sul mal d’amore, seguito dalla cura tentata dal
sacerdote Enareto per mezzo di antichi riti naturali e magici. Uno dei molti, a volte
scoperti legami con la realtà napoletana del tempo, sui quali ritorneremo (e per cui
l’Arcadia è definibile come un’opera “a chiave”), è la descrizione di un vaso che
Sannazaro aveva acquistato da Mantegna che qui è offerto in premio nei giochi in onore
di Massilia.

SIGNIFICATO DELL’ARCADIA

Cos’è quindi l’Arcadia? Per Sannazaro la scena dell’antica Grecia diventa un


contenitore per un genere di poesia imperniata su sentimenti intimi e personali, umile e
latamente in contrasto con l’epica sublime della poesia pubblica di argomento
nazionale ed eroico, che riflette in realtà, problemi e situazioni contemporanee. I poemi
lirici sono presentati come canzoni accompagnate dalla zampogna dei pastori o dal
flauto di Pan.

Alla fine dell’Arcadia Sannazaro si rivolge alla sua zampogna, proprio come Dante e
Petrarca avevano concluso le loro canzoni con un commiato. La materia che tratta può
non essere grande, ma egli è orgoglioso di essere stato il primo a risvegliare le selve
immerse nel sonno e ad aver mostrato ai pastori come suonare canzoni dimenticate.
Rafforzando le parole del sacerdote Enareto nel santuario di Pan (prosa 10), egli
celebra la rinascita della poesia bucolica a Napoli dopo cento anni di abbandono. I
valori che offre non sono materiali: la vera felicità è colta da chi è soddisfatto di quel
che ha, e non invidia il successo altrui

TRA ACCADEMIA E PETRARCHISMO

In un certo senso l’Arcadia è un modello di società laica e maschile, basata sull’amore


per la letteratura che favorisce e sorregge la nascita amicizie e rompe barriere sociali,
economiche, ecc. Ma come si è accennato, l’Arcadia è anche un romanzo «a chiave»,
una metafora per alludere alla comunità di poeti e scrittori che si riunivano
nell’Accademia Pontaniana a Napoli, molti dei quali erano collegati alla corte
Aragonese.

Molti pastori sono identificabili come personalità della corte: Sincero, per esempio, che
firma una sestina sulla notte che gli porta tormento e non la pace, è lo stesso
Sannazaro. Il lamento funebre di Ergasto per Androgeo capo dell’Arcadia, “Chi vedrà
mai nel mondo / Pastor tanto giocondo” è un tributo al defunto Panormita, fondatore
dell’Accademia. Uranio (in cui va visto lo stesso Pontano) è anziano e saggio e ha un
cane che difende i greggi dai lupi, proprio come il fidato Pontano fa con il re e il suo
regno.

LORENZO E POLIZIANO

È solo alla fine del Quattrocento che la produzione italiana conosce esiti importanti,
paragonabili a quelli trecenteschi. E furono Lorenzo il Magnifico e Poliziano a voler
sottolineare la continuità e la definitiva affermazione del fiorentino letterario attraverso
due antologie-manifesto di grande interesse e efficacia. Non va del resto dimenticato
che esse nascono in un clima, sicuramente assecondato dalla famiglia Medici, di
grande fervore poetico e sperimentale. All’interno di questa sperimentazione veniva
accolta sia la tradizione alta duecentesca (soprattutto lo stilnovo) sia la tradizione
popolareggiante più recente (rappresentata da Pulci)

La prima è la cosiddetta Raccolta aragonese: un’antologia di poesie in volgare, da


Dante allo stesso Lorenzo, inviata a Napoli nel 1476 su richiesta della famiglia reale
d’Aragona e preceduta da una lettera dedicatoria in cui vi era un’apologia del volgare di
Firenze, sulla base di due secoli di tradizione illustre alle spalle, ininterrotta, omogenea
per temi e per linguaggio.

LORENZO: IL COMMENTO DEI MIEI SONETTI

La seconda antologia-manifesto è la raccolta commentata che Lorenzo realizza dei


suoi componimenti, il Commento dei miei sonetti, corredato da un fondamentale
Proemio in cui Lorenzo dichiara a) che il volgare è migliore del latino, perché parlato
anche dalla massa incolta e adatto a tutti gli argomenti e a tutti i registri*; b) difende il
fatto che una personalità pubblica come lui si occupi di temi all’apparenza frivoli e
talora di sospetta moralità

L’argomento principale di difesa è l’interpretazione della tradizione dello stilnovo quale


scuola di affinamento dello spirito e stimolo ad azioni eccellenti. Al primo punto
possiamo collegare l’intensa sperimentazione di Lorenzo che riguarda il genere (auto-
commento filosofico, poesia, ecc.), la forma metrica (canzoni a ballo, rispetti, canti
carnascialeschi, ecc.) e il registro. Dietro il secondo possiamo intravedere il desiderio
di dare un carattere culturale all’egemonia politica di Firenze: alla poesia viene infatti
riconosciuto un valore sociale.

POLIZIANO: LE STANZE PER LA GIOSTRA

Poliziano si dedica a generi diversi da quelli di Lorenzo, sia pure parzialmente presenti
nella sua produzione. Della sua poesia volgare andranno ricordate le incompiute
Stanze per la giostra di Giuliano, che celebrano la partecipazione a un torneo nel 1475,
del giovane e bel fratello di Lorenzo, Giuliano. Il poemetto intendeva probabilmente
rivaleggiare con le Stanze per la giostra di Lorenzo di Luigi Pulci, del 1471. Questa
rivalità va soprattutto letta nel senso di un dialogo fra poeti, che testimonia, anche per
la vicinanza dei protagonisti Giuliano e Lorenzo, l’esistenza di un comune clima poetico
e culturale che rende possibile la comunicazione.

Nelle Stanze si mescolano miti greci e latini su Eros con la tradizione amorosa dello
stilnovo. L’inizio richiama l’Ameto di Boccaccio: Giulio, un appassionato cacciatore
libero dai legami d’amore, come era nell’Età dell’Oro, disprezza le donne. L’amore è
per lui “dolce insania . . . ceca peste” (I.13). Ma quando, in un idilliaco prato fiorito sotto
un vel candido li apparve | una lieta ninfa (I.37, un’eco dell’apparizione di Beatrice nel
Paradiso Terrestre) egli si innamora e adesso desidera solo la sua ninfa.

Dopo una invocazione di Erato, Musa della poesia erotica, la scena si sposta dalla
Firenze dei sentimenti d’amore cortese al regno della pagana Venere. Poliziano
introduce nelle ottave* volgari citazioni di poeti classici: Ovidio, Catullo, Virgilio e
Lucrezio, assieme ai più arcaici Teocrito, Esiodo, allo pseudo-omerico Inno ad Afrodite.
Fu Poliziano a diffondere il mito raccontato da Esiodo della nascita di Venere: come ella
fu creata dai testicoli di Urano castrato e fu soffiata da Zefiro sulle onde schiumose (il
suo nome greco, Afrodite, significa ‘nata dalla schiuma’) verso i lidi di Cipro (I.99-103).
La stessa scena fu resa famosa dal quadro di Botticelli.

Il trionfo di Venere descritto da Poliziano si riferisce all’antica dea della fertilità, fonte
della vita del mondo naturale e del cosmo, e di tutti i piaceri. La scena finale del I libro
(del II restano solo pochi versi) mostra Venere che sottomette Marte, dio della guerra,
con le armi del piacere: un mito tra i preferiti dal Rinascimento sulla civilizzazione e
sulle arti che addomesticano la bestialità. Ciò aiuta anche a spiegare i miti di Eros
scolpiti sulla porta del Palazzo di Venere, la cui soluzione risiede nei versi l’odio antico
e ’l natural timore | ne’ petti ammorza quando vuole Amore (I.88 ‘Quando Amore vuole,
Egli spegne l’odio antico e la paura congenita’).

POLIZIANO: L’ORFEO

Un’altra opera di Poliziano va sicuramente ricordata, anche se intrecciata con il teatro:


essa infatti inaugura il fortunato genere teatrale della favola pastorale. Si tratta della
Favola di Orfeo, composta in occasione di un matrimonio durante una temporanea
permanenza dell’autore alla corte di Mantova. Le forme metriche sono riprese in
prevalenza dalla sacra rappresentazione: ottave, terzine, canzoni a ballo. Vi è inoltre
una lunga ode saffica in latino cantata da Orfeo al cardinale Francesco Gonzaga, figlio
del signore di Mantova, Lodovico Gonzaga. La favola insiste sul legame che si stabilisce
fra due persone che si sposano. Anche in quest’opera come nelle Stanze il tema di
fondo ruota intorno alla questione della civilizzazione dell’umanità.

L’opera teatrale si apre con Mercurio che riassume la trama in due ottave come fosse
l’angelo annunziatore di una sacra rappresentazione. Sebbene il nucleo della vicenda
provenga da Ovidio (Metamorfosi X e XI), Poliziano la unisce alla doppia morte di
Euridice. Il primo “quadro”, una drammatica egloga pastorale, coinvolge tre pastori.
Trama: Aristeo, innamorato di una ninfa (in realtà, la moglie di Orfeo), si lamenta nei
motivi dello stilnovo, con il più esperto Mopso, che lo ammonisce invano di rinsavire.
Anche Tirsi conferma il fascino irresistibile della gentil donzella | che va cogliendo fiori
intorno al monte. Mentre Aristeo la segue sull’argine del fiume, ella è morsa da un
serpente e muore.
Nella seconda parte, Orfeo lamenta la morte della sua sposa, e addolcisce col canto gli
animi degli dèi inferi, Pluto, Minosse e Proserpina. Per un breve momento, mentre
Euridice si avvicina alla luce del giorno, è un trionfo, la gioia di Orfeo esplode in versi
latini, ma si trasforma in una tremenda sconfitta quando ella scompare per sempre.
Nel III episodio, si assiste alla reazione di Orfeo, che decide di abbandonare gli amori
femminili per quelli maschili: Conforto e’ maritati a far divorzio | e ciascun fugga il
femminil consorzio (Consiglio chi è sposato di divorziare, | e di fuggire le unioni con le
donne’). Ma le Baccanti, eccitate e ubriache, lo bastonano a morte e ne smembrano il
corpo.

PULCI E LA TRADIZIONE NARRATIVA

Luigi Pulci: lavorò a Firenze accanto a Lorenzo e Poliziano, fu un altro poeta di rilievo
che (distanziatosi dai produttori di cantari) scrisse il primo poema cavalleresco, genere
a cui apparterranno L’Orlando innamorato e i capolavori cinquecenteschi di Ariosto e
Tasso. Pulci, come il suo amico e protettore Lorenzo, raccolse una tradizione di poesia
popolare e la adattò al locale pubblico della cerchia medicea: si rifece in particolare ai
racconti di Carlo Magno e dei paladini che i menestrelli avevano cantato per secoli per
affascinare spettatori nelle piazze e nei palazzi italiani. Si ritiene che i poemi francesi
siano stati introdotti in Italia soprattutto grazie ai menestrelli che accompagnavano, nel
XIII e XIV secolo, i gruppi di pellegrini attraverso le Alpi e lungo le valli del Po sulla via per
Roma. I canterini italiani che li ascoltarono trascrissero versioni in francese o in dialetto
franco-veneto, come per esempio i due poemi l’Entrata in Spagna e la Presa di
Pamplona.

Spendiamo due parole sulle due opere appena evocate: l’Entrata in Spagna e la Presa
di Pamplona. Il primo trasforma Rolando in un cavaliere errante alla maniera degli eroi
arturiani che furono resi famosi nello stesso periodo dalla diffusione della materia di
Bretagna (Paolo e Francesca di Dante, ricordiamo, furono rovinati dalla lettura di
Lancilotto). Il secondo crea un carattere destinato a giocare un ruolo maggiore in Pulci,
Boiardo e Ariosto: il folle principe inglese Astolfo. La materia carolingia fu
estremamente popolare nell’Italia medievale, dove il livello di alfabetizzazione era
basso e l’intrattenimento orale altamente apprezzato. Essa formò il soggetto preferito
dei cantari del Trecento che abbracciavano un’ampia gamma di materiale che
attingeva a fonti leggendarie, storiche e mitologiche ed a collezioni di novelle e che si
rivolgeva sempre più a un pubblico di lettori piuttosto che di ascoltatori.

LA TRADIZIONE NARRATIVA: ANDREA DA BARBERINO

Il più conosciuto dei romanzi cavallereschi del Quattrocento fu probabilmente la prosa


I Reali di Francia di Andrea da Barberino (c. 1370-1431), una mappa genealogica che
collega fantasiosamente la casa reale francese all’imperatore cristiano Costantino. Vi
troviamo diffusamente raccontata la storia della nascita di Carlo Magno e di sua sorella
Berta; l’amore segreto di Berta e Milone di Anglante; la loro incarcerazione e l’esilio in
Italia; la successiva nascita di Orlandino (Roland) in una stalla (proprio come Cristo),
presso Sutri, vicino Roma; i giovanili prodigi del bambino a capo di una banda di ragazzi;
il suo coraggioso incontro con suo zio quando viene a Roma per esser incoronato
imperatore; il riconoscimento a opera di Carlo di sua sorella e il ritorno della famiglia in
Francia.

Riconoscimento, riconciliazione e ricomposizione sono gli elementi del racconto, nel


quale Rolando diviene un Orlando completamente italianizzato. Un po’ meno
italianizzato sarà il bambino Ruggiero (il mezzo saraceno destinato a diventare uno
degli eroi di Boiardo e di Ariosto), protagonista di un’altra opera di Andrea da Barberino,
l’Aspramonte. La figura di Carlo Magno potentemente volgarizzato nei Reali è quasi una
sintesi degli indecenti cambiamenti apportati al carattere dell’imperatore dal momento
che fu adottata dalla cultura e dall’immaginario degli strati socioculturali più bassi, in
questo poema, collerico e dedito alla violenza familiare, egli è dipinto come un
sempliciotto sclerotico e piagnucoloso.

In alcune stanze d’apertura del suo Morgante, Luigi Pulci (1432-84) attribuisce l’origine
del suo capolavoro a una richiesta della pia madre di Lorenzo de’ Medici di
intraprendere una riabilitazione letteraria del grande difensore della Cristianità, così
tristemente degenerato in personaggio da burla. Il lavoro fu pubblicato nel 1478, ma
singoli episodi erano stati letti, durante la composizione, ai ricevimenti di Lorenzo. Pulci
dà vita nel suo racconto a un Carlo Magno sensibile fino alla paranoia alle calunnie del
traditore Ganelon, tanto da mostrarsi capace di mandare in esilio il fidato Orlando.

L’oltraggiato paladino vaga da solo in Oriente e poco dopo capita in un convento pieno
di buffi monaci assediati da un trio di giganti omicidi. Ne uccide due e soggioga il terzo,
Morgante, prendendolo a suo servizio. Convertito e armato del batacchio di una
campana, Morgante fa strage dei nemici di Orlando. Sviluppato da Pulci a partire da
una delle sue fonti secondarie, il simpatico gigante conquista in effetti il poema e gli dà
il suo nome. Non solo Pulci evita deliberatamente di riscattare Carlo Magno, ma finisce
per oscurare il ruolo di Orlando, facendo di Morgante un’espressione della forza, già
prodigiosa, del paladino.

Nel XIX secolo si ipotizzò che, anziché opera originale, il Morgante fosse un libero
rimaneggiamento di due poemi toscani anonimi, che differiscono ampiamente per
tono, costruzione, e livello d’arte. I primi ventitré canti seguono l’Orlando laurenziano,
un abbozzo di narrazione sconnessa e ripetitiva di paladini che vagano in cerca di
avventure sentimentali; i suoi cinque canti finali sono basati su un’opera intitolata La
Spagna in rima (da distinguere dalla simile opera in prosa), che tratta in modo
drammatico ma spesso anche elettrizzante ed efficace del tradimento finale di
Ganelon e della nobile morte di Orlando. La tradizione canterina da cui,
verosimilmente, il Morgante discende e che tiene presente nelle sue fonti, prevedeva
l’esecuzione dei cantari davanti al popolo minuto durante le pause di lavoro

La struttura e la coerenza non era quindi un elemento imprescindibile. La struttura del


Morgante è dunque molto libera, la sua massa di escursioni e digressioni
invariabilmente si diparte dalla fertile immaginazione delle macchinazioni. Il risultato è
l’ingarbugliarsi delle azioni che si succedono una all’altra in infinite complicazioni,
senza tregua in una complessità strutturale e tematica. Della forma se ne
preoccuperanno altri poeti in altri tempi. Il poema non è di stampo arturiano dunque
amoroso, ma maggiormente incentrato sui temi della guerra e sulle azioni eroiche dei
personaggi mentre le figure femminili tendono a essere piuttosto indistinte nelle azioni
e nei sentimenti.

Nato da una nobile famiglia caduta in disgrazia, Pulci si presenta nel poema come un
menestrello di piazza e impersona l’ingenuità, la ribalderia, il pietismo, l’ignoranza e
l’emotività del popolo, mantenendo sempre dalla sua materia una certa distanza,
davanti a un pubblico fatto di parenti, intellettuali, intimi e ospiti della famiglia Medici.
L’unità del Morgante è stilistica e trova espressione in una poesia spiritosa, scettica,
satirica, e ironica e filtra da brevi espressioni come da interi episodi; ne deriva una
visione della vita come imprevedibile, confusa, bizzarra e cangiante.

Egli mescola proverbi della saggezza popolare a citazioni bibliche a Dante o Petrarca,
raramente tentando uno stile alto ma puntando soprattutto alla velocità e arguzia del
racconto. Morgante si esprime con parole popolari e furbesche pressoché ignote: è la
voce popolare. (Va a questo proposito ricordato il gusto “vocabolistico” di Pulci, che si
espresse nel primo dizionario del furbesco quello che fu una breve lista di parole del
gergo della strada dei delinquenti con la relativa traduzione nella lingua comune).

L’altro personaggio inventato da Pulci è Margutte, l’amico che Morgante incontra sulla
strada, un gigante nano dedito al cibo, all’autoindulgenza, e al raggiro. Se Morgante è la
Forza, Margutte è la Frode. Entrambi dominano il poema fino alla fine (Margutte muore
per un incontrollabile attacco di riso nel canto XIX). La terza creazione di Pulci, che
attinge allo stesso universo mentale, è Astarotte, che compare nei cinque canti
(aggiunti nel 1483 e che formano, coi precedenti, il cosiddetto Morgante maggiore),
nelle vesti di un diavolo dotto in teologia, filosofia, come se avesse assistito alle
raffinate discussioni durante le cene dei Medici.

Il poema cavalleresco di Matteo Maria Boiardo (1441-1494), l’Orlando innamorato


(1483, cui fu poi aggiunta una terza parte, pubblicata nel 1495) ebbe fino ai primi
decenni del Cinquecento un grande successo, ma successivamente fu trascurato dal
pubblico e dagli studiosi fino all’OttoNovecento. Su di esso ha certo pesato
negativamente la scelta di una lingua fortemente connotata dall’uso di prole emiliane
d’autore e (nel corso delle ristampe) anche di venetismi imputabili a tipografi: fatto
inaccettabile in un momento in cui pressoché tutti si adeguavano al fiorentino. il suo
poema fu sottoposto a vari fortunati rifacimenti, tra i quali spicca quello di Francesco
Berni, che ne mantenne viva la storia, sia pure in una veste linguistica fiorentinizzata
dunque del tutto diversa

BBOIARDO

Iniziato circa nel 1470 e portato avanti per molti anni, l’Orlando differisce molto dal
Morgante: 1. è il prodotto della cultura della corte di Ferrara, la cui famiglia dominante,
gli Este, era la più antica e aristocratica dinastia di tutta Italia, e amava far risalire il suo
lignaggio fino ai tempi dei Carlo Magno. Per secoli Ferrara era stata una città dove i
canterini della ‘materia’ di Francia e Bretagna (la tradizione carolingia e arturiana)
avevano trovato buona accoglienza e dove la cultura francese era stata ammirata e
imitata.

Nel 1348 il marchese Niccolò II era stato il dedicatario della Pharsale di Niccolò da
Verona (in franco-italiano), e molti discendenti della casa presero nomi come Rinaldo,
Isotta, Leonello, Meliaduse e Ginevra. La corte sembra essere immersa nella cultura
cavalleresca e al tempo di Boiardo, quando la cultura umanistica era da generazioni
acclimatata in città e le lettere francesi erano meno coltivate di quelle latine, c’erano
tutte le condizioni per un rinnovamento dell’argomento di lettura preferito a Ferrara che
accomunava popolo e corte.

Fortunato per le circostanza storiche e culturali nelle quali si trovò a operare, Boiardo
fu fortunato anche quanto alla nascita e alla posizione sociale. Era cugino di Pico della
Mirandola, nipote del latinista e poeta cortigiano Tito Vespasiano Strozzi e parente e
amico del duca Ercole I e della moglie Eleonora d’Aragona, genitori di una sempre più
importante famiglia, tra cui spicca la brillante Isabella d’Este, una delle prime e
maggiori ammiratrici dell’Innamorato. Boiardo spese la sua vita a servire devotamente
il suo signore (il suo affetto e la sua riconoscenza si espressero nella dedica di ogni sua
opera a Ercole).

Il poeta visse dall’interno del circolo di una vecchia cultura di una città che era al
centro del rinnovamento della civiltà classica. La sua appartenenza a un mondo
privilegiato trova espressione nel carattere e nell’ambientazione della storia e in questo
egli si differenzia molto da Pulci. Lontano infatti dall’ essere il menestrello da piazza,
egli identifica il suo pubblico con quello della corte, una schiera di nobili dame e
cavalieri è avido di allietarlo Le aggraziate strofe con cui saluta e si accommiata dal suo
pubblico immaginario sono liriche altamente stilizzate, al modo di Poliziano, e
rappresentano un mondo lontano dalla realtà storica. Quando nel 1482-4 esplode la
guerra tra Venezia e Ferrara, Boiardo non riporta i fatti storici ma racconta con la
metafora di un temporale che interrompe temporaneamente il canto del poeta. Il
pubblico, sicuro dentro i confini della propria giovinezza e posizione, continua a essere
distratto dal racconto del poeta che non intende infrangere il clima di evasione da lui
precedentemente instaurato

BOIARDO: LA CONCEZIONE DELL’AMORE

L’Innamorato trasforma l’Orlando verginale di Andrea da Barberino, e, ancora prima del


ciclo caolingio, in un innamorato in preda a una passione di stampo arturiano. L’amore
è trattato però in modo comico o almeno grottesco, come causa di disordini e
instabilità mentale. Al contrario, l’amore cui si tributano inni davanti al pubblico nei più
eleganti proemi della cornice è di un tipo del tutto differente, armonioso e
sostanzialmente creativo. Questa divisione echeggia la scala neoplatonica dell’amore
ampiamente conosciuta nei circoli letterari e filosofici della società in cui il poema fu
creato. Secondo tale dottrina l’amore metteva in moto sia le passioni più basse sia il
cuore e la mente ed era denominato Pandemio (volgare), o Uranio (elevato).

BOIARDO: TRAMA DELL’INNAMORATO

Il Libro I presenta l’amore come una passione dominante in cui Cupido fa conquiste
senza rimorsi, secondo la lezione di Ovidio. Il regno di Carlo Magno è invaso da esotici
conquistatori venuti innumerevoli dalle più lontane terre del mondo: la Spagna
islamizzata delle chansons carolingie, la Tartaria, la Circassia. Tutti, puntano a
strappare ai paladini dell’imperatore un trofeo (un cavallo, una spada, un elmo purché
famosi). È piuttosto un racconto fiabesco, stravagante e incantevole nella sua
sofisticata ingenuità soprattutto quando l’incantatrice Angelica riesce a disgregare la
solidarietà della corte di Carlo Magno, essa infatti ben più potente dei capi degli eserciti
invasori Gradasso, Ferraguto, Sacripante e Agricane, fa innamorare tutti i guerrieri,
tanto pagani che cristiani, inclusi Carlo Magno e Orlando.

Angelica è al centro del poema, ma dopo l’innamoramento di Orlando la narrazione si


mette in moto in decine di storie intrecciate. Violenti accessi d’amore si succedono a
violenti scontri guerreschi, e gli infiniti inseguitori decidono di seguire Angelica nella sua
città natale di Albracca, dove si ritrovano i cugini Rinaldo e Orlando. I ventinove canti
del Libro I sono un racconto solare e pieno di umori sotto il segno del capriccio della
passione amorosa: i personaggi bevono da fontane magiche che accendono o
spengono la passione e la narrazione non segue mai troppo a lungo una singola storia.

Non soddisfatto della originale fusione della materia di Francia e di Bretagna


(presentando il nipote di Carlo Magno come un sentimentale innamorato), Boiardo
richiama anche la terza materia, quella di Roma o del mondo classico Il classicismo di
Pulci si era limitato a puri scampoli di riferimenti mitologici del tutto occasionali e usati
a scopo decorativo. Boiardo, sebbene serio traduttore di opere greche e latine, sapeva
come utilizzare i classici a scopi comici e narrativi. Il ricorso alla mitologia negli episodi
mitologici lo distingue da Pulci ancor di più.
L’allegoria boiardesca può essere di matrice ovidiana, come quando Rinaldo incontra
le tre Grazie che lo frustano coi fiori per aver rifiutato l’amore di Angelica; può essere
emblematica e iconografica, come quando l’Occasione colpisce Orlando per non aver
approfittato di Angelica mentre dormiva o può essere dichiaratamente moralistica e
umanistica, come nel caso di Astolfo trasportato a bordo di una balena da una circea
Alcina e condotto a un destino sconosciuto che Ariosto, in un’estesa allegoria di sua
invenzione, renderà come una discesa nel piacere e nell’oblio. Il classicismo
boiardesco si ritrova tutto il poema, come pure alla fine del Libro I, quando promette di
sobbarcarsi un più grande soggetto (cosa maggior) nel prossimo libro. La cosa maggior
è la narrazione attorno a un nuovo cavaliere che metterà alla prova la supremazia del
ridicolo innamorato che dà il titolo al poema: Boiardo introdurrà un eroe dinastico,
Ruggiero che (sul modello virgiliano) sarà riconosciuto come avo della dinastia degli
Este e servirà a giustificarne le lodi.

Lavorando su una storia che si trova nell’Aspramonte di Andrea da Barberino, Boiardo


fa nascere Ruggero da una principessa saracena e un padre cristiano e lo fa crescere in
Africa, allevato dal mago Atlante. Ruggero è destinato, dopo la conversione e il
battesimo, a divenire l’avo degli Estensi in virtù del matrimonio con Bradamante, la
sorella di Rinaldo. L’Innamorato, cominciato come uno scherzo sulle sofferenze
d’amore di Orlando, va ora ampliandosi in un panegirico dei dominatori di Ferrara e le
caratteristiche dell’ epica classica, più precisamente virgiliana, cominciano a infiltrarsi
nel romanzo medioevale.

Per quanto ci resta del suo progetto, Boiardo non riuscì mai a unificare le due storie;
sembra infatti che abbia deliberatamente voluto evitare la chiusura, introducendo un
terzo eroe, Mandricardo, che apre il terzo libro, così come già era stato per il primo e il
secondo dove introdusse Orlando e Ruggiero. Per una qualche ragione, egli tiene larghi
i fili della storia di Ruggiero e di conseguenza è soltanto nel Libro III che il giovane eroe,
che ha accompagnato sua cugina Agramante nell’invasione della Francia, incontra la
sua sposa designata.

L’incontro, bellissimo, ha luogo sul campo di battaglia dove le forze di Carlo Magno
hanno sofferto una cruda sconfitta. Cortese con i suoi nemici, Ruggiero inizia un
colloquio con il giovane guerriero il cui sesso gli è celato dall’armatura e dall’elmo,
rivelandogli l’identità dei suoi antenati. Bradamante è catturata e quando si toglie
l’elmo anche Ruggiero se ne innamora. Tuttavia finiscono separati durante uno scontro
e il poema di Boiardo s’interrompe poco dopo, lasciando ad Ariosto il compito di
completare l’incipiente storia d’amore. Il finale del poema è estremamente
drammatico. L’ultima strofa lancia un grido d’allarme con cui il poeta denuncia la
discesa di Carlo VIII di Francia, un’invasione che interrompe la recitazione del suo
poema e introduce un lungo periodo di guerra in Italia. Pochi poemi possono finire in
modo così sorprendente, con una irruzione così brutale del mondo storico nel mondo
della fantasia romanzesca.

L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE

Nell’Italia del Cinquecento il volgare si affermò finalmente come lo strumento della


prosa letteraria ampiamente usata a fianco del latino. La fiducia nel volgare crebbe non
appena figure letterarie di rilievo (come Bembo e Sannazaro cominciarono a ‘usarlo’. La
sua diffusione fu ulteriormente incoraggiata dalla crescita del numero e della
produttività dei torchi per la stampa: questa evoluzione rese più accessibili i testi di
riferimento per il buon uso della lingua e diede la possibilità a scrittori di diverse regioni
di raggiungere il più ampio pubblico possibile (ma la loro lingua fu spesso toscanizzata
da revisori incaricati da tipografi).

La prosa volgare venne adottata per tutti i tipi di materia: narrativa, politica, storia,
relazioni sociali e personali, arte e anche trattati sul volgare, oltre che per un crescente
numero di traduzioni dal greco e dal latino. Con l’apertura di questi orizzonti, lo stile
della prosa divenne più vario. Alcuni scrittori guardarono ai modelli della prosa del
Trecento (spec. il Decameron); altri svilupparono una maniera più agile e informale a
cui ricorrevano al momento giusto per catturare il sapore della lingua parlata. Ad ogni
modo, la prosa, in cui i modelli erano più rigidi, era ancora una prerogativa maschile, a
differenza della poesia lirica, in cui le donne trovavano sempre più spazio per la loro
voce.

L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE: LA STANDARDIZZAZIONE

Il fiorire della prosa fu accompagnato da un processo di standardizzazione del


linguaggio letterario. Attorno al 1500 quasi tutti gli autori non toscani usavano un tipo di
volgare che poteva variare da regione a regione, e, ovviamente, da autore a autore; essi
dovevano molto al modello stabile dei grandi scrittori toscani del Trecento, soprattutto
Boccaccio, ma, maggiormente i più colti, introdussero elementi latini nella grafia, nella
sintassi e nel lessico per donare maggiore dignità alla più giovane lingua.

Questi autori erano anche influenzati dalle abitudini della loro regione, soprattutto
quando quest’uso coincideva con la grafia latina. L’influenza locale era certo molto più
limitata che nei testi a carattere pratico e non si deve sottovalutare il grado di
uniformità raggiunto all’inizio del secolo anche se la miscela di ingredienti toscani,
regionali e latini ancora varia a seconda della scelta personale tant’è che l’introduzione
di elementi del latino tradiva ancora una mancanza di fiducia nell’autonomia del
volgare.

La lingua cortigiana. Si veda un estratto dalla dedica del De natura de Amore di Mario
Equicola (1470-1525), nativo del sud del Lazio e successivamente stabilitosi alla corte
di Mantova. Scrivendo forse fra il 1505 e il 1508, egli spiega il rifiuto di imitare il toscano
quando il suo volgare possiede o tollera una forma alternativa più vicina al latino: Non
observo le regule del toscano se non tanto quanto al latino son conforme et le orecchie
delectano, però de et di troverai senza lo articulo, Dio non Iddio benché sequente
vocale; in modo che dove li imitatori de la toscana lingua totalmente ogni studio
poneno in lontanarsi dalla lingua latina, io ogni cura et diligentia ho usato in
approximarme ad quella: se ’l latino dice obligatione, mai non dirrò io obrigatione, se ’l
latino homo non io huomo. (Non seguo le regole del toscano se non quando sono
conformi al latino e sono gradevoli all’udito, perciò troverai de e di senza articolo, Dio
non Iddio anche se preceduti da vocale; in questo modi, dove gli imitatori della lingua
toscana pongono ogni sforzo nell’allontanrsi dal latino, io ricorro a ogni cura e
attenzione nell’avvicinarmi ad essa: se il latino ha obligatione, non dirò mai obrigatione,
se il latino homo non dirò huomo.)

La lingua cortigiana Questo tipo di lingua che non si restrinse a una qualsiasi regione e
condivise l’eredità del latino fu anche associata a ragione all’uso parlato e scritto delle
classi dirigenti coeve delle corti d’Italia e fu quindi definita da alcuni la lingua
cortigiana. Ma il passo di Equicola, attaccando gli imitatori del toscano, mostra che
alcuni non toscani avevano cominciato a respingere questo linguaggio ibrido che non
aveva solide radici e nessun grande scrittore, a favore di un modello toscano (l’Arcadia
di Sannazaro, gli Asolani di Bembo). Per la disperazione dei toscani nativi (oltre che
degli scrittori “alla cortigiana” come Equicola), questi scrittori orientati verso il
“toscano” non presero in considerazione la lingua viva toscana ma il fiorentino
letterario usato da Boccaccio nella prosa e quello di Petrarca nella poesia. La polemica
sui meriti di questi differenti punti di vista forma una parte rilevante della questione
della lingua italiana e i relativi trattati formano una porzione considerevole della
produzione in prosa del secolo.

La questione della lingua Il fatto che si spese così tanto tempo e energia nella
questione dimostra quanto essa fosse centrale. Innanzitutto, le nuove idee sul toscano
sfidarono le visioni tradizionali della condizione subordinata del volgare rispetto al
latino, la lingua della scuola e della cultura umanistica. Anche se ormai pochi
difendevano l’idea della superiorità del latino, si concludeva per lo più che, senza il
latino, il volgare sarebbe stato più povero. Ma gli scrittori come Bembo suggerivano ora
che la lingua più giovane poteva seguire regole indipendenti e perfino rivaleggiare con
gli antenati.

Il discorso toccò inoltre l’aspetto delicato di un’altra questione, quella del patriottismo
fiorentino. Gli scrittori fiorentini si risentirono delle distinzioni tra il fiorentino
trecentesco e quello, diverso, della tradizione letteraria quattrocentesca. In un certo
senso potremmo dire gli stessi toscani avvertirono che di lì a poco essere toscano di
nascita non sarebbe stato sufficiente a conferire un privilegio linguistico. Infine, la
questione minacciava di rendere la scrittura un affare più complesso: se si adottava il
modello trecentesco, gli scrittori avrebbero dovuto imparare una nuova grammatica e
un nuovo vocabolario, spesso molto differente dal loro, per poi cercare di ricreare una
lingua vecchia di quasi due secoli.

L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE: BEMBO

La più influente proposta di imitazione del migliore stile toscano viene dal nobile
veneziano Pietro Bembo (1470-1547). Applicando al volgare la teoria umanistica
dell’imitazione, egli giunse ad affermare che, se il volgare doveva realizzare tutte le sue
potenzialità in quanto nobile e duraturo, gli scrittori dovevano rigorosamente imitare
quelli che riconoscevano come modelli più perfetti, senza alcuna contaminazione con
il latino o il dialetto. Mise in pratica i suoi principi nella prosa e nella poesia
fiorentineggianti degli Asolani (Ia ed. 1505) e giustificò la sua dottrina dell’imitazione
nelle Prose della volgar lingua, pubblicate nel 1525, che costituiscono una svolta nella
storia della lingua italiana.

Gli aspiranti scrittori dovevano modellarsi sugli scritti di Boccaccio e Petrarca che
Bembo prese a descrivere nel dettaglio. La sua analisi integrò e perfezionò le Regole
grammaticali della volgar lingua di Gian Francesco Fortunio di Pordenone, la prima
grammatica stampata del volgare, del 1516 (la prima e geniale grammatica, ad opera di
Leon Battista Alberti, ricordiamo, non era stata data alle stampe e fu quindi di fatto
ininfluente nel dibattito sulla lingua). Sebbene la scelta del fiorentino del Trecento
fosse in apparenza anacronistica, essa offrì un modello chiaramente definito e a
differenza della lingua cortigiana si pose al disopra dell’instabilità politica delle corti
italiane, e di fatto di tutta la penisola.

L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE: CASTIGLIONE

I principi di Bembo incontrarono all’inizio una forte opposizione fra i non toscani e
anche fra i toscani stessi. Il conte Baldesar Castiglione (1478-1529), mantovano, ne Il
libro del cortegiano (1528), difese con una ricca argomentazione il suo rifiuto di imitare
Boccaccio o il toscano contemporaneo e inserì fermamente la lingua in un contesto
sociale. Gli interlocutori del suo dialogo introducono l’argomento della lingua nel corso
della discussione attraverso la questione che ruota intorno a come il cortigiano deve
evitare l’affettazione nel suo comportamento.

A differenza di Bembo, Castiglione collegò strettamente la scrittura al parlato e suggerì


che sarebbe stato affettato usare parole arcaiche in entrambi gli ambiti. In ogni caso, il
significato e la chiarezza dell’espressione erano più importanti della forma, la lingua
dunque doveva basarsi sulla pratica corrente, dopo aver selezionato con cura, da fonti
diverse, le parole che possiedono una maggiore grazia di pronuncia. La lingua che ne
risulta sarebbe un italiano comune, ricco e vario (I.35). Il toscano sarebbe stato solo
una delle fonti, e, di fatto, Castiglione preferiva forme latineggianti come populo e
patrone alle corrispondenti toscane, popolo e padrone, ritenute “corrotte”.
L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE: TRISSINO

Il vicentino Giangiorgio Trissino (1478-1550) chiamò curiale la propria lingua scritta e


parlata ma, come Castiglione, usò anche l’aggettivo italiano e comune, insistendo nel
dire nel suo dialogo Il Castellano (1529) che la lingua di Dante e Petrarca conteneva
importanti contributi da altre regioni d’Italia che non poteva essere definito
propriamente toscano. Trissino è un interlocutore del Dialogo della volgar lingua
scritto, probabilmente pressappoco nello stesso periodo, dal bellunese Pierio
Valeriano (Giovanni Pietro Bolzani, 1447-1558). Trissino difende la sua opinione circa i
limiti del contributo che il latino dovrebbe apportare al linguaggio letterario, ma si
presenta anche come più equilibrato nel suo apprezzamento del toscano di alcuni altri
italiani del Nord.

L’ELABORAZIONE DEL VOLGARE: I FIORENTINI

Dal 1530 circa le posizioni puriste associate a Bembo avevano guadagnato grande
consenso lungo tutta la penisola, sebbene i toscani fossero piuttosto riluttanti a
seguire la linea di Bembo. Infatti essi credevano che fra il toscano trecentesco e quello
cinquecentesco ci fosse continuità e che la loro conoscenza del toscano fosse
naturalmente migliore di quella che i forestieri potevano raggiungere con lo studio.
Negli anni Venti i toscani si erano sentiti offesi dalla spavalderia con cui i settentrionali
dettavano le regole per una lingua che i toscani vedevano come una propria eredità.

Il fiorentino Niccolò Machiavelli reagì nel suo Discorso intorno alla nostra lingua (1523 0
1524) all’aggettivo italiano e al modo in cui un vicentino (Trissino appunto) usava il
eloquentia di Dante per dimostrare che il maggiore poeta fiorentino utilizzava una
lingua poetica che non era fiorentina ma curiale. Claudio Tolomei (Siena, c. 1492-1556)
difese ne Il Cesano (abbozzato dal 1529) la natura toscana (piuttosto che strettamente
fiorentina) del volgare letterario. Tolomei, il primo a studiare la fonologia* dell’italiano
nel dettaglio, riconobbe la maggior importanza della comunicazione verbale rispetto a
quella scritta. L’importanza della lingua viva fu il punto di partenza degli approcci alla
questione dei fiorentini Pierfrancesco Giambullari (1495-1555), Giovan Battista Gelli
(1498-1563) e Carlo Lenzoni (1501-51)

I fiorentini riuscirono a conciliare il patriottismo e la reazione alle posizioni di Bembo.


Benedetto Varchi (1503-65), nel suo diffuso dialogo l’Ercolano, stampato nel 1570,
difese le conquiste letterarie di Firenze dal tardo Quattrocento e dichiarò che era
meglio apprendere la lingua da parlanti nativi colti e insieme leggere i migliori scrittori.
Riconobbe anche che fu Bembo a mostrare come scrivere in fiorentino corretto e che
non si sarebbe dovuto scrivere nello stesso modo che si parlava. Vincenzo Borghini
(1515-80) e Lionardo Salviati (1539-89) studiarono dettagliatamente, come Bembo, la
prosa trecentesca, ma trovarono anche forti elementi di continuità con l’uso
contemporaneo che, secondo Salviati, condivideva la dolcezza della lingua
trecentesca.

Negli anni trenta Sperone Speroni di Padova (1500-88) difese, nel suo influente Dialogo
delle lingue, la validità della lingua volgare per la trasmissione della conoscenza. Le sue
idee furono una fonte importante della Defense et illustration de la langue françoise
(1549). Varchi considerava il volgare più bello del greco e del latino, doveva ammettere
però che il greco aveva più fonti e che insieme al latino contava più scrittori famosi. La
convinzione che il volgare potesse superare le lingue classiche (anche se doveva
recuperare terreno in termini di quantità) e il desiderio di liberarlo dalla sua lunga
soggezione verso lingue più antiche era fra i motivi delle traduzioni in prosa volgare che
si realizzarono e si stamparono all’incirca tra il 1540 e il 1560 e del corrispondente
declino nello studio degli originali.

La standardizzazione e la diffusione del volgare non erano solo sostenute da un élite di


uomini di lettere, ma anche incoraggiate da bisogni pratici dell’industria della stampa,
particolarmente quella di Venezia, il maggior centro italiano per l’editoria. Le forme
regionali avrebbero fortemente limitato il successo di un libro, i correttori normalmente
rivedevano la lingua dei libri piuttosto liberamente, ma nell’insieme non seguirono
smodatamente i princìpi puristi. Fra la maggioranza degli utenti del volgare c’era ancora
un forte pregiudizio contro l’imitazione indiscriminata del toscano. In pratica, i rigorosi
ideali di Bembo furono modificati nel corso del secolo da concessioni ad un uso della
lingua contemporanea del tipo predicato da vari scrittori come Castiglione e Gelli.

Il dibattito sulla lingua ebbe conseguenze di lungo termine e importanti per l’Italia: per
la prima volta, tutti gli stati italiani condivisero una lingua letteraria adottata quasi
universalmente (sebbene in alcuni tipi di poesia e nella commedia si preferì l’uso del
dialetto). Questa lingua divenne la base dell’italiano parlato. Ma le conseguenze non
furono solo linguistiche: la standardizzazione agì come stimolo per la letteratura
volgare, solo alcuni autori lamentavano che un nuovo formalismo stava inibendo la
spontaneità e il vivo contributo delle loro regioni.

L’attività culturale italiana nel suo insieme andò acquisendo un carattere parzialmente
collettivo invece di essere concentrato in una corte, in una città o al massimo in una
regione. L’allontanamento da un pluralismo linguistico rispecchiava una tendenza
generale della società e della cultura italiana del Cinquecento a muoversi verso
l’uniformità, una tendenza tangibile nella feroce imposizione dell’ortodossia religiosa a
opera della Controriforma.

ORATORIA E TRATTATI DI RETORICA: PREMESSE

Le forme della prosa volgare del Cinquecento furono influenzate dall’umanesimo


attraverso lo studio della retorica e la raccolta di lettere di un singolo autore. Una delle
ragioni dell’importanza della retorica nel Cinquecento fu il fondamentale ruolo giocato
dall’oratoria nella vita pubblica: ad esempio, all’interno di decisioni politiche, della
diplomazia, della legislazione, delle cerimonie civili, delle accademie e della Chiesa.
Molti prosatori di riferimento scrissero per essere ascoltati, non solo per essere letti e
alcuni di loro si distinsero per le loro capacità oratorie. Nel corso del secolo ci fu un
crescente studio dei mezzi dell’organizzazione dei discorsi in tutti i tipi di
comunicazione verbale formale, sia scritta che parlata.

Va sottolineato che la causa e l’ effetto della riscoperta della retorica nel più ampio
contesto della comunicazione e nella sua applicazione alla letteratura, fu il recupero, la
traduzione, il commento e la diffusione della Poetica di Aristotele. In particolare (data
la relativamente scarsa conoscenza del greco) andranno ricordate la traduzione latina
a stampa ad opera di Alessandro de’ Pazzi nel 1536 (quella, manoscritta dunque meno
diffusa, di Valla è del 1498), e il commento di Francesco Robortello nel 1548.

Sperone Speroni (Padova 1500-88), la figura guida dell’Accademia padovana degli


Infiammati (1540-42), era fortemente interessato alla questione delle forme letterarie e
scrisse numerose opere sull’argomento, incluso il Dialogo della retorica del 1542. Le
sue idee furono diffuse anche dal suo scolaro padovano Bernardino Tomitano (1517-
76) nel suo Ragionamento della lingua toscana (Venezia, 1545 e 1546, ristampato con
aggiunte come Quattro libri della lingua toscana, Padova, 1570).

Francesco Sansovino, oriundo fiorentino operante a Venezia, analizzò i tre tipi di


discorso della retorica classica (giudiziario, deliberativo ed epidittico) nel trattato
Dell’arte oratoria (Venezia, 1546), ma trasse la maggior parte dei suoi esempi da
Petrarca, cioè da un poeta. L’ampia Retorica (Venezia, 1559) del fiorentino Bartolomeo
Cavalcanti (1503-1562) fu un modello meno contraddittorio e molto popolare. Egli
ricorse spesso ai retori antichi ma trasse alcuni esempi da scrittori contemporanei.
Cavalcanti era stato un oratore e si differenziava dai contemporanei perché
sottolineava come la retorica fosse soprattutto persuasione politica piuttosto che un
mero fatto di stile

IL DIALOGO

La forma classica e umanistica del dialogo (Platone, Cicerone ecc.), applicata a ogni
materia, rispecchia la consuetudine alla discussione diffusa nelle corti e nella società
cinquecentesca. Gli interlocutori erano in genere persone storicamente esistite (tra cui
eventuali portavoce dell’autore, come il fratello di Bembo nelle sue Prose); solo
raramente di pura fantasia. Non di rado erano accolte interlocutrici (come anche nel
capolavoro del genere: il Cortigiano di Castiglione), secondo l’esempio della cornice
del Decameron e in un certo senso anche per adeguarsi alla condizione della donna in
una società più moderna

In questi dialoghi talora non prevaleva nessun interlocutore, talaltra un interlocutore


aveva la meglio (specie nella seconda parte del secolo, quando la forma si diffuse
ulteriormente). I generi del dialogo e quello della raccolta di novelle si avvicinarono
tanto da fornire, da una parte, nei trattati in forma di dialogo, un buon numero di
aneddoti e storie, dall’altra, nella cornice di raccolte di novelle, vivaci esempi delle
discussioni intellettuali. Un’ottima fusione dei due generi è reperibile nei Ragionamenti
di Agnolo Firenzuola (1493-1543), amico di gioventù di Aretino.

IL DIALOGO: L’ARETINO

Pietro Aretino (1492-1556), a parte la graffiante parodia del dialogo rappresentata dalla
sue Sei giornate, consente di ragionare sull’altro genere molto importante per la
retorica, di cui fu, per il volgare, l’iniziatore: l’epistolografia. Sfruttando la notorietà che
era riuscito a procurarsi, egli pubblicò nel 1538 il primo dei suoi libri di lettere (Lettre)
indirizzate a vari personaggi importanti, ma anche ad amici, familiari ecc. Chiaramente
il modello si ritrova, in parte, negli epistolari di Cicerone riscoperti nel secolo
precedente. Un elemento nuovo, sfruttato a fondo dallo scrittore, fu il legame di queste
lettere con la novità della diffusione ad ampio raggio tramite la stampa; d’altronde,
anche il livello elevato dei personaggi a cui egli destina le lettere funziona come un
fattore promozionale e pubblicitario.

In un certo senso le lettere funzionavano ognuna come una sorta di dedica, come
quelle che gli umanisti anteponevano alla propria opera in pubblico in segno di
riconoscenza verso un’eminente personalità (in genere il mecenate che aveva
finanziato l’autore). Aretino, consapevole del potere della stampa, utilizza queste
lettere alternando encomi e oltraggi, puntando spesso a ottenere una ricompensa da
parte dei destinatari. Al di là di questi aspetti strettamente economici, va però
riconosciuta alle sue lettere una notevole varietà di temi e di registri. Da segnalare, tra
l’altro, il filone delle lettere di “critica d’arte”, su opere pittoriche e scultoree esistenti o
suggerite ad artisti.

LA STAMPA E LA CENSURA

Il passaggio dal manoscritto alla cultura della stampa non avvenne in modo immediato
ma graduale. Ad esempio molte opere famose del primo Cinquecento non furono
affidate al torchio, nonostante la stampa fosse conosciuta in Italia perlomeno dal 1469.
Ciò dipendeva da diverse ragioni per esempio una forma di resistenza psicologica
davanti alla nuova tecnologia o la volontà di mantenere all’interno di una ristretta
cerchia di pubblico le proprie opere. Guicciardini non pubblicò alcuna delle sue opere,
Machiavelli ne pubblicò soltanto una. Alcuni autori furono spinti a pubblicare solo dalla
circolazione di edizioni pirata delle proprie opere: è il caso del best seller di Castiglione,
Il Cortegiano.

Anche nel caso di autori che accettano la pubblicazione delle loro opere, sussistono
tuttavia abitudini contratte nell’epoca in cui la trasmissione era affidata alla sola
riproduzione manoscritta. A parte la diffusione di parallele tradizioni manoscritte che
affiancano quelle a stampa, un’altra consuetudine fu quella di creare alcuni esemplari
stampati su carta più raffinata e/o di formato più grande da destinare a personaggi di
rilievo o ai dedicatari (e spesso finanziatori) dell’opera, è il caso di alcune copie
dell’Orlando Furioso. Oppure si potevano stampare esemplari con dediche
“personalizzate”, il che consentiva di ottenere ricompense maggiorate in denaro dai
dedicatari, convinti di avere l’esclusiva. Uno di questi casi è la Cortigiana (1534) di
Aretino, il quale, come si è accennato nella lezione precedente, fu particolarmente
pronto ad afferrare le opportunità offerte da questo nuovo mezzo di riproduzione e
diffusione.

LA RIVOLUZIONE DEL LIBRO

Il nuovo mezzo di comunicazione, il libro a stampa, fu alla base di una profonda


rivoluzione sociale. La scoperta della stampa, che Bacone considerò, insieme a quella
della bussola e dei viaggi, alla base di una svolta epocale della storia dell’umanità, fu
studiata e analizzata fra i primi da M. McLuhan (essendo Gutenberg considerato
l’inventore della stampa, importante è il notissimo volume Galassia Gutenberg).
Focalizzando l’attenzione sulla letteratura e sugli scrittori, va sottolineato come la
nuova tecnica comporti dei cambiamenti profondi nella figura professionale dello
scrittore.

Lo scrittore infatti, se desidera che la sua opera sia diffusa, da una parte ha bisogno di
un finanziamento sufficiente a coprire le spese di pubblicazione, dall’altra si vede
offerta la possibilità di trarre profitto dalla vendita dei suoi volumi. Le soluzioni sono via
via differenti a seconda delle possibilità e delle personali inclinazioni del singolo
scrittore: c’è chi rischia in proprio investendo il proprio capitale (come fa Bembo); chi
invece punta al profitto derivato dalle dediche (come Aretino) servendosi del capitale
altrui (per Aretino, Marcolini); o ancora chi ricava profitto solo o anche dalla vendita
diretta dei libri (come Ariosto e Castiglione). La strada che avrebbe portato alla fine del
mecenatismo e all’affermazione del diritto d’autore era ancora molto lunga.

Il nuovo mezzo di riproduzione cambia decisamente lo scenario della letteratura e del


rapporto tra gli scrittori e la società. Si pensi ad esempio al nuovo equilibrio fra
l’autonomia economica e sociale consentita dal fatto che lo scrittore, almeno
potenzialmente, può trarre profitto dalla sua arte, senza dover essere necessariamente
protetto da un mecenate; egli deve risolvere però il problema di trovare i finanziamenti
necessari (difficilmente risolvibile a meno di essere un ricco patrizio come Bembo).
Un’altra opposizione da considerare è quella fra la potente capacità di diffusione del
mezzo e quindi la potenziale libertà di informazione che ne derivava, e, dall’altra parte,
la spinta alla standardizzazione e omogeneizzazione (innanzitutto linguistica, come si è
notato per la questione della lingua) sotto il controllo che le istituzioni potevano
operare sulle pubblicazioni.
LA CENSURA

Per tutta la prima metà del secolo il controllo sulla produzione a stampa non fu
pressante. Il privilegio di pubblicazione puntava soprattutto a garantire al richiedente
(l’editore) il diritto esclusivo ma temporaneo (spesso per 10 anni) di pubblicare una
data opera e a proteggerlo da eventuali copie pirata (quelle che spinsero, è un caso fra
molti, Castiglione a pubblicare il suo Cortigiano che andava riscrivendo da anni). Con la
diffusione del luteranesimo, la Chiesa cattolica introdusse stretti controlli sulla stampa
per evitare la diffusione delle nuove dottrine ritenute pericolose. Nel 1545 comincia il
Concilio di Trento, il cui obiettivo era quello di arginare le spinte eterodosse attraverso
una riforma della Chiesa (detta Controriforma, per sottolinearne l’aspetto di reazione
alla Riforma protestante). Com’è stato sottolineato in un celebre saggio di Dionisotti, le
conseguenze si manifestarono con il tempo, non si può cioè far coincidere in modo
assoluto la cronologia storica con le trasformazioni nell’ambito della letteratura

Fu solo nel 1557 che si giunse alla pubblicazione, da parte della Chiesa di Roma, di un
elenco dei libri e/o autori che erano stati giudicati non ortodossi e proibiti (con
un’espressione ancora comune: messi all’indice). L’intero titolo del libro è: Index
auctorum, et librorum qui ab ufficio sanctae Romanae et universalis Inquisitionis caveri
ab omnibus et singuils in universa Christiana republica mandantur, sub censuris contra
legentes, vel tenentes prohibitos in bulla, quae lecta est in Coena Domini expressis, et
sub alijs poenis in decreto eiusdem Sacri officij contentis, Roma, Antonio Blado, 1557.

Si trattava di libri che deviavano dalla vera dottrina della Chiesa e non andavano quindi
letti piuttosto bruciati; il caso di Niccolò Franco che fu poi condannato a morte non fu
l’unico, non va dimenticato che caddero sotto l’indice dell’inquisizione molti autori: ad
es. lo stesso Aretino, prima con alcune opere e in una successiva edizione dell’Indice,
con tutte le sue opere. Di qui nacque una censura preventiva verso sé stessi da parte
degli scrittori, un’autocensura che consisteva nell’adeguarsi ai dettami espressi dal
Concilio di Trento per evitare di incorrere in condanne che li avrebbero potuto rovinare
finanziariamente e artisticamente. D’altra parte le loro opere venivano vagliate e
giudicate con molta più attenzione di prima da apposite commissioni. La censura fu
causa della mancata diffusione di alcune opere (come quelle di Machiavelli e, come
accennato, di Aretino).

La storia della letteratura italiana impone una riflessione anche linguistica dalle sue
origini fino all’Unificazione. La frammentazione politica (in comuni, signorie, ecc.) e la
particolare conformazione geografica dell’Italia (con un Sud lontano dal Nord) e con la
catena appenninica a dividerla ulteriormente, hanno ostacolato per molti secoli il
formarsi di una lingua italiana comune realmente parlata. Fu con Bembo nei primi del
Cinquecento che il modello di lingua fu trovato in Boccaccio per la prosa e in Petrarca
per la poesia. Questa scelta contribuì a imporre l’imitazione dei due autori, la cui
grandezza era del resto già stata riconosciuta dagli stessi contemporanei.

modelli della letteratura italiana sono fondamentalmente quello francese per la poesia
e quello latino per la prosa. Per la poesia contò moltissimo l’influenza dei poeti
provenzali le cui tematiche amorose (schiavitù amorosa, reazioni fisiologiche
all’incontro, ecc.) e la cui ricerca retorica (antitesi, rime difficili, ecc.) fu ereditata dai
poeti siciliani della corte di Federico II. Dopo i siciliani, ci furono i cosiddetti siculo-
toscani e poi gli stilnovisti (Guinizzelli, Cavalcanti, Dante, ecc.) che introdussero
innovativi umori filosofici. La loro insistenza sulla nobiltà come d’animo e non di
nascita (cioè di lignaggio) costituiva il tentativo di creare un nuovo sistema di valori che
non appartenesse tutto alla nobiltà, ma anche alle nuove classi borghesi (mercanti,
uomini di legge, ecc.) da cui loro stessi provenivano.

Naturalmente la poesia non fu tutta lirica e anche gli stessi stilnovisti diedero prova di
passare dal registro alto della loro lirica consueta a quello comico, che fu dominato da
personaggi quali Cecco Angiolieri e Folgore da Sangimignano. In queste poesie spesso
si rappresentava il rovescio comico dei topos della poesia alta per es. alla donna nobile
che manda il suo saluto salvifico si oppone la donna aggressiva e sboccata. Tuttavia, i
due stili erano attentamente tenuti separati. Il più grande esperimento di poesia
comica invece può essere visto nella Commedia di Dante Alighieri, che di fatto mescola
tutti i registri: dalla citazione raffinata all’offesa scurrile alla discussione teologica. Una
logica ferrea regge l’opera ed è giustificata, con richiami a simbologie che trovano una
giustificazione interna al poema (definibili come simboli) ma anche interna al codice
culturale di riferimento (definibili come allegorie).

L’opera possiede un fortissimo impatto narrativo e psicologico: sia il poetapersonaggio


Dante che i personaggi incontrati sul cammino possiedono infatti una loro storia
umana di cui il poeta mette in luce quei caratteri essenziali che durante la vita terrena
hanno segnato il loro destino per l’eternità. La grandezza del progetto dantesco, una
sorta di giudizio universale che reca in sé una spiegazione teologica e filosofica, finisce
per stravolgere le distinzioni e le separazioni più consuete. Lo sperimentalismo di
Dante poco si presta a essere riprodotto, cosicché il suo modello resterà
sostanzialmente non imitato; finirà con lui il tentativo di una poesia che contempli
anche un impegno politico e sociale esplicito.

Diverso il caso di Petrarca, il cui sistema-canzoniere, per la sua tecnica di riproduzione


(sia pure infinitamente variata) di temi e stilemi, fu immediatamente preso come
modello da imitare, nei contenuti e nello stile. Petrarca avrebbe contato moltissimo nel
panorama europeo non solo per la sua poesia, ma anche per il suo interesse verso i
classici latini e per il suo umanesimo. L’influenza di Petrarca, e della ricerca erudita
nella cultura classica, è visibile già nelle opere minori dell’altro grande scrittore del
periodo, Giovanni Boccaccio, la cui fama, affidata all’opera maggiore, il Decameron,
varcò presto i confini della penisola. Nel Decameron (1348-53) giunge a maturazione la
tradizione prosastica volgare. Essa era stata fino ad allora affidata a raccolte di brevi e
spesso brevissimi racconti che consistevano soprattutto di aneddoti, risposte spiritose
(motti) e l’exemplum (l’esempio, il modello morale da seguire).

Boccaccio dà grande rilievo alla cornice, cioè a un contesto che giustifichi la narrazione
orale da parte di un gruppo di persone. La grande peste del 1348 è la cornice in cui si
muove un gruppo di giovani che cerca di sfuggire all’epidemia recandosi in una
campagna vicino a Firenze, reagendo con la vitalità e la fantasia ma anche con
organizzazione al caos, alla disperazione e alla morte che regnano a Firenze. La
passione amorosa, i rovesciamenti della fortuna, la capacità di afferrare le occasioni al
volo, sono i temi che interessano Boccaccio. Godendo del piacere di far tentare la
sorte, spesso spudoratamente, ai suoi personaggi, Boccaccio ha l’aria di voler giocare
sul confine tra libero arbitrio e Provvidenza. Anche per questo lo scrittore può essere
considerato parte di quel momento storico chiamato Umanesimo.

Con l’Umanesimo e i suoi rappresentanti (Leonardo Bruni, Pier Paolo Vergerio, Leon
Battista Alberti, Lorenzo Valla) si allarga decisamente l’orizzonte di ricerca degli
studiosi, volti ora a recuperare (come già Petrarca e, sulle sue orme, Boccaccio) opere
neglette o sconosciute della cultura latina e greca. Oltre al bagaglio di nuove
conoscenze e nuove riflessioni scaturite dalle scoperte o riscoperte, si fa strada un
nuovo metodo di studio che prevede il confronto dei testi, la verifica incrociata di
nozioni e fatti.

Uno degli apporti della “nuova” cultura fu l’allargamento della riflessione sul linguaggio
e sulla lingua che di lì a poco sarebbe stata trasferita dal latino al volgare. Campione e
simbolo di questo nuovo metodo e di questa attenzione al linguaggio può essere
considerato Lorenzo Valla della De falso credita et ementita Constantini donatione
declamatio (scritta in latino, considerata ancora la lingua dei dotti). In essa, facendo
risaltare tutti gli anacronismi linguistici, dimostra come il documento che la Chiesa
allegava per giustificare i suoi territori, appunto la Donazione di Costantino
(l’imperatore romano che l’avrebbe stipulata), altro non era che un falso medioevale.

I successivi sviluppi del sistema culturale e letterario vedono un trasferimento dei


centri di produzione culturale rappresentati principalmente dalle università, dai
monasteri e dalle corti. I Medici a Firenze, la curia romana, la repubblica veneziana e le
sue famiglie patrizie, gli Este di Ferrara, gli Aragona a Napoli sono solo alcuni fra i
maggiori esempi di centri di promozione e protezione di artisti e letterati. In particolare i
Medici seppero sfruttare la lunga e sostanzialmente unitaria tradizione letteraria
toscana e il particolare prestigio di cui godevano scrittori come Dante, Boccaccio,
Petrarca per imporre una propria egemonia culturale.
E’ testimonianza di tale egemonia l’antologia compilata da uno dei maggiori poeti
fiorentini del tempo, Angelo Poliziano, e inviata da Lorenzo de’ Medici alla famiglia
spagnola regnante a Napoli, gli Aragona: di qui il nome di Raccolta aragonese (1477). In
essa è ben visibile il tentativo di selezionare dentro la vasta produzione letteraria
toscana soprattutto un filone raffinato e monolingue facente capo allo stilnovo e ora
rappresentato dalle poesie dello stesso Lorenzo e Poliziano Poliziano, proprio in questi
anni, sta lavorando al suo capolavoro, le Stanze, dove si fonde la tradizione stilnovista
con la raffinata cultura classica dell’umanista con un’inflessione (come nella forma
metrica dell’ottava) popolareggiante.

Il tentativo della cultura alta di appropriarsi anche della tradizione popolare traspare
anche in altre prove: i canti carnascialeschi di Lorenzo e la sua Nencia da Barberino (un
poemetto in ottave dedicato a una contadina di cui il narratore si dice innamorato): e il
capolavoro di Luigi Pulci, Il Morgante (1483). In questo poema, commissionatogli dalla
madre di Lorenzo, si recupera la tradizione canterina e si fa di questo mostro,
Morgante, il portavoce del pensiero del popolo, del linguaggio, di quegli istinti bassi ma
sostanzialmente positivi.

Tornando all’influenza della tradizione fiorentina a Napoli, oltre a casi come quello di
De Jennaro, resi interessanti anche dalla confluenza di dialetto, toscano e latinismi, il
poeta che spicca è Jacopo Sannazaro. Il suo “racconto” misto di prosa e versi, l’Arcadia
(1486-1504), fu un imitato a livello europeo. Dietro i pastori si celava l’organizzazione
sociale dell’Accademia Pontaniana a Napoli, sostenuta dagli Aragona. Quella
Pontaniana, che prende il nome dall’umanista napoletano Giovanni Pontano, fu solo
una delle molte accademie che cominciarono a diffondersi nella penisola.
L’accademia fu infatti e rimase fino ai nostri giorni uno dei rinnovati modi di
organizzazione degli intellettuali, secondo un esempio almeno lontanamente greco-
latino sviluppato dalla cultura umanistica

A trasformare profondamente il panorama dell’organizzazione della società letteraria


intervenne un’invenzione che risale molto verosimilmente al tedesco Gutenberg, la
stampa. La possibilità di riprodurre in modo seriale il libro e di farne un prodotto dalla
cui vendita ricavare un profitto (sufficiente, in teoria, a rendersi autonomi dai mecenati)
mutò sensibilmente la posizione del letterato. Tuttavia, soprattutto agli inizi, il
finanziamento da parte di uno o più protettori fu essenziale, in cambio essi ottenevano
una lettera dedicatoria che ne elogiava il carattere, la potenza, la gloria. Chi in Italia
seppe capire e sfruttare fino in fondo queste potenzialità fu Pietro Aretino, i cui sei
volumi di Lettre (1537-1557), pur nella loro varietà di registro, temi e destinatari, può in
parte considerarsi una raccolta di lettere dedicate a da cui trarre laute ricompense.

La rapida riproduzione di una stessa opera in cinquecento o mille esemplari grazie alla
stampa a caratteri mobili, consentiva e imponeva (per ammortizzare i costi) che l’opera
potesse essere letta su un territorio più ampio possibile, senza barriere linguistiche.
L’assenza di una lingua unitaria condivisa in tutta la penisola ostacolava questo
obiettivo. E forse non fu un caso se, il letterato che riuscì in modo definitivo a dettare la
linea nella questione della lingua, fu Bembo, un patrizio di Venezia, ovvero la città dove
avevano sede i maggiori editori italiani, tra i quali Aldo Manuzio con cui Bembo
collaborò assiduamente. Con il dialogo Prose della volgar lingua (1525) Bembo riuscì a
imporre l’imitazione del fiorentino di Petrarca per la poesia e di Boccaccio per la prosa.
Pochi (neanche il ribelle Aretino) poterono sfuggire a questo processo di
standardizzazione della lingua

Alla fine della lezione 17 troverete un questionario di autovalutazione sulle lezioni 1-17
(FINO ALLA 2° SLIDE). Dovrete rispondere esattamente anche se in forma essenziale
(con un max. di 30 parole) al maggior numero di domande

QUESTIONARIO

Rispondete in forma essenziale (con un max. di 30 parole) al maggior numero di


domande del seguente questionario. Indirizzate una copia delle risposte, numerate e in
sequenza, con l’intestazione Prova 1 di Letteratura italiana alla Prof.ssa Anna Di Veroli ,
email: [email protected] 1)Cosa ha ostacolato per secoli il formarsi di una
lingua unitaria in Italia? 2)Di quali letterature nazionali quella italiana ha più subito
l’influenza? 3)Quali sono i temi tipici della poesia siciliana della corte di Federico II?
4)Quali sono gli stilemi tipici della poesia siciliana della corte di Federico II? 5)Che cosa
s’intende per poeti siculo-toscani? 6)Qual è il concetto su cui gli stilnovisti più
insistono di più nelle loro liriche? Per quale ragione?

7)Quanti e quali sono gli stili codificati dalla trattatistica e dalla pratica medievale?
8)Puoi fare l’esempio di un’opera o di un autore per ognuno di questi stili? 9)Di quali
situazioni tipiche della poesia lirica si fa la parodia nella poesia comica trecentesca?
10)Cos’è una terzina? 11)Cos’è un sonetto? 12)Nella cosmologia dantesca, dove si
trova il Purgatorio? 13)Nell’ambito della teoria dell’interpretazione medievale dei testi,
cosa s’intende per interpretazione figurale? Danne una definizione e proponi uno o più
esempi 14)Cosa s’intende per contrapasso? 15)Come è organizzato il canzoniere
petrarchesco?

16)Quali sono le figure retoriche più diffuse nel canzoniere di Petrarca? 17)Cos’è la
“cornice” del Decameron? 18)Quali sono i temi tipici del Decameron? E che rapporto di
causa ed effetto c’è fra questi temi? 19)Quali sono i caratteri tipici dell’Umanesimo? In
quali opere, in quali versi, si riconoscono le sue prime avvisaglie? 20)Chi è l’autore
della De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio? 21)Di cosa tratta
la De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio?

22) Che cos’è la Raccolta aragonese (1477)? quale tradizione “inventa”? 23) Morgante,
dell’opera omonima di Pulci, di cosa è simbolo? 24) Che cos’è la lingua cortigiana? 25)
Quali sono le idee del Bembo sul volgare e sulla letteratura volgare? 26) In che senso la
stampa modifica il ruolo sociale dei letterati? 27) Che opere ha scritto Pietro Aretino?

MACHIAVELLI

Gli ultimi anni del XV secolo corrispondono ad una serie di cambiamenti nella Firenze
medicea. Dopo la morte di Lorenzo nel 1492, il principato perse una figura di
riferimento e il giovane figlio Pietro venne presto scacciato (1494) da Carlo VIII di
Francia. Dopo la fine della signoria, si istaura nella città un governo popolare
fortemente influenzato dalla predicazione di Girolamo Savonarola che, in una
prospettiva di forte rinnovamento spirituale, promuove una politica vivacemente
antiromana. Alla morte del frate (1498), si istituisce a Firenze una seconda repubblica,
di carattere laico, con il gonfalonierato a vita di Pier Soderini e la carica di segretario
della Seconda Cancelleria assegnato al ventinovenne Niccolò Machiavelli (1469-1527),
appartenente ad una famiglia non facoltosa ma culturalmente vivace e formatosi
nell’adolescenza negli insegnamenti umanistici.

Il giovane Niccolò ricopre fin da subito incarichi importanti: viene inviato come
osservatore in Francia, in Romagna (presso il duca Cesare Borgia detto il Valentino), poi
dal papa e alla corte dell’imperatore Massimiliano. In questi ambienti il segretario
fiorentino matura una grande esperienza nel campo della politica. Nel 1512, grazie
all’intervento di Giulio II e dell’esercito spagnolo, i Medici rientrano a Firenze ma l’anno
successivo Machiavelli è arrestato con l’accusa di aver partecipato ad una congiura
contro Giuliano de’ Medici, viene però liberato poco dopo grazie ad un’amnistia
concessa per l’elezione al soglio pontificio di Leone X, il fiorentino Giovanni de’ Medici.
Sebbene scarcerato, Machiavelli viene condannato a risiedere in esilio nel suo podere
fuori San Casciano (l’Albergaccio) dove compone le sue opere maggiori, tra cui Il
Principe.

In una lettera scritta all’amico Francesco Vettori (ambasciatore di Firenze presso la


Santa Sede) del 10 dicembre 1513, Machiavelli dall’esilio, annuncia la stesura di
un’opuscolo De Principatibus in cui discute ‘che cosa è principato, di quale spezie
sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché è si perdono’. È la
testimonianza diretta del periodo di composizione della maggiore delle opere
machiavelliane e di uno dei punti più alti del pensiero politico universale: Il Principe.
L’autore, grazie alla ‘continua lezione delle cose antique’ e, allo stesso tempo, grazie
‘all’esperienza delle cose moderne’ stende programmaticamente un trattato che
affronta in una prospettiva laica e moderna i rapporti tra il potere e il principe che lo
esercita

Superati gli schemi medievali e antichi che caratterizzavano il genere dell’educazione


del sovrano assoluto di ispirazione divina (i vari De regimine principis), l’opera di
Machiavelli è il primo grande tentativo di analisi politica capace di abbracciare tutti gli
aspetti del potere civile, indagato direttamente nella sua ‘verità effettuale’ e non in
precostituiti schemi teorici. Dedicato a Lorenzo de’ Medici il giovane (nei progetti di
Machiavelli l’opera si sarebbe dovuta però legare al nome ben più illustre di papa Leone
X), Il Principe cerca una risposta alla grave crisi politica, militare e istituzionale in cui si
trovava Firenze, e in modo più diffuso l’Italia intera, agli inizi del secolo XVI, auspicando
una figura autorevole, capace di traghettare lo stato fuori da un periodo di decadenza
che l’autore doveva avvertire con particolare preoccupazione.

MACHIAVELLI: IL PRINCIPE

Steso quasi di getto nel 1513, Il Principe presenta una ripartizione in 26 capitoli
caratterizzati da rigore argomentativo e una robusta coesione interna. È possibile
comunque attuare una divisione di comodo in quattro nuclei principali. I capitoli I-XI
contengono un’analisi di diversi tipi di principato che vengono esaminati in prospettiva
storica a partire da quelli più antichi (da Alessandro Magno ai tiranni siracusani, senza
tralasciare episodi tratti dalla mitologia o dalla Bibbia come Teseo o Mosè) arrivando
fino a quelli contemporanei all’autore (celebre la sezione dedicata al duca Valentino).
Vengono rilevati almeno due generi differenti, costituiti dai principati ereditari e da
quelli creati (o ottenuti) ex novo: su questi ultimi e sulle dinamiche che li regolano si
sofferma maggiormente il pensiero dell’autore.

I capitoli XII-XIV modificano parzialmente l’aspetto dell’opera: essi costituiscono di


fatto un trattato militare incentrato principalmente sulla opportunità di un esercito
regolare che non renda necessario al principe il ricorso a truppe mercenarie.
L’esperienza diretta di Machiavelli, maturata in un frangente in cui l’Italia era diventata
terra di conquista contesa tra francesi e spagnoli, ha fatto crescere in lui la convinzione
che solo la presenza di una milizia cittadina (le ‘armi proprie’) può garantire la sicurezza
dello stato; gli eserciti di ventura, anche quando costituiscono compartimenti ausiliari,
sono mossi solamente da interessi economici e non dalle motivazioni etico-politiche
del cittadino o del suddito.

Interamente dedicati alla figura del principe sono i capitoli XV-XXIII, probabilmente i più
importanti dell’intera opera in essi infatti, Machiavelli passa in esame le virtù richieste
al principe nell’esercizio del potere, ribaltando talora in maniera spregiudicata
l’opinione morale comune. In relazione alla cruda realtà dei fatti, alcuni comportamenti
che normalmente vengono considerati negativamente o al limite del vizio, nella
prospettiva dell’azione politica diventano invece non solo inevitabili, ma
assolutamente necessari. La ‘tecnica’ del governo si deve pertanto mantenere su un
piano differente ed indipendente da quello della morale e il principe deve saper
utilizzare le due nature della politica, quella umana e quella ferina: è quindi un precetto
per chi governa quello di bene usare la bestia e l’uomo.
Negli ultimi tre capitoli (XXIV-XXVI), prima di concludere con un accorato ‘grido di
dolore’ ad un principe che possa liberare l’Italia dal ‘barbaro dominio’ francese e
spagnolo, la riflessione di Machiavelli si incentra sulla fortuna e sul suo rapporto con la
virtù. L’argomentazione muove dalla constatazione che anche se la sorte è come un
fiume in piena che travolge gli eventi dell’uomo, nondimeno una virtù ben ordinata può
fungere da argine che può opporle resistenza e limitarne i danni. La felicità, il buon esito
dei fatti, dipende tuttavia da una corrispondenza tra l’opportunità del momento e il
comportamento di chi si trova ad agire (viene riportato il caso di Giulio II, il cui carattere
impetuoso ben si accordava alle situazioni che doveva spesso fronteggiare); il contrario
porta, inevitabilmente all’insuccesso e alla ‘ruina’.

La riflessione storica e politica di Machiavelli non si limita al Principe, capolavoro


assoluto dello scrittore fiorentino, ma viene ulteriormente approfondita in altre opere
degli anni successivi. I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (probabilmente del
1513-’19), il dialogo Dell’arte della guerra (circa 1519-’20), la Vita di Castruccio
Castracani (1520) e le Istorie fiorentine (1520-1523). I Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio sono dedicati all’analisi degli ordinamenti della politica interna ed estera della
Roma monarchica e repubblicana che Machiavelli poteva leggere nell’opera liviana e in
atre raccolte di storici antichi come Polibio o Plutarco. L’argomentazione non è serrata
come ne Il Principe e il trattato si rivela come una raccolta di divagazioni di argomento
storico-politico basate abbastanza liberamente sui testi liviani.

La storia antica è vista nella prospettiva di un discorso politico fortemente


attualizzante: dagli esempi che si traggono dal passato è sempre possibile trarre un
insegnamento applicabile all’esercizio del potere che, diversamente dal Principe, nei
Discorsi è contemplato anche nella forma repubblicana. L’opera riflette l’ambiente in
cui è stata maturata, essa nasce infatti dalle discussioni che si tenevano negli Orti
Oricellari (i giardini della potente famiglia Rucellai, non lontani dalla chiesa di santa
Maria Novella) alle quali era solito intervenire anche Machiavelli. Ciononostante, i
Discorsi dimostrano un livello letterario molto alto e sono ricchissimi di episodi
narrativi vivacemente particolareggiati che, tratti dalla lettura degli autori antichi,
vengono resi da Machiavelli in una prosa nitida ed elegante.

Ancora riconducibile al circolo degli Orti Oricellari e alle discussioni che vi si tenevano
è il dialogo Dell’arte della guerra in cui l’autore ritorna su un tema già trattato nei
capitoli XII-XIV de Il Principe, cioè la necessità di un esercito regolare. Anche nel
dialogo, che segue in linea un’ impostazione etico-politica, l’autore contrappone la
poca affidabilità delle truppe mercenarie rispetto alla sicurezza di una milizia composta
dai cittadini interessati in prima persona alla salvaguardia e all’integrità dello stato. La
Vita di Castruccio Castracani è invece una biografia di taglio eroico sulla figura del
ghibellino lucchese la cui vita è descritta come una parabola ascendente: partendo
dalla sua nascita oscura (come quella di tanti eroi di Plutarco), essa culmina con il
dominio nella sua città di origine della quale, per i suoi meriti militari, era stato
nominato duca dall’imperatore.

Le Istorie fiorentine, commissionate a Machiavelli dal cardinale Giulio de’ Medici (il
futuro papa Clemente VII), affrontano un vasto periodo che va dalla caduta dell’impero
romano d’Occidente alla morte di Lorenzo il Magnifico (1494). La parte più importante
dell’opera interessa però la storia degli ultimi secoli con pagine memorabili sul tumulto
dei Ciompi o sulla congiura dei Pazzi. Anche in quest’opera la storia viene letta in
chiave morale e attualizzante dove si dà largo spazio alla descrizione e all’analisi delle
figure individuali e agli insegnamenti che da esse si possono ricavare per la vita civile e
per l’esercizio della politica.

L’inclinazione di Machiavelli per la scrittura e per la ricerca di uno stile narrativo,


traspare dalla tendenza alla divagazione nella produzione storica e politica e trova il
suo giusto spazio nelle opere più propriamente letterarie, in modo particolare, nel
teatro Il testo giustamente più celebrato è la Mandragola, commedia scritta
probabilmente nel 1519. L’intreccio: la giovane e casta Lucrezia è sposata con il
vecchio e ingenuo messer Nicia che da lei desidera un figlio; di Lucrezia è innamorato
anche l’ardente Callimaco. Questi, fingendosi medico, convince Nicia che, nonostante
l’età avanzata, potrebbe avere felicemente un erede grazie ad una pozione a base di
un’erba, la mandragola che però ha un’unica controindicazione quella di essere un
veleno potente che uccide il primo uomo che si congiunge con la donna che ne ha fatto
uso (continua).

(continua) Bisogna pertanto ricorrere a una ‘controfigura’ che si unisca a Lucrezia.


Grazie ad una serie di sotterfugi e travestimenti ben architettati, Callimaco riesce a
farsi passare per il malcapitato e ad unirsi all’amata nell’inevitabile lieto fine. Il testo,
scritto in una lingua vivace che riflette spesso gli usi del vernacolo fiorentino, dimostra
da una parte l’aderenza a temi e situazioni della novellistica propria della tradizione
italiana; dall’altra presenta una struttura in cui si riconoscono le strutture della
commedia classica romana: in modo particolare Machiavelli ha ben presente il teatro
di Terenzio (del quale traduce l’Andria) e di Plauto (sulla cui falsariga scrive la Clizia).

Il gusto per la novella emerge in maniera evidente nella piacevole ‘favola’ Belfagor
arcidiavolo. La trama: il re dell’inferno, Plutone, invia sulla terra il diavolo Belfagor per
verificare se le donne sono una sciagura tale da rendere la vita matrimoniale peggiore di
quella dell’inferno. Giunto in terra, Belfagor sposa una fiorentina che, a causa di spese
e capricci, lo costringe a contrarre fortissimi debiti. Inseguito da creditori, viene tratto in
salvo dal contadino Gianmatteo che viene ricompensato dalla promessa di Belfagor di
farlo diventare ricco. Infatti, con la complicità del diavolo, Giammatteo si finge
esorcista, e scacciando dal corpo delle donne Belfagor che in esse si insinua, chiede
poi un compenso in denaro per questo servizio (continua).
(continua) Alla fine Giammatteo, diventato finalmente ricco, decide di non voler più
interrompere questa collaborazione con il diavolo e così Belfagor decide di vendicarsi
penetrando nel corpo della figlia del re di Francia e non volendo più uscire da lei.
Giammatteo che non riesce a liberare la ragazza viene condannato a morte dal re.
Tuttavia, con un’astuzia il contadino riesce a ribaltare la situazione: fa credere a
Belfagor che la moglie che aveva avuto sotto spoglie mortali lo stia cercando per fargli
rendere conto delle sue azioni. Il povero diavolo non può far altro che fuggire per
sempre nell’aldilà liberando la ragazza e concludendo che, in fondo, è meglio l’inferno
che il ‘giogo matrimoniale’.

GUICCIARDINI

Oltre a Machiavelli, l’altra grande voce del pensiero storico e politico del primo
Cinquecento è quella di Francesco Guicciardini. Nato a Firenze nel 1483 da una delle
famiglie più ricche e impegnate nella vita civile, Guicciardini viene avviato agli studi
giuridici, in cui più tardi si laurea. Il matrimonio con la figlia di Alamanno Salviati
fornisce al giovane ambizioso l’occasione per far carriera politica velocemente nella
sua città dimostrando immediatamente una vistosa ostilità nei confronti del governo
repubblicano. In questi anni infatti scrive le Istorie fiorentine palesando una posizione
dichiaratamente aristocratica, critica soprattutto nei riguardi del gonfaloniere Pier
Soderini, allora reggitore ‘popolare’ di Firenze.

Guicciardini conduce la sua carriera diplomatica principalmente tra la Spagna e l’Italia.


Alla caduta della repubblica fiorentina (1512) torna in città dove ottiene dal papa,
Leone X Medici, prestigiosi incarichi nella Romagna pontificia. Verso la metà degli anni
’20 ricopre un ruolo fondamentale nella promozione della lega di Cognac tra il Papa, la
Francia e alcune città italiane in funzione antimperiale. Nel 1527, dopo il sacco di
Roma, i Medici vengono nuovamente scacciati da Firenze e viene istaurata una nuova
repubblica e Guicciardini, vicino ai Medici, è guardato con sospetto in città, si ritira
pertanto in una sua proprietà dove, passato dagli onori di una vita pubblica agli ozi
forzati della campagna, si dedica all’attività letteraria. Risale a questo periodo la
stesura definitiva dei Ricordi.

Nel 1530 Guicciardini rischia il carcere essendosi inimicato la parte più accesa del
governo popolare, fugge pertanto a Roma e si rifugia presso il Papa. Tuttavia nell’estate
di quello stesso anno, grazie all’intervento delle truppe imperiali, la situazione si
ribalta: la repubblica fiorentina cade nuovamente e i Medici possono rientrare
finalmente in città. Con la restaurazione del potere mediceo anche Guicciardini può
finalmente far ritorno a Firenze da Roma e ottiene dal Papa Clemente VII, nel 1531,
l’incarico di riorganizzare il governo della città dopo l’esperienza repubblicana
rendendo sicura la reggenza di Alessandro de’ Medici.
Anche sotto il duca Cosimo I, negli anni che vanno dal 1537 al 1540, Guicciardini
ricopre una posizione di rilievo nell’ambito di incarichi civili importanti. La politica del
duca Cosimo è tuttavia di indirizzo sostanzialmente filoimperiale, di fatto lontano da
quello dello scrittore, più prossimo a posizioni aristocratiche e, soprattutto, vicino al
Papa. Guicciardini, pur mantenendo cariche onorifiche, viene di fatto estromesso
dall’esercizio dell’attività politica. In questo periodo, nel ritiro della sua villa di S.
Margherita in Montici, attende alla stesura della Storia d’Italia, opera che lo impegnerà
fino alla sua morte avvenuta nel maggio del 1540.

L’intensa attività civile di Guicciardini si riversa direttamente nelle sue opere politiche e
storiografiche Le Istorie fiorentine (1509) sono la descrizione dei fatti ultimi avvenuti
nella città toscana ma si possono facilmente intendere come l’opera militante di un
aristocratico che condanna sia la politica tirannica dei Medici sia, e in modo
particolare, il governo popolare del Soderini. Dell’esperienza di Spagna, dove si trova
per due anni (1512-14) come ambasciatore di Firenze presso il re Ferdinando,
rimangono il Diario di viaggio in Spagna e la Relazione di Spagna, dettagliati e preziosi
ragguagli sulla situazione politica fuori d’Italia.

La Storia d’Italia, scritta in pochi anni tra il 1537 e il 1540, è l’opera che Guicciardini
scrive alla fine di una lunga carriera politica e diplomatica, segnata da importanti
episodi. La trattazione storica riguarda fatti recenti e quasi contemporanei all’autore, e
copre il periodo compreso tra la morte del Magnifico e l’elezione di Paolo III (1534).
L’opera è rigorosa e dimostra una particolare attenzione per le fonti documentarie alle
quali l’autore poteva accedere direttamente negli archivi fiorentini. La Storia è una
netta presa di coscienza della crisi politica italiana: a differenza però della vivace
reattività di Machiavelli, in Guicciardini prevale una visione disillusa e pessimistica cha
fa emergere il ritratto di un’Italia sostanzialmente incapace di far fronte al fallimento
nel quale si trova.

Di diverso tenore rispetto alle opere storiografiche, progettate per una larga e rapida
divulgazione, i Ricordi sono una raccolta di massime disomogenee e casuali
(‘ghiribizzi’, secondo la definizione di Guicciardini stesso) che costituiscono una sorta
di diario privato, non pensato, almeno inizialmente, per la pubblicazione. La
composizione dell’opera è lunga e laboriosa: la ricostruzione filologica ha dimostrato
l’esistenza di almeno tre redazioni d’autore dal 1512 al 1530. Entro questo arco di
tempo Guicciardini ritorna molte volte sui suoi quaderni, rivedendo e correggendo i
propri pensieri, modificandoli spesso nella forma e nella quantità (nella versione finale
se ne contano 221).

Ricordi si legano a modelli molteplici, da quello classico della raccolta di pensieri


filosofici a quello genuinamente fiorentino delle ‘ricordanze’ e dei libri di famiglia. Gli
argomenti affrontati nell’opera sono i più disparati e spaziano da riflessioni esistenziali
(la vita, la morte, la sorte) a divagazioni di carattere storico e politico. Sia che queste
derivino da un’esperienza privata o autobiografica, sia che siano ispirate da
avvenimenti tratti dal passato o dalla cronaca, domina un senso generale di crisi e di
rassegnato ripiegamento verso la riflessione interiore: l’autore, sfiduciato dalla
situzione politica e morale dell’Italia contemporanea, trova così spazio e realizzazione
per la sua arte nella dimensione del privato e del ‘particulare’.

LA STORIOGRAFIA MINORE

La produzione storiografia e politica del secolo XVI, oltre ai casi illustri di Machiavelli e
Guicciardini, presenta un’interessante attività letteraria che si dimostra in forme e in
strutture differenti. Da una parte permane il retaggio umanistico delle grandi opere in
latino di gusto erudito ed antiquario anche quando si tratta di cronaca contemporanea,
sono in genere sostenute da una buona preparazione umanistico-filologica. I modelli a
cui si rivolge questo genere di letteratura sono quelli eccellenti della storiografia
quattrocentesca, da Biondo Flavio a Leonardo Bruni a Enea Silvio Piccolomini. Manca
però di solito a questa produzione la riflessione critica degli umanisti e spesso, nei casi
peggiori, essa si limita a lunghissime e vacue descrizioni di episodi o a ritratti di
personaggi che non aggiungono nulla alla valutazione storica.

D’altronde si assiste sempre più spesso ad ampie produzioni in volgare, che non sono
più di interesse cittadino o privato come spesso accadeva nel Trecento e nel
Quattrocento (le ‘ricordanze’ fiorentine e i ‘libri’ di famiglia) ma si allargano alla storia di
un intero stato o di un intero periodo. In alcuni casi si tratta di traduzioni di opere latine
(si dà il caso limite di Bembo che scrive prima in latino le Historie venetae e poi le
traduce in italiano); in altri si tratta di testi nuovi ed originali. Sono moltissimi gli episodi,
in un caso e nell’altro, in cui si deve parlare di lavori su commissione, assegnati ai
letterati da personaggi politici a scopi apologetici o propagandistici.

GIOVIO E SANUDO

Tra gli autori che si rifanno ai modelli umanistici si distinguono in maniera particolare
Paolo Giovio (1483-1552) e Marin Sanudo (1466-1535), esempi rispettivamente della
produzione storica della Roma papale e della Venezia repubblicana. Il comasco Paolo
Giovio arriva a Roma attorno al 1509 dopo aver ricevuto una raffinata educazione
umanistica e scientifica (poteva esercitare la professione medica). Abbracciata la
carriera ecclesiastica gode di un’ininterrotta protezione papale e viene incaricato di
viaggi e missioni in tutta Europa. A fianco ad una produzione letteraria di genere
biografico e aneddotico (gli Elogia dei contemporanei illustri), l’opera più organica di
Giovio sono i colossali Historiarum sui temporis libri XLV ai quali l’autore lavora per
quasi trent’anni e che interessano analiticamente un periodo storico compreso tra il
1494 e il 1547.

Nei suoi monumentali Diarii, Marin Sanudo descrive la Venezia di un aristocratico


facente parte dell’oligarchia di una città al suo massimo splendore economico e
politico. Nei 58 volumi in-folio che costituiscono l’edizione dei Diarii, vengono
raccontati con rigore annalistico tutti i fatti avvenuti in città dal gennaio del 1496 al
settembre del 1533. La raccolta del Sanudo è una fonte inesauribile di notizie e
documenti storici, economici e letterari estremamente dettagliati che non trascurano
nemmeno ambiti circoscritti e settoriali come, ad esempio, quelli della navigazione o
del commercio. Pur nella dispersione dei Diarii, si riesce comunque a tracciare un filo
rosso che attraversa tutta l’opera e che orienta alla considerazione che l’autore ha per
Venezia, città dominatrice del Mediterrano, politicamente forte ed economicamente
prospera.

VETTORI, GIANNOTTI E ALTRI

Nell’ambito della produzione storiografica volgare sembra potersi rilevare un nucleo


particolarmente attivo che caratterizza la cultura fiorentina. Un politico di lungo corso
come Francesco Vettori (1474-1538), legato da amicizia con Machiavelli, ha lasciato
opere di un qualche valore letterario come il ragguaglio su una missione in Tirolo
(Viaggio in Alamagna) e, soprattutto, un Sommario della istoria d’Italia, composto dopo
il sacco di Roma dove è chiara la sua linea filomedicea e antiromana. Di estrazione
popolare ma di formazione umanistica e frequentazioni aristocratiche, Donato
Giannotti (1492-1537) è allo stesso tempo storico e teorico dello Stato, egli propone per
Firenze, prendendo in parte esempio da Venezia, una costituzione di tipo misto tra
‘grandi’, ‘mediocri’ e ‘popolani’ come rimedio per far fronte alla crisi di potere.

Altri nomi interessanti nel panorama della storiografia fiorentina sono quello di
Bernardo Segni (1504-1558), avverso alla linea aristocratica guicciardiniana, o Filippo
de’ Nerli (1484-1556) autore di alcuni Commentari sui fatti di Firenze nell’età di
Cosimo. Di Benedetto Varchi, forse il più autorevole letterato fiorentino del ‘500, autore
di rime, lezioni accademiche e trattati, è una Storia fiorentina che tratta gli anni
successivi al fatidico sacco di Roma. Infine Antonio Brucioli (1498-1566), noto
soprattutto per la sua traduzione della Bibbia), di tendenze fortemente antimedicee e,
in seguito, sostenitore della Riforma protestante, è autore di un importante Dialogo
della repubblica, opera, di stampo platonico e aristotelico, propugna un ordinamento
democratico dello stato caratterizzato da una netta ispirazione religiosa.

ALTRI STORICI E UTOPISTI

Fuori da Firenze, anche negli altri stati italiani, si rileva una certa attività nella
produzione storiografica e politica, tuttavia meno prolifica e meno rilevante rispetto a
quella della capitale medicea. A Venezia, oltre al lavoro di Bembo (le Historie venetae
libri XII poi tradotte dall’autore stesso) si distingue almeno l’opera Paolo Paruta che
stende negli ultimi anni del ‘500 una Historia venetiana. In Liguria Oberto Foglietta
(1518-81) compone il dialogo Delle cose della repubblica di Genova, vivacemente
antinobiliare e critico verso la politica di Andrea Doria. A Napoli, infine, dopo la caduta
del dominio aragonese, Angelo Costanzo (1507-91) scrive una Istoria del regno di
Napoli; poco più tardi, Camillo Porzio (1526-80) racconta la congiura dei baroni
napoletani ai danni di Ferdinando I.

Nel settore della trattatistica storico-politica merita una nota a parte il genere della
letteratura utopica che affonda le radici nel mondo classico (Platone ed Aristotele) ma
subisce fortemente il fascino delle notizie dei nuovi mondi che circolavano nell’età
delle scoperte. In essa si vagheggia una forma perfetta di governo, repubblicano e
democratico dove sono cancellate tutte le differenze tra gli uomini. Il testo
fondamentale è Utopia (1516), composto in latino dal cancelliere inglese Tommaso
Moro e tradotto in italiano da Ortensio Lando nel 1548. Anton Francesco Doni che
partecipa a questa pubblicazione è autore di un’opera di questo genere, I Mondi (1552-
53). Appartengono a questa letteratura, al limite tra la filosofia politica e il visionario,
anche La città felice (1533) di Francesco Patrizi e i Dialoghi dell’infinito (1583-90) di
Lodovico Agostini da Pesaro

LE BELLE MANIERE A CORTE

Per tutto il Cinquecento il comportamento della persona fu oggetto di attenzione.


Dietro questo interesse, o ansia, giaceva probabilmente il bisogno dell’élite,
minacciata dai cambiamenti politici, di difendere e mantenere la propria posizione per
distinguersi dalle altre classi sociali. Una produzione torrenziale di libri di consigli sul
comportamento di uomini e donne, sia nella società che in famiglia o a corte fu
stimolata dalla domanda di un pubblico in crescita, avido di essere guidato a una
condotta sociale e professionale corretta. Oltre che sull’individuo, gli autori di tali
opere potevano esprimere le loro opinioni sulla situazione dell’Italia in genere,
osservando che lo standard morale e sociale era minacciato dall’influenza del
Protestantesimo tedesco e dall’insistenza spagnola sul cerimoniale.

All’estero l’Italia era considerata un modello di comportamenti civilizzati e i libri sulla


corte esercitarono anche oltralpe la loro influenza. La maggiore opera nel genere, un
vivo resoconto della fase cruciale della civilizzazione del Rinascimento e insieme un
manuale pratico, fu Il libro del Cortigiano di Castiglione. Pur ottemperando ai suoi
doveri diplomatici e militari di cortigiano, l’autore aveva goduto dei colti piaceri
dell’ambiente della corte, ma aveva anche sofferto per l’instabilità delle corti italiane
davanti agli eserciti stranieri e per le tensioni causate dal dissidio tra le preferenze
personali e la fedeltà al proprio signore.

Castiglione cominciò a servire sotto il marchese di Mantova, Francesco Gonzaga. Nel


1504 si spostò alla corte di Urbino, forse meno importante politicamente ma più
rilevante dal punto di vista culturale, lavorando prima per il duca Guidobaldo da
Montefeltro e sua moglie Elisabetta Gonzaga e poi, alla morte del duca nel 1508, per
Francesco Maria della Rovere, nipote di Guidobaldo che però fu cacciato da Urbino nel
1516 da Lorenzo de’ Medici, sostenuto da papa Leone X. Questi eventi e il matrimonio
dello stesso Castiglione con una mantovana nel 1516, lo riportarono nell’orbita della
corte dei Gonzaga. Dopo la morte della moglie nel 1520, nel 1521 Castiglione divenne
chierico, avviandosi alla carriera ecclesiastica. Dopo aver accettato l’offerta di papa
Clemente VII del posto di nunzio apostolico alla corte spagnola, egli arrivò in Spagna
nel 1525, in un periodo di tensione diplomatica estrema che culminò col Sacco di
Roma. Morì a Toledo nel 1529.

Due anni prima di morire Castiglione aveva dato istruzioni di stampare il Cortegiano,
pubblicato a Venezia nel 1528. Il testo divenne un bestseller europeo, immediatamente
tradotto in spagnolo (1534) e francese (1537). Era stato a lungo revisionato, secondo i
precetti classici di ricerca formale. Si possiede un’ampia documentazione relativa alle
varianti (studiate in particolare da Ghino Ghinassi), molte delle quali, della mano di un
esperto delegato proprio da Castiglione, tendono ad adeguare la scrittura (grafie,
fonomorfologia, ecc.) allo standard linguistico stabilito da Bembo.

Egli scelse di non scrivere un trattato e insegnare attraverso singoli precetti ma,
rinnovando un piacevole ricordo (I.1) e insieme aderendo al genere colto del dialogo
platonico-ciceroniano, volle raccontare delle conversazioni che, come egli dice,
ebbero luogo a Urbino nel marzo 1507. Da subito, l’opera fu intesa come un affezionato
tributo al vecchio duca e all’amorevole compagnia degli eccelsi personaggi della sua
corte. Indubbiamente, ambientando il trattato in un’età ormai passata, egli idealizza sia
la corte sia l’immagine del cortigiano che si accinge a costruire.

Il Cortegiano è organizzato in quattro libri, ciascuno descrive la conversazione di una


sera, così che il sovrapporsi dei punti di vista dei personaggi è un esempio vivo di come
una società di corte dovrebbe essere. Ciascun libro ha uno o due interlocutori principali
cui si chiede di condurre una discussione su un tema specifico, e che a volte sembrano
esporre il punto di vista dello stesso Castiglione che ad ogni modo cerca di evitare un
tono didattico. Infatti i principali interlocutori sono quasi tutti frequentemente interrotti
e contestati, le discussioni possono condurre a digressioni, l’uso della forma del
dialogo può essere usata per suggerire che non c’è una chiara risposta a questioni
spinose, e Castiglione fa sì che il consenso in precedenza raggiunto su un argomento
sia contraddetto nella discussione successiva

La prima sera il conte Ludovico di Canossa è scelto per “formare” con le parole un
perfetto cortigiano. Le prime due importanti qualità che egli identifica sono la nobiltà di
nascita e la grazia. Dall’inizio viene chiarito che la funzione del cortigiano è di servire il
signore in ogni ragionevole modo (I.1), e questi due attributi lo aiuteranno a raggiungere
il suo scopo rendendolo capace di fare una buona prima impressione. Nello spiegare
come si acquista la grazia, Canossa dice che è necessario il buon giuditio. La regola
principale è evitare l’affettazione, ricorrendo a quella che egli chiama sprezzatura: una
sorta di calcolata noncuranza, una via di mezzo tra casualità e seriosità, un’arte che
nasconde l’arte (I.26). Ciò conduce a un acceso dibattito sull’affettazione a livello di
scelte linguistiche.

Il cortigiano ‘ideale’ di Canossa dovrebbe essere di famiglia nobile, dovrebbe avere una
preparazione fisica, soprattutto militare, le armi devono essere la sua principale
occupazione, sebbene la sua conoscenza di quest’arte non dovrebbe essere quella di
un capitano di professione e dovrebbe evitare ogni ostentazione (I.17). Egli dovrebbe
anche possedere talento nell’ambito delle lettere, della musica e delle belle arti. Le
qualità morali del cortigiano sono elencate brevemente (I.41), ma l’intenzione di
Castiglione è sviluppare questo argomento più tardi.

La sera successiva la discussione è guidata da Federico Fregoso che è incaricato di


spiegare come e quando il cortigiano dovrebbe fare uso delle qualità descritte da
Canossa, le sue tesi si fanno più pragmatiche, perfino opportunistiche. Ad esempio, il
cortigiano dovrebbe fare in modo di realizzare i suoi atti eroici sotto gli occhi del suo
signore; egli dovrebbe guardarsi dal rendersi ridicolo quando compete con i subordinati
socialmente o quando danza in pubblico (II.8-11); gli è consentito un po’ di artificio nel
coltivare la propria immagine (II. 39-40). Fregoso poi porta la discussione intorno alla
questione che riguarda i rapporti del cortigiano con il principe e di quale deve essere il
suo scopo principale: il cortigiano deve essere compiacente con il suo signore e seguire
i suoi desideri, finché gli facciano onore.

Il cortigiano dunque, nei limiti dell’obbedienza deve eseguire gli ordini in cose che
fanno onore al principe e, come Machiavelli, Fragoso avverte che alcune cose
all’apparenza buone sono in realtà malvage e viceversa, così che un buon fine può
giustificare mezzi violenti. Quando gli si chiede di chiarire la differenza, egli rinuncia
(II.23): una reazione deludente, forse, ma almeno Castiglione ha portato all’attenzione
una linea di pensiero non convenzionale. Fregoso sposta la conversazione sulle
relazioni sociali del cortigiano con i suoi colleghi e sull’importanza di una buona
reputazione, vista nella logica del doversi guadagnare i favori del principe (II.32).

La discussione solleva così difficili questioni: come separare il giusto dallo sbagliato e il
vero dal falso. Fregoso nella sua incertezza non può altro che fare implicitamente eco a
Canossa nel libro I consigliando i cortigiani di seguire l’ideale aristotelico
comportandosi con una certa mediocrità (cioè con moderazione: II.41). A questo punto
Bernardo Bibbiena assume il ruolo di guida per parlare ampiamente su come
intrattenere con spirito la compagnia di qualcuno. Egli identifica e illustra tre tipi di
facezia: narrazione lunga urbana e piacevole al modo di una novella, la risposta
spiritosa secca e puntuta, e la burla o inganno.

Sebbene i principali interlocutori nel Cortegiano siano tutti uomini, le donne giocano un
ruolo importante nel libro: innanzi tutto come partecipanti al dibattito (la duchessa
Elisabetta e la sua nobile parente Emilia Pio, che sono costantemente presenti,
mantengono una piacevole atmosfera e intervengono gentilmente ma fermamente a
mantenere la discussione entro i limiti del decoro) e inoltre, come oggetto di
discussione nel libro III e, indirettamente, nel libro IV. Castiglione era particolarmente
interessato alla condizione e al ruolo della donna (ben inteso, dell’alta società) e aveva
già abbozzato uno studio su tale questione all’incirca fra il 1506 e il 1509. Alla fine del
secondo libro egli indirizza la discussione sulle battute di spirito e le novelle di
Boccaccio sulle questioni del rispetto dovuto alla donna e del vero amore.

La terza sera la duchessa affida a Giuliano de’ Medici il compito di descrivere una
perfetta donna cortigiana o donna di palazzo. Giuliano è sostenuto da Cesare Gonzaga.
Argomenti anti-femministi sono proposti invece da Gasparo Pallavicino e Nicolò Frigio,
così che sono rappresentate entrambe le posizioni della querelle des femmes. Per
Giuliano, l’uomo e la donna sono uguali nelle loro qualità essenziali; le differenze fra i
sessi sono intese come complementari per natura (III.12-14). Nel contesto delle corti,
Gonzaga dichiara che le donne sono fondamentali perché recano con sé bellezza e
felicità, e sono inoltre capaci di tirar fuori grazia e coraggio dal cortigiano maschio (III.3,
52-2).

La qualità principale richiesta dalla donna di palazzo è una certa piacevole affabilità,
così che lei possa intrattenere l’uomo con il suo discorso. Come la sua controparte
maschile, ella deve raggiungere una certa difficile mediocrità (una via di mezzo) fra
ritrosia e apertura (III. 5). Nella seconda parte della discussione Giuliano dispensa
consigli alle donne su come distinguere i veri innamorati dai falsi e come ricambiare
l’amore (egli marca il confine sui rapporti extraconiugali perfino per le mogli non
amate), e poi consiglia gli uomini su come conquistare e conservare l’affetto di una
donna.

Fino a questo punto l’attenzione è andata alle attitudini esteriori del cortigiano maschio
e femmina e alle loro mutue relazioni. Ci sono stati solo riferimenti volanti alla
questione, sollevata nel libro I, 1, di come usare queste attitudini al servizio del
principe, e in analogo modo e la vita interiore del cortigiano è stata praticamente
ignorata. Tutte e due le omissioni vengono colmate nell’ultima serata. Fregoso, dopo
aver creato l’attesa giungendo in ritardo, osserva che finora il compito del perfetto
cortigiano non è stato discusso. Le qualità del cortigiano non sono buone in se stesse
ma devono essere usate per guadagnare la benevolenza del principe in modo che il
cortigiano possa e voglia dire sempre la verità al principe su una qualsiasi materia
questi desidera conoscere, senza paura o pericolo di contrariarlo (IV.5).

Il cortigiano ha il compito importante di dirigere il principe lontano dall’arroganza e


lungo l’austera via della virtù (IV.10) diventando la guida del principe (institutor del
principe IV.47). Allo stesso modo la donna di palazzo potrà agire come consigliera dei
suoi ministri (IV.45). Ottaviano si addentra (IV.19-35) anche nella questione della
miglior forma di governo, optando per la monarchia piuttosto che per la repubblica e
insistendo sulla virtù del governante e sul carattere pacifico del suo regime che deve
evitare guerre d’aggressione e suscitare l’unione fra le classi (grazie a un senato e a un
consiglio popolare), assicurare la giustizia e la stabilità (come certi utopisti, egli vide il
denaro e la mancanza di esso come la radice di ogni male). Il tono è mantenuto elevato
anche quando l’attenzione slitta verso le personali aspirazioni del cortigiano. Bembo,
l’autore degli Asolani, usa la dottrina neoplatonica per dimostrare come il cortigiano
più maturo può progredire in meglio dalla contemplazione della bellezza di una donna
verso l’amore per la bellezza divina.

LA NOVELLA DEL ’500

La prosa d’arte cinquecentesca raggiunge risultati notevoli nella fiorente produzione


novellistica, estremamente vivace e creativa. Il genere delle novella, breve racconto in
prosa di carattere normalmente brillante o sentimentale, ben si adatta alle abitudini e
ai gusti dell’Italia comunale e signorile. Sia nelle corti nobiliari dell’Italia del Nord, dove
l’intrattenimento ha una ben precisa funzione sociale, sia nelle realtà comunali
dell’Italia centrale, la novella trova nella lingua volgare la sua forma espressiva più
confacente. In età umanistica non erano mancati infatti esempi di novelle
estremamente raffinate scritte in latino sul modello classico, ma il modello su cui si
basa la produzione cinquecentesca è quello volgare della fine del Duecento e,
soprattutto, del Trecento.

La tradizione narrativa breve è antica nella letteratura italiana: un esempio illlustre è


quello del Novellino, raccolta duecentesca riscoperta e pubblicata proprio nel primo
’500, ammirata per la lingua e imitata nei soggetti e nelle trame. Prescindendo da
questi episodi, pur importanti nella storia della cultura letteraria, il modello più
autorevole, resta comunque il Decameron di Boccaccio, soprattutto dopo che Bembo
nelle Prose della volgar lingua aveva indicato il volgare del certaldese come modello
unico per la produzione in prosa. Dalle novelle di Boccaccio deriva non solo un ampio
repertorio di situazioni che finisce per tipizzarsi (il frate imbroglione, la moglie infedele e
il marito credulone) ma anche una resa formale stilisticamente raffinata e vivace,
capace di toccare tutti i registri della lingua, dai preziosismi descrittivi ai registri più
bassi del parlato.

La produzione novellistica del ’500, pur presentando tratti unitari come la brillantezza
dei temi, il gusto per il particolare curioso ed esotico, la complessità degli intrecci e,
soprattutto, la totale adesione al volgare boccacciano, presenta tuttavia aspetti diversi
a seconda dei gusti del pubblico a cui si rivolge. Anche se non è possibile tracciare
delle linee di demarcazione troppo nette, è ancora utile una distinzione che individua
due grandi linee nella letteratura novellistica, quelle ‘cortigiana’ e quella ‘comunale’. La
corrente ‘cortigiana’, più raffinata nei temi e caratterizzata da una lingua sorvegliata e di
livello ‘medio’, si sviluppa principalmente nelle corti signorili dell’Italia settentrionale e
viene perfettamente incarnata nelle opere del Bandello.
La tendenza della novella ‘cortigiana’ è quella di prediligere i soggetti ‘alti’ patetici o
fiabeschi, con personaggi eroici (e anche tragici) generalmente appartenenti agli
ambienti di corte. Decisamente più vivace e realistica è invece la linea della novella
‘comunale’, caratteristica dei narratori toscani: le trame diventano più salaci,
l’ambientazione passa dalle corti alla città e la lingua è estremamente duttile con
escursioni espressive che raggiungono anche gli strati più corrivi del parlato popolare.
Ricompaiono, soprattutto nei novellieri fiorentini, temi classici della tradizione
narrativa trecentesca come la beffa (o ‘giarda’ o ‘natta’) perpetrata ai danni di un
ingenuo sprovveduto, soggetto molto fortunato nel Decameron e felicemente ripreso,
per es. nella quattrocentesca Novella del Grasso legnaiuolo.

Esempio tipico di novella a soggetto cortigiano è quello che caratterizza l’opera del
lombardo Matteo Bandello (1485-1561). Di nobile famiglia, è ordinato sacerdote
nell’ordine domenicano ma nella Milano ducale degli inizi del ’500 può condurre una
vita mondana abbastanza attiva, stringendo relazioni con i Bentivoglio e gli Sforza.
Dopo l’esilio in Francia a causa delle sue simpatie sforzesche, Bandello passa al
servizio di Francesco Gonzaga e di Isabella d’ Este nella sontuosa corte mantovana
dove rimane fino al 1522. Ritornato a Milano, abbandona in maniera definitiva la vita
conventuale per diventare cortigiano con il ruolo di segretario di Cesare Fregoso. Dopo
l’omicidio di quest’ultimo di posizioni avverse all’imperatore, Bandello segue la vedova
Costanza Rangone in esilio ad Agen dove viene nominato vescovo e dove rimane fino
alla morte.

MATTEO BANDELLO

L’esperienza di vita cortigiana maturata da Bandello nelle più splendide corti italiane si
ritrova, nelle sue Novelle, organizzate in quattro parti per un totale di 214 racconti. I
personaggi creati da Bandello sono generalmente quegli stessi aristocratici che
l’autore frequenta abitualmente, legati fra loro da storie passionali e tragiche come
quella, celeberrima, di Ugo e Parisina, una drammatica storia d’amore consumatasi nel
Quattrocento presso la corte estense di Ferrara. Nell’impianto, a differenza del modello
boccacciano seguito dalla maggior parte degli autori cinquecenteschi, le novelle del
Bandello non si inseriscono entro una ‘cornice’ narrativa ma vengono raccolte
liberamente senza una precisa logica di ordinamento. Il ritmo è quasi cronachistico, lo
stile impiega toni linguistici ed espressivi medi e ben governati.

GIOVAN BATTISTA GIRALDI CINZIO

Negli ambienti cortigiani del nord Italia si colloca ancora il ferrarese Giovan Battista
Giraldi Cinzio (1504-73), prolifico autore di novelle e di opere teatrali. La formazione
universitaria di Giraldi, è inizialmente comprensiva di retorica e di scienze naturali
(eserciterà la professione medica e assisterà nella malattia l’Ariosto quasi fino alla
morte) ma i suoi interessi sono prevalentemente umanistici. Insegna prima filosofia poi
retorica presso lo Studio ferrarese e compone fin dalla giovinezza epigrammi in latino e
poemetti d’occasione in esametri per la corte estense. La moda aristocratica,
inaugurata dal Trissino, della tragedia di materia classica spinge Giraldi a cimentarsi
anche in questo campo: tra le molte opere per la scena (Didone, Cleopatra, Altile) la più
celebre è sicuramente l’Orbecche, truce tragedia di ambiente persiano condotta sulla
linea senecana della rappresentazione del terribile e dell’orrido.

Tuttavia la produzione più felice del Giraldi è quella novellistica che si traduce negli
Ecatommiti, raccolta stampata nel 1565 a Mondovì, dove l’autore, accolto alla corte di
Emanuele Filiberto di Savoia, si era trasferito. Sul modello del Decameron, una cornice
fittizia racchiude le 113 novelle che compongono l’opera, l’autore in questo caso
immagina che le novelle vengano raccontate da un gruppo di giovani che, in fuga dalla
peste scoppiata dopo il sacco di Roma, si dirigono per nave a Marsiglia. Si nota in
Giraldi un notevole interesse per le ambientazioni storiche nelle quali inserisce le sue
storie tragiche, come quella che darà lo spunto all’Otello shakespeariano.

FORTINI E IL LASCA

Due chiari esempi della prosa narrativa ‘comunale’ si identificano generalmente in


Pietro Fortini (1500-’62) e, soprattutto, in Antonfrancesco Grazzini, noto come il Lasca
(1503-’84). Senese di nascita e di estrazione popolare, Pietro Fortini è autore di una
raccolta di novelle pubblicata con il titolo di Novelle de’ novizii divisa in due sezioni
principali: Le giornate delle novelle de’i novizi e Le piacevoli et amorose notti dei novizi.
Il tenore di quest’opera è quello della letteratura licenziosa con un evidente gusto per le
situazioni ambigue e per l’osceno, spesso rielaborate su temi boccacceschi che
vengono riproposti in chiave ancora più libertina.

Di livello letterario superiore sono le Cene del Lasca. L’autore, fiorentino proveniente
da studi irregolari, è un membro fondatore dell’Accademia degli Umidi che si sarebbe
presto trasformata, nella più seria, Accademia Fiorentina. Secondo la moda della
Firenze dell’epoca e compatibilmente con il suo carattere, scrive il libro di Rime
burlesche e salaci, alcune commedie e, soprattutto, una raccolta di novelle, Le cene. Il
titolo deriva dalla cornice: si immagina infatti che esse siano raccontate durante tre
banchetti serali nel periodo del Carnevale. L’ambientazione delle storie è quasi
esclusivamente fiorentina (o più in generale toscana) mentre nei temi si rileva in modo
singolare un’inclinazione per il genere della ‘beffa’ narrata sempre in toni di piacevole
realismo.

FIRENZUOLA

La figura di Angelo Firenzuola (1493-49) si distingue nettamente nell’orizzonte dei


novellatori toscani per la sua raffinata eleganza nell’uso del volgare e per una
tendenziale indipendenza rispetto ai modelli classici del genere. Le agiate condizioni
della famiglia gli permettono di frequentare buoni studi nel campo del diritto; entrato
nell’ordine vallombrosano approda, seppure con fortune alterne, alla Curia romana e si
dedica alle lettere. È celeberrima una sua traduzione (e, in parte, rifacimento)
dell’Asino d’oro di Apuleio: completata attorno al 1525 è un importante esercizio
linguistico e stilistico sulle possibilità del volgare, da lui inteso in maniera classicista e
rigorosamente rispettosa degli usi regolari.

Gli interessi letterari del Firenzuola sono moltissimi e vanno dalla trattatistica
cortigiana (ebbe gran fortuna un Dialogo della bellezza delle donne) alle favole
esotiche: traduce infatti, grazie ad una versione spagnola, una raccolta di fiabe indiane
pubblicata con il titolo di Prima veste de’ discorsi degli animali. Il suo capolavoro sono
comunque i Ragionamenti d’amore (1525). Nel progetto iniziale dell’autore l’opera
doveva contenere 36 novelle divise in sei giornate, delle quali però Firenzuola riesce a
completarne solamente una. Lo stile delle sei novelle è garbato e raffinato, e affronta
con eleganza temi e modelli dell’amor cortese con divagazioni argute e fluide
conversazioni che, nella finzione narrativa, si immaginano essere avvenute in una villa
gentilizia del contado fiorentino.

STRAPAROLA

Un filone di novellistica piuttosto singolare e meritevole di attenzione è quello che


affronta temi fantastici e fiabeschi, spesso estranei alla tradizione occidentale ma
sicuramente efficaci e capaci di esercitare un grande fascino sul lettore dell’epoca.
Oltre alla già citata Prima veste dei discorsi degli animali del Firenzuola, apologhi
animaleschi di origine indiana trasportati dall’autore in ambientazione toscana, è
opportuno ricordare l’opera di Giovan Francesco Straparola (1480?-’1558?) Lombardo,
di Caravaggio, passa probabilmente parte della sua vita a Venezia ma non si hanno dati
biografici certi, è nota invece la sua produzione letteraria costituita da un modesto libro
di Rime e, soprattutto, da una raccolta di novelle con il titolo Le piacevoli notti.

Le piacevoli notti, pubblicate a Venezia in due parti tra il 1550 e il 1553, sono nella
struttura, un testo apparentemente molto convenzionale: le novelle sono infatti
raccolte all’interno della tradizionale cornice, questa volta ambientata sull’isola di
Murano dove una brigata di gentiluomini si è ritirata per il Carnevale (tra questi figurano
personaggi reali come Bembo). La prima sezione dell’opera tuttavia contiene una
raccolta di fiabe di sapore innovativo che la rendono quasi unica nel panorama
letterario dell’epoca. Si ritrovano infatti una serie di elementi magici e fantastici, come
le fate o prodigiose metamorfosi, di origine probabilmente orientale o nordica e
comunque del tutto assenti nella cultura italiana. Le altre novelle sono più ‘di genere’
tra queste si distinguono una in dialetto bergamasco e un’altra in padovano.

FORTUNA EUROPEA DELLA NOVELLA

Concludendo si può affermare che, il genere tipicamente italiano della novella ha una
particolare fortuna nella prospettiva della letteratura europea. Capaci di adattare tutti
gli elementi disponibili, da quelli classici a quelli della tradizione trecentesca a quelli
più esotici del lontano Oriente, i novellieri del ’500 hanno creato un tipo e un ‘modo’ di
raccontare che ebbe molta fortuna, capace di adattarsi a tutte le situazioni, dalle corti
signorili ai liberi Comuni. Traccia di questa fortuna è la straordinaria produttività degli
autori e la enorme diffusione avvenuta non solo attraverso la stampa ma anche grazie
ad una sommersa ma cospicua tradizione manoscritta (in molti casi, per motivi religiosi
o politici, certe novelle non potevano passare in tipografia e le prime edizioni risalgono
soltanto al secolo scorso).

Le novelle diffuse nella lingua di Boccaccio, raggiungono un pubblico che non è solo
quello italiano. In molti casi conoscono delle traduzioni (soprattutto in francese, è il
caso per es. delle Piacevoli notti) e vengno conosciute anche presso le letterature
europee, costituendo un serbatoio di temi e soggetti imitati per secoli. Il ‘riuso’ di
materiale novellistico è particolarmente abbondante nella produzione teatrale con una
fortuna destinata a durare per secoli. È noto infatti che elementi della novella italiana
cinquecentesca si ritrovano ad esempio nelle opere di Shakespeare, in alcuni casi in
maniera inequivocabile: l’Otello è derivato probabilmente da Giraldi, mentre altri testi
come Romeo e Giulietta, Molto rumore per nulla o La dodicesima notte trovano i loro
diretti precedenti nelle Novelle di Bandello.

ARIOSTO: IL TEATRO

La passione per il teatro dei nobili della corte ferrarese, aveva stimolato una feconda
attività letteraria, promuovendo prima le traduzioni dei classici del genere e poi la
scrittura di opere originali, le une e le altre destinate a essere rappresentate nelle feste
di palazzo. Anche il giovane Ariosto, viene coinvolto in questa attività come attore,
traduttore, regista e, poi, come autore: anzitutto traduce due testi di Plauto e due di
Terenzio, in seguito si dedica alla stesura di commedie in proprio.

Nella prima fase della produzione teatrale ariostesca è evidente l’adesione ai modelli
classici e a schemi piuttosto tradizionali sul quale si innestano però temi propri del
genere novellistico italiano: appartengono a questo periodo la Cassaria (1508) e I
suppositi (1509), scritti inizialmente in prosa e per i quali verrà poi approntata
dall’autore una rielaborazione in versi. La terza e la quarta commedia di Ariosto, Il
negromante (1520) e Lena (1528), oltre ad una quinta rimasta incompiuta, I studenti,
segnano un cambio di direzione nella produzione teatrale dell’autore: vengono
abbandonate l’ambientazione e la tematica classica a favore di un avvicinamento alla
‘commedia di carattere’ disegnata attorno a personaggi che si muovono nella realtà
contemporanea e cittadina.

Il tratto principale di questo cambiamento risiede nella resa formale: le ultime opere di
teatro sono scritte in versi e non in prosa, come già le commedie latine di Plauto e
Terenzio (il metro è volgare e tendenzialmente prosastico: gli endecasillabi sdruccioli).
Il fatto non è casuale ma si inserisce in una dibattuta questione circa l’uso del volgare
nelle scritture drammatiche.

In altre parole, la scelta stilistica di Ariosto sembra finalizzata, dopo il crescente


interesse per la novità della commedia in prosa volgare, dallo stesso Ariosto al
Bibbiena al Machiavelli, ad un elevamento del genere, che, scritto in versi alla maniera
dei classici, sembrava poter meglio aspirare al rango di genere letterario ‘alto’.

Tra il XV e il XVI secolo la signoria ferrarese degli Estensi si distingue in modo singolare
nel panorama delle corti italiane non soltanto per lo straordinario splendore, ma
soprattutto per una singolare modernità e apertura verso tutte le forme d’arte, anche le
più innovative. Questo carattere ‘illuminato’ del potere estense ha favorito lo sviluppo
di un vivace laboratorio di esperienze letterarie dimostrandosi particolarmente
recettivo verso la letteratura cavalleresca e il teatro. In questo ambiente fertile per le
arti letterarie trova espressione ideale la creatività geniale di Ludovico Ariosto (1474-
1533). Nato, da genitori ferraresi, a Reggio Emilia (dove il padre svolgeva incarichi
amministrativi), dopo aver seguito la famiglia a Rovigo, nel 1484 si reca a Ferrara, sede
di un importante Studio (università) che richiamava matricole da tutta Europa, per
iniziarvi i suoi studi.

Presso l’università di Ferrara Ariosto si laurea nel 1493 in diritto, senza però mai
dedicarsi alla professione forense, ma preferendo in maniera esclusiva gli studi
letterari. Negli stessi anni comincia la frequentazione degli ambienti di corte con
impieghi nell’organizzazione degli spettacoli teatrali per i quali Ferrara è
all’avanguardia; in questa fase Ariosto volgarizza (ossia traduce) varie commedie di
Plauto e di Terenzio, importantissime nella sua formazione di scrittore teatrale. Ferrara
era in quegli anni frequentata da alcuni tra i più eminenti personaggi della cultura
europea: il giovane Ariosto ha così la possibilità di venire in contatto con le scuole di
filosofia (di indirizzo generalmente neoplatonico) e, soprattutto, di incontrare Bembo,
allora impegnato nella composizione degli Asolani, che lo stimola all’approfondimento
della sua cultura classica.

Nel 1500 entra definitivamente a servizio degli Estensi con importanti missioni di
rappresentanza a Mantova dove la ferrarese Isabella d’Este aveva dato un erede a
Francesco Gonzaga e, in seguito, a Roma: qui, nel 1510, si trova a fare da intermediario
tra la sua città (filofrancese) e il papa Giulio II (fortemente ostile al re di Francia contro il
quale aveva istituito la ‘lega santa’). Dopo il suo rientro a Ferrara, in un periodo di
relativa tranquillità, attende alla composizione della sua opera principale, l’Orlando
furioso. (I ed.: 1516). Nel 1517, quando il cardinale Ippolito d’Este gli chiede di seguirlo
in Ungheria insieme al resto dei suoi ‘familiari’ (gli uomini della sua corte), Ariosto
rifiuta rivendicando dignitosamente la propria indipendenza rispetto agli ambienti
cortigiani troppo ossequiosi e spregiudicati.
Entrato nell’entourage del fratello del cardinale, il duca Alfonso, Ariosto viene inviato
per tre anni in Garfagnana a capo di una guarnigione estense. Questo periodo,
trascorso in una regione impervia e inquieta a causa delle lotte interne e dell’attività dei
briganti, è molto difficile per Ariosto ed è reso ancora più penoso dalla lontananza
forzata dall’amata Alessandra Benucci. Ritornato a Ferrara nel 1525 e raggiunta una
certa stabilità economica, potendosi permettere, anche grazie ad un’eredità, di vivere
di rendita, si dedica quasi escusivamente alle lettere, continuando tuttavia una
moderata attività politica e diplomatica. In questi ultimi anni si occupa principalmente
della revisione del Furioso (III ed.: 1532) e, dopo una dolorosa malattia, muore a Ferrara
nel 1533.

Tra il XV e il XVI secolo la signoria ferrarese degli Estensi si distingue in modo singolare
nel panorama delle corti italiane non soltanto per lo straordinario splendore, ma
soprattutto per una singolare modernità e apertura verso tutte le forme d’arte, anche le
più innovative. Questo carattere ‘illuminato’ del potere estense ha favorito lo sviluppo
di un vivace laboratorio di esperienze letterarie dimostrandosi particolarmente
recettivo verso la letteratura cavalleresca e il teatro. In questo ambiente fertile per le
arti letterarie trova espressione ideale la creatività geniale di Ludovico Ariosto (1474-
1533). Nato, da genitori ferraresi, a Reggio Emilia (dove il padre svolgeva incarichi
amministrativi), dopo aver seguito la famiglia a Rovigo, nel 1484 si reca a Ferrara, sede
di un importante Studio (università) che richiamava matricole da tutta Europa, per
iniziarvi i suoi studi.

Presso l’università di Ferrara Ariosto si laurea nel 1493 in diritto, senza però mai
dedicarsi alla professione forense, ma preferendo in maniera esclusiva gli studi
letterari. Negli stessi anni comincia la frequentazione degli ambienti di corte con
impieghi nell’organizzazione degli spettacoli teatrali per i quali Ferrara è
all’avanguardia; in questa fase Ariosto volgarizza (ossia traduce) varie commedie di
Plauto e di Terenzio, importantissime nella sua formazione di scrittore teatrale. Ferrara
era in quegli anni frequentata da alcuni tra i più eminenti personaggi della cultura
europea: il giovane Ariosto ha così la possibilità di venire in contatto con le scuole di
filosofia (di indirizzo generalmente neoplatonico) e, soprattutto, di incontrare Bembo,
allora impegnato nella composizione degli Asolani, che lo stimola all’approfondimento
della sua cultura classica.

Nel 1500 entra definitivamente a servizio degli Estensi con importanti missioni di
rappresentanza a Mantova dove la ferrarese Isabella d’Este aveva dato un erede a
Francesco Gonzaga e, in seguito, a Roma: qui, nel 1510, si trova a fare da intermediario
tra la sua città (filofrancese) e il papa Giulio II (fortemente ostile al re di Francia contro il
quale aveva istituito la ‘lega santa’). Dopo il suo rientro a Ferrara, in un periodo di
relativa tranquillità, attende alla composizione della sua opera principale, l’Orlando
furioso. (I ed.: 1516). Nel 1517, quando il cardinale Ippolito d’Este gli chiede di seguirlo
in Ungheria insieme al resto dei suoi ‘familiari’ (gli uomini della sua corte), Ariosto
rifiuta rivendicando dignitosamente la propria indipendenza rispetto agli ambienti
cortigiani troppo ossequiosi e spregiudicati.

Entrato nell’entourage del fratello del cardinale, il duca Alfonso, Ariosto viene inviato
per tre anni in Garfagnana a capo di una guarnigione estense. Questo periodo,
trascorso in una regione impervia e inquieta a causa delle lotte interne e dell’attività dei
briganti, è molto difficile per Ariosto ed è reso ancora più penoso dalla lontananza
forzata dall’amata Alessandra Benucci. Ritornato a Ferrara nel 1525 e raggiunta una
certa stabilità economica, potendosi permettere, anche grazie ad un’eredità, di vivere
di rendita, si dedica quasi escusivamente alle lettere, continuando tuttavia una
moderata attività politica e diplomatica. In questi ultimi anni si occupa principalmente
della revisione del Furioso (III ed.: 1532) e, dopo una dolorosa malattia, muore a Ferrara
nel 1533.

La passione per il teatro dei nobili della corte ferrarese, aveva stimolato una feconda
attività letteraria, promuovendo prima le traduzioni dei classici del genere e poi la
scrittura di opere originali, le une e le altre destinate a essere rappresentate nelle feste
di palazzo. Anche il giovane Ariosto, viene coinvolto in questa attività come attore,
traduttore, regista e, poi, come autore: anzitutto traduce due testi di Plauto e due di
Terenzio, in seguito si dedica alla stesura di commedie in proprio

Nella prima fase della produzione teatrale ariostesca è evidente l’adesione ai modelli
classici e a schemi piuttosto tradizionali sul quale si innestano però temi propri del
genere novellistico italiano: appartengono a questo periodo la Cassaria (1508) e I
suppositi (1509), scritti inizialmente in prosa e per i quali verrà poi approntata
dall’autore una rielaborazione in versi. La terza e la quarta commedia di Ariosto, Il
negromante (1520) e Lena (1528), oltre ad una quinta rimasta incompiuta, I studenti,
segnano un cambio di direzione nella produzione teatrale dell’autore: vengono
abbandonate l’ambientazione e la tematica classica a favore di un avvicinamento alla
‘commedia di carattere’ disegnata attorno a personaggi che si muovono nella realtà
contemporanea e cittadina.

Il tratto principale di questo cambiamento risiede nella resa formale: le ultime opere di
teatro sono scritte in versi e non in prosa, come già le commedie latine di Plauto e
Terenzio (il metro è volgare e tendenzialmente prosastico: gli endecasillabi sdruccioli).
Il fatto non è casuale ma si inserisce in una dibattuta questione circa l’uso del volgare
nelle scritture drammatiche.

In altre parole, la scelta stilistica di Ariosto sembra finalizzata, dopo il crescente


interesse per la novità della commedia in prosa volgare, dallo stesso Ariosto al
Bibbiena al Machiavelli, ad un elevamento del genere, che, scritto in versi alla maniera
dei classici, sembrava poter meglio aspirare al rango di genere letterario ‘alto’.
ARIOSTO: LE SATIRE

E’ nella maturità che Ariosto scrive le Satire, composte a Ferrara tra il 1517 e il 1524 e
ristampate postume molte volte, riceveranno la definitiva consacrazione a modelli del
“genere” con l’edizione curata nel 1560 da Francesco Sansovino. Il modello di Ariosto è
dichiaratamente quello oraziano, l’imitazione delle Satire (e, in parte, delle Epistule)
dell’autore latino non è scontata nella prima metà del ’500 quando Orazio viene
piuttosto utilizzato come esempio nella poesia lirica. D’altra parte Ariosto ha trovato
nel genere epistolare e discorsivo della satira classica uno strumento a lui
perfettamente congeniale per affrontare una larga serie di temi che, partendo da uno
spunto occasionale o narrativo, possono essere sfruttati per considerazioni morali di
carattere universale ed esistenziale.

La prima delle Satire riguarda la partenza del cardinale Ippolito per l’Ungheria e il rifiuto
di seguirlo da parte di Ariosto; la seconda è la richiesta al fratello di una casa a Roma;
nella terza (dedicata al cugino Annibale Malaguzzi) viene esplicitato l’ideale dell’autore
di una vita orazianamente ritirata e moderata; la quarta racconta l’esperienza nella
selvaggia Garfagnana; la quinta parla delle donne e della vita coniugale; nella sesta si
chiede a Bembo un precettore per il figlio; nella settima si rifiuta un incarico presso la
corte pontificia.

Il tono delle Satire è sempre bonario e colloquiale e trova il suo metro ideale nella
disponibile terzina dantesca (un metro spesso utilizzato nel ‘400 per realizzare
componimenti poetici isolati, i cosiddetti capitoli*). L’autore si rivolge quasi sempre a
personaggi reali – anche se non mancano figure fittizie – utilizzando volentieri
l’apostrofe diretta e la narrazione in prima persona. Prevalgono situazioni di realismo,
con un marcato gusto per l’apologo morale (famoso quello dell’asino e del topo) e con
un andamento dei toni in piena conformità con la medietas del modello oraziano

ARIOSTO: IL ROMANZO

Se da una parte il teatro costituisce la grande passione della corte estense anche nella
sua dimensione sociale, di evento pubblico, la lettura privata trova il suo genere di
elezione nel romanzo cavalleresco e nella stampa il mezzo per diffonderlo. I fatti di
guerra scritti in ottava rima ottengono una diffusione impressionante che riesce a
raggiungere un pubblico larghissimo e curioso, la facilità di lettura di questi testi, il tono
avvincente delle narrazioni e, la stringente contemporaneità dei fatti (le guerre in Italia
contro i Turchi) rendono il romanzo cavalleresco un genere letterario di consumo che
conosce una produzione feconda e destinata ad una lunga fortuna. Tuttavia, nella
messe ricchissima di titoli riconducibili a questa letteratura, veramente pochi sono i
capolavori: tra questi, come si ricorderà, l’Orlando innamorato composto per la corte
estense di Ercole I da Matteo Maria Boiardo.
La diegesi* dell’opera boiardesca si interrompe ex abrupto nel momento in cui, al
campo dei cristiani i paladini Orlando e Rinaldo si azzuffano per la prigioniera saracena
Angelica che, in attesa di una soluzione della contesa, viene affidata dal re Carlo al
duca Namo. Questa situazione, lasciata così in sospeso da Boiardo, costituisce già di
per sé uno stimolo alla continuazione e alla scrittura di un finale e infatti ci fu più di
qualche tentativo di “continuare” l’Innamorato: per es. quello, estremamente
modesto, del veneziano Niccolò degli Agostini nei primi anni del Cinquecento. Solo il
genio creativo di Ariosto riesce però a riprendere le fila complicate del romanzo
boiardesco per farne una reale opera d’arte e di poesia, riplasmando in profondità lo
schema popolareggiante dell’ottava fino ad adattarla alle più diverse necessità
espressive

La gestazione dell’opera maggiore di Ariosto, l’Orlando Furioso, accompagna l’autore


per un lunghissimo periodo della sua vita. Prescindendo dal fatto episodico del
giovanile apprendistato ariostesco sul poema epico con il tentativo incompiuto
dell’Obizzeide in terzine, l’elaborazione del Furioso dura di fatto almeno una quindicina
d’anni. La preistoria del poema (cioè le fasi di elaborazione su cui non abbiamo
documentazione) risale ai primi anni del secolo: già nel 1506 Ariosto aveva presentato a
Isabella d’Este alcune parti che sarebbero poi rientrate nelle stesure definitive.

Nel 1516 viene pubblicata dall’editore locale Giovanni Mazzocco, di Bondeno, la prima
edizione dell’opera; quasi immediatamente l’autore, insoddisfatto del suo lavoro,
rimette mano al testo e modifica sensibilmente il testo finché, nel 1521, affida una
seconda edizione al tipografo Giovan Battista de la Pigna. Anche questa seconda
versione non soddisfa l’autore che, negli ultimi anni della sua vita, ritorna a lavorare sul
poema, aggiungendo sei canti e intervenendo in profondità sulla lingua e sullo stile. Nel
1532 Ariosto licenzia la redazione definitiva, stampata a Ferrara dai torchi di Francesco
Rosso. Risalgono probabilmente a quest’ultima fase di rielaborazione anche alcune
parti non accolte nel testo finale come i celebri Cinque canti che contengono nuovi
nuclei narrativi.

Molto si è discusso sulla lingua del Furioso nella prospettiva diacronica


dell’elaborazione ariostesca anche in parallelo con la teorizzazione del classicismo
volgare che Bembo stava attuando giusto in quegli anni. È evidente, almeno nella prima
redazione del Furioso, un certo ibridismo linguistico tra toscano e idiotismi padani che
vengono però rimossi gradualmente nel ’21 e, soprattutto, nel ’32. Se è vero che Ariosto
lavorava ‘con orecchio di poeta’ e non con il rigore del grammatico’ secondo una
definizione di C. Segre, è d’altra parte innegabile che molti ritocchi furono introdotti per
adeguarne la lingua alla grammatica del fiorentino trecentesco delle Prose del Bembo
(così per es. la sistematica sostituzione di presto avv. con l’antico tosto o l’eliminazione
del tipo settentrionale in la / in lo (cioè ‘nella’ ‘nello’).
Il poema ariostesco, secondo abitudini dell’epoca e del genere, ha un dichiarato scopo
celebrativo della casa d’Este: dalle nozze di Ruggiero e Bradamante discenderà l’
‘Erculea prole’, gli ‘avi illustri’ del cardinale Ippolito. Attorno a questo nucleo fittizio di
dedica, si sviluppa una questione intricatissima, piena di personaggi e di situazioni che
si riescono difficilmente a riassumere per il carattere aperto e policentrico dell’opera,
incline alla divagazione e allo sviluppo continuo di nuovi nuclei narrativi. Il poema
comincia laddove l’Innamorato boiardesco si era concluso (o piuttosto interrotto)

La pagana Angelica, contesa tra Rinaldo e il cugino Orlando, è affidata a Namo di


Baviera. Nel corso dell’assedio di Parigi, il vecchio duca di Baviera è fatto prigioniero dai
mori e Angelica riesce a scappare. Durante la sua fuga, incontra Rinaldo (alla ricerca
del proprio cavallo) e il saraceno Ferraù, che si battono in duello per lei; poi,
continuando nella sua corsa, la donna si imbatte in Sacripante che accetta di farle da
guida. Poco dopo i due incontrano la fiera Bradamante alla ricerca dell’amato Ruggiero
imprigionato nel castello del mago Altante: scoppiata una contesa tra Bradamante e
Sacripante, Angelica fugge su un cavallo alato, ma viene rapita dai corsari dell’isola di
Ebuda ed esposta sul mare, preda di una terribile orca.

Intanto Bradamante raggiunge il castello di Atlante e lo sconfigge, liberando i


prigionieri; Ruggiero è rapito però dall’Ippogrifo che lo conduce sull’isola della maga
Alcina dove incontra Astolfo che era stato da questa trasformato in mirto. Fuggito
dall’isola grazie all’aiuto della maga Melissa e, raggiunta Ebuda sull’Ippogrifo, Ruggiero
riesce a salvare all’ultimo momento Angelica dalle fauci del mostro marino e fugge con
lei fino in Bretagna. Qui il cavaliere si innamora perdutamente di Angelica che, non
ricambiandolo, gli sfugge diventando invisibile grazie ad un anello magico. In direzione
di Parigi, Angelica incontra il bellissimo saraceno Medoro scampato da poco ad un
assalto dei cristiani: i due si amano ardentemente e incidono sugli alberi i loro nomi in
segno della loro passione.

Mentre si svolgono tali le vicende, la guerra tra mori e cristiani continua e i saraceni
stringono sempre di più l'assedio attorno alle mura di Parigi. Nel frattempo il re Carlo si
trova senza i suoi due paladini più forti, Orlando alla continua ricerca di Angelica e
Rinaldo spedito a cercare di riportarlo indietro. È provvidenziale l’intervento divino
dell’arcangelo Gabriele che semina la Discordia nel campo dei pagani, impedendo così
l’attacco finale. Intanto Orlando, passando per un bosco, vede gli alberi incisi con i
nomi di Angelica e Medoro capisce tutto e impazzisce di dolore, cominciando a
sradicare le piante e a compiere azioni forsennate raggiungendo infine l’Africa a nuoto
attraverso lo stretto di Gibilterra. Altri cavalieri vengono inviati alla ricerca di Orlando
che pazzo, vagabonda per l’Africa: tra questi viene raccontato l’episodio dell’infelice
Zerbino ucciso dal feroce Mandricardo, a sua volta vinto e abbattuto da Ruggiero.

Alla fine i cristiani, addolorati per la follia del paladino, incaricano Astolfo di andare
sulla Luna (dove si immagina che si trovi tutto ciò che si perde in terra) per recuperare il
senno di Orlando. Sul dorso dell’Ippogrifo, Astolfo arriva nel Paradiso Terrestre dove
incontra San Giovanni, con lui, a bordo del carro di Elia, giunge finalmente sulla Luna
dove raccoglie in un ampolla il senno perduto di Orlando. Ritornato sulla terra, Astolfo
riesce a ritrovare Orlando in Africa e, facendogli inalare i vapori della fiala del senno, lo
fa ritornate in sé. Ridestandosi dalla follia come da un brutto sogno, Orlando rinsavisce
anche dall’amore perduto per Angelica e riprende a combattere con l’esercito
cristiano. Intanto si decide di risolvere la guerra, arrivata ad un punto critico, con un
duello tra tre campioni di entrambe le parti. I tre del campo cristiano (Orlando, Oliviero
e Brandimarte) hanno la meglio sui mori e il poema si conclude con un ultimo duello tra
il gigantesco Rodomonte e Ruggero: quest’ultimo vince la tenzone e può sposare
Bradamante, dalla loro unione avrà inizio la geneaologia della casa estense.

TASSO

Il passaggio dalla prima alla seconda metà del ‘500 segna un momento di crisi nel
magnifico equilibrio dell’Italia rinascimentale, la situazione dello scenario storico-
politico infatti cambia: le grandi nazioni come Francia e Spagna stringono i pochi stati
italiani rimasti indipendenti, che, esclusi dai grandi giochi della politica internazionale,
diventano, almeno dopo la pace di CateauCambrésis (1559), periferia del grande
impero spagnolo. Dopo che la Riforma protestante aveva messo in seria crisi la
concezione dell’universalismo temporale e spirituale della Chiesa romana, nel periodo
successivo al Concilio di Trento (concluso nel 1563) si impone una linea di rigorosa
ortodossia e di forte riaffermazione del controllo sulla vita sociale e culturale da parte
delle Chiesa. In questa temperie, si colloca l’opera di Torquato Tasso che nasce a
Sorrento nel 1544 dove il padre Bernardo (apprezzato poeta petrarchista ed autore di
un romanzo cavalleresco, l’Amadigi) si trovava alla corte dei Sanseverino.

Tasso trascorre un’infanzia dolorosa e infelice a cui fa spesso accenno nelle opere
della maturità. Dopo una breve esperienza di studi napoletani, l0 scrittore raggiunge il
padre a Roma nel 1554 e lo segue in una lunga peregrinazione tra le corti dell’Italia
centrale. Nel 1559 è Venezia per poi passare a Padova dove completa i suoi studi
seguendo le lezioni di filosofia dell’aristotelico Carlo Sigonio e frequentando personaggi
stimolanti come Sperone Speroni, Gian Vincenzo Pinelli e Battista Guarini. Alla morte
del padre (1565) Tasso comincia presso gli Estensi la propria carriera cortigiana. A
Ferrara trascorre un periodo di tranquillità al quale corrisponde il momento più felice
della sua attività lettereria che coincide con la pubblicazione delle Rime (1567) e
l’elaborazione di una lieve raffinatissima favola teatrale come l’Aminta (1573).

Durante il periodo ferrarese, Tasso rivede un poema epico in ottave abbozzato negli
anni padovani, Il Goffredo (diventerà la Gerusalemme liberata): proprio questo testo,
tanto caro al poeta, diventa presto causa delle sue sventure, a causa di alcuni
contenuti ritenuti poco morali e di dubbia ortodossia, egli dovette presentarsi
all’Inquisizione tra il 1575 e il 1577. Questo difficile periodo coincide anche con le
prime avvisaglie della nevrosi che turberà il poeta per tutto il resto della vita. Il signore
di Ferrara continua a proteggerlo, nonostante Tasso cerchi contatti con i Medici,
tradizionalmente ostili agli Este. Quando lo squilibro del poeta raggiunge aspetti di
pericolosa violenza, il signore fa rinchudere cautelativamente il poeta nel convento di
San Francesco da dove egli fugge travestito per raggiungere la sorella a Sorrento e per
poi spostarsi, preda di un’indomabile inquietudine, da Roma a Siena, a Firenze, fino a
Urbino e Torino

Tasso ritorna infine a Ferrara agli inizi del 1579 per le nozze di Alfonso II con Margherita
Gonzaga, qui, dopo una violenta esplosione di rabbia, viene rinchiuso nell’Ospedale di
Sant’Anna. La prigionia ferrarese è dolorosissima, turbata continuamente da
manifestazioni sempre più fequenti della malattia che ottenebra la mente del poeta.
Grazie all’intermediazione di Scipione Gonzaga, il poeta viene liberato nel 1586.
Raggiunta, nonostante il carcere, la celebrità letteraria grazie alla fama e alla diffusione
delle sue opere, ricomincia tuttavia a girare ansiosamente tra Roma, Napoli e Mantova.
Stabilitosi definitivamente a Roma, trova protezione presso il nobile cardinale Cinzio
Aldobrandini, nipote del papa. Tra opere freneticamente iniziate e lasciate inconcluse
ed un altro viaggio a Napoli, Tasso conclude la sua esistenza nel convento di
Sant’Onofrio al Gianicolo dove muore nell’aprile del 1595.

TASSO: I DISCORSI

La produzione letteraria di Tasso e tanto vasta e varia che è preferibile riservare dei
settori appositi per l’epica, il teatro e la poesia lirica. La produzione in prosa,
generalmente considerata ‘minore’, è imprescindibile per una valutazione a tutto tondo
dell’autore. Particolare rilievo in questo genere hanno gli scritti teorici dove l’autore si
fa critico di se stesso, mettendo in relazione la propria idea di letteratura e di poesia
con quella condivisa dalla cultura del suo tempo. I Discorsi dell’arte poetica risalgono
agli anni 1561-’62 quando Tasso, dopo l’esperimento epico del Rinaldo, si riserva una
pausa di riflessione sulla propria produzione poetica. Elemento dominante della teoria
della letteratura alla metà del ’500 è l’aristotelismo della Controriforma, rilanciato con
autorità dalla traduzione della Poetica aristotelica con commento del padovano
Francesco Robortello (1548).

Nei Discorsi Tasso rivela una sostanziale accettazione dell’aristotelismo ma c’è una
ferma difesa della propria idea di poesia dove può esserci spazio anche per la
digressione piacevole, sia che essa declini verso il fantastico sia che si soffermi sul
meraviglioso. Secondo Tasso tutto ciò non compromette l’unità aristotelica. Il
dilettevole o il magnifico non sono fini a se stessi ma concorrono all’obiettivo primo e
vero dell’èpos, quello dell’innalzamento morale del lettore. I Discorsi, opera giovanile,
vengono ripresi da Tasso negli ultimi anni e, dopo sostanziali mutamenti e ampliamenti,
vengono ripubblicati nel 1594 con il titolo di Discorsi del poema eroico. La prospettiva è
cambiata: si fa più forte il richiamo al rigore della Controriforma e l’asse della
riflessione si sbilancia verso una tesi che sostiene il carattere esclusivamente
educativo della letteratura.

TASSO: I DIALOGHI E LETTERE

Un posto di rilievo nella produzione tassiana è occupato dallo sterminato epistolario


costituito da circa duemila lettere che Tasso comincia a raccogliere soltanto negli
ultimi anni della propria vita. I racconti autobiografici dalle Lettere sono tuttavia
piuttosto inaffidabili quanto a veridicità storica, specie nel periodo della malattia, la
tendenza di Tasso a filtrare letterariamente il dato biografico maschera spesso il reale
svolgimento dei fatti. Ciononostante, le Lettere rendono vivacemente l’ambiente entro
il quale Tasso vive anche grazie alla scrittura spontanea e alla prosa fascinosamente
mobile. Dalla corrispondenza tassiana abbiamo inoltre una preziosa testimonianza
delle continue cure che l’autore riservava alle sue opere, soprattutto all’eleborazione
del grande poema epico; anche in questo caso però, per riconoscere le esagerazioni
dell’autore, è utile una valutazione critica moderna.

TASSO: L’APPRENDISTATO EPICO

La produzione epica di Tasso comincia prestissimo: forse sul modello del padre
Bernardo, autore di un Amadigi in ottave, Torquato, non ancora diciannovenne, dà alle
stampe nel 1562 un poema cavalleresco, Il Rinaldo. In questo esperimento giovanile è
evidente l’influsso dell’aristotelismo più moderato che concedeva alla letteratura la
possibilità di conciliare il rigore di un impianto educativo di indirizzo classicista con una
ricerca di “piacevolezza” poetica. Ancora precedenti al Rinaldo, sono gli abbozzi di una
grande opera a cui Tasso pensava fin dagli anni veneziani: tradizionalmente si fa risalire
il primo nucleo da cui deriverà poi la Gerusalemme liberata ad un periodo tra il 1559 e il
1561 quando il giovane Torquato, fortemente impressionato dalle incursioni turche nel
Meridione italiano che lo avevano toccato anche negli affetti familiari (la sorella era
scampata ad un attacco a Sorrento nel ’58), stava cominciando a ideare un grande
poema sul tema della crociata.

Il progetto del Tasso quindicenne raccoglie immediatamente il consenso dei letterati


veneziani del circolo del padre Bernardo, che sentivano molto attuale il problema della
minaccia turca contro la quale la stessa Serenissima aveva avviato una politica di
controllo. L’impresa risulta quasi subito sproporzionata rispetto alle capacità del
giovane che abbandona ben presto la composizione, è rimasto tuttavia un manoscritto
(conservato nella Biblioteca Vaticana) che testimonia questa primissima fase del
poema interrotta dopo un centinaio di stanze. L’opera viene ripresa da Tasso negli anni
padovani (1564-’65) e terminata a Ferrara nel 1575. Mentre si diffondono quasi
immediatamente un numero inquietante di edizioni clandestine e non approvate
dall’autore, allora recluso, Tasso ritorna spessissimo sul suo testo, modificandolo e
lasciando in alcuni passi la possibilità di scegliere tra più varianti, fatto che ha creato
non poche difficoltà alla ricostruzione critica del testo dell’opera.

TASSO: LA GERUSALEMME LIBERATA

La stesura della Gerusalemme liberata corrisponde nella pratica alla teorizzazione del
poema epico che Tasso propone nei Discorsi: la materia storica è rigorosamente
unitaria ma ciò non impedisce che, di tanto in tanto, si inseriscano nella narrazione
episodi secondari che rendono “piacevole” e varia la lettura. Questi inserti attengono
tanto al lirismo poetico (di registro tragico e sentimentale come la storia di Olindo e
Sofronia o bucolico come l’episodio di Erminia tra i pastori) quanto al demoniaco e al
paranormale (ad esempio, dei concili infernali). Tutto è trasferito nello stile del
‘magnifico’, secondo una definizione del medesimo Tasso, intermedio tra il tragico e il
lirico.

Il rigore storico della Gerusalemme è assicurato dalla consultazione assidua di fonti


relative ai fatti della prima crociata: la più importante è certo l’Historia di Guglielmo di
Tiro ma è certo che Tasso attingeva anche ampiamente tanto dalla cronache di
pellegrinaggio quanto dagli autori classici di argomento geografico Sull’aspetto più
letterario dell’opera che guarda sempre al capolavoro della generazione precedente,
l’Orlando ariostesco, interagiscono elementi fra loro diversi, inclusi l’apprendistato
lirico delle Rime e quello pastorale dell’Aminta che costituiscono il più maturo
retroterra poetico che Tasso poteva allora vantare.

Questo consistente strato di modelli e di esperienze poggia, naturalmente, su una


robustissima base letteraria che fa parte della formazione culturale dell’epoca: si
ravvisano pertanto rimandi, anche sostanziali e strutturali, che attingono tanto ai
classici latini come l’Eneide quanto alla tradizione volgare iniziata dalla Commedia
dantesca. Non stupisce d’altra parte che la novità della Gerusalemme liberata abbia
scatenato una feroce polemica fin dalle sue prime apparizioni a stampa. Già dalla fine
degli anni ’80 del Cinquecento le voci critiche dell’epoca erano divise tra sostenitori e
detrattori dell’opera tassiana della quale era messa in causa sia l’osservanza
aristotelica sia, specie da parte dei fiorentini, una scarsa adesione al classicismo
volgare propugnato dal Bembo.

La struttura della Liberata è apparentemente lineare. La vicenda si colloca alla fine


della prima crociata, nella primavera del sesto anno di guerra quando l’arcangelo
Gabriele affida a Goffredo di Buglione il compito di liberare Gerusalemme oppressa. I
preparativi per l’assalto fervono da una parte e dall’altra delle mura, a Gerusalemme,
su suggerimento del mago Ismeno, il re Aladino fa rapire da una chiesa un’immagine
che, collocata nella moschea, rende inespugnabile la città. L’immagine, tuttavia,
scompare e il re minaccia una rappresaglia tra tutti i cristiani rimasti a Gerusalemme.
Infiammati da ardore di martirio i giovani Olindo e Sofronia, segretamente innamorati, si
autoaccusano, solo l’intervento di Clorinda salva i due dal rogo. Intanto, all’inferno
Plutone convoca un concilio demoniaco per impedire l’impresa divina di Goffredo, e la
maga Alcina, partecipe della diabolica cospirazione, tenta con le sue malie i principi
cristiani.

La guerra continua e si susseguono azioni militari e duelli tra campioni. Tra questi è
particolarmente lungo quello tra il pagano Argante e il cristiano Tancredi, i quali, al
calare delle tenebre, decidono di rinviare il duello di qualche giorno. da una torre
assiste la “mora” Erminia, innamorata di Tancredi che, travestita, cerca di raggiungere
l’amato nel campo nemico. Scoperta, riesce tuttavia a fuggire riparando tra i pastori di
un’idilliaca comunità (topos* del locus amoenus) mentre a Gerusalemme continuano i
preparativi per l’assalto. Durante una sortita, la fiera guerriera pagana Clorinda rimane
chiusa fuori dalle mura della città e viene inseguita da Tancredi, di lei innamorato ma
che non la riconosce sotto l’armatura. Alla fine del duello Clorinda muore ricevendo il
battesimo da Tancredi.

Si susseguono una serie di eventi prodigiosi come quello del bosco affatturato dal
mago Ismeno affinché i cristiani non possano raccogliere la legna per le loro macchine
da guerra. Goffredo sferra l’attacco a Gerusalemme che, dopo una serie di battaglie e
di interventi demoniaci, cede finalmente all’esercito crociato che può entrare in città e
adorare il Santo Sepolcro. Su una linea narrativa circoscritta e unitaria, cioè l’assalto e
la presa di Gerusalemme, si innesta una quantità enorme di rivoli secondari, costituiti
dalle storie personali di personaggi come Erminia, Tancredi e Clorinda. Queste
divagazioni costituiscono una sorta di ‘sfogo’ lirico (che mira a delectare ‘dare piacere’)
alla rigida morale educativa dell’epos (che deve docere ‘’insegnare’), senza però
comprometterne l’unità globale.

Alcuni episodi, tuttavia, sembreranno al Tasso poco consoni alla morale e alla
sensibilità rigide del tempo e, nella lunga rielaborazione del poema, verranno espunti
dall’autore stesso. È indicativo il caso della storia di Olindo e Sofronia che, già passata
sotto il vaglio dell’Inquisizione, viene giudicata troppo sensuale da Tasso stesso e che,
nell’ultima versione da lui sorvegliata e pubblicata nel 1593 come Gerusalemme
conquistata, viene eliminata dall’autore. L’intero svolgersi delle vicende della
Gerusalemme liberata si fonda su una continua antitesi dialettica tra elementi opposti,
Lanfranco Caretti ha definito questa poetica per contrasti come un bifrontismo
spirituale.

In tutta la Gerusalemme liberata non viene mai allentata una tensione narrativa per cui
tutto è descritto in un’inquieta provvisorietà dove lo stato delle cose è costantemente
minacciato da una fatalità maligna, capace di ribaltare le situazioni in tragedia e in
catastrofe. La ‘sorte’ che compariva, più bonariamente, a scompigliare la trama del
Furioso, ma si incarna spesso in oscure volontà e in diaboliche cospirazioni. Secondo
questa definizione, nella poetica dell’opera, elementi, situazioni e personaggi
convivono con il loro doppio o il loro contrario: l’eroismo e la vigliaccheria, l’amore e la
morte, la felicità e la tragedia; il piacere e il dolore come secondo una felice
espressione del prof.re Fedi per cui il piacere sempre insidiato dal dolore.

BATTISTA GUARINI

Durante la seconda metà del Cinquecento, caratterizzata da un forte


ridimensionamento delle signorie italiane a favore delle grandi potenze, si verifica
anche un sensibile cambiamento nella figura professionale del letterato di corte.
L’istituzione della cortegiania rinascimentale (entro la quale il poeta ha il ruolo di
celebratore della dinastia dominante) è in declino e l’uomo di lettere perdendo il suo
ruolo privilegiato presso i signori, deve contendersi uno spazio e uno stipendio con
segretari e ‘parassiti’ di bassissimo profilo. In questa fase della storia della cultura
italiana, negli ultimi decenni del ducato estense, nasce a Ferrara nel 1538 Battista
Guarini, della famiglia del grande umanista veronese Guarino. Dopo un periodo di studi
retorici nella città natale, si trasferisce a Padova legandosi, all’Accademia degli Eterei e
stringendo una sincera amicizia con Tasso.

Ritornato a Ferrara nel ’67, Guarini entra a corte al servizio di Alfonso II. L’ambiente
cortigiano è dominato dall’ambigua figura del segretario ducale Giovanni Battista
Niccolini detto il Pigna. A Guarini vengono affidate ambascerie di riguardo in Italia.
Della sua esperienza nel 1574 a Cracovia dove sostiene la candidatura di Alfonso
d’Este al trono di Polonia, Guarini redige un dettagliato ragguaglio, il Discorso sopre le
cose di Polonia. Nonostante il prestigioso cursus honorum all’interno della corte
estense e benché, dopo l’allontanamento di Tasso, nessun letterato a Ferrara sia in
grado di rivaleggiare con lui, alla morte di Pigna, Guarini non riesce ad ottenere l’ambita
posizione di segretario (gli viene preferito il filosofo Antonio Montecatini). Deluso dalla
vita di corte e dalle trame di palazzo, Guarini si ritira in una sua proprietà a San Bellino
nel Polesine.

Durante questo periodo di ritiro dalla vita pubblica, Guarini si dedica principalmente
all’attività poetica occupandosi della stesura del suo capolavoro teatrale, Il pastor fido
e di un’altra commedia in prosa, L’idropica. La stagione produttiva di Guarini si
conclude alla metà degli anni ’80 quando può presentare l’opera, ancora manoscritta,
a Carlo Emanuele di Savoia in occasione delle nozze con Caterina d’Austria nel
settembre del 1585. Successivamente Guarini si occupa quasi esclusivamente della
revisione e della pubblicazione delle opere già scritte, dando alle stampe il Pastor fido,
le Lettere e, infine le Rime che aveva raccolto fin dalla giovinezza.

Gli ultimi anni ‘90 sono caratterizzati per Guarini da un tentativo di rientro nella vita
pubblica: dopo aver provato ad entrare al servizio dei Savoia, incomincia un periodo di
insicure peregrinazioni tra gli ultimi signori che potevano ancora vantare una corte
autonoma. Ritornato a Ferrara riesce finalmente a ricoprire, anche se per un breve
periodo, la carica di segretario per poi passare improvvisamente a Venezia e da qui,
attraverso altre tappe, a Mantova. Dopo la parentesi presso i Gonzaga, viene accolto
dai Medici a Firenze entrando anche nell’Accademia della Crusca con il ruolo di
arciconsolo e prestando la sua opera al granduca di Toscana. Dal 1602 al 1604 si reca
ad Urbino dove può contare sull’amicizia e sulla protezione di Francesco della Rovere,
già amico e mecenate di Tasso. Muore infine a Venezia nel 1612.

Battista guarini il teatro

La principale attività del poeta ferrarese sembra comunque relativa alla produzione
teatrale. Continuando la tradizione del teatro di corte, già viva ai tempi di Ariosto,
Guarini si cimenta sia nel genere in versi con il Pastor fido, sia in quello in prosa con
L’idropica. Il suo capolavoro assoluto è il Pastor fido scritto in endecasillabi sciolti
inframezzati da settenari, segna, insieme all’Aminta tassiana, non a caso maturata nel
medesimo ambiente, la definizione di un nuovo genere teatrale, il dramma pastorale.
Come per l’epica e per Tasso, anche per la letteratura teatrale esplode negli anni ’80
del Cinquecento una vivace polemica che contrappone le scelte di Guarini, l’esponente
più in vista del nuovo genere letterario, all’aristotelismo intransigente degli ambienti
accademici padovani.

La diatriba inizia quando Giason de Nores, professore a Padova di filosofia morale,


pubblica nel 1587 un Discorso che attacca duramente il tipo della tragicommedia
(testo teatrale misto di elementi tragici e comici, in gran voga nelle corti dell’epoca) e,
soprattutto il genere pastorale, alludendo ripetutamente all’opera di Guarini.
L’argomentazione Di de Nores si basava soprattutto sulla mancata osservanza di
alcune regole aristoteliche nell’impianto dell’opera e sulla scarsa moralità della poesia
a cu invece era richiesto di svolgere anche un ruolo pedagogico.

Guarini affida la sua difesa a due scritti teorici Il Verato (1588) e Il Verato secondo
(1593), i cui titolI derivano dal nome di un attore comico sotto la cui maschera il poeta
può parlare liberamente. Nei due libelli Guarini definisce la sua idea della letteratura
teatrale realizzata nel Pastor fido: la sua poesia non ha lo scopo primario di educare e i
suoi versi, leggeri e piacevoli, non disturbano l’uomo dalla sua funzione civile. Guarini
difendendosi, afferma che mai Aristotele aveva proclamato direttamente una
subordinazione della poesia alla politica e che, pertanto, è possibile che essa possa
avere un fine dilettevole senza avere sempre e necessariamente una funzione
catartica.

BATTISTA GUARINI : LE PROSE


La lunga esperienza di uomo di corte e diplomatico maturata da Guarini, in Italia e non
solo, durante tutto il corso della sua vita e le relazioni da lui intrattenute con eminenti
personaggi della scena politica e letteraria del tempo si riversano in un ricchissimo
epistolario. L’interesse per Guarini è immediato: ancora vivo l’autore, nel 1593, viene
pubblicata una prima raccolta della corrispondenza privata del poeta grazie alle cure
del letterato veneziano Agostino Michele, dietro al quale si cela comunque la mano
dell’autore.

A questa raccolta di corrispondenza privata, ne segue a breve distanza un’altra che


contiene le lettere scritte da Guarini come diplomatico estense, sono le cosiddette
epistole di negozio. Da queste due edizioni deriva la fortuna enorme delle lettere
guariniane, più volte ripubblicate e riordinate nel corso del XVII secolo e proposte come
un modello di scrittura epistolare largamente utilizzato ed imitato.
Contemporaneamente all’edizione della seconda parte dell’epistolario, quella cioè
relativa alle missive di servizio, Guarini pubblica nel 1594 un breve trattatello in forma
di dialogo con il titolo Il segretario.

Quest’operetta, Il segretario, (che in origine avrebbe forse dovuto avere il titolo di


Lettera delle lettere) è la sintesi teorica e manualistica della tecnica e dell’arte, che
Guarini aveva praticato a lungo, di scrivere lettere per un’amministrazione signorile.
Pensata per la formazione dei burocrati di corte, si ispira a criteri di chiarezza e di
elegante equilibrio. Viene raccomandato anzitutto l’ordine nell’esposizione dei concetti
che vanno enunciati come una catena da capo a piedi ben annodata». A differenza
dello stile lirico, nella stesura di una lettera è inopportuno il ricorso a figure retoriche
che possono rendere ambigui i contenuti. Guarini persegue insomma pragmaticamente
uno stile delle lettere di negozio nitido ed elevato ma poco artificioso.

I PETRARCHISMI DEL ‘400 E DEL ‘500

La produzione lirica in volgare nel periodo che va dagli ultimi anni del ‘300 all’intero
secolo successivo, appare segnata in modo diverso) dall’esperienza petrarchesca. Già
nel ‘400 (caratterizzato da un diffuso sperimentalismo) l’imitazione del modello
perfetto di canzoniere poetico viene fatta propria da quasi tutti i letterati che si
cimentano nel genere. I risultati sono a volte di grande pregio come, ad esempio gli
Amorum libri di Boiardo ma nella maggior parte dei casi, si assiste a lunghissime e
asfittiche ripetizioni di temi non proprio originali (il lauro, la bella mano…). Il modo di
porsi nei confronti dell’esempio petrarchesco è, nel ‘500 ancora più rigidamente
ossequiente al modello: si nota un accumulo di situazioni, stilemi, strutture metriche e
retoriche prelevate asetticamente dai Rerum vulgarium fragmenta e combinate fra loro.
I petrarchisti applicano cioè anche alla poesia volgare la soluzione umanistica
dell’imitatio dei migliori poeti e prosatori latini: il Cicerone e il Virgilio degli scrittori in
volgare classicisti sono rispettivamente Boccaccio e Petrarca.
Se nel caso degli Amorum libri di Boiardo si assisteva ad un tentativo, perfettamente
riuscito, di ricreare in modo personale la poetica petrarchesca, nei casi peggiori non si
hanno che copie manierate del modello. Nel ‘500 si rileva anche una cristallizzazione
delle forme metriche che replicano, una limitata campionatura di forme (canzoni,
sonetti ecc.) con la stessa struttura rimica del modello e con la ripetizione ossessiva di
alcune figure. Pur nella sua povertà tematica e nella sua ristrettezza lessicale e rimica,
il petrarchismo cinquecentesco ha comunque il merito di aver iniziato un percorso di
poesia in lingua toscana che, dopo un progressivo pecorso evolutivo e, soprattutto,
dopo l’elaborazione critica bembesca, si sarebbe imposto come un modello fecondo di
classicismo volgare i cui riflessi si avvertono ancora nella lirica dell’Otto-Novecento, da
Leopardi a Saba.

BEMBO E PETRARCA

Nel 1501, nella tipografia veneziana di Aldo Manuzio, il trentenne Pietro Bembo è al
centro di un’operazione filologica ed editoriale senza precedenti: Bembo cura
l’edizione complessiva del Canzoniere e dei Trionfi petrarcheschi, per la prima volta
stampati in un unico volume di piccolo formato e senza commento. L’aldina del 1501 è
l’archetipo di una fortunatissima tipologia libraria, il cosiddetto petrarchino,
un’edizione, si direbbe oggi, tascabile delle rime volgari del grande autore che può
diventare così accessibile a tutti. Esiste anche una vasta tradizione iconografica del
ritratto di dama (o cavaliere) con in mano un petrarchino, a testimonianza della
capillare diffusione del prodotto. Agli inizi del ‘500 le rime volgari di Petrarca si
presentano come un testo corretto dopo una lunga tradizione manoscritta tre e
quattrocentesca appesantita da ingombranti commenti.

Questa diversa prospettiva di accesso all’opera petrarchesca stimola probabilmente


un approccio più personale e spregiudicato all’autore e l’inizio dell’evoluzione del
pensiero critico sul modello e sul canone dell’imitazione. Tale percorso porta alla
teorizzazione delle Prose della volgar lingua (1525). Nel secondo libro del trattato,
Bembo pone Petrarca al culmine di una lunga tradizione poetica, sostanzialmente
compresa tra i Siciliani e lo Stilnuovo. Viene poi analizzata dettagliatamente sotto tutti
gli aspetti (stile, metrica, ecc.) un’ampia casistica di luoghi petrarcheschi esattamente
come accadeva per la grammatica delle lingue classiche. La lingua e lo stile di Petrarca
sono nobilitati nel loro genere (quello della poesia, mentre per la prosa il modello è
quello boccaccesco).

IL PETRARCHISMO DEL ‘500

Il petrarchismo cinquecentesco si svolge pertanto parallelamente al percorso critico


iniziato dal Bembo con l’edizione aldina del 1501, perfezionato e concluso con le Prose
del 1525 (una tappa intermedia va individuata negli Asolani del 1505 dove le rime, che
inframezzano le prose, sembrano ispirate da un petrarchismo ancora quattrocentesco,
aperto a forme metriche ignote al Petrarca). Dopo l’esperienza e la teorizzazione di
Bembo, l’imitazione del canone petrarchesco assume caratteri ben più variegati. Il
panorama si allarga e si arricchisce di nuovi elementi e si formano correnti innovative,
alcune più vicine ad un classicismo archeologico (Claudio Tolomei, per fare un
esempio); altre più inclini all’elegia e alla descrizione paesistica che, per certi versi,
anticipa la predisposizione al pittorico della poesia arcadica e barocca.

La diffusione del petrarchismo cinquecentesco, segna la nascita di un codice poetico


unitario, linguisticamente compatto, perfettamente condiviso ed adattabile a tutti i
contesti poetici. Si è spesso rilevata anche una funzione sociale del liguaggio
unificante, capace di raggiungere tutte le persone dotte, donne comprese, superando
di fatto la discriminante dell’educazione al latino. La condivisione del codice
petrarchesco non è solo un fatto esclusivamente italiano, ma dall’Italia, grazie
soprattutto alle traduzioni, si trasmette velocemente alle altre letterature in Francia,
Spagna e in Inghilterra dove si comincia a scrivere lirica alla maniera dei petrarchisti
italiani, inaugurando una tradizione destinata ad influenzare profondamente la poesia
europea almeno per un paio di secoli.

IL PETRARCHISMO DI BEMBO

Lo stesso Bembo è autore di un canzoniere in si cui trova elegantemente realizzato


l’ideale canonico del linguaggio petrarchista teorizzato nelle Prose. I primi nuclei delle
Rime bembesche risalgono con ogni probabilità agli anni giovanili, ma la prima stampa,
curata dall’autore stesso, è del 1530. La riorganizzazione del canzoniere si situa
pertanto alla fine di una lunga esperienza di poesia e di critica, iniziata con l’esercizio
filologico dell’aldina del 1501, passata attraverso gli Asolani e conclusasi con le Prose.
Tempo dopo la definizione teorica del classicismo volgare trova la prima applicazione
pratica nelle Rime che si impongono esse stesse come modello, imitato e emulato più
fortemente da una cerchia di petrarchisti veneti come Trifon Gabriele, Gabriel Fiamma
o Antonio Brocardo

Il canzoniere di Bembo, dimostra immediatamente, già dalla forma complessiva il


distacco dal grande modello trecentesco. I componimenti sono relativamente pochi, al
massimo 165 nell’ultima redazione, rispetto ai Fragmenta petrarcheschi che
proponevano una raccolta di 366 unità. Inoltre, non viene più rispettata la divisione tra
rime ‘in vita’ e rime ‘in morte’ della donna amata, soltanto nell’edizione del 1548, e
come sezione autonoma, compaiono alcune commemorazioni postume di persone
diverse e non solo quella della donna (il fratello Carlo, alcuni amici e, infine, la
Morosina). Lo spirito del nuovo petrarchismo così, ha fatto proprio il codice poetico del
sommo lirico del Trecento nello stile e nella lingua, riservandosi la possibilità di
adattarlo liberamente a situazioni e a organizzazioni testuali differenti.

GIOVANNI DELLA CASA


Tra i canzonieri del Cinquecento che, assieme a quello di Bembo, raggiungono i risultati
più interessanti in termini di originalità strutturale e resa stilistica si può ricordare
sicuramente quello di Giovanni Della Casa. L’autore nasce nel 1503, probabilmente in
Mugello e, dopo una formazione iniziale nelle scuole fiorentine, riceve una rigorosa
istruzione umanistica tra Bologna (dove ascolta le lezioni dell’Amaseo e di Pietro
Pomponazzi) e Padova dove, verso la fine degli anni ’30, conosce Pietro Bembo e
Lodovico Beccadelli, stringendo con loro una sincera amicizia. Dal 1529 è a Roma dove
intraprende una brillante e precoce carriera ecclesiastica e diplomatica e dove gli viene
affidata anzitutto la cattedra episcopale di Benevento; nel 1549, viene anche inviato a
Venezia come nunzio apostolico

Gli anni veneziani sono segnati per Della Casa da una significativa attività politico-
letteraria. Oltre ad essere autore di due pubbliche orazioni (indirizzate rispettivamente
alla Repubblica di Venezia e all’imperatore Carlo V), il nunzio, in anticipo sulle date
tradizionali della Controriforma, si trova a dover introdurre nel Veneto il tribunale
dell’Inquisizione, a curare la compilazione del primo Indice del libri proibiti (1548) a
validità locale, e ad istruire alcuni processi (celebre quello contro il vescovo di
Capodistria, il letterato Pier Paolo Vergerio). Il ritorno a Roma nel 1551 coincide con un
periodo difficile per la carriera di Della Casa: il suo protettore, il cardinale Alessandro
Farnese, non è più nelle grazie del papa e non può più contare sul favore della Curia.
Privo di impegni e piuttosto amareggiato si ritira a vita privata alla Badia di Nervesa, nel
trevigiano.

GIOVANNI DELLA CASA: GALATEO E RIME

Al periodo di Nervesa si fa risalire la composizione della sua opera in prosa più nota, il
Galateo. Il titolo deriva dalla latinizzazione umanistica del nome del vescovo di Sessa,
Galeazzo Florimonte che avrebbe ispirato la stesura dell’opera. Florimonte, fine poeta
di carmi latini con il quale Della Casa aveva avuto già dei precedenti scambi letterari,
avrebbe chiesto all’autore di scrivere un trattato di buone maniere intorno a’ modi che
la gente nell’usanza comune deve tenere o schifare. Nel Galateo l’autore, indossate le
vesti fittizie di un anziano illetterato, istruisce un giovane inesperto con una garbata
precettistica sui dettagli comportamentali da tenersi nella buona società. Ritornato a
Roma nel 1555, dopo l’elezione di Paolo IV, rientra nella vita politica come segretario di
Stato ma senza raggiungere la porpora cardinalizia alla quale aspirava. Muore nel 1556.

Le Rime, come quelle di Bembo, si distinguono dal petrarchismo di maniera per


originalità strutturale e organizzativa: esse sono infatti solo 64, molto meno rispetto al
modello dei Fragmenta. Anche i temi affrontati sono decisamente innovativi: si nota
anzitutto una netta tendenza a trascurare il soggetto amoroso e uno spostamento
dell’asse verso una tormentata e disincatata introspezione. Si trovano infatti molti
componimenti di tenore morale con una sofferente riflessione sul senso di peccato e
sulla vanità delle cose del mondo, che insistono sui temi della confessione e della
penitenza L’ansia morale e la incalzante pressione degli interrogativi che il poeta si
pone si riverberano nello stile, alto e retoricamente caratterizzato da una costruzione
spezzata del verso, del quale le frequenti inarcature* rompono la tradizionale unità
sintattica.

MICHELANGELO

Michelangelo Buonarroti, il più grande maestro dell’arte cinquecentesca condivide con


Della Casa una produzione poetica di indirizzo petrarchesco che si distingue dal
livellamento convenzionale del genere che si rileva nella produzione media dei
contemporanei. Michelangelo nasce a Caprese, nel Casentino, nel 1474 e compie
presto il suo apprendistato artistico alla bottega del Ghirlandaio; alla corte medicea
ottiene le sue prime commissioni artistiche finché, ventenne, nel 1494 viene chiamato
a Roma dal cardinal Riario. La sua vita artistica non è limitata solamente alle arti
figurative o allo studio architettonico, ma si completa con la lettura attenta e
stimolante della poesia volgare, non solo però quella dei grandi autori del Trecento
(Dante e Petrarca in primis) ma anche quella della tradizione del Quattrocento
fiorentino rappresentata dal Pulci e da Lorenzo il Magnifico.

Nel corso di due soggiorni romani Michelangelo porta a compimento due capolavori
dell’arte come la Pietà e la decorazione della volta della Cappella Sistina che lo
impegnano almeno fino al 1512. Ritornato a Firenze, lavora alle tombe medicee e, dopo
la caduta della signoria, presta la sua opera alla costruzione delle fortificazioni della
città. Una profonda crisi religiosa che risente ancora degli effetti della predicazione
fiorentina del Savonarola investe Michelangelo dagli anni ’30 del Cinquecento per
questo decide pertanto di trasferirsi definitivamente alla corte pontificia la sua arte alla
grandezza della Chiesa romana. In questa stagione completa nel 1542 su commissione
di Paolo III il Giudizio universale sulla parete di fondo della Cappella Sistina. L’ultimo
periodo della sua vita di segna anche il periodo di sistemazione e di ripensamento della
sua produzione letteraria che lo aveva, in qualche modo, accompagnato per tutta la
vita.

MICHELANGELO: LE RIME

Intorno al 1546, durante gli anni della maturità, Michelangelo comincia a raccogliere le
sue rime in previsione di una stampa che però avverrà dopo molti anni, le Rime infatti
raggiungono la tipografia solo nel 1623 (più di mezzo secolo dopo la morte dell’autore)
per le cure del nipote, Michelangelo Buonarroti il giovane che procura un’edizione
probabilmente ritoccata e poco fedele. Leggendo il canzoniere di Michelangelo si
ritrovano spesso evidenti riferimenti alla tradizione poetica volgare che lo ha
preceduto. Oltre ai Fragmenta petrarcheschi, una serie di elementi e di strutture
rimandano certamente a Dante (compresa la parentesi delle cosiddette ‘rime petrose’)
ma non mancano riecheggiamenti del vigore realistico ed espressivo della produzione
di età medicea.

Nelle Rime di Michelangelo si mescolano spesso elementi derivati dalla sua pratica di
artista. Celeberrimo è, in questa prospettiva, un sonetto di corrispondenza inviato a
Vittoria Colonna dove vengono descritti, in termini prossimi alla filosofia neoplatonica,
il compito e la prassi dell’arte: la forma ‘ideale’ è già contenuta nella materia (nel
blocco di marmo ancora grezzo) e non nel concetto dell’artista che, man mano che
ubbidisce all’intelletto deve limitarsi a togliere quello che c’è di troppo e che imprigiona
l’opera, il superchio insomma.

Tenuto conto del fatto che di regola ancora nel primo Cinquecento la formazione
culturale degli artisti (etimologicamente ‘artigiani’) è sommaria, non sorprende, nella
somma dei componimenti michelangioleschi, una certa propensione peri i generi brevi
come il sonetto o il madrigale, (meno rigorosi nella struttura metrica rispetto a forme
più complesse come la canzone), in essi Michelangelo riesce a trasferire la sua poesia
con grande raffinatezza ma anche con un lessico vivace e realistico. Questa sua
concretezza è gradita anche a uno dei più pungenti critici del petrarchismo di maniera,
il Berni, che di lui scrive: ei dice cose, voi dite parole.

LA POESIA DELLE DONNE NEL ’500

Intorno al terzo decennio del secolo XVI si verifica un fenomeno nuovo all’interno della
produzione lirica di indirizzo petrarchesco e classicista: la poesia, che pareva fino ad
allora un esercizio quasi esclusivamente maschile, viene fatta propria da un rilevante
gruppo di donne che scrivono interi canzonieri e intrattengono rapporti letterari con i
più grandi nomi della cultura contemporanea. In passato, la letteratura ‘al femminile’
era rappresentata da casi isolati o marginali come quello della duecentesca Compiuta
Donzella (forse semplice travestimento letterario di un autore uomo) o la produzione
mistica di Caterina da Siena.

Verso la metà del Cinquecento, invece, l’allargamento anche alle donne di


un’istruzione, che poteva prescindere anche dalla conoscenza del latino di tradizione
umanistica, accompagna un momento di fermenti anti-autoritari e antitradizionali (la
Riforma religiosa, il sacco di Roma). Il fenomeno diventa un fatto collettivo e organico,
ben accolto dalla cultura ufficiale e dalla stampa (del 1559 è, ad esempio, la raccolta a
stampa Rime di diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne curate da Lodovico
Domenichi

L’etichetta comune di poesia femminile non va intesa come l’attribuzione di caratteri o


tratti peculiarmente ‘femminili’ alla lirica delle poetesse del primo ’50O in quanto esse
sviluppano i temi convenzionali della linea petrarchesca, esattamente in linea con i
canzonieri-modello dei poeti uomini, come ad esempio quelli di Bembo o di
Michelangelo. Tuttavia si rileva mediamente un’inclinazione verso toni più malinconici
della tavolozza petrarchesca come quelli utilizzati dalla sventurata Isabella di Morra
(1520-1546), a lungo segregata dalla famiglia nel feudo di Favale in Basilicata. Da
alcune poetesse viene inoltre riservata una particolare attenzione ai temi sacri ed
edificanti: Vittoria Colonna scrive delle Rime spirituali, di Chiara Matraini (1514-1597)
sono alcuni dialoghi spirituali mentre alcune versioni bibliche sono ascritte al nome
dell’urbinate Laura Battiferri.

VITTORIA COLONNA

Vittoria Colonna nasce a Marino, sui colli Albani, nel 1490, figlia del condottiero
Fabrizio Colonna, personaggio insigne nella politica militare del Mezzogiorno italiano e,
dal 1515, gran conestabile del Regno di Napoli. La posizione del padre le permette già
nel 1509 un matrimonio combinato con Ferdinando d’Avalos, marchese di Pescara e
capitano generale dell’imperatore Carlo V. Nel 1525, alla morte del marito dopo la
battaglia di Pavia, conduce una vedovanza austera e ritirata (trascorre lunghi periodi in
alcuni conventi dell’Italia centrale) dedicandosi piamente alla memoria del marito. Una
certa attenzione ai temi spirituali e una certa preoccupazione per la decadenza morale
della Chiesa la portano ad avere contatti, prima della Riforma cattolica, con alcuni
esponenti dell’eterodossia evangelica come Giovanni Valdés, Bernardino Ochino e
Pietro Carnesecchi. Queste dotte frequentazioni non le impediscono tuttavia di
rimanere sempre all’interno di una rigorosa osservanza dell’ortodossia cattolica.

Vittoria Colonna stringe inoltre amicizia con i maggiori esponenti della cultura letteraria
a lei contemporanea: tra i suoi corrispondenti si trovano Ariosto, Bembo ma anche
Giovio e Varchi; Michelangelo e Galeazzo di Tarsia le dedicano alcuni componimenti. Le
Rime della Colonna (apparse ripetutamente a stampa dal 1538) inclinano verso i
registri più malinconici del repertorio di genere, corrispondenti a quelli che si fanno più
frequenti nella seconda parte dei Fragmenta petrarcheschi scritti ‘in morte’ di Laura e
che ben si accordano con la tensione austera e spirituale della giovane vedova. Anche il
tema amoroso non viene mai trattato direttamente ma è sempre coperto da una veste
platonica filosofeggiante che, secondo un giudizio di Ettore Bonora impedisce
all’autrice di abbandonarsi agli impulsi segreti e imprevedibili del cuore, i veri trasporti
della poesia.

TASSO: LE RIME

Nel panorama della lirica cinquecentesca, il Canzoniere di Tasso merita una


particolare attenzione sia per la straordinaria portata innovativa (nel metro e nei temi)
del genere, sia per gli influssi che ha avuto sulla produzione maggiore dell’autore, in
modo particolare sull’Aminta e sulla Gerusalemme liberata. La composizione delle
Rime tassiane appare non come un corpus unico, ma ha l’aspetto di un lavoro
continuamente in fieri (in divenire) che accompagna Tasso per tutto l’arco della sua
vita. La parabola del canzoniere copre infatti un’ampia scala di motivi e di esperienze
umane e letterarie: inizia idealmente con le rime amorose dagli anni padovani e si
conclude con quelle sacre dell’ultima e tormentata parte sua vita, nel mezzo si trova
tutta la varia casistica della poesia lirica d’occasione e madrigalesca, ma caratterizzata
da un continuo e metodico lavoro di revisione.

Gli esperimenti poetici giovanili di Tasso sono documentati nella silloge accademica
padovana delle Rime de gli Accademici Eterei, stampata probabilmente a Venezia da
Comin da Trino nel 1567. In questa antologia copaiono le rime d’amore scritte da Tasso
(in Accademia aveva il nome di ‘Pentito’) tra il 1561 e il ’62 per Lucrezia Bendidio,
damigella quindicenne di Eleonora d’Este, e quelle composte tra il ’63 e il ’67 per la
mantovana Laura Peperara. Già in questa sperimentazione giovanile, si può già
rintracciare lo stile del Tasso lirico maturo, caratterizzato da una consapevole ricerca di
innovazione e di superamento del modello del petrarchismo bembesco. La ricerca di
rinnovamento di Tasso si dichiara tanto in un certo, controllatissimo sperimentalismo
metrico che lo avvicina ai tentativi di Della Casa, quanto nella ricerca di motivi e di fonti
nuove, con richiami persino alla lirica greca anacreontica.

Tasso continua a scrivere poesie e a ritornare su quelle già composte in una frenetica
attività di revisione e di correzione, il suo esercizio poetico si esplica inoltre come
curatore e ‘critico’ dell’opera di altri poeti: nel 1573, insieme a Guarini, si occupa
dell’edizione delle rime di Giovan Battista Pigna (dedicate alla medesima Lucrezia
Bendidio cantata da Tasso) e del commento di tre canzoni. In seguito alla reclusione in
Sant’Anna, Tasso comincia a progettare una seconda edizione delle proprie liriche, si
conserva ancora oggi un codice manoscritto della Biblioteca Apostolica Vaticana (il
Chigiano L.VIII.32) che testimonia questo progetto di raccolta organica al quale si
affiancherà, specie dopo la liberazione, una quantità enorme di rime sparse. La vastità
dei temi e la cospicua quantità dei componimenti, suggeriscono all’autore di abbozzare
anche una divisione tematica interna ai suoi stessi testi che egli divide in rime d’amore,
di encomio e di cose sacre.

La prima parte delle rime esce nel 1591 a Mantova dove Tasso si trovava al seguito di
Vincenzo Gonzaga. Due anni dopo, nel 1593, viene affidata all’editore bresciano Pietro
Maria Marchetti la stampa della Parte seconda delle rime tassiane, il poeta però non
vedrà la conclusione della vicenda editoriale delle rime: solo due anni dopo la morte di
Tasso (avvenuta nell’aprile del 1595) lo stampatore Comino Ventura pubblica a
Bergamo nel 1597 la terza e ultima sezione, le Rime spirituali, portando a compimento
un progetto a lungo coltivato e seguito attentamente dall’autore. Parallelamente a
queste edizioni ‘ufficiali’ e controllate dall’autore, le Rime sono oggetto di un intensa
attività clandestina di stampatori senza scrupoli che nemmeno Guarini, editore di una
sorvegliata raccolta tassiana nel 1582, riesce ad arginare.

LE RIME: TEMI E MODELLI


Nella raccolta del 1567, la ricerca poetica di Tasso mira programmaticamente ad uno
svecchiamento del modello petrarchesco proposto da Bembo, il progetto teorico viene
attualizzato sia nella ricerca metrica sia nell’individuazione di nuove fonti di ispirazione.
Il corpus delle rime, costituito da circa duemila componimenti, utilizza praticamente
tutte le strutture metriche della tradizione italiana: sonetti*, madrigali*, canzoni*,
stanze*, sestine* e ballate*. Il distacco dalle rime di maniera si nota in una ricercata
frattura interna nel ritmo del verso che riprende e sviluppa gli esperimenti di Giovanni
della Casa. L’unità metrica del verso è continuamente franta da iperbati* e inarcature*
che ne alterano l’unità sintattica senza mai però rinunciare a una tipica sonorità
straordinariamente melodica, molto apprezzata dai musicisti, primo fra tutti Claudio
Monteverdi, che mettono in musica i suoi madrigali.

Ad una raffinata ricerca di nuove suggestioni ritmiche del verso, Tasso associa, anche
un ampliamento nel repertorio delle situazioni poetiche, continuano a permanere certi
nuclei di imitazione petrarchesca, ma sono variati e reinterpretati: un esempio noto è
quello della ‘bella mano’, tema ripetuto in intere raccolte che viene attualizzato e
rinfrescato da Tasso attraverso un’ambientazione mondana. Accanto al serbatoio
petrarchescho, ampie e dotte letture permettono a Tasso di attingere largamente non
solo alla tradizione italiana dantesca e stilnovista, ma anche alle fonti classiche. Oltre
ai latini, (si registrano influssi di Stazio e Claudiano), si nota in Tasso una forte
suggestione derivata dalla lirica greca di Anacreonte, fatto conoscere al monto
occidentale nel 1544 dall’umanista francese Henri Estienne (ma per il greco Tasso si
serve di preferenza di edizioni bilingui)

Anche per Tasso, l’apprendistato lirico costituisce un laboratorio in cui poter


sintetizzare temi e strutture che si riversano, in seguito, nelle opere maggiori. Anzi, nel
caso di Tasso in cui l’elaborazione delle rime continua per tutta la vita accanto alla
stesura degli altri capolavori, è stato possibile tracciare una sorta di percorso parallelo
in cui poter seguire l’evoluzione e gli sviluppi della poetica tassiana. Successiva alla
pubblicazione delle rime ‘eteree’ è la stesura dell’Aminta, la favola pastorale
rappresentata a Ferrara nel luglio del ’73. In essa si ritrova il gusto della descrizione
madrigalistica del paesaggio, calata in una versificazione musicale che ricorda quella
degli esperimenti lirici. In particolare, ritorna nella favola un elemento narrativo (in
parte già classico) che si rinviene già nelle rime: la puntura dell’ape sul labbro
dell’amata, scambiato per una rosa vermiglia.

Anche la tensione dualistica e oppositiva delle strutture della Liberata sembra poter
risalire alla sperimentazione lirica. Oltre a questo, la dolcezza descrittiva del madrigale,
quale si è vista anche per l’Aminta, si riverbera anche nel poema storico in brevi e
raffinatissimi quadri come quello, ad esempio, di Erminia fra i pastori. Concludendo, si
può riportare il penetrante il giudizio di Lanfranco Caretti secondo il quale l’esercizio
delle rime mette a disposizione di Tasso una strumentazione poetica tale da poter
riversare nella Liberata una possente alternanza di registri tra la rapidità delle sezioni
narrative e il periodare ‘lungo’ delle parti sublimi, accordando e armonizzando così gli
opposti tra la magnificenza eroica e l’ineffabilità lirica.

Nella raccolta del 1567, la ricerca poetica di Tasso mira programmaticamente ad uno
svecchiamento del modello petrarchesco proposto da Bembo, il progetto teorico viene
attualizzato sia nella ricerca metrica sia nell’individuazione di nuove fonti di ispirazione.
Il corpus delle rime, costituito da circa duemila componimenti, utilizza praticamente
tutte le strutture metriche della tradizione italiana: sonetti*, madrigali*, canzoni*,
stanze*, sestine* e ballate*. Il distacco dalle rime di maniera si nota in una ricercata
frattura interna nel ritmo del verso che riprende e sviluppa gli esperimenti di Giovanni
della Casa. L’unità metrica del verso è continuamente franta da iperbati* e inarcature*
che ne alterano l’unità sintattica senza mai però rinunciare a una tipica sonorità
straordinariamente melodica, molto apprezzata dai musicisti, primo fra tutti Claudio
Monteverdi, che mettono in musica i suoi madrigali.

Ad una raffinata ricerca di nuove suggestioni ritmiche del verso, Tasso associa, anche
un ampliamento nel repertorio delle situazioni poetiche, continuano a permanere certi
nuclei di imitazione petrarchesca, ma sono variati e reinterpretati: un esempio noto è
quello della ‘bella mano’, tema ripetuto in intere raccolte che viene attualizzato e
rinfrescato da Tasso attraverso un’ambientazione mondana. Accanto al serbatoio
petrarchescho, ampie e dotte letture permettono a Tasso di attingere largamente non
solo alla tradizione italiana dantesca e stilnovista, ma anche alle fonti classiche. Oltre
ai latini, (si registrano influssi di Stazio e Claudiano), si nota in Tasso una forte
suggestione derivata dalla lirica greca di Anacreonte, fatto conoscere al monto
occidentale nel 1544 dall’umanista francese Henri Estienne (ma per il greco Tasso si
serve di preferenza di edizioni bilingui).

Anche per Tasso, l’apprendistato lirico costituisce un laboratorio in cui poter


sintetizzare temi e strutture che si riversano, in seguito, nelle opere maggiori. Anzi, nel
caso di Tasso in cui l’elaborazione delle rime continua per tutta la vita accanto alla
stesura degli altri capolavori, è stato possibile tracciare una sorta di percorso parallelo
in cui poter seguire l’evoluzione e gli sviluppi della poetica tassiana. Successiva alla
pubblicazione delle rime ‘eteree’ è la stesura dell’Aminta, la favola pastorale
rappresentata a Ferrara nel luglio del ’73. In essa si ritrova il gusto della descrizione
madrigalistica del paesaggio, calata in una versificazione musicale che ricorda quella
degli esperimenti lirici. In particolare, ritorna nella favola un elemento narrativo (in
parte già classico) che si rinviene già nelle rime: la puntura dell’ape sul labbro
dell’amata, scambiato per una rosa vermiglia.

TASSO: DALLE RIME ALLE OPERE MAGGIORI


Anche la tensione dualistica e oppositiva delle strutture della Liberata sembra poter
risalire alla sperimentazione lirica. Oltre a questo, la dolcezza descrittiva del madrigale,
quale si è vista anche per l’Aminta, si riverbera anche nel poema storico in brevi e
raffinatissimi quadri come quello, ad esempio, di Erminia fra i pastori. Concludendo, si
può riportare il penetrante il giudizio di Lanfranco Caretti secondo il quale l’esercizio
delle rime mette a disposizione di Tasso una strumentazione poetica tale da poter
riversare nella Liberata una possente alternanza di registri tra la rapidità delle sezioni
narrative e il periodare ‘lungo’ delle parti sublimi, accordando e armonizzando così gli
opposti tra la magnificenza eroica e l’ineffabilità lirica.

LA LIRICA A NAPOLI: ROTA E TANSILLO

Agli inizi del Cinquecento il genere arcadico e bucolico di Sannazzaro influenza la lirica
classicista di ambiente napoletano infatti, esso si impone come modello ai poeti della
generazione successiva fornendo un ampio repertorio di temi e di situazioni ma,
soprattutto, nel gusto per la descrizione pittorica e sensuale della natura e una visione
serena della vita e dell’uomo. Tale indirizzo si trova in quasi tutti i poeti partenopei attivi
dalla prima metà del secolo (fa eccezione forse solo il nobile Galezzo di Tarsia, più
malinconico e sofferente, a riflesso di una vita tormentata ed inquieta) tra i quali
emergono Bernardino Rota (1508-’75) e Luigi Tansillo (1510-1658). Se il primo si
distingue più per un taglio pontaniano nella composizione di epigrammi in latino vivo e
attuale e di egloghe con ambientazioni marinaresche e piscatorie, Tansillo è
sicuramente il più illustre esponente della ‘scuola’ napoletana della poesia in lingua.

Luigi Tansillo nasce nel 1510 a Venosa dove rimane per più di vent’anni componendo
sensuali poemetti legati all’ambiente dell’agro campano come, ad esempio, Il
vendemmiatore del 1532. In questo stesso anno si reca a Napoli sotto la protezione del
vicerè don Pietro di Toledo di cui frequenta assiduamente la corte beneficiando spesso
della compagnia del figlio, don Garzia. La vita di corte induce Tansillo ad alternare
periodi di grande impegno civile e militare (nel ’36 diventa guardia personale di don
Pedro e, in seguito, partecipa anche ad una spedizione contro i Turchi) con lunghi
momenti di svago dedicati alla poesia e ai viaggi ameni. Dopo la morte del protettore
nel 1553, la partecipazione di Tansillo all’attività pubblica pare molto meno impegnata
anche se, dal 1561 in poi, ricopre la carica di capitano di terra a Gaeta. Muore a Teano
nel novembre del 1568.

La prima parte della produzione poetica di Tansillo, risale agli anni trascorsi a Venosa.
Questa fase è testimoniata principalmente da un egloga drammatica, I due pellegrini
del 1527, e, soprattutto, dal poemetto Il vendemmiatore del 1532. Quest’ultimo testo,
ambientato nella campagna di Nola, mette in scena l’abitudine all’improperium
sguaiato dei vendemmiatori in risposta ai richiami ironici dei passanti; su questo tema
Tansillo inserisce quello della celebrazione dell’amore sensuale inserito in un tessuto
classicheggiante ed arcadico. La vena giocosa di Tansillo si nota particolarmente nelle
Stanze a Bernardino Martirano del 1540 scritte per un viaggio con il figlio del vicerè,
mentre la linea più elegiaca si trova in poemetti come la Clorida del 1547 che è un testo
di palese influenza ovidiana dove l’autore riesce, al meglio nella sua capacità pittorica,
a rendere la vaghezza di una natura serena che lo scopo encomiastico dell’opera (in
onore delle virtù guerriere di don Pedro) non riesce a turbare.

Di un certo interesse, almeno per la tipologia dei temi, che paiono innovativi nel
panorama del petrarchismo cinquecentesco, è il canzoniere lirico che Tansillo
comincia a raccogliere probabilmente dal 1527 e che esce per la prima volta a stampa,
seppur parzialmente, nel 1531 (edizioni complete ci saranno solo nel Settecento). Le
rime raccolgono 104 sonetti, 9 canzoni, 5 madrigali e alcune altre rime ma sembra che
di esse l’autore abbia avuto una cura particolare, occupandosene per lunghi periodi
della sua vita. I risultati migliori si trovano quando l’autore si abbandona alla
descrizione elegiaca della natura con un attenzione al particolare minuto che sarà
tipica del secolo successivo. In contrapposizione ad una maggioranza quantitativa
delle situazioni elegiache, c’è un certa inclinazione alla rappresentazione dell’orrido e
della natura più selvaggia, con un sentore di repertorio più cesarottiano che prebarocco
(Masi).

Agli inizi del Cinquecento il genere arcadico e bucolico di Sannazzaro influenza la lirica
classicista di ambiente napoletano infatti, esso si impone come modello ai poeti della
generazione successiva fornendo un ampio repertorio di temi e di situazioni ma,
soprattutto, nel gusto per la descrizione pittorica e sensuale della natura e una visione
serena della vita e dell’uomo. Tale indirizzo si trova in quasi tutti i poeti partenopei attivi
dalla prima metà del secolo (fa eccezione forse solo il nobile Galezzo di Tarsia, più
malinconico e sofferente, a riflesso di una vita tormentata ed inquieta) tra i quali
emergono Bernardino Rota (1508-’75) e Luigi Tansillo (1510-1658). Se il primo si
distingue più per un taglio pontaniano nella composizione di epigrammi in latino vivo e
attuale e di egloghe con ambientazioni marinaresche e piscatorie, Tansillo è
sicuramente il più illustre esponente della ‘scuola’ napoletana della poesia in lingua.

Luigi Tansillo nasce nel 1510 a Venosa dove rimane per più di vent’anni componendo
sensuali poemetti legati all’ambiente dell’agro campano come, ad esempio, Il
vendemmiatore del 1532. In questo stesso anno si reca a Napoli sotto la protezione del
vicerè don Pietro di Toledo di cui frequenta assiduamente la corte beneficiando spesso
della compagnia del figlio, don Garzia. La vita di corte induce Tansillo ad alternare
periodi di grande impegno civile e militare (nel ’36 diventa guardia personale di don
Pedro e, in seguito, partecipa anche ad una spedizione contro i Turchi) con lunghi
momenti di svago dedicati alla poesia e ai viaggi ameni. Dopo la morte del protettore
nel 1553, la partecipazione di Tansillo all’attività pubblica pare molto meno impegnata
anche se, dal 1561 in poi, ricopre la carica di capitano di terra a Gaeta. Muore a Teano
nel novembre del 1568.
La prima parte della produzione poetica di Tansillo, risale agli anni trascorsi a Venosa.
Questa fase è testimoniata principalmente da un egloga drammatica, I due pellegrini
del 1527, e, soprattutto, dal poemetto Il vendemmiatore del 1532. Quest’ultimo testo,
ambientato nella campagna di Nola, mette in scena l’abitudine all’improperium
sguaiato dei vendemmiatori in risposta ai richiami ironici dei passanti; su questo tema
Tansillo inserisce quello della celebrazione dell’amore sensuale inserito in un tessuto
classicheggiante ed arcadico. La vena giocosa di Tansillo si nota particolarmente nelle
Stanze a Bernardino Martirano del 1540 scritte per un viaggio con il figlio del vicerè,
mentre la linea più elegiaca si trova in poemetti come la Clorida del 1547 che è un testo
di palese influenza ovidiana dove l’autore riesce, al meglio nella sua capacità pittorica,
a rendere la vaghezza di una natura serena che lo scopo encomiastico dell’opera (in
onore delle virtù guerriere di don Pedro) non riesce a turbare.

LA POESIA DI TANSILLO

Di un certo interesse, almeno per la tipologia dei temi, che paiono innovativi nel
panorama del petrarchismo cinquecentesco, è il canzoniere lirico che Tansillo
comincia a raccogliere probabilmente dal 1527 e che esce per la prima volta a stampa,
seppur parzialmente, nel 1531 (edizioni complete ci saranno solo nel Settecento). Le
rime raccolgono 104 sonetti, 9 canzoni, 5 madrigali e alcune altre rime ma sembra che
di esse l’autore abbia avuto una cura particolare, occupandosene per lunghi periodi
della sua vita. I risultati migliori si trovano quando l’autore si abbandona alla
descrizione elegiaca della natura con un attenzione al particolare minuto che sarà
tipica del secolo successivo. In contrapposizione ad una maggioranza quantitativa
delle situazioni elegiache, c’è un certa inclinazione alla rappresentazione dell’orrido e
della natura più selvaggia, con un sentore di repertorio più cesarottiano che prebarocco
(Masi).

LA LIRICA ANTI-CLASSICISTA : BERNI

Parallelamente all’ineffabilità della lirica petrarchesca che mira alla sublimazione dal
dato oggettivo, coesiste una vivacissima corrente di poesia realista che si pone, quasi
come obiettivo programmatico, il ribaltamento sarcastico e parodistico dei canoni
cristallizzati del petrarchismo. Il filone della poesia realista, che trova un ideale
modello poetico nella tradizione comica toscana due, tre e quattrocentesca (dalla vena
comica di Cecco Angiolieri al Dante della Commedia al Burchiello e al Pulci), guarda
anche ad esperienze più recenti come l’Ariosto delle Satire o al teatro comico. Tutta
questa ricca varietà di fonti, mescolata ad un gustoso ribaltamento dello stesso codice
petrarchesco reinterpretato in chiave comica, fornisce il materiale su cui si esercitano
Francesco Berni e i suoi imitatori.

Francesco Berni è senza dubbio l’iniziatore, il teorico e il più originale interprete del
versante realistico della poesia cinquecentesca. Molto presto si formerà una vera e
propria ‘scuola’ che consapevolmente riconosce in lui il padre e maestro del bernesco
stile: così si esprime Grazzini, editore già nel 1548 del Primo libro delle opere
burlesche. La forte caratterizzazione dello stile di Berni permette quindi la creazione di
un vero e proprio genere bernesco facilmente riproducibile, nel quale si provano molti
letterati (tra questi anche Annibal Caro, il futuro traduttore dell’Eneide), alcuni dei quali
si specializzano proprio in questo filone come Francesco Maria Molza, Giovanni Mauro,
Giovan Francesco Bini, aderisce a questo genere anche un artista come Angelo
Bronzino.

Francesco Berni nasce a Lamporecchio in val di Nievole attorno al 1496, figlio di un


notaio ha la possibilità di trasferirsi a Firenze dove studia e riceve una prima
educazione poetica sui testi volgari della tradizione toscana. La prima prova letteraria
di rilievo di Berni ventenne è il dramma rusticale La Catrina (pubblicata postuma nel
1567). Il modello è chiaramente quello della produzione nenciale che, iniziato
dall’opera eponima, la Nencia da Barberino del Magnifico, aveva anche conosciuto
diverse distorsioni comiche come la Beca da Dicomano del Pulci. La trama è quella
topica del genere: due contadini, Beco e Mecherino, si contendono l’amore di una
donna, Catrina, nella realistica ambientazione del contado fiorentino. Nel 1517, sotto il
papa Leone X, Berni si reca a Roma a servizio del cardinale Bernardo Dovizi, il Bibbiena,
autore anch’egli di un’opera per il teatro. Un capitolo ingiurioso scritto contro il nuovo
papa fiammingo Adriano IV, procura a Berni una severa condanna che lo costringe ad
un trasferimento forzato a Chieti.

Nel 1523, con l’elezione del nuovo pontefice, il fiorentino Clemente VII, Berni ritorna a
Roma in un clima più disteso, trovando protezione presso il vescovo Giovan Matteo
Giberti. Tra il 1524 e il 1531, Berni si dedica principalmente al rifacimento dell’Orlando
Innamorato boiardesco; nel 1527 partecipa all’edizione del Decameron e di questo
anno medesimo è il Dialogo contro i poeti. Ritornato a Firenze nel 1532, passa al
servizio del cardinale Ippolito de’ Medici con il quale si sposta tra Roma e Bologna ed è
a questo secondo periodo fiorentino che risale la felice stagione di ispirazione poetica
con vivaci capitoli in lode di Aristotele ma anche inidrizzati al letterato Bartolomeo
Cavalcanti o a Sebatiano del Piombo. Nel 1534 passa al servizio del duca Alessandro
de’ Medici ma questo cambiamento gli è fatale: trovandosi in mezzo alla feroce lotta
esplosa alla morte di papa Clemente tra il suo nuovo protettore e il precedente, viene
avvelenato nel maggio del 1535

BERNI: POESIA E STILE

Berni nel Dialogo contro i poeti del 1527 espone la sua posizione nei riguardi della
poesia classicista teorizzata da Bembo; in questo scritto, tra una dissacrante verve
polemica e una più consapevole e controllata analisi critica, viene attaccato l’elemento
fondante del classicismo volgare, il concetto di imitazione che per Berni esso non è
altro che una forma di furto letterario. Questo affondo nel vivo della teorizzazione
bembesca ben si inquadra nella concezione che Berni ha della poesia stessa: essa non
è il riflesso del trascendente o dell’irraggiungibile ma è, molto più realisticamente, una
forma di svago e di intrattenimento. La posizione, come è stato spesso sottolineato,
non è antiletteraria, anzi corrisponde ad una sorvegliata e raffinata ricerca nella
tradizione di forme e di elementi, una poesia insomma tanto impegnata nella forma
quanto disimpegnata nel contenuto (Bonora)

L’attuazione del progetto che punta al ribaltamento della lirica classicista si realizza
molto spesso riscrivendo in toni dissacranti e farseschi esempi famosi del
petrarchismo contemporaneo. È celeberrima la parafrasi comica del sonetto Crin d’oro
crespo e d’ambra e pura dove Bembo descrive la bellezza della donna e che in Berni
diviene Chiome d’argento fino, irte e attorte nel ritratto di una vecchia ripungnante.
Anche la sublimità dei temi affrontati dai contemporanei viene irrisa dal Berni e dalla
sua cerchia che dimostra piuttosto un gusto per i soggetti bassi e per le situazioni
fastidiose e surreali: sono paradigmatiche le lodi paradossali dell’anguilla, dell’ago,
della peste o del pitale mentre un piccolo e celeberrimo capolavoro come il Capitolo
del prete da Povigliano descrive, in toni ridicoli, una notte passata nella terribile e lurida
casupola di un ospite fanfarone.

BERNI: IL RIFACIMENTO DELL’ ‘INNAMORATO

Tra il 1524 e il 1531 Berni lavora a lungo ad un’impresa significativa per la storia del
romanzo cavalleresco e della lingua cinquecentesca: in sei o sette anni porta infatti a
termine una riscrittura completa dell’Orlando Innamorato di Boiardo. La veste
linguistica dell’opera originale, che presentava tratti di koinè settentrionale e che,
probabilmente, suonava sgradevole e a volte incomprensibile non solo a un toscano
del pieno Cinquecento, ma anche per i tanti non toscani seguaci del fiorentinismo
bembesco. Berni lavora quindi a una versione del capolavoro boiardesco
linguisticamente ‘aggiornata’ sull’uso corrente, riservandosi ampi margini di libertà
nell’adeguamento della morfologia e nel rimpasto della sintassi. L’intervento si allarga
a soppressioni e integrazioni di versi o di intere porzioni di testo: sono celebri, in questo
senso, le due ottave di dedica che Berni aggiunge al primo canto dove compaiono i
nomi di Isabella Gonzaga e di Vittoria Colonna, assenti nell’originale.

L’operazione bernesca sull’Orlando Innamorato è però di natura schiettamente


linguistica e ben si accorda con il programma di opposizione parodistica al classicismo
volgare bembesco che Berni persegue nella sua poesia. Berni utilizza infatti anche in
questa riscrittura il toscano vivo, parlato nella Firenze del primo ’500 e non la lingua
trecentesca, stilizzata e artificiale, proposta nelle Prose delle volgar lingua. L’idea di
Berni, secondo il giudizio di Carlo Dionisotti, è quella che un qualunque poeta toscano
poteva fare senza sforzo e meglio di quanto non avesse fatto Boiardo (ma anche Ariosto
o qualsiasi altro non-toscano) costretto a servirsi di una lingua di due secoli innanzi
laboriosamente recuperata e rimuginata. Il risultato del rifacimento bernesco è
sorprendente: l’Orlando Innamorato nella forma di Boiardo scompare quasi
completamente per circa trecento anni e solo nel 1830, a Londra, Antonio Panizzi
riesce a recuperare l’originale.

LATINO E DIALETTO

Il tentativo di ribaltamento del genere classicista appare più evidente nella geniale
mescolanza tra latino e dialetto che si ritrova nella produzione macaronica, che ha in
Teofilo Folengo, il suo inventore e l’esponente più importante. Il maccheronico non è
semplicemente un genere letterario ma costituisce un vero e proprio linguaggio poetico
che utilizza una fantasiosa mescolanza tra il latino e i dialetti dell’Italia settentrionale.
L’origine di questo codice è sicuramente accademica e deve essere ricercata negli
esperimenti letterari goliardici di studenti delle grandi università come Padova e Pavia,
che giocavano sulla parodia del latino dotto della retorica classica innestandolo
continuamente con idiotismi propri delle parlate dialettali. Su questo terreno Folengo
costruisce il suo rovesciamento comico della tradizione, rendendo in farsa generi alti
come il poema epico o l’egloga, ricollocandoli in ambientazioni realistiche.

Oltre agli esperimenti folenghiani, nel ’500 si trovano altre modalità di produzione
poetica mirata alla critica comica dell’ormai superato universo classicista, che
utilizzano altri codici linguistici e poetici in opposizione al petrarchismo dominante.
Ancora caratterizzato da un impasto linguistico che mescola latino, greco e volgare sul
piano lessicale, parodiando una curiosa e geniale opera pubblicata nel 1500 da
Manuzio, l’Hypnerotomachia Poliphili, è il polifilesco. Di tenore decisamente diverso è,
invece, il fidenziano, una satira acuta e pungente che prende di mira direttamente il
volgare latineggiante pomposo e accademico dei maestri di latino e che crea un lessico
pedantesco giocando proprio su latinismi inutili o esasperati. Infine, tra i linguaggi
speciali del ‘500 si può ricordare l’uso letterario del furbesco, il gergo della malavita,
utilizzato da autori di novelle e scrittori teatrali.

TEOFILO FOLENGO

Teofilo Folengo (al secolo Girolamo) nasce a Mantova, figlio di un notaio, nel 1491,
intorno al 1507 entra nell’ordine benedettino insieme al fratello Giambattista (autore di
scritti religiosi in latino) cambiando spesso residenza all’interno dei grandi monasteri
dell’ordine e trova infine il suo ambiente culturale ideale nella tranquillità del
monastero di San Benedetto Polirone, poco fuori Mantova dove Folengo si traferisce
dal 1512 e dove occupa anche un ruolo nell’amministrazione che gli permette frequenti
contatti con il mondo esterno. Il giovane benedettino critica fortemente la corruzione
del clero e la crisi morale della Chiesa che lo avvicina allo spirito eterodosso della
Riforma. A cavallo degli anni ’20 del secolo, forse durante un soggiorno nel monastero
di Santa Giustina a Padova, Folengo si occupa delle due prime edizioni delle
Maccheronee (rispettivamente del 1517 e del 1521), scritte sotto il nome di Martin
Cocai (cocai in veneto ‘gabbiani’ e metaforicamente ‘sciocchi’).

Nel 1525, forse a causa di dissapori interni alla vita monastica, Folengo decide di uscire
dall’ordine benedettino. A Venezia, sotto la protezione di Camillo Orsini, scrive un
poema in ottave, l’Orlandino, pubblicato sotto lo pseudonimo di Limerno Pitocco.
Pochi anni dopo, nel 1531, Folengo chiede di essere reintegrato nell’ordine dove può
rientrare solo nel 1534, dedicandosi ad un’intensa attività letteraria di carattere
religioso e lavorando ad opere in latino e in volgare. Folengo però deve spostarsi
frequentemente per tutta Italia, dai conventi del Bresciano alla Sicilia, dove rimane per
almeno quattro anni a Palermo. L’utima stagione della vita di Folengo, ritornato al nord
nel 1542 nel monastero di Santa Croce di Campese vicino a Bassano del Grappa,
coincide con la revisione delle Maccheronee che continua quasi fino alla sua morte
avvenuta nel 1544.

FOLENGO: LE MACCHERONEE E IL BALDUS

La raccolta de le Maccheronee, testo fortunatissimo è oggetto di almeno quattro


redazioni d’autore individuate da altrettante edizioni: dopo la princeps veneziana di
Alessandro Paganino nel 1517 ne seguono altre due in vita, nel 1521 e nel 1535 (l’ultima
data non è però certa), mentre la versione definitiva postuma, la cosiddetta Vigaso
Cocaio, è del 1552. Le Maccheronee raccolgono più opere che si pongono a parodia di
generi letterari alti come il poema epico o l’egloga, una di queste, la Zanitonella, è una
satira del genere bucolico e narra l’amore infelice di Zanello per Tonina. L’intento
satirico e dissacrante si realizza nella parodia del linguaggio dell’egloga arcadica e
petrarcheggiante, e nella realistica rappresentazione della vita rusticale, colta anche
nei suoi aspetti più grossolani, che ribalta la stilizzazione astratta della tradizione
bucolica, antica e cinquecentesca.

Il capolavoro di Folengo, contenuto anch’esso nelle Maccheronee, è il Baldus,


riduzione farsesca in esametri latini del poema cavalleresco. La trama: a Cipada,
sobborgo rustico di Mantova, arrivano in fuga dalla Francia la figlia del re con il barone
Guidone; qui, nell’umile casa di Berto, nasce il figlio dei due nobili innamorati, Baldus.
Il bambino, cresciuto all’oscuro delle sue origini, dimostra subito un carattere fiero e
ribelle e insieme all’astutissimo compagno Cingar si trova al centro di una serie surreali
avventure che lo conducono, tra streghe, diavoli e personaggi fantastici, alla casa della
fantasia dove, all’interno di una zucca gigantesca, si trovano gli spacciatori di frottole,
cioè i poeti. Qui si interrompe il poema. I versi del Baldus, nei quali forme dell’italiano e
del dialetto mantovano sono adattate alle regole morfologiche del latino e convivono
con parole latine dimostrano un elevato grado di letterarietà nella rete di rimandi alla
cultura classica (Virgilio), ma anche alla tradizione volgare (Dante, Boccaccio, Pulci del
Morgante, autentico antenato del Baldus).
POLIFILESCO, FIDENZIANO, GERGO

Nel 1499 Aldo Manuzio stampa a Venezia l’Hypnerotomachia Poliphili, un geniale e


visionario romanzo attribuibile a Francesco Colonna scritto in una lingua unica e
raffinata, in cui si mescolano latino ed italiano. All’inizio del Cinquecento si registra,
anzitutto localmente nell’Italia settentrionale, la presenza di un filone di imitatori che
ne ripetono non solo la fantasmagoria delle situazioni ma, soprattutto, l’unicità
dell’impasto linguistico. Tra le opere che possono essere ricondotte all’etichetta di
polifilesco si possono ricordare almeno il Somnium Delphili del piacentino Marco
Antonio Ceresa o il Libro del Pellegrino di Iacopo Caviceo.

Di poco più tardo rispetto alla corrente polifilesca si colloca invece il cosiddetto
fidenziano che prende nome dai Cantici di Fidenzio del nobile giureconsulto vicentino
Camillo Scroffa (1526-1565). Nei Cantici l’autore parla in prima persona sotto il nome
di Fidenzio Glottocrisio sotto le cui spoglie si cela il celebre Pietro Giunteo Fidenzio da
Montagnana, professore pedante nella Padova di primo ’500. La lingua gioca sulla
parodia dell’italiano latineggiante dei maestri di scuola e sulla ridicolizzazione del
linguaggio stilizzato dei petrarchisti. Infine, di segno opposto, è il furbesco che attinge
al ricchissimo serbatoio espressivo dei gerghi parlati dalla malavita, già impiegati ad
esempio nelle novelle, nel teatro ma anche da autori come Pulci. Nel 1545 viene
addirittura stampato a Ferrara una sorta di dizionario della lingua furbesca il Nuovo
Modo de intendere la lingua zerga. Ciò è parlare Forbescho, probabilmente attribuibile
all’opera di un dotto, il padovano Antonio Brocardo

IL TEATRO IN VOLGARE NEL ’500

Il genere comico, vivacissimo per tutto il corso dell’intero secolo, attinge i propri
modelli da due grandi filoni di ispirazione: da una parte situazioni e gli intrecci (e,
volendo, anche i titoli) che si rifanno alla commedia latina di Plauto e di Terenzio;
dall’altra, la produzione novellistica italiana (soprattutto il Decameron di Boccaccio)
che offre al repertorio teatrale un ricchissimo campionario di personaggi, e di situazioni
comiche facilmente adattabili alle scene. Dalla tradizione della novella e, più in
generale, da tutta la letteratura realistica, il teatro comico trae anche una delle sue
maggiori linee di sviluppo, fondata su ingredienti linguistici e rappresentata dalla
cosiddetta commedia plurilingue in cui coesistono in perfetta simbiosi lingua e dialetti
e da dove si svilupperà dal secondo ‘500 a Goldoni, un teatro di tipi e maschere
caratterizzati dal punto di vista dialettale (Pulcinella, Pantalone ecc.), cioè la
Commedia dell’Arte.

La letteratura teatrale cinquecentesca in volgare presenta, un panorama ricchissimo di


titoli e di sottogeneri che coprono tutte le possibilità della produzione drammaturgica:
1) Come eredità del secolo precedente, generi tipicamente quattrocenteschi come la
sacra rappresentazione sopravvivono ancora, anche se in aree sempre più ristrette. 2)
Una particolare attenzione, è riservata, almeno dal secondo decennio del secolo, alla
tragedia di argomento classico: la lettura delle opere aristoteliche sulla poesia, imporrà
rigide regole di unità compositiva e di edificazione morale che si rifletteranno
direttamente sulla scrittura delle tragedie in volgare, dalla Sofonisba del Trissino alla
Canace dello Speroni alle tragedie del Giraldi Cinzio. 3) Il genere “misto” del dramma
pastorale, sviluppatosi dalla metà del secolo, conosce un grande favore e produce
capolavori come l’Aminta del Tasso, composta e rappresentata a Ferrara nel 1573. 4)
Ma il genere più fortunato, almeno fino alla Controriforma è la commedia in volgare di
ascendenza classica (commedia “erudita” o “regolare”, cioè modellata sul teatro
latino), che da Ferrara e da altre corti del Nord si diffonde a Roma, a Firenze e a tutti i
principali centri culturali del tempo.

IL TEATRO POPOLARE

Molte volte si trova attribuita a un filone della commedia cinquecentesca l’etichetta


convenzionale di teatro popolare. In effetti, nella maggior parte dei casi, la trama, le
situazioni grossolane, il linguaggio crudamente realista sembrano rimandare
effettivamente agli strati più bassi e ‘popolari’ appunto del pubblico cinquecentesco.
Un’analisi più accurata dimostra che dietro questa rappresentazione del ‘basso’ o del
triviale si trova invece un intento letterario. La commedia ‘popolare’ si colloca come un
ribaltamento dei generi alti, delle situazioni eroiche e sublimi del poema, del linguaggio
rarefatto ed artificiale della lirica petrarchesca. A tutto questo la commedia
contrappone personaggi estremamente improbabili, le cui ‘virtù’ (l’astuzia, la sveltezza,
la capacità di cogliere il momento opportuno) sono l’esatto opposto di quelle
canoniche della letteratura classicista, e i cui vizi sono portati talmente all’eccesso da
diventare l’asse portante di tutto l’intreccio.

Questo tipo del teatro italiano, definito una commedia di caratteri, dove più che alla
trama vera e propria l’autore presta l’attenzione alla caratterizzazione del singolo
personaggio, ha i suoi due poli principali in Veneto e in Toscana. Una tradizione (già
quattrocentesca) di poesia rusticale vivace e realistica, parodia sarcastica dei generi
bucolici più elevati, sviluppatasi principalmente a Padova, ha fornito l’ispirazione a
Ruzante, il genio comico più produttivo ed originale del secolo. A Venezia invece tende
a svilupparsi un genere di commedia più cittadino e borghese, caratterizzata da un
netto plurilinguismo che, come nei testi di Andrea Calmo o nella straordinaria e
anonima Vieniexiana, riflette la vita cosmopolita e varia della più ricca potenza
commerciale dell’Adriatico. Di ispirazione sempre popolare e rusticale è il genere di
commedia rappresentato a Siena dalla Congrega dei Rozzi che riserva un particolare e
crudele filone satirico nei confronti del clero corrotto e vizioso come nell’anonimo
Pidinzuolo o nelle opere dello Stricca Legacci.

LA ‘VENIEXIANA
Piccolo gioiello della prodozione comica settentrionale cinquecentesca è la celebre
Veniexiana, un testo anonimo tramandato da un unico manoscritto la cui composizione
si può far risalire alla metà degli anni ’30. Non fabula non comedia ma vera istoria recita
una sorta di epigrafe scritta in testa alla commedia, infatti la vicenda narrata è
assolutamente verosimile, ambientata in una realistica Venezia contemporanea
descritta dall’autore con precisione di dettaglio. L’intreccio ruota intorno a tre
protagonisti principali: il giovane lombardo Giulio e le due donne della classe dirigente
veneziana Anzola e Valiera che se ne contendono l’amore. Giulio, appena giunto a
Venezia vede la giovane Valiera infelicemente sposata con un vecchio e se ne
innamora; riesce a fissare con lei un appuntamento ma la scaltra vedova Anzola, che
smania anch’essa per il giovane, riesce a sviare il convegno amoroso e a passare una
notte con Giulio. Alla fine, le trame disordinate della vicenda si ricompongono in un
atteso lieto fine che vede coronato l’amore dei due giovani.

Commedia bellissima e originalissima, è l’autorevole giudizio di Croce, la Veniexiana è


un testo estremamente vivace e realistico, capace di riprodurre con straordinaria
efficacia i caratteri dei personaggi nei loro stati d’animo. L’azione si svolge a Venezia
topografico, dove si trovano personaggi storicamente riconoscibili che utilizzano
varietà linguistiche vive e freschissime, arricchite di proverbi e modi di dire che
contribuiscono perfettamente alla resa realistica del parlato (il bergamasco del
facchino, il veneziano popolare delle ancelle, quello italianeggiante delle padrone, la
lingua di corte di Giulio). Le situazioni, anche quelle più piccanti, vengono affrontate
con spregiudicatezza senza mai cadere nel triviale o nell’osceno gratuito: questa
capacità di controllo nell’organizzazione compessiva dell’opera sembra profilare l’idea
di un autore di una certa cultura e competenza letteraria che, se non si riesce ad
identificare con certezza, sembra comunque potersi ricondurre alla cerchia del patrizio
Giovan Francesco Valier, al cui nome si legano personaggi della levatura di Bembo,
Castiglione e Speroni.

LA COMMEDIA DELL’ARTE

La Commedia dell’Arte non è un fenomeno prettamente letterario o artistico, il testo


teatrale non viene nemmeno scritto, ma è legata piuttosto ad un fatto professionale
collegato alla formazione degli attori. Il tetro comico successivo risentirà dei suoi
influssi per almeno i due secoli successivi. L’interesse dei professionisti della
letteratura per la commedia dell’arte è ben testimoniato sia in termini di aspra
condanna per l’immoralità dei temi che veniva dalla Chiesa ma anche da personaggi
come Bernardo Davanzati, sia invece in parole di sincera simpatia come alcune celebri
ottave del Lasca in plauso degli ‘zanni’ (i facchini stereotipati dell’Arte). In un modo o
nell’altro la cultura ‘ufficiale’ si è spesso dovuta confrontare con questo filone teatrale
che comincia ad assumere crescente importanza attorno alla metà del Cinquecento.
Al 1545 risale il primo documento noto che attesta la costituizione a Padova di una
compagnia di attori comici professionisti. le prime associazioni di teatranti non tuttavia
presentavano strutture rigidamente determinate o contratti dettagliati, tuttavia, già
verso la fine del secolo, il fatto che le compagnie tendevano a distinguersi con dei nomi
precisi (i Confidenti, i Gelosi) è indicativo di un progressivo autoriconoscimento mirato,
con ogni probabilità, a nobilitare la propria attività professionale. I testi rappresentati
nella maggioranza dei casi non erano messi per iscritto (solo agli inizi del ’600 andrà a
stampa qualche opera): all’autore, che era spesso uno degli attori, era richiesto un
semplice canovaccio, una trama minima su cui si esercitava la bravura degli attori. La
recitazione lasciata all’improvvisazione era resa possibile dalla caratterizzazione
stereotipata e ripetitiva dei personaggi: il soldato fanfarone, il professore pedante, la
donnetta leggera, il parassita, il servo astuto e affamato, figure nelle quali si
riconoscono gli archetipi delle maschere che si ritroveranno nelgrande teatro
settecentesco di Goldoni.

LA POESIA RUSTICALE E IL PAVANO

Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del secolo successivo fiorisce nell’Italia nord-
orientale un filone di poesia rusticale fortemente realistica che trova il suo mezzo
espressivo di elezione nel pavano, il dialetto padovano rustico parlato dai contadini. Le
origini e lo sviluppo della poesia comica in pavano vanno ricercate in un gioco letterario
tra colti, analogo alla parodia latina del genere bucolico i ispirazione pontaniana.
Sebbene quasi tutti i componimenti di questo genere ci siano pervenuti anonimi, sono
possibili alcune attribuzioni a letterati di mestiere come Marsilio da Carrara oppure a
professionisti del diritto come il giureconsulto padovano Eliseo. La rappresentazione
della campagna e della vita rurale non risente degli stereotipi dell’egloga
classicheggiante ma fa del realismo più oltranzista l’elemento fondamentale su cui
costruire la poesia. Si intravede quindi quell’elogio del ‘naturale’ che sarà
programmatico nella poetica di Ruzante.

La ricerca di forme espressive che possano rendere al meglio il reale e il ‘naturale’ trova
la sua forma ideale nell’impiego del dialetto e delle strutture poetiche più popolari
come lo strambotto e la frottola. Tale scelta, sembra andare al di là della semplice resa
mimetica del parlato: anch’essa pare infatti piuttosto una forma di reazione alle lingue
ineffabili e artificiali del classicismo, e del classicismo bembesco, che viene assunto
semmai come elemento comico e da parodiare (il ‘parlar moscheto’, cioè
artificiosamente fiorentineggiante del citato Ruzante). Anche le situazioni
rappresentate in questa tradizione sono incompatibili con l’idealizzazione dell’amor
cortese che si trova nella letteratura alta, l’argomento della poesia rusticale è piuttosto
l’amore reale, dipinto a tinte forti nelle smanie tra gli innamorati e negli screzi tra marito
e moglie. Proprio quest’ultimo tema diventa topico di una embrionale produzione
drammatica, i cosiddetti mariazi, che costituiscono uno dei modelli portanti per lo
sviluppo degli intrecci di Ruzante.

RUZANTE

Il maggiore scrittore comico del Cinquecento è Angelo Beolco (detto il Ruzante dal
nome del più celebre dei suoi personaggi, riconosce proprio nel dialetto pavano e nella
rappresentazione realistica della vita rurale i fondamenti della sua arte poetica.
Ruzante nasce a Padova tra il 1496 e il 1500, figlio illegittimo di un professionista (il
padre era stato anche rettore della Facoltà di Medicina). Per quasi tutta la sua vita, fino
alla morte prematura avvenuta nel 1542, rimane legato al nobile veneziano Alvise
Cornaro, amico, protettore e committente di molte opere. Nelle ville del Cornaro,
Ruzante affianca l’attività di fattore e amministratore a quella principale di autore di
commedie, professione che prevedeva anche la messa in scena e la recitazione. Il
contatto diretto con la campagna padovana fornisce alla geniale fantasia di Ruzante
una quantità enorme di personaggi; l’esperienza del dialetto, realmente parlato dai
contadini, si riflette immediatamente nella poetica del naturale (la naturalitè, con sue
parole) teorizzata nelle sue prime opere

La prima fase della produzione, corrispondente alla composizione della Pastoral e della
Betìa, persegue una consapevole adesione al ‘naturale’ che non si esprime solo con il
dialetto ma con l’adeguamento al reale di tutta la rappresentazione, senza astrazioni
letterarie. La prima delle due commedie, la Pastoral, è una satira che prende di mira il
genere arcadico dell’egloga, ed è costruita sul contrasto linguistico tra il dialetto (il
pavano e il bergamasco di alcuni personaggi) e la lingua pedantemente letteraria
parlata dai pastori e dalle ninfe. La Betìa è invece un esempio chiaro dell’evoluzione
della farsa amorosa tipica dei mariazi, nel prologo di quest’opera si trova anche la
celebre dichiarazione di poetica ‘naturale’.

A cavallo degli anni ’30 del secolo, con i Dialoghi e due commedie in prosa, la Moscheta
e la Fiorina, si può registrare un cambiamento abbastanza netto nel teatro di Ruzante,
forse come riflesso di una trasformazione del quadro storico e sociale. In quegli anni la
repubblica di Venezia era impegnata con la Lega di Cognac in una ormai annosa guerra
contro l’Impero, quello del contadino arruolato per fame, che, dopo la guerra, ritorna a
casa dove vorrebbe vantarsi ma trova la moglie accompagnata con un altro, diventa
così un tema tipico della produzione di questi anni. Il tema del reduce viene sviluppato
nel Parlamento [cioè ‘diceria, orazione’] de Ruzante che, assieme al Menego e al Bilora,
compone la trilogia dei Dialoghi: in quest’opera il contadino Ruzante (il nome del
personaggio finirà per essere assunto dall’autore-attore) ritorna dal campo di battaglia
e scopre che la moglie si è trasferita a Venezia sotto la protezione di un brao [un ‘bravo’,
nel senso che la parola avrà ancora in Manzoni]. Tentando di recuperarla, Ruzante, che
pur millanta forza e ardire militareschi, viene preso a bastonate e non gli resta altro da
fare che darsi ad una umiliante fuga.
Le ultime due commedie di Ruzante, databili tra il 1532 e il 1533 risentono invece degli
influssi della commedia classica latina, La Piovana e l’Asinaria sono evidentemente il
rifacimento di due opere di Plauto (rispettivamente il Rudens e la Vaccaria) dove, sul
tema classico, viene applicata una rivestitura rusticale e l’uso del dialetto. Come
spiega lo stesso Ruzante nel prologo della Piovana, le commedie antiche erano state
scritte per i vecchi antichi, per i morti che ora non sono più in una lingua oggi
incomprensibile e inutilizzabile e l’autore ha lasciato le loro parole ai morti e il senso di
quelle parole lo ha adattato per i vivi. Plauto stesso, come si avverte nel prologo della
Vaccaria, non farebbe le sue commedie di altra maniera che questa medesima.

LA FORTUNA DI RUZANTE

La straordinaria lezione di Ruzante nella ricerca di un teatro ‘naturale’ e nell’uso


spregiudicato delle capacità espressive del dialetto sulla scena, anche adattato agli
schemi della commedia classica, pare raccolta con successo dal un conterraneo, il
veneziano Andrea Calmo. Di una decina d’anni più giovane di Ruzante (nasce infatti tra
il 1509 e il 1510) affianca la professione di tintore a quella di attore e di autore di
commedie: alcuni dei suoi titoli richiamano in maniera inequivocabile l’opera
ruzantiana (Calmo scrive anch’egli una Fiorina e la sua Rodiana viene stampata
addirittura sotto il nome di Ruzante), ma la maggior parte delle sue commedie, dal
Travaglia al Saltuzza, sono variazioni originali e sincere sui temi dell’illustre modello. La
marca più singolare del teatro plurilingue di Calmo è la grandissima varietà di
sfumature dialettali e gergali che caratterizzano i suoi testi: vi si trovano parti dove
viene riprodotto ad esempio il romaico, il greco cinquecentesco delle colonie egee,
parlato dal mercante o dal mercenario, oppure il bulesco, il gergo della malavita
veneziana o piuttosto degli operai del locale arsenale

Un episodio più tardo della fortuna di Ruzante è rappresentato dall’attenzione riservata


alla sua poesia da un lettore straordinario come Galileo Galilei. Il maggiore scienziato
del Seicento era un lettore appassionato della tradizione letteraria italiana (da Dante ad
Ariosto a Tasso) e apprezzava particolarmente Ruzante per la ricerca di una
rappresentazione del ‘naturale’ che ben si conformava al sistema positivo della
scienza. Ma l’argomento che deve aver maggiormente stimolato Galilei pare tuttavia
quello linguistico: a Galilei sembra che il dialetto spontaneo e naturale di Ruzante sia
una reazione, seppure esagerata, al latino accademico degli aristotelici, che lui andava
minando con la sua scelta del volgare nelle opere di divulgazione scientifica. In una
lettera datata al 1612, Galilei scrive appunto della sua convinzione di abbandonare il
latino per raggiungere tutti, anche quei lettori che non conoscono il latino.

LA COMMEDIA LETTERARIA

Accanto alla produzione comica in dialetto si registra, come riflesso dell’amore per il
teatro tipico della società cortese del ’500, quella di commedie in lingua di tipo più
chiaramente letterario. Nelle corti e nelle università dell’Italia settentrionale, la
graduale riscoperta della commedia classica di Plauto e di Terenzio conduce ad una
produzione autonoma in volgare, modellata sulle commedie dei classici. Anche nelle
opere di Ruzante e di Calmo, il teatro plautino viene ripreso per essere riutilizzato in
chiave rusticale. Più in generale, esiste anche una copiosa tradizione di commedie di
ispirazione classica, generalmente in prosa, scritte in un italiano letterario, a partire
almeno dalla Cassaria e dai Suppositi dell’Ariosto (1508-1509). Sul modello classico
influisce ben presto e vistosamente la tradizione novellistica. Ad esempio, la Calandra
del Bibbiena, costruita sulla falsa riga dei Maenecmi plautini, pare riferirsi fin dal titolo
al Calandrino del Decameron boccacciano, che, reinterpretato senza la pedanteria dei
teorici, fornisce una preziosa casistica di situazioni, di caratteri e battute comici sui
quali gli autori esercitano la loro fantasia.

Il panorama della letteratura comica in lingua che si osserva lungo tutto il corso del
secolo rispecchia sia l’interesse che essa suscitava negli spettatori sia il largo spazio
riservatole dall’editoria e dalla stampa. Anche la tipologia differente degli autori che si
misurano con questo genere testimonia la varia fortuna che la commedia in lingua
riscuote negli ambienti letterari del ’500. Si trovano infatti dei ‘commediografi’ eslcusivi
o quasi, specializzati nel genere, ma abbiamo anche prove teatrali di grande valore da
parte di scrittori che si sono cimentati quasi occasionalmente in questo tipo di
letteratura, è il caso, ad esempio, del marchigiano Annibal Caro: il suo nome si lega
soprattutto alla monumentale traduzione dell’Eneide in endecasillabi sciolti, ma è
anche l’autore di un’unica commedia classicheggiante e di ambientazione romana, Gli
Straccioni, rappresentata nel 1544. L’accademico fiorentino Giovan Battista Gelli,
invece, alternava il suo impegno letterario di lezioni dantesche e di riflessione filosofica
e linguistica alla scrittura di opere comiche come La Sporta del 1543 o L’errore del
1556.

BERNARDO DOVIZI, IL BIBBIENA

Un esponente illustre della commedia letteraria in lingua che si distingue in maniera


singolare nella produzione congenere, è il cardinale Bernardo Dovizi, detto il Bibbiena
dal paese di origine nel Casentino, dove nasce nel 1470. Dopo i primi studi, avvenuti
con ogni probabilità negli ambienti della corte medicea presso la quale otterrà poi
anche rilevanti incarichi diplomatici, si avvia alla carriera ecclesiastica che lo porta,
grazie all’appoggio di Giovanni de’ Medici divenuto papa con il nome di Leone X, ad
essere eletto cardinale nel 1513. Negli ultimi anni della sua vita è impegnato in
importanti legazioni pontificie e muore nel 1520 dopo una missione in Francia.
L’inclinazione letteraria del Bibbiena è favorita da un circolo di amicizie estremamente
stimolanti tra le quali sono da ricordare quelle di Bembo e Castiglione. L’unica
commedia da lui scritta, La Calandra, è tra i modelli del teatro rinascimentale italiano.
La Calandra, rappresentata per la prima volta ad Urbino il 6 febbraio del 1513 e
replicata nel 1515 in Vaticano alla presenza di Leone X, è una commedia che trae
ispirazione dal teatro plautino (spunti derivati dalla Casina e dai Maenecmi), sul quale
viene attuato un innesto di situazioni novellistiche di provenienza boccacciana. La
vicenda narrata è complicatissima e vede, al centro dell’intreccio i due fratelli Lidio e
Santilla, separati violentemente nel momento della conquista di Modena da parte dei
Turchi. La storia presenta un andamento assai intricato, reso ulteriormente ambiguo
dal fatto che la sorella si veste da uomo facendosi credere Lidio mentre il fratello si
camuffa da donna (sotto il nome di Santilla) per potersi recare dall’amata Fulvia, moglie
del vecchio Calandro dal cui nome quale deriva il titolo dell’opera. Dopo una serie di
equivoci e di situzioni assurde che ripetono modelli novellistici, la vicenda si conclude
con il riconoscimento dei due fratelli (l’agnizione tra i doppi, topica del teatro plautino)
e con un lieto fine che risarcisce i protagonisti di tutte le traversie che si sono trovati ad
affrontare.

PIETRO ARETINO

Pietro Aretino nasce nel 1492 ad Arezzo da famiglia di modesta estrazione, il padre,
forse un Luca Del Tura, abbandona presto la famiglia e Il giovane Pietro, dopo la prima
infanzia passata con la madre, si trasferisce a Perugia dove si dedica alla pittura e
all’apprendistato poetico. Nel 1517 giunge a Roma al servizio del potente banchiere
Agostino Chigi presso il quale ha la possibilità di dar sfogo alla sua dirompente vena
poetica, comica e dissacrante. Alla morte di Leone X, l’Aretino, forse anche perché
legato al partito che sosteneva l’elezione di Giulio de’ Medici, a causa di ferocissimi
componimenti satirici, le cosiddette pasquinate, contro il nuovo pontefice fiammingo
(quello stesso Adriano VI che è causa anche delle sfortune del Berni) si allontana da
Roma. Dopo un anno passato tra Bologna, Firenze e Mantova può rientrare a Roma nel
1523 con l’elezione del nuovo papa mediceo Clemente VII. Nell’estate del ’25 la
composizione di alcuni sonetti osceni a commento dei disegni erotici di Giulio Romano
incisi da Marcantonio Raimondi e la forte opposizione del datario papale Gian Matteo
Giberti lo spingono nuovamente (dopo essere sopravvissuto all’aggressione di un
sicario) ad abbandonare la città e ad unirsi al seguito dell’amico condottiero Giovanni
dalle Bande Nere.

Nell’autunno del 1526, alla morte di Giovanni, l’Aretino matura la decisione di


trasferirsi definitivamente nella Venezia repubblicana il cui ambiente libero e aperto
meglio si adatta al suo carattere e alle sue aspirazioni. A Venezia, dove si trova dal
marzo del ’27, la frequentazione di personaggi in vista come Tiziano o il Sansovino gli
procura un rapido ingresso negli ambienti artistici e politici che gravitavano attorno al
doge Andrea Gritti, della cui protezione l’Aretino può avvantaggiarsi. Il periodo
veneziano è costellato di successi letterari che interessano generi diversi,
dall’epistolografia alla commedia, dalla letteratura cavalleresca ai componimenti
osceni (i Ragionamenti sono realistici dialoghi tra cortigiane con un gusto ostentato per
il pruriginoso e lo sboccato) ai temi religiosi e spirituali di opere come l’Humanità di
Cristo o la Vita di Maria vergine. Temuto dai potenti per i suoi scritti feroci al punto di
meritarsi il nome di ‘flagello dei principi’ (così lo apostrofa l’Ariosto nell’ultimo canto
del Furioso nella versione definitiva del 1532) muore a Venezia nel 1556.

IL TEATRO DELL’ARETINO

L’Aretino, si occupa anche di teatro a cui viene riservato uno spazio tutt’altro che
secondario. Sono sicuramente dell’autore almeno cinque commedie: La Cortigiana, Il
Marescalco, La Talanta, Lo Ipocrito e Il Filosofo del periodo veneziano. Nel teatro di
Aretino è forse possibile individuare un percorso abbastanza lineare iniziato con le
prime due, La Cortigiana e Il Marescalco, dove abbondano i temi novellistici con un
gusto per la beffa e lo scherzo e dove non si riscontra ancora quell’adesione ai modelli
classicheggianti e plautini caratteristici delle tre commedie della maturità. In queste
ultime, infatti, si riconoscono chiaramente elaborazioni di personaggi della tradizione
comica latina come il soldato fanfarone (il capitano Tinca della Talanta) o il filosofo
pedante (l’improbabile Plataristotile del Filosofo, appunto) Alle commedie va aggiunta
infine un’unica tragedia classicheggiante di argomento liviano, l’Orazia ambientata
nella Roma della guerra contro gli Albani nel momento del duello tra Orazi e Curiazi.

Il capolavoro della fantasia comica dell’Aretino resta ad ogni modo La Cortigiana:


pubblicata nel 1534, durante quindi il periodo veneziano dell’autore e attentamente
rivista, risale però almeno al 1525, la stagione romana delle ‘pasquinate’ e dei Sonetti
lussuriosi. Nell’intreccio della Cortigiana si intersecano due principali filoni narrativi: da
una parte si racconta dell’ingenuo messer Maco de Coe che, giunto a Roma da Siena
con l’assurda ambizione di diventare cardinale, incappa in un burlone, maestro Andrea,
che lo trascina in una serie assurda di avventure, tra beffe e travestimenti; dall’altra il
napoletano Parabolano, cortigiano di rango, si innamora perdutamente di una donna,
Livia; anche lui incontra un furfante matricolato, Rosso, questi, in combutta con la
vecchia cortigiana Alvigia che, a sua volta, si finge la nutrice di Livia, combina un
convegno amoroso tra Parabolano e la Togna, moglie di un fornaio che il napoletano
crede la sua amata. Ma la vera protagonista della commedia è la Corte della Roma
papalina degli anni ‘20, corrotta e spregiudicata, vista dalla strada cioè ritratta dal
punto di vista dei borghesi, delle cortigiane e del sottoproletariato che popola la città.

ORIGINI DEL DRAMMA PASTORALE

Il dramma pastorale (o tragicommedia) costituisce nel complesso della produzione


teatrale cinquecentesca un genere fortunatissimo e dibattuto, oggetto da una parte
dell’ammirazione del pubblico cortese e dall’altra dell’aspra condanna dei teorici del
dogmatismo aristotelico in materia poetica. Il dramma pastorale nasce dall’idea di
trasportare nella rappresentazione scenica un genere destinato alla lettura come
l’egloga di ascendenza teocritea e virgiliana. Gli archetipi vanno ricercati nella
letteratura greca e romana classica di carattere lirico e bucolico. Tuttavia, le nuove
traduzioni e i progressi della filologia umanistica avevano messo a disposizione dei
poeti una quantità ampia di fonti a cui poter attingere e che includeva anche le opere di
età ellenistica: l’uso di un’arte raffinata e rarefatta e l’atmosfera di un fantastico
vagheggiamento pastorale rende i testi della tarda grecità particolarmente congeniali al
temperamento lirico cinquecentesco. Non più quindi solo Virgilio, ma anche il Teocrito
degli Idilli e gli autori di elegie come Mosco o Anacreonte.

All’origine del dramma pastorale esiste una tradizione genuinamente italiana tre e
quattrocentesca entro la quale alcuni modelli classici erano già stati ripresi e fatti
propri dalla la poesia nostrana. Gli autori del ’500 continuano a leggere opere come il
Bucolicon carmen petrarchesco o il Ninfale fiesolano di Boccaccio di cui ripetono gli
schemi e gli intrecci narrativi. Oltre ai grandi modelli trecenteschi in volgare (favoriti
anche dal pregiudizio bembesco della loro ‘eccellenza linguistica’) va tenuto conto
anche dell’apporto della poesia del tardo ‘400 di Poliziano (sia nelle Stanze sia nella
Fabula di Orfeo del 1480), di Lorenzo il Magnifico e dell’invenzione arcadica del
Sannazzaro. Da questa ricchezza di fonti e da una rielaborazione dei diversi risultati del
teatro contemporaneo comico e tragico, trae origine un genere di letteratura, appunto il
dramma pastorale che annovera due capolavori come l’Aminta di Tasso e il Pastor fido
di Guarini.

SVILUPPI DEL DRAMMA PASTORALE

È molto difficile stabilire una data di nascita precisa per il genere pastorale drammatico
ma pare tuttavia potersi individuare già nel Tirsi di Baldassarre Castiglione, risalente al
1506, uno dei primissimi episodi in cui il dramma pastorale presenta già la fisionomia
caratteristica che assumerà nel corso del Cinquecento. Oltre a questo lontano
progenitore del genere, si registrano alcuni esperimenti di questo tipo in diverse zone
d’Italia (ad esempio I due pellegrini del napoletano Luigi Tansillo o la fortunatissima
Cecaria di Marco Antonio Epicuro che, entro il secolo, conosce più di venti edizioni a
stampa), ma il centro nel quale il genere si sviluppa è, ancora una volta, la corte
ferrarese. Le feste estensi, infatti, prevedevano quasi sempre uno spettacolo
drammatico. Dagli anni ’40 in poi, con la rappresentazione dell’Egle di Giovan Battista
Giraldi Cinzio, matura un gusto marcato per il genere pastorale che favorirà, nei
decenni successivi, la creazione degli esempi artisticamente più alti con l’opera di
Tasso e Guarini. Allo stesso Cinzio, di cui si sono già ricordate le novelle degli
Ecatommiti, risale forse la prima giustificazione teorica del genere, nei due Discorsi sul
teatro del 1554.

SVILUPPI DEL DRAMMA PASTORALE


La commistione di elementi tragici e comici caratteristica del dramma pastorale, che
veniva sovente definito appunto tragicommedia, doveva risultare insopportabile ai
teorici della poesia di indirizzo aristotelico. Nella polemica tra Guarini e Giason De
Nores, il professore cipriota apostrofava i testi del genere tragicomico e pastorale
come mostruosi e disproporzionati componimenti. La difesa di Guarini, è affidata ad
uno scritto forse meno noto ma sicuramente incisivo, il Compendio della poesia
tragicomica del 1599, nel quale si contiene una definizione precisa e matura della
tragicommedia. Partendo dalla consapevolezza della scarsa attualità dei due generi
maggiori, la commedia e la tragedia, Guarini afferma che per sollevare adunque di
tanta meschinità la comica poesia che possa dilettare le svogliate orecchie de’
moderni, seguendosi le vestigia di Menandro e Terenzio che la innalzarono a decoro più
grave e più ragguardevole, ci sono i facitori delle tragicommedie ingegnati di mischiar
tra le cose di lei quelle parti della tragedia che si possono accompagnare con le
comiche, in tanto che conseguiscano la purgazione della mestizia.

TASSO: L’ AMINTA

La composizione dell’Aminta, il cui sottotitolo in molte antiche edizioni è quello di


favola boschereccia risale alla primavera del 1573 durante il primo periodo ferrarese di
Tasso Non risale necessariamente all’autore, ma piuttosto a registi incaricati di
allestire l’opera in altre città, la rimozione dell’episodio (saturo di omaggi cortigiani agli
estensi) di Mopso, il pedante sotto le cui spoglie Tasso prende di mira il medico e
filosofo Montecatini. Tra i modelli di Tasso, è celeberrimo per singolarità e per fortuna
un richiamo preciso a un romanzo ellenistico, gli Amori di Clitofonte e Leucippe scritto
da Achille Tazio attorno al III secolo d. C. e che Tasso poteva leggere in latino o in più
versioni italiane a lui molto recenti, tra le quali quella di Ludovico Dolce (1546) e quella
di Francesco Angelo Coccio (1550).

La trama dell’Aminta si fonda su un intreccio estremamente semplice e lineare,


lontano dalle complessità della commedia o della tragedia contemporanea. Aminta è
un timido pastore che non riesce a svelare la propria passione alla giovane Silvia che,
fedele a Diana, non pare avere altri amori che la caccia. Confidatosi con il più anziano
Tirsi, Aminta riesce a liberare Silvia dalle mani di un satiro che l’aveva legata ad un
albero per usarle violenza, la ninfa però, irriconoscente, se ne va senza neppure
ringraziare il valoroso pastore. Aminta è disperato e i tragici proopositi di morte
vengono avvalorati dalla falsa notizia della morte dell’amata che sarebbe stata
sbranata dai lupi: il pastore si getta da un dirupo ma, cadendo su un cespuglio, si salva.
Rinviene per soccorrere Silvia che, informata della falsa morte di Aminta, si riempie di
compassione e muta in amore la sua ritrosia acconsentendo alle nozze. Secondo una
consuetudine della poesia pastorale classica e quattrocentesca, Tasso cela sotto il
velo letterario dei personaggi individui reali del suo tempo come il già ricordato
Montecatini nell’arido Mopso o il potente segretario estense Giovan Battista Pigna in
Elpino.

GUARINI: IL PASTOR FIDO

Ispirato al modello dell’Aminta, il Pastor fido di Battista Guarini risale, nella sua prima
forma, almeno al 1581, nemmeno dieci anni dopo la prima rappresentazione della
‘favola’ tassiana. L’elaborazione è comunque molto lunga e, solo nel 1589 l’opera viene
pubblicata a stampa; segue un numero altissimo di riedizioni (quasi una ventina nel giro
di 13 anni). A differenza dell’Aminta, il Pastor fido presenta una trama piuttosto
intricata. La vicenda, ambientata in Arcadia, ruota intorno al tentativo di combinare un
matrimonio tra Silvio e la ninfa Amarilli: quest’unione tra due strirpi divine, secondo un
oracolo, sarebbe in grado di placare l’ira di Diana che tutti gli anni richiedeva agli Arcadi
il sacrificio di una vergine. I tentativi falliscono perché Silvio è dedito solamente ai
piaceri della caccia mentre Amarilli ama, ricambiata, Mirtillo, il «pastor fido». Si
oppone, a sua volta, all’amore di Amarilli e Mirtillo la perfida Corisca i cui tranelli
portano involontariamente Mirtillo ad essere condannato a morte. Sopraggiunge però
Carino che svela l’origine divina di Mirtillo che può così salvarsi e sposare Amarilli
ponendo fine al furore di Diana e al cruento tributo

Nell’opera si realizza l’armonico equilibro ricercato dall’autore tra gli elementi tipici
della tragedia, seppure attenuati e privati del senso di irreparabilità che li caratterizza
(«il pericolo, non la morte», con le parole di Guarini stesso), con quelli propri della
commedia. Il tono medio, musicale ed elegante, riecheggia il linguaggio della lirica
petrarchesca e apre la strada al melodramma in musica. A differenza del modello
tassiano, imitato non solo nel linguaggio e negli spunti narrativi (è evidente la coppia
Silvia/Silvio, entrambi versati solamente alla passione venatoria) ma anche nella
struttura metrica (endecasillabi e settenari), il Pastor fido sembra investito da un
maggiore afflato moraleggiante, potremmo dire di ispirazione controriformista. Se
infatti nell’Aminta prevale un’adesione sensuale ad un primitivo ‘stato di natura’, nel
dramma guariniano si propende per soluzioni più tradizionali, le società storicamente
costituite e la centralità del vincolo coniugale.

LA TRAGEDIA CINQUECENTESCA

Accanto alla commedia e al dramma pastorale, nel Cinquecento ricompare un genere


drammatico che era stato quasi dimenticato nella tradizione italiana, la tragedia. La
rilettura e i nuovi commenti della Poetica aristotelica che cominciano ad apparire negli
ambienti universitari del ’500 e che arriveranno a maturità a partire dalla metà del
secolo (del 1548 sono le Explicationes di Francesco Robortello, mentre nemmeno di
una trentina d’anni successivo è il volgarizzamento aristotelico di Ludovico
Castelvetro) sono da ritenersi tra gli elementi catalizzanti di un rinnovato interesse per
la tragedia. La discussione sul genere tragico è lunga e controversa, incentrata tanto
sul tema educativo e morale della poesia («istruire, dilettare e commuovere», come
riassume perfettamente Minturno negli anni ’50 del secolo), quanto sugli aspetti tecnici
del rispetto dell’unità aristotelica di tempo, luogo e azione.

Per considerare a tutto tondo la tradegia cinquecentesca è opportuna anzitutto una


divisione tra teatro in volgare e teatro in latino. Da una parte, il filone principale della
tragedia nel Cinquecento è sicuramente in lingua, fatto che permette una messa in
scena fruibile da un pubblico certamente colto ma abbastanza allargato; è indicativo
anche che autori interessati agli aspetti teorici della lingua italiana come Trissino
abbiano scelto appunto il volgare per esercitarsi sul genere tragico. Tuttavia, sopravvive
una robusta produzione di opere tragiche in latino, soprattutto nei collegi gesuitici,
dove la ratio studiorum (il piano didatticoeducativo) limita moltissimo, anche nella
conversazione, l’uso dell’italiano, vengono scritte e rappresentate tragedie a soggetto
religioso in latino, costruite principalmente sui modelli delle opere senecane.

TRISSINO: LA SOFONISBA

Universalmente riconosciuta come la prima commedia regolare del ’500, è la


Sofonisba (o meglio Sωphωnisba per rispettarne il delicato e sorvegliatissimo sistema
grafico) di Giovan Giorgio Trissino, risale nella sua composizione agli anni 1514-’15, ma
esce a stampa solamente dieci anni dopo, nel 1524. Trissino (nato a Vicenza nel 1478 e
morto a Roma nel 1550) è un tipico letterato cinquecentesco I cui molti interessi lo
portano ad occuparsi di argomenti diversi, dal poema storico, L’Italia liberata dai Goti
del 1547 alla riflessione sulla teoria linguistica, affidata al Castellano (1528) nel quale
propone una lingua italiana «illustre e cortigiana», scelta fra tutti i volgari d’Italia, da
contrapporre al fiorentino trecentesco delle Prose di Bembo. Un interesse particolare è
riservato da Trissino alla letteratura teatrale: l’autore infatti negli ultimi anni della sua
vita si esercita anche su un rifacimento dei Menaechmi di Plauto con I Simillimi nei
quali, con le parole di Trissino stesso, sono solamente mutati e nomi, aggiuntevi
persone e in qualche luogo cambiato l’ordine.

La Sofonisba, pubblicata per la prima volta nel 1524 con dedica a papa Leone X,
costituisce la perfetta resa pratica delle discussioni sul canone aristotelico e sul
recupero della tragedia di tema classico. La trama trae origine da uno spunto liviano e
la vicenda è ambientata durante la seconda guerra punica: Sofonisba, moglie del re di
Numidia Siface, è la figlia del generale cartaginese Asdrubale e quando Massinissa
sconfigge Siface, tenta tuttavia di salvare la donna dalla cattura da parte degli alleati
romani grazie ad un matrimonio segreto. Quando però Scipione cerca di far di
Sofonisba una preda di guerra, la fiera principessa si uccide per non cadere prigioniera
dei romani invasori. Al di là dell’esilità dell’intreccio, la Sofonisba è esemplare per la
regolarità con cui essa si conforma alla teoria del teatro classico sia nella struttura
(viene, recuperato l’uso del coro che accompagna il prologo e l’esodo), sia nella
metrica (l’endecasillabo costruito sul trimetro giambico), sia nell tentativo di ripetere e
ricreare su moduli sofoclei ed eurpidei personaggi dalle dimensioni di Alcesti o di
Antigone.

LE TRAGEDIE DI GIRALDI E SPERONI

Il ferrarese Giovan Battista Giraldi Cinzio è autore di novelle (gli Ecatommiti) e teorico
del genere drammatico (Discorso intorno al comporre delle Commedie e delle Tragedie
del 1544). La sua attività letteraria teatrale si completa con la stesura di una tragedia,
l’Orbecche, rappresentata per la prima volta nel 1541, probabilmente in casa
dell’autore stesso, davanti ad uno sceltissimo pubblico di ambiente estense con le
musiche di Alfonso della Viola, maestro di cappella di Ercole II. La vicenda narra di
Orbecche, la figlia di Sulmone re di Persia, che, istillando nel padre il dubbio di un
incesto tra la madre e il fratello, provoca la morte di entrambi. Passati alcuni anni,
Orbecche sposa, contro il volere del padre, il giovane Oronte dal quale ha due figli,
Sulmone, indignato, fa uccidere Oronte e i figlioletti portandone la testa e le mani ad
Orbecche che, vinta dal dolore, si trafigge a morte. L’Orbecche, imita il modello
senecano di opere come il Tieste, e si compiace di una ostentata rappresentazione del
cruento e dell’orrido che culmina con il suicidio della protagonista sulla scena.

LA TRAGEDIA CINQUECENTESCA

L’Orbecche oltre a moltissimi ammiratori, ebbe anche un critico, l’accademico


padovano Sperone Speroni (1500-1588) che ne contestò l’eccessiva crudeltà dei
personaggi rispetto alla magnanimità dell’eroe tragico canonizzato da Aristotele. L’altra
polemica sul genere tragico che si era innescata coinvolgendo diversi personaggi
dell’Italia letteraria del ’500, è costituita da una tragedia dello stesso Speroni, la
Canace, composta tra la fine del ’41 e il ’42 quando l’autore era ‘principe’
dell’accademia padovana degli Infiammati. La Canace, che si ispira direttamente
all’undicesima epistola delle Heroides ovidiane e al primo libro dell’Eneide, racconta
dei due figli di Eolo, Canace e Macareo, spinti verso un tragico amore incestuoso dalla
vendetta di Venere contro il padre dei due giovani (Eolo aveva suscitato la tempesta
che aveva disperso la flotta di Enea, figlio di Venere). Dalla relazione di Canace e
Macareo nasce un figlio ed Eolo, fuori di sé per la scoperta fa uccidere il bambino e i
due giovani genitori.

TASSO E IL RE TORRISMONDO

Nell’apprendistato poetico del giovane Tasso compare, databile ai primi anni ’70
durante il suo periodo ferrarese, un abbozzo di tragedia interrotta nemmeno a metà
(alla seconda scenda del secondo atto) con il titolo Galealto re di Norvegia.
L’esperimento giovanile viene ripreso verso la fine degli anni ’80 (il poeta si trova a
Mantova presso Vincenzo Gonzaga, il dedicatario dell’opera) e confluisce in un’opera
più complessa e articolata, il Re Torrismondo, che viene data finalmente alle stampe
nel 1587 a Bergamo da Comino Ventura. La materia della tragedia pare essere derivata
dalla lettura dell’Historia de gentibus septentrionalibus del vescovo svedese Olao
Magno, un’opera storicoetnografica della quale, nel 1565, era apparsa a Venezia anche
una versione in italiano. Sull’argomento nordico Tasso innesta i tratti tipici della
tragedia classica greca (il modello più vicino è senza dubbio l’Edipo re di Sofocle) e di
quella senecana

La vicenda narrata nel Re Torrismondo è estremamente complessa e difficilmente


riassumibile: il re dei Goti, per evitare l’avverarsi di presagi mortali, affida la propria
figlia appena nata al servo Frontone. Durante un viaggio per mare, la nave è assaltata
dai pirati e la bambina viene portata in Norvegia dove cresce alla corte del re con il
nome di Alvida; di lei si innamora Germondo re di Svezia, che prega Torrismondo,
principe dei Goti e ignaro fratello di Alvida, di chiedere segretamente la fanciulla in
matrimonio, a lui negata dal re di Norvegia, per poi cedergliela. Torrismondo
acconsente e si celebrano le nozze Alvida ignara; mentre sono in viaggio verso
Germondo e verso la Gotia, una tempesta costringe Torrismondo e Alvida a riparare in
una spiaggia deserta dove tra i due fratelli, naufraghi e inconsapevoli della propria
consanguineità, scoppia un’inattesa passione, favorita dalla solitudine del luogo e
dall’incertezza della sorte. Il senso di colpa di Torrismondo per aver tradito l’amico e lo
sgomento di Alvida segnano il punto più alto della tensione tragica che si risolve
funestamente con il suicidio di entrambi.

POESIA LIRICA BAROCCA

I poeti del tardo Cinquecento come Tasso, Strozzi, Guarini, Rinaldi diedero rinnovarono
e sperimentarono, polemizzando, più o meno apertamente, con il filone bembista del
classicismo rinascimentale. Il rinnovamento è evidente sul piano formale: scelta di
parole rare, polisemiche, uso di similitudini e metafore. Tale tendenza condurrà infine
al concettismo; la musicalità diviene il carattere più rilevante della poesia lirica (non a
caso il madrigale acquista importanza nella scala delle forme metriche). Per ciò che
concerne i temi, la canzone e la poesia lirica in genere si allontanano dai temi alti
(destinati ora all’epica e alla tragedia), vengono preferiti temi occasionali di livello
medio, inclusi soggetti quotidiani e popolari, lo stesso avviene in pittura, Bassano, i
Carracci, ne sono un esempio. D’altra parte, nuovi temi ‘alti’ acquistano una nuova
funzione e la lirica tratta spesso temi patriottici, morali e religiosi ignorati dalla poesia
lirica precedente concentrata principalmente sul tema dell’amore).

POESIA LIRICA BAROCCA: CHIABRERA

Gabriello Chiabrera (1552- 1638) studiò presso i Gesuiti a Roma, qui venne in contatto
con Paolo Manuzio e Sperone Speroni, dai quali apprese il gusto per i classici.
Ugualmente importante fu il suo contatto con il poeta francese M. A. Muret,
ambasciatore a Roma, perché gli fece conoscere a Chiabrera la poesia della Pléiade.
Nel 1581 Chiabrera dovette lasciare Roma per aver ucciso un uomo in duello. A parte il
giovanile poema eroico, Delle guerre dei Goti (1582), egli si soffermò su altri tipi di
poesia, la sua produzione è tanto vasta quanto varia, poiché, oltre alla lirica, coltivò la
poesia epica con l’Amedeide (1607) sul re del Piemonte Amedeo di Savoia, e Firenze,
sulla fondazione della città dei Medici e scrisse inoltre anche pastorali, tragedie,
melodrammi, perfino una breve biografia

Il genere in cui Chiabrera eccelse e in cui esercitò una profonda influenza, fu la poesia
lirica dove raggiunse un livello supremo di musicalità introducendo una rivoluzione
metrica. Chiabrera applicò la nozione classica di quantità sillabica al verso italiano, e
importò svariati metri e schemi metrici dalla tradizione greca e latina. Nello stesso
tempo modellò alcune sue composizioni (soprattutto la canzonetta con le sue coppie
parossistiche di settenari), sulle liriche francesi della Pléiade. Nelle sue numerose
raccolte, dalle Canzoni (1588) alle Canzonette (1591) alle Vendemmie in Parnaso
(1605), Chiabrera puntò sempre al massimo effetto musicale, attraverso cui le parole
acquistavano effetto evocativo, messo in luce dalle sue innovazioni metriche e
strofiche che aiutavano a sottolineare gli elementi psicologici e morali contenuti nelle
poesie, spesso molto brevi

La compresenza di musicalità e semplicità di espressione e la chiarezza delle


definizioni psicologiche dei sentimenti rendono le poesie di Chiabrera attraenti per le
generazioni future e soprattutto per gli Arcadi. L’influenza di Chiabrera fu larga e
duratura, ad esempio la canzonetta, il madrigale e molte altre combinazioni strofiche
che si devono a lui divennero le forme preferite dai musicisti barocchi. La sua influenza
è evidente in poeti come Antonio Muscettola (1628-79) e, ancor più, Francesco Lemene
(1634-1704), che, verso la fine del secolo, produssero una versione galante della
poesia anacreontica alla Chiabrera, gettando le basi per il gusto futuro dell’Arcadia.

POESIA LIRICA BAROCCA: L’AVANGUARDIA

La produzione lirica tipicamente barocca iniziò tra fine XVI e inizio del XVII e coinvolse
un’infinità di poeti, in maggioranza piuttosto modesti. Caratteristica di questa linea fu
l’innovazione del contenuto, ma soprattutto l’uso di concetti e agudezas (acutezze),
cioè metafore atte a suscitare stupore. Questo tipo di linguaggio poetico fu condiviso
da molti autori (Giuseppe Artale, Bartolomeo Dotti, ecc.) e fu applicato perfino alla
poesia religiosa. Per un secolo i poeti del Barocco più proverbiale si cimentarono in
lavori poetici che potessero riflettere una nuova visione della realtà: non era più il
mondo statico del Medioevo e del Rinascimento, adesso si proponeva un mondo
illusorio (anche qui l’architettura e la pittura aiutano a capire questi poeti), e il
principale strumento, se non il solo, per collegare i pezzi di quest’illusione sembrava
essere la metafora*.

Uno dei primi rappresentanti del filone poetico è Tommaso Stigliani (1573- 1661), la cui
fama è dovuta all’Occhiale (1627) che scrisse attaccando l’Adone di Marino. Le sue
Rime (1601) e il suo Canzoniere (1605 e 1623) rappresentano orologi, bottiglie, ritratti,
specchi, lanterne, e simili oggetti che il decorum rinascimentale avrebbe voluto
destinare alla poesia comica ma che inseriti nella poesia seria, diventano chiaramente
una provocazione. Le sue sorprendenti metafore offrono le più lontane combinazioni: le
scarpe della donna sono Atlanti, il suo anello e la sua pietra la sfera celeste, il tramonto
sminuzza il grano delle stelle e cucina il giorno nella pentola del cielo sulle braci delle
stelle.

MARINO

Giovan Battista Marino è uno dei maggiori poeti italiani e del XVII secolo. Lo stile più
tipico di questo secolo ebbe appunto anche il nome di marinismo (che si può fare
equivalere a barocco, concettismo, ecc). Nonostante ciò, egli non portò agli eccessi le
tecniche della metafora e lo si può quindi definire come caposcuola della tendenza
moderata. Nacque nel 1569 a Napoli (città barocca per eccellenza, anche nella pittura
e nell’architettura), in una famiglia di avvocati. Ebbe una vita avventurosa: viaggiò molto
in Italia, abitando in città che avevano acquistato una grande importanza culturale
dopo il Rinascimento come Torino, Bologna; passò gran parte della vita a Parigi, prima
di tornare nella sua città natale, dove si spense.

MARINO: LE OPERE MINORI

La sua prima raccolta di Rime (1602), poi ribattezzata La Lira (1602) è organizzata
tematicamente: la prima parte è quella delle rime amorose, boscherecce, eroiche,
lugubri, morali, sacre, varie; la seconda in madrigali, canzoni e sonetti; la terza in rime
amorose, lodi, lagrime, divozioni, capricci. Il suo stile è musicale e non troppo ricco di
metafore, la meraviglia che ricerca non sfocia mai nel cattivo gusto. Più fortunati
saranno i suoi lavori realizzati a Parigi: gli Epitalami (1616); poemi encomiastici dedicati
a potenti; La galleria (1620), una serie di “traduzioni” in poesia di opere d’arte figurativa
(tra cui spicca un dipinto di Poussin, una scoperta di Marino); La Sampogna (Parigi,
1620) nei cui idilli Marino fonde nuove e antiche fonti in un raffinato esercizio di
riscrittura, melodioso, erotico e macabro. La mitologia acquista una connotazione del
tutto nuova nelle sue poesie, il che ci conduce direttamente al suo capolavoro, di
sapore appunto mitologico: l’Adone

L’ADONE: LE DESCRIZIONI

Il capodopera di Marino è l’Adone che con le sue 8000 ottave è certo il più lungo poema
italiano. La trama è la favola mitologica di Adone, molto nota e per altro raccontata due
volte dal poeta. L’Adone è ricco di coloratissime digressioni e episodi narrativi, sezioni
dedicate alla scienza e alla politica e descrizioni di colori, gemme, suoni e fiori. Sono
note le lunghe serie di ottave dedicate alle ricchissime e minute descrizioni:
sensualissima quella del bacio, ricca di sonorità quella della pioggia, ecc. Data la
eccellenza letteraria di queste parti, l’attenzione e la concentrazione su di esse ha in
passato fatto dimenticare la trama del poema. Benché comunque sia in larga misura
conosciuta essendo contenuta nelle Metamorfosi di Ovidio, la trama del poema, non
lineare nella sua esposizione (dispositio*) deve richiamare la nostra attenzione.

L’ADONE: L’INTRECCIO

Il poema è basato sul mito raccontato da Ovidio nelle Metamorfosi, ma con importanti
aggiunte, ampie sezioni infatti sono dedicate alle visite degli innamorati Venere e Adone
al palazzo delle divinità dei cinque sensi, all’Isola della Poesia, al paradiso della luna e
così via; altre alla resistenza di Adone alla strega Falsirena che a un certo punto lo
trasforma in un pappagallo. Il suo idillio con Venere finisce quando è ucciso da un
cinghiale che, preso dalla sua bellezza, tenta di baciare il giovane. Venere organizza
allora un complicato cerimoniale funebre per Adone, trasforma il suo cuore in un fiore,
e indice pubblici giochi che dureranno tre giorni.

Il poema ha due possibili conclusioni, tutt’e due tipiche conclusioni di racconti (come
osservò polemicamente Stigliani nell’Occhiale): il matrimonio e l’elezione a re. Non
solo. Ci sono perfino due inizi: si ripete, infatti, anche la sequenza della storia
principale: incontro – innamoramento – felice vita matrimoniale – trionfo – separazione
– morte. Tale ripetizione, piuttosto che rafforzare la storia, la svaluta, perché una
versione rende l’altra superflua l’impressione che si ha è che non esistano valori
assoluti dal momento che tutto è relativo. Nell’Adone la tradizionale sequenza di causa
e effetto, che è alla base della narrazione normale o tradizionale, è costantemente
elusa: il poema è pieno di storie non concluse, o non chiuse nel modo che la sequenza
di cause lascerebbe prevedere.

I personaggi principali sono stranamente deboli: Adone non comincia mai alcuna
azione, e la stessa Venere è una vittima degli eventi. Marino indebolisce i suoi
personaggi in modi molto sottili, ad esempio con le due storie del giudizio di Paride e
degli amori di Cupido e Psiche, che non sembrano avere niente a che fare con la storia
principale: entrambe le storie infatti hanno in comune la presenza di Venere, che nel
primo episodio è proclamata bellezza massima e nel secondo è messa in ombra da
Psiche. La dispositio degli episodi trasforma un valore assoluto in uno relativo e Venere
emerge appunto come un personaggio debole. All’origine di queste presunte
irregolarità c’è l’intenzione di Marino di scrivere un poema antitradizionale non basato
cioè sulla Storia (il modello che egli intende negare è il più fortunato poema epico de La
Gerusalemme liberata di Tasso), né sui valori supremi (Giustizia, Religione, ecc.), ma
sulla più debole delle storie (l’amore fuggitivo di una divinità per un mortale) e sul più
instabile e tradizionalmente criticato degli affetti (noi diremmo ‘pulsioni’) ovvero
l’amore sensuale.

L’ADONE: IL RELATIVISMO
Per Marino, le parole nella loro materialità sono il contenuto del poema (da qui i
numerosi esperimenti di poesia visiva), e la sua forma è il suo concetto. In altre parole,
Marino concepiva il suo poema come una grandiosa metonimia*, attraverso cui il
contenuto manifesto (la metamorfosi di Adone) diventa la forma del poema stesso,
l’Adone è infatti un’opera che si trasforma attraverso le ripetizioni e le simmetrie; e la
sua dispositio* crea un messaggio di relativismo, culminante nel canto finale e più
lungo, che consiste solo in giochi organizzati per onorare la memoria di Adone (per
ironia, nominato una sola volta).

L’ADONE: L’INTRECCIO

Ritornando all’intreccio, la prima parte del poema è ripetuta, con importanti variazioni,
nella seconda, ma nel processo ha luogo una degradazione: nella prima apparizione ad
Adone, Venere prende le sembianze di Diana, mentre la seconda volta ella appare nelle
vesti di una zingara; nella prima parte ella educa Adone attraverso una visita al palazzo
dei sensi, laddove nella seconda quella grandiosa lezione ha un parallelo nella lettura
della mano di Adone. La degradazione (tipico risultato di tutte le metamorfosi) è
confermata da molte altre simili simmetrie, tale è il messaggio che si coglie: la storia
del poema è irrilevante, e l’ultimo canto, in cui l’autore non deve più fare i conti con il
protagonista e con la narrazione, è trattato con estrema libertà celebrando la pura
forma attraverso descrizioni di cavalli, armi, danze, e così via.

Proprio quando la trama del poema sembra essere completamente dimenticata,


riemerge in un modo del tutto inaspettato e sorprendente. Le ultime due giostre (che
replicano il famoso episodio di Tancredi e Clorinda della Gerusalemme liberata),
fornisce quella che deve essere considerata la vera metamorfosi di Adone: i lineamenti
fisici combinati degli eroi, con la storia intrecciata della loro formazione, riportano in
vita l’androgino Adone, trasformato in una coppia che darà origine alla famiglia reale
francee.

SCRITTORI DI SCIENZA: GALILEI

Nel Seicento si rileva una tendenza sempre più diffusa ad abbandonare il latino anche
nella scrittura di trattazioni scientifiche. Ciò nonostante, persino un grande innovatore
come Galileo Galilei (1564-1642), scrisse in latino alcuni dei suoi trattati. Galilei fu
insieme un grandissimo scienziato, fondatore della scienza moderna ma anche uomo
di lettere. Il suo interesse linguistico è visibile nelle sue prose critiche riguardanti
Dante, Petrarca, Ariosto, e Tasso. Ma egli fu scrittore soprattutto per i suoi trattati
scientifici: Il Saggiatore (1623) e Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,
tolemaico e copernicano (1632). La sua prosa, assai apprezzata da Leopardi, è limpida,
potente nelle argomentazioni, ironica e spoglia di ornamenti retorici.

ALTRI SCRITTORI DI SCIENZA


Francesco Redi (1626-98) fu lo scienziato che, tra l’altro, dimostrò falsa la teoria
dell’autogenerazione degli insetti (Esperienze intorno alla generazione degli insetti,
1668). Non senza insofferenze per gli eccessi di pedanteria dei lessicografi egli fu
accademico della Crusca, e la sua prosa è decorosa, precisa, ma non robusta come
quella di Galilei. Redi è noto anche per una composizione poetica, Il Bacco in Toscano
(1685), una lode del vino con una lista di più di 500 vini toscani, ravvivata dalla parole
rare e neologismi, cui si aggiunge un autocommento erudito e mondano insieme.

Lorenzo Magalotti (1637-1712) scrisse l’elegante Lettere sulle terre odorose d’Europa e
d’America dette volgarmente buccheri (1695), in cui fornisce un infinito numero di vasi
di cui descrive il profumo che da essi esala. Si può facilmente immaginare che la
tendenza prevalente della sua prosa (come, in parte, di quella rediana) è quella di
trasformare la precisione scientifica in gusto per la ricchezza del linguaggio e ricerca
delle sfumature.

SCRITTORI DI MORALE

Prima di parlare degli scrittori di politica e della storiografia del periodo sarà bene
spendere qualche parola su alcune opere che consigliano di assumere un
comportamento in un mondo considerato esplicitamente difficile. Tale è definita
scrittura morale. Questo tipo di letteratura non si rivolge più a principi e cortigiani come
aveva fatto nel Cinquecento lo stesso genere di letteratura. Nel Rinascimento questo
tipo di trattatistica considerava l’esigenza di un innalzamento del livello morale
dell’individuo, e una corrispondenza fra bel comportamento e virtù interiore. I
destinatari di questa letteratura sono invece i sacerdoti e gli altri alfabetizzati che non
sono mossi da eroiche aspirazioni ma devono vivere nel loro tempo con cautela e
perfino con ipocrisia.

Il più importante degli scrittori di questo filone è Torquato Accetto, che con il breve
trattato Della dissimulazione onesta (1641) propose una sottile distinzione fra
dissimulazione da un parte e ipocrisia e bugia dall’altra. La dissimulazione è infatti per
Accetto basata sulla possibilità di distinguere fra la profondità della propria anima e la
superficie del mondo. La prima sarà naturalmente molto più importante della seconda:
una forma di accettazione passiva di ciò che ci circonda in nome di una vita interiore
fatta di meditazione su valori positivi. Si deve accennare a questo punto alla letteratura
religiosa, in cui spicca certamente la produzione di sermoni che risentono in genere del
gusto barocco dominante. Il capolavoro di questo periodo è il Quaresimale, cioè la
raccolta di prediche per la Quaresima, di Paolo Segneri (1624-94)

SCRITTORI DI POLITICA

La situazione politica dell’Italia, sottoposta al dominio straniero, specie spagnolo,


indusse a trattare estesamente di teoria politica per cui si ebbero, tre differenti modi di
affrontare la questione: a) la teorizzazione utopica b) la satira c) l’accettazione della
situazione di fatto, in nome della ragion di stato. d) la scrittura storica La reazione
utopica ha il suo rappresentante più importante nel monaco calabrese Tommaso
Campanella, con La città del sole. Scritto in italiano nel 1602, ma pubblicata in
Germania nel 1623, è un trattato in forma di dialogo, in cui un marinaio descrive la vita
degli abitanti e la giustizia che regna in una città utopica che rappresenta una
combinazione di ideali comunisti e di una organizzazione monarchica, teocratica.

SCRITTORI DI POLITICA: CAMPANELLA

La sua prima opera importante, la Philosofia sensibus demonstrata (1589) gli costò la
condanna della Chiesa, l’incarcerazione, la tortura e l’esilio nella sua terra nativa, dove
sobillò un’insurrezione popolare ma per cui fu imprigionato dalla polizia. Si finse pazzo
per evitare la condanna a morte, rimanendo in prigione fino al 1626, quando uscì ed
ebbe di nuovo problemi con l’Inquisizione e fu costretto a riparare a Parigi, dove fu
accolto con tutti gli onori da Luigi XIII, e dove morì nel 1639. La produzione di
Campanella, varia ed estesa, nonostante sia stata quasi interamente realizzata in
prigione comprende un’ampia produzione lirica, unica in Italia per i suoi altissimi toni
metafisici; trattati di astronomia, di retorica e teologia, in italiano e in latino e una
difesa di Galilei. Per i suoi numerosi interessi la fama di Campanella varcò i confini
della penisola.

SCRITTORI DI POLITICA: SATIRA

Uno scrittore satirico degno di nota, sebbene di una satira non proprio direttissima, è
Francesco Fulvio Frugoni (1620-84), con Il cane di Diogene (1689), in cui il personaggio
narrante è il cane del famoso filosofo greco Diogene (per questa l’opera è divisa in 7
“latrati”), egli fornì una sorta di novella picaresca inframmezzata di digressioni morali e
strali polemici diretti al mondo dei cortigiani e ai letterati, mescolando elementi colti e
popolari. Ma fu Traiano Boccalini (nato a Loreto nel 1556) che aggredì più ferocemente
la dominazione spagnola con le armi della satira tanto che sulla morte improvvisa a
Venezia nel 1613 di questo scrittore e politico (fu anche governatore di Benevento)
grava il sospetto di avvelenamento per mano spagnola. Egli pubblicò circa 300
ragguagli (bollettini, informazioni, reportages) nel corso della sua vita, ad essi se ne
aggiungano 30 postumi, che recano il titolo di Pietra del paragone (1625).

Boccalini immagina che in un Parnaso in eterna vacanza si incontrino soprattutto


scrittori e politici, da questo luogo egli invierebbe i suoi ragguagli giù in terra. Le
informazioni riguardano un’ampia selezione di temi: la poesia contemporanea, i vizi più
diffusi, specialmente ipocrisia e crudeltà. L’argomento principale è la politica, sotto
forma di ferocissima satira antispagnola: gli spagnoli, secondo i Ragguagli, sono
incapaci di governare perché ignoranti e crudeli. L’ideale di Boccalini come uomo
politico è l’organizzazione statale della Venezia repubblicana, ragione per cui le sue
critiche colpiscono anche il Principe di Machiavelli.
SCRITTORI DI POLITICA: LA RAGION DI STATO

Nell’opera La bilancia politica di tutte le opere di Traiano Boccalini, egli esprime in


modo diretto, senza satira e finzione, le sue idee, attaccando Tacito. Lo storico latino
prese nel Seicento il posto che aveva fino ad allora occupato Livio e la ragione è
sicuramente da ricercare nel cambiamento politico che corrisponde al declino degli
ideali repubblicani e all’ascesa della giustificazione del dispotismo in nome della
ragion di stato e Tacito fu recuperato appunto in questo mutato assetto ideologico.
Esempi di questa impostazione sono due opere dal titolo esplicito: Ragion di stato
(1621) di Ludovico Zuccolo e Della ragion di stato di Ludovico Settala (1627) che
analizzano con estrema razionalità la relazione fra legge morale e necessità pratiche
dello stato. Un altro punto fondamentale di questi scrittori di politica (e che accomuna
anche il bolognese Virgilio Malvezzi 1595-1654) è che essi si allontanano dalla
concezione di stato e di potere che era stata fornita da Aristotele e Tommaso
ispirandosi piuttosto a Machiavelli e Tacito.

TRATTATI DI ESTETICA

Il Seicento fu un secolo di grandi scoperte nel campo della scienza e di profonde


innovazioni dei sistemi politici (è infatti il momento in cui gli stati nazionali si rafforzano
in concomitanza della fase di teorizzazione della monarchia assoluta). Accanto allo
sperimentalismo letterario diffuso nell’epoca, troviamo quindi un’ampia produzione
anche nell’ambito di questi campi. Per quanto riguarda la poesia, venne meno la
discussione attorno alla Poetica di Aristotele, forse perché al concetto aristotelico di
mimesi si sostituirono quelli di meraviglia, acutezza su cui insistono i principali trattati
dell’epoca. In questo campo il pioniere fu Matteo Peregrini (1596-1652), che parlò
dell’acutezza come un fattore non logico ma irrazionale, altrimenti detto ingegno, che
consente di accostare cose in apparenza lontane attraverso la metafora e scoprirne le
somiglianze nascoste.

Posizioni simili sono espresse nei trattati del cardinale Sforza Pallavicino (1607-67), il
quale intende e difende la poesia come svago. Egli si sofferma a distinguere fra
metafore eccessivamente ardite e veri e propri concetti, in cui la somiglianza fra le due
cose paragonate deve essere di immediata percezione, sebbene le due cose
comparate siano di per sé distanti. Secondo questa idea della novità repentina la
poesia e la scienza si avvicinano, nel segno della scoperta delle caratteristiche
universali comuni che si celano dietro l’apparente varietà del mondo.

Il teorico più importante fu certamente il gesuita Emanuele Tesauro (1592-1675), noto


soprattutto per il suo Cannocchiale aristotelico (1670 ), opera che esamina diverse
forme di acutezza. Tesauro sostiene che si deve abbandonare l’idea che la differenza
fra segno* e referente* sia un difetto del linguaggio umano, infatti solo gli angeli
possiedono un linguaggio in cui segno e referente coincidono perfettamente ed è per
questo che conoscono la verità, ma non scrivono poesia. La poesia, infatti, esiste solo
grazie all’insufficienza del linguaggio umano: l’obiettivo della poesia non è infatti la
verità ma il discorso e il suo strumento è la metafora: tutto il linguaggio è metafora e
può mettere insieme un numero infinito di combinazioni. L’ingegno è quella facoltà
che, alla stregua di un telescopio, avvicina cose estremamente distanti e ne coglie le
somiglianze. Se c’è vero ingegno, la metafora può contenere e implicare molte altre
metafore e il piacere della lettura consiste nell’assistere a come ciò avviene

NOVELLA E FIABA

Il trionfo del romanzo nella prima metà del Seicento non ostacolò lo sviluppo della
novella boccacciana. Tuttavia il racconto breve seicentesco è piuttosto lontano dalla
novella di Boccaccio per l’assenza degli umori anticlericali e la scomparsa della beffa,
che ne costituivano un aspetto determinante. Anche le dimensioni sono mutate: le
novelle seicentesche sono mediamente più lunghe e non si individua una struttura-
contenitore diffusa e comune, come era stata la cornice. Per avere un’idea dei
cambiamenti, basta sfogliare le Cento novelle amorose scritte dagli Accademici
Incogniti di Venezia nel 1641: senza struttura, di varia lunghezza, con inserti dialogici e
di lettere, descrizioni e commenti degli autori.
E’ di Giulio Cesare Croce (1550-1609) il capolavoro seicentesco di ispirazione popolare
e di lunga fortuna (anche per le trasposizioni cinematografiche): Le sottilissime astuzio
di Bertoldo e il suo seguito Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino (1606).
L’autore, nato a Bologna, dove si guadagnava da vivere come fabbro era un cantastorie
di professione e compose anche versi in dialetto. Il primo libro, che rappresenta lo
scaltro e orribile contadino Bertoldo, consiste in un rifacimento derivato da un’opera
latina anonima che tratta della saggezza di re Salomone (il Dialogus Salamonis et
Marcolphi 1431). Le avventure di suo figlio Bertoldino, un sempliciotto che deve essere
sempre protetto dalla madre Marcolfa, sono più originali, ma sempre nella tradizione
che descrive la improbabile semplicità dei villani.

Da un punto di vista strutturale, le due parti sono rappresentate nella forma di una serie
di incontri fra i protagonisti da una parte e i loro re o signori dall’altra, in battaglie di
spirito e intelligenza. Dietro l’atteggiamento critico di Croce verso l’arroganza del
potere e della ricchezza sta il risentimento della classe subalterna dei contadini
sfruttati. L’inclinazione artistica di Croce lo conduce a una illimitata mescolanza di
modelli letterari (racconti folclorici, aneddoti popolari, proverbi), un moralismo
fantasioso, e un passaggio progressivo da una narrativa eclettica in Bertoldo a una
miscellanea di aforismi e fiabe in Bertoldino; da una messa in scena realistica in
Bertoldo a un’inclinazione fantastica in Bertoldino.

Il capolavoro della letteratura favolistica del Seicento è il Cunto de li cunti di


Giambattista Basile (1557-1632), stampato postumo fra il 1634 e il 1636. Dall’opera
emerge l’aspetto ludico e parodico del Seicento e ciò è visibile soprattutto nella scelta
linguistica sovversiva che si rifà al dialetto di Napoli (città barocca per eccellenza),
nonostante l’autore fosse un uomo colto. La raccolta di cinquanta racconti narrati da
dieci persone nel corso di cinque giorni (il che spiega il titolo alternativo di
Pentamerone) è collocato in una cornice che ne costituisce il contesto: la storia
dell’ingannata e melanconica principessa Zoza e la sua conquista di un marito. Molte
delle storie derivano dalla tradizione orale piuttosto che da un canone letterario; i
racconti folclorici, scelti tra i più popolari, includono Cenerentola, Il gatto con gli stivali,
La bella e la bestia e Le tre melarancie. Il coraggioso approccio di Basile al materiale
folklorico, la sua mescolanza del mondo della magia con il rozzo e sordido realismo
dell’ambientazione napoletana, le preziosità letterarie nel tono volgare e dialettale del
racconto popolare fa del Pentamerone un modello dell’arte barocca e una pietra
miliare nella storia della narrativa europea. La morale delle fiabe resta una questione
aperta, dal momento che l’attitudine narrativa di Basile e la sua personalità sono
complesse e ambivalenti, sia cortigiane che popolari.

IL ROMANZO DEL SEICENTO

Nel Seicento e nel Settecento il romanzo acquista chiaramente la fisionomia di un


genere a se stante. Non meno di 180 romanzi furono pubblicati in Italia fra il 1600 e il
1699, il ritmo di produzione si accelerò negli anni ’30 del Seicento, ebbe un apice negli
anni ’40 e ’50 per arrestarsi negli anni ’60. Alcuni di questi romanzi ebbero più di trenta
edizioni o ristampe (laddove la Commedia dantesca, nello stesso periodo, ne ebbe solo
tre). Il romanzo italiano ebbe certamente diffusione europea, come testimoniano
anche le numerose traduzioni. Nonostante lo stile enfatico, talvolta oscuro, che li ha
fatti considerare illeggibili agli occhi della critica del Settecento (il secolo appunto dei
Lumi), senza dubbio la diffusione dei romanzi è un fenomeno che va preso in
considerazione, sia pure da un punto di vista sociologico, che configura i rapporti tra un
certo tipo di letteratura e la società in cui essa viene prodotta.

romanzieri sono così sottoposti all’approvazione di un vasto pubblico e riflettono quindi


consapevolmente le idee e i gusti generalmente abbracciati, una tendenza consona ai
princìpi del Barocco italiano: l’approvazione del lettore e non l’adesione ad una serie di
valori estetici astratti, comporta il successo degli sforzi dei letterati. Il pubblico dei
romanzi italiani è quello di un’aristocrazia che è tuttavia lontana dai salotti e dalle corti
di una grande capitale europea (come ad es. Parigi) ma anche quello di una borghesia
di mercanti e di professionisti che aspirava ad assomigliare alla nobiltà.

A impedire l’evoluzione e l’affermazione definitiva del romanzo seicentesco, nei modi in


cui avvenne all’estero, concorsero vari fattori, fra cui: a) la qualità media del pubblico,
generalmente di gusti facili, incapace di quella curiosità che può potenzialmente
evolvere verso un realismo psicologico b) la lenta formazione di (ogni) nuovo gusto
letterario c) il ritorno di posizioni di tipo classicistico caratteristico del fortunatissimo
movimento dell’Arcadia. I due gruppi dominanti all’interno del genere romanzo sono
quelli che possiamo definire eroico-galante ed eroico-religioso. Quanto al primo, il cui
apice si ebbe tra il 1620 e il 1660, il meraviglioso domina il contenuto (avventure
straordinarie, eroismo senza macchia e senza paura, eroine bellissime, cavalieri
conquistatori) e domina la forma (suspense e storie involute; amplificazione retorica e
grande cura per l’ambientazione). Le fonti sono: il romanzo greco, l’epica
rinascimentale, la novella, la lirica, specie se di ambito pastorale.

I personaggi principali sono principi e principesse che si scontrano con le avversità


della sorte. Il plot principale, e/o il secondario, comincia con la separazione di una
coppia di amanti e segue ciascuno dei due partner nei loro viaggi separati attraverso gli
alti e bassi di un’esistenza avventurosa. Il materiale di questi vagabondaggi comprende
avventure per terra e per mare, attacchi di pirati, rapimenti, battaglie, duelli, intrighi di
palazzo e identità scambiate. Invariabilmente, la narrazione finisce con la riunione dei
due amanti e il loro eventuale matrimonio. Anche nei romanzi seicenteschi il narratore
onnisciente (la formula, usuale in narratologia*, indica il tipico narratore della
tradizione classica e specialmente dell’epopea, assente dall’azione, ma che sa tutto
quello che i personaggi faranno) parla generalmente in terza persona; racconti
conversazioni e monologhi sono riportati con il discorso diretto. Un altro importante
aspetto formale della scrittura della novella risiede nell’idea che la lingua della prosa
d’immaginazione dovrebbe essere elevata ed ornata, perfino sentenziosa.

IL ROMANZO DEL SEICENTO

Oltre ai romanzieri Giovan Francesco Biondi e Giovan Francesco Loredano andrà


ricordato Giovan Ambrogio Marini (c. 1594-c.1650) che con il suo Calloandro fedele
(Roma, 1653), scritto più volte per adeguarsi ai gusti del pubblico, diventò l’autore del
capolavoro del romanzo eroico che restò popolare in Italia fino a metà dell’Ottocento. I
protagonisti, Calloandro e Leonilda, sono uomini straordinari sottoposti a una serie di
processi e interessati più alla loro reputazione che alla storia o alla politica, le armi
principali nella battaglia contro una fortuna crudele sono la costanza stoica e una
nitida ragione. La rappresentazione, da un lato, della relatività della realtà, della
instabilità delle cose, di un mondo in subbuglio, soggetto ai capricci della Fortuna, e la
conseguente struttura aperta dall’altro (non c’è una vera fine e un sostanziale
cambiamento di situazione), con una particolare attenzione alla suspense, allo
spostamento, al cambiamento e al mascheramento, sono tra i tratti più tipici del
romanzo barocco

Quanto al filone eroico-religioso, sviluppatosi in conseguenza alla diffusione del


pensiero religioso controriformistico, andrà ricordato il romanzo Maria Maddalena,
peccatrice e convertita (Genova, 1636) di Anton Giulio Brignoli-Sale. Maria Maddalena e
altri personaggi biblici come Susanna e Betsabea sono le personificazioni di un ideale
eroico offerto alla minoranza scolarizzata dell’epoca barocca come un’alternativa agli
eroi dei romanzi eroico-cavallereschi.

PROSA DI VIAGGIO E AUTOBIOGRAFIA

Un settore letterario più realistico della fiaba e del romanzo ma sicuramente denso di
spunti narrativi è la letteratura di viaggio e autobiografica. Il più rappresentativo
racconto di viaggio pubblicato in questo periodo sono i Ragionamenti sopra le cose da
lui vedute ne’ suoi viaggi del mercante fiorentino Francesco Carletti (1573-1636) che
fece il giro del mondo e registrò i più piccoli dettagli di quasi ogni posto che visitò nel
suo lungo viaggio (1591- 1606). Il clima, il paesaggio, l’alimentazione, le abitudini
sociali, la dura vita degli Amerindi, i lati oscuri del comportamento dei giapponesi e la
bellezza delle donne indiane di Goa: tutto il ricco e variegato mondo al di là dell’Europa
trova posto nella sua particolareggiata relazione che riportò al suo signore, il granduca
Ferdinando de’ Medici.

Il fascino della narrativa di Francesco Carletti proviene dall’apparente disinibita


mescolanza dell’ampio ventaglio di descrizioni e analisi del viaggiatore-esploratore con
gli affari privati del mercante (le ragioni per cui lascia la patria, i ritmi del commercio
nell’Oceania, le operazioni di finanza internazionale, la difficoltà di riguadagnare le sue
ricchezze rubate dai pirati olandesi). Carletti è capace di immediatezza divertente e
anche di vigorosi effetti nelle descrizioni; la sua prosa profondamente fiorentina è
inoltre così viva e scorrevole da guidare il lettore attraverso ampie descrizioni senza
annoiare.

Oltre ai Viaggi (1667-81) di Pietro Della Valle (1586-1652), che sono una collezione di
lettere spedite a un amico dall’aristocratico romano dalla Turchia, Persia, Israele,
Egitto, India fra il 1614 e il 1626, paesi di cui dà una viva rappresentazione (sebbene
fortemente caratterizzata da una prospettiva occidentale ed eurocentrica), va
sicuramente ricordato Lorenzo Magalotti con le sue Relazioni di viaggio in Inghilterra,
Francia e Svezia. La vicinanza del moderno libro di viaggio alla narrativa autobiografica,
in cui si condensano una moltitudine di avventure o incontri può forse essere percepita
meglio dalle opere di oscuri scrittori di viaggio provinciali come Francesco Negri (1623-
98) e Sebastiano Locatelli (c.1637-c.1693).

Quanto alla prosa autobiografica, a cui è legata la prosa di viaggio, ricorderemo almeno
le autobiografie stilate da scrittori e protagonisti della vita culturale: la Vita scritta da lui
medesimo (1625) di Gabriello Chiabrera, le Confessioni di Carlo de’ Dottori (1696). Essi
in qualche modo anticipano le autobiografie di grandi scrittori del secolo successivo
come Goldoni, Casanova, Alfieri.

ARCADIA

Sul versante della poesia, il gruppo dell’Arcadia fornì l’esempio di una perfetta armonia
col gusto e le inclinazioni culturali del primo Settecento, che è la spiegazione del suo
straordinario successo. L’Arcadia fu fondata a Roma da un gruppo di letterati che
usavano incontrarsi a casa di Cristina di Svezia, già regina di Svezia, stabilitasi a Roma e
convertitasi al cattolicesimo. Quando ella morì nel 1689, quattordici membri del suo
circolo tra sacerdoti, magistrati e studiosi, fondarono un’Accademia per perpetuare la
sua memoria e promuovere gli ideali artistici del gruppo. Il loro scopo principale era il
ritorno alla semplicità e al buon gusto dei classici al fine di ripulire la letteratura
dall’artificio e dall’eccessiva ingenuità della poesia barocca, di cui ci si cominciava a
stancare.

Se la scelta di modelli, Teocrito, le Ecloge di Virgilio, Sannazaro, era dettata da una


ferma opposizione al cattivo gusto del Seicento, la forma delle loro attività aveva
ancora qualcosa della solennità barocca. I membri si chiamarono pastori e assunsero
nomi dalle pastorali classiche; la siringa di Pan fu il loro emblema; il bambino Gesù il
loro protettore, e così via. I sonetti e le canzonette di argomento religioso o pastorale e
gli interventi accademici erano pubblicati in una serie di volumi: Rime degli Arcadi, I-IX
(1716-1722), X-XI (1747-9), XII (1759), XIII (1780) e Prose degli Arcadi (tre volumi, 1718).

Nei sonetti e nelle canzonette pastorali, le forme letterarie prescelte dall’accademia,


pastori e ninfe intrecciano casti amori con, sospiri e lacrime, di emozione in presenza
dell’amato, di lamento in sua assenza. La natura deliberatamente ingenua e affettata di
tale poesia non sfuggì all’attenzione dei contemporanei e non mancarono commenti
ironici e critici sulle puerilità e sulle pastorellerie di questi austeri prelati e avvocati. Ma
nella metà del Settecento specialmente, quando le “colonie” dell’Arcadia si diffusero
ovunque in Italia, ci fu un ampio apprezzamento degli aspetti positivi e moderatamente
riformisti del movimento: la chiarezza e (nei migliori esempi) la musicalità dello stile;
l’autentico richiamo nostalgico a un mondo naturale e semplice di innocenza come
rifugio dalla confusione della realtà storica.

La figura guida dell’Accademia fu Giovan Mario Crescimbeni (1663-1728), autore di una


vasta Istoria della volgar poesia (1663-1728), mentre fra i membri si registrano alcuni
dei più popolari poeti del tempo, Carlo Innocenzo Frugoni (1692-1768), Gian Vincenzo
Gravina (1664-1718), Paolo Antonio Rolli (1687-1765), Tommaso Crudeli (1703-45) e
Pier Jacopo Martello (1665-1727). Gravina, che insegnò diritto civile e canonico a Roma,
fu uno dei fondatori dell’Arcadia di cui scrisse le sue dieci leggi in latino,egli ne uscì nel
1711 a causa di dissapori con Crescimbeni. Le sue opere letterarie più interessanti
includono il Discorso delle antiche favole (1619), Della ragion poetica (1708), e Della
tragedia (1715) che costituisce un tentativo di fondare una scienza dell’estetica,
reclamando un ruolo epistemologico per la poesia classica, superiore alla logica nel
rivelare la verità immanente nel labirinto delle idee confuse. Gravina scrisse tragedie di
argomento romano su principi strettamente aristotelici, che tutti, eccetto Vico,
trovarono fredde, retoriche e non drammatiche.

Rolli fu un pupillo di Gravina, e si dimise dall’Arcadia nel 1714 per solidarietà con il suo
maestro. Visse per molti anni a Londra, componendo libretti per Hendel e Bononcini,
pubblicando notevoli edizioni di classici italiani e facendo numerose traduzioni, inclusa
una versione del Paradise Lost (oltreché del Rerum Naturae di Lucrezio). Il meglio dei
suoi Poetici componimenti (Venezia, 1753) sono le sue canzonette, con le eleganti e
vivide scene campestri e ritratti dei mutamenti di stagione riportati con rara musicalità.

Anche Martello scrisse opere di teoria letteraria in riferimento alla sua grande passione
che era il teatro. La sua imponente produzione teatrale, che include pezzi per burattini,
commedie satiriche e tragedie, esemplifica la sua teoria sulla imitazione imperfetta,
dolcezza dello stile e versi da recitare. Martello inventò un metro per la tragedia (coppie
rimate di settenari doppi) che fu anche chiamato martelliano e fu poi adottato da
Goldoni, Chiari e altri. Essendo convinto che come puro spettacolo o intrattenimento il
teatro convenzionale non poteva competere con la commedia dell’arte da una parte e
con l’opera in musica dall’altra, senza pregiudizio o scrupolo per le cosiddette regole
aristoteliche, Martello produsse una sorta di catalogo enciclopedico delle vecchie
forme drammatiche. Le sue tragedie, destinate soprattutto alla lettura, sono notevoli
per il loro realismo psicologico e l’acume con cui i suoi personaggi, mai del tutto buoni
o del tutto cattivi, analizzano le proprie e altrui debolezze.

IL TEATRO DEL ‘600


Il teatro nel Seicento è da inserire nell’ambito dell’organizzazione dei fastosi spettacoli
di corte tipici del tardo Cinquecento che divengono una routine, attesa dalle élite, dagli
ospiti e dai membri delle corti. Dalla metà del Seicento le dimensioni politiche ed
economiche dell’arte teatrale erano diventate importanti e la protezione economica
ormai si rivolgeva alle stesse compagnie professionali di attori che assumono una
sempre più chiara identità. La Chiesa contestò l’influenza corruttrice del teatro (specie
della commedia dell’arte), e tuttavia, soprattutto con i Gesuiti, vi fece ricorso a fini
educativi. A Roma, Gian Lorenzo Bernini sperimentò le sue mirabili scenografie, e il
cardinale Rospigliosi (futuro papa) scrisse opere teatrali.

La commedia dell’arte si sviluppa nel pieno ‘500 e si fonda sull’improvvisazione che si


attua sulla base di un canovaccio (una trama elementare) e di alcune situazioni
ricorrenti, con scambi continui con il teatro istituzionale e classico. Chiaramente, è la
qualità attoriale che viene messa in mostra insieme alla conoscenza delle situazioni
tipiche, o meglio topiche* da assecondare (la vanteria minacciosa del fanfarone, la
iperbolica dichiarazione dell’innamorato ecc.) Gli studiosi hanno sottolineato tre
caratteri particolari: 1) le relazioni fra gli attori professionali e i detentori del potere
politico ed economico 2) lo stretto rapporto fra teatro scritto e commedia improvvisata
3) il passaggio da un’estetica della naturalezza a una dell’arte

In un contesto di generale proliferazione e ibridismo dei generi teatrali (opera,


commedia dell’arte, festa, ecc.) definire in modo preciso i tratti di una commedia
regolare seicentesca non è cosa semplice. Si deve ricordare Michelangelo Buonarroti il
giovane (1568-1646), che nella sua Fiera, una serie di micro-commedie in cinque atti,
fece un vivace ritratto di scene di mercati di campagna, rendendo protagoniste diverse
classi sociali, differenti parlate, ecc. L’altra commedia di Buonarroti, La Tancia (1611),
si inscrive invece nella tradizione rusticale e fa il verso alla vita contadina.

LA TRAGEDIA

La tragedia non venne trascurata e specialmente i temi del martirio, instabilità, violenza
politica e religiosa furono al centro dell’attenzione. Sicuramente Il capolavoro del
teatro tragico secentesco è l’Aristodemo (1615) del padovano Carlo de’ Dottori (1618-
85). Nell’opera si narra la storia dell’eroica vergine Merope, il cui promesso sposo
Policare viene ucciso, per ragioni d’onore, dal padre di Merope, Aristodemo, aspirante
al regno di Messenia che, a sua volta crede che la figlia sia impura e quindi incapace di
placare gli dei riguardo a una vecchia offesa. Indubbiamente, Dottori si ispira al
modello della tragedia greca ma è nello sviluppo della trama, che l’autore ricorre a
molti espedienti teatrali tardorinascimentali (fughe d’amore, sostituzioni di persona,
inganni, morti ripetute, doppi riconoscimenti) di cui si serve per ribaltare la situazione
iniziale.
Anche Federico Della Valle (1560-1628) scrive tragedie di corte ma egli aveva un
impiego nell’amministrazione presso la corte di Carlo Emanuele I di Savoia per gran
parte della sua vita e nel 1606 si spostò a Milano, dove potè godere della protezione
della nobiltà spagnola. Fra le sue tragedie, la più nota è La reina di Scotia (scritta nel
1591, ma pubblicata nel 1628). Il senso della vanità degli sforzi umani, specialmente
della vita di corte, la futilità della politica, insieme ad una concezione della divina
provvidenza, sono i caratteri salienti della visione tragica della vita propria di Della
Valle. Della Valle (che preferisce le eroine agli eroi) nelle sue tragedie mette a fuoco due
personaggi, la vittima e il carnefice, che si confortano l’uno con l’altro al momento della
crisi. Egli fa uso di un linguaggio che varia dal lirico al retorico, al sentenzioso, aderisce
alla tradizione del prologo e del coro e ricorre a un’alternanza di endecasillabi e
settenari

La reina di Scotia non concede nulla al gusto popolare dello spettacolo in ossequio a
ideali classici (si pensi per es. all’Ars poetica di Orazio); l’esecuzione dell’eroina non è
mostrata sulla scena ma narrata da un messaggero, e gli eventi sono rappresentati
attraverso l’evocazione e la riflessione. L’autore non adotta la tradizionale divisione in
atti, enfatizza la costrizione spaziale (la cella di prigione dove la storia ha luogo),
elimina i nomi propri dei personaggi, individuati dai loro ruoli e pone attenzione alle
ultime ore di vita della fragile e anziana regina (povera, inferma ed in età cadente),
ritratta quale simbolo della regalità calpestata, ma anche dell’ortodossia cattolica.
Con questi espedienti Della Valle raggiunge effetti drammatici molto intensi.

RECITAR CANTANDO

Con il Pastor fido di Guarini del 1598 si inaugura uno dei più memorabili periodi nella
storia del teatro italiano. Lo stesso anno vediamo sulla scena, quella che è in genere
considerata come la prima vera opera, la Dafne di Ottaviano Rinuccini (1562-1621),
musicata da Jacopo Peri (1561-1633). Nel 1600 Rinuccini e Peri collaborarono a un
lavoro più ambizioso, Euridice, che fu messo in scena a Palazzo Pitti durante le
celebrazioni per il matrimonio di Maria de’ Medici e Enrico IV di Francia. Qualche anno
più tardi, a Mantova, furono prodotte le prime delle due opere di Claudio Monteverdi
(1567-1643) certo il più notevole dei musicisti dell’epoca. Una, Arianna (1608), è andata
perduta, eccetto le varie versioni del suo grande lamento Lasciatemi morire; l’altra,
Orfeo (1607) è ammirata (e regolarmente eseguita) come il primo classico in 300 anni di
opera italiana.

L’eccellenza di Monteverdi in un genere così complesso non sarebbe stata possibile se


l’opera fosse stata semplicemente ‘inventata’ dieci anni prima da Rinuccini e Peri. Di
fatto, tutti e tre beneficiarono di esperienze relative alla combinazione di musica e
poesia drammatica e, fatto ancora più importante, ereditarono dalla tradizione
umanistica ideali e visioni immaginarie condivise (si pensi all’interesse per la musica
degli antichi greci, difficilmente ricostruibile al di là di pochi accenni dei trattatisti
antichi). In questo quadro va inserita l’aspirazione a emulare il teatro greco, di cui si
scoprì lo statuto di arte mista di musica, recitazione e canto. Il recitar cantando è
appunto la tecnica escogitata per realizzare questo programma ereditato dalla tragedia
classica è lo stile recitativo e al suo parente, l’arioso, termini entrambi riferiti alla
monodia, una specie di canzone ‘a solo’ che si sviluppò nel tardo Cinquecento in
contrapposizione ai generi polifonici tipici della musica vocale del pieno Cinquecento,
il madrigale e il mottetto (ma Monteverdi fa eccezione, come si vedrà fra poco).

Molti compositori contribuirono al (ri)emergere della monodia, ma le sue origini sono


da rintracciarsi in particolare nelle attività della Camerata dei Bardi, un gruppo di
musicisti, poeti e studenti che usavano incontrarsi a Firenze negli anni ‘70 e ‘80 del
Cinquecento sotto il patronato di Giovanni de’ Bardi. Fra i tanti gruppi di musicisti
umanisti del sedicesimo secolo, la Camerata era quello ideologicamente più
estremista, cioè più critico nei confronti della musica contemporanea. Il loro manifesto
e la cornice estetica della monodia, fu rappresentato dal Dialogo della musica antica e
della moderna (1581) di Vincenzo Galilei (padre di Galileo). Il punto di partenza di
Galilei fu il miracoloso potere ascritto alla musica dagli antichi filosofi e poeti (per
esempio le storie di Orfeo). Si trattava di riunificare i due linguaggi: musica e poesia,
tale fu la base dell’opera.

Il poeta dei primordi dell’opera fu Rinuccini, che scrisse anche il libretto dell’Arianna
per Monteverdi. La maggior parte dei suoi libretti è composta da versi a selva, una libera
mescolanza di settenari e endecasillabi con uso occasionale di rime, che Rinuccini
prese a prestito dal dramma pastorale contemporaneo. Per un discorso retorico più
formale rivolto al pubblico egli usò strofe di endecasillabi e fece anche uso di strofe di
settenari e ottonari, per canzoni e danze corali e madrigali. Peri e Caccini, crebbero
nell’accademia dei Bardi nel credo di prima la parola, dopo la musica e osservarono
scrupolosamente queste caratteristiche, non solo metriche; puntarono a una ‘identità
sintattica’ di parole e musica nella quale la linea della poesia è vestita di musica,
piuttosto che dissolversi nella musica. Lo stile è quasi interamente libero da ripetizioni
(considerate forse un ostacolo alla percezione del significato al pari delle
sovrapposizioni della produzione polifonica)

Peri e Caccini, inaugurarono una struttura che sopravvisse fino all’Aida: recitativo, poi
apostrofe retorica, poi aria, poi danza corale. Ma il capolavoro dell’epoca fu senz’altro
l’Orfeo di Monteverdi, il più versatile dei compositori del momento in quanto,
nonostante la sua fedeltà alla poesia, al verso (al servizio della poesia, per dirla con
Gluck), egli seppe recuperare e riutilizzare tutta la tradizione precedente del recitar
cantando: madrigali, canzoni per danza, ritornelli strumentali e sinfonie, ensembles
coloratissimi di strumenti.

METASTASIO
Il melodramma di Metastasio è una notevole espressione di alcune delle maggiori
aspirazioni del Settecento: l’ideale di un teatro quale rito sociale e veicolo di istruzione
morale; la nostalgia degli eruditi per la tragedia classica; l’edonismo di una società
cortese devota alla musica. Pietro Trapassi, nato a Roma nel 1698 di umili origini e
morto a Vienna come poeta di corte, fu allievo dal punto di vista musicale della
cantante Marianna Bulgarelli (la popolarissima Romanina) e del compositore Niccolò
Porpora e dell’Arcade Pietro Gravina (che lo ribattezzò Metastasio, grecizzando il suo
cognome), sebbene il suo debole fosse per la poesia cantabile e sensuale di Tasso e
Marino. Egli compose per la corte, per matrimoni, compleanni e altre occasioni.

Nel suo primo e assai noto melodramma, Didone abbandonata, rappresentato a Napoli
nel 1724 con musica di Domenico Sarro, l’incontro virgiliano fra la regina Didone e
Enea, il fondatore predestinato di Roma, diviene uno scontro fra la passione sfrenata di
Didone (disposta a sacrificare e trono e vita per l’uomo che lei ama) e l’angoscia di
Enea spaccato fra amore e dovere. Tipico delle lucide e cantabili ariette di Metastasio è
il lamento elegante e soddisfatto di sé. Così, per es. Enea: Se resto sul lido, \ Se sciolgo
le vele,\ Infido, crudele,\ Mi sento chiamar: \ E intanto, confuso \ Nel dubbio funesto, \
Non parto, non resto, \ Ma provo il martire \ Che avrei nel partire,\ Che avrei nel restar. È
chiara già dalla struttura di quest’arietta la struttura fondata su anafore e parallelismi
che Metastasio fa propri sin da queste prime opere per dar vita a personaggi cui si
addice più il lamento che non la recitazione.

I libretti di Metastasio (tra cui i famosi L’impresario delle Canarie, che lo lanciò in una
carriera di librettista a Napoli, Roma e Venezia, Catone in Utica, ecc.) seguono le regole
stabilite dal veneziano Apostolo Zeno senza soccombere alla sua austerità, grazie al
pathos che Metastasio vi infonde): La struttura è la seguente: tre atti di materia seria
tratta soprattutto dalla storia antica e senza elementi comici; sei caratteri, quattro dei
quali coinvolti da una passione non corrisposta e spesso impossibile e uno dei quali è
una canaglia e un traditore. Il plot si addensa nel secondo atto con varie
incomprensioni e sorprese che sono risolte nel terzo atto grazie ai gesti magnanimi di
sacrificio e perdono o ad atti di pentimento e scene di riconoscimento provvidenziale. Il
dialogo del recitativo è seguito alla fine di ciascuna scena da un’arietta, che può essere
‘sentenziosa’, ‘affettuosa’, o altrimenti.

Tra le opere teoriche di Metastasio (a parte molte traduzioni fra cui l’Ars poetica di
Orazio), sono da ricordare l’Estratto della poetica di Aristotele e considerazioni sulla
medesima (1773) e le Osservazioni sul teatro greco, in cui si dichiara: a) la preferenza
per un ideale di piacere e meraviglia più che di realismo o illusione b) la maggiore
importanza del libretto (che decide il plot) sulla partitura musicale (che può
semplicemente sottolineare) Fra le varie canzonette e poesie di Metastasio
ricorderemo la popolare Libertà (1735): Grazie agl’inganni tuoi, / Al fin respiro, o Nice, /
Al fin d’un infelice / Ebber gli dei pietà.
Senza dubbio però la fama assoluta di Metastasio è dovuta al periodo della sua
cooptazione alla corte di Vienna come poeta cesareo (1730-82), di fatto come
librettista. Alla sua morte il suo posto fu preso da Giambattista Casti (1724-1803), che
scrisse libretti per Paisiello e Salieri, ma dovette la sua fama all’aura di libero pensatore
e libertino grazie alle Novelle galanti (assai ammirate da Byron) e alla satira tagliente
delle corti e della società contemporanea che contraddistingue il Poema tartaro (1797)
e gli Animali parlanti (1802)

GOLDONI

Nel terzo decennio del ’600 il mercato teatrale cittadino di Venezia (ancora nel ‘600 tra
le città più popolose d’Italia) è particolarmente forte e dalla seconda metà del
Settecento anche i borghesi possono affittare (e subaffittare) o, come spesso
accadeva, comperare palchi. L’ormai stereotipata commedia dell’arte e il teatro
musicale (ancora di gusto barocco, ma già toccato dalle riforme di Apostolo Zeno e
Metastasio) dominano la scena. In questo contesto di piena commercializzazione del
teatro, a differenza di altri cosiddetti riformatori del teatro settecentesco come Giovan
Battista Fagiuoli o Girolamo Gigli (letterati di professione che affidavano i loro lavori a
compagnie di dilettanti) l’attività di Goldoni (Venezia 1707-Parigi 1793) che collabora
per tutta la sua carriera con compagnie di attori professionisti, va vista come quella di
un commediografo obbligato da contratti e incassi verso committenti, capocomici e
impresari (Ferrone).

Pe quanto riguarda la sua formazione, Goldoni frequentò confusamente i classici


teatrali italiani e stranieri (Machiavelli, Molière, Corneille, Voltaire), e insieme la
tradizione italiana della commedia dell’arte, nella quale si formò, ma svecchiandola e
limitandone le improvvisazioni attoriali, grazie anche al fatto di poter disporre di un
attore d’eccezione quale Antonio Sacchi. È notevole che egli scrivesse: I due libri su’
quali ho più meditato (…) furono il Mondo e il Teatro; infatti, all’ampia frequentazione di
testi e scene teatrali, si unisce in lui un acuto occhio sociologico e una grande capacità
di cogliere il tratto linguistico caratterizzante dei gruppi sociali. Il bersaglio comico non
sono le classi sociali in se stesse ma piuttosto i comportamenti che esse assumono,
ciò coincide con una critica sociale (vecchi senatori, borghesi arricchiti, ecc.) che
tuttavia si sviluppa in un ambito morale e psicologico.

Dal 1749 al 1753 Goldoni lavora al Teatro Sant’Angelo, alle dipendenze dell’impresario
Medebac. È in particolare ne La donna di garbo che Goldoni comincia ad approfondire
uno dei caratteri a lui congeniali: quello della donna, che, da maschera fissa (il tipo
della serva nella commedia dell’arte), diviene carattere con una sua psicologia. Questa
è la storia della pavese Rosaura che, abbandonata dallo studente bolognese Florindo,
si infiltra a casa di lui sotto mentite spoglie di serva, intuisce e asseconda tutte le
inclinazioni dei genitori che riesce a convincere ad acconsentire al matrimonio.
Tale tendenza continua ne La locandiera (1751), dove la trasformazione da serva a
prima donna è quella di Mirandolina il cui ruolo è affidato all’attrice Maddalena
Marliani. Tutti in questa commedia fingono, ma la locandiera sa farlo meglio di tutti: il
marchese finge una ricchezza ormai persa; il conte, una nobiltà comprata per cui si
crede irresistibile; le due attrici, di essere due dame; il cameriere Fabrizio nasconde la
sua passione per Mirandolina. Il plot consiste appunto nelle finzioni e nelle
manipolazioni dell’altrui psicologia, in particolare, Mirandolina sembra
accondiscendere alla misoginia del marchese fino a farlo innamorare per poi farlo
cadere nella misoginia più cupa quando decide di sposare il fidato Fabrizio. L’intreccio
è anche il risultato di combinazioni psicologiche e sociali ed è reso più vivo dal
carattere corale e dall’attenzione alla periferia della scena, cioè ai personaggi non
primari, e dall’importanza di oggetti di uso quotidiano.

Dal 1753, a causa di contrasti sui diritti d’autore, Goldoni lascia Medebac per il rivale
Chiari, poi, dal 1760, è al teatro San Luca, gestito dai fratelli Vendramin. Sono gli anni in
cui hanno particolare successo alcune commedie dedicate alla famiglia borghese e
all’incrinarsi improvviso e casuale della sua tranquillità quotidiana, rivelando i segreti
conflitti che vi covano: Rusteghi, Sior Todero brontolon, ecc. Goldoni cerca poi di
lasciare da parte i limiti di tale ambiente sociale e il moralismo un po’ insistito con cui è
stimolato a trattarne, e affronta il mondo popolare con Le baruffe chiozzotte (cioè di
Chioggia), ambientate, non a caso, in una città più angusta e tradizionalista della
metropoli veneziana.

Nelle Baruffe chiozzotte, la trama ruota intorno alla figura di Lucietta, la fanciulla
ricama con la madre e le amiche in una calle e quando accetta in dono una fetta di
zucca da Toffolo, suscita le ire di Checca. La questione finisce in rissa e poi in tribunale,
dove il giudice invita a celebrare tre matrimoni per ricomporre la pace. La strada è la
scena; la brevità, la velocità, l’organizzazione del dialogo giungono al concertato
(Folena); sono registrate con attenzione e particolari le condizioni di vita popolare,
descritte con precisione le tradizioni di costumi.

La lingua è il dialetto chioggiotto che è utilizzato senza temere l’incomprensibilità (si


ricordi che, a quanto pare, nella esecuzione teatrale della Locandiera solo Fabrizio
aveva recitato in dialetto e questo perché l’attore era abituato a impersonare Brighella,
come spiega Goldoni nell’edizione a stampa, mentre tutti parlano invece toscano).

Parte del pubblico aristocratico, più conservatore dal punto di vista artistico e politico,
non aveva risparmiato ostilità verso Goldoni e le sue innovazioni. Tali ostilità sono
rispecchiate, tra l’altro, come si ricorderà, dalla polemica antigoldoniana di Gozzi.
Goldoni passerà gli ultimi anni in Francia, scrivendo in francese le ultime commedie (al
Théâtre Italien e poi alla Comédie Francaise) e soprattutto stilando le Mémoires, un
interessante documento biografico e storico non privo di gusto teatrale nei dialoghi e
nelle scenografie delle città.

GOZZI

Carlo Gozzi (1720-1806) polemizzò con Goldoni, in particolare, dopo il successo


ottenuto ne L’amore delle tre melarance, utilizzando sempre l’attore Sacchi, Gozzi
rileva come fosse facile conquistare il pubblico veneziano anche al di fuori dei progetti
goldoniani di riforma. In questa e successive commedie, scritte in versi (un elemento
ostentatamente antirealistico e antigoldoniano), si recuperano le maschere della
tradizione della commedia dell’arte (Pantalone, Brighella, Truffaldino e Smeraldina), via
via abbandonate da Goldoni, ma inserendole in un contesto di avventure magiche,
incanti e trasformazioni tratte da storie per bambini (egli infatti scrisse delle fortunate
Fiabe).

IL PRIMO SETTECENTO: MURATORI

Nel primo Settecento si assiste a un sensibile aumento della popolazione italiana (da
tredici a diciotto milioni), che si accompagnò allo sviluppo di città quali Napoli e
Palermo, Roma e Torino, Milano e Firenze. Dopo il 1715, al dominio spagnolo si sostituì
quello austriaco, l’Austria infatti controllava il ducato di Milano, e, alla morte
dell’ultimo rampollo dei Medici, Gian Gastone, anche il Granducato di Toscana. Il regno
di Napoli, inizialmente annesso all’Austria (1707-34), passò in seguito con la Sicilia al
figlio di Filippo di Spagna, Carlo VIII, e poi, quando Carlo divenne re di Spagna nel 1759,
a suo figlio Ferdinando. Il fatto di essere dominati da grandi corone straniere favorì le
relazioni culturali con l’estero e l’importazione di nuove idee, così a Napoli come a
Milano, e in parte anche a Firenze, si ebbero seguaci di Descartes, Leibniz e Newton.

Mentre in Francia (allora la nazione guida dal punto di vista politico e culturale) gli
illuministi di punta lavoravano a quel formidabile monumento di erudizione, ma anche
di celebrazione della scienza e tecnologia che è l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert,
in Italia la più grande impresa intellettuale del secolo fu un’opera storica, rivolta al
passato. Si tratta della vasta raccolta dei Rerum italicarum scriptores (Scrittori delle
vicende italiane cioè i tanti cronisti e storici del Medio Evo fino ad allora inediti). La
raccolta fu concepita, organizzata e completata a Modena dal bibliotecario della
Biblioteca estense, Ludovico Antonio Muratori (1672-1750). Muratori, che era nato a
Vignola, aveva studiato a Modena e Milano e dopo l’ordinazione sacerdotale e un
periodo come bibliotecario della Biblioteca Ambrosiana, fu richiamato a Modena come
bibliotecario di corte e archivista, una posizione che occupò fino alla morte nel 1750
I principi estetici legati a una concezione decorativa della poesia ma aperti al ruolo
dell’immaginazione sono contenuti nella prime opere. I Primi disegni della repubblica
della lettere (1703) illustrano bene la sua concezione della letteratura come un’attività
collettiva praticata all’interno di una ‘repubblica’ di uomini colti. La sua partecipazione
in nome degli Estensi alle controversie fra la Chiesa e l’Impero sul possesso della
regione di Comacchio, basata su vari antichi titoli e diritti, attrasse l’attenzione di
Muratori sul Medio Evo, la fucina del mondo moderno. Da qui la ‘trasformazione’ in
storico che segnò la sua carriera.

Dopo la raccolta delle Antichità estensi, Muratori ebbe l’idea di raccogliere tutte le fonti
della storia italiana dal 500 al 1500: diplomi, statue, cronache, narrazioni, poemi ne i
Rerum italicarum scriptores. Per illustrare questo vasto materiale, Muratori intraprese
un lavoro parallelo, le Antiquitates italicae medii aevi, settantacinque “dissertazioni”
pubblicate fra il 1738 e il 1743 che coprono quasi tutti gli aspetti della vita italiana nel
Medio Evo, istituzioni, costumi, riti, superstizioni, in cui si può ragionevolmente vedere
l’inizio della storiografia italiana moderna

Il rispetto per i fatti e il desiderio di afferrare il loro significato umano e civile prevale
infatti chiaramente sulle preoccupazioni apologetiche o confessionali, anticipando una
metodologia moderna e discipline come l’antropologia culturale e la storia delle idee.
Negli Annali d’Italia (dodici volumi, Venezia 1744-9), vi è una cronaca anno per anno
dell’era cristiana fino al 1500, e qui Muratori mostra una chiara consapevolezza della
distinzione fra la Chiesa come entità spirituale e la Curia di Roma, criticata per le sue
ambizioni temporali. Gli annali si segnalano anche per la chiarezza ed eleganza dello
stile narrativo, uno degli apici della prosa settecentesca. Il coinvolgimento di Muratori
nella disputa fra gli estensi e la Curia è un esempio del coinvolgimento diretto degli
intellettuali nella organizzazione pratica del bene pubblico, caratteristico del primo
‘700 e che può essere definito come pre-illuminismo.

GIANNONE

Un altro esempio di questo coinvolgimento è nell’attività del giurista e storico


napoletano Pietro Giannone (1676-1748), campione dei diritti dello stato contro gli
abusi della Curia romana nella Istoria civile del Regno di Napoli (1721-3). L’opera gli
garantì fama europea ma gli procurò anche duri attacchi che evitò stabilendosi a
Vienna per dieci anni, sostenuto da una pensione erogatagli dall’imperatore Carlo VI.
Quando don Carlo di Borbone arrivò a Napoli nel 1734, Giannone lo raggiunse contando
su un suo appoggio, ma fu arrestato, poiché il nuovo re di Napoli voleva mantenere
buoni rapporti con Roma; Giannone passò i suoi ultimi dodici anni di vita in varie galere.

La sua opera più notevole è forse il Triregno, in gran parte scritto a Vienna (il
manoscritto è tuttora inaccessibile negli Archivi della Inquisizione a Roma). Si tratta di
una storia dell’umanità con enfasi sulle credenze religiose e la loro connessione con il
potere ecclesiastico: la fase pre-cristiana o Regno terreno è seguita dal momento
evangelico dell’incarnazione di Cristo, o Regno celeste, e quindi da una lunga fase di
degenerazione del messaggio cristiano, causata dall’assunzione da parte della Chiesa
del potere temporale: il Regno papale.

GENOVESI

A Napoli ebbe una fulgida carriera accademica, Antonio Genovesi (1713-69), nella città
venne istituita la prima cattedra di economia politica in Europa, un segno questo del
miglioramento del clima culturale di cui la recente amministrazione dei Borboni si era
occupata. Genovesi fu un acuto studioso di Locke, Newton e soprattutto Montesquieu
e un forte sostenitore di una conoscenza basata sulle scienze naturali e diretta a
migliorare il bene pubblico attraverso riforme legali e economiche. La sua opera più
importante, le Lezioni di commercio o sia di economia civile (1765), è uno dei principali
contributi all’Illuminismo italiano nella sua fase matura.

VICO

In questo contesto di forte impegno per le riforme, spicca Giambattista Vico (1668-
1744), che trova i suoi modelli di riferimento in Tacito, Platone, Francesco Bacone e
Grotius, anziché Malebranche, Spinosa, Gassendi e Descartes. Una sua opera, il De
antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710) testimonia
il passaggio della cultura napoletana da un interesse eminentemente giuridico a uno
antropologico. Tutti i suoi studi e le sue competenze convergono nei Principi di una
scienza nuova intorno alla natura delle nazioni (1725, edd. con aggiunte e correzioni nel
1730 e nel 1744).

Per ricostruire la storia universale, Vico parte dalla distinzione fra certo (i monumenti e
documenti trovati e classificati dalla filologia) e il vero (la formulazione scientifico-
filosofica che si basa sul certo e lo illustra). La possibilità di passare dal regno dei fatti a
quello delle idee è stabilito da un’analogia che Vico scopre fra le differenti fasi dello
sviluppo degli individui e dell’umanità intera lungo la storia, un’analogia che consente
di trovare la chiave per interpretare la storia. Come i bambini nel processo di crescita,
gli uomini prima sentono senza percepire, poi percepiscono con uno spirito agitato e
confuso e infine riflettono con una mente chiara (I, II, 53).

Per Vico, prima venne l’età degli dei, uomini dominati da una natura incomprensibile e
dediti a culti feticisti e antropomorfici; seguì l’era degli eroi, l’epoca dei miti, dei primi
nuclei sociali dominati dal più forte in cui l’immaginazione si elevò e si raggiunse la
sapienza poetica e infine, l’era degli uomini, il mondo moderno, è regolata da ragione e
legge,. È prevista la possibilità che dopo questo corso, si raggiunga una tale raffinatezza
da cadere nella barbarie e ricominciare da capo (come nel caso della decadenza di
Roma, seguita dal periodo eroico del Medio Evo, etc.), con un ricorso. Al di là dei
dettagli del suo sistema, l’importanza di Vico consiste nell’aver teorizzato la possibilità
di studiare ogni civiltà iuxta propria principia (secondo principi propri, autonomi).

L’ILLUMINISMO IN ITALIA

Con il termine Illuminismo si intende il movimento settecentesco che influenzò tutti i


rami del sapere ed ebbe anche un carattere politico; un movimento dunque di
emancipazione dall’ignoranza, dal pregiudizio e dall’autorità basata sulla superstizione
e sull’abuso di potere e che si fonda sulla ragione e sulla libertà di critica e punta a una
organizzazione sociale più equa. Gli intellettuali di riferimento furono Locke, Newton,
Hume in Inghilterra, e Montesquieu, Voltaire e Diderot in Francia; i loro lavori furono
letti e ammirati in Italia, sebbene la loro influenza non fosse omogenea, ma variasse in
ragione delle diverse situazioni politico-culturali degli stati italiani.

A Napoli spicca anche la figura di Ferdinando Galiani (1728-87), economista, studente


di Vico, residente a Parigi dal 1759 al 1769, dove fu amico di Diderot e D’Holbach e di
Madame D’Epinay. Il fitto epistolario con quest’ultima costituisce un meraviglioso
affresco della vita a Napoli e a Parigi. Gli anni ‘80 vedono la pubblicazione della
maggiore delle opere dell’Illuminismo napoletano: La scienza della legislazione di
Gaetano Filangieri. Il libro è un grandioso progetto di riforma della società civile e di una
serie di radicali iniziative, inclusa l’abolizione del sistema feudale, che lascia i baroni in
possesso dei loro stati, ma assegna la pubblica amministrazione e la giustizia a
magistrati qualificati leali allo stato; esso prevedeva anche una riforma della
legislazione penale, l’abolizione della tortura, la protezione dei diritti degli imputati, la
garanzia dell’educazione per assicurare e se non l’uguaglianza fra ricchi e poveri,
almeno un riavvicinamento della distanza intellettuale ed economica.

Un altro centro dell’Illuminismo italiano fu certo Milano. La rivista di riferimento


(l’Illuminismo è anche il movimento delle riviste) era Il Caffè, brevi e vari discorsi
distribuiti in fogli periodici, che uscì ogni dieci giorni dal giugno 1764 al maggio 1766,
fondato dal conte Pietro Verri che fu per un breve periodo, data la politica “riformista”
di Maria Teresa, un collaboratore dell’amministrazione lombarda. Gli articoli, redatti
come dialoghi svolti nell’immaginario caffè milanese di un saggio greco, erano stesi dai
membri dell’Accademia dei Pugni che si riunivano a casa di Pietro Verri e portavano la
firma di Alessandro Verri, dell’economista Sebastiano Franci, e di altri, ma soprattutto
del marchese Cesare Beccaria

Gli articoli riguardavano svariati temi e innanzitutto quelli preferiti dall’Illuminismo:


promozione dello stato assistenziale, guerra ai pregiudizi, preoccupazioni per i
problemi pratici della vita in società. La lingua (oggetto di articoli del Beccaria) doveva
essere semplice, moderna, libera da pregiudizi di tipo puristico e poteva contenere, se
necessario, neologismi e gallicismi.
Con il termine Illuminismo si intende il movimento settecentesco che influenzò tutti i
rami del sapere ed ebbe anche un carattere politico; un movimento dunque di
emancipazione dall’ignoranza, dal pregiudizio e dall’autorità basata sulla superstizione
e sull’abuso di potere e che si fonda sulla ragione e sulla libertà di critica e punta a una
organizzazione sociale più equa. Gli intellettuali di riferimento furono Locke, Newton,
Hume in Inghilterra, e Montesquieu, Voltaire e Diderot in Francia; i loro lavori furono
letti e ammirati in Italia, sebbene la loro influenza non fosse omogenea, ma variasse in
ragione delle diverse situazioni politico-culturali degli stati italiani.

A Napoli spicca anche la figura di Ferdinando Galiani (1728-87), economista, studente


di Vico, residente a Parigi dal 1759 al 1769, dove fu amico di Diderot e D’Holbach e di
Madame D’Epinay. Il fitto epistolario con quest’ultima costituisce un meraviglioso
affresco della vita a Napoli e a Parigi. Gli anni ‘80 vedono la pubblicazione della
maggiore delle opere dell’Illuminismo napoletano: La scienza della legislazione di
Gaetano Filangieri. Il libro è un grandioso progetto di riforma della società civile e di una
serie di radicali iniziative, inclusa l’abolizione del sistema feudale, che lascia i baroni in
possesso dei loro stati, ma assegna la pubblica amministrazione e la giustizia a
magistrati qualificati leali allo stato; esso prevedeva anche una riforma della
legislazione penale, l’abolizione della tortura, la protezione dei diritti degli imputati, la
garanzia dell’educazione per assicurare e se non l’uguaglianza fra ricchi e poveri,
almeno un riavvicinamento della distanza intellettuale ed economica.

Un altro centro dell’Illuminismo italiano fu certo Milano. La rivista di riferimento


(l’Illuminismo è anche il movimento delle riviste) era Il Caffè, brevi e vari discorsi
distribuiti in fogli periodici, che uscì ogni dieci giorni dal giugno 1764 al maggio 1766,
fondato dal conte Pietro Verri che fu per un breve periodo, data la politica “riformista”
di Maria Teresa, un collaboratore dell’amministrazione lombarda. Gli articoli, redatti
come dialoghi svolti nell’immaginario caffè milanese di un saggio greco, erano stesi dai
membri dell’Accademia dei Pugni che si riunivano a casa di Pietro Verri e portavano la
firma di Alessandro Verri, dell’economista Sebastiano Franci, e di altri, ma soprattutto
del marchese Cesare Beccaria

Gli articoli riguardavano svariati temi e innanzitutto quelli preferiti dall’Illuminismo:


promozione dello stato assistenziale, guerra ai pregiudizi, preoccupazioni per i
problemi pratici della vita in società. La lingua (oggetto di articoli del Beccaria) doveva
essere semplice, moderna, libera da pregiudizi di tipo puristico e poteva contenere, se
necessario, neologismi e gallicismi.

Rispetto agli intellettuali del Sud, spesso professori universitari o funzionari statali, al
Nord si presentano tipi diversi di illuministi. Si è detto come il veicolo delle riviste fosse
particolarmente congeniale al movimento illuminista, anche per via della urgenza dei
temi, delle riforme, ecc. Un’altra categoria tipica è quella dei viaggiatori cosmopoliti.
L’ILLUMINISMO NELL’ITALIA DEL NORD

Uno dei maggiori rappresentanti di questo filone fu Francesco Algarotti (Venezia 1712-
64) che viaggiò in Francia, Inghilterra, Germania e Russia, divenne amico di Voltaire e
ciambellano di Federico II di Prussia (rinomato per le sue riforme), e attrasse
velocemente l’attenzione del pubblico con il Newtonianismo per le dame (1737), una
combinazione felice, tipicamente settecentesca, di gusto classico e cultura
enciclopedica. Algarotti fu più un divulgatore che non uno spirito originale, fanno
eccezione le sue lettere raccolte nei Viaggi in Russia, scritte nel 1739, che rivelano la
figura di un osservatore acuto del mondo contemporaneo e un perspicace e gradevole
scrittore.

Anche la critica letteraria, sia pure sotto forma di critica morale, fu parte di questo
rinnovamento. Il gesuita mantovano Saverio Bettinelli (1718-1808), che nel 1757
pubblicò insieme ad Algarotti e Frugoni i Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori, la
cui introduzione, da lui firmata, divenne immediatamente famosa: Dieci lettere di
Publio Virgilio Marone scritte agli Elisi all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella
poesia italiana.

Nelle Lettere virgiliane, Bettinelli prende di mira tutta la tradizione italiana, a partire
dall’oscura e stravagante Divina Commedia, appellandosi ai criteri di razionalità e
classicità greca, e, insieme, ai poeti contemporanei francesi e inglesi. Le sue opere,
che rivelano uno spirito a metà fra Voltaire e il programma culturale gesuitico, non
uscirono propriamente su giornali o riviste, ma la tempra e lo stile ‘militante’ vi si
avvicinano decisamente.

BARETTI

Il piemontese Giuseppe Baretti (1719-89), che visse gran parte della sua vita
insegnando italiano a Londra, dove fu amico anche di Samuel Johnson, scrisse
praticamente da sé la rivista Frusta letteraria, pubblicata a Venezia tra il 1763 e il 1765.
La scelta della capitale italiana dell’editoria, Venezia, rivela la volontà di imitare il
giornalismo inglese, che sta dietro questa operazione, anche nella ricerca del
successo.

Le considerazioni di Baretti sono affidate a lettere, in cui egli registra annotazioni di


costume a partire da fatti quotidiani accaduti durante passeggiate, viaggi, ecc. Il suo
nome de plume nella rivista è Aristarco Scannabue, un irascibile soldato ritiratosi in
campagna, che legge e commenta i libri che un suo amico gli passa.

Nei confronti delle moderne tendenze letterarie, le polemiche contro l’effeminatezza


dell’Arcadia, il bigotto culto del passato, l’illuminismo italiano e la francofonia, ma
anche contro Goldoni rivelano il conservatorismo letterario di Baretti.
Dopo 25 numeri, nel 1766, la Frusta fu proibita dalle autorità e nello stesso anno Baretti
ritornò a Londra, dove continuò a scrivere. Fra le ultime opere spiccano i Discours sur
Shakespeare et sur Monsieur de Voltaire, in cui si esalta il genio di Shakespeare nel
nome della sua fervente immaginazione. I Discours saranno presi ad esempio dai
letterati di sensibilità preromantica.

PARINI

Giuseppe Parini (1722-99), giovane seminarista brianzolo di famiglia modesta, fu


ammesso nell’esclusiva Accademia dei Trasformati (il prodromo di quella dei Pugni)
solo in grazia dell’alto valore della raccolta di sue poesie giovanili, Alcune poesie di
Ripano Eupilino. In questa raccolta l’ispirazione arcadica (boschi, ninfe e pastori) è
irrobustita da una sostanziosa cultura classica (specie Orazio e gli elegiaci).

All’Accademia dei Trasformati, Parini comincia a leggere poesie, (odi ed epistole in


versi, che andava via via componendo, nelle quali esprimeva un’ideale di società in
linea con quello dell’Accademia e del Caffè: una società pacifica, lavoratrice e frugale,
ancora chiusa nelle sue origini agricole e lontana dagli ideali di commercio, lusso, e
costante lotta per il progresso. Nel dialogo in versi Dialogo sopra la nobiltà sferra un
attacco alla presunzione della nobiltà parassita.

Nella Salubrità dell’aria (1759) Parini attacca il lusso, l’avarizia, la stolta pigrizia che
producono l’inquinamento dentro e fuori Milano. Parini intarsia il suo linguaggio poetico
classicheggiante di molte espressioni che, nella descrizione degli effetti fisiologici
dell’inquinamento, rivelano l’influenza delle teorie sensiste (aria lenta, Sali malvagi,
umor fracidi e rei, aliti corrotti), senza preoccuparsi di inserire nel componimento
parole e realtà normalmente considerate impoetiche: campi di riso, stalle, corpi di
animali, carri per il concime.

Altre poesie sono: L’educazione, in cui la convalescenza del pupillo Carlo Imbonati
provoca un’esaltazione del matrimonio fra natura e ragione L’innesto del vaiuolo, in
lode della campagna per l’inoculazione del vaccino contro il vaiolo ad opera del suo
amico e protettore dottor Bicetti Il bisogno, dove l’approccio preventivo, piuttosto che
punitivo di un magistrato svizzero, ispira la descrizione di un uomo condotto alla
violenza dall’indignazione, fatto che richiama certi argomenti di Beccaria La musica, un
eloquente denuncia della pratica settecentesca di operare i ragazzi per produrre
castrati, cantanti maschi con voci di soprano (l’opera settecentesca prevedeva anche
per gli eroi estensioni sopranili).

Il tono del poema è elevato e solenne e il metro scelto è, appropriatamente, il verso


sciolto, che era stato usato in poemi eroici dal Cinquecento (la versione dell’Eneide di
Annibal Caro per esempio), ed era ritornato di moda per il razionale e ‘scientifico’ verso
del Settecento. L’occupazione alle varie attività quotidiane del giovane gentiluomo
sciocco il cui impegno è descritto nelle forme del verso eroico e in toni raffinati, ha un
effetto, in qualche modo, parodistico.

Nel 1763 e 1765 apparvero a Milano due poemi, Il mattino e Il mezzogiorno, pubblicati
anonimi ma immediatamente riconosciuti come opera di Parini. Con La sera che non si
materializzò mai, le prime due parti avrebbero dovuto formare un poema unico, Il
giorno, a illustrazione della vita quotidiana di un giovane nobile milanese, ozioso,
superficiale, presuntuoso e depravato, attraverso il punto di vista e le parole di un
tutore d’invenzione (un precettor d’amabil rito), che descrive e prescrive
rispettosamente i vari riti frivoli che costituiscono il giorno del suo pupillo: sveglia,
colazione, toletta,

Il giorno ricupera la tradizione satirica deli poeti della Roma imperiale (Orazio,
Giovenale, Persio) e dell’Italia moderna (da Tassoni a Martello), ma il suo trattamento
serio e declamatorio del materiale è più vicino al Rape of the Lock di Pope, che Parini
lesse in traduzione. Il poema è caratterizzato dalla combinazione di due elementi: da
una parte, una fascinazione per gli aspetti più raffinati della vita dell’alta società, che
attraeva il senso estetico dell’umanista e il suo interesse sensista per le luci e i colori, i
profumi, i sapori e le impressioni tattili degli oggetti e dei materiali; dall’altra parte la
genuina indignazione sentita da un umile uomo di campagna, convinto della necessità
e dignità del lavoro e della santità della famiglia contro l’ozioso, arrogante e cinico stile
di vita che va dipingendo.

A rendere meno noiose le descrizioni, non mancano le divagazioni: la toletta del signore
ad esempio è interrotta dalla narrazione di come si accumularono le fortune degli avi
del signore, tanto meno raffinata, con allusioni alle prevaricazioni e alle violenze che
ebbero luogo. Un ulteriore elemento di contrappunto è offerto dalla descrizione dei
contadini che lavorano duramente per fornire ricchezze al Giovin Signore, mentre lui
dorme e ozia. Notevoli anche le digressioni su parole e realtà tipiche degli ambienti
agiati del tempo: per es. Cicisbeismo.

La critica di Parini non è diretta alla nobiltà nel suo insieme ma a tutti coloro che
abusano dei loro privilegi e vivono come parassiti, mostrando solo disprezzo per il
popolo e più in generale per tutti gli strati non privilegiati della società. Parini attacca
con ancor più violenza di Goldoni il costume del cavalier servente, un confidente o
corteggiatore (spesso anche un amante) che le nobildonne usavano avere. Il Giovin
Signore si reca a colazione dalla sua dama, in presenza del compiacente marito e di
parassiti saccenti che inseguono la cultura straniera. Dietro questa folla di pseudo-
intellettuali che sanno tutto è possibile intravedere l’ironia verso l’ambiente attorno a
Pietro Verri e verso Verri stesso

Ma il picco ideologico è raggiunto da Parini quando egli affronta le iniquità sociali: gli
uomini erano originariamente uguali, finché gli dei ne ebbero abbastanza e inviarono il
Piacere, una bellissima figura alata, a ciò alcuni uomini reagirono imparando a
distinguere bellezza e bontà da bruttezza, altri invece: quasi bovi, al suol curvati, ancor
dinanzi al pungolo del bisogno andaro: e tra la servitude e la viltade e ’l travaglio e
l’inopia a viver nati ebber nome di plebe

Man mano che la posizione di Parini si fa più chiara, l’ironia del tutore si affievolisce,
per mostrare il volto dell’autore che chiarisce che la condanna di un certo mondo è
senza appello e la narrazione di alcuni episodi lo mostrano chiaramente come nella
famosa scena del servo che sferra un calcio al cagnolino (la vergin cuccia: ‘la cucciola
vergine’) della dama da cui è stato morso, per il quale motivo è licenziato e ridotto alla
fame con la sua famiglia; o nella descrizione della folla a momenti travolta dalla
carrozza del Giovin Signore che torna a casa dopo una ennesima notte di bagordi. In
realtà gli uomini sono tutti uguali:

Ma la notte segue sue leggi inviolabili, e declina con tacit’ombra sopra l’emispero; e il
rugiadioso piè lenta movendo rimescola i color varii infiniti, e via gli spazza con
l’immenso lembo di cosa in cosa: e suora de la morte un aspetto indistinto, un solo
volto al suolo, ai vegetanti, agli animali, ai grandi ed a la plebe equa permette; e i nudi
insieme ed i dipinti visi de le belle confonde, e i cenci e l’oro

Il giorno procurò molti onori a Parini presso l’amministrazione asburgica (interessata


alle riforme e al miglioramento della situazione economica), quando però, alla morte di
Maria Teresa subentrò il figlio Giuseppe II, meno aperto alle riforme e alle concessioni
alle autonomie locali, la situazione cambiò. Progressisti come Verri e Parini si sentirono
traditi e alcune poesie testimoniano questi sentimenti, come la paura della povertà
imminente nella Caduta da cavallo, ecc.

ALFIERI

Il venir meno di queste speranze riformiste è forse all’origine del non completamento
de Il Giorno, mai terminato e del ripiegamento su temi più tranquilli e rassicuranti.
Anche un certo risentimento per gli orrori della rivoluzione francese ebbe un ruolo in
questo cambiamento di registro, come traspare da Silvia, o sul vestire alla ghigliottina
(1795). E’ un fatto che, dopo aver accettato di collaborare con la nuova
amministrazione rivoluzionaria francese, Parini si ritirò dopo poco a vita privata.

L’altro scrittore, che insieme a Parini, fu molo ammirato durante il Risorgimento italiano
fu Vittorio Alfieri (Asti, 1749 – Firenze, 1803). Egli passò un decennio della sua
giovinezza, dopo un’inconcludente carriera militare, viaggiando per l’Europa (1766-
1775); non si trattava del solito Grand Tour dei giovani benestanti settecenteschi, ma di
una continua fuga dall’ insoddisfazione e dalle ansie

Al suo ritorno a Torino, Alfieri scrisse e fece mettere in scena una tragedia, Cleopatra,
ispiratagli dal disegno sul tappeto nell’anticamera dell’abitazione di una sua amante,
che gli suggerì un’analogia tra la sua passione e i sentimenti di Antonio per la regina
d’Egitto. Il notevole successo lo volse a dedicarsi totalmente al genere della tragedia

La struttura delle tragedie di Alfieri è fondamentalmente sempre la stessa: cinque atti


pieni, una materia unica, il dialogo che coinvolge solo le parti principali, e tanto violento
e duro quanto la natura consente (lettera a Calzabigi). Il procedimento che l’autore
segue è sostanzialmente sempre lo stesso: un’idea essenzialmente tragica, la stesura
in prosa, e dopo mesi o anni la versificazione in endecasillabi *sciolti*

La conquista di un verso non cantabile (come era normale nella tradizione italiana,
almeno da Petrarca a Metastasio), fu infatti molto faticosa e approdò a un verso franto,
talora composto perfino di cinque battute brevissime in uno stesso endecasillabo;
largo ricorso a monosillabi, specie pronomi personali e avverbi; uso sistematico di
forme enclitiche. Il risultato è un linguaggio irreale, molto intenso, rispecchiante
l’eccezionale grandezza dei suoi personaggi (normalmente quattro) e gli estremi di virtù
e vizi che rappresentano.

Filippo, concepito e abbozzato nel 1775 e versificato tre volte fra il 1776 e il 1781, è un
archetipo nell’enfasi data al furor regnandi dell’implacabile re spagnolo che sgozza
moglie e figlio. Il minaccioso gigante, il tiranno, che dominerà le tragedie di Alfieri fino
alla fine, incarna l’intolleranza dell’autore per tutte le forme di autorità assoluta che è
forte quanto l’insaziabile sete di potere dei suoi inquietanti protagonisti.

In tragedie come Polinice, Antigone, Agamennone, Oreste, Merope, Alfieri, si confronta


con i grandi protagonisti della tragedia greca (letta però in traduzione moderna,
probabilmente in francese), e – se si volesse ricorrere a concetti freudiani, si potrebbe
dire che egli scava nel loro inconscio, piuttosto che indagare il Fato, per trovare
l’origine delle loro nevrosi che egli descrive col ricorso a immagini e metafore
ossessive: per es., le ombre della notte per l’assassinio del marito e della madre nel
palazzo di Micene.

Dal punto di vista storico la più importante tragedia è Antigone (concepita e abbozzata
nel 1775-6 e versificata nel 1777-8), che fu messa in scena a Roma all’ambasciata
spagnola con l’autore nella parte di Creonte. Dopo questa duplice esperienza, sia
come attore che come poeta, Alfieri diviene maggiormente consapevole delle qualità
specificamente teatrali del suo lavoro, inteso per essere visto tanto quanto letto.

Anche il Timoleone è significativo: fa parte del ciclo delle tragedie dela libertà, dove
l’azione è polarizzata in uno scontro fra tiranno e antitiranno, e finisce in un tirannicidio
o più spesso con il sacrificio dell’oppositore, la cui morte è il solo modo di affermare la
sua libertà, come il poeta sempre più pessimisticamente giunse a credere.

NEOCLASSICISMO E PREROMANTICISMO
Una delle questioni letterarie più complesse circa il periodo a cavallo fra Sette e
Ottocento riguarda la distinzione fra tendenze neoclassiche come il mito dell’arte greca
e inclinazioni preromantiche – l’inquietudine, il gusto per i paesaggi orridi e solitari. A
tale riguardo Croce preferiva il termine protoromantico, sottintendendo che la storia, e
con essa la storia delle idee, procede gradualmente e in una tendenza si contiene come
la futura crisalide del movimento successivo.

La distinzione farebbe immaginare una definizione precisa e inequivocabile dei due


movimenti o tendenze ma si tratta spesso di aspetti inestricabilmente congiunti. Può
essere d’aiuto richiamarsi a certe tendenze artistiche del tempo, come ad es. alla
scultura di Canova, inequivocabilmente considerata un capolavoro del
neoclassicismo, con la sua imperturbata levigatezza di corpi e superfici. Lo stesso può
dirsi delle odi di Parini. A proposito di Alfieri, abbiamo accennato invece
all’irrequietezza del suo carattere e a certi vertici di individualismo estremo diciamo
pure preromantici delle sue tragedie.

L’interesse per il dialetto (nel siciliano Meli ma anche in Parini) e l’immediatezza


dell’espressione dialettale sono elementi che si potrebbe definire e considerare come
preromantici. Una fama europea fu quella di Scot James Macpherson, che spacciò per
originali di un bardo del Galles del tredicesimo secolo (Ossian) poemi falsoarcaici
frutto invece del suo ingegno. Apprezzati quale espressione primitiva e sincera del
genio del Medio Evo, essi furono tradotti anche in italiano dal padovano Melchiorre
Cesarotti (1730- 1808)

Cesarotti fu autore non a caso di un Saggio sulla filosofia delle lingue (1785), in cui
insiste sulla mobilità e mutevolezza delle lingue, che non sono mai pure e si adattano
continuamente alle esigenze dello spirito nazionale. L’eccellente traduzione (1763)
introdusse in Italia il gusto per una poesia primitiva, che descrive e racconta dei
paesaggi nebbiosi e tempestosi del nord, dei lamenti per eroi morti, delle notti
tenebrose spese attorno al fuoco del campo e del religioso stupore di fronte a una
natura grandiosa e selvaggia. Tutti questi elementi sarebbero ricomparsi e anche
piuttosto spesso in varie forme nella poesia del primo Ottocento.

Un altro campione di questo periodo, interessante proprio per il suo essere a metà fra
tendenze neoclassiche e preromantiche è Ippolito Pindemonte (1753-1828). Oggi la
sua fama è legata alla traduzione in endecasillabi sciolti dell’Odissea, di cui sottolinea
volentieri i tratti tempestosi della natura e dei caratteri. Fu autore di due raccolte assai
famose e meritevoli di attenzione: Poesie campestri e Prose campestri

Le Poesie campestri, pubblicate a parte nel 1788, mentre il dittico riunito uscì nel 1817,
sono pervase da una malinconia profonda e costruite secondo dei riferimenti
puramente neoclassici: Malinconia, ninfa gentile, | la vita mia confido a te... (dove
tuttavia, nell’evocazione della ninfa, si riconosce il materiale neoclassico, ellenizzante,
di cui fa pur uso). Va ricordato anche, quanto meno per l’influenza che ebbe sui
Sepolcri di Foscolo, il suo incompiuto poemetto in ottave Cimiteri, un pezzo di poesia
sepolcrale al modo degli inglesi.

Il cambiamento di sensibilità letteraria in questo periodo è visibile anche nel modo di


comporre i libri di viaggio, un caso esemplare è quello dell’abate Bertola, in cui il
viaggiatore ora, cerca di scavare nelle proprie sensazioni e psicologia e non solo di
descrivere il paesaggio. Sulla scia dei romanzi francesi e inglesi scritti in prima persona,
e specialmente delle Confessioni di Rousseau, si diffonde l’usanza di scrivere la
propria autobiografia in chiave intima, quale analisi dei propri sentimenti ed emozioni
(anche qui laVita di Alfieri è spia del cambiamento).

Ancora in questo genere viene sempre più apprezzata l’Histoire de ma vie di Giacomo
Casanova (1725-98), stesa nei suoi ultimi anni di vita, quando faceva il bibliotecario in
un piccolo e sperduto castello della Boemia. In essa si respira il gusto per il racconto
che si sofferma sul piacere del vagabondaggio e del libertinaggio e infine sulla solitaria
vita della vecchiaia. Un’altra autobiografia molto importante fu quella di Goldoni pure
scritta in francese, cioè nella lingua allora più diffusa: Mémoires pour servir à l’histoire
de sa vie, (Paris 1787), definita non a torto da Gibbon la migliore delle sue commedie:
dove il protagonista principale, pieno di umore ma anche di fede incrollabile, è l’autore
stesso, Goldoni.

MONTI

Nel 1825 Vincenzo Monti (1754-1828) rispose con un poemetto in difesa dell’uso della
mitologia in poesia, intitolato appunto Sulla mitologia, contro l’attacco sferrato dal
campione del Romanticismo europeo, Madame de Staël. Il suo ruolo di poeta
raffinatissimo, capace di padroneggiare la tradizione letteraria antica e recente, era da
tempo fuori discussione ma la sua figura fu invece da sempre oggetto di dubbi e
polemiche, per via della sua prontezza a cambiare posizioni politiche seguendo le
tendenze del momento.

Tale atteggiamento opportunistico e oltraggioso venne interpretato in vari modi: a)


come assenza di moralità politica (o moralità senz’altro) b) b) come implicazione della
libera scelta degli artisti c) c) come tentativo di inseguire il gusto del pubblico e quindi il
successo Il calo del prezzo dei libri grazie allo sviluppo delle nuove tecniche
tipografiche e il conseguente aumento del numero di lettori, indussero certamente
Monti a passare dalla ricerca di mecenati (che caratterizza spasmodicamente la prima
parte del suo epistolario) a una diversa strategia di adeguamento ai gusti del
pubblicocliente, allora in rapida espansione.

MONTI
La prima opera importante di Monti fu il poemetto In morte di Ugo Basseville,
diplomatico francese, buon conoscente del Monti e di altri intellettuali attivi a Roma, i
cui gravi errori di valutazione furono puniti con un linciaggio (1793). Pur riconoscendo la
sua amicizia con Basseville, Monti colse l’occasione per dipingere a tinte fosche la
Rivoluzione francese e il Terrore (paragonando ad esempio la decapitazione di Luigi XVI
alla passione di Cristo). Il poemetto fu un successo: 14 tra edizioni e ristampe in 6 mesi,
e più di 100 fino alla morte di Monti (1828)

Quando gli eserciti napoleonici sembrarono vittoriosi, Monti si spostò a Milano, nella
Repubblica cisalpina, dove scrisse un Inno cantato alla Scala il 12 gennaio 1799, in cui
si celebrava l’esecuzione capitale di Lugi XVI. Monti fu accusato di essere un
voltagabbana, ma fu difeso, fra gli altri, da Foscolo, nel nome della libertà artistica. La
posizione di Monti può essere sintetizzata come segue, con le sue stesse parole:
Servirò e canterò per chi mi comanda. Ma carta bianca.

Dal punto di vista linguistico, sebbene Monti non giungesse al conservatorismo


estremo del veronese Antonio Cesari (1760-1828), capofila dei cosiddetti puristi, il
quale bandiva tutto ciò che non appartenesse ai migliori trecentisti toscani, anche lui
esclude dalla sua poesia il vocabolario più umile e più recente: non bicchiere peso
andare, ma nappo pondo gire; non caffé e leone ma il legume di Mocca e il biondo
imperator della foresta. Spesso la via d’uscita era la perifrasi mitologica (il che si salda
col Sermone sulla mitologia).

Tale scelta linguistica non indica il fatto che il pubblico (anche delle classi più elevate)
potesse facilmente comprendere questa lingua e questa mitologia (da Parini a Alfieri a
Porta, il modesto livello culturale degli aristocratici è spesso oggetto di satira), ma che
questi elementi funzionavano come spie di buoni studi classici e insomma di selezione
sociale e rassicuravano sulla conservazione dello status quo. La capacità di fruizione di
questa poesie era invece limitata a una minoranza di persone di buona cultura.

In particolare, l’uso della mitologia venne esteso, in poemi di intento didattico, anche
alla scienza e alla tecnica, le cui innovazioni venivano ornate o meglio filtrate
ricorrendo appunto agli ingredienti della mitologia, con l’effetto di isolare anche i
progressi tecnici e scientifici in un mondo distante dalla società. Lo stesso Monti ne
diede un esempio con Al signor di Montgolfier (1784), riflessione sulla mirabile
innovazione del pallone aerostatico; un altro esempio fu l’Invito a Lesbia Cidonia, nel
giardino botanico dell’Università di Padova, scritto dall’amico di Monti, Lorenzo
Mascheroni.

Le scelte a favore del classicismo (lingua letteraria tradizionale, metafore, mitologia


ecc.) consentirono a Monti e ai poeti che a lui si rifacevano di scrivere per i detentori del
potere e di avere carte blanche allo stesso tempo. L’uso della mitologia sembrava
infatti sublimare in un mondo distante dalla realtà ogni contenuto (anche politico)
trattato. Monti quindi difese fino alla fine l’uso della mitologia e del linguaggio classico
contro quello romantico, sia pure con l’argomentazione di osteggiare non il
Romanticismo, bensì i suoi eccessi.

Il capolavoro di Monti è senza dubbio la traduzione, o meglio riscrittura dell’Iliade in


endecasillabi sciolti, la cui diffusione, al pari di quella dell’Odissea di Pindemonte,
raggiunse anche gli strati sociali meno elevati e influenzò la poesia popolare. Monti non
aveva una profonda conoscenza del greco, e traduceva dal latino, con l’aiuto del suo
amico greco Andrea Mustoxidi o la consulenza di altri, ogniqualvolta la traduzione non
gli pareva convincente o voleva essere informato sull’originale.

A questa tecnica di traduzione di seconda mano si riferisce il salace epigramma di


Foscolo: Questi è Vincenzo Monti cavaliero, | gran traduttor dei traduttor d’Omero. Del
resto Monti espresse le sue posizioni sulla traduzione nelle Considerazioni sulla
difficoltà di ben tradurre la protasi dell’Iliade (1807), affermando l’esigenza di rispettare
più la lingua d’arrivo che quella di partenza, cioè più la lingua del traduttore che quella
dell’originale, posizione opposta come vedremo a quella di Foscolo.

FOSCOLO

La mitologia, come abbiamo visto nella precedente lezione, non è un elemento


accessorio della poesia sette-ottocentesca, e la discussione attorno ad essa non è,
quindi, una discussione secondaria. È in gioco un linguaggio, un modo di scrivere, un
modo di trattare e proporre la realtà e la letteratura, conseguentemente è in gioco, fra
l’altro, la pre-selezione del pubblico a cui ci si rivolge.

Dunque se si voleva parlare a un pubblico più vasto, urgeva, secondo alcuni, sostituire
la mitologia greco-romana (in cui Monti eccelleva), ignota a gran parte del pubblico,
con una mitologia moderna, magari con la storia, i cui eventi, notava Foscolo, avevano
toccato gran parte della popolazione. Un ulteriore scelta poteva ricadere sulla
mitologia cristiana, conosciuta da tutti (tale sarà la posizione di Manzoni); e si sarebbe
trattato allora di ricorrere ai sentimenti primari dell’uomo: amore, morte, nostalgia,
gioventù, speranza e delusione, la dialettica di finito e infinito.

L’opera più importante di Ugo Foscolo divenne famoso per le Ultime lettere di Jacopo
Ortis (romanzo epistolare che risentiva principalmente dell’influsso del Die Leiden des
jungen Werthers di Goethe e del Les rêveries du promeneur solitaire e de La Nouvelle
Hélöise di Rousseau). Dopo la circolazione pirata di un’edizione in parte falsificata, la
prima edizione autorizzata avvenne presso il raffinatissimo editore Bodoni nel 1802, poi
rivista e aumentata nel 1816 e 1817.

La trama dell’Ortis è la seguente: Jacopo non può sposare Teresa, perché, dopo che,
con il Trattato di Campoformio (1797), Napoleone tradendo l’Italia cedette Venezia
all’Austria, egli deve trovare asilo politico altrove. Suo padre, già sospettato, sarebbe
ulteriormente compromesso e rovinato finanziariamente per una questione politica e
per amore Jacopo alla fine sceglie di suicidarsi.

L’importanza dell’opera consiste nell’aver trattato della storia più recente (l’importanza
politica del volume sarà riecheggiata nel Novecento da Roberto Roversi, Dopo
Campoformio, 1962, sulla disillusione del dopoguerra). Foscolo fu fiero del fatto che il
suo lavoro fu tra i primi a suscitare grande interesse, anche nel pubblico femminile, per
la situazione politica del tempo. Il suo merito va anche ricercato nella capacità di
fondere e intrecciare vita intima e politica è infatti stato possibile recuperare numerosi
frammenti dell’Ortis o anticipazioni nei sonetti autobiografici e in altre opere
foscoliane.

Si può naturalmente fare il percorso inverso e vedere nella compagine dei sonetti scritti
da Foscolo, o se si vuole nei quattro più importanti (Alla sera, A Zacinto, Alla madre e
Alla musa), la costruzione di una personale biografia mitologica per i riferimenti alla
morte, alla nascita di Venere, ai viaggi di Ulisse paragonati ai propri ecc. Senz’ombra di
dubbio l’opera più interessante entro gli ambiti del gusto neoclassico è il poemetto in
endecasillabi *sciolti* Le Grazie la cui ispirazione iniziale è data dal gruppo scultoreo di
Antonio Canova (cui è dedicato), rappresentante appunto le tre Grazie della mitologia
greca

Alle Grazie, insieme alle Muse, Foscolo (che in questo procede sulla linea di Monti e poi
del Manzoni di Urania, 1809) attribuisce la civilizzazione dell’umanità. Nel poemetto,
incompiuto, Foscolo assembla in modo frammentario e con sovrapposizioni vari
scampoli della sua attività di traduttore e di poeta originale. Secondo alcuni studiosi,
sembrerebbe che questa costitutiva frammentarietà sia stata programmata da
Foscolo, attratto dall’incompiutezza con cui i siti archeologici vengono percepiti e
goduti.

A proposito del rapporto di Foscolo con i greci e con la traduzione, andrà ricordato il
suo tentativo di tradurre l’Iliade, secondo una poetica del tutto diversa da quella del
vecchio amico Monti, ispirata cioè a un rispetto profondo e costante dell’opera
tradotta. Ciò contribuisce a spiegare la rottura fra i due nell’aprile del 1810 (e il già
citato epigramma accusatorio contro il Monti traduttor dei traduttor d’Omero). Oltre
alle varie traduzioni dal latino e dal greco (come La chioma di Berenice di Callimaco),
va segnalata anche la notevole traduzione del Sentimental Journey di Laurence Sterne
(Viaggio sentimentale di Yorik lungo la Francia e l’Italia, 1813), che contribuisce a
diffondere in Italia un filone del romanzo moderno.

Nella sua premessa alla traduzione de La chioma di Berenice, Foscolo attribuisce alla
poesia: • il compito di celebrare storie memorabili, eventi famosi e eroi • di infiammare
le anime con l’amore per il valore, le città con l’amore per l’indipendenza, le menti con
l’amore per la verità e per la bellezza. Il poeta infatti deve colpire le menti con il
meraviglioso e i cuori con le passioni. Il primo concetto è radicato nell’essere umano, il
secondo nella storia e nella società; il meraviglioso è legato alla religione e per potersi
manifestare necessita quindi di una sorta di poeta-sacerdote o poeta-teologo

Nel 1807Foscolo dava alle stampe il più famoso dei suoi componimenti lunghi: Dei
Sepolcri. Come già accennato l’occasione della composizione dell’opera venne dalla
lettura del pometto incompiuto I cimiteri, di Ippolito Pindemonte. Un altro motivo di
ispirazione fu l’introduzione in Italia di una legge vigente già in Francia, con cui si
vietava la sepoltura, per ragioni igieniche, nelle chiese e nei centri abitati. Sin dal titolo
latineggiante ma ancor più dalla definizione di carme possiamo individuare la volontà di
farne un pronunciamento oracolare, cerimoniale. Per Foscolo i riti funebri sono un
mezzo con cui la cultura dei vivi perpetua la memoria dei morti che non sopravvivono
se non nel ricordo

Dunque quel che resta dei morti, in particolar modo di coloro che sono stati grandi nel
campo della scienza, della politica, dell’arte e della letteratura, cioè il ricordo delle loro
idee e delle loro azioni, può ispirare i viventi a egregie cose (nobili azioni) e solo se la
società non è in decadenza e accecata dalla corruzione, un manipolo di virtuosi (i forti)
può far lievitare e diffondere nella massa quei valori. Diversi i pericoli concepiti: • il
pericolo che il nuovo decreto possa far sì che grandi personalità non ricevano una
sepoltura adeguata • l’impatto della visione delle tombe dei grandi italiani a Santa
Croce a Firenze sull’immaginazione del poeta • il contrasto fra l’apparenza dei cimiteri
inglesi simili a giardini e il macabro aspetto degli ossari delle chiese italiane

Si è accennato alle posizioni estetiche espresse da Foscolo in vari saggi, introduzioni,


lettere, ecc. ed è a tale proposito che va ricordata la sua attività di critico e, in sostanza,
di storico della letteratura, esercitata più o meno regolarmente in volumi e in giornali.
Parte di questi interventi furono scritti in inglese, per importanti riviste quali The
Edinburgh Review e The Quarterly Review, dopo che, con la fine dell’epoca
napoleonica, era diventato impossibile per Foscolo vivere ancora in patria. L’esilio
inglese terminò con la morte, nel settembre 1827. Le spoglie dello scrittore, va
ricordato, furono traslate nella chiesa di Santa Croce, a Firenze, vicino alle urne delle
grandi personalità che avevano ispirato il poeta nel suo carme I Sepolcri.

GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi (1798-1837) nasce da una famiglia nobile in una piccola città dello
stato pontificio, Recanati, e passa gran parte della prima giovinezza nella biblioteca del
padre Monaldo (1776-1845), composta di 15.000 volumi. Il padre, pur di ideologia
conservatrice e antiliberale, si distinse per l’apertura della sua biblioteca privata ai
concittadini (che non se ne avvantaggiarono), e, nonostante la rigidità mentale spesso
rimproveratagli da Giacomo nelle lettere, ottenne una dispensa per il primogenito
Giacomo con cui gli si consentiva di leggere libri all’Indice. Nei anni di studi matti e
disperati, che gli costarono gravi problemi fisici, Leopardi apprese il latino, il greco,
l’ebraico e il francese, affinando notevoli competenze linguistiche e filologiche. Le sue
ricerche, appoggiate a una memoria prodigiosa, e le sue riflessioni sono registrate nelle
note del suo ampio Zibaldone, quaderno di appunti che il poeta scrisse per tutta la vita.

Il suo amore per il passato non impedì a Leopardi di seguire da vicino e prendere
posizione circa le vicende politiche contemporanee, lo notiamo in due canzoni
(All’Italia e Sopra il monumento di Dante), dove inveisce contro la decadenza morale e
politica della sua patria. L’atteggiamento polemico contro gli stranieri e nemici
dell’Italia, lo fecero considerare dai rivoluzionari artefici del Risorgimento uno di loro.
Né egli smentì, anzi si disse consapevole del potenziale rivoluzionario dei suoi versi,
rifiutando l’interpretazione della sua poesia come puro riflesso delle sue personali
difficoltà fisiche; non è un caso che la polizia lo tenne costantemente sotto
osservazione

L’ educazione di base del Leopardi fu quella del cursus studiorum dei Gesuiti, che
includeva la scienza nell’alveo della filosofia. Oltre a studiare filosofi quali Spinoza,
Hobbes, Maupertuis, Rousseau, Bayle, Leopardi si formò anche sulla tradizione
dell’Illuminismo scientifico cattolico, che comprendeva nomi quali Paulian e il geniale
Rudjer Boskovic. Fra le sue Dissertazioni filosofiche scritte a dodici anni, ve ne sono
due scientifiche. Ancora adolescente, Leopardi scrisse anche una Storia
dell’astronomia dalle origini fino alle più recenti ricerche (1813), in cui si possono
rintracciare implicazioni religiose e in cui lo scrittore discuteva metodologie
scientifiche, concludendo con una bibliografia di fonti primarie di più di 300 opere di
230 autori ed editori. A una simile ricchezza di fonti è affidato il saggio Sopra gli errori
popolari degli antichi (1815) sulla storia dei miti e delle tradizioni popolari, contenente
molte idee successivamente sviluppate nella sua poesia.

L’attenzione per la scienza non è un dato meramente erudito del percorso intellettuale
di Leopardi. Quando infatti lo scrittore parlerà nelle sue poesie di Natura, non intenderà
la scienza come contemplazione di bei paesaggi o ingegnosa evocazione della
originaria condizione umana: è forse il concetto base della sua poesia, in forte
dialettica con quelli di umanità, consorzio civile, progresso scientifico e tecnologico. La
natura è l’elemento con cui ci si deve confrontare per considerare la possibilità o
l’impossibilità della felicità umana. La visione leopardiana della natura, all’interno di
questa dialettica di realtà cardinali dell’esistenza umana e sociale, non è mai positiva,
e va semmai radicalizzandosi nel corso degli anni.

Tale pensiero intorno alla natura non vuol dire che in ogni poesia questa si connoti dello
stesso significato, essa infatti assume sfumature diverse nelle diverse opere di
Leopardi. Da una delle Operette morali (1827), una raccolta di prose, il Dialogo della
Natura e di un islandese, si evince ad esempio un’idea di Natura indifferente ai destini
umani. Nella poesia La ginestra o il fiore del deserto (pubblicata dopo la sua morte nel
1845), Leopardi esprime un’idea della natura, ereditata dalla scienza del
diciassettesimo secolo, quale una forza che gli esseri umani dovrebbero controllare e
dominare, e suggerisce che l’umanità si coalizzi contro il potere distruttivo della
Natura, simbolizzato dal Vesuvio. Riguardo a questo punto si vedano i brevi stralci
offerti nella prossima lezione.

Come si è già detto, la relazione fra natura e società è centrale nella riflessione
leopardiana, specie se si considera lo Zibaldone (sede di riflessioni filosofiche
frammentarie) e il Dialogo sopra lo stato presente dei costumi degli italiani (1824). Si
noterà che Leopardi non indulge mai nella descrizione della natura ma è più interessato
agli esseri umani. Ad esempio è interessato ai rumori, in quanto prodotti delle attività
umane: si pensi a La quiete dopo la tempesta, a Il sabato del villaggio, o a Il passero
solitario. Gli stessi esseri viventi (si ritorni ancora A Silvia) sono immediatamente
simboli di un concetto o di una condizione esistenziale. L’Infinito è un caso lampante di
questo atteggiamento che è costante però in tutte le poesie della maturità.

Inizialmente (periodo del pessimismo storico) la fiducia di Leopardi verso la Natura è


maggiore ed è sufficiente a stemperare il pessimismo verso l’umanità. Tale concetto
emerge nelle cosiddette canzoni, ossia Bruto minore, L’ultimo canto di Saffo, Alla sua
donna, ecc., componimenti scritti fra il 1818 e il 1823 e pubblicati nel 1824. In essi c’è
la speranza di un risveglio della coscienza contro la sofferenza connaturata all’esistere.
L’edizione successiva dei Canti (Firenze 1831) incluse i cosiddetti grandi idilli, in cui la
Natura è considerata la causa dell’infelicità umana (periodo del pessimismo cosmico)
e il poeta ne contempla gli effetti. Si legga A Silvia (1828) oppure La quiete dopo la
tempesta, Il sabato del villaggio, ecc. Anche l’amore viene coinvolto in questa
catastrofe pessimistica di cui la Natura è causa: Il pensiero dominante (1831), Amore e
morte (1831), A se stesso (1833), Aspasia (1834).

La relazione fra Natura e esseri umani e il loro raggrupparsi in società, un concetto


centrale dell’Illuminismo, solleva un numero di questioni relative all’individuo e alla
felicità sociale. Leopardi crede che la vita umana sia necessariamente infelice, perché
la felicità è legata al piacere, ma il piacere deriva dalla cessazione dell’angoscia.
Tuttavia è proprio il piacere a condurre all’angoscia perché il desiderio potenziale di
piacere è condannato a rimanere insoddisfatto, in quanto reclama altro piacere. Se la
vita umana è infelice, perché insistiamo a perpetuarla? La preoccupazione di Leopardi
era intensamente legata alla realtà sociale (lo scenario estremo è l’estinzione della
razza umana per via di lotte fratricide o dell’azione della Natura). Non a caso fra i
principali bersagli polemici del poeta maturo, dal punto di vista esplicitamente
ideologico, più ancora dei reazionari, ci sono i liberali.

Nel secondo Ottocento (da parte dei moderati toscani) e nel primo Novecento
(Benedetto Croce) il rifiuto del materialismo e del pessimismo leopardiani ha portato a
ignorare il retroterra filosofico della poesia di Leopardi e a ridurlo a poeta idillico, cioè
poeta solo nei fugaci momenti in cui dimenticherebbe la propria amara filosofia
(Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, poi in Classicismo e
illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, NistriLischi, 1969, 2° ed. p. 133). Per reazione
a questo atteggiamento in qualche modo censorio, diamo uno stralcio di una delle
poesie per così dire meno liriche e più filosofiche di Leopardi La ginestra (pubblicata
dopo la morte del poeta, e scritta durante la sua permanenza a Napoli). La ginestra (più
di 300 vv.) ha assunto dal secondo dopoguerra una grande importanza nella
discussione critica attorno all’ideologia leopardiana.

LA GINESTRA Qui sull’arida schiena/ del formidabil monte,/ sterminator Vesevo,/ la


qual null’altro allegra arbor né fiore,/ tuoi cespi solitari intorno spargi,/ odorata
ginestra,/ contenta dei deserti. (vv. 1-7) Traduzione Tu, profumata ginestra, soddisfatta
dei deserti, spargi intorno i tuoi cespi solitari qui sulle falde aride (non rallegrate da
alberi o fiori) del monte temibile, il Vesuvio sterminatore.+

Nei vv. che seguono Leopardi evoca in sequenza gli imperi caduti, il potere del tempo,
l’inimicizia fra gli uomini che rende ancor più dura la vita, e la convinzione errata che il
destino individuale sia fatto di gioia e godimento (a goder son fatto) e che quello
dell’intera umanità sia incarnato dal progresso, specialmente tecnologico (le
magnifiche sorti e progressive). Non è il caso di illudersi.

Nobil natura è quella che a sollevar s’ardisce gli occhi mortali incontra al comun fato, e
che con franca lingua, nulla al ver detraendo, confessa il mal che ci fu dato in sorte, e il
basso stato e frale; (vv. 111-117) Traduzione È una natura nobile quella che osa
guardare in faccia il destino comune, e parlando liberamente (con franca ‘libera’
lingua), non sottraendo niente alla verità, confessa il male che ci è toccato in sorte, e
l’umiltà e la fragilità della condizione umana

LEOPARDI

Quella che grande e forte/ mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire/ fraterne, ancor più
gravi/ d’ogni altro danno, accresce/ alle miserie sue, l’uomo incolpando/ del suo dolor,
ma dà la colpa a quella/ che veramente è rea, che de’ mortali/ madre è di parto e di
voler matrigna. (vv. 118-125) Traduzione dei vv. precedenti [è una natura nobile] quella
che si dimostra grande e forte nella sofferenza, e non aggiunge (accresce), alle sue
miserie, gli odii e la rabbia verso gli altri uomini (gli odii e l’ire | fraterne), che sono il
danno più grave, incolpando altri compagni di sventura (l’uomo) della sua sofferenza, e
invece incolpa colei che è davvero colpevole (rea), colei che è, quanto al parto, madre
dei mortali ma, quanto alle intenzioni, matrigna

Costei chiama inimica; e incontro a questa/ congiunta esser pensando,/ siccom’è il


vero, ed ordinata in pria/ l’umana compagnia,/ tutti fra sé confederati estima/ gli
uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/
negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune. (vv.126-135) Traduzione dei
vv. precedenti [Questa definisce nemica; e pensando, giustamente (siccom’è il vero),
che il consorzio umano (l’umana compagnia) si è unito e si è organizzato la prima volta
contro la natura (incontro a questa), considera gli uomini tutti uniti insieme (tutti tra se
confederati estima), e li abbraccia tutti con autentico amore, porgendo rapidamente ed
aspettando aiuto negli alterni pericoli e nel dolore della guerra di tutti contro la natura
(la guerra comune).

E piegherai/ sotto il fascio mortal non renitente/ il tuo capo innocente:/ ma non piegato
insino allora indarno/ codardamente supplicando innanzi/ al futuro oppressor; (vv. 304-
309) Traduzione dei vv. precedenti E senza opporre resistenza [non renitente] piegherai
il tuo capo innocente sotto il peso della morte (sotto il fascio mortal): non ancora
inutilmente (indarno) piegato in modo vile supplicando davanti al tuo oppressore
futuro; e (allo stesso tempo) non alzato a sfidare con stupido orgoglio Dio o il deserto,
che non hai scelto come luogo di nascita e di residenza (e la sede e i natali) ma ti toccò
in per destino;

ma non eretto/ con forsennato orgoglio inver le stelle,/ né sul deserto, dove e la sede e i
natali/ non per voler ma per fortuna avesti; (vv. 309-313) Traduzione e (allo stesso
tempo) non sfiderai con stupido orgoglio Dio o il deserto (che non hai scelto come
luogo di nascita ma ti toccò in destino);

Notizie storiche e analisi. Il canto, composto nel 1836 a Villa Ferrigni, presso Torre del
Greco, è conservato da 3 mss. di mano dell’amico di Leopardi, Antonio Ranieri, dal
quale fu pubblicato, postumo, nell’ed. fiorentina del 1845, Opere di Giacomo Leopardi.
Sul piano del contenuto, Timpanaro ha osservato giustamente che il canto è una
riaffermazione di valori illuministici, interpretati come una filosofia dolorosa contro lo
spiritualismo cattolico dell’Ottocento, ma chi vi scorge atteggiamenti socialisti non
legge correttamente il testo: nella Ginestra vi è l’esplicita tendenza di far partecipe
della nuova morale laica tutto il popolo; ma non c’è […] alcun accenno a una lotta
contro l’oppressione politico sociale, come condizione preliminare per raggiungere la
“confederazione” dell’intera umanità

Leopardi sostiene che i contrasti tra i gruppi umani siano secondari e perciò da mettere
a tacere, di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia
Natura […] Inoltre, non bisogna dimenticare che la lotta contro la Natura a cui Leopardi
chiama l’umanità è, e rimarrà sempre una lotta disperata […]. Che la vittoria definitiva
spetti alla Natura tutta la Ginestra lo riafferma, come lo riafferma il Tramonto della
luna, che appartiene allo stesso periodo finale della vita e del pensiero leopardiano”
(Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, cit., pp. 172-175).

Forma metrica Anche la Ginestra esibisce un’innovazione formale caratteristica del


Leopardi maturo (a partire da A Silvia, 1828, anche se non mancavano nelle liriche
avvisaglie di un rilassamento delle convenzioni). E’ una canzone libera, cioè con strofe
non uguali ma di differente dimensione e struttura e con rime abbondanti ma non
sistematiche […] eventualmente surrogate da assonanze, consonanze, rime al mezzo e
interne (Mengaldo, Attraverso la poesia italiana. Analisi di testi esemplari, Roma,
Carocci, 2008, p. 152). Ma se in A Silvia, e in generale nei Canti (I ed. 1831), Leopardi
riesce a rinnovare radicalmente i modi della poesia ottocentesca senza produrre
fratture col linguaggio lirico tradizionale (Serianni, Il primo Ottocento, Bologna, Il
Mulino, p. 229), le poesie dell’ultimo Leopardi, pur in modo diverso, hanno
caratteristiche di rottura. Nella Palinodia la satira degli ambienti intellettuali implica per
esempio un lessico fortemente antitradizionale con abbondante ricorso a neologismi e
forestierismi (canapé, walser ‘valzer’, pamphlets ecc.).

Sul piano formale, le rime sono rarissime. Nei campioni da noi parafrasati: vv. 8-9
contrade: cittade; 11-13 impero: passeggero 111-123 quella: quella 116-118 sorte:
forte 128-129 pria: compagnia 115-132 detraendo: porgendo 122-127 incolpando:
pensando. Innumerevoli le assonanze e le altre forme di coesione fonica: 2-4 monte:
fiore 7-14 vidi: tristi 10-13 tempo: impero: aspetto: passeggero 112-119 e 121 ardisce:
ire: accresce 115-132 detraendo: incolpando: pensando: porgendo.

Lessico e modelli poetici Un controllo dei vocaboli meno comuni su un dizionario


storico (il TommaseoBellini o il Grande dizionario della lingua italiana Utet ) o ancor
meglio su una banca dati testuale (come il CD-ROM della LIZ, Zanichelli) mostra che il
grosso del lessico della Ginestra è tradizionale, ovvero si ispira alla tradizione poetica
antica e recente, dal Cinquecento in avanti con l’ovvia eccezione di Dante e Petrarca.
Nell’Introduzione a un’antologia compilata nel 1827-28 la Crestomazia italiana. La
poesia, per guadagnare qualche soldo, Leopardi scrive infatti che Dante, Petrarca,
Ariosto, Tasso, Guarini e Parini non vanno antologizzati, ma vanno studiati per intero; e
Leopardi fa iniziare di fatto l’antologia dal QuattroCinquecento, spiegando: De’ più
antichi, fuori di [= eccetto] Dante e del Petrarca, crede egli [= Leopardi], e crederanno
forse tutti, che quantunque si trovino rime, non si trovi poesia

Lessico letterario già trecentesco: 4 Allegrare ‘rallegrare’ 4 arbor latinismo, ‘albero’ 6


Odorata, lat. ‘odorosa’ (un solo es. in Petrarca, poi Lorenzo, Sannazaro, Ariosto,
Bembo, Bandello, Marino ecc. 18 Infecondo è latinismo cinquecentesco (Colonna,
Tasso ecc.) e poi setteottocentesco 23 Cavernoso (usato solo nella prosa non letteraria
da Boccaccio), entra in poesia con Boiardo, Ariosto e spec. Tasso e Marino 59
pargoleggiar: pargoleggia è in Dante e ripetutamente in Tasso e Marino (una volta sola
anche nell’Alfieri) 62 Ludibrio è nel Caro, trad. dell’Eneide, e nel Marino

86 Estolle: lat., ‘inalza’ diviene frequentissimo con Tasso e Marino 102 Fetido: lat., in
prosa già in Boccaccio, in poesia in Ariosto e Tasso 117 frale ‘fragile’ : è nel Petrarca
128 pria ‘prima’ è forma poetica tradizionale; 130 estima, lat. ‘stima’ è già in Dante e in
Petrarca. Lessico letterario già trecentesco: 133 aita ‘aiuto’. Tradiz. 138 fora ‘sarebbe’
Tradiz. (Siciliani, Dante, Petrarca ecc.) 163 “veggo dall’alto fiammeggiar le stelle”: il
verso è modellato su Petrarca, RVF XXII 11 220 Liquefatti: già in Dante 305 Renitente:
‘resistente’: frequente nel Guicciardini, nel Bandello.

Esempi di lessico letterario sette-ottocentesco: 2 Sterminatore è un latinismo di


fortuna poetica sette-ottocentesca (Goldoni, Casti, , Animali parlanti , l’Iliade di Monti)
12 taciturno aspetto: la formula è in Cesarotti, Ossian; Casti, Animali parlanti; Alfieri,
Ottavia 35 Commiserare: il lat. entra in prosa nel ‘600 (Pallavicino, Giannone) e in
poesia nell’Iliade di Monti. 48 Annichilare entra in poesia con Alfieri (se si prescinde dal
duecentista Jacopone da Todi, certo non apprezzato da Leopardi, come si è detto). 51
“Le magnifiche sorti e progressive”: è citazione-confutazione da una frase del cugino
poeta di Leopardi, Terenzio Mamiani. Progressive presuppone la forma fr. Progressif, -
ive.

Varianti d’autore Della Ginestra ci rimangono tre diverse fasi redazionali tramandate da
altrettante copie di mano dell’amico napoletano di Leopardi, Antonio Ranieri, siglate di
solito R1 R2 R3. A differenza che per altre poesie di Leopardi, per le quali le varianti
sono molto numerose e la distanza tra una redazione e l’altra assai netta (un’analisi
esemplare nel classico saggio di G. Contini, Implicazioni leopardiane, in Varianti e altra
linguistica, Torino, Einaudi) le varianti sono esigue e di portata ridotta.

Come succede quasi sempre per le poesie leopardiane della maturità, i 3 mss. si
presentano come belle copie, non è documentata cioè la fase della prima stesura (di
regola ancora approssimativa). Meno probabilmente Leopardi, non in condizione di
scrivere, poteva essere in grado di dettare da subito all’amico una stesura vicinissima
alla definitiva. Le varianti sono poche e riguardano per lo più parole vuote o
grammaticali (preposizioni articolate, congiunzioni): 1 su l’onde passa a sull’onde così
come 223 su l’ > sull. 34 Ove > dove. Analogamente 155 ove > in cui per ritornare a ove.
138 contra > contro. 276 de’ mozzi > dei mozzi. Salvo errore l’unica variante che
riguarda il lessico è: 38 innalzar con lode > esaltar con lode

Qualche conclusione Cercando di tirare le somme: il linguaggio poetico dell’ultimo


Leopardi è più aperto alla lingua del suo tempo e anche a parole decisamente non
poetiche come gli avverbi vigliaccamente e codardamente. Nello stesso senso
(moderato rifiuto delle convenzioni del linguaggio poetico e del lessico arcaizzante e
tradizionale) vanno anche il passaggio da de’ a de, da contra a contro, da su l’ a sull, da
ove a dove . Anche formalmente Leopardi vuole consegnare il suo testamento lirico a
una poesia in qualche maniera antiretorica, spoglia, in cui gli ornamenti poetici siano
ridotti e la comprensibilità da parte dei lettori favorita.

Questo non significa naturalmente che Leopardi si opponga in modo radicale alla
tradizione poetica italiana sulla quale si è formato e ha modellato il suo linguaggio. E’
notevole in particolare, tra gli Esempi di lessico letterario sette-ottocentesco,
l’influenza (almeno come serbatoio lessicale e stilistico), di Monti, spesso negata o
minimizzata dagli studiosi di Leopardi ma che in realtà sembra sicura (basti pensare a
inesorato, usata dal solo Monti)

LA PESTE

La peste è colpa? E’ punizione divina? E’ espiazione dei propri peccati? Male sociale
che ci riporta sulla terra, oppure ci annuncia proprio l’imminente fine della vita?
Destino o maledizione? Da sempre l’uomo si è interrogato sul propagarsi della peste e
di quanto essa abbia insito il peccato primordiale da scontare. La letteratura si è
spesso soffermata su riflessioni metafisiche riguardanti la predestinazione o
l’espiazione, dalla notte dei tempi; ancora oggi la scienza non è riuscita a soddisfare
l’inquietudine nascosta dietro alla domanda che il religioso, il poeta, lo scrittore, il
filosofo o semplicemente l’uomo si è posto nei secoli: perché la Peste?

L’origine della peste è molto antica. La morte nera, che ha seminato tra l’umanità
paura, angoscia e terrore per secoli, a causa della sua forza distruttrice, è stata oggetto
di numerose narrazioni nell’ambito di grandi opere, letterarie e artistiche. La storia
riporta numerose descrizioni di epidemie, tuttavia, poiché il termine veniva usato
generalmente per indicare pandemie a letalità elevata, non si può parlare con certezza
di peste fino a quella cosiddetta “di Giustiniano”, risalente al VI secolo d.C. e che
devastò il bacino del Mediterraneo.

Si tratta di un flagello pandemico inteso dalla gente del tempo come una maledizione,
una colpa, forse un destino che sovverte ogni ordine etico e civile, provocando morte e
ingiuria. Molte sono le implicazione metafisiche che la peste suscita e che vengono
trattate da letterati come: Boccaccio, Petrarca, Manzoni e Leopardi. Questi sono i
principali scrittori italiani che hanno raccontato la peste e la malattia cercando di
interpretarne la realtà fisica e mitica, sviluppando una loro personale opinione
sull'origine e il perché della sua comparsa.

Givone nel suo interessante saggio, Metafisica della peste (Einaudi, Torino, 2012)
asserisce concludendo che “il più grande dei mali è cosa dell’uomo, non della natura”
(cit. p.201), perché la peste è una malattia catastrofica che uccide il fisico, ma uccide
anche quello che c’è di civile nell’uomo, rendendolo incapace di nutrire sentimenti di
solidarietà collettiva. La malattia mortale che giunge all’improvviso e trasforma e
annienta gli esseri umani, i loro rapporti, le vicende e i destini è allo stesso tempo uno
stato metafisico di colpa, di destino che riecheggia come una condanna, in quanto si fa
metafora di una condizione esistenziale e si ricollega ad una essenziale domanda che
sta a fondamento del pensiero filosofico: perché siamo nati? perché dobbiamo morire?

La scelta degli autori di cui si parlerà di seguito non è casuale. Essi raccontano
un’esperienza umana comune, la peste, ma dietro ciascuna descrizione degli
avvenimenti si cela il pensiero dell’autore e per ognuno di loro la peste contiene già in
sé la ragione per scrivere l’opera e la chiave morale attraverso cui interpretare l’evento.
In Italia sono soprattutto i cronisti a lasciare testimonianze e documenti intorno alla
pestilenza del 1348 oltre alle celebri pagine che costituiscono “l’orrido
cominciamento” del “Decameron” e ai cenni sparsi contenuti in tutta l’opera di
Petrarca, dalle dolorose affermazioni della I epistola delle “Familiares” che si
ripercuotono nella I delle “Seniles”.

Gli storici e i cronisti del tempo interpretano la peste come un momento necessario di
una escatologia ciclica che ha come momento precedente il diluvio universale e come
telos la fine del mondo, di cui la peste stessa è insieme presentimento e ammonizione
per il grandissimo numero di morti e il suo carattere di universalità. E così, come fu
attraverso l’acqua per il diluvio universale, lo sterminio di uomini e animali per volontà
divina si manifesta, nel basso Medioevo secondo il comune sentire, tramite il flagello
della peste che non può che condurre il mondo a una palingenesi.

LA PESTE IN BOCCACCIO

La posizione di Boccaccio nei confronti della peste e la sua reazione ad essa sono
esaurientemente espresse nel proemio della sua opera più famosa, il Decameron.
L’autore introduce immediatamente le sue lettrici all’opera del Decameron in modo
crudo, duro proprio con la narrazione delle mortifera pestilenza, affermando di non
potere quasi evitarlo in modo che, da un punto di vista puramente narrativo, la
catastrofe, non è solo l’antefatto che costituisce la cornice, la quale offre una struttura
organica e una rappresentazione verosimile a tutta l’opera; ma s'insinua e accompagna
l’intera narrazione: “Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione
del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella
egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera
pestilenza” (Proemio Decameron)

Fra il 1342 e il 1348 assistiamo a Firenze e a Siena, nello specifico, al fallimento di


grosse compagnie mercantili e bancarie. E' in questo già labile contesto socio
economico che scoppia la peste nera, peste che dopo la tragica estate del 1348
ridusse la popolazione fiorentina da circa 90.000 a meno di 45.000 abitanti, lasciando il
terrore nei sopravvissuti. La reazione però non è stata univoca, c'è anche chi di fronte a
tali eventi catastrofici rispose con l'indifferenza religiosa, che poteva arrivare a sfociare
fin anche nell'eresia. L'arte diventa così arma di polemica. Boccaccio è quindi come
“costretto” a parlare della peste, d'altronde non si poteva cancellare con un colpo di
spugna una sciagura che molti temevano potesse annientare completamente una città
come Firenze

tra i modelli dell’autore: • le pagine sulla peste di Tucidide o di Lucrezio, di Isidoro di


Siviglia, Virgilio, Ovidio, Livio, Seneca, Lucano; • maggior fortuna, perché
autorevolmente additato per primo dal Branca, è Paolo Diacono (720-799 d.C.), storico
longobardo che insegnò alla corte di Carlo Magno e che nella sua Historia
Langobardorum descrive la peste che colpì l'Italia negli ultimi anni dell'impero di
Giustiniano (527-565 d.C.).

Alla descrizione quasi scientifica dei bubboni e delle macchie della peste fa seguito
l'osservazione del venire meno di ogni forma di solidarietà e civile convivenza, l'autore
focalizza così la sua attenzione sulle reazioni popolari. Con un'attenta lettura possiamo
cogliere come il Boccaccio ci spinga a un’interpretazione metaforica dei fatti
convincendoci che la peste materiale non conosce rimedi, ma la peste “morale”, sì.
L'epidemia sembra essere per Boccaccio in riposta alla “giusta ira di Dio” e questo
pensiero fa da eco al fanatismo religioso del Medioevo, che sta volgendo al suo
termine.

In realtà nell'Introduzione vengono fatte due ipotesi: o la calamità si era verificata a


causa di una sfavorevole disposizione degli astri (per operazion de' corpi superiori ),
oppure per la giusta ira di Dio (per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra
correzione mandata sopra i mortali ). Boccaccio non dice quale delle due teorie
secondo lui sia vera, si limita a riportarle entrambe come opinione degli uomini e a
sostenere che comunque sia la punizione è giusta, poiché l'umanità si è corrotta. Le
cause dell'epidemia rimangono alla fine sconosciute, ma non si può non notare come
manca nel racconto che Boccaccio fa della peste l'affermazione della prospettiva
cristiana, possiamo dire che è stato attento e accurato nel tener lontano quei temi
edificanti che proliferavano da ogni cattedra

LA PESTE IN PETRARCA

Se per Boccaccio l'epidemia del 1348 fu una catastrofe “sociale” occasione di rinascita
e ne descrive gli effetti sulla società senza aggiungere la sua esperienza, Petrarca usa
invece la propria persona come punto di riferimento nelle sue scritture, senza
soffermarsi più di tanto su il ruolo della peste di punizione divina o sovvertitrice dei
costumi. La sua è un'esperienza che, per quanto personalissima, tende all'universale, e
non è comunque estranea al sentire di tutti gli uomini.

Noto il grande amore del poeta per Laura che anche in questo caso diventa il filtro
dell’analisi di un’esperienza così tremenda come la peste. Nel sonetto CCXLIX: “Così in
dubbio lasciai la vita mia:/ or tristi augurî, e sogni, e penser negri mi dànno assalto; e
piaccia a Dio che ’n vano” (Canzoniere)

Leggiamo come Petrarca ripensa all'ultima volta che ha visto Laura in vita, in una visita
poco prima di partire per l'Italia, dove lo raggiungerà la notizia della morte di lei.
Petrarca la rivede mentre stava fra le altre donne con un volto né felice, né contrito,
come se già prevedesse, afferma il poeta, l'avvento di un male, la peste. Il poeta
afferma che la morte in un attimo distrugge ciò che si è costruito in un'intera vita e di
fronte ai numerosi cortei funebri Petrarca arriva a pensare che solo la fede poteva dare
un minimo di conforto.

La peste è, quindi, il motivo grazie al quale e per mezzo del quale il Canzoniere si
sviluppa, poiché è la peste che determina la condizione della morte di Laura, che viene
a contrapporsi a quando Laura era in vita. La terribile epidemia determina quindi la
sofferenza del poeta che vedendosi privato della sua musa, esprime, nel Canzoniere,
sentimenti che oscillano tra la letizia della vita di lei e il dolore per la sua morte.

Questo atteggiamento è evidente anche in una delle sue Epistole metriche, intitolata “A
se stesso”, (1348). La poesia è cosi intitolata perché in essa Petrarca risponde a delle
domande, sorte in seguito alla visione drammatica causata dalla terribile epidemia,
che lui stesso si è posto: “Vedo trapassare con precipite fuga le stagioni di questo
mondo morituro, e intorno muoversi schiere di giovani e di vecchi […] Dovunque io
volgo gli occhi esterrefatti, mi turba la vista di innumeri morti […]” Questo brano
racconta di una morte onnipresente e come essa, attraverso la malattia, colpisca
indifferentemente tutti: giovani, vecchi, bambini, ricchi, poveri... non sembra esistere
un posto sicuro per evitarla. Come il Boccaccio, il poeta non conosce le cause precise
della peste. Ma sebbene Petrarca cerchi un po' di conforto nella fede, qui la valenza
religiosa subisce una reductio rispetto al Boccaccio, alla fine il poeta si limita a
menzionare le teorie diffuse.

LA PESTE IN MANZONI

Manzoni, a differenza di Petrarca e Boccaccio, visse la peste da esterno non in prima


persona, poiché quella che racconta è la peste del 1629, cioè di duecento anni prima di
lui. A differenza di Leopardi, il quale affronterà la tematica della malattia avendo
vissuto l'esperienza ottocentesca del colera, l'autore dei Promessi Sposi, sebbene
coevo al recanatese, non ne farà mai accenno, ma attingerà alla sola vicenda della
peste del XVII secolo. Questa è l'epidemia che lui tratta e che fa diventare una costante
nel panorama generale dei suoi Promessi Sposi.

Nello specifico la peste viene affrontata nei capitoli XXXI e XXXII, che sono gli unici
storici della peste di Milano. La loro natura in parte storiografica e in parte romanzesca
è nota al Manzoni il quale afferma di voler offrire ai lettori un quadro privo di lacune, a
differenza dei suoi predecessori. D'altronde la poetica di Manzoni preferisce alla
letteratura d'invenzione quella basata sulla storia, con una morale. Il Manzoni riflette su
come le masse vivessero un delirio a motivo della peste che non gli consentisse di
vivere la realtà dei fatti, inducendoli solo a delle illusioni che consolavano con più
facilità.

Il regno della peste è quindi un regno di caos, di disordine, ben personificato dagli
orribili monatti, addetti pubblici che nei periodi di epidemia pestilenziale erano
incaricati dai comuni di trasportare nei lazzaretti i malati o i cadaveri. Di solito i monatti
erano persone guarite dal morbo e così immuni da esso. Queste figure erano il risultato
dell'indifferenza collettiva poiché penetravano nelle case altrui, minacciando, rubando
ed estorcendo: “ma al primo suo grido i monatti avevano preso la rincorsa verso il letto;
il più pronto gli è addosso, prima che lui possa far nulla […]” (Promessi Sposi XXXII)

A terrorizzare Manzoni è la deresponsabilizzazione provocata dalla peste, che rompe i


freni inibitori e fa prevalere il male sul bene. Se per Boccaccio la salvezza e la soluzione
stava nella rinascita, per Manzoni l'uomo può salvarsi solo con il senso di
responsabilità e la sublimazione razionale e religiosa. E' così consequenziale che a
sacrificarsi per gli altri siano gli uomini di chiesa. Per Manzoni tutto quello che è umano
e quindi creato da Dio è degno di storia, anche un argomento così orribile come la
peste.

Se la peste è una punizione divina conseguenza della colpa della umanità Manzoni se
lo chiede, lo fa attraverso i suoi personaggi come attraverso l'angusta morale di don
Abbondio che interpreta la peste come "provvidenza" perché ha agito da “scopa”
spazzando via i malvagi come don Rodrigo: “[...] E' stata un gran flagello questa peste;
ma è anche stata una scopa ; ha spazzato via certi soggetti , che, figliuoli miei, non ce
ne liberavamo più [...]” (P.S. XXXIII)

A Renzo, che orgogliosamente e ingenuamente crede di aver trovato il senso della


storia da lui vissuta negli errori che ha commesso e negli insegnamenti che ne ha tratto,
Lucia ribatte di non avere commesso errori e di non essere mai andata a cercarsi i guai
e che, tuttavia, essi l'hanno colpita egualmente, questo fa si che l'interrogativo sul male
rimane, non c'è modo di capire il suo perché. C'è una risposta che i due insieme
trovano e che lo scrittore pone come «il sugo di tutta la storia» ed è la seguente: “[...]i
guai vengono bensì spesso, poiché ci si è dato cagione; ma la condotta più cauta e
innocente non basta a tenerli lontani»; comunque sia, «quando vengono, o per colpa o
senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore [...]”.

Il male dunque non è interpretabile, per Manzoni, semplicemente come punizione


divina e nemmeno come prova da superare, ma risponde a ragioni che la mente umana
non può ricostruire. Il dolore non si spiega dentro la storia, la fiducia in Dio serve però a
renderlo più sopportabile e magari utile per la salvezza dell'anima.

La peste in leopardi

Se in Boccaccio, Petrarca e Manzoni la peste è un'occasione letteraria e viene


affrontata generando opere che hanno essa stessa, spesso, come fulcro, nel caso del
Leopardi il male, di cui la peste è parte, è insito nella natura, nell'esistenza. L'eredità
che il recanatese ci lascia, in particolare nello Zibaldone, è costituita da riflessioni
personali che il poeta sviluppa in merito al tema, in una forma quasi privata. La malattia
è intesa dal poeta come male comune a tutta l'umanità, che colpisce
indifferentemente qualsiasi rango sociale, deturpando e rovinando tutto ciò che
incontra, esattamente come la peste ai tempi di Boccaccio e Petrarca.

Tra il 1819 e il 1823 Leopardi passa dalla fase del “pessimismo storico” a quella del
“pessimismo cosmico”. Nella prima fase il poeta credeva che il dolore fosse il frutto
negativo dell'evoluzione storica poiché essa comporta lo sviluppo del sapere razionale,
il quale priva l'uomo dell'illusione unica consolazione che ha. In questa fase la Natura è
benigna perché provando pietà per l'uomo gli fornisce l'immaginazione, ovvero le
illusioni.

Nella fase del “pessimismo cosmico”, invece, Leopardi ribalta la concezione della
Natura che da benigna diventa matrigna, la sola colpevole dei mali che affiggono
l'umanità, poiché essa procede incessantemente nel suo compito di prosecuzione
della specie, noncurante dell'uomo. Il poeta arriva così alla conclusione, nella fase del
pessimismo cosmico, che l’umanità intera non potrà mai essere pienamente
soddisfatta, non potrà mai provare un vero piacere. “le infermità, e cent'altri mali
inevitabili ai viventi, anche nello stato primitivo, (i quali mali benché accidentali uno per
uno, forse il genere e l'università loro non è accidentale) si riconoscono per conducenti,
e in certo modo necessarii alla felicità dei viventi, e quindi con ragione contenuti e
collocati e ricevuti nell'ordine naturale, il qual mira in tutti i modi alla predetta felicità”
(Zibaldone)

Il rapporto tra la malattia e la felicità si sviluppa in questo senso, ovvero nel fatto che il
poeta sostiene che i mali sono necessari, attraverso il loro accadimento si apprezza la
situazione di benessere, inteso come assenza di malattia, fino ad allora vissuta. La
continuità dei piaceri porterebbe infatti all' abitudine, che è nemica del fremito che
procura il godimento ossia la felicità. Inoltre, sostiene Leopardi, la presenza dei mali
occupa lo spazio che in assenza di essi e della felicità verrebbe ad essere occupato da
una condizione penosa e intermedia che è la Noia, il Tedio che costituiscono la maggior
parte dell’esistenza di un uomo, provocando un fortissimo malessere ed inquietudine.

Il male di cui parla Leopardi è identificabile anche con la peste. Leopardi infatti in una
lettera del 30 Ottobre del 1836, indirizzata al padre Monaldo, giustifica la sua lunga
assenza da casa per motivi diversi e tra questi nomina il “choléra”. Leopardi vive la
peste, riconosciuta nel colera, che è il male a lui contemporaneo ed è differente da
quello trattato dal coevo Manzoni, che a tale epidemia non accenna. “Mi è stato di gran
consolazione vedere che la peste, chiamata per la gentilezza del secolo choléra, ha
fatto poca impressione costì”. Con un lieve umorismo Leopardi afferma di sentirsi
quasi sollevato all'idea che i suoi genitori non abbiano colto la gravità della cosa, forse
si sta attivando in lui quel processo, tipico durante la peste e trattato da tutti i
“pestigrafi", di disumanizzazione e di riduzione dell'uomo allo stato bestiale. Leopardi
parla della scomparsa dei sentimenti, in particolare dell' amore verso i propri familiari,
di cui l'epidemia è causa.
In conclusione la peste per Leopardi svela la natura, poiché essa stessa è natura, è una
potenza smisurata, inarrestabile, che non può essere domata da nessuno, nemmeno
da Dio, “del quale non si può che rivelare l'assenza, se non decretare l'inesistenza”. A
conferma di quanto detto vediamo come anche nello Zibaldone, nel Febbraio del 1827,
scrive: “Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose
si possono conservare e durare, che altrimenti non potrebbero. Ma infinite (e forse in
piú numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sí morali sí fisiche, con
estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute
combinar bene.”

La natura, attraverso la peste, esplode nell'uomo, a proposito è interessante analizzare


l'analogia con il componimento leopardiano “La Ginestra”. La differenza tra la ginestra
e l’uomo sta nel fatto che la prima vive una condizione di verità, riconoscendo il suo
essere natura e non auspicando o ricercando altro, l'uomo, invece, che è anch'esso
natura, pensa di non esserlo o quanto meno cerca sempre di andare al di là di essa e
così diventa una sua preda: “La natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio
adempie, e senza posa distruggendo e formando si trastulla”. (Poesie e Prose)

CONCLUSIONI

Se per Boccaccio la peste è l'occasione per evadere da una realtà corrotta e rinascere,
per Petrarca è invece il momento in cui si manifesta la totale solitudine. Di fronte allo
sfacelo dell'umanità l'uomo diventa il centro del proprio universo e si va a sostituire a
un Dio che non dà più certezze. Manzoni ha in comune con Boccaccio la visione della
peste come una sorta di maledizione che questa provoca sulle vicende umane,
facendo prevalere la colpa sul destino ma stimolando poi un senso di rinascita, che nel
caso di Manzoni è una rinascita spirituale. Il poeta non cerca una spiegazione ma si
arrende fiducioso nelle mani di Dio che ha un piano preciso. Sarà Leopardi a sostenere
che la peste, intesa nel senso più ampio di Male, è da sempre parte della vita, l'uomo
non può combatterla, deve solo accettare che il male è necessariamente previsto,
necessariamente presente, e all'uomo non resta che accettarlo, adattarsi; solo la non
esistenza può dare, in quanto assenza di vita, sollievo da tali interrogativi.

La peste ha in sé qualcosa di fatale, è nella natura ma sembra incomberà


esternamente sul mondo come vendetta, per una colpa da espiare tramite la
morte.Come quindi non vederla come una vendetta divina causata da un'offesa da
redimere? La sua portata è troppo grandiosa per risolversi in chiave naturalistica.
Connessa all'ira divina è la “falsa coscienza”, intesa come appiattimento comune a
credenze evidentemente fasulle ma necessariamente affermabili perché condivise
dalla collettività, che si va sviluppando a causa della profonda ignoranza che porta i più
semplici a credere vivamente in quello che viene raccontato.La giustizia divina e la
falsa coscienza si superano nel momento in cui, ci si arriva a chiedere se la peste non è
altro che un destino e in quanto tale non si può parlare di colpa dell'umanità, e si arriva
a pensare, come afferma Karl Jaspers vissuto tra il XVIII e il XIX sec, “ noi siamo vivi, è
questa la nostra colpa”. Una colpa non dovuta a noi quindi, ma al destino e se colpa e
destino risultano senza senso allora forse la stessa insensatezza sta nell'essere.

Manzoni

Alessandro Manzoni (1785-1873) fu probabilmente il figlio naturale di Giovanni Verri e di


Giulia Manzoni (sposa del conte Pietro Manzoni). Quando Giulia poi si unì al ricco
banchiere Carlo Imbonati con il quale visse in Inghilterra e a Parigi, il figlioletto fu
inviato in vari collegi cattolici, da cui uscì con pessimi ricordi, un’ottima educazione
classica e un forte sentimento anticlericale (anche se non fu mai ateo) e latamente
anarchico che si tradusse in interesse per il movimento romantico (in particolare, fu
amico di Ermes Visconti e Federigo Gonfalonieri). Manzoni affinò i suoi interessi storici
grazie alla frequentazione dello storico napoletano Vincenzo Cuoco e quelli poetici
grazie ai caldi consigli di Monti e Foscolo. Nel 1805 fu invitato da Imbonati a Parigi, dove
rimase dopo la morte del banchiere (nello stesso anno) e dove si educò al clima
culturale post-illuminista, ormai ripiegato su un’ideologia borghese conservatrice che
flirtava volentieri con il cattolicesimo.

L’ambiente culturale parigino frequentato da Manzoni fu il retroterra di numerosi


cambiamenti ideologici e di vita: innanzitutto, l’accostamento al cattolicesimo e il
matrimonio con Henriette Blondel (celebrato a Milano nel 1808 da un prete
protestante, perché nessun sacerdote cattolico era disposto a sposare una calvinista
con un anticlericale la cui madre era vissuta nel peccato). Dal punto di vista letterario il
mutamento consistette nell’abbandono del neoclassicismo, fatto che gli procurò però
un blocco immaginativo come accadde anche per il poemetto Urania (1809). Manzoni,
dopo aver apparentemente esaurito i temi del neoclassicismo, trovò nuova linfa nella
cultura cattolica, di cui il popolo era imbevuto. Questo significava quindi una scelta
non elitaria del proprio pubblico, si spiega così la composizione di una piccola serie di
Inni sacri su temi cristiani.

Si direbbe che il presupposto di quel cambiamento (da Urania agli Inni sacri, per
intendersi) sia dovuto all’ipotesi di una subordinazione o ridefinizione della Bellezza in
termini di Verità/Divinità. Ma ben presto si fa strada nel Manzoni lettore di Walter Scott
e testimone di cambiamenti epocali come la Rivoluzione francese, le imprese di
Napoleone, la Restaurazione, l’idea che forse c’è nella stessa realtà una fonte
altrettanto degna di competere con la Bellezza, ed è la Storia. È dalla verità storica che
Manzoni cerca ora di trarre ispirazione (si veda la sua Lettre à monsieur Chauvet], del
1823).
interessare Manzoni è il processo psicologico vissuto dall’interno, in presa diretta.
Come vediamo nella tragedia Adelchi (più che ne Il Conte di Carmagnola 1824)
Manzoni, mise compiutamente in pratica le sue idee. Nella prima il protagonista, figlio
del re dei Longobardi, Desiderio, deve combattere al fianco del fratello in una guerra
che considera ingiusta e destinata al disastro. Sebbene Manzoni si avvicini al dialogo
drammatico e parzialmente al linguaggio della comunicazione sociale, il suo rifiuto di
lasciar mettere in scena le due tragedie e l’incompiutezza di una terza, Spartaco, fanno
supporre che non fosse soddisfatto della lingua utilizzata, certo più comprensibile di
quella in cui era stesa la tragedia del tempo, ma ancora troppo scarsamente
comunicativa. Il problema della lingua cominciò presto a tormentarlo e esplose in quel
torno di anni nella progettazione della sua principale opera, i Promessi sposi

All’inizio del diciannovesimo secolo, Hegel definì il romanzo la moderna epica


borghese. Nei più sviluppati paesi europei come la Gran Bretagna, la Francia, la
Germania il rapido aumento della scolarizzazione conseguente alla Rivoluzione
industriale e alla specializzazione della manodopera fu accompagnato, come si
ricorderà, da una tumultuosa crescita di romanzi in prosa, scritti e confluiti sul ampio
mercato della classe medio- bassa in via di sviluppo

In Italia (nonostante i precedenti lavori sei e settecenteschi cui si è appena accennato)


il mercato del romanzo non si era sviluppato in modi paragonabili a quelli dei paesi-
guida, dato anche il più basso livello di industrializzazione e di alfabetizzazione (i due
tassi sembrano correlati almeno nel sette-ottocento europeo), né si era potuta
sviluppare una prosa duttile adatta agli scopi della narrazione. Inoltre il romanzo veniva
considerato un genere che ‘tradiva la verità’

Manzoni che si era formato in un paese all’avanguardia come la Francia, non rimase
insensibile alla fortuna e alla popolarità che i romanzi avevano fuori dell’Italia. Al centro
del pensiero di Manzoni (come di altri esponenti moderati e cattolici della classe
dirigente del tempo) era sicuramente l’idea che la letteratura dovesse ispirarsi alla
dottrina della Chiesa e del Vangelo e che il compito di un uomo colto dell’alta
borghesia, fosse quello di guidare gli strati più poveri della società. Vi era inoltre in
Manzoni la repulsione e il timore per i sollevamenti popolari non organizzati (nel 1814 a
poca distanza dalla sua abitazione milanese fu ucciso in uno di questi moti rivoluzionari
il ministro delle finanze Giuseppe Prima).

La sua posizione, da sempre discussa, tra illuminata e conservatrice, di fatto delegava


al cambiamento individuale, più che al mutamento delle strutture economiche, caro al
pensiero socialista dell’Ottocento, il miglioramento delle condizioni sociali e morali
delle classi subalterne. Fra le nette prese di distanza ideologiche dal capolavoro
manzoniano andranno segnalate quelle di Carlo Cattaneo (1801-1869), di Carlo
Pisacane (1818- 1857) e dello storico della letteratura Luigi Settembrini (1813-1876),
peraltro più giovani di almeno una generazione Manzoni, era nato nel 1785).
Verso il 1820 Manzoni, già orientato verso il romanzo in prosa, ha l’idea del Fermo e
Lucia, una storia ambientata nella Milano del 1628-30. Una coppia di fidanzati, anzi di
sposi promessi, è separata dalle brame del signorotto locale, don Rodrigo (siamo sotto
la dominazione spagnola), il quale scommette con suo cugino che riuscirà a sedurre la
ragazza, Lucia, e vietare a don Abbondio, il parroco del posto, di unirli in matrimonio.

Così, quando la giovane coppia, protetta da un buon frate, padre Cristoforo, cerca
rifugio altrove, Rodrigo rapisce Lucia e fa trasferire il frate in un convento lontano. Ma il
rapitore, il potente Innominato, attraversa una crisi spirituale, libera Lucia ed è
convertito dal cardinale Federigo Borromeo (nella realtà storica, una figura centrale
della vita religiosa lombarda e italiana del XVII secolo), al cattolicesimo. Il
ricongiungimento dei fidanzati, sorretti dalla loro fede, è ulteriormente ritardato dalla
peste, ma entrambi sopravvivono ad essa e infine trovano sicurezza e felicità, oltre alla
saggezza e maturità derivate dalle loro difficili esperienze.

La trama non subirà notevoli cambiamenti nel passaggio dal Fermo e Lucia agli Sposi
promessi. I cambiamenti interesseranno i nomi (meno prevedibili nella seconda
versione, edita nel 1827, la cosiddetta Ventisettana), e soprattutto la lingua. Un
importante cambiamento di prospettiva è affidato all’escamotage di fingere il
ritrovamento del manoscritto secentesco della storia che Manzoni non farebbe altro
che tradurre in italiano contemporaneo, dopo un parziale tentativo di trascrizione.

Attraverso tale finzione narrativa, il lettore è indotto a credere che il testo sia, nei
termini di un’opposizione spesso discussa da Manzoni, più un lavoro di storia che di
invenzione. Oltre che a una sorta di autocensura politica ed erotica (il Fermo e Lucia
era molto più esplicito su entrambi i fronti), la revisione punta a una importante
semplificazione linguistica nella direzione, questa sì rivoluzionaria, del fiorentino
parlato dell’Ottocento, anziché del fiorentino letterario trecinquecentesco dei
classicisti.

Manzoni, che aveva una perfetta padronanza del francese e della cultura francese del
tempo, aveva ben presente come in Italia gli scrittori non toscani (da secoli più
importanti di quelli nati in Toscana) affiancassero a una lingua letteraria basata sul
fiorentino trecentesco, una lingua d’uso regionale, se non locale, ricca di dialettalismi
incomprensibili nelle altre parti di Italia.

Manzoni sapeva come, al contrario, in Francia la lingua letteraria della prosa


ottocentesca fosse molto vicina all’uso parlato contemporaneo delle persone colte.
Per questo motivo, egli opta per il fiorentino del suo tempo, andando a vivere a Firenze
per apprendere le abitudini linguistiche. Fu proprio da questo esperimento che lo
scrittore trasse la versione definitiva del romanzo del 1840, la cosiddetta Quarantana.

La prosa di Manzoni si stacca chiaramente da quella, oramai difficilmente


comprensibile dalla maggior parte dei lettori, di romanzieri contemporanei quali Carlo
Varese e Francesco Domenico Guerrazzi. La lingua scelta per la stesura definitiva de I
Promessi Sposi, il fiorentino parlato, ebbe il merito di risolvere la questione della lingua
intorno a cui, intellettuali, letterati e scrittori, tanto avevano dibattuto nel corso
dell’Ottocento.

Questo dato spiega la larga diffusione del romanzo, sorretta anche dalle litografie di
stampo popolare inserite nell’ultima edizione (nonostante ciò le vendite non
raggiunsero le 10000 copie previste ma solo 4600, causando al pur benestante
Manzoni, finanziatore dell’edizione, un danno economico ingente, per la perdita di
40.000 lire del tempo (l’equivalente di venti anni di salario di un insegnante)

La prima idea de I Promessi sposi Manzoni la ebbe dalla lettura di una grida
seicentesca in cui l’impedimento violento di matrimoni era citato tra i reati da
perseguire; la stesura del romanzo fu accompagnata da un’accurata documentazione
su fonti dell’epoca: la storia non fa solo da sfondo, ma entra nella vicende dei
personaggi e le determina. Il vero protagonista del romanzo è il Seicento, secolo di
disordini e oppressione, di pregiudizi e superstizioni, dell’ignoranza e della irrazionalità
individuale e collettiva. Per Manzoni il Seicento è una grande metafora di una
condizione umana.

Per rappresentare questa ingiustizia, Manzoni sceglie un punto di vista dal ‘basso’: per
la prima volta nella letteratura italiana, un’opera di alto impegno ha per protagonisti
due popolani e al centro ci sono le sofferenze del popolo, mentre la grande politica dei
governanti è schernita. Questa è la grande novità de I Promessi sposi, radicata nello
spirito evangelico dell’autore. I personaggi delineati ‘a tutto tondo’ appartengono agli
strati alti della società: padre Cristoforo, la monaca di Monza, don Rodrigo,
l’Innominato, in confronto gli sposi promessi hanno caratteri più elementari, gli umili
sono modelli di bontà e verso essi l’atteggiamento di Manzoni sfiora i limiti del
paternalismo.

Nessun personaggio è davvero in grado di dominare gli eventi, e il fatto è che nel mondo
del romanzo non c’è posto per l’azione che corregge il male perché la giustizia non è
alla portata dell’uomo. Lo scioglimento della vicenda è affidato tutto all’intervento
divino: la conversione dell’Innominato, la peste che elimina tutti i malvagi. Ciò ha fatto
definire I Promessi sposi «il romanzo della provvidenza», in cui la fiducia in Dio,
celebrata nelle ultime righe, rasserenerebbe il pessimismo dell’autore. Il romanzo pone
il problema della Provvidenza di fronte al pericolo del male che pervade il mondo

Da qualsiasi punto di vista il romanzo di Manzoni, presenta una complessità


inesauribile e la tensione si coglie intorno almeno a tre prospettive: • quella
democratico-evangelica • quella moderata paternalistica • la visione religiosa L’opera
dunque non si può chiudere in una formula ma il lettore viene posto di fronte a
domande supreme che sono al di là della storia e a cui non vengono date risposte
definitive: è possibile riconoscere nelle vicende umane la volontà di Dio? È possibile
fare la volontà di Dio, o si può solo lasciare che sia fatta?

La trama del romanzo comprende un arco di tempo di oltre due anni e si svolge
simultaneamente in luoghi diversi: entra nella vita di numerosi personaggi e più volte
ricostruisce in flash-back la loro vita precedente; si svolge in molti ambienti, campagna
e città, palazzi e catapecchie; alterna scene di massa e scavi di psicologia individuale;
include ampie digressioni storiche. I primi otto capitoli si svolgo o in un ambiente
circoscritto poi, con la separazione dei protagonisti il quadro si allarga: due blocchi
sono dedicati alla vicenda di Renzo, nel tumulto di Milano e alla sua fuga (capp. XI-XVII)
e a quella di Lucia, dal ratto alla conversione dell’Innominato e conseguente
liberazione (capp. XVIII-XXVI), fino al ricongiungimento finale (capp. XXXIIIXXXVIII).

Due ampie digressioni chiudono la prima parte (capp. XIX-XX, storia della monaca di
Monza) e prima dell’inizio dell’ultima (capp. XXVII-XXXII, guerra, carestia e pestilenza,
intervallate dal racconto della fuga di Lucia, Agnese e don Abbondio). Gli stacchi
narrativi sono sempre segnalati da interventi del narratore che guida il lettore nei
cambiamenti di tempo e negli spostamenti di luogo fornendo rapidi sommari delle
vicende. Nei momenti più concitati e drammatici Manzoni interviene con un commento
o una pausa descrittiva; è evidente il rifiuto da parte dell’autore di quegli effetti
romanzeschi considerati come contrari al ‘vero’.

Il narratore dunque è continuamente presente nella narrazione: si tratta infatti di un


narratore onnisciente, secondo i canoni del realismo ottocentesco: conosce
l’interiorità dei personaggi, segue le vicende in luoghi diversi, anticipa sviluppi futuri.
Dunque da un lato gli interventi del narratore esplicitano il fatto che ci si trova di fronte
ad una invenzione narrativa, dall’altro alcune omissioni nel racconto, certi punti lasciati
in sospeso avvertono che nessuna realtà è totalmente conoscibile. Ciò che risulta
chiaro in questo gioco, è che l’autore non chiede al lettore un coinvolgimento emotivo
nelle vicende piuttosto un atteggiamento distaccato e critico e una riflessione morale,
Manzoni non è neutrale rispetto a quello che racconta.

Lo stile de I Promessi sposi imita l’andamento sconnesso del parlato popolare oppure
si eleva in una nobile eloquenza dei discorsi degli ecclesiastici; il tono della lingua è
familiare; la sintassi è a volte complessa ma libera. La pluridiscorsività manzoniana,
che variega lo stile, consiste nella presenza nel discorso del narratore di diverse voci
utili a variare il punto di vista: le voci dei personaggi, la voce del narratore che di volta in
volta mima i punti di vista del popolo e del potere.

Il testo de I Promessi sposi così come lo conosciamo è frutto di un «eterno lavoro» (così
lo chiamava l’autore) durato vent’anni e svoltosi in tre fasi: 1. tra il 1821 e il 1823
Manzoni scrisse un romanzo intitolato Fermo e Lucia 2. poco dopo cominciò a
riscrivere il testo modificandolo profondamente, l’opera uscì nel 1827 col titolo
definitivo I promessi sposi 3. Negli anni seguenti Manzoni continuò a rivedere la forma
linguistica fino all’edizione definitiva che uscì a dispense dal 1840 al 1842.

La prima stesura del romanzo ha caratteri diversi dal testo definitivo in quanto alcuni
episodi della trama erano sviluppati in modo più ampio (in particolare la storia della
monaca di Monza che si estendeva per ben sei capitoli); erano anche più frequenti e più
ampie le digressioni moraleggianti e piuttosto insistente era la presenza dell’autore. La
lingua, non ancora volta alla scelta del fiorentino parlato, aveva un carattere ibrido tra
elementi aulici e sfumature del lombardo

Dunque la revisione puntò a ridurre le digressioni e a equilibrare meglio le parti del


racconto, ricercando, da un punto di vista linguistico, un tono medio più omogeneo.
Meno radicali furono gli interventi tra l’edizione del 1827 e quella definitiva, la revisione
infatti fu quasi esclusivamente linguistica ispirata al fiorentino parlato. Il risultato è di
una maggiore scioltezza grazie all’eliminazione di forme letterarie a favore di modi più
discorsivi e familiari.

Per Manzoni non esisteva un italiano come vera lingua d’uso in quanto la sua lingua era
io dialetto milanese mentre le lingue di cultura erano il francese, il latino e l’italiano
letterario. Il problema della scelta della lingua si fece ineludibile nell’atto di scrivere un
romanzo che voleva essere popolare sia per l’argomento che per i destinatari, in base a
tali esigenze, una lingua letteraria avrebbe tradito l’intento. La scelta dell’adeguamento
al modello del fiorentino contemporaneo era in sé tradizionale, condivisa anche dai
puristi (sebbene essi si riferissero agli autori trecenteschi o cinquecenteschi) ma la
soluzione manzoniana spostava l’asse dalla lingua dei libri a quella dell’uso vivo

Per ‘usare’ al meglio il fiorentino, Manzoni soggiornò a lungo a Firenze allo scopo di
assorbire direttamente la lingua sul posto, iniziando una minuziosa revisione attraverso
la consultazione di vocabolari e di parlanti fiorentini. La lingua divenne il principale
interesse di ricerca di Manzoni e di questa lunga riflessione sono testimonianza una
cospicua quantità di appunti e abbozzi da cui emerge effettivamente per la prima volta
il dato per cui la questione della lingua cessa di essere un problema puramente
letterario per diventare anche un problema sociale.

Dunque non si trattava di scegliere una lingua per la letteratura ma dare anche unità
linguistica e culturale alla nazione che stava diventando uno stato unitario. Il principio
teorico di Manzoni è quello secondo cui una lingua può dirsi veramente tale quando è
usata da una comunità in tutti i contesti comunicativi, perciò la lingua scritta non
poteva essere il modello di riferimento per l’italiano unitario. Il modello dovrà essere
ricercato in una città, appunto Firenze, e diffuso nel resto del Paese attraverso
un’iniziativa pubblica come la scuola o la diffusione di vocabolari ecc.

La formazione illuminista è alla base del pensiero di Manzoni e si riconosce nella


diffidenza verso gli atteggiamenti passionali, i pregiudizi e le superstizione.
L’illuminismo di Manzoni è segnato da una profonda delusione storica (il Terrore,
l’assolutismo napoleonico, la Restaurazione sono i segni dell’incapacità dell’uomo di
usare fino i fondo la ragione). Tale pessimismo connota anche il cristianesimo di
Manzoni: il peccato, il dolore sono problemi che assillano il suo pensiero, Dio gli appare
lontano dall’uomo e l’umanità versa nel dolore per cui solo la misericordia può salvarla.
Lo stesso rigoroso moralismo è alla base delle idee di Manzoni sulla letteratura: il suo è
un romanticismo ragionevole fuori da ogni tendenza irrazionale o sentimentale, egli
infatti rifiuta la mitologia, l’imitazione dei classici e le regole imposte dalla tradizione
retorica.

Il romanticismo manzoniano si riconduce al principio per cui «la poesia e la letteratura


in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per
mezzo». Il primo criterio corrisponde ad un ‘esigenza di serietà della letteratura e i temi
delle opere devono attingere da fatti reali; il compito del poeta si distingue da quello
dello storico in quanto mentre lo storico si attiene ai dati oggettivi, alla poesia spetta il
ruolo di approfondire le ragioni intime e profonde che muovono i protagonisti: questo è
lo spazio della creazione artistica che non è semplice invenzione di sentimenti
artificiosi ma una ricostruzione sorretta dalla fantasia di ciò che accade veramente
nell’uomo. Oggetto della poesia sono i sentimenti e le passioni ma il suo scopo non è di
suscitarli nel lettore ma invece a spingerlo a distaccarsene.

CONCLUSIONI

Il clima culturale del primo Ottocento è caratterizzato da un generale rifiuto dei valori
tipici dell’Illuminismo e in cui si affermano: • la supremazia dell’intuizione e del
sentimento sul razionalismo illuminista • l’unicità di ogni individuo contro
l’universalismo settecentesco • le differenze nazionali conto il cosmopolitismo • le
tradizioni • la religione Tali fenomeni si possono riassumere con il termine cultura
romantica.

Partiamo dall’ultimo punto. Lo spiritualismo romantico si configura come un ritorno


alla religione. Sul versante politico, la cultura cattolica del tempo si orienta verso due
direzioni: da un lato un cattolicesimo reazionario che offre un supporto alla
Restaurazione; dall’altro esiste un cattolicesimo liberale che vuole conciliare la
religione con le nuove idee di indipendenza dei popoli e di libertà individuale (così come
teorizzato in campo letterario da Manzoni o in quello politico da Mazzini).

Riguardo al valore dell’individuo, già nella cultura del secondo Settecento affiorava un
conflitto tra individuo e società che sarebbe esploso nel clima borghese del nuovo
secolo per il suo carattere contraddittorio in quanto da un lato il capitalismo esaltava
l’intraprendenza individuale dall’altro esso tendeva a imporre rigidi schemi basati sui
valori della famiglia, del lavoro che incasellano la vita degli individui. In questa
situazione l’individualismo è soprattutto disagio perché ostacola la libera espansione
della creatività individuale.

L’interesse per la storia è radicato in ogni aspetto della cultura romantica: • In campo
politico, il Medioevo viene additato come modello ideale di società gerarchica soggetta
all’autorità religiosa • In campo letterario si sviluppa una vera moda per i soggetti
storici, romanzi, drammi scelgono argomenti tratti dalla Storia in cui i romantici vedono
uno sviluppo progressivo e necessario e non un processo di errori. Per la cultura
romantica il lascito più importante della Storia è l’identità delle nazioni che si traduce in
una rivendicazione politica di unità e di indipendenza sulla base della diversità delle
tradizioni e delle culture che rendono unica una nazione.

Accanto all’idea di nazione nella cultura romantica è presente l’idea di popolo per cui è
rifiutata una cultura di élite. Il popolo è sinonimo di naturalezza e spontaneità e infatti
nell’Ottocento in molti paesi si ha un grande sviluppo di studi folklorici, la ricerca e la
pubblicazione di testi di tradizione orale popolare (per esempio in Germania i fratelli
Grimm pubblicano raccolte di saghe e fiabe popolari). Inoltre personaggi e ambienti
popolari vengono elevati a protagonisti delle opere letterarie: è questa una delle novità
de I Promessi sposi. Tipica della cultura romantica è la scelta di temi interessanti per
un largo pubblico e l’adozione di un linguaggio accessibile anche ai meno colti, dato a
cui è legata l’esigenza di una letteratura utile.

Nell’Ottocento il mondo della cultura e della letteratura sono coinvolti nel processo
della rivoluzione industriale: il libro è una merce prodotta in serie per un vasto e
anonimo mercato. Lo sviluppo dell’industria editoriale è sostenuto da progressi tecnici
che rendono la stampa più veloce. Continua a ridursi nell’Ottocento il tasso di
analfabetismo fatto che insieme all’aumento dei ceti borghesi e piccolo-borghesi
favorisce la crescita di un nuovo pubblico di lettori dietro cui si cela anche il profilo
nuovo della lettrice.

Un altro elemento legato all’incremento della lettura è il moltiplicarsi dei periodici, i


quotidiani di informazione che contribuiscono alla circolazione delle idee e delle notizie
che da allora si chiama opinione pubblica. Nell’Ottocento i centri tipici di aggregazione
culturale e intellettuale non sono più i salotti e le accademie ma le riviste che nascono
intorno a programmi di azione politico-culturale.

Nell’Ottocento va scomparendo anche la figura dell’intellettuale–cortigiano mentre


aumenta il numero degli scrittori liberi professionisti che vivono dei proventi delle loro
opere, anche se nessuno diventa ricco con i diritti d’autore. Questa nuova condizione
ha un risvolto negativo: lo scrittore si trova a vendere la propria opera come una
qualsiasi altra merce; il rapporto con gli editori è di dipendenza e il destinatario non è
più il pubblico ristretto delle corti ma un pubblico vasto e sconosciuto con cui non si ha
più un rapporto diretto Da qui l’affiorare di quel senso di isolamento sociale della
letteratura e dell’idea romantica dello scrittore come genio solitario e incompreso ma
guida spirituale dell’umanità.

Il carattere che fa qualificare come ‘romantico’ un testo letterario è l’espressione


diretta dell’emotività dell’autore. Ciò in cui l’individuo manifesta la sua unicità sono i
sentimenti mentre la ragione è tendenzialmente uguale in tutti gli uomini. L’idea
romantica del sentimento e dell’individuo si accompagna ad uno stato d’animo
conflittuale che si manifesta tra l’io e il mondo, tra l’io e la società o anche il dissidio
interiore tra il sentimento e la ragione che porta a svalutare la ragione e a esaltare tutto
ciò che è spontaneo e istintivo.

Tale conflittualità tipica dell’anima romantica assume le forme di una ribellione contro
le convenzioni sociali o contro le stesse leggi di natura ed è questa una rivolta in cui
l’individuo si trasforma in un eroe titanico condannato alla sconfitta: il Werther di
Goethe e l’Ortis di Foscolo sono i prototipi di questa figura. Il conflitto si manifesta
anche come incapacità di stabilire un rapporto con la realtà in una sorta di malattia
morale che fu definita ‘male del secolo’.

Il termine romantico nato in ambito letterario si è esteso poi ad ogni aspetto della
cultura europea della prima metà dell’Ottocento. L’espressione romantic compare in
Inghilterra del Sei e del Settecento per designare un genere di narrativa fantastica e
cavalleresca ambientata di preferenza nel Medioevo, e più tardi il romanzo gotico,
romance, in opposizione al novel, il romanzo realistico borghese. Nel corso del
Settecento si chiama romantico il gusto del patetico e del pittoresco, la commozione di
fronte ai paesaggi naturali. Patria del romanticismo fu la Germania, dove per la prima
volta il termine designò una teoria letteraria la cui idea-chiave focalizzava il concetto di
poesia come espressione di un sentimento di spontanea armonia tra l’uomo e la
natura.

Un’altra manifestazione del dissidio con la realtà è il desiderio di evasione verso un


mondo alternativo lontano e immaginario. Da qui il gusto per le leggende popolari, per
le storie che raccontano di eventi soprannaturali o enigmatici, per le ambientazioni
esotiche. La volontà di ispirarsi alla cultura popolare manifesta la nostalgia di un
mondo spontaneo e incontaminato, alternativo a quello della cultura. Si colloca in
questo quadro il sogno dell’antichità come luogo di una perfetta armonia tra l’uomo e il
mondo, irrevocabilmente perduta. A riguardo non è una casualità che appartengano
all’età romantica i primi casi di scrittori dediti all’alcolismo e al consumo di sostanze
stupefacenti.

Il principio generale delle poetiche romantiche è la libertà dell’artista. Per secoli il


criterio del valore letterario era stato l’adeguamento a certi canoni di bellezza e
l’imitazione di modelli che lo avevano realizzato in modo perfetto. Ora l’asse viene
spostato dall’oggettività delle regole e dei modelli alla soggettività della creazione
individuale: ‘genio’ e ‘ispirazione’ sono le parole-chiave dell’idea romantica dell’arte.
L’artista rifiuta la concezione aristotelica dell’arte intesa come imitazione della natura:
egli non riproduce la realtà ma ne produce una totalmente nuova

L’opera d’arte ha un valore in sé indipendentemente dal riconoscimento sociale che ne


riceve. Da un lato però l’arte appare come fine a se stessa, al di fuori di qualsiasi
concezione di utilità: la bellezza pura è superiore ad ogni altro valore; dall’altro lo
scrittore vede se stesso come un educatore, una guida spirituale e infatti, una tendenza
moralista è presente in molti narratori e poeti dell’epoca.

La teoria tradizionale dei generi e degli stili letterari poneva la necessità che i
sentimenti sublimi, i personaggi di alto rango dovessero essere trattati in stile elevato,
le realtà più basse in stile umile. Il romanticismo rifiuta questa schematizzazione,
riconosce la dignità artistica del brutto e del basso, antepone all’ornamento la verità
della rappresentazione e pratica la mescolanza degli stili

Questa volontà di riscoprire il mondo in tutta la sua varietà prende due direzioni: • delle
poetiche dell’io, che insistono sull’espressione dei sentimenti, delle fantasie,
sull’esplorazione delle pieghe psicologiche degli individui che si esprimono soprattutto
attraverso la poesia lirica • delle poetiche della realtà, tipiche del romanzo. L’Ottocento
è il secolo del romanzo alla cui base è il realismo per cui si intende l’aspirazione a
rappresentare una situazione storica o sociale nella sua complessità e a interpretare i
comportamenti individuali. Il realismo romantico inoltre mette in campo la soggettività
dell’autore che è sempre presente nella narrazione commentando e esprimendo
considerazioni e opinioni sui fatti raccontati.

Questionario

Il questionario di seguito ha l’obiettivo di far autovalutare lo studente sulla


preparazione ottenuta al termine delle lezioni. Le domande fanno riferimento ad
argomenti trattati nelle lezioni, su tutti gli argomenti trattati nel programma. Non sono
presenti le risposte, in modo tale che lo stesso studente, qualora non sia in grado di
rispondere, sarà stimolato a rivedere l’argomento della domanda cercando e studiando
nuovamente la lezione di riferimento. Le risposte dovranno essere inviate via mail al
docente tramite l’indirizzo di posta elettronica [email protected]

Domande di riepilogo generale – Parte 1 1. Guido Cavalcanti: Citare le opere principali


2. Rosa Fresca Aulentissima: chi è l’autore e qual è il tema trattato? 3. Dante e la Vita
Nova: indicare la data di composizione e il tema principale di tutta l’opera. 4. Chi ha
inventato le “terzine”? 5. Quali sono le tematiche, ovvero, le “forze” boccacciane
centrali espresse nel Decameron?

6. Descrivere la struttura del Canzoniere di Petrarca. 7. Con quali Re spagnoli originari


dell’Aragona si diffuse a Napoli il mecenatismo nella seconda metà del 1400? 8.
Morgante e Margutte nell’opera di Pulci: come vengono rappresentati? 9. Come
presenta l’Amore il Boiardo nel Libro I dell’Orlando Innamorato? 10. Le Istorie
Fiorentine di Machiavelli da chi furono commissionate?

. La commedia La Mandragola: da chi è stata scritta e in che anno? Descrivere in poche


parole la trama. 2. Che genere letterario è l’opera “I Ricordi” di Guicciardini? 3. Quale è,
secondo il Canossa, il modello ideale di cortigiano descritto ne “Il Cortegiano” (1528)?
4. La novella del ‘500 a quale tipo di lingua volgare si ispira? 5. Di chi è la raccolta di
novelle: Novelle dé Novizii suddivisa in due sezioni: “Le giornate delle novelle de’i
novizi” e “Le piacevoli et amorose notte dei novizi”?

. Le Satire di Ludovico Ariosto, composte fra il 1517 e il 1524, a quale modello della
classicità si ispirano? 2. Quale nobile “casa” viene dichiaratamente celebrata con i
suoi “avi illustri” nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto? 3. In quale periodo storico si
svolge la vicenda della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso? 4. Che genere è “Il
Pastor Fido” (1584) di Guarini? 5. Quali furono le principali opere di Della Casa?

Qual è il genere letterario in cui Chiabrera eccelse? Citare alcune delle sue raccolte e
l’anno di pubblicazione. 2. Su quale mito è basato il più lungo poema italiano, ossia
l’Adone di G.B. Marino? 3. Qual è il primo e più noto melodramma del Metastasio? In
che anno si può collocare? 4. Fra il 1749 e il 1753 Goldoni approfondisce il carattere
della donna che, da maschera fissa, diventa “carattere” con la sua psicologia; in quali
opere esprime questa tendenza 5. Chi utilizzò come fonti la Storia di Milano di Pietro
Verri (1777)?

Citare almeno tre tragedie di Vittorio Alfieri (1749-1803). 2. In quale verso è scritto il
poemetto Le Grazie di Ugo Foscolo? 3. Quali sono i quattro sonetti più importanti di
Ugo Foscolo? 4. Nelle Operette morali (1827) di Leopardi, qual è il suo rapporto con la
natura, come viene descritta? 5. Quali sono le principali differenze fra la prima edizione
manzoniana del 1927 Il Fermo e Lucia e l’edizione definitiva de I Promessi Sposi del
1840?

INDICAZIONI PER L’ESAME

Le precedenti lezioni del corso di Letteratura italiana costituiscono una sorta di


riassunto della successione di fatti e opere più rilevanti della nostra tradizione
letteraria. Di solito nelle facoltà letterarie, quello di Letteratura italiana è un esame
estremamente vasto e complicato da preparare.

Nel nostro caso si è dato, a lezione, un unico esempio di lettura ravvicinata di un testo:
qualche decina di versi della Ginestra di Leopardi, ritenendo che lo studente debba
prima di tutto avere una essenziale conoscenza delle linee di sviluppo della nostra
tradizione. Una conoscenza che, gli accenni delle lezioni approfonditi su un buon
manuale di storia della letteratura italiana, basta a garantire.
Dunque non verrà trascurata la capacità di analizzare e addirittura di capire
autonomamente un testo letterario, e specialmente un testo non contemporaneo
(classico, medievale, rinascimentale, sette-ottocentesco). D’accordo con i docenti di
altre materie si è deciso di approfondire questo importante aspetto dello studio
letterario in altri corsi.

Nozioni di metrica, stilistica e storia letteraria per l’esame Anziché adottare e far
studiare dal principio alla fine un manuale di retorica, stilistica e metrica si è preferito
suggerire la consultazione, al bisogno, di uno dei migliori dizionari in commercio: il
Dizionario di linguistica, a cura di G.L. Beccaria.

Lo studente deve conoscere solo le nozioni marcate con un asterisco all’interno delle
lezioni (per es. endecasillabo*, ottava*) e metterà in pratica così un principio
fondamentale dello studio e dell’educazione permanente, cioè la consultazione
autonoma di una fonte autorevole.

Il Dizionario potrà essere consultato (almeno per un primo inquadramento di molte


nozioni tecniche) anche per altre materie letterarie e linguistiche del corso di laurea e
rimarrà un utile e aggiornato strumento di consultazione anche dopo la laurea.

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