LA NATURA VIOLATA
La storia dei rapporti fra uomo e ambiente nel mondo antico è ancora tutta da scrivere. In assenza
di ricerche sistematiche, l'unico modo di procedere è la lettura diretta dei testi, che possono
contenere accenni alla tematica ambientale: non è escluso, però, che altri testi apparentemente
lontani per argomento contengano sporadici eppure utili rinvii a tale tematica.
Dalla mia ricerca emerge, in primo luogo, un dato di fondo, lo stesso, poi, che rende possibile
questo mio discorso : se il concetto di ecologia è balzato in primo piano nel mondo moderno a
causa delle drammatiche conseguenze di un uso non sempre razionale delle risorse industriali e di
un non sempre vigile controllo sui prodotti nocivi per l'uomo e per l'ambiente, ciò non significa
che - per altri motivi e ad altro livello - esso non si sia posto anche ai Greci e ai Romani, che
vivevano in un mondo apparentemente non inquinato.
Il problema del rapporto fra ambiente e società ha costituito materia di confronto nel corso dei
secoli fra posizioni antitetiche, legate l'una al concetto del predominio dell'ambiente fisico
sull'uomo, l'altra all'idea della superiorità dell'uomo sull'ambiente fisico; fra i due inconciliabili
estremi s'è inserita, com'è ovvio, una serie di posizioni intermedie.
A noi interessa determinare se già gli antichi abbiano riflettuto sul loro rapporto con l'ambiente e
se, e sino a qual punto, l'abbiano vissuto in maniera conflittuale. Paradossalmente proprio le
prese di posizione teoriche ci sono di scarso aiuto: se, poi, si sarà costretti a rifiutarle, tuttavia non
si potrà mai parlare di scarsa sensibilità degli antichi, perché il loro errore è continuato sino ad
epoche recenti.
Dall'antichità sino almeno al Montesquieu, infatti, il problema del rapporto uomo-ambiente è stato
affrontato in modo opposto a quella che noi riteniamo, oggi, l'impostazione fondamentale:
quando, ad esempio, il Montesquieu afferma che « la stérilité des terres rend les hommes
industrieux, sobres, endurcis au travail, courageux, propres à la guerre, il faut bien qu'ils se
procurent ce que le terrain leur refuse. La fertilité d'un pays donne avec l'aisance la mollesse et un
certain amour pour la conservation de la vie», queste parole illustrano in modo chiaro come si sia
prestata attenzione solo ai condizionamenti dell'ambiente sull'uomo e si sia stabilito un rapporto
diretto tra ambiente, clima, risorse da un lato, caratteristiche fisiche e comportamentali delle
diverse popolazioni dall'altro. Non si è prestata affatto attenzione, invece, all'inevitabile interazione
e al reciproco condizionamento fra un popolo e il proprio ecosistema.
Posto in tali termini, nell'elaborazione teorica e nell'ottica dei popoli dominanti il problema aveva
una conclusione scontata. Per i Romani, infatti, non esistevano dubbi: la loro superiorità era
anche frutto dell'ambiente migliore in cui essi vivevano. Non a caso in epoca augustea
l'opposizione con l'Oriente - terra di antica cultura e civiltà - si esprime attraverso le laudes Italiae,
da Varrone a Virgilio a Properzio: in esse l'Italia viene ritenuta la terra migliore per ogni aspetto,
soprattutto per quello climatico e ambientale.
Scopertamente ideologizzato è l'elogio dell'Italia nel II libro delle Georgiche di Virgilio, che muove
da una premessa (vv. 100-135) sulla varietà del prodotti naturali, logica conseguenza
dell'impossibilità per ogni terreno di produrre ogni cosa: di conseguenza i salici crescono lungo i
fiumi, gli ontani nelle paludi, gli orni fra le montagne sassose, i mirti sulle spiagge, le viti sulle
colline. Ma gli alberi stessi hanno patrie diverse: solo l'India produce il nero ebano, la terra dei
Sabei il ramoscello d'incenso, la Media il cedro. E a questo punto che, con rapido e improvviso
trapasso, Virgilio prende a sviluppare il suo elogio dell'Italia, terra favorita più di ogni altra da
condizioni climatiche ideali, in cui una natura benefica ha saputo alternare sagacemente le terre ai
laghi, ai monti, al mare (cfr vv136-176).
A differenza del resto del mondo conosciuto, in balia di pericoli e di eccessi nocivi, l'Italia si
configura, dunque, come la terra fortunata del giusto mezzo perché così ha voluto la natura
benevola. L'intento propagandistico è chiaro, oltreché nell'elogio di Ottaviano, della sua politica
militare e delle sue realizzazioni civili, nell'ampliamento del concetto di patria da Roma e dal Lazio
all'Italia intera: è noto, d'altronde, che nella guerra contro Antonio e Cleopatra il potere del futuro
Augusto si fondò proprio su un patto di alleanza fra tutte le città italiche, in modo tale che la
guerra si configurasse come uno scontro diretto fra Occidente e Oriente.
Un motivo comune percorre questa e le altre laudes Italiae: quello dell'autosufficienza dell'Italia,
che per la varietà delle sue terre, l'abbondanza delle risorse minerarie, il favore del clima, non ha
bisogno d'importare nulla. E del tutto ovvio, nell'elaborazione propagandistica del motivo, che una
terra simile sia abitata da una razza d'uomini superiori, paragonabili a quanti avevano avuto la
fortuna di vivere nell'età dell'oro: clima e risorse naturali li hanno resi tali.
Da Virgilio prese lo spunto Properzio nella XXII elegia del III libro, in cui l'elogio dell'Italia è inserito
nell'invito all'amico Tullo (il destinatario del I libro), perché si decida finalmente a lasciare l'Oriente
per far ritorno a Roma. Il discorso di Properzio, però, è molto meno 'scientifico' di quello di
Virgilio, perché in esso sono quasi totalmente eliminati i riferimenti al clima, al paesaggio, alle
risorse naturali; c'è solo un rapido accenno ad alcuni fiumi, laghi e fonti nei vv. 23-26:
qui scorti, Aniene di Tivoli, qui fluiscono dall'umbro sentiero il Clitumno e l'Acqua Marcia, opera
immortale; qui scorre il lago Albano e quello di Nemi, da uguale sorgente, e la fonte salubre a cui
s'abbeverò il destriero di Polluce.
Ma, dopo questo elenco poco più che turistico, la vera contrapposizione è tra i monstra di varia
natura del mondo orientale e la sanità dei costumi italici. Nei due distici citati, comunque, si può
notare come i doni della natura benevola nei confronti dell'Italia abbiano nettamente il
sopravvento sui risultati dell'opera dell'uomo: solo l'Acqua Marcia, infatti, definita « opera
immortale», sta ad attestare la capacità d'intervento dell'uomo sull'ambiente naturale.
L'elogio dell'Italia di Varrone ha i suoi aspetti di originalità, sia perché l'opposizione è instaurata
con i popoli del nord, che ormai rappresentavano un problema per i Romani, sia perché esso
sottolinea in modo chiaro una superiorità sia agricola sia ambientale. All'inizio del suo De re
rustica Varrone immagina d'incontrarsi durante le feste della Semina col suocero Gaio Fundanio,
con Gaio Agrio, filosofo socratico e cavaliere tomano, e con Publio Agrasio, appaltatore delle
imposte, mentre i tre sono tutti intenti a guardare una mappa d'Italia dipinta su una parete. La
conversazione che fra loro prende a svilupparsi all'arrivo di Varrone [2] muove da un interrogativo
di Publio Agrasio (1,2,3): vos, qui multas perambulastis terras, ecquam cultiorem Italia vidistis? Fra
i tre che, a detta di Publio Agrasio, hanno viaggiato per molte terre e, dunque, possono giudicare
se esista un luogo migliore dell'Italia, la risposta giunge, immediata, da Gaio Agrio, che la sostiene
per di più col supporto delle sue cognizioni filosofiche:
Io invero penso che non ce ne sia nessuno che sia così ben coltivato in tutte le sue parti. Per
prima cosa l'orbe terrestre è stato diviso da Eratostene in due emisferi, uno dei quali - in maniera
del tutto conforme all'ordine naturale - esposto a sud, l'altro a nord. Ora poiché, senza dubbio, la
parte settentrionale è più salubre di quella meridionale ed è pur vero che i luoghi più salubri sono
anche i più fertili, e in questa parte v'è'Italia, bisogna dire che essa fu dunque più adatta alla
coltivazione che non l'Asia. Prima di tutto perché è situata in Europa, secondariamente perché ha
un clima più temperato delle regioni al centro di questo continente. Nell'interno dell'Europa infatti
ve quasi un continuo inverno.
Ne deve tar meraviglia, per esservi regioni situate fra il circolo polare artico e il polo nord, dove il
sole non si vede anche per sei mesi consecutivi. Pertanto dicono che in tale parte non si può
nemmeno navigare nell'Oceano perché il mare è ghiacciato.
Dalla risposta di Gaio Agrio emergono alcune certezze: non esiste terra così ben coltivata come
l'Italia. Ciò, d'altronde, è ovvio, se si considera la sua collocazione geografica: essa, infatti, è
situata nella parte settentrionale dell'emisfero (secondo la suddivisione di Eratostene), che è più
salubre della meridionale. Un paese del genere, dai mari non navigabili d'inverno e dall'ininterrotta
oscurità per sei mesi consecutivi, non doveva proprio essere allettante per un Romano, Fundanio,
da parte sua, afferma a chiare note che non ci vivrebbe mai e poi mai, abituato com'è ad una terra
che supera in fertilità anche le zone più feraci della Grecia e dell'Oriente (1,2,5-7):
Io, standomene in questo paese, dove il giorno e la notte si alternano in giusta misura, non potrei
tuttavia vivere, se d’estate non interrompessi il giorno con la mia siesta a mezzodì.
Immaginatevi là, in un giorno o in una notte di sei mesi, come si potrebbe seminare o far crescere
o mietere qualche cosa! Al contrario in Italia cosa v’è di utile che non solo non nasca ma non
venga anche bene? Quale farro si potrebbe mai paragonare con quello della Campania? Quale
frumento a quello dell’Apulia? Quale vino al Falerno? Quale olio a quello di Venafro? Non è l’Italia
piantata ad alberi in modo da sembrare tutta un frutteto?
O che la Frigia, che Omero chiama «vinosa» è forse più coperta di viti che non l’Italia? O Argo, che
lo stesso poeta chiama «dal molto frumento», è più ricca di grano? In quale parte del mondo uno
iugero di terra produce dieci e anche quindici cullei di vino, quanto ne producono alcune regioni
d’Italia?
Come si vede, accanto all'esaltazione dei doni della natura è accordato ampio spazio all'elogio
dell'intervento dell'uomo, senza il quale i Romani non avrebbero mai potuto disporre di farro, fru-
mento, vino e olio di qualità superiore agli stessi prodotti delle altre regioni del mondo conosciuto:
solo l'intelligente e accorta attività dell'uomo ha fatto sì che l'Italia sia tutta piantata ad alberi,
tanto da sembrare un ininterrotto frutteto.
La tradizione di simili elogi resterà viva nelle generazioni successive, anche quando non vi sarà
più necessità di asservirli ad una ideologia e ad un disegno politico. Al tempo di Vespasiano,
Plinio il Vecchio dedica quattro libri della sua Naturalis historia (dal III al VL) alla descrizione di
popoli, mari, città, porti, monti, fiumi. Nel IIl libro, dopo aver passato in rassegna l'uno dopo l'altro
i popoli italici, egli sviluppa il suo elogio della terra eletta, non senza mettere in rilievo la sua
inadeguatezza a tesserne le lodi in maniera efficace.
A differenza dei predecessori augustei, tuttavia, non compaiono panegirici delle virtù morali di
governanti e lo sguardo del naturalista, una volta che è stato sviluppato l'elogio di prammatica
della terra migliore del mondo, indugia compiaciuto sulle condizioni climatiche e ambientali ( cfr
3,39-41).
2. Ambiente e uomo. Il determinismo ambientale
Sul terreno della superiorità per le fortunate condizioni ambientali i Latini non facevano altro che
riprendere convinzioni da secoli radicate nella mentalità greca. All'origine di tutto sarà stata la
semplice constatazione delle differenze, anche somatiche, esistenti fra i popoli a seconda della
loro dislocazione; il fatto, poi, che alcune specie animali e vegetali esistessero solo in determinate
parti del mondo deve aver contribuito a creare la convinzione di un rapporto diretto fra cause
climatiche e ambientali da un lato, differenze fisiche e caratterali dall'altro. A ciò si aggiunse la
tendenza costante a individuare nel proprio paese il termine supremo di paragone.
Ci si può stupire, oggi, che Aristotele abbia affermato nel VII libro della Politica che «quelli che
abitano nei paesi freddi e nell'Europa sono pieni di impulsi, ma non mancano d'intelligenza [.....]
popoli dell'Asia sono intelligenti e abili nel progresso tecnico, ma sono privi di vivacità e di spirito,
sicché continuano a vivere da schiavi e da servi. La stirpe greca, così come occupa una posizione
geografica intermedia tra l’Asia e l’Europa, partecipa anche dei caratteri che contraddistinguono i
popoli dell’una e dell’altra: perciò è intelligente e di spirito vivace, vive in libertà, ha le costituzioni
migliori e potrebbe dominare su tutti, se fosse unita sotto una sola costituzione».
C'è da tener presente, però, che la teoria definita dai moderni del “determinismo ambientale” non
nasce con Aristotele: essa trova una sua chiara formulazione già in Ippocrate. Nel trattato Sulle
arie, acque, luoghi egli instaura un rapporto di causa ed effetto fra condizioni ambientali e forma
fisica e mentale dell'uomo, nella certezza che non solo l'aspetto degli abitanti, ma anche il loro
carattere e costume dipendono dal clima e dalla natura del territorio.
Particolarmente significativo, sotto questo aspetto, è il cap. 24, in cui Ippocrate si sofferma sulle
diversità delle popolazioni europee.
Secondo lui gli abitanti di un territorio aspro e montagnoso, ma ricco d'acqua, avranno
corporatura robusta e, resistenti alle fatiche, saranno di natura selvatica e bestiale. Quelli che
vivono in zone infossate, ricche di prati ed afose, a causa dell'influsso dei venti caldi saranno più
larghi che alti, neri di capelli, scuri di pelle, biliosi. Sani e di gradevole colorito, invece, saranno gli
abitanti di zone percorse dai fiumi, dal ventre prominente e dalla milza rigonfia quelli di zone
paludose. Chi vive in un altopiano ventoso e ricco d'acqua sarà di alta statura, ma dall'animo mite
e talora vile; gli abitanti di un territorio povero, brullo e privo d'acqua, tendenti al biondo, saranno
rozzi e superbi.
A tali differenze si devono aggiungere quelle causate dalla combinazione della natura del terreno
con le sue acque: un suolo grasso, molle e ricco d'acqua determinerà uomini in carne e dagli arti
corti, poco adatti alla fatica e dall'animo vile; un suolo aspro, brullo e sfavorito sia dai rigidi inverni
sia dalle torride estati, uomini duri e asciutti,
dalle membra ben proporzionate, vigili e capaci di agire, orgogliosi e selvatici: riguardo alle arti,
però, proprio questi saranno i più dotati e si riveleranno i migliori in guerra.
Il pensiero di Ippocrate sul ruolo determinante svolto soprattutto dal clima sulle condizioni
dell'organismo umano e persino sul carattere dei diversi gruppi etnici s'impose anche nel mondo
romano o dominato dai Romani. Il tramite fu rappresentato da Posidonio; ma ampia, in
particolare, è la documentazione per il periodo imperiale, da Livio a Vitruvio a Curzio Rufo a Plinio
il Vecchio a Strabone.
Così, nel parlare della Pelagonia, Livio (45,30,7) sostiene che si tratta di una plaga aspra e dura, in
tutto e per tutto simile agli ingegni dei suoi abitanti. Da parte sua Curzio Rufo (7,3.6) definisce
certi popoli dell'Hindou Kouch genti selvagge e fra le più rozze nell'ambito dei barbari, e aggiunge
che proprio l'asperità dei luoghi aveva reso duro il carattere degli abitanti. In quanto, poi, ai popoli
dell'India, anche Ii, come altrove, gli ingenia degli abitanti erano in rapporto diretto con la natura
dei luoghi.
Le trattazioni più significative di tale materia sono in Plinio il Vecchio e in Vitruvio. Plinio mette in
rapporto diretto l'implacabile dardeggiare del sole col colore della pelle degli Etiopi, oltreché le
loro gambe storte, chi abita, invece, nelle zone gelide dovrà avere pelle candida e capelli biondi
[4] «non possono esserci dubbi che gli Etiopi sono come abbruciati dalla vampa del sole a loro
così vicino e per questo nascono simili a uomini che siano stati abbrustoliti, con la barba e i capelli
crespi. Invece nella plaga opposta del mondo gli abitatori hanno la pelle candida come ghiacciata
e lunghi capelli biondi: questi resi torvi dal rigore del clima, quelli saggi dalla sua mobilità. Un'altra
prova si ha se si considera la conformazione delle gambe: negli Etiopi i succhi vitali sono attirati
verso l'alto per la natura delle esalazioni, negli abitanti del nord sono spinti nelle parti più basse per
l'umidità che tende al basso» (2, 189).
Inoltre, a seconda che le zone siano calde o temperate, la conformazione di uomini e animali sarà
diversa: nelle regioni settentrionali vi sono belve pesanti, in Etiopia allignano varie razze di animali
e soprattutto in gran numero uccelli d’ogni tipo veloci per effetto del fuoco; le proporzioni fisiche
sono eccezionali sia in una regione che nell'altra, là per la forza del calore, qui per l'alimento degli
umori. Invece nella parte della terra che sta in mezzo, per una salubre mescolanza delle
caratteristiche dell'una e dell'altra plaga, i tratti del terreno sono fertili di ogni prodotto, il fisico
degli abitanti è di medie proporzioni, equilibrato il colore della pelle, misurate le usanze, i sensi
agili, pronta l'intelligenza e capace di comprendere ogni segreto della natura. I popoli di queste
zone hanno organizzato potenti complessi politici, cosa che non è mai avvenuta alle genti che
abitano agli estremi: né d'altra parte queste genti si sono piegate ai nostri popoli, staccate e inclini
come sono all'isolamento per l'eccesso della natura (2, 189-90). Da parte sua Vitruvio, nello
sviluppare la tematica del rapporto fra clima e architettura, si dilunga sugli influssi del clima sulla
costituzione fisica e sul carattere degli uomini (6,1,3-8) [5]. Per lui, dove il sole manda raggi tiepidi,
i corpi umani sono temperati; dove brilla torrido per la maggiore vicinanza alla terra, brucia e
dissecca anche gli organismi viventi. Nelle regioni fredde del nord l'aria umida rende i corpi più
grandi, effondendo in essi linfa vitale, e più profondo il suono della voce: sono dovuti, appunto, al
clima umido e freddo la mole, il colorito chiaro, i capelli lisci e biondi, gli occhi chiari e il molto
sangue dei popoli nordici. Invece le genti che abitano nei pressi dell'equatore, dove il sole
dardeggia violento, sono di bassa statura, di colorito scuro, dai capelli crespi, dagli occhi neri,
dalle gambe forti e dal poco sangue. Di conseguenza esse possono affrontare senza timore il
caldo e la febbre, proprio perché le loro membra si nutrono di calore, ma non sono resistenti alle
ferite per la loto scarsezza di sangue. Allo stesso modo, anche il timbro della voce mostra qualità
diverse da un popolo all'altro: chi vive a una bassa latitudine avrà una voce esile e dai toni acuti; a
mano a mano che si sale dal sud verso il nord, i toni della voce diventano più gravi. Quando, poi,
si passa dalle regioni centrali a quelle settentrionali, gradualmente cresce l'altezza del cielo e, di
conseguenza, le voci dei popoli divengono più profonde.
Un esperimento scientifico viene subito a confermare l'ipotesi; secondo cui i luoghi umidi rendono
le voci più gravi e i luoghi caldi le fanno più acute:
Si prendano due coppe che abbiano identica cottura, identico peso e, una volta percosse,
emettano un identico suono. Una di esse venga immersa nell'acqua e poi subito tolta.
Percuotiamole entrambe: ci accorgeremo che emetteranno ora un suono molto diverso e neppure
potranno più avere lo stesso peso. Un fenomeno analogo avviene nei corpi umani.
Pur avendo identica figura ed essendo nati sotto lo stesso cielo, essi sono diversi: gli uni per
l'influenza del clima caldo in cui vivono emettono accenti acuti; gli altri, per la densa umidità che li
avvolge, esprimono suoni dal timbro molto profondo.
In conclusione, sembra proprio che
nel sistema terrestre ci sia una esatta corrispondenza fra la musica e l'esposizione al sole, che
dipende dalla maggiore o minore inclinazione dello zodiaco.
Tutto tende, ovviamente, a giustificare la superiorità di Roma su
tutte le altre genti (6,1,10-11): difatti
[6] pur essendo i popoli meridionali di mente acutissima e versatile, appena vengono sottoposti ad
uno sforzo fisico, devono dichiararsi vinti, perché il sole ha succhiato fuori la forza del loro animo;
la gente del nord, invece, è molto più forte e adatta all'esercizio delle armi; dimostra grande,
impavido valore, ma per la sua limitata intelligenza si scaglia ciecamente all'assalto e proprio per la
sua ottusità non riesce a realizzare i propri intenti. La natura dunque nell'ordinare il mondo ha
accentuato in ogni popolo (in relazione alle condizioni climatiche in cui vive) o l'una o l'altra
caratteristica psicosomatica. Il popolo romano, però, abitando al centro delle vastissime regioni
del mondo, risente dell'influenza climatica sia del nord che del sud. Per questo le genti italiche
sono le più forti e vigorose sia nel corpo che nell'animo. Come, infatti, Giove, percorrendo gli spazi
celesti a metà strada fra Marte che è il pianeta più caldo e Saturno che è il più freddo, risulta
temperato, così anche l'Italia, trovandosi tra il nord e il sud, risente dei positivi influssi sia dell'uno
che dell'altro polo. Da qui nasce la sua gloria e la sua potenza: essa vince con l'intelligenza il
coraggio dei barbari e con la forza l'astuzia delle genti meridionali. Una mente divina ha dunque
voluto che la città del popolo romano sorgesse in una regione temperata e favorevole, per
impadronirsi dell'impero del mondo.
4. I Romani e la cura dell'ambiente naturale
Che i Romani abbiano nutrito una vigile cura nei confronti dell'ambiente e si siano posti il
problema del rapporto fra uomo e il suo habitat naturale è attestato almeno da un caso
emblematico: lo scrupolo nei confronti dei poderi e l'accurata valutazione della loro collocazione
prima di procedere ad acquisti incauti. Di ciò si potrebbero fornire non pochi esempi, da Catone a
Varrone a Columella a Plinio il Vecchio: il più antico è nell'esordio del De agricultura di Catone
(1,1-3) [10]. Esso ci mostra come la prima preoccupazione fosse proprio di natura ambientale;
subito dopo venivano le altre. Secondo Catone, che l'ambiente sia salubre sarà l'aspetto stesso
degli abitanti a mostrarlo, perché in una regione sana essi dovranno avere una buona cera. Le
condizioni indispensabili per un buon podere sono un clima favorevole e la collocazione ai piedi
d'una collina con esposizione a mezzogiorno o comunque in un luogo salubre. Successivamente
entrano in giuoco altri elementi significativi, quali la vicinanza di una città di una certa importanza
e di vie di circolazione marine, fluviali o terrestri.
All'autorità di Varrone si richiama esplicitamente Columella, nel trattare « di che cosa ci si debba
preoccupare nell'esaminare un fondo prima di comperarlo» (1, 3. 1-2 quae precipue inspiciendo
agro, antequam ematur, notanda sint): Porcio Catone voleva che, nell'esaminare un fondo, ci si
dovesse soprattutto preoccupare di due cose: della salubrità del clima e della fertilità del terreno.
Che se una di queste due cose fosse mancata e nondimeno qualcuno si fosse messo in mente di
starci e di lavorarci, egli lo riteneva un pazzo, ' da affidare alla sorveglianza dei parenti e affini'.
Nessun sano di mente doveva, secondo lui, voler fare spese per la coltivazione di un terreno
sterile; in un campo malsano, poi, sia pur fertile quanto si vuole, il padrone non poteva arrivare a
vedere i frutti, perché, dove si devono fare i conti con la morte, li non solo è in pericolo la raccolta,
ma la vita stessa dei coltivatori, o, per dir meglio, la morte è più sicura del guadagno. Se, come
Catone, tutti gli scrittori d'agricoltura insistono sulla necessità di scegliere luoghi salubri oltre che
fertili, ciò dipende dal fatto che esistevano loca pestilentia, in cui regnava la malaria, o zone
difficilmente abitabili, come quelle della Campania ammorbate dalle esalazioni delle solfatare. Se
si trattava di poderi di limitata estensione, potevano esser praticati interventi di natura scientifica
per risanare ambienti agricoli malsani. Ce ne parla Varrone, che oppone le tenute salubri, dal
reddito sicuro, a quelle malsane, dimostrando nel secondo caso una chiara coscienza sia del
carattere negativo del rapporto uomo-ambiente, sia della necessità d'interventi risanatori (1, 4,
3-5) [12]: per lui la tenuta più redditizia è quella più salubre; in un fondo malsano, invece, pur
essendo la terra ferace, la calamitas non consente al colono di giungere sino al raccolto. Dove,
infatti, bisogna fare i conti con la morte, vuol dire che lì è in pericolo non solo il raccolto, ma
addirittura l'esistenza dei contadini.
Se manca la salubritas. le colture rappresentano un pericolo per la vita e per il patrimonio del
proprietario. Questo rischio, tuttavia, può essere attenuato dalla scienza, perché se è vero che la
salubrità di un luogo, essendo in rapporto con le condizioni del clima e del suolo, non è nelle mani
dell'uomo, ma in quelle della natura, tuttavia l'uomo può mitigare con il suo intervento gli
inconvenienti più gravi. Se per colpa del terreno o dell'acqua o per qualche esalazione il fondo si
rivela malsano, oppure se la terra è eccessivamente calda a causa del clima o vi spira un vento
nocivo, i proprietari si preoccupano di ovviare a tali difetti ricorrendo alle risorse della tecnica: di
grande importanza, dunque, è la posizione di un podere e, oltre ad essa, la grandezza e
l'esposizione di portici, porte, finestre.
A sostegno delle sue affermazioni Varrone cita il caso di Ippocrate, che nell'infuriare di una
pestilenza salvò grazie alla sua scienza un gran numero di città; e cita il suo stesso intervento,
quando trovandosi a Corcira mentre tutte le case erano piene di malati e di cadaveri, riuscì a
ricondurre sani e salvi in patria i suoi familiari e il suo seguito: in quell'occasione, infatti, fece
aprire nuove finestre, che permettessero al vento di tramontana di penetrare benefico in casa, e
ordinò di chiudere quelle che consentivano l'accesso ai miasmi pestilenziali; per di più mutò la
disposizione delle porte e realizzò
altri espedienti del genere.
E notevole, in questo contesto, la vigile preoccupazione non solo per la scelta dell'ambiente
ideale, ma anche per la salute dei coltivatori. Se da un lato si riconosce che la salubrità di un
luogo non dipende dall'uomo ma dalla natura (non est in nostra potestate, sed in naturae),
dall'altro si riconoscono all'uomo margini notevoli d'intervento (ut tamen multum sit in nobis) per
attenuare i pericoli grazie all'azione della sua scienza (nec haec non deminuitur scientia).
Natura del suolo, sapore dell'acqua, esalazioni, clima, esposizione a venti nocivi sono tutti
elementi ai quali, tuttavia, si può far fronte servendosi delle risorse della tecnica e, naturalmente,
con spese adeguate (haec vitia emendari solent domini scientia ac sumptu).
Successivamente Varrone fornisce una serie di ammonimenti sul luogo più adatto per edificare
una villa (1, 12, 1-4):
[13] Devi badare - egli ammonisce - che la villa sia situata specialmente alle falde di un colle
boscoso, dove i pascoli siano ricchi, e - in pari modo - che sia esposta ai venti che saluberrimi
soffieranno sulla campagna. Adattissima è quella che guarda all'est equinoziale, perché d'estate
ha l'ombra, d'inverno il sole. Nel caso che tu sia costretto a edificarla lungo un fiume, bisogna
stare attenti a non costruirla di fronte ad esso, ché d'inverno sarebbe assai fredda e d'estate
malsana. Bisogna anche badare che non ci siano delle zone paludose, e per le stesse ragioni e
perché vi si formano dei microbi, che non si possono vedere ad occhio nudo, ma penetrano
nell'organismo attraverso la bocca e il naso con la respirazione e causano gravi malattie. Allora
Fundanio: « Che potrò fare -disse- se mi toccasse in eredità un fondo siffatto, per prevenire il
danno della sua atmosfera nociva?» «Codesto -disse Agrio- te lo posso rispondere anche io:
vendilo a qualunque prezzo, o se non puoi venderlo, abbandonalo». Ma Scrofa: « Bisogna evitare -
disse - che la villa guardi in quella direzione da cui suole soffiare il vento troppo forte, e che sorga
in una valle profonda, ma bisogna piuttosto che tu la costruisca su di un'altura. Poiché questa è
ventilata, se qualche elemento nocivo vi s'introduce, dato che essa è soleggiata tutto il giorno, più
facilmente viene scacciato. Inoltre, è più salubre, poiché se dei microbi vi crescono nei dintorni e
vi sono portati, o vengono dispersi dal vento o muoiono presto per la siccità. I temporali improvvisi
e i torrenti impetuosi sono pericolosi per coloro che abitano in basso e in depressioni del terreno,
come pure le improvvise incursioni dei ladri, perché più facilmente possono coglierli di sorpresa.
Da tutt’e due questi pericoli sono più sicuri i luoghi situati più in alto.