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Silvana Borutti - Nodi Della Verità. Concetti e Strumenti Per Le Scienze Umane-Mimesis (2017)

Il libro di Silvana Borutti raccoglie saggi significativi sulla riflessione epistemologica nelle scienze umane, esplorando temi come verità, linguaggio, oggettivazione e rappresentazione. Diviso in due parti, il volume affronta questioni teoriche in antropologia, storiografia e psicoanalisi, evidenziando la relazione con l'alterità e l'importanza della scrittura. Borutti, accademica di spicco, continua a contribuire al dibattito filosofico e alle scienze umane attraverso le sue ricerche e pubblicazioni.

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Allan Wilcox
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Silvana Borutti - Nodi Della Verità. Concetti e Strumenti Per Le Scienze Umane-Mimesis (2017)

Il libro di Silvana Borutti raccoglie saggi significativi sulla riflessione epistemologica nelle scienze umane, esplorando temi come verità, linguaggio, oggettivazione e rappresentazione. Diviso in due parti, il volume affronta questioni teoriche in antropologia, storiografia e psicoanalisi, evidenziando la relazione con l'alterità e l'importanza della scrittura. Borutti, accademica di spicco, continua a contribuire al dibattito filosofico e alle scienze umane attraverso le sue ricerche e pubblicazioni.

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SILVANA BORUTTI

Il libro raccoglie alcuni tra i più significativi saggi scritti da Silvana Borutti attorno ai temi

SILVANA BORUTTI NODI DELLA VERITÀ


della riflessione epistemologica sulle scienze umane. Diviso in due parti, il volume affronta i

NODI DELLA VERITÀ


temi della verità e del suo nesso con il linguaggio, dell’oggettivazione, della rappresentazione e
dell’irrappresentabile, per poi dedicarsi ad alcuni tra i più rilevanti problemi teorici della rifles-
sione antropologica, storiografica e psicoanalitica, come la relazione con l’alterità, la scrittura,
il rapporto tra immagini e concetti, l’assenza e il suo effetto di realtà.
CONCETTI E STRUMENTI PER LE SCIENZE UMANE

Silvana Borutti, già professore ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Pavia, continua la sua ricerca nell’ambito
della filosofia teorica e delle scienze umane. Si occupa in particolare di teorie dell’immagine e di teorie della traduzione.
È condirettore della rivista filosofica “Paradigmi”, e Visiting Professor all’Università di Lausanne. È stata direttore del
Dipartimento di Studi umanistici dal 2012 al 2015, e assessore alla cultura del Comune di Pavia dal 2005 al 2009.
Dirige con Luca Vanzago la collana Theoretica di Mimesis.
Tra le pubblicazioni più recenti: Théorie et interprétation. Pour une épistémologie des sciences humaines, Lausanne
2001; Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratura, Milano 2006; Leggere il «Tractatus
logico-philosophicus» di Wittgenstein, Como-Pavia 2010; con U. Heidmann, La Babele in cui viviamo. Traduzione,
riscritture, culture, Torino 2012.

ISBN 978-88-5753-798-6
MIMESIS

Mimesis Edizioni
Itinerari filosofici
www.mimesisedizioni.it

18,00 euro 9 788857 537986 MIMESIS / ITINERARI FILOSOFICI


itinerari filosofici
n. 101

Collana diretta da Sandro Mancini

Comitato scientifico: Josep Maria Bech (Universitat de Barcelona), Rossella Bonito


Oliva (Università “L’Orientale” di Napoli), Silvana Borutti (Università di Pavia),
Beatrice Centi (Università di Parma), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi
dell’Insubria), Sandro Mancini (Università degli Studi di Palermo), Massimo Marassi
(Università Cattolica di Milano), José Manuel Sevilla Fernández (Universidad de
Sevilla).

Il testo contenuto in questo volume è stato valutato con il sistema double-blind


peer review
Silvana Borutti

NODI DELLA VERITÀ


Concetti e strumenti per le scienze umane

MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
[email protected]

Collana: Itinerari filosofici n. 101


Isbn: 9788857537986

© 2017 – MIM EDIZIONI SRL


Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
Phone: +39 02 24861657 / 24416383
INDICE

Fonti 9

Presentazione
di Luca Vanzago 11

I Parte

1. Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 23


2. Filosofia e scienze umane 59
3. Oggettività e costruzione di oggetti 69
4. Rappresentabile e irrappresentabile.
Il concetto di Darstellung nelle scienze umane 83

II Parte

1. Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 95


2. Il relativismo culturale nell’antropologia 117
3. Scrittura della storia e realtà degli eventi 131
4. Immagini-traccia e scrittura.
Storiografia ed etnografia in Michel de Certeau 151
5. Immagini in assenza. Un tema psicoanalitico 169

Nota
di Fulvio Papi 179

Bibliografia 181

Tabula Gratulatoria 193


La verità non è una bella forma nascosta in un pozzo,
ma un uccello timido
che si cattura meglio con uno stratagemma.

Joseph Conrad, I duellanti


FONTI

I capitoli di questo volume riprendono, con alcuni adattamenti e modi-


fiche, i saggi dell’elenco seguente. Si ringraziano i direttori delle riviste e i
curatori dei volumi, in cui i saggi sono originariamente stati pubblicati, per
aver permesso la loro ripubblicazione in questo volume.

– Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative, in S. Borutti, L. Fon-


nesu (a cura di), La verità. Scienza, filosofia, società, Il Mulino, Bologna 2005,
pp. 121-157.
– Oggettività e costruzione di oggetti, in R. Lanfredini, A. Peruzzi (a cura di), A
Plea for Balance in Philosophy. Essays in honour of Paolo Parrini, Edizioni
ETS, Pisa 2013, pp. 153-166.
– Filosofia e scienze umane, in R. Lazzari, M. Mezzanzanica, E.S. Storace (a cura
di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini, Mime-
sis, Milano 2008, pp. 43-50.
– Rappresentabile e irrappresentabile. Il concetto di Darstellung nelle scienze
umane, in M. Bezoari, F. Palombi (a cura di), Epistemologia e psicoanalisi.
Attualità di un confronto, Quaderni del Centro milanese di psicoanalisi C. Mu-
satti, Milano 2003, pp. 75-84.
– Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia, in M. Ruggenini, G.L. Paltri-
nieri (a cura di), La comunicazione. Ciò che si dice e ciò che non si lascia dire,
Donzelli, Roma 2003, pp. 79-99.
– Il relativismo culturale nell’antropologia, in G. Cunico, D. Venturelli (a cura
di), Culture e religioni: la pluralità e i suoi problemi, Il Melangolo, Genova
2011, pp. 79-95.
– Scrittura della storia e realtà degli eventi, in P.L. Lecis, V. Busacchi, P. Salis
(a cura di), Realtà, verità, rappresentazione, Franco Angeli, Milano 2015, pp.
185-203.
– Immagini-traccia e scrittura. Storiografia ed etnografia in Michel de Certeau,
“Discipline filosofiche”, vol. XVIII, 2008, pp. 67-81.
– Tracce e resti. Forme dell’alterità in Michel de Certeau, “aut aut”, 369, 2016,
pp. 46-62.
– Immagini in assenza, in D. Chianese, A. Fontana (a cura di), Per un sapere dei
sensi. Immagini ed estetica psicoanalitica, Alpes, Roma 2012, pp. 241-248.
Luca Vanzago
PRESENTAZIONE

Il mondo accademico ha i suoi riti e le sue usanze abituali, e tra que-


sti una consuetudine è certamente molto importante e sentita: quella di
fare omaggio, a un maestro che lascia l’insegnamento, di una raccolta di
saggi di amici e allievi che ne salutano il lavoro e festeggiano l’opera con
loro scritti. In questo caso si è voluto tuttavia operare diversamente: si è
preferito consentire l’accesso complessivo e diretto a un gruppo di saggi
pubblicati in luoghi diversi e sparsi, il cui reperimento è perciò più difficile
e meno agevole, al fine di presentare in modo efficace l’ampiezza e la pro-
fondità del lavoro condotto da Silvana Borutti nel campo della riflessione
epistemologica sulle scienze umane, che a sua volta costituisce uno solo
dei molteplici ambiti di riflessione in cui il suo lavoro si è sviluppato. Si
tratta, va subito detto, di una piccola selezione tra la vasta mole di scritti
dell’autrice, di cui la bibliografia pubblicata in fondo al volume dà conto.
Ma si tratta di alcuni lavori particolarmente significativi e rappresentativi
della prospettiva teorica generale che Silvana Borutti è andata sviluppando
nel suo lavoro teorico come professore di Epistemologia e di Filosofia teo-
retica all’Università di Pavia. Né questo è stato l’unico ambito in cui Sil-
vana Borutti ha operato, poiché al suo lavoro accademico ha affiancato un
coinvolgimento politico di lunga data che ha portato poi anche a svolgere
la funzione di Assessore alla Cultura presso il Comune di Pavia.
I saggi qui raccolti sono divisi in due sezioni. La prima è di natura più
generale, mentre la seconda affronta tematiche specifiche. Le due sezio-
ni sono nondimeno profondamente unite tra loro dalla prospettiva com-
plessiva e dalle proposte teoriche particolari offerte nei diversi ambiti che
l’autrice affronta. Il primo saggio della prima parte, Linguaggio e verità in
alcune prospettive interpretative, esamina il tema delle diverse prospettive
riassumibili in generale sotto l’etichetta di “interpretative”, cioè di modi di
interpretare il rilievo del linguaggio in quell’esperienza della verità che, a
partire dal dibattito metodologico ed epistemologico di fine Ottocento sul-
12 Nodi della verità

le Geisteswissenschaften, vengono accomunati dalla nozione di Verstehen,


cioè comprensione del senso. Il saggio affronta le trasformazioni del para-
digma comprendente che sono offerte dalle prospettive filosofiche di Ga-
damer e Ricoeur, e dall’epistemologia interpretativista di Geertz, al fine
di dare rilievo ai concetti che gettano luce sul nesso tra verità e interpre-
tazione e che arricchiscono il quadro categoriale delle scienze dell’uomo,
tenendo in vista il problema dell’oggettività conoscitiva in quest’ambito;
la discussione del modello di Geertz, in particolare, fornisce gli strumenti
per ripensare l’interpretazione in antropologia. È il tema del carattere lin-
guistico dell’esperienza della verità a costituire il nucleo essenziale di al-
cune concezioni ermeneutiche post-heideggeriane. Affrontando i problemi
legati alle questioni della verità nel discorso, della verità nel dialogo, del
rapporto tra verità e alterità, il saggio pone in rilievo la questione dell’in-
terpretazione come modo della verità.
Il secondo saggio, Filosofia e scienze umane, si apre con la domanda
sul rapporto tra filosofia e scienze umane al fine di porla nel modo più
corretto. Non si tratta cioè di chiedersi che cosa ha da dire la filosofia sulle
scienze umane, quanto piuttosto che sguardo la filosofia possa prestare alle
scienze umane, e che sguardo allo stesso tempo la filosofia possa ricavare
dalle scienze umane. Il rapporto tra filosofia e scienze umane (o tra filoso-
fia e scienze in generale) non può essere a senso unico, dalla filosofia alle
scienze, come se alla filosofia fosse assegnato un compito epistemologico
normativo, di tipo ad esempio sintattico-formale, come ricerca di una lin-
gua ideale e di un metodo unico delle scienze, o di tipo categoriale, come
ricerca degli oggetti essenziali delle scienze. Semmai, la filosofia non può
avere altro che un compito di ricostruzione delle condizioni di produzione
dei saperi, in vista nello stesso tempo di forme di autocomprensione, in una
specie di apprendere laterale per cui la filosofia si volge ad altri saperi per
sapere anche qualcosa di sé, elegge cioè dei saperi a proprio “terreno”, a
campo di emergenza degli stessi problemi filosofici. Il saggio sostiene così
che si tratti non tanto di confrontare le scienze umane con le scienze natu-
rali come due tipi paradigmatici di scientificità, secondo l’antinomia tra la
comprensione del particolare e la spiegazione attraverso leggi, quanto di
pensare più in generale le procedure secondo cui gli oggetti dei vari domini
scientifici diventano pensabili e trattabili. Nella prospettiva dell’oggettiva-
zione, si sospendono le false antinomie tra universale e unico, tra generale
e particolare, tra nomotetico e idiografico, per pensare in generale “oggetti
possibili”: come, e attraverso quali configurazioni formali, gli oggetti di-
ventino pensabili. In questa prospettiva, non vediamo opporsi la natura alla
storia, ma semmai consideriamo uno spettro che va dai saperi che tendono
L. Vanzago - Presentazione 13

a organizzarsi integrando il rigore formale e matematico con la sperimen-


tabilità, ai saperi le cui condizioni di presentazione empirica e le cui forme
di oggettivazione e di rigore sono segnate in modo specifico dai processi di
parola e dalla temporalità.
A questa problematica si ricollega anche il terzo saggio, dal titolo Og-
gettività e costruzione di oggetti. A partire dalle riflessioni di Paolo Parrini
sull’oggettività come ideale regolativo della conoscenza scientifica, ven-
gono delineate tre questioni tra loro connesse: l’affermazione del carattere
empirico delle ‘scienze positive’ assunte a modello della conoscenza in
generale; l’affermazione del carattere relativo della conoscenza scientifi-
ca, nel senso che essa si sviluppa all’interno di un sistema concettuale di
riferimento e tanto i suoi presupposti quanto le sue conclusioni sono sem-
pre provvisori e rivedibili. Infine, l’affermazione del carattere oggettivo di
tale conoscenza, nonostante il relativismo asserito dalla seconda tesi: quel
relativismo esclude solo la pretesa metafisica di giungere, in un modo o
nell’altro, a una conoscenza assoluta della realtà in sé, ma non la possibilità
di avanzare pretese cognitive dotate di una loro validità oggettiva.
Adottando una prospettiva neo-kantiana, nel saggio Silvana Borutti so-
stiene che si debba intendere la virtualità e idealità degli oggetti scientifici
non tanto nel senso leibniziano della pura variazione intellettuale contrap-
posta all’attuale e da saturare con l’esistenza, quanto piuttosto nel senso
kantiano di legge di costituzione che determina possibili oggetti di espe-
rienza determinandone le condizioni di possibilità. Se il possibile leibni-
ziano rimanda all’opposizione, in ultima analisi metafisica, tra due regimi
dell’essere, ossia le realtà possibili proiettate dalla mente umana o divina,
e l’attualizzazione nell’esistenza, in prospettiva kantiana “oggetto possi-
bile” significa invece oggetto costituito, fenomeno reso oggettivo perché
presentato nell’esperienza attraverso la funzione sintetica e schematizzante
della forma. Dunque, la dimensione di realtà dell’oggetto di conoscenza
è una dimensione di possibilità, secondo una sorta di realismo di seconda
posizione. “Oggetto possibile”, allora, non in quanto opposto all’esistente,
ma in quanto sua condizione di possibilità: il possibile non come variazio-
ne logico-intellettuale, ma come ciò che trasforma kantianamente il reale
(il reale sostanziale dato, in sé impensabile) in oggettivo. Il che significa
d’altra parte considerare la necessità formale dell’oggetto di conoscenza,
cioè il non ricondurlo a un oggetto contingente.
Infine, il quarto saggio della prima parte sviluppa queste considerazioni
in direzione di una riflessione sul nesso tra tacere e dire, tra rappresenta-
bile e irrappresentabile, tra ciò che si dice e ciò che non si lascia dire. Si
tratta di un nesso epistemologico e ontologico insieme: il che significa che
14 Nodi della verità

nelle scienze del senso il comprendere non è separabile dall’essere; che in


scienze umane, non c’è senso che non sia coniugato con sottrazione e de-
limitazione, che non sia apertura orlata da silenzio. Ma significa anche che
questo orlo invisibile è nello stesso tempo vitale e produttivo, dinamico e
processuale: è la zona di silenzio e di invisibilità, di vuoto e di distanza, da
cui emerge il senso. Se si vuole pensare la comprensione del senso, si deve
allora ricorrere a concetti che ci permettano di parlare del senso, e del suo
rapporto con la cosa, non come semplice rapporto di sostituzione, simbo-
licità, qualcosa che stia per un referente dato, ma più radicalmente come
figuralità indiretta e (ricorrendo a un concetto di Derrida) supplementare:
il senso come supplemento di qualcosa che si sottrae. Kant e Wittgenstein
ci offrono il concetto di rappresentazione come Darstellung, che significa
non riproduzione diretta della cosa (Vorstellung), ma presentazione indiret-
ta di un essere che si sottrae, presentazione che ha interiorizzato il divieto
a dire direttamente e esaustivamente la cosa.
La seconda sezione riprende questa prospettiva innovativa e originale
sviluppandone alcune implicazioni decisive. Viene innanzi tutto interro-
gato il sapere della e sulla antropologia, alla luce del tema dell’alterità,
come si chiarisce fin dal titolo del saggio, Sentimento e scrittura dell’al-
tro in antropologia. Come l’autrice osserva, infatti, tra le scienze umane,
l’antropologia, nella forma classica dello «sguardo da lontano», portato su
culture radicalmente altre, è un caso esemplare di sapere dell’altro (degli
altri soggetti, delle altre culture). Ed è un sapere esemplare, perché ha a che
fare con un’iperbole dell’altro, che è relativa a un’iperbole dell’io: l’altro
iperbolico sono le culture cosiddette primitive, l’io iperbolico è l’Occiden-
te. Ora, l’orizzonte di possibilità e di pensabilità di un sapere dell’altro non
può che essere un’etica del sapere che si dà come presupposto – almeno
al modo ottativo – l’impegno ad assumere l’altro non come un oggetto,
una cosa, ma come un soggetto in una relazione di senso. Da un punto di
vista epistemologico, ciò significa assumere un modello specifico, secondo
cui la comprensione antropologica non è pensabile né secondo un modello
positivista e riduzionista, come riduzione dell’alterità a un insieme di fatti
empirici oggettivamente dati, né secondo un modello interpretativo di tipo
soggettivista e romantico, come empatia, Einfühlung, immedesimazione,
trasferimento vitale nel mondo dell’altro. La comprensione antropologica
è piuttosto una pratica della differenza, un tornare presso di sé dopo essere
stato presso l’altro, e un tentativo di dire l’altro nella propria lingua. Que-
sta prospettiva richiede che la questione del sapere dell’altro sia trasforma-
ta nella questione dell’esperienza dell’altro come esperienza di ciò che si
dice e, ad un tempo, di ciò che non si lascia dire.
L. Vanzago - Presentazione 15

La problematica così delineata viene discussa e ulteriormente appro-


fondita nel saggio successivo, dal titolo Il relativismo culturale nell’an-
tropologia, in cui si discute del relativismo come problema epistemolo-
gico connaturato per definizione al sapere antropologico. L’antropologia
sembra dunque relativista per natura. Di fatto le ricerche etnografiche, che
si sono imposte come forma di conoscenza nel mondo moderno almeno
a partire dal Settecento, mostrano che ogni forma culturale, che modella
i comportamenti sensati dei popoli, ha un significato unico, particolare,
interno al contesto, un significato, diremmo con Windelband, “idiografi-
co”; questo fa sì che il relativismo culturale appaia intimamente legato allo
statuto scientifico dell’antropologia. Ci si chiede però se il relativismo sia
un concetto univoco. Cosa significa “relativismo culturale” in antropologia
dai punti di vista epistemologico, ontologico ed etico? L’intento del saggio
è di arrivare, a partire da questa analisi, a porre il problema di un possibi-
le dialogo interculturale. Il tema dell’intraducibile ontologico viene intro-
dotto al fine di determinare la nozione di alterità come differenza e come
alterità asimmetrica. Possiamo pensare l’altro, perché l’altro non è come
noi: l’altro non è una differenza indifferente e simmetrica, come vuole la
prospettiva definita in senso lato “relativista”. Il relativismo – pensare cioè
gli altri come differenze sostituibili nella loro diversità – è decostruibile
e criticabile proprio riflettendo sul tema delle differenze indifferenti. Se
invece si pensa la conoscenza antropologica come dialogo di alterità, non
si dice affatto che l’altro è uguale a me, da un punto di vista convenziona-
lista, vale a dire secondo un principio di indifferenza epistemologica, ma
si presuppone piuttosto che io non sono l’altro, e che lo comprendo (e mi
comprendo) in quanto alterità, mettendomi in dialogo, secondo un princi-
pio di etica dell’asimmetria ontologica, e secondo un principio contrastivo
e dialogico dell’identità.
L’analisi di Silvana Borutti porta a riformulare la questione dell’alteri-
tà pensandola come differenza asimmetrica, e criticando attraverso que-
sta nozione il relativismo della differenza indifferente e una concezione
dell’antropologia come collezione classificatoria di altri “noi stessi”. Per
questa critica, vengono ripresi il relativismo ragionevole di Wittgenstein e
l’interpretativismo che ne ricava Geertz, che insegnano che non possiamo
che intraprendere sempre di nuovo un rapporto di negoziazione e di com-
promesso traduttivo. Questo compromesso è costitutivo dell’antropologia,
ma riguarda nello stesso tempo, più radicalmente, la nostra identità di occi-
dentali: tema inesauribile, in cui possiamo tuttavia aprirci un piccolo varco
riflettendo sul paradosso dell’oggettivazione in antropologia. Il tema del
compromesso traduttivo è in fondo un modo per dare una configurazione
16 Nodi della verità

possibile al problema dell’altro come oggetto, evitando l’alternativa, che


appare oggi insolubile, tra oggettivismo e relativismo.
Il saggio successivo, dal titolo Scrittura della storia e realtà degli even-
ti, sviluppa i risultati acquisiti in direzione di una discussione di quella
forma di sapere e di scrittura scientifica argomentata che è la storiografia.
L’analisi assume una prospettiva epistemologica specifica basata sulla con-
vinzione che ogni forma di sapere scientifico sia investita di un compito
che è denaturalizzante, ma che è insieme anche esplicativo di un dominio
referenziale, perché in questione sono i molti mondi dei fatti e degli eventi
naturali o umani. In altre parole, la storiografia viene vista come un co-
strutto testuale comprendente, non nel senso debole di “interpretativo”, ma
nel senso forte di “impegnato in un debito di realtà”. In questo senso viene
assunta la nozione di evento, che è di fatto legata alla struttura concettuale
delle scienze naturali e sperimentali, ma che può essere un buon candidato
per parlare di dati storici, e si discute il modo con cui diversi paradigmi
epistemologici qualificano il carattere storico degli eventi. Non sono pen-
sabili fatti storici senza una costruzione del tempo, cioè senza struttura e
senza configurazione. Nessuno dei paradigmi, preso di per sé (il modello
naturalistico delle cause, il modello soggettivistico del calcolo decisionale,
il modello statistico delle serie) esaurisce il problema del tipo testuale che è
specifico della conoscenza storica. La stessa scrittura seriale e quantitativa
della storia “concettualizzante” non può produrre una semantica storica
senza ricorrere alla configurazione unitaria della pluralità dei livelli tempo-
rali entro strutture di senso. Se la riscrittura delle storie è potenzialmente
infinita, non è tuttavia priva di vincoli e di condizioni riconoscibili inter-
soggettivamente. L’orizzonte potenzialmente infinito dei significati aperto
da una narrazione richiede una pratica linguistica comunitaria per essere
compreso. Il riferimento alle dimensioni intersoggettive, intenzionali e co-
munitarie della scrittura della storia, l’impegno del controllo documentario
e filologico e il confronto critico tra le testimonianze relative a qualcosa
di accaduto sono allora in ultima analisi ciò che distingue l’intenzione di
verità del «racconto dimostrativo» dello storico dalla scrittura puramente
finzionale.
Il tema del nesso tra racconto storico e narrazione viene affrontato anche
nel saggio dal titolo Immagini-traccia e scrittura. Storiografia ed etnogra-
fia in Michel de Certeau, in cui l’opera del pensatore francese viene inda-
gata in quanto la scrittura della storia è un tema fondamentale in Michel
de Certeau, sebbene non sia esclusivamente un tema metodologico e epi-
stemologico, poiché non si può comprendere il contributo di Certeau all’e-
pistemologia della storia se non lo si connette con gli aspetti più originali
L. Vanzago - Presentazione 17

della sua prospettiva, che sono ascrivibili al campo di una vera e propria
ontologia storica. Il saggio affronta quindi in primo luogo gli aspetti del-
la sua concezione della storiografia come pratica di scrittura che produce
effetti ontologici e politici, per poi considerare l’analisi che Certeau offre
di alcune immagini, che egli interpreta come tracce e, in quanto tali, come
vere e proprie forme di scrittura della storia. Per Certeau nella traccia si
mostra la sfida che è l’alterità del passato. La traccia non è semplice luogo-
tenenza, ma ritorno dell’altro. Non si va dai resti alla loro comprensione,
ma dal lavoro presente alla produzione del passato, della sua assenza e
insieme delle sue tracce. Egli parla di “revenance” dell’altro, che ritorna
come un rimosso e segna il discorso di un’inquietante estraneità. Questo
spettro nel discorso ha lo statuto dell’Unheimliche freudiano, inteso come
legame insolubile tra il proprio e l’estraneo: l’inquietante non come ciò
che è misterioso e ci colpisce, perché straniante e inspiegabile, ma semmai
come ciò che doveva rimaner nascosto, e che ritorna, svelandoci qualcosa
di noi. L’Unheimliche è ciò che svela il segreto del domestico, che svela
cos’è l’Heimliche, che cos’è il proprio – una specie di ferita (un’alterazione
del logos) che ci risveglia e che ci fa capire la radice estranea del proprio
e della familiarità – quasi una «radicalizzazione ontologica della nozione
di inconscio».
Gli esiti di questa indagine aprono alle analisi dell’ultimo saggio, dal
titolo Immagini in assenza. Un tema psicoanalitico, in cui l’autrice parte da
una tesi presentata nel suo libro Filosofia dei sensi, pubblicato nel 2006, in
cui si sostiene che la conoscenza in generale si fonda sul tema del figura-
bile e sull’autonoma funzione significante delle immagini. Facendo riferi-
mento a concetti che provengono dal campo concettuale della psicoanalisi,
Silvana Borutti riarticola allora il concetto di immagine intorno a due temi:
l’immagine tra apparizione e sparizione, e l’intraducibilità dell’immagine.
Se si considera la relazione tra sensibilità e pensiero, si può dire che la
vicenda umana muova dai sensi ai sensi: dai sensi sensibili ai sensi ide-
ali, dai sensi al pensiero, in un intreccio complesso e non unidirezionale.
In altre parole, il nostro modo di significare è un processo dinamico, che
inizia con l’incontro sensibile col mondo, a partire da cui si sviluppa la
trama dei sensi ideali che intessono e colorano la nostra forma di vita. In
questo processo, l’immagine, intesa non come copia, pallida imitazione di
un originale, ma come messa in forma che porta a visibilità ciò che non è
altrimenti visibile, riveste il compito di luogo comune tra sensibilità e pen-
siero, o, meglio, di voce media tra la passività della rivelazione di ciò che
esiste (elemento estatico del ricevere, dell’incontrare, del rammemorare) e
l’attività della sua configurazione (elemento poietico dell’inventare e del
18 Nodi della verità

configurare). Ma se l’immagine riveste il compito di formazione e artico-


lazione dell’esperienza sensata, non va dimenticato che in questo compito
ha un ruolo fondamentale il nesso dell’immagine, cioè della presentazione
in figura, con la sottrazione e la perdita, del visibile con il fondo invisibile.
In questo senso, l’immagine va intesa come qualcosa non di puramente
sostitutivo, ma piuttosto (con una nozione di Derrida) di supplementare:
il dire, il portare alla luce “presenta” il senso, lo mette in figura, ce lo fa
immaginare; ma questo mettere in figura non sostituisce semplicemente
qualcosa d’altro, non sta semplicemente “al posto” di, ma offre di fatto la
supplenza indiretta di qualcosa che si sottrae, la supplenza di una perdita
che resta tale.
Il nesso tra figurabile e infigurabile può essere ripensato, attraver-
so il tema dell’immagine come traduzione e si potrebbe dire quasi come
Bahnung: facilitazione, apertura di una via, nel senso freudiano del Proget-
to di una psicologia. L’immagine è un’esperienza che facilita i passaggi,
le traduzioni: è passaggio dai sensi al senso, dal nascosto al manifesto,
dall’inorganico all’organico, e viceversa. Diviene allora possibile pensare
il sogno come composizione figurale. La nozione estetica di composizione
è qui fondamentale, poiché vuol dire che nell’immagine non ci sono ele-
menti, cioè dettagli; che l’immagine ha in sé la forza aggregante di quello
che Merleau-Ponty chiama stile, o «deformazione coerente del visibile»: il
lavoro dello stile come atto sintetico di invenzione, o deformazione, della
visibilità formale del mondo. È questa la forza di aisthesis dell’immagine:
una forza che aggrega, compone, facendo aderire i pezzi del vaso rotto. Ma
allora sulla potenza deformante dell’immagine diventa possibile porre una
domanda semplice ma cruciale: c’è una linea di separazione tra l’esperien-
za estetica artistica e l’esperienza del sogno, dell’inconscio e della cura
come campo di immagini? Se c’è, dove collocarla?
Silvana Borutti procede sulla scorta delle tesi di Georges Didi-Huber-
man, che la colloca nell’opposizione tra sintesi e deformazione e vede nel
tema della figurabilità presente nel testo freudiano l’idea di una pari dignità
tra immagini e parole, idea che in parte viene meno in altri testi, soprattut-
to nei testi metapsicologici. È pensando il sogno che Freud ha lacerato la
compattezza della nozione di immagine. Come il sogno, l’immagine non
è un disegno, non ne ha la trasparenza mimetica, non è una sintesi sche-
matica e omogenea della cosa, ma è deformazione, Entstellung, collegata
alla censura: è un rebus, dice Freud, non un disegno. Nel lavoro del sogno,
i lembi messi insieme attraverso condensazione, spostamento, identifica-
zione, rovesciamento nel contrario sono presentazione della lacerazione:
la potenza del negativo si esprime in un lavoro di presentazione figurale.
L. Vanzago - Presentazione 19

Cos’è allora la somiglianza? Non è conciliazione, vicinanza formale, ma


è lo stesso che si infetta di alterità, è defigurazione e trasformazione. È la
deformazione che genera immagini, ma è attraverso un lavoro, analitico o
artistico, che le immagini possono assumere la coerenza trasformativa di
cui parla Merleau-Ponty: la coerenza del lavoro di deformazione che libera
le apparizioni del visibile.
Si può allora dire, per concludere questa presentazione, che la proposta
teorica che con forza emerge da essi riesca a porre in feconda connessione
apporti filosofici tra loro diversi, illuminandone i nessi reconditi e con-
sentendo di vedere diversamente anche prospettive teoriche consolidate.
È questo, io credo, uno degli insegnamenti più importanti e duraturi che
Silvana Borutti ci consegna con questi saggi, e più in generale con tutto il
suo lavoro di studiosa, ricercatrice e filosofa, che questo libro contribuisce
a ulteriormente sviluppare e rilanciare verso il futuro. Sta agli allievi, a
partire da chi scrive, saper essere all’altezza di un’opera fine, profonda,
rigorosa e innovativa, e continuare lungo le molteplici direzioni di pensiero
che Silvana Borutti ci ha mostrato e continua a svelare.
Prima parte
1
LINGUAGGIO E VERITÀ
IN ALCUNE PROSPETTIVE INTERPRETATIVE

Le analisi che seguono riguardano alcune prospettive che chiamerò


in generale “interpretative”:1 si tratta essenzialmente di modi di inter-
pretare il rilievo del linguaggio in quell’esperienza della verità che, a
partire dal dibattito metodologico ed epistemologico di fine Ottocento
sulle Geisteswissenschaften, chiamiamo Verstehen, comprensione del
senso. Nella mia ricostruzione, discuterò brevemente le trasformazio-
ni del paradigma comprendente che sono offerte dalle prospettive filo-
sofiche di Gadamer e Ricoeur, e dall’epistemologia interpretativista di
Geertz. Cercherò, in questa discussione, di dare rilievo ai concetti che
gettano luce sul nesso tra verità e interpretazione e che arricchiscono il
quadro categoriale delle scienze dell’uomo, tenendo in vista il problema
dell’oggettività conoscitiva in quest’ambito; la discussione del modello
di Geertz, in particolare, sarà l’occasione per ripensare l’interpretazione
in antropologia.
Da ultimo, discuterò il tema del carattere linguistico dell’esperienza del-
la verità che costituisce il nucleo essenziale di alcune concezioni ermeneu-
tiche post-heideggeriane. Prenderò in particolare a oggetto della mia ana-
lisi una costellazione di temi cruciali nella prospettiva di Mario Ruggenini
e nella sua analisi del nesso tra verità e interpretazione: essenzialmente,
verità nel discorso, verità nel dialogo, verità e alterità. Anche qui, cercherò
di tenere in vista il rilievo epistemologico dell’interpretazione come modo
della verità.

1 Non potrò fare a meno di usare l’abusata e consumata parola “ermeneutica”, ma


voglio precisare che con ermeneutica non intendo riferirmi a un’area di studi con-
trapposti all’area della filosofia analitica, bensì gettare uno sguardo su prospettive
in cui il riferimento al linguaggio è essenziale per configurare un’idea interpre-
tativa di verità. Farò perciò riferimento non solo a modelli filosofici, ma anche
alle prospettive epistemologiche nel campo delle scienze umane legate a questi
modelli.
24 Nodi della verità

1. Verità e ontologia linguistica

Nel dibattito di fine Ottocento su scienze della natura e scienze dello


spirito, i teorici del Verstehen contrappongono alla logica della legge la
logica dell’individuo: ciò significa che, pur con accenti diversi, un’ispira-
zione metodologista e obiettivista (ricerca di un “metodo” per un “ogget-
to” specifico) domina in fondo le prospettive storicista e neokantiana sul
“comprendere”, e il loro tentativo di rifondazione delle scienze dell’uomo
e della società.2 Va invece riconosciuto all’ermeneutica filosofica del No-
vecento l’impegno a sottrarre il tema del comprendere all’orizzonte della
fondazione metodologica dell’oggettività di un dominio scientifico, e quin-
di al mimetismo in rapporto alla nozione positivista di scienza, per ripen-
sarlo in una dimensione ontologica e nell’orizzonte di quelle che si posso-
no chiamare «esperienze “extrametodiche” della verità».3 Opponendo alla
considerazione logico-metodologica del linguaggio dell’epistemologia
neoempirista una considerazione ontologica del linguaggio, la prospettiva
ermeneutica di Heidegger e Gadamer inaugura un punto di vista che si
sottrae ai rovesciamenti mimetici, e mostra i limiti della nozione scientifica
di metodo, nozione che era stata di fatto assunta anche dalle “scienze dello
spirito” ottocentesche. Il “comprendere” in questa prospettiva è – secondo
l’analisi heideggeriana di Essere e tempo – apertura di esperienze extra-
metodiche della verità e apertura di esperienze extralogiche del linguag-
gio, perché è una struttura ontologica: non è semplicemente un mutamento
dell’atteggiamento conoscitivo, un volgersi agli individui e al loro senso,
ma concerne l’essere dell’uomo; il comprendere è in altre parole struttu-
ra originaria dell’essere al mondo dei soggetti, che non sono nel mondo
come enti fra gli altri, ma come coloro che vi abitano avendo cura degli
altri soggetti e prendendosi cura delle cose. La dimensione ermeneutica è
dunque una relazione al senso che è una relazione di verità in quanto è non
semplicemente conoscitiva, ma ontologica: è progetto, proiezione attiva in
un poter essere; è progetto “gettato”, immerso cioè in una fatticità che del
progetto disegna insieme possibilità e limite; è pre-comprensione, inter-
pretazione che si muove sullo sfondo del già-compreso, inteso non come a
priori formale, ma come un’anticipazione di senso data esistenzialmente.4

2 Cfr. S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e


della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, cap. 1.
3 Cfr. G. Vattimo, Introduzione a H. G. Gadamer, Verità e metodo, 1960, 19723,
trad. a cura di G. Vattimo, Bompiani, Milano 1983, p. V.
4 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, 1927, trad. di P. Chiodi, Longanesi, Milano
1976, § 32.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 25

Chiediamoci allora in generale come si configuri la questione episte-


mologica della conoscenza di oggetti storico-sociali in una prospettiva er-
meneutica antimetodologica, che si mantenga sullo sfondo dell’ontologia
fondamentale – che mantenga cioè la prospettiva di Heidegger, per cui in
questione non è l’oggetto possibile della storiografia o della sociologia o
dell’antropologia, ma il «modo di essere di ciò che è storico».5 In generale,
una prospettiva di questo tipo assume che la conoscenza abbia la sua con-
dizione nell’essere dell’uomo, nel fatto che l’uomo è un essere parlante e
un essere che si temporalizza: rinvia dunque alla linguisticità e alla tempo-
ralità come radici ontologiche del conoscere. Quanto alla linguisticità del
conoscere, il linguaggio connota ontologicamente la conoscenza in quanto
non è semplice strumento, dominabile dal soggetto, manipolabile come un
metodo, ma è il luogo dell’apertura di senso, il luogo per cui il soggetto
ha un mondo ed è in un mondo che condivide dialogicamente con gli al-
tri. Quanto alla temporalità del conoscere, il tempo connota ontologica-
mente la conoscenza perché ogni esperienza di senso articola il presente
sull’essere-stato e sull’apertura di futuro, sulla memoria e sulla progettua-
lità. L’essere del soggetto che è soggetto e oggetto di sapere è un essere
temporale secondo l’idea estatico-orizzontale di temporalità mostrata dalla
prospettiva fenomenologica: un tempo inteso non come successione linea-
re di istanti, ma inteso piuttosto come luogo ontologico estatico, luogo del
volgersi a del soggetto e della sua proiezione fuori di sé, verso le direzioni
intenzionali del ricordo, della presentificazione, e del progetto, che sono il
luogo della comprensione e dell’azione. In questo senso, l’ermeneutica in-
segna a sottrarre la conoscenza agli a-priori metodologici, e a situarla nella
mediazione linguistica e nella temporalità: si conosce un essere linguistico,
e si conosce in quanto si è degli esseri storico-temporali, in tensione con il
proprio altro e con l’estraneo, in una dialettica di familiarità e estraneità,
che in Gadamer muove ottimisticamente verso la fusione degli orizzonti
di senso. Al logos monologico della legge è opposto il luogo dialogico e
storico della comprensione.
La rilettura dell’ontologia fondamentale di Heidegger più attenta al ca-
rattere non metodologico del Verstehen è quella condotta da Hans Ge-
org Gadamer in Verità e metodo.6 Scrive Gadamer nell’Introduzione: «La
comprensione e l’interpretazione di testi non è solo affare di una scien-

5 Ivi, p. 451.
6 H. G. Gadamer, Verità e metodo, 1960, 19723, trad. a cura di G. Vattimo, Bom-
piani, Milano 1983. Per una breve ma efficace ricostruzione dell’eredità heideg-
geriana in Gadamer, cfr. L. Perissinotto, Le vie dell’interpretazione nella filosofia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, cap. IV.
26 Nodi della verità

za, ma è un aspetto dell’umana esperienza del mondo nel suo insieme».7


Il problema ermeneutico va accostato a forme di esperienza della verità
(come la filosofia, l’estetica, la storia) «in cui si annuncia una verità che
non può essere verificata con i mezzi metodici della scienza».8 L’espe-
rienza della verità storica, ad esempio, è “comprendente” in quanto si isti-
tuisce in un rapporto di integrazione tra significato dell’evento passato
e interpretazione attuale, nel dialogo tra pensiero e tradizione. In questo
modo, l’ontologia dell’originario di Heidegger è trasformata da Gadamer,
o, con l’espressione di Habermas,9 “urbanizzata”, nel tema della compren-
sione come luogo di scambio storico e dialogico: la storicità della com-
prensione diventa la questione del rapporto col proprio altro (tradizione)
e col totalmente estraneo; la linguisticità del conoscere diventa il tema
dell’accesso all’altro attraverso il linguaggio: il che non significa inten-
dere l’altro con lo strumento del linguaggio, ma intenderlo nel linguaggio
(secondo la celebre formula per cui “l’essere, che può venir compreso, è
il linguaggio”). Gadamer svolge il tema del comprendere in una vera e
propria costellazione di concetti. Riprende in primo luogo il tema heideg-
geriano della precomprensione e lo sviluppa ripensando (e rivalutando) i
concetti di pregiudizio e di tradizione. Heidegger aveva insegnato a vedere
la condizione che è la circolarità del comprendere (per cui comprendo a
partire da un’anticipazione di senso) non come uno scacco conoscitivo,
come sarebbe se pensassimo la comprensione come un rapporto metodo-
logico di esteriorità tra soggetto e oggetto, ma come la struttura ontologica
propria di quell’essere che comprende storicamente. Gadamer spiega il
senso ontologico positivo della circolarità del rapporto dell’interprete con
un testo distante come dialettica e integrazione tra l’urto dell’estraneo e
l’attesa aperta dalle nostre presupposizioni. Di fronte all’appello del testo,
che nella sua estraneità richiede il nostro ascolto, non possiamo opporre
l’obiettiva neutralità del metodo:

Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualco-
sa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preli-
minarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né
un’obiettiva “neutralità” né un oblio di sé stessi, ma implica una precisa presa
di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pregiudizi.10

7 Ivi, p. 18.
8 Ivi, p. 19.
9 Cfr. J. Habermas, Urbanizzazione della provincia heideggeriana, “Aut Aut”, 217-
218, 1987.
10 H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 316.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 27

Da una parte, ci accostiamo al senso del testo a partire da un progetto


che è un’anticipazione del significato del testo intero; d’altra parte, i nostri
presupposti sono messi alla prova dal rapporto con il testo, e il nostro pro-
getto preliminare di senso «viene continuamente riveduto in base a ciò che
risulta dall’ulteriore penetrazione del testo».11 La condizione ermeneutica
fondamentale è la messa in gioco dei propri pregiudizi, il mantenersi aperti
a ciò che ci interpella – poiché l’esperienza ermeneutica comincia a partire
dalla domanda. È in una prospettiva di superamento illuminista del mito ad
opera del logos, che il pregiudizio è considerato giudizio non fondato da
superare. Nella prospettiva di un comprendere storicamente situato, il pre-
giudizio è invece ciò che permette l’incontro con il testo, ed è nello stesso
tempo filtrato e confermato nel suo valore di verità da questo incontro. La
distanza temporale che ci interpella ci aiuta a separare i pregiudizi illegit-
timi da quelli che rendono possibile la comprensione: mettendo in gioco
le proprie convinzioni, l’interprete si comprende ri-comprendendo il testo.
La tradizione e la sua autorità sono allora dei concetti da riabilitare: la
tradizione va vista non come l’antagonista della ragione critica, ma come
il tramandamento di un sapere condiviso che parla al nostro presente, in un
incontro che è dialogo e integrazione tra insiemi storici di significati. Così la
nozione di “classico” è vista da Gadamer come proiezione nel passato a par-
tire dal presente: “classico” non è tanto la descrizione storiografica di uno
stile, quanto una descrizione di noi stessi, della nostra attitudine a riconosce-
re delle permanenze.12 In questa prospettiva, la mobilità storica dell’oggetto
non è un ostacolo all’oggettività, ma ne è la condizione. Gadamer dà grande
rilievo al tema della distanza temporale, con cui critica l’idea romantica di
comprensione come ripetizione dell’atto creativo originario – tema presen-
te anche in Schleiermacher, nell’idea del comprendere l’autore meglio di
quanto egli stesso non si fosse compreso, e nel concetto di “divinazione”, o
proiezione intuitiva nell’altro.13 Ora, il “comprendere meglio” non è ripro-
durre il testo nel suo stato originario, secondo il tema storicistico del “rivi-
vere”, ma comprendere attraverso la mediazione della distanza; è produrre il
testo nella rilettura,14 mettendo in luce la distanza e la differenza tra l’autore

11 Ivi, p. 314.
12 Ivi, p. 337.
13 Cfr. F. D. Schleiermacher, Die Kompendienartige Darstellung von 1819, in Her-
meneutik, a cura di H. Kimmerle, II ed. riveduta e ampliata, C. Winter, Heidelberg
1974.
14 Il tema del completamento del testo nella lettura e nella ricezione è stato sviluppa-
to nell’estetica della ricezione della Scuola di Costanza: cfr. H. R. Jauss, Apologia
dell’esperienza estetica, 1972, trad. a cura di C. Gentili, Einaudi, Torino 1985.
28 Nodi della verità

e l’interprete, e ponendosi a una distanza specifica: «quando in generale


si comprende, si comprende diversamente».15 Comprendere diversamente
è abitare la distanza storica, quel frammezzo tra affinità e estraneità, quel-
la situazione di medietà (frammezzo, Zwischen, entre-deux), che Gadamer
chiama dialogo (Gespräch). L’interpretazione agisce in un luogo medio, tra
la distanza assoluta dell’oggettività alienante (l’ideale metodologico delle
scienze della natura, che fa perdere la specificità ontologica della realtà stu-
diata e la trasforma nel caso di una legge), e la vicinanza assoluta dell’em-
patia e dell’identificazione psicologica (l’ideale romantico della ripetizione
e del ricreare, ripreso nel tema storicistico della trasposizione nello spirito
dell’epoca).16 La coscienza storica coglie il suo oggetto attraverso la distan-
za, attraverso il filtro costituito dagli effetti della storia:17 comprendiamo a
partire da un orizzonte di effetti storici, di pre-giudizi che ci aprono al senso.
In quanto dia-logos, il comprendere ha un rapporto fondamentale con
la linguisticità, intesa heideggerianamente non come strumento di ogget-
tivazione, ma come modo stesso dell’essere in quanto comprensione. Il
linguaggio non aggiunge l’espressione a un essere già compreso, ma è il
luogo ontologico della comprensione in quanto è accesso al mondo, e ac-
cesso al mondo dell’altro. A questo proposito, va sottolineato che il dialogo
come medietà che ha il suo luogo nel linguaggio non è in Gadamer sem-
plicemente il tema dell’attraversamento verso l’altro, ma ha un esito idea-
lizzante significativo, che possiamo mettere in luce considerando l’analisi
che egli fa del concetto di traduzione. La traduzione interlinguistica è per
Gadamer una situazione cruciale, che presenta i tratti fondamentali di ogni
situazione di interpretazione, cioè la struttura polare del fraintendimento
e dell’intesa, della distanza alienante e della coappartenenza. La traduzio-
ne muove da una condizione di comprensione disturbata, difficile: deve
inizialmente affrontare l’incomprensione, e deve infine arrivare a rendere
possibile il dialogo fra lingue diverse. In questo modo, la traduzione mostra
che ciò che si comprende non è l’altro in quanto individuo, ma il suo testo18
e il suo mondo. Il traduttore deve nello stesso tempo mantenere il senso del
discorso originario, e ristabilirlo in un mondo linguistico differente. Chi
comprende una lingua straniera in quanto bilingue, non traduce, perché
non attraversa alcuna distanza: costui non “comprende” in senso proprio,
ma, come ogni parlante che capisca una lingua, compie un atto vitale, un

15 H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 346.


16 Cfr. ivi, p. 345.
17 È il principio gadameriano della Wirkungsgeschichte, della “storia degli effetti”.
18 “Testo” rimanda in Gadamer a una nozione generica di linguaggio, e non a una
nozione epistemologica specifica, come è invece in Ricoeur.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 29

atto di partecipazione a un mondo di senso, senza mediazioni interpretati-


ve. Chi invece traduce, si costituisce come interprete di ciò che Gadamer
chiama la “cosa” del testo. Il traduttore è un interprete obbligato a decidere
sul senso dell’originale: deve sacrificare in parte le ragioni delle due lingue
per restituire l’oggetto del testo, un contenuto – la cosa del testo, appunto,
l’oggetto del discorso che gli interlocutori hanno in comune.19 In ultima
analisi, ciò che è restituito nella traduzione, e in generale in ogni atto di
comprensione interpretativa, è la trascendenza del senso in rapporto all’au-
tore. La traduzione non è che un caso-limite della comprensione dialogica,
dove due lingue (due orizzonti di senso) si integrano in un linguaggio co-
mune (un orizzonte più ampio di senso).
È questa prospettiva di sintesi in un orizzonte più ampio che dà al
tema del dialogo una connotazione idealizzante. La comprensione ha
per Gadamer la forma propria di un dialogo linguistico, in cui «viene ad
espressione un “oggetto” che non è mio o dell’autore, ma qualcosa di
comune che ci unisce».20 Egli chiama questo dialogo fusione di orizzonti,
intendendo con ciò non una comprensione di anime, ma la partecipazione a
un senso comune: i soggetti si comprendono nella cosa del testo, nell’ele-
mento oggettuale ideale. In quanto “fusione”, la comprensione è confronto
e integrazione dialogica di orizzonti, e «innalzamento a una universalità
superiore, che non oltrepassa solo la particolarità propria, ma anche quella
dell’altro».21 Questa struttura intersoggettiva, che Gadamer vede, idealisti-
camente e ottimisticamente, come un’integrazione a un livello superiore, e
non come una strategia della comunicazione, è guidata da ciò che egli chia-
ma “presupposto della perfezione”.22 In ogni comprendere, siamo orientati
dal presupposto della perfezione e della compiutezza del testo: abbiamo in
altre parole un’aspettativa di senso, per cui riferiamo ciò che il testo dice
alla verità, e accettiamo nel dialogo di essere trasformati dal testo e dall’o-
pinione dell’altro.23 La nozione gadameriana di comunicazione dialogica

19 Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, cit., p. 446.


20 Ivi, p. 447.
21 Ivi, p. 355.
22 Ivi, p. 343.
23 In questo senso, l’intenzione di verità che orienta il colloquio tra l’interprete e il
testo non ha affinità con il principio di carità (assumere che le credenze dell’altro
siano vere e coerenti), che è secondo Davidson la condizione dell’interpretazione
dei significati dell’altro: il principio di carità offre il terreno sul quale può co-
minciare il lavoro dell’interpretazione (cfr. D. Davidson, Verità e interpretazione,
1985, trad. di R. Brigati, Il Mulino, Bologna 1994), mentre i principi di perfezione
e compiutezza anticipano l’accordo proiettando un’oggettività ideale. Per una di-
scussione del rapporto tra interpretazione e verità nei due autori, cfr. E. Picardi,
30 Nodi della verità

è dominata dall’idea di testo come frammento di verità in crescita negli


atti di comprensione: la cosa detta, la cosa del testo, come dice Ricoeur,24
domina in Gadamer sugli interlocutori.
Il modello gadameriano di dialogo è evidentemente idealizzato. Possia-
mo contrapporre ad esso in generale una concezione pragmatica e strategica
della comunicazione (che la teoria linguistica contemporanea ha sviluppa-
to a partire dalla nozione di “atto linguistico” di Austin):25 ogni situazione
comunicativa procede di fatto attraverso “atti di discorso” come reticenze,
silenzi, malintesi, ostacoli, manipolazioni. Dal punto di vista delle questioni
epistemologiche delle scienze dell’uomo, è interessante anche opporre alla
concezione gadameriana situazioni dialogiche esemplari, che non posso-
no essere pensate attraverso un modello idealizzante. Pensiamo al dialogo
psicoanalitico, dove il problema è proprio l’impossibilità di presupporre un
testo integro e veritiero: elementi desimbolizzati e connessioni simboliche
irriconoscibili investono il soggetto nel suo testo linguistico, corporeo, com-
portamentale, onirico; il testo di superficie – sogno, sintomo – è distrutto,
inaccessibile, e va ricostruito, o, meglio, “costruito”, a partire da tracce e
frammenti. Oppure pensiamo al dialogo antropologico sul campo: l’intera-
zione non è cooperativa per definizione, ma si sviluppa sia per cooperazione,
che per conflitti, rotture, manipolazione reciproca, negoziazione e rinegozia-
zione di ruoli, atti metacomunicativi concernenti la relazione, scacchi tradut-
tivi. Un’opacità dialogica e traduttiva investe l’interpretazione nelle scienze
dell’uomo: è questo il tema che Gadamer tende a passare sotto silenzio. Per
Gadamer, la traduzione è un caso limite della comprensione dialogica, in
cui due lingue si incontrano e si integrano in un linguaggio comune e in un
orizzonte più ampio di senso. Ma ciò significa presupporre di poter sem-
pre raggiungere il senso espresso nella lingua: in questa prospettiva viene
in primo piano il tema platonico della traduzione come crescita del senso,
universalizzazione, avvicinamento di ogni lingua al linguaggio della cosa;
viene in altre parole in primo piano la trascendenza ideale del senso. Passa
invece in secondo piano il tema di come il “corpo della lingua” determini

La verità nell’interpretazione. Alcune osservazioni su Gadamer e Davidson, in


M. Guardini, G Matteucci, Gadamer: bilanci e prospettive, Quodlibet, Macerata
2004, pp. 275-285.
24 Cfr. P. Ricoeur, Dal testo all’azione, 1986, trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano
1989, p. 95.
25 Cfr. O. Ducrot, Analyses pragmatiques, “Communications”, 32, 1980; H. Parret
(a cura di), La mise en discours, “Langages”, 70, 1983; C. Caffi, Intorno alla
pragmatica, in U. Rapallo (a cura di), Intorno alla linguistica, La Nuova Italia
Scientifica, Roma 1994.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 31

il senso: il “corpo” inteso sia come la specifica interazione tra significante


e significato, che si realizza nei segni di ogni lingua, sia come la specifica
interazione tra i segni che si realizza in ogni sistema linguistico (ciò che
Saussure chiama langue), sia come la specifica integrazione di ogni termine
in un contesto culturale – per cui l’effetto di senso legato al significante, cioè
al corpo (e all’inconscio individuale e culturale) del senso, è intraducibile.
Ma la traduzione è proprio la posizione di questo problema: il problema
della rottura dell’integrazione e coappartenenza tra significante e significato
attuata nel passaggio traduttivo, e del fatto che la ricomposizione del senso
non è garantita.26 Di contro, l’ottimismo ermeneutico tende a dimenticare che
il comprendere ha a che fare con l’opacità del senso.
Queste ultime riflessioni ci consentono di affrontare più direttamente il
tema della verità nelle scienze dell’uomo. Che cosa dire in generale del ri-
lievo epistemologico della prospettiva ermeneutica gadameriana? In modo
semplificato, potremmo dire che l’ermeneutica, impegnata a uscire dalla
metafisica positivistica dell’oggettività in modo non metodologico, sen-
za cioè contrapporre una visione “più vera”, e quindi sempre reificata, di
che cosa sia l’essere di oggetti che sono soggetti, trasferisce il problema
al livello dell’ontologia fondamentale, ma in questo modo lascia aperto il
problema delle ontologie regionali dei saperi. Contrapponendo la verità
dell’essere che accade temporalmente e linguisticamente alla verità come
tensione adeguativa col dato, l’ermeneutica gadameriana lascia aperto il
problema epistemologico di una semantica, o, meglio, di una poetica degli
oggetti dei saperi: lascia in altre parole aperto il problema di una prospetti-
va in cui l’oggettività sia connessa alla dimensione del fare (poieo), del fare
in un contesto teoretico-pratico. Questo è il problema che sembra invece
affrontato in modo più diretto nell’interrogazione di Ricoeur.

2. La verità del testo

A Paul Ricoeur dobbiamo una riformulazione del tema ermeneutico


condotta dal punto di vista di un interesse specificamente epistemologico:
l’interesse per la funzione dell’interpretazione nella costituzione di campi
del sapere. Nell’Introduzione al Conflitto delle interpretazioni.27 Egli pro-

26 Cfr. S. Borutti, Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle scienze uma-


ne, Guerini e Associati, Milano 1991, Parte I, cap. III.
27 P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, 1969, trad. di R. Balzarotti, F. Botturi,
G. Colombo, Jaca Book, Milano 1977.
32 Nodi della verità

pone un modello di integrazione tra ermeneutica ed epistemologia. Una


prospettiva ermeneutica significa in primo luogo una fondazione rigorosa
della riflessione nel campo dei significati in quanto orizzonte progettuale
dell’essere vivente – fondazione che va attuata attraverso una critica alle
pretese egemoniche dell’oggettivismo e del metodologismo delle scienze
naturali, e alla metafisica della conoscenza come relazione di esteriorità
tra soggetto e oggetto. Heidegger ha insegnato a capovolgere lo sguardo
rispetto all’oggettivismo, e a vedere la storicità dell’essere comprendente
e la sua appartenenza all’oggetto non come un limite metodologico, ma
come la struttura che ne costituisce l’essere. Ma se l’ontologia della com-
prensione offre una prospettiva originaria sul comprendere come forma
dell’essere, essa costituisce tuttavia per Ricoeur una “via corta”, poiché
«non ci fornisce alcun mezzo per mostrare in quale senso la comprensione
propriamente storica sia derivata da questa comprensione originaria».28 In
altre parole, l’ontologia fondamentale di Heidegger non offre gli strumen-
ti per passare dall’ontologia dell’essere che accade temporalmente, a una
semantica dei tempi storici, alla comprensione della pluralità degli sguardi
storici, e della profondità e discontinuità della storia.29 In generale, la via
heideggeriana non apre a un’epistemologia dell’interpretazione e a una se-
mantica dei linguaggi della comprensione, che riflettano sulle forme lin-
guistiche dell’esegesi, e sui modi del comprendere storico, psicoanalitico,
antropologico. Il tema auto-riflessivo, che mostra come il soggetto dell’in-
terpretazione non sia il cogito all’origine del senso, ma sia già da sempre
un essere-interpretato e un’apertura sul mondo, deve essere completato da
un’analisi epistemologica e semantica dell’interpretazione. Si tratta allora
di «sostituire alla via corta dell’Analitica del Dasein la via lunga che pren-
de l’avvio dalle analisi del linguaggio»30 e dal contatto con gli specifici
campi disciplinari dell’interpretazione, reintegrando nel loro rapporto me-
todo e comprensione della verità.
Rispetto all’ermeneutica umanistica di Gadamer, Ricoeur non conside-
ra tra di loro esclusivi il comprendere storico e lo spiegare naturalistico;
anzi, il suo modo di analizzare i linguaggi e le pratiche dell’interpretazione
lo porta a riflettere anche sulle valenze esplicative del comprendere. Ciò
che è per noi interessante è appunto vedere come l’ermeneutica in Ricoeur
apra e configuri una prospettiva epistemologica: in sintesi, si può dire che

28 Ivi, p. 24.
29 Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, 1979,
trad. di A. Marietti Solmi, Marietti, Genova 1986.
30 P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 24.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 33

nel suo modello i linguaggi interpretativi (linguaggi simbolici, metaforici,


narrativi) sono visti come modi di produzione della referenza e della verità
nelle scienze interessate ai significati. In questo modo, la semantica dell’in-
terpretazione assume rilievo epistemologico, in quanto è messa in tensione
col problema delle ontologie regionali dei saperi.
La struttura di base dei linguaggi interpretativi, che Ricoeur individua
analizzando il funzionamento della metafora, è l’innovazione semantica.
Nella Metafora viva,31 egli riprende le prospettive retoriche di I. A. Ri-
chards e M. Black, che intendono la metafora non come abbellimento, ma
come agente di ristrutturazione testuale del senso e della conoscenza. La
metafora non è un nome improprio, una sostituzione lessicale motivata
dalla somiglianza, ma è una predicazione impertinente; non è dunque un
fenomeno di parola, una denominazione deviante, ma un evento testuale e
discorsivo: è in altre parole l’incontro testuale di orizzonti di pensabilità
eterogenei che produce una nuova pertinenza concettuale. Così, ad esem-
pio, la tensione e l’incoerenza testuale tra i campi semantici dell’animato
e dell’inanimato in «Le ciel est mort» di Mallarmé sovradetermina il senso
del testo, e libera una referenza impensata. Attraverso la funzione imma-
ginativa, che sintetizza testualmente l’eterogeneo, la metafora proietta una
nuova comprensione del mondo, o, come dice Ricoeur, apre una “verità
metaforica”: la verità di un mondo riconfigurato. Ora, la struttura della
metafora offre le coordinate per comprendere quelli che abbiamo chiamato
in generale linguaggi interpretativi: linguaggi cioè la cui portata veritativa
non è nell’adeguazione mimetica al riferimento inteso come dato, ma nella
ridescrizione che rende pensabile il riferimento, offrendone una configura-
zione immaginativa. Sono sostanzialmente linguaggi finzionali e “poietici”
(dal greco poiesis: produzione, costruzione), produttivi di un riferimento
indiretto.
In Tempo e racconto,32 Ricoeur esplora la valenza epistemologica dei
linguaggi interpretativi analizzando la nozione di “racconto”. La qualità
interpretativa del racconto, ciò che ne fa un modello per le scienze umane,
è la poieticità, la produttività semantica, cioè la capacità di configurare
oggetti organizzandoli in una sintesi figurale – qualità interpretativa che
il racconto condivide con la metafora. Metafora e racconto dunque come
costruzioni testuali di senso e verità, cioè di quella trascendenza confi-
gurata che Ricoeur pensa come il mondo proiettato dall’opera, o mondo

31 P. Ricoeur, La metafora viva, 1975, trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano 1986.
32 P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, 1983, trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano
1986.
34 Nodi della verità

dell’opera: il mondo del riferimento, il mondo “trascendente” in quanto


“altro” dal linguaggio, è risultato della configurazione testuale del senso.
Da un punto di vista epistemologico, le categorie testuali di Ricoeur sono
categorie di una concezione poietica della forma, cioè della forma intesa
non come riproduzione di dati, ma come produzione di oggetti possibili.33
Mettendo in corrispondenza il lavoro testuale della sintesi narrativa con
quello dell’innovazione semantica metaforica, Ricoeur vede il racconto
come sede di un’attività immaginativa e schematizzante: l’intelligenza fi-
gurale all’opera nel racconto è comprensibile attraverso la nozione kan-
tiana di Einbildungskraft, immaginazione produttrice, facoltà che produce
non immagini concrete, ma le regole per la loro costruzione, o “schemi”.
Come gli schemi kantiani sono oggetti esemplari, che mostrano la propria
regola formale, e che permettono di assegnare immaginativamente oggetti
ai concetti, così il racconto è un’icona che fa vedere oggetti, dandone una
configurazione possibile in un “come se” testuale.
Nel primo volume di Tempo e racconto, Ricoeur delinea una teoria del-
la narratività come modello epistemologico della scrittura storica. Il para-
digma narrativo appare in primo luogo opposto al paradigma nomologico
della conoscenza storica come spiegazione. Dal punto di vista nomologico,
spiegare dei fenomeni è ricondurli alla struttura formale di una teoria, con-
siderandoli casi indifferenti di una legge. È questo un modello esplicativo
rigido, che pensa la conoscenza uniformemente, come rapporto tra teoria e
fatti, tra generale e particolare: in questa prospettiva, gli oggetti sono pen-
sati in dimensione estensionale, attraverso la loro appartenenza a una clas-
se. Ma la critica di Ricoeur non si limita a contrapporre un altro paradigma
metodologico, come in ultima analisi aveva fatto Windelband, opponendo
la metodologia del comprendere lo specifico dell’individuo alla metodolo-
gia dello spiegare il particolare attraverso le leggi.34 Ricoeur reimposta la
questione degli oggetti e della verità in una dimensione non rappresentati-
va e in una logica non estensionale: gli oggetti dell’interpretazione, come
ad esempio un fatto storico, non sono collocabili tra il particolare dell’e-
vento e l’universale della legge.35 Ciò che va ripensato è lo statuto noetico
e ontologico dell’evento individuale, e il suo legame interpretativo con la
forma: il che richiede l’elaborazione di un concetto intensionale di forma.

33 Forma come “oggettivazione”, in termini neokantiani. La curvatura “poietica” del


modello interpretativo di Ricoeur ha legami con il tema dell’immaginazione pro-
duttiva in Kant, come vedremo subito, e con la concezione cassireriana della crea-
tività della forma, intesa come funzione di selezione, di sintesi e di collegamento.
34 Cfr. S. Borutti, Filosofia delle scienze umane, cit., cap. 1, § 2.2.
35 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, cit., p. 173.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 35

Un evento è sempre già compreso entro relazioni temporali e rapporti di


senso: in storia non si incontrano “fatti” che abbiano lo statuto naturali-
stico delle “cose”, ma si incontrano documenti, testimonianze, resti. Un
documento non è un fatto in sé, ma un “effetto-segno”:36 ha cioè lo statuto
epistemologico di una traccia, di un rappresentante, che mette in relazione
il “non più” del passato con l’“ancora”, con la ripetizione del senso per
noi nel presente. Un fatto in storia, e in scienze umane in generale, è un
fatto già configurato in una relazione interpretativa. Occorre dunque una
nozione di forma che sveli questi rapporti di senso, e che li riconfiguri in
un ordine di spiegazione comprendente.
Quest’ordine è per Ricoeur realizzato esemplarmente nella forma del
racconto. La genealogia della nozione di racconto è stratificata: Ricoeur
riprende nella sua idea di racconto come costruzione testuale sia le poten-
zialità della nozione di fiction dell’orizzonte poetico-letterario, sia il tema
semiotico della cultura come matrice di testi, sia infine il paradigma “nar-
rativistico” in epistemologia della storia. Nella nozione di racconto è pre-
sente in primo luogo il tema del potere configurante della fiction: il mondo
non si dà come un’ontologia di dati presupposti, ma è la riconfigurazione
testuale del senso operata dal racconto che proietta un mondo di riferimen-
to.37 Nella forma-racconto è presente anche il tema semiotico della testua-
lizzazione cui è sottoposto il mondo degli uomini. Da un punto di vista di
semiotica della cultura, la processualità culturale è una matrice di testi che
organizzano il mondo in sistemi modellizzanti:38 il mondo degli uomini
è incomprensibile senza un processo di testualizzazione (miti, letteratura,
storia), senza la funzione schematizzante e modellizzante data dal “come
se” di un racconto. La nozione di racconto è infine ripresa da Ricoeur in
quanto categoria fondamentale del “narrativismo”, cioè di quella conce-
zione della conoscenza storica, che istituisce una correlazione fondamen-
tale tra il raccontare storie e il carattere temporale dell’esperienza umana.
Il racconto autobiografico o storico corrisponde all’esperienza umana del

36 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, III. Il tempo raccontato, 1985, trad. di G.


Grampa, Jaca Book, Milano 1988, p. 184.
37 Il modello di H. White della storia come “literary artifact” (cfr. Retorica e storia,
1973, trad. di P. Vitulano, 2 voll., Guida, Napoli 1978), criticabile per la sua radi-
calità, ha avuto tuttavia secondo Ricoeur il merito di mostrare come la redazione
del testo storico non sia procedura secondaria, ma «costitutiva del modo storico di
comprensione» (P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, cit., p. 242).
38 Ju. M. Lotman, B. A. Uspenskji, Tipologia della cultura, 1970, trad. a cura di R.
Faccani e M. Marzaduri, Bompiani, Milano 1975.
36 Nodi della verità

tempo: rifigura l’esperienza, che ha già in sé una struttura narrativa tempo-


ralizzante, costruendo rapporti di senso tra gli eventi.
Questa nozione di racconto è per Ricoeur alla base della spiegazione
storica. Nel dominio della storiografia, la narrazione ha evidentemente dei
vincoli metodologici: poiché un testo che va ad aggiungersi alla popola-
zione dei testi scientifici è sempre un “intertesto”, che giunge a un certo
livello di elaborazione degli strumenti metodologici, dialoga con altri testi
scientifici e con altre interpretazioni degli eventi, risponde a un orizzonte
di attese e ne decide la plausibilità, sceglie tecniche documentarie, adotta
teorie sociali e generalizzazioni psicologiche, ecc. Ma in ultima analisi è
la forma del racconto che offre per Ricoeur la spiegazione storica, e che
mostra nella testimonianza il valore di prova: la spiegazione in storia è una
forma di comprensione che dipende dalla costruzione dell’intreccio. Il rac-
conto produce comprensione attraverso ciò che Ricoeur chiama “intrigo”:39
la “messa in intrigo” è un lavoro di sintesi dell’eterogeneo, in cui eventi
episodici sono selezionati e costruiti in rapporti di causalità e di finalità.
L’intrigo proietta una nuova congruenza e una nuova connessione degli
accadimenti, ne schematizza un significato intelligibile: è funzione di sin-
tesi e di selezione degli eventi, è l’individuazione di un inizio e di un esito,
è l’offerta di un ordine, di una successione causale e di una teleologia.
Consideriamo quante Rivoluzioni francesi siano state pensate, attraverso
differenti modi di raccontarle.40
Il racconto è una categoria compositiva di testo: indica un’organizzazio-
ne, una stabilità strutturale locale della materia raccontata. Stabilità, tutta-
via, precisa Ricoeur, non nel senso delle analisi narratologiche, che danno
la logica profonda del racconto e quindi di tutti i racconti possibili. Per Ri-
coeur il racconto è sede di comprensione narrativa non in quanto “lingua”,
codice analizzabile formalmente in unità costituenti, ma in quanto “discor-
so”, come aggregazione locale, contestuale, sintagmatica, di significati.41

39 Il francese intrigue è assunto da Ricoeur come sinonimo dell’inglese plot, e come


traduzione di mythos, il racconto tragico della Poetica di Aristotele.
40 Cfr. F. Furet, Critica della Rivoluzione francese, 1978, trad. di S. Brilli Cattarini,
Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 10 e sgg.
41 Ricoeur si riferisce alla rilettura che E. Benveniste (I livelli dell’analisi linguisti-
ca, in Problemi di linguistica generale, 1966, trad. di M. V. Giuliani, Il Saggiato-
re, Milano 1971) fa dell’opposizione di Saussure tra langue e parole, distinguendo
il livello della lingua come sistema differenziale di segni (sistema semiotico), e
il livello della lingua in uso, enunciato, discorso, organismo di senso (sistema
semantico). A differenza del livello semiotico, il livello semantico non ammette
una spiegazione strutturale (analisi in unità costituenti), perché gli enunciati signi-
ficano nell’istanza del discorso, in quanto hanno un soggetto e una destinazione
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 37

Le analisi narratologiche (di Propp, Brémond, Greimas), sono grammati-


che formali, che cercano di dare uno schema logico (fabula), come struttu-
ra profonda per la produzione di tutti i racconti possibili, attraverso regole
combinatorie applicate a unità costituenti (funzioni, ruoli, attanti, mitemi).
Di contro, la qualità di forma del racconto per Ricoeur non è la “fabula”,
ma è il potere configurante della messa in intrigo: cioè l’esposizione degli
eventi nell’ordine compositivo, olistico, dato dal testo. Le componenti pa-
radigmatiche della “fabula” danno solo serie, e non sequenze di azioni; è
invece l’intelligenza narrativa dell’intrigo che trasforma la logica dei pos-
sibili della prassi (funzioni e azioni possibili) in una narrazione configu-
rante, in una sintesi dei possibili-probabili narrativi.42 Lo stesso contenuto
tematico può essere ordinato in più modi, secondo diverse configurazioni
testuali: come nelle concezioni olistiche del significato,43 il senso non è
riducibile a componenti fattuali date, ma dipende dalla costruzione testuale
complessiva, che conferisce significato e ordine agli elementi.
La nozione di racconto come intrigo deriva dall’aristotelico mythos, rac-
conto tragico.44 Commentando la Poetica di Aristotele, Ricoeur trova le
categorie di forma rilevanti per ripensare il tema della comprensione degli
eventi umani. In particolare, in Aristotele il valore di forma immanente
del mythos è collegato a un valore di trascendenza e di verità attraverso
la nozione di mimesis (imitazione). Secondo la definizione aristotelica, la
tragedia è imitazione di un’azione compiuta: imitazione da intendersi non
come copia (come sarà invece intesa negli esiti naturalistici delle estetiche
aristoteliche), ma come attività che crea discorsivamente, attraverso quella
deviazione che è l’intrigo, la coerenza dell’esperienza temporale. L’opera-
zione della mimesis va connessa al tema dell’arte poetica come forma di
poiesis, come un “fare” che è un produrre oggetti possibili, non riprodurre

dialogica, e si trascendono nel riferimento (cfr. P. Ricoeur, La sfida semiologica,


trad. a cura di M. Cristaldi, Armando, Roma 1974, pp. 211 sgg.). Per una discus-
sione critica della nozione di discorso, cfr. C. Segre, Discorso, in Enciclopedia,
vol. 4, Einaudi, Torino 1978.
42 Cfr. C. Segre, Narrazione/narratività, in Enciclopedia, vol. 9, Einaudi, Torino
1980.
43 Per la concezione olistica del significato di Quine non ci sono unità di significato
isolabili, definite e costanti (come i dati di senso per l’empirismo, o le rappresenta-
zioni mentali per il cognitivismo), ma ogni unità significante può essere compresa
solo in relazione all’insieme linguistico cui appartiene: cfr. W. V. O. Quine, Due
dogmi dell’empirismo, in Il problema del significato, 1961, trad. di E. Mistretta,
Ubaldini, Roma 1966; Parola e oggetto, 1960, trad. it. a cura di F. Mondadori, Il
Saggiatore, Milano 1970.
44 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, I, cit., pp. 57-89.
38 Nodi della verità

oggetti necessari dati.45 In questo senso, la poiesis tragica imita non la na-
tura, ma il “fare” della natura: ha il carattere di una noesi pratica, di cui
l’azione riconfigurata è il correlato noematico.
Il tema dell’intrigo come attività configurante, come ri-descrizione che
fa vedere la forma e l’oggetto insieme («come se, per esempio, [davanti a
un ritratto, uno esclamasse]: Sì, è proprio lui!»),46 ci conduce a due punti
tra loro connessi: la questione della trascendenza e della verità, e la que-
stione dello statuto epistemologico dell’interpretazione. Ricoeur interpre-
ta la trascendenza come effetto della ridescrizione narrativa, che opera la
proiezione testuale di un riferimento – quasi un passaggio da un “vedere
come” a un “essere come”, come egli dice. Questa prospettiva va connessa
al tema dell’ontologia della comprensione e del circolo ermeneutico, cioè
del doppio legame interpretativo tra conoscenza e ontologia: conosciamo
a partire dall’essere che siamo; e ci costituiamo come soggetti e ci auto-
comprendiamo attraverso il rapporto con l’altro e attraverso un insieme
di détours nei mondi creati dai testi. Il circolo ermeneutica-ontologia è
ripensato in Ricoeur attraverso il tema del mondo del testo. Ciò che si in-
terpreta e si dispiega in un testo è una proposta di mondo, un mondo tale
da essere abitato in modo che vi siano progettati i sensi possibili più propri
alla situazione.
La nozione di “mondo del testo” merita qualche chiarimento. Abbiamo
parlato prima della funzione epistemologica del racconto, di come il rac-
conto produca comprensione nel campo degli eventi storici. Il mondo del
testo è la nozione che connette comprensione, verità e ontologia. Ricoeur
analizza il racconto in tre livelli di mimesis, tre livelli di imitazione dell’es-
sere. In quanto configurazione degli eventi, l’attività narrativa è non rical-
co, ma imitazione creatrice, deformazione regolata, invenzione di “come
se”: è in altre parole riconfigurazione di situazioni specifiche, referenziali,
ostensive (le situazioni dell’esperienza), nella forma di un mondo. Questo è
il livello della mimesis II, cioè il livello della proiezione testuale di un mon-
do attraverso l’invenzione compositiva di modi di essere: una variazione
immaginativa che recupera il reale non «sotto la modalità dell’essere-dato,
ma sotto la modalità del poter-essere».47 La mimesis II presuppone il livel-
lo ontologico della precomprensione del mondo dell’azione, o mimesis I. Il
mondo dell’azione è già mediato simbolicamente, è da sempre precompre-

45 Sulla poiesis come produzione di oggetti possibili, cfr. Aristotele, Etica nicoma-
chea, trad. di A. Plebe, in Opere, vol. 7, Laterza, Roma-Bari 1983, L. VI, capp.
3-4.
46 Aristotele, Poetica, trad. di M. Valgimigli, in Opere, cit., vol. 10, 1448 b 15-18.
47 Cfr. P. Ricoeur, Dal testo all’azione, cit., p. 110.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 39

so narrativamente, perché la prassi quotidiana dell’esserci non è immessa


in un flusso temporale lineare, seriale e indifferente, come in un conteni-
tore, ma è un prendersi cura intratemporale, che ritiene il passato, anticipa
il futuro, si apre al presente articolandolo. L’implicita categorizzazione del
campo pratico, l’“etica” implicita che è l’adesione precomprendente a un
orizzonte esperienziale (mimesis I), è ciò che è trasposto metaforicamente
in mimesis II, nel racconto storico, che trasforma un ambiente di azioni
in un mondo coerente. Infine, la comprensione si articola circolarmente
con l’ontologia anche a livello di mimesis III, cioè della lettura e della
ricezione, in cui i soggetti individuali e collettivi si auto-comprendono e
ri-figurano la propria esperienza, appropriandosi del testo e incorporando
il potere di configurazione del racconto storico nella comprensione della
propria realtà sociale. Così, ad esempio, la Francia dell’Ottocento diventa
una società civile e statuale non semplicemente attraverso una rivoluzione,
ma attraverso la rivoluzione raccontata e interpretata dagli storici: in altre
parole, incorporando testi nella propria autocomprensione. Precompren-
sione dell’azione, proiezione di un mondo dell’opera, lettura e ricezione
autocomprendente sono tre livelli di intreccio circolare tra ermeneutica (o
possibilità di forma) e verità (costituzione ontologica) data l’impossibilità
di una verità del mondo pensata come descrizione diretta di oggetti intesi
come enti. Da un punto di vista interpretativo, non è possibile una verità
che descriva dei fatti e degli oggetti come delle esistenze. La verità è la sua
esegesi indiretta, mimetica; non si dà verità senza traduzione, senza forma,
senza mediazione linguistica, senza un dio Hermes che distribuisca gli in-
dividui entro lo spazio linguistico.
Nella nozione di racconto si incontrano dunque la questione ontologi-
ca della verità e la questione epistemologica dello statuto dell’interpre-
tazione. Interpretazione e ontologia sono connesse in un lavoro figurale
e narrativo, che rivela indirettamente (immaginativamente) un mondo di
referenza, e apre così a una trascendenza. Ciò significa che interpretare
per Ricoeur non è, romanticamente e psicologicamente, ri-vivere, cercare
l’intenzione originaria nascosta nel testo, svelare e ripetere l’atto creativo
originario, ma considerare la capacità rivelante del testo, ciò che il testo
mostra nel proprio “altro” che è il mondo: «Il “mondo” non finisce di rico-
stituirsi come l’“altro” rispetto alle forme che lo dicono e che [...] nel dirlo
lo “accrescono”».48 Metafora, testo e racconto sono categorie dinamiche,
non formaliste, di forma: la forma come continua riapertura del rapporto
con la trascendenza, e continua riproposizione del problema della verità.

48 P. Montani, Estetica ed ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 151.


40 Nodi della verità

Ora, il modello interpretativo di Ricoeur, che pensa la verità come ve-


rità del testo, o come rifigurazione immaginativa della trascendenza, ha
il merito di sottrarre il problema dell’oggetto al modello formalistico del
dato in tensione con la legge, e di porsi nello stesso tempo il problema
della configurazione formale che rende pensabili quegli oggetti speciali
che sono gli individui, gli eventi, i significati. A quest’ultimo problema,
risponde con le nozioni di traccia e di testo, richiamandosi cioè a forme di
inferenza immaginativa o abduttiva, e alla coappartenenza tra oggetti e in-
siemi compositivi. Recentemente, Ricoeur si è posto in modo più esplicito
anche il problema dell’oggettività della ricostruzione della traccia in storia,
cioè del criterio di scelta tra ricostruzioni testuali, e ha sottolineato che, dal
punto di vista del patto di verità che lo storico istituisce con i lettori e con
la sua comunità, la traccia è anche testimonianza che chiede di essere letta
in rapporto a una pluralità di testimonianze.49
Siamo così giunti al problema fondamentale dell’oggettività in scien-
ze umane: un problema che le prospettive interpretative non possono non
porsi, e che deve a mio parere essere riformulato come problema delle
procedure di oggettivazione in atto nei singoli saperi.50 In scienze umane
possiamo parlare sia di oggettività che di comprensione: ma dobbiamo in-
tendere l’oggettività come lavoro in un contesto teorico-pratico, e come
costruzione di criteri di riconoscimento di oggetti e di relazioni pertinenti,
e non come riproduzione speculare e trasferimento sempre più adegua-
to di segmenti di realtà nelle nostre teorie; e dobbiamo intendere la com-
prensione non come intuizione del senso, ma come una specifica forma di
oggettivazione, poiché in scienze umane non si spiega senza interpretare,
cioè senza costruire un particolare contesto (che è anche un processo) di
relazione linguistico-temporale con l’oggetto. Esemplari dal punto di vista
della problema della verità e dell’oggettività nelle scienze umane sia le
trasformazioni che il modello interpretativo ha introdotto in antropologia,
sia i limiti che questo modello ha mostrato, e le critiche e le trasformazioni
che ha a sua volta subito.

49 Cfr. P. Ricoeur, La marque du passé, “Revue de Métaphysique et de morale”,


1, 1998, pp. 7-31. Ricoeur distingue la nozione di traccia, vista come “luogote-
nenza” e considerata in rapporto con altre testimonianze, dal tema aristotelico e
bergsoniano della memoria come impronta, che trattiene il tema della traccia entro
il rapporto di somiglianza con l’evento originale. Che oggettività e “effetto di
verità” non possano essere disgiunti dalla questione della “prova” è un tema fon-
damentale negli scritti di Carlo Ginzburg: cfr. Rapporti di forza. Storia, retorica,
prova, Feltrinelli, Milano 2001.
50 È quanto argomento in Filosofia delle scienze umane, cit., capp. 1 e 2.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 41

3. Possibilità e limiti dell’interpretazione: il caso dell’antropologia

Nell’antropologia della seconda metà del Novecento, l’“interpretativi-


smo”, inaugurato da Clifford Geertz, mette al centro della sua proposta epi-
stemologica e metodologica il progetto di un sapere non reificante, capace
di assumere l’altro come un insieme di significati con cui entrare in re-
lazione. L’approccio interpretativo è sostanzialmente antipositivista: mira
a denaturalizzare gli oggetti del sapere antropologico, a mostrare che i
fatti culturali non sono pensabili come “cose”, ma sono strutture di senso,
che entrano in rapporto con altre strutture di senso. Possiamo raccogliere
le caratteristiche epistemologiche di questo approccio intorno a tre punti
qualificanti.
In primo luogo, il punto di vista interpretativo esclude un’immagine
reificata degli oggetti di conoscenza: gli oggetti antropologici non sono
riducibili a “cose” separate dai modi secondo cui li conosciamo. Poiché si
tratta di entrare in relazione con significati e strutture soggettive e sociali
di senso, le condizioni dell’osservazione e della concettualizzazione sono
in questo dominio peculiari. La relazione conoscitiva comporta prossimità
e coimplicazione, anziché distanza metodologica e metalinguistica: non
si può, in altri termini, parlare di oggetti che sono istituzioni e significati
prodotti da individui, senza interagire con essi in un processo di parola,
e senza far interagire diversi orizzonti di appartenenza storica e sociocul-
turale, diverse forme di vita. La scena della conoscenza ha la forma di
uno scambio dialogico, e dunque avviene nel linguaggio e nel tempo: si
instaura in questo modo una relazione comprendente, che l’interpretati-
vismo contrappone alla metodologia della spiegazione. “Spiegare”, nelle
scienze naturali, è ricondurre fenomeni alla struttura formale di una teoria,
e quindi considerare i fenomeni come eventi che sono casi anonimi di una
legge universale. Un oggetto non è in questo senso un oggetto specifico,
individuale, ma è il caso di una legge: ha proprietà che sono descritte da
una legge, e che condivide con gli oggetti che appartengono alla stessa
classe. L’interpretativismo pone di contro il problema della specificità de-
gli oggetti, considerati come strutture di significato. Ma cosa significa dire
che compito delle scienze umane è comprendere dei significati? L’erme-
neutica contemporanea ha preso le distanze dall’idea romantica e storicista
di individuo come unità psicologica irripetibile, e quindi dalle metodolo-
gie (diltheyane) del comprendere inteso come un ri-vivere (nach-erleben)
empatico. Il problema degli oggetti delle scienze dell’uomo viene visto
piuttosto come il problema della specificità differenziale dei significati, e
le metodologie conoscitive cercano di trasformarsi nella direzione di un
42 Nodi della verità

comprendere che conservi la dimensione della differenza dell’altro. Un an-


tropologo non deve diventare empaticamente l’altro: se diventa un nativo,
il suo comprendere è diventato partecipazione immediata e irriflessa a un
“essere”. Il suo viaggio è senza ritorno “comprendente”, poiché egli ha
smarrito lo scarto e la differenza ontologica tra la propria forma di vita e
quella dell’altro; ha smarrito la distanza come quel luogo di transazione e
di perturbazione reciproca, che è la condizione (contrastiva) della rappre-
sentazione dell’altro.
In secondo luogo, in situazione interpretativa il soggetto conoscente non
è un soggetto neutro, senza tempo e senza luogo, che abbia a disposizione
attrezzi metodologici costruiti in un linguaggio ideale: di contro, egli co-
nosce a partire dal proprio essere storico e dalla propria appartenenza a una
tradizione e a una comunità. Il comprendere è una struttura di precompren-
sione, un’anticipazione di senso mediata da uno sfondo di schemi, modelli,
orizzonti interpretativi, che selezionano e orientano il modo di vedere. Il
soggetto del sapere antropologico è in questo senso una figura dell’appar-
tenenza a un orizzonte di vincoli concettuali e strumentali: gli strumenti
del suo comprendere non sono metodi neutri e universalmente applicabili,
ma sono il suo “sfondo”; sono segni, tracce, strutture linguistiche cariche
dei significati derivati da una tradizione e da un intertesto di discorsi e di
concettualizzazioni.
Il terzo tratto che distingue gli approcci interpretativi riguarda il modo
configurante della conoscenza: l’atto conoscitivo è inteso non come un’in-
ferenza logica in senso stretto (di tipo induttivo o deduttivo), ma come
riconfigurazione di un campo problematico di dati in una sintesi di senso. È
ciò che Ricoeur chiama “ridescrizione poietica”, valorizzando il carattere
costruttivo e configurante della conoscenza come reinvenzione del mon-
do, di per sé informe, dei dati, attraverso il supporto iconico di metafore
e modelli interpretativi (come ad esempio i modelli del “racconto”, del
“testo”, del “dialogo”). Questo è il procedimento comprendente che Witt-
genstein chiama “vedere come”, e Peirce “invenzione abduttiva di ipotesi”:
non un’induzione a partire da una collezione di dati particolari, né una
deduzione a partire dal generale della legge, ma piuttosto la capacità di far
emergere una configurazione significante negli eventi attraverso la media-
zione di metafore e modelli.
Ora, l’approccio interpretativo è importante, ma limitato: ha insegnato
un’etica della conoscenza dell’altro, sostanzialmente un’etica del compren-
dere, ma, limitando il comprendere a eventi essenzialmente verbali (dialo-
go, scambio linguistico, trascrizione testuale), ha trascurato le condizioni
teorico-pratiche dell’esperienza dell’altro. Ha trascurato in altre parole il
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 43

fatto che l’esperienza che l’antropologo fa dell’altro sul campo non è pura
comprensione linguistico-verbale, ma è anzi una vera e propria vicenda
emotiva, passionale, che decostruisce un’idea intellettuale e idealistica del
comprendere, e mostra che il comprendere è connesso all’esperienza del
limite e dell’intraducibile. Applicato in antropologia, il modello interpre-
tativo ha richiesto di essere ampliato al di là del concetto di mediazione
linguistica e soggettiva: l’interpretazione in antropologia è una condizione
teorica e pratica complessa, legata alle specifiche dinamiche del luogo di
incontro (campo) e ai limiti della mediazione linguistica (traduzione).
Esemplare delle virtù e dei limiti dell’interpretativismo è l’approccio te-
stualista di Clifford Geertz. Per Geertz, i fatti etnografici (azioni, miti, isti-
tuzioni, rituali) devono essere trattati come altrettanti manoscritti lacunosi
e ellittici, da decifrare e da ricostruire, al fine di ricavarne modi d’essere e
mondi di significati.51 La conoscenza in antropologia è in questo senso una
costruzione che mostra il testo, cioè una costruzione discorsiva coerente, in
un insieme di comportamenti sociali.52 Un testualismo di questo tipo, che
congela l’altro in sistemi di significati statici e conchiusi, trascura di fatto
i problemi posti dai modi relazionali, processuali, contestuali e affettivi
della conoscenza in antropologia, e la complessità dei livelli e delle forme
con cui l’antropologo mette in forma i propri oggetti. Ha dunque un difetto
logocentrico: il difetto di sopravvalutare epistemologicamente e ontologi-
camente il linguaggio verbale come luogo esclusivo della comprensione;
e un difetto idealizzante: il difetto di fondarsi su un ottimismo conosciti-
vo e ermeneutico che trascura l’opacità dell’altro soggetto come se l’altro
soggetto fosse solo linguaggio e grafismo, e come se il linguaggio fosse il
luogo ideale di una comprensione senza resto. In questo modo, il model-
lo interpretativo si rivela un’idealizzazione e un’astrazione, poiché finisce
per trascurare le dimensioni non verbali del senso come senso incarnato
(comportamento, azione, sguardo, affetto): finisce per trascurare la radice
passionale della comprensione, che si rivela nelle effettive pratiche della
comprensione e della comunicazione che avvengono sul campo.

51 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, 1973, trad. it di E. Bona, Il Mulino,


Bologna 1987; Id., Antropologia interpretativa, 1983, trad. it di L. Leonini, Il
Mulino, Bologna 1988.
52 «“Traduzione” qui non significa semplicemente il rimaneggiamento con le nostre
parole di come altri esprimono le cose [...] ma il mettere in luce [displaying] la
loro logica con le nostre parole, una concezione che ci porta nuovamente molto
più vicini a quello che fa un critico per illustrare una poesia che non a quello che
fa un astronomo per descriverci una stella» (C. Geertz, Antropologia interpretati-
va, cit., p. 14: trad. modificata).
44 Nodi della verità

Ora, di fatto l’esperienza che l’antropologo fa sul campo appare come


una vera e propria decostruzione emotiva dei propri presupposti e del
proprio atteggiamento cognitivo: l’antropologo sul campo scopre le radi-
ci emotive e affettive degli aspetti intellettuali del suo sapere; e questa
esperienza investe il suo lavoro di traduzione e di trascrizione scritturale
dell’altro. Il “campo”, cioè il soggiorno dell’antropologo presso l’altro, è
la base empirica del suo lavoro, in quanto è il luogo della raccolta dei
dati. Ora, il campo non è affatto un luogo naturale, che esista come realtà
indipendente dal lavoro dell’antropologo, e non è neppure un luogo neutro
di osservazione, ma è un’esperienza che va costruita artificialmente nella
sua possibilità e nelle sue condizioni. È dunque un’esperienza vincolata,
un vero e proprio “esperimento”; ma, a differenza degli esperimenti delle
scienze naturali, si svolge come un processo temporale non ripetibile. Il
primo compito dell’antropologo è proprio l’istituzione e la legittimazione
del “campo” come spazio-tempo della ricerca: il campo è la costruzione di
un contesto pragmatico e vitale di scambio comunicativo, in cui eventi di
parola accadono in un contesto emotivo di grande rilievo. L’antropologo sa
molto bene oggi di dover inserire nelle proprie costruzioni teoriche anche
se stesso come parte delle procedure di osservazione; sa di dover inserire
cioè l’esperienza pragmatica e comunicativa attraverso cui cerca una legit-
timazione della propria presenza sul terreno. Egli deve giungere a formarsi
un ambiente comunicativo e conoscitivo, affettivo e insieme intellettuale,
e ciò avviene attraverso malintesi, compromessi, negoziazioni, rituali inte-
rattivi (come l’osservazione dell’osservatore).53
Il campo è in questo senso un orizzonte pragmatico e affettivo, dove
la comprensione dell’antropologo non muove da un dialogo trasparente,
ma dai malintesi e dall’opacità che investono necessariamente il rapporto:
l’osservazione sul terreno non è contemplazione passiva, ma alterazione
del sé ad opera dell’altro. Sul campo, raccontano gli antropologi, l’opacità
e gli effetti di distorsione entro la relazione sono condizioni del conoscere.
Di fatto l’antropologo è spesso costretto a riconsiderare la propria precom-
prensione e i propri modelli: ad esempio, Mondher Kilani deve riconside-
rare la propria concezione di “documento” e di produzione di documenti
storici per studiare l’immagine che la società dell’oasi di El Ksar (Tunisia
del Sud) ha della propria storia.54 L’antropologo cerca invano di prendere

53 Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Later-


za, Roma-Bari 1999, cap. II.
54 Cfr. M. Kilani, La construction de la mémoire. Le lignage et la sainteté dans
l’oasis d’El Ksar, Labor et fides, Genève 1992, cap. 1.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 45

visione dei documenti citati dai locali in appoggio delle loro ricostruzioni
genealogiche, per confrontarli con i racconti e correggere le incongruenze:
l’accesso a ciò che egli pensa come “documenti” (con una categoria evi-
dentemente occidentale, positivistica e oggettivistica) gli è negato. L’an-
tropologo si trova in una impasse finché persiste ad assimilare le forme
della memoria locale alla forma del sapere storiografico occidentale, fin-
ché non si rende conto che nelle controversie sull’identità tra i gruppi del
villaggio sono in atto diverse forme di costruzione retorica della memoria
e dell’oblio. Le cose cambiano quando si rende conto di essere citato lui
stesso, con il suo interesse per le ricostruzioni di genealogie e cronologie,
nelle controversie sull’identità tra i gruppi del villaggio: di essere in altre
parole diventato lui stesso produttore e trasmettitore del corpus della me-
moria genealogica, quasi un analogo della traccia scritta, in una differente
costruzione retorica della memoria e dell’oblio. Questa ed altre esperienze
raccontate dagli antropologi mostrano che la costruzione interpretativa co-
mincia sul campo ed è coniugata col processo temporale e fallibilista che vi
avviene. L’incontro sul campo è spesso occasione di crisi e di sospensione
della propria precomprensione.55 Gli antropologi sono costretti a riformu-
lare e rinegoziare il loro programma di ricerca a partire dalle passioni che
rendono dinamico l’incontro sul campo, e in rapporto con le distorsioni e
opacità che vi si producono: modelli e programmi di ricerca sono messi
alla prova “falsificante” dell’interazione.56 In questo senso il campo, con le
sue caratteristiche di esperienza vincolata, costituisce la condizione prag-
matica della comprensione.
Ora, il testualismo, troppo concentrato sulla metafora letteraria dell’in-
venzione del testo dell’altro, rischia di fatto di trascurare il luogo e il tem-
po in cui avviene l’interpretazione, e di appiattire il processo affettivo e
temporale del comprendere sull’operazione della scrittura. I modelli er-

55 Una vicenda di riorientamento accade anche a Jeanne Favret-Saada: all’inizio


della sua inchiesta sulla stregoneria nella Francia normanda, l’antropologa non
ottiene alcuna informazione distribuendo questionari sulla magia, finché non si
rende conto che, per essere accettata e per poter fare indagini, deve accettare di di-
ventare lei stessa soggetto e oggetto di pratiche di magia, in un processo dialogico
che è una vera e propria messa in crisi della propria identità (cfr. J. Favret-Saada,
Les mots, la mort, les sorts: la sorcellerie dans le Bocage, Gallimard, Paris 1977).
Sul dialogo come messa a rischio del sé, cfr. M. Ruggenini, Il tempo del discorso.
Possibilità e impossibilità della comunicazione, in M. Ruggenini e G.L.Paltrinieri
(a cura di), La comunicazione. Ciò che si dice e ciò che non si lascia dire, Donzel-
li, Roma 2003, pp. 3-23.
56 Su questi temi, cfr. U. Fabietti (a cura di), Etnografia e culture. Antropologi, infor-
matori e politiche dell’identità, Carocci, Roma 1998.
46 Nodi della verità

meneutici del testo e della fusione di orizzonti sopravvalutano in fondo le


possibilità che l’interprete ha di comprendere e di ricostruire scientifica-
mente ciò di cui ha fatto esperienza sul campo, come se il testo dell’altro
fosse qualcosa che può sempre essere scritto, alla fine di un processo senza
intoppi in cui il vedere-osservare diventa direttamente una ricomposizione
comprensiva dell’altro in un insieme di significati, mediati unicamente dal
proprio insieme di significati. In questo modo, il testo culturale è idealizza-
to, reso omogeneo al problema interpretativo posto da testi verbali e scritti,
ridotto cioè a problema di senso e di rappresentanza – come se l’altro fosse
solo linguaggio e grafismo, e non anche affetto, opacità, passione, distanza
incolmabile, corpo vivente inconoscibile nell’informe della sua sofferenza,
delle sue emozioni, del suo desiderio, della sua felicità.
Se non si tiene conto delle condizioni pragmatiche dell’osservazione
sul campo, si finisce per assumere un modello contemplativo dell’osser-
vazione. La stessa prospettiva interpretativa sembra in questo senso, e pa-
radossalmente, mantenere e confermare un modello empiristico-passivo
dell’osservazione: conoscere è visione e ricomposizione della visione in
un racconto (testo, narrazione, mito) che rende comprensibile l’esperienza
come se ci fosse una transizione lineare e pacifica dall’ordine del visibile
all’ordine della rappresentazione mentale e ideale, dal vedere al dire. Man-
ca allora, in questa prospettiva, il concetto fenomenologico di “sguardo”.
In antropologia, come in ogni scienza umana, ciò che si vede non è uno
spettacolo, che basti riorganizzare, ma è un vissuto, un’esperienza: in altre
parole, non è qualcosa che si presenti in uno spazio figurativo piatto, ma
qualcosa che emerge piuttosto in un contesto pragmatico e vivente, dove
si incontrano fenomeni intensivi, qualitativi e temporali. Nell’incontro con
l’altro, non si può passare direttamente dalla visione alla rappresentazio-
ne verbale, poiché il tempo dello sguardo non è quello della cosa vista.
“Vedere” non è né osservazione neutra, guidata da tassonomie già pronte,
né immedesimazione empatica. Il vedere diventa, nell’incontro antropolo-
gico, sguardo che si incontra con un altro sguardo e ne è modificato: non
c’è simmetria tra vedere e essere visto; l’esser visto cambia il vedere; lo
sguardo è uno scambio di sguardi: è vedere e essere visti.57 L’attenzione
alla complessità fenomenologica dello sguardo sull’alterità – che è insieme
un vedere intenzionale e disorientato, un vedere che tiene a distanza mentre
avvicina – è fondamentale per non appiattire la rappresentazione antropo-
logica sull’interpretazione-svelamento del senso nascosto di un testo. Tra

57 Cfr. F. Affergan, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’an-
tropologia, 1987, trad. di E. Turbiani, Mursia, Milano 1991, cap. II.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 47

visibile e rappresentazione c’è una mediazione interpretativa più comples-


sa di ciò che mostra il modello del testo, che finisce per ripetere il pregiudi-
zio del fenomenico come rappresentazione, presenza alla coscienza, e per
presupporre che sia garantito il dominio a livello razionale e cosciente di
un materiale che arriva in ultima analisi ad assumere lo statuto della parola:
ciò che viene dimenticato è il fenomenico come affetto, autoaffezione della
soggettività – cioè quell’orizzonte di opacità in cui si inscrive, e di cui vive,
il rapporto con l’altro. Ora, il problema di questo orizzonte di silenzio e
della sue radici emotive è il problema stesso della traduzione in antropolo-
gia, o, meglio, dell’antropologia come traduzione.
La condizione della conoscenza nelle scienze dell’uomo ha a che fare
con la non-trasparenza dell’oggetto: l’oggetto da pensare e da comprende-
re, l’altro, non si lascia dire in quanto presenza tematica, data all’osserva-
zione, ma si dà in uno scacco, in una resistenza, in un silenzio, in tracce non
intellettuali, ma vitali; si dà dunque in un orizzonte etico-ontologico, prima
che cognitivo. In antropologia, in particolare, il problema dell’irrappresen-
tabile si pone letteralmente, e dall’inizio, come problema dell’intraducibile.
Ora, l’“intraducibile” è il problema ontologico ed etico dell’antropologia:
un problema che non significa banalmente lo scacco nel passaggio da un
codice linguistico a un altro, l’impossibilità di restituire un termine o un
messaggio equivalente in un’altra lingua; significa piuttosto che un rappor-
to ontologico asimmetrico è la base della produzione della conoscenza an-
tropologica, e che questo rapporto fa in modo che la conoscenza sia segnata
dal presupposto del limite della messa in discorso dell’altro. Tutte le pro-
cedure conoscitive dell’antropologo si costruiscono sulla non-trasparenza
dell’oggetto: ciò che possiamo chiamare l’intraducibile ontologico.
Esemplare il lavoro di sutura dell’informe che l’antropologo opera già al
livello iniziale delle descrizioni: gli abbozzi di descrizione etnografica che
si trovano nei primi taccuini dell’antropologo sul campo mostrano di essere
già delle vere costruzioni interpretative, risultato dell’interazione discorsi-
va sul terreno. Non si dà un grado zero della rappresentazione descrittiva,
una riproduzione neutra dei dati: i documenti grafici eterogenei (appunti,
trascrizioni e registrazioni di dialoghi, tentativi di traduzione, carte, schiz-
zi, commenti) in cui l’antropologo traspone l’incontro sul campo sono già
delle intuizioni e delle costruzioni interpretative. La lingua di descrizione
adoperata dall’antropologo (lungi dall’essere una nomenclatura che etichet-
ti un mondo già scomposto in referenti discreti) è di per sé schematizzante,
poiché si trova a dover inscrivere degli eventi nello spazio del testo, a rein-
ventare delle interazioni per immetterle nell’ordine lineare e delimitato del-
la scrittura. L’antropologo descrive a partire dai vincoli e dalle possibilità
48 Nodi della verità

offerti dal corpo dinamico e flessibile della sua lingua naturale, e a partire
dalla progettualità regolata offerta dalla lingua scientifica comunitaria a cui
appartiene: egli mette in atto una competenza linguistica (grammaticale e
lessicale), e una competenza enciclopedica del mondo, arricchita dalla pre-
comprensione scientifica; in questo modo, egli re-inscrive in un modello
referenti già scomposti e classificati ad altri livelli di tassonomia e di orga-
nizzazione.58 (Del resto l’etimologia di “descrivere” è “scrivere estraendo
(da un modello)”).59 La descrizione coincide in fondo con un’operazione
complessa di traduzione, che non è unicamente linguistica (grammatica-
le, lessicale), né unicamente rappresentativa di referenti dati (semantica).
In altri termini, si tratta di un’operazione che non è semplicemente il tra-
sferimento di un testo originale in un altro corpo significante, a partire da
classi di equivalenze lessicali o sintagmatiche: è piuttosto una produzione
dialogica, polifonica, del testo – un processo che ricostruisce significati
integrandoli in contesti di aggregazione del senso.60 La traduzione (come ha
mostrato Quine)61 non è confronto di unità di significato, ma ricostruzione
degli schemi percettivi, concettuali e culturali in cui un termine diventa
comprensibile. Tradurre è ricostruire e integrare al fine di configurare.
In questo senso, ciò che l’antropologo opera inizialmente non è tanto
una semplice rappresentazione, quanto già una configurazione oggettivan-
te, una messa in forma degli eventi dialogici e contestuali dell’incontro
in un “mondo” dotato di una forma coerente, e quindi una simulazione
dell’insieme dei significati e delle azioni dell’altro. Il che comporta del-
le trasformazioni, dei residui, dei compromessi legati necessariamente, da
una parte, all’opacità dell’altro, e dall’altra alla volontà dell’antropologo
di sapere il senso, cioè di catturare il discorso vivente di una cultura in
un’enciclopedia di significati e di definizioni. Il compromesso non è da

58 Cfr. M.-J. Borel, Il discorso descrittivo, i saperi e i segni, in J.-M. Adam, M.-J.
Borel, C. Calame, M. Kilani, Il discorso antropologico. Descrizione, narrazione,
sapere, 1995, trad. it. a cura di G. D’Agostino, Sellerio, Palermo 2002, pp. 49-96;
cfr. anche P. Hamon, Du descriptif, Hachette, Paris 1993.
59 G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze 1968, p.
122.
60 «La traduzione non consiste mai nel sostituire una parola a un’altra, ma sempre
nel tradurre globalmente delle situazioni [...] Tradurre consiste nel definire un
termine grazie a un’analisi etnografica, vale a dire nel ricollocarlo nella sua si-
tuazione culturale, nell’integrarlo nella classe di espressioni della stessa famiglia,
nell’opporlo ai suoi antonimi, nel farne un’analisi grammaticale, e soprattutto
nell’illustrarlo con un gran numero di esempi ben scelti.» (B. Malinowski, Coral
Gardens, 1935, trad. fr., Maspero, Paris 1974, p. 246 e p. 252).
61 W. V. O. Quine, Parola e oggetto, cit., cap. II.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 49

intendere tuttavia come scacco e fallimento: è piuttosto il segnale della


distanza e dell’asimmetria che è la condizione necessaria della conoscen-
za antropologica; è la marca del doppio legame, sotteso a ogni attività di
traduzione, tra la partecipazione ad atti vitali (nell’interazione sul campo)
e l’assunzione necessaria di una distanza oggettivante (nella scrittura del
testo etnografico), tra il senso incarnato e esperito, da una parte, e la sua
forma oggettivata, dall’altra, tra l’altro e noi stessi. La distanza ontologica
traduttiva è il luogo della comprensione e dell’interpretazione. Tradurre è
dunque esemplare del comprendere antropologico, proprio perché il tra-
durre comporta il mantenimento della distanza: in altre parole, compren-
dere l’altro non è il trasferimento vitale nel suo mondo, il diventare l’altro;
è piuttosto tra-durre, über-setzen, portare al di sopra e al di là,62 e tornare
presso di sé dopo essere stato presso l’altro. La comprensione antropologi-
ca, come l’apprendimento di una lingua, richiede certamente l’immersione
in una forma di vita, un addestramento che sia insieme linguistico e sociale,
e che metta l’antropologo nella condizione di poter partecipare a giochi
linguistici regolati. Ma, così come una traduzione è il trasferimento nel
proprio corpo linguistico dei significati dell’altro testo, allo stesso modo la
comprensione antropologica è un apprendimento finalizzato a dire l’altro
nella nostra lingua, non a diventare l’altro: è una pratica della differenza,
non dell’identità. Un antropologo che non sia tornato dal viaggio, un an-
tropologo che non racconti alla sua tribù ciò che ha vissuto, non è più un
antropologo, ma qualcuno che è diventato un nativo: perciò la conoscenza
deve essere per gli antropologi, metaforicamente e realmente, un viaggio
di andata e ritorno. L’assunzione del punto di vista dei nativi deve cioè ri-
manere uno sforzo cosciente e riflesso di simulazione e di traduzione – un
processo di “simulazione ontologica”, non di identificazione.
Di fatto, nel dialogo con l’informatore, l’antropologo è presente come
alterità, e comprende attraverso la distanza: in altre parole, egli confron-
ta l’orizzonte dei significati e delle forme di azione inscritti nella lingua
dei nativi con la propria precomprensione (cioè con l’orizzonte di senso
inscritto nella propria lingua), e con le idee ricevute che costituiscono il
suo sapere scientifico (sapere su genealogie, terminologie di parentela, or-
ganizzazione del territorio, forme di proprietà, ecc.). La descrizione che ne
deriva è un compromesso conoscitivo istituito su una mancanza di comple-
tezza e di trasparenza, legata all’intraducibile ontologico. Possiamo pensa-

62 Ricordiamo il tema romantico del potenziare la propria lingua attraverso la lingua


dell’altro: cfr. S. Borutti, Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle
scienze umane, cit., p. 107.
50 Nodi della verità

re l’intraducibile nel senso kantiano e wittgensteiniano del “limite” (Gren-


ze): limite non come barriera che separa da una regione inconoscibile, ma
come sfondo che delimita un orizzonte di pensabilità, aprendo dall’interno
uno spazio di esperienza possibile. Senza questo limite, senza lo sfondo
(Hintergrund, nei termini del Della certezza di Wittgenstein) che ci chiude
nella nostra cultura, non avremmo punti di vista e di comparazione possi-
bili, non avremmo l’esperienza dell’alterità. Comprendere non è diventare
l’altro, ma simulare l’altro a partire da sé.
Confrontandosi con l’intraducibile, la traduzione è esemplare del corto-
circuito tra l’appropriazione possibile, e i “limiti” dell’appropriazione, che
ne sono anche le condizioni. Per conservare e restituire le forme di con-
cettualizzazione indigena, l’antropologo deve sollecitare la propria lingua,
fino alle soglie dell’impossibilità e dell’intraducibilità. Con alcuni esempi
di Remo Guidieri:63 non possiamo comprendere le rappresentazioni fata-
leka (Melanesia) dell’universo e dell’origine del mondo se non attraverso
nozioni costitutive del nostro immaginario spaziale e della nostra ontolo-
gia (come le nozioni di “limite” e di “storia”), e attraverso temi che sono
all’origine della nostra cultura (come il tema greco dell’apeiron), ma che
non arriviamo a rendere trasparenti neppure “per noi”; non possiamo com-
prendere lo “hau” maori se non attraverso nozioni come “prezzo”, “dono”,
“profitto”, “pagamento”, e attraverso opposizioni come utilità/gratuità,
scambio/dono, intorno a cui si giocano i nostri stessi conflitti culturali, e
che si trovano nel cuore dell’articolazione tra etico, economico, giuridico e
politico nella nostra forma di vita.64 Ma proprio questi scarti e questi vuoti
costituiscono lo spazio (e il tempo) in cui la conoscenza lavora: l’intradu-
cibile, il limite non è semplicemente limite conoscitivo in rapporto a un
ideale di conoscenza trasparente; è piuttosto il limite ontologico che defi-
nisce i bordi della nostra esperienza dell’altro, un’esperienza che diventa
possibile contrastivamente, a partire da noi stessi, e che contribuisce nello
stesso tempo alla nostra autocomprensione.

4. La verità del discorso

Considerando il caso epistemologico dell’antropologia, ho cercato di


analizzare in che modo gli aspetti interpretativi del problema della verità si

63 Cfr. R. Guidieri, La route des morts, cit., pp. 25-34.


64 Cfr. R. Guidieri, Voci da Babele, 1984, trad. di S. De Matteis, Guida, Napoli 1990,
pp. 21 e sgg.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 51

connettano con le specifiche procedure di oggettivazione in atto in questa


forma di conoscenza. Vorrei ora riprendere la questione della verità inter-
pretativa da un punto di vista teoretico, facendo riferimento in particolare
alle concezioni ermeneutiche di Mario Ruggenini.65
L’interrogazione intorno alla questione della verità e la tesi del carattere
linguistico dell’esperienza della verità che Ruggenini propone in Verità e
interpretazione hanno una tonalità che è ontologica in un senso definito,
poiché la verità è pensata in relazione all’essere che noi siamo: l’uomo
è capace di verità perché è capace di parola. Questa concezione della ve-
rità è definita da Ruggenini con una bella sintesi la verità del discorso, o
del colloquio (Gespräch) che noi siamo (Hölderlin). È una prospettiva che
comporta l’assunzione del destino di parola dell’essere umano: il linguag-
gio (nella sua differenza, nel suo essere inoggettivabile: nel suo non essere
cioè uno degli enti che incontriamo nel mondo) è all’origine dell’esistenza,
fa esistere gli uomini, li fa esistere in quanto uomini nel dialogo, che è
relazione tra una pluralità di parlanti. Il dialogo come “colloquio delle
esistenze”,66 o “comunicazione delle esistenze”.67
Si coglie in questi temi una filiazione, ma anche un rilevante distacco
rispetto a temi heideggeriani. Rispetto al tema heideggeriano del linguag-
gio che non è strumento a disposizione, ma destino di parola dell’essere
umano, «quell’evento che dispone della suprema possibilità dell’essere-
uomo»,68 c’è uno spostamento fondamentale dal tema della verità come
evento del linguaggio, alla verità come esperienza del linguaggio. Rug-
genini riconduce la verità a ciò che ci fa esistere nel dialogo: è questa la
dimensione del discorso, inteso come quella messa in atto che ci fa esistere
nella pluralità dei parlanti.
Il tema del discorso è importante. Rispetto a una nozione astratta, o ad-
dirittura essenzialistica, di dialogo, la prospettiva di Ruggenini insiste sulla
contingenza del discorso. In questa prospettiva, è interpretazione la verità
in quanto esperienza dell’esistenza, come avviene nella contingenza del

65 Cfr. M. Ruggenini, Verità e interpretazione, in S. Borutti, L. Fonnesu, La verità.


Scienza, filosofia, società, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 101-119; Id, Dire la veri-
tà. Noi siamo qui forse per dire…, Marietti, Milano 2006.
66 M. Ruggenini, La parola della responsabilità e il tempo dell’interpretazione, in
L. Perissinotto e M. Ruggenini (a cura di), Tempo e interpretazione. Esperienze di
verità nel tempo dell’interpretazione, Guerini e Associati, Milano 2002, p. 25.
67 M. Ruggenini, Il tempo del discorso. Possibilità e impossibilità della comunica-
zione, cit., p. 12.
68 M. Heidegger, Hölderlin e l’essenza della poesia, in La poesia di Hölderlin, 1981,
trad. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 46.
52 Nodi della verità

discorso.69 Se volgiamo lo sguardo al problema della verità nelle scienze


umane, che ho tenuto costantemente presente in queste pagine, il tema del-
la contingenza del discorso che mette in relazione una pluralità di parlanti
suggerisce che una concezione interpretativa della verità, quella verità mo-
dalizzata interpretativamente di cui non si può fare a meno nelle scienze
dell’uomo, mette in primo piano il rapporto della verità con il linguaggio
e col tempo: con il linguaggio attualizzato in discorso, e con il tempo del
discorso. Di fatto, nelle scienze umane la verità è ricercata in un processo
conoscitivo che è un processo di parola, consegnato al linguaggio e al tem-
po dello scambio linguistico.
A questo proposito, due questioni si pongono, una relativa al concetto di
dialogo, o colloquio, o discorso, l’altra relativa al tema della conoscenza.
Il tema dell’esperienza della verità nel discorso, in relazione cioè a una
pluralità di parlanti, rimanda a un primo interrogativo su come pensare il
dialogo. A mio parere, il dialogo non va inteso come fusione di orizzonti,
nel senso gadameriano (su cui ho già richiamato l’attenzione) di parte-
cipazione simmetrica a un senso comune: non va inteso, in altre parole,
come integrazione dialogica di orizzonti e innalzamento a una universalità
superiore, secondo il presupposto idealizzante della perfezione – per cui,
come si è detto, la cosa del testo (la cosa detta) e il telos universalizzante
finiscono per dominare sul dire degli interlocutori. Né il dialogo va inteso
come comunità della comunicazione, una comunità che sia un luogo ideale
di comunicazione paritetica e illimitata, poiché questa nozione presuppone
un’idea di logos universale e omogeneo, e dimentica l’eterogeneità di cui
si nutre il discorso, a partire dalle posizioni diverse da cui gli individui
possono o non possono prendere la parola. I presupposti universalistici
della comunità della comunicazione di Apel o dell’etica del discorso di
Habermas ci restituiscono un’immagine idealizzata di comunità. I principi
della comunità della comunicazione presuppongono infatti soggetti auto-
nomi, già costituiti, tra loro in rapporto del tutto simmetrico, trasparente,
dialogico: presuppongono cioè una comunità di alter ego – cioè di soggetti
uguali e indifferenti, identificabili al limite con posizioni discorsive, non
con singolarità.
Il tema della pluralità e dell’eterogeneità dei parlanti rimanda piuttosto
a quegli aspetti del dialogo, che sono l’incommensurabilità e l’opacità; ri-
manda in altre parole a ciò che il dialogo diventa in presenza della parola
che non viene al dire – ciò che Ruggenini definisce «l’inapparente di ogni

69 M. Ruggenini, Il tempo del discorso. Possibilità e impossibilità della comunica-


zione, cit., p. 12.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 53

esistenza, il suo incommensurabile»;70 l’inoggettivabile, aggiungerei, pen-


sando sempre alla relazione dialogica che è l’esperienza comprendente in
scienze umane. Il che significa riconoscere che, nella nozione di dialogo,
non è possibile separare la traduzione dall’intraducibilità, la relazione lin-
guistica da un residuo non illuminabile dalle parole. Sono questi chiaroscu-
ri della nozione di dialogo che ci consentono di non cadere nell’ottimismo
della parola trasparente e della familiarità presupposta tra verità linguistica
e essere.
Una precisazione si impone. Riformulando in questo modo la nozione
di dialogo, non ci si sta riferendo a un residuo mistico inafferrabile. Il pun-
to è piuttosto sottolineare come siano costitutivi del dialogo elementi non
recuperabili a una trasparenza linguistica. È un tema che ho già affrontato
in queste pagine, facendo riferimento a quel caso classico di dialogo che è
il rapporto con l’alterità culturale in antropologia, e a cosa abbia significato
per le scienze umane riflettere sul tema di una verità interpretativa. Ripren-
do brevemente questa questione, che è epistemologicamente fondamentale,
dato che il rapporto conoscitivo in scienze umane è un processo di parola,
e dato che in quest’ambito si entra in relazione di parola con individui che
sono, con un’espressione di Ian Hacking, “tipi interattivi”71 e autoriflessivi,
capaci di pensarsi entro la relazione e sotto determinate descrizioni. In an-
tropologia, il modello interpretativo e dialogico di Geertz (pensare l’altro
come un testo lacunoso da ricostruire) ha svolto un ruolo fondamentale,
perché ha consentito di superare la reificazione positivista dell’altro; tutta-
via ha mostrato il proprio limite quando si sono approfondite le condizioni
dell’incontro dialogico, e si è visto che il dialogo contingente sul campo
(l’effettivo incontro con l’altro) è costituito anche dalle dimensioni non
verbali del senso come senso incarnato (comportamento, azione intenzio-
nale, sguardo, emozioni). Il dialogo è un’esperienza non solo linguistica: è
un’esperienza fatta di opacità, casualità, compromessi, intraducibilità, si-
lenzi, dissimulazioni, che spiegano dell’altro altrettanto e forse più di ciò
che circola in modo trasparente. L’altro non è solo linguaggio e grafismo,
né il suo senso è tutto traducibile nella trasparenza di un testo. Il dialogo è
in questo senso un’esperienza non solo linguistica, è anche messa a rischio
del sé;72 e il linguaggio non è il luogo ideale di una comprensione senza re-

70 M. Ruggenini, Il tempo della parola, in M. Ruggenini e L. Perissinotto (a cura di),


Tempo, evento e linguaggio, Carocci, Roma 2002, p. 18.
71 Cfr. E. Montuschi, Aspetti dell’ontologia sociale, «Oltrecorrente», 9, 2004, p. 113
e sgg.
72 Su questo tema, cfr. M. Ruggenini, Il tempo del discorso. Possibilità e impossibi-
lità della comunicazione, cit.
54 Nodi della verità

sto. A fronte di questi problemi, resta da chiarire quale nozione di linguag-


gio ci consenta di pensare i chiaroscuri del dialogo: resta in altre parole da
chiedersi se, come io penso, nel dialogo si articolino elementi linguistici e
prelinguistici (emotivi, affettivi, e in generale vitali);73 o se invece, come
sembra suggerire una prospettiva ermeneutica radicale, anche gli elementi
opachi e incommensurabili siano definiti da una nozione più generale e non
verbale di linguaggio.
Un altro punto da chiarire, accanto al rapporto tra dialogo e verità, è il
rilievo conoscitivo di questa verità a base ontologica, di questa verità del
discorso. Non si può non convenire sul fatto che il problema della verità
non è riducibile al problema intellettuale della conoscenza di un mondo
esterno popolato di enti, che siano oggetti o soggetti: come scrive Rugge-
nini, la verità non è cosa da afferrare o da adeguare, ma è «la verità dell’in-
terpretazione che si fa nelle parole degli uomini»,74 sempre di nuovo. Ma il
problema della relazione tra la verità nel discorso e la verità come relazione
conoscitiva al mondo rimane tuttavia rilevante. Provo a dire in che senso.
Nella concezione della verità nel discorso sono implicite critiche, del
tutto condivisibili, a tre tipi di riduzionismi epistemici: critica alla riduzio-
ne della verità a una posizione soggettivista, in cui la soggettività sottomet-
te ogni altra realtà – posizione che è insieme solipsista, poiché si definisce
solo relativamente a se stessa; critica alla riduzione della verità a una po-
sizione oggettivista, e quindi a un paradigma adeguativo, che presuppone
un’assunzione realista, e una naturalizzazione del reale; critica alla riduzio-
ne del problema dell’alterità all’intersoggettività intesa come soggettività
intermonadica – critica che si riferisce al tentativo (husserliano) di costitu-
ire l’essere-coscienza dell’altro sulla certezza dell’essere “proprio”, a cui
si oppone l’altro non come alter ego, bensì come alterità asimmetrica.75
Tuttavia, criticato ogni riduzionismo e ogni trattamento intellettualistico

73 In Wittgenstein si trova una concezione della base prelinguistica del senso e del
comportamento vitale primitivo come sfondo del gioco linguistico: «Ma che cosa
vuol dire la parola “primitivo”? Senza dubbio che questo modo di comportarsi è
prelinguistico: che su di esso riposa un gioco linguistico, che esso è il prototipo di
un pensare e non il risultato di un pensare» (L. Wittgenstein, Osservazioni sulla
filosofia della psicologia, 1980, trad. a cura di R. De Monticelli, Adelphi, Milano
1990, I, § 916). Cfr. L. Perissinotto, Wittgenstein e il problema degli altri, “aut
aut”, 304, 2001, p. 21.
74 M. Ruggenini, Il tempo del discorso. Possibilità e impossibilità della comunica-
zione, cit., p. 16.
75 Sulla nozione di alterità asimmetrica che è ricavabile dalla prospettiva antropolo-
gica sull’alterità, cfr. Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia, in questo
stesso volume, Seconda Parte.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 55

del problema della verità, criticata l’idea di un oggetto che stia di fronte
al soggetto di conoscenza, resta la domanda: come pensare il debito di
realtà del linguaggio, o dell’ontologia linguistica legata alla concezione
della verità nel discorso? Lo si chiami dato, o molteplice sensibile (come
fa Kant); oppure mondo, con una parola-concetto che è di Heidegger, ma
è anche la parola con cui si apre il Tractatus di Wittgenstein, il problema
dell’alterità del mondo (l’espressione è dello stesso Ruggenini) resta. Rug-
genini parla di mondo come essere parlato dagli uomini, e del soggetto
come soggetto che nasce a un mondo di parole già parlate, di un soggetto
che è tale in quanto soggetto a un mondo di parole, e in questo modo messo
in relazione con un’alterità – un’alterità che suggerisce di pensare come
lo xynon, il mondo comune di Eraclito che «distingue perché al contempo
tiene assieme».76 «Il mondo, in quanto alterità che si rivela e si nasconde
nei discorsi degli uomini».77
Ma con questo concetto di “alterità parlata” del mondo, come evitare il
pericolo di un certo idealismo linguistico – a cui non era paradossalmente
estraneo neanche il Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus? Che
cosa io intenda con “idealismo linguistico”, è ciò che il riferimento a Witt-
genstein mi consente di esplicitare. Per quanto sembri il manifesto di una
filosofia realista, il Tractatus non lo è affatto: anzi, la semantica referenziale
della raffigurazione del mondo si sostiene paradossalmente su una nozione
antirealista di mondo.78 La relazione di corrispondenza linguaggio-mondo
immaginata da Wittgenstein nel Tractatus, con la sua idea di coordinazione
tra strutture raffigurative (proposizioni) e stati di cose possibili, comporta
di fatto una sospensione della questione ontologica. «Non come il mondo è,
è il Mistico, ma che esso è»:79 da una parte, la questione ontologica (il che
del mondo) è inesprimibile in proposizioni; dall’altra parte la semantica (il
come del mondo) è il raffigurabile, è ciò che è esprimibile in proposizioni.
L’astinenza della semantica di Wittgenstein dall’ontologia (confermata da
quanto egli sosterrà più tardi sul carattere non conoscitivo, ma pratico, del-
le regole del linguaggio) dice pressappoco che le nostre proposizioni vere
mettono in forma un mondo per noi, ma non sono la descrizione teoretica

76 M. Ruggenini, Il tempo del discorso. Possibilità e impossibilità della comunica-


zione, cit., p. 8.
77 M. Ruggenini, Il tempo della parola, cit., p. 27.
78 Sul caratteristico antirealismo di Wittgenstein, cfr. J. Bouveresse, Le pays des
possibles. Wittgenstein, les mathématiques et le monde réel, Minuit, Paris 1988,
p. 24.
79 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e altri scritti non postumi, 1921,
trad. a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 19922, 6.44.
56 Nodi della verità

essenziale del mondo: nel linguaggio, l’essere non è detto come esistenza,
ma differito in un “come”, in un orizzonte di senso, in un gioco linguistico.
È in questo senso che Wittgenstein risolve il problema filosofico del debito
di realtà del linguaggio in modo paradossalmente antirealista: o, meglio,
sospende in filosofia la questione dell’esistenza e del mondo esterno, e
cede i problemi di verità alle scienze, a cui appartengono le proposizioni,
verificabili, che possono dire i fatti. Ma la filosofia parla tuttavia di mon-
do, e ne parla in modo antirealistico e con una tonalità idealistica: mondo
è il dicibile, il raffigurabile; non una collezione di enti esistenti, non una
somma, ma una “totalità”, Gesamtheit: «Il mondo è la totalità dei fatti,
non delle cose»;80 «I fatti nello spazio logico sono il mondo».81 L’accadere
contingente degli eventi del mondo è per noi impensabile: ciò che abbiamo
sono i fatti nello “spazio logico”, cioè mondi linguistici, mondi dati in un
ordine di possibilità linguistiche.
La risposta di Wittgenstein al problema del debito di realtà del linguag-
gio è in fondo di tipo trascendentale kantiano: è un richiamo all’inerenza
trascendentale linguaggio-mondo e alla chiusura del sistema semantico,
una posizione teorica che rimane costante nel Tractatus («I limiti del mio
linguaggio significano i limiti del mio mondo»),82 e negli scritti più tardi
(«Ma la mia immagine del mondo [...] è lo sfondo [Hintergrund] che mi è
stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso»),83 dove lo sfondo è
l’orizzonte pratico dei giochi linguistici che costituiscono una forma di vita.
Al problema della realtà come incontro e resistenza, Wittgenstein risponde
con una mossa trascendentale, chiedendosi cosa sia l’essere dell’oggetto
a partire dal dire che lo rende possibile. E così anche i neokantiani, che
evitano il problema della realtà, assumendo il molteplice dato della mate-
ria sensibile come una finzione metodologica, non come alterità data:84 la
questione della materia è risolta in un effetto della forma.
E la prospettiva del mondo come “alterità parlata” – chiediamoci ancora
una volta – come risolve il problema della realtà? Come risolve il proble-
ma della realtà come incontro, o, forse più correttamente, come luogo di
provenienza? (Poiché, come scrive Merleau-Ponty, «Nessuna domanda va

80 Ivi, 1.1.
81 Ivi, 1.13.
82 Ivi, 5.6.
83 L. Wittgenstein, Della certezza, 1969, trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino
1978, § 94.
84 Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche. Fenomenologia della cono-
scenza, 1929, trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1966, vol. III, t. I,
Introduzione, pp. 10 e sgg.
Linguaggio e verità in alcune prospettive interpretative 57

verso l’Essere: non fosse che per il suo essere di domanda, essa l’ha già
frequentato, ne ritorna»).85
O, esplicitando meglio, in due domande, il problema che va posto alle
prospettive ermeneutiche sulla verità:
L’alterità del mondo la esperiamo solo nel linguaggio, in quanto alterità
parlata, o rimane un debito di realtà del linguaggio? Più semplicemente:
c’è qualcosa che sfugge alla dinamica ermeneutica?
E che ne è del begreifen, della presa concettuale sulla realtà? È solo un
caso speciale del nostro appartenere al discorso, un caso che riguarda solo
la dimensione intellettuale? In altre parole, in una prospettiva ermeneutica,
la conoscenza è solo un’esperienza della verità fra le altre, ma non l’e-
sperienza specifica della verità? Il concettuale è solo un caso del carattere
verbale dei logoi-discorsi («E mi parve che mi bisognasse rifugiarmi nei
concetti [logoi], e considerare in essi la realtà delle cose esistenti»)86 attra-
verso cui facciamo esperienza della verità?
Si può condividere la prospettiva ermeneutica per cui il caso della co-
noscenza è un’esperienza della verità fra le altre. Ma la conoscenza è tut-
tavia un caso esemplare, perché ci ricorda che ogni costruzione linguistica
e conoscitiva deve tener conto dell’alterità della realtà, delle stilettate di
realtà che ci vengono incontro. Mi pare in altre parole che la questione
della verità conoscitiva, della verità nelle scienze, sia un bel laboratorio del
problema della verità, proprio perché si trova a trattare in modo esemplare
l’incontro tra il discorso, cioè la comunità dei parlanti e dei conoscenti, con
le loro pratiche di costruzione di oggetti (o di oggettivazione) che formano
un mondo dinamico, in continua trasformazione, un mondo fatto di oggetti
che compaiono e scompaiono nell’orizzonte degli scienziati,87 e la resisten-
za del reale, che queste pratiche devono necessariamente fare in modo di
incontrare se vogliono esporsi a controlli e validazioni. Così il problema
della verità si ripropone, ma modalizzato da quella forma di interpretazione
che si interroga sui criteri di oggettività relativi ai vari modi del sapere.88

85 M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, trad. di A. Bonomi, nuova ed. a cura di


M. Carbone, Bompiani, Milano 1993, p. 139.
86 Platone, Fedone, trad. di M. Valgimigli in Opere complete, vol. I, Laterza, Bari
1971, 99 e. Ruggenini rinvia a questo passo platonico in Il tempo del discorso.
Possibilità e impossibilità della comunicazione, cit., p. 11.
87 Cfr. L. Daston (a cura di), Biographies of scientific objects, University of Chicago
Press, Chicago 2000.
88 Su verità, criteri di oggettività e interpretazione, cfr. P. Parrini, Sapere e inter-
pretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fondamenti, Guerini e Associati,
Milano 2002.
2
FILOSOFIA E SCIENZE UMANE

La formulazione più corretta della domanda sul rapporto tra filosofia e


scienze umane non è: che cosa ha da dire la filosofia sulle scienze umane?
quanto piuttosto: che sguardo la filosofia può prestare alle scienze uma-
ne, e che sguardo allo stesso tempo la filosofia può ricavare dalle scienze
umane?
Voglio dire con questo che il rapporto tra filosofia e scienze umane (o tra
filosofia e scienze in generale) non può essere a senso unico, dalla filosofia
alle scienze, come se alla filosofia fosse assegnato un compito epistemolo-
gico normativo, di tipo ad esempio sintattico-formale, come ricerca di una
lingua ideale e di un metodo unico delle scienze, o di tipo categoriale, come
ricerca degli oggetti essenziali delle scienze. Semmai, la filosofia non può
avere altro che un compito di ricostruzione delle condizioni di produzione
dei saperi, in vista nello stesso tempo di forme di autocomprensione, in
una specie di apprendere laterale per cui la filosofia si volge ad altri saperi
per sapere anche qualcosa di sé, elegge cioè dei saperi a proprio “terreno”,
a campo di emergenza degli stessi problemi filosofici. Consideriamo un
esempio. Di fronte ai problemi conoscitivi dell’antropologia (che sostan-
zialmente riguardano le modalità dell’osservazione, della descrizione e del-
la comprensione dei significati dell’alterità), la filosofia non può far altro
che darne un trattamento filosofico ricorrendo a processi di trascrizione, di
traduzione, di modellizzazione, al limite, di simulazione di questi problemi;
ma non dimentichiamo che nello stesso tempo i modelli filosofici risultano
ridiscussi e trasformati dall’applicazione. Ad esempio, l’applicazione dei
modelli ermeneutici del dialogo e del testo al dialogo sul terreno in antropo-
logia (o alla relazione terapeutica in psicoanalisi) ha contribuito a ridiscu-
tere l’intellettualismo degli stessi modelli ermeneutici, a capire ad esempio
che l’altro soggetto non è solo linguaggio e grafismo, testo da decifrare,
ma anche affetto, opacità, passione, distanza incolmabile, corpo vivente in-
conoscibile nell’informe della sua sofferenza, delle sue emozioni, del suo
desiderio, della sua felicità; ha fatto cioè capire che l’altro non è riducibile
a un testo, ma è un mondo di senso che resiste all’analisi.
60 Nodi della verità

Ma come pensare questo scambio di sguardi tra filosofia e scienze uma-


ne? Se ci volgiamo all’indietro, alla filosofia del Novecento, troviamo
due modelli filosofici che hanno guardato alle scienze in modo opposto,
il modello della spiegazione scientifica elaborato dal neopositivismo, e il
modello del comprendere ermeneutico. Li rievoco brevemente, per arri-
vare a mostrare che l’opposizione tra questi due modelli è rigida e un po’
inconcludente.
Da una parte, il neopositivismo ha mirato all’unificazione metodologi-
ca e concettuale delle scienze attraverso il modello della spiegazione, che
consente la predizione di eventi attraverso leggi. Spiegare dei fenomeni
è pensarli come casi indifferenti di una legge: dedurli da un insieme di
leggi e di condizioni iniziali. È questo un modello esplicativo rigido, che
pensa la conoscenza uniformemente, come rapporto tra teoria e fatti, tra il
generale della legge e il particolare degli oggetti, che sono in sé indifferenti
e sostituibili, che non sono di più che caso di una legge. Il modello della
spiegazione sacrifica la specificità degli oggetti all’uniformità del metodo;
sacrifica quindi il problema fondamentale delle scienze umane, l’indivi-
dualità degli oggetti, che sono soggetti e strutture di senso, e chiedono di
essere compresi nella loro specificità. Dal punto di vista della spiegazio-
ne, l’ideale sarebbe che gli oggetti delle scienze umane fossero traducibili
nel linguaggio delle descrizioni fisiche spazio-temporali, o nel linguaggio
delle descrizioni neurofisiologiche. Di fatto, anche i modelli attuali che
fanno riferimento ai metodi delle scienze cognitive sono riduzionisti e rei-
ficanti: Dan Sperber, applicando in antropologia i modelli naturalizzanti
delle scienze cognitive, sostiene una teoria della cultura come risultato di
epidemie di rappresentazioni mentali.1
Rispetto alle prospettive dell’unificazione metodologica, e contro la
conseguente naturalizzazione e reificazione degli oggetti, le prospettive
ermeneutiche, che si richiamano a Heidegger, ma soprattutto a Gadamer,
riportano il problema della conoscenza alla comprensione linguistica del
senso. Uno spostamento importante, ma insoddisfacente. Importante, per-
ché si riconosce che la comprensione dei significati dei soggetti ha la sua
condizione nell’essere dell’uomo, nel fatto che l’uomo è un essere parlan-
te e un essere che si temporalizza: rinvia dunque alla linguisticità e alla
temporalità come radici ontologiche del conoscere. Il linguaggio connota
ontologicamente la conoscenza in quanto non è semplice strumento, domi-

1 D. Sperber, Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, 1996, trad.
di G. Origgi, Feltrinelli, Milano 1999; Id., Cultura e modularità, Ed. Le Monnier,
Milano 2005.
Filosofia e scienze umane 61

nabile dal soggetto, manipolabile come un metodo, ma è il luogo dell’aper-


tura di senso, il luogo per cui il soggetto ha un mondo ed è in un mondo che
condivide dialogicamente con gli altri; il tempo connota ontologicamente
la conoscenza perché ogni esperienza di senso articola il presente sull’es-
sere-stato e sull’apertura di futuro, sulla memoria e sulla progettualità. In
questo senso, l’ermeneutica insegna a sottrarre la conoscenza agli a-priori
metodologici, e a situarla nella mediazione linguistica e nella temporalità:
si conosce un essere linguistico e temporale, e si conosce in quanto si è
degli esseri storico-temporali, in tensione con il proprio altro e con l’estra-
neo, in una dialettica di familiarità e estraneità. Al logos monologico della
legge è opposto il luogo dialogico e storico della comprensione. Ma la
prospettiva ermeneutica resta la prospettiva di un’ontologia fondamentale,
poco interessata alle ontologie regionali, cioè alle concrete procedure di
conoscenza in saperi come antropologia, sociologia, storiografia.
Di fatto, né lo spiegare neopositivistico, né il comprendere ermeneu-
tico arrivano a porre il problema che i neokantiani chiamano problema
dell’oggettivazione, cioè della costituzione d’oggetto nelle scienze umane
e sociali: da una parte, perché lo statuto dell’oggetto è dissolto per decreto
metodologico nello statuto della legge; dall’altra parte, perché l’ontologia
fondamentale, impegnata a decostruire la metafisica che reifica l’essere ri-
ducendolo a una cosa, resta al di qua delle concrete pratiche discorsive che
costituiscono oggetti scientifici. È significativo che all’inizio del secolo,
sullo sfondo del dibattito metodologico tedesco tra scienze della natura
e scienze storiche, il tentativo più complesso di rifondazione del metodo
delle scienze storico-sociali abbia portato il suo autore, Max Weber, ad
adottare uno sguardo strabico, a riconoscere cioè alle scienze sociali uno
specifico doppio regime, insieme nomologico e comprendente, che si occu-
passe insieme del metodo e della specificità dell’oggetto. Weber riconosce
così nelle scienze storico-sociali una tensione specifica tra oggettività (co-
struzione delle connessioni concettuali negli oggetti attraverso i tipi ideali,
modelli ideali di comprensione) e valori (“non naturalità” degli oggetti che
diventano rilevanti e pertinenti in relazione al senso di cui li investiamo e
all’interesse che assumono per noi, che siamo esseri culturali).2
Cosa intendo con “oggettivazione”? E in che senso questa prospettiva
permette di riformulare la questione epistemologica delle scienze umane e
sociali al di fuori del dilemma troppo rigido spiegare/comprendere, scien-
ze naturali/scienze umane? Non si tratta di contrapporre diversi paradigmi

2 Cfr. S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e


della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, cap. 2.3.
62 Nodi della verità

dell’oggetto e del metodo, non si tratta di trovare differenze sostanziali


(diversi oggetti nell’enciclopedia delle scienze), né differenze formali (di-
verse metodologie). La domanda sull’oggettivazione ci porta in un’altra di-
rezione, che possiamo comprendere a partire dalla formulazione di Clifford
Geertz, che, in Interpretazioni di culture,3 si chiede: cosa fanno quelli che
praticano una scienza? Come costruiscono i loro oggetti gli scienziati uma-
ni e sociali? Interrogarsi sulle procedure categoriali di costituzione degli
oggetti scientifici: è questo il problema dell’oggettivazione. È un problema
che diventa pensabile solo se ci si pone in una prospettiva epistemologica
di ispirazione critico-trascendentale. Nell’analisi della nostra conoscenza
scientifica, possiamo dire kantianamente, non dobbiamo interrogarci diret-
tamente sugli oggetti come se fossero dei dati, ma dobbiamo ricostruire i
modi secondo cui li rendiamo visibili e conoscibili: dobbiamo interrogarci
sui modi di inerenza tra forma e contenuto, sui modi secondo cui la forma
è costitutiva degli oggetti. Si tratta in altre parole di pensare le condizioni
di possibilità dei saperi, il loro “come”, la loro legittimità, i loro limiti: le
procedure di oggettivazione, appunto, che sono procedure formali di vario
livello. Il lavoro dell’oggettivazione è complesso e articolato, e riguarda
ogni sapere. Gli oggetti dei vari saperi (delle ontologie scientifiche regio-
nali: gli oggetti della fisica come i quark, gli oggetti della biologia come i
geni, gli oggetti dell’antropologia come i miti, gli oggetti della sociologia
come le istituzioni) si costituiscono a partire da modi diversi di interazio-
ne tra forma e contenuto. I dispositivi tecnici, come scrittura simbolica,
dimostrazione, formalizzazione, riguardano tutti i saperi, ma prevalgono
nelle scienze esatte; i dispositivi analogici di schematizzazione e di mo-
dellizzazione (come il modello delle microparticelle in fisica, il modello
dei “giochi” in economia, il modello del “testo” in antropologia, il modello
del “documento” dell’azione in etnometodologia) investono tutti i discorsi
scientifici; i dispositivi retorici e argomentativi della messa in discorso e
della comunicazione riguardano tutti i saperi, ma in particolare le scienze
umane.
Ciò significa ripensare insieme il problema dell’oggetto e il problema
della forma. Quanto alla questione degli oggetti dei saperi: i vari livelli di
costituzione dell’oggettivo dicono in primo luogo che gli oggetti scientifici
sono non-naturali e non-sostanziali, non sono cioè dei dati che si offrano
alla neutralità di un metodo di osservazione e di rappresentazione, ma sono
dei costrutti artificiali, risultato di procedure complesse di messa in forma.
In tutti i saperi, gli oggetti sono piuttosto, come dice Bachelard, “realizza-

3 C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, p. 47.


Filosofia e scienze umane 63

zioni ben condotte” 4 che diventano visibili attraverso apparecchi simbo-


lici, concettuali e strumentali. Pensiamo ad esempio a quella procedura di
oggettivazione centrale nelle scienze empiriche che è l’esperimento. L’e-
sperimento è una messa in scena ideale e vincolata, in cui si raccolgono più
livelli di produzione di oggettività: ciò che si vede in un esperimento, lo
si vede attraverso forme di trascrizione numerica e simbolico-formale (la
misura, cioè la traduzione della sensazione soggettiva nel dato numerico, e
la trascrizione formale in leggi della forma se-allora), e attraverso forme di
manipolazione e di stipulazione intersoggettiva (la convenzione che stabi-
lisce il livello di precisione e di approssimazione, cioè lo scarto tra il livello
empirico e quello ideale; l’idealizzazione dello spazio in luogo continuo e
uniforme, e del tempo in linearità e reversibilità; la neutralità dello speri-
mentatore, sostituito dalla figura ideale di un “intersoggetto”, senza storia
e senza intenzionalità). L’esperimento è una forma di costruzione dell’og-
gettività basata sulla ripetibilità dell’esperienza e sull’intersoggettività del
gesto sperimentale.
Ma procedure di oggettivazione sono in atto anche in zone del sapere
dove non è realizzabile l’intersoggettività sperimentale, dove l’esperienza
non è ripetibile nell’esperimento. Gli oggetti della psicoanalisi e dell’an-
tropologia (l’inconscio, i significati culturali), ad esempio, si mostrano
anch’essi in un orizzonte di esperienza vincolata e artificiale (nel “setting”,
nel “campo”), cioè in una messa in scena che media la venuta di qualcosa
in presenza, che provoca eventi del senso. Per quanto sia esclusa la costitu-
zione di oggetti attraverso la manipolabilità sperimentale ripetibile, anche
in una scienza umana come l’antropologia gli oggetti diventano visibili
in una dimensione vincolata, in cui è fondamentale la mediazione del lin-
guaggio e del tempo. La conoscenza antropologica può essere descritta
come un processo di parola che si svolge secondo più forme di dialogici-
tà e di trascrizione semantica e concettuale, che vanno dalla costruzione
pragmatica di quella situazione artificiale di esperienza e di scambio che è
il “campo”, alla costruzione delle descrizioni etnografiche, in cui il dialogo
che è avvenuto sul terreno si trasforma in discorso indiretto, alla scrittura
del testo antropologico, cioè al gesto finale in cui i diversi livelli di ogget-
tivazione si raccolgono e vengono presentati alla validazione da parte della
comunità scientifica. In antropologia, l’esperienza non si oggettiva nella
forma ripetibile (reversibile) dell’esperimento, ma nella forma eventuale,
relazionale e processuale della marcia di avvicinamento all’altro; o, più

4 G. Bachelard, La philosophie du non, Presses Universitaires de France, Paris


1940, 19736, p. 15.
64 Nodi della verità

propriamente, di avvicinamento a sé attraverso l’altro. Se volessimo par-


lare ancora di esperimento in scienze umane, dovremmo parlare di esperi-
mento con l’altro, che avviene, come nelle scienze esatte, sotto il controllo
della comunità scientifica di riferimento. Analogamente, la somministra-
zione di un questionario o la realizzazione di un’intervista discorsiva in
sociologia possono essere pensati come esperimenti con l’altro. La raccolta
di dati sociologici attraverso interviste prevede necessariamente procedure
di controllo del contesto e della dinamica dell’intervista: ad esempio, stra-
tegie che creano le condizioni per il controllo degli interventi del ricerca-
tore, o perché le risposte degli attori sociali si strutturino discorsivamente,
come testi autonomi – strategie che controllino cioè i modi e i livelli della
costruzione di una base empirica ispezionabile in un contesto chiuso.5 La
prospettiva dell’oggettivazione suggerisce che un’intervista non può essere
intesa come un’attrezzatura neutra per raccogliere informazioni su un fatto
sociale, ma come la costruzione stessa del fatto sociale entro l’interazione
comunicativa.
Quanto alla questione della forma: se nei diversi saperi si danno diversi
modi di oggettivazione, cioè diversi modi di inerenza tra forma e conte-
nuto, e vari livelli di costruzione formale dell’oggettivo, ciò significa che
la forma non è riducibile a un paradigma univoco. Ciò significa, in altre
parole, che nelle scienze si danno diversi regimi formali, e che la forma non
è riducibile né formalisticamente a legge esplicativa, né ontologicamen-
te a linguaggio comprendente, secondo il dilemma rigido tra spiegazione
e comprensione. C’è una stratificazione della costruzione formale degli
oggetti, per cui, ad esempio, la messa in forma del contenuto agisce ora
come immagine nella modellizzazione, ora come linguaggio matematico
nella formalizzazione, ora come retorica nell’argomentazione persuasiva
e nella comunicazione. In generale, possiamo dire che la forma introdu-
ce nei linguaggi scientifici le caratteristiche fondamentali dell’idealità e
della riflessività: rende cioè i discorsi scientifici stabili, riproducibili, cri-
ticabili e trasformabili. In effetti, la lingua dei saperi non può non essere
insieme idealizzante, e critico-riflessiva. L’elemento idealizzante è ciò per
cui la scienza è scrittura simbolica: il discorso scientifico concettualizza,
idealizza, e deve perciò consegnarsi a un corpo linguistico che tenda alla
stabilità – non certo la stabilità senza tempo delle idee platoniche sovra-
sensibili, ma piuttosto la stabilità della lunga durata e della riproducibilità.

5 Cfr. F. Neresini, Introduzione a Id. (a cura di), Interpretazione e ricerca sociolo-


gica. La costruzione dei fatti sociali nel processo di ricerca, QuattroVenti, Urbino
1997, p. 7.
Filosofia e scienze umane 65

La scienza diventa in questo senso scrivibile, e tende asintoticamente a


diventare ideografia, scrittura di concetti, tende cioè all’ideale della for-
malizzazione e alla matematizzazione. L’elemento critico-riflessivo è ciò
per cui il discorso scientifico tende a mostrare la propria struttura: ogni
discorso scientifico è auto-riflessivo, dà cioè le condizioni e le regole del
proprio sistema, e mostra così le forme di un’argomentazione possibile e di
una possibile trasformazione.
Idealità e criticità sono requisiti perseguiti in tutti i saperi, ma in for-
me diverse, e a livelli diversi. Consideriamo ad esempio la forma mate-
matica della dimostrazione, che è in fondo una realizzazione idealizzante
della tendenza critico-riflessiva, e che è stata perseguita attraverso un pa-
radigma fondamentalmente euclideo fino all’Ottocento, e poi, nel nostro
secolo, attraverso le tecniche sofisticate della logica matematica. Ora, le
forme matematiche del ragionamento e della dimostrazione si sono rivela-
te essenziali nello sviluppo moderno delle scienze fisico-naturali, mentre
non hanno potuto trovare applicazione sistematica nelle scienze umane, il
cui linguaggio ha sì caratteri di tecnicità e rigore, ma non è organizzabi-
le secondo un regime univocamente simbolico-formale e quantitativo. Ad
esempio, il tentativo di ricondurre l’oggetto a un modello quantitativizzato
ha mostrato i propri limiti nelle scienze sociali. L’uso della statistica in
sociologia, o del calcolo probabilistico nella teoria della scelta razionale in
economia, finiscono per restituire un’immagine dell’oggetto che è parziale
(fondata ad esempio sull’esclusione dell’apporto propriamente individuale
alla costituzione dell’oggetto sociale), o selettiva e idealizzante (come nel
caso del modello della scelta utilitaristica, che presuppone attori sociali
mono-motivati, o sempre perfettamente coscienti delle proprie preferenze).
Ancora: è interessante notare come nelle scienze contemporanee l’e-
lemento critico-riflessivo abbia incorporato, in diverse forme, un aspetto
specifico, cioè la questione della presenza del soggetto nelle condizioni di
costituzione dell’oggetto. Ciò è ovvio nelle scienze umane: la problematica
dell’interpretazione nelle scienze umane e sociali richiama appunto l’atten-
zione sulla conoscenza come processo di scambio intersoggettivo e storico,
mediato dal linguaggio e dal tempo. Ma la presenza del soggetto e delle
sue operazioni nelle condizioni dell’oggettivazione è una questione che
investe, secondo forme specifiche, anche le scienze fisico-naturali. È suffi-
ciente un riferimento superficiale alla fisica contemporanea: la meccanica
quantistica mostra il limite epistemologico di ogni modello di spiegazione
che voglia dare una descrizione spazio-temporale di uno stato di cose, de-
scrizione che sia nello stesso tempo completa e indipendente dall’attività
di visualizzazione e di verifica. Il principio indeterministico della mecca-
66 Nodi della verità

nica quantistica, per cui non è possibile misurare contemporaneamente la


posizione e la velocità di una particella, è connesso infatti alle condizioni
specifiche dell’osservabilità sperimentale, al fatto cioè che in ogni misu-
razione c’è un’interazione finita tra oggetto da misurare e strumento, inte-
razione il cui valore resta indeterminato.6 Si tratta di una situazione il cui
significato epistemologico è generalizzabile: in tutti i saperi, la conoscenza
non è rispecchiamento neutrale e immediatamente oggettivante del dato,
ma interazione connessa al tempo. In scienze umane, ciò significa non solo
che si danno più livelli di costituzione dell’oggetto, ma anche che occorre
“oggettivare l’oggettivazione”, tenere cioè conto delle condizioni soggetti-
ve e storiche dell’oggettivazione. A questo proposito, Bourdieu7 parla di un
paradosso dell’oggettivazione nelle scienze sociali, che deve essere affron-
tato dalla prospettiva di una riflessività non narcisistica: in questione non è
semplicemente il soggetto di conoscenza, ma il suo rapporto con l’oggetto
e il suo interesse idealizzante e oggettivante. In altre parole, l’osservatore
non deve semplicemente parlare di sé, ma rendere riconoscibile e ogget-
tivabile il punto di osservazione: la questione dei limiti di un campo di
oggettivazione, dice Bourdieu, «è sempre posta dal campo stesso».
Si tratta dunque non tanto di confrontare le scienze umane con le scienze
naturali come due tipi paradigmatici di scientificità, secondo l’antinomia
tra la comprensione del particolare e la spiegazione attraverso leggi, quanto
di pensare più in generale le procedure secondo cui gli oggetti dei vari do-
mini scientifici diventano pensabili e trattabili. Nella prospettiva dell’og-
gettivazione, si sospendono le false antinomie tra universale e unico, tra
generale e particolare, tra nomotetico e idiografico, per pensare in generale
“oggetti possibili”: come, e attraverso quali configurazioni formali, gli og-
getti diventino pensabili. In questa prospettiva, non vediamo opporsi la
natura alla storia, ma semmai consideriamo uno spettro che va dai saperi
che tendono a organizzarsi integrando il rigore formale e matematico con
la sperimentabilità, ai saperi le cui condizioni di presentazione empirica e
le cui forme di oggettivazione e di rigore sono segnate in modo specifico
dai processi di parola e dalla temporalità. Ciò tuttavia senza riproporre ti-
pizzazioni oppositive: poiché in ogni dominio di oggettivazione scientifica
si pongono, anche se in modi diversi, problemi epistemologici analoghi,

6 Cfr. S. Petruccioli, Atomi metafore paradossi. N. Bohr e la costruzione di una


nuova fisica, Theoria, Roma 1988, pp. 38-39.
7 P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino
1992, pp. 43 e sgg.
Filosofia e scienze umane 67

e si realizzano forme di osservazione, sperimentazione, modellizzazione,


argomentazione, spiegazione.
La prospettiva dell’oggettivazione chiede dunque che si rifletta sui limiti
dei vari saperi, intesi come altrettanti campi di possibilità oggettivanti. È
interessante notare come nella prospettiva dell’oggettivazione si manten-
gano e vengano trasformate le due esigenze, della spiegazione oggettiva
e della comprensione del senso, sviluppate unilateralmente dal neoposi-
tivismo e dall’ermeneutica. In scienze umane potremo parlare sia di og-
gettività che di comprensione: ma dovremo intendere l’oggettività come
lavoro in un contesto teorico-pratico, e non come riproduzione speculare e
trasferimento sempre più adeguato di segmenti di realtà nelle nostre teorie;
e dovremo intendere la comprensione non come intuizione del senso, ma
come una specifica forma di oggettivazione, perché in scienze umane non
si spiega senza comprendere, cioè senza costruire un particolare contesto
di relazione linguistico-temporale con l’oggetto.
3
OGGETTIVITÀ E COSTRUZIONE DI OGGETTI

1. Oggettivazione

Nel saggio Oggettività, verità e razionalità nella filosofia positiva, Pao-


lo Parrini enuncia tre tesi che compendiano la sua visione dell’oggettività
come ideale regolativo della conoscenza scientifica:

1 – L’affermazione del carattere empirico delle ‘scienze positive’ assunte a


modello della conoscenza in generale.
2 – L’affermazione del carattere relativo della conoscenza scientifica, nel
senso che essa si sviluppa all’interno di un sistema concettuale di riferimento
e tanto i suoi presupposti quanto le sue conclusioni sono sempre provvisori e
rivedibili.
3 – L’affermazione del carattere oggettivo di tale conoscenza, nonostante
il relativismo asserito dalla tesi (2): quel relativismo esclude solo la pretesa
metafisica di giungere, in un modo o nell’altro, a una conoscenza assoluta della
realtà in sé […] ma non della possibilità di avanzare pretese cognitive dotate di
una loro validità oggettiva.1

Concordo pienamente con questo modo di enunciare le condizioni della


conoscenza scientifica. Nelle analisi che seguono, assumerò la prospettiva
neokantiana dell’oggettivazione, e mi chiederò se questa prospettiva riesca
a mantenere fermi i tre ideali regolativi enunciati da Parrini: riferimento
empirico, sistema concettuale di riferimento, validità oggettiva.
Punto qualificante della prospettiva dell’oggettivazione è in primo luogo
la sospensione di due presupposti, che sono veri e propri pregiudizi episte-
mologici: il presupposto di un punto di vista epistemologico autonomo,
che stabilisca paradigmi di scientificità e di oggettività, da una parte; il
presupposto della naturalità degli oggetti dei saperi, dall’altra. Dal pun-

1 P. Parrini, Sapere e interpretare. Per una filosofia e un’oggettività senza fonda-


menti, Guerini e Associati, Milano 2002, cap. IV, p. 88.
70 Nodi della verità

to di vista dell’oggettivazione, l’oggettività non è da ricondurre a decreti


esterni, ma alle procedure interne ai saperi; e gli oggetti non sono esistenze
date, ma costrutti relativi ai modi del sapere che mirano a costruzioni com-
prensive dei dati in oggetti scientifici. L’oggettività è intesa dunque come
ideale regolativo, che mira alla struttura concettuale del reale. È questa una
prospettiva che sviluppa in una direzione fondamentalmente anti-metodo-
logista da una parte, e anti-metafisica dall’altra, il tema epistemologico
kantiano dell’analisi dei criteri interni del conoscere: si tratta sì di con-
siderare la conoscenza dall’interno, iuxta propria principia; ma ciò non
significa cercare in un metodo la chiave dell’oggetto, e riproporre quindi
il cortocircuito realistico tra soggetto e oggetto, come se fossero due entità
metafisicamente separate. Il tema del metodo separa intellettualisticamente
soggetto e oggetto e riproduce costantemente il problema dell’adeguazione
della conoscenza soggettiva a un oggetto trascendente: ma, nel momento
in cui si pone realisticamente una distanza tra conoscenza e oggetto in sé,
come ha argomentato Giulio Preti, la distanza si mostra immediatamente
incolmabile. Se l’oggetto è pensato come un’entità in sé, un’accumula-
zione seriale e lineare di dati non ce lo renderà più vicino. Il processo di
approssimazione al luogo della verità, cioè all’oggetto in sé, non può essere
che infinito, perché l’oggetto apparirà sempre un al di là del dato attuale.
La domanda: che cosa potrà garantire l’adeguazione del metodo all’ogget-
to? – fa notare Preti – nasce da una posizione realista e finisce per generare
uno scetticismo radicale che viene in fondo ad essere un’auto-confutazione
del realismo filosofico.2
Un kantismo che sviluppi in modo conseguente il tema dell’analisi dei
criteri interni alla conoscenza sospende invece la separazione tra metodo
e oggetto e tra forma e contenuto, senza tuttavia dimenticare che il pensie-
ro in tanto è oggettivo in quanto, da una parte, è investito da un impegno
di realtà,3 e in quanto, dall’altra, restituisce la struttura noetica del reale.
Si tratta di considerare l’esperienza non come una marcia lineare verso
l’oggetto (che sarebbe allora un metafisico “in sé”), ma come insieme
contestuale e processuale di procedure: come “oggettivazione”, appun-

2 G. Preti, Lo scetticismo e il problema della conoscenza, «Rivista critica di storia


della filosofia», I, 1974, pp. 3 sgg. Cfr. P. Parrini, Sapere e interpretare, cit., cap.
III, pp. 71 sgg.
3 In termini kantiani, le categorie non hanno realizzazione semantica se non negli
oggetti dell’esperienza possibile: «Per provare la realtà dei nostri concetti si ri-
chiedono sempre intuizioni» (I. Kant, Kritik der Urteilskraft, 1790, trad. a cura
di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Biblioteca Universale Rizzoli,
Milano 1995, pp. 541-543).
Oggettività e costruzione di oggetti 71

to, come configurazione dei dati isolati in orizzonti di senso (“oggetti”)


che li rendono pensabili. In conoscenza non si pongono astrattamente e
formalmente questioni generali di metodo, né concretamente e diretta-
mente questioni di oggetti, ma semmai si pone la questione delle pratiche
specifiche e contestuali di produzione dell’oggettivo. Il che significa una
riformulazione del rapporto forma-contenuto.4 Da questo punto di vista,
la domanda conoscitiva non è allora: cos’è una cellula? cos’è un elettro-
ne? cos’è l’inconscio? – come se fossero oggetti dati con proprietà e in
quanto tali offerti alla conoscenza; ci si chiede piuttosto a partire da quali
apparati teorici e strumentali possiamo presentificarli nell’osservazione,
nella descrizione schematizzante, nella concettualizzazione. Ogni sapere
mette in campo un insieme di forme, funzioni, procedure di oggettivazio-
ne: il che esclude l’assunzione metafisica di un’oggettività in sé da rag-
giungere, ma non esclude, come scrive Parrini, «l’oggettività e la verità
come ideali regolativi vuoti che guidano l’attività conoscitiva verso sin-
tesi concettuali sempre più ricche di dati, più articolate e comprensive».5
La trascendenza che l’ideale regolativo dell’oggettività deve mantenere
rispetto alle strutture epistemiche, al fine di evitare l’annullamento relati-
vistico dell’intenzione di verità e di oggettività, è espresso da Parrini nei
termini di Cassirer, come «l’unità e la coerenza nella costruzione sistema-
tica dell’esperienza nel suo complesso».6 L’unità non è dalla parte della
“cosa”, ma dei nessi, delle relazioni, della struttura noetica che la forma
proietta sulla cosa.7 La domanda corretta verte allora non sugli oggetti,
ma sull’oggettivazione: che cosa facciamo quando costruiamo proposi-
zioni oggettive nelle varie scienze? Che modelli e che schemi mettiamo
in campo?

4 Parrini, in Il valore della verità, cit., pp. 60 sgg, analizza il problema del rapporto
forma-contenuto a partire dalle obiezioni di Herbart a Kant.
5 P. Parrini, Sapere e interpretare, cit., p. 84.
6 E. Cassirer, Sostanza e funzione. Sulla teoria della relatività di Einstein, 1910,
trad. di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 251; cfr. P. Parrini, Sapere e
interpretare, cit., cap. IV, p. 98.
7 È questo l’aspetto relazionale, non sostanziale, del concetto moderno di forma,
che Cassirer chiama “funzione”. I fenomeni della fisica, ad esempio, non sono da
pensare come unificati da una sensazione sensibile: il calore, come dice Planck,
non è più un ambito unitario della fisica, ma un insieme di fenomeni di radiazione
unificati dalla loro comprensibilità teoretica, e studiati dall’ottica, dall’elettrodi-
namica, dalla teoria cinetica della materia (cfr. E. Cassirer, Il concetto di forma
simbolica nella costruzione delle scienze dello spirito, 1956, trad. a cura di R.
Lazzari, in Mito e concetto, La Nuova Italia, Firenze 1992, p. 129).
72 Nodi della verità

2. Oggetti scientifici

Consideriamo due esempi-limite, che ci permettono di riflettere sulla


non naturalità degli oggetti, e sulla non generalità e non indipendenza del
metodo. Domandiamoci: che cos’è un oggetto in microfisica? che cos’è un
oggetto in psicoanalisi? Proviamo, non a rispondere, ma piuttosto a formu-
lare correttamente la nostra domanda. La formulazione corretta ci porta a
rispondere alla domanda: come possono essere oggetti di conoscenza gli
elettroni e l’inconscio, cioè degli inosservabili?
Nella microfisica, particelle come protoni e neutroni sono oggetti in un
senso speciale che, per essere compreso correttamente, richiede, come di-
rebbe Bachelard, la revisione del realismo e del “cosismo” del senso co-
mune: cioè della nostra ontologia ontica, che divide il mondo in oggetti.8
Anzi, la situazione conoscitiva in cui sono dati questi oggetti non solo non
corrisponde all’idea empirista della presenza immediata dell’oggetto nella
sensazione e nella sintesi percettiva; non corrisponde neppure all’immagi-
ne del mondo che ci dà la fisica classica post-galileiana, per cui l’oggetto
diventa osservabile nelle sue proprietà di “corpo individuato” nel contesto
idealizzato e vincolato dell’esperimento. La fisica newtoniana, con la sua
rappresentazione geometrica di un mondo di “corpi” indeformabili in mo-
vimento in uno spazio metrico, fabbrica di fatto un suo mondo di “oggetti”
e di “fatti” scientifici, che sono tali se dicibili nel linguaggio di massa,
forza e movimento, e collegabili secondo il paradigma causale: l’universo
è ridotto da Newton a uno spazio di traiettorie di corpi (luogo omogeneo e
infinito + corpi + stato relativo dei corpi).9 Questa ontologia deterministica
dei corpi collegati causalmente e del movimento non contraddice in fondo
il senso comune e il processo di sintesi percettiva secondo cui organizzia-
mo l’esperienza quotidiana in cose, perché pensa gli oggetti come corpi
individuati e localizzabili spazio-temporalmente.
L’indeterminismo novecentesco fabbrica invece un mondo diverso: un
mondo di oggetti non assoluti e non localizzabili, oggetti dall’identità in-
deterministica, in cui l’identico e l’altro interferiscono. Già nella teoria
cinetica dei gas l’identità degli oggetti diventa un’identità probabilistica,
statistica. La microfisica contemporanea deve decisamente rinunciare ai

8 Nell’esperimento mentale con cui dimostra la sottodeterminazione empirica della


traduzione, Quine ci ricorda che l’articolazione del mondo in cose è secondaria e
culturale (Willard V. O. Quine, Parola e oggetto, 1960, trad. a cura di F. Monda-
dori, Il Saggiatore, Milano 2008, cap. II, § 12).
9 Cfr. I. Prigogine, La nuova alleanza. Uomo e natura in una scienza unificata,
1979, trad. di R. Morchio, Longanesi, Milano 1979, Introduzione.
Oggettività e costruzione di oggetti 73

presupposti “solidisti” di visualizzabilità e di oggetto concreto: deve in al-


tre parole rinunciare a pensare i corpi come figure, definibili nella velocità
e nella localizzazione, e deve rinunciare a rappresentare geometricamente
un mondo di solidi, indeformabili nei loro spostamenti euclidei in uno spa-
zio metrico. La microparticella non è pensabile come un solido, perché si
deforma nel movimento. «Non è possibile immaginarsi una cosa senza af-
fermare una qualche azione di quella cosa [...] È impossibile staccare il fo-
tone dal proprio raggio».10 Nella fisica quantistica, c’è in ogni misurazione
un’interazione finita tra oggetto e strumento, il cui valore resta indetermi-
nato; per osservare le micro-particelle, dobbiamo farle interagire con una
radiazione, il che cambia le condizioni del sistema. Non si danno dunque
le condizioni di determinatezza richieste dal modello tradizionale di rap-
presentazione, cioè la distanza metodologica e metalinguistica tra soggetto
conoscente e oggetto conosciuto:11 viene in questo modo in primo piano
un legame inanalizzabile tra metodo e oggetto. Inoltre, i micro-oggetti non
sono pensabili come oggetti “individui”, nel senso di cose indivisibili e
identificate: si tratta piuttosto di oggetti “nomologici” (dati per legge):12
un elettrone ha una massa e una carica elettrica costanti, fissate per legge
fisica, e sono queste proprietà fisiche, che caratterizzano gli elettroni, ciò
che ci permette di “vederli” attraverso gli strumenti. Capire cosa sono gli
oggetti equivale a capire cosa ne dice un sistema di descrizione teorico. In
questo senso, vediamo gli elettroni come nodi di invarianti, come inter-
ferenze, non come corpi individuati: non possiamo infatti distinguere un
elettrone da un altro, non possiamo fare esperimenti identificanti in mi-
crofisica, perché «quei nodi di invarianti che abbiamo riconosciuto corri-
spondere agli oggetti ordinari non stanno fissi in un luogo, ma viaggiano
con gli oggetti stessi».13 Tutto questo richiede una revisione del concetto di
oggetto come corpo individuo, e dell’idea di metodo come calcolo formale
separato: l’oggetto è, nella sua pensabilità e visibilità, il risultato di pro-
cedure teoriche e sperimentali di concettualizzazione e di oggettivazione.

10 Cfr. G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, 1934, trad. a cura di L. Geymonat e


P. Redondi, Laterza, Roma-Bari 1978, p. 57.
11 Cfr. S. Petruccioli, Atomi metafore paradossi. N. Bohr e la costruzione di una
nuova fisica, Theoria, Roma 1988, pp. 38-39. Per un approfondimento degli aspet-
ti concettuali e tecnico-formali della meccanica quantistica, cfr. G. C. Ghilardi, I
fondamenti concettuali e le implicazioni epistemologiche della meccanica quan-
tistica, in G. Boniolo (a cura di), Filosofia della fisica, Bruno Mondadori, Milano
1997.
12 Cfr. G. Toraldo di Francia, Le cose e i loro nomi, Laterza, Roma-Bari 1986.
13 Ivi, p. 176.
74 Nodi della verità

Nelle scienze naturali, la produzione di “oggetti” ha una condizione pe-


culiare nella concettualizzazione offerta dalle teorie, non solo, ma anche
in quella forma di empiria che si realizza nelle procedure sperimentali.
Ricordiamo che l’esperimento è, appunto, una “forma”, un allestimento
dell’empiria: l’esperimento rende possibile l’incontro con i fenomeni sul-
la base di un insieme di vincoli e di condizioni. Nelle scienze empiriche,
l’esperimento è infatti un sistema artificiale, vincolato, decontestualizzato
e detemporalizzato; è in altre parole un sistema chiuso verso l’esterno, in
modo da isolare, decontestualizzare e detemporalizzare la variabile da met-
tere sotto controllo; è inoltre un sistema idealizzato attraverso stipulazioni
sul livello di precisione, o attraverso finzioni, come è il presupposto della
reversibilità del tempo. L’esperimento è dunque un insieme di procedure di
costruzione e chiusura di un sistema: 1. il sistema è chiuso verso l’esterno,
in modo da isolare in rapporto a ciò che non è significativo la variabile
da mettere sotto controllo; 2. l’oggettività è prodotta attraverso forme di
idealizzazione, che sono forme di trascrizione matematica, di manipola-
zione, di stipulazione intersoggettiva: la misura, cioè la traduzione della
sensazione soggettiva nel dato numerico; la convenzione che stabilisce il
livello di precisione, cioè lo scarto tra livello empirico e ideale; l’idealizza-
zione dello spazio in luogo continuo e uniforme, e del tempo in linearità e
reversibilità; la neutralità dello sperimentatore, sostituito dalla figura ideale
di un “intersoggetto”, senza storia e senza intenzionalità; la trascrizione
formale in leggi della forma se-allora, che permettono la previsione sulla
base della ripetibilità e intersoggettività del gesto sperimentale.
E nel campo delle scienze umane, come si formano oggetti in relazione
a procedure osservative e a sistemi concettuali di riferimento? Che cos’è
l’esperienza di oggetti in scienze umane?
Consideriamo gli aspetti conoscitivi della relazione medico-paziente in
psicoanalisi. Quanto alle procedure osservative, anche in psicoanalisi non
ci troviamo certo di fronte a oggetti immediatamente visibili, semplice-
mente osservabili; ma non ci troviamo neppure di fronte a “fatti” costruibili
sperimentalmente, attraverso degli strumenti in laboratorio, e enunciabili
in linguaggio matematico. Se ci sono degli “osservabili” in psicoanalisi,
questi non sono fatti osservabili di comportamento; sono piuttosto dei reso-
conti, dei racconti, dei fatti raccontati, cioè mediati dalla parola. L’oggetto
della psicoanalisi, possiamo dire in generale, non è osservabile in compor-
tamenti reali, ma deve essere ricercato, “provocato”, costruito nella rela-
zione analitica cioè nella relazione di parola tra l’analista e l’analizzando
all’interno del campo chiuso e vincolato del setting. Un fatto in psicoana-
lisi è qualcosa che è detto, e che è detto a un altro: in altre parole, non è la
Oggettività e costruzione di oggetti 75

pulsione come fenomeno fisiologico, ma l’enunciazione del desiderio in un


rapporto di parola. Il desiderio inconscio emerge in quanto viene enunciato
nella dimensione intersoggettiva del transfert, per cui l’analizzato mette
in scena nel rapporto con l’analista amore e odio, ripete e presentifica in
questa relazione oggetti arcaici delle sue fantasie, eventi e relazioni che
appartengono alla sua storia passata e dimenticata. In questo senso l’in-
terpretazione, o l’invenzione, o, in termini più freudiani, la costruzione
dell’oggetto psichico, è un lavoro drammatico, coniugato col tempo, è la
produzione di eventi significanti nel campo relazionale e discorsivo del
setting, in quello che si può definire un processo di rifondazione a due – in
cui il transfert non è un mezzo, ma la dimensione dell’incontro tra analista
e paziente, dimensione che è essa stessa da costruire e da interpretare.14
In Costruzioni nell’analisi,15 parlando del lavoro analitico, Freud con-
trappone la costruzione all’interpretazione intesa come decifrazione: la
decifrazione del significato di singoli elementi non può essere disgiunta
dagli atti di costruzione provocati dai due soggetti nella relazione analitica.
In questo modo, egli richiama al testo psichico come istanza di discor-
so, frammento che significa per il valore di posizione in un intorno che è
una catena temporale di parola. Possiamo pensare allora la seduta analitica
come una vera e propria seduta enunciativa, un luogo interattivo in cui
compaiono non enunciati, frasi che significhino per il loro contenuto im-
mediato di senso, ma enunciazioni, atti discorsivi, atti di presa della parola
mediati dalla parola dell’altro.16 Gli atti discorsivi significano in quanto
parola (o lacuna, silenzio, omissione, lapsus) che è detta a un altro, in un
determinato spazio-tempo enunciativo. Un “sì” e un “no”, dice Freud, pos-
sono voler dire la stessa cosa, a seconda del momento in cui compaiono

14 Cfr. A. Civita, Saggio sul cervello e la mente, Guerini e Associati, Milano 1993,
pp. 179 sgg.; F. Petrella, Considerazioni sulla forma e la struttura dell’interpreta-
zione analitica, «Rivista di psicoanalisi», a. XXXIII, 2, 1987, pp. 183-196. Sull’a-
nalisi del transfert e del controtransfert come cornice meta-interpretativa, cfr. G.
Jervis, La psicoanalisi come esercizio critico, Garzanti, Milano 1989, capp. 5 e 6.
15 Cfr. S. Freud, Costruzioni nell’analisi, 1937, trad. a cura di C. L. Musatti, in
Opere, Torino, Boringhieri 1979, vol. 11, pp. 544-545.
16 Il tema degli atti discorsivi può essere compreso attraverso la pragmatica dell’e-
nunciazione inaugurata da Émile Benveniste (La soggettività nel linguaggio,
1966, trad. di M. V. Giuliani, in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore,
Milano 1971, pp. 310-320). Ma è rilevante anche la nozione di “enunciato” di
Foucault, inteso come istanza di apparizione, evento locale e temporale del senso,
nozione che risponde alla domanda: perché quel segno o quella lacuna a quel
punto della catena significante? (cfr. M. Foucault, Archeologia del sapere, 1960,
trad. di G. Bugliolo, Rizzoli, Milano 1971, pp. 91-153).
76 Nodi della verità

nella catena temporale di parola. Gli oggetti psichici non appaiono allora
all’analista come segni che ricevano senso da un codice, ma piuttosto come
eventi, istanze di discorso, tracce il cui senso è nell’occorrenza tempora-
le e nel valore di posizione all’interno della relazione analitica. È poi la
modellizzazione metapsicologica, vista non tanto come una teoria formale
(come un insieme di proposizioni che assegnino delle leggi a un dominio
di oggetti), quanto come un insieme di istruzioni per inventare e arredare
il mondo psichico, per simulare entità, relazioni, proprietà, luoghi, forze,
stadi di sviluppo, ciò che dirige la costruzione delle storie individuali. Ma,
d’altra parte, è la presentazione dell’esempio individuale nella clinica e nel
trattamento analitico ciò che forma e trasforma i modelli della metapsico-
logia che non è allora un metalinguaggio immutabile, ma un insieme di
ipotesi in trasformazione.
È di questo tipo in generale l’esperienza di oggetti in scienze umane:
anche l’antropologo non può semplicemente osservare l’altra cultura, ma
deve costruirsi quel contesto comunicativo, ad un tempo vitale e artificiale,
che è il campo. Ora, il campo non è affatto un luogo naturale esistente, e
non è neppure un luogo neutro di osservazione, ma è un’esperienza che va
costruita artificialmente nella sua possibilità e nelle sue condizioni, e che
si svolge nel tempo, non è cioè ripetibile come gli esperimenti della fisica.
L’antropologo deve giungere a formarsi un ambiente comunicativo e co-
noscitivo, affettivo e insieme intellettuale, e ciò avviene attraverso malin-
tesi, compromessi, negoziazioni, rituali interattivi. L’oggetto studiato non
è inerte, ma ricambia lo sguardo dello scienziato. In antropologia, come in
ogni scienza umana, ciò che si vede non è uno spettacolo, ma è un vissuto.
Nell’incontro con l’altro, il tempo dello sguardo non è quello della cosa
vista, per cui si possa passare direttamente dalla visione alla rappresenta-
zione verbale. In antropologia, vedere diventa sguardo che si incontra con
un altro sguardo e ne è modificato: non c’è simmetria tra vedere e essere
visto, ma l’esser visto cambia il modo di vedere; lo sguardo è uno scambio
di sguardi.17 L’attenzione alla complessità fenomenologica dello sguardo
sull’alterità – che è insieme un vedere intenzionale e disorientato, un vede-
re che tiene a distanza mentre avvicina – è fondamentale per non appiattire
la rappresentazione antropologica sull’interpretazione-svelamento di un
testo o di un simbolo, e sul passaggio lineare da un livello manifesto a un
livello nascosto del senso. In ultima analisi, l’antropologo sul campo deve
farsi accettare, deve accettare di essere messo in questione nel suo sapere e

17 Cfr. F. Affergan, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’an-
tropologia, 1987, trad. di E. Turbiani, Milano, Mursia, 1991, cap. II.
Oggettività e costruzione di oggetti 77

di essere lui stesso, lui l’osservatore, osservato; deve riconoscere che non
tutte le sue domande sono ricevibili dall’altro. A Remo Guidieri che chiede
informazioni su una tecnica di levigazione della pietra, l’informatore na-
tivo risponde con il racconto di un mito18, mostrando così all’antropologo
che la sua domanda è di fatto irricevibile nella cultura fataleka, perché
presuppone la comprensione dei fatti entro spiegazioni tecniche e causali.
Oggetti newtoniani, oggetti statistici, oggetti indeterministici, ogget-
ti psicoanalitici, oggetti antropologici: sono tutti “sovra-oggetti” (sur-
objets),19 non oggetti quotidiani, ma oggetti costruiti, risultato cioè di un
processo scientifico di oggettivazione e di visualizzazione, che implica la
presa di distanza dal senso comune e l’assunzione di un punto di vista
riflessivo,20 o critico in senso kantiano. L’“oggetto scientifico” non è una
“cosa”, nel senso di quella sintesi gestaltica che facciamo quotidianamente
articolando il mondo in figure, corpi e forme che chiamiamo “cose” (e
che dipende dal nostro essere al mondo, dal fatto che abbiamo un corpo
con certe caratteristiche, dal fatto che abbiamo una visione binoculare, dal
fatto che abbiamo sviluppato le caratteristiche della mano nella prensione
e nella manipolazione degli oggetti, dal fatto che, unici tra gli animali,
abbiamo la funzione simbolica di nominazione, che permette di presen-
tificare gli oggetti lasciandoli essere assenti, ecc.). Parlando di “oggetto”,
presupponiamo la differenza epistemologica tra cosa quotidiana e oggetto
scientifico, e presupponiamo il tema della costitutività della forma in rela-
zione agli oggetti. Ogni teoria comporta un orizzonte di visualizzazione e
di oggettivazione specifico. Non c’è in conoscenza un sistema di riferimen-
to assoluto, né un’oggettualità assoluta.
L’oggetto scientifico non è la cosa trascendente a cui la conoscenza si
deve adeguare, ma è l’oggettività prodotta strumentalmente e sperimen-
talmente, portata in presenza, resa visibile e dicibile attraverso processi
artificiali, idealizzazioni sperimentali, strategie euristiche, mediazioni
linguistico-simboliche e interpretative. Come scrive Parrini, «L’oggettività
[va] concepita come […] un compito (un achievement, per dirla all’ingle-
se), non un fatto; il risultato di uno sforzo di integrazione logico-empiri-
ca, non il rispecchiamento passivo di un dato».21 Gli oggetti sono allora
non-naturali: il che non significa non reali o non esistenti; significa che

18 Cfr. R. Guidieri, La route des morts, Seuil, Paris 1980, pp. 401-402.
19 G. Bachelard, La philosophie du non, Presses Universitaires de France, Paris
1940, p. 139.
20 Nel senso aristotelico della riflessione: conoscenza che l’intelletto ha di sé in
quanto sa di conoscere.
21 P. Parrini, Il valore della verità, Guerini e Associati, Milano 2011, pp. 159-160.
78 Nodi della verità

li vediamo attraverso costrutti simbolico-formali costruzioni che dipendo-


no da dispositivi tecnici, come la scrittura simbolica e la formalizzazione,
fondamentali nelle scienze esatte; da dispositivi di schematizzazione e di
modellizzazione, essenziali in tutti i discorsi scientifici, ma attuati in forme
diverse (in fisica prevale ad esempio la modellizzazione attraverso strutture
concettuali matematiche; in antropologia prevale la modellizzazione lin-
guistico-testuale; in sociologia, prevale il metodo statistico); da dispositivi
di messa in discorso di tipo retorico e argomentativo, fondamentali soprat-
tutto nelle scienze umane. Gli oggetti non sono dati, ma diventano visibili
attraverso apparecchi linguistici e strumentali, attraverso quella messa in
scena ideale e vincolata che è l’esperimento, e attraverso modellizzazioni
matematiche o linguistiche. Così è per i geni e per gli elettroni. Ma anche
per l’inconscio in psicoanalisi, per l’altra cultura in antropologia, o per l’a-
zione sociale in sociologia: anche nelle scienze umane una messa in scena
artificiale e controllata (il “setting”, il “campo”, l’“intervista” o la “ricer-
ca survey” in sociologia)22 è il processo temporale e strategico che porta
“qualche cosa” in presenza (anche nella forma di tracce, spie, segnali), e ne
permette la modellizzazione e la concettualizzazione. Nelle scienze umane,
come abbiamo visto, il setting della ricerca consiste in un processo interat-
tivo di parola, in cui, come sottolinea Ian Hacking, gli oggetti, a differenza
di quelli delle scienze naturali, non sono “tipi indifferenti”, ma “tipi inte-
rattivi”, che agiscono e si percepiscono “sotto descrizione”, e reagiscono
di conseguenza.23
Nella prospettiva dell’oggettivazione, diventa possibile sospendere le
false antinomie tra scienze naturali e scienze umane, tra universale e unico,
tra generale e particolare, tra nomotetico e idiografico,24 per pensare in ge-
nerale “oggetti possibili”: come, e attraverso quali configurazioni formali,
gli oggetti diventino pensabili. In questa prospettiva, non vediamo opporsi
la natura al senso e alla storia degli individui, ma semmai consideriamo

22 La survey è un tipo di ricerca in cui si fa uso di un questionario formalizzato


per la rilevazione dei dati e della statistica per l’analisi dei dati (M. Cardano, Il
sociologo e le sue muse. Qualità e quantità nella ricerca sociologica, «Rassegna
italiana di sociologia», 1991, a. XXXII, n. 2, pp. 181-223; L. Ricolfi, La ricerca
empirica nelle scienze sociali: una tassonomia, in L. Ricolfi (a cura di), La ricerca
qualitativa, Carocci, Roma, 1998, pp. 19-44).
23 I. Hacking, The Social Construction of What?, Harvard University Press, Cam-
bridge Mass.1999, pp. 103-104. Cfr. E. Montuschi, Aspetti dell’ontologia sociale,
«Oltrecorrente», 9, 2004, pp. 107-117.
24 Per una ricostruzione critica della distinzione tra Naturwissenschaften e Gei-
steswissenschaften, rinvio a S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le catego-
rie dell’antropologia e della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, cap. 1.
Oggettività e costruzione di oggetti 79

uno spettro che va dai saperi che tendono a organizzarsi integrando il rigo-
re formale e matematico con la sperimentabilità, ai saperi le cui condizioni
di presentazione empirica e le cui forme di oggettivazione e di rigore sono
segnate in modo specifico dai processi di parola e dalla temporalità. Ciò
tuttavia senza riproporre tipizzazioni oppositive: poiché in ogni dominio di
oggettivazione scientifica si pongono, anche se in modi diversi, problemi
epistemologici analoghi, e si realizzano forme di osservazione, sperimen-
tazione, modellizzazione, argomentazione, spiegazione.

3. Oggetti possibili

Abbiamo così raggiunto il problema dell’ontologia degli oggetti scien-


tifici: quale “realtà” compete ad essi? Una realtà non sostanziale, una re-
altà astratta, nel senso non di generale, ma di “ideale” o “virtuale”, cioè
mediata dalla forma, e qualificata attraverso il predicato “possibile”: gli
oggetti conoscitivi sono risultato di una presentazione simbolico-formale;
sono quindi non dati attuali, ma oggetti possibili. La realtà del mondo della
conoscenza non è l’attuale, il semplicemente esistente, ma appartiene a un
ordine che possiamo comprendere come ordine del possibile-virtuale.25 Ma
attenzione: con la dimensione possibile-virtuale dell’oggetto designiamo
non la pura virtualità intellettuale da saturare con delle esistenze, né la
contingenza contrapposta alla necessità, ma piuttosto la necessità formale
dell’oggetto.
Ci soccorre qui il tema del virtuale nel campo delle scienze naturali
quantitativizzate, come è esposto da Cassirer nella sua teoria della forma-
zione dei concetti in Sostanza e funzione. Gli oggetti della fisica sono co-
struzioni concettuali che presuppongono procedure di idealizzazione ma-
tematica: la forma matematica non è da intendere come il generale della
legge, astratto linearmente dal particolare, ma come il modello, l’elemento
schematizzante che permette di collegare in modo determinato il moltepli-
ce intuitivo, e che dà la regola di costituzione del particolare. Così un corpo
chimico è dato dalla sua formula di costituzione, dallo schema che lo indi-
vidua e lo ordina nello stesso tempo nei diversi tipi chimici e in rapporto
agli altri corpi: l’individuo come nodo di una rete di relazioni.26 I concetti
scientifici non sono allora rappresentazioni di cose, ma concetti funziona-

25 Cfr. G.-G. Granger, Le probable, le possibile et le virtuel, Éd. Odile Jacob, Paris
1995.
26 Cfr. E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit., pp. 299-300.
80 Nodi della verità

li che permettono di pensare l’essere attraverso la sua possibilità formale


di costituzione. Con un esempio di Cassirer: nel processo della scoperta
dell’orbita di Marte, le posizioni di Marte, calcolate da Brahe, che Keplero
aveva a disposizione, non contenevano di per sé né lo schema, né la legge
dell’orbita ellittica: erano in altre parole una serie informe. L’analisi della
traiettoria di un corpo può indicare un’infinità di posizioni possibili, ma
queste diventano pensabili e determinabili solo attraverso uno schema, un
modello matematico (l’orbita ellittica, scoperta da Keplero) che le organiz-
za in una forma: la sintesi concettuale, offerta dal carattere schematizzante
e modellizzante della legge, ritaglia una pensabilità finita sull’infinito. La
forma sopraggiunge come modello matematico a integrare le lacune del-
la percezione, e a costruire il reale in una forma di connessione e in una
legge.27 Idealizzazione attraverso la forma matematica e sintesi schema-
tizzante sono le caratteristiche della costruzione concettuale del dato che
avviene nelle scienze fisiche. Nella teoria fisica, il fenomeno numerato e
misurato è risultato di operazioni concettuali: non misuriamo sensazioni
come tali, ma oggetti costruiti concettualmente; in fisica, non si ha a che
fare con colori e suoni, ma con vibrazioni; non con sensazioni termiche o
tattili (calore), ma con temperatura e pressione. Cassirer parla della natura
artificiale, finzionale, prodotta dalla scienza, che sostituisce al continuo
informe della sensazione un mondo configurato in oggetti che sono oggetti
possibili, limiti ideali di oggetti reali in sé impensabili:

Tutte le leggi quantitative, cioè esprimenti un rapporto tra valori misurabili,


valgono in modo esatto solo per il caso ideale.28

Le fondamentali leggi teoriche della fisica parlano continuamente di casi


che non si sono mai dati, né si potrebbero dare nell’esperienza: nella formula
della legge, infatti, il vero e proprio oggetto della percezione è sostituito e
rappresentato dal suo limite ideale. La conoscenza che qui viene ottenuta non
deriva quindi mai soltanto dalla considerazione del reale, bensì anche da quella
delle condizioni e circostanze possibili; essa abbraccia non solo l’accadere at-
tuale, ma anche l’accadere “virtuale”.29

Su questa base, come intendere la virtualità e idealità degli oggetti scien-


tifici? Non tanto nel senso leibniziano della pura variazione intellettuale

27 Cfr. ivi, p. 163.


28 Ivi, p. 178. L’idealizzazione, che Husserl contrappone ad “astrazione”, è un’a-
strazione formale che non è semplice generalizzazione, ma passaggio al limite e
costruzione di una datità ideale.
29 Ivi, p. 235.
Oggettività e costruzione di oggetti 81

contrapposta all’attuale e da saturare con l’esistenza, quanto piuttosto nel


senso kantiano di legge di costituzione che determina possibili oggetti di
esperienza determinandone le condizioni di possibilità.30 Se il possibile
leibniziano rimanda all’opposizione, in ultima analisi metafisica, tra due
regimi dell’essere: le realtà possibili proiettate dalla mente umana o divina,
e l’attualizzazione nell’esistenza,31 in prospettiva kantiana “oggetto possi-
bile” significa invece oggetto costituito, fenomeno reso oggettivo perché
presentato nell’esperienza attraverso la funzione sintetica e schematizzante
della forma. Dunque, la dimensione di realtà dell’oggetto di conoscenza è
una dimensione di possibilità, secondo una sorta di realismo di seconda po-
sizione.32 “Oggetto possibile”, allora, non in quanto opposto all’esistente,
ma in quanto sua condizione di possibilità: il possibile non come variazio-
ne logico-intellettuale, ma come ciò che trasforma kantianamente il reale
(il reale sostanziale dato, in sé impensabile) in oggettivo.33
Il che significa d’altra parte considerare la necessità formale dell’og-
getto di conoscenza: non ricondurlo cioè a un oggetto contingente. In che
senso la modalità del possibile attraverso cui pensiamo l’oggetto di cono-
scenza sia connessa alla necessità, anziché alla contingenza, ce lo sugge-
risce Aristotele parlando della techne, di quel saper fare che è un modo di
«essere nel vero». La techne, dice Aristotele nella Retorica,34 non ha per
oggetto il particolare, l’individuo, che è di per sé apeiron, senza confini,
senza figura, senza forma, ma il tipico, ciò che è delimitato da una forma:
un oggetto reso possibile dalla forma.

30 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, 1781, trad. di G. Gentile e G. Lombardo
Radice, Laterza, Bari 1965, p. 181.
31 Cfr. G.-G. Granger, Le probable, le possibile et le virtuel, cit., pp. 23 e sgg.; V.
Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 65 sgg.
32 Cfr. E. Cassirer, Sostanza e funzione, cit., p. 408.
33 Se il possibile cassireriano è legato alla concezione kantiana della forma come
inerente alla possibilità del contenuto, dove Cassirer trasforma (e si stacca da) il
trascendentale kantiano non è tanto nel tema del possibile, quanto nel tema tele-
ologico dell’infinitizzazione delle forme, e quindi nel reinserimento di un tema
noumenico, o anche di totalizzazione hegeliana. Per una critica agli ultimi inva-
rianti logici alla base dell’esperienza di cui parla Cassirer, cfr. P. Parrini, Sapere e
interpretare, cit., pp. 102-103.
34 Aristotele, Retorica, L. I, cap. 2, 1356 b 30-35.
4
RAPPRESENTABILE E IRRAPPRESENTABILE.
IL CONCETTO DI DARSTELLUNG
NELLE SCIENZE UMANE

Ogni volta che ci poniamo il problema di come comprendiamo o acce-


diamo al senso, ogni volta che ci poniamo un problema di interpretazione
di significati, si impone a noi il nesso tra tacere e dire, tra rappresentabile
e irrappresentabile, tra ciò che si dice e ciò che non si lascia dire. Si tratta
di un nesso epistemologico e ontologico insieme: il che significa che nel-
le scienze del senso il comprendere non è separabile dall’essere; che in
scienze umane, non c’è senso che non sia coniugato con sottrazione e de-
limitazione, che non sia apertura orlata da silenzio. Ma significa anche che
questo orlo invisibile è nello stesso tempo vitale e produttivo, dinamico e
processuale: è la zona di silenzio e di invisibilità, di vuoto e di distanza, da
cui emerge il senso. Se vogliamo allora pensare la comprensione del senso,
dobbiamo ricorrere a concetti che ci permettano di parlare del senso, e del
suo rapporto con la cosa, non come semplice rapporto di sostituzione, sim-
bolicità, qualcosa che stia per un referente dato, ma più radicalmente come
figuralità indiretta e (ricorrendo a un concetto di Derrida) supplementare:
il senso come supplemento di qualcosa che si sottrae. Kant e Wittgenstein
ci offrono il concetto di rappresentazione come Darstellung, che significa
non riproduzione diretta della cosa (Vorstellung), ma presentazione indiret-
ta di un essere che si sottrae, presentazione che ha interiorizzato il divieto a
dire direttamente e esaustivamente la cosa;1 c’è un nesso costitutivo tra ciò

1 Vorstellung designa un’attività cognitiva: idea, rappresentazione, concetto, ripro-


duzione mentale dei dati dei sensi; Darstellung designa invece un’attività esibiti-
va: descrizione, presentazione intuitiva che mette davanti agli occhi, anche in for-
ma grafica: «La Darstellung è la rappresentazione […] nel senso della figurazione
visuale e, talvolta, della rappresentazione teatrale» (J. Derrida, La scrittura e la
differenza, 1967, trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 260). Come osserva
Max Black (Manuale per il “Tractatus” di Wittgenstein, 1964, trad. di R. Simone,
Ubaldini, Roma 1967, p. 80), il significato del verbo darstellen è vicino a zeigen
(mostrare), e corrisponde all’inglese to present, più che a to represent. Il valore se-
mantico esibitivo di darstellen è confermato dalla storia della parola, «composta
da stellen, porre, e da dar, derivante dalle antiche forme germaniche thara, dara,
dare, che indicano il movimento verso qualcosa, evidenziando contestualmente il
84 Nodi della verità

che Freud chiama Darstellbarkeit, raffigurabilità, e Wittgenstein chiama


Darstellung, presentazione, o Bildhaftigkeit, figuratività, e l’impossibilità
di rappresentare; c’è un nesso tra il figurabile e il non rappresentabile onto-
logico. Il pensiero come figuralità supplementare, connesso a un’ontologia
della mancanza, dunque.
Per pensare questi temi, possiamo parlare di statuto figurale, o finzio-
nale, degli oggetti in scienze umane.2 Lo statuto finzionale delle scienze
umane, o dei saperi del soggetto, può essere considerato sotto più aspetti.
1. In primo luogo, sotto l’aspetto ontologico, la figuralità supplementare
implica un’ontologia degli oggetti possibili opposta all’ontologia empirista
e positivista del dato.
2. In secondo luogo, sotto l’aspetto epistemologico (o, meglio, sotto l’a-
spetto del nesso tra statuto del sapere e ontologia), finzione significa che la
conoscenza del senso implica un regime figurale indiretto e supplementare,
che supplisce alla mancanza dell’oggetto in presenza: un regime presenta-
tivo supplementare – dove “supplementare” significa non semplicemente
sostitutivo, ma connesso a un’ontologia della mancanza (regime della pre-
sentazione del non rappresentabile, opposto al regime della rappresenta-
zione del dato).

1. Finzione e ontologia degli oggetti possibili

Con Cassirer, possiamo dire che i saperi non hanno di fronte un mondo
già articolato in oggetti dati come sostanze; piuttosto, gli oggetti dei sape-
ri sono risultato di procedure formali di oggettivazione, o di costituzione
d’oggetto.
Questo è il presupposto del punto di vista finzionale, che considera il
sapere come figuralità supplementare: gli oggetti sono il risultato di pro-
cedure di oggettivazione. Ciò significa che gli oggetti non sono dati come
enti sostanziali, ma sono oggetti possibili: In che senso una prospettiva fin-
zionale proietta un’ontologia del possibile? Dal punto di vista finzionale, il
mondo non è là, ma è reinventato attraverso la forma; e la conoscenza non
è riproduzione dei dati percettivi, ma è la capacità simbolica tipicamente

distacco da qualcosa d’altro» (G. Semerari, Sperimentazioni, Schena, Bari 1992,


p. 109). L’opposizione semantica tra i due termini è rilevante sia in Kant che in
Wittgenstein.
2 Sulla figuralità del pensiero e sul concetto di finzione, cfr. S. Borutti, Filosofia
dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina,
Milano 2006, I Parte.
Rappresentabile e irrappresentabile 85

umana di costruire il mondo percettivo, di dare ad esso una forma, di confi-


gurarlo. Il che significa che la rappresentazione conoscitiva non è copia di
quello che vediamo, ma è la forma che rende possibile il vedere. La cono-
scenza, come mostra Cassirer nella Filosofia delle forme simboliche, non è
immagine iconica della cosa che è là, in presenza, ma è funzione simbolica
che è il supplemento di un’assenza: è cioè la funzione attiva, tipicamente
umana, del lasciar essere assenti le cose in quanto dati, in quanto presenza
tematica, e di poterle presentare invece nella distanza, mediate e costruite
da quella funzione schematica, di configurazione, di articolazione, di sinte-
si del contenuto, che Cassirer chiama “forma” la forma che può essere un
nome, un simbolo, una rappresentazione conoscitiva o artistica, un mito,
un modello scientifico, un racconto, una teoria. La forma simbolica è in
fondo l’elaborazione figurale del lutto per l’assenza dell’oggetto concreto:
è rinuncia alla sua presenza effettiva, e elaborazione dell’assenza attra-
verso la finzione della forma. Il valore della forma simbolica non è allora
mimetico, non è in ciò che essa mantiene del contenuto sensibile, ma in
ciò che sopprime, seleziona, lascia cadere dei dati cioè in ciò che permette
di vedere e rende così pertinente.3 In sintesi, il modello cassireriano della
forma simbolica come supplenza ci permette di pensare tre tratti fonda-
mentali dell’elemento figurale: il tratto della libertà, che significa libertà
dal concreto, liberazione dalla presenza sensibile e assenza della cosa; il
tratto della simbolicità, cioè della figuralità in quanto immagine-schema,
non copia della cosa in presenza, ma funzione schematica di configurazio-
ne, o regola di formazione del contenuto; il tratto della creatività, cioè della
funzione spontanea, attiva e formatrice.
Dal punto di vista finzionale, la conoscenza è vista come questa dinami-
ca: è in altre parole la capacità di trascendenza (“trascendenza” nel senso
attivo di movimento di trascendenza, dell’andar oltre, del superamento di
sé nella direzione dell’altro da sé, e quindi dell’anticipazione immagina-
tiva, formale, dell’oggetto) e di distanza rispetto alla “cosa” concreta; e
ciò che conosciamo non è il dato, ma il modo con cui l’abbiamo costruito
e ce lo siamo presentati organizzandolo e rendendolo visibile attraverso
una forma: dunque, non l’oggetto dato, ma l’oggetto possibile, l’oggetto
di un riconoscimento formale possibile. Ad esempio, anche nell’attività
che appare la più disinteressata possibile, la contemplazione delle stelle,
il nostro sguardo non è passivo e innocente, ma è già condizionato dal-

3 E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche I. Il linguaggio, 1923, trad. di E.


Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 51. In questa prospettiva, Paul Klee
diceva che il disegno è «l’arte dell’omissione».
86 Nodi della verità

la forma: guardiamo infatti a partire da una certa fabbrica dei cieli, guar-
diamo almeno attraverso uno sguardo postcopernicano e uno sguardo in-
tertestuale. Potremmo riprendere a questo proposito il tema del desiderio
come trasformazione e specificazione umana (antropogena) dell’appetito
(Begierde) con cui Hegel inaugura la dialettica dell’autocoscienza nella
Fenomenologia dello spirito (trasformando il tema hegeliano in senso an-
tropologizzante): il desiderio antropogeno è il differire, il supplemento che
scinde continuamente la stabilità di una configurazione. Potremmo dire che
conoscere è più vicino al desiderio, che configura l’oggetto in un progetto
e lo presentifica nell’anticipazione immaginativa, che non fruisce imme-
diatamente dell’oggetto, ma lo lavora, gli dà una forma immaginativa; che
non all’appetito-bisogno (inteso in senso animale, istintuale), che coincide
con la presenza dell’oggetto, e quindi con l’oggetto consumato; conoscere
è anticipare una forma del mondo in un progetto, è immaginare, inventare,
non reagire a stimoli in presenza, reificandosi nell’oggetto.
In che senso una prospettiva finzionale proietta un’ontologia del possi-
bile? Si può comprenderlo attraverso l’opposizione aristotelica episteme/
techne. Dal punto di vista finzionale, che oppone all’idea del conoscere
come un rappresentare, contemplare, riprodurre il mondo (theorein), l’idea
del conoscere come un produrre (poiein) non iconico, il pensare appare più
vicino al concetto di techne in quanto fare insieme pratico e concettuale,
che non al concetto di episteme, scienza teoretica. Il teoretico, la vera cono-
scenza per Aristotele ha a che fare con ciò che non può essere diversamente
da come è, con l’ontologicamente necessario, il dato, il costante, l’immu-
tabile, ciò che esiste con assoluta necessità e che ha il proprio principio in
sé, di cui la scienza deve dimostrare deduttivamente (attraverso sillogi-
smi a partire da principi) cause e relazioni. È questa un’idea contemplativa
di scienza, come riproduzione della struttura necessaria del reale. L’arte
(techne) ha invece ha che fare con ciò che può essere diversamente, con la
modalità dell’essere che è tipica del mondo pratico dell’azione e del mondo
poietico (poieo: fabbricare, costruire, lavorare) della creazione: ha a che
fare dunque col possibile, il cui principio è in chi crea.4 La conoscenza
come modellizzazione supplementare può essere avvicinata alla dimensio-
ne poietica in quanto produzione del possibile, arte del far apparire una
forma possibile, del presentare un oggetto possibile, non tanto del rappre-
sentare ciò che è necessariamente là. La conoscenza con i suoi modelli teo-
rici proietta mondi, configura mondi di oggetti; e il mondo non è là, ma è la
varietà delle sue versioni, delle configurazioni di dati proiettate, progettate

4 Aristotele, Etica nicomachea, L. VI, capp. 3-4.


Rappresentabile e irrappresentabile 87

dai modelli e dal lavoro formale: direi che è un mondo non rappresentato,
ma presentato attraverso l’invenzione formale
Affrontiamo ora il secondo punto: da un punto di vista epistemologico,
finzione significa un regime figurale legato al sottrarsi dell’oggetto dunque,
un regime figurale indiretto, non rappresentativo.

2. Finzione e epistemologia della conoscenza

Se la finzione è presentazione formale di oggetti possibili, quali sono


le condizioni della presentazione di oggetti nelle scienze del senso? Cos’è
il Bilden, il configurare in quest’ambito? Nelle scienze esatte, è la forma
estensionale della legge che domina, la forma è la legge (enunciato uni-
versale che descrive le proprietà di un insieme di oggetti): gli oggetti sono
allora concepiti come oggetti dotati di proprietà rappresentate da una leg-
ge; sono degli oggetti-classe, oggetti caratterizzati da tratti pertinenti e da
criteri di appartenenza, e concepibili come i casi equivalenti e omogenei
di una legge. La forma nelle scienze del senso non dipende dalla legge, e
quindi dalla rappresentazione tematica degli oggetti come “cose”. Pensia-
mo a un evento storico, o a un significato culturale: che forma è quella che
li rende visibili? Si tratta in primo luogo di una forma che deve presen-
tare l’oggetto in modo indiretto (una forma intensionale, interpretativa),
una forma che abbia interiorizzato l’assenza dell’oggetto come presenza
tematica e referenziale. Da questo punto di vista, è una figura retorica ciò
che individuiamo alla base del procedere conoscitivo e argomentativo delle
scienze umane: la figura della presentazione o ipotiposi o Darstellung –
una figura di discorso che “fa vedere” l’argomento: è la figura del “porre
davanti agli occhi”, evocare le cose come se fossero presenti, mostrarne un
quadro. Cosa significa dire che la presentazione è il nucleo figurale della
finzione che è la conoscenza del senso? Poiché la presentazione è un pro-
cedimento conoscitivo e argomentativo non direttamente rappresentativo –
supplemento di una sottrazione di presenza – ciò significa che le condizioni
del senso e dell’oggettivazione del senso in scienze umane sono coniugate
alla sottrazione, e dunque al limite e all’irrappresentabile.
In primo luogo, il tema della presentazione può essere chiarito attra-
verso la nozione kantiana di sublime, o presentazione dell’impresentabile:
possiamo pensare l’oggetto in scienze umane come oggetto sublime, in un
senso che ora chiarirò. La nozione di sublime della Critica del Giudizio di
Kant può aiutarci a pensare il doppio legame tra presentazione finzionale e
irrappresentabilità tematica dell’oggetto. Nell’Analitica del sublime, Kant
88 Nodi della verità

definisce il sublime come presentazione (Darstellung) senza rappresen-


tazione (Vorstellung) vale a dire, come esibizione, presentazione indiretta
(simbolica o analogica) di ciò che non si può rappresentare intellettualmen-
te attraverso concetti. Kant scrive:

Si può definire così il sublime: è un oggetto (della natura) la cui rappresenta-


zione [Vorstellung] determina l’animo a pensare come un’esibizione [Darstel-
lung] di idee l’impossibilità di raggiungere la natura.5

Il sublime è dunque presentazione (Darstellung) senza rappresenta-


zione (Vorstellung), esibizione indiretta che sostituisce un’impossibilità
di rappresentazione intellettuale (come è il caso per le idee della ragio-
ne, ad esempio l’idea di Dio). Il tema della Darstellung sublime, che è
presentazione (supplemento) del non-rappresentabile, è al centro di una
problematica che attraversa la Prima e la Terza Critica, e che avvicina la
tematica teoretica all’estetica. A prima vista, c’è un’opposizione netta tra
la Vorstellung, la rappresentazione cognitiva, la determinazione categoriale
della Critica della Ragion pura, e la Darstellung, la presentazione esibi-
tiva, indiretta, riferita al soggetto, della Critica del Giudizio (il cui nucleo
figurale, dice Kant nel § 59, è l’ipotiposi: «esibizione [Darstellung], subie-
ctio sub adspectum»).6 Ma per Kant di fatto l’operazione dell’esibizione
non è semplicemente l’opposto della rappresentazione conoscitiva. Al con-
trario, l’operazione dell’esibizione appartiene anche alla rappresentazione
cognitiva, perché l’applicazione delle categorie alle cose non è immedia-
ta, ma richiede l’operazione immaginativa degli schemi, che presentano
immaginativamente in assenza della cosa: c’è figuralità nella conoscen-
za. Kant usa la figura della presentazione-ipotiposi per parlare sia della
presentazione indiretta dell’oggetto di un’idea della ragione (ad esempio,
presentare l’idea di Dio attraverso l’analogia col padre), sia per parlare
degli schemi, cioè dell’operazione immaginativa che, nella conoscenza in-
tellettuale, permette di far corrispondere un oggetto sensibile a un concetto
(ad esempio, presentare il concetto sensibile puro di triangolo attraverso
lo schema, o regola di costruzione della sua immagine). In questo modo,
Kant avvicina la presentazione schematica dei concetti alla presentazione
indiretta delle idee, come due specie dello stesso genere – del genere esibi-
tivo della presentazione. Si può dunque parlare in generale di una funzione
trascendentale della struttura della presentazione, o presentificazione, che

5 I. Kant, Critica del giudizio, trad. di A. Gargiulo, rivista da V. Verra, Laterza,


Roma-Bari 19842, pp. 120-121.
6 Ivi, p. 215.
Rappresentabile e irrappresentabile 89

è l’operazione dell’immaginazione, e notare che il tema esibitivo, e dunque


l’operazione dell’immaginazione, appartengono intimamente alla struttura
trascendentale della conoscenza. E in più, se Kant adopera il nome di una
figura retorica per designare la funzione trascendentale della Darstellung,
si può dire che il tema della presentazione introduce il Bilden, la spon-
taneità e produttività dell’immaginazione, la figuralità, nel Bauen, nella
costruzione del reale, e introduce l’aspetto, il comparire di una forma, nella
distanza oppositiva del reale, dell’oggetto in quanto Gegen-stand. L’im-
maginazione in quanto produzione di forma agisce sia nella conoscenza
teoretica, che nella riflessione estetica: la Darstellung è la struttura trascen-
dentale che significa la supplementarità della nostra esperienza del senso.
Il sublime pone alla conoscenza il problema-chiave dello scarto tra pre-
sentazione e oggetto – oggetto inteso in senso tematico, come essere-là della
cosa. In questo modo, il discorso sublime è posto in una zona cruciale della
conoscenza, perché instaura una dimensione finzionale di senso (apertura
e negazione, dire e tacere) nel momento stesso in cui esibisce l’assenza di
un dire scientifico e veritativo, cioè rappresentativo d’oggetto, e l’assenza
di una verità intesa come certezza, come accesso all’oggetto. È questa fi-
gura della presentazione del non rappresentabile, della presentazione come
supplenza della mancanza radicale dell’oggetto, che caratterizza il regime
finzionale degli oggetti in scienze umane. Ne consegue che la sottrazione
della presenza e dell’origine è nella costituzione degli oggetti di questo
dominio: è ciò che Wittgenstein dice a proposito dell’oggetto-linguaggio,
attraverso i temi dell’indicibile e del limite del dire (non possiamo dire il
senso come un oggetto, possiamo solo mostrarlo) – che sono dei temi non
tanto a tono esoterico, quanto a valore epistemologico, perché pongono il
problema dell’irrappresentabile nel dominio dell’analisi del linguaggio e
della significazione. A partire dal Tractatus, l’attività filosofica, in quanto
messa in forma dell’oggetto-linguaggio, ha secondo Wittgenstein due tratti
essenziali: l’esibizione-presentazione, ciò che egli chiama “mostrare”, e il
limite-delimitazione, la proibizione del dire rappresentativo – che sono di
fatto i due tratti della figura discorsiva e argomentativa sublime. Il silenzio
finale del Tractatus, il silenzio che dice che le proposizioni appena dette
sono insensate e indicibili, suggerisce proprio questo doppio legame tra la
finzione e il suo sfondo informe: l’opera stessa è allora una grande ipotipo-
si – un’ipotiposi che esibisce il fatto del linguaggio, mostrando nello stes-
so tempo che questo fatto “assoluto” (il fatto che il linguaggio ci apre un
mondo) non è rappresentabile. Il significato è per Wittgenstein un oggetto
sublime, perché non si può dare la costituzione del senso che mostrando
uno sfondo indicibile. Ciò che si mostra (tratto della presentazione) nel
90 Nodi della verità

nostro “dire” sensatamente il mondo, è il sentimento del fatto del linguag-


gio in quanto fondo irrappresentabile (tratto del limite, che nel Tractatus
ha sia il valore positivo del fondo che si mostra, o mistico, o silenzio come
origine del senso, sia il valore negativo del silenzio metalinguistico sulle
condizioni del dire, o silenzio sull’origine del senso).7
Abbiamo parlato della finzione come rappresentazione del non rappre-
sentabile. Ora, considerare la finzione che è la conoscenza del senso come
supplenza di una mancanza radicale d’oggetto è nello stesso tempo evacua-
re l’idealismo (onnipotenza del linguaggio e del soggetto) che può essere
sottinteso dalla concezione della finzione come costruzione linguistica del
mondo (poiesis). Questo stesso tema può essere detto in due modi. 1. Da
un punto di vista epistemologico, criticando il limite della prospettiva ide-
alistica sul senso e sul linguaggio; 2. Da un punto di vista ontologico, risa-
lendo alla doppia radice del senso in scienze umane, che definirei insieme
poietica ed estatica.
1. In scienze umane si fa esperienza del doppio legame tra linguaggio
e mondo: il rapporto col mondo, la semantica, ce l’abbiamo solo in quel
sintomo, in quel rappresentante dell’oggetto, che è il linguaggio; ma se il
linguaggio è il grande intermediario, che conduce il soggetto presso il suo
oggetto, non ne è tuttavia che un rappresentante; il linguaggio è insieme
condizione e limite, ciò che svela e ciò che copre. Il mito occidentale della
traduzione completa in linguaggio è impossibile, ma nello stesso tempo
è il linguaggio che configura per noi il rapporto tra visibile e invisibile,
corpo e senso, carne e idealità, immanenza e trascendenza: il linguaggio è
la nostra trascendenza limitata. La finzione in scienze umane va compresa
dunque come procedura che è costruttivo-poietica in senso non idealistico:
conoscere non è solo invenzione formale del mondo, non è solo forma: non
dobbiamo perdere di vista il tema del lutto, cioè il nesso tra l’elaborazione
formale e la mancanza radicale dell’oggetto, un lutto che ha una valen-
za malinconica, poiché in conoscenza non sappiamo che oggetto abbiamo
perduto, non sappiamo cosa sia l’oggetto in sé. Se non si tiene conto del
nesso tra finzione formale e lutto dell’oggetto, il punto di vista costruttivo
rischia l’ottimismo idealistico e rappresentativo, rischia di avallare l’idea
della traducibilità completa del mondo in linguaggio. Ma di fatto la cono-
scenza non è mai restituzione linguistica della trasparenza dell’oggetto:
è piuttosto un trattamento formale (“formale” nel senso non formalistico
di schematico, immaginativo, metaforico, modellizzante) di una distanza

7 Cfr. S. Borutti, Leggere il Tractatus logico-philosophicus, Ibis, Como-Pavia 2010,


cap. 4.
Rappresentabile e irrappresentabile 91

irrimediabile – un trattamento che elimina, aggiunge, seleziona, satura e


sutura al fine di dare a vedere, ma che non arriverà mai a ricomporre in cor-
rispondenza rappresentazione e realtà. Per esempio, possiamo certo adot-
tare in scienze umane la finzione ermeneutica, che ci permette di pensare
gli altri soggetti come se fossero dei testi, con cui mettersi in un rappor-
to di comprensione dialogica. La prospettiva interpretativa permette così
di prendere le distanze dal modello positivistico della conoscenza come
osservazione-descrizione neutrale di “cose”, e insegna a non reificare gli
oggetti individuali e socio-culturali. Tuttavia, i modelli del testo e del dia-
logo, se assolutizzati, rischiano di proporsi come la chiave della compren-
sione senza scarto, come se ci fosse data una via linguistica alla trasparenza
dell’oggetto. Di contro, il senso dell’altro non è solo linguaggio e grafismo,
ma è anche senso incarnato, e dunque affetto, opacità, passione, corpo vi-
vente inconoscibile nell’informe della sua sofferenza, della sua pulsione,
del suo desiderio, della sua felicità: c’è dell’intraducibile ontologico. Se è
vero che ogni comprensione è linguaggio e forma, ogni comprensione ha
anche a che fare con l’intraducibile e con l’informe; non bisogna dimenti-
care che la finzione formale è lavoro di presentazione di un essere mancan-
te. C’è un nesso costitutivo tra la Darstellbarkeit, la figurabilità, l’elemento
utopico del senso, e il non rappresentabile ontologico, il fondamento ou-
topico (legato a un “non”, a una sottrazione) dell’essere dell’uomo.
2. Questo residuo che i nostri modelli epistemologici non devono di-
menticare, da un punto di vista ontologico può essere pensato come l’ele-
mento estatico del senso. Da una parte, il carattere di finzione del pensiero
significa che il riferimento, l’oltre (il mondo) non è il dato, l’altro dato al
pensiero e riprodotto nel pensiero, ma è in costituzione, è il costituirsi e
ricostituirsi dinamico dell’alterità attraverso la forma (elemento poietico: il
farsi immagini come poieticità); ma, dall’altra parte, la messa in immagine
si radica nell’ontologia temporale finita del pensiero (elemento estatico: il
farsi immagini come estaticità e esposizione). La trascendenza attraverso
la produzione figurale-immaginativa è il modo indiretto secondo cui un
ente finito come l’uomo può avere un mondo di oggetti, è l’utopia di un es-
sere ou-topico – sapendo che la cosa in sé si sottrae, è impresentabile, e che
la verità per un ente finito è sempre connessa a una sottrazione originaria, è
uno svelamento che è sempre insieme un velamento, è una manifestazione
legata a un limite, è un portare alla visibilità relativo alla processualità e di-
namicità di uno sfondo invisibile. Con “finzione” mi sono riferita appunto
a questa logica paradossale, perché indiretta e supplementare, del senso.
Una logica paradossale che possiamo pensare attraverso un’idea poietica
e insieme estatica dell’immagine: nell’immagine, qualcosa si dà ritraen-
92 Nodi della verità

dosi, rimanendo radicalmente altro; un visibile resta legato alla sua fonte
invisibile. In questo contesto, intendiamo la finzione non come “fingere”,
irrealizzare ciò che si presenta, ma come “presentare”, portare in presen-
za nella forma, essendo esposti a ciò che è in sé impresentabile. Un’idea
poietica e insieme estatica della rappresentazione comporta che si pensi
qualcosa che si dà ritraendosi, rimanendo radicalmente altro e invisibile;
qualcosa che richiede che ci esponiamo a un supplemento di forma. La fin-
zione dunque come logica paradossale, cioè indiretta e supplementare, del
senso: logica non semplicemente sostitutiva, ma supplementare, che sup-
plisce cioè a un essere in sottrazione. La funzione figurale non è semplice
sostituzione immaginativa della cosa assente: l’oggetto non è solo assente,
ma non si sa che cosa è, non lo si può sapere come una cosa, come questo o
quello; è, nei termini di Heidegger, non ente, ni-ente, Nulla. La sottrazione
originaria dell’essere comporta che la finzione sia copia senza originale,
utopia del senso supplementare che si erge sul non-luogo (ou-topia) del
senso originario, e sul suo carattere inquietante (nel senso freudiano di
“das Unheimliche”: il familiare che doveva rimanere nascosto, e che inve-
ce riaffiora):8 la radice immaginativa della ragione ci è da sempre familia-
re, e da sempre sconosciuta, ci inquieta come la familiarità dell’estraneo.9
I due elementi vanno mantenuti come complementari, se vogliamo pen-
sare correttamente la finzione. Se l’elemento poietico è la libertà dalla cosa
(il potere di fare a meno della presenza) e la sua sostituzione attraverso
l’immagine, l’elemento estatico è ciò che chiama l’uomo a esporsi alle
immagini. Ricordiamo il significato greco arcaico di mimeisthai: «condur-
re alla rappresentazione attraverso la danza» cultuale, attraverso una mes-
sa in scena complessa che unisce gestualità corporea, accompagnamento
musicale e parola narrante; il mimeisthai come produzione di un mondo
nell’azione rituale, come esposizione di una realtà mediata da una forma
immaginativo-schematica, che chiama lo spettatore fuori di sé.10 Ritrovia-
mo nella nostra parola “rappresentazione” il problema che ci consegna la
parola mimesis nel suo significato arcaico: nel re-praesentare è implicito il
rapporto tra presenza e assenza, l’intreccio tra presentazione dell’essere e
venire in presenza dell’essere da un fondo dinamico di invisibilità.

8 Cfr. S. Freud, Il perturbante, 1919, trad. in Opere, a cura di C. L. Musatti, Borin-


ghieri, Torino 1977, vol. 9, pp. 81-118.
9 I temi della radice immaginativa della ragione e del nesso tra la finitezza e l’uma-
no farsi immagini sono al centro del Kantbuch di Heidegger: Kant e il problema
della metafisica, 1929, trad. a cura di V. Verra, Laterza, Roma-Bari 1981.
10 Cfr. H. Koller, La mimesis nell’antichità, «Studi di estetica», 7/8, 1993, pp. 13-26.
Seconda Parte
1
SENTIMENTO E SCRITTURA
DELL’ALTRO IN ANTROPOLOGIA

Tra le scienze umane, l’antropologia – nella forma classica dello «sguar-


do da lontano», portato su culture radicalmente altre – è un caso esemplare
di sapere dell’altro (degli altri soggetti, delle altre culture). Ed è un sapere
esemplare, perché ha a che fare con un’iperbole dell’altro, che è relativa a
un’iperbole dell’io: l’altro iperbolico sono le culture cosiddette primitive,
l’io iperbolico è l’Occidente. Ora, l’orizzonte di possibilità e di pensabilità
di un sapere dell’altro non può che essere un’etica del sapere1 che si dà
come presupposto – almeno al modo ottativo – l’impegno ad assumere
l’altro non come un oggetto, una cosa, ma come un soggetto in una rela-
zione di senso. Da un punto di vista epistemologico, ciò significa assumere
un modello specifico, secondo cui la comprensione antropologica non è
pensabile né secondo un modello positivista e riduzionista, come riduzione
dell’alterità a un insieme di fatti empirici oggettivamente dati, né secondo
un modello interpretativo di tipo soggettivista e romantico, come empatia,
Einfühlung, immedesimazione, trasferimento vitale nel mondo dell’altro.
La comprensione antropologica è piuttosto (come il tradurre: ne riparlere-
mo) una pratica della differenza, un tornare presso di sé dopo essere stato
presso l’altro, e un tentativo di dire l’altro nella propria lingua. Vedremo
che questa prospettiva richiede che la questione del sapere dell’altro sia
trasformata nella questione dell’esperienza dell’altro come esperienza di
ciò che si dice e, ad un tempo, di ciò che non si lascia dire.

1. Virtù e limiti dell’antropologia interpretativa

Nell’antropologia della seconda metà del Novecento, il problema di


un’etica delle scienze umane è stato affrontato dall’interpretativismo, che
ha messo al centro della sua proposta epistemologica e metodologica il

1 Potremmo dire: l’ethos, nel senso indicato da Heidegger di radice, dimora, sede,
apertura di un luogo: M. Heidegger, Lettera sull’«umanismo», 1976, trad. a cura
di F. Volpi in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, p. 306.
96 Nodi della verità

progetto di un sapere non reificante, capace di assumere l’altro come un


insieme di significati con cui entrare in relazione. Ricostruirò qui i tratti
fondamentali e il rilievo etico del modello interpretativo, per poi vederne i
limiti connessi a ciò che in questo modello rimane impensato, e che chiamo
il «sentimento dell’altro».
L’approccio interpretativo è interessante in quanto è sostanzialmente
antipositivista: mira a denaturalizzare gli oggetti del sapere antropologico,
a mostrare che i fatti culturali non sono pensabili come «cose», ma sono
strutture di senso, che entrano in rapporto con altre strutture di senso. Pos-
siamo raccogliere le caratteristiche epistemologiche di questo approccio
intorno a tre punti qualificanti.
In primo luogo, il punto di vista interpretativo esclude un’immagine
reificata degli oggetti di conoscenza: gli oggetti antropologici non sono
riducibili a «cose» separate dai modi secondo cui li conosciamo. Poiché si
tratta di entrare in relazione con significati e strutture soggettive e sociali
di senso, le condizioni dell’osservazione e della concettualizzazione sono
in questo dominio peculiari. La relazione conoscitiva comporta prossimità
e coimplicazione, anziché distanza metodologica e metalinguistica: non
si può, in altri termini, parlare di oggetti che sono istituzioni e produzioni
di senso di individui, senza interagire con essi in un processo di parola, e
senza far interagire diversi orizzonti di appartenenza storica e sociocul-
turale, diverse forme di vita. La scena della conoscenza ha la forma di
uno scambio dialogico, e dunque avviene nel linguaggio e nel tempo: si
instaura in questo modo una relazione comprendente, che l’interpretativi-
smo contrappone alla metodologia della spiegazione. «Spiegare» è ricon-
durre fenomeni alla struttura formale di una teoria, e quindi considerare i
fenomeni come eventi che sono casi anonimi di una legge universale. Un
oggetto in una scienza naturale non è in questo senso un oggetto specifi-
co, individuale, ma è il caso di una legge: ha proprietà che sono descritte
da una legge, e che condivide con gli oggetti che appartengono alla stes-
sa classe.2 L’interpretativismo pone di contro il problema della specificità
degli oggetti, considerati come strutture di significato. Ma cosa significa

2 Un evento spiegato con una legge è collocato nell’opposizione tra particolare e


universale: è cioè pensato come un individuo indipendente dal significato e dalle
finalità dell’insieme a cui appartiene – secondo quella finzione metodologica che
è l’analisi del complesso nell’elementare, che Hans Jonas chiama «astinenza»
delle scienze naturali dall’ontologia dei soggetti, dalla loro teleologia e dai loro
orizzonti culturali di senso (H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per
la civiltà tecnologica, 1979, trad. a cura di P. P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990,
p. 88).
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 97

oggi dire che compito delle scienze umane è comprendere dei significati?
L’ermeneutica contemporanea ha preso le distanze dall’idea romantica e
storicista di individuo come unità psicologica irripetibile, e quindi dalle
metodologie (diltheyane) del comprendere inteso come un ri-vivere (nach-
erleben) empatico. Il problema degli oggetti delle scienze dell’uomo viene
piuttosto visto come il problema della specificità differenziale dei signifi-
cati, e le metodologie conoscitive cercano di trasformarsi nella direzione di
un comprendere che conservi la dimensione della differenza dell’altro. Un
antropologo non deve diventare empaticamente l’altro: se diventa un na-
tivo, il suo comprendere è diventato partecipazione immediata e irriflessa
a un «essere». Il suo viaggio è senza ritorno «comprendente», poiché egli
ha smarrito lo scarto e la differenza ontologica tra la propria forma di vita
e quella dell’altro; ha smarrito la distanza come quel luogo di transazione
e di perturbazione reciproca, che è la condizione della rappresentazione
dell’altro. In antropologia si comprende contrastivamente.
In secondo luogo, in situazione interpretativa il soggetto conoscente non
è un soggetto neutro, senza tempo e senza luogo, che abbia a disposizione
attrezzi metodologici costruiti in un linguaggio ideale, ma conosce a partire
dal proprio essere storico e dalla propria appartenenza a una tradizione e a
una comunità.3 Il comprendere è una struttura di precomprensione, un’an-
ticipazione di senso mediata da uno sfondo di schemi, modelli, orizzonti
interpretativi, che selezionano e orientano il modo di vedere. Il soggetto
del sapere antropologico è una figura dell’appartenenza a un orizzonte di
vincoli concettuali e strumentali: gli strumenti del suo comprendere non
sono metodi neutri e universalmente applicabili, ma sono il suo «sfondo»;
sono segni, tracce, strutture linguistiche cariche dei significati derivati da
una tradizione e da un intertesto di discorsi e di concettualizzazioni.
Il terzo tratto che distingue gli approcci interpretativi riguarda il modo
configurante della conoscenza: l’atto conoscitivo è inteso non come un’in-
ferenza logica in senso stretto (di tipo induttivo o deduttivo), ma come
riconfigurazione di un campo problematico di dati in una sintesi di senso. È
ciò che Ricoeur chiama «ridescrizione poietica», valorizzando il carattere
costruttivo e configurante della conoscenza come reinvenzione del mondo,
di per sé informe, dei dati, attraverso il supporto iconico di metafore e mo-
delli interpretativi (come ad esempio i modelli del «racconto», del «testo»,
del «dialogo»). Questo è il procedimento comprendente che Wittgenstein

3 È questo il tema gadameriano della storicità della comprensione, derivato dal


tema heideggeriano della comprensione intesa come categoria ontologica dell’e-
sistenza, anziché come a priori formale e metodologico.
98 Nodi della verità

chiama «vedere come», e Peirce «invenzione abduttiva di ipotesi»: non


un’induzione a partire da una collezione di dati particolari, né una deduzio-
ne a partire dal generale della legge, ma piuttosto la capacità di far emer-
gere una forma, una configurazione significante negli eventi attraverso la
mediazione di metafore e modelli.
Ora, l’approccio interpretativo è importante, ma limitato: ha insegnato
un’etica della conoscenza dell’altro, sostanzialmente un’etica del compren-
dere, ma, limitando il comprendere a eventi essenzialmente verbali (dia-
logo, scambio linguistico, trascrizione testuale), ha trascurato la passione
dell’altro. Ha trascurato in altre parole il fatto che l’esperienza che l’antro-
pologo fa dell’altro sul campo non è pura comprensione linguistico-verbale,
ma è anzi una vera e propria vicenda emotiva, passionale, che decostruisce
un’idea intellettuale e idealistica del comprendere, e complica il compren-
dere attraverso l’esperienza del limite, dell’indicibile, dell’intraducibile.
Esemplare in questo senso l’approccio testualista di Clifford Geertz. Per
Geertz, i fatti etnografici (azioni, miti, istituzioni, rituali) devono essere trat-
tati come altrettanti manoscritti lacunosi e ellittici, da decifrare e da ricostrui-
re, al fine di ricavarne modi d’essere e mondi di significati.4 La conoscenza in
antropologia è in questo senso una costruzione che mostra il testo, cioè una
costruzione discorsiva coerente, in un insieme di comportamenti sociali.5 Un
testualismo di questo tipo, che congela l’altro in sistemi di significati statici e
conchiusi, trascura di fatto i problemi posti dai modi relazionali, processuali,
contestuali e affettivi della conoscenza in antropologia, e la complessità dei
livelli e delle forme con cui l’antropologo mette in forma i propri oggetti. Ha
dunque un difetto logocentrico: il difetto di sopravvalutare epistemologica-
mente e ontologicamente il linguaggio verbale come luogo esclusivo della
comprensione; e un difetto idealistico: il difetto di fondarsi su un ottimismo
conoscitivo e ermeneutico che trascura l’opacità dell’altro soggetto come
se l’altro soggetto fosse solo linguaggio e grafismo, e come se il linguag-
gio fosse il luogo ideale di una comprensione senza resto. In questo modo,
il modello interpretativo si rivela un’idealizzazione e un’astrazione, poiché

4 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, 1973, trad. di E. Bona, Il Mulino, Bolo-


gna 1987; Id., Antropologia interpretativa, 1983, trad. it di L. Leonini, Il Mulino,
Bologna 1988.
5 «“Traduzione” qui non significa semplicemente il rimaneggiamento con le nostre
parole di come altri esprimono le cose [...] ma il mettere in luce [displaying] la
loro logica con le nostre parole, una concezione che ci porta nuovamente molto
più vicini a quello che fa un critico per illustrare una poesia che non a quello che
fa un astronomo per descriverci una stella» (C. Geertz, Antropologia interpretati-
va, cit., p. 14: trad. modificata).
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 99

finisce per trascurare le dimensioni non verbali del senso come senso incar-
nato (comportamento, azione, sguardo, affetto): finisce per trascurare la radi-
ce passionale della comprensione, che si rivela nelle effettive pratiche della
comprensione e della comunicazione che avvengono sul campo.
Ora, di fatto l’esperienza che l’antropologo fa sul campo appare come
una vera e propria decostruzione emotiva dei propri presupposti e del
proprio atteggiamento cognitivo: l’antropologo sul campo scopre le radi-
ci emotive e affettive degli aspetti intellettuali del suo sapere; e questa
esperienza investe il suo lavoro di traduzione e di trascrizione scrittura-
le dell’altro. Analizzerò prima alcuni punti dell’esperienza comprendente
dell’antropologo: gli eventi del campo, la pratica del tradurre e i suoi li-
miti, la scrittura dell’altro. Dedicherò poi qualche breve riflessione finale
al rapporto tra il sapere antropologico e la sua volontà di oggettivazione
dell’altro, e l’autoriflessione dell’Occidente.

2. Incontro ed emozioni sul campo

Il “campo”, cioè il soggiorno dell’antropologo presso l’altro, è la base


empirica del suo lavoro, in quanto è il luogo della raccolta dei dati. Ora,
il campo non è affatto un luogo naturale, che esista come realtà indipen-
dente dal lavoro dell’antropologo, e non è neppure un luogo neutro di os-
servazione, ma è un’esperienza che va costruita artificialmente nella sua
possibilità e nelle sue condizioni. È dunque un’esperienza vincolata, un
vero e proprio “esperimento”; ma, a differenza degli esperimenti delle
scienze naturali, si svolge come un processo temporale non ripetibile. Il
primo compito dell’antropologo è proprio l’istituzione e la legittimazione
del «campo» come spazio-tempo della ricerca: il campo è la costruzione di
un contesto pragmatico e vitale di scambio comunicativo, in cui eventi di
parola accadono in un contesto emotivo di grande rilievo. L’antropologo sa
molto bene oggi di dover inserire nelle proprie costruzioni teoriche anche
se stesso come parte delle procedure di osservazione; sa di dover inserire
cioè l’esperienza pragmatica e comunicativa attraverso cui cerca una legit-
timazione della propria presenza sul terreno. Egli deve giungere a formarsi
un ambiente comunicativo e conoscitivo, affettivo e insieme intellettuale,
e ciò avviene attraverso malintesi, compromessi, negoziazioni, rituali inte-
rattivi (come l’osservazione dell’osservatore).6

6 Cfr. U. Fabietti, Antropologia culturale. L’esperienza e l’interpretazione, Laterza,


Roma-Bari 1999, cap. II.
100 Nodi della verità

Il campo è in questo senso un orizzonte pragmatico e affettivo, dove


la comprensione dell’antropologo non muove da un dialogo trasparente,
ma dai malintesi e dall’opacità che investono necessariamente il rapporto:
l’osservazione sul terreno non è contemplazione passiva, ma alterazione
del sé ad opera dell’altro. Sul campo, raccontano gli antropologi, l’opacità
e gli effetti di distorsione entro la relazione sono condizioni del cono-
scere. Di fatto l’antropologo è spesso costretto a riconsiderare la propria
precomprensione e i propri modelli: per esempio Mondher Kilani deve
riconsiderare la propria concezione di «documento» e di produzione di
documenti storici per studiare l’immagine che la società dell’oasi di El
Ksar (Tunisia del Sud) ha della propria storia.7 L’antropologo cerca invano
di prendere visione dei documenti citati dai locali in appoggio delle loro
ricostruzioni genealogiche, per confrontarli con i racconti e correggere le
incongruenze: l’accesso a ciò che egli pensa come «documenti» (con una
categoria evidentemente occidentale, positivistica e oggettivistica) gli è
negato. L’antropologo si trova in una impasse finché persiste ad assimilare
le forme della memoria locale alla forma del sapere storiografico occi-
dentale, finché non si rende conto che nelle controversie sull’identità tra i
gruppi del villaggio sono in atto diverse forme di costruzione retorica della
memoria e dell’oblio. Le cose cambiano quando si rende conto di essere
citato lui stesso, con il suo interesse per le ricostruzioni di genealogie e
cronologie, nelle controversie sull’identità tra i gruppi del villaggio: di
essere in altre parole diventato lui stesso produttore e trasmettitore del cor-
pus della memoria genealogica, quasi un analogo della traccia scritta, in
una differente costruzione retorica della memoria e dell’oblio. Questa ed
altre esperienze raccontate dagli antropologi mostrano che la costruzione
interpretativa comincia sul campo ed è coniugata col processo temporale
e fallibilista che vi avviene. L’incontro sul campo è spesso occasione di
crisi e di sospensione della propria precomprensione: a Remo Guidieri che
chiede informazioni su una tecnica di levigazione della pietra, l’informa-
tore nativo risponde con il racconto di un mito,8 mostrando così all’an-
tropologo che la sua domanda è di fatto irricevibile nella cultura fataleka,
perché presuppone la comprensione dei fatti entro spiegazioni tecniche e
causali. Una vicenda di riorientamento accade anche a Jeanne Favret-Saa-
da: all’inizio della sua inchiesta sulla stregoneria nella Francia normanda,
l’antropologa non ottiene alcuna informazione distribuendo questionari

7 Cfr. M. Kilani, La construction de la mémoire. Le lignage et la sainteté dans


l’oasis d’El Ksar, Labor et fides, Genève 1992, cap. 1.
8 Cfr. R. Guidieri, La route des morts, Seuil, Paris 1980, pp. 401-402.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 101

sulla magia, finché non si rende conto che, per essere accettata e per poter
fare indagini, deve accettare di diventare lei stessa soggetto e oggetto di
pratiche di magia,9 in un processo dialogico che è una vera e propria messa
in crisi della propria identità.10 Gli antropologi sono costretti a riformulare
e rinegoziare il loro programma di ricerca a partire dalle passioni che
rendono dinamico l’incontro sul campo, e in rapporto con le distorsioni e
opacità che vi si producono: modelli e programmi di ricerca sono messi
alla prova “falsificante” dell’interazione11. In questo senso il campo, con le
sue caratteristiche di esperienza vincolata, costituisce la condizione prag-
matica della comprensione.
Ora, il testualismo, troppo concentrato sulla metafora letteraria dell’in-
venzione del testo dell’altro, rischia di fatto di trascurare il luogo e il tem-
po in cui avviene l’interpretazione, e di appiattire il processo affettivo e
temporale del comprendere sull’operazione della scrittura. I modelli er-
meneutici del testo e della fusione di orizzonti sopravvalutano in fondo le
possibilità che l’interprete ha di comprendere e di ricostruire scientifica-
mente ciò di cui ha fatto esperienza sul campo, come se il testo dell’altro
fosse qualcosa che può sempre essere scritto, alla fine di un processo senza
intoppi in cui il vedere-osservare diventa direttamente una ricomposizione
comprensiva dell’altro in un insieme di significati, mediati unicamente dal
proprio insieme di significati. In questo modo, il testo culturale è idealizza-
to, reso omogeneo al problema interpretativo posto da testi verbali e scritti,
ridotto cioè a problema di senso e di rappresentanza – come se l’altro fosse
solo linguaggio e grafismo, e non anche affetto, opacità, passione, distanza
incolmabile, corpo vivente inconoscibile nell’informe della sua sofferenza,
delle sue emozioni, del suo desiderio, della sua felicità.
Se non si tiene conto delle condizioni pragmatiche dell’osservazione sul
campo, si finisce per assumere un modello contemplativo a senso unico
dell’osservazione. La stessa prospettiva interpretativa sembra paradossal-
mente mantenere e confermare un modello empiristico-passivo dell’osser-

9 Cfr. J. Favret-Saada, Les mots, la mort, les sorts: la sorcellerie dans le Bocage,
Gallimard, Paris 1977.
10 Sul dialogo come messa a rischio del sé cfr. M. Ruggenini, Il tempo del discorso.
Possibilità e impossibilità della comunicazione, in M. Ruggenini e G.L. Paltri-
nieri (a cura di), La comunicazione. Ciò che si dice e ciò che non si lascia dire,
Donzelli, Roma 2003, pp. 3-23.
11 Su questi temi, cfr. C. Giordano, Dal punto di vista del progetto. Dinamiche et-
nografiche in un contesto di «sviluppo», e L. Rodeghiero, L’antropologo e la sua
ombra. Il ruolo dell’informatore nella costruzione della rappresentazione etno-
grafica, in U. Fabietti (a cura di), Etnografia e culture. Antropologi, informatori e
politiche dell’identità, Carocci, Roma 1998, pp. 77-101 e pp. 19-37.
102 Nodi della verità

vazione: conoscere è visione e ricomposizione della visione in un racconto


(testo, narrazione, mito) che rende comprensibile l’esperienza come se ci
fosse una transizione lineare e pacifica dall’ordine del visibile all’ordine
della rappresentazione mentale e ideale, dal vedere al dire. Manca allora,
in questa prospettiva, il concetto fenomenologico di “sguardo”. In antro-
pologia, come in ogni scienza umana, ciò che si vede non è uno spettacolo,
che basti riorganizzare, ma è un vissuto, un’esperienza: in altre parole, non
è qualcosa che si presenti in uno spazio figurativo piatto, ma qualcosa che
emerge piuttosto in un contesto pragmatico e vivente, dove si incontrano
fenomeni intensivi, qualitativi e temporali. Nell’incontro con l’altro, non si
può passare direttamente dalla visione alla rappresentazione verbale, poi-
ché il tempo dello sguardo non è quello della cosa vista. “Vedere” non è
né osservazione neutra, guidata da tassonomie già pronte, né immedesi-
mazione empatica. Il vedere diventa, nell’incontro antropologico, sguardo
che si incontra con un altro sguardo e ne è modificato: non c’è simmetria
tra vedere e essere visto; l’esser visto cambia il vedere; lo sguardo è uno
scambio di sguardi: è vedere e essere visti12. L’attenzione alla complessi-
tà fenomenologica dello sguardo sull’alterità – che è insieme un vedere
intenzionale e disorientato, un vedere che tiene a distanza mentre avvici-
na – è fondamentale per non appiattire la rappresentazione antropologica
sull’interpretazione-svelamento del senso nascosto di un testo. Tra visibile
e rappresentazione c’è una mediazione interpretativa più complessa di ciò
che mostra il modello del testo, che finisce per ripetere il pregiudizio del
fenomenico come rappresentazione, presenza alla coscienza, e per presup-
porre la dominabilità a livello razionale e cosciente di un materiale che
arriva in ultima analisi ad assumere lo statuto della parola: ciò che viene
dimenticato è il fenomenico come affetto, autoaffezione della soggettività
– cioè quell’orizzonte di opacità in cui si inscrive, e di cui vive, il rapporto
con l’altro.
Il problema di questo orizzonte di silenzio e delle sue radici emotive è il
problema stesso della traduzione in antropologia.

3. Traduzione e intraducibilità ontologica

La condizione della conoscenza nelle scienze dell’uomo ha a che fare


con l’irrappresentabile e l’informe, cioè con la non-trasparenza dell’ogget-

12 Cfr. F. Affergan, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’an-
tropologia, 1987, trad. di E. Turbiani, Mursia, Milano 1991, cap. II.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 103

to13: l’oggetto da pensare e da comprendere, l’altro, non si lascia dire in


quanto presenza tematica, data all’osservazione, ma si dà in uno scacco,
in una resistenza, in un silenzio, in tracce non intellettuali, ma vitali; si dà
dunque in un orizzonte etico-ontologico, prima che cognitivo.14 In antropo-
logia, in particolare, il problema dell’irrappresentabile si pone letteralmen-
te, e dall’inizio, come problema dell’intraducibile. Ora, l’«intraducibile»
è il problema ontologico ed etico dell’antropologia: un problema che non
significa banalmente lo scacco nel passaggio da un codice linguistico a
un altro, l’impossibilità di restituire un termine o un messaggio equiva-
lente in un’altra lingua; significa piuttosto che un rapporto ontologico
asimmetrico è la base della produzione della conoscenza antropologica, e
che questo rapporto ontologico fa in modo che la conoscenza sia segnata
dal presupposto del non rappresentabile in quanto limite della messa in
discorso dell’altro. Tutte le procedure conoscitive dell’antropologo si co-
struiscono sulla non-trasparenza dell’oggetto: ciò che possiamo chiamare
l’intraducibile ontologico.
Esemplare il lavoro di sutura dell’informe che l’antropologo opera già
al livello iniziale delle descrizioni: gli abbozzi di descrizione etnografica
che si trovano nei primi taccuini dell’antropologo sul campo mostrano di
essere già delle vere costruzioni interpretative, risultato dell’interazione
discorsiva sul terreno. Non si dà un grado zero della rappresentazione de-
scrittiva, una riproduzione neutra dei dati: i documenti grafici eterogenei
(appunti, trascrizioni e registrazioni di dialoghi, tentativi di traduzione,
carte, schizzi, commenti) in cui l’antropologo traspone l’incontro sul cam-
po sono già delle intuizioni e delle costruzioni interpretative. La lingua di
descrizione adoperata dall’antropologo (lungi dall’essere una nomencla-
tura che etichetti un mondo già scomposto in referenti discreti) è di per sé
schematizzante, poiché si trova a dover inscrivere degli eventi nello spazio
del testo, a reinventare delle interazioni per immetterle nell’ordine lineare
e delimitato della scrittura. L’antropologo descrive a partire dai vincoli e

13 Cfr. S. Borutti, Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell’antropologia e


della sociologia, Bruno Mondatori, Milano 1999, cap. II, § 1.4.
14 Mario Ruggenini parla dell’«inapparente di ogni esistenza», del suo «incommen-
surabile» (M. Ruggenini, Il tempo della parola, L. Perissinotto e M. Ruggenini
(a cura di), Tempo, evento e linguaggio, Carocci, Roma 2002, p. 18). Ai temi di
questo paragrafo, che cercano di dare uno sfondo etico e ontologico alla questio-
ne epistemologica della conoscenza dell’altro, non è estraneo il quadro teoretico
dell’ermeneutica della differenza e della finitezza: cfr. anche M. Ruggenini, La
parola della responsabilità e il tempo dell’interpretazione, in L. Perissinotto e M.
Ruggenini (a cura di), Tempo e interpretazione. Esperienze di verità nel tempo
dell’interpretazione, Guerini e Associati, Milano 2002, pp. 11-30.
104 Nodi della verità

dalle possibilità offerti dal corpo dinamico e flessibile della sua lingua na-
turale, e a partire dalla progettualità regolata offerta dalla lingua scientifica
comunitaria a cui appartiene: egli mette in atto una competenza linguistica
(grammaticale e lessicale), e una competenza enciclopedica del mondo, ar-
ricchita dalla precomprensione scientifica; in questo modo, egli re-inscrive
in un modello referenti già scomposti e classificati ad altri livelli di tasso-
nomia e di organizzazione.15 (Del resto l’etimologia di “descrivere” è «scri-
vere estraendo (da un modello)»).16. La descrizione coincide in fondo con
un’operazione complessa di traduzione, che non è unicamente linguistica
(grammaticale, lessicale), né unicamente rappresentativa di referenti dati
(semantica). In altri termini, si tratta di un’operazione che non è semplice-
mente il trasferimento di un testo originale in un altro corpo significante,
a partire da classi di equivalenze lessicali o sintagmatiche: è piuttosto una
produzione dialogica, polifonica, del testo – un processo che ricostruisce
significati integrandoli in contesti di aggregazione del senso.17 La tradu-
zione (come ha mostrato Quine)18 non è confronto di unità di significato,
ma ricostruzione degli schemi percettivi, concettuali e culturali in cui un
termine diventa comprensibile. Tradurre è ricostruire e integrare al fine di
configurare.
In questo senso, ciò che l’antropologo opera inizialmente non è tanto una
semplice rappresentazione, quanto già una configurazione oggettivante,
una messa in forma degli eventi dialogici e contestuali dell’incontro in un
«mondo» dotato di una forma coerente, e quindi una simulazione dell’in-
sieme dei significati e delle azioni dell’altro. Il che comporta delle trasfor-
mazioni, dei residui, dei compromessi legati necessariamente, da una parte,
all’opacità dell’altro, e dall’altra alla volontà (occidentale) dell’antropolo-

15 Cfr. M.-J. Borel, Il discorso descrittivo, i saperi e i segni, in J.-M. Adam, M.-J.
Borel, C. Calame, M. Kilani, Il discorso antropologico. Descrizione, narrazione,
sapere, 1995, trad. a cura di G. D’Agostino, Sellerio, Palermo 2002, pp. 49-96;
cfr. anche P. Hamon, Du descriptif, Hachette, Paris 1993.
16 G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze 1968, p.
122.
17 «La traduzione non consiste mai nel sostituire una parola a un’altra, ma sempre
nel tradurre globalmente delle situazioni [...] Tradurre consiste nel definire un
termine grazie a un’analisi etnografica, vale a dire nel ricollocarlo nella sua si-
tuazione culturale, nell’integrarlo nella classe di espressioni della stessa famiglia,
nell’opporlo ai suoi antonimi, nel farne un’analisi grammaticale, e soprattutto
nell’illustrarlo con un gran numero di esempi ben scelti.» (B. Malinowski, Coral
Gardens, 1935, trad. fr., Maspero, Paris 1974, p. 246 e p. 252).
18 W. V. O. Quine, Parola e oggetto, 1960, trad. a cura di F. Mondadori, Il Saggiato-
re, Milano 1970, cap. II.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 105

go di sapere il senso, cioè di catturare il discorso vivente di una cultura in


un’enciclopedia di significati e di definizioni oggettivanti. Il compromesso
non è da intendere tuttavia come scacco e fallimento: è piuttosto il segnale
della distanza e dell’asimmetria che è la condizione necessaria della cono-
scenza antropologica; è la marca del doppio legame, sotteso a ogni attività
di traduzione, tra la partecipazione ad atti vitali (nell’interazione sul cam-
po) e l’assunzione necessaria di una distanza oggettivante (nella scrittura
del testo etnografico), tra il senso incarnato e esperito, da una parte, e la sua
forma oggettivata, dall’altra, tra l’altro e noi stessi. La distanza ontologica
traduttiva è il luogo della comprensione e dell’interpretazione. Tradurre è
dunque esemplare del comprendere antropologico, proprio perché il tra-
durre comporta il mantenimento della distanza: in altre parole, compren-
dere l’altro non è il trasferimento vitale nel suo mondo, il diventare l’altro;
è piuttosto tra-durre, über-setzen, portare al di sopra e al di là,19 e tornare
presso di sé dopo essere stato presso l’altro. La comprensione antropologi-
ca, come l’apprendimento di una lingua, richiede certamente l’immersione
in una forma di vita, un addestramento che sia insieme linguistico e sociale,
e che metta l’antropologo nella condizione di poter partecipare a giochi
linguistici regolati. Ma, così come una traduzione è il trasferimento nel
proprio corpo linguistico dei significati dell’altro testo, allo stesso modo la
comprensione antropologica è un apprendimento finalizzato a dire l’altro
nella nostra lingua, non a diventare l’altro: è una pratica della differenza,
non dell’identità. Un antropologo che non sia tornato dal viaggio, un an-
tropologo che non racconti alla sua tribù ciò che ha vissuto, non è più un
antropologo, ma qualcuno che è diventato un nativo: perciò la conoscenza
deve essere per gli antropologi, metaforicamente e realmente, un viaggio
di andata e ritorno. L’assunzione del punto di vista dei nativi deve cioè ri-
manere uno sforzo cosciente e riflesso di simulazione e di traduzione – un
processo di «simulazione ontologica», non di identificazione. Comprende-
re non è diventare l’altro, ma simulare l’altro a partire da sé.
Di fatto, nel dialogo con l’informatore, l’antropologo è presente come
alterità, e comprende attraverso la distanza: in altre parole, egli confron-
ta l’orizzonte dei significati e delle forme di azione inscritti nella lingua
dei nativi con la propria precomprensione (cioè con l’orizzonte di senso
inscritto nella propria lingua), e con le idee ricevute che costituiscono il
suo sapere scientifico (sapere su genealogie, terminologie di parentela, or-

19 Ricordiamo il tema romantico del potenziare la propria lingua attraverso la lingua


dell’altro: cfr. S. Borutti, Teoria e interpretazione. Per un’epistemologia delle
scienze umane, Guerini e Associati, Milano 1991, p. 107.
106 Nodi della verità

ganizzazione del territorio, forme di proprietà, ecc.). La descrizione che ne


deriva è un compromesso conoscitivo istituito su una mancanza di comple-
tezza e di trasparenza, legata all’intraducibile ontologico. Possiamo pensa-
re l’intraducibile nel senso kantiano e wittgensteiniano del “limite” (Gren-
ze): limite non come barriera che separa da una regione inconoscibile, ma
come sfondo che delimita un orizzonte di pensabilità, aprendo dall’interno
uno spazio di esperienza possibile. Senza questo limite, senza lo sfondo
(Hintergrund, nei termini del Della certezza di Wittgenstein) che ci chiude
nella nostra cultura, non avremmo punti di vista e di comparazione possi-
bili, non avremmo l’esperienza dell’alterità.
Confrontandosi con l’intraducibile, la traduzione è esemplare del corto-
circuito tra l’appropriazione possibile, e i “limiti” dell’appropriazione, che
ne sono anche le condizioni. Per conservare e restituire le forme di con-
cettualizzazione indigena, l’antropologo deve sollecitare la propria lingua,
fino alle soglie dell’impossibilità e dell’intraducibilità. Con un esempio
di Remo Guidieri:20 non possiamo comprendere le rappresentazioni fata-
leka (Melanesia) dell’universo e dell’origine del mondo se non attraverso
nozioni costitutive del nostro immaginario spaziale e della nostra ontolo-
gia (come le nozioni di “limite” e di “toria”), e attraverso temi che sono
all’origine della nostra cultura (come il tema greco dell’apeiron), ma che
non arriviamo a rendere trasparenti neppure “per noi”; non possiamo com-
prendere lo hau maori se non attraverso nozioni come “prezzo”, “dono”,
“profitto”, “pagamento”, e attraverso opposizioni come utilità/gratuità,
scambio/dono, intorno a cui si giocano i nostri stessi conflitti culturali, e
che si trovano nel cuore dell’articolazione tra etico, economico, giuridi-
co e politico nella nostra forma di vita.21 Ma proprio questi scarti e questi
bianchi costituiscono lo spazio (e il tempo) in cui la conoscenza lavora:
l’intraducibile, il limite non è semplicemente limite conoscitivo in rapporto
a un ideale di conoscenza trasparente; è piuttosto il limite ontologico che
definisce i bordi della nostra esperienza dell’altro, un’esperienza che di-
venta possibile contrastivamente, a partire da noi stessi, e che contribuisce
nello stesso tempo alla nostra autocomprensione.

20 Cfr. R. Guidieri, La route des morts, cit., pp. 25-34.


21 Cfr. R. Guidieri, Voci da Babele, trad. di S. De Matteis, Guida, Napoli 1990, pp.
21 e sgg. Così lo spazio indeterminato fataleka diventa concepibile comparando
e modificando nello stesso tempo la nostra e la loro concezione di “limite” e di
“illimitato”; così l’indecisione di Mauss, che nel suo famoso saggio presenta il
dono come un ibrido tra scambio e reciprocità, tra prestazione gratuita e scambio
utilitario, può gettar luce sull’oblio occidentale del dono come dismisura e come
“generazione”, apertura di un debito e di una temporalità senza ritorno.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 107

Il tema dell’intraducibile ontologico ci permette infine di determinare


la nozione di alterità come alterità asimmetrica, non reciproca. Possia-
mo pensare l’altro, perché l’altro non è come noi: comprendiamo l’altro
non perché ci rifletta, come un alter ego speculare, ma perché ci altera.
Un’alterità che ci altera (che ci riguarda) non può essere pensato attraverso
un semplice concetto di «differenza»: il rapporto di alterità che è sottin-
teso dalla conoscenza antropologica non può essere pensato attraverso la
categoria troppo simmetrica di differenza, che costringe entro alternative
insolubili tra relativismo e oggettivismo. Da una parte, se differenza signi-
fica «indifferenza delle alternative», cioè intercambiabilità e equi-valenza
dei significati culturali e delle regole, si finisce in forme di relativismo
che dicono poco o nulla dell’incontro tra ontologie che è in questione in
antropologia: il relativismo radicale non comprende nulla, perché chiude
ogni cultura nel proprio orizzonte incommensurabile rispetto agli altri; il
relativismo caritatevole comprende troppo, perché pretende che, per com-
prendere senza residui l’altro, che è come me, basti ricostruirne il contesto.
Dall’altra parte, se differenza rinvia ai membri di una classe omogenea, si
tratta allora di dominare le differenze attraverso modelli, categorie, metodi
neutri di quantificazione, di classificazione, di comparazione, che offrano
denominatori comuni; ma in questo modo il tema della differenza depoten-
zia il concetto di alterità, «disidentifica poiché livella» le identità in gioco22
e arriva a consegnarle in ultima analisi a prospettive oggettivistiche e uni-
versalizzanti.
Se invece si pensa la conoscenza antropologica come dialogo di alterità,
non si dice affatto che l’altro è uguale a me, da un punto di vista conven-
zionalista, vale a dire secondo un principio di indifferenza epistemologica,
ma si presuppone piuttosto che io non sono l’altro, e che lo comprendo
(e mi comprendo) in quanto alterità, mettendomi in dialogo, secondo un
principio di etica dell’asimmetria ontologica, e secondo un principio con-
trastivo e dialogico dell’identità. Come scrive Francis Affergan, «se posso
osservarli, è perché non sono come me».23 L’altro non è come noi poiché
non è la nostra alterità speculare e simmetrica. La conoscenza dell’altro
non avviene attraverso un rapporto di reciprocità empatica, attraverso una
relazione duale narcisistica in cui mi specchio nell’altro come un altro me
stesso: il rapporto con l’altro sarebbe in questo caso un rapporto di empatia
o carità, in cui l’altro è una ripetizione di me stesso, secondo un’ontologia
dell’identità. La conoscenza antropologica è di contro esemplarmente non

22 F. Affergan, Esotismo e alterità, cit., p. 206.


23 Ivi, p. 208.
108 Nodi della verità

simmetrica. Se vuole comprendere l’altro, l’antropologo non lo può pensa-


re come uguale a sé, né da un punto di vista oggettivistico (per cui l’altro
è uguale a me perché partecipiamo entrambi degli universali della natura
umana), né da un punto di vista relativistico radicale (per cui l’altro è ugua-
le a me nella scelta indifferente di un insieme di significati). L’esperienza
antropologica comincia invece con l’apertura allo sguardo dell’altro come
terzo: è questa la curvatura asimmetrica e eteronoma dello spazio sociale
che apre la possibilità di relazione, prima di ogni societas determinata.
L’altro non è il mio alter ego, ma il mio “terzo”: in altre parole, io non sono
l’altro, e lo comprendo (e nello stesso tempo mi comprendo) proprio in
quanto alterità asimmetrica. Possiamo certo parlare di dialogo di alterità,
ma nel senso locale della negoziazione, della traduzione, del compromes-
so, non nel senso idealistico della fusione di orizzonti e dell’integrazione a
un livello superiore del senso (secondo il tema ermeneutico Gadamer), né
nel senso dell’autotrascendimento e dell’emancipazione dei soggetti nella
comunicazione (secondo il tema della situazione comunicativa ideale di
Habermas).
Il rapporto con l’alterità è costitutivo di “noi” stessi proprio in quanto
contrastivo e asimmetrico. Francesco Remotti e Ugo Fabietti24 parlano di
un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra assimilazione e diffe-
renziazione: in questo senso, il sapere antropologico va visto non tanto
come una questione di tipologie, quanto come un problema esemplare di
“traduzione”, e dunque anche di “trasformazione” nell’attraversamento
e nell’ibridazione interculturale. Potremmo pensare l’antropologia come
lavoro di comparazione che non mira a trovare l’umano in generale, ma
piuttosto al riconoscimento contrastivo e asimmetrico di sé: «noi, primiti-
vi» – come dice il titolo del libro di Remotti. Il sapere antropologico non
trova categorie universali e essenziali, ma quello che Maurice Merleau-
Ponty chiama «universale laterale»25: una specie di universale strabico, un
universale derivante da un’attività locale di traduzione e di comparazione,
non l’universale dall’alto, luogo dell’essenza e dell’oggettività. A questo
proposito, sono stati significativi gli studi della cosiddetta “antropologia
postcoloniale”, o “etnica”, che hanno richiamato l’attenzione sul pertur-
bamento e lo scotimento reciproco causato dall’incontro e dallo sconfina-
mento tra le culture – contro la retorica della tolleranza multiculturalista

24 Cfr. F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri,


Torino 1990, 20092; U. Fabietti, L’identità etnica. Storia e critica di un concetto
equivoco, Carocci, Roma 1998.
25 Cfr. M. Merleau-Ponty, Segni, 1960, trad. di G. Alfieri, Il Saggiatore, Milano
1967, p. 161.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 109

e del “politically correct”.26 Penso ad esempio alla critica dell’orientali-


smo come invenzione dell’Occidente e all’analisi dell’“essere palestinese”
di Edward Said, o agli scritti di altri autori-simbolo, non antropologi in
senso stretto, dalla doppia appartenenza culturale, che spesso trattano di
questioni antropologiche con una scrittura ibrida, che è teorica e insieme
narrativa e ideologica. Da queste forme di scrittura emergono i modi fluidi
e relazionali secondo cui si costruiscono le identità:27 modi che mostrano
che l’identità non è un pieno, un essere dato, un insieme di qualità e di pro-
prietà essenziali, ma è semmai un farsi attraverso ripetizioni e insistenze di
significati, metaforizzazioni spazio-temporali, dialettiche dentro-fuori, si-
gnificati migratori; un farsi che richiede, per essere compreso, concetti non
oggettivanti e non reificanti: concetti come l’esilio, l’essere fuori-luogo,
l’essere-tra (Zwischen). Queste analisi rispondono a una logica meticcia,
a sguardi incrociati tra antropologo e alterità, a un pensiero dello sconfi-
namento e dell’ibridazione culturale, e sostanzialmente aiutano a criticare
una rappresentazione omogenea e indifferente della differenza etnica. Nel-
la prospettiva dello sconfinamento transculturale, all’Occidente si chiede
di sospendere la feticizzazione dell’altro, associato al primitivismo dell’o-
rigine; e alle culture subalterne si chiede di liberarsi dalla vittimizzazione,
legata al concetto omogeneo di Terzo mondo. L’alterità deve essere per
l’Occidente non solo un interesse conoscitivo, ma anche una via per acco-
gliere il seme del conflitto, e essere perturbato dall’altro come dal proprio
doppio mimetico, che dice qualcosa di noi che non vorremmo dire (che non
vorremmo sapere). L’altro ci turba (è unheimlich) non perché è estraneo,
ma perché è familiare: ci riguarda, riguarda il nostro «proprio».

4. Scrivere l’altro

L’esperienza dell’altro è per l’antropologo esperienza di ciò che si dice


e nello stesso tempo, e inseparabilmente, di ciò che non si lascia dire, cioè
dell’orizzonte affettivo e inconscio del dire. Ciò si mostra in piena eviden-
za nel passaggio al momento finale dell’oggettivazione, che è la scrittura
del testo etnografico. Passaggio inscritto del resto nella volontà di sapere

26 Cfr. D. Daniele, Multiculturalismo e teorie postcoloniali, in Izzo D. (a cura di),


Teoria della letteratura. Prospettive dagli Stati Uniti, La nuova Italia Scientifica,
Roma 1996, pp. 131-184.
27 Cfr. E. W. Said, Orientalismo, 1978, Bollati Boringhieri, Torino 1991; A. Ghosh,
Lo schiavo del manoscritto, 1992, trad. a cura di A. Nadotti, Einaudi, Torino 1993,
pp. 189 e sgg.; V. S. Naipaul, Tra i credenti, 1981, Rizzoli, Milano 1983.
110 Nodi della verità

occidentale: poiché ogni descrizione è immediatamente descrizione confi-


gurante, l’antropologia è da subito esperienza che tende a diventare scrit-
tura. Nei termini di Paul Ricoeur, la trascrizione etnografica trasforma una
situazione referenziale e ostensiva (esperienza, parola orale) in un insieme
di modi d’essere (racconto, testo), mostra nell’evento un mondo di signi-
ficati – ricostruisce il testo nel discorso.28 Ora, nel percorso dal discorso
al testo si consuma una grande distanza, e una grande frattura: la scrittura
antropologica pone a distanza temporale e spaziale un altro presente (il
presente dell’altro: qualcosa che è stato vissuto in un corpo e in un tempo),
ne fa una forma di passato costruendone una ragione comprendente nel
presente.29 In questo modo la scrittura tratta il tempo e lo spazio, e mette
a tacere l’oralità e la corporeità dell’altro per comprenderlo. La scrittura
come luogo dell’oggettivazione ha in questo senso una forte valenza etico-
politica: la scrittura antropologica è rapporto di potere, o, addirittura, ritor-
no fondativo dell’Occidente dal corpo orale, affettivo, erotizzato dell’altro,
alla costituzione oggettivante e scritturale di sé.
Un rapporto asimmetrico di potere si mostra da subito nel mito di fon-
dazione dell’antropologia: cioè il viaggio occidentale di sapere presso l’al-
tro, in cui lo sguardo del viaggiatore-etnografo si trasforma in pensiero e
scrittura. Michel de Certeau ci offre una bella lettura di questo mito in un
saggio su Jean de Léry.30 Egli analizza l’Histoire d’un voyage faict en la
terre du Brésil, pubblicata nel 1578 da Jean de Léry, francese riformato
fuggito a Ginevra e di qui partito per fondare in Brasile un rifugio calvini-
sta. Léry erra in Brasile per tre mesi, tra il 1557 e il 1558, tra i Tupinamba,
per poi tornare a fare il pastore in Francia. L’esito del viaggio di Léry è
l’etno-grafia, o coazione a scrivere le cose insensate viste e udite: «Il sel-
vaggio diventa la parola insensata che rapisce il discorso occidentale, ma
che, proprio a causa di ciò, fa scrivere indefinitamente la scienza produttri-
ce di senso e di oggetti».31

28 Cfr. P. Ricoeur, Dal testo all’azione, 1986, trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano
1989, pp. 184 e sgg.
29 Sulla scrittura come forma di costruzione dello spazio-tempo dell’altro, cfr. M.
de Certeau, La scrittura della storia, 1975, trad. di A. Jeronimidis, Jaca Book,
Milano 2006; J. Fabian, Time and the Other. How Anthropology Makes its Object,
Columbia University Press, New York 1983; I. Maffi, I giochi della scrittura con
lo spazio e con il tempo. Due esempi etnografici, in U. Fabietti (a cura di), Etno-
grafia e culture, cit., pp. 103-124.
30 M. de Certeau, Etno-grafia. L’oralità o lo spazio dell’altro: Léry, in La scrittura
della storia, cit., pp. 215-252.
31 Ibid.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 111

L’etnografia nasce come pratica storica dell’Occidente moderno con-


quistatore, che “inscrive” la propria identità nel presente della scrittura,
mettendola in rapporto e in contrasto con la distanza spazio-temporale e
culturale dell’altro, il “selvaggio”. L’Occidente traccia la propria storia
sul corpo dell’altro: così Certeau commenta un disegno allegorico del
1619, in cui lo scopritore Vespucci, corazzato e crociato, con i vascelli che
riporteranno tesori in occidente, e armato delle «armi europee del senso»,
sta in piedi di fronte alla donna indiana che si chiama “America”, una don-
na distesa, un corpo nudo in uno spazio di vegetazioni e animali esotici.32
Certeau sottolinea la frattura tra l’estetizzazione dell’altro (percepito come
corpo di piacere non scrivibile: piacere dell’occhio, piacere del gusto, pia-
cere dell’ascolto, piacere del corpo nudo) e la sua traduzione nel corpo
scrivibile e leggibile del testo. Se la parola dell’altro è favola, la tradu-
zione trascrive ciò che la favola nasconde in qualcosa di intellettualmente
comunicabile e ascoltabile in Occidente. L’antropologia nasce in fondo
dallo scontro dei sistemi di senso orale (estetizzato) e scritto (astratto): il
viaggio di Léry è un viaggio presso la parola dell’altro (che egli percepisce
come insensata e erotizzata, inseparabile dal corpo estetizzato e affetti-
vo del selvaggio), per riportarne un oggetto letterario (la parola scritta,
manipolabile, che evoca un ascolto non affettivo, inserito in un orizzonte
disciplinato e etico). È un viaggio che mette in scena tutti i temi fondanti
dell’antropologia: oralità, spazialità, alterità, inconscio versus scrittura,
storia, identità, coscienza. La scrittura dell’antropologia33 trasforma que-
sti temi in un possesso cosciente e riflesso, attraverso cui l’Occidente si
costituisce un’identità. In altri termini, l’Occidente istituisce un sistema
testuale contro il tempo e l’oralità, un sistema che permette il ritorno a sé,
avendo compiuto un détour attraverso l’altro. Nella testualità antropologi-
ca si mostra così il legame tra scrittura come luogo di sapere e di potere,
e l’Occidente: la scrittura appropria all’Occidente, e al suo presente, ciò
che è stato proiettato, con una “grande divisione”, nella distanza spaziale
(la geografia del dentro/fuori come allontanamento immaginario dell’al-
tro), e nella distanza temporale (la primitività come costruzione politica del
tempo dell’altro). Si intravede qui un tema che riprenderò in conclusione:
una genealogia dell’antropologia deve necessariamente far riferimento alle
forme di temporalizzazione e di autorappresentazione dell’epoca moderna,

32 Ivi, pp. 1-2.


33 Cfr. U. Fabietti, V. Matera, Etnografia. Scritture e rappresentazioni dell’antropo-
logia, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1997.
112 Nodi della verità

che non può che darsi un’identità relazionale, che non può in altre parole
costituirsi che su uno sguardo strabico, e su uno sguardo all’indietro.34
Il processo di oggettivazione dell’altro, che passa dal dire sul campo,
al detto e alla scrittura, è, a tutti i suoi livelli, un processo di invenzione
a doppio senso – poiché la cultura non è “qualche cosa” di cui parliamo,
ma è il luogo a partire da cui parliamo, e siamo parlati e alterati dagli
altri. In antropologia, non parliamo in modo classificatorio delle altre cul-
ture, come se costituissero un insieme di differenze silenziose e indifferen-
ti, ma parliamo ad “altri” che stanno parlando di “noi”: come sottolinea
Roy Wagner,35 l’antropologo che pensa la cultura melanesiana la inventa a
partire dalla propria, e nello stesso tempo, attraverso il culto del Cargo, è
reinventato nella propria cultura occidentale dai melanesiani – in un pro-
cesso di reciproca reinvenzione traduttiva e contrastiva. Parlavo prima di
uno “strabismo” della teoria antropologica contemporanea, impegnata a
sostituire a uno sguardo dall’alto, che va alla ricerca di essenze universali,
uno sguardo che attraversa frontiere e sconfina in regioni eterogenee del
senso, alla ricerca di un «universale laterale». Ciò significa sottolineare
il carattere processuale e dinamico della modellizzazione interpretativa:
come le culture si fanno e si disfano, entro processi che offrono sia messe
in scena, sia messe in questione della propria ontologia, sia i momenti della
costruzione, sia i momenti della crisi,36 così i modelli dell’antropologia de-
vono sapersi mettere in decostruzione: devono in altre parole saper mostra-
re il proprio carattere di artificio, il proprio carattere di variazioni possibili
senza un mondo dato in presenza, il proprio carattere di attraversamento
figurale e traduttivo.

5. Antropologia e autocomprensione dell’Occidente

Come pensare allora il dialogo di alterità che è sotteso alla conoscenza


antropologica, e che abbiamo visto assumere la forma di un legame etica-

34 Cfr. F. Remotti, Per un’antropologia della storia. Apporti di W. Benjamin, in S.


Borutti, U. Fabietti (a cura di), Fra antropologia e storia, Mursia, Milano 1998,
pp. 56-74.
35 Cfr. R. Wagner, L’invenzione della cultura, 1975, Mursia, Milano 1992.
36 Cfr. F. Remotti, De l’incomplétude, in F. Affergan, S. Borutti, C. Calame, U. Fa-
bietti, M. Kilani, F. Remotti, Figures de l’humain. Le représentations de l’anthro-
pologie, Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociale, Paris 2003,
pp. 19-74; S. Allovio, A. Favole (a cura di), Le fucine rituali. Temi di antropo-
poiesi, Il Segnalibro, Torino 1996.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 113

mente ambiguo tra l’io iperbolico dell’Occidente, che ripete la sua volontà
di identità e di oggettivazione, e l’altro iperbolico delle culture cosiddette
primitive, sempre di nuovo allontanate nella loro estraneità? Alla concezio-
ne dell’alterità come differenza simmetrica (gli altri sono come noi: l’an-
tropologia come collezione classificatoria relativistica di altri «noi stessi»),
abbiamo contrapposto l’asimmetria ontologica dell’altro: poiché gli altri
non sono come noi, non possiamo che intraprendere sempre di nuovo un
rapporto di rinegoziazione e di compromesso traduttivo. Questo compro-
messo è costitutivo dell’antropologia, ma riguarda nello stesso tempo, più
radicalmente, la nostra identità di occidentali: tema inesauribile, legato alla
questione dell’oggettivazione dell’altro.
Il tema del compromesso traduttivo è in fondo un modo per dare una
configurazione possibile al problema dell’altro come oggetto, evitando
l’alternativa, che appare oggi insolubile, tra oggettivismo e relativismo. Il
problema è così formulabile: come posso comprendere l’altro nella sua dif-
ferenza, se finisco per oggettivarlo? E d’altra parte, come posso compren-
derlo, senza ricorrere a procedure di distanziazione e di oggettivazione? La
risposta-compromesso dice pressappoco: non si può pensare alla compara-
zione positivista come metodo del passaggio generalizzante all’oggettivo,
poiché l’oggetto antropologico, in quanto insieme di significati soggettivi,
non sopporta procedure astrattive; ma si può tuttavia pensare alla luce che i
possibili passaggi traduttivi tra noi e gli altri gettano sul problema dell’altro
che è costitutivo di noi stessi, e quindi sulle forme possibili di oggettivazio-
ne di noi stessi. Il compromesso chiede che si conservi il rapporto all’alte-
rità, cioè il sentimento dell’altro, in tutta la sua complessità. Essenzialmen-
te, quello che il compromesso vuole escludere è che il problema teorico
dell’antropologia possa solo essere formulato come un’alternativa rigida
tra un’idea di oggettività come ricerca di un assoluto interculturale, e un
relativismo che riconduce tutto al contesto (pur riconoscendo da una parte
l’inevitabilità dell’oggettivazione, il fatto cioè che non possiamo conoscere
l’altro senza oggettivarlo e senza rapportarlo a schemi universalizzanti, cui
ci richiama il razionalista,37 e dall’altra l’irrinunciabilità dell’utopia della
conoscenza, cioè la volontà di conservare la dimensione della differenza
ontologica, cui ci richiama il relativista).38 Ma, con questo, siamo confron-

37 E. Gellner, Relativism and Universals, in M. Hollis, S. Lukes (a cura di), Rationa-


lity and Relativism, Oxford, Blackwell, 1982, pp. 181-200; Id. Causa e significato
nelle scienze sociali, 19872, trad. di R. Malighetti, a cura di S. Borutti, Mursia,
Milano, 1992.
38 P. Winch Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, 1958,
trad. di M. Mondadori e M. Terni, Il Saggiatore, Milano 1972.
114 Nodi della verità

tati con una questione di fondo: questo doppio legame irresolubile con
l’alterità non è forse il problema stesso dell’Occidente e del concetto di
Occidente?
Per dirlo in modo più esplicito: con le sue incertezze epistemologiche,
l’antropologia non sarebbe altro che autoriflessione ontologica dell’Occi-
dente.39 Lo è stata di fatto nella forma dell’esotismo e dell’orientalismo,
che erano già modi di straniamento e di elaborazione critica del sé sot-
to lo sguardo dell’altro; lo è poi diventata più radicalmente nella forma
dell’etnografia, che ha cominciato a interrogarsi sul senso di questo sguar-
do sull’altro. In questo senso, l’antropologia testimonia, e porta in luce, la
volontà di sapere occidentale: la volontà dell’Occidente di sapere sé attra-
verso l’altro, senza riuscire mai a trovare altro che se stesso: l’antropolo-
gia come forma dell’esegesi che fornisce all’Occidente moderno il modo
per articolare la propria identità in rapporto con il passato, con il futuro,
con l’estraneo, con la natura. L’antropologia contemporanea si riconosce
del resto come forma di autocomprensione dell’Occidente: noi primitivi,
che ritorniamo a noi dall’altro; noi che possiamo attraversare la distanza
dell’altro solo dopo aver preso distanza da noi.40 Ma, nello stesso tempo,
l’antropologia si trova drammaticamente al centro di un problema etico-
politico: l’impossibilità di tener separata la volontà di sapere occidentale,
dal rapporto di potere che è l’Occidente. Questo insegna in fondo l’episo-
dio raccontato da Amitav Ghosh. Un episodio scritto nel 1992, che alla luce
dello sviluppo economico attuale dell’India assume un significato in più.
L’antropologo e scrittore indiano Ghosh racconta di essere stato costretto a
una disputa impossibile con un ex-guaritore di un villaggio egiziano, con-
vertito poi alla medicina moderna, che lo attira nella trappola di discutere
sul primato tecnologico dei loro due arretrati paesi, l’India e l’Egitto. L’at-
traversamento interculturale è qui diventato radicalmente impossibile per
due culture, l’indiana e l’egiziana, attirate nella deculturalizzazione e nel
vuoto ad opera dell’Occidente, due culture che si parlano sostanzialmente
attraverso la violenza assimilatrice occidentale: in quella disputa eravamo,
scrive Ghosh, «rappresentanti di due società arretrate, in gara per stabili-
re il proprio primato tecnologico nella violenza moderna [...] Eravamo in

39 Cfr. R. Esposito, Occidente, in Nove pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna


1993, pp. 207-231; T. Todorov, Noi e gli altri, 1989, Torino, Einaudi, 1991.
40 È il tema per cui Lévi-Strauss legge nelle Confessioni di Rousseau la fondazione
moderna delle scienze dell’uomo: cfr. C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau,
fondatore delle scienze dell’uomo, in Id., Razza e storia e altri studi di antropolo-
gia, 1962, trad. di P. Caruso, Einaudi, Torino 1967.
Sentimento e scrittura dell’altro in antropologia 115

viaggio, lui e io, in viaggio in Occidente».41 In questo episodio, due culture


parlano il linguaggio dell’altro che è l’Occidente: l’Occidente traduttore,
sì, ma in un senso ben diverso da quello razionalista e ottimista pensato da
Gellner. Sullo sfondo dell’enormità di questo problema, l’impresa cono-
scitiva dell’antropologia resta a testimoniare che l’Occidente è sempre in
viaggio presso l’altro alla ricerca di se stesso.

41 A. Ghosh, Lo schiavo del manoscritto, cit., p. 192.


2
IL RELATIVISMO CULTURALE
NELL’ANTROPOLOGIA

Il relativismo è un problema epistemologico connaturato per definizione


al sapere antropologico. Francesco Remotti apre la voce Relativismo cul-
turale dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani1 ricordando che
Erodoto è stato in fondo il primo antropologo, ed il primo sostenitore di
una posizione che si può definire relativista. Nel III Libro delle Storie Ero-
doto racconta un esperimento antropologico fatto da Dario, re dei Persiani.
Il re chiede ai Greci e agli Indiani Callati a quale prezzo siano disposti a
rinunciare ai propri costumi funerari: gli uni bruciano i cadaveri, gli altri
li divorano. Riceve in entrambi i casi una risposta indignata: ad ognuno
appare repellente il comportamento dell’altro. Erodoto conclude «La con-
suetudine [nomos] è regina di tutte le cose».2 L’aneddoto è esemplare di
più aspetti del problema del relativismo: da una parte, relativista è l’antro-
pologo, cioè colui che riflette sulla pluralità delle culture; dall’altra parte,
ogni cultura in sé tende ad essere etnocentrica, cioè ad affermare l’auten-
ticità, se non la superiorità, della propria umanità. È noto che in molte
culture arcaiche il nome del popolo coincide con il concetto di umanità:
l’antropologo Clifford Geertz riferisce che per i Giavanesi «Essere umani
è essere giavanesi».3 A questo proposito si fanno di solito esempi etnogra-
fici, ma sappiamo che l’etnocentrismo come forma di difesa della propria
identità riguarda anche noi occidentali. Ora, il problema da affrontare ri-
siede, a mio parere, nel fatto che sia il relativismo degli antropologi sia
l’etnocentrismo delle culture negano che tra le culture ci sia un dia-logos,
uno spazio percorribile, un attraversamento possibile. Vorrei fare in queste
pagine un’analisi del concetto di relativismo che porti, di contro, a una
riconsiderazione dell’antropologia come dialogo di alterità.

1 F. Remotti, Relativismo culturale, in Istituto della Enciclopedia Italiana, Enciclo-


pedia delle Scienze Sociali, Roma, vol. VII, 1997, pp. 325-332.
2 Erodoto, Storie, trad. di A. Izzo D’Accinni, BUR, Milano 1998, L. III, 38, 3-4.
3 C. Geertz, Interpretazione di culture, 1973; trad. di E. Bona, Il Mulino, Bologna
1987, p. 97.
118 Nodi della verità

L’antropologia sembra dunque relativista per natura. Di fatto le ricerche


etnografiche, che si sono imposte come forma di conoscenza nel mondo
moderno almeno a partire dal Settecento, mostrano che ogni forma cultura-
le, che modella i comportamenti sensati dei popoli, ha un significato unico,
particolare, interno al contesto, un significato, diremmo con Windelband,
“idiografico”;4 questo fa sì che il relativismo culturale appaia intimamente
legato allo statuto scientifico dell’antropologia. Negli anni Venti e Tren-
ta del Novecento, gli studi di Franz Boas e Ruth Benedict contrappon-
gono i modelli plurali e le differenze delle culture alle generalizzazioni
e alla ricerca di universali culturali perseguite dall’evoluzionismo e dal
metodo comparativo positivista. Ma se in Boas e in Benedict il relativismo
significa apertura alla molteplicità dei significati, tanto che essi sostengo-
no, contestualmente al pluralismo, la tolleranza interculturale, tuttavia la
loro posizione induce nondimeno al sospetto che pesa su ogni relativismo:
induce in altre parole al sospetto che il relativismo implichi l’esclusione
dell’universalità dei principi morali e delle forme di razionalità, e implichi
quindi il nichilismo in etica e il soggettivismo in conoscenza. In questa
sede, cercherò non tanto di criticare il relativismo culturale, considerando-
ne le ragioni ed i rischi5, quanto di analizzarne il concetto: il relativismo
è un concetto univoco? Cosa significa “relativismo culturale” in antropo-
logia dai punti di vista epistemologico, ontologico ed etico? Il mio intento
è di arrivare, a partire da questa analisi, a porre il problema di un possibile
dialogo interculturale.
Consideriamo la versione filosofica del relativismo nelle scienze sociali
che dà Peter Winch: è una versione che si richiama a Wittgenstein, ma
con un fraintendimento, su cui cercherò di riflettere. Per Winch,6 alla base
dell’idea di scienza sociale c’è il principio secondo cui una società deve
essere compresa attraverso le sue regole e i suoi concetti. Winch elabora un
modello contestuale e interpretativo dei fatti sociali. Egli sviluppa il tema
ermeneutico del “comprendere” applicandolo alle altre culture a partire da
concetti wittgensteiniani: le culture aliene vanno non spiegate sulla base
di una metodologia scientifica esterna, ma comprese dall’interno, a partire
dai sistemi di regole che le costituiscono; le culture sono insiemi di signi-
ficati, per i quali non disponiamo di criteri esterni di comprensione; sono

4 W. Windelband, Le scienze naturali e la storia. Discorso di rettorato, Strasburgo


1894, 19145, 1924, trad. di A. Marini, in A. Marini (a cura di), Materiali per Dil-
they, Unicopli, Milano 1979, pp. 143-167.
5 Su questi aspetti, cfr. F. Remotti, Relativismo culturale, cit.
6 P. Winch, Il concetto di scienza sociale e le sue relazioni con la filosofia, 1958;
trad. di M. Mondadori e M. Terni, Il Saggiatore, Milano 1972.
Il relativismo culturale nell’antropologia 119

mondi chiusi, autosufficienti, che si spiegano da sé. In questa prospettiva,


in ultima analisi non si danno a priori criteri di valutazione interculturale.
Ora, un relativismo radicale di questo tipo ha molte falle epistemologi-
che ed etiche, e può essere criticato in più modi. Un modo che (come cer-
cherò di argomentare) non appare convincente è il modo alla Gellner, legato
a un modello scientifico oggettivistico. Un altro modo, a mio parere più
interessante e convincente, si ispira a Wittgenstein e all’interpretativismo
di Geertz, ed è centrato sulla critica alla concezione dell’alterità come
differenza simmetrica. Questo secondo modo può essere ricondotto ad una
forma di relativismo ragionevole.
L’autorevole antropologo ed epistemologo Ernest Gellner presenta il di-
battito sul relativismo come un’alternativa rigida tra oggettivismo e relati-
vismo, tra un’idea di oggettività come ricerca di un assoluto interculturale,
e un relativismo che riconduce tutto al contesto. L’opposizione tra ogget-
tivismo e relativismo ha in Gellner dei presupposti epistemologici e me-
todologici, che cercherò qui di ricostruire sinteticamente. A proposito del
problema della scientificità in antropologia e nelle scienze sociali, Gellner
ritiene sostanzialmente che un modello di spiegazione oggettivistica sia ir-
rinunciabile: un modello oggettivistico in antropologia non ha per Gellner
il compito di comprendere soggetti e significati (come sostiene la prospet-
tiva epistemologica interpretativa di Geertz, riprendendo temi dell’erme-
neutica ricoeuriana)7, ma semmai di spiegare quegli oggetti culturali che
sono le istituzioni, le pratiche, i concetti. La spiegazione deve giungere alla
generalità della legge attraverso il procedimento della comparazione, fino
ad arrivare a configurare i caratteri universali della natura umana attraverso
leggi scientifiche.8 Egli risponde al difficile problema dell’oggettività in
scienze umane sostanzialmente con due linee argomentative: da una par-
te, riprende l’approccio struttural-funzionalista ai fatti sociali;9 dall’altra

7 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, cit; Id., Antropologia interpretativa,


1983. trad. di L. Leonini, Il Mulino, Bologna 1988.
8 Cfr. E. Gellner, Relativism and Universals, in M. Hollis, S. Lukes (a cura di),
Rationality and Relativism, Blackwell, Oxford 1982; Id., Causa e significato nelle
scienze sociali, 1973, trad. di R. Malighetti, Mursia, Milano 1992.
9 Gellner non ricorre a una concezione riduzionistica di spiegazione, cioè a una
spiegazione per leggi del comportamento di atomi individuali; pensa piuttosto alla
spiegazione oggettiva di istituzioni e dell’interazione tra ambiente naturale e cul-
turale. Egli riconosce inoltre il valore fondamentale dell’empiria e della raccolta
etnografica dei dati in antropologia, e non trascura, popperianamente, il controllo
attraverso l’esperienza, ma ritiene che non si possa affrontare l’esperienza senza
l’ausilio di ipotesi e concettualizzazioni.
120 Nodi della verità

parte, critica ogni forma di relativismo, soprattutto quello a base filosofica


di Winch.
Una spiegazione oggettiva si ottiene per Gellner attraverso un paradig-
ma struttural-funzionalista, cioè attraverso un approccio non semplicemen-
te funzionalista (che postuli ad esempio un nesso immediato tra bisogni e
istituzioni), ma piuttosto strutturale, che si interessi a come l’ambiente na-
turale faccia struttura con l’ambiente culturale, o come egli dice, attraverso
un approccio basato sull’idea di una “struttura di natura e cultura”. Oggetti-
va è, in altre parole, l’interazione strutturale tra un livello referenziale dato,
un “ambiente naturale”, e la sua risignificazione all’interno di una funzione
sociale, che trasforma l’ambiente in istituzione. Così, ad esempio, la pa-
rentela genetica è il dato, l’ambiente naturale che viene risignificato con
la specificazione di ruoli sociali nella struttura della parentela: la parentela
non esprime significati sociali se non per il fatto che le relazioni biologiche
sono usate, selezionate, distorte a fini sociali, in un sistema di sovrappo-
sizione, interdipendenza e divergenza tra natura e cultura.10 Con un altro
esempio di Gellner, nella società berbera dell’Atlante la scarsità naturale
delle risorse è l’ambiente che si correla e fa struttura con la funzionalità di
un luogo rituale, il santuario, in vista del commercio e della ridistribuzione
delle risorse.
Ora, è proprio questa concezione di un sistema struttural-funzionale di
relazioni tra natura, intesa come orizzonte dato di risorse e di bisogni, e
risignificazione culturale, che Gellner sviluppa in una particolare tesi uni-
versalistica, da lui opposta al relativismo. Se è infatti vero – come egli
riconosce – che non è legittimo fondare l’universalità della natura umana
in strutture genetiche o culturali innate, dobbiamo però riconoscere che un
singolo modello di uomo e il suo paradigma culturalmente e storicamente
specifico di razionalità – lo stile cumulativo di conoscenza della scienza
occidentale – ha portato all’unificazione concettuale del mondo: una strut-
tura storica specifica ha generato una universalità funzionale nell’ordine
dei significati e della verità; una tradizione tra molte ha in questo modo
prevalso, fornendo la prospettiva per indagare tutte le altre: è a partire dalla
validità oggettiva di questo contesto cognitivo, che si è dimostrato storica-
mente superiore per la sua forze unificante, che noi interpretiamo e valu-
tiamo gli altri contesti culturali.11 Proprio da questa concezione assiologica
ed etica della razionalità e dell’oggettività (per cui la struttura teleologica
di una comunità, la moderna “società aperta” occidentale, diventa norma

10 Cfr. E. Gellner, Causa e significato nelle scienze sociali, cit., capp. 11, 12 e 13:
11 Cfr. E. Gellner, Relativism and Universals, cit.
Il relativismo culturale nell’antropologia 121

della ragione), Gellner fa discendere la sua critica a qualunque modello


teorico che implichi una forma di relativismo dei criteri di valutazione.12
Alla base del relativismo, secondo Gellner, c’è sempre un modello radicale
e degenerato di analisi contestuale. Di fatto, egli riconosce che l’approccio
contestuale è metodologicamente inevitabile in antropologia, soprattutto
nella formulazione funzionalista, secondo cui spiegare un’istituzione non
è ricostruirne la causa, ma mostrare il modo in cui contribuisce alla società
come un tutto. Quello che egli critica sono le versioni degenerate dell’ap-
proccio contestuale: sia il modo con cui molti antropologi, tra cui Evans-
Pritchard, applicano un principio di tolleranza e di carità; sia quella che a
suo parere è la progenie conseguente della filosofia di Wittgenstein, l’idea
di scienza sociale di Winch, secondo cui una società deve essere compresa
attraverso le sue regole e i suoi concetti.
Consideriamo la procedura caritatevole seguita da Edward E. Evans-
Pritchard (in particolare in Nuer Religion)13 per eliminare l’apparente ir-
razionalità di affermazioni come “I gemelli sono uccelli”. Evans-Pritchard
riconduce questa affermazione incoerente al contesto concettuale che è il
dualismo del pensiero religioso dei Nuer. Secondo Gellner, la ricontestua-
lizzazione caritatevole è in realtà una manipolazione selettiva e illegittima
del contesto: il contesto va invece analizzato in tutti i suoi aspetti, in parti-
colare in quell’aspetto che egli definisce la funzione sociale dell’assurdità e
dell’incoerenza. Lungi dal dover essere caritatevolmente eliminata, l’inco-
erenza concettuale, il fatto, cioè, che alcuni concetti siano autocontraddit-
tori o mascherino qualcosa, è proprio ciò che è socialmente significativo,
e che va ricostruito nella sua funzione sociale. È ciò che Gellner mostra
con un’analisi della nozione di baraka, un insieme di caratteristiche ascrit-
te ai “santi” della società berbera dell’Atlante, caratteristiche di cui sono
accreditati individui, che nello stesso tempo non le devono possedere vera-
mente14. La credenza contraddittoria, e la discrepanza tra concetti e realtà
(per cui i concetti non sono, come vuole il punto di vista interpretativo alla
Geertz, le pratiche contestuali, ma piuttosto la giustificazione sociale delle
pratiche), è perfettamente funzionale al funzionamento del sistema sociale,

12 Per le critiche al relativismo, cfr. E. Gellner, Causa e significato nelle scienze


sociali, cit., capp. 2, 3, 4 e 5; per una discussione delle tesi di Gellner, cfr. U.
Fabietti, La costruzione della giovinezza e altri saggi di antropologia, Guerini e
Associati, Milano 1992, cap. IV. Per una ricostruzione del dibattito tra razionalità
e relativismo in antropologia, cfr. F. Dei, A. Simoniccca (a cura di), Ragione e
forme di vita, Franco Angeli, Milano 1990.
13 E. E. Evans Pritchard, Nuer Religion, Clarendon Press, Oxford 1959.
14 Cfr. E. Gellner, Saints of the Atlas, Wiedenfeld & Nicholson, London 1969.
122 Nodi della verità

in cui gli individui eletti hanno il ruolo di ratificare alleanze politiche da


una posizione di autorità indipendente.
L’obiettivo polemico di Gellner è soprattutto Winch, con il suo modello
contestuale e interpretativo dei fatti sociali. Sviluppando il tema del com-
prendere le altre culture a partire da concetti wittgensteiniani (le cultu-
re sono insiemi di significati e perciò vanno non spiegate, ma comprese
dall’interno, a partire dalle regole che le costituiscono), il filosofo Winch
suggerisce all’antropologo, secondo Gellner, posizioni insostenibili: se non
si può assumere un punto di vista esterno alla società, diventa impossibile
comparare e tradurre insiemi di significati estranei; se il pensiero indivi-
duale è il risultato dell’assunzione uniforme di regole collettive, diventa
impossibile pensare la genesi dei cambiamenti sociali; se tutte le credenze
hanno lo stesso valore, diventa impossibile la valutazione delle forme di
vita, e siamo costretti a pensare, ad esempio, che il rifiuto della magia abbia
lo stesso valore della credenza nella magia. Il relativismo, dice Gellner,
soffre di troppa simmetria.
Ora, se è corretta l’individuazione della patologia relativistica, ed è con-
divisibile il rifiuto di un relativismo che presupponga la simmetria e l’indif-
ferenza dei significati delle varie culture, ciò che non è condivisibile sono
i presupposti con cui Gellner conduce la sua analisi. In primo luogo, dal
punto di vista di Gellner l’asimmetria tra noi e l’altro (che è un concetto
importante, ma non nel senso di Gellner, come vedremo) è, come si è già
detto, basata sull’oggettiva superiorità delle società scientifico-industriali e
sulle possibilità universalizzanti che questo divario tecnologico apre. Ora,
questo fatto storico-culturale, in Gellner, non è solo una differenza ogget-
tiva, ma finisce per diventare la base della valutazione delle differenze tra
le culture: l’asimmetria, da fatto, diventa valore. Nell’idea di oggettività
di Gellner, infatti, è la forma occidentale, scientifico-tecnologica, della ra-
zionalità, che diventa di fatto il criterio di razionalità. Questa concezione
dell’asimmetria tra le culture basata sulla superiorità della ragione occiden-
tale ci spiega l’incomprensione di alcune ragioni, che appaiono fondate,
come cercherò di mostrare, del relativismo. Il relativismo “simmetrico”
(tutti sono uguali e chiusi nella loro differenza) è certamente insensato;15
ciò che invece non appare accettabile è una concezione dell’asimmetria
ridotta a una questione di gradi di razionalità. Proprio basandomi su una

15 Questo tipo di relativismo presta il fianco alla classica obiezione al paradosso del
relativista: proclamare il relativismo è elevarsi sopra di esso, ma ciò significa nello
stesso tempo abbandonare il relativismo per assumere una posizione assoluta (cfr.
W. V. O. Quine, Sui sistemi del mondo empiricamente equivalenti, 1975, trad. di M.
Leonelli in Id., Saggi filosofici 1970-1981, Armando, Roma 1982, pp. 127-143.
Il relativismo culturale nell’antropologia 123

diversa concezione dell’asimmetria, cercherò ora di ridefinire il problema


del rapporto tra le culture attraverso i concetti di intraducibilità e di alterità
asimmetrica, per arrivare a sostenere un’idea di traduzione e di rapporto
dialogico tra le differenze culturali.
Il problema va a mio parere riformulato a partire appunto da questi due
concetti: il concetto di intraducibile ontologico, e il concetto di alterità
come differenza asimmetrica. Questi due concetti consentono di affronta-
re in modo fecondo la domanda fondamentale dell’antropologia: come va
pensato il dialogo di alterità che è sotteso alla conoscenza antropologica,
che di questo dialogo è in fondo il laboratorio?
Quanto al primo concetto: con intraducibile ontologico mi riferisco alla
condizione della conoscenza antropologica, per cui tutte le procedure co-
noscitive dell’antropologo si costruiscono sulla non-trasparenza dell’og-
getto. Attenzione: “intraducibile” non significa qui banalmente lo scacco
nel passaggio da un codice linguistico a un altro, cioè l’impossibilità di
restituire un termine o un messaggio equivalente in un’altra lingua; signifi-
ca piuttosto che un rapporto ontologico asimmetrico è la base della produ-
zione della conoscenza antropologica, e che questo rapporto ontologico fa
in modo che la conoscenza sia segnata dal presupposto del non rappresen-
tabile in quanto limite della messa in discorso dell’altro.
Esemplare il lavoro di sutura dell’informe che l’antropologo opera già
al livello iniziale delle descrizioni: gli abbozzi di descrizione etnografica
che si trovano nei primi taccuini dell’antropologo sul campo mostrano di
essere già delle vere costruzioni interpretative, risultato dell’interazione
discorsiva sul terreno. Non si dà un grado zero della rappresentazione de-
scrittiva, una riproduzione neutra dei dati: i documenti grafici (appunti,
trascrizioni e registrazioni di dialoghi, tentativi di traduzione, commenti)
in cui l’antropologo traspone l’incontro sul campo sono già delle intuizioni
e delle costruzioni interpretative. Ora, la descrizione coincide in fondo con
un’operazione complessa di traduzione, che non è unicamente linguistica
(grammaticale, lessicale), né unicamente rappresentativa di referenti dati
(semantica). In altri termini, si tratta di un’operazione che non è semplice-
mente il trasferimento di un testo originale in un altro corpo significante, a
partire da classi di equivalenze date: è piuttosto una produzione dialogica,
polifonica, del testo un processo che ricostruisce significati integrandoli
in contesti di aggregazione del senso. La traduzione (come ha mostrato
Quine)16 non è confronto di unità di significato, ma ricostruzione degli

16 W. V. O. Quine, Parola e oggetto, 1960; trad. a cura di F. Mondadori, Il Saggiato-


re, Milano 1970, cap. II.
124 Nodi della verità

schemi percettivi, concettuali e culturali in cui un termine diventa com-


prensibile. Traduzione e descrizione configurante convergono da subito:
in questo senso, ciò che l’antropologo opera inizialmente non è tanto una
semplice rappresentazione, quanto già una configurazione oggettivante,
una messa in forma degli eventi dialogici e contestuali dell’incontro che
trasforma un ambiente e una situazione (Umwelt) in un “mondo” (Welt)
(nei termini di Ricoeur),17 cioè in una simulazione coerente dell’insieme
dei significati e delle azioni dell’altro: il che comporta delle trasformazioni,
dei residui, dei compromessi legati necessariamente ad un tempo all’opa-
cità dell’altro e alla volontà dell’antropologo di sapere il senso, cioè di cat-
turare il discorso vivente di una cultura in un’enciclopedia di significati e
definizioni oggettivanti. Come scrive Michel de Certeau, l’antropologo va
presso l’altro armato con «le armi europee del senso» e ne trasforma le voci
e l’oralità in scrittura oggettivante:18 l’antropologia è ad un tempo incontro
con l’alterità e volontà di sapere.
Il compromesso non è però da intendere come scacco e fallimento: è
piuttosto il segnale della distanza che è la condizione necessaria della co-
noscenza antropologica; è la marca del legame ambivalente, sotteso a ogni
attività di traduzione, tra la partecipazione ad atti vitali (interazione sul
campo) e l’assunzione necessaria di una distanza oggettivante (scrittura
del testo etnografico), tra il senso incarnato e la sua forma oggettivata, tra
l’altro e noi stessi. La distanza ontologica traduttiva è il luogo della com-
prensione e dell’interpretazione. Di fatto, nel dialogo con l’informatore
l’antropologo è presente come alterità, e comprende attraverso la distan-
za: in altre parole, egli confronta l’orizzonte dei significati e delle forme
di azione inscritti nella lingua dei nativi con la propria precomprensione
(cioè con l’orizzonte di senso inscritto nella propria lingua), e con le idee
ricevute che costituiscono il suo sapere scientifico (sapere su genealogie,
terminologie di parentela, organizzazione del territorio, forme di proprietà,
ecc.). La descrizione che ne deriva è un compromesso conoscitivo istituito
su una mancanza di completezza e di trasparenza, legata a quello che chia-
mo “intraducibile ontologico”. Possiamo pensare l’intraducibile nel senso
kantiano e wittgensteiniano del “limite” (Grenze): limite non come barrie-
ra che separa da una regione inconoscibile, ma come sfondo che delimita
un orizzonte di pensabilità, aprendo dall’interno uno spazio di esperienza

17 P. Ricoeur, Tempo e racconto. I, 1983; trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano
1986, p. 130.
18 M. de Certeau, La scrittura della storia, 1975; trad. it. di A. Jeronimidis, Jaca
Book, Milano 2006, p. 1.
Il relativismo culturale nell’antropologia 125

possibile. Senza questo limite, senza il contorno (Hintergrund, nei termini


di Wittgenstein)19 che ci chiude nella nostra cultura, non avremmo punti di
vista e di comparazione possibili, non avremmo l’esperienza dell’alterità.
La conoscenza antropologica lavora sull’informe e sull’intraducibile: ed
è dal punto di vista della traduzione che possiamo ripensare la questione
dell’alterità, questione non affrontata dalle prospettive relativistiche radi-
cali. La traduzione mostra infatti di essere attività antropologica esempla-
re: esemplare del corto-circuito tra l’appropriazione possibile e i “limiti” (o
condizioni) dell’appropriazione, legati al carattere inevitabile di una presa
di distanza oggettivante. Ad esempio, non possiamo comprendere le rap-
presentazioni Fataleka dell’universo e dell’origine del mondo se non at-
traverso nozioni costitutive del nostro immaginario spaziale e della nostra
ontologia (come le nozioni di “limite” e di “storia”), e attraverso nozioni
con cui rappresentiamo la genesi della nostra cultura (come il tema gre-
co dell’apeiron), ma che non arriviamo a rendere trasparenti neppure “per
noi”;20 non possiamo comprendere lo hau maori se non attraverso nozioni
come “prezzo”, “dono”, “profitto”, “pagamento”, e attraverso opposizioni
come utilità/gratuità, scambio/dono, intorno a cui si giocano i nostri stessi
conflitti culturali, e che si trovano nel cuore dell’articolazione tra economi-
co, giuridico e politico nella nostra forma di vita.21 Ma proprio questi scarti
e questi vuoti costituiscono lo spazio (e il tempo) in cui la conoscenza
lavora: l’intraducibile, il limite non è semplicemente limite conoscitivo in
rapporto ad un ideale di conoscenza trasparente; è, al contrario, il limite
ontologico che definisce i bordi della nostra esperienza dell’altro, un’e-
sperienza che diventa possibile contrastivamente, a partire da noi stessi, e
che contribuisce nello stesso tempo alla nostra autocomprensione. Così lo
spazio indeterminato Fataleka diventa concepibile comparando e modifi-
cando nello stesso tempo la nostra e la loro concezione di “limite” e di “il-
limitato”; così l’indecisione di Mauss, che nel suo famoso saggio presenta
il dono come un ibrido tra scambio e reciprocità, tra prestazione gratuita
e scambio utilitario, può gettar luce sull’oblio occidentale del dono come

19 L. Witgenstein, Della certezza, 1969; trad. di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1978,


§§ 94 e 461. Cfr. L. Perissinotto, Logica e immagine del mondo. Studio su “Über
Gewissheit” di L. Wittgenstein, Guerini e Associati, Milano 1991, cap. V, 4.
20 Cfr R. Guidieri, La route des morts, Seuil, Paris, 1980, 1.2. e 1.3.
21 Cfr. M. Kilani, Que de hau! Le débat autour de l’Essai sur le don et la construc-
tion e l’objet en anthropologie, in J.-M. Adam, M.-J. Borel, C. Calame, M. Kilani,
Le discours anthropologique, Klincksieck, Paris 1990, pp. 135-167; R. Guidieri,
Voci da Babele. Saggi di critica dell’antropologia, 1984; trad. di S. De Matteis,
Guida, Napoli 1990, pp. 21 sgg.
126 Nodi della verità

dismisura, e come “generazione”, apertura di un debito e di una temporalità


senza ritorno.22
Il tema dell’intraducibile ontologico ci permette di determinare la no-
zione di alterità come differenza e come alterità asimmetrica. Possiamo
pensare l’altro, perché l’altro non è come noi: non è come noi almeno in
due sensi. In primo luogo, l’altro non è una differenza indifferente e sim-
metrica, come vuole la prospettiva definita in senso lato “relativista”. Il
relativismo – pensare cioè gli altri come differenze sostituibili nella loro
diversità – è decostruibile e criticabile proprio riflettendo sul tema del-
le differenze indifferenti. Quanto al tema dell’“indifferenza”, o dell’altro
come alternativa indifferente: per la prospettiva relativistica, tutti i signifi-
cati culturali e tutte le regole hanno lo stesso valore, in quanto convenzioni
intercambiabili. Ma questa è una concezione epistemologica della conven-
zione: la convenzione intesa cioè come scelta tra teorie alternative indif-
ferenti. Applicata nella conoscenza antropologica, dove ciò che avviene è
un incontro tra ontologie, nella pienezza dell’essere e dell’esistenza, e non
un incontro tra teorie, la tonalità tollerante e liberale di questa concezio-
ne produce alternative impraticabili: o un relativismo radicale, che chiude
ogni cultura nel proprio orizzonte incommensurabile rispetto agli altri, e
nega qualsiasi apertura comprendente all’altro; o un relativismo caritatevo-
le, per cui, se l’altro è come me, per comprenderlo mi basta ricostruirne il
contesto. Quanto al tema della differenza, o dell’altro come “differenza”:
il rapporto di alterità che è sottinteso dalla conoscenza antropologica non
può essere pensato attraverso la categoria troppo simmetrica di differenza.
Il tema della differenza depotenzia infatti il concetto di alterità, «disiden-
tifica poiché livella» le identità in gioco23, e arriva a consegnarle in ultima
analisi a prospettive oggettivistiche e universalizzanti: se l’alterità è una
differenza tra le altre, si tratta allora di dominarla attraverso modelli, cate-
gorie, metodi neutri di quantificazione, di classificazione, di comparazione,
che offrano denominatori comuni. Se invece si pensa la conoscenza antro-
pologica come dialogo di alterità, non si dice affatto che l’altro è uguale a
me, da un punto di vista convenzionalista, vale a dire secondo un principio
di indifferenza epistemologica, ma si presuppone piuttosto che io non sono
l’altro, e che lo comprendo (e mi comprendo) in quanto alterità, mettendo-

22 M. Mauss, Saggio sul dono, 1950; trad. di F. Zannino in Id., Teoria generale della
magia ed altri saggi, Einaudi, Torino 1965, pp. 153-292. Cfr. J. Derrida, Donare
il tempo, 1991; trad. di G. Berto, Cortina, Milano 1996; J. T. Godbout, Lo spirito
del dono, 1992, trad. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
23 F. Affergan, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’antro-
pologia, 1987; trad. di E. Turbiani, Mursia, Milano 1991, p. 206.
Il relativismo culturale nell’antropologia 127

mi in dialogo, secondo un principio di etica dell’asimmetria ontologica, e


secondo un principio contrastivo e dialogico dell’identità. Come scrive F.
Affergan, «se posso osservarli, è perché non sono come me».24
Ancora: l’altro non è come noi poiché non è la nostra alterità specu-
lare. La conoscenza antropologica è esemplarmente non simmetrica. Se
vuole comprendere l’altro, l’antropologo non lo può pensare come uguale
a sé, né da un punto di vista oggettivistico (per cui l’altro è uguale a me
perché partecipiamo entrambi degli universali della natura umana), né da
un punto di vista relativistico radicale (per cui l’altro è uguale a me nella
scelta indifferente di un insieme di significati). La conoscenza dell’altro
non avviene neppure attraverso un rapporto di reciprocità empatica, attra-
verso una relazione duale narcisistica in cui mi specchio nell’altro come un
altro me stesso: il rapporto con l’altro sarebbe in questo caso un rapporto
di empatia o carità, in cui l’altro è una ripetizione di me stesso. L’esperien-
za antropologica comincia invece con l’apertura allo sguardo dell’altro
come terzo, o, nei termini di Lévinas, al suo presentarsi come volto:25 è
questa la curvatura asimmetrica e eteronoma dello spazio sociale che apre
la possibilità di relazione, prima di ogni societas determinata. L’altro non
è il mio alter ego, ma il mio “terzo”: in altre parole, io non sono l’altro,
e lo comprendo (e nello stesso tempo mi comprendo) proprio in quanto
alterità, mettendomi in dialogo, secondo un’etica della differenza ontolo-
gica, e secondo una concezione contrastiva, in ultima analisi asimmetrica,
non narcisistica, dell’identità. Io credo che si possa parlare di dialogo di
alterità, ma nel senso puntuale, non universale, dell’apertura all’incontro e
alla negoziazione, e quindi nel senso della traduzione e del compromesso;26
non credo cioè che il dialogo vada inteso nel senso idealistico della fusione

24 Ivi, p. 208.
25 E. Lévinas, Totalità e infinito, 1961; trad. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano
1980.
26 Nella prospettiva che adotto qui, e che guarda alla comunicazione tra le culture,
concordo pienamente con il concetto di relazione interculturale, con cui Giuseppe
Cacciatore si confronta, dal punto di vista di uno storicismo critico, con il proble-
ma di un necessario ripensamento dell’universalismo. Egli scrive fra l’altro: «La
filosofia interculturale [...] si presenta anche come una modalità di pensiero che
pur muovendo dalla singolarità culturale storicamente determinata [...] non rinun-
cia ad una dimensione di universalità resa plausibile dalla conoscenza e dalla
comunicazione di elementi comuni e da tutte le opportunità offerte dalla relazione
interculturale» (G. Cacciatore, Etica interculturale e universalismo “critico”, in
G. Cacciatore e G. D’Anna (a cura di), Interculturalità. Tra etica e politica, Ca-
rocci, Roma 2010, pp. 33-34. Cfr. anche A. Pirni (a cura di), Logiche dell’alterità,
ETS, Pisa 2009.
128 Nodi della verità

di orizzonti e dell’integrazione a un livello significante superiore (secondo


il tema ermeneutico di Gadamer);27 o nel senso dell’autotrascendimento
e emancipazione dei soggetti nella comunicazione (secondo il tema della
situazione comunicativa ideale che era stato teorizzato negli anni Settanta
e Ottanta da Apel e Habermas).28 In quanto contrastivo e asimmetrico, il
rapporto con l’alterità è costitutivo di “noi” stessi. Remotti ci ricorda che
le società, anche quelle tradizionali, non sono entità chiuse, ma processi in
cui è coinvolta l’alterità (pensiamo alla pratica dell’esogamia nelle socie-
tà arcaiche; o al processo complesso di assimilazione della cultura greca
con cui i Romani mettono in atto un processo di fondazione della propria
cultura): egli parla di un lavoro di rimodellazione continua del “noi”, tra
assimilazione e differenziazione.29 In questo senso, il sapere antropologico
deve sentirsi impegnato non tanto in una tipologia delle differenze, quanto
nell’analisi dei problemi esemplari della “traduzione”, del passaggio, della
“trasformazione” nell’attraversamento interculturale.
Ha dunque delle buone ragioni una forma di relativismo che sostenga
che la teoria in antropologia non deve tendere alla legislazione universale,
ma piuttosto a un compromesso traduttivo che conservi il rapporto all’al-
terità. È questo a mio parere il tipo di relativismo ragionevole che trovia-
mo nella concezione dei giochi linguistici di Wittgenstein. Egli non pensa
affatto il significato come una scelta convenzionale, ma piuttosto come
una struttura pratico-ontologica ed etica costrittiva, che si è costituita nella
«storia naturale della tribù»,30 una struttura che determina le nostre possi-
bilità di vita, e che noi possiamo descrivere (comprendere) solo facendo
etnograficamente, e asimmetricamente, la differenza con altre possibilità
di vita. Se il relativismo rozzo criticato da Gellner pensa simmetricamente
che l’altro è uguale a me, secondo quello che abbiamo chiamato un prin-
cipio di indifferenza epistemologica, il relativismo di ispirazione wittgen-
steiniana dice invece che io non sono l’altro, e che lo comprendo (e nello
stesso tempo mi comprendo) proprio in quanto alterità, mettendomi in dia-

27 H. G. Gadamer, Verità e metodo, 1960; trad. a cura di G. Vattimo, Bompiani,


Milano 1983, pp. 356-357.
28 K. O. Apel, Comunità e comunicazione, 1973, trad. parziale di G. Carchia, Ro-
senberg & Sellier, Torino 1977; J. Habermas, Was heisst Universalpragmatik?, in
K. O. Apel (a cura di), Sprachpragmatik und Philosophie, Suhrkamp, Frankfurt
a. M., 1976, pp. 171-272; J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll.,
1981; trad. di P. Rinaudo, Il Mulino, Bologna 1986.
29 Cfr. F. Remotti, Noi primitivi. Lo specchio dell’antropologia, Bollati Boringhieri,
Torino, 1990, 20092.
30 Cfr. L. Wittgnetsein, Libro blu e Libro marrone, 1958; trad. a cura di A. G. Conte,
Einaudi, Torino 1983, p. 129.
Il relativismo culturale nell’antropologia 129

logo, secondo un principio di etica della differenza ontologica, e secondo


una concezione dialogica e contrastiva, in ultima analisi asimmetrica e non
narcisistica, dell’identità.
Il tema della comparazione è importante, ma, rispetto alla posizione di
Gellner, che insiste sul valore della comparazione come metodo in vista
della generalizzazione oggettivante, va arricchito di un senso contrastivo e
asimmetrico in più: la comparazione va cioè intesa come un attraversamen-
to traduttivo tra particolarità e differenze, che mostri il generale nel parti-
colare, portando alla luce strutture relazionali di somiglianze e differenze,
anziché tassonomie gerarchiche e inclusive. Con Merleau-Ponty, possiamo
parlare di un «universale laterale», che emerge dal processo dell’attraver-
samento interculturale, anziché di un universale imposto dall’alto da leggi
oggettive.31 Ciò significa sottolineare il carattere processuale, non fisso,
della modellizzazione interpretativa dell’altro che può offrirci l’antropolo-
gia: come le culture si fanno e si disfano, entro processi e rituali che offro-
no sia messe in scena, sia messe in questione della propria ontologia, sia i
momenti della costruzione, sia i momenti della crisi,32 così la comprensio-
ne dell’altro non può essere che un attraversamento simbolico e traduttivo
sempre in corso di riformulazione. Questa prospettiva non avvicina troppo
l’altro, in un rapporto di empatia, narcisismo, o carità, né lo allontana in
una classificazione livellatrice delle differenze, ma pensa piuttosto alla luce
proiettata dall’attraversamento culturale sul problema generale dell’alterità
che è costitutiva di noi stessi: noi, primitivi; noi che possiamo attraversare
la distanza dell’altro solo dopo aver preso distanza da noi – come dice
Lévi-Strauss,33 leggendo nelle Confessioni di Rousseau la fondazione delle
scienze dell’uomo.
La mia argomentazione ha cercato di riformulare la questione dell’alte-
rità pensandola come differenza asimmetrica, e criticando attraverso que-
sta nozione il relativismo della differenza indifferente e una concezione

31 M. Merleau-Ponty, Da Mauss a Claude Lévi Strauss, 1960, trad. di G. Alfieri in


Id., Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 161. A questo proposito è interessante
la riformulazione proposta da Cacciatore del tema dell’universalismo attraverso
il concetto di universalizzazione come processo dinamico di scambio e riconosci-
mento «tra differenti e paritarie visioni etiche del mondo» (G. Cacciatore, Etica
interculturale e universalismo “critico”, cit., p. 34).
32 Cfr. F. Remotti, Tesi per una prospettiva antropo-poietica, in S. Allovio, A. Favole
(a cura di), Le fucine rituali. Temi di antropopoiesi, Il Segnalibro, Torino 1996, pp.
9-25.
33 Cfr. C. Lévi-Strauss, Jean-Jacques Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo,
1962, trad. a cura di P. Caruso, in Id., Razza e storia e altri studi di antropologia,
Einaudi, Torino 1967, pp. 83-96.
130 Nodi della verità

dell’antropologia come collezione classificatoria di altri “noi stessi”. Per


questa critica, ho ripreso il relativismo ragionevole di Wittgenstein e l’in-
terpretativismo che ne ricava Geertz, che ci insegnano che non possiamo
che intraprendere sempre di nuovo un rapporto di negoziazione e di com-
promesso traduttivo. Questo compromesso è costitutivo dell’antropologia,
ma riguarda nello stesso tempo, più radicalmente, la nostra identità di occi-
dentali: tema inesauribile, in cui possiamo tuttavia aprirci un piccolo varco
riflettendo sul paradosso dell’oggettivazione in antropologia.
Il tema del compromesso traduttivo è in fondo un modo per dare una
configurazione possibile al problema dell’altro come oggetto, evitando
l’alternativa, che appare oggi insolubile, tra oggettivismo e relativismo. È
infatti difficile, formulando il problema della conoscenza dell’altro, sfug-
gire a un’alternativa paradossale di questo tipo: come posso comprendere
l’altro nella sua differenza, se finisco per oggettivarlo? E, d’altra parte,
come posso comprenderlo, senza ricorrere a procedure di distanziazione e
di oggettivazione? Il compromesso traduttivo affronta il problema dicendo
pressappoco: non si può pensare alla comparazione positivista come meto-
do del passaggio generalizzante all’oggettivo, poiché l’oggetto antropolo-
gico, in quanto insieme di significati soggettivi, si sottrae alla messa in di-
stanza metodologica e alla scomposizione oggettivante; ma si può tuttavia
pensare alla luce che i possibili passaggi traduttivi tra noi e gli altri gettano
sul problema dell’altro che è costitutivo di noi stessi, e quindi sulle forme
possibili di oggettivazione di noi stessi.
Ma, forse, proprio l’impasse del dibattito epistemologico ci consente
oggi di essere più radicali, e di riconoscere che le posizioni oggettivistiche
e relativistiche in antropologia sono due poli dello stesso dilemma e dello
stesso doppio legame: da una parte, il razionalista alla Gellner ci ricorda
l’inevitabilità dell’oggettivazione, il fatto cioè che non possiamo conosce-
re l’altro senza oggettivarlo e senza rapportarlo a schemi universalizzanti;
dall’altra parte, il relativista alla Winch ci invita a fare nostra l’utopia della
conoscenza in antropologia, cioè la volontà di conservare la dimensione
della differenza ontologica. Ma, con questo, siamo confrontati con una
questione di fondo: questo doppio legame irresolubile non è forse il pro-
blema stesso dell’Occidente e della sua volontà di sapere?
3
SCRITTURA DELLA STORIA E REALTÀ
DEGLI EVENTI
Nessuno storico o epistemologo ha ancora dimostrato che la
storia umana sia un processo deterministico.
Primo Levi, I sommersi e i salvati

1. Premessa

Nelle analisi che seguono, prenderò in esame quella forma di sapere e di


scrittura scientifica argomentata che è la storiografia. Le mie analisi assu-
mono una prospettiva epistemologica specifica: ritengo infatti che ogni for-
ma di sapere scientifico sia investita di un compito che è denaturalizzante,1
ma che è insieme anche esplicativo di un dominio referenziale, perché in
questione sono i molti mondi dei fatti e degli eventi naturali o umani. In
altre parole, considero la storiografia come un costrutto testuale compren-
dente, ma preciso che intendo “comprendente” non nel senso debole di
“interpretativo”, ma nel senso forte di “impegnato in un debito di realtà”.
Per argomentare la mia posizione, analizzerò paradigmi diversi di cono-
scenza storiografica.
Assumerò la nozione di evento, che è di fatto legata alla struttura con-
cettuale delle scienze naturali e sperimentali, ma che può essere un buon
candidato per parlare di dati storici, e discuterò il modo con cui diversi pa-
radigmi epistemologici qualificano il carattere storico degli eventi. Preciso
subito che considererò il carattere storico degli eventi come una questione
epistemologica: distinguerò storia e temporalità, perché non è per il suo
essere temporale tout court che un evento si qualifica come storico. La
storia non coincide col tempo,2 la storia non si vive, potremmo dire, pa-
rafrasando Hayden White, ma è una delle possibili esperienze del tempo,
ed è un’esperienza del tempo in quanto è una forma conoscitiva. Non mi
occuperò, se non brevemente e indirettamente, di ontologia storica, pro-

1 Mi permetto di rinviare a S. Borutti, Filosofia delle scienze umane Le categorie


dell’antropologia e della sociologia, Bruno Mondadori, Milano 1999, capp. 2 e 3.
2 «No one and nothing lives a story» (H. White, Tropics of Discourse, The John
Hopkins University Press, Baltimore and London 1978, p. 111): nessuno e niente
vive una storia, scrive White. Vuol dire che non ci sono oggetti individuali ed
eventi che posseggano di per sé significato storico; gli eventi storici sono tali in
quanto raccontati, «made into a story».
132 Nodi della verità

spettiva che ha avuto la sua espressione più elaborata e convincente nella


concezione di Michel de Certeau della realtà del passato come assenza di
cui la storia celebra un rito di sepoltura.3 Considererò la storia come forma
conoscitiva che riguarda (per dirlo con Weber) la “possibilità oggettiva”
degli eventi.
Ancora una precisazione. La questione della comprensione degli eventi
va a mio parere impostata al di fuori dell’opposizione esclusiva tra scien-
tifico e letterario, cioè della separazione tra questione della verità e del ri-
ferimento, da una parte, e questione della scrittura, dall’altra. È importante
sottolineare (contro un’interpretazione radicale della cosiddetta svolta lin-
guistica nella concezione della storia, che va al di là delle stesse posizioni
testualiste di Hayden White) che la redazione del testo storico è sì costitu-
tiva del modo storico di comprensione degli eventi,4 ma lo è non solo in
quanto prefigurazione immaginativo-linguistica del campo storico,5 bensì
in quanto struttura narrativa la cui efficacia conoscitiva è legata a un patto
di verità, e quindi alla presa in carico della relazione all’orizzonte extra-
testuale; relazione che deve essere supportata, come vedremo, da prove
documentarie. Ritengo che escludere la domanda sulla fedeltà rappresenta-
tiva implichi assumere in ultima analisi un concetto inanalizzato di evento,
con il paradossale effetto insieme scientistico e metafisico di presupporre
un dato informe, e quindi, in buona sostanza, un in sé.
Vorrei qui analizzare schematicamente più modelli epistemologici di
cosa sia “evento” in storia: ciascun modello sarà brevemente considerato
per il tipo di rapporto che istituisce tra trattamento linguistico-formale e
spiegazione-comprensione dell’evento. Affronterò infine il rapporto nar-
razione-verità.

3 Cfr. infra, nota 36. Ma è stato Heidegger ad acquisire il tema della storia alla pro-
spettiva dell’ontologia fondamentale, per cui in questione non è l’oggetto possibi-
le della storiografia, o della sociologia, o dell’antropologia, ma il «modo di essere
di ciò che è storico» (M. Heidegger, Essere e tempo, 1927; trad. a cura di P. Chiodi
Longanesi, Milano 1976, p. 451). Considerare il significato ontologico della storia
significa anche studiare la storia come costituzione di identità o fondazione di
civiltà: Flavio Cassinari mostra come l’identità umana si costruisca attraverso la
rappresentazione mitica o storica del tempo (F. Cassinari, Tempo e identità. La
dinamica di legittimazione nella storia e nel mito, Franco Angeli, Milano 2005).
4 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto I, 1983; trad. di G. Grampa, Jaca Book, Milano
1986, p. 242.
5 Cfr. H. White, Retorica e storia, 2 voll., 1973; trad. di P. Vitulano, Guida, Napoli,
1978; F. Ankersmith, Narrative logic. A semantic analysis of the historian’s lan-
guage, Nijhoff, Den Haag 1983.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 133

2. Legge ed evento

Il paradigma nomologico della spiegazione, elaborato in ambiente neopo-


sitivista, sottopone l’evento a una scrittura per leggi. Si tratta di un paradig-
ma codificato per gli eventi fisico-naturali: un evento è spiegato se e solo se
l’enunciato che lo descrive (E) può essere dedotto logicamente a partire da
premesse, costituite dalla congiunzione di un insieme di enunciati empirici
che descrivono eventi anteriori e condizioni iniziali pertinenti (C1 ... Ck), e
da un insieme di leggi (L1 ... Lk).6 L’evento è spiegato in quanto è ricondotto
alla forma della legge; è dunque un particolare che non ha di per sé forma,
se non come caso del generale: siamo in un contesto in cui domina l’onto-
logia della legge.7 Nel caso delle scienze storico-sociali, è stato detto,8 si
tratta di adattare la forma dell’inferenza allo statuto di generalità delle leggi
a cui si può far riferimento nel campo della conoscenza storica: la spiega-
zione storica ha allora il carattere di un «abbozzo di spiegazione», perché
il passaggio dalle premesse all’evento non è tanto una deduzione logica
a partire da leggi universali, quanto un’inferenza probabilistica da leggi
mutuate dalla biologia, dalla psicologia, dall’economia, dalla sociologia
– leggi, queste, che esprimono non delle regolarità rigide, ma delle ten-
denze. Va detto però che anche se si interpretano le regolarità a cui fanno
riferimento gli storici come regolarità “disposizionali”, per cui l’azione di
un agente è ricondotta alle sue abitudini di comportamento,9 non cambia la
sostanza nomologica del paradigma, perché le tendenze comportamentali e
le intenzioni dei soggetti agenti sono pur sempre trattate attraverso genera-
lizzazioni, cioè attraverso la forma della legge.

6 Sulla base del sistema delle leggi, l’insieme C causa E. Cfr. C. G. Hempel, P.
Oppenheim, Studies in the Logic of Explanation, «Philosophy of Science», 15,
1948, pp. 135-175.
7 Parlo di “ontologia della legge” perché lo schema inferenziale per cui deduco da
condizioni iniziali e da leggi la descrizione-previsione di un evento (spiegazio-
ne nomologico-deduttiva) è una necessità logica; per leggervi un nesso causale
necessario devo fare l’ipotesi metafisica che il mondo sia un’ontologia di leggi,
cioè che la natura sia uniforme e governata da leggi (cfr. S. Borutti, Filosofia delle
scienze umane. Le categorie dell’antropologia e della sociologia, Bruno Monda-
dori, Milano, 1999, cap. 1, §§ 1-2).
8 C. G. Hempel, Spiegazione scientifica e spiegazione storica, 1962, in M. V. Preda-
val Magrini (a cura di), Filosofia analitica e conoscenza storica, La Nuova Italia,
Firenze, 1979, pp. 167-195.
9 La regolarità è data qui da un’ipotesi psicologica empiricamente accertabile: cfr.
C. G. Hempel, Aspects of Scientific Explanation and other Essays in the Philoso-
phy of Science, The Free Press, London, 1965, Parte IV, cap. 12, §§ 9 e 10.
134 Nodi della verità

Riconducendo gli eventi alla forma della legge, il paradigma nomolo-


gico dà evidentemente un trattamento riduttivo di due aspetti che ora ana-
lizzerò: la forma specifica degli eventi e la forma temporale degli eventi.
Quanto alla forma specifica degli eventi: un evento spiegato in quanto
sussunto sotto una legge è assorbito entro il modello rigido del rapporto tra
la teoria e i fatti. Un modello unidimensionale, questo, perché la scrittura
proposizionale delle teorie − le teorie come insiemi di proposizioni indi-
pendenti, acontestuali e a valore di verità determinato − comporta di per
sé una semplificazione del modo di costruzione del referente, che viene
rappresentato come un oggetto con proprietà. In questo modello di spiega-
zione, gli oggetti (fatti, eventi) ricevono la loro identità dall’appartenenza a
una classe di individui equivalenti dal punto di vista funzionale e omogenei
nelle proprietà manifestate: sono dunque degli pseudo-individui, degli in-
dividui non individuati. Se gli oggetti sono trattati estensionalmente, attra-
verso l’appartenenza a una classe di individui, ogni oggetto di un dominio
non è che il caso indifferente di una legge che ne descrive le proprietà.
Ma in questo modo la forma della legge − è la grande obiezione del-
lo storicismo al naturalismo − espropria l’evento del suo “proprio”, della
sua specificità. Ed è il problema che poneva, senza risolverlo, Windelband,
quando parlava di scienze storiche come scienze del particolare, e inten-
deva il particolare come idion: il singolo considerato nella sua specificità
(Besonderheit) − ciò che egli chiama fisionomia, «figura [Gestalt] storica-
mente determinata».10 Windelband non risolve il problema, perché pensa il
particolare come l’opposto del generale della legge, rimanendo all’interno
dell’opposizione logico-estensionale tra particolare e generale, tra idion
e nomos, e finendo per ripetere il mito storicista e romantico dell’even-
to come singolarità concreta e irripetibile.11 Ora, ciò che è da pensare è
la forma identitaria dell’evento: Windelband lo intuisce, perché parla di
idion (cioè non semplicemente di particolare, ma di proprio del partico-
lare, del suo principio di individuazione), ma si limita a rovesciare la lo-
gica della legge. L’identità formale dell’evento, la sua specificità non è
data dall’irripetibilità (storicismo). Non è neppure data dalla particolarità
logica, dal fatto di essere la conclusione di un’inferenza (modello nomo-
logico): le cause riconoscibili nelle premesse (leggi e condizioni iniziali)

10 Cfr. W. Windelband, Le scienze naturali e la storia. Discorso di rettorato, Stras-


burgo 1894, 19145, 1924; trad. di A. Marini, in A. Marini (a cura di), Materiali per
Dilthey, Unicopli, Milano 1979, pp. 152-153.
11 S. Borutti, Wilhelm Windelband, in S. Mesure, P. Savidan (a cura di), Le diction-
naire des sciences humaines, Presses Universitaires de France, Paris 2006, pp.
1231-1232.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 135

delimitano ciò che può essere detto di un evento, danno le condizioni che
rendono possibile l’evento, ma non ne mostrano la qualità specifica di ac-
cadimento storico. «Ogni evento produce qualcosa di più (e di meno) di
quanto è contenuto nelle sue premesse», scrive Koselleck, e esemplifica:
«Le premesse strutturali della battaglia di Leuthen non sono sufficienti per
spiegare perché Federico il Grande abbia vinto questa battaglia nella ma-
niera in cui l’ha vinta».12 Quell’evento non è spiegato da un’inferenza: è la
costruzione testuale dello storico che lo spiega offrendo una valutazione e
una scelta di nessi, di cause, di intenzioni, dando così ad esso la fisionomia
di un fatto collegato ad altri fatti.
Nei termini di Ricoeur, un evento riceve lo statuto di “fatto storico” a
partire dal fatto di essere stato incluso in un orizzonte testuale e simbolico:
una cronaca ufficiale, una testimonianza oculare, una memoria, un’auto-
biografia, una verbalizzazione.13 Un fatto storico è un fatto raccontato da
qualcuno e per qualcuno, costruito in una forma discorsiva e comunicati-
va, messo in un contesto e in un rapporto di senso, modalizzato, connesso
cioè a valutazioni e intenzioni di soggetti. Un evento nella sua specificità
non è dunque l’enunciato dedotto dalle premesse (ad esempio: «La Rivolu-
zione francese è l’origine della democrazia»), ma l’intera costruzione che
porta a questa conclusione: cioè il processo dell’oggettivazione,14 il percor-
so testuale di comprensione configurante che, confrontando testimonianze,
selezionando eventi e istituendo nessi cognitivi tra descrizioni, può portare
alla concettualizzazione dell’evento.15
Quanto alla temporalità degli eventi, nel paradigma nomologico il tem-
po è quello reversibile dell’esperimento, in cui la catena causa-effetto che
produce l’evento è un gesto sempre ripetibile, e l’evento è perciò preve-
dibile. Ma quanto tutto questo è rilevante per comprendere la temporali-
tà di eventi storici? L’epistemologo Adolf Grünbaum, discutendo modelli
epistemologici a sfondo ermeneutico, ha ricordato che il tempo investe la
spiegazione anche nelle scienze sperimentali: in fisica, per esempio, il con-

12 R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, 1979, trad. di
A. Marietti Solmi, Marietti, Genova 1986, pp. 129-130.
13 P. Ricoeur, Tempo e racconto I, cit., pp. 173 e sgg; Id., Filosofie critiche della sto-
ria. Ricerca, spiegazione, scrittura, 1994, trad. a cura di L. M. Possati, CLUEB,
Bologna 2010, p. 30, e, per la nozione di “evento narrativo”, p. 50.
14 Cfr. S. Borutti, Filosofia delle scienze umane, cit., cap. 2.
15 Cfr. anche il concetto di comprensione configurazionale di Louis O. Mink (L’au-
tonomia della comprensione storica, 1965, in M. V. Predaval Magrini (a cura
di), Filosofia analitica e conoscenza storica, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp.
83-113; Id., Historical Understanding, Cornell University Press, Ithaca-London
1987).
136 Nodi della verità

testo temporale, la storia di un evento, influenza le predizioni che si fanno


a partire da una legge. Egli scrive (riferendosi alle leggi dell’elettromagne-
tismo classico):

In ogni punto spaziale P, i campi elettrico e magnetico dipendono, ad ogni


istante dato t, dalla posizione, velocità e accelerazione che la carica generatrice
del campo possedeva ad un istante precedente [...].16

È evidente che il “passato” inteso come «storia cinematica particolare,


completa e infinita» non è altro che una sequenza univoca di stati del
mondo, legati sì al punto di partenza in questione, ma poi immessi nella
serie dettata dalla legge: è un passato astratto, idealizzato, pronto per essere
pensato nella sequenza univoca, monotonica, dell’eziologia, o del rapporto
causa-effetto. Ma questa non è una concezione storica del passato, perché
il tempo storico, cioè il tempo che designiamo con la nozione di “passato”,
non è un rapporto unidirezionale passato-presente. Pensiamo ad esempio
alla ricostruzione del passato che è l’anamnesi in medicina, che appare a
prima vista come una ricostruzione di dati ed eventi fattuali (dati familiari,
elementi fisiologici, antecedenti morbosi) posti in relazione con un quadro
di sintomi. In questo senso, si potrebbe considerare il passato del paziente
come la causa (nel senso in cui lo sono gli stati degli istanti precedenti,
nell’esempio di Grünbaum) dell’effetto presente, cioè malattia e sintomi
relativi. Ma l’anamnesi non è tanto un’eziologia unidirezionale (dalla cau-
sa all’effetto), quanto una figura del conoscere che funziona come un vero
e proprio processo di conoscenza storica, perché dà una configurazione alle
tre dimensioni del tempo. È una configurazione del tempo che permette di
attualizzare l’ordine sequenziale, sintagmatico, dei fattori eziologici, orga-
nizzandolo attraverso una scansione paradigmatica – vale a dire, attraverso
le tre direzioni intenzionali (passato, presente, futuro del soggetto), che
agiscono come principio di selezione. In altre parole, l’anamnesi spiega
non in modo unidirezionale, ma configurando il tempo, istituendo cioè re-
lazioni di senso tra passato, presente, futuro del soggetto: da una parte, il
presente della malattia acquista senso solo in riferimento al passato (ipotesi
eziologica), ma nello stesso tempo solo il presente del sintomo stabilisce
le coordinate di attribuzione di senso al passato, selezionando eventi perti-

16 A. Grünbaum, Freud’s theory: the perspective of a philosopher of science, in Pro-


ceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 57, 1983, pp.
5-31; trad. in P. Repetti, a cura di, L’anima e il compasso. Saggi su psicoanalisi e
metodo scientifico, a cura di P. Repetti, Theoria, Roma 1985, 87-138; la citazione
è a p. 97.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 137

nenti, il che non è d’altra parte possibile senza la fiducia nella prospettiva di
un futuro, cioè senza il progetto di ricostituzione della salute17. L’anamnesi
(in quanto anamnesis, lavoro di ricerca, non semplice mneme, presenza
del ricordo)18 mostra di per sé che il gioco della storicizzazione non è pura
retrospezione, ma scambio e intreccio tra le tre dimensioni del tempo, ed è
questo scambio che trasforma un evento in un fatto pertinente; l’anamnesi
mostra in altri termini che non c’è un passato come datità assoluta, separata
dalla sua costruzione in un’intenzione di conoscenza. La storia è in fondo
l’ordine conoscitivo scritturale che rende dicibile questo scambio tra le
forme di temporalizzazione che sono la traccia rammemorante, l’esperien-
za presente e l’attesa. Il paradigma della legge ammette invece solo una
temporalità reversibile, che può sempre ricominciare, e una temporalità
univoca, senza direzioni segnate dal senso.

3. Azione intenzionale ed eventi

Chiediamoci ora come cambi la prospettiva sull’oggettività dell’evento


nei modelli epistemologici delle disposizioni e delle azioni intenzionali,
che mettono in discussione il paradigma nomologico della conoscenza sto-
rica e del nesso causale. Negli anni Quaranta, Gilbert Ryle attira l’attenzio-
ne sul problema dello spiegare quegli eventi specifici che sono le “azioni
umane”, e elabora il modello della spiegazione disposizionale, o spiega-
zione sulla base di motivi:19 i motivi di una persona per agire non sono
eventi, né mentali, né fisici, che possano essere cause naturalistiche, bensì
tendenze e inclinazioni ad agire in un certo modo.20 La teoria dell’azione

17 Cfr. F. Petrella, Turbamenti affettivi e alterazioni dell’esperienza, Raffaello Corti-


na, Milano 1993, p. 126.
18 Sulla polisemia del concetto di memoria, cfr. P. Ricoeur, Ricordare, dimenticare,
perdonare. L’enigma del passato, trad. a cura di R. Bodei, il Mulino, Bologna
2004, pp. 129-131.
19 Cfr. G. Ryle, Lo spirito come comportamento, 1949; trad. di F. Rossi-Landi, Ei-
naudi, Torino, 1955, pp. 111 e sgg.
20 I modelli disposizionali situano l’azione di un agente nel quadro dei suoi com-
portamenti abituali, facendo riferimento a regolarità date da ipotesi psicologiche;
tuttavia questi modelli, per quanto introducano il tema dell’azione di un individuo
agente e delle sue volizioni e intenzioni, non portano del tutto fuori dal para-
digma nomologico. Ad esempio, un’asserzione disposizionale come «Disraeli era
ambizioso», autorizza asserzioni ipotetiche singolari del tipo «Se Disraeli vedrà
la possibilità di ottenere una posizione di supremazia, ne approfitterà» (cfr. la di-
scussione di questo esempio in W. Dray, Riflessioni sulla spiegazione storica delle
138 Nodi della verità

elaborata poi da Georg H. von Wright21 ha il merito di individuare precisa-


mente nell’intenzionalità il carattere fondamentale dell’azione umana: un
evento è un’azione se è qualcosa che un individuo fa capitare in ordine alla
realizzazione di un fine. Un’azione presuppone un soggetto intenzionante,
che dà senso al mondo dando degli scopi alle proprie azioni; presuppone
dunque il contesto olistico, temporalmente orientato e aperto sul futuro,
dell’instaurazione di un mondo del senso, anziché il contesto naturalistico,
riconducibile a connessioni nomiche tra causa e effetto, dell’accadere degli
eventi. Il rapporto tra intenzione e azione non è un nesso necessario esterno
tra eventi indipendenti, ma una connessione interna tra ciò che è intenzio-
nato come fine, e la valutazione del modo in cui realizzare il fine. In quanto
intenzionato, il fine è parte dell’azione: è ciò che l’orienta teleologicamente
e la mette in movimento.
Ora, il modello delle azioni intenzionali, che spiega i fatti storici attra-
verso gli scopi delle attività degli individui, comporta di fatto un’oggetti-
vazione unidimensionale dei soggetti storici, considerati come individui
che sono sostanzialmente i soggetti di un calcolo razionale. Ad esempio,
William Dray riformula la spiegazione causale in storia come spiegazione
razionale22: spiegare è giustificare razionalmente un’azione, valutando l’a-
deguazione del rapporto tra mezzi, ragioni, intenzioni e fini, attraverso un
“principio di azione”, formulabile come: y è una buona ragione per A per
fare x, e lo sarebbe per chiunque in circostanze simili. Ciò che si ottiene
è la costruzione di ciò che qualcuno farebbe o direbbe ragionevolmente.
Ma questo tipo di configurazione comprendente implica un insieme di pre-
supposti: un’azione x è riconosciuta come storica a partire dal significato
che ha per il calcolo razionale di un individuo; tutte le azioni storiche sono
dunque pensate come opera di agenti individuali; gli individui si costitui-
scono come soggetti in quanto agenti calcolanti; la prassi decisionale è resa
omogenea in quanto è ridotta alla monotonia del calcolo mezzi-fini. Ciò
significa considerare il processo sociale e le entità collettive e societarie,

azioni, 1963, in M. V. Predaval Magrini (a cura di), Filosofia analitica e cono-


scenza storica, cit., pp. 217 e sgg.). La natura dell’inferenza è tuttavia problemati-
ca: nel nostro esempio, per inferire in modo necessario quel certo comportamento
di Disraeli non basta aver osservato il suo comportamento in altre occasioni – a
meno di considerare le asserzioni disposizionali come leggi universali del com-
portamento, ricadendo quindi nella prospettiva nomologica.
21 G. H. von Wright, Spiegazione e comprensione, 1971, trad. a cura di G. Di Ber-
nardo, il Mulino, Bologna 1988.
22 Cfr. W. Dray, Leggi e spiegazioni in storia, 1957; trad. di R. Albertini e L. Calabi,
Il Saggiatore, Milano, 1974; Id., Riflessioni sulla spiegazione storica delle azioni,
cit., pp. 221 sgg.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 139

con le loro temporalità specifiche e irriducibili al tempo delle decisioni


individuali, come se fossero entità superpersonali costruite per analogia
di comportamento con entità individuali, e in ultima analisi come risultan-
ti dalla somma dei processi individuali atomistici analizzati in termini di
azioni e di motivazioni individuali.
Il modello della giustificazione razionale delle azioni implica non solo
una scrittura atomistica degli eventi e una comprensione individualistica
dei soggetti, ma anche un idealismo dei soggetti. La giustificazione razio-
nale di un’azione attraverso la ricostruzione del calcolo dell’agente ricon-
duce infatti ciò che è accaduto a un senso intenzionato e a decisioni con-
sapevoli, e implica quindi, idealisticamente, la trasparenza e la coscienza
dei significati, e un corredo esplicito di informazioni e credenze. Ma se
pensiamo la dimensione storica attraverso questo modello, riduciamo il
problema della storicità alle azioni intenzionali consapevoli di individui.23
Che ne è allora degli eventi legati agli effetti non intenzionati delle azioni −
per cui diciamo ad esempio che il viaggio di Cristoforo Colombo portò alla
diffusione della civiltà europea, senza che questo effetto fosse perseguito
intenzionalmente da Colombo? Che ne è soprattutto delle necessità insen-
sate, senza una direzione consapevole, che muovono i fenomeni storici di
lungo periodo? Il modello dell’azione razionale pensa con i tempi istanta-
nei dell’azione individuale legata a decisioni consapevoli, e non può dire
nulla delle trasformazioni riconoscibili solo nel lungo periodo (come le va-
riazioni demografiche o climatiche), delle significazioni persistenti (come
le mentalità, le abitudini comportamentali, le tradizioni), o delle strutture a
lunga evoluzione (come quella economica).
Sappiamo che è a partire da questo ordine di problemi epistemologici e
metodologici che la cosiddetta “nuova storia” ha elaborato una metodolo-
gia atta a ricostruire una semantica storica, in cui la temporalità si strutturi
a partire non da cambiamenti puntuali, dipendenti da azioni e decisioni
individuali, ma dalla direzione anonima, profonda e silenziosa delle civiltà
e delle economie. Si tratta di un paradigma storiografico che si serve di tec-
niche documentarie di tipo statistico e quantitativo per analizzare le grandi
serie senza direzione (la fame, le carestie, le curve dei prezzi, le regolarità
lunghe che riguardano le masse), e per interrogare il carattere opaco del
tempo storico.

23 Sul paradosso di una storia puramente razionale che renderebbe al limite inutili
le ricostruzioni storiche, cfr. F. Rositi, Note sulla sociologia comprendente, in M.
Borlandi e L. Sciolla, a cura di, La spiegazione sociologica. Metodi, tendenze,
problemi, il Mulino, Bologna 2004, § 5.
140 Nodi della verità

4. Scrittura strutturale di eventi

Di fatto, una scrittura individualistica e atomistica di eventi e di azioni


implica un tempo cronologico unidirezionale e uniforme, naturalizzato in
istanti successivi, e orientato al futuro intenzionato da un soggetto. Per
questi due aspetti − unidirezionalità del tempo, e intenzionalità − la scrit-
tura atomistica degli eventi ricade sotto la critica di ciò che la “nouvelle
histoire”, che riprende nella seconda metà del Novecento il paradigma del-
le Annales, chiama l’“événémentiel”. Con la critica all’evenemenzialità, la
nuova storia mostra che non c’è tempo (non c’è evento) senza struttura, e
che i fatti sono l’incrocio di più ordini temporali: ciò significa che, in altre
parole, gli eventi non sono scrivibili senza la modellizzazione del tempo
offerta dalle strutture. Il modello di tempo è quello della storia economica:
contro il tempo lineare della successione dei singoli eventi, staccati atomi-
sticamente l’uno dall’altro, la storia economica fornisce il modello di una
stratificazione delle durate, il tempo a diverse velocità delle strutture: il
tempo breve delle crisi e delle innovazioni, il tempo medio dei cicli (infla-
zione e stagnazione, ripresa), il tempo lungo dei modi di produzione. Gli
eventi diventano riconoscibili nella loro qualità temporale solo in quanto
inscritti in serie e in strutture.
È nota la rivoluzione delle fonti attuata dalla nuova storia: il documento
non va inteso, positivisticamente, come testo scritto “autentico”. Di contro,
testimonianze di vario tipo sono assunte come rilevanti: scritti di ogni
genere, documenti figurativi, iconografia, reperti archeologici, documenti
orali, curve dei prezzi, fossili, utensili, ex-voto, ecc. In questo modo,
i documenti non sono intesi come protocolli che registrino eventi, ma
come costrutti che emergono dal trattamento quantitativo e seriale dei dati
(ricavati da una base documentaria allargata, attraverso tecniche statistiche
relative a economia, popolazioni, società).24 Muta in questo modo l’ideale
metodologico dell’oggettività documentaria: un documento non è un pezzo
neutro di metodologia dello storico, ma è testimonianza, traccia, conscia o
inconscia, per qualcun altro,25 traccia da cercare e da interrogare.26 Il dato
storico non è allora un evento unico, puntuale, irripetibile nel tempo, ma

24 F. Furet, Il quantitativo in storia, 1971; trad. di I. Mariani in J. Le Goff, P. Nora,


Fare storia. Temi e metodi della storiografia, Einaudi, Torino 1981, pp. 8-15.
25 Sulla trasformazione del documento neutro in monumento per qualcuno, cfr. J. Le
Goff, Documento/monumento, in Enciclopedia, vol. 5, Einaudi, Torino 1978, p.
46.
26 P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, 2000; trad. di D. Iannotta, Raffaello
Cortina, Milano 2003, p. 252.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 141

è il costrutto di un’analisi seriale e statistica che fa emergere la struttura


come persistenza dall’esame dei ritmi differenziali di evoluzione dei diver-
si livelli di un insieme storico. Nel caso delle innovazioni o invenzioni, ad
esempio (pensiamo all’invenzione della scrittura, o dell’orologio), ciò che
significa e rende riconoscibile l’evento non è un singolo accadimento nella
sua puntualità, ma la ripetizione, che trasforma l’evento in una struttura.
L’innovazione è la sua esistenza nella serie ripetuta, le modificazioni che
subisce nella ripetizione, gli effetti sociali che provoca nel propagarsi –
cioè la sua inerzia. Che tipo di specificità è riconosciuta allora al fatto sto-
rico nella scrittura seriale e quantitativa della nuova storia? Non lo statuto
di caso di una legge, non l’irripetibilità storicista, ma semmai lo statuto di
struttura differenziale di un’epoca. Fatti storici specifici sono specificità
strutturali, come il diffondersi della civiltà dell’orologio, o lo stabilizzar-
si di una formazione discorsiva organizzata intorno all’enunciato «Il folle
deve essere rinchiuso».27
Come pensare allora il nesso tra tempo e significato storico, al di là delle
opposizioni irrigidite tra linguaggio degli individui e linguaggio delle strut-
ture, tra narrazione evenemenziale e descrizione nomologica?

5. Necessità e verità del racconto

Come pensare la scrittura storica di eventi? Analizzando i vari paradig-


mi, ho concluso che non sono pensabili fatti storici senza una costruzione
del tempo, cioè senza struttura e senza configurazione. Nessuno dei para-
digmi, preso di per sé (il modello naturalistico delle cause, il modello sog-
gettivistico del calcolo decisionale, il modello statistico delle serie) esau-
risce il problema del tipo testuale che è specifico della conoscenza storica.
La stessa scrittura seriale e quantitativa della storia “concettualizzante”28
non può produrre una semantica storica senza ricorrere alla configurazio-
ne unitaria della pluralità dei livelli temporali entro strutture di senso: nel

27 Va detto che i nuovi storici rifiutano il “racconto” inteso come cronaca, sequenza
di eventi, registrazione di ciò che accade dal punto di vista del momento in cui
accade (punto di vista delle fonti, nella definizione di Veyne). In questo senso,
ciò che la nuova storia rifiuta è la “scrittura evenemenziale”: non una narrazione
storica, ma una scrittura cronachistica, che manchi dell’elemento essenziale dello
sguardo storico − cioè il punto di vista del futuro.
28 Cfr. P. Veyne, La storia concettualizzante, 1974, trad. in J. Le Goff, P. Nora, Fare
storia, cit., p. 34; Ph. Carrard, Poétique de la Nouvelle Histoire. Le discours his-
torique en France de Braudel à Chartier, Payot, Lausanne 1998, cap. IV.
142 Nodi della verità

manifesto della “nuova storia”, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età


di Filippo II di Fernand Braudel,29 ad esempio, la permanenza epocale di
una entità storico-geografica, il Mediterraneo, è di fatto la struttura di senso
superindividuale che dà unità agli aspetti plurali del tempo sociale.30 Va
certamente sottolineato che è indispensabile far riferimento a una pluralità
di modelli, perché, come ha mostrato Weber, il genere della spiegazione
storica delle azioni umane è un genere misto, che include di fatto sia seg-
menti comprendenti che si basano su inferenze pratiche, vertenti su motivi,
ragioni per agire, intenzioni, scopi, sia segmenti nomici che offrono spie-
gazioni causali, vertenti su oggetti come clima, tecnologia, demografia.31
Ma resta il problema del tempo storico: il fatto è che il tempo reversibile
della legge, il tempo istantaneo della decisione, il tempo ripetitivo della
serie non costituiscono di per sé la storicità dell’evento.
Il problema del tempo storico è che il tempo non costituisce di per sé
una semantica storica, non ha significato naturale. Perché ci siano eventi,
occorre una strutturazione del tempo: Reinhart Koselleck parla di una «se-
mantica dei tempi storici», che tenga conto della pluralità degli sguardi sto-
rici e dell’intreccio temporale, per cui la storicità del fatto si istituisce nello
scambio tra passato, presente e futuro.32 Una semantica dei tempi storici
richiede di essere pensata attraverso una scrittura intertestuale e policro-
nica: richiede un ripensamento della nozione epistemologica di passato, e
un’indagine sulla pluralità degli intrecci temporali per cui il soggetto rivi-
sita nella scrittura il proprio passato e insieme ne è rivisitato. È il problema
che possiamo pensare attraverso la nozione di passato come “traccia”: una
nozione che consente più percorsi concettuali, perché da una parte aiuta

29 F. Braudel, Civilità e imperi del Mediterrano nell’età di Filippo II, 1949, 19662,
trad. di C. Pischedda, Einaudi, Torino 1953, 19862.
30 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto I, cit., pp. 305 sgg.; Id., Filosofie critiche della
storia, cit., p. 60. Sulla scrittura della storia in Braudel, cfr. J. Rancière, Les mots
de l’histoire, Seuil, Paris 1992.
31 In Possibilità oggettiva e causazione adeguata nella considerazione causale della
storia, Weber esamina quegli ibridi epistemologici che sono l’imputazione causa-
le singolare e il giudizio di possibilità oggettiva (M. Weber, Possibilità oggettiva e
causazione adeguata nella considerazione causale della storia, 1922, trad. a cura
di P. Rossi, in Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp.
215-216).
32 Cfr. R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, 1979,
trad. di A. Marietti Solmi, Marietti, Genova, 1986, pp. 123 e sgg. Cfr. anche Id.,
Storia. La formazione del concetto moderno, 1975; trad. a cura di R. Lista, Clueb,
Bologna 2009. In La marque du passé («Revue de Métaphysique et de morale», 1,
1998, p. 10), Ricoeur, a sua volta, parla di «inclusione della futurità nell’appren-
sione del passato storico».
Scrittura della storia e realtà degli eventi 143

ad affrontare il problema dell’ontologia del passato (cosa significa “essere


passato”), ma dall’altra parte, in quanto testimonianza, porta all’attenzione
il problema della veridicità.
Brevemente sul rapporto tra traccia e significato ontologico del passato:
poiché è un passato che ci riguarda, nella traccia si mostra la sfida che
è l’alterità del passato. A una considerazione epistemologica superficia-
le della temporalità storica, è unicamente il futuro che si presenta aperto,
sospeso, qualcosa che può essere modellato, mentre il passato appare un
fatto compiuto, determinato, fisso, irrevocabile (concezione retrospettiva).
Al contrario, dal punto di vista conoscitivo il passato non è una “cosa”
univoca, non è in altre parole né l’azione di un attore, la sua intenzione,
né la cosa materiale, considerate in un’autonomia naturalistica, ma il loro
ricordo, la loro impronta, la loro “inscrizione” − il “segno” del passaggio
di qualcuno che è stato ontologicamente un “esserci”; un segno che, pure
«al di fuori di ogni intenzione di far segno»,33 rimane per qualcun altro.
In questo senso, la traccia assume il significato di un rinvio ermeneutico:
un significato che è impensabile dal punto di vista nomologico, che non
considera tracce, ma solo conseguenze e effetti di cui restituire la causa
inferenzialmente, a partire da leggi e condizioni iniziali.
La nozione di traccia è stata sviluppata da Ricoeur sia per la sua fun-
zione ermeneutica, sia per la sua funzione veritativa. La traccia è nozio-
ne ermeneutica perché significa non «rappresentazione» (Vorstellung) di
un dato, ma «rappresentanza» (Vertretung), «traccia» di qualcuno, di un
«esserci» (di qualcuno che c’è stato), per qualcun altro.34 Con il tema del-
la “rappresentanza”, Ricoeur distingue la nozione di traccia dal tema ari-
stotelico (presente anche in Bergson) della memoria come impronta, che
trattiene il tema della traccia entro il rapporto di copia e di somiglianza
tra il ricordo e l’evento originale, e sottolinea di contro il valore di “luo-
gotenenza” della traccia – un valore importante, questo, perché esprime
l’inevitabile eterogeneità tra rappresentazione storica e ciò che è accaduto.
La traccia, in quanto vestigio materiale, rimanenza, è il rappresentante di
un evento passato o rimosso, che il lavoro dello storico costruisce nel suo
significato, mettendo così in relazione livelli di senso e ordini temporali
differenti. Il lavoro sulle tracce non richiede un’inferenza, ma la costruzio-
ne testuale di un rapporto di senso, che si istituisce come mediazione tra il

33 E. Lévinas, La trace, in Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpel-


lier 1972, pp. 57 sgg.
34 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, 1985; trad. it. di G.
Grampa, Jaca Book, Milano 1988, pp. 178-191; Id., La marque du passé, cit., p.
15.
144 Nodi della verità

“non più” del passato e del rimosso, l’“ancora” della traccia che conserva e
ripete il passato nel presente, e il “non ancora” dell’orizzonte di aspettative
di un soggetto. In questo gioco tra non più, ancora e non ancora, il “non
più”, vergangen (la compiutezza ontologica del passato, ciò che nessuno
può fare che non sia, neppure il dio)35 è una perdita irrimediabile, che ci
riguarda però come gewesen (esser-stato): ci riguarda come ciò che è già là
in quanto essente stato, come una realtà al passato che è un già per noi.36
Ma, poiché propone di ripensare la traccia a partire dalla nozione di te-
stimonianza, Ricoeur ne pensa anche la funzione veritativa: in quanto reca
testimonianza (qualcuno è stato colpito da un evento e ne dice), la traccia
può assumere valore di credibilità e di affidabilità (la parola del testimone
chiede di essere creduta) e si espone alla prova del confronto tra una plura-
lità di testimonianze.37 La nozione di traccia assume così un significato che
va al di là del valore ermeneutico, e, in quanto testimonianza archiviata e
accreditata, o, all’opposto, sospetta o inaffidabile, rimanda alle operazioni
veritative dello storico38 e alla sua ricerca di prove. Tornerò su questo tema
fondamentale.
Soffermiamoci per il momento sulla questione del rapporto tra scrittura
e storicizzazione, tra testo e istituzione del passato. La nozione di «frase
narrativa» di Danto rimane a mio parere fondamentale per pensare la struttura
temporale polifonica e policronica, a più voci e a più posizioni temporali,

35 Nell’Etica Nicomachea (1139 b 10), Aristotele cita il tragico Agatone: «Di una
sola cosa anche Dio stesso è privato, fare che ciò che è stato fatto non possa
esistere» (trad. a cura di M. Zanatta, BUR, Milano 2007).
36 Ricoeur sviluppa questo tema di Heidegger in Tempo e racconto. III, cit., p. 185,
in La marque du passé, cit., p. 11 e p. 26, e in La memoria, la storia, l’oblio,
cit., p. 405. Michel de Certeau radicalizza il tema della traccia: non semplice
luogotenenza, ma “revenance” dell’altro, che ritorna come un rimosso e segna il
discorso storico (il “testo-tomba”) di un’inquietante estraneità. Con una potente
inversione di prospettiva (che rende difficile ascrivere la prospettiva di Certeau a
un contributo di epistemologia della storiografia), egli studia “assenza” e “traccia”
non come condizioni, ma come prodotti della storiografia. Non si va dai resti alla
loro comprensione, ma dal lavoro presente alla produzione del passato, della sua
assenza e delle sue tracce: «la ricerca – scrive – parte non più da una “rarità”
(resti del passato) per giungere a una sintesi (comprensione presente), ma da una
formalizzazione (un sistema presente) per dar luogo a “resti” (che sono indizi di
limiti e quindi di un “passato” che è il prodotto del lavoro)» (M. de Certeau, La
scrittura della storia, 1975; trad. di A. Jeronimidis, Jaca Book, Mailano 2006, p.
91.
37 Cfr. P. Ricoeur, La marque du passé, cit., pp. 14-17.
38 Importanti le analisi epistemiche ed epistemologiche della testimonianza di Nicla
Vassallo in Per sentito dire. Conoscenza e testimonianza, Feltrinelli, Milano 2011.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 145

che è caratteristica del testo storico e della sua forma di comprensione.39 La


caratteristica delle frasi narrative sta nel fatto che esse non descrivono sem-
plicemente, ma ri-descrivono gli eventi passati alla luce di eventi futuri sco-
nosciuti agli attori della storia. Le frasi narrative fanno riferimento almeno a
due posizioni temporali distinte, e descrivono la prima a partire della secon-
da. «Nel 1844 nacque l’autore di Così parlò Zarathustra» è una frase che
struttura un evento grazie alla relazione che istituisce tra il fatto “nascita di
Friedrich Nietzsche” e il fatto “composizione dell’opera”: la frase stabilisce
gli estremi temporali e li seleziona dal punto di vista della fine, scegliendo,
tra tutti i fatti accaduti nel 1844 (tra cui ad esempio la nascita di un bel
bambino di 3 kg.), quelli da mettere in relazione con la stesura dell’opera
nietzscheana. Inoltre, la determinazione dell’evento tramite frase narrativa
prevede una terza posizione temporale, quella dell’enunciazione, che può
sempre riaprire il racconto verso il futuro − come avverrebbe, ad esempio,
se si scoprisse che Così parlò Zarathustra non è opera di Nietzsche. In una
frase narrativa, scrive Ricoeur,40 ci sono di fatto tre posizioni temporali:
c’è il tempo dell’enunciazione dello storico, segnato dalle sue intenzioni e
dalle sue selezioni di senso; c’è il tempo dell’evento descritto; c’è il tempo
dell’evento in funzione del quale l’evento passato è descritto. Il significato
dell’evento è nella struttura relazionale policronica: in questo senso la frase
narrativa, stabilendo un criterio di selezione per gli eventi significanti attra-
verso il legame tra le tre posizioni temporali, traduce il tempo, in quanto
successione indifferente di eventi, in storia, cioè in una successione ordi-
nata di eventi collegati. Il passato è sottratto alla cristallizzazione seriale,
che è necessaria nelle scienze esatte per l’esigenza della previsione, ed è
consegnato all’interpretazione e alla revisione costante del significato degli
eventi da parte di soggetti dotati di intenzionalità e inseriti nell’apertura
contingente del loro orizzonte di significati.
Poiché il gioco narrativo della temporalizzazione e della storicizzazione
non è lineare, ma configurato dal legame sintetico tra le dimensioni del non
più e del non ancora, il testo storico può essere costantemente riscritto.
L’inscrizione e la rivisitazione del ricordo in un tempo attuale cambiano la
prospettiva sul passato come necessità. Ricordiamo la critica di Benjamin
al tema storicistico della conoscenza del passato «come propriamente è
stato [wie es denn eigentlich gewesen]»:

39 Cfr. A. Danto, Analytical Philosophy of History, Cambridge University Press,


London 1965; trad. di P. A. Rovatti, Filosofia analitica della storia, il Mulino,
Bologna 1971, cap. 8.
40 P. Ricoeur, Tempo e racconto I, cit., p. 219.
146 Nodi della verità

Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propria-


mente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’i-
stante del pericolo.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo
e vuoto, ma quello pieno di «attualità» [Jetztzeit].
Ma nessun fatto, perché causa, è già perciò storico. Lo diventerà solo dopo,
postumamente.41

Ciò che è stato non è in relazione lineare e deterministica col presen-


te, ma è restituito nell’esperienza di un presente «pieno di attualità», uno
Jetztzeit, un tempo-ora che entra in costellazione discontinua col proprio
passato. L’evento non è allora l’accaduto, ma il suo ritorno sotto il segno
della possibilità nell’inscrizione memoriale. Memoria storica è rivisitare
il passato (un esserci che è stato) nella scrittura a partire da un’immagine
presente, e insieme esserne rivisitati: la storia dunque come intelligibilità
discontinua, come attualizzazione e rielaborazione del passato orientata
sull’apertura mobile di orizzonte del presente.
Lo storico è qualcuno dotato di un’intenzionalità, e vivente in una di-
mensione storica e in un orizzonte dinamico di significati: il che compor-
ta la variabilità dei rapporti e la pluralità degli intrecci tra le tre strutture
temporali, e diverse configurazioni del decorso degli eventi. Ogni storia
comporta certamente generalizzazioni (classificatorie, causali, concettua-
li, teoriche, tipico-ideali nel senso di Weber): ma sono per lo più relative
allo stesso racconto. Non si dà un campo di generalità storiche prefissate
(se non a livello di saperi ausiliari specifici, come demografia, economia,
statistica): ma è ogni “storia” che seleziona le proprie generalità. In questo
senso, la storia ci insegna a vedere eventi (che sono incomprensibili nella
simultaneità). Non si può voler apprendere il passato nella sua profondi-
tà, astraendo dal presente e dall’attesa del futuro; in questo senso, non ci
sono ricostruzioni totali ed esaustive degli eventi. Ma se l’esperienza che
è un evento (ad esempio la morte di qualcuno) è singolare e irripetibile,
ogni ricostruzione dell’evento lo trasferisce in una trama di significati che,
selezionando informazioni, istituisce nessi illimitati con una pluralità di
altri eventi: il concetto di evento appare allora come un’idea limite, come
un orizzonte di unificazione formale (parziale) dei dati, un ritaglio nella
processualità della conoscenza.42

41 W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, 1955, trad. a cura di R. Solmi, in Ange-
lus Novus, Einaudi, Torino 19952, p. 77.
42 Sul concetto di oggetto scientifico come ritaglio di un campo di realtà che è cen-
trale nell’epistemologia di Giulio Preti, e che sarebbe interessante applicare agli
Scrittura della storia e realtà degli eventi 147

Ora, se la riscrittura delle storie è potenzialmente infinita, non è tut-


tavia priva di vincoli e di condizioni riconoscibili intersoggettivamente.
L’orizzonte potenzialmente infinito dei significati aperto da una narrazione
richiede una pratica linguistica comunitaria per essere compreso. Il rife-
rimento alle dimensioni intersoggettive, intenzionali e comunitarie della
scrittura della storia, l’impegno del controllo documentario e filologico e il
confronto critico tra le testimonianze relative a qualcosa di accaduto sono
allora in ultima analisi ciò che distingue l’intenzione di verità del «racconto
dimostrativo»43 dello storico dalla scrittura puramente finzionale. Il testo
storico è scritto secondo le potenzialità del linguaggio condiviso da una co-
munità, con la sua ricchezza appellativa e simbolica, con le sue polisemie e
ambiguità; ma è scritto anche nel linguaggio professionale della comunità
degli storici, che non possono in quanto tali non farsi carico del debito di
memoria che ogni comunità ha con il proprio passato,44 lavorando a in-
scrivere gli eventi in una configurazione di senso, e del debito di verità che
ogni comunità ha con il proprio presente, lavorando a trasformare segni e
indizi possibili in prove.
Si è detto che, dal punto di vista del patto di verità che lo storico istitu-
isce con i lettori e con la sua comunità, le testimonianze archiviate richie-
dono di essere confrontate e criticate, fino a che i documenti, rettificati,
selezionati e arricchiti, possano assumere lo statuto di prova, e trasmette-
re così un «effetto di verità».45 Possibilità e prova sono inestricabilmente
connesse, come mostra Weber, perché la prova non funziona in storia come
un’evidenza indipendente, ma fa parte comunque della ricostruzione con-
getturale di tracce: dà così una base razionale all’eikos, al probabile storico,
ma non lo trasforma in necessità deterministica:

Il “divenire” pensato “oggettivisticamente” sulla base di assiomi determini-


stici non [...] “conosce” [possibilità], in quanto non “conosce” appunto nessun
concetto in genere – ma la “storia” ne conosce sempre, supposto che essa voglia
essere scienza. In ogni pagina di qualsiasi esposizione storica, anzi in ogni scel-

oggetti storiografici, cfr. L. Scarantino, Giulio Preti. La costruzione della filosofia


come scienza sociale, Bruno Mondadori, Milano, 2007, pp. 197-203.
43 M. Vegetti, Tempo e storia nell’esperienza greca, in S. Borutti (a cura di), Scrit-
tura e memoria della filosofia. Studi offerti a Fulvio Papi, Mimesis, Milano 2000,
p. 359.
44 Sul rapporto tra memoria collettiva e rifondazione cognitiva e professionale della
storia nel mondo moderno e contemporaneo, cfr. K. Pomian, De l’histoire, partie
de la mémoire, à la mémoire, obiet d’histoire, «Revue de Métaphysique et de
Morale», 1, 1998, pp. 63-110.
45 Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, p. 35.
148 Nodi della verità

ta di materiali archivistici e di fonti a scopo di pubblicazione, vi sono, o meglio,


non possono non esserci dei “giudizi di possibilità”, se la pubblicazione deve
avere “valore conoscitivo”. Che cosa vuol dire però quando noi parliamo di più
“possibilità” [...]? Ciò significa anzitutto, in ogni caso, la creazione – diciamolo
pure tranquillamente – di quadri fantastici, formati prescindendo da uno o da
vari elementi della “realtà” esistenti di fatto, e mediante la costruzione concet-
tuale di un processo mutato in rapporto ad una o ad alcune “condizioni”. Già il
primo passo verso il giudizio storico è quindi [...] un processo di astrazione, il
quale si svolge mediante l’analisi e l’isolamento concettuale degli elementi del
dato empirico – che viene appunto considerato come un complesso di possibili
relazioni causali – e deve sfociare in una sintesi della “reale” connessione cau-
sale. Già questo primo passo trasforma pertanto la “realtà” data, allo scopo di
farne un “fatto” storico, in un quadro concettuale.46

L’ordine possibile degli eventi e la prova sono del resto sempre stati
connessi nell’autocomprensione degli storici, fin dai Greci. Tucidide, nella
ricostruzione dei tempi antichi (ta palaià) che fa precedere all’esposizione
della guerra del Peloponneso, fonda la sua ricerca di indizi (semeia, se-
gni, e tekmeria, testimonianze, che possono essere segni visibili presenti
oppure indizi verbali trasmessi dalla tradizione) su testimoni (martyres) e
testimonianze (martyria) che si trasformano in pisteis (prove) attraverso il
lavoro di integrazione interpretativa dello storiografo: un modello anam-
nestico e diagnostico di tipo ippocratico, sostiene Vegetti.47 Risultano così
strettamente uniti il lavoro dell’interpretazione e l’onere della prova nello
sforzo di conoscenza del passato.48 Il nesso tra ordine possibile degli even-
ti e prova nella storiografia è presente anche in Aristotele,49 se pur in forma
non del tutto esplicita. È certamente vero che nel famoso passo della Poe-
tica, 1451 b, Aristotele contrappone il compito filosofico ed elevato della
poesia tragica, che rappresenta gli eventi sotto una forma categorizzante e

46 M. Weber, Possibilità oggettiva e causazione adeguata nella considerazione cau-


sale della storia, cit., pp. 215-216.
47 M. Vegetti, Tempo e storia nell’esperienza greca, cit., p. 354.
48 Cfr. C. Calame, Entre historiographie et fiction: indice, témoignage et tradition
poétique (Hérodote et Thucydide), «Vox Poetica», 2007, pp. 4-7 (http://www.vox-
poetica.org/t/rl/calameRL.html); C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica,
prova, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 58 sgg.
49 Delfino Ambaglio, in La storia come strumento ermeneutico: qualche caso dalla
Politica di Aristotele (in M. Polito e C. Talamo (a cura di), La Politica di Aristotele
e la storiografia locale, Edizioni Tored, 2010, pp. 19-33) mostra come Aristote-
le richiami temi dell’archeologia tucididea. Ambaglio riconosce in Aristotele un
argomentare storiografico probabilistico e di natura indiziaria, relativo alla rico-
struzione dell’età arcaica, che è vicino a quello tucidideo, ma dove è però assente
la determinazione temporale degli eventi.
Scrittura della storia e realtà degli eventi 149

sinottica, al compito dello storico, che si limita ad esporre ta genomena, le


cose accadute, nella loro particolarità senza ordine e senza forma.50 Ma in
quello stesso passo della Poetica in cui svaluta la storiografia, Aristotele
aggiunge subito che, se un poeta narra fatti realmente accaduti, non è meno
poeta, purché componga i fatti secondo una regola di verosimiglianza,
«quali sarebbe stato possibile e verosimile che accadessero [oia an eikos
genesthai [kai dynata genesthai]]».51
Possiamo dire che Aristotele si riferisca qui a una storiografia non episo-
dica ma comprendente, capace di costruire gli eventi in nessi generalizzanti
e basati su prove? Di fatto, che Aristotele designi la forma che comprende
gli eventi storici con il termine eikos è rilevante: siamo infatti riportati
ancora alla Retorica,52 dove Aristotele definisce l’eikos non mettendolo
in contrapposizione al vero, come una quasi-verità, come un’illusione di
verità, ma come “ciò che avviene per lo più” (os epi to poly) nell’ambito
di ciò che può essere diversamente:53 eikos è il possibile-probabile,54 è
l’esibizione di una forma possibile in un insieme informe di dati, ed è ri-
costruito attraverso tracce, indizi, segni, su cui si basano i ragionamenti
entimematici della retorica giudiziaria.55 Rinvia quindi a una regolarità, a

50 Aristotele si riferisce nella Poetica (trad. di M. Valgimigli in Opere, Laterza, Ro-


ma-Bari 1984, 1450 a 36- 1451 b 6) a una storiografia episodica, come la scrittura
di Erodoto che egli critica nella Retorica (trad. di A. Plebe in Opere, cit., vol. 10,
1409 a 25-35) in quanto lexis continua, fluente, intessuta liberamente e perciò
informe (apeiros), senza limiti e senza telos, e dunque poco comprensibile, al
contrario della lexis degli antichi poeti, che è gradevole e comprensibile perché
crea inizi e fini.
51 Aristotele, Poetica, cit., 1451 b 29-32.
52 Ginzburg trova nella Retorica aristotelica un nesso con la storiografia, là dove
Aristotele analizza l’entimema, prova tecnica, come nucleo razionale della retori-
ca giudiziaria (C. Ginzburg, Rapporti di forza, cit., cap. 1).
53 Aristotele, Retorica, cit. 1357 a 34.
54 Cfr. S. Gastaldi, Poesia e Historia nella “Poetica” aristotelica, «Rendiconti
dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», Milano, 1973.
55 Spia testuale del fatto che Aristotele potesse pensare a una storiografia concet-
tualizzante, e non episodica, basata su prove razionali che producono conclusioni
necessarie, è per Ginzburg il passo della Retorica in cui Aristotele, parlando della
retorica giudiziaria, dà come esempio di entimema (sillogismo retorico basato su
meno premesse del sillogismo vero e proprio) una testimonianza storiografica che
ricorre anche in Tucidide: «Ad esempio per dire che Dorico ha vinto una corona
come premio dell’agone, è sufficiente dire che vinse i giochi olimpici: il fatto che,
avendoli vinti, ricevette una corona, non occorre aggiungerlo. Tutti lo sanno già»
(Aristotele, Retorica, cit., 1357 a 19-20). Aristotele evoca probabilmente un tipo
di storiografia, come è l’analisi archeologica del passato di Tucidide, costruita
150 Nodi della verità

una tipicità che porta a una conoscenza probabile basata su prove razionali:
quasi un modello tipico-ideale.
Come scrive Vegetti, la sorte dell’autocomprensione della storia, fin dai
Greci, si è giocata fra i due estremi della verità e del senso, fra «la descri-
zione di una verità delle cose e la costituzione tragico-narrativa del loro
senso».56 E del resto, come scrive Ginzburg, «il vero è un punto di arrivo,
non un punto di partenza».57

sulla prova, che è il nucleo razionale della retorica (Aristotele, la storia, la prova,
«Quaderni storici 85», 1, 1994, p. 10).
56 M. Vegetti, Tempo e storia nell’esperienza greca, cit., p. 360.
57 C. Ginzburg, Il filo e le tracce, cit., p. 13.
4
IMMAGINI-TRACCIA E SCRITTURA.
STORIOGRAFIA ED ETNOGRAFIA
IN MICHEL DE CERTEAU

Une image. Un presque rien.


M. de Certeau, Histoire et anthropologie chez Lafitau

Ces voix dont la disparition est le postulat de tout historien et


auxquelles il substitue son écriture ré-mordent l’espace d’où
elles sont exclues et parlent encore dans le texte-tombeau que
l’érudition élève à leur place.
M. de Certeau, Histoire et psychanalyse entre science et fiction

La scrittura della storia è un tema fondamentale in Michel de Certeau.


Non è tuttavia esclusivamente un tema metodologico ed epistemologico:
non possiamo infatti comprendere il contributo di Certeau all’epistemolo-
gia della storia se non lo connettiamo con gli aspetti più originali della sua
prospettiva, che sono ascrivibili al campo di una vera e propria ontologia
storica. Analizzerò quindi in primo luogo gli aspetti della sua concezione
della storiografia come pratica di scrittura che produce effetti ontologici e
politici. Considererò poi l’analisi che Certeau ci offre di alcune immagini,
immagini che egli interpreta come tracce e, in quanto tali, come vere e
proprie forme di scrittura della storia.

1. L’ermeneutica dell’assenza: epistemologia e ontologia storica

La storio-grafia e l’etno-grafia sono per Certeau le forme fondamentali


della scrittura savante attraverso cui l’Occidente organizza il proprio rap-
porto con l’alterità: un rapporto in cui gli aspetti conoscitivi si intrecciano
con temi ontologici, politici ed etici. Certeau non dà però una lettura nar-
rativista (o tropologica, alla Hayden White) della scrittura della storia, una
lettura che opponga il letterario allo scientifico e concepisca la storia unica-
mente come un «literary artifact», senza considerare il valore di verità e di
conoscenza del discorso storico.1 La concezione di Certeau della storiogra-

1 Cfr. H. White, Retorica e storia, 2 voll., 1973, trad. di P. Vitulano, Guida, Napoli
1978; Id., Tropics of Discourse, The John Hopkins University Press, Baltimore
152 Nodi della verità

fia implica che potere conoscitivo e significato politico ed ontologico della


scrittura siano strettamente connessi: una prospettiva che in questo senso è
più vicina al narrativismo di Ricoeur, per il quale la messa in forma discor-
siva ha valore conoscitivo, e per il quale la questione veritativa è connessa
al tema della realtà del passato e del debito che ci lega all’altro assente.
In La scrittura della storia, Certeau scrive che l’operazione storica si
riferisce al «combinarsi di un luogo sociale, di pratiche “scientifiche” e
di una scrittura».2 Se pur sinteticamente, questa definizione presenta in
modo efficace la strutturazione triangolare della storiografia, intesa non
come sapere codificato di cui dare le regole, ma come un atto, o, meglio,
un’operazione che viene realizzando l’unione tra gli ambiti costituiti dal
lavoro tecnico (le pratiche documentarie, la raccolta di informazioni e la
formazione degli archivi), dal rapporto con un interesse pubblico e con i
suoi luoghi sociali e le sue pratiche (ieri il potere del principe, oggi l’i-
stituzione scientifica, non disgiunta da interessi e strategie di potere), e
dalla scrittura come separazione che istituisce il tempo presente proprio in
quanto definisce il tempo del soggetto passato. Le fonti di questa struttu-
razione triangolare sono facilmente riconoscibili: sono, rispettivamente, il
tema foucaultiano del sapere come pratica; la storiografia delle “Annales”
e la rivoluzione introdotta dalla “nuova storia” nelle tecniche documentarie
e nell’analisi delle forme temporali; la psicoanalisi lacaniana e il rapporto
istituito tra l’ordine simbolico e la mancanza. Negli anni Settanta, Certeau
assume un ruolo importante nella ridefinizione della storia come operazio-
ne: nel 1974 esce da Gallimard la trilogia Faire de l’histoire, a cura di P.
Nora e J. Le Goff, che riprende il titolo di un articolo di Certeau.3 Con
il tema della scrittura della storia, Certeau offre dunque una concezione
insieme ontologica, politica ed epistemologica dell’operazione che è la sto-
ria. Se epistemologicamente la storia è un fare e un insieme di operazioni
che producono un oggetto attraverso scrittura e finzione (attraverso cioè

and London 1978. White si concentra sul valore di letterarietà della scrittura stori-
ca, escludendo dal campo di analisi il valore di verità e di conoscenza – cioè i temi
epistemologici che hanno impegnato sia il verificazionismo neopositivista, sia il
narrativismo, nella prospettiva analitica di Dray e di Danto e nella rilettura ricoeu-
riana della comprensione narrativa come ordinamento dell’esperienza del tempo.
2 M. de Certeau, La scrittura della storia, 1975, trad. di A. Jeronimidis, Jaca Book,
Milano 2006, p. 91.
3 M. de Certeau, Faire de l’histoire. Problèmes de méthodes et problèmes de sens,
in «Recherches de science religieuse», 58, 1970, pp. 481-520 (ripubblicato come
primo capitolo de La scrittura della storia). Per il rapporto di Certeau con la nuo-
va storiografia, cfr. F. Dosse, Michel de Certeau. Le marcheur blessé, La Décou-
verte, Paris, 2002, cap. 17.
Immagini-traccia e scrittura 153

una costruzione testuale), ontologicamente la storia organizza per la nostra


autocomprensione le forme della distanza spazio-temporale dell’altro, ma
in questo modo compie anche un gesto a efficacia politica, poiché esclude
l’altro per darne una comprensione a partire dalla progettualità del nostro
presente.
Nella sua interpretazione della storio-grafia, Certeau ricorre alla stra-
tegia psicoanalitica, che insegna a riconoscere il passato nel presente e a
portare in luce i rapporti di imbricazione, ripetizione, equivoco, con cui
un soggetto si istituisce su un’assenza4. In questo modo, egli smaschera
la strategia del tempo messa in atto dalla storiografia, che pone il passato
accanto al presente, in rapporti di disgiunzione e di successione lineare.
Il passato non è per Certeau un dato da portare in luce, non è un fatto da
rivivere nella sua autenticità (ciò che propriamente è stato):5

[…] la ricerca – egli scrive – parte non più da una “rarità” (resti del passato)
per giungere a una sintesi (comprensione presente), ma da una formalizzazione
(un sistema presente) per dar luogo a “resti” (che sono indizi di limiti e quindi
di un “passato” che è il prodotto del lavoro).6

Non si va dai resti alla loro comprensione, ma dal lavoro presente alla
produzione del passato, della sua assenza e delle sue tracce. “Assenza”
e “traccia”, in quanto prodotti della storiografia, sono i concetti centrali
di questa inversione di prospettiva. Analizzerò prima brevemente il tema
dell’assenza, o, meglio, dell’“assente della storia” – dove il genitivo riman-
da al ruolo performativo della scrittura storica,7 che rende assente il suo
oggetto. Ma è la “traccia” il concetto-chiave dell’ermeneutica dell’assenza
elaborata da Certeau; ed è su questo concetto e su una sua declinazione
specifica che tornerò più avanti.

4 Cfr. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi tra scienza e finzione, 1987, 20022, trad.
di G. Brivio, Bollati Boringhieri, Torino 2006, pp. 78-80.
5 Ricordiamo la critica di Benjamin al tema storicistico della conoscenza del pas-
sato “come propriamente è stato [wie es denn eigentlich gewesen]”: «Articolare
storicamente il passato non significa conoscerlo “come propriamente è stato”.
Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante del pericolo.
La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e
vuoto, ma quello pieno di “attualità” [Jetztzeit]. Ma nessun fatto, perché causa, è
già perciò storico. Lo diventerà solo dopo, postumamente» (W. Benjamin, 1955,
Tesi di filosofia della storia, trad. a cura di R. Solmi, in Angelus Novus, Einaudi,
Torino 1962, 19952, p. 77).
6 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 91.
7 Ivi, p. 120.
154 Nodi della verità

L’assenza e la distanza del passato, non il progetto storicista ed erme-


neutico di far rivivere il passato, né il progetto nomologico di spiegarlo,
fanno dunque parlare lo storico: un’inversione di prospettiva che è intesa
nello stesso tempo da Certeau anche come un congedo dall’opposizione
comprendere/spiegare. La comprensione dello storiografo (e dell’etnogra-
fo) mette in scena nel presente l’assenza del suo oggetto, attraverso pro-
cedure di separazione e messa a distanza. Le scienze umane che sono la
storiografia e l’etnografia si istituiscono sulla messa a distanza del passato,
in un rapporto di alterazione che è un rapporto reciproco (come vedremo
subito): comprendono cioè non per una relazione di rappresentazione con i
propri oggetti, ma per le relazioni di alterazione che fabbricano, producen-
do assenza, modellando cioè lo spazio e il tempo del proprio altro. Storia,
etnologia, psichiatria, pedagogia articolano «un saper dire su ciò che l’altro
tace».8 Un rapporto di alterazione che è in primo luogo separazione e
allontanamento nel tempo. Il passato non è per l’Occidente ciò che le liste
genealogiche sono per le comunità arcaiche: e cioè una presenza, un tesoro
e un alimento che ha la forma di parola viva, presente nelle orecchie e sulla
bocca dei viventi, e che porta identità nella comunità.9 Il passato per l’Oc-
cidente moderno è piuttosto il risultato di un gesto di differenziazione da
un’altra epoca o società. Così la Rivoluzione produce la storia dell’Ancien
régime, così le periodizzazioni (Medioevo, Storia moderna), le delimita-
zioni di epoche (Rinascimento, Rivoluzione), operano «una cernita tra ciò
che può essere compreso e ciò che deve essere dimenticato per ottenere la
rappresentazione di un’intelligibilità presente»:10 un ordine di senso per
il presente viene istituito su elementi della tradizione, che vengono sele-
zionati e classificati come “passato”. In quanto allontanato e separato dal
presente, il passato è l’invenzione con cui l’Occidente si assegna un’iden-
tità presente.
Tra il presente e il passato, istituiti dalla scrittura della storia, il rapporto
è di alterazione reciproca. L’altro, l’assente, è infatti il «limite, necessario
e denegato, [che] caratterizza la storia come scienza umana»:11 la storio-
grafia come «lavoro di morte e lavoro contro la morte»12; lavoro che crea

8 Ivi, p. 7.
9 Cfr: M. Kilani, La construction de la mémoire. Le lignage et la sainteté dans
l’oasis d’El Ksar, Labor et Fides, Genève, 1992; Id., L’archivio, il documento, la
traccia. Antropologia e storia, in S. Borutti, U. Fabietti (a cura di), Fra antropo-
logia e storia, Mursia, Milano, 1998, pp. 24-39.
10 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 8.
11 Ivi, p. 47.
12 Ivi, p. 10.
Immagini-traccia e scrittura 155

un assente (lavoro di morte), e nello stesso tempo un’origine e quindi un’i-


dentità presente (lavoro simbolico contro la morte). Certeau designa con
il termine “denegazione” (dénégation), che possiamo leggere attraverso il
concetto freudiano di Verneinung,13 questo rapporto con l’alterità passata,
a significare che si tratta di un rapporto ontologico. La storia instaura una
frattura col passato, ma questa frattura è continuamente rimessa in causa: il
passato, che si vorrebbe ridurre ad oggetto, ritorna come un revenant a for-
mare l’identità presente. Ogni società dice con forza: «non sono questo»;
ma nello stesso tempo è costretta a confessare: sono «determinata da ciò
che denego».14 Il corpo e la parola enunciatrice dell’altro – la cui alterità
si vorrebbe dominare oggettivamente attraverso il lavoro di comprensione
e di spiegazione, attraverso l’arma (europea) del senso e della scienza – in-
vestono e alterano il soggetto della scienza.
Ora, è attraverso la scrittura che l’Occidente ha instaurato questo par-
ticolare rapporto con il tempo e con la morte. La storiografia trasforma la
tradizione vissuta in oggetto di sapere: lo fa in quanto scrittura, cioè in
quanto trattamento particolare della relazione del vivente con l’assenza e
la morte. Certeau interpreta l’operazione della scrittura, intesa come il luo-
go della relazione all’altro, attraverso temi lacaniani. L’altro assoluto (la
morte) appartiene alla struttura ontologica del soggetto nella forma della
mancanza.15 Il soggetto, il cui corpo è segnato dall’angoscia per l’inacces-
sibilità della cosa, è abitato da una divisione costituente ed es-propriato:
è esposto originariamente all’altro nel suo proprio e nella sua identità. La
scrittura interviene a esorcizzare l’angoscia in quanto trasferisce nel lin-
guaggio simbolico (nella rappresentazione) la morte (la mancanza). Con
la performatività del suo fare narrativo, la scrittura fornisce una rappresen-
tazione della morte (del passato), e in questo modo riempie la lacuna che
rappresenta, offrendo una lezione al presente. Così il linguaggio istituisce
un trattamento dell’altro che è relativo all’identità del soggetto.

13 La Verneinung, smentita, non è semplice negazione di un contenuto, ma atto che


segnala la presa di coscienza del rimosso: cfr. S. Freud, La negazione, 1925, trad.
di E. Fachinelli, in Opere di Sigmund Freud, a cura di C. L. Musatti, vol. 10, Bo-
ringhieri, Torino, pp. 197-201. Nel nostro contesto, è interpretabile come un atto
di rifiuto, che nello stesso tempo istituisce e segnala un legame con ciò o con chi
è rifiutato.
14 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 58.
15 «[...] il ritorno dell’Altro che costituisce il soggetto in quanto relazione a un og-
getto impossibile» (M. de Certeau, Lacan: un’etica della parola, in Storia e psi-
coanalisi, cit., p. 225).
156 Nodi della verità

In questo senso, la scrittura della storia (la storia come «vibrazione di


limiti»,16 frontiera mobile tra oggetto passato e prassi presente), la storia
in quanto rielaborazione del passato orientata sull’apertura di orizzon-
te del presente, assume significato politico. È questo un carattere fonda-
mentale della storiografia moderna, a partire dal XVI secolo. Esempla-
re il caso dei Discorsi, che Machiavelli presenta come un commento a
Tito Livio, ponendo il passato come finzione del presente.17 È lo stesso
gesto che compie ogni storico, che inscrive una realtà passata nel proprio
discorso, ma a partire dalla situazione presente, dai modelli interpretativi
del presente, da significati riconoscibili dal pubblico attuale, da posizioni
sociali e da strategie di potere. Il lavoro del lutto che elabora la memoria
del passato è dunque politico in quanto si nutre di un presente politico e
delle sue progettualità: la comprensione storica muove dal proprio luogo,
dal proprio tempo e dal proprio senso per prendersi cura dei luoghi e dei
significati di una popolazione di morti. In questo senso, è un vero e proprio
rito di sepoltura, in senso etnologico, che «esorcizza la morte introducen-
dola nel discorso»,18 e assume così una funzione simbolizzatrice, in quanto,
escludendo l’altro, dà senso a un voler fare presente: una società di vivi
fissa la propria posizione «dandosi nel linguaggio un passato» e ricevendo
dal passato un significato.19

2. Le immagini-traccia: la voce

Come intende Certeau la storiografia? Possiamo dire che la scrittura sto-


rica restituisca, direttamente o indirettamente, il discorso dell’altro? Que-
sta domanda è per Certeau scorretta: ciò che bisogna chiedersi in realtà è se
esista un discorso dell’altro. «No» è la sua risposta. L’altro non parla, ma
fa parlare: l’altro parla nel discorso sull’altro, parla alterando il discorso
del sapere – come Certeau mostra esemplarmente analizzando il linguag-

16 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 49.


17 Ivi, pp. 12-13.
18 Ivi, p. 118.
19 Ibidem. È lo stesso gesto che compie ogni storico, che inscrive una realtà passata
nel proprio discorso, ma a partire dalla situazione presente, dai modelli interpre-
tativi del presente, da significati riconoscibili dal pubblico attuale, da posizioni
sociali e da strategie di potere. Cfr. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio,
2000, trad. di D. Iannotta, Cortina, Milano, 2003, pp. 522-523.
Immagini-traccia e scrittura 157

gio delle possedute di Loudun.20 In questa analisi, Certeau mostra che non
c’è un discorso dell’altro che non sia detto nel linguaggio del sapere. L’al-
tro è ciò che ritorna «nel discorso che lo interdice».21 Il dire delle possedu-
te, così come il dire delle isteriche nella nascita della psichiatria moderna,
non è qualcosa di nascosto da portare in luce, ma ha la sua condizione di
possibilità nella relazione con i discorsi religioso e psichiatrico. Ciò che
è detto dalle possedute nei documenti (testi religiosi, medici, giuridici),
è detto solo in quanto esse si trovano prese nella rete degli interrogatori
che le accusano o dei racconti che le definiscono. Ora, in questo rapporto
col discorso del sapere, l’alterità non è un altro discorso da ricostruire, ma
un’alterazione del discorso, per cui il discorso del sapere è in «rapporto
con una trasgressione che non è un discorso».22 Il discorso dell’altro non
si enuncia se non attraverso il “discorso sull’altro”, che sa quello che dice
l’altro, e lo mette al suo posto: nel registro demonologico, la parola fem-
minile della posseduta parla nel logos maschile della demonologia; nel re-
gistro etnologico, il nativo parla nel linguaggio del sapere occidentale; nel
registro medico, il pazzo parla nel discorso del sapere psichiatrico. L’altro
è ciò che ritorna «nel discorso che lo interdice», alterandolo:23 quando la
posseduta parla, il suo discorso porta «la “ferita” dell’alterità che il sapere
pretende di ricoprire».24
L’altro ritorna come un rimosso, e segna la scrittura.

Queste voci, la cui sparizione è il postulato assunto da ogni storico e alle


quali egli sostituisce la propria scrittura, ri-mordono lo spazio da cui vengono
escluse per parlare ancora dal profondo di quel testo-sepolcro [texte-tombeau]
che la ricerca scientifica innalza al loro posto.25

Ora, questa inscrizione dell’altro che “rimorde” nella scrittura presente


è pensabile con il tema lévinassiano della traccia come segno del pas-
saggio di qualcuno, tema che Certeau trasforma in modo peculiare. Per
Lévinas, la traccia dice che il passato non è una “cosa” univoca, non è in
altre parole né l’azione di un attore, la sua intenzione, né la cosa materia-
le, considerate in un’autonomia naturalistica, ma il loro ricordo, la loro

20 M. de Certeau, Il linguaggio alterato. La parola della posseduta, in La scrittura


della storia, cit., pp. 253-278. Cfr. Id., La possessione di Loudon, 2005; trad. a
cura di R. Lista, CLUEB, Bologna 2011.
21 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 260.
22 Ivi, p. 258.
23 Ivi, p. 260.
24 Ibid.
25 M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 85.
158 Nodi della verità

impronta, la loro “inscrizione” – il “segno” non intenzionale di un passag-


gio, un segno che rimane «al di fuori di ogni intenzione di far segno»,26
ma che rimane per qualcun altro. Ricoeur ha reinterpretato la nozione di
traccia in prospettiva sia epistemologica, sia ontologica, come rapporto
tra differenti temporalità, ricorrendo alla nozione psicoanalitica di rap-
presentanza (Vertretung). La traccia significa per Ricoeur non «rappre-
sentazione» (Vorstellung) di un dato, ma «rappresentanza» (Vertretung),
«traccia» di un «esserci» (di qualcuno che c’è stato), per qualcun altro:27
è dunque elemento che mette in relazione livelli di senso e ordini tempo-
rali differenti.28 In questo gioco tra non più, ancora e non ancora, il “non
più”, vergangen (la compiutezza ontologica del passato, ciò che nessuno
può fare che non sia, neppure il dio), è una perdita irrimediabile, che ci
riguarda come una realtà che, in quanto essente stata (gewesen), è già là
per noi,29 e ci pone in una relazione di debito di testimonianza. La traccia
restituisce così il significato ontologico del passato, ricordandoci che è un
passato che ci riguarda.
Più radicalmente, e con una declinazione più specificamente psicoa-
nalitica, per Certeau nella traccia si mostra la sfida che è l’alterità del
passato. La traccia non è semplice luogotenenza, ma ritorno dell’altro.
Non si va dai resti alla loro comprensione, ma dal lavoro presente alla
produzione del passato, della sua assenza e insieme delle sue tracce.
Egli parla di “revenance” dell’altro, che ritorna come un rimosso e se-
gna il discorso di un’inquietante estraneità. Questo spettro nel discorso
ha lo statuto dell’Unheimliche freudiano, inteso come legame insolubi-

26 E. Lévinas, La trace, in Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpel-


lier 1972, pp. 57 sgg.
27 Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto III. Il tempo raccontato, 1985; trad. di G. Gram-
pa, Jaca Book, Milano 1988, pp. 178-191. Più recentemente, Ricoeur ha connes-
so la nozione di traccia alla nozione di pluralità delle testimonianze e al tema
del ricordo come ricostruzione e ri-scrittura: P. Ricoeur, La marque du passé, in
«Revue de Métaphysique et de morale», 1, 1998, pp. 7-31. Ricoeur distingue la
nozione di traccia dal tema aristotelico, presente anche in Bergson, della memoria
come impronta, che trattiene il tema della traccia entro il rapporto di somiglianza
con l’evento originale, e sottolinea il valore di “luogotenenza” della traccia
28 Sulla memoria storiografica come rapporto tra differenti temporalità, cfr. C. Ca-
lame, Reciprocità nella memoria collettiva: temporalità in contatto (Somaré e
Erodoto), in S. Borutti, U. Fabietti (a cura di), Fra antropologia e storia, cit., pp.
75-95.
29 Ricoeur sviluppa questo tema di Heidegger in Tempo e racconto. III, cit., p. 185,
in La marque du passé, cit., p. 11 e p. 26, e La memoria, la storia, l’oblio, cit., p.
405.
Immagini-traccia e scrittura 159

le tra il proprio e l’estraneo:30 l’inquietante non come ciò che è miste-


rioso e ci colpisce, perché straniante e inspiegabile, ma semmai come
ciò che doveva rimaner nascosto, e che ritorna, svelandoci qualcosa di
noi. L’Unheimliche è ciò che svela il segreto del domestico, che svela
cos’è l’Heimliche, che cos’è il proprio – una specie di ferita (un’alte-
razione del logos) che ci risveglia e che ci fa capire la radice estranea
del proprio e della familiarità – quasi una «radicalizzazione ontologica
della nozione di inconscio».31

L’altro è il fantasma della storiografia, è l’oggetto che essa cerca, che


onora e che sotterra. Un lavoro della separazione viene effettuato rispetto a
quest’inquietante e affascinante prossimità.32

Vi è qualcosa di “perturbante” [une “inquiétante familiarité”] in questo


passato che un attuale occupante ha spodestato – o ha creduto di spodestare
per collocarsi al suo posto. I morti perseguitano i vivi [Le mort hante le vif].33

La traccia come ritorno dell’altro.34 Ora, nei saggi di Certeau ricorrono


analisi di immagini che mettono in scena il potere inquietante della scrit-
tura. Sono vere e proprie immagini-traccia, un’impronta grafica o un’im-
magine visuale o sonora, e sono presentate da Certeau come metonimie
della scrittura – così come l’orma inquietante trovata sulla sabbia trovata
da Robinson, il “quasi niente” di qualcuno che è passato e che gli svela «il

30 S. Freud, Il perturbante (1919), trad. di S. Daniele, in Opere di Sigmund


Freud, cit., vol. 9, Boringhieri, Torino, 1977, pp. 81-118.
31 Mi permetto di citare il mio libro Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra
filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano, 2006, Parte II, p. 151.
32 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 6.
33 M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 78. La traduzione italiana, che rende
l’“inquiétante familiarité” di Certeau con il concetto di “perturbante”, è corretta,
ma non conserva il legame ossimorico tra l’estraneo e il familiare.
34 Barnaba Maj ha prestato attenzione al tema della traccia nel mito di Robinson,
presenza ricorrente nell’analisi di Certeau. Il romanzo di Defoe, scrive Certeau, è
il romanzo della scrittura come pratica di conquista dello spazio-tempo e di gerar-
chizzazione sociale da parte del soggetto moderno (M. de Certeau, L’invenzione
del quotidiano, 1990, trad. it. di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma, 2001,
cap. IX, pp. 200 sgg.). Maj isola un passo della narrazione di Robinson Crusoe,
che appare come un vero e proprio «“risveglio” del suo inconscio»: Robinson,
dopo una serie di sogni e di segni premonitori, è folgorato da un’orma umana sulla
sabbia: traccia inquietante che gli svela il proprio “desiderio dell’altro”. L’inscri-
zione dell’orma sul suolo dell’isola non racconta semplicemente l’altro, ma svela
il fantasma dell’estraneità che ci “rimorde”, e che, svelandoci a noi stessi, ci fa
scrivere.
160 Nodi della verità

desiderio costituito dalla relazione con l’altro»:35 le immagini come trac-


ce che rivelano l’inscrizione dell’altro in noi stessi. Sono in questo senso
particolarmente interessanti le pagine della Prefazione all’edizione italiana
della Scrittura della storia, in cui Certeau procede a una genealogia per
immagini dell’etno-grafia: l’immagine istituisce il testo, poiché è la figura
visibile che trasforma lo spazio scritturale in operatore di sapere e di pote-
re.36 In una pagina folgorante Certeau mostra come il rapporto immagine-
scrittura sia una relazione-chiave all’origine dell’etnografia, e come l’etno-
grafia traduca nel potere oggettivante della scrittura la pulsione di dominio
dell’Occidente. Egli commenta il disegno allegorico erotico-guerriero del
1619 di Jan van der Straet:

Jan van der Straet, Vespucci scopre l’America,


(disegno per il volume di Jean-Théodore de Bry, Americae decima pars, 1619)

Il disegno traduce allegoricamente la relazione di dominio di una cultu-


ra che esercita sull’altro un gesto violento di oggettivazione. L’Occidente
traccia la propria storia sul corpo dell’altro: nel disegno, lo scopritore
Vespucci, corazzato e crociato, con i vascelli che riporteranno tesori in

35 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 120.


36 Cfr. M. de Certeau, Storia e psicoanalisi, cit., p. 56.
Immagini-traccia e scrittura 161

occidente, e armato delle armi europee del senso, sta in piedi di fronte
alla donna indiana che si chiama “America”, una donna distesa, un corpo
nudo in uno spazio di vegetazioni e animali esotici.37 America è l’alterità:
è un soggetto confinato nella forma orale della comunicazione, immerso
in un tempo estraneo alla storia progressiva dell’Occidente, e legato a una
dimensione corporea inconscia, inconsapevole cioè dei propri significati.
In questo e in altri saggi, Certeau scava negli aspetti più nascosti del lavoro
di scrittura attraverso cui l’antropologia traduce la parola orale e insensa-
ta dell’altro, e mostra il legame dell’antropologia con gli altri saperi che,
come la storiografia, pongono a distanza l’altro per comprenderlo attraver-
so la scrittura. La scrittura è insieme sapere e potere: è un gesto che ap-
propria all’Occidente, e al suo presente, ciò che è stato proiettato, con una
“grande divisione”, nella distanza spaziale (la geografia del dentro/fuori
come allontanamento immaginario dell’altro), e nella distanza tempora-
le (la primitività come costruzione politica del tempo dell’altro). Certeau
sottolinea anche la frattura tra l’estetizzazione dell’altro (percepito come
corpo di piacere non scrivibile: piacere dell’occhio, piacere del gusto, pia-
cere dell’ascolto, piacere del corpo nudo) e la sua traduzione nel corpo
scrivibile e leggibile del testo. Se la parola dell’altro è favola, la traduzione
trascrive ciò che la favola nasconde in qualcosa di intellettualmente comu-
nicabile e ascoltabile in Occidente. L’antropologia nasce così dallo scontro
tra il sistema di senso orale ed estetizzato e il sistema scritto ed astratto:

[…] quella che viene così avviata, è una colonizzazione del corpo da parte
del discorso del potere. È la scrittura conquistatrice: userà il Nuovo Mondo
come una pagina bianca (selvaggia) dove scrivere il volere occidentale; tra-
sforma lo spazio dell’altro in un campo di espansione per un sistema di produ-
zione; a partire da una frattura tra un soggetto e un oggetto dell’operazione, tra
un voler scrivere e un corpo scritto (o da scrivere), fabbrica storia occidentale.
La scrittura della storia è lo studio della scrittura come pratica storica.38

Il rapporto delle immagini-traccia con la scrittura, nei suoi aspetti di


reciproca alterazione, è oggetto di un’analisi di maggior respiro nel saggio
dedicato all’Histoire d’un voyage faict en la terre du Brésil, pubblicata nel
1578 da Jean de Léry.39 La ricostruzione che Certeau vi fa della genealogia
dell’etnografia («[…] l’equivalente di una “scena primaria” nella costru-

37 Cfr. M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 1.


38 Ivi, pp. 1-2.
39 Léry, pastore francese riformato, fuggito a Ginevra e di qui partito per fondare
in Brasile un rifugio calvinista, erra in Brasile per tre mesi, tra il 1557 e il 1558,
tra i Tupinamba, per poi tornare a fare il pastore in Francia (M. de Certeau, Etno-
162 Nodi della verità

zione del discorso etnologico»)40 potrebbe essere riassunta così: il viaggia-


tore occidentale-soggetto di sapere (nell’epoca delle alterazioni prodotte
nella cultura occidentale dalla scoperta del Nuovo Mondo) va a caccia del
senso dell’altro, assegnandosi una funzione etica di civilizzazione;41 ma,
come nel mito di Atteone, diventa preda di immagini sensuali, auditive e
visive, che lo fanno scrivere; un’estetica e un’erotica alterano la scrittura
del sapere nel momento in cui la rendono possibile. L’esito del viaggio
occidentale di sapere presso l’altro è l’etno-grafia, o coazione a scrivere in
un sistema di sapere le cose insensate viste e udite: «Il selvaggio diventa
la parola insensata che rapisce il discorso occidentale, ma che, proprio a
causa di ciò, fa scrivere indefinitamente la scienza produttrice di senso e
di oggetti».42
La dinamica degli episodi di cattura dell’osservatore ricostruiti da Cer-
teau non fa che sviluppare il tema della seduzione da parte di immagi-
ni insensate: ciò che fa scrivere Léry è una progressiva cattura attraverso
immagini che, mentre fanno parlare l’altro, lo istituiscono come resto –
cioè come il rimosso dell’Occidente che ad un tempo lo definisce, come
dice la tabella delle opposizioni tra il selvaggio e il civilizzato costruita
da Certeau:43 l’altro è il senza vestiti (è nudità), il senza tempo produttivo
(è festa), il senza distanza-separazione tra soggetto e oggetto del sapere (è
prossimità e coesione), il senza etica (è corpo di piacere).
Certeau assume il testo come un corpo figurato, una vera e propria ipo-
tiposi punteggiata di immagini. Ma la dinamica degli episodi di cattura
dell’osservatore così ricostruiti non sviluppa soltanto il tema della seduzio-
ne da parte di immagini insensate: Certeau si chiede anche che cosa l’etno-
grafia occulti, mentre porta in presenza.44 L’analisi di Certeau si trasferisce

grafia. L’oralità o lo spazio dell’altro: Léry, in La scrittura della storia, cit., pp.
215-252).
40 Ivi, p. 228.
41 Gran parte dell’analisi di Certeau è dedicata all’opposizione tra la storia del viag-
gio di andata e ritorno raccontata da Léry (l’impresa del soggetto occidentale di
sapere, che avviene nel tempo), e il mondo selvaggio che occupa uno spazio senza
storia e senza un senso proprio: l’allontanamento immaginario spazio-temporale
dell’altro è ciò che consente di farne un oggetto di sapere. Nel mio percorso, che
privilegia nel saggio di Certeau il trattamento delle immagini, lascio questo tema,
pur fondamentale, in secondo piano.
42 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 251-252.
43 Ivi, p. 240.
44 Cfr. F. Lestringant, Lectures croisées de Jean de Léry: à propos du “bréviaire de
l’ethnologue”, in M. de Certeau : les chemins de l’histoire, a cura di C. Delacroix,
F. Dosse, P. Garcia, M. Trebitsch, Éditions Complexe, Bruxelles 2002, pp. 72-75.
Immagini-traccia e scrittura 163

sul campo di Léry e fa vedere come lo sguardo del viaggiatore-etnografo


si traduca in pensiero e scrittura in un processo in cui il soggetto, che si
presenta inizialmente come soggetto dell’azione (qualcuno che racconta di
sé e del proprio viaggio di sapere), si trasforma in qualcuno che diventa og-
getto di seduzione da parte delle immagini sensuali dell’altro. L’etnografo
deve perciò mettersi in gioco in quel suo progetto investigante che ha l’or-
gano fondamentale nell’andare a vedere autoptico (tema che è all’origine
anche della storiografia): ma la figura seduttiva dell’altro, mentre cattura, si
insinua nel testo dell’Occidente sedotto, e, alterandolo, vi si insinua come
un residuo che va perduto.
Certeau ricostruisce questa dialettica nel racconto di Léry. Il testo che
Léry ci mette a disposizione è una scrittura di immagini, in cui c’è del vi-
sibile e dell’udibile, ma la traccia che scatena il processo che porterà alla
scrittura è la voce. L’osservatore è investito da immagini auditive: è la voce
del selvaggio, puro atto di enunciazione cui non corrisponde alcun enun-
ciato intelligibile, a portare in presenza il corpo dell’altro. La voce dell’al-
tro attira perché è un fuori scena per lo sguardo occidentale. Per perseguire
il proprio progetto scientifico neutrale (osservare rimanendo separato), lo
sguardo di Léry deve lasciarsi investire da ciò che si presenta sulla scena:
attirato da un meraviglioso unisono di voci, da una ballata cantata nell’as-
semblea Tupi, lo sguardo si erotizza, vuole vedere e penetrare nella scena,
e vi si intrufola attraverso un foro praticato in un rivestimento di erbe.
L’osservatore esperimenta il desiderio. Ma il desiderio è destinato a essere
sottomesso alla legge.45 Il fuori scena va tradotto in una scena intelligibile,
attraverso l’operazione di potere che è la scrittura: la scrittura prende il
posto della rimozione dei corpi, ma la traduzione scritturale della traccia
immaginativa presuppone l’azione inquietante di cattura che l’immagine
esercita sui sensi.
Il rapimento che Léry prova nell’udire l’accordo di voci nella ballata
ascoltata all’assemblea Tupi, o nel vedere donne nude che si immergono
danzando pazze di gioia nei ruscelli, è la seduzione operata da ciò che ap-
pare all’etnografo senza senso (senza sapere) e senza tempo (dileguante).
Tuttavia, il rapimento effimero deve essere recuperato al tempo e al senso,
e viene tradotto dall’interprete e da Léry nel racconto di un diluvio analogo

45 Il desiderio come «il rovescio della legge» (M. de Certeau, La scrittura della sto-
ria, cit., p. 243). Certeau cita qui J. Lacan, Kant con Sade, 1966, trad. a cura di G.
Contri, in Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 788. “L’Edipo” va tradotto in verità, in
legge, in simbolizzazione, cioè nella legge del senso e della scrittura: cfr. J. Lacan,
Il seminario. Libro III. Le psicosi, 1981 ; trad. a cura di G. Contri, Einaudi, Torino
1985, p. 98.
164 Nodi della verità

a quello della Sacra Scrittura – viene scritto cioè secondo l’intelligibilità


del testo dell’Occidente, in cui acquista una stabilità e una ragione. C’è
dunque una traduzione dall’economia superflua della festa all’economia
del sapere oggettivante:

Le donne nude […] indicano un nuovo rapporto, scritturale, con il mondo:


sono l’effetto di un sapere che “calpesta” e percorre “ocularmente” la terra per
costruirne la rappresentazione. […] Attraverso queste donne, il racconto narra
dunque anche gli inizi e le temerità di uno sguardo scientifico.46

È una trasgressione temeraria, perché va a vedere: percorre il corpo


della terra-madre, vi inscrive la propria volontà di sapere, la trasforma in
oggetto, e fa questo correndo il rischio dell’eccesso che viene dalla nudi-
tà dell’altro e dalla sua oltre-umanità. Ma non si tratta di una traduzione
lineare, bensì di un rapporto di alterazione reciproca, tra la traccia inevi-
tabilmente perduta, e il senso istituito dalla scrittura.47 Perciò l’eccesso è
insieme perdita dell’altro: la parola Tupi è infine «ascoltata altrimenti da
come essa parli».48
A differenza dei discorsi agiografico e mistico, il racconto di Léry non
esprime la difficoltà a dire nel cammino verso un linguaggio di verità;49
l’eccesso e il meraviglioso con cui l’etnografo cerca di ricondurre a sé
l’altro sono in realtà tracce della perdita dell’altro: ciò che si perde è «la
parola senza scrittura, il canto di una pura enunciazione, l’atto di parlare
senza sapere».50 All’istituzione scritturale del corpo di piacere corrisponde
in ultima istanza la perdita della parola Tupi. L’altro come «residuo del
pensiero costruttore»:51 «Una “perdita” irreparabile è la traccia di queste
parole nei testi di cui sono l’oggetto. È così che sembra scriversi una rela-
zione con l’altro».52
L’alterità di cui l’Occidente fa esperienza in forme di sapere come la
storiografia e l’etnografia non può essere vista solo come oggetto di un
interesse conoscitivo, ma assume il significato di un nodo etico.

46 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 249.


47 Nei termini di Bataille: il corpo di piacere del selvaggio (lo spreco glorioso) resta
come residuo inquietante, poiché è l’alterità che è stata rimossa (addomesticata)
affinché si istituisse il lavoro produttivo e l’economia del senso occidentali.
48 M. de Certeau, La scrittura della storia, cit., p. 216.
49 Cfr. ivi, p. 239.
50 Ibid..
51 Ibid.
52 Ivi, p. 219.
Immagini-traccia e scrittura 165

3. Le immagini-traccia: dalla visione alla scrittura

Se il saggio su Léry ricostruisce una genealogia dell’etno-grafia attra-


verso un’analisi di immagini che sono traccia dalla presenza inquietante
dell’altro, ma già orientate alla traduzione scritturale, il saggio che Certeau
dedica al frontespizio di Mœurs des sauvages amériquains comparées aux
mœurs des premiers temps di Lafitau (1724) completa il percorso genea-
logico delle scienze umane comparando l’etnografia con la storiografia.53

53 M. de Certeau, Histoire et anthropologie chez Lafitau, in C. Blankaert (a cura


di), Naissance de l’ethnologie? Antrop ologie et mission en Amérique XVIe-XVIIIe
siècle, Èditions du Cerf, Paris, 1985, trad. di G. Baggio in M. de Certeau, La
scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Raffaello Cortina, Milano 2005, pp. 1-27.
166 Nodi della verità

Certeau mostra nella sua lettura come la rappresentazione scelta a “bla-


sone” da Lafitau sia un commento per immagini all’operazione del sapere
occidentale e al potere della scrittura che colloca l’alterità nella storia uma-
na complessiva attraverso il potere della scrittura. Nella figura è infatti pos-
sibile riconoscere la rappresentazione di un insieme di livelli secondo cui
un sapere si istituisce nel passaggio dal vedere allo scrivere – un percorso
che, come mostra la lettura di Certeau, va dalla collezione archivistica, alla
tecnica di manipolazione comparativa del materiale, all’autorità scritturale.
I due saggi su Léry e su Lafitau si completano in quanto esempi per imma-
gini di fondazione del sapere scritturale di etnografia e storiografia: da una
parte il tema del saggio su Léry è il ritorno di ciò che l’Occidente produtti-
vo ha rimosso, cioè l’estetica del corpo dell’altro, per tradurlo nell’etica del
senso, dall’altra parte il saggio su Lafitau indaga sulle istanze immaginarie
e simboliche che presiedono al processo in cui, nella storiografia, la visione
si fa testo. In entrambi i percorsi, Certeau analizza ad un tempo il lavoro
sull’altro e il lavoro dell’altro entro la scrittura occidentale.
La tavola del frontespizio delle Moeurs istituisce un rapporto tra visione
e testo che, ci dice Certeau,54 è lo stesso che Lafitau intende riproporre
nelle immagini che costellano il suo libro: si tratta di immagini-traccia in
quanto si rivelano capaci di continuare a far vedere il tempo degli inizi nel
tempo presente. Non sono perciò semplici illustrazioni dello scritto, ma, in
quanto citazione delle origini che pretendono autenticità, diventano fonte
di autorità per la scrittura del libro. Sono anch’esse immagini-traccia: ma,
a differenza delle voci seducenti e dei bei corpi che turbano Léry, sono già
segni leggibili, che rendono leggibili anche le epoche antiche di cui non ci
sono vestigia.
La figura del frontespizio è esemplare perché mette in scena più livelli
di dialogo e di conflitto tra la Scrittura e il Tempo: la Scrittura è rappresen-
tata come una donna seduta a uno scrittoio, circondata da resti e tracce del
Nuovo mondo, del mondo classico e dell’Egitto, il Tempo è rappresentato
come un vecchio alato e barbuto, munito di una falce, a significare l’opera
di cesura, di distruzione e insieme di giustizia del tempo.55 Il dialogo è
in primo luogo a senso unico: il tempo insegna all’etnografia a inscrivere

54 Ivi, p. 4.
55 Mi chiedo se, ponendo a “blasone” del suo La memoria, la storia, l’oblio, l’im-
magine di una scultura barocca del Monastero di Wiblingen (Ulm) rappresentante
la figura doppia della storia: davanti Chronos, il dio alato che strappa un foglio da
un grande libro, alle sue spalle la storia con il libro, il calamaio e la penna, Paul
Ricoeur non abbia pensato al frontespizio di Lafitau e al commento di Certeau.
Sotto la riproduzione, una scritta a mano di Ricoeur: «Entre la DÉCHIRURE par
Immagini-traccia e scrittura 167

nel suo testo l’alterità attuale, l’alterità dei selvaggi del Nuovo mondo,
mantenendo il rapporto con l’alterità trascorsa, gli antichi, di cui solamente
il tempo è testimone e signore. L’invenzione illuministica del sapere attra-
verso il modello comparativo è rappresentata nella costruzione dell’im-
magine: gli “archivi” sparsi a terra ai piedi della scrittrice (resti di Egitto,
Medio oriente, tardo ellenismo: medaglie, un sistro, un Hermes di pietra,
una carta, libri, un globo terrestre …) sono tracce di antichità che danno a
vedere attraverso un’operazione comparativa quanto si può comprendere
dei costumi e delle favole dei selvaggi. Così l’antichità frammentata, che
non sembra aver il senso di un testo, si viene scrivendo attraverso l’intro-
duzione dei “lumi”, che sono rappresentati da un percorso di ordine (la
collezione, che implica una ricerca ordinata in serie) e da un modello di
comparazione. Nel confronto istituito dalla rappresentazione, una traccia
orale (i costumi e le favole dei selvaggi) e una traccia visiva (le antichità)
si danno reciprocamente senso creando connessioni sistematiche. Scrive
Lafitau:

Non mi sono accontentato di conoscere il carattere dei selvaggi e di infor-


marmi sulle loro abitudini e sulle loro pratiche, ma ho cercato in queste prati-
che e in queste abitudini vestigia dell’antichità più remota; ho letto con cura
quegli antichi autori che si sono occupati di costumi, leggi ed usanze dei popoli
di cui avevano qualche conoscenza; ho comparato questi costumi gli uni con
gli altri, e confesso che se gli autori antichi hanno gettato una luce che mi ha
permesso di sostenere qualche felice congettura sui selvaggi, le abitudini dei
selvaggi hanno gettato una luce che mi ha permesso di comprendere più facil-
mente, e di spiegare diverse cose che si trovano negli antichi autori.56

La scena rappresenta così la fondazione dell’etnografia nel quadro si-


stematico del sapere illuministico e della sua operazione comparativa: nel
sistema settecentesco, che rappresenta la storia umana come vicenda per
stadi dominata da un principio universale monogenista, l’“altro attuale”,
il selvaggio, svolge il ruolo di testimone vivente di un “altro trascorso”, il
passato degli antichi. In un dialogo che va dal basso verso l’alto, il Tempo
insegna infatti indicando alla discepola, che alza il volto verso di lui, un
quadro, luminoso perché sorgente di verità, che rappresenta l’origine rive-

le temps ailé et l’ÉCRITURE de l’histoire et son stilet» (P. Ricoeur, La memoria,


la storia, l’oblio, cit., p. 5).
56 J.-F. Lafitau, Les moeurs des sauvages américains comparées aux moeurs des
premiers temps (1724), edizione ridotta, Maspero-La Découverte, Paris, 1983, p.
3. Il passo citato è tradotto in M. Kilani, L’archivio, il documento, la traccia, cit.,
p. 25.
168 Nodi della verità

lata dei tempi (Adamo, Eva e il serpente: l’origine adamitica dell’umanità),


e l’escatologia apocalittica (l’uomo e la donna redenti, ai lati del triangolo
di luce divina). Il quadro dà non la teologia (l’origine mosaica), ma la teo-
ria, il sistema delle origini (l’origine unica dell’umanità da Adamo ed Eva).
Nella scena è così leggibile anche una corrispondenza tra il ritaglio operato
dal Tempo nello spazio-tempo infinito, e l’inscrizione operata dall’etno-
grafia nello spazio del testo Il Tempo, allegoria del vecchio sapere degli
storici, indica un quadro alla donna, allegoria del giovane sapere degli
antropologi: le due figure dialogano e si corrispondono nel riconoscere il
valore della forma (il quadro come apertura di uno spazio-tempo configu-
rato) in cui si inscrivono gli eventi.
Nel dialogo, la donna è simbolo della mediazione, attraverso il lavo-
ro femminile di tessitura. Allo stesso tempo, come matrice del testo, rap-
presenta l’auto-comprensione di una scienza che si istituisce separandosi
dalla tradizione: come nella vicenda di Robinson, inizia un nuovo mondo,
il mondo del potere della scrittura, in cui «bisogna ormai fabbricare dello
scritto con i resti dell’Altro».57 La scrittura è insuperabile, perché traduce
la parola orale, rendendola ascoltabile oggi: l’antropologo, come lo stori-
co, strappa un senso alla traccia, sostituendovi la scrittura.58 Ma in questo
modo la scrittura trasporta la distanza spazio-temporale nella storia, tra-
sforma l’alterità in differenza, e porta a compimento il progetto dei proto-
etnografi: “umanizzare” i selvaggi e le loro tracce all’interno di una Storia
che riesca a spiegare la loro alterità, e ad un tempo la loro umanità.

57 M. de Certeau, Storia e antropologia in Lafitau, cit., p. 14.


58 Cfr. M. Kilani, L’archivio, il documento, la traccia, cit., p. 27.
5
IMMAGINI IN ASSENZA.
UN TEMA PSICOANALITICO

Il potere di evocare immagini in assenza.


Italo Calvino

In Filosofia dei sensi,1 ho sostenuto che la conoscenza in generale si


fonda sul tema del figurabile e sull’autonoma funzione significante delle
immagini. Facendo riferimento a concetti che provengono dal campo con-
cettuale della psicoanalisi, vorrei qui riarticolare il concetto di immagine
intorno a due temi: l’immagine tra apparizione e sparizione, e l’intraduci-
bilità dell’immagine.

1. L’immagine tra apparizione e sparizione

Se consideriamo la relazione tra sensibilità e pensiero, possiamo dire che


la vicenda umana muova dai sensi ai sensi: dai sensi sensibili ai sensi ideali,
dai sensi al pensiero, in un intreccio complesso e non unidirezionale. In altre
parole, il nostro modo di significare è un processo dinamico, che inizia con
l’incontro sensibile col mondo, a partire da cui si sviluppa la trama dei sensi
ideali che intessono e colorano la nostra forma di vita. In questo processo,
l’immagine, intesa non come copia, pallida imitazione di un originale, ma
come messa in forma che porta a visibilità ciò che non è altrimenti visibi-
le, riveste il compito di luogo comune tra sensibilità e pensiero, o, meglio,
di voce media tra la passività della rivelazione di ciò che esiste (elemento
estatico del ricevere, dell’incontrare, del rammemorare) e l’attività della sua
configurazione (elemento poietico dell’inventare e del configurare). Ma se
l’immagine riveste il compito di formazione e articolazione dell’esperienza
sensata, non va dimenticato che in questo compito ha un ruolo fondamentale
il nesso dell’immagine, cioè della presentazione in figura, con la sottrazione
e la perdita, del visibile con il fondo invisibile.2 In questo senso, l’immagi-
ne va intesa come qualcosa non di puramente sostitutivo, ma piuttosto (con

1 S. Borutti, Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero, tra filosofia, arte e letteratu-
ra, Raffaello Cortina, Milano 2006.
2 Ho esposto questo tema nel cap. 4 della Prima Parte.
170 Nodi della verità

una nozione di Derrida) di supplementare: il dire, il portare alla luce “pre-


senta” il senso, lo mette in figura, ce lo fa immaginare; ma questo mettere
in figura non sostituisce semplicemente qualcosa d’altro, non sta semplice-
mente “al posto” di, ma offre di fatto la supplenza indiretta di qualcosa che
si sottrae, la supplenza di una perdita che resta tale. Per esprimere questo
doppio legame tra l’emergere del senso e la sua condizione nella mancanza,
ritengo che uno strumento concettuale prezioso sia il concetto di Kant e
Wittgenstein di rappresentazione come Darstellung: Darstellung è presen-
tare senza poter oggettivare nella forma di cosa (presentare senza Vorstel-
lung, cioè senza rappresentazione concettuale)3; è presentazione indiretta
di un essere che si sottrae, una presentazione figurale che ha interiorizzato il
divieto di dire direttamente e concettualmente la cosa. C’è in questo senso
un nesso costitutivo tra ciò che Freud chiama Darstellbarkeit, raffigurabi-
lità, e Wittgenstein Bildhaftigkeit, e l’impossibilità di rappresentare; c’è un
nesso tra il figurabile e il non rappresentabile ontologico. Il senso viene
avanti su uno sfondo opaco, informe, ma nello stesso tempo vitale e produt-
tivo, dinamico e processuale, di silenzio e di invisibilità.
Ora, il nesso tra figurabile e infigurabile può essere ripensato, come
suggeriscono Domenico Chianese e Andreina Fontana in un saggio che
analizza il tema dell’immagine nel campo analitico,4 attraverso il tema
dell’immagine come traduzione; direi quasi come Bahnung: facilitazione,
apertura di una via, nel senso freudiano del Progetto di una psicologia.5
L’immagine è un’esperienza che facilita i passaggi, le traduzioni: è passag-
gio dai sensi al senso, dal nascosto al manifesto, dall’inorganico all’organi-
co, e viceversa. Non dimentichiamo il “viceversa”: non dimentichiamo la
sparizione, cioè il passaggio dall’organico all’inorganico, dall’apparizione
alla sparizione, per non rischiare di pensare l’immagine soltanto come il
medium verso il livello ideale del senso, di pensarla cioè idealisticamente,
come parvenza superata e risolta nel logos (parola concettuale).

Il simbolo, dunque, non come un “ordine (simbolico)”, che si conquista e


una volta conquistato si dà a noi per sempre, ma qualcosa di precario che nasce
dall’immaginario, da un fondo di perdita, e che può svanire con essa.6

3 Così Kant nel § 49 della Critica del giudizio definisce un’attività immaginativa
libera che si accordi con la regolarità dell’intelletto.
4 D. Chianese e A. Fontana, Immaginando. Il visivo e l’inconscio, Franco Angeli,
Milano 2010.
5 Cfr. J. Derrida, Freud e la scena della scrittura, 1967, in La scrittura e la differen-
za, trad. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1971, p. 257.
6 D. Chianese e A. Fontana, Immaginando. Il visivo e l’inconscio, cit., p. 13.
Immagini in assenza: un tema psicoanalitico 171

Un bambino – è una scena descritta nel saggio di Chianese e Fontana


– anima un oggetto inerte come una macchia, lo vede come un furgonci-
no (“vedere come” è il contrassegno della capacità simbolica umana, ci
dice Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, II, § XI), e così animandolo
si estende al di là del proprio limite organico per darsi un’identità im-
maginaria: qualcosa nasce da una perdita, come nel gioco freudiano del
rocchetto in Al di là del principio di piacere; qualcosa nasce dalla madre
che se ne va, ma è qualcosa di precario; è un’identità che può sparire, che
sparirà.
Come il bambino, i nostri antenati nelle grotte: coloro che hanno dise-
gnato nelle grotte, perché hanno visto e riconosciuto immagini nelle pareti,
hanno animato l’inorganico,7 per “farsi un nome” (con l’espressione bibli-
ca), per darsi un’identità, che tuttavia un giorno sparirà. E come il bambino
e gli antenati, anche gli artisti. Alberto Giacometti, come ci ha mostrato
Georges Didi-Huberman, lotta tutta la vita con un oggetto che è un cubo
anomalo, un solido che l’artista sovradetermina come schema della figu-
ra umana e come faccia (tomba) del padre:8 nel continuo corpo a corpo
dello scultore con il solido, il cubo cessa di essere un solido geometrico
e una scultura astratta per diventare «qualcosa di inumano che va al cuo-
re dell’umano»,9 qualcosa che articola e disarticola l’umano, mettendolo
a confronto con l’inesplicabile.10 Anche lo scultore Giovanni Campus, in
un’opera in cui una corda è applicata al complesso nuragico Genna Ma-
ria, fa un’operazione biomorfica che collega la vita alla cosa inanimata:11
Campus persegue, attraverso il segno-corda, che delimita un luogo e lo
risimboleggia, una comparazione con le misure primarie del sito nuragico.
La misura è un’azione strutturale, formale e dinamica insieme, e perciò
antropomorfica: non è cioè azione astratta, poiché rimanda a geo-metria
come misura della terra e come azione profondamente umana. In questo
senso, la misura è l’immagine che richiama ad un problema elettivo, origi-

7 Ivi, pp. 14-16.


8 Cfr. Georges Didi-Huberman, Il cubo e il volto. A proposito di una scultura di
Alberto Giacometti, 1993, trad. di R. Savio, coll. di M. Rava, Electa, Milano,
2008. Didi-Huberman cita fra l’altro il tema del «lutto dell’inesplicabile» con cui
Mallarmé conclude Il demone dell’analogia (p. 123).
9 G. Scibilia, «Didi-Huberman e la figura», Intervento a Perugia, Accademia delle
Belle Arti, 2009, non pubblicato.
10 Didi-Huberman cita il tema del «lutto dell’inesplicabile» con cui Mallarmé con-
clude Il demone dell’analogia (Il cubo e il volto, cit., p. 123).
11 L. Caramel, C. Cerritelli, E. Crispolti, M. Meneguzzo, C. Pirovano, A. Veca,
Giovanni Campus, Pittura. Scultura 1952-2009. Tempo in processo, 2009, pp.
164-165.
172 Nodi della verità

nario dell’uomo: il problema del rapporto con l’inorganico, e con l’inani-


mato in generale. La misura rimanda al problema del naturale, umanissimo
passaggio dall’organico all’inorganico nella morte: la corda è allora il filo
simbolico tra vita e morte, tra presenza e assenza, tra l’organico e l’inor-
ganico a cui torneremo. L’empatia dell’uomo nei confronti dell’inanima-
to e dell’inorganico, cioè della propria sparizione, attraversa le immagini.
Didi-Huberman cita un passo di Aby Warburg da Reise-Erinnerungen aus
dem Gebiet der Pueblos:12

Da dove vengono tutti questi problemi e questi enigmi dell’empatia di fronte


alla natura inanimata? […] Il punto di partenza è il seguente: considero l’uomo
come un animale che maneggia le cose, un animale la cui attività consiste nello
stabilire legami e separazioni. E ciò gli fa perdere il suo sentimento organico
dell’io, perché in effetti gli permette di afferrare oggetti concreti che non han-
no apparato nervoso perché sono inorganici, ma estendono il suo io in forma
inorganica. Ecco il tragico dell’uomo che, maneggiandole cose, si estende al di
là del suo limite organico.

L’immagine consente di pensare l’ambivalenza del presentare in


figura e insieme perdere la cosa, tra visibilità e invisibilità. Ambiva-
lenza che investe l’immagine stessa, e che si può leggere nelle parole
della nostra storia culturale, in particolare nella compresenza di eikon
e eidolon nella cultura greca. Platone, che ascrive le immagini al non
essere, trasforma in senso teoretico l’opposizione tra i due termini:13
per Platone, eikon è la buona immagine, che può essere pretesto per
l’ascesi e la trasvalutazione ideale, mentre l’eidolon è il simulacro che
inganna, ed è solo illusione, non essere. Ma l’opposizione ha un’origi-
ne etimologica più complessa rispetto al significato difettivo platonico.
Nel significato arcaico, l’eidolon è un venire alla presenza di carattere
religioso, è la presentazione estatica di un orizzonte di senso. Questa
concezione estatica dell’immagine è presente nella cultura arcaica greca
nel significato di mimeisthai, che significa «portare attraverso la dan-
za alla rappresentazione» nell’ambito del culto.14 L’origine greca della

12 Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei


fantasmi e la storia dell’arte, 2002, trad. di A. Serra, Torino, Bollati Boringhieri,
2006, pp. 360-361.
13 Cfr. H. Koller, La mimesis nell’antichità, 1954, «Studi di estetica», 7/8, 1993, pp.
13-26; Jean-Pierre Vernant, Nascita di immagini (1979), trad. a cura di P. Conte
in L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte, Mimesis,
Milano 2010.
14 Cfr. H. Koller, La mimesis nell’antichità, cit., pp. 17 sgg.
Immagini in assenza: un tema psicoanalitico 173

parola viene dunque da un ambito cultuale, e suggerisce di fatto un si-


gnificato molto più ampio della mimesis platonica come copia di copia
del vero essere, o apparenza: significa estasi, uscita da sé, esposizione
dell’uomo all’alterità attraverso il venire in presenza della forma nell’a-
zione rituale; lo spettatore che osserva è appellato, chiamato fuori di sé
dallo spettacolo. Con Platone, l’immagine vira dal significato arcaico
dell’esposizione, del portar fuori, dell’apparire (tema estatico del fuori,
dell’Aus-druck: espressione, uscita da sé dell’essere), al significato on-
tologico di qualcosa che, messo in tensione con il vero essere, mostra il
proprio statuto di pretesa illusoria (tema mimetico della Nach-ahmung:
riproduzione, imitazione imperfetta dell’essere, che prevarrà per secoli
nella nostra cultura). L’eidolon arcaico era «“l’apparizione”, investita di
valori religiosi»;15 trasferito in contesto filosofico, diventa un sembrare,
un apparire, una pretesa di cui definire lo statuto di realtà manchevole.
Della concezione arcaica c’è però traccia in Platone, secondo un’interes-
sante interpretazione di Vernant.16 In un passo del Sofista, 239 d e 240
a-b, Platone si richiama alla concezione arcaica dell’eidolon, un heteron
toiouton, un “secondo oggetto simile”, come un’immagine onirica, o il
fantasma di Anticlea, che Ulisse non riesce ad abbracciare. L’eidolon è
un doppio, una presenza in tutto simile, ma che si rivela assenza irrime-
diabile: un’apparizione che in questo mondo espone il soggetto all’alte-
rità più radicale, e alla sparizione.

2. L’intraducibilità dell’immagine

Chiediamoci ora se la modellizzazione freudiana dello psichico ci con-


senta di pensare l’intraducibilità dell’immagine, cioè la sua autonomia cre-
ativa; se ci consenta in altre parole di pensare un campo delle immagini
non riducibile al pensiero rappresentativo. Michel Foucault, nella sua In-
troduzione a Sogno ed esistenza di Binswanger, sembra negarlo: egli so-
stiene che l’analisi freudiana del sogno, centrata sulla nozione di simbolo
come identità di senso e immagine che trasmuta un passato determinante
in un presente che lo simboleggia, non fa che interpretare, tradurre le im-
magini in parole e in contenuto di senso, trasferire nella coscienza.17 Se-

15 J.-P. Vernant, Nascita di immagini, cit., p. 32.


16 Ivi, pp. 30-34.
17 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, SE, Milano 1993,
p. 29.
174 Nodi della verità

condo Foucault, Freud non riconoscerebbe il sogno come forma specifica


di esperienza, e finirebbe per trascurare il potere creativo e cosmogonico
dell’immaginario.18 Giudizio forse troppo univoco, e contraddetto dallo
stesso Foucault in un altro contesto.
Ritengo al contrario che la modellizzazione freudiana dello psichico
abbia una parte fondamentale nel restituire alla nostra cultura l’idea di un
campo delle immagini, contro l’idea dell’immagine come testo difettivo
da tradurre in parole, e che la modellizzazione freudiana dello psichico
presenti corrispondenze armoniche con la critica alla tradizione occiden-
tale rappresentativa, che pensa l’immagine come imitazione, copia vero-
simile, ma non vera, della cosa reale.19 Ma con una precisazione: il campo
delle immagini, se c’è qualcosa di simile in Freud, non va cercato nelle
analisi freudiane della creatività e dell’opera artistica, che ha più limiti. Il
limite è in primo luogo programmatico: Freud stesso dichiara nella Pre-
messa al Mosè di Michelangelo di interessarsi al contenuto tematico e al
significato delle opere, non all’invenzione e alle qualità formali e stilisti-
che della rappresentazione artistica; e anche quando si dedica all’esame
psicoanalitico di personalità eccezionali, come nel caso di Leonardo, e
mostra nessi tra quel ricordo infantile (o fantasma dell’età matura) e le
realizzazioni adulte, portando alla luce quello che Merleau-Ponty chiama
lo «scambio tra avvenire e passato»20 che orienta l’esistenza, l’intento
non è offrire chiavi per il mistero della poiesis, della genesi della gran-
de opera; la creatività sembra dover restare per Freud inspiegata. Sul-
le analisi freudiane dell’arte si appunta poi l’altra critica, che è anche
quella di Foucault: l’analisi freudiana della creatività artistica è limitata
anche per ragioni intrinseche, a causa dell’orientamento razionalistico
dell’attività della psicoanalisi, che, come scrive Starobinski, muove in
ultima analisi al «recupero della coscienza sull’inconscio»,21 a tradurre
e a decifrare il senso nascosto nel lavoro figurale del desiderio, e quindi
a desimbolizzare.22 A questo orientamento sarebbe connessa la diagnosi
freudiana sull’arte come attività ludica arcaica e narcisistica, sostituzione

18 Ivi, pp. 35 sgg.


19 Cfr. S. Borutti, Topologie dell’arte, topologie freudiane, in G. Di Marco (a cura
di), Creatività psicopatologia arte, Cosenza, Teda, 1995, pp. 141-181.
20 M. Merleau-Ponty, Il dubbio di Cézanne, 1948, trad. di P. Caruso in Senso e non
senso, Il Saggiatore, Milano 19672, p. 44.
21 J. Starobinski, L’occhio vivente, 1961, trad. di G. Guglielmi e G. Giorgi, Einaudi,
Torino 1975, p. 307.
22 Ivi, p. 306.
Immagini in assenza: un tema psicoanalitico 175

di un oggetto illusorio a un oggetto reale,23 compensazione per la rinuncia


imposta dalla realtà.24
Ora, l’epistemologia, o, meglio, la potenza conoscitiva del modello freu-
diano è ben più ricca del tema razionalistico della decifrazione del simbolo
e della desimbolizzazione: lo stesso concetto di interpretazione (Deutung)
in Freud non è certo appiattito sulla decifrazione, non è decodificazione
di fenomeni sincronici, ma è lavoro drammatico e coniugato col tempo,
è ciò che egli preferisce alla fine chiamare “costruzione” (Konstruktion)
(evocando in questo modo l’orizzonte creativo della poiesis).25 Il lavoro
analitico è figurale, si fonda cioè su un campo di immagini,26 perché è un
lavoro relazionale di produzione e di messa in forma dell’oggetto psichico
secondo un ritmo enunciativo e una necessità che possono essere conside-
rati analoghi al farsi creativo della forma artistica. I frammenti di analisi
raccontati negli stessi casi freudiani restituiscono il senso non certo di ap-
plicazione di leggi formali o metapsicologiche, quanto di un lavoro poieti-
co, compositivo, in cui le immagini dell’analizzato e dell’analista lavorano
insieme alla figurabilità (Darstellbarkeit) dell’oggetto psichico.
E, del resto, come non pensare alla figuralità nel lavoro del sogno? Il
lavoro di interpretazione del sogno, la Traumarbeit, non è per Freud sem-
plice traduzione del simbolo, ma, semmai, ricostruzione del sogno come
esperienza sensibile, come aisthesis,27 scena in cui si esprime il potere
ontologico dell’immaginario, che drammatizza l’avventura del desiderio.
Questo è un tema sottolineato da Starobinski, ma riconosciuto anche da
Foucault: il sogno non simboleggia soltanto esperienze precedenti, ma
mette in situazione il sognatore entro il teatro onirico, aprendo la scena di
una «drammaturgia interiore mossa dalla ‘libido’».28 E Foucault scrive:
«Eppure Freud aveva sentito i limiti della sua analisi […] spesso aveva
incontrato nel sogno gli indizi di un aver messo in situazione il sognatore
stesso all’interno del dramma onirico, come se il sogno non si accontentas-
se di simboleggiare e di dire in immagini la storia di esperienze precedenti,

23 S. Freud, Il poeta e la fantasia, 1907, trad. a cura di C.L. Musatti in Opere, vol. 5,
Boringhieri, Torino 1972.
24 S. Freud, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, 1911, in Opere,
cit., vol. 6, 1974, pp. 458-459.
25 S. Freud, Costruzioni nell’analisi, 1937, in Opere, cit., vol. 11, 1979.
26 Lo dimostrano i frammenti di lavoro analitico raccontati nel libro di Chianese e
Fontana, che sono vere e proprie costruzioni figurali (Immaginando, cit., pp. 171
sgg.).
27 Ivi, p. 169.
28 J. Starobinski, L’occhio vivente, cit., pp. 290-291.
176 Nodi della verità

come se facesse il giro dell’esistenza intera del soggetto, per restituirne sot-
to forma teatrale l’essenza drammatica».29 Il sogno come teatro, o scena:
Freud parla di un pensiero rappresentato e vissuto in una scena. In quanto
campo di immagini, la relazione analitica può essere pensata come teatro,
cioè come dispositivo per rappresentare, in cui si assiste al sorgere di im-
magini in assenza.30
Dobbiamo allora pensare il sogno come composizione figurale.31 La no-
zione estetica di composizione è qui fondamentale: vuol dire che nell’im-
magine non ci sono elementi, cioè dettagli; che l’immagine ha in sé la forza
aggregante di quello che Merleau-Ponty chiama stile, o «deformazione co-
erente del visibile»:32 il lavoro dello stile come atto sintetico di invenzione,
o deformazione, della visibilità formale del mondo. È questa la forza di
aisthesis dell’immagine: una forza che aggrega, compone, facendo aderire
i pezzi del vaso rotto.
Ora, sulla potenza deformante dell’immagine possiamo porci una do-
manda semplice ma cruciale: c’è una linea di separazione tra l’esperienza
estetica artistica e l’esperienza del sogno, dell’inconscio e della cura come
campo di immagini? Se c’è, dove collocarla? In Devant l’image, Geor-
ges Didi-Huberman la colloca nell’opposizione tra sintesi e deformazione.
Didi-Huberman fa un’analisi dell’immagine nella Traumdeutung di Freud
che vede nel tema della figurabilità presente in questo testo freudiano l’idea
di una pari dignità tra immagini e parole, idea che in parte viene meno in
altri testi, soprattutto nei testi metapsicologici. È pensando il sogno, scri-
ve Didi-Hubermann, che Freud ha lacerato la compattezza della nozione
di immagine. Come il sogno, l’immagine non è un disegno, non ne ha
la trasparenza mimetica, non è una sintesi schematica e omogenea della
cosa, ma è deformazione, Entstellung, collegata alla censura: è un rebus,
dice Freud, non un disegno. Nel lavoro del sogno, i lembi messi insieme
attraverso condensazione, spostamento, identificazione, rovesciamento nel
contrario sono presentazione della lacerazione: la potenza del negativo si
esprime in un lavoro di presentazione figurale. Cos’è allora la somiglian-

29 M. Foucault, Introduzione a L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 5.


30 Cfr. la nuova edizione del saggio di Fausto Petrella, La mente come teatro. Psico-
analisi, mito e rappresentazione, Edi. Ermes, Milano 2011.
31 D. Chianese, A. Fontana, Immaginando, cit., p. 171.
32 M. Merleau-Ponty, Segni, 1960, trad. di G. Alfieri, Il Saggiatore, Milano 1967,
p. 108. Paul Klee, nel celebre discorso del 1924, parla di «deformazione» e di
«rigenerazione della natura» nella dimensione figurativa (F. Klee, Vita e opere di
Paul Klee, 1960, Einaudi, Torino 1971, p. 146).
Immagini in assenza: un tema psicoanalitico 177

za? Non è conciliazione, vicinanza formale, ma è lo stesso che si infetta di


alterità,33 è defigurazione e trasformazione.
È la deformazione che genera immagini, ma è attraverso un lavoro,
analitico o artistico, che le immagini possono assumere la coerenza trasfor-
mativa di cui parla Merleu-Ponty: la coerenza del lavoro di deformazione
che libera le apparizioni del visibile.

33 G. Didi-Huberman, Devant l’image, Éditions de Minuit, Paris 1990, p. 184.


Fulvio Papi
NOTA

Nel novembre del 1965 arrivavo all’Università di Pavia per tenere il


corso di filosofia morale che il mio indimenticabile amico Remo Cantoni
mi aveva dato in eredità dopo la personale sconfitta della mia avventura
politica a Roma. Che cosa sapevo per poter fare decentemente lezione?
Pressappoco i temi centrali della “scuola di Milano” (Banfi, Cantoni, Preti,
Paci), inoltre una conoscenza, tutt’altro che comune, di quello che allora
era il marxismo occidentale. Due orizzonti non trascurabili, ma a me pare-
va di fare una autobiografia più che lezione. E poi il giovane Kant che ave-
vo studiato per un corso universitario di Banfi. Ma, soprattutto i miei studi
sulla cultura del Rinascimento (Garin e il Warburg) che mi occupavano da
qualche tempo. Scelsi questi temi come i più accademici e accreditati per
un insegnante che i professori più anziani e tradizionali (eccezione fatta
per Segre, Corti e Isella) consideravano con un certo sospetto. Il corso fu
su Bruno, e quando venne il tempo di dare le esercitazioni per i miei sco-
lari, scelsi autori e temi del periodo rinascimentale. A Silvana Borutti, una
ragazzina timida e riservata che doveva avere 21 o 22 anni e ne dimostrava
17, toccò Telesio. Con molto garbo e qualche disagio mi disse che non era
tradotto. Risposta: “allora lo traduci tu”. Diligenti gli studenti che con-
segnarono a tempo i loro lavori, diligente anche il professore che li lesse
subito. Quando lessi il lavoro della ragazzina su Telesio, mi trovai di fronte
a un piccolo capolavoro scolastico. Pensiero mio: questa ragazzina la devo
seguire, ha un sicuro talento filosofico. L’anno dopo, poiché non conoscevo
affatto la filosofia analitica, studiai questi problemi che poi furono al centro
del corso. Silvana non solo seguì il corso, ma cominciò a frequentare le
origini filosofiche in Wittgenstein. La tesi fu su questi argomenti con una
sua capacità analitica nella quale riuscivo qualche volta a smarrirmi. Ma
entrambi in quei due anni avevamo superato le nostre prove. Così tornò
a galla il mio marxismo in relazione ai primi temi antropologici portati a
180 Nodi della verità

Pavia da Cantoni e poi di Altan. Si trattava di mostrare che in ogni società


semplice sono i rapporti sociali che tessono la struttura economiche e che,
contrariamente agli economisti marginalisti, non esiste alcuna forma eco-
nomica originaria per tutte le formazioni sociali. Silvana scrisse un libro,
il primo in Italia su questi temi che personalmente le apriva l’orizzonte
dell’antropologia. Chiuse il suo rapporto con analisti e neopositivisti con
un libro esemplare dalla “grande Vienna” sino alla dissolvenza del proble-
ma del significato in termini di strategie filosofiche.
E ormai la ragazzina di dieci anni avanti aveva preso il volo avendo
aperto per sé due strade: la ripresa dei temi sul linguaggio che derivavano
in Wittgenstein e i problemi metodologici relativi alle scienze umane, e, in
particolare l’antropologia, in uno scambio di studi a livello internazionale.
Era poi quello che anch’io desideravo, poiché da Banfi avevo imparato
che il vero aiuto che si può dare agli allievi è quello di far trovare loro la
propria strada.
Così sono passati molti anni (perché contarli?) e Silvana si conquistava
una sua autorevolezza negli studi filosofici. Seguivo un po’ da lontano,
ma il dialogo non mancava mai. Ultimamente ascoltavo le sue conferenze
che, per temi e autori, si potevano classificare accademicamente come fi-
losofia dell’arte: analisi precise e preziose con un controllo teoretico sulla
coerenza delle parole in ogni tratto d’indagine. Niente di approssimativo o
fuori posto. Mi capitò di pensare che anch’io nel ’49-’50, avevo cominciato
proprio in questo orizzonte, in un mondo più semplice e in una filosofia
teoricamente più facile. Così Silvana faceva molto bene la sua strada, e io
m’incamminavo per quella strada dove si hanno più ricordi che se si aves-
sero mille anni. Tanto per finire con un poeta.
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– S. Borutti, Traduzione come immagine delle differenze, in L. Ruggiu, F. Mora,
Identità differenze conflitti, Mimesis, Milano 2007, pp. 265-281.
– S. Borutti, Tra dire e tacere. Prefazione, in F. Sarcinelli, Filosofia della mancan-
za. Tra fenomenologia e filosofia analitica, Mimesis, Milano 2007, pp. 7-9.
– S. Borutti, Pensieri e parole. Postfazione, in G. Bosticco, Riempire i vuoti. Un
manuale (soggettivo) di scrittura e comunicazione, Ibis, Como-Pavia 2007, pp.
215-222.
– S. Borutti, L’anthropologie imaginaire de Wittgenstein, in F. Minazzi (a cura
di), Filosofia, scienza e bioetica, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma
2007, p. 1043-1051.
– S. Borutti, Sinsentido y abstinencia ontologica. La semantica antirrealista de
Wittgenstein, in C. J. Moya (ed.), Wittgenstein y la critica del lenguaje, Colec-
cion Filosofias, Valencia 2008, pp. 63-82.
– S. Borutti, Realtà del desiderio. Prefazione, in S. Monetti, Jaques Lacan e la
filosofia, Mimesis, Milano 2008, pp. 9-14.
– S. Borutti, Filosofia e scienze umane, in R. Lazzari, M. Mezzanzanica, E.S.
Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo
Marini, Mimesis, Milano 2008, pp. 43-50.
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tazione, oggettività, in M.L. Bianca, P. Piccari, a cura di, Forme di razionalità
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– S. Borutti, Dai sensi ai sensi, in P. De Luca e F. Fimiani, L’immagine e i sensi,
Mimesis, Milano 2009, pp. 27-39.
– S. Borutti, Desiderio di bellezza, in T. Kemeny, a cura di, Chi ha paura della
bellezza?, Arcipelago Edizioni, Milano 2010, pp. 62-67.
– S. Borutti, Philia e perturbante. Antigone e l’enigma dell’intersoggettività, in
R. Dreon, G. L. Paltrinieri, L. Perissinotto, Nelle parole del mondo. Scritti in
onore di Mario Ruggenini, Mimesis, Milano 2011, pp. 437-452.
– S. Borutti, Il dono come forma di intersoggettività, in L. Cortella, F. Mora, I.
Testa (a cura di), La socialità della ragione. Scritti in onore di Luigi Ruggiu,
Mimesis, Milano 2011, pp. 327-339.
– S. Borutti, Divenire figura. Le immagini tra memoria, desiderio e sublime, in D.
Guastini, D. Cecchi, A. Campo (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una
storia critica delle immagini, Usher, Firenze 2011, pp. 205-217.
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relli (a cura di), Culture e religioni: la pluralità e i suoi problemi, Il Melangolo,
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– S. Borutti, Il disagio del pensare, in D. Cosenza e P. D’Alessandro (a cura di),
L’inconscio dopo Lacan. Il problema del soggetto contemporaneo tra psicoana-
lisi e filosofia, LED, Milano 2012, pp. 29-42.
– S. Borutti, Immagini in assenza, in D. Chianese, A. Fontana (a cura di), Per un
sapere dei sensi. Immagini ed estetica psicoanalitica, Alpes, Roma 2012, pp.
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– S. Borutti, La sorpresa del linguaggio. Nonsenso, ambiguità, creatività, in
M. Francesconi, D. Scotto di Fasano, L’ambiguità nella clinica, nella società,
nell’arte, Antigone Edizioni, Torino 2012, pp. 87-96.
– S. Borutti, Amicizia e comunità: Platone e Aristotele, in G. Comboni, M. Fru-
sca, A. Tornago, L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, Mimesis, Mi-
lano 2013, pp. 103-109.
– S. Borutti, Oggettività e costruzione di oggetti, in R. Lanfredini, A. Peruzzi (a
cura di), A Plea for Balance in Philosophy. Essays in honour of Paolo Parrini,
Edizioni ETS, Pisa 2013, pp. 153-166.
– S. Borutti, Traduction et expérience, traduction et connaissance, in G. Chiu-
razzi (ed.), The Frontiers of the Other. Ethics and Politics of Translation, LIT
Verlag GmbH & Co., Wien 2013, pp. 21-40.
– S. Borutti, F. de Luise, Writing and Communicating Philosophy. Consonances
between Plato and Wittgenstein, in L. Perissinotto, B. Ramón Cámara (eds.),
Wittgenstein and Plato. Connections, Comparisons and Contrasts, Palgrave
Macmillan, Hampshire UK and New York 2013, pp. 126-159.
– S. Borutti, Prefazione, in V. Busacchi. La capacità di ognuno. Conoscenza, rap-
presentazione e persona in Paul Ricoeur, Carocci, Roma 2014, pp. 9-14.
– S. Borutti, Preti e il linguaggio della filosofia, in L. Scarantino (a cura di), Sulla
filosofia teoretica di Giulio Preti, Mimesis, Milano 2014, pp. 37-54.
– S. Borutti, Philia e intersoggettività. C’è un’eterologia del soggetto nella filoso-
fia antica?, in S. Borutti, L. Fonnesu e L. Vanzago (a cura di), Intersoggettività,
Mimesis, Milano 2014, pp. 15-29.
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Mondher Kilani, sous la direction de D. Cerqui et I. Maffi, éditions BSN Press,
Lausanne 2014, pp. 9-23.
– S. Borutti, Scrittura della storia e realtà degli eventi, in P.L. Lecis, V. Busacchi,
P. Salis, Realtà, verità, rappresentazione, Franco Angeli, Milano 2015, pp. 185-
203.
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C. Calame, M. Kilani, C. Mattalucci, L. Vanzago, Soggetto, persona e fabbri-
cazione dell’identità. Casi antropologici e concetti filosofici, Mimesis Edizioni,
Milano 2015, pp. 139-162.
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J.-R. Ladmiral (direction), L’expérience de traduire, Honoré Champion, Paris
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188 Nodi della verità

– S. Borutti, La traduzione come conoscenza, in P. Piccari, a cura di, Forme di re-


altà e modi del pensiero. Studi in onore di Mariano Bianca, Mimesis Edizioni,
Udine 2015, pp. 57-81.
– S. Borutti, Ontologia dell’incompiutezza. L’antropologia incontra la filosofia,
in F. Mora (a cura di). Metamorfosi dell’umano, Mimesis, Milano 2015, pp.
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– S. Borutti, Prefazione. In: Matteo Canevari. Lo specchio infedele. Prospettive
per il paradigma teatrale in antropologia, Mimesis Edizioni, Milano 2015, pp.
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Quaglino, C. Riccardi, S. Tamiozzo Goldmann, a cura di, La scatola a sorpresa.
Studi e poesie per Maria Antonietta Grignani, Franco Cesati Editore, Firenze
2016, pp. 215-221.
– S. Borutti, Wittgenstein: giudizio estetico e comprensione dei significati, in D.
Guastini, A. Ardovino, a cura di, Percorsi dell’immaginazione. Studi in onore di
Pietro Montani, Luigi Pellegrini Editore, Cosenza 2016, pp. 71-82.
– S. Borutti, Immagini e sublime nell’arte contemporanea. Due esperienze di im-
magini, in L. Marchetti, a cura di, L’estetica e le arti. Studi in onore di Giuseppe
Di Giacomo, Mimesis, Milano 2016, pp. 43-54.

Articoli in riviste

– S. Borutti, La teoria dei modelli economici: Ricardo e Sraffa, “Materiali filoso-


fici”, 1, 1975, pp. 1-35.
– S. Borutti, Wittgenstein e i giochi immaginari dell’analisi come pratica filosofi-
ca, “Materiali filosofici”, 2, 1976, pp. 25-50.
– S. Borutti, Il significato materiale della “critica dell’economia politica”, “Ma-
teriali filosofici”, 4, 1978, pp. 1-25.
– S. Borutti, Il pretesto Sraffa: epistemologia e politica, “Materiali filosofici”, n.
s., 1, 1979, pp. 95-98.
– S. Borutti, Linguaggi scientifici e modello del riferimento in semantica, “Mate-
riali filosofici”, n. s., 2/3, 1979, pp. 47-66.
– S. Borutti, Il linguaggio e l’universale, “Materiali filosofici”, 1/2, 1980, pp.
161-165.
– S. Borutti, La formazione del discorso classico in economia politica: i fisiocra-
tici e Smith, “Studi di filosofia, politica e diritto”, 4, 1980, pp. 3-28.
– S. Borutti, L’economia politica e i linguaggi del valore d’uso, “Prassi e teoria”,
6, 1980, pp. 93-127; ristampato in S. Borutti et alii, Critica e filosofia dell’eco-
nomia, Franco Angeli, Milano 1981.
– S. Borutti, La parola e il suo soggetto: per una analisi del modo di circolazio-
ne del significato, “Materiali filosofici”, n. s., 4/5, 1981; ristampato in Airoldi
et alii, La lingua attivata: pragmatica, enunciazione, discorso, Franco Angeli,
Milano 1982.
– S. Borutti, Il tragitto marxiano tra metodo e critica, “Materiali filosofici”, 8,
1983, pp. 9-23.
Bibliografia 189

– S. Borutti, Pragmatics and its Discontents, “Journal of Pragmatics”, 8, 1984,


pp. 437-447.
– S. Borutti, Wittgenstein e le figure del silenzio, “Il piccolo Hans”, 42, 1984, pp.
79-99.
– S. Borutti, Scienza, scrittura, comunicazione, “Materiali filosofici”, 12, 1984,
pp. 115-137.
– S. Borutti, Le virtù ermeneutiche dei modelli, “Materiali filosofici”, 15, 1985,
pp. 62-88.
– S. Borutti, Wittgenstein e l’orizzonte antropologico della regola, “Nuova civiltà
delle macchine”, 3/4, 1985, pp. 9-15.
– S. Borutti, Review: R. Pazukhin, Linguistic necessity and Linguistic Theory,
“Journal of Pragmatics”, 10, 1986, pp. 255-257.
– S. Borutti, L’invenzione della metafora. Una nota su metafora e filosofia, “aut
aut”, 220-221, 1987, pp. 47-62.
– S. Borutti, Metafisica dei sensi e filosofia involontaria nell’ultimo Calvino,
“Autografo”, 10, 1987, pp. 3-18.
– S. Borutti, La métaphore et les philosophes. Quelques réflexions sur l’invention
philosophique de la métaphore, “Recherches sur la philosophie et le langage”,
9, Université de Grenoble, 1988, pp. 173-188.
– S. Borutti, Scienza, filosofia e storia a confronto, “Paradigmi”, VI, 18, 1988, pp.
591-602.
– S. Borutti, Figure della verità e mito analitico. Alcune riflessioni epistemologi-
che sul modello freudiano, “Epistemologia”, XII, 1989, pp. 213-234.
– S. Borutti, Il linguaggio della filosofia e il sublime, “aut aut”, 231, 1989, pp.
75-86.
– S. Borutti, Capire Wittgenstein. Un centenario e un’antologia, “aut aut”, 231,
1989, pp. 120-131.
– S. Borutti, Epistémologie et questionnement. Le modèle en tant que forme de
l’interrogation scientifique, “Revue Internationale de Philosophie”, 3, 1990, pp.
370-393.
– S. Borutti, Traduction et connaissance, “Revue de Théologie et de Philoso-
phie”, 123, 1991, S. Borutti, pp. 369-393.
– S. Borutti, Argumentation et sciences humaines, “The Canadian Journal of Rhe-
torical Studies”, 2, sept. 1992, pp. 1-31.
– S. Borutti, Thèmes et variations: la philosophie du fragment de Wittgenstein,
“Archipel”, Lausanne, 6-7, 1993, pp. 117-129.
– S. Borutti, Wittgenstein: il linguaggio come forma, “Cenobio”, XLII, n. 3, 1993,
pp. 263-280.
– S. Borutti, A. Nizzoli, Dicibilità dell’evento: dalla riduzione assiomatica alla
costruzione narrativa dell’evento, “Cenobio”, XLIII, 3, 1994, pp. 263-280.
– S. Borutti, Tema e variazioni: la filosofia del frammento di Wittgenstein, “Aut
aut”, 259, 1994, pp. 93-101.
– S. Borutti, Il testo nell’interpretazione, “Scibbolet”, anno I, 1, 1994, pp. 147-164.
– S. Borutti, Note su “Filosofia” di Wittgenstein, “Aut Aut”, 274, 1996, pp. 3-20.
– S. Borutti, Finzione dell’origine, finzione del futuro. L’invenzione utopica del
senso, “Paradigmi”, 42, 1996, pp. 515-533.
190 Nodi della verità

– S. Borutti, Scrittura della storia e comprensione di eventi, “Oltrecorrente”, 1,


2000, pp. 43-71.
– S. Borutti, Wittgenstein: la filosofia tra risveglio e ricordo, “Oltrecorrente”, 2,
2000, pp. 37-49.
– S. Borutti, Filosofia e scena primaria: figure dell’inizio, “Paradigmi”, 55, 2001,
pp. 7-21.
– S. Borutti, Wittgenstein e la filosofia: figure dell’inizio, “aut aut”, 304, 2001, pp.
26-38.
– S. Borutti, Review: La métaphore entre philosophie et rhétorique, éd. par N.
Charbonnel et G. Kleiber, “Rhetorica. A Journal of the History of Rhetoric”,
vol. 18, 4, 2000, pp. 464-466.
– S. Borutti, Biotecnologie e biopotere, “Oltrecorrente”, 4, 2001, pp. 195-200.
– S. Borutti, La spettralità della casa. Temi per un’ontologia del fantastico, “La
nuova prosa”, 34, 2002, pp. 133-141.
– S. Borutti, Il sentimento dell’altro. Il caso dell’antropologia, “Fenomenologia e
società”, 2, 2002, pp. 3-17.
– S. Borutti, Art et psychopatologie, in Le Médecin Philosophe aux prises avec la
maladie mentale, éd. par R. Célis et H. Mesot, “Etudes de Lettres”, 2-3, 2002,
pp. 75-93.
– S. Borutti, Wittgenstein e il risveglio filosofico, in L. Wittgenstein: la svolta
linguistica e la filosofia oggi, Atti della giornata di studio del 9/11/01, Quaderni
della Biblioteca cantonale di Locarno, I, sett. 2002, pp. 6-15.
– S. Borutti, Ermeneutica e storia delle scienze. Recensione di H. Metzger, Meto-
do filosofico e storia delle scienze, “Oltrecorrente”, 6, 2002, pp. 261-264.
– S. Borutti, Metafisica del desiderio, “aut aut”, 315, 2003, pp. 79-94.
– S. Borutti, Aspetti del sublime quotidiano, “Oltrecorrente”, 7, 2003, pp. 193-201.
– S. Borutti, Percezione e immagine. Un’estetica per le scienze umane, “aut aut”,
313-314, 2003, pp. 185-198.
– S. Borutti, Immagine e configurazione: aspetti finzionali del pensiero, “Quader-
ni Warburg Italia”, I, 2003, pp. 277-318.
– S. Borutti, Scrittura e comunicazione della filosofia nell’epoca di Internet,
“Bollettino filosofico”, Università della Calabria, 19, 2003, pp. 138-144.
– S. Borutti, Dubbio, scetticismo e senso comune in Wittgenstein, “Nuova civiltà
delle macchine”, vol. XXIII, 2005, pp. 91-107.
– S. Borutti, L’inconscio esiste?, “Psiche”, 1, 2007, pp. 129-134.
– S. Borutti, La dimensione etica del mostrare, “Edizione” (SFI Friuli-Venezia
Giulia), 2007, pp. 59-71.
– S. Borutti, Immagine e conoscenza nelle scienze umane, “Rivista di psicoanali-
si”, vol. LIV, 2008, pp. 157-167.
– S. Borutti, Immagini-traccia e scrittura. Storiografia ed etnografia in Michel de
Certeau, “Discipline filosofiche”, vol. XVIII, 2008, pp. 67-81.
– S. Borutti, Ambiguità delle scienze umane, “Rivista di psicoanalisi”, vol. LIV,
2008, pp. 783-791.
– S. Borutti, Immaginazione e pensiero del limite. Darstellung e Einstimmung in
Kant e in Wittgenstein, “Paradigmi“, vol. XXVII, 3, 2009, pp. 101-112.
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vol. 1 (n. s.), 2010, pp. 283-292.
– S. Borutti, Francis Bacon: divenire figura, “Strumenti critici”, vol. 130, 2012,
pp. 337-354.
– S. Borutti, Tempo e evento: modelli epistemologici della storia, “Discipline fi-
losofiche”, vol. XXII, 2012, pp. 89-108.
– S. Borutti, Tra pensiero e parole. A proposito di La felicità mentale. Nuove pro-
spettive per Cavalcanti e Dante, “Autografo”, vol. XX, 2012, pp. 197-202.
– S. Borutti, Review: J. Faye, After Postmodernism, “International Studies in the
Philosophy of Science”, vol. 26 (4), 2012, pp. 469-472.
– S. Borutti, Sentiment et écriture de l’autre an anthropologie, “A contrario”, vol.
1, 2012, pp. 71-91.
– S. Borutti, La philia di Antigone e il nomos di Creonte, “Rivista di psicoanalisi”,
LVIII, 4, 2012, pp. 941-952.
– S. Borutti, La traduction comme image des différences, “Revue SEPTET”,
2013, pp. 63-73.
– S. Borutti, Somiglianze immateriali, “Lebenswelt”, 2013, pp. 1-7.
– S. Borutti, Wittgenstein’s Concepts for an Aesthetics: Judgment and Under-
standing of Form, “Aisthesis”, vol. 6, 2013, pp. 55-66.
– S. Borutti, Traduzione e linguaggi scientifici moderni, “Tradurre”, 6, 2014.
http://rivistatradurre.it/2014/04/traduzione-e-linguaggi-scientifici-moderni-2/
– S. Borutti, Tracce e resti. Forme dell’alterità in Michel de Certeau, “aut aut”,
369, 2016, pp. 47-63.
– S. Borutti, Quelques aspects épistémologiques de l’œuvre de Francis Affergan,
“Cargo”, Hors-Série, 2016, pp. 43-53.
TABULA GRATULATORIA

Michele Abbate (Università di Salerno)


Nicola Adavastro, Pavia
Alessandra Albertini (Direttore Dipartimento di Biologie e Biotecnologie, Univer-
sità degli Studi di Pavia)
Tiziana Andina (Università degli Studi di Torino)
Adriano Ardovino (Università G. D’Annunzio di Chieti-Pescara)
Saskia Avalle (Collegio Nuovo, Fondazione Sandra e Enea Mattei)
Anna Beltrametti (Università degli Studi di Pavia)
Pietro Benzoni (Università degli Studi di Pavia)
Francesco Bertolini (Dipartimento di studi Umanistici, Università degli Studi di
Pavia)
Giorgio Bertolotti (Università di Milano-Bicocca)
Matteo Bianchin (Università di Milano-Bicocca)
Maurizio Bignamini (Università degli Studi di Pavia)
Alessia Bonadeo (Università degli Studi di Pavia)
Rossella Bonito Oliva (Università “L’Orientale”, Napoli)
Claude Calame, Directeur d’études (École des hautes études en sciences sociales,
Paris)
Matteo Canevari (Università degli Studi di Pavia)
Alberto Canobbio (Università degli Studi di Pavia)
Giuliana Carabelli (Università di Milano-Bicocca)
Beatrice Centi (Università di Parma)
Marina Chini (Università degli Studi di Pavia)
Simona Chiodo (Politecnico di Milano)
Gaetano Chiurazzi (Università degli Studi di Torino)
Claudio Ciancio (Università del Piemonte Orientale)
Angelo Cicatello (Università degli Studi di Palermo)
Collegio Nuovo Fondazione Sandro e Enea Mattei, Pavia
Francesco Coniglione (Università di Catania)
Giuseppe Cospito (Università degli Studi di Pavia)
Vincenzo Costa (Università del Molise)
Renzo Cremante, Bologna
Gerardo Cunico (Università di Genova)
Federica Da Milano (Università di Milano-Bicocca)
Gianfranco Dalmasso, Professore ordinario (Università di Bergamo)
194 Nodi della verità

Fabrizio Della Seta (Università degli Studi di Pavia)


Massimo Dell’Utri (Università di Sassari)
Mario De Caro (Università degli Studi Roma Tre)
Pina De Luca (Università degli Studi di Palermo)
Cristina De Maglie - Ordinario di Diritto Penale (Università degli Studi di Pavia)
Giuseppe Di Giacomo, Professore Ordinario di Estetica presso la Sapienza Uni-
versità di Roma
Paolo Di Lucia (Università degli Studi di Milano)
Carmine Di Martino (Università degli Studi di Milano)
Roberto Diodato (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Roberta Dreon (Università Ca’ Foscari, Venezia)
Rosaria Egidi (Università di Roma Tre)
Con grande amicizia e stima, Rossella Fabbrichesi (Università degli Studi di Milano)
Mariannina Failla (Università degli Studi Roma Tre)
Serena Feloj, allieva (Università degli Studi di Pavia)
Luisella Feroldi (Università degli Studi di Pavia)
Franco Ferrari (Università di Salerno)
Monica Ferrari (Università degli Studi di Pavia)
Fondazione Collegio Universitario Santa Caterina da Siena (Università degli Studi
di Pavia)
Lia Formigari, Emerita (Sapienza, Università di Roma)
Gianni Francioni (Università degli Studi di Pavia)
Elio Franzini (Università degli Studi di Milano)
Silvia Gastaldi (Università degli Studi di Pavia)
Prof. Dario Gentili (Università degli Studi Roma Tre)
Giorgetto Giorgi (Università degli Studi di Pavia)
Daniele Goldoni (Università Ca’ Foscari, Venezia)
Maria Antonietta Grignani (Università degli Studi di Pavia)
Daniele Guastini (Sapienza, Università di Roma)
Luca Illetterati (Università degli Studi di Padova)
Giuseppe Invernizzi (Università degli Studi di Pavia)
Roberta Lanfredini Prof. di Filosofia teoretica (Università di Firenze)
Claudio La Rocca (Università di Genova)
Franca Lavezzi (Università degli Studi di Pavia)
Giovanni Leghissa (Università degli Studi di Torino)
Federico Leoni (Università degli Studi di Verona)
Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno)
Guido Lucchini (Università degli Studi di Pavia)
Filippo Magni (Università degli Studi di Pavia)
Sandro Mancini (Università degli Studi di Palermo)
Massimo Marassi (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano)
Diego Marconi (Università degli Studi di Torino)
Giacomo Marramao (Università di Roma Tre)
Clelia Martignoni (Università degli Studi di Pavia)
Giancarlo e Mietta Mazzoli, Pavia
Tabula gratulatoria 195

Fabio Minazzi (Ordinario di Filosofia della Scienza, Direttore Scientifico del Centro
Internazionale Insubrico)
Eleonora Montuschi (Universita Ca’ Foscari di Venezia/London School of Economics)
Giuseppe Nicolaci (Università degli Studi di Palermo)
Giovanni Nicoletti (Università degli Studi di Pavia)
Maurizio Pagano (Università del Piemonte Orientale)
Gian Luigi Paltrinieri (Università Ca’ Foscari, Venezia)
Fulvio Papi (Università degli Studi di Pavia)
Paolo Parrini (Università di Firenze)
Lorenzo Passerini Glazel (Università degli Studi di Milano-Bicocca)
Maria Pavesi, Dipartimento di Studi Umanistici (Università degli Studi di Pavia)
Prof. Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia)
Rossano Pestarino (Università degli Studi di Pavia)
Isabella Pezzini (Sapienza, Università di Roma)
Tommaso Piazza (Università degli Studi di Pavia)
Alice Pugliese (Università di Palermo)
Giovanni Raimo (Università degli Studi di Pavia)
Daniela Rando (Università degli Studi di Pavia)
Francesco Remotti, Professore Emerito di Antropologia Culturale (Università di
Torino)
Emilio Renzi (Università degli Studi di Milano)
Elisa Roma e Pietro Galinetto (Università degli Studi di Pavia)
Elisa Romano (Università degli Studi di Pavia)
Prof. Luigi Ruggiu, Professore emerito di storia della filosofia (Università Ca’ Fo-
scari Venezia)
Riconoscenza, amicizia, grande apprezzamento, Eleonora Salvadori (Università
degli Studi di Pavia)
Leonardo Samonà (Università degli Studi di Palermo)
Franco Sarcinelli, direttore di “Il Circolo Rivista di filosofia e culture”
Gabriele Scaramuzza (Università degli Studi di Milano)
Giovanni Scibilia, Milano
Rita Scuderi (Università degli Studi di Pavia)
Andrea Silvestri (Politecnico di Milano)
Paolo Spinicci (Università degli Studi di Milano)
Carlo Tatasciore, Vice Presidente della Società Filosofica Italiana
Gabriele Tomasi (Università degli Studi di Padova)
Claudio Tuozzolo (Università Gabriele D’Annunzio, Chieti-Pescara)
Luca Vanzago (Università degli Studi di Pavia)
Tomaso Vecchi (Università degli Studi di Pavia)
Enrico Vitali, Dipartimento di Matematica “F. Casorati” (Università degli Studi di
Pavia)
Cesare Zizza, Docente di Storia Greca (Università degli Studi di Pavia)
ITINERARI FILOSOFICI
Collana diretta da Sandro Mancini

1 Emiliano Bazzanella, Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione


2 Giuliano Compagno, Troppo vicino, troppo lontano. Appunti sull’esperienza
estetica nel pensiero contemporaneo
3 Sandro Mancini, Umano e non-umano tra vita e storia. Lévi-Strauss, Jonas e la
ragione dialettica
4 Gabriella Stanchina, La filosofia di Luce Irigaray. Pensare e abitare un corpo di
donna
5 Italo Bologna, Oltre i sigilli dell’apparenza
6 Aldo Marroni, Filosofie dell’intensità. Quattro maestri occulti del pensiero
italiano contemporaneo
7 Marco Fortunato, Il mondo giudicato. L’immediato e la distanza nel pensiero di
Rensi e Kierkegaard, prefazione di Carlo Sini
8 Giovambattista Vaccaro, La ragione sobria. Modelli di razionalità minore nel
Novecento
9 Giovanni Chimirri (a cura di), L’etica dell’idealismo. La filosofia morale italiana
tra neohegelismo, attualismo e spiritualismo
10 Chiara Di Marco (a cura di), Percorsi dell’etica contemporanea
11 Luisa Bonesio, Caterina Resta, Passaggi al Bosco. Ernst Jünger nell’era dei
Titani
12 Silvana Borutti (a cura di), Memoria e scrittura della filosofia. Studi offerti a
Fulvio Papi in occasione del suo settantesimo compleanno
13 Flavio Cassinari, Dalla differenza al soggetto. Note per un’antropologia metafisica
della storia
14 Sandro Mancini, La sfera infinita. Identità e differenza nel pensiero di Giordano
Bruno
15 Bruno Accarino, Daedalus. Le digressioni del male da Kant a Blumenberg, con un
inedito di Hans Blumenberg
16 Angela Ales Bello, Francesca Brezzi (a cura di), Il filo(sofare) di Arianna. Percorsi
del pensiero femminile nel Novecento
17 Pierandrea Amato, Lo sguardo sul nulla. Ernst Jünger e la questione del nichilismo
18 Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio
19 Giovanni Chimirri, Lineamenti di estetica. Filosofia dell’opera d’arte
20 Paolo Godani, Estasi e divenire. Un’estetica delle vie di scampo
21 Maurizio Guerri (a cura di), Le arti nell’età della tecnica
22 Hans Ulrich Gumbrecht, Corpo e forma
23 Sandro Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione
24 Giuseppe Patella, Bellezza, arte e vita. L’estetica mediterranea di George
Santayana
25 Gabriele Piana, Le scene della scrittura nell’opera di Jacques Derrida, 2001
26 Gabriele Piana, Le scritture del fuori. Tracciati sul pensiero francese
contemporaneo
27 Andrea Pinotti, Il corpo dello stile. Storia dell’arte come storia dell’estetica a
partire da Semper, Riegl, Wölfflin
28 Andrea Pinotti, Memorie del neutro. Morfologia dell’immagine in Aby Warburg
29 Luca Vanzago, Modi del tempo. Simultaneità, processualità, relazionalità tra
Whitehead e Merleau-Ponty
30 Andrea Zhok, Il concetto di valore: dall’etica all’economia
31 Sandro Gorgone, Cristallografie dell’invisibile. Dolore, eros e temporalità in
Ernst Jünger
32 Giovanni Invitto, La tessitura di Merleau-Ponty
33 Marini Alfredo, Husserl Heidegger Libertà Europa
34 Vittorio Morfino, Incursioni spinoziste, prefazione di Fulvio Papi
35 Fulvio Papi, Figure del tempo
36 Augusto Ponzio, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di
Adam Schaff
37 Vozza Marco, I confini fluidi della reciprocità. Saggio su Simmel
38 Luciano Arcella, Oltre la storia. Nietzsche
39 Ettore Bonessio di Terzet, Il problema dell’arte. Poesia e pittura contro la civiltà
dell’inutile
40 Bossi Giovanni, Immaginario utopico e immaginario di viaggio. Dal sogno del
paradiso in terra al mito del buon selvaggio
41 Enrico Castelli Gattinara, Strane alleanze. Storici, filosofi e scienziati a confronto
nel Novecento
42 Patrizia Cipolletta (a cura di), Ereditare e sperare. Un confronto con il pensiero di
Ernst Bloch
43 Claudia Dovolich (a cura di), Etica come responsabilità. Prospettive a confronto
44 Pierpaolo Marrone, Un’introduzione alle teorie della giustizia
45 Marco Vozza (a cura di), Lo sguardo di Eros con un saggio di Jean-Luc Nancy
46 Slavoj Žižek, L’isterico sublime. Psicanalisi e filosofia
47 Theodor Wiesengrund Adorno, Metacritica della teoria della conoscenza. Studi su
Husserl e sulle antinomie fenomenologiche, con un saggio introduttivo di Franco Riccio
48 Emiliano Bazzanella, Trattato di echologia
49 Adriano Bugliani, La discrezione dello spirito. La psicanalisi e Hegel
50 Chiara Di Marco (a cura di), Un mondo altro è possibile
51 Raffaela Giovagnoli, Razionalità espressiva. Scorekeeping: inferenzialismo,
pratiche sociali e autonomia
52 Sergio Moravia, Adorno. Filosofia dialettico-negativa e teoria critica della società
53 Augusto Ponzio, Elogio dell’infunzionale. Critica dell’ideologica della
produttività
54 Alice Pugliese, La dimensione dell’intersoggettività. Fenomenologia dell’estraneo
nella filosofia di Edmund Husserl
55 Stelio Zeppi, Letture machiavelliane
56 Bruno Accarino, Le del senso. Da Kant a Weber: male radicale e razionalità
moderna
57 Michail Bachtin, Freud e il freudismo. Studio critico, a cura di Augusto Ponzio
58 Stefano Bracaletti, Filosofia analitica e materialismo storico. Individualismo
metodologico, spiegazione funzionale e teoria dei giochi nel marxismo analitico
anglosassone
59 Roberto Fineschi (a cura di), Karl Marx. Rivisitazioni e prospettive
60 Andrea Gilardoni, Potere e dominio. Esercizi arendtiani
61 Giovanni Invitto, L’occhio tecnologico. I filosofi e il cinema
62 Sandro Mancini, L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty,
Paci
63 Fulvio Papi (a cura di), Il dono sapiente. Pagine su Giosuè Bonfanti
64 Fulvio Papi, Sulla ontologia. Fenomenologie et exempla
65 Luca Vanzago, L’evento del tempo. Saggio sulla filosofia del processo di A. N.
Whitehead
66 Stefano Biancu, La poesia e le cose. Su Leopardi
67 Luca Bisin, La fenomenologia come critica della ragione. Motivi kantiani nel
razionalismo di Husserl
68 Daniela Calabrò, Dis-piegamenti. Soggetto, corpo e comunità in Jean-Luc Nancy,
con un’intervista al filosofo
69 Carmelo Meazza, Sulla soglia etica del pulchrum. Materiali per variazioni
sull’attualismo
70 Salvatore Patriarca, Dall’assoluto alla realtà. Teodicea e ontogenesi nella
Weltarterphilosophie schellingiana
71 Alessio Scarlato, L’immagine di Cristo, le parole del romanzo. Dostoevskij e la
filosofia russa
72 Vaccaro Giovambattista, Persona e comunità umana in Paul L. Landsberg
73 Pierpaolo Marrone, Nomi comuni. Esplorazioni di filosofia morale
74 Ingrid Basso, Kierkegaard uditore di Schelling
75 Grazia Tagliavia, Critica della parvenza. Kant, Hegel, Schelling
76 Giuseppina Santucci, Librarsi oltrepassando. L’ascolto nell’experimentum
musicae di Ernst Bloch
77 Markus Ophälders (a cura di), Etica della filosofia. Per una funzione etica della
cultura. Studi su T.W. Adorno
78 Enrica Lisciani Petrini, Risonanze. Ascolto Corpo Mondo
79 Edmund Husserl, Lezioni sulla sintesi attiva. Estratto dalle lezioni sulla «logica
trascendentale» (1920/1921)
80 Eleonora De Conciliis (a cura di), La provincia filosofica. Saggi su Elias Canetti
81 Leonardo Messinese, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino
sulla “struttura originaria” del sapere
82 Stefano Monetti, Jacques Lacan e la filosofia
83 Laura Bazzicalupo (a cura di), Impersonale. In dialogo con Roberto Esposito
84 Roberto Franzini Tibaldeo, La rivoluzione ontologica di Hans Jonas. Uno studio
sulla genesi e il significato
85 Alice Pugliese, Unicità e relazione. Intersoggettività, genesi e io puro in Husserl
86 Malknecht Ludovica, Un’etica di suoni. Musica, morale e metafisica in Thomas
Mann
87 Lodovica Maria Zanet, Decifrare l’esperienza. Atti e vissuti in fenomenologia,
prefazione di Roberta De Monticelli
88 Chiara Agnello, Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone
89 Marco Deodati, La dynamis dell’intenzionalità.la struttura della vita di coscienza
in Husserl
89bis Attilio Bruzzone, Georg Simmel e il tragico disincanto
90 Marchetto Monica, Materia, qualità, organismo. La filosofia schellinghiana della
natura e il primo sorgere della filosofia dell’identità
91 Igor Tavilla, Senso tipico e profezia in Søren Kierkegaard. Verso una definizione
del fondamento biblico della categoria di Gjentagelse
92 Maurizio Guerri (a cura di), Le arti nell’età della tecnica, Seconda Edizione
93 Riccardo Caporali, Vittorio Morfino e Stefano Visentin (a cura di), Machiavelli:
tempo e conflitto
94 L. Basso, S. Bracaletti, M. Farnesi Camellone, F. Frosini, A. Illuminati, N. Mar-
cucci, V. Morfino, L. Pinzolo, P.D. Thomas, M. Tomba, Tempora multa. Il governo
del tempo
95 Laura Darsiè, Il grido e il silenzio. Un in-contro fra Celan e Heidegger
96 Marco Deodati, L’intenzionalità all’opera
97 Mattia Luigi Pozzi, L’erede che ride. Parodia ed etica della consumazione in Max
Stirner
98 Giorgio Fazio, Il tempo della secolarizzazione. Karl Löwith e la modernità
99 Luca Odini, L’antropologia di Anselmo D’aosta. Tra fondamento ontologico e
istanza teologica
100 Cristina Travanini, Oggetto e valore. Intersezioni tra teoria dell’oggetto e teoria
del valore in Alexius Meinong
Finito di stampare
nel mese di febbraio 2017
da Digital Team - Fano (PU)

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