Barbara Ronca, Il Tema Del Conflitto Balcanico in Alcuni Scrittori Emigrati in Italia Dal 1990 (Tesi Di Laurea)
Barbara Ronca, Il Tema Del Conflitto Balcanico in Alcuni Scrittori Emigrati in Italia Dal 1990 (Tesi Di Laurea)
Sapienza»
di Barbara Ronca
I
II
Nel tempo dell'inganno universale,
dire la verità è un atto rivoluzionario.
George Orwell
III
Gli anni Novanta del XX secolo si aprono e si chiudono
sulle date di inizio e fine1 di una delle più recenti e tragiche
diaspore europee: quella dai Balcani.
Scatenatosi nella ex-Jugoslavia un feroce conflitto etnico,
molte nazioni europee hanno assistito all’arrivo disperato di
migliaia di profughi in fuga da genocidi e violenze che
sembravano ormai cancellati dalla memoria del vecchio
continente.
La Bosnia detiene il triste primato di essere il primo
paese europeo ad aver avuto campi di sterminio e di
concentramento sul suo territorio dopo la fine della seconda
guerra mondiale.
IV
vicenda, e si scontrano frequentemente, con un fervore che
genera un'ostilità senza tregua”, l'Europa è rimasta incredula e
impotente di fronte agli eccessi di furore esplosi nel 1991.
I Balcani sono stati abbandonati a se stessi come se non
fossero l'Oriente del nostro mondo, ma un ricettacolo di orrori
con cui il nostro civile continente, sempre più volto ad
Occidente, non doveva confondersi.
2
Melita Richter, “Due note sull’identità”, in «Sagarana»,
http://www.sagarana.net/rivista/numero16/hibridazioni1.htm/
3
Melita Richter, op. cit.
V
Ho scelto di sottolineare l’importanza culturale di questa
terra di confine attraverso le opere degli scrittori migranti che
dai Balcani sono arrivati in Italia (e hanno cominciato a
scrivere nella nostra lingua, inserendosi quindi nel solco della
nostra letteratura) perché la loro produzione letteraria mi
sembra rivestire una particolare importanza.
Prima di tutto, perché, come ogni scrittore migrante, essi,
vivendo in un paese diverso da quello in cui sono nati, e
scrivendo in una lingua diversa da quella dell’infanzia, si
pongono come punti di raccordo, e d’incontro, tra realtà
culturali diverse ed eterogenee. Lo “straniamento” di cui sono
vittime (l'ostranenie di cui parlava Josif Brodskij) costituisce
un terreno straordinariamente fertile per la creazione artistica:
il migrante vive in equilibrio tra i mondi, tra il paese di
partenza e quello di arrivo, e li modifica e arricchisce
entrambi.
In secondo luogo, perché i migranti che hanno
abbandonato la ex-Jugoslavia in fiamme non hanno operato
una scelta, per quanto dolorosa o sofferta: hanno agito per
necessità, fuggendo da un paese in cui non potevano più essere
davvero se stessi, e in cui la loro identità, e la loro vita, non
potevano più essere difese.
Per le migliaia di profughi dei Balcani, la migrazione ha
assunto i caratteri di un esilio, perché la guerra li ha privati
(oltre che del presente, del passato e della speranza per il
futuro) di un paese a cui tornare, o verso cui, semplicemente,
proiettare il desiderio del ritorno.
La scelta letteraria è diventata, per chi ha visto il proprio
mondo e la propria identità culturale cancellati con violenza,
una scelta di dissidenza, e quindi di resistenza.
VI
Gli scrittori della diaspora balcanica sono il monito più
forte contro chi difende particolarismi ed erige barriere, e la
dimostrazione più convincente del potere salvifico della
letteratura: portando con sé la propria testimonianza, essi
hanno salvato se stessi e ciò che rimane del proprio paese
dall’oblio.
VII
Piove sempre
in questo
paese
forse perché sono
straniero
Gëzim Hajdari
VIII
1 La letteratura della migrazione.
4
Božidar Stanišić, Bon voyage, Nuova Dimensione, Portogruaro, , 2003, p.8
IX
1. 1 Immigrati, migranti, trasmigratori
5
Una precisazione riguardo la definizione mi sembra d’obbligo: nell’introduzione alla sua
raccolta di saggi “Creolizzare l’Europa”, Armando Gnisci fa notare che, se parliamo di
qualcuno che abbandona il proprio paese per ricominciare la propria esistenza altrove, proprio
di prima ondata migratoria si tratta, e non di prima generazione, definizione che identifica
piuttosto i figli nati in Italia da coloro che arrivano ora nel nostro paese.
6
Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 10
X
testimoniare il “pressappoco”, il “perenne stato di
sospensione”7 in cui il migrante vive.
Nasce quindi con loro una nuova forma di letteratura,
elaborata nella nostra lingua da autori provenienti dai quattro
angoli del globo terrestre (o, per essere più precisi, da
quell’asse migratorio che va dal Sud-Est al Nord-Ovest del
mondo), e che si presenta non come provinciale
particolarismo, né come esotica appendice di quella
Weltliteratur (letteratura del mondo) ormai più o meno
appiattita sulle logiche di mercato; piuttosto, come nuova
frontiera della Worlds’ Literature (letteratura dei mondi) che
rappresenta, secondo una definizione gnisciana, la “poetica
dell’avvenire”.
7
Tahar Lamri, “E della mia presenza; solo il mio silenzio. Una riflessione lunga cinque
antologie”, introduzione a Parole oltre i confini, sul sito
www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0128&file=parole_in_04.html
§§
XI
E’ ovvio che questa semplificazione non permette
di cogliere tutte le sfumature insite in una condizione
esistenziale e culturale di delicatezza estrema; sono però
presenti, già in queste poche righe, alcune delle caratteristiche
fondamentali dello scrittore migrante, che rendono il suo
scrivere così prezioso per noi lettori/ospiti.
Prima di tutto, lo scrittore migrante vive diviso tra la
prima parte della vita, spesa in “un altrove che era, e rimane,
comunque patria, e la seconda”, vissuta “da qualche anno in
una lingua nuova”8.
Ricordando che parliamo di scrittori di prima ondata, e
seguendo il loro peregrinare, è evidente l’assoluta unicità della
loro condizione: perché a chi attraversa mari per giungere nella
nostra patria, “nel distacco si spezza la vita in due tronconi
(…): il primo resta sulla riva del paese del passato, e l’altro
cresce sulla costa ancora ignota del paese del dopo.”9
La partenza divide la vita in due “blocchi esistenziali”
che non sempre hanno lo stesso peso, pur risultando magari,
alla fine, quantitativamente uguali.
8
Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 7
9
Armando Gnisci, op. cit, p. 10
10
Domenico Nucera, “I viaggi e la letteratura”, in Introduzione alla letteratura comparata, a
cura di Armando Gnisci, Bruno Mondadori, Milano, 1999, p. 120
XII
(…) Nell’atto del partire è quindi contenuta una morte e poi
una nascita, una separazione e poi il tentativo di
congiungimento con il futuro”.
Tanto più se la partenza, come spesso accade nel caso del
migrante, non prevede un ritorno, ma una nuova esistenza da
innestare sulle macerie della vecchia, abitando un altrove e una
nuova lingua.
XIII
Eppure, nonostante la drammaticità di questa lacerazione,
a ben guardare ciò che di irripetibile un migrante porta con sé è
proprio la possibilità di vivere in equilibrio tra i mondi: tra il
paese di partenza e quello di arrivo, tra la cultura abbandonata
forzatamente e quella che si deve imparare a fare propria, tra la
lingua dell’infanzia, che rimane da qualche parte nella
memoria, e quella della nuova quotidianità; tra la nostalgia del
mondo lasciato dietro di sé e la nuova identità, che si insinua
tra le pieghe della nuova vita.
Lo scrittore migrante, dotato di uno sguardo
caleidoscopico, di molteplici prospettive ed esperienze di vita,
costituisce un ponte tra la cultura di origine e quella
dell’arrivo, apportando ad entrambe elementi di novità.
Secondo Predrag Matvejević15, egli parte “con un libro in
valigia” e conserva la propria identità con la quale “feconda il
paese di accoglienza”; sospeso tra qui e altrove, acquisisce una
polivalenza esistenziale che gli consente di porsi come
elemento di raccordo tra realtà lontane ed eterogenee,
modificandole, arricchendole entrambe .
www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0130&file=parole_in_06.html
15
Predrag Matvejevic, Introduzione al Quaderno balcanico II in I cittadini della poesia, a cura
di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 2000
16
Armando Gnisci, Creolizzare l’Europa, Meltemi, Roma, 2003, p. 9
XIV
La storia della modernità occidentale si presenta come
storia imperialista; e l’Occidente, nutrito delle proprie
certezze, difficilmente accoglie uno sguardo “altro”, che possa
far crollare i valori attraverso i quali i suoi figli si riconoscono,
si identificano, si definiscono.
Secondo Milan Kundera17, la storia degli ultimi decenni
ha portato l’Europa ad allontanarsi da ciò su cui, nell’era
moderna, aveva poggiato la sua unità, ciò che rappresentava la
realizzazione dei valori supremi attraverso cui gli Europei
definivano se stessi: la cultura, la “creazione culturale”.
Crollato questo baluardo identitario – sostituito forse dalla
tecnologia, dalla politica, dal mercato globale - “l’immagine
dell’identità europea si allontana nel passato”, e l’Europeo
perde sempre più di vista “tanto l’insieme del mondo quanto se
stesso, affondando così in quello che Heidegger (…)
chiamava, con una formula bella e quasi magica, ‘l’oblio
dell’essere’”.
A questo oblio si oppongono le opere dei migrant writers,
i quali, con le loro identità doppie, multiple, ricostruite,
precarie, sempre in bilico – o meglio, in equilibrio – tra i
mondi, offrono uno sguardo nuovo, straniante, sulla cultura
ormai stanca del nostro millenario continente.
Propongono una nuova definizione dell’identità europea,
che si costruisca certamente a partire da valori culturali, ma
che non si rassegni alla massificazione e al dominio dell’altro;
piuttosto, che trovi il suo fondamento nel riconoscimento del
potere salvifico rappresentato dalle nuove realtà che
pacificamente “invadono” e “colonizzano” il nostro
continente.
17
Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano, 1988, p. 179
XV
La letteratura della migrazione si pone quindi non come
“una letteratura marginale, o una letteratura etnica, ma come
letteratura tout court, perché innova il dire, innova le
rappresentazioni di mondi possibili. (…) Essa costruisce, se
pure a livello dell’immaginario, mondi possibili, sentimenti
negati; è una letteratura dell’esistente, che rivendica il suo
diritto all’esistenza. E nel dur désir de durer – come nei versi
di Apollinaire – essa esprime il dur désir d’exister .”18
18
Khaled Fouad Allam, “Introduzione”, in Mosaici d'inchiostro, sul sito
§§www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0028&file=mosaici_in_02.html
XVI
gli appartiene, egli vive, nella propria storia personale, il senso
di quella “creolizzazione planetaria” di cui parla Edouard
Glissant19.
Egli è il vivente portatore dei due mutamenti culturali
attraverso cui si manifesta la creolizzazione: essa infatti è
possibile solo se si abbandona la radicata convinzione secondo
cui ogni identità si definisce escludendo e/o dominando
l’identità altrui; e si manifesta come la relazione di elementi
eterogenei che si “intervalorizzano”, senza subire
degradazioni, e con in più il valore aggiunto dell’imprevisto.
Riprendiamo la metafora usata da Matvejević che ho citato
qualche riga fa: lo scrittore migrante si avvia verso il nuovo
con una valigia in cui “solo qualche libro trova spazio”
assieme a “pochi altri oggetti cari o indispensabili”.20
Il cammino intrapreso è quello dell’intervalorizzazione
non degradante: il nostro trasmigratore viene armato, sì, ma
della sua cultura. Il punto d’arrivo è l’imprevisto: l’incontro tra
questa e la nostra produce effetti che possiamo seguire nel loro
svolgersi, ma che per ora sono assolutamente imprevedibili,
tantopiù che nascono da un fenomeno già di per sé totalmente
inaspettato: una nuova – e non belligerante – invasione
dell’Europa, che segue di oltre un millennio la precedente.
19
Edouard Glissant, La poetica del diverso, Meltemi, Roma, 1998, p.
20
Predrag Matvejević, introduzione a “in Quaderno balcanico II” in I cittadini della poesia, a cura
di Mia Lecomte, Loggia dei Lanzi, Firenze, 2001, p. 8
XVI
I
La realtà che il migrante rispecchia, nelle proprie opere
letterarie e nelle proprie esperienze, non è, non può essere,
univoca, controllata o prevedibile; avendo attraversato la
Storia, egli riflette, come dice Roberta Sangiorgi21, “immagini
non di se stesso ma di più mondi.”
Riconoscendo la pluralità dell’umano, e rivendicandone
l’esistenza – e la resistenza - lo scrittore migrante si pone
quindi davvero nel solco della letteratura, della vera letteratura
(della letteratura tout court, dicevamo); del resto, già Josif
Brodskij, in un discorso del 198722, sosteneva che la diversità
umana sia la materia prima della letteratura, e che ne
costituisca la ragion d’essere; che “essendo la forma più antica,
e anche la più letterale, di iniziativa privata, l’arte” – e in
particolar modo la letteratura – “stimola nell’uomo, volente o
nolente, il senso della sua unicità”.
21
Roberta Sangiorgi, “La ricchezza del doppio sguardo”, in Il doppio sguardo, culture allo
specchio, sul sito
www.eksetra.net/database/texts_body.php?code=0000000192&file=doppio_in_02.htm
22
Josif Brodskij, La condizione che chiamiamo esilio, in Dall’esilio, Adelphi, Milano, 1988, p.15
XVI
II
Ci ricorda che il nuovo, il “diverso”, altro non è se non
un “potente antidoto contro la malattia dell’omologazione”.23
Ci rinnova la consapevolezza che la letteratura sia “una
maestra di finesse umana, la più grande di tutte, sicuramente
migliore di qualsiasi dottrina”.24
23
Jarmila Očkajova, L’impegno di vivere, in Da qui verso casa, a cura di Davide Bregola, Edizioni
interculturali, 2002, p.60
24
Josif Brodskij, op. cit., p.15
XIX
…anomalo,
dissimile,
sproporzionato,
per nulla calibrato,
quindi
squisitamente
balkanico…
Angelo Floramo
XX
2. I Balcani
XXI
E’ necessario ripercorrere le fasi di questo conflitto, e
conoscere il complesso quadro storico-politico all’interno del
quale si inserisce, per comprendere l’importanze degli scrittori
migranti dai Balcani e della loro produzione letteraria.
XXI
I
gli aspetti tragici dei nostri propri scismi così come delle
nostre negazioni reciproche, questa dovrebbe essere la nostra
missione”25.
25
Miroslav Krleža, citato da Predrag Matvejevic, in Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie,
nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 103
26
Melita Richter, “Sono le soglie, non i confini, a facilitare l’incontro”, in «Osservatorio sui
Balcani», marzo 2004, sul sito www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/2889/1/50
27
Paolo Rumiz, E’ oriente, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 15
28
Paolo Rumiz, op. cit, p. 39
XXI
II
costituisce anzi, per utilizzare le parole di Edmund Stillmann,
“un avvertimento mortale” 29.
29
Edmund Stillman, citato da Georges Prévélakis, ne I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 11
30
Paolo Rumiz, L’ultima isola, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998,
p.154
31
Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma edizioni, Napoli, p.9
32
Angelo Floramo, Parole in esilio, tra il sogno e la voce. Spunti per una rapsodia balkanica, in
«PaginaZero Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p. 21
Angelo Floramo è studioso medievista, esperto di tecniche multimediali, intenditore raffinato della
vignettistica, e un profondo conoscitore delle culture dell'est Europa di cui spesso scrive su giornali
e riviste di ogni nazione.
33
Georges Prévélakis, Les Balkans, poudrière ou thermomètre de l’ Europe, in «Confluences
Méditerranée», n.8, 1993, p.97
XXI
V
Alla fine del 1994 un gruppo di intellettuali e politici
europei si ritrova a Sarajevo, capitale della Bosnia Erzegovina,
per commemorare una tragica ricorrenza: la città bosniaca,
trascinata nel 1992 nella guerra fratricida che sta dilaniando la
ex-Jugoslavia, ha superato il millesimo giorno di assedio.
Più di settantamila persone sono intrappolate all’interno
della città, senza cibo né acqua, costantemente sotto il tiro dei
cecchini che presidiano le più importanti strade del centro.
Diecimila sono già morti.
Altrettanti sono fuggiti chissà dove.
Sarajevo (l’unica capitale al mondo che avesse nel suo
centro, a poche centinaia di metri di distanza, quattro luoghi di
preghiera, uno ebraico, uno musulmano, uno cattolico e uno
cristiano ortodosso) diviene, nella prima metà degli anni
Novanta, il simbolo di una guerra tragica e insensata, di fronte
alla quale l’Europa e il mondo s’interrogano, stupiti e
impotenti, senza riuscire a fare nulla per fermarla.
Gli intellettuali intervenuti a sostegno della popolazione
imprigionata in quello che ormai viene definito “il più grande
campo di concentramento del mondo”34 pubblicano
sull’International Herald Tribune un necrologio “in memoria dei
nostri cari Principi, Valori morali e Impegni, defunti in Bosnia
nel 1994”.35
34
Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 43
35
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 440
XX
V
Questo complesso mosaico identitario viene sempre,
fedelmente, riportato, ogni volta che si parla di questo scrittore
che da qualche anno ha fatto dell’erranza una scelta di vita, e che
vive “tra asilo ed esilio”, lavorando tra Roma, Parigi, e ciò che
resta della sua Jugoslavia ormai perduta.
Si riportano questi dati biografici forse cercandovi l’origine
della sua predilezione per la “dissidenza”36, il “cosmopolitismo”37,
la necessità di testimonianza e di denuncia di tutti gli orrori del
mondo; specialmente del suo mondo, quello dell’“altra Europa”,
quell’“est” da cui sempre più ci allontaniamo.
Credo che questa predilezione sia da ricercarsi, oltre che
nella complessità delle sue origini (di sé, nel suo testo Mondo
«ex» Matvejević dice : “ero destinato ad essere internazionale”38),
nella sua scelta di porsi sempre dalla parte dell’umano; ciò che il
dissidente Metvejević combatte nei regimi di cui ha avuto, più o
meno direttamente, esperienza, sono i particolarismi, i
nazionalismi esasperati, i fondamentalismi, i clericalismi (in più di
una sede, l’autore ha tenuto a precisare che non ama, in genere, gli
“ismi”; preferisce, dice, le parole che finiscono per “tà”: libertà,
fraternità, jugoslavità, e, soprattutto, verità.)
La necessità, intimamente sentita e portata avanti con
coraggio, di denunciare le storture della storia e dei governi, l’ha
portato lontano dalla Jugoslava che amava, ma in cui vedeva
avverarsi il celebre monito di Ivo Andrić, secondo cui “la verità è
la prima vittima della guerra”.
In una lettera diretta ad Andrej Sacharov del 1984,
nell’esprimere la necessità che egli continui a parlare al suo
36
Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra
Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 40
37
Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi editore, Roma, 1998, p. 233
38
Predrag Matvejevic, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra
Europa, Garzanti, Milano, 1996, p.89
XX
VI
popolo (Sacharov era allora confinato a Gorkij), Matvejević lo
definisce “ostaggio della verità”39.
Ed è così che lui stesso ci appare: cosciente di ciò che
affermava il pittore Kazimir Malević, cioè che l’arte ha bisogno di
verità, non di sincerità, non rinuncia mai, nei suoi scritti, alla
ricerca del nesso profondo tra arte e vita, tra ispirazione ed
occasione.
I suoi libri sono fedele cronaca dei nostri tempi: non sapendo
che farsene di “poesie che non riposano su niente”40, diffida
dell’intellettuale che non si schiera, dolorosamente conscio che,
anche nelle pieghe più dolorose della storia, “ci deve essere pure
chi ricorda”41.
Di lui, Robert Brechon scrive: “Ormai, ‘erede senza eredità’,
socialista senza socialismo, democratico senza democrazia,
iugoslavo senza Iugoslavia, europeo senza Europa, poiché la sola
Europa nella quale avere ‘cieca fiducia’, cioè la nostra, a sua volta
si richiude nelle sue frontiere, tutto ciò che può fare è di eseguire
questi esercizi di libertà di pensiero che sono i suoi libri. Il
vagabondaggio geopoetico nello spazio terraqueo del
Mediterraneo e le ‘bottiglie gettate in mare’ incaricate di portare
ai suoi fratelli europei i messaggi della ‘nuova dissidenza’, tutto
ciò sembra testimoniare, in quella coscienza ferita, di una
invincibile fiducia nell’uomo”42.
Non va dimenticato infatti – e soprattutto non dovrebbe
dimenticarlo l’intellettuale – che della storia “siamo talvolta tutti
responsabili, per quanto possiamo essere individualmente
impotenti”43.
39
Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio, Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 130
40
Wolfgang Goethe, Conversazioni con Eckermann, 18 settembre 1823, citato da Predrag
Matvejevic, Mondo « ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa,
Garzanti, Milano, 1996, p. 176
41
Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 65
42
Robert Brechon, “Cittadino di un’ Europa introvabile”, postfazione a Predrag Matvejevic,
Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra Europa, Garzanti,
Milano, 1996, p. 186
43
Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 67
XX
VII
Indispensabile chiave di lettura della storia recente della
“nostra” e dell’“altra” Europa, le sue parole saranno utili nel
ripercorrere la storia del crollo del suo paese, così tanto amato.
XX
VIII
ma singole storie nazionali spesso in contrasto tra loro ha reso
più semplice il salto (quasi impercettibile ma pericolosissimo)
da cultura nazionale a ideologia della nazione46.
Infine, parlare dei Balcani vuol dire ammettere, come
base dell’analisi, una certa indeterminatezza; anche solo
definire quali paesi facciano parte a tutti gli effetti della
Regione non è impresa da poco: “A quale regione appartiene la
Romania, ai Balcani o all’Europa Centrale? (…) Dobbiamo
includere nei Balcani la Slovenia, così vicina, geograficamente
e culturalmente, all’Austria? In che misura la Croazia cattolica
è balcanica? E la Turchia? (…)”47. Dubbi come quelli che si
pone Prévélakis sono inevitabili, inoltrandosi nel territorio che
sta oltre la catena montuosa della Stara Planina: le cause di
questa particolarità vanno ricercate in quindici secoli di storia,
durante i quali il territorio dei Balcani è stato teatro di vicende
molto complesse, e che hanno lasciato come eredità
un’estrema instabilità politica.
46
Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.9
47
Georges Prévélakis, I Balcani, il Mulino, Bologna, 1997, p. 16
XXI
X
culminato nel primo Scisma del 482, poi in quello definitivo
del 1054, e quindi nell’affermazione della Chiesa Ortodossa.
Tra il IX e il X secolo, l’impero bizantino è al suo
culmine, e si presenta come un impero multinazionale che non
ha problemi a gestire le invasioni di popoli barbari (tra cui
Serbi e Croati, che slavizzano gran parte della regione) a nord
dei suoi territori; la vera minaccia mortale è l’Occidente, che
nel 1204, con la quarta crociata, attacca e distrugge
Costantinopoli affermando la propria superiorità politica ed
economica.
Nel momento della definitiva presa di Costantinopoli,
nel 1453, i Balcani sono divisi tra un’area linguistica slava e
una greca, ma uniti dall’ortodossia, con le sostanziali eccezioni
della Croazia cattolica e dell’islam, affermatosi in Bosnia,
Bulgaria, Albania grazie all’influenza ottomana.
Ed è proprio con la conquista da parte dell’impero
Ottomano che i Balcani ritrovano una certa stabilità con la
cosiddetta pax ottomanica.
E’ una pace che però ha il suo prezzo: il dominio turco,
imposto per quasi mezzo millennio a tutta la regione, taglia
fuori i popoli balcanici (in misura minore quelli del nord, come
croati e sloveni, in modo drammatico quelli del sud, come
serbi, albanesi, bulgari, rumeni, ma anche greci e macedoni) da
ogni contatto culturale con il resto d’Europa.
E’ solo nel Settecento, con la decadenza ottomanica e
l’affermazione nella regione dell’influenza asburgica, che idee
riformiste e un certo fervore culturale iniziano a palesarsi.
Influenzata a partire dall’ Ottocento dal nazionalismo
romantico di matrice tedesca, una pleiade di letterati, poeti e
studiosi, soprattutto filologi, si impegna per riscoprire la storia
e la lingua dei popoli balcanici, per rendere possibile
l’inserimento della regione nell’Europa.
XX
X
La cultura si laicizza; si afferma un forte sentimento
patriottico, e per quanto riguarda le popolazioni slave, la
sensazione di far parte di una grande famiglia.
In una regione in cui l’affinità etnica aveva avuto
certamente più peso dell’unità politica, l’idea herderiana del
popolo-nazione quale organizzazione naturale e spontanea,
contrapposta alla nazione-Stato, diviene centrale.
Nasce l’Illirismo, e con esso l’idea di unificare tutti gli
“Slavi del sud”, legati tra loro dall’affinità linguistica, in un
unico stato; “la lingua è la storia dell’umanità, la sua eredità”48,
affermavano i romantici: su questa base si tenta di semplificare
e razionalizzare una realtà estremamente frammentaria.
Ma le spinte nazionalistiche sono fortissime; e il secolo
successivo è sconvolto da una serie di rivolte che portano alla
graduale emancipazione dalla Sublime Porta e alla creazione di
uno Stato Serbo sempre più forte che aspira al ruolo di
Piemonte balcanico.
L’Austria Ungheria, che già “aveva avvertito il glaciale
passaggio dell’ombra della propria fine”49 si oppone con
fermezza allo Jugoslavismo occupando la Serbia nel 1878.
Il progetto è destinato a fallire, e la resistenza serba
culmina nella crisi finale del 1914.
Dopo la prima guerra mondiale (durante la quale i Serbi
combattono dalla parte degli alleati mentre Sloveni e Croati a
fianco degli imperi centrali), viene costituito un regno “dei
Serbi, dei Croati e degli Sloveni” che diviene, nel 1929,
“Regno di Jugoslavia”.
Lo stato fra le due guerre si mostra politicamente fragile
ed economicamente in difficoltà: nel 1941 il paese non resiste
all’attacco delle truppe tedesche, italiane, ungheresi e bulgare,
48
Giampiero Moretti, Heidelberg romantica, Romanticismo tedesco e nichilismo europeo, Guida,
Napoli 2002, p. 110
49
Josip Krulic, Storia della Jugoslavia dal 1945 ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1997, p. 14
XX
XI
e “crolla come un castello di carte”50. La Jugoslavia cessa in
pratica di esistere, la Germania e l’Italia spartiscono il
territorio e permettono agli ustascia di Ante Pavelić di
costituire un Regno Croato indipendente, fortemente antiserbo.
Si levano in armi a questo punto i cetnici di Draža
Mihalović (serbi e filomonarchici), e i partigiani guidati da
Josip Broz, detto Tito (filosovietici e decisi a portare avanti
una rivoluzione di tipo bolscevico), ostili tra di loro e agli
ustascia: quella che segue è una vera lotta di tutti contro tutti.
Il movimento partigiano esce vittorioso dalla guerra, e
Tito ristruttura la nuova Jugoslavia socialista su basi federali.
Il paese tra il 1945 e il 1980 è fortemente caratterizzato
dal prestigio del suo presidente, che riesce ad affermarsi al
punto di sollevare economicamente lo stato grazie
all’autogestione e all’autodeterminazione e ad opporsi allo
stalinismo – nel 1948 tra Jugoslavia ed Unione Sovietica nasce
un’insanabile contrasto che porterà ad un vero e proprio
scisma, accolto con favore dall’Occidente.
Tito rende l’instabile Jugoslavia non solo il centro del
movimento dei non allineati, ma anche “uno dei rari paesi
multinazionali del mondo, che aveva saputo risolvere il
problema della convivenza”.51
L’impatto sull’opinione pubblica internazionale è
fortissimo.
Ma la sicura unità jugoslava, la promessa di una serena
convivenza tra popoli non aveva tenuto in debito conto alcuni
dei maggiori focolai di tensione del paese: sussistevano
ancora, negli anni Settanta – e anzi cominciavano a minacciare
la sicurezza titoista – le gravi contraddizioni del problema
delle minoranze, del risorgere di miti nazionalistici e della
50
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 16
51
Predrag Matvejevic, Ex-Jugoslavia, diario di una guerra, Magma, Napoli, p. 9
XX
XII
pericolosa convivenza di spirito bellico tradizionale (in cui le
forme comunitarie del clan e della famiglia superano per
importanza quella dello stato) e patriottismo espansionistico di
stampo moderno.
2.5 La guerra
52
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 226
53
Jože Pirjevec, op. cit., p. 124
XX
XIII
possibile, ma addirittura necessaria alla sopravvivenza dello
stato stesso, è miseramente crollata sotto i colpi delle ideologie
nazionaliste.
54
Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi, Torino, 2002, p. 4
XX
XIV
dismisura da una fatale mescolanza di miti caricaturali (la
“Grande Serbia”, la “Sacra aria croata”) e revisionismo storico.
Un conflitto che vede a capo dello stato più forte della
federazione, la Serbia, Slobodan Milošević, politico dotato di
forte personalità ma preda di folli volontà espansionistiche, e
dimentico del fatto che questa “penisola è (…) troppo ristretta
per simili ambizioni”55. (Non sarà l’unico, ma sarà certo il più
pericoloso).
55
Predrag Matvejević, “I Balcani”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.
18
XX
XV
Nello stesso anno, la guerra giunge in Bosnia, e si
svolge ora su due fronti: sia i Serbi che i Croati portano avanti
rivendicazioni territoriali ai danni dell’etnia musulmana, che
costituisce la maggioranza della popolazione bosniaca. Dal
1992 al 1995, le ferite inferte al cuore dell’Europa diventano
irreparabili, e il sogno di unità dei migliori tra gli jugoslavi
cede il posto alla disillusione e allo sgomento.
Con gli accordi di Dayton del 1995, la Bosnia è divisa
in una Repubblica Serba e una Federazione Croato-
musulmana. In un momento che l’Europa vive come un
trionfo, gli abitanti di uno stato ormai “ex” riconoscono la
sconfitta di vincitori e vinti.
Il conflitto sembra risolto, ma si riaccende nel 1999, con
l’attacco di Milošević al Kosovo: i bombardamenti NATO su
Belgrado mettono fine al contrasto, senza peraltro risolvere le
questioni etniche.
Nel 1995, Bogdan Bogdanović, ex sindaco di Sarajevo,
dichiarava: “I serbi hanno perso la guerra, hanno perso
l’anima, hanno perso l’onore, hanno perso tutto.”56 Questo non
impedisce al maggiore artefice dell’orrore jugoslavo, Slobodan
Milošević, nel 1999, di affermare, con vana retorica e senza
tema di cadere nel ridicolo, che la “sua” Jugoslavia era “il
paese più libero e più democratico di tutto il mondo”57.
56
Bogdan Bogdanović, citato da Jože Pirjevec, in Le guerre jugoslave, 1991 – 1999, Einaudi,
Torino, 2002, p.553
57
Bogdan Bogdanović, op. cit., p.553
XX
XVI
Ci sono immagini di questo conflitto che racchiudono in
sé tutto il senso di un orrore durato anni: le case distrutte della
città croata di Vukovar, tenuta sotto assedio dalle truppe serbe
durante il 1991; lo sterminato memoriale di Potočari, nella
cittadina di Srebrenica, in Bosnia, in cui, nel 1995, più di
ottomila cittadini di etnia musulmana sono stati massacrati
nell’arco di appena tre giorni; la biblioteca di Sarajevo,
splendido edificio che conteneva manoscritti di inestimabile
valore, bombardata e divorata dalle fiamme, ridotta ormai ad
uno scheletro le cui finestre sono orbite vuote; i posti di blocco
e le frontiere, che non esistevano affatto, prima; infine, il
simbolo forse più forte e più tragico: il ponte, costruito nel
1566 e distrutto dalle truppe croate, nel 1993, a Mostar, la città
“dove Oriente e Occidente si erano date la mano”58.
XX
XVI
di luna”61, come se fosse uno di famiglia) “annegò un mondo
intero; l’antico mondo che aveva fatto sua l’arte e la saggezza
del vivere insieme”62.
61
Melita Richter, “All’ombra del ponte”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre
2004, p. 15
62
Ibidem
63
Ivo Andrić, Racconti di Bosnia, Newton Compton, Roma, 1995, p.157
64
Mauro Daltin “Editoriale”, in «PaginaZero, Letterature di frontiera», n. 5, Ottobre 2004, p.5
XX
XVI
quale sprofonda l’umanità quando disconosce i valori etici e
culturali”.65
65
Mauro Daltin “Editoriale”, op. cit., p.4
66
Predrag Matvejević, Mondo «ex», Confessioni Identità, ideologie, nazioni nell’una e nell’altra
Europa, Garzanti, Milano, 1996, p. 167
XX
XIX
Non è più solo architettonica la perdita che ha colpito la
Jugoslavia nel luglio del 1993; è di questo spirito di unione e
condivisione che si è perduto il senso dopo la distruzione del
“miracolo dell’arcata”67.
Sembrava che ogni forma di impegno intellettuale fosse
ormai inutile; eppure, dice ancora Matvejević, “bisognava
prendere posizione, o tradire se stessi”. Nonostante la sfiducia
maturata a seguito di una guerra che sembrava non voler
concedere tregua, il testo fu trasmesso a più riprese da una
radio locale che tentava di ridare coraggio ai sopravvissuti, e di
tenere in vita l’idea di un futuro in cui fosse ancora possibile
dialogare; e, in qualche modo, il tentativo riuscì.
“Fu una delle rare volte nella mia vita – commenta
Matvejević – in cui ebbi davvero l’impressione che la
letteratura potesse essere più che un gioco o un lusso”.
Nel suo ribellarsi al non dire, al non scegliere,
l’intellettuale può addirittura (seguendo il corso etimologico
della sua ribellione: da re-bellum), opporsi alla guerra.
67
Così i costruttori musulmani chiamarono lo Stari Most al tempo della sua costruzione.
XL
E, in special modo quando il conflitto assume i caratteri
di una guerra etnica, quando cioè può bastare un nome a
determinare se ci si trova o meno dalla parte “giusta” della
barricata, viverlo vuol dire molto di più che temere per la
propria vita (o per quella dei propri cari).
Vuol dire riconoscere di non poter controllare più nulla,
neanche la propria esistenza; che si è stranieri in patria, e che
nulla di ciò che si conosceva sarà mai come prima; che non
sarà più concessa la possibilità di costruire il proprio destino,
né quello dei propri figli, e che l’ultima cosa di cui si verrà
privati sarà il proprio diritto primario, quello di essere
considerati esseri umani.
68
Predrag Matvejevic, op. cit., p. 97
XLI
Dai molti luoghi della loro diaspora, gli scrittori
migranti denunciano un mondo che “amalgama, banalizza ed
espelle, una dopo l’altra, le diversità”69.
La migrazione è un incentivo inesauribile alla difesa
dell’identità, ma anche della pluralità, culturale; perché, come
afferma lo scrittore albanese Ron Kubati, conferisce una
sensibilità sociale che diventa poi prospettiva letteraria: la
microstoria del migrante, apolide ed emarginato dalla vita
pubblica del paese di arrivo, si inserisce nella macrostoria70.
La sua testimonianza è preziosa: perché se è vero ciò
che sosteneva Hanna Arendt, (“Non c’è filosofia, analisi,
aforisma, per quanto profondi, che si possano paragonare per
intensità e ricchezza di significati a un racconto ben
narrato”)71, gli unici che possano denunciare ogni totalitarismo
che distrugga e appiattisca le differenze, sono i narratori di
altri mondi possibili; nel caso presente, i figli di quei Balcani
maledetti che hanno scelto “questa” Europa come
interlocutrice del proprio dolore.
La stessa terminologia con cui descriviamo la loro
condizione contribuisce a definire il peso del recente passato
sulle loro esistenza; noi parliamo infatti di “migranti”, mentre
loro spesso definiscono se stessi “esiliati”; forse nessuno dei
due termini descrive con esattezza la situazione, ma certo la
loro scelta non è casuale né insensata.
La differenza tra un esiliato e qualcuno che vive “tra
asilo ed esilio”, spiega Matvejevic72, è che il primo è vittima di
un regime totalitario che impedisce, a chi si allontani più o
meno volontariamente dal proprio paese, di tornare; il secondo,
invece, vive in una nuova “democratura” (neologismo col
69
Paolo Rumiz, “L’isola”, in «I Quaderni 1. 98», Associazione Fondo Moravia, Roma, 1998, p.153
70
Ron Kubati, “La ricerca dell’altrimenti”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura “creola”», sul sito
www.disp.let.uniroma1.it\kuma\kuma.html
71
Hanna Arent, L’umanità nei tempi bui. Pensieri su Lessing, p. 14
72
Predrag Matvejević, Tra asilo ed esilio. Romanzo epistolare, Meltemi, Roma, 1998, p. 249
XLI
I
quale Matvejevic definisce quei regimi che non sono
democrazie né dittature in senso stretto) e il suo abbandono dei
luoghi dell’infanzia non esclude il ritorno.
Non “esiliati”, quindi, almeno nella terminologia, i
Bosniaci, i Croati, o i Serbi che vivono nei nostri paesi; ma
esiliati nella sostanza, perché un paese a cui tornare non
l’hanno più.
Tornando tornano appunto in Serbia, Croazia, Bosnia, o
in quel che ne resta: non certo nella Jugoslavia in cui sono nati
e cresciuti, in cui si è sviluppata la loro identità e nutrita la loro
cultura, che quello è un paese che, nell’arco di pochissimi anni,
è scomparso, tragicamente, dalle carte geografiche.
73
Ivan Ivekovic, “Postille sull'identità”, in Melita Richter, Identità e genere nel conflitto jugoslavo,
(libro in preparazione)
XLI
II
sono nato, e che, ancora ieri soltanto, era il mio. Non c’è
più.”74
XLI
V
Scrittori non si diventa per caso:
il subdolo effetto della biografia è il primo e il più
intenso stimolo.
E ciò che predomina in una biografia è la sensazione
della diversità,
è il marchio infamante della diversità il detonatore della
fantasia.
Lo scrittore o il futuro scrittore
si interrogano sulla propria esistenza,
cercano di spiegare l’origine di questa diversità
e la sua relazione con il mondo.
Quando poniamo a noi stessi delle domande
facciamo anche il primo passo verso la letteratura,
la quale, come disse Barthes,
altro non è se non il porre questioni a se stessi.
Danilo Kiś
XL
V
3. I testi e gli autori: gli scrittori migranti dai
Balcani in Italia
78
Gabriella Parati introduzione a Mosaici di inchiostro, autori vari a cura di San Giorgi Roberta e
Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1996, p.23
XL
VI
“Quando fuggi dalla Bosnia, e dalla guerra, sei convinto
che un giorno da qualche parte ti fermerai.
Ti sistemi temporaneamente e pensi di esserci riuscito,
perché l’importante era sfuggire alla disgrazia da cui ti separa
solo il mare; tutto d’un tratto capisci che in realtà non
appartieni più a nessuno, nemmeno a te stesso, la tua vita è
uscita dal binario, sei colpevole senza avere delle colpe, ti senti
come Kafka: lo sguardo degli occhi è spento guardando il
mare, immagini com’è dall’altra parte dell’Adriatico, sulla
costa che una volta ti faceva sentire te stesso e dove ora non
puoi appoggiare il piede senza un permesso speciale. Ti fai una
passeggiata, e il pensiero ti risuona nella mente: E’ facile
tornare se sai dove.”
XL
VII
Miro Stevanović, Vera Slaven, Stevka Smitran, Vesna Stanić,
Tamara Jadreičić la sua più attenta e trascinante
rappresentazione in Italia. Attenta e trascinante, perché questi
autori oscillano tra una minuta e accurata descrizione della
realtà che li circonda e una resa del proprio intimo sentire
intensa e dolente.
“Piccolo fiore di nostalgia”79, definisce Paolo Rumiz la
raccolta di racconti di Bozidar Stanišić I buchi neri di Sarajevo,
e così ci appaiono le opere di tutti questi autori, che si infilano
nelle pieghe della storia restituendoci, con stordente forza
poetica, vite perdute, amori infranti, quotidianità dissolte.
79
Paolo Rumiz, prefazione a I buchi neri di Sarjevo e altri racconti, Božidar Stanišić, Mgs Press,
Trieste, 1993, p. 7
80
Paolo Rumiz, Bon voyage, Božidar Stanišić, Nuova dimensione, Portogruaro, 2003, p. 7
81
Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1998, p. 15
XL
VIII
Balcani posseggono, rispetto al resto della letteratura migrante,
un valore aggiunto.
Claudio Magris, nel suo romanzo-saggio intitolato
Danubio, scrive: “Quando una realtà sta venendo cancellata
con violenza, pensarla diventa un atto di fede”82: è operando
quest’atto di fede che gli autori balcanici, privati del loro
mondo, scelgono la letteratura come forma di resistenza.
All’irrazionale logica del conflitto, all’impavida gioia dei
distruttori, i narratori oppongono le parole, il racconto, la
memoria; perché sono consapevoli che “il paese che brucia i
propri ricordi è un paese che vuole morire”83.
Portando con sé nella loro precipitosa fuga, tra le poche
cose care o indispensabili, la propria denuncia, essi salvano se
stessi dall’oblio, e insieme preservano ciò che è rimasto della
propria patria perduta; con le loro opere – in cui è sempre
presente una forte componente autobiografica - si oppongono
non solo alla guerra e alla sua violenza fratricida, ma anche al
suicidio di una cultura che si priva, man mano che esaspera
particolarismi e nazionalismi, del proprio potenziale per il
futuro.
Nel suo romanzo autobiografico Cercasi Dedalus
disperatamente, Vera Slaven, scrittrice croata rifugiatasi in
Italia all’inizio della guerra, “quando nessuno fuggiva
ancora”84 scrive: “Per quell’aria pesante e per non rendermi
indifferente a tutto sono scappata in un paese straniero, per non
vedere come si distrugge una parola grande come ‘patria’.
(…) Non si scappa dalla propria pelle – forse sono giuste
le dicerie popolari, ma io ancora non voglio credere che tutto
ciò che è successo e che ancora accadrà, si ricucirà un giorno
82
Claudio Magris, Danubio, Garzanti, Milano, 1997, p. 63
83
Agata Keran, “L’andata senza ritorno”, tratto da Anime in viaggio, autori vari a cura di San Giorgi
Roberta e Ramberti Alessandro, Adnkronos, Roma, 2001
84
Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.26
XLI
X
con ‘fatalità slava’ o con altre due parole come ‘polveriera
balcanica’ e ‘doveva succedere’.”
85
Božidar Stanišić, “Il rapimento”, in Parole oltre i confini, autori vari a cura di San Giorgi Roberta
e Ramberti Alessandro, FaraEditore, Santarcangelo di Romagna, 1999, p184
L
passato e futuro86. Lo scrittore balcanico, preda di questa
oscillazione priva di un centro di gravità permanente, sembra
essere innamorato dell’attimo.
Ed è l’attimo di una lacerazione profonda, personale
quanto storica, che questi autori catturano nei loro testi,
affrontando sostanzialmente lo stesso tema pur partendo da
prospettive diverse.
La “Jugotragedia”87 diventa la materia incandescente
attraverso cui il valore delle loro opere può mostrarsi.
LI
bambino che non si lavava, con cui l’autrice ha vinto l’edizione
del 2002 del concorso per scrittori migranti Eksetra, e I
prigionieri di guerra, primo classificato alla XVII edizione del
premio Italo Calvino – Tamara sembra essere la più perfetta
dimostrazione che la letteratura migrante non può essere ancora
a lungo considerata marginale o esotica).
88
Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.67
LII
lavandino con i piatti messi ad asciugare e il fornello con sopra
una grande pentola d’acciaio inox.”
LIII
sporchi, più brutti, più terribili. Non aveva mai notato uno che
gli assomigliasse.”
LIV
con le mani incrociate in grembo, affondata nei cuscini bianchi,
come un regalo prezioso appoggiato sull’ovatta.
Ormai era così che passava la gran parte della notte,
poiché il sonno non s’infilava più con semplicità nel suo corpo,
a conferma che le anime tristi non sono benvolute proprio da
nessuno. Quando lo vide entrare nella stanza, le sembrò sfinito,
ridotto di volume, come sprofondato in se stesso.
Così rimpicciolito si sedette sul letto.”
LV
Pensando alla figlia lontana, alla madre e alla sorella, Dara
si lascia sfuggire un commovente lamento sull’insensata
crudeltà della guerra: “O Dio! (…) O, Marko, che cosa ci è
successo? Com’è possibile che tutto sia cambiato
all’improvviso? Non siamo più sicuri di niente e non crediamo a
nessuno. Ci siamo ridotti come delle bestie. Prima eravamo
gente normale, partivamo, telefonavamo, mandavamo cartoline
d’auguri, mentre adesso cerchiamo di decifrare i bigliettini
puzzolenti e sgualciti della Croce Rossa.
Che disastro…Mi sento morire l’anima!”
La disumanizzazione del nemico, e la sensazione di potere
essere considerati da chiunque come il nemico, è evidente ne La
guerra di Mira, in cui la protagonista, veterana di quella che
Tamara chiama “una guerriglia casalinga”, affronta
quotidianamente il marito soldato.
Incattivito dalla familiarità con morte e distruzione,
consumato dalla non –vita condotta al fronte, considera Mira il
bersaglio migliore per la sua rabbia.
E lei, cercando di sopravvivere alla guerra che l’ha
raggiunta in casa, “era cambiata tanto da non riconoscersi più in
questa donna impaurita, bugiarda, pronta ai compromessi.”
LVI
3.4 Il sé e l’altro: la paura del fratello slavo
Vera Slaven
LVI
I
ungeva due fucili. La scena mi sconcertò così tanto che
scappai dentro. Rimasi stupefatta. Non conoscevo per niente il
ragazzo, non conoscevo le abitudini della sua famiglia, mi
sentii estranea a quella gente che mi circondava, mi sentii
persa.”90
Anche Vera Slaven è una scrittrice croata, ed è uno dei
pochi narratori della diaspora balcanica ad essersi cimentata
nella stesura di un romanzo interamente elaborato nella nostra
lingua.91
In Cercasi Dedalus disperatamente la narrazione di Vera
oscilla tra passato e presente, in un continuo rimando tra i due
tronconi di vita che stanno ai due lati dello spartiacque
costituito dalla guerra.
90
Vera Slaven, Cercasi Dedalus disperatamente, Tracce, Pescara, 1997, p.66
91
Un altro è Spale Miro Stevanović, con Le Confessioni, Opera, Venezia, 2001.
LVI
II
“Nel momento in cui, entrando in casa, ho messo il piede
in un lago di merda (i tubi di scarico si erano congelati o erano
scoppiati, non so) e dai due water strapieni usciva, piano piano,
la ‘cosa’. (…) Ho urlato per un’ora intera, per l’umiliazione, per
la nostra disperazione estrema, non più tollerabile, mentre i miei
vicini portavano via in assoluto silenzio i tappeti e staccavano la
moquette. (…)
Sono scappata di casa con la certezza che la guerra mi era
entrata sotto la pelle e che non avrei più potuto lavarla né
levarla di dosso.”92
92
Vera Slaven, op. cit., p. 86
LIX
La questione dell’identità e dell’alterità si pone con
gravità estrema, quando ci si sente estranei a tutti e vicini a
nessuno.
Nel momento in cui ci si confronta con un mondo che non
è più quello che si conosceva, si è costretti a fare i conti anche
con il passato, che rischia di essere completamente rimesso in
discussione.
L’autore in cui appare più evidente lo spaesamento e la
sensazione di costante straniamento esistenziale che segue
questa perdita identitaria è sicuramente Božidar Stanišić, nelle
cui opere l’umanità astratta si trasforma in volti, persone che
chiedono di poter riconoscere un ruolo nel proprio mondo e che
s’interrogano, con tristezza ma non con disperazione, su un
futuro umano incerto, che si sa difficile ma si ritiene possibile.
Božidar Stanišić è nato a Visoko, in Bosnia Erzegovina.
Ex insegnante di letteratura, ha abbandonato la Bosnia
nel 1992, spinto alla fuga dal rifiuto di vestire qualsiasi divisa,
e si è rifugiato prima in Slovenia e poi in Italia, dove risiede
tuttora, a Zugliano, presso Udine.
Continuando in Italia l’attività letteraria intrapresa in
patria, (in Bosnia aveva pubblicato testi di narrativa per
ragazzi e critica letteraria), Stanišić ha continuato a narrare il
suo mondo di memorie operando una sostituzione, graduale ma
non irreversibile, della lingua serbo-croata con quella italiana.
93
Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sul sito
www.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm
LX
linguaggio si fa più scarno, quasi telegrafico, antinaturalistico
e rarefatto.
Non è un caso che uno dei più recenti lavori di questo
autore sia una piece teatrale, intitolata Il sogno del mio amico
Orlando94, in cui la storia di un pacifista disilluso si intreccia a
quella di due profughi bosniaci, Ivan e Petar, che in una
lunghissima conversazione telefonica si confrontano sul
proprio passato, e sulla nuova vita, che conducono l’uno in
Canada e l’altro nella provincia del nord-est italiano.
Ivan ha mantenuto il ricordo della patria e dell’identità
perdute, e vive il proprio sradicamento diviso tra memoria e
speranza; Petar, gettato via l’inutile fardello del rimpianto, si è
ormai convinto che adattarsi al nuovo mondo, dimenticare chi
era, sia l’unico mezzo per sopravvivere all’ondata del passato
che ritorna: accusato dall’amico di miope cinismo, si difende
avvertendolo che “essere normali è più che necessario... Più
che necessario...”.
94
Božidar Stanišić , “Il sogno del mio amico Orlando”, in «Kúmá, rivista di arte e letteratura
“creola”», direttore Armando Gnisci, sul sito www.disp.let.uniroma1.it/kuma/kuma.html
LXI
Ivan: In quella lettera che non è ancora arrivata ti ho scritto
di Orlando...
Petar: Orlando? Di chi stai parlando?
Ivan: Orlando, uno dei miei migliori amici...
Petar: Orlando, Orlando, Orlando...?
Ivan: Non ricordi?
Petar: O, Dio...(cammina frettolosamente) Aspetta...
Ivan: Ti ricorderò io... Dieci anni fa...
Petar: (tenta di scherzare) Dieci anni fa, quindi in un secolo
passato, in un millennio dietro le nostre spalle...95
LXI
I
ACCOMODATEVI…non era riuscito a leggere: le esigenze
del nostro tempo che chiede ecc. ‘Risposte? Urgenti o attuali?’
sussurrò nella lingua da cui si era allontanato nel tempo e nello
spazio).”96
LXI
II
Il primo passo verso l’oblio Neven lo compie distruggendo
tutti i ritagli di giornale, fino ad allora gelosamente custoditi,
riguardanti la guerra che sta dilaniando il suo paese; “così
comincia la liberazione dal passato, la negazione del presente e
il pensiero del futuro di Neven O. : buttando i ritagli di giornale
nella carta vecchia”.
Diventato ormai Virgin O’Brien, uomo di successo che in
Australia si spaccia per sudafricano con origini montenegrine,
soddisfatto della sua ricca mediocrità, Neven dovrà alla fine
affrontare i fantasmi del suo passato.
Le ombre delle persone che ha abbandonato (il suo
commilitone al fronte, con cui aveva progettato la fuga, un
compagno di liceo, poeta e rivoluzionario, il primo amore, una
ragazzina bionda di Mostar, l’anziana madre…) verranno a
cercarlo per ricordargli chi è davvero.
“Un uomo non può avere due mari al mondo”98, lo
ammonisce il padre; e Neven, che ha ossessivamente tentato di
fuggire da sé, perderà completamente la capacità di ritrovarsi.
Narratore abile e colto, Božidar Stanišić utilizza le armi
della parola dell’ironia per scovare l’umanità anche in mezzo
alla distruzione del conflitto, per cercare uno spiraglio di
speranza anche per chi è “in fuga dalle cuciture fra i mondi”.99
Una delle liriche contenute nella raccolta Non-poesie,
intitolata Simile a rosa incantevole100, scritta nel 1995, si
conclude con questi versi:
“…Dio, Ti ringrazio per i doni che mandi, anche a noi,
che siamo, da così tanto tempo, sulla bassa terra,
e perdona la mia stanchezza, in un giorno in cui la mia
anima,
98
Božidar Stanišić, “Il giardino australiano di Mr Virgin O’ Brien”, in Bon voyage, Nuova
dimensione, Portogruaro, 2003 p. 98
99
Božidar Stanišić, Tre racconti, Associazione culturale “E. Balducci”, Zugliano, 2002, p.24
100
Božidar Stanišić, “Simile a rosa incantevole”, in Non poesie, Associazione culturale “E.
Balducci”, Zugliano 1995
LXI
V
tuttavia, la primavera intuisce.”
101
Julio Monteiro Martins, Intervista in Quarto Seminario degli scrittori migranti, da Sagarana, sul
sito
www.sagarana.net/scuola/seminario4/home.htm
LX
V
Si vive “come su un ponte: né di qua, né di là.” Ben
coscienti che ogni ponte unisce solo se lo si attraversa, gli
scrittori migranti operano una costante oscillazione linguistica:
perché l’utilizzo di una lingua diversa da quella madre può
essere sia uno strumento di collegamento tra sé e la nuova
realtà culturale in cui si desidera integrarsi, sia il filtro
necessario attraverso cui guardare con distacco un passato
toppo doloroso.
LX
VI
La lingua rimossa dell’infanzia ritorna, ad inquinare e
rinsanguare un italiano che non è più solo il nostro, in una
mescolanza inedita che rende la parola di questi autori
sperimentale, essenziale e ricca di sfumature allo stesso tempo.
LX
VII
“Nessuno può immaginare cosa significhi
nascere e vivere al confine tra due mondi,
conoscerli e comprenderli ambedue
e non poter far nulla per avvicinarli, amarli entrambi
e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita,
avere due patrie e non averne nessuna,
essere di casa ovunque e rimanere estraneo a tutti,
in una parola, vivere crocefisso
ed essere carnefice e vittima allo stesso tempo”
Ivo Andrić
LX
VIII
La dolorosa sensazione di non appartenenza – vera
costante sottesa a tutte le opere fin qui analizzate – diviene
specchio, nelle opere degli autori balcanici, di una realtà
storica di tragica instabilità.
La vita ormai “uscita dal binario”, deviata per sempre da
una normalità impossibile da riconquistare, viene resa
possibile (che tanto basta alla sopravvivenza: una possibilità)
attraverso l’esercizio letterario, che da sempre si propone come
“casa comune” o patria d’elezione a chi non ha patria: gli
scrittori e gli apolidi; nel caso – non così raro – che le due
condizioni convivano (o coincidano), essa diventa una vera e
propria “sovrapatria”.
LXI
X
paradigmatica per il migrante balcanico; che della negazione
di sé ha avuto direttamente esperienza attraverso quell’atroce e
insensato tentativo di massificazione che è la guerra etnica.
Eppure la con-vivenza culturale, la necessità di affermare
se stessi senza annientare l’altro, siamo ormai costretti a
riconoscerla (l’abbiamo già visto parlando della nascente
creolizzazione planetaria di cui gli scrittori migranti sono i
portavoce) come elemento vivificatore e innovatore di ogni
cultura; dovremmo ormai essere coscienti che “la questione
non solo dei Balcani, ma del futuro europeo non consiste nel
radicamento e nella difesa delle identità particolari, esclusive,
ma nella capacità di uno sviluppo armonioso di identità
plurime”102.
LX
X
caso di migranti della ex-Jugoslavia, e tanto più noi Italiani,
che dai Balcani siamo divisi da solo dalla striscia di mare che
costituisce l’Adriatico. (I greci e i romani alternavano, per
definirlo, i termini di “golfo” e “mare”; questa duplicità ne
accompagna la storia, dice Matvejevic, e sicuramente accorcia
le distanze, almeno ideologiche, tra “noi” e “loro”.)
LX
XI
facilitando l’incontro, e la contaminazione, tra “questa”
Europa, che è già qui, e l’altra, che attende.
104
Paolo Rumiz, prefazione a Bon voyage, Božidar Stanišić Nuova dimensione, Portogruaro, 2003,
p.7-8
105
Dževad Karahasan “Il centro del mondo. Sarajevo, esilio di una città” citato da Armando Gnisci,
Creoli mitici migranti clandestini ribelli, Meltemi, Roma, 1998, p.115
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XII
testimonianza, significa riscoprire un nuovo modo di intendere
l’Europa, e la cultura europea.
LX
XIII
BIBLIOGRAFIE
Gli autori
Lecomte Mia, a cura di, I cittadini della poesia in Quaderno balcanico II,
Loggia dei Lanzi, Firenze, 2001
Stanišić Božidar, I buchi neri di Sarjevo e altri racconti, Mgs Press, Trieste,
1993
LX
XIV
Stanišić Božidar, Non poesie, Associazione culturale “E. Balducci”, Zugliano
1995
Inediti
Testi critici
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XV
Gnisci Armando, La letteratura italiana della migrazione, Lilit Edizioni,
Roma, 1998
Krulic Josip, Storia della Jugoslavia dal 1945 ai giorni nostri, Bompiani,
Milano 1999
Le Breton Jean Marie, Una storia infausta. L’Europa centrale e orientale dal
1917 al 1990, Il Mulino, Bologna, 1997
LX
XVI
Todorov Tzvetan, L’uomo spaesato. I percorsi di appartenenza, Donzelli,
Roma, 2000
Riviste e sitografia
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XVI