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Bartoli Langeli A., Sui Brevi Italiani

Il documento analizza un testo pisano altomedievale, il 'breve de moniminas', che elenca circa cento documenti di proprietà di Teuspert, evidenziando la struttura e le categorie di documenti legali dell'epoca. Viene descritta la distinzione tra documenti giuridicamente validi e quelli di natura pratica, con un focus sui 'brevi' come liste di attestazioni e inventari. Infine, si menzionano i 'polittici', inventari di terre e diritti, utilizzati da istituzioni ecclesiastiche per la gestione patrimoniale.

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Bartoli Langeli A., Sui Brevi Italiani

Il documento analizza un testo pisano altomedievale, il 'breve de moniminas', che elenca circa cento documenti di proprietà di Teuspert, evidenziando la struttura e le categorie di documenti legali dell'epoca. Viene descritta la distinzione tra documenti giuridicamente validi e quelli di natura pratica, con un focus sui 'brevi' come liste di attestazioni e inventari. Infine, si menzionano i 'polittici', inventari di terre e diritti, utilizzati da istituzioni ecclesiastiche per la gestione patrimoniale.

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Sui ‘brevi’ italiani altomedievali

Il Codice diplomatico longobardo di Luigi Schiaparelli si chiude


con un testo pisano non datato né sottoscritto, che l’editore, in
difficoltà col nome di un vescovo menzionato all’inizio, colloca tra
il 768 e il fatidico giugno 774 (1). In quel torno di tempo, dunque,
tale Teuspert consegnò alla monaca Ghittia e alle sue figlie un
cospicuo numero di documenti, facenti parte di un « tesoro » che
evidentemente egli aveva in deposito temporaneo: alla fine infatti
si elencano alcune monete, « duo anula aurie, uno petio de aurio,
uno baltio cum banda et fibila de argento inaurato », dei « colla-
ri » e « sporuni » d’argento. Il documento, chiaramente di mano
notarile, è così presentato e impostato:
Breve de moniminas quem reddidet Teuspert Ghittie Dei ancille et
ad filie eius Aliperghe et Willerade, idest, inter monimina et brevi, octua-
ginta et octo. Cartula quem Guntelmi et Arnitruda fecerat in Alahis de
mundio accepto. Cartula venditioni da Roppert et Genipert in Alahis – e
così di seguito, fino a Et super ipse octuaginta et octo sunt tris precepta
et una cartula.

In tutto sono elencati un centinaio di documenti (98 + 3 + 1),


qualcosa in più dei 92 contati dall’estensore. Non ne è arrivato
nemmeno uno: di qui lo sconsolato commento di Schiaparelli, « la-
voriamo su frammenti ». Oltre la metà di essi erano stati posseduti

(1) Codice diplomatico longobardo (sec. VIII), I-II, a cura di L. Schiaparelli,


Roma 1929-1933 (Fonti per la storia d’Italia, 62-63), n. 295: vol. II, pp. 439-444.
Edizione più recente: Chartae Latinae antiquiores, voll. XX-XL (Italy I-XXI), Lau-
sanne-Zürich 1982-1993, n. 808: vol. XXXI (Italy VII), a cura di J.-O. Tjäder,
1987, pp. 54-59 (dove si accetta la datazione proposta da Schiaparelli). D’ora in
poi citerò queste e altre edizioni in sigla, col solo numero d’ordine del documen-
to: qui, dunque, CDL 295 = ChLA 808. Sul breve de moniminas pisano è annun-
ciato un saggio di Antonella Ghignoli, che ho letto dopo la chiusura di questo
testo (ho soltanto introdotto la nota 4): la ringrazio per avermelo sottoposto, e
per altri preziosi consigli.
2 ATTILIO BARTOLI LANGELI

da Alahis, un gastaldo probabilmente lucchese vissuto al tempo


del re Liutprando (testimonianza di un cospicuo archivio laico,
personale e insieme pubblico, poiché Alahis aveva svolto funzioni
politiche e giurisdizionali e quei documenti li aveva tenuti in tale
veste) (2); altri riguardano la chiesa pisana di S. Pietro ai Sette Pini.
Nel breve pisano ogni pezzo documentario è definito con pre-
cisione. I cento documenti inventariati appartengono alle seguenti
categorie:
cartule 64
precetti 20
brevi 11 (breve disponsatione quem Guntelmi fice in Asconda sponsa
sua; brevi decem)
epistole 3 (epistule tris)
giudicati 2 (iudicato facto a Banso gastaldio curti domne regine; iudicati
dispensationis in eclesia Sancti Petri)

Tali documenti si distribuiscono, giusta la dichiarazione inizia-


le, « inter monimina et brevi ». Cammarosano definirebbe docu-
menti “pesanti” gli uni, documenti “leggeri” gli altri (3). I moni-
mina, munimina in latino corretto, ossia quei documenti che ave-
vano piena validità giuridica, che conferivano indiscutibile titolari-
tà di diritti, sono le cartulae (4) e i praecepta (i diplomi sovrani);
mentre i brevia e le epistule dell’archivio di Ghittia, autorizzati
dallo stesso dettato dell’inventario, possiamo definirli in negativo,
come scritture che non sono munimina. Cosicché l’elenco pisano
esemplifica efficacemente il sistema documentario che funzionò in
Italia nel secolo VIII (e oltre) (5). Un sistema piramidale: al vertice
è il re, che emana personalmente i diplomi ovvero praecepta; il
traffico giuridico che si svolge nella società dei proprietari, privati

(2) Cfr. S. Gasparri, Il regno longobardo in Italia. Struttura e funzionamento


di uno stato altomedievale, in Langobardia, a cura di P. Cammarosano e S. Ga-
sparri, Udine 1990, pp. 237-305: 285-287.
(3) P. Cammarosano, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte,
Roma 1991, p. 65.
(4) Compresi probabilmente i due iudicati, se intesi come donazioni o co-
munque cessioni per l’anima; pensavo trattarsi di placiti, ma Antonella Ghignoli
mi convince del contrario.
(5) Nello stesso senso utilizzava il breve de moniminas pisano G. Costama-
gna, L’alto medioevo, in M. Amelotti - G. Costamagna, Alle origini del notariato
italiano, Roma 1975, pp. 147-314: 214.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 3

e istituzionali, laici ed ecclesiastici (la sempiterna protagonista di


tutte le documentazioni) si realizza attraverso le chartae notarili. Il
livello inferiore è costituito da una serie di scritture che possono
definirsi “pratiche” e “di memoria”, delle quali i brevia costituiva-
no evidentemente la componente più riconoscibile. A quest’ultima
sono dedicate le considerazioni che seguono.
L’elenco stesso dei documenti resi da Teuspert a Ghittia è
detto « breve de moniminas »; in esso poi figurano una voce « bre-
vi decem » e un’altra « breve disponsatione [o forse di sponsatio-
ne] quem Guntelmi fice in Asconda sponsa sua ». Così, fra l’altro,
siamo già sicuri di dodici “brevi” prodotti in quel minimo spacca-
to di società tardolongobarda. Vi intravediamo una distinzione: il
« breve disponsatione » sarà stato un documento, con una data, un
attore e un destinatario, dei testimoni, un estensore; invece il « bre-
ve de moniminas », che abbiamo sotto gli occhi, è un puro elenco
di unità omologhe, senza data né sottoscrizione. La parola breve
indicava dunque due fattispecie diverse. Cominciamo dal secondo
tipo, quello dei brevi in forma di lista.

I BREVI COME SCRITTURE SERIALI

1. Attestazioni occasionali

Di brevi nell’accezione di elenchi, liste come il « breve de


moniminas » non mancano altre occorrenze coeve, indicative di una
certa normalità e frequenza d’uso.
Nel 772, con proprio praeceptum, Desiderio e Adelchi conces-
sero a S. Salvatore (poi S. Giulia) di Brescia 4.000 iugeri di « ter-
ra, silva, runcora et prata » del patrimonio regio; li aveva esatta-
mente delimitati Abono waldeman, che ne aveva scritto di propria
mano un breve: « sicut ... breve per ipsius Abonis manus rescrip-
tum legere probatur in integrum » (6). Nel 787 o 788, furono con-

(6) Codice diplomatico longobardo, III/1 (diplomi regi), a cura di C. Brühl,


Roma 1973 (Fonti per la storia d’Italia, 64), n. 41, p. 242.
4 ATTILIO BARTOLI LANGELI

segnati dei beni alla regina Ildegarda (così pare di capire); re Pi-
pino ordinò di elencarli « per breves » da consegnare a lui: « ut
(res) fiant descriptae per breves, et ipsae breves ad nos fiant ad-
ductae » (7). Un capitulare missorum emanato da Carlo Magno nel
786 o 792 ordinava ai sudditi il giuramento di fedeltà, e incarica-
va i messi di redigere e di portargli un brebe coi nomi dei giuran-
ti (« et nomina vel numerum de ipsis qui iuraverunt ipsi missi in
brebem secum adportent »); se ne conserva almeno uno relativo
all’Italia, che dovrebbe risalire al tempo di Ludovico il Pio (anni
828-829), consistente in un puro elenco di 174 nomi, senza alcun
titolo (8).
Tra i precedenti bizantini possono essere segnalati un paio di
brevia del VI secolo, uno conservato e l’altro citato in un placito
dell’anno 804. A Ravenna fu redatto nel 564 un elenco di cose
vendute, intitolato « breve de diversas species que vindite sunt » (9).
Litigando col patriarca di Grado nell’804, i rappresentanti delle
città dell’Istria addussero in placito i « breves per singulas civitates
vel castella quos tempore Constantini seu Basilii magistri militum
fecerant », che dovrebbero risalire appunto al VI secolo e, parreb-
be, avere forma di elenco (10).
Da questi esempi risulta evidente una cosa molto banale, cioè
che la parola breve aveva mantenuto primariamente il significato
di indice, lista, sommario che aveva nella latinità classica. I brevia
seriali continuavano la tradizione antica delle scritture in forma di
lista ad uso dell’amministrazione pubblica (ruolini militari e fiscali,
elenchi di dignitates, documenti contabili). Venuto a mancare un

(7) Capitularia regum francorum, I, ed. A. Boretius, in M.G.H., Leges, II,


Hannoverae 1883, n. 95, § 14 (cfr. I capitolari italici. Storia e diritto della domina-
zione carolingia in Italia, a cura di C. Azzara - P. Moro, Roma 1998, p. 70). Si
noti il genere femminile della parola brevis: così almeno nel testo, poiché il titolo,
non so se del manoscritto o dell’editore, ha il neutro breve: « breve de rebus
quae Hildegardae reginae traditae fuerunt ».
(8) Capitularia regum francorum cit., pp. 67 (capitolare di Carlo Magno) e
377-378 (indiculus di coloro che giurarono fedeltà a Ludovico il Pio, identificato
tramite P. Cammarosano, Nobili e re. L’Italia politica dell’alto medioevo, Roma-
Bari 1998, p. 155).
(9) J. O. Tjäder, Die nichtliterarischen Papyri Italiens aus der Zeit 445-700,
Lund 1954-1955 - Stockholm 1982, n. 8.
(10) I placiti del « Regnum Italiae », a cura di C. Manaresi, Roma 1955-1960
(Fonti per la storia d’Italia, 92, 96, 97), n. 17.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 5

apparato amministrativo, la pratica perse in regolarità e pubblicità,


restò subordinata a circostanze occasionali, non diede luogo a de-
finite strutture redazionali e formali. I brevia-elenchi altomedievali
erano scritture ad uso interno e pratico, non costitutive di diritti;
anonime; scritte da chiunque fosse in grado di farlo (un walde-
man, un missus, naturalmente un notaio) nella maniera che voleva;
particolarmente soggette alla dispersione, perché « cestinabili » sen-
za danno una volta esaurita la loro funzione.

2. I « polittici » italiani

C’è una categoria di brevia-elenchi che sembra abbastanza ca-


ratterizzata, se non altro perché è stata oggetto di una pubblica-
zione organica: gli « inventari altomedievali di terre, coloni e red-
diti », correntemente detti “polittici” per adeguamento alla termi-
nologia francese. L’edizione che ne fu fatta nel 1979 (11) raccoglie
sedici testi, tre dei quali però (quelli relativi a Limonta, Tortona e
Tivoli) sono molto differenti dagli altri; i restanti tredici sono rela-
tivamente coerenti per contenuti, e comune ne è la funzione e
l’occasione. Quei polittici infatti furono prodotti per avere il qua-
dro preciso di un complesso patrimoniale articolato in più unità,
specie se distanti fra loro; o di un complesso di diritti (censi e
redditi); o di un insieme di homines. Sempre c’è, implicito o espli-
cito, uno scopo per così dire difensivo, cioè di sventare eventuali
usurpazioni; ma c’è anche, in positivo, l’esigenza di conoscere nei
dettagli le risorse disponibili a un’istituzione.
Istituzione che è, nella maggior parte dei casi, un monastero o
altro ente ecclesiastico, di grande o medio calibro: Bobbio (che ne
ha quattro) (12), S. Giulia di Brescia (al quale dovrebbe risalire, ol-

(11) Inventari altomedievali di terre, coloni e redditi, a cura di A. Castagnet-


ti - M. Luzzati - G. Pasquali - A. Vasina, Roma 1979 (Fonti per la storia d’Italia,
104). Non risulta che queste fonti, molto utilizzate dagli storici del territorio e
dell’economia, siano state studiate negli aspetti formali.
(12) Alla quale abbazia risale forse un’altra lista, che non sappiamo dove
collocare in questo abbozzo di classificazione: ChLA 863. Si tratta di un elenco
di pagamenti in denaro, designato all’inizio come « notitia de pretium », scritto
verso la fine dell’VIII secolo da quattro mani diverse (una soltanto di genere
notarile), non sottoscritto né datato; il pezzo è conservato presso la Biblioteca
6 ATTILIO BARTOLI LANGELI

tre al proprio, il polittico della corte di Migliarina, da esso dipen-


dente), Monte Velate presso Milano, S. Tommaso di Reggio,
S. Cristina di Corteolona presso Pavia, S. Lorenzo di Oulx; ma
polittici hanno prodotto due fra i maggiori episcopati dell’epoca,
Lucca e Verona. I più antichi sono quelli di Bobbio, due polittici
datati 862 e 883; tra la fine del IX e l’inizio del X secolo si
collocano i due polittici lucchesi, quello di S. Giulia e il terzo di
Bobbio; gli altri vanno dalla metà del X alla metà dell’XI, il più
recente essendo il polittico di Oulx, del 1042 circa.
La prevalente attenzione ai beni rustici, agli edifici e ai coloni
non impedisce di allargarsi ad altri tipi di patrimonio e di risorse:
il polittico di S. Giulia di Brescia elenca gli arredi, oggetti e libri
delle chiese dipendenti (essendo il documento acefalo, è perduta
la parte relativa a S. Giulia); uno dei due lucchesi inizia con la
lista dei libri esistenti nell’episcopato. Ricordiamo di passaggio che
Bobbio aveva fin dal VII secolo una lista separata dei libri.
Un’analisi formale può giovarsi soltanto degli originali, che sono
nove. L’edizione che si sta esaminando manca purtroppo di ripro-
duzioni. I polittici sono costituiti, secondo la lunghezza, o da fogli
singoli o da rotoli di pergamena. Il rotolo più lungo è quello di S.
Giulia, 12 fogli per 5 metri e mezzo; ma molti, compreso quest’ul-
timo, sono mutili. Le scritture dovrebbero essere delle corsive di
tipo notarile: fanno perciò spicco i due polittici di Lucca, con scrit-
ture di tipo librario, disposte su rigatura, e quindi realizzati presu-
mibilmente da chierici amanuensi, non da notai o da “pratici”.
Con questi polittici la nostra immagine istintiva di elenco, come
una sequenza di capoversi-voci, non funziona o funziona solo in
parte: molti di essi sono scritti in continuo; non più di quattro o
cinque introducono partizioni mediante capoversi o titoletti in let-
tere maiuscole. La distinzione delle unità è ottenuta piuttosto dal
ritmico ripetersi di incipit uguali: « Habemus in ... », « Sunt (tot)
curtes in ... », « De beneficio ... »; è poco usata l’articolazione, poi
dominante, In primis ... Item ... Item. Alcuni polittici tra quelli in-
tegri portano, alla fine, la somma delle terre, rendite, censi: così il
primo e il secondo di Bobbio (« Est summa de hoc quod fratres
videntur habere ad suos usus ... »), il primo di Lucca (somme par-

Ambrosiana. Ringrazio Franco Magistrale, editore del documento, per le informa-


zioni che mi ha cortesemente fornito.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 7

ziali e somma totale), quelli di Monte Velate e di S. Tommaso di


Reggio (somme al termine di ciascuna sezione). Nessuno, si ripete,
è sottoscritto dall’estensore o da chi per lui.
(Era scritto in continuo anche il « breve de moniminas » pisa-
no: come non scusare l’anonimo scrivente, che sbagliò a contare
gli item? – sempre che per contarli si sia basato su quella com-
patta massa di parole).
Se alcuni polittici non portano intestazione, vediamo quelli che
invece introducono l’elenco con qualche formula, ricordando che
alcuni sono acefali. Hanno la datazione soltanto i polittici di Bob-
bio dell’862 e dell’883, col millesimo di Cristo: che il primo sia il
più arretrato “documento” italiano in cui si conteggiano gli anni
secondo l’era cristiana? – se così fosse, notiamo non trattarsi di
una charta. Hanno un “titolo” i polittici, in ordine cronologico, di
Bobbio (il secondo: invocazione, « Incipit abbreviatio de rebus om-
nibus ... », datazione), S. Maria di Monte Velate (« breve memora-
tionis »), S. Tommaso di Reggio (« breve recordacionis », con una
sezione intitolata « breve de cuntis que ... »), Migliarina (« Item bre-
ve quod invenimus ... »: la prima parola indica trattarsi della sezio-
ne di un polittico più ampio), il quarto di Bobbio (« Hoc est bre-
viarium ... », con all’interno un capitolo « breve de terra que in
Maritima esse videntur »), Oulx (« carta de racione facienda »). Non
all’inizio del testo ma sul verso della pergamena, da due mani
coeve, il secondo polittico di Lucca è definito « breve de feora »
(che starà per feoda) e « breve de beneficio fidelium ». Ignoro se
il titolo di S. Cristina di Corteolona (« Incipit breviarium ... », pre-
ceduto da invocazione) sia del copista o dell’originale.

Interessante tuttavia quest’ultimo termine, breviarium, che ab-


biamo visto usato a Bobbio e vedremo usato per un prodotto
ravennate. Esso significa alla lettera “insieme di brevi”, una sorta
di ‘breve brevium’. Lo si trova utilizzato, ad esempio, in un placi-
to veronese del 1021, dove l’abate di S. Zeno rivendicò la titolari-
tà di sei cappelle e relative pertinenze « in comitatu Tervisino »
dimostrata, a suo dire, da un « breviarium antiquum »: « sicut in
breviario antiquo [Sancti] Zenonis legitur » (13). Ecco un riferimen-
to sicuro a un polittico perduto.

(13) Manaresi, I Placiti cit., n. 309.


8 ATTILIO BARTOLI LANGELI

Diverso dagli altri e per contenuto e per cronologia è il “po-


littico” di Tortona. Si tratta infatti dell’elenco (acefalo), scritto da
un monaco, dei beni donati da una Teberga alla cattedrale di Tor-
tona, risalente non al IX secolo come si credeva, ma al terzo quar-
to dell’XI, come ha dimostrato Ettore Cau (14).
Fin qui, gli “inventari” fatti oggetto della pubblicazione di cui
si diceva. Le ricerche ulteriori ne hanno fatto emergere non pochi
altri, dello stesso torno di tempo, in specie lombardi. Tra questi è
particolarmente, forse eccezionalmente ricca e compatta la serie
dei polittici dell’abbazia di Morimondo (sul Ticino, tra Milano e
Pavia), che coprono all’incirca il secolo tra il 1070 e il 1170: tren-
tuno testi in forma di puro elenco, di misure variabili, sortiti da
occasioni determinate (una permuta, una divisione, una donazio-
ne) e dunque con funzione di “allegati” a un documento; se un
paio sono intitolati « carta », quasi tutti gli altri portano l’intesta-
zione « breve », in nove casi con la specificazione « breve recorda-
cionis » (15).

3. Documenti in libro

Non abbiamo dimenticato il cosiddetto inventario di Tivoli (di


quello di Limonta parleremo dopo). Esso è datato 945, riguarda i
beni immobili della chiesa cittadina ed è intitolato « Breve recor-
dationis de casalibus et rebus Tyburtine ... ecclesie »; avrebbe per-
ciò, all’apparenza, i requisiti per essere assimilato agli altri « inven-
tari altomedievali » longobardi. Invece appartiene, a nostro avviso,
a un altro genere di scrittura, che conta due, se non tre altri
rappresentanti; e di questi sarebbe il più antico.
Esso infatti non è propriamente un polittico, ma piuttosto un
censuario, consistendo nella registrazione abbreviata di 257 con-
tratti di concessione dietro versamento di un censo. Un censuario
che, altro ma ipotetico elemento, è probabile avesse forma di li-
bro, non di foglio o rotolo membranaceo – non si può affermarlo

(14) E. Cau, Una nuova lettura del ritrovato polittico dell’Archivio Capitolare
di Tortona, « Studi medievali », ser. III, 29 (1988), pp. 745-753.
(15) Sono pubblicati da M. Ansani in appendice alla sua edizione Le carte
del monastero di S. Maria di Morimondo, I: 1010-1170, Spoleto 1992, pp. 441-492.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 9

con sicurezza perché a tramandarlo è, in copia di copia incomple-


ta, il Regestum Tiburtinum, posteriore di un secolo e mezzo (16) –.
Queste caratteristiche sono di altri prodotti ravennati (e noteremo
che Tivoli era città del Patrimonium romano), il più importante
dei quali è il breviarium dei possedimenti meridionali della chiesa
di Ravenna della fine del X secolo, altrimenti noto come « Codice
Bavaro » (perché conservato a Monaco di Baviera) (17).
Il Breviarium territorii Arimini, Senogalie et aliorum locorum
(questo il titolo duecentesco che figura sulla coperta di pergame-
na, tratta da un documento del 952) è un libro papiraceo redatto
alla fine del secolo X, composto di sei fascicoli, per un totale di
46 carte, alcune delle quali palinseste; è probabile che la consi-
stenza originaria fosse maggiore. In esso furono registrati, in for-
ma di estratti, i documenti attestanti le proprietà e i proventi del-
la chiesa di Ravenna nei territori dipendenti, in particolare quelli
a sud della città (Pentapoli marittima e Pentapoli annonaria) fino
a Perugia. In tutto si hanno 187 registrazioni, relative a documen-
ti dalla fine del VII a tutto il X secolo (donazioni, enfiteusi, livel-
li), disposte secondo un criterio topografico. Gli estensori, tutti
notarii arcivescovili, sono sette o otto: una volta impostate le se-
zioni di ciascun territorio, essi aggiunsero progressivamente il re-
gesto degli originali via via reperiti nell’archivio.
La sezione ferrarese del libro ravennate, perduta nell’originale,
ovvero – secondo un’opinione diversa – un originario liber auto-
nomo dei possedimenti di Ravenna nell’area di Ferrara (dunque
qualcosa di analogo al “Codice Bavaro”), fu trascritto un secolo
dopo in un registro di pergamena del quale si conservano soltanto
tre fogli (18). I documenti datati o databili risalgono al X secolo.

(16) Ed. L. Bruzza, Regesto della Chiesa di Tivoli, Roma 1880 (Biblioteca
dell’Accademia storico-giuridica, 6).
(17) Del cosiddetto Codice Bavaro esistono due buone edizioni, uscite quasi
contemporaneamente: Codice Bavaro. Codex traditionum Ecclesiae Ravennatis, a
cura di E. Baldetti e A. Polverari, Ancona 1983; Breviarium Ecclesiae Ravennatis
(Codice Bavaro). Secoli VII-X, a cura di G. Rabotti, Roma 1985 (Fonti per la
storia d’Italia, 110). Si veda la raccolta di saggi di A. Vasina ed altri, Ricerche e
studi sul « Breviarium Ecclesiae Ravennatis » (Codice Bavaro), Roma 1985 (Studi
storici, 148-149).
(18) Si veda lo studio di T. Bacchi nel volume appena citato, pp. 179-191.
Il frammento del libro ferrarese era stato pubblicato da A. Vasina nel 1958 e da
10 ATTILIO BARTOLI LANGELI

Lo scrivente dovrebbe essere anche lui un notaio della cancelleria


arcivescovile di Ravenna (il frammento sta in quell’archivio). Ini-
doneo definirlo un “protocollo notarile”, sono di tradizione archi-
vistica tarda i titoli di Regestum o Register traditionum coi quali il
frammento è citato.
A questi due (se erano due) prodotti “librari” ravennati si può
avvicinare un quaterno di S. Apollinare Nuovo, ma di tutt’altro
contenuto (19). Si tratta della copia di un documento dell’11 mag-
gio 973, eseguita dal tabellione Severus nel 1043: data la lunghez-
za del testo, egli usò un quaterno membranaceo.
I tre manoscritti ravennati e, se era di forma libraria, quello
tiburtino rappresentano ai nostri occhi una specifica soluzione do-
cumentaria che si ebbe, tra X e XI secolo, nelle cancellerie epi-
scopali di tradizione romano-bizantina. La tipicità sta appunto nel-
la forma libraria del contenitore, da intendersi nel senso stretta-
mente materiale, mancando ogni allusione al modello del libro di
cultura. Nel caso dei breviaria (il tiburtino, il ravennate e il ferra-
rese) la forma libraria facilitava la registrazione delle unità testuali
pagina per pagina e rendeva ben distinguibile la loro successione,
in tal modo avvicinandosi alla natura e alla funzione proprie di
un repertorio, di uno strumento di consultazione, che invece il
breve longobardo-franco, si è visto, attingeva con fatica. Quanto al
quaterno con la copia del documento del 973, è verosimile trattar-
si del « riversamento » in libro e su pergamena di una stesura ta-
bellionale su rotolo di papiro.
In entrambi i casi non si rischia di sopravvalutare il dato mate-
riale, perché quei prodotti “librari”, assenti nella cultura documen-
taria longobarda, si devono a notai o comunque a specialisti della
documentazione. Per la prima volta vediamo degli scriventi di tal
genere, che non appartengono al mondo dei libri, tagliare dei fogli
della stessa misura, metterli uno sull’altro, piegarli a metà, cucirli,
scriverli su tutte le facce, insomma realizzare fascicoli e libri; e

lui riproposto in La chiesa Ravennate e il Ferrarese attorno al Mille, in Vasina,


Romagna medievale, Ravenna 1970, pp. 49-71 (la trascrizione alle pp. 65-68).
(19) Il quaterno, conservato nell’archivio di S. Paolo fuori le mura, è ripro-
dotto in Archivio Paleografico Italiano, III, tavv. 74-81: fasc. 22, Roma 1905; cfr.
V. Federici, Regesto di S. Apollinare Nuovo, Roma 1907 (Regesta chartarum Italiae,
3), pp. 5-14, n. 2.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 11

utilizzarli per registrazioni di natura schiettamente documentaria o


addirittura per trascrivervi documenti. La novità, si badi, è ancora
più evidente nel breviarium ravennate, che è di papiro, mentre i
due dell’XI secolo sono membranacei (nulla si può dire del breve
recordationis tiburtino): nell’uso del papiro è forse da vedere una
originaria obbedienza al carattere “all’antica” così identificante e
peculiare, della documentazione ravennate, presto abbandonata per
assumere la materia di uso comune in quell’epoca – in effetti un
codice papiraceo, tanto più nel X secolo, è quasi una contraddizio-
ne in termini, essendo quello un materiale pressoché scomparso
dall’uso e comunque inadatto a esser legato in codice.
Inizia di qui la storia italiana dei documenti in libro (20). Una
storia che avrà notevoli sviluppi, secondo due direttrici che già si
vedono in nuce in queste sperimentazioni: i breviaria inaugurano il
genere dei “libri di censi”, nei quali sono registrati gli estremi de-
gli atti di concessione a tempo di beni fondiari; mentre il quaterno
di S. Paolo è il modesto, casuale antecedente della tipologia dei
“libri di documenti”. Tipologia che parte dai formidabili cartulari
benedettini dell’Italia mediana prodotti tra XI e XII secolo (Farfa,
Montecassino, S. Clemente a Casauria, S. Vincenzo al Volturno,
S. Bartolomeo di Carpineto; ma non si dimentichi il Chronicon
Novalicense, ossia dell’abbazia di Novalesa in Val di Susa, che po-
trebbe tuttavia apparentarsi alla produzione d’oltralpe) e prosegui-
rà nel Duecento sia con la (non abbondantissima) serie di cartula-
ri ecclesiastici e religiosi, sia soprattutto con i prestigiosi libri iu-
rium delle città comunali (21). Una storia che non possiamo appro-
fondire (22); conviene riprendere il ragionamento sui brevia.

(20) La definizione di “documenti in libro” riecheggia, senza alcun rapporto


di merito, il titolo del libro di C. Carbonetti Vendittelli, Documenti su libro.
L’attività documentaria del Comune di Viterbo nel Duecento, Roma 1996 (Fonti
per la storia dell’Italia medievale. Subsidia, 4).
(21) Se la letteratura sui cartulari comunali è solida e conosciuta, è opportu-
no almeno citare il migliore saggio d’insieme, recente, sui cartulari italiani di
istituzioni religiose: D. Puncuh, Cartulari monastici e conventuali. Confronti e os-
servazioni per un censimento, in Libro, scrittura, documento della civiltà monastica
e conventuale nel basso medioevo (secoli XIII-XV). Atti del convegno di studio
(Fermo, 17-19 settembre 1997), a cura di G. Avarucci - R. M. Borraccini Verduc-
ci - G. Borri, Spoleto 1999, pp. 341-380.
(22) Come non possiamo approfondire un altro tema, che tuttavia va segna-
lato se non altro per evitare equivoci: l’uso inoltrato del termine breve in una
12 ATTILIO BARTOLI LANGELI

II

I BREVI COME DOCUMENTI

1. Brevi giudiziari

I brevia non erano solo elenchi, ma anche documenti: scrit-


ture, cioè, attestanti un’azione giuridica svoltasi un certo giorno
ad opera di certe persone. Tale sarà stato, si diceva, quel « breve
disponsatione » citato nell’elenco dei documenti resi da Teuspert
a Ghittia, anche se per ipotesi vi fossero elencati i beni oggetto
della donazione nuziale. In effetti molti brevia-documenti presen-
tano un elemento di serialità: ad esempio quelli che attestano
inquisitiones, le ricognizioni operate da ufficiali pubblici (special-
mente missi del re) sulla consistenza e pertinenza di certe terre,
attraverso l’escussione di testimoni o indagini dirette. Eccone al-
cuni.
Avevamo lasciato da parte un “polittico”, l’elenco dei beni
costituenti la curtis regia di Limonta, presso Como, dell’835 o
poco prima: esso non è un elenco come gli altri, ma è compreso
nel « breve inquisitionis quod fecerunt » due missi e un gastaldus
per stabilire i diritti di quella corte su un casale appartenente a
una chiesa vicina. Prima sono riportate le dichiarazioni giurate di
otto uomini di Bellagio: « Besolo dixit et recordavit “certe scio et
bene memoro ...” »; « Grigoaldus homo senex dixit ... »; « Andro
homo senex dixit ... » e così via; segue l’elenco, stabilito dai tre,
dei beni in discussione, introdotto dalle parole « breve de curte
Lemunta » (23).

accezione che non ha niente a che fare con la prassi documentaria corrente ma
concerne l’ambito istituzionale del Comune. Infatti breve è chiamata la formula
sulla quale i magistrati prestavano annualmente il giuramento dell’ufficio. I più
antichi Brevi dei consoli si hanno, intorno alla metà del XII secolo, a Genova,
Pisa, Pistoia; e il termine, per estensione, venne a designare in alcuni Comuni le
prime redazioni statutarie, anche duecentesche. È plausibile che in questo caso
l’adozione del nome riecheggi l’antico concetto di “scrittura seriale”: infatti i Bre-
vi comunali sono costituiti da una successione di capitoli distinti.
(23) Manaresi, I Placiti cit., I, pp. 568-574; Castagnetti, in Inventari altome-
dievali cit., pp. 21-23.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 13

Risalendo all’indietro, breve è designato un documento senese


del 715, uno dei più antichi di epoca longobarda (24). L’inizio, con
segno di croce, datazione cronica e invocazione, ne chiarisce la
natura propriamente documentaria, benché la successione dei tre
elementi sia anomala. Poi c’è la dichiarazione « breve de singulos
presbiteros quos... ego Guntheram notarius in curte regia Senense
inquisibi »; i testimoni chiamati a deporre sono 77. Non c’è sotto-
scrizione, benché sia assolutamente probabile che l’estensore sia lo
stesso notarius autore dell’inquisitio.
Ha forma identica a un placito (protocollo, inizio con Dum,
sedici sottoscrizioni) una inquisitio giudiziaria del 787 tràdita dal
Chronicon Vulturnense (25). Essa è condotta da tre missi di re Carlo
su alcune terre rivendicate dall’abate di S. Vincenzo al Volturno.
Nell’impossibilità di definire la causa, essi fanno redigere « duos
breves », uno per i monaci e uno per un gastaldo locale: due esem-
plari cioè di uno stesso breve, che viene trascritto nel corpo del
documento. Ecco dunque nove elenchi (alcuni dei quali a loro
volta intitolati breve), per un totale di 325 voci, tra uomini e terre
e case. I partecipanti dichiarano « in hunc brevem interfui », e la
sottoscrizione del redattore è « Unde hunc brevem ego Tagipertus
notarius scripsi »: è l’intero documento, redatto con tutte le for-
malità, ad assumere il nome di “breve”.
Però vi sono documenti giudiziari – non solo inquisizioni, ma
le stesse sentenze – che ricevono il titolo di breve senza avere
contenuto in alcun modo seriale; per essi quel titolo si accompa-
gna spesso a notitia. Si possono citare le inquisitiones designate
come « noticia brevis commemoracionis » (838, Lucca), « notitia
brevis » (841, Cremona), « notitia pro causa memorationis » (880,
Como), che sono documenti di struttura complessa, con ricche
sottoscrizioni al modo placitario (26). Quanto ai placiti, detto che
quelli con tutti i crismi erano detti notitia iudicati, alcuni di essi
sono documentati in una forma che possiamo definire “abbrevia-
ta”: si tratta di esposizioni succinte, a struttura testuale variabile,
non sottoscritte dai partecipanti e nemmeno, talvolta, dall’estenso-
re. Non risultano differenze di merito (che so, quanto al collegio

(24) CDL 19; non presente in ChLA, in quanto copia del IX-X secolo.
(25) Manaresi, I Placiti cit., I, pp. 559-566.
(26) Ibid., pp. 574-585.
14 ATTILIO BARTOLI LANGELI

giudicante o al tipo di controversia) tra questi placiti “brevi” e le


notitiae iudicati consuete; evidentemente in qualche caso mancaro-
no le condizioni per realizzare il documento perfetto e si dovette
ripiegare su una semplice scrittura di memoria. Tra queste stesure
(almeno una ventina tra IX e X secolo) si hanno testi denominati
« notitia brevis memoratorii », « notitia brevis recordacionis », « no-
ticia breve memoracionis ad memoriam retinenda », fino a « notitia
brevis pro modernis et fucturis temporibus sechuritatis hac firmi-
tatis ad memoriam abendam vel retinendam » (1020, Lucca) (27); al-
tri sono detti scriptum (« scriptum brevis », « brevis scriptum »,
« breve scriptum »); altri, i più, sono qualificati semplicemente bre-
ve, con le varianti « breve memoriale » o « memoratorium », « bre-
ve commemorationis » o « recordationis ».

2. Brevi negoziali

Lo stesso dislivello si verifica nella documentazione delle tran-


sazioni tra persone. Nel Codice diplomatico di Schiaparelli, dove
per il resto domina la charta, sono dieci i testi da considerare
(l’undicesimo e ultimo, il n. 295, è il breve de moniminas del qua-
le si è detto a sufficienza, che non va considerato qui in quanto
breve “seriale”). Sette sono lucchesi, tre riguardano località della
Lombardia. Sono per l’esattezza i seguenti:
1) 739, Lucca CDL 70 ChLA 916 b
2) 758, Lucca 128 947 b
3) 761, Lucca 154 965
4) 761, Brescia 158 – (copia)
5) 762, Lucca 161 969
6) ante 769, Campione 233 851
7) 770, Lucca 237 1010
8) 770, Lucca 247 1019 b
9) 771, Lucca 251 1020 b
10) 771, Campione 252 853

Solamente due testi contengono elenchi. Sono le scritture atte-


stanti due divisioni di beni tra il vescovo Peredeo e suoi familiari
fatte nel 761 e 762, nn. 3 e 5: la prima riporta tre « brevia de

(27) Ibid., n. 305.


SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 15

homenis » (70 nomi in tutto), la seconda è articolata in tre liste


introdotte da « Noticia facio ego ... ». Gli altri non hanno carattere
seriale: ci sono testi che riguardano donazioni nuziali, convenien-
tiae cioè accordi tra due parti, mundia cioè emancipazioni.
Sono denominati « breve », o in intestazione o in sottoscrizio-
ne, tre testi (nn. 2, 3, 7, lucchesi), altrettanti « notitia » o « noti-
cia » o « noditia » (nn. 2 e 5, lucchesi; n. 6, lombardo) (28), uno
« memoraturium » (n. 1, lucchese), uno « cartula » (n. 4, brescia-
no). I termini breve e notitia sono combinati nei nn. 3, lucchese
(« notitia brevis »), e 10, campionese (« notitia brevis memoratorio
pro foturis temporibus », alla fine « brevis memoratorio »).
In due casi (entrambi lucchesi) la scritta non ha autonomia,
ma è unita a una cartula offersionis: la n. 8 ha un “poscritto” che
documenta una convenientia per la sua realizzazione; la n. 9 porta
sul verso un’annotazione interessante. Il chierico Filippo aveva re-
datto, il 18 marzo, una cartula offersionis di un Perforeo alla chie-
sa di S. Pietro, scrivendo che costui offriva non solo i suoi beni
ma anche se stesso; sbagliato, disse il vescovo Peredeo su richiesta
del soggetto; e il 5 aprile Filippo rase, nella cartula già scritta,
quelle parole (c’è in effetti a quell’altezza una rasura di mezza
riga) (29). Evidentemente per non ingenerare sospetti su quell’inter-
vento, si premurò di dichiararlo sul verso dello stesso foglio: « ego
Filippus clericus iscriptor huius cartule abstuli de hanc cartulam ...
[le parole incriminate] et iterum ividem rescripsi », “ci ho riscritto
sopra”.
Varie sono le modalità redazionali e le strutture compositive.
Emergono, senza peraltro imporsi come tipiche, soluzioni che mar-
cano una differenza acuta con la charta: essenzialmente la forma
narrativa, dimostrata non solo dal formulario del dispositivo (terza
persona e verbo al passato, benché in compresenza con brani in
prima persona) ma da altri fatti connessi: l’indicazione immediata
del tipo di documento, legata con « qualiter » o altra espressione

(28) Si cita allora, per restare entro il limite dell’VIII secolo, il documento
ChLA 836 (Asti, 792: perciò assente da CLA): esso ha tutta la struttura e il
formulario di una charta ma è definito noticia: all’inizio, dopo la datazione, « no-
ticia commudacionis qualiter vigario fecerunt ... »; alla fine, prima delle sottoscri-
zioni, « unde duas noticias pari tinore conscriptas ... ».
(29) Ma Schiaparelli valuta diversamente, seguìto dall’editore di ChLA 1020.
16 ATTILIO BARTOLI LANGELI

al dispositivo (ad esempio « noditia qualiter Arichis tradidit nepta


sua ... », n. 6); la datazione in fine, introdotta da « actum » o « fac-
tum » e legata alla menzione dei testimoni con la formula « in pre-
sentia ». Ma l’escatocollo, come sempre in diplomatica, va osserva-
to con qualche attenzione.
Due soli brevi presentano un escatocollo da charta, i nn. 3,
lucchese, e 10, campionese. Strettamente fedele al modello è il
n. 10, poiché dopo la datazione « facta notitia brevis memorato-
rio ... » con datazione e feliciter si hanno la sottoscrizione del ri-
chiedente, l’intervento dei testimoni (tre signa manus e una sot-
toscrizione) e la sottoscrizione del redattore. Adattato alla fattis-
pecie è invece l’escatocollo del n. 3: « Facta suprascripta noti-
tia ... (datazione cronica) et scripsi ego Osprandus diaconus »; sot-
toscrizioni dei due attori; signa manus di tre testimoni; sottoscri-
zione dell’estensore. In entrambi i casi quest’ultima, la sottoscri-
zione dell’estensore, è al modo della charta: n. 3 « Ego Ospran-
dus diaconus scriptor post breve tradita ... complevi et dedi »; n.
10 « Ego qui supra Walpert indignus presbiter scriptur huius
brevis memoratorio quam postradita conplevi et dedit ». Due
scritte, entrambe lucchesi, portano una sottoscrizione notarile ben
diversa dalla completio (nn. 2: « scripsi » e 7: « scribsi et inter-
fui »). I restanti non sono sottoscritti da notaio; paradossale il n.
158, bresciano, che è denominato « cartula » ma non ha nulla di
essa (30).
Segnalo infine che alcuni testi lucchesi sono in latino comu-
ne, grammaticale (specialmente le convenientiae nn. 7 e 8; lo sono
anche alcune delle inquisitiones sopra menzionate). Se è vero che
nella charta, riflesso documentario della legge, si doveva utilizza-
re il latino del diritto – quel latino ‘langobardico’ che è costru-
zione giuridica e niente affatto frutto d’ignoranza –, forse fuori
della charta era possibile utilizzare una lingua grammaticata, se
alla portata del redattore. Valga almeno, quest’annotazione, come
suggerimento a osservare ed eventualmente distinguere i compor-
tamenti linguistici dei notai, che rappresentano un dato costituti-
vo della cultura documentaria del medioevo centrale.

(30) Esattamente contrario è il caso astense di cui alla nota 28: una cartula
intitolata « noticia ».
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 17

3. Brevia, chartae, notitiae

Fuori della charta: non c’è altro modo di giudicare queste scrit-
ture, nelle quali il carattere sicuramente documentario è altrettanto
evidente dell’assenza di ogni modello comune. Di fatto avveniva
questo: si sentiva il bisogno di documentare un atto che, per la
sua natura, non consentiva o non rendeva necessario il ricorso alle
formalità della charta; e allora l’estensore procedeva empiricamen-
te, in piena libertà, a un’attestazione scritta che otteneva comun-
que lo scopo di attestare, provare, “dar notizia”.
A ben vedere queste disparate attestazioni dell’VIII secolo con-
fermano la primarietà della charta, unica scrittura notarile degna del
nome di munimen, garante della costruzione giuridica e patrimoniale
della società, pienamente valida perché risultante da una procedura
e da una scrittura regolate, “a norma di legge”. Il dato più significa-
tivo è fornito da quei redattori lucchesi che conosciamo come autori
sia di chartae che di brevia, i quali nelle due evenienze adottano
comportamenti differenti. Il loro stesso operare dimostra che in quella
fase la charta non aveva alternative dello stesso livello e della stessa
forza: brevia, notitiae, memoratoria non pretendevano affatto di sur-
rogarla o soppiantarla; si muovevano in un ambito non occupato né
occupabile da essa. Proprio per la sua rigidità procedurale e reda-
zionale la charta lasciava aperta una zona franca in cui certe esigenze
di documentazione potevano realizzarsi in maniera libera ed elastica.
Qui infatti subentrava l’uso del modo narrativo, capace di aderire
senza condizionamenti al fatto e ai suoi precedenti: già Mabillon av-
vertiva che il breve è « velut historica rei gestae narratio » (31).
È per quest’ultimo motivo che la notitia fu la forma espositiva
adottata per i placiti, anche i più solenni. Solo al modo narrativo
si poteva dar conto agevolmente delle motivazioni addotte dalle
parti, dello svolgersi del dibattimento, della successione delle fasi
processuali. E però la notitia iudicati, fatta ad memoriam retinen-
dam, era un documento formato e strutturato, che ribadiva e anzi
esaltava le modalità di roboratio della charta (le sottoscrizioni), tut-

(31) Cfr. S. P. P. Scalfati, “Forma chartarum”. Sulla metodologia della ricerca


diplomatistica, in Scalfati, La Forma e il Contenuto. Studi di scienza del documen-
to, Pisa 1993, pp. 51-85: 61-62.
18 ATTILIO BARTOLI LANGELI

t’altra cosa dalle stesure di cui stiamo discorrendo. È chiaro a


questo punto il senso distinto delle due parole, notitia e breve.
Un documento era chiamato notitia non in riferimento alle moda-
lità di autenticazione, ma per essere costruito al modo narrativo;
era chiamato breve, invece, per essere scritto senza le formalità
proprie del documento valido a tutti gli effetti. La dizione con-
giunta, notitia brevis, significava la fusione dei due elementi.

4. Brevi e notai: uno spunto dalla Langobardia minor

La più evidente delle differenze tra la charta e il breve-documen-


to sta nella sottoscrizione del redattore, che può esserci e può non
esserci. Per quanto ridotto, il campione dei dieci brevia riscontrati
nel Codice diplomatico longobardo presenta incidenze significative: sei
brevi non sono sottoscritti; nei quattro che lo sono, due redattori si
accomodano sulla soluzione notarile consueta e forte, « post traditam
complevi et dedi »; due invece dichiarano l’autografia, « scripsi », il
che non configura, dati i tempi e le leggi, alcuna roboratio. La cosa
induce il problema dei redattori: notai o no? (senza nemmeno tocca-
re il tema, assai spinoso, del notariato longobardo).
Che il problema fosse reale è dimostrato da una legge di un
principe di Benevento, Adelchi, dell’anno 866:
Inconveniens usque modo consuetudo extitit, ut quisquis voluisset, si
nosset, scribere brevem, undecumque oportunitas exegisset. Amodo au-
tem decernimus, ut soli notarii brevem scribant, sicut et cetera munimi-
na. Et quiscumque deinceps brebis fuerint absque notarii subscriptionem
ostensus, nullam retineat firmitatem; quoniam multos ex illis deprehendi-
mus fuisse falsos, quod deo opitulante cupimus, ut ulterius non fiat (32).

Nulla di simile nelle leggi dei re longobardi, pur così abbondan-


ti di prescrizioni circa gli scrivae e i loro documenti, e nemmeno

(32) Capitula domni Adelchis principis, 8: ed. G. H. Pertz, in MGH, Leges, IV,
IV (Edictus Langobardorum), Hannoverae 1868, p. 212. Cfr. P. Bertolini, “Actum
Beneventi”. Documentazione e notariato nell’Italia meridionale langobarda (secoli VIII-
IX), Milano 2002 (Fonti e strumenti per la storia del notariato italiano, 11), p. 162.
Qui, nota 69, si rinvia a un’esposizione che non ho trovato; a meno che si tratti
della nota 270 a p. 224, dove si dice che i « breves (documenti costitutivi) » risul-
tano, a partire dalla fine dell’VIII secolo, « tutti rogati da un notaro » (corsivo
dell’autore), però indicando documenti che sembrano cartulae della più bell’acqua.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 19

nei capitolari italici dei Carolingi: ma indubbiamente la situazione


denunciata e risolta dal principe Adelchi nel pieno IX secolo dove-
va verificarsi, o essersi verificata, nel Regno. Quella stessa alterità
dei brevia-documenti rispetto ai munimina sulla quale verte la legge
beneventana era dichiarata nell’elenco pisano dal quale siamo partiti,
con le stesse parole (« inter monimina et brevi »). Dal canto loro, i
brevia dell’VIII secolo fin qui considerati depongono appunto nel
senso di scritture non necessariamente delegate a notai e che, quan-
d’anche gli estensori lo fossero, non abbisognavano di completio.
In effetti, anche nella Langobardia minor (“minore” ma ben
più duratura della “maggiore”) si ripete l’opposizione tra le forme
documentali della chartula e del breve, detto più spesso, qui, me-
moratorium (33). Opposizione formalizzata in termini precisi: la char-
tula è il documento costitutivo del negozio giuridico, il memorato-
rium è una scrittura accessoria e complementare di quella, esegui-
ta dallo stesso notaio con la stessa data, che serve a garantire
l’acquirente circa il possesso pacifico del bene acquisito; entrambe,
poi, presentano un dettato in forma soggettiva e col tempo al pre-
sente (nell’una: « Ego declaro quod », nell’altra: « Memoratorium
factum a me »). Analoghe sono le formalità convalidatorie, ossia le
sottoscrizioni dei testimoni; poiché, come è noto, nei documenti
dell’area longobarda meridionale è assente quella del notaio, indica-
to nella chartula dalla formula di rogatio espressa dall’attore (« Et te
N. notarium scribere rogavi »), nel memoratorium da una dichia-
razione dello stesso notaio, che afferma in prima persona di aver
scritto « eo quod interfui ». Le differenze col dualismo centro-set-
tentrionale sono evidenti. Tanto più che a partire dal X secolo i
due modelli tendono a confondersi fino a dar luogo a una strut-
tura documentaria comune, denominata scriptum. Cosicché si po-
trebbe ricamare sull’inciso « sicut et cetera munimina » nel testo
della legge dell’866: inciso che parrebbe riferito a « soli notarii »
(“solo i notai scrivano i brevi, come avviene per gli altri munimi-
na”), ma potrebbe coinvolgere anche la parola « scribant » (“solo i
notai scrivano i brevi, alla stessa maniera in cui scrivono gli altri

(33) Utilizzo la sintesi, molto limpida, di A. Pratesi, Il notariato latino nel


mezzogiorno medievale d’Italia, in Scuole diritto e società nel mezzogiorno medievale
d’Italia (Università di Catania, Seminario giuridico), II, Catania [1987], pp. 137-
168, specialmente 151-159: a p. 152 un cenno alla legge di Adelchi.
20 ATTILIO BARTOLI LANGELI

munimina”). Se non altro, si è autorizzati a pensare che la dispo-


sizione del principe Adelchi abbia influito sull’esito unitario.

5. Qualche appunto di prospettiva

Nel Regno italico, invece, il breve continuò ad essere utilizzato


in parallelo alla charta, uscendo a poco a poco da quegli inizi
indistinti e multiformi fino a consolidarsi come vero e proprio
modello documentario, ormai di esclusiva spettanza notarile: il che
avvenne durante l’XI secolo. I nomi che più di frequente si ri-
scontrano in testa ai documenti di questa fatta sono « breve recor-
dationis », « breve ad memoriam retinendam » e simili, con ridu-
zione della ricca casistica nomenclatoria precedente. Ma nella sto-
riografia è invalsa la formula del “dualismo charta-notitia”, un fe-
nomeno riconosciuto e battezzato da Heinrich Brunner più di un
secolo fa e successivamente precisato da Oswald Redlich (34).
Il breve lombardo e toscano del secolo XI ha caratteri davve-
ro alternativi alla charta, che è naturale definire per comparazione
– sia pure, qui, per tratti sommari. Da un lato un documento (la
charta) che, per quanto ormai prosciugato dal suo formalismo ori-
ginario, è direttamente efficace perché le sue roborazioni (inter-
venti testimoniali, traditio e completio notarili) coincidono con il
compimento del negozio, dall’altro un documento di ausilio alla
memoria degli intervenuti. Da un lato il nesso, dall’altro il distac-
co tra l’azione e la documentazione. Da un lato “attori” che espri-
mono le loro volontà in prima persona, dall’altro semplici com-
mittenti. Di qui i riflessi testuali: nella charta forma soggettiva (co-
munque sia strutturata), nel breve forma narrativa (« noticia quali-
ter ... »); la posizione della datazione, iniziale nella charta e bassa
(con factum, actum, factum est hoc) nel breve; diversa dichiarazio-
ne dei testimoni perché diverso era il loro ruolo, di garanti di

(34) Sulla fondazione tardo-ottocentesca di tale dualismo si legga S. P. P. Scal-


fati, Alle origini della “Privaturkundenlehre”, in Libri e documenti d’Italia dai Lon-
gobardi alla rinascita delle città. Atti del convegno nazionale dell’Associazione italia-
na dei paleografi e diplomatisti (Cividale, 5-7 ottobre 1994), a cura di C. Scalon,
Udine 1996, pp. 129-151, specialmente pp. 142-145 (su Brunner) e 145-149 (su
Redlich). Allo stesso autore si deve la più chiara descrizione dei due modelli, nel
saggio “Forma chartarum” già citato.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 21

fronte alla collettività dell’atto-documento (signum manus) e invece


di presenti all’atto (in presentia o interfuerunt testes); diversa la
sottoscrizione dell’estensore perché diverso era il suo ruolo, di « re-
gista » dell’intera operazione (« post traditam complevi et dedi ») e
invece di testimone privilegiato e “voce narrante” (« interfui [o ibi
fui] et scripsi »). Rispetto alla necessaria unitarietà, alla compattez-
za formale e sostanziale della charta, infine, stava la duttilità (« pla-
sticità » è la parola usata da Scalfati) del breve, la cui forma narra-
tiva ammetteva qualsiasi variazione. Insomma: formalismo della
charta, realismo del breve.
Perché, in quali occasioni il notaio adottasse l’una o l’altra
forma, sembra abbastanza chiaro. Mentre la charta serviva agli atti
di alienazione (donazioni, vendite, permute, testamenti), il breve
occupò stabilmente l’ambito delle concessioni a tempo (livelli, en-
fiteusi), delle investiture, delle refute. Inoltre esso ebbe largo uso
nei Comuni incipienti per gli atti di giurisdizione, soppiantando la
vecchia notitia iudicati così come i tribunali consolari avevano sop-
piantato i vecchi collegi placitari. E infine invase lo stesso settore
riservato da sempre alla charta, appropriandosi delle alienazioni. Il
fatto è che il breve aveva imposto un nuovo modo di documenta-
re, pratico e flessibile, che erose a poco a poco il vecchio primato
della charta. I valori della memoria e della veritas sostituirono l’ef-
ficacia costitutiva come ragione del fatto documentario. L’allarga-
mento notevole dell’ambito della documentazione, degli atti docu-
mentabili (“narrando” si poteva documentare tutto), si risolveva
nella moltiplicazione delle tipologie negoziali e delle corrisponden-
ti forme documentali, in piena adesione ai dinamismi sociali, civili,
istituzionali. La pienezza della responsabilità dei notai ne precisava
il profilo culturale e tecnico e, insieme, ne consacrava l’autorevo-
lezza di fronte al corpo sociale. Si aggiunga il grande sviluppo
della cultura giuridica e la rinascita del diritto romano classico,
che giustificava e razionalizzava le innovazioni della pratica. Stan-
no tutti qui, nella libera documentazione ad memoriam retinen-
dam, i fattori del cambiamento.
Questo è il quadro generale, tratteggiato un po’ scolasticamen-
te, di ciò che si usa definire il “passaggio dalla charta all’instru-
mentum”: formula non precisissima ma efficace. Le situazioni lo-
cali, tuttavia, presentano differenze rilevanti quanto ai tempi e alle
modalità del processo. Un dato che sembra accomunare molte si-
22 ATTILIO BARTOLI LANGELI

tuazioni è la costituzione di un tipo “misto” di documento, che


eredita alcuni elementi della charta tradizionale pur dichiarandone,
di fatto, il superamento. Ma in alcune zone resistette a lungo l’in-
dipendenza “parallela” dei due modelli, fino al prevalere dell’uno
sull’altro. Particolarissimo per la primarietà del fattore politico è il
caso di Genova, dove l’abbandono delle formalità della charta e
l’elaborazione immediata di un nuovo modo di documentare (te-
stimoniato brillantemente, a distanza di una generazione, dal car-
tolare di Giovanni Scriba) si ha negli anni 1120-1130, in concomi-
tanza con l’istituzione del consolato annuale e della cancelleria (35).
Altrove sembrano determinanti logiche intrinseche, di cultura no-
tarile, che lasciano soltanto intravedere la pressione delle dinami-
che istituzionali. A Pavia (oggetto di una delle migliori monografie
in tema) lo « svuotamento di significato della dicotomia charta-bre-
ve » e il definitivo successo della forma narrativa si collocano nel
terzo quarto del secolo XII (36). In area subalpina ancora negli anni
1190 vige la polarità tra i due modelli: valga l’esempio del notaio
Boso o Bosone, attivo prima nella Val di Susa, poi a Torino tra
1165 e 1195, che per le vendite, donazioni e permute usa – come
altri suoi pari torinesi – sia la forma del breve sia la forma della
charta. Perfettamente equivalenti sul piano giuridico, le due solu-
zioni rispondevano a logiche formali e quasi retoriche: in partico-
lare il modello antico serviva a Boso per connotare nel senso del
prestigio e della solennità gli atti di riferimento ecclesiastico e for-
te rilievo sociale (37).
Il passaggio dell’XI-XII secolo è uno dei problemi forti della
storiografia diplomatica, e non bastano questi pochi cenni per ri-
solverlo o esaurirlo. La quantità delle informazioni è sempre più
ampia. Occorre procedere per indagini analitiche di quadro locale,
che leggano le fonti empiricamente, osservando le singole forme

(35) Rinvio al mio Il notariato, in Genova, Venezia, il Levante nei secoli XII-
XIV. Atti del convegno internazionale di studi (Genova-Venezia, 10-14 marzo
2000), a cura di G. Ortalli - D. Puncuh, Genova-Venezia 2001, pp. 73-101.
(36) Cfr. E. Barbieri, Notariato e documento notarile a Pavia (secoli XI-XIV),
Firenze 1990; le parole riportate a p. 62.
(37) Cfr. A. Olivieri, Tecniche notarili e condizionamenti sociali: Boso notarius
dalla valle di Susa a Torino nella seconda metà del secolo XII, « Bollettino storico-
bibliografico subalpino », 96 (1998), pp. 65-123, specialmente pp. 90-111.
SUI ‘BREVI’ ITALIANI ALTOMEDIEVALI 23

documentali e i comportamenti dei singoli notai (38). Perciò ben


vengano le edizioni, che non si finirà mai di desiderare. Aver cita-
to a esordio di questo articolo il Codice diplomatico longobardo di
Luigi Schiaparelli vale come dichiarazione di metodo.

(Univ. Padova) ATTILIO BARTOLI LANGELI

(38) Così si leggerà con attenzione l’annunciato saggio di Luisa Zagni su


Carta, breve, libello nella documentazione milanese dei secoli XI e XII, che compa-
rirà tra breve nella raccolta di studi in memoria di Giorgio Costamagna e, in
anteprima, nel sito Scrineum. Saggi e materiali on-line di scienze del documento e
del libro medievali, presso l’Università di Pavia.

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