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2014 - Busso - Insicurezza Paura e Dilemmi Dellexpertise (In-Sicurezze)

Il volume esplora la costruzione culturale, politica e sociale del binomio sicurezza/insicurezza nel contesto del capitalismo neoliberale, evidenziando come questi fenomeni siano funzionali al mantenimento di un ordine diseguale. Attraverso diversi contributi, il testo analizza l'insicurezza da molteplici prospettive disciplinari e geografiche, mettendo in luce la complessità del fenomeno nella società contemporanea. Gli autori, esperti in antropologia, sociologia e studi politici, offrono un'analisi critica delle dinamiche di insicurezza che caratterizzano il mondo attuale.

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2014 - Busso - Insicurezza Paura e Dilemmi Dellexpertise (In-Sicurezze)

Il volume esplora la costruzione culturale, politica e sociale del binomio sicurezza/insicurezza nel contesto del capitalismo neoliberale, evidenziando come questi fenomeni siano funzionali al mantenimento di un ordine diseguale. Attraverso diversi contributi, il testo analizza l'insicurezza da molteplici prospettive disciplinari e geografiche, mettendo in luce la complessità del fenomeno nella società contemporanea. Gli autori, esperti in antropologia, sociologia e studi politici, offrono un'analisi critica delle dinamiche di insicurezza che caratterizzano il mondo attuale.

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λ

Dalla musica dei corridos messicani all’organizzazione degli


spazi urbani, dal ruolo degli esperti alla violenza delle bande
(IN)SICUREZZE

González Díez, Pratesi, Vargas (IN)SICUREZZE Sguardi sul mondo neoliberale


giovanili, dalla privatizzazione alla stregoneria africana, dall’im- Sguardi sul mondo neoliberale
migrazione alla demonizzazione del capitalismo, dalle chiese
fra antropologia, sociologia e studi politici
pentecostali ai narcotrafficanti, l’(in)sicurezza pervade la con-
temporaneità. La cornice in cui si collocano questi fenomeni
è il capitalismo neoliberale nelle sue diverse manifestazioni. In a cura di Javier González Díez,
esso la questione della sicurezza e la costruzione dell’insicurezza Stefano Pratesi, Ana Cristina Vargas
assumono rilievo, diventando funzionali al mantenimento di
un ordine politico, sociale e culturale fondato sulla disegua-
glianza e su un’asimmetrica distribuzione delle risorse.
Questo volume intende esplorare la costruzione culturale, poli-
tica e sociale del binomio sicurezza/insicurezza nel mondo neo-
liberale. I contributi affrontano il tema da una molteplicità di
punti di vista – tematici, geografici, disciplinari – per eviden-
ziare il carattere sfaccettato e complesso del fenomeno.

Javier González Díez, Dottore di ricerca in Scienze Antropologi-


che, è Assegnista di ricerca in Antropologia Sociale all’Università
di Torino.
Stefano Pratesi, Dottore di ricerca in Scienze Bioetico-giuridiche e
Diritti Umani presso l’Università di Lecce.
Ana Cristina Vargas, Dottore di ricerca in Scienze Antropologiche, è
ricercatrice presso il Laboratorio dei Diritti Fondamentali dell’Uni-
versità di Torino. Direttore scientifico della Fondazione Fabretti.

ISBN 978-88-97339-32-8
λ
SOC 7

e 30,00
prima edizione aprile 2014

© 2014 NOVALOGOS/Ortica editrice soc. coop., Aprilia


www.novalogos.it

ISBN 978-88-97339-32-8
(IN)SICUREZZE
Sguardi sul mondo neoliberale
fra antropologia, sociologia e studi politici

a cura di Javier González Díez,


Stefano Pratesi, Ana Cristina Vargas
Indice

9 Premessa di J. González Díez, S. Pratesi, A.C. Vargas

11 Capitolo primo Javier González Díez, Ana Cristina Vargas


(In)sicurezze
Un percorso fra antropologia, sociologia e studi politici
1. Definire la sicurezza
2. Il lato oscuro delle certezze
3. Insicurezze neoliberali
4. Un approccio critico e multidisciplinare

39 Capitolo secondo Sandro Busso


Insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise
Appunti per una prospettiva sociologica
1. Introduzione
2. La paura e l’insicurezza come fenomeni sociali: presupposti e
dimensioni di un approccio sociologico
3. L’evoluzione della paura. Autonomizzazione dai rischi e carat-
tere fluttuante
4. Sul ruolo della modernizzazione e delle sue ambivalenze
5. Dilemmi dei sistemi esperti e del loro rapporto con insicurezza
e paura
6. Conclusioni: come rompere il circolo vizioso?

67 Capitolo terzo Carlo Capello


Del feticismo dell’insicurezza
Note per un’antropologia delle paure urbane

75 Capitolo quarto Stefano Ruzza


Bloody soil, fertile land
Neo-liberismo, privatizzazione e violenza
1. Introduzione
2. Dal monopolio al mercato della forza: le private security firms
3. “Terra e sangue”: le forme del nesso tra risorse naturali e
violenza
4. Conclusioni: la prosecuzione dell’illiberalismo con altri mezzi?
5
91 Capitolo quinto Marianna Filandri, Tania Parisi
Insicurezza disuguale
La relazione tra distanza sociale e livello di istruzione in Italia
dal 1990 al 2010
1. Introduzione
2. Quadro teorico di riferimento
3. Dati e metodo
4. Risultati
5. Conclusioni

111 Capitolo sesto Emanuele Russo


La città discreta
Scenari di frammentazione urbana a Greenacres, Florida (USA)
1. Introduzione
2. La città discreta
3. I quartieri privati. Storia e tipologie
4. Gated Communities in Florida, Contea di Palm Beach
5. La città di Greenacres e la Contea di Palm Beach
6. Dillman Farms
7. Dialettica tra un muro e la vita intorno

139 Capitolo settimo Silvia Giletti Benso


Musica, corridos, narcotráfico
La scansione del concetto d’(in)sicurezza a Ciudad Juárez (Mes-
sico)
1. Potenzialità dei corridos
2. Il corrido Las mujeres de Juárez
3. Una vergogna nazionale
4. L’intoccabile impunità
5. Lo spazio del lavoro e l’intensificarsi dell’insicurezza
6. Una insicurezza strutturale
7. Carlitos: una risposta hip-hop al disagio e all’insicurezza
urbana

159 Capitolo ottavo Ana Cristina Vargas


La città “di sopra” e la città “di sotto”
Un’etnografia della sicurezza nella Comuna Nororiental di
Medellín (Colombia)
1. Il concetto di sicurezza
2. Dalla Doctrina de Seguridad Nacional alla “Guerra al Terrore”
6
3. Storie di esclusione
4. Le bande
5. Sicurezza, violenza e quotidianità
6. (In)sicurezza nel quartiere
7. Conclusioni

187 Capitolo nono Andrea Freddi


La (in)Seguridad di Todos Santos (Guatemala): ragioni e dina-
miche di un conflitto multidimensionale
1. Storia di un conflitto: le maras e la Seguridad
2. Le maras centroamericane tra realtà e ossessione
3. Il linciaggio in tempi di pace e multiculturalismo
4. Lo scontro tra “maya” e “indigeni” a Todos Santos
5. Nuovo ordine transnazionale e vecchi conflitti locali
6. Conclusioni

219 Capitolo decimo Andrea Ceriana Mayneri


Insicurezza, paura, mimesi tra colonia e postcolonia: l’incontro
con l’Altro nell’immaginario della stregoneria nella Repubbli-
ca Centraficana
1. Introduzione
2. Insicurezze coloniali
3. Mamy Wata: cumulo di significati e sincretismo nella regione
centrafricana a inizio ’900
4. Breve storia recente del Centrafrica tra coercizione, assogget-
tamento e violenza
5. Stregoneria e insicurezza epistemologica nella post-colonia
6. Conclusioni: immagini speculari, simmetrie, mimesi

259 Capitolo undicesimo Javier González Díez


Zombicapitalismo
Etnografia della diseguaglianza e discorsi (in)securitari in Gabon
1. Introduzione: frammenti di insicurezza all’equatore
2. Racconto di un annegamento in mare
3. Cronaca di una retata di polizia
4. Alla ricerca di una traccia interpretativa
5. A ritroso: una credenza vecchia ma nuova
6. Le somiglianze: una panoramica regionale
7. Il kôn come rappresentazione indigena del sistema capitalista
8. Una prospettiva insecuritizzante e i suoi obiettivi
7
279 Capitolo dodicesimo Alessandro Gusman
La religione come strategia di riduzione dell’insicurezza: note
dal continente africano (e dall’Uganda in particolare)
1. Introduzione: (in)sicurezze africane
2. L’Africa nel sistema neo-liberale
3. Religione e insicurezza
4. La religione che fa “rete”: il caso dei cell groups pentecostali a
Kampala
5. L’efficacia del pentecostalismo nel contesto neo-liberale
6. Conclusioni

297 Conclusioni di Stefano Pratesi

313 Autori

8
Capitolo secondo
Insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise
Appunti per una prospettiva sociologica
Sandro Busso1

fear has become a dominant public perspective. Fear begins with


things we fear, but over time, with enough repetition and expanded
use, it becomes a way of looking at life.
D. L. Altheide, 2002,
Creating Fear. News and the Construction of Crisis

[è richiesta agli esperti] una condotta di previsione degli sviluppi


causali parametrata in base alle loro (non comuni) capacità, alle loro
(non comuni) competenze e alle loro (non comuni) conoscenze.
[...] non si tratta di “processo alla scienza” ma di processo a sette
funzionari pubblici, dotati di particolari competenze e conoscenze
scientifiche, chiamati per tali ragioni a comporre una commissione
statale, che [...] effettuavano una valutazione del rischio sismico in
violazione delle regole di analisi, previsione e prevenzione disciplinate
dalla legge.
Dalla motivazione della sentenza di condanna della
Commissione Grandi Rischi da parte del tribunale di
L’Aquila in relazione al terremoto del 2009

1. Introduzione

Nel marzo del 1933, nel pieno della grande depressione che
stava mettendo in ginocchio gli Stati Uniti, Franklin Delano
Roosevelt si rivolse per la prima volta alla nazione come presidente,
pronunciando un discorso destinato a diventare celebre. «L’unica
cosa di cui dobbiamo avere paura – recita il passaggio più noto – è
la paura stessa. Quel terrore ingiustificato, irrazionale e senza nome
che paralizza gli sforzi di cui oggi abbiamo bisogno per convertire
l’arretramento in progresso»2. Al di là del significato politico e del
contesto storico in cui fu pronunciato, il celebre discorso di oltre

1
L’autore desidera ringraziare Paola Rivetti per i preziosi suggerimenti e commenti
al testo, e Mario Cedrini per gli stimoli sul tema oggetto di questo lavoro.
2
F.D. Roosevelt, Inaugural Address, March 4, 1933, in World Affairs, 1933, vol.
96, n. 1, pp. 26-28, p. 26. T.d.A.

39
capitolo secondo

ottant’anni fa ha contribuito a veicolare una nuova accezione del


concetto di paura: non più (soltanto) un’emozione individuale,
personale, esperita come reazione a un pericolo o una minaccia, ma
un vero e proprio “fenomeno sociale”3, un rischio “in sé” con ricadute
profonde sull’assetto di un’intera società. Quasi settanta anni dopo,
con gli attentati dell’11 settembre 2001, questa prospettiva riceve
la sua definitiva consacrazione, e non è forse un caso che le misure
dell’amministrazione Bush Jr seguite agli attacchi abbiano preso il
nome di “guerra al terrore” e non al terrorismo. Da allora infatti sia
il discorso politico e pubblico, sia la produzione scientifica, hanno
dedicato una sempre crescente attenzione all’impatto dell’insicurezza
e della paura sulla vita quotidiana delle persone e, in senso più ampio,
sulle dinamiche politiche, economiche e sociali4.
Che sia condivisibile o meno la posizione di chi asserisce che
oggi viviamo in quella che può essere definita come age of anxiety5, è
tuttavia innegabile che l’insicurezza e la paura sono tra gli ingredienti
a cui guardare per comprendere le trasformazioni della società
contemporanea: non solo conseguenza, ma anche causa dei profondi
cambiamenti in atto.
Oggetto di questo saggio sono dunque l’insicurezza e la paura
intese come fenomeni sociali, «che scaturiscono dalla società e che
hanno ricadute su di essa»6, e in quanto tali oggetto di studio della
sociologia. In particolare, ci si concentrerà sulla relazione tra paura
ed expertise, che riveste un ruolo di primo piano nello scenario che
fa seguito ai processi di modernizzazione, ma che tuttavia appare
quanto mai dilemmatica e non sufficientemente tematizzata. Infatti,
lo sviluppo dei cosiddetti “sistemi esperti” costituisce, con Giddens7,
una delle dimensioni centrali del complesso concetto di modernità8,

3
A.E. Liska, et al., Fear of Crime as a Social Fact, in Social Forces, 1982, vol. 60,
n. 3, pp. 760-770.
4
C. Robin, Fear. The History of a Political Idea, Oxford University Press, Oxford,
2004; R. Salecl, On Anxiety, Routledge, London, 2004; F. Furedi, Politics of Fear.
Beyond Left and Right, Continuum, London, 2005; D.L. Altheide, Terrorism and
the Politics of Fear, AltaMira Press, Oxford, 2006; P.N. Stearns, America Fear. The
Causes and Consequences of High Anxiety, Routledge, New York, 2006.
5
R. Salecl, op. cit.
6
C. Robin, op. cit., p. 2.
7
A. Giddens, The Consequences of Modernity, Polity Press, Cambridge, 1990.
8
La produzione scientifica sul tema si caratterizza per l’estrema multidisciplina-
rietà ed è tale da non consentire in questa sede una trattazione estesa dei possibili

40
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

ed ha, come vedremo, un rapporto ambivalente con la diffusione


e la crescita dell’insicurezza. Se da un lato può essere visto come
un potenziale antidoto, dall’altro figura a pieno titolo anche tra le
possibili cause9.
Il rapporto tra paura, insicurezza ed expertise, e le sue ambivalenze,
appaiono oggi quanto mai attuali in relazione alle dinamiche
innescate dalla crisi economica. Quella stessa paura denunciata da
Roosevelt nel ’33, alimenta oggi soluzioni di tipo tecnocratico (come
nel caso italiano del Governo Monti), ma al tempo stesso suscita una
dura critica agli esperti e in particolare agli economisti10.
Nel dettaglio, il capitolo si articola come segue. Nella prima
parte del lavoro ci si concentrerà sui presupposti di una analisi
sociologica alla paura e all’insicurezza (par. 1), per poi soffermarsi
sulla loro evoluzione nel corso della storia e sulle caratteristiche che
queste assumono in seno alla società contemporanea (par. 2). Nella
seconda parte del capitolo si affronteranno invece più nel dettaglio la
complessa relazione che si stabilisce tra insicurezza, paura e processi
di modernizzazione (par. 3), nonché sul ruolo ambiguo dell’expertise

significati del termine. Una sintesi della multidimensionalità e dei tratti essenziali
del concetto può tuttavia essere resa richiamando il contributo di Portes (A. Por-
tes, Modernity and development: A critique, in Studies in Comparative Interna-
tional Development, 1973, vol. 8, pp. 247-279), che distingue in due categorie
gli elementi che segnano il passaggio dalla tradizione alla modernità. Un prima
dimensione fa capo ai cambiamenti strutturali della società, quali urbanizzazione,
aumento dei livelli di istruzione, industrializzazione, nascita dei mezzi di comuni-
cazione di massa. Una seconda dimensione è invece riconducibile ai cambiamenti
che l’autore definisce “soggettivi”, quali secolarizzazione, aumento della parteci-
pazione, individualismo e ambizione. Al di là delle possibili definizioni, giova
forse ricordare che sebbene il processo di modernizzazione, le cui origini sono
convenzionalmente collocate nell’Europa del XVIII secolo, abbia oggi un carattere
globale, esso è esperito a livelli diversi e con modalità e consapevolezza differenti
in ciascuna società e cultura (R. Inglehart, C. Welzel, Modernization, Cultural
Change and Democracy. The Human Development Sequence, Cambridge University
Press, Cambridge, 2005).
9
F. Furedi, The Culture of Fear Revisisted. Risk Taking and the Morality of Low Ex-
pectations, Continuum, London, 2006.
10
A questa categoria di esperti, infatti, si imputa in modo particolare non solo la
responsabilità di non aver previsto la crisi, ma anche l’incapacità di trovare solu-
zioni adeguate. La portata delle critiche ha tra l’altro avviato anche un dibattito
interno alla disciplina, ben riassunta dal titolo di un contributo del premio Nobel
Paul Krugman, che recita How did economists get it so wrong? (http://www.nytimes.
com/2009/09/06/magazine/06Economic-t.html?pagewanted=all&_r=0).

41
capitolo secondo

(par. 4). In conclusione, ci si soffermerà sulle possibili risposte a tale


ambiguità maturate nel dibattito scientifico, evidenziandone limiti
e potenzialità.
Prima di procedere, è infine opportuna una precisazione
terminologica sulle analogie e differenze tra i concetti di insicurezza
e paura, e sul loro uso in questo saggio. I due termini, infatti, non
possono essere considerati sinonimi, ma sono accomunati ad altri
concetti quali ansia, timore o panico dal far parte di una gamma di
emozioni spiacevoli, provocate da pericoli o minacce reali o percepiti.
In questo senso, pur differendo per intensità e forme dell’esperienza,
saranno accomunati in questo contributo, che si concentra non
tanto sulle emozioni in sé, quanto sull’analisi delle relazioni che
sussistono tra queste e la struttura sociale. Inoltre, come si osserverà
nel dettaglio nel par. 2, l’evoluzione della paura verso una crescente
autonomia dai rischi indebolisce anche il principale potenziale
discrimine tra i due concetti, che vuole l’insicurezza diversa dalla
paura in quanto slegata da specifiche minacce11.

2. La paura e l’insicurezza come fenomeni sociali: presupposti e


dimensioni di un approccio sociologico

Sebbene il loro riconoscimento come fenomeni sociali a sé stanti


sia relativamente recente, la paura e l’insicurezza costituiscono
un tratto costante – e centrale – dell’intera storia dell’uomo12. A
tale rilevanza si accompagna una robusta produzione in seno alle
cosiddette “scienze dure” e in particolare alla neuroscienza, che ha
nel tempo analizzato in profondità le modalità e le situazioni in cui
il nostro cervello produce l’esperienza della paura13. Analogamente,
anche se in misura minore, le scienze sociali e umane hanno
dedicato attenzione al tema, circoscrivendolo però a determinate
issues (in primo luogo quella del crimine) e concentrandosi sui suoi
determinanti micro. Al contrario, un’articolazione teorica e un focus
specifico sul tema della paura “in sé” e sulla sua rilevanza sociale
11
R. Salecl, op. cit.
12
N. Elias, The Civilizing Process, vol. 2. State Formation and Civilization, Basil
Blackwell, Oxford, 1982.
13
D.D. Franks, The neuroscience of Emotions, in Handbook of the Socioloy of Emo-
tions, Stets e Turner (eds.), Springer, New York, 2006.

42
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

sembrerebbe, secondo molti studiosi, essere stata trascurata per


molto tempo14. Riprendendo le parole di Hankiss:

questo non significa che non ci siano importanti lavori di scienziati


sociali sulla paura e sull’ansia, o che non si sia fatta nel tempo alcuna
ricerca sui temi. Solo, tenendo conto della loro evidente rilevanza,
essi sembrano essere relativamente trascurati e sotto-indagati, e
in qualche caso addirittura ignorati. Questi temi hanno ricevuto
una seria attenzione in filosofia, teologia e psichiatria, e in qualche
caso in materia di studi religiosi e nella psicologia sperimentale, in
misura minore in antropologia e psicologia sociale e ancor meno in
sociologia15.

Nonostante queste carenze le basi per un approccio sociologico alla


paura e all’insicurezza sono state gettate e, soprattutto negli ultimi
anni, passi importanti sono stati compiuti per definirle non solo
come risposte individuali e fisiche a situazioni di pericolo. Del resto,
il riconoscimento del ruolo crescente della dimensione sociale nel
dar loro forma non è certo un dato recente, se oltre trent’anni fa
Norbert Elias scriveva che:

Foreste, prati e montagne hanno gradualmente perso la tradizionale


connotazione di aree di pericolo, da cui la paura e l’ansia facevano
costantemente intrusione nella vita degli individui. [...] Foreste
e campi non sono più lo scenario di passioni sfrenate, della lotta
feroce tra l’uomo e la bestia, di gioie e di paure selvagge. Oggi,
le paure interiori crescono proporzionalmente alla diminuzione di
quelle legate al mondo esterno. La vita sociale è diventata la nuova
‘danger zone’16.

Ma perché la sociologia dovrebbe occuparsi della paura e


dell’insicurezza? In risposta a questa domanda è possibile individuare
due presupposti, che definiscono altrettante dimensioni su cui si
concentra la produzione sociologica, e di cui daremo sinteticamente
14
E. Hankiss, Fears And Symbols. An introduction to the study of Western Civilisa-
tion, Central European Press, Budapest, 2001; A. Tudor, A (macro) sociology of
fear?, in Sociological Review, 2003, vol. 51, n. 2, pp. 238-256; F. Furedi, The only
thing we have to fear is the ‘culture of fear’ itself, in Spiked (www.spiked-online.
com), 2007, 4 april 2007.
15
E. Hankiss, op. cit., p. 8. T.d.A.
16
N. Elias, op. cit., pp. 297-298. T.d.A.

43
capitolo secondo

conto di seguito. Il primo è che la struttura sociale è in grado di


influenzare la percezione e l’esperienza della paura e dell’insicurezza.
Il secondo attiene invece alle ricadute che queste hanno sulle relazioni
sociali e sull’assetto complessivo della società stessa.
Pur non negando la natura in qualche misura istintiva e fisiologica
delle sensazioni di reazione a una minaccia (reale o percepita) quali
ansia, insicurezza e paura, è tuttavia intuitivo che chi o cosa le
susciti, e il modo in cui esse vengono vissute, sia in qualche misura
socialmente costruito17. Qualsiasi individuo infatti attribuisce a
persone, situazioni o eventi lo status di minaccia non solo sulla base
delle proprie esperienze personali, ma seguendo modelli culturali
condivisi e applicando una conoscenza della realtà che è sempre
più spesso mediata. La sensazione di disagio (o di ansia, insicurezza,
paura e perfino panico) prende forma attraverso l’interpretazione
della situazione che ci si trova a vivere, e più precisamente, da una
previsione o stima delle conseguenze nefaste che questa può avere.
Parimenti, anche la gamma di possibili reazioni che a fronte di
minacce è lecito assumere – in termini di comportamenti attesi18 –
appare socialmente determinata.
Numerosi studi sul tema sottolineano poi il ruolo centrale ricoperto
dai mezzi di comunicazione di massa nel dar forma a questi script,
generando una sensazione di insicurezza e di paura a partire da
specifiche issues (in particolare il crimine, ma anche, in tempi più
recenti, il terrorismo)19. Ciò avviene attraverso due meccanismi
diversi e complementari. Da una parte si accentua la centralità nel
dibattito di eventi potenzialmente generatori di insicurezza e se
ne provoca la sovrastima attraverso il noto fenomeno dell’agenda
setting20. Dall’altra parte si forniscono letture e interpretazioni che

17
Al di là del senso comune, diversi autori hanno provato a dare dimostrazioni
empiriche di questa natura sociale, sottolineando l’impatto dei fattori socio-eco-
nomici sull’insorgere della paura e sui diversi vissuti ad essa connessi (Cfr. A.E.
Liska, et al., op. cit.; B. Glassner, The Culture of Fear: Why Americans are Afraid of
the Wrong Things, Basic Books, New York, 1999).
18
F. Furedi, The Culture of Fear. Risk Taking and the Morality of Low Expectations,
Cassel, London, 1997.
19
Tra gli altri, particolarmente rilevanti sono i lavori di Altheide (D.L. Altheide,
The News Media, the Problem Frame, and the Production of Fear, in The Sociologi-
cal Quarterly, 1997, vol. 38, n. 4, pp. 647-668; Id., Creating Fear. News and the
Construction of Crisis, Aldine de Guyter, New York, 2002; Id., Terrorism, cit.).
20
M. McCombs, D.L. Shaw, The Agenda-Setting Function of Mass Media, in The

44
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

sottolineano la potenziale minaccia che questi eventi rappresentano,


raccontandoli attraverso le “lenti” della paura. Questo meccanismo è
stato efficacemente definito da Massumi come una «mass production
line of fear»21, in cui «tanto i più importanti aspetti della vita,
quanto quelli irrilevanti, possono diventare oggetto di ‘produzione’
e ‘consumo’ della paura». Una sorta di “mercato”, dunque, in cui
nuove paure e nuovi rimedi vengono creati e “venduti”22, allargando
lo spettro delle minacce e, al contempo, delle potenziali soluzioni
offerte alle vittime23. I processi comunicativi “di massa” sono in grado
di creare, per loro stessa natura, stati emozionali diffusi in un’intera
società, a partire da eventi specifici. Qualora queste emozioni
condivise abbiano un carattere relativamente stabile, possono
venire in qualche misura istituzionalizzate in una data società,
divenendo ciò che la letteratura definisce “emotional climates”24.
Come suggerisce efficacemente Barbalet, la loro rilevanza non sta
solo nella natura condivisa, ma nell’elevato potenziale performativo
di cui dispongono:

Gli emotional climates sono insiemi di emozioni e sentimenti che


sono non soltanto condivisi da gruppi di individui appartenenti a
strutture e processi sociali comuni, ma che sono significativi anche
ai fini della formazione e del mantenimento del comportamento
colletivo e delle identità politiche e sociali. Gli emotional climates,
quindi, includono toni emotivi che differenziano i gruppi sociali in
virtù del fatto che la loro condivisione è auspicabile tra i membri e
sgradita con gli esterni25.

Dal passaggio emerge con chiarezza la capacità di tali stati emotivi


condivisi e istituzionalizzati (tra cui, nella società moderna, possono

Public Opinion Quarterly, 1972, vol. 36, n. 2, pp. 176-187.


21
B. Massumi (ed), The Politics of Everyday Fear, University of Minnesota Press,
Minneapolis, 1993, p. VIII.
22
D.L. Altheide, Creating Fear, cit.
23
Come vedremo, proprio questa continua rincorsa tra nuove paure e rimedi è uno
dei fattori all’origine dell’ambiguità del ruolo degli esperti, ai cui saperi è spesso
delegata la ricerca di soluzioni, ma che, al contempo, beneficiano dell’espandersi
dell’insicurezza.
24
A. Tudor, op. cit.
25
J.M. Barbalet, Emotion, Social Theory, and Social Structure: A Macrosociological
Approach (illustrated edition), Cambridge University Press, Cambridge, 2001, p.
159. T.d.A.

45
capitolo secondo

essere annoverate ansia, insicurezza e paura) di generare senso di


appartenenza, rafforzare i legami sociali, definire i confini di un
ingroup.
Queste considerazioni introducono la seconda delle dimensioni
anticipate sopra, ovvero quella delle ricadute sociali dell’insicurezza
e della paura, e della loro capacità di modificare i comportamenti
individuali e l’intera struttura sociale. Va in primo luogo osservato,
infatti, come sia nelle società antiche sia in quelle contemporanee
la paura rivesta una chiara funzione di controllo sociale. Numerosi
esempi si possono rintracciare in aree diverse della vita sociale:
dall’educazione dei figli (la paura dell’uomo nero o più in generale
il senso di pericolo e insicurezza usato per prevenire comportamenti
rischiosi) alla partecipazione religiosa (la paura della dannazione)
fino alla prevenzione dei comportamenti devianti (paura delle
pene) o all’influenza sui comportamenti di voto e le scelte politiche
(paura della crisi, della guerra, dei nemici interni). In tutti questi
casi l’uso repressivo, o più semplicemente pedagogico, della paura
si basa su una sovra rappresentazione dei rischi e delle loro possibili
conseguenze, sia essa spontanea o provocata a fini di controllo o
educazione.
Ad un secondo livello, uscendo dalla sfera del controllo sociale,
si può guardare all’insicurezza anche come fattore che influenza le
relazioni interpersonali a un livello micro. Molti dei dilemmi propri
delle interazioni sociali derivano infatti da una preoccupazione circa
il comportamento altrui, e dalla paura (o dalla sua assenza) che le
eventuali scelte egoistiche di altri finiscano per daneggiarci. Lungo
questo continuum tra insicurezza e fiducia prendono spesso corpo le
scelte tra cooperazione e comportamenti individualistici26.
È tuttavia importante chiarire che nel riconoscere le ricadute
sociali dell’insicurezza e della paura non si intende ipotizzare,
almeno in linea di principio, l’esistenza di effetti predeterminati
o univoci sul comportamento degli individui e sulla società. Al
contrario le emozioni in questione provocano una gamma piuttosto
26
Secondo Kuwabara ad esempio, in una prospettiva tipica della teoria dei giochi,
nel celebre dilemma del prigioniero la paura della non-cooperazione riveste un
ruolo centrale, inducendo i giocatori «to defect on defectors, and therefore avoid
exploitation» (K. Kuwabara, Nothing to Fear but Fear Itself: Fear of Fear, Fear of
Greed and Gender Effects in Two-Person Asymmetric Social Dilemmas, in Social For-
ces, 2005, vol. 84, n. 2, pp. 1257-1272, p. 1258).

46
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

estesa di reazioni. Possono infatti, da un lato, innescare azioni


talvolta anche forti e incontrollate o, dall’altro lato, inibire chi le
esperisce27. Nel primo caso la paura si assocerà all’ira, alla rabbia
o semplicemente all’impegno personale, politico e civile contro le
cause che la suscitano. Nel secondo provocherà reazioni più simili
alla paralisi o allo scoramento. A un livello più astratto, insicurezza
e paura possono dunque essere strumenti di cambiamento o di
mantenimento dello status quo. Tuttavia, per poter riflettere al
meglio sui loro effetti sulla società, è importante conoscere le loro
caratteristiche, e in particolare la loro evoluzione storica.

3. L’evoluzione della paura. Autonomizzazione dai rischi e carattere


fluttuante

Le caratteristiche della paura e dell’insicurezza intese come


fenomeni sociali sono profondamente cambiate nel corso della storia
delle società occidentali, per effetto dei mutamenti qui introdotti
dai processi di modernizzazione prima e di globalizzazione poi.
Nell’attuale società occidentale, contraddistinta da una dilatazione
del tempo e dello spazio, la conoscenza che l’uomo ha del mondo
appare sempre più spesso mediata, piuttosto che diretta. Il contatto
diretto tra le persone e l’oggetto delle loro paure diviene sempre
meno frequente, e il ruolo dell’esperienza individuale nel definire
una situazione come potenzialmente pericolosa appare sempre
meno rilevante. Al contrario, cresce il ricorso a quadri interpretativi
costruiti socialmente, attraverso i media o le reti di relazioni.
Insicurezza e paura sono dunque sempre meno sperimentate “di
prima mano” e la loro esperienza si sposta su un livello sempre più
astratto e discorsivo28.
Questo trend può dirsi in qualche misura analogo all’evoluzione
del rischio che, come sottolinea Beck29 è altrettanto strettamente
connessa ai processi di modernizzazione e globalizzazione. Nel
periodo premoderno, infatti, il rischio era considerato qualcosa di
27
J. Goodwin, J.M. Jasper, Emotions and Social Movements, in Handbook of the
Socioloy of Emotions, Stets e Turner (eds), Springer, New York, 2006.
28
F. Furedi, The Culture of Fear, cit.
29
U. Beck, Risk Society: Towards a New Modernity, Sage, London, 1992. Id., Glob-
al risk politics, in The Political Quarterly, 1997, n. 68, pp. 18-33.

47
capitolo secondo

“personale” e facilmente riconoscibile, legato a minacce note alle loro


potenziali vittime, che incombevano su singoli individui o, al più,
su piccoli gruppi. Riprendendo le parole di Beck, «I rischi in quei
giorni [l’inizio del XVIII secolo] assalivano il naso e gli occhi, ed
erano percepibili attraverso i sensi»30. Con l’avvento della modernità
questa dimensione del rischio non cessa di esistere, ma è affiancata,
e almeno in parte superata, dall’emergere di un nuovo modello.
Si tratta di rischi che dipendono dai comportamenti collettivi, e
che riguardano la razza umana nella sua totalità. Tali rischi sono
più difficili da comprendere, in quanto “sfuggono alle percezioni”
dal momento che sono «localizzati nella sfera delle formule fisiche
e chimiche»31. La loro esistenza è principalmente legata ai “lati
oscuri” dello sviluppo economico, che rende la produzione sociale
della ricchezza indissolubilmente accompagnata dalla produzione di
rischi quali inquinamento, deforestazione, energia nucleare e simili.
Questi rischi sono sostanzialmente indipendenti dallo spazio (non
sono circoscritti a luoghi specifici e a luoghi in cui le cause prendono
forma) e dal tempo (le conseguenze possono manifestarsi molto
dopo le cause e durare per generazioni). Per questo acquisiscono
un livello di complessità che può essere difficilmente esperito, o
anche solo compreso, direttamente. Anche il significato stesso
del termine sembra cambiare a seguito di questa evoluzione: «in
passato la parola ‘rischio’ denotava un atteggiamento coraggioso, di
disprezzo del pericolo, richiamava l’avventura non certo la minaccia
della autodistruzione della vita sulla Terra»32. I pericoli che derivano
dagli effetti perversi della modernizzazione non sono più percepiti
come esogeni, ma dipendenti dal comportamento umano (da qui il
riferimento all’autodistruzione). Questa situazione innesca da un lato
un senso di colpa latente e dall’altro comporta un costante aumento
della sfiducia nelle persone: gli “altri” possono essere considerati, al
giorno d’oggi, la più importante fonte di rischio33.
Questo parallelismo tra l’evoluzione della paura e quella
dei rischi nasconde tuttavia una forte contraddizione. Infatti,
30
U. Beck, Risk Society, cit., p. 21. T.d.A.
31
Ibid.
32
Ibid.
33
F. Furedi, The Culture of Fear, cit. Lo stesso autore suggerisce che la vera ques-
tione in gioco nel ventunesimo secolo non riguarda la sopravvivenza dell’umanità,
ma piuttosto della fiducia nell’umanità stessa.

48
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

pur evolvendo nella stessa direzione, insicurezza e paura hanno


seguito nel tempo un processo di “autonomizzazione” dai rischi.
Per effetto dell’impossibilità di conoscere direttamente le minacce,
a causa del senso di impotenza che deriva dalla portata, enorme,
dei pericoli e per la ripetizione e la distorsione operata dai media,
questa paura “mediata” non ha, in conclusione, più bisogno di rischi
definiti e riconoscibili per esistere o, quantomeno, esiste una scarsa
corrispondenza tra la portata reale dei rischi e la loro percezione34.
Piuttosto, si assiste ad una vera e propria inversione, per cui «la
paura stessa rappresenta un rischio, e deve essere inclusa nelle risk-
management policies»35.
Questa caratteristica della paura contemporanea è individuata
da numerosi autori e ha ricevuto nel tempo etichette diverse, che
pure condividono chiaramente una medesima radice: la relativa
indipendenza da rischi specifici e reali o da situazioni di particolare
pericolo, e la presenza costante nella vita pubblica e privata. Altheide
suggerisce, ad esempio, che «la paura è diventata una prospettiva
pubblica dominante. La paura comincia con le cose che temiamo,
ma nel tempo, attraverso la sua riproduzione ed il suo ‘uso’ estensivo,
diventa un modo di guardare al mondo. […] La paura è oggi una delle
poche prospettive condivise da tutti i cittadini»36. L’autore fa anche
riferimento a un uso “non-parallelo” della paura per identificare
quei discorsi in cui non esiste corrispondenza con specifici eventi
o fatti. Furedi37 e Glassner38 si concentrano sulla “cultura della
paura” che pervade le nostre società, Hubbard39 parla di una paura
diffusa che satura gli spazi della vita quotidiana, Massumi introduce
il concetto di “low-level fear”, che descrive come «una sorta di
radiazione di fondo che satura le nostre esistenze»40. Baumann,
infine, nota come nella società moderna «un’intera vita è divenuta
una lunga e probabilmente infruttuosa lotta contro il potenziale
34
D.L. Altheide, The News Media, cit.; B. Glassner, op. cit.; D.L. Altheide, Creat-
ing Fear, cit.
35
M.G. Gray, D.P. Ropeik, Dealing with the dangers of fear: the role of risk commu-
nication, in Health Affairs, 2002, vol. 21, n. 6, pp. 106-116, p. 114.
36
D.L. Altheide, Creating Fear, cit. p. 3. T.d.A.
37
Furedi, The Culture of Fear, cit.
38
B. Glassner, op. cit.
39
P. Hubbard, Fear and loathing at the multiplex: everyday anxiety in the post indus-
trial society, in Capital and Class, 2003, n. 80, pp. 51-75.
40
B. Massumi, op. cit., p. 24. T.d.A.

49
capitolo secondo

incapacitante della paura, e contro quei fattori, genuini o fittizi,


che ci rendono timorosi»41. Questo processo di trasformazione può
essere reso altrettanto efficacemente prendendo a prestito il concetto
di disembedding, utilizzato da Giddens42 con riferimento ai processi
di modernizzazione. Si tratta infatti di un processo in cui la paura
e l’insicurezza sono “estratte” dal proprio contesto e dal loro setting
naturale, ovvero quello degli eventi e dei fatti, o più in generale del
mondo reale. La paura e l’insicurezza disembedded non sono più
legate a oggetti e situazioni: non sono più la “paura di qualcosa”.
Piuttosto, rappresentano sentimenti generalizzati e astratti, pronti
ad attaccarsi alla issue del momento e trasformarsi in ansia, isteria e
panico. Citando Furedi:

La paura oggi ha un carattere fluttuante e imprevedibile. Un giorno


temiamo le rapine a mano armata, la settimana dopo la nostra
attenzione è attratta dai furti d’auto, ma solo per essere distratta
il mese successivo da una epidemia di “happy slapping”43. Nella
società contemporanea la paura migra liberamente da un problema
al successivo, senza alcun bisogno di connessioni logiche o nessi
causali44.

Questo carattere fluttuante e imprevedibile si sostanzia in un


diffuso riconoscimento della possibilità di divenire, presto o tardi,
vittime di eventi spiacevoli e indesiderati: una sorta di anticipazione
di terribili e imprevedibili eventi, in cui scenari e previsioni
sostituiscono i fatti. Come nei film, suggerisce Glassner, non è
l’azione che spaventa il pubblico, ma la profonda convinzione che
qualcosa di tremendo succederà presto45. E quando la paura diventa
autonoma da una concreta minaccia, nota Bauman, il suo potere
41
Z. Bauman, Liquid Fear, Polity Press, Cambridge, 2006, p. 8. T.d.A.
42
A. Giddens, op. cit.
43
Assalti di gruppo, talvolta anche violenti, fatti con l’obiettivo di essere filmati
e condivisi sui social network. La moda, sviluppatasi prevalentemente in Inghil-
terra, ebbe una notevole eco mediatica, tanto che nell’aprile 2005 il Guardian
titolava: Concern over rise of ‘happy slapping’ craze - Fad of filming violent attacks
on mobile phones spreads (http://www.guardian.co.uk/uk/2005/apr/26/ukcrime.
mobilephones).
44
F. Furedi, The Culture of Fear, cit., p. 4.
45
L’autore riprende una celebre frase pronunciata da H. Hitchcock, secondo cui
«non c’è terrore nello sparo, ma solo nell’anticipazione dello stesso». B. Glassner,
op. cit.

50
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

aumenta, tanto che nel momento in cui un pericolo concreto si


manifesta capita di sentire un bizzarro ma comprensibile sollievo46.
Come conseguenza di questo scenario emergente, in cui le
esperienze mediate prevalgono su quella dirette, e in cui il discorso
mediatico crea un clima di insicurezza diffusa, la paura ai giorni
nostri diviene una lente attraverso cui guardare al mondo, una
prospettiva, o meglio ancora un frame per interpretare la realtà47: «un
frame per sviluppare identità e per prendere parte alla vita sociale»48.
Ma l’influenza di insicurezza e paura non si ferma alla costruzione
dell’identità o alla forma delle relazioni sociali. Nelle società
contemporanee queste sono annoverabili tra le principali forze
che danno forma all’attività politica e alla ricerca del consenso49, e
persino allo spazio o alla struttura delle città, determinando dove e
come le persone debbano riunirsi50. Il loro effetto, dunque, va ben
oltre la sfera individuale per essere esperito dall’intera società nel suo
complesso.
Se la paura contemporanea ha assunto una chiara e distintiva
componente macro, essendo il prodotto di processi sociali e culturali
collettivi ed essendo condivisa da intere comunità, il ruolo dei fattori
micro, legati cioè all’esperienza individuale, non va scomparendo
ma piuttosto trasformandosi. Il livello micro, infatti, perde di
rilevanza nei processi generativi di insicurezze e paure, ma diviene
46
Scrive a proposito Bauman «La paura è all’apice del suo potenziale quando è
diffusa, sparpagliata, incomprensibile, senza legami, fluttuante, senza una chiara
direzione o causa; quando ci perseguita senza una logica, quando la minaccia che
dovremmo temere può essere intravista ovunque, ma mai guardata». Z. Bauman,
op. cit., p. 2.
47
Come nota Goffman, la definizione che ciascun attore da delle situazioni è pro-
fondamente influenzata dai principi delle organizzazioni di appartenenza e dalla
struttura sociale di riferimento, ed è costruita in accordo con essi. Il concetto di
frame è usato proprio per descrivere questi elementi, o principi, che danno forma
alle definizioni della realtà (E. Goffman, Frame Analysis. An Essay on the Organiza-
tion of Experience, Harper & Row, New York, 1974).
48
D.L. Altheide, Creating Fear, cit., p. 3.
49
C. Sparks, Liberalism, Terrorism and the Politics of Fear, in Politics, 2003, n. 23,
pp. 200-206. La nota espressione “politica della paura” si riferisce proprio alla
costruzione e allo sfruttamento delle credenze del pubblico circa i rischi, i pericoli
e il livello di insicurezza presenti in una società, allo scopo di raggiungere e legit-
timare i propri obiettivi politici. D.L. Altheide, Terrorism, cit., p. 15. Cfr. anche
D.L. Altheide, Notes Towards a Politics of Fear, in Journal for Crime, Conflict and
the Media, 2003, n. 1, pp. 37-54; F. Furedi, Politics of Fear, cit.
50
P. Hubbard, op. cit.

51
capitolo secondo

sempre più centrale nella loro esperienza concreta. Questa dinamica


costituisce una contraddizione soltanto in apparenza, dal momento
che è noto che i processi di modernizzazione hanno comportato una
crescente individualizzazione dell’azione nelle società occidentali,
indebolendo per contro le istanze comunitarie nel far fronte
alle minacce51. Inoltre, la paura fluttuante e disembedded tende
a essere oggettivata in relazione a minacce diverse a seconda delle
caratteristiche individuali e della soggettività delle persone. Le
paure e il senso di insicurezza contemporanei divengono esperienze
personali, difficilmente condivise in contesti di comunità o società
(anche se questo non significa, ovviamente, che forme di risposta
collettiva non sono più possibili). Questo processo, definito di
“individualizzazione”52 o di “privatizzazione”53, ha atomizzato e
frammentato l’operazione di gestione e contenimento delle paure
e delle insicurezze, aumentando l’eterogeneità delle risposte, che
appaiono sempre meno “standardizzate”. In questo processo risiede
la vera essenza dei concetti di paura e insicurezza intesi come frame.
Gli individui all’interno della società condividono una “lente”
attraverso cui guardare al mondo e, conseguentemente, le definizioni
della realtà e la percezione del livello di rischio, ma questo punto di
partenza innesca reazioni diverse e personali. Per questo la paura
privatizzata riduce la possibilità di forme di reazione collettiva, come
erano state in passato le lotte di classe, incentivando al contrario
espedienti personali o semplicemente determinando una mancanza
di risposte54. Le persone affrontano da sole le proprie paure e questo
diviene un elemento paralizzante, dal momento che soli ci si sente
troppo deboli, mentre crescono il senso di impotenza e di inutilità
del lottare.
I contributi proposti sembrano suggerire che nel percorso di
trasformazione della paura da uno stadio “premoderno” a quello
attuale si verifica quella che potremmo definire una “inversione
micro-macro”. Nel passato i determinanti micro (le esperienze
personali) provocavano paure che venivano affrontate a livello
macro (risposte comunitarie). Oggi, paure innescate da dinamiche
51
R. Inglehart, Modernization and Postmodernization, Princeton University Press,
Princeton, 1997; R. Inglehart, C. Welzel, Modernization, Cultural Change, cit.
52
F. Furedi, The only thing we have to fear, cit.
53
Z. Bauman, Intimations of Postmodernity, Routledge, London, 1992.
54
Z. Bauman, Liquid Fear, cit.

52
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

macro (processi culturali e collettivi condivisi) creano le condizioni


per una esperienza micro (individuale) della paura. I processi
di modernizzazione hanno dunque una forte influenza sulla
trasformazione della paura e sulla sua convergenza verso il concetto
di insicurezza, e meritano di essere approfonditi meglio. Di questo
ci occuperemo nel prossimo paragrafo.

4. Sul ruolo della modernizzazione e delle sue ambivalenze

L’evoluzione della paura verso un modello generalizzato,


discorsivo e astratto, nonché la sua natura sempre più pervasiva,
mettono in luce uno degli aspetti più controversi legati ai processi
di modernizzazione, e suggeriscono il tradimento almeno parziale di
alcune delle sue grandi promesse, mostrandone la natura ambigua.
La crescita costante del senso di insicurezza e paura impersonificano
infatti il fallimento delle aspettative di un mondo sviluppato e senza
più rischi che caratterizzavano le prime visioni entusiastiche della
modernizzazione55.
Infatti, dopo le guerre, la violenza e le deprivazioni che avevano
afflitto la razza umana dal medioevo in avanti, “la modernità sarebbe
dovuta essere il grande salto in avanti”56. Il progresso tecnologico
rappresentava non solo un modo per aumentare la qualità della
vita, ma il simbolo della capacità umana di controllare la natura e di
sconfiggerne le minacce. Inoltre, il modello illuministico di razionalità
sembrava essere il rimedio ai comportamenti autodistruttivi e alla
violenza cieca.
Molti dei padri fondatori della sociologia hanno condiviso
questa visione ottimistica dei processi di modernizzazione. Pur non
ignorando le gravi difficoltà che si sarebbero dovute fronteggiare nella
nuova era, era diffusa la convinzione che i benefici e le possibilità
aperte dalla modernità avrebbero superato i problemi57. Tuttavia,
molte di queste visioni ottimistiche sembrano aver sottostimato
“il lato oscuro” della modernità, legato all’emergere di nuovi rischi
e minacce globali e, come vedremo, anche alla possibilità che il
55
Cfr. D. Harrison, The Sociology of Modernization and Development, Routledge,
London, 2005.
56
Z. Bauman, Liquid Fear, cit., p. 2. T.d.A.
57
A. Giddens, op. cit.

53
capitolo secondo

permanere o persino l’aumento della paura siano in qualche misura


indipendenti dai rischi. Questa crescita di insicurezza appare ancora,
infatti, quasi ironica in contesti come quello occidentale, se si
considera che qui l’aspettativa di vita continua a crescere, i tassi di
mortalità infantile a diminuire e i livelli di delittuosità ad abbassarsi
nel lungo periodo58.
Al contrario delle aspettative, dunque, «la nostra è, nuovamente,
una epoca di paura», nota Bauman59. Di seguito ci soffermeremo
su questo paradosso alla ricerca di possibili risposte, così come
emergono dalla letteratura.
Un primo ordine di spiegazioni fa riferimento a quanto più volte
anticipato in questo capitolo, ovvero all’emergere di nuovi rischi
legati proprio al processo di modernizzazione. L’industrializzazione
e lo sviluppo tecnologico, infatti, hanno portato sulla scena nuove
minacce, che incombono sul genere umano nella sua totalità60. Le
paure legate a catastrofi globali non sono un tratto esclusivo delle
società moderne: al contrario le visioni escatologiche e le previsioni
sulla “fine del mondo” hanno accompagnato l’intera storia
dell’umanità fin dalle sue origini. Tuttavia i nuovi rischi sono legati
proprio al comportamento umano. Come fa notare Giddens:

Questi rischi sono il prodotto del crescente processo di globalizzazione,


e anche solo mezzo secolo fa l’umanità non subiva un’analoga
minaccia. Sono rischi legati al lato oscuro della modernizzazione, e
continueranno ad esistere fintanto che durerà la modernità, fintanto
che la rapidità dei cambiamenti sociali e tecnologici continuerà a
generare conseguenze inattese e incontrollabili61.

Alle visioni catastrofiche legate a fede e superstizione (a


cui l’illuministica razionalità avrebbe dovuto mettere fine) si
sostituiscono, o in qualche a caso si affiancano, nuovi modelli di
minaccia globale: l’esito in termini di insicurezza percepita, tuttavia,
non sembra cambiare un gran che. Ma l’industrializzazione, il
progresso tecnologico e lo sviluppo di nuovi saperi non sono legati

58
P.N. Stearns, op. cit.
59
Z. Bauman, Liquid Fear, cit., p. 2.
60
U. Beck, Risk Society: Towards a New Modernity, cit.
61
A. Giddens, Modernity and Self-identity: Self and Society in the Late Modern Age,
Stanford University Press, Stanford, 1991, p. 122. T.d.A.

54
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

all’evoluzione dei rischi soltanto a livello globale. L’aumento dei


rischi cosiddetti “meccanici” è percepita anche a livello micro, basti
pensare agli incidenti sul lavoro o agli incidenti stradali62.
Più in generale, la paura rimane un ingrediente fondamentale del
rapporto tra profani, scienza e tecnologia. L’autorità e il potere di cui
queste godono si basano infatti su un differenziale di saperi che rende
complesso esercitare una funzione di controllo puntuale sul loro
operato, e che richiede una certa dose di fede (intesa letteralmente
come fiducia originata da una convinzione interiore, o dall’autorità,
altrui in assenza di prove positive) e rispetto, che si accompagnano
spesso alla paura. Infatti, come suggerisce Freidson:

La conoscenza formale risulta spesso arcana per la gente qualunque,


e una parte di essa può essere percepita come potente e pericolosa.
Non tutta la conoscenza formale è temuta: accademici polverosi che
studiano oscure minuzie che non hanno alcun legame percepibile
con la vita quotidiana sono più spesso oggetto di scherno che di
rispetto, nonostante la loro conoscenza sia arcana. Ma la scienza,
come l’alchimia prima di lei, è considerata rilevante e ricca di effetti
collaterali, e quindi potenzialmente pericolosa63.

A questo primo ordine di spiegazioni corrisponde dunque


una visione della scienza e della tecnologia come potenzialmente
pericolose, in quanto in grado di produrre rischi e difficili da
controllare. Una visione che rimanda a concezioni distopiche
come il Frankenstein di Mary Shelley, in cui saperi fuori controllo
si rivoltano contro i creatori, generando minacce per l’umanità.
Chiameremo questo primo modello “paura della modernità”, in
quanto sono i suoi stessi elementi costitutivi a produrre insicurezza.
Tuttavia, i rischi connessi al progresso non bastano a spiegare
l’aumento della paura. Come suggerisce Giddens, infatti, «la
grande maggioranza delle persone non trascorre gran parte del
proprio tempo, almeno a livello conscio, a preoccuparsi di una
guerra nucleare o degli altri rischi globali»64. La routine quotidiana
non consente di pensare con frequenza ai rischi di autodistruzione
della razza umana, in parte per via dei ritmi elevati della vita, in
62
P.N. Stearns, op. cit.
63
E. Freidson, Professional Powers. A Study of the Institutionalization of Formal
Knowledge, University of Chicago Press, Chicago, 1986, p. 4. T.d.A.
64
A. Giddens, The Consequences of Modernity, cit., p. 132. T.d.A.

55
capitolo secondo

parte perché il pensiero costante finirebbe per paralizzare qualsiasi


attività. Quale senso avrebbero, suggerisce ancora Giddens,
nell’imminenenza di una reale minaccia di una catastrofe, attività
quotidiane quali recarsi al lavoro, pulire la casa o fare shopping?
Quali che siano le cause di questo meccanismo, la gente assegna
un ruolo molto modesto, nel dar forma alla propria vita di tutti
i giorni, alle minacce globali che derivano dalla modernità. Per
questo la relazione tra modernizzazione e paura va cercata anche a
un secondo e più profondo livello, che ha a che fare con le ricadute
dei processi stessi, piuttosto che con quelle dei loro esiti.
Un secondo percorso possibile per comprendere il complesso
rapporto tra modernizzazione e crescita della paura nelle società
occidentali passa dunque attraverso l’analisi di due processi chiave:
la differenziazione (o specializzazione funzionale) e il processo
di disembedding. In relazione a quest’ultimo, come vedremo,
gioca un ruolo centrale lo sviluppo dei cosiddetti sistemi astratti
o sistemi esperti. Come introdotto in precedenza, con il concetto
di disembedding Giddens65 descrive il processo di progressiva
“estrazione” o “indipendenza” delle relazioni sociali dai contesti locali
di interazione, e la loro ristrutturazione su archi spazio-temporali
indefiniti. In prima battuta, dunque, l’indipendenza progressiva
della paura dalle sue cause può essere ricondotta a un fenomeno
di più ampia portata, che consiste nel progressivo disancoraggio di
tutte le emozioni e le relazioni umane dai contesti concreti.
Approfondendo ulteriormente l’analisi, il fenomeno dello
sviluppo di sistemi di expertise e di mezzi tecnici e tecnologici, a cui
il controllo di aree sempre più ampie della vita sociale è delegato,
sembra avere un’importanza cruciale. Tale meccanismo è uno dei
tratti fondamentali della modernità e costituisce tra l’altro una delle
conseguenze della specializzazione funzionale e della divisione del
lavoro. In una società moderna e specializzata, ogni individuo può, in
qualche misura, essere considerato un esperto in qualche settore ed ha
al tempo stesso bisogno (o quantomeno è convinto di aver bisogno)
dell’aiuto di altri per far fronte a gran parte delle attività in cui non è
specializzato. Questo trend non è soltanto associato alle issues di tipo
tecnico: Furedi, ad esempio, sottolinea come la professionalizzazione
abbia progressivamente investito l’intero processo di riproduzione
65
Ibid.

56
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

della specie umana, dal parto, alla socializzazione, all’educazione


dei figli66. L’autore nota, in proposito, come «la trasformazione
della genitorialità da una normale routine dell’età adulta ad abilità
specifica indica la bassa considerazione di cui le persone ‘normali’
godono. Ciò con cui l’umanità ha fatto i conti fin dall’inizio dei
tempi ora richiede la certificazione degli esperti»67.
Questi meccanismi di delega agli esperti e di crescita dei processi
di professionalizzazione si accompagnano a un crescente sospetto
verso le soluzioni “fai da te”, e portano a una progressiva riduzione nel
tempo delle capacità di intervento sul mondo e ad una conseguente
perdita di fiducia. Per questo motivo, già alla fine degli anni ’70,
le professioni riconosciute venivano definite all’interno di visioni
critiche come “disabilitanti”68. Le persone non sono più percepite
come capaci di affrontare i propri problemi, indipendentemente dal
fatto che essi siano di natura pratica, psicologica o sociale69. La stessa
paura e la stessa insicurezza non sono esenti da questa dinamica: esse
hanno infatti, nel tempo, generato i propri esperti e consulenti in
grado di consigliare strategie per affrontarla e di progettare soluzioni
tecnologiche atte a ridurla70. La crescente attitudine a delegare
importanti funzioni della vita di tutti giorni può dunque rendere
le persone incapaci di esercitare un controllo sul proprio ambiente,
facendole sentire sempre più esposte ai pericoli e alle minacce che
possono manifestarsi. Conseguentemente, l’insicurezza e la paura
crescono di pari passo con questa effettiva (o percepita) perdita di
controllo: la società moderna è sempre più spesso caratterizzata da
66
F. Furedi, The Culture of Fear, cit.; Id., Socialisation as behaviour management
and the ascendancy of expert authority, Amsterdam University Press, Amsterdam,
2009.
67
F. Furedi, The Culture of Fear, cit., p. 140. T.d.A. Se è vero che la medicalizza-
zione del parto e l’educazione dei figli è stata affidata a figure specializzate anche
in epoca premoderna, quello che va sottolineato qui è il concetto di “certificazio-
ne”. Il cambio di prospettiva consiste nel concetto di inadeguatezza delle persone
comuni, prima ancora che del primato degli esperti, e nella formalizzazione che si
associa ai processi di professionalizzazione. Cfr. anche, su questo punto, E. Freid-
son, op. cit.
68
I. Illich, et al., Disabling Professions, Marion Boyars Publishers, London, 1977.
69
F. Furedi, The Culture of Fear, cit.
70
K.F. Aas, et al., Technologies of inSecurity: the surveillance of everyday life, Rout-
ledge-Cavendish, London, 2008; F. Lentzos, N. Rose, Governing insecurity: con-
tingency planning, protection, resilience, in Economy and Society, 2009, n. 38, pp.
230-254.

57
capitolo secondo

situazioni a cui le persone non possono far fronte da sole e senza


l’aiuto di saperi riconosciuti, ed è dunque potenzialmente molto più
pericolosa e spaventosa.
Questo secondo ordine di spiegazioni circa la crescita della paura
nelle società moderne fa dunque in ultima istanza riferimento alla
connessione tra questa e la capacità di agency reale o percepita,
intendendo con il concetto di agency la capacità di modificare il
proprio ambiente, o riprendendo Giddens71, di “fare la differenza”
agendo su uno status quo ed esercitando su di esso una qualche
forma di potere. La paura «cresce attraverso la promozione di un
senso sempre più basso del potenziale umano»72. Definiremo questo
secondo modello, il cui potenziale nello spiegare il processo di
autonomizzazione dal rischio appare piuttosto elevato, “paura dopo
la modernità”, a sottolineare la relazione non tanto con i prodotti
della modernità stessa, ma con le trasformazioni che i suoi processi
costitutivi hanno avuto sulla percezione dell’agency e della capacità
umana. Ma il ruolo giocato dai sistemi esperti in questo meccanismo
risulta ad uno sguardo più attento ancora più complesso, e richiede
un’ulteriore puntualizzazione che sarà oggetto del prossimo
paragrafo.

5. Dilemmi dei sistemi esperti e del loro rapporto con insicurezza e


paura

Lo sviluppo dei sistemi esperti, definiti da Giddens come «systems


of technical accomplishment or professional expertise»73, rappresenta,
come più volte ricordato, un tratto distintivo della modernità.
Le considerazioni proposte nei paragrafi precedenti introducono
l’ambiguità di fondo che lega i sistemi esperti all’insicurezza. Da
un lato, infatti, essi rappresentano dei potenti creatori di fiducia:
l’affidabilità e la credibilità dell’expertise ci fanno sentire sicuri, ad
esempio, che il soffitto della stanza in cui siamo non ci cadrà sulla
testa, che i dottori troveranno soluzioni alle nostre malattie o che la
nostra macchina frenerà senza doverci chiedere cosa possa succedere
71
A. Giddens, The constitution of society. Outline of the theory of Structuration, Po-
lity Press, Cambridge, 1984.
72
F. Furedi, The Culture of Fear, cit., p. 21.
73
A. Giddens, The Consequences of Modernity, cit., p. 27.

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insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

ogni volta che premiamo il pedale del freno. Le persone non ignorano
i rischi potenziali che ciascuna di queste banali attività comporta, ma
li accettano confidando nel fatto che l’intervento degli esperti li avrà
se non annullati, quantomeno ridotti al minimo. In questo senso la
fiducia nell’expertise presenta molti tratti in comune con la fede, dal
momento che pochissimi sono in grado di comprendere la natura
dei saperi di cui gli esperti sono titolari o di capire come i prodotti
tecnologici funzionino. Semplicemente, e senza prove altre rispetto
alle nostre precedenti esperienze, siamo certi che lo faranno74.
Tuttavia, nonostante i sistemi esperti possano realmente innalzare
la sicurezza reale e quella percepita, l’expertise è anche tra i responsabili
dell’emergere di nuove forme di insicurezza e paura connesse alla
modernità, come abbiamo ipotizzato nel paragrafo precedente. Sia
nel caso della paura “della” modernità, che in quello della paura
“dopo” la stessa, sembra valere la considerazione di Stearns, per cui
«a complemento dello sviluppo di una nuova expertise esiste una
indefinita quanto crescente sensazione che il mondo sia diventato
un posto più pericoloso di quanto avremmo mai potuto immaginare
[…]. È come se, dentro un quadro di maggiore sicurezza, il rischio
rimasto sia diventato ancora più spaventoso»75.
Alla luce della rilevanza di questa dinamica è dunque utile andare
alle radici della delega all’expertise, per analizzarne alcuni tratti che
contribuiscono a chiarirne meglio il rapporto con l’insicurezza. Un
punto centrale riguarda qui la “necessità” di tale delega, in particolare
in relazione alle questioni che attengono alla sicurezza.
Abbiamo già detto che la delega all’expertise è resa necessaria
dalla specializzazione, dalla professionalizzazione e dalla divisione
del lavoro. Parimenti, meccanismi simili a quelli della fede si
innescano per necessità, dal momento che il costo di cercare le prove
dell’affidabilità degli esperti sarebbe insostenibile e incompatibile con
la routine quotidiana. Tuttavia, a fianco di queste situazioni, un altro
aspetto merita di essere sottolineato, ovvero l’istituzionalizzazione
della delega e la legittimazione di cui l’expertise sembra godere. Tale
legittimazione fa sì che sottrarsi alla delega sia sempre più spesso un
comportamento socialmente sanzionato. Furedi nota come questo
trend sia chiaramente esemplificato dallo slittamento semantico del

74
Ibid.
75
P.N. Stearns, op. cit., p. 99. T.d.A.

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capitolo secondo

termine “sperimentare” che ha perso la sua connotazione scientifica


per assumere un significato vicino a quello di approssimazione o
scarsa responsabilità: ai giorni nostri «chi sperimenta è considerato
un irresponsabile – almeno fino a che non sia in grado di provare
il contrario»76. Il potenziale simbolico dell’expertise è visibile in
molti tratti della vita moderna ed è chiaramente riscontrabile, in
particolare, nei processi di legittimazione della politica e delle
istituzioni che passano attraverso il coinvolgimento degli esperti77.
Questo livello di istituzionalizzazione appare poi particolarmente
elevato se ci si concentra sul problema dell’insicurezza e della paura.
Questa dinamica va oltre l’esistenza di esperti riconosciuti a fornire
risposte alle paure individuali, a cui abbiamo fatto riferimento
poc’anzi. Nelle società moderne le decisioni in materia di sicurezza,
infatti, non sono più in molti casi di competenza dei singoli. Esse
sono regolate da norme istituzionalizzate e affidate a esperti in
materia. Schneier parla di security trade-off per descrivere le scelte
individuali di percorrere corsi d’azione (sopportandone i costi) per
incrementare il proprio livello di sicurezza. L’autore nota in proposito
che «come cittadini, a volte siamo in grado di scegliere rispetto ai
nostri security trade-offs, ma ciò, spesso, non avviene. Gran parte
della sicurezza ci è imposta dalla legge o dalla pratica professionale, e
anche se dissentiamo non siamo in grado di gestire autonomamente
le alternative»78. Esempi in questo senso sono le norme relative alla
sicurezza sul lavoro o sulla strada, ma anche le norme sanitarie o
igieniche. Questo tipo di proibizioni non hanno soltanto il compito
di scongiurare comportamenti rischiosi, ma anche, in un certo senso,
di prevenire la paura che questi provocano.
Insicurezza e paura svolgono poi una funzione di rinforzo al
meccanismo di delega e alla sua legittimazione: «Quando vivi nella
paura, è facile lasciare che siano altri a prendere le decisioni per te:
accetterai passivamente qualsiasi tipo di sicurezza ti venga offerta.
Questo non avviene perché tu non sei in grado di comprendere
i trade offs, ma perché non riesci a mettere a fuoco le regole del
gioco. Quando si tratta di sicurezza, la paura rappresenta la barriera
76
F. Furedi, The Culture of Fear, cit., p. 145. T.d.A.
77
Tra i molti contributi sul tema, cfr. C.H. Weiss, The Many Meanings of Research
Utilization, in Public administration review, 1979, n. 5, pp. 426-431.
78
B. Schneier, Beyond Fear. Thinking Sensibly About Security in an Uncertain World,
Bruce Schneier, New York, 2003, p. 8. T.d.A.

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insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

tra l’ignoranza e la comprensione»79. Del resto, è da tempo noto


il meccanismo secondo cui in situazioni di emergenza (o percepite
come tali) è più facile rinunciare alla propria agency, e addirittura
alla propria libertà, in cambio di soluzioni giudicate efficaci80 e
soprattutto credibili81.
Emerge qui con chiarezza l’ambivalenza e il ruolo dilemmatico
dell’expertise, capace al contempo di garantire sicurezza ma anche
di alimentare la paura, e si colgono i tratti generali di un potenziale
circolo vizioso. Tanto più le persone si sentono insicure e incapaci
di affrontare le minacce che incombono, tanto più si affideranno
ad esperti in grado di garantire la sicurezza e la ricerca di soluzioni
appropriate. Tuttavia, questo meccanismo tenderà nel lungo periodo
a rinforzare il ruolo dell’expertise e il meccanismo della delega,
finendo nel tempo per alimentare quelle paure che derivano proprio
dallo sviluppo dei saperi. Per quanto semplificata, e sicuramente non
necessaria, questa dinamica aiuta a percepire il potenziale espansivo
dell’insicurezza che si cela nel suo rapporto con gli esperti. Dal canto
loro, esperti e professionisti non sembrano interessati a disinnescare
questo processo, dal momento che esso tende ad accrescere il loro
ruolo – pratico e simbolico – e il loro potere82.
Entrando più nel dettaglio di questa dinamica, tuttavia, è
opportuno distinguere due declinazioni diverse di questo circolo
vizioso, che si associano ai due modelli di paura delineati nel
paragrafo precedente. In un caso, infatti, la paura innescherà la
ricerca di soluzioni tecnologiche e una continua rincorsa allo
79
Ivi, p. 9. T.d.A.
80
M. Freeman, Freedom or security: the consequences for democracies using emer-
gency powers to fight terror, Greenwood Publishing Group, Westwood, 2003; B.
Ackerman, The emergency constitution, in The Yale Law Journal, 2004, n. 113, pp.
1029-1080; A. Etzioni, How Patriotic is the Patriot Act? Freedom Versus Security in
the Age of Terrorism, Routledge, New York, 2005.
81
Nella recente esperienza italiana del Governo Monti (rimasto in carica dal 16
novembre 2011 al 28 aprile 2013) il rapporto tra emergenza, paura e delega agli
esperti è emerso anche nel dibattito pubblico. Politici e osservatori hanno in più
occasioni utilizzato l’espressione “governo della paura” per definire il legame tra
l’insiediamento di un governo tecnico (il “governo dei professori”) e l’ansia gene-
rata dalla congiuntura legata alla criticità della situazione economica e agli attacchi
al debito sovrano. L’elevato livello di expertise dei tecnici, in particolare, è stato
definito rilevante non solo per individuare soluzioni, ma anche per rassicurare gli
altri governi europei sulla tenuta dell’economia italiana.
82
E. Freidson, op. cit.; F. Furedi, The Culture of Fear, cit.

61
capitolo secondo

sviluppo causando, conseguentemente, una crescita dei rischi ad


esso connessi. Nel caso opposto, quando cioè è in gioco quella che
abbiamo definito “paura dopo la modernità”, all’insicurezza farà eco
una maggiore intensità della delega agli esperti, e una conseguente
e progressiva riduzione della propria capacità reale o percepita di
far fronte autonomamente ai pericoli, che spingerà a sua volta ad
affidarsi sempre di più ai saperi riconosciuti.
Rimane poi sullo sfondo una questione che rinforza ulteriormente
l’ambivalenza e la complessità dell’expertise. Anche nel caso di una
perdita di legittimazione e di una simbolica o effettiva “ribellione”
al loro potere, possono le società contemporanee fare a meno degli
esperti? Nei fatti, la critica al loro ruolo è tutt’altro che una novità,
e oltre ad avere radici molto antiche ha vissuto nel secolo scorso
più di un momento di relativa centralità nel dibattito scientifico
e pubblico, facendo da contraltare all’insorgere di istanze di tipo
tecnocratico ogniqualvolta queste si siano ripresentate83. Tuttavia,
pare piuttosto difficile pensare che l’attuale società, caratterizzata da
un elevato grado di complessità, possa essere gestita senza delega
alcuna a saperi esperti, almeno all’interno di un modello sociale come
quello occidentale. Su questa tensione, e sulla ricerca di soluzioni ai
circoli viziosi delineati sopra, ci soffermeremo nelle conclusioni.

6. Conclusioni: come rompere il circolo vizioso?

Dalla ricostruzione proposta in questo capitolo l’ambivalenza


emerge come un tratto distintivo che caratterizza la relazione tra
esperti, sicurezza e insicurezza. Tale ambivalenza, inoltre, si manifesta
in uno scenario, quello determinato dai processi di modernizzazione
che hanno investito le società occidentali, in cui sembra difficile
poter rinunciare ai meccanismi di delega all’expertise.
L’ambivalenza del ruolo degli esperti, al tempo stesso in grado
di rassicurare e generare paura, così come il rapporto tra questa e
l’assetto economico e sociale delle società occidentali, può poi essere
collocata nel quadro più ampio di interdipendenze tra sicurezza e
insicurezza, che fa da sfondo a questo volume (cfr. capitolo primo).
83
L’ampiezza del dibatto non consente qui una trattazione approfondita. Per una
sistematizzazione si rimanda a M. Schudson, The trouble with experts - and why
democracies need them, in Theory and Society, 2006, n. 35, pp. 491-506.

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insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

A conclusione di questo ragionamento un passaggio obbligato


riguarda la ricerca di possibili soluzioni al circolo vizioso messo
in evidenza nel paragrafo precedente che nasce in seno alla natura
dilemmatica del rapporto tra insicurezza ed expertise. In altri termini,
come rendere “sicura” l’expertise, evitando che generi ulteriori paure?
Anche in questo caso è opportuno distinguere tra le due
dinamiche e i due modelli di paura e insicurezza. Nel caso della
“paura della modernità”, infatti, il circolo vizioso appare più
semplice da rompere, dal momento che più facilmente può
generarsi da questo sentimento uno scetticismo nell’operato degli
esperti e una conseguente perdita di legittimazione. In termini più
generali, è possibile affermare che il gioco a somma positiva tra
ruolo dell’expertise e crescita della paura tenderà automaticamente a
rompersi in presenza di alcune condizioni. La prima è che siano gli
esperti stessi ad essere direttamente individuati come responsabili
delle situazioni che generano insicurezza. La seconda è che, a livello
più o meno conscio, i rischi siano percepiti come superiori ai benefici
portati dallo sviluppo. Questa dinamica emerge con chiarezza nello
scenario attuale in settori diversi della società, da ambiti più tecnici
quale quello della questione nucleare84, fino al dominio delle scienze
sociali, come dimostra la percezione dell’economia in relazione alla
crisi di fine decennio85.
Questo tipo di critica all’expertise influisce sulla sua percezione e
sulla sua legittimazione a livello simbolico, ma anche, in casi come
84
Esemplare in questo senso è il caso del Giappone, dove a 18 mesi di distanza dal
disastro di Fukushima il governo ha deciso, contro il parere degli esperti, di avviare
un processo di progressivo abbandono dell’energia nucleare. Più forte dell’exper-
tise si rivela qui la pressione dell’opinione pubblica e, soprattutto, la necessità del
governo di trovare un rimedio alla crescita incontrollabile della paura tra la popo-
lazione. Cfr. S. Carrer, A 18 mesi da Fukushima il Giappone dice addio al nucleare
entro 20-25 anni. Tokyo approva nuovo piano energetico nazionale, in Il Sole 24
Ore, 14 settembre 2012 (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-09-14/
giappone-addio-nucleare-decisione-150900.shtml?uuid=AbgdIcdG).
85
Il riferimento qui è nuovamente al dibattito che ruota attorno all’incapacità
della disciplina, o almeno del mainstream della stessa, di prevedere la crisi e di
trovare soluzioni ad essa (cfr. anche nota 2). Le posizioni nel dibattito pubblico
circa la responsabilità degli esperti variano in questo caso, come spesso avviene,
lungo un continuum che va dall’incapacità al dolo, anche se non mancano visioni
più clementi che pongono l’accento sull’imprevedibilità della crisi finanziaria. Cfr.
sui principali aspetti del dibattito, l’introduzione in N. Roubini, S. Mihm, Crisis
economics: A crash course in the future of finance, Penguin Books, New York, 2010.

63
capitolo secondo

quello del nucleare, sul suo reale potere e sul posto che essa riveste
in una società. In alcuni casi, poi, la critica distingue la competenza
professionale dall’uso pubblico che della stessa viene fatto: se
sulla prima è difficile, per i profani, intervenire con cognizione e
autorevolezza, il secondo sembra prestarsi meglio a un controllo da
parte del pubblico. Infine, può accadere che sia proprio la funzione
di rassicurazione della popolazione da parte degli esperti ad essere
sotto accusa, come dimostra il recente caso della condanna degli
esperti appartenenti alla Commissione Grandi Rischi in relazione
al terremoto che il 6 aprile 2009 provocò 309 vittime nella città de
L’Aquila. L’episodio in questione mostra con estrema efficacia molte
delle dinamiche fin qui analizzate. Infatti, tra le motivazioni della
condanna degli esperti viene menzionata, tra l’altro, la loro adesione
a una campagna mediatica di rassicurazione della popolazione
che, convinta “dall’autorevolezza della fonte”, ha abbandonato «le
misure di precauzione individuali seguite per tradizione familiare
in occasione di significative scosse di terremoto, con tragiche
conseguenze»86. Esperti colpevoli, dunque, anche di aver abusato del
loro potere di limitare la paura, una paura che in questo caso avrebbe
forse potuto impedire un tragico esito.
In questo primo scenario, la rottura del circolo vizioso poggia
sulla definizione di vincoli normativi o politici sull’operato degli
esperti, che si pone in alternativa al meccanismo di fiducia cieca.
Questo tipo di approccio si colloca all’interno di una più ampia
corrente di pensiero che può essere definita “democratizzazione della
scienza”87, che individua cioè in un maggior controllo della società e
del pubblico la soluzione non solo alla degenerazione dell’expertise,
ma anche alla sua perdita di legittimazione.
86
Tribunale di L’Aquila – Motivazioni della sentenza 380/12, gennaio 2013. Si
legge tra le motivazioni che «Gravi profili di colpa si ravvisano nell’adesione, col-
pevole e acritica, alla volontà del capo del Dipartimento della Protezione Civile
di fare una ‘operazione mediatica’ che si è concretizzata nell’eliminazione dei fil-
tri normativamente imposti tra la Commissione Grandi Rischi e la popolazione
aquilana. Tale comunicazione diretta, favorita dall’autorevolezza della fonte, ha
amplificato l’efficacia rassicurante del messaggio trasmesso, producendo effetti
devastanti sulle abitudini cautelari tradizionalmente seguite dalle vittime e inci-
dendo profondamente sui processi motivazionali delle stesse. [...] Dalla condotta
colposa degli imputati è derivato un inequivoco effetto rassicurante».
87
M. Schudson, op. cit.; E. Lövbrand, et al., A democracy paradox in studies of
science and technology, in Science, Technology and Human Values, 2011, n. 36/4,
pp. 474-496.

64
insicurezza, paura, modernità e dilemmi dell’expertise

Questo tipo di approccio, al centro di un acceso dibattito,


non sembra tuttavia rappresentare una soluzione, o perlomeno
l’unica, alla spirale innescata dalla paura legata al meccanismo di
incapacitazione, che deriva da una delega totale agli esperti. In
una certa misura, infatti l’esercizio di una delega condizionata e
vigile riduce anche simbolicamente le distanze tra esperti e società.
L’interazione riconosciuta in contesti definiti, e il riconoscimento di
una voice, possono infatti restituire in qualche misura ai cittadini
la percezione di una qualche forma di agency, se non sul mondo,
quantomeno su chi è deputato a farlo funzionare.
Tuttavia, se questa forma di “agency indiretta” può in parte
attenuare il senso di impossibilità di influire sull’ambiente
circostante, il modello della paura “dopo la modernità” apre anche
a una dimensione più ampia e in parte alternativa. Il focus posto
sull’agency percepita, infatti, suggerisce che il controllo sull’operato
degli esperti rappresenta soltanto una misura parziale, e che la
soluzione del circolo vizioso debba essere cercata anche al di fuori
dello stretto rapporto tra società ed esperti. In altri termini, la spirale
si può rompere non soltanto rendendo “sicuri” gli esperti, ma anche
agendo sulle capacità delle persone e sulla loro percezione della
capacità di influire sul mondo: quella che Bandura88 e gli psicologi
sociali definiscono come self-efficacy.
Per chiudere il cerchio, a fianco dei saperi sembrano assumere
una nuova rilevanza le abilità proprie di quell’“uomo artigiano” che,
nella suggestiva visione di Sennett89, trae beneficio dalla produzione
di una cultura materiale e dall’ancoraggio alla realtà tangibile,
sperimentando non la paura, ma l’orgoglio per il proprio lavoro.

88
A. Bandura, Social Cognitive Theory: an Agentic Perspective, in Annual Review of
Psycology, 2001, n. 52, pp. 1-26.
89
R. Sennett, The craftsman, Yale University Press, New Haven & London, 2008.

65
ISBN 978-88-97339-32-8

NOVALOGOS • via Aldo Moro, 43/D - 04011 Aprilia


www.novalogos.it • [email protected]

finito di stampare nel mese di maggio 2014


presso la tipografia digital team fano (PU)

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