Prima Lezione Di Filologi
Prima Lezione Di Filologi
Nella maggior parte delle lingue europee attuali, salvo che nell’italiano, la parola è
connotata come indicante degli studi vecchi e sostanzialmente inutili. Il prestigio
italiano della filologia è certamente legato ad alcune grandi figure del secolo scorso,
a loro modo popolari e anche circondate da un alone di sofisticato esoterismo
tecnico: Gianfranco Contini, Cesare Segre…
La definizione di Kant contiene il riferimento ai testi scritti (in lui bucher ‘libri’), ma
non li riduce ai testi letterari. Kant mette sullo stesso piano Bucher e Sprachen
‘lingue’, mentre la lingua diventa centrale nelle definizioni inglesi; invece in quelle
italiane l’analisi linguistica è strumento per lo studio dei testi. Per noi chi studia le
lingue antiche e moderne è un glottologo, un linguista, non un filologo.
Per quanto l’estensione avvenga già nel 700, rimane sottinteso, anche in Italia, che
la vera filologia è quella classica. La filologia classica mette in primo piano la
ricostruzione dei testi. Il privilegio per la ricostruzione spinge verso l’accezione di
‘filologia testuale’ o ‘ecdotica’.
L’ectodica mira a ricostruire il testo quale lo ha voluto l’ultima intenzione dell’autore.
In molti casi è ben noto che le interpretazioni di opere intere o singoli passi sono
molteplici e divergenti: Divina Commedia.
Infatti un classico è un testo passibile di nuove interpretazioni, vivo, non chiuso in
senso.
L’interpretazione di un testo viene influenzata anche dalla diversa cultura e credenza
del lettore.
CAP 2.
FILOLOGIA TESTUALE: tecnica o metodologia della ricostruzione del testo quanto
più vicino possibile all’originale.
Nella filologia classica che, con la filologia biblica, è stata la matrice da cui si sono
sviluppate le diverse filologie moderne e che si considera pur sempre il settore di
punta della disciplina nel nostro campo, questa restrizione di significato è ancora più
frequente che negli altri campi. La ricostruzione del testo è solo la fase iniziale della
filologia, di certo non il compimento. E’ il necessario punto di partenza. Per fare uno
studio così importante del testo è necessario essere consapevoli dell’edizione che si
sta leggendo. Poiché, soprattutto con testi considerati classici, è facile trovare
disponibili diverse edizioni e ristampe non veritiere. Altro problema sono le edizioni
che si trovano in rete. E’ importante il livello di affidabilità del testo. Se leggo un testo
devo presumere che il testo sia conforme alle volontà dell’autore. Ci sono delle
componenti del testo sotto il punto di vista della punteggiatura che possono essere
invece rivisitate dagli studiosi, visto la mancanza della punteggiatura (come nei testi
di Petrarca). Anche nei testi in cui non è presente alcun autografo dell’autore: gli
interventi dei copisti e dell’editore è ancora maggiore.
GRAFIA-SINTASSI-LESSICO sono componenti fondamentali per comprendere il
testo, ma se prendiamo in considerazione un testo antico; non tutte queste
componenti possono essere chiare. Come nel caso di Dante, in cui la grafia non è
chiara e perciò ci si può solo affidare alle rime, che sono il luogo meno vulnerabile di
un testo in versi.
La distanza cronologica tra originale e testimoni a noi disponibili non è di per se un
dato assoluto. Essa costituisce un problema in quanto un postulato generalmente
valido è che ogni copia comporta errori, intendendo con questo nome sia gli errori
veri e propri, in genere involontari, sia le innovazioni volute, per esempio la modifica
delle forme linguistiche allo scopo di attualizzarle, operazione che è stata a lungo
tacitamente ammessa. Una maggiore distanza tra originale e testimoni sopravvissuti
implica la probabilità che tra di essi intercorra un numero di copie proporzionalmente
maggiore e dunque un grado maggiore di corruttela.
Se si presenta un testo frammentato o incompiuto lo studioso deve rispettare la
volontà dell’autore e non spingersi oltre immaginando che l’opera possa essere
considerata omogenea. Per una interpretazione che voglia essere quanto più
adeguata possibile è indispensabile sapere quali siano le modalità attraverso cui un
testo ci è stato trasmesso.
CAP.3
LA STORIA DELLA TRADIZIONE: operazione preliminare di ogni lavoro filologico
deve essere l’accertamento della storia della tradizione del testo che studiamo, dal
momento che l’autore ha iniziato a concepirlo fino a quello in cui è pervenuto fino a
noi.
Per la filologia classica la storia della tradizione di un testo è l’esame di tutti i
testimoni a partire dell’originale perduto fino ai più recenti. Ma nella filologia
moderna molte volte il problema filologico non sta nei testimoni derivati dall’origine
dell’autore ma nel travaglio documentato che ha portato dalla prima idea del testo
alla sua redazione: è quello che si chiama critica genetica. Nei testi moderni
autografati bisogna accertarsi della successione delle scelte. Solo l’accertamento nei
limiti del possibile, della storia della tradizione ci fornisce le informazioni
indispensabili per la ricostruzione e la valutazione del testo che stiamo studiando.
Essa permette anche di affrontare e risolvere questioni relative alla genesi dei testi,
per le quali non abbiamo informazioni dirette. E’ evidente come sia significativo se di
un’opera c’è un solo codice o più o molti. La proporzione tra le copie a suo tempo
realizzate e quelle giunte fino a noi, il num di queste ultime è un dato significativo.
Importante come sapere in che aree esse furono realizzate ed in quali sembrano
assenti, in quali località e a quali persone furono vendute. I manoscritti medievali che
recano miniature spesso esibiscono il blasone del loro primo possessore; a volte
esso è stato sostituito da quello di un successivo acquirenti; molto spesso ci sono gli
ex libris o le firme dei proprietari. Diventa così possibile ricostruire la storia del
singolo libro, a volte senza lacune, da quando fu prodotto a oggi.
CAP. 4
LA FILOLOGIA RIGUARDA SOLO I TESTI LETTERARI?
Di solito i testi non letterari non hanno bisogno di cure filologiche a parte quelli
arcaici. La filologia ha origine dallo studio dei testi classici, latini e greci, e della
Bibbia; in ambedue i casi si tratta di testi letterari. La specificazione che la filologia
riguarderebbe i testi letterari ha avuto come conseguenza, per quanto infondata
possa sembrare, la diffusione della formula opposta: vale a dire che i testi non
letterari non abbiano bisogno di cure filologiche. Questo principio, veniva però violato
nel caso di testi non letterari di particolare importanza storica, soprattutto perché
arcaici. La fibula prenestina, un’antichissima sibula del VII a.C. secolo, con incisa
un’iscrizione, trovata a Preneste, vicino Roma, è stata oggetto di dispute accanite e
non meno studiati dai filologi sono stati i più antichi documenti delle lingue moderne,
anche dove non si tratti di poesie o di prosa letteraria: si pensi alle testimonianze
campane del secolo X, come il noto testo che comincia: “Sao ko kelle terre per kelle
fini…”
E’ il filologo a decidere se valesse la pena di applicare ad un testo non letterario la
metodologia che era stata elaborata per il testo di Virgilio. La maggior parte dei testi
non letterari era ed è lasciata alle pratiche editoriali di studiosi anche benemeriti ma
digiuni di preparazione filologica. Nel caso di documenti di archivio la prassi è stata
quella dell'edizione detta diplomatica: la riproduzione degli originali manoscritti
rispettandone al massimo tutte le caratteristiche. Questa è ormai sempre più
sostituita dalla riproduzione digitale ma quella diplomatica persiste nel rispetto di
alcune calligrafie antiche. Nel caso di cronache, diari e simili l’editore è più attento al
significato del testo che alle minuzie formali, ciò non vuol dire che risulti più
affidabile. Attualizzare una grafia antica senza sapere quale fosse l’uso grafico di chi
aveva steso il testo in questione porta a delle errate identificazioni e la deformazione
di frasi intere. Accade perché l’editore, non filologo, di questo tipo di testi è più
interessato al contenuto che alla forma ma così facendo finisce con il distorcere
involontariamente anche il contenuto. In conclusione qualsiasi testo deve essere
scritto deve essere trattato con i metodi e strumenti della filologia, che deve adattarsi
al tipo di testo e alle modalità delle sue trasmissioni. Non ci sono gerarchie tra le
cure dei testi, solo una cura diversa che si adatta al genere del testo e alla sua
antichità. Altrettanto imp è l'identificazione delle persone e dei luoghi di cui si fa
menzione in una lettera.
CAP.5
LA FILOLOGIA SI APPLICA SOLO AI TESTI SCRITTI?
L’esclusione iniziale dei testi orali è stata condizionata dal modo di definire la filologia
come principalmente classica e quindi in relazione ai testi tramandati per scritto da
una tradizione millenaria. Ma questa limitazione è infondata: non c’è ragione di
escludere esame a testi che sono insieme orali con carattere letterario (poesia e
narrativa popolare). Fino a un secolo fa questi diventavano studiabili solo dopo che
un raccoglitore li aveva messi per scritto, ma poi pian piano è divenuto possibile
ascoltarne la registrazione sonora e poi vederli in esecuzioni su pellicola. Per quanto
lo studio di questo tipo di testi sia iniziato fin dagli anni del Romanticismo, sono stati
oggetto di equivoco e mistificazioni per inadeguati trattamenti filologici.
ES. la storia della baronessa di Carini (poemetto italiano):
pubblicato nel 1870 da un raccoglitore della tradizione popolare siciliana: Salvatore
Salomone Marino. Questo, ne dette poi altre due edizioni 1873 e nel 1914 con
molte differenze. Lo studioso non dice chiaramente da dove provenisse il suo testo,
che trattava come se risalisse al ‘500. Questo testo non era mai stato stampato
prima di allora. L’editore diceva di averne raccolto un buon numero di versioni, sulle
400, dalla voce dei popolani di tutta la Sicilia. Fu più esplicito l’amico folclorista
palermitano Giuseppe Pitrè, che in una recensione scrisse che il suo amico aveva
ricostruito il testo mettendo insieme pazientemente ottave e versi tratti da versioni
differenti. Ce ne dà conferma Aurelio Rigoli che nel 1963 recuperò e repubblicò le
392 versioni trascritte in bella copia, per dimostrare che l’opera finale di Salomone
Marino non era altro che un mosaico delle varianti. Molto spesso il lavoro di
Salomone Marino aveva ottenuto risultati qualitativamente buoni e il testo ebbe
fortuna fra i lettori. La sua seconda edizione (1873) fu inclusa da PIer Paolo Pasolini
nel Canzoniere italiano. La Rai ha contribuito inoltre alla fortuna contemporanea
della storia, con le consuete modificazioni introdotte nel racconto. Si trattava dunque
di un falso erudito della fine del XIX sec. Per Salomone Marino si era trattato di un
minuzioso lavoro di restauro. Importante è ricordare che questa galassia di testi
varianti si riferiscono ad un caso realmente avvenuto: il 4 dicembre 1563 la
baronessa di Carini era stata uccisa con il suo amante Ludovico Vernagallo nel
castello di Carini, Palermo, come risulta sul registro parrocchiale della chiesa del
paese. Salomone Marino dava per scontato che tutte le varianti derivassero da un
testo orale composto a breve dopo la morte della baronessa, composto da un poeta
sconosciuto, con il fine di diffondere la tragica notizia e di esprimere lo sdegno
popolare per l’assassinio e il suo autore. Nella terza edizione lo studioso modificò le
sue idee sui personaggi e sullo svolgimento della tragedia e di conseguenza
modificò la sua ricostruzione, utilizzando sempre fonti popolari e orali ma
montandole a suo piacimento. Il procedimento non era una sua invenzione ma
identico a quello adottato da molti raccoglitori ottocenteschi dei racconti popolari.
Nelle sue edizioni Marino non aveva detto granchè del testo, come detto prima, ma
dalla loro bella copia si vede che lo studioso aveva tenuto conto di informazioni
importanti su chi gli aveva trasmesso informazioni (nome, mestiere, residenza…).
Rare sono le indicazioni sulla musica su cui le variazioni venivano cantate, perché di
poesia cantata si tratta. Da queste annotazioni si apprende che in genere coloro che
cantavano anche poche ottave sapevano di che si trattasse, ma che le informazioni
erano vaghe e a volte in contraddizione. Molti informatori avevano appreso i versi da
un cantastorie o erano figli di questi. Il cantastorie è un professionista che vive del
canto itinerante, sempre accompagnato dalla musica e da un rappresentazione
pittorica degli episodi principali della storia che canta, il cartellone. Egli è il custode e
il garante dell'integrità e della conservazione del testo anche se lo manipola secondo
le sue opportunità. Non abbiamo tra le 392 versioni un solo testo di cantastorie,
abbiamo pochissime musiche e nessun cartellone anteriore al 1970. La poesia ha
trasformato la vicenda per farla rientrare negli schemi che sono propri della
tradizione poetica siciliana. Per cui la donna non può che essere una giovane
inesperta che cade nelle trame di un avventuriero. Realtà: dagli archivi della Corona
di Spagna, da cui allora dipendeva la Sicilia. E’ stato ritrovato un memoriale dello
stesso assassino, Cesare Lanza, padre della baronessa. E’ cronaca che dimostra
uno scontro tra famiglie nobili. Tutti questi elementi sono fondamentali e permettono
uno studio filologico del testo orale con strumenti diversi da testi scritti.
CAP. 6
LA FILOLOGIA GENETICA.
La critica genetica: possibilità di studiare quella fase della storia della
tradizione che sta prima del testo definitivo, mentre tradizionalmente l’ogg del
nostro studio riguarda soltanto quello che è accaduto dopo la definizione del testo.
Ma in alcuni casi è invece possibile studiare anche il processo di formazione del
testo con testi di autori moderni e contemporanei, dei quali abbiamo autografi del
testo definitivo e tutto o parte del materiale preparatorio. Situa analoga con alcuni
testi del Medioevo: Rerum vulgarium fragmenta, il canzoniere di Petrarca, del quale
ci è pervenuto il testo definitivo, il codice Vaticano Latino 3195. Sono conservati
anche degli abbozzi sui quali Petrarca ha lavorato per un certo tempo e che ci
permettono di entrare nella sua officina poetica. Lo studio di questo suo ultimo
periodo di poetare è stato fatto da Gianfranco Contini, dando un’importante lezione
di filologia genetica. E’ possibile risalire ancora più indietro, perché man mano che
Petrarca arricchiva e sistemava la sua collezione, permetteva che se ne traessero
copie. Si ha la possibilità di individuare nella ricchissima tradizione manoscritta del
Canzoniere alcuni codici che discendono da stadi intermedi, da archetipi perduti che
ci conservano fasi del lavoro poetico petrarchesco. Questi stati intermedi sono stati
individuati dal filologo americano Ernest H. Wilkins. Per quanto finora non sia stato
fatto, è così possibile, produrre edizioni separate per ciascuna fase individuata e
dare così la base per uno studio approfondito del processo di formazione del
Canzoniere.
CAP.7
IL PROBLEMA DELL’EDIZIONE CRITICA.
La sistemazione critica del testo è preliminare alla sua interpretazione. Si dice di
solito che il fine della critica testuale sia il ristabilimento del testo secondo l’ultima
CAP.8
IL CENSIMENTO DEI TESTIMONI.
recensio 〈rečènsio〉 s. f., lat. [der. di recensere «esaminare», propr. «esame, rassegna,
disamina»]. – Forma usata spesso nella critica testuale, in luogo della corrispondente ital.
recensione (nel sign. [...]
La prima fase del lavoro ecdotico è il reperimento dei testimoni. Vero è che sono
sempre più disponibili repertori di manoscritti e delle stampe e cataloghi delle
biblioteche, ma a volte salta fuori un frammento di codice , o un codice intero, e non
sempre è chiaro chi lo possieda e dove. Un censimento di grandissime dimensioni è
quello dei manoscritti che contengono commenti danteschi fino al 1480. Le indagini
parziali esistevano già, ma oggi il censimento dà compiuta informazione su 702
manoscritti, una buona porzione dei quali, circa 200, sono venuti a galla solo durante
quest’ultima ricerca. Nel dicembre 2010 il filologo classico inglese Michael Reeve,
nella British Library, pensò di guardare qualche codice del De monarchia di Dante.
Consultando il catalogo ne vide 2. Si sorprese poiché era famoso solo un codice tra i
due. Il recente ed accuratissimo editore, anche lui anglosassone, continuava ad
ignorare l’altro, che non è affatto una copia tarda e presumibilmente inutile, ma un
testimone trecentesco da esaminare con cura. Questa volta non era stata adeguata
la recensio nelle biblioteche pubbliche. Spesso però trascuriamo che non tutti i codici
medievali sono finiti in biblioteche pubbliche, come sarebbe auspicabile. Esiste
ancora un mercato di manoscritti in mani private al quale attingono le biblioteche
pubbliche che dispongono dei fondi necessari. I codici che circolano in questo
mercato, gestito dalle case d’aste, non appartengono a filologi e non passano da
uno studioso all’altro: sono soliti investimenti di ricchi signori che li tengono nelle
cassette di sicurezza delle banche e non hanno nessun desiderio di far sapere in
giro che li possiedono. Lo scrittore Alberto Varvaro ha prende in considerazione le
cronache di Jean Froissart, la cui tradizione è costituita da un alto numero di codici
spesso di alta qualità. Erano fin d’allora libri molto costosi, commissionati da sovrani
o da membri dell’alta aristocrazia. Nell’ottocento aveva avuto gran fama un codice
posseduto dal principe tedesco Puckler-Muskau, che lo conservava nella sua
biblioteca settecentesca in un castello della Slesia, a Branitz. Alla fine della seconda
guerra mondiale Branitz era rimasta appena ad ovest della nuova frontiera, che
allora divideva dalla Polonia la Repubblica Democratica Tedesca. Di questo codice
non si era saputo più nulla in Occidente, anzi si erano perse le tracce non solo del
codice ma anche della famiglia principesca (facile sotto il potere comunista). Nel
corso della recensio di Alberto Varvaro dei codici di Froissart, a Parigi scoprì che
erano state fatte senza successo varie ricerche nei paesi occidentali ma non si era
trovato né il principe né il codice . Dopo la riunificazione tedesca del 1990, legge sul
Corriere della Sera un servizio del corrispondente da Bonn, allora capitale della
Bundesrepublik, che citava alcune dichiarazioni del principe Puckler, e chiede la
cortesia di essere messo in contatto con il corrispondente. Il principe gli raccontò che
nel 1945 egli era ancora bambino e non aveva quindi ricordo personale del codice di
Froissart, ma sapeva bene che era la perla della collezione di famiglia; i suoi
genitori, ormai scomparsi, gli avevano sempre detto che il codice, assieme al resto
dei libri, era rimasto a Branitz quando la famiglia era fuggita dinanzi all’avanzata
russa. Il principe diceva di essersi recato subito in Slesia e di aver trovato l’edificio
della biblioteca in buone condizioni, me privo del materiale librario. L’aveva ritrovato
in una biblioteca pubblica di Potsdam, vicino Berlino. Il trattato tra Repubblica
Federale e URSS, che aveva riunificato la Germania, escludeva che i proprietari di
beni confiscati dallo Stato dopo il 1945 potessero rivendicarli; ma il principe era
riuscito a recuperare i suoi beni e a riportarli a Branitz a titolo di prestito permanente
da parte di Potsdam. Del Froissart però non c’è traccia e il principe si dichiarava
convinto che questi volumi fossero finiti a Mosca o a Leningrado (oggi Pietroburgo).
Varvaro pubblicò quanto riassunto sopra e considerò disperso il codice di Branitz.
Alcuni anni dopo, in un congresso a Liverpool, conobbe Eberhard Koenig che si
occupava di codici della stessa epoca del suo. Costui gli disse di avere avuto in
mano il codice in questione e in Occidente. Ne aveva persino fatto uno studio
minuzioso. Scoprì così che il codice era passato attraverso diverse vendite all’asta
da una collezione conservata a Firenze. Il codice ora si trovava nelle casseforti di
una banca svizzera. Del principe, Koenig non sapeva nulla. Varvaro arrivò quindi alla
conclusione che doveva trattarsi di 2 codici simili ma diversi, uno dei quali nel 1945
era a Firenze, l’altro nel castello di Branitz. La soluzione di questo strano caso si
trovò a Parigi: il codice era solo uno ed era stato venduto prima del 1945 e
dell’avanzata dell’Armata Rossa, in ragione delle pesanti necessità di denaro del
principe di allora per la vita dispendiosa che conduceva a Parigi e altrove. Può quindi
darsi che il principe avesse nascosto alla sua famiglia il suo stato di alienazione. Le
riproduzioni fornite dal libro di Koenig hanno permesso di stabilire che il testo che
esso contiene non è quello originale di Froissart ma una abbreviazione, e che quindi
il codice rimane prezioso dal punto di vista artistico ma privo di valore filologico. Non
sono ancora disponibili informazioni davvero complete sui testimoni di opere
medievali pervenuti fino ai giorni nostri. La procedura adottata da Giorgio Petrocchi
per darci nel 1966-1967 il testo critico della Commedia di Dante che ancora oggi è
accettato come standard sembra contraddire il principio di Pasquali (filologo
classico): si è a lungo pensato che il testimone migliore fosse quello più antico, in
base al principio indiscutibile che ogni copia aggiunge errori al testo, quindi più
passa il tempo più le copie sono scorrette. Pasquali osservò che ciò è logico, ma
non tiene conto delle possibilità che un ottimo testimone antico, poi
scomparso, sia stato copiato accuratamente.
Il filologo romano Petrocchi, decise di fissare il testo sulla base dei soli testimoni
sicuramente anteriori al 1355, escludendo dal suo esame i numerosissimi codici
posteriori. Il numero altissimo dei testimoni del poema dantesco rende molto difficile
e forse non realizzabile uno scrutinio integrale della tradizione. Infatti negli ultimi
decenni dell’ottocento si era preferito il criterio dei loci critici, che consiste nella
selezione di un certo numero di passi che si ritengono significativi, i quali vengono
controllati su tutti i testimoni. Petrocchi sottolinea il pericolo di questa procedura, che
può ignorare passi significativi, e preferiva esaminare ogni testimone nella sua
interezza; ciò però lo costringe a limitare il numero. A questo aspetto pratico, egli
aggiungeva un motivo interno: ad una certa data del 300, in particolare per
l’infaticabile attività di copia di Giovanni Boccaccio, la tradizione della Commedia si
contamina in modo indistricabile; sembra sicuro che nei testimoni posteriori non ci
siano lezioni ignote a quelli più antichi. Si può dunque ritenere abbastanza sicuro
che l’eliminazione di tutti i testimoni posteriori non comporti danni irreparabili. Ma il
dubbio rimane.
CAP. 9
L’ISPEZIONE DEI TESTIMONI.
paleografia
/pa·le·o·gra·fì·a/
sostantivo femminile
Scienza che indaga criticamente lo svolgimento della scrittura in tutte le sue
manifestazioni, al fine di leggerne, localizzarne e datarne i risultati, e altresì di
ricavare, dal fenomeno grafico e dall'evoluzione dei segni, elementi e dati per
la storia in generale e per la storia della cultura in particolare.
collazione
/col·la·zió·ne/
sostantivo femminile
1.
Nella critica testuale, confronto delle varie redazioni disponibili di uno stesso
testo allo scopo di ricostruirne e valutarne la tradizione o le varie fasi di
composizione.
Fino alla diffusione della fotografia e del microfilm accadeva spesso che il filologo
non avesse mai avuto davanti uno o più dei testimoni dell’opera che pubblicava.
Perciò molte volte a causa dei testimoni irreperibili, ci si affida a presunti esperti di
paleografia che copiavano copie in biblioteca. Altre volte il futuro editore si
contentava di ottenere collazioni: al margine di una edizione precedente o di una
copia che egli aveva inviato venivano annotate dal presunto esperto le varianti
presentate dal testimone che veniva collazionato. Nel corso del 900 si è andata
Per poter studiare bene la storia della tradizione, e per poter proporre una
metodologia funzionale al recupero del miglior testo possibile, bisogna dunque
conoscere le modalità di trasmissione dei testi nelle fasi storiche che essi hanno
attraversato, che nel caso della filologia moderna sono sostanzialmente quelle del
codice manoscritto, della stampa a caratteri mobili e poi a linotype, ed infine del
computer. Finché non è diventato normale per il filologo viaggiare e recarsi
personalmente nelle biblioteche che conservano i codici che egli studia e finché le
possibilità di riproduzione erano limitate e/o approssimative, accadeva di frequente
che lo studioso si facesse fare una copia del testo che gli serviva da un volenteroso
collaboratore. Anche se il copista era ottimo, il filologo non aveva così alcun contatto
diretto con il codice. Tra gli studi del filologo spagnolo Ramon Menéndez Pidal, c’è
ne uno che avanza l’ipotesi che del Libro de buen amor di Juan Ruiz, ha una
tradizione molto limitata che, a parte alcuni frammenti, conta solo 3 codici, due siglati
G e T molto incompleti, mentre S sembra integro ed è firmato dal copista Alfonso de
Paradinas verso il 1415. Limitatamente possiamo studiare il testo su tutti e tre i
testimoni insieme. Di norma abbiamo S e G oppure S e T, e neppure sempre poichè
il prologo in prosa è conservato solo da S. Nel 1901 Menéndez Pidal osservò che in
una zona del testo per cui disponiamo di S e G, quest’ultimo omette un Cantica de
loores de santa Maria e due episodi narrativi e ne dedusse che il testo tradito da
questo codice corrispondesse ad una prima redazione del Libro databile al 1338,
mentre S conterrebbe una seconda redazione del 1343. Se ciò fosse stato vero, gli
editori del Libro non avrebbero dovuto contaminare il testo di S con quello di G, in
quanto si tratterebbe di testi diversi; invece continuarono tranquillamente a farlo. Per
fortuna i tre codici sono stati pubblicati in edizione diplomatica, prima da Jean
Ducamin mettendo a testo S e dando le varianti G-T, e poi da De Val e Eric Naylor
dando a fronte i tre testimoni. Anche senza avere in mano il codice, è possibile
ricostruire la struttura originale dei suoi fascicoli e misurare con precisione le sue
lacune. La mancanza dei due episodi in G si spiega con la perdita meccanica dei
fogli in cui essi erano copiati. Non c’e dunque nessuna prova che siano esistite due
redazione del Libro, la cui edizione può dunque lecitamente tener conto di tutti e tre i
testimoni. In molti casi la produzione di un codice manoscritto, anche letterario, era
una operazione puramente artigianale, che veniva fatta una volta sola o su
commissione o per arricchire la biblioteca della propria istituzione o per il desiderio
del copista di possedere l’opera inclusa nel codice. Ma poteva accadere che
l’operazione divenisse industriale. I modi per accelerare la produzione del libro
manoscritto non erano molto vari: si trattava di mettere all’opera più copisti
contemporaneamente, magari chiedendo aiuto ad altri ateliers vicini. Se due copisti
lavoravano alla stessa opera i tempi erano dimezzati. Ma ciascun copista doveva
avere davanti il manoscritto da cui copiare, che si chiama antigrafo (la copia di un
altro manoscritto, ma la parola è venuta usandosi per il manoscritto da cui ne è stato
stato copiato un altro), e già non era facile che un atelier ne avesse anche solo uno.
Se però quest’unico antigrafo non era cucito, esso poteva essere copiato
contemporaneamente da tanti copisti quanti erano i suoi fascicoli, per es. 6 fascicoli
potevano essere distribuiti a 6 diversi copisti. Alla fine del lavoro ne risultavano 36
fascicoli, cioè 6 copie per ogni fascicolo dell’antigrafo. Perchè il risultato fosse
decente tutti i copisti dovevano mantenere la stessa impostazione di pagina e usare
grafie molto simili; inoltre le pagine dovevano cominciare e finire sempre allo stesso
punto. Per lavori di tipo pre-industriale quando si trattava di riprodurre libri molto
richiesti e quando lo scriptorium (bottega) che faceva questo lavoro era
sufficientemente grande ed attrezzato, i copisti potevano essere parecchi. Ogni
giorno il singolo copista prendeva il fascicolo che gli toccava copiare, senza curarsi
che fosse lo stesso che aveva usato il giorno precedente. I fascicoli completati
finivano in tanti mucchietti quanti erano i fascicoli dell’antigrafo e quanti sarebbero
stati quelli delle nuove copie. Quando, alla fine, si passava alla cucitura e alla
rilegatura delle copie, si faceva attenzione a che ci fossero il fascicolo 1, poi il 2, il 3
e così via fino alla fine, ma nessuno prestava attenzione a che finissero insieme i
fascicoli realizzati da uno stesso copista né era possibile stabilire se questi fascicoli
fossero stati copiati tutti dallo stesso antigrafo. Tutti i copisti sbagliano e hanno
sempre sbagliato, per fortuna ci sono dei filologi che riescono a capire qualcosa
proprio grazie ai loro errori. Durante il lavoro del copista poteva accadere che
distrattamente si omettessero parole o righe intere, e che quindi mancassero parti
del testo. Le soluzioni possibili erano quelle di allargare lo spazio tra le parole o
peggio tra le righe onsemplicemente di inventare un breve testo riempitivo che
rimettesse a posto le cose. Mescolando i fascicoli le corruttele di un copista si
mescolavano con quelle degli altri e, le corruttele ereditate da un antigrafo con quelle
ereditate da un altro. Questa è una delle più gravi cause della contaminazione:
fenomeno per cui un amanuense corregge il testo del suo esemplare con altri
manoscritti appartenenti a diversa tradizione. Un fenomeno che peggiora quando il
filologo ritiene di poter fare a meno dello studio del testo intero di ciascuno dei
testimoni, o deve farne a meno per circostanze pratiche. Più di una volta l’editore,
che per i testi moderni dispone di pochi casi di errore manifesto, si aggrappa a
pochissimi casi vistosi in un testo anche molto lungo. Per sottrarsi a tutti questi
pericoli il filologo deve avere una competenza codicologica delle procedure di
stampa e una competenza paleografica per leggere correttamente e rapidamente ciò
che nel codice è stato scritto.
CAP.10.
TESTO E IMMAGINE.
L’osservazione diretta dei codici, sottraendo i testi al loro carattere astratto, ha reso
più attenti all’intervento di categorie diverse di decoratori. I paleografi hanno sempre
avuto cura di notare la presenza e la qualità di elementi decorativi come le rubriche, i
capo-lettera decorati e altre fioriture marginali. Queste caratteristiche a volte
definiscono la bottega in cui il codice è stato prodotto. Un elemento che non sfuggiva
certo all’attenzione dei paleografi e dei redattori dei preziosi cataloghi dei manoscritti
era la presenza del blasone (scudo con le armi del casato) d’armi di colui che ne
aveva ordinato la confezione o che lo aveva acquistato per le sue collezioni. Si tratta
dello scudo che reca le armi del casato, di solito con qualche particolare che vale ad
identificare il singolo possessore nell’ambito della famiglia. Questo primo foglio recto
del codice latino 6381 della Bibliothèque Nationale de France di Parigi, che contiene
il De clementia di Seneca, reca in alto alla prima colonna le armi di Normandia. La
decorazione dei margini data il codice con sicurezza alla seconda metà del secolo
XV e in questo periodo solo un personaggio ha portato le armi di Normandia. Si
tratta di Carlo di Francia, fratello cadetto del re Luigi XI. Carlo aveva ottenuto dal
fratello il titolo di duca di Normandia nel 1465 e nel 1469 sarà fatto duca di Guienna.
Il codice di Seneca è stato dunque realizzato tra 1465 -1469. Le immagini integrano
il testo e sono utili per ricostruire la storia del codice, devono quindi essere tenute in
considerazione dai filologi. L’uso di immagini nei libri risale certamente all’antichità,
già al rotolo che ha preceduto il codice come tipologia libraria. I testi scientifici sono
stati sempre accompagnati da disegni, indispensabili per la loro comprensione. Un
esempio di grandissima qualità di immagini funzionali al testo è il codice Vaticano
Palatino latino 1071, che contiene il De arte venandi cum avibus di Federico II di
Svevia, con immagini faunistiche. Ma le immagini accompagnavano
alcune volte anche i testi letterari. Abbiamo un Virgilio tardo-antico illustrato, che
risale al IV o al V secolo ed oggi è uno dei tesori della Biblioteca Apostolica
Vaticana. In questo caso è impossibile che le illustrazioni siano state volute
dall’autore, ma le figure sono sempre importanti perché ci dicono spesso come i
copisti, e quindi i lettori, intendessero il testo.
Nel medioevo il concetto di copia non corrispondeva a quello moderno: la copia era
una ricreazione dell’originale, e la copia di immagini ancor più di quella di testi. Un
codice delle commedie di Terenzio, il Vaticano Latino 3868, è stato copiato in età
carolingia su un manoscritto tardo-antico e ne riproduce con una certa fedeltà le
immagini: i personaggi portano le maschere a suo tempo in uso e sono abbigliati con
abiti e calzature di epoca imperiale. Questo codice fu poi più volte copiato e man
mano la tipologia delle miniature andò deteriorandosi. All’inizio del secolo XV sono
stati prodotti a Parigi due Terenzi che discendono da questo filone figurativo; ma in
questi codici, i personaggi sono abbigliati come era normale all’inizio del secolo XV e
si muovono in ambiente del tutto tardo-medievale.
1. Terenzio: prima scena dell’Andria. E’ dal codice carolingio, sono rappresentati
Simo, Socia e due schiavi che portano a casa vivande.
2. Terenzio di Martin Gauge: illustra il ratto di Callidia ; due personaggi, uno dei
quali armato, tirano fuori la donna da una casa mentre un terzo osserva la
scena: abiti ed edifici non hanno nulla di antico.
CAP.11.
ERRORI E VARIANTI.
Per la ricostruzione della storia della tradizione di un testo è fondamentale
individuare gli errori contenuti nei testimoni, perché è la coincidenza in errore che
prova la discendenza da un comune ascendente. Che i testimoni abbiano in comune
lezioni corrette non dimostra nulla sui loro rapporti: la lezione corretta può infatti
risalire all’autore e quindi al patrimonio originale della tradizione, comune a tutti i suoi
rami. Se due diversi testimoni raccontano le cose proprio come sono avvenute, ciò
non permette di ipotizzare che tra i due ci siano stati contatti, ma se due persone
diverse ci danno le stesse informazioni false, allora è probabile o certo che si sono
messi d’accordo per ingannarci. Tutte le lezioni che sono nei testimoni e non
risalgono all’originale, siano esse accettabili o no, sono erronee, appunto perché
secondarie, spurie. Per errore si intende qualsiasi tipo di deviazione dalla lezione
dell’originale. Non possiamo dunque basarci su lezioni corrette, che potrebbero
risalire all’autore, ma solo su quelle che non è possibile che risalgano all’autore e
che dunque sono erronee.
Il giudizio su quanto sappiamo dell’autore, cioè su casi a-c, non può che essere
affidato al filologo e risulta quindi inevitabilmente soggettivo. Succede che ciò che
per uno studioso era un errore capace di supportare la costituzione dello stemma dei
codici, per un altro era una lezione che veniva messa tranquillamente a testo, senza
neppure una nota che ne difendesse la correttezza e dunque la legittimità. Giorgio
Chiarini, allievo di Gianfranco Contini e quindi seguace di un neo-lachmanismo, nella
sua introduzione dà una lista non troppo lunga di presunti errori comuni ai tre
testimoni S G T. Quasi tutti questi errori sono cose minime, per esempio imperfezioni
alla rima. Consideriamo da vicino tre passi nei quali il presunto errore è più
consistente: v. 1447d il codice S, che Chiarini considera quello di base: las liebres e
lar ranas vano miedo tenemos (le lepri e le rane abbiamo una paura vana)
Di per sè il verso pare corretto. Ma tenemos è già in rima a 1447b (miedo vano
tenemos) e vi è preceduto già da miedo. Che nella stessa cobla ci sia due volte in
rima la stessa parola non dovrebbe essere ammesso. Chiarini dunque sostituisce a
miedo di S il sinonimo temor di G T e corregge per congettura tenemos di tutti i
testimoni in tememos, costruendo così quella che si chiama figura etimologica, che
però qui non è documentata da nessun testimone. Subito dopo quella di Chiarini
uscì l’edizione di Juan Corominas che tende a preferire G. Il testo G lo lascia intatto,
senza considerare necessario aggiungere una qualsiasi nota. Lo studioso catalano è
d’accordo che la ripetizione della parola in rima è scorretta, ma corregge il primo
tenemos in avemos. Alberto Blecua, che lascia a testo le lezioni di S, ma annota che
la correzione di Coronimas è meno plausibile di quella di Chiarini. Chiarini,
Corooìminas e Blecua non dubitano che le parola in rima nella cobla debbano
essere diverse tra di loro, ma non concordano su quale delle due vada corretta;
inoltre Corominas e Blecua non concordano sulla opportunità di mettere a testo la
correzione. In un altro passo si mostra una allegoria in cui i tre mesi estivi sono
descritti come dei contadini impegnati in una specie di staffetta: ognuno attende il
precedente al limite che li separa e nessuno raggunge il successivo. In un verso
della scena nè Corminas nè Blecua sentono il bisogno di modificare. Nessuno dei tre
editori ritiene di dover giustificare in una nota il proprio comportamento. Ad
aggravare il pericolo nel lavoro del filologo c’è la circostanza che gli errori che sono
giudicati tali siano estratti da una sezione del testo molto limitata e non possano
CAP.12.
I CRITERI EDITORIALI.
La costruzione dello stemma è uno strumento fondamentale per decidere su quali
basi debba essere costituito il testo da stampare. L’alternativa è la scelta a caso di
uno qualsiasi dei testimoni, in base a criteri del tutto estemporanei (la disponibilità, la
datazione, la completezza, la chiarezza di lettura, ecc.). In effetti lo stemma è la
schematizzazione dei rapporti reali che intercorrono tra i testimoni che ci sono
pervenuti. Poiché non c’è dubbio che i testimoni discendano dall’originale attraverso
una catena di copie, solo l’individuazione delle loro relazioni ci mette in grado di
sapere quale testimone è più vicino all’originale o comunque più rispettoso del suo
dettato e quindi più affidabile. Il procedimento è come quello per cui si ricostruiscono
gli alberi genealogici. Ma alcuni presupposti di questo procedimento possono essere
instabili. Abbiamo visto che l’apparentamento di testimoni si riconosce in base alla
presenza in questi di errori comuni e che il concetto di errore è soggettivo. E la
linearità dei rapporti tra le copie è opinabile. Il copista di un'opera lunga poteva
cambiare di antigrafo da un giorno all’altro. Accade spesso che a margine di un
codice o nell’interlinea un lettore di un codice A aggiunga più o meno
sistematicamente lezioni ricavate dal confronto con un’altra copia B e che
successivamente chi trae una ulteriore copia da A scelga volta per volta se accettare
la lezione originale di A o quella segnata a margine. In questi casi insorge la
contaminazione. Il procedimento basato sugli errori è intrinsecamente dicotomico:
una lezione è o giusta o sbagliata. Ciò porta ad individuare ogni snodo dello stemma
codicum (la rappresentazione grafica che corrisponde alla profilazione genetica di
un testo mediante l'analisi dei rapporti di parentela tra il soggetto detto archetipo e i
testimoni che ne costituiscono la tradizione.) in forma binaria: da una parte i
testimoni che hanno l’errore, dall’altra quelli che non lo hanno, che non costituiscono
una famiglia se non sono uniti da un proprio errore comune. Una percentuale
altissima di stemmi costruiti dai filologi è a 2 rami e tutti i tentativi di giustificare come
realistica questa circostanza lasciano insoddisfatti: E’ possibile che sia così raro che
da un antigrafo discendano più di 2 famiglie? A ciò possiamo adattare quello che
Winston Churchill disse della democrazia: la stemmatica è un sistema pessimo, ma
è il migliore tra quelli che conosciamo.
CAP.13.
L’ASSETTO GRAFICO E LINGUISTICO.
Dopo aver deciso che formula applicare per la costituzione sostanziale del testo da
pubblicare, va risolto il problema della forma linguistica. Per l’assetto grafico non si
può procedere alla ricostruzione sulla base degli accertamenti stemmatici. Quando
dunque abbiamo un testo tradito da una pluralità di testimoni, anche se abbiamo
CAP.14.
L’APPARATO.
L’apparato critico è cosa del tutto diversa dalle note esplicative, è l’insieme delle
annotazioni, di solito a piè di pagina , nelle quali sono registrate le varianti dei
testimoni rispetto alla lezione accolta a testo e qualche volta anche le più rilevanti
scelte, specie se congetturali, degli editori precedenti. La sua funzione è di
permettere al lettore di controllare in ogni suo punto la costituzione del testo da parte
dell’editore. Non è facile che l’editore lo rediga in modo che si individui esattamente
a cosa corrisponda la variante, specialmente se le varianti sono ampie e molte. La
consuetudine vuole che gli apparati siano asciutti. Nel caso di testi tramandati da
numerosi codici, uno sfoltimento delle lezioni accolte in apparato è indispensabile
per garantire un minimo di leggibilità. Un apparato completo, permette che, qualora
salti fuori un testimone che prima era sconosciuto, sia possibile inserirlo nell’insieme
della tradizione perché disponiamo già di tutti gli elementi necessari ad identificare la
collocazione. Dal punto di vista grafico, fonetico, morfologico e sintattico, le varianti
che per qualche ragione sono considerate da scartare e vengono dunque relegate in
apparato dagli editori, hanno per la storia della lingua pieno valore documentario a
meno che non si tratti di evidenti strafalcioni. Un esame attento degli apparati
consentirebbe senza dubbio il recupero di numerosi hapax (termini attestati una sola
volta) e la retrodatazione di molti termini o fenomeni. Gianfranco Folena è stato uno
dei migliori filologi del secondo Novecento, ma la sua pur ottima edizione della
siciliana Istoria de Eneas, un adattamento siciliano del volgarizzamento dell’Eneide
del toscano Andrea Lancia, ha una pecca facilmente spiegabile. Nell’unico caso in
cui occorre, la forma femminile la ventri è confinata in apparato come un errore.
Invece essa è perfettamente lecita, perché tale genere è comune nel Mezzogiorno
ed è ampiamente documentato già nella Sicilia trecentesca.
CAP.15.
IL COMMENTO.
Non è raro il caso di edizioni critiche del tutto prive di note. Così accade nelle
edizioni classiche della Teubner o di Oxford e nella pregevole collezione di Scrittori
d’italia, che Benedetto Croce creò un secolo fa presso Laterza. Egli intendeva che il
lettore non dovesse essere influenzato da nulla nel suo rapporto diretto e immediato
con il classico. l’operazione di costituzione del testo non può essere effettuata se
l’editore non ha piena comprensione del testo stesso. Ne consegue che l’editore al
momento di costituire il testo deve possedere le informazioni che sono poi
necessarie anche al lettore per comprenderlo bene. L’editore deve, soprattutto
quando il testo non è chiarissimo, fornire informazioni nelle note al lettore. Anche
perché ogni testo fa implicito riferimento ad un universo che può anche essere
condiviso con un lettore contemporaneo ma risulta sempre meno ovvio man mano
che il tempo passa. Per produrre una edizione soddisfacente il filologo deve
recuperare, se possibile, l’integrità di questa vera e propria enciclopedia mentale. Un
testo contemporaneo in genere non avrà bisogno di annotazione, ma questa
diventerà opportuna man mano che aumenta la distanza tra autore e lettore e sarà
forte ed implica un vero e proprio mutamento culturale. Anticamente i commenti
erano riservati ai maggiori classici, a quelli studiati nelle scuole. Nella letteratura
latina il classico per eccellenza, a cui è riservato il commento, era Virgilio. Ha
dunque un grande significato che la Divina Commedia sia stata oggetto di commenti
fin dal primo anno dopo la morte di Dante, a cominciare da quelli dei suoi figli, prima
Jacopo e poi Pietro. I testi di Petrarca e Boccaccio hanno dovuto attendere molto
tempo prima di essere ritenuti degni di commento. Sui testi che hanno una tradizione
secolare di commento si è accumulata una tale mole di annotazioni da porre
seriamente il problema se conservare e riprodurre questo enorme insieme sia un
vantaggio o un danno. Ma per chi si fanno questi commenti? La risposta non può
che essere: solo lo specialista, lo studioso. E il lettore comune? Se costui non si
lascia spaventare ed è in grado di affrontare la spesa (i testi con un buon commento
sono di edizioni più costose) probabilmente legge solo il testo. Il commento è
necessario, ma diversi commenti di specifiche edizioni non favoriscono una vera e
propria conoscenza dei classici. Gianfranco Contini propugnò con il commento delle
Rime di Dante del 1939: il commento di servizio che cerca di prevedere le
In Spagna è stata sperimentata, per iniziativa di Francisco Rico, una formula mista
che potrebbe essere presa in considerazione. La Biblioteca clàsica, da lui diretta, ha
sdoppiato il commento: a piè di pagina il lettore trova le informazioni essenziali, un
commento di tipo continiano; ma in fondo al volume, con l’apparato critico vero e
proprio e quant’altro, si trovano note di grande estensione e approfondimento, a
volte lunghe parecchie pagine.
CAP.16.
SE BASTI L’ANALISI LINGUISTICA.
Altro tema per cui vengono applicati i metodi della filologia è quello dell'analisi
linguistica. Il testo deve essere interpretato nella sua veste linguistica nel modo più
accurato possibile e quindi la conoscenza della lingua in questione da parte dello
studioso deve essere vasta e sicura. Se noi siamo in grado di comprendere ciò che
ci viene detto o che sentiamo dire, non è soltanto perché conosciamo la lingua in cui
questi enunciati sono formulati ma perchè siamo capaci di risalire a quella che è
stata chiamata l’enciclopedia di conoscenze che condividiamo con chi parla o scrive.
CAP.17.
DA DOVE PROVIENE UN TESTO.
Interpretazione: simile ad un enunciato. Un testo sia letterario o no, sia scritto o
orale, richiede metodologie di analisi che sono sostanzialmente le stesse cui si
ricorre per interpretare qualsiasi enunciato. Un testo, come e più di un qualsiasi altro
enunciato, rappresenta per chi lo riceve un problema complesso, anzi un insieme di
problemi, che per comodità possiamo scindere in categorie diverse. Può tornare
comodo il metodo, che risale addirittura al retore greco Ermagora, di analizzare un
testo ponendo sei domande: Chi? Che cosa? Quando? Dove? Come? Perchè?.
Questo è un metodo che si insegna ai principianti nel giornalismo anglosassone. Un
linguista americano Joshua Fishman, lo introdusse con gli opportuni adattamenti
nell’analisi sociolinguistica, riducendo le domande a quattro (Chi? Quale lingua? A
chi? Quando?). Nel caso di un testo letterario o no, la prima domanda, Chi?, è
relativa a colui che tale testo ha prodotto e quindi nel caso della letteratura all’autore.
Che cosa? si riferisce al testo. Dove? limitando ora il nostro discorso ai testi scritti,
che della filologia come disciplina sono senza dubbio l’oggetto principale. Per un
grande numero di testi non abbiamo informazione esplicita del luogo in cui essi sono
stati redatti, in genere perché l’autore non ha ritenuto necessario o utile darcela. Le
testimonianze campane del X secolo sono state scritte a Montecassino o nei dintorni
come verbalizzazione di dichiarazioni orali di persone che provenivano dalla stessa
zona e probabilmente esse non riflettono pienamente il dialetto parlato allora in
questa regione d’Italia. Questi brevi testi ci dicono come i notai ritenevano che si
dovessero mettere per iscritto tali forme dialettali. Cosa accade quando abbiamo a
che fare con testi che non ci forniscono l’indicazione del luogo e della data? Come si
può localizzare la canzone di santa Eulalia, conservata da un solo manoscritto nella
biblioteca municipale di Valenciennes. Queste circostanze suggeriscono che la
lingua può essere francese antico nord-orientale, ma solo l’analisi dei suoi tratti
linguistici conferma che si tratta di una fase molto antica del piccardo. Complesso è il
procedimento che ci porta a distinguere i testi nei secolo XII e XIII tra quelli composti
in Normandia e quelli composti in una varietà francese simile ma in Inghilterra,
invasa dai Normanni nel 1066. Autori e copisti spesso erano attivi dall’una e dall’altra
parte del canale della Manica. Del resto ambedue i paesi appartenevano allo stesso
signore: il duca di Normandia era anche re d’Inghilterra. Fino al 1204 quando la
Normandia tornò alla corona di Francia che generò una omogeneità tra le due
regioni. I copisti quindi lavoravano nei luoghi a seconda dei movimenti del sovrano.
Molti sono i testi letterari dei quali non sappiamo il luogo di provenienza. Importante
indizio è l’origine del manoscritto da cui il testo è stato tramandato. Poi si fa uno
studio più tecnico sul testo: se prendiamo in considerazione la questione della lingua
Normanna e Anglo-normanna, gli studiosi hanno identificato dei fenomeni
morfologici e grafici ecc. che nel tempo determinano una differenziazione delle due.
E’ necessario che questi fenomeni siano documentati in testi ben datati e localizzati,
in modo da formare una griglia sicura. Se proiettiamo questa griglia sul testo che ci
ritroviamo davanti sarà molto più facile comprendere se il testo provenga dal
continente o dall’isola. Ma può ovviamente capitare che fenomeni che consideriamo
tipici di una varietà in realtà non lo sono affatto, perché siamo frettolosi a considerarli
tali e ulteriori studi potrebbero invece ribaltare il pensiero, capendo che anche in
quell’area alcune forme erano presenti. Non sappiamo se un testo presenta le
caratteristiche linguistiche di un’area ma è stato scritto altrove da un autore che
usava una varietà diversa da quella locale, per esempio perchè era nato da un’altra
parte. Ma in generale, il metodo funziona e ciò con tanta maggiore sicurezza quanto
più numerosi e caratterizzanti siano i tratti linguistici di cui ci serviamo. Con la
conoscenza minuziosa degli usi grafici e del lessico adoperato nel tardo Medioevo in
zone assai ristrette della Francia, si è giunti a localizzare alcuni testi con una
approssimazione sorprendente. Gli usi grafici si apprendono: nessuno impara a
scrivere da solo. Ciò determina l’esistenza di tradizioni grafiche locali. Quanto più
sono ristrette, più è facile identificare la provenienza del testo. C’è una grande
differenza tra la filologia classica e moderna. E’ difficile localizzare un testo greco e
ancor più uno latino in base alla lingua usata. Per il latino, nessun testo anteriore al
400 d.C. è stato localizzato grazie a tratti linguistici. Poiché:
1. La normalizzazione del latino letterario era così forte che le forme usate a
Roma o a Siviglia non avevano nulla di specifico.
2. La tradizione manoscritta, molto posteriore alla data di composizione, ha
eliminato gli eventuali localismi che fossero presenti nel testo.
CAP.18.
LA DATA DEL TESTO.
Es. il diario: dovrebbe essere stato redatto giorno per giorno, ma possono esserci
state annotazioni marginali, aggiunte o correzioni, che risalgono a date posteriori,
anche di molto, al giorno accanto al quale sono state inserite. Se il diario è stato
ricopiato più tardi, tali modifiche possono essere state integrate nel testo. E’ comune
che l’autore del diario abbia modificato con il senno di poi alcune notizie o sue
osservazioni, giudizi. Quindi la datazione non è lineare nemmeno in questi casi.
Situazione di un editore della cronaca: essa deve essere stata completata dopo
l’ultimo avvenimento che vi è registrato. Ma non è così semplice. Le frasi in
questione possono essere un’aggiunta posteriore alla redazione del corpo del testo,
che nel suo complesso risale più addietro. Quindi bisogna prima stabilire se il testo
ha avuto revisioni e integrazioni, perchè allora ogni sua parte va datata per conto
proprio. In tal caso solo il testo completo può essere considerato posteriore all’ultimo
avvenimento registrato. Di solito, gli editori di cronache o diari non datati fanno un
riepilogo degli avvenimenti più recenti che in essi sono registrati e ne traggono un
termine post quem. Chi deve datare una cronaca, osserva i fatti più evidenti, come la
morte di un sovrano. Però sono molto più rivelatori gli avvenimenti secondari, quelli
che non balzano agli occhi di nessuno. Ci possono essere mille ragioni per le quali
un cronista non menziona un avvenimento, e quindi questa procedura di datazione
non è priva di pericoli, perché sarebbe doveroso escludere che l’autore abbia avuto
una qualche ragione per non menzionare gli avvenimenti che a noi invece sembrano
di grande importanza. Va pure tenuto conto che tra un avvenimento e la sua
conoscenza da parte del pubblico può intercorrere un lasso sensibile di tempo, una
notizia in passato si diffondeva con velocità diversa rispetto agli attuali notiziari
televisivi che ci danno informazioni in tempo reale.
CAP.19.
IL DESTINATARIO DEL TESTO.
Un testo che non sia contemporaneo non è stato di certo scritto pensando allo
studioso che oggi lo esaminia. Tenere presente ciò è importante per i testi lontani
dalla nostra cultura e del passato. L’autore si rivolgeva a un pubblico di cui sapeva
calcolare le attese e prevedere le reazioni del proprio testo ma non calcolava le
nostre. Noi possiamo reagire al testo, e intenderlo, in modo assai diverso da come
lui aveva previsto e voluto. Jean Froissart ha scritto verso la fine del 14 secolo,
quattro volumi di Cronaca che riguardano la prima parte della guerra dei Cento Anni,
tra Francia e Inghilterra. Froissart era nato a Valencienes, oggi in Francia, ma allora
appartenente al Sacro Romano Impero. Non era suddito del re di Francia, nè
d’Inghilterra. In quest’ultima aveva vissuto e poi era tornato sul continente,
frequentando uomini dell’alta società francese. Egli destinava la sua opera al ceto
aristocratico e cavalleresco (suoi protettori) di cui voleva ricordare per sempre i valori
in cui lui stesso si identificava. Valori riconosciuti da tutti i membri del ceto. La
contesa Francia-Inghilterra, aveva origine da un problema di diritto feudale: il re
d’Inghilterra, in quanto duca du Aquitania, era vassallo del re di Francia, di cui però
in quanto re era di pari grado. Gli attriti erano continui perchè i vassalli avevano il
diritto di appellarsi al parlamento di Parigi contro le sentenze del loro sovrano. La
situazione precipitò quando si aggiunse l’incerto diritto di successione del re di
Francia, Carlo IV. I titoli del giovane re d’Inghilterra, Edoardo III, erano maggiori di
quelli di altri pretendenti, anche se egli discendeva dai Capetingi per via femminile;
Edoardo però era stato scartato a favore del più maturo ed esperto Filippo di Valois,
che garantiva meglio l’aristocrazia francese. Del resto non c’è dubbio che
l’aristocrazia cavalleresca dei due paesi aveva le stesse abitudini, frequenti legami di
parentela e identici valori: onore e gloria militare soprattutto. Sono questi i valori che
Froissart voleva celebrare, non quelli di una nazione contro l’altra. Egli parteggia e
riconosce del bene in chi è migliore e non. E’ un atteggiamento che i lettori dei suoi
anni e del secolo successivo non trovano strano. Nell’800, con lo sviluppo del
nazionalismo, alcuni studiosi hanno visto in Froissart una figura incoerente che sta
dalla parte di chi lo pagava mrglio. Applicare ad uno scrittore del fine del 14 secolo
un metro di giudizio che può avere senso per chi racconta la storia delle contese
moderne tra Francia e Germania portava a risultati assurdi.
Non è sempre vero che uno scrittore si indirizzi ad un preciso destinatario esterno.
Spesso egli scrive per se stesso, per ricordare. Diari i cui autori non ricercavano la
pubblicazione, i Libri di famiglia: tetsi toscani della fine del medioevo. Anche con
un’utilità per i posteri ma senza un pubblico pensato: L’uso di registrare le nascite,
matrimoni e morti dei familiari nelle pagine bianche delle Bibbie o dei libri di
preghiere.
Ancor più spesso i libri sono stati scritti perchè qualcuno ha chiesto all’autore di
scriverli, per un committente. Un mecenate che garantiva allo scrittore i mezzi per
vivere e ne chiedeva in cambio l’opera: un libello contro i nemici, uno scritto letterario
per distrarsi o un poeama alla cui fortuna legare il proprio nome. In questo caso non
è facile, se non è chiaro, che il testo sia stato scritto a causa di una committenza o
sia stato precedentemente scritto dal poeta senza alcuna commissione ma che a
causa della fortuna dell’opera il destinatario diventa a posteriori un committente.
Molti testi sono stati dedicati dai loro autori ad un pubblico generico e con la stampa
ad un destinatario ignoto. La stampa ha cambiato irreversibilmente la natura del
pubblico generico (Virgilio si rivolgeva ai Romani, Chretien de Troyes ai Francesi) a
causa della dimensione delle tirature. Ma poi accade sempre e nonostante tutto che
sia l’opera a creare il suo pubblico che non è stato tenuto in considerazione nella
concezione dell’opera.
CAP.20.
LO SCOPO DEL TESTO.
Nella maggior parte dei casi da un testo si attende un utile. Gli scrittori di oggi, di
opere letterarie e scientifiche, si augurano di ricavarne un utile. Spesso lo scrittore
ha per altra via guadagni più sicuri di quelli assicurati dai libri, ma anche in questo
caso egli conta che il libro gli apporti qualcosa. la speranza o l’attesa di un profitto
condiziona fortemente chi compone un testo e ciò va dunque considerato
attentamente da chi lo interpreta. La fortuna di un’opera in epoca moderna, tende a
far aumentare la produttività di un autore poiché gli rivela e apre la possibilità di
ulteriori guadagni. Ciò incide sulla qualità dell’opera, poiché l’autore è sempre più
incline ad adeguarsi alle aspettative dei lettori. Gli scrittori hanno sempre cercato di
seguire e sfruttare il gusto del momento, le mode. Ma un delle forze determinanti che
generano tutti i testi, è la volontà di esprimersi, il movente che induce a creare testi
anche se non si ha nessun pubblico o profitto. Né Petrarca né Leopardi scrivono le
loro poesie per qualcuno e attendono un guadagno. Il Romanticismo ha poi reso
generale e assoluta questa situazione: almeno in teoria, il vero scrittore è tale solo
se e quando esprime la sua individuale personalità. In realtà la spontanea
espressività individuale dell’epoca del Romanticismo, è tutt’altro che veramente
spontanea. Anche le opere su commissione si basano su un negoziato tra i desideri
e gli scopi del committente e la volontà dell'autore di esprimere qualcosa che è
proprio a lui e non ad altri. Ma il testo porta alla memoria, sempre, l’autore e se c’è il
mecenate.
CAP.21
LE MODALITA’ DEL TESTO.
Le forme del testo ci danno molti elementi essenziali per la sua corretta
interpretazione. Per secoli ha avuto corso una teoria degli stili, in origine in
riferimento ai testi latini ma poi applicata anche alla letteratura volgare. Questa
prescrive un rapporto tra:
1. Argomento: dati del contenuto.
2. Personaggi: la condizione sociale dei personaggi.
3. Stile: il livello stilistico della scrittura.
Gli Stili in genere distinti erano 3: identificati nelle tre opere di Virgilio.
1. Eneide: stile più alto.
2. Georgiche: mezzano.
3. Ecloghe: umile.
CAP.22.
LA RESPONSABILITA’ DEL FILOLOGO.
Fuori d’Italia, la filologia e i filologi non godono di molta considerazione. Sono
accusati di occuparsi di argomenti ammuffiti e che non interessano a nessuno. I
filologi hanno delle responsabilità se assolvono due compiti.
1. insegna ad avere la massima cura per la trasmissione dei testi, orali o scritti
che siano.
2. insegna quanto è delicato e complesso interpretare i testi correttamente.
la vita quotidiana ci fornisce innumerevoli esempi di testi, soprattutto orali, che sono
trasmessi in modo incredibilmente approssimativo. La frequenza delle rettifiche,
soprattutto di dichiarazioni politiche, è prova di volute ambiguità, approssimazioni. Si
tratta proprio di ristabilire più o meno integralmente un testo che è stato
sensibilmente e pericolosamente storpiato. Il rispetto del testo quale esso è stato
emesso implica rispetto per la verità e per colui che ne è l’autore, ed anche rispetto
per noi ascoltatori o lettori che dovremmo avere cara l’integrità di ciò che ascoltiamo
o leggiamo. Ancora più gravida di conseguenze è la superficialità e trascuratezza
con cui spesso si affronta l’interpretazione di un testo: molto spesso le notizie e i titoli
di giornale stravolgono la realtà. Un qualsiasi testo chiude in sé un problema
interpretativo e che, prima ancora, esso va stabilito nella sua forma corretta. La
coscienza di questi due problemi è essenziale per un buon funzionamento della
società umana, che è fondata sulla trasmissione dei testi, ed è questo che giustifica
l’esistenza stessa della filologia e la sua rilevanza culturale e sociale.