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The Project Gutenberg eBook of Storia delle
repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 14
(of 16)
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Title: Storia delle repubbliche italiane dei secoli di mezzo, v. 14 (of
16)
Author: J.-C.-L. Simonde de Sismondi
Release date: December 5, 2013 [eBook #44363]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Claudio Paganelli, Carlo Traverso, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
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generously made available by The Internet Archive)
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE DEI SECOLI DI MEZZO, V. 14 (OF 16) ***
STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
DEI
SECOLI DI MEZZO
DI
J. C. L. SIMONDO SISMONDI
delle Accademie italiana, di Wilna, di Cagliari,
dei Georgofili, di Ginevra ec.
Traduzione dal francese.
TOMO XIV.
I TA L I A
1819.
INDICE
STORIA
DELLE
REPUBBLICHE ITALIANE
CAPITOLO CVI.
I Veneziani riprendono e difendono Padova; loro guerra
nel Ferrarese e loro disfatta alla Polisella. Giulio II gli
assolve dalla sentenza di scomunica. Campagna del
principe d'Anhalt nello stato di Venezia e sue crudeltà.
1509 = 1510.
Tra le angustie in cui si trovò il senato di Venezia dopo la disfatta di
Vailate, aveva presa la risoluzione di abbandonare tutti i
possedimenti di terra ferma, d'aprire tutte le sue porte ai nemici, di
richiamare tutte le guarnigioni, di sciogliere i sudditi dal giuramento
di fedeltà, per ultimo di rinunciare tutto ad un tratto a ciò che per
più secoli era stato l'oggetto della sua politica, e di ridursi egli
medesimo in più basso stato che non avrebbe potuto farlo la
contraria fortuna dopo molte e tutte infelici battaglie. Una così strana
risoluzione veniva da molti risguardata come una singolare
testimonianza della pusillanimità di così illustre senato, da altri come
quella della sua profonda politica. Coloro che lo videro riconquistare
in appresso con tanta difficoltà e col dispendio di tanto danaro e di
tanto sangue, ciò che aveva abbandonato in un'ora sola, inclinavano
ad accusarlo di vergognosa debolezza. Altri per lo contrario, i quali
osservavano, che con tale abbandono, che aveva posto il colmo alla
sua malvagia fortuna, la repubblica aveavi ancora posto un termine;
e che dopo tale epoca aveva cominciato ad essere secondata da
favorevoli circostanze, preferirono di credere che il senato avesse
prevedute tali circostanze, ed anticipatamente calcolati tutti i
vantaggi che poteva ottenere coll'atto romoroso, col quale si
assoggettava alla sorte. La signoria, che aveva grandissimo interesse
di far credere al popolo, che in verun tempo non si era mai
allontanata da quella prudenza, su di cui fondava il suo miglior diritto
al comando, si vantò in appresso d'avere colla sua abilità dissipata la
burrasca; e tutti gli storici veneziani gli attribuirono in questa stessa
occasione il merito della più profonda antiveggenza.
Conviene non pertanto riconoscere che tutte le circostanze di questo
avvenimento annunziano un grandissimo e giustissimo terrore. Tutti i
mezzi erano in un medesimo istante venuti meno: l'armata trovavasi
totalmente disciolta; e le poche reclute che vi si conducevano con
inauditi sagrificj non compensavano le giornaliere perdite che
arrecava la diserzione. Il generale, conte di Pitigliano, non meno che
il suo collega Bartolomeo d'Alviano, allora prigioniere, erano ambidue
vassalli di Ferdinando il Cattolico. Vero è che prima della battaglia
avevano ricusato di ubbidire all'ordine di abbandonare il servigio de'
nemici del loro re [1], ma poteva temersi che non fossero inaccessibili
a nuove profferte quando fosse loro tolta ogni ragionevole speranza
di buon successo a più ostinata resistenza. Le città, spaventate dalla
minaccia del saccheggio e dalla ferocia degli oltremontani, non si
mostravano altrimenti apparecchiate a sostenere un assedio per
conservarsi fedeli alla repubblica. All'avvicinarsi di una rivoluzione, si
risvegliavano le loro antiche fazioni, ed i Guelfi ed i Ghibellini erano a
vicenda lusingati dalla speranza di essere protetti dal vincitore. I
gentiluomini veneziani, incaricati del comando delle piazze,
vedevansi esposti ad inevitabile prigionia, che avrebbe ruinate le loro
famiglie per le esorbitanti taglie che da loro esigeva il re di Francia.
Tutto pareva perduto; ogni cosa disperata; ed è perciò probabile che
la maggior parte de' senatori, scoraggiati da tanta sciagura,
piegassero in faccia ad un turbine cui credevano di non poter
resistere.
Ma se per lo contrario i più abili politici tra i pregadi avevano
calcolate le conseguenze della sommissione, i risultamenti non
ingannarono la loro aspettazione. Più d'uno stato venne distrutto dal
funesto errore dei popoli, che speravano di migliorare la loro sorte
per l'invasione degli stranieri. Il peso de' mali presenti, l'illusione di
un nuovo avvenire, persuasero spesse volte le città ad aprire le loro
porte ai pretesi liberatori. La è cosa utilissima il non lasciar ignorare
ai popoli che il nemico è sempre nemico. Se questo popolo non
manca di virtù correggerà egli medesimo i vizj del proprio governo;
ove ne manchi, li soffra pazientemente, riflettendo che non deve
aspettare la riforma dal nemico. Tosto che questi avrà occupata la
città, ed avrà in sua mano la provincia, non tarderà a far sentire
quanto il suo giogo sia più duro e più vergognoso che non quello de'
suoi compatriotti. In allora i traditori che lo avevano chiamato, e che
si davano vanto d'un amore ipocrita per il popolo, perdono ogni
credito presso i loro partigiani, e sono l'oggetto dell'orrore e del
disprezzo de' loro concittadini. Di quanti vantaggi il senato veneto
potè sperare dal subito abbandono di tutte le sue fortezze, fu questo
il primo che raccolse. Non erano ancora passate sei settimane da che
le truppe francesi e tedesche erano entrate nelle città veneziane, che
i capi di parte, che le avevano chiamate, più non ardivano sostenere
lo sguardo de' loro compatriotti.
Per lo contrario se i Veneziani avessero voluto ostinarsi in una inutile
resistenza, il delitto d'avere chiamati i nemici, che non attribuivasi
che a pochi individui, sarebbe stato quello di tutti gli abitanti. Da
Bergamo fino a Padova tutte le città sarebbersi rendute colpevoli di
ribellione per evitare gli orrori d'un assedio, e tutte sarebbersi in
conseguenza trovate costrette dalla loro ribellione a difendere i nuovi
possessori per sottrarsi alla vendetta degli antichi padroni.
Sciogliendole tutte dal giuramento di fedeltà, il senato diede loro
licenza di cedere alle circostanze senza rimorsi e senza timore
dell'avvenire. Si scaricò egli stesso di tutta l'odiosità della guerra; ed
oltre al non avere ancora loro chiesto verun doloroso sagrificio,
cercava pure di salvarle nell'istante medesimo in cui da loro si
separava; lasciando così sulle spalle de' nemici tutte le vessazioni
inseparabili dagli assedj e dalle ostili conquiste.
Questa politica otteneva pure un utile risultamento sia presso le
potenze nemiche che presso le neutrali. La coalizione di tutti contro
un solo, quand'è offensiva, è sempre imprudente ed impolitica.
Giugne tosto o tardi l'istante in cui ogni potenza sente il pericolo
d'avere rovesciato l'equilibrio degli stati. Altronde ognuna,
cominciando a dare esecuzione ai suoi progetti, vede sorgere
imprevedute difficoltà ed ostacoli, e la divisione delle spoglie del
debole diventa la prima cagione della divisione tra i forti. Finchè
Venezia conservava una parte delle province destinate ad altri dal
trattato di Cambrai, si andava dilazionando ogni discussione intorno
alla nuova divisione, e la lega, intenta solamente a vincere rimaneva
sempre unita. Ma evacuando le armate veneziane tutta la terra
ferma, chiamarono gli alleati a dare immediata esecuzione al trattato
di Cambrai, e permisero che si manifestassero tutte le gelosie ed i
timori che quel trattato dovea produrre. Frattanto il senato avea il
vantaggio di avere tra le lagune un sicuro asilo, ove la sede del
governo, il tesoro, l'armata e la flotta potevano tenersi senza
sospetto, aspettando che le vessazioni dei nemici dessero nuovi
alleati alla buona causa.
Mentre Massimiliano, che nulla aveva fatto, nè attenuta veruna
promessa, proponeva di spingere ancora più in là quei successi, cui
egli non aveva contribuito, di prendere la stessa città di Venezia, di
dividerla in quattro giurisdizioni, fabbricando in ognuna una fortezza,
e dandone una in guardia ad ogni potenza alleata [2], Ferdinando il
Cattolico, pago d'avere ricuperati i suoi porti di mare, cominciava di
già a desiderare il ristabilimento della potenza veneziana; Lodovico
XII, che aveva acquistato tutto quanto eragli assegnato dal trattato
di Cambrai, e che non aspirava ad occupare altri paesi, aveva
licenziata la sua formidabile armata, e ritornava in Francia;
finalmente Giulio II si rimproverava di avere schiacciata la Custode
delle porte d'Italia, e di avere introdotti i barbari in seno a così bel
paese. Le potenze neutrali tremavano per la funesta preponderanza
ottenuta dagli stati condividenti, e quelle stesse, che per debolezza e
per timore avevano preso parte all'alleanza, facevano voti per
vederla disciolta.
Andrea Foscolo, ambasciatore della signoria a Costantinopoli, scrisse
al senato che il sultano Bajazette II gli aveva manifestato il dolore
con cui udì i disastri della repubblica, ed il suo rincrescimento che i
Veneziani non fossero a lui ricorsi, quando si videro minacciati da
così potente lega; aggiugneva d'essere apparecchiato ad assisterli
con tutte le sue forze di terra e di mare, come buono e fedele alleato
e vicino. Questa notizia giunse a Venezia quasi contemporaneamente
alle prime lettere degli ambasciatori mandati a Roma, che davano
parte dell'estremo orgoglio con cui erano stati ricevuti da Giulio II, e
delle insultanti sue inchieste. Aveva domandato che la repubblica
abbandonasse a Massimiliano tutti i suoi stati di terra ferma; che
rinunciasse alla sovranità del golfo Adriatico, ed a tutte le sue
immunità ecclesiastiche, ed umilmente confessasse d'avere peccato
contro la santa sede. Lorenzo Loredano, figlio del doge, propose alla
signoria di domandare immediatamente gli ajuti del sultano contro
Giulio, certo meno papa che carnefice de' Cristiani; ma i più savj
senatori, che conoscevano il carattere di Giulio II, pensarono che si
dovesse qualche cosa condonare alla di lui alterigia ed impetuoso
temperamento, e che quando non si rompessero con lui le
negoziazioni, si ridurrebbe in breve ad abbracciare con calore
gl'interessi di quella stessa repubblica ch'egli sembrava ancora
perseguitare [3].
Massimiliano tenevasi sempre ai confini dell'Italia, continuando a
passare da un luogo ad un altro, senza che i suoi più favoriti
cortigiani ne sapessero mai il motivo. Credeva con tale profondo
segreto d'acquistarsi nome di grande politico, come colla incessante
sua attività quello di sommo capitano. Intanto l'armata, ch'egli
avrebbe dovuto ragunare, ancora non trovavasi in verun luogo, e le
città che gli si erano volontariamente date non avevano guarnigione
bastante per tempi di pace. Leonardo Trissino con trecento fanti
tedeschi e Brunoro di Serego con cinquanta cavalieri occupavano
Padova, sebbene questa città, vicinissima a Venezia, fosse una delle
più esposte. I gentiluomini padovani avevano quasi tutti abbracciato
il partito imperiale, ed eransi tra di loro divisi i palazzi ed i poderi che
avevano i Veneziani nel loro territorio [4]. Avevano sperato,
dichiarandosi per l'imperatore, che otterrebbero distinzioni alla sua
corte, e che col di lui appoggio otterrebbero di stabilire il sistema
feudale nelle belle pianure della Lombardia. Desideravano
ardentemente di far rientrare i borghesi ed i contadini di Padova in
quello stato di abbietta sommissione, in cui tenevano i loro vassalli e
servi i gentiluomini dell'Austria e dell'Ungheria. I Tedeschi non
avevano comandato in Padova che quarantadue giorni, e la nobiltà di
quella terra aveva di già avuto il tempo di far sentire a tutti i loro
compatriotti quella arroganza che andava crescendo in ragione che
la patria era più umiliata; ma quanto più la nobiltà rendevasi ligia
all'Austria, la repubblica poteva avere maggiore fiducia
nell'attaccamento di tutti i contadini e di quasi tutti i borghesi [5].
Per altro il doge Loredano non credeva ancora giunto l'istante di
riprendere l'offensiva; ma il senatore Molino comunicò ai senatori il
coraggio di ricominciare le battaglie. L'armata francese era licenziata,
Giulio II e Ferdinando lasciavano sperare che potrebbero staccarsi
dalla lega: il Molino giudicò quest'istante opportuno per azzuffarsi
con Massimiliano, e ritorgli colla forza ciò che gli era stato ceduto
senza resistenza. Il provveditore Andrea Gritti s'incaricò di
sorprendere Padova, ove teneva segrete intelligenze. Era cominciato
il raccolto de' secondi fieni, ed ogni mattina entravano in città carichi
di questa derrata tanti carri, che impedivano ai landsknechts, che
stavano di guardia alle porte, di vedere a qualche distanza. La
mattina del 17 di luglio Andrea Gritti fece avanzare per la porta di
Coda Lunga un grosso convoglio di carri di fieno; ma tra il quinto ed
il sesto carro trovavansi sei uomini d'armi veneziani, con sei pedoni
dietro di loro. Nell'istante in cui trovaronsi entro la porta, ognuno
uccise un landsknecht, indi suonarono il corno per chiamare i
rinforzi. Il Gritti, che li seguiva a poca distanza, occupò la porta con
quattrocento uomini d'armi, due mila cavaleggieri e tre mila fanti,
prima che gli imperiali avessero potuto apparecchiarsi alle difese.
Nello stesso tempo Cristoforo Moro, l'altro provveditore, con trecento
fanti e due mila contadini, faceva un falso attacco al portello per
deviare l'attenzione de' nemici [6].
Padova era in allora, come lo è presentemente, una vastissima ma
deserta città, i di cui quartieri sono separati dalle mura, e formano
altrettante diverse città. In quelle strade senza abitatori la stessa
notizia dell'attacco non aveva potuto diffondersi, ed era presa la città
prima che la metà dei Padovani sapessero d'essere minacciati. Il
Trissino ed il Serego si ordinarono in battaglia colla loro poca truppa
in sulla piazza, sperando d'essere bentosto raggiunti dai
gentiluomini, ch'eransi mostrati così zelanti per la loro causa; ma
niuno si mosse per soccorrerli. I Tedeschi furono respinti con perdita
nella fortezza, la quale non essendo provveduta di vittovaglie
dovette arrendersi dopo poche ore. Non fu possibile di contenere i
contadini, i quali saccheggiarono i palazzi di ottanta gentiluomini i
più parziali per gli alleati, ed il quartiere degli Ebrei. La folla dei
contadini del vicinato accorreva per aver parte al saccheggio; e per
lo stesso oggetto partivano numerose barche da Venezia e
rimontavano la Brenta ed il Bacchiglione; finalmente prima di sera
arrivò l'intera armata del Pitigliano: ma i provveditori fecero bandire
che cessasse il sacco sotto pena di morte; ed in tal modo sottrassero
Padova al totale esterminio. All'indomani la fortezza capitolò, ed i
suoi comandanti furono mandati prigionieri a Venezia [7].
Il giorno in cui fu ricuperata Padova si consacrò dal senato ad una
solenne festa di rendimento di grazie: ed infatti in questo giorno
potè fissare l'epoca del risorgimento della repubblica. Tutto il
territorio di Padova seguì immediatamente la sorte della sua capitale.
Vicenza, che pure trovavasi in sul punto di sollevarsi, fu a stento
contenuta da Costantino Cominates, che v'introdusse tutte le truppe
imperiali che gli riuscì di raccogliere. Legnago colle sue fortezze aprì
le porte ai Veneziani, e diede loro un punto d'appoggio per essere a
portata di attaccare come loro meglio piacesse o Vicenza, o Verona.
La torre Marchesana, lontana otto miglia da Padova, che apriva
l'ingresso del Polesine di Rovigo, non fu salvata che dai pronti
soccorsi mandati dal cardinale d'Este [8].
Il vescovo di Trento, che si era incaricato della difesa di Verona, non
aveva in quella città che dugento cavalli e settecento fanti: temeva di
vedersela tolta ad ogni istante, e chiamò in suo ajuto il marchese di
Mantova. Questi, essendosi avanzato in sui confini del Veronese fino
all'isola della Scala, terra aperta in riva al Tartaro, press'a poco ad
eguale distanza tra Mantova e Verona, entrò in negoziazione con
alcuni Stradioti, che sperava di far disertare dall'armata veneziana;
ma essi lo ingannavano con un doppio trattato. Avevano avvisato
Lucio Malvezzi e Zittolo di Perugia, ch'eransi segretamente recati a
Legnago con dugento cavalli ed ottocento pedoni, e che investirono
la Scala la notte del 9 agosto. Gli Stradioti, avvicinandosi, andavano
ripetendo il grido di guerra del marchese, onde non eccitare la
diffidenza delle sue guardie: altronde i contadini erano tutti per loro,
e loro se ne aggiunsero bentosto più di mille cinquecento. Boissì,
luogotenente del marchese, e nipote del cardinale d'Amboise, venne
arrestato nel suo letto e fatto prigioniere con tutti i suoi soldati; il
Gonzaga fuggì in camicia fuori da una finestra, e si nascose in un
campo di miglio turco; ma, scoperto dai contadini che ricusarono con
inaudito disinteresse le prodigiose somme loro promesse per la sua
liberazione, lo consegnarono alla signoria, che lo tenne in prigione
nella torre del palazzo pubblico [9].
Erasi da principio creduto che questi due così subiti rovesci avuti
dalla lega, tratterrebbero Lodovico XII, che trovavasi tuttavia a
Milano, e non gli permetterebbero di tornare in Francia; ma questo
monarca, dopo d'avere conquistate le province altra volta milanesi,
solo oggetto della sua ambizione, cominciava ad avvedersi d'avere
con un fallace calcolo sagrificata la sicurezza del totale all'acquisto
d'una parte. La volubilità di Massimiliano gli faceva sentire quanto
poco potesse fidarsi d'un tale alleato, e malgrado la diffidenza che in
allora mantenevasi viva tra questo monarca e Ferdinando, l'avanzata
età dell'ultimo faceva prevedere vicino l'istante in cui il loro comune
nipote riunirebbe sul di lui capo le corone della Germania a quelle
della Spagna: allora quella stessa casa d'Austria, la di cui alleanza
era sì poco utile, diventerebbe una pericolosa nemica, ed il
possedimento delle province venete, che la Francia aveva poste in
sua mano, comprometterebbero il ducato di Milano.
Lodovico XII non desiderava, nè la vittoria de' Veneziani, troppo
giustamente contro di lui irritati, nè quella di Massimiliano, che
porrebbe tutta l'Italia a discrezione de' Tedeschi. L'imperatore
chiedeva ragguardevoli soccorsi d'uomini e di danaro, e non era
prudente consiglio il rifiutarli, perciocchè l'incostanza del suo
carattere, e la conosciuta disposizione delle altre potenze, rendevano
possibile agli occhi del re di Francia una alleanza di Massimiliano coi
medesimi Veneziani, colla Chiesa e con Ferdinando, per iscacciare i
Francesi d'Italia. Fra tanti dubbj e timori, accresciuti da così luminose
vittorie, Lodovico XII risolse di lasciare ai confini del Veronese la
Palisse con cinquecento lance, cui si unirono Bajardo e dugento
gentiluomini volontarj; loro ordinò di soccorrere, in caso di bisogno,
l'imperatore; ma egli tornò subito in Francia per togliersi ad ulteriori
istanze di più potenti ajuti. Sperò che l'imperatore ed i Veneziani
s'anderebbero reciprocamente consumando con una ruinosa guerra,
e che Massimiliano in circostanze d'estremo bisogno gli venderebbe
Verona, colla quale acquisterebbe la chiave dell'Italia dalla banda del
Tirolo [10].
Prima d'abbandonare la Lombardia aveva Lodovico XII conchiuso ad
Abbiategrasso un nuovo trattato d'alleanza col cardinale di Pavia,
legato di Giulio II. Il papa ed il re si obbligavano reciprocamente a
difendere gli stati l'uno dell'altro, riservandosi l'uno e l'altro la libertà
di trattare con chiunque volessero, purchè ciò non tornasse in
pregiudizio d'una delle due parti contraenti; ma il re prometteva dal
canto suo di non accettare la protezione di veruno mediato o
immediato feudatario della Chiesa, espressamente annullando
qualunque protezione di tale natura cui potesse inaddietro essersi
obbligato. Distruggeva in tal modo i solenni trattati che aveva
stipulati coi duchi di Ferrara, alleati ereditarj della casa di Francia. Il
papa si riservava la nomina ai beneficj attualmente vacanti in tutti gli
stati del re; ma accordava a Lodovico la nomina di quelli che si
renderebbero in appresso vacanti [11].
Pareva finalmente che Massimiliano cominciasse ad arrossire
dell'estrema sua negligenza; egli risguardava la perdita di Padova
come un affronto personale, e le sue truppe, tanto tempo aspettate,
arrivavano finalmente ai confini. Rodolfo, fratello del regnante
principe d'Anhalt, entrò nel Friuli con dieci mila uomini. Dopo avere
attaccato invano Montefalcone, occupò Cadore [12], di cui uccise la
guarnigione; mentre i Veneziani s'impadronivano di Serravalle [13] e
di Belluno. Dall'altro canto il duca di Brunswick dovette abbandonare
l'assedio di Udine, poi strinse Cividale del Friuli, che Giovanni Paolo
Gradenigo, provveditore di quella provincia, valorosamente difese
con cinquecento pedoni. In Istria Cristoforo Frangipani, generale
ungaro al servizio di Massimiliano, dopo avere battuti i Veneziani
presso Verme, occupò Castelnuovo e Raprucchio, mentre che Angelo
Trevisani, capitano delle galere della repubblica, riprendeva Fiume ed
attaccava Trieste. Tutte le quali province, diventate il teatro della
guerra, erano ridotte nella più spaventosa desolazione, perciocchè la
stessa città, lo stesso castello, erano in pochi giorni presi e ripresi,
ed ogni volta saccheggiati. I soldati delle due armate erano
egualmente barbari, egualmente stranieri al paese in cui
combattevano, e la loro cupidigia nella vittoria non veniva contenuta
da veruna disciplina. I Tedeschi, non contenti di tormentare i
contadini che cadevano nelle loro mani, aveano ammaestrati certi
cani per discoprire le donne ed i fanciulli appiattati ne' campi [14].
Non dubitavano i Veneziani, che quando fosse tutta unita l'armata
dell'imperatore, non attaccasse Padova; onde nulla ommisero per
porla in istato di resistere lungamente. Vi fecero entrare il conte di
Pitigliano, loro generale, con tutta la sua armata. Bernardino del
Montone, Antonio de' Pii, Lucio Malvezzi e Giovanni Greco,
comandavano la loro cavalleria, composta di seicento uomini d'arme,
di mille cinquecento cavaleggieri e di mille cinquecento Stradioti.
Erano alla testa di dodici mila fanti, i migliori dell'Italia, Dionigi
Naldo, Zittolo di Perugia, Lattanzio di Bergamo e Saccoccio di
Spoleti; tutti i quali capitani eransi acquistato gran nome nelle
lunghe guerre d'Italia. Inoltre il senato aveva mandati a Padova dieci
mila fanti, schiavoni, greci o albanesi, levati dalle galere della
repubblica, che sebbene inferiori agli Italiani chiamati Brisighella,
erano pure capaci di rendere importanti servigj [15].
I capitani veneziani avevano condotto a Padova un magnifico treno
d'artiglieria; ed avevano approfittato dei due fiumi che attraversano
la città per introdurvi tutte le munizioni necessarie in un lunghissimo
assedio. I contadini di tutta la provincia, temendo il vicino arrivo de'
Tedeschi, eransi affrettati di trasportare in Padova le messi in allora
raccolte, e vi si erano rifugiati ancor essi colle loro famiglie e colle
loro gregge: di modo che così vasta città, che d'ordinario era quasi
deserta, aveva potuto raccogliere entro le sue mura una popolazione
quasi quattro volte maggiore della consueta. Nè tanta gente erasi
tenuta oziosa, perciocchè coll'ajuto di tante braccia si aggiunsero
ogni giorno nuove fortificazioni al ricinto della città. Le fosse eransi
riempiute d'acqua fin quasi al livello del terreno, le porte furono tutte
coperte da opere avanzate, ed alle cortine, giudicate troppo lunghe,
erano stati aggiunti nuovi bastioni. Tutte queste opere esteriori
erano minate, e caricate le mine, onde poterle far saltare quando gli
assediati fossero forzati ad abbandonarle. Le mura venivano
sostenute in tutta la loro estensione da un largo terrapieno, dietro al
quale erasi cavata una seconda fossa larga sedici braccia, ed
altrettanto profonda, ed internamente difesa da casematte.
Finalmente, al di dietro di questa fossa, cingeva tutta la città un
nuovo baluardo ancor esso armato d'artiglieria. In tal modo veniva
Padova difesa da una triplice linea di fortificazioni, che presentava
quasi l'immagine di quelle che costumansi nell'età presente [16].
Affinchè la costanza degli assediati fosse proporzionata agli immensi
apparecchj destinati a sostenere l'assedio, i Veneziani vollero dare
una luminosa prova ai Padovani ed all'armata, ch'essi associavano la
salvezza della repubblica a quella di questa città, e che perduta
questa non si riserbavano altre speranze. Le leggi e le costumanze
della repubblica escludevano i gentiluomini veneziani dal servigio
delle armate di terra, mentre gli avevano in ogni tempo incoraggiati
a servire sulle flotte. Ma in un'assemblea del senato il venerabile
doge, Leonardo Loredano, persuase i suoi compatriotti a deviare da
quest'antica costumanza, ed a permettere ai giovani gentiluomini di
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