The Project Gutenberg EBook of Al rombo del cannone, by Federico De Roberto
This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and most
other parts of the world at no cost and with almost no restrictions
whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of
the Project Gutenberg License included with this eBook or online at
www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you'll have
to check the laws of the country where you are located before using this ebook.
Title: Al rombo del cannone
Author: Federico De Roberto
Release Date: February 8, 2015 [EBook #48206]
Language: Italian
*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK AL ROMBO DEL CANNONE ***
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (This file was produced from images
generously made available by The Internet Archive)
AL ROMBO DEL CANNONE.
F. DE ROBERTO
AL ROMBO
DEL CANNONE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1919
—
Secondo migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Tip. Fratelli Treves.
INDICE
AVVERTIMENTO.
Gli scritti raccolti nel presente volume furono composti e pubblicati a parte
durante la guerra. Mentre si decidevano le sorti della Patria e del mondo non
era possibile distrarre la mente dalla immane tragedia, al paragone della quale
ogni opera di fantasia sarebbe rimasta priva di senso. L'autore si volse alla
storia per cercarvi ammaestramenti e conforti, studiò memorie di soldati, di
diplomatici e di politici, e tra i libri di bella letteratura esaminò quelli che
avevano per tema la grande crisi, o che indirettamente vi si potevano riferire. Le
pagine che egli ne trasse ad auspicio di vittoria non sono forse indegne d'essere
rilette ora che la guerra è gloriosamente finita.
31 decembre 1918.
AL ROMBO DEL CANNONE
Vigilia italica.
Il regno d'Italia è dunque in guerra ad oltranza contro l'impero d'Austria:
dall'Adige all'Isonzo, dalle vette delle Prealpi tridentine agli anfratti del Carso il
bombardamento imperversa, la battaglia infuria. Soldati italiani veleggiano per
l'Adriatico, battaglioni di bersaglieri operano in Val Sabbia; i nomi di Gorizia, di
Tolmino, di Malborghetto, di Monfalcone, di Plava, di Asiago, di Arsiero, della
Val Sugana, della Vallarsa, della Valle Lagarina ricorrono nei bollettini
quotidiani; Trento, Trieste, l'Istria, la Dalmazia sono oggetto della gran contesa.
La Francia è col giovane Regno contro il decrepito Impero, che ha dalla sua i
Prussiani e le altre genti tedesche; l'Inghilterra e la Russia.... ahimè, l'Inghilterra
e la Russia non sono — non erano con noi quando una guerra simile alla
presente si combatteva tra il regno d'Italia avente per metropoli Milano e per
vicerè il figlio di Giuseppina di Beauharnais, e l'Austria di Francesco II.... Come
oggi contro l'impero teutonico ed i suoi dipendenti, l'Europa si era allora
collegata contro l'impero napoleonico ed i suoi satelliti; e il Regno Italico,
trasformazione monarchica della Cisalpina, doppiamente odiato perciò, come
opera iniziata dalla Rivoluzione francese e compita dall'uomo che aveva vòlto a
proprio profitto quel cataclisma, non doveva, non poteva trovar grazia presso i
futuri negoziatori di Vienna, preparatori della Santa Alleanza, restauratori della
legittimità.
Ma proprio allora, quando alla difesa d'Italia cooperavano veri reggimenti
italiani ed i primi soldati designati col nome più tardi glorioso di bersaglieri,
proprio allora furono proferite la prima volta tra i popoli e nei Gabinetti le
espressioni di indipendenza italiana, di unità italiana, e la storia di quei
tempestosissimi giorni ha per noi un interesse profondo ed un irresistibile
fascino. Un ufficiale francese studiosissimo delle imprese guerresche e degli
avvenimenti politici di quel tempo, il comandante Weil, la narrò in un'opera
colossale che è tornata oggi d'attualità: i cinque grossi volumi, di circa tremila
pagine complessive, intitolati Le prince Eugène et Murat, dove si descrivono
giorno per giorno e quasi ora per ora, con una infallibile e inesauribile
documentazione, le operazioni militari dirette dal figliastro e dal cognato del
gran Côrso, e si riferiscono tutti i contemporanei negoziati diplomatici svolti
dalla primavera del 1813 a quella del '14, cioè fino al primo tracollo del l'impero
francese ed alla definitiva rovina dei due regni italiani che gli erano infeudati.
I.
Nelle grandi linee, la campagna d'Italia del 1813-14, combattuta per la difesa del
nostro paese sugli stessi campi dove si è iniziata per la sua integrazione quella
del 1915, procedette sciaguratamente al contrario dell'odierna. Oggi il nostro
Comando ha preso l'offensiva nell'impresa di liberazione delle Alpi Giulie; allora
Eugenio di Beauharnais, possedendole dopo che Campoformio era stato corretto
a Presburgo ed a Schönbrunn, doveva soltanto difenderle contro la rinnovata
cupidigia austriaca; noi miriamo alle rive della Sava e della Drava, entrambe
allora tenute — e perdute — dal Vicerè. L'occhio d'aquila di Napoleone aveva,
fin da parecchi anni innanzi, antiveduto in quale situazione il figliastro si sarebbe
trovato venendo alle prese con l'Austria e quale via avrebbe dovuto tenere per
ridurla alla ragione. «Voi concentrerete il vostro esercito nel Friuli» gli aveva
scritto da Parigi il 12 aprile 1809 «e disporrete una divisione alla sbocco di
Pontebba per minacciare continuamente di marciare su Tarvis.... Secondo il mio
calcolo, le principali forze del nemico si troveranno a Tarvis; così essendo, esso
non si porterà su Gorizia, ma si accentrerà a Lubiana. Lasciate dunque
sull'Isonzo una parte della cavalleria e una dozzina di migliaia di fanti ed
avanzate con tutto l'esercito su Tarvis, nulla concedendo al caso. Tenete bene
unite le vostre forze.» Invece Eugenio, subordinando le proprie mosse alla
manovra austriaca, della quale ebbe troppo tardi notizia, abbandonava a sè stessa
la sua ala sinistra per portarsi con tutte le truppe disponibili su Adelsberg e
Lubiana, perdendo il vantaggio dell'iniziativa e contromandando poi la marcia,
con deplorevole effetto, per procedere da Gorizia, Canale e Caporetto verso la
Carinzia. Il buon successo di Feistritz parve per un momento avergli ridato il
vantaggio dell'offensiva; ma poi l'inferiorità numerica, l'incapacità dei
luogotenenti, la deficienza dello stato maggiore — era composto di soli sei
ufficiali! — la diserzione degli Illirici e dei Dalmati, lo mettevano nella penosa
necessità di retrocedere sull'Isonzo.
Nulla ancora era perduto. La linea dell'Isonzo era naturalmente designata per una
strenua difesa: nove anni innanzi Napoleone aveva suggerito al figliastro:
«Percorrete a cavallo le rive dell'Isonzo; sono quelle le vostre frontiere. Un
giorno sarete chiamato a difenderle. Bisogna che il più piccolo sentiero e l'infima
posizione siano da voi conosciute. Coteste ricognizioni sono importantissime e
vi riusciranno preziose. Credo che abbiate visto quei luoghi quando eravate
molto giovane, ma che non li abbiate esaminati tanto minutamente quanto
occorre....» Nè la perdita dell'Isonzo sarebbe riuscita fatale. In una lettera del
maggio 1808, da Baiona, all'inizio dell'avventura spagnuola, e in previsione di
nuove ostilità dell'Austria, il grande stratega aveva riscritto ad Eugenio:
«Quand'anche il nemico occupasse tutto il paese tra Isonzo e Piave, non terrebbe
ancora nulla: insino al Piave il paese nulla offre di molto importante». Il corso di
questo fiume era, a suo giudizio, più vantaggioso che non quello del
Tagliamento; ma l'estrema linea della difesa, quella che la «spregevole fanteria
austriaca» non avrebbe dovuto nè potuto oltrepassare, consisteva sull'Adige, «di
cui Verona è il centro e il punto principale».
Per mala sorte, mentre il Vicerè era costretto a retrocedere dal confine orientale,
anche quell'altra parte del suo esercito cui aveva affidato la difesa del redento
Tirolo era costretta a ripiegare fino a Trento ed a Rovereto: l'insurrezione
fomentata dal nemico tra quegli alpigiani e la defezione della Baviera favorivano
il còmpito assegnato al feldzeugmeister Hiller. Molto probabilmente il piano
dell'offensiva del Trentino, della cosiddetta «spedizione punitiva», concepito la
scorsa primavera dallo stato maggiore austriaco, fu ispirato da quello che un
secolo addietro il barone Hiller effettuò: allora come oggi i nostri nemici
pensarono di compiere una gran mossa avvolgente dall'Alto Adige per la
Valsugana, con lo scopo di sboccare nella pianura veneta e di cogliere alle spalle
le truppe operanti sull'Isonzo; tranne che, mentre oggi le ondate dell'assalto si
sono infrante contro i petti dei nostri soldati, allora i Franco-Italiani furono
costretti a una serie di continue ritirate, da Primolano, da Cismone, da Folgaria,
da Montebaldo, da Ala, dinanzi alle colonne avversarie discendenti da Borgo di
Valsugana e da Feltre e collegate da corpi volanti per i Sette Comuni, la Vallarsa
e la Valfredda. A Bassano Eugenio compiva uno sforzo e conseguiva un'effimera
vittoria, costringendo i fanti dell'Eckardt a retrocedere su Cismone e quelli del
Brettscheider su Gallio, Asiago e Levico; ma poi il Vicerè doveva a sua volta
abbandonare la linea del Piave e della Brenta ed avviarsi a Vicenza ed a Verona,
talchè Bassano era rioccupata dal nemico, che procedeva da Castelgomberto
verso Vicenza, dove le divisioni scese dal Trentino dovevano congiungersi con
quelle avanzanti dall'Isonzo e concorrere così all'investimento di Venezia.
Ancora una volta il Vicerè tentava un ritorno offensivo per la Valle Lagarina
verso Rovereto e Trento; ma, espugnata Caldiero, non poteva mantenervisi per
insufficienza di forze e tornava a ridursi a Verona.
II.
Una delle principali cagioni del cattivo esito della campagna era il voltafaccia di
Gioacchino Murat. L'ambizioso sergente di cavalleria sospinto sul trono di
Napoli dall'inaudita fortuna del grande cognato, temeva d'esser travolto
nell'imminente disastro, e volendo assicurarsi sul capo la malferma corona,
bramando anzi d'ingrandire il suo regno e di ridurre sotto il suo scettro tutte le
genti italiane, cercava alleati tra i nemici di Napoleone, si offriva invano agli
Inglesi, si stringeva da ultimo all'Austria, affidandosi «senza riserva alla fiducia
che deve ispirare la lealtà dei suoi principi, segnatamente quella del sovrano che
oggi la governa». Singolare speranza davvero, cotesta, di divenir sovrano
dell'Italia unita mediante la «lealtà» di quegli Absburgo che a null'altro
aspiravano nè lavoravano, con tutte le arti e tutte le armi, fuorchè a recuperare
Venezia e Milano, l'Istria e la Dalmazia, il dominio dell'Adriatico e l'egemonia
sulla penisola!
Il Weil, pur tessendo una finissima analisi delle esitanze, delle tergiversazioni,
delle contraddizioni di Gioacchino, afferma che, senza l'opposizione implacabile
di lord Guglielmo Bentinck, messo britannico presso i Borboni di Sicilia,
l'improvvisato Re di Napoli sarebbe riuscito nell'impresa di liberare e ricomporre
l'Italia. È lecito dubitare di questa, come di qualche altra affermazione del
diligentissimo storico. Quando, per esempio, egli dà torto a Napoleone per avere
rifiutato, sul principio del 1813, le «accettabili e onorevoli» condizioni di pace
offertegli dal Metternich, non tiene conto del grande equivoco, scoperto e
documentato da Alberto Sorel, che si celava nelle proposte del cancelliere
austriaco e di tutta la Coalizione. Quanto all'Italia, affinchè Gioacchino Murat
riuscisse allora a resuscitarla, occorrevano due cose: che la coscienza dei suoi
cittadini fosse formata, e che i potentati europei consentissero a lasciarla
rivivere. Ma se la grande idea era stata concepita da alcuni generosi, essa non era
ancora divenuta, come occorreva, sentimento e passione comune; e se nei
consigli dell'Europa si cominciava a considerare il problema italiano, non gli si
voleva ancora dare, pure annunziandola e promettendola, la sola soluzione che
comportava.
L'Inghilterra lasciò sperare che avrebbe dato mano a liberare la Penisola dalle
influenze rivali dell'Austria e della Francia. Il Bentinck, acerrimo avversario del
Re Gioacchino, ne ostacolava con ogni possa i piani, ma scriveva a lord
Castlereagh, ministro inglese degli affari esteri, che se la Gran Bretagna avesse
estesa la sua protezione ed assistenza agli Italiani, avrebbe provocato tra loro
«un gran movimento nazionale, simile a quello che ha sollevato la Spagna e la
Germania: un gran movimento in favore dell'indipendenza; e quel gran popolo,
invece che lo strumento d'un tiranno militare o di qualche altro individuo, invece
che lo schiavo dolente di alcuni miserabili principotti, sarebbe divenuto una
formidabile barriera eretta tanto contro la Francia quanto contro l'Austria. La
pace e la felicità del mondo avrebbero ottenuto un possente aiuto di più. Temo
molto, però, che l'ora sia trascorsa....» L'ora, per dire esattamente, doveva ancora
giungere: tant'è vero, che lo stesso Bentinck non si faceva scrupolo di difendere,
nello stesso tempo che proferiva così belle parole, gl'«imprescrittibili» diritti
borbonici.... Impegnata nel duello a morte contro la Francia di Napoleone,
l'Inghilterra aveva troppo bisogno di ottenere l'aiuto dell'Austria, e per ottenerlo
rinunziava al magnifico disegno di fare dell'Italia unita un pegno dell'equilibrio
europeo ed un freno alle contrastanti ambizioni austriache e francesi,
contribuendo invece a consegnarne gran parte agli Absburgo: mentre il Vicerè
manovrava tra l'Adige e l'Isonzo, difendendosi del suo meglio sulle due
frontiere, i vascelli britannici comandati dall'ammiraglio Freemantle
cooperavano dal mare con le truppe del maresciallo austriaco Nugent per ridare a
Francesco II Fiume, Pola, Capo d'Istria, Rovigno; favorivano le operazioni del
Tomasich e del Danese in Dalmazia; prendevano parte all'assedio ed
all'espugnazione di Trieste, di Zara, di Ragusa; e se pure aiutavano i
Montenegrini nell'impresa di Cattaro, lasciavano poi che le Bocche fossero
riprese ed annesse dall'Austria e tenevano per conto di lei, consegnandogliele
alla pace, Lissa, Lesina, tutte le isole adriatiche.
La Francia della Repubblica e dell'Impero potè credere d'aver fatto molto per
l'Italia, e qualche cosa realmente fece; ma la diffidenza che doveva trattenere
allora, e per lungo tempo ancora, i reggitori di quella nazione, era espressa
limpidamente nel rapporto del Caulaincourt, ministro degli esteri di Napoleone,
al suo padrone: «L'Italia dichiarata indipendente avrebbe senza dubbio un più
diretto interesse a difendersi. Era formata di popoli divisi: Vostra Maestà ne ha
fatta una nazione, e le forze che quel paese ha acquistate sotto l'amministrazione
della Maestà Vostra hanno accresciuto la sua fiducia in sè stesso. La maggior
parte degl'Italiani desiderano ottenere l'esistenza politica. Il Re di Napoli se n'è
accorto. Egli si servirà d'ogni mezzo per dare sfogo a questa tendenza e riunire,
potendo, le sparse membra d'Italia. Ma se Vostra Maestà consentirà
all'indipendenza di quel paese, ora oppure al momento della pace, sarà anche nel
vostro interesse formarne una sola monarchia? L'Italia ha 16 milioni d'abitanti e
tutti i vantaggi d'un suolo fertile e d'una felice situazione marittima e
commerciale. Un buon governo potrà, in una sola generazione, aumentare di
metà quella popolazione. I suoi arsenali, il suo commercio, la sua marina, si
sviluppano a poco a poco. Essa porta via alla Francia il commercio del Levante e
la preponderanza nel Mediterraneo; e, forte della sua posizione fra una catena di
montagne e i due mari, diventa la prima potenza del Mezzogiorno....»
Alla pregiudiziale della rivalità nazionale si aggiungeva l'ostacolo della rivalità
delle persone. Chi dei due, tra Eugenio di Beauharnais, Vicerè del regno
settentrionale, e Gioacchino Murat, Re del regno napolitano, avrebbe ottenuto lo
scettro dell'Italia una? L'invidia contro il Beauharnais, la paura di vedersi
soppiantato da lui, la certezza che Napoleone lo preferisse, facevano titubare il
Murat, rendevano doppio e perfido quel soldato nativamente franco e leale.
L'uno accorrendo da Napoli verso i campi lombardi, occupando Roma, la
Toscana, le Marche; l'altro battagliando tra l'Adige e l'Isonzo, parlavano
agl'Italiani di libertà, d'unità, d'indipendenza; ma Eugenio confessava
candidamente di non avere sposato la causa italiana se non «come leva per
ottenere nuovi sacrifizii» dai suoi sudditi; e Murat presumeva di fare l'Italia
gettandosi in braccio all'Austria, annunziando che la coalizione nella quale egli
entrava aveva la «magnanima intenzione di ristabilire l'indipendenza delle
nazioni....»
III.
Dell'indipendenza italiana osava parlare la stessa Austria! Il proclama del conte
Nugent, disceso con gli Austro-Inglesi dalla vinta ed asservita Trieste alle foci
del Po, e procedente verso Ferrara e Ravenna, portava l'intestazione: Regno
indipendente d'Italia, e diceva alle genti: «Voi avete sofferto sotto il giogo di
ferro dell'oppressore. I nostri eserciti sono venuti per liberarvi del tutto. Un
nuovo ordine di cose, destinato a restaurare la vostra felicità, vi si offre....
Coraggiosi e bravi Italiani, è vostro interesse prendere le armi per conseguire la
vostra rigenerazione e la vostra felicità.... Voi dovete divenire una nazione
indipendente....» Il generale austriaco, come il Vicerè francese e l'ambasciatore
britannico, teneva quel linguaggio per trarre dalla sua le popolazioni: quattro
mesi dopo, caduto Napoleone, l'ultimo tricolore sventolante ancora in Italia era
ammainato, l'esercito italiano cessava d'esistere, e un nuovo proclama del
Bellegarde, ornato in testa dell'aquila bicipite, partecipava ai Lombardo-Veneti il
«felice destino» che era stato loro concesso: l'annessione alla Monarchia
absburghese....
Buon profeta, tra i molti illusi, era stato Gabriele Pepe, quando, biasimando i
portamenti di Gioacchino e la sua entrata nella Coalizione, si dichiarava ignaro
delle condizioni del trattato, ma «certo che l'Italia non avrà nè l'indipendenza nè
l'unità». La menzogna di quelle promesse fu grave di conseguenze funeste. «La
condotta degli Alleati verso l'Italia è un peccato che, al pari dello smembramento
della Polonia, costerà molto caro all'Europa. Occorreranno ancora una ventina
d'anni d'espiazione....» A parte l'errore di calcolo, perchè l'espiazione durò molto
di più, anche queste parole furono profetiche: le pronunziò quel goriziano
Catinelli che, mezzo secolo prima di Garibaldi, tentò un'impresa garibaldina al
rovescio: salpò con mille soldati da Milazzo per tentar di sollevare la Toscana,
prendere alle spalle il Vicerè sul Mincio e concorrere alla «liberazione» della
Penisola, auspici gli Austriaci e gl'Inglesi.... Gli Alleati del 1813-14, dichiarando
di combattere una crociata per la «libertà» d'Europa, per la causa del «diritto» e
della «giustizia», ridussero bensì all'impotenza il grande perturbatore dell'antico
equilibrio, ma non compirono l'opera, diedero ai popoli false speranze e
ribadirono le catene ai polsi degl'Italiani. La presenza dell'Italia risorta fra gli
Alleati odierni è la maggiore e migliore garanzia contro il ripetersi di simili
errori.
12 ottobre 1916.
Una Absburgo in Italia:
MARIA CAROLINA DI NAPOLI.
I libri della guerra non offrono ancora molto interesse: vuole la necessità che la
storia non cominci se non quando gli attori e i testimonii dei grandi avvenimenti
spariscono. Di qui a cent'anni si continueranno a pubblicare documenti delle
conflagrazioni attuali, come anche oggi, dopo più d'un secolo, ne vengono fuori,
e di prim'ordine, intorno a quelle della Rivoluzione, del Consolato e dell'Impero.
Il carteggio di Maria Carolina col marchese di Gallo, edito a Parigi dal
comandante Weil e dal marchese di Somma-Circello quando la voce dei cannoni
echeggiò la prima volta, e forse perciò non osservato con l'attenzione che
meritava, porta un contributo prezioso alla storia delle Due Sicilie dall'inizio dei
rivolgimenti francesi sino alla seconda fuga della Corte borbonica da Napoli,
cioè al 1806, e consente di aggiungere nuovi tocchi al ritratto morale di quel
singolare personaggio che fu la figlia di Maria Teresa, sorella di Maria
Antonietta, moglie di Ferdinando IV, amica di Guglielmo Acton e di Emma
Lionna.
I.
Dice la cronaca scandalosa, e rammenta anche il Welschinger nella prefazione ai
due grossi volumi, che la Regina di Napoli aveva accordato al Gallo, oltre
l'amicizia, qualche altra cosa; ma chi pensasse di trovarne qui le prove resterebbe
disingannato. Non c'è una sola parola che attesti l'intima natura dei rapporti della
sovrana col vassallo; Maria Carolina si firma maîtresse, cioè padrona, non già
amante del suo ambasciatore e ministro, e gli tiene bensì il linguaggio della
massima confidenza, gli parla «a cuore aperto», lo mette a parte di tutti gli
avvenimenti del regno e di tutta la cronaca della reggia, gli scrive in cifra e col
succo di limone cose che divulgate le recherebbero molto pregiudizio e gli
raccomanda perciò di bruciare queste sue lettere; gli professa anche un'amicizia
«eterna», una stima «eterna» altrettanto; lo giudica amico «perfetto», spera di
vivere ancora vicino a lui e di finire i proprii giorni accanto al «vecchio amico» a
cui dice addio «sino alla tomba»; ma tutte queste, ed altre espressioni similmente
ampollose ed enfatiche come vuole il temperamento della scrittrice, non mettono
nessun sapore di romanzo nel succoso epistolario. C'è qua e là qualche nota
salace: la Regina parla al ministro del male che le fanno le emorroidi e delle
operazioni a cui è stata sottoposta per una fistola; gli manda anche la relazione
dei medici accompagnata da disegni che ella stessa qualifica «molto indecenti»;
ma questa mancanza di pudore potrebbe dimostrare non tanto l'abbandono
dell'amante quanto l'ottusità e l'idiozia morale della donna. Si legga in quali
termini ella parla della sensualità della nuora e della frigidità del genero, e il
dubbio riescirà anche più legittimo.
La donna, appunto, è quella che noi cerchiamo nella Regina, e poche altre
sovrane dimenticarono tanto la corona e lo scettro nel rivelare il proprio pensiero
quanto Maria Carolina componendo queste sue lettere. Si dice che Napoleone
Bonaparte la definisse: «il solo uomo delle Due Sicilie», e il giudizio potrebbe
essere appropriato, considerando che razza d'uomo fu il Re suo marito e quali
persone lo circondarono dopo l'allontanamento di Bernardo Tanucci; ma la
virilità di Maria Carolina resta ancora da dimostrare, e in queste pagine, se mai,
ne troviamo prove negative del tutto.
Ella adopera una violenza, una virulenza di linguaggio che non è, come pare,
espressione di forza. Un odio profondo, istintivo, tenace, la infiamma contro la
Francia democratica che ha rovesciato la monarchia nazionale e minaccia le
straniere, che le ha ucciso il cognato e la sorella. I segni verbali di questo
sentimento cieco e inestinguibile si moltiplicano sotto la sua penna: i Francesi
sono «birbanti, briganti, miserabili, scellerati, maledetti, canaglie, pazzi,
forsennati, pirati, assassini, vandali, tigri, mostri»; il suo augurio è che quella
«infame nazione sia tagliata a pezzi, annichilita, disonorata, ridotta a nulla per
almeno cinquant'anni»; ella non vede altro rimedio che armarsi in massa contro
di lei, «col crocifisso in mano» — l'espressione è del 1793, e il cardinale Ruffo
se ne rammenterà sei anni dopo in Calabria — nè giudica che vi possa esser
salvezza per il mondo se Parigi non sarà «rasa al suolo»; la sua ultima speranza è
riposta in 50 mila Turchi che «saccheggino ogni cosa» — solo i Turchi sono, a
suo giudizio, «franchi e leali» — oppure in 20 mila Albanesi ai quali direbbe:
«Amici miei, saccheggiate, mangiate, rovinate....»; ma, con tanta sete di
vendetta, ella è tutt'altro che sorda ai consigli della moderazione quando giunge
il momento di agire, e se lavora a cementare la coalizione dei potentati contro la
«scelleraggine francese», ordina all'ambasciatore di tener nascosto questo
maneggio, perchè non vuol essere «compromessa», e se i detestati Francesi
appariscono nelle acque di Napoli per imporsi alla città ed al regno, ella non
tenta di opporsi, di far valere comunque la qualunque sua forza; al contrario: si
piega, e piegandosi, vantandosi «onesta nel cuore», dichiara che aspetta di
cogliere la prima occasione per mostrare il vero suo animo....
Questa potrebb'essere prudenza, e non sarebbe perciò da confondere con la viltà,
tanto più che verrà la volta quando la Regina sarà temeraria e spingerà la
monarchia alla rovina; ma nella mancanza di misura, precisamente, nel
procedere così per pavide sottomissioni ed aggressioni spavalde, si rivela la
mancanza di forza vera, di energia schietta e durevole, di resistente e indomabile
coraggio. «Paura, paura e ancora paura», scrive nel giugno del 1794; «è
orribile a dirsi, ma vero». Di questa paura che addebita ai circostanti, ella stessa
è partecipe. Quando afferma: «Se dobbiamo perire, bisogna che ciò avvenga per
disgrazia, e non per mancanza di energia e di coraggio»; quando dice che ha
deciso di contendere il regno a palmo a palmo, di ritirarsi da Gaeta a Capua, a
Napoli, a Salerno, a Cosenza, a Calanzaro, a Reggio, a Messina, a Palermo, ad
Augusta, e che, sopraffatta in questo estremo rifugio, getterà con le proprie mani
i suoi sette figli in mare e si precipiterà da ultimo dietro di loro, le parole sono
belle, ma i fatti non le confermano. Nella sconfitta si smarrisce, si avvilisce, si
prostra: dopo la pace del 1796 dichiara che le grandezze non le importano più,
che ha perduto tutte le sue illusioni, che vede le cose «con gli occhi della verità»,
che aspetta di finire i suoi giorni «non solo senza pena, ma con una specie di
godimento», e protesta e giura che non intende più «impacciarsi di nulla»:
parole, parole, e ancora parole: appena stima giunto il momento della rivincita,
fa il colpo di testa del 1798 — salvo, dopo la catastrofe, a gemere, a lagrimare, a
dichiarare che la sua «scena è finita», che non chiede altro se non di ridursi a
Linz, a Graz od a Presburgo, «sia pure in Valacchia», dove si contenterà di «pane
e cipolle», maledicendo il «falso eroismo» che l'ha spinta alla perdizione: ancora
parole, ancora menzogne; perchè, insieme con queste espressioni del pentimento,
si alternano quelle del furore impotente, dell'odio impenitente, del delirio
isterico: vengano, esclama, gli stranieri: «quali che siano, le forze potrebbero
scendere in Puglia, sciabolare, avanzarsi. Non potranno far male se non ai
possidenti: la terra già non potranno distruggerla». Ma se anche la terra potesse
andarne distrutta, ella non esiterebbe a dar l'ordine: «la stessa peste è meno
temibile che la Repubblica stabilita ed afforzata in Napoli.... Un massacro
generale non mi farebbe la minima pena.... Ve ne prego, in nome del Re e mio:
se mai gli Austriaci o i Russi scendessero dalla parte di Roma a Napoli, niente
accordo, niente convenzione, niente tregua, niente perdono....» E queste, ora,
non sono più sole parole: queste espressioni della ferocia, sì, ricevono piena
conferma dagli atti, quando la capitolazione dei Repubblicani, offerta e
sottoscritta dal luogotenente del Re, firmata e garantita dai rappresentanti di tre
grandi potenze europee, sarà da lei lacerata e la «scellerata Repubblica tricolore»
andrà per suo ordine sommersa nel sangue....
Ma ella non crede d'aver commesso nulla di male; se mai, soffre «mortalmente»
delle violenze e della severità: il suo cuore «ne geme». Prima ancora di lordarsi
le mani, dichiara preferibile «esser vittima, piuttosto che farne»; dopo l'immane
tragedia, continua a protestare che la sua «morale» le consiglia di anteporre
«l'esser vittima allo scatenare un flagello», e che sarebbe farle gran torto
giudicarla «arrabbiata energumena». Non crede possibile la salvezza, ha detto, se
non «con la forca e il carnefice a fianco e le orecchie turate, col cuore indurito e
le leggi stracciate»; e quando ha eseguito puntualmente il programma, vanta la
propria «purezza», esalta la propria «bontà», si duole che «la bontà non è la virtù
occorrente alla conservazione dei troni», benedice Dio d'averla fatta giungere
alla fine della carriera, perchè altrimenti si sarebbe «guastata», sarebbe divenuta
«despota» e «scellerata....» Lei ed i suoi sono «gente onesta: questo e
certissimo»; gente che non comprende nè ammette «se non i procedimenti della
politica onesta e retta dei buoni tempi antichi»: lo dichiara nel 1803 al marchese
di Gallo dandogli «parola d'onore», la sua parola «sacra», che resterà neutrale se
la Francia le accorderà la pace — salvo a chiamare, di nascosto, i Russi e
gl'Inglesi; salvo a porre il suo ambasciatore e confidente nella necessità di
dimettersi quando vedrà che la Regina gli ha giurato il falso. Ella che prende il
servitore ed amico a testimonio della propria lealtà, non sa che costui bollerà un
giorno la «leggerezza» e l'«inconseguenza» di lei: eufemismi ai quali il
diplomatico e suddito ricorre per non poter dire «tradimento» e «viltà».
II.
Si potrà sostenere, almeno, che questa impudenza è incosciente come forse è
incosciente l'impudicizia? Neanche. Molte cose, troppe cose mancano a Maria
Carolina, fuorchè l'intelligenza. La sua immaginazione «fermenta», ella «sente»
tutto, «prevede» tutto; vive molto «con sè stessa» ed è capace di esaminarsi
«senza onta nè repugnanza». Lampi di verità, allora, la abbagliano: «Vorrei
punire il delitto e perdonare gli individui; ma, come tutti i paurosi e codardi, noi
crediamo che la crudeltà premunisca, e quella che esercitiamo, da cui repugnano
gli stessi giudici che vi sono costretti, finisce con l'alienarci i pochi cuori rimasti
affezionati». Paura e codardia: ella stessa pronunzia la sentenza tremenda: ma
conoscersi, avere coscienza dei proprii vizii, non è il primo, il più gran passo
sulla via dell'emenda? Sì, quando la passione non è più forte; e le passioni della
Regina sono tutte più forti: l'orgoglio e la superbia prevalgono, il bisogno della
vendetta è irresistibile, l'appetito del potere, la sete del dominio, la voluttà
dell'intrigo, la vanità regale, il fanatismo feudale, l'odio contro la libertà
dissipano i buoni propositi, i consigli della prudenza, le velleità di rinunzia.
Dieci, cento, mille volte, nella previsione delle catastrofi, in mezzo alle rovine,
assicura che tutto è finito per lei, che un convento l'aspetta, che senza la religione
si darebbe la morte, che «aborre e detesta» il suo mestiere di Regina esercitato
malamente, che vuole rinunziare a quel «cane di mestiere», che intende d'ora
innanzi vivere da privata compiendo «gli atti di virtù di cui sono capace», che ha
bisogno di farsi «dimenticare», che invidia chi «zappa la terra», che non chiede
altro se non «una pensione, un giardino, qualche libro, i pennelli, le matite, un
pianoforte», per vivere meditando e componendo le sue memorie, e che farà
incidere sul portone della sua casa: «Qui non si parla nè di monarchi, nè dì
governi, nè di politica, e neanche delle notizie delle gazzette»; ma tutte le volte,
ed ogni volta più ostinatamente, riprende, vuole riprendere, muove cielo e terra
per riprendere il suo posto, e giura che sosterrà la sua parte «finchè ci sarà olio
nella lampada», che lotterà «finchè avrò una goccia di sangue nelle vene», che
compirà il suo dovere «fino alla tomba»!
Ella stessa dà la chiave di questa continua e stridente contraddizione. «Se fossi
soltanto privata cittadina, mi piegherei facilmente.... ma Regina!... Parlerò, e il
mondo intero mi restituirà la sua stima. Sono la figlia di Maria Teresa!...» Il male
è che, essendo figlia di Maria Teresa, volendo levarsi all'altezza della madre, non
le tocca i ginocchi. I suoi disegni politici sono un arruffio, un guazzabuglio di
assurdità. Arriva ad avere una singolare visione: l'Italia fiorente, rifiorente,
affidata ai posteri uniti e concordi in modo da rendere impossibile che «la bella
contrada» sia soggiogata mai più: ma sono idee «inutili», riconosce, che non
potranno effettuarsi «se non quando la nostra esistenza sarà dimenticata». Di
tradurre in realtà la visione, di fare almeno qualche tentativo, di scernere se non
altro la via per la quale ci si potrà arrivare, ella non possiede la capacità. Si
contenta di pensare che se Gustavo di Svezia o Giuseppe II vivessero ancora,
direbbe loro: «Osate, affezionatevi l'esercito, i baroni ricchi e potenti, lanciate ai
popoli nobili manifesti, parlate il linguaggio dell'intelligenza, dell'amor proprio,
guadagnatevi i cuori e procurate con ogni mezzo di divenire Re d'Italia....»; ma
quei sovrani sono morti e sepolti, e non avendo «nè l'energia, nè la potenza, nè il
carattere, nè la perseveranza, nè i mezzi loro, bisogna piegare sotto il giogo....»
L'amore di sè soffre, assicura — e non è difficile crederla! — «nel fare questa
confessione che mi è costata molte lagrime»; ma la sincerità non ritorna, come
non tornano i lampi della verità; torna invece la presunzione, ricominciano le
smanie, le manie, le insanie, l'impossibilità di accettare le lezioni della vita, di
sottostare alle leggi della realtà.
Da Palermo, dove si è rifugiata, giudica preferibile «entrare in un monastero
piuttosto che vedermi insultata nei miei Stati»; ma poi l'idea di vivere da
semplice privata in Germania le riesce intollerabile «per punto d'onore»; ed a
Vienna, dove si ritrova «Regina di nome e cittadina di fatto», dove la resistenza
alla Francia non è ostinata quanto ella vorrebbe, dove i parenti e la figlia non la
trattano come pretende esser trattata, a Vienna rigurgitante di generali «da
sputarci sopra», le è impossibile vivere; sennonchè, quando torna a Napoli e
trova che le cose vanno ancora peggio di prima, riprende a dichiarare che
preferirebbe «zappare la terra al mio paese, piuttosto che vivere qui....» Non si
accorge di portare con sè, dovunque, le ragioni dello scontento. Si sdegna contro
l'ambasciatore francese Alquier che la giudica affetta da «demenza convulsiva»,
ma ella stessa non confessa che si sente «ammalata di rabbia», in «uno stato
violento», e che teme di morire — come infatti morrà, nove anni dopo — «d'un
colpo apoplettico»? I freni morali non funzionano in lei: scatta al minimo
impulso, avventa giudizii spaventevoli contro i suoi più prossimi, contro il Re
che poi protesta di voler rispettare e di «non voler porre in ridicolo»; contro i
suoi parenti austriaci, contro l'Imperatore che ha precipitato la monarchia
d'Absburgo «nell'obbrobrio» e che ne ha assicurato «lo sprofondamento»; contro
i parenti di Spagna, la cui Corte è un «infâme tripot», la cui Regina è una «vieille
catin»; contro il Papa, che dice di rispettare come discendente di San Pietro, ma
che «come sovrano è infame e merita il disprezzo universale»; contro gli Inglesi
e i Russi, che ha portati al cielo quando si è alleata con loro, ma che, non appena
la scontentano, diventano «infami, saccheggiatori, egoisti, vili, implacabili e
perfidi nemici».
III.
L'improvviso mutamento d'opinione e l'alternarsi di atteggiamenti
diametralmente opposti non è tanto sintomatico quanto nel caso di Napoleone
Bonaparte. Giudica lui solo degno d'esser «ministro della guerra in Italia»,
perchè lui solo sa trasformare «gl'Italiani in soldati»; dice che «lui solo, solo,
SOLO in tutta Europa sa governare, maneggiare, dirigere i popoli e gli affari», e
gli vorrebbe quindi affidare il proprio regno durante un anno affinchè glielo
restauri, e gli professa «vera stima» e «profonda ammirazione» e «sincera
venerazione», e se il grand'uomo morisse, vorrebbe che lo riducessero in
polvere, «per darne una cartina a ciascun sovrano e due a ciascuno dei loro
ministri, e allora le cose andrebbero meglio»; ma poi, anzi contemporaneamente,
egli è «il bastardo incestuoso, il mitragliatore, l'avvelenatore di Giaffa, quello dei
prigionieri infermi precipitati nel Po, mussulmano in Egitto, cattolico a Parigi,
scellerato dovunque....».
L'accusa che gli rivolge con maggiore compiacimento è d'essere un «parvenu»,
un imperatore «di nuova fabbrica»; ma il peggio, ancora, è che, giudicandolo
tale, gli si umilia, lei, la figlia di Maria Teresa! Quante volte ha dichiarato
preferibile «perire piuttosto che disonorarsi», quante volte ha promesso al suo
confidente ed a sè stessa di non voler «mendicare misericordia da nessuno»?
Orbene: ella la mèndica dall'«arci-Imperatore», da «Bonaparte I»; gli scrive una
lettera d'umile implorazione, si espone a riceverne una risposta ironica e
minacciosa, leggendo la quale — «io, la figlia di Maria Teresa!» — per poco non
crepa di rabbia. Ma la rabbia, l'umiliazione, la mortificazione non le
impediscono di tornare a piatire: «L'Imperatore è tanto grande! Ha tanta gloria
che potrebbe acquistarne un'altra, una vera, mostrandosi generoso, lasciandoci
tranquilli a casa nostra, sicuro che mai più» — dopo tre impegni spezzati, e nello
stesso punto di infrangere il terzo! — «ci lasceremo sedurre!... Non ho più
fiducia in nessuno, e mi sottometterei al tiranno, se mi trattasse bene....» Ha
giurato che «mai, mai, MAI» consentirà che il Re di Napoli si riduca alla
condizione di tributario o prefetto del proprio regno: e, meno di tre mesi dopo,
accatta per suo figlio il posto «di re o di prefetto....» E nel chiedere che
l'ambasciatore interponga i suoi buoni ufficii per ottenerle questa elemosina dal
padrone del mondo, avvilendosi fino ad offrirglisi in ostaggio, dimentica d'averlo
chiamato «bestia feroce, animale ruggente, mostro morale, vendicativo,
furente....»
In verità, il «piccolo Côrso» non dovrebbe fare altro se non risponderle come
rispondeva a lui stesso il granatiere della leggenda: «Après vous, s'il en reste!...»
28 maggio 1916.
L'Austria nei giudizii d'un suo alleato.
Pietro Colletta, nel terzo Libro della sua classica Storia, narrando l'accortissima
ritirata strategica compiuta nel 1798 da quella parte dell'esercito napolitano che
obbediva al generale Damas, giudicò che la salvezza della legione fosse «frutto
del dimostrato valore de' soldati e del duce. I quali andarono lodati di que' fatti;
ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli
uomini».
Più d'un secolo doveva passare prima che la diretta testimonianza dello stesso
duce rinverdisse quegli allori, e le Memorie del conte di Damas, rimaste inedite
nell'archivio della nobile famiglia, dovevano finire di pubblicarsi in sul
divampare d'una nuova serie di guerre più sanguinose e tremende di quelle alle
quali l'autore partecipò. Ma appunto per questa coincidenza il libro, che in altri
tempi avrebbe interessato soltanto pochi studiosi, si raccomanda oggi ad un
maggior numero di lettori ed ha pagine che parrebbero scritte per noi.
I.
Ruggero di Damas, discendente da una famiglia di prodi, ebbe da fanciullo una
straordinaria vocazione per il mestiere dei suoi maggiori, «il più bel mestiere del
mondo», ed entrò giovanetto nel Reggimento del Re; ma, per la pace che allora
regnava nella sua patria, non potendo altrimenti sfogare l'umor bellicoso se non
nei duelli, una bella mattina, letto un giornale che dava notizie della guerra
combattuta in quell'anno 1787 tra Russi e Turchi, restò «asfissiato» dalla lettura,
e senza porre tempo in mezzo, senza chieder licenza nè a parenti nè a superiori,
partì per la Russia con pochi denari ottenuti in prestito e andò ad offrire la sua
spada al principe Potemkine. Fu accettato, ed ebbe anche la fortuna d'incontrarsi
col principe di Ligne, che conosceva da Parigi e che si trovava presso i
Moscoviti come rappresentante dell'esercito austriaco loro alleato. Il volontario
ed il generale si misero a studiare insieme la lingua russa, «ritenendo le parole
baionetta e vittoria prima che pane e vino», e la vittoria ben presto rimeritò il
suo ardentissimo alunno, in un combattimento più navale che terrestre contro il
vascello ammiraglio ottomano ancorato sulla foce del Dnieper: la nave fu presa
d'assalto dalle scialuppe comandate dal Damas, che ebbe in premio la croce di
San Giorgio ed una spada d'oro da Caterina II. Ferito più volte, promosso al
comando di reggimenti di cavalleria e di fanteria — aveva soli 23 anni —
distintosi negli assedii e nelle espugnazioni, segnatamente ad Ismail, dove si
guadagnò una commenda, l'ardito colonnello dimenticò quella guerra per le
notizie d'un'altra, non solamente più grossa, ma più importante agli occhi ed
all'anima di un Francese: la guerra originata dalla Rivoluzione.
Bisogna dir subito che, nato e cresciuto nella devozione al suo Re, offeso nelle
opinioni, negli affetti e negli interessi dalle persecuzioni alle quali fu fatta segno
la sua famiglia, Ruggero di Damas non corse alla frontiera di Francia per
combattere con gli eserciti repubblicani contro lo straniero, bensì per combatterli
nell'Armée royale, nell'esercito di emigrati capitanato dal Condé e alleato degli
stranieri. Non fu dunque, questa volta, la bella guerra: fu la guerra civile, con
tutti i suoi orrori — dei quali egli stesso ebbe piena coscienza, se chiamò
«strazianti» le cause e i ricordi di quegli avvenimenti, se nessun godimento potè
mai provare «che non fosse formato dalle memorie o dalla speranza della
Francia, che non provenisse da lei od a lei non mi riportasse», se dichiarò che la
sua mano si sarebbe irrigidita prima di dare a stranieri il consiglio di entrare in
Francia «senza la certezza che aspirino soltanto ad una pace solida e che nessuna
idea di conquista li governi», e se, cercando ovunque una nuova patria e non
trovandola in nessun luogo, credendo di poter fuggire la lava dilagante dal
vulcano francese via per il mondo, e sentendosi sempre raggiunto da quella,
pensò e scrisse un giorno: «I piedi mi bruciano ovunque mi fermo; presto non mi
resterà altro rifugio che nel cratere di Francia...».
Il militare di professione, del resto, non poteva non ammirare l'impeto
straordinario e gli sforzi sovrumani dei generali della Repubblica, «l'ardore che
conduce alla conquista del mondo»; e se, da legittimista convinto e
inconvertibile, egli condannò in Napoleone l'usurpatore del trono di San Luigi,
fu compreso anche di tanta meraviglia per le grandi cose compite dal capitano
immortale, da esclamare con simpatica ingenuità: «Perchè non è egli
Borbone!...»
Simpatica propriamente riesce la figura di questo singolarissimo campione della
causa dei Re, il quale non si lascia intanto accecare dalla fede monarchica, ma
critica lo stesso Re suo, pure servendolo, e, pur combattendo la Repubblica,
domanda a sè stesso, considerata la nullità dei monarchi del suo tempo: «Perchè
mai l'Europa dipende da cotesta genie? I regnanti attuali disgusterebbero per
tutta la vita del principio monarchico!...» Con parola più mordace, attribuendo la
fortuna politica del Bonaparte alla deficienza degli altri sovrani, dichiara che
allora crederà al tramonto dell'astro napoleonico quando i troni saranno resi
vacanti «da una epizoozia di tutte le famiglie regnanti....» È vero, tuttavia, che il
mestiere del Re «dev'essere divenuto molto duro, se un Luigi Bonaparte se ne
stanca e lo smette...»
Sebbene partigiano, Ruggero di Damas non ha peli sulla lingua. Il famoso
manifesto del Brunswick, donde prende le mosse la reazione sulla quale egli
fonda tutte le sue speranze, è da lui severamente criticato; e battendosi insieme
col duca e con gli Austriaci durante la campagna di Francia che dagli effimeri
successi di Longwy e di Verdun finisce a Valmy con la ritirata e la rotta, non
risparmia i biasimi alla strategia del comandante supremo; e lodando l'esercito
prussiano dove è da lodare, denunzia la barbarie di cui esso si macchia. «Come
difendersi da un sentimento di pena e di terrore, vedendo cotesto esercito
celebrare il suo primo passo nel territorio francese con la più arbitraria
devastazione?...» Un colonnello è cancellato dai ruoli e due soldati sono
impiccati per dare un esempio; «ma io non potevo supporre allora che, ad
impedire il disordine, sarebbe stato necessario impiccare tutto l'esercito....»
II.
Un più profondo esame ed un più severo giudizio è quello del quale egli fa
oggetto un'altra potenza coalizzata contro la Repubblica di Francia: l'Austria.
Come stimarla capace di vincere, se a tutte le molle che il «giacobinismo»
faceva scattare nei petti dei soldati repubblicani, essa non sapeva opporre altro
che la «pedanteria»? Come credere al genio dell'idolo dei Viennesi, il Coburgo,
dopo aver visto cotesto maresciallo, a capo di 15000 soldati austriaci,
indietreggiare all'assedio di Giurgevo dinanzi a soli 4000 Turchi? Come credere
all'ingegno dei generali di corte, dell'arciduca Giovanni, «adoperato a guisa di
polverine del James all'agonia d'un infermo», od a quello dello stesso arciduca
Carlo? «Chi si è condotto come costui, nelle circostanze in cui si è trovato, non
ha pensato una sola idea giusta, non ha fatto nulla di raccomandabile, e se ha
avuto qualche momento di fortuna, bisogna cercare fra coloro che lo circondano
la testa che pensava per lui....»
Sarebbe certamente stolto, avverte il Damas, negare il valore di alcuni generali
austriaci; ma essi non possono adoperarlo come i francesi, perchè «il genio della
loro nazione li rende incapaci di rinnovarsi: gli Austriaci resteranno sempre un
esercito d'altri tempi, teorico, coraggioso, ma lento e testardo nei suoi sistemi:
essi agiranno contro i nostri nipoti come agirono contro i nostri avoli, e per
conseguenza saranno battuti da quelli come furono battuti da questi.... La
lentezza di concezione e di esecuzione nei generali, l'asservimento alla
pedanteria nei preparativi nell'azione, l'inerzia e la svogliatezza nei subalterni,
l'apatia dopo i buoni successi come dopo i rovesci, sono altrettanti vizii ed
impacci». E, per esempio, a Wattignies il Cleyrfait «giudicò più semplice lasciar
proseguire la ritirata vergognosa, anche quando le circostanze non l'esigevano
più, che di fare indietreggiare le truppe il cui movimento era già cominciato, e
solo per apatia non diede nessun contrordine. Il successivo passaggio della
Sambra fu così compiuto e la battaglia più importante si trovò perduta, mentre i
Francesi si ritiravano in tutta fretta sulla loro destra. Simili fatti si crederebbero
difficilmente da chi non ne fosse stato testimonio; ma io garantisco che quanti
hanno servito con gli Austriaci ne avranno una collezione....» Altro esempio:
l'inutilità della vittoria di Essling, dopo la quale — ma prima di Wagram! — i
soldati di Napoleone trovano un argutissimo modo di scusare la disfatta del loro
duce, del loro papà: «Il nostro papà non fa più altro che sciocchezze dacchè è in
Austria: il contagio del paese gli si è attaccato....»
Quando era al servizio di Caterina II, il Damas aveva visto i Russi rallegrarsi e
godere all'annunzio delle disfatte degli Austriaci, come se fossero loro nemici,
mentre erano alleati contro il Turco, nemico comune: questo sentimento che lo
stupì profondamente, e che poteva sembrare propriamente iniquo, fu da lui
compreso quando studiò da vicino la psicologia austriaca. «Gl'individui di
cotesto esercito aggiungono ai loro difetti disgraziatamente troppo noti, una
presunzione ed una sufficienza indefinibili; essi non possono andare d'accordo
con nessun alleato, non apprezzano altro che i sussidii in denaro, e questo genere
di concorso non serve se non a farli perseverare nella guerra senza portare
rimedio ai loro errori. Tutte le battaglie che hanno sostenute in lega coi Russi
hanno messo a giorno la poca cordialità e la poca simpatia di cui sono
suscettibili, e questo esempio recente fa tremare per l'avvenire. Quasi tutti i
trattati conclusi dalla Corte di Vienna da un secolo a noi hanno dimostrato la sua
abilità nel gravar la mano sugli alleati, e la potenza che contrae con lei si trova
egualmente oppressa sui campi di battaglia e nei gabinetti diplomatici....» Ma la
presunzione e la prepotenza finiscono il giorno delle sconfitte: allora gli
altezzosi sono in preda ad un abbattimento che fa accettare le paci «disastrose»,
le paci «vergognose». Nei lunghi soggiorni dell'autore a Vienna, durante le
grandi crisi dell'Impero, egli non ode «un solo proponimento che dimostri
indipendenza e coraggio. Da che cosa dipende dunque l'avvenire d'uno Stato non
sostenuto nè dalla coscienza della propria forza, nè elettrizzato dall'amore della
gloria e della patria?...» Per conseguenza: «degenerazione, imbastardimento di
ogni idea di onore e di morale», ed anche una irrimediabile «mostruosità di
debolezza», per la quale i governanti non sono capaci di prendere altri
provvedimenti fuorchè quelli in extremis e si sottopongono poscia al giogo
«senza resistenza».
L'acuto ed equo osservatore non nega le buone qualità alla gente semplice, del
popolo minuto; ma il congegno sociale è così fatto, che «per mantenere l'animo
in pace, in questa metropoli (Vienna), bisognerebbe non incontrare personaggi
ufficiali. La loro vista turba per tutto il giorno, tanto sono rappresentativi della
decadenza». Ed anche fuori del mondo in divisa, c'è qui in tutti i procedimenti,
in tutte le usanze, in tutte le feste e i divertimenti, un velo teutonico che toglie
grazia ad ogni cosa.... L'edifizio morale di questo paese rammenta i monumenti
costruiti nei tempi di decadenza dell'arte.... Immaginate la dissipazione senza
godimento, la leggerezza senza garbo, la sciocchezza senza contegno, la fatuità
senza conquiste, e avrete la misura della disgraziata differenza che passa tra la
gioventù di Vienna e quella di Parigi».
Delle sciocchezze e delle goffaggini delle quali egli fu spettatore il Damas
riferisce gustosi esempii. Quando Maria Luisa andò in Francia sposa di
Napoleone, scortata dai generali francesi, due cittadini di Ens, obbedendo
all'ordine di far luminaria, tirarono fuori, per economia, gli stessi trasparenti «di
cui si erano serviti nei festeggiamenti prescritti in altre occasioni: si leggeva
sull'uno Vivat Laudon, sull'altro Vivat Coburg, e le effigie di quei due generali»
— i peggiori nemici dei Francesi — «prendevano parte a quell'infame e
vergognoso baccano con un'espressione diametralmente opposta alle
circostanze....» Il generale Bubna, pezzo grosso dell'esercito e della diplomazia,
spedito a negoziare l'armistizio dopo Wagram, si vede offrire da Napoleone un
anello del valore di ventimila fiorini, e senz'altro se lo passa al dito. «E che? In
questo paese un generale va a conferire col nemico — tuttora nemico, poichè la
pace non è per anco stipulata — e il nemico osa fargli un regalo, e il generale
negoziatore lo accetta?...» In previsione di nuove ambascerie del Bubna, il
Damas esclama: «Quest'altra volta egli tornerà indietro con una ricca
tabacchiera, e poi all'ultimo viaggio riceverà un calcio nel sedere tempestato di
diamanti....»
III.
La gravità di questa diagnosi dipende dal fatto che è compita da un uomo il
quale non è già nemico dell'Austria, nè predisposto contro di lei; che è anzi suo
amico ed alleato, che ha combattuto accanto ai suoi eserciti, che chiede un
giorno di esservi ammesso, perchè vede in lei la maggior potenza impegnata
contro l'aborrita Repubblica e capace di abbatterla. Il Damas vorrebbe ammirare,
sarebbe felice se potesse ammirare l'Austria come la più fedele fautrice delle
tradizioni che egli venera, e vorrebbe nascondere agli altri ed a sè stesso la verità
cocente; ma la verità è più forte dell'interesse, e il suo sdegno contro la
dappocaggine delle legittime dinastie fiaccate o travolte dal ciclone
rivoluzionario si accentra sugli Absburgo. L'apparato imperiale dei sovrani
apostolici, degli eredi di Carlo V, è imponentissimo e incute un senso di
soggezione; «ma quando gli avvenimenti li forzano a togliersi da cotesto teatro
d'illusioni e d'inganni, la scena sulla quale si rifugiano mortifica l'immaginazione
e lascia che lo spettatore scorga in cotesti personaggi illustri altrettanti poveri
istrioni di campagna....»
Si potrebbe ancora spigolare dell'altro nei due grossi volumi di queste Memorie,
se non fosse ora di rammentare che, oltre alla diagnosi della mentalità austriaca,
esse offrono un altro grande interesse; perchè, come si disse in principio, il
Damas servì anche nell'esercito napolitano e direttamente partecipò alla storia
nostra nei primi anni del secolo decimonono.
6 settembre 1917.
Un condottiero francese a Napoli.
Dopo gli allori còlti al servizio di Caterina II contro i Turchi, dopo la meno
fortunata partecipazione alla guerra della prima Coalizione contro la Francia,
l'avventuroso Ruggero di Damas, trovandosi di passaggio a Napoli per andare a
riprendere servizio in Russia, apprese che anche il regno delle Due Sicilie stava
per entrare nella gran guerra; e allora, all'idea di poter menare subito le mani,
l'uomo di guerra scrisse a Guglielmo Acton, primo ministro di Ferdinando, per
chiedere di servire nell'esercito napolitano. Poichè questo era posto in gran parte
sotto il comando di generali stranieri, quali il principe di Assia Filippstadt, il
principe di Wittenberg, il cavalier di Sassonia, il barone di Metch, il generale
Bourcard — generalissimo era l'austriaco Mack, successore dello svizzero Salis
e dell'ungherese Zehenter — il Damas poteva sperare che la sua domanda
avrebbe ottenuto buon esito.
Favorevoli gli furono, infatti, le disposizioni dell'Acton e del Re; ma il cavalier
di Sassonia, concepito un sentimento di gelosia contro di lui, riuscì, per mezzo
della propria amante, che era la principessa d'Assia, a montare Maria Carolina in
modo da farla opporre alla nomina. Ne seguì un duello fra il Tedesco ed il
Francese, finito con un colpo di spada che il primo diede al secondo; ma allora, e
come se questo anticipato tributo di sangue avesse dimostrato la serietà dei
propositi del Damas, gli ostacoli cessarono, e il fuoruscito francese, nonchè
colonnello russo, divenne maresciallo di campo napolitano.
I.
Da quel giorno si può dire che Ruggero di Damas facesse di Napoli la sua
seconda patria. Studiate le condizioni interne del regno e la sua situazione in
Europa, egli formò sull'una e sulle altre i più sensati giudizii. Le Due Sicilie, di
cui l'Acton era «il cattivo genio», potevano, grazie alla giacitura geografica,
attenersi alla neutralità; «ma un governo può saviamente fondare e restringere le
sue precauzioni su questo calcolo?» A parte che il cataclisma minacciava di
coinvolgere tutti gli Stati italiani, come dimenticare che «lunghi secoli non
spegneranno le pretese della Casa d'Austria su questa parte d'Europa?...» Prima
della Rivoluzione di Francia, l'Austria, effettivamente, era stata la potenza da cui
Napoli aveva più dovuto guardarsi; capovolti poi tutti i rapporti europei per
effetto dell'invasione repubblicana e della coalizione formatasi per contrastarla,
l'alleanza, o almeno la buona armonia con l'Austria diveniva necessaria;
sennonchè, considerata la mentalità austriaca, l'accordo non poteva riuscire
«utile e scevro di pericoli» senza «un esercito napolitano di cinquantamila
uomini che garantisca la reciprocità dei vantaggi delle due potenze».
Non si poteva dir meglio. E l'esercito era già costituito; disgraziatamente la
divisa non bastava a formare i soldati, in un paese dove, per un lungo ordine di
cause storiche, politiche, sociali, la milizia era considerata, a giudizio di Pietro
Colletta, come «lo stato più basso della nazione». Il Damas fece del suo meglio
per infondere lo spirito militare nelle sue truppe, ma la breve campagna, se
cominciò col portare i Napolitani a Roma, finì con la sconfitta e la rotta — che il
generale francese, a differenza di molti, di troppi altri, non addebita alla codardia
dei soldati. È bello anzi vedere questo Francese, cavalleresco verso i
repubblicani di Francia contro i quali combatte, esser giusto con i Napolitani che
comanda, e lodarli contrariamente a quanto di male ne dissero coloro stessi che
avrebbero dovuto esserne i naturali difensori e aiutatori, invece di renderne
propriamente disperate le operazioni per effetto della cieca imprevidenza e della
presunzione folle.
Durante i preparativi, nè lo Stato maggiore nè il Genio pensarono di gettare un
ponte sulla Melfa, che le truppe dovevano pure oltrepassare; giunta l'ora, i
soldati dovettero traversarla a guado. Il Damas dispose due squadroni di
cavalleria a monte del passaggio, per rompere un poco la corrente, e fece entrare
nel fiume la fanteria per plotoni, a file serrate, con gli ufficiali in testa:
quantunque la piena prodotta dalle recenti piogge investisse gli uomini fino al
petto e ne travolgesse una gran parte, il passaggio fu compito «col massimo
ordine». Per l'insipienza dei capi e per l'inclemenza della stagione quell'esercito
improvvisato giunse a Roma con le armi arrugginite, le scarpe perdute,
l'artiglieria dispersa, una parte dei muli morti, i carriaggi a cinque marce
addietro: «la guerra dei Sette Anni non aveva altrettanto sdrucito gli eserciti
allora in azione». Elementare prudenza sarebbe stato, dunque, ristorare,
riordinare e rifornire le truppe prima di procedere oltre: invece esse ebbero
l'ordine di avanzare immediatamente.
Il Damas rigetta sulla cattiva disposizione dell'ordine di attacco la disfatta della
sinistra, e narra con singolare efficacia la drammatica situazione in cui si trovò
— «il momento più grave di tutta la mia vita» — quando, dopo il felice successo
del combattimento di Civita Castellana, dove i Napolitani conquistarono le alture
alla baionetta, e sul punto d'impegnare la battaglia che doveva ributtare i
Francesi oltre il fiume, ricevette l'ordine, portante la data del 10 dicembre, di
ritirarsi immediatamente dietro Roma in seguito allo scacco patito dal Mack, e di
trovarsi il 12 a Velletri: ordine e notizie che, per un fatale ritardo, gli
pervenivano il 13 a sera! Isolato dal grosso dell'esercito in rotta, a cinquanta
miglia dal punto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dal giorno innanzi, senza la
possibilità di far conoscere il ritardo del messaggero e di chiedere quindi altre
istruzioni, il Damas si salvò e salvò il corpo d'esercito posto sotto il suo
comando con la bellissima mossa di fianco sopra Orbetello, allora possessione
del Re di Napoli. La marcia notturna con la quale egli la iniziò fu talmente
accorta, che il comandante francese dichiarò di esserselo visto «sgusciare tra le
mani come un pezzo di sapone», e del buon esito delle azioni compite durante la
ritirata egli attribuì il merito ai suoi soldati; ma il merito fu anche suo, poichè
quelli obbedienti ad altri capi meno valenti e meno accorti non si portarono bene.
A Toscanella i suoi si mantennero saldissimi perchè egli seppe fare appello al
sentimento dell'onore, dimostrando loro che la baldanza e la temerità dei
Francesi era tutta fondata sul disprezzo che nutrivano contro i Napolitani.
«Kellermann spiegò la sua colonna non appena il terreno glielo consentì; la mia
artiglieria disordinò quello spiegamento; poi, non appena fu compito, il generale
francese fece battere la carica e con le grida proprie alle truppe repubblicane si
precipitò sulla mia linea; il fuoco della moschetteria cominciò, si protrasse a
lungo molto nutrito, e i Napolitani diedero prova del miglior contegno.» Il corpo
d'esercito fu così disimpegnato e condotto a salvamento dentro Orbetello —
dove il Damas si fece curare una terribile ferita alla mascella riportata nel fitto
dell'azione.
Lodi non minori egli tributò ai suoi uomini quando, promosso luogotenente
generale dopo la caduta della Repubblica Partenopea — durante la quale aveva
raggiunto la Corte a Palermo e preparato un piano di difesa della Sicilia — gli fu
dato l'incarico di riordinare le milizie del Regno e d'intraprendere la marcia
attraverso la Toscana per dar mano agli Austriaci — i quali intanto negoziavano
la pace per loro proprio conto, senza comprendervi gli alleati napolitani!... La
presa di Siena, la strenua resistenza opposta ai Cisalpini del generale Pino e la
salvezza di quella legione furono dovute, dice il Damas, «allo zelo ed alla buona
volontà» delle truppe che egli comandava. Par quasi che egli voglia riversare su
chi ne è meritevole la lode tributatagli dal Colletta nel riferire quei fatti — e
tanto più dispiace che il Botta li abbia narrati come una serie di disastri. Più
giusto è il Marulli quando osserva, non senza una punta d'ironia, che il Damas
era «predestinato alle ritirate»; ma ancora più grande è la malinconica ironia
dello stesso condottiero, quando scrive: «Io ho gran pratica delle nazioni
sconfitte, e siccome non ero nato per questo, soffro crudelmente di tale regime.
Se le disaccortezze, le goffaggini, le sciocchezze non avessero nessuna parte
nelle disgrazie, farei di necessità virtù; ma veder sempre le vittime sacrificate
dalle loro proprie buaggini rende impossibile la stessa pietà.» E questo egli non
lo dice più a proposito delle sconfitte napolitane, ma delle austriache!...
Della sua nobiltà d'animo è da addurre un'altra prova. Nelle trattative
dell'armistizio che preannunziò la pace di Firenze, il comandante repubblicano
— Gioacchino Murat — pretese che il Re di Napoli licenziasse il suo ministro
Acton. Ma il Damas, quantunque avesse poca ragione di lodarsi di costui, ricusò
di ascoltare ogni altra condizione finchè quella non fosse ritirata: «Rigettai
formalmente un articolo che offendeva direttamente la persona del Re; osservai
che la scelta dei ministri, depositarii della confidenza sovrana, era riservata ai
monarchi, e che per nessun motivo un governo straniero poteva immischiarvisi.
Murat non ne parlò più....» E l'Acton, per tutta dimostrazione di gratitudine, fece
di lì a poco una tale scenata al Damas, che il generale, dopo avergli detto il fatto
suo, presentò le dimissioni al Re tra il plauso di quanti — ed erano tanti, a
Napoli! — non potevano tollerare lo sgoverno del ministro. «Lasciai Napoli
sfigurata dalle sciagure prodotte dal suo ministro e tremante sotto il suo flagello
oppressore. Augurai che il tempo riparatore mi mettesse un giorno in grado di
rendere nuovi servigi ad un paese e ad un esercito che mi avevano sempre
dimostrato confidenza ed usato benevolenza.»
II.
L'occasione si presentò tre anni dopo. Richiamato dai sovrani all'approssimarsi
della nuova crisi, egli lasciò Vienna, dove si era ritirato, e giunse a Napoli il 5
gennaio 1804. Ebbe a sopportare nuove prove della nemicizia dell'Acton e passò
nove mesi nel Regno da semplice spettatore; ma il 12 ottobre fu nominato
ispettore generale dell'esercito. Non secondato come e quando occorreva nei suoi
disegni di riordinamento, mentre l'Acton dava al Re false cifre delle truppe
disponibili, non fu colpa del Damas se le Due Sicilie si trovarono impreparate al
nuovo assalto francese. Russi ed Inglesi dovevano aiutarle; ma anche quegli
alleati mandarono forze molto minori delle promesse; peggio ancora:
aggravarono la mano su Napoli con le esorbitanti esigenze e le oppressive
imposizioni — e al momento buono decisero di ritirarsi! Le loro esitazioni
avevano disgustato il Damas, il quale aveva dato ragione ai suoi soldati,
scontenti e disgustati degli ordini e dei contrordini e delle sofferenze a cui le
marce e contromarce inutili li avevano esposti. Il rigetto della sua proposta di
tentare la difensiva sul Volturno era stato definito dallo stesso generale russo
Anrep «un'infamia»; e la fuga degli alleati portò al colmo lo sdegno del prode
Francese. «Al loro arrivo, mi ero proposto di offrirli come modelli ai miei soldati
poco agguerriti, ed eccomi invece ridotto a sperare che dimenticassero il
vergognoso esempio!...» Disgraziatamente essi non lo dimenticarono a
Campotenese, dove pure il Damas fece il possibile per salvare la situazione e si
battè, a testimonianza dell'universale, con coraggio «da leone».
Un centinaio di lettere inedite di Maria Carolina, raccolte in appendice alle
Memorie, attestano la fiducia che, nonostante il rovescio, egli continuò a godere
da parte della Corte: a Vienna, dove si ritirò ancora una volta, servì la Regina,
per desiderio di lei, da consigliere e da informatore. Ma la gratitudine che egli le
portò non gl'impedì di giudicarla secondo coscienza. Certo, non è da stupire se il
Damas insiste spesso, segnatamente in principio, sulle buone qualità di Maria
Carolina; ma poi comincia a distinguere, e la dice provveduta «più
d'immaginazione che di carattere, più di bisogno d'agire che d'abitudine di
lavorare», ed anche di «troppa diffidenza», di «troppa effervescenza» e di troppo
poca «perseveranza». Riconoscendone l'ingegno, le attribuisce il genio degli
«intrighi», ed osserva che ha agito nel modo più pregiudizievole alla sua
reputazione ed al Regno. «La vanità, l'inconseguenza, la petulanza sconsiderata,
l'ambiguità dei pensieri le hanno fatto perdere il Regno di Napoli. Gli stessi
inconvenienti, difetti ed indomabili impulsi le fanno ora (nel 1812) perdere il
governo della Sicilia.» Mai cotesta donna, «a cui nessuno può negare ciò che si
chiama disgraziatamente spirito, ha avuto abbastanza giudizio da governare il
suo cervello, le sue azioni e le sue stesse parole. Ha esasperato e doveva
esasperare Napoleone; ha esasperato e doveva esasperare gl'Inglesi, e se il cielo
le avesse accordato l'impero del mondo e mille anni di vita, lo avrebbe perduto a
poco a poco senza che una sola volta una sciagura avesse esercitato tanto effetto
su lei da fargliene scansare un'altra. È nata per imbrogliare, per ostacolare tutto
ciò in cui si mescola, e morrà disgraziata, dopo aver fatto tanti disgraziati da una
parte quanti ingrati dall'altra, con un cuore eccellente e le migliori intenzioni del
mondo. Io sono per buona sorte esente dal rammarico di non aver potuto
moderarla negli ultimi sei anni, perchè la ragione, la buona fede, la lealtà,
l'amicizia non hanno avuto mai il minimo impero su lei. Chiunque contraria la
sua folle vivacità comincia tosto a divenirle sospetto....» Anche nell'esilio,
«quantunque spenta moralmente, fisicamente e politicamente», egli non dubita
che «cerchi ancora d'intrigare».
III.
Il giudizio del Damas conferma dunque, in fondo, con qualche riserva e qualche
concessione ammissibile, quello della storia, ed in un solo punto è pienamente
favorevole alla Regina, alla donna: in quanto concerne i suoi costumi.
Contrariamente all'opinione comune, il Damas dice che, se pure, dopo il
matrimonio, Maria Carolina ebbe sempre qualche amante, «nessuno di costoro,
fino a quando ella non fu più in età di procreare, ottenne da lei gli estremi favori,
e nessuno godette mai dell'intera sua confidenza: ecco ciò che non si crederà, e
di cui ho la certezza».
È doveroso notare questa testimonianza, che farà molto piacere all'ultimo storico
inglese della Regina. Nei due volumi su Lord Nelson and Lady Hamilton e negli
altri due intitolati The Queen of Naples and Lord Nelson, John Cordy Jefferson si
è studiato di rivendicare la fama dell'Austriaca. Come donna, egli la giudica
«supremamente buona»; politicamente, attribuisce a lei tutti i meriti che finora
gli storici nostri avevano assegnati al Tanucci, e va fino a dire che, proponendo
l'accordo degli staterelli italiani per far argine ai Francesi, la Regina absburghese
«anticipò il grido garibaldino per l'unità d'Italia!...»
Questa apologia della sovrana non sarebbe riuscita possibile se non fosse stata
preceduta dalla riabilitazione della sua sviscerata amica Emma Lionna; ed il
Jefferson, senza spingersi fino a paragonare l'ex-cortigiana londinese, come fece
il Paget, a Giuditta ed a Giovanna d'Arco, tenta scagionarla dalla maggior parte
delle accuse e di metterla nella miglior luce compatibile con le traversie della sua
vita.
Intimamente connesso a questi due tentativi doveva esser quello di cancellare la
macchia che il sangue dei Napolitani del 1799 stampò sulla divisa, per l'innanzi
immacolata, di Nelson. Secondo il Jefferson, la condotta dell'ammiraglio fu tutta
ammirevole; la capitolazione stipulata dai Partenopei col Ruffo, luogotenente del
Re, e controfirmata dai rappresentanti esteri, compreso l'inglese, fu «scandalosa»
ed «infame», e Nelson, annullandola, non fu «minimamente influenzato dalla
passione per lady Hamilton»: egli non fece altro che obbedire agli ordini
impartitigli dal suo governo; esercitò anzi «una savia discrezione» e non
commise «nessuna mancanza contro l'umanità» mandando il «traditore
Caracciolo dinanzi alla corte marziale: i provvedimenti presi per recuperare
Napoli furono «terribili», ma «non abbastanza severi»; è anche «ridicolo»
insistere nell'osservare che Ferdinando avrebbe dovuto concedere un'amnistia
generale; e se la San Felice addusse la gravidanza perchè ritardassero il suo
supplizio, il pretesto non poteva stupire «venendo da una donna così bene
provvista di amanti....» In poche parole: tutto quanto si disse in difesa delle
vittime e contro il Re, la Regina, la Hamilton e Nelson, fu «menzogna», fu
«velenosa invenzione dei libellisti liberali».
Ruggero di Damas non era liberale; era, come abbiamo visto, nemico acerrimo
della Rivoluzione di Francia, paladino dei Borboni di Francia e di Napoli, alleato
degli Austriaci, dei Prussiani, dei Russi e degli Inglesi nella lotta contro la
Repubblica e l'Impero. E Ruggero di Damas, testimonio oculare, esce dal
sepolcro attestando che «Nelson aveva molto da fare per riscattare le sciagure da
lui cagionate a Napoli perchè si dimenticassero quelle alle quali ha contribuito
nella riconquista del Regno.... Egli aveva associata milady Hamilton agli onori
del trionfo; l'ambizione di lei divenne rivale della gloria di lui, e la gloria ne
andò di mezzo.... Tutto si ridusse comune tra loro: denaro, difetti, vanità, torti
d'ogni specie. Nelson non era più altro che una caricatura di Rinaldo, schiavo
d'una sciocca Armida senza pudore e senza magia....»
7 settembre 1917.
L'Adriatico e le Due Sicilie a Campoformio.
La quistione adriatica, imperialmente risolta dalla Repubblica di Venezia nel
corso di lunghi secoli contro Tedeschi e Slavi ed Ungheresi e Turchi, risorse
quando Napoleone Bonaparte, da ardito e fortunato stratega trasformatosi in
mercante di popoli, ordì l'infamia di Campoformio. Agonizzando la Serenissima,
avviandosi i Francesi per la Lombardia ed Ancona a Roma ed al Levante,
subentrando l'Austria in Istria, in Dalmazia e poi nella stessa Laguna, un altro
Stato italiano, la monarchia delle Due Sicilie, vide prepararsi un assetto contrario
ai suoi interessi, lesivo della libertà delle sue mosse, pericoloso alla sua stessa
esistenza.
Con la Repubblica francese, autrice di quelle novità, i rapporti della Corte
borbonica erano da poco tornati pacifici. Fin dall'inizio della Rivoluzione,
Ferdinando e Maria Carolina avevano concepito contro la Francia un sentimento
di odio misto a paura, che la neutralità imposta loro dall'ammiraglio Latouche-
Trouville con i cannoni puntati contro la città di Napoli aveva rinfocolato, e che
era poi giunto al parossismo quando Luigi XVI e Maria Antonietta, stretti
parenti dei Reali siciliani, avevano perduto il trono e la vita. Partecipando allora
alla coalizione contro la Francia, le Due Sicilie avevano mandato truppe
all'assedio di Tolone, forze navali alla impresa di Corsica e reggimenti di
cavalleria alla guerra nella pianura lombarda; sennonchè erano poi costrette dalle
strepitose vittorie del generale Bonaparte a sciogliersi dalla lega e a chiedere la
pace separata, che il principe di Belmonte destramente negoziava ed otteneva, a
patti non troppo onerosi, il 10 ottobre del 1796.
I.
Cessata con la firma di quel trattato la missione del Belmonte, la rappresentanza
diplomatica siciliana presso la Repubblica era assunta dal commendatore Alvaro
Ruffo di Scaletta. Mentre tra Francia ed Austria si decidevano le sorti d'Italia, il
primo ministro di Ferdinando, Guglielmo Acton, scriveva al Ruffo: «Vostra
Eccellenza è nella situazione la più importante e la più critica per poter rendere
agli augusti sovrani ed alla sua patria i massimi servigi, da far epoca in questi
regni (Napoli e Sicilia).... Lavori intanto per acquistarsi il credito e le confidenze
ed opinione di quei governanti, di Barthélémy e Carnot specialmente, e renda la
quiete con la sua negoziazione a questi regni, nonchè la sicurezza, da procurar
loro con la cessione di barriere effettive....»
Duplice era la garanzia che il governo siciliano mirava ad ottenere: una terrestre,
l'altra marittima. Dalla parte di terra, costituiti in Repubblica Cispadana il
Ducato di Modena e le Legazioni di Bologna e di Ferrara, stabilitisi i Francesi in
Ancona, preparandosi la formazione della Cisalpina, avvicinandosi fatalmente il
giorno della caduta del potere temporale del Papa, Napoli voleva premunirsi
contro possibili e probabili minaccie, acquistare più sicure frontiere, partecipare
alla divisione del patrimonio di San Pietro. Non si leggono senza interesse i
curiosi particolari di questi antecedenti della quistione romana nel bellissimo
libro dove Benedetto Maresca, raccoglitore espertissimo dei documenti serbati
nel R. Archivio di Napoli, narrò ed illustrò la missione del Ruffo a Parigi: ma
l'altra rivendicazione napolitana, le pratiche fatte per ottenere compensi anche
dalla parte del mare dopo i mutamenti avvenuti e minacciati nell'Adriatico,
fermano meglio l'attenzione del lettore e acquistano sapore di attualità, oggi che
l'Italia attende a risolvere il problema del suo mare orientale.
Durante le discussioni della pace con l'Austria, abbandonando al vinto e
prostrato nemico gli Stati veneti come compenso della Lombardia strappatagli
per costituirla in repubblica e farne un satellite della Francia, Napoleone
Bonaparte aveva detto di voler riservare a questa nuova potenza italiana le isole
Jonie, già della Serenissima. Se gliele avesse effettivamente procurate, il Côrso
avrebbe compensato, benchè in troppo piccola parte, l'iniquo vantaggio
accordato all'Austria con la cessione delle più sicure costiere adriatiche; ma,
ripensandoci meglio, il prepotente maneggiatore di quella pace si pentì della
buona intenzione. Già cominciava egli a volgere nella mente il disegno di fare
dell'Italia, parte conquistandola, parte asservendola, il centro di un impero
mediterraneo; aveva allora allora recuperato la Corsica che gli Inglesi erano stati
costretti a sgombrare, aspettava di prender l'Elba e d'avanzare da Livorno in
Toscana, era già disceso in Ancona, «finestra dell'Oriente»: le isole Jonie
avrebbero prolungato la catena di quelle stazioni fino alla soglia del Levante. Il
Direttorio, col quale l'accordo non era sempre perfetto, lo assecondava in questo
proponimento: il Carnot osservava: «Corfù è l'isola che più importa riservarci»;
il Reubell soggiungeva: «Cerigo ci sembra anch'essa un posto non meno
importante».
Uno dei negoziatori per conto dell'Austria era il marchese di Gallo, ambasciatore
delle Due Sicilie a Vienna. Conoscendo le mire francesi sull'Elba e sui Presidii
napolitani di Toscana — erano già stati chiesti, insieme col distretto di Trapani in
Sicilia, come una delle condizioni più onerose della pace dell'anno innanzi, e il
Belmonte aveva ottenuto che il Direttorio non vi insistesse — il Gallo offerse al
generale Bonaparte la porzione napolitana dell'Elba ed i Presidii, in cambio della
duplice garanzia necessaria alle Due Sicilie: un più saldo confine terrestre,
possibilmente la Marca d'Ancona con le sue adiacenze, e uno stabilimento
all'entrata dell'Adriatico, di fronte alla Terra d'Otranto ed al golfo di Taranto: le
isole Jonie e gli scali Veneti della costa d'Albania. Ai primi di luglio del 1797, in
Udine, il generale gli faceva sapere che, tralasciando per il momento la quistione
della barriera terrestre, consentiva a trattare intorno alla cessione delle isole e
degli scali contro l'Elba ed i Presidii. Sulle prime egli voleva escludere Corfù e
tenerla per sè, ma poi disse che avrebbe dato a Napoli tutto l'arcipelago Jonio
insieme col territorio di Prevesa e con gli altri distretti Veneziani d'Albania e
della Morea, tranne le Bocche di Cattaro, che appartenendo alla Dalmazia
sarebbero andate all'Austria.
Poichè nel fare questa concessione il vincitore della guerra d'Italia dichiarava di
avere ricevuto le plenipotenze necessarie alla stipulazione del trattato, e poichè il
governo siciliano rispondeva accettando di scindere le due quistioni e di regolare
per il momento soltanto quella marittima, si potrebbe credere che l'accordo fosse
virtualmente raggiunto. Lo credettero a Napoli, dove già tre reggimenti di linea,
con proporzionata artiglieria, si preparavano ad imbarcarsi per essere scortati
dalla squadra navale fino alle isole ed agli scali da occupare....
II.
La cosa andò invece in modo molto diverso: perchè, contrariamente alle
affermazioni del generale, il Direttorio non solo non gli aveva accordato le
plenipotenze, ma gli spediva certi memoriali composti da studiosi francesi per
dimostrare che l'arcipelago Jonio era necessario alla loro nazione. Uno degli
scrittori affermava che con quelle isole in mano si sarebbe impedito agli
Austriaci di penetrare in Albania: argomento la cui forza è stata confermata dalla
discesa degli Alleati a Corfù: ma che, addotto a quei tempi, poteva alquanto
stupire, avendo allora la Francia qualche cosa di meglio da fare, per impedire la
penetrazione austriaca in Albania, che occupare le isole Jonie: la Francia poteva
non consegnarle il patrimonio veneto: i preliminari di Leoben e le trattative di
Mombello e di Udine non erano ancora finiti a Campoformio!... In un altro di
quei rapporti spediti dal Direttorio al Bonaparte si dimostravano i vantaggi che la
Repubblica si sarebbe assicurati stabilendosi sull'ingresso dell'Adriatico; l'autore
proponeva di dare le città dalmate, già venete, alla Turchia, per averne in cambio
un'isola dell'Egeo come garanzia degli interessi francesi in quel mare: al regno
delle Due Sicilie si poteva tutt'al più cedere, e sempre in cambio dell'Elba, «la
piccola isola di Lissa, sulle cui coste i pescatori del Regno facevano una ricca
pesca di sardine....»
I fatti seguivano alle dimostrazioni: mentre duravano ancora i colloquii del
Bonaparte col Gallo, quest'ultimo apprendeva che truppe repubblicane erano già
sbarcate a Corfù, e che altre avrebbero occupato Cefalonia, Zante, Santa Maura.
La notizia era grave, ma le speranze siciliane non ne andarono distrutte. Il
generale Canclaux, rappresentante francese a Napoli, si era dimostrato piuttosto
favorevole alle rivendicazioni del Governo presso il quale era accreditato; a
Parigi l'ambasciatore siciliano aveva ottenuto qualche promessa dal signor di
Talleyrand, ministro degli affari esteri, e da alcuni membri del Direttorio.
Insisteva quindi il Ruffo perchè si venisse ad una conclusione, dimostrando
come l'acquisto dell'arcipelago Jonio fosse «oggetto incontrastabile d'infinito ed
essenziale interesse per noi», se si voleva evitare il danno che sarebbe derivato al
Regno «per la posizione e vicinanza di altre potenti nazioni»: con i Francesi in
Lombardia e nelle Marche, con gli Austriaci a Venezia, in Istria e in Dalmazia,
egli vedeva «le barriere generali d'Italia aperte a nazioni potenti».
Ma quando gli affidamenti dovevano tradursi in fatti, cominciarono a spuntare le
difficoltà. Il Talleyrand giudicava la Corte napolitana immeritevole di vantaggi
per la sua condotta segretamente ostile alla Repubblica; e invano il Ruffo
protestava contro l'accusa, e lo sfidava a provarla; e invano lo stesso
ambasciatore francese a Napoli, il Canclaux, la dichiarava infondata: il
Talleyrand negava fede al suo proprio inviato. E se il marchese di Gallo, da
Udine, scriveva al Ruffo per esortarlo a sollecitare la pratica a Parigi presso il
Direttorio, nulla potendosi ottenere dal Bonaparte, i Direttori rispondevano al
Ruffo che bisognava, al contrario, trattare in Italia col generale, solo arbitro della
situazione. E se l'ambasciatore tentava di tornare alla carica, nè i Direttori nè il
ministro lo ricevevano; e se presentava una nota scritta, lo lasciavano senza
risposta. Un giorno il Talleyrand aveva dichiarato non essere il caso di parlare
dei compensi da assegnare al regno di Napoli mentre gli stessi negoziati della
pace tra la Francia e l'Austria stavano per fallire; ma il giorno che le trattative
austro-francesi arrivavano in porto tutta l'eredità veneta andava spartita fra i due
contendenti: il boccone più grosso toccava all'Imperatore, la Repubblica
tratteneva per sè le isole e gli scali.
III.
Neanche a questa notizia il Governo napolitano dispera. Al marchese di Gallo,
che aveva insistito perchè la cessione alle Due Sicilie fosse stipulata nello stesso
trattato di Campoformio, Napoleone Bonaparte aveva risposto che il cambio
dell'Elba con le isole e gli stabilimenti veneti sì sarebbe concluso a parte, e che
egli stesso, tornando in Francia, avrebbe parlato col Direttorio in favore di
Napoli. Anche il suo capo di stato maggiore, il generale Berthier, partendo per
Parigi col testo del trattato, prometteva al Gallo che avrebbe raccomandato le
domande siciliane.
Ma il Talleyrand, a Parigi, dove il Ruffo riprende a fare del suo meglio per
ottenere quei compensi, risponde che la cosa non è più possibile, ora che le
condizioni della pace, divulgate in Francia, hanno deluso il paese per la
scarsezza dei vantaggi conseguiti. Menzogna, perchè la pace è accolta con
grande e universale esultanza; ma tutte le insistenze sono vane. Invano il Ruffo
dimostra che l'acquisto è un pericolo per la Repubblica, non potendo essa
mantenerlo in caso di guerra marittima. L'ambasciatore napolitano è buon
profeta: una delle ragioni che getteranno lo Zar Paolo I nella coalizione contro la
Francia sarà appunto il vantaggio da costei assicuratosi con l'occupazione delle
isole, e la flotta russo-turca riprenderà fra poco Cerigo, Zante, Cefalonia, e
stringerà d'assedio Corfù, mentre Alì pascià farà trucidare le guarnigioni francesi
di Prevesa e di Butrinto.... Ma il signor di Talleyrand sorride quando Alvaro
Ruffo soggiunge che, nell'interesse europeo, e della stessa Francia, conviene
affidare quella parte del patrimonio veneziano a una potenza italiana e neutrale
come le Due Sicilie. Ed è vano tentare di rivolgersi ancora al Bonaparte: più
volte il Talleyrand aveva assicurato che, pur essendo personalmente favorevole
alla cessione, non poteva far nulla senza il consentimento del generale: ora
dichiara che, se anche il generale dirà di sì, egli, ministro, replicherà di no....
Un'ultima speranza anima ancora il Ruffo. Non solamente egli spera, ma nutre
fiducia che la stessa Austria possa e debba appoggiare le richieste siciliane. Le
due Corti, strettamente imparentate, seguono entrambe con la stessa rigidità i
principii della politica conservatrice, ed il Regno è stato e sarà sempre dalla parte
dell'Impero: non potrà ottenere in premio che l'Impero favorisca le sue
aspirazioni? E ad Udine, infatti, quando il futuro Console e padrone del mondo
aveva la prima volta manifestato l'intenzione di tenere per sè le isole venete e gli
scali albanesi, il Cobenzl, altro rappresentante austriaco, glieli aveva negati,
chiedendo che andassero invece al Re di Napoli. In due tempestose sedute quel
dissidio aveva minacciato di far naufragare la pace; ma poi, contenta della parte
ottenuta, l'Austria aveva abbandonato la causa siciliana e si era piegata a lasciare
sul passo dell'Adriatico la potenza rivale.
Nonostante questo precedente il Ruffo fa ancora assegnamento sull'appoggio
austriaco. Egli è persuaso che sia interesse del Gabinetto viennese togliere quei
possedimenti alla Francia, perchè l'acquisto dell'Istria e della Dalmazia non
garentirà alla monarchia d'Absburgo il dominio dell'Adriatico se la Francia
resterà padrona di sbarrarle la via, da Ancona dove è insediata, alle isole Jonie
anch'esse già occupate. «Senza il possesso delle isole», scrive, «il resto è solo
apparenza speciosa ed inganno». E ancora: «La Corte di Vienna deve
considerare che la Francia acquista col porto d'Ancona, possedendo già le isole
di Levante, un dominio fatale in quel mare, a danno evidente della Dalmazia,
dell'Istria e di Venezia stessa. Il concorso efficace dell'Imperatore in questo
grande affare è indispensabile ed è l'àncora della mia speranza....»
IV.
Ma a quell'àncora egli si afferrò invano. Se già a Campoformio l'Austria aveva
finito col lasciar vincere la partita alla Francia, non era più credibile che avrebbe
poi rotto il trattato e ricominciata la guerra per i begli occhi del Re di Napoli. E il
Ruffo ci rimise il fiato e l'inchiostro. È vero tuttavia che quelle pratiche
sarebbero altrimenti riuscite, se un altro degli argomenti che il solerte
ambasciatore aveva ripetuti fino alla sazietà fosse stato tenuto da conto. Nella
stessa nota dove aveva suggerito la prima volta di richiedere l'appoggio e
l'assistenza dell'Imperatore, il Ruffo aveva soggiunto che «lo sviluppo preparato
di tutte le nostre più straordinarie forze è una necessità assoluta alla nostra
sicurezza». Poi aveva insistito: «Le misure di forza prese in tempo e portate fino
al maggior grado di possibilità sono le vere basi su cui è indispensabile
d'appoggiare la nostra sicurezza....» E poi ancora: «La salvezza in queste
deplorabili circostanze non ha altro possibile appoggio che la forza....» E poi
ancora: «Purtroppo vedo realizzarsi il mio timore ed il bisogno delle misure
estreme....» E poi ancora: «Una energia straordinaria, dirò anche eccessiva, è
necessaria per salvarci....»
Quasi in ogni suo dispaccio Alvaro Ruffo tornava su questa necessità. Era la
vera, la sola àncora della salvezza. Perchè mai, l'anno innanzi, il principe di
Belmonte aveva ottenuto che la Francia vittoriosa rinunziasse alle più gravose
pretese, se non per la dimostrazione di forza fatta dal Regno con i vascelli e i
soldati mandati a Tolone ed in Corsica, con i reggimenti del principe di Cutò
schierati in Lombardia? «Sapete che hanno quattro eccellenti reggimenti di
cavalleria che mi hanno cagionato molto male», aveva confessato Napoleone
Bonaparte al Miot, ministro di Francia a Firenze, «e dei quali mi preme
sbarazzarmi al più presto possibile?...» Dopo quella prova, il generale non si
sentiva di eseguire le istruzioni del Direttorio, il quale presumeva di poter
continuare la guerra a fondo tanto contro l'Austria quanto contro le Due Sicilie.
Per marciare su Napoli, il vincitore di Arcole e di Rivoli non chiedeva meno di
altri 24000 soldati e 3500 cavalli, che il Direttorio non poteva dargli; ed anche
per combattere contro la sola Austria, il giovane condottiero sentiva la necessità
di liberarsi il fianco dalla minaccia napolitana: «La pace con Napoli è di assoluta
necessità!».
Alvaro Ruffo sapeva dunque ciò che diceva quando ripeteva instancabilmente il
consiglio di armare. E questo è l'insegnamento che scaturisce dall'episodio delle
velleità di partecipazione all'equilibrio adriatico nutrite più d'un secolo addietro
dalle Due Sicilie. La politica estera del governo borbonico non fu sempre cieca
come l'interna: in quella crisi del 1797 esso comprese che il Regno, massimo
potentato d'Italia, doveva ottenere le sue garanzie ed appagare le sue aspirazioni.
Posto tra la Francia nemica e l'Austria amica, si affidò all'una ed all'altra per far
valere il suo diritto: entrambe gli diedero ragione a parole e con belle promesse:
nessuna le mantenne.
Morale della favola: diritto è nome astratto che solo la forza può tradurre in
concreto.
29 marzo 1916.
Italia e Grecia nelle lettere di Giorgio Byron.
Presentata da una breve prefazione di Giorgio Clemenceau e curata da Giovanni
Delachaume, è apparsa or ora a Parigi la versione francese di una parte
dell'epistolario di Lord Byron. Bene è che queste lettere siano, grazie alla nuova
veste, accessibili anche al gran pubblico che ignora la lingua nella quale furono
composte, perchè la figura dell'autore vi si rivela con quella singolare evidenza
che Ippolito Taine aveva già avvertita. «Il suo diario, il suo epistolario, tutta la
sua prosa involontaria», scriveva del cantore di Childe Harold lo studioso della
Storia della letteratura inglese, «è come fremente di spirito, di collera,
d'entusiasmo; il grido della sensazione vibra nelle minime parole; dopo il Saint-
Simon non si erano più viste confidenze più vive. Tutti gli stili sembrano opachi
e tutte le anime sembrano inerti a paragone del suo stile e dell'anima sua».
Non s'intende, in verità, da quale criterio il Delachaume sia stato guidato nello
scegliere le centosessantacinque lettere di questa raccolta fra le molte centinaia
comprese nella corrispondenza epistolare del poeta; certo, le presenti sono molto
significative; ma altre anche più notevoli erano degne d'essere tradotte.
Comunque, la buona intelligenza del testo, l'eleganza della versione e la molta
conoscenza della biografia byroniana meriterebbero ampie lodi a questa fatica,
se non vi si dovesse lamentare una poco perdonabile ignoranza delle cose nostre.
Come si sa, e come questo volume apprende a chi non ne avesse notizia, il
Byron fu conoscitore amantissimo della lingua, della letteratura e della vita
italiana; in Dante, nel Tasso, in molti altri temi dell'arte e della storia nostra
cercò e trovò l'ispirazione; alla traduzione del Morgante maggiore, «la miglior
cosa ch'io abbia mai fatta», si accinse con gran fervore, «per imporre silenzio
agli Arlecchini d'Inghilterra» che lo accusavano d'irriverenza in materia di
religione, dimostrando loro, col poema del Pulci, «ciò che era permesso in un
paese cattolico ed in una età bigotta». Orbene: il Morgante maggiore, per opera
del Delachaume, muta sesso e diventa La Morgante maggiore.... Ancora:
scrivendo un giorno al suo editore Murray, Giorgio Byron espresse l'opinione
che il Ricciardetto «si sarebbe dovuto tradurre letteralmente, o non tradurre del
tutto»: e il Delachaume annota: «Ricciardetto, poema cavalleresco in 30 canti di
Fonteguerri....» Poniamo che questo sia uno svarione tipografico; c'è dell'altro. Il
Byron, innamorato dell'idioma gentile, «soave latino bastardo che si strugge
come baci in bocca femminea, che fluisce come se si dovesse scriverlo sopra
serica stoffa, con sillabe dalle quali traspira tutta la dolcezza meridionale, con
vocali carezzose, scorrenti e fuse così bene che neanche un solo accento riesce
stridente», il Byron, dunque, con tanto amore per la lingua nostra, adopera
spessissimo, in queste sue lettere familiari, frasi e parole italiane che il
Delachaume lascia accortamente intatte; soltanto, quando vuole riferire ai lettori
francesi il significato di «seccatura», spiega: «Seccatura signifie sécheresse,
stérilité....»
I.
Fatte queste osservazioni al traduttore, qualche altra è da muovere al
presentatore dell'elegante volume. Nella prima pagina del quale il Clemenceau
parla del «romanticismo importuno che vela l'ardente sincerità della vita del
poeta». E certo il romanticismo del Byron può essere giudicato importuno ora
che quello stato d'animo è superato, e che per certi aspetti riesce anche
incomprensibile; ma dire che esso menoma la «sincerità» dello scrittore e
dell'uomo non pare plausibile, quando di quell'arte e di quella vita fu anzi il
segno predominante e l'essenziale carattere. Molte prove si potrebbero addurne,
se oggi che il mondo è tinto di sanguigno, e che il nostro paese si trova
impegnato in tanta guerra, non convenisse restringersi ad una sola: quella che
non distoglierà la nostra attenzione dalla grande tragedia europea nè dalla causa
nazionale italiana, che anzi ad entrambe si riferisce. Perchè, infatti, tra gli altri
atteggiamenti di quel romanticismo del quale il Clemenceau lamenta
l'importunità, ve ne fu anche uno politico, e riuscì tanto opportuno allora, che è
ancora oggi opportunissimo, avendo i romantici dato l'esempio della ribellione
non solamente alla tirannia dei retori classici, ma anche a quella dei despotici
reggitori degli Stati, per propugnare la libertà dei popoli e l'indipendenza delle
nazioni. I problemi allora posti, e più tardi parzialmente risolti, aspettano dal
presente regolamento di conti una soluzione più radicale, ed il Byron, italofilo ed
austrofobo quando la patria nostra era una semplice espressione geografica,
significò questi suoi sentimenti con argomenti degnissimi d'essere ai nostri
giorni riletti e meditati.
Afferma il Clemenceau che se Lord Byron non amò i Francesi, «non si può dire
che avesse maggior simpatia per gli Italiani». Nella prefazione di un volume
dove si riferisce la voce secondo la quale il poeta avrebbe, come i Dogi
veneziani, celebrato le sue nozze con l'onda adriatica, l'affermazione riesce
alquanto stupefacente. Dobbiamo proprio citare tutte le pagine nelle quali lo
scrittore inglese ci significa il suo favore? Tralasciamo i giudizii sulle città
italiane, su Milano «impressionante», su Venezia che è stata, dopo l'Oriente, «la
più verde isola della mia immaginazione» e dove vorrebbe morire, su Roma la
Meravigliosa», che vince «la Grecia, Costantinopoli, tutto, tutto quanto, almeno,
ho visto finora». Si può, infatti, ammirare un paese senza stimarne gli abitanti —
distinzione che il Byron farà in un altro viaggio. Lasciamo anche da parte le lodi
tributate all'Alfieri, al Pindemonte, al Foscolo, ad altri grandi Italiani del suo
tempo, per i quali potrebbe aver fatto altrettante eccezioni. Ma al Moore, che lo
invita in Francia, dichiara: «Mi piacerebbe molto prendere la mia parte del
vostro champagne e del vostro laffitte, ma sono troppo italiano per Parigi», e
soggiunge di lì a poco: «Tutti i miei piaceri e tutti i miei tormenti sono italiani....
Ho vissuto nell'intimità degl'Italiani, sono stato testimonio delle loro speranze,
dei loro timori, delle loro passioni; le ho condivise: pars magna fui....» Si
potrebbe aggiungere dell'altro: basteranno per tutte le quattro righe della lettera
del 28 settembre 1820 al Murray: «Gl'imbecilli che scrivono sull'Italia mi
costringono a dar loro una clamorosa smentita. Parlano degli assassinii; ma che
cosa è l'assassinio, se non l'origine del duello ed una giustizia selvaggia, come
Bacone lo definisce? È la fonte del punto d'onore moderno, là dove le leggi non
possono o non vogliono colpire....». Ecco dunque: nella sua simpatia per la
nostra gente il poeta arrivava a giustificare ciò che altri, non senza qualche
ragione, le rimproverava: la frequenza dei delitti di sangue e la facilità a farsi
giustizia da sè!... Agli occhi degli uomini nordici, nati e cresciuti nella
concezione e nella disciplina protestante, il cattolicismo dei nostri paesi suole
anche riuscire antipatico: e il Byron dichiara invece al suo amico Hoppner, da
Ravenna, di voler educare nella religione cattolica la figliuoletta per la quale ha
trovato nella nostra lingua il nome di Allegra.
Vero è che talvolta egli si lasciò sfuggire qualche nota di biasimo sulla
«rilassatezza» regnante nei costumi italiani a quei tempi; ma, prima di tutto,
l'autore del Don Giovanni perdette il diritto di condannarla, dal momento che se
ne giovò — e riconobbe del resto egli stesso d'averne perduto il diritto —; in
secondo luogo, anche avvertendo la differenza tra la «morale meridionale» e
l'anglo-sassone, egli trovò che se gl'Italiani erano più «appassionati» — e voleva
dire, e disse in un'altra occasione, più «incontinenti» — degl'Inglesi, attribuì a
costoro meno delicatezza e meno «pudore». Ma questo fu ancora più bello e più
degno, da parte sua, e questo merita d'essere oggi ripetuto: che dell'Italia egli
compianse le sciagure e proclamò i diritti e fece sue le ragioni.
II.
Nato nella più alta aristocrazia, orgoglioso del suo nome e del suo titolo, Lord
Byron si venne sottraendo a tutte le concezioni tradizionali nella sua casta e nel
suo paese. «Ho semplificato la mia politica», scrive nel 1813: «essa consiste nel
detestare a morte tutti i governi esistenti». Ammiratore, in un primo tempo, di
Napoleone e di Murat, definisce «trattato di pace e di tirannia» quello che chiude
nel 1814, col trionfo della Coalizione, le guerre della Rivoluzione e dell'Impero.
«Il popolo lombardo-veneto», scrive nel 1818 al Moore, «è forse il più oppresso
d'Europa». Nella primavera del 1820, al nuovo fremito di libertà che corre per la
Penisola, narra al Murray, dalla commossa Ravenna: «Gli affari spagnuoli e
francesi hanno messo gl'Italiani in fermento: troppo a lungo essi sono stati
calpestati. Riescirà uno spettacolo triste ai vostri squisiti viaggiatori» — è
superfluo avvertire l'ironica intonazione di queste parole — «ma non per chi
risiede nel paese e ne desidera naturalmente il risorgimento. Io resterò, se i
cittadini me lo consentiranno, per vedere ciò che avverrà, e forse per fare un giro
con loro in caso di bisogno, come Dugald Dalgetty» — il soldato di ventura di
Walter Scott — «perchè lo spettacolo degli Italiani ricaccianti nelle loro tane i
barbari d'ogni paese sarà il momento più interessante della mia vita. Ho vissuto
abbastanza fra loro da sentirmi affezionato a questa nazione più che ad ogni
altra, ma» — la riserva fu sciaguratamente vera allora e per qualche tempo
ancora — «ma difettano d'unione e di direzione, e dubito che riescano. Tuttavia è
probabile che facciano la prova, e se la faranno sarà per una buona causa.
Nessun Italiano può odiare un Austriaco quanto l'odio io stesso: la razza
austriaca mi pare la più detestabile che si trovi sotto la cappa del cielo, dopo la
inglese....»
Non accade qui fermarsi sulle ragioni che fecero il Byron nemico dei suoi
proprii connazionali, nè distinguere per quanta parte il suo odio contro
l'Inghilterra fosse sincero e giustificato, e per quant'altra ostentato e mentito:
preme ora vedere con quali veementi parole e con quanto animosi proponimenti
egli parla della nostra causa durante la crisi del 1820-21. «Ci batteremo un
poco», scrive al Murray da Ravenna il 31 agosto del 1820, «nel mese entrante, se
gli Unni non traverseranno il Po, ed anche se lo traverseranno. Non posso dire di
più per il momento.... Una volta che si sarà cominciato, ci si batterà da selvaggi,
siatene certo. Il coraggio proviene nel Francese dalla vanità, nel Tedesco dalla
flemma, nel Turco dal fanatismo e dall'oppio, nello Spagnuolo dall'alterigia,
nell'Inglese dalla freddezza, nell'Austriaco dalla testardaggine, nel Russo
dall'insensibilità, ma nell'Italiano dalla collera: vedrete quindi che non
risparmieranno nulla....» Il 21 febbraio 1821, alla notizia dell'avanzata austriaca,
scrive al Murray: «I barbari marciano su Napoli, e se perderanno una sola
battaglia tutta l'Italia insorgerà. Alla prima loro disfatta si ripeterà ciò che
avvenne in Ispagna. Aperte, le lettere? Certo, che sono aperte: ed è questa
appunto la ragione per la quale io spiattello sempre la mia opinione su coteste
canaglie di Tedeschi ed Austriaci: non c'è Italiano che li odii al pari di me, e tutto
quanto potrò fare per liberare l'Italia e la terra intera dalla loro infame
oppressione, sarà fatto con amore (in italiano nel testo)». Il 3 aprile, disanimato
dalle cattive notizie, dichiara al console Hoppner: «Non parlo di politica, perchè
quest'argomento mi sembra disperato finchè si consentirà a coteste canaglie di
tiranneggiare i popoli e di privarli dell'indipendenza». Il 26 dello stesso mese
confessa allo Shelley che «quest'ultima disfatta degli Italiani mi ha totalmente
deluso per molte ragioni generali e private».
Le ragioni generali consistettero nel suo fervore per la libertà, nella sete di
giustizia, nella passione per tutte le nobili cause; le ragioni private furono il
legame contratto con la Guiccioli, l'amicizia che lo stringeva ai parenti di lei e ad
altre famiglie italiane; ma la delusione e la sfiducia che lo invadono hanno una
causa più profonda: dipendono dallo stesso suo temperamento che dà subite ed
alte vampe di entusiasmo troppo rapidamente ridotto in cenere, che lo rende
incapace di proporzionare gli atti agli scopi ed i giudizii ai fatti, e che gli dètta
sentenze scettiche e sarcasmi di discutibile gusto. Ecco: i moti italiani sono falliti
a Napoli, a Palermo, in Piemonte, e la reazione trionfa: un altro che non fosse
come lui tanto pronto alle speranze e alle disperazioni, troverebbe nello stesso
abbattimento nuova forza e nuova fede: egli scrive lì per lì al Moore: «È
impossibile che siate stato più disingannato di me, ed anche tanto ingannato», e
soggiunge una volgarità che sarebbe imperdonabile, se nella stessa lettera non
avesse cominciato con l'affermare che «nè il tempo nè le circostanze muteranno
mai nè il tono delle mie parole nè i miei sentimenti d'indignazione contro la
tirannide trionfante»; se non avesse scritto altrove, nelle pagine del Diario: «Si
dice che i Barbari d'Austria stanno per venire. Lupi! Cani d'inferno! Speriamo
ancora di poter vedere le loro ossa accatastate!...», se non avesse dichiarato:
«Bello morire per l'indipendenza italiana!» e se non avesse aggiunto i fatti alle
parole, aderendo alla Carboneria, armando del suo fanti e cavalieri, animando i
timidi e affrontando egli stesso la sua parte di pericoli.
III.
Scoccata di lì a poco l'ora della resurrezione ellenica, egli si dà tutto a questa
nuova causa. «La Grecia è stata sempre per me ciò che dev'essere per quanti
hanno sentimento e cultura: la terra promessa del valore, delle arti e della libertà:
il tempo che passai in gioventù a viaggiare tra le sue rovine non ha per nulla
scemato l'affezione che porto alla patria degli eroi.» Durante il primo viaggio, a
dire il vero, egli aveva dato un giudizio un poco diverso. «Amo i Greci», aveva
scritto al Drury nel maggio del 1810: «sono ammirevoli furfanti — rascals nel
testo — con tutti i vizii dei Turchi, e senza il loro coraggio....» Nondimeno, egli
corre a patrocinare ardentemente la loro causa. Il 7 luglio 1823 annunzia che
porterà seco laggiù, in denaro e lettere di credito, da otto a novemila sterline;
cinque mesi dopo ha già largito al governo greco duecentomila piastre, «senza
contare i doni complementari alle vedove, agli orfani dei rifugiati ed ai
vagabondi d'ogni sorta»; e intanto ha ordinato al suo banchiere di anticipargli le
rendite del 1824, di vendere anche la casa di Rochdale per poter profondere altre
somme nell'insurrezione e nella guerra, e reclama a gran voce i diritti d'autore sul
Werner perchè, se anche sono poca cosa, con trecento sterline potrò mantenere
cento uomini armati durante tre mesi». Quando ode che i Greci non si battono, o
che si battono male, che «accettano i fucili, ma gettano via le baionette, e sono
molto indisciplinati», si raffredda; ma poi riprende a dare senza
«rincrescimento» il suo denaro, apprendendo che ricominciano a combattere. E
dà qualche cosa di più che il denaro, spende tutta l'attività del corpo e dello
spirito, si accinge ad offrire la vita.
La bellezza della causa affascina l'anima sua di poeta, il risorgimento
dell'ellenismo gli pare davvero capace di rigenerare l'umanità. Nè la poesia lo ha
mai appagato come semplice sentimento, come pura forma: si è anzi dato a
comporre versi in mancanza di meglio, giudicando che la gloria poetica non vale
la pena di essere ambita. «Che cosa è un poeta? Che cosa vale? Che fa?... È un
parolaio....» Andando a morire per la Grecia, egli traduce dunque ancora una
volta l'intenzione in azione, aggiunge l'esempio alla predicazione; ma non
sarebbe quello che è, amante dei contrasti, ricercatore delle antitesi attorno a sè e
dentro di sè, a volta a volta e spesso ad un tempo apatico e appassionato,
misantropo e caritatevole, idealista e cinico, ingenuo ed affettato, se anche
durante questa partita suprema, in cui la posta è la sua stessa esistenza, lo
scetticismo e l'ironia non gli prendessero la mano. «Vi raccomando ancora una
volta di impinguare la mia cassaforte ed i miei crediti, cavando il miglior partito
possibile da tutti i mezzi legali che sono in mio potere; perchè, insomma, val
meglio giocare alle nazioni che scommettere alle corse....»
Conviene soggiungere che anche un motivo esteriore e concreto lo spinge allo
scetticismo: la poca virtù, appunto, della quale la Grecia dà prova. I figli di lei
sono in preda a dissensi che egli si propone di sedare e comporre, sapendo
purtroppo che «nè l'una cosa nè l'altra è agevole....» Da Cefalonia scrive
direttamente ai governanti: «Sono pervenute fino a noi voci di nuove contese:
che dico? di guerra civile! Auguro con tutto il cuore che siano false od esagerate,
perchè non riesco ad immaginare più grave calamità....» Sciaguratamente le voci
sono vere. «Le ultime notizie ci apprendono che non vi sono soltanto dissensi in
Morea, ma che la guerra civile vi regna.... Il colonnello Napier vi narrerà il
recente e specialissimo intervento degli Dei in favore degli Elleni, che sembra
non abbiano nè in terra nè in cielo nemico più temibile della loro discordia
intestina.... Se riuscirò soltanto a riconciliare i due partiti (e muovo cielo e terra a
questo scopo) sarà molto; altrimenti dovremo percorrere la Morea con i Greci
dell'ovest, che sono i più coraggiosi e forti, e tentare l'effetto di consigli fisici se
continueranno a respingere la persuasione morale.»
Queste parole fanno anche oggi pensare. In un'altra lettera al principe
Maurocordato egli scrive: «La Grecia è posta fra tre partiti: o riconquistare la sua
libertà, o assoggettarsi ai sovrani d'Europa, o ridiventare provincia turca. Non c'è
altra scelta fuori di queste tre soluzioni. La guerra civile non servirà ad altro che
a preparare le due ultime. Se la Grecia desidera la stessa sorte della Valacchia e
della Crimea, potrà ottenerla domani; quella dell'Italia, posdomani; ma se vuol
essere veramente libera e indipendente, deve decidersi oggi, o non ne troverà
mai più l'occasione....» Se il poeta potesse vedere ciò che accadde dopo di lui e
ciò che accade ora delle due nazioni allora lottanti per la loro redenzione, non
proporrebbe più il destino dell'Italia alla Grecia come esiziale e schivabile;
potrebbe invece ripetere le parole rivolte con vero senso profetico al Governo
ellenico il 30 novembre del 1823: «Debbo francamente confessare che se non si
ristabilisse l'unione e l'ordine, i Greci perderebbero in gran parte, se non
totalmente, l'aiuto che potrebbero aspettarsi di ricevere dall'estero. E ciò che
peggio è, le grandi potenze europee, delle quali non una sola era nemica della
Grecia, che anzi parevano favorire il suo ordinamento in nazione indipendente,
resterebbero persuase che i Greci sono incapaci di governarsi da sè, e forse
darebbero allora mano a metter fine alle vostre dispute in modo da distruggere le
vostre più brillanti speranze e quelle dei vostri amici....»
25 dicembre 1916.
Il Protocollo della “Giovine Italia„.
La regia Commissione preposta all'edizione nazionale degli Scritti di Giuseppe
Mazzini ha licenziato da qualche tempo, in appendice alle opere edite e inedite
del grande Genovese, il primo volume di un Protocollo della «Giovine Italia»,
del quale, probabilmente per causa della guerra, non si parla quanto e come si
dovrebbe, con poca giustizia, in verità; poichè, se la nuova storia della Patria
richiama oggi tutti i nostri pensieri, non è distrarsi il meditare anche quella di
ieri, dalle cui pagine escono voci di calda esortazione e di severo ammonimento
degnissime d'ascolto nelle circostanze attuali.
I.
Che cosa sia questo Protocollo, una bellissima introduzione al sontuoso volume,
copiosamente e perspicuamente annotato, spiega con molta diligenza. Dopo il
fallimento della spedizione di Savoia e durante gli anni che corsero da
quell'infelice tentativo al 1839, Giuseppe Mazzini patì un turbamento profondo.
«A torto od a ragione», il mal esito era stato a lui addossato; «quanti conosci fra i
migliori», scriveva egli stesso a Nicola Fabrizi, «m'hanno lasciato: ridono di
tutto: mi dicono matto, alcuni — e degli intimi — ambizioso, e per questo ho
operato, dicono, con istrepito. Alcuni coprono il mutamento colla misantropia:
altri collo scetticismo o col Don Giovannismo: altri si contentano di formulare la
impossibilità di fare: altri in fondo vogliono vivere e godere: tutti sono
individualisti, che hanno recitato — in buona fede o no — la parte di poeti, di
patriotti, di entusiasti, finchè hanno sperato di vincere. Quando avranno veduto
che la nostra era una teorica di dovere, che bisognava far della vita una continua
battaglia anche con la certezza di non vincere se non dopo morti, hanno voltato
le spalle.... Da qualche scritto in fuori da me, per ora, non attendete cosa alcuna.
Duole a me il dirlo quanto non puoi credere, perchè la mia vita va via e non vedo
via neppur di morire a mio modo; ma v'illuderei se parlassi altrimenti. Son solo,
sfornito di tutti i mezzi; costretto a lavorare per pane, e nella incredulità che mi
circonda fo molto — non che propagarle di cercare di ridurle ad atto — s'io
serbo intatte le mie credenze».
Ma nell'uomo di pensiero e d'azione, nell'uomo che faceva della vita una
«credenza in azione», la forza della fede doveva presto vincere e fugare i dubbii,
le diffidenze, gli sconforti, e produrre un nuovo, più alto slancio operoso. Per lo
studio della psicologia del Maestro questa crisi è delle più istruttive. Come al
Fabrizi, egli descrive al Melegari l'abbandono nel quale è rimasto, le delusioni
sofferte, la perdita «di ogni senso di vita individuale, d'ogni potenza di gioia,
d'ogni capacità di sentire o sperare un'ombra di felicità»; «ma d'altra parte,»
afferma immediatamente, «lontano dal cadere nella misantropia quanto alle
azioni, mi sento più fermo che mai, più deciso che mai a giovare — se mi
s'affacciassero mezzi — all'Italia futura. Vivrò e morrò, lo spero almeno, per
essa. Sicchè qualunque sfogo io t'accenni sugli uomini e sulle cose d'oggi, non
accusarmi di debolezza, nè di mutamento. Le cose e gli uomini, comunque
m'appaiano, possono oprare sulla mia vita intima e sul mio cuore,
tormentandolo; non mai sulle mie azioni, nè sull'adempimento de' doveri, de'
quali il cenno viene a me da più alta cosa che non è il presente: Dio e il cuore, la
tradizione dell'Umanità e la mia coscienza...». E di lì a poco l'uomo che aveva
negato ogni fiducia «nella generazione vivente in Italia», riprendeva «con
proposito deliberato, incrollabile, quasi feroce, il lavoro della Giovine Italia....
Perchè la Giovine Italia non esiste più? perchè un'Associazione giurata per un
intento gigantesco, giurata ora e sempre, giurata con promessa esplicita di
consacrare pensieri ed azioni a ottenere vittoria o martirio, si è sciolta dopo il
primo tentativo fallito, come se avesse compito la propria missione? Dopo un
primo tentativo fallito, quando noi sul principio c'eravamo levati più su degli
altri, a un'idea religiosa? quando avevamo dichiarato voler fare più di tutte le
associazioni passate? quando avevamo accusato e osato e promesso tanto da
esigere sforzi e costanza da Titani per non meritare la derisione? Or che mai è
mutato? lo Stato d'Italia? la santità dello scopo? la nostra credenza nella potenza
italiana? no: non ha mutato che la nostra credenza nella volontà italiana; bene;
non avrebbe questa ad essere ragione di moltiplicare gli sforzi per farla
nascere?...». E la volontà sua, dell'agitatore, del suscitatore, dell'apostolo, si
tende, s'afforza, ricomincia ad operare, energicamente, magnificamente, «senza
calcolo di tempo nè di riescita».
Il proponimento di ricostituire l'associazione ideata nella fortezza di Savona sul
cadere del 1830 e fondata l'anno appresso in Marsiglia, è ora partecipato, oltre
che al Fabrizi e al Melegari, anche ad altri fidi, tra i quali Giuseppe Lamberti.
Non volendo iniziare una cosa nuova, «ossia una forma nuova», l'esule diffonde
da Londra l'Istruzione generale concepita come quella di dieci anni innanzi,
tranne un accenno alla Giovine Europa sorta nel frattempo a Berna. Come la
prima volta, anche ora il sodalizio sarà composto di Congreghe da istituire nei
varii paesi, dalle quali dipenderanno gli Ordinatori incaricati di reclutare
gl'iniziati. E negli Stati Uniti e nell'America meridionale le sezioni sono
facilmente formate; non così in Francia, dove, per esser convenuti la maggior
parte dei proscritti e degli emigrati del 1821, del '31 e del '33, se si trovano molti
fedeli discepoli del Mazzini, vi sono anche parecchi di coloro che sentono
diversamente da lui, i liberali moderati sul tipo del Mamiani e di Pier Silvestro
Leopardi, i fautori del progresso «omiopatico».
II.
Prima che la sezione parigina avesse vita, fin dal 15 maggio del precedente anno
1840, il Lamberti aveva cominciato a tenere il registro della corrispondenza
epistolare, notandovi, riassumendovi e in buona parte trascrivendovi tutte le
lettere ricevute e spedite Di questo libro pochi avevano notizia, pochissimi
avevano visto l'autografo ed una copia infedele. L'originale, portato in Italia dal
Lamberti al suo ritorno in patria, nel 1848, fu probabilmente da lui donato,
insieme con gran parte delle lettere del Mazzini, all'amica del Maestro, Giuditta
Sidoli; certo è che pervenne agli eredi di lei e che da costoro l'acquistò il Re
Umberto, il quale volle che fosse custodito nella sua privata libreria di Torino.
Sua Maestà Vittorio Emanuele III, quando la Commissione mazziniana deliberò
di pubblicare il prezioso manoscritto, concesse che fosse portato a Roma e
dispose che potesse essere consultato con la maggiore agevolezza. Ora se ne è
pubblicato il primo volume, che comprende il registro del carteggio di due anni e
mezzo, dal 15 maggio 1840 al 26 dicembre 1842. Se le lettere del Mazzini erano
già note, per essere state integralmente raccolte nei volumi dell'Epistolario —
due sole riescono nuove e mancano negli autografi della raccolta Nathan — le
risposte del Lamberti le completano e illuminano. E i sunti delle centinaia di
lettere degli altri ed agli altri — Domenico Barberis, il condannato alla forca
insieme col Mazzini e il Berghini; Federico Campanella, l'attivissimo ordinatore
della Congrega di Marsiglia; Carlo Bianco, capo di quella centrale del Belgio;
Angelo Furci, altro operoso ordinatore; Lorenzo Lesti, esule del '31; Giacomo
Ciani, l'editore che diffondeva da Lugano gli scritti dei patriotti; Felice Foresti, il
liberato dallo Spielberg; Edmo Francia, attivissimo corrispondente livornese che
comunicava al Lamberti le poesie inedite del Giusti più volte pubblicate nel
giornale della Società; Gaetano Moreali, arrestato nel '21 per aver diffuso un
proclama in latino ai soldati ungheresi invitandoli a non combattere contro un
popolo che difendeva la propria libertà, condannato poi a 10 anni di galera dal
Tribunale statario di Rubiera e morto tisico in carcere; Giuseppe Zacheroni,
segretario dell'Assemblea dei Notabili a Bologna nel '31; Pietro Fontana Rava,
condannato nel '21 a vent'anni di ferri, collaboratore del Mazzini nella
ricostituzione della Giovine Italia a Lione; Natale Danesi, ordinatore
dell'Associazione nell'Algeria; Giuseppe Pieri, il futuro complice di Felice
Orsini; Lorenzo Ranco, collaboratore all'Italiano; Giambattista Cuneo, esule in
America, fedelissimo ai principii mazziniani; Gaetano Fedriani, cospiratore in
Genova con Garibaldi nel '34; Teodoro Dallari, compagno di prigionia del
Fabrizi in Modena nel '31 — i sunti di tante centinaia di lettere formano una vera
miniera di preziose notizie. La vita di quei giorni fortunosi vi è risuscitata, con le
sue ansie, le sue speranze, i suoi disinganni. A considerare il corso preso dagli
avvenimenti, si scoprono gli errori della politica, le sviste dell'opinione pubblica.
Una parte dei liberali d'Italia si ripromettevano salute da Massimiliano di
Leuchtenberg, figlio del vicerè Eugenio di Beauharnais, particolarmente dopo il
suo matrimonio con una Granduchessa russa: a Milano si formava una società
appositamente per favorire le rivendicazioni di quel principe! Altri facevano
ancora assegnamento sui Borboni d'Italia e finanche di Spagna. Guglielmo Pepe,
come Adolfo Thiers, voleva creare Re costituzionale di tutta la Penisola il
sovrano delle Due Sicilie; Giacomo Antonini aspettava una discesa spagnuola
sulle coste sicule o napolitane e credeva nell'azione liberale del principe
Leopoldo. Ma gl'Indipendenti di Sicilia chiedevano che la loro isola formasse un
regno a parte, e quindi il Mazzini ricusava loro la cooperazione della Giovine
Italia per il movimento che essi preparavano a Palermo due anni dopo quello
scoppiato in Aquila.... Le sorti della Polonia stavano anch'esse a cuore ai
patriotti, e di esuli polacchi — il Gordaszewski, che aveva preso parte alla
spedizione di Savoia; il Dybowski, ingaggiatosi nella colonna polacca che
doveva concorrere alla seconda spedizione, e divenuto intimo del Mazzini; il
famoso profeta Towianski, per il quale i suoi connazionali erano «impazziti» —
di questi e di altri esuli il Protocollo dà notizie e lettere.
Ma le pagine dove sono riferiti i propositi, i consigli, le intenzioni, le mosse dei
cospiratori italiani, dove sono trascritti e le cifre dei loro magri bilanci, degli
oboli raggranellati per la gran causa o ricavati dalla vendita dell'Apostolato
popolare — il giornale dell'Associazione che costava 5 soldi per chi poteva
spendere, ma che si dava per 3 agli operai — non si possono leggere senza
commozione. Il Mazzini non si contentava questa volta di avere con sè
gl'intellettuali: voleva anche acquistar proseliti nel popolo, scendendo in mezzo
ad esso. «È cosa che non abbiamo mai fatta e che faremo» — e che fece —; e
Giuseppe Lamberti, diligentissimo interprete del Maestro, gli scriveva da Parigi
per dolersi che gli operai italiani fossero «mescolati nel Comunismo», che non
avessero confidenza negli emigrati «aristocratici», che andassero da loro soltanto
quando ne avevano bisogno: per guadagnarli alla causa nazionale, scriveva,
«bisognerebbe esser a contatto con loro nelle lor fucine». Fin da allora c'era chi,
movendo dal santo precetto che gli uomini debbono considerarsi ed amarsi come
fratelli, presumeva che la patria dovesse posporsi al genere umano; ma al
Mazzini, apostolo delle nazionalità, il Lamberti riferiva d'aver predicato:
«Bisogna che siamo Italiani prima d'essere Umanitarii».
Non era possibile conseguire l'Unità, il grande scopo, il supremo dei beni, senza
l'unione, e grave al cuore del Mazzini, increscioso sopra ogni altra cosa, riusciva
il dissidio prodottosi sin dall'inizio, quando uno dei primissimi confidenti ai
quali egli aveva partecipato il proposito di risuscitare la Giovine Italia, lo stesso
Nicola Fabrizi gli si era opposto fino allo scisma. Per l'esule modenese, l'antica
associazione aveva compiuto il proprio ufficio ed era quindi vano e pericoloso
tentare di richiamarla in vita. Essa aveva bensì contribuito a formar l'animo dei
cittadini, ma occorreva ora armarne il braccio; quindi egli proponeva che le forze
liberali militanti si raccogliessero intorno ad una nuova bandiera: quella della
Legione italica. Per il Mazzini, invece, nel quale l'azione non era qualche cosa di
opposto al pensiero, o di diverso da esso, bensì lo stesso «pensiero realizzato»,
questo distinguere fra la mente e la mano, fra la parola e la spada, era voler
fondare una specie di dualismo, «a un dipresso il sistema delle caste indiane,
dove agli uomini d'una era dato esclusivamente il pensiero, all'altra il valor
militare». Ma il Fabrizi insisteva tanto nella sua idea, e tanto si era affezionato
alla Legione, da opporre un rifiuto alla proposta di fonderla con la risorta
Giovine Italia; ostinazione per la quale il Maestro pronunziava contro di lui una
specie d'interdetto e manifestava un «rigore» che parve «troppo» al mite e
conciliante Lamberti.
Sennonchè anche Manfredo Fanti, di risposta all'annunzio della resurrezione
della Giovine Italia, partecipava al Mazzini, dalla Spagna, di essersi legato al
Fabrizi «nella parte esecutiva»; ed un altro esule di cui il Maestro aveva stima,
che giudicava «buono, attivo, giovine anche in illusioni», Francesco Vitali,
scriveva dalla Corsica al Lamberti per dirgli che reputava totalmente finita la
missione della Giovine Italia «tanto come istitutrice che come cospiratrice», cioè
tanto come strumento di propaganda morale che come fucina di forze operose. E
il conte Giuseppe Ricciardi, nonostante la molta devozione al Maestro, pensava
di fondare da canto suo una terza Società, un'Italia novella; senza contare una
Lega lombarda, senza contare i Livellatori: moltiplicazione che il Lamberti
giudicava «rovina grande per l'Italia», e che al Mazzini doleva sommamente,
come quella che poteva seminare «germi di federalismo» e «rompere l'unità». La
parte assegnata alla Giovine Italia consisteva appunto nel «determinare una
Unità di tendenze che promuova quando che sia l'Unità italiana». I dissensi, i
contrasti, le divagazioni, le schermaglie non potevano far altro che giovare ai
nemici: «Pensate che si va addietro terribilmente, che i nostri padroni se ne
giovano a riconciliarsi con atti di clemenza in favor di molti, che l'Austria
conquista più sempre pacificamente influenza, e che siamo infami verso il paese
e verso i nostri giuramenti, se non cerchiamo di uscir di questo stato...»
Ed in Francia la causa nostra era discreditata dai Vendicatori del Popolo: altra
società italiana formata a Nimes da emigrati che millantavano rapporti con la
Giovine Italia, ma che erano invece, tranne alcuni illusi, gente sprovvista di
senso morale, incappata anche nelle maglie della giustizia penale per un ricatto,
a Montpellier, dove l'aula delle Assise echeggiava di tristi accuse contro l'Italia,
«nazione degradata, popolo generalmente vizioso e criminale», la cui
emigrazione portava in Francia «la demoralizzazione, il principio dell'assassinio,
la corruzione della gioventù....» E queste accuse godevano di tanto credito
oltr'Alpe, che quei giornali ricusavano di pubblicare le risposte e le difese
degl'Italiani.... Non c'erano soltanto ricattatori fra i Vendicatori del Popolo:
c'erano anche spie; ma il tradimento più nefando ordito contro la fiducia degli
esuli e del loro Capo doveva esser quello dello sciagurato Partesotti, intorno al
quale il Protocollo, e particolarmente la nutrita appendice, ha pagine che fanno
fremere.
III.
Attraverso tali difficoltà, tali ostacoli e tali insidie si veniva compiendo l'opera
del Mazzini. Bene a ragione Giuseppe Lamberti scriveva sulla prima pagina di
questo suo libro: «Mia corrispondenza della Giovine Italia: documento che
proverà la costanza, gli sforzi, i sacrifizi di Giuseppe Mazzini per far libera, una,
indipendente l'Italia». Se la figura del Maestro vi campeggia in tutto il suo
splendore impareggiabile, anche i discepoli vi appariscono in nuova luce, gli
illustri e gli umili, i celebri e i dimenticati. Come epigrafe di tutta l'opera si
potrebbero mettere in evidenza le stesse parole indirizzate dal Mazzini al suo
fedele segretario il 31 maggio del 1841: «Chi pensa veramente alla felicità e
all'onor della patria, non può trascurare, quantunque minime, quelle cose che
tendono a tale altissimo scopo»; perchè, se pure molte delle notizie che si
attingono da questi fogli appartengono più all'umile cronaca che alla storia
togata, nulla è trascurabile di quanto concerne la laboriosa, indefessa, mirabile
preparazione del Risorgimento. «Se gli sforzi», soggiungeva il Precursore, e
potrebbe soggiungere l'epigrafe, «se gli sforzi che promettiamo fare unitamente a
voi ed a tutti gli altri buoni, otterranno pure, come speriamo, il nobile scopo che
ci siamo proposto, verrà un giorno che la posterità riconoscente avrà in riverenza
i vostri nomi, come quelli a' quali nè lontananza, nè tempo, nè ostacoli, nè
sventure d'ogni maniera hanno potuto mai sterpare dal cuore la santa carità del
proprio paese».
31 gennaio 1917.
Maestri di guerra.
I.
IL PRINCIPE DI LIGNE.
Il Circolo archeologico della città di Ath, nel Belgio, avvicinandosi col dicembre
del 1914 il centenario della morte del principe di Ligne, deliberava, ad onorare la
memoria dell'insigne conterraneo, di ripubblicarne le opere: per cominciare, la
tipografia Sellekaers e Keulener di Bruxelles approntava la nuova edizione delle
Lettres à la marquise de Coigny il 20 aprile di quell'anno, i Prejugés e le
Fantaisies militaires il 20 ed il 29 giugno, ed i Mémoires il 25 luglio — lo stesso
giorno nel quale scadeva la perentoria nota dell'Austria alla Serbia.... Non
occorrono altri discorsi a spiegare l'arresto della ristampa, ed è certo che se le
egrege persone ad essa preposte avessero potuto sospettare il cataclisma dal
quale il loro paese era minacciato, non avrebbero dato la loro attività ad imprese
letterarie.
Tuttavia quei valentuomini debbono essere contenti di avere licenziato i primi
volumi del Ligne, i due di argomento militare segnatamente; perchè, se i
gustosissimi ricordi autobiografici ci mettono dinanzi viva e parlante la singolare
figura del grande scrittore, del gran signore, del grande amatore; se certi suoi
aspetti particolari, e non dei meno caratteristici, sono lumeggiati dal carteggio
con la marchesa di Coigny; i Pregiudizii e le Fantasie militari hanno acquistato,
con la conflagrazione mondiale, nuova freschezza.
I.
Belga di nascita, francese di lingua, di cultura, di spirito, il principe di Ligne
servì la Casa d'Austria. Non fu sua colpa, perchè allora il Belgio apparteneva
agli Absburgo, ed «affinchè non nascano equivoci», il barone di Heusch, tenente
generale nell'esercito del Re Alberto, avverte nella prefazione ai Pregiudizii che
Carlo di Ligne, «servendo l'Austria, serviva il proprio paese». Se tale è il
giudizio dei suoi concittadini posteriormente costituiti in nazione, non sarà
diverso quello degli stranieri; e poi, che cosa importa oramai lo stato di servizio
del principe; anzi, che cosa ne resta? Di lui restano soltanto le opere, e qui egli è
belga, francese, latino di purissimo sangue: per gli scritti d'argomento guerresco
è annoverato tra i massimi scrittori militari di Francia; per le composizioni
letterarie la signora di Staël lo definisce «il solo straniero che, trattando il genere
francese, invece di restare imitatore sia divenuto modello».
Ma si può dire qualche cosa di più: giova dire che servendo l'Austria, compiendo
la sua carriera nell'esercito imperiale, il principe di Ligne non si trovò a suo agio,
e che, senza lo straordinario e irresistibile trasporto per i ludi di Marte, molto
probabilmente egli l'avrebbe troncata anzi tempo. Tale fu la sua vocazione, che
udendo parlare, nei più teneri anni, della morte del Principe Eugenio — altro
straniero al servizio dell'Impero, altra gloria latina e tutta nostra — il bellicoso
fanciullo già si proponeva di prendere il posto dello stratega sabaudo. «Questo,»
dichiara, «fu il primo pensiero di cui io serbi memoria». Il suo secondo ricordo
gli rappresentò la guerra che si combatteva quando egli cominciava ad avere
coscienza di sè, «la guerra,» racconta, «che mi diede alla testa». Ininterrotte
tradizioni militari regnavano nella sua famiglia; il suo nome era portato da un
reggimento di fanteria e da uno di dragoni; i suoi antenati erano stati generali e
marescialli; maresciallo era suo padre quando faceva impegnare un
combattimento d'avanguardia contro i Prussiani per dare al figliuoletto il
battesimo del fuoco, galoppando al suo fianco, tenendolo per mano e dicendogli:
«Sarebbe grazioso, Carlo, se riportassimo insieme una piccola ferita!...» E nulla
potè agguagliare la soddisfazione e l'alterezza che invasero l'animo
dell'adolescente nel partire per quella prima delle sue dodici campagne di guerra.
Accoppiando fin da quei cominciamenti la facoltà e l'esercizio della riflessione
con la voglia e l'impeto dell'azione, egli componeva a quindici anni un Discorso
sulla professione delle armi; e l'uomo a cui, da giovane, le figure di Carlo XII e
del Condé avevano «impedito di dormire», doveva più tardi ammonire i giovani:
«Se i vostri sogni non sono popolati da immagini militari, se non divorate i libri
di guerra, se non baciate le orme impresse dal piede dei vecchi soldati, se non
piangete al racconto delle loro battaglie, spogliate subito la divisa! Guai ai
tepidi! Foste anche del sangue degli eroi, foste anche del sangue degli Dei, se la
Gloria non vi procura un continuo delirio, non vi schierate sotto le bandiere...»
Amando dunque il suo mestiere sopra ogni altra cosa, s'intende come le
delusioni non riuscissero a farglielo abbandonare; ma le delusioni non gli furono
risparmiate, e provennero precisamente dalla incompatibilità mentale e morale
che lo divideva dai supremi reggitori della milizia e della monarchia degli
Absburgo.
L'impossibilità di uniformarsi ai responsi dei Consigli aulici, di chinare la
schiena nelle anticamere della Corte, di compiere le bassezze necessaire a farsi
avanti, lo persuase ad appartarsi: due volte lo andarono a cercare per offrirgli il
comando contro Napoleone Bonaparte; tutt'e due le volte gli anteposero «quattro
invalidi» che si fecero battere uno dopo l'altro, «quattro poveri ignoranti che
avevo avuti sotto i miei ordini ed ai quali, eccettuato il Clerfayt, non avrei
affidato neanche tre battaglioni». Un'altra volta lord Grenville, residente inglese
a Berlino, chiese al primo ministro austriaco, il barone Thugut, di affidare al
Ligne il comando dell'esercito del Reno: la proposta britannica non fu neanche
trasmessa all'Imperatore. Un'altra volta il principe fu invitato dal Re di Sardegna,
con la promessa che sarebbe stato preposto al comando supremo delle forze
piemontesi a condizioni eguali a quelle dell'esercito imperiale: questa volta il
Thugut cominciò col sorridere graziosamente, come sul punto di consentire; ma
poi, tratta una riverenza all'inviato sardo, che era il conte di Castellalfieri, volse
ad altro tema il discorso. Il presuntuoso Cancelliere non poteva perdonare lo
spirito mordace col quale il Ligne aveva fatto ridere di lui, appioppando a quel
parvenu il titolo di Barone della Guerra per l'ostinato rifiuto opposto alle
ragionevoli offerte di accomodamento avanzate dalla Francia, e per contrasto al
titolo di Principe della Pace largito dal Re di Spagna al primo ministro Godoy.
«La sciocchezza e la furberia dei favoriti di Corte, le cattive scelte che hanno
fatte, la negligenza usata verso le brave persone e gli uomini di valore, hanno
distrutto il mio fervore guerresco, che nulla credevo potesse scemare». A Vienna
«l'immaginazione è una pianta tanto esotica, che le tre o quattro persone che ne
posseggono sono pazzi...». Non sarebbe fuor di luogo trascrivere tutti i saporosi
giudizii da lui dati intorno a quel mondo, a quei sistemi ed all'uomo che li
impersonò, se non importasse maggiormente notare le doti proprie dell'autore, la
vivacità dell'immaginazione, appunto, che fece di questo soldato un artista; la
severità del sentimento del dovere e dell'abito della disciplina, che fece di questo
artista un soldato; la capacità di freddamente osservare e di caldamente sentire; il
mirabile equilibrio del cuore e dell'intelletto, della dottrina e dell'ispirazione; la
perfetta fusione di qualità non sempre concordi, anzi, e per disgrazia,
ordinariamente contrastanti.
II.
Così formato dall'eredità, dall'educazione e dalla vita, egli doveva cadere in
discredito come maresciallo austriaco e conseguire l'immortalità come scrittore
militare. Lasciamo stare le sue vedute geniali, le sue invenzioni e le sue
previsioni nel campo strettamente tecnico, capaci d'interessare soltanto i
competenti; ma poniamo in evidenza la singolarità d'un uomo che al tempo nel
quale un buon numero di mercenarii e di stranieri entravano a comporre gli
eserciti, scriveva un libro intorno alla «parte morale del nostro mestiere, che è
dovunque negletta od ignorata»; d'uno scrittore che durante il regno del bastone
asseriva: «La prima disciplina consiste nel regnare sulle anime»; che mentre i
governanti avevano una matta paura delle baionette intelligenti, e gl'istruttori
lavoravano in piazza d'armi a ridurre i soldati all'obbedienza cieca ed al perfetto
automatismo, dimostrava la necessità di suscitare la coscienza di sè e il senso
della responsabilità in quelle macchine. Quale credito poteva ottenere l'originale
che nello Stato e nella casta dove imperava il feticismo delle norme e delle
forme, affermava che un articolo da aggiungere a tutti i regolamenti dovrebbe
dare la facoltà di trasgredirli; che i giovani uscenti dalle scuole debbono
disimparare tutte le inutili cose con tanta fatica cacciate nella mente; che non
occorrono maestri d'armi, bensì maestri d'elevazione, e scuole d'ammirazione,
scuole d'entusiasmo, e scuole — anche — di «disordine»? Non doveva essere
giudicato propriamente eretico e far passare brividi d'orrore per la schiena dei
feld-marschälle pettoruti, compassati e pedanti lo scrittore secondo il quale gli
aiutanti di campo debbono distinguersi, sì, per il coraggio, l'esattezza,
l'intelligenza, ma anche «nel saper modificare l'ordine che portano, se le
circostanze sono modificate....»? Non doveva sembrare un sovvertitore degli
elementari principii della gerarchia e dell'etichetta colui che voleva vedere la
prima severità esercitarsi sui capi supremi: colui che si vantava d'aver fatto
aspettare Imperatori e Imperatrici, ma non un coscritto; che giudicava la società
dei fantaccini «più pura e delicata che non quella delle persone della buona
società»; che assegnava ad ogni ufficiale la missione «d'amico, di confidente, di
consolatore» dei suoi uomini, ed affermava che il colonnello dev'essere «il padre
e la madre del reggimento»?
Quando la psicologia non era ancor di moda negli studii, e tanto meno tra i
ranghi, il principe di Ligne indagò l'anima di quel grande fanciullo che è il
soldato e gli attribuì tutta la dignità che gli compete. Ai soldati pensò che
bisognerebbe deferire, se non si vuol sbagliare, il giudizio intorno ai premii da
largire ed alle punizioni da infliggere ai generali; e la più perfetta eguaglianza
volle che regnasse nell'esercito; ma dall'altra parte, e per giusto compenso, volle
anche che l'ordine concernente una «bagattella» fosse tanto sacro quanto quello
che si riferisce alla battaglia, e che al caporale si portasse tanto rispetto quanto al
generale.
Le idee anticipate dal principe hanno fatto strada, ma non è inutile che i giovani
destinati alla carriera militare le meditino sulle eloquenti pagine dell'autore. Più
utile ancora riuscirà, non solamente ai militari, ma a quanti sentono che la guerra
è una dolorosa necessità e che nella forza consiste, e consisterà finchè l'umana
natura non sarà mutata, la sanzione del diritto; più utile, oggi, ai cittadini cui non
fu dato di poter combattere, ma che seguono con l'ansioso pensiero e con la
fervida speranza i combattenti, riuscirà la lettura delle parole con le quali il
principe di Ligne esalta «il più bello dei flagelli».
Ai predicatori della pace ad ogni costo egli ne dimostra i danni e propone un
formidabile dilemma: «Bisogna scegliere tra l'avere la Pace perchè si è pronti a
fare la Guerra, o avere la Guerra perchè non si è pronti a farla»; e soggiunge
un'altra verità espressa in forma non meno concettosa: «Giunto il primo giorno
della Guerra bisogna pensare alla Pace, e il primo giorno della Pace bisogna
pensare alla Guerra». Ma non perchè è persuaso della fatalità della lotta, non
perchè nutre tanta passione per il suo mestiere da scrivere: «Il mio stupore è che
si possa sopravvivere ad una battaglia, qualunque ne sia l'esito: come non morire
di dolore se è stata perduta, e di gioia se è stata vinta?; non perchè dice: «Una
battaglia è un'ode di Pindaro: bisogna mettervi un entusiasmo che confini col
delirio»; e non per essere nato soldato «come altri nasce pittore, poeta o
musicista»; non perciò Carlo di Ligne si può ascrivere tra quei militaristi di
professione i cui viziosi abiti mentali dànno buon giuoco ai mestieranti del
pacifismo. Altra è la personalità di quest'uomo di cuore, di questo avversario
della pena di morte, di questo sentimentale a cui fu possibile amare tre donne ad
un tempo «con la miglior fede del mondo, poichè non le ingannavo punto:
ingannavo, forse, me stesso...». Se la passione lo acceca in amore fino ad un
certo segno soltanto, gli lascia tutta la sua chiaroveggenza come soldato; e dopo
avere dimostrato i danni delle lunghe paci, l'infiacchirsi dei corpi e delle anime,
il prevalere degli appetiti materiali e degli istinti egoistici; dopo avere esaltato la
necessità della guerra, la bellezza dell'eroismo, la fecondità del sacrifizio, «io
non dirò,» conclude: « — Fate per ciò la guerra; ma se la ragione, la giustizia,
l'onore, l'utilità o la vendetta fanno gridare all'armi! sia allora consentito ai
giovani ufficiali di gioire, ai vecchi di riprendere il cammino della vittoria, alle
fanciulle ed alle spose di ornare di coccarde i loro innamorati ed i loro consorti, e
si vieti alle vecchie ed ai filosofi di trovarci da ridire...». La guerra, senza
dubbio, porta con sè durezze e crudeltà inevitabili; «ma bisogna essere uomini:
essa non è mestiere da filosofi!».
III.
E tanta è la lucidità di questo assertore della guerra, che egli non se ne dissimula
il grande nemico: il prepotente istinto della vita, il sentimento della paura. «Fra
tutti gli animali il più pauroso è l'uomo. È chiaro che la paura ci rende le più
maldestre creature. Consiste essa in una specie di ragionamento che c'impedisce
di fare ciò che i più pigri e tardi animali fanno tutti i giorni. Con un poco di
coraggio, noi salteremmo tanto bene quanto le scimmie, e cadremmo forse da un
terzo piano come i gatti, senza farci male. Si è visto mai la lepre, che non gode
fama d'essere la bestia più animosa, temere il tuono, o la cerva spaventarsi degli
spettri?... Quante brave persone non tremano al pensiero di trovarsi sole in un
bosco durante la notte e la tempesta? A quante il vento non impedisce di
dormire?... E come mai l'uomo non avrebbe paura del fuoco? Ne ha tanta
dell'acqua! È il solo fra tutti gli animali che non sappia nuotare. Non c'è
cinghiale che non ne sia capace, venendo al mondo. Non appena noi vi entriamo,
già si lavora a sgomentarci. Balie, governanti, precettori, frati, parenti: tutti ci
minacciano, tutti ci intimidiscono....»
Contro i deplorevoli effetti di questa congiura egli sostiene l'utilità degli esercizii
fisici ardimentosi, la necessità di una scuola del pericolo, l'immensa efficacia dei
fattori morali. Per quest'uomo pugnace la guerra è fiducia nella forza, volontà di
vincere, tensione della volontà, impetuosità di assalto. «Bisogna ostentare
l'offensiva, anche quando si è costretti, per una moltitudine di circostanze che del
resto non dovrebbero mai avverarsi, a mantenersi sulla difensiva.» E non gli
parlate dei temporeggiatori: Cesare, Alessandro, Annibale, Pirro, Scipione sono i
santi del suo calendario: Fabio non vi ha posto: «la stessa temerità è talvolta
prudenza». La precauzione deve nascondersi, restare tutta interiore; solo
l'audacia ha da manifestarsi. Nulla vi dev'essere d'impossibile; bisogna fare cose
straordinarie sapendo che si possono fare: «Siate certi che un capitano di dragoni
lanciato a briglia sciolta può vincere una battaglia». Per compiere
«passabilmente» il proprio dovere, bisogna compierlo «tre volte»; e ancora: «Per
fare il proprio dovere bisogna fare più del proprio dovere. La gloria è qualche
cosa di tanto raro, che bisogna procacciarsene quanto più si può...».
La guerra d'oggi è diversa da quella d'un tempo, ma non tanto che le parole di
questo maestro non siano da meditare. C'è, sì, qualche foglia secca in questa sua
fiorita; c'è qualche paradosso e qualche sofisma; ma scegliendo di pagina in
pagina si potrebbe comporne un vade-mecum, una Bibbia del soldato; ed egli ha
veramente ragione di dire ai critici che i suoi libri tengono luogo di un'intera
biblioteca, contenendo tutto il succo della scienza delle armi come la fiala
contiene un elisir.
16 luglio 1916.
II.
LAZZARO CARNOT.
Non c'è lettore di giornali francesi, dacchè la guerra divampa, che non si sia
imbattuto più volte nel nome del gran cittadino da cui la prima Repubblica
riconobbe la salvezza ed a cui la gratitudine nazionale conferì il titolo di
Organizzatore della Vittoria. Bene a ragione la Francia, in questi giorni di prove,
rievoca la vita, interroga lo spirito, medita gl'insegnamenti di Lazzaro Carnot;
perchè, sebbene la fama concesse i suoi massimi favori a Napoleone, i posteri
non hanno ancora sentenzialo se quella dell'Imperatore fu gloria vera, mentre
nessun velo d'ombra offusca lo splendore dell'aureola che circonda la figura di
chi ebbe, fra tanti altri meriti, anche quello di riconoscere il valore dell'Uomo
fatale e di favorirne il genio — finchè non diede segni di errore.
I.
Questa «divinazione meravigliosa» — sono parole del Michelet, riferite da Carlo
Mathiot nel suo recente studio Pour vaincre — questa capacità di scoprire e
all'occorrenza di suscitare le capacità dei collaboratori e dei dipendenti, è fra le
primissime doti dei duci e contraddistinse come pochi altri il Direttore di guerra
del Comitato di Salute pubblica. Il suo penetrantissimo sguardo vide nel
comandante d'un battaglione di volontarii provinciali il futuro espugnatore di
Charleroi, il liberatore delle frontiere settentrionali della patria, il vincitore di
Fleurus e di Stockach — il maresciallo di Francia Jourdan — e in un tenentino
delle guardie nazionali il futuro difensore di Dunkerque, il Pacificatore della
Vandea, l'eroe di Wissemburgo e di Neuwied — Lazzaro Hoche. Facoltà
propriamente divinatrice, esercitata talvolta anche contro la volontà degli stessi
prescelti, come nel caso dei Levasseur, che il Carnot destina a soffocare la
ribellione scoppiata nell'esercito del Nord dopo l'arresto del generale Custine.
«La scelta mi onora,» risponde il designato, «ma la fermezza della mano non
basta: occorre l'esperienza, occorre il talento militare: coteste doti essenziali mi
fanno difetto.» — «Noi ti conosciamo,» risponde il Direttore, «e sappiamo
apprezzarti....» — «Ma, in verità, Carnot,» obbietta il rappresentante del popolo,
«anche i mezzi fisici mi mancano. Considera la mia piccola statura, e dimmi
come, con tale aspetto, potrò incutere soggezione a granatieri!...» — «Alexander
Magnus corpore parvus erat.» — «Sì,» insiste ancora l'altro, «ma Alessandro
aveva passato la vita negli accampamenti, e sapeva quindi come si governa lo
spirito dei soldati.» — «Le circostanze formano gli uomini; la fermezza del tuo
carattere e la tua devozione alla Repubblica mi garantiscono....»
In sul finire del 1793 il generale Dugommier è preposto all'assedio di Tolone
caduta in mano degli Inglesi. Due piani d'attacco sono presentati al Comitato:
uno dello stesso comandante delle forze repubblicane, l'altro d'un giovane
capitano suo aiutante, un Côrso dal nome stravagante: un certo Napoleone
Buonaparte. Lazzaro Carnot non dà la preferenza a quello del generale perchè è
del generale, nè mette da parte quello del capitano perchè è del subalterno.
Spiegate le carte topografiche sulla tavola delle adunanze, il Direttore della
guerra dimostra ai colleghi che entrambi i disegni hanno del buono e che bisogna
per conseguenza formarne uno solo, fondendoli: ciascuno dei due strateghi
dirigerà quella parte delle operazioni che ha escogitata. Ma come mai un
semplice capitano avrà tanta autorità di comando? Ed ecco che, seduta stante, il
capitano è promosso capo di battaglione — e, dopo la vittoria, generale di
brigata.
Nè solo all'inizio, ma in tutta la prima fase della prodigiosa carriera Napoleone
deve i buoni successi ai consigli, agli incoraggiamenti, agli aiuti del Carnot.
Quando il vincitore della campagna d'Italia chiede che, per mezzo di onorevoli
trattati, sia scemato il troppo grande numero dei nemici, il diplomatico del
Direttorio, il Reubell, trova ed oppone mille difficoltà, ed è invece il soldato, è lo
stesso Carnot, quello che interviene, improvvisandosi diplomatico, per appagare
le giuste domande del generale. Dopo che la Repubblica è rappacificata col
Piemonte e con le Due Sicilie, il Bonaparte potrebbe essere in grado di volgersi
con tutte le sue forze contro gl'Imperiali per assestar loro il colpo di grazia;
sennonchè, e nonostante l'accorciamento della fronte, egli chiede ancora grossi
rinforzi. Lazzaro Carnot non gli risponde con un rifiuto: dispone anzi le cose in
modo da mandargli, prima che l'Austria s'accorga dei movimenti di truppe sul
Reno e sulla Mosa, non già i quindicimila uomini richiesti, ma trentamila....
Quest'uomo suscita gli eserciti come per virtù di magia. Nel febbraio del 1793 la
Francia possiede poco più di 200000 soldati: ne ha 500000 tre mesi dopo, più di
600000 alla fine dell'anno, più di un milione dopo un altro semestre. Come gli
uomini, così egli moltiplica gli strumenti di guerra: in pochi mesi tutta la nazione
si trasforma in fucina ed officina, accumulando armi, munizioni ed
approvvigionamenti. Mentre il salnitro mancava, ora la sola Parigi ne fornisce
dodici milioni di libbre. «Parigi,» dice l'operatore di cotesti miracoli, «Parigi, già
sede della mollezza e della frivolità, potrà ora gloriarsi del titolo immortale di
arsenale dei popoli liberi.» E il risultato del mirabile sforzo è questo: che mentre
i nemici erano giunti a trenta leghe dalla metropoli, la pace è dettata loro a trenta
leghe da Vienna.
Militarmente, la perizia posseduta da Lazzaro Carnot non è minore della sua
straordinaria facoltà di organamento. Quella nuova strategia e quella nuova
tattica che contraddistinguono il genio di Napoleone, il Carnot le ha prima di lui
pensate e adoprate. «Agire in massa; cercare il punto debole del nemico con una
superiorità tale che la vittoria non possa essere dubbia.... Volete vincere?
Attaccate ogni giorno, mattina e sera.... Attacco continuo, e sempre con forze
preponderanti, colpendo all'improvviso, ora sopra un punto, ora sopra l'altro....
La difensiva ci disonora ed uccide.... Siate attaccanti, sempre attaccanti: c'è un
solo mezzo di trionfare: la vigilanza. Un uomo che veglia è più forte di
centomila che dormono....»
Hondschoote e la liberazione di Dunkerque, Wattignies e la liberazione di
Maubeuge sono glorie sue. A Wattignies, quando il Jourdan, dopo quattro ore di
eroici e vani attacchi frontali al centro e l'indietreggiamento dell'ala sinistra,
propone di battere in ritirata, il Carnot gli risponde una sola parola: «Vigliacco!».
Ma il furore col quale l'offeso sferra, per vendicarsi, due nuove cariche
consecutive, non ha ragione dei cannoni dei Coburgo. Nella notte, il Jourdan
consiglia ancora di rinunziare all'assalto centrale e di rinforzare la pericolante
sinistra. «A coteste modo si perdono le battaglie», afferma Lazzaro Carnot, e
suggerisce invece di richiamare la sinistra per rinforzare la destra. «Se adottiamo
l'opinione del rappresentante del popolo,» dichiara l'altro, «lo avverto che dovrà
sostenerne tutta la responsabilità.» — «Preparazione ed esecuzione: assumo ogni
cosa su me!» risponde il Carnot; e il domani, dati gli ordini, cinta la fascia
tricolore, sfoderata la spada, monta egli stesso all'assalto del formidabile pianoro
e vi arriva sanguinante ma trionfante alla testa dei soldati che intonano la
Marsigliese: «la più bella battaglia della Rivoluzione», giudicherà più tardi il
vincitore di Marengo e di Austerlitz.
Uscito dall'arma del genio, il Carnot precorre i tempi adattando alla nuova guerra
i nuovi ritrovati dell'ingegno umano, e gli stessi uomini. Sua è la prima idea di
speciali truppe alpine: durante la missione nei Pirenei egli propone che si crei,
col nome di «legione delle montagne», un corpo di fanteria leggera addestrata a
manovrare tra le balze e i dirupi. La prima linea telegrafica militare è creata da
lui; a lui è sottoposto il disegno di adoperare le mongolfiere, ancora semplici
oggetti di curiosità e di giuoco, agli usi militari, e con suo decreto il Coutelle è
nominato capitano d'una compagnia d'«aerostieri» e inviato al campo. Per poco
il rappresentante del popolo, Duquesnoy, insospettito alla vista degli inesplicabili
ordigni, non prende l'aeronauta per un agente dei nemici e non lo fa fucilare; lo
stesso Jourdan lo accoglie male, ed occorre che il Carnot scriva: «Il cittadino
Coutelle non è un ciarlatano, è un tecnico dei più stimabili, e l'operazione che
compirà rappresenta il frutto delle speculazioni di scienziati insigni. Preghiamo
il generale di accordargli protezione ed assistenza....». Così, per merito suo, le
vie dell'aria sono battute la prima volta da soldati esploratori: il giorno della
battaglia di Fleurus l'aerostato librato per nove ore sul campo rende ottimi
servigi e gli Austriaci si fanno il segno della croce, giudicandolo opera del
diavolo. Allora il Carnot crea tutta una scuola d'aerostatica militare a Meudon,
dove si iniziano anche gli studii della nuova telegrafia aerea.
Una quindicina d'anni dopo, i fratelli Coessin espongono all'Accademia delle
scienze un loro battello chiamato «nautilo sottomarino» capace appunto, dicono,
di navigare sott'acqua: Lazzaro Carnot, relatore della commissione nominata per
esaminare quell'apparecchio, lo descrive, riferisce i risultati delle esperienze e
conclude — cento anni or sono! — non esservi più dubbio che si possa creare un
sistema di navigazione subacquea «molto rapida e poco costosa....».
II.
Singolari quanto si voglia, questi meriti non raccomanderebbero tuttavia il nome
del Carnot all'ammirazione dei posteri, se non fosse la bellezza e la bontà delle
idee da lui significate. Quest'uomo di guerra che riconobbe nella guerra una
condizione eccezionale e violenta, durante la quale le ordinarie norme della
convivenza civile sono abolite, volle pure, col suo maestro Vauban, che i soldati
procedessero per le vie «meno sanguinose» e che nell'umanità consistesse la loro
prima virtù. Con una sentenza dal suono paradossale, ma animata, come tutti i
paradossi, da un senso di verità, disse che «la guerra è per eccellenza l'arte di
conservare»; infatti: «l'arte di distruggere ne è l'abuso». E le fortezze furono da
lui definite «monumenti di pace», perchè la loro moltiplicazione consente di
scemare il numero dei combattenti e di restituire molti soldati alle arti pacifiche.
Nessun popolo, del resto, dovrebbe lottare a scopo di conquista; tutti debbono
impugnare le armi per difendere la nazione minacciata o la civiltà offesa: «Ogni
guerra giusta, degna del nome, è essenzialmente difensiva». Ed ogni soldato
degno del nome dovrebbe incidere nella memoria e nel cuore le parole di questo
maestro: «Risparmiate ovunque gli oggetti del culto; fate rispettare i tugurii,
gl'infelici, le donne, i bambini, i vecchi: presentatevi come benefattori dei
popoli.... Bisogna far temere il nome francese» — e così dicasi di ogni altro —
«ma non farlo odiare....».
Quanti invocano il regno della giustizia nei rapporti dei popoli non fanno se non
esprimere con altre parole — nè molto diverse — i principii enunziati dal
Carnot. «Le nazioni sono, le une rispetto alle altre, nell'ordine politico, ciò che
gl'individui sono nell'ordine sociale: esse hanno, come questi ultimi, i loro diritti
reciproci, consistenti nell'indipendenza, nella sicurezza all'estero, nell'unità
interna, nell'onore nazionale: beni d'ordine superiore dei quali nessun popolo
potrebbe esser privato se non per violenza, e che ciascun popolo può riacquistare
quando l'occasione se ne offre. Ora la legge naturale vuole che si rispettino
cotesti diritti, che ci si aiuti vicendevolmente a difenderli, finchè i soccorsi ed i
riguardi non pongano a rischio i diritti proprii.... Poichè la sovranità appartiene a
tutti i popoli, non può darsi comunità ed unione fra loro se non in virtù di una
formale e libera transazione: nessuno d'essi ha il diritto d'assoggettar l'altro a
leggi comuni senza il suo espresso consentimento.... Noi abbiamo per principio
che ogni popolo, qualunque sia la esiguità del territorio da lui abitato, è
assolutamente padrone in casa propria, che è eguale in diritto al più grande, e che
nessun altro può legittimamente insidiarne l'indipendenza, tranne che la sua
propria non corra visibilmente pericolo.»
Testimonio ed attore principalissimo d'una delle maggiori crisi che travagliarono
il suo paese e il mondo tutto, egli sperò d'afferrare nella Rivoluzione «il
fantasma della felicità nazionale», credendo possibile d'ottenere «una
Repubblica senza anarchia, una libertà illimitata senza disordine, un sistema
perfetto d'eguaglianza senza fazioni»: l'esperienza lo disingannò «crudelmente»
e gli fece riconoscere che la saggezza è egualmente lontana da tutti gli estremi. Il
massimo della prosperità nazionale consiste fra la libertà assoluta ed il potere
assoluto.... Il miglior governo è quello dove tutto si fa per abito, per educazione,
e non già in forza di precetti sempre variabili: è quello, in una parola, dove i
governanti hanno meno da fare....» E molto probabilmente nel corso di quella
terribile delusione egli concepì la grande verità, umana e non soltanto politica,
che incluse in un'altra delle sue concettose sentenze: «Lo stesso sforzo compiuto
per afferrare la felicità è uno stato violento che spesso la distrugge....».
III.
Non è dunque vero che la guerra, quantunque necessariamente atroce, sia scuola
mortificativa di quanto è più alto e nobile nello spirito umano, se quest'uomo di
guerra potè sollevarsi alle ultime vette della filosofia, quelle dalle quali si
dominano il tempo, gli uomini e l'universo; se potè dire che il savio, «come
cittadino, ferma gli occhi sulla Patria, fa voti per lei, applaudisce alle sue
fortune, partecipa ai suoi trionfi»; ma, «come filosofo, ha già oltrepassato le
barriere che separano gl'imperi, non ha più nemici, è cittadino di tutti i paesi e
contemporaneo di tutte le età....». Il saggio che scriveva queste parole era anche
un poeta di cui restano alcuni delicati componimenti: il Ritorno al casolare, fra i
più espressivi, e il Soliloquio d'un vecchio.
Ma la saggezza filosofica e il sentimento elegiaco non impedirono che il Carnot
seguisse in ogni atto della sua vita i consigli del più esclusivo e geloso amore di
patria. Nel 1789, capitano del genio, legge dinanzi all'Accademia di Digione il
suo Elogio del Vauban: il principe Errico di Prussia, che è fra gli astanti, gliene
fa i più caldi rallegramenti, seguìti dall'offerta di un alto grado nell'esercito
prussiano: egli ricusa. Venticinque anni dopo, nel 1811, comandante di Anversa
assediata, riceve da un altro Prussiano, il conte di Bülow, l'insidiosa proposta di
abbandonare la causa di Napoleone, con la promessa di un'adeguata ricompensa,
egli risponde: «Troppo mi sta a cuore di serbare la stima che mi dimostrate,
perchè non difenda con tutti i mezzi in mio potere il posto onorevole
confidatomi dall'Imperatore dei Francesi....». Pochi giorni dopo Napoleone ha
abdicato, e un altro Francese più accomodante, divenuto, grazie alla malleabilità
della sua tempra, principe ereditario di Svezia — il Bernadotte — ritenta di
indurre il Carnot a rendere Anversa; egli risponde infliggendo una lezione al
transfuga: «Comando questa piazza in nome del governo Francese: esso solo ha
il diritto di fissare il termine del mio ufficio. Allorquando il nuovo regime sarà
definitivamente e incontestabilmente stabilito sulle nuove basi, sarà mia premura
eseguirne gli ordini: determinazione che non può mancare d'essere approvata da
un principe nato Francese, a cui sono ben note le leggi imposte dall'onore....».
Tanto zelo non è alimentato, sia pure indirettamente, sia pure in minima parte,
dalla speranza dei premii. Non ne ha mai ottenuti quanti ne ha meritati; tanto
meno ne ha chiesti. Tornato a Parigi il domani di Wattignies, che è vittoria sua,
egli scrive al comando dell'esercito del Nord per rallegrarsi con esso del glorioso
successo, come se non vi avesse contribuito per nulla. All'inizio del Consolalo è
ancora ministro della guerra ma ha già detto al Côrso ambizioso: «Credo che
soltanto il Bonaparte tornato semplice cittadino possa lasciar vedere il generale
in tutta la sua grandezza». Più tardi soggiunge: «Voi avete da scegliere nella
storia il posto d'un Cromwell o d'un Washington. Se sceglierete male,
precipiterete dall'alto, e un giorno forse si contesterà la vostra stessa gloria
militare....». L'ammonitore, il repubblicano, il Convenzionale che ha votato la
morte del Re, è il solo a votare contro lo stabilimento dell'Impero; ma quando la
maggioranza dei Francesi accetta la nuova forma di governo, egli desiste
dall'opposizione, perchè nelle crisi dello Stato vi può essere per ogni cittadino un
momento d'incertezza sul partito da prendere; si può esitare, o scegliere fra le
diverse opinioni, senza commettere un delitto; ma tosto i più si pronunziano, e
allora, se la minoranza si ostina nell'opposizione, non è altro che una fazione:
principio di giustizia eterna formante l'essenza d'ogni società politica, senza del
quale non c'è più altro che anarchia e guerra intestina nell'intero universo».
In forza di questo principio il cittadino esemplare che lo enunziò fece qualche
cosa di più che desistere dall'opposizione all'Impero. Dopo avere
inflessibilmente respinto, negli anni della prosperità, le seduzioni di Napoleone,
che gli offriva «tutto quanto vorrete, quando vorrete, come vorrete», il giorno
che l'Imperatore è ridotto a lottare disperatamente per salvare la Francia invasa,
il gran patriotta accorre ad offrirgli i suoi servigi. E si contenta del comando di
Anversa; e quando è il momento di compilare il decreto di nomina, scoprono che
quel creatore di quasi tutti i generali francesi, quell'antico Direttore della guerra
e quasi dittatore della nazione, ha soltanto, sull'annuario, il grado di maggiore
del genio, conseguito per anzianità all'uscire dal Comitato di Salute pubblica.... Il
solo oppositore all'Impero è anche, ora che l'Impero rappresenta la Patria e la
stessa Libertà contro il pericolo della restaurazione borbonica imposta dagli
stranieri, il solo che sconsigli a Napoleone di abdicare; ed anche dopo l'ultimo
disastro, anche dopo Waterloo, è il solo che gli suggerisca di resistere, di
rivolgere un proclama al popolo, di chiamare alle armi tutti i cittadini, di
mobilitare la guardia nazionale, di difendere Parigi, di ritirarsi dietro la linea
della Loira. Fouché esclama: «Siete pazzo!». Lazzaro Carnot gli risponde
gettandogli in faccia il giudizio della storia: «E voi siete traditore!...».
10 aprile 1917.
Gli enimmi di Waterloo.
Nell'anno secolare della battaglia che segnò l'ultimo crollo dell'impero
napoleonico, un soldato francese ridottosi da molto tempo a vita di studio per le
ferite riportate in guerra ha pubblicato una nuova storia di Waterloo. Compiuta
nella primavera del 1914, l'opera ponderosa e poderosa fu consegnata ai tipografi
il 3 giugno di quell'anno, due mesi prima della conflagrazione europea: l'autore
ha creduto necessario avvertirlo sin dal frontespizio, quasi a giustificare la
pubblicazione di indagini intorno ad una guerra passata mentre le battaglie
imperversano dall'un capo all'altro del vecchio continente. E il libro suo,
narrando come si decisero un secolo addietro le sorti del mondo, rischierebbe
veramente di passare inosservato oggi che esse si stanno decidendo ancora una
volta, se non fosse che mentre noi abbiamo sete di conoscere quanto avviene sui
campi della gran guerra attuale, mentre non abbiamo quasi altro bisogno,
supreme ragioni di prudenza vietano ai capi degli eserciti e degli Stati di
appagarlo: talchè alla nostra immaginazione distratta da ogni altro oggetto le
stesse narrazioni degli antichi combattimenti offrono un pascolo.
Si potrebbe intanto, e pregiudizialmente, domandare se occorresse proprio
tornare sul tema che da cento anni centinaia di scrittori d'ogni paese hanno
sviscerato. La luce non è fatta, chiara, piena, lampante?... Non è fatta ancora. Il
Lenient, avanti di comporre il suo libro, ha meditato gli altrui, dal primo al
penultimo, che pareva anche definitivo: quello di Arrigo Houssaye. L'ultimo fu
scritto da un Italiano, da un competentissimo Italiano: Alberto Pollio. Noi
possiamo dolerci che lo scrittore francese non ne conosca l'opera, ma non certo
quanto se ne dorrà egli stesso dopo averla cercata; perchè vi troverà, a sostegno
delle idee da lui combattute, argomenti che lo faranno pensare, e meglio ancora
perchè alcuni degli stessi suoi giudizii potrebbero essere egregiamente avvalorati
con quelli espressi dal generale nostro.
Nel suo Waterloo il Pollio, come tutti gli studiosi precedenti, non presume di
spiegare ogni cosa: ammette anzi che molti enimmi sussistono; il Lenient intitola
invece l'opera sua: La solution des énigmes de Waterloo. Vediamo.
I.
La domanda preliminare, la più generale e comprensiva, è questa: come mai un
esercito di 124000 soldati, con 25000 cavalli e 300 cannoni, comandato dal
primo capitano del secolo, forse di tutti i secoli, è in soli quattro giorni disfatto,
distrutto, dissolto?
Gl'idolatri hanno detto che il piano dell'Imperatore era infallibile; Adolfo Thiers
afferma che la fatalità soltanto potè sconvolgerlo. La fatalità ha spalle da regger
some anche più gravi di questa. Ma poichè nessuno l'ha vista ancora in faccia per
chiamarla alla resa dei conti, e poichè il più prepotente bisogno, nelle avversità,
è quello di addossarne a qualcuno la colpa, così anche di Waterloo si sono cercati
e, naturalmente, trovati i capri espiatorii. Tutta una scuola addebita il disastro ai
luogotenenti, o disertori come il Bourmont che passa al nemico con lo Stato
maggiore della sua Divisione all'inizio della campagna, o insolitamente
malaccorti, subitamente intimiditi, straordinariamente inabili, come Ney ai
Quatre-Bras, come Grouchy a Wavre.
Il Lenient dimostra che i traditori non giovarono al nemico, e distrugge le accuse
rovesciate sui marescialli. Si dovrà credere allora ciò che tanti altri hanno
asserito, cioè che la rovina fosse da imputare allo stesso Napoleone, perchè non
era più quello di prima, perchè le grandezze ne avevano indebolita la tempra,
perchè gli anni, i malanni e i rovesci ne avevano offuscata la mente, infiacchita
la volontà, fiaccata la fede?
Neanche questa è l'opinione dell'autore. Egli adduce, al contrario, tutte le prove
dell'energia fisica, della prontezza e dell'acume intellettuale, della gran forza
morale con le quali l'Imperatore compose ed attuò il piano della campagna.
Allora?...
II.
Il primo dei problemi particolari nei quali si risolve il gran problema di Waterloo
è quello del numero. Poteva Napoleone avere una forza maggiore di quella che
adoperò? Egli mosse con 124000 uomini contro Wellington e Blücher, ciascuno
dei quali ne comandava quasi altrettanti: fin dal principio, dunque, la partita si
presentava come troppo disuguale. Con un incredibile intuito profetico
l'Imperatore scriveva al maresciallo Davout: «La più gran disgrazia che
possiamo temere è d'esser troppo deboli al nord e di patirvi sulle prime uno
scacco». Lo scacco sopportato di primo acchito, dopo soli quattro giorni di
campagna, in quei campi settentrionali dove appunto temeva d'esser troppo
debole, fu veramente senza rimedio: terribile lucidità di previsione! Allora,
perchè non correggere la debolezza?
Il Thiers, il Siborne, il Pollio, molti altri dicono che nell'apparecchiarsi alla
guerra Napoleone fece quanto umanamente era possibile. Il Lenient, sulla fede di
ragionamenti e di calcoli, lo nega. Le forze della Francia sarebbero state molto
maggiori se l'Imperatore non avesse esitato tra la difensiva e l'offensiva, se
avesse chiamato più presto le milizie territoriali che avrebbero lasciato
disponibile per la prima linea un più grosso nerbo di truppe. Comunque, alla
difesa del suolo nazionale bastavano i 434000 uomini già raccolti: perchè mai,
dunque, i 178000 dell'esercito di campagna furono ridotti a 124000? Perchè
distrarre dalle pianure del Belgio, dove si decideva la quistione vitale, 54000
soldati e disseminarli sulle altre frontiere? La Coalizione minacciava, è vero,
anche dalla parte del Reno: ma che potevano fare i 46000 uomini di Rapp, di
Suchet e di Lecourbe contro i 500000 del principe di Schwarzenberg? Alberto
Pollio adopera una formula a definire il concetto napoleonico della ripartizione
delle forze: il minimo necessario per le operazioni secondarie, il massimo
disponibile per le principali. Secondo il Lenient si dovrebbe dire invece: le forze
impotenti sono forze inutili. Sui confini della Spagna, del resto, nessuno
minacciava: che stavano dunque a farci gli 8000 soldati del Decaen e del
Clauzel?
La spiegazione proposta dall'autore è tutta psicologica: l'uomo che aveva
riconquistata la Francia con gli ottocento soldati dell'isola d'Elba, che
disprezzava i nemici, che giudicava Wellington «generale di terz'ordine»,
Blücher nient'altro che «un bravo ussaro» e le loro truppe altrettanta «canaglia»,
quest'uomo non credeva di dover fare uno sforzo eccessivo e stimava che
124000 soldati in mano sua valessero il doppio....
Ora, in qual modo li adoperò?
III.
La manovra di Charleroi è ancora levata al cielo come la più sapiente rottura
strategica, e l'attacco come una sorpresa fulminea. Il Lenient dimostra che non vi
fu sorpresa di sorta, che Blücher e Wellington, sei settimane innanzi, si erano
pienamente accordati prevedendo precisamente ciò che Napoleone poteva fare, e
che poi fece. L'idea di sorprenderli, di sgominarli prima di dar battaglia, fu una
presunzione suggerita e alimentata anch'essa dal folle orgoglio. Avanzarsi su
Charleroi per separare i due nemici e quindi avvolgerli e travolgerli uno dopo
l'altro, sarebbe stato possibile se in quel luogo si fosse trovato il nodo concreto
della fronte alleata da rompere; ma Charleroi era soltanto un centro geografico,
come chi dicesse il luogo geometrico del collegamento nemico: l'ala inglese vi
sfiorava appena la prussiana, e un attacco su quel punto poteva tanto meno
essere considerato come rottura strategica, perchè il campo di manovra che
l'Imperatore veniva ad aprirsi sarebbe riuscito del tutto insufficiente. Secondo la
stessa teoria napoleonica, un esercito composto di cinque o sei Corpi e posto tra
due pericoli, deve poter disporre, in ciascuna delle direzioni pericolose, di
almeno tanto spazio quanto ne occorre per due marce. Ora l'esercito del Nord era
appunto composto di sei corpi, e le due direzioni nelle quali si trovavano
gl'Inglesi e i Prussiani erano pericolosissime: esso aveva dunque bisogno d'una
zona di manovra lunga quaranta o cinquanta chilometri — e tra Sombreffe e i
Quatre-Bras ne correvano appena dodici!
Ma veniamo all'esecuzione, ed al primo atto del gran dramma: il passaggio della
Sambra.
Fu passata, infatti, il 15 giugno, e l'esercito, lasciata la riva destra del fiume, ne
tenne l'opposta; ma questo non era il puro e semplice risultato da conseguire:
bisognava anche arrivare dentro un certo tempo ai luoghi designati, distruggendo
quante forze nemiche vi si trovassero. Invece il corpo di Zieten, contro il quale la
superiorità numerica dei Francesi era schiacciante, potè ripiegare come e dove
volle, e il fiume fu passato con molto ritardo. Perchè? Come mai i luogotenenti
dell'Imperatore lasciano i bivacchi due, tre, quattro ore dopo quello prescritta?
Sono incapaci?... Altri generali certo più capaci, come Davout, come Gouvion
Saint-Cyr, sono stati lasciati da Napoleone in disparte per la stessa superba
persuasione di non averne bisogno; ma nè Reille, nè d'Erlon, nè Vandamme sono
inabili o infidi: essi non curano come dovrebbero l'esecuzione degli ordini
perchè l'autocrate, chiuso in sè stesso, ha trascurato di svelare tutto il suo
pensiero, di mostrare quale e quanta è la parte a ciascuno di essi affidata.
E mentre il passaggio del fiume è appena iniziato a mezzogiorno, il duce
supremo scende da cavallo, si fa portare una sedia e vi s'addormenta. Debolezza
della carne? Sì; ma anche cieca fiducia che il sonno gli è consentito, che nulla
egli ha da temere, che a tutto saprà porre riparo.
IV.
L'azione s'inizia. Napoleone col grosso attacca a destra i Prussiani e lancia il I e
il II Corpo a sinistra, contro gl'Inglesi.
Questo è l'enimma di Ney. Ney, il cuor di leone, l'eroe della Moscova, il fedele
Ney che pagherà con la vita l'adesione accordata al reduce dell'Elba, il fulmine di
guerra che tre giorni dopo anticiperà temerariamente le cariche della cavalleria
contro Mont-Saint-Jean e avrà cinque cavalli uccisi sotto di sè, Ney, le brave des
braves, ricevendo l'ordine di slanciarsi «a capofitto» contro Wellington e di
prender posizione oltre il crocevia dei Quatre-Bras, si avanza infatti, il 15; ma,
affrontatosi col nemico, giudica di non potersi impegnare a fondo, e s'arresta; il
16 esita ancora, perde tempo, attacca con una sola parte delle sue forze, non si
spinge oltre il crocevia, non è neppure in grado di concorrere, dalla destra,
all'accerchiamento della sinistra prussiana! Enimma nell'enimma: tutto il corpo
d'esercito di Drouet d'Erlon, posto tra Ney che attacca gl'Inglesi e Napoleone che
attacca i Prussiani, va dall'uno all'altro e torna dall'altro all'uno senza arrivare a
combattere con nessuno dei due!... Chi ha portato a d'Erlon l'ordine scritto con la
matita? Non si sa! Ma Napoleone l'ha veramente scritto? Il Lenient lo nega.
La sua spiegazione del mistero è nuova del tutto. Il fatale andirivieni di Erlon è
dovuto a un ordine contraffatto: un gregario, a fin di bene, in quell'esercito dove
la disciplina lascia troppo a desiderare, dove lo zelo consiglia audacie pazze, ha
falsificato la scrittura del capo. E Ney non ha colpa d'avere esitato. Se mai,
doveva esitare anche più, disobbedire totalmente all'ordine imperiale, arrestarsi
più indietro ancora, rendere così impossibili le marce e contromarce di Erlon e
mettersi in grado di dare una mano a Napoleone contro Blücher. La colpa è tutta
dell'Imperatore, che mentre si propone di separare i due nemici alleati e di
cominciare a distruggerne uno, si divide invece egli stesso, resta con soli 80000
uomini contro i 120000 di Blücher e manda i 47000 di Ney contro Wellington,
pretendendo anche che il maresciallo gliene riservi una parte. Troppo poche se
debbono affrontare tutti i 95000 soldati del duca, le forze di Ney sono troppe se
debbono sostenere soltanto qualche breve zuffa.
E quest'ultima è veramente l'opinione dell'Imperatore: Wellington non potrà
resistere, non riuscirà neanche a concentrarsi, non potrà opporre nessun serio
ostacolo sulla via di Brusselle. Entrare a Brusselle è il sogno del vanaglorioso:
già egli caracolla con l'immaginazione per le vie di quella città.... Un particolare
è caratteristico: Napoleone dà a Ney la cavalleria della Guardia, ma gli dice:
«Non ve ne servite!». La cosa è tanto incredibile che Alberto Pollio ricusa di
crederla. Il Lenient vi trova invece la conferma della sua spiegazione. La
cavalleria è data a Ney per mostra, come uno spauracchio contro i nemici:
basterà che costoro vedano quella forza, perchè si sentano perduti. Questo
concetto l'Imperatore ha di Wellington, del duca di ferro!
Un concetto non molto diverso ha di Blücher: è persuaso che il maresciallo
prussiano, con 120000 uomini sotto il proprio comando, non potrà, non saprà
concentrarne più di 40000 a Ligny. Non contento quindi d'aver distaccato Ney
contro gl'Inglesi, il temerario lascia anche inerte Lobau a Charleroi con tutto un
corpo d'esercito, lo richiama troppo tardi, quando s'accorge che Blücher ha con
sè tanta forza da non lasciarsi schiacciare. Potendo riuscire un trionfo risolutivo,
Ligny è così una mezza vittoria e lascia indecisa la partita tremenda.
V.
Il 17, alla vigilia della giornata suprema, l'Imperatore può scegliere tra due
obbiettivi: o inseguire e finire Blücher, oppure correre addosso agl'Inglesi.
Anche ora, invece, egli presume di poter conseguire i due scopi ad un tempo.
Illudendosi che Blücher sia stremato, crede che basti Grouchy ad annientarlo;
38000 Francesi in tutto, contro più di 100000 Prussiani! Egli stesso con i 60000
soldati che gli rimangono, stima di poter opprimere i 95000 di Wellington.
La giornata fatale già spunta. Napoleone ha inoltrato tutte le sue forze verso
Brusselle, in unica colonna, senza tentare un attacco di fianco, senza accennare
ad una mossa avvolgente. Scorgendo Wellington fermo sul pianoro di Mont-
Saint-Jean, lo giudica perduto — «il tempo di far colazione!» — e non si accorge
che l'Inglese, certo dell'arrivo dei Prussiani, si stima intanto sicuro, nel campo
precedentemente scelto e studiato, come dentro una piazzaforte. I Prussiani,
secondo l'Imperatore, non possono, non debbono arrivare: Grouchy è stato da lui
spedito appunto per attraversare loro la via. Ma il maresciallo ha pure un'altra
missione: sostenere la destra del generalissimo. È ancora il presuntuoso sistema
di voler raggiungere due scopi ad un tratto — con l'aggravante che questa volta il
duplice ufficio non è assunto da Napoleone in persona, ma affidato a un povero
di spirito come Grouchy! Soult, la sera innanzi, ha dimostrato la necessità di
richiamarlo: il despota gli ha brutalmente ordinato di tacere, salvo a ricredersi,
più tardi — troppo tardi.
E Grouchy non arriva, non arriverà, non potrà mai arrivare; e invece i Prussiani
spuntano all'orizzonte mezz'ora dopo l'inizio della battaglia! Anche ora, nell'ora
estrema, invece di tenere le sue forze indissolubilmente unite per disfare
gl'Inglesi prima che i suoi alleati siano in linea, Napoleone si divide un'altra
volta, manda contro il pericolo ancora lontano tutto il VI Corpo e due intere
divisioni di cavalleria!
Qui spunta un altro enimma: l'impiego dell'artiglieria. Gl'Inglesi dispongono di
177 pezzi, Napoleone di 266: l'enorme vantaggio resta infruttuoso. È vero che il
campo di battaglia è stato trasformato dal temporale della notte in una
pozzanghera; ma il principio dell'attacco è ritardato sino alle undici e mezzo
appunto per dar tempo al terreno di asciugarsi. Non è asciutto abbastanza? Ma
allora come mai Wellington può far manovrare i suoi cannoni e Blücher farli
arrivare da tanto lontano?... L'artiglieria può essere, è adoperata anche dai
Francesi; male, però, insufficientemente, nè alle ore nè dalle posizioni
opportune. Tutto un corpo d'esercito si logora contro la bicocca di Hougoumont
presidiata da neanche due migliaia di nemici, quando qualche batteria ne avrebbe
avuto rapidamente ragione. Espugnata a costo di sacrifizii enormi, l'altra fattoria
della Haye-Sainte è difesa da batterie di cui le batterie inglesi spengono i fuochi.
Napoleone, ufficiale d'artiglieria, vincitore di cento battaglie grazie al
sapientissimo impiego dell'artiglieria, non se ne serve per guadagnare l'ultima
posta!
Distrazione? Inquietudine? Smarrimento? Impotenza? No: parossismo
dell'orgoglio presuntuoso, ancora e sempre. «Che bisogno ha dei cannoni? Non
c'è che lui, il suo pensiero, il suo sogno, la sua illusione....»
VI.
Ora, spinta a tal segno, la tesi del Lenient, in buona parte evidente e plausibile,
non persuade più. Una presunzione che si astrae talmente dalla realtà potrebbe
essere segno di quelle amnesie, di quelle aberrazioni, di quella involuzione e
degenerazione mentale che l'autore nega risolutamente.
Piace rammentare che egli stesso ha scritto: «Nei problemi complicati bisogna
diffidare delle soluzioni troppo semplici». Spiegare ogni cosa con l'accecamento
dell'orgoglio è veramente una troppo grande semplificazione. In flagrante
iattanza, da un'altra parte, non sorprendiamo anche Blücher quando scrive alla
moglie: «Con i miei 120000 Prussiani assumerei di prender Tripoli, Tunisi e
Algeri, se non ci fosse di mezzo il mare»? Blücher riuscì, Napoleone fu vinto; si
dovrà giudicare sulla fede dell'esito?... Napoleone si divise dinanzi al nemico:
ma non si divise anche Wellington, distaccando ad Hall 20000 uomini che vi
restarono inerti, mentre egli poteva esser travolto a Mont-Saint-Jean? Non fu
travolto: diremo che ebbe ragione? Chiameremo errore — dice Alberto Pollio —
ciò che non riesce?...
L'errore proprio del Lenient consiste nell'aver voluto sciogliere tutti gli enimmi
con una sola chiave. Il suo libro incatena l'attenzione del lettore anche digiuno di
scienza militare, ma ansioso, oggi, di conoscere come si vince, avido di trovare
nella lezione del passato la rivelazione dell'avvenire. Waterloo è l'effetto di un
formidabile intrico di cause prossime e remote, particolari e generali, militari e
politiche, fisiche e psichiche, materiali e morali. Quando si sono enumerate tutte,
resta ancora il quid obscurum vittorughiano: quid obscurum, quid divinum. «Era
possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perchè?
Per Wellington? Per Blücher? No. A cagione di Dio....»
Questa è la soluzione del poeta. Il Lenient si duole perchè sul campo della pugna
eternamente memorabile fu eretto «un modesto monumento di due o tre metri in
onore della Grande Armée, e un'interminabile colonna alla gloria di Victor
Hugo». Lasciamo il metro, inadatto a paragonare le altezze morali. I soldati
diedero il sangue e la vita: il poeta, narrando ai secoli le loro gesta, proferì una
grande parola.
8 gennaio 1916.
Thiers, Bismarck e la guerra.
La signorina Dosne, proprietaria delle carte di Adolfo Thiers, ne fece a sua volta
erede il Governo francese, col solo patto che non fossero rese pubbliche prima
d'un certo tempo. Il caso ha voluto che la scadenza del termine da lei assegnato
coincidesse con la guerra, e che le lettere del Thiers e di altri a lui intorno al
conflitto franco-prussiano del 1870-71 apparissero mentre i due popoli, a
distanza di circa mezzo secolo, si affrontano ancora una volta. La lettura di
questi documenti offre molto interesse, poichè dagli avvenimenti di allora gli
odierni in gran parte dipendono.
I.
La giornata «terribile», la scena «diabolica» del 15 luglio 1870, quando Emilio
Ollivier partecipò al Corpo Legislativo la dichiarazione di guerra alla Prussia, è
narrata con senso divinatorio dal Thiers, il solo che avesse tanto coraggio civile
da tentare di opporsi alla «follia criminale» del governo napoleonico e della
maggioranza parlamentare. Come tutti gli altri patriotti francesi, meglio che gli
altri, l'insigne storico e statista sapeva quale errore fosse stato lasciare
stravincere la Prussia dal 1864 al '66; come e più che gli altri, egli voleva fare il
possibile per evitare la minaccia gravante sul suo paese; ma si ribellò
sdegnosamente «vedendo i miserabili che nel 1866 non vollero impedire il male
all'origine, voler ora precipitarne le conseguenze, a rischio di renderle
decisamente mortali» — sono parole scritte quarantotto ore dopo la seduta. Per
correggere l'errore antico bisognava aspettare il giorno propizio; questo giorno
sarebbe stato quello «in cui la Prussia avrebbe ripreso il corso delle sue
usurpazioni» «Allora», scrive Adolfo Thiers al Duvergier de Hauranne, i
Tedeschi del Sud, invasi da lei, si sarebbero gettati nelle nostre braccia, l'Austria
non avrebbe potuto neanch'essa esitare, e l'Inghilterra sarebbe stata moralmente
insieme con noi. In queste condizioni, con l'esercito tenuto in assetto, si sarebbe
forse potuto rifare l'antica Confederazione germanica, o prendere sul Reno
qualche pegno territoriale. Ma qualunque guerra, prima che la Prussia avesse
commesso una nuova usurpazione materiale, mi sembrava una pazzia.» Ed al
Rémusat, un altro dei pochi rimasti capaci di freddamente ragionare: «Voi avete
indovinato. Le cause della guerra sono delle più meschine. La rivincita contro la
Prussia, per offrire probabilità favorevoli, doveva essere differita. Poichè la
Prussia non poteva proseguire l'opera sua, tante volte ostentata, senza mettere la
mano sugli Stati del Sud della Germania, bisognava aspettare quel giorno, e
allora avremmo avuto dalla nostra una buona metà dei Tedeschi, più l'Austria,
costretta a pronunziarsi, più l'Inghilterra che non avrebbe tollerato nuove
usurpazioni prussiane, o che, se anche non avesse partecipato alla guerra con
noi, sarebbe rimasta neutrale, benevola, capace per conseguenza di trattenere la
Russia. Quello sarebbe stato il momento dell'azione. Fino a quell'ora bisognava
contentarsi di comporre nel miglior modo possibile gl'incidenti quotidiani, senza
mettersi dalla parte del torto nel caso che una rottura fosse divenuta
inevitabile....».
Opporsi alla candidatura di un Hohenzollern al trono di Spagna era dunque
legittimo, ma non si doveva forzare la nota. Quantunque il Governo francese
avesse ecceduto nel tono della protesta, il rimedio era ancora possibile.
Bisognava appagarsi d'infliggere alla Prussia un grosso scacco diplomatico. «Se
pretenderete di più», aveva detto il Thiers ai ministri, «l'amor proprio entrerà in
giuoco, e allora la guerra sarà inevitabile. Essa potrà andar male, nonostante il
valore dell'esercito nostro, e non bisogna correre il rischio. Bisogna porre da
parte il desiderio di disfare ciò che fu compiuto a Sadowa; bisogna aspettare il
giorno delle future e immancabili usurpazioni prussiane.... Mi si rispose che
avevo ragione, ma che disgraziatamente non credevano possibile ottenere il
sacrifizio della candidatura Hohenzollern. Replicai che si sarebbe ottenuto, ma
che bisognava contentarsene....».
Fu ottenuto, infatti, come egli assicurava; ma, sciaguratamente, come egli stesso
temeva, non bastò. Il dispaccio spagnuolo annunziante la rinunzia del Principe
prussiano produsse un tripudio di gioia nell'Ollivier, ma non valse a soddisfare
gli ultrabonapartisti, cui non importava affrontare la guerra, che volevano anzi
affrontarla, sperando di affermare, con una segnalata vittoria sul nemico di fuori,
il regime imperiale minacciato e minato dagl'interni avversarii. «A capo di
cotesto partito si trovava il maresciallo Leboeuf, brav'uomo, soldato eccellente,
ma ebbro d'ambizione e politico molto leggero. Tutti i bonapartisti si sono messi
dietro di lui ed hanno fatto risonare il Gabinetto di grida furenti. Resta a sapere
se l'Imperatore è stato più trascinato che non trascinasse. Fatto sta che i pacifici,
formanti la maggioranza e guidati dallo stesso Ollivier, si sono lasciati intimidire
ed hanno stabilito di chiedere al Re di Prussia l'impegno personale (che la
candidatura del congiunto non sarebbe stata ripresentata), con lo scopo,
apertamente dichiarato, di umiliarlo. Ho visto i ministri dopo il funesto
Consiglio tenuto martedì, 12 luglio. Ho detto loro che avevano commesso un
grave errore non dichiarandosi soddisfatti, e che la guerra tornava ad esser
possibile. Mi hanno solennemente giurato che sarebbero stati prudenti, cioè poco
esigenti. Nel frattempo ho fatto una vera campagna presso i deputati del Centro.
Cento, a dir poco, mi hanno dichiarato che, se davo loro il segno della pace,
m'avrebbero seguìto. Un buon numero di costoro sono venuti a dirmi: —
Prendete il potere: siamo in duecento pronti a sostenervi; non si può lasciare il
Governo in quelle mani....».
Ma egli ricusa di mettersi avanti, di appagare ambizioni ed appetiti; insiste
invece perchè si faccia consistere soltanto nella pace lo scopo essenziale da
raggiungere. «Non ho udito una sola obbiezione, salvo tra i bonapartisti, che del
resto io non frequentavo. Il mercoledì, 13, si sono rimandate le ultime
spiegazioni a venerdì, 15. Ho visto e rivisto i ministri, e parecchi mi hanno
dichiarato che si sarebbero dimessi piuttosto che assumere la responsabilità della
guerra. Plichon, Chevandier, me lo hanno promesso....».
II.
Disgraziatamente, se i bonapartisti, in Francia, volevano venire ai ferri corti, i
bismarchiani se ne struggevano in Prussia, e come i Francesi si erano môrse le
mani vedendo sfumare, col ritiro della candidatura tedesca, l'occasione
desiderata, ed avevano perciò avanzata l'eccessiva e pericolosa pretesa che il Re
Guglielmo s'impegnasse personalmente a non permettere che mai più si
riparlasse del suo parente, così il conte di Bismarck, leggendo la nota redatta per
ordine del suo sovrano dal consigliere segreto Abeken, con la quale la risposta
negativa era distesamente e serenamente riferita, pensò di «abbreviarla» in
modo che sonasse «come una fanfara di risposta a una sfida....».
Il Thiers non poteva allora conoscere questo particolare, svelato molti anni dopo
dallo stesso Bismarck; ma neanche nella secca forma datagli dal ministro
prussiano il dispaccio di Ems parve allo statista francese quell'«oltraggio» che
vollero trovarvi in Francia. «Buoni cittadini avrebbero attenuato la cosa, si
sarebbero rivolti all'Inghilterra perchè la accomodasse, e avrebbero così
preservata la pace. Ma i signori ministri vi hanno veduto un motivo di mettersi
col partito della guerra senza troppo disonorarsi, e di restare quindi nel Gabinetto
dal quale si sentivano sul punto di uscire.... Quando, in mezzo ad un'ansietà
inaudita, il manifesto è stato letto, una specie di stupore si è impadronito della
Camera. I Centri hanno fatto come i ministri, si sono serviti di questo mezzo per
non guastarsi col potere, e i ministri per restar tali, i ministeriali per continuare
ad essere ministeriali, hanno gettato il paese ed il mondo in una guerra
spaventosa. La stessa Sinistra, solitamente tanto coraggiosa, era sorpresa e
paralizzata, quando io mi sono alzato con uno scatto infrenabile. E allora tutti i
furori del bonapartismo si sono scagliati su me.... Cinquanta energumeni mi
mostravano il pugno, m'ingiuriavano, dicevano che insozzavo i miei capelli
bianchi....»
L'ansia del Thiers era tanto più grande perchè, antivedendo purtroppo la
sconfitta, neanche la certezza della vittoria sarebbe valsa a rassicurarlo: la guerra
fortunata avrebbe anzi afforzato il partito bonapartista, nemico delle pubbliche
franchige, fautore e autore di dispotismo. «Questo avvenimento che ci costerà o
la libertà o la grandezza, m'ha spezzato il cuore.... Per quelli dei nostri militari
che sono liberali, quale dolore, combattendo per la nostra terra, all'idea che non
vinceranno se non a spese della nostra libertà!...» Ma nel terribile frangente la
condotta, non solo dei soldati, bensì di tutti i cittadini, era nettamente segnata:
«Il dovere non è equivoco: bisogna fare di tutto per vincere, e se fossi soldato
darei francamente la vita per questa causa....».
Non dovendo e non potendo combattere, egli fece tutto quanto la patria gli
chiese; e non fu poco: a cominciare dalla penosa peregrinazione attraverso le
metropoli europee in cerca di aiuto. Qui consiste il maggiore interesse dei
documenti venuti ora in luce, per le profezie che vi si trovano, talvolta un poco
involute ed incerte, talaltra singolarmente precise, intorno alle conseguenze
dell'incontrastato trionfo tedesco e della profonda umiliazione francese.
III.
Il Mignet scrive al Thiers, a Londra: «Gli augurii e i consentimenti continuano a
seguirti nella tua patriottica missione. Così possa riuscire, per l'onore e l'interesse
delle grandi Potenze europee, non meno che per il sollievo e l'integrità della
Francia, abbandonata ad un'invasione che resta ora senza fondato motivo da
parte d'una Potenza oggi soltanto conquistatrice. L'Inghilterra, la Russia e
l'Austria hanno eguale interesse ad opporsi alla devastazione, alla rovina, alla
menomazione territoriale della Francia. Il mantenimento dell'equilibrio europeo
importa ad esse in egual grado. L'unità della Germania sotto la Prussia, divenuta
certa, in fatto, grazie alla guerra, e destinata a compiersi, in diritto, dopo la pace,
renderà l'orgogliosa e bellicosa Prussia preponderante sul continente. Se la si
lasciasse tendere ad ingrandirsi con annessioni a spese nostre, presto o tardi,
quando l'occasione favorevole si presentasse, essa sarebbe disposta a riunire al
futuro e inevitabile impero germanico i Tedeschi delle province austriache e
quelli delle province russe del Baltico. Tollerare che soddisfi la propria
ambizione a spese della Francia, importa esporsi al pericolo che la sua
ambizione si rivolti contro l'Austria e contro la Russia. Se non le s'impedisce
d'essere invadente oggi, la si renderà pericolosa per tutto il mondo in un
avvenire immancabile....».
Ma il Thiers non raccoglie altro che delusioni. Il Tissot, incaricato d'affari a
Londra, gli scrive il 14 ottobre, a Firenze: «La situazione è qui press'a poco
quale l'avete lasciata. Il Governo inglese continua a chiudersi nel proponimento
dell'astensione e persiste nel non voler intervenire se non quando gli sarà provato
che la sua mediazione avrà qualche probabilità di riuscita». E il 12 novembre,
notando le simpatie dell'opinione pubblica e riferendo le promesse di Lord
Grenville: «In fondo a queste simpatie che l'Inghilterra ci dimostra, c'è senza
dubbio il sentimento molto egoista dei pericoli che la minacciano; ma non
importa: l'essenziale è che essa comprenda oggi questi pericoli da lei tanto
lungamente negati. L'arroganza teutonica vi ha contribuito più ancora, forse, che
i nostri disastri. La stampa germanica già reclama Heligoland come chiave del
Mare del Nord. Quanto all'Olanda, essa sarà chiamata a far parte del Zollverein,
aspettando che occupi, di buona o mala voglia, il posto che già le è assegnato
nella Confederazione tedesca. Tali sono le conseguenze prossime, ed altre se ne
intravedono in un avvenire più o meno lontano. Tutto ciò — mi diceva ieri il
signor Otway, sottosegretario agli affari esteri — finirà con una coalizione
europea contro la Germania....».
Meno fortunati ancora dovevano riuscire i tentativi compiuti dal Thiers presso il
governo russo. Il marchese di Gabriac, incaricato d'affari francese a Pietroburgo,
gli scrive di lì, dopo la sua partenza: «Il partito tedesco, in minoranza nel paese,
ma forte quanto sapete, ha sfruttato presso l'Imperatore la notizia delle scene di
disordine avvenute in Francia, segnatamente a Marsiglia ed in una parte del
Mezzogiorno. Si sono distesamente riferite nei giornali le tristi scene dell'Hôtel
de Ville. Dall'altra parte la capitolazione di Metz ci ha naturalmente nociuto
molto come effetto morale, e, militarmente parlando, se ne è concluso che, non
avendo più esercito regolare da opporre al nemico, la nostra resistenza non è più
se non un atto d'inutile ostinazione....». Dopo aver notato alcuni sintomi di
migliori disposizioni alla notizia dei nobili sforzi della Difesa nazionale, ed
accennato allo scambio di note delle grandi Potenze, il Gabriac osserva: «Se la
guerra durerà ancora a lungo, mi sembra probabile che non vi sarà altra politica
tranne quella delle cupidige individuali, con appena qualche intermezzo. Del
resto sarà la stessa che è moralmente prevalsa dopo lo schiacciamento della
Danimarca e di cui noi portiamo oggi la pena, senza speranza di risollevarci
interamente, finchè le due grandi nuove agglomerazioni uscite da questo
disordine, il germanesimo e lo slavismo, si urtino in una lotta suprema da cui
spero che saremo tanto abili per fare nuovamente uscire il regno della giustizia e
del buon senso....».
E la Russia disse pure una buona parola; il Cancelliere dello Zar consentì che il
Gabriac partecipasse a Giulio Favre, ministro degli affari esteri della Repubblica,
che «il desiderio della Russia di vedere risparmiate alla Francia le cessioni
territoriali non era ignoto a Berlino». Ma poi, con la totale distruzione delle forze
militari francesi, il ministro moscovita tenne tutt'altro linguaggio: ogni Potenza,
fece osservare al Gabriac, ha dovuto compiere sacrifizii in seguito a guerre
disgraziate....
IV.
Il Thiers e il Favre sostennero sforzi sovrumani durante le trattative della pace.
«Ci trovavamo», narra il primo al duca di Broglie, ambasciatore a Londra, «nella
posizione d'un esercito ridotto ad arrendersi a discrezione, cioè nell'impossibilità
di resistere. Ho resistito nondimeno, e talvolta con violenza. Volevano portarci
via tre quarti della Lorena (l'Alsazia era già sacrificata): ne abbiamo serbato i
quattro quinti: ma abbiamo perduto Metz. Bisognava scegliere tra Metz e
Belfort. Volevano togliercele entrambe. Io ho rivolto i miei sforzi su Belfort,
perchè Metz non chiude nulla, mentre Belfort sbarra la frontiera dell'est, e
particolarmente quella della Germania meridionale. La lotta è durata nove ore.
Finalmente ho salvato Belfort....»
Ma c'era ancora la quistione finanziaria, quell'indennità di cinque miliardi, il cui
annunzio, secondo riferiva il Broglie al Thiers, aveva prodotto in Londra un
«vero scandalo». «Il pubblico inglese», soggiungeva l'ambasciatore, «si sente
toccato nel vivo. Esso sa che sarà lui quello che, di buona o mala voglia, pagherà
i cinque miliardi, o almeno il più grosso boccone dell'enorme bottino. La
richiesta di capitali e di numerario che saremo costretti a rivolgere a tutti i
mercati del mondo, ed all'inglese particolarmente, che è il primo, lo turba
straordinariamente. Il pensiero che questo capitale, di cui i tralasciati lavori della
pace aspettavano impazientemente l'impiego, è sul punto di essergli sottratto per
ficcarsi nel tesoro di guerra d'un esercito ancora conquistatore, l'irrita e lo
sdegna.... La City è come un formicaio su cui la Prussia ha posto il piede....»
Ma forse l'immagine era più bella che fedele, o le formiche si sentirono
impotenti contro il piede; perchè, ad eccezione d'un tentativo compiuto in
extremis, «veramente molto insignificante e tardivo, per aiutarci ad ottenere la
riduzione d'un miliardo» — sono parole del Broglie — e ad eccezione
dell'offerta di favorire l'emissione del prestito, l'Inghilterra non seppe far nulla
per moderare le pretese del vincitore. «Si può dunque dire», conclude
amaramente il Thiers, «che, avendoci abbandonati, l'Europa è il vero autore del
trattato che abbiamo firmato; trattato tanto crudele per lei quanto per noi, poichè
i miliardi che dalla nostra cassa passeranno in quella prussiana saranno
altrettante forze tolte all'Europa e portate al dispotismo germanico che si
prepara....»
Sarebbe riuscito veramente difficile far intendere alla Prussia il linguaggio della
moderazione, se le grandi Potenze avessero voluto veramente, fermamente
tenerlo? La discrezione nella vittoria era stata la legge che il Bismarck si era
imposta, e che aveva imposta agli stessi militari ed al Re, nel 1866. Se qualcuno
l'avesse imposta a lui nel 1871, egli si sarebbe risparmiato l'ammonimento che,
perduto il potere, rivolgeva ai suoi successori, e del quale Gabriele Hanotaux ha
pur ora avvertito il profetico senso: «Il mio timore è che, sulla via per la quale
siamo posti, il nostro avvenire resti sacrificato ai mutevoli umori del giorno.... Il
nostro prestigio e la nostra sicurezza si affermeranno tanto più durevolmente,
quanto più nelle contese che non ci toccano direttamente ci terremo da parte, e
quanto più saremo insensibili ad ogni tentativo di solleticare e sfruttare la nostra
vanità.... La Germania commetterebbe anche oggi un grosso sproposito, se nella
quistione orientale, e senza avervi un interesse proprio, volesse prendere partito
prima delle altre Potenze più interessate di lei.... Essa è forse la sola grande
Potenza d'Europa che sia meno tentata da fini raggiungibili solo mediante guerre
vittoriose. Il nostro interesse è quello di conservare la pace.... A questa
situazione dobbiamo conformare la nostra politica: impedire cioè quanto più è
possibile o limitare la guerra: non lasciarci forzar la mano nel giuoco di carte
europee, non lasciarci vincere dall'impazienza, da nessuna compiacenza a spese
del paese, da nessuna nostra vanità come da nessun incitamento d'amici.
Altrimenti, plectuntur Achivi....».
26 agosto 1916.
Un profeta del pangermanesimo:
EDGARDO QUINET.
Mathieu de Mirampal, al tempo della Rivoluzione francese, propose di far
viaggiare gli adolescenti in Germania, «per ritardare, grazie ai rigori del clima,
l'età della pubertà». La stravaganza del consiglio, e quella dei molti
contemporanei giudizii intorno all'indole delle popolazioni teutoniche, può dare
un'idea della ignoranza degli scrittori che li proferirono. Un giorno ci si mise una
scrittrice, colei che fu chiamata Imperatrice del Pensiero per far dispetto a
Napoleone Bonaparte, Imperatore di Francia — e l'Allemagne della signora di
Staël riuscì un'apologia, anzi un'apoteosi. Il bello fu questo: che gli stessi
Tedeschi non vi si riconobbero, e dissero che l'autrice «nulla ha visto, nulla ha
udito, nulla ha capito....».
Corinna meritò quest'accoglienza, perchè non fu sincera: ella esaltò la Germania
per combattere Napoleone che l'aveva sottoposta. E mentre il suo libro era male
accolto tra le genti che portava al cielo, lo applaudirono invece con gran calore
quegli stessi Francesi che festeggiarono le truppe della Coalizione accampate a
Parigi nel 1814. Perchè Bonaparte era stato dispotico, quei cittadini
dimenticarono che nel despota, intanto, era impersonata la patria, e in odio a lui
gioirono della disfatta, e accettarono come articoli di fede le lodi tributate dalla
Staël ai loro secolari nemici.
È vecchia sentenza che la passione acceca. E la passione politica continuò ad
offuscare la vista dei Francesi durante la Restaurazione ed al tempo della
monarchia di Luglio; per il disagio sofferto sotto quei regimi, gli spiriti
insofferenti si volsero a cercare oggetti di ammirazione oltre confine. Il
romanticismo letterario contribuì anch'esso a mettere in voga i costumi
alemanni; gli stessi progressi compiuti dalla scienza tedesca accrebbero quel
fervore, a segno che il Michelet scriveva nel 1828: «la mia Germania, il mio
Lutero, il mio Grimm» — e non chiamava suo Giambattista Vico, a cui doveva
pur tanto, e di cui aveva tradotto l'opera. Un altro giovane scrittore amico del
Michelet e destinato anch'egli alla celebrità — Edgardo Quinet — si recava tre
volte in Germania con l'ardore d'un pellegrino, sposava una Tedesca, chiamava
«nostra» Eidelberga, e leggendo e traducendo e presentando ai suoi connazionali
la Filosofia della storia del genere umano, dichiarava d'aver trovato nel libro
tedesco «una fonte inesauribile di consolazione e di gioia: mai, no, mai mi è
accaduto di chiuderlo senza avere un'idea più nobile della missione dell'uomo su
questa terra; mai, senza credere più profondamente al regno della giustizia e
della ragione; mai, senza sentirmi più devoto alla libertà, alla mia patria, e più
capace di buone azioni».
I.
Quel filosofo esordiente sarebbe rimasto molto stupito se gli avessero detto che
il suo entusiasmo per la Germania avrebbe, di lì a poco, dato luogo ad un
sentimento molto diverso. La prima impressione di doccia fredda fu da lui
provata quando, innamoratosi di Minna Morè e scambiata con lei la promessa
nuziale, conobbe da vicino i fratelli della sposa, Tedeschi fanatici, inconciliabili
nemici della Francia, i quali indussero la giovanetta a ritirare la parola data.
Molto penosa fu la crisi del disinganno, ma potè essere superata, e qualche anno
dopo Minna sposò Edgardo, e lo rese felice; ma il velo attraverso il quale egli
aveva visto la patria di Arminio gli era intanto caduto dagli occhi: egli si guardò
intorno, prestò attentamente l'orecchio, e vide e udì ciò che a tutti gli osservatori
sfuggiva allora, e doveva ancora sfuggire per lungo ordine d'anni: «segni in
fondo alle cose, come un mormorio che partiva non si sa donde, indistinto e
indefinibile; conversazioni rare, parole interrotte, improvvisi entusiasmi che
scoppiavano e svanivano come lampi: la grandezza della Germania....».
Paolo Gautier, raccogliendo oggi tutti gli articoli nei quali, dal 1831 al 1870, il
Quinet avvertì la Francia di ciò che si preparava nell'animo della nazione rivale,
ci dà modo di apprezzare la singolare chiaroveggenza dello scrittore. Mentre il
popolo tedesco pareva ancora, come era parso a lui stesso nella prima fase
dell'ammirazione, e come forse era stato in altri periodi della sua storia,
contemplativo, meditabondo, rifuggente dalla realtà, incapace di passare dalle
idee agli atti — «annegato nell'infinito», aveva detto la Staël — il Quinet colse i
sintomi del mutamento, dell'orientazione dello spirito pubblico verso l'attività
pratica e politica, dell'aspirazione all'unità nazionale, dell'ambizione di farsi
largo nel mondo: sentimenti e movimenti già così profondi, «che non resta più a
quel popolo se non afferrare la corona universale».
Queste parole sono del 1842. Undici anni innanzi, scrivendo al Michelet,
Edgardo Quinet annunziava all'amico che le cose erano molto mutate in
Germania dacchè entrambi avevano lasciato quel paese, «e l'unità tedesca si
prepara in modo così minaccioso, che non ho resistito al bisogno di descriverne i
progressi inevitabili». Nella sua descrizione — un articolo intitolato: La
Germania e la Rivoluzione — il Quinet nota che l'antica imparzialità e serenità,
che l'apatia politica e la tendenza al cosmopolitismo hanno dato luogo in
Germania ad una «nazionalità irritabile e collerica»; che la libertà non è tra i più
urgenti bisogni di quel popolo; che il partito democratico, ed anche il
demagogico, hanno fatto pace col Governo della Prussia dopo che questo ha dato
al paese ciò di cui esso è ora cupido: «l'azione, la vita reale, l'iniziativa sociale»,
appagando «il repentino infatuamento per la potenza e per la forza materiale».
Tra i governati e i governanti «c'è una secreta intesa per rimandare l'avvento
della libertà e mettere in comune l'ambizione di conseguire la fortuna di Federico
II». Il dispotismo prussiano è più minaccioso dell'austriaco, perchè non risiede
soltanto nel Governo, «ma nel paese, nel popolo, nei costumi e nel portamento
da parvenu dello spirito nazionale». Benchè preparati ad apprezzare l'efficacia
delle idee, i Francesi si sono addormentati per quanto concerne «il moto
dell'intelligenza e del genio tedesco»: lo ammirano ingenuamente, credendolo
immune dall'ambizione «di passare dalle coscienze nelle volontà, dalle volontà
agli atti, e di aspirare alla potenza sociale ed alla forza politica». Ma ecco: quelle
idee che dovevano restare incorporee «fanno come tutte le altre idee apparse nel
mondo, e si sollevano contro di noi con tutto il destino d'una razza, e questa
razza si pone sotto la dittatura di un popolo — il prussiano — non già più
illuminato, ma più avido, più ardente, più esigente, meglio addestrato agli affari.
Essa gli affida le sue ambizioni, i suoi rancori, le sue rapine, le sue astuzie, la sua
diplomazia, la sua gloria, la sua forza.... La Germania è dunque intenta oggi a
sostituire, come suo agente, la Prussia all'impero d'Austria? Sì: e se sarà lasciata
fare, la spingerà lentamente, da tergo, all'assassinio del vecchio regno di
Francia».
Scritte nel 1831, queste parole tolsero il riso al Michelet, come confessò egli
stesso, «per dieci anni». Al loro paragone, le pagine sull'Arte in Germania,
composte l'anno appresso, fanno meno impressione, ma sono anch'esse degne di
nota, perchè l'ansia dello scrittore cerca e trova più sottili ma non meno fondate
ragioni d'inquietudine nella stessa attività fantastica del popolo nemico. Finora,
in Germania, l'arte è stata senza patria; il più grande scrittore tedesco, Volfango
Goethe, si è mantenuto superiore a questa come a tutte le altre passioni umane;
ma già i buoni cittadini sono sconcertati dalla sua olimpica impassibilità; già i
nuovi artisti, nella musica, nella pittura, in poesia, si accostano al popolo,
attingono alle tradizioni, celebrano i fasti della razza. Se Uhland è «il Béranger
tedesco», Goerres «ha ricevuto la missione di gettare una volta per sempre
nell'arena la massa inerte della Germania e di scatenare il mostro»: quel Goerres
che, per punire l'infedeltà commessa dall'Alsazia nel farsi francese, proponeva di
bruciare la cattedrale di Strasburgo eretta nel secolo XV dal genio tedesco, e di
lasciare intatta la sola guglia «per l'eterna vendetta dei popoli germanici».
II.
Più il Quinet conosce la Germania nuova, più ne diffida. Nel quinto articolo,
composto nel 1836, egli denunzia il dissolvimento dell'antico spiritualismo
tedesco, ammonisce la Francia di non rappresentarsi la rivale «come un Eden
popolato da poeti, e l'intera nazione come la Bella addormentata nel bosco:
immagine vera cinquant'anni addietro, ora non più». La Giovine Germania ha
«scoperto» che l'uomo è di carne e d'ossa, e si è quindi messa a sciogliere inni al
corpo. Ubbriacati dalle lodi che il mondo aveva loro tributate, i Tedeschi hanno
preso coscienza di sè, e la febbre dell'orgoglio li ha assaliti. Ma, dopo la prima
ebbrezza, si sono guardati attorno: hanno visto che il loro paese è chiuso, in
terra, tra la Francia e la Russia, e che l'Inghilterra lo blocca dal mare. «Hanno
cercato allora quale grande pensiero portassero in sè per rinnovare il mondo, e
hanno trovato la teutomania....» La parola è pronunziata dal Quinet nel 1842, e
gli serve per intitolare il nuovo articolo, nel quale l'autolatria, già entrata nel
cuore della Germania prima ancora di aver conseguito l'unità politica ed ottenuto
il predominio militare, è denunziata con parole gravi. Ma più gravi di tutte,
veramente terribili, sono quelle che il polemista scrive dall'esilio, nel 1867, dopo
Sadowa.
In questo nuovo studio, intitolato Francia e Germania, egli comincia con
l'avvertire che la vittoria prussiana non è soltanto il segno d'una crisi, che è anzi
la rivelazione «di un nuovo stato del mondo». L'unità tedesca non può più essere
impedita da nessuno, ma essa non si viene conseguendo «con la giustizia e la
libertà, bensì con l'ingiustizia e l'arbitrio». I Tedeschi sono ora convinti di aver
conquistato il dominio degli spiriti in Europa, «e tengono per fermo che tutto
emana da loro: scienza, poesia, arte, filosofia, e che il mondo è divenuto loro
discepolo. A cotesta presunta sovranità che cosa manca ancora? La forza. Ecco
che se ne sono, ora, impadroniti. Per loro, non c'è soltanto un impero di più nel
mondo, è avvenuta senz'altro la sostituzione dell'êra germanica all'êra dei popoli
latini, relegati in un piano inferiore». Rivolto al popolo tedesco, lo scrittore
francese gli fa osservare: «Fino ad oggi il dispotismo prussiano è stato violento,
iniquo, ma non si è data la pena d'esser falso. Si è servito di armi palesi:
l'audacia, la temerità, la sfida, senza avvelenarle con la menzogna, e la
menzogna è quella che corrompe l'avvenire. Fin qui, dunque, il principio del
diritto, della vita morale, può ancora essere restaurato e salvato. Ma badate che il
momento decisivo non è ancora giunto. Sarà quello in cui cotesto dispotismo
avrà bisogno di travestirsi, di mutar nome e linguaggio, di mettersi la maschera
della libertà e della democrazia. Allora tutto minaccerà di falsarsi e snaturarsi.
Che faranno quel giorno i Tedeschi? Sarà l'ora dei tranelli. Vogliono essi
cadervi? Quando il dispotismo si travestirà da democrazia, la democrazia,
sempre compiacente, sposerà il dispotismo? Se mai coteste nozze si
celebreranno, dite per sempre addio a quanto avete conosciuto della vita tedesca:
probità dell'intelligenza, acume, grandezza dello spirito, genio, gloria; tutto
sparirà, tutto naufragherà nella confusione del bene e del male, del giusto e
dell'ingiusto, del vero e del falso»: avvenimento inevitabile, perchè già «la
democrazia tedesca si è riconciliata con chi la calpestava». Non mancano i
liberali, in quel paese, e credono anche d'esser padroni dell'avvenire; ma
s'illudono. Non lasciano essi che l'unità della patria si compia con la violenza e
le conquiste? Come possono dunque prometter nulla, «dopo la fatalità a cui si
rassegnano?». Se questa fatalità dovesse un giorno ripresentarsi, «nulla impedirà
che essi vi si rassegnino con più filosofia e più pazienza».
Quando si pensa come i Tedeschi si accordarono nel volere la guerra, sembra
propriamente che Edgardo Quinet abbia letto nell'avvenire. Ma non c'è in lui,
come non c'è in nessun uomo, la capacità di antivedere il futuro: c'è soltanto,
come bene avverte il Gautier, «un senso più intimo delle realtà e delle grandi
leggi storiche che si governano». La riprova è questa: che quando lo studioso
non tiene conto di tutti i fatti, o quando le leggi sono troppo complesse, le sue
previsioni non riescono altrettanto sicure. Fin dal 1842, ad esempio, egli
preannunziava l'alleanza franco-russa: «Gli scrittori tedeschi vogliono proprio
inimicare i due paesi — Francia e Germania — trascurando di pensare che una
sola stretta di mano della Francia e della Russia potrebbe bene, all'occorrenza,
stringere oltre misura i fianchi di Teutonia?». Ma il Gautier, ponendo in evidenza
l'accortezza di questo giudizio, non avverte che un altro ragionamento porta il
Quinet ad una conclusione contraria: «Avete dimenticato che la Russia era con la
Prussia e con la grande Germania a Lipsia? Ecco, senza parlare degli interessi
comuni, il legame sacro tra loro....». Quando scrive queste parole, lo stesso
Quinet ha dimenticato d'aver detto che la gran rivale della Germania è la Russia,
perchè — e qui ha indovinato — «i Tedeschi sono fatalmente attratti verso
l'Oriente».
Queste ed altre esitazioni e contraddizioni sarebbero tuttavia trascurabili senza
quelle che concernono il principale argomento delle indagini e delle inquietudini
del pubblicista francese. Il quale, dopo avere denunziato con parole tanto
concitate i pericoli dell'autocrazia prussiana inebbriata dalle sue fortune
guerresche, scrive che «del resto, fra i Tedeschi, la gloria militare non degenera
in superstizione, perchè è dominata dalla gloria dei riformatori, dei poeti, degli
artisti». Lutero, Goethe e Schiller, soggiunge, «passeranno sempre prima di
Blücher. Lo splendore dell'uniforme, che affascina gli altri popoli, non è la
principale magia dall'altra parte del Reno». E allora egli stesso non teme più ciò
che lo ha tanto spaventato: «Io posso dunque concepire un impero fondato sul
fucile ad ago, e nondimeno incapace di far tutto consistere nel militarismo. Gli
resterebbero, a suo dispetto, forze molto diverse da quelle della spada».
III.
La verità è che il Quinet aveva troppo amato la Germania, un tempo, perchè
potesse poi odiarla. La detestò certamente quando, tornato dall'esilio alla caduta
del Secondo Impero, vide avverarsi la disfatta e la mutilazione della patria che
egli aveva predette; ma, prima dello scempio, serbò sempre in cuore qualche
cosa della fede nutrita negli anni più belli.
C'è anche nei suoi giudizii un errore, grave di conseguenze: quello di procedere
per distinzioni troppo radicali fra popolo e popolo, di assegnare a ciascuno di
essi qualità diverse e discordi, e funzioni separate ed opposte. E sapete, fra
parentesi, in che cosa consisterebbe la parte dell'Italia? «L'Italia ha per sè la
libertà dei costumi, la vita facile, la felicità e l'esaltazione dei sensi, la
noncuranza prodotta dall'abitudine delle rovine; ella ha segnatamente al suo
servizio l'arte, che dovunque altrove è uno sforzo, ed in lei istituzione divina e
naturale». Faremmo torto al nobile scrittore se ci fermassimo su questa sentenza:
non dimentichiamo la simpatia che egli accordò alla causa nostra, nè i
rimproveri acerbi che mosse alla Francia di Napoleone III per averci
abbandonati a Villafranca, nè l'esortazione che rivolse all'Austria, «di sollevare
un momento la pesante zampa distesa sull'Italia». Ma, per tornare in argomento,
tanto è ancora il credito da lui accordato alla Germania, che riconosce ai paesi di
lingua tedesca «il senso della felicità domestica, le cure della famiglia, la calma
dei costumi tradizionali, la vita religiosa, la vocazione per la scienza».
L'Inghilterra si distingue per l'industrialismo; l'America del Nord per il culto
della libertà; alla Francia resta riservato l'istinto e l'istituto della civiltà: «da due
secoli la Francia ha posto il suo destino nel farsi organo dominante della civiltà».
Ora, come non osservare che, precisamente per questa volontà di dominio,
riuscita un giorno troppo molesta alle altre nazioni, tutta l'Europa si collegò
contro la Francia, e che al «sole di Campoformio» tennero dietro le nebbie della
Beresina e le tenebre di Waterloo? Dopo Napoleone I, scrive il Quinet, è
divenuto impossibile che, «per la stessa causa», si scateni la «gran guerra, la
guerra universale». E qui non cogliamo in fallo il profeta? La guerra universale,
oggi, non si è scatenata per la stessa causa, avendo la Francia saviamente
deposta l'ambizione di primeggiare, ma per una causa simile. «Da 15 anni»,
scrive il Quinet nel 1832, cioè dalla caduta del Primo Impero, «il posto della
Francia resta vuoto; da 15 anni la corona della civiltà moderna si trascina con lei
nel fango. Chiunque può raccattarla e prenderla a suo talento; non bisogna far
altro che chinarsi: chi lo impedisce?...». Lo impedisce, appunto, una coalizione
simile a quella formatasi contro l'impero napoleonico, e soltanto più vasta,
perchè più forte è il popolo che non ha resistito alla pericolosa tentazione di
raccattare quella corona. Il mondo non è più disposto a tollerare che nessuno se
la ponga in capo; nessuna benevolenza verso la civiltà dà diritto ad egemonie. Lo
stesso Quinet, con un'altra contraddizione che gli fa onore, dopo avere attribuito
ad ogni nazione una parte distinta nel gran concerto umano, domanda a sè stesso:
«Nel caos di opinioni, di idee, di poesia che si agita in ogni angolo d'Europa,
come riconoscere l'elemento che ciascun popolo vi porta? Lo spiritualismo del
Nord, il materialismo del Mezzogiorno, l'eguaglianza francese, l'industria inglese
tendono a stabilirsi e coesistere ovunque contemporaneamente». Allora, che cosa
concludere? Questo: che tra i voti — se non tra le profezie — dello scrittore
francese, il più bello, il più degno di avverarsi è che il Reno diventi un giorno «il
fiume di alleanza dove si mescoleranno il genio della Francia e della Germania»,
e che una nuova guerra tra le due nazioni debba considerarsi, come in cuor suo
egli già la considera, «guerra civile». Fino ad oggi — oggi più che mai — «il
genere umano è stato in guerra con sè stesso». Composti i dissidii, cessata «la
solitudine dell'orgoglio», il posto degli uomini sia al focolare «non d'un popolo,
ma dell'umanità».
1.º novembre 1917.
L'Imperatore liberale:
FEDERICO III.
Se è vero che «i vituperi di nemico a nemico onta non fanno», le lodi di nemico
a nemico fanno senza dubbio tanto onore a chi meritamente le ottiene quanto a
chi doverosamente le tributa. Che in piena guerra contro la Germania ancora
accampata in terra francese, un Francese, un membro dell'Istituto, Henri
Welschinger, pubblichi una grossa biografia apologetica di uno dei principali
autori delle vittorie del 1870, di un Hohenzollern, del padre di Guglielmo II, è
cosa degna d'esser notata, particolarmente in Italia, dove le virtù di quell'infelice
sovrano furono conosciute più da vicino e poterono quindi esser meglio
apprezzate.
I.
Certo, da Principe ereditario e da Imperatore, Federico Guglielmo ebbe piena
coscienza del dovere di lavorare alla grandezza del suo paese; ma quanto le vie
che egli intendeva seguire per assicurarla fossero diverse da quelle che i
governanti batterono col consentimento ed il plauso della nazione, si vide dalla
guerra che gli fu mossa nella stessa Germania. Ammiratore delle istituzioni
politiche inglesi, profondamente devoto alla Regina Vittoria, della quale aveva
sposato la figlia Vittoria, l'erede del trono prussiano riuscì tanto inviso al
ministro del proprio padre, da vedersi escluso dai pubblici negozii e giudicato
finanche non incapace di tradire gl'interessi della patria! Ottone di Bismarck lo
tenne al buio, sempre che potè, delle notizie di governo, temendo che le rivelasse
alla moglie, la quale le avrebbe a sua volta partecipate alla Corte britannica.
Discutendosi, durante la guerra contro la Francia, alte quistioni di Stato, il
ministro osò chiudere la bocca al suo futuro sovrano, e quando si firmò la pace
gli nascose il grande avvenimento; un giorno lo accusò senz'altro di comunicare
ai suoi «piccoli amici d'Inghilterra» ed ai «ciarlatani politici» le note e le
osservazioni che il Principe riflessivo e studioso consegnava alle pagine di un
suo diario intimo. «Ciarlatani», naturalmente, erano, a giudizio di Bismarck, i
progressisti dei quali Federico Guglielmo amava circondarsi.
Quello che fu chiamato incidente di Danzica aveva dato inizio alla lotta.
Recatosi nell'antica città polacca per compiervi un'ispezione militare, l'erede del
trono vi giungeva il 31 maggio del 1863, vigilia della pubblicazione di un
decreto che restringeva la libertà di stampa: alle espressioni di rispettoso
rammarico rivoltegli il domani dal borgomastro, Federico Guglielmo si
affrettava a rispondere manifestando il rammarico suo proprio per essere giunto
mentre, a sua insaputa, si produceva tra il governo ed il popolo un disaccordo del
quale non aveva la minima responsabilità. Non contento di questa assicurazione,
il Principe mandava a Bismarck una formale protesta contro il reazionario
decreto ed esigeva che fosse comunicata al Ministero di Stato. Bismarck, di
rimando, accusava il figlio al padre; ma, ai rimproveri paterni, Federico
Guglielmo rispondeva giustificando la propria condotta, e scriveva al ministro
dichiarandogli che la sua politica non dimostrava nè affetto nè stima verso il
popolo, che era fondata sopra discutibili interpretazioni della costituzione, che la
svalutava agli occhi del Re, e avrebbe anzi finito con lo spingerlo a violarla: per
conseguenza, lo scrivente chiedeva d'essere esonerato da tutte le sue cariche
ufficiali e dispensato dal partecipare ai Consigli dei ministri. Come se non fosse
abbastanza per suscitare la collera bismarchiana, il Times pubblicava una
particolareggiata informazione intorno all'incidente, rallegrandosi col Kronprinz
per avere una moglie educata a quei principii liberali che egli stesso tentava di
far prevalere anche in Prussia. Nell'impeto dell'ira, Bismarck accusò al Re la
Principessa ereditaria, la Regina Vittoria, e la stessa Regina prussiana —
Augusta di Sassonia-Weimar, anch'ella favorevole al partito progressista —
come autrici della ribellione del Principe; ma questi confermava al padre d'esser
contrario alla politica dispotica, che avrebbe recato gran danno alla dinastia e
pregiudicato l'avvenire della nazione, e gli consegnava inoltre un memoriale
dove erano partitamente precisate tutte le ragioni del suo malcontento. E
Bismarck, a cui il Re Guglielmo partecipava quello scritto, vi apponeva in
margine i più acri commenti, osservando che la condotta dell'erede del trono,
suggeritagli probabilmente dalla Principessa, cupida di guadagnare al marito il
favore popolare, era una vera e propria ribellione alla Corona, passibile di
giudizio e di castigo, più pericolosa della stessa propaganda anarchica, capace
finanche di provocare qualche odioso attentato contro la persona del Re!
II.
Il dissidio tra quei due uomini non poteva comporsi, perchè dipendeva
dall'intima e quasi organica diversità della loro natura. Mentre l'uomo di ferro,
duro, testardo, iracondo, violento, non intendeva adoperare altro che la forza per
conseguire l'unità tedesca, il Principe mite, generoso, persuasibile, giudicava la
forza «non necessaria»; e mentre l'astuto, infinto e mendace ministro procedeva
per vie oblique e tortuose, il Principe franco e leale manifestava apertamente
tutto il proprio pensiero e non sospettava la doppiezza altrui.
Iniziandosi, con la guerra danese del 1864, l'effettuazione del programma
bismarchiano, Federico Guglielmo, infatti, non scopre subito il giuoco; ma, non
appena comprende le secrete mire del ministro, «il secondo fine di qualche
ingrandimento prussiano», tosto gli scrive: «Lasciatemi brevemente dirvi la mia
opinione: cioè, che tali disegni falsano tutta la nostra politica tedesca e ci
preparano complicazioni con l'Europa». E quando, nel 1866, la Prussia dichiara
guerra all'Austria, sua complice nell'aggressione di due anni innanzi, rigettando
su lei l'accusa di menzogna, di perfidia e di malafede, l'erede del trono fa di tutto
per evitare il conflitto e non nasconde neanche all'esercito il proprio
rincrescimento: chiamato al suo posto di battaglia, compie egregiamente il suo
dovere di soldato e arriva in tempo a Sadowa per decidere le sorti della giornata;
ma sullo stesso campo della grande vittoria esclama: «Colui che con un tratto di
penna scatena la guerra non sa che cosa fa uscire dall'inferno!». Il trionfo non lo
inebbria, non lo converte ai metodi preferiti dai militaristi: nel 1867, a chi
considera leggermente l'eventualità che la quistione del Lussemburgo si risolva
con le armi, osserva severamente: «Voi non avete visto la guerra, signore;
altrimenti non ne pronunziereste tanto facilmente il nome. Io che mi sono trovato
a faccia a faccia con questa cosa terribile, io vi dico che il più grande dei doveri
consiste nell'evitarla, quando è possibile. Dichiararla è assumere una ben grave
responsabilità. Un uomo di Stato, anche quando ne prevede la necessità, non
dovrebbe mai provocarla per via di artifizii....».
E nel 1870 egli accetta la nuova sciagura appunto perchè non sa che Bismarck si
è servito di «artifizii» — la falsificazione del dispaccio di Ems — per far credere
che la Prussia sia stata provocata; ma, nel condurre le operazioni militari, mentre
lo spietato politico vieta che si conceda quartiere e che si facciano prigionieri, il
Principe soldato si duole nel vedere i campi di Francia deserti «per paura degli
antropofaghi tedeschi», e impartisce quindi gli ordini più severi affinchè le
popolazioni siano rispettate, e lamenta che in quella «lotta di giganti nulla sarà
risparmiato al mio orrore della guerra». A Sedan sconsiglia tutto quanto può
umiliare il vinto Napoleone, e dal premio della vittoria sarebbe disposto ad
escludere Metz, e prevede che l'acquisto dell'Alsazia e della Lorena «potrà
riuscirci molto precario».
III.
Nelle grandi e nelle piccole cose il suo pensiero differisce da quello dei dirigenti.
Mentre gli ambiziosi vogliono fondare l'impero, Federico Guglielmo ha idee più
modeste: si contenterebbe che la Germania fosse costituita in Regno, e propone
per conseguenza che tutti i capi degli Stati da riunire nel nuovo reame rinunziino
ai loro particolari titoli di Re, Principi e Granduchi, per ridursi semplicemente a
duchi. Regno od Impero, del resto, «il principale nostro scopo», scrive, «è di
edificare una Germania libera». Disgraziatamente, non può illudersi di
raggiungerlo finchè il timone dello Stato resterà nelle stesse mani che ora lo
reggono: «Dove trovare gli uomini capaci di comprendere e di esporre i veri
principii, i principii necessarii a consolidare le nostre fortune?». Questi principii
sono tanto avversati, che mentre egli fa distribuire ai soldati feriti un giornale
liberale, Bismarck ne ordina il sequestro! Come fare assegnamento, in queste
circostanze, sulla fondazione d'un Impero democratico? «Solo quella futura età
nella quale si dovranno fare i conti con me potrà riuscirvi. Le esperienze
compiute durante dieci anni non mi saranno tornate inutili. Io sarò più che altro
il primo principe che si presenterà al popolo lealmente e incondizionatamente
affezionato alle leggi costituzionali».
Coerenti a questo proponimento sono tutte le sue idee di governo. «Il mio primo
còmpito sarà la soluzione delle quistioni sociali, che voglio sviscerare». Egli è
favorevole ai Polacchi, ai Danesi, a tutte le nazionalità sottoposte; in politica
estera vuole una sincera pacificazione con la Francia: «Non porto nessun
sentimento di odio contro i Francesi, mi sforzo invece di preparare la
riconciliazione». L'alleanza con l'Inghilterra è un altro punto del suo programma:
«Io vorrei arrivare, seguendo i principii dell'indimenticabile mio suocero» —
Alberto di Sassonia-Coburgo, Principe consorte della Regina Vittoria — «a
formare una catena tra due nazioni i cui rapporti saranno per essere tanto vasti».
Ed a questo proposito si manifesta ancora una volta l'irreconciliabile discordia
con Bismarck. Quel junker difensore del diritto divino, contrario al sistema
parlamentare britannico, mediocre estimatore della Regina Vittoria — «la
gonnella inglese», la chiama, e chiama la figlia di lei, la Principessa ereditaria
tedesca: «Vittoria Numero due», od anche: «il discepolo di Gladstone» — quel
furbo Prussiano stringe con la Russia il secreto patto diplomatico conosciuto col
nome di Trattato di contro-assicurazione, secondo il quale, in caso di guerra
anglo-russa, la Germania resterà neutrale. Non appena ne ha notizia, Federico
Guglielmo immediatamente osserva: «Spero bene che l'Inghilterra ne sia stata
avvertila e che vi abbia acconsentito!» — provocando il riso di Bismarck e dei
suoi accoliti con queste parole, dettate, a giudizio del volpino ministro, da un
candore troppo ingenuo e propriamente puerile....
Il Cancelliere non lo stima infatti «uomo capace di serie riflessioni»; dice anzi di
lui che, «come tutti i mediocri, il Kronprinz amava copiare e nascondere le sue
lettere. Non aveva nient'altro da fare, del resto, poichè l'Imperatore lo teneva
sempre al buio delle cose di Stato, e non mi permetteva di comunicargli nulla»:
menzogna con la quale il troppo abile uomo capovolge la verità: ha lavorato egli
stesso ad escludere l'erede del trono dal governo, a mettere in cattiva luce il
figlio presso il padre, e vorrebbe dare ad intendere che è il padre quello che ha
dubitato del figlio!...
E un giorno il dramma del quale è teatro la Corte prussiana si muta in tragedia. È
il giorno nel quale, morto il vecchio Guglielmo I, Federico Guglielmo sale
finalmente al trono col nome di Federico III. Vuole il destino che l'uomo tanto
lungamente, tanto scrupolosamente preparatosi a meritare il suo altissimo
ufficio, l'uomo che vorrebbe fare del suo regno «un benefizio per il popolo, una
benedizione per l'Impero», il sovrano nella cui corona «l'oro ardente dovrebbe
mescolarsi ai pallidi e dolci rami dell'olivo», il fautore del regime liberale, del
sistema parlamentare, delle leggi democratiche, della giustizia sociale, della
diplomazia leale, della politica conciliante, temperata e pacifica, debba afferrare
lo scettro quando la sua mano sta per essere irrigidita dalla morte, che debba
annunziare al popolo il suo grande disegno di governo quando non gli resta più
un filo di voce nella gola invasa dal cancro.... Ma neanche dinanzi a quella
tremenda agonia le ire e gli sdegni si placano. Egli — l'Imperatore! — non è
libero di affidarsi ad un chirurgo di sua fiducia: perchè il chirurgo è inglese, i
medici tedeschi e i pangermanisti arrabbiati gli si scagliano contro; un giornale,
la Koelnische Zeitung, lo avverte di non uscire per le vie di Berlino «perchè il
popolo lo farebbe a pezzi e lo lapiderebbe». Per suo conto, il Cancelliere, a cui
qualcuno fa notare lo strazio atroce dello sciagurato sovrano, seccamente
risponde: «Possibile, ma non ho tempo da fare una politica sentimentale». E
neanche la morte lo placa.
Prima di chiudere gli occhi, Federico III ha affidato il suo Diario alla moglie
adorata; la quale, stralciate le pagine del 1870, le ha consegnate al consigliere
Geffcken, uno dei sinceri amici del morto sovrano. Il consigliere, per onorare la
memoria del suo signore e per appagarne l'espresso desiderio, pubblica quelle
pagine sulla Deutsche Rundschau — e allora l'ira del Cancelliere non conosce
più freno. La sua fortuna ha voluto che Federico III restasse ad agonizzare sul
funebre trono novantanove giorni, durante i quali è mancata al moribondo, già
muto per sempre, la forza, non che di effettuare, ma di semplicemente
proclamare i suoi magnanimi proponimenti; sennonchè il morto, dal suo
sepolcro, dalle pagine del postumo libro, li attesta ancora, li riafferma, e svela
anche la tenace opposizione che gl'impedì di tradurli in atti. Fuori di sè, il
Cancelliere impone che quella pubblicazione sia incriminata; quantunque certo
dell'autenticità del Diario — «neanche un minuto ne ho dubitato» — vuole
metterla in forse: «Non importa: bisogna trattarlo come se fosse falso», e
minaccia di dimettersi se non si procederà giudiziariamente; chiede un minimo
di due anni di lavori forzati contro l'editore; fa accusare il duca Ernesto di
Sassonia-Coburgo, proprietario della Rundschau; fa imprigionare il consigliere
Geffcken, spontaneamente presentatosi alla giustizia; lo traduce dinanzi al
Tribunale di Lipsia; ma, poichè i giudici pronunziano una sentenza assolutoria, il
furibondo chiede che, almeno, l'atto di accusa sia reso pubblico sul Giornale
ufficiale dell'impero, e pretende che Geffcken sia punito se non altro
disciplinarmente, come professore all'Università di Strasburgo: udendo che
l'Università non è sottoposta allo stesso regime di tutte le amministrazioni dello
Stato, esclama: «Ma come? Il professore, in Germania, sfugge alla legge?...» e
non se ne dà pace, e non lascia mezzo intentato per distruggere la «leggenda» del
liberalismo dell'Imperatore, «come perniciosa a tutta quanta la dinastia».
Il nuovo biografo francese di Federico III, come già l'inglese Rennel Rodd,
molto opportunamente ha voluto dimostrare che quel liberalismo non era una
leggenda, che l'orrore della guerra, che l'amore della patria, che la mitezza, la
modestia, la moderazione, la lealtà, la carità, il cristianesimo del monarca
meritamente chiamato Federico il Nobile furono virtù rare — nel doppio senso
della parola: come infrequenti sul trono che egli doveva per tanto poco tempo
occupare, e per ciò stesso tanto più preziose — sebbene fatalmente e
sciaguratamente rimaste inefficaci.
Negano i deterministi ciò che Tommaso Carlyle afferma, cioè l'efficacia
dell'intervento personale dell'Eroe sul corso della storia; ma quando si pensa che
Federico III, il quale scriveva, dinanzi a Parigi assediata, il 27 gennaio del 1871:
«È oggi il tredicesimo natalizio di mio figlio Guglielmo. Possa egli divenire un
uomo forte, leale, fedele, sincero.... C'è propriamente da aver paura quando si
pensa alle speranze riposte fin da ora sul capo di quel fanciullo, e quale grande
responsabilità ci incombe dinanzi alla patria per l'indirizzo che diamo alla sua
educazione. Essa incontra già tante difficoltà per le considerazioni di famiglia e
di casta alla Corte di Berlino!...»; quando si pensa che quel padre esemplare, che
quell'Imperatore liberale avrebbe potuto regnare a lungo ed attuare i suoi grandi
disegni, o se non altro impedire che i piani contrarii e le correnti ostili
prevalessero, e vivere ancora nel luglio del 1914 — avrebbe avuto 83 anni; il
padre suo potè bene viverne 91! — si deve veramente concludere col
Welschinger che la morte prematura di quell'uomo fu un disastro per la
Germania, per l'Europa e per il mondo.
1.º gennaio 1918.
La battaglia della Marna.
Il corso di tre anni è troppo breve perchè tutte le fasi della titanica pugna che
salvò la Francia possano essere note in tutti i loro particolari. Durando ancora il
conflitto, manca la versione della parte contraria, e la verità, nella storia delle
guerre, come nelle liti incruente, non può scaturire se non dal paragone delle
opposte affermazioni: ma questo, intanto, piace da parte degli scrittori francesi:
che, pure esaltando il genio del Joffre ed il valore delle sue truppe, essi non
attribuiscono la vittoria a questi due soli fattori, ma fanno la sua parte alla
fortuna e non disconoscono i meriti del nemico.
I.
La battaglia della Marna fu annunziata dal Moltke — il primo, si potrebbe anzi
dire il solo — qualche tempo innanzi che fosse combattuta: fin dal 1859.... Lo
stratega tedesco, a cui erano mancate ancora le occasioni di rivelare il suo genio,
scriveva allora, riferendosi agli avvenimenti guerreschi del 1814, che, come
nella campagna fatale all'Uomo fatale, anche in una futura guerra franco-
germanica l'investimento e la presa di Parigi mediante un'offensiva attraverso il
Belgio, avrebbe rapidamente deciso le sorti della Francia; «ma», soggiungeva,
«se noi trovassimo l'esercito francese riunito nella regione di Reims, dovremmo
tosto deviare dalla direzione di Parigi. Attaccheremmo allora i Francesi dietro
l'Aisne e col favore del numero li batteremmo e rigetteremmo dietro la Marna, la
Senna, la Ionna e la Loira. Poi marceremmo su Parigi....».
Questa è, in poche parole — e, beninteso, con la differenza d'un esito totalmente
diverso — la battaglia della Marna, e qui consiste la spiegazione della condotta,
da alcuni giudicata inesplicabile, e forse troppo severamente condannata in
Germania, del generale tedesco von Klück. Posto all'estrema destra della valanga
che precipitava dalle frontiere del Nord con la velocità di cinquanta chilometri il
giorno, e che, secondo una testimonianza riferita dal Madelin nel suo studio sulla
Victoire de la Marne, schiacciava le forze francesi «come un rullo», von Klück
era pervenuto il 30 agosto in vista di Parigi: una marcia ancora, più breve delle
precedenti, e la metropoli sarebbe stata investita; quand'ecco a un tratto il
comandante tedesco si lascia a destra la via della grande città e piega a sud-est
verso Meaux e Coulommiers. Che cosa è avvenuto? Questo: che l'esercito
francese, già duramente provato sulle frontiere, quindi in piena ritirata attraverso
il territorio nazionale abbandonato al nemico, ha finalmente ricevuto l'ordine di
fermarsi sopra una linea opportunamente prestabilita, di ammassarvisi insieme
con nuove forze e di riprendere di lì l'offensiva. «Mentre s'impegna una battaglia
dalla quale dipende la salute della patria», dice l'ordine del giorno del
generalissimo, «importa ricordare a tutti che non è più il momento di guardarsi
addietro: ogni sforzo dev'esser diretto ad attaccare e respingere il nemico. Le
truppe che non potranno più avanzare dovranno mantenersi a qualunque costo
sul terreno guadagnato e farvisi uccidere piuttosto che arretrare. Nelle
circostanze presenti nessuna debolezza può essere tollerata....»
Si è dunque dato il caso previsto mezzo secolo innanzi dal futuro trionfatore di
Sedan. Se non precisamente «nella regione di Reims» l'esercito francese è riunito
e fa fronte un poco più giù: si distende ad arco, come una gran falce bene
affilata, dinanzi al grande arco della Marna e fino alle porte di Verdun. In queste
condizioni, come indugiarsi, da parte tedesca, dinanzi a Parigi? Conquistarla,
dopo che il Governo si è trasferito a Bordeaux, sarebbe raggiungere un
obbiettivo puramente «geografico» — dicono al Grande Stato Maggiore
germanico —: l'obbiettivo militare e politico da conseguire, per chiudere con una
rapida vittoria la guerra, consiste invece nell'affrontare, avvolgere e distruggere
le ricostituite forze francesi.
Quindi von Klück opera la sua conversione a sinistra e si accosta a von Bülow, il
quale scende dal canto suo al fianco destro di von Hausen, anch'egli affiancato
dal duca del Würtemberg, alla cui sinistra procede ultimo il Kronprinz: i cinque
capi tedeschi comandano cinque eserciti che sono come le cinque dita di una
enorme mano distesa a ghermire e strozzare. Ma anche la Francia ha ora in
campo cinque eserciti: cinque dita di un'altra mano aperta a respingere quella
dell'avversario: Sarrail, il mignolo, sotto Verdun, contro il Kronprinz; Langle de
Clary, l'anulare, contro il duca Alberto; Foch, il medio, contro von Hausen;
Franchet d'Espérey fiancheggiato dagli Inglesi del French, l'indice, contro von
Bülow; Manoury, finalmente, contro von Klück. E l'errore di quest'ultimo —
poichè errore c'è — consiste nel credere che la mano francese abbia solo quattro
dita, e che il quinto o sia stato troncato o penda inerte. Dinanzi a quella Parigi
che il generale tedesco rinunzia ad assediare, Joffre ha disposto, formandolo con
elementi in gran parte freschi, tutto un nuovo esercito — questo del Manoury,
per l'appunto — che è come il pollice poderoso della mano francese
improvvisamente contrapposta a quello della germanica.
Così, e costì, avviene il primo urto. Sulla Marna, dal 5 al 12 settembre, lungo
una linea di trecento chilometri e fra tre milioni d'uomini, non si combatte una
battaglia sola, e bene il Fabreguettes intitola il suo libro Les batailles de la
Marne: le battaglie sono cinque, quanti gli eserciti di ciascuna nazione, quante le
dita di ciascuna mano — e alcune vanno già designate con un lor proprio nome.
II.
Questa prima, impegnata tra von Klück e Manoury, è la battaglia dell'Ourcq.
Sull'Ourcq, come osserva il Babin (La bataille de la Marne), consiste «lo stesso
pernio, la stessa anima ardente» dell'immensa mischia; a giudizio del Madelin,
qui avviene «l'atto determinante della vittoria». Discendendo da sinistra per
circuire l'esercito del Franchet d'Esperey e gl'Inglesi, von Klück sente a un tratto
d'essere egli stesso minacciato d'accerchiamento quando vede sorgere sul suo
fianco destro l'insospettato o disistimato esercito del Manoury. Allora, come ha
rinunziato a Parigi per concorrere alla distruzione delle forze nemiche, così il
generale tedesco capovolge un'altra volta il suo piano — «con una decisione che
consacra la sua reputazione di stratega», riconosce il Madelin — e lasciando da
parte i Franco-Inglesi, ripassa la Marna che aveva già passata, e si volge con
ogni sua possa contro il Manoury. Il primo scontro avviene il 5 settembre: i
Francesi trovano a Barcy ed a Chambry il «calvario» della loro Riserva; ma si
affermano, intanto, e compiono anche qualche piccolo progresso; il domani
avanzano ancora e costringono il IV Corpo germanico a battere in ritirata verso i
boschi di Meaux. Grazie ai rinforzi ricevuti, von Klück pare sul punto di
scongiurare il pericolo; il giorno 8 contrattacca con nuova violenza e fortuna; ma
anche Manoury è soccorso dalla rapida iniziativa di Gallieni, il governatore di
Parigi, che requisisce migliaia di autobus della metropoli per lanciare sul campo
nuove truppe fresche: le parti sono allora invertite, la destra tedesca, sul punto
d'essere oppressa, compie uno sforzo disperato e costringe la sinistra francese a
ripiegare; ma è il supremo sussulto, e prima di mezzogiorno la resistenza
teutonica è vinta: alle 5 gli avioni francesi segnalano l'indietreggiamento di
numerose colonne; alle 8 von Klück, svaniti uno dopo l'altro i due sogni di
entrare in Parigi e di avvolgere i nemici, lancia, «con cuore grave», l'ordine della
ritirata generale e immediata.
Atteniamoci all'immagine della mano per comprendere che cosa accade sul
restante campo della gran lotta. Le dieci dita contrapposte a due a due si sono
strettamente intrecciate, e mentre il pollice francese ha respinto il tedesco, i due
indici — von Bülow da parte tedesca e French con Franchet d'Espérey da parte
anglo-francese — si avvinghiano: comincia il generale prussiano a premere
sugl'Inglesi il 6 e 7 settembre; ma, come gli sforzi delle dita della mano non sono
indipendenti, bensì strettamente collegati, così, avendo dovuto sostenere von
Klück nel momento del pericolo, per riparare all'effetto di «succhiamento» o di
«ventosa» — come è stato definito — prodotto sulle truppe imperiali
dall'inopinata apparizione di Manoury sul fianco di von Klück, per questa
ragione von Bülow si è visto costretto a desistere dalla spinta e ad arretrare in
modo che il French ha potuto avanzarsi fin presso alla Marna — che i Tedeschi
cominciano a ripassare — mentre da parte sua d'Espérey, dopo una lotta violenta,
si è spinto avanti con deciso vantaggio ed ha cominciato l'inseguimento del
nemico ripiegante: progressi che si confermano e crescono il giorno 8, quando
gli Inglesi forzano il Petit-Morin e la Marna — con la loro tenacia proverbiale,
ripetono un tentativo non meno di diciassette volte, finchè riesce — e i Francesi
si impadroniscono di Marchais, di Montmirail e mettono piede sul pianoro di
Vauchamps: il maresciallo britannico non trova più nemici nella sua avanzata, il
9 e il 10, per il ripiegamento tedesco ad occidente di Château-Thierry, che
d'Espérey riconquista, annunziando in un infiammato ordine del giorno la nuova
vittoria francese su quegli stessi campi che videro le mirabili e disperate gesta di
Napoleone abbandonato dalla fortuna.
III.
Ma la terza battaglia della Marna, grave e decisiva quanto la prima — il secondo
atto del gran dramma — è quella che s'impegna al centro della linea sterminata,
tra i due medii delle due mani. Questa è la battaglia che porta il nome delle
Paludi di Saint-Gond, intorno alla quale Carlo Le Goffic, con lo squisito senso
d'arte che ha reso celebre il suo Dixmude, ha scritto tutto un volume: Les marais
de Saint-Gond.
Enorme smeraldo incastonato nei campi di Francia, le paludi di Saint-Gond si
distendono per dieci chilometri di lunghezza con cinque di larghezza e formano
come un gran fosso, come una ciclopica trincea naturale sbarrante la via
all'invasione. Nel fango di questi pantani si sommersero e sparirono, ai tempi di
mezzo, le orde di Attila, che vi perdette — dice la leggenda — il suo casco d'oro;
qui, sul principio dell'era contemporanea, affogarono i soldati delle ultime leve
napoleoniche, gli eroici coscritti designati col nome di Marie-Louise. E qui una
nuova leggenda, nata a mezzo settembre del 1914, dice che s'impigliò e sparì,
durante la battaglia della Marna, la Guardia imperiale: ma il Le Goffic e gli altri
storici francesi distruggono la leggenda, quantunque lusinghiera all'amor proprio
nazionale, per ricercare ed affermare la più semplice e non meno bella realtà.
Numericamente inferiori, i Francesi del Foch hanno la missione di mantenersi
sulla «difensiva attiva», di chiudere la via, segnatamente verso il centro, ai
Tedeschi di von Hausen: se la resistenza non fosse infrangibile, se il nemico
passasse, tutta la linea francese crollerebbe e l'enorme sforzo compiuto dal
Manoury riuscirebbe vano. Ma, sulle prime, il centro, che ha spinto le
avanguardie oltre le paludi, sulla loro riva settentrionale, in faccia al nemico, è
costretto a ritirarle il 6 settembre, per restringersi a difendere la sponda sud della
gran trincea. I Tedeschi hanno un mezzo per impadronirsene: accerchiarla da
oriente e da occidente, ricongiungersi a sud, chiudendola ed abbrancandola come
in una tenaglia; e questa è, infatti, la manovra che pare abbiano scelta;
sennonchè, dinanzi alla misteriosa insidia di quelle acque morte, essi sembrano
presi da un senso di «esitazione» che gli stessi scrittori francesi dichiarano
«inesplicabile», attribuendo ad esso la salvezza del loro esercito. Quando, due
giorni dopo, von Bülow presta il suo aiuto a von Hausen, quando i due capi
germanici tentano l'avvolgimento, l'8, è troppo tardi. C'è di più: persuasi che
Mondement e il suo castello siano la chiave di tutta la regione — mentre
dominano le sole paludi — i Tedeschi si ostinano a impadronirsene, vi sciupano
un tempo prezioso, «vi s'imbottigliano», secondo l'espressione del generale
Humbert.
E tuttavia l'attacco a fondo dei trentacinque formidabili battaglioni della Guardia
rompe tutta l'ala destra francese per una profondità di quattro chilometri; ma il
Foch, secondo cui «battaglia perduta è quella che si è creduto d'aver perduta»,
lancia il suo laconico ordine del giorno: «La situazione è eccellente; ordino
ancora di riprendere vigorosamente l'offensiva....». Egli si è accorto che von
Klück ha trascinato von Bülow nel ripiegamento, e che tra costui e von Hausen
si è prodotto un vuoto; quindi si avanza attaccando, riprende il 10 Fère-
Champenoise perduta la vigilia, riprende Mondement a costo d'un'epica lotta, ed
a sera le rive settentrionali delle paludi tornano in mano sua.
Tale è razione centrale della battaglia della Marna. Se fosse riuscita favorevole ai
Tedeschi, l'«audace errore» di von Klück sarebbe stato corretto, la mano francese
sarebbe stata tagliata in due. Poteva riuscire? Una versione tedesca citata dal Le
Goffic afferma che sì. Von Klück, nel momento decisivo del suo attacco, aveva
chiamato da Compiègne un corpo della riserva; Moltke — il secondo —
vedendo in pericolo von Bülow, ordinò invece che quelle forze venissero a
sostenere quest'ultimo, ed esse iniziarono infatti la conversione: sennonchè,
accortosi che il pericolo maggiore era sull'Ourcq, il generalissimo tedesco emanò
un contrordine e fece fare dietrofronte alla riserva; la quale, perduto un tempo
prezioso in questo andirivieni, restò inutile a destra ed a sinistra — come il corpo
di Drouet d'Erlon a Waterloo. Sapremo più tardi la verità su questo punto;
rammentiamo per il momento che la vittoria delle Paludi di Saint-Gond fu
dovuta in parte ad un generale d'origine italiana, il Grassetti, e che un altro
italiano d'origine, il capitano di Saint-Bon, nipote del nostro ammiraglio, compì
una eroica difesa a Lenharrée e vi trovò gloriosa morte.
IV.
Le altre due grandi fazioni, tra Langle de Clary e il duca del Würtemberg, e tra
Sarrail e il Kronprinz, formano il terzo ed ultimo atto del gran dramma.
Un episodio preliminare è degno di speciale menzione. Il Clary aveva ricevuto,
nella seconda quindicina d'agosto, l'ordine della ritirata generale proprio mentre
conseguiva un notevole vantaggio sulla Mosa, e invece del garibaldino
«Obbedisco», telegrafò al Joffre chiedendogli di poter restare sulle posizioni
conquistate. Il Joffre gli rispose: «Non vedo inconvenienti nel fatto che restiate
domani, 28 agosto, dove siete, allo scopo di confermare il vostro buon successo
e di dimostrare che la ritirata è puramente strategica; ma il 29 tutti debbono
ripiegare» — bella prova della forza d'animo e dell'avvedutezza del
generalissimo.
E in obbedienza all'ordine ricevuto, il Clary si ritrae, contenendo la pressione del
duca Alberto, finchè fa fronte, il 5 settembre, con gli altri eserciti francesi. Il 6
egli resiste all'impetuoso attacco nemico: il 7 la lotta infuria sempre più, e dopo
qualche vantaggio da parte francese i Tedeschi s'impadroniscono di Lermaire; l'8
la resistenza è più salda, ma non dovunque fortunata; per buona sorte, i rinforzi
ricevuti consentono al Clary di respingere i Sassoni il giorno dopo e di
trasportare parte delle sue truppe all'ovest della Marna; il 10 il progresso è anche
più sensibile e la velocità della ritirata germanica aumenta.
Finalmente, tra Sarrail e il Kronprinz, all'estremità occidentale del grande arco,
al manico della gran falce, tra i mignoli delle due mani, la lotta anch'essa
furibonda, ha risultati meno felici per i Francesi; tuttavia essi riescono ad
impedire l'investimento di Verdun. Le truppe del Principe imperiale sono le sole
che restino ancora, in parte, l'11 settembre, nella regione dove si trovavano
all'inizio della battaglia; poi sono coinvolte nel ripiegamento generale
dell'esercito germanico, lasciano libera una buona metà dell'invasa Argonna, e
ripassano per il campo della battaglia di Valmy.
Odono esse allora la voce di Volfango Goethe ripetere, dopo centoventicinque
anni: Da quest'ora, in questo luogo, comincia una nuova storia?...
10 settembre 1917.
Romanzi di guerra.
I.
IL SENSO DELLA MORTE.
«Per me, ciò che si dice, ciò che si scrive, non ha interesse. Non capisco come in
Francia, oggi, si possa pensare ad altro fuorchè a battersi ed a curare feriti»,
osserva Caterina Ortègue nel nuovo romanzo di Paolo Bourget, significando con
queste parole un sentimento non già particolare all'anima francese, bensì comune
a tutte le genti coinvolte nella guerra mondiale. Ma se veramente i nostri non
sono tempi propizii agli esercizii letterari, e se i letterati scioperano infatti
dacchè operano i soldati, tanto più notevole è che l'autore di Crudele enimma e
di Menzogne, del Discepolo e di Andrea Cornelis, abbia composto in questi
giorni tremendi un'opera di fantasia.
Il lettore che vi si accostasse con l'idea di stornare le visioni cruente andrebbe
incontro a un disinganno. Già il titolo dovrebbe avvisarlo: Il Senso della morte
non promette scene gioconde od avventure erotiche. Le eroiche gesta dei
difensori della patria vi sono evocate, ma non espressamente: il libro è scritto per
narrare una battaglia morale. Paolo Bourget ha supposto che il dottor Marsal
fosse zoppo dalla nascita per ispiegare come non sia corso alle trincee; ma
quand'anche il personaggio godesse del perfetto uso di tutte le membra, altre
ragioni potrebbero dispensarlo dal combattere armata mano. Prestando l'opera
sua di sanitario nella clinica del professore Ortègue trasformata in ambulanza,
egli già compie il dover suo; quando lascia il bisturi per la penna e riferisce il
dramma di cui è stato testimonio, fa ancora cosa buona e degna. L'autore affida a
lui la cronaca di un avvenimento e lo studio del problema che ne scaturisce:
tragico avvenimento ed alto problema.
I.
Michele Ortègue, celebre chirurgo, operatore infallibile, insegnante illustre,
sposa a quarantaquattro anni una giovanetta di venti. Positivista, materialista,
assertore dei soli fatti che cadono sotto l'impero dei sensi, negatore d'ogni altra
verità che non sia dimostrabile per via di esperimento, egli si vergogna di aver
condisceso a contrarre il matrimonio religioso. Gli scrupoli della suocera
gliel'hanno imposto, non già quelli della moglie: costei ne avrebbe anzi fatto a
meno anche lei. Figlia e moglie di scienziati, Caterina è spregiudicata come il
padre ed il marito. E del marito che potrebbe esserle padre la vediamo anche
innamorata. La vediamo innamorata a segno che un giorno, quando Michele
Ortègue, deperito e languente, scopre di avere un cancro allo stomaco, e quando
anch'ella apprende l'orribile verità, restando esclusa per la stessa natura del male
qualunque speranza di guarigione, volendo anzi l'infermo sottrarsi agli spasimi
insopportabili mediante un veleno, ella gli offre di trangugiarlo insieme: patto
accettato con gioia ineffabile e con infinita gratitudine, perchè massima ed unica
prova d'un amore forte come la morte.
La gioia dell'infermo è tanto più grande perchè un dubbio si era insinuato
nell'animo suo. Allo scoppio della guerra il tenente Ernesto Le Gallic, cugino di
sua moglie, era apparso un momento nella clinica durante una breve missione
militare, reduce dalla frontiera, diretto un'altra volta al campo, e il professore
precocemente invecchiato a cinquantun anno, già in preda ai primi sintomi del
male più che mai scettico nell'anima, aveva temuto che il paragone col giovane
soldato, bello e prode, pieno di vita, ardente d'amor patrio e di fede in Dio, gli
dovesse recare troppo pregiudizio. Se invece Caterina è ora pronta a morire con
lui, non ha egli ragione di sentirsene rassicurato e insuperbito? Non trionferà
della vita, inducendo una giovane vita ad immolarsi per lui?...
Sennonchè ella ha promesso per compassione del sofferente, non per amore. Ha
voluto alleviargli la pena atroce della morte a cui si sa condannato, ha voluto
dargli un'ultima illusione ed un conforto estremo.... Improvvisamente il tenente
torna alla clinica. Vi torna dentro una barella, gravemente ferito. Caterina,
infermiera espertissima, si dà tutta all'ufficio pietoso; il professore, pure curando
il ferito, ricomincia a provare più acuti i morsi della gelosia. Il suo tormento
cresce a dismisura, ora che si sente attanagliate le viscere dal male senza
perdono. Ma non ha egli la promessa della moglie? Non è veramente giunta l'ora
di chiederne il mantenimento? Se Caterina dirà ancora di sì, se prenderà il veleno
con lui, non vorrà dire che l'ama, che ama lui unicamente? Ella è infatti pronta al
gran passo; ma egli non ne resta, come già un tempo, riconfortato. Ora i dubbii
lo assalgono e assillano. Morirà ella per amore, o non piuttosto per punto
d'onore, per non disdire la parola data?...
Questo, realmente, e non l'altro, è il sentimento di Caterina. L'eroismo del
cugino ha trionfato dell'egoismo del marito. Ella è turbata sino alle radici
dell'essere: come morire, quando l'anima sua rifiorisce? Non osa dirlo, ma non
può neanche nasconderlo del tutto: lo confida a un foglio di carta. Il dottor
Marsal, conoscendo la decisione del duplice suicidio imminente, e dubitando
della sincerità della donna, porta quel foglio al professore, per salvarla. Quando
Ortègue legge la confessione non da più in ismanie: una gran calma invade anzi
il suo spirito. Ora egli sa, e l'accertamento della realtà, la nozione della verità,
per un indagatore della sua tempra, per uno scienziato che non ha saputo nè
voluto far altro fuorchè verificare i fatti, è già una gran cosa, è come la
soddisfazione di un istinto irrefrenabile. Ma, con la luce, una nuova persuasione
si compie in lui. Quando s'illudeva ancora sulla natura del sentimento e del
consentimento di Caterina, egli poteva accettarne il sacrifizio; ora non più;
permettere ora che ella muoia, dopo aver saputo che non è spinta dalla passione,
dall'impossibilità di sopravvivergli, sapendo anzi che anela di vivere, sarebbe un
assassinio. Egli non lo commetterà. Non solamente scioglierà la moglie dal patto
di morte, ma al dottor Marsal che lo scongiura di non darsela, di sottoporsi anzi
ad un'operazione per guadagnare qualche mese di vita, risponde acconsentendo.
Ha finto, ha mentito, per esser lasciato solo. Quando Caterina, consolata dalle
notizie recatele da Marsal, torna presso il marito, lo trova fulminato da una
infezione tossica. Allora anch'ella vuol morire: ma un altro moribondo la salva:
il tenente Le Gallic. Anch'egli ha concepito, suo malgrado, una tenerezza
profonda, un amore inconfessato e inconfessabile per la cugina. Lo ha negato al
marito geloso ed a sè stesso, ma lo spasimo prodotto in lui dal dramma di cui è
stato spettatore ed attore ha esacerbato la sua ferita: sul punto di morire, alla
vedova del suicida, alla donna secretamente amata, egli addita nel compimento
del bene, nell'esercizio della carità, nella speranza di un'altra vita, il dovere di
vivere.
II.
Tragico caso, egregiamente osservato nella persona di Michele Ortègue.
Escludendo ogni finalità dall'universo, tutto facendo consistere nei fenomeni,
riducendo la coscienza umana ad un epifenomeno, costui parla ed agisce
secondo l'intima logica o la rigorosa necessità della natura sua. Sposare sulle
soglie della vecchiezza una fanciulla fu, a giudizio dei suoi colleghi, una
«pazzia»; si potrebbe anzi giudicare che fu vera colpa; ma quali scrupoli
avrebbero potuto trattenerlo, se egli era ed è persuaso che non esistono altre
leggi fuorchè quelle da cui il mondo fisico e l'organico sono governati? Amando
la giovane, egli l'ha fatta sua; l'amor proprio gli ha lasciato credere che un uomo
del suo valore può benissimo essere riamato, nonostante l'enorme differenza
degli anni. Quando si sente affetto da una malattia mortale, accettare che sua
moglie muoia con lui, gioire del patto, pretenderne la esecuzione, sono cose
anch'esse, secondo lui, naturalissime; perchè, in nome di quale principio, per
virtù di quale precetto potrebbe egli rinunziare ad un sacrifizio che è prova
d'amore, che appaga la sua vanità, che lo farà segno all'invidia del mondo, che
solletica così le sue passioni?... La mostruosa presunzione crolla ad un tratto,
quando il dottor Marsal gli dà a leggere la carta dove Caterina ha significato il
proprio rimpianto; crollata la presunzione, che cosa resta in quell'anima?
L'egoismo è mortificato, insanabilmente; la morte è vicina, inevitabilmente; e
perchè vivere ancora un poco, finchè tutte le fibre saranno incancrenite, se
nessuna forza morale aiuta a sopportare il dolore e se la morte è la distruzione
totale dell'essere? Precipitarsi subito nel nulla: questo un uomo come l'Ortègue
farebbe, e questo precisamente egli fa.
La condotta di Caterina non riesce persuasiva altrettanto. Per voler morire
insieme col marito, ella dovrebbe amarlo d'una passione immortale. Tale non è la
sua. La sua passione è anzi definita «più immaginaria che reale». In mancanza
dell'amore, la pietà, il bisogno di consolare l'agonia dell'uomo che l'ama, può
indurla a consentire di avvelenarsi con lui; ma il suo è più che un consentimento
chiesto ed ottenuto; è anzi un patto da lei stessa proposto, quasi imposto da lei:
ella stessa esige che il marito le giuri di avvertirla quando avrà deciso di morire.
Può bensì ella avergli tenuto questo linguaggio non potendo altrimenti
dimostrargli che lo ama e dissipare i suoi dubbii, ma nell'atto che gli ha detto
d'amarlo tanto, ha pure soggiunto: «T'amo.... Non so se è impossibile, se è
insensato. So che è»: parole che avrebbero potuto e dovuto aprire gli occhi ad un
uomo meno accecato dall'amor proprio.
Altri fattori concorrono, è vero, a spiegare l'offerta di Caterina. Ella sente
altamente, prova disgusto per le donne che passano dall'uno all'altro amore, vuol
dimostrare a sè stessa d'essere rimasta fedele ad uno solo. Ora, turbata sino in
fondo all'anima dalla vista del cugino, dell'eroe giacente sul letto di dolore, ella
prevede di cadere nelle sue braccia se non morrà col marito. Dove sarebbe
tuttavia il male? Poichè il marito è condannato senza rimedio ed ha qualche
mese di vita appena, e poichè il cugino non è neanche egli uomo da contentarsi
d'un amore libero e libertino, ma vorrà anzi sposarla, dopo il lutto vedovile,
dinanzi al mondo ed a quel Dio nel quale fermissimamente crede, la coscienza di
lei non dovrebbe dunque tremare. Dove è detto che neanche la morte possa
restituire la libertà ad una creatura umana, quando ella stessa non si sente
vincolata dalla sua propria passione? Caterina non ama più d'amore l'uomo a cui
è unita, se pure lo ha mai amato così; ama il cugino, si sente amata da lui; e
quando non ha da far altro che dar tempo al tempo, aspettare che il cancro, il
male organico di cui nessuno è responsabile, compia l'opera sua, dovrebbe
invece giudicare cosa «naturale», cosa «inevitabile», morire insieme col
canceroso?
Quanto è inumano il patto, tanto umano è il pentimento. Logicamente,
necessariamente, ella deve pentirsi e ribellarsi. Se suo marito ne prova tale
disinganno da darsi tosto la morte, deve o soltanto può ella concepirne un
rimorso che la risospinga al suicidio? Dov'è la sua responsabilità? Ella non ha
fatto altro che scrivere per sè stessa il pensiero suo intimo: quello scritto le è
portato via dal dottor Marsal; egli stesso, ad insaputa di lei, corre a presentarlo al
professore. Chi può chiamarla a renderne conto? Certo, ella deve provare una
ambascia acutissima nel veder morto il compagno della sua vita, l'uomo a cui
aveva promesso di seguirlo sotterra; ma se di questa promessa si pentì, se questa
idea le riuscì intollerabile, se la vita la riprese, e con essa l'amore e la speranza
della gioia, può ella sentirsi ancora legata dall'orribile patto dinanzi a un
cadavere?... Quando il dottor Marsal, l'abate Courmont e più che altri il cugino
di lei si propongono di strapparle di mano la boccetta del veleno e di persuaderla
a vivere, si può antivedere che non dovranno durare molta fatica per riuscir
nell'intento....
III.
Ciò non vieta che le parole con le quali Ernesto Le Gallic le insegna la legge
della vita e del dolore siano da meditare. Tutto, nella figura, nelle azioni, nei
sentimenti di lui è logico e coerente, come — sebbene all'opposto polo del
mondo morale — in quella di Michele Ortègue. Quanto è inveterato e quasi
viscerale lo scetticismo di costui, tanto profonda, essenziale è la fede di Ernesto.
L'urto delle due tendenze non può essere evitato: e questo contrasto è
l'argomento sul quale Paolo Bourget ha voluto fermare l'attenzione del lettore.
Dinanzi alla scomposta disperazione del professore monista, dinanzi alla sua
intolleranza del dolore fisico che lo rende morfinomane ed aggrava così le sue
condizioni organiche, dinanzi alla sua incapacità di sopportare il dolore morale,
dinanzi all'incontinenza sentimentale che lo spinge a fare una scena di gelosia al
ferito, al morente, lui morente, torturandosi e torturandolo; dinanzi alla
fiacchezza dell'animo suo che lo induce a fuggire la vita prima del tempo, mentre
ancora potrebbe salvare tante altre vite di soldati sanguinanti per la Patria — di
fronte a questa insania la serenità di Ernesto Le Gallic, la forza con la quale egli
soffre e reprime la sua passione per Caterina, tacendola a lei e negandola a sè
stesso; la bontà, l'indulgenza, la ragione che oppone ai sarcasmi del frenetico
sospettoso, la rassegnazione con la quale vede avvicinarsi la morte, l'eloquenza
della sua fede destini dell'anima rifulgono ed ammoniscono.
Egli non trionfa effettivamente del rivale, non lo converte. Persuade la donna
secretamente amata a vivere, ma nè l'impresa era molto ardua, nè Caterina è da
lui rimessa sulla via della fede: al contrario, ella continua a dubitare. Molto
agevolmente il Bourget avrebbe potuto mostrarla ricreduta. Fanciulla, costei era
stata religiosissima; solo la disciplina scientifica del padre e del marito avevano
potuto distoglierla dal sentimento del divino. L'eroe che ella ama, e che l'ama,
potrebbe, morendo, restituirla alla Chiesa. Si può dire qualche cosa di più:
l'ufficio di sostenere la necessità della preghiera non dovrebbe naturalmente
essere conferito a lei, alla donna?
Se l'autore non ha fatto così, è segno che non ha voluto. Vi è dentro di lui come
una specie di rivalità fra l'artista intento a rappresentare la vita e il moralista
ansioso di diffondere un insegnamento. L'efficacia della sua opera d'arte può
talvolta essere qua e là menomata dal preconcetto, ma l'artista prende tosto la sua
rivincita. È lui quello che ha impedito a Ernesto Le Gallic di operare
conversioni. Michele Ortègue nega fino all'ultima sua ora, fino ad uccidersi,
stoicamente; Caterina continua a dubitare. Ella accetta di vivere per gli altri, si
prodiga ai sofferenti, sino all'esaurimento; ma ignora se le sarà tenuto conto,
altrove, dell'opera sua. Talvolta lo spera; le pare talvolta che una voce le dica
grazie; ma non sa da che parte le venga. Che importa, se l'opera è santa?
Ed il suo dubbio, più artistico — cioè più vero — è anche, senza paradosso, più
persuasivo. La conversione potrebbe sembrare voluta, artifiziata, falsa;
l'incertezza, invece, l'esitazione, l'interrogazione sono atteggiamenti proprii dello
spirito umano. L'importante è che questi problemi lo occupino. Il merito di Paolo
Bourget è quello di averli proposti, oggi che il fiore della gioventù s'immola
sull'altare della Patria, oggi che tutte le forze, tutti i valori morali devono essere
chiamati a raccolta per la vittoria.
23 novembre 1915.
II.
LA FAMIGLIA VALADIER.
Leggere le prime pagine ed i primi capitoli delle Heures de guerre de la Famille
Valadier di Abele Hermant è provare l'impressione che la guerra mondiale, o
almeno quella dei Francesi contro i Tedeschi, sia finita da un pezzo. Sarebbe
altrimenti possibile scherzare intorno all'argomento tremendo? Come trovare
materia di sorriso e di riso nell'ora paurosa del pericolo, nell'ora sublime
dell'olocausto? Chi avrebbe l'animo di indugiarsi a rilevare i lati comici della
tragedia immane?... Quando udiamo il professore Valadier ordinare al figlio di
staccare dal muro la cornice dove, «come una reliquia», è serbato un pezzetto di
pane del 1870; quando vediamo il giovane Valadier, in costume di boy-scout,
mettersi sull'«attenti», eseguire l'ordine «a passo accelerato», e porre «sotto il
naso» dell'ospite, del narratore, «l'orribile crosticina che i suoi quarantatrè anni
d'età non hanno resa nè più nè meno appetitosa», noi pensiamo che anche la
nuova guerra, durante la quale il professore recita un suo ingegnoso discorso
sulla carestia del grano e la «virtù delle mortificazioni», ma confessa che «la
mollica riesce mortale al suo stomaco dilatato», noi pensiamo che anche la
guerra del Quattordici e del Quindici, come quella del Settanta, dev'esser passata
al dominio della storia. Se fosse attuale, se in una parte notevole del territorio
francese lo straniero restasse ancora accampato, se tutti gli sforzi della nazione
fossero ancora intesi a scacciarlo, potrebbe il narratore riferirci che il suo
personaggio, dopo la quotidiana «variazione» sul pane, udendo il quotidiano
squillo di campanello annunziante l'arrivo della quotidiana gazzetta, si mette a
cantare, sull'aria della Bella Elena:
Ce coup de tonnerre
Annonce à la terre.
Un communiqué...?
C'è veramente qualche passo nel quale il lettore prova quasi il bisogno di portar
la mano agli occhi per accertarsi di non aver travisto o frainteso. L'umore e il
buon umore del romanziere sembrano un'irriverenza, quasi una profanazione....
Quando si procede nella lettura l'impressione di anacronismo e di sconcerto si
attenua: quando si voltano le ultime pagine è già vinta, cancellata, dispersa. Uno
scrittore di professione, un lavoratore della penna, non avrebbe trovato difficoltà
a comporre sulla guerra un romanzo con dentro una tesi, un libro di predicazione
patriottica, di propaganda nazionale; Abele Hermant ha composto invece la
Famiglia Valadier perchè così portava l'intima e singolare natura dell'ingegno
suo. «Ai giorni che corrono», dichiara in un certo luogo, «tutto ciò che non è
sincero mi riesce odioso». Si può aggiungere che non oggi soltanto, ma in ogni
tempo la sincerità è doverosa ed amabile. L'ironico osservatore della vita, il
delizioso autore di quei Transatlantici che non udremo più nella mirabile
recitazione di Alberto Giovannini, non poteva smettere l'abito suo; anche
avendone la possibilità gliene sarebbe mancata la ragione; perchè, con la sua
ironia, col suo umorismo, la Famiglia Valadier è anch'essa l'opera di un
patriotta: opera d'arte dove le ragioni dell'arte sono rispettate, dove la moralità e
l'insegnamento non sono inclusi con artificio, per forza, a furia di retorica, ma
scaturiscono invece naturalmente come dalla stessa vita.
I.
I Valadier sono una famigliuola borghese composta del padre, della madre e di
tre figli, tutti in preda alla passione del teatro. Ha cominciato la primogenita,
Emma, entrando al Conservatorio drammatico ed uscendone premiata agli esami
finali. Valadier padre, professore di storia afflitto dal nome di Arturo, non
volendo ostacolare la vocazione della figliuola, ma sentendo incompatibile la
dignità professionale con la qualità di genitore d'una commediante, ha lasciato
l'insegnamento, ed a furia di udire e di leggere opere teatrali, parla e gestisce ora
anch'egli come dalla ribalta. I due figli minori, Luciano e Luisa, familiarmente
chiamati Lulù e Lilì, contraggono il contagio a loro volta, e si tirano l'uno per
attor comico, l'altra per attrice tragica. La signora Valadier, agli occhi della quale
il marito è stato ed è un oracolo, incoraggia da parte sua quelle tre vocazioni
ripromettendosene gloria e ricchezza, ed acquista intanto l'aspetto, il fare e le
mosse del madro. In questa casa, subito dopo gli esami di Emma, e qualche
settimana prima dello scoppio della guerra, ha cominciato a prendere i suoi pasti
uno degli esaminatori della giovinetta, un autore drammatico, un prestanome
dello stesso autore, il quale narra in prima persona ciò che vede e ode.
Egli ode giudizii politici e militari enunziati con grande sufficienza dall'ex-
professore, come questo, ad esempio: che «l'assassinio dell'arciduca Francesco
Ferdinando non potrà avere nessuna influenza sulla politica generale
dell'Europa»; oppure come la risposta data con piglio severo al figliuolo che gli
domanda se la Francia volerà in soccorso del Belgio: «No! La nostra generosità
ce lo consiglierebbe; ma, per Dio! non facciamo i sentimentali! Siamo
obbiettivi!...». Egoismo mentito, parte recitata: quando il brav'uomo apprende
che l'esercito francese passa effettivamente dalla difesa all'attacco, ne concepisce
tanta esultanza che si mette a spiegare il comunicato a chi vuole e a chi non
vuole udirlo, finanche alla serva, «imperocchè egli obbedisce al precetto
borghese di non esser familiare con i servitori, ma si rammenta anche di
Molière».
Prima della guerra, il giovane Lulù aveva i capelli biondi e portava abiti
attillatissimi; allo scoppio delle ostilità si è trasformato in boy-scout collettore
della Croce Rossa, e quantunque abbia appena diciassette anni, chiede di
marciare come volontario: quando la sua domanda è accettata, i capelli gli
s'imbruniscono perchè tralascia di darsi l'acqua ossigenata: sebbene poi, nel
vestirsi per andare a passar la visita, metta tali cure, aiutato dall'intera famiglia,
che la casa Valadier sembra trasformata in un «camerino d'attore, dove non si
bada a tirare il lucchetto nè ad accostar l'uscio prima di cambiar d'abito: la sola
differenza fu che egli non adoperò nessuna polvere o piumino, e per comparire
dinanzi ai giudici non si dipinse gli occhi. Aveva già sacrificato la chioma, talchè
era tosato e del più bel nero...». La sua ammissione nell'esercito è
concordemente festeggiata dai genitori e dalle sorelle, ma quando l'ospite si reca
a salutare il nuovo soldato, lo trova singhiozzante sulle ginocchia del padre che
tenta invano di confortarlo recitandogli con voce tremante un vecchio ritornello
del Béranger, mentre tutti gli altri parenti sono in lagrime e tragicamente
atteggiati. Egli ne concepisce un senso di sdegno, credendo che il giovane abbia
ora paura e che anche la famiglia sia pentita di avergli accordato il suo consenso;
ma la signora Valadier adduce la ragione di quell'angoscia — nobile ragione,
sebbene spiegata col gesto e la voce di un personaggio del Corneille: «Lulù
sperava d'esser destinato alla fronte, e lo mandano invece ad Albi....».
Quella della partenza è una scena commovente, sebbene «l'avrei giudicata senza
dubbio più commovente se non fosse stata una scena....». L'ottimo Valadier è
addolorato nel veder partire il figliuolo, «ma si sarebbe sentito molto più infelice
se gli avessero vietato di rappresentare la sua parte di padre nobile secondo il
Diderot e di prendere in prestito al Greuze la truccatura del ruolo.... Egli
pronunziò un discorsetto pieno di coraggio e di sensibilità. Le sue lagrime
colarono. Noi non potemmo trattenere le nostre. Erano lagrime del secolo
decimottavo. Ma quando la signora Valadier baciò il soldatino sulle due guance e
gli disse: — Va', caro ragazzo mio — non so perchè quelle parole mi scossero
molto più che l'allocuzione del papà. Non significavano tuttavia gran cosa, salvo
che quella madre, un po' ridicola ma dolorosa, dava con tutto il cuore, e senza
frasi, il figliuolo diletto alla Patria. Io trassi un singhiozzo da bambino. Il signor
Valadier mi guardò con occhio severo, ma perchè aveva paura di fare
altrettanto».
II.
Con quest'arte, con questo stile Abele Hermant narra di Emma Valadier.
L'ospite, vedendo la giovanetta sempre pensierosa e triste, sospetta che abbia un
secreto d'amore colpevole, ma non depone perciò l'idea, concepita fin dalle
prime visite, di insidiarla; giudica anzi l'impresa tanto più facile se ella ha già
avuto un amante. Ma quando si accinge a farle la sua brava dichiarazione, Emma
gli butta le braccia al collo e scoppia in pianto, annunziando: «È morto!». Chi è
morto?... «L'amico mio!...».
Era un compagno di studii, un futuro compagno d'arte. La guerra lo prese dei
primi. «Non avremmo certamente fatto nulla di male se la guerra non fosse
scoppiata. Ma il sabato, appena vidi il manifesto della mobilitazione, corsi da lui.
Aveva un alloggetto in via Bergère. Mi aprì: naturalmente non teneva servitori.
Da principio m'abbracciò e disse: — Vinceremo!... Gli risposi: — Oh, sì, cerio!
E poi soggiunse: — Emma, potrà ben darsi che non tornerò più.... Allora gli
risposi: — Fa' di me ciò che vuoi....»
Bisogna leggere nel testo tutta la pagina. A un tratto l'uscio si schiude «e il
signor Valadier fece una brusca entrata, seguito dalla signora Valadier che lo
tratteneva. Lo tratteneva almeno nella stanza attigua, ma dovette poi liberarlo sul
passo dell'uscio, che è stretto; e una volta l'uscio passato, lo riagguantò per la
falda della giacchetta. Non essendo armato, il signor Valadier non uccise
nessuno e si contentò di fare un gesto di maledizione; poi s'inabissò nella
poltrona che Emma gli aveva istintivamente ceduta, e si nascose il viso tra le
mani. Io ero ben contento che la scena non volgesse al tragico, ma non potevo
difendermi dal mandare al diavolo quel valentuomo che si disponeva a
rammentarmi la Dionigia proprio nel momento in cui provavo la più sincera
commozione ed ero a cento miglia dal teatro. Fortunatamente il repertorio del
signor Valadier è diverso, ed egli sentì, al pari di me, come il Diderot fosse più di
stagione che non Dumas figlio. Alzò lentamente la fronte ingombra. Il suo viso
passò, per insensibili gradazioni, dall'espressione di una collera santa a quella
della clemenza di Augusto. Il suo sguardo si rischiarò e divenne d'un'infinita
dolcezza. Spalancò le braccia, Emma vi si precipitò, egli le richiuse intorno a lei,
e non si udì altro, nella modesta cameretta dove il crepuscolo già discendeva,
che un suono misericordioso di singhiozzi e di baci».
Questo è il secreto di Abele Hermant: una indovinatissima mescolanza di
comico e di drammatico, la riproduzione integrale degli aspetti ridicoli e patetici
dell'esistenza, con l'aggiunta di un commento che è, secondo i casi, e talvolta ad
un tempo, umoristico e serio.
Il professore Valadier, parlando ora come Socrate ed ora come il Bonhomme
Jadis, è un gran brav'uomo, un padre eccellente, un cittadino esemplare. Egli
procedeva all'esame delle poche righe dei comunicati come un epigrafista studia
le iscrizioni, come un insegnante di lettere pesa tutte le parole d'un vecchio testo
venerabile. Mai una pagina di Virgilio, di Racine o di Bossuet fu sottoposta a
simili prove. Arrivava sino a tentare certi spostamenti della punteggiatura che
modificavano il senso della frase, o che gliene davano uno quando per caso non
ne aveva. Si permetteva di tanto in tanto qualche appunto di natura
grammaticale, ma non trovava da ridire circa lo stile; perchè, come lutti i buoni
Francesi, approvava senz'altro quanto emana dal Governo.....» Dopo tante
notizie angosciose, dopo tante speranze e tante delusioni, la lettura del bollettino
che annunzia la battaglia della Marna gli procura uno scoppio di pianto.
«Credo», dice, dopo avere abbracciato l'ospite, che sia una vittoria.... Lo disse a
voce molto sommessa, come se avesse vergogna o paura della gran parola che
proferiva. Io chinai il capo. Ero in preda anch'io ad un bizzarro sentimento di
paura o di vergogna che non sapevo spiegare a me stesso. Credo bene che
singhiozzassi anch'io. Non mi rammento....» Ed alla proposta di comperare una
bottiglia di champagne per festeggiare l'avvenimento, Emma Valadier esclama
candidamente: — Oh, no! Oggi non ne vale la pena, poichè è una vittoria vera».
Luciano Valadier, «il povero istrioncello fatuo e ridicolo», diventa un altr'uomo
per virtù della guerra. Quando l'ospite apprende che lo hanno trasportato dal
campo all'ambulanza, che è stato operato, che si tratta di cosa non lieve, corre a
trovarlo. « — Dove sei ferito?... — Egli alzò le spalle, poi voltò la faccia contro
il muro, e vidi e udii che singhiozzava. Ne fui spaventato. Lo supplicai di non
lasciarmi più a lungo in quell'ansia mortale. Egli rivoltò il viso dalla mia parte e
disse con tono furibondo: — Non sono ferito, m'hanno operato d'appendicite otto
giorni addietro; non mi sono sentito di scriverlo alla mamma.... — Sciocco! —
esclamai. Egli scoppiò di nuovo in singulti, ed io non potei frenare una risata. —
Via! gli dissi; non è cosa che disonori! Perchè piangi?... — Egli rispose,
interrottamente: — Non capisci.... non capisci che ne ho ancora per una
quindicina di giorni.... e che poi.... poi vogliono darmi una licenza di due mesi....
Due mesi e quindici giorni!... Allora.... di qui ad allora la guerra sarà finita!... —
Ma no, piccino mio, che la guerra non sarà finita di qui a due mesi!... — Mi
afferrò allora per il collo e si mise a piangere sulla mia spalla. Ripeteva
continuamente: — Mi giuri?... Giuralo!... Giurami che non sarà finita!... — Gli
giurai che la guerra non sarebbe finita tra due mesi, lo cullai come un bambino e
lo guardai con ammirazione. Non ridevo più....»
Con una mano altrettanto leggera, ma non meno sicura, è sfiorato l'argomento
della fede. Il professore Valadier, «anticlericale della più bell'acqua, nei suoi
verdi anni, obbedì alla velleità di credere in sull'inizio delle ostilità; ma ora non
crede più, col pretesto che la guerra dura troppo e che per conseguenza il buon
Dio non c'è; inoltre, la neutralità della Santa Sede lo sdegna, ed ecco insemina un
convertito la cui conversione non è durata sei mesi». Ma quantunque appartenga
ad una generazione di uomini «che sono nemici personali del miracolo», egli
esclama: «Fu miracolo!» quando considera come Parigi restò salva
dell'invasione teutonica.... Suo figlio, come tutti i soldati, non parla del futuro
senza avvertire: «Se Dio mi dà vita», e l'osservatore commenta finissimamente:
«Coloro che vanno a battersi diventano volentieri superstiziosi; sarebbe un torto
rimproverar loro questa debolezza, mentre è tollerata nei giocatori....», e quando
Emma, avendo potuto vedere un'ultima volta il suo diletto, esclama, all'opposto
del padre: «C'è pure il buon Dio» e quando il signor Valadier spera
nell'intercessione della Vergine per la salvezza del figlio, l'umorista non
commenta più.
III.
Resterebbe ora da narrare la conoscenza fatta da Emma all'ospedale, dove si reca
ogni giorno per visitare i soldati in atto di pietoso omaggio alla memoria del suo
caro perduto; l'idillio che pare s'intessa in quella casa del dolore e della speranza;
e come poi la giovane, che è vedova senza aver cessato d'essere signorina, e che
mette al mondo un bambino quasi senz'essere stata donna, elegga di restar
vedova e madre venerando le reliquie del suo diletto. Resterebbe ancora da
spigolare fra tanti gustosi episodii, fra tanti squisiti particolari d'osservazione e
d'espressione; ma riesce propriamente impossibile seguire qui la tenue trama del
romanzo e molto difficile rendere in un'altra lingua il sapore delle sue pagine.
Questo libro veramente francese, dove è dipinta dal vero una famiglia della
piccola borghesia parigina, possiede tuttavia un valore rappresentativo molto
maggiore che non sembri.
Il genere umano è in massima parte composto di tante famiglie Valadier, con le
loro smanie, le loro manìe, le loro vanità, le loro stesse volgarità; ma questa
piccola gente, all'occasione, dimostra d'esser pure una gran brava gente e riscatta
le debolezze con l'eroismo, e le ridicolaggini con la bontà, la generosità, la
gentilezza. Per questa ragione l'ironia del romanziere non è caustica, come suole.
L'umorismo, in fondo, lascia un senso d'amaro e un sentimento di sfiducia: ma
Abele Hermant, il quale confessa d'aver perduto per proprio conto, questa volta,
il suo scetticismo, contribuisce a combatterlo negli altri con lo spettacolo di virtù
non studiate, senza paludamento, anzi semplici ed umili. Dove la
rappresentazione di qualità sovrumane rischierebbe di non esser creduta, dove
gli effetti convenzionali lascerebbero freddo il lettore, i casi e le parole di questi
personaggi veri e sinceri lo interessano e lo commuovono. Appunto perchè non
ha tesi, la Famiglia Valadier acquista tanta efficacia quanta corrono pericolo di
perderne i romanzi composti secondo le ricette della «psicologia classica e
ufficiale», quella psicologia della quale Abele Hermant ha ragione di dire che
non ha niente da vedere con la realtà.
22 decembre 1915.
Paesaggi di pace e paesaggi di guerra.
Tra i Francesi amici nostri, Gabriele Faure ha da tempo un posto eminente: la
maggiore e miglior parte della sua produzione letteraria è consacrata —
l'espressione religiosa non sembri impropria — all'Italia. I tre volumi delle
Heures d'Italie, oltre quello delle Heures d'Ombrie, e gli altri quattro sul Pays de
St. François d'Assise, sulla Via Emilia, sulla Route des Dolomites e Autour des
lacs italiens, sono i documenti della passione con la quale egli ha studiato il
nostro paese: passione, e non semplice curiosità, o diligenza, o interesse, o
dottrina: passione vera e profonda, tenace e fervido e nostalgico amore. Uno
degli stessi suoi romanzi, l'Amour sous les lauriers-roses, si svolge in Italia, sul
lago di Como, e il paesaggio italiano è il galeotto che sospinge gli occhi a
Maddalena Frémeuse ed a Renato Seillon, che scolora i loro visi ed unisce le
loro bocche.... Stendhal, altro italiano d'elezione, disse che un paesaggio è uno
stato d'animo; il Faure, stendhaliano nel sangue, va un poco oltre: il paesaggio è
per lui quasi un personaggio: sente, vive, parla, suggerisce, persuade. Paysages
passionnés, appunto, intitolò l'autore una specie di antologia di pagine descrittive
dove i luoghi non sono tanto rappresentati come apparenza, quanto interpretati
come espressione. Ed oggi egli pubblica un volume di Paysages littéraires
meritevolissimo di essere raccomandato ai nostri lettori, non foss'altro perchè
una buona metà dei capitoli concerne l'Italia.
I.
È curioso scoprire, per esempio, le stranezze e le contraddizioni dei giudizii dati
intorno ai più singolari aspetti del nostro paese da un luminare della letteratura
paesista, sceso ben sei volte nella Penisola: il visconte di Chateaubriand.
Cominciamo col notare che nel Genio del Cristianesimo le pagine concernenti
l'Italia e gli artisti italiani furono composte di maniera, prima che l'autore
passasse le Alpi; quando le valica, nel 1803, resta deluso perchè non trova la
pianura appena scavalcato il Moncenisio; giudica bello l'effetto dei dintorni di
Torino, ma «ci si sente ancora la Gallia: credevo di trovarmi in Normandia»; la
metropoli piemontese è «d'aspetto un poco triste»; i campi lombardi gli
piacciono, ma non il Duomo di Milano, perchè «il gotico, e lo stesso marmo, mi
sembrano stonare col sole e con i costumi italiani»; arrivando a Napoli, non è
impressionato dal paesaggio, «fertile, ma poco pittoresco»; i luoghi virgiliani gli
offrono uno spettacolo «magico» bensì, ma non «grandioso». Dal Vesuvio
contempla «uno dei più bei paesaggi del mondo»; ma il grandioso, l'imponente,
l'affascinante è da lui trovato, finalmente, a Roma. «Ci sono, finalmente! Tutta la
mia freddezza è svanita. Sono accasciato, perseguitato da ciò che ho visto....»
Tanta è stata la sua freddezza, che certi passi del Voyage en Italie sono più aridi
delle indicazioni d'una guida e d'un catalogo; ma a Roma, e dinanzi alla
campagna romana segnatamente, il poeta della solitudine e delle rovine prova
un'impressione profonda: profonda a segno, che dopo averla espressa nella
lettera del 10 gennaio 1804 al Fontanes, egli quasi s'ingelosisce quando altri
dopo di lui osa ancora descrivere quei luoghi, dei quali si stima senz'altro
scopritore: «i viaggiatori francesi ed inglesi venuti dopo di me hanno segnato
ogni loro passo dalla Storta a Roma con altrettante estasi: il signor di Tournon
segue la traccia d'ammirazione che io ho avuto la fortuna d'indicare». Ed a Roma
vorrebbe morire: «Se avrò la ventura di finire qui i miei giorni, ho fatto in modo
da avere a Sant'Onofrio un cantuccio adiacente alla camera dove il Tasso spirò.
Nei momenti perduti della mia ambasceria, alla finestra della mia cella,
continuerò le mie Memorie. In uno dei più bei siti del mondo, fra gli aranci e le
querce, con Roma intera sotto gli occhi, ogni mattina, mettendomi all'opera fra il
letto di morte e la tomba del poeta, invocherò il genio della gloria e della
sventura....»
Non potendo appagare questo voto, tornato in Francia e ripartitone per l'esilio
del 1832, egli scende in Isvizzera e si ferma alle porte d'Italia, a Lugano, dove
ancora una volta prova la tentazione di fermarsi e morire. «Finirò dunque le mie
Memorie sulla soglia di questa classica e storica terra dove Virgilio e il Tasso
cantarono, dove tante rivoluzioni si compirono? Rimembrerò il mio destino di
Bretone dinanzi allo spettacolo di queste montagne ausonie? Se il loro velario si
alzasse, mi scoprirebbe le pianure lombarde; di là, Roma; di là, Napoli, la Sicilia,
la Grecia, la Siria, l'Egitto, Cartagine; plaghe remote che misurai, io che non
posseggo tanto di terra quanta ne premo con la pianta del piede....» Ma
l'incredibile è che questo romantico errante, questo ricercatore e amatore di
luoghi insigni per natura o storia od arte, arrivato nel 1806 a Venezia, donde
salperà verso l'Oriente, non solamente resta freddo dinanzi a quella meraviglia
del mondo, ma sente il bisogno di dichiarare nella lettera al Bertin: «Questa
Venezia, se non m'inganno, vi dispiacerebbe quanto a me. È una città contro
natura....», soggiungendo prove talmente puerili del suo giudizio, da sollevare
giustamente lo sdegno dei Veneziani: articoli di gazzette ed appositi opuscoli
daranno sulla voce al temerario, e qualcuno dichiarerà di non sapere se
prendersela più con la sua «cattiveria» o con la sua «stupidità».
È vero che ventisette anni dopo, nel 1833, egli si ricrede o scioglie un inno alla
città delle lagune: «Si può, a Venezia, credersi sul ponte d'una superba galera
all'àncora, sul Bucintoro, dove vi diano una festa e dal cui bordo scopriate
mirabili cose....»; è vero che egli riesprime il desiderio di vivere e morire anche
qui: «Perchè non posso chiudermi in questa città in armonia col mio destino, in
questa città dei poeti, dove Dante, Petrarca e Byron passarono?...» ma il Faure
nota argutamente come l'improvviso infatuamento dopo il disprezzo fosse
determinato dalla voga data a Venezia dai nuovi scrittori stranieri, dal Byron
precisamente.
Si potrebbe, dunque, trovare qui una prova di ciò che non era per altro ignoto:
della poca sincerità dello scrittore. Il presuntuoso stimatosi quasi inventore della
poesia della campagna romana, si mette ad ammirare la già denigrata Venezia
per amore di byroneggiare!... Ma c'è, sotto un altro aspetto, anche di peggio. Egli
si lagna perchè nel 1833 non ritrova le rive del Brenta quali erano la prima volta
che le percorse: «L'Austria è venuta: essa ha rimesso la sua cappa di piombo
sugl'Italiani e li ha costretti a ridiscendere nel loro sepolcro»: osservazione
amarissimamente vera, che ha il solo difettuccio di esser fatta da uno dei più
illustri tirapiedi della Santa Alleanza, dal congressista di Verona, dal turiferario
della «miracolosa» Coalizione e della diplomazia del 1814, del '15 e del '22 che
«fondò nell'avvenire i diritti dei sovrani e dei popoli, e la sicurezza e la libertà
dell'Europa!».
Il Faure non fa critica storica, nel suo bel libro, e neanche semplicemente
letteraria; tuttavia egli non tralascia di rilevare quel tanto di falsità che c'è in
qualche pagina italiana di Giorgio Sand. La celebre scrittrice, l'amatrice famosa
ha piantato a Venezia il povero Alfredo infermo e se n'è andata col suo Pagello a
Bassano: la passeggiata di due giorni nei dintorni della città veneta diventa una
«spedizione» nel cuore delle Alpi; la novelliera dichiara d'essersi «scorticate le
mani e le ginocchia», per attingere le estreme «solitudini» e l'«ultima vetta»;
soggiunge ancora d'essersi creduta in America, negli «eterni deserti che l'uomo
non ha potuto ancora conquistare sulla natura selvaggia....». Con lo stesso spirito
di verità lo Chateaubriand l'aveva gabellato per un viaggio di scoperta nei deserti
dell'America settentrionale quello che un critico, «spietato» secondo il Faure,
ridusse alle modeste proporzioni di un'escursione al Canadà....
II.
«Spietata» veramente suole riuscire la critica quando si attenta di scemare o
distruggere il fascino esercitato dai grandi scrittori; ma è colpa della critica se i
grandi scrittori, e le grandi scrittrici, non hanno tutti una grande anima?
Per buona sorte, Gabriele Faure non va incontro a delusioni quando sceglie altri
soggetti, più nobili e puri. Giustamente persuaso che non è possibile evocare i
genii se non nel quadro che fu loro familiare, egli ascende in reverente
pellegrinaggio il poggio di Arquà, entra nella casa del Petrarca, volge lo sguardo
alle colline ed alla pianura che furono l'ultima visione del cantore di Laura;
scende poi, o per meglio dire ritorna nella verde Umbria e si ferma a
contemplare il paesaggio francescano di Clara Scifi, la madre delle clarisse.
Immagini singolarmente espressive egli trova anche per rivelare l'anima dei
luoghi lamartiniani e stendhaliani, ma il suo più grande fervore è serbato
all'Italia: «Italia, Italia», ripete col Byron, «tu fosti e sei sempre il giardino del
mondo, la patria della Bellezza nell'arte e nella natura!...».
Un appunto, tuttavia, gli si potrebbe, o per dir meglio gli si poteva muovere fino
a poco tempo addietro; perchè la sua visione del nostro paese è, talvolta, un poco
quella della tradizione: una specie di «giardino di Armida» — giudica il
protagonista dell'Amore sotto gli oleandri — un luogo, per conseguenza, dove
non si fa altro che godere ed obliare. Sul lago di Como, nel bacino della
Tremezzina, a Bellagio, «tutto è voluttuoso, tutto parla ai sensi, tra gente
unicamente intenta all'amore ed al piacere»; a segno, che quando Lucilla ne
fugge e prende una barca per guadagnare l'opposta riva, il barcaiuolo la guarda
«con aria maliziosa» e le domanda: «Une histoire d'amour, n'est-ce pas,
signora?....». Si potrebbe — si poteva — chiedere al Faure il ritratto di cotesto
barcaiuolo, se lo stesso autore non avesse ora scritto altri due libri: i Paysages de
guerre de France et d'Italie, e De l'autre côté des Alpes: sur le front italien, dove
«quei Francesi che troppo spesso parlano un poco leggermente dell'Italia»
possono apprendere che questo paese del «languore dei sensi» è anche il paese
dei forti propositi, dei magnanimi ardimenti, dell'indomito coraggio e
dell'eroismo sublime.
Nelle sue visite per le città e le campagne della zona di guerra, il Faure non può
dimenticare d'essere artista; ma il cittadino della nazione alleata, l'ammiratore
dello sforzo italiano pensa al passato bellicoso di Brescia dinanzi alla sua
Vittoria e vi trova una promessa ed un simbolo; ricorda gli studii fatti sulla
scuola di pittura a Bassano, ma esalta la virtù guerresca della città; giudica che i
palazzi merlati non sembrano più, come un tempo, fuori posto nella Treviso cui
gli apparecchi di guerra hanno oggi conferito un nuovo aspetto di forza; ammira
le pittoresche vedute delle Alpi carniche, ma anche più gli «splendidi» alpini che
ne custodiscono i passi, ed il «miracolo» del nostro organamento militare; chiede
anche a sè stesso, rileggendo il Carducci, quali parole il poeta di Ça ira
troverebbe per cantare la Marna e Verdun, «in quella stessa regione dell'Argonna
e della Mosa che tanto giustamente chiama Termopili della Francia». «Se egli
vivesse ancora», soggiunge, «noi ci volgeremmo a lui, vegliardo divino, come
egli si volgeva a Vittor Hugo, e gli chiederemmo di cantare anche alle nuove
generazioni il canto secolare del popolo latino:
Canta a la nuova prole, o vegliardo divino,
Il carme secolare del popolo latino;
Canta al mondo aspettante Giustizia e Libertà...».
INDICE.
AVVERTIMENTO Pag. VII
Vigilia italica 1
Una Absburgo in Italia:
Maria Carolina di Napoli 15
L'Austria nei giudizii d'un suo alleato 30
Un condottiero francese a Napoli 42
L'Adriatico e le Due Sicilie a Campoformio 56
Italia e Grecia nelle lettere di Giorgio Byron 70
Il Protocollo della “Giovine Italia„ 85
Maestri di guerra:
I. Il principe di Ligne 99
II. Lazzaro Carnot 112
Gli enimmi di Waterloo 127
Thiers, Bismarck e la guerra 143
Un profeta del pangermanesimo:
Edgardo Quinet 158
L'Imperatore liberale:
Federico III 173
La battaglia della Marna 186
Romanzi di guerra:
I. Il senso della morte 109
II. La famiglia Valadier 212
Paesaggi di pace e paesaggi di guerra 226
OPERE DI FEDERICO DE ROBERTO
(Edizioni Treves).
Le donne, i cavalier'.... Edizione di lusso, in-8, illustrata da
100 incisioni L. 7 50
Una pagina della storia dell'amore 2—
L'illusione, romanzo. Nuova edizione 2—
La sorte, novelle. 4.º migliaio 2—
La messa di nozze, romanzo. 2.º migliaio 3 50
L'albero della scienza, novelle. Nuova edizione 3—
Al rombo del cannone. 2.º migliaio 4—
Leopardi 3—
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute,
correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.
End of Project Gutenberg's Al rombo del cannone, by Federico De Roberto
*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK AL ROMBO DEL CANNONE ***
***** This file should be named 48206-h.htm or 48206-h.zip *****
This and all associated files of various formats will be found in:
http://www.gutenberg.org/4/8/2/0/48206/
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (This file was produced from images
generously made available by The Internet Archive)
Updated editions will replace the previous one--the old editions will
be renamed.
Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright
law means that no one owns a United States copyright in these works,
so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United
States without permission and without paying copyright
royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part
of this license, apply to copying and distributing Project
Gutenberg-tm electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG-tm
concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark,
and may not be used if you charge for the eBooks, unless you receive
specific permission. If you do not charge anything for copies of this
eBook, complying with the rules is very easy. You may use this eBook
for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports,
performances and research. They may be modified and printed and given
away--you may do practically ANYTHING in the United States with eBooks
not protected by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the
trademark license, especially commercial redistribution.
START: FULL LICENSE
THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE
PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK
To protect the Project Gutenberg-tm mission of promoting the free
distribution of electronic works, by using or distributing this work
(or any other work associated in any way with the phrase "Project
Gutenberg"), you agree to comply with all the terms of the Full
Project Gutenberg-tm License available with this file or online at
www.gutenberg.org/license.
Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project
Gutenberg-tm electronic works
1.A. By reading or using any part of this Project Gutenberg-tm
electronic work, you indicate that you have read, understand, agree to
and accept all the terms of this license and intellectual property
(trademark/copyright) agreement. If you do not agree to abide by all
the terms of this agreement, you must cease using and return or
destroy all copies of Project Gutenberg-tm electronic works in your
possession. If you paid a fee for obtaining a copy of or access to a
Project Gutenberg-tm electronic work and you do not agree to be bound
by the terms of this agreement, you may obtain a refund from the
person or entity to whom you paid the fee as set forth in paragraph
1.E.8.
1.B. "Project Gutenberg" is a registered trademark. It may only be
used on or associated in any way with an electronic work by people who
agree to be bound by the terms of this agreement. There are a few
things that you can do with most Project Gutenberg-tm electronic works
even without complying with the full terms of this agreement. See
paragraph 1.C below. There are a lot of things you can do with Project
Gutenberg-tm electronic works if you follow the terms of this
agreement and help preserve free future access to Project Gutenberg-tm
electronic works. See paragraph 1.E below.
1.C. The Project Gutenberg Literary Archive Foundation ("the
Foundation" or PGLAF), owns a compilation copyright in the collection
of Project Gutenberg-tm electronic works. Nearly all the individual
works in the collection are in the public domain in the United
States. If an individual work is unprotected by copyright law in the
United States and you are located in the United States, we do not
claim a right to prevent you from copying, distributing, performing,
displaying or creating derivative works based on the work as long as
all references to Project Gutenberg are removed. Of course, we hope
that you will support the Project Gutenberg-tm mission of promoting
free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg-tm
works in compliance with the terms of this agreement for keeping the
Project Gutenberg-tm name associated with the work. You can easily
comply with the terms of this agreement by keeping this work in the
same format with its attached full Project Gutenberg-tm License when
you share it without charge with others.
1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern
what you can do with this work. Copyright laws in most countries are
in a constant state of change. If you are outside the United States,
check the laws of your country in addition to the terms of this
agreement before downloading, copying, displaying, performing,
distributing or creating derivative works based on this work or any
other Project Gutenberg-tm work. The Foundation makes no
representations concerning the copyright status of any work in any
country outside the United States.
1.E. Unless you have removed all references to Project Gutenberg:
1.E.1. The following sentence, with active links to, or other
immediate access to, the full Project Gutenberg-tm License must appear
prominently whenever any copy of a Project Gutenberg-tm work (any work
on which the phrase "Project Gutenberg" appears, or with which the
phrase "Project Gutenberg" is associated) is accessed, displayed,
performed, viewed, copied or distributed:
This eBook is for the use of anyone anywhere in the United States and
most other parts of the world at no cost and with almost no
restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it
under the terms of the Project Gutenberg License included with this
eBook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the
United States, you'll have to check the laws of the country where you
are located before using this ebook.
1.E.2. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is
derived from texts not protected by U.S. copyright law (does not
contain a notice indicating that it is posted with permission of the
copyright holder), the work can be copied and distributed to anyone in
the United States without paying any fees or charges. If you are
redistributing or providing access to a work with the phrase "Project
Gutenberg" associated with or appearing on the work, you must comply
either with the requirements of paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 or
obtain permission for the use of the work and the Project Gutenberg-tm
trademark as set forth in paragraphs 1.E.8 or 1.E.9.
1.E.3. If an individual Project Gutenberg-tm electronic work is posted
with the permission of the copyright holder, your use and distribution
must comply with both paragraphs 1.E.1 through 1.E.7 and any
additional terms imposed by the copyright holder. Additional terms
will be linked to the Project Gutenberg-tm License for all works
posted with the permission of the copyright holder found at the
beginning of this work.
1.E.4. Do not unlink or detach or remove the full Project Gutenberg-tm
License terms from this work, or any files containing a part of this
work or any other work associated with Project Gutenberg-tm.
1.E.5. Do not copy, display, perform, distribute or redistribute this
electronic work, or any part of this electronic work, without
prominently displaying the sentence set forth in paragraph 1.E.1 with
active links or immediate access to the full terms of the Project
Gutenberg-tm License.
1.E.6. You may convert to and distribute this work in any binary,
compressed, marked up, nonproprietary or proprietary form, including
any word processing or hypertext form. However, if you provide access
to or distribute copies of a Project Gutenberg-tm work in a format
other than "Plain Vanilla ASCII" or other format used in the official
version posted on the official Project Gutenberg-tm web site
(www.gutenberg.org), you must, at no additional cost, fee or expense
to the user, provide a copy, a means of exporting a copy, or a means
of obtaining a copy upon request, of the work in its original "Plain
Vanilla ASCII" or other form. Any alternate format must include the
full Project Gutenberg-tm License as specified in paragraph 1.E.1.
1.E.7. Do not charge a fee for access to, viewing, displaying,
performing, copying or distributing any Project Gutenberg-tm works
unless you comply with paragraph 1.E.8 or 1.E.9.
1.E.8. You may charge a reasonable fee for copies of or providing
access to or distributing Project Gutenberg-tm electronic works
provided that
* You pay a royalty fee of 20% of the gross profits you derive from
the use of Project Gutenberg-tm works calculated using the method
you already use to calculate your applicable taxes. The fee is owed
to the owner of the Project Gutenberg-tm trademark, but he has
agreed to donate royalties under this paragraph to the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation. Royalty payments must be paid
within 60 days following each date on which you prepare (or are
legally required to prepare) your periodic tax returns. Royalty
payments should be clearly marked as such and sent to the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation at the address specified in
Section 4, "Information about donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation."
* You provide a full refund of any money paid by a user who notifies
you in writing (or by e-mail) within 30 days of receipt that s/he
does not agree to the terms of the full Project Gutenberg-tm
License. You must require such a user to return or destroy all
copies of the works possessed in a physical medium and discontinue
all use of and all access to other copies of Project Gutenberg-tm
works.
* You provide, in accordance with paragraph 1.F.3, a full refund of
any money paid for a work or a replacement copy, if a defect in the
electronic work is discovered and reported to you within 90 days of
receipt of the work.
* You comply with all other terms of this agreement for free
distribution of Project Gutenberg-tm works.
1.E.9. If you wish to charge a fee or distribute a Project
Gutenberg-tm electronic work or group of works on different terms than
are set forth in this agreement, you must obtain permission in writing
from both the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and The
Project Gutenberg Trademark LLC, the owner of the Project Gutenberg-tm
trademark. Contact the Foundation as set forth in Section 3 below.
1.F.
1.F.1. Project Gutenberg volunteers and employees expend considerable
effort to identify, do copyright research on, transcribe and proofread
works not protected by U.S. copyright law in creating the Project
Gutenberg-tm collection. Despite these efforts, Project Gutenberg-tm
electronic works, and the medium on which they may be stored, may
contain "Defects," such as, but not limited to, incomplete, inaccurate
or corrupt data, transcription errors, a copyright or other
intellectual property infringement, a defective or damaged disk or
other medium, a computer virus, or computer codes that damage or
cannot be read by your equipment.
1.F.2. LIMITED WARRANTY, DISCLAIMER OF DAMAGES - Except for the "Right
of Replacement or Refund" described in paragraph 1.F.3, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation, the owner of the Project
Gutenberg-tm trademark, and any other party distributing a Project
Gutenberg-tm electronic work under this agreement, disclaim all
liability to you for damages, costs and expenses, including legal
fees. YOU AGREE THAT YOU HAVE NO REMEDIES FOR NEGLIGENCE, STRICT
LIABILITY, BREACH OF WARRANTY OR BREACH OF CONTRACT EXCEPT THOSE
PROVIDED IN PARAGRAPH 1.F.3. YOU AGREE THAT THE FOUNDATION, THE
TRADEMARK OWNER, AND ANY DISTRIBUTOR UNDER THIS AGREEMENT WILL NOT BE
LIABLE TO YOU FOR ACTUAL, DIRECT, INDIRECT, CONSEQUENTIAL, PUNITIVE OR
INCIDENTAL DAMAGES EVEN IF YOU GIVE NOTICE OF THE POSSIBILITY OF SUCH
DAMAGE.
1.F.3. LIMITED RIGHT OF REPLACEMENT OR REFUND - If you discover a
defect in this electronic work within 90 days of receiving it, you can
receive a refund of the money (if any) you paid for it by sending a
written explanation to the person you received the work from. If you
received the work on a physical medium, you must return the medium
with your written explanation. The person or entity that provided you
with the defective work may elect to provide a replacement copy in
lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.
1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you 'AS-IS', WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.
1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.
1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg-tm electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg-tm
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg-tm work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg-tm work, and (c) any
Defect you cause.
Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg-tm
Project Gutenberg-tm is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.
Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg-tm's
goals and ensuring that the Project Gutenberg-tm collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg-tm and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at
www.gutenberg.org
Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation
The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation's EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state's laws.
The Foundation's principal office is in Fairbanks, Alaska, with the
mailing address: PO Box 750175, Fairbanks, AK 99775, but its
volunteers and employees are scattered throughout numerous
locations. Its business office is located at 809 North 1500 West, Salt
Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to
date contact information can be found at the Foundation's web site and
official page at www.gutenberg.org/contact
For additional contact information:
Dr. Gregory B. Newby
Chief Executive and Director
[email protected]Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation
Project Gutenberg-tm depends upon and cannot survive without wide
spread public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.
The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular
state visit www.gutenberg.org/donate
While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.
International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.
Please check the Project Gutenberg Web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate
Section 5. General Information About Project Gutenberg-tm electronic works.
Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg-tm concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg-tm eBooks with only a loose network of
volunteer support.
Project Gutenberg-tm eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.
Most people start at our Web site which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org
This Web site includes information about Project Gutenberg-tm,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.