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Arrigo Castellani - Sul Latino Volgare

Arrigo Castellani analizza lo sviluppo del latino volgare in relazione al latino aristocratico, evidenziando le differenze sociolinguistiche e geolinguistiche. Il latino volgare, che ha influenzato le lingue romanze, si distingue per le sue varietà plebee e spontanee, mentre il latino classico ha mantenuto un ruolo ufficiale. Le fonti per la conoscenza del latino volgare includono iscrizioni, opere letterarie e documenti privati, mostrando l'interazione continua tra latino ufficiale e parlari romanzi.

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Arrigo Castellani - Sul Latino Volgare

Arrigo Castellani analizza lo sviluppo del latino volgare in relazione al latino aristocratico, evidenziando le differenze sociolinguistiche e geolinguistiche. Il latino volgare, che ha influenzato le lingue romanze, si distingue per le sue varietà plebee e spontanee, mentre il latino classico ha mantenuto un ruolo ufficiale. Le fonti per la conoscenza del latino volgare includono iscrizioni, opere letterarie e documenti privati, mostrando l'interazione continua tra latino ufficiale e parlari romanzi.

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Arrigo Castellani

Il latino volgare

Arrigo Castellani espone lo sviluppo storico del latino volgare (o popolare) in rapporto al latino
aristocratico illustrando la duplice varietà della lingua latina nelle dimensioni verticale (o
sociolinguistica) e orizzontale (o geolinguistica).

***
Come le altre lingue romanze, l'italiano continua quello che si suol chiamare il latino volgare. Sul
termine, giudicato infelice da molti studiosi, occorrerà intendersi. Con «latino volgare» si può
indicare sia li linguaggio plebeo d'epoca repubblicana, opposto a quello dei ceti superiori (su cui
poggia il latino classico), sia il latino spontaneo, opposto al latino delle scritture, che s'udiva nel
territorio dell'impero, con variazioni regionali più o meno accentuate, durante i primi secoli della
nostra era. Fra questi due sensi non mi sembra che ci sia contraddizione. Un medesimo idioma, il
latino, presentava - già ai tempi in cui è cominciata la sua maggiore espansione - due varietà
abbastanza nettamente differenziate secondo l'ambiente sociale: la prima è quella che impariamo
ancor oggi sui banchi del ginnasio, e che s'è fissata letterariamente tra il III e il I secolo a.C.; la
seconda quella che impiantandosi nel resto d'Italia e nelle province, e modificandosi in modo
sempre più rapido per effetto di vecchie tendenze o di reazioni locali dopo il regno dei primi Cesari,
ha dato origine ai parlari dell'odierna Romània. Naturalmente fra l'una e l'altra varietà di latino gli
scambi e gl'influssi reciproci sono stati continui. Il latino classico s'imponeva come lingua della
classe dominante, della scuola, dell'amministrazione. D'altra parte la pressione dell'uso popolare
non poteva non tarsi sentire, anche quando il latino classico era nel suo pieno rigoglio. Da un certo
momento in poi, col decadere delle tradizioni aristocratiche, il latino classico ha cessato d'esistere
come normale strumento espressivo, rimanendo soltanto come lingua ufficiale: qualcosa di simile a
quel che succede oggi nella Svizzera alemannica, dove tutti - anche i professori universitari -
parlano lo Schwyzertütsch, il tedesco svizzero, con particolarità municipali spesso atenuate per
farsi capir meglio da chi è originario d’un luogo diverso, e non il tedesco letterario, nel quale,
tuttavia, si scrive, s’insegna, e si fanno discorsi pubblici (altri esempi di diglossia sono offerti dalla
Grecia e dal mondo arabo).

[...] Le nostre idee su ciò che è avvenuto all’interno del latino e nelle aree in cui il latino si è diffuso,
dai tempi della repubblica a quelli delle invasioni barbariche, possono esser sintetizzate mediante i
due schemi seguenti, che si riferiscono il primo a una dimensione verticale o sociolinguistica, il
secondo a una dimensione orizzontale o geolinguistica.

Fonti per la conoscenza del latino volgare. Basterà, qui, un rapidissimo accenno; per maggiori
ragguagli si vedranno i manuali di Angelo Monteverdi (Manuale di avviamento agli studi
romanzi, Le lingue romanze, Milano, Vallardi, 1952, pp.32-50), di CarloTagliavini (Origini, p. 212-
20), di Veikko Vaanänen (Introduzione al latino volgare, 3a ediz. italiana a cura di Alberto
Limentani, Bologna, Patron, 1982, pp. 49-59), oltre al libro del Maurer citato sopra. Si possono
distinguere testimonianze di due tipi: quelle ricavabili dalla comparazione tra i parlari romanzi o
dagli elementi latini conservati in lingue non romanze, e quelle che ci vengono da documenti e
scrittori dell’antichità. Il metodo comparativo ha grande importanza; esso costituisce «un mezzo
eccellente, oltre che per chiarire le indicazioni delle altre fonti, anche per colmare le loro inevitabili
lacune» (così il Monteverdi, p. 44 […]). Utili indicazioni lessicali e fonologiche ci offrono anche le
parole penetrate in lingue che hanno subito influssi latini o sono state comunque in contatto col
latino (basco, albanese, cimrico, berbero, greco, lingue germaniche). Quanto alle fonti del secondo
tipo, si debbono ricordare: 1) le iscrizioni, in ispecie quelle di carattere più popolare, come i graffiti
pompeiani, che risalgono a un periodo di poco anteriore all’erudizione del Vesuvio del 79 d.C. (un
esempio: il distico QVISQVIS | AMA VALIA | PERIA QVI N|OSCI AMA[RE] | BIS [T]ANTI PE|RIA
QVISQV|IS AMARE VOTA, […] cioè «Quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare. Bistanti
pereat quisquis amare vetat», inciso su una pittura murale entro la raffigurazione d'un rotolo di
papiro - si notino la caduta di -t, il passaggio di e atona prevocalica a i, la ricostruzione
di nescit in no[n] scit, l'uso di votare, attestato ni latino arcaico, per vetare), e le «defixionum
tabellae», o tavolette esecrative, che s’immaginavano dotate di potere magico contro i propri
avversari; 2) le opere grammaticali e lessicografiche, tra le quali è particolarmente preziosa la
cosiddetta Appendix Probi: si tratta d'una lista di 27 parole o forme o grafie non corrispondenti alle
buone norme, composta probabilmente a Roma verso la fine del III secolo della nostra era o l'inizio
del IV (non oltre, pare, il 320) da un maestro di scuola che procurava di correggere gli errori dei
suoi allievi e che avvertiva, per esempio, doversi dire «speculum non speclum» (3), «vetulus
nonveclus» (5), «columna noncolomna» (20), «frigida non frieda» (54), «favilla non failla» (73),
«auris non oricla» (83), «tabes non tavis» (91), ecc. (il nome Appendix Probi è dovuto al fatto che il
testo si trova – in un codice scritto a Bobbio intorno al 700 e ora conservato nella Biblioteca
Nazionale di Napoli – dopo gli Instituta artium d’un grammatico del III-IV secolo a cui s’è attribuito il
nome di Probo ma che non va confuso col Marco Valerio Probo vissuto nel I secolo della nostra
era); 3) gli autori latini che vogliono avvicinarsi di proposito alla lingua volgare (Plauto, Petronio
nella Cena di Trimalcione, Apuleio nelle Metamorfosi), o che scrivono senza pretese (Cicerone
nella maggior parte delle sue Epistolae ad Atticum, i traduttori della Bibbia e altri scrittori cristiani,
oltre a vari scrittori di cose tecniche), o che non riescono a evitare certi volgarismi (come accade
nella Peregrinatio Egeriae ad loca sancta, relazione d’un viaggio in Terrasanta e in Oriente [V
secolo] dovuta probabilmente a una monaca spagnola). Costituiscono una categoria a sé: 4) i
documenti privati di carattere pratico, come le lettere del soldato Claudio Terenziano (papiri di
Karanis in Alto Egitto, inizio del II secolo d.C.), edite nel vol. VIII delle Michigan Papyti (1951) […].

Se il latino ufficiale influiva sul latino volgare, tale influsso è poi continuato sui parlari romanzi,
senza mai cessare fino ai nostri giorni. Per il toscano-italiano, data anche la stretta somiglianza fra
i due tipi linguistici, il latino è stato un modello costante, quasi ingombrante. Sono innumerevoli le
parole che l’italiano, nei vari periodi della sua storia, ha preso a prestito dal latino scritto: dal latino
della chiesa, dei notai, delle opere letterarie e scientifiche antiche e recenti, delle somme su cui
s’imperniava il sapere medievale; un latino più o meo corretto e più o meno ossequente ai canoni
classici, diverso secondo i tempi e le circostanze ma sempre riconoscibile, nonostante ogni
deflessione, come lo stesso idioma aristocratico usato da Cesare e Cicerone.
A queste parole che non appartengono al fondo primitivo della lingua, che non sono state
tramandate di padre in figlio senza interruzione dall’epoca in cui viveva l’impero romano ma sono
state attinte via via al gran serbatoio della lingua di cultura si suol dare il nome di dotte o letterarie;
alle altre quello di parole popolari o ereditarie o di tradizione ininterrotta.
Le parole dotte rispecchiano la pronuncia scolastica del latino, che in Toscana s’è mantenuta
pressoché intatta, a quanto pare, dal secolo IX a oggi (l’eccezione più importante riguarda il nesso
TI dopo vocale, in casi come vitium o nationem: anticamente si diceva vizium, nazionem con zeta
scempia, mentre da qualche secolo la zeta, per analogia con quanto è successo nella lingua
volgare, s’è raddoppiata: vizzium, nazzionem). Anche nelle parole dotte, tuttavia, si può [p. 20]
avere – e si è avuto di solito, almeno fino al secolo scorso – un adeguamento alle esigenze
strutturali dell’italiano. […]

Come appare dagli esempi citati nel paragrafo precedente, non è raro che da una stessa base
latina discendano due o (più), voci italiane. Tali voci si dicono allotropi o doppioni. Oltre da allotropi
del tipo vizio (dotto) – vezzo (popolare), capitolo (dotto) - capecchio (popolare), molto spesso
differenziati anche dal punto di vista semantico, si hanno coppie di forme tutte due popolari, con
significato uguale o diverso, come raggio-razzo o meraviglia-maraviglia o comperare-
comprare (fenomeni fonetici succedutisi a breve distanza di tempo, o non costanti, o avvenuti in
area vicina al distretto fiorentino e poi estesisi ad esso), e coppie di forme tutt’e due letterarie, con
significato di norma uguale, come edifizio-edificio, dovute a oscillazioni nella pronuncia del latino.
Ci sono anche voci né interamente dotte né interamente popolari, a cui si dà il nome di semidotte.
L'influsso del latino può aver impedito che una parola d'uso comune partecipasse a un certo
fenomeno, ma non a un altro. Si veda il caso di ECCLESIA (dal greco [carattere greco]
'assemblea'), che sembra sia divenuto in lat. volg. *ECLESIA. La frequenza del vocabolo porta alla
caduta della e iniziale (non solo in italiano ma anche in occitanico).
Arrigo Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, I. Introduzione, Bologna, Il Mulino, 2000

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