Stussi Introduzione Agli Studi Di Filologia Italiana
Stussi Introduzione Agli Studi Di Filologia Italiana
- Scienza e disciplina non sono sinonimi: la filologia è una vera e propria scienza, non una branca del sapere
- Importanza di ricostruire una civiltà: già presente presso i Romantici tedeschi (Athenaeum).
Per costoro (spec. Schlegel) la filologia si definisce anzitutto come ARTE. Pertanto la corretta lettura di un testo è
il primo ed essenziale atto filologico, come lo è il tradurre. Si tratta quindi di rispettare la pause, l’assenza di
punteggiatura e le scelte autoriali in fatto di scrittura.
In Germania la ricerca filologica è strettamente connessa con la ricerca storica, in quanto la filologia è
essenzialmente la ricostruzione delle origini di una cultura letteraria, ergo dell’IDENTITÀ DI UN POPOLO.
Esemplare a questo proposito l’indagine sulla fiaba dei fratelli Grimm e lo studio delle origini popolari
della poesia > con loro nasce la filologia così come la conosciamo
Invece, l’interdipendenza tra filologia e filosofia viene affermata per la prima volta la filologo G. Vico: VERUM ET
FACTUM CONVERTUNTUR (il vero e il fatto convergono). La filosofia, scienza del vero, trova la sua linfa nella
filologia; a sua volta la filologia, scienza del certo, si rafforza se inverata dalla filosofia.
- Ricostruzione dei testi: confrontare tutte le testimonianze disponibili e, dopo aver registrato differenze e
analogie, risalire all’archetipo (Lack)
Es. Dante > no testimonianze autografe. Attenzione alle testimonianze cronologicamente più vicine alla
vita dell’autore per risalire al testo più simile alla sua volontà originaria.
> il concetto di ORIGINALE: ambiguo, es. nelle opere medievali in cui manca il testo 0, riusciamo a
ricreare solo una copia imperfetta che si avvicina all’archetipo.
La conoscenza della lingua, imprescindibile per la ricostruzione, è oggetto della Linguistica.
Lingua del testo = strumento per ricostruire la lingua del tempo.
La filologia si deve per natura sposare con l’interpretazione del testo, per tale ragione è così importante il
processo di ricostruzione a dispetto delle varie problematiche di trasmissione.
> Spesso non si sa se correggere o meno gli errori d’autore: sviste, errori veri e propri, abitudine a
trasporre in lingua nomi stranieri (es. Wolfgang italianizzato in Uolfango è simbolo di una tendenza che è
a sua volta espressione di un certo periodo storico-culturale e pertanto non va corretto)
FILOLOGIA = MATERIA STORICA INTERDISCIPLINARE: si serve di numerose altre materie come la Linguistica,
l’Antropologia, la Paleontologia etc...
Filologia nazionale = declinazione della filologia nei vari paesi:
o In alcuni è semplicemente lo studio linguistico dei testi (f. romanza),
o in altri soprattutto critica testuale, la tecnica per pubblicare correttamente i testi (f. italiana)
LINGUISTICA TESTUALE
Il testo è un enunciato orale o scritto. Per i testi scritti, es. quelli letterari, valgono le funzioni e le caratteristiche
della comunicazione:
1. L’emittente può avere un suo destinatario ideale (es. i 25 lettori dei Promessi Sposi), anche se è
consapevole che il suo testo potrà essere letto da chiunque;
2. Non è possibile ricevere un feedback come nella comunicazione orale;
3. Il testo può essere letto più volte (parzialmente o totalmente);
4. Il testo può essere letto anche in contesti diversi, e può sia contenere riferimenti al contesto di
emissione, sia viceversa eliminarli per essere il più possibile autonomo
Testo = sistema al cui funzionamento concorrono più sottosistemi (linguistico, ortografico, grafico).
il testo informatizzato è codificato in un sistema binario per la macchina informatica. Esso è:
4. fluido > mantiene attivo il circolo scrittura-lettura-riscrittura;
5. multimediale > contaminato da altri codici (visivo e sonoro) e quindi spostato sul versante performativo;
6. mobile > consente percorsi plurimi di lettura (ipertesto). Il sistema dell’ipertestualità ha cambiato e
rivoluzionato completamente il nostro modo di fruire i testi.
In filologia dunque Codice si utilizza come sinonimo di libro manoscritto. La specificazione (“libro scritto a
mano”) fu doverosa a partire dal 1455, anno dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, a opera dell’orafo di
Magonza (Germania) Johannes Gutenberg che in quell’anno stampò la prima Bibbia.
Esistono discipline che studiano i libri manoscritti [abbreviati con cod. (codd. al plurale) o ms. (mss.)] e altre che
studiano i libri a stampa [designati anche con “stampa”]. Queste discipline, autonome dal punto di vista
scientifico, sono funzionali all’esame filologico dei testi, e sono quindi ausiliari alla filologia, e sono:
2. I materiali scrittori
In filologia italiana si ha a che fare con manoscritti di pergamena o di carta.
- La pergamena (nome derivato probabilmente da Pergamo, Asia Minore) sarebbe stata usata per
fronteggiare la mancanza di papiro, ricorrendo alla pelle di animali come vitelli, capre e pecore (da qui il
sinonimo cartapecora). La pelle veniva trattata in modo da renderla liscia ed uniforme ma per quanto
sbiancata presentava un lato più scuro (quello del pelo) usato come “copertina”, e un lato chiaro
(corrispondente alla carne) su cui si scriveva. Questo metodo causava però inevitabili sprechi. Pertanto,
poiché il materiale della pergamena, grazie alla sua robustezza, sopporta abrasioni e lavaggi, esso veniva
raschiato e riusato, dando luogo ai palinsesti, su cui gli studiosi, si sforzano oggi di scoprire la scriptio
inferior. Utilizzando la luce ultravioletta – gli infrarossi si sono ottenuti ottimi risultati, anche se alcuni
codici hanno subito guasti irreparabili dall’uso di reagenti chimici in passato.
- La carta è ottenuta macerando le fibre vegetali recuperate dai tessuti o ricavate direttamente dalle piante;
tale preparazione si lascia sgocciolare su una ‘forma’ e quindi seccare per ottenere il ‘foglio’. Inventata dai
cinesi, arriva in Italia nel XII secolo grazie ai mercanti che trafficano con gli Arabi di Spagna.
A partire dal XIII secolo a Fabriano e nei dintorni sorgono i più attivi centri di produzione.
La pasta da carta è ottenuta fino al XVIII secolo da stracci macerati (vd. paleografia). La sua enorme
convenienza e la qualità in rapido miglioramento limitano l’uso della pergamena ai soli libri solenni.
Per scrivere, alla fine del Medioevo si usava raramente una cannuccia aguzza (calamus) e più frequentemente
invece la penna di volatile, sostituita poi da strumenti metallici. L’inchiostro conteneva spesso sali metallici che
resistono ancora oggi sulla carta anche quando l’umidità ha fatto scomparire il colore (ciò permette di
recuperare con la lampada di wood, scritture apparentemente svanite). L'inchiostro in genere era nero, e quello
di altri colori si usava per dare spicco a capilettera, titoli di capitoli, parti del testo. Al semplice cambio di colore si
poteva aggiungere l'ornamento di forme grafiche elaborate e policrome, fino alle lettere miniate e alle
miniature: questo lavoro non è però contemporaneo alla scrittura e spesso non è nemmeno opera della stessa
persona (l'amanuense lascia lo spazio vuoto per l'intervento del rubricatore (dal lat. ruber). e di solito annota in
modo appena visibile la lettera guida che dovrà essere disegnata. Ciò talvolta creò fraintendimenti.
Nel sistema moderno di numerazione del libro (SISTEMA DI PAGINAZIONE) avendo 2 pagine ciascuna
con fronte e retro si contano le singole facciate, così da avere 4 pagine in tutto; al contrario nell’antico
sistema di numerazione (SISTEMA DI CARTULAZIONE) venivano contate le carte in sé e per sé, e
pertanto si aveva una numerazione del tipo 1 recto – 1 verso.
- 2 bifoli > duerno = 2 fogli, 4 carte (8 facciate)
- 3 bifoli > ternione (formato da 2 carte x 3 fogli) = 3 fogli, 6 carte (12 facciate)
- 4 bifoli > quaternione (da cui Quaderno) = 4 fogli, 8 carte (16 facciate)
- 5 bifoli > quinterno = 5 fogli, 10 carte (20 facciate)
- 6 bifoli > sesterno = 6 fogli, 12 carte (24 facciate)
Un codice può essere detto, sulla base del materiale di cui sono fatti i fascicoli che lo compongono:
- membranaceo, se i fascicoli sono tutti di pergamena;
- cartaceo, se sono tutti di carta;
- misto, se sono state usate entrambe le materie.
Specchio di scrittura = lo spazio entro il quale doveva essere contenuta la scrittura, spesso delimitato e rigato a
secco o con una punta a piombo (rigatura a secco), più di rado con inchiostro diluito (rigatura a colore).
Le linee tracciate servivano come guida affinché il copista scrivesse dritto. Il copista poteva anche decidere di
ricopiare il suo testo in due colonne (due specchi di scrittura), utilizzati ad esempio nel caso del vocabolario.
Per agevolare la fascicolazione e mantenere l’esatta sequenza dei fascicoli, gli amanuensi scrivevano sul verso
dell’ultima carta, come richiamo, la parola iniziale del fascicolo successivo: in questo modo l’ordine poteva essere
facilmente controllato. Ma il rilegatore poteva comunque sbagliare e dunque in occasione di una nuova
rilegatura potrebbero essere avvenute perdite o alterazioni nell’ordine dei fascicoli.
In funzione dello stato di conservazione dei fascicoli, il codice può dirsi:
- mutilo, se uno di essi è andato perduto totalmente o parzialmente;
- acefalo, se tale perdita si colloca all’inizio del codice.
Una volta completato di rubriche e di eventuali miniature, l’insieme dei fascicoli veniva spesso protetto con
l’aggiunta all’inizio e alla fine di fogli di guardia bianchi.
In base alla provenienza e al contenuto delle sue parti, inoltre, un codice può essere:
- composito, se è il prodotto dell’aggregazione di due codici di provenienza e di epoche diverse;
- raccogliticcio, se è formato da carte sciolte, spezzoni e frammenti di manoscritti vari anche se di uno
stesso autore.
o Codice riccardiano 972, formato nel ‘700 riunendo 3 codici di varia natura, epoca e origine.
4. La scrittura antica
Chi scrive è detto scriba o amanuense. Si parla di copista nel caso si faccia riferimento all’opera di trascrizione da
un manoscritto a un altro e si distinguono:
- il copista di professione: un lavoratore motivato da ragioni economiche e quindi portato a copiare in
modo meccanico e impersonale nel più breve tempo possibile > ALTO RISCHIO DI ERRORI.
- copista per passione: spinto da interesse personale per il testo, trascrive ciò che vuole avere nella
propria casa. Si identifica con l’autore del testo cosicché si sente autorizzato a modificarlo = coautore.
o Es. Boccaccio copiò per passione le opere di Dante, tra cui la Vita Nova ma, ritenendo le parti di
tipo narrativo-esegetico che seguono i sonetti noiose, decise di separarle dalle liriche, asserendo
che lo stesso Dante si sarebbe pentito di aver inserito le “chiose” nell’opera.
Tra XIII e XIV secolo si cominciano a scrivere grandi quantità di testi in volgare e comincia a venir meno
l’equazione altomedievale clericus=litteratus, laicus=illitteratus. Lo sviluppo delle città e la nascita di centri
universitari allargano la cerchia degli alfabetizzati, e quindi degli utenti e produttori di manoscritti. Tipico di
moltissime università dal XIII al XV secolo fu un metodo di moltiplicazione rapida degli esemplari: il sistema della
pecia = un libraio autorizzato distribuiva i pezzi di un’opera (in genere fascicoli, peciae) necessaria per un corso di
studi; ciascun interessato lo copiava, lo rendeva, prendeva il successivo e così via.
Nei codici medievali, l’inizio e la fine dell’opera erano segnalati con i termini incipit ed explicit (che in origine
significa solo “svolto” ma che poi passò ad indicare l’opposto di incipit, ossa “finisce”)
7. Sottoscrizione/colofone: talvolta l’amanuense aggiungeva alla fine dell’opera la dichiarazione
dell’autografia (manu mea scripsi), magari il proprio nome, la data e il luogo dove il lavoro era stato
eseguito, frasi benauguranti o lamentele per la fatica sostenuta. Il colofone resta nei primi libri a stampa,
ma col tempo viene soppiantato dall’uso moderno di indicare in una delle pagine iniziali (frontespizio) il
nome del tipografo o dell’editore, il luogo e la data di stampa.
Oggi ciascuno scrive in modo molto personale, realizzando i modelli ideali delle lettere dell’alfabeto con grande
libertà. Ma nel Medioevo gli scriventi di una data epoca in un dato territorio avevano grande omogeneità nelle
loro realizzazioni: c’era una norma riconosciuta e rispettata tanto da determinare la scrittura usuale di
quell’epoca. I margini dell’individualismo grafico erano ristretti ma nonostante ciò, è possibile evidenziare
alcune varianti della norma.
Inoltre, in relazione ai diversi ambiti in cui dovevano essere adoperati, esistevano vari tipi di scrittura:
- scritture cancelleresche, per i documenti giuridici,
- scritture librarie, per la produzione letteraria e per i testi liturgici.
Alla disgregazione dell’Impero si accompagnò lo sfaldamento della scrittura che spesso corrispose alle coeve
articolazioni politico-territoriali (scrittura visigotica, merovingica, beneventana, ecc.).
Si tornò a una certa unità verso la fine del secolo VIII, con la nascita della minuscola carolina. Tale scrittura era
utilizzata sia a livello documentario sia a livello librario. Per di più, essendo molto limpida e chiara, veniva
utilizzata in Italia dai notai e dai mercanti.
Tra XI e XII secolo, la varietà libraria passò da un tratteggio rotondeggiante a uno spigoloso (dovuta a un tipo di
penna di volatile con una punta tagliata obliquamente); fu chiamata gotica o littera textualis e fu adottata in
Europa fino al termine del Quattrocento, divenendo appannaggio degli studiosi di arti, teologia, diritto e
medicina, i quali scrivevano in latino.
In Italia assunse, però, forme più morbide e rotondeggianti rispetto alla Francia e alla Germania, e proprio per
questo fu chiamata littera rotunda. Caratteristiche della gotica sono:
Nasceva così nel XIII sec, dai professionisti della textualis, la minuscola cancelleresca (nella quale vennero
vergati in Toscana, da Francesco di ser Nardo da Barberino, alcuni eleganti codici della Commedia dantesca) e,
in sostituzione della carolina, la mercantesca che, in un primo momento, viene impiegata dai mercanti
fiorentini nella documentazione scritta che accompagna l’attività mercantile e successivamente, viene usata in
ambito librario, soprattutto per trascrivere testi di cronaca, trattati di abbaco, opere di devozione, vite dei santi
etc… (anche per alcuni testimoni del Decameron > copisti per passione).
Tali scritture accompagnano appunto la nascita della letteratura in volgare.
Accanto a queste forme si sviluppa anche una scrittura a metà strada tra la textualis e le scritture di uso più
quotidiano e privato, la semigotica. Per quel che riguarda la scrittura libraria, spiccano gli autografi
petrarcheschi, dove la semigotica diventa semplice, ariosa, nitida, preannunciando la riforma che da lì a poco
verrà attuata.
Si tratta della rinascita della carolina, effettuata a Firenze tra la fine ‘300 - inizio ‘400 da Coluccio Salutati,
Poggio Bracciolini e Niccolò Niccoli.
- Niccoli tentò di mescolare la scrittura umanistica a elementi della semigotica.
- I primi due sperimentarono la scrittura antiqua, convinti di recuperare la scrittura degli antichi latini
ma riprendendo invece le lettere più caratteristiche della carolina. Fecero uso di una spaziatura
regolare tra lettere e parole, riducendo le abbreviazioni, reintroducendo vecchi segni di interpunzione
e inventandone di nuovi (prob. si deve a Salutati l’invenzione delle parentesi).
La nuova scrittura si diffuse soprattutto negli ambienti dell’alta cultura letteraria italiana e diventa ben
presto il modello per i caratteri tipografici.
Nella sua forma tipica, come ricorda Stussi, la nuova scrittura è tonda (la cosiddetta romana), ma
parallelamente era usata anche una forma corsiva (che porterà all’italica). Tale forma di scrittura,
leggermente inclinata verso destra, riproduce quasi del tutto le forme della minuscola umanistica e
viene pertanto legittimamente definita «umanistica corsiva». Tra la prima e la seconda metà del
Quattrocento l'umanistica corsiva viene impiegata in campo librario con crescente frequenza.
Il filologo italiano si può trovare alle prese, nei secoli XIII-XVI, con manoscritti realizzati in scritture di tipo gotico,
cancelleresco, mercantesco, umanistico.
- Le differenze più sensibili sono visibili nel ductus (esecuzione) che può essere lento e accurato, dando luogo a
una scrittura posata, o veloce e poco elaborato, dando luogo a una scrittura corsiva.
- Ci sono poi, come abbiamo visto, distinzioni geografiche, sociali e funzionali (cancelleresca e mercantesca).
- E non mancano le differenze individuali: sia Boccaccio sia Petrarca utilizzano la semigotica, ma è evidente la
differenza tra le due.
N.B. Petrarca fu tra i primi a manifestare insofferenza verso la textualis, troppo serrata e ricca di
elementi ornamentali e ad apprezzare la scrittura antica semplice e chiara, come emerge da
diverse lettere a Boccaccio (Familiares). Egli usò la semigotica per le sue opere latine e la
cancelleresca per quelle in volgare.
Sul suo esempio anche Boccaccio passò da una gotica toscana alla semigotica, ma meno
ordinata di quella di Petrarca e meno composta sul rigo.
Elemento tipico delle scritture antiche, ripreso nei libri a stampa, è il sistema delle abbreviazioni: funzionale
inizialmente sia alle esigenze di risparmiare carta, sia di scrivere più rapidamente. Nel repertorio di Adriano
Cappelli riguardante le abbreviature utilizzate tra VII e XV secolo, è evidente come un numero cospicuo di queste
sia riconducibile ai due tipi fondamentali :
Una tipologia di troncamento ancora in uso ai giorni nostri è costituito dalle sigle, nelle quali la porzione
di parola omessa è indicata dal punto (es. a.C = ante Christum)
Segni abbreviativi
1) Il titulus, cioè la lineetta retta o leggermente curva è il segno abbreviativo più frequente, e può assumere
significati diversi in relazione alla sua posizione.
Quando è soprascritta alla parola abbreviata indica la mancanza delle lettere M o N.
= fondame(n)to
Inoltre P e Q quando sono tagliate trasversalmente da una linea obliqua uncinata (vedi quod) o sono sormontate
da un segno ondulato simile a un punto interrogativo (vedi prae) possono significare:
2) Le vocali soprascritte a una consonante della parola abbreviata indicano oltre alla stessa vocale mancante,
l’assenza della R . Stanno quindi per ar, er, ir or, ur oltre che per ra, re, ri, ro, ru.
3) Le note tironiane sono segni grafici con un significato proprio e definito, che si fanno risalire all’invenzione di
Tirone, liberto romano collaboratore di Cicerone.
Nei manoscritti medievali e in volgare si utilizzano il segno simile al numero arabo 7, che sostituisce la
congiunzione et o e, e il segno simile al numero 9 (o a una C rovesciata), che significa con, com e cum.
Entrambi sono utilizzati sia nella forma isolata che per sostituire le corrispondenti vocali o sillabe di parola.
= consigli
Resta comunque impossibile fornire regole generali, sia esaurire i singoli casi concreti.
La stampa a caratteri mobili viene inventata dall’orafo tedesco di Magonza Johannes Gutenberg nel 1455.
L’invenzione si basa sulla produzione in serie di singole lettere di metallo in rilievo (i tipi), che combinate insieme
su una matrice compongono le righe e le pagine che verranno impresse sulla carta, dopo l’inchiostratura, con
l’ausilio di un torchio. Il primo libro stampato da Gutenberg è la Bibbia «delle 42 righe», dal n° di righe stampate
per pagina, prodotta nella tiratura di 180 copie ca. tra il 1452 e il 1455.
In Italia la stampa viene introdotta poco dopo il 1460 dai tedeschi Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz nel
monastero di Santa Scolastica a Subiaco, vicino Roma.
Qualche anno dopo un altro tedesco, Giovanni da Spira, impianta la prima tipografia veneziana. Il fratello
Vindelino da Spira realizza la prima edizione a stampa (editio princeps) del Canzoniere di Petrarca nel 1470.
A Venezia, nel 1501, Aldo Manuzio inizia a stampare una collana di piccolo formato e sperimenta un carattere
tipografico detto corsivo aldino, che si ispira alla scrittura manuale dei codici umanistici (i caratteri a stampa,
prima del corsivo, erano isolati, a differenza dei caratteri scritti a mano, dove vi erano molti legamenti).
Un momento importante per l’affermarsi del libro in volgare è anche, verso la fine del ‘400, la produzione di
stampe popolari, equivalenti ai manoscritti da bisaccia (definizione del Petrucci) del popolo incolto. Si tratta di
libretti, consistenti solitamente in non più di una decina di carte, di qualità scadente, di modesta fattura.
Dal punto di vista del filologo editore è bene tenere presente che, avendo a che fare con manoscritti e con
stampe di una stessa opera, non è detto che le stampe siano meno importanti solo perché di solito sono più
recenti. Infatti le prime stampe (editiones principes) riproducono spesso manoscritti antichi non conservati.
Dunque dev’essere riservata molta attenzione a incunaboli e cinquecentine (libri stampati durante il ‘500).
Di solito, dato un certo numero di fogli, essi venivano stampati prima su un lato (in bianco), poi sull’altro lato (in
volta). Era possibile dunque approfittare di queste e altre pause per apportare modifiche in corso d’opera, come
fecero Ariosto nel Furioso del 1532 o Manzoni con l’edizione definitiva dei Promessi Sposi (1840-1842).
Riuscire a scoprire le differenze tra un’edizione e l’altra è un’ardua impresa filologica. Di questi problemi si occupa
la bibliografia testuale (o analitica), disciplina detta anche filologia dei testi a stampa.
Oltre all’introduzione di modifiche consapevoli, durante il processo di stampa poteva anche accadere che un
foglio fosse stampato con degli errori, e in genere per evitare sprechi esso veniva comunque pubblicato. Spesso,
allora, veniva aggiunto alla fine del libro un elenco degli errori presenti in esso: l’errata corrige.
Difatti, esemplari di una stessa opera contenenti varianti testimoniano uno stato della stampa non definitiva, e
vengono perciò chiamate varianti di stato. Al filologo resta da capire se esse sono varianti fatte introdurre
dall’autore o varianti imputabili al tipografo.
Tra l’altro poteva accadere anche che a distanza di tempo, o simultaneamente, l’editore o l’autore immettessero
sul mercato la stampa di una STESSA EDIZIONE aggiungendo o sottraendo parti preliminari, dediche, indici o
sostituendo il frontespizio; in questo caso non si ha una diversa edizione dell’opera ma una NUOVA EMISSIONE
della stessa edizione.
A partire dall’unità di base, il foglio, si definisce il formato dei libri; il più grande, l’in-folio, si ottiene stampando
due sole pagine per ciascuna facciata con una sola piegatura lungo il lato minore; all’in-quarto corrisponde
l’impressione di quattro pagine per facciata con due piegature, una lungo il lato minore, l’altra lungo il lato
maggiore etc.
Poiché le pagine del libro si formavano piegando più volte un foglio di grande formato su cui era già stato
impresso il testo, bisognava preparare una matrice metallica, detta forma, che prevedesse l’esatta disposizione
delle pagine perché queste corrispondessero nella giusta sequenza dopo la piegatura.
L’officina tipografica
Ad allestire la copia modello era il proto, che fungeva da direttore dell’officina tipografica. Il testo di
partenza poteva essere la stampa di un’edizione precedente dell’opera o un manoscritto.
La composizione vera e propria della forma − sulla base del modello allestito dal proto − spettava al
compositore, che prendendo i tipi dai cassettini che aveva di fronte (disposti in un ordine prestabilito e
standardizzato), li inseriva nel compositoio in ordine inverso, da destra verso sinistra, perché la stampa è un
sistema di riproduzione speculare.
Il compositore è una figura assimilabile al copista, e il suo lavoro, come quello del copista, era soggetto a
tipologie di errori definibili sulla base delle fasi del suo lavoro. I momenti chiave della sua azione erano: lettura
del testo; memorizzazione; selezione dei caratteri dai cassettini; il loro trasferimento nel compositoio.
Censura – Decameron
Come abbiamo detto, al potere politico e religioso non fugge l’attività degli stampatori, che hanno bisogno di
locali, attrezzature, capitali da investire in vista di una diffusione molto larga del prodotto: di qui il nascere di
forme di controllo, quali la Censura laica ed ecclesiastica, e vicende come la rassettatura del Decameron,
specialmente durante la Controriforma (Concilio di Trento, 1543-1563).
Il Decamerone, ad ogni modo, venne trattato con particolare riguardo. A proteggerlo dai censori è Pietro Bembo,
che ne “Le prose della volgar lingua” lo assunse a modello per la prosa italiana. Nel 1573 venne pubblicata la
prima edizione del Decameron espurgato. Borghini, filologo e linguista, intervenne cercando di apporre il minor
numero possibile di modifiche. Questa prima edizione censurale non piacque a Roma.
Il Decamerone prodotto dai Deputati, il gruppo di esperti fiorentini tra i quali si colloca Borghini, venne proibito
dall’Inquisizione. La commissione fiorentina promise più interventi che in realtà non vennero effettuati. Venne
quindi creata una nuova commissione rivolgendosi a Salviati.
Nel 1582 uscì la nuova edizione del Decameron frutto di un intervento censorio molto più profondo di quello
realizzato da Borghini. Questo testo verrà letto per un secolo; solo dopo ricomincerà a circolare il Decameron
senza censure. Nonostante ciò, e nonostante nessun testo della letteratura italiana sia andato perduto a causa
della censura, non è da sottovalutare il peso avuto dall’Indice dei libri proibiti. L’indice fu abolito da Giovanni
Paolo XI nel 1964.
La Chiesa si rese conto della potenza della stampa per la pubblicazione e diffusione delle tesi di Lutero. In
seguito a questi eventi decise di controllare la pubblicazione libraria al fine di controllare anche la diffusione
delle idee, sia religiose sia di carattere sociale. Il primo Index librorum proibitorum fu stampato nel 1559,
durante il Concilio di Trento. Era diviso secondo le lettere dell’alfabeto; per ogni lettera vi erano 3 classi:
1. NOMI AUTORI: tutto quello che avevano scritto era condannato. Es. Niccolò Machiavelli (sotto la N);
2. ALCUNI TESTI di determinati autori: es. Dante, De Monarchia = trattato politico;
3. TESTI ANONIMI
6. Archivi e biblioteche
Gli archivi e le biblioteche sono i luoghi di conservazione delle scritture su carta, intendendo “carta” in senso
lato come in latino, senza distinzione di materia, formato, scrittura manuale o meccanica.
8. L’archivio nasce con l’organizzazione stessa del vivere sociale (esigenze pratiche), raccoglie il sedimento
scritto, perlopiù in pezzi singoli (spesso solo una carta) o in registri che di libro hanno assunto solo la
forma.
Si può definire come il complesso dei documenti prodotti o acquisiti da organi e uffici dello Stato, da
enti pubblici, da istituzioni private, da famiglie e da persone durante lo svolgimento delle proprie
attività.
I documenti in esso contenuti devono essere classificati e ordinati in maniera razionale e funzionale, per
consentirne il reperimento e la consultazione.
Originariamente erano considerati documenti archivistici solamente le testimonianze scritte di fatti di
natura giuridica (cioè gli atti giuridici sia pubblici che privati), ma un’accezione più ampia include anche
materiali come corrispondenze, fotografie, manoscritti, appunti privati ecc.
9. Alla biblioteca spetta il libro vero e proprio, contenitore di opere letterarie, scientifiche ecc., prodotte
da un’attività creativa per lo più individuale, dotate di autonomia e autosufficienza.
Certo, il confine non è sempre rigido. In Italia molto è andato distrutto, disperso o svenduto, molto si può
trovare all’estero. Ad esempio, la cultura letteraria di ambiente napoletano-aragonese si studia meglio a Parigi
che a Napoli. Questi sono elementi che il filologo deve tenere presenti.
8. Gli archivi letterari sono tra gli archivi privati quelli che interessano particolarmente la filologia.
Essi sono costituiti da tutti quei materiali che gli scrittori selezionano e raccolgono nel corso della
propria vita, come diari, carte private, lettere, scritti di altri autori, ma anche libri, riviste e
fotografie. Particolare importanza assumono quei materiali archivistici strettamente in relazione
alla loro attività creativa, come manoscritti, taccuini di appunti, abbozzi e bozze di stampa, fino alle
edizioni postillate per le eventuali ristampe, indispensabili per ricostruire le fasi del percorso
compositivo delle singole opere attraverso ripensamenti, correzioni e riscritture.
La prima studiosa italiana a creare un centro di aggregazione dei fondi archivistici d’autore è stata Maria
Corti che a partire dal 1969 cominciò a raccogliere materiali autografi (inizialmente di Montale e Gadda),
presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia.
7. Citazione e siglatura
I manoscritti vengono citati per esteso indicando il luogo dove attualmente si trovano, il fondo della
biblioteca cui appartengono, la loro segnatura numerica, o alfabetica, o mista, ed eventualmente anche
precedenti collocazioni.
Es. Banco Rari 217, già Palatino 418, della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze
Nel Quattrocento c’è quindi una totale libertà linguistica (ibridismo linguistico). Esistono casi limite che
servono a capire quanto ampia fosse la gamma delle scelte linguistico espressivo.
9. Iniziamo con il latino maccaronico: questo stile presenta una struttura grammaticale sostanzialmente
latina, unita a elementi e forme propri dei volgari settentrionali. Verrà portato ai suoi apici da
Folengo. La poesia maccaronica utilizza l’esametro.
10. Un altro caso limite è costituito dal testo intitolato “Hypnerotomachia Poliphili (di Poliflo)”, ovvero la
Battaglia d’amore in sogno di Polifilo. Cioè che sorprende è la lingua particolare utilizzata nel testo. È
una lingua che, dal punto di vista grammaticale, è un volgare molto vicino al volgare usato da
Boccaccio, un volgare settentrionale. Ciò che distingue il polifilesco è il lessico ricco di latinismi e
grecismi. A differenza del maccaronico, questo non fa ridere ma viene preso molto sul serio da chi lo
utilizza
Per buona parte del ‘400, il volgare si è trovato in una posizione di subordinazione nei confronti del latino. Chi
voleva scrivere in volgare, che volgare doveva usare? Domanda base della QUESTIONE DELLA LINGUA. Le
risposte erano molteplici. Bembo, per varie ragioni, decide che bisogna ritornare all’ordine, e porre fine al
carnevale linguistico. Ne’ Le prose della volgar lingua indica dei modelli da seguire:
per la poesia Petrarca, per la prosa Boccaccio.
Parallelamente, si dibatteva la questione relativa a quale tipo di latino impiegare in sede letteraria.
Nel corso del Quattrocento, i letterati umanisti che amavano comporre i loro testi in versi o prosa latina,
sceglievano come modelli diversi autori ritenendo che non ci fosse un modello dominante. Altri, però,
seguivano il modello ciceroniano. Si distinguono quindi: i ciceroniani e gli anti-ciceroniani.
Bembo interviene anche nella questione del latino da utilizzare in sede letteraria (tempo prima della
questione della lingua volgare) e pone come modelli per la poesia Virgilio e per la prosa Cicerone.
13. Originale manoscritto e autografo non sono sinonimi: può sussistere il caso di un autografo che non è
l’originale, qualora l’autore si sia fatto copista della propria opera.
14. In linea di massima c’è differenza anche tra un originale autografo e una stampa originale, perché
quello è uscito dalla mano dell’autore, questa, per quanto sorvegliata e autorizzata, è una copia eseguita
con mezzi meccanici, e quindi soggetta a tutti gli inconvenienti delle copie, oltre che all’insensibilità,
prepotenza, leggerezza di molti tipografi editori.
L’originale non necessariamente è un unicum. Da esso derivano le copie dell’originale e le copie di altre copie. Il
termine antigrafo indica la copia manoscritta da cui è tratta un’altra copia.
Per la prima copia tratta dall’originale solitamente si parla di apografo.
Le altre sono dette testimoni, poiché offrono una testimonianza sul testo prodotto dall’autore e nel loro insieme
essi costituiscono la tradizione dell’opera, perché sono i mezzi che l’hanno tràdita fino a noi.
Ogni singolo passo del testo tràdito preso in considerazione dal filologo viene detto lezione (‘ciò che si legge’ in
quel determinato testimone).
La quantità dei testimoni conservati dipende da un intreccio di circostanze e non bisogna dimenticare che
manoscritti e stampe superstiti di solito testimoniano solo in parte quale fu la diffusione reale dell’opera.
Accanto alla tradizione diretta che riguarda un’opera in quanto tale, esiste la tradizione indiretta costituita da
eventuali traduzioni o citazioni all’interno di un’altra opera (Es. la tradizione del Milione è costituita in larga
misura da traduzioni, molte delle quali in volgari italiani).
Per particolari vicende un singolo testimone può risultare costituito da parti materialmente separate e talvolta
anche divise tra diverse biblioteche, come succede quando un manoscritto, soprattutto se voluminoso, è stato
smembrato e i pezzi hanno avuto ciascuno un suo destino.
Rispetto all’originale perduto, talvolta i testimoni sono molto tardi, come succede nella filologia classica dove,
non essendoci originali conservati, si lavora su copie spesso posteriori di diversi secoli. Ritenere a priori più
autorevole un codice solo perché dista dall’originale qualche decennio meno di un altro sarebbe assurdo. La
norma recentiores non deteriores riassume appunto questo concetto: un testimone meno recente può
rappresentare l’ultimo stadio di una serie di trascrizioni (essere copia di copia di copia…) e perciò contenere un
maggior numero di alterazioni rispetto a un testimone più recente la cui storia sia stata meno travagliata.
Occorre anche guardarsi da giudizi aprioristici riguardanti l’aspetto esteriore dei codici (eleganza della scrittura,
bellezza delle miniature…): si può trattare di ingannevoli apparenze dovute all’opera di abili artigiani e copisti
capaci di risanare, modificare, imbellettare, in modo da far contento un committente desideroso di possedere
libri eleganti e di facile lettura.
Quindi, quando l’originale è andato perduto, ed è tramandato da copie (manoscritte o a stampa), tocca alla
critica testuale (o ecdotica) ricostruirne la forma il più possibile vicina all’originaria, eseguendo un confronto
spregiudicato tra tutti i testimoni per valutarne l’attendibilità e i reciproci rapporti. Il prodotto della critica
testuale è l’edizione critica che ha lo scopo di pubblicare il testo libero da tutte le imperfezioni e le alterazioni
subite nel tempo e di documentare il lavoro svolto dal filologo, in tal caso detto curatore (o editore critico).
2. Errori e varianti
Con il termine variante si indica ogni lezione di un testimone, anche minima, che presenti divergenze rispetto
ad altri testimoni della tradizione di un testo.
Le varianti si possono classificare in due prime tipologie di base:
• Le varianti sostanziali, che riguardano elementi del testo come il lessico e la sintassi (la sostituzione di
parole o l’inversione del loro ordine all’interno del periodo), e gli spostamenti, le aggiunte e le
soppressioni anche ampie di porzioni di testo.
• Le varianti formali, che riguardano la superficie del testo, cioè la grafia delle parole, la loro
rappresentazione fonetica e l’uso dei segni diacritici, ma anche i segni paragrafematici, come la
punteggiatura, le maiuscole e gli accenti.
Le varianti d’autore (o redazionali) sono quelle che si possono far risalire all’autore stesso, apportate in una
delle fasi della stesura e revisione del testo, o di successiva rielaborazione, e sono importanti per capire la genesi
e il processo elaborativo del testo.
• Sono dette alternative quando l’autore, dopo aver registrato nel suo manoscritto una o più varianti, non
ha effettuato una scelta.
• Nel caso in cui si possieda l’autografo è anche possibile distinguere
• varianti immediate, se apposte all’atto stesso della stesura del testo; in genere si trovano sulla
riga di scrittura accanto al testo cassato che esse correggono,
• varianti tardive, se aggiunte in una fase di correzione successiva; in genere sono soprascritte,
sottoscritte o ascritte (a sx o a dx del testo), ma è possibile distinguerle con certezza solamente
nel caso in cui l’autore abbia utilizzato due penne diverse.
Si parla, a questo proposito, di CRITICA DELLE VARIANTI: un tipo di indagine filologica introdotta dal Contini, la
quale non si sofferma unicamente sull’opera data e compiuta, ma analizza anche le edizioni precedenti e le
varie fasi correttorie dei manoscritti. L’analisi dinamica è possibile solamente nel caso in cui sia stata conservata
la documentazione relativa alla produzione di un testo.
• Nel caso della censura, l’autore può reagire dando luogo a un non occasionale rifacimento, come è
avvenuto per l’Adelchi di Manzoni.
• Rifacimento vuol dire anche riscrittura da parte di un altro autore con un proposito dichiarato, come
quello del Berni che tradusse l’Orlando Innamorato nelle agili forme del fiorentino moderno,
rendendolo in tal modo fruibile a un pubblico che non tollerava più le asprezze padane del Boiardo.
Inevitabilmente nel copiare un testo, i copisti compivano degli errori (ogni deviazione dal testo originale). Essi
sono volontari, quando il copista decide volontariamente di modificare il testo del suo modello, e involontari (o
meccanici), quando il copista li provoca senza rendersene conto, a causa di meccanismi psicologici attivi durante
l’attività di copiatura.
È in questo contesto che si inseriscono le varianti di tradizione, quelle che si possono riscontrare nelle copie di
un testo il cui originale è andato perduto (quindi si imputano, ipoteticamente, alle sviste del copista).
In generale gli errori più commessi dai copisti sono:
17. Errori paleografici: errori ottici che consistono nella confusione o nella mancata comprensione tra segni
diversi ma simili (spesso del sistema di abbreviazione), frequenti nelle scritture antiche.
18. Lettura sintetica: errori di tipo psicologico, per cui si leggono attentamente le prime lettere di una
parola e il resto lo si guarda tirando a indovinare.
19. Omeoarchia: deriva dalla L.S.; scambio tra parole che iniziano allo stesso modo e proseguono in modo
simile (es. diagramma e digramma).
20. Salto per omoteleuto (salto dallo stesso allo stesso, detto pesce dai tipografi): scambio tra parole che
hanno la stessa fine (es. parenti e attenti), o che sono identiche.
Copiando si procede per brevi segmenti di testo (pericopi), ed è normale che l’occhio rintracci sul
modello l’ultima parola del segmento appena trascritto e di lì prosegua; ma può capitare che la
medesima parola, o la medesima parte finale di parola, ricorra qualche riga più innanzi e che di
qui il copista riprenda a leggere saltando il brano intermedio (soprattutto se breve).
22. Banalizzazione: sostituzione di un testo dal senso difficile o di una parola rara o ricercata con una
semplificazione per approssimazione del concetto (il curatore dovrebbe preferire la lectio difficilior).
23. Errori con senso: sono subdoli perché, inserendosi bene nel contesto, hanno un’aria di autenticità che
solo il confronto e la divergenza rispetto ad altri testimoni potrebbero smascherare. Alcune coppie o
gruppi di varianti possono risultare adiafore (o equivalenti): tra esse è impossibile per il curatore
operare una scelta in assenza di un originale che attesti la lezione corretta.
In assenza dell’originale di un’opera, 2 sono le categorie principali di errori da individuare per tracciare i rapporti
tra i testimoni in vista di un’edizione critica
L’errore monogenetico: tipologia di errore in cui difficilmente possono incorrere due copisti in maniera
indipendente. Conferma che due o più testimoni sono collegati.
L’errore poligenetico: tipologia di errore comune, in cui i copisti possono incorrere indipendentemente
l’uno dall’altro. Non è sufficiente a dimostrare una parentela tra due o più testimoni che presentino tale
errore.
Altri errori sono però dovuti proprio all’autore, e spesso alla sua cultura (le inesattezze nel tradurre, le sue fonti,
le citazioni, ecc). Tutto ciò va conservato e accompagnato da note esplicative; correggere equivarrebbe a
falsificare poiché si sostituirebbero dati storici certi venendo meno alla funzione istituzionale della filologia.
Nel campo della scrittura ci sono dunque res nullius, soggette a proposte di attribuzione da parte degli studiosi.
Interessante è stato il caso del Fiore e del Detto d’amore per i quali Contini ha rilanciato il nome di Dante con
importanti argomenti di ordine interno (lingua, metrica, stile).
Altre volte si ricorre ad argomenti esterni al testo, come attribuzioni presenti in parte della tradizione,
testimonianze insospettabili, confessioni in lettere private… è ovvio che i risultati più sicuri si ottengono facendo
convergere prove di entrambi i tipi.
Quanto ai problemi di datazione, l’esame della scrittura costituisce spesso una fase rivelatrice della ricerca: nel
caso di codici antichi, la perizia paleografica procede di pari passo con l’esame del colorito linguistico, della
filigrana, della rilegatura, di eventuali miniature etc, ma spesso occorre accontentarsi di un modesto grado di
approssimazione. A più precise ipotesi si arriva quando si ha a che fare con manoscritti provenienti da centri
scrittori ben documentati, o quando esistono molti prodotti datati della stessa mano.
- A stringenti approssimazioni si arriva tuttavia solo quando è possibile trovare uno o più precisi punti di
riferimento cronologico: un testo citato in un atto di data sicura è ovviamente anteriore (es. l’Inferno era
divulgato prima del 1317, poiché se ne trovano alcuni versi in una parte di un Memoriale bolognese del 1317).
Occorre distinguere tra data della stesura di un’opera e la data del testimone o dei testimoni. Tale compito è
agevolato se si possiedono sufficienti informazioni biografiche sull’autore. Ci si accontenta anche di conoscere la
data di morte di uno scrittore per fissare un termine ante quem delle sue opere.
- A un testimone datato si fa certo buona accoglienza, ma è meglio non fidarsene a occhi chiusi. Capita che un
copista trascriva col testo anche la data che si trova all’inizio o alla fine del suo antigrafo (errori?).
Occorre prudenza con le stampe, per le quali falsi luoghi e false date abbondano nei periodi di repressione
censoria: nel 1855 Manzoni pubblicò un esemplare unico dedicato alla moglie di Inni sacri e altre poesie liriche a
Milano presso la tipografia Redaelli, retrodatandolo sul frontespizio al 1848, poiché allora, non certo nel 1855, si
sarebbero potuti stampare i versi patriottici.
- La data pone infine problemi quando è espressa in uno stile nel quale l’anno non inizia col primo di gennaio.
Per l’Italia, per esempio, esiste lo stile della Natività che inizia con il 25 dicembre. A tali peculiarità bisogna
prestare attenzione perché, trascurandole, capita di incorrere in equivoci.
Dal punto di vista della fedeltà all’originale si può, in fase di recensio, fare una gerarchia tra i testimoni. Spesso,
la larga conoscenza di un’opera, dipende da una vulgata decorosa, ma non attendibile. Molte opere, soprattutto
poetiche, di fine ‘400 – inizio ‘500, furono stampate o ristampate verso la metà del XVI sec. e sottoposte a una
revisione linguistica spesso radicale, a cura del tipografo.
Le caratteristiche dialettali dei testimoni possono rivelare centri di diffusione prevalenti e quindi nessi con
fenomeni d’altro tipo. Tipico in tal senso è il caso di molte copie del Decameron che presentano diversità quanto
ai nomi dei luoghi e dei personaggi di alcune novelle: il fenomeno, apparentemente incomprensibile, si spiega
facendo attenzione ad appunti marginali che rivelano una circolazione nell’ambiente dei traffici mercantili, tra
uomini alle cui reali avventure ancor meglio corrispondevano, con qualche ritocco onomastico, quelle narrate dal
Boccaccio.
A proposito di Boccaccio, è stata introdotta da Vittore Branca la distinzione terminologica fra tradizione
caratterizzata e caratterizzante: la prima allude all’esame delle testimonianze in funzione del testo critico, la
seconda allo studio delle vie a ogni opera secondo cui si sviluppò la riproduzione e la circolazione dei testi. Viene
quindi sottolineata la necessità di accompagnare alla «critica del testo» la «storia della tradizione».
CAPITOLO 4 - L’EDIZIONE
1. Edizione critica dato più di un testimone
Dei testi letterari medievali in lingue romanze sono giunti sino a noi solitamente non gli originali, ma una o più
copie di varia età e localizzazione geografica. Immaginiamo che un originale perduto sia noto solo attraverso tre
copie A, B, C, e che esse presentino un certo numero di divergenze, quindi di varianti. L’editore, non avendo una
testimonianza unanime, dovrà decidere quale dei testimoni ha ragione. La scelta risulta però imbarazzante se le
tre copie presentano nello stesso punto lezioni diversi, ma accettabili (varianti neutre, adiafore, indifferenti). Non
è pensabile uscire dall’imbarazzo della scelta affidandosi a criteri estrinseci: ad esempio, preferire il più antico
dei testimoni è pericoloso in quanto esso può essere copia di copia di copia… e quindi più alterato di un
testimone recente tratto senza mediazioni dall’originale; ancor più ovvio e frequente è che un testimone
accurato, senza errori, lacune o incongruenze, sia non una copia fedele all’originale, ma il prodotto della
rassettatura di un abile copista.
Per decidere quanto credito dare alle varie testimonianze occorre sapere quali rapporti siano intercorsi tra le
copie conservate, ma anche tra queste e l’originale perduto. La critica del testo fornisce procedure razionali per
arrivare a formulare l’ipotesi più probabile su come era l’originale e su come si è articolata, nelle grandi linee, la
sua trasmissione fino ai testimoni conservati.
Nell’ambito del METODO DI LACHMANN, messo in atto dal filologo tedesco Lachmann nel corso del XIX secolo
per la ricostruzione dell’originale, si possono individuare più fasi:
1. Col termine recensio, “recensione”, viene individuata la tradizione, cioè viene fatto un censimento dei
testimoni che tramandano per intero o in parte, in modo diretto o indiretto, l’opera di cui si vuole fornire
il testo critico.
L’elenco dei testimoni comprende non solo quelli reperibili, ma anche quelli irreperibili e tuttavia
indirettamente noti, che è opportuno segnalare perché potrebbero prima o poi venire scoperti (es. una
canzone di Dante citata nel De vulgari eloquentia, le opere teatrali giovanili di Pirandello…).
Serve quindi a individuare le caratteristiche e i limiti della tradizione di quel testimone.
Nel caso in cui l’esame diretto di alcuni testimoni sia arduo per la loro distanza, oggi il progresso tecnico
consente di superare gli ostacoli usando riproduzioni meccaniche. Di tali sussidi occorre servirsi con
prudenza poiché niente sostituisce l’esame diretto. Spesso, infatti, le riproduzioni fotografiche non
rivelano un cambiamento di colore nell’inchiostro.
Ciascun testimone deve essere studiato con cura nelle sue caratteristiche materiali e in relazione
all’opera tradita, la quale può presentarsi perfettamente integra, oppure mutilata per la rifilatura
eccessiva dei margini o per la perdita di carte e interi fascicoli etc. Nel caso di testi miscellanei, anche i
testi che direttamente non interessano meritano una ricerca bibliografica per accertare se sono stati
studiati giungendo a conclusioni di cui si debba tener conto. I risultati delle indagini preliminari si
condensano nella descrizione di ciascun testimone.
Una parte fondamentale di questa fase è la eliminatio codicum descriptorum, durante la quale si
eleminano i manoscritti derivanti da altri manoscritti. (es. B copiato – descriptus – da A)
2. Dopo aver individuato i testimoni, si procede alla collatio, cioè li si mette a confronto parola per parola.
Si sceglie un punto di riferimento, testo di collazione, rispetto al quale misurare convergenze e
divergenze. Il testo di collazione deve essere un testo completo. Questo viene trascritto
diplomaticamente per intero. Completata la trascrizione avviene il confronto sistematico tra i testimoni e
il testo di collazione. In corrispondenza di ciascuna parola della prima linea si incolonnano le varianti e si
lascia spazio bianco dove la coincidenza è perfetta (p.118); inoltre si prende nota delle particolarità di
ciascun testimone, come lacune, macchie, fori, cancellature…
3. Da questo lavoro non deve essere disgiunta l’interpretatio, cioè lo sforzo contestuale di intendere la
lezione di ciascun testimone nella sua peculiarità, ovvero quella capacità di giudizio che consente di
distinguere lezioni giuste, sospette, erronee. L’interpretatio serve quindi ad analizzare i dati raccolti.
Come si passa dal confronto a individuare i dati più interessanti? A interessare il filologo sono gli errori, i quali
stabiliscono o escludono rapporti di parentela tra i testimoni.
Per separare o congiungere testimoni e gruppi di testimoni, oltre a prove esterne riguardanti l’ordine dei
fascicoli, note di possesso, glosse e sottoscrizioni, sono fondamentali le note interne al testo, basate sui
cosiddetti errori guida (o errori direttivi o signifcativi). Pertanto, mentre gli errori poligenetici non hanno
valore di errori guida, quelli monogenetici sono fondamentali per stabilire il collegamento fra due
testimoni. Nell’ambito di questa tipologia si distinguono:
L’errore congiuntivo: presente in due o più testimoni, prova che essi sono collegati, derivando uno
dall’altro o entrambi da un comune ascendente (questo è valido solo se è dimostrabile che due copisti
non possano compiere quel tipo di errore in modo indipendente).
L’errore separativo: presente in un testimone, ma non in un altro, può fare escludere che essi siano
collegati.
O (=originale)
A B
L’antecedente x non è l’originale (indicato con O), bensì l’archetipo, la copia non conservata, guastata da almeno
un errore di tipo congiuntivo, dalla quale derivano tutti i testimoni conservati; solitamente viene designato con x
e, a partire da esso, si contano le diramazioni dello stemma.
In base al numero di diramazioni si parlerà di schema esapartito, pentapartito…
Per identificare il tipo di stemma contano le diramazioni iniziali, non quelle prodottesi nei piani bassi.
Nel caso in cui non ci sia nemmeno un errore in comune, cioè di tipo congiuntivo, e sia A che B abbiano un
errore proprio, si verifica la seguente situazione:
A B
Per ipotizzare l’esistenza di un archetipo deve quindi esistere un errore in comune di valore congiuntivo.
1. In quanto separativo non risale a x perché dovrebbe trovarsi anche negli altri testimoni (C, D, E, F);
2. In quanto congiuntivo, monogenetico, non può essersi prodotto indipendentemente in A e in B, ma
probabilmente risale a un testimone perduto a interpositus (intermedio) tra x e A e B, che individua
quindi una classe (o famiglia o ramo). La presenza di a (subarchetipo) cambia i rapporti tra i testimoni.
[O]
A B C D E F
2. Scelte meccaniche
Gli stemmi servono anche a scegliere tra quelle che si chiamano le lezioni adiafore (uguali).
Prima di Lachmann, i filologi sceglievano in base a un criterio soggettivo la lezione che tra le due convinceva di
più. Per questo viene poi elaborata la LEGGE DELLA MAGGIORANZA.
Laddove una lezione sarà attestata nella maggioranza delle classi, quindi nei testimoni che derivano
direttamente dall’archetipo (e NON nella maggioranza dei codici posseduti), tale lezione, secondo il metodo
meccanico lachmanniano, sarà verosimilmente quella corretta.
Se la lezione dell’archetipo si può fissare in modo meccanico, si parla di recensio chiusa (o verticale).
Quanto detto finora parte dal presupposto che ciascuna copia sia stata trascritta da un unico esemplare
(trasmissione verticale). Succede tuttavia che un copista abbia dovuto restituire il codice dal quale stava
copiando e che quindi da un certo punto in avanti ne abbia usato un altro: in questo, e in casi simili, produce un
testimone unico dal punto di vista materiale, ma doppio dal punto di vista testuale. Sorgono quindi
complicazioni quando le parti di diversa provenienza non sono delimitabili in modo netto e sicuro, e soprattutto
quando il copista ha attinto lezioni da numerosi codici compiendo quella che si chiama CONTAMINAZIONE (si
parla allora di tradizione non meccanica, orizzontale).
C’è ragione di ritenere che talvolta a tale scopo fosse allestito un collettore di varianti (editio variorum), cioè un
manoscritto dove, sui margini o nell’interlinea, si trovavano annotate le diverse lezioni presenti in altri
manoscritti. Quale che sia l’origine della contaminazione, risulta compromessa la normale distribuzione delle
varianti e degli errori e viene quindi meno uno dei presupposti che consentono ipotesi genealogiche verosimili,
cioè la costruzione di uno stemma codicum sicuro.
In mancanza di indizi esterni, possono essere usati criteri interni dettati dal buon senso: una lacuna evidente non
sarà stata trasmessa per contaminazione perché è impossibile che un copista l’abbia cercata altrove. Ma se la
tradizione è contaminata in modo endemico, disegnare uno stemma può essere impossibile.
Se la lezione dell’archetipo non si può fissare meccanicamente, si parla di recensione aperta (o orizzontale).
Si potrebbero completamente vanificare queste cose appena dette, qualora noi fossimo in presenza di una
tradizione di un testo che abbia conservato tracce di varianti d’autore: infatti, potrebbe essere stato l’autore a
cambiare una parola da una più difficile a una più facile, ma senza avere il testo che conserva queste varianti non
ci è dato saperlo.
Può capitare che nella trasmissione di un testo in prosa, in qualche testimone il testo trascritto presenti
delle mancanze cioè che il copista per disattenzione non abbia trascritto un pezzo di frase o anche
un’intera frase. In questo testimone si è prodotta una lacuna o mancanza (es. omoteleuto). Le lacune
sono considerate dei veri e propri errori. Una lacuna ha di norma valore separativo perché non è
correggibile per congettura. Se io ho dei testimoni con la stessa lacuna, essa sarà congiuntiva.
4. Emendatio
Ricostruita con criteri meccanici e col iudicium la lezione dell’archetipo, non resta che correggerne gli errori per
avere la lezione dell’originale. L’emendatio è la correzione solamente congetturale. Una buona congettura dovrà
essere innanzitutto coerente da ogni punto di vista col testo dove si inserisce. Non tutto però si riesce a
emendare. In tal caso, l’errore non emendabile deve essere messo in evidenza attraverso l’òbelo o crux
desperationis, un segno tipografico posto a inizio e a fine della lezione corrotta: Ɨ errore Ɨ
L'obelo può rappresentare anche una porzione di testo mancante a causa di una lacuna provocata da un
insufficiente numero di fonti che tramandano il testo, tale che non sia possibile una restitutio.
5. Varianti formali
Resta comunque aperto il problema di come scegliere tra le varianti grafiche, fonetiche, morfologiche che la
stessa parola molto spesso presenta a seconda dei manoscritti. È evidente come, applicando la legge della
maggioranza, si corre il rischio di attribuire all’originale un certo colorito linguistico piuttosto che un altro solo
perché la tradizione, nei suoi piani alti, ha subito l’influsso prevalente di una certa cultura grafica e linguistica,
magari molto diversa da quella dell’autore. Il problema delle varianti formali non si pone nel caso dei classici
latini, le cui edizioni critiche presentano una veste grafica e fonetica perlopiù standardizzata.
Il problema sorge per i testi in lingue moderne (volgare), spec. antecedenti alla normativa ortografica e
grammaticale, quando la loro trascrizione era influenzabile dall’ambito linguistico in cui si svolgeva, e quindi
poteva dar luogo a ibridismi di difficile interpretazione. Il critico del testo volgare è tenuto a sviluppare, caso per
caso, una speciale metodologia tesa a ricostruire ipoteticamente la veste linguistica più vicina all’originale.
1. All’inizio della nostra letteratura sta il caso limite della poesia siciliana, nota quasi soltanto attraverso
copie toscanizzate e quindi infedeli dal punto di vista fonomorfologico. Tale situazione indusse alcuni
studiosi a ritradurre quei testi in siciliano; il risultato è tuttavia inattendibile, sia perché mancano
informazioni dettagliate sulle precise caratteristiche duecentesche del dialetto, sia perché impossibile
conoscere - per ciascun poeta e ai vari livelli - il grado di mescolanza tra elementi locali, latinismi,
provenzalismi e francesismi. Di conseguenza non resta che presentare i testi nella veste tradizionale.
6. Apparato critico
Chi utilizza un’edizione critica deve poter conoscere senza difficoltà i criteri seguiti e le scelte operate ai vari
livelli. L’apparato critico serve a questo; in genere è localizzato a piè di pagina e consente, con rapidi controlli, di
confrontare le lezioni accolte nel testo con quelle scartate. Si distingue tra
- apparato critico negativo: sono indicati soltanto i testimoni portatori di lezioni divergenti rispetto alla
lezione accettata nel testo critico;
- apparato critico positivo: è completamente esplicito perché indica anche i testimoni della lezione
accettata e messa a testo.
o Apparati rigorosamente positivi sono molto rari. In essi è subito chiaro da quale manoscritto
derivi la lezione accolta nel testo.
Soprattutto se i testimoni sono numerosi è bene che l’apparato critico sia stringato, ridotto cioè ai nudi fatti della
tradizione, lezioni e sigle, senza troppe parole di commento.
Informazioni accessorie, giustificazioni e ragionamenti dell’editore si possono collocare nella stessa pagina, ma
separati.
Qualora siano identificate varianti d’autore, occorre distinguerle o con particolari segni tipografici o dedicando a
esse una seconda fascia di apparato. L’apparato diviso in due fasce, soprattutto se posto a piè di pagina, è la
soluzione più comoda e chiara per il lettore.
7. Edizione diplomatica
= edizione che segue la trascrizione diplomatica
Riproduce il testo in maniera accurata e fedele al suo aspetto esteriore, per quanto lo consente l’uso di moderni
caratteri a stampa. Tale consuetudine risale al formarsi, nella seconda metà del XVII secolo, di una disciplina volta
a fornire giudizi di autenticità sui documenti medievali: la diplomatica. Il collegamento con delicate questioni
giuridiche impose di limitarsi alla pura e semplice trascrizione, criterio poi adottato anche da editori di
manoscritti letterari. Non sempre però le edizioni diplomatiche, soprattutto quelle di grande mole, riescono
perfette e quindi conviene servirsene come sussidio non alternativo all’ispezione diretta del manoscritto. Viene
sciolto solamente il titulus e le varie abbreviazioni.
8. Edizione interpretativa
= edizione che segue la trascrizione interpretativa
La trascrizione interpretativa non consiste nell’ammodernare le scritture antiche arbitrariamente ma
nell’intervenire su di esse seguendo criteri rigorosi e chiaramente predeterminati:
Edizione critica
Dal greco crino = giudico, è un testo che ha alle spalle il lavoro di collazione. L’autore deve spiegare perché ha
modificato in quel modo il testo (lo fa nell’apparato = parte posta sotto il testo), deve documentare il lavoro
svolto. A partire dai dati osservabili nell’unico testimone si formula un’ipotesi esplicita sullo stato dell’originale,
segnalando eventuali punti in cui una conclusione sia dubbia o impossibile. Non è detto che qualsiasi edizione
critica su codex unicus debba essere più conservativa di quella su codices plurimi.
Filologia d’autore = l’insieme di metodi e problemi relativi all’edizione di testi (spesso dell’800-‘900) conservati
da uno o più manoscritti autografi (o idiografi), o da stampe sorvegliate dall’autore, e caratterizzati da varianti,
stesure o redazioni plurime.
Si parla di opere dell’Otto-Novecento perché da questo periodo si diffonde l’abitudine di costruire archivi
privati contenenti carteggi, documenti personali e tutte le carte prodotte e accumulate nel corso della
stesura delle opere. È eccezionale che si conservino una o più stesure autografe prima di questo periodo,
sia perché molto è andato perduto, sia perché prima dell’avvento della stampa, si elaborava il testo
mentalmente, senza servirsi di un supporto scritto.
Alla morte dell’autore, tale archivio, qualora non venga disperso, finisce in una pubblica istituzione, di
solito una biblioteca
Quando l’ultima volontà dell’autore è nota, gli obiettivi del filologo diventano
A) Ricostruire e rappresentare nel modo più chiaro e razionale il processo correttorio del testo stesso dalle
origini alla sua forma definitiva, servendosi – se conservatisi – di appunti, bozze, stesure provvisorie, ecc.,
B) Stabilire il testo critico, ossia decidere quale lezione mettere in luce. Si può trovare:
1. L’apparato genetico quando si pubblica a testo l’ultima lezione, poi cristallizzata (C) mentre
nell’apparato si presentano A e B.
2. L’apparato evolutivo quando si pubblica a testo la prima edizione (A), e nell’apparato B e C.
Il fatto che l’autore sia ancora in vita non implica necessariamente che il problema sia risolvibile
1. Il manoscritto moderno
Benché più frequentemente capita di trovare varianti d’autore in manoscritti autografi o in stampe autorizzate, si
è visto, a proposito delle Rime di Dante, che esse sopravvivono anche all’interno di una tradizione costituita solo
da copie.
All’inizio dell’800 si diffonde l’abitudine, tra gli scrittori, di non mandare in
tipografia il loro autografo, ma di farlo trascrivere a copisti di professione. Ergo
quelle copie calligrafiche, sebbene riviste dall’autore e perciò definibili
idiograf, talvolta contengono errori, trasmettendo alla stampa lezioni diverse
dall’autografo.
Il manoscritto, con l’invenzione della stampa, ha cessato di servire a diffondere la conoscenza di un’opera ma ha
continuato a servire da supporto alla produzione del testo. Una volta confinati nella dimensione privata
dell’attività di uno scrittore, i manoscritti autografi sembrerebbero destinati a scomparire rapidamente, in quanto
testimoni di qualcosa di provvisorio rispetto all’opera stampata. Tuttavia nell’età moderna succede sempre più
spesso che siano conservati abbozzi, minute ecc., tanto che per certi scrittori dell’Ottocento come Flaubert siamo
sommersi da questo tipo di materiali.
La massa superstite dei moderni manoscritti d’autore è enorme e perlopiù inesplorata a causa dei censimenti
sistematici scarsi, e delle frequenti difficoltà di accesso quando tali manoscritti sono conservati presso privati.
La filologia d’autore concentra la sua attenzione sul momento creativo e formula ipotesi, in base ai materiali
conservati, sul rapporto tra autore e testo sia nella fase di gestazione, sia nella fase spesso tormentata che, dopo
la prima pubblicazione, porta talvolta a rifacimenti più o meno numerosi e complessi.
Ci si chiede se valga la pena avventurarsi in un campo di ricerca dove si incontrano spesso difficoltà e risultati
incerti. Si potrebbe sostenere che, in presenza d’un testo a stampa, è meglio decidere d’ignorare l’esistenza della
relativa documentazione manoscritta precedente, cioè di una storia privata che sembra quasi indiscreto
indagare, visto che l’autore non le ha dato pubblicità. Anzi, talvolta ci ha lasciato testimonianza della sua
preoccupazione in merito all’eventualità che un giorno si frugasse fra le sue carte (es. Marcel Proust). Desiderio
però spesso infranto in nome di un profondo rispetto per la grandezza dell’opera dello scrittore.
Il timore di essere indiscreti, in linea di massima, non ha ragion d’essere e sarebbe irrilevante di fronte al fatto
capitale che la conoscenza di come lavoravano, ad esempio, Ariosto o Leopardi, consentita dallo studio dei loro
scartafacci, ha aperto nuovi orizzonti all’indagine critica.
Diverse questioni sono legate ai testi non collegati direttamente a una determinata opera letteraria e scritti per
proprio uso privato, testi che l’autore non avrebbe mai pubblicato, o avrebbe pubblicato solo dopo revisioni e
ristrutturazioni radicali. Sono questioni soprattutto filologiche consistenti nel fatto che spesso occorre costruire
ipotesi su dati che, proprio per il carattere privato della scrittura, sono labili, incerti, contraddittori. È il caso di
alcune parti dello Zibaldone leopardiano, del quale sono state necessarie varie edizioni per arrivare a un assetto
soddisfacente (idem per i Quaderni del carcere di Gramsci).
Tra le opere la cui stampa non era prevista dall’autore sono da ricordare anche le lettere.
Se prodotte da persone di modesta o scarsa cultura, le lettere private rappresentano livelli di comunicazione
molto interessanti per una certa immediata resa del parlato che è raro trovare altrove. Quanto ai primi secoli
dell’uso del volgare, si tratta di testimonianze preziose per dialetti che altrimenti raggiungono forma scritta in
modi artificiosamente depurati e contaminati.
3. L’avantesto
L’avantesto (dal francese avantexte) comprende l’insieme di materiali preparatori di un’opera: liste di parole-
chiave, appunti, abbozzi e stesure precedenti.
In Francia, il termine è stato introdotto da Jean Bellemin-Noël ed è stato utilizzato anche per descrivere
materiali non appartenenti ad ambiti strettamente filologici (includendo, ad esempio, anche il percorso
mentale dell’autore).
In Italia il termine include solo i dati materiali relativi a tutto ciò che ha preceduto il testo, in via:
o Diretta (prime stesure e successivi rifacimenti che precedono il testo);
o Indiretta (elenchi di personaggi, elenchi lessicali, progetti letterari).
Il riconoscimento degli strati serve a identificare eventuali campagne di correzione, cioè a scoprire rapporti
semantici tra un gran numero di varianti e quindi a conoscere il programma che le ha ispirate e l’eventuale
rapporto con fatti storici, vicende private etc. Anche quando è provata l’esistenza di uno strato sovrapposto a
un altro, restano varianti di dubbia appartenenza che è buona norma distinguere sempre, con espliciti
avvertimenti.
Spesso una fase elaborativa è caratterizzata da più varianti sincrone, cioè introdotte insieme in punti diversi
dello stesso segmento unitario. Rivelatrici di tale sincronia compositiva sono sia caratteristiche materiali, sia
implicazioni semantiche, logiche, grammaticali.
A seconda che si accerti o no una sincronia compositiva, cambia dunque il numero delle fasi:
se il segmento XYZA è stato trasformato in BYCA, con due modifiche (X>B e Z>C) avvenute in tempi diversi,
abbiamo una seconda fase BYZA oppure XYCA, e poi una terza BYCA; qualora invece le modifiche siano
sincrone esse rientrano in una stessa fase e poiché a XYZA segue d’un colpo BYCA abbiamo soltanto due fasi di
elaborazione.
Tradizionalmente è stata ritenuta preferibile la scelta del testo corrispondente all’ultima volontà dell’autore
sottolineando implicitamente il fatto che di solito il problema si pone di fronte non a manoscritti ma a più
edizioni a stampa successive, tutte autorizzate dall’autore e però diverse l’una dall’altra.
Tuttavia ragioni affettive non possono essere determinanti; altrettanta cautela poi richiede l’applicazione più o
meno conscia di un modello evoluzionistico, per cui dalla prima fase alle successive l’opera progredirebbe.
- Capita che uno scrittore introduca ulteriori modifiche nella ristampa d’una sua opera realizzando solo allora
compiutamente il suo progetto artistico MA altrettanto reali sono i casi in cui un’ultima revisione serve a
cancellare diversità tra testi concepiti a distanza di tempo.
- L’ultima volontà può dunque essere volta ad appiattire sincronicamente e a dare l’idea che mai niente è
cambiato, oppure a fissare a posteriori una periodizzazione che corrisponde a un gusto retrospettivo, non al
reale svolgimento storico.
Tra gli studiosi tedeschi e italiani si è affermato il principio per cui le varie redazioni di un’opera avrebbero
ugual valore: il che vuol dire che l’editore è libero di scegliere l’una o l’altra. Il dibattito, ancora aperto, ha visto
molti studiosi avanzare l’idea di privilegiare non l’ultima, ma la prima stampa perché:
1- Il testo della prima stampa rappresenta la conclusione dell’originario processo creativo di un’opera ed
è quindi il risultato della più intensa fase produttiva dello scrittore;
2- Se le opere vengono pubblicate a partire dalla redazione della prima stampa, si documentano e si
confrontano le fasi del completo sviluppo artistico dell’autore. Al contrario, presentare solo l’ultima
redazione cristallizza l’autore in un’unica fase e livella il processo storico del suo sviluppo;
3- La decisione dell’autore di mandar fuori dal suo laboratorio un’opera conferisce al testo della prima
stampa un peso rilevante e lo rende testimone particolarmente rappresentativo della sua volontà;
4- Il testo della prima stampa esercita l’effetto più durevole, prova le recensioni più attente, e possiede
particolare importanza dal punto di vista della ricezione.
Quale che sia il modo di presentare e ordinare i fatti, essenziale è tenere separati i diversi momenti di
elaborazione, per non arrivare a produrre, con materiali uno per uno autentici, un’opera mai esistita.
6. Esempi di edizione
A) Ariosto: frammenti autografi dell’«Orlando furioso»
La pubblicazione separata di un avantesto è imposta spesso più da fatti che da scelte teoriche.
L’aveva già adottata, vari decenni prima che si parlasse di avantesto, Santorre Debenedetti per I frammenti
autografi dell’Orlando furioso, 1937. Com’è noto nel passaggio dalla prima (1516) alla seconda (1521) edizione
del poema non si verificano mutamenti di struttura ma soltanto modesti ritocchi e poche aggiunte. Alla terza
edizione (1532) il poeta lavorò per parecchi anni ed ebbe così modo di intervenire sia sulla lingua, adeguandola
alla norma bembesca, sia sull’architettura complessiva, aggiungendo quattro episodi che portano il numero dei
canti da 40 a 46. Sono giunti fino a noi sparpagliati in varie biblioteche alcuni quaderni e avanzi di quaderni
autografi relativi alla prima, terza e quarta aggiunta, che attestano in modo frammentario fasi diverse
dell’elaborazione che Debenedetti preferì non riportare nell’apparato della sua edizione critica del Furioso ma
pubblicare separatamente. Ragioni pratiche: la trascrizione di autografi piene di frequentissime correzioni che
l’Ariosto fece coprendo una parola rifiutata con la nuova o mutandone i lineamenti, richiede complessi
accorgimenti tipografici incompatibili con quelli semplicissimi che si usano in un apparato destinato a registrare
varianti a stampa.
A parte alcuni fogli perduti, l’aspetto originario del manoscritto così come apparve ai primi lettori non è
conservato integralmente; Manzoni infatti si dedicò ben presto ad una radicale revisione e correzione per la
quale spesso non bastava la colonna lasciata libera a sinistra. Più gravi sono le conseguenze di un altro fatto:
l’autore, passando nella primavera del 1824 a una seconda minuta, utilizzò, in parte, fogli del tomo I della prima
minuta, in parte, ricopiò e sostituì quelli mal ridotti e, in parte, riscrisse ex novo. Il risultato è dunque una
complessa stratificazione che occorre riconoscere soprattutto per ricostruire la parte della prima minuta
corrispondente al tomo I; poi le cose vanno meglio perché si riduce e scompare lo spostamento dei fogli.
Da allora gli studi sono proseguiti e hanno avuto nuovo impulso per opera di Dante Isella.
Intanto si è proceduto al distacco di alcuni cartigli che Manzoni appiccicò sui fogli della prima stesura quando non
c’era più spazio sotto per scrivere; è stato quindi possibile leggere porzioni del testo sottostante fino ad ora
occultate. È cambiata inoltre la prospettiva generale perché sono stati avanzati dubbi sulla possibilità di dare al
Fermo e Lucia “lo statuto di un testo oggettivamente certo”. Isella suggerì che fosse evidente il fatto che in
rapporto alla struttura narrativa nettamente diversa, il Fermo e Lucia è perfettamente riconoscibile come un’idea
di romanzo autonomo rispetto ai Promessi Sposi.
Il testo del Fermo e Lucia, perché in più punti simile piuttosto a un’ipotesi di lavoro che a un oggetto dai contorni
compiutamente definiti, può e deve sussistere soltanto in stretta connessione con il suo apparato genetico, che
dia conto in modo esaustivo del formarsi della lezione messa ad esponente; e quando sia necessario, con un
secondo apparato di tipo evolutivo, che evidenzi quelle varianti che pur impiantandosi sulla prima redazione
costituiscono un passaggio verso la seconda.
D) Leopardi: «A Silvia»
Leopardi pubblicò nel 1835 i Canti (in numero di 39, mancando Il tramonto della luna e La ginestra) a
Napoli presso Saverio Starita, un volume in sedicesimo piccoli di 188 pagine (sigla N), che avrebbe
dovuto essere il primo delle Opere, subito bloccato dalla censura. Proprio per questo motivo di quel
volume si sono salvati pochi esemplari tra i quali però importa la copia personale conservata nella B.N.
di Napoli, sulla quale Leopardi in vista di una nuova mai realizzata edizione presso il librario parigino
Baudry, di sua mano trasferì le correzioni dell’errata-corrige e ne aggiunse una settantina, mentre una
decina ne dettò al Ranieri. Questo prezioso cimelio, la cosiddetta “Napoletana corretta” (sigla Nc)
rappresenta dunque per 39 canti l’ultima volontà del poeta.
Di molti canti si conservano anche autografi che documentano vari stadi del lavoro compositivo: il più
arcaico è dato da appunti marginali spesso tra parentesi che registrano varianti di stesure anteriori a
quella trascritta in pulito nella stessa pagina e a sua volta oggetto di cancellazioni e correzioni. Spicca
fra tutti l’autografo di A Silvia. Il testo sulla colonna esterna (a destra) sembra non una prima stesura
ma la copia in pulito dell’elaborazione, non terminale, come mostra al v.1 Silvia, sovvienti dove si
passerò poi a rammenti e infine a rimembri.