Nietzsche And Legal Theory Halfwritten Laws
Halfwritten Laws Discourses Of Law Goodrich
download
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-legal-theory-
halfwritten-laws-halfwritten-laws-discourses-of-law-
goodrich-59658580
Explore and download more ebooks at ebookbell.com
Here are some recommended products that we believe you will be
interested in. You can click the link to download.
Nietzsche And Legal Theory Halfwritten Laws Discourses Of Law New
Edition Peter Goodrich
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-legal-theory-halfwritten-
laws-discourses-of-law-new-edition-peter-goodrich-1668054
Nietzsche And Philosophy Gilles Deleuze
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-philosophy-gilles-
deleuze-46831518
Nietzsche And The Politics Of Difference Andrea Rehberg Ashley Dean
Woodward
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-the-politics-of-
difference-andrea-rehberg-ashley-dean-woodward-47238318
Nietzsche And The Politics Of Reaction Essays On Liberalism Socialism
And Aristocratic Radicalism Matthew Mcmanus Editor
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-the-politics-of-reaction-
essays-on-liberalism-socialism-and-aristocratic-radicalism-matthew-
mcmanus-editor-47523760
Nietzsche And Friendship 1st Edition Willow Verkerk
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-friendship-1st-edition-
willow-verkerk-49479456
Nietzsche And Kantian Ethics Joo Constncio Tom Bailey
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-kantian-ethics-joo-
constncio-tom-bailey-50225892
Nietzsche And Friendship Willow Verkerk
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-friendship-willow-
verkerk-50229304
Nietzsche And The Antichrist Religion Politics And Culture In Late
Modernity Daniel Conway
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-the-antichrist-religion-
politics-and-culture-in-late-modernity-daniel-conway-50232550
Nietzsche And Epicurus Nature Health And Ethics Vinod Acharya Ryan J
Johnson
https://ebookbell.com/product/nietzsche-and-epicurus-nature-health-
and-ethics-vinod-acharya-ryan-j-johnson-50235626
Discovering Diverse Content Through
Random Scribd Documents
The Project Gutenberg eBook of La vita
Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte
1
This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States
and most other parts of the world at no cost and with almost no
restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it
under the terms of the Project Gutenberg License included with this
ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the
United States, you will have to check the laws of the country where
you are located before using this eBook.
Title: La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte 1
Author: Various
Release date: March 22, 2016 [eBook #51526]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Barbara Magni and the Online
Distributed Proofreading Team at DP-test Italia,
http://dp-test.dm.unipi.it, and at http://www.pgdp.net
(This file was produced from images generously made
available by The Internet Archive)
*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA
ITALIANA NEL RISORGIMENTO (1849-1861), PARTE 1 ***
LA VITA ITALIANA NEL
RISORGIMENTO
(1849-1861)
I.
LA
VITA ITALIANA
NEL
RISORGIMENTO
(1849-1861)
QUARTA SERIE
I.
STORIA.
Federazione e Unità. Ernesto Masi.
Gli eroi della Rivoluzione. Francesco S. Nitti.
Dalle dieci giornate di Brescia alla Pompeo Molmenti.
battaglia di San Martino.
Il Re galantuomo. Domenico Oliva.
FIRENZE
R. BEMPORAD & FIGLIO
LIBRAI-EDITORI
—
1901.
PROPRIETÀ LETTERARIA
RISERVATI TUTTI I DIRITTI.
Gli editori R. Bemporad & Figlio dichiarano contraffatte
tutte le copie non munite della seguente firma:
Firenze, 1901. — Società Tip. Fiorentina, Via S. Gallo,
33.
INDICE
FEDERAZIONE E UNITÀ
CONFERENZA
DI
ERNESTO MASI.
Il 18 febbraio 1861 s'adunò per la prima volta in Torino il Parlamento
dell'Italia — «libera ed unita quasi tutta,» — come disse con voce
sonora Vittorio Emanuele, e sento ancora nell'orecchio e nel cuore
quelle parole e lo scoppio di grida entusiastiche, con cui furono
accolte.
Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1861, fu promulgata una legge d'un
solo articolo: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sè e suoi
successori il titolo di Re d'Italia».
Nel presentarne il progetto ai deputati, il Conte di Cavour scriveva
nella relazione, che lo precede: «un gran fatto s'è compiuto; una
nuova èra incomincia!»
E il relatore parlamentare, Giambattista Giorgini: «ci sono delle oasi
nei deserti della storia, diceva, ci sono nella vita delle nazioni dei
momenti solenni, che potrebbero chiamarsi la poesia della storia;
momenti di trionfo e d'ebbrezza, nei quali l'anima, assorta nel
presente, si chiude ai rammarichi del passato, come alle
preoccupazioni dell'avvenire.
«Rendiamoci una volta giustizia! Quanti sediamo su questi scanni,
tutti abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa; tutti
abbiamo portato la nostra pietra al grande edifìzio, sotto il quale
riposeranno le future generazioni. Qui i volontari di Calatafimi
potrebbero mostrarci sul petto le gloriose cicatrici; qui i prigionieri di
Sant'Elmo, intorno ai polsi, il callo delle pesanti catene; qui colla
canizie, colle rughe precoci, oratori, scrittori, apostoli di quella fede,
che fece i soldati ed i martiri; qui i generali, che vinsero le nostre
battaglie, qui gli uomini di Stato, che governarono le nostre politiche:
di qui parta unanime dunque (un) grido d'entusiasmo; qui
finalmente l'aspettata fra le nazioni si levi e dica: Io sono l'Italia!»
Enfasi magniloquente, che però era allora di stagione (adesso par di
leggere una delle Epistole famigliari, varie o senili del Petrarca);
enfasi, che allora altresì, cosa insolita, era perfettamente esatta: il
fatto grande e nuovissimo nella nostra storia, il sentimento di gioia
suprema, che suscitava in tutti, dal re all'ultimo popolano, la
presenza di tutti i principali uomini, che in tanti modi diversi vi
avevano cooperato. V'erano tutti in realtà. Non mancavano che
Garibaldi e Mazzini.... Peccato!
Volle sottolineare tale mancanza il Brofferio, vecchio avversario del
Conte di Cavour, accusandolo d'avere con questa legge usurpata
un'iniziativa, che spettava tutta invece alla rappresentanza popolare.
Il Cavour sentì il colpo e fieramente lo parò. «Tutti gli Italiani,»
rispose, «hanno avuto parte nel gran dramma del nostro
risorgimento, ma mi sia pur lecito dirlo e proclamarlo con profonda
convinzione; negli ultimi avvenimenti l'iniziativa fu presa dal governo
del Re.... Fu il governo, che prese l'iniziativa della campagna di
Crimea; fu il governo del Re, che prese l'iniziativa di proclamare il
diritto d'Italia nel Congresso di Parigi; fu il governo del Re, che prese
l'iniziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l'Italia s'è
costituita». Perciò, concludeva con altre parole, anche l'iniziativa di
proclamare l'unità nazionale spetta al governo del Re.
E perchè no? Si millantava forse il Conte di Cavour? Senza quelle
iniziative, tutte sue (e notate che tacque della campagna delle
Marche e dell'Umbria) l'impresa di Garibaldi in Sicilia e Napoli
sarebbe essa stata mai neppure possibile? Dell'unità nazionale non
v'ha dubbio, il più antico e perseverante apostolo era stato il Mazzini,
e quindi era egli pure un grande coefficente di ciò che ora accadeva,
ma chi avrebbe potuto sul serio, nell'ordine dei fatti, paragonare
l'opera del Conte di Cavour coi tentativi del Mazzini dal 1833 insino
allora?
Se non che il partito radicale e ultra-democratico, di cui in quel
momento si facea interprete il Brofferio, avea sempre capito così
poco il Conte di Cavour da parergli la maggiore accusa, che gli si
potesse fare, essere appunto questa, ch'egli fin dalla culla non era
stato e ad ogni costo unitario, che, piemontese e monarchico innanzi
tutto, sfruttava ora l'opera d'altri a beneficio dell'antica politica
dinastica del carciofo, e affrettava le annessioni e l'unità italiana con
lo zelo del neofita, dell'operaio dell'ultim'ora, del convertito da un
improvviso raggio di sole sulla via di Damasco.
Tuttociò, se fu detto o scritto in buona fede (del che è lecito per
molti di dubitare) è stolto ed insipiente in sommo grado, e non
merita altra risposta se non quella che mi rammento aver io stesso
sentita dare da Ruggero Bonghi ad un amico, progressista
repubblicaneggiante, cui pareva aver trovato l'Achille degli argomenti
contro la memoria del Conte di Cavour.
Passeggiavamo di piena estate in una campagna e dopo aver molto
discusso: — Insomma, — sclamò quel tale, — Mazzini credeva fino
dal 1832 all'unità italiana e il Conte di Cavour no. Ora all'ultimo chi
ha avuto ragione? — Senti; — rispose il Bonghi — se tu in questo
momento dici: «credo che nevica,» per certo dici una sciocchezza.
Ma se seguiti a dirla fino a quest'inverno, e nevica, come di solito, e
tu vuoi vantarti: «vedete, se avevo ragione?;» ne dici un'altra, e son
due. Per oggi basta! —
Così è in realtà, e lasciando stare ciò che il Conte di Cavour abbia
pensato e creduto in gioventù, perchè mai il giorno dopo Novara
sarebb'egli stato unitario o federalista? chi sapeva, dopo
quell'immensa ruina del 1848 e 49, che cosa sarebbe accaduto?
Qual'è la dottrina, che s'era salvata? quale il partito politico, che non
fosse stato sconfitto, benchè tutti avessero fatte lo loro prove? La
grandezza maggiore, l'originalità vera del Conte di Cavour stanno
appunto in quella piena libertà di spirito, con cui pigliò l'impresa
italiana. Non una tradizione lo preoccupava, non un impegno settario
lo impediva, non una vecchia dottrina tiranneggiava i suoi pensieri.
Sentiva, e profondamente sentiva, tutta l'immensa miseria della vita
italiana; solamente non avvertiva forse tutto il guasto, che tre secoli
di servitù aveano arrecato al carattere nostro e perciò potè
procedere più franco, più sicuro, più espedito d'ogni altro. La sua
cultura era principalmente inglese e francese; i suoi viaggi erano
stati tutti all'estero; l'Italia gli era quasi ignota, e tuttavia essa era in
cima d'ogni suo pensiero. Ciò pure, direi, gli ha giovato. Gran parte
delle incertezze di Massimo d'Azeglio, che avea vissuto a Roma, a
Firenze, a Milano, a Napoli, gli proveniva dal conoscere troppo bene
gli Italiani. L'audace confidenza del Conte di Cavour dal conoscerli
poco; lo ha notato lo stesso Garibaldi. Non è un complimento per gli
Italiani, ma sempre più ogni giorno che passa la credo una verità!
Per questo il Conte di Cavour fu tra gli Italiani un fenomeno così
straordinario. Non soltanto la potenza della mente lo singolareggiava
fra tutti. Altri uomini di mente potentissima e per certi rispetti
superiori a lui, non mancavano di certo all'Italia. Bensì l'organismo
stesso della sua mente, la forma della sua cultura, la tendenza, la
disposizione del suo spirito, il modo, con cui afferra, esamina, risolve
ogni questione, che gli si presenti, tutto questo esser suo, così
fondamentalmente diverso anche dalle più insigni varietà
dell'ingegno italiano, fa del Conte di Cavour un fenomeno; fa sì
ch'egli venga tardi sulla scena politica, che in sua gioventù e durante
la rivoluzione del 1848-49 rimanga un po' appartato, che nonostante
la perspicuità somma delle sue idee e delle forme, nelle quali le
espone, apparisca per molto tempo agli avversari politici, ed anche
uh poco agli amici, una specie di enigma, a cui si cercano mille
assurde spiegazioni, ora titolandolo un anglomane (il Brofferio e
compagni lo chiamavano Lord Cavour) ora un reazionario, ora un
municipalista; fa sì che tra la stessa aristocrazia, donde usciva, lo si
giudichi ne' suoi primordi un cervello torbido e fuor di squadra, a
Corte un Giacobino in ritardo e fra la diffidente borghesia liberale del
Piemonte, che avea tante rivendicazioni da fare, un personaggio
sospetto e da mettere in quarantena. Chi prima di tutti lo indovinò e
lo preconizzò fu Vincenzo Gioberti, stato già suo avversario politico,
ma che gli rese giustizia con quelle parole del Rinnovamento Civile
scritte nel 1851: «quel brio, quel vigore, quell'attività mi rapiscono e
ammiro lo stesso errore magnanimo di trattare una provincia, come
fosse la nazione, se lo ragguaglio alla dappocaggine di coloro, che
ebbero la nazione in conto d'una provincia. Io lo reputo per uno
degli uomini più capaci, dal lato dell'ingegno, di cooperare al principe
nell'opera di cui ragiono.»
Ma di quale ingegno parlava il Gioberti? Perocchè su questa qualità
così generica dell'ingegno, di cui a volte non sono privi neppur quelli
che in sostanza non ne azzeccano mai una, e i tristi poi ne sono per
lo più forniti a dovizia, anche su questa, dico, qualità generica
dell'ingegno, bisogna intendersi. E quale propriamente fosse
l'ingegno del Cavour niuno l'ha detto con più finezza di Isacco Artom,
uno dei suoi collaboratori più modesti e più intimi. «Egli non si
proponeva mai,» scrive l'Artom, «una mèta immaginaria e
inaccessibile, ma nel tempo stesso egli non si contentava mai di
conseguire meno del possibile. Il suo sguardo non oltrepassava mai i
confini del reale, ma il reale era pel suo genio orizzonte ben più
vasto, che non sia per gli altri uomini!»
Dio ci mandò, o signore, il Conte di Cavour (diciamolo a costo di
pagare cinquanta centesimi a Rabagas, come nella commedia del
Sardou) Dio ci mandò il Conte di Cavour, appunto perchè la
rivoluzione italiana non si perdesse più ad almanaccare a priori di
monarchia e di repubblica, di tradizioni storiche e di profezie
letterarie, di federazione e di unità, ma tratta fuori da tutti i vecchi
solchi, nei quali s'era malamente e le tante volte smarrita, uscisse
finalmente dalla catalessi dei fanatici e dei solitari ed entrasse in un
periodo di effettuale realtà, contasse sul possibile ed anche sull'osare
a tempo, ma non farneticasse più sui milioni d'armati, che abbiano a
sbucar di sotterra, su cataclismi, che abbiano a subissar mezzo
mondo, su idealità vaghe e in tale contrasto con tutto il fuori di noi
da farci parer sempre ubbriachi e sonnambuli, che battono capate in
ogni spigolo di muraglia, o eroi metastasiani che trinciano l'aria col
brando, ma non confidano che nella clemenza delle stelle.
Credete voi che in Italia ci volesse poco a persuadere d'un simile
trapasso dal regno dei sogni a quello della realtà i milioni di Arcadi e
d'analfabeti, dei quali Pasquale Villari potè tirare una somma
spaventevole anche quattordici anni dopo?
Quando il Conte di Cavour inaugurò nel Piemonte quella politica di
egemonia nazionale, che ha fatto l'Italia, non era forse nella sua
mente alcun disegno preventivamente fissato con linee troppo rigide.
Pei radicali e gli ultra-democratici ciò costituiva la sua grande
inferiorità rispetto a loro, e fu invece la sua originalità e la sua forza.
Amava con passione la patria, e due cose tenea per certissime:
l'impotenza del riformismo dottrinario e del rivoluzionarismo alla
Mazzini, e la necessità che il Piemonte s'inalzasse tanto nell'opinione
pubblica europea da imbrigliar esso la rivoluzione a vantaggio della
sua politica e da poter trattare da pari a pari con la diplomazia,
nonostante che il fine della politica piemontese fosse quello di
stracciarle sul muso i suoi trattati e di sconvolgerle e rovesciarle il
maggiore di que' suoi accomodamenti posticci del 1815, alla
perpetuità dei quali, con una boria non meno pazza di quella dei
rivoluzionari di mestiere, era solita d'aggiustar piena fede.
Una cosa sola, del resto, m'è sempre parso ch'egli, al pari di Carlo
Alberto e di Cesare Balbo, considerasse come assoluta: la necessità
di cacciar l'Austria dall'Italia. Quanto al programma unitario, però,
non è vero ch'egli del tutto lo respingesse. Nel 1856 vide a Parigi
Daniele Manin, che gli divisò il suo nuovo programma:
«Indipendenza, Unità e Casa di Savoia.» Lo giudicò alquanto
utopistico, ma già i grandi risultamenti morali e politici da lui potuti
ottenere nel Congresso di Parigi, avevano talmente slargate le sue
speranze, che nell'anno stesso in un segreto colloquio col Lafarina il
quale era tutto inteso, insieme col Manin, col Pallavicino e quindi con
Garibaldi, a fondare su quel programma una Società Nazionale da
surrogare alla Giovine Italia del Mazzini: «ho fede, gli disse, che
l'Italia diventerà uno Stato solo e che avrà Roma per sua capitale,
ma ignoro se essa sia disposta a questa grande trasformazione.
«.... Faccia la Società Nazionale; se gli Italiani si mostreranno maturi
per l'unità, io ho speranza che l'opportunità non si farà lungamente
attendere, ma badi che dei miei amici politici nessuno crede alla
possibilità dell'impresa. Venga da me quando vuole, ma prima di
giorno e che nessuno la veda e che nessuno lo sappia. Se sarò
interrogato in Parlamento e dalla diplomazia, la rinnegherò come
Pietro e dirò: non lo conosco».
Eccolo anche cospiratore. Avea tutte le corde al suo arco e, contro il
suo solito, si vantò appunto d'aver cospirato colla Società Nazionale
nel suo secondo gran discorso su Roma capitale. In Piemonte, come
associazione consentita dalle leggi, la Società Nazionale fu pubblica;
segreta invece nelle altre parti d'Italia, essa però non adottò nessuna
delle forme delle antiche sètte, nè sottopose gli adepti a nessun altro
vincolo morale, salvo accettare il programma: «Indipendenza, Unità
e Casa di Savoia». E che una cospirazione politica, la quale si
proponeva di raccogliere in una nuova concordia le sparse forze del
paese e ai Mazziniani, in compenso della Monarchia, offriva l'unità
nazionale, ai conservatori liberali, in compenso dell'unità, offriva la
monarchia, a tutti l'indipendenza dallo straniero, che una
cospirazione politica, dico, dovesse contrapporre alle antiche sètte
un nuovo Credo molto determinato, si capisce bene.
Ma come avrebbe potuto il Conte di Cavour vincolarsi palesemente
altrettanto? Non andrà un anno poco più, e all'ombra dei grandi
alberi di Plombières sentirà offrirsi l'alleanza francese e la guerra
immediata a prezzo d'una confederazione di tre Stati sotto la
presidenza del Papa.
E che cosa sarebbe avvenuto dell'Italia, s'egli avesse rifiutato? A
buon conto, da un progetto impossibile di confederazione uscirono
Magenta e San Martino, e dalla guerra malamente troncata a
Villafranca uscì l'unità italiana.
Ma dicono non soltanto gli avversari del Conte di Cavour, bensì altri
molti: «No; l'unità politica dell'Italia s'è fatta malgrado il Conte di
Cavour, e s'è fatta perchè l'unità era la grande, la vera, l'unica
tradizione di tutta la storia italiana».
Non so se il Conte di Cavour, ma tutti, dal più al meno, siamo un po'
passati per questa fisima; tutti, dal più al meno, siamo colpevoli
d'aver bruciato qualche granello d'incenso rettorico a questa fisima;
alla quale si contrapponeva poi un'altra scuola, cattolico-liberale o
razionalista e repubblicana, che nella storia d'Italia pretendeva
invece a trovare la tradizione federale. Non ne facciamo colpa a
nessuno; forse anzi è un merito patriottico. Chi mai prima del 1859
poteva occuparsi di storia d'Italia senza un sottinteso politico? e
questo sottinteso non dovea essere il programma del proprio partito?
Perocchè v'ha bensì mia verità storica, ma purtroppo vi possono
essere pure tante interpretazioni soggettive, quanti sono gli storici.
Dio mi guardi dal dire che con la storia alla mano si possa
ugualmente provare il sì ed il no, ma certo è che nell'immenso
arsenale dei fatti della storia si possono trovare argomenti per tutte
le cause, armi offensive e difensive per tutti i partiti, e sarebbe facile
citarne esempi, specie fra gli scrittori di nostra storia
contemporanea, italiani e stranieri. C'è insomma una rettorica dei
fatti e secondo il modo di aggrupparli e farli apparire, ci sarebbe
talvolta da credere, che si possano scrivere su documenti identici
due storie di spirito diametralmente opposto, e da dar ragione a
Beniamino Constant, quando diceva: «Io ho dieci, venti,
quarantamila fatti e posso valermene a volontà». Vi pare scetticismo
questo? No, signore. È servirsi della nostra ragione, poichè Dio ce
l'ha data, ed è partendo da questo savissimo scetticismo, nota un
grande scrittore inglese, che la civiltà moderna ha potuto correggere
in parte quei tre massimi errori fondamentali, che, in passato, ci
rendevano in politica così ignavi, in scienza così credenzoni, in
religione così intolleranti.
Nel caso nostro non c'è in realtà nella storia d'Italia, fino almeno alla
fine del secolo XVIII, nè una tradizione unitaria, nè una tradizione
federale.
Ma eccovi gli uni a citarvi (per lo più pigliano le mosse di lontano)
oltre alla forma allungata della penisola, alla varietà delle razze, che
la popolarono, non appena divenne abitabile, alle indoli e costumi
diversi, tutti indizi repugnanti a unità, le antiche federazioni italiche,
anteriori a Roma, e resistenti per tanto tempo alla sua conquista,
l'esperimento tipico, vale a dire, la prima pietra angolare della
tradizione federale; ed eccovi gli altri a ribattere, non senza ragione,
che quegli argomenti etnografici e morali non provan nulla, perchè di
troppe altre nazioni unitarie si potrebbero addurre, e la penisola, che
il mar circonda e l'Alpe, compensa ampiamente colla salda certezza
de' suoi confini i pericoli della sua configurazione. Quanto alle prime
federazioni italiche, circondate, com'erano, di popoli nomadi e
selvaggi, se mai esprimevano qualche cosa, certo esprimevano
piuttosto una rudimentale tendenza all'unità, la quale di fatto si
compì col formarsi dello stato di Roma.
Se non che, come mai può dirsi la vecchia Roma, la Roma dei
classici, uno stato unitario nel senso, che oggi intendiamo? Da prima
Roma dovè lottare assai più per conquistare l'Italia, che non tutto il
resto del suo impero. In secondo luogo le città italiane furono tutte a
lei soggette in vario grado, con forme diverse, e tenute a freno con
un sistema di colonie, che s'andava via via slargando e sempre col
doppio intento d'impedire una rivolta e di difendere la città
dominatrice. Nè federazione quindi, nè unita, ma soggezione pura e
semplice, contro la quale le ribellioni furono molteplici e tremende, e
sfido negare, come sogliono gli unitari, che le guerre sociali dall'anno
90 al 60 avanti Cristo, non esprimano una tendenza separatista,
domata soltanto da un progressivo avviarsi alla dittatura.
Quanto all'Impero, esso non e più Roma, ma la dominazione
universale del mondo, e se, quando l'Impero si dissolse, si ha il fatto
che le grandi diocesi, nelle quali era spartito, furono il nucleo,
intorno a cui si composero con lento lavoro le altre nazioni moderne,
non è men vero che nella diocesi d'Italia appunto tale fatto non
s'avverò, perchè il regno, che i Barbari vi fondarono, li fece bensì re
in Italia, ma non re d'Italia, e gl'Italiani, perduti sempre dietro al
vano fantasma del cosmopolitismo romano, non consentirono mai
che questo regno li unificasse, come altrove era accaduto,
fondendosi insieme perfettamente le due razze, quella degli indigeni
e quella degli invasori. In Italia, invece, le due razze si contrastano
ancora nell'età dei Comuni rappresentate rispettivamente (fino ad un
certo segno però) dai feudatari dei castelli e dal popolo del Comune,
e quindi entro il Comune stesso dai nobili e dal popolo, benchè nelle
costoro discordie nè sempre le loro divisioni siano così esatte, nè
sempre abbiano così remote cagioni.
Per questo non si diè tregua mai neppure a' Goti e a' Longobardi, i
meno barbari fra i Barbari; per questo Leone III incoronò in Roma
Carlomagno, per impedire cioè che mai sorgesse un regno d'Italia e
potesse attecchire uno Stato unificatore.
Vi fu bensì un regno meridionale; ma straniero d'origine, feudale di
carattere, non ha che fare colle tradizioni romane: somiglia appunto
ai grandi Stati, che si vengono formando in Europa, e non ha quindi
alcuna azione sull'assetto, che l'Italia prende nel Medio Evo. Serve
solo ad essere opposto ora dal Papa all'Imperatore, ora
dall'Imperatore al Papa, finchè diviene il titolo, il pretesto giuridico
delle invasioni straniere e determina il fato della storia moderna in
Italia da Carlo VIII fino ai giorni nostri, fino a che Garibaldi, cioè, lo
manda a gambe levate. Non si assimila mai nessuna parte d'Italia.
Federigo II, re di Puglia e Sicilia, non è in Toscana e in Lombardia se
non l'Imperatore, il capo del partito ghibellino. Così Manfredi, così
Carlo e Roberto d'Angiò in Toscana, in Romagna, in Piemonte, non
fondano mai nulla di proprio, non sono che capi di parte,
combattono per la Chiesa e per l'Impero, entrano, vale a dire, nel
sistema particolarista delle città italiane, sistema frazionato
all'infinito, nel quale non è traccia nè di unità nè di federazione, e a
volte neppure di vero guelfismo papale o di vero ghibellismo
imperiale, ma che nonostante, tra l'Imperatore assente e il Papa
disarmato, si svolge con tale e tanta gloria, forza e potenza, da
creare tutta una grande civiltà nazionale, senza paragone possibile
nel mondo d'allora e nei secoli seguenti. Troppo ce ne siamo scordati
noi, soffocando questa vera tradizione italiana sotto un'unità
formale, meccanica e burocratica, che ci diede tutti i guai, senza
nessuna delle grandi e feconde energie d'un forte Stato unitario!!
Il frazionamento è ancora maggiore e non compensato di tanta virtù
operativa e di tanta gloria nell'età dei principati.
E se tuttociò è precisamente l'opposto d'una tradizione unitaria,
forsechè nell'età dei Comuni o in quella dei Principati apparisce mai
l'indizio d'una vera tradizione federale? Si vorrà ancora citare per
l'età dei Comuni il giuramento di Pontida, a cui la Lega Lombarda
preesisteva, mentre poi essa stessa non preluse ad alcuna stabile
federazione, bensì condusse la lega temporanea di tante città, e
dopo la stessa vittoria di Legnano, al Congresso di Venezia, in cui il
Papa, capo della Lega, abbandonò subito i suoi alleati per non
pensare che a sè, e alla pace di Costanza, in cui i Comuni
riconobbero i diritti dell'Imperatore Romano e delle nuove franchigie
ottenute si valsero per dilaniarsi peggio che mai fra di loro? Si
ricorderà ancora l'equilibrio di Lorenzo il Magnifico, che era tutto un
artificio d'un grand'uomo politico, ma non si fondava che sulla sua
sapiente destrezza e scomparve con lui? No; una vera federazione
stabile, ordinata, nazionale, in Italia non c'è stata mai nè nell'età dei
Comuni, nè in quella dei Principati. Vi furono bensì al tempo dei
Comuni leghe umbre, toscane, lombarde, formate sempre a qualche
intento speciale e quasi sempre sciolte prima che quell'intento fosse
conseguito. Ve ne furono altre al tempo dei principati, ma l'interesse,
la defezione o il tradimento le sciolsero tutte, nè bisogna nella
d'Italia lasciarsi prendere dai miraggi, che a quando a quando vi
compariscono. Nel secolo XVI, per esempio, si direbbe che l'Italia
stia per ordinarsi un momento sotto l'unità monarchica francese, o
sotto la federazione di Cambrai, ma il miraggio scompare subito. Può
concepirsi di fatto un'unità politica sotto la mano d'un re straniero, o
una federazione di stranieri e italiani contro la gloriosa Repubblica di
Venezia? No. Per quanto si faccia, se si cercano nella storia d'Italia,
prima della Rivoluzione francese, tradizioni unitarie o federali, non
altro si trova invece se non le cagioni prossime o remote delle
preponderanze straniere. Nè bisogna lasciarsi ingannare neppure dal
sentire tanti scrittori e statisti, e diplomatici e guerrieri, e persino
papi, Giulio II, Clemente VII, Paolo IV, parlar sempre di libertà
d'Italia. Per tutti (non vuolsi far loro colpa di ciò che in gran parte è
colpa dei tempi) per tutti libertà d'Italia non significa già l'Italia nè
unità, nè federata, nè libera dagli stranieri, bensì che nessuno degli
stranieri, i quali si contendono Napoli o Milano, prevalga all'altro, e
sotto a questo concetto v'è ancora un altro particolarismo, che sta
più a cuore anche dei patriotti migliori, dei più elevati spiriti di
questa o quella regione, vale a dire o che sia libera
Firenze, o che sia libera Milano, o che lo Stato del Papa non sia a
discrezione nè di stranieri nè d'italiani: questo soprattutto che uno
Stato italiano, per forza sua o d'alleanze non prevalga sugli altri,
cosicchè quando le ambizioni di Venezia si volgono alla terraferma,
nessun straniero pare più minaccioso di lei alla cosiddetta libertà
d'Italia, nessuna preponderanza è più temuta e più contrastata della
sua.
Dopodichè, nell'età degli Stati non solo non c'è tradizione nè
unitaria, nè federale, ma non c'è più politica propria di nessuna fatta.
La politica d'ognuno di essi è, a seconda dei casi e dei tempi,
francese, spagnuola, austriaca, e il popolo italiano perde persino
ogni coscienza dell'esser suo. L'Italia, che pur ha così forti e spiccati
segni d'individualità nazionale, essa stessa (molto prima che il
Metternich lo dica) si lasciò ridurre nell'età degli Stati un'espressione
geografica. Questa divisione dell'Italia, che era di quasi ottanta Stati,
ridotti a dieci dopo le guerre di successione e la pace d'Aquisgrana, e
non per opera certo degli italiani, ma degli stranieri, questa divisione
nazionalmente non ricorda nulla, non rappresenta nulla. Parlando
della sola Toscana il Giorgini scriveva nel 1861: «Io conosco
tradizioni, glorie fiorentine, senesi, pisane; ma non conosco che
umiliazioni e miserie toscane!» Il medesimo si potrebbe dire, e forse
con più ragione, delle rimanenti parti d'Italia. E, per concludere, è
opportuno notare che tutti gli spigolatori di tradizioni unitarie e
federali nella storia d'Italia sono, non volendo, caduti in questo
abbaglio singolare, che mentre credono indicare le traccie saltuarie e
interrotte dell'uno o dell'altro concetto, altro non fanno che
enumerare più o meno compiutamente le cagioni grandi o piccine,
per le quali nè unità, nè federazione non sono mai state possibili.
Se non che, battuti sul terreno dei fatti, si rifugiano nelle visioni dei
pensatori, nei vaticinii dei poeti, o tentano far passare per un
principio almeno di unificazione nazionale le ambizioni di qualche
principe, che approfittando di contingenze favorevoli voleva
ingrandire lo Stato. Quanto alle visioni dei pensatori e ai vaticinii dei
poeti, il fatto è vero e giovò certo a tener vivo qualche barlume di
sentimento nazionale, se non altro, in qualche ristretto cenacolo
letterario, ma ricollocati ognuno nel proprio tempo hanno essi
veramente il significato che si suole loro attribuire? o qual maraviglia
in ogni caso che ingegni ed animi eletti sorpassino la realtà che li
circonda, e si slancino nell'utopia inapplicabile o nelle profezie, che
non si verificano? può questo fatto da solo costituire una tradizione
storica?
L'unità d'Italia per Dante Alighieri è l'unità dell'Impero restaurato,
unità di giurisdizione suprema, non unità di Stato, dalla quale è
difficile arguire che il misterioso Veltro, da lui profetato, potesse mai
poco o molto rassomigliare prima a Napoleone, poi a Pio IX e
finalmente a Vittorio Emanuele o a Garibaldi. Ma Dante è nel suo
tempo e va considerato nel suo tempo, anche se il poema divino è, e
deve essere per sempre, la bibbia nazionale degli Italiani.
Egli, difatto, ebbe per primo forse vera coscienza d'una nazionalità
italiana. L'ebbe, perchè compose, si può dire, l'unità della lingua
italiana, perchè mostrò di conoscere l'importanza etnografica e civile
della nostra comunanza di linguaggio col verso: «Il bel paese là dove
il sì suona», comprendendovi la Sicilia e il Trentino, perchè
finalmente la penisola fu da lui descritta ne' suoi precisi confini
geografici. Ma fuori di questo, e rifacendoci al suo concetto politico,
egli invoca la calata d'un Imperatore, affinchè riconduca la pace,
quella pace imperiale, che è quanto dire universale, in cui forse
abbozzava un pensiero di fraternità umana. L'ideale suo grande è la
pace; sono sempre le discordie politiche, ch'egli flagella, e gli pare
che cesserebbero d'imperversare, se l'Imperatore ritornasse alla sua
Roma. Quando sospira la venuta di Arrigo VII, Dante sa bene che
esso non verrà a fare l'unità italiana. V'ha anzi chi ha persino creduto
che
Dante sperasse in detta occasione una confederazione. Non credo.
Egli non ha sperato e voluto che la pace, tant'è che non altro
consiglia a popoli e principi; e, il solo mezzo di mantenerla, è per lui
il riconoscimento dei diritti dell'Impero. Dante afferma bensì la
nazionalità italiana, ma non discute l'assetto politico della nazione:
per lui Roma è la sede dell'Impero, la monarchia universale è
necessaria siccome istituita da Dio per la pace del mondo, senza cui
l'uomo non può conseguire il proprio fine e la beatitudine eterna.
Oltrediché quella monarchia è per lui la continuazione e il
perfezionamento dell'Impero Romano. Così Dante è nelle sue idee e
nel suo tempo.
Il medesimo è da faro col Petrarca, che nell'anarchia dei tribuni, dei
signori e dei condottieri, fra la quale è condannato ad andare
peregrinando tutta la vita, non lascia precisare affatto il suo sistema
politico, perchè le sue speranze si fissano ora in Cola di Rienzi, ora
nell'Imperatore Carlo IV, ora in Roberto d'Angiò, ora in Luchino e
Galeazzo Visconti, e, mancati tutti a un per volta i suoi idoli, finisce
esso pure nell'idillico:
Io vo gridando: pace, pace, pace;
il consiglio purtroppo più inutile da dare ai discendenti di Abele e
Caino.
Chi può negare che uomini così grandi, rientrando in sè stessi,
abbandonandosi alle proprie aspirazioni e speculazioni, non
contemplino e non profetizzino ideali di redenzione della patria,
superiori a quelli di tutti i loro contemporanei? Ma da questo al
collegarli con ciò che è accaduto nel tempo nostro ci corre, e a furia
d'interpretazioni arbitrarie ed anacronistiche si rischia di non
comprenderli e svisarli del tutto.
Molto più moderno è certamente il Machiavelli, ma anche con lui si
oltrepassa, si violenta il senso genuino dei fatti contemporanei,
quando si afferma che pur d'ottenere l'unità d'Italia avrebbe magari
accettato per re d'Italia Valentino Borgia. Leggete il libro del Villari e
vedrete che Valentino Borgia non è pel Machiavelli il personaggio
reale, che deve fare l'unità d'Italia, bensì il tipo, che con alcune delle
sue qualità personali gli inspira il concetto, che occuperà poi tutta la
sua vita e dominerà in tutti i suoi scritti, il concetto cioè d'una
scienza di Stato separata e indipendente da ogni considerazione
morale. Il Machiavelli fa per tal guisa del Valentino un personaggio
ideale, ma del Valentino vero giudica come merita e l'ha per un
furfante matricolato, degno figlio di Papa Alessandro, di cui giudica
egualmente. Tant'è che della meschina catastrofe del Valentino in
Roma, il Machiavelli, che era allora in Roma esso pure, non si dà
quasi per inteso. In conclusione, mentre si usciva appena
dall'anarchia medioevale, l'unità, a cui egli mira, è quella dello Stato,
non quella della nazione. Perciò i suoi delenda Carthago sono il
feudalismo, i soldati di ventura, il potere politico delle corporazioni
d'arte, il dominio temporale dei papi e la loro ingerenza nello Stato,
in cui ravvisa, e con ragione, l'ostacolo insuperabile dell'unificazione
dell'Italia. In questo senso, se si vuole, il Machiavelli è profeta, in
quanto cioè l'unità organica di uno Stato farà l'unità italiana, e di uno
Stato opposto al Papa, libero dalla sua ingerenza, non quello cioè, su
cui, come sul regno di Napoli, il Papa esercita giurisdizione feudale e
di cui si è sempre valuto per gettarlo fra i piedi a chiunque pur di
lontano accennasse ad una impresa italiana.
In seguito, che Eustachio Manfredi alla nascita d'un figlio di Amedeo
II di Savoia canti in un sonetto:
Italia, Italia, il tuo soccorso è nato;
che Traiano Boccalini e Alessandro Tassoni scrivano con sentimento
patrio contro la tirannide spagnuola, che questo sentimento
riecheggi nei versi di Fulvio Testi, del Filicaia e di tanti altri sta
benissimo ed è giusto che loro rendiamo la lode e la gratitudine, che
meritano. Ma s'hanno a vedere in ciò i prodromi dell'unità italiana
compiutasi fra il 1860 e il 1870?
Meno che mai mi pare di scorgerli nelle ambizioni di qualche signore
o principe che tentò in Italia slargare la sua signoria o il suo
principato. Mastino della Scala corre da Verona sino quasi alle porte
di Firenze, ma ivi è fermato dalle forze unite di Firenze e di Venezia,
e giuoca in questa impresa tutta la potenza della sua casa. Gian
Galeazzo Visconti pare vicino a diventar padrone di quasi tutta Italia,
ma se la piglia con Firenze, e una morte repentina sbarazza la
gloriosa città di questo terribile nemico; Ladislao di Napoli tenta
uguale impresa ed una morte molto opportuna la tronca anche a lui,
il che facea dire a quella linguaccia del Machiavelli: «la morte fu
sempre più amica ai Fiorentini che niuno altro amico e più potente a
salvarli che alcuna loro virtù».
Comunque, finite così, queste imprese non provano nè pro nè contro
la tradizione unitaria o federale.
Altro è di Valentino Borgia. Il romanzo francese del Blanquet ha però
un bel titolarlo roi d'Italie, ma che vuol egli in sostanza? Egli mira a
fondare la dinastia dei Borgia in un regno dell'Italia centrale, e forse
a rendere ereditario il papato. Il progetto era grandioso; non dico di
no. Era l'ultimo perfezionamento del nepotismo politico pontificio;
ma troppo in opposizione colla costituzione stessa del Papato e colle
condizioni dell'Italia da poter riescire e non riescì, nonostante
l'energia diabolica e la mancanza di scrupoli dei due uomini, il Papa e
il Duca Valentino, che cercarono d'attuarlo.
Resta la Casa di Savoia, la cui fortunata ambizione fino ad Emanuele
Filiberto, che fissa la capitale a Torino, non si sa da qual lato delle
Alpi inclinerà. In appresso è già molto ch'essa possa bilanciarsi con
una abilità ed un coraggio singolare fra Francia e Spagna e tra i due
contendenti ingrandirsi. L'indizio maggiore dei suoi futuri destini sta
nella grandezza dei suoi disegni e dei suoi propositi e, direi quasi,
nella sproporzione stessa, che è fra questi e le sue forze e
l'estensione del suo territorio. Ma più che tutto sta nell'aver l'armi in
mano e nell'adoprarle sempre, nel valor militare e nella stretta
Welcome to our website – the perfect destination for book lovers and
knowledge seekers. We believe that every book holds a new world,
offering opportunities for learning, discovery, and personal growth.
That’s why we are dedicated to bringing you a diverse collection of
books, ranging from classic literature and specialized publications to
self-development guides and children's books.
More than just a book-buying platform, we strive to be a bridge
connecting you with timeless cultural and intellectual values. With an
elegant, user-friendly interface and a smart search system, you can
quickly find the books that best suit your interests. Additionally,
our special promotions and home delivery services help you save time
and fully enjoy the joy of reading.
Join us on a journey of knowledge exploration, passion nurturing, and
personal growth every day!
ebookbell.com