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Appunti Storia Della Lingua Italiana Prof Formentin

Il documento discute la storia della lingua italiana attraverso l'analisi di manoscritti antichi, in particolare il Manoscritto 33 della Biblioteca civica di Fermo, evidenziando le difficoltà di datazione e localizzazione dei testi. Viene sottolineata l'importanza della trascrizione diplomatica e delle abbreviazioni nella scrittura medievale, nonché la necessità di un approccio interdisciplinare tra paleografia, storia della lingua e filologia. Infine, si analizzano le caratteristiche della scrittura e delle abbreviazioni, evidenziando la complessità e la professionalità degli scribi dell'epoca.
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Appunti Storia Della Lingua Italiana Prof Formentin

Il documento discute la storia della lingua italiana attraverso l'analisi di manoscritti antichi, in particolare il Manoscritto 33 della Biblioteca civica di Fermo, evidenziando le difficoltà di datazione e localizzazione dei testi. Viene sottolineata l'importanza della trascrizione diplomatica e delle abbreviazioni nella scrittura medievale, nonché la necessità di un approccio interdisciplinare tra paleografia, storia della lingua e filologia. Infine, si analizzano le caratteristiche della scrittura e delle abbreviazioni, evidenziando la complessità e la professionalità degli scribi dell'epoca.
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STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

22/02
Durante le lezioni tratteremo gli argomenti proposti dal progetto Chartae vulgares antiquiores: i
più antichi testi italiani riprodotti, editi e commentati. La prima fase prende in considerazione la
storia della lingua italiana, il primo fascicolo dovrebbe prendere in considerazione i più antichi
testi poetici italiani, quelli trascritti entro la metà del Duecento. Ma com’è possibile datare tali
testi? All’epoca si datavano infatti solo testi documentari come quelli del governo, dei notai, ecc.
Allo stesso modo, molti dei testi sono stati scritti in maniera avventizia, cioè non sono stati
trascritti organicamente in un libro, ma sono stati aggiunti in un secondo momento, dopo la
confezione del codice in spazi bianchi. Dal 1988, dopo un saggio di Armando Petrucci, questi
testi vengono chiamati tracce. Oltre a questo, i testi spesso arrivano fino a noi in maniera
abbastanza precaria. Nel manoscritto che prendiamo in analisi come primo (il Manoscritto 33
della Biblioteca civica di Fermo, nelle Marche), troviamo una scrittura organica, molto ordinata,
calligrafica, databile alla seconda metà del XII secolo. Il frammento di otto carte in latino rivela la
sua natura frammentaria non solo per il fatto che è molto breve, ma anche per il fatto che l’ultima
pagina, 8 verso, presenta un testo monco, mutilo, da cui si ricava che è un frammento. Il
supporto sul quale si è realizzata la scrittura avventizia è il vettore, un frammento di un codice
pergamenaceo. Si presuppone facesse parte di un sermonario, una raccolta di sermoni, cioè
una raccolta di letture edificanti, destinate a una lettura silenziosa o ad alta voce, ma non
all’interno di un ciclo liturgico, bensì di edificazione.
Essendo proveniente da un monastero, veniva letto per dilettare i monaci. Il problema spinoso è
quasi sempre la localizzazione, sia per il linguista che per lo storico letterario. I manoscritti
potrebbero dare delle indicazioni utili sulla sua localizzazione, perché magari recano in calce
un’indicazione di possesso e di provenienza. In altri casi può contenere delle decime, magari dei
gravami relativi a contadini che lavoravano le terre del monastero e che dovevano versare delle
quantità del raccolto al monastero. Ma nel caso di questo frammento, nessun elemento ci può
aiutare, e questo è da porre in relazione con il carattere frammentario del testo. Riguardo alla
localizzazione, i due elementi su cui si basa sono il giudizio paleografico della scrittura e il
giudizio linguistico. Un testo come questo sia per la lingua che per la scrittura sarebbe
localizzabile – nel Medioevo la scrittura era fortemente codificata, soprattutto tra i copisti
professionali. Questo doveva essere quindi uno scrivente documentario. La scrittura libraria è
fortemente codificata, permette di formulare una datazione (a volte anche la localizzazione)
molto puntuale, dell’arco di alcuni decenni. Questo dovrebbe essere il frammento di uno
scongiuro. La datazione di scritture non datate per prima viene realizzata dal paleografo,
basandosi su elementi di codificazione grafica. La localizzazione invece viene realizzata sia dal
paleografo che dal linguista. Il progetto di Chartae vulgares antiquiores è un progetto di
interdisciplinarità – di collaborazione tra paleografia e storia della lingua italiana e filologia.
Questo testo è molto complesso in quanto presenta problemi di localizzazione. Si è scoperto che
in questo manoscritto si trovano degli scongiuri, anche in volgare. Il catalogatore, in seguito, ha
scritto che del manoscritto si occuperà Augusto Campana, uno dei più importanti bibliotecari e
paleografi italiani, che scoprì tra l’altro la Canzone ravennate. Ma il problema era nel fatto che
Campana cumulava argomenti di studio, che ovviamente non concluse, tra l’altro la Canzone
ravennate non è mai stata pubblicata, così come neanche questo testo non è stato mai studiato
approfonditamente. Tuttavia, secondo lui il manoscritto sarebbe datato tra il 1191 e il 1210. Ma
questa informazione ci è arrivata come fonte secondaria, non direttamente da lui e quindi
potrebbe essere non attendibile, non essendo scritta da nessuna parte.
Parlando di manoscritti, c’è da fare una premessa per quanto riguarda la trascrizione
(diplomatica) e l’edizione (critica). L’ideale della trascrizione diplomatica è rappresentato dalla
resa più fedele possibile della scrittura del testo, quindi rappresentando gli elementi della
scrittura come la punteggiatura ed altre particolarità materiali con totale fedeltà. Sebbene oggi
abbiamo a nostra disposizione fotocamere, fotocopiatrici ecc., rimane il senso della trascrizione
diplomatica come valore spirituale, in quanto rappresenta un primo livello di interpretazione
umana, che va oltre il mero dato. La trascrizione viene fatta insieme dal paleografo e dal filologo
direttamente sul testo originale. C’è bisogno quindi di rendere la materialità dello scritto testuale
che si ha di fronte, e per questo c’è bisogno di elaborare un sistema di criteri. Ci si deve ricordare
infine che la trascrizione si basa sulla trascrizione propriamente detta e sulle note di apparato.
Nel processo della trascrizione si utilizzano degli espedienti per la resa fedele del documento
originale.
1
Una delle questioni più importanti è quella delle abbreviazioni: la scrittura medievale ha
ereditato dall’età tardo latina un sistema tachigrafico di scrittura veloce. Le abbreviazioni sono di
contrazione, con i tituli – dei compendi con lineette con linee orizzontali o verticali. Tutte le
abbreviazioni dovranno poi essere poste tra parentesi tonde. Nel passato alcuni proponevano la
resa tipografica delle abbreviazioni, soprattutto i monaci, che trascrivevano completamente così
com’era (m ê d e → mêde, invece di me(n)de che si utilizza adesso), ma questo tipo di
trascrizione abbassava il livello di interpretazione. Altro elemento problematico della trascrizione
diplomatica sono gli spazi, cioè la separazione delle parole. Infatti, alcuni segni non esistevano,
così come l’apostrofo, proposto da Pietro Bembo solo nel Cinquecento. La separazione delle
parole rispondeva invece a criteri in parte diversi da quelli moderni, le parole nella scrittura
medievale venivano divise per unità lessicali, quindi con criteri un po’ diversi dai nostri, trovando
a volte uniti elementi grafici che noi separeremmo e il contrario. La separazione resta quindi un
processo soggettivo, in linea di massima si deve vedere se tra le lettere ci sia lo spazio medio
che dovrebbe esserci tra le parole, soprattutto considerando la larghezza della o e della e
minuscola.

29/02
Confronto paleografico come tentativo di datazione e localizzazione di natura paleografica.
Vediamo la netta differenza riguardo la qualità dei testi, le differenze della scrittura all’interno
della pagina, è da sottolineare la diversa qualità delle scritture.
In ambito filologico si localizza la posizione del testo tramite la cartulazione, non quello della
paginazione, che noi usiamo normalmente per indicare la posizione di una certa pericope
testuale. Recto e verso indicano due pagine contrapposte. Nella pagina vediamo queste due
scritture, la prima scrittura è quella del vettore, il testo che funziona da supporto alla scrittura
avventizia, è estremamente ordinato e costante nella scrittura e nella forma delle lettere. Questo
tipo di scrittura ha un antenato, ovvero la scrittura carolina, un tipo di scrittura minuscola.
Definizione di scrittura minuscola e maiuscola in termini geometrici: la lettera maiuscola è
posizionabile all’interno di due rette parallele, mentre la minuscola si inscrive invece in quattro
rette, perché bisogna comprendere anche le aste alte e le aste basse, per esempio l’asta della
u, della d, della p, della l.

Guardando il testo ci si rende conto che, per esempio, l’esecuzione della lettera a è costante.
Naturalmente ci sono delle varianti di una lettera, di solito non più di due, che fanno parte dei
segni grafici a disposizione dello scriba. Per entrambe le varianti vale l’argomento della forma e
della costanza. Prendiamo per esempio due forme diverse della lettera d: vediamo alla prima
riga un segno a forma di “7”, è una nota tironiana.

(nota tironiana)

Deriva dal nome latino Tirone (tiro, tironis→ matricola, recluta). Era il nome proprio del segretario
di Cicerone, che aveva sviluppato un sistema tachigrafico. La tachigrafia è un’annotazione
veloce nella scrittura, nell’antichità si usavano sistemi di composizione e non solo di
trascrizione. Il testo veniva dettato allo scriba che, di solito usando il sistema delle tavolette
cerate con lo stilo, annotava ciò che gli veniva dettato. La tradizione riporta una serie di
tachigrafie o abbreviazioni per simbolo, alla figura storia del segretario di Cicerone. Queste
particolari tachigrafie si chiamano anche tironiane, una di queste compendia, abbrevia la
congiunzione et latina (ha questa forma di “7” circa). Anche questa viene riprodotta con foggia
costante.
Di seguito vediamo un titulus, un’abbreviazione per titulus: è una scrittura molto antica ma
replicato anche nelle scritture moderne. Questo segno è il diretto progenitore della tilde (˜)
iberica. Questo segno indica la palatizzazione della lettera N. Questo tā sta per tam.

2
( ˉ → titulus)

Nella seconda riga vediamo di nuovo una nota tironiana e di nuovo un titulus (quā→quam) alla
quale segue una seconda forma della D di foggia onciale (diversa dalla precedente in diu,
prima riga, che è una D alta).

(D alta) (D onciale)
Che sia di foggia onciale o ad asta dritta, lo scrivano la esegue sempre nella stessa maniera.
Questo è un tratto tipico dello scriba professionale.
Le due diverse forme della D si trovano lungo tutto il testo. Vediamo anche alla quarta riga, la D
di die e di iudicii, in questo caso entrambe D ad asta dritta e sono identiche alla d del primo diu.
Importante: ordine, forma e costanza. Si può notare che quando ci siano due diversi disegni di
lettera, si tende, nelle scritture così organizzate e professionali, ad usarle in posizioni fisse. La d
di forma onciale è particolarmente presente nella preposizione ad, cioè in posizione finale.
Mentre diu, die, iudicii, vedono la d in posizione iniziale o interna alla parola. Questa non è una
regola, ma una tendenza. Le due diverse varianti di uno stesso segno alfabetico (in questo caso
d) possono essere definite, in termini strutturali, come due allografi di uno stesso grafema.
Elemento macroscopico: l’ordine, la purezza della pagina. Gli scriventi di professioni dominano il sistema
di scrittura nella sua complessità. Vediamo un altro segno particolare alla prima riga:

(letterina sovrapposta→ quo)


Questa è una tipologia di scrittura abbreviata per contrazione. Esistono due tipologie
fondamentali di abbreviazione: per contrazione o per troncamento. Per contrazione, come nel
caso di quo, abbiamo la prima/prime lettere e l’ultima/ultime lettere della parola compendiata. Il
simbolo visto è il compendio della lettera u di quo.
Altre tipologie di lettere:

(S alta) (S sinuosa)

Vediamo usq: va notata qui la S di forma alta, è un’asta con un cappello, è una variante della β.
Anche la S è un caso di due diversi allografi dello stesso grafema, queta in particolare la
ritroviamo all’inizio di parola e all’interno di parola. Vediamo nella parola eis, che ha la S sinuosa,
serpentina, in posizione finale. Abbiamo la presenza di due allofoni, il grafema viene eseguito in
due modi diversi a seconda della posizione. Questo è un sistema proprio di chi sa scrivere e ha
ricevuto una cultura grafica approfondita.

Notiamo un’altra cosa:

(ad integ→ u soprascritta→ titulus→ ad


ntegrum)

Ad integ→ abbiamo una G eseguita in cinque tratti, è sempre una figura costante nel testo. Poi
abbiamo un’altra abbreviazione per letterina soprascritta sopra la G: una U di forma acuta, quella
dalla quale verrà la nostra V. Sopra questa U soprascritta c’è anche un titulus, che compendio
alla nasale, dunque questa parola si scioglierà in integrum. La letterina soprascritta è una forma

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di abbreviazione per contrazione, quindi di solito si compendia o la U o una R. Il sistema
abbreviativo della tarda antichità ereditata dal medioevo si impara facendo pratica.
Segno di educazione approfondita è una buona giustificazione del testo, il margine infatti è
tendenzialmente inscrivere in una linea verticale. Per arrivare alla giustificazione, per esempio
alla quarta riga, tende a “stiracchiare” la parola iudicii, ma evidentemente non basta e viene
aggiunto anche un punto riempitivo di forma calligrafica per non sporcare la pagina. Inoltre non
ci sono parole spezzate che vanno a capo. Questo è un segno tendenziale del buon scriba
medievale e professionale è la tendenza a non spezzare le parole. A volte si ricorreva a false
lettere per riempire lo spazio per poter giustificare correttamente i margini. Questi sono tutti
espedienti, segni di confidenza con l’atto scrittorio, per tenere la pagina in ordine.
Abbiamo una spezzatura:

(la parola refrigerius comincia alla fine della riga e termina a capo)

Quando c’è una spezzatura, il sistema ortografico italiano rispetta il sistema di sillaba fonologica
(tranne nel caso della S impura: vespa va a capo ves-pa). Il sistema inglese invece, per
esempio, è un sistema arbitrario.

Altro elemento: exultabit con titulus, abbreviazione per contrazione perché è saltata la
desinenza latina del futuro di I coniugazione→ exultabunt.

Altra caratteristica appresa dallo scriva:

(segni sopra le i→apice)


Si tratta della funzione diacritica dell’apice, il puntino sulle i viene fuori da questo uso
dell’apice. La funzione primaria del puntino è diacritica, cioè ha la funzione di distinguere questo
grafema da altri segni alfabetici che consistono in aste. La i e altre lettere sono formate da aste
brevi, ovvero il segno minimo di cui consiste la i, la m (tre minime), la n (due minime), la u, ecc.
In questo caso vediamo come il sistema medievale avesse la tendenza che a scopo distintivo si
imponga l’apice sulla i.

Altri elementi interessanti:

(recipe→reciper)
L’asta della p è tagliata da un breve trattino orizzontale. Questa è un’abbreviazione comune ereditata dal
medioevo che sta per er, più raramente per ar. Deve sempre precedere P.

(ī secla seclor→ in secula seculorum)


L’asta della L è tagliata, indica un particolare tipo di abbreviazione per contrazione. Vediamo una
strana virgola, una cediglia (dallo spagnolo cedilla). Non è casuale ma voluto, indica la presenza
etimologica di un dittongo (saecula-saeculorum). Vediamo la forma della lettera r. In questo
periodo, verso la metà del XII secolo, si specializza questa forma per la R, impropriamente detta
a forma di “2”. Assume questa particolare forma quando segue delle lettere che abbiano una
sorta di complessità a destra. L’ultimo tratto della r è tagliato da un’asta. In questo caso abbiamo
una contrazione per troncamento che equivale alla sequenza um. Questa forma si specializzerà
molto nell’uso tipografico e verrà imparata dagli studenti come un segno a parte, spesso inteso
come -rum.

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Lo scriba professionale usa un unico segno di interpunzione: il punto sul rigo o punto basso. Qui
sicuramente dopo seculorum segue una forte pausa sintattica. Al punto segue una I maiuscola
eseguita, foggiata semplicemente ingrandendo la forma della i minuscola, non ha una forma
specifica.

(mtu con titulus→ mentum)


L’ultimo titulus sta per una dentale, quello precedente si può dire stia a metà tra la m e la t, può
avere valore di abbreviazione per contrazione (le lettere e e n non sono scritte ma sono
compendiate attraverso quel titulus).

(l ad pect→ vel ad pectus)


Notiamo diversi elementi: la l tagliata che sta per vel, congiunzione disgiuntiva.
Ad: notiamo la d onciale con l’asta molto bassa, piatta.
In pect vediamo invece che la lettera t è sormontata da un segno a forma di “9”.
Questo segno generalmente vale per us.

(inigne morantur)
Notiamo anche qui la forma della R in posizione finale, di forma lapidaria, capitale (maiuscola) in
modulo ridotto (termine tecnico per indicare l’altezza di una lettera) in posizione finale.
Possiamo parlare anche qui di allografi.

M gotica di forma e modulo maiuscoli.


Aut qui presenta un titulus che riporta un troncamento.

(Anime sunt que in seculum)


Aĩe scritto in questo modo è una variazione per contrazione e significa anime. Fin dalla tarda
antichità si scrivono solo le vocali di questa parola. Aĩa (singolare)→ Aĩe (plurale).
La forma che segue anime potrebbe essere sunt, S con titulus si può sciogliere
in sunt. Que è scritto con la cediglia, quindi indica un pronome relativo femminile
plurale.

(Eis)
Eis→ ei + s sopra il rigo. Da notare che qui non c’è un’abbreviazione, solo che la S finale è
innalzata sopra il rigo. Questo è un uso arcaico relativamente alla scrittura dei testi letterati
volgari (XIII/XII scolo). L’uso di compendiare S in forma serpentina a finale di parola e di rigo
elevandolo in esponente è in uso già della fine XII secolo.

(quod) (qui)

(segno di interpunzione: punto con linea sopra)


Nuovo segno di interpunzione. Questo nella terminologia dell’interpunzione medievale è un
puntus elevatus. Di solito equivale ad una pausa inferiore rispetto al punto fermo. Il valore
della punteggiatura medievale è logico-sintattico e non ritmico (come l’interpunzione moderna,
che si è sviluppata nell’1800). La punteggiatura logica mette in risalto le funzioni logico-
sintattiche, per esempio possiamo trovare un punto dopo il soggetto, che dal punto di vista
5
ritmico non si mette. Ancora oggi il tedesco ha degli usi simili, sono residui dell’interpunzione
ritmica passata. Il punto fermo indica di solito una pausa sia dal punto di vista ritmico che logico-
sintattico. Rispetto a questo il puntus elevatus indica una pausa (in termini ritmici) o uno stacco
(in termini logico-sintattici). Come regola generale conviene cercare di conservare il più possibile,
anche dal punto di vista dei segni, il sistema originale. In un caso come questo va usato soltanto
il punto fermo, usare segni di prevalente sapore ritmico, moderno è complesso.

Il segno della P è realizzato con un movimento destro-giro a sinistra per poi rientrare verso l’asta. Questo
segno equivale a pro.

Minimo segno di ornamento, questo era un manoscritto molto povero. Aveva segni di
ornamentazione estremamente ridotti, qui ad indicare la maiuscola in Un in cui riconosciamo una
U angolare.

Seconda nota tironiana a forma di 9 che sta per com o eventualmente cum a seconda
della parola. In questo caso sta per com in quanto la parola è communem.
Ãniuersarium→ sopra la U si vede una specie di tilde. Significa che abbiamo una vocale + R. La
vocale ce lo insegna la nostra cultura.

6/03
Oggi la scrittura non è più databile su base puramente grafica, della forma, a causa degli effetti
della fortissima personalizzazione della scrittura. Un paleografo può fornire datazione e
localizzazione sulla base dell’aspetto grafico dei testi medievali. La scrittura del vettore, cioè la
scrittura libraria professionale, è databile con buona approssimazione al secolo XII. Per quanto
riguarda le scritture non datate, ogni tanto nel colophon troviamo la datazione o la
sottoscrizione del copista con informazioni sulla data (per esempio: il libro è stato finito in data
x), a volte invece si rivede il dato della fatica dello scrivere, con una lode a Cristo e a chi ha
scritto il manoscritto. Accanto alla datazione cronologica troviamo anche la datazione topica,
di luogo preciso, ma sono casi minoritari seppur molto preziosi in quanto permettono di avere
dati sicuri sui quali confrontare i testi. Il sermonario si interrompe invece bruscamente, quindi
anche ci fosse stato un colophon con datazione topica non lo sapremmo perché è andato
perduto.
Abbiamo un testo che, a causa delle condizioni precarie di conservazione, si può avvalere molto
dell’aiuto della lettura sotto lampada a ultravioletti. Con il passare del tempo l’inchiostro si
indebolisce e la causa può essere di vari motivi, naturali o per mano dell’uomo, o ancora a causa
della presenza di macchie. L’ausilio dei raggi ultravioletti è particolarmente utile quando si tratta
di un indebolimento dovuto a dilavamento, cioè ad azione dell’umidità (scritture sono rese
evànite), perché una componente fondamentale dell’inchiostro antico è la componente ferrosa
e il ferro è sensibile alla luce ultravioletta. Tutte le scritture che si ottenevano con il piombo o che
consistevano in graffi senza inchiostro non hanno necessità di utilizzare la luce ultravioletta. C’è
una lunga stagione in cui vengono utilizzati gli agenti, perché alcuni testi si leggevano con
difficoltà e si è pensato di usare un sistema invasivo. Il sistema consisteva nel versare o
spennellare sul testo mal leggibile dei reagenti chimici che hanno danneggiato in modo spesso
irreversibile i manoscritti. Ciò che è stato così trattato diventa quasi invisibile, anche con la
lampada a ultravioletti. Un esempio è il testo poetico di origini friulane di fine 1300, primo 1400: la
famosa pergamena della ballata friulana Biello dumlo di valor aveva problemi di evanescenza ed
è stata rovinata in questo modo, facendo danni irreversibili, perché trattata con un reagente.
Buona parte del testo oggi non si legge più.

6
Ci si rende conto, guardando il manoscritto, delle sue condizioni precarie rispetto al sermonario.
La precarietà delle scritture volgari rispetto a quelle latine (foto scongiuri latini carta 3 recto)
risalta molto. Vediamo una larga scomparsa di inchiostro, l’evanescenza dell’inchiostro è stata
causata dall’umidità, dall’acqua. Per tutti e tre gli scongiuri può esser che l’acqua si sia
depositata in modo casuale. La copertina che vediamo oggi è di risulta, è un frammento di un
corale usato nel 1700/1800 per dare una copertina a questo fascicolo. Le condizioni molto
rovinate ce lo suggeriscono (carta 8 verso). Il fascicolo, o il vero manoscritto, sono andati
incontro ad un danneggiamento casuale probabilmente dovuto all’infiltrazione d’acqua. Si crede
che non sia un’intenzione umana, ma va tenuto presente che si tratta di scongiuri, e nel caso di
uno dei tre (pagina 8 verso) si tratta di uno scongiuro contro una malattia che si chiamava
gutta-fistula (gutta dal latino goccia). Nella terminologia medica medievale, la goccia è un termine
generico che indica una larga gamma di malattie: la gotta (iperuricemia), che colpisce mani e
piedi la gutta poi nella medicina medievale è quello che oggi chiamiamo ictus, spesso il termine
gutta ha valore generico e poteva essere determinato nel lessico medico medievale tramite una
serie di determinanti. Uno di questi determinanti è infatti la fistula, che equivale alla fistola italiana
e indica un canale infiammato che mette in comunicazione diversi organi del corpo, spesso un
organo con derma (pelle). Probabilmente nel Medioevo si intendeva con gutta-fistula anche le
ferite che non si cicatrizzavano bene. Lo scongiuro analizzato (carta 8 recto) è contro la gutta-
fistula, quindi in effetti concorda con lo scongiuro volgare nel fatto di essere un atto di magia
bianca, cioè magia buona, intesa come effetto benefico medico terapeutico, cura. Questo tipo di
scongiuri di ragioni magiche era più tollerato dalla Chiesa e dall’ambiente cristiano, mentre
invece era vista con maggior sospetto la magia nera, di cui l’elemento fondamentale è sempre
stato considerato lo scongiuro d’amore. Di solito nel Medioevo era appannaggio del mondo
delle fattucchiere e degli stregoni. Si entrava più in un campo considerato pericoloso dalla
Chiesa.
Qui abbiamo due scongiuri, quello in volgare è contro una malattia degli occhi (le oculopatie sono
molto varie e non si sa di preciso a quale malattia si riferisca). È verosimile che questi scongiuri
per il mal d’occhi si riferiscano a patologie che insorgono bruscamente, o che almeno per il
paziente sembri così. In termini moderni possiamo parlare di retinopatie, glaucoma, maculopatie,
cataratta (nel Medioevo si diceva panna negli occhi). È più probabile che si tratti di questa serie
di malattie che insorgono, o sembrano insorgere, in maniera più brusca. Le maculopatie
costituiscono la maggior parte degli scongiuri di età medievale e in lingue romanze. C’è la
possibilità che possa trattarsi di malocchio, una credenza che affonda le radici nell’antichità: uno
sguardo malevolo e malvagio da parte di una persona magicamente potente, che ha possibilità di
fare del male (malo occhio = occhio malvagio). Nel nostro caso, vedendo i casi di età medievale,
sappiamo che non si tratta di malocchio, ma di una patologia: è reso sempre molto chiaro dal
contesto: anche se non è semplice capire chi stia parlando o quando, ad un certo punto il
paziente vittima della malattia, lo definisce con parole tali per cui si capisce che si tratta di una
malattia che richiede l’aiuto di un operatore umano, colui che è tramite di una potenza divina. Nel
nostro caso si fa anche il nome della Vergine, anche se non sembra operare direttamente (è
pieno di Marie attrici della guarigione).

Quello soprariportato (carta 3 verso) è l’altro scongiuro latino, anch’esso ridotto male a causa di
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ampie macchie di umidità che hanno reso illeggibile larga parte della scrittura. Fa pensare (in
riferimento al fatto che siamo ai margini di un sermonario, libro di chiesa) che siamo davanti ad
un ecclesiastico come scrivente: sembra effettivamente il testo di un esorcismo, c’è la formula
tipica dello scongiuro puro: molto spesso gli scongiuri presentano una historiola, una storiellina
nella parte iniziale in cui abbiamo una narrazione. Nel nostro caso l’historiola è in prima persona,
ad un certo punto troviamo l’invocazione alla Madonna, poi quella del paziente e lo scongiuro è
propriamente l’azione verbale dell’operatore che lo pronuncia, efficace dal punto di vista magico-
terapeutico e cristiano. Nella trascrizione, alla fine di questo scongiuro, troviamo et orecet
incanto (all’ultima riga), mentre prima avevamo trovato interamente historiola. L’operatore dopo
aver chiesto perché la signora non ha pronunciato lo scongiuro, lei dice d non saperlo, allora lo
pronuncia lui. Tutti gli scongiuri iniziano direttamente con lo scongiuro, ovvero con in nomine
dei... Anche le scritture notarili sono così, per via della forte cristianità europea e la paura di San
Paolo che ammonisce.

Espiritu sancti: dopo l’invocazione divina entriamo subito nello scongiuro vero e proprio, verbo
tecnico (ma anche volgare) coniuro. Questo scongiuro (carta 3 verso) è in forma pura e fa
pensare alla figura di un ecclesiastico con doti esorcistiche. Questo scongiuro ricorda una
novella del Decameron che parla di due amanti. Per nascondere l’amante dal marito la donna
sostiene di aver visto un fantasma e i due si mettono a pregare con un buffo scongiuro,
un’orazione che fa il verso a questi testi (a coda ritta sei venuta a coda ritta te ne andrai) ma che
cos’è la fantasma? Non lo sappiamo, è possibile che ci fossero mille patologie dietro a questa
parola, non possiamo saperlo. Lo stesso termine incubo ha un valore originario molto fisico, uno
spirito malvagio personificato che pesa sul petto, incubo = mi poso sopra qualcosa. Fantasma è
sicuramente un entità malvagia e diabolica, soprattutto pensando a questo scongiuro,
sicuramente scritto con buona intenzione (intenzione bianca), terapeutica, non fatta per evocare
la fantasma (in Boccaccio è femminile, è chiaro sia una parola greca che finiva in A ed è stata
adattata e intesa come femminile).

Alla fine viene fuori un nome, c’è una forma di scongiuro nei confronti di questa fantasma e
leggendo, pur non possi nec venire nec... vediamo SR con titulo sopra che vale super (si vede
poco a causa umidità), poi vediamo M maiuscola quindi probabilmente è un nome che inizia per
M. Di solito si mette N ovvero chi pronuncia lo scongiuro al posto di N (nomen) mette il nome
della persona. A volte, come in questo caso, si trova l’iniziale del nome vero, più raramente il
nome intero esplicito. Ci si può chiedere se possa essere lo stesso scrittore di tutti e tre gli
scongiuri, ma non si può dare una risposta: è possibile ma poco probabile. Si potrebbe meglio
individuare nello scrittore, l’operatore, non il paziente.
La cosa non è ovvia, ma è verosimile che sia questi in latino sia quelli in volgare siano stati
copiati, e siano testi intrinsecamente poetici come quello di Jacobson (grande linguista russo-
americano che ha scritto un saggio sulle funzioni del linguaggio dal titolo Poetica e Linguaggio),
che indica come caratteristico del linguaggio poetico l’attenzione portata da chi lo produce sulla
materia stessa del suo discorso. Si parla di funzione conativa, cioè da conor = mi sforzo: se
dico mangia quella mela (forma imperativa) voglio ottenere un risultato con il mio messaggio, mi
sforzo. Un altro esempio è il messaggio pubblicitario: sono due esempi di funzione conativa. La
funzione fatica da for, faris = parlare, comprende quelle formule il cui significato è solo quello di
provare se il canale di comunicazione funzione, per esempio quando diciamo pronto al telefono
non serve a niente di fatto. Forme fatiche sono anche quelle di saluto (cordiali saluti), indicano il
funzionamento di un canale di comunicazione per dare dei segnali, come ad esempio passo e
chiuso. La funzione del linguaggio nella poesia invece è semplicemente quello di indicare sé
stesso, nella poesia da intendere in senso ampio: il linguaggio non deve comunicare niente se
non richiamare l’attenzione su sé stesso, sul significante, usando omofonie o assonanze,
allitterazioni, metonimie, figure di ripetizione o figure etimologiche. L’attenzione del lettore
o dell’ascoltatore è concentrata sul messaggio stesso e non sul suo contenuto, questo è ciò k
dice Jacobson nel suo saggio.
Testi come i nostri sono intrinsecamente poetici, in cui l’elemento verbale, fonetico o linguistico,
la sua materialità, la sua materia fonica, il ritorno di desinenze simili o rime interne, purità
metriche come il numero sillabico, sono elementi fondamentali anche al di là del significato
preciso delle parole. Sono testi in cui l’elemento del significante ha un rilievo fondamentale,
pensiamo alla poetica più comune: ci sono rime, assonanze (forme di rime imperfette).
Rima = identità dei fonemi a cominciare dalla vocale tonica. Da questo punto di vista cuore
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non fa rima con fiore, perché la O aperta e la O chiusa non sono un’identità fonematica, è
quindi una rima imperfetta, per cui la vocale medio-bassa rima con la vocale medio-alta. La
rima imperfetta in provenzale questo non è possibile. L’assonanza invece è una forma di rima
imperfetta che consiste nell’identità della vocale tonica e della vocale finale, ma consiste anche
nella diversità dei suoni consonantici interni: porto e morto fanno rima, porto e motto è invece
un’assonanza. Si tratta di testi poetici nel senso che intende Jacobson se ci sono tutte queste
caratteristiche, come ad esempio le assonanze. I primi esempi di poesia latina, i Carmina, sono
ricchi di forme allitterative in cui il messaggio poetico è affidato al linguaggio in sé.
Tornando alle macchie: si potrebbe trattare di danneggiamenti meccanici fortuiti, ma non si
può escludere un possibile tentativo umano. Testi che puzzavano di zolfo = testi di Belzebù. Si
tratta di testi al limite dell’ortodossia. È un ipotesi, però, che non sembra molto probabile, perché
il testo più danneggiato è quello della gutta-fistula, ed è chiaro che vada considerato un tipo di
scongiuro benigno, con proprietà terapeutiche di magia bianca (di pertinenza ecclesiastica). La
cosa che fa propendere per il caso fortuito, è che non abbiamo forme di cancellazioni più efficaci
che distruggono il testo se non il fatto che puzzino di zolfo e abbiano quindi qualcosa di diabolico
al loro interno. Qui lo scongiuro meglio conservato tra i due scongiuri latini è quello del la
fantasma, che dovrebbe puzzare di zolfo ma è quasi intelligibile. Va detto che per fortuna lo
scongiuro che ha subito meno danneggiamenti è quello in volgare.
Non c’è alcun dubbio che i tre scongiuri siano stati scritti dalla stessa mano, sono dovuti a una
mano unica che scrive con una scrittura qualitativamente diversissima da quella professionale
del sermonario. Questa minor calligraficità della scrittura (è una scrittura meno educata). Si vede
una sostanziale incapacità, particolarmente nello scongiuro del fantasma, di tenere allineata la
scrittura, di mantenere e conservare lo spazio interlineare costante. Lo scrivente professionista
del sermonario scrive senza linee rettrici, a mano libera: mantenere allineata così la scrittura,
con uno spazio interlineare costante, è prova di grande cultura. Il nostro scrivente dimostra tutta
la sua incapacità in queste caratteristiche di ordine della scrittura. Sicuramente ha una buona
cultura, conosce il latino e le abbreviazioni latine, ma possiamo dire a prescindere dalla forma
che non è uno scrittore professionista e non tiene la penna in mano come mestiere, questo
colloca automaticamente la sua scrittura fuori dalla sfera professionale, positivamente la colloca
nella sfera delle scritture usuali, quelle impiegate per i normali usi quotidiani della scrittura, al di
fuori di qualunque maestria calligrafica. È un po’ come quando noi stendiamo una nota per la
spesa: la nostra scrittura usuale non è calligrafica. Questa è una definizione che riguarda la
funzione grafica di questa scrittura, si vede anche perché ha scritto in posizione arginale e molto
scomoda. Ci sono stati danneggiamenti sui margini, rosicature probabilmente di topi, quindi non
si può più recuperare. Quello che si vede è una pergamena di risarcimento, non sappiamo di
quando sia il restauro, questi sono danni successivi alla scrittura.possiamo dire però che anche
quando il testo è stato scritto, sicuramente i margini erano già resi meno adatti a ricevere la
scrittura, era difficile scrivere lì. Nel testo in volgare soprattutto, ma anche negli altri testi, si vede
la grande difficoltà nel mantenere costante il modulo delle lettere (grandezza) e ha difficoltà
anche a mantenere costante il disegno, la forma di una stessa lettera

7/02
Questo scongiuro (carta 3 verso) ricorda la Novella 7 del Decameron di Boccaccio, che parla di
un trucco escogitato dalla donna stessa: quello che lei appella fantasma facendosi capire
dall’amante alla finestra. Lo scongiuro è in questo caso un messaggio per l’amante. Le orazioni
contro la fantasma sono due nella novella di Boccaccio. Fantasma da fantasima in italiano
antico, oggi è una parola desueta).
Il fenomeno di parentesi in fantasma oggi c’è in medesimo, adattamento dal francese medesme,
in forma sincopata (oggi même) medesm → medesimo, anche per la parola fantasma c’è stato
questo processo.

Caratterizzazione delle due tipologie di scrittura


La scrittura del copista amanuense del testo vettore (il sermonario in latino) è la scrittura di uno
scrivente professionale e frutto di grande esercizio di calligrafia. Lo scrivente è un calligrafo. Chi
scrive professionalmente ad un alto livello di competenza tecnica presenta omogeneità nel
disegno delle lettere. Le differenze si hanno su diverse fogge della stessa lettera, ma non
parliamo di queste, parliamo di quelle che hanno sempre lo stesso segno. Si nota anche la
costanza del modulo (grandezza): questi sono segni di grande capacità di tenere in linea la
scrittura senza bisogno di un supporto (per questo motivo si dice seguire la falsa riga). La
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scrittura va anche giustificata: sono tutti segni di professionalità dello scrivente. Dal punto di vista
della tipologia grafica si può dire siano esempi di tarda carolina minuscola calligrafica. È
certamente una forma particolare, ed è anche la tipologia di scrittura usata dallo scriba degli
scongiuri. La scrittura usuale, è da mettere in dubbio. Si può provare a confrontare questa
scrittura con la scrittura degli scribi e dei notai dell’area marchigiana del XII secolo. I notai
operavano per il monastero benedettino di Fiastra (uno dei grandi centri dell’area centro-
meridionale italiana, molto storico a livello di acquisizioni, dal punto di vista geografico è situato a
20/30km a ovest di Fermo, centro in cui è venuto fuori il frammento notarile). Fiastra ha un
ricchissimo codice diplomatico, una grande documentazione consistente di atti notarili fatti da
notai che lavoravano alle dipendenze del monastero, e che ci sono rimaste in grande quantità
conservati nell’archivio di Stato di Roma. Fiastra è nome famoso appunto per questo fondo di
pergamene di Fiastra a cui appartengono diversi testi al confine tra il latino e il volgare. Questi
testi sono ben noti soprattutto per gli studi dello storico della lingua italiana Ignazio Baldelli a cui
dobbiamo studi fondamentali sulla storia della cultura letteraria, linguistica e grafica dell’Italia
centrale (in particolar letteratura di stampo religioso, prima benedettino poi francescano). Bandelli
per spiegare il passaggio da una cultura di stampo benedettino, anche per quanto riguarda i testi
in volgare come il ritmo cassinese: conservato nell’abbazia di Monte Cassino, rasa al suolo
nella II Guerra mondiale. I documenti furono per tempo portati in salvo in Vaticano ma non
sempre è andata così: a Napoli l’archivio ha patito grandi danni a causa dei tedeschi, che hanno
dato fuoco a gran parte delle casse dei documenti in archivio che non si trovavano in città: nel
tentativo di salvarli erano stati portati a Villa Belsito, ma i tedeschi li hanno trovati. Buona parte
della documentazione del napoletano (tutto il 1300, l’epoca normanna, quella angioina e la
sveva) è andata persa. A una prima cultura volgare di stampo religioso agiografico, si è passati
ad una letteratura di marca francescana a cominciare circa dal secondo o terzo quarto del XIII
secolo. Bandelli ha studiato di questa devoluzione (forma metaforica usata da lui) in riferimento
alla poesia in volgare e poi alla lingua letteraria. In quest’area (soprattutto marchigiana, ma non
solo a Fiastra), sono raccolte tre carte notarili, carta osimana carta picena e la carta
fabrianese. Evidentemente questi notai, tra l’XI e il XII secolo si formano in un ambiente culturale
(apprendimento delle scritture e di una particolare lingua professionale). La figura del notaio nel
corso del XII secolo diventa depositario della pubblica fides, della autorità pubblica: un atto
redatto da un notaio che si sottoscrive, diventa dotato di pieno valore legale. Questa pratica è
diversa dalla tradizione bizantina che prevedeva attori e destinatari dell’atto civico. Perché l’atto
abbia valore nel XII secolo, comincia ad essere necessaria la scrittura del notaio in cui mette per
scritto le identità di attore, destinatario e notaio stesso. Questo è un passaggio cruciale per la
giurisprudenza e per la storia, avviene in Italia nel XII secolo e queste figure nelle Marche usano
quello che qualcuno ha definito «un lamentevole latino», cioè si intende che il latino usato dai
notai marchigiani è pieno zeppo di volgarismi (la lingua degli atti giuridici e notarili resta il latino
per ancora molto tempo, almeno fino 1500). In alcuni casi importanti, il loro latino lascia il passo
francamente al volgare, quindi si spiegano la carte nella raccolta di Castellani e l’aggiunta di
questi tre documenti marchigiani con altre carte notarili in cui si ha la stessa materia linguistica
volgareggiante. Baldelli si concentra sulle pergamene di Fiastra. Tutti questi testi hanno la
caratteristica linguistica di essere scritti in una lingua considerata segno di ignoranza e scarsa
preparazione professionale, ha una scrittura molto simile a quella degli scongiuri, certamente
derivata dalla scrittura carolina, quindi si può parlare di tarda carolina anche per il nostro
scrivente. L’etichetta di usuale andrà forse però rivista: esaminando alcune carte vedremo che
sembra essere una sorta di scrittura professionale anche se certamente non di tipo calligrafico. A
questi notai evidentemente non interessano particolarmente i calligrafismi, quindi non hanno
nemmeno la preoccupazione di tenere allineata la scrittura, di tracciare forme omogenee per ogni
lettera, l’impressione è di grande rozzezza. Alcuni specialisti, in particolare di formazione
paleografica, come Attilio Bartoli Langeli, che è un grande esperto della scrittura
appenninica. Alcuni di questi studiosi si sono fatti l’idea che la lingua e la scrittura non risultino
da un deficit culturale, ma che per qualche ragione questa è la loro cultura, che dal punto di vista
grafico veniva impartita nell’XI e XII scolo in ambienti clericali monastici.
Lo scriba degli scongiuri forse è monaco, visto che scrive sui margini di un sermonario fa
pensare ad un ambiente ecclesiastico. I testi latini del sermonario indicano risolutamente non un
preciso centro dell’Appennino, ma i centri benedettini promotori della scrittura e della letteratura
in volgare. Anche i notai, personalità laiche, pare imparassero a scrivere in questi centri
monastici in cui imparavano questa scrittura non particolarmente calligrafica.
Il testo dello scongiuro sulla fantasma (carta 3 verso) è una tarda carolina calligrafica databile
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probabilmente all’ultimo quarto o seconda metà del XII secolo (le datazioni paleografiche in caso
di testi non datati vanno circa per quarto di secolo). Più o meno la stessa datazione bisogna dare
alla scrittura dei tre scongiuri. Questo ha un significato particolare, vuol dire che la scrittura nei
margini è pressoché contemporanea a quella della scrittura dei sermoni. Il testo dello scongiuro è
schiacciato temporalmente sul vettore il che porta a pensare che il fascicolo (quaderno)
probabilmente non arrivò mai a far parte di un libro. Il fatto che qualcuno con questa scrittura
abbia scritto sui margini, declassa il valore del supporto, quindi non era più un supporto utile.
L’ambiente in cui quella scrittura avventizia si era depositata non considerava più valido il
supporto stesso. Questo schiacciamento delle scritture avventizie con la scrittura usata fa
pensare che la degradazione o il declassamento del vettore sia avvenuto subito, non è mai
diventato libro: ciò spiegherebbe la contemporaneità delle due tipologie di scrittura. Tutto questo
rende difficile l’essere ordinati nella scrittura, compreso il fatto che si sia deciso di scrivere lungo
il margine lungo in posizione scomoda (per chi deve scrivere) per via dei danneggiamenti portati
alle pagine (come i tagli trasversali degli angoli). È interessante che nello scongiuro volgare lo
scrivente tenga conto dei tagli quindi erano evidentemente preesistenti.

Lo scongiuro sulla fantasma è quello che più ci fa pensare alla figura di un esorcista. Anche le
formule ci fanno respirare quest’aria, soprattutto sul finale, sono convocate in sede di
evocazione, invocazione delle forze religiose positive, personaggi propri del’ ambient religioso.

La croce con bracci uguali iniziale si chiama croce greca.


Abbiamo poi una nota tironiana per ET, punto, poi fili (il genitivo latino filii è contratto).

Punto basso sul rigo, del valore essenzialmente logico sintattico della punteggiatura medievale.
Si vede che i punti bassi sul rigo servono a individuare parti del discorso che lo scrivente ritiene
di dover impiegare, evidenziano ragioni di carattere logico sintattico o anche lessicale, non nella
trinità ma certamente non equivale al nostro punto, sarebbe erroneo tradurre automaticamente
con la punteggiatura moderna, tanto più che segue un E congiunzione in forma volgare (non
scritto et, lo scrivente non ricorre alla nota tironiana ma alla scrittura esplicita e questa non è la
forma del latino ma la forma volgare). È significativo l’uso di ED. L’uso della D eufonica (davanti
a vocale), è un riemergere della congiunzione latina ET. Sarebbe più significativo di
un’intenzione volgare. In alcuni casi si utilizza ED (siamo nel 1260) che non è spiegabile se non
come voluto volgarismo.

Segue sps = spiritus, abbreviazione per contrazione con titulus che sta tra le due S è
completamente coerente con la forma latina quindi non usa la forma volgare inconsapevolmente,
usa una lingua zeppa di volgarismi, o quelli che sembrerebbero in termini di grammatica latina
dei grandi errori, dei sillogismi.

A è poi abbreviazione per troncamento di amen, con accento sulla prima sillaba. In fiorentino
volgare questa forma di tramite ecclesiastico diventa amme. Non c’è nessun segno di
interpunzione tra SC e A. È pieno di follicoli, quindi siamo nel lato “pelo”, quello nel quale si
scrive con difficoltà. Si scrive meglio sul lato “carne”. Il lato “pelo” di solito è molto scivoloso e
l’inchiostro fa poca presa: ulteriore elemento di difficoltà. Non sembra esserci un punto. Questa è
l’invocatio, il segno della croce è già un primo atto taumaturgico dell’invocatore, che invece si

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traduce nel monito paolino.

Poi abbiamo CŌ con titulus su O = coniuro te, in latino il TE andrebbe separato dal verbo come
forma tonica di accusativo. Coniuro è la parola chiave, la parola tecnica dello scongiuro = scaccia
per mezzo di uno scongiuro, è uno scongiuro puro. Tornando alla posizione di TE, diamo fiducia
allo scrivano che scrive CONIUROTE in un unico blocco grafico, gli diamo fiducia dal punto di
vista sintattico (che si ripete alla riga sotto) in quanto crediamo sia relativo ad una pronuncia
volgareggiante del nesso verbo + pronome e che vada considerata una forma enclitica. Per
quanto riguarda la sintassi, è il classico esempio di obbligo dell’enclisi a inizio assoluto di
frase. Se si ha ragione a intendere questo blocco grafico come relativo di una pronuncia enclitica
del pronome, e relativo ad una morfosintassi di tipo volgare, avremo il secondo caso di
mescolanza nel testo.

FANTASMA, purtroppo c’è nel testo una macchia di umidità centrale che infastidisce molto.
Fantasma con l’aiuto della lampada a ultravioletti si legge bene, senza no. Per problemi causati
da questa macchia di umidità, la sequenza comincia da quello che si riesce a leggere: dobbiamo
andare alla fine del gruppo grafico O I A con titulus (ORIA) probabilmente prima della O c’è una
P ma quello che c’è prima non lo sappiamo perché non si vede. ORIAN fa pensare a APORIAM,
grecismo che di solito nelle glosse latine tarde si usa come contraditio, contraddizione,
problema logico. Sembrerebbe fuori luogo in tale contesto ma è usata anche nell’itala nella
versione precedente la versione di San Girolamo della Bibbia (la versione latina). Quindi
APORIAM va anche inteso nel senso di errore. Siamo di fronte ad un ecclesiastico.

Poi troviamo FUNI genitivo di FUMUS, et fugare diabolo si legge abbastanza bene (con la nota
tironiana per ET a forma di 7). È da notare la foggia caratteristica della lettera G, quasi un 8,
sono due occhielli sovrapposti.
Notare la R di tipo arcaico (100/200) con un punto dopo fugare.

DIABOLO potrebbe essere o un accusativo retto da fugare (mettere in fuga, cacciare) o un


ablativo, perché è stata trovata una formula all’interno di quello che è un oratio battesimale
conservato in un manoscritto in beneventano (tipica scrittura libraia del sud Italia, è la scrittura
del ritmo cassinese) in cui c’è scritto et perfugare diabole quia appropinqua iudicuum dei: questa
è una formula, non si sa se travisata.

Poi A P P: la seconda P ha l’abbreviazione tipica di PRO, ovvero l’occhiello che si estende a sinistra e
rientra con un movimento destro giro.

La N sopra dimenticata. Lo scrivano tende a tralasciare lettere che poi inserisce nell’interlinea. Si legge pua
per questa mancanza, è una lacuna meccanica probabilmente dovuta alla rosicatura di

sorci.

13/03

Secondo scongiuro latino (carta 8): già a prima vista è in condizioni di conservazione peggiori
rispetto al precedente. Il margine esterno della carta, che per fortuna incide poco sul testo, è

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molto danneggiata. La parte sinistra è quella più illeggibile. La seconda parte ha una grande
macchia di umidità che difficilmente può essere stata volontaria. Lo scongiuro del fantasma è più
stregonesco: ad un certo punto c’è scritto diavolo, abbiamo un perfetto scongiuro, una perfetta
orazione esorcistica. Certamente ha un aspetto di maggior pericolo per eventuali occhi non
clericali, infatti succede spesso che gli scongiuri, anche innocui, vengano cancellati appunto per
via della stregoneria. Si dovrebbe trattare per entrambi gli scongiuri di un danno casuale, per
l’esposizione del manoscritto a infiltrazioni o intemperie. Il secondo scongiuro è per una buona
parte (parte destra) illeggibile e irrecuperabile. Nella trascrizione del testo sono frequenti i tre
punti distanziati all’interno di parentesi quadre [- - -]. Questo diacritico indica una porzione
ampia di testo non recuperabile per motivi meccanici. C’è una pluralità che permette al caso di
specie (in esame) di poter avanzare ipotesi di integrazione testuale sulla base di altre redazioni,
ma qui purtroppo si tratta di testimonianze uniche, che prevedono un lavoro di collazione
scomodo che viene risparmiato, ma mette il paleografo davanti a delle difficoltà, è una situazione
sfavorevole per l’editore di un testo antico o moderno. Non c’è dubbio che si tratti della stessa
mano del testo della fantasma. Il terzo scongiuro (dal punto di vista topografico il primo) e quello
in volgare, sono scritti dalla medesima mano.

Ritroviamo l’invocazione del mondo divino del Boccaccio, la formula è in nomine Patris (I con
titulus, P puntato in basso con nota tironiana, e sacti) il titulus sopra la I può valere per in
nomine. La P puntata è un’abbreviazione per troncamento, è ridotta a una sigla, ovviamente
siamo aiutati dalla formula nel riconoscimento della parola.

Et FI, può essere un’abbreviazione per troncamento o per contrazione, è argomentabile ma è più verosimile
sia per troncamento.

SA CT, cioè sancti: c’è la possibilità che i testi siano copiati da qualcun altro o che siano testi
buttati giù a mente, a memoria. Si tratta di due operazioni ben diverse perché comportano
processi fisici e mentali ben diversi. Copiatura = guardare un esemplare, memorizzarlo,
ridettarselo con la possibilità di errori. Il nostro scrivente in questo caso divide la parola per
syllabas, SA (nasale nel titulus), punto, T. La divisione per syllabas di solito non si fa, lo
scrivente è abbastanza rispettoso della divisione delle parole su base lessicale. Viene
considerata come unica parola grafica la sequenza preposizione + sostantivo (per esempio si
può scrivere perterram tutto unito) questa scriptio continua è una caratteristica grafica con basi
propriamente linguistiche: le preposizioni sono sintatticamente legate al sostantivo e quindi
anche sono legate anche foneticamente. La proposizione è un clitico e non può non stare
davanti al sostantivo. Tutti questi fattori chiariscono come nel Medioevo si ricorresse spesso alla
parola unita nel caso di una preposizione e di un sostantivo. Il nostro copista è abbastanza
rispettoso dell’unità di parola grafica. Qui avremmo una scrittura per syllabas che di solito può
essere un indizio di scarsa cultura grafica (non è il caso del nostro scrivano). Nel Medioevo i casi
di accesso della donna laica alla scrittura privata era difficile. Uno degli indizi della difficile
condizione di accesso alla cultura grafica del mondo femminile è la scrittura per syllabes, perché
ad un livello elementare di scrittura si nota di più il processo di dettatura interiore. Questo è un
caso di scrittura per syllabas abbastanza strano, inatteso e colpisce anche perché ancora una
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volta, come per il caso di nomine, lo scrivano ha saltato qualcosa: et spiritus (genitivo) è un altro
caso di omissione, si può pensare che sia omissione consapevole perché conoscendo la
formula dell’invocazione lo scrivente può aver saltato una parte.

→ ST, si parla di legatura a ponte: il gruppo grafico ST con la legatura a ponte


è impossibile sia una scrittura alfabetica in corsivo, c’erano modelli di scrittura per la didattica e
altri che sono compiti per casa veri e propri e si nota in queste scritture che questo simbolo è
sempre scritto in due parti, cioè significa che questo nesso si imparava così come fosse una
lettera sola, quindi non è indizio di corsività, è un unico segno.

Gutta vale goccia in latino, è un termine generico di malattia che di solito viene determinato da
ciò che viene dopo.

Vel fistella è una diversa declinazione morfologica di fistula, invece del suffisso -urus si è
sostituita -e attaccata alla stessa radice lessicale, il suffisso ella.. i n c, segue una parte non
trascritta, ma segnalata con [- - -] → ampio testo non recuperato (5 punti = cinque lettere
mancanti, ma quando non si distingue il numero delle lettere a causa del danno meccanico, è
meglio mettere tre lineette per indicare la presenza di un’ampia parte mancante. Dove si riprende
a leggere, dove la smangiatura e la macchia lasciano intravedere la scrittura, si vedere una nota
tironiana per ET, poi C con titulus. Essendo già espressa la N in lettere, il titulus diventa
superfluo. La tendenza a usare titulus superflui è una caratteristica della mano che scrive.

Alla seconda riga: HO con titulus è un’abbreviazione per contrazione che sta per HOMO,
sicuramente H è l’iniziale ed è assai probabile che sia homo la parola. Homo stabat (stare in
piedi in latino) ex- poi abbiamo una macchia per cui è possibile andare avanti, però possiamo
integrare la -tra in extra. Sembra l’inizio di un histriola, la parte narrativa dello scongiuro.
Abbiamo detto che è molto frequente e che già gli scongiuri di età tardo-antica, e poi quelli
medievali del mondo germanico e anglosassone, consistano anche di una parte narrativa che
riporta il tempo verbale tipico delle historiolo cioè l’imperfetto.

Homo stabat extra et inveniebat angelus Gabriel → la L in ANGELUS in realtà è tagliata da un


trattino orizzontale che indica la presenza di un’abbreviazione per contrazione, manca solo una
lettera: E compendiata. Da notare che a volte nella realtà risultano non molto economiche come
nel caso di anglus invece che angelus non si risparmia molto nella scrittura. Gli scriventi
imparavano a usare sempre questa abbreviazione quando si trattava di questa parola. A
seconda dell’espressione poteva cambiare.

Nella foggia della B di Gabriel vediamo come l’asta sembri simile alla nostra scrittura grafica. In
questo caso l’asta è molto bassa e spezzata e va tenuta in mente questa caratteristica. Questa
tendenza di mettere il trattino sopra b è un tratto di attacco. Va rivolto il carattere e non diritto,
ma particolarmente sinuoso.
Il soggetto di veniebat secondo la morfologia latina dovrebbe essere l’angelo Gabriele (nome
indeclinabile), ma potremmo avere dei dubbi perché basta vedere, ad esempio, alla riga sotto,
dove nomina tre entità verosimilmente maligne.
Abet nomine Luxitria, secunda Erodiana, tertia v[e]ro Placida, et vocat rostico → la morfologia
latina classica va dimenticata. Se è un testo romanzo si tiene fisso l’ordine soggetto - verbo -
oggetto. Il latino (lingua flessiva) invece li divide: l’ordine delle parole è fondamentale, potremmo

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pensare che angelus gabriel sia il soggetto, ma verosimilmente secondo la morfologia casuale
latina è difficilmente il soggetto. Homo è il paziente malato di gutta-fistula e incontra l’essere
divino, l’angelo Gabriele, che nell’historiola è l’operatore, quindi verosimilmente va inteso (senza
certezze) → l’uomo stava , era in piedi fuori(all’aperto) e l’angelo gabriele lo incontrava. Può
anche essere e incontrava l’angelo Gabriele, ma non è propriamente corretto così. Il
complemento oggetto si intende facimente hominem. L’angelo Gabriele è soggetto di dixiet:
questa non è morfologia latina.

Q sta per quid → Quid abet homo = che cos’ha l’uomo?: l’uomo è inteso come malato in generale.

In questa età il punto interrogativo e il punto esclamativo non sono presenti nel repertorio dei
segni interpuntivi, cominceranno ad apparire nel 1300 e 1400 in una forma simile a quella
moderna. È indistinguibile il valore del punto esclamativo da quello interrogativo. Dobbiamo
interpretarlo da soli. Non c’è dubbio che sia una domanda.

Dixiet non è una forma del latino.

Quia (q a) introduce un discorso diretto (seconda riga), infatti poi l’uomo dice SUM, non c’è
dubbio che sia parte di discorso diretto pronuncita dall’uomo. Quia, già nella vulgata e nell’itala,
ha questa funzione di introduttore del discorso diretto, ha un uso morfosintattico che ha
continuatori diretti in vari dialetti italiani (in sardo, per esempio, l’espressione CA è esito del latino
quia come introduttore del discorso diretto). Quia e ca sono i due punti, sostituisce il segno
interpuntivo. Sarebbe disse che io sono... In latino si lascia così (lo troviamo scritto così anche
nella Bibbia). Nel testo latino non si mettono i due punti [:]. Dal punto di vista logico-sintattico
questo quia equivale ai due punti introduttori del discorso diretto.

De gutta punto in mezzo fistula punto basso → si legge bene sum.


Segue una parte di testo al momento irrecuperabile. Nella parte caduta si deve immaginare che
vengano introdotte questi tre nomi femminili. È verosimile si debba sciogliere nomine ma si
potrebbe fare anche con nome, non si è certi dello scioglimento, ma si è ragionevolmente certi
che questi tre nomi siano nomi di entità maligne, proabbilemente respondabili della gutta-fistula.
Tutto ciò si puo dire per Erodiana, modificazione di Erodiade, quindi legata alla vidìcenda di
Giovanni Battista. Anche Luxidria è nome antroponimo non altrimenti attestato che risulta
avvicinato a luxux, luxuria. Placida invece non è evidentemente negativo. Si può recuperare un
habet nomen perché c’è secundia poi terzia. Va detto che la finale di Placida ha uno strano
prolungamento verso l’alto del tratto che forma la schiena che non sembra avere alcun senso.

HM può essere sia abbreviazione per contrazione ma anche per troncamento, sta per
HOMINE. Vocat rostico homine: siamo in difficoltà perché non c’è contesto sufficiente.
Questo vocat è una III persona singolare e potrebbe essere homine il soggetto, ma potremmo
anche essere in uso della III persona singolare al posto della III persona plurale vocant.
Questo potrebbe essere un volgarismo morfologico e in questo caso il soggetto sarebbero le
tre entità femminili precedenti.
Dal punto di vista morfologico starebbe bene che homine fosse all’accusativo.
Da notare che in rostico vediamo l’esito volgare della Ŭ di rusticus: in italiano la parola rustico è
un latinismo, la sua natura dotta deve la sua U tonica, quindi rostico sembra rappresentare un
caso di esito popolare spontaneo della base rusticus.

20/03

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(foto luce naturale)

(foto luce UV)

Non vi è alcun dubbio che si tratti della stessa mano. Troveremo delle somiglianze con altre
scritture coeve dell’area appenninica (Fiastra), c’è forse solo una differenza di inchiostro.
Parlando in generale, alla fine della lettura di questo testo vedremo alcuni elementi di affinità con
mani più o meno coeve di notai, anche se quella del nostro notaio non sembra essere una mano
professionale dal punto di vista grafico. Emergono elemento grafici di grade affinità con il mondo
grafico documentario, ci sono questi due grandi universi grafici nel medioevo:
1. La scrittura documentaria
2. Il settore delle scritture librarie
In questo caso ci troviamo in ambiente documentario ed emergeranno elementi di affinità con le
scritture documentarie di tipo appenninico e transappenninico orientale (versante adriatico).
Le zone italiane più note durante l’XI e XII secolo sono quelle dell’area marchigiana e umbra. Per
quanto riguarda il nostro scongiuro volgare, ci sono elementi interni di contenuto ed elementi
linguistici che puntano ad un area meridionale, cioè verso l’Abruzzo settentrionale, in
particolare la provincia teramana. Teramo è una città a sud di Ascoli, dove passa il fiume Tronto
che segna il confine geografico tra le due regioni: la distanza tra Teramo e Ascoli è molto
contenuta. Per quanto riguarda i confini linguistici, la pura distanza kilometrica vale fino a un
certo punto, valgono infatti altri parametri, non solo la pura distanza, ma la presenza di eventuali
confini orografici o idrografici. Il confine ancora oggi tra Marche e Abruzzi (le Marche e gli Abruzzi
sono le uniche regioni al plurale, in effetti gli Abruzzi dal punto di vista linguistico dialettale sono
più di uno) è quello culturale, per esempio le diocesi vescovali, infatti anche nel nostro testo,
secondo una congettura (il testo non sembra perspicuo), forse si allude a una confinazione
diocesana. Confini politici: nel caso specifico tra Marche e Abruzzi è fondamentale, in quanto
separa l’Italia centrale pontificia dalla regioni più settentrionali del regno delle due Sicilie. Nelle
foto dei documenti di Fiastra, c’è un testo famoso dell’italiano delle origini, la Carta osimana.
Ritroviamo caratteristiche abbastanza frequenti di questa produzione di documenti, in particolare
di area marchigiana, dove soprattutto tra l’XI e il XII secolo vi è una fortissima infiltrazione del
volgare locale all’interno della documentazione notarile privata, che consiste in un problema
anche culturale. Perché i notai spesso scrivono in un latino pieno di italianismi e volgarismi?
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Questo latino così pieno di volgarismi è da intendere o come segno di ignoranza e di
impreparazione dei notai, o come una sorta di codice scritto mescolato per sua natura di latino e
volgare molto più aperto di quello che si praticava in altre regioni italiane. In realtà i clienti erano
del tutto analfabeti, quindi in quale lingua fosse scritto il loro diritto di proprietà era irrilevante.

Per assurdo, la mancanza di luce non è dovuta al fatto che sia una foto effettuata sotto la luce
ultravioletta, ma paradossalmente è perché nella stanza dove sono stati fatti questi scatti non era
del tutto buio.

A livello macroscopico possiamo dire che:


Il testo è più leggibile degli altri due, è stato meno danneggiato da macchie di umidità e a quelle
rosicature di sorci che hanno intaccato la carta. Ci sono segni evidenti di risarcimento della
pergamena sia nel margine superiore sia nel margine esterno del foglio. I pezzi di pergamena
bianca, sono pezzi di risarcimento originali che sono andati perduti. Vediamo che sono
danneggiamenti successivi alla scrittura, perché hanno interessato lo scritto. Al centro c’è una
macchia di umidità, una gora di umidità che ha rilavato l’inchiostro nelle prime tre righe. Una
parte di testo è stata resa evanita, la macchia ha dilavato l’inchiostro che non si recupera più.
Questo crea dei problemi nella lettura, soprattutto nelle prime due righe. La macchia ha una
specie di cuneo che arriva oltre il testo volgare, ma non intacca la leggibilità complessiva del
testo. Sulla destra invece, dove vediamo scritto alatis (la forma del numero 3), notiamo una sorta
di taglio trasversale, un ritaglio. Come dice la disposizio del testo e delle lettere, e siccome nel
margine si è depositato un discreto strato di sporcizia, è verosimile che questo taglio sia
addirittura precedente alla scrittura del testo volgare: si può pesare fosse un difetto della
pergamena fino dalla sua disposizione.

Questo è un fascicolo, ed è evidente che l’ultimo testo latino (un resto scritturale tratto dalla
Bibbia) sia mutilo. Questo è un indizio di frammentarietà, come anche è indizio di frammentarietà
il fatto che abbiamo solo un fascicolo. È incerto che queste carte abbiano mai fatto parte di un
vero libro, lo dicono anche le condizioni per nulla buone delle carte viste in precedenza. Le due
pagine estreme del fascicolo molto sporche e danneggiate. Questo fascicolo è senza copertina
(ora ce l’ha, ma è una copertina di risulta molto tarda). L’aspetto deteriorato delle due pagine
estreme, è indizio che questo fascicolo era tale isolato da moltissimo tempo, e viene il sospetto
che non abbia mai fatto parte di un libro ma che per qualche motivo che ci sfugge, il progetto
librario che presiedeva alla stesura di questo fascicolo sia rimasto interrotto. Tutto ciò fa pensare
anche che la scrittura calligrafica professionale del sermonario e quella dei tre scongiuri non sia
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molto distante, ma quasi coeva, verosimilmente databile alla seconda metà o fine del XII scolo. Il
declassamento del fascicolo da parte di un libro a materiale di riuso deve essere stato molto
precoce, un altro indizio a favore dell’ipotesi che questo frammento non abbia mai fatto parte di
un libro è che un taglio come quello che vediamo sull’angolo destro, e la perdita di questa ampia
parte, sia precedente, in quanto il testo volgare sembra tenerne conto. C’è poi una quantità di
sporco notevole, un adeguato restauro di questa carta fatto bene potrebbe divulgare la parte
finale delle righe.

Rimanendo in osservazioni di carattere macroscopico, in questo scongiuro si vede l’incostanza


del modulo (termine tecnico per indicare l’altezza delle lettere). Questo è uno scrivente che non
scrive quasi mai una stessa lettera nello stesso modo (segno di non professionalità), non vale
solo per la foggia, ma vale anche per il modulo della lettere. Aldilà dei casi in cui si ha una
sovramodulazione giustificata (per es all’inizio oppure alla terza riga dove abbiamo una C
sovramodulata).

(C sovramodulata)
La sovramodulazione riguarda anche la E che segue. Il processo di ingrandimento delle lettere è
motivato dalle parti testuali, per esempio l’inizio di una sezione dello scongiuro. C’è una
giustificazione, ma altrove questa giustificazione non c’è, e la varietà di modulo è particolarmente
evidente. Un’altra particolarità, che riguarda sempre la variabilità del modulo e che ha un
significato per la localizzazione geografica della cultura grafica dello scrivente, è che il nostro
scrivente ingrandisce quelle lettere che formano un numero romano: si vede bene all’ultima riga.

Le lettere dell’alfabeto con valore numerico, in particolare le due X e la V con forma angolare
particolare, indicano una volontà di realizzare un numero e non solo una lettera. Tutte e tre le
lettere sono sovramodulate o ingrandite.

Un’altra notazione macroscopica certamente simile anche per i due testi latini, è che questo
scrivente non è capace di mantenere allineata la scrittura. Naturalmente bisogna pensare che
non sia facile scrivere sul margine di una pergamena e fare stare in maniera ordinata una
scrittura su un margine nel lato pelo (si vedono chiaramente i follicoli). Un altro particolare
materiale che rende difficile la scrittura è la punta larga della penna. Detto questo non ci
troviamo davanti ad uno scriba che sa tenere la riga in generale.

Un altro evidente particolare di questo scrivente, un’annotazione nel senso della scarsa o nulla
professionalità, è l’irregolarità dell’interlinea, in particolar modo lo spazio interlineare tra la
seconda e la terza riga e tra la terza e la quarta riga è più ampio rispetto a quello che separa la
seconda riga dalla prima, e le ultime righe. Nel caso dello spazio interlineare tra la seconda e la
terza riga, può aver influito il fatto che la sezione che inizia con la parola caeli sia anche
contenutisticamente disomogenea, si conclude con le parole filio deo, può essere che abbia
influito, ma questa spiegazione non vale per lo spazio spropositato tra la terza e la quarta riga: in
questo caso, come dice il testo, non c’è soluzione di continuità tra il testo della terza riga e quello
della quarta: si tratta di scarsa capacità di progetto grafico, sono tutti segni di scarsa
professionalità e forse anche del fatto che allo scrivente interessa più il contenuto della forma.

Un altro particolare interessante è il fatto che a volte intervenga con scritture alternative
sopralineari o interlineari.

(adorai) (cresma)

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Alla prima riga, per esempio sopra ad adorai c’è MA, si parla di inserzione sopralineare (perché
è la prima riga) negli altri casi, come ad esempio per cresma sopra la E c’è una I, quindi è
interlineare. Si tratta di correzioni, non sono scritture integrative, forse solo dove non si vede,
ma negli altri casi non si tratta di inserzione di un testo, si tratta verosimilmente di scritture
correttive, però di solito se si vuole

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correggere prima generalmente si cancella ciò che c’è di sbagliato, qui non succede. Si tratta di
correzioni sostitutive, potrebbero anche essere correzioni alternative ma sono sostitutive.

Como io m - abbiamo delle lettere evanite toccate dalla gora di umidità, un danno meccanico ha
anche portato via un lembo di pergamena poi successivamente risarcita. Cominciano già dei
leggeri problemi di leggibilità. Si vedono due E poi separate da altre lettere, per quel che si vede,
leggiamo una lettera che consiste in un’asta lunga. La lettera tra le due E consiste in un asta
lunga e l’unica lettera che si può leggere è una L, un’asta lunga che si incurva verso l’alto:
caratteristica di tutte le lettere di questo scriba (quelle che consistono di aste lunghe come L o P)
hanno questa tendenza a ondularsi verso sinistra, è una L molto strana, questa sua stranezza è
dovuta al fatto che c’è poco spazio, si pensa sia una lettera aggiunta dopo (ma poco dopo
perché non ci sono differenze di colore di inchiostro, sembra una correzione per inserzione).
Como io me le- (L forse aggiunta in un secondo tempo e sacrificata nello spazio). In alcune
parole, lì dove viene indicata la malattia che dovrebbe essere curata dallo scongiuro, lo scrivano
scambia la L con B, per esempio in una parola fondamentale scritta due volte alla quarta riga,
troviamo Ī(N)NOCUBO (I con titulus), poi lo ripete alla prima parola della quinta riga: scrive
ī(n)nocubo: chiaramente è inn oculo quindi l’unica spiegazione è che abbia confuso B con L.
Forse nella penultima riga all’estremità troviamo iettabo o iettalo, fosse scritto con la B sarebbe
un’altra sincrasia.

Alla metà terza riga comincia l’historiola dello scongiuro, nel quale viene introdotta la figura divina
di Maria Vergine.

Si legge inpreboladoro: vediamo la L ondulata, non ha alcun senso, mentre predola (con la D) ha
senso, ed è un germanismo (un longobardismo) che vuol dire scanno, sedia che tutt’oggi è ben
documentato nei dialetti centrali (vuol dire quindi sedia d’oro). Anche qui abbiamo quello che
sembra essere un errore grafico in cui ad essere scambiate sono B e D, segno che questo
scrivente in volgare ha de problemi alfabetici che in latino non dimostra.

Altri scambi di lettera: alla seconda riga, sopra Santa Maria, c’è scritta una N con titulus, B (una
B che sembra spezzata in due), A-D-Z (non è una Ç con cediglia, ma una Z in una foggia
particolare tipica degli scriventi dell’area appenninica, un’altra Z è quella a forma di tre
rovesciato, Ȝ).

Quello che si legge (nbadizare) è un invito a non battezzare con la forza i bambini ebrei giudei,
quindi badizare: mette una D dove ci aspetteremmo una T. Queste criticità che troviamo nel testo
volgare, potrebbero essere un indizio che si tratti di un chierico che si trova più a suo agio in
latino piuttosto che in volgare. È un latino molto rilassato, anche quello dei due scongiuri, ma
cambi grafici, alfabetici, delle lettere come quelli che troviamo qui non ci sono negli altri scongiuri
(tutto ciò nella presunzione che si tratti di fenomeni puramente grafici e non di scritture che
abbiano un rilievo fonetico). Per esempio badizzare non è pensabile in nessun volgare d’Italia, da
nessuna parte.

Como io me le-, vediamo una lacuna meccanica: la parte superiore, di probabilmente tre o
quattro lettere non c’è più, è stata asportata, è un problema irrecuperabile. Bisogna fare
un’operazione mentale di integrazione: sembra di vedere la parte inferiore di due aste, cioè si è
pensato potesse essere una U con la parte superiore tagliata.

Dove si ricomincia a leggere si vede una demane: lo scriba tende a fare queste aste in modo più
dritto, anche se la sua caratteristica è la diversità delle lettere, ma sembrano troppo curvate
queste aste. Poi si vede qualcosa che sembrano essere i resti di una A e poi quello che sembra il
resto di una O. Si può avanzare l’ipotesi che si tratti di una certa lettera, ma non essendo sicura
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va contrassegnata con un puntino. Alla fine avremmo un leuao ovvero un levao: como io me
leuao. Leuao o leuai? È un testo poetico popolare che conosce come elemento strutturante la
rima perfetta o imperfetta (per assonanza: identità della vocale tonica e di quella finale), ma
anche la morfologia del verbo ci dice che adorai deve essere alla I persona singolare tempo
perfetto di adorare (è un costrutto con oggetto indiretto). Andrebbe bene me levai: quando io mi
svegliai... pregai dio. Però il paleografo vede una O. A noi interessa leggere non interpretare, ma
linguisticamente si può difendere anche questa versione.
Il problema della macchia si somma al problema di allineamento della scrittura.

Fin ora non ci sono interpunzioni: nel testo latino vengono utilizzati solo il punto al mezzo e il
punto basso (che equivale al nostro punto fermo).

Vediamo poi demane cotra C con titulus: contra poi DM con titulus: abbreviazione per
contrazione della parola latina deum, quindi lo scriba conosce il sistema abbreviativo latino.
Scrive in maniera rozza, non calligrafica, ma certo non è un ignorante. Contra va intesa come
preposizione volgare (è indecidibile in realtà tra volgare o latino).

Poi leggiamo adorai, con una scrittura in sopralinea ma che si crede abbia valore sostitutivo della
A. Vediamo un piede dell’asta della A che prosegue sotto il rigo, come non c’è il punto con valore
di espunzione sotto la O di adorai.

21/03
Adorai in sopralinea, ne sotto la A ne sotto la O si deve pensare ci siano segni di cassatura cioè
di annullamento di ciò che si è scritto, in particolare nel medioevo non ci sono punti che servono
da cassazione e da espunzione. Verosimilmente la scrittura sopralineare ed interlineare, come
nel resto del testo, è da intendersi come sostitutiva. Non è uno dei sistemi più chiari che ci
siano, ma ha sicuramente diversi riscontri, non è un uso isolato. Naturalmente pensare che si
tratti di scritture sostitutive o correzioni viene dall’osservazione del contesto generale, le
caratteristiche linguistiche del testo lo rendono verosimile, ma siamo in un campo delle ipotesi,
non di usi codificati. L’osservazione ci dice che ci sono scritture di interlinea o sopralinea e
bisogna formulare una soluzione verosimile, e queste sembrano funzionare.

Cominciamo a entrare nella regione della macchia di umidità che rede il discorso in parte
aleatorio: si legge verosimilmente pussi (ci concentriamo sulla grafia in termini linguistici, non ci
interessa la tipologia grafica). In questa fase ci interessa vedere di cosa siamo sicuri e cosa non
dal punto di vista della lettura. Quindi abbiamo pussi: dal punto di vista della scrittura la doppia S
è della medesima tipologia grafica (S alte con asta che si allunga idealmente sopra il rigo, il
secondo segno è costituito da una sorta di cappello o cappuccio) in questo caso come in altri (la
prima S) il cappuccio tende poi ad assumere la forma di un punto, quello che i calligrafi
chiamavano testa della S (calligrafi del secolo XVI) . La seconda S è in modulo ridotto, in genere
significa che l’asta che idealmente dovrebbe andare verso l’alto è più breve, e il cappello è meno
rotondeggiante, più tendenzialmente lineare. Questo abbreviarsi dell’asta è dovuto al fatto che
precede un’altra S, e questa seconda S deve incapsularsi, incastrarsi nell’altra, cosa che il
modello di scrittura a cui si ispira lo scrivente non fa. Le lettere che seguono dopo la I di pussi,
sono una P, una E e un’altra E, poi leggiamo una lettera che consiste verosimilmente in un
occhiello e poi una E abbastanza chiara. La terza lettera è stata seriamente danneggiata.

Bisogna scindere la lettura (operazione meccanica) dall’operazione di decodifica linguistica, in


particolar modo lessicale. Non è un caso che la tradizione manoscritta di Dante sia piena di
varianti mnemoniche, chi copiava la Commedia la sapeva già a memoria e non aveva nessun
exempla. Quel che si legge è una lettera con occhiello, in effetti ribadisce il fatto dell’importanza
metodologica: oggi per fortuna esiste un mezzo di grande precisione e raffinatezza ovvero la
fotografia digitale, ma anche queste foto non possono mai sostituire l’esame diretto di un
documento. Ci sono decine e centinaia di esempi di svarioni, anche da parte di studiosi seri che
si sono fidati delle foto. Soprattutto per quanto riguarda le tradizioni ristrette o monotestimoniali,
l’esame autoptico è indispensabile. Nel nostro caso il problema della terza lettera, che
sicuramente consiste di un occhiello basso, consiste anche, per quanto riguarda la parte
21
superiore, di una linea ondulata che ci fa dire che è una D (occhiello + asta ondulata, eseguita
con movimento destrogiro) quindi si legge pede.

In seguito, senza spazio dopo quella E (anche se è al centro della macchia di umidità si legge
molto bene), abbiamo un asticciola con un titulus sopra, che come sappiamo secondo il sistema
tachigrafico e di abbreviazione, indica il compendio di una nasale. I danni dell’umidità diventano
fastidiosi, si potrebbe leggere, ed è la lettura naturale, che ci sia un’asta lunga seguita da un
occhiello, sembra una B: guardando bene quella che sembra essere un’asta diritta come quelle
della B, rivela anche qui un ondulamento e quindi si rimane incerti tra B e D.

Di seguito vediamo una traccia di lettera che sembra avere un tratto di uscita obliquo che sale
verso destra e una parte curvilinea che costituisce la parte sinistra: la lettura proposta è quella di
una E. In seguito si vedono abbastanza bene due aste con qualcosa sopra a cui segue qualcosa
che sembra una R. Ma quello che viene prima cos’è? Sembra essere un caso di legatura a
ponte (non una vera e propria legatura) che è tipica del nesso ST:

(legatura a ponte→ ST) (diversa foggia della Q)


Se vediamo come realizza questo gruppo grafico, per esempio alla seconda riga (vediamo anche
due tipi di Q) troviamo ancora una volta il gruppo grafico ST. Questo ultimo esempio andrebbe
richiamato per la nostra sequenza alla prima riga cosi danneggiata dall’umidità. Quindi abbiamo
S-T-R, poi si vede abbastanza bene un occhiello: non ci importa compitare quello che abbiamo
trascritto.

Dopo verosimilmente si intravede un’ombra di un segno interpuntivo al mezzo, ma anch’esso è


stato dilavato dall’umidità. Dilavamento: una delle varie opzioni di cancellazione del medioevo
(in questo caso non è voluto). Poi lo scrivente, non sappiamo quando, ma ha pensato di
aggiungere qualcosa in sopralinea: una serie di lettere, probabilmente qui sembra un’inserzione
di testo nuovo, non la correzione di qualcosa di sottoscritto, perché ha cominciato a scrivere
sopra il segno di interpunzione (non come aveva fatto con ma nel caso di adorai). Cosa sia
scritto qui è sinceramente impossibile da leggere. Ci sono solo due lettere, le ultime due leggibili
consistono di una lettera con asta alta e una tonda e bassa quindi si legge LO ma quello scritto
prima non è chiaro. Anche la trascrizione lascia perplessi, all’inizio si legge un’ombra di L,
Vediamo una lettera che si innalza sul rigo, quello che segue è un alone indistinto. L’ipotesi è
levailo, in trascrizione vediamo L[ ]O, dove la L va con punto sotto in quanto non è chiara, va
messo anche sotto la
penultima lettera, che sembra anch’essa una L.

Poi sicuramente leggiamo CO con titulus, poi ancora T-R-A: è la stessa sequenza incontrata
precedentemente, qui abbiamo CONTRA e la nasale di contra è compendiata, abbreviata. Dopo
contra vediamo due minime che costituiscono una U, poi E-R-S-O tutto attaccato: contrauerso o
contraversso.

Poi abbiamo uno spazio e poi LIFILII, la F in realtà consiste degli stessi segni con cui si disegna
la S più un trattino orizzontale.

I primi due tratti della F sono esattamente i primi due della S. Abbiamo un tratto
orizzontale quando la lettera che segue è una I, che spesso ha un punto di attacco che sembra
una letterina: si può avere qualche dubbio che si tratti della sequenza FI o SI, è legittimo.
Quando c’è questa sequenza il trattino minore è ben diverso dal tratto di attacco. Non si possono
avere dubbi sul fatto che dopo la L ci siano due I e non una I, perché i due minimi sono
nettamente staccate in basso, mentre i due minimi di contrauerso sono nettamente attaccati.

LI FILII senza stacco PETRI: vediamo un segno di non professionalità della scrittura, ovvero la
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diversa foggia delle lettere, per esempio la R con trattino poco ondulato e molto ridotto è diversa
dalla R di cotraverso. È la stessa lettera disegnata in maniera diversa, sensibilmente diversa. Li
filii Petri: si può interpretare lo spazio come effettivo stacco di separazione con quello che segue.
Vediamo poi li filii di nuovo, ma stavolta una I sola. Notiamo la L che presenta una vistosa
caratteristica, una curvatura nella parte superiore della lettera verso sinistra. Nel nostro scrivete
è particolarmente marcata. Anche nella F di fili il secondo nesso FI, nella f (osservazione che si
può fare anche per la S) si nota un netto segno di attacco nella lettera molto evidente, ed è un
segno proprio sia della S che della F. In molti tipi di scrittura si riduce quasi a un semplice punto.
Abbiamo quindi LI FILII PETRI LI FILI PAULI. Poi usa i due punti come segno di interpunzione
(usa il punto in mezzo, il punto basso e anche i due punti). Quella dei due punti è una forma
abbastanza ricca di interpunzione, segno di un sistema ricco di interpunzione. Vediamo di nuovo
la sequenza LIFILI, seguita da B con occhiello inchiostrato. L’asta della B ha un prolungamento
verso sinistra, poi E-N-E quindi LI FILI BENE. In seguito si vede una lettera che consiste in un
occhiello con qualcosa che va verso l’alto che sembra evanita, forse per effetto dell’umidità,
sporcizia o maneggiamento. Nonostante non sia chiarissimo, non sembra che qui abbia scritto
molto bene, sembra che ci sia una certa difficoltà di esecuzione, è probabile che si spieghi col
fatto che si avvicinava al margine destro (immaginiamo scrivere in posizioni così sacrificate: è
difficile, tanto più che si avvicina al margine destro, già probabilmente ritagliato). Quelli visti sono
tutti elementi da tenere in considerazione. Certamente l’occhiello con qualcosa che va verso l’alto
può essere una B o una D, a rigor di termini non è facile scegliere: della B manca l’ondulamento
tipico, il carattere sinuoso già visto prima, se fosse una B peraltro avrebbe un’asta lunga con un
primo tratto quasi spezzato. Anche qui è difficile leggere senza interpretare, ci aspettiamo il
genitivo del nome di un santo BENED-, a cui poi segue una I molto sinuosa, una I serpentina.
Sembrerebbe esserci poi C-T-I con un tratto orizzontale della T che va a toccare la C sulla
sinistra e la I sulla destra, e anzi innesca il primo tratto della I.

Normalmente questo scriba non scrive in maniera così legata, può darsi che
ricorra a questo tipo di scrittura perché vede avvicinarsi il margine e vuole risparmiare spazio, è
un atteggiamento psicologico normale.

In seguito abbiamo un bel punto (aveva messo due punti dopo Pauli e mette il punto dopo
benedicti). Ricordiamo il valore della punteggiatura medievale, che più che ritmico è logico, isola
le parole o i gruppi di parole dotati di unità logica semantica. In seguito si legge abbastanza bene

una lettera che è una K. L’uso della K è un tratto arcaico che vale in genere per
tutta la romania (tutto lo spazio linguistico romanzo) è da considerarsi un arcaismo grafico, in
genere non viene usata indiscriminatamente per ogni caso di occlusive velari sorde, ma veniva
usata con specificità grafiche in posizione iniziale, e in genere con i monosillabi. È di uso raro,
nel testo lo troviamo seguito da E, lo troviamo nella stessa sequenza KE nella riga
successiva. In questo caso può essere pronome relativo, pronome interrogativo e congiunzione.
Ci si può chiedere di quale si tratti, per capirlo va letto il seguito, ma è quasi del tutto
scomparso, ma anche sotto la luce ultravioletta non si vede bene.

Si legge poi BO, qualcosa in mezzo che non si legge e poi L-L-O quindi BO[-]LLO.

Dopo la O finale c’è uno spazio, ma non si riesce a vedere neppure l’ombra di una lettera quindi
sembra non sia stato scritto altro. Questa è anche una zona con un accumulo di sporcizia che
non rende questa affermazione sicura. Qui sembra finire la prima riga. Vediamo ombra, che
indica un qualcosa che quasi non si vede, vuol dire anche una quantità minima di qualcosa, un
qualcosa di quasi invisibile ed è l’etimologia di ombra di vino.

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Alla seconda riga troviamo molto sporco, ma si legge discretamente perché lo scrivente ha
caricato la penna di inchiostro, vediamo una E, poi QUI e poi il nesso ST a ponte, di seguito
vediamo un segno che sembrerebbe da interpretarsi a prima vista come una A, quista ke porti,
quista sarebbe al femminile, ma abbiamo di seguito un maschile: non si spiegherebbe
razionalmente il timbro della tonica, perché per il fenomeno di metafonesi (innalzamento, per
esempio di E chiusa in presenza di una U finale) ci sono dei sistemi vocalici tonici che hanno
lettere chiuse di tipo siciliano. Il sistema di vocalismo tonico romanzo comune, non si può
spiegare nemmeno per metafonesi se leggiamo la A, perché non produce metafonia. Alla terza
riga vediamo la macchia di umidità, dove si legge: madonna. Anche in questo caso ci ricorda la
forma di un triangolo, con questo punto di appoggio va letto A ma si può argomentare, notando
che manca la parte alta della schiena che normalmente esegue. Questa è A, potrebbe leggersi O
(quindi quista o quisto).
Troviamo ancora K in posizione iniziale, keporti , I con titulus, a cui segue forse una R, I, poi una
Z nella foggia Ȝ, è graficamente una forma di zeta. Sarebbe scritto rizo, quindi keporti in rizo: non
ha molto senso, quindi quella potrebbe essere una P con un’esecuzione diversa, fatta male. Pizo
(vuol dire punta) con un occhiello inesistente, parola che nei dialetti centrali significa in senso
traslato cima o lambo, l’angolo a punta di una veste, l’orlo, mentre rizo può significare riccio. Lo
scrivente scrive spesso lettere in maniera diversa.

Dopodiché leggiamo uno spazio, e quella Q con una sorta di apostrofo o virgola che segue, che
nel sistema grafico latino vale que, poi abbiamo nuovamente il nesso ST seguito da OEOLEO,
quindi questoeoleo seguito da un segno a forma di due. La nota tachigrafica di solito ha una
forma di sette, ma si trova anche a forma di due e questa è una delle forme che è assunta dalla
nota tironiana che vale et congiunzione. Nel testo volgare ci si chiede se la nota tironiana stia per
et come in latino o solo per e, che nel sistema romanzo è il legittimo continuatore di et. Per
capire, bisogna vedere l’intero testo e cercare l’uso del nostro particolare scrivente che invece di
mettere la nota tironiana mette la e. Nel nostro caso ci rendiamo conto che il nostro scrivente usa
e, lo troviamo alla penultima riga etorrecette, la e iniziale è la congiunzione. Quindi siamo
autorizzati a sciogliere la nota tironiana in e regolandoci sulla stessa forma in piene lettere.
Qualora non ci fosse stato questo caso a piene lettere di e, la norma generale e ragionevole è di
sciogliere secondo il modello latino.

Poi leggiamo il gruppo CR scrausa ed E-S-M-A, la fattura della S è uguale a quella della F. Tra la
R e la E c’è una I: essendo una scrittura interlineare siamo in presenza di una riduzione del
modulo. Quindi abbiamo cresma o crisma: se prendiamo per buono il ragionamento di adorai -
madoriai, quella I è sostitutiva, anche se non è astata annullata la E. In questo caso c’è forse un
argomento oggettivo che permette di dire che la versione ultima sia crisma (che significa
unzione).

27/03

Dopo crisma c’è uno spazio. Naturalmente c’è anche la questione di indicare nella trascrizione
diplomatica gli spazi bianchi. Un po’ come nella musica: le pause sono fondamentali, bisogna
riuscire a individuarle, perché hanno un significato per chi legge. La divisione delle parole nello
scritto, nella sua continuità, è una caratteristica che la storia della scrittura latina manifesta
abbastanza presto, è una caratteristica già della scrittura alto-medievale e non coincide con il
nostro sistema a base lessicale di divisione delle parole, con alcuni elementi prosodici. Anche se
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non coincide, ha una sua regolarità razionale nella scrittura basso- medievale, sia per il latino sia
per le prime prove di volgare, poiché essendo una lingua nuova, pone anche dei problemi
particolari: si può dire che la base è sicuramente di tipo lessicale, con alcune particolarità che
riguardano la prosodia, cioè quelle che potremmo chiamare parole fonetiche. Si tende, nella
scrittura medievale, a considerare unità grafica ciò che è anche unità fonetica. Diversamente dal
sistema ortografico moderno, certi nessi fonosintattici molto stretti, formati da una particella
clitica (non nel senso sintattico come i pronomi atoni), a volte sono clitici fonologici perché non
hanno autonomia accentuale, e sono anche sintattici perché indivisibili dalla forma verbale. Qui
per discutere di unità grafica e fonologica è utile recuperare il senso fonetico e fonologico della
mancanza di autonomia accentuale. Le particelle, le parole di piccola massa fonetica che sono
accentualmente dipendenti, tendono a essere scritte insieme con la parola accentuata a cui si
appoggiano (le sequenze preposizione + sostantivo tendono a fare un unico gruppo grafico)
formando una parola grafica (mot graphique) che equivale a una parola fonologica
(preposizione + sostantivo). Un’altra parola grafica o fonologica nella scrittura medievale è
l’articolo (proclitico) e il sostantivo (per esempio, a terra scritto tutto attaccato aterra). C’è
anche il problema che riguarda l’interprete moderno che si pone il problema della trascrizione:
quando si segna la presenza dello spazio bianco? La soluzione suggerita dal paleografo è quella
che si rifà a una norma pratica, cioè di considerare lo spazio bianco quello che in quella
particolare scrittura coincide ad una lettera, che nella calligrafia Cinquecentesca era una vocale
media, una O media. Questa soluzione può andare bene, ma in realtà poi la percezione dei
bianchi e della divisione della parola è tutto sommato difficile da tradurre in termini razionali, ed e
basata sull’impressione e esperienza di lettura dell’interprete. Non si ha il rispetto totale di questa
norma.

Problema: dopo crisma c’è questo spazio, cosa segue al bianco? È una lettera che consiste di
un’asta che sembra corta, ma una lettera consistente di asta corta sarebbe una I, mentre fosse
un’asta lunga sarebbe L, questa è la situazione del nostro sistema alfabetico che non è molto
diverso da questo. Pensiamo sempre di trascrivere senza capire, o almeno bisognerebbe fare
così. Siamo di fronte a un problema: L o I? A questa altezza non ci sono diacritici, non c’è
ancora il diacritico che distingue le I, soprattutto se contigue o in prossimità di altre lettere
consistenti di aste brevi come n o m. In questo caso si può solo procedere con un’operazione più
banale di confronto delle I e delle L sicure. Di solito le L sono più alte ma per esempio notiamo la
L sicura dell’ultimo gruppo grafico della stessa riga canobole: la b ha un’asta cortissima rispetto
alle altre b ricorrenti nel testo. Tendenza dello scrivente: le lettere che consistono di aste lunghe
tendono ad avere una piegatura verso sinistra (anche nei documenti di Fiastra, come vedremo).
Non siamo veramente in grado di distinguere su base grafica se sia una L o una I, nella
trascrizione è stata scelta la L perché la I non dà senso (nemmeno la L ha senso, ma tra le due
sembra la più plausibile, anche se sulla base di un confronto critico non si possono dare
argomenti dirimenti per decidere, è indecidibile, qui subentra il senso).

Andando avanti: di due aste basse consiste la u/v o la n. In genere, possiamo far riferimento al
nostro sistema grafico: nelle scritture individualizzate non sempre si distinguono n e u, invece nel
sistema grafico, per esempio della stampa o di un sistema minuscolo, la n aveva un carattere per
cui le due aste sono collegate in alto mentre la u prevede che le aste siano collegate dal basso,
questo vale anche per il nostro scrivente. Alla prima riga dove leggiamo pussi le due aste hanno
un’evidente collegamento dal basso, nella n di demane, vediamo invece due aste che non si
toccano nella parte bassa ma si toccano in quella superiore. Non sempre è così. Ci sono casi più
ambigui se non sovvenisse l’interpretazione lessicale (quello che si dovrebbe evitare). Per
esempio, alla penultima riga la n di cantasti, presenta due aste che si toccano nella parte
superiore ma sembrano toccarsi anche nella part inferiore. Una caratteristica piuttosto frequente
della N di questo scriba è il fatto che le due aste, i due minimi di n, tendono ad essere molto
diritti, mentre quelle della U sono più spesso ondulate. Ciò che veramente caratterizza questa
scrittura e che rende complicata la trascrizione è l’incostanza del disegno delle lettere, lo
abbiamo visto nel caso di L, per la quale di solito usa a volte un’asta lunga alta e altre volte
un’asta breve. La stessa cosa si deve dire per il carattere ondulato e diritto delle aste della u e
della n, per cui ha la tendenza ad unire le aste della u nella parte superiore e della n nella parte
inferiore. In queste lettere c’è però una forma ideale (in teoria ma non nella pratica). Qui la
trascrizione suggerita laue è discutibile, si potrebbe leggere lane, iave, la prima e la terza lettera
ammettono dubbi.
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Dopo la e finale di questo laue vediamo un punto o no? Nella trascrizione è stato messo un
bianco, ma non è pacifico, si potrebbe avere il dubbio che non ci sia un bel niente dopo la e,
ovvero che quella macchia che sembra vedersi alla fine del tratto di uscita della e sia solo
sporcizia, questo si può giudicare con maggior fondatezza solo con l’originale. Vedendo
l’originale, il tratto è evidentemente un punto: il nostro scriba come interpunzione usa solo punti
al basso e punti al mezzo, ma in un qualsiasi tipo di testo, anche prosastico, il sistema medievale
di punteggiatura è di tipo logico più che prosodico. È comune anche un uso diacritico
dell’interpunzione, si ricorreva a questi diacritici per distinguere la E congiunzione e A
proposizione o È, III persona del verbo essere, o HA, III persona del verbo avere. Qui abbiamo
un testo sicuramente di tipo poetico, cioè ritmico, in cui ci possono essere dei versi. Qui il
problema è che l’interpunzione può essere non solo di tipo logico-sintattico o ritmico, ma può
anche rispondere a una funzione propria dei testi poetici di indicare il limite del verso, quindi
anche in presenza di omofonie e rime. Che ci sia o meno il punto non è del tutto irrilevante,
soprattutto in un testo come questo che consideriamo poetico e sicuramente anche sulla base di
omofonie (che comporta sia uso di rime perfette che imperfette).
− Rima: identità dei suoni dalla vocale tonica in poi.
− Consonanza: identità della sillaba postonica e diversità della vocale tonica.
− Assonanza: identità della vocale tonica e della vocale finale, ma diversità dei suoni
consonantici intermedi.
Queste forme di omofonia imperfetta sono perfettamente acclimatate in un testo come questo
di poesia che potremmo definire popolare. Siamo fuori dalla lirica cortese, si tratta di testo con
una componente ritmica tonica predominante, ma non ha la rigorosità della poesia d’arte e non
ha un sistema di omofonie regolari e rigorosissime. Sono quindi ammesse le rime imperfette
prima citate. Il punto quindi in un testo come questo ha anche valore metrico.

In seguito troviamo LOFILIO (elemento lessicale autonomo, come l’articolo determinativo


costituisce un unico blocco grafico con il sostantivo). Potrebbe sembrare che ci sia un bianco tra
fi e lio ma non c’è. Troviamo poi DEO con una D ondulata, la E molto chiara, la O è abbastanza
leggibile. Sopra EO c’è una linea che non sembra essere interpretabile diversamente da un
titulus, nella trascrizione manca, ma significa che è stato giudicato come un titulus superfluo,
ovvero che non corrisponde a nessuno scioglimento. Questa situazione ci mette di fronte a una
caratteristica di questo scrivente: usa tituli superflui.

Dopo la macchia di umidità, sembra sia rimasto qualche segno ma non si capisce a quali lettere
corrisponda. Nella trascrizione vediamo [---]: le prime due lettere sono B-A-, poi abbiamo una
lettera che consiste di un’asta lunga come una L o una B, bisogna stare attenti a non scambiare
per segni di inchiostro ciò che invece è una parte del supporto (in particolare follicoli di peli, in
quanto scrive sul lato pelo). A destra di quella linea alta c’è una specie di punto con forse un
piccolo segno che va verso il basso, ma questo è ciò che è rimasto dell’inchiostro a questo
punto. L’occhio tende a vedere un’occhiello quindi una B, ma in realtà l’occhiello non c’è ora,
magari ci poteva essere ma ciò che si vede è solo un punto. Dopo questi segni forse c’è un
occhiello basso, ma francamente non lo si sa. Quello che si legge con sicurezza è BA e un asta
lunga. Probabilmente alla fine di questa sequenza che non si legge sembrerebbe esserci un
punto al mezzo, sempre che non sia il segno di una lettera ormai perduta o semi perduta. Poi ci
sono ancora due o tre lettere ancora toccate dal problema dell’umidità: la seconda lettera certa è
una A, anche la terza si vede bene ed è una T, ma la prima sembra essere una B. Questa B è
diversa da quelle che fa normalmente, sembra che spezzi l’asta della B, sembra tracciata in due
diversi tratti e ci sono tante ragioni per cui qualcuno possa aver incorso in questo tipo di incidente
(sembra effettivamente un incidente, può esse che sia qualche rugosità o rilievo della
pergamena). È un altro esempio di incostanza nel tracciato di una lettera, non esegue le lettere
nella stessa maniera, è sicuramente un segno di non professionalità. La B con l’asta spezzata
sembra da supporre anche all’inizio della sequenza che segue al nostro buco, verrebbe da
leggere BATIZME. La Ç con cediglia (piccola zeta) in realtà è uno sviluppo di questo segno (ƹ) e
non è altro che una sorta di zeta. Dopo notiamo un bianco o meno? Stessa storia di prima quindi
c’è un bianco.

Abbiamo una n con titulus. Lo scriba scrive a memoria o sta copiando un testo? Per il letterato
del Medioevo questo testo è di ridicola dimensione, nel Medioevo la memoria aveva
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un’estensione che non si può sopravvalutare, erano testi memorizzabili. Il fatto che trascriva a
memoria o da una copia scritta è insindacabile, potrebbero esserci degli indizi che spingono in
una direzione piuttosto che un’altra. Quindi nonbadi - spazio bianco - zare dovuto a un processo
interiore di dettatura per sillabas, quindi lascia un bianco. La scrittura per sillabas indica uno
scrivente alle prime armi. Si vede bene per le pochissime scritture femminili non professionali del
Medioevo: la donna era esclusa dal sistema di istruzione in particolare di istruzione grafica. Ci
sono anche donne copiste professionali e autrici, ma sono molto poche. Esistono poi le scritture
femminili non professionali che rivelano a prima vista la difficoltà di un percorso educativo
impervio, una caratteristica è proprio la scrittura per sillabe. È un indizio che lo scrittore non è
abituato alla scrittura.

Poi tutto attaccato vediamo tre aste che potrebbero essere una m , tre i, una i e una u, una u e
una i, qui segue sicuramente una D ondulata con asta molto bassa e poi una i con titulus:
potrebbe essere uidi o iudi, l’interpretazione ci fa scegliere. Non c’è possibilità che uno sia più
probabile dell’altro, sono scritture equivalenti. DI con titulus di solito ci ricorda contra dim o
all’inizio della terza riga abbiamo filio di (con titulus) quindi non c’è dubbio si abbrevi per
contrazione per filio dei, allora abbiamo li iudei quindi gli ebrei: non battezzare gli ebrei.

Ca non bole: la b ha un’asta molto corta, anche l’asta corta ma con piegatura molto pronunciata
è una tendenza del nostro scrivente. CANONBOLE tutto attaccato, poi non si sa perché lo
scrivente lascia uno spazio bianco enorme. Non c’è nessun segno di lettera, non c’è nemmeno
alcuna mancanza di testo, ha solo lasciato uno spazio bianco. È anche il caso di una rima
perfetta in questo testo: non batizare iudei canonbole fili dei.
Perché è andato a capo? la pergamena deve essere economizzata dato il suo costo, è un
comportamento completamente irrazionale. Tra filio e dei abbiamo un altro bianco. Di con titulus
sta per dei, abbreviazione per contrazione. Filio dei è scritto filio dī con titulus.
Poi abbiamo un punto e si vedono due o tre lettere ingrandite di modulo che vanno rese nella
trascrizione. Nella trascrizione sono state scritte in maiuscoletto, sono dette littere notabiliores,
lettere più visibili, più notevoli. Possono essere realizzate tramite ingrandimento (in quanto non
sono in forma maiuscola, sono in forma minuscola ma ingrandita) ovvero possono essere
realizzate con un inchiostro speciale o ritoccate in rosso o azzurro. Si usa qui questo espediente
per rendere questa parte della trascrizione più evidente e più risaltante all’occhio. Di seguito
comincia una parte diversa: l’interlinea tra la seconda e la terza riga è sensibilmente più ampio di
quello tra la prima e la seconda. È vero che lo stesso interlinea ampliato si vede tra la terza e la
quarta riga. È verosimile che la variazione dell’interlinea sia un espediente per mettere in risalto
la parte narrativa.

3/04
Come abbiamo già visto, di seguito a filio dei vediamo un ampio spazio a cui seguono almeno
due lettere sovramodulate rispetto a ciò che precede. È una caratteristica evidente del nostro
scriba. Utilizziamo il termine scriba in quanto amanuense vuol dire copista, ciò comporta
l’implicazione che ci sia un esemplare da cui si copia. È plausibile nel nostro caso ma non lo
sappiamo con certezza, quindi è meglio chiamarlo scrivente o scriba, ed è solito del nostro
scriba cambiare modulo alle lettere (modificarne l’altezza e più in generale la grandezza dei
segni alfabetici). Abbiamo già visto segni di questa alternanza, per esempio all’inizio della riga
precedente è chiaro che la E e la Q (con il trattino che taglia asta della Q) hanno un modulo più
grande di quello che segue. Nonostante queste alternanza di modulo, la differenza tra le prime
due parole del rigo terzo è maggiore e colpisce, infatti nella trascrizione queste due lettere sono
trascritte in carattere maiuscoletto, secondo i criteri editoriali, sommato al fatto che vediamo uno
spazio maggiore del solito. Questo spazio sembrerebbe indicare una sorta di stacco,
un’interruzione di continuità o soluzione di continuità (nel senso che si scioglie la continuità,
non c’è più). Tra il secondo e terzo rigo e tra il terzo e il quarto rigo, colpisce l’ampiezza. Fa parte
di quella che si chiama impaginazione del testo, è l’equivalente italiano del termine mise en
page in francese.

Leggiamo quindi:

27
C-R-I- poi due minimi, due asticelle unite al basso, non si può avere
nessuna incertezza che sia una U, almeno nelle intenzioni dello scrivente. Notiamo il tratto
orizzontale basso molto marcato che lega i due minimi, le due aste della lettera ci fanno
interpretare le due aste come un unico segno alfabetico. Prendiamo atto che il nostro scrivente
adotta una forma ancora diversa per questa lettera, ne abbiamo visti già tanti esempi, ma in
questo caso in particolare va memorizzata la forma di questa lettera (nel confronto con i
documenti di Fiastra sarà di qualche utilità).

Segue un bianco e poi abbiamo la nota tironiana in una forma molto elementare, più che un sette
sembra un due.

A questa altezza cronologica (ultimo scorcio del XII secolo) non è ancora
documentato in Occidente il sistema grafico arabo, di solito si suole dire che il sistema della
rappresentazione araba numerica delle cifre non è araba, ma sarebbe indiana (certamente
arrivata in Occidente mediante la cultura araba) e prende piede e comincia ad essere usata nel
primo quarto del Duecento. Di solito si dice che il sistema arabico delle cifre, con
l’importantissima aggiunta, rispetto al sistema romano, dello zero (importante sia dal punto di
vista grafico che di tenuta dei libri contabili), sia legata alla Liberaci, opera di Leonardo
Fibonacci. È anche utile sapere che il modo di raffigurare la forma delle cifre arabe è cambiata
sensibilmente una volta il 7 era raffigurato così: ˄. Spesso, per esempio gli scrittori inesperti o
disattenti scambiano tra loro i 3 e i 5.
Il segno sinuoso che vediamo dopo sonaua è la nota tironiana per et (in ambito latino). Quando
si ha davanti questa nota tironiana in un testo volgare come questo (vale anche per il volgare del
Quattrocento e Cinquecento), la nota tironiana, che nella stampa avrà la forma che troviamo
ancora oggi nelle tastiere dei nostri computer (&), non è detto che in un testo volgare sia scritta
ET alla latina. Vedremo nel nostro testo che c’è un indizio molto forte che invita, ordina al filologo
editore del testo, di trascrivere E. L’elemento dirimente in questo caso è andare a vedere se
esistono nel testo casi in cui lo scrivente non ricorra alla nota tironiana per esprimere la
congiunzione, ma che ricorra invece alla scrittura in maniera esplicita (la scrittura esplicita ci
aiuta a vedere come rende la nota tironiana, se E o ET). Vedremo nel nostro testo che questo
scriba rende in maniera esplicita la congiunzione copulativa semplicemente con E, quindi siamo
legittimati a trascrivere E ( va scritta tra parentesi tonde nel caso del compendio di questa
abbreviazione). Nel caso trovassimo ET esplicita è assolutamente escluso che si legga ET nel
contest volgare, ma si legge solo E.

In questo testo troviamo delle doppie lessicali e delle doppie fonosintattiche da


raddoppiamento: caeli sonava et tra- con la T con titulus, che si scioglie terra, quindi
eventualmente si dovrebbe consigliare di realizzare un raddoppiamento (come ad esempio
eccrisma o cresma, etterra, ecc).

Potrebbe esserci poi un bianco e di seguito abbiamo la stessa sequenza di abbreviazioni e tituli
appena visti: T con titulus, R, poi sicuramente una A, ma vediamo che sull’asta che costituisce la
schiena della A è appoggiata una E. Siamo di fronte (vedi trascrizione) a un dittongo Æ. Anche
nelle nostre tastiere c’è la possibilità di realizzare questo dittongo alla latina, con le due lettere
fuse, come anche il segno Œ. Questi due dittonghi facevano parte del sistema grafico latino
classico già nel Medioevo (cælo, pœna). Qui troviamo però un piccolo problema grafico: non è
chiaro in questo caso, ma nella stessa riga verso la fine c’è scritto sædea con questo dittongo
grafico dopo la S rappresentato tramite la funzione di queste due lettere (Æ). Queste due lettere
hanno un tratto in comune (la schiena della A e il tratto orizzontale della E). Qui il fatto grafico è
più incerto, perché anche dalla foto sembra quasi che la E sia stata riscritta sulla A, o anche
viceversa potrebbe essere stata riscritta la A sulla E. Può essere che prima lo scriba abbia scritto
TRA suggestionato dalla prima sequenza, e che poi abbia cercato di correggere la A in E: questa
ipotesi non è del tutto esclusa perché l’occhiello della E sembra anche malamente inchiostrato.
Se vengono confrontate con la situazione molto più chiara di sædea, non sembra essere perfetta

28
nemmeno la fusione delle due lettere, sembra infatti di vedere due tratti separati, uno riscritto
sull’altro. Non si sa se sia un dittongo mal eseguito o un tentativo parzialmente eseguito di
correzione. Nella trascrizione è stato scelto l’utilizzo del dittongo, ma rimangono alcuni dubbi (è
anche vero che la caratteristica di questo scrivente è la disomogeneità).

Dopo questa sequenza intesa come dittongo (pur con dubbi) ci sono tre minimi, sicuramente una
m, perfettamente sovrapponibile alla m di crisma o di demane, la lettera successiva non ci crea
problemi, è sicuramente una A, anche l’ultima lettera è evidentemente un’altra A, a cui segue un
punto al mezzo. Ci crea problemi ciò che vediamo scritto tra le due A: quella che è la penultima
lettera, anche se consiste di due tratti, ci fa venire il dubbio tra due lettere che consistono di due
minimi accostati, la N e la U. Sono entrambe ondulate e si toccano sia nella parte superiore che
in quella inferiore, viene quindi meno il discrimine fondamentale della differenza tra le due lettere.
Uno dei discrimini è il carattere diritto e ondulato delle aste, anche questo però è dirimente: per
esempio, le n di donna alla penultima riga sono dritte, ma poco più avanti cantate ha le aste
ondulate, si rimane in qualche maniera nel dubbio. La M come vediamo (in genere come nella n)
consiste di aste diritte, ma se guardiamo la m di deum (scritto dm con titulus) nell’ultima riga, le
ultime due aste sono ondulate e anch’esse si toccano sia sopra che sotto. Se fosse cæli sonava
e terra terræmava farebbe perfettamente rima con sonava, ma sarebbe già una sede
interpretativa. Se noi leggiamo terræmava non ha alcun senso, ma per arrivare a una soluzione
plausibile pensiamo abbia sbagliato a mettere il titulus e che sia quindi un errore dove voleva
scrivere in realtà tremava, sarebbe un contesto apocalittico (quando Cristo muore c’è un
terremoto, secondo un’antica tradizione sarebbero anche risorte molte anime che avrebbe
coinciso con liberazione dei patriarchi).
Se leggiamo terræmana, dove sonava andrebbe come predicato verbale di terra terræmana,
avremmo una preziosissima indicazione toponomastica di luogo ovvero alla terra di Teramo:
terræmanus è una forma paretimologica che si trova già nel Medioevo, una falsa etimologia
però, perché l’etimo di Teramo, da cui deriva l’aggettivo etnico, è Interamnia (tra i [due] fiumi),
quindi è stata rifatta popolarmente per influenza paretimologica e si è avvicinato sia l’aggettivo
etnico che il nome della città al sostantivo terra, già documentato nel Medioevo. Abbiamo quindi
due possibilità, entrambe che danno senso: con terræmana abbiamo però un’assonanza e non
una rima. Certamente il significato è meno limpido di cæli sonava e terra terræmana.
Un altro elemento pesante nella lettura træmava, è la necessità di postulare su base di
disaminatio della lezione attestata: se leggiamo terræmava dovremmo pensare ad un errore di
ripetizione con il terra che precede, cosa possibile. Il nostro scriba non è uno scrivente che non
incorre in errori, anche semplicemente a prima vista abbiamo trovato delle forme che ci mettono
in forte dubbio (come badizare con D o innocubo in cui scambia B con L), sembrerebbe proprio
che spesso dimentichi delle lettere che inserisce poi in un secondo momento, come proprio in
madorai o nella macchia di umidità in cui inserisce chiaramente qualcosa prima di contraverso.
L’ipotesi, per quanto sia dolorosa in quanto sempre di un errore si tratterebbe, non è
inverosimile, dovremmo tornare su questo punto in fase di localizzazione del posto.
Naturalmente per quanto riguarda la fase interpretativa, si può sempre pensare che il testo
originario fosse terra tremava con la rima imperfetta, e al tempo stesso una lezione ben
collocabile in una tradizione apocalittico evangelica.
Poi o sotto la penna del nostro scriba, o nel testo da cui copiava, o da quello memorizzato può
essere stato avvicinato per questioni di attualizzazione alla terra terramana. Il testo viene fuori a
Fermo, ma non si riesce a risalire a un periodo precedente la seconda metà del Settecento.
Potrebbe essere un frammento arrivato a Fermo in età recente, la lingua è sicuramente centrale.
Fermo ha un’altitudine superiore ad Ascoli Piceno, poi c’è il Tronto, uno dei due fiumi di Teramo,
non sono distanze enormi dal punto di vista puramente kilometrico. Il problema è che non
abbiamo quasi nessuna testimonianza antica della varietà abruzzese settentrionale e adriatica.
Ora il dialetto di Teramo è più centro-meridionale che mediano, tutte le vocali finali diverse da A
tendono a ǝ, è molto simile al napoletano. Questa situazione di affievolimento di tutte le vocali
finali tranne A, è anche una caratteristica propria del dialetto di Teramo. I più antichi testi di
Ascoli, mostrano la tendenza a conservare in sede finale la u latina (lu cane, lu ferru) sia
nell’articolo che nei sostantivi derivati dalla II declinazione latina. C’è un sistema per riuscire a
farsi un’idea, ed è, nel caso dei testi volgari antichi tanto quanto il nostro, quello di rifarsi a una
fonte ibrida come il latino medievale, come nelle carte di Fiastra: alcune parti di questi atti privati,
come per esempio le confinazioni delle terre, e in genere la parte onomastica e antroponimica,
permettono di intravedere le condizioni del vocalismo finale, quindi per approssimazione ci
29
facciamo un’idea di quale fosse la situazione nell’ambito del vocalismo finale a Teramo da una
parte, e a Fermo dall’altra (ma solo in modo approssimativo). Fosse la visione giusta tremava,
tutto cade, tutto ciò detto fin ora si scioglie.

Seguono dopo tre aste abbastanza dritte che non si toccano né sopra né sotto, potrebbe essere
una m, potrebbero però essere anche i, visto che lo scriba non utilizza alcun diacritico o apice
(espedienti diacritici per distinguere la lettera I nei casi in cui può essere confusa con altre lettere
che consistono di aste accostate). Potrebbe essere in o ni, secondo un’altra ipotesi potrebbero
essere tre unità, un numero romano che sta per il tre, potrebbe aver indicato il numero in questa
maniera ma potrebbe essere anche altro.
Quello che segue è forse uno dei punti più ardui dello scongiuro:

C’è una p con una specie di apostrofo, poi una s e segue quella
che sembra essere una o sul rigo, sembra che lo scriba abbia pasticciato anche qui. La parte
sinistra della lettera sembra ritoccata, ripassata, sopra il rigo. Sicuramente segue un’altra o, poi
una p, una i, poi la sequenza T- R-A con titulus (che sta per terra). Non ci sono bianchi, leggiamo
PARTIA a cui segue verosimilmente un punto al mezzo. L’apostrofo sulla p nel sistema
abbreviativo, lo scioglimento che adotteremo è US, ma non ha senso. È uno dei punti che mette
più alla prova l’ingegno dell’editore.

A seguire leggiamo madonna, si vedono bene le tre aste della m seppur evanite, poi vediamo la
A e il finale di parola DONNA. Tra la m e la a c’è un titulus a indicare la nasale, poi abbiamo
una d ondulata, una lettera che, anche perché siamo dentro una parola che ci si presenta
chiaramente, siamo portati a intendere come o, ma che certamente non è la forma canonica della
o usata da questo scriba. Siamo ancora davanti a una variazione di questo scrivente. Avremo
mandonna visto che c’è anche un titulus. La forma della o può essere confrontata con quella che
può essere una o, ma che poteva anche essere una a.

(o di madonna) (a/o di quista/quisto)

All’inizio della seconda riga, dove leggiamo quista o quisto, il confronto ci permette di leggere o
quello che a prima vista sembrerebbe più una a.

Di seguito leggiamo s-c-a- con titulus, l’abbiamo trovata anche negli scongiuri latini e vale anche
in ambiente linguistico latino (proviene dal latino): SANCTA (latino) e SANTA (in volgare). Il
segno CT si assimila in T, ma qui lo troviamo in forma latina quindi avremo: madonna sancta
Maria. Di seguito ricorre ai due punti di interpunzione e pure qui è incostante. Dopo i due punti
abbiamo due n canoniche con aste diritte, una e con tratto di uscita sparato a destra che si
appoggia alla u che segue, molto chiara. Vediamo poi un’altra e e poi tre aste, quindi: Maria
venia/uenia e punto al mezzo. Poi si legge una i con titulus che sembra sovramodulata, quindi
potrebbe essere trascritta anche in maiuscoletto (nella trascrizione non è cosi). Leggiamo poi
una P con apostrofo sopra, quindi IN PRE/PRAE, vedremo che usa anche la P tagliata e la P con
occhiello che si prolunga con movimenti destro giro. Li usa tutti e tre nello scongiuro volgare.

Questo vuol dire che al di là dell’aspetto rozzo, sa scrivere, è uno scrivente che conosce bene il
sistema abbreviativo latino, non è incolto nonostante la forma, ai nostri occhi, sembri rozza.
Quindi si legge prebola (vediamo come questa L sia incurvata in alto, è una caratteristica
spiccata di questo scrivente), abbiamo quindi preboladoro, poi un bianco, vediamo poi la s
consistente di asta e di un cappello, a volte la fa più alta, a volte la esegue invece, come in
questo caso, con asta breve (solita incostanza).

30
Tipico di questa lettera è il rinforzo, a due terzi dell’asta (foto) che
almeno originariamente è un segno di attacco della lettera. Senz’altro quello è il modo di
tracciare la lettera, quindi si legge sædea, vediamo bene il dittongo, le due lettere sono fuse, il
tratto che funziona da schiena della a funziona anche da tratto della e, poi vediamo una bella d
ondulata e poi e e a. Abbiamo quindi præboladoro (o prebola, senza dittongo æ) sædea, con lo
stesso caso di dittongo visto precedentemente in terræva/terræna.

4/04
Di seguito a preboladoro sædea leggiamo m-a-n-u-, la u è una lettera consistente di aste brevi
qui chiaramente distinte, perché sono anche leggermente separate. Siamo di fronte a
realizzazioni canoniche o prototipiche di queste due lettere. Si vede anche molto bene come il
collegamento sia eseguito a partire dalla parte inferiore della prima asta.

Sopra la u, leggermente spostato sulla sinistra rispetto alla perfetta verticale, vediamo un titulus
quindi normalmente, sopra a una vocale, dovrebbe equivalere a sua volta a una nasale. Vediamo
uno spazio, poi su con s con un segno di attacco in cui si vede molto bene il tratteggio del
secondo elemento della lettera che va a formare la curva soprascritta (o il cappello).

Abbiamo ancora una volta due aste, anche in questo caso collegate sia in alto che in basso,
teoricamente si rimane incerti tra le due lettere u e n, molti usano il termine grafema per indicare
una lettera dell’alfabeto. Grafema è una parola rifatta su fonema, quindi eredita un significato
fortemente tecnico. Il fonema è un’unità minima del sistema fonetico dotata di valore distintivo,
così dovrebbe essere anche il significato del termine grafema, ma molto spesso in scritture di
tipo linguistico si ricorre al termine grafema senza percepire il valore tecnificato dell’espressione.
La parola grafema va usata in allusione ad un’unità minima distintiva sul piano grafico. Può aver
senso parlare di grafemi intesi come allografi, come il fonema zeta che si realizza nella scrittura
con due diversi allografi (Ç e Z), e che tende a distribuirsi nel testo in maniera complementare.
La cosiddetta zeta capitale si utilizza solo a inizio di parola oppure ç si utilizza all’interno della
parola. In questo caso ha senso parlare di grafema, nel nostro contesto non ha senso, è una una
tecnificazione superflua. Dal punto di vista della sobrietà della terminologia è da evitare, se non
vogliamo usarlo in un contesto chiaramente tecnico. Qui si potrebbe essere teoricamente in
dubbio su quale lettera dell’alfabeto abbiamo di fronte, u o n. A giudicare dalla semplice foggia
sembra più verosimile che si tratti di una u, è troppo evidente il tratto inferiore che unisce i due
minimi, le due aste. Certamente quello che si deve dire è che sopra la lettera, sulla destra della
s, è visibile un titulus che compendia la nasale, quindi una m o una n.

Abbiamo poi uno spazio bianco, ci sono di seguito altre tre gambe che sembrano individuare una
m, ancora una volta abbiamo un titulus che mette un po’ in difficolta il trascrittore o l’interprete
con tutti questi tituli. Il valore di norma è sempre di compendio di una nasale. Segue poi una a e
cominciano un po’ di problemi, che in questo caso una pulizia buona della pergamena
consentirebbe di recuperare. Il problema qui non è dato da una gora di umidità ma proprio da
sporcizia accumulata, che probabilmente con un trattamento adeguato potrebbe essere rimossa
consentendo una lettura sicura. La sporcizia si confonde la scrittura, con l’inchiostro. La
situazione è peggiorata anche dalla presenza del taglio sul testo nell’angolo superiore destro,
che ha contribuito ad accumulare la sporcizia in questa parte della pergamena, anche a causa
del maneggiamento che è stato fatto. Qui abbiamo un altro punto meccanicamente complicato
per ragioni esterne sopraggiunte alla scrittura, quindi le lettere che seguono pongono alcuni
problemi. Cerchiamo di togliere dal contesto problematico quello che si legge con sicurezza: ma,
poi vediamo un’asta breve e di seguito si intravedono tre aste e una a finale abbastanza chiara
31
nella sua schiena e nel suo occhiello,. Quello che c’è in mezzo tra le due a è dubitabile e questa
incertezza capita anche qui in un punto in cui una certa lettura potrebbe orientare
l’interpretazione verso una certa area linguistica. Dopo la prima asta breve, sembrerebbe esserci
il cappello di una s. Con la lampada a ultravioletti sembra di vedere l’ombra di questo tratto
orizzontale, anche se l’asta sarebbe abbastanza breve ma non troppo rispetto alla s sicura di
sædea. Ciò che mette in crisi è riuscire a distinguere la parte superiore dell’eventuale s che non
risulta chiara. L’alternativa sarebbe che questa parte superiore sia un fantasma, ci troveremmo
quindi di fronte a una i, perché altro non è possibile leggere, quindi leggeremo m-a-s- o m-a-i-.
La historiola ha molti paralleli con testi antichi e moderni, è incredibile la vicinanza con testi
moderni per esempio di area rumena. Questo tipo di testo, lo scongiuro magico-terapeutico,
è una forma espressiva di larghissima durata, sono note versioni di scongiuri attestate ancora
nella prima metà del Novecento. Lo scongiuro è una forma espressiva di lunghissima durata, e
anche le forme in cui si esprime sono di lunga durata. Vedere questi paralleli è interessante.
Di seguito si vede un’altra asta, a cui seguono, prima della a finale, altre due aste (se vogliamo
abbiamo tre minimi, tre asticciole aperte verso il basso) che non presentano segni di raccordo.
Non ci sono evidenti segni di raccordo neanche nelle parti alte, anche se forse le ultime due aste
sembrano sfiorarsi nella parte superiore. Abbiamo quindi in tutto quattro aste tra le due a sicure.
Qui sembra in effetti che la proposta di lettura, che è sembrata più probabile, fosse sin, dove il
dubbio maggiore riguarda la s.
Bisognerebbe tenere a mente la possibilità che la s non sia tale, ma sia una i. Se ci fosse
veramente una s, vedremo in fase interpretativa che avrebbe un significato linguistico
localizzante abbastanza forte, mentre se fosse una i il valore localizzante verrebbe meno,
sarebbe un esito molto banale, mediano, meno localizzante. Naturalmente dal punto di vista
metodologico quando si tratterà di tirare le fila bisognerà tenere presente molto bene queste
incertezze. È sconsigliabile avere luoghi di lettura dubbi per arrivare a conclusioni perentorie di
localizzazione, in quanto sono elementi delicatissimi, ed è importante la scelta della
localizzazione. L’operazione di edizione e studio di questi scongiuri, e quella di localizzazione (a
quale sistema linguistico appartenga) è una situazione delicata. Dal punto di vista didattico è
buon metodo non far cadere troppa importanza su dati incerti, ma basarsi sui dati certi. La
proposta di lettura quindi è S- I-N-A con incertezza che sia I-I-N-A.

Segue un altro problema dovuto allo stato di conservazione e di sporcizia: ci sono sei lettere
sicure; una e e una t, una e e una m (abbastanza simile a quella presupposta nella sequenza
precedente), poi un’altra e e una a. Lo scrivente finisce di scrivere qui pur avendo ancora un po’
di spazio, leggiamo quindi etenea, non abbiamo problemi di lettura, il problema arriva sulla lettera
che precede la prima e di etenea, che cos’è? Premettendo che risulta difficile distinguere ciò che
è inchiostro da ciò che è sporcizia, sembra che si possa convenire sul fatto che ci sia un’asta
orizzontale che sembra andare in su, ma il segno sulla destra non si sa se faccia parte o no della
lettera. Nel caso facesse parte della lettera, non c’è riscontro preciso in nessun’altra lettera di
questo segno che sembra una specie di occhiello (non sappiamo se faccia effettivamente parte
della lettera).

Altro problema: cosa c’è alla base della lettera? Potrebbe essere quello che in termine tecnico di
paleografia si chiamerebbe piede, basamento, è un valore non funzionale. C’è pero chi ha visto
la possibilità di leggere in tutto questo gruppo un occhiello. Se ci fosse un occhiello sarebbe una
lettera come la B. Di fronte a questo stato di cose si sono manifestate diverse tradizioni
disciplinari, pur ammettendo il problema, la parte paleografica pende verso la soluzione di una B.
Avremmo betenea, in cui be potrebbe essere un clitico, equivarrebbe, dal punto di vista
morfologico e semantico, a un vi in italiano toscano: è una delle particolarità avverbiali clitiche
sempre contigue dal punto di vista sintattico.

Vi è locativo in italiano.
Nell’Italia centro-meridionale c’è un betacismo cassinese e un betacismo centro-meridionale (betacismo
= suono della b doppia geminata).
Il betacismo è il processo fonetico in cui un suono fricativo labio-dentale sonoro /v/ o vocale alta
posteriore /u/ muta nel suono occlusivo bilabiale sonoro [b]. Più in generale, in diacronia, si
riscontra la diffusa intercambiabilità di tali suoni nel parlato, e di lettere nello scritto, già nella

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tarda latinità, spec. nel passaggio dal latino alle lingue romanze. La scrittura quindi è la prova che
la confusione tra i due suoni, ben distinti in latino classico, è avvenuta su larga scala. Già nel I
secolo d.C. le scritte di Pompei riportano, ad es., baliat al posto del latino classico valeat, o berus
al posto del latino classico verus. Si ha un raddoppiamento fonosintattico come nel napoletano
(una [v]arka - tre[b:]arcke = betacismo centro- meridionale) abbiamo b in condizione di
raddoppiamento fonosintattico, qui non ci sono queste condizioni più conservative rispetto al
fiorentino italiano, non agisce nel centro-sud l’accento. I sostantivi monosillabi tonici e tronchi non
producono raddoppiamento fonosintattico. Qui non ci sono le condizioni di avere B per V
secondo betacismo centro-meridionale, in quanto precede la a finale di un sostantivo.
Potrebbe essere quindi betacismo cassinese, un fenomeno grafico che consiste nel fatto che
abbiamo b graficamente in ogni posizione, in qualsiasi contesto in cui appaia una b o v. Nei testi
cassinesi antichi abbiamo normalmente un’autonomia rispetto alla fonosintassi, quindi anche
dentro parola, abbiamo B per V (quindi teneba-teneva, amaba-amava, verosimilmente
corrisponde a una fricativa dell’intervocalica come in spagnolo). Il problema secondo il linguista è
che in questo testo non ci sono esempi di betacismo cassinese, sembrerebbe essere lontano il
testo dall’area cassinese.
Letture alternative prevedono che alla base della lettera non ci sia un occhiello, quindi che sia
una sorta di inganno ottico dovuto alla sporcizia. La presenza di occhiello comporterebbe che la
lettera successiva abbia ricalcato il suo primo elemento sulla parte convessa dell’occhiello. Ci si
aspetterebbe che se fosse davvero b, si sarebbe preso più spazio sulla destra. In questa ipotesi
può essere una lettera consistente di asta orizzontale con un piede, quindi i o l o un’altra s con
cappello in alto, prendendo il tratto superiore come intenzionale. Sono comunque tutte lettere
che consistono di un primo tratto che è un asta verticale. C’è stata anche la proposta di leggere
una d, ma non si può metodologicamente “mettere il carro innanzi ai buoi”, predire quello che
sarà, bisognerebbe sforzarsi di leggere. Fosse una d avremmo comunque un occhiello (d
ondulata), varrebbe comunque poi l’osservazione per quanto riguarda l’eccessivo accostamento
della e (tutto può essere perché è uno scrivente abbastanza irregolare). Questa parte finale
consiste in un disturbo che non permette di distinguere davvero ciò che è scritto.

Alla riga successiva vediamo una q con asta tagliata come sopra, è scritto quindi qui, poi
vediamo uno spazio bianco e di seguito comincia una serie di lettere abbastanza problematica
per alcuni motivi: vediamo una a, poi però vediamo un’asta e un’altra asta con un tratto
orizzontale sopra che collega poi uno spazio inverecondamente ampio, fastidiosamente ampio, a
cui segue una a.

Potremmo leggere a-i-t-a-: leggiamo una a, i, poi un


tratto di attacco di una i e poi un secondo segno orizzontale che può essere il tratto orizzontale di
una t (da confrontare con la prima t di cantasti, il tratto orizzontale occupa lo stesso spazio alla
sinistra dell’asta verticale). Nel nostro caso potrebbero anche essere due t, ma quello che spinge
a leggere aita è che poi si ripete: leggiamo chiaramente a-i-t- poi a sulla destra, è abbastanza
fastidiosa. Quello che veramente costituisce una stranezza è lo spazio spropositato tra la terza
lettera e la quarta. È anche vero che il segno di inchiostro sembra perdersi, ma non c’è dubbio
che la a sia a una distanza alta rispetto alla presunta t, è una stranezza. Dopo la a vediamo una
n abbastanza chiara, poi un’altra t in cui si nota che il tratto orizzontale a destra del tratto
verticale è un po’ ondulato e anche all’inizio dove si attacca all’asta è piuttosto sottile. Se questa
è una t, quella che segue è una s e si vede abbastanza bene (vediamo la tendenza dello scriba a
ridurre il cappello della s a una linea sottilissima, il cappello è ben inchiostrato) a cui segue una i
e poi, nella macchia, si intravedono tre aste e finalmente una a. Quando vediamo tre aste di
solito vuol dire che siamo davanti a una m, quindi avremo AITANSIMA, ma prima abbiamo qui (la
q tagliata), poi seguono due ratti molto più bassi di un’asta di una i e ampiamente inchiostrati con
una specie di archetto. La foggia non sembra avere riscontro con nessuna lettera sicura tracciata
dallo scriba.

Poi segue a-i-t-a- e altre tre aste. Queste due aste non sono molto prototipiche, si toccano sia
nella parte superiore che inferiore. Se uno non scrive bene, ricavarne un senso diventa difficile.
Di fronte a certe incertezze, per ragioni meccaniche, si rimane un po’ sbigottiti. Continua a

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stupire questo lungo prolungamento del tratto orizzontale della t, al di là di ciò che c’è scritto
prima.

Vediamo una m che si unisce sia sopra che


sotto, anche se è diversa perché i due minimi sono dritti e non ondulati, quindi sappiamo che è
una m.
Alla terza asta segue una strana cosa, un trattino estremamente ridotto, una specie di segno
tirato verso l’alto in cui è difficile immaginare una t, rispetto ai casi precedenti. Va ricordato che il
tatto a destra dell’asta assume forma filiforme (anche nella t precedente aveva assunto una
sorta di forma filiforme). Si vede poi quasi uno spazio e una i sicura, una x, che può sorprendere
(la x faceva pare del sistema alfabetico latino) poi una i, una m e a con la schiena diritta e con
scarsa inclinazione verso sinistra. Sembrerebbe scritto AITANTIXIMA e poi un punto al mezzo.

Segue una zona tranquilla in cui leggiamo s-i-s-s-. Notiamo il forte segno di attacco nella prima s
e nelle altre due s: SISSERA poi spazio.

Vediamo molto bene nella t che segue l’estensione del


tratto orizzontale sia a sinistra che a destra del tratto verticale, poi to con titulus. Il titulus sopra
la t si scioglie in vocale + R e t con vocale è lasciata al criterio del lettore perché è compendiata,
quindi avremo TER (scioglimento) O, ha aggiunto ti in interlinea. Va notato che se effettivamente
si tratta di integrazione a una prima scrittura lacunosa, questa correzione, questo complemento,
è stato fatto subito, currenti calamo, non in un secondo tempo, per il semplice fatto che il colore
dell’inchiostro è identico. Non si nota a occhio nudo una differenza di colore, potrebbe essere
una correzione currenti calamo (la stessa situazione di adorai/madorai o cresma/crisma).
Il dubbio è che non siano correzioni sue ma che le riporti dal testo che sta copiando, perché
alcune sono abbastanza incomprensibili come ad esempio p’so con o sopra:

È un dato di fatto che sembra non esserci mai una differenza di inchiostro, è
un’ipotesi abbastanza forte ma sembra che riporti nel testo correzioni presenti nel suo
esemplare. Forse attribuiva al testo che copiava un significato magico e copiava senza
correggere direttamente, o forse perché non capiva la scrittura. Seguendo questo aspetto
sarebbero tutte correzioni effettuate immediatamente, currenti calamo. Ha aggiunto ti in
interlinea, quindi sarebbe TERTIO poi spazio DIE poi spazio e poi abbiamo un bel segno a forma
di due, quindi una nota tironiana: et o e (nel nostro caso ci sono gli elementi per sciogliere e e
non et) poi abbiamo una t con titulus, i e a, quindi avremo TERTIA: tertio die e tertia. Abbiamo
ancora il fastidio della gora di umidità, ma si legge demane: quindi la frase si legge tertio die e
tertia demane. Abbiamo poi un punto basso.

La gora di umidità poi ravviva, leggiamo MALE, con il


caratteristico carattere ondulato dell’asta della l, poi vediamo uno spazio, e di seguito ABBI con a
con titulus che quindi vale come compendio di una nasale. Abbi è il perfetto continuatore non
solo mediano, ma anche meridionale del verbo avere, non serve il titulus, ha perfettamente
senso così. Ciò che è irregolare dal punto di vista della grammatica storica è la e di Ebbi, non la
a di Abbi. Quel titulus non ha ragione d’essere, perché sarebbe ambbi, potrebbe essere un caso
come in lo filio deo in cui abbiamo un titulus su deo, è un uso superfluo del titulus.

Notiamo anche nella prima delle due b la tendenza a fare una sorta di bandiera verso
sinistra, naturalmente è il tratto di attacco della lettera. Poi abbiamo innocubu, vediamo i due
tratti della u e la congiunzione, questU angolare, che è la bisnonna della nostra V. A volte la u
a foggia è chiamata
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angolare in certi sistemi grafici alto-medievali, ma anche basso-medievali, ha localizzazione a
inizio di parola. Qui c’è una sorta di distribuzione complementare, u angolare in posizione iniziale
e u normale al centro di parola, bisognerebbe parlare di allografi ma non è il nostro caso, non ha
alcuna forma di specializzazione il nostro scriba, usa questa foggia in modo impredicibile. Lo
scrivente usa una varietà ancora diversa, dal punto di vista grafico, alla penultima riga:

contoe udeta con u angolare, è il numerale romano per indicare il


numero cinque, quindi usa la u angolare per il numero romano pari a cinque in maniera
specializzata.
Anche quando scrive XXV si vede bene:

Fa quella che sembra una nostra moderna V. Dopo poche parole ripete la
sequenza innocubo (innoculo) a inizio della quinta riga e questa volta ricorre banalmente alla u
diritta, quindi non c’è nessuna specializzazione, fa le cose un po’ a caso.

10/04
Notiamo, per quanto riguarda l’aspetto grafico, che sia nel primo esempio della sequenza
innocubo sia nella seconda sequenza, abbiamo un fenomeno che salta all’occhio nelle ultime
due lettere: una sovrapposizione delle due curve contrapposte, si vede bene in entrambi i
casi ma con maggiore evidenza nella prima delle due occorrenze, in particolare nella b e nella o.

È un elemento per cui, se non ci fosse una ragione particolare, avrebbe un certo
peso per quanto riguarda la cronologia della scrittura. Quando, nella scrittura tra il XII e il XIII
secolo, si ha l’incontro di due curve contrapposte e c’è questa sovrapposizione, si spinge per una
soluzione più tarda, ma va notato che questo fenomeno è limitato a queste due sequenze, per
esempio alla seconda riga (ultima parola) abbiamo canonbole e anche in questo caso abbiamo le
due medesime lettere che si incontrano ma le due curve contrapposte non si incontrano. In altri
casi, come per adorai, non c’è questo fenomeno e non ha carattere di sistematicità.

Si tratta di uno scongiuro contro il mal d’occhi e lo scrivente sbaglia per due volte la parola chiave, dando
poi seguito a una sequenza di lettere che non ha senso.

Dopodiché si vede quella che sembra essere una macchia tra la o e la lettera che segue, c’è
naturalmente uno spazio. Potrebbe sembrare una lettera nell’interlinea ma a visione diretta
sembra più una macchia senza significato e non va né trascritta né tenuta da conto. Abbiamo
uno spazio e poi una p con asta tagliata quindi vale per a cui seguono due aste e una indistinta
macchia in cui si vedono delle forme.

(riga centrale)

È uno tra i punti più fastidiosi perché arriva alla fine di una sequenza in cui la lettura non dà
nessun problema. Quindi innocubo per poi si riprende dopo con de morte, anche se si legge
poco. È una parte del testo in cui quel che si legge non è sufficiente. Dopo il per certo senza
spazio ci sono due minimi, due asticciole che possono formare una u. Sopra sembra esserci
proprio un titulus, la u in realtà sembra essere un po’ spezzata ma può essere che sia dovuta a
un problema del manoscritto, di dilavatura dell’inchiostro. Poi abbiamo lo spazio per due lettere lì
dove c’è questa macchia che comincia alla riga precedente e termina alla riga successiva. Alla
riga precedente non riesce a nascondere le tre aste di una m e sotto nemmeno intacca la
scrittura. Qui non è detto che le due aste equivalgano ad una u, la seconda asta potrebbe
essere il tratto orizzontale di una t e avremo quindi qualcosa come I-N-T, ma non sembra
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probabile perché in genere il tratto orizzontale della t è sempre molto lungo, sia a sinistra che a
destra dell’asticciola verticale, per esempio lo vediamo bene nella sequenza A-I-T alla riga
precedente, o N-T di seguito. Il tratto è ben marcato e va ad appoggiarsi sulla seconda asta della
n. Vediamo anche, all’ultima riga, che il tratto orizzontale va nettamente verso sinistra. Nel nostro
caso non c’è questo tratto, quindi è poco probabile che sia una t. Notiamo che c’è anche molto
sporco in questa parte di manoscritto, la macchiolina grigio-nera non è inchiostro, si potrebbe
provare a farlo pulire. Lo spazio è sicuramente pari a due lettere e sembra tutto sommato di
vedere tre aste, il problema grosso è capire l’ultima lettera che dal punto di vista puramente
grafico non si capisce di quali tratti consista questa parte finale. Non si riesce ad arrivare ad un
significato per via linguistica. Si possono vedere queste tre asticciole che potrebbero essere una
m, anche se non proprio leggibilissima.
Di seguito si legge una lettera che verosimilmente dovrebbe essere un tracciato di una vocale,
ma non si capisce. Si può pensare a una o, ma sono troppi segni per essere una o. Si può
pensare a una a, ma comunque bisognerebbe supplire molte linee che non si vedono. Poi
abbiamo una D-E, poi una sequenza danneggiata forse dall’umidità. Il tratto di uscita della e va
ad appoggiarsi a quella che è un’asta breve a cui seguono forse altre due aste, ma vediamo che
la possibilità di leggere morte ce la dà l’interpretazione, non la mera lettura. L’ultima asta è quasi
a forma di sette, del tutto non canonica. Ci possono essere ragioni di carattere pratico per
spiegare questa realizzazione bizzarra di quest’ultima parte della lettera. Qui la lettura morte è un
fatto più cerebrale che oculare. La questione di morte è quasi inevitabilmente chiamata dalla
necessità di un rimante imperfetto con nocte (si pronuncia notte). È chiaro che si legga -O-R-T-E,
potrebbe essere sorte o porte, ma la lettura più verosimile è MORTE. Segue un punto basso. Poi
donna: la o è totalmente inchiostrata, la d con la solita foggia di forma ondulata, poi due n (la
seconda più piccola di modulo) e poi una a molto chiara. La schiena della a va ad appoggiarsi
alla p che segue, eseguita con un tratto del tutto autonomo. Quella coda scimmiesca che si vede
sulla sinistra della lettera P, nella forma canonica dovrebbe essere il prolungamento dell’occhiello
che si prolunga oltre l’asta e con movimento destro giro torna verso l’asta.

Ha valore di pro, ma lo scrivente le esegue in modo diverso.


Si vede poi una lettera che sembra una sorta di asta che si prolunga come una sorta di c ma è
una k che gli scriventi del medioevo hanno ereditato dal sistema grafico latino. Nella scrittura
latina la k ricorreva raramente in posizioni fisse, in genere la si trova in posizione iniziale di
parola (kalende). Questo avviene di solito anche nelle lingue romanze lì dove compaia il segno
grafico k. Si costituisce di un’asta più un altro segno che somiglia alla c. Abbiamo quindi P-R-O-
K-E, poi una t che ha chiaramente il tratto orizzontale ben pronunciato alla sinistra dell’asta,
quindi P-R-O-K-E-T-E-N, dove sembrerebbe che k non ricorra in posizione iniziale di parola, ma
è vero fino a un certo punto.
Abbiamo questa sequenza grafica che andrà sciolto in pro ke te non cantasti, dove la prima parola è pro ke,
che vale perché, in quanto è un interrogativo.

Il latino ha due preposizioni simili, una è per + accusativo e l’altra è pro + ablativo. Queste due
preposizioni nel fiorentino hanno avuto continuazione solo per quanto riguarda a preposizione
per, pro non ha lasciato segni, non ha continuato ad esistere come preposizione. Questa
situazione di carenza dell’italiano non è condivisa da altre lingue romanze, per esempio il
francese ha sia il continuatore di per che è par che di por che è pour.

La stessa cosa succede in castigliano, dove abbiamo por e para.


Anche nei dialetti dell’italiano centrale entrambe le preposizioni hanno dei continuatori.
Le preposizioni non hanno un vero significato, da un certo punto di vista vengono chiamate
parole grammaticali o parole vuote, intendendo questa mancanza di senso. In realtà il senso è
nell’espressione di una funzione sintattica. Anche nel caso di queste due preposizioni si ha una
differenziazione di relazione sintattica, introducono infatti diversi complementi, in distribuzione
complementare (dove c’è una non c’è l’altra).
Per quanto riguarda gli usi di pro nell’italiano centrale, lo si usa come avverbio interrogativo. In
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italiano è per + quid = perché, in italiano mediano invece è formato con pro. Proke sta per un
interrogativo non causale, la risposta è regolare. Ca viene da qu(i)a ed è causale e dichiarativo,
mentre nei dialetti meridionali allo stato virginale introduceva solo preposizioni al congiuntivo con
valore finale. In questo momento della storia della lingua era ancora vivissimo nella coscienza
dei parlanti, nella loro competenza linguistica, il senso del composto, quindi in effetti sebbene dal
punto di vista grafico la k non si trovi in posizione iniziale è un occorrenza che può essere
assimilabile al caso di una vera e propria posizione iniziale perché siamo all’inizio della seconda
parola di un composto.
Proke te non (n con titulus che vale non). Poi abbiamo, dopo uno spazio, cantasti, II persona
singolare del passato remoto. Donna proke te non cantasti: è una domanda che qualcuno rivolge
a una donna che potrebbe o non potrebbe essere la mandonna delle righe precedenti.
Dopo lo spazio abbiamo poi serecalono poi sappi. Lo scrivente rappresenta con grande
regolarità le doppie lessicali, quindi serecalo non sappi, poi e con occhiello inchiostrato (lo
scrivente usa penna con taglio molto largo che non gli permette raffinatezze come giochi di
alternanza tra filetti e pieni, in questo caso la prima e ha l’occhiello inchiostrato).

Leggiamo poi T-O-R-E con una e eseguita canonicamente, quindi leggiamo etorecette. Di
seguito abbiamo un bianco, poi i con titulus, e poi canta (in questo caso la t non ha il tratto che si
prolunga molto a sinistra). Leggiamo incanta, uno dei termini fondamentali romanzi per indicare
l’incantesimo. Anche qui abbiamo un dubbio se ci sia un bianco o meno, ci sono sicuramente
però una c e una o con titulus, poi t con il tratto a sinistra, poi O-E, quindi contoe, spazio, poi
vediamo uno strano segno abbastanza sgraziato: è una u di forma angolare che lo scrivente
tende a usare per i numeri, per la scrittura del numero romano cinque. Originariamente questo
segno, qui eseguito in modo molto personale, è una variante della u, e utilizza questa forma
angolare per il fatto che le due aste si incontrano formando un angolo acuto, risulta specializzata
per l’indicazione del numero romano cinque, quindi nella trascrizione si mette una V sapendo che
si tratta di un semplice allografo della u.

Di seguito leggiamo D-E-T-A poi spazio e C-O con un titulus sopra la c (notiamo che la nasale
andrà comunque rappresentata dopo la o). Lo scrivente tende a spostare verso sinistra i segni
abbreviativi, i tituli in particolare, sia quelli diritti (che compendiano una nasale) che quelli ondulati
(che compendiano una vibrante). Abbiamo quindi co poi tua, poi palm- in cui si vede abbastanza
bene il tracciato dell’occhiello, quindi abbiamo un’altra a, avremo dunque palma.

Abbiamo poi una macchia che potrebbe anche essere una macchia di muffa, vediamo un’asta
che prosegue a sinistra e a destra, quindi riconosciamo una t. Dopo vediamo due aste, la
seconda leggermente più alta della prima. Vediamo anche che dopo la seconda asta segue
quella che forse è una a, ma sopra c’è qualcosa che potrebbe essere il cappello della s, quindi il
secondo tratto potrebbe essere il primo tratto di una s. Si dovrebbe leggere quindi T-I-S-A, c’è
stato un ripasso di inchiostro che gli ha permesso di resistere di più al processo di dilavamento.
Di seguito vediamo uno spazio, poi una t con l’asta orizzontale che qui è stata eseguita in
maniera ondulata, in posizione iniziale. Il tratto a sinistra è particolarmente pronunciato, seguita
da o e da tre asticciole. Notiamo che sopra le ultime due aste c’è un titulus e poi una e finale.
Potremmo leggere tome o toine (quindi tomme o toinne perché c’è il titulus). Toinne è una
soluzione più probabile.
La e finale è quella meglio conservata e si va ad appoggiare al gruppo st con legatura a ponte
che segue. Nonostante vada ad appoggiarsi, è più corretto interpretare questa sequenza grafica
con la presenza di un vuoto dopo la e. Si vede poi l’ombra di una o, si vede la rotondità della
lettera.
Poi male, o meglio stomale, poi un punto e di seguito iettalo[--], il problema è il finale di riga, è
rappresentato da ciò che segue dove non si legge bene.
Notiamo una discrepanza tra ciò che abbiamo letto e ciò che c’è in trascrizione. Nella trascrizione
di servizio troviamo iettabo, Formentin ha ceduto alle impressioni di lettura dei colleghi (iettabo
invece di iettalo). È una lettura comprensibile, perché sembra vedersi un occhiello nella parte
inferiore di quella lettera con l’asta alta, ma è un parere che Formentin non condivide, lui crede
sia una L quindi IETTALO. Se fosse IETTABO non avrebbe nessun senso, andrebbe avvicinata
alla situazione di innocubo, ovvero un terzo errore di scrittura coinvolgente due lettere, la b e la
b, un ulteriore scambio della lettera b per la lettera l.

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Lo scriba questa volta ha deciso di occupare tutto lo spazio fino al margine danneggiato. Siamo
nella piena preghiera, potrebbe essere via per interpretazione, ma non si legge, sembrerebbe di
leggere una c quindi potrebbe essere iettalo ca dove ca sarebbe un avverbio(non il continuatore
di quia), che nel centro sud è qua, il nesso si è semplificato diversamente dal fiorentino italiano.
Ca con una geminata eccu(m)- hac(titulus su A) = [’k:a], ma qui sembra esserci troppo spazio
per leggere semplicemente ca. Stando a quello che si vede non si capisce.
All’ultima riga fa poi una nota tironiana magistrale per et, non l’ha mai fatta così bene. Potrebbe
anche sembrare una z, ma qui non centra. Poi leggiamo ioce (di cui si vede bene solo
l’occhiello), poi T-T poi staccata, una e di cui si vede il tratto di uscita. Seguono due aste minime
che propone di leggere come n. Vediamo canito e uno stacco, C-O con titulus quindi avremo lo
scioglimento in con. Leggiamo poi dm con titulus quindi avremo deum. Anche qui notiamo le due
aste finali della m che si toccano sia nella parte superiore che inferiore. Deum è l’unica parola
latina che ricorre, è il nomen sacrum.
Vediamo di seguito che torna alla foggia che gli è più naturale della nota tironiana, quindi avremo et colisci
con titulus sopra la i, perché probabilmente non c’era spazio sotto la k.
Avremo quindi con deum et con li sancti a cui segue una p con asta tagliata e un bel numerale
romano, per le cifre romane ingrandisce il modulo, XXV poi vediamo M-I-X-E (la x è una grafia
ipercorretta, iper latineggiante per le misse, le messe). La X è di modulo ridotto rispetto alle due
X del numerale. Poi vediamo uno spazio e ke. È la quarta volta che incorre la k in posizione
iniziale con titulus sopra la e, quindi avremo ken pacua, a cui andrà integrata la s.
Leggiamo di seguito una nota tironiana, poi i con titulus e poi NATALE con una n ondulata. Dopo
abbiamo F-O a cui segue una lettera che con ogni verosimiglianza è una r non uscita molto bene
quindi leggiamo coro dicte e poi forse c’è un segno finale.

11/04
Passiamo a un discorso che riguarda di più il paleografo, argomenti di natura paleografica. Una
questione cruciale è come la localizzazione geografica del nostro testo possa venire dal
paleografo. Il problema reale e pratico, metodico di fronte cui ci si trova davanti sono i ritardi
quando si ha a che fare con testi nuovi, problemi di lettura, di comprensione, sono questioni di
grande rilievo, sicuramente occorre del tempo e non è una variabile comprimibile il tempo. Sono
sei testi nuovi in cui ognuno di questi pone il problema della localizzazione e per arrivare a
questa localizzazione ci sono due le strade percorribili:
1. La via linguistica
2. La via paleografica
Bisogna dire che la localizzazione di base linguistica può permettere risultati più sicuri e
attendibili della localizzazione paleografica, e l’esperienza poi è fondamentale. Prendiamo ad
esempi la Canzone Ravennate, scoperta a metà degli anni ‘30 ma rimasta nel cassetto per anni,
doveva occuparsene Augusto Campana, venuto a mancare prima di pubblicare questo
progetto. In maniera del tutto casuale, provvidenziale, durante un convegno in sua memoria
l’unico depositario, per motivi di ufficio, che sapesse dove si trovasse questa Canzone
Ravennate, ha parlato di questo lavoro e in sala era presente Alfredo Stussi, che colse la palla
al balzo e si fece dire dove fosse la pergamena e si ebbe questa riscoperta. Fu pubblicata poi nel
1999.
Associato al lavoro dell’editore e del filologo della lingua di Alfredo Stussi ci fu il ministero
paleografico di Armando Petrucci con il quale viene evidenziata una discrepanza, una
divergenza tra le conclusioni del filologo e quelle del paleografo. Sono due proposte diverse di
localizzazione che poi divennero un sola in quanto il filologo ha fatto sua l’ipotesi del paleografo:
il testo ha origini settentrionali (zona Padova) ma è stato trascritto in maniera casuale a Ravenna
per mano di uno scrivente dell’Italia centrale. Probabilmente umbro o marchigiano (più umbro
che marchigiano). Formentin pensa che si tratti un componimento scritto a Ravenna da
ravennati.
Al di là del metodo c’è effettivamente un problema sotto: la linguistica storica e quelle della
paleografia legate alla questione della localizzazione di un testo volgare delle origini combattono
ad armi pari, possono in qualche maniera collaborare o si troveranno sempre un po’ a puntare su
soluzioni diverse. Questo problema, la divergenza dei risultati di un indagine mirante alla
localizzazione di un testo volgare delle origini si è riproposto. Ora si crede che sarà, o finirà per
essere, una collaborazione virtuosa di interdisciplinarità. Qui la questione, dal punto di vista
linguistico, è che il frammento è venuto fuori a Fermo ma non si riesce ad andare oltre il
Settecento e non si riesce a capire a quale ente monastico vadano riferite queste otto carte. Si
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tratte sicuramente un ente monastico benedettino, questo ce lo dice il sermonario che ha chiari
caratteri benedettini. Mancano dei toponimi che possano dare informazioni, riferimenti. Avere dei
toponimi sarebbe un ottimo elemento per la localizzazione del frammento. Tutto questo manca,
non esiste. Un esempio è il famoso ritmo di Sant’Alessio, marchigiano degli inizi del XIII secolo
che ha scritto un obituario, ovvero l’indicazione dei monaci benedettini morti con il ricordo della
morte e di quando va ricordato. In questo modo si può facilmente risalire all’ente monastico a cui
appartiene, ovvero monastero benedettino di Santa Vittoria. Tutto ciò non è presente quindi è
una localizzazione che si deve basare sulla lingua (scrittura e varietà linguistica). Notiamo poi
che la scrittura professionale del sermonario non serve a nulla in termini di localizzazione, perché
è una scrittura libraria dell’ultimo quarto del XII secolo ma non è localizzabile. Bisogna lavorare
sula lingua.
Il paleografo Antonio Ciaralli non ha dubbi perché riconosce nello scrivente una mano di
formazione appenninica orientale che include i territori delle Marche con confine a nord nella
zona di influsso ravennate, a sud ha confini meno definiti ma si potrebbe benissimo comprendere
l’Abruzzo settentrionale, mentre a ovest comprende i territori umbri di aria perugina e del
Ternano (Norcia). Il problema è che quest’area descritta è tutta area mediana in cui si distingue
secondo etimologia la u finale dalla o finale, sono tutti territori in cui vige questa opposizione,
anche nei testi antichi (più recenti del nostro scongiuro). Si utilizza la ŭ in base alla seconda
declinazione latina. In quest’area si distingue lupu, amicu, figliu , cantu da parole come quanno,
otto, camto.

In questa area si distingue anche un articolo determinativo maschile singolare, lu, diverso da una
forma neutra in senso semantico lo. La forma proposta da Clemente Merlo è un nuovo genere
che non continua il genere neutro latino, è una ricreazione in età romanza basata sulla
differenziazione semantica, un neoneutro. Nelle regioni centrali italiane si è distinto dal maschile
per indicare sostantivi non numerabili o di materia (parole che non hanno il plurale). In
quest’area dialettale alla forma neoneutra con i sostantivi di materia non numerabile si
contrappone, con la stessa radice, un sostantivo maschile che individua un oggetto concreto.

Lo f[e]rro = il ferro, materiale


Lu f[e]rru = il ferro da stiro o il ferro di cavallo
Lo vetro = il vetro, materiale
Lu vetru = una lastra di vetro

Il nostro testo volgare non rientra in questa tipologia così mediana e cosi marchigiana
meridionale. A Formentin non torna ciò che ha detto il paleografo, ma comincia a credere che
abbia ragione lui. Ciò comporta la verifica di un fatto fondamentale, perché permetterebbe di
tornare a sperare di una collaborazione tra due punti di vista fondamentali: il punto di vista
linguistico e il punto di vista paleografico. Potrebbe aiutare a riscrivere la storia di questo volgare.

Consideriamo ora gli argomenti del paleografo che pensa con fermezza a quest’area
appenninica orientale. Vediamo il primo documento di Fiastra, ora questi documenti si trovano
all’archivio di stato di Roma. Questi documenti vanno dalla prima metà del XII secolo al Trecento
avanzato, ma a noi interessano quelle del XII secolo. I documenti erogati per lo più hanno come
destinatario l’ente monastico di Santa Maria di Chiaravalle, ma a volte si tratta anche di atti tra
privati confluiti nell’archivio monastico nel momento in cui l’ente monastico stesso si fosse
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appropriato di quel bene preciso per varie situazioni. Il monastero incamerava con le donazioni
anche i documenti di proprietà precedenti che servivano al monastero in caso di contestazioni.
Avere dei documenti di proprietà precedenti in termini giuridici rappresenta una garanzia, questo
spiega perché negli archivi monastici in età medievale ci siano anche molti atti tra privati,
propriamente esterni all’ambiente monastico. Va anche detto che nel fondo di Fiastra sono
confluiti anche numerosi documenti che provengono dal distretto di Fermo, scritti e redatti a
Fermo, per il semplice fatto che erano relativi e avevano come destinazione un ente monastico di
Fermo che ha fatto confluire proprio nell’archivio di Fiastra il primo documento. Siamo nel 1151,
da un primo contatto visivo vediamo quanto la scrittura abbia molti punti di contatto con il nostro
scrivente amante degli scongiuri.

Questo è un documento con cui una coppia di coniugi Baronzo, vendono all’abate una terra nel
comitato osimano (quindi Osimo), certamente la qualità rozza dei questa scrittura risulta
evidentissima. In linea generale due elementi fondamentali di affinità con lo scrivente degli
scongiuri sono:
1. L’incostanza delle lettere
2. L’alternanza dei moduli delle lettere

Va sottolineato che lo scrivente usa in maniera abbastanza impropria il medesimo sego che di
solito vale us, qui è solo una s quindi ha scritto trinitatis, poi abbiamo A-B (tendenza delle lettere
che consistono di asta lunga ad avere una prosecuzione verso sinistra). Scrive anno con gn,

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scrive agno. Questa è una grafia latina non etimologica ma fa parte di questo ambiente
notarile appenninici orientali. Un altro elemento è che quando scrivono delle lettere con valore
numerico le ingrandiscono, sono tutti elementi di cultura grafica che rimandano a una scuola
che è la medesima. Dopo la croce all’inizio vediamo poi una i ingrandita, è un segno minimo di
ornamento, è una i con sopra il suo titulus, perché sta x in nomine ecc. Qda si scioglie quondam.
Abbiamo il nome del padre morto, Baronzo, notiamo la z, che non è una z normale, non è una ç,
è una z particolare. È da fare attenzione alla u di unde (riga 13) che comincia con rex che in
realtà vale per res. Quindi res qui fuit de Cico unde, la u iniziale (con n compendiata) è
interessante nella prospettiva del nostro volgare.

La seconda foto è la carta osimana, pubblicata come testo italiano delle origini.

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Il terzo documento è una pergamena molto callosa, gialla, molto rovinata. Dal punto di vista
grafico la scrittura sembra più curata, più calligrafica rispetto a quella del nostro scrivente della
pergamena osimana del 1151, segno che in queste scuole si poteva anche imparare a scrivere
bene. Bisogna fare attenzione alla
z di bizzanzos.

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Una pergamena fermana è la successiva: non è propriamente di Fiastra. Questo scriba scrive in
maniera posata, calligrafica, ma ci colpisce qui il vezzo dei notai di ingrandire la cifre. Abbiamo
anni domini, un volgarismo. Vediamo una s con titulus, cioè sunt. Usa la scrittura per sillabas.
Scrive firmo, quindi la nostra località è Fermo. Et spontanea, in questa tradizione notarile di
scrittura diventa expontanea. Poi leggiamo uius pinnolis, un errore per ius pignoli ovvero a titolo
di pegno.

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17/04

Il fatto che ci siano carte fermane confluite nell’abbazia di Fiastra non è un fatto molto strano,
spesso succede che negli archivi monastici più grandi confluiscano archivi minori del territorio.
Attilio de Luca ha pubblicato le carte più antiche fino al 1220, età federiciana (Federico II). Ci
sono altri quattro volumi ma viene meno la possibilità di affrontare la scrittura di questi notai
marchigiani. Questi documenti sono interessanti per un possibile confronto paleografico delle
scritture. Un secondo motivo di interesse è quello linguistico. È stata scelta questa carta per
ragionare sulla possibilità di confrontare alcuni aspetti fondamentali per la differenziazione
linguistica del nostro scongiuro volgare con altri volgarismi presenti in maniera abbondante nelle
carte fiastrensi e fermane.
Primo documento: va detto che per quanto riguarda i volgarismi in esso presenti, è il nostro
punto di vista per l’inquadramento della lingua, ma purtroppo la situazione della nitidezza di
questa carta è precaria, ma ciò è dovuto alla qualità pessima della pergamena. La pelle è
malpreparata, trasandata, spesso callosa e presentava problemi per chi doveva scrivere su
questo materiale, sul lato carne. Spesso presentano imperfezioni originali, tagli. Questo è un
caso tipico da questo punto di vista: l’inchiostro ha preso male su questa superficie non ben
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trattata e non ben preparata. La scrittura nella carta originale è molto sbiadita, evanita.
L’atto riporta il nome del notaio, Alberto, un semplice nome di battesimo. Alla prima riga vediamo
una croce, un signo crucis, già qui la datazione è caratteristica. Leggiamo anni domini, poi una
C sovramodulata. Datare con quello che è latinamente un nominativo plurale è del tutto
particolare, non rispetta la norma latina che vuole l’ablativo singolare, sarebbe anno domini non
anni domini. Una datazione del genere è già un volgarismo morfosintattico. La stessa
datazione trovata su una epigrafe conservata nella rocca Albornoziana di Spoleto (Albornoz
era un grande combattente che ha conquistato dei territori per la chiesa). La rocca fu eretta alla
metà del Trecento, abbiamo al suo interno una parte epigrafica (una sezione dedicata alle
epigrafi) con questo documento che riporta la datazione anni domini poi una M e il nome del
lapicida (che ha costruito la lapide) si firma in volgare mediano con tanto di U
finale: Robertu. Anche anni domini è un vecchissimo volgarismo, come anche la U finale.
Anni domini M-C (sovramodulata, un’abitudine di questi rozzi notai appenninici, marchigiani, di ingrandire
le cifre espresse con le lettere).
Leggiamo sessagesimo, poi una P tagliata (che sta per per) ma molto rozza, poi vediamo in
mense in tutte lettere, inmense noue- con titulus, poi un punto e poi ber quindi abbiamo in mense
november ma il ber è staccato da un punto: è molto strano. La R finale di november (un
nominativo che dovrebbe essere un genitivo: novembris) è unita alla lettera che segue, tipico
segno arcaico in uso tra il XII secolo e la fine del XIII secolo.
Poi vediamo I-N-D- con una D onciale, in questo caso ha l’asta abbastanza diritta e corta. Il per
iniziale è molto strano dal punto di vista del testo, perché quel per regge indictione, poi leggiamo
qui e I con titulus sopra, quindi abbiamo quin (qui in). A capo todecimo (dovrebbe essere
decima), l’ultima della serie indizionale.
Poi abbiamo la data topica, il luogo con scritto Firmo.

Vediamo poi una Q grande e una M con titulus, con ogni probabilità è una abbreviazione per
contrazione cioè si ha l’inizio e la fine della parola, può essere quidem (avverbio), quidam
(pronome) o quondam (avverbio di tempo), ma sappiamo essere quoniam. Poi segue una P con
un segno di ritorno verso l’asta e sappiamo quindi che è pro, poi abbiamo profiteor (confesso). La
R finale di profiteor è molto lunga, con un segno serpentino.

Di seguito vediamo un danno della pergamena, verosimilmente è antico perché non c’è scritto
nulla infatti va a capo, e leggiamo me ego, poi un nome germanico Berardo, poi et Eliazamo,
vediamo la una Z molto simile a quella del nostro scriba dello scongiuro. I due, Berardo e
Eliaziano, sono fratelli. Fratrib (con una B quasi completamente mangiata dalla rosicatura di
sorcio, c’era un apostrofo per compendiare US quindi leggiamo fratribus). Poi filii ebaldo comes
(in cui filii dovrebbe essere filis e ci vorrebbe comtis). Poi vediamo una P con segno destrogiro
che vale pro e una p con una letterina soprascritta quindi leggiamo propri anra con titulus sulla n,
poi di seguito bonauo Luntatem, poi un punto, e odierna die scritto tutte lettere.

Di seguito comincia la parte dispositiva dell’atto, si tratta di una compravendita e leggiamo


vindimus nos con punto, quindi questi Berardo e Eliaziano vendono a Petri, quindi vindimus nos
a Petri, che compare come in filii Petri in forma genitivale: nell’onomastica centro-meridionale
nel Medioevo il nome proprio di battesimo Pietro compariva in veste genitivale, si diceva Petri e
non Pietro, con una E chiusa o con E aperta. Questo nome si era fissato nella forma del genitivo
patronimico, non si diceva Pietro ma tradotto sarebbe di Pietro. Questo a Petri sicuramente è un
genitivo già fissato perché A è una preposizione già volgare.
Leggiamo poi filio Ioanni (il nome più diffuso in Italia nel Medioevo). Ioanni è scritto solo ioi con
titutlus. Petri filio ioi (con titulus) in forma genitivale (in latino avremmo avuto Ioannis) poi punto
e di seguito ul con l’asta tagliata che vale vel. I destinatari sono Pietro e in caso i suoi eredi. Vel
ad tuos, poi punto e vediamo erhe ei a proprietatis, non si userebbe la A con il genitivo in latino.
Abbiamo poi un gerundio posidendo.

C’è un errore della carta: i possessivi sono deittici, bastano questi per avere una situazione di
comunicazione in atto. La strategia dei possessivi in queste carte è irrazionale, non ha alcun
senso, non dice lo vendo a tibi petri ma usa una terza persona. Poi continua descrivendo il bene.
Id est (ciò è), ha un’asta bassissima, in loco qui poi leggiamo D-R, l’abbreviazione per
contrazione che sta per dicitur (nel luogo che è detto) poi c’è il nome in forma corrente, volgare,
ma come spesso succede in queste carte e nelle espressioni toponomastiche notarili, il nome in
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forma corrente è preceduto dalla preposizione locativa (è un tratto centro meridionale) è A e
non IN quindi in loco qui dicitur a Cisirano. Molti editori non comprendendo, lo hanno indicato
come toponimo tutto attaccato acinisano, ma non è il caso di questa carta. Ano, anus è
toponomastico, è uno dei suffissi prediali da Cesare più anus, quindi la terra di un Cesare. È
un toponimo di origine prediale che rimanda al nome proprio di una famiglia latina.

Vediamo poi tra con titulus sopra la T, che sta per terra, poi scrive una frase quasi interamente in
volgare: terra quale lo passteno: notiamo le L e le B, è una tendenza che ricorda le lettere viste
nello scrivente degli scongiuri con le aste che accennano molto ad un prolungamento verso
sinistra. Continua con qui fuid passtenato de vigna. Passteno è la coltivazione propria della
vigna. La doppia S è dovuta probabilmente a una resa approssimativa di un fenomeno di
eterosillabismo del nesso ST. Il nesso st è eterosillabico, si divide in due sillabe diverse. Le
doppie S impure dal punto di vista linguistico sono probabilmente un espediente grafico per
indicare che la S fa sillaba con la vocale precedente. L’eterosillabicità del gruppo S
+ consonante. Notiamo la qualità delle vocali finali e soprattutto la vocale dell’articolo LO che poi
torna anche nelle righe successive (alla quarta riga dopo lo pasteno leggiamo lo rigo dal latino
rivus diventato rio per una rinascita consonantica per evitare lo iato, quindi abbiamo rigo. Un altro
caso come lo pasteno, che dal punto di vista linguistico è risolutivo, ci permette di attribuire
anche il nostro scongiuro volgare alla stessa area, in area marchigiana meridionale oggi abbiamo
la U finale per l’articolo maschile (lu cane, lu rigo, lu pasteno), nelle carte del XII secolo la forma
dell’articolo non può esse influenzata dal latino perché lì non ci sono, è una garanzia che sia
una novità volgare e siccome le carte fermane in maniera sistematica presentano la O finale per
il maschile, permette di risolvere un problema per quanto riguarda la localizzazione e potrebbe
anche essere localizzato a Fermo, naturalmente vale in questo caso davanti all’ipotesi più
semplice preferire quella.

18/04

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(Foto in bianco e nero in antica diapositiva da microfilm)
Dopo la frase in volgare quale lo passteno, vediamo qui con q tagliata, poi fuid passtenato. Il
passteno è propriamente un appezzamento coltivato a vigna. Vediamo in fuid con d di forma
onciale, vista anche nello scongiuro, la d finale sta per t, la forma verbale è quindi fuit (imperfetto
di esse latino). Scrive fuid perché si tratta di una grafia in qualche modo ipercorretta che
reagisce alla tendenza nella pronuncia locale del latino a desonorizzare le consonanti sonore
che si trovano in posizione finale, siccome per esempio la congiunzione sed tendeva a essere
pronunciata set (tendeva a essere pronunciata ma spesso si scriveva set). È un fenomeno
fonetico che innesca un altro fenomeno di reazione ipercorretta per cui la T finale viene scritta e
forse anche pronunciata come una D.

La frase in volgare è inserita in un testo la cui lingua è chiaramente il latino (la lingua del diritto).
La questione è che questi notai appenninici del medioevo, del XI/XII/XIII secolo hanno una
scrittura particolare, non particolarmente calligrafica, hanno anche una lingua propria per questi
documenti notarili, cioè piena di volgarismi. Una di queste carte (il documento di Osimo del 1151,
la cosiddetta carta osimana) conta tra le più antiche testimonianze di un volgare italiano. Questa
cosa è assai strana, peculiare e meriterebbe di essere indagata a fondo nelle sue ragioni. In
questa regione, in questo periodo, i documenti notarili sono dotati di pieno valore legale, sono
strumenti di pubblica fides redatti da un notaio che si fa garante e responsabile del valore legale
e giuridico delle carte che sottoscrive. In questo periodo (XII secolo) si compie in Italia un
processo alla fine del quale la figura del notaio, inizialmente modesta, inizia a diventare una
figura di rilievo e si compie il processo per cui il notaio diventa in sé e per sé fonte di pubblica
fides, per convenzione (dotata di una sua ragione storica: l’investitura notarile era di fonte
imperiale) il notaio diventa garante di quasi tutte le azioni giuridiche. Perché questi scrivano cosi
dal punto di vista della scrittura e della lingua miserevole, lamentevole dal punto di vista della
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correttezza grammaticale, prendendo a paragone il latino medievale usato in altri luoghi, questa
apertura risoluta al volgare è un problema, costituisce una questione. A lungo si è detto, se
vediamo ad esempio la carta osimana nel commento e nell’edizione curati da Enrico Castellani,
si trova Il lamentevole latino del notaio Simeone, che una forma del genere fa capire che si
attribuiva questa qualità a un fatto di ignoranza, un difetto di cultura, scrivevano così perché non
sapevano il latino, ma è una spiegazione insoddisfacente perché un po’ semplicistica.
Certamente costituisce un problema dal punto di vista scientifico, la spiegazione del “non sanno
scrivere” sembra semplice, è verosimile che ci fosse una sorta di convenzione, questi notai
sicuramente andavano a scuola per imparare a scrivere e le scuole in area centrale (zona
umbro-marchigiana, ma anche la zona dell’Abruzzo settentrionale), erano in mano ecclesiastica,
quasi sempre monastica, quindi c’era una corresponsabilità o un’accettazione da parte della
cultura ecclesiastica che per altro era depositaria in queste zone della grande tradizione classica
della cultura latina. È verosimile che questi documenti (in questo caso un atto privato) redatti da
questi privati che erano quasi sicuramente analfabeti. I documenti scritti in questa maniera
potevano essere più comprensibili al pubblico laico e illetterato. La gente comune, e da questo
punto di vista sicuramente anche l’aristocrazia feudale andava con il resto della società laica
medievale, né leggeva né scriveva, del resto pensando anche ad altri ambienti (tranne quello
veneziano) la situazione di analfabetismo doveva essere diffusa nella società a cui questi atti si
rivolgevano. Il notaio fa da cerniera tra la clientela laica, quindi analfabeta, e che conosceva solo
la lingua volgare e la lingua del diritto, che nel medioevo era naturalmente il latino. Portava le
condizioni dell’atto giuridico e le redigeva in buon latino, leggendole alla propria clientela che non
sapeva il latino. Ovviamente non li leggeva in latino, ma li traduceva in volgare quindi non c’era la
necessità di aprire al volgare la lingua delle carte, non ha senso dire che scrivevano così per
capire meglio perché erano in uno stato di totale ignoranza alfabetica e non sapevano leggere.
L’ipotesi è che si tratta di una scienza convenzionale che andava bene a tutti. Bisognerebbe
conoscere di più per risolvere questa questione, vediamo il fenomeno nel suo complesso.
I tre documenti delle origini sono noti con questo tipo di lingua in cui vediamo testimoniati tre
esempi di futuro italiano: il futuro italoromanzo è un tipo perifrastico che non ha esatta
corrispondenza dal punto di vista morfologico nel latino, si forma con la voce verbo avere +
infinito (in base alle zone). Un testo marchigiano nella stessa area ci da i primi tre esempi di
futuro perifrastico italiano.

Di seguito alla frase volgare leggiamo deuinea e poi cooperta con una P con asta tagliata, poi
vediamo un punto al mezzo e poi ET, poi una forma di participio con prefisso negativo
(chiaramente in volgare). Leggiamo scooperta con la P con l’asta tagliata e un punto al mezzo:
vuol dire che la vigna è in parte coperta e in parte scoperta. Poi leggiamo una lettera che ricorda
abbastanza da vicino le C del nostro scrivente di scongiuri, è una C abbastanza ingrandita e
vediamo CU con titulus quindi cum, poi si vedono tre lettere con titulus sopra, leggiamo oia che
significa omnia (plurale neutro di omnes, cum regge in latino l’ablativo e qui è costruito con
l’accusativo e fa parte sempre del lamentevole latino, bisogna dimenticare le reggenze
preposizionali del latino classico, è una caratteristica di valore grammaticale del latino
volgare da cui si è originata la varietà volgare italoromanza che si è generalizzata in
un’unica reggenza preposizionale, tutte le preposizioni che prima reggevano l’ablativo ora
reggono l’accusativo che è diventato il caso obliquo per eccellenza.
Leggiamo poi super con P con asta tagliata, poi sed abet (senza H) poi un punto basso, ancora
una volta et. Questo scriba a causa della penna e del suo taglio segna in maniera molto sottile i
tratti orizzontali, qui in particolar modo la T sembra ei invece è et, poi abet (anche qui la T
sembra una I, abei) poi fine.
Succede quindi che si sta vendendo questo passtino di vigna con tutto ciò che ha sopra di sé e
poi per individuare il terreno usa le coerenze, coerentie o finis (oggi useremmo i riferimenti alla
mappa catastale).

Et abet fine (e ha come confini), poi segue anche qui una cosa che vale per alcune sue parti
specifiche, ovvero quelle in cui viene descritto il bene e ne vengono indicati i confini, in
particolare nel protocollo e nell’escatocollo e nella sottoscrizione del notaio si potevano
appoggiare a formulari fissi, mentre dove il notaio era lasciato a sé stesso era la parte di
documento in cui descriveva il bene quindi era in qualche modo più facile il ricorso a espressioni
della lingua parlata, soprattutto nella toponomastica, onomastica e nella descrizione del bene
nell’indicare la sua confinazione. Quindi comincia in latino scorretto con habet fine da capo: da è
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una preposizione italiana e capo dal latino caput che indica la parte settentrionale del fondo,
della terra. Il da si è originata da de + a in latino, quindi da capo è un forte volgarismo e indica
una delle estremità, uno dei confini del bene, da capo e da lato: l’estremità settentrionale, con
lato da latus, latere che è un neutro e vuol dire dalla parte affianco, non meglio specificato in cui
c’è la via Salaria a marcare il confine, quindi da capo e da lato uia Salaria poi c’è un punto al
mezzo. Di seguito si legge et, poi una p con l’asta tagliata quindi per e una G terribile, gid che sta
per pergidin, qui si individua una forma verbale dal latino pergere (dirigersi, andare verso), la D
finale è come quella di fuid (usa una lettera sonora per una sorda t), si sottintende il soggetto di
questo verbo che è il confine del bene, pergid (pergit) quindi si dirige in rigo, continua fino a
raggiungere il fiume. Rigo è la parola in volgare per rivus latino. Questa forma si può giudicare
pienamente volgare dal punto di vista fonetico perché il fonema occlusivo velare sonoro G
si spiega come anti-iatico o estirpatore di iato, perché da rius si è arrivati a rigo a rio poi in
un secondo momento questo iato io è stato annullato mediante il suono consonantico G con
funzione anti iatica.
In molti dialetti per esempio si dice pagura e non paura o pagone e non pavone. Et pergit in rigo
(e va a finire nel fiume).

Poi abbiamo et da pede (a sud): et da, notiamo le aste brevi poi pede (piede), cioè la parte in
basso, la parte sud. Poi di nuovo lo rigo in cui spunta l’articolo determinativo, che è un
volgarismo, una forma schiettamente volgare, ignota al repertorio morfologico latino.
Questione del timbro della vocale dell’articolo: in questo documento, ma non solo, si tratta di
fenomeno seriale, categorico e sistematico, un solo documento servirebbe a poco. Quindi da
pede lo rigo, in queste parti specialmente volgareggianti, per quanto riguarda la qualità della
vocale finale (qui l’elemento più importante è l’articolo determinativo) assumono un valore
indicativo anche le vocali finali dei sostativi, in zona mediana avremmo quindi lu rigu. Et da uno
lato: uno è articolo indeterminativo, anche lato è molto italiano.

Di seguito abbiamo vinea, c’è quindi un’altra vigna. Segue de e poi Azzo (è un nome germanico,
il nome di uno dei tiranni) la doppia (affricata dentale sorda) è espressa mediante il digramma CZ
con una Z parente prossima di quella usata dal nostro scriba, scritto Aczo a cui segue un altro
nome: Cauilla poi seguono aste piccole, minimi di cui sembra essere pertinente al nome solo la
prima asta, quindi avremmo Cauillai. È verosimile che sia caduto un titulus per la nasale e si
debba integrare Cauillani, che non è un vero e proprio cognome, si può intendere come secondo
nome, si pensa sia da intendersi come proprietà di una famiglia, dovrebbe essere il nome di
famiglia di Azzo.

Vediamo poi altre tre aste, in s-o-r-, poi r-a , dopo si legge malissimo ma è possibile che si debba
leggere iste alla fine del rigo, quindi avremo infra iste (all’interno di queste) poi all’inizio del rigo
vediamo una a e un segno che non riconosciamo, poi una e e poi finis, poi un punto a cui segue
quantu quam che è una latinizzazione mal riuscita del volgare quantuquam.

Poi vediamo una t con un tratto orizzontale quasi invisibile, quantu qua tenne (tutto ciò che
tiene), tenne è un perfetto volgare dal latino. Il soggetto è Berardo. Si vede un punto dopo
Berardo, poi si vede bene il primo tratto e i due tratti di uscita, abbiamo poi Eliaziano: quantu qua
tenne Berardo et Eliaziano, abbiamo un verbo alla III persona singolare e un soggetto plurale:
marchigianismo molto spiccato. È la continuazione, lungo l’area adriatica, dello stesso fenomeno
di rilievo fonomorfologico che ha origine nel veneto, cioè la caduta delle vocali finali. È meno
significativo perché i soggetti sono post posti.
Poi leggiamo in ipso loco, che ribadisce il fatto che l’oggetto della compravendita è tutto ciò che
nel luogo descritto è stato posseduto da Berardo e Eliaziano. Poi vediamo tantu abeatiss tu petri.

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Et tuos eredes pro (p con asta tagliata) quia denisti nobis, seguito da un punto. Qui c’è il
pagamento, viene fuori una parte del pagamento: uno bano mantello, anche qui abbiamo, dal
punto di vista formulare, una parte assimilabile a quella della confinazione. Il notaio non aveva
formule pronte, uno può essere sia un numerale sia un articolo indeterminativo. Vediamo che
non c’è il vocalismo U finale, non è unu bonu mantellu.

Poi si legge in con titulus: possiamo pensare fosse in integrum, quello che è scritto è in e sopra
la i c’è una i con titulus, potrebbe anche solo aver ribadito le stesse lettere ma non ha senso.
Segue et denarii solido con una s in alto, dece con titulus quindi decem, poi sopra scrive in sopra
rigo bono pretium, che è una formula aggiunta in un secondo tempo che indica un’accettazione
da parte del venditore di questo prezzo indicato come buon prezzo, segue et ista carta (dopo
decem sul rigo), a capo oi con titulus seguito da t con un trattino orizzontale sottile che vale omni
(abbreviazione per contrazione) poi tepore con titulus sopra quindi tempore firma: torniamo nella
formularietà, in questa manca il verbo perché di solito è ista carta maneat/permaneat firma, è
una forma di perpetuità, e qui manca il verbo.
Continua con et stabile, poi leggiamo rogauvid con una d in interlinea, in cui commette il solit
refuso di scambiare d per t).
A capo leggiamo et ainpleuid, una forma non classica che starebbe nell’atto notarile corretto.
Sarebbe implevit, qui sarebbe ad implere ma la d non c’è, quindi a impevit sarebbe
un’ipercorrezione. Poi abbiamo Berardo (colui che ha rogato, cioè che ha richiesto il documento)
quindi rogavit (ci aspetteremmo rogaverunt) et ainplevit (sarebbe un’operazione del notaio, non
dei fratelli) poi leggiamo et e alla t segue una d: etd eliazano, scritto etd perché la t davanti alla

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vocale si legge d. Alla grafia latina fa seguire quella volgare.
Poi vediamo scripsid (rogavid e aimplevid hanno come soggetti Bererdo e Eliazano) che ha
come soggetto il notaio. Scrive Albo con b che presenta un’abbreviazione sull’asta quindi sarà da
sciogliere come Alberto come abbreviazione per contrazione, leggiamo Alberto notaio e poi un
punto.
Qui finisce l’atto e vengono indicati i testimoni.
Alla fine scrive et alii multi boni hominibus fuerunt: lo scrive tutto sbagliato dal punto di vista della
concordanza.

24/04
Problema della localizzazione del manoscritto volgare
Si ha una discrepanza tra quelle che si pensava fossero le caratteristiche principali del
marchigiano meridionale. Quello che sarebbe importante sarebbe capire dove siano stati scritti e
a quale ente monastico appartenessero quel fascicolo (o libro a cui forse apparteneva quel
fascicolo) ovvero il sermonario, il codice vettore. In secondo luogo sarebbe importante sapere
dove sono state aggiunte le scritture avventizie, certamente il dato è quello della conservazione
attuale, ovvero Fermo, quindi ovviamente viene in mente la possibilità che questo frammento
librario e le sue scritture avventizie possano essere attribuite all’area di Fermo, al territorio
fermano. Questa sarebbe l’ipotesi più semplice. Come abbiamo già detto nessuna nota e nessun
dato sono presenti nel frammento, neanche nelle note avventizie, sicuramente della stessa mano
di colui che ha trascritto i tre scongiuri. Forse si legge una data che è 1195, ammesso però che si
tratti di una data, ma andrebbe bene come data. Nulla invece viene fuori che ci permetta
un’attribuzione del frammento librario. In altri casi di testi delle origini si è più fortunati perché il
vettore risulta sicuramente localizzato, il manoscritto di testi latini che veicola tracce volgari in
genere è attribuibile a un preciso monastero, una precisa località. Questo risulta chiaro per lo
Scongiuro Aquinate, soprattutto per le carte di guardia che sono palinsesti, e che avevano una
scrittura prior dal punto di vista cronologico, che era stata erasa per rendere i fogli riutilizzabili.
Qui la scrittura prior ha permesso a Ignazio Baldelli di localizzare il manoscritto e di attribuirlo a
un particolare monastero in zona aquinate, perché le scritture cancellate erano delle decime, dei
canoni che i livellari dei terreni proprietari di quel monastero erano tenuti a pagare ogni anno al
monastero: da qui si risale al monastero e quindi alla localizzazione del manoscritto.
Nel nostro caso non ci sono indizi di carattere esterno che ci permettano la localizzazione. La
scrittura propriamente del vettore, l’elegante mano professionale della seconda metà del XII
secolo non ci permette di avere un’idea della località, perché è una scrittura libraria minuscola
tarda carolina la cui localizzazione non si può dimostrare. Questo testo va localizzato tramite
perizia paleografica dei testi avventizi e tramite perizia linguistica. Il problema sta nel fatto che
nella zona di Fermo non abbiamo testi anteriori al 1300. Il fermano antico appartiene all’area
mediana che ha un fenomeno linguistico spiccato, ovvero la distinzione su base etimologica del
timbro del vocalismo finale.

Una disuguaglianza: la u finale derivata da ŭ latina (sono le desinenze della II declinazione latina
diverse da o finale derivato in quest’area da ō/ŏ finali). Questa opposizione è particolarmente
vitale per l’articolo: lu figliu è diverso da lo pane (neutro di materia che indica sostanze non
numerate). Si discute se questa distinzione di u diversa da o abbia avuto origine proprio
dall’articolo (continuatore di ille) ossia da intendersi come proprio anche dei sostantivi della II
declinazione. È molto verosimile, infatti anche i testi latini di quest’area indicano come più

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verosimile la prima ipotesi, ovvero la distinzione originata dall’articolo e reintrodotta dall’articolo.
La distinzione originariamente sarebbe propria solo dell’articolo. Lo si oppone a lu per una
questione morfologica di genere. Al fine di distinguere la categoria del genitivo maschile dal
genitivo neutro, che poi sarebbe stato esteso con maggiore o minore rigore. La u diversa da o
finale è molto regolare, categorica, per quanto riguarda la forma dell’articolo determinativo,
mentre c’è una varietà per il vocalismo finale dei sostantivi, per questo si sviluppa una teoria
esplicativa per cui all’origine la distinzione sarebbe propria solo dell’articolo. La distinzione si
sarebbe poi estesa, propaginata, anche ai sostantivi, fino al 1960, quando, per opera di Ignazio
Baldelli, il quale appoggiandosi a Contini (si parla di ipotesi etimologica Baldelli-Contini, ma
l’ipotesi è di Contini), ha formulato la distinzione per cui tra u e o finale si sarebbe propaginata al
sistema nominale dall’articolo. Le carte latine confermano la bontà di quest’ipotesi. Notiamo che
uno degli argomenti forti a favore dell’ipotesi Baldelli-Contini è che dal punto di vista etimologico,
i sostantivi neutri della II declinazione (plumbum, vitrum), i nomi di materia, non numerabili, sono
identici ai sostantivi maschili, quindi non c’è ragione per cui ci sia lu lupu con articolo e dall’altro
lo plombo. Mentre una ragione etimologica si ha nell’articolo, perché l’articolo derivato da illud è
stata verosimilmente ricondotta da molti linguisti a una base diversa da quella con um. Anche
illud non basta a spiegare la differenze.
Si ha invece una seconda ipotesi etimologica di Clemente Merlo, per cui l’articolo esemplare del
1909, ha ricondotto la forma neutra ad una base *ill’hoc (ille + hoc). Un’altra ipotesi è stata
formulata dal dialettologo tedesco Gerhard Rohlfs, il quale nella sua grammatica storica pensa
a *illod, che sarebbe una forma analogica perché sarebbe anch’essa illud x quod con una forma
neutra del relativo, invece del dimostrativo. Si riesce xo a proporre ipotesi etimologica esplicativa,
k nn è possibile x il paradigma nominale. Si sa quindi che Fermo è in una zona di u diversa da o
finale.
Il nostro testo ha lo figlio, con o finale, che porta a scartare in prima istanza l’ipotesi di
localizzazione propriamente fermana.
Uno cartulario teramano esistente: qui si vede bene, per quanto riguarda l’uso dell’articolo, che
c’è solo o finale (terraemana - può essere di teramo?), non c’è un’alternativa, o è terra
terraemana o terraemava. Si pensa però a una localizzazione teramana. Nel cartulario fiastrense
si ha una quindicina di carte teramane. Il fondo di Fiastra in questa abbazia marchigiana (per
quanto riguarda la zona fiastrense) si trova nella zona U/O, in cui sono venuti a confluire per
motivi di carattere storico una serie di pergamene del territorio del distretto fermane che
appartenevano all’archivio di un’altra abbazia (Santa Maria di Collalto), che viene assorbita
dall’abazia di Fiastra. Lo studio di queste carte teramane o di quel territorio, ha fatto emergere
che si possa argomentare a favore di una confluenza di tipo anti mediano degli articoli: c’è un
solo articolo maschile e neutro con un’unica vocale finale in o. A questo punto entra in gioco di
nuovo la localizzazione teramana. Attraverso questo studio si può determinare in fase pre-
documentaria il confine di un isoglosso in questo caso la distinzione di u da o finale su base
etimologica. Questo tipo, l’indistinzione in base a vocale finale delle forme maschili singolari da
quelle neutre singolari non è diversa da quella che si ricava dallo studio delle carte latine
dell’area napoletana.
Si può tracciare sulla carta un isoglosso che nel caso dell’articolo comprende Teramo e Fermo.
La localizzazione permette di avere una congruenza nello studio dell’approccio paleografico e
linguistico. Spesso in alcuni casi (per esempio la Carta ravennate) le conclusioni del paleografo
e quelle del linguista si trovano in conflitto. Le carte fiastrensi mostrano delle somiglianze tra la
scrittura degli scongiuri e quella dei notai. Rimaneva la possibilità che qualcuno che avesse
studiato a Teramo nella scuola episcopale magari avesse avuto maestri simili, ma era una
supposizione che creava una catena ipotetica. Dal punto di vista dell’esperienza di studio, solo
grazie alla presenza della disciplina complementare si riesce ad avere una migliore messa a
fuoco del testo e del problema scientifico.

Questione del testo


Possiamo individuare diverse sezioni. Questo testo è in versi o in prosa? Non si tratta di poesia
prosodica (caratterizzata da numerosità sillabica secondo la metrica canonica del verso della
poesia d’arte italiana e da una distribuzione degli accenti) siamo al di fuori di questo concetto di
formalità poetica, ma ci sono altri elementi che permettono di individuare versi non canonici e
ricorrenze omofoniche, rime perfette o imperfette. Non è possibile rinvenire nel testo una
regolarità isosintattica, siamo fuori da uno schema isosillabico (versi dotati di uno stesso
numero di sillabe) c’è una grande varietà metrica da questo punto di vista (si va da cinque sillabe
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ma anche a undici, sembrano esserci endecasillabi di stampo italiano, non provenzale). Viene
considerato quindi un testo poetico differente, per sua natura, dalla poesia cortese individuata da
alcune ricorrenze o regolarità (numero di sillabe e omofonie). Per quanto riguarda il contenuto
non è semplice. Al di là della possibilità di errori, è comunque evidente che dal punto di vista
contenutistico della sequenza e dei concetti espressi da questo testo siamo in presenza di un
testo molto fluido, incongruente nel senso logico. La narrazione non scorre facilmente dall’inizio
alla fine, ma si riescono a individuare alcune sezioni al loro interno coerenti dal punto di vista del
contenuto, il problema è che il legame tra le sezione sembra logicamene debole o a volte
francamente irriconoscibile al di là dei problemi di tradizioni. Ci sono certi punti con sicurezza
corrotti. Si ha una debolezza di senso nel corso della tradizione ad opera di copisti. Le sezioni
sono abbastanza coerenti, si possono individuare come tali proprio per una certa coerenza, ma
si susseguono in maniera logicamente debole, verrebbe in mente come concetto descrittivo il
concetto di rapsodia in senso etimologico, pezzi che hanno avuto origini diverse e che
vengono cuciti insieme. Questa perdita di senso è propria del genere dello scongiuro, che
spesso sia in alcuni esemplari antichi sia in esempi moderni (del 1800 e del 1900) si ha un un
carattere combinatorio. Ci sono pezzi che si possono montare più o meno liberamente.
Sicuramente c’è una prima sezione che prende i primi cinque versi, l’ultimo si affida all’effetto di
coerenza dell’anafora. C’è una formula anaforica evidente, oppure si spezza, ma ci consiglia di
pensare a un unico verso per l’aspetto omofonico. Siamo di fronte a un’evidente ipermetria, del
verso cinque si potrebbe pensare a una riduzione. Si parla di una prima sezione perché c’è
quella che sembra una storia (como io me leuao) si può avere il dubbio che si tratti di una
historiola, un piccolo testo di carattere narrativo dove io è qualcuno di diverso dall’operatore. Lo
scongiuro viene pronunciato sperando di avere un effetto magico-terapeutico. L’historiola
introduce un personaggio divino o para divino. Io è l’operatore o il personaggio di questa
historiola? La voce dell’operatore si fa viva sicuramente nella parte finale, ma potrebbe già
essere qui. La questione di fili Petri o fili Paoli, (Pietro, Polo e Benedetto) sono sicuramente nomi
di santi, siamo per altro in ambiente come sappiamo benedettino. Potrebbe essere questo li fili
per indicare i monaci, o i semplici nomi dei santi (Petri in forma genitivale, Paolo e Benedetto o
Beneditto che a quel punto assonerebbe con pizzo e avremmo un’omofonia più regolare).
Contruerso vuol dire semplicemente verso, contra versus è nel senso di verso documentata due
volte in carte latine fermane del XII secolo non presenti nel fondo di Fiastra, ma nell’archivio
storico comunale fermano. Contraverso è noto in un volgare italiano solo da questo testo, non ci
sono altri esempi di questo avverbio/preposizione. Avere due riscontri in carte fermane è
significativo. Notiamo che anche contra del secondo verso non ha valore ostile, contra deum
adorai (mi rivolsi pregando verso Dio), non ha un significato ostile. Il valore semantico della
preposizione contra ha anche questo riscontro in carte mediane antiche ma anche in altri luoghi
della Romania, ma anche in provenzale abbiamo contra in senso di verso senza ostilità.
Posi piede a destra: destro ha sicuramente valore in qualche modo magico, la destra ha valore
magico positivo, anche questo ha riscontri importanti tra gli scongiuri italiani antichi. Continua poi
la prima sezione (fino al v.11) chi parla? Non è semplice capire a chi si rivolga. Il significato
lessicale è che voglio (verosimilmente è l’equivalente dell’italiano antico invoglio che vuol dire
involucro, qualcosa in cui si avvolge qualcos’altro, o scatola o contenitore).
Quisto sarebbe una forma metafonetica propria del maschile. Pizzo vuol dire punta
propriamente, è anche ben documentato nella toponomastica italiana nel senso di cima. Pizzo in
zona mediana è anche orlo della veste quindi potrebbe essere che contenitore è questo che porti
nel lembo della veste? L’interlocutore risponde questo è olio e crisma, ovvero due oli sacri che si
usano in diverse situazioni sacramentali. Si fa riferimento agli oli santi negli scongiuri cristiani: è
molto frequente, infatti abbiamo anche documenti storici di provvedimenti della chiesa che
chiedevano ai parroci di tenere olio e crisma sotto chiave perché venivano rubati per pratiche
parareligiose come quelle degli scongiuri di magia bianca. Abbiamo poi un verso che sarebbe un
endecasillabo congetturale e che non dà gran senso: la dove figlio di Dio (arcaismo sintattico che
vale come un genitivo senza preposizione) prese battesimo bagnandosi (allusione al fiume
Giordano dove Cristo fu battezzato) sintatticamente non ci siamo, il senso non è trasparente, ma
sembrerebbe esserci un accenno alla credenza che ha riscontri in testi di scongiuri non italiani
(anglosassoni o germanici, o in zona rumena) alla credenza del Giordano come dotata di poteri
taumaturgici. Poi abbiamo un ammonimento che non risulta chiarissimo, è un riferimento
chiaramente antisemita ma non ci deve stupire in un testo medievale: non battezzare gli ebrei
perché non lo vuole il figlio di Dio (qui usa dei invece che deo usato prima). Questo elemento è
collocabile storicamente perché c’è una bolla papale databile al 1190 che vietava alla comunità
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cristiana di battezzare i figli di ebrei ma da un punto di vista storico il riscontro è calzante.
Il testo poi cambia totalmente e comincia una narrazione diversa, per questo si parla di rapsodia,
si pensa si potesse trattare non di una ma di due o tre scongiuri, ipotesi da abbandonare ma da
tenere presente. Abbiamo caeli sonava et terra terraemava/terraemana, cioè i cieli suonavano e
la terra tremava, è una scena apocalittica che ricorda la morte di Cristo. Poi se si coglie nel
segno, bisogna pensare a una zona potente dal punto di vista taumaturgico, perché gode della
benedizione di tre vescovi, poi segue partia, che dal punto di vista della lingua è certo e innesca
una serie rimica (propriamente una lirica omofonica regolare che va aventi fino al v.18). La
serie è un’omofonia perché vige la rima merolingia, cioè la possibilità di far rimare e chiusa con
i (partia, sedea) nella poesia italiana arcaica, è un’omofonia regolare. Appare la madonna: figura
divina con potere taumaturgico. Qui non ha senso. La formula individua la malattia. Si legge un
sic rafforzativo (era proprio il terzo giorno e la terza mattina ebbi male nell’occhio e non potti
morire, non potei finire di soffrire oppure morire). Il finale ha una forma metaplastica. Era invece
il terzo giorno e la terza notte ebbi male all’occhio per... non si capisce. Nella parte finale
c’è effettivamente l’elemento taumaturgico. Grazie alle ricerche di Francesco Giancane, si
individua un dialogo tra l’operatore e una donna che è la paziente, questo è in dubbio sui
confronti di paralleli in cui è la figura divina che si rivolge alla paziente o al paziente chiedendo la
ragione per cui non è guarita a incantare, cioè guarire con un incantesimo la malattia. Donna era
più probabile si rivolgesse alla Madonna, ma sulla base dei riscontri di Giancane non si può
dubitare che donna sia la paziente e l’altro sia l’operatore. Lo non: è una sintassi mediana in cui
lo è sicuramente un neutro. In tisa abbiamo i per e. Toine (togli da qui questo male). E gettalo
seguito da una parola che non si legge. Se si leggesse ce avremmo una consecuzione
pronominale arcaica per ti incanto qui (abbiamo una particella attualizzante come in italiano ci
vedo, esserci, ci sono, che originariamente sarebbe il qui).

I versi finali vanno confrontati con un passo dello scongiuro romagnolo, testo della seconda metà
del Duecento, congiuro brevis at seregnones ovvero dei vermi che si ritenevano responsabili
delle carie dentali (è uno scongiuro magico terapeutico per il mal di denti). Anche qui troviamo le
venticinque messe che si celebrano tra Pasqua e Natale.

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