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La molteplicità del Medioevo
Nei primi decenni dell’800 molti studiosi dedicarono grande energia a
concepire un nuovo approccio storiografico all’arte dei secoli dell’età di
mezzo, uno sforzo che coincideva con la svolta romantica che cercava
nell’arte anticlassica nuovi riferimenti estetici ed etici. Il medioevo era la
macchina da guerra contro la filosofia dei Lumi. L’arte dei primitivi dava
consistenza visiva alle differenze tra le nazioni e tra i popoli. Nella prima metà del
XIX secolo si codificò una doppia articolazione, la prima territoriale, finalizzata
alla creazione di un legame sempre più intimo tra arte e popoli, la seconda
incentrata su differenziazioni cronologiche attraverso l’individuazione di stili
per strutturare il lungo arco temporale tra l’età di
Costantino e l’età di Raffaello. A Parigi, il ritorno dei Borbone nel 1815 provocò
l’immediata chiusura del museo di Lenoir voluta fortemente da Quatremere de
Quincy ma il successo di questo museo dette un forte stimolo al collezionismo
di opere medievali, sia tra i privati sia in altri musei pubblici. Alexandre du
Sommerard crea una raccolta di arte medievale che alla sua morte fu
acquistata dallo Stato francese: nacque così il museo di Cluny; Luigi Filippo
decise di trasformare la reggia di Versailles in un museo della storia francese e
commissionò una serie di dipinti sulle vicende storiche dei re di Francia in età
medievale.
La questione intorno alla quale però si condensavano maggiormente le riflessioni
riguardava i monumenti, la loro storia e la loro salvaguardia. Nel 1832 Hugo
pubblicava Notre Dame de Paris anche per salvare la cattedrale dal degrado in cui
versava. Per porre fine alla demolizione di opere medievali (per far spazio a strade
ed architetture moderne) venne creata la commission des monuments historiques
che aveva come ispettore generale Vitet e poi Merimé che criticava i restauri mal
fatti. Ancora nel 1832 Hugo pubblicava Guerre aux demolisseurs. Les Voyage
pittoresques dans l’ancienne France di Taylor conteneva centinaia di incisioni di
monumenti medievali inseriti in suggestivi paesaggi a documentare ricchezza
e varietà delle diverse regioni della Franci, diventò il prototipo di una nuova
editoria illustrata rivolta al grande pubblico ma anche base di partenza per gli
studiosi d’arte medievale alla ricerca di uno studio scientifico. Nel secondo
decennio dell’Ottocento, alcuni studiosi attivi in Inghilterra e Normandia per
descrivere l’architettura compresa tra antico e gotico cominciarono a proporre il
termine romanico che era posto in analogia con lo sviluppo della lingua
romanza. Quicherat individuava nell’arte romanica un momento essenziale del
Medioevo, proprio in virtù del suo carattere transitorio e composito (architettura
non più romana, sebbene mantenesse ancora molto del romano, ma non ancora
gotica, sebbene avesse già molto di gotico), in contrasto evidente con le coeve
teorie di Viollet-le-Duc. Didron pose le basi della scienza iconografica come
disciplina. Pionieristici erano anche i suoi studi sulla miniatura medievale, per
lui una
cattedrale era una enciclopedia in pietra e un libro minato era una cattedrale
tascabile. Per Viollet il gotico era linguaggio comune della nazione, inoltre la
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vasta attività di restauratore che aveva svolto mirava a ristabilire uno stato
completo delle opere che poteva anche non essere esistito. Schlegel aveva
ribadito l’identificazione dell’arte gotica come stile tedesco, partiva da qui
un nuovo interesse storiografico per la storia dell’architettura medievale in
generale e per il gotico in particolare. Rhumor si occupò di una rivalutazione
positiva della pittura dei primitivi italiani (contro quello che diceva Vasari)e Rio,
uno dei suoi primi lettori, impostò una nuova rivalutazione di Giotto come eroico
innovatore e inventore dell’arte cristiana. In Italia tra fine settecento e inizi
ottocento il patrimonio artistico medievale era ormai stato ampiamente
riscoperto e studiato, al tempo della Restaurazione la ricerca sull’arte
medievale si struttura principalmente su scala locale. Spesso gli interessi
storiografici si coagulavano, a volte sotto la spinta di urgenti questioni
conservative come quella del Camposanto di Pisa, la basilica di Assisi e la
scoperta della cappella degli Scrovegni.
Il battesimo del Rinascimento e la storia della cultura
In un saggio di Lucien Febvre ricordava lo storico Jules Michelet come il
primo ad usare il termine Renaissance per indicare una nuova epoca,
separata dal mondo precedente da un solco profondo. Il Rinascimento veniva
elaborato compiutamente come un momento storico in cui era nato l’uomo
moderno. Qualche anno dopo la pubblicazione di Michelet, lo storico svizzero
Burckhardt riproponeva il concerro di Renaissance e la formula della scoperta del
mondo e dell’uomo, incentrandoli nella cultura fiorentina del XV secolo. Veniva
così codificata l’idea di Rinascimento come epoca che aveva dato avvio alla
modernità.
L’oper ache rende famoso lo studioso fu il Cicerone, guida al godimento delle
opere d’arte in Italia: si tratta di un libro concepito per i viaggiatori tedeschi in
Italia, che univa la tradizione del manuale storico-artistico con quella delle guide,
di cui tuttavia non si seguiva l’esposizione topografica. Nella Civiltà del
Rinascimento in Italia Burkhardt delineò in quadri tematici alcuni aspetti della
storia e della cultura del 400 e 500 italiano, abbandonava le strutturazioni
cronologiche e geografiche a favore di grandi affreschi che indagavano i vari
aspetti della cultura rinascimentale, aprendo la strada alla trattazione della storia e
dell’arte per epoche.
Con questa opera Burckhardt ha dato un contributo fondamentale alla scoperta del
Rinascimento italiano o meglio, alla sua invenzione. La concezione del
Rinascimento di Taine era incompatibile con quella di Burckhardt in quanto
egli affermava l’importanza del milieu che spiegava le variazioni stilistiche e
le differenze tra scuole. Un altro intellettuale che indagò il rapporto arte-
società con un approccio prevalentemente teorico-estetico fu Ruskin che vedeva
nell’arte uno strumento di trasformazione sociale, nelle Seven Lamps egli affrontò
il tema dell’architettura come espressione artistica connessa a una morale civile.
Egli predicava la superiorità dell’arte gotica rispetto a quella rinascimentale
perché legata alla produzione artigianale che la rivoluzione industriale aveva
distrutto.
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Arte, scienza ed industria
du mobilier Viollet-le-Duc sanciva l’importanza attribuita da parte di un architetto
alle arti applicate. Anche
Arte, scienza e industria
Nel 1851 si apriva la prima esposizione universale a Londra: una prova
della supremazia della Gran Bretagna e l’occasione per celebrare il progresso
scientifico. L’esposizione fu ospitata al Crystal Palace progettato da Joseph
Paxton a Hyde Park, una parte dei manufatti esposti fu trasportata direttamente al
nuovo Museum of Manufactures (Victoria and Albert Museum), primo museo delle
arti decorative che aprì nel 1852. Al museo era annessa una scuola di disegno
con l’intento di conciliare la pratica dell’arte e le nuove tecnologie.
All’interno della grande esposizione era stata sottolineata l’importanza delle
“arti minori”, come anche nelle successive esposizioni a Manchester,…
In generale nel corso dell’800 la nuova tipologia del museo di arti applicate, oltre a
essere una raccolta di modelli utili per la produzione industriale, assunse
progressivamente anche temi di storia della cultura, con l’intenzione di rendere
visibili percorsi storici, tecnici e formali attraverso gli oggetti esposti. L’ornamento
non era più considerato come pura decorazione ma come linguaggio con un suo
autonomo sviluppo e leggi proprie da analizzare scientificamente, prendendo a
modello la classificazione botanica; nel suo Dictionaire du mobilier Viollet-le-Duc
sanciva l’importanza attribuita da parte di un architetto alle arti applicate.
Anche Labarte nella sua Historie des arts industrielles tentò di descrivere in modo
sistematico la storia delle arti minori e delle loro tecniche in un quadro geografico.
In Italia, negli anni dell’unificazione, soprattutto durante la breve stagione di
Firenze capitale si registrò una crescente attenzione per i manufatti artistici. In
occasione della prima esposizione nazionale nel 1861 fu allestita una esposizione
di oggetti d’arte del Medioevo e del Risorgimento dell’arte. Sempre nella sua
esperienza londinese allestì alcuni padiglioni dell’esposizione universale e
insegnò alla School of design: occasioni per prendere conoscenza delle arti
applicate che sfociò nel suo “lo stile nelle arti tecniche e tettoniche, o Estetica
pratica: manuale per tecnici artisti e amatori” (1860), questo testo proponeva
la suddivisione degli oggetti delle arti applicate in quattro grandi categorie
materiali: tessile, ceramica e vetro, metalli, legno e mobilio. L’arte tessile era
quella che stava all’origine di tutte le altre, perché univa in sé la funzione della
protezione e della decorazione: i due bisogni umani che determinano l’arte. Il
sistema scientifico semperiano fu applicato nell’allestimento del South
Kensigton di Londra. Il museo austriaco per arte e industria fu il primo
dedicato alle arti applicate nell’Europa continentale pensato come raccolta di
modelli per artisti, industria e artigiani, impostato sull’utilità dell’arte e
sull’educazione al buon gusto per il benessere economico della nazione con
annessa scuola per le arti applicate, Semper donò al museo un manoscritto
intitolato il museo ideale. Tra le premesse della nascita della scuola di Vienna vi è
il nuovo insegnamento di storia dell’arte medievale all’università di Vienna che
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era impostato sullo studio di tutti gli oggetti, utili o belli che fossero e sul
collegamento tra storia dell’arte e archeologia. Va ricordato anche l’istituto per la
ricerca storica austriaca, nato nel 1854 per lo studio “scientifico” (storico-
filologico) della storia austriaca, con particolare attenzionealla raccolta e alla
edizione di fonti per l’età medievale e moderna; qui si stabiliva uno stretto legame
tra archivio, museo e università che avrebbe rappresentato una delle caratteristiche
fondamentali del lavoro e delle ricerche di molti esponenti del gruppo viennese.
La storia dell’arte tra Nationbuilding e studio della forma
Monaco 1909
Durante il IX Congresso internazionale di storia dell’arte, che si svolse nel 1909 a
Monaco di Baviera, Adolfo Venturi aveva parlato della posizione ufficiale della
storia dell’arte rispetto ad altre discipline, era un resoconto sul ruolo della
costituenda disciplina storico-artistica nelle istituzioni italiane. Warburg sottolineò
lo spettacolo ammirevole rappresentato dall’entusiasmo che contraddistingueva
Venturi. Era tuttavia significativo anche il suo disaccordo rispetto alla severa
condanna espressa da Venturi nel suo intervento della pirateria dominante sul
mercato artistico per colpa dei miliardari americani che venivano paragonati a
Napoleone Bonaparte. Lo studioso amburghese rilevava come proprio grazie
all’acquisto da parte di istituzioni o privati stranieri le opere d’arte erano
diventate i pionieri più fruttuosi. Warburg malgrado tutta la sua ammirazione per le
trasformazioni culturali in atto in Italia, ne descriveva con molta lucidità anche le
rischiose implicazioni nazionalistiche. La scelta di costruire il presente capitolo per
nazioni scaturisce dalla convinzione che negli ultimi decenni dell’Ottocento la
storia dell’arte sia stata parte integrante della fase finale nel Nationbuilding. Gli
studi storico-artistici contribuirono alla costruzione di una coscienza nazionale e
alla definizione del suo patrimonio.
In questo periodo si delinearono con maggiore precisione le strategie volte a creare
dei canali funzionali a uno scambio scientifico internazionale, in primo luogo i
periodici specializzati, i congressi internazionali di storia dell’arte e i grandi
progetti editoriali. Tra questi ultimi spicca, per qualità e per dimensioni del
coinvolgimento della comunità scientifica internazionale, il dizionario biografico
degli artisti di tutti i tempi, paesi e specializzazioni, curato da Thieme e Becker che
coinvolse ben trecento collaboratori di diversi Stati.
Il primo incontro internazionale degli storici dell’arte fu convocato a Vienna
nel 1873 in occasione dell’Esposizione universale prevalentemente di lingua
tedesca. Il X congresso a Roma nel 1912 noto soprattutto perché considerato
il primo congresso di storia dell’arte a carattere effettivamente internazionale,
con la partecipazione di studiosi provenienti da 17 nazioni, dedicato alla
discussione di un tema circoscritto: i rapporti dell’arte italiana coll’arte dei
vari paesi. Un’altra questione discussa al congresso di Roma fu l’insegnamento
della storia dell’arte nelle università e nelle scuole superiori.
Il quadro che emerge è differenziato da paese a paese; in Germania, dove alla fine
del 700 la storia dell’arte era entrata a far parte della didattica universitaria, si andò
rafforzando l’inserimento della disciplina negli atenei. Nell’impero austriaco, la
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storia dell’arte era stata introdotta all’Università di Vienna da Rudolf
Eitelberger. In Svizzera, dove Jacob Burckhardt a partire dalla metà del XIX
aveva tenuto corsi di storia dell’arte e di storia. Nel 1891 il primo corso di Storia
dell’arte alla Sorbona fu affidato a Henry Lemonnier. In Italia, nel 1991, veniva
creata la prima cattedra di Storia dell’arte, presso l’Università “La Sapienza”
di Roma, affidata a Adolfo Venturi, cui si aggiunse la Scuola di perfezionamento
fondata per formare i futuri soprintendenti. In Spagna il primo professore di Storia
dell’arte all’università di Madrid fu Monzò dal 1904.
Nella capitale spagnola si formò un importante triangolo istituzionale tra il Prado,
il centro studi storici e l’Università. Cattedre di insegnamento si formarono in
Belgio, Olanda, Russia, Paesi scandinavi, Stati uniti.
Una storia dell’arte imperiale: la Scuola viennese di storia dell’arte
Il gruppo di studiosi della scuola viennese di storia dell’arte aveva la convinzione
che la storia dell’arte fosse parte integrante delle scienze storiche: la sua missione è
quella di rileggere in modo genetico i differenti fenomeni artistici del passato, di
far diventare i fatti singoli una unità; una delle costanti del lavoro di questa
scuola consisteva nell’organico legame instaurato tra lo studio diretto degli
oggetti nei musei, la riflessione teorico-metodologica sviluppata all’università e
l’assidua prassi filologica sulle fonti. L’impegno consisteva nel trasformare la
storia dell’arte in scienza dell’arte. In concomitanza con l’Esposizone
universale nella capitale austriaca venne organizzato un incontro di storici
dell’arte, il I Congresso internazionale di storia dell’arte, incentrato su temi
riguardanti la relazione tra storia dell’arte e politica culturale, scolastica e
museale. L’unico partecipante italiano fu Cavalcaselle. Qui vennero discussi il
problema dei musei e della catalogazione; il problema del restauro e della
conservazione; l’insegnamento scolastico; i criteri per la riproduzione delle opere e
per la costruzione di un repertorio bibliografico.
Un primo filone di ricerca era incentrato sullo studio delle fonti letterarie della
storia dell’arte. Eitelberger della scuola di Vienna inaugurò un importante
collana sulle fonti per la storia dell’arte e della tecnica artistica del
Medioevo e del Rinascimento 1871-82 che sere accessibili alcuni testi
fondamentali del Rinascimento italiano a un pubblico non specialistico di
lingua tedesca. Un altro importante campo di lavoro degli storici dell’arte
concerneva lo studio topografico dei monumenti presenti nelle diverse regioni
dell’Impero. Evidenziare la varietà e ricchezza culturale che caratterizzava la
monarchia era strettamente funzionale al progetto politico di una parte della classe
dirigente austriaca di far crescere l’identificazione patriottica nell’Impero proprio
grazie a tale consapevolezza: unità nella varietà, era la parola d’ordine. Sul piano
metodologico, la centralità dell’oggetto d’arte e dell’autopsia visiva come
fondamento dello studio storico-artistico era uno dei capisaldi di questa stagione di
studi, intensificata dall’incontro di Thausing con Giovanni Morelli. Il metodo
empirico-positivista di quest’ultimo, che metteva in secondo piano la
valutazione estetica delle opere e aspirava a un fondamento scientifico verificabile
dell’attribuzione, entrò così nello strumentario degli studiosi di Vienna. Schlosser
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includerà addirittura Morelli tra i membri della scuola viennese, sottolineando
l’input positivista del suo metodo teso a oggettivare il giudizio soggettivo
dell’intenditore.
Fu Wickhoff a mettere a punto un percorso metodologico incentrato sullo studio
della forma morelliana, integrato con il metodo storico filologico, basato sulla
distinzione tra copia e originale e sul problema dell’autenticità. Egli
sosteneva l’autonomia dell’arte romana contro la tradizionale lettura, di
stampo winckelmanniano, che la considerava come declino dell’arte greca,
così secondo Bianchi Bandinelli Wickhoff ha il grande merito di liberarci da
Winckelmann. Una messa in discussione radicale nel canone classicista che si
manifestò anche nell’attenzione prestata da Wickhoff all’arte contemporanea. Alla
soglia del nuovo secolo, tali premesse furono arricchite seguendo nuovi parametri
scientifici volti al superamento del positivismo e dello storicismo ottocentesco,
dalla generazione successiva. In questa reimpostazione metodologica emerse la
figura complessa di Riegl che iniziò la sua carriera nel reparto tessile nel museo
dell’industria del quale sarebbe poi diventato direttore. Durante gli undici anni di
attività in questo museo, egli pubblicò i suoi primi studi , dedicati a un gruppo di
opere tessili lì conservate.
Tra i suoi temi vi era il problema del rapporto tra cultura occidentale e
cultura orientale- tema molto sentito nell’Austria di fine secolo per le sue
molteplici implicazioni culturali ma anche politiche. Dedicò particolare
attenzione alle contaminazioni tra culture in epoca tardo antica, in antitesi
alle letture nazionalistiche che contrapponevano, viceversa, una tradizione ariana.
L’attenzione per i disegni decorativi e per le arti applicate si rivelava un campo
ideale per indagare i meccanismi interni del mutamento delle forme e degli stili. In
questi anni Riegl pubblicò un consistente numero di saggi dedicati alla cosidetta
arte popolare. Per Riegl l’estinzione dell’arte popolare era preceduta di pari
passo con il tramonto della produzione tessile domestica, per uso interno della
famiglia, una forma di organizzazione economica che ormai sopravviveva solo
nella penisola balcanica essendo, di fatto, irrimediabilmente superata dalla
modernizzazione dei processi produttivi e dal lavoro a domicilio per conto
di terzi. Risulta importante sottolineare che in questo testo Riegl presentava un
precoce tentativo di intrecciare le ricerche coeve in campo economico, con
riflessioni storico-artistiche sull’arte tessile, nella convinzione che la
nostalgica e romantica celebrazione dell’arte popolare non potesse e non dovesse
prescindere dalla conoscenza delle condizioni sociali e materiali in cui si era svolta
la produzione. Il tardo antico, i secoli che avevano segnato la complessa
transizione dal mondo romano al mondo medievale, è stato in generale un
campo di ricerca molto presente nella storiografia austro-ungarica tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento; motivato anche dalla tendenza di
operare un parallelo con la complessa situazione dell’Impero austro-ungarico
intorno al 1900. Metteva in discussione il concetto di decadenza e proponeva un
superamento del giudizio di valore nella storia dell’arte, a partire dalla
constatazione che non potevano esistere differenze qualitative tra stili diversi, né
tanto meno periodi di declino, in quanto nell’evoluzione non può esistere né un
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regresso né un arresto. Le opere d’arte erano infatti per Riegl il risultato di un
Kunstwollen (intenzione d’arte, volontà d’arte, impulso artistico) preciso e
funzionale, inteso come forza che dirige/guida l’evoluzione stilistica. Riegl
affiancò all’attività in ambito museale quella dell’insegnamento all’università di
Vienna: i due testi pubblicati postumi dagli allievi dimostrano l’attenzione
dello studioso verso un altro momento ritenuto di decadenza, dopo l’apice
rinascimentale. Riegl collegava maggiormente il Kunstwollen alla letteratura, alla
filosofia, alla religione e alla struttura economica della società di riferimento. Il
ritratto di gruppo, tipica espressione dell’espressione dell’arte olandese dei secoli
XVI e XVII, veniva letto tenendo conto appunto della specifica organizzazione
economica. Per poter leggere le opere del passato anche nelle loro implicazioni
sociali e culturali la storia dell’arte doveva innanzitutto abbandonare ogni giudizio
di gusto e successivamente includere nella sua analisi anche il pubblico per il quale
le opere erano state create. Il passaggio che propose Riegl era tra storia dell’arte
come storia della percezione a come sintesi della cultura di un’epoca. Riegl dal
1903 discusse sui problemi di restauro e tutela, il suo obiettivo era svincolare la
tutela delle preferenze estetiche per giungere a una teoria conservativa basata sul
rispetto del valore attribuito ad ogni monumento: elaborò così la teoria del
valori che suddivideva valori storici e contemporanei formulando il valore
artistico, quello storico, quello di antichità. Il valore artistico era legato alla
kunstwollen, quello di antichità era rivolto a tutti “al di sopra delle diversità tra
livelli culturali” e quello storico legato al lavoro degli specialisti.
Kunstgeschichte e Kunstwissenschaft in Germania
Dalla seconda metà degli anni 70 dell’800 si sviluppò una vivace discussione che
riguardava gli strumenti della ricerca storico-artistica a causa della comparsa
della disputa sull’autenticità tra due quadri, uno a Desdra e uno a Darmstad:
la Madonna del Borgomastro Meyer. La disputa rese evidente un passaggio
importante nella storia della disciplina: giudizio estetico e giudizio sull’autenticità
non coincidevano e solo il secondo aveva valenza scientifica.
Dopo l’unificazione della Germania la vita politico-culturale tedesca fu segnata da
aspre tensioni. Il nuovo stato tedesco non si dotò di una struttura amministrativa
legislativa centrale, nazionale per la gestione del patrimonio culturale. Musei e
monumenti rimasero sotto la direzione degli antichi stati con l’unica
eccezione dell’isola dei musei a Berlino, finanziata dal governo nazionale. La
politica museale di questi anni fu strettamente legata alle aspirazioni imperiali
della Germania unita. Bode progettò il Kaiser-Friederich-Museum come una
raccolta di arte rinascimentale italiana allestita tenendo conto dei generi e
delle funzioni e delle serie iconografiche. Intorno alla questione dell’acquisizione
delle opere del Rinascimento si accese il feroce scontro con Morelli che criticò
aspramente Bode per quanto riguardava alcune attribuzioni, minandone
l’autorevolezza.
In Germania la ricerca universitaria appariva sempre più distante dalla realtà dei
musei. Springer nel saggio Conoscitori e storici dell’arte insistette sulla non
sovrapponibilità delle due figure. Gli studi di Springer erano improntati sulla
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ricerca si una sintesi tra la storia esterna delle opere (contesto storico) e la
loro storia interna, il collegamento formale e iconografico tra opera e opera.
Uno dei suoi saggi parlava della sopravvivenza dell’antico nel Medioevo (tema
ripreso da Warburg), percorso che avrebbe avuto un ruolo importante all’università
di Lipsia, dove la storia dell’arte si avvicinava sempre di più alla scienza perché
vedeva la psicologia dell’individuo nella relazione con la sua epoca
analizzabile empiricamente e comparativamente attraverso i suoi atti
complessi come il linguaggio, l’arte, i costumi e i miti. E sul rapporto tra
società e cultura e opere d’arte riflette Burckardt con l’obiettivo si
descrivere la funzione dell’arte all’interno della società, l’opera d’arte era
vista come soluzione tra problemi posti da ambiti extrartistici. Per una corretta
comprensione delle opere risultava dunque imprescindibile la ricostruzione del
contesto storico di riferimento, l’analisi delle premesse sociali e culturali in cui
erano nate.
All’interno di un fondante culto del Rinascimento che pervadeva la cultura
tedesca negli ultimi decenni dell’800, fu pubblicata una considerevole serie di
biografie dedicate ai grandi maestri rinascimentali: i stesti di Justi contribuirono
alla rifondazione su basi nuove e oggettive della biografia artistica; Thode
vedeva nell’arte in Giotto l’avvio del rinascimento italiano, proponeva un
racconto che collocava negli ambienti della contestazione e dell’inquietudine
religiosa della fine del Duecento l’inizio dell’età moderna. Verso la fine
dell’800, in un clima di delusione dopo l’entusiasmo che aveva segnato gli
anni successivi all’unificazione, s’imposero sulla scena scientifica tedesca i primi
storici con formazione universitaria che sancì il passaggio dalla storia alla
scienza dell’arte; Wofflin lavorò sulle contrapposizioni e propose una
formazione basata sulla visione comparata di immagini per acquisire un
personale repertorio visivo; Scmarsow va considerato per la sua svolta verso una
fenomenologia psicologica delle forme che si andava manifestando nella storia
dell’arte di fine secolo, egli non si concentrava sulla percezione visiva delle forme
ma includeva anche l’esperienza, la percezione psicologica di esse.
In questo humus culturale si forma Warburg, ebreo di sangue, amburghese di
cuore, d’anima fiorentino che studiò storia dell’arte a Bonn con Justi, nella sua
formazione influirono Burckhardt e Nietzsche , Usener per il suo studio delle
culture antiche e Lamprecht paladino della storia della cultura. L’interesse
per il Rinascimento fiorentino emerge dalla sua tesi sulla Primavera e nascita
di Venere di Botticelli; dopo un soggiorno negli stati uniti nel corso dei quali
raccolse materiali sugli indiani Pueblo e del New Mexico, si insediò a Firenze
dedicandosi a ricerche sulla sopravvivenza dell’antico nel Rinasciemento.
Andò sviluppando un metodo che leggeva l’immagine come “memoria sociale”
attribuendo un valore simbolico, espressivo anche allo stile. Nel concetto della
Pathosformel cercò di raddensare l’idea di una psicologia storica manifestata
nell’immagine: il movimento era metafora di emozione, innovazione stilistica
che è espressione della liberazione dai vincoli convenzionali della società del
400 fiorentino. Gli contribuì alla formazione dell’analisi iconologica.
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La Francia e la volontà di egemonia culturale
In Francia la disciplina storico-artistica stava compiendo importanti passi per
strutturare la ricerca sia dal punto di vista istituzionale sia dal punto di vista
metodologico e teorico, al fine di inserirsi nel panorama europeo e affermarsi nei
confronti della eterna rivale tedesca. La ricerca storico-artistica francese aveva le
sue radici nei corsi di Storia dell’archeologia, dell’arte e di estetica tenuti all’Ecole
du Louvre e all’Ecole des Beaux Arts, legati al nome di Hippolyte Taine e al suo
metodo di leggere l’opera all’interno delle condizioni storiche e del milieu
culturale. la giovane storiografia francese negli ultimi decenni dell’Ottocento
e all’inizio del nuovo secolo era segnata da una serrata, aspra discussione intorno
al Rinascimento. Per Muntz il Rinascimento era connotato dallo studio degli
autori antichi, dalla cultura degli umanisti e dal ritorno all’arte classica e
sanciva il primato italiano nell’arte moderna. Courajourd invece tenta una drastica
messa in discussione del modello italo centrico dello sviluppo della cultura
figurativa moderna che non nascondeva il disgusto per il classicismo romano,
fenomeno riscontrabile in diversi contemporanei. Nel nuovo secolo la ricerca
delle scuole e dei caratteri nazionali immanenti caratterizzava fortemente anche gli
studi intorno ai cosiddetti primitivi. Si trattava di affermare l’arte francese
dalle influenze italiane e fiamminghe e di proporla come una pittura popolare,
lontana da intellettualismi aristocratici, che aveva trovato il suo apice
nell’opera di Fouquet. Di orientamento opposto è Molinier che invitava
diffidare di certe teorie troppo seducenti e patriottiche nell’analisi dell’arte
medievale e rinascimentale. Le proposte più innovative per lo studio dell’arte
medievale arrivarono da Male, cattolico convinto che riscopriva il significato
delle immagini dell’età di mezzo dai pensatori medievali. In contrasto con
la celebrazione romantica dell’arte medievale come prettamente popolare,
insisteva sullo stretto legame tra artisti e pensiero teologico trasmesso dal clero.
Il suo lavoro fu caratterizzato da un forte sentimento nazionale e le emozioni
suscitate dal bombardamento della cattedrale di Reims lo portarono a scrivere un
saggio in cui affermava la supremazia dell’arte francese su quella tedesca
accusando la Germania di aver distrutto con un atto di barbarie la cattedrale
proprio per cancellare il documento di tale supremazia.
Trasformare i tesori artistici in beni della nazione: l’Italia dopo l’Unità
All’indomani dell’unità, in Italia si sviluppò un vivace dibattito pubblico intorno
alla tutela del patrimonio storico-artistico e alla sua organizzazione amministrativa.
Il patrimonio del rinascente Stato risultava essere esposto a molteplici rischi in
seguito alla soppressione dell’asse ecclesiastico, all’abolizione del
fidecommesso e, motivo certamente non secondario, in ragione della voracità
del mercato artistico internazionale. Venturi chiese la stesura di nuovi cataloghi
razionali e storici delle gallerie italiane e di un catalogo generale delle regioni
italiane; una maggiore sorveglianza dei restauri; la fondazione di riviste
annuali per pubblicare le ricerche sul patrimonio dei singoli musei e sulle fonti: la
creazione di un archivio iconografico; la pubblicazione di un repertorio
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bibliografico. Guardando al modello istituzionale e scientifico austriaco e
tedesco, Venturi mirava a rifondare sistematicamente la ricerca storico-
artistica italiana, innanzitutto recuperando il ritardo in campo metodologico e
negli strumenti di ricerca. Cresceva anche in Italia la consapevolezza della
necessità di un personale addestrato, tecnicamente e scientificamente
aggiornato. Tuttavia, solo nel nuovo secolo la definitiva istituzione delle
soprintendenze e l’approvazione delle prime leggi nazionali di tutela nel 1902 e nel
1909 instaurarono finalmente un sistema amministrativo e legislativo unitario.
Nei primi anni dopo l’unità, le due figure chiave del panorama storico-
artistico italiano erano Giovanni Morelli e Giovanni Battista Cavalcaselle.
Dopo l’Unità, Cavalcaselle, ormai un’autorità nel campo della connoisseurship
e della ricerca storica, cercò di mettere le proprie competenze al servizio
dell’amministrazione del nuovo stato, venne chiamato a Roma come Ispettore delle
antichità e belle arti del ministero della Pubblica istruzione. Nello svolgimento di
questa funzione mise a punto metodologie, norme e pratiche rivolte ad
assicurare una maggiore tutela del patrimonio nazionale, in una organica
visione d’insieme, frutto del lungo lavoro di ricognizioni sul territorio dei
decenni precedenti, proseguiva nel frattempo l’attività di ricerca finalizzata alla
pubblicazione: opere storiografiche in inglese a Londra. Anche Giovanni Morelli
pubblica, però in tedesco, a Vienna i suoi primi studi dedicati alle collezioni
romane. Morelli aveva iniziato studiando medicina in Germania ma
essendosi appassionato alla storia dell’arte aveva frequentato assiduamente i
circoli intellettuali e artistici di Milano; i suoi studi si incentrano sul verificare le
attribuzioni tradizionali, distinguere tra copie e falsi, ricostruire il lavoro autografo
di ogni artista su basi razionali, quasi scientificamente provate. Così
utilizzando la personale conoscenza dell’anatomia comparata acquisita durante
gli anni di studio di medicina cominciò a dissezionare visivamente i dipinti
fino a elaborare una tesi destinata a un notevole successo: gli artisti indubbiamente
maturavano grazie al loro lavoro, partendo dall’apprendistato in bottega,
dove si impadronivano di una
serie di tecniche a imitazione del maestro; crescendo potevano anche mutare lo
stile, ma sempre se ne sarebbe rintracciata la matrice. Piccoli e insignificanti
erano i particolari che sfuggivano alle regole dell’apprendistato: le unghie, le
orecchie, qualche onda nei panneggi e poco altro. L’educazione dell’occhio, non la
ricerca del documento archivistico, portano all’attribuzione scientificamente
corretta (metodo positivista).
Venturi trasferì da documento all’opera d’arte lo statuto di fonte primaria
della disciplina, dopo essere entrato in contatto diretto, già negli anni modenesi,
con studiosi sensibili alle istanze della connoisseurship morelliana come Gustavo
Fizzolini. La dialettica venturiana tra metodo storico e metodo sperimentale
portava progressivamente a un avvicinamento delle sue prospettive di ricerca.
Una soluzione cosè che integri l’educazione visiva del conoscitore con la
frequentazione dell’archivio e perfino con gli esercizi di diplomatica, senza
ignorare soprattutto le regole di buon vicinato con le grandi ricostruzioni
storiche cavalcaselliane. Nel 1901 fondò la Scuola di perfezionamento in
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storia dell’arte medievale e moderna, finalizzata alla formazione dei futuri
funzionari dello Stato incaricati della tutela e dello studio del patrimonio
nazionale nei musei e nel territorio, in vista della istituzione delle Soprintendenze.
Negli anni successivi, attraverso l’insegnamento venturi ano si formarono
nell’ateneo romano i maggiori storici dell’arte del Novecento italiano. Con un
occhio vigile rivolto alle esperienze tedesche, austriache e francesi, la didattica
venturiana era incentrata sulla formazione dell’occhio attraverso esercizi sul
materiale storico-artistico. La Storia dell’arte italiana intendeva essere un’opera di
riferimento per la formazione del pubblico e dei giovani studiosi, voleva creare una
base condivisa di conoscenze del patrimonio artistico nazionale. Corrado Ricci si
trovò a essere il protagonista incontrastato dell’amministrazione delle belle arti.
Alla sua attività come funzionario e organizzatore Ricci affiancò tuttavia una
ininterrotta produzione in campo storico-artistico, che agevolmente collegava
dato archivistico, ricostruzione dei contesti storici e analisi stilistica, in larga
parte dedicata a una seria divulgazione, scientifica e informata, indirizzata
verso un crescente pubblico interessato all’arte e alla sua storia. Negli anni
successivi le sedi italiane vennero conquistate dagli allievi della scuola di Roma
non solo nel ruolo di direttori e soprintendenti ma anche in quello più modesto di
ispettori.
“For connoisseurs”. La storiografia artistica in Gran Bretagna
Nel marzo 1903 a Londra uscì il primo numero del Burlington Magazine.
Magazine for Connoisseurs. Nell’editoriale del 1903 si sottolineava come il
nuovo periodico si prefiggesse l’obiettivo di superare finalmente una curiosa
e vergognosa anomalia, vale a dire che la Gran Bretagna, unica tra tutti i
paesi europei colti, sia sprovvista di un periodico che faccia dello studio serio e
disinteressato dell’arte antica la sua principale occupazione. Nel Regno Unito,
l’inserimento della storia dell’arte tra i corsi universitari procedeva con
difficoltà. Solo nel 1869, grazie al collezionista Felix Slade, furono aperti tre
insegnamenti dedicati alle belle arti. L’insegnamento era organizzato in una serie di
conferenze pubbliche, fu assegnato a critici “militanti” come John Rusckin, che
insegnò a Oxford. Più attento ai modelli continentali appariva il lavoro svolto nei
musei, in particolare alla National Gallery da Eastlake: con le sue clamorose
acquisizioni effettuate durante i viaggi in Italia aveva notevolmente incrementato il
patrimonio museale, la direzione fu affidata al pittore William Boxall. Il nuovo
direttore, malgrado le maggiori difficoltà dovute all’incremento dei prezzi sul
mercato e a un maggiore controllo da parte del giovane Stato italiano, riuscì
in parte a continuare la politica degli acquisti del predecessore. Negli anni
80 dell’Ottocento la National Gallery diventò una istituzione impegnata ad
acquisire opere provenienti dalle collezioni private britanniche.
Tuttavia riuscirono a comprare solo una piccola parte delle collezioni in partenza.
Intanto gli studi storico-artistici della tarda età vittoriana, diversamente dai decenni
precedenti dominati dal gusto preraffaellita, erano caratterizzati dalla
pubblicazione di una serie di monografie dedicate ai grandi maestri del 500.
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La disciplina si consolida e si specializza
Dalla connoisseurship alla critica stilistica
I conoscitori, tra gli storici dell’arte, seguivano a essere numericamente in
maggioranza ancora nella prima metà del Novecento. Il profilo professionale degli
studiosi impegnati a identificare autografie e autenticità delle opere d’arte si era
andato precisando nel secolo precedente. L’espansione della disciplina nelle
università, oltre che nei musei, accelerò il processo di ampliamento degli strumenti
metodologici, in atto da qualche tempo. In seguito alla Grande Depressione tra
il 1929 e il 31, si era verificata una crisi della connoisseurship provocata da
una sterzata del mercato dell’arte per diffidenza. Si cominciò così a creare e a
battezzare con nomi di vario stile, ora poetico, ora tecnico, ipotetiche personalità
da far vivere ai margini e sotto l’influsso delle personalità storiche di maggior
risalto (nacquero così l’Amico di, il maestro del, scuola …). Friedlander, contrario
al metodo morelliano, cercò di definire i metodi più corretti per raggiungere il
massimo di concretezza attributiva. L’occhio restava comunque il protagonista di
primo piano, l’immagine del dipinto, irrompendo nell’immenso archivio
mnemonico che l’esperto aveva dovuto creare, portava al riconoscimento dello
stile e della composizione di un determinato artista. Legato all’attività museale,
aveva verificato quale contributo all’identificazione di un artista potesse
venire anche dalle conoscenza delle tecniche, dei supporti, della materia, dei
restauri. Elementi che consentivano di fare luce sulle zone autografe di un
dipinto rispetto a quelle integrate, come a distinguere i falsi dagli originali.
Friedlander, tuttavia, riconosceva all’occhio, qualche limite, perché era
inevitabilmente condizionato dal clima di un’epoca. Le fonti e anche l’occhio
dovevano superare un esame sottoposto a prove incrociate.
Molti tra i più sofisticati falsari furono identificati solo anni, se non decenni dopo
la loro morte, qualcuno tuttavia fu costretto a disvelarsi, in vita, a causa di un
processo per alto tradimento nell’Olanda liberata dal nazismo: Han Van Meegeren
fu autore di una delle truffe più clamorose del 900: la produzione di una serie di
Veermer creduti autentici; egli creò dal nulla un periodo di mezzo nell’attività
dell’artista e per difendersi dall’accusa di collaborazionismo, il falsario dovette
dimostrare di saper dipingere un quadro assolutamente identico. E si salvò. Oggi
sarebbe improbabile scambiare un Veermer con un Van Meegeren perché, diceva
Friedlander, ogni tempo ha occhi diversi nell’osservare un’opera d’arte.
Tra gli storici dell’arte che volevano vincere la sfida dei falsari, vi era Bernard
Berenson, il sommo pontefice dei conoscitori che affermava ci si dovesse fidare
dell’occhio, di una vasta conoscenza dello stile e della cultura del tempo, ma
anche di quell’intuizione in cui non pochi esperti avevano massima fiducia. Egli si
valeva del metodo morelliano e non attribuiva importanza ai supporti, alle materie
e alle tecniche. Per lui, l’opera era essenzialmente immagine da osservare
rigorosamente dal vivo: se in principio era la congettura, attivata dall’intuizione,
l’orientamento finale seguiva comunque l’istinto. Nulla, a suo parere, poteva
offrire certezze se non la qualità e lo stile. Il medievista Toesca, con Berenson
condivideva la certezza che fosse necessario arrivare alla percezione estetica
delle opere, per scongiurare il determinismo che, ancora tra le due guerre,
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assediava la cultura europea. Coniugò la migliore tradizione della
connoisseurship italiana, a partire da Luigi Lanzi fino a Cavalcaselle, con una
vasta e attenta conoscenza delle scelte metodologiche e operative più articolate e
innovative. Come Cavalcaselle, percorreva i territori in cui si trovavano le opere
che studiava, accumulando annotazioni, schizzi e moltissime foto. Toesca aveva
elaborato un metodo comparativo tra gli oggetti di studio e opere coeve a livello
europeo, che gli garantiva una visione d’insieme. Una scelta che gli consentiva di
adottare, all’occasione, anche il metodo morelliano senza incorrere nei rischi di
uno sterile meccanismo.
Longhi costruì i suoi punti di riferimento reagendo con molta vivacità e
prontezza, al contesto in cui si trovava a operare. Si sentiva in sintonia con
Cavalcaselle piuttosto che con Morelli, di cui corresse alcune attribuzioni, non era
un conoscitore nel senso tradizionale della professione, il suo primo
obiettivo era rintracciare l’intuizione profonda che aveva portato un artista a
definire una certa opera, circoscrivendo la sua cultura. Ricomponeva nuclei di
dipinti in rapporto tra loro e in dialogo con un orizzonte culturale più ampio. Ogni
indagine muoveva dalla storia della critica, dalla fortuna o sfortuna di un’opera, di
un autore, di un’area culturale. Con Officina Ferrarese, libro sollecitato dalla
memorabile mostra del 33 Longhi ricostruì le relazioni di una generazione di
artisti attivi in una città culturalmente unica. I suoi studi miravano a
rintracciare le tante manifestazioni anticlassiche che avevano segnato la cultura di
Quattro e Cinquecento. Aveva individuato anticlassicismo nella grammatica
stilistica di Mantegna, ancor più in Romanino, e perfino in Andrea del Sarto.
Il suo interesse maggiore si rivolgeva ai pittori eccentrici. Gli interessava far
emergere la qualità di astisti considerati marginali perché estranei ai canoni
novecenteschi. I suoi erano saggi di storia che ricostruivano spostamenti,
presenze, assenze, intrecci, orizzonti culturali, individuati quasi esclusivamente
attraverso una sola fonte, il dipinto stesso; lo stile, la composizione, la
materia erano i suoi strumenti. Longhi raggiunse una folgorante equivalenza tra
immagini e scrittura, in questa operazione aveva fatto tesoro delle sollecitazioni
offertegli dalla prosa di Fromentin, le cui ekphrasis caratterizzavano in modo
fulmineo lo stile di un maestro, anche minore. La filologia, classica e romanza,
attraversava una fase di grande sviluppo in Europa. La messa a punto dei
modelli metodologici e delle tecniche di analisi ebbe frequenti ricadute anche in
settori limitrofi delle scienze umane. I critici dello stile, in particolare, prestarono
grande attenzione alle innovazioni elaborate dai filologi. Pasquali, filologo
classico, esercitò un notevole ascendente sugli esperti conoscitori, egli
sottolineava la necessità di osservare un testo collegandolo al suo tempo storico e
individuando le modalità della sua trasmissione. Ne studiava non solo, quindi, le
qualità letterarie o narrative, ma la sua specificità di documento che aveva
attraversato un tempo lungo e denso di imprevisti.
La maggior parte dei critici dello stile, anche stranieri si occupava di arte
italiana, con preferenza per il Rinascimento, non pochi di arte fiamminga e
olandese, in numero ancora limitato di arte francese, tedesca e spagnola. Suida era
un conoscitore che lavorò a Vienna e negli Stati Uniti, aveva iniziato a
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interessarsi della cultura visiva dell’area lombardo-veneta quando ancora
faceva ricerca a Firenze presso l’istituto Germanico, ai primi del secolo. Non
rilevante, ma curiosa è la coincidenza anagrafica tra Longhi e altri due conoscitori
dai grandi meriti per la disciplina: Arthur Ewart Popham e Wilde, il secondo fu
considerato uno dei massimi conoscitori di arte rinascimentale italiana.
Popham, dal canto suo, si era specializzato nella
assai complessa connoisseuship della grafica, soprattutto di Quatto e Cinquecento,
sia nordica che italiana.
A testimonianza di quanto ampia fosse la sua esperienza nel campo dei
disegni, lo studioso arrivò a pubblicare un prezioso manuale di grafica, dove
trattava opere di ogni scuola, non solo fiamminghi e italiani. Allo studio degli
artisti affiancò lo studio dei collezionisti di grafica.
La grammatica delle forme: pluralità di percorsi
Già prima del 1939 si era fatto ricorso al verbo rivelare per cogliere il punto della
mediazione tra un esperto e il suo pubblico. Nella prima metà del XX secolo era
numericamente cresciuta la partecipazione alle mostre e ai musei e l’interesse
per un’editoria divulgativa. La figura dell’intermediario era divenuta sempre
più richiesta. Roger Fry cambiò il gusto del suo tempo con i suoi scritti, alterò la
corrente della pittura inglese con la sua difesa dei postimpressionisti, accrebbe
smisuratamente l’amore per l’arte con le sue conferenze.
Egli aveva inizialmente operato come conoscitore, si era nutrito dei testi di Morelli
e si era avvalso della frequentazione di Berenson,; nella sua teoria il contenuto
viene interamente rimodellato dalla forma. Non si possono sottovalutare i fermenti
sprigionati dalle coeve sperimentazioni delle avanguardie artistiche: era la stessa
produzione artistica a indurre non pochi critici e storici dell’arte a elaborare
linguaggi e concetti capaci di interpretare e restituire con parole le inedite
forme del fare e del vedere percepibili essenzialmente in virtù dell’empatia.
Fry aveva come obiettivo primario quello di indirizzare il pubblico inglese
verso una più moderna sensibilità artistica. Nonostante le inevitabili resistenze
culturali, le provocazioni messe in campo dal critico con mostre, conferenze e
saggi arrivarono lentamente a far breccia nel tradizionalismo dei suoi connazionali.
Vision and Design confermava anche la diffusa disposizione della critica
contemporanea, Fry compreso, a stabilire corrispondenze tra la creatività
degli antichi maestri e quella degli artisti delle avanguardie novecentesche.
L’esperienza estetica come esperienza morale del mondo che pervadeva la critica
di Fry e di Bell, coinvolse altrettanto profondamente la critica d’arte del britannico
Herbert Read con un volume che ebbe, per alcuni decenni, un forte riscontro
internazionale come The Meaning of art del 1931: avvertì l’urgenza di collegare a
una dimensione sociale gli interrogativi e le teorie estetiche che si dibattevano
nei decenni tra le due guerre, superando anche l’antitesi, tanto pervasiva, tra
forma e contenuto. Read non aderì semplicemente alla Significant Form di Clive
Bell e di Roger Fry, ma la elaborò per arrivare a definire una forma relativa,
intendeva così saldare forma e contenuto. Distingueva tra forma estetica e forma
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artistica, due diversi stadi dell’essere e dell’agire dell’uomo; insistette con
convinzione sul valore catartico dell’educazione attraverso
l’esperienza artistica per superare la brutalità, frustrazioni, alienazioni. Anche il
pontefice dei conoscitori Bernard Berenson, abbandonando progressivamente
l’ortodossia morelliana nel corso del primo Novecento, contribuì con fertili
sollecitazioni alle analisi dei formalisti. Elaborò un concetto riassumibile con le
due parole valori tattili, il cui senso non si distanziava poi molto dall’indicatore
critico prescelto da Fry e da Bell, la forma significante. Tuttavia se quest’ultima
alludeva a una qualità estetica interna alle opere, i valori tattili erano attivati
nell’osservatore proprio da quella qualità. Un pittore che dopo generazioni di
semplici produttori di simboli, illustrazioni e allegorie, ha il potere di
restituire il senso materico degli oggetti che dipinge, deve aver avuto, come
uomo, un senso profondo del loro significato. La pittura per sua natura è un’arte
bidimensionale, e all’artista spetta di comunicare al pubblico la percezione
della terza dimensione attivando valori tattili, egli deve dare l’illusione di
poter toccare la figura così da accettarla come realtà, e restarne toccati in
maniera durevole. Per Read Giotto aveva questa capacità.
Un altro grande protagonista della critica stilistica del Novecento, Roberto Longhi,
certamente più vicino a Berenson, nonostante i frequenti dissensi, che non a Fry,
dichiarava la sua adesione alle posizioni idealiste. Se ci si sottrae alla tentazione
di pensare a categorie critiche quali formalismo, connoisseuship e via
dicendo, come a processi autoreferenziali e inevitabilmente contrapposti emerge
una pluralità di tangenze inaspettate. L’attenzione verso il pensiero di Croce
stava conquistando una dimensione internazionale, Longhi comunque non
aveva mai limitato il suo impegno teorico alle pagine di estetica del filosofo
napoletano, in quanto trovava altrettanto ricche di stimoli le pagine di Fiedler, di
Riegl, di Wofflin di cui apprezzava in particolare il progetto di una storia dell’arte
senza nomi. Per Longhi giovane l’opera d’arte era pura forma dotata di un
insuperabile potere espressivo ma estranea a qualsiasi narrazione letteraria. I quadri
erano per Longhi la traccia, l’orma lasciata dallo spirito nel suo passaggio.
A coniugare ancora una volta Croce con Berenson e con un deciso interesse per il
purovisibilismo, operò anche Lionello Venturi che, in prima istanza, si autodefiniva
comunque un conoscitore. Egli si specializzò sempre più nello studio dell’arte
contemporanea, con particolare attenzione sia agli aspetti teorici ed estetici
che filologici. Delle proposte di Berenson, Lionello recuperava la distinzione
fra illustrazione e decorazione, dove il primo termine faceva riferimento alle
componenti psicologiche e drammatiche riscontrabili in un’opera d’arte, mentre
il secondo stava per arte nella sua essenza. Sulle affinità creative tra mondi
cronologicamente tanto distanti, Venturi diede alle stampe Il gusto dei
primitivi con un intero capitolo dedicato a Ruskin. Il gusto, per Venturi, risultava
dalla sintesi delle preferenze che un artista, o un gruppo di artisti, manifestava nei
confronti della cultura visiva del proprio tempo o di altri momenti storici.
Il gusto metteva in luce quei fattori che legavano, quindi gli artisti alla
propria epoca. Nel sistema di riferimenti di Venturi, il pensiero di Croce
divenne un terreno di confronto continuo, nonostante alcuni fattori di dissenso
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rendessero non semplici i rapporti tra i due, fece suo un assunto di Croce che
affermava che storia e critica fossero due momenti che non potevano essere
disgiunti. Croce però non transigeva su una questione cruciale per molti storici
dell’arte, Venturi e Longhi compresi: la totale autonomia del linguaggio
visivo, il filosofo napoletano cercava nella pittura la pura esteticità. Venturi
apprezzava molto la teoria degli schemi della visione tracciata da Wofflin, ma
con una riserva: quegli schemi non dovevano intendersi come categorie
estetiche, quanto piuttosto come mezzi pratici per orientarsi nel gran mare
dell’arte, modi di intendersi. Venturi era tra l’altro un convinto critico militante
radicato nel mondo degli artisti viventi. Il suo percorso storico e teorico
mirava a definire i parametri più coerenti per esprimere giudizi di valore.
Nonostante l’impegno di numerosi studiosi attenti ai valori della modernità
sperimentale e d’avanguardia, in pochi paesi europei la cultura ufficiale
seguitava a celebrare il classicismo e la tradizione, in senso contrario si
andava muovendo il clima culturale negli Stati Uniti in cui si era lentamente
affermato un forte interesse per le tendenze più innovative che venivano da Parigi,
eletta a cuore pulsante di ogni forma di progresso. A NY si erano aperte
importanti gallerie private, impegnate a esporre artisti e fotografi
d’avanguardia. Nel 1929, nonostante la grande crisi in atto, un gruppo di signore
delle più facoltose famiglie newyorchesi, si impegnarono a finanziare un nuovo
museo interamente dedicato all’arte contemporanea, il MOMA. Le sale del
MOMA erano rigorosamente chiare e molto ben illuminate, i quadri disposti su un
unico registro e distanziati l’uno dall’altro, inseriti in cornici piuttosto semplici.
Una scelta che rivelava un indirizzocritico orientato a offrire al pubblico opere da
osservare e godere nella loro essenzialità formale per le loro linee, colori, tonalità,
fuori da ogni contesto. Il Nord America gradualmente diventò un nuovo
polo di attrazione per il vivace clima culturale, per il collezionismo dovuto al ceto
imprenditoriale emergente e per scappare dai regimi totalitari degli anni Venti.
Non fu solo venturi a recarsi qui, ma anche Focillon: il suo formalismo si
sottrae a qualsiasi tentativo di definizione, le due analisi si concentravano sugli
aspetti formali delle opere, ma rifuggiva da cedimenti metastorici. Lo studioso
tornò più volte sulla centralità della cronologia e sulla natura del tempo storico. Le
stratificazioni, le tangenze, le assonanze, le differenze, gli scarti trovavano
origine nella convergenza di fattori molteplici. L’immagine ultima di un’opera,
quindi la sua forma, era condizionata dai materiali, dalla tecnica, dalla destinazione
d’uso, perfino dal caso e naturalmente dalle capacità creative degli artisti e delle
maestranze. Diffusa era la certezza tra gli storici dell’arte di varie tendenze che
ogni epoca fosse connotata da uno stile che ne esprimeva lo spirito più profondo
e pervasivo; per Focillon anche il tempo degli stili artistici era soggetto alle stese
stratificazioni, fratture, accelerazioni e lentezze del tempo storico. Tempo e spazio
erano al centro delle sue riflessioni, come la nozione di forma che non
abbracciava tuttavia la dimensione metafisica anche quando sfiorava gli
aspetti spirituali. Come altri storici dell’arte della sua generazione, Focillon
aveva trovato un punto di riferimento ideale nell’estetica di Ruskin e nella
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spiritualità di Bergson; scarso interesse aveva per Croce con il quale però
condivideva la ripulsione verso i nazionalismi.
Egli iniziò a occuparsi di storia dell’arte medievale nel 1924, il suo
interesse era comprendere i principi fondamentali che regolavano la scultura
romanica individuando le tecniche pilota come quella dei capitelli animati da
immagini zoomorfe, antropomorfe e vegetali che manifestavano uno stile costretto
ad adeguare figurazioni alla forma architettonica: il riconoscimento del legame
tra struttura architettonica e opere andava sollevando una decisa critica alla
crescente tendenza a favorire la musealizzazione dei dipinti e delle sculture già
appartenenti a edifici di culto, come pure dei tanti affreschi staccati. Egli afferma
anche il diritto
degli storici dell’arte a essere riconosciuti i soli in grado di gestire e rinnovare i
musei in virtù delle loro competenze: la più ricca testimonianza del dibattito
in atto e della propensione a adeguare le strutture interne dei musei alle
richieste di una società in trasformazione è la conferenza internazionale dei musei
tenuta a Madrid nel 1934 in cui Focillon fu uno dei maggiori interpreti. Wofflin
nell’affrontare la trasformazione delle forme artistiche tra XVI e XVII secolo
(dal Rinascimento al Barocco) non voleva fare una storia empirica dell’arte, bensì
una teoria trascendentale dell’arte; una storia non tanto delle opere e degli artisti
quanto delle categorie, o schemi della visione che avevano supportato la creazione
di certe opere da parte di quei certi artisti. Definiva il Rinascimento lineare
e il Barocco pittorico e ribadiva che lo stile barocco era quello che più incarnava
lo spirito nordico, anticlassico, oltre i limiti; così l’arte barocca si andava
emancipando da quella riprovazione culturale che per lungo tempo l’aveva
accompagnata.
Il metodo storico nel cuore della ricerca
In seguito alla Grande depressione, la connoisseurship conobbe una fase di
crisi. I grandi collezionisti cominciarono a diffidare delle attribuzioni, i loro
occhi si posarono sulle più luminose, più accessibili e in linea di massima
sicuramente più autentiche opere degli impressionisti. Nell’intervallo di tempo tra
calo e ripresa stava sorgendo una moda degli studi iconografici. Nel 1912
usciva a Parigi un libro La peinture d’histoire en France de 1747 a 1785 di
Jean Locquin che aveva aggirato la consuetudine a enfatizzare la personalità
degli artisti,infrangendo la consolidata certezza che le innovazioni stilistiche e
culturali fossero prodotte dalla genialità di singoli artefici. Dimostrava, al
contrario, che esse erano il risultato di vicende lunghe e corali. Loquin era
giunto a sostenere che il rigore stilistico cui certa pittura francese di fine
settecento era stato attivato da artisti britannici già in pieno 700.
Nei primi decenni del XX secolo stava maturando una notevole spinta
all’innovazione delle discipline storiche. Energetiche furono le sollecitazioni
provocate da discipline in forte espansione come la sociologia, l’antropologia, la
filologia, la storia della cultura. Si pensi a Weber, Durkheim, Lamprecht, Taylor. In
Francia Febvre e March Bloch avevano colto e sintetizzato i tanti stimoli e
dato vita al periodico degli Annales d’Histoire Economique et Sociale nelle cui
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pagine si sperimentava una ricerca multidisciplinare. Una rivista, destinata a
segnare la storiografia occidentale di tutto il 900. Male scriveva in quella
rivista parlando dell’interpretazione del pensiero religioso all’interno delle
cattedrali che andavano analizzate come il cuore vivente del mondo medievale,
l’enciclopedia dei saperi di un’intera epoca. le opere tuttavia parlavano solo se
osservate nei loro contesti, non nei musei. In Olanda Huizinga cercava nei secoli
XIV e XV non gli albori del Rinascimento ma il tramonto del Medioevo,
l’autore faceva emergere le idee, i sentimenti,le manifestazioni che avevano
caratterizzato la società e le relative forme con cui la letteratura e l’arte
avevano segnato lo stile di vita. Il passaggio tra le due età era stato graduale e per
nulla lineare. Gronau lavorava essenzialmente sui documenti d’archivio e sulle
fonti per accrescere e convalidare con dati certi la paternità delle opere e i
contesti in cui venivano prodotte. “prima conoscitori, poi storici” costituiva
la bussola negli studi di Piero Toesca che procedeva alla ricostruzione storica
attraverso il riconoscimento stilistico e la ricerca iconografica, quindi
rincorreva anche i contesti, sosteneva che il momento della percezione
estetica non potesse essere disgiunto da quello della ricostruzione storica;
egli scrisse Il medioevo: uno studio di carattere generale ripartito in tre ampie
scansioni cronologiche, individuate sulla base della loro coerenza culturale.
Un’opera che metteva a fuoco una periodizzazione interna a quel vasto contenitore
che era il Medioevo. Toesca condivideva esplicitamente il rifiuto elaborato
da Riegl del concetto di decadenza stilistica. La prima fase del medioevo, per il
quale non si poteva comunque scrivere di arte italiana ma di arte in Italia, aveva
inizio con la pittura delle catacombe. In quell’arco di tempo l’arte era il risultato di
un’attività collettiva in cui l’individualità si perdeva nell’operosità comune e i
mutamenti erano lentissimi. Il secondo periodo, tra il IX e il X secolo,
corrispondeva a una produzione in Italia e non ancora italiana, ed era soprattutto
contraddistinto da forti lacune. Nella produzione artistica tra l’anno mille e il
duecento, si potevano riconoscere, finalmente, gli elementi di un’arte italiana. Il
rinnovamento aveva avuto inizio nel Trecento, grazie all’irrompere di forti
personalità artistiche. L’apice della consapevolezza metodologica, Toesca lo
raggiunse nel 1912 pubblicando la pittura e la miniatura nella Lombardia. Prima
del volume di Toesca, dell’arte lombarda di quel periodo si conosceva così
poco che da parte sua Courajourd poteva sostenere che il Rinascimento non
era esclusiva prerogativa italiana e che il gotico internazionale fosse uno stile
prettamente francese. Invece la Corte di Ludovico il Moro di Malaguzzi Valeri era
un’impresa di autentico stampo positivista, egli aveva censito con grande impegno
gli archivi lombardi per raccogliere documenti con cui ricostruire le attività
culturali della corte nella seconda metà del 400. Quando divenne direttore della
Pinacoteca di Bologna riallestì la pinacoteca in stile d’epoca, modello che era
messo in crisi da chi preferiva l’allestimento di opere e silenzi.
Mesnil era favorevole a una storia culturale dell’arte e nel 1915 lanciò una sorta di
j’accuse nei confronti della storiografia artistica tedesca. I tedeschi erano
campioni nella raccolta sistematica di documenti d’archivio destinati a
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ricostruzioni prive di interpretazioni e alla compilazione di asettici cataloghi di
opere.
Contestava però anche il concetto di scienza dell’arte tanto radicato in Germania.
Solo un’assoluta libertà di giudizio e capacità di costruire un legame tra le opere
poteva condurre a risultati interessanti. Mesnil era legato alla biblioteca di
Warburg.
Dvorak non cercava di costruire modelli sistematici, piuttosto spingeva per un
ampliamento degli strumenti di ricerca, condannando la pervasività della
storiografia positivista, ne registrava la crisi in atto. Si dalle opere giovanili
aveva coniugato la profonda esperienza di conoscitore con la capacità di leggere i
processi ininterrotti e autonomi degli aspetti formali mettendoli in relazione
con la storia sociale e culturale. Il collegamento tra arte e contesto economico
nelle pagine dello studioso viennese non sfociava in una storia sociale. A Lui
stava piuttosto a cuore la storia delle idee: la Geistesgeschichte. Uno dei
suoi volumi più fortunati Idealismo e naturalismo nella scultura e pittura gotica
scritto tra il 1915 e il 1917 fu considerato un pilastro della storia dell’arte di quei
decenni. Un’opera sul medioevo in cui non risparmiava critiche a chi
azzardava interpretazioni sotto l’impulso di motivazioni ideologiche. Per
intendere il Medioevo era indispensabile procedere alla comprensione dei
principi della figurazione dell’epoca, liberandosi dei moderni paradigmi
classici e rinascimentali. Un libro, il suo, che contraddiceva radicalmente
anche la visione del Rinascimento di Burckardt, come pure di chi vedeva nel
Medioevo una cultura costruita dalla collettività. Anticipava,infatti al XII secolo,
allo spiritualismo cristiano dell’età di mezzo, l’affermarsi del concetto di
personalità. E in seguito, con Giotto, si era affermato uno stile ideale eroico
grazie alla padronanza della raffigurazione dello spazio e alla capacità di costruire
coinvolgenti azioni drammatiche. Il pittore aveva reso l’arte non solo
espressione ma fonte primaria della Weltanschauung (visione del mondo).
Dvorak segno profondamente anche la percezione del Manierismo, lo studioso
affrontava la figura di El Greco. Schlosser ebbe il merito della realizzazione di
una storia della letteratura artistica quanto mai ampia e dettagliata, apportò un
profondo mutamento al concetto stesso di fonte. Prestò attenzione non solo alle
informazioni contenute nei testi ma anche alle implicazioni teoriche ed estetiche
implicite dei documenti dei contesti storici di provenienza. Il libro divenne
una storia della storiografia e della teoria dell’arte dall’antichità fino alla fine
del 700 “concepito con spirito filosofico” per trasformarsi “nel passare ai tempi
più recenti in una storia della nostra disciplina”. Con Vienna e i suoi studiosi
ebbero solidi legami gli storici dell’arte attivi ad Amburgo nel secondo e terzo
decennio. Ad Amburgo risiedevano Warburg e la sua biblioteca, ma i rapporti
con la capitale asburgica furono costruiti dal suo assistente, Fritz Saxl. Allievo di
Dvorak e Schlosser, Saxl aveva conosciuto Warburg nel 1911, nel 1913 ne
era divenuto assistente. Saxl costruì collegamenti immediati, coinvolgendo sia il
filosofo Cassirersia Panofsky. Cassirer stava lavorando a una complessa
riflessione filosofica sulle forme simboliche. Con forme simboliche faceva
riferimento a quelle rappresentazioni mentali che collegavano un significativo
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contenuto spirituale a un concreto segno sensibile. L’uomo “animal symbolicum”
non poteva sottrarsi alle forme e traslitterazioni dell’esistenza da li stesso create.
Con Cassirer era entrata nell’Istituto anche una sua laureata Gertrud Bing che legò
la sua vita all’istituzione con ruoli diversi ma sempre centrali. L’attività di Saxl era
volta a promuovere una tipologia di ricerche coerenti: osservare l’antichità,
medioevo, età moderna come una trama ininterrotta di eventi, come un
processo evolutivo che dall’umanesimo greco conduceva alla rinascita
dell’antichità del Rinascimento. Nei primi anni 20 si poteva iniziare a parlare di
un solo embrionale cultura warburghiana, ma dopo la diaspora in Gran Bretagna
e negli USA- seguita alle leggi razziali naziste del 1933- il profilo del
gruppo trovò un minimo comun denominatore. Per tutti le immagini costituivano
l’avvio della ricerca e per arrivare a una interpretazione condivisibile si scavava
nella complessità e articolazione dei contesti, nella cultura letteraria coeva, nella
filosofia, nella simbologia condivisa, nelle allegorie dominanti. Le forme erano
portatrici di significati. Quando nel 1924 Warburg uscì dalla clinica seguitò a
occuparsi di immagini, nella gestualità dei riti dei Pueblo, come nelle
espressioni dell’arte classica, aveva riconosciuto le tracce affievolite e
sublimate di azioni ben più vigorose compiute nel passato. Una teoria che trovava
supporto in Charles Darwin. Il tema del simbolo era in questa dimensione
primitiva quanto mai centrale. Immagine e significato divenivano un’unica cosa.
Degli ultimi anni della sua vita è rimasta un’opera incompiuta, Mnemosyne,
nel progetto di questo atlante figurato doveva mostrare come i diversi paesi
e le diverse generazioni, l’Oriente mediterraneo del Medioevo europeo, il
Rinascimento italiano e tedesco e infine la generazione e la cerchia di
Rembrandt abbiano successivamente concepito l’eredità patetica dionisiaca
dell’antichità. Nell’ottobre del 1929 Warburg morì e Saxl e Panofsky
seguitarono per qualche tempo la proficua collaborazione avviata già nel 1923,
quando avevano dato alle stampe un saggio a doppia firma sulla Melancolia I di
Durer. Nel 1933 tornarono a pubblicare insieme un testo particolarmente
impegnativo, Classical Mytology in Medieval Art. Non più in tedesco ma in
inglese e sul periodico newyorkese “Metropolitan Museum Studies”. La tesi
di fondo puntava a dimostrare la sopravvivenza dell’antico nel Medioevo,
condizionata dall’adattamento degli ideali classici ai contesti culturali mutati. Nei
confronti della trasmissione dell’antico si arrivava a una sorta di disgiunzione tra
forma e contenuto. Nel rinascimento era stata trovata una nuova sintesi grazie
al recupero della tradizione mitologica antica congiunta a quella scientifico-
astrologica che le culture arabe e orientali avevano contribuito a preservare. Le
vicende politiche molto travagliate della Germania postbellica erano precipitate
con la vittoria, alle elezioni, del partito nazista. Saxl ebbe la percezione
immediata del pericolo e riuscì a convincere la famiglia dei Warburg a
trasferire la Biblioteca a Londra. Mentre quindi la disciplina delle due nazioni
anglofone si avviava a vivere una fase culturalmente vivacissima, legata
all’innesto di esperienze differenti, la Germania nazista come l’Austria
collaborazionista si avviavano a un drammatico isolamento, anche se nel
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paese erano rimasti intellettuali prestigiosi come Scmarsow che dopo la guerra fu
colpito da una forma di damnatio memoriae.
Alcuni studi di Pinder restano ancora oggi molto interessanti per il lavoro teorico
sul tema delle generazioni nella storia della produzione artistica. Le generazioni
non si susseguono ma convivono e questo da un canto incrinava le tesi di chi
riduceva la storiografia a un continuo susseguirsi di scelte e superamento
delle stesse.
Wackernagel sottolineava il grande merito di Aby Warbug nell’aver messo a fuoco
già nel 1902 come nel primo rinascimento fiorentino le opere d’arte dovessero la
loro origine al concorso di committenti e artisti. La nozione di contesto si
animava di vita vissuta e le opere acquistavano concretezza grazie
all’appartenenza al luogo cui erano destinate. “I fattori determinati e
fondamentali per la produzione dell’opera d’arte si trovano fuori dello studio
dell’artista”. I committenti e le istituzioni emergevano come elementi centrali nella
genesi delle opere in quanto espressione di una società con un reale bisogno di arte
che l’artista era chiamato a soddisfare.
Diaspore e rinascite intorno al 1945
Stati Uniti: proficui innesti culturali tra profughi e studiosi locali
Stati Uniti: proficui innesti culturali tra profughi e studiosi locali
Cook nella New York University fu particolarmente preparato a cogliere
l’opportunità che il nazismo, involontariamente, stava offrendo al Nuovo Mondo
e sosteneva che Hitler era il suo miglior collaboratore perché scrollava l’albero e
lui raccoglieva le mele.
Prima di arrivare negli USA Panofsky aveva dato alle stampe nel 1927 La
prospettiva come forma simbolica in cui sosteneva che i vari sistemi
prospettici succedutisi nel tempo costituivano, in realtà, una forma simbolica
attraverso cui prendevano forma differenti percezioni del reale: un modello
ermeneutico, quello di Panofsky, che doveva molto alla definizione di
Weltanschauung di Dvorak. Successivamente in piena esperienza americana
pubblica Studies in Iconology in cui affermava che l’iconologia è quel ramo
della storia dell’arte che si occupa del soggetto o significato delle opere d’arte
contrapposto a quelli che sono i loro valori formali. Indicava tre fasi distinte nella
ricerca del significato di un’opera: analisi pre-iconografica, analisi iconografica,
analisi iconologica. Nel 1940 lo studioso tornò con ancora maggiore chiarezza sul
tema, in un saggio dal titolo programmatico: la storia dell’arte come disciplina
umanistica, egli faceva riferimento alla distinzione tra soggetto (il livello in cui si
esplicava il riconoscimento iconografico) e contenuto (il livello del ragionamento
iconologico). Il contenuto poteva svelare l’atteggiamento di fondo di un popolo,
di un periodo, di una classe, di una convinzione religiosa collegati per
qualche verso alla creazione di quella stessa opera. Panofsky non nascondeva
un chiaro fastidio anche per le tesi che attribuivano alle strumentazioni
scientifiche, come la chimica dei materiali, i raggi X, i raggi ultravioletti e
quant’altro, un supporto per la comprensione delle opere d’arte. Il loro apporto
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restava naturalmente fondamentale per la conservazione. Negli Stati Uniti egli
scrisse La pittura primitiva dei Paesi Bassi e Rinascimento e rinascenze nell’arte
occidentale, sia il primo che il secondo volume sono il frutto di due cicli di
conferenze tenuti in prestigiosi centri di ricerca. L’autore per arrivare a
comprendere le origini della pittura fiamminga aveva iniziato dall’analisi dei
manoscritti miniati in Francia e Fiandre. Rinascimento e rinascenze si può
sintetizzare nel principio di distacco e di ricomposizione. Ogni volta che nel
maturo o tardo Medioevo un’opera prendeva a prestito uno schema da un
modello classico a questo schema si attribuiva, di norma, in significato non
classico, solitamente cristiano. Tra il XII e il XIII secolo l’arte medievale rese
l’antichità classica assimilabile per via di decomposizione. Il rinascimento
italiano invece avrebbe reintegrato gli elementi separati. In Tre decenni di Storia
dell’arte negli Stati Uniti ricostruiva lo stato della storia dell’arte in Germania e
in America già prima della guerra, per mettere meglio in risalto i caratteri
della contaminazione tra le due tradizioni: un invito a osservare i problemi in una
visione dilatata e complessiva.
Ininterrotti furono i collegamenti che gli storici dell’arte immigrti mantennero con
il Warburg and Courtauld Institute e il relativo Journal. Molto attenta a quanto
avveniva in Europa era anche la rivista americana Art Boulletin fondata nel 1913 e
diretta da Panofksy.
Chi immigrava si spostava da un’università all’altra in relazione all’interesse
suscitato dai propri studi. Forse, oltre Panofsky, solo lo storico dell’architettura
medievale Frankl restò sempre a Princeton. Egli seguitò a occuparsi di
architettura gotica con un accentuato interesse per le fonti e i commentari.
Meiss nel suo fecondo lavoro di ricerca dosò con grande equilibrio il rigore
filologico della connoisseurship di uno dei suoi maestri, Richard Offner con un
metodo che incrociava iconologia e storia delle idee. Pittura a Firenze e
Siena dopo la morte nera era stata provocata dagli interrogativi che il
giovane studioso si era posto riscontrando il mutamento di linguaggio e anche di
scelte iconografiche avvenuto nella pittura fiorentina e
senese tra il 1350 e il 1375. Mentre i pittori del primo trecento avevano fatto
scendere i personaggi sacri sulla terra, quelli del terzo e quarto secolo li avevano
nuovamente proiettati molto in alto. Il naturale e il soprannaturale non si
incontravano più. Quel cambiamento improvviso e arcaizzante di metà secolo
coincideva con il flagello della Peste Nera. Unificante, nelle generazioni scosse
dalla guerra, una sensibilità diffusa per la conservazione, per la salvaguardia del
patrimonio. Non pochi storici dell’arte si impegnarono in prima persona e Millard
Meiss fu particolarmente attivo su questo fronte. Nell’immediato dopoguerra aveva
fatto parte dell’American Committee for Restoration of Italian Monuments.
Un’istituzione creata da Roosvelt nel 1943 per la protezione del patrimonio
artistico a rischio. E ancora, sempre in Italia, partecipò ai soccorsi per Firenze dopo
l’alluvione del 1966, organizzando e dirigendo un Committee to Rescue Italian Art
con lo scopo di contribuire al restauro degli affreschi e delle architetture
danneggiate. Un rendiconto del salvataggio dell’arte italiana e una riflessione sulla
tecnica dell’affresco trovò spazio in Great Age of Fresco. Discoveries, Recoveries
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and Survivals. Questa attenzione al patrimonio artistico come aspetto integrante
del mestiere dello storico dell’arte godeva di una solida tradizione sia a Vienna che
in Italia e anche in Francia.
Per gli Stati Uniti, invece c’erano voluti i disastri della guerrra. Alla NYU
insegnava Friedlander che non era assimilabile al gruppo Warburghiano ma
certamente attento a quanto si andava elaborando in quel consesso e determinato
a verificare e ridiscutere metodi e modelli della storia dell’arte. In aperto
conflitto con l’ancora notevole egemonia del modello woffliano non ne
condivideva il giudizio liquidatorio nei confronti del manierismo che era
sempre più percepito come l’espressione del malessere di una generazione di
artisti. L’ambiguità, l’ansia, la crisi che pervadeva l’esistenza di una
generazione, direttamente o indirettamente coinvolta dalla guerra, si manifestava
per i giovani storici dell’arte, nel prediligere proprio periodi di crisi. La nascita
dello stile anticlassico nella pittura italiana intorno al 1520 è un saggio in cui
respingeva l’ancora pervasivo giudizio che si trattasse di uno stile degenerato e
regressivo. Oggetto dell’analisi era la reazione contro la bellezza e la quiete del
Rinascimento fiorentino presente nelle opere di Pontorno, Rosso, Parmigianino. Il
risultato fu la messa a fuoco di uno stile che, contrapponendosi all’equilibrio
classico del Rinascimento e di Raffaello, liberava figurazioni ritmiche in una
spazialità irreale. In David to Delacroix, Friedlander si era proposto di individuare
i momenti di frattura nell’alternarsi e nel modularsi di stili di cui rintracciava
le matrici nella cultura filosofico spirituale. Nel classicismo e nel romanticismo
vedeva due tradizioni di lunga durata nell’arte francese, pur riconoscendo che
nell’utilizzare in chiave metastorica tali categorie si poteva correre il rischio
di creare ambiguità.
L’anima di quel libro comunque la si trova in quella sorta di scontro latente, per
tutto il Sei e il Settecento francese, tra una vocazione moralizzatrice e una
tendenza priva di qualsiasi sfumatura etica. La tensione razionale prendeva corpo
nel seicento con Poussin. Con David cui si sarebbe affermato l’autentico
classicismo rivoluzionario. Per Friedlander il contrasto tra ultraclassici e
anticlassici avrebbe seguitato ad animare i francesi. Solo Delacroix, a suo parere,
rinverdendo la storica opposizione tra i due poli, riuscì a conciliare le tensioni
perché, pur virando a favore della pittura barocca, era sorretto da un forte
sentimento etico che inibiva l’irrazionale.
Kauffman, Viennese, aveva cominciato a studiare l’architettura quando ancora
risiedeva in Europa. Anche lui era interessato da quella di fine Settecento francese
a cui pochi si dedicavano. Kauffman studiava anche i contesti politici e sociali per
meglio comprendere i motivi che sorreggevano certe trasformazioni stilistiche e
strutturali. Krautheimer metteva in evidenzia come un edificio non fosse solo una
forma, ma prima di tutto un luogo destinato a determinati riti e manifestazioni
della cultura del committente nei confronti della religione e della società.
L’architettura doveva, quindi essere inserita in una visione storica
complessiva. Krautheimer si trovava a fare lezione in una lingua, l’inglese, che lo
sveva costretto anche a pensare in termini molto pragmatici. Infatti
l’economicità sintattica impediva di nascondersi dietro categorie Kantiane e
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nebbie hegeliane. L’impatto con una lingua tanto essenziale ebbe forti ricadute
nella storiografia artistica occidentale del secondo dopoguerra. Krautheimer
come Panofsky, la considerò un’opportunità. Nei suoi scritti e nelle sue lezioni
insisteva sulla necessità di comprendere i collegamenti tra forme architettoniche e
la liturgia di un certo luogo in un certo tempo. Nelle motivazioni religiose
andavano rintracciate le occasioni che avevano portato alla costruzione degli
edifici. In Early Christian and Byzantine Architecture del 1965 gli episodi
architettonici venivano incastonati in un solido panorama storico, per meglio
contestualizzare la funzione degli edifici, le motivazioni della loro spazialità, della
luminosità, fino all’uso delle tecniche.
Le ricerche sul Medioevo erano in piena espansione sia in Europa che negli USA.
Alcuni specialisti scelsero di condividere questo ambito con interesse anche
verso l’arte contemporanea, pur senza cedere alla suggestione di ipotetiche
affinità tra le due culture, tanto usuali negli anni Trenta e Quaranta. Tra questi
Meyer Shapiro che collaborò in quegli anni con riviste militanti come The
Marxist Quarterly, The New Masses, The Nation e The Partisan Review.
Shapiro affermava la inscindibilità di stile e significato in un’opera d’arte,
nella ricerca era pragmatico e si impegnava a trovare risposte con strumenti
adeguati ai problemi che le opere stesse imponevano. Un’opera d’arte era un
campo dinamico di energie conflittuali, un intreccio di reazioni plurime, per cui si
doveva tenere conto sia della libertà creativa dell’artista sia della
sua reazione psicologica al contesto sociale. Shapiro diffidava di molti
aspetti radicati nella storiografia dell’arte. Rifuggiva, come Meiss, da quella
diffusissima certezza che il succedersi degli stili artistici avvenisse per una
irrefrenabile corsa al superamento di quanto si era da poco raggiunto.
Analoga diffidenza la esprimeva nei confronti dei conoscitori, anche se saper
riconoscere un’opera era utile allo storico: “il lavoro dell’attribuzione è una scelta
individuale nel vasto campo dei possibili problemi”, e sulla stessa figura di
Berenson manifestava perplessità. L’attribuzionismo gli appariva come uno
strumento di classificazione, un esercizio di scarso rilievo. Non mancava
occasione, quindi per criticare anche il formalismo spiritualista di Roger Fry e di
Clive Bell. Schapiro ne sottolineava il metodo riduttivo e schematico che arrivava
a falsare l’evidenza. Ne condannava le astrazioni, le sottigliezze inverificabili, gli
sforzi per creare modelli intuitivi per nulla convalidati. E sempre negli anni Trenta
allargava il raggio delle polemiche nei confronti dei “dottrinari della nuova scuola
di Vienna” inclini a “larghe astrazioni a sottigliezze inverificabili”. Al suo
profondo interesse per l’arte medievale Shapiro accompagnò altrettanta vivace
attenzione e studio per l’arte contemporanea. Si occupò della fine Ottocento: il
suo impegno per l’arte contemporanea aumentò proprio a partire dagli anni
Cinquanta, quando venne incaricato dalla Kootz Gallery, insieme a un critico di
punta come Clement Greenberg, di scegliere alcuni artisti americani
d’avanguardia per esporli in una serie di mostre.
Gran Bretagna: l’arrivo degli esuli e l’espansione della disciplina
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Mentre negli USA Shapiro pubblicava sull’Art Boulletin la sua presa di distanza
della nuova scuola di Vienna per le larghe astrazioni e per le sottigliezze
inverificabili, approdava a Londra nel 1936 da Vienna, un altro esule per le leggi
razziali, Otto Pacht. Era lo studioso che aveva annunciato una seconda scuola di
Vienna che aveva la necessità di tornare a Riegl. Riaffermavano la
sostanziale autonomia dei linguaggi e del succedersi degli stili. A Oxford trovò
la sua piena realizzazione, arrivò a ricostruire la miniatura medievale inglese con
le sue contaminazioni europee; intanto la Bibliothek, trasferita alla fine del
33 si andava radicando: nel 1937 Wind e Wittkower vararono il primo numero
del Journal of the Warburg institute”.
L’arrivo di tanti eccellenti storici dell’arte, in un arco di tempo tanto contratto
favorì la formazione della disciplina storico-artistica nelle università anglosassoni.
La prima cattedra permanente di Oxford fu istituita solo verso la metà degli anni
Cinquanta per uno dei protagonisti storici del Warburg, Edgard Wind. Studioso
prolifico, era particolarmente attento alla natura e al significato dei simboli nelle
rappresentazioni artistiche, soprattutto in epoca rinascimentale. L’autore
sosteneva la capacità dei simboli di concorrere a svelare il significato delle
immagini e la cultura del loro autore era tanto più incisiva quanto più si
eliminavano, con rigorosi studi filologici, le incertezze che ne ostacolavano
la comprensione. Non di simboli, comunque, si occupava Wind ma anche di
storia della cultura, era stato una delle figure centrali nell’istituzionalizzazione
della storia dell’arte in Inghilterra e negli Stati Uniti. Dal suo insegnamento
uscirono studiosi che arrivarono a occupare i vertici delle università e dei
musei del mondo anglo-americano. Come Wind, anche Wittkower insegnò in
entrambe le nazioni.
Wittkower era approdato alla biblioteca di Amburgo nel 28 dopo aver
conosciuto Warburg a Roma. Quell’incontro modificò il suo essenziale
interesse per gli aspetti stilistici. Fu attratto dalle aperture interdisciplinari,
tanto da farne una componente identitaria del suo profilo di studioso. La sua
analisi dei simboli, si cui scrisse moltissimo per il Journal dell’Institute, si
collegava spesso agli studi antropologici ed etnologici. Come i suoi colleghi
legati al Warburg Institute, ricorreva alle fonti letterarie, filosofiche,
teologiche, ai trattati e ai saperi tradizionali della cultura umanistica per
individuare una correlazione tra calcolata armonia delle strutture di un edificio
e la ricerca, da parte dell’artista, di riprodurre l’ordine dell’universo.
Gombrich in patria aveva frequentato Freud e aveva studiato con Schlosser,
di quella formazione mantenne vivo l’interesse per i temi della ricezione, della
visione e della psicologia dell’arte. Ne
respinse invece lo storicismo hegeliano, a cominciare dal rifiuto di paradigmi
interpretativi come lo spirito del tempo. Sosteneva l’unità del metodo scientifico e
avversava il marxismo che considerava responsabile dello storicismo dilagante.
Nella sua vasta produzione non sostenne mai uno sviluppo autonomo dei
fenomeni artistici. Le forme sociali, i tipi di pubblico, di committenti rivestivano
un ruolo significativo nelle sue ipotesi sui processi di cambiamento. Lo stile, a
suo parere, mirava a soddisfare i vari gruppi sociali.
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Gombrich sosteneva un errore considerare il committente come l’agente
unico capace di influenzare la produzione artistica, perché poteva accadere che
questa, a sua volta, fosse in grado di indirizzare la loro domanda. I mutamenti
artistici potevano essere indotti da uno spettro assai vasto di condizionamenti, dalla
moda fino alle invenzioni. Con Art and Illusion, del 1960 lo studioso era arrivato a
dimostrare che gli artisti non dipingevano ciò che vedevano. Il loro sguardo era
condizionato dalle convenzioni mentali, soggettive e collettive, collegate
all’ambiente. The Sense of Order è uno studio sulla psicologia dell’arte decorativa
ad ampio raggio, per comprendere quali fossero stati i fattori comuni a determinare
somiglianze, ripetizioni, simmetrie in varie epoche e luoghi. La risposta, Gombrich
la trovava nell’innata, insopprimibile esigenza di ordine e di regolarità insite
nella natura umana. Sosteneva la necessità che le ricerche non avessero
carattere ultraspecialistico, idiosincratico o peggio ancora esoterico. Era necessario
raggiungere un’estrema chiarezza per essere, prima di tutto, accessibili ai colleghi
di altre discipline. Era sempre intollerante nei confronti di posizioni estetizzanti
o fumose. Arrivato a Londra nel 1935, partecipa a quel rinnovamento della
storiografia artistica britannica che diede molto presto significativi risultati.
“La grande arte può realizzarsi solo quando il genio e la nazionalità vanno
insieme allo stile voluto dal secolo”. L’impatto nel 1925, con il Bauhaus di
Groupis e a Parigi con Le Corbusier, lo convinse a occuparsi di architettura
contemporanea e a sostenere la causa del movimento moderno. Il Bauhaus gli
apparve come il più organico
tentativo di comporre il conflitto tra arte e società agendo alla radice.
La storia dell’arte in Gran Bretagna, che aveva goduto di spazi molto ridotti, si
stava imponendo sul piano internazionale e non solo per la presenza degli
immigrati, ma per una nuova generazione di inglesi coinvolti dal vivace clima che
si era creato. Un pubblico inesperto e molto numeroso poté seguire una
ricostruzione visiva e narrata del lungo processo storico in cui le arti e la società
avevano costruito quel patrimonio di memorie e di opere, di cui erano eredi. Gli
inglesi, come pure gli americani, hanno sempre prestato una grande attenzione
alla divulgazione scientifica di qualità. Il marxismo di Blunt lo portò a orientarsi
verso una storiografia attenta ai contesti storici, sociali e culturali. Tuttavia una
vocazione decisamente empirica e il suo impegno diretto nelle attività del
Warburg Institute e poi nella direzione del Coutauld lo immunizzarono da
qualsiasi tentazione deterministica. Da parte sua aveva accentuato l’interesse per
una ricerca mirata a riconoscere convergenze e dissonanze tra le opere e le coeve
situazioni socioculturali. Al centro dei suoi studi ci fu Poussin. Le tante strade
della storia dell’arte di quei decenni a cavallo della Seconda guerra non
sono ancora esaurite. Tra il 1947 e il 1951, uscivano a Londra 3 volumi
considerati una sorta di incunabolo della storia sociale dell’arte di taglio marxista,
che stava acquisendo sempre maggiore interesse tra gli studiosi e tra il pubblico.
Art and the Industrial Revolution, Florence Painting and Social Background, The
Social History of Art: non c’era nulla di programmato in tale coincidenza, ma
questa pura casualità accrebbe l’impatto del modello storiografico che le tre
opere proponevano. In Art and the industrial revolution la profonda
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innovazione metodologica consisteva nell’assumere i documenti artistici come
opere prime della rivoluzione industriale, allo stesso modo delle macchine o dei
manufatti erano protagonisti della mutazione cui direttamente stavano
contribuendo, con i loro strumenti e dal loro punto di vista. Il volume sulla pittura
fiorentina del 1498 ricevette numerose critiche, a cominciare da Gombrich,
in quanto attribuiva un eccessivo potere culturale ai committenti, nonostante
fosse molto accurata la ricostruzione dei rivolgimenti accaduti in Firenze tra la fine
del 200 e il principio del 400. I mutamenti stilistici e iconografici venivano letti
all’interno delle dinamiche sociali del tempo.
Hauser ha avuto una parte allo stesso tempo preminente e limitrofa.
Preminente per la risonanza internazionale che la sua opera suscitò appena
uscita, tra i consensi e dissensi e un numero infinito di traduzioni e
riedizioni. Limitrofa perché non ha creato una tradizione di studi dichiaratamente
collegata alla sua Storia sociale dell’arte dalla preistoria al XX secolo. Una
storia globale, la sua, con continui richiami anche alla letteratura e per il XX
secolo al cinema. Tra i pochi sostenitori della sua Storia sociale dell’arte c’erano
gli intellettuali della scuola di Francoforte; l’impianto rigorosamente marxista
interessò l’opera come un provvidenziale elemento di rottura con la prassi
culturale diffusa. Nel 1937 Read pubblicò
Education through Art. L’attività estetica stava al centro di ogni forma di sviluppo,
sia del singolo che della collettività. L’arte, quindi, era il solo principio valido
di ogni azione pedagogica. La vera novità della proposta di Read stava nel
considerare la necessità di mettere i giovani a confronto con l’esperienza
artistica, non attraverso la conoscenza delle opere del passato ma fisicamente,
attraverso il fare.
Italia: la storia dell’arte nella rinascita del paese
Negli anni dell’immediato dopoguerra, e in parte ancora per gli anni sessanta, in
Italia molti intellettuali percepivano il loro ruolo come una chiamata in prima
persona alla ricostruzione materiale, morale, sociale e politica del paese. Dal 1953
si cominciò a tradurre i testi di Braudel e degli altri studiosi della scuola delle
Annales. Altro protagonista di rilievo fu Sartre e capacità catalizzatrice ebbe
la scuola di Francoforte, ricostruitasi dopo l’esilio dei suoi protagonisti negli
Stati uniti. La funzione delle arti nella società coinvolse in particolare, con non
poche tensioni, molti storici dell’arte. Le direttive emanate dal partito comunista
miravano a imporre scelte figurative ancorate al realismo, perché facilmente
comprensibili dal popolo.
D’altra parte la carica innovativa, in qualche modo liberatrice, dei
movimenti dell’avanguardia internazionale contrapponeva a quelle direttrici le
proprie manifestazioni progressiste e moderne. Gli storici dell’arte erano
impegnati nella tutela del patrimonio, restauro delle opere, scelte dei modelli
urbani, necessità di elaborare, attraverso le arti, strumenti atti all’emancipazione di
una popolazione assuefatta alla dittatura, quindi operando nei musei e nella scuola.
Su questo fronte fu molto forte l’impegno non solo di coloro che erano legati
all’università ma anche dei sovrintendenti che lavoravano a diretto contatto con i
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territori. Nel clima ricco di fermenti, incontri, scontri, dibattiti, una grande
funzione venne attribuita alla circolazione di idee, quindi anche alle riviste.
Lo storico dell’arte antica Ranuccio Bianchi Bandinelli e Ragghianti avevano
fondato ancora sotto il fascismo “ La critica d’arte” in cui era entrato anche
Roberto Longhi dal 1938; la rivista si proponeva di combattere l’esangue modello
della filologia documentaristica cui si ispirava l’archeologia italiana. Bianchi
Bandinelli dal canto suo si impegnò nel 1967 con “Dialoghi di Archeologia”
per favorire un luogo di incontro fra specialisti di varie discipline nel
campo degli studi di Antichità. Cesare Brandi nel 1947 aveva avviato la
pubblicazione de “L’immagine” luogo privilegiato della sua elaborazione teorica.
Bruno Zevi diede vita a “L’architettura. Cronache e storia”. Argan avviò solo nel
1969 una sua rivista “Storia dell’arte” e tradusse e accompagnò con una
lunga prefazione “Educare con l’arte” di Herbert Read. Fu suo il progetto di
costruire un Istituto Centrale per il Restauro, che espose in
un’importante Convegno dei soprintendenti nel 1938 e che venne approvato
dall’allora ministro Bottai con l’affidamento, dal 1939, a Cesare Brandi. Argan
realizzò insieme alla curatrice della Galleria d’Arte Moderna di Roma, Palma
Bucarelli, una serie di mostre d’arte contemporanea che contribuiscono ad
accelerare i processi di aggiornamento culturale in Italia. Sempre in nome della
necessità di coinvolgere il pubblico, lo studioso allievo di Lionello Venturi si
interessò, soprattutto negli anni Cinquanta, ai “musei della ricostruzione”.
Nonostante le differenti strutture architettoniche, in questi nuovi musei le opere
venivano sempre esposte molto distanziate tra loro, prive di cornici, in atmosfere
rarefatte, luminose, gli allestimenti per scuole, ambientazione erano ormai
considerati passatisti e opprimenti. Nel campo dell’arte
contemporanea Argan raggiunse una notevole egemonia. Negli scritti sono
rintracciabili numerose matrici culturali, dal purovisibilismo ereditato dal maestro
venturi, che si attenuò con il passare degli anni, a Riegl e Dvorak per l’evidenza
assegnata alle tecniche e alla storia delle idee. Da parte di Argan c’era una certa
attenzione alle teorie di Wofflin e di Panofsky. Come altri storici dell’arte
della sua generazione, Argan considerava suo compito guardare a ogni
espressione artistica. Oltre all’architettura si occupò anche delle trasformazioni
delle città nel corso dei secoli nel 1964 scrisse “L’Europa delle capitali”in cui era
attento alle tecniche e al design industriale. Una delle opere di Argan che ha goduto
di un’eco davvero molto ampia è stata la Storia dell’arte italiana. Un manuale, il
cui primo volume uscì nel 1968, adottato da generazioni di professori e studenti
sia nei licei che nelle università. Il manuale affrontava le arti visive con
grande attenzione alla storia delle idee saldamente ancorata alle scelte
formali. Inoltre, fedele a una visione evolutiva, cercò sempre di evidenziare un
percorso lineare che procedeva verso la modernità, intesa come valore assoluto.
Bianchi Bandinelli meno interessato alla modernità e impegnato
nell’università, formò una nuova generazione di archeologi e di raggiungere,
quindi, l’obiettivo di ridefinire i confini tra storia dell’arte antica e una nuova
archeologia legata allo scavo stratigrafico di ispirazione britannica, e attenta
alla “cultura materiale” di tradizione francese. Sempre meno interessato
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all’arte greca, mostrò una particolare attenzione alle aree periferiche del
mondo antico rispetto ai grandi centri di produzione. Attratto anche dalle
epoche di passaggio, come la tarda antichità, si occupò della produzione artistica di
ceti sociali non elevati. La sua adesione al marxismo e al partito comunista italiano
lo avevano indotto a percorrere una strategia metodologica in cui la lettura
stilistica, quella iconografica e fisiognomica non solo venivano a trovarsi in
stretta interdipendenza, ma venivano condizionate e condizionavano le situazioni
storico-sociali-religiose in cui le singole opere si collocavano. Il suo impegno etico
nella società lo rese molto attento alle battaglie per la tutela e la salvaguardia del
patrimonio artistico. Dal 1945 al 47 fu Direttore generale delle Antichità e Belle
Arti, con il gravosissimo compito di sovrintendere alla ricostruzione dei
monumenti distrutti dalla guerra. Di fronte a posizioni come quelle di Berenson,
che insisteva perché si ricostruissero i monumenti come erano prima del disastro,
Bianchi Bandinelli, amico di Berenson, si espresse decisamente contro ogni forma
di ripristino, servendosi di argomentazioni molto prossime a quelle sostenute da
Brandi sul restauro delle pitture. Qualora si dovesse intervenire con
integrazioni, per ragioni di statica, queste avrebbero dovuto essere
riconoscibili per i materiali. Come Bianchi Bandinelli per l’archeologia, Zevi
rinnovò profondamente la tradizione storiografica italiana sull’architettura,
avviandola nel solco della critica militante. E con Verso un’architettura organica
prese il via la sua attività come storico e critico del contemporaneo. Pevsner,
Gieldion e Mumford erano i suoi punti di riferimento teorici e culturali,
come pure le antitesi care a Wofflin. Nella sua scala di valori, opere dell’architetto
americano Frank Lloyd Wright occupavano una posizione primaria, socialmente
progressista, come aveva rilevato anche Mumford.
Il sodalizio dell’architetto con Carlo Ludovico Ragghianti era cementato
dalla comune inclinazione per l’estetica crociana oltre che da un’analoga
posizione nei confronti dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea.
Ragghianti, a proposito della salvaguardia del patrimonio artistico, teorizzava la
necessità di quantificare il valore monetario delle opere in termini di profitti
legati al turismo e di reinvestire tali proventi nella manutenzione del patrimonio
stesso. Era anche favorevole al prestito delle opere d’arte per mostre all’estero.
Ragghianti voleva individuare un metodo critico che consentisse di avvicinarsi,
con una discreta sicurezza, alle opere d’arte di epoche e luoghi differenti. Un
metodo svincolato dalle categorie generalizzanti e capace di ricostruire il
processo creativo degli artisti in contesti molto diversi tra loro. Il suo formalismo
rigoroso lo rese invece del tutto insensibile alle tendenze che vedevano
nell’arte un sistema simbolico dei segni. La ricostruzione pragmatica degli eventi
artistici emergeva dall’analisi dei linguaggi e dei processi formali delle opere
stesse.
Brandi isolava le opere nella loro capacità di offrirsi allo sguardo in quanto
valori universali, escludendo qualsiasi compromesso con motivazioni
sociopolitiche che ne incrinassero a totale autonomia. L’arte si manifestava
come rivelazione. Da quando nel 1939 fu nominato Direttore dell’Istituto
Centrale del Restauro, la sua elaborazione teorica si proiettò anche in
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quell’ambito. Nel 1950 Brandi era arrivato a definire uno dei concetti cardine
della sua teoria, l’unità potenziale dell’opera d’arte. Un’opera, anche se
fisicamente frammentaria, “seguitava a sussistere potenzialmente come un
tutto”. Un’unità che ogni traccia superstite portava in sé. Una teoria che
coinvolgeva anche la delicatissima questione delle lacune.
Se non era più ammesso intervenire con integrazioni in stile, le lacune
potevano essere coperte con un colore neutro, come già si faceva da qualche
tempo. Oppure come indicava Brandi con una tessitura cromatica in rigatino
che attenuasse gli stacchi tra le parti originali senza però creare
fraintendimenti. Oppure ancora, come sosteneva Longhi, in esplicito dissenso
con le teorie brandiane, esse dovevano rimanere evidenti. Longhi non
condivideva neppure le indicazioni sulla patina elaborate dall’ICR. Altro
fattore di dissenso tra i due storici dell’arte era il distacco degli affreschi dalle
pareti originali. Longhi ne auspicava un uso intensivo per garantire la
conservazione. L’istituto romano invece procedeva con prudenza perché
obiettivamente l’operazione era rischiosa in sé e distruggeva i contesti. Longhi con
Bianchi Bandinelli aveva condiviso molte battaglie per i beni culturali, tra
cui la proposta di una riforma delle amministrazioni di tutela. Un’iniziativa
che diede vita nel 1964 alla Commissione Franceschini e che ne segnò una
svolta profonda nella considerazione stessa di bene artistico. L’opera da tutelare
non doveva avere necessariamente un pregio estetico, poteva essere
semplicemente una testimonianza storica o antropologica, o una presenza
significativa nel territorio. Il Longhi del dopoguerra era anche lui impegnato sul
fronte della tutela del patrimonio, del restauro, del coinvolgimento del pubblico,
nella prospettiva di crescita culturale del paese. Insisteva molto sulla necessità
di dotare i musei di cataloghi, avvertiva la necessità di conquistare il
pubblico medio, era certo che la formazione scolastica, più che il censo,
condizionasse il consumo di cultura nella società, realizzò alcune mostre
pionieristiche, fece due film d’arte e soprattutto accettò di seguire una gigantesca
opera di alto profilo divulgativo, i Maestri del colore.
Le storie dell’arte dopo il ‘68
Verso un’egemonia anglo-americana
Il sessantotto piombò come un uragano su un assetto sociale che stava
producendo fermenti e semi di ribellione. Le discipline umanistiche ne vennero
investite per quasi due decenni. Le università aumentarono di numero e si ampliarono le
fasce sociali che ne fruirono, a cominciare dalla Gran Bretagna. Più o meno dovunque, e
certamente nel mondo anglo-americano, entrò in crisi la filologia attributiva in
quanto “troppo” organica al “mercato”, essendo ormai il mercato un sinonimo di
“capitalismo”. Ampia fortuna ebbero le ricerche sulla storia sociale e culturale delle arti,
sull’iconologia che prediligeva i contesti, sulla ricezione che coinvolgeva il pubblico.
Soprattutto le nuove leve di storici dell’arte attinsero da Gombrich a
Panofsky, a Warburg, a Shapiro, Antal, Blunt, Meiss, sia da antropologi, storici,
filosofi e sociologi, dalla scuola delle Annales, Lucien Febvre e Marc Bloch, Fernand
Braudel. Uno degli studiosi del tempo divenuto paladino delle nuove tendenze fu
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