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— Gnaffe! disse il fiorentino; se volete giudicare dell'Italia da queste
montagne, con questa stagione, mi pare che v'anfaniate a secco.
Anche le rose hanno le loro spine; ma chi dalle spine volesse dar
giudizio delle rose, farebbe segno di aver dato il cervello a
rimpedulare. Andate per tutto il restante dell'Italia, e poi parlatene.
— Io, riprese il provenzale, l'ho veduta tutta quanta, e non mi
disdico. E anche quei luoghi che tanto vantate voi altri Italiani, sono
una morte a rispetto della mia Provenza; e la vostra stessa Toscana,
appetto ad essa, è un campo di erbacce, paragonato al più ridente
giardino: nè so proprio su che fondiate, specialmente voi Fiorentini, il
gran vanto della vostra Città. Ma anche quando fosser vere tutte
queste cose che del vostro paese andate dicendo, sarebbe sempre
da reputarsi un obbrobrio, così scarso com'è di valore o di cortesía;
così partito in se stesso, che i suoi cittadini l'uno si rode coll'altro;
che da sè soli a nulla valgono; e anche per guerreggiarsi fra loro,
ricorrono all'ajuto di fuori. Le donne sole sono cortesi — e dicendo
questo, mandava giù un gran nappo di vino, strizzando prima
l'occhio, con maligno sorriso, al tedesco, che gli sedeva accanto, e
che rispose:
— Oh, cortesi, cortesi le italiane! E le fiorentine... Ah, monna Lapa,
tu sei più dolce del vino. — E qui trincò un bel gotto: poi seguitò. —
Ma nè Italia, nè Toscana, non sono il paradiso, come alcuni vanno
dicendo.
Al fiorentino qui scappò la pazienza, e tutto inviperito, rispose:
— Tu, lurco tedesco, chi ti ci ha fatto venire in Italia? la sete dell'oro,
e il fastidio dei vostri deserti strani, che sono degne tane delle bestie
tue pari. E tu, leggiadro provenzale, potevi stare ne' tuoi deliziosi
giardini, se questi campi d'erbacce ti facevano afa: ma il fatto sta
che di queste erbacce vi mostrate tutti più ghiotti del dovere, e
quando piovete su queste contrade, siete peggio delle cavallette.
Dell'esser noi Italiani tutti partiti, e del rodersi l'un l'altro, e ricorrere
sempre agli ajuti di fuori, avete ragione; ma la colpa è dei signori,
che sperano di trovare amore e fede in cuori venali, e non vedono
che follía è quella di cercare e di gradir gente, che vende l'anima a
prezzo. Ma l'antico valore non è morto ne' cuori delli Italiani; e
potrebbe anche darsi che, o prima o poi, ci levassimo da dosso
queste vituperose some.
Il tedesco, che era un tozzotto accerito, con du' occhi che gli
schizzavan di testa, biondo di capelli e di barba, ed in sostanza una
buona pasta di uomo, non rispose; e solo si mise a tentennare il
capo come in atto di negare ciò che il fiorentino diceva; ma il
francese, un giovanotto mingherlino, biondo anch'egli, con due
grand'occhi azzurri, e leggiadro e azzimato, come se fosse in mezzo
alle brigate sollazzevoli della città; ma insolente e di mal animo
contro la Italia:
— Ah ah! disse ridendo beffardamente: l'antico valore! Voi italiani
avete sempre in bocca l'antico valore; ma codeste le son novelle: è
necessario il valore presente. Roma signoreggiò a tutto il mondo:
guardatela ora, se non è una pietà e una derisione: abbandonata dal
papa, che se ne è venuto a stare a casa nostra, per fastidio di
queste contrade, ricorda sempre anche essa l'antica grandezza, e si
è ridotta quasi un deserto, lacerata anch'essa dalle parti, il ludibrio
delle nazioni.
— Il valore presente mi pare che a voi altri francesi, o provenzali che
siate, mi pare che gli italiani ve lo abbian fatto sentire a buono anche
ne' presenti tempi; e dovreste ricordare il muora muora di Palermo, e
quella città che fe' di voialtri sanguinoso mucchio. A te che pizzichi
un po' di poeta, e che i poeti nostri ti sento spesso rammentare,
basterà il dirti così, senza farti una lunga storia di questi due fatti.
— I fatti di Palermo e di Forlì sono prove appunto del presente valore
di voialtri italiani, che sta nell'assassinio e nel tradimento.
Il tedesco alzò il capo a queste parole, e volto al francese:
— Oh, compagnone, no no, non dire: questo è troppo. Ricordiamoci
almeno che il signore contro cui combattiamo è italiano, e che ci fa
sudar molto, e che molte volte ci ha veduto fuggire; e se sono vere
le novelle venute testè giù dal piano, anche sotto Pistoja Castruccio
ha volto in fuga la gente del duca.
Il fiorentino per altro, che aveva perduto affatto la pazienza, disse
quasi furente:
— Che il tradimento e l'assassinio sia l'unico valore presente, tu ne
menti per la gola, vil paltoniere: voi francesi per contrario, il vostro
valore sta nell'insolenza e nel dispregio di ogni altra nazione; e se tu
non istessi ritto a cotesta maniera per la scommessa, e se tu non mi
paressi più una femminuccia che un soldato, ti farei veder io che
cosa ci vorrebbe a ricacciarti in gola codeste villane e vituperose
parole.
Qui il francese si alzò tutto acceso d'ira e mise mano alla spada: il
fiorentino non fu men lesto, e lo assalì con tanta furia e maestría che
in un batter d'occhio gli ebbe fatto schizzar la spada dal pugno. Il
fiorentino tutto contento di ciò, andò a ricòrre la spada, e con atto
amichevole e con umane parole:
— Te', bel compagno, gli disse: era mio debito il mostrarti che un
fiorentino vale un provenzale; ora son contento, e spero che
torneremo amici.
Ed in questo gli offerse un gotta di vino. Ma il provenzale, vinto dalla
stizza e dalla vergogna, rifiutò con atto dispettoso, e si mosse per
andarsene; se non che il tedesco, fermatolo:
— No, compagno, non fare: il fiorentino ha operato come leale e
prode cavaliere, nè tu hai operato villanamente; le leggi della
cortesía ti comandano di tornare amico con lui. Beviamo tutti
insieme alla salute di ogni prode e di ogni leal cavaliere, o sia
tedesco, o francese, o italiano.
Non avevano i tre bevitori votato ancora il lor gotto, che tutta la
montagna risonò di un lungo squillare di trombe; ed essi tutti e tre
ad un tratto si alzarono, e messosi la celata in capo, disse il tedesco:
— Su! alle castella, alle castella! messer lo Conte vuol fornire
finalmente quello perchè siamo venuti quassù in questo indiavolato
paese.
E pagato l'oste, andarono via tutti animosi e anelanti di combattere.
Ma il fatto era ben diverso: anzi era al tutto contrario da quel che
pensava il tedesco. Il Conte di Squillace aveva già conosciuto, come
qua dietro accennai, che l'impresa del fornire i castelli era folle; e di
fatto Castruccio aveva proceduto con tanta astuzia e con tanta
maestria di guerra, che fu vicino a rinchiudere la gente del duca, per
modo che non ne sarebbe campato neppure uno, se il Conte non si
fosse accorto a tempo della mala parata, e non avesse presa la
subita risoluzione di abbandonare quell'impresa, studiandosi
solamente di tornare sano e salvo egli ed i suoi: e quel sonare a
raccolta era appunto a tale effetto. La ritirata fu disagiosissima, e
condotta con gran senno, e con grande accortezza. Tutti i passi della
montagna eran guardati da Castruccio: lo scendere verso Pistoja era
di troppo periglio, dopo che i nostri ne erano stati rincacciati;
bisognò pertanto ritornarsene per il contado di Bologna, cavalcando
aspre montagne e piene di neve: il perchè, oltre il disagio e il gran
travaglio delle persone, convenne loro di lasciare su per que' greppi
molti cavalli e molti somieri.
Partita la gente del duca, le due castella ribellate si videro al perso, e
quelli che vi erano dentro, di notte si fuggirono, e molti furono morti
e presi, e Castruccio le riebbe senza colpo ferire. Dopo di ciò, come
sollecito e valoroso che egli era, senza tornare in Pistoja, o andarne
a Lucca, traversò con la sua oste le montagne di Garfagnana e di
Lunigiana, per tòrre il passo e le vettovaglie a Spinetta Malaspina,
che lo infestava da quella parte; ma Spinetta, come prima sentì la
venuta di lui, e udì che aveva riprese le due castella, si ritrasse con
tutta sua gente, e lasciò l'impresa, e ripassò l'Apennino riparandosi a
Parma; chè, se più avesse dimorato, vi sarebbe stato preso egli e
tutta la sua gente.
La gente del duca, che avea cavalcato a Pistoja, e che vedemmo
essersi accampata al Montale, quando vi furono stati tre giorni, si
levò un tempo così strano e rovinoso di venti e d'acqua, e di neve ai
monti, che per necessità, non potendo tenere le tende tese, si
levarono dal campo riparandosi a Prato; e lo fecero senza niuno
ordine di guerra, per modo che, se fosse stato in Pistoja Castruccio,
sarebbero forse capitati tutti male. E da Prato, sapute le infelici sorti
di quei della montagna, e di messere Spinetta, tornarono anche essi
a Firenze, lasciandovi Guglielmo, la cui ferita era tuttora aperta, con
altri feriti. E così la prima impresa del duca, per poco savio consiglio,
tornò invano, e con vergogna. Castruccio si giovò della facil vittoria,
facendo disfare in Lunigiana le più belle fortezze che v'erano, perchè
non gli si ribellassero; tornò in Lucca con gran trionfo, e fece poi
ardere il castello di Montefalcone sulla Guisciana, e quello del
Montale sopraddetto, per aver meno da guardare, e perchè la gente
del duca non gli potessero riprendere.
CAPITOLO XVIII.
LO SGOMENTO.
Come prima giunse a Firenze qualche sentore di questa rotta, la città
tutta quanta se ne attristò; e il duca più di tutti. Da principio se ne
parlava vagamente e sotto voce, e si vedevano qua e là capannelli
ragionarne, e domandarne l'uno all'altro; e gente accalcarsi intorno
ad essi, e massimamente sulla piazza de' Signori.
— Che novelle? Che vuol dir questa gente?
— Non so, ma qualche cosa di grave debb'essere.
— La nostra gente è stata sconfitta a Pistoja.
— No, Castruccio è stato vinto: le castella sono state fornite.
— È morto messer Amerigo Donati, e messer Giachinozzo Cavalcanti.
— E messer Guglielmo d'Artese è morto altresì.
— No, ho sentito dir ora che è solamente ferito.
Queste ed altre diverse dicerie si udivano da varie bocche; quando
eccoti altra gente gridando: alla riscossa, alla riscossa! armiamoci
tutti. E tutti appressarsi domandando:
— Che novelle del campo?
— Tutti morti e presi.
E molte donne dolersi, e pianger perduto chi il marito, chi il fratello,
chi il figliuolo. E di nuovo gridarsi da altra frotta di popolo:
— Fiorentini, su! tutti in armi: al riparo, al riparo. Castruccio viene
fulminando sopra Firenze.
In questo si udì per il corso degli Adimari un sono di trombetta, che
interruppe i discorsi di tutti; e tutti si fecero da quella parte.
Poco di poi si vide sboccare in piazza un comandatore del duca, a
cavallo, con trombetta innanzi, il quale, fermatosi in mezzo alla
piazza, lesse ad alta voce una carta di questo tenore:
«Monsignore lo duca Carlo, signore di questa nobile terra, manda
significando che la sua gente ita contro Castruccio, sarà tosto in
Firenze: non è stata vinta da Castruccio, ma dalla diversità del
freddo e della tempesta. A Pistoja messer Guglielmo d'Artese aveva
messo già in fuga i nemici; ma fummo traditi, e dovemmo ritirarci.
De' nostri, pochi morirono, non molti furono feriti o presi; de'
caporali fiorentini niuno morì. Messer Guglielmo fu ferito. La vittoria
di Castruccio non fu allegra; nè pensa ad assaltarci. Che questo
nobile popolo ponga giù ogni timore: di armarsi per ire al riparo non
fa bisogno: monsignore lo duca studia egli il riparo, e si argomenta
alla vendetta».
E senz'altro, dato il cenno alla tromba, continuò suo cammino per
Vacchereccia e Mercato nuovo, lasciando il popolo più quieto e più
temperato. Intanto la gente ita contro Castruccio incominciava a
tornare, e il popolo si avviava tutto verso la porta. Tornavano a
drappelli, senza ordine veruno, e senza caporali: molti della gente a
cavallo venivano a piedi, laceri e rifiniti: i cavalli mezzi disfatti; era
una pietà a vedere come fosse ridotta tutta quella gente, così fiorita
e baldanzosa quando si mosse. E quando qualcuno del popolo
riconosceva o amici o parenti, era un abbracciarsi, un ammazzar di
domande, e un rispondere cose di gran maraviglia e paura.
Alla corte del duca non vi era meno confusione e meno
smarrimento; i più segnalati caporali erano tornati, e riferivano cosa
per cosa gli avvenimenti principali della campagna, dando tutti
solenni testimonianze della grande saviezza e prodezza e maestría di
Castruccio, contro il quale bisognava argomentarsi di fornire grande
esercito, e nuovi ordini di guerra. Però il duca volle che senza
indugio si mettesse il pensiero a ciò; e ordinò che nella primavera
futura si dovesse ripigliare la guerra. Avea creduta troppo sicura la
vittoria, da non doversi accorare, come faceva, della sconfitta; e
molto gli coceva ancora, e alla duchessa più che a lui, il caso di
messer Guglielmo, e che la ferita sua fosse tanto grave da non
poterlo condurre a Firenze: insomma erano ambedue i principi di
malissimo umore. E ricordandosi la duchessa della favorevole
predizione di Cecco, il quale era lì presente con gli altri signori, gli
disse con aria di scherno:
— Maestro Cecco, voi prediceste che la vittoria sarebbe per noi. Ecco
la verità della vostra scienza! — E così dicendo accennò i caporali
tornati con l'annunzio della rotta.
— Madama, rispose Cecco, la scienza non è fallace. Firenze è
fondata sotto il segno dell'Ariete, e Lucca sotto quello del Granchio;
la guerra fu mossa quando l'Ariete avea ascendente sul Granchio; e
però dissi che i fiorentini dovevano vincere Castruccio lucchese. Il
mal successo di questa prima fazione è proceduto da ciò, che il
condottiero della nostra gente aveva contraria influenza celeste; e
non poteva in verun modo tornar vittorioso. Ma la guerra, madama,
non è finita; e non può dirsi ancora che la predizione mia sia venuta
meno: anzi qui la rinnuovo; e come monsignor lo duca si
apparecchia da capo alla guerra, così non dubito punto che la
vedremo ben tosto adempiuta.
Tale era veramente la dottrina che professava Cecco rispetto alle
influenze celesti; ma, anche prese le sue parole come un sotterfugio,
questo si può dire che fosse assai abilmente trovato, e fece buon
effetto sull'animo di molti, e su quello del duca specialmente, che
della sapienza di Cecco aveva concetto altissimo. Anzi, perchè gli
rincresceva senza modo la ferita di messer Guglielmo, e che fosse
dovuto rimanere lontano da Firenze, volto a Cecco, gli disse:
— Maestro, ci grava troppo il fatto di messer Guglielmo d'Artese, e
che noi non possiamo visitarlo e assisterlo vicino. Vi piaccia di
cavalcare fino a Prato; di recargli salute in nome nostro, e avergli
tutte quelle cure che a sì prode e gentil cavaliere si convengono.
— Monsignore, l'ubbidire alla vostra signoría mi è sempre di
grandissimo contento; ma questa fiata mi è di maggiore, tanto io
pregio e riverisco ed amo il cavaliere a cui mi mandate.
La duchessa per altro non vedeva bene in cuor suo questa andata di
Cecco presso Guglielmo, perchè ne aveva certezza che gli avrebbe
parlato molto, e datogli notizia della Bice; ma non osava contradire
al duca, e dissimulò il suo sdegno, contentandosi di dire a Cecco:
— Maestro, monsignor lo duca ama gelosamente messer Guglielmo:
abbiatene tutta la cura, come è degno; voi non aspettate certo da
me verun precetto dell'arte vostra; ma non posso non ricordarvi qui,
che il recare alla mente di esso certe cose fiorentine, le quali
commovessero troppo il suo gentile animo, potrebbe essere cagione
che il mal si aggravasse.
Cecco intese il veleno di questo argomento, e tutto umile in volto
rispose:
— Che monsignor lo duca ami gelosamente Guglielmo mi è noto, e
so ch'egli il vale; e so che la sua sanità è cosa preziosa, non pure a
monsignore, ma a molti cuori gentili che battono per la costui beltà e
leggiadría. Siate certa, madama, che quanto so della mia arte, tutto
lo spenderò per Guglielmo; con tutto che qui non faccia mestieri
grande studio, certo com'io sono che alle sue ferite porterà sanità
istantanea un balsamo che io tengo segreto.
La duchessa dettegli di furto una feroce occhiata; e con maggior
calma che potè gli diè commiato dicendo: Andate, e siate savio.
CAPITOLO XIX.
LA CENA DI SETTIMELLO.
Maestro Cecco, senza metter tempo in mezzo, si dispose a cavalcare
verso Prato, lieto in cuor suo che il duca gli avesse così dato modo di
riveder Guglielmo, il quale s'immaginava dovere stare in grande
angoscia per la sua Bice; e come sapeva fino ad un puntino in che
modo erano ite le cose, e già aveva pensato un suo disegno, così,
per aver modo più agevole di colorirlo acconciamente, volò da frate
Marco:
— Frate Marco, ho mestieri del vostro ajuto.
— Cosa ch'io possa...
— Sareste acconcio di cavalcar meco sino a Prato? Io sono poco
pratico delle vie.... e poi potreste giovarmi molto in cosa di gran
momento.
— Salva la volontà del mio prelato, eccomi qui tutto per voi.
E chiesta ed ottenuta la licenza dal priore, montarono tosto a cavallo
ambedue, e mossero da Firenze verso mezzo giorno, facendo
assegnamento di essere a Prato non prima di nona, perchè sapevano
che le vie erano male agiate, e per la tempesta dei giorni passati, e
per i guasti che aveva fatto la gente del duca, col fine di trattenere
più che fosse possibile Castruccio, se mai avesse avuto intenzione di
venire contro Firenze, come molti temevano. Ma quando furono a un
terzo di cammino, si levò da capo un vento così furioso, e un
nevischio così fitto e sodo, che i due cavalcatori doveano far gran
forza per andare innanzi, ed appena potean tenere gli occhi aperti,
tanta era la furia di quel nevischio che dava loro nel viso; ed i cavalli
medesimi s'impennavano e ritrosivano; e spesso dovevano fermarsi
per cansare un poco il furore di quel tempo indiavolato. Laonde,
arrivati con grande stento a poche balestrate di là da Sesto, si erano
veduti quasi al perso; e se non che frate Marco si ricordò che il
priore di Settimello era suo conoscente, non avrebber saputo proprio
come fare, e sarebbero dovuti riparare in uno di que' miseri casolari
di lavoratori, con poca sicurezza per avventura dell'avere e della
persona, essendo allora quelle campagne infestate da' malandrini.
La ricordanza del priore di Settimello richiamò le smarrite forze ne'
due viandanti; e vincendo stenti e disagj, arrivarono alla chiesa dopo
vespro. Settimello era, come è anche adesso, un piccolo borgo di
poche case con una prioría, posto lungo la via di Barberino di
Mugello, alla base occidentale del poggio ora detto le Cappelle, e che
forma uno degli sproni meridionali di Monte Murello, presso dove
termina, o meglio incomincia, la fertile pianura di Sesto. Questa
piccola terra non è ricordata nella storia per niun fatto notevole: solo
gli ha dato fama l'essere stata patria del più valente poeta latino del
risorgimento delle lettere, dico quell'Arrigo o Arrighetto da
Settimello, lodato scrittore della fine del secolo XII, noto
specialmente per un poemetto elegiaco, intitolato: De diversitate
fortunae, et philosophiae consolatione, operetta stata un tempo in
gran pregio, che serviva nelle scuole per esempio di buona latinità, e
della quale ce ne ha una pregevolissima traduzione italiana del
secolo XIV.
Era priore di Settimello nel tempo che qui discorriamo ser Giovanni
da Vicchio; un ometto di quarant'anni, o poco più, piccolo assai della
persona, ma atticciato e rubizzo: acceríto naturalmente, che gli si
sarebbe potuto accendere uno zolfanello sul viso: sciatto assai nel
vestire: pronto e vivacissimo parlatore, benchè di piccola dottrina;
amante del viver lieto; vago del vino e dei buoni bocconi; ma poi
buona pasta d'uomo e buon prete. Aveva costui una fante, che si
chiamava la Simona, vecchia oramai, cerpellina, secca spenta, e un
poco zoppa da un piede: scrupolosa e divota per modo che non
sarebbe mai uscita di chiesa: svenevole negli atti e nella voce;
seccatora ed uggiosa quanto ne può entrare in una donna; ed oltre a
questo, essendo oggimai vent'anni che stava col prete, aveva preso
in casa tal padronanza, che quel pover uomo alle volte ne avrebbe
rinnegata la pazienza, e levatasela d'attorno. Ma, come la Simona
avea le man benedette, e gli sapea fare certe pietanzine ghiotte e
appetitose da far risuscitare anche un morto, così piuttosto si
rassegnava a ingollare qualche amaro boccone, e molte volte
chiudeva gli occhi, e figurava di non sentire, per non trovarsi a
perdere così valente cuoca.
E quella sera appunto la Simona era in gran faccenda per una
cenetta più allegra del solito; frutto di certo grasso mortorio, che il
sere ci aveva avuto il giorno innanzi: e già incominciava a preparare
tutto il bisognevole per la cucina, quando i due viandanti entravano
in paese.
Settimello a quell'ora e a quel freddo pareva un deserto; e maestro
Cecco con frate Marco non si abbatterono in anima viva. Arrivati alla
canonica e picchiato all'uscio, nè alla prima nè alla seconda niuno
rispose, e già i due assiderati temevano di dover avere la mala notte;
ma picchia e ripicchia, si udì un vocione di terreno gridare:
— Chi è costà?
Il frate riconobbe la voce del sere, e non fu tardo a rispondere:
— Son io, sere Gianni, son frate Marco di S. Maria Novella; aprite,
per l'amor di Dio, chè si spirita dal freddo.
Il prete, riconosciuta la voce del frate, aprì senza indugio, e fatta a
lui e al suo compagno lieta accoglienza, li fece passare di là, ed
acceso prima di tutto un bel fuoco, e dato loro un bicchier di
vernaccia, gli riconfortò tutti.
— Che gran cagione, frate Marco, vi muove a uscir da Firenze con
questa furia di tempo? E, se vi piace, chi è cotesti che vi
accompagna, e che all'abito sembra persona di gran qualità e di
scienza? domandò sere Gianni.
— Questi, rispose il frate, è veramente uomo di gran qualità e
solenne maestro; egli è maestro Cecco d'Ascoli, poeta, filosofo,
astrologo, medico, e tutto quel che volete. Egli si è mosso veramente
per grave cagione da Firenze; chè deve ire a Prato, a medicare per
comando di monsignore lo duca Carlo, un gran signore provenzale,
rimasto ferito nella battaglia sotto Pistoja; ed io son venuto
solamente per compagnía di esso, chè da lui imparo astrología.
Il prete era, come ho detto, uomo di non molta dottrina, anzi era
piuttosto idiota che no, e forse, o non aveva mai sentito mentovare
Cecco, o ben poco ne sapea; ma, udendolo tanto celebrare da frate
Marco, incominciò a giocar d'inchini e di riverenze; e fattogli un
monte di profferte, condusse ambedue in una camera, che si
riposassero un poco, ed allogati i cavalli alla meglio, chiamò la
Simona, ordinandole che facesse la cena più abbondante, ed
ammazzasse di più quattro piccioni da fare arrosto, chè voleva farsi
onore coi nuovi arrivati: egli poi penserebbe a trovar giù in cantina
un par di fiaschi di quello proprio pisciato dagli angeli.
— Messere, disse la Simona, abbiate un poco di discrezione; io or
ora son vecchia, e ho un par di braccia sole: è già passato vespro da
un pezzo: come si fa così su due piedi a far quasi una cena di sana
pianta?
— Va, va, monna Simona: sii buona, via, per istasera; non mi fare
scomparire: eppure a frate Marco gli vuoi bene anche tu!... e
quell'altro, sai, è un gran teologo, un mezzo santo.
La Simona, scotendo il capo, andò al lavoro; e il prete ritornò dai
forestieri, e mostrò a Cecco la chiesa e tutta la canonica, infino alla
cantina e al pollajo e alla piccionaja. Egli era quella sera più lieto del
solito, e lo mostrava nel parlare e negli atti; per modo che a Cecco
gli piacque assai, e studiatolo per tutti i versi, conobbe poter essere
uomo acconcio al proposito suo.
Intanto fra una cosa e l'altra, e tra il motteggiar del frate, e tra le
spesse visite, che or l'un or l'altro dei tre facevano in cucina a monna
Simona, la quale ne mostrava assai fastidio, venne l'ora della cena; e
si misero tutti a tavola. La Simona era ritrosa e brontolona, come ho
detto; ma al padrone era affezionata, e aveva caro che si facesse
onor cogli amici, ed era ambiziosa di far vedere la sua perizia nel far
da cucina; e però la cena riuscì veramente gustosa, e lo stesso prete
ne la lodò assai, unendo le sue alle lodi dei forestieri. Non
mancarono i lieti ragionari, e i motti, così del prete come di maestro
Cecco, il quale era alle volte di umore piacevolissimo.
— Sere, disse Cecco tra l'altre, pare che la vostra chiesa vi renda
assai bene, se potete apparecchiare così gustosi mangiari, ed avete
nella cella di questi vini così squisiti.
— Maestro mio, rispose il prete, e che altra satisfazione abbiamo noi
che in queste tre dita? — e misurossi con tre dita della mano la gola.
— Qua le leggi sopra i conviti non ci arrivano; e un bocconcíno
buono, e un buon gotta di vino, ci tengon luogo di tutti gli spassi e di
tutti i sollazzi che si hanno per le città. E come qua non arrivano
neppure le leggi sopra i mortorj, e ieri vi fu un assai ricco mortorio
d'un gran cittadino di Firenze, che ha una gran possessione qui
presso, così oggi ho voluto fare un po' di rialto, e son proprio lieto
che siate capitati voi altri; chè, la roba mangiata in buona compagnía
ha miglior sapore il doppio; e approda più, e fa miglior sangue. Ho
detto in buona compagnía, perchè quella che mangiai anno in
compagnía di altri, mi mise veleno, e mi par di averla sempre qui alla
gola.
E domandandogli maestro Cecco ed il frate che cosa volesse dire con
quelle parole, il prete continuò:
— Dovete pur ricordarvi che nel passato anno Castruccio disertò
quasi tutto il contado pistojese, e tutto il contado fiorentino,
correndo fino sotto le mura di Firenze; e dovete ricordarvi che tra le
castella corse e distrutte da lui vi fu Calenzano a poche balestrate di
qui; ed io reputo a miracolo del mio Santo, se io e la Simona siam
vivi tuttora. Ma la vita la comprai cara: mi si piantarono qui in casa
tre caporali della gente di Castruccio; e quei maledetti da Dio
facevano del mio come del loro; e per maggiore scherno volevano
che io mangiassi con loro, perchè avessi anche il martoro di vederli
gavazzare con quella grazia di Dio che avevo in casa.
E diceva queste parole con gli occhi così stralunati, e con atto di
tanta stizza, che un poco era una compassione, ed un poco una
festa a vederlo.
— Comprendo anch'io, rispose Cecco, deve essere stato un grande
strazio per voi. Ma oramai acqua passata non macina più; e stasera
non si deve parlare se non di cose liete. Oh! a proposito —
soggiunse, quasi gli tornasse in mente cosa lasciata indietro, ma per
entrare a trattare del proposito — questa non è la strada che mena
in Mugello?
— È, rispose il prete.
— Ditemi, se Dio vi dia bene, il monastero di S. Piero è molto lungi
di qui?
— Oh! è assai di lungi: tre ore di cammino bastano a fatica per
giungervi. Pensate se io lo so! Sono familiare di madonna la
badessa, che è una dei Cavalcanti, la quale fa sempre capo a me per
ogni suo bisogno.
Se maestro Cecco fu lieto di apprender ciò, non è qui bisogno di
dirlo; ma, dissimulando la sua letizia:
— Sentite, frate Marco? Ed appunto voi dovete conferire con quella
badessa per cosa che importa. Il sere qui potrà efficacemente
ajutarvi.
E così dicendo, ammiccò al frate che lo secondasse. Ma il frate, non
indovinando se non così in nube a che cosa si riferissero le parole di
lui, si teneva sulle generali:
— Eh sì, il sere può efficacemente ajutarmi, ed io ne lo pregherò.
— Eccomi qua tutto per voi, disse il prete, e per maestro Cecco, il
quale tanto mi piace, che mi pare di essere suo amico da cento anni
in qua.
E il maestro, per sempre più farselo suo:
— Proprio vero che i sangui s'incontrano; ed anch'io, vedete, sere
Gianni, mi pare di essere vecchio amico vostro, tanto schietta e tanto
piacevole, e tanto benigna persona voi siete. Ma, tornando al
monastero, è molto tempo che non siete stato colà?
— La cosa è fresca fresca: ne venni due sere sono.
Frate Marco, che cominciava a indovinare il pensiero di Cecco, per
agevolargli la via alle sue richieste, domandò egli al prete:
— Oh Dio! quanto mi piace che siate conoscente della badessa! Voi
sapete com'io sono famigliare de' Cavalcanti di Firenze, e forse
potete aver saputo come messer Geri de' Cavalcanti abbia in quel
monastero rinchiusa una sua figliuola.
— Potete aver saputo? Ho veduto, voi avete a dire. Povera fanciulla!
Vi accerto che fa pianger le pietre. Ma perchè fu rinchiusa così?
— Vi dirò, questa fanciulla ama un cavaliere provenzale....
— Il più nobile, più gentile e più cattolico cavaliere di tutta Provenza
— interruppe Cecco.
E il frate, continuando al primo detto:
— Un cavaliere provenzale, che, siccome ben dice il maestro, è il
fiore de' gentili cavalieri; e questi arde di pari amore per lei, e
vorrebbe torsela per donna. Ma il padre non vuol sentirne parlare
nemmeno, e piuttosto che vederla a lui maritata, l'ha, si può dire,
seppellita viva così.
— Debb'essere un padre ben crudo quel messer Geri, esclamò il
prete.
— E però vedete, bell'amico, sarebbe opera da vero cristiano
l'ajutare il buon esito di questo amore: e voi lo potreste; chè siete
familiare della badessa, la quale è de' Cavalcanti, come avete detto
dianzi, e debb'essere parente di messer Geri.
— I Cavalcanti, dei quali è la badessa, sono per avventura consorti
della case onde esce messer Geri, ma assai alla lontana — entrò qui
a dire frate Marco.
— Ma, ripigliò Cecco, voi che foste ier l'altro a quel monastero, come
si porge umana la badessa inverso la sventurata fanciulla?
— Una madre, disse il prete, può arrivare fin lì; e quando essa è
lontana ne parla con tanto affetto e con tal pietà, che si stenta a
comprendere qual di loro due sia più addolorata.
Cecco aveva compreso quanto bastava; e però senza moltiplicar
domande, provò a venir a mezza spada così:
— Sere Gianni, fate quest'opera pietosa; venite con esso noi di qui a
qualche dì fino al monastero, e vediamo se fra tutti si riconduce alla
vita quella povera fanciulla.
E il prete, che, siccome ho detto, era meglio del pane, non solo disse
che sarebbe stato sempre disposto al piacere di Cecco, ma se ne
mostrò invogliato quanto lui.
Dopo ciò ricominciossi a parlare di cose piacevoli ed a motteggiare,
quando tutta rossa nel viso, unta e bisunta, entrò la Simona co'
quattro piccioni arrosto, così ben crogiolati, e con un odore così
ghiotto che dicevano mangiami, mangiami. Posato il tagliere sulla
tavola, ed invitato maestro Cecco a spezzargli, come prima fu per
infilar la forchetta in uno di essi, si vide rimpennato e levare il volo
per la stanza; a che il maestro disse ridendo:
— Monna Simona, se Dio vi dia bene, come volevate voi che
mangiassimo il piccione vivo?
La povera Simona, non che avesse balía di rispondere, ma rimase
stralunata ed a bocca aperta, nè sapeva che si pensare; e il prete
non fu meno stupefatto di lei. Anche frate Marco, benchè sapesse
quanto maestro Cecco fosse valente in opera di prodigj, pure, non
aspettandosi allora quello, ne rimase un po' stupito; mentre maestro
Cecco, come se non toccasse a lui, tirava a spezzare gli altri piccioni;
e finito che ebbe, porse il tagliere al prete che si facesse la parte
sua. Ma il prete, il qual fino allora aveva accettato ogni cosa portagli
da lui, questa volta non aveva cuore di accettare, e ci andava come
la serpe all'incanto. Pure alla fine si vinse; e a tutti, fuorchè alla
Simona, che sempre era rimasta lì insensata, riuscì il prendere la
cosa in giuoco. Riavutasi un po' la Simona, fu anche ella cercata di
persuadere che del piccione non era stato se non un giuoco: e la
cosa sarebbe rimasta lì, se maestro Cecco non avesse voluto burlarsi
un altro poco del prete e della serva. Venute le frutte, e
presentatone un tagliere a maestro Cecco, come prima egli ci ebbe
messo le mani, spariron tutte: preso il fiasco del vino per mescere,
nel bicchiere suo il fiasco versò il solito vino, e in quello del prete
acqua limpidissima: la lucerna cominciò a dare una luce rossa come
di sangue; per modo che il prete e la Simona spaventati fuggirono,
l'una chiudendosi in camera, l'altro correndo in chiesa per armarsi
de' suoi paramenti, ed esorcizzare maestro Cecco. Frate Marco andò
dietro al prete, e con quelle parole più efficaci che poteva lo accertò
non essere i prodigj operati dal maestro opera diabolica, ma frutto di
lungo studio e della sua grande scienza; ed alle parole del frate si
aggiunsero quelle di Cecco stesso, che anch'egli era venuto dal
prete, facendogli vedere come il piccione volato era uno di quelli di
piccionaja, da lui preso nel girar la canonica, e nascostoselo dentro
una manica; e come fece le altre cose glielo mostrò, e glielo spiegò
minutamente.
Il sere rimase chiarito quasi del tutto; ma, siccome era di già parato,
ed ogni dubbio non gli era uscito ancora affatto dal cuore, così volle
fargli l'esorcismo in tutte le regole, per vivere del tutto sicuro, alla
qual cosa Cecco si prestò di buon animo: e dette le orazioni
preliminari, e fatte le aspersioni dell'acqua santa secondo il rito della
chiesa, venne a chiedere il nome dello spirito maligno con questa
orazione:
«Spirito immondo, che occupi questo corpo, qualunque tu sia, per i
meriti della gloriosa passione, resurrezione e ascensione del nostro
signore Gesù Cristo; per la missione dello Spirito Santo e per
l'avvento di lui, ti comando, qualunque tu sia, che mi manifesti e mi
dica il tuo nome, il giorno e l'ora della tua uscita dal corpo col segno
dello spegnere il lume. Da capo ti comando per i meriti della gloriosa
Vergine Maria madre di Dio, di san Zenone, di sant'Ambrogio e di san
Gimignano, di tutti i santi e sante di Dio, che tu mi manifesti e mi
dica il tuo nome, e il giorno e l'ora della tua uscita, col segno dello
spegnere il lume.»
E ripetè questa intimazione con poca varietà anche la terza volta. Lo
spirito naturalmente non rispose nulla, e il prete badava a dire con
più fervore tutte le lunghe orazioni del rituale, aspettando se nulla
uscisse di corpo al maestro. Il quale mal si potea tenere di non
ridere, e ne avrebbe fatta qualcuna delle sue da fare spiritare quel
buon sere; ma se ne ritenne per timore di sdegnarlo, e di non poter
poi giovarsene più per la faccenda del monastero di s. Piero.
All'ultimo, vedendo che il diavolo non rispondeva, e vinto dalle parole
di frate Marco e del maestro stesso, fu persuaso che questi non era il
diavolo, nè aveva diavoli addosso; e accompagnati i due ospiti nella
camera loro assegnata, andò a letto anche lui.
Se il prete per altro era persuaso che Cecco fosse un uomo come gli
altri, non era persuasa per niente la Simona, la quale, serratasi in
camera, si mise in ardente orazione, tirando giù tutti i santi del
paradiso: rifrustò per il soppidiano tutte le reliquie, che ne aveva un
subisso, e l'appiccicò tutte all'uscio della sua camera, perchè il
diavolo si spaventasse di accostarsi; e prima di entrare nel letto,
altre di esse ne mise sotto il capezzale; e si rannicchiò tutta sotto le
lenzuola, biasciando avemmaríe, e ripensando ai prodigj di Cecco, e
con la paura addosso di sentir qualcosa per casa. Insomma stette
tutta quanta la notte con l'animo sollevato, e non potè chiuder
occhio.
CAPITOLO XX.
DA SETTIMELLO A PRATO.
La mattina per tempo maestro Cecco e frate Marco erano già in
piedi; la stagione si era rimessa al buono, ed era una delle bellissime
giornate di ottobre, che in questo piano e colline di Firenze sono
deliziose. Il prete era stato anche più sollecito di loro, e già aveva
detto messa, e stava ordinando con la Simona un poco d'asciolvere;
la quale vi si prestava di mala voglia, certa come parevale d'essere,
che ella preparava il pasto per il diavolo, e dichiarando
assolutamente che in tavola non avrebbe portato, e che non voleva
più vedere in viso maestro Cecco: non senza aggiungere parole di
corruccio e di maraviglia contro frate Marco, come egli non avesse
paura di andare in compagnía di quel negromante. Nè valsero a
smuoverla le assicurazioni del prete, che qui la magía non aveva
nulla che fare; che quel piccione era della sua piccionaja così e così;
che le altre cose operate da Cecco erano secondo scienza naturale:
non ci fu verso che la ne volesse sentir parlare; e se vollero far
l'asciolvere, bisognò che il prete mettesse in tavola e servisse da sè.
Mangiato che ebbero, fecero a un lavoratore del prete sellare i
cavalli, e rinnovate le preghiere per il fatto della badessa di San
Piero, e rimasti d'accordo che egli sarebbe ito con loro, e fatto per
loro ogni opera, quando paresse loro opportuno, i due lo
ringraziarono della sua cortese ospitalità e montarono a cavallo,
deviando un poco dalla strada mugellana per rientrare nella strada
maestra, che mena a Prato.
Non erano iti molto innanzi, che si scoperse a' loro occhi il castello di
Calenzano, le cui mura alte e merlate, e il cui maestoso aspetto
diedero assai maraviglia a Cecco, il quale chiese al frate:
— Frate Marco, che è quel castello lassù? accennando col dito.
— È il castello vecchio di Calenzano: lo fabbricarono i fiorentini anni
ed anni sono; ed era riputato uno dei belli e fortissimi arnesi di tutto
il contado. Tuttavía non potè resistere alla furia indiavolata de'
Ghibellini, che ci vinsero a Monteaperti, i quali lo presero e lo
disfecero; e non potè resistere anno, benchè riedificato ed afforzato
mirabilmente, alla furia di Castruccio, che lo vinse, e lo arse, come
vedete che le mura sono mezze diroccate, e si vede fin di quaggiù
che le sono arsicce.
— Ma questo Castruccio è proprio un diavolo dell'inferno; ed è vero
martello di voi altri poveri fiorentini.
— Castruccio è valoroso signore, e savio di guerra più che capitano
d'Italia o di Francia; e noi fiorentini non abbiamo chi potergli mettere
a fronte.
— Monsignor lo duca ha seco valenti capitani, e non può fallire che
egli fiacchi le corna a questo altero lucchese.
E così di ragionamento in ragionamento arrivarono a Prato là in sulla
nona. Prato era fin d'allora una terra assai grossa, non di gran conto,
ma già ricordata come castello di dominio de' conti Alberti fino dal
principio del secolo XI; la quale andò sempre prosperando per modo
che verso la fine del secolo XII troviamo accresciuto il paese di
borghi, e quel comune aver fatto provvisione di circondarlo di più
larga cerchia, e di fortificare con torri le nuove porte. Per molto
tempo i pratesi furono governati da un vicario imperiale; e
l'imperadore Federigo II vi fece edificare la fortezza, parte della
quale è in essere tuttora, che fu chiamata il Castello dell'imperatore.
In sul principio del secolo XIV per altro Prato abbandonò la parte
imperiale, e consegnò a un capitano guelfo il castello, che lo prese a
nome de' fiorentini: e in questo anno 1326 gli otto difensori della
terra di Prato dettero liberamente il governo di essa al duca di
Calabria, che, siccome vedemmo, vi avea mandato la sua gente.
Guglielmo era albergato nelle case dei Guazzalotri, trattatovi con
ogni riguardo dicevole alla gentilezza di lui; nè fu difficile a Cecco e
al frate di farsi guidare colà. Appena il cavaliere scorse sull'uscio di
camera maestro Cecco, stese le braccia verso di lui come se avesse
veduto un angelo del paradiso; e Cecco lo corse subito ad
abbracciare, domandandogli come egli stesse della sua ferita; ed il
medesimo fece frate Marco, che già erasi avvicinato al letto. Egli per
altro non rispose nulla a questa domanda; ma con atto e con voce di
efficacissima esortazione:
— Maestro, se ogni vostro desío si compia, che è della Bice?
— Della Bice vostra ne sarebbe male, se la fortuna non ci
apparecchiasse già un rimedio che io credo efficace. Testè ne
parleremo; ma prima fate ch'io veda la vostra ferita; chè il duca e la
duchessa ne aspettano da me subito ed esatto ragguaglio.
— Deh! no: la ferita mia della gamba è per poco guarita; pronta ed
efficace medicina la chiede la ferita del cuore, che avete fatta più
acerba con le vostre parole. Siate pietoso di me: come ne sarebbe
male della mia Bice?
Cecco, vedendo che non sarebbe stato possibile il parlar con esso di
altra cosa prima di avergli detto il tutto della sua donna, rifattosi da
capo, narrò al cavaliere come si fosse messer Geri mostrato crudo
verso di lei, e come l'avesse fatta rinchiudere nel monastero di
Mugello; come poi, essendosi dovuti fermare dal prete di Settimello,
non solo ne avessero raccolto che la badessa era tenerissima della
fanciulla, ma avevano avuto promessa da lui, il quale della badessa
era famigliare, che avrebbe fatto di tutto per renderla benigna al
fatto loro:
— Sicchè — continuò Cecco — state a buona speranza; io ho
pensato cosa che vi farà lieto per avventura, e la letizia vostra sarà
letizia mia, tanto ora mi sento infervorato in questa impresa, alla
quale nel cominciare andai tanto freddo. E l'esser meco qui frate
Marco, dovete pensare che non sia senza un perchè.
— Oh, maestro mio dolce, voi mi rendete la vita; e voi, bel frate, non
so come rendervi grazia per grazia. Ma deh! fate che io sappia il
vostro disegno.
— Messere, disse il frate, qual sia il pensiero del maestro non so:
solo mi chiese che io venissi qua seco per cosa che importava, ed io
venni a far tutto quello che egli m'imponesse; ed ora il faccio anche
più lietamente, quando veggo esser cosa che piace a voi.
E maestro Cecco seguitò:
— Sire Guglielmo, che fa a voi il sapere questo disegno? Esso per
ora ha a rimanere nella mia mente; e ciò, credetelo, sarà buono a
voi ed alla Bice. Voi attendete a guarire; chè, per colorire tal
disegno, è mestieri che siate sano, ed aitante della persona.
— Sano ed aitante della persona? Maestro, monto a cavallo anche
adesso....
— Adesso non è tempo di montare a cavallo; ma per voi di attendere
a curarvi, affine di maturar bene il mio disegno. Intanto fate che
vegga la vostra ferita, acciocchè io possa esser certo dello stato
vostro, e riferirne tosto a Firenze.
E Guglielmo, senza più contradire, si fece visitare tutto
attentamente. La ferita, che da principio pareva gravissima, perchè si
credeva fosse reciso un grosso tronco arterioso, non era infine di
assoluta gravità. La saetta del verrettone avea accarnato assai a
fondo, e avea fatto grande lacerazione nella coscia; ma arterie
grosse non erano state recise; per forma che la cosa procedeva
regolarmente, e la margine si era quasi tutta formata, il che dava
certezza di perfetta guarigione di lì a pocchi giorni; ad affrettar la
quale maestro Cecco applicò sopra la ferita un cotal suo cerotto di
meravigliosa virtù, non solo a rimarginare, ma a dar forza e vigore
alle membra. Fatto questo, si mise a scrivere la lettera al duca per
ragguagliarlo di tutto, e per assicurar lui e la duchessa rispetto a
messer Guglielmo, il quale, tra per l'assidua cura che Cecco e frate
Marco gli avevano, e per la speranza che Cecco stesso aveagli messo
nel cuore, andava si può dire, ogni ora di bene in meglio; e se non di
montare a cavallo subito, come avea detto di voler fare, pure dava
certo segno che avrebbe potuto montarvi di lì a pochi giorni. Il
maestro non lo abbandonava quasi mai, ed era sempre da lui tenuto
in parole, o ragionando della sua Bice, o raccontando spesso tutte le
vicende di quella sventurata battaglia dov'era stato ferito, e del gran
valore di Castruccio; e facendosi raccontare da esso tutto ciò che
aveva udito dire delle altre fazioni di guerra; e come il duca fosse
stato colpito del mal successo; e come i Fiorentini ne accogliessero
la novella: e se pensavasi a ripigliar l'armi da capo.
Ma lasciamo per un momento che Guglielmo e il maestro Cecco
ragionino a lor senno; e ritorniamo in questo mezzo a Firenze, dove
pure vi ha de' personaggi che il lettore potrebbe credergli essere
stati dimenticati da noi.
CAPITOLO XXI.
IN CITTÀ, E IN PALAGIO.
La città di Firenze durava sempre nel suo smarrimento, anzi ogni
giorno che passava portava seco la scoperta di nuovi danni patiti. Il
contado quasi tutto disertato, e sossopra per modo che era inutile
quasi il pensare alle semente: infestato da malandrini, e sempre in
sospetto di nuove scorreríe di Castruccio. Dopo il fallimento degli
Scali, il commercio fiorentino aveva, come dicemmo, sofferto grave
caduta; e più grave erasi fatta dopo l'infelice esito di questa impresa:
molte case facevano corrotto per la perdita de' loro cari; tutti erano
disfatti, e non sapevano veder modo di riparare a tanta rovina. Come
ciò poi fosse poco, si aggiunse che il re Roberto mandò al comune di
Firenze, che, oltre a' primi patti che i fiorentini aveano fatto col duca,
voleva che stessero a pagare la taglia di ottocento cavalieri
oltramontani, per i quali aveva già mandato in Provenza, in
Valentinese e in Francia, invitando a ciò le altre potenze amiche di
Toscana, come i perugini, i senesi e le altre terre d'intorno, acciocchè
il duca fosse meglio accompagnato nella guerra: e se ciò non si
facesse dai fiorentini, comandò al duca che si partisse da Firenze e
tornasse a Napoli. I fiorentini di tal richiesta molto si turbarono, così
per il non portabile carico, come per questo continuo rompere di
patti; e parea loro dall'altro canto di aver troppo mal partito a
lasciare andar via il duca da Firenze; laonde bisognò rassegnarsi
anche a questo, e portarne quasi intero il carico, dacchè le terre
vicine non vollero concorrere alla spesa.
Per la qual cosa fecero composizione col duca di dargli trentamila
fiorini d'oro per i detti cavalieri, e parte ne diedero, ma piccola, i
senesi; ma nè i perugini, nè le altre terre non vollero dar nulla. E
così in quei pochi mesi che Carlo era stato signor di Firenze, tra per
la sua provvigione e le altre spese che fece fare ai fiorentini, il
comune si trovò speso più di quattrocento migliaja di fiorini d'oro,
ritratti, come dice il Villani, da gabelle, imposte, libbre e altre
entrate, che fu tenuto gran caso e maraviglioso, e ciascuno se ne
sentiva dolente. E oltre a ciò, per il consiglio de' suoi savj, il duca
recò in tutto a sè la signoría di Firenze dalle piccole cose alle grandi,
e avvilì per forma l'ufficio de' priori che non osavano di fare la più
piccola cosa, nè anche eleggere un messo; e sempre stava coi priori
uno dei suoi savj; onde a' cittadini, ch'erano avvezzi a signoreggiare
la città, ne parea molto male. Ma, conchiude qui il buon Villani,
grande sentenza di Dio fu che per le loro sette passate fosse avvilita
la loro signoría per più vile gente e men savj di loro.
Queste cose avvenivano appunto in sullo spirare dei due mesi del
gonfalonierato di Daldo di Tingo de' Marignolli; e dovendosi eleggere
la nuova signoría, il duca comandò al duca d'Atene che operasse in
modo, o per amore o per forza, che si creassero gonfaloniere e priori
de' suoi amici, e si lasciasse il vecchio e troppo lungo modo della
elezione, facendogli a mano; e il duca d'Atene seppe tanto dire e
fare, ed i fiorentini tanto erano impecoriti, che la cosa andò come
voleva il duca. Il modo di eleggere il gonfaloniere di giustizia
mostrava il senno e la previdenza de' fiorentini, e la gelosía che
avevano del comune e della repubblica; e le onoranze che si
facevano ad esso e ai priori, mostrano quanto stesse nel cuore di
tutti la esaltazione del comune di Firenze.
Nè sia discaro al lettore che qui più brevemente che posso lo
accenni; non solo come lume della storia di quel tempo, ma come
esempio da meditare, se non da seguitare, anche nel modo di tante
elezioni de' tempi odierni, nelle quali prevale quasi sempre la setta e
la combríccola.
Nel medesimo giorno che veniva fatta la elezione, i priori allora
sedenti facevano intimare le capitudini delle dodici arti maggiori, che
fossero avanti di loro in quel luogo che ad essi signori fosse parso
più comodo, siccome ancora due buonomini di qualunque Sesto; ai
quali era dato giuramento di far bene e con ogni lealtà questa tale
elezione. Di poi facevasi una nominazione o brevetto del Sesto da cui
doveva eleggersi il gonfaloniere; e quando il Sesto era nominato,
eleggevano del Sesto medesimo sei uomini popolari ed artefici,
facendone di ciascheduno di essi segretissimo squittinio, eccettuando
però da esso le capitudini ed i savj di quel Sesto, da cui il
gonfaloniere doveva essere eletto. Quel tale che per questa sublime
dignità veniva squittinato dalle arti maggiori ed artefici della città di
Firenze, doveva essere persona che fosse dello stato, pacifico e
tranquillo, amatore di giustizia, e di sincera e specchiata purità
d'animo; e che sopra ogni cosa non fosse stato magnate, o elettore
di quelli e quello che nello squittinio precedente restava più
numeroso di voti, e per conseguente costituito in tal grado. Non
poteva essere gonfaloniere chi fosse stato consorte, o della famiglia
o casato di alcuno de' priori, che nel tempo della sua elezione fosse
riseduto in tal magistrato. E quando aveva finito l'uffizio, si veniva a
eleggere in modo simile un altro, che doveva essere di un Sesto
diverso: e così di due in due mesi, per modo che a capo dell'anno
ogni Sesto aveva il suo gonfaloniere. Finito l'uffizio, aveva divieto dal
magistrato suddetto per tre anni. Il gonfaloniere di giustizia, che
risedeva in palazzo insieme coi priori, doveva tenere nella abitazione
propria uno stendardo bianco di buono e sodo zendado, entrovi una
croce rossa, che lo abbracciava tutto; e gli era consegnato
pubblicamente dal capitano di giustizia, dopo preso il giuramento,
essendo presenti i priori vecchi ed i nuovi; ma questo si fece solo per
la elezione del primo gonfaloniere di giustizia, che fu nel 1292 nella
persona di Baldo Ruffoli; chè, per il tempo vegnente, il gonfaloniere,
finito l'uffizio, consegnava di sua propria mano al suo successore lo
stendardo, rogandosene ogni volta un contratto. Oltre allo
stendardo, dovea tenere in palazzo cento pavesi, ovvero targhe;
cento elmi, o celate, dell'insegna del suo stendardo dipinte, cento
lance, venticinque balestre coi quadrelli e tutti i fornimenti, ed altri
simili materiali in grande abbondanza. Alla sua guardia, e a quella
de' priori e del suo palazzo, si destinarono da principio mille pedoni,
che poi furono condotti a duemila; ed erano tutta gente popolare ed
artefici della città, scelti tra gente buona e pacifica; e questi nella
loro elezione giuravano di star sempre pronti, e prestamente correre,
nel sollevarsi dei rumori o tumulti, verso detto palazzo, ed ancora di
essere presti ogni volta che fossero per pubblico bando, o per suon
di campana, o per qualche mosso addomandati dai signori priori o
dal gonfaloniere di giustizia; e dovevano seguitar sempre il
gonfaloniere, e star sempre seco, mentre era fuori per esercizio del
suo uffizio. E ciò facevasi per far apparire l'onore che a tanta dignità
si doveva; e tutto per esaltazione del comune di Firenze.
Ci erano altresì compagníe di picconieri, e maestri di pietra e
legname, e mille pedoni, tutta gente scelta e gagliarda, eletti dal
gonfaloniere e dai priori: quattrocento de' quali erano armati di una
specie di lancia, detta gualda; e gli altri di archi e balestre. Le loro
armi dovevano essere perfette, ed erano forniti di molto saettame.
Quando occorreva per diverse faccende al gonfaloniere di giustizia
uscir fuori di palazzo, stavano serrate tutte le botteghe; ed era sotto
gravi pene vietato ai magnati di andare in que' luoghi dove fosse
stato o andato egli. Nè meno gli era permesso di andar fuori collo
stendardo e soldati armati, senza che prima ne fosse fatta
deliberazione in palazzo da' priori, dichiarandosi dove fosse voluto
andare, e che gente intendesse condur seco, e quanta, e di qual
Sesto. Al gonfaloniere poi erano destinati sei consiglieri popolani, ed
artefici della città, uno per Sesto: ed erano scelti da lui medesimo e
dai priori; e potevano a loro volontà avere appresso di sè altri uomini
prudenti, per giovarsi del loro consiglio.
Di così fatta maestà voleva Firenze che fosse circondato il suo
magistrato supremo; ma, come ho detto qua dietro, avendo il duca
ridotto ogni cosa piccola e grande in sua potestà, quasi tutte simili
magnificenze eransi tolte, rimanendovi solo l'apparenza: e questa
volta ne anche gli squittini si fecero al modo usato, e la novella
signoría fu tutta quale la voleva il duca e non altrimenti. E vanno qui
ricordati i nomi di ciascuno di coloro, che si rassegnarono la prima
volta a tanta ignominia. Priori furono: Rosso Aldobrandini, Giotto
d'Arnaldo Peruzzi, Tommaso Dietajuti della Badessa, Nerone di Nigi
Dietesalvi, Falconieri Baldesi, Leone di Simone; e gonfaloniere fu
messer Covone di Naddo Covoni. E questi, tra per la paura e per
essere tutti uomini del duca, nè più nè meno facevano che quello
che al duca piacesse.
In palagio dall'altro lato, mentre si volea mostrare baldanza, e
certezza di vittoria per l'avvenire, si stava nel fatto molto paurosi e
molto pensierosi, ed all'un consiglio succedeva l'altro; e si cercava di
pigliare giorno per giorno quei temperamenti, che sembravano
migliori alla difesa, dove ne occorresse bisogno, ed alla offesa
quando fosse tempo da ciò; e come tutte le arti si tengono buone
contro il nemico, il duca tanto fece che tenne trattato in Lucca con
messer Guerruccio Quartigiani, quel medesimo che diede già la
signoría a Castruccio, per ora ritorgliela, come dirassi più qua.
E il duca e la città per altro incominciarono a ripigliar cuore e
baldanza quando arrivarono gli altri ottocento cavalieri oltremontani;
e al duca specialmente tornò lietissima la lettera di maestro Cecco,
dove si dava ragguaglio della malattía di Guglielmo, con la certezza
che fra pochi dì sarebbe sanato del tutto e ritornato a Firenze; e ad
incorare sempre più così il duca come i fiorentini si aggiunse, che,
avendo i ghibellini e i tiranni di Toscana e di Lombardía mandato loro
ambasciatori a sommuovere Lodovico di Baviera eletto re de' romani,
per contrastare alla forza del duca e della chiesa, il papa dal canto
suo fulminò esso Lodovico, e di nuovo Castruccio, con le sue folgori
spirituali, e la sentenza di scomunica fu solennemente pubblicata in
Firenze dal legato del papa nella chiesa di S. Giovanni.
CAPITOLO XXII.
NELLE CASE DE' CAVALCANTI.
Nelle case de' Cavalcanti, che il lettore oramai ben conosce, era per
altro maggiore desolazione che in città e in palagio.
Dal momento che allontanò da sè così spietatamente la sua Bice,
messer Geri non ebbe più bene; e tra gli acciacchi suoi abituali, che
erano diventati vere malattíe, e il rimorso e il rammarico che lo
straziavano continui dell'essere stato così spietato con quella cara
sua Bice, era ridotto una cosa tanto dolorosa, che faceva pietà a
vederlo; nè consigli e conforti di amici potevano sull'animo di lui: nè
a richiamare presso di sè la figliuola voleva condursi a niun patto,
così per non dar segno di debolezza, chè era alterissimo, come per
odio contro Guglielmo.
Aveva scritto spesso alla badessa, e le aveva spesso mandate uomini
a posta, pregando che alto alto interrogasse la Bice, e spiasse più
che poteva l'animo di lei, se ci fosse speranza, non appunto di
levargli dal cuore l'amore di Guglielmo, ma almeno di poter far
prevalere a quello l'amor filiale; ma, dove la Bice si mostrava sempre
tenerissima verso suo padre, dava però sempre segno che l'amore di
Guglielmo non avrebbe potuto a niun patto lasciare.
Maestro Dino del Garbo non passava giorno che non andasse a
visitarlo, e vedeva chiaro che la vita del vecchio poteva durar poco
più; ma, dove avrebbe potuto o tanto o quanto allungargliela, e
raddolcirgliene almeno gli ultimi giorni, ingegnandosi di rappacificarlo
con la figliuola, e dipingendogli la felicità del vedersela attorno, del
vederla altamente maritata, e del vedersi pargoleggiare dinanzi i
figliuoli di lei, tanto era l'odio che egli aveva a Cecco, favoritor
dell'amor di Guglielmo, ed a Guglielmo stesso dopo il colloquio avuto
con esso, che inacerbiva sempre più l'animo di messer Geri, il quale
per conseguenza ne peggiorava di sanità. Ed un giorno fra gli altri
ebbero insieme questo ragionamento, che lasciò dolorosissimo quel
padre sventurato:
— Maestro, la vostra arte si affatica invano per me; io sento ogni
giorno scemarmisi le forze, e vedo prossimo il fine. E non avrò chi mi
chiuda gli occhi....
— Messere, non dite; l'arte mia ha tanta virtù, e voi avete sempre
tanto vigore, che siete ben lungi ancora da quell'estremo che
paventate.
— Ch'io pavento? Ah, mio dolce amico, ch'io desidero, dovevate dire.
E che ha più altro di attrattivo la vita per me? La patria perduta la
signoría di se stessa, e datala a gente straniera, che la schernisce e
la strugge di ricchezze e di ogni suo bene, e conduce i suoi figliuoli al
macello e alla vergogna della fuga. In casa eccomi qui solo e
deserto: l'unica mia figliuola, che amava più dei miei occhi, ritrosa
alla mia volontà, posporre l'affetto del padre all'amore di uno
straniero, ed uccidermi quasi colle proprie mani.
— Non avete amico che più di me vi compianga, e che si spaventi,
quasi, della durezza di questa vostra figliuola. Ma il male non deve
proceder tutto da lei; è impossibile a una figliuola essere snaturata
così; questo debb'essere l'effetto di qualche filtro, di qualche
incantamento. Voi sapete che in sì fatto innamoramento ha le mani
Cecco d'Ascoli....
E questo diceva maestro Dino, non perchè lo credesse, chè troppo
era scienziato da prestar fede a fole siffatte, ma per accattar sempre
più odiosità a Cecco, e per valersi, al bisogno, anche di quest'arme
contro di lui.
— Ohimè! maestro — interruppe qui Geri — e veramente credete
che la mia Bice sia ammaliata?
— Credolo, perchè parmi contro a natura che una figliuola disami e
dispregi tanto suo padre.
— Ah maledetto sia il negromante! e maledetto questo duca, che ha
ricondotto a Firenze quello sleal cavaliere; e maledetta la mia città,
che tanta vergogna patisce! Oh Dio! ma come riavere tutto l'amore
della mia figliuola? Come liberarla dalle mani del diavolo?
Insegnatemelo, maestro: ardo di rivederla tutta mia, tutta amorosa.
Povero vecchio! non ho altra consolazione al mondo. Ajutatemi.
— L'arte mia qui non può nulla. Ci vogliono medicine spirituali:
intanto esortate la badessa che la tenga ben guardata; che preghi
per lei, affinchè Dio le tocchi il cuore, e la ritorni figliuola obbediente
e amorosa.
Povera Bice! e quando aveva ella cessato di essere figliuola
amorosa? Mai: neppur quando il padre avevala trattata così
duramente, gli aveva scemato di nulla l'immenso bene che volevagli;
e non sapeva discernere ella stessa, se più le doleva lo stare lontana
dal suo Guglielmo e il sospetto di averlo perduto per sempre, o il
vedere sdegnato il suo caro babbo. Sepolta, si può dire, viva da lui,
per lui ascendevano le sue più pure preghiere al Signore; e il
desiderio suo era pari tanto per Guglielmo quanto per il padre. Erano
già passati molti giorni che stava rinchiusa nel monastero di S. Piero,
dove si struggeva in continue lagrime, trovando solo un poco di
conforto nella compassione e nell'affetto che mostravale la buona
badessa; e viveva solo della speranza che un giorno o l'altro dovesse
venire novella da Firenze che suo padre avesse mutato il fiero
proposito, e la richiamasse fra le sue braccia.
Messer Geri era rimasto così vinto e così dolente delle parole di
maestro Dino, e tanto gli era parsa grave quella faccenda
dell'ammaliamento, che non sapea qual partito pigliarsi. Scrisse tosto
alla badessa informandola del fatto, e pregandola che facesse tutte
le più devote orazioni per liberare la figliuola da sì fatta sventura; e
sovvenutogli a un tratto frate Marco, di cui Geri faceva grande stima,
ed era assai valente teologo, mandò tosto per esso.
Frate Marco era appunto la sera innanzi cavalcato a Firenze per
bisogno del suo convento, promettendo a maestro Cecco che
sarebbe tornato a Prato fra due o tre giorni, disposto ad ogni suo
piacere e di messer Guglielmo: ed era appunto in sull'uscir dal
convento per andar alle case de' Cavalcanti, a scoprir paese, come
ne lo aveva sollecitato maestro Cecco, quando venne il messo di
messer Geri, il cui invito, se fu accolto lietamente dal frate, ciascuno
lo può pensare da sè, indovinando esso, qui doverci essere qualcosa
che riguardasse la Bice. Arrivato dunque alle case dei Cavalcanti,
entrò tosto da messer Geri, e con parole umanissime gli disse:
— Dio vi dia salute, messere. Che vi piace, chè mandaste per me?
— Bel frate, cosa non piccola vi chiedo, alla quale abbisogna e la
vostra scienza, e l'affetto che sempre avete mostrato per me e per la
mia casa.
— Purchè il volere non sia vinto dal non potere, son tutto vostro.
— Voi sapete quanto sia straziato il mio povero cuore dalla ritrosía e
dalla disubbidienza della mia Bice, che mi son gravi e dolorose anche
a doppio, vedendola perduta nell'amore di un cavalier forestiere, un
di coloro che hanno fatta serva la mia terra, e sfiorato barbaramente
il giglio fiorentino.
— Lo so, e ne vivo dolorosissimo. Io vi ho sempre riverito ed amato
per uno dei probi e discreti e gentili uomini di questa terra; e la
vostra figliuola ho sempre conosciuta per la più gentile e più bella di
tutte le fanciulle fiorentine, e per figliuola buona ed amorosissima; e
sempre ch'io capitavo qui da voi, mi sentivo dolcemente compreso
dalla domestica felicità vostra, la quale solea ricordarsi per esempio
da tutta la città, e molti e molti ve la invidiavano. E vi accerto,
messere, che il rammentarmelo ora, ed il veder tanta felicità, prima
avvelenata, e poi così spietatamente rotta, per opera forse della
malignità e della invidia, mi accuora proprio come se tale sventura
toccasse me.
A queste parole, che riduceangli a memoria le sue contentezze e le
sue gioje domestiche, il vecchio si sentì tutto commuovere, e,
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