Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
11 visualizzazioni5 pagine

Giovanni de Luna - Le Nuove Frontiere Della Storia. Il Cinema Come Documento Storico

Giovanni De Luna propone una metodologia radicale per l'uso del cinema come documento storico, sottolineando l'importanza di considerare il film sia come strumento narrativo che come fonte di conoscenza storica. Il cinema, attraverso il suo legame con il presente e l'intenzionalità degli autori, offre agli storici un'opportunità unica per esplorare il passato e la memoria collettiva. La sfida consiste nel superare le gerarchie tradizionali della storiografia e integrare l'analisi critica delle immagini nel processo educativo.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
11 visualizzazioni5 pagine

Giovanni de Luna - Le Nuove Frontiere Della Storia. Il Cinema Come Documento Storico

Giovanni De Luna propone una metodologia radicale per l'uso del cinema come documento storico, sottolineando l'importanza di considerare il film sia come strumento narrativo che come fonte di conoscenza storica. Il cinema, attraverso il suo legame con il presente e l'intenzionalità degli autori, offre agli storici un'opportunità unica per esplorare il passato e la memoria collettiva. La sfida consiste nel superare le gerarchie tradizionali della storiografia e integrare l'analisi critica delle immagini nel processo educativo.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 5

atis

associazione ticinese insegnanti di storia

Giovanni De Luna

Le nuove frontiere della storia


Il cinema come documento storico

L’operazione metodologica che propongo è radicale fino alla


brutalità, poiché si tratta di sradicare il film dal contesto in cui
è nato e portarlo nello statuto scientifico della storia. E’
un’operazione all’interno della quale la storia riafferma un
fortissimo imperialismo disciplinare e in cui cambiano tutte le
priorità: una pellicola che nella storia del cinema ha poco
valore, può essere uno straordinario documento per lo storico.
Per poter mettere il film sul “tavolo della tortura” e fargli dire
tutto quello che lo storico vuole sentirsi dire, bisogna avere una
critica delle fonti attrezzata a lavorare su documenti nuovi,
come lo sono quelli mediatici. I capisaldi della metodologia
della ricerca storica sono la verifica dell’autenticità e
dell’esattezza, la critica interna ed esterna, l’esame
dell’intenzionalità. Tutto questo bagaglio della critica delle
fonti è stato elaborato dalla storiografia positivista di fine
Ottocento sul documento scritto. Lavorare fuori dal documento
scritto, avere il cinema come fonte comporta una grandissima
responsabilità metodologica da parte dello storico.

Quando noi parliamo di rapporti tra cinema e storia


immaginiamo tre percorsi. Il cinema come agente di storia, il
cinema come strumento per raccontare la storia, il cinema
come fonte per la conoscenza storica. Questi sono i capisaldi
che come storici abbiamo riconosciuto nel momento in cui
abbiamo accettato di avere il cinema all’interno del nostro
statuto scientifico. Trascurerei di parlare qui del primo punto,
anche se è fortissima la dimensione che il cinema può assumere
in questo suo ruolo. Intendo cioè la capacità di strutturare
comportamenti, di promuovere passioni, scelte collettive; ci
sono film che non si sono limitati a recepire, ma sono
intervenuti a modificare il processo storico. Fragole e sangue è
stato per la mia generazione fondamentale per compiere
determinate scelte, così come Berretti verdi è stato decisivo
affinché il nostro ministro degli esteri Gianfranco Fini
diventasse un militante del Movimento sociale italiano. Intorno
al film La battaglia di Algeri si sono creati due schieramenti
contrapposti: quello degli immigrati magrebini e quello legato
ad elementi della destra francese. Teniamo però da parte,
anche se è un tema fondamentale, la capacità del cinema e in
generale dei media di suscitare passioni, mode e
comportamenti, di strutturare identità oltre che favorire scelte
politiche.
Voglio invece, anche per portare il discorso su un piano
didattico, insistere sugli altri due aspetti: il cinema come
strumento per raccontare la storia e il cinema come fonte per la
conoscenza storica, perché questa duplice funzione offre agli
studenti la possibilità di fare un doppio viaggio nel tempo.
Quando parliamo del cinema come strumento per raccontare la
storia ci riferiamo al passato che il film racconta e mette in
scena. Quando ci riferiamo al cinema come fonte per la
conoscenza storica ci riferiamo al presente in cui il film è stato
girato ed è stato elaborato. L’Agnese va a morire racconta la
Resistenza e interagisce con gli anni 1943-45 in Italia, ma il film
è del 1976 e, come fonte per la conoscenza storica, ci
restituisce l’Italia di quegli anni, il movimento femminista, le
grandi speranze collettive. La vita è bella di Benigni è molto più
significativo rispetto all’Italia della fine degli anni Novanta che
non al racconto della Shoah.
Quando invece parliamo del film come strumento per
raccontare la storia e quindi ci riferiamo al passato che viene
messo in scena, dobbiamo fare subito una premessa. Occorre
ricordare che oggi non esistono steccati o gerarchie: da una
parte la storia “vera”, quella raccontata dagli accademici e
dall’altra modalità diverse di ricostruzioni del passato. L’uso
pubblico della storia è paragonabile a una grande arena, nella
quale si confrontano molteplici discorsi, che vanno riconosciuti
tutti nella loro specificità.
Non possiamo semplicemente affermare che il racconto della
storia sia una prerogativa degli studiosi. C’è una partita che si
gioca: quella della trasmissione della conoscenza storica e della
costruzione di un sapere e di una memoria diffusi, cui
contribuiscono molteplici agenti di storia, che sono in grado di
strutturare racconti del passato. E’ necessario confrontarsi con
la specificità di questi racconti, non rifiutarli come paccottiglia,
anche se molti di questi sono sicuramente prodotti dozzinali.
Non si ottiene però nessun risultato rifiutandoli e ripristinando
le gerarchie della storia accademica, dei libri, dei saggi, degli
archivi, perché il senso comune, le precondizioni stesse
dell’apprendimento e dell’avvicendamento della storia sono
determinati dalla dimensione audiovisiva, più che dal racconto
scritto. Gli storici non possono quindi trincerarsi in una torre
d’avorio, ma devono confrontarsi con quella forma di
storiografia, le sue ipotesi interpretative ed il suo specifico
modello narrativo.
Un modello che assomiglia molto a quello del romanzo storico o
del manuale di storia, basato sull’ordine cronologico del
racconto, su una dimensione emotiva sempre molto presente,
su un continuo rimandare tra la grande storia come scenario e
la storia individuale come elemento narrativo forte dei
protagonisti e su un raccordo finale tra la storia degli individui e
la storia delle grandi masse. Gli storici hanno frequentato con
grande dimestichezza fino alla fine del Novecento un modello
attento alla dimensione cronologica e diacronica. Per loro la
cronologia era un principio ordinatore: mettere in fila gli eventi
serviva già a spiegarli. Oggi però la situazione si è complicata
anche grazie al cinema e ad alcuni meccanismi della narrazione
cinematografica, come ad esempio il privilegiare il segmento e
la sequenza o il potersi liberare da un impianto rigidamente
cronologico. Il genere storico, che intenzionalmente mette in
scena il passato, è il più arretrato dal punto di vista narrativo,
proprio perché paga il tributo più alto al vecchio schema del
racconto storico impostato in base all’asse diacronico-
cronologico.
Blow-up di Antonioni racchiude un schema narrativo che gli
storici dovrebbero imparare a frequentare maggiormente;
quello ad esempio di considerare una dimensione sincronica,
invece di seguire sempre un ordinamento cronologico; quello
cioè di lavorare sulla scala del tempo consapevoli che oggi la
dimensione temporale in cui viviamo non è più quella lineare
alla quale erano abituati i positivisti, ma quella della
simultaneità.
Se noi siamo in grado di interagire con queste nuove coordinate
dello spazio e del tempo che ci derivano dalla dimensione
satellitare in cui viviamo, vediamo che il modello narrativo a cui
siamo stati abituati è chiaramente inadeguato oggi a raccontare
la storia e che possiamo attingere al linguaggio
cinematografico, al montaggio, alla sequenza, all’andare
indietro, al venire avanti con delle esperienze molto più
proficue di quelle che noi avremmo potuto pensare all’inizio.
Ciò che mi preme sottolineare è che quando ci avviciniamo al
cinema che racconta il passato dobbiamo individuare l’ipotesi
storiografica cui fa riferimento, capire come è organizzato il
modello narrativo e in quale relazione quel racconto sta con il
presente in cui è stato elaborato.
Così arriviamo al cuore della proposta metodologica di come si
lavora con il cinema nella scuola: cioè il rapporto tra il cinema
e il presente. Innanzitutto occorre confrontarsi con
l’intenzionalità dell’autore. Quando si realizza un film sul
passato, l’autore ha in mente il presente in cui è vissuto e lo
dice esplicitamente. Passion, ad esempio, è un film
sull’America di oggi e nessuno ne fa mistero. Ma la sfida
concettualmente più affascinante di questo lavoro è forzare
l’intenzionalità stessa dell’autore, perché il cinema ha questa
straordinaria capacità di intercettare lo spirito del tempo. E’ il
tempo in cui il film è stato realizzato che passa nella pellicola e
lo storico è troppo ghiotto di quella preda, che in definitiva è
l’oggetto del suo studio.
Nel cinema lo storico trova esattamente questo: uno spirito del
tempo, una contemporaneità che parla anche malgrado
l’intenzionalità dell’autore. Si può fare un esempio. Nella
rassegna di film storici per le scuole organizzata dall’Atis c’è in
programmazione Terra e libertà di Ken Loach. Proviamo ad
esaminare questa pellicola sulla base del piccolo esercizio che
vi ho proposto. Cominciamo a dire che rispetto al passato in cui
è ambientato, cioè la guerra civile spagnola (1936-1939), il film
non è il racconto di quell’avvenimento, ma il racconto di quella
guerra civile vista dai trotzkisti. C’è un’ipotesi storiografica che
è chiaramente riconoscibile dalla sua matrice trotzkista, per cui
tutta una serie di eventi come lo sciopero generale di
Barcellona, il modo con cui si dislocano le brigate
internazionali, ecc. viene rivissuta in questa chiave.
Il film è stato girato nel 1992 nell’Inghilterra del dopo Tatcher,
ma soprattutto durante gli anni immediatamente successivi alla
caduta del muro di Berlino. L’opera di Ken Loach non è tanto il
racconto della guerra di Spagna, ma uno straordinario
documento su come gli intellettuali europei di sinistra hanno
vissuto il crollo del comunismo. Il regista è stato molto
esplicito: ha voluto far capire ai giovani che la fine
dell’esperienza sovietica non era un esito scontato per il
comunismo come pensiero ideologico per la sinistra europea.
C’era un’alternativa che era quella trotzkista e anarchica, che è
stata brutalmente soffocata da Stalin, ma che aveva dentro di
sé delle potenzialità innovative e di rottura. Si tratta di una
sorta di grido di speranza: è finita l’URSS, ma non sono finite le
nostre idee.
La scena iniziale è didatticamente di una straordinaria
efficacia. Una giovane donna si reca a Liverpool dove il nonno
sta morendo e in soffitta apre la sua valigia, che è proprio la
valigia della storia, dove trova lo “strumentario” dello storico.
La ragazza inizia così a fare ricerca: legge i ritagli dei giornali,
le lettere, guarda le fotografie, lavora insomma con i documenti
dello storico. In quel film ci sono tre scene di funerali. La prima
si riferisce al miliziano irlandese che viene ucciso in un’azione
di guerra e la sepoltura è accompagnata dal canto
dell’Internazionale, dallo sventolare di bandiere rosse alla
presenza dei compagni che salutano con il pugno chiuso. Il
funerale di Bianca, la compagna del protagonista David uccisa
dagli stalinisti, è simile al precedente con in più la scena che dà
il senso a tutto il film: prima di seppellirla l’uomo raccoglie una
manciata di terra in un fazzoletto rosso, che viene poi trovato
dalla nipote nella valigia. Il terzo funerale è quello del nonno a
Liverpool nel 1990. Piove, la bara sta per essere calata nella
terra alla presenza della nipote e di tre o quattro vecchietti,
compagni del defunto nella guerra di Spagna. In questa
atmosfera carica di silenzio la ragazza timidamente alza il
pugno e chiede di salutare il nonno come lui avrebbe
desiderato. Probabilmente la nipote non conosce il significato di
quel gesto, ma comunque la memoria è passata, proprio
attraverso il percorso conoscitivo che aveva fatto e allora anche
i vecchietti trovano il coraggio di riappropriarsi della loro
identità e salutare con il pugno.
A mio parere questo percorso è uno straordinario viaggio, non
solo nella trasmissione delle memorie tra le generazioni, ma
anche nella dimensione del rito novecentesco e post
novecentesco, e dimostra come le grandi ideologie del secolo
scorso fossero in grado di strutturare riti, appartenenze,
identità. L’afasia della scena finale del film è superata solo
attraverso il passaggio della memoria da una generazione
all’altra. Ken Loach ha realizzato quella scena perché
emotivamente gli veniva bene, tant’è vero che i miei allievi si
commuovono ogni volta che la vedono ed emotivamente è senza
dubbio una scena carica di pathos. Ma sicuramente il regista
non aveva mai pensato che il suo film fosse una testimonianza
della trasmissione della memoria tra le generazioni alla fine del
Novecento. Questo è lo spirito del tempo, ciò che entra
nell’opera cinematografica forzando la stessa intenzionalità
dell’autore ed è su ciò che lo storico costruisce i suoi percorsi
conoscitivi.
Questo esercizio dal punto di vista didattico ha la forza di
spezzare, secondo me, quello che è il nostro vero nemico: la
subalternità rispetto all’immagine. L’immagine può essere di
grandissimo aiuto nei percorsi di didattica della storia; ma
occorre rifuggire dalla sua invadenza e soprattutto dall’idea che
non si riesce ad interagire sul piano dell’analisi critica con ciò
che si vede. Credo che si possa spezzare questo meccanismo
della subalternità, se si propone agli allievi il duplice viaggio
rispetto al passato e rispetto al presente. Questa operazione
fornisce in qualche modo strumenti di elaborazione critica che
li possono rendere protagonisti e non semplici comparse.

Giovanni De Luna è ordinario di Storia contemporanea presso


l’Università di Torino; editorialista del quotidiano La Stampa;
condirettore della rivista Passato e Presente; direttore delle
collane storiche delle case editrici La Nuova Italia e Sansoni. Ha
scritto numerosi saggi e il manuale per le scuole superiori
Codice storia, della casa editrice Paravia. Il suo libro più
recente è "La passione e la ragione. Fonti e metodi della storia
contemporanea" (Bruno Mondadori, 2004). E’ autore e
conduttore di numerose trasmissioni storiche alla radio e alla
televisione italiana.

www.atistoria.ch - [email protected]

Potrebbero piacerti anche