Mann, aiutaci tu!
(O della paura dell’alta cultura)
Un paio di anniversari ci riportano, con prepotenza di Minotauro, a Thomas Mann. Il
sommo romanziere nasce a Lubecca il 6 giugno di 150 anni fa; muore a Zurigo
nell’agosto di 70 anni fa. Nessuna scossa: Mann è bene installato nelle ciclopiche storie
della letteratura, è bene anestetizzato; gli editori nazionali – i nostri – si apprestano a
ristampare i grandi romanzi – “Giuseppe e i suoi fratelli”, per dire, e “I Buddenbrook”,
entrambi in Oscar Mondadori, di recente – più per onorare l’evento che altro, con velenoso
sussiego. Il punto è questo: nonostante la pratica ‘culturale’ – ininfluente – Thomas
Mann è scomparso dall’asse del dibattito pubblico. Dico ‘pubblico’ – in
relazione a uno scrittore aristocratico e vertiginoso quant’altri mai –, anzi,
‘politico’, perché Mann è uno scrittore di temi e di problemi. È lo scrittore ‘morale’ – cioè:
amoralità del genio – per antonomasia; Thomas Mann, intendo, è l’ultimo scrittore –
delfino, per lignaggio, di Goethe – che adotti il romanzo come strumento conoscitivo, come
microscopio per conoscere l’uomo e i suoi difformi deliri. Diversamente da Balzac –
straordinario scrittore di masse, sociologo prima della sociologia, eccelso nello sguainare il
binocolo – Mann, appunto, imbraccia il binocolo: mostra ciò che non vogliamo vedere, si
insinua nelle plaghe dell’anima, nei meandri della mente; scruta le particole e le particelle;
scardina la Bibbia, la musica dodecafonica, l’arte di riconoscere i primordi in una
conchiglia, nella conca di un vagito. Leggerlo è avventura inebriante.
Già… ma chi lo legge? Dopo Mann fu l’abbuffata degli esperimenti formali, pur eccelsi –
Joyce-Céline-Broch – poi di quelli inutili, informi; infine, della letteratura per diletto, di
mercato, che va di moda da qualche decennio. In Mann si precipita dentro una
‘visione del mondo’: oggi agli scrittori-pupazzini, agli impagliati allo Strega
(per dire) manca la ‘visione’, hanno fatto del loro ridicolo ombelico un
mondo, del loro talento mera merce. Leggendo Mann si rientra a questa terra perfino
più intelligenti, capaci nell’estetica e nell’etica, più ‘giusti’: potere taumaturgico del ‘mago’
(leggete i suoi scritti ‘politici’, appunto, sfogliate i suoi diari, laboratorio di un romanziere
sempre in allerta).
In un libro di qualche anno fa, “Come si legge un libro”, Harold Bloom dichiarava la sua
preferenza per “La montagna incantata” (ristampata nell’antica traduzione da Garzanti,
quest’anno, e nella nuova, di Renata Colorni, da Mondadori): “Essendo tutto fuorché
un romanziere della controcultura, Mann è stato in certa misura oscurato. È
impossibile leggere ‘La montagna incantata’ inserendola tra ‘Sulla strada’ e qualche
brandello di cyberpunk. Il libro rappresenta l’alta cultura che al momento si
trova in pericolo, dato che richiede un grado considerevole di istruzione e riflessione”.
Eccolo il punto. Abbiamo paura dell’alta cultura; la dileggiamo. Diluiti dall’incuria, così, i
romanzi sono, genericamente, l’evoluzione di un articolo di giornale, quando non l’elezione
a solleone di un pettegolezzo.
Scrittore erculeo, scrittore tiranno, Thomas Mann sembra invaderci con la pervasività della
sua mente, zodiacale, da Zeus; eppure, dopo averlo letto, ci pare tutto più chiaro: l’informe
io, il deforme mondo. Lo scrittore ci porta sulle vette – alta cultura – quando i più
preferiscono il trogolo dell’opinione terra-terra, le grida in vacuità, gli improperi via social,
le manifestazioni di massa. Belluini, bellini, impettiti, tutti si credono liberi, tutti si
credono intelligenti, scopertamente tra le cinghie della loro stupidità. Mann ci può salvare:
tuffiamoci.
Marx ha scritto da qualche parte che la rivoluzione sociale non è fatta dagli uomini ma
dalle cose. Qualche marxista, non troppo ortodosso, un po’ incerto sulla fede nel
materialismo storico – dottrina che riguarda la fede, appunto, non certo la ragione – ha
corretto la formula del suo pontefice, dicendo che le cose sono maneggiate dagli uomini,
dunque sono gli uomini che posseggono le cose a fare la rivoluzione. Da parte nostra,
commentando più volte questo dogma marxista, ci siamo chiesti se gli uomini non siano
più cause che cose. E perfino suppellettili, alla bisogna. [Continua su Pan...]
Scarica PAN, la rivista delle riviste, solo per gli iscritti al Panottico
Thomas Mann, il conservatore comunista in guerra contro tutti
Nel 1929 Thomas Mann ottiene il Nobel per la letteratura. Mai premio fu più ovvio: nel
1924 Mann pubblica La montagna incantata – nonostante il Nobel sia accaduto
“principalmente per il grande romanzo, I Buddenbrook” –, è lo scrittore europeo più
riconosciuto dell’epoca. Dieci anni dopo, nel 1939, su “Esquire”, Thomas Mann scrive un
articolo ‘politico’, per quanto costantemente elusivo, That Man is My Brother. “Nessuno
può fare a meno di essere preoccupato da questo deplorevole spettacolo… egli ha scelto di
usare la politica come suo strumento… peggio per tutti noi, peggio per l’Europa, che giace
indifesa sotto il suo incantesimo, dove egli recita la parte dell’uomo del destino e dell’eroe
che conquista ogni cosa”. Naturalmente, ogni riferimento è rivolto a Hitler. Nel brano
finale, Mann consegna all’arte un ruolo storico: “Ben più chiaramente e felicemente
che mai, l’artista del futuro realizzerà la sua missione come un mago bianco,
un alato, ermetico mediatore lunare tra spirito e vita. La mediazione in sé è
spirito”. Magari, macché, l’artista del futuro, oggi, pressoché è un lacchè, altro che mago.
“Nel febbraio del 1938, Thomas Mann parte da Cherbourg, in Francia, verso New York. Fu
accolto negli Usa da una folla di giornalisti e da una troupe cinematografica della
Paramount. Aveva vinto il Nobel nel 1929, era apparso sulla copertina di ‘Time’ nel 1934,
aveva denunciato la politica pacifista del primo ministro britannico Neville Chamberlain,
aveva previsto l’annessione dell’Austria da parte di Hitler. Quando, quel giorno, gli fu
chiesto se trovasse dura la condizione dell’esilio, lo scrittore rispose: ‘Certo, è difficile da
sopportare. Ma ciò che rende sopportabile l’esilio è l’atmosfera avvelenata che si respira in
Germania. Dove sono, con me è la Germania. Porto in me la cultura tedesca, non sono un
derelitto”. Così attacca l’articolessa di Jacob Heilbrunn pubblicata su “The National
Interest” con il titolo Thomas Mann’s War Against Hitler, che si focalizza sul libro di
Tobias Boes pubblicato dalla Cornell University Press, Thomas Mann’s War, sugli anni
dello scrittore in terra americana, a lottare contro tutti, nazisti prima e statunitensi in
fregola anticomunista poi. Come si sa, Mann lascia la Germania per la Svizzera nel 1933,
dove la sua conferenza, Dolore e grandezza di Richard Wagner, era stata presa con
sfavore dai kapò nazi. Contestualmente, gli viene sequestrato il passaporto e la casa di
Monaco: dal 1934 iniziano i viaggi negli Stati Uniti, dove, nel 1935, ricevendo ad Harvard
una laurea ad honorem, incontra il Presidente Roosevelt. Improvvisamente, Thomas
Mann, l’eminente artista, lo scrittore che assolve il sacerdozio della scrittura, diventa un
personaggio ‘politico’. Dal 1941 si stabilisce a Pacific Palisades ed è un’arma utile al
governo americano, di cui diventa cittadino, nel 1944.
*
In realtà, Thomas Mann è malsopportato da tutti, non si allinea ad altro che
alla propria indole. Gli intellettuali tedeschi, dopo la Seconda guerra,
accolgono Doctor Faustus come un pugno. Certi lo rimproverano: facile lanciare
strali contro la Germania nel dorato esilio statunitense. Lui lotta, in pubblico e in privato.
Così il 7 settembre 1945 scrive allo scrittore Walter von Molo: “Naturalmente mi fa piacere
che la Germania desideri riavermi, non soltanto riavere i miei libri, ma me stesso in
persona. Tuttavia questi appelli hanno per me qualcosa d’inquietante, di opprimente, anzi
essi mi si presentano come qualcosa di illogico, persino di ingiusto e di sconsiderato”. E poi
specifica: “Non era lecito, non era possibile fare della ‘cultura’ in Germania, mentre
tutt’intorno accadeva quello che ben sappiamo. Voleva dire attenuare la depravazione,
adornare il delitto. Fra le torture che soffrimmo ci fu lo spettacolo dello spirito tedesco che
di continuo si prestava a far da insegna e da traino alla mera mostruosità”.
Così il 22 luglio 1946 a Hans Friedrich Blunck: “Ogni bambino, in tutto il mondo, sapeva
che cosa si celava sotto quell’eufemismo, cioè lo scalzamento, dovunque, delle forze di
resistenza democratiche, la loro demoralizzazione attraverso la propaganda nazista. Solo lo
scrittore tedesco non lo sapeva. Beato lui che poteva essere un puro folle e avere un’anima
ottusa, moralmente inerte, priva di ogni capacità di disgusto, di ira, di orrore per quella
diabolica porcheria così profondamente infame che il nazionalsocialismo è stato… Nessuno
mi libererà mai dal dolore e dalla vergogna ispiratimi dall’atroce fallimento, privo di cuore
e di cervello, degli intellettuali tedeschi di fronte alla prova cui furono sottoposti nel 1933.
Dovranno fare molte cose grandi se vorranno che questo venga dimenticato”.
Dopo la morte di Hitler, a guerra archiviata, il Thomas Mann antinazista non è più utile al
nuovo corso americano. In era maccartista, nel 1947, quando Hollywood viene sarchiata
per scovare il comunista in pellicola, Thomas Mann alza la voce. “In quanto cittadino
americano nato in Germania, testimonio una familiare preoccupazione verso
certe tendenze politiche. Intolleranza spirituale, inquisizioni politiche,
declino della sicurezza, azioni estreme compiute in ‘stato d’emergenza’… così
è iniziato tutto in Germania”. Nel 1949 lo scrittore è a Weimar a ritirare il premio
Goethe, con lo scoppio della guerra in Corea l’FBI apre un fascicolo dedicato a Thomas
Mann, “possibile comunista e probabile spia tedesca”. Siamo all’assurdo. In effetti, il
premio Nobel deve dimettersi dalla Library of Congress, che cancella un suo ciclo di
conferenze, nell’aprile del 1951 “il suo nome, insieme a quello di Albert Einstein, Lion
Feuchtwanger, Frank Lloyd Wright, Norman Mailer e Marlon Brando appare in un
documento governativo come ‘affiliato ai movimenti pacifisti del fronte comunista’” (così
Jeffrey Meyers in Thomas Mann in America, ‘Michigan Quarterly Review’, vol. 51, Fall
2012). In questo delirio di fraintendimenti, l’FBI riterrà Mann “uno dei comunisti più noti
al mondo”. Nel 1952 lo scrittore torna in Europa, si stabilisce a Zurigo, dove muore, tre
anni dopo.
“Dovevo arrivare a 75 anni e vivere in un paese straniero che è diventato la
mia patria per vedermi accusato pubblicamente di mendacio da bruciatori di
streghe i quali – e questo è veramente sbalorditivo – non credono a nessuno
né ascoltano alcuno tranne le loro ‘streghe’… Io non sono un comunista né lo
sono mai stato. Non sono e non potrei essere nemmeno un ‘compagno di
strada’, quando la strada porta al totalitarismo”, scrive Thomas Mann il 3 aprile
1951 “alla redazione dell’Aufbau”, specificando che “l’isterico, irrazionale e cieco odio
anticomunista” in Usa “rappresenta un pericolo ben più grave del comunismo locale”.
*
Il 9 gennaio 1950 a Theodor W. Adorno. “Non so com’è, ma ho l’impressione che l’aria qui
sia piena di stregonerie… Noi, in questa terra straniera divenutaci familiare, viviamo in fin
dei conti nel posto sbagliato, cosa che dà alla nostra esistenza un che di immorale…. Poco
tempo fa il Beverly Wilshire Hotel ha rifiutato il suo salone per un dinner dell’Arts Sciences
and Professions Council perché doveva tenervi un discorso un communist come il Doctor
Mann”.
(Piccola parentesi. Wikipedia è ormai diventata fonte certa, indubbia: la Tate Gallery
narrando la biografia di William Blake, protagonista di una rassegna ultima, rimanda il
lettore, appunto, a Wikipedia. Ora. La pagina Wikipedia di Thomas Mann, redatta nel
mondo anglofono, dedica alla Sexuality dello scrittore – ergo: la sua omosessualità latente,
patente – uno spazio congruo, ma equilibrato, rispetto al paragrafo centrale, dedito al
Work di Mann. Thomas Mann, in effetti, non è un romanziere definito integralmente dalla
propria omosessualità, che ha al centro della propria opera il sesso. Nella nota Wikipedia
italiana, invece, ci si concentra quasi del tutto sulla voce Omoerotismo – 75 righe –
relegando l’Opera nel ring di 27 righe, francamente imbarazzanti – tipo: “Tra il 1933 e il
1942, Mann pubblicò la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, ricca rielaborazione della storia
di Giuseppe, tratta dalla Genesi, e considerata uno dei suoi lavori più significativi”. Non è
un bel servizio offerto a un genio del romanzo – e non nell’ambito della storia
dell’omosessualità).
Paradossi inconcepibili ai burocrati del pensiero unico – e corroboranti per lo scrittore.
Nelle Considerazioni di un impolitico, elaborate durante la Grande Guerra – “non solo al
centro dell’opera di Mann… uno dei passaggi della letteratura europea che ancora oggi
chiunque faccia professione di cultura non può esimersi dal percorrere”, così Giorgio
Zampa, su il Giornale, 3 maggio 1994 – il grande scrittore fa la parte del genio
conservatore, dell’esteta che abbaglia con ruggiti di individualismo selvaggio. “Non solo
non penso che il destino dell’uomo si esaurisca nell’attività pubblica e sociale,
ma addirittura trovo quest’opinione disgustosa e inumana”; “Amore! Umanità!
Li conosco, quel teorico amore e quella dottrina umanitaria, professati a denti stretti per
provocare un senso di ribrezzo nel popolo…. Tremenda, certo, è la guerra. Se però nel vivo
della guerra il letterato politico si mette in posa e proclama di sentire nel petto il respiro
d’amore dell’universo, questo è il più spaventoso degli spaventi e insopportabile”. In
sintesi: “La personalità, unica cosa interessante al mondo, è sempre il risultato di un
qualche miscuglio e conflitto: i tempi si urtano, si profilano contrasti e contraddizioni, e gli
uni e le altre diventano spirito, vita, figura. La personalità consiste nell’essere qualcuno,
non nell’avere opinioni”. Molto banalmente, come scriveva Harold Bloom, ben presto si
citerà Thomas Mann senza leggerlo: i suoi libri sono troppo complessi, i suoi pensieri
spiazzanti, la sua personalità, radicata nella contraddizione, inconcepibile per chi ci vuole
tabula rasa, tavola periodica dell’ovvio, servi, insomma.
“Discorso selvaggio di Hitler alla radio”. I diari di Thomas Mann
Nel gennaio 1941, Klaus Mann, a seguito dell’emigrazione negli Stati Uniti e dopo circa un
anno di progettazione, dà alle stampe culturali il primo numero della sua nuova rivista,
Decision – sottotitolo, ‘Review of Free Culture’. A contribuire alla causa, una folta
compagine di celebri autori e, accanto ai nomi di emigranti come Franz Werfel, Stefan
Zweig, Heinrich Mann e il titanico padre Thomas – che parteciparono perlopiù con testi in
lingua inglese – la rivista arruolò anche autori internazionali come W. Somerset Maugham,
Aldous Huxley e Jean-Paul Sartre.
Nell’editoriale del primo numero si affermava chiaramente che lo scopo di Decision era
quello di porsi come strumento per intensificare i rapporti tra lo spirito americano e quello
europeo, onde favorire il movimento verso un nuovo umanesimo e una democrazia
mondiale. Si abbonarono in duemila, cifra insufficiente a rendere economicamente
sostenibile l’ossatura di Decision, che si arenò presto, dopo un anno appena, incensata
dalle parole di Mann senior. “La migliore rivista letteraria che l’America abbia mai visto” –
scrisse nel 1950. “Una rivista di disaccordi onesti” – la definì nel 1966 Lloyd Frankenberg,
nostalgico collaboratore.
Solo pochi anni prima dell’effimera esistenza di Decision, lo stesso Klaus, sotto l’egida di
André Gide, aveva retto il timone di un altro periodico, Die Sammlung, la cui luce
editoriale pure brillò per poco – dal settembre 1933 all’agosto 1935 –, manifestamente
osteggiato dall’intellighenzia tedesca dell’epoca, come narrato dal padre Thomas nei suoi
diari.
Mensile letterario e politico, fu pubblicato dalla Querido Verlag di Amsterdam grazie
all’amicizia con Fritz Landshoff, diretta da Klaus, e accompagnata da un comitato
composto dallo stesso Gide, Heinrich Mann e Aldous Huxley. Il saggio di Heinrich Mann
incluso nel primo numero gli conferì fin dall’inizio un tono inequivocabilmente politico e
polemico – benché Klaus avesse indotto suo padre e René Schickele a considerarla una
rivista puramente letteraria. Fra gli altri, nel numero d’esordio, gli scritti di Jakob
Wassermann e Alfred Döblin, un racconto di Hermann Kesten e un frammento di romanzo
di Joseph Roth.
È il tempo in cui, a cavallo fra le guerre, le riviste culturali si fanno luogo di scontro
letterario e politico, poetico e letale. Sono testimonianza, portavoce, arma e promessa.
Nascono e sfioriscono in un giro di luna, come arbusti di stagione. E Thomas Mann, nei
suoi diari, in maniera volatile e granitica, tratteggia il contesto privato e pubblico in cui ciò
si verifica. (Fabrizia Sabbatini)
***
Giovedì, 7 settembre 1933
L’abitudine di una nuotata mattutina dal molo (dove l’acqua è ferma e limpida) mi è
diventata cara.
Ero preda della scrittura, anche più di ieri, quando sono stato interrotto.
Telefonata di Saenger, reduce di una notte insonne nella rumorosa Tolone.
Leggere l’Europäische Revue dell’esecrabile principe Rohan risulta un’attività
insopportabile, un veleno per i nervi, ingiurioso e al contempo deprimente, operata
dall’auto-tortura e dal desiderio, piuttosto debole, di ascoltare l’altra sponda e arrivare a
comprendere il suo “modo di pensare”. In ogni caso, la Revue non fa cenno ad una
“rivoluzione”, ma piuttosto ad una “controrivoluzione nazionale”, che il direttore e i suoi
collaboratori salutano, tuttavia, come una grande rinascita che dovrebbe fungere da
modello per il resto d’Europa. Ma non è certo una sorpresa che il quadro politico sia
cambiato nell’arco di sessant’anni.
Perché dovrebbe suscitare in me ostilità e raccapriccio? I metodi autoritari
“fascisti” con sfumature nazionaliste stanno iniziando a sostituire ovunque le
viete forme classiche di democrazia. Perché farne una peculiare mistica tedesca? E
perché la Germania dovrebbe insistere a rappresentarsi come leader e salvatore del
mondo? Dopo la rivoluzione antidemocratica in Russia e quella in Italia –
intellettualmente insignificante – la Germania ne propone una tutta sua, che rappresenta
la presa del potere da parte delle masse piccolo-borghesi impoverite e colme d’odio, lo
strato sociale intellettualmente più degradato. È la terza della fila. Cosa la distingue dagli
altri? Il mondo dovrebbe forse essere guarito dal lurido misticismo, dalla farraginosa
filosofia di vita di cui questo movimento è ammantato? Perché gli attuali mutamenti
nella tecnica politica e nel metodo di governo assumono la forma di un culto
omicida razzista e guerrafondaio il cui livello morale e intellettuale è più
infimo che mai nella storia? Vendicatività e megalomania si fondono fino a costituire
una minaccia per il mondo al cui confronto l’imperialismo prebellico era pura innocenza.
Inoltre, questo principe con l’anima di un cameriere ci assicura che la Germania regolerà
l’Europa con lo stesso spirito pacifico con cui ha scalato il potere al suo interno “in maniera
costituzionale”.
È l’unica nazione in Europa che non teme e aborrisce la guerra; anzi, la divinizza, non ha in
mente niente di meno di tutto ciò che ha compiuto negli ultimi sei mesi, si è preparata a
null’altro che alla guerra, cui forse nemmeno anela consciamente, ma che il suo retroterra
e la sua natura la dispongono a desiderare. Il programma – in parte consapevole, in
parte inconsapevole – è chiaro: prima sconfiggere il “nemico interno”, ovvero
tutti quegli elementi che hanno resistito alla guerra (un modo per vendicarsi
del proprio popolo per averla persa), e poi… Ciò che farà seguito nessuno può
saperlo; non è prevedibile, e ad ogni modo negherebbero il proprio volere. Ma in segreto ci
sperano, desiderano il loro amato Caos, un amore che li conduca a dominare politicamente
il mondo intero – motivo per cui si armano con tutte le proprie forze. È innegabile, mera
verità. Ma secondo l’Europäische Revue, chi vive di queste idee non è più capace “di fare il
salto da un defunto passato al futuro in evoluzione”.
Katia ha di nuovo la febbre e staziona a letto per la maggior parte del tempo. Sono
preoccupato.
Ho iniziato a rileggere il Don Chisciotte e stavolta intendo terminarlo. Non andrò a letto
prima dell’una e mezza.
Sabato, 14 ottobre 1933
Cielo più sereno, aria fresca e frizzante. Ho scritto ancora sugli “Anni Dieci”. A
mezzogiorno passeggiata nel bosco.
Bella lettera di Fiedler sulla Germania, sempre con timbro postale svizzero.
Ida Herz ha inviato un telegramma per comunicare che il volume di Jacob è arrivato. Ho
inviato delle copie a Le Jour e al New York Times per evitare complicazioni.
Vengo a conoscenza dalla Neue Frie Presse che l’accusa di “tradimento intellettuale” rivolta
a Schickele, Döblin e me dall’Agenzia del Reich per la Promozione della Letteratura
Tedesca è stata ritirata. Idioti.
Pomeriggio impegnativo. Mentre dettavo una lettera indirizzata a Bermann sulla questione
davvero mortificante della Die Sammlung e sul suo comportamento in relazione alla Book
Guild, è giunto un telegramma da Schwarzschild; deve prendere una posizione definitiva
riguardo a Die Sammlung e chiede un chiarimento privato. Ho dovuto inviargli
immediatamente una lettera, in parte destinata alla pubblicazione; l’ho terminata e spedita
questa sera dopo pranzo. Nel mentre, una telefonata di Herzog per avvisare che la
Germania si è ritirata dalla Società delle Nazioni e che la Conferenza sul disarmo è saltata;
l’edizione serale della Neue Zürcher Zeitung avrebbe dovuto riportare la notizia. Non
siamo riusciti a trovare nulla al riguardo. Ho chiamato un redattore del giornale che ha
confermato concitato la notizia e mi ha spiegato che erano riusciti a inserirla solo in una
parte dell’edizione.
Discorso selvaggio di Hitler alla radio: nuove elezioni del Reichstag (?!),
plebiscito, stato d’animo di tragica esaltazione. Un popolo miserabile, isolato,
demente, ingannato da una stupida, rozza banda di avventurieri, scambiati
per eroi mitici. La cosa più sorprendente è che le ultime notizie da Ginevra lasciavano
intendere che America, Francia e Inghilterra si stessero avvicinando. Speravano forse di
ottenere dei vantaggi provocando una rottura prima della firma di un trattato? Cosa è
accaduto per far sì che la “Germania” si ritirasse dai negoziati, che avrebbe potuto
continuare a usare come schermo per il suo riarmo? Le conseguenze non sono prevedibili.
Le potenze alleate sono obbligate a porre fine ai preparativi bellici della Germania. La
invaderanno? Raderanno al suolo il Paese? Una federazione danubiana? Una cosa è certa:
all’interno del Paese ogni considerazione dell’opinione esterna sarà messa al bando. Per
esempio, questo costerà la testa ai difensori nel processo di Lipsia. Ma che flagello è questa
farsa di processo: dopo aver escluso i giuristi stranieri, ora probabilmente escluderanno
tutti gli osservatori stranieri! Così questo Paese indossa ancora una volta il volto del
nemico dell’umanità!
Klaus ha telefonato da Amsterdam, dove hanno appreso le notizie dalla Germania. È
pronto per la controdichiarazione di Querido, che comprendo benissimo. Ha scritto ogni
sorta di appunti fino a notte fonda.
Thomas Mann
* I testi tradotti sono tratti da Thomas Mann, Diaries 1918-1939 (André Deutsch, London
1983); la scelta dei testi, la traduzione e la curatela complessiva del servizio sono di
Fabrizia Sabbatini
“Oh, per una volta sola, solo per una notte come questa, non essere
artista, essere uomo! Sfuggire una volta alla condanna che inesorabile
ingiungeva: non ti è concesso di esistere, ma di guardare; non di
vivere, ma di creare; non di amare, ma di sapere!” Thomas Mann, “Gli
affamati”, 1903