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Little Red Riding Hood 1st Edition Mandy Ross Instant Download

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Little Red Riding Hood 1st Edition Mandy Ross

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Little Red Riding Hood 1st Edition Mandy Ross Digital
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Author(s): Mandy Ross
ISBN(s): 9781409306313, 1409306313
Edition: 1
File Details: PDF, 8.64 MB
Year: 2011
Language: english
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vanità, l'anima mia preferì il laccio [147]. Lasciai pertanto l'episcopato
e i miei preti per salvare l'anima mia; e l'ho fatto seguendo l'esempio
del beato Benedetto, che abbandonò alcuni monaci per averli
riconosciuti discoli e maligni. Avendo frate Rainaldo attentamente
ascoltato queste considerazioni, che gli piacevano e non erano nuove
nella sua coscienza, e riconoscendo che quel Vescovo aveva ragione,
non fece verbo di risposta. Perciò presi io la parola, perchè il Vescovo
di Torino non avesse la superbia di credere d'aver operato da savio,
e dissi a lui: Padre, or tu hai detto d'aver abbandonato i tuoi preti;
ma pensa un po' se tu hai fatto bene. Papa Innocenzo III tra le tante
sentenze che ha lasciate ai posteri, ne ha una per un Vescovo che
voleva essere dispensato dal ministero, libro delle Decretali 1º alla
rubrica della rinuncia, che comincia: Nè pensare. ecc. Mentre io
diceva queste cose, pendevano dalle mie labbra i due Vescovi, nè
frate Rainaldo osò prendere la parola per non parere di compiacersi
della sua dignità episcopale; ma in suo cuore andava sempre più
radicandosi il proposito di deporre l'ufficio impostogli, e affrettava col
desiderio il momento opportuno di farlo. Andò adunque alla sua
diocesi: ed arrivatovi, accorsero i canonici a fargli visita, e gli
parlarono di un loro collega giovane e lascivo, che aveva più il fare
laico che del sacerdote, e che si lasciava crescere i capelli lunghi e li
tenea sciolti sulle spalle, nè voleva farsi la tonsura. E il Vescovo lo
prese pe' capelli, e gli affibbiò uno schiaffo, e, fatti chiamare i
genitori e i parenti di lui, che erano nobili, ricchi e potenti, disse loro:
O questo vostro figlio si dia alla vita laicale, o porti abito che si
addica ad un sacerdote; io non posso punto tollerare che vesta a
questo modo. Ed i genitori risposero: A noi piace che sia prete, e voi
fate di lui quello che ve ne pare bene e dicevole. Allora il Vescovo di
sua mano stessa gli tagliò i capelli, e gli fece fare la chierica in forma
di cerchio, larga e rotonda, affinchè la tonsura presente facesse
ammenda della capellatura passata. Il chierico ne restò
profondamente mortificato, ma i canonici ne ebbero piena
soddisfazione. Frate Rainaldo però non potendo con coscienza
tranquilla dissimulare quella sbrigliatezza del clero, e riconoscendo di
non poterlo ritornare alla rettitudine ed all'onestà, si presentò a Papa
Innocenzo IV, che era venuto a Genova, e rassegnò l'ufficio, che gli
era stato conferito a Lione, protestando che non sarebbe più stato
Vescovo. E il Papa, facendo ragione al turbamento dell'animo di
Rainaldo, gli promise che ne lo dispenserebbe, quando arrivasse in
Toscana, sperando che il tempo maturasse un cambiamento di
proposito; ma non avvenne. Andò dunque frate Rainaldo e si fermò
alcuni giorni a Bologna colla speranza che il Papa vi passasse per
recarsi in Toscana. Quando poi seppe che era a Perugia, frate
Rainaldo si presentò al Papa, al cospetto de' Cardinali in concistoro,
rassegnò l'ufficio e il beneficio, e depose a piedi del Papa gli
indumenti pontificali, il pastorale, la mitra e l'anello. I Cardinali se ne
maravigliarono e se ne conturbarono, parendo loro che il frate con
questa determinazione facesse sfregio alle loro dignità, quasi che chi
trovasi insignito dell'onore di alti uffici nella prelatura non potesse
salvare l'anima sua. Se ne conturbò anche il Papa tanto perchè lo
aveva egli in persona con particolare onore consacrato, quanto
perchè aveva la persuasione, come tutti la condividevano, e così era
in fatto, d'aver provveduto la Chiesa di Rieti di un Vescovo
degnissimo. Quindi i Cardinali e il Papa lo pregarono vivamente che
per amore di Dio, per riguardo alla loro dignità, per l'utilità della
Chiesa e per la salute delle anime non rinunciasse. Ma egli rispose
che insistevano invano, e invano pregavano. Allora i Cardinali
conchiusero: Che s'ha a dire se a lui ha parlato un Angelo, e se Iddio
gli ha fatta questa rivelazione? E il Papa trovandolo tanto fermo gli
disse: Sebbene tu ti sia proposto di non volere su la tua coscienza le
sollecitudini e le cure pastorali, almeno restino a te gli indumenti
pontificali, la facoltà, la dignità e l'autorità di amministrare il
sacramento dell'Ordine, affinchè i frati ritraggano da te alcun
benefizio. E risoluto rispose: Io non mi terrò nulla. Dispensato, si
recò subito al convento, e dato di piglio ad un sacchetto, o ad una
bisaccia, o sporta che fosse, pregò il frate destinato alla questua, che
quel giorno stesso lo volesse aver seco alla cerca del pane. E mentre
andava così a mendicare per la città di Perugia, s'imbattè in un
Cardinale, che ritornava dal Concistoro, (forse per disposizione
divina), affinchè vedesse, imparasse, ed udisse. E riconosciutolo, si
volse a lui dicendo: Non era meglio che tu fossi restato Vescovo, che
andar accattando di porta in porta? A cui frate Rainaldo rispose: Il
savio dice ne' proverbii ecc. Udendo il Cardinale queste parole, e
riconoscendo che era Dio che parlava per mezzo del suo santo, si
allontanò, e il giorno dopo in Concistoro riferì al Papa e ai Cardinali le
cose, che aveva imparate dal Vescovo mendicante; e tutti ne furono
meravigliati. Frate Rainaldo poi disse a frate Giovanni da Parma
Ministro Generale che lo destinasse a quel qualunque convento gli
piacesse, e lo mandò a Siena, ove era noto a molti, e vi restò dal dì
d'Ognissanti fin dopo Natale, quando morì e volò in grembo a Dio.
Mentre egli era malato della malattia di cui morì, eravi a Siena un
canonico della Chiesa maggiore, che da sei anni giaceva per paralisi
in letto, e con tutto il divoto fervore dell'animo invocava l'aiuto di
frate Rainaldo. Un giorno, sul far dell'alba, udì in sogno una voce a
dire: sappi che frate Rainaldo volò di questa vita al cielo, e pe' meriti
di lui Iddio ti risanò completamente; e tosto svegliatosi, e sentitesi
sciolte e sane le membra, chiamò il famiglio che gli portasse gli abiti,
e recandosi in camera di un suo amico e canonico collega, gli
raccontò del miracolo. E tutti e due incontanente, e in tutta fretta,
andarono dai frati per narrare il miracolo tanto manifesto, che Dio
quella notte s'era degnato operare pei meriti di frate Rainaldo. Ed
essendo usciti da una porta della città, udirono i frati, che cantando
ne trasportavano la salma alla chiesa; assistettero alle esequie, e poi
proclamarono il miracolo. E i frati giubilanti anch'eglino sclamarono:
Sia benedetto Dio. Tale fu frate Rainaldo di Arezzo, miracoloso in vita
e dopo morte, che amò piuttosto umiliarsi...... Fu uomo coltissimo in
letteratura, insigne lettore di teologia, predicatore esimio,
graditissimo al clero e al popolo, fecondissimo di pensiero, e di
parola sempre fluida e sgorgante calda dal cuore. Io abitai seco due
anni nel convento di Siena, e l'ho incontrato molte volte nel convento
di Lione e di Genova, e mi fece ordinare suddiacono quando egli,
non era ancora investito d'alcun ufficio. Non potrei aggiustar fede a
nessuno che mi dicesse che la Toscana ha dato tale uomo, se non
l'avessi visto io co' miei occhi. Egli ebbe un fratello nell'Ordine di
Valle Ambrosiana ossia Vallombrosa, che fu Abbate nelle Romagne,
nel convento di Bertinoro [148], santo, letterato, buono, amico intimo
dei frati Minori: Che l'anima sua riposi in pace. Nota qui che due
persone di Brettagna ritornavano in compagnia dalla Corte di Roma,
ove erano andati a visitare per divozione i Santuarii; e arrivati nelle
Romagne, si fermarono su di un monte ad alloggiare in alcune celle,
coll'intendimento di far vita da eremiti. Col tempo si agglomerò
molta gente ad abitare attorno a loro, e si fecero un bel castello, che
sino ad oggi si chiama Brettinoro da que' due eremiti che vi posero
stanza, e che erano nativi della Brettagna. Una volta io sapeva i loro
nomi, ma ora mi sono fuggiti dalla memoria: si hanno per santi.
L'anno del Signore 1249 era Podestà di Genova Alberto Malavolta di
Bologna, e venne al convento dei frati Minori a sentir messa. Ed io
era colà, e frate Pentecoste, che era sagrista, uomo santo, onesto e
buono, volendo suonar le campane per far onore al Podestà, questi
gli disse: Anzi tutto porgete orecchio ad una cosa che voglio
annunziarvi, ed è una buonissima notizia: Sappiate dunque che il 26
di Marzo i Bolognesi fecero prigioniero Re Enzo e con lui un numero
grandissimo di Cremonesi, Modenesi e Tedeschi. Re Enzo, che si dice
anche Enrico, è figlio naturale, cioè non legittimo, di Federico
Imperatore deposto, ed è uomo di singolare valore e coraggio, e
guerriero prode, e sollazzevole quando gli piace, compositore di
canzoni, e che in guerra sa andare audacemente incontro ai pericoli;
è bell'uomo e di statura mezzana. Quand'egli fu fatto prigioniero
aveva sotto la sua signoria Reggio, Cremona e Modena. I Bolognesi
lo tennero molti anni prigione nelle carceri del palazzo municipale,
ove morì. Non avendogli un giorno i custodi voluto dar da mangiare,
si recò da loro frate Albertino da Verona, che era un celebre
predicatore dell'Ordine de' frati Minori, pregandoli che, per amor suo
e di Dio, non lo volessero lasciar morir di fame. Ma non piegandosi
eglino punto alle preghiere di lui, propose: Giuochiamo insieme a'
dadi; se vincerò, avrò licenza di dargli da mangiare. Giuochiamo,
risposero. Giuocò dunque, vinse, e gli diede da mangiare, standosi
con quel Re in famigliare colloquio. E tutti quelli che ne ebbero
contezza lodarono il frate della sua carità, cortesia e liberalità. In
quella giornata campale, in cui il Re, e col Re moltissimi del suo
esercito furono sconfitti, vi furono anche alcuni che, voltisi in fuga,
sguizzarono dalle mani del vincitore, alcuni che caddero sul campo,
altri rimasero prigionieri, e condotti alle carceri sotto sicura custodia
vi stettero tra ceppi. Guido da Sesso, che era il principale Reggiano
di parte imperiale, morì nella fuga, precipitando insieme col suo
destriero in una fogna dell'Ospedale de' lebbrosi di Modena. Egli era
il più acerbo nemico dei partigiani della Chiesa; tanto che essendone
stati una volta dal Re fatti molti prigionieri nel castello di Rolo [149],
che è nella diocesi di Reggio, ed essendo essi stati condannati alla
forca, e desiderando confessarsi, non volle concedere loro tanto di
indugio che bastasse a confessarsi, anzi disse: Non avete bisogno di
confessarvi, voi partigiani della Chiesa, chè siete santi, e quindi
volerete subito senz'altro in paradiso; e, pel suo diniego, fu subito
eseguita la sentenza, nè poterono confessare le loro colpe. Egli, in
quel tempo in cui tra la Chiesa e la Repubblica avvampava più grossa
la guerra, veniva al convento dei frati Minori con altri suoi scherrani,
e radunando i frati a capitolo, domandava a ciascuno d'onde fosse, e
facevane notare i nomi ad uno scrivano che conduceva seco, poi
diceva: tu vanne al tuo paese, tu farai altrettanto, nè osare di farti
più vedere in questo convento, nè per questa città. E così furono
tutti espulsi, tranne pochi lasciati custodi del convento; ai quali poi,
allorchè andavano per città mendicando pe' bisogni di loro
sussistenza, si faceva ogni sorta oltraggi, e si lanciavano loro
maledizioni, imputandoli di portare lettere false, e di essere nemici
dell'Imperatore. Nè i frati Minori, nè i Predicatori, che passavano pel
territorio, osavano entrare nelle città di Modena, di Reggio e di
Cremona; e se talora alcuni, ignari della condizione delle cose, per
caso entrarono, furono subito presi, condotti al palazzo del Comune,
tenuti sotto guardia, nutriti per alcuni giorni del pane della
tribolazione e dell'angoscia, poi obbrobriosamente cacciati, espulsi,
tormentati, e taluni anche uccisi. Difatto più d'uno è stato sottoposto
alla tortura in Cremona e a Borgo S. Donnino; a Modena presero
alcuni frati Predicatori, che portavano con sè alcuni ferri che servono
a fare le ostie, e li condussero al palazzo del Comune, e a loro
disonore si fece credere al popolo, che avevano stamponi per coniare
moneta falsa. Nè la perdonavano neppure a que' frati, i cui parenti
erano in opinione d'appartenere al partito imperiale, ed essi stessi ne
erano tenaci fautori, tra' quali fu ignominiosamente espulso frate
Giacomo di Pavia, frate Giovanni di Bibbiano [150], frate Giacomo di
Brescello, e molti altri; e per dir tutto in poco, furono licenziati dal
convento di Cremona tutti coloro che parteggiavano per la Chiesa.
Ed io vi era presente, e fu in quell'anno, in cui Parma mia città nativa
si ribellò all'Impero. In seguito fermarono e trattennero a lungo alla
porta della città di Reggio frate Ugolino da Gavassa [151], nè gli
permisero d'entrare, quantunque avesse in città più d'un fratello di
parte imperiale. Che più? Era gente diabolica; e sovra tutti pessimo
in malizia Giuliano da Sesso, maestro in leggi, vecchio, e inveterato
nel male; e, nominato da Re Enzo giudice supremo di Cremona,
Reggio e Modena, fece impiccare alcuni da Foliano, e molti altri ne
condannò a morte, come partigiani della Chiesa, e se ne gloriava, e
diceva: Guardate come li conciamo noi questi ladroni. Questo
Giuliano era veramente un membro del diavolo; e perciò Dio lo colpì
di paralisi, e ne diventò da una parte rigido inaridito; gli uscì
dell'occhiaia un occhio, che, sporgendo fuori, pareva una saetta, e
faceva ribrezzo a guardarlo; diventò eziandio tanto fetido, che
ognuno si guardava bene dall'avvicinarsegli, tranne una giovinetta
tedesca, la cui bellezza era tanto ammaliante, che bisognava ben
essere molto severi per non guardarla con compiacenza. Questo
Giuliano era figlio di uno spurio di quei da Sesso, onde un poeta
scrisse:

Spurius ille puer nullum suadebit honestum

Di spurio seme, reo rampollo è questo,


Nè mai ti saprà dar consiglio onesto.

Egli s'era lasciato sfuggir dalle labbra una o più volte in pubblica
adunanza che era meglio essere ridotti a mangiar della calce, che
vivere in pace coi partigiani della Chiesa. Ma intanto egli si mangiava
i buoni capponi, ed i poveri morivano d'inedia. Ma a questo mondo
non dura a lungo la fortuna de' malvagi: Mutò vento, e chi
parteggiava per la chiesa cominciò ad averlo in poppa. Ed anche per
quel miserabile venne il giorno della fuga, anzi fu portato via di
soppiatto dalla città di Reggio, e tutto fetore, scomunicato e
maledetto, senza confessarsi, senza comunicarsi, e senza fare la
penitenza sacramentale de' suoi peccati, e fu sepolto in un fossato
della villa di Campagnola [152]. Nello stesso anno 1249, i Parmigiani
coi fuorusciti Reggiani bruciarono il ponte di S. Stefano di Reggio, e il
borgo d'Ognissanti, e il ponte e il borgo di Porta Bernone; il 10 di
Giugno, il Crostolo gonfiò e atterrò i ponti e inondò sino alla
Modolena [153]. Lo stesso anno in Agosto, Simone di Giovanni di
Bonifacio de' Manfredi occupò Novi, Rolo e S. Stefano [154] Terre o
Ville della diocesi di Reggio. Egli era del partito della Chiesa,
nobiluomo, bello, forte, amico mio, e, in tempo di grossa guerra,
valoroso guerriero; e gli si erano aggruppati attorno molti, che
cacciati dalle loro case, avevano il veleno nel cuore e seguivano lui
come capo; e si era divulgata molto la fama del suo nome per le
memorabili sue gesta d'incendi, di invasioni, di devastazioni, di
stragi, come consigliava la barbarie della guerra di que' tempi. Così
pure nel settembre di quell'anno, tra nona e vespro, si sentì un
orribile terremoto; e i Bolognesi e i fuorusciti Modenesi e Romagnoli
assediarono Modena, ne incendiarono i subborghi, e nel settembre
stesso la manganellarono; ed Ezzelino da Romano prese Este [155],
castello del Marchese d'Este, ed altre Terre dello stesso Marchese,
per vendicarsi dell'aiuto che il Marchese Azzone prestava ai
Parmigiani, che fabbricavano il Castello di Brescello. I Modenesi poi,
nell'anno stesso, fecero alleanza co' Bolognesi, e si crearono due
Podestà, uno per parte, e riscattarono que' loro prigionieri, che si
tenevano stretti nei ceppi. In quell'anno, dopo la festa di
Sant'Antonio di Padova, o meglio di Spagna, che è dell'Ordine da'
frati Minori, partii col mio compagno dal convento di Genova, ed
arrivammo a Bobbio, ove vedemmo una di quelle idrie, nelle quali
era stata l'acqua che il Signore trasmutò in vino per le nozze di Cana
Galilea. Almeno si dice che sia una di quelle; se realmente la sia,
sallo Iddio, che vede tutto chiaro ed aperto. Dentro di essa sono
collocate molte reliquie, e sta su un altare del monastero di Bobbio,
dove sono anche, e le vedemmo, molte reliquie di S. Colombano.
Dopo, ci avviammo alla volta di Parma, d'onde eravamo nativi, e
sbrigammo le nostre faccende. Poco dopo la nostra partenza da
Genova, arrivò colà frate Giovanni da Parma Ministro Generale, a cui
i frati del convento di Genova dissero: Perchè, Padre, ci privaste di
que' vostri frati, che avevate mandati quì? Noi eravamo lietissimi di
averli quì con noi per amor vostro, per la loro bontà, per la
consolazione che ne davano, e per la loro condotta esemplare. Allora
il Generale rispose: E dove sono? Che? non sono forse più in questo
convento? E i frati: Padre, no, non vi sono più: Frate Ruffino,
Ministro Provinciale di Bologna, li richiamò alla sua provincia. E il
Generale soggiunse: Iddio sa, se io aveva alcuna notizia di questo
ordine di obbedienza; anzi io teneva sì per fermo di trovarli in questo
convento, ch'io cominciava a far le meraviglie, perchè non mi si
erano presentati. In seguito ci trovò a Parma, e con volto gioviale ne
disse: Correte pur tanto per di quà e di là, o miei giovanotti; ora in
Francia, ora in Borgogna, altra volta in Provenza, poi nel convento di
Genova, oggi a Parma con inclinazione a soffermarvici. Oh! se
potessi io posare, come voi lo potreste, non vorrei essere sempre in
su' viaggi. E gli risposi: A voi, Padre, toccano i disagi del viaggiare
per ragioni di ministero; a noi tocca viaggiare per virtù di
obbedienza: chè, ve l'assicuro, viaggiammo sempre per ragione di
pura e vera obbedienza. Udito ciò, rimase soddisfatto, specialmente
per effetto dell'amore che aveva per noi. Quando poi fummo a
Bologna, un giorno in camera disse a frate Ruffino Ministro
Provinciale: Io aveva mandato questi frati nel convento di Genova a
studiare, e tu ne li hai tolti di là. E frate Ruffino rispose: Padre,
questo l'ho fatto per far piacere a loro. Io li aveva mandati in
Francia, quando l'Imperatore stava a campo intorno a Parma. Perciò
richiamandoli, io credeva di far cosa loro gradita. Ed io aggiunsi al
Ministro Generale: La cosa sta come il Ministro Ruffino l'ha esposta.
E il Generale ripigliò: Cura dunque ora di collocarli ove sia che
s'accontentino, e si dedichino a studio, e non vaghino tanto di quà e
di là. Di buon grado, o Padre, rispose frate Ruffino, mi adoprerò a
contentarli e per l'amore che nutro in cuore per voi e per l'amore che
mi lega a loro; e ritenne il mio compagno a Bologna, perchè gli
correggesse la sua Bibbia, e mandò me a Ferrara, ove dimorai sette
anni continui senza mutar mai di convento.
a. 1250

L'anno del Signore 1250 fu fatto prigioniero dai Saraceni Lodovico Re


di Francia, e la più parte dell'esercito Francese, che l'aveva seguito
oltre mare, fu passato a fil di spada. Anche prima però molti ne
avevano mietuto la pestilenza e l'inedia, che furono effetto del
cambiamento di clima, e della caristia e penuria di vettovaglia. Infine
poi, restituita Damiata ai Saraceni, il Re fu restituito a libertà, e
ritornando in regione di fedeli, edificò Balbek e molte altre Terre,
cingendole di muraglia, costruendovi case, ed innalzandovi torri. Ma
mentre l'esercito era diviso in quattro corpi, mandati in diverse parti
all'opera delle preaccennate costruzioni, i Saraceni in uno di quei
luoghi piombarono sopra gli operai inermi, e li massacrarono tutti. La
qual cosa risaputa, il Re, che si trovava altrove, accorse in fretta,
fece scavare una fossa, e, non ritenutone dalla fatica, nè distoltone
dal fetore, li seppellì colle proprie mani. E tutte le milizie ne rimasero
meravigliate, ond'è che a pieno gli si attaglia quello che è detto di
Booz nel 2º libro di Ruth: Sia benedetto dal Signore ecc. Questo
stesso anno in Giugno i Bolognesi, i Modenesi, i fuorusciti di Reggio,
i Parmigiani, i Romagnoli, i Toscani e i Ferraresi portarono in S. Vito
devastazione e saccheggio al territorio Reggiano dalla strada di sopra
sino alle fosse della città, e vendettero il bottino ai Parmigiani: ed i
Reggiani corsero sopra Novi, e ne posero a fuoco e fiamma i
sobborghi e il circondario: devastarono ogni dove, e fecero preda
d'uomini e giumenti, e s'impadronirono di Campagnola facendo
duecento prigionieri. Poscia, un giovedì, dopo la festa della Beata
Vergine, ai 18 d'Agosto, i fuorusciti Parmigiani di parte imperiale, che
erano di stanza a Borgo S. Donnino, i Modenesi e il Marchese Uberto
Pallavicini, Capitano e condottiero loro, piombarono sopra Parma; ma
i Parmigiani uscendo contro loro di città col carroccio, s'azzuffarono
in un luogo detto Grola, ove una volta sorgeva la città di Vittoria, e vi
ingaggiarono un accanito combattimento, ma sulla strada soltanto,
perchè a cagione de' fossati non potevano stendersi nei campi, e
presero parte alla pugna i soli militi dell'una e dell'altra parte, e
questi non tutti, atteso che la strada non lasciava spazio a larga
fronte. E il Marchese Monte Lupo, che era dotto dell'armi ed un
leone in guerra, fece mordere la polve sulla strada a molti Parmigiani
fuorusciti e Cremonesi; ma finalmente cadde egli stesso a terra
ucciso. Questi ed altri suoi fratelli, da parte di sorella, furono nipoti di
Bernardo di Rolando Rossi, cognato di Papa Innocenzo IV. Erano
gran Baroni, ed abitavano a Parma in Cò di Ponte. Primo de' fratelli
era Ugo; secondo, Guido; terzo, Rolando; quarto, Monte, di cui è
parola; quinto, Goffredo. Quest'ultimo fu nell'Ordine de' Templari,
illustre, potente, ed era tenuto in gran considerazione anche perchè
era Marchese. Io li ho veduti e conosciuti tutti, e si chiamavano
Marchesi Lupi di Soragna, Villa ove avevano le loro possessioni,
cinque miglia al di sotto di Borgo S. Donnino. Ma i fuorusciti
Parmigiani, che parteggiavano per l'Impero, vedendo che i loro si
avevano la peggio e andavan cedendo terreno, girarono di fianco, e
minacciarono d'assalto la città; correndo e sclamando: Alla città, alla
città. Ma i popolani, che erano usciti di Parma alla battaglia, udendo
questo, lasciarono il carroccio e i loro, che si battevano sulla strada
come leoni, di corsa s'incamminarono verso la città, ma nell'entrare
si ruppe il ponte della fossa, e molti vi si affogarono. E questa fu una
vera provvidenza divina, che impedì in quel modo ai nemici di
entrare in città, poichè la beata Vergine, che in Parma ha culto vivo e
fervente, non volle abbandonare i suoi. Tuttavia e per pena de'
peccati loro, e per la natura de' tempi che correvano, i Parmigiani
che erano dentro la città, l'ebbero per un disastro. Di fatto i loro
nemici s'impadronirono del carroccio, che era stato abbandonato
sulla strada, e restarono sul terreno tremila popolani, e molti militi.
Podestà dei Parmigiani di dentro la città era allora Catellano de'
Carbonisi di Bologna, che non restò prigioniero perchè seppe
guardarsi bene. I prigionieri li incatenarono nella ghiaia del Taro,
come disse a me Glaratto, uno degli incatenati; e disse anche che
parevano tanti da far credere che tutti i Parmigiani fossero prigioni.
Li condussero a Cremona, e, per vendicarsi e indurli a pagare il
prezzo del riscatto, nelle carceri li posero ai ceppi, fecero loro molti
oltraggi, li sospendevano per le mani e pei piedi, in terribile ed
orribile maniera schiantavano loro i denti, ponevano rospi in bocca, e
fuvvi anche chi si dilettò d'inventare tormenti di nuovo genere. I
Cremonesi incrudelirono atrocemente contro i prigionieri Parmigiani;
ma i Parmigiani di parte imperiale fecero ancora di peggio contro i
loro concittadini di parte della Chiesa, chè ad alcuni tolsero anche la
vita. Ma col tempo arrivò il giorno delle vendette e del ricambio, e i
Parmigiani che erano di parte della Chiesa se le presero terribili tanto
sui Cremonesi, quanto sui Parmigiani che stanziavano a Borgo S.
Donnino, e sul Pallavicino..... Perciò pare sia stato detto apposta da
Geremia II ecc. Il che si fece manifesto nel Re Enzo, quando dai
Bolognesi fu fatto prigioniero in una coi Cremonesi e co' suoi
Tedeschi; ed a ragione perchè unitamente ai Pisani aveva catturato
nelle acque di Pisa i Prelati della Chiesa, che si recavano al Concilio
ai tempi di Papa Gregorio III. (....... Parimente gli ecclesiastici
serbano nelle chiese e negli oratorii l'ostia consacrata per tre
motivi....... E alcuni sagristi, quando i frati comunicano nella messa
vogliono sempre rinnovare l'ostia consacrata nella pisside e nel
tabernacolo, in cui si serba; e credono di far bene, ma s'ingannano a
partito per quattro ragioni. Primo, perchè ne viene allungata la
messa, e i frati s'impazientano, e i secolari ne ricevono scandalo.
Secondo, questa cosa potrebbe farla egli stesso il sagrista, se è
sacerdote, con due ceroferarii in una messa privata, senza che sia
presente tutto il convento. Terzo, perchè talvolta l'ostia che adopera
è della stessa infornata che quella che fa consumare, che è quanto
dire non fece ostie fresche; e tanto meglio si deve conservare
un'ostia consacrata che una non consacrata, serbandosi quella
chiusa e non esposta all'atmosfera, e per arrota contiene Dio, che è
il conservatore di tutte le cose. E di ciò se ne ha prova. Nella città di
Reggio si atterrò una chiesa, sul cui altare, invece di reliquie, era
stata collocata un'ostia consacrata, e quell'ostia la trovarono bianca e
bella, come se ve l'avessero messa il giorno innanzi, quantunque una
memoria scritta diceva che vi era stata trecent'anni(?). Questo l'ho
saputo da frate Pellegrino da Bologna, che era presente e vide. A me
non piace che il Corpo del Signore stia per reliquia chiuso nel
tabernacolo di un altare, come non mi è mai piaciuto l'uso del beato
Benedetto di porre il Corpo del Signore sulla salma di un defunto e
seppellirlo con quella sotterra. Il Sagrista dirà forse che talvolta si
consacrano più ostie di quelle che si consumano, perciò le restanti
bisogna riporle nel tabernacolo ove si serba il Corpo del Signore. Ma
a questo si può provvedere in due modi, o mandando, al momento
che si canta l'epistola della messa in cui si communicano i frati, in
giro l'accolito pel coro a contare quelli che vogliono fare la
comunione, ed ordinando al suddiacono di porre sulla patena
solamente quante ostie bisognano; o disponendo che gli accoliti, che
tengono le tovagliole, siano gli ultimi a comunicarsi, e il celebrante
dia a loro da consumare tutte le ostie consacrate che restano. Fanno
dunque benissimo i sagristi a far le ostie col più puro fior di farina...
Il moggio parmigiano è di otto sestarii; il Ferrarese di venti, perchè
hanno maggior abbondanza di frumento). Ora è tempo di ritornare a
Federico e parlare della sua morte. Federico II ex Imperatore,
quantunque grande, ricco, e potente, pure ebbe molte disgrazie; 1.º
Enrico suo figlio primogenito, che a lui doveva succedere, fece
adesione ai Lombardi contro il volere di lui; e perciò lo prese, lo
incatenò, l'imprigionò e finì col morire malamente; 2.º volle
soppiantare la Chiesa, e ridurre il Papa, i Cardinali e gli altri Prelati
ad essere poveri e andare a piedi; e questo non intendeva già di
farlo per zelo verso Dio, ma perchè non era buon cattolico, e poi
perchè era molto avaro e agognava cupidamente le richezze e i
tesori della Chiesa per sè e suoi figli, e voleva deprimere il potere
degli ecclesiastici, acciocchè nulla tentassero contro di lui; e lo
diceva apertamente con alcuni suoi segretarii, da' quali s'è poi
saputo; ma Dio non permise che mandasse a compimento questi
propositi contro i suoi ministri. 3.º Volle soggiogare i Lombardi, ma
gli fallì l'impresa; chè quando aveva su loro vantaggio per un verso,
altrettanto ne perdeva per altro verso. I Lombardi non si pigliano
agevolmente; sono molto obbliqui e sguizzevoli, e dicono una cosa e
ne fanno un'altra, sicchè è come voler stringere colla mano
un'anguilla o una murena; quanto più forte stringi, tanto più
facilmente sguiscia. 4.º Il Papa Innocenzo IV lo depose in pieno
Concilio a Lione, e pubblicò tutte le malizie e le iniquità di lui. 5.º In
suo vivente, vide l'Impero dato ad altri, cioè al Langravio della
Turingia, cui poi la morte tolse presto di mezzo. Tuttavia provò
Federico gran dolore a vedere l'Impero dato ad altre mani, e ne
bevve tutta la tazza dell'amarezza; anzi fu detto e creduto che lo
avesse fatto uccidere, ed avrebbe fatto opera meritoria, perchè il
Langravio era uomo impastato di malignità. 6.º Parma gli si ribellò, e
parteggiò completamente per la Chiesa; il che fu cagione della totale
di lui ruina. 7.º I Parmigiani posero a sacco e fuoco la sua città
Vittoria, ch'egli aveva fatta fabbricare presso Parma, e la rasero al
suolo e ne otturarono le fosse, sicchè non ne restò vestigio di sorta,
e lui e il suo esercito costrinsero a vergognosa fuga, e molti de' suoi
uccisero, e molti ne trassero in Parma prigionieri, e lo spogliarono di
tutto il tesoro...... La quale (corona di Federico) fu trovata da un
Parmigiano. Io l'ho visto quell'uomo, e l'ho conosciuto; ho visto
anche ed avuta in mano la corona ed era di gran peso e di gran
valsente, e i Parmigiani gliela pagarono duecento lire imperiali, e gli
diedero per giunta un caseggiato presso la chiesa di Sª. Cristina, ove
in antico era la guazzatoia e l'abbeveratoio de' cavalli; e quell'uomo,
per essere piccino, si chiamava Cortopasso. 8.º Gli si ribellarono i
Baroni ed i Principi; come fece Tebaldo Francesco che si chiuse in
Capaccio, e poi finì malamente, perchè fattigli cavare gli occhi, e in
molte guise martoriare, gli fece togliere anche la vita; così Pietro
delle Vigne e molti altri che sarebbe lungo nominare. Il più amato di
tutti fu Pier delle Vigne, cui innalzò dal nulla; mentre prima era un
pover uomo, l'Imperatore lo fece suo segretario e lo nominò, a
maggior onore, suo logoteta. Questa parola è composta di logos e di
theta che vuol dir posizione, ed è maschile e femminile, e significa
colui che tiene discorso in pubblico, o colui che pubblica un editto
dell'Imperatore, o di altro Principe. 9.º La cattura di Re Enzo suo
figlio fatta da' Bolognesi, la quale fu giusta e meritata da Federico II,
che aveva catturati in mare i Prelati che andavano al Concilio indetto
da Gregorio IX. Quindi la spada del dolore per la prigionia di suo
figlio non potè non toccarlo, specialmente per essere stata operata
da tali nemici, e in tale condizione di tempi, che gli troncavano ogni
filo di speranza d'una vittoria a riscossa. 10º La conquista della
Signoria dei Lombardi, ch'egli non aveva mai potuto afferrare, fatta
di leggieri dal Marchese Uberto Pallavicini, quantunque fosse suo
partigiano, e per di più fosse anche vecchio, gracile, debole e
guercio, per avergli, quand'era ancor bambino in culla, un gallo
beccato un occhio, cioè col becco lo cavò dal capo del bambino, e se
lo ingollò. (A queste dieci disgrazie di Federico ex-imperatore
possiamo aggiungerne altre due, e così fare le dodici: 1.º la
scomunica lanciatagli da Papa Gregorio IX; 2.º il tentativo, da parte
della Chiesa, di spogliarlo del regno di Sicilia. E questo non accadeva
senza sua colpa. Poichè avendolo la Chiesa mandato oltremare al
riscatto di Terra Santa, egli si rappaciò coi Saraceni senza alcun
vantaggio dei cristiani, e, per fellonia, fece onorare con canti il nome
di Maometto nel tempio del Signore, come narrammo in altra
cronaca, nella quale passammo a rassegna le dodici scelleratezze di
Federico). Il Pallavicini ebbe in Lombardia dominio su le città
seguenti: Brescia, Cremona, Piacenza, Tortona, Alessandria, Pavia,
Milano, Como e Lodi. A tanto non arrivò mai l'Imperatore. Oltracciò
Vercelli, Novara e Bergamo gli davano soldati, quando per qualche
impresa voleva formare un esercito. Parimente i Parmigiani gli
davano fanteria e cavalleria, più però per timore, che per amore,
tenendo eglino per la Chiesa, ed esso per l'Impero; e si riscattarono
poi da quell'onere pagandogli duemila lire imperiali all'anno. Ogni
cosa ha suo tempo; e i Parmigiani, regolandosi prudentemente a
norma di questa sentenza, quando soffiò il vento propizio, fecero
pesare su lui le proprie vendette, e gli smantellarono il palazzo, che
aveva in Parma sulla piazza di S. Alessandro [156], e quel di Soragna,
che pareva un castello, e, ancor vivente, gli confiscarono le Terre e
le Ville che possedeva nella diocesi di Parma; d'onde ricuperarono il
balzello che gli avevano pagato. Il Pallavicino era cittadino Parmense,
uomo di animo grande, che spendeva largamente, e perciò era
ridotto ad essere così al verde che se poteva avere, quando
cavalcava, due scudieri, che lo accompagnassero su due cavalli
magrissimi, come l'ho veduto io, se ne contentava, e se lo teneva
per un gran che. Ma quando poi ebbe in sua mano la Signoria delle
sunnominate città, e la tenne ventidue anni, spendeva ogni dì alla
sua Corte venticinque lire imperiali senza il pane e il vino. Agognò di
dominare su tutti, e su tutto. Prima signoreggiò in Cremona, e
ridusse al niente quella famiglia dei Sommo, che gli aveva posto in
mano il dominio di Cremona, ed erano del suo partito e suoi
consanguinei. Ma que' Cremonesi che teneano le parti della Chiesa,
come avevano fatto i Parmigiani, gliene diedero pieno ricambio,
spogliandolo e distruggendo quel di lui fortissimo castello di Busseto,
che aveva fatto murare in mezzo alle acque de' paduli, in un bosco,
sul confine dei territorii di Parma, Piacenza e Cremona. E credevalo
sì forte da non potere essere distrutto da tutto il mondo congiurato.
Parimente lo spogliarono i Piacentini, come avevano fatto i
Parmigiani e i Cremonesi, e devastarono le sue Terre. Egli bandì
molta gente da Cremona, molta ne martoriò, e molta ne uccise.
Repudiò sua moglie, donna Berta, figlia del Conte Rainerio di Pisa,
perciocchè di essa non poteva aver prole; e ne sposò un'altra datagli
da Ezzelino di Romano, da cui gli nacquero due figli e tre
leggiadrissime figlie, che stettero lungo tempo senza maritarsi. La
memoria di tali avversità gli addensò tanta nebbia di malinconia
attorno all'animo, che cominciò a malare gravemente di quella
malattia, che lo trasse poi al sepolcro, e fece quello che si legge di
Antioco I, Macabei VI ecc. Federico poi ex-Imperatore chiuse i suoi
giorni l'anno 1250 in Puglia, in una piccola città chiamata Torre
Fiorentina [157], distante dieci miglia da Lucera dei Saraceni; nè il
cadavere, per l'ammorbante fetore che mandava, potè trasportarsi a
Palermo, dove sono le tombe, in cui si seppelliscono i Reali di Sicilia.
Molte però furono le cagioni, per cui non ebbe sepoltura nelle tombe
dei Re di Sicilia: 1º Il doversi verificare la divina scrittura, nella quale
Isaia 14. ecc. 2º Il fetore ammorbante che tramandava il suo
cadavere; il che è detto di Antioco nel 2º Macabei 9º ecc. e si
verificò appuntino in Federico; 3º Lo studio del Principe Manfredi di
lui figlio ad occultarne la morte per occupare il regno di Sicilia e della
Puglia prima che il fratello Corrado arrivasse dalla Germania. D'onde
avvenne che molti non lo credettero morto, sebbene realmente lo
fosse. Quindi si verificò quel vaticinio della Sibilla, che dice: Correrà
voce tra le genti: vive e non vive, e premette che la morte di lui sarà
tenuta occulta. E morì il giorno di Sª. Cecilia Vergine, l'anno 1250,
giorno anniversario della sua incoronazione, avvenuta l'anno 1220.
Alcuni dissero che morì il giorno di Sª. Lucia; che se mai fosse stato
vero, sarebbe stato ancora un avvenimento misterioso; stantechè S.
Lucia disse un giorno in presenza di tutto il popolo di Siracusa:
«Annunzio a voi che la pace è data alla Chiesa di Dio: Diocleziano è
stato detronizzato, Massimiano è morto oggi» Similmente, quando
morì Federico, molti mali scomparvero dal mondo, giusta la parola
scritta ne' Proverbii 22º ecc. E nota che quelle cose che sono dette
nel capitolo 14º di Isaia intorno alla distruzione di Babilonia, e
intorno a Lucifero, possono essere appuntino applicate a Federico...
E più sotto aggiunge altre cose che sembrano dette appositamente
per Federico e pe' suoi figli. E Dio fece opera di altissima provvidenza
spegnendo la stirpe de' figli di Federico, che furono una generazione
malvagia e crudele, una generazione, che non tenne al retto il suo
cuore; e il suo spirito non si crede che sia salito a Dio. E qui si noti
che Federico quasi sempre si compiacque d'essere in rotta colla
Chiesa, e in mille guise osteggiò colei che l'aveva allevato, difeso ed
esaltato. Non aveva alcuna fede in Dio; fu uomo astuto, fino, avaro,
lussurioso, collerico, maliziato. Talora assunse anche le apparenze
del gentiluomo, quando gli piacque far mostra di bontà e di cortesia.
Sapeva leggere, scrivere, cantare, e comporre canzoni e canzonette;
bell'uomo, ben proporzionato, ma di statura mezzana. Io l'ho veduto,
e vi fu anche un momento in cui gli volli bene, quando cioè scrisse a
frate Elia Ministro Generale dell'Ordine de' Minori che in grazia sua
mi restituisse a mio padre. Parlava anche varie lingue e non poche,
e, per farla breve, se fosse stato buon cattolico e amante di Dio e
della Chiesa, avrebbe avuto pochi pari a lui nel Regno e nel mondo.
Ma siccome è scritto che un sol po' di fermento basta per
corrompere tutta una gran massa, egli ecclissò ogni sua virtù col
perseguitare la Chiesa; e non l'avrebbe perseguitata se avesse
amato Dio, e voluto provvedere alla salute dell'anima propria. Quale
realmente fosse l'ex Imperatore Federico, egli se lo saprà, e se
peccando contro Dio ebbe a perdere molti beni presenti e futuri, ne
incolpi se stesso. Per questo fu deposto dall'Impero e finì
malamente. «Con lui sarà finito anche l'Impero, e se pure avrà
successori, non avranno nè autorità nè grado d'Imperatori romani».
Questa è predizione, dicono, di una Sibilla; ma io non l'ho mai letta
ne' libri della Sibilla Eritrea, nè in quelli della Tiburtina; libri di altre
non vidi mai, e le Sibille furono dieci. Che questo vaticinio si
avverasse, appare chiaramente sia per la parte che riguarda
l'Impero, sia per la parte che si riferisce alla Chiesa. Per quello che
riguarda l'Impero successe Corrado, figlio, da legittimo matrimonio,
di Federico con una figlia del Re Giovanni.
Questo Corrado non ebbe mai l'Impero, nè gli volsero mai prospere
le sorti. A lui successe Manfredi, suo fratello, ma figlio di un'altra
donna di Federico, che era nipote del Marchese Lanza, sposata da
Federico quando egli era sul punto di morte. Questi non ebbe mai
l'Impero, ma solo il titolo di Principe da quelli che erano amici di suo
padre; e tenne molti anni la Signoria in Calabria, in Sicilia e in Puglia
dopo la morte del padre e del fratello. A lui tentò succedere
Corradino, figlio di Corrado, figlio di Federico ex-Imperatore, ma
tanto Manfredi che Corradino furono tratti a morte da Carlo, fratello
del Re di Francia. Per parte della Chiesa poi, i successori nell'Impero
per volontà del Papa, dei Cardinali, dei Prelati e degli Elettori, furono
il Langravio di Turingia, Guglielmo d'Olanda, e Rodolfo di Germania.
Ma a nessuno di loro arrisero mai tanto propizie le sorti da
raggiungere, più che il titolo, la piena potestà imperiale. Quindi il
surriportato vaticinio pare che siasi adempiuto. Ora è da dire qualche
cosa delle strambezze di Federico. E la prima fu che fece tagliare il
pollice ad uno scrivano, perchè aveva scritto il nome di lui altramente
dal come egli volevalo; perocchè s'era fitto in capo che nella prima
sillaba del suo nome mettesse un i, Friderico, e lo scrivano aveva
messo un e, Frederico. Altra stranezza si fu quella di voler
esperimentare che linguaggio, o che modo di esprimere i proprii
pensieri, avessero i bambini cresciuti senza udir persona parlare.
Perciò diede ordine ad alcune balie e nutrici che dessero ai loro
bambini da suggere il latte delle mammelle, che li lavassero e li
pulissero, ma non li carezzassero, nè parlassero a loro udita. Con
questo mezzo credeva di poter riuscire a conoscere se que' bambini
parlerebbero la lingua ebraica, la greca o la latina, o quella de' loro
genitori. Ma era opera vana, perchè que' bambini morivano tutti, nè
potrebbero vivere senza le voci, i gesti, il sorriso, le carezze delle
balie e nutrici loro; ond'è che hanno nome di fascino delle nutrici
quelle cantilene che la donna canta cullando il suo bimbo per
addormentarlo; senza di che il fanciullo non potrebbe nè quietare, nè
dormire. Terza stranezza fu quella che quando vide oltremare quel
paese che era la Terra Promessa, tante volte da Dio magnificata col
chiamarla terra stillante di latte e miele e la più ubertosa di tutte le
terre, a lui per contrario non piacque, e disse che il Dio de' Giudei
non dovea aver mai veduto il paese d'ond'egli veniva, cioè Terra di
Lavoro, Calabria, Sicilia e Puglia, perchè altrimenti non avrebbe più
celebrata tanto quella terra che aveva promessa, e che diede agli
Ebrei, de' quali poi si dice anche che poco apprezzarono la terra del
loro desiderio. Perciò dice l'Ecclesiaste 5.º Non esser precipitoso nel
tuo parlare, e il tuo cuore non s'affretti di proferire alcuna parola nel
cospetto di Dio. Quarta stramberia fu di mandare più volte sino al
fondo dello Stretto di Messina, benchè fosse renitente, un certo
Nicola, d'onde poi sempre ritornò incolume. Ma volendosi a pieno
assicurare, se realmente avesse toccato il fondo, e sin di là avesse
potuto ritornare, gettò una sua coppa d'oro là dove credeva che
l'acqua fosse più alta; ed esso mandato giù la pescò e la riportò
all'Imperatore, che ne restò molto meravigliato. Finalmente
volendolo mandare un'altra volta, Nicola gli rispose: Non obbligatemi
a discendere ora laggiù, perchè il mare al fondo è tanto tempestoso
ch'io non potrei salvarmi. Nulla ostante lo costrinse a calarsi giù, ma
non si rivide: poichè in quel fondo di mare, vi sono scogli, e quando
infuria la tempesta, vi nuotano grossi pesci, e, come il Nicola riferiva,
vi si trovano navi naufragate. Costui poteva ripetere a Federico ciò
che si legge in Giona 2.º Mi gettasti nel profondo ecc. Questo Nicola
era un Siciliano, ed un giorno offese gravemente ed irritò sua madre,
la quale gli imprecò che abiterebbe sempre nelle acque e di rado
riapparirebbe a terra; e così gli accadde. Si noti che lo Stretto di
Messina in Sicilia è un braccio di mare presso Messina, ove talora la
corrente è così impetuosa e vorticosa, che aggira, ingoia e
sommerge le navi; e in quello Stretto vi sono anche Scilla e Cariddi,
e grossi scogli; onde frequenti disastri. Sul lido, che vi si stende di
fronte, sta la città di Reggio, di cui parla il beato Luca, quando narra
che dalla Giudea andava a Roma coll'Apostolo Paolo, negli Atti degli
Apostoli 28.º Quindi costeggiando (cioè da Siracusa, che è la città di
S.ª Lucia) giungemmo a Reggio. Tutto ciò, che ora ho contato, l'ho
udito cento volte dai frati di Messina, che erano de' miei migliori
amici. Io poi aveva nell'Ordine de' frati Minori anche un mio fratello
consanguineo, frate Giacomino da Cassio [158], Parmigiano, che
dimorava a Messina, e queste stesse cose mi riferiva. Molte altre
furono le stranezze, le manìe, le maledizioni, le atrocità, le perversità
e le soperchierie di Federico, di cui alcune notai in altra cronaca,
come sarebbe quella di chiudere un uomo vivo entro una botte
finchè vi morisse, volendo con ciò dimostrare che anche l'anima era
mortale.... Perocchè era epicureo, e tutto ciò che poteva trovare
nella divina Scrittura o per sue ricerche, o per mezzo de' suoi
sapienti, che servisse a dimostrare che dopo morte non vi è altra
vita, tutto raccoglieva.... Il che prova che Federico e i suoi sapienti
non avevano fede, e credevano che al di là della presente non
esistesse altra vita, per non avere ritegno a secondare più
sfrenatamente le loro passioni e la loro libidine. Perciò abbracciarono
l'epicureismo, che ripone la pienezza della felicità dell'uomo nella
sola voluttà carnale, per contrapposizione allo stoicismo, che la fa
derivare dalla sola dolcezza della virtù.... La sesta pazzia, o ribalderia
di Federico fu quella di dar bene da mangiare in un pranzo a due
uomini, poi mandarne l'uno a dormire, l'altro a caccia, e la sera far
loro aprire sotto a' suoi occhi il ventricolo per conoscere quale dei
due avesse fatto miglior digestione; e da' medici fu giudicato aver
meglio digerito colui che aveva dormito. La settima stranezza fu la
seguente, che raccontai già in altra cronaca. Trovandosi egli un
giorno in palazzo, interrogò Michele Scoto suo astrologo, quanto era
egli distante dal cielo, e gliene rispose quel che ne pensava. Dopo la
risposta, col pretesto di fare un viaggio, lo condusse in altre parti del
Regno, e ve lo intrattenne per più mesi, e comandò a' suoi architetti
e falegnami che nel frattempo abbassassero la sala del palazzo
stesso in modo che nessuno potesse addarsene; e così fu fatto.
Ritornato di nuovo l'Imperatore dopo il viaggio al medesimo palazzo,
e dimoratovi alcuni giorni col prenominato astrologo, un dì condusse
bellamente il discorso a domandargli se erano allora tanto distanti
dal cielo, quanto aveva detto altra volta. E Michele Scoto, fattasi sua
ragione, rispose che o il cielo doveva essersi alzato, o la terra
abbassata. D'onde l'Imperatore dedusse che esso era un vero
astrologo. Molte altre consimili stranezze ho udito contare di lui, e
so, cui io non ridico per brevità, per premura di passar ad altro, e poi
perchè mi secca parlare di tante scioccherie. Federico usava anche
talora scherzare in casa co' suoi domestici, e pigliando l'aria
canzonatoria, contraffaceva, discorrendo e gesticolando, quegli
ambasciatori Cremonesi che di volta in volta erano inviati a lui da'
loro concittadini; i quali ambasciatori solevano sempre prendere le
mosse del discorso dal lodarsi reciprocamente, e dal dire l'un
dell'altro a vicenda: Questi è nobile; Questi è un sapiente; Quegli è
straricco; Quell'altro è potente; e, dopo le scambievoli lodi e
presentazioni, cominciavano a trattare degli affari loro. Parimente
tollerava le beffe, i lazzi, e le risposte pungenti de' giocolieri, e li
ascoltava senza punirli, o dissimulava di averli uditi. E questa è una
lezione contro altri, che si pigliano subita vendetta dei motti che
toccano le loro persone. Ond'è che egli trovandosi una volta a
Cremona, dopo che i Parmigiani ebbero rasa al suolo la sua città di
Vittoria, e battendo colla mano sulla gobba di un giocoliere, di quelli
che si chiamano cavalieri di Corte, e intanto dicendogli: O mio Dallio,
quand'è che si aprirà questo cofanetto? Egli rispose: Non si potrà
aprire così facile, perchè ho smarrita la chiave fuggendo da Vittoria.
L'Imperatore sentendosi rinfacciare l'onta patita, e rinnovarne il
dolore, trasse un sospiro e disse: Sono stato turbato, ma non ho
fiatato; e non si prese alcuna vendetta. Questo Dallio era Ferrarese,
mio conoscente ed amico; prese moglie una Parmigiana, e, subito
dopo la distruzione di Vittoria, venne a dimorare a Parma. Sua
moglie era sorella di frate Egidio Budello dell'Ordine de' Minori. Se la
detta risposta l'avesse fatta ad Ezzelino da Romano, era sicuro
d'averne cavati gli occhi, e d'esserne impiccato. Altra volta,
quand'era all'assedio di Berceto, lo beffò e lo prese in canzone
Villano Ferri, e non se ne offese. L'Imperatore gli domandò che
nome avessero i mangani e i trabucchi che erano là; e Villano Ferri
con certe parole canzonatorie rispose che si chiamavano sbegni e
sbegnoini. Al che l'Imperatore sorrise soltanto, e si allontanò. Qui
pare luogo opportuno, di dire come l'Imperatore Federico sia nato,
cioè di quali genitori. Dirò dunque che suo padre si chiama Enrico
VI, sua madre Regina Costanza, che era Siciliana, figlia di Guglielmo
Re di Sicilia; ma, per conoscere meglio l'origine di Federico, ti fa
d'uopo guardare più sopra. L'anno del Signore 1075 fu fatto Papa
Gregorio VII; si chiamava Ildebrando monaco, e tenne il Pontificato
13 anni, un mese e quattro giorni. Fu fatto prigioniero la notte di
Natale presso S.ª Maria Maggiore. Dopo di che, il ventun di Maggio,
venne a Roma Re Enrico; e nell'anno medesimo dell'apostolato
d'Ildebrando, entrò pure in Roma, il ventotto di Maggio, Roberto
Guiscardo Re de' Normanni. E mentre soggiornava in Roma, arrivò
Enrico III Imperatore con Guiberto Arcivescovo di Ravenna per
deporre Gregorio, e far Papa Guiberto; ma il popolo romano, per
pretesto di riguardi ai Papa, non voleva aprire le porte
all'Imperatore, che era un maledetto, e, finchè visse, osteggiò la
Chiesa. Ma l'Imperatore arietando aprì una breccia nella muraglia di
cinta della città, e
Depopulans urbem, Papam statuit ibi turpem.
In cathedra locat hunc, falso Clemens vocitatur:
Hic est Guibertus fallax, vastator apertus
Ecclesiae Christi, merito quem signat abyssi
Bestia, quam vidit dilectus in Apocalypsi.
Regis et illa falanx Romam totam maculabat.
Pervigil et rector Gregorius ex grege fesso,
Pollutae cathedrae multum quoque condolet aeque,
Sperans in Petrum, rogitat pugnare Robertum
Normannum quemdam, qui Regem depulit extra
Urbem, qui voluti per stratam damula fugit
Francigenam, montes ultra rediens malus hospes:
Papa suus Clemens, romanis praemia praebens
Raptor, terrenam Petri rapit ipse cathedram.
Quamquam se monstret, quod sit quasi pastor in urbe:
Ipsi nulla tamen pars in coeli manet arce.
Hic heresis limes mundum seduxit inique,
Iussa Dei sprevit, Sanctorum verba neglexit,
Praevaricat leges, divinas destruit aedes.
Persequitur dignum dominum, Papamque magistrum,
Qui, monitis sacris plenus, manet in Lateranis.
Illic consistens spermologus optimus iste
Actibus et verbis exprobrat schisma Guiberti,
Perpetuo damnans anathemate schismata tanta.
Nascitur hinc cunctis ingens tribulatio iustis.
Mucronem Regis pia pars quam maxime sentit.
Sedibus expulsi sunt Pontifices quoque multi,
Flagris afflicti, vinclis in carcere stricti.
Rex et Guibertus faciunt juvenescere tempus
Neronis prisci, qui praecepit crucifigi
Petrum, cervicem Pauli gladio ferit idem,
Et propriae ventrem proscindere matris ab ense
Fecit, ut inspiceret requievit ubi malus ipse.
Sic propriae matris palmas, calcaribus actis,
Transfodit, missus Sathanae, Guibertus iniquus:
Nullum quippe virum timuit nisi Nero magistrum.
Venis incisis in aqua, vitam tulit ipsi.
Hi duo praescripti, fidei fere nomen obliti,
Perdere nituntur doctorem denique summum.
Symon eis doctor Magus extat et hyspidus auctor.
Ignorant forsan quod, dum fortuna reportat
Iniustos seorsum, ruituros esse deorsum
Quandoque plus ipsos, ideo patitur Deus illos.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Pugna fuit, donec potuit saevire Guibertus,
Perfidiae dux, ecclesiae vastator apertus etc.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Hic per viginti tres annos denique Christi
Ecclesiam nisu toto turbarat iniquus.
Dum potuit multos animos seducere stultos,
Destitit infelix nunquam. Nec corpora laedit
Illius magnus mundus iam despicit actus.
Ecclesiae cunctae Petre iam praebe promoconde,
Iste senex ut hebes homines sinat esse fideles.
Post annos binos Urbanus erat quod ab isto
Saeclo portatus, coelique choro sociatus;
Iste dolore gravi tactus, Guibertus inanis
Mortuus est, secum portans anathema per aevum;
Propterea coeli populus, pariterque fideles
Exultentque boni, periit quia perdicionis
Filius. Ut surgat similis non det Deus unquam. Amen.

L'Imperador dell'Alemagna algente,


Il fuoco, il sacco in Roma e un Papa addusse,
Che si chiamò, ma non fu mai, Clemente.
Guiberto ei fu, che bestemmiando strusse
La Chiesa dell'Agnel d'amore ardente.
Guiberto ei fu, che a dimostrar qual fusse,
Pinse una belva di lontan prevista
Il rapito di Patmo Evangelista.

Furto, rapina, e strupo, e sangue e vampa


Del Re Tedesco in Roma eran diletto.
Del barbaro corsier la ferrea zampa
Il Santo atterra; ma, da Pier sorretto,
Il Normanno leon contro s'accampa;
E del sacro Pastor con dolce affetto,
Del santo gregge, che s'affanna e geme,
A più lieto destino alza la speme.

Urta, rompe, disperde il Re, che vile,


Come cerbiatto ch'ha il mastin sull'orme,
L'alpi ricerca e torna al suo covile.
Ma l'intruso pastor il gregge a torme,
Lupo, diserta e sbranca il sacro ovile
Con mille di terror e mille forme.
Quale pastore in Roma abbia ei pur sede!
Chè non l'avrò su 'n ciel, se non ha fede.

D'eretico venen coll'alma infetta


Ei guasta il mondo ed ogni cor corrompe;
E la santa parola in cor negletta,
Iddio bestemmia ed ogni legge rompe;
E contra 'l ciel la tracotanza eretta,
Contro la Chiesa e contro il Papa irrompe,
Che maestro del ver splende qual sole
Di Laterano entro l'augusta mole.

Ove, raggiante del divino spiro,


Del ver, del buon spande e feconda il seme.
E Guiberto scismatico deliro,
Con argomento che l'incalza e preme,
Giudica e danna e si l'avvolge in giro,
Che fulminato orrendamente freme.
Orge, ricade, sbuffa tosco e bile
E lutto e pianto invade il sacro ovile.

Del Re sente nel cor fitta la spada


Il popolo fedel, che Cristo adora;
E lunga schiera di Pastor la strada
Calca del bando e del dolore ognora;
Oppure avvien che tra catene cada;
Ed ai tormenti invan pietade implora.
Ch'oggi Guiberto e il Re, Nerone fanno
Parere a noi poco crudel tiranno.

Neron, che a Pietro fa salir la croce,


Neron, che a Paulo fa balzar la testa,
Neron, che mostro dispietato, atroce,
Ogni moto del cor crudo calpesta,
E di natura ogni ragione e voce;
E la viltade all'empietà contesta,
Nel seno di sua madre un ferro intride,
Che per orrore si ritorce e stride.

Più che Neron, fello Guiberto ed empio


Alla nutrice sua Chiesa di Dio
Trafisse il sen con esecrando esempio,
E se l'antico, di cui niun più rio,
Del suo maestro fece scherno e scempio;
Il Nerone novel, che lo seguio,
Al Vicario di Cristo, al suo maestro
Ministra il duolo, il fele ed il capestro.

Guiberto e Arrigo infin, scossa ogni fede,


Scosso l'ossequio al successor di Piero,
Colui che il Cristo a prezzo compra e cede,
Seguono dottore in lor sentiero.
Nè san che se fortuna ad alta sede
Porta il reo talor, con gioco fiero
Lo balza poi dall'alto a precipizio.
Questo matura in ciel giusto giudizio.

. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Arse la pugna, s'incrudì, s'espanse;
E allor dell'ire s'ammorzò l'ardore
Che la spada del ciel, toccando, franse
Di tanto scisma il perfido dottore, ecc
. . . . . . . . . . . . . . . . .

Ventitrè volte il sol vide, e rivolse


Da tanto orrore l'atterrito ciglio.
Nè quel lupo cessò fin che nol tolse
Seco la morte al doloroso esiglio.
Ah! quanti ne sedusse e ne travolse
Al regno del dolor, od in periglio!
Ma la vendetta non è lenta; e copre
L'infamia omai di lui l'audacia e l'opre.

O Divo, o tu, che delle eteree sedi


Volgi le chiavi alla virtù che sale,
Ed alla Chiesa universal provvedi,
Soffia su la caligine mortale,
Che 'l mondo ingombra, e 'l rasserena. Or vedi
Che vacilla la fè, l'error prevale;
Or che d'Urbano, dopo due soli anni,
L'alma spiegò sino alle stelle i vanni.

Or che del cielo la saetta ardente


Toccò Guiberto con eterno danno,
Del paradiso la beata gente,
E chi del mondo dura ancor l'affanno,
E la lotta sostien forte e fidente,
Tra plausi e grazie a Dio, gridando vanno:
Il gran vermo di Satana perio!
Da un altro egual difenda il mondo Iddio.
Della morte dell'Imperatore Enrico III.

Dictus iamdudum Rex quo sit fine solutus,


Scilicet Henricus, volo mundi discat amicus.
Cum scierit, noscat faciendum quid sibi constat.
Rex supra fatus, vivens erat illaqueatus
Actibus in pravis. Semel at se dissimulavit
Converti; pleno quod fecit corde veneno.
Schismaticos semper coluit, tenuitque libenter;
Hic exordescens minor eius filius enses
Elevat adversus genitorem. Tollere regnum
Quaerit ei, duram secum committere pugnam,
Non piguit campi, quem bellando superavit.
Mesticia multa per totum tempus abundans,
Undique confossus, quassatus et undique tortus;
Mortem non sperans; demum tamen ipsa catena
Mortis eum strinxit, rapuit de corpore tristi.
Augusti quarto defungit id in anno
Christi milleno, centeno, denique seno
Ad templum Spirae dormit, quod struxerat idem.

Come pur morto sia lo terzo Enrico


Che 'l mondo sappia io vo', del mondo amico.

Lo sappia, e faccia quel che far gli giova.


In vita sua diè luminosa prova

D'intelletto e di cor pien di malizia


Tanta da degradarne ogni nequizia.

Di rinsavir finse talora il Sire


Ma solo per unir perfidia all'ire.

Chi lo scisma seguìa tenne in onore,


E lo cinse di gloria e di splendore:
Di che 'l figlio minor inorridito
Levò le spade contro il padre, ardito.

Aspra la pugna fu, lungo lo sdegno;


Il figlio al padre agogna torre il regno.

Non cura il sol, la neve, la tempesta,


Dura sui campi e vittorioso ei resta.

E l'ugna del dolor il padre artiglia,


E a fronte, a' fianchi, a tergo ognor lo piglia;

Sì che per fino di morir dispera.


Ma 'n fin precipitò nell'onda nera,

Nel mille centosei, allor ch'il giorno


Quattro d'Agosto a noi fa suo ritorno.

Un tempio eccelso aveva eretto a Spira:


Or vi riposa in fino al dì dell'ira.

Papa Gregorio VII era amico della Contessa Matilde, e da Roma


recavasi al castello di Canossa, e, per utilità della Chiesa,
soggiornava talora con essa tre mesi, e avrebbe potuto fermarsi
anche più a lungo, se gli fosse piaciuto. Egli era sant'uomo, ella
santissima donna e divota a Dio, ed aiutava la Chiesa Romana co'
denari e coll'armi, facendo guerra contro l'Imperatore Enrico III suo
cugino, che aveva creato Ghiberto, Arcivescovo di Ravenna, Antipapa
col nome di Clemente, invece di chiamarlo empio e demente. I quali
due, durante tutta la vita loro, osteggiarono la Chiesa, distolsero
molte anime dalle vie del Signore, e le trassero con loro a casa del
diavolo. E ciascuno di loro morì nella vergogna e nell'amarezza
dell'anima propria Ghiberto tornò a Ravenna e riprese la podestà e il
titolo che vi aveva prima. Riguardo poi a quel maledetto Imperatore
Enrico III, trovi in Isaia XIV ecc. Il che si è avverato nell'Antipapa
Ghiberto, detto Clemente, non che in Enrico III. E la Chiesa, col
tempo, per grazia di Dio, ebbe piena pace. Dunque Roberto
Guiscardo per aver dato aiuto a Gregorio VII nel momento più
stringente, cacciando l'Imperatore da Roma, si ebbe in feudo, per
ricambio del beneficio fatto, la Sicilia e la Puglia, spettanti alla Chiesa
romana; purchè se le conquistasse contro i Greci e i Saraceni, che le
occupavano. Egli dunque andò prima, a modo di esploratore, per
vedere gli abitanti di quelle terre; e, ritornato, raccolse l'esercito,
chiamò a sè i due fratelli che aveva, e i suoi consiglieri, e disse loro:
La sapienza dice ne' proverbi 11.º ecc. Poi aggiunse: Tutte queste
virtù deve possedere franche nell'animo colui, che vuol mettersi alla
testa di un esercito e far guerra ad un nemico; virtù, di cui, per
grazia di Dio, faranno mostra i nostri soldati. La Puglia e la Sicilia
sono state cedute a noi dal Papa, e là vidi uomini che hanno i piedi
di legno e parlano in gola. Or su sagliamo contro a quella gente:
perciocchè noi abbiam veduto il paese, ed egli è grandemente
ubertoso. E voi ve ne state a bada? Non siate pigri a mettervi in
cammino per andare a prendere possessione di quel paese. Quando
voi giungerete là (conciossiachè Iddio ve l'abbia dato nelle mani)
verrete ad un popolo, che se ne sta sicuro, e 'l paese è largo, è un
luogo nel quale non v'è mancanza di cosa alcuna che sia sulla terra.
Giudici 18.º Nota che Roberto chiamava piedi di legno le pianelle o
zoccoli che usavano que' Pugliesi e Siciliani, e che li giudicava gente
cachetica, color di merda e di niun valore. Disse poi che parlavano in
gola, perchè quando volevan domandare: Che cosa volete?
dicevano: Ke bulì? Li giudicò adunque uomini da nulla, imbelli,
accasciati e senza perizia alcuna dell'arte della guerra; Giuditta
5.º........ Perchè erano tre fratelli, Roberto, Guiscardo, Ambrogio, che
era monaco; a cui gli altri due dissero: Tu combatterai colle tue armi,
cioè ne aiuterai colle tue preghiere; noi impugneremo il brando, e se
Dio vorrà, li soggiogheremo subito. E così fu. L'Imperatore de' Greci,
sapendo questo, e temendo che Roberto volesse correre sino a
Costantinopoli, a ridurre al nulla la Grecia, fece sotto i propii occhi in
alcuni luoghi avvelenare le acque, e ne morì Roberto; sopravvisse
Guiscardo di lui fratello, d'onde ebbe origine la dinastia dei Re
Normanni in Sicilia. Da Guiscardo discese Guglielmo Re di Sicilia; e
da questo, Guglielmo II, che ebbe parecchi figli ed una figlia di nome
Costanza. Egli alla sua morte, non so per qual ragione, comandò a'
suoi figli di non maritare la sorella Costanza; i quali, per ossequio
agli ordini del padre, la tennero secoloro sino all'anno trentesimo
dell'età di lei. Ma essa era donna di indole focosa e indomabile,
disturbava e rodeva le cognate e tutta la famiglia. Perciò
considerando che la Sapienza dice benissimo ne' Proverbii 25.º ecc.
si deliberarono di darle un marito, e mandarla lontano da loro [159]. E
la diedero moglie a Re Enrico, che fu l'Imperatore Enrico VI, figlio del
primo grande Federico, la quale a Iesi, nella Marca d'Ancona, gli
partorì un figlio, Federico II, del quale più sopra s'è detto ch'era
figlio di un beccaio, e che la Regina Costanza, dopo una finta
gravidanza, se l'era messo sotto, dando a credere d'esserne madre.
Perciò Merlino aveva detto che il secondo Federico nascerebbe
inaspettato e per miracolo, sia perchè la madre era già avanzata
negli anni, e certamente perchè quel figlio era di parto suppositizio,
e raccattato con frode. Quindi l'Imperatore Enrico, sotto colore dei
diritti della moglie, invase la Sicilia e la Puglia, e occupò tutto il
regno unito di quelle provincie. Ritornato poi in Alemagna, e udito
che i regnicoli, cioè i Pugliesi e i Siciliani, lo avevano tradito, corse di
nuovo al regno, ne asportò i tesori, ne distrusse i maggiorenti.
Laonde conturbata e infiammata la Regina Costanza contro il marito,
cominciò co' suoi a prendere le difese del regno; onde tra loro
nacque rottura e guerra, sicchè i saggi ed i letterati dicevano: Questi
non sono marito e moglie che abbiano un'anima sola, secondo
l'insegnamento dell'Ecclesiastico 25.º Ed i giocolieri poi dicevano: Se
ora alcuno desse scacco a Re, la Regina non si moverebbe a coprirlo.
L'Imperatore Enrico finalmente rioccupò il regno, fece strage de'
maggiorenti, e secondo l'uso degli Imperatori Tedeschi, osteggiò la
Chiesa. Dopo di che passò di questa vita, e rimase Federico, ancora
pupillo, sotto la tutela della Chiesa, che lo allevò ed esaltò,
sperandolo migliore del padre. Ma qual padre, tal figlio; anzi fu di
gran lunga peggiore. Le cose dette da Merlino riguardanti a Federico
II sono: «Federico I ne' peli un agnello, ne' velli un leone; sarà
saccheggiatore di città; nell'esecuzione di questo proposito terminerà
in corvo e in cornacchia: vivrà in H, e cadrà nel Porto di Milazzo.
Federico II poi, di nascita insperata e miracolosa, tra le capre agnello
da dilaniare, non sarà assorbito da loro; gonfierà il letto di lui, e
frutterà nelle vicinanze dei Mori, e respirerà in loro; poi sarà involto
nel suo sangue, ma non ne sarà intinto a lungo; tuttavia porrà radici
in quello; sarà esaltato nel terzo nido, che divorerà i precedenti: sarà
leone che rugge tra i suoi; confiderà assai nella sua prudenza;
disperderà i figli di Ceylan; disgregherà Roma e la snerverà; terrà lo
spirito in Gerosolima; in trentadue anni cadrà; vivrà nella sua
prospera ventura settantadue anni, e due volte quinquagenario sarà
trattato blandamente; volgerà torvo l'occhio a Roma; vedrà le sue
viscere fuori di sè. Nel suo tempo il mare rosseggierà di sangue
santo, ed i comuni avversarii arriveranno sino a Partenope; dipoi
raccolto da lui un aiuto nelle parti d'Aquilone, vendicherà il sangue
sparso. E guai a quelli che non potranno avere ricorso ai vasi; e dopo
che sarà nel decimo ottavo anno, contando a partire dal suo crisma,
tornerà la Monarchia negli occhi degli invidi; e nella sua morte
saranno in lui resi vani gli sforzi di coloro che lo avranno maledetto.
E qui finisce. Nota che Enrico VI Imperatore fu amico dell'Abbate
Gioachimo dell'Ordine di Flora, il quale, richiestone, scrisse una
lettura sopra Isaia intorno ai doveri, e per comando di lui, una lettura
sopra Geremia, volendo intendere i misteri di Daniele nascosti sotto
la figura della statua, dell'albero, della scure, della pietra, e della
successione futura. Scrisse anche per sè, l'anno del Signore 1198,
un' — Esposizione dei libri della Sibilla e di Merlino — Conclusione
finale di Geremia profeta —. Ecco, Cesare, la verga del furore di Dio»
Geremia è abbastanza aperto, ma nell'adombrare le afflizioni del
secolo è dapertutto involuto: Dio voglia che anche tu non sia tanto
sprovvisto del timore di Dio quando stia per calare la scure
evangelica sulla radice dell'albero Imperiale» — Presagi futuri sulla
Lombardia, Toscana, Romagna, ed altre contrade, dichiarati da
maestro Michele Scoto:

Regis vexilla timens, fugiet velamine Brixa,


Et suos non poterit filios propriosque tueri.
Brixia stans fortis, secundi certamine Regis.
Post Mediolani sternentur moenia griphi.
Mediolanum territum cruore fervido necis,
Resuscitabit, viso cruore mortis.
In numeris errantes erunt atque sylvestres.
Deinde Vercellus venient, Novaria, Laudum.
Affuerint dies, quod aegra Papia erit.
Vastata curabitur, moesta dolore fiendo
Munera quae meruit diu parata vicinis.
Pavida mandatis parebit Placentia Regis.
Oppressa resiliet, passa damnosa strage.
Cum fuerit unita, in firmitate manebit.
Placentia patebit grave pondus sanguine mixtum
Parma parens viret, totisque frondibus uret.
Serpens in obliquo, tumida exitque draconi.
Parma Regi parens, tumida percutiet illum
Vipera draconem. Florumque virescet amoenum.
Tu ipsa, Cremona, patieris flammae dolorem.
In fine praedito, conscia tanti mali,
Et Regis partes insimul mala verba tenebunt.
Paduae magnatum plorabunt filii necem
Duram ed horrendam, datam catuloque Veronae.
Marchia succumbet, gravi servitute coacta.
Ob viam Antenoris, quamque secuti erunt,
Languida resurget, catulo moriente, Verona.
Mantua, vae tibi tanto dolore plena.
Cur ne vacillas, nam tui pars ruet?
Ferraria fallax, fides falsa nil tibi prodest
Subire te cunctis, cum tua facta ruent
Peregre missura, quos tua mala parant
Faventia iniet tecum, videns tentoria, pacem.
Corruet in pestem, ducto velamine pacis.
Bononia renuens ipsam, vastabitur agmine circa,
Sed dabit immensum, purgato agmine, censum.
Mutina fremescet, sibi certando sub lima,
Quae, dico, tepescet, tandem traetur ad ima.
Pergami deorsum excelsa moenia cadent.
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