Bruno Forte - Teologia Della Storia. Saggio Sulla Rivelazione, L'inizio e Il Compimento - Edizioni Paoline 1991
Bruno Forte - Teologia Della Storia. Saggio Sulla Rivelazione, L'inizio e Il Compimento - Edizioni Paoline 1991
SIMBOLICA ECCLESIALE
Una teologia come storia
5.
La Chiesa, comunione e missione
Saggio di ecclesiologia trinitaria
7.
Teologia della storia
Saggio sulla rivelazione, l'inizio e il compimento
(1991)
8.
Maria, la donna icona del Mistero
Saggio di mariologia simbolico-narrativa
(1989)
BRUNO FORTE
TEOLOGIA
DELLA STORIA
Saggio sulla rivelazione,
l'inizio e il compimento
Edizioni Paoline
Prima edizione aprile 1991
Seconda edizione ottobre 1991
Imprimatur
Frascati, 15 ottobre 1990
+ Giuseppe Matarrese, vescovo
Questo libro parte dalla domanda, di fronte alla quale gli uomi-
ni, distinti nelle forme del possesso, fanno esperienza di una comu-
ne povertà: perché il dolore nel mondo? La ricerca di una risposta
credibile a questo interrogativo mostra come esso venga a identifi-
carsi con la questione del senso: ha senso il dolore? ha senso la
vita? e il lottare quotidiano e l'universale destino del morire han-
no un significato che renda degna la fatica di vivere? Dalla "croce
della storia" si leva l'interrogativo sul "senso della storia" stessa.
A queste domande sono state date spesso risposte presuntuosa-
mente totali, nutrite di una certezza pari solo alla sconfinata fidu-
cia nella ragione che le proponeva: il tramonto di questa cieca
fiducia, la "dialettica dell'Illuminismo", che ha rilevato come « la
terra interamente illuminata splenda all'insegna dì trionfale sven-
tura » (M. Horkheimer - Th. W. Adomo), e la conseguente fine
delle ideologie sembrano aver tolto mordente alla "questione del
senso". Non solo la caduta del senso, ma la perdita di interesse al-
la stessa questione si presentano come eredità dolorosa del tramon-
to del mito moderno dell'emancipazione assoluta. Rinunciare
all'interrogativo sul senso non è tuttavia veramente possibile fin-
ché resta aperta la domanda sul dolore. Occorre pertanto rifiutare
non la domanda, ma la risposta presuntuosa e totale: occorre cer-
care un "altrove", che raggiunga e illumini la croce del tempo. Più
che mai sì impone la verità lapidaria che « la novità del mondo
non può essere colta a partire dal mondo » (S. Tommaso d'Aquino).
La fede cristiana riconosce in Gesù di Nazaret, morto e resusci-
tato da Dio, il luogo in cui questo "altrove" si è detto alla storia:
solo in Lui, Parola eterna fatta carne, si schiude a noi la profondi-
tà del mistero, non per essere esaurita e risolta, ma per venire per-
corsa in itinerari rispettosi del silenzio, ricchi di ascolto e dì apertura
all'ulterìorìtà della vita e del mondo. In Luì, nell'evento pasquale
della Sua morte e resurrezione, in cui la Trinità ha posto la pienez-
za della Sua divina autocomunicazìone, questo libro cerca risposta
5
alla "questione del senso". È Luì l'avvento dell'"altrove", la veri-
tà della vita e del mondo, la sfida e l'offerta del senso. Lui: non
qualcosa, ma Qualcuno, non una morta idea, ma l'evento in per-
sona della pura donazione. Perciò, le riflessioni che seguono parto-
no dalla novità della rivelazione come atto trinitario, in cui — nel
gioco eterno e temporale della Parola, del Silenzio e dell'Incontro
— è offerto al pensiero e alla vita l'accesso al mistero del mondo.
Lo sviluppo delle idee — condotto in dialogo con i grandi progetti
della vicenda moderna e della sua crisi — si concentra sulla "for-
ma" dell'autodestinazione di Dio agli uomini, sul modo, cioè, e
la struttura con cui si compie l'evento della rivelazione. Questa
forma è inseparabile dal "contenuto" che le è proprio, il mistero
del Dio vivo, che comunica se stesso al mondo nell'incarnazione
del Piglio e nella missione dello Spirito Santo. Ad esso sono dedi-
cati i mìei precedenti volumi Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio
della storia (1981) e Trinità come storia (1985), ai quali perciò
Teologia della storia naturalmente rinvia. "Forma" e "contenu-
to" della rivelazione — nel loro inscindibile e fecondo rapporto
— riconoscono il senso della vita e della storia della persona uma-
na e del mondo nella chiamata a vivere l'esistenza come autodesti-
nazione al Dio tre volte Santo.
La "teologia della storia" viene così a delinearsi attraverso un
processo di "memoria" e di "profezia" analogo a quello avvenuto
nella coscienza di Israele e dei primi testimoni del Risorto, che,
a partire dall'esperienza del Dio vivente, hanno riletto il passato,
il presente e il futuro della propria vita e della vicenda del mondo:
l'evento della rivelazione trinitaria di Pasqua illumina retrospetti-
vamente l'inizio e la realtà del creato e proletticamente il compi-
mento nelle sue dimensioni personali, sociali, ecclesiali e cosmiche.
Nella crisi ecologica — forma quanto mai attuale e drammatica
della "croce della storia" — la Trinità viene ad offrirsi come l'ori-
gine e la santa dimora dell'uomo e del mondo, che fonda un'etica
e una spiritualità responsabili verso ogni creatura, e al tempo stesso
— nella crisi del senso — si dona come il senso e la patria del sog-
getto storico, personale e collettivo, e dell'intera realtà mondana.
Inizio e compimento, letti a partire dal centro escatologico dell'av-
vento divino, si illuminano così di una luce, capace dì motivare
e sostenere la fatica di vivere e dì aprirla al dono della gioia, più
forte del dolore e della morte, perché radicato nella partecipazione
all'eterna vita di Colui che è il trascendente mistero del mondo.
L'avvento del Dio vivo visita l'esodo della condizione storica
6
e lo apre nella fede e nella speranza al senso possibile e sempre nuovo:
l'amore. L'esodo è raggiunto e sfidato dall'unica realtà nuova sot-
to il sole del mondo: l'affacciarsi gratuito e liberante dell'Eterno.
La Croce del Risorto, avvolta dal Silenzio e aperta all'Incontro,
raggiunge, accompagna e trasforma la croce della storia. A tutti i
crocefissi, di tutti ì tempi e di tutte le forme, questo libro è perciò
dedicato: piccolo contributo a riconoscere la loro dignità, tante volte
calpestata e dimenticata, e sfida ad aprirsi all'impossibile possibili-
tà di Colui che solo fa nuove tutte le cose. Questa speranza è unita
alla convinzione ferma che della redenzione dei poveri fa parte in-
separabile la redenzione del mondo: perciò questo libro vorrebbe
anche offrire un apporto alla coscientizzazione necessaria per edi-
ficare una relazione rinnovata e responsabile di tutti e di ciascuno
con la grande "casa" dell'universo, riflesso e impronta dell'eterna
"casa", che è per tutti e per tutto il mistero di Dio.
29 Giugno 1991
B. F.
7
1.
9
del Figlio di Dio. « Non vi sgomentate, né vi turbate, ma ado-
rate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispon-
dere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi »
(lPt 3,14s). Il silenzio del Venerdì Santo è il luogo in cui l'av-
vento, in tutta Pindeducibile novità che lo caratterizza, ha in-
contrato l'esodo della condizione umana, in tutta la profondità
e il peso delle sue contraddizioni e delle sue incompiutezze, rias-
sunte nel "verbum abbreviatum" della finitudine umana: la mor-
te. È l'eloquenza del silenzio del Crocifisso davanti alla "croce
del tempo" che sarà all'origine di ogni possibile "teologia della
storia".
L'impresa, tuttavia, non si svilupperà sul vuoto: se la domanda
che nasce dal dolore è antica quanto la vicenda dell'uomo sulla
terra, il bisogno di "redimere" il tempo storico non è meno an-
tico di questa domanda. E un tale bisogno che fa nascere fra
gli uomini delle società arcaiche il "mito dell'eterno ritorno";
è questo medesimo bisogno che trova nella concezione ebraico-
cristiana della storia una nuova, rivoluzionaria risposta, che sa-
rà sviluppata in forme diverse nel tempo; ed è ancora esso a mo-
tivare nel profondo le moderne "filosofie della storia", la cui
parabola di trionfo e di decadenza ripropone con nuova attuali-
tà e rinnovato interesse lo scandalo della Croce del Figlio di Dio
come unico, possibile senso alla "croce del tempo", e perciò come
fondamento e contenuto centrale di una visione del mondo e
della vita che possa dare significato e speranza alla storia.
10
se si avvertisse una « rivolta contro il tempo concreto, storico »,
una « nostalgia di un ritorno periodico al tempo mitico delle ori-
gini, al "grande tempo" »3. Gli oggetti e gli atti non hanno un
valore intrinseco autonomo, ma ricevono valore e diventano reali
in quanto partecipano di una realtà che li trascende: il gesto ac-
quista senso in quanto è ripetizione di un'azione primordiale.
« Con la ripetizione dell'atto cosmogonico, il tempo concreto...
è proiettato nel tempo mitico, in ilio tempore, in cui è avvenuta
la fondazione del mondo» 4 . «La realtà si acquista in virtù di
ripetizione o di partecipazione » 5 .
I modi di essere, di pensare e di agire del mondo arcaico so-
no stati elevati a dignità filosofica da Platone, il cui grande me-
rito è consistito « nello sforzo di giustificare teoricamente questa
visione dell'umanità arcaica con i mezzi dialettici che la spiri-
tualità della sua epoca gli offriva »6. Dietro questo sforzo spe-
culativo c'è l'ansia di rispondere alla domanda posta dalla "croce
del tempo": come rigenerare la storia? come ancorarla a un fon-
damento che le dia consistenza, dignità e durata? come annul-
lare il peso del negativo, il senso dell'incompiutezza, la percezione
inesorabile della caduta e fondare al tempo stesso un compor-
tamento misurato da valori, che attingano all'eterno e non si
lascino assorbire e disperdere nel fluttuare dei giorni?
L'umanità arcaica prospetta la possibilità della rigenerazione
ciclica del tempo attraverso il superamento rituale della storia:
per essa ciò che è veramente essenziale e primordiale è l'inizio,
quell'inizio archetipo che Platone ha identificato col mondo delle
idee. « Tutto ricomincia dal suo inizio in ogni istante: il passa-
to non è che la prefigurazione del futuro e nessun avvenimento
è irreversibile e nessuna trasformazione è definitiva. In un cer-
to senso, si può dire che non si produce nulla di nuovo nel mon-
do, poiché tutto è solamente la ripetizione degli stessi archetipi
primordiali»7. La rigenerazione del tempo storico avviene al-
lora ripetendo l'inizio, partecipando di esso nel gesto rituale, an-
nullando il tempo trascorso mediante un ritorno continuo in ilio
tempore. La vita non può essere riparata, né la bellezza, e la bontà
restaurate, ma solo esse possono venir ricreate con la ripetizio-
ne., 9.
4
fó., 38.
'!£., 55.
6
Ib., 56.
Ub., 118.
11
ne dell'atto originario, del modello eterno. Questo comporta-
mento non va frainteso con una forma di disprezzo dell'esistenza
e delle realtà di questo mondo: esso mostra al contrario « lo sforzo
disperato per non perdere il contatto con l'essere », la passione
per dare dignità a una vita che pare soltanto ac-cadere, brucian-
dosi nell'atto stesso di compiersi. Nella speculazione greca il mito
dell'eterno ritorno « ha il senso di un supremo tentativo di "sta-
tizzazione" del divenire, d'annientamento della irreversibilità
del tempo »8. La visione ciclica della storia non è regresso o ca-
duta all'indietro, ma rigenerazione, ripetizione dell'archetipo,
che è l'unica realtà e l'unico valore veramente essenziale e du-
raturo.
Quale risposta offre questa visione alla domanda che si eleva
dalla "croce della storia"? che significato ha la sofferenza nel
ciclo dell'eterno ritorno? Non si sbaglierebbe col dire che essa
viene esorcizzata: diventando un momento del processo, che sarà
annullato nella ripetizione dell'archetipo, la sofferenza diviene
"normale". La "normalità" del dolore, il suo ritorno ciclico e
la sua ciclica scomparsa, l'accettazione che fa di necessità virtù
sono l'ideale del saggio, la rassegnazione di chi si abbandona
— come un puro caso dell'universale — al processo eterno del-
la vita, all'eterno ritorno dell'identico originario e sempre bra-
mato. È volgendo lo sguardo all'indietro, al puro "inizio", ed
è ripetendo questo archetipo di bellezza e di bontà indefettibili
che la sofferenza è redenta: la nostalgia sorregge l'attesa del ri-
torno e il ritorno riscatta le cadute dell'attesa.
La concezione ciclica del tempo annulla così la consistenza
dell'attimo presente: il primato del mondo delle idee finisce col
comportare l'abolizione del tempo storico, realizzata per mez-
zo dell'imitazione degli archetipi e della ripetizione dei gesti pa-
radigmatici. La corposa densità del frammento è smarrita, nessun
futuro è veramente incombente e l'impermanenza del tempo,
con tutta la concretezza che le inerisce, è nobilitata solo dal rim-
pianto e dal gesto della ripetizione del modello originario. L'uo-
mo diventa un "caso" dell'universale e il suo futuro non è che
ritorno, senza vera novità o sorpresa. Il mondo arcaico, come
la cultura greca, non conosceranno la dignità irripetibile della
persona, soggetto storico unico e singolare, né l'attesa di un ve-
niente nuovo giorno, che possa colorare ogni cosa della sua lu-
s
Ik, 121 e 159.
12
ce, carica di novità vera e di impensabile bellezza. Ciò che pro-
priamente manca al mito dell'eterno ritorno è la dimensione del
futuro: « La teoria pagana è priva di speranza, perché speranza
e fede sono per essenza legate al futuro e non vi può essere un
vero futuro se i tempi passati e venturi sono concepiti come fa-
si equivalenti entro una ricorrenza ciclica senza principio né fi-
ne. Sulla base di una continua rivoluzione di cicli determinati
possiamo attenderci soltanto una cieca rotazione di miseria e
di felicità, di felicità illusoria e di miseria reale, ma non già un'e-
terna beatitudine — un'infinita ripetizione dell'identico, ma nul-
la di nuovo, di risolutivo e di finale » 9 .
Paradossalmente è proprio il più grande tentativo di ripresa
del mito dell'eterno ritorno all'interno della tradizione del pen-
siero occidentale, quello operato da Friedrich Nietzsche, che ne
dimostra il limite costitutivo: denunciando il fallimento di ogni
religione del progresso — collegata al messaggio ebraico-cristiano
nelle sue forme teologiche, come in quelle moderne secolariz-
zate — Nietzsche proclama l'eterno ritorno dell'identico come
via per smascherare la "menzogna bimillenaria", che ha indot-
to a credere in una storia progressiva procedente da un princi-
pio assoluto verso un fine assoluto. Questa concezione ha di fatto
asservito ogni cosa alla volontà di potenza dell'uomo e l'uomo
stesso all'idea di progresso: solo liberandosi da questa ragione
strumentale e giungendo a voler deliberatamente ciò che deve
essere per natura, l'uomo diverrà il "superuomo", saprà cioè
elevarsi al di sopra del fluire sempre uguale del tempo (lo "Uber-
mensch" è propriamente l'uomo che sta sopra). Ma ciò si com-
pie solo se egli può in ogni istante attualizzare l'inizio, ripetendo
in ciascun attimo l'attimo dell'eternità: si realizza così l'eterno
ritorno della vita nella sua duplice pienezza di creazione e di-
struzione, di gioia e di dolore, di bene e di male. Non c'è più
un inizio e una fine, ma l'inizio è la fine e la fine l'inizio nella
pienezza di un presente eterno, che è al di là della vita e della
morte, della felicità e della sofferenza, del bene e del male: « Per-
ché i tuoi animali lo sanno bene, o Zarathustra, chi tu sei e de-
vi divenire: vedi, tu sei il maestro dell'eterno ritomo: questo è
il tuo fato!... Vedi, noi sappiamo ciò che tu insegni: che tutte
le cose eternamente ritornano e noi con loro, e che noi già sia-
mo stati un'infinita quantità di volte, e tutte le cose con noi...
9
K. Lowith, Significato e fine della storia, o. e, 189.
13
Io ritorno, ritornerò ancora, con questo sole, con questa terra,
con questa aquila, con questo serpente; ma non per una nuova
vita o una vita migliore o una vita consimile; ritornerò di nuovo
eternamente per condurre questa medesima vita, nel grande come
nel piccolo, e insegnare ancora l'eterno ritorno di tutte le cose;
per pronunciare ancora la parola del grande meriggio della terra
e dell'uomo, ed annunciare di nuovo agli uomini il Superuo-
mo »10. La coscienza dell'eterno ritorno dà all'uomo la possibi-
lità di fissarsi al di là del vuoto ripetersi del ciclo, al di sopra di es-
so, nella permanenza dell'eterno, soggiacente ad ogni esteriore
impermanenza, al di là del bene e del male: « E questa è la mia be-
nedizione: essere sopra ogni cosa come il suo proprio cielo, come
il suo tetto rotondo, la sua cupola azzurra e l'eterna sicurezza: ed
è beato colui che così benedice!, Poiché tutte le cose sono battez-
zate alla fonte dell'eternità e al di là del bene e del male... » n.
Proprio ponendosi come il proclamatore dell'eterno ritorno
dell'identico, tuttavia, Nietzsche rivela la fondamentale ambi-
guità del suo pensiero: affascinato dalla ripetizione dell'eterni-
tà, egli è mosso come pochi dalla questione del futuro. Il suo
problema è l'avvenire, la volontà di crederlo e di prepararlo;
l'anima profonda di Zarathustra non è la nostalgia o il ricordo,
ma la profezia; la denuncia non vuol essere che « preludio ad
una filosofia dell'avvenire»12. «Troppo profondamente in-
fluenzato da una coscienza cristiana, Nietzsche non era in gra-
do di compiere il "capovolgimento di tutti i valori", che il
cristianesimo aveva effettuato contro il paganesimo: infatti, ben-
ché intendesse ricondurre l'uomo moderno agli antichi valori
del paganesimo classico, egli rimaneva tuttavia a tal punto cri-
stiano e moderno che una sola questione lo preoccupava: il pen-
siero del futuro e la volontà di crederlo»13. Con la ripresa del
mito, dell'eterno ritorno e con l'irrisolta aporia della sua passio-
ne per l'avvenire, Nietzsche diviene la riprova vivente del fa-
scino e al tempo stesso del limite della concezione della vita e
del mondo, che aveva plasmato l'uomo arcaico e la cultura greca.
10
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. di M. Montanari, Milano 1965, 247s (Par-
te Terza: « Il convalescente »). L'idea dell'eterno ritorno dell'uguale si trova già — an-
che se con significato prevalentemente etico — nell'aforisma 341 de La gaia scienza:
tr. it. di F. Masini, Milano 1965.
11
Così parlò Zarathustra, o. e, 186 ( Parte Terza: « Prima del levar del sole »).
12
Vorspiel einer Philosophie der Zukunft è il sottotitolo di Jenseits von Gut und Ba-
se, Leipzig 1886: tr. it. di M. Montanari, Al dì là del bene e del male, Milano 1968.
13
K. Lowith, Significato e fine della storia, o. e, 252.
14
b) La concezione biblica della storia
15
acquista il sapore di una infinita dignità, tale da dare valore al-
l'intero tempo storico.
Questa valorizzazione della storia, come luogo in cui si rive-
la e si nasconde la gloria del Dio vivente, tocca il suo vertice
nella rivelazione cristiana: con l'incarnazione il Figlio eterno si
fa soggetto di una vicenda pienamente umana, pur restando sul
piano dell'essere di Dio; con la passione e la morte Egli fa suo
l'infinito dolore del negativo, la "croce della storia" nelle sue
forme più atroci, fino al supremo atto dell'abbandono, in cui
il "Deus con tra Deum" si rivela nella sua forma più drammati-
ca; con la resurrezione Egli immette nel tempo l'inaudita novi-
tà della vittoria di Dio, che vince la morte e dona la vita in
pienezza. La sequela di Gesù, Signore e Cristo, è fede che apre
al tempo stesso al futuro di Dio e al presente degli uomini in
cui Egli è venuto ad abitare col Suo avvento. Il fatto che Dio
si sia fatto soggetto personale di una storia veramente umana
— verità che il Concilio di Calcedonia (451) ha definito con
lapidaria concisione — fa scoprire il concetto di "persona" e
aiuta a ricomprendere l'uomo stesso come soggetto storico
personale 16.
Il messaggio cristiano fa superare così definitivamente i vec-
chi temi dell'eterno ritorno: scoprendo l'importanza dell'espe-
rienza religiosa della "fede" e il valore della personalità umana,
irripetibile nella sua singolarità e nel suo destino eterno davan-
ti al mistero del Dio personale, il cristianesimo assume e svi-
luppa in maniera originale e creativa l'eredità d'Israele. Alla
concezione ciclica del tempo e della storia è sostituita una con-
cezione "aperta", "lineare": la speranza prende il posto della
nostalgia; il valore dell'atto, la dignità della decisione singolare
attiva e responsabile cancellano il primato della ripetizione; la
rigenerazione del tempo non avviene a prezzo del suo svuota-
mento, ma grazie all'irruzione del nuovo di Dio accolto dall'uomo
nella sua libertà. Al tempo meramente quantificato nel succe-
dersi degli istanti ripetitivi dell'eterno, o anche in un susseguirsi
di infinite cadute verso il nulla, la fede neotestamentaria sosti-
tuisce l'idea del tempo qualificato, reso nuovo dalla decisione
di fede di fronte alla parola dell'annuncio e all'offerta della
16
Cfr. sulla storia del concetto di "persona" e le sue radici cristiane, tematizzate
nella controversia cristologica e trinitaria dei primi secoli, A. Milano, Persona in teolo-
gia. Alle origini del significato di persona nel cristianesimo antico, Napoli 1984, e Id.,
La Trinità dei teologi e dei filosofi. L'intelligenza della persona in Dio, Napoli 1987.
16
grazia. La buona novella, caratteristica del cristianesimo, è la
salvezza della storia, non la salvezza dalla storia: l'umile "og-
gi" dell'uomo è assunto e redento dagli "oggi" del Figlio del-
l'uomo e può divenire, nell'accoglienza di Lui, l"'oggi" di Dio.
Non si tratta, dunque, semplicemente di una salvezza nella sto-
ria, per la quale cioè il tempo resti soltanto lo "scenario", il
"theatrum gloriae Dei": si tratta, molto più e fortemente, di
una redenzione del tempo storico operata dalla grazia del Dio
vivente entrato in esso e dalla libera accoglienza dell'uomo, ve-
ro soggetto e protagonista della storia. La "storia della salvez-
za" si costruisce sulla possibilità di una "salvezza della storia",
fondata nel mistero dell'avvento col quale il Dio vivente ha fatto
sua la storia degli uomini17.
Anche il problema della sofferenza trova nuova luce nella vi-
sione cristiana della redenzione: il fatto che il Figlio di Dio ab-
bia fatto sua la morte nell'abbandono del Venerdì Santo dà un
significato completamente nuovo alla passione del mondo. La
"croce della storia" non è esorcizzata, ridotta a un passaggio
obbligato nel ciclo dell'eterno ritorno: essa è presa fino in fon-
do sul serio in tutta la drammaticità che le inerisce. Tuttavia,
in quanto assunta dal Figlio che si consegna per amore del mondo
in obbedienza al Padre, la sofferenza umana assume il valore
di una "imitatio Christi", di una ripresentazione in noi del suo
dolore salvifico, per « completare ciò che manca ai patimenti
di Cristo, a favore del suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1,24).
E come l'autoconsegna dolorosa del Figlio ha trasformato la sof-
ferenza in amore, così la storia delle sofferenze del mondo può
essere trasformata in comunione con Lui nella storia della sal-
vezza del mondo, per la forza dell'amore che vince il dolore e
la morte. La redenzione del tempo storico è la sua trasforma-
zione qualitativa in forza della fede e dell'amore: soffrire con
Cristo rende salvifico il dolore, e aiuta a soccorrere le sofferen-
ze altrui col coraggio della gratuità, scaturente dalla gratitudi-
ne del sapersi amati da Lui. Nella notte del dolore si prepara
così l'alba nuova del mondo: non il ritorno all'inizio, ma l'anti-
cipazione della patria; non la nostalgia o il rimpianto, ma il com-
pimento della speranza che non delude.
17
Cfr. su questi temi W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, in
Id., Vede e storia, Brescia 1975, 62-96, nonché Id., Storia, teologia della, in Sacramen-
tum Mundi 8, Brescia 1977, 96-106, con bibliografia. Cfr. pure in particolare J. Danié-
lou, Saggio sul mistero della storia, Brescia 1957, specie 200ss (« Cristologia e storia »).
17
Nell'evento del Figlio consegnato alla morte e resuscitato dal
Padre viene a ricapitolarsi l'intero processo storico: vi si rivela
l'Origine silenziosa e nascosta, il mistero dell'Amore eterno da
cui tutto procede, che ispira e sostiene la morte della Croce e
la vita nuova della riconciliazione pasquale; vi si offre in antici-
po e promessa la Patria, la destinazione finale del mondo in Dio,
il tempo in cui Egli sarà tutto in tutti; vi si illumina il tempo
intermedio fra la prima venuta del Cristo e il suo ritorno, tem-
po di gloria rivelata e nascosta, "frattempo" animato dalla ten-
sione fra il "già" e il "non ancora", Venerdì Santo del mondo
in cui si sta preparando la resurrezione finale nel Regno piena-
mente manifestato. Neil'evento-Cristo è come narrata la storia
della storia: "prolessi" del futuro (W. Pannenberg), "promis-
sio inquieta" (J. Moltmann), la resurrezione del Crocefisso, men-
tre dona al tempo storico l'infinita dignità di essere orientato
alla gloria della fine, lo rivela anche come campo di battaglia,
luogo della decisione per Lui o contro di Lui, spazio in cui la
potenza di Pasqua esige di essere estesa per raggiungere ogni
creatura, tempo dello Spirito, che attualizza lejDromesse di Dio
e unisce la storia presente alla gloria futura. E così che « Cri-
sto, ricapitolando la storia, ne diventa la norma »: non un'astratta
norma universale, ma l'« universale concretum et personale »,
l'eternità nel tempo, la verità nella singolarità della Sua perso-
na e della Sua vicenda, Colui che solo è « la via, la verità e la
vita » (Gv 14,6)18. Veramente « nella visione cristiana della
storia il concreto non sottostà alla norma del generale, non è
mai puro "caso", tutto nella storia invece sottostà alla norma
dell'unico concretissimum, Gesù Cristo. La storia non è altro
che la universalizzazione dell"'ora di Cristo" e della sua Pa-
squa. Storicità ed esistenza dell'uomo è allora la chiamata per-
sonale a riattualizzare questa pascha Domini, l'esodo in un'altra
regione da noi conosciuta soltanto nella fede e nella speranza,
l'ubbidiente accettazione del paradosso della croce » ". Il pro-
blema moderno su come sia possibile che un fatto storico si ponga
come verità di ragione universalmente normativa è superato nella
ricettività del Figlio incarnato: grazie alla sua concretissima "esi-
stenza accolta" la Trinità entra nella storia e la storia entra nel-
18
H. Urs voti Balthasar, Teologia della storia. Abbozzo, Brescia 1969, 61.69. Dello
stesso cfr. Il tutto nel frammento, Milano 1970.
19
W. Kasper, Linee fondamentali di una teologia della storia, o. e, 96.
18
la Trinità. Colui che è l'alleanza in persona fa sua la "croce del
tempo", aprendo nel "tempo della croce" redentiva la via ver-
so la Gloria estesa ad ogni creatura.
19
M..
Agostino si preoccupa di confutare la visione pagana dell'e-
terno ritorno, perché essa esclude la possibilità del "novum"
e perciò è incapace di aprirsi all'irruzione dell'impensabile no-
vità dell'incarnazione di Dio nel tempo. Al "cerchio" egli però
non sostituisce la linea aperta verso un indefinito progresso, ma
la Croce del Risorto, che, conficcata nella storia, la spacca in
due provocando gli uomini alla decisione di fede, che sola qua-
lifica la loro esistenza nel tempo e per l'eternità: ciò che sta al
centro della teologia agostiniana della storia non è il progredire
dell'uomo verso un futuro ideale, ma il suo pellegrinare nella
fede verso la visione, il decidersi per Cristo, che dà senso e bel-
lezza alla vita. « Il suo tema e la sua preoccupazione centrale
è la storia escatologica della fede, che è una storia segreta entro
quella secolare, sotterranea e invisibile per coloro che non han-
no gli occhi della fede»21. La Chiesa avanz'a pellegrina nel
tempo fra le prove del mondo e le consolazioni di Dio — « in-
ter persecutiones mundi et consolationes Dei peregrinando pro-
currit» 22 —, popolo escatologico chiamato a vivere e a
proporre in ogni stagione la scelta decisiva che qualifica l'esi-
stenza e la storia: « L'amore di sé fino alla dimenticanza di Dio
o l'amore di Dio fino alla dimenticanza di sé» 23 . Fra la vani-
to e la verìto sta la decisione dell'uomo, che ne determina l'ap-
partenenza alla civitas terrena o alla civitas Bei, facendone una
creatura di frontiera, soccorsa certo dalla Grazia, ma responsa-
bilizzata nel modo più alto di fronte alla serietà e al peso delle
proprie scelte concrete, inesorabilmente cariche di futuro.
completa il racconto della sua storia personale e passa — nei quattro libri successivi
— a considerare la "storicità" dell'esistenza, tesa fra la patria e il luogo del pellegri-
naggio, esaminando successivamente la memoria (libro X), il tempo (libro XI) i princi
pi atemporali del mondo (libro XII) e la Chiesa pellegrinante (libro XIII): è in particolare
da questi libri che si ricava la sua grandiosa visione di teologia della storia La biblio
grafia su Agostino è immensa e numerose le opere che sotto profili diversi o in rappor-
to a diverse tematiche toccano la sua concezione della storia: per un orientamento cfr
%£"**} V f , f "°> inlnstitutum Patristicum Augustinianum, Patrologia, Torino
1978 voi. Ili, 323-434^ Una nproposizione della lettura agostiniana della storia può
considerarsi 1 opera di H.-I. Marrou, Teologia della storia, Milano 1969 che dimostra
la perenne vitalità della visione di Agostino.
21
K. Lowith, Significato e fine della storia, o. e, 197 L'intero mn TY A; „„„<.,„
volume (185-198) è dedicato alla confutazione della visione classica del mondo ed at
teologia della storia di Agostino. Sul rapporto fra la concezione agostiniana e quella
greca cfr. E. Gilson, Le temps et l'etemité chez Pioti» et St. Augustin Paris 1933
vocila™ De7 S V / ' ™ e m i n e n t e « W tempo nell'eternità » (362).'
23
De Civitate Dei, XIV, 28.
20
Il rischio presente nella teologia agostiniana della storia è a
questo punto facilmente intuibile: se Cristo è la norma univer-
sale e il centro escatologico del tempo, nella sua singolarità at-
tualizzata dallo Spirito Santo per ogni ora della vicenda umana,
tutto ciò che appare al di fuori di Cristo non può che essere
negatività e peccato. Il pessimismo storico e antropologico di
Agostino si radica nell'assolutezza cristologica del suo pensie-
ro, nella radicalità da neofita con cui egli interpreta l'evangeli-
co «chi non raccoglie con me, disperde» (Mt 12,30). Risuona
in lui la "gelosia divina", di cui parla Paolo (cfr. 2Cor 11,2),
l'ansia di non voler appartenere che a Cristo. La sua visione del
"Christus totus" apre certamente l'assolutezza del cristianesi-
mo ad abbracciare ogni valore autentico ed ogni decisione di
bene: resta tuttavia problematica l'autonomia delle realtà ter-
rene, la dignità e la consistenza del tempo storico nella sua con-
tinuità e complessità, anche a prescindere dalla decisione
qualificante per Cristo.
E invece proprio la scoperta del tempo storico che caratte-
rizza l'altro grande progetto di teologia della storia maturatosi
nel cristianesimo occidentale: la concezione di Gioacchino da
Fiore. Radicando il divenire del tempo storico nell'eterno pro-
cesso delle divine Persone, senza risolvere questo in quello,
Gioacchino si sente autorizzato a superare l'assolutezza del Cristo
a favore di una visione più propriamente trinitaria degli stati
della storia: all'età del Padre egli vede succedere l'età del Figlio
e, ormai alle porte, la terza età, quella dello Spirito24. La dia-
lettica simbolica "passato-futuro", "profezia-adempimento",
che congiunge i tre "stati" del mondo, quello del Padre o della
Legge a quello del Figlio o della Grazia, e questo a quello dello
24
Cfr. A. Crocco, La teologia trinitaria di Gioacchino da Fiore, in Id., Gioacchino
da Fiore e il gioachimismo, Napoli 1976, 115-146; Id., La concezione trinitaria della sto-
ria in Gioacchino da Fiore e il superamento del dualismo agostiniano, in Asprenas 30 (1983)
5-21; G. Di Napoli, La teologia trinitaria di Gioacchino da Fiore, in Divinitas 23 (1979)
281-312; B. Forte, Trinità come storia, Milano 1985, 81-85; J. Moltmann, Trinità e Re-
gno di Dio, Brescia 1983, 218-224; Id., Speranza cristiana: messianica o trascendentale?
Un dialogo con Tommaso d'Aquino e Gioacchino da Fiore, in Asprenas 30 (1983) 23-46;
H. Mottu, La manifestazione dello Spìrito secondo Gioacchino da Fiore, Casale Monfer-
rato 1983, che offre una bibliografia aggiornata e precisa su Gioacchino: 294-305. Cfr.
pure Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, Atti del I Congresso Internazionale di
Studi Gioachimiti, S. Giovanni in Fiore 1980 e L'età dello Spirito e la fine dei tempi
in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medioevale, Atti del II Congresso Internazio-
nale di Studi Gioachimiti, S. Giovanni in Fiore 1986. Riguardo all'influenza del mes-
saggio gioachimita sul pensiero occidentale cfr. H. de Lubac, La posterità spirituale dì
Gioacchino da Fiore, 2 voli., Milano 1981-1984.
21
Spirito o della libertà piena nell'amore25, è assunta a signifi-
care la relazione che congiunge le Persone divine fra loro: «Il
terzo stato che avrà inizio con Elia si riferisce propriamente al-
lo Spirito Santo, per il fatto che in quello egli manifesterà la
sua gloria, come il Padre nel primo stato e il Figlio nel secondo.
Siccome poi lo Spirito Santo non procede solo dal Figlio ma,
come dicono i santi dottori, principalmente dal Padre, venen-
do con il Figlio stesso all'inizio del secondo stato, anche allora,
come appare chiaramente negli Atti degli Apostoli, ha manife-
stato in parte la sua gloria, per manifestarla in pienezza alla ve-
nuta di Elia» 26 . Nella storia si rivela il dinamismo della
Gloria: quello che si dispone nell'economia delle missioni divi-
ne rivela la sua origine eterna, il movimento della vita trinita-
ria, che dal Padre si dispiega nel Figlio e con Lui nello Spirito
in una circolarità una e trina, secondo la densa simbolica del-
la «tavola dei cerchi divini» nel Liberfigurarum21'. L'aspetto
grandioso di questa concezione è che essa salda la vicenda uma-
na alle sue radici eterne e coglie lo svolgersi dei tempi non co-
me sospeso nel nulla e perciò fasciato dall'insensatezza, ma come
fondato nel procedere delle stesse divine Persone, in un movi-
mento di vita che viene da ciò che è più della storia e tende
nella storia a ciò che la supera. La Trinità diventa il senso e la
forza della vicenda umana, l'Origine, il Luogo adorabilmente
trascendente e la Patria della storia del mondo.
La novità di Gioacchino non sta, tuttavia, nello schema tri-
nitario, già utilizzato prima di lui e dopo, indipendentemente
da lui, per concepire la relazione fra il processo delle divine Per-
sone e il divenire storico: lo stesso Tommaso non esiterà ad af-
fermare che « come un rivolo deriva da un fiume, così il processo
delle creature deriva dall'eterno procedere delle Persone »28.
25
Cfr. il bel testo del Liber Concordiae Novi ac Veteris Testamenti, Venezia 1519
(ristampa fotomeccanica Frankfurt a. M. 1964), Lib. V, 84, 112.
26
Tractatus super quatuor Evangelia, ed. E. Buonaiuti, Roma 1930, 24, 7-16.
21
Liber Figurarum, ed. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Fi-
gure dell'Abate Gioacchino da Fiore, 2 voli., Torino 19532 , II, tav. XI. L'unità è si-
gnificata dall'incastrarsi reciproco dei tre cerchi. Fra i tanti testi che si potrebbero
richiamare si pensi ad affermazioni come le seguenti: « Tres status mundi propter tres
Personas divinitatis assignare curavimus »: Liber Concordiae, o. e, lib. II, 1, 6, 9a; « Tria
tempora ista ad similitudinem trium Personarum »: ih., lib. IV, 2, 44a.
28
S. Tommaso, In I Sent., Prol. Cfr. F. Marinelli, Personalismo trinitario nella sto-
ria della salvezza. Rapporti tra la SS. Trinità e le opere ad extra nello Scriptum super Sen-
tentiis, Roma-Paris 1969.
22
Ciò che è nuovo nell'Abate calabrese è il luogo in cui pone le
cesure: «Per lui, l'età del Padre si estendeva fino all'ora del-
l'Incarnazione redentrice; allora era cominciata l'età del Figlio,
che era ancora quella della Chiesa presente; ma presto, già "ini-
ziata" o annunciata in figura, doveva succederle, su questa stessa
terra, una terza età... l'ultima, che sarebbe stata caratterizzata
dal regno dello Spirito Santo. Abbiamo qui una trasformazione
radicale... »29. La tensione tipicamente cristiana fra il "già" e
il "non ancora" della salvezza è spostata in avanti a favore del
"non ancora", non inteso tuttavia in senso puramente escato-
logico come il mondo delle cose ultime, ma in senso apocalitti-
co come il luogo delle cose venienti e nuove che non possono
compiersi e tuttavia devono compiersi su questa terra e in que-
sto tempo mondano. A differenza di Agostino il messaggio del-
l'Abate calabrese « non cerca la perfezione al di là di tutta la
realtà terrena, come negazione del transitorio, bensì crede in
una perfezione come stadio terreno, come possibilità consegui-
bile nella vita e nella storia» 30 . Nell'intensità dell'intuizione
Gioacchino non eviterà ingenuità e simbolismi forzati: tutta-
via, se c'è un'accentuazione entusiasta del "solus Spiritus veri-
tatis" e dell'"evangelium spirituale", ciò è dovuto sia alla
reazione a una certa carenza pneumatologica riscontrabile nella
tradizione occidentale31, sia a una tensione ottimistica, a una
speranza viva, fondata, nella maniera più radicale, nel signifi-
cato trinitario della storia.
In questo senso è giusto affermare che « il gioachimismo è una
teologia della speranza sotto forma di teologia dello Spirito »32,
e che il vero significato teologico di Gioacchino è la ripresa del
pensiero apocalittico, presente nel Nuovo Testamento fino a far
ritenere l'apocalittica «madre di ogni teologia cristiana»33, e
tuttavia obliato quasi del tutto nella riflessione critica della cri-
stianità stabilita a partire da Costantino. L'Abate calabrese ver-
29
H. de Lubac, La posterità spirituale, o. e, voi. I, 30.
30
H. Grundmann, Studi su Gioacchino da Fiore, Genova 1989 (la prima edizione
tedesca è del 1927), 14: la contrapposizione fra la visione di Gioacchino e quella "cat-
tolica", identificata col pensiero di Agostino, è una delle tesi chiave di questo libro,
poco attento al ruolo della fondazione trinitaria nella concezione gioachimita.
31
Cfr. Y. Congar, Pneumatologie ou "christomonìsme" dans la tradition latine?, in
Ephemerides Theologicae Lovanienses 45 (1969) 394-416.
32
H. Mottu, La manifestazione, o. e, 253.
33
« Die Mutter aller christlichen Theologie »: E. Kasemann, Anfànge christlicher
Theologie, in Exegetìsche Versuche und Besinnungen, II, Gòttingen 1964, 100 (82-104).
23
rebbe a costituire una sorta di nuovo inizio — analogo a quello
che sul piano del vissuto spirituale operò Francesco col ritorno
al Vangelo "sine glossa" —, dopo il lungo processo di "de-
escatologizzazione" del cristianesimo favorito dalla "pax
constantiniana" M. Un testo come il seguente dice tutta la ca-
rica profetica, suscitatrice di avvenire e perciò anche contesta-
trice del presente di questa visione: « Se la promessa del regno
di Cristo fatta ad Abramo si compì dopo il corso di numerosi
anni, di modo che, invecchiando il mondo, la sinagoga generas-
se quel seme promesso ad Abramo e a Davide, perché dispere-
rebbe la Chiesa di poter generare, per il dono dello Spirito Santo,
figli di adozione che possano, con il dono di Dio, progredire
in stirpe eletta e regno spirituale?»35.
Tra le questioni che restano aperte di fronte a queste intui-
zioni è decisiva quella del rapporto fra il pensiero storico della
Trinità e il pensiero trinitario della storia: è giusto ritenere che
nell'Abate calabrese « il divenire in Dio diventa il divenire di
Dio, terribile capovolgimento, che si trova sullo sfondo dei di-
battiti di ieri e di oggi sull'ortodossia o eterodossia di Gioac-
chino?»36. È fondato pensare che la concezione trinitaria
dipenda qui da una teoria della storia? ". Se questo fosse ve-
ro, il divenire temporale assorbirebbe la Trinità in una sorta
di "farsi" della divinità; la storia risulterebbe la verifica e l'in-
terprete ultima del dogma; il Dio trinitario sarebbe funzionale
alla vicenda mondana. Se questo fosse vero, però, verrebbe an-
che meno il motivo ispiratore più profondo della visione gioa-
chimita: la speranza trascendente, fondata in ciò che è più della
storia. Gioacchino è e resta un testimone del Trascendente, un
monaco che ebbe a cuore l'Eterno e osò pensarlo come l'unico
fondamento vero del divenire del tempo. Al di là di immagini,
simboli ed espressioni verbali insufficienti, resta esatta la for-
mula coniata da K. Barth per riassumere il messaggio dell'Aba-
te calabrese: «Il procedimento del pensiero non consiste nel
34
Sulla "de-escatologizzazione" del cristianesimo come chiave interpretativa del-
lo sviluppo del dogma restano suggestive le posizioni di M. Werner, Die Entstehung
des christlichen Dogmas, problemgeschichtlich dargestellt, Bern-Leipzig 1941. Cfr. recen-
temente M. C. Bartolomei, Ellenizzazione del cristianesimo. Linee di critica filosofica
e teologica per una interpretazione del problema storico, L'Aquila 1984.
35
Tractatus, o. e, 31, 2-7.
36
H. Mottu, La manifestazione, o. e, 249.
37
Cfr. ad esempio E. Buonaiuti, Gioacchino da fiore, i tempi, la vita, il messaggio,
Roma 1931.
24
tentativo di spiegare la Trinità partendo dal mondo, ma nel ten-
tativo opposto di spiegare il mondo partendo dalla Trinità, per
poter parlare della Trinità nel quadro di questo mondo» 38 .
Cogliendo nella Trinità adorabile l'Origine trascendente, il
Grembo e la Patria ultima della storia, Gioacchino diventa —
pur nell'acerbità di un'intuizione anticipatrice — la cifra di una
perfetta circolarità ermeneutica: dall'economia egli muove ver-
so l'immanenza del Mistero, per tornare dall'immanenza della
vita divina alla storia e leggerne il senso profondo, trinitaria-
mente fondato. La storia di rivelazione rimanda alla Gloria, e
questa offre l'orizzonte di senso della storia, perché di essa si
pone come suprema fonte e ultimo compimento. In Gioacchi-
no il ritorno alla storia nel pensiero della Trinità fa riscoprire
al tempo stesso la forza esistenziale salvifica della fede nel Dio
vivo e la dinamica di profezia nella speranza e di attesa apoca-
littica propria dell'esistenza redenta: la teologia della^storia na-
sce in lui davanti alla Croce del Risorto, in quanto essa è
rivelazione della profondità trinitaria di Dio e del mondo rac-
colto nel grembo della Trinità.
Resta vero, tuttavia, che la "posterità spirituale" di Gioac-
chino è quanto mai complessa: la tesi di un Gioacchino contro
Agostino, di una "religione del progresso" contro una fede della
decisione interiore di fronte al dono escatologico della grazia
compiutosi in Cristo, si farà strada in forme spesso ambigue e
sotterranee fino a sfociare nella secolarizzazione della visione
così profondamente teologica e spirituale dell'Abate calabrese.
Questo è tuttavia già materia di una nuova tappa, ed esigerà
di essere ripreso nelle riflessioni conclusive, che ad essa se-
guiranno.
58
K. Barth, Die kirchliche Dogmatìk, I/I, Die Lehre vom Wart Gottes, Ziirich 19648,
360.
25
loro conseguenze vengano posti in connessione e riferiti a un
significato ultimo. In questo senso la filosofia della storia di-
pende interamente dalla teologia, cioè dall'interpretazione teo-
logica della storia come storia della salvezza »39. Lowith inten-
de dimostrare questa tesi rivisitando a ritroso la parabola della
"filosofia della storia", fino a giungere alla visione biblica, che,
con la sua fede in un compimento futuro, ne sarebbe l'origine
remota. Alla tesi storiografica egli collega una tesi teorica, indi-
viduando la causa del fallimento della moderna filosofia della
storia nella secolarizzazione del modello escatologico che ne è
la base: in altri termini, sarebbe la sconfessione della radice teo-
logica il motivo profondo dell'inevitabile fine di ogni visione
secolarizzata del progresso storico40.
La derivazione teologica della filosofia della storia è difficil-
mente contestabile: senza il quadro d'insieme di un inizio e di
una fine, che è al tempo stesso la meta del progresso storico,
nessuna concezione "lineare" e "aperta" del divenire tempo-
rale sarebbe concepibile. Ora, questo quadro è stato fornito al-
la coscienza occidentale dalla fede ebraico-cristiana nella
promessa: sono le categorie dell'esodo e del Regno veniente di
Dio che sostengono la percezione della storia come terreno d'av-
vento e al tempo stesso luogo e forma del progresso. Il messia-
nismo biblico — tanto nelle espressioni ebraiche dell'attesa,
quanto in quella cristiana del compimento, che a sua volta apre
a una nuova e decisiva fase del tempo, tesa fra il "già" della
prima venuta del Cristo e il "non ancora" del suo ritorno —
offre l'orizzonte di un senso ultimo e comprensivo, rispetto a
cui ogni frammento del tempo storico acquista il suo pieno va-
lore e significato. In tale prospettiva, non stupisce che il "ma-
terialismo storico" possa esser letto come «una storia della
salvezza espressa nel linguaggio dell'economia politica»41, o
che come caratteristica del pensiero di Hegel possa essere colta
39
K. Lowith, Significato e fine della storia, o. e, 21. Sulla "filosofia della storia"
cfr. pure P. Miccoli, Introduzione alla filosofia della storia, Brescia 1980, con buona
bibliografia (141-148).
40
La duplice tesi del Lowith è stata variamente criticata: P. Rossi, ad esempio, nella
Prefazione all'edizione italiana di Significato e fine della storia, o. e, 9-18, ne denuncia
la confusione fra "storicismo" come presupposto metodico e "storicismo" come im-
pianto sistematico. Cfr. pure le osservazioni critiche di J. Habermas, KarlLàwìths stoi-
scher Rùckzug vom historischen Bewusstsein, in Id., Philosophische-potitische Profile,
Frankfurt a. M. 1971, 116-140.
41
K. Lowith, Significato e fine della storia, o. e, 65.
26
« l'interpretazione speculativa della religione cristiana e la tra-
sformazione della provvidenza in un'astuzia della ragione », per
cui in lui « il divenire della salvezza viene proiettato sul piano
della storia del mondo e quest'ultima viene innalzata al piano
del primo »42. La cesura fra visione teologica e visione filoso-
fica della storia è identificata storiograficamente in Voltaire: « La
crisi nella storia dello spirito europeo, con la quale il progresso
aveva preso il posto della provvidenza, cade tra la fine del seco-
lo XVII e l'inizio del XVIII. Essa è caratterizzata dal passag-
gio dal Discours sur l'histoìre universelle (1681) di Bossuet, l'ultima
teologia della storia secondo il modello di Agostino, sii'Essai sur
les tnoeurs et l'esprit des natìons (1756) di Voltaire, la prima "fi-
losofia della storia" — espressione che risale a Voltaire. Al-
l'origine della filosofia della storia stanno la liberazione dal-
l'interpretazione teologica e un motivo antireligioso»43.
E appunto la sconfessione della radice teologica che — se-
condo la teoria del Lowith — motiva il fallimento della moder-
na filosofia della storia: perdendo il riferimento al Trascendente
che si rivela nel tempo, l'orizzonte storico diviene assolutole
di conseguenza « l'universalità e la continuità della storia ven-
gono sopravvalutate a spese del carattere finito e personale/del-
la vita umana ». L'ingenua fiducia nel progresso, che ne deriva,
sacrifica il peso drammatico delle interruzioni e delle cadute:
non ci si rende conto che « ogni passo avanti nel dominio del-
l'uomo sul mondo porta con sé nuove forme e gradi di degene-
razione, e tutti gli strumenti di progresso sono pure strumenti
di regresso»44. Venendo meno l'apertura all'Eterno, la storia
si chiude su se stessa, la ragione che la regola si erge a norma
assoluta, il dolore e la colpa divengono momenti normali del pro-
cesso, che a sua volta è ottimisticamente identificato col pro-
gresso. La "volontà di potenza" della ragione ha così libero gioco,
perché nessuna alterità trascendente è riconosciuta a limitarne
l'esercizio, e la violenza diventa la conseguenza necessaria di
un ideale che deve piegare a sé la fatica del reale. Il declino del-
la "filosofia della storia" e delle sue espressioni nell'ideologia
moderna di qualunque segno ha dunque la sua motivazione ul-
tima nella perdita di quell'apertura all'Altro, che, ad esempio,
42
fó., 79s.
43
Ib., 125.
44
Ib., 109: queste affermazioni sono fatte in rapporto a Comte.
27
la visione vichiana della storia aveva ancora saputo conserva-
re: « Il posto eminente che la provvidenza ha nella rappresenta-
zione allegorica, come nell'intera opera del Vico, mostra che il
principio dell'identità verum-factum verrebbe completamente
frainteso, se lo si volesse interpretare nel senso che il mondo
storico dell'uomo sia semplicemente il prodotto della sua spon-
tanea attività creativa»45. E la perdita dell'apertura alla Tra-
scendenza in una sorta di trionfo bacchico della soggettività
l'ambiguità profonda della visione hegeliana della storia, che pure
avrebbe voluto tutt'altro che misconoscere le sue origini teolo-
giche cristiane: « Hegel non si è reso conto della profonda am-
biguità del suo grande tentativo di tradurre la teologia in filosofia
e di attuare storicamente il regno di Dio. Egli non avvertì la
difficoltà di identificare l'"idea della libertà", la cui realizza-
zione è lo scopo finale della storia, con la "volontà di Dio",
poiché come "sacerdote dell'assoluto", "condannato da Dio ad
essere un filosofo", egli credette di conoscere questa volontà
e i suoi disegni. Ma la conobbe come un profeta alla rovescia,
che vede e giustifica nel loro complesso le vie dello spirito in
base alle conseguenze e agli effetti storici »46. La storia non è
mai "giustiziera", ma sempre e solo "giustificatrice": solo un
riferimento altro rispetto ad essa può diventarne norma e
misura...
La conclusione del Lowith non tace le responsabilità del cri-
stianesimo stesso nel processo della sua secolarizzazione e delle
ambiguità e manipolazioni che essa ha prodotto: « Il fatto che
il saeculum cristiano sia divenuto secolare pone la storia moderna
in una luce paradossale: essa è cristiana nella sua origine e anti-
cristiana nel suo risultato. Entrambi gli aspetti derivano dal suc-
cesso mondano del cristianesimo, e insieme dalla sua incapacità
a convertire il mondo in quanto tale al cristianesimo. Questo
fallimento si può spiegare in un duplice modo: o materialistica-
mente, riferendolo al carattere "ideologico" del messaggio cri-
stiano, oppure religiosamente, come conferma di una pro-
posizione fondamentale del Nuovo Testamento, che il regno di
Cristo non è di questo mondo»47. La parabola della moderna
filosofia della storia diventa così una domanda aperta alle pos-
«tt.,
46
144.
Ih., 79s.
"Ib., 230.
28
sibili ambiguità e ai rischi della teologia della storia costruita
a partire dalla Croce del Risorto.
29
È da questa parabola di ascesa e di declino delle letture tota-
lizzanti del divenire storico, operate dalla modernità, che emerge
una prima sfida alla "teologia della storia": a differenza della
"filosofia della storia" essa è chiamata a rimanere costitutiva-
mente "aperta", costruita non a partire dall'uomo e dalla sua
ragione più o meno presuntuosa e totale, ma a partire dall'Al-
tro, che ha visitato la storia e — col Suo avvento — ne ha mo-
strato al tempo stesso la finitezza e l'infinita dignità. Il
fondamento irrinunciabile di ogni autentica teologia della sto-
ria è — e non può non essere — l'evento di rivelazione: è gra-
zie ad esso che la visione teologica della storia non si converte
in ideologia, ma resta pensiero aperto, pervaso dallo stupore
e dall'adorazione di fronte al nuovo e all'incatturabile venuto
nel tempo. Sta qui la permanente verità della teologia della sto-
ria di Agostino: ciò che qualifica il divenire storico è il modo
in cui esso è rapportato all'Eterno, rivelatosi in Gesù Cristo.
E Cristo l'escatologica pienezza dei tempi, il luogo puro del-
l'Avvento, l'unica vera novità sotto il sole della storia, e perciò
la norma e la misura ultima su cui si confronta tutto ciò che
è penultimo: è Lui, e Lui soltanto, il Signore dell'esistenza per-
sonale e collettiva dell'umanità. La teologia della storia, nella
visione di Agostino, è in senso forte teologia della storia della
salvezza: l'irruzione dell'"éschaton" nel tempo degli uomini, l'of-
ferta gratuita e liberante della Grazia, che è donata nel Signore
Gesù, è l'oggettiva pienezza, il decisivo compimento, rispetto
al quale deve porsi soltanto la soggettiva apertura del cuore, la
decisione salvifica, la conversione che cambia la vita. AH'auto-
destinazione libera di Dio alla creatura, che è la rivelazione, deve
corrispondere l'autodestinazione dell'uomo al suo Signore e Sal-
vatore, che è l'atto capace di qualificare il tempo storico, fa-
cendone tempo di grazia, ora di salvezza. Dove l'esodo della
condizione umana si apre all'Avvento, si compie il miracolo della
vita nuova, e le umili storie di gioia e di dolore, di contraddi-
zione e di peccato, vengono trasformate in storia della salvez-
za. La decisione a compiere l'atto dell'obbedienza della fede fa
ragione moderna come F. Rosen2weig, La stella della redenzione, Casale Monferrato
1985, ed E. Lévinas, Totalità e infinito, Milano 1980. E partendo dalla costatazione
di questa crisi che R. Niebuhr, Vede e storia. Studio comparato della concezione cristiana
e della concezione moderna della storia, Bologna 1966, propone con forza l'incidenza
dell'escatologia cristiana, che mostra la condizione storica nella drammaticità del suo
essere "status viae" o "status deviationis" in base alla scelta della libertà, che accoglie
o rifiuta il dono di Dio in Gesù Cristo.
30
dell'oggi dell'uomo l'oggi di Dio. Non è dunque il semplice pro-
gresso lineare verso il futuro ciò che caratterizza la teologia cri-
stiana della storia: questo progresso potrebbe restare unicamente
quantitativo e cadere nelle chiusure delle ideologie mondane50.
E il tempo "qualificato", non meramente "quantificato", la ca-
ratteristica della storia come "historia salutis". Il tempo come
durata (aicòv) è trasformato dall'incontro col Dio vivente in tem-
po propizio, in evento di grazia (KaipócJ: « Ecco ora il momen-
to favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! » (2Cor 6,2).
La crisi delle visioni totalizzanti della storia trova dunque nella
concezione cristiana della salvezza un possibile sbocco redenti-
vo: al senso che l'uomo si dà con la sua progettualità essa sosti-
tuisce il senso che Dio dà alla storia col Suo disegno salvifico.
La caduta delle presunzioni ideologiche è riscattata dalla spe-
ranza fondata nella fede: la presa d'atto del proprio limite di-
viene per la creatura lo spazio aperto per il riconoscimento della
Trascendenza, che sostiene e regge la storia, e, entrando in es-
sa con l'evento di rivelazione, ne rende possibile una qualifica-
zione salvifica mediante la decisione di fede.
Non è questo, tuttavia, l'unico sbocco aperto dal declino delle
moderne filosofie della storia: il naufragio dei sistemi di totali-
tà può cedere il posto anche al loro rovesciamento, a una sorta
di totalità negativa, di amore delle tenebre. Una palese riprova
di questa possibilità è l'esito nichilista, che il superamento dia-
lettico della ragione moderna assume in molte forme del cosid-
detto "post-moderno": lì dove l'ideologia offriva un senso a
tutto, il non-senso sembra ora trionfare su tutte le cose; lì dove
la fede nel progresso motivava l'impegno di trasformazione del
reale, la perdita del gusto per una vita significativa e impegna-
ta sembra divenire l'atteggiamento dominante. Si fa strada il
fascino di un "pensiero debole", che neghi tutte le presunzioni
del "pensiero forte", conservandone tuttavia una sola, e la più
terribile: quella di abbracciare l'intero orizzonte. « Il trascen-
dentale, quello che rende possibile ogni esperienza del mondo,
è la caducità: l'essere non è ma ac-cade; forse anche nel senso
50
E la visione lineare del tempo che sembra predominare nella caratterizzazione
che O. Cullmann, Cristo e il tempo, ha concezione del tempo e della storia nel Cristianesi-
mo primitivo, Bologna 1965, fa della teologia cristiana della storia. Ad esempio: « La
concezione ingenuamente lineare del tempo infinito è propria della storia neotestamen-
taria della salvezza » (72); « per il cristianesimo primitivo, come pure per il giudaismo
biblico... l'espressione simbolica del tempo è la linea, mentre per l'ellenismo è il circo-
lo » (74).
31
che cade presso, che accompagna in quanto caducità ogni no-
stra rappresenta2Ìone... L'accadere... è quello che lascia sussi-
stere- i tratti metafisici dell'essere pervertendoli mediante
l'esplicitazione della loro costitutiva caducità e mortalità. Ri-
cordare l'essere vuol dire ricordare questa caducità; il pensiero
della verità non è il pensiero che "fonda", come pensa la meta-
fisica, anche nella sua versione kantiana; bensì quello che, esi-
bendo la caducità e la mortalità come ciò che fa l'essere, opera
uno sfondamento»51. Dove dominava il tutto, raggiunto in
ogni sua parte dal pensiero solare della ragione adulta, viene ora
a trionfare il nulla: di fronte alla "ragione forte" di chi posse-
deva la verità, sta il pensiero speculare di chi contempla soltan-
to il proprio nulla52. L'ambiguità profonda di questa proposta
sta proprio nel mantenere ciò che con decisione nega: il rifiuto
della totalità positiva cede in essa il posto all'affermazione di
una totalità negativa, non meno imprigionante dell'altra. Se il
nulla è il tutto rovesciato, e il non-senso è la semplice negazio-
ne che ci sia un senso, l'orizzonte resta basso: il paese stranie-
ro, che sembrava affacciarsi al di là del tramonto deDa ragione
moderna, resta una terra dimenticata, un altrove non preso fi-
no in fondo sul serio. Si preferisce annegare nel conosciuto, piut-
tosto che aprirsi veramente all'ignoto...
E qui che emerge la seconda grande sfida a una teologia della
storia fondata nel Crocifisso-Risorto: essa non dovrà soltanto
testimoniare l'Avvento, e dunque evidenziare la forza oggetti-
va della salvezza che in Cristo tocca tutte le cose e chiama l'uo-
mo alla decisione suprema. Essa dovrà non di meno offrire il
senso che la luce del Dio che viene getta sugli umili giorni del-
l'esodo, e riscattare non solo l'oggi della decisione, con il suo
no e il suo sì trasformante, ma anche le opere e i giorni che lo
precedono e lo seguono, i tanti umili e quotidiani sì, e i tanti
e ripetuti no, di cui l'uomo ha bisogno per vivere e per morire.
Solo così essa potrà confessare una vera storia della salvezza.
Se si vuole veramente strappare ogni istante alla presa del nul-
la, e rifiutare una concezione dell'essere come puro ac-cadere,
è necessario cogliere accanto al significato dell'evento di gra-
zia, in cui l'Avvento raggiunge l'esodo, il senso della durata sto-
51
G. Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in II pensiero debole, a cura di
G. Vattimo e P. A. Rovatti, Milano 1983, 23.
52
Cfr. P. A. Rovatti, Trasformazioni nel corso dell'esperienza, ivi, 51.
32
rica: qui la verità di Gioacchino si affianca alla verità di Ago-
stino, senza eliminarla né contraddirla. Si tratta, in altre paro-
le, di rileggere l'intera realtà mondana alla luce dell'evento di
Pasqua, illuminando il passato in una sorta di "memoria pasqua-
le", che risalga fino al primo inizio del mondo e colga in esso
la profondità trinitaria dell'Amore, e il futuro nella forma della
speranza, che la morte e resurrezione del Crocifisso, come atto
delle Tre divine persone, dischiude alla storia. Questa duplice
rilettura — retrospettiva e prospettica — consentirà da una parte
di determinare le condizioni strutturali che, poste nella creatu-
ra, la fanno "capax Dei" all'interno di un unico disegno di crea-
zione e redenzione, e dall'altra di delineare l'orizzonte di senso,
nel quale assumono piena dignità e valore le opere e i giorni
dell'uomo sulla terra in quanto destinati all'eterno. La verità
di Gioacchino sta esattamente nella valutazione del tempo sto-
rico sul fondamento della fede pasquale trinitaria: al di là del-
l'acerbità delle sue formulazioni, la sua intuizione non si limita
a dare senso all'atto della decisione che qualifica la vita di fron-
te al Cristo, centro escatologico del tempo, ma guadagna il si-
gnificato della durata (l'aicóv neotestamentario) prima e dopo
l'avvento di Lui nella esistenza personale e nella storia. Si co-
glie cosi il distendersi del tempo non solo nella coscienza del-
l'uomo — come è in Agostino —, ma anche nel seno della Trinità
che regge e governa tutte le cose; si legge l'apertura della con-
dizione esodale della creatura all'Avvento divino, nella forma
di una sorta di "pòtenda oboedentialis", quasi strutturale no-
stalgia dell'Altro che viene a noi e che ci ha fatto per sé53; si
percepisce l'intera realtà in quanto finalizzata — in forma ad-
dirittura evolutiva — verso il Cristo54. La durata in avanti, lo
spazio del futuro, vengono ugualmente colti con nuovo valore
alla luce della promessa di Pasqua: il tempo fra la prima venuta
di Cristo e il suo ritorno è sì il tempo della redenzione soggetti-
va, dell'atto cioè/col quale ciascuno è chiamato a entrare perso-
nalmente nella pienezza della grazia offerta in Lui, ma è anche
il tempo in cuiTa conversione personale deve esprimersi in im-
pegno comunitario e storico, che serva ad estendere la potenza
53
Cfr. l'analisi dell'antropologia trascendentale di K. Rahner, Uditori della Parola,
Torino 1967, dove l'essere dell'uomo è colto come autotrascendenza verso il possibile
dirsi della Parola dell'autocomunicazione divina.
54
Come nella visione poetico-teologico-scientifica di P. Teilhard de Chardin: Ope-
re, Milano 1967ss.
33
della resurrezione del Crocefisso a ogni situazione umana, spe-
cialmente a quelle gravate dal peso della miseria e dell'oppres-
sione. La teologia della storia si offre in questa luce come una
"teologia della speranza", fondata nell'evento trinitario di
Pasqua55.
La duplice sfida, che il superamento dialettico della moder-
na filosofia del progresso storico lancia alla teologia cristiana
della storia, spinge, dunque, ad assumere insieme la prospetti-
va di Agostino e quella di Gioacchino, integrando la necessaria
"concentrazione cristologica" del primo con una più ampia ri-
lettura trinitaria del tempo, capace di dare valore non solo all'i-
stante della grazia, ma anche ai suoi presupposti mondani e alle
conseguenze che da esso derivano per la trasformazione dei pro-
cessi storici. « La predicazione dell'evento Cristo implica quin-
di entrambe le cose: tempo storico esteriore come spazio della
storia e storicità soggettiva come momento della decisione »56.
La valutazione teologica di "istante" e "durata" trova il suo
fondamento più adeguato — nella linea di Gioacchino — nella
riscoperta della pneumatologia e della globale visione trinita-
ria: Pasqua è e resta il centro escatologico del tempo, ma pro-
prio per questo la sua luce raggiunge l'inizio, la durata e il
compimento, dando dignità e significato all'essere creaturale e
alla sua espressione nel tempo storico.
34
in tutto il creato e in ciascuna delle Sue creature. Una simile
"teologia della storia" partirà dall'atto di rivelazione, luogo in
cui l'Avvento divino è venuto ad abitare l'esodo umano, e co-
glierà la profondità trinitaria dell'evento in cui nella Parola si
è rivelato il Silenzio ed è stato reso possibile l'incontro dell'uo-
mo e della natura con Dio nello Spirito. Alla luce dell'atto del-
l'autocomunicazione divina la "teologia della storia" rileggerà
il primo inizio degli esseri e il distendersi del tempo nel grembo
adorabile della Trinità, cogliendo nella profondità trascenden-
te di Dio mistero del mondo la vocazione originaria e il valore
della creatura, e quindi la sua chiamata a un agire storico ri-
spettoso della gloria divina riflessa in ogni essere. Infine, la con-
cezione teologico-trinitaria del tempo e della storia si volgerà
a leggere — nella luce della Pasqua, centro escatologico della
vicenda del mondo — il compimento finale, anticipato e pro-
messo nella resurrezione di Cristo. Protologia ed escatologia,
inizio e compimento troveranno luce nella pienezza del tempo:
come è nella testimonianza normativa ed ispirata della Scrittu-
ra, in cui l'esperienza della salvezza provoca la rilettura di fede
del passato e del futuro dell'uomo e del mondo, la "teologia
della storia" cercherà il senso dell'inizio e della fine dell'esodo
umano a partire dal mistero dell'Avvento divino, in cui l'irru-
zione dell'Altro, mentre rompe ogni presunzione mondana di
totalità e denuncia il limite costitutivo dell'essere creato, rive-
la il valore infinito dell'uomo, assunto a divenire, con la na-
tura in cui opera e nella storia di cui è artefice, l'alleato di
Dio.
35
zio e della fine: è proprio però perché procede così che essa sfugge
all'inevitabile crisi di ogni costruzione ideologica, e diventa pos-
sibile proposta di senso e di speranza per ogni pensiero, che non
voglia arrendersi al trionfo della morte e del nulla...
36
PARTE PRIMA
RIVELAZIONE
2.
PROBLEMA E FONDAMENTO:
PER UNA TEOLOGIA TRINITARIA
DELLA RIVELAZIONE
39
ro della rivelazione: il Dio cristiano, rivelandosi, manifesta e
comunica se stesso. Credere al mistero rivelato e diventarne par-
tecipi è salvezza: rifiutare la rivelazione è condanna, perché è
chiudersi alla gratuita e liberante autocomunicazione di Dio:
« Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzando-
le nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo... » (Mt
28,19); «chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non
crederà sarà condannato» (Me 16,16) l .
Il contenuto della rivelazione caratterizza nel Nuovo Testa-
mento anche la forma di essa: se l'atto del rivelarsi è autocomu-
nicazione del Dio trinitario, le Persone divine vi intervengono
ciascuna secondo la propria specificità. La rivelazione è, in tal
senso, storia trinitaria, evento che impegna in maniera diversa
e caratterizzante il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Il modo
di porsi di ciascuno dei Tre e il loro relazionarsi reciproco in
questo evento, oltre che il rapporto che viene a stabilirsi con
la storia degli uomini nell'atto dell'autocomunicazione trinita-
ria, costituiscono l'insieme complesso e vivente, cui si può dare
il nome di "forma" o "struttura" o "dinamismo costitutivo"
della rivelazione. Questa "forma" è appunto trinitaria: nell'e-
vento di rivelazione la modalità viene a corrispondere a quanto
è comunicato, la forma al contenuto della fede rivelata. « Per
una considerazione teologica della rivelazione, che voglia esse-
re fedele al Nuovo Testamento, la considerazione del mistero
trinitario deve essere quindi inclusa nel determinare la "forma"
di questa rivelazione, che altrimenti rischia di essere trasposi-
zione formalistica di categorie soggettive »2. La Trinità è con-
temporaneamente soggetto e oggetto della rivelazione, principio
formale, oltre che contenuto materiale di essa.
In che senso va concepita questa corrispondenza? Che cosa
significa il fatto che la rivelazione è atto trinitario? Come ven-
gono a caratterizzarsi i ruoli delle tre Persone divine nell'unico
evento dell'autocomunicazione di Dio? Come si lascia cogliere
l'unità dei Tre nel loro parteciparsi all'uomo? E come si offre
il dinamismo della vita divina nel suo porsi e proporsi nella sto-
ria di rivelazione?
1
Su questo contenuto cristologico-trinitario della rivelazione cfr. B. Forte, Gesù di
Nazaret, storia di Dio, Dìo della storia, Roma 1981, e Id., Trinità come storia, Milano
1985. Sulle riflessioni che seguono cfr. W. Pannenberg, Introduzione a W. Pannenberg,
R. Rendtorff, T. Rendtorff, U. Wilckens, Rivelazione come stona, Bologna 1969, 39-57.
2
G. Ruggieri, Rivelazione, in Nuovo Dizionario di Teologia, Roma 1977, 1343.
40
b) La filosofia hegeliana della religione: compito e sfida
3
Cfr. specialmente G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di
E. Oberti e G. Borruso, 2 voli., Bologna 1974, Parte Terza: II, 219ss. Qui: 247.
4
Ib., 248.
5
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. di E. De Negri, 2 voli., Firenze
1979, II, 263.
41
manifestarsi appartiene all'essenza dello spirito stesso. Lo spi-
rito che non si manifesta non è spirito... Dio come spirito è es-
senzialmente questo: essere per un altro, manifestarsi... Dun-
que questa religione si manifesta: poiché essa è lo spirito per
lo spirito, è la religione dello spirito e non del mistero, non del
chiuso, ma del manifesto, determinato, dell'essere per un altro
che solo momentaneamente è un altro » 6 . Il processo, però,
non si ferma qui: se così fosse, l'ultima parola di esso sarebbe
la scissione, la separatezza del Generato dal Generante, ovvero
— in termini che vengono a risultare analoghi — del Rivelato
dal Rivelante. Lo Spirito, che si è fatto oggetto a se stesso e
dunque si è rivelato, supera questa tappa in una più alta cono-
scenza di sé, non più all'insegna della separazione, ma al livello
dell'autoidentificazione, ovvero della riconciliazione: l'eterno
Soggetto in sé, che si è posto per sé come altro da sé, ritorna
ad essere se stesso, non nella ripetizione dell'inizio, ma nell'as-
sunzione dialettica dei due momenti, come Spirito in sé e per
sé: « Dio pone l'altro e lo toglie, nel suo eterno movimento. Lo
spirito è apparire a se stesso» 7 . Questo terzo momento del
processo dello Spirito assoluto è per Hegel la figura dello Spiri-
to Santo: la corrispondenza fenomenologica nella storia di que-
sta tappa è la riconciliazione, così come la rivelazione era
manifestazione finita della processione eterna del Verbo. In tal
senso, la rivelazione tende ad essere "superata" nella riconci-
liazione compiuta dallo Spirito, lì dove l'alienazione di Dio da
sé, necessaria perché si determinasse la conoscibilità del Sog-
getto divino a se stesso e ad ogni spirito soggettivo, viene risol-
ta in un ritorno di Dio in sé e per sé, e quindi, storicamente,
in una partecipazione degli uomini alla vita divina: « Dio, si di-
ce, ha conciliato il mondo con se stesso; la caduta del mondo
da Dio consiste in ciò: che esso si fissa come coscienza finita,
coscienza degli idoli, che egli tiene fermo l'universale non co-
me tale, ma come esteriorità nei confronti di scopi finiti. Il ri-
nunciare a questa separazione è il ritorno e l'intuizione di questo
ritorno della realtà, l'accoglimento del finito nell'eterno, l'uni-
tà della natura, divina e umana, l'essere in sé e il processo che
è porre eternamente questa unità » 8 . Quello che nella rivela-
6
Id., Lezioni sulla filosofìa della religione, o. e, II, 250.
7
Ivi.
s
Ib., 249.
42
zione è distinzione e separatezza del Figlio e del Padre, e quin-
di del Rivelato dal Soggetto divino rivelante e dai soggetti fini-
ti destinatari delTautomanifestazione divina, nella riconciliazione
è comunione del Figlio col Padre nello Spirito Santo, e quindi
del Rivelante col Rivelato e di essi con gli uomini nella vita par-
tecipata dallo Spirito stesso.
La concezione hegeliana della rivelazione viene così a dar ra-
gione della corrispondenza tra la forma e il contenuto trinitario
della manifestazione storica dell'Assoluto nella maniera specu-
lativamente più alta, perché dedotta per necessità stringente dalla
stessa idea di Dio come Spirito: il processo dialettico dell'auto-
distinzione e dell'autoidentificazione del Soggetto assoluto po-
ne al tempo stesso Dio come Padre, Figlio e Spirito e come
Rivelante, Rivelato e loro Riconciliazione. La rivelazione è l'atto
col quale lo Spirito assoluto media se stesso per pervenire alla
conoscenza di sé e superarla nell'amore, in un processo che coin-
volge e salda Dio e la storia del mondo. Il principio dell'auto-
mediazione dello Spirito eterno consente così ad Hegel di
affermare l'unità originaria fra la rivelazione ed il Soggetto di-
vino in essa agente, fra la forma dell'atto rivelativo e il suo con-
tenuto "trinitario".
In tal modo, la rivelazione appare non solo come l'autoco-
municazione di Dio all'altro da sé, ma anche come l'automani-
festazione di Dio a se stesso, e più radicalmente ancora come
l'autocostituzione di Dio come Spirito assoluto cosciente di sé.
L'atto rivelativo non è comunicazione di qualcosa, di idee o di
verità morte, ma espressione di un processo eterno che coin-
volge e addirittura pone la totalità della vita divina. Evento non
solo comunicativo, ma costitutivo del divino, la rivelazione assu-
me una rilevanza assoluta: in tal senso Hegel prende sul serio,
fino ad esasperarla e quindi — in ultima analisi — a vanificar-
la, l'idea biblica della fedeltà divina, per la quale la manifesta-
zione storica dell'Eterno non può in alcun modo essere ingan-
nevole, ma deve essere partecipazione e comunicazione reale del
Dio vivente alla storia. E in questo pensare Dio come il Dio
vivo e la rivelazione come atto dell'autocomunicazione divina,
è nella corrispondenza precisa stabilita fra il contenuto e la for-
ma trinitaria della rivelazione, e cioè fra la Trinità "immanen-
te" e la Trinità "economica", fra il "Deus absconditus" e il
"Deus revelatus", che il pensiero hegeliano costituisce la gran-
de sfida e la grande promessa per ogni teologia della rivelazione.
43
^
Una simile rigorosa deduzione ideale della storia di Dio e,
in essa, della storia del mondo, infatti, ha il pregio di fondare
l'evidenza logica e la centralità storica e speculativa della rive-
lazione, nella sua corrispondenza profonda con il "curriculum
vitae Dei". Proprio per questo, però, essa si compie a caro prez-
zo: da atto libero e gratuito dell'amore sovrabbondante dei Tre,
la rivelazione diventa una necessità ontologica, un momento co-
stitutivo ed ineliminabile della vita divina e dei suoi rapporti
col mondo. La trascendenza è sacrificata, semplicemente risol-
ta nell'unità onnicomprensiva del processo dello Spirito: non
c'è più spazio per la libertà di Dio, e quindi, tanto meno, per
la libertà dell'uomo; non c'è più possibilità di sorpresa ed aper-
tura ad ogni eventuale novità. Soprattutto, però, l'idea di au-
tomediazione del Soggetto assoluto, come chiave interpretativa
della rivelazione, finisce col dissolvere la distinzione reale fra
le Persone divine: il Soggetto che media se stesso a se stesso
resta uno solo ("Unus et unum"). Non è fugato il sospetto che
Padre, Figlio e Spirito siano ridotti a puro modo dell'essere di-
vino, a fenomenologia del processo dello Spirito assoluto, sen-
za reale consistenza, senza relazioni che sussistano per fondare
al tempo stesso la distinzione e la comunione personale.
Dio come Spirito assoluto viene a risolversi nell'unico Sog-
getto divino, che — pur mediandosi nella conoscenza e nell'a-
more — non sfugge alla sua solitudine infinita, perché non vive
di un'alterità vera in se stesso, fondamento di ogni possibile co-
munione autentica nell'amore. E perciò questo Dio come estre-
ma, paradossale conseguenza, non è più il Dio Amore: se, infat-
ti, l'amore è la distinzione e l'annullamento del distinto, man-
cando la realtà della distinzione viene ad essere vanificato pro-
prio l'asserto hegeliano che « Dio è l'amore, cioè questa
distinzione e l'annullamento di questo distinto » 9 . Lo splendo-
re della necessità logica, proposta come necessità ontologica, bru-
cia lo spazio della libertà, della vera alterità e della gratuità
dell'amore nelle relazioni in tradivine e nei rapporti fra Dio e
il mondo.
9
lb., 285: « Gott ist die Liebe, d i . dies Unterscheiden und die Nichtigkeit dieses
Unterschieds » (Vorlesungen iiber die Philosophie der Religion, 222).
44
e) La "Filosofia della rivelazione" di F. W. J. Schelling
10
Insieme di lezioni pubblicate postume, che esprimono nella maniera forse più or-
ganica il pensiero del tardo Schelling: Filosofia della rivelazione, a cura di A. Bausola,
Bologna 1972, 2 voli. Basterebbe quest'opera per smentire il luogo comune che defini-
sce Schelling come « il filosofo della lunga decadenza ».
11
Ib., II, 114.115s. Cfr. tutta la Lezione XXIV sul concetto di rivelazione: 113ss.
12
Ib., 114 e 120.
13
Cfr. W. Kasper, L'Assoluto nella storia nell'ultima filosofia di Schelling, Milano
1986: opera fondamentale per la lettura teologica del tardo Schelling. Cfr. pure di re-
cente M. Maesschalck, Philosophie et révélation chez Schelling, in Revue théologique de
Louvain 20 (1989) 281-307 e 421-439.
45
necessità e libertà, fra il razionalmente consequenziale e I'asso-
lutamente indeducibile e nuovo, lo porta a tesi rilevanti per la
dottrina della rivelazione, presentata come un atto necessaria-
mente libero, perché scaturente da una decisione di Dio, che
avrebbe potuto non essere posta. Dio, peraltro, non sarebbe Dio
se non fosse totalmente libero e non necessitato, libero perfino
rispetto alla propria esistenza, e perciò e tanto più rispetto al-
l'esistenza della creatura e alla sua autocomunicazione ad essa.
È questa assoluta libertà di Dio che suscita lo stupore, nel
quale filosofia e teologia si incontrano: « E una sentenza nota
di Platone: la passione del filosofo (TÒ 7tà6ot; TOO (pi^ooócpou)
è la meraviglia (TÒ Gaun&^ew). Se questa sentenza è vera e pro-
fonda, allora la filosofia, invece di essere limitata a ciò che de-
ve essere compreso come necessario, sentirà piuttosto la tendenza
a trapassare da ciò che essa deve riguardare come necessario,
che pertanto non provoca nessuna meraviglia, a ciò che sta fuo-
ri e al di sopra di ogni esame e conoscenza necessari; essa non
troverà nessuna pace, prima di essere arrivata a qualcosa che
sia degno di una assoluta meraviglia »14. Ora, ciò che è degno
di meraviglia assoluta è proprio la libertà di un Dio che senza
essere necessitato, per puro amore, esce da sé e si offre all'uo-
mo nell'annientamento della Croce: l'autolimitazione di Dio si
radica nella libertà dell'autodeterminazione dell'amore. In tal
senso, il pensiero della Croce è la più alta filosofia, perché è
il pensiero del più alto stupore di fronte alla libertà pura della
"kenosi" divina realizzata nella rivelazione. « Dio è così infini-
to che è l'infinito anche nel finito, così libero che anche e pro-
prio nell'obbedienza è libero, così libero che nell'abbassamento
manifesta la sua signoria. La kenosi dell'incarnazione è quindi
la rivelazione del mysterìum di Dio »15.
U commento di Schelling a Fil 2,6-8 — l'inno alla "kenosi"
del Figlio — non distingue solo la condizione divina e la condi-
zione di servo, ma riconosce anche una terza condizione, quel-
la in cui il Cristo, potendo usurpare la signoria del Padre, non
lo ha fatto grazie ad un atto di sovrana libertà da sé proprio
per amore del Padre e degli uomini16: l'incarnazione è cioè la
rivelazione di una sovranità così libera, da farsi serva, e perciò
14
Filosofia della rivelazione, o. e, II, 121.
15
W. Kasper, L'Assoluto nella storia, o. e, 445.
16
Filosofia della rivelazione, o. e, II, 145ss.
46
di una libertà così assoluta, da manifestarsi "sub contraria spe-
cie". In questa luce, la rivelazione è libera, perché frutto di una
decisione totalmente gratuita, al tempo stesso in cui è necessa-
ria, perché la libertà divina non avrebbe potuto ispirare altra
scelta, che non fosse quella della totale gratuità dell'autocomu-
nicarsi. Libertà e necessità vengono così a coincidere: la gratui-
tà della rivelazione è la radice più profonda della sua necessità.
Lo stupore della ragione davanti a questa libertà necessaria è
il motivo ispiratore della filosofia della rivelazione, in questo
non diversa da una teologia della rivelazione: per l'una come
per l'altra il Cristo annientato è il problema speculativo più al-
to, di fronte al quale non basta la pura necessità della ragione
deduttiva, che non saprebbe motivare l'eccesso dell'autolimi-
tazione di Dio, né la pura gratuità dell'abbandono del Figlio
in Croce, che esige di essere pensata in direzione della profon-
dità, altrimenti indeducibile, che solo essa rivela.
Questa dialettica della libertà, posta alla base della filosofia
della rivelazione, non è esente dalle aporie e dalle contraddi-
zioni, provenienti da un impianto idealistico, continuamente riaf-
fiorante: se ne ha una dimostrazione evidente a proposito della
dottrina trinitaria, dove il tardo Schelling si sforza di combina-
re il rigore della ragione con l'indeducibilità della fattualità storica
della rivelazione, rischiando di risolvere quest'ultima nell'idea
a-priori di essa. Così ad esempio afferma: « Non è per il fatto
che esiste un Cristianesimo che esiste l'idea della Trinità di Dio,
bensì viceversa è piuttosto perché quell'idea è la più originaria
di tutte che esiste un Cristianesimo » n. Quando però si trat-
ta di stabilire questa idea, Schelling rifiuta decisamente la de-
duzione di tipo hegeliano, che a suo giudizio vanifica la distinzio-
ne delle Persone divine, chiaramente attestata nella rivelazione
storica: « Lo spirito, quando si riflette in se stesso, è conoscen-
te {id, quod infettigli), conosciuto {id, quod intelligitur) e ciò che
come conoscente è nello stesso tempo conosciuto e come cono-
sciuto nello stesso tempo conoscente. Oppure, più in breve: lo
spirito autocosciente è soggetto, oggetto e soggetto-oggetto, e
pur tuttavia soltanto uno... Ma per quanto questa spiegazione
della prima idea, non ancora approfondita, sia opportuna, essa
non raggiunge l'idea piena e perfettamente sviluppata della Tri-
17
lb., I, 389. Cfr. tutta la Lezione XV sulla « Comprensione speculativa della Tri-
nità »: I, 387ss.
47
nità. Lo spirito infatti,... in quanto conoscente, non è una per-
sonalità diversa da sé in quanto conosciuto; non sono qui tre
personalità, ma sempre soltanto una sola. Nella dottrina della
Trinità invece... si parla di tre persone, delle quali ciascuna, come
dicono i teologi, sussiste di per sé... »18.
Alla deduzione speculativa dell'idea della Trinità dal concet-
to di Dio come Spirito, il tardo Schelling oppone una faticosa
ricerca, tesa a salvaguardare tanto il rigore del ragionamento
argomentativo, quanto la libertà costitutiva delle persone divi-
ne nella loro specificità. Il Padre è visto allora come la forma
originaria dell'essere divino, l'eterno "passato" di Dio, che ab-
braccia in sé il proprio essere, ma anche il proprio non-essere,
quello nei cui confronti può decidersi con una scelta assoluta-
mente libera. Se non ci fosse nel Padre questo non-essere, e dun-
que questa possibilità di innalzare all'essere il non esistente
mediante una decisione libera, non vi sarebbe libertà in Dio.
Esercitando questa libertà, il Padre eleva all'essere il non esi-
stente, che è in lui stesso: quest'atto libero è il processo della
generazione del Figlio. E poiché questa decisione del Padre è
stata presa da sempre, si può dire secondo Schelling che il Fi-
glio esiste da sempre nella volontà del Padre, anche se risulta
esistere nel momento in cui il non esistente è elevato all'essere.
In questa elevazione libera e gratuita si colloca la stessa crea-
zione, per cui si può dire che tutto è stato creato per mezzo
del Figlio e in vista di Lui e che egli è il primogenito di ogni
creatura, YXJrmensch. La rivelazione diventa allora l'espressio-
ne storica della generazione eterna assolutamente libera e in nes-
sun modo necessitata del Figlio.
In questo processo della libertà divina lo Spirito appare anzi-
tutto come la potenza demiurgica del passaggio eterno dal non
essere all'essere, per il quale il Verbo esiste come eterno "pre-
sente" divino, fondamento della presenza di Dio nel mondo e
del mondo in Dio; e quindi come lo Spirito della restaurazione
dell'unità divina e cosmica, persona che emerge dalla libera de-
cisione del Padre di non essere semplicemente altro dal Figlio,
ma di essere uno con Lui nella riconciliazione dell'essere e del
non essere, liberamente innalzato ad essere, unità che è l'eter-
no "futuro" di Dio. Pare così a Schelling di aver reso contem-
poraneamente ragione della fattualità storica della rivelazione,
18
Ib., I, 391.
48
dove le persone divine sono realmente distinte, e del rigore del
concetto, che argomenta servendosi della dialettica della li-
bertà 19.
In realtà, il rischio di modalismo trinitario presente nella fi-
losofia della religione di Hegel si converte nel tardo Schelling
nel rischio non minore di un certo subordinazionismo, che fa
del Figlio una creatura del Padre, inferiore a lui perché da Lui
elevato all'esistenza, anche se superiore alle creature, perché vo-
luto come primo da sempre nella decisione originaria della li-
bertà divina. La sfida hegeliana a concepire la rivelazione come
atto del Dio vivo è raccolta: tuttavia, pur proponendosi di non
cadere nelle maglie di un sistema logico necessario ed onnicom-
prensivo, Schelling non mantiene il senso della sovranità e tra-
scendenza della Trinità rispetto alla storia in maniera così pura
da escludere ogni rischio di cattura del divino nel monismo del
processo dello Spirito assoluto. La dialettica della libertà vani-
fica l'alterità divina non meno che la necessità della dialettica
dell'idea.
49
si fa conoscere, e non può essere conosciuto che come il Dio
vivente? Non è forse stata, da questo punto di vista, inferiore
e non superiore ad Hegel? »21. È dunque la questione hegelia-
na del Dio vivo che Barth intende raccogliere come sfida, così
come aveva fatto il tardo Schelling, senza cadere però nella
"grande delusione" di un pensiero, che vuole ridurre tutto a
se stesso: « Il Dio di Hegel è per lo meno prigioniero di se stes-
so. Comprendendo tutto, comprende infine, e al massimo gra-
do, anche se stesso, e facendo ciò nella coscienza dell'uomo viene
dall'uomo inteso tutto ciò che Dio è e fa, come propria necessi-
tà. Nella rivelazione non può più trattarsi di una libera azione
di Dio, ma Dio deve funzionare nel modo in cui noi lo vediamo
funzionare nella rivelazione. Per lui il rivelarsi è una ne-
cessità »22.
La via di superamento, che Barth propone rispetto alla ridu-
zione idealistico-liberale, è quella di un ritorno radicale al pri-
mato dell'iniziativa di Dio nell'evento di rivelazione, al "Deus
dixit", in cui si esprime l'assoluta libertà della decisione divina
di autocomunicarsi. Il Dio vivente è tale proprio perché si of-
fre nella sua indeducibilità e improgrammabilità rispettp agli
schemi dell'uomo, che tenderebbero a farne un'idea dedotta dalla
ragione, e perciò non solo un "Deus mortuus", ma anche un
"Deus otiosus", un Dio inutile rispetto a ciò che la ragione può
sapere di Lui da se stessa. In questa luce, la rivelazione non è
un momento costitutivo del divino, necessario di necessità in-
trinseca allo stesso essere di Dio: al contrario, essa è momento
manifestativo di un'assoluta libertà, sorgente di una conoscen-
za e di un'esperienza altrimenti indeducibili, unico luogo in cui
Dio si dice all'uomo e l'uomo è reso capace di dire qualcosa del
Dio vivo. Questo luogo dell'autocomunicazione divina è la Pa-
rola di Dio, che perciò, pur risuonando nelle parole umane, non
si riduce ad esse, ma è lo stesso Dio nel suo rivelarsi, in una
corrispondenza precisa fra forma e contenuto dell'atto rivelati-
vo, garantita dalla libera iniziativa e dalla fedeltà di Colui che
si rivela: « Parola di Dio è Dio stesso nella sua rivelazione. Dio
infatti si rivela come il Signore e ciò significa secondo la Scrit-
tura per il concetto della rivelazione che Dio stesso in unità in-
distruttibile, ma anche in indistruttibile diversità, è il Rivelatore,
21
Ih., 460.
22
Ib., 464.
50
la Rivelazione e il Rivelato » 23 . Questa tesi comprende due af-
fermazioni fondamentali: la prima riguarda l'identità fra il Dio
che si rivela e l'atto rivelativo stesso, ed è basata sull'idea bibli-
ca della fedeltà divina, che esclude ogni contrasto fra il sogget-
to e l'oggetto della rivelazione, come pure ogni riduzione di essa
alla dimensione puramente noetica. Rivelandosi, il Dio biblico
non manifesta semplicemente qualcosa di sé, m a s e stesso, ed
in quanto tale opera nella storia degli uomini: « E Dio stesso,
è in indistruttibile unità il medesimo Dio, che secondo la com-
prensione biblica della rivelazione è il Dio che si rivela e l'e-
vento della rivelazione e l'efficacia di essa nell'uomo» 2 4 . La
seconda affermazione della tesi barthiana riguarda la corrispon-
denza precisa fra la triplice forma in cui Dio si pone nell'even-
to della rivelazione, e il triplice modo del Suo essere divino: « Allo
stesso Dio, che in unità indistruttibile è il Rivelatore, la Rive-
lazione e il Rivelato, va ascritta anche in indistruttibile diversi-
tà in se stesso precisamente questa triplice maniera di essere {diese
dreifache Weise voti Sein) » 25 . Altro è Colui che prende l'inizia-
tiva di raggiungere l'uomo mediante la rivelazione, altro è Co-
lui in cui questa rivelazione si compie, altro infine è Colui in
cui Dio appare all'uomo come il rivelato: e i Tre, Padre, Figlio
e Spirito, sono l'unico Dio dell'autocomunicazione divina.
Per Barth, dunque, la radice della dottrina trinitaria sta nel-
la rivelazione, intesa prima ancora come evento che come con-
tenuto trasmesso in questo evento: non si tratta di interpretare
l'atto rivelativo in base ad uno schema logico (soggetto-predicato-
oggetto: Rivelatore-Rivelazione-Rivelato), ma di desumere even-
tualmente questo schema dalla forma concreta della rivelazio-
ne biblica. Il punto di partenza non è l'idea di rivelazione, ma
il fatto che essa sia avvenuta grazie all'assoluta libertà dell'ini-
ziativa divina. Dio come il Rivelatore è il Padre del Figlio, nel-
la sua pura alterità rispetto ad ogni riduzione mondana, nella
sua irriducibile signoria, che tale resta anche nella rivelazione:
« Dio il Padre è Dio che sempre, anche quando prende forma
nel Figlio, non prende forma, Dio come il libero fondamento
e la libera potenza del suo esser Dio nel Figlio... Questa è l'al-
terità. .. che è significata quando diciamo che egli si rivela come
23
K. Barth, Die kirchliche Dogmatik, I/I: Die Lehre vom Wort Gottes, Zùrich 19648,
311. Cfr. tutto lo sviluppo del Cap. II: « Die Offenbarung Gottes », 31 lss.
24
Ih., 315.
25
Ivi.
51
il Signore. Anche la paternità di Dio è la signoria di Dio nella
sua rivelazione »26. In tal modo è affermata la permanente tra-
scendenza e distinzione del Rivelatore rispetto all'evento rive-
lativo. Dio come la Rivelazione è il Figlio incarnato, la concreta
mediazione storica dell'autocomunicazione divina, altro dal Pa-
dre come "Deus revelatus" rispetto al "Deus absconditus", al-
tro da quanto è puramente storico e mondano, perché si offre
non come bruta fattualità {historisch), ma come evento che sfugge
nella sua profondità ad un osservatore neutrale (geschichtlich),
tale da non essere imprigionato nelle maglie del già noto e già
disponibile. Dio come l'essere Rivelato è lo Spirito, che non solo
unisce il Rivelatore e la Rivelazione, il "Deus absconditus" e
il "Deus revelatus" nell'unità del loro essere divino, ma rende
anche possibile il compiersi dell'evento rivelativo nell'incontro
salvifico, perché stabilisce l'unità fra il destinatario della rive-
lazione, che ad essa si sia aperto, e il Dio che a lui si comunica,
e fa sì che la mediazione del Figlio si attualizzi nella conoscen-
za della fede come apprendimento e partecipazione del Rivelato.
È così che per Barth ai tre momenti strutturalmente costitu-
tivi della rivelazione nella storia corrispondono le tre maniere
di essere {Seinsweisen) del Dio vivo: allo Svelamento, al Nascon-
dimento e alla Partecipazione, ovvero alla Forma, alla Libertà
e alla Storicità, ovvero alla Pasqua, al Venerdì Santo ed alla Pen-
tecoste, corrispondono il Figlio, il Padre e lo Spirito, nella loro
indistruttibile unità e nella loro parimenti irriducibile dif-
ferenziazione27. «II Dio, che si rivela secondo la Scrittura, è
uno in tre specifiche maniere di essere, che consistono nelle lo-
ro reciproche relazioni: Padre, Figlio e Spirito Santo. Così egli
è il Signore, cioè il Tu, che viene incontro all'io umano e ad
esso si congiunge come Soggetto irriducibile, e che gli diviene
manifesto proprio così ed in ciò come il suo Dio» 28 .
Se questa impostazione ha il vantaggio di recepire la sfida
hegeliana a pensare Dio come il Dio vivo, perché in nessun mo-
do separa o oppone la rivelazione al mistero più profondo della
divinità, bisogna riconoscere che il superamento barthiano del
concetto di "persone" in Dio in quello di "maniere di essere"
26
Ib., 342.
27
Cfr. ad esempio ib., 351: i termini barthiani sono: « Enthullung - Verhullung -
Mitteilung; Gestalt - Freiheit - Geschichtlichkeit; Ostern - Karfreitag - Pfingsten; Sohn
- Vater - Geist ».
28
Ib., 367. Cfr. tutto lo sviluppo sulla "Gottes Dreieinigkeit": 367ss.
52
non sembra sfuggire al rischio di un certo modalismo trinita-
rio, nonostante le molte precisazioni e le ripetute dichiarazioni
di Barth di voler pensare il mistero alla luce della rivelazione
storica in tutta la sua indeducibilità ed assoluta singolarità, e
non la rivelazione alla luce del concetto di Dio come unico Sog-
getto assoluto o Spirito eterno. La corposa relazionalità biblica
del Padre, del Figlio e dello Spirito nell'evento rivelativo sem-
bra risolversi nell'azione dell'unico Dio personale, dell'unico Si-
gnore nelle tre modalità del suo essere: «La frase "Dio è uno
in tre maniere di essere, Padre, Figlio e Spirito Santo" signifi-
ca dunque: L'unico Dio, cioè a dire l'unico Signore, e dunque
l'unico Dio personale è ciò che è non soltanto in un'unica ma-
niera, ma... nella maniera del Padre, nella maniera del Figlio,
nella maniera dello Spirito Santo» 2 9 . Il sospetto che dietro
questa concezione delle modalità d'essere dell'unico Dio perso-
nale ci sia il fascino della logica stringente della deduzione he-
geliana della dottrina trinitaria dal concetto di Dio come Spirito,
sembra confermarsi davanti a passi come il seguente, dove Barth
intende chiarire ancora una volta l'uso del sistema ternario "Ri-
velatore, Rivelazione ed essere Rivelato": « C ' è un Da-dove,
una Originarietà, un Fondamento della rivelazione, un Rivela-
tore di se stesso, distinto dalla Rivelazione come tale così sicu-
ramente, che Rivelazione significa un qualcosa di semplicemente
nuovo rispetto al mistero del Rivelatore, che nella Rivelazione
come tale resta messo da parte. C'è quindi, nella differenza da
questo "primo" in quanto "secondo", la Rivelazione stessa come
l'evento del divenir rivelato del precedentemente nascosto. E
c'è come il risultato comune di questi due momenti in quanto
" t e r z o " un esser Rivelato, la realtà, che è l'intenzione del Ri-
velatore e perciò al tempo stesso il senso, il Verso-dove della
Rivelazione. Detto in breve: solo perché c'è un Velamento di
Dio può esserci uno Svelamento, e solo in quanto c'è Velamen-
to e Svelamento di Dio, può esserci una Autocomunicazione di
Dio » 30 . E percepibile in questo testo una reale distinzione fra
i Tre? o Dio vi è colto come un unico Soggetto nei tre momenti
del Suo rivelarsi? e, se è così, la rivelazione è solo manifestati-
va, o anche costitutiva del divino? Prima della rivelazione, cioè,
come si poneva in Dio la distinzione fra Padre e Figlio, se essa
29
Ib., 379.
30
Ib., 383.
53
si rapporta a quella fra "Deus absconditus" e "Deus revelatus"?
È in tal modo veramente affermata la libertà dell'atto rivelati-
vo? o se ne coglie una necessità intrinseca al porsi stesso di Dio
come il Dio vivo? Se non si può rispondere in maniera univoca
a queste domande in base ai testi barthiani, non si può neanche
semplicemente eliminare il dubbio da cui esse nascono. In tal
senso, il tentativo forse più compiuto fatto dalla teologia cri-
stiana per recepire la questione hegeliana del Dio vivo mostre-
rebbe, nonostante tutte le dichiarazioni contrarie, il rischio
dell'impresa e la forza di seduzione della filosofia della religio-
ne di Hegel.
31
K. Rahner, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia del-
la salvezza, in Mysterìum Salutis, 3, Brescia 1969, 414.
54
di ricondurre la teologia della rivelazione ad una filosofia della
rivelazione, caratterizzata dalla necessità, intrinseca a Dio stesso,
dell'atto rivelativo32. Perché la rivelazione possa essere conce-
pita come atto della libera autocomunicazione di Dio, in cui il
Dio vivo si offre come Padre, Figlio e Spirito Santo, senza es-
sere catturato nelle maglie di un processo necessario ed onni-
comprensivo, bisogna mantenere alta e pura l'eccedenza del Dio
nascosto rispetto alla Sua rivelazione: Dio è e resta più grande
dell'orizzonte di questo mondo, anche quando per un atto gra-
tuito della Sua libertà, e dunque per amore, si autocomunica
al cuore umano entrando nella storia. Nell'evento di rivelazio-
ne occorre conservare la dialettica di trascendenza ed immanenza:
solo così Dio non è risolto nel mondo, né il mondo è annientato
in Dio, consumato dal fuoco della Sua verità.
Questa dialettica di apertura e di nascondimento, di reale au-
tocomunicazione e di non meno reale eccedenza del mistero ri-
spetto alla forma della comunicazione, è peraltro segnalata nella
stessa etimologia della parola latina "revelatio" (come di quel-
la greca (ànoKà'kvxyic,): il prefisso "re-" ha nei composti tanto
il senso della ripetizione dell'identico (come in "re-sumo"), quan-
to quello del passaggio alla condizione opposta (come in "re-
probo") (analogamente a quanto significa Yànó in composizio-
ne nelle parole greche). "Re-velare" viene pertanto a dire l'at-
to del passaggio dal velato allo scoperto, lo svelamento del
precedentemente nascosto, ma non esclude mai del tutto una
reduplicazione, un permanere del velo, anzi un suo infittirsi me-
diante la ripetizione, proprio nell'atto in cui sembra che venga
tolto (analogamente si potrebbe dire del significato originario
di àKOKaX,U7tTC0, toglimento della copertura, che non esclude
un rinforzarsi di essa). Va notato come questo gioco dialettico
è perduto nel tedesco "Offenbarung, offenbaren", dove viene
all'idea solo l'atto dell'aprirsi, e perciò la condizione dell'aper-
to e manifesto: in tal senso l'interpretazione hegeliana della ri-
velazione come totalmente espressiva e costitutiva del Dio che
si manifesta sembra la più coerente con l'etimologia tedesca.
Le considerazioni precedenti consentono di concludere che,
se Dio si manifestasse totalmente nella Sua rivelazione storica,
se la Parola in cui si dice lo dicesse compiutamente, si verifi-
32
Sulla critica al "viceversa" nel "Grundaxiom" rahneriano cfr. B. Forte, Trinità
come storia, o. e, 21ss.
55
cherebbe una delle due possibilità: o il mondo divino si ridur-
rebbe alle misure del mondo umano cui si comunica, o il mon-
do umano verrebbe semplicemente inghiottito nella luce
abbagliante dell'Assoluto. La rivelazione non toglie la differenza
fra i due mondi: Dio resta Dio e il mondo resta mondo, anche
se Dio entra nella storia ed all'uomo è offerta la possibilità di
partecipare alla vita divina. Questo significa allora che, se nella
rivelazione Dio si manifesta nella Parola, al di là di questa Pa-
rola, autentica autocomunicazione divina, sta e resta un divino
Silenzio. Questo Silenzio divino è anzitutto la Non-Parola, l'ul-
teriorità misteriosa e sorgiva da cui la Parola proviene e presso
cui la Parola è stata ed è nell'eterna storia di Dio: « In principio
era la Parola e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio »
(Gv 1,1). Il testo greco di questo versetto distingue mediante
l'articolo le due volte in cui ricorre in esso il termine Dio: la
Parola era «presso il Dio » (npòc, t ò v 9sóv) — la Parola era
Dio (0£Ó<;). Questa distinzione dice la comune appartenenza della
Parola e di Colui che è z'/Dio al mondo divino, la loro comunio-
ne nell'essere della divinità, ed insieme la distinzione fra z'/Dio
presso cui la Parola era e la Parola stessa di condizione divina.
La Non-Parola, il Silenzio del principio, è dunque il Dio, quel-
lo che nel Nuovo Testamento è identificato col Padre di Gesù
Cristo, mentre la Parola, il Verbo, è quello che — esistendo da
sempre presso il Padre come Dio — si è fatto carne, risuonan-
do nella storia (cfr. Gv 1,14). La Parola della rivelazione rimanda
così al Silenzio dell'origine, alla profondità da cui eternamente
proviene e presso cui eternamente è: il Dio fattosi visibile al
Dio invisibile, di cui è immagine fedele (cfr. Col 1,15; 2Cor
4,4; Eb 1,3; ecc.). Come sul piano dei contenuti del messaggio
rivelato si dice che il Figlio procede dal Padre ed è da Lui invia-
to in questo mondo, così dal punto di vista della forma della
rivelazione si può dire che la Parola procede eternamente dal
Silenzio divino e ne esce per essere inviata agli uomini in vista
della loro salvezza: il Padre « si è rivelato attraverso il suo Fi-
glio Gesù Cristo, che è il suo Verbo procedente dal Silen-
zio » 33 . E come il Figlio è uno col Padre, pur essendo distinto
da Lui, così il Verbo è uno col Silenzio divino pur essendo di-
stinto dal Silenzio: se non fosse una cosa sola col Silenzio del-
l'origine, la Parola non sarebbe autocomunicazione di Dio; ma
33
Ignazio di Antiochia, Ad Magn. 8, 2: PG 5, 669s.
56
se non fosse distinta dal Silenzio eterno come Parola detta nel-
l'eternità e incarnata nella storia, l'Origine divina e la destina-
zione mondana verrebbero a confondersi. Partendo dalla
rivelazione del Figlio si perviene al Padre: partendo dal fatto
che questa rivelazione è la Parola eterna detta nella storia, si
perviene al divino Silenzio, da cui essa procede, con cui essa
è uno e da cui essa si distingue.
57
(Gv 15,26) 34. « Chi possiede realmente la parola di Gesù, può
percepire anche il suo silenzio, affinché sia perfetto, affinché
operi attraverso le cose di cui parla e, attraverso quelle di cui
tace, sia riconosciuto»35. Lo Spirito è rispetto alla Parola co-
me il silenzio della memoria e il silenzio della testimonianza,
che la richiamano rendendola presente.
A partire dalla Parola della rivelazione la contemplazione del
mistero viene dunque spinta da una parte in direzione del Si-
lenzio dell'origine, dall'altra in direzione del Silenzio dell'esta-
si e dell'incontro: il Figlio incarnato rivela il Padre da cui procede
ed invia lo Spirito, nel quale è unto. Silenzio, Parola e Incon-
tro si offrono come le categorie formali, in cui è possibile espri-
mere l'atto di rivelazione nella corrispondenza al suo contenuto
trinitario, senza per questo dedurne la struttura da un'astratta
idea a-priori secondo una legge di necessità logica, che impri-
gioni la libertà divina. La fondazione del discorso è qui la fat-
tualità storica della Parola, il corposo evento dell'Incarnazione
del Verbo in tutta la sua indeducibile novità: dalla Parola stes-
sa si è rinviati all'ulteriorità dell'Origine e all'avvenire dell'In-
contro. Il Figlio è il testimone del Padre, come lo Spirito è il
testimone del Figlio: la Parola procede dal Silenzio e risuona
nel caldo silenzio dell'Incontro. Non la forza argomentativa di
una deduzione concettuale, ma la novità inquietante e sovver-
siva dell'avvento divino nell'esodo umano è alla base di una si-
mile teologia trinitaria della rivelazione. In essa il principio
storico è la Parola, anche se il principio teologico, cui la stessa
Parola rimanda, è il Silenzio. Sebbene dunque nell'economia
della salvezza la Parola sia ciò che è primo ed iniziale, proprio
in obbedienza ad essa bisogna riconoscere che la priorità ap-
partiene al Silenzio: la provenienza è nel Silenzio, come la venu-
ta è nella Parola e l'avvenire è nell'Incontro. Si potrebbe perfi-
no dire che il Silenzio dell'origine è l'eterno passato della Paro-
la, in quanto tale ad essa eternamente presente; che la Parola
è l'eterno presente del Silenzio, in quanto tale da esso eterna-
mente abitata; e che l'Incontro è l'eterno futuro della Parola
e del Silenzio, in quanto tale in essi eternamente operante co-
me la loro conciliazione e la loro sovrabbondante fecondità, il
54
Per le due linee di riflessione intorno allo Spirito cfr. B. Forte, Trinità come sto-
ria, o. e, 114ss.
35
Ignazio di Antiochia, Ad Eph. 15,1-2: PG 5, 657s.
58
loro dialogo e la loro estasi. Non la logica deduttiva, pertanto,
ma la contemplazione induttiva è alla base della teologia cri-
stiana della rivelazione: un andare al di là della Parola in obbe-
dienza alla Parola stessa verso le profondità di Dio e del futuro
della Sua promessa, per quanto esse si sono rese accessibili al-
l'uomo nel Verbo incarnato.
La Parola sta dunque fra il Silenzio dell'origine e il Silenzio
dell'estasi nuziale nell'eterno evento del dialogo divino. In ma-
niera corrispondente, nell'economia della rivelazione, in cui l'e-
vento senza tempo si fa avvento nel tempo, la Parola sta fra
la silenziosa Origine e il silenzio della Patria, riposando e do-
nandosi nel silenzio dell'Incontro. La Parola eterna, risuonan-
do nella storia, consente, cioè, di discernere le vie della pre-
parazione e dell'attesa nella stessa struttura dell'essere creato
e nello svolgersi della vicenda umana: dall'esperienza della sal-
vezza escatologica, sperimentata nel Risorto dai morti, la fede
pasquale nella Parola va al tempo dell'origine e a quello della
fine. « Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista
di lui» (Col 1,16), che solo è «l'immagine del Dio invisibile,
generato prima di ogni creatura » (Col 1,15). Alla fine tutto sa-
rà ricapitolato nel Verbo, che consegnerà ogni cosa al Padre:
« Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio,
sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché
Dio sia tutto in tutti » (ICor 15,28). C'è una presenza della Pa-
rola all'origine del tempo, come c'è una sua presenza nello svol-
gersi dei tempi fino alla fine della storia, manifestate dall'avvento
della Parola nella pienezza del tempo: la Parola eterna e il tem-
po della Parola, in cui essa è pienamente risuonata nella carne,
segnalano una parola nel tempo e del tempo, una sorta di dimo-
ra della parola in cui il Verbo potrà venire ad abitare. Questa
"casa" è il linguaggio, in cui la stessa Parola eterna dovrà dirsi,
scegliendo di entrare nella storia. La riflessione sulla parola della
rivelazione comprenderà, allora, i tre momenti: la "storia della
Parola" rimanderà da una parte alla "Parola eterna", dall'altra
alla "parola nella storia", il linguaggio in cui pure il Verbo vie-
ne a mettere le sue tende fra gli uomini. È in tal senso che la
Parola incarnata non solo rivela il mistero di Dio, ma rivela an-
che l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione >b .
36
Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo con-
temporaneo Gaudium et spes, 22.
59
La Parola, però, rinvia alla sua Origine e al suo fecondo Ri-
poso: per analogia con la "storia della Parola" si potrà allora
riconoscere anche una "storia del Silenzio" e una "storia del-
l'Incontro". Accanto al Silenzio eterno, mistero del Padre, si
lascerà evocare un "silenzio del tempo", in cui la realtà creata
manifesta in particolare l'impronta della sua Origine creatrice,
una sorta di "silenzio dell'essere", che è come il riflesso creato
del Silenzio increato, lo spazio originario da cui ed in cui fiori-
sce il linguaggio. E accanto ad esso si potrà parimenti indivi-
duare una "storia del Silenzio", in cui — nella forma della
Presenza negativa o della dolorosa Assenza, dell'invocazione della
Parola o del suo esilio, motivato dal rifiuto o dall' ammutolimento
del soffrire — si apre storicamente un varco verso la Parola nel-
l'esercizio della libertà. Parimenti, accanto all'Incontro eterno,
che è il mistero dello Spirito, si lascerà discernere un "incontro
nella storia", una sorta di potenzialità propria della creatura al-
l'incontro col Creatore (la "potentia oboedentialis" degli Sco-
lastici, in quanto apertura trascendentale, e il "volto d'altri",
in quanto richiamo alla trascendenza dell'incontro), al tempo
stesso in cui potrà individuarsi una "storia dell'Incontro", ca-
ratteristica della vita teologale, in cui il Silenzio e la Parola so-
no accolti nella fede, nella speranza e nella carità sotto l'azione
dello Spirito. Questo "silenzio dell'essere" e questa "storia del
Silenzio", come l'"incontro nella storia" e la "storia dell'In-
contro", in tanto però sono riconoscibili in tutta la loro pro-
fondità e pienezza di significato, in quanto la Parola è risuonata
nella storia: in altri termini, la fonte della conoscenza che con-
sente di individuarli è la rivelazione, che in tal senso manifesta
la più profonda struttura degli esseri e la più alta filosofia. Dal-
la struttura dell'avvento divino si giunge a cogliere la struttura
dell'esodo umano: l'inverso sarebbe bestemmia e idolatria, ri-
duzione del Dio vivente alle coordinate di questo mondo. Ma
quando il passo è stato effettivamente compiuto e la parola in-
carnata ha rivelato l'uomo a se stesso, allora non è indebito sup-
porre che nel più profondo degli esseri una via si celi in direzione
della rivelazione, una sorta di "passato" e di "futuro" della Pa-
rola nelle parole, nei silenzi e negli incontri del tempo che pas-
sa. Una teologia trinitaria della rivelazione si offre in tal senso
come il fondamento e il cuore di una globale teologia della sto-
ria. Silenzio, Parola e Incontro, categorie formali di interpreta-
zione dell'atto rivelativo, offrono non di meno una chiave inter-
60
pretativa per scrutare la profondità di tutto quanto esiste e il
suo dinamismo più vero in rapporto all'evento, che solo intro-
duce novità e senso nella storia: la rivelazione37; lo stesso
evento che — esattamente come Parola, Silenzio e Incontro —
schiude le vie più profonde e nutrienti alla vita dell'uomo inte-
riore: "Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sem-
pre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve
essere ascoltata dall'anima" 38.
37
La bibliografia sulla teologia della rivelazione è amplissima. Basti qui segnalare
alcuni dei testi, che hanno maggiormente avuto incidenza nella ricerca degli ultimi de-
cenni; J. Alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986; H. Urs von Baltha-
sar, Gloria. Una estetica teologica. I: La percezione della forma, Milano 1975; U. Betti,
La rivelazione divina nella Chiesa, Roma 1970; A. Beni, Teologia fondamentale, Firenze
19843; T. Citrini, Gesù Cristo rivelazione di Dio, Venegono 1969; A. Dartigues, La
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1983 3 ; A. Dulles, Models of révélation, Garden City (N.Y.) 1983; P. Eicher, Offenba-
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mentale, a cura di G. Ruggieri, I, Genova 1987; L'evidenza e la fede, a cura di G.
Colombo, Milano 1988; R. Fisichella, La rivelazione: evento e credibilità, Bologna 1985;
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Casale Monferrato 1988; Handbuch der Dogmengeschichte, I. Die Offenbarung, la: Von
der Schrift bis zum Ausgang der Vàterzeit, Freiburg-Basel-Wien 1971; Id., Von der Re-
formation bis zur Gegenwart, ib. 1977; Handbuch der Fundamentaltbeologie. 1. Traktat
Religion. 2. Traktat Offenbarung, hrsg. W. Kern, H. J. Pottmeyer, M. Seckler, Freiburg-
Basel-Wien 1985; P. Knauer, Der Glaube kommtvon Horen. Okumenìsche Vundamental-
theologie, Bamberg 19833; F. Konrad, Das Offenbarungs-verstàndnis in der evangelischen
Theologie, Mùnchen 1974; R. Latourelle, Teologia della rivelazione, Assisi 1967; A. Ma-
naranche, Les Raisons de l'espérance. Theologìe fondamentale, Paris 1979; G. Moràn,
Teologia de la revelación, Santander 1973; G. O'Collins, Teologia fondamentale, Bre-
scia 1982; K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e tradizione, Brescia 1970; La Révéla-
tion, Bruxelles 1977; Révélation de Dieu et langage des hommes, Paris 1972; Rivelazione
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rato 1989; H. R. Schiette, Epifanìa come storia, Brescia 1969; B. Testa, Rivelazione
e storia, Roma 1971; A. Torres Queiruga, La revelación de Dios en la realización del
hombre, Madrid 1987; IL Waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo
contemporaneo, Milano 1988.
38
S. Giovanni della Croce, Sentenze. Spunti dì amore, n. 21 (Opere, Roma 19672,
1095).
61
IL SILENZIO
3.
Ciò che sta prima nella conoscenza della fede rivelata è la Pa- j
rola: credere è assentire al Verbo uscito dall'eterno Silenzio. La
fede nasce dall'ascolto (cfr. Rm 10,17). L'ascolto, però, in tan-
to è possibile, in quanto nella storia si è compiuto l'evento del-
la parola, che è il Cristo {ib.). L'obbedienza della fede non è
che l'ascolto profondo (oboeàientìa da ob-audio = (Cm-<XKof|),
l'ascolto di ciò che sta sotto e oltre {ob-, tnó) rispetto alla paro-
la immediatamente udita. Si accoglie veramente la parola-evento
(così potrebbe tradursi il greco pf\na di Rm 10,17, ma anche
ad esempio di Le 1,38: « avvenga di me secondo la tua parola-
azione ») soltanto quando la si ascolta "superandola", le si "ob-
bedisce' ', ascoltando ciò che sta oltre e dietro e più in profon-
do rispetto ad essa. Chiamando questo "al di là" della Parola
col nome di Silenzio, si potrebbe affermare che la vera acco-
glienza della Parola del Cristo è l'ascolto del Silenzio che la su-
pera e da cui essa proviene.
Il "primum et novissimum" della conoscenza della fede vie-
ne così a manifestarsi come "secundum": il Figlio rimanda al
Padre, la Parola al Silenzio, il Rivelato nel nascondimento al
Nascosto nella rivelazione. Il doppio significato di "re-velatio"
emerge qui in tutta la sua densità: nel toglimento del velo c'è
un infittirsi del velo; nell'ostendersi un ritrarsi; nel rivelarsi un
velarsi. L'ascolto credente raggiunge il Rivelato per andare grazie
a Lui e attraverso di Lui verso il Nascosto: l'07taKofi, l'obbe-
dienza della fede, tende a ciò che sta sotto, dietro la Parola (ònó
= sotto, oltre, dietro); 1"'oboedientia" è ascolto tutto proteso
all'altrove, all'ai di là del detto (ob = verso, indicativo del mo-
to a luogo, oltre che dello scopo, del fine ultimo). La Parola è
la mediazione, il Silenzio è l'altra sponda, la profondità nasco-
63
sta del detto, la meta e la patria dell'obbedienza della fede nel
Verbo. Senza la Parola non si darebbe accesso al Silenzio; ma
senza il Silenzio la Parola sarebbe soltanto 1'"aperto" di que-
sto mondo, una "Offenbarung" ("manifestazione"), che non
rinvierebbe a un altro mondo e a un'altra patria, perché nel-
l ' a p e r t o " nulla è più nascosto, tutto è risolto nello svelamen-
to pienamente compiuto. Solo rinviando al Silenzio la Parola
esige l'obbedienza della fede; solo comunicandosi nella Parola
l'ai di là del detto è accessibile e provoca la risposta dell'inten-
zionalità credente, come apertura del cuore dell'uomo verso le
\ insondabili profondità di Dio.
Come concepire il rapporto fra la Parola-evento della rivela-
zione e l'ai di là di essa, che sta sotto e oltre e più in profondo,
e a cui è possibile dare il nome di Silenzio? E come concepire,
di conseguenza, questo stesso Silenzio, che sta nelle profondità
dell'eterno al di là del tempo, del nascosto al di là del rivelato?
La forma, in cui pensare il rapporto della Parola col Silenzio
al di là di essa, deve tener conto della continuità e insieme della
differenza fra le due sponde: dove non si affermasse la conti-
nuità, il Silenzio resterebbe inaccessibile e la Parola vuota; do-
ve non si tenesse conto della differenza, il Silenzio sarebbe risolto
nella Parola e questa veicolerebbe un contenuto proprio soltan-
to di questo mondo. Occorre, dunque, che il modo di pensare
il rapporto neghi e affermi nello stesso tempo, e insieme neghi
e affermi la negazione e l'affermazione ad un più alto livello l.
E la triplice via, divenuta classica a partire da Dionigi l'Areo-
pagita: via negationis, via eminentiae, via causalitatis2.
Se la prima via attraverso la negazione intende affermare la
differenza, la seconda attraverso l'affermazione intende eviden-
ziare la continuità: la terza via rappresenta un superamento delle
prime due, perché congiunge i poli nell'indissolubile continuità
e nell'irriducibile distinzione del rapporto di causalità. Dionigi
propone la triplice via per elevarsi verso l'"al di là di tutte le
cose": il tutto, oltre il quale andare, è l'orizzonte di questo mon-
do. Il miracolo della rivelazione porta l'altro mondo in questo
mondo: l'incarnazione del Verbo fa risuonare la Parola eterna
nelle parole del tempo. C'è dunque un frammento di storia che
1
Cfr. su quanto segue le osservazioni di E. Jiingel, Dio, mistero del mondo, Brescia
1982, 322ss.
2
Cfr. De divinis nominibus, VII/3: PG 3, 869-872, con la parafrasi di Pachimere,
che apre il passaggio alla dottrina scolastica dell'analogia: PG 3, 885-888.
64
è assunto dal Figlio di Dio come luogo e forma della Sua pre-
senza fra gli uomini: questo "concretissimo", che la cristologia
specifica come la vera e piena umanità del Salvatore, è il sacra-
mento di Dio, la mediazione immanente della Sua alterità e tra-
scendenza, la dimora di Dio fra gli uomini, l'uomo Cristo Gesù.
In quanto appartenente all'economia di questo mondo, l'uma-
nità del Dio incarnato appartiene all'orizzonte, cui si applica
la triplice via dell'elevazione verso l'ai di là delle cose: anch'es-
sa rimanda al divino per via di negazione, di eminenza e di cau-
salità. Ciò che è nuovo e diverso è che al tempo stesso essa è
l'umanità assunta del Figlio eterno: l'elevazione si incontra con
la discesa; l'esodo dell'uomo con l'avvento di Dio. Per questo
l'applicazione della triplice via alla Parola fatta carne va com-
piuta nella consapevolezza di procedere secondo un'analogia del-
l'avvento, in cui l'umano andare è determinato e trasceso dal
divino venire. La triplice via, cioè, dice tacendo e tace affer-
mando, proprio e solo in quanto nel Verbo incarnato l'osten-
dersi dell'Assenza e il ritrarsi della Presenza si pongono a partire
da Dio. È perché Dio si è rivelato velandosi^ che il teologo del-
la rivelazione osa parlare del Suo Silenzio. E perché c'è la Pa-
rola dell'evento Cristo, che è possibile accedere con cautela e
modestia al silente Inizio. E nel clima dell'analogia dell'avven-
to che, parlando del Silenzio, si può ascoltare il Silenzio...
a) La via negativa
65
di dicibilità nell'orizzonte del nostro linguaggio e perciò di co-
municazione che rende possibile agli uomini di divenire "figli
nel Figlio", "generati" (adottivamente) nel "Generato" (na-
turalmente), cosi il Silenzio al di là del Verbo ha il carattere
di "pro-venienza" nascosta, di profondità lontana eppur con-
giunta, di indicibilità originaria, di tenebra irriducibile ad ogni
luminoso comunicare. È qui che si comprende la preferenza che
il linguaggio della fede ha dato ai termini negativi per parlare
del Padre: « Confessiamo che il Padre non è generato, non è creato,
ma è ingenerato. Egli infatti, dal quale il Figlio riceve la nascita
e lo Spirito la processione, non ha orìgine da nessuno » 3 . Per i
Cappadoci il "non essere generato" è la proprietà caratteristi-
ca del Padre: « Noi conosciamo solo uno non generato e un uni-
co principio di tutte le cose: il Padre del Signore nostro Gesù
Cristo »6. Per Tommaso d'Aquino ciò che caratterizza anzitut-
to il Padre, come nota irriducibile della sua persona, è l'"inna-
scibilità" : « La persona del Padre non può delinearsi per il fatto
di essere da un altro, ma per il fatto che non è da nessuno: così
da questo punto di vista la nozione che la caratterizza è Yìnna-
scibilità »7.
Questo linguaggio negativo ha le sue radici già nel Nuovo Te-
stamento, dove rispetto al Figlio, che si è fatto visibile, il Pa-
dre è qualificato come il Dio invisibile: « Egli è immagine del
Dio invisibile» (Col 1,15). Questo attributo è probabilmente già
presente nella liturgia della Chiesa nascente: « Al Re dei secoli
incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli
dei secoli. Amen» (lTm 1,17). Se la Parola è icona, perché è
presenza e comunicazione dell'infinito ed eterno nelle coordi-
nate dello spazio e del tempo, il Silenzio è tenebra, l'invisibile
al di là del visibile, da cui l'immagine viene e a cui rimanda.
Solo così l'icona è « visione delle cose che non si vedono », pre-
senza del Nascosto, prossimità dell'infinita lontananza. Il con-
cetto di "tenebra", connesso alla qualificazione del Padre come
Dio invisibile, ha qui una densità negativa: esso nega la capaci-
tà umana di vedere al di là di ciò che si è reso visibile, afferma
cioè la caligine della nostra impossibilità di raggiungere e pos-
5
Concilio XI di Toledo (675): VS 525.
6
S. Basilio, Epist. 128,3: PG 32, 549; cfr. Epist. 38,4: PG 32, 329; Adv. Eunom.
I, 15: PG 29, 545; S. Gregorio Nazianzeno, Or. 25,16: PG 35, 1221; Or. 39,12: PG
36, 348; ecc.
7
Stimma Theologiae I q. 32 a. 3c.
66
sedere l'ai di là dell'icona, che è la parola-evento. È la "tene-
bra" non come yvcxpoc;, ma come OKÓTOQ, secondo l'uso dio-
nisiano: « I termini indicano entrambi negazione di luce, il primo
però in rapporto al Trascendente la luce, il secondo in rapporto
alla limitatezza delle facoltà conoscitive dell'uomo» 8 . La via
negativa conduce dunque alla tenebra intesa come semplice as-
senza di luce, al Silenzio percepito come puro ritrarsi della Pa-
rola. E tuttavia questo negare non è affermazione del nulla: il
non detto al di là del detto è l'In-generato al di là del Genera-
to, il Padre al di là del Figlio. La negazione, cioè, afferma la
distinzione fra i poli a partire da quello che si è reso accessibile
a noi: con ciò essa non svuota la consistenza dell'Altro, ma vi
si approssima con la cautela e la modestia di un superamento
della Parola vissuto in obbedienza alla Parola stessa: « Chi vede
me, vede il Padre » (Gv 14,9; cfr. 12,45). Il negare appare così
come un più alto affermare: la via negativa si rivela del tutto
complementare a quella positiva dell'eminenza9. Il Silenzio
della Non-Parola non si sposa al mutismo del non dire, ma al
tacere eloquente del celebrare, all'adorante stare aperti verso
la Trascendenza. Il tacere responsabile di ciò di cui si è consa-
pevoli di non poter parlare, perché sta oltre ogni dicibilità della
Parola, è già un affermare silenzioso e raccolto, un rinvio, nu-
trito di meraviglia, all'Oltre e al Nuovo.
b) La via positiva
67
rivelato » (Gv 1,18). Se la Parola della piena rivelazione è il Si-
gnore fattosi servo, il Silenzio da cui essa proviene e a cui ri-
manda apparterrà allo stesso piano della signoria divina,
dell'eternità più piena di ogni determinazione temporale. Il Fi-
glio eterno rimanda all'eterno Padre, il divino Generato al di-
vino Generante, Dio a Dio, la Luce alla Luce: « Crediamo
nell'unico Signore Gesù Cristo, il Figlio unigenito di Dio, ge-
nerato dal Padre prima di tutti i secoli, luce da luce, Dio vero
da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Pa-
dre... » la . II Silenzio oltre la Parola della rivelazione è Vetemo
Silenzio, il divino Silenzio, è la Persona divina consostanziale
al Figlio, la luce al di là della luce, la verità silente al di là della
verità proferita nel tempo e nell'eternità. La "via eminentiae"
conduce dunque dalla Parola divina al divino Silenzio, dal Fi-
glio al Padre, uniti nello stesso piano dell'essere eterno.
La rivelazione nel nascondimento rimanda al Nascosto nella
rivelazione, la Parola fatta carne, divina ed eterna, al Dio pres-
so cui sta da sempre, in un faccia a faccia non interrotto, né
tanto meno prodotto dalla "kenosi" dell'incarnazione (cfr. Gv
1,1). Il Padre è il Dio, da cui viene il Verbo divino, il "Deus
absconditus in revelatione" da cui procede il "Deus revelatus
in humilitate et ignominia crucis": come il Padre, così il Figlio
è Dio insieme rivelato e nascosto. Ma mentre nella Parola si
compie la rivelazione nel pur permanente nascondimento — si
pensi solo al "silentium Crucis"! —, nel divino Silenzio per-
mane il nascondimento pur nell'iniziativa dell'invio del Figlio
e dello Spirito, in cui si attua la rivelazione. Il Silenzio al di
là del Verbo è divino e rivelatore, pur rimanendo nascosto co-
me silente Inizio.
Come qualifica la "via eminentiae" questo divino Silenzio?
Partendo dalla consegna del Figlio, per amore nostro (cfr. Gal
2,20, ad esempio, e Rm 8,32), è la perfezione dell'amore quella
che sembra caratterizzare Colui che pronuncia la Parola nell'e-
terno e la invia nel tempo: « Chi non ama non ha conosciuto
Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l'amore di
Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo,
perché noi avessimo la vita per lui » (lGv 4,8s). 'O OeÒQ àyaTtri
èaxi'v: il Dio che è il Padre, il mandante del Figlio, l'ai di là
del Verbo da cui il Verbo proviene, è amore. Perciò, la cono-
10
Simbolo Costantinopolitano (381): DS 150.
68
scenza di questo Dio nascosto, che si rivela nel gesto del supre-
mo amore che e la consegna del Figlio, si compie nel silente at-
to dell'amore. E la stessa Parola a indicare la via della conoscenza
nell'amore: « Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio
è amore... Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che
Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore, dimora in Dio
e Dio dimora in lui» ( l G v 4,8.16). Ed è qui che la "via emi-
nentiae", che muove dall'amore crocefisso del Verbo silenzio-
so, mostra tutta la sua profondità: la più alta delle perfezioni
rivelate è l'amore; la perfezione dell'amore, nascosta nel silen-
zio di Dio, è Dio stesso come amore. « Nessuno ha un amore
più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
«Dio è amore» (lGv 4,8.16).
« Concepire Dio come amore significa in ogni caso pensare
Dio come comunicazione di sé. Ma ciò fa già saltare la tesi del-
l'inesprimibilità di Dio. Infatti questa determinazione, che per-
mette e ci costringe ad affermare la comunicabilità di Dio sulla
base di una comunicazione di sé che si compie come amore, proi-
bisce di pensare Dio come mistero di cui si tace » u . La conti-
nuità fra Parola e Silenzio, affermata dalla via positiva, è dunque
tutt'altro che estrinseca: essa è necessaria della libera necessità
dell'amore. Dall'amore rivelato si risale all'amore nascosto e da
questo si ritorna alla rivelazione, come atto di comunicazione
che nella libertà e gratuità dell'amore eterno trova la sua moti-
vazione più profonda e il suo inizio. La Parola eterna si offre
allora come la pura accoglienza dell'autocomunicazione dell'A-
more eterno, il puro lasciarsi amare, l'Amato, il Figlio che —
entrando nella storia — rende possibile nel tempo l'accoglienza
dell'amore infinito. Il Silenzio si offre come la pura sorgività
dell'amore, l'inizio nascosto e totalmente gratuito di ogni vita
dell'amore, l'Amante che da sempre e per sempre inizia ad amare
senza essere costretto o necessitato da nulla ad amare. Se la via
negativa conduce al Silenzio come tenebra, notte del nostro co-
noscere e pensare, la via positiva eleva dalla Parola dell'amore
al Silenzio del puro e gratuito inizio dell'amore, alla sorgiva pie-
nezza che si irradia per la limpida forza della gratuità. Certa-
mente anche qui la tenebra non è dissipata: ma essa si rivela
non più nella forma negativa della nostra incapacità a "trascen-
dere", ma in quella positiva della divina capacità dell'amore eter-
11
E. Jungel, Dio, mistero del mondo, o. e, 341.
69
no a "discendere" nella notte del mondo. È la tenebra come
pienezza accecante di luce (yvócpoc;), come sovrabbondanza del-
l'amore che nessuna capacità umana di amare può circoscrivere
o comprendere. E il Silenzio come pienezza sorgiva della Paro-
la, come seno fecondo da cui procede il Verbo, come gratuità
pura dell'Amante, da cui viene la pura gratitudine dell'Amato.
E da questo Silenzio e in esso che nel mezzo della notte ci rag-
giunge la luce della Parola: « Mentre un profondo silenzio av-
volgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua
parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale... si lanciò»
(Sap 18,14s). La "via eminentiae" sfocia allora nella constata-
zione pura e semplice del primato dell'avvento: l'ascendere uma-
no è frutto del divino discendere; la fede accoglie la Parola e
in essa ascolta il Silenzio, perché il Silenzio si è detto nella Pa-
rola, pur restando in essa celato. Mentre la via negativa mostra
l'inesorabile incompiutezza di ogni esodo umano che sfocia nella
tenebra al di là di ogni luce e nel silenzio al di là di ogni parola,
la via affermativa mostra l'infinita benignità dell'Amore, che
gratuitamente si offre come sorgente della luce al di là di ogni
tenebra e fonte della parola al di là di ogni silenzio, come pura
e sorgiva autocomunicazione divina, che supera l'abisso e rag-
giunge la notte e il silenzio del mondo come Tenebra luminosa
e silente Inizio della vita.
e) La vìa dialettica
70
gura dell'Origine senza origine della Parola come il Padre: « Ciò
per cui la persona del Padre si distingue da tutte le altre è la
paternità. Perciò il nome proprio della persona del Padre è questo
nome di Padre, che significa la paternità» 12 . L'idea di pater-
nità è correlata a quella di filiazione: essa dice il rapporto di
generazione che unisce il Padre e il Figlio, nell'atto stesso in
cui li distingue. Il Padre è, cioè, l'origine eterna del Figlio, il
principio senza principio da cui procede il Verbo nella comu-
nione indissolubile della vita divina. È Lui e soltanto Lui « la
fonte e l'origine di tutta la divinità» 13 , il «totius Trinitatis
principium »14, Colui che comincia da sempre e per sempre ad
amare: « Egli solo può provocare, mettere in moto l'evento del-
l'amore, poiché egli solo può cominciare senza motivo ad ama-
re, anzi ha cominciato da sempre ad amare »15. Il Padre appare
rispetto alla Parola come l'Origine pura e silenziosa, il Silenzio
del gratuito inizio, la Sorgente nascosta della rivelazione. La
"via causalitatis" conduce a riconoscere nel Silenzio al di là del
Verbo la Potenza originaria, il Primo Principio degli esseri, il
Mistero fontale dell'eternità e del tempo, dal quale ha inizio
ogni cosa, in cielo e in terra, visibile e invisibile.
E insieme questa via dialettica dell'unità e della distinzione
aiuta a precisare i rapporti che — nell'indissolubile comunione
— caratterizzano rispettivamente la Parola e il Silenzio, quali
si offrono nella rivelazione. La continuità fra il Generante e il
Generato mostra la reciproca immanenza della Parola e del Si-
lenzio: « Io sono nel Padre e il Padre è in me » (Gv 14,11). La
Parola dimora nel Silenzio: essa rinvia alla sua origine e alla sua
patria, domandando di essere continuamente trascesa nella di-
rezione delle insondabili profondità di Dio, da cui proviene e
da cui è avvolta. Perciò accogliere la Parola significa ascoltare
il Silenzio in cui essa dimora e dal quale è eternamente genera-
ta. Ma anche il Silenzio dimora nella Parola: il Verbo non è so-
lo avvolto dal Silenzio, ma lo porta anche incancellabilmente
in sé. La Parola ha le stigmate del Silenzio! Anche per questo
c'è un ineliminabile nascondimento della rivelazione, di cui so-
no segno supremo l'oscurità e il silenzio della Croce, l'abban-
dono del Figlio, in cui l'agonia e la morte della Parola si uniscono
12
S. Tommaso, Summa Theologiae I q. 33 a. 2c.
13
Concilio XI di Toledo (675): VS 525.
14
S. Agostino, De Trinitate 4, 20, 29.
15
E. Jiingel, Dìo, mistero del mondo, o. e, 426.
71
all'inaudito silenzio di Dio: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (Me 15,34). Il Cristo abbandonato è la Parola
fatta silenzio, il luogo in cui nell'infinita lontananza si rivela
l'infinita comunione del Verbo col Silenzio divino, il Suo farsi
uno col Padre nell'obbedienza di amore. Paradossalmente, per-
ciò, proprio il silenzio di Dio, sperimentato nel dolore senza mi-
sura dell'abbandono, rivela la comunione del Padre col Figlio,
fattosi silenzio nella morte per amore nostro. Nella notte del-
l'abbandono si incontrano il silenzio dell'Abbandonato con l'e-
terno Silenzio dell'origine: nell'infinita lacerazione si affaccia
l'infinita comunione, che diventa buona novella per tutti gli ab-
bandonati e i senza Dio della storia. In questo senso, accogliere
la Parola è viverla nel silenzioso ed eloquente gesto dell'amore
sino alla fine.
L'unità, tuttavia, non elimina la distinzione: il Silenzio del-
l'origine resta altro rispetto al Verbo pronunciato nell'eternità
e mandato nella storia; il Generato non è il Generante, la Paro-
la non è il Silenzio. La distinzione sta proprio nel loro relazio-
narsi: senza la sua provenienza eterna la Parola si ridurrebbe
ad evento del tempo e non sarebbe avvento dell'Eterno; senza
la sua venuta nel Verbo il Silenzio resterebbe muto, straniero
e inaccessibile. Grazie all'Origine la Parola "dice"; grazie al Ver-
bo il Silenzio "comunica". L'uno è per l'altro e la loro comu-
nione è l'evento della nostra salvezza, 1'"impossibile possibilità"
offertaci dalla rivelazione per accedere alle profondità di Dio,
pur sempre avvolte nel silenzio. Nella Parola il Dio del Silenzio
si offre come il mistero del mondo, il grembo oscuro che avvol-
ge ogni vita e a tutte dà esistenza ed energia. Il divino Silenzio,
ascoltato attraverso la Parola come l'ai di là di essa, è la caligi-
ne oscura della via negativa, la tenebra luminosa dell'amore ir-
radiante della via positiva, il Padre che è origine e fonte, principio
senza principio del Figlio e dello Spirito nell'eternità divina e
di ogni cosa nel tempo secondo la via dialettica della causalità,
che unisce e distingue i due poli. Sullo sfondo di questo Silen-
zio divino il Verbo si offre come la luce che viene nelle tene-
bre, la rivelazione dell'amore fontale attuata nel suo amare sino
alla fine, il Figlio che solo può renderci figli aprendoci l'accesso
al mistero del Padre.
72
mostra quanto l'idea stessa di rivelazione venga ridotta e impo-
verita, quando da essa sia eliminata la componente del silenzio:
la Parola senza il Silenzio è come privata della sua Origine, del-
la sua profondità trascendente e della sua patria. La rivelazione
va pensata allora come l'avvento della Parola, che procede dal
Silenzio e porta in sé il Silenzio: ostendersi, che è al tempo stesso
un ritrarsi; presenza, che rinvia all'assenza, e assenza che dà pro-
fondità e spessore eterno alla presenza. La Parola rivelata dice
tacendo, come il Silenzio che in essa ci raggiunge tace dicendo.
L'obbedienza della fede prestata alla Parola si apre sui sentieri
inesauribili del divino Silenzio, ai quali conduce solo Colui che
dal Silenzio procede ed è al tempo stesso « la via, la verità e
la vita» (Gv 14,6). Il Verbo nella carne è l'unica porta per af-
facciarsi verso il Silenzio al di là della Parola, nell'oscurità del
naufragio di tutte le possibilità della parola umana, nella lumi-
nosità velata dell'Amore fontale, nell'unità e nella distinzione
fra la Parola e la Sua Origine, fra il Mediatore e il Primo Prin-
cipio della vita divina e della storia, fra il Rivelato nel nascon-
dimento e il Nascosto nella rivelazione 16.
16
Sul rapporto teologico fra parola e silenzio cfr. pure H. Urs voti Balthasar, Paro-
la e silenzio, in lei., Verbum Caro, Brescia 1968, 141-162.
73
4.
IL SILENZIO DELL'ESSERE
74
sunto fino alle estreme conseguenze il compito, che ha consi-
derato proprio dell'uomo, di "pastore dell'essere": «L'uomo
non è il signore dell'essente. L'uomo è il pastore dell'Essere.
In questo " m e n o " l'uomo non ci rimette nulla, anzi ci guada-
gna, in quanto perviene nella verità dell'Essere. Guadagna l'es-
senziale povertà del pastore, la cui dignità consiste nell'esser
chiamato dallo stesso Essere a guardia della sua verità» 1 . L'es-
sere è il tema del pensare heideggeriano, ma ancor prima è il
donarsi originario, che ne determina la forma, sorgente silen-
ziosa e nascosta, inizio e attiva presupposizione di ogni porsi
in pensiero. Proprio nella presa di coscienza sempre più esplici-
ta dell'originarietà del proporsi silente dell'essere rispetto al porsi
questionante dell'esserci si lascia individuare la "svolta" (Keb-
re), caratteristica dello sviluppo del pensiero di Heidegger: essa
riguarda il porsi dell'interrogante, il domandare dell'uomo, non
il proporsi originario e fondante dell'essere e resta sul piano del-
l'esserci, in direzione di un più puro atteggiarsi davanti al darsi
(es gibt) dell'essere. La "svolta" non investe questo darsi stesso,
che è originariamente l'evento dell'essere {l'Ereignis), in forza del
quale tutto ciò che è è ed è come il determinato ente che è 2 .
Si delineano così i due momenti in cui è possibile rivisitare
il pensiero heideggeriano in rapporto al "silenzio dell'essere":
nel primo momento va esaminata la "svolta" del porsi origina-
rio dell'esserci, che conduce all'ascolto come apertura verso il
"silenzio dell'essere"; nel secondo va considerata la pura origi-
narietà del proporsi dell'essere e in essa va investigato lo spazio
del Sacro {das Heilige), inteso come l'ai di là dell'essenza, e il
"silenzio dell'essere", "nulla" misterioso e raccolto, che è tut-
t'altro che il semplice e puro non essere.
75
degger — e in generale per lui all'inizio del filosofare — è il
domandare come potenza originaria. Filosofo è colui che ha l'ar-
dire di interrogare fino in fondo, di porre la domanda più radi-
cale di ogni domanda: « Perché vi è, in generale, l'essente e non
il nulla? »3. « Il porre effettivamente una simile domanda signi-
fica avere l'ardire di interrogare fino in fondo, di esaurire l'ine-
sauribile mediante la rivelazione di quanto in essa richiesto.
Laddove qualcosa di simile avviene c'è filosofia»4. Questo
porsi originario dell'interrogante fa sì che la filosofia appaia al-
la teologia come pura follia: lì dove la filosofia è domanda, la
teologia è ascolto della rivelazione storica di Dio; lì dove ciò
che sta prima in filosofia è l'interrogare, ciò che sta prima in
teologia è l'essere interrogati. Perciò « solo epoche che ormai
non credono più alla vera grandezza del compito della teologia
pervengono all'idea rovinosa che la teologia abbia a guadagna-
re con un presunto ringiovanimento ottenuto mediante l'aiuto
della filosofia, o magari possa venirne rimpiazzata o resa più
appetibile secondo le esigenze dei tempi» 5 . Perciò anche una
"filosofia cristiana" non può che offrirsi come una contraddi-
zione in se stessa, « una specie di "ferro ligneo" {ein hòlzemes
Eisen) e un malinteso » 6 . Anche se è vero, e resta vero, che « la
fede che non si espone costantemente alla possibilità dell'incre-
dulità non è neppure una fede, ma una comodità e una conven-
zione stipulata con se medesimo di attenersi in futuro al dogma,
come a una qualunque tradizione », è altrettanto indiscutibil-
mente vero per Heidegger che « quanto viene propriamente ri-
chiesto nella nostra domanda è, per la fede, una follia»7.
La "svolta" che viene configurandosi nell'itinerario heideg-
geriano capovolge questa attitudine originaria e programmati-
ca dell'esserci mediante la sostituzione dell'ascoltare al primitivo
domandare: « Il tratto fondamentale del pensiero non è l'inter-
rogare, bensì l'ascoltare quel che viene suggerito da ciò che de-
ve farsi problema» 8 . Se «nella storia del nostro pensiero
5
M. Heidegger, Introduzione alla Metafìsica, tr. di G. Masi, Milano 1968 (origina-
le: 1953; corso universitario del 1935), 13.
Ub., 19.
'ft.
<>lb.
7
Ib. Cfr. la convincente analisi di C. Scilironi, Fede e follia: il fondamento della fe-
de per Heidegger, in Id., Possibilità e fondamento della fede, Padova 1988, 182-228.
8
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Milano 1984
(originale: 1959), 139.
76
l'interrogare è considerato, fin dai tempi più antichi, il tratto
determinante del pensare », ciò non è a caso: l'oblio dell'essere
e la concentrazione sugli enti, tipici della metafisica occidenta-
le, che in tal senso è storia del nichilismo, dell'abbandono del-
l'essere a favore delle essenze dominabili dal pensiero, ha indotto
l'esserci, che è l'uomo pensante, a porsi come l'interrogante,
che intende conoscere non l'essere della cosa, ma il "che cosa
essa è", appunto per dominarla. Il superamento della metafisi-
ca, inteso come passo indietro {Schritt zuriick) verso l'origina-
rio, esigerà necessariamente l'abbandono di questa attitudine
presuntuosa e dominatrice dell'esserci, per pervenire a un at-
teggiamento di radicale accoglienza dell'essere che si dona, in
cui l'interrogare ceda il posto all'essere interrogati, la domanda
strumentale si converta in ascolto silenzioso e raccolto, il dire
diventi il lasciarsi dire di chi ascolta il linguaggio: « Il linguag-
gio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire scaturisce dal
Dire originario, sia per quanto s'è fatto parola sia per quanto
è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapas-
sa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nell'atto che, co-
me mostrare, raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsi
presente, fa che da esse appaia o dispaia quel che di volta in
volta si fa presente. Di conseguenza noi porgiamo ascolto al lin-
guaggio in modo da lasciarci dire da esso il suo Dire. Quale che
sia il modo con cui ascoltiamo, ogniqualvolta ascoltiamo qual-
cosa, sempre l'ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude
ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto
del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo
ascoltato » 9 .
Nell'evento del linguaggio è l'essere stesso che si offre come
evento: « il linguaggio è la casa dell'Essere »10, perché in tan-
to si compie l'evento del dire, in quanto in esso originariamen-
te l'essere si dona ritraendosi, si dice tacendo. Allora, ciò che
origina il "mostrare" del linguaggio, «realtà sconosciuta e non-
dimeno familiare, da cui ogni mostrare del Dire originario trae
il proprio moto... alba di quel mattino nel quale soltanto può
trovare inizio la vicenda del giorno e della notte, alba che è in-
sieme l'ora prima e l'ora più remota» u, è l'accadere {Ereignen),
9
IL, 200.
10
Lettera sull'umanismo, o. e, 75.
11
In cammino verso il linguaggio, o. e, 202s.
77
l'evento dell'essere {Ereignis), che «non è il risultato (Ergebnis)
di qualcosa d'altro, ma, al contrario, la Donazione {die Er-gebnis).
Solo il generoso dare di questo può concedere qualcosa come
quell'es gibt, del quale "l'essere" ha ancora bisogno per perve-
nire, come esser presente, a ciò che gli è proprio » u. L'essere
si dona originariamente nel mostrare del Dire originario: ma,
donandosi, si nasconde, perché solo il suo ritrarsi può consenti-
re al detto di essere ciò che è, di venir determinato sullo sfondo
oscuro dell'essere come illuminazione (Lichtung), come evento
determinato. «Il destinare nell"'invio" d'essere che è il desti-
no è stato descritto come un dare, in cui ciò che destina quanto
a sé s'arresta e si ritiene e in questo tenersi-in-sé, in questa so-
spensione, si sottrae al disvelamento » u.
In rapporto a questa dialettica dell'estendersi e del ritrarsi
dell'essere il dire, come ascolto del linguaggio in quanto luogo
della donazione originaria e dell'originario nascondimento del
Donante, si fa parola e silenzio, un dire tacendo e un tacere di-
cendo, che meno inadeguatamente viene espresso nella poesia
e nella dossologia: « Dire è meditare, comporre, amare: un in-
chinarsi quietamente esultante, un giubilante venerare, un glo-
rificare, un lodare: laudare... Il poeta deve corrispondere a questo
mistero della parola a fatica intravisto e solo nella meditazione
intravedibile. Ciò riesce solo quando la parola poetante risuona
nel tono del canto» 14 . Nell'ascoltare il linguaggio si affaccia
così al tempo stesso il Dire originario del rivelarsi dell'essere
e l'originario silenzio del suo nascondersi: ciò che resta ecce-
dente non è il detto mosso dall'originaria Donazione, ma il si-
lenzio dell'essere in cui essa originariamente riposa e da cui sorge:
« Il silenzio "cor-risponde" a quel suono senza suono della quiete
col quale il Dire originario nel suo mostrare e appropriare si iden-
tifica.»15.
78
sere e il suo evenire, la Donazione originaria e l'originarietà del
nulla, o del "silenzio dell'essere", in cui essa si pone e da cui pro-
viene. Questa radice è già il motivo ispiratore di Essere e tempo
nella evidenziazione della "differenza ontologica", per la quale
gli enti si distinguono dall'essere e l'esserci si ritrova "gettato"
rispetto all'originarietà del nulla e proiettato verso la possibilità
della pura e semplice impossibilità di esserci, che è la morte.
Mentre, però, Essere e tempo esprime nella sua incompiutezza l'at-
titudine del domandare originario e cessa lì dove si sarebbe dovu-
to lasciar parlare l'essere per l'incapacità del linguaggio dell'identi-
tà a operare il suo rovesciamento e dire la differenza16, l'itine-
rario successivo di Heidegger si sforza di aprirsi alla Donazione
originaria. Ciò avviene dapprima negativamente attraverso la cri-
tica delle forme in cui l'oblio dell'essere è stato consumato nel-
l'intera metafisica occidentale, che perciò — come Nietzsche ha
compreso — non è altro che storia del nichilismo; e quindi positi-
vamente attraverso l'analisi dei luoghi dell"'accadere" dell'es-
sere, che sono per eccellenza il linguaggio, l'arte, la poesia.
Nella "pars destruens" di questo itinerario, la teologia viene
investita in pieno dalla critica, nella forma di quella che Hei-
degger chiama l'"onto-teo-logia": il pensiero della cosificazio-
ne o entificazione di Dio non è che un caso particolare, e forse
il più esemplare, del nichilismo dell'Occidente, terra dell'occa-
so, del tramonto nella dimenticanza dell'essere. Ridurre Dio a
oggetto fra gli oggetti del pensare, spiegarlo con l'idea di causa
sui, significa semplicemente svuotarlo di tutta la santità e la su-
blimità, di tutta la misteriosità del suo esser altro, per farne un
ente disponibile al gioco strumentale del concetto dell'esserci:
« Là dove tutto ciò che è presente si dà nella luce del nesso causa-
effetto, persino Dio può perdere per la rappresentazione tutta
la santità e la sublimità, la misteriosità della sua lontananza. Dio,
nella luce della causalità, può decadere al livello di una causa
effìcìens. Allora anche nell'ambito della teologia egli diviene il
Dio dei filosofi, ossia di coloro che definiscono il disvelamento
e il nascosto sulla base della causalità del fare, senza mai pren-
dere in considerazione l'origine essenziale di questa causali-
tà» n. Davanti a questo Dio dell'onto-teo-logia non è possibile
16
« Questa problematica sezione fu lasciata in sospeso perché il pensiero non riu-
sciva a esprimere in modo adeguato questa svolta e non potè venirne a capo usando
il linguaggio della metafisica »: Lettera sull'umanismo, o. e, 92.
17
Saggi e discorsi, tr. G. Vattimo, Milano 1976, 20.
79
alcuna esperienza dell'ascolto del silenzio dell'essere, né alcuna
dossologia: « Davanti alla causa sui l'uomo non può né cadere
in ginocchio pieno di riverenza, né può davanti a questo dio
produrre musica e danzare. Così, il pensiero privo di un dio,
il pensiero che deve fare a meno del dio della filosofia, del dio
come causa sui, è forse più vicino al dio divino »18. Dove si
perde il senso del silenzio dell'essere la causa del "dio divino"
è compromessa: nell'oblio dell'essere naufragano anche il na-
scondimento e la rivelazione del Totalmente Altro! La "pars
destruens" — come critica della Seinsvergessenheit, della dimen-
ticanza dell'essere — rivela qui la sua possibile rilevanza a fa-
vore di una teologia del "dio divino", contro il "Deus mortuus
et otiosus" della onto-teo-logia. E come un rivendicare i diritti
del Dio del silenzio contro il Dio troppo umano della "chiac-
chiera" filosofica e teologica!
Se così netto è il giudizio sulla metafisica come storia dell'es-
sere e del suo oblio, e quindi come storia del nichilismo oc-
cidentale, non altrettanto netto è il sentiero della "pars con-
struens" heideggeriana, alla ricerca di un modo di dire la diffe-
renza superando il linguaggio dell'identità: dal punto di vista
del porsi dell'esserci questo cammino è una sorta di educazione
all'ascolto del Dire originario e del non meno originario tacere.
Questa via dell'ascolto è quella in cui solo può comunque appa-
rire l'essere al di là dell'essenza e il sacro (das Heiligé), ad esso
indissolubilmente congiunto. È la via di un pellegrinaggio ver-
so la patria, che è la vicinanza dell'essere: « Solo in questa vici-
nanza si decide se e come Dio e gli dei si rifiutano e resta la
notte, se e come il giorno del sacro albeggia, se e come in tale
albeggiare del sacro possano cominciare di nuovo ad apparire
Dio e gli dei. Il sacro, però, che è solo lo spazio essenziale della
divinità, la quale a sua volta garantisce solo la dimensione per
gli dèi e per Dio, giunge ad apparire solo se dapprima e in una
lunga preparazione l'Essere stesso si è aperto ed è stato esperi-
to nella sua verità. Solo così comincia, a partire dall'Essere, il
superamento di quella mancanza di patria, in cui oggi sono sper-
duti non solo gli uomini, ma la stessa essenza dell'uomo »19.
Sulla via dell'ascolto della Donazione originaria, sui "sentieri
18
La costituzione onto-teo-logica della metafìsica, in Identità e differenza, in Aut-Aut
1982, nn. 187-188, 35s.
^Lettera sull'umanismo, o. e, 105.
80
interrotti" che si immergono verso il cuore del fitto bosco del-
l'essere, l'essere stesso si offre, rivelandosi al tempo stesso in
cui si ritrae e si vela: il Sacro appare proprio nella forma del
ritrarsi dell'essere, quando esso si è aperto, ma aprendosi si è
necessariamente ritratto per consentire all'atto del suo aprirsi
di determinarsi. Il giorno del sacro albeggia nella notte dell'es-
sere, lì dove l'essere venendo al linguaggio resta raccolto come
il silenzio della provenienza e dell'orizzonte, su cui si staglia
l'accadere degli enti.
Il linguaggio è allora al tempo stesso il luogo dell'avvento del-
l'essere e la ripetizione del suo esodo: ri-velazione nel doppio
senso dell'offrirsi presente del velato e del nuovo velarsi del na-
scosto. « Il linguaggio è il manifestante-occultante avvento del-
l'Essere stesso» 2 0 . Se nel linguaggio l'essere viene alla luce
(ad-viene), ciò si compie precisamente in quanto la provenien-
za di questo avvento rimane misteriosa e nascosta: «Lo stare
nell'apertura della luce {Lichtung) dell'Essere io lo chiamo de-
sistenza dell'uomo... L'Essere resta misterioso, la piana vicinanza
di una potenza non invadente... » 21 . « L'Essere, in quanto de-
stino che destina la verità, resta nascosto » 22 . E allora, se nel
linguaggio si compie il venire alla luce dell'essere, che pur resta
nascosto, questo nascondimento che rimane al di là del linguaggio
e si manifesta come nascondimento proprio attraverso di esso,
può venir indicato come "silenzio dell'essere": «Ciò che im-
porta, è solo che la verità dell'Essere venga al linguaggio e che
il pensiero pervenga in questo linguaggio. Può darsi che allora
il linguaggio richieda, invece di una espressione precipitosa, un
giusto silenzio. Tuttavia chi di noi uomini d'oggi può immagi-
nare che i suoi tentativi di pensare si trovino a proprio agio sul
sentiero del silenzio?» 23 . Questo silenzio dell'essere — notte
al di là dell'illuminazione, alba in cui il rivelato rimanda al na-
scosto, e il nascosto si offre come il Destinante originario —
non è puro e semplice "non-essere": esso può ricondursi al "nul-
la" solo in quanto il "nulla" venga pensato come assenza della
presenza, o presenza dell'assenza, che incide sulla presenza pro-
prio in quanto provenienza e dimora, cioè come assenza che è
tale senza cessare di essere. «Il nulla non è un oggetto, né in
2
°Ib., 90.
21
Ih, 87 e 98.
22
Ih, 105.
23
Ih, HO.
81
generale un ente; esso non si presenta per sé, né accanto all'en-
te, al quale pure inerisce. Il nulla è la condizione che fa possibile
la rivelazione dell'ente come tale per l'essere esistenziale dell'uo-
mo. Il nulla non dà soltanto il concetto opposto a quello di en-
te, ma appartiene originariamente all'essenza dell'essere stes-
so »24. L'Ereignen — rivelazione rivelante, cioè evenire dell'e-
vento che costituisce e disvela le cose nella loro verità — « fa
essere il libero spazio della radura luminosa, alla quale acceden-
do ciò che è presente può permanere come tale, e dalla quale
sfuggendo ciò che è assente può essere tale, senza cessare di
essere»25.
Questo silenzio dell'essere, questo essere assente senza per
questo non-essere, questo nulla misterioso e nascosto, è dun-
que lo spazio del Sacro? e, poiché « solo a partire dall'essenza
del sacro va pensata l'essenza della divinità» 26 , è lo spazio del
Dio misterioso e nascosto? Ogni risposta rischia di essere af-
frettata: tuttavia, se si deve escludere una lettura in chiave "mi-
stica" dell'itinerario di Heidegger, non si può escludere che la
sua origine teologica — che « resta sempre futuro »21 — spin-
ga in direzione di una qualche rilevanza teologica del "silenzio
dell'essere". Due punti emergono con evidenza dalla critica
all'onto-teo-logia: da una parte, la non identità di Dio e dell'es-
sere, e quindi la non pertinenza del termine essere in teologia,
onde evitare ogni cosificazione ed entificazione dell'essere di-
vino; dall'altra, la pertinenza della dimensione dell'essere per
fare l'esperienza di Dio. « Io credo che l'essere non possa asso-
lutamente venir pensato alla radice e come essenza di Dio, ma
credo peraltro che l'esperienza di Dio e del suo esser manife-
sto, appunto in quanto questo esser manifesto può incontrare
l'uomo, sfolgori proprio nella dimensione dell'essere»28. Da
queste due affermazioni se ne può ricavare una terza: se Dio
non è l'essere e quindi non può venir ridotto nemmeno a uno
degli enti (come avviene nell'onto-teo-logia), e se tuttavia del
24
Che cos'è la metafisica?, tr. di A. Carlini, Firenze 1953, 24.
25
In cammino verso il linguaggio, o. e, 203.
26
Lettera sull'umanismo, o. e, 119.
27
« Herkunft bleibt stets Zukunft »: « Senza questa provenienza teologica mai sa-
rei giunto sul cammino del pensiero. Ma la provenienza resta sempre futuro »: Va un
colloquio nell'ascolto del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, o. e, 90.
28
Aussprache mit Martin Heidegger an 06/XI/1951, edizione a cura della Vortragsaus-
schuss der Studentenschaft der Università^ Zùrich, Ziirich 1952, citato da J. L. Ma-
rion, Dio senza essere, Milano 1987, 84s, n. 17.
82
suo avvento può farsi esperienza solo nella dimensione dell'es-
sere, lo spazio per Dio potrebbe risiedere in quella regione del-
l'essere che non viene alla luce, che resta silenziosa e nascosta
al di là dell'essenza, che non è il nulla come semplice e puro
non-essere, ma eventualmente come l'ai di là dell'essere in quanto
essere determinato, come notte e silenzio dell'essere. Verso que-
sta profondità misteriosa il pensiero rimane aperto, perenne vian-
dante in attesa di un avvento: « Restiamo, dunque, anche nei
giorni che ci attendono, in cammino, come viandanti diretti al-
la vicinanza dell'Essere» 2 5 .
Il silenzio dell'essere, allora, come al di là della differenza
ontologica in quanto questa è inesprimibile nel linguaggio del-
l'identità, si offre almeno come il possibile luogo di provenien-
za dell'avvento, il silente luogo fecondo delle parole, e quindi
la possibile silenziosa Origine della Parola, che possa venire ad
abitare nelle parole: « La stessa differenza ontologica, ed anche
l'Essere quindi, diventano troppo corti... per pretendere di of-
frire la dimensione, e ancor meno il "soggiorno divino", nel quale
Dio potrebbe diventare pensabile... La differenza ontologica,
quasi indispensabile ad ogni pensiero, si offre così come una pro-
pedeutica negativa al pensiero impensabile di Dio... L'impensa-
bile... caratterizza Dio come l'aura del suo avvento, la gloria
della sua insistenza, lo splendore del suo ritiro » 30 . Il nulla —
pensato al di fuori delle maglie dell'identità che lo rapporta all'es-
sere come semplice sua negazione (non-essere = non ente =
niente) — si offre come lo spazio del ritrarsi dell'essere e insie-
me del suo provenire, come il luogo senza luogo del suo accadere
e perciò del suo negarsi, perché solo negandosi l'essere si determi-
na come evento: ac-cade. Il nulla come auto-negazione dell'essere
è dunque pienezza originaria e nascosta, è l'assenza del farsi pre-
sente, il silenzio in cui risuona la parola, la notte in cui risplende
l'illuminazione, il nascosto, a partire da cui ed in cui si compie
la rivelazione. In quanto tale, esso è al di là delle essenze, degli
enti e del loro definirsi, negazione non dell'essere, ma della de-
terminazione dell'essere e perciò ritrarsi o autonegarsi dell'es-
sere come Donazione originaria. Qui il cammino heideggeriano
rivela l'influenza della "theologia crucis" di Lutero J1, ma evo-
29
Lettera sull'umanismo, o. e., 111.
30
J. L. Marion, Dio senza essere, o. e, 67s.
31
Specialmente nella forma programmaticamente indicata nella XIX e nella XX Tesi
83
ca anche il linguaggio dell'apofasi dionisiana, che si rivolge alla
« Trinità al di là dell'essere e del divino e del bene » 32 : confer-
ma, sia pur indiretta, di un'apertura teologica, in cui riaffiori
l'originaria provenienza di questo "pastore dell'essere"? Non
potrebbe, allora, questa indicazione del nulla come "silenzio del-
l'essere", in quanto luogo della provenienza dell'evento, offrirsi
esattamente come una traccia che schiuda l'orizzonte nel tem-
po della povertà? « Il tempo della notte del mondo è il tempo
della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventa-
to tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio
come mancanza... E perché i poeti nel tempo della povertà?...
Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispi-
rarsi alla traccia degli Dei fuggiti. Ecco perché nel tempo della
notte del mondo il poeta canta il Sacro » 33 . Il "silenzio dell'es-
sere" potrebbe forse allora costituire la traccia, individuata nella
notte del mondo, per aprirsi al canto del Sacro, per inseguire
non gli Dei fuggiti, ma il Dio silenzioso e nascosto nel tempo
dell'essere... 34 .
84
5.
1
A. Neher, L'esilio della Parola. Val silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Casa-
le Monferrato 1983, 147.
85
persiste al di là della rottura degli altri cerchi di silenzio e che,
per ciò stesso, è tanto più grave e allarmante»2.
Una teologia dopo Auschwitz, che non rinunci ad essere teo-
logia della rivelazione, non potrà non misurarsi su questo inau-
dito evento del silenzio: esso capovolge il modo consueto di
accostarsi alla Parola, e specialmente al libro della Parola di Dio,
che in forma sorprendente viene ad offrirsi, proprio a partire
dalla chiave di lettura offerta dall'Olocausto, come il libro del-
l'inaudito silenzio di Dio, dell'esilio della Sua Parola...3.
b) Il silenzio di Dio
2
Ih., 151s. Sul tema del "silenzio di Dio" cfr. pure la testimonianza, proveniente
da tutt'altro orizzonte culturale, del libro dello scrittore giapponese Shusaku Endo,
Silenzio, Milano 1982.
3
Cfr. il numero monografico di Concilium 5/1984 su « L'Olocausto come interru-
zione: un problema per la teologia cristiana ».
4
A. Neher, L'esilio della Parola, o. e, 24.
86
pò della rovina, in cui Dio sembra ritrarre la Sua protezione
dal popolo eletto: è anche richiamo a un "livello metafisico",
a una sorta di scommessa sull'ignoto e sul silenzio5. Questa
scommessa è un credere ed affidarsi all'assente Presenza, un per-
severare nell'abbandono al Volto nascosto, anche quando que-
sto Volto fa sentire tutto il peso storico tragico del Suo
nascondimento: « Io ho fiducia nel Signore, che ha nascosto il
volto alla casa di Giacobbe, e spero in lui » (Is 8,17). E uno spe-
rimentare nella drammaticità del fallimento che la via di Dio
non è solo quella della parola e della risposta, ma che anche il
nulla del silenzio e del nascondimento può essere carico della
divina Presenza: « Il Dio vivente, aveva gridato in coro il popo-
lo la sera della scena del Carmelo, è il Dio della parola e della
risposta. Ma ora, la sera della scena dell'Oreb, il profeta Elia
apprende, nella sua solitudine, che il Dio vivente è il Dio del
silenzio e del nascondimento » 6 .
E questa stessa densità "metafisica" del silenzio che ne mo-
tiva la varietà delle forme, delle strutture e delle dimensioni,
e perciò la costitutiva, terribile ambiguità7: al silenzio "stati-
co' ' della Genesi, che riguarda tanto il Creatore, quanto la crea-
tura, si affianca il silenzio "dinamico" dell'Esodo, che si colloca
nel luogo privilegiato del paesaggio biblico costituito dal dialo-
go. Il silenzio è avventura, come nella profezia muta di Eze-
chiele, che Dio utilizza come espressione della sua parola; il
silenzio è assenza, come nei libri di Ester e Rut, dove il Signo-
re non parla mai; il silenzio è prova, una sorta di "eclissi di Dio",
come nella drammatica vicenda di Abramo; il silenzio è provvi-
denza, come nella storia di Giuseppe venduto dai fratelli; il si-
lenzio è complotto, fiore del male che Dio permette sulla pelle
di Giobbe. Questa pluralità di forme e di strutture rivela la com-
plessità delle dimensioni del silenzio, in cui gli estremi si tocca-
no e si rovesciano rispettivamente l'uno nell'altro: il silenzio è
vita e morte, prossimità e lontananza, tenerezza e rifiuto. Poi-
ché tutto ciò è colto nel suo rapporto col mistero di Dio e del
5
Cfr. ih., 65s.
6
Ib.,91.
7
Sulla "morfologia", la "sintassi" e la "semantica" del silenzio biblico cfr. rispet-
tivamente ib., 23ss, 31ss e 47ss. Più in generale sugli spessori del silenzio cfr. M. Bal-
dini, Le parole del silenzio, Milano 1986; Id., Il silenzio, Vicenza 1987; Id., Le dimensioni
del silenzio, Roma 1988 (con antologie di testi); B. P. Dauenhauer, Silence. The Pheno-
menon and its Ontologica! Significance, Bloomington 1980; M. Picard, Il mondo del si-
lenzio, Milano 1951; G. Steiner, Linguaggio e silenzio, Milano 1972.
87
mondo, si può affermare che nella Bibbia il silenzio sta fra l'es-
sere e il nulla: « Cosi è del silenzio: ognuno dei suoi affioramenti,
per quanto fugace, è collegato a falde infinite di forze inesauri-
bili. Ogni istante di silenzio è un fiore del male, una gemma-
zione del Nulla. Ma è un fiore, un germoglio, e quando il silenzio
ci accoglie dall'altro capo della scala, agganciato all'Essere, ci
offre uno spettacolo in certo qual modo primaverile che ci fa
dimenticare che le sue radici affondano nel Nulla» 8 . Proprio
in quanto fascia tutte le cose, il silenzio è come il negativo, che
mostra la serietà e l'irriducibile valore di ognuna delle compo-
nenti del mondo: in tal senso « nella Bibbia il silenzio è il mieti-
tore dei covoni dimenticati» 9 . Gemmazione del Nulla e
insieme primavera degli esseri, forma della prossimità provvi-
dente di Dio e insieme segno della Sua assenza, del Suo com-
plotto e perfino del Suo rifiuto (come è nel caso di Saul: cfr.
ISam 28), il silenzio si mostra in tutta la sua costitutiva e terri-
bile ambiguità, che incide profondamente nella concezione bi-
blica del Dio vivente.
e) La difficile libertà
8
A. Neher, L'esilio della Parola, o. e, 54.
9
Ih., 66.
88
attorno a un dogma affermativo (io credo..., io so...), ma attor-
no a un appello imperativo (Ascolta, Israele!) abbia introdotto
il silenzio nelle sue norme. La condizione ineluttabile dell'ascolto
infatti è il silenzio e chi non tace mentre l'altro parla non è in
situazione dialogale »10.
Nel silenzio Dio si rivela come il Dio della libertà: Egli non
garantisce nulla, non assicura nulla, ma invita l'uomo a giocare
e rischiare tutto, senza dare per scontato alcun risultato finale.
Il Dio biblico, il Dio del silenzio, è "il Dio dei ponti sospesi",
ma anche "il Dio dell'arcata spezzata": « Lo studio del silenzio
nella Bibbia conduce, al di là di una semplice fenomenologia
del silenzio, verso il punto sensibile dove si scontrano due con-
cezioni teologiche... L'una, installata nella sicurezza di una fi-
ne conciliatrice, che pone sull'altra riva, di fronte all'Alfa di
questa, un Omega, tanto solidamente ancorato alla terraferma
quanto le arcate simmetriche di un ponte sospeso... L'altra con-
cezione introduce in questo edificio troppo bello l'indizio di in-
sicurezza, non proteggendo il ponte contro alcuna scossa ac-
cidentale, non garantendo l'uomo che lo attraversa contro al-
cun pericolo, fosse pure mortale... » n. Questo "Dio dell'arcata
spezzata" restituisce all'uomo tutta la dignità del rischio, per-
ché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli nien-
te, rendendolo in tal modo attento al valore in sé dell'opera
presente, a prescindere da ogni risultato o ricompensa promes-
si. « Dio si è ritirato nel silenzio, non per evitare l'uomo, ma,
al contrario, per incontrarlo; è tuttavia un incontro del Silenzio
con il silenzio. Due esseri, di cui l'uno tentava di sfuggire al-
l'altro sulla scena luminosa del Faccia a Faccia, si ritrovano nel
rovescio silenzioso dei Volti nascosti... Cessando di essere un
rifugio, il silenzio diventa il luogo della suprema aggressione.
La libertà invita Dio e l'uomo all'appuntamento ineluttabile,
ma è l'appuntamento dell'universo opaco del silenzio»12.
11 silenzio di Dio è dunque lo spazio della libertà dell'uomo,
giocata nel gesto silenzioso in cui si esprime la dignità della vi-
ta. Questo gesto — evento del silenzio dell'uomo libero di fronte
al ritrarsi silenzioso di Dio, che lo fa esistere nella libertà —
è l'opera: è una forte convinzione ebraica che «T'opera — una
Mlk, 60s.
n
Ib., 146.
12
Ib., 178.
89
piccola ora di questa effimera vita umana, ma pregna e colma
di opera — la vince su tutta la congerie delle beatitudini dell'al-
dilà... L'opera, la mìshwà, raccoglie su di sé l'intensità cosmi-
ca» 13 . Il silenzioso gesto compiuto nella libertà e nella
responsabilità davanti alla vita, l'istante umano della libertà di
fronte al quale Dio sta come silenzio proprio perché è il Dio
della libertà, che è libero e rispetta la libertà della sua creatura,
è ciò che nella coscienza ebraica resta veramente essenziale: l'o-
pera non garantisce la storia di fronte all'eterno, ma le impedi-
sce di chiudersi a un "resto" possibile, la lascia aperta,
incompiuta e perciò veramente libera. « Il compimento è nel-
l'opera del piantare, e non nel Messia... Ciò che importa al giu-
daismo è V incompiuto, e perciò stesso l'incessante ritorno
dell'uomo — e di Dio — a compiti oggi tanto più assillanti, in
quanto ieri ancora erano imprevedibili e in quanto domani, cer-
tamente, saranno superati. In primavera si semina. In autunno
si raccoglie. Ma nessun autunno assomiglia all'altro, e nessuna
primavera all'altra primavera. Ogni autunno e ogni primavera
esigono uno sforzo nuovo »14. Di fronte al silenzio di Dio e al-
la sua inquietante ambiguità, l'essenziale è la semina, l'atto che
si compie lasciando nelle mani dell'operare libero del Dio na-
scosto l'intero avvenire: « Forse la prossima primavera, il pane
uscirà da questo solco. Forse verranno invece la siccità e la gran-
dine, e può darsi che la primavera prossima non ci sarà che pu-
tredine e morte. Che importa! Che importa dal momento che
l'atto si compie. L'essenziale non è nel raccolto, l'essenziale è
nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza non è nel
riso e nella pienezza. La speranza è nelle lacrime, nel rischio
e nel loro silenzio »15.
Gli eventi del silenzio di Dio fondano così la storia umana
della libertà e creano le condizioni indispensabili per un'etica
della gratuità: se ogni calcolo con la promessa è sospeso, se il
Dio dell'alleanza è il Dio nascosto e imprevedibile nel suo si-
lenzioso ritrarsi, pur senza cessare di essere il Dio fedele, nes-
suna motivazione utilitaristica potrà ispirare l'atto compiuto
davanti a Lui. Non è l'aspettativa della ricompensa che motiva
il comportamento morale, ma la dignità pura della semina, il
13
Ih, 201.
14
Ih, 243.
15
Ih, 246.
90
rischio consapevolmente vissuto davanti al silenzio di Dio. L'a-
more, che rende moralmente buono l'atto, non potrà essere in-
teressato se l'Eterno è il Dio del silenzio, che non paga secondo
la misura del dovuto e si riserva l'assoluta libertà di essere tan-
to il Dio dei ponti sospesi, quanto il Signore dell'arcata spezza-
ta. Il tempo del silenzio di Dio diventa così la sentinella che
impedisce all'etica biblica di tradursi in calcolo, e che perciò
salvaguarda tanto la libertà e la gratuità dell'atto umano, quan-
to la gratuità e la libertà dell'agire divino. E un'etica del rischio,
fasciata dal dubbio, e proprio per questo provocata alla bestem-
mia, come avviene ad esempio nel caso di Giobbe. E l'etica di
una difficile libertà, così difficile da apparire perfino disumana,
perché chiede senza dare altra motivazione che la stessa, oscu-
ra richiesta, come succede nel dramma di Abramo sul monte
del sacrificio. E l'etica della pura Legge, del comandamento ama-
to più di Dio, perché Dio può ritrarsi e tacere, ma la Parola
continua a domandare e ad esigere di essere obbedita: « Amare
la Torà più di Dio significa giungere a un Dio personale »16.
È sul filo di questo rischio, in cui la Parola non è collegata
al Silenzio come sua gemmazione fedele, ma può esistere sepa-
rata rispetto ad esso e amata e obbedita in se stessa, che l'etica
della Legge potrà diventare formalismo morale, etica del-
l'osservanza esteriore, in cui l'accoglienza della Parola potrà per-
dere l'intensità, che le deriva dall'essere, nel più profondo, ascol-
to del Silenzio. Si potrà, allora, obbedire alla Parola della Legge,
senza che questo significhi obbedienza reale alla volontà del Dio
silenzioso e nascosto e perciò conversione del cuore: « Questo
popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me »
(Is 29,13, ripreso in Me 7,6, nel contesto della polemica contro
le tradizioni farisaiche). Allora l'esilio della Parola non sarà una
forma del silenzio di Dio, ma la semplice, dolorosa conseguen-
za del rifiuto dell'uomo. Sarà solo quando la Parola si sarà mo-
strata nel supremo silenzio della Croce come generata puramente
dal Silenzio, che la Legge verrà radicalmente superata nella li-
bertà dello Spirito e l'etica della gratuità sarà resa veramente
possibile all'uomo. La gratuità del Dio silenzioso, che parla nel-
l'abbandono del Crocefisso, è la sorgente della gratuità che il
Consolatore effonderà nel cuore degli uomini: il superamento
16
E. Lévinas, Difficile libertà, Paris 1963, 193 (tr. it. Difficile libertà, a cura di G.
Penati, Brescia 1986).
91
della Legge nel Vangelo non è esaurimento della Parola nel Si-
lenzio, né cattura del Silenzio nella Parola, ma il loro rapporto
inteso nei termini della generazione e del dono. Il Vangelo cri-
stiano non sostituisce al silenzio del Dio veterotestamentario
una Parola di Dio esclusiva e totalizzante: la Parola si fa carne
e viene ad abitare fra noi, dopo aver parlato in molti tempi e
in molti modi nei profeti; ma Dio resta nel Silenzio, come l'O-
rigine misteriosa e raccolta, da cui la Parola proviene e a cui
rimanda come a fonte, dimora e patria. Amare la Torà più di
Dio sarà impossibile al cristianesimo: amando Dio più di ogni
Legge, il cristiano saprà di obbedire alla Parola senza fermarsi
ad essa, aprendosi in essa e attraverso di essa al mistero più gran-
de, che essa rivela e a cui conduce. È così che la storia del Si-
lenzio prepara il suo compimento e al tempo stesso il suo
superamento nei giorni della pienezza della Parola, e questi giorni
della carne del Verbo trovano nel silenzio del Dio d'Israele, e
non solo nella Sua parola, la loro santa, inobliabile radice (cfr.
Rm 11,18).
92
6.
ASCOLTARE IL SILENZIO
93
zio dell'essere" —, ma anche una sua condizione storica ed una
sua vocazione. La condizione storica è l'esperienza dei tempi
del silenzio sino al suo vertice più drammatico, che è l'esilio della
Parola, nella forma negativa del rifiuto dell'uomo o in quella
positiva — anche se terribile — del silenzio di Dio. La vocazio-
ne è quella a raggiungere il Silenzio dell'origine riconoscendovi
la figura della Patria: tutto ciò che viene dal silenzioso Princi-
pio senza principio tende a ritornarvi come alla sua dimora ul-
tima e al suo riposo. Il Silenzio divino, da cui è creato il mondo,
è anche la Patria della sua identità, il luogo del suo realizzarsi
più vero, quando « Dio sarà tutto in tutti » (ICor 15,28), e ogni
creatura sarà finalmente e pienamente se stessa in Lui.
Verso questa Patria anela il silenzio dell'essere e il silenzio
dell'attesa: il Dio silenzioso e raccolto è la vocazione del mon-
do, l'approdo della nostalgia inscritta nell'essere-silenzio della
creatura. Dal Silenzio al Silenzio: in questa formula potrebbe-
ro evocarsi l'Origine e la Patria, l'Inizio e il Compimento degli
esseri, che tendono a Colui da cui vengono. Nel "frattempo"
si situa l'evento della Parola, coeterna nell'eternità, anche se
generata, e determinata temporalmente nella storia del Suo av-
vento fra gli uomini. Proprio, però, perché "inscritta" nel Si-
lenzio, la Parola ne è mediazione, rimando alle profondità
silenziose, che costituiscono la provenienza della sua venuta,
nel tempo e nell'eternità. Ecco perché accoglie veramente la Pa-
rola fatta carne solo chi ascolta il Silenzio, da cui essa proviene
e che in essa ci raggiunge. L'autentico "ascolto" del Verbo è
udire il Silenzio al di là della Parola, il Padre di cui il Figlio
è rivelazione nel mistero della sua incondizionata obbedienza:
« Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha man-
dato; chi vede me, vede colui che mi ha mandato » (Gv 12,44).
« Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato » (Gv 13,20).
« La parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi
ha mandato » (Gv 14,24). « Io amo il Padre, e faccio quello che
il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31).
L'approfondimento trinitario della Parola di rivelazione, esi-
gito dal Nuovo Testamento, mostra pertanto come il termine
ultimo dell'accoglienza dell'evento rivelativo non sia l'evento
stesso, e neanche la Persona del Verbo che in esso agisce, ma
— in essa e attraverso di essa — la Persona del Padre, il Dio
nascosto nel silenzio, resosi accessibile per scelta di totale gra-
tuità nell'incarnazione del Figlio. La Parola di rivelazione ri-
94
chiede di essere trascesa, non nel senso che possa essere elimi-
nata o messa indifferentemente in parentesi, perché questo pre-
cluderebbe semplicemente ogni accesso alle profondità divine,
ma nel senso che essa è verità e vita proprio in quanto è via
(cfr. Gv 14,6), soglia che schiude sul Mistero eterno, porta per
la quale è necessario passare per entrare nell'ovile delle pecore
(cfr. Gv 10,7), luce venuta nelle tenebre per essere la luce, in
cui vedremo la luce (cfr. Gv 1,9 e Sai 36,10). Grazie alla dia-
lettica trinitaria di Parola e Silenzio, nell'evento di rivelazione
la trascendenza non è consegnata all'immanenza — come av-
viene nel monismo hegeliano dello spirito —, ma, esattamente
al contrario, l'immanenza delle creature è chiamata a consegnarsi
sempre più perdutamente alla trascendenza divina insondabile
per la mediazione della Parola, che ha messo le sue tende in mez-
zo a noi (cfr. Gv 1,14).
E per questo che l'accoglienza della Parola è dinamismo, che
deve continuamente trascendersi: se essa è in verità ascolto del
Silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia,
l'insondabile profondità di questo divino Silenzio motiva l'ine-
sauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di
là del Verbo. E su questa via che lo Spirito guida i credenti alla
verità tutta intera (cfr. Gv 16,13), attualizzando la memoria del
Cristo e insegnando ogni cosa: « Il Consolatore, lo Spirito San-
to che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni co-
sa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto » (Gv 14,26). Se
il Verbo incarnato è l'esegeta del Padre (cfr. Gv 1,18), lo Spiri-
to è l'esegeta del Figlio, Spirito di verità, che glorificherà Gesù
manifestando le ricchezze del Suo mistero: « Quando verrà lo
Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché
non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annun-
zierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del
mio e ve l'annunzierà» (Gv 16,13s). L'accoglienza della Paro-
la, in quanto ascolto del divino Silenzio in essa nascosto, è "esta-
si", uscita da sé verso le profondità di Dio, dalle quali ci attrae
la pura Sorgente della luce, il Padre del Verbo eterno. E come
se l'amore "estatico" di Dio, quello per il quale Egli esce dal
silenzio e si comunica nella Parola, susciti un amore di risposta,
parimenti "estatico", bisognoso di uscire dal chiuso del proprio
mondo, per immergersi nei sentieri senza fine del Silenzio, cui
fedelmente conduce l'evento di rivelazione. All'esodo da sé del
divino Silenzio viene a corrispondere — nell'asimmetria del rap-
95
porto che c'è fra la creatura e il Creatore e per dono puro della
Grazia — l'esodo da sé del silenzio degli esseri, la loro apertura
al Mistero che si offre attraverso la Parola e in essa, lo stupore e
la meraviglia dell'adorazione del Dio rivelato nel nascondimento
e nascosto nella rivelazione. È perciò che ascoltare il Silenzio è
permanere nel santuario dell'adorazione, lasciandosi amare dal
Dio silenzioso e attrarre a Lui attraverso l'insostituibile e neces-
saria mediazione del Verbo: « Nessuno viene al Padre se non per
mezzo di me » (Gv 14,6b). « Nessuno può venire a me, se non
lo attira il Padre che mi ha mandato» (Gv 6,44).
1
II riferimento è principalmente all'opera poderosa di K. Jaspers, La fede filosofica
dì fronte alla rivelazione (1962), Milano 1970, ma anche a Id., La fede filosofica (1948),
Torino 1973, e al significativo dialogo K. Jaspers - H. Zahrnt, Filosofia e fede nella
rivelazione (1963), Brescia 1971. Per un confronto con Jaspers su questa tematica si
veda H. Fries, Teologia fondamentale, Brescia 1987, 50-55 e 287-293. Cfr. pure F. Co-
sta, La filosofia della religione in K. Jaspers, Appendice a K. Jaspers, La fede filosofica
di fronte alla rivelazione, o. e, 731-806.
2
K. Jaspers, La fede filosofica di fronte alla rivelazione, o. e, 76.
">lb., 139.
96
Il richiamo della trascendenza, l'appello perenne a trascen-
dersi nella decisione della libertà, si compie per Jaspers attra-
verso il regno delle cifre: esso « non è una serie di segni l'uno
accanto all'altro. Ci sono modi delle cifre. In comune esse han-
no solo il fatto di essere più che segni. Infatti i segni indicano
qualcos'altro che può anche essere direttamente detto, veduto,
conosciuto. Le cifre significano un linguaggio che è ascoltabile
solo in esse stesse, non in riferimento a qualcos'altro, e il sog-
getto che le dice è in sé sconosciuto, inconoscibile e inaccessi-
bile. Ma le cifre si possono pure interpretare in modo che il loro
senso sia inesauribile e l'interpretazione abbia luogo infine me-
diante altre cifre»4. La cifra è ciò che evoca, senza catturare,
ciò che stimola a trascendersi, senza appagare, il penultimo, che
segnala l'ultimo, senza raggiungerlo o esaurirlo, ciò che rivela
la trascendenza, mantenendola tuttavia nel suo irrisolubile na-
scondimento. Perciò si danno cifre della trascendenza e cifre
mediante le quali un'immanenza come tale si apre a un rappor-
to con la trascendenza (totalità del mondo, storia, logos), non-
ché situazioni esistenziali che si chiarificano in cifre (come la
sventura o il male morale).
Ora, è proprio nel rapporto col regno delle cifre che si diffe-
renziano la fede filosofica e la fede rivelata secondo Jaspers:
«Ambedue parlano di Dio. La fede filosofica non sa nulla di
Dio, ma ascolta solo il linguaggio delle cifre. Dio stesso è per
essa una cifra. La fede rivelata crede di conoscere le azioni di
Dio nel suo rivelarsi per la salvezza dell'uomo; Dio agisce entro
il mondo con particolari accadimenti, legandosi al luogo e al tem-
po. La fede filosofica prende sul serio la richiesta biblica: non
devi farti nessuna immagine né ritratto, e sa ciò che fa quando
non obbedisce a questa richiesta nell'ascolto e nel dispiegamento
delle cifre » 5 . È a partire da questo diverso rapporto con le ci-
fre che la "fede filosofica" può impostare la sua critica alla "fede
rivelata", centrandola in particolare intorno al concetto stesso
di rivelazione storica: «La rivelazione è o l'azione di Dio de-
terminata spazio-temporalmente (come si ammette da parte dei
credenti) e allora non è più una cifra, ma una realtà di fatto;
oppure essa è cifra, sta assieme alle altre cifre e non è più una
rivelazione reale di fatto » 6 . « La distinzione tra i segni della
4
K>., 243.
5 16., 249.
b
lb., 216.
97
rivelazione e le cifre della trascendenza è che, nel primo caso,
la realtà temporale di un atto della divinità arreca dei segni che
sono univoci, nel secondo caso la trascendenza si notifica in ci-
fre polisense. Se però i segni valgono univocamente come segni
della rivelazione di fatto reale, allora essi sono ciò che toglie
l'occultamento: sono segni sui generis, anzi già la realtà di fatto
di Dio» 7 . L'alternativa è dunque secondo Jaspers stringente:
o la rivelazione rispetta la trascendenza come tale, e allora non
è più rivelazione, ma appartiene al regno delle cifre; o è mani-
festazione senza veli della trascendenza, e allora risolve quest'ul-
tima nelle misure dell'immanenza.
La rinuncia alla "fede rivelata" da parte della "fede filosofi-
ca" appare pertanto come un atto doveroso, proprio in nome
della salvaguardia della trascendenza in quanto trascendenza:
« Rifiutarsi alla fede rivelata non è conseguenza di ateismo, ma
conseguenza della fede nutrita da un'esistenza creata libera dalla
trascendenza. La fede filosofica, seguendo la verità che può rag-
giungere e la lontananza della trascendenza che si rivolge dal
suo occultamento a tutti gli uomini, deve rinunciare alla rivela-
zione come realtà di fatto, a favore delle cifre colte nel movi-
mento della loro ambiguità»8. La "fede filosofica" resta
garante della libertà: la "fede rivelata" — catturando la tra-
scendenza in una determinata forma spazio-temporale — si pre-
sta a generare ogni forma possibile di esclusivismo, di intol-
leranza, di riduzione ed assimilazione eliminante del diverso9.
Se la fede nella rivelazione fosse questa « fissazione del tra-
scendente » (Fixierung des Transzendenten), di cui parla Jaspers,
la sua critica sarebbe senza dubbio pertinente: la "fede rivela-
ta" sarebbe giustamente equiparabile a superstizione e idola-
tria. Ma è proprio questa concezione che viene smentita dalla
lettura trinitaria dell'atto di rivelazione: se la Parola incarnata
risolvesse in sé semplicemente il Silenzio dell'Origine e della
Patria, allora non vi sarebbe trascendenza al di là di quanto è
rivelato nelle coordinate di questo mondo. Se, invece, la Paro-
la, pur essendo generata dal divino Silenzio e ad esso coeterna,
non risolve in sé la distinzione, il suo entrare nella storia non
Ub.
8
Ib., 129. E interessante notare che Jaspers si rivolge a Karl Barth come a suo in-
terlocutore teologico (cfr. ibid., 215, n. 2): riprova indiretta che la teologia barthiana
della rivelazione non è esente da un certo "modalismo trinitario"?
9
Cfr. ib., 101-105.
98
solo non riduce la sua condizione divina, ma non elimina nep-
pure il rimando all'Origine nascosta da cui proviene. La rivela-
zione in senso trinitario mantiene cioè il nascondimento della
trascendenza di Dio tanto in rapporto al Padre, che resta invi-
sibile, quanto in rapporto al Figlio incarnato, che è Parola abi-
tata dal Silenzio e avvolta essa stessa nel supremo silenzio
dell'abbandono. Chi accoglie la Parola ascoltando il Silenzio,
lungi dal cadere nell'idolatria, vive fino in fondo lo stupore del-
l'adorazione e il santo timore dinanzi al Nascosto della rivela-
zione: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il
luogo sul quale tu stai è terra santa! » (Es 3,5). « Non mi tratte-
nere, perché non sono ancora salito al Padre» (Gv 20,17).
Ascoltare il Silenzio, accogliendo la Parola, è tutt'altro che
catturare la Trascendenza nelle maglie dell'immanenza, di quanto
cioè è disponibile e certo: significa, anzi, aprirsi radicalmente
all'insondabile novità di Dio, alle profondità verso cui la rive-
lazione schiude e indirizza, senza peraltro esaurirne la compren-
sione e l'intelligenza possibile. Chi ascolta il Silenzio, obbedendo
alla Parola-evento della rivelazione del Dio trinitario, vive nel-
la tensione fra il rivelato e il nascosto, fra il "già" donato e il
"non ancora" promesso, fra il viatico offerto e il pane e il vino
del banchetto del Regno. Lungi dall'essere arrivato (comprehen-
sor), l'ascoltatore del Silenzio di Dio lungo i sentieri dischiusi
dalla Sua Parola è per eccellenza un pellegrino (viator): la Tra-
scendenza resta per lui alta e sovrana, alterità incatturabile del
Dio nascosto nella rivelazione e rivelato nel nascondimento.
È qui che la critica della "fede filosofica" alla rivelazione si
ritorce su se stessa: in realtà, dove non c'è "fede rivelata", nel
puro e forte senso della rivelazione trinitaria, non si può vera-
mente parlare di trascendenza, e le cifre del trascendere vengo-
no a ridursi a semplici espressioni di una dimensione costitutiva
dell'umano. Bisogna riconoscere che senza la novità dell'avvento,
confessata dalla fede rivelata in tutta la densa ricchezza della
dialettica fra Parola e Silenzio, non si dà vera interruzione del-
la continuità dell'umano e quindi nemmeno apertura a ciò che
sta oltre rispetto alla totalità di questo mondo ed è radicalmen-
te nuovo rispetto alle sue coordinate. Le "cifre della trascen-
denza" finiscono col rimandare a un "trascendere senza
trascendenza": quest'ultimo potrà essere superato solo da un
evento di rivelazione, che, comunicando nella Parola le profon-
dità dell'Origine, schiuda ai sentieri senza fine del Silenzio.
99
Lungi dal produrre sazietà e seduzione del possesso, la fede
rivelata nel Dio trinitario accende il desiderio della Patria si-
lenziosa e nascosta e indica la via luminosa per giungervi nella
Parola venuta ad abitare in mezzo a noi. Ascoltare il Silenzio,
al di là del Verbo fatto carne e attraverso di Lui, è esodo senza
ritorno, pellegrinaggio sempre nuovo dalla non identità del pre-
sente, lacerato fra esperienza e attesa, alla Patria, intravista, an-
che se non posseduta, nell'evento di rivelazione...
10
Citato in Monastica 19 (1978) nn. 2-3, 79.
100
LA PAROLA
7.
LA PAROLA ETERNA:
IL MISTERO DEL FIGLIO
101
tempo, e perciò nelle sue potenzialità limitate e tuttavia alta-
mente drammatiche, perché capaci di scegliere o di rifiutare lo
Spirito, che solo vivifica (cfr. Gv 6,63). La "carne" è insieme
la concreta umanità dell'uomo, la determinata e finita "mon-
danità" del mondo, l'essere storico in tutta la densità delle re-
lazioni che lo condizionano e rispetto alle quali originalmente
può situarsi. Se il Verbo dice il soggetto divino dell'evento del-
l'Incarnazione, in tutto lo spessore della sua divinità consostan-
ziale al Padre e in tutta la specificità della distinzione personale
da Lui, la carne richiama il corposo orizzonte della storia, in
quanto determina l'uomo ed è prodotto dall'uomo.
Fra questi due poli — fra i quali corre l'abisso che separa il
cielo dalla terra — il testo giovanneo stabilisce una sintesi ardi-
ta e intensa: « Il Verbo è divenuto (èyéveTo) carne ». Ciò che
sembrerebbe potersi attribuire solo alle cose mutevoli e cadu-
che del mondo della carne, il divenire, è qui attribuito al Verbo,
che era presso il Dio e che era Dio. Tutta la grazia e la santità
di questo mondo, come anche ogni possibile bestemmia ed em-
pietà, sono contenute in questa parola: « è divenuto ». Se essa
fosse intesa nel senso del semplice risolversi del soggetto nel pre-
dicato, non solo il cielo sarebbe sceso in terra e vi avrebbe mes-
so radice, ma si sarebbe anche semplicemente confuso con essa:
non vi sarebbero più un cielo, cui alzare lo sguardo, e un Dio
e una Patria differenti da questo mondo. D'altra parte, se « è
divenuto » fosse compreso nel senso di un divenire puramente
apparente, che lasciasse inalterata la distanza fra i mondi, allo-
ra non vi sarebbe più alcuna riconciliazione della terra e del cielo,
e la scissione infinita fra il Creatore e la creatura resterebbe in-
colmata, aggravata anzi dal peso del peccato del mondo. L'e-
satta comprensione del paradosso enunciato in Gv 1,14 si
presenta allora come la questione teologica fondamentale, quella
che condiziona tutte le altre, perché in base ad essa si chiarifica
il rapporto non solo conoscitivo, ma anche esistenziale e salvi-
fico, fra gli uomini e Dio, quale è proclamato e reso praticabile
dal Vangelo cristiano. Quasi a sottolineare la posta in gioco, Gio-
vanni aggiunge la parola del testimone, direttamente coinvolto
nell'incontro col Verbo nella carne e nell'esperienza di salvezza
prodotta dalla gloria apparsa nell'Unigenito del Padre: « E noi
vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pie-
no di grazia e di verità» (Gv l,14b). Non diversamente nella
prima lettera di Giovanni è detto: « Ciò che era fin da princi-
102
pio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con
i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e le nostre ma-
ni hanno toccato riguardo al Verbo della vita — e la vita si è
manifestata, e noi abbiamo visto e testimoniamo e vi annuncia-
mo la vita eterna che era presso il Padre e si è manifestata a
noi — ciò che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo an-
che a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. E la
nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo » (lGv
1,1-3). Quanto il prologo del quarto Vangelo annunzia nella for-
mulazione paradossale dell'antitesi e della sintesi espresse dal
v. 14 è, dunque, testimonianza di un'esperienza dell'evento ri-
velativo, che tende ad essere immediatamente comunicativa e
contagiosa per gli altri.
Lo sviluppo della comprensione dommatica della fede ha por-
tato a precisare a Calcedonia (451) la forma del paradosso, te-
stimoniato nel prologo di Giovanni: « Seguendo i santi Padri,
tutti unanimemente insegniamo che sia confessato un solo e me-
desimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo... riconosciuto in
due nature senza mescolanza né trasformazione, senza divisio-
ne né separazione, senza che per l'unione la differenza delle na-
ture sia tolta, salva anzi la proprietà di ciascuna natura, e
concorrendo (ciascuna) in un'unica persona e in una sola ipo-
stasi, non separato o diviso in due persone, ma l'unico e mede-
simo Figlio Unigenito Dio Verbo, il Signore Gesù Cristo» 2 .
La formulazione del testo indica fra le due nature del Verbo
Incarnato un rapporto di discontinuità, di continuità e di unità
al livello più alto della Persona. E questo stesso triplice rappor-
to che può servire a chiarire la relazione fra la Parola fatta car-
ne e la Parola eterna, e quindi a scrutare le profondità divine
della rivelazione compiutasi nel Verbo Gesù Cristo.
2
D5 301-302. Cfr. su Nicea e Calcedonia B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio,
Dio della storia, Roma 1981, 133-156 (« Dal kerygma al dogma »), con bibliografia.
103
Ciò che la definizione dommatica intendeva rifiutare era la ri-
duzione monofisita: se fra le due nature si desse un rapporto
di mescolanza e confusione, l'asimmetria che c'è fra il cielo e
la terra sarebbe dissolta, l'umano e il divino sarebbero inter-
cambiabili e la parola storica verrebbe semplicemente a identi-
ficarsi con la Parola eterna e a ridurla a sé. Nessuna eccedenza
del divino rispetto all'umano sarebbe ammessa, e la "fusione
di orizzonti' ' verrebbe a consumarsi al prezzo della perdita del-
la Trascendenza. Il moderno monismo hegeliano dello spirito
è in tal senso la forma più elaborata e attuale di monofisismo
cristologico.
Inoltre, se nel rapporto fra le due nature fosse possibile una
reciproca "conversio", quasi che l'umano possa semplicemente
trasformarsi nel divino, e questo in quello, allora il processo del
divenire creaturale e il processo eterno della vita divina verreb-
bero a risolversi l'uno nell'altro e a identificarsi: la storia del
mondo sarebbe la storia di Dio, e la storia di Dio nient'altro
che la storia del mondo. La Parola fatta storia si risolverebbe
del tutto nella storia umana della Parola: nessuna Trascenden-
za si affaccerebbe al di là della rivelazione storica, e la media-
zione della parola umana assorbirebbe in sé la mediazione eterna
del Verbo nel seno della divinità. Contro questo sviluppo —
che si lascia cogliere nella sua forma più alta precisamente nella
filosofia hegeliana della religione assoluta — il dogma afferma
la duplice negazione: inconfuse, ìmmutabìlìter. La Parola stori-
ca non si confonde con la Parola eterna: non c'è mescolanza,
né reciproca riduzione fra di esse. Questo significa che — al
di là della Parola incarnata — resta un silenzio del Verbo, un'ec-
cedenza del Figlio eterno, inaccessibile alla presa della conoscenza
umana: il Verbo incarnato è insomma "Deus absconditus" non
meno che "Deus revelatus", non solo perché rimanda al nascon-
dimento dell'Origine, che è il Padre invisibile, ma anche per-
ché, rivelandosi, non esaurisce nel detto il suo proprio mistero,
ma apre semplicemente l'accesso, altrimenti impossibile, alle in-
sondabili profondità di esso.
Il genere di "mutabilità", quindi, esigito dal divenire carne
del Verbo non può essere inteso — secondo la fede di Calcedo-
nia — come pura e semplice risoluzione della Parola eterna nel
processo storico delle creature: Gesù di Nazaret è nella sua sto-
ria "storia di Dio", soltanto a condizione di restare sempre e
non di meno "Dio della storia". La Trascendenza non è conse-
104
gnata all'immanenza: la rivelazione è e resta "rivelativa" del
divino, né mai potrà essere "costitutiva" di esso, quasi che il
Venerdì Santo storico sia semplice fenomenologia del Venerdì
Santo speculativo, e la Pasqua di resurrezione apparizione mon-
dana dell'eterna riconciliazione di Dio con Dio. La Parola sto-
rica di rivelazione resta dunque carica di rimando all'eccedenza
del mistero, che essa comunica: è in tal senso che la teologia
negativa, l'apofasi silenziosa del sapiente non-sapere e dell'elo-
quente non-dire, si fonda sulla teologia positiva, quale obbe-
dienza alla rivelazione nella carne, che insieme manifesta, segnala
e nasconde le profondità di Dio.
E perciò legittimo domandarsi che cosa questa via negativa,
costruita sull'affermazione della non mescolanza e della non con-
versione reciproca fra umano e divino in Gesù Cristo, dica po-
sitivamente del Verbo increato. Essa mette il segno "meno"
davanti a tutte le determinazioni storiche della Parola di rive-
lazione nel suo rimando alla Parola eterna: come il Verbo incar-
nato è determinato nella finitudine dello spazio e del tempo,
così il Verbo in Dio sarà infinito ed eterno, da sempre e per
sempre procedente dal Silenzio del Padre; come il Figlio nella
carne è realmente solidale con la condizione limitata e caduca
di tutto quanto è umano, così la Parola eterna sarà divina, con-
sostanziale al Padre, solidale con Lui sullo stesso piano dell'es-
sere divino. Nessuna confusione o riduzione reciproca va dunque
ammessa fra i piani che si incontrano nell'evento rivelativo della
Parola: Dio è Dio e il mondo è mondo, anche se il Verbo si è
fatto carne e la Parola incarnata ha aperto l'accesso di questo
mondo all'insondabile e nutriente mistero della divinità.
La Parola, che è Gesù Cristo, è e resta "Parola di Dio", non
riducibile a una presa puramente umana: questa Parola è « il mi-
stero nascosto da secoli e da generazioni, ora manifestato ai suoi
santi », la cui ricchezza è tutta protesa verso la pienezza escato-
logica, « Cristo in voi, speranza della gloria » (Col 1,25-27). Per
questa sua densità e profondità divine il Verbo venuto nella carne
sarà anche il giudice degli ultimi tempi (cfr. Ap 19,13): Paro-
la di rivelazione, di giudizio e di salvezza nel tempo e per l'e-
ternità...
105
b) "Indivise, inseparabiliter": la "Parola" di Dio
106
la scissione è stata superata nella riconciliazione, il muro dell'i-
nimicizia abbattuto, e i lontani sono divenuti vicini. Il Verbo
incarnato è autentica e piena rivelazione di Dio: egli è il "Deus
revelatus", non meno che il "Deus absconditus", non solo per-
ché rivela se stesso come il Figlio eterno venuto in questo mon-
do, ma anche perché manifesta in se stesso il mistero del Padre,
Origine e Sorgente nascosta, ed effonde lo Spirito della verità
che salva. Inoltre, la storia del Verbo nella carne si offre come
vera storia di Dio fra noi: Colui che è il Signore della storia
« ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo,
ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo» 3 .
Se non c'è separazione fra le due nature, ma misteriosa e pro-
fondissima comunione, fondata sul livello ontologico dell'uni-
cità della persona, si dà una reale "communicatio idiomatum",
per cui le proprietà dell'umano vengono attribuite al soggetto
divino e l'umanità del Cristo si offre come il vero sacramento
di Dio. La Parola incarnata è presenza reale e trasparenza fede-
le della Parola eterna, è anzi la Parola eterna che — assumendo
la natura umana — viene contemporaneamente a comunicarsi
e a nascondersi in essa. Il nascondimento nella rivelazione è pro-
prio la conseguenza della distanza che resta fra il divino e l'u-
mano, l'eterno e il tempo, in forza della quale l'umano può
veicolare ma non contenere o assorbire il divino, e il tempo può
diventare finestra e soglia dell'eterno negli eventi dellagrazia
senza mai esaurire quanto infinitamente lo trascende. E dun-
que la stessa verità della rivelazione, lo stesso rifiuto della se-
parazione nestoriana fra i due mondi, che viene ad esigere la
dialettica di rivelazione e di nascondimento come propria degli
eventi e delle forme dell'autocomunicazione divina. Ferma re-
stando questa dialettica, il duplice rifiuto dommatico della di-
visione e della separazione fra l'umano e il divino in Gesù Cristo
viene ad affermare fra di essi una continuità, che è necessario
chiarire sotto il profilo specifico del rapporto fra la Parola tem-
poralmente determinata nell'incarnazione e la Parola eterna.
Che cosa rivela del Verbo divino la Parola incarnata? Che cosa
può affermarsi dell'eterna processione della Parola a partire dalla
sua missione nella storia? La comunicazione degli idiomi viene
ad assumere qui la forma di un'"analogia dell'avvento": l'atti-
3
Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contempo-
raneo Gaudium et Spes, 22.
107
tudine fondamentale che caratterizza come "proprium" ineli-
minabile il Verbo incarnato manifesterà — per una similitu-
dine che non esclude la dissomiglianza, ma non di meno è fon-
data sul legame ontologico stabilito nell'evento di grazia del-
l'Incarnazione — la fondamentale proprietà del Verbo eterno,
la forma del suo costitutivo porsi e pro-porsi nel dinamismo
della vita divina. Ora, l'attitudine che caratterizza l'intera esi-
stenza del Figlio fatto uomo è l'accoglienza: dalla testimonian-
za neotestamentaria traspare come tutta la vita terrena di Gesù
sia stata un"'esistenza accolta". Egli è vissuto per fare in tutto
la volontà del Padre: « Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua
volontà» (Eb 10,9, citazione del Sai 40,9). «Mio cibo è fare
la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera »
(Gv 4,34; cfr. 8,29; 15,10; ecc.). Egli non esiste per sé, ma per
il Padre e per gli uomini, cui il Padre lo ha mandato: il rap-
porto immediato, unico ed esclusivo col Padre, è rivelato dal
mistero dell'Abbà, che segna tutta la sua esistenza, fino all'ora
suprema della Croce: « Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, al-
lontana da me questo calice! Però, non ciò che io voglio, ma
ciò che vuoi tu» (Me 14,36 e par.). Gesù è vissuto per Dio,
suo Padre, per la causa del Suo Regno, è morto in obbedienza
a Lui sulla Croce per amore dei lontani, maledetti e separati
da Dio, è risorto accogliendo il dono del Padre, lo Spirito, che
poi ha effuso su ogni carne. L'obbedienza a Colui, che « è più
grande di me» (Gv 14,28), rivela a tal punto il mistero della
sua vita, che una delle più antiche teologie cristiane è la « cri-
stologia del Profeta obbediente » 4 . E in particolare nel suo of-
frirsi come il Profeta, infatti, che Gesù manifesta il rapporto
profondo di ascolto e di accoglienza fedele, che c'è fra la sua
parola e il Padre: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che
ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi » (Gv 15,15).
« Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo ame-
rà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi
non mi ama, non osserva le mie parole; la parola che voi ascol-
tate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato » (Gv 14,23s).
« Le parole che io vi dico, non le dico da me, ma il Padre che
è in me compie le sue opere» (Gv 14,10; cfr. pure 8,26.40;
Eb l,ls; ecc.).
4
Cfr. su tutto questo B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e, l'intera Terza Parte, non-
ché Id., Trinità come storia, Milano 1985, 102ss.
108
A quale proprietà del Figlio eterno corrisponderà nell'analo-
gia dell' avvento l'attitudine di accoglienza radicale della sua vita
terrena? Un mistero di recettività infinita si lascia intravedere
nella figura del Verbo, procedente dal Silenzio: « Il Figlio è ac-
coglienza pura, eterna obbedienza d'amore: egli è Vamato pri-
ma della creazione del mondo (Gv 17,24), in cui scorre nel tempo
e nell'eternità la vita divina, sorgente della pienezza del Padre...
Il Figlio è l'altro nell'amore, Colui sul quale riposa il movimen-
to della generosità infinita dell'Amore fontale. L'Amante è prin-
cipio dell'Amato: l'Amore sorgivo è fonte dell'Amore acco-
gliente, nell'insondabile unità dell'amore eterno» 5 - Il Verbo
mostra come il ricevere non sia meno divino del donare, l'esse-
re amati dell'amare: « Il Figlio è nella sua pura recettività, nella
divina "povertà" del suo accogliere, Colui nel quale il Padre
pienamente si comunica e si esprime, la piena espressione e co-
municazione del Padre, la sua Parola eterna, il Verbo, l'Imma-
gine trasparente e irradiante di Lui» 6 . Questa Parola pro-
cedente nell'eterno dalla divina fecondità del Padre è la radice
immanente in Dio non solo della rivelazione attuata nel Verbo
incarnato, ma anche della comunicazione assolutamente libera
e gratuita di sé, che Dio realizza creando il mondo. Le creature
sono — in un senso fondato nell'analogia dell'avvento — "ver-
ba in Verbo", parole pronunciate dal Padre nell'unica Parola,
procedente da Lui dall'eterno: e la Parola storica di rivelazione
è, in questa luce, non solo autocomunicazione del mistero di
Dio, ma anche rivelazione dell'uomo all'uomo, manifestazione
e apertura della sua vocazione divina7.
e) La Parola incarnata
109
una spiegazione concettuale dei termini usati, ma dal contesto
e dall'intenzione anti-eretica (nei confronti del "monofisismo"
di Eutiche e delle posizioni attribuite a Nestorio) si ricava chia-
ramente che essi stanno a indicare l'unità del soggetto divino,
che, consostanziale al Padre e dunque di natura divina, assume
la natura umana, unendola a sé senza mescolanza con il divino
o assorbimento in esso a un livello di profondità ontologica, tut-
t'altro che riducibile a una semplice convergenza morale. Gesù
è il Figlio di Dio, Dio lui stesso, ed è — lo stesso Gesù — l'uo-
mo conosciuto e testimoniato dagli apostoli, il profeta galileo
morto sul palo della vergogna e resuscitato dal Padre al terzo
giorno.
Che cosa implica per la chiarificazione del rapporto fra Paro-
la incarnata e Parola eterna questa unità reale, nella distinzio-
ne, stabilita secondo la definizione dommatica nell'unicità della
Persona divina del Verbo incarnato? Essa dice anzitutto che uni-
ca e la stessa è la Parola — nell'eternità e nell'incarnazione —
in quanto soggetto divino distinto dal Padre, il divino Silenzio.
Gesù di Nazaret, che parla le parole di Dio ed è in persona la
parola dell'autocomunicazione divina, è il medesimo Figlio, che
procede dal Padre nel seno della divinità. Egli chiama Padre
il Dio che lo ha mandato e si pone in rapporto a Lui come il
Figlio: è il Generato dall'Ingenerato, Colui che eternamente ri-
ceve la vita da Colui che eternamente la dona nell'indissolubile
congiunzione dell'eterno amore. « Confessiamo anche il Figlio,
nato senza inizio prima dei secoli dalla sostanza del Padre, né
tuttavia creato, perché né mai il Padre è esistito senza il Figlio,
né il Figlio senza il Padre. E tuttavia non come il Figlio è dal
Padre, il Padre è dal Figlio, poiché non il Padre ha ricevuto la
generazione dal Figlio, ma il Figlio dal Padre. Il Figlio è dun-
que Dio dal Padre, il Padre è Dio ma non dal Figlio. Egli è il
Padre del Figlio, non Dio dal Figlio; quello invece è Figlio del
Padre e Dio dal Padre » 9 . Ciò che caratterizza il Figlio è il suo
essere accoglienza, il « nascere da un altro » nella figliolanza10,
il procedere dal Padre come Verbo dal Silenzio. Il Figlio è la
Parola, da sempre presso il Padre, avvolta nel divino Silenzio,
da sempre Dio come il Padre: non è il Padre, perché è generato
come Figlio e procedente come Verbo, Parola distinta nella sua
9
Concilio XI di Toledo (675): D5 526.
10
Cfr. S. Tommaso, Stimma Theologiae I q. 32 a. 3c.
HO
relazione sussistente rispetto all'eterno Silenzio divino; ma è
coeterno al Padre, un solo Dio con Lui nell'unità dello Spirito
Santo.
Questa Parola eterna, che è il Figlio, si è fatta carne: non al-
tra, dunque, è la Parola venuta in mezzo a noi, ma una e la stessa.
Chi si rapporta al Verbo incarnato, chi lo accoglie come Parola
di Dio, si rapporta al Figlio eterno e accoglie l'eterna Parola del
Padre. In questo senso, la rivelazione è autentica autocomuni-
cazione divina: la Parola fatta uomo è Dio, e chi la accoglie,
accoglie Dio, il Figlio, e in Lui il Padre, che lo ha mandato: « Chi
accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato » (Gv 13,20). In
Dio questa Parola è l'eterna mediazione dell'Amore, l'Amato
in cui l'Amante si compiace, il Figlio generato dal Padre e che
risponde nella pura recettività e accoglienza alla sorgività del
Principio senza principio di tutta la divinità. Questa eterna me-
diazione del Verbo, su cui tace il Credo niceno-costantinopoli-
tano nella sua forma originaria greca, è esplicitata nella tradi-
zione latina mediante l'aggiunta del Filioque al Simbolo u: es-
sa sta a dire come per la tradizione teologica dell'Occidente lo
Spirito proceda dal dialogo eterno dei due, quasi come il loro
"noi" divino, il vincolo e la pace della loro carità, il Silenzio
dell'incontro che procede dal Silenzio dell'Origine e dalla Pa-
rola increata nella forma del loro amore ricevuto e donato, del
loro proferire eterno ed eterno ascoltare. La mediazione eterna
— che nella prospettiva orientale potrebbe esprimersi con la for-
mula "per Filium" — si fa presente nella storia mediante l'e-
vento dell'incarnazione: la carne della Parola, l'umanità del
Verbo, è la mediazione creata della mediazione increata, la pa-
rola umana che veicola il Verbo che l'ha assunta, pur nell'in-
sopprimibile limitatezza e nascondimento dovuti alla condizione
creaturale. La parola della rivelazione è Parola di Dio in quan-
to forma temporale della Parola eterna, auto-comunicazione di-
vina nella mediazione spazio-temporale, ostendersi dell'Eterno
nel ritrarsi congiunto necessariamente alla finitudine della me-
diazione mondana, Dio stesso nel segno della Sua Parola. Segno
che rivela velando e manifesta nascondendo, la Parola incarna-
ta è proprio così la mediazione esclusiva, la via unica e singo-
lare per cui è reso possibile l'accesso verso le profondità del-
l'Altissimo.
11
Sulla questione del Filioque di. Trinità come storia, o. e, 116-132, con bibliografia.
Ili
L'unica Parola divina, che è il Figlio, vive nell'eterna rela-
zione col Padre, nella parità di essere con Lui propria della con-
dizione divina, e insieme entra — grazie all'incarnazione — nelle
concrete e vere relazioni con gli uomini, mediate dalla limita-
tezza ineliminabile dell'umanità assunta, in modo da comu-
nicarsi all'uomo realmente ed efficacemente, sia pur nel nascon-
dimento, nelle parole e negli eventi della storia di rivelazione.
«Affermare che la persona divina del Verbo si è appropriata
la natura umana equivale ad affermare che si è appropriata la
capacità di espressione, identificata con l'essere stesso dell'uo-
mo. Il Verbo sì fece carne significa la parola divina sì fece parola
umana: il Figlio di Dio si appropriò la capacità di autori-
velazione insita nella spiritualità-corporeità umana e rivelò, co-
si, agli uomini in segni umani il suo mistero, ossia il mistero
personale intradivino »12. Il paradosso testimoniato da Gv 1,14
è in questa luce il paradosso dell'autocomunicazione del Dio tre
volte santo attraverso la povertà e la limitatezza delle parole
e dei gesti, che fanno il linguaggio degli uomini, senza che per
questo sia dissolta la sua Trascendenza, che rimane pur sempre
avvolta nella tenebra luminosa del Silenzio. La Parola incarna-
ta tace dicendo e dice tacendo la sua identità divina, mediante
gesti e parole intimamente connessi: perciò essa è rivelazione
non nel senso della semplice apertura e manifestazione del na-
scosto, ma in quello della duplice e inseparabile valenza del ve-
nir meno del velo, in quanto la Parola è autocomunicazione vera
ed efficace dell'Eterno, e del suo infittirsi, in quanto la Parola
è ispessimento del nascondimento nel permanente rimando alle
inesauribili profondità e all'insondabile eccedenza del Mistero.
12
J. Alfaro, Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986, 80.
112
8.
1
H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. a cura di G. Vattimo, Milano 19852, 542:
è la tesi ricorrente di quest'opera fondamentale. Cfr. per una presentazione d'insieme
G. Sansonetti, Il pensiero di Gadamer, Brescia 1988.
113
che non conosceremo mai, e che non è la conoscenza che illu-
mina la profondità dell'essere silenzioso e raccolto, ma è l'esse-
re che accadendo nel linguaggio illumina la conoscenza. Il vero
problema nella comprensione del linguaggio sta allora nel mo-
do di interpretare il rapporto che in esso si stabilisce fra la pa-
rola e la cosa. La forma di questa interpretazione non solo
diversifica le concezioni del linguaggio, ma diventa decisiva per
il modo stesso di intendere il rapporto fra la parola e la cosa
nell'evento di rivelazione: a tal punto che — secondo H. G.
Gadamer2 — è la concezione cristiana del Verbo, Parola pro-
cedente dall'Eterno e incarnatasi nella storia del mondo, che
costituisce il vero apporto innovativo alla comprensione del lin-
guaggio, la rivelazione non solo del contenuto di ciò che è altro
e prima rispetto al mondo, ma anche del linguaggio a se stesso.
« Il più grande miracolo del linguaggio non consiste nel fatto
che la parola si fa carne e si manifesta nel mondo esterno, ma
nel fatto che quello che così si manifesta nel mondo esterno è
già sempre parola. La dottrina che si impone nella Chiesa con-
tro il subordinazionismo è che la parola è presso Dio dall'eter-
nità, e questo trasferisce radicalmente il problema del linguaggio
nell'intimità del pensiero » \
Per comprendere la portata di questa affermazione — e la
sua rilevanza per una concezione della rivelazione come parola
ed evento — è necessario ricostruire almeno a grandi linee la
storia del concetto di linguaggio: è quanto si sforza di fare H.
G. Gadamer nella terza parte di Verità e metodo, in riferimen-
to al pensiero occidentale4. Riguardo al problema della relazio-
ne, stabilita nel linguaggio, fra la parola e la cosa, si lasciano
individuare tre differenti soluzioni, corrispondenti a tre momenti
decisivi della storia stessa del concetto di linguaggio. Il linguaggio
è inteso come puro e semplice strumento, in un rapporto solo
convenzionale o al massimo imitativo nei confronti della cosa:
è la concezione platonica. Il linguaggio è visto come rivelativo
della cosa, che in esso si fa presente pur senza risolversi in esso,
anzi perennemente trascendendolo: è la concezione della teolo-
gia cristiana del Verbo. Il linguaggio è concepito come costitu-
tivo della cosa, secondo un'adeguazione totale dell'essere alla
2
Cfr. Verità e metodo, o. e, 480ss.
3
fó., 482.
4
Cfr. ih, 465ss (« Il concetto di "linguaggio" nella storia del pensiero occidentale »).
114
sua comprensione linguistica: è la soluzione di W. von Hum-
boldt e della moderna filosofia del linguaggio.
a) II linguaggio strumentale
5
Ih., 468s.
(•Ik, 480.
115
del comunicare — ad apparenza, vuota di consistenza reale; dal-
l'altro, quella di assolutizzare il significato convenzionalistico
del pensiero e dell'espressione, riducendo la conoscenza a siste-
ma di segni e a puro gioco logico.
b) Il linguaggio rivelativo
Ub.
8
Ib., 481. La citazione latina è da Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae I q. 34
e passim.
116
va nel miracolo del linguaggio il proprio specchio in quanto la
parola, che è vera perché dice come le cose sono, non è e non
vuol essere nulla di per sé: nihìl de suo habens, sed totum de Uh
scientìa de qua nascitur... L'interna parola del pensiero è essen-
zialmente uguale al pensiero come il Figlio è uguale al Pa-
dre »9. In questo consiste il carattere rivelativo del linguaggio,
messo in luce dall'incarnazione: in esso la cosa veramente si di-
ce, facendosi realmente presente nella parola; e tuttavia in esso
la cosa non si dice del tutto, non si esaurisce nella parola, per-
ché la sua provenienza resta altra rispetto al suo dirsi, come il
Padre resta altro rispetto al Figlio e il Silenzio rispetto alla Pa-
rola proferita dall'eterno. Questa distinzione è chiarita nella teo-
logia medioevale mediante la sottolineatura della differenza che
esiste fra parola umana e parola divina: la parola umana è ri-
specchiamento perfetto della cosa, ha cioè un carattere "specu-
lare", che la rende inevitabilmente specchio della limitatezza
del pensiero umano, anche se la costituisce infinitamente aper-
ta a rispecchiare l'ampiezza e la varietà delle cose. La parola
divina è essenzialmente la cosa stessa, come il Figlio non si di-
stingue dal Padre essenzialmente, ma solo per relazione: in tal
senso, l'unità fra parola e cosa è piena e perfetta solo in Dio.
In quanto incarnata, però, la Parola eterna viene ad assumere,
in certa misura, l'imperfezione della parola umana: essa si dice
nelle parole che non possono mai del tutto dirla e adeguarla.
Nell'evento di rivelazione non si manifesta cioè solo la distin-
zione fra il Verbo e il Padre, come fra la Parola eterna e il divi-
no Silenzio, ma anche quella fra la Parola divina e l'evento umano
della parola in cui essa si dice. Perciò nella rivelazione storica
la Parola, che eternamente procede dal Silenzio, si presenta es-
sa stessa con un ineliminabile carattere di silenzio: essa si dice,
nascondendosi; si rivela, velandosi. Tuttavia, in questo dirsi nel
nascondimento è veramente la profondità dell'eterno che acce-
de al tempo, è il Verbo che si fa carne: perciò per Gadamer re-
sta merito indiscutibile della teologia cristiana aver scoperto la
"medietà" del linguaggio, il suo essere dimensione inelimina-
bile in cui viene a trasparenza, pur senza risolversi, la profon-
dità dell'essere. « Attraverso la penetrazione dell'idea greca di
logica nella teologia cristiana nasce qualcosa di nuovo, e cioè
la "medietà" del linguaggio, nella quale la mediazione operata
9
li., 483.
117
dall'incarnazione si rivela nella sua piena verità. La cristologia
apre la via a una nuova antropologia, che media in modo nuovo
il rapporto tra lo spirito finito dell'uomo e l'infinità divina. Ciò
che abbiamo chiamato esperienza ermeneutica troverà qui il suo
autentico fondamento »10.
e) Il linguaggio costitutivo
E sulla via aperta dalla teologia cristiana del Verbo che si per-
viene alla terza tappa decisiva nella storia del concetto di lin-
guaggio nel pensiero occidentale: è la tappa inaugurata da W.
von Humboldt e caratteristica della moderna filosofia del
linguaggio u. E la concezione del linguaggio come esperienza
del mondo, come dimensione totale del comprendere, non sem-
plicemente rivelativa, ma costitutiva dell'essere in quanto è com-
preso. Partendo dall'intento di studiare il rapporto fra la
naturalità del linguaggio umano e la multiformità delle lingue,
von Humboldt perviene alla conclusione che ogni lingua custo-
disce una peculiare visione del mondo, in quanto è prodotta da
una "forza spirituale", che è la forma interna secondo cui l'ori-
ginario evento del sorgere del linguaggio viene a differenziarsi.
La tesi che ne risulta è che « nell'esperienza ermeneutica non
si può separare la forma linguistica dal contenuto che viene tra-
smesso » u. In altri termini, il mondo, in quanto è compreso
come mondo, si costituisce nel linguaggio: l'esperienza erme-
neutica è caratterizzata costitutivamente dalla linguisticità. Non
che il mondo divenga oggetto del linguaggio: ma esso, in quan-
to oggetto di conoscenza e di discorso, è già sempre compreso
nell'orizzonte del linguaggio. Il linguaggio, allora, non è puro
strumento, ma "mezzo", dimensione imprescindibile della co-
sa stessa in quanto accede al pensiero.
Abbandonando del tutto la separazione platonica fra la pa-
rola e la cosa e radicalizzando la concezione cristiana della pa-
rola rivelativa della cosa stessa, la visione del linguaggio che viene
a profilarsi da von Humboldt in poi è quella della totale corri-
spondenza e adeguatezza fra l'essere in quanto compreso e il
10
li., 491.
11
II riferimento è soprattutto allo scritto Uberdie Verschiedenbeit des menschlichen
Spracbbaus (pubblicato per la prima volta nel 1836).
12
H. G. Gadamer, Verità e metodo, o. e, 505.
118
linguaggio, per cui la cosa "accade" nella parola che la dice, e
l'evento linguistico è l'evento della comprensione dell'essere della
cosa stessa. Ciò non significa che la parola adegui totalmente
l'essere: se il linguaggio è la casa dell'essere, il luogo del suo eve-
nire dicendosi, esso non perde la sua "speculatività". Il linguag-
gio è speculativo in quanto è l'essere che si distingue da se stesso,
che si rappresenta, e che perciò esprime un senso: in questo ri-
specchiarsi l'essere si dona, ma non si esaurisce, tanto che il nulla
come silenzio dell'essere sta e resta quale sfondo del linguaggio.
d) Oltre Gadamer
E qui che l'eredità della teologia cristiana del Verbo può co-
stituire il correttivo della concezione del linguaggio inteso co-
me mediazione totale: mantenendo la distinzione fra la parola
e la cosa, nella pur sorprendente identità, l'interpretazione "ri-
velativa" del linguaggio impedisce alla concezione moderna di
cadere da una parte in un idealismo indiscreto, che assorba il
reale nell'ideale linguistico, dall'altra in quell'oblio della diffe-
renza fra essere ed esserci, che costituisce per Heidegger la sto-
ria del nichilismo occidentale. Su questo punto Gadamer sembra
separarsi da Heidegger: mentre in questi non emerge alcuna iden-
tificazione totale fra essere e linguaggio, perché pura e ferma
resta l'eccedenza del silenzio dell'essere sul linguaggio, in Ga-
damer pare consumarsi un'identità senza residui fra la parola
e la cosa. Il tentativo di radicalizzare la concezione rivelativa
del linguaggio, propria della teologia cristiana del Verbo, in una
visione che ponga il linguaggio come costitutivo dell'essere in
quanto compreso, può dare effettivamente questa impressione:
mentre in Heidegger « il nesso essere-linguaggio, la linguistici-
tà e quindi anche il carattere ermeneutico dell'esperienza uma-
na del mondo sono... altamente problematici... in Gadamer e
nell'ontologia ermeneutica tutto questo diventa descrizione del-
l'essere, teoria della struttura della condizione umana nella fi-
nitezza dell'esistenza»13. E come se — mentre nella visione
platonica il linguaggio è ridotto a segno o a imitazione a favore
dell'alterità della cosa — nella visione moderna la cosa fosse ri-
solta nella mediazione linguistica, totalmente assorbita in essa
13
Cfr. G. Vattimo, Le avventure della differenza, Milano 1980, 36.
119
nell'atto dell'essere compresa: « Nel linguaggio si presenta il mondo
stesso. L'esperienza linguistica del mondo è "assoluta". Essa
oltrepassa la relatività di ogni posizione d'essere, giacché abbrac-
cia ogni in sé, quali che siano i rapporti (relatività) in cui esso si
mostra. La linguisticità della nostra esperienza del mondo precede
tutto ciò che è riconosciuto ed enunciato come essente »14.
Quest'identità senza residui di parola e cosa è esposta però
ai rischi dell'idealismo — dove il reale si risolve nell'ideale —
e del nichilismo — dove scompare la differenza ontologica fra
l'essere e gli enti. Solo il ricorso alla concezione rivelativa del
linguaggio, propria della teologia cristiana del Verbo, pone una
vera identità nell'alterità relazionale fra la parola e la cosa, sen-
za affermare il primato della cosa, fino al punto da separarla
semplicemente dal linguaggio, e senza sostenere l'assolutezza
del linguaggio, al punto che tutto l'essere sembri detto nella pa-
rola. In realtà, è lo stesso Gadamer a porre una limitazione pre-
cisa alla linguisticità totale: proprio precisando che l'essere
compreso è il linguaggio, egli lascia intendere che l'essere al di
là della comprensione non è puro niente, ma essere silenzioso
e raccolto, rispetto a cui la comprensione stessa si determina
cóme su di un orizzonte e un'origine. E così che la storia del
concetto di linguaggio finisce col recuperare il valore altissimo
della concezione rivelativa del linguaggio propria della dottrina
cristiana dell'incarnazione della Parola: solo se il linguaggio di-
ce la cosa senza esaurirla, il Verbo eterno potrà dirsi nella car-
ne senza ridursi ad essa; e, d'altra parte, proprio il fatto che
il Verbo procedente dall'eterno Silenzio si sia detto nelle paro-
le degli uomini senza per questo risolversi in parola soltanto uma-
na è la verifica più alta di una concezione del linguaggio che
tenga insieme parola e silenzio. In essa la cosa si dice nella pa-
rola, ma resta nel silenzio raccolto dell'origine, e la parola co-
munica la cosa rimandando alla permanente ulteriorità di essa.
Solo l'idea di rivelazione impedisce al linguaggio di cadere nel-
l'arido convenzionalismo, nel puro idealismo o nel nichilismo
della dimenticanza dell'essere. E, d'altra parte, questa conce-
zione rivelativa del linguaggio si apre alla possibilità sorpren-
dente che nelle parole umane possa dirsi la Parola eterna, e nel
silenzio al di là del linguaggio possa offrirsi il Silenzio fecondo
dell'Origine divina del Verbo e di tutte le cose.
14
H. G. Gadamer, Verità e metodo, o. e, 514
120
9.
121
grande — anche se non esclusivo — aH'"ascolto", al punto che
nelle stesse "teofanie" la manifestazione sensibile è totalmen-
te al servizio della parola l. Attraverso la parola si compiono
tutti i grandi inizi della storia della salvezza: così la vocazione
di Abramo: «Il Signore disse ad Abram... » (Gen 12,1); così
quella di Mosè: « Dio lo chiamò dal roveto e disse: Mosè, Mo-
sè! » (Es 3,4); « Mosè disse a Dio: "Ecco io arrivo dagli Israeli-
ti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma
mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro?".
Dio disse a Mosè: "Io sono colui che sono" » (Es 3,13s). Mosè
converserà con Dio come con un amico (cfr. Es 33,11), ma non
potrà vederne il volto (cfr. Es 33,21-23): l'intimità espressa dalla
parola e non la visione è alla base dell'esperienza che fa di lui
il profeta, figura e anticipazione del profeta degli ultimi tempi:
« Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi
fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto... Io susciterò
loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le
mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò » (Dt
18,15.18). Tutta la storia del profetismo e del ruolo decisivo
che esso ha svolto per la coscienza messianica di Israele è nel
segno del primato della parola, come strumento dell'autocomu-
nicazione divina2. Le clausole fondamentali del patto fra Dio
e il suo popolo sono raccolte nelle "dieci parole" (Es 34,28),
le "parole dell'alleanza", in cui si manifesta la volontà del Si-
gnore, cui Israele è tenuto a obbedire (cfr. Dt 4,13; 10,4; 28,69;
ecc.). Veramente «il popolo di Dio, nel quale Gesù è nato e
del quale è come il fiore supremo... e il frutto che sorpassa la
promessa dei fiori, è il popolo della Parola» 3 . E come tale ha
riletto nella sua fede il primo inizio degli esseri: « Dalla parola
del Signore furono fatti i cieli... egli parla e tutto è fatto, co-
manda e tutto esiste» (Sai 33,6.9; cfr. Gen 1). La Parola che
salva è la Parola che crea, dando a tutto esistenza, energia e vita.
1
Cfr. R. Latourelle, Teologia della rivelazione, Assisi 1967, 13ss, con bibliografia.
Su quanto segue cfr., oltre al Dizionario Teologico dell'Antico Testamento, Torino 1978-
1982, le teologie dell'Antico Testamento, fra cui: W. Eichrodt, Theologie des Alien
Testamenti, I, II-III, Gòttingen 1957, 1961; E.Jacob, Theologie de VAncien Testament,
Neuchàtel 19682; G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, I I I , Brescia 1972.
2
Cfr. su questi temi B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Ro-
ma 1981, 67ss (« La speranza d'Israele. Antico Testamento e cristologia »). L'espres-
sione « parola di Jahvè » indica la parola profetica in duecentoventicinque casi su
duecentoquarantuno.
3
L. Bouyer, // Figlio etemo. Teologia della Parola di Dio e cristologia, Alba 1977, 38.
122
Che idea veicola il termine dabar ( = parola) nell'uso che ne
fa l'Antico Testamento? Anche da un semplice approccio ai te-
sti risulta il duplice carattere della comunicazione che il dabar
stabilisce: è parola carica di significato, ricca di un contenuto
noetico; ed è parola che opera, che fa quel che dice, evocando
e provocando la vita, incidendo sulla trasformazione del cuore
e sugli eventi della storia. Il carattere "informativo" si congiunge
a quello "performativo": la parola non solo informa, accertan-
do, costatando, trasmettendo notizie, ma anche agisce, ponen-
do e modificando la realtà 4 . «Tale è la parola di Jahvè, nello
stesso tempo noetica e dinamica: discorso del Dio di verità e
atto salvatore del Dio vivente; annuncio e attuazione di salvez-
za; luce e potenza. Da una parte la parola di Dio crea il mondo,
impone la legge, suscita la storia; dall'altra essa manifesta al-
l'uomo la volontà di Dio, il suo disegno salvifico. La parola di
Dio opera infallibilmente ciò che dice. Dio la manda come un
messaggero vivente e veglia su di essa per realizzarla. La parola
di Dio rimane sempre, fedele ed efficace»5.
Col suo valore noetico, informativo, la parola fa conoscere
i decreti del Signore e illumina così la via dell'uomo: « Quanto
sono dolci al mio palato le tue parole: più del miele per la mia
bocca. Dai tuoi decreti ricevo intelligenza, per questo odio ogni
via di menzogna. Lampada per i miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sai 119,103-105). Con la sua forza perfor-
mativa, dinamica, la parola realizza il disegno dell'Eterno: « Co-
me la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano
senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta ger-
mogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare,
così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me
senza effetto, senza aver operato ciò che desiderose senza aver
compiuto ciò per cui l'ho mandata» (Is 55,10s). E per questa
ricchezza e densità della parola che l'esperienza della sua assen-
za ne provocherà il desiderio struggente: « Ecco verranno gior-
ni — dice il Signore Dio — in cui manderò la fame nel paese,
non fame di pane, né sete di acqua, ma d'ascoltare la parola del
4
Questi due significati del parlare distinti dalla filosofia linguistica moderna ben
rendono la duplice valenza del dabar biblico: cfr. H. Fries, Teologia fondamentale, Bre-
scia 1987,245ss. Il termine ebraico indica sia "cosa" che "parola": i Settanta e il Nuovo
Testamento danno lo stesso duplice senso al greco p7||Xa: cfr. Gen 22,1.20; 40,1; 48,1;
Le 1,37; 2,15.19.51; At 5,32; ecc.
5
R. Latourelle, Teologia della rivelazione, o. e, 26s.
123
Signore. Allora andranno errando da un mare all'altro e vaghe-
ranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del Signo-
re, ma non la troveranno » (Am 8, lls). Ed è in forza di questa
stessa densità che si comprende quanto sia stretta la connessio-
ne fra le parole e gli eventi nell'economia della rivelazione: la
parola non solo interpreta l'evento, ma anche semplicemente
"si dice" attraverso l'evento. Così, se da una parte tutte le tap-
pe decisive della storia di Israele sono introdotte dalla parola6,
dall'altra la fede del popolo eletto può esprimersi semplicemen-
te narrando gli eventi salvifici, i "mirabilia Dei", quasi densi-
ficazioni concrete della parola di rivelazione (cfr. Dt 26,5-10).
L'idea di rivelazione, trasmessa mediante il rilievo dato alla
"parola di Dio" nell'Antico Testamento, può essere determi-
nata attraverso il triplice aspetto, proprio dell'esperienza uma-
na dell'autocomunicazione divina nella parola: l'iniziativa del
Signore; la risposta umana; l'effetto della parola sulla vita e sulla
storia degli uomini. E l'idea della rivelazione come autocomu-
nicazione di Dio mediante la parola storica, che viene accolta
o rifiutata, ma opera comunque ciò che dice e per cui è stata
mandata.
L'iniziativa del Signore nell'atto della Sua autocomunicazio-
ne all'uomo mediante la parola è espressa chiaramente nell'An-
tico Testamento: le formule « Dio disse », « il Signore disse »,
« parola del Signore » non si contano (ad esempio in Gen 1; 12,1;
Es 3; 33,1; ecc.). L'idea che ne risulta è che Dio è il Dio viven-
te, che interviene nella storia dell'uomo, la sovverte e la fa nuova,
non nonostante, ma proprio grazie alla purezza della sua tra-
scendenza, fortemente sentita dal monoteismo ebraico. Il to-
talmente Altro si fa prossimo e vicino nella parola, in un modo
che non cessa di stupire la fede d'Israele: « Questa parola è molto
vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta
in pratica» (Dt 30,14). La rivelazione che si compie mediante
la parola è, allora, vera esperienza dell'avvento: il Dio che par-
la è il Dio che viene a visitare il suo popolo per operarvi i suoi
prodigi. Il contenuto di questa rivelazione è l'autocomunicazione
divina e la manifestazione dei precetti e delle vie, secondo cui
6
Cfr. Gen 1,3: la creazione; 6,7: il diluvio; 12,1: Abramo; Es 3: Mosè; 14,30s:
l'uscita dall'Egitto; Dt 1,6; 6,2.18.31: l'esodo verso Canaan; ISam 15,10; 16,12: Da-
vide; 2Sam 7: la profezia di Natan; IRe ll,31s: la divisione del Regno; Ger 25,1-13:
l'esilio; Ez 1-23: la rovina di Gerusalemme; Is 40,2; 43,1-5; 44,21-23; 48,20s: il ritor-
no da Babilonia.
124
compiere la volontà dell'Eterno: «Dio disse a Mosè: "Io sono
colui che sono!" Poi disse: "Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha
mandato a voi" » (Es 3,14). La rivelazione del Nome è rivelazio-
ne della realtà divina: attraverso la parola il Signore comunica se
stesso e promette la sua fedeltà al popolo della promessa. Il Dio
d'Israele è il Dio che è e sarà sempre vicino e solidale ai suoi,
pronto a intervenire in loro favore: il Suo Nome è promessa del-
la Sua presenza efficace e fedele, manifestazione del Suo mi-
stero d'amore: «Io sono Colui che è per voi» 7 . Colui che
prende l'iniziativa, rivelandosi attraverso la parola, è Colui che in
ogni tempo prenderà l'iniziativa dell'alleanza. Il "Deus dixit"
è rivelazione dell'assoluto primato di Dio nel suo rapportarsi
all'uomo e contemporaneamente rivelazione del significato sal-
vifico di questa iniziativa di amore libero, gratuito e provvidente.
All'azione del Dio che si rivela corrisponde il riconoscimen-
to, l'accettazione o la resistenza dell'uomo: questa risposta alla
parola della rivelazione è variamente presentata nell'Antico Te-
stamento. L'atteggiamento decisivo, che sempre è richiesto, è
l'ascolto: si potrebbe dire che l'economia della rivelazione at-
traverso la parola viene a caratterizzare radicalmente la spiri-
tualità d'Israele come una spiritualità dell'ascolto. E per questo
che la parola che introduce l'esposizione delle "dieci parole"
è: «Ascolta, Israele... » (Dt 5,1). L'iniziativa del Dio che parla
esige l'attitudine di attenzione e di apertura da parte dell'uo-
mo, il suo esodo da sé senza ritorno, la sua disponibilità a usci-
re da se stesso e a lasciarsi guidare verso l'ignoto: solo cosi la
rivelazione realizza il suo carattere di comunicazione interper-
sonale, di evento dialogico che congiunge la profondità dell'av-
vento divino al cuore dell'uomo, cui il Signore si rivela. E grazie
all'ascolto che diviene possibile la risposta al Dio che parla, e
cioè la "ripetizione" della Sua parola, lo stupore del riconosci-
mento dell'evento di rivelazione, che porta a proferire ad altri
la parola umana in cui il dono si è compiuto. « La vera risposta
al dabar di Dio è ripetere questo dabar, essere il portavoce di
Dio. Prolungare, dunque, il dialogo con un dialogo esterno. Met-
tere alla prova il senso del dabar introducendolo nel mondo. La
profezia per mezzovdel dabar vuole, attraverso certi uomini, rag-
giungerli tutti » s . E per questo che il dramma del peccato con-
7
Cfr. G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, o. e, I, 212.
8
A. Neher, L'essenza del profetismo, Casale Monferrato 1984, 94.
125
siste nel non voler ascoltare, nel non accettare di lasciarsi abi-
tare dalla Parola: « Quando vi ho parlato con premura e sem-
pre, non mi avete ascoltato... » (Ger 7,13). La Parola è il segno
di contraddizione, il criterio sulla cui accoglienza si misura l'ac-
coglienza stessa dell'Eterno: « Se vi ostinate e vi ribellate, sare-
te divorati dalla spada, perché la bocca del Signore ha parlato »
(Is x l,20).
E così, nell'incontro fra l'iniziativa del Dio che parla e l'a-
scolto dell'uomo, destinatario della rivelazione, che si manife-
sta la piena efficacia della Parola: dove l'esodo umano si lascia
raggiungere e trasformare dall'avvento divino, dove l'ascolto si
fa totalmente ospitale davanti al Signore che parla, lì si compie
il miracolo del nuovo inizio della salvezza, lì si rivela e si antici-
pa qualcosa del compimento della promessa. La potenza della
parola di rivelazione è la potenza stessa di Colui, che in essa
parla, abbattendo e consolando, giudicando e edificando, dando
la vita e togliendola: « La mia parola non è forse come il fuoco
— oracolo del Signore — e come un martello che spacca la roc-
cia? » (Ger 23,29; cfr. Os 6,5; ecc.). In modo particolare l'effi-
cacia della parola traspare nelle storie di vocazione e di missione,
dove l'incontro con la Parola di Dio segna per sempre una vita,
ponendola al servizio del popolo santo e della sua salvezza: sul-
la parola che gli è stata rivolta dal Signore Abramo lascia la sua
terra verso un ignoto domani (cfr. Gen 12,lss), Mosè intraprende
la sua opera di profeta e di liberatore (cfr. Es 3), Isaia può dire:
« Eccomi, manda me! » (Is 6,8) e Geremia accetta di essere sta-
bilito come profeta delle nazioni (cfr. Ger l,4ss). Nessuno che
ha udito la Parola resta più lo stesso: anche quando qualcuno
cercasse di fuggire da essa (come Giona: Gn 1,1 ss), la Parola
lo avrà segnato per sempre! In questa luce, si comprende il ca-
rattere fortemente personale e storico-dinamico dell'idea di ri-
velazione veicolata attraverso l'esperienza della Parola nella
vicenda di Israele: la rivelazione mediante la parola è veramen-
te l'avvento del Dio vivo nel segno delle Sue parole, che rag-
giunge e trasforma l'esodo umano, facendone storia di redenzio-
ne e di salvezza per tutti coloro che accolgono la Parola, ma
anche esperienza tragica di esilio e di condanna per quanti la
rifiutano.
126
i
b) I tempi della Parola: il Nuovo Patto
127
e dall'Apocalisse. Memoria, coscienza e speranza pasquali —
fondate nella consapevolezza del compimento della rivelazione
raggiunto nell'incarnazione della Parola — strutturano l'intera
testimonianza neotestamentaria, facendone in maniera norma-
tiva e fontale il luogo della pienezza dell'avvento e del suo im-
patto sull'esodo della condizione umana e della storia10.
La Parola fatta carne realizza in sé nella maniera più alta i
due significati del dabar veterotestamentario: Gesù il Cristo non
solo parla le parole di Dio, comunicando la verità del Padre sul-
l'uomo e sulla sua vicenda e aprendo alla conoscenza del Miste-
ro, ma è la Parola di Dio, il Verbo divenuto uomo, che comunica
se stesso e apre l'accesso all'esperienza vivificante delle profon-
dità divine nel dono dello Spirito. Il duplice carattere, noetico-
informativo e dinamico-perf or mativo, della parola trova così il
suo pieno compimento nell'evento dell'Incarnazione del Ver-
bo, vera luce e vita del mondo (cfr. Gv 1,4). Nella linea noetico-
informativa Gesù si presenta come il profeta e il maestro, che
attinge alla sua coscienza filiale — unica ed esclusiva — la veri-
tà sul Padre e sugli uomini, della quale è annunciatore: « Nes-
suno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre
se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare » (Mt
11,27). Questa conoscenza è tuttavia già, in senso biblico, espe-
rienza e partecipazione: ecco perché il Profeta escatologico, che
è Gesù (cfr. At 3,22s, ricollegantesi a Dt 18,15; Gv 6,14; 7,40;
Eb 3,1-6; ecc.), il proclamatore di quanto ascolta dal Padre (cfr.
Gv 3,11; 8,26.40; ecc.), il Maestro che insegna con autorità stu-
pefacente (cfr. ad esempio Me 1,22), è al tempo stesso e inse-
parabilmente « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6). Nella linea
dinamico-performativa Gesù è la Parola divenuta carne, che ha
messo le sue tende in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14), Colui nel qua-
le arriva il regno di Dio (cfr. Me 1,15), e che parla con l'autori-
tà di chi realizza ciò che dice: « Lo Spirito del Signore è sopra
di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha man-
dato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per procla-
mare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere
in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signo-
re... Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita
10
Cfr. su tutto questo B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e, 88-132 («La pienezza
del tempo. Cristologia del Nuovo Testamento »). Sull'Incarnazione come compimento
della storia di rivelazione cfr. pure le osservazioni di J. Alfaro, Incarnazione e rivelazio-
ne, in Id., Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986, 67-93.
128
con i vostri orecchi » (Le 4,18s.21, con la citazione di Is 61,ls).
Poiché, però, la sua persona è inseparabile da ciò che egli dice,
accogliere le sue parole è accogliere lui e il Padre che lo ha man-
dato, rifiutarsi alla sua parola è rifiutarsi alla salvezza in lui do-
nata: « Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni
creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non
crederà sarà condannato» (Me 16,15s). In Gesù Signore ven-
gono a offrirsi agli uomini tanto la conoscenza del disegno divi-
no di salvezza che va compiendosi nella storia, quanto la
possibilità di realizzare questo disegno nella propria vita: in tal
senso Paolo parla del "mistero", taciuto per secoli, ma ora ri-
velato e annunziato a tutte le genti, fatto conoscere all'Aposto-
lo "per rivelazione", e che è l'autocomunicazione della gloria
divina nella storia in Cristo Gesù (cfr. Rm 16,25; ICor 2,7s;
Ef 1,9; 3,3ss; 6,19; Col 1,25-27; lTm 3,16). Questo mistero
— gloria nascosta e rivelata sotto i segni della storia — è la Pa-
rola di Dio (cfr. Col l,25s), il Cristo stesso (cfr. Ef 3,4), « spe-
ranza della gloria» (Col 1,27).
Proprio perché parola che proclama e trasmette la gioia della
salvezza, il Verbo incarnato è non solo il proclamatore del Van-
gelo, ma è lui stesso la buona novella, il Vangelo vivente: « Ge-
sù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro
sinagoghe e predicando la buona novella del regno e curando
ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo » (Mt 4,23; cfr.
9,35; Me 1,15; Le 8,1). Sin dall'inizio Marco presenta la sua
narrazione come « Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio » (Me
1,1; cfr. At 5,42; 17,3.18): la sua testimonianza è il racconto
della "buona novella", che è il Cristo in persona! La parola di
rivelazione, che abbraccia l'intera esistenza terrena e l'evento
pasquale del Signore Gesù, è dunque "mistero" e "Vangelo",
perché è la Parola eterna fatta carne per noi.
Quale idea ed esperienza della rivelazione è trasmessa attra-
verso la presentazione dell'evento Cristo come pienezza dell'au-
tocomunicazione divina nella storia? Per rispondere a questa
domanda ci si può riferire all'esperienza, che ha costituito l'ef-
fettivo inizio del movimento cristiano nel tempo, consentendo
nella sua luce di leggere nella vicenda del Gesù storico il keryg-
ma e nel kerygma la storia del Profeta galileo: questa esperien-
za, decisiva e fondante, è quella degli eventi pasquali. Se le
formule kerygmatiche, cultuali e catechetiche della Chiesa na-
scente, compendiate nel più antico "Credo" cristiano (la pro-
129
fessione "Gesù è il Cristo", "Gesù è il Signore", da intendersi
come narrazione di stadi successivi), rinviano al fatto dell'espe-
rienza pasquale, quale luogo ermeneutico da cui è stato attinto
il contenuto di rivelazione in esse veicolato n, sono i "raccon-
ti delle apparizioni" del Risorto che consentono di ricostruire
i caratteri dell'esperienza umana dell'autocomunicazione divi-
na, realizzatasi nell'incontro con il Risorto n. I cinque gruppi
di narrazioni (ICor 15,5-8; Me 16,9-20; Mt 28,9-10 e 16-20;
Le 24,13-53 e Gv 20,14-29 e 21) non possono essere armoniz-
zati fra loro secondo uno schema completo e coerente in base
ai dati cronologici e geografici: questa armonizzazione materiale
è del tutto al di fuori degli interessi degli scritti neotestamenta-
ri, che sono una testimonianza di fede fondatanella storia, ma
certamente non una cronaca di "bruta facta". E tuttavia possi-
bile riscontrare nei vari racconti di apparizione una struttura
che ritorna, caratterizzata da tre momenti fondamentali: all'i-
nizìatìva del Risorto fa seguito il processo di riconoscimento di
Gesù di Nazaret in Colui che si presenta vivente da parte dei
discepoli; da questo incontro — carico di elementi "oggettivi"
e "soggettivi" — scaturisce la missione, come espressione del-
l'esperienza "trasformante" che è stata vissuta. I tre elementi
corrispondono alle caratteristiche fondamentali dell'esperienza
della rivelazione divina nell'Antico Testamento, l'iniziativa del
Signore, la risposta alla parola e l'efficacia dell'incontro: dal con-
fronto fra la preparazione nell'Antico Patto e il compimento
nel Nuovo vengono a delinearsi gli elementi peculiari dell'espe-
rienza umana della autocomunicazione divina nella pienezza del
tempo.
E il Risorto che prende V iniziativa nei racconti delle appari-
zioni: «Lui stesso si è presentato vivente» (At 1,3). È Lui in
persona che appare: il verbo ói(p0T| — usato in ICor 15,3-8 e
Le 24,34 (cfr. At 9,17; 13,31; 26,16) —, sebbene sia suscetti-
bile di una interpretazione passiva (« venne visto », « fu fatto
vedere (da Dio) » e di una media (« si fece vedere, apparve »),
è usato nell'Antico Testamento in greco per descrivere le teo-
fanie (cfr. Gen 12,7; 17,1; 18,1; 26,2). E dunque l'iniziativa
del Signore che viene sottolineata: è Lui che si mostra vivente,
appare e prende la parola. Quest'esperienza visiva e auditiva
11
Cfr. B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e., 88-95.
12
Su quanto segue cfr. ib., 96ss.
130
di Lui non è qualcosa che "diviene" nei destinatari, ma che "av-
viene" a loro, provenendo dal di fuori: è, cioè, un'esperienza
oggettiva, distinta, esterna. La "visione", come esperienza sog-
gettiva del vedere, non occupa nei racconti il primo posto, che
è invece dato al "mostrarsi vivente" del Risorto: il Risorto vie-
ne visto perché "appare", non appare perché "viene visto". « Le
apparizioni pasquali non si devono spiegare partendo dalla fe-
de pasquale dei discepoli, ma soltanto viceversa: le apparizioni,
cioè, motivano la fede pasquale dei discepoli»13. In questa for-
te sottolineatura della "oggettività" dell'esperienza umana della
rivelazione divina i racconti pasquali sono in perfetta continui-
tà con la storia veterotestamentaria della parola: è il Dio viven-
te che prende l'iniziativa di autocomunicarsi all'uomo, nella
libertà e nella gratuità più grande. Ciò che differenzia il compi-
mento dalla preparazione è che ora la Parola si offre nella sua
carne: è il Verbo divenuto uomo, è quel Gesù, che era stato
crocefisso e che si mostra ora resuscitato dai morti. Il "vede-
re" gioca ora un ruolo più ampio che non nell'Antico Patto,
proprio perché « il Verbo si è fatto carne... e noi abbiamo visto
la sua gloria » (Gv 1,14): tuttavia la parola resta determinante,
perché l'apparizione del Risorto culmina generalmente in una
sua parola di chiamata, di memoria o di missione. Soprattutto,
però, "vedere" e "udire" sono uniti nel segno dell'iniziativa
divina, dell'avvento che viene a offrirsi nel "qui" e "ora" di
Colui che appare e prende la parola. E qui la continuità con
la rivelazione veterotestamentaria e insieme è qui la scandalosa
novità: che Dio, cioè, si faccia presente e parli in Gesù Cristo,
il Risorto che è la Parola eterna entrata nella storia, fatta carne
nel mondo.
All'iniziativa del Risorto fa seguito il riconoscimento da par-
te dei destinatari: si tratta di un processo di reazione e di rispo-
sta, che passa attraverso lo stupore e il dubbio, superato grazie
a una parola o a un gesto del Signore (cfr. Le 24,30s.35.37.39-43;
Gv 20,14.16.20; 21,4. 6s; cfr. Mt 28,7), e si risolve nella gioiosa
confessione: « E il Signore » (Gv 21,7). Questa gradualità evi-
denzia la gratuità e la libertà dell'assenso che i discepoli sono
chiamati a dare: Colui che appare non fa violenza, ma si offre
e attrae all'abbandono generoso del riconoscimento nella fede
e nell'amore. La difficoltà della "resa" da parte dei destinatari
13
W. Pannenberg, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Brescia 1974, 109.
131
sta nella "novità" sorprendente della forma in cui il Risorto si
presenta: è il Vivente, che irraggia pienezza di vita e non è vin-
colato dai ceppi della finitezza (cfr. Gv 20,19 e Le 24,31). Questa
"novità" non elimina la "continuità" col passato, tanto è vero
che al culmine del processo si compie il riconoscimento: « Allo-
ra si aprirono i loro occhi e lo riconobbero » (Le 24,31). La ri-
sposta dei destinatari è espressa non solo dalle loro confessioni
di fede (cfr. ad esempio Gv 20,28: « Mio Signore e mio Dio! »),
ma anche dall'urgenza che essi avvertono di "ripetere" la pa-
rola che li ha raggiunti attraverso lo slancio missionario: così,
i discepoli di Emmaus, dopo averlo riconosciuto allo spezzare
del pane, « partirono senz'indugio e fecero ritorno a Gerusa-
lemme... e riferirono ciò che era accaduto... » (Le 24,33.35). An-
che qui emerge la continuità con l'esperienza veterotestamentaria
della rivelazione: il profeta, raggiunto e abitato dalla Parola, se
ne fa "ripetitore", proclamatore con tutta la sua vita. Anche
qui la novità del compimento è tutta nel riferimento alla perso-
na del Cristo: il riconoscimento è confessione di Lui come
Crocefisso-Risorto, il contenuto di rivelazione che viene accol-
to e proclamato è tutto compendiato nella certezza gioiosa: « È
il Signore» (Gv 21,7). L'esperienza umana della autocomuni-
cazione divina è ora tutta realizzata nell'incontro con il Signore
Gesù: è a Lui in persona che è rivolto lo stupore dell'adorazio-
ne e l'assenso della fede; è Lui in persona l'oggetto dell'annun-
cio e il fondamento della speranza, che cambia la vita.
Dall'incontro con il Risorto, riconosciuto e accolto dai disce-
poli, scaturisce il nuovo inizio della loro vita, la missione: i pa-
vidi fuggiaschi del Venerdì Santo diventano i coraggiosi testimoni
di Pasqua, fedeli fino al dono supremo della vita. L'incontro
— veicolato attraverso i racconti delle apparizioni — li ha tra-
sformati: 1" 'oggettività" dell'iniziativa del Signore, riconosciuta
attraverso l'itinerario "soggettivo" della fede e dell'amore, cam-
bia la loro esistenza, rendendoli annunciatori trasparenti e con-
tagiosi di Colui, di cui hanno fatto esperienza (cfr. Mt 28,18-20;
Le 24,48; cfr. Gv 20,19ss). Essi possono ormai affermare: « Dio
lo ha risuscitato da morte, e di questo noi siamo testimoni » (At
3,15). « Iddio... lo ha esaltato... e di questi fatti siamo testimo-
ni» (At 5,31s; cfr. pure At 2,32 e 10,40s). In questa corrente
di testimonianza irradiante Paolo stesso vuole inserirsi: « Vi ho
trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè
Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto
132
ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che ap-
parve a Cefa e quindi ai Dodici » (ICor 15,3-5). La Parola in-
carnata che si è mostrata vivente nell'esperienza pasquale delle
apparizioni rivela qui tutta la sua efficacia: essa trasforma real-
mente la vita di coloro che raggiunge, cambia e rinnova la sto-
ria, suscita energie imprevedibili, dona lo slancio e la passione
dei testimoni. Anche su questo punto è forte la continuità con
l'esperienza veterotestamentaria della rivelazione, nella quale
la Parola opera ciò che dice, creando e ri-creando il mondo e
la vita. E anche qui emerge la novità del compimento: è Cristo
la Parola fatta carne, la potenza del Vangelo, la forza che opera
nel testimone, corroborandolo col Suo Spirito Santo. E, in Cri-
sto, è l'accesso al mistero del Padre che rende ora nuovi il cuo-
re e la storia: « Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre
mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso
di lui» (Gv 14,23). «Voi infatti siete morti e la vostra vita è
nascosta con Cristo in Dio! » (Col 3,3). La missione non è che
l'estendere al mondo intero ciò di cui i testimoni hanno fatto
esperienza: Lui e la potenza della resurrezione di Lui (cfr. Fil
3,10).
Dal confronto fra l'esperienza veterotestamentaria della ri-
velazione e la "pienezza del tempo", costituita dagli eventi pa-
squali, emerge dunque la profonda continuità e unità della storia
della Parola: l'iniziativa del Signore e la risposta dell'uomo, l'av-
vento e l'esodo, costituiscono le due coordinate — asimmetri-
che fra loro per l'eccedenza della Grazia — da cui scaturisce
il nuovo che la rivelazione trasmette e opera nella storia del mon-
do. La novità — assolutamente indeducibile e improgramma-
bile — del compimento sta nel fatto che tutto questo si realizza
ormai in maniera unica e definitiva in Gesù Cristo: è la "singo-
larità" del Crocefisso-Risorto il vero elemento di assolutezza
del cristianesimo, la pienezza che sorpassa ogni preparazione e
attesa. Questa "singolarità" significa che in Lui soltanto l'av-
vento divino si realizza in pienezza, perché Egli è l'autocomu-
nicazione personale di Dio, il Figlio che rivela il Padre nello
Spirito Santo; e significa anche che in Lui l'avvento ha assunto
e fatto proprio l'esodo della condizione umana, in modo tale
che nulla di ciò che è umano possa ormai più essere ritenuto
separato o estraneo all'amore di Dio. Gesù il Cristo è in perso-
na l'incontro dell'avvento e dell'esodo, del divino venire e del-
l'umano andare, l'universale concreto e personale, in cui la verità
133
divina si "destina" per fondare l'unità di "già" e di "non anco-
ra", sulla quale si costruisce e si situa ogni storia di libertà fini-
ta w. In Lui la rivelazione ha raggiunto, perciò, la sua insupe-
rabile pienezza: al di fuori di Lui nessuna via è aperta al Padre,
che realizzi come avviene in Lui l'incontro salvifico. Veramen-
te Egli solo è « la via, la verità e la vita » (Gv 14,6), la rivelazio-
ne, il rivelato e il rivelante, tutto relativo al Padre da cui procede,
e tutto donato e reso presente nello Spirito, da Lui inviato.
134
primato divino nell'atto di rivelazione: dopo aver richiamato
la possibilità di una conoscenza naturale di Dio dalle cose crea-
te — in riferimento a Rm 1,20 —, la Costituzione dommatica
« Dei Filius » sulla fede cattolica prosegue: « Piacque alla sua (di
Dio) sapienza e bontà rivelare al genere umano per altra via,
e questa soprannaturale, se stesso e gli eterni decreti della sua
volontà... A questa divina rivelazione è da attribuirsi il fatto
che ciò che nelle cose divine di per sé non è irraggiungibile dal-
la ragione umana, nella presente condizione del genere umano
possa essere conosciuto da tutti prontamente, con sicura cer-
tezza e senza alcun errore. Tuttavia non per questa causa la ri-
velazione è da dirsi assolutamente necessaria, ma perché Dio
nella sua infinita bontà ordinò l'uomo a un fine soprannatura-
le, a partecipare cioè ai beni divini, che superano del tutto l'in-
telligenza della mente umana; infatti occhio non vide, né orecchio
udì, né mai entrarono in cuore di uomo le cose che Dio ha pre-
parato per coloro che lo amano (lCor 2,9) » li. Il Concilio di-
fende il primato di Dio nell'evento rivelativo — senza negare
per questo una via naturale alla conoscenza di Lui, resa più fa-
cilmente praticabile dal dono della rivelazione — attraverso la
chiara affermazione della necessità assoluta della rivelazione stes-
sa: non è soprannaturale solo il modo dell'autocomunicazione
divina, ma anche e specialmente il suo contenuto ultimo, che
supera del tutto le capacità conoscitive dell'uomo. È questa inat-
tingibilità del Mistero assoluto, è questa irriducibilità del divi-
no al mondano, è questa forte e pura trascendenza dell'Eterno,
che rende necessaria la rivelazione per il conseguimento del fi-
ne soprannaturale, cui il Signore nella sua infinita bontà ha chia-
mato l'uomo.
La chiara affermazione della necessità dell'evento rivelativo,
come espressione dell'assoluto primato di Dio in esso, si con-
giunge così alla determinazione della trascendenza dell'oggetto
puro della rivelazione: Dio non rivela solo qualcosa di sé o dei
decreti della Sua volontà, ma se stesso. Il Vaticano I è su que-
sto punto non meno esplicito del Vaticano II: « Piacque alla sua
sapienza e bontà rivelare al genere umano... se stesso e gli eterni
decreti della Sua volontà ». Il Vaticano II, tuttavia, precisa ul-
teriormente il carattere personale del soggetto e dell'oggetto di-
vino della rivelazione: « Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza
16
DS 3004s. La Costituzione fu promulgata nella Sessione III, il 24 aprile 1870.
135
rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cfr.
Ef 1,9) »17. L'evidenza data al termine personale "Dio", piut-
tosto che ai suoi attributi di sapienza e di bontà, e la scelta del-
l'espressione biblico-paolina "sacramentum" ( = "mistero")
contribuiscono ad affermare ancor più chiaramente come il Dio
personale sia al tempo stesso il vivente soggetto e l'oggetto tra-
scendente della rivelazione, che appare cosi in piena luce come
l'evento dell'autocomunicazione libera e gratuita di Lui agli uo-
mini. Inoltre, l'esplicitazione che segue nel testo del Vaticano
II evidenzia tutta la profondità personalistico-trinitaria dell'e-
vento rivelativo: « Mediante il quale ( = il mistero della sua vo-
lontà) gli uomini per Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito
Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina
natura (cfr. Ef 2,18; 2Pt 1,4) ». L'evento trinitario dell'amore
eterno si rende accessibile per pura gratuità nell'atto della rive-
lazione: le divine Persone si aprono alla storia degli uomini e
l'accolgono, al tempo stesso in cui si comunicano ad essa. E per-
tanto fondato riconoscere fra i due Concili il passaggio da una
prospettiva maggiormente noetico-intellettualistica ad una più
storico-personalistica, anche se non va trascurata la profonda
continuità, soprattutto nell'affermazione del primato dell'av-
vento nella concezione dell'atto di rivelazione 1S. « Dio ha ri-
velato se stesso e gli eterni decreti della sua volontà: qui si
esprime appropriatamente il carattere locutorio, personale, sto-
rico ed evenenziale (della rivelazione), e non si può rimprove-
rare al Vaticano I... unilateralità e angustia di prospettiva. Il
Vaticano I è migliore della sua fama »19.
L'iniziativa divina nella rivelazione — precisata attraverso
la duplice affermazione del Dio vivente come soggetto e come
oggetto di essa — chiarisce dunque la forma della parola del-
l'autocomunicazione divina nel suo costitutivo e originario es-
sere "parola di Dio".
17
DV 2. Il confronto fra questo testo e quello del Vaticano I (DS 3004) è ancora
più chiaro nell'originale latino: Vaticano I: « ...placuisse eius sapientiae et bonitati...
se ipsum et aeterna voluntatis suae decreta humano generi revelare... »; Vaticano II:
« Placuit Deo in sua bonitate et sapientia Seipsum revelare et notum facere sacramen-
tum voluntatis suae »
« Cfr. su questo punto tra l'altro H. Bouillard, Le concepì de révélation de Vatican
là Vatican II, in Révélation de Vieu et langage des hommes, Paris 1972, 35-50; G. Vol-
ta, La nozione di rivelazione dal Vaticano I al Vaticano II, in La teologia italiana oggi,
Brescia 1979, 195-244.
19
H. Fries, Teologìa fondamentale, o. e, 418.
136
All'iniziativa dell'avvento corrisponde la risposta dell'uomo:
essa postula la possibilità che la rivelazione raggiunga effettiva-
mente il suo destinatario in un modo a lui comprensibile e per
lui incisivo. Emerge qui il carattere di storicità dell'evento rive-
lativo, senza il quale nessuna accoglienza e nessun rifiuto sa-
rebbero possibili da parte della creatura, storicamente de-
terminata. Che la rivelazione si compia attraverso la parola uma-
na, e quindi nella mediazione della storicità, è già chiaramente
evidenziato dal Vaticano I: « Questa rivelazione soprannatura-
le... è contenuta nei libri scritti e senza scritto nelle tradizioni,
che ricevute dagli Apostoli dalla bocca di Cristo stesso, o da
essi trasmesse quasi di mano in mano sotto l'azione dello Spiri-
to Santo, giunsero fino a noi» 20 . La Parola divina si è come
"consegnata" nelle parole umane per dirsi « a noi uomini e per
la nostra salvezza ». Il Vaticano II esplicita questa mediazione
storica dell'autocomunicazione divina in tutta la sua complessi-
tà e ricchezza: « Questa economia della rivelazione avviene con
eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo che le
opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano
e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le
parole dichiarano le opere e fanno luce sul mistero in esse con-
tenuto» 21 . L'intimo rapporto di parola ed evento — che ri-
chiama la densità di significato del dabar veterotestamentario
e trova il suo compimento più alto e insuperabile nell'incarna-
zione del Verbo — mostra il carattere storico-sacramentale della
rivelazione. Pertanto, solo a condizione di non obliare il ruolo
decisivo della parola si può accettare la tesi della "rivelazione
come storia": «L'autorivelazione di Dio, secondo le testimo-
nianze bibliche, non è avvenuta direttamente — ad esempio al-
la maniera di una teofania —, ma indirettamente, attraverso
le gesta storiche di Dio »22. L'indiretto rivelarsi di Dio è inter-
pretato e chiarito dalla Sua parola, che a sua volta trova solidi-
tà e conferma nelle opere compiute dal Signore. In tal modo
la forma del linguaggio di Dio all'uomo investe tutte le dimen-
20
D5 3006: il Vaticano I cita qui testualmente il « Decretum de libris sacris et de
traditionibus recipiendis » del Concilio di Trento, Sessione IV dell'8 aprile 1546: DS
1501.
21
DV 2. R. Latourelle, Teologia della rivelazione, o. e, 322, osserva in proposito:
« È la prima volta che un documento del Magistero descrive cosi la rivelazione nel suo
esercizio concreto e in quella fase attiva che la porta all'esistenza ».
22
W. Pannenberg, Tesi dogmatiche sulla dottrina della rivelazione, in Rivelazione co-
me storia, Bologna 1969, 163 (Tesi 1).
137
sioni del suo comunicare, determinato sempre dalla concretez-
za dello spazio e del tempo, della corporeità e della sensibilità.
L'Altissimo si adatta alle capacità degli uomini, « nel suo im-
menso amore parla loro come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14s)
e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38) per invitarli e ammetter-
li alla comunione con sé» 23 .
E così che la rivelazione viene ad assumere un carattere dia-
logico, interpersonale: in quanto la forma in cui essa si compie
è "parola di Dio", mediazione storica dell'Eterno, l'ascolto e
la risposta dell'uomo sono possibili, e lo "scambio" salvifico fra
la povertà della creatura e la generosità del Creatore si realizza.
« Dio stesso per primo viene a noi, entra in comunicazione per-
sonale con l'uomo come un soggetto con un soggetto, come un
io con un tu. La rivelazione, personale come interpellazione,
chiede anche una risposta personale»24. Si stabilisce così un
"colloquium salutis", che non solo rende possibile l'incontro
dell'avvento con l'esodo della condizione umana, ma stabilisce
fra gli uomini stessi una comunicazione nuova, fondata nella
comune povertà davanti al Mistero, ma anche e soprattutto nella
comune partecipazione all'unità dinamica e feconda della vita
divina. Inoltre, l'ingresso della Parola divina nella dialogicità
umana rende anche ragione dell'aspetto noetico e veritativo che
la rivelazione porta con sé: come fra gli uomini la parola è al
tempo stesso veicolazione di un contenuto, interpellazione e sve-
lamento personale25, così la parola della autocomunicazione di-
vina non solo rende accessibile all'uomo la vita eterna, non solo
lo interpella chiamandolo ad essa, ma anche gli manifesta 1'"an-
tropologia di Dio", la Sua verità sulla vita e sul mondo, e quin-
di il suo disegno salvifico sugli uomini e sulla storia. Questo
aspetto anche noetico della parola di rivelazione non è trascu-
rato neanche dal Vaticano II, che riprende e conferma gli as-
serti del Vaticano 126: senza questa accondiscendenza divina a
entrare nella forma del discorso, la rivelazione risulterebbe del
tutto irragionevole e incomprensibile. Come però la Parola parla
nelle parole umane comunicandosi in esse, ma al tempo stesso
trascendendole, così Dio Verità si comunica attraverso le veri-
tà rivelate, restando al tempo stesso oltre e più di esse. Perciò
23
DV 2.
24
R. Latourelle, Teologia della rivelazione, o. e, 355.
25
Cfr. ìb., 363 ss. Cfr. K. Buhler, Sprachtheorie, Jena 1934, 2.28-33.
26
Cfr. DV 6 e DS 3004 e 3005.
138
l'obbedienza della fede non si ferma agli enunciati veritativi,
ma va attraverso di essi e oltre essi al mistero del Dio persona-
le: « L'atto del credente non si ferma all'enunciato, ma alla real-
tà »27. « A Dio che rivela è dovuta l'obbedienza della fede (cfr.
Rm 16,26; rif. Rm 1,5; 2Cor 10,5s), con la quale l'uomo si ab-
bandona tutto a Dio liberamente, prestando il pieno ossequio
dell'intelletto e della volontà al Dio rivelante, e assentendo vo-
lontariamente alla rivelazione data da lui »28.
Dall'incontro fra l'iniziativa divina e la risposta umana nel-
l'evento della rivelazione scaturisce il "novum", che l'avvento
soltanto può produrre nell'esodo. In questo senso si può dire
che la rivelazione è incontro, mistero di alleanza, Parola di Dio,
nella forza di entrambi i termini di questa espressione, e perciò
esperienza del "nuovo" di Dio nell'antico degli uomini, dell'e-
ternità nel tempo, della vita nella morte. E l'esperienza di una
reale reciprocità, che tuttavia è e resta asimmetrica, perché l'ini-
ziativa e il primato sono del tutto dalla parte del Dio vivo: è,
perciò, una reciprocità che sovverte il cuore dell'uomo e lo apre
alle sorprese dell'Altissimo, in una effettiva trasformazione della
vita e del proprio mondo vitale. L'esodo dell'Eterno da sé per
aver tempo per l'uomo sollecita e può realizzare un esodo senza
ritorno della creatura da se stessa per aver tempo per Dio: in tal
senso, caratteristica dell'incontro con la Parola è la responsabilità
che esso determina e la gravità dell'opzione cui chiama. L'espe-
rienza umana dell'autocomunicazione divina non lascia l'uomo
come lo ha trovato: essa è trasformante, sovversiva, inquietante,
e proprio per questo veramente liberante. Questa esigitività tocca
il suo vertice nella pienezza della storia di rivelazione, lì dove Dio
si è definitivamente e totalmente impegnato per l'uomo, nell'e-
vento dell'incarnazione della Parola: Cristo è colui che « compie
e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divi-
na, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato
e della morte e risuscitarci per la vita eterna ». Perciò, in quanto
alleanza nuova e definitiva, « l'economia cristiana... non passe-
rà mai, e non è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pubblica
prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù
Cristo (cfr. lTm 6,14 e Tt 2,13) »29. Davanti a questa totale
27
« Actus autem credentis non terminatur ad enuntiabile, sed ad rem »: S. Tom-
maso, Summa Theologiae Ila Ilae q. 1 a. 2 ad 2um.
2 8 D V 5 : cfr. DS3008.
29 DV 4.
139
compromissione di Dio per amore del mondo, che non vanifica
la Sua trascendenza, ma la impegna fino in fondo per l'uomo,
la storia non può più restare la stessa: la Parola di rivelazione
diventa criterio di giudizio, pietra di inciampo, Vangelo di sal-
vezza. Il testimone che l'annuncia può, perciò, paragonarsi al
profumo di vita o di morte: « Siano rese grazie a Dio, il quale
ci fa partecipare al suo trionfo in Cristo e diffonde per mezzo
nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero! Noi
siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo fra quelli che
si salvano e fra quelli che si perdono; per gli uni odore di morte
per la morte e per gli altri odore di vita per la vita» (2Cor
2,14-16).
La decisività dell'offerta, che si affaccia nell'evento di rive-
lazione, esige anche che la sua accoglienza non resti nel chiuso
del mondo interiore di colui che l'accoglie: l'incontro col Dio
vivente richiede di divenire testimonianza e missione. Il testi-
mone non è relativo a se stesso, ma rimanda a un altro: la Paro-
la di Dio, accolta nel profondo del cuore, rende il discepolo
relativo al Maestro, l'uditore della Parola relativo alla Parola
stessa. L'esperienza umana dell'autocomunicazione divina è in
tal senso contagiosa e diffusiva di sé: il Vivente, che raggiunge
l'uomo e gli parla, lo rende vivente, servo della Parola, testi-
mone di Lui. La novità di Dio viene a esprimersi nella novità
della vita. Dall'incontro scaturiscono lo slancio e la passione mis-
sionaria. Qui appare in tutta la sua evidenza il dinamismo della
rivelazione: frutto delle missioni trinitarie, essa suscita l'evan-
gelizzazione e il servizio, trasforma la vita e produce libertà e
speranza nel cuore del discepolo. La testimonianza dei viventi
è iniziata e fondata nella testimonianza del Vivente, l'unica Pa-
rola eterna del Padre, procedente dal Silenzio e venuta nella
storia per la vita del mondo. La rivelazione attinge così la sua
finalità più piena: rendere gli uomini partecipi della comunione
divina e, in essa, delle missioni con cui l'amore trinitario di Dio
raggiunge e salva le sue creature.
La forma della rivelazione — quale si ricava dall'evento del-
la piena e definitiva autocomunicazione di Dio in Cristo, Paro-
la fatta carne — presenta dunque i caratteri della "Parola di
Dio", in tutta la complessa densità di questa espressione. "Pa-
rola di Dio", la rivelazione ha per soggetto e per oggetto il Dio
vivente e il mistero della Sua volontà; "Parola di Dio", essa
è al tempo stesso storica e dialogica, veritativa e interpersona-
le
le; "Parola di Dio", essa è incontro trasformante, che suscita
la testimonianza e la missione, definitiva offerta dell'avvento
che pone l'esodo della condizione umana di ogni situazione sto-
rica di fronte alla decisione salvifica, che cambia il mondo e la
vita.
141
10.
ACCOGLIERE LA PAROLA
142
storia della salvezza, per percorrere poi, nello stesso orizzonte
di lettura e celebrazione credente, l'itinerario inverso che dalle
opere della creazione giunge alla confessione dell'esistenza e al-
la glorificazione del Dio dell'universo (cfr. Sai 8; 19; 29; 104;
148). Per questo è stolto chi pensa: « Non c'è Dio » (Sai 14,1),
chiuso al bene e cieco davanti ai benefici di Colui, che è la « sal-
vezza d'Israele » (v. 7). E stolto chi non sa leggere le meraviglie
dell'Altissimo, Dio di amore e di bontà, non solo nell'opera della
redenzione, ma anche in quella della creazione, come rileverà
la riflessione veterotestamentaria più tardiva: « Davvero stolti
per natura tutti gli uomini che vivevano nell'ignoranza di Dio,
e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbe-
ro l'artefice, pur considerandone le opere... Difatti dalla gran-
dezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore »
(Sap 13,1.5).
Nel Nuovo Testamento il rapporto fra creazione e redenzio-
ne è già implicitamente valorizzato nei discorsi di Gesù, in cui
il mondo è visto quale parabola della signoria divina e della sal-
vezza escatologica. Le esperienze quotidiane sono richiamate
dal Nazareno per rendere accessibile il suo messaggio e a loro
volta vengono illuminate dalla proclamazione dell'avvento del
Regno. Gli stessi miracoli — compiuti per manifestare sensi-
bilmente la Gloria dell'avvento e stimolare o confermare l'as-
senso della fede (cfr. Gv 2,11) — implicano una valorizzazione
del diritto della creatura umana a compiere un ossequio ragio-
nevole di fronte alla rivelazione del Mistero: i "segni di credi-
bilità" non costringono alla fede, né la producono deduttiva-
mente, ma contribuiscono a renderla possibile all'uomo, dota-
to da Dio di una recettività intelligente e libera2. Nei discorsi
missionari degli Atti degli Apostoli Paolo evidenzia come il Si-
gnore dia prova di sé nella natura e nella storia (cfr. At 14,16s;
17,22-28), mentre nelle Lettere parla della conoscenza di Lui
possibile a partire dalla realtà creata, specialmente dalla coscien-
za: « Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro (agli uomini)
manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla crea-
zione del mondo in poi, le sue perfezioni visibili possono essere
contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come
la sua eterna potenza e divinità » (Rm l,19s). « Quando i paga-
ni, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la leg-
2
Cfr. H. Fries, Teologia fondamentale, Brescia 1987, 378ss.
143
gè, essi, pur non avendo la legge, sono legge a se stessi; essi di-
mostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come
risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi
ragionamenti, che ora li accusano, ora li difendono » (Rm 2,14s).
Perfino Giovanni, che imposta il suo Vangelo sulla "crisi" che
si determina nell'impatto fra la luce e le tenebre in cui essa vie-
ne, presenta un'accezione positiva del mondo accanto a quella
negativa: lo stesso mondo che odia Cristo e i suoi (cfr. Gv 7,7;
15,18) è stato fatto per mezzo del Verbo (cfr. 1,10) ed è amato
da Dio al punto che Dio ha dato suo Figlio e lo ha inviato non
per giudicare il mondo, ma per salvarlo (cfr. Gv 3,16s) e perché
il mondo riconosca Gesù e Colui che lo ha mandato (cfr. 14,31
e 17,23). Peraltro, l'intera economia dei segni, che struttura il
quarto Vangelo, suppone una valorizzazione delle realtà mon-
dane come veicolo possibile dell'epifania di Dio.
Il Concilio Vaticano I, che aveva rifiutato il razionalismo in-
filtratosi anche nella teologia cristiana, rigetta non di meno, sul
versante opposto, il fideismo e il tradizionalismo, che vorreb-
bero Dio accessibile solo mediante la fede e la tradizione
religiosa3: non solo si ribadisce che l'atto di fede è un «osse-
quio consentaneo alla ragione » 4 , ma viene anche affermata la
possibilità di conoscere Dio partendo dalle realtà create: « La
santa madre Chiesa ritiene e insegna che Dio, principio e fine
di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza col lume na-
turale della ragione umana partendo dalle realtà create» 5 . Di
questa conoscenza si afferma la possibilità, non il fatto: « Il dog-
ma del concilio Vaticano I è un enunciato di tipo teologico-
trascendentale, che riguarda cioè la condizione di possibilità che
la fede stessa suppone. Qui si vuol mettere in evidenza la re-
sponsabilità dell'uomo sia per la fede che per l'incredulità, e così
pure la ragionevolezza e l'onestà intellettuale della fede » 6 . Il
Vaticano II riprenderà le affermazioni del Vaticano 1 7 , senza
3
I nomi sono quelli di Lamennais, Bautain, Bonnetty, de Bonald: cfr. l'Enciclica
Mirari vos arbitramur del 15 agosto 1831: D5 2730-2732; le tesi sottoscritte dal Bautain
(8 settembre 1840): DS 2751-2756; l'Enciclica Quipluribus del 9 novembre 1846: DS
2775ss.
4
Costituzione dogmatica Dei Filius sulla fede cattolica, cap. 3 De fide: DS 3009.
Il testo rimanda a Rm 12,1.
Ub. , cap. 2 De revelntioue\ DS 3004. Sul rapporto fede e ragione cfr. il cap. 4 della
stessa Costituzione: DS 3015ss.
6
W. Kasper, Il Dio di Gesù Cristo, o. e, 103.
7
Cfr. Dei Verbum, 6.
144
però armonizzare fino in fondo la prospettiva storico-salvifica,
da esso prescelta, con quella teologico-trascendentale della Dei
Filius, lasciando così aperto il compito di pensare la mediazio-
ne fra i presupposti trascendentali della fede e la concretezza
della storia e della situazione salvifica in cui l'uomo è posto.
Questa mediazione è possibile proprio partendo dall'idea di
rivelazione come "parola di Dio": in quanto tale, l'autocomu-
nicazione divina si serve di mediazioni storico-concrete e sup-
pone nel destinatario la capacità di percepire attraverso di esse
il mistero che ci viene proposto. E, insomma, la stessa destina-
zione trascendente della parola storica del Dio vivo che sup-
pone un'apertura trascendentale dell'uomo ad accoglierla, com-
prenderla e lasciarsene trasformare. In questo senso, non c'è op-
posizione alcuna fra "rivelazione storica" e "rivelazione
naturale", intendendo con quest'ultima la possibile apertura al
Mistero a partire dalle cose create: se ci fosse una simile oppo-
sizione la rivelazione sarebbe del tutto incomunicabile. D'altra
parte, la distinzione fra le due forme della comunicazione divi-
na non è meno forte della loro corrispondenza: il "nuovo" del-
la rivelazione soprannaturale, non solo riguardo alla modalità
di essa, ma anche riguardo al contenuto, è irriducibile a ciò che
l'uomo potrebbe raggiungere con le sue sole forze. Se così non
fosse, verrebbe meno proprio il primato dell'iniziativa divina,
su cui tanto insiste la testimonianza biblica riguardo alla parola
di rivelazione. Si potrebbe allora concludere che fra "rivelazio-
ne naturale" e "rivelazione storica" c'è un rapporto di conti-
nuità nell'infinito superamento della seconda rispetto alla prima.
Se la "rivelazione storica" conferma i contenuti di verità della
"rivelazione naturale", accessibili alla sola ragione, rendendoli
di fatto accessibili e certi, essa ne nega non di meno i limiti di
ambiguità e di errore e la trascende immensamente nell'apertura
e nella comunicazione delle profondità del mistero divino. Questo
rapporto dialettico è fondato sul primato dell'avvento: se Dio
viene all'uomo, lo fa valorizzando un punto di aggancio da Lui
stesso creato e posto nella sua creatura. Bestemmia non è dunque
l'affermare un presupposto naturale dell'autocomunicazione so-
prannaturale, ma, esattamente all'opposto, il negarlo8. Anche
8
È qui il punto che non risulta chiaro in K. Barth nella sua polemica contro la "teo-
logia naturale" : cfr. Nein! Antwort art EmilBrunner, Miinchen 1934, testo che va però
compreso nel contesto della polemica contro la "teologia naturale" strumentale dei
Cristiano-tedeschi di ispirazione nazional-socialista.
145
nel rapporto fra le capacità umane e la rivelazione divina la gra-
zia presuppone la natura, non la elimina né distrugge9!
9
Secondo il noto assioma scolastico: cfr. J. Ratzinger, Gratta praesupponit naturarti,
inld., Dogma epredicazione, Brescia 1974, 137-154; B. Stòckle, Gratta supponit natu-
rarti. Geschichte una Analyse eines theologischen Axìoms, Roma 1962; B. Forte, Trinità
come storia, Milano 1985, 172ss.
10
Cfr. su questo punto ad esempio J. Alfaro, L'uomo aperto alla rivelazione di Dio,
in Id., Rivelazione cristiana, fede e teologia, Brescia 1986, 9-66.
146
È sulla via di questa "destinazione" che è possibile ricono-
scere un "essere implicito" di Dio nel creato, un originario e
costitutivo esser-fatto-per-Lui della creatura razionale, che non
dà pace al cuore dell'uomo: «Hai fatto il nostro cuore per Te,
ed è inquieto il nostro cuore fino a che non riposi in Te » u .
« Questo "essere implicito" di Dio non è altro che la forma della
rivelazione di Dio nella creazione: svelato in un velamento sem-
pre più grande. Realizzando il contenuto del "concetto" Dio,
la creatura spirituale perviene al tempo stesso all'evidenza che
Dio può apparirle nel suo conoscere e nel suo amore solo come
colui che, in quanto causa libera del tutto, si sottrae sempre di
più ad ogni percezione interna all'oggetto finito e alla struttura
finita dello spirito. Si compreheniìs non est Deus. Il mistero del-
l'essere che si rivela invita lo spirito creato ad affidarsi e conse-
gnarsi, via da sé e al di là di sé, al mistero »12. Dio è il mistero
del mondo, verso la cui trascendenza e inesauribile ulteriorità
orienta la parola storica dei profeti nella rivelazione biblica; Lui
solo è l'oltre e il nuovo, il "totalmente Altro", verso cui muove
la nostalgia delle nostre esistenze finite ".
Ora, questa apertura al Mistero è contemporaneamente aper-
tura a un accadimento, in cui la "destinazione" originaria della
creatura venga raggiunta e segnata da una indeducibile "dona-
zione": non da quella permanente e silenziosa dell'essere che
accade nel linguaggio14, ma da una donazione non prevedibile
e non prevista, veramente altra, e proprio per questo nuova e
gratuita e capace di trasmettere il Mistero in quanto tale. Que-
sto "avvento della donazione" è riconosciuto dalla fede rivela-
ta nella 'Parola di Dio, in quanto libera e sonora autocomu-
nicazione di Lui, mistero del mondo trascendente il mondo, rea-
lizzata mediante parole umane. Il carattere, che rende questa
rivelazione riconoscibile, è indicabile a partire dalla "destina-
zione" originaria dell'essere umano al Mistero nel segno del nuo-
vo e del meraviglioso, del non deduttivo e del non programmato:
l'avvento sovverte le catture dell'attesa, non è risposta alla do-
1:
« Fecisti cor nostrum ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in
Te »: S. Agostino, Confessione!, I, 1. Cfr. pure S. Tommaso, De ventate, 22, 2c e ad
lum: « Omnia naturaliter appetunt Deum implicite ».
12
H. Urs von Balthasar, Gloria. I: La percezione della forma, Milano 1971, 419.
13
Cfr. E. Jiingel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982 e M. Horkheimer, La no-
stalgìa del totalmente altro, Brescia 1972.
14
Cfr. quanto detto sul "silenzio dell'essere" in M. Heidegger.
147
manda, ma sovversione di essa, e risposta al livello più alto del
cambiamento del cuore. Tutto ciò che è semplice prodotto del-
l'uomo, espressione della sua progettualità ed estensione del suo
desiderio, appartiene al mondo penultimo: ciò che nasce dall'e-
sodo umano è inevitabilmente ripetitivo dell'antico. Caratteri-
stica dell'avvento è invece la sua carica di sorpresa e di
improgrammabilità, che offre l'accesso al Mistero proprio per-
ché non lo riconduce agli schemi del già visto e del già possedu-
to. Il segno di credibilità dell'"avvento della donazione" viene
così a identificarsi per eccellenza nel ''miracolo", specialmente
nel "miracolo dei miracoli", che è la resurrezione di Cristo, ir-
ruzione del nuovo nell'antico del mondo, epifania dell'Eterno
nella fragilità del tempo.
Il miracolo non "produce" la fede, ma attesta la credibilità
dell'autenticità della donazione che si compie nell'atto rivelati-
vo, accompagnando gli eventi dell'autocomunicazione divina:
il miracolo è ciò che colma di meraviglia e di stupore con la sua
novità, e come tale è il segnale dell'avvento, l'indicazione che
ciò che la rivelazione offre nelle coordinate di questo mondo
viene da altrove ed è infinitamente più grande dell'orizzonte
mondano. Al tempo stesso il miracolo rinvia all'eccedenza del
"non ancora" promesso nell'avvento "già" in atto, è nell'ordi-
ne dei "signa prognostica", prefigurazione, anticipazione del
futuro dischiusosi nella Parola di rivelazione, che è Cristo, alba
della nuova creazione I5. Segno dell'irruzione della novità pre-
sente e futura dell'avvento nel tempo dell'esodo, il miracolo non
è prova di forza, ma segnale, invito, traccia, motivo di credibi-
lità: come è evidente nel miracolo che illumina e dà senso a tut-
ti gli altri, l'evento del risuscitamento dai morti del Crocifisso,
all'iniziativa divina che in esso si compie deve rispondere un
processo di riconoscimento da parte dell'uomo, in cui la gratui-
tà e la libertà dell'assenso sono pienamente rispettate e chia-
mate in causa.
15
Sul "miracolo" come segno di credibilità della rivelazione cfr. ad esempio R. La-
tourelle, Teologia della rivelazione, Assisi 1967, 447ss, e H. Fries, Teologia fondamen-
tale, o. e, 378ss. Sui miracoli nel Nuovo Testamento e il loro rapporto con la cristologia
cfr. B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Roma 1981, 217ss.
148
e) "Avvento della donazione" e "auto-destinazione" dell'uomo
149
ascoltatori, illudendo voi stessi. Perché, se uno ascolta soltanto
e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osser-
va il proprio volto allo specchio: appena s'è osservato, se ne va,
e subito dimentica com'era» (Gc 1,22-24). L'uditore della Pa-
rola — che non l'accoglie nella verità del dono di sé — resta
prigioniero del proprio mondo, chiuso nell'esodo in cui si ri-
specchia, non aperto alla novità dell'avvento, che sola compie
il miracolo del nuovo inizio della vita e del mondo. « Chi inve-
ce fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e
le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno
che la mette in pratica, questi troverà la felicità nel praticarla »
(Gc 1,25). L'accoglienza operosa della Parola trasforma l'uomo
nel profondo, lo libera nella forza della verità, lo fa vero disce-
polo del Signore: « Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete dav-
vero miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi »
(Gv 8,3ls). L'"esistenza accolta", propria di Gesù, Verbo in-
carnato, si fa "esistenza accolta", e perciò fino in fondo dona-
ta, del discepolo che, accogliendo la Parola nella verità della
donazione di sé a Dio e agli uomini, si lascia "dire" dal Padre
nel Figlio come vivente parola della carità divina rivolta all'u-
mile concretezza delle situazioni della storia. L'accoglienza della
Parola prepara e anticipa così nel tempo penultimo l'ultimo tem-
po, quando le parole scompariranno, accolte nell'unica Parola,
abbracciata dal Silenzio della Patria:
« Quando dunque arriveremo alla Tua presenza,
cesseranno queste molte parole,
che diciamo senza giungere a Te;
Tu resterai, solo,
tutto in tutti,
e senza fine diremo
una sola parola,
lodandoTi in un unico slancio,
divenuti anche noi
una sola cosa in Te »1?.
150
L' INCONTRO
11.
151
sul Silenzio e sulla Parola, non approfondisse anche il mistero
del loro Incontro nel tempo e nell'eternità.
Il Nuovo Testamento presenta lo Spirito al tempo stesso co-
me Colui che "apre" il divino, perché rende possibile la dolo-
rosa consegna della Croce in cui Dio si fa solidale con i senza
Dio e i maledetti da Dio (cfr. Gv 19,30), e Colui che "unifica"
il separato e il diviso, perché nell'ora pasquale congiunge il Pa-
dre al Figlio e, nel Figlio, ai peccatori, lontani resi vicini nel
sangue del Crocifisso (cfr. Rm 1,4; Ef 2,13ss) '. «Queste due
funzioni dello Spirito, aprire il mondo di Dio al mondo degli
uomini fino a rendere possibile l'ingresso del Figlio nell'esilio
dei peccatori, e unificare il diviso, com'è nell'ora della riconci-
liazione pasquale, si ritrovano in tutta la storia della salvez-
za » 2 . In base al principio fondamentale della corrispondenza
fra rivelazione e profondità immanente del Mistero, fondato sulla
indefettibile fedeltà di Dio 3 , è possibile chiedersi — nella di-
screzione e modestia dell'analogia, attenta a non risolvere l'av-
vento divino nell'esodo umano — a quale proprietà eterna dello
Spirito corrisponda la Sua duplice azione nella storia. Questo
passaggio dall'economia all'immanenza divina, dal "Deus reve-
latus" al "Deus absconditus", consente di scrutare il fondamento
trascendente del rapporto fra la Parola e il Silenzio, colto pro-
prio nello Spirito della loro unità e della loro apertura.
152
dito compie nell'evento del risuscitamento del Crocefisso e nella
sua effusione su ogni carne, per riconciliare i peccatori con Dio.
Spirito della comunione (cfr. 2Cor 13,13), che fonda l'unità dei
carismi nell'unico Corpo del Signore, che è la Chiesa (cfr. ICor
12,4) e riversa l'amore di Dio nei nostri cuori (cfr. Rm 5,5),
10 Spirito Santo è colto nelle profondità divine come «l'amore
donato dall'Amante e accolto dall'Amato, altro dal Padre per-
ché ricevuto dal Figlio, altro dal Figlio perché donato dal Pa-
dre, uno con loro perché amore donato e ricevuto nell'unità del
processo dell'amore eterno» 4 . «Lo Spirito è dunque una cer-
ta quale ineffabile comunione del Padre e del Figlio {ineffabili*
quaedam communio) »': distinto da loro in quanto procedente
come comunione dell'uno e dell'altro, nesso o vincolo del loro
reciproco amarsi, amore dell'Amato e dell'Amante, non confon-
dibile con l'essenza divina, che è amore, perché è amore perso-
nale scaturente dalla reciprocità delle relazioni del Padre e del
Figlio, noi in persona della comunione divina, lo Spirito è ado-
rato e glorificato in una con loro, perché è Dio come loro, sullo
stesso piano dell'essere divino nell'eterno evento dell'amore.
« Crediamo che lo Spirito Santo, il quale è la terza persona del-
la Trinità, è Dio uno ed eguale con Dio Padre e Figlio, di una
stessa sostanza e anche di una stessa natura; però non è genera-
to né creato, ma procedente da entrambi, Spirito dell'uno e del-
l'altro» 6 . «Questo Spirito Santo, secondo le Sacre Scritture,
non è lo Spirito soltanto del Padre, né soltanto del Figlio, ma
di ambedue, e perciò ci fa pensare alla carità comune con la quale
si amano vicendevolmente il Padre e il Figlio» 7 .
Vinculum caritatìs aeternae, legame dell'eterno amore, lo Spi-
rito è dunque al tempo stesso Colui che unisce l'Amante e l'A-
mato e Colui che in rapporto ad essi si distingue nella sua
specificità personale: « Sia egli infatti l'unità dell'uno e dell'al-
tro, o la loro santità o il loro amore, sia la loro unità perché
4
Trinità come storia, o. e, 133. Sulla teologia dello Spirito cfr. tra l'altro L. Bouyer,
11 Consolatore, Roma 1983; S. Boulgakov, UParaclito, Bologna 1971; Y. Congar, Cre-
do nello Spirito Santo, 3 voli., Brescia 1982-83; P. Evdokimov, Lo Spirito Santo nella
tradizione ortodossa, Roma 1971; H. Miihlen, DerHeilige Geistals Person, Miinster 1963.
Sul confronto fra le teologie trinitarie di Oriente e di Occidente è classica l'opera di
Th. de Régnon, Etudes de théologie positive sur la sainte Trinile, Paris I-li 1892; III-IV
1898, le cui tesi, tuttavia, non sono esenti da una certa semplificazione.
5
S. Agostino, De Trinitate, 5, 11, 12.
6
Concilio XI di Toledo (675): DS 527.
7
S. Agostino, De Trinitate, 15, 17, 27.
153
è il loro amore e sia il loro amore perché è la loro santità, è chiaro
che non è uno dei due colui nel quale l'uno e l'altro sono con-
giunti e il generato è amato dal generante e ama colui che lo ge-
nera... » 8 . E in questa luce che emerge l'idea della processione
dello Spirito dal Padre e dal Figlio (Filioque), dal dialogo eterno
del loro amore, dal loro faccia a faccia, che è reciprocità nel dono,
gratuità e gratitudine, sorgività e accoglienza reciproche: « Se in-
fatti il Figlio tutto ciò che ha lo ha dal Padre, riceve anche dal
Padre che lo Spirito Santo proceda pure da Lui... Il Figlio è nato
dal Padre, lo Spirito Santo procede principalmente iprincipaliter)
dal Padre e, per il dono che il Padre ne fa al Figlio senza alcun
intervallo di tempo, procede insieme {communiter) dall'uno e dal-
l'altro » 9 . La teologia latina farà propria questa prospettiva, che
viene a colmare il silenzio del Simbolo niceno-costantinopolitano
sul rapporto fra il Figlio e lo Spirito: il Filioque entrerà nel Cre-
do, quasi a caratterizzare l'ampiezza e la pregnanza con cui la
contemplazione teologica dello Spirito come unità e pace del-
l'Amato e dell'Amante è penetrata nella spiritualità e nella rifles-
sione di fede dell'Occidente 10. « Crediamo anche che questo
Spirito Santo non è né ingenerato né generato, per non affer-
mare due Padri, se lo dicessimo ingenerato, o non mostrare di
predicare due Figli, se lo dicessimo generato; si dice tuttavia che
non è lo Spirito del Padre soltanto né del Figlio soltanto, ma insie-
me del Padre e del Figlio. Infatti non procede dal Padre nel Figlio,
né procede dal Figlio per santificare la creatura, ma si dimostra
che procede insieme dall'uno e dall'altro, perché si riconosce che
la carità e la santità sono dell'uno e dell'altro » u. Lo Spirito, Si-
gnore e datore di vita, « ex Patre Filioque procedit »12.
Che cosa implica questa forte sottolineatura del ruolo di uni-
tà che lo Spirito svolge nell'immanenza del mistero divino per
la concezione del rapporto fra il Padre, eterno Silenzio dell'Ori-
gine, e il Figlio, Parola eterna? Quali conseguenze ha per questa
stessa concezione il legame peculiare che il Filioque riconosce
fra la Parola e lo Spirito?
8
ft., 6, 5, 7.
9
Ih., 15, 26, 47.
10
Sulla questione del filioque e la sua rilevanza ecumenica cfr. Trinità come storia,
o. e, 116-132, con bibliografia.
11
Concilio XI di Toledo: DS 527.
12
Al testo del Simbolo niceno-costantinopolitano (381) il Filioque fu aggiunto nel-
la redazione latina formalmente non prima del 1014, anche se la formula risale già al
IV secolo: cfr. Trinità come storia, o. e, 120, n. 68.
154
Se lo Spirito viene colto come il nesso di unità fra l'Amante e
l'Amato nella distinzione personale fondata sulla reciprocità delle
relazioni, si può affermare analogamente di Lui che è il vincolo
della Parola e del Silenzio, il loro legame in persona. Questo
legame personale, che esprime la comunione nell'incancellabile
distinzione delle persone, può essere reso con la categoria del-
Yincontro: essa dice anzitutto la condizione di possibilità dello
scambio dialogico della gratuità del Generante e della gratitudine
del Generato, perché senza incontro non c'è comunicazione pro-
fonda e reale; e dice quindi il mantenimento delle distinzioni
personali, il rifiuto della confusione indifferenziata, in cui l'uno
riduca semplicemente a sé l'altro. Inoltre, in quanto applicato alla
terza Persona divina, l'incontro viene a caratterizzarsi come "per-
sonale" al grado più alto, al punto che lo Spirito non è semplice-
mente l'evento dell'incontrarsi eterno del Padre e del Figlio, il
loro amore essenziale o la loro comune natura divina, ma l'In-
contro in persona, il loro amore in quanto ricevuto dal Figlio e do-
nato dal Padre, la loro unità relazionale, che non cancella, ma va-
lorizza nella maniera più alta la distinzione delle Persone. Il Si-
lenzio, nello Spirito dell'unità, si incontra con la Parola nell'atto
eterno del proferirla, come Silenzio che genera e inabita il Verbo,
ma non si risolve in Lui. La Parola, nello stesso Spirito, si in-
contra col Silenzio nell'atto di essere proferita, come Parola gene-
rata e totalmente accogliente, che tuttavia non si identifica per-
sonalmente con il Silenzio. L'Incontro, d'altra parte, non è il Si-
lenzio, perché non è l'Origine da cui procede la Parola; non è la
Parola, perché non è il Generato, procedente dal silenzio fecondo
del Padre; distinto dal Verbo e dal Silenzio, l'Incontro divino
personale scaturisce dal loro reciproco darsi, unità e pace della
Parola e della Sua Sorgente eterna. In tal senso, l'Incontro è si-
lenzio, perché si consuma nell'atto della donazione, che ha origi-
ne dal Padre, ed è parola, perché si realizza nell'atto dell'acco-
glienza, che costituisce il Figlio. L'Incontro è Yaltro Silenzio, la
Parola che si fa risposta, il Verbo che risuona e riposa nella pace
del silente inizio: « Perché l'Apostolo non parla dello Spirito San-
to (in passi come ICor 3,22ss o ICor 11,3)? Forse perché ovun-
que si nomina una realtà unita ad un'altra con una pace così
profonda che di queste due se ne fa una, si deve di conseguen-
za pensare a questa stessa pace, sebbene non menzionata? »13.
13
S. Agostino, De Trinitate, 6, 9, 10.
155
L'Incontro divino personale è l'eloquente tacere o il dire silen-
te della comunione del Padre e del Figlio, del Silenzio fontale
e della Sua Parola.
Da queste riflessioni emergono i caratteri propri dello Spiri-
to, come Incontro eterno: personale al livello più alto, l'Incon-
tro divino è non di meno comunionale e unificante. L'Incontro
è personale al massimo perché non solo non mortifica la distin-
zione fra Coloro che si incontrano, ma è costituito esattamente
dall'insieme delle relazioni, da cui procede nell'eternità divina
la terza Persona. E Tommaso d'Aquino, che con straordinario
rigore intellettuale approfondisce come l'Incontro eterno esprima
le tre Persone: « Pluralità di persone significa pluralità di rela-
zioni sussistenti, fra loro realmente distinte. La distinzione reale
fra le relazioni divine non si dà se non in ragione di un'opposi-
zione relazionale. Pertanto relazioni opposte appartengono a due
persone, relazioni non opposte sono necessariamente della stessa
persona. La paternità e la filiazione, in quanto relazioni oppo-
ste, necessariamente appartengono a due persone. La paternità
sussistente è la persona del Padre, la filiazione sussistente è la
persona del Figlio... La spirazione conviene tanto alla persona
del Padre quanto alla persona del Figlio, in quanto non si oppo-
ne relazionalmente né alla paternità né alla filiazione. Di con-
seguenza la processione conviene all'altra persona, che è la
persona dello Spirito Santo, che procede per modo di amo-
re» 14 . In altre parole, la spirazione "attiva", l'attivo incontrar-
si del Padre e del Figlio nel dialogo divino, coincide con le loro
rispettive specificità personali: essa è proferire la parola come
paternità, e procedere dal Silenzio come filiazione. E solo la spi-
razione "passiva", l'Incontro come amore personale distinto dal-
l'Amante e dall'Amato, relativo al Padre in quanto donato e
al Figlio in quanto ricevuto, che costituisce la relazione sussi-
stente della terza Persona divina. In quanto, poi, i Tre parteci-
pano dell'unica e medesima natura, che è l'amore come loro
essenza eterna, l'Incontro si produce al livello di unità più alto
che possa esistere, è Incontro sommamente unificante e comu-
nionale. Lo Spirito come Incontro divino mostra al tempo stes-
so come la vera unità non sopprima la distinzione personale e
l'autentica relazionalità delle Persone, nella loro irriducibile ori-
ginalità, non elimini la più alta e profonda unità. L'unità del
14
Summa Tbeologiae I q. 30 a. 2c.
156
Silenzio, del Verbo e dell'Incontro non sopprime pertanto la
specificità di ciascuna relazione sussistente, al tempo stesso in
cui la distinzione fra di essi non annulla la loro profondissima
unità nell'eterno evento dell'amore.
Come si rapporta l'Incontro divino al Silenzio eterno e alla
Parola che da esso eternamente procede? La tradizione occiden-
tale ha risposto a questo interrogativo con la dottrina del Filio-
que: essa rispetta l'assoluta principialità del Silenzio in Dio,
perché vede il Padre come principio senza principio del Figlio
e dello Spirito. Tuttavia, evidenziando la coordinazione della
Parola e del Silenzio nella "spirazione" dell'Incontro, affermando
cioè che il Padre dà al Figlio di "spirare" con Lui lo Spirito,
di consumare con Lui l'Incontro, privilegia in qualche modo la
mediazione della Parola. Non a caso Karl Barth vede nel Filio-
que la difesa dell'assoluta e ineliminabile mediazione cristo-
logica15: «È nel mistero eterno dell'essere di Dio che si deve
cercare la ragione per la quale nessuno può venire al Padre se
non per mezzo del Figlio; perché lo Spirito mediante il quale
il Padre attira a sé gli uomini è da tutta l'eternità anche lo Spi-
rito del Figlio ed è per suo mezzo che il Padre ci fa partecipare
alla figliolanza divina in Cristo » 16. Le critiche orientali al Fi-
lioque hanno spesso voluto dedurre da esso le accentuazioni esa-
sperate che l'Occidente ha dato al visibile e allo storico nella
mediazione ecclesiale ("gerarcologia"), nella concezione dei sa-
cramenti ("ex opere operato"), nell'oggettivismo morale e nel-
l'eteronomia etica. Se queste critiche sono forzate, appare
tuttavia giustificata la preoccupazione che il Filioque condu-
ca ad attribuire un ruolo pressoché esclusivo alla Parola, lascian-
do in ombra la principialità del Silenzio e la densa comples-
sità dell'Incontro, nell'eternità e nel tempo. Se occorre, allora,
non rinunciare al giusto rilievo dato alla Parola, rispetto per esem-
pio a concezioni idealistiche e concettualmente deduttivisti-
che della rivelazione, occorre non di meno rapportare la Paro-
la da una parte alla Sua Origine, dall'altra al Suo Riposo e al-
la Sua Patria, nell'Incontro in cui essa risuona, è accolta e ce-
lebra la gloria del Padre. È qui che l'Occidente può essere fe-
condato e arricchito dall'integrazione con la tradizione orien-
tale, così come questa può ricevere dalla testimonianza oc-
157
cidentale uno stimolo ad affermare e vivere la centralità della
Parola.
17
Cfr. Trinità come storia, o. e, 125, a proposito della differenza fra il greco èK-
nopeóonai e il latino "procedere".
158
di Dio egli è il compimento... »18. In questa luce, lo Spirito è
la sovrabbondanza dell'amore divino, la pienezza traboccante,
l'eccedenza, generosa e gratuita, della comunione irradiante: Spi-
rito creatore, dono dell'Altissimo, fonte e fuoco contagiatore
di vita (cfr. l'inno Veni Creator). «Lo Spirito spezza la suffi-
cienza possibile del "faccia a faccia" delle due prime figure. La
Tradizione cristiana gli ha riconosciuto un ruolo creatore e di-
namico; in questo senso, Egli è Colui che suscita altre differen-
ze. Egli è l'apertura della comunione divina a ciò che non è
divino. E l'abitazione di Dio là ove Dio è, in un certo senso,
"fuori di se stesso". Per questo fu chiamato "amore". E 1'"esta-
si" di Dio verso il suo "altro": la creatura. La terza figura della
"simbolica trinitaria" esclude la possibilità di una interpreta-
zione "narcisistica" della relazione delle prime figure: Dio è l'A-
perto, è comunicazione, è fonte di vita e di condivisione »19.
Quali conseguenze comporta questa contemplazione teologi-
ca dello Spirito come esodo e come dono per la concezione di
Lui, inteso come l'Incontro divino personale fra il Silenzio e
la Parola? La conseguenza fondamentale è che Parola e Silen-
zio non si esauriscono l'una nell'altro: il loro incontrarsi non
è cattura o stasi, ma apertura, eccedenza, dinamismo d'amore
irradiante. Il carattere peculiare dell'Incontro divino, persona-
le e unificante al livello più alto, è di essere aperto. Si potrebbe
dire che lo Spirito realizza in Dio la condizione dell'amore ve-
ro, la sua libertà dalla possessività e dalla gelosia: « Amore non
è stare a guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la stessa
meta» (Antoine de Saint-Exupéry). Il "con-diletto" dell'amo-
re del Padre e del Figlio, il "terzo" nell'incontrarsi del loro re-
ciproco darsi ed accogliersi, è, proprio con la sua distinzione
e consistenza personale, la riprova che l'amore eterno non chiude
l'Amante e l'Amato nel cerchio del loro mutuo scambio, ma li
fa incontrare in una fecondità che li trascende. L'Incontro eterno
rivela cosi la trascendenza dell'eterno amore, il suo libero e gra-
tuito autodestinarsi all'altro, la sua natura diffusiva di sé e per-
ciò sorgente dell'autocomunicazione personale, nel gioco delle
relazioni fra le Persone divine e nel loro rapportarsi alle creatu-
re, da esse stesse chiamate all'esistenza. In quanto trascendi-
18
Y. Congar, Credo nello Spìrito Santo, III, o. e, 154s, con numerosi testi (cfr.
150ss). Cfr. pure P. Evdokimov, Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa, o. e., 61ss
e 115ss.
19
C. Duquoc, Un Dio diverso, Brescia 1978, 117.
159
mento di sé per andare verso l'altro, l'Incontro comporta una
ineliminabile dimensione di separazione, di esodo senza ritor-
no, di "morte" a se stessi per la vita dell'altro, di cui la conse-
gna dello Spirito nell'ora della Croce è densa figura nel tempo.
«Parliamo, in termini giovannei, di "Dio come Spirito" quan-
do dobbiamo interpretare la separazione fra amante e amato,
in modo tale che l'amante e l'amato "facciano partecipare" al-
tri al loro amore vicendevole. E parliamo ugualmente di "Dio
come Spirito" quando dobbiamo interpretare la separazione,
che assume su di sé la morte, fra l'amante e l'amato in modo
tale che Dio in questa dolorosissima separazione non cessi di
essere il Dio "uno e vivente", ma sia piuttosto proprio così som-
mamente Dio »20.
L'Incontro abbraccia la morte e la vita: è vita in quanto aper-
tura e dono vivificante; è morte in quanto esodo e dimentican-
za di sé. Nell'Incontro eterno "muore" il Silenzio perché,
dicendosi nella Parola, esce da sé e riempie il suo regno del so-
noro inizio, che è l'eterna generazione del Verbo; ma il Silen-
zio vive anche a un livello ulteriore perché, attraversando la
Parola, torna a proporsi come lo spazio ultimo in cui la Parola,
risuonando, riposi. Questa "morte" del Silenzio superata nella
vita, questo incontrarsi di morte e vita del silente Inizio a favo-
re della vita, esprime l'altro Silenzio, il Silenzio dell'estasi; che
procede come Incontro dall'Origine silenziosa e ad essa ritor-
na, unitamente al Verbo, come al Silenzio della Patria. D'altra
parte, nell'Incontro eterno "muore" anche la Parola: procedente
dal Silenzio, essa esce da sé per lasciarsi proferire totalmente
dall'Altro, per essere pura accoglienza di Lui, unico Principio
divino, fino al punto da dirsi nella forma del Silenzio, come mo-
stra nel tempo l'abbandono in Croce e la morte della Parola in-
carnata. Tuttavia, è proprio così, nel suo scomparire nel Silenzio,
che la Parola vive: questa vita è il Silenzio stesso divenuto Pa-
rola, e perciò non più il Silenzio dell'Origine, da cui procede
il Verbo, ma il Silenzio oltre la Parola e attraverso di essa, il
silente accogliere che dice tacendo e tace dicendo. Questa "mor-
te" della Parola per il suo nuovo risuonare nel non-dirsi acco-
gliente è l'Incontro come Spirito silente del Verbo, di cui è densa
figura nel tempo la funzione attualizzatrice che il Paraclito svolge
nei confronti del Cristo: tacendo, egli "dice" la Parola.
20
E. Jungel, Dio mistero del mondo, Brescia 1982, 427.
160
L'Incontro eterno sta dunque al Silenzio e alla Parola come
la loro apertura: proprio per questo è "morte" del Silenzio nel-
la Parola e della Parola nel Silenzio dell'estasi, è, cioè, Colui
che procede dal Padre per il Figlio, vivendo come eterno dirsi
del Silenzio e tacere della Parola, Verbo silente altro dal Verbo
sonoro, eloquente Silenzio altro dal puro Silenzio dell'Origine,
da cui la Parola procede. L'Incontro eterno è il fondamento im-
manente in Dio della necessità che l'economia del Verbo sia com-
pletata dall'economia dello Spirito: la Parola proferita nel tempo
non è tutto. « Ora io vi dico la verità: è bene per voi che io
me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Con-
solatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò » (Gv
16,7). La rivelazione — libera e gratuita proiezione analogica
del Mistero divino nella storia — non è solo Parola, né solo Si-
lenzio, né il semplice insieme dei due. Se fosse solo Parola, non
aprirebbe l'accesso alle profondità nascoste del Silenzio; se fos-
se solo Silenzio, non sarebbe comunicazione agli uomini, che
si incontrano nel linguaggio; se fosse insieme Parola e Silenzio,
le mancherebbe ancora il loro reciproco trascendersi nell'Incon-
tro, in cui la Parola si dice nel silenzio dei gesti della vita tra-
sformata dall'Avvento e il Silenzio è raggiunto attraverso la
Parola nella contemplazione del cuore e nel dialogo della vita
teologale. Incontrare la Parola è schiudersi al Silenzio ed ascol-
tarlo nel profondo; incontrare il Silenzio è accogliere la Parola
e viverla nella trasparenza dei gesti.
La rivelazione nello Spirito Santo è allora — a partire dalla
contemplazione delle profondità immanenti del Consolatore, per
quanto esse sono accessibili mediante l'economia della salvezza
— incontro della Parola e del Silenzio, per dire l'una nella si-
lenziosa semplicità dell'esistenza redenta, e nutrirsi dell'altro
nella attitudine contemplativa della vita, in cui solo risuona ve-
ramente la potenza del Verbo. Chi incontra Dio nello Spirito
che si autocomunica negli eventi della rivelazione, partecipa del-
l'unità trinitaria, che non mortifica la ricchezza delle Persone
e non annulla il diverso, e viene immerso nel movimento eso-
dale dell'amore, che è l'estasi di Dio da sé, perché anche l'uo-
mo possa vivere "e-staticamente" rivolto verso il suo Dio.
Nella forza dell'Incontro la rivelazione — conclusa nel tem-
po della pienezza del Verbo — è resa presente ad ogni tempo,
sempre antica e sempre nuova, perché la trascendenza e l'aper-
tura, proprie del divino incontrarsi, conducono ad una compren-
161
sione crescente del già dato, a uno scrutare il nascosto nel rive-
lato, che sprigiona inesauribili energie di luce e di vita: « Quan-
do verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera,
perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi
annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prende-
rà del mio e ve l'annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede
è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l'annun-
zierà »(Gv 16,13-15). "Spirito di verità", Spirito cioè della fe-
deltà divina ad ogni tempo dell'uomo e quindi Spirito
dell'Incontro, che rende possibile il contatto e lo scambio col
Mistero che si è autocomunicato nella Parola procedente dal Si-
lenzio, il Consolatore annunzia la verità del Figlio — « prende-
rà del mio e ve l'annunzierà » —, ma, in essa e per essa, annunzia
la verità del Padre. Nella Parola lo Spirito apre al Silenzio; nel
Silenzio fa risuonare la Parola; di essi è l'Incontro nell'eternità
e nel tempo, condizione di possibilità immanente in Dio di ogni
incontro salvifico degli uomini con la rivelazione della Parola
e del Silenzio. E se l'Incontro è in Dio unità di vita e di morte
a favore della vita, non di meno lo sarà nella sua partecipazione
agli uomini: esodo da sé per accogliere l'Altro e per donarsi a
Lui, morte per far spazio alla vita dell'avvento, l'incontro di
un uomo con la Parola e col Silenzio si consuma in un'analoga
unità di morte e di vita a favore della vita. È l'incontro col Dio,
che brucia come il fuoco (cfr. Dt 4,24; Is 33,14; Eb 12,29): è
l'esperienza dello Spirito, al quale si rivolge la preghiera della
Chiesa: « Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli, e
accendi in loro il fuoco del tuo amore! » 21 .
21
« Veni, sancte Spiritus, reple tuorum corda fidelium, et tui amoris in eis ignem
accende! »: cfr. le osservazioni che fa su questa preghiera E. Jungel, ivi, 424.
162
12.
163
l'esteriorità l'avrebbe vinta su tutti i fronti, e l'avvento altrui
si ridurrebbe ad accadere estrinseco, a bruto fatto o a morta
legge senza incidenze sull'interiorità. L'incontro si compie "non
ex nobis, sed in nobis": è e resta incontro dell'Altro, ma trova
il suo compimento quando l'"extra nos" viene percepito e as-
sunto interiormente come "prò nobis". Non da noi, ma in noi;
fuori di noi, ma per noi.
E così che la riflessione sull'incontro, in quanto evento che
si compie nel tempo, si fa dialogo con due pensatori, che hanno
messo a tema rispettivamente le due condizioni dell'interiorità
trascendentale e della esteriorità trascendente: Karl Rahner ed
Emmanuel Lévinas. E dall'integrazione delle loro prospettive
che nasce la comprensione meno inadeguata dell'incontro. È in
questo orizzonte che si profilano i limiti delle loro proposte, se
prese separatamente ed assolutizzate indebitamente.
1
Cfr. il profilo di K. Rahner tracciato dal suo discepolo J. B. Metz nel Lessico dei
teologi del secolo XX, Mysterium Salutis 12, a cura di P. Vanzan e H. J. Schultz, Brescia
1978, 530-537, con bibliografia.
2
Nella rielaborazione di J. B. Metz, approvata dallo stesso Rahner: Hàrer des Wor-
tes, Miinchen 1963 (tr. it. Torino 1967). La concezione dell'uomo come l'essere del-
l'assoluta apertura trascendente verso Dio è già presente nella prima opera di K. Rahner,
Geist in Welt, del 1939 (seconda edizione Miinchen 1957). Le idee contenute in Udito-
ri della parola sono riprese da Rahner nel suo Corso fondamentale sulla fede, Roma 1977,
specie 45ss e 71ss.
164
si propriamente nello spazio della vita e delle strutture del sog-
getto, ne afferma la consistenza universale e oggettiva. Nel-
l'alternativa fra il puro primato della soggettività, condotto fi-
no all'assolutizzazione hegeliana dell'atto della ragione, e l'af-
fermazione dell'Oggetto puro, spinta fino al sacrificio della
rilevanza soggettiva ed esistenziale, Rahner si pone creativamente
in una via di superamento dialettico, che trova nell'antropolo-
gia il suo campo proprio di verifica e di dimostrazione. L'uomo
non è né un soggetto prigioniero del proprio mondo interiore
incomunicabile all'altro, né un semplice caso dell'universale, nor-
mato e misurato in tutto dall'oggettività: egli è l'essere dell'as-
soluta apertura verso il Trascendente, e perciò soggetto struttu-
rato oggettivamente nel suo essere per la trascendenza. Que-
st'apertura trascendentale trova il suo pieno compimento nella
cristologia: in Gesù il Cristo, assoluto portatore di salvezza, è
offerta all'uomo la possibilità suprema di trascendersi verso il
Trascendente che viene a lui, e perciò di realizzare nella forma
più alta il proprio essere per la trascendenza.
La riflessione rahneriana sulla soggettività trascendentale si
articola in tre passaggi fondamentali: il primo si compendia nella
proposizione che afferma «la trascendenza dell'essere in gene-
re, che è necessariamente tematizzata e costituisce essenzialmen-
te l'uomo in quanto spirito» 3 . Ripensando creativamente la
dottrina scolastica della "potentia oboedentialis", non senza l'in-
fluenza delle ricerche heideggeriane sul rapporto fra essere e tem-
po e quindi sulla differenza ontologica fra il piano dell'esserci
e la profondità dell'essere, Rahner afferma in questo primo mo-
mento da una parte la conoscibilità fondamentale dell'essere di
ogni ente ("omne ens est verum"), e dall'altra il fatto che que-
sta auto-trasparenza dell'essere accade nell'atto della coscienza
di sé, che è l'uomo in quanto spirito. « La natura dell'essere del-
l'ente è conoscere ed essere conosciuto in una unità originaria,
che abbiamo chiamato coscienza di sé, autotrasparenza dell'es-
sere per se stesso o "soggettività"» 4 . L'esserci dell'uomo in
quanto spirito è dunque l'evento della tematizzazione della tra-
scendenza dell'essere: in questa luce, la "differenza ontologi-
ca" si lascia comprendere come "analogia del possesso del-
l'essere": « E analogo non 1'"essere", ma il sorgere della diffe-
3
Uditori della parola, o. e, 98.
4
ft., 73.
165
renza fra essere ed ente nell'autorapporto, nell'autotrasparen-
za, nelTautoconcetto e in questo senso nel "possesso dell'esse-
re" da parte dell'ente» 5 . Essere è dunque conoscere nella
misura in cui l'ente "possiede l'essere": l'uomo — in quanto
del tutto aperto all'essere in genere — è spirito, conoscenza,
autotrasparenza dell'essere, e perciò apertura a una possibile,
piena autocomunicazione dell'essere. « L'uomo è spirituale, cioè
vive la sua vita in una continua tensione verso l'Assoluto, in
una apertura a Dio » 6 .
Il secondo passaggio dell'antropologia rahneriana si compen-
dia nella proposizione seguente: « L'uomo è l'ente che, amando
liberamente, si trova di fronte al Dio di una possibile rivelazio-
ne. L'uomo è in ascolto della parola o del silenzio di Dio nella
misura in cui si apre, amando liberamente, a questo messaggio
della parola o del silenzio del Dio della rivelazione»7. Quan-
to Rahner vuole qui negare è che l'autotrascendenza dell'esse-
re si compia nell'uomo nella forma di una pura e semplice
necessità, di un processo dialettico che escluda la possibilità del
rifiuto e perciò la dignità dell'assenso: conseguentemente è l'i-
dea di una rivelazione ridotta a spiritualizzazione progressiva
dell'uomo secondo la sua "naturale" legge interna, che viene
qui rigettata. La misteriosità dell'essere, il suo nascondimento
nonostante la sua luminosità, è la condizione oggettiva che rende
possibile l'esercizio soggettivo della libertà da parte dello spiri-
to finito: il libero nascondersi e rivelarsi di Dio è dunque il fon-
damento ontologico della stessa condizione di libertà della
creatura. L'autotrasparenza dell'essere si compie nella libertà:
"ens et bonum convertuntur" ! Senza l'assenso gratuito dell'a-
more in se stesso libero, né Dio si aprirebbe all'uomo, né l'uo-
mo si aprirebbe all'infinita profondità dell'essere divino. L'auto-
trascendenza non si realizza al di fuori di un'autodeterminazione
morale: essa è condizione di possibilità dell'incontro, che però
esige, per attuarsi effettivamente, la decisione libera di apertu-
ra e di accoglienza della Trascendenza.
E qui che si pone il terzo passaggio dell'antropologia trascen-
dentale di K. Rahner: se l'autotrascendenza ha bisogno per rea-
lizzarsi della decisione della libertà, e se questa non può compiersi
5
ft., 78, n. 1.
6
Ib., 97.
Uh., 145.
166
in astratto, ma — come è di ogni "decidere" — deve compier-
si in rapporto a un "luogo" determinato e a un evento concre-
to dell'autotrascendenza stessa, è necessario precisare quale sia
questo "luogo" dell'incontro. La tesi rahneriana è così formu-
lata: « L'uomo è l'ente che nella sua storia deve tendere l'orec-
chio a un'eventuale rivelazione storica di Dio attraverso la parola
umana» 8 . Il luogo di una possibile autocomunicazione di Dio
non può che essere storicamente determinato, perché l'uomo
è spirito come essere storico e comunica l'oggetto della sua co-
noscenza rappresentandolo, senza alcuna pretesa di esaurirlo in
sé, nella parola, « segno rappresentativo di ciò che non è dato
in se stesso »: « Finché quindi l'uomo non partecipa della visio-
ne immediata di Dio, è sempre ed essenzialmente — in forza
della costituzione fondamentale della sua esistenza — un udi-
tore della parola di Dio, colui che deve prevedere una possibile
rivelazione di Dio, che non consiste nella manifestazione diret-
ta del contenuto dell'oggetto rivelato nella sua propria essenza,
ma nella sua comunicazione mediante segni rappresentativi, che
indichino ciò che deve essere rivelato, pur essendo da essi di-
verso» 9 . Nell'ascolto della parola, carica di silenzio perché
evocativa della realtà che in essa si comunica, ma che pur sem-
pre la trascende, l'uomo si apre liberamente alla libera autoco-
municazione di Dio: lo spirito come autotrascendenza viene ad
incontrarsi con F autotrascendenza dell'essere divino, in un pro-
cesso libero, storicamente determinato e tale da realizzare e al
tempo stesso stimolare la trasparenza dell'essere a se stesso che
si compie nella coscienza dell'uomo. L'apertura trascendentale
dell'essere umano trova così nella Parola della rivelazione il luogo
del suo più adeguato compimento: un compimento che, tutta-
via, rimanda sempre alle profondità al di là del Verbo e che fonda
la permanente struttura tensionale dell'atto di fede, decisione
chiamata ad aprirsi sempre più profondamente all'apertura del-
la misteriosità dell'essere divino, che nella Parola si è offerto
e al tempo stesso nascosto.
L'incontro tra l'uomo e il Verbo non avviene dunque in Rah-
ner secondo lo schema riduttivo di domanda e risposta: il cer-
chio non si chiude, perché la Parola è presentata nella sua
relatività rispetto all'ai di là del detto. La stessa insistenza sulla
8
ft., 208.
nb., 153.
167
categoria della libertà mostra come la terza "conversio" dell'es-
sere non sia concepita in termini esaustivi: "ens et pulchrum
convertuntur", l'essere e il bello si rovesciano l'uno nell'altro,
solo nel senso che la bellezza è percezione e offerta del Tutto
nel frammento e non cattura della totalità nel finito. Anzi, l'i-
dea stessa della parola come « segno rappresentativo di ciò che
non è dato in se stesso » si rivela pregna di evocazioni esteti-
che, che non risolvono la Trascendenza nell'immanenza. Né con-
sentono la loro semplice corrispondenza e adeguazione. La
bellezza rivela l'essere nella sua inesauribilità, e perciò si affianca
come necessario compimento alle altre due coniugazioni: quel-
la di essere e vero, indicativa dell'autotrasparenza dell'essere
e della spiritualità del soggetto umano; e quella di essere e be-
ne, che fa risaltare il valore della libertà e la dignità della libera
risposta dell'uomo alla libera donazione del Mistero.
È qui che l'antropologia rahneriana mostra la sua resistenza
allo "spirito moderno" in nome della fede cristiana nell'avven-
to: l'autotrascendenza non è risolta in immanenza, né Dio as-
sorbito nel mondo, grazie al riferimento alla Parola di rivelazione,
intesa come il luogo della libera e gratuita autocomunicazione
divina e della parimenti libera e gratuita accoglienza della fede
dell'uomo. L'antropologia non è ridotta a fenomenologia del pro-
cesso universale e necessario dello spirito assoluto. L'"uditore
della Parola" è proiettato fuori di sé, aperto verso l'esteriorità,
in un esodo liberamente orientato all'avvento. E l'assoluto Por-
tatore di salvezza non è una sorta di risposta universale ed as-
soluta, di legge determinante l'auto trascendenza umana e perciò
anche al tempo stesso determinata da essa, ma la Parola carica
di Silenzio, che rivela velando e ritraendosi si offre al gioco della
libertà dell'amore.
Bisogna, tuttavia, riconoscere che l'attenzione di K. Rahner
sembra fissarsi in maniera privilegiata sulle condizioni trascen-
dentali dell'incontro, e perciò sull'uditore della Parola più che
sulla Parola stessa di rivelazione: la svolta antropologica, da lui
impressa alla teologia, si muove prevalentemente in questa di-
rezione. Se è vero che la circolarità soggetto-oggetto non è da
lui semplicemente assunta, ma è mantenuta e spezzata insieme
in nome di una asimmetria a favore dell'Oggetto, è anche vero
che l'intenzione di fondo del dialogo con la modernità porta Rah-
ner ad avvertire come proprie le urgenze dell'interlocutore. Se
egli vuol porsi fra Schleiermacher e Barth, fra la pura riduzione
168
dell'esperienza religiosa a dimensione immanente dello spirito
umano e la rivendicazione dell'alterità e della trascendenza del-
l'Oggetto puro, che è la Parola di rivelazione, il suo interesse
prioritario sta nel determinare le condizioni antropologiche del-
l'ascolto della Parola stessa, in modo da favorire l'incontro fra
la soggettività moderna e la fede nella rivelazione. In tal modo
si profila un duplice rischio: da una parte, l'autotrascendenza
dell'uomo può essere così evidenziata, da venir ricondotta al
semplice processo dialettico dello spirito, che non tiene conto
a sufficienza del ruolo della decisione e del dramma della cadu-
ta e del rifiuto, che oscura pesantemente l'apertura del cuore;
dall'altra, la potenza della Parola può essere così marcata, da
trascurare l'intrinseca dialettica di rivelazione e di nascondimen-
to, cosicché il Verbo è visto come risposta totale, come pura
apertura del Silenzio, misurata dalla domanda di salvezza e non
sufficientemente evocatrice del Silenzio al di là del detto stes-
so. Se il primo rischio non è del tutto assente dagli sviluppi del
cristianesimo anonimo 10, il secondo si affaccia in una certa im-
pressione di "sistema totale", che dà la teologia rahneriana. Sem-
bra quasi che alla presunzione di totalità della ragione moderna,
Rahner risponda integrando nella totalità l'esodo e l'avvento,
l'umano andare e il divino venire. In tal modo, però, il Silenzio
dell'Origine al di là del Verbo rischia di venire semplicemente
risolto nell'orizzonte compiuto del "colloquium salutis" fra la
domanda dell'antropologia trascendentale e la risposta della cri-
stologia dell'assoluto Portatore di salvezza. In questa luce, il su-
peramento dei rischi del pensiero rahneriano sembra esigere una
più compiuta riscoperta dell'alterità rispetto alla totalità del mon-
do del soggetto. E come se l'essere autotrascendente possa sfug-
gire al pericolo di restare prigioniero di sé solo incontrandosi
con la pura esteriorità e il denso richiamo di infinito costituito
dal volto d'altri. La condizione trascendentale dell'incontro rin-
via al necessario approfondimento della condizione "oggettiva",
in cui essa viene ad essere misurata ed effettivamente compiu-
ta: la trascendenza dell'Altro.
10
Cfr. il volume della discepola di Rahner A. Ròper, I cristiani anonimi, Brescia
1967.
169
b) La trascendenza dell'esteriorità: in dialogo con E. Lévinas
11
Su E. Lévinas cfr. tra l'altro S. Petrosino, La verità nomade. Introduzione a Em-
manuel Lévinas, Milano 1980; G. Mura, Emmanuel Lévinas: ermeneutica e "separazio-
ne", Roma 1982; E. Baccarini, Lévinas. Soggettività e Infinito, Roma 1985; S. Malka,
Leggere Lévinas, Brescia 1986. Circa il rapporto con Heidegger cfr. quanto scrive lo
stesso Lévinas in una nota di Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Milano 1983,
49, n. 28: « Queste righe devono molto a Heidegger. Deformato e mal compreso? Per
lo meno questa deformazione non sarà stata un modo di dimenticare il debito, né que-
sto debito una ragione di dimenticanza ». La seconda parte della frase finale è riferita
all'ambiguo rapporto fra Heidegger e il nazismo. Cfr. pure F. Brezzi, Pensare altrimenti
la differenza: Lévinas e Heidegger, in Aquinas 26 (1983) 459-484.
170
ria, e non con l'essere al di là del passato e del presente »12.
Questo "al di là" della totalità non si offre in maniera pura-
mente negativa, come il semplice segno "meno" dinanzi alla
parentesi che abbraccia il tutto: si riflette, piuttosto, in manie-
ra incisiva all'interno della totalità stessa dell'esperienza e del-
la storia: « Si può risalire, a partire dall'esperienza della totalità,
ad una situazione nella quale la totalità si spezza, mentre que-
sta situazione condiziona la totalità stessa. Questa situazione
è lo sfolgorio della esteriorità o della trascendenza sul volto d'al-
tri. Il concetto di questa trascendenza rigorosamente sviluppa-
to si esprime con il termine di infinito »13. In rapporto a
questa alterità, che si affaccia nel volto altrui come esteriorità
e infinito, la soggettività non è perduta: essa è colta come sepa-
razione e appropriazione dell'essere in De Vexistence à l'existant
(1947)14, mediante l'analisi dell'esperienza dell'il y a; come go-
dimento e dimora in Totalité et infinì (1961)15; come esodo da
sé senza ritorno, responsabilità verso l'altro da vivere in una
a-simmetria, che sola rispetta l'altro come altro, in Autrement
qu'ètre ou au-delà de Vessence (1974)16. E soprattutto questa
categoria etica di responsabilità che consente a Lévinas di su-
perare l'imperialismo della soggettività totalizzante, per aprire
l'io a una vera esperienza dell'infinito che si offre nel volto del-
l'altro. « L'etica è il campo che disegna il paradosso di un Infi-
nito in rapporto col finito senza smentirsi in questo
rapporto »17: l'etica è l'esplosione dell'unità originaria ed asso-
luta dell'io, l'apertura all'ai di là dell'esperienza, il luogo della
testimonianza — e non della tematizzazione — dell'Infinito a
partire dalla responsabilità per gli altri di un soggetto che sop-
porta tutto, che è soggetto a tutto, che soffre per tutti ed è re-
sponsabile di tutto.
La riflessione metafisica è dunque assunta e superata nella
riflessione etica: solo grazie alla responsabilità per l'altro il sog-
getto esce veramente dalla prigionia del sé, infrange la totalità
illusoria del suo mondo e accetta di divenire ostaggio dell'altro.
Allora soltanto, nella inquietudine per l'altro spinta fino alla
12
E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano 1980, 20s.
»lb., 23.
14
Traduzione italiana: Dall'esistenza all'esistente, Casale Monferrato 1986.
15
Traduzione italiana citata.
16
Traduzione italiana citata.
17
Altrimenti che essere, o. e, 186.
171
sostituzione, l'io giunge realmente a se stesso, liberato dai cep-
pi del proprio mondo assoluto, per ritrovarsi nell'essersi perdu-
to a motivo e a favore dell'altro. Ed è su questa via che Dio
viene all'idea, per la traccia di Lui che si offre sul volto d'altri:
« Pensiamo che l'idea-dell'-Infinito-in-me — o la mia relazione
con Dio — mi accade nella concretezza della mia relazione al-
l'altro uomo, nella socialità che è la mia responsabilità per il pros-
simo: responsabilità che non ho contratto in alcuna "esperienza",
ma di cui il volto d'altri, in forza della sua alterità, in forza del-
la sua stessa estraneità, parla come del comandamento venuto
non si sa da dove... come se il volto dell'altro uomo, che d'im-
provviso "mi interpella" e mi ordina, fosse il nodo dell'intrigo
stesso del superamento da parte di Dio dell'idea di Dio... »1S.
E come l'affacciarsi di una rivelazione etica di Dio, di un Suo
venire all'idea solo quando il pensiero della totalità dell'io è in-
franto nel gesto della responsabilità per l'altro: « È necessario
un atto di giustizia — la rettitudine del faccia a faccia — per-
ché si produca il varco che porta a Dio — e la "visione" coinci-
de qui con questo atto di giustizia... Non può esserci alcuna
"conoscenza" di Dio a prescindere dalla relazione con gli uo-
mini. Altri è proprio il luogo della verità metafisica, indispen-
sabile al mio rapporto con Dio. Non ha affatto il ruolo di
mediatore. Altri non è l'incarnazione di Dio, ma appunto at-
traverso il suo volto, nel quale è disincarnato, la manifestazio-
ne della maestosità nella quale Dio si rivela »19. Relazionandosi
all'altro senza correlazione, amando il prossimo per pura gra-
tuità, vivendo la responsabilità per altri senza la preoccupazio-
ne della reciprocità, il soggetto non solo è altrimenti, ma
raggiunge anche l"'altrimenti che essere", l'ai di là del suo mon-
do, e in questo spazio al di là del pensato e del detto si lascia
raggiungere dall'avvento dell'Altro, non come morto oggetto,
ma come il Dio vivente, il « Dio-che-viene-all'-idea, come vita
di Dio ».
Come è giunto Lévinas a questo radicale superamento della
totalità nell'Infinito che si affaccia nel volto d'altri, e quindi
a questa risoluzione globale della metafisica nell'etica, della sog-
gettività assoluta nella responsabilità per l'altro, vissuta come
esodo da sé senza ritorno? Se la domanda prima e fondante gli
18
E. Lévinas, Dì Dio che viene all'idea, Milano 1982, 12s.
19
Totalità e infinito, o. e, 76s.
172
è venuta da Heidegger e dalla rilettura che questi fa della meta-
fisica occidentale come storia del nichilismo, la forma della ri-
sposta si è venuta delineando nella progressiva riappropriazione
della sua radice ebraica: l'ebraismo gli si è offerto come catego-
ria dell'umano, religione dell'etica della responsabilità, testimo-
nianza purificata nel fuoco dell'Olocausto del valore infinito
dell'Altro per il superamento del soggetto e delle sue prigionie.
« Nessuna religione, certo, si esaurisce in canoni di conformi-
smo, di dominio e di fondazione economica. Ma è probabilmente
caratteristica del popolo ebreo vivere e sopportare, già nella sua
eccezionale storia e nella precarietà della sua condizione e della
sua collocazione sulla terra, l'incompiutezza di un mondo spe-
rimentata a partire dall'esigenza, irriducibile e urgente, della
giustizia nella quale risiede l'essenza del suo stesso messaggio
religioso. Crudezza del mondo... di cui il giudaismo non è sol-
tanto la coscienza, ma anche la testimonianza, cioè il martirio...
Come se il destino ebraico rappresentasse una spaccatura nel
guscio dell'essere imperturbabile e un'allertata presenza in se-
no ad una insonnia nella quale l'inumano non è più ricoperto
e nascosto dalle necessità politiche da esso costruite e non è più
scusato dalla loro universalità» 20 .
È in particolare al Talmud che Lévinas attribuisce il merito
di singolarizzare la verità, e quindi di contestare ogni presun-
zione di totalità. Il principio talmudico che « la Toràh parla il
linguaggio degli uomini » racchiude il grande pensiero che la Pa-
rola di Dio può essere contenuta nelle parole di cui si servono
tra loro gli esseri creati: «Mirabile contrazione dell'Infinito, il
" p i ù " abitante nel " m e n o " , l'Infinito nel Finito» 2 1 . E per
questo che l'ebraismo rende attenti alla parola concreta e sin-
golare e apre alla verità che si comunica nella prossimità con-
cretissima dell'altro. La radice profonda del superamento della
metafisica nell'etica della responsabilità è questo pensiero ebrai-
co, che viene da altrove rispetto al mondo greco: in questo in-
contro di mondi l'alterità si offre a infrangere l'imperialismo
occidentale della soggettività, e la scoperta dell'altro, nel nudo
affacciarsi dell'esteriorità del suo volto, traccia di infinito, vie-
ne a sbloccare l'impossibilità costituita dal dover dire la diffe-
renza nel linguaggio dell'identificazione, l'"altrimenti che essere"
20
E. Lévinas, L'aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Napoli 1986, 71s.
21
Ih, 59.
173
nelle parole della metafisica, esauritasi nell'oblio dell'essere. Gra-
zie a questo ritorno alla radice ebraica, Lévinas feconda il pen-
siero greco dell'Occidente con una sfida nuova e reale: quella
dell'alterità propriamente intesa, quella dell'ai di là del tutto
che, avvenendo nella prossimità dell'altro, chiama l'io alla re-
sponsabilità e lo apre ad altri liberandolo dalla prigionia del sé.
In questo senso, non c'è dualismo in Lévinas, quasi semplice
giustapposizione di filosofia e rivelazione, di pensiero greco e
di tradizione biblica: in lui i due mondi si incontrano e l'elezio-
ne del "luogo" greco, con la serietà delle sue domande e dei
suoi sentieri interrotti, si offre come terreno d'avvento di un
pensiero che viene d'altrove e apre verso l'altrove. L'ebraismo
è testimonianza dell'Altro, sigillata dalla permanente inquietu-
dine della coscienza ebraica verso ogni presunzione di totalità
e dalla permanente insofferenza di ogni totalitarismo verso questa
forma tenace di singolarizzazione inaudita della verità.
L'Altro di Lévinas viene così a testimoniare la condizione og-
gettiva che rende possibile l'incontro: nell'esodo da sé senza ri-
torno per amore responsabile verso altri, il soggetto si lascia
abitare dall'Altro e giunge a dimorare in lui. La condizione tra-
scendentale dell'apertura infinita dell'essere dell'io viene a sal-
darsi alla condizione oggettiva della trascendenza irriducibile
e provocatrice del volto d'altri. Se resta l'impressione di un'e-
sigenza etica di livello così alto da apparire perfino impossibile
all'uomo, resta anche il fascino di una sfida che non è affatto
lontana dal sapore della radicalità evangelica. Forse, però, è pro-
prio nella combinazione con la riflessione rahneriana sull'antro-
pologia trascendentale che la tesi di Lévinas mostra la sua più
profonda compiutezza: donandosi per l'altro fino a divenire
ostaggio, l'io realizza anche l'apertura più profonda di sé, cui
è originariamente chiamato. E perdendosi per l'altro, che l'uo-
mo si ritrova; è guadagnando il mondo intero, che l'uomo si per-
de. Chi salverà la propria vita, la perderà; chi — per amore d'altri
— perderà la propria vita, la salverà per la vita eterna. Il volto
dell'altro non schiaccia l'io, ma lo evoca e lo provoca alla sua
verità più profonda: auto-trascendersi per esistere per gli altri
in un incontro, che è gratuità e donazione, è il ritrovamento
autentico di sé.
174
13.
LA STORIA DELL'INCONTRO:
LA VITA TEOLOGALE, ESISTENZA REDENTA
1
G.E. Lessing, Sopra la prova dello spirito e della forza, tr. it. B. Bianco, in Grande
Antologia Filosofica, XV, Milano 1968, 1557-1559.
2
C. Duquoc, Cristologia, Brescia 1972, 239. Cfr. pure B. Forte, Gesù dì Nazaret,
storia di Dio, Dio della storia, Roma 1981, 309ss (« Gesù vivo e vivificante nello Spiri-
to ») e H. Miihlen, L'evento di Cristo come atto dello Spirito Santo, in Mysterium Salutis,
VI, Brescia 1971, 645-684.
3
E. Schillebeeckx, Il Cristo, la storia di una nuova prassi, Brescia 1980, 625.
175
mare: « Il Signore è lo Spirito » (2Cor 3,17). Grazie allo Spirito
l'uomo può appartenere a Cristo: « Se qualcuno non ha lo Spi-
rito di Cristo, non gli appartiene» (Rm 8,9). Questa apparte-
nenza è un incontrarsi così profondo, che il destino della Parola
fatta carne diviene il destino del discepolo: per la forza dell'in-
contro con Cristo prodotto dal Paraclito, la morte e la vita di
Lui sono la morte e la vita dell'uomo abitato dallo Spirito: « Se
lo Spirito di Colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in
voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche
ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in
voi» (Rm 8,11).
Attraverso l'incontro col Cristo lo Spirito realizza anche l'in-
contro dei credenti con Dio Padre, rendendoli figli nel Figlio:
« Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro so-
no figli di Dio» (Rm 8,14; cfr. 16). «E che voi siete figli ne
è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito
del suo Figlio che grida: Abbà, Padre » (Gal 4,6; cfr. Rm 8,15).
Lo Spirito del Dio vivente abita nei discepoli, facendone il tem-
pio di Dio (cfr. ICor 3,16; 2Cor 6,16), al tempo stesso in cui
li rende Corpo di Cristo (cfr. ICor 12,12s e Rm 12,4s). Il mi-
stero del Padre, che è amore, si fa presente nel cuore degli uo-
mini per la mediazione dell'incontro, che è lo Spirito Santo:
« L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo
dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
L'intera rivelazione del Mistero viene a offrirsi all'incontro
con l'uomo grazie allo Spirito Santo: « Quelle cose che occhio
non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d'uomo,
queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio
le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta
ogni cosa, anche le profondità di Dio» (ICor 2,9s). E perché
« noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito
di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato » (ICor 2,12),
che è possibile affermare: « Noi abbiamo il pensiero di Cristo »
(v. 16b). Il Silenzio dell'Origine e la Parola di rivelazione sono
resi accessibili all'uomo mediante l'opera del Consolatore: è Lui
che realizza l'incontro e ne è il fondamento trascendente, la con-
dizione di possibilità divina. « Lo Spirito estende a ogni ora del
tempo la possibilità, umanamente "impossibile", che la grazia
del Padre ha dischiuso all'uomo nell'opera e nel destino di Ge-
sù Cristo... Lo Spirito colma la distanza fra i tempi e il tempo
della grazia, attua la relazione, altrimenti puramente ideale, del-
176
l'evento irripetibile della salvezza a ciascuna situazione umana,
e scrive così la storia di Dio nella storia degli uomini... Lo Spi-
rito è la garanzia che Dio avrà sempre tempo per l'uomo! »4.
Grazie al Paraclito il "fossato" di Lessing è superato ed è rea-
lizzato l'incontro, altrimenti impossibile, fra la rivelazione e la
concreta vicenda umana. La Parola — nel suo contenuto noeti-
co e nella sua forza dinamica — è resa viva e attuale, presente
e operante nella profondità delle sue ricchezze inesauribili per
opera dello Spirito Santo, così come l'approfondimento della
rivelazione e la crescita nella comprensione e nell'esperienza di
essa sono frutto dell'azione del Paraclito: « Quando verrà lo Spi-
rito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non
parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà
le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e
ve l'annunzierà » (Gv 16,13s). Lo Spirito renderà testimonian-
za al Cristo come « Spirito di verità che procede dal Padre » (Gv
15,26), e come acqua viva sgorgherà dal seno di chi crede (cfr.
Gv 7,38s), per introdurlo attraverso la Parola nel faccia a fac-
cia col Silenzio dell'Origine e della Patria (cfr. Rm 8,26s; Gal
4,6), il cui mistero d'amore grazie a Lui è effuso nel cuore del-
l'uomo (cfr. Rm 5,5). Come è l'Incontro di Dio con Dio, così
lo Spirito è l'Incontro dell'uomo con la rivelazione del Mistero...
In analogia all'Incontro trascendente, caratterizzato dall'es-
sere personale-comunionale al massimo e al tempo stesso radi-
calmente aperto 5 , l'incontro, che lo Spirito produce nel tempo
fra la rivelazione e la storia, investe la totalità della persona,
inserendola nella comunione divina, e si sviluppa secondo un
processo di radicale apertura. E così che il Silenzio e la Parola
— nel loro libero autocomunicarsi all'uomo — raggiungono ef-
fettivamente l'esistenza umana: la Trinità entra nella storia e
la storia entra nella Trinità. L'incontro con la rivelazione nel
suo aspetto personale-comunionale si offre nella vita teologale
suscitata e nutrita dallo Spirito: « Se uno mi ama, osserverà la
mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prende-
remo dimora presso di lui » (Gv 14,23). Nel suo aspetto esoda-
le di apertura radicale e di "estasi" permanente, l'incontro si
realizza nello "star fuori" dell'esistenza redenta ("ex-sistere" =
star fuori), nel suo essere aperta sempre nuovamente dallo Spi-
4
B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e, 312.
5
Cfr. supra, cap. 11 (« L'incontro eterno: il mistero dello Spirito »).
177
rito alla vita promessa, che vince la morte: « Pace a voi! Come
il Padre ha mandato me, anch'io mando voi... Ricevete lo Spi-
rito Santo» (Gv 20,21s)...
6
Concilio Vaticano II, Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Ver-
bum, 5.
7
H. Urs von Balthasar, Gloria. I: La percezione della forma, Milano 1975, 228.
178
profonda con cui l'intero essere umano entra nell'incontro con
la rivelazione sotto l'azione dello Spirito è un riflesso dell'uni-
tà e della pace che la terza Persona divina realizza quale eterno
Incontro del Silenzio e del Verbo.
Il mistero dell'incontro stabilisce anche legami peculiari del-
la persona umana con ciascuna delle Persone divine: il Conso-
latore, creando e nutrendo queste relazioni salvifiche, opera
nell'economia della salvezza quanto fa nell'immanenza della Tri-
nità Santa, l'unità nella distinzione, la pace e la comunione nel-
l'irriducibile originalità di ciascuno dei Tre.
Sotto l'azione dello Spirito, che attualizza la Parola rivelata,
l'uomo incontra anzitutto il Silenzio: reso figlio nel Figlio, im-
magine del Padre (cfr. Col 3,10; Rm 8,29; ICor 15,49), egli
riflette in sé la gloria dell'Origine: « Noi tutti, a viso scoperto,
riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo
trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria,
secondo l'azione dello Spirito del Signore » (2Cor 3,18). Ciò che
è proprio del divino Inizio, la carità sorgiva e irradiante (cfr.
lGv 4,8.16), si fa presente nel cuore dell'uomo grazie al miste-
ro dell'Incontro: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri
cuori per mezzo dello Spirito che ci è stato dato» (Rm 5,5).
Nella carità la creatura umana accoglie il Silenzio fontale dell'a-
more irradiante e lo testimonia nella vita mediante il silenzioso
irradiarsi dell'amore: «Figlioli, non amiamo a parole né con la
lingua, ma coi fatti e nella verità. Da questo conosceranno che
siamo nati dalla verità... » (lGv 3,18s). La carità rapporta l'uo-
mo all'origine e principio di tutte le cose e di ogni amore (cfr.
ICor 13,13), ispira e rende valida ogni iniziativa di bene (cfr.
ICor 13,1-6), è alla base della fede e della speranza, perché « tut-
to crede e tutto spera» (ICor 13,7). Effusa dallo Spirito nel
cuore, la carità rende la persona capace di amare con la sorgivi-
tà, la gratuità, la creatività, che da sola non avrebbe, e che ven-
gono contagiate dal Padre, silente inizio di ogni amore: «Ubi
caritas et amor, Deus ibi est ». Nel silenzio della carità lo Spiri-
to Santo rende presente il divino Silenzio e realizza il mistero
dell'incontro fra l'uomo e la profondità più nascosta e origina-
ria della rivelazione.
Grazie all'opera del Paraclito, che attualizza il Verbo incar-
nato in ogni ora del tempo, la persona umana incontra, poi, la
Parola: questo incontro, nutrito di ascolto e di accoglienza pro-
fonda, è la fede. « Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel
179
tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo. Poiché
se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai
con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai sal-
vo » (Rm 10,8s). « La fede dipende dall'ascolto e l'ascolto si at-
tua per la parola di Cristo » (Rm 10,17). Questa fede suscitata
dalla Parola è prodotta nell'uomo dallo Spirito Santo: « Nessu-
no può dire: Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito
Santo » (ICor 12,3). Fede è resa, consegna, abbandono, non pos-
sesso, garanzia, sicurezza: secondo una suggestiva etimologia me-
dievale, "credere" significa "cor dare", dare il cuore, rimetterlo
incondizionatamente nelle mani dell'Altro, che ci raggiunge at-
traverso la Sua Parola. Crede chi si lascia far prigioniero del-
l'invisibile Dio, chi accetta di divenire "esistenza accolta",
fasciandosi possedere dal Mistero divino nell'ascolto obbedien-
te e nella docilità più profonda del cuore. In questo senso, cre-
dere nella Parola, che è il Cristo, non vuol dire solo affidarsi
itotalmente all'Altro, ma anche permanere in Lui: si crede nella
^Parola quando — per l'opera dello Spirito — si è conformati
all'atteggiamento di radicale accoglienza, che è proprio del Verbo,
Ì2 ci si lascia amare da Dio, "proferire" da Lui nella comunione
con la Parola crocefissa e risorta. La fede non è solo accettazio-
ne della Parola ("fides quae creditur") e affidamento senza ri-
serve alla Parola e al Silenzio che in essa ci raggiunge ("fides
qua creditur"), ma anche trasparenza della Parola nella vita de-
gli uomini, farsi presente del Cristo nella sua radicale obbedienza
al Padre nel cuore del discepolo: « Sono stato crocifisso con Cristo
e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita
che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che
mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). La fede
è il mistero dell'incontro operato dallo Spirito fra il Padre e il
: Figlio nel cuore dell'uomo che ha accolto il Verbo e si è lasciato
conformare a Lui nell'umile e perseverante venire dal Silenzio.
Lo Spirito, infine, produce l'incontro della persona umana
con la propria divina Persona: l'uomo diviene lui stesso incon-
jtro, mistero d'alleanza fra la terra e il cielo, edificato sul fonda-
ì mento trascendente della pace e dell'estasi, che è l'Incontro divino
personale fra la Parola e il Silenzio, rivelato nel tempo come
mistero del Consolatore. Questo essere "incontro" della crea-
tura è anticipazione del futuro promesso della gloria di Dio, tutto
in tutti (cfr. ICor 15,28), e si esprime nella virtù teologale del-
la speranza: dono del Padre (cfr. 2Ts 2,16), fondata nel Vange-
180
lo (cfr. Col 1,23), essa è nell'uomo «per la virtù dello Spirito
Santo » (Rm 15,13), che costituisce in lui la primizia della nuo-
va creazione già iniziata (cfr. Rm 8,23). La speranza unisce il
presente all'avvenire di Dio, aprendo perennemente il cuore del
credente al veniente e al nuovo: essa è l'eternità anticipata nel
tempo e il tempo proiettato verso l'eternità, l'identità nel cuo-
re dell'uomo del Silenzio dell'Origine col Silenzio della Patria
attraverso la mediazione della Parola e la consolazione e l'esta-
ticità dello Spirito Santo. L'Incontro eterno vive così nel tem-
po, abitando nell'intimo di chi crede e spera, come pegno della
gloria futura e anticipazione di quanto nella rivelazione è già
promesso e non ancora compiuto: « Se lo Spirito di colui che
ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risusci-
tato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali
per mezzo del suo Spirito che abita in voi » (Rm 8,11). Se que-
sta speranza non delude è perché l'opera del Paraclito rende l'a-
more di Dio già presente ed efficace nel cuore dell'uomo8: il
fondamento della speranza, rivelata nell'evento pasquale, è tra-
scendente ed eterno.
La vita teologale è dunque il frutto dell'incontro dell'uomo
con la rivelazione, operato dallo Spirito Santo: l'evento trinita-
rio dell'autocomunicazione di Dio contagia al cuore dell'uomo
nella forza del Consolatore una certa partecipazione al mistero
del silente Inizio dell'amore nell'iniziativa della carità, a quello
della Parola eternamente accogliente nella recettività feconda
della fede, e al mistero dell'Incontro eterno nell'esperienza di
alleanza e di anticipazione, che è la speranza. Chi ascolta il Si-
lenzio, accogliendo la Parola, celebra l'incontro nella pienezza
di una vita da innamorato, da credente e da speranzoso. La "pe-
ricoresi' ' divina viene come a riflettersi nella vita teologale di
chi ha accolto la rivelazione: nel vivificante incontro con l'au-
tocomunicazione delle Persone divine, la persona umana riceve
in sé l'impronta del Silenzio, del Verbo e dello Spirito, e il si-
gillo della loro indissolubile unità. Incontrare la rivelazione è
divenire creatura nuova, riconciliata profondamente nella par-
tecipazione al dialogo trinitario della vita divina: perciò la Chiesa
nascente può annunciare la buona novella del Dio Amore, usci-
to dal Silenzio per darci la grazia del Verbo e accoglierci nella
8
Su questo rapporto fra le Persone divine e la vita teologale cfr. B. Forte, Trinità
come storia, Milano 1985, 188ss.
181
comunione dell'Incontro: « La grazia del Signore Gesù Cristo,
l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti
voi » (2Cor 13,13). « Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio
con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per
una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore » (Col 3,9s).
La Trinità vive nell'esistenza riconciliata di chi all'auto-
destinazione divina, espressa nella rivelazione, risponde con la
consegna totale del proprio essere, realizzando — per la grazia
del Consolatore — l'incontro fra l'apertura trascendentale del-
la propria interiorità e l'offerta trascendente del Mistero venu-
to a noi nell'avvento.
b) L'esistenza redenta
182
vera» (Mt 17,24s e par.; cfr. 10,39). Questo morire non solo
è richiesto a causa di Cristo, ma si compie in Lui e per Lui: « L'a-
more del Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti
e quindi tutti sono morti » (2Cor 5,14). « O non sapete che quanti
siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella
sua morte? » (Rra 6,3; cfr. 4s). Questo mistero di morte, atti-
vato nell'incontro col Dio che si rivela, attraversa inesorabil-
mente l'intera esistenza redenta: accogliere la carità, aprendosi
al Silenzio dell'Origine, è un morire a se stessi per lasciarsi de-
stinare nel mistero dell'autodestinazione divina. « In questo sta
l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato
noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per
i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati, anche noi dob-
biamo amarci gli uni gli altri... » (lGv 4,10s; cfr. 19). Vivere
la fede, credendo nella Parola della rivelazione, è un morire al-
l'evidenza dei propri progetti e della propria logica, per entrare
nella morte dell'inevidenza, sopportando la pesantezza dello
"scandalo" e confidando soltanto nella promessa di Dio: «Per
fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo
che doveva ricevere in eredità, e parti senza sapere dove anda-
va... Per fede, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che
aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio...» (Eb
11,8.17). Chi agisce così dimostra di essere « straniero e pelle-
grino sopra la terra » e di camminare « alla ricerca di una pa-
tria », intravista nella Parola del Dio della promessa, ma non
posseduta nella certezza del presente (cfr. Eb ll,13s). Anche
la speranza teologale è un'esperienza di morte: essa è un parte-
cipare ai gemiti e alle sofferenze del creato, pur possedendo le
primizie dello Spirito (cfr. Rm 8,22s), un condividere le soffe-
renze del Cristo (cfr. 2Cor 1,5-7), uno sperare « contro ogni spe-
ranza» (Rm 5,18). Chi spera non esce dalla notte, ma nella morte
persevera nell'attesa fiduciosa del compimento delle promesse
di Dio: « Nella speranza siamo stati salvati. Ora, ciò che si spe-
ra, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede,
come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non
vediamo, lo attendiamo con perseveranza. Allo stesso modo an-
che lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza... » (Rm
8,24-26).
Alla morte, nel cammino dell'esistenza redenta, succede la
vita: accogliere la rivelazione è veramente unità di morte e di
vita a favore della vita, cammino pasquale, attuato nella poten-
183
za del Consolatore. « La morte è stata ingoiata per la vittoria.
Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungi-
glione?... Siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo
del Signore nostro Gesù Cristo » (ICor 15,54s.57; cfr. Rm 8,11).
L'intera vita teologale celebra la vittoria della vita per la grazia
del Consolatore, che fa incontrare l'uomo con la potenza della
resurrezione: la carità è vittoria sulla morte, trionfo della vita
realizzato nel semplice, silenzioso agire dell'amore: « Siamo pas-
sati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama
rimane nella morte» (lGv 3,14). La fede è entrare nella vita,
che solo la Parola, cui abbiamo creduto, rivela e trasmette: « Chi
ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la
vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte
alla vita» (Gv 5,24). La speranza è gustare anticipatamente il
trionfo della vita, l'incontro dell'umile giorno presente col giorno
della gloria promessa: « Io sono la risurrezione e la vita; chi cre-
de in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me,
non morrà in eterno » (Gv ll,25s). « Nella speranza siamo stati
salvati» (Rm 8,24).
L'esistenza redenta è, dunque, cammino esodale: morendo,
essa abbandona il mondo dell'uomo vecchio, l'insieme dei desi-
deri della carne, che sono contrari allo Spirito (cfr. Gal 5,17);
risorgendo alla vita, essa « cammina secondo lo Spirito » (Gal
5,16), aprendosi al mondo di Dio, che si è autocomunicato al-
l'uomo nell'evento della rivelazione. Vivere l'incontro col Dio
che si rivela non è solo acquisire una conoscenza nuova, che re-
sti sul piano puramente noetico, né è sperimentare una volta
per sempre la grazia della comunione con la Parola e col Silen-
zio, da cui essa procede. Molto più, l'incontro con la rivelazio-
ne è entrare nel processo di un'esistenza pasquale, in cui la morte
e la vita si incontrano ogni giorno a favore della vita per chi
si lasci docilmente condurre dall'azione del Paraclito, condizio-
ne di possibilità trascendente dell'esperienza del Mistero: « Tutti
quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli
di Dio » (Rm 8,14). Come negli alti silenzi della Trinità il pro-
cesso eterno della vita si realizza nel mutuo donarsi delle Per-
sone nella forma dell'oblio di sé e dell'autodestinazione all'Altro,
così l'esistenza redenta, che è partecipazione alla vita divina at-
traverso la fede, la speranza e l'amore, è processo pasquale, che
esilia l'uomo da sé e lo nasconde in Dio, fino a fargli perdere
la vita per ritrovarla in Lui e negli altri. Morte e vita si sono
184
incontrate: la carità è morte, perché «non c'è amore più gran-
de di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13); amore è
dimenticare se stessi per autodestinarsi alla vita dell'altro. Proprio
in questo, però, l'amore è vita: solo la carità non tramonterà mai
(cfr. ICor 13,8): « Forte come la morte è l'amore » (Ct 8,6). La fe-
de è morte, perché è un abbandonarsi perdutamente fra le braccia
del Dio nascosto nella Sua rivelazione: « Eccomi, sono la serva
del Signore, avvenga di me quello che hai detto » (Le 1,38). Cre-
dere è dire Yamen dell'affidamento totale, è esodo da sé per stare
nascosti nel Silenzio di Dio: « Voi siete morti e la vostra vita
è ormai nascosta con Cristo in Dio » (Col 3,3). Proprio in que-
sto, però, la fede è vita, giorno dell'Eterno nella notte del tem-
po: « Quando si manifesterà Cristo, allora anche voi sarete mani-
festati con Lui nella gloria » (Col 3,4). La speranza è morte, per-
ché abita nel naufragio di tutte le evidenze, è anticipazione del-
l'invisibile nel segno, spesso doloroso e opaco, del visibile: « Se il
chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece
muore, produce molto frutto » (Gv 12,24). Proprio per questo,
però, la speranza è vita che vince la morte: « Chi ama la sua vita
la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per
la vita eterna » (Gv 12,25). Anche nei loro mutui rapporti carità,
fede e speranza realizzano una sorta di "pericoresi": si inabita-
no reciprocamente, ciascuna come morte e vita di sé nell'altra,
dell'altra in sé. Senza le opere silenziose della carità, è morta la
fede e vana la speranza (cfr. Gc 2,26); senza l'abbandono cre-
dente alla Parola, è privo di radice l'amore e di fondamento l'at-
tesa teologale (cfr. ÌGv 4,19); senza l'incontro con l'eternità di
Dio, futuro del mondo, sperimentato nella speranza, è prigio-
niera della morte la fede ed esposta a ogni fallimento la carità
(cfr. Col 3,3). Fede, carità e speranza sono l'una la fine e il sem-
pre nuovo inizio dell'altra, e perciò lo stimolo profondo a cele-
brare in permanente novità di vita l'incontro trasformante con
il Dio della rivelazione. Vivere in questo gioco di morte e di vi-
ta a favore della vita è lo "star-fuori", l'"ex-sistere" della creatu-
ra redenta, che nello Spirito ha incontrato l'avvento e si è lascia-
ta trasformare da esso. La rivelazione, evento dell'autocomuni-
cazione di Dio, si offre così nello Spirito come il permanente
nuovo inizio della vita personale e della storia del mondo, pro-
cesso del passaggio dalla morte alla vita, di fede in fede, dai si-
lenziosi gesti della carità al Silenzio della Patria, dall'incontro
temporale alla piena e gioiosa comunione nell'Incontro eterno...
185
14.
CELEBRARE L'INCONTRO
186
frammento di mondo in cui il divino viene a dimorare e a co-
municarsi, "mistero" nel forte senso biblico-paolino di Gloria
nascosta e al tempo stesso manifestata sotto i segni della storia.
187
di interpreti e intermediari; "periculum" dice il rischio, la pro-
va, la componente imponderabile connessa ad ogni contatto di-
retto, senza previsioni possibili e senza difese (non diversamente
il greco neìpa significa "prova, cimento, tentativo, esperimen-
t o " , e il verbo rceipco equivale a "passare da parte a parte",
"trapassare, traversare, navigare": alla stessa etimologia si col-
legano le parole "porta" e "porto"). L'esperienza è dunque una
conoscenza diretta e rischiosa, un "viaggiare prendendo con-
tatto con il paese" (com'è secondo l'originario significato del
tedesco "erfahren" = sperimentare, che verrebbe da "Land
fahren" = attraversare il paese), venendo inseriti attraverso la
ricognizione in un processo di apprendimento 4 , un arrischiar-
si verso l'ignoto, che diventa esplorazione e immediatezza di
visione e di sapere.
Si potrebbero dunque attribuire alla conoscenza di esperien-
za i caratteri dell'incontro diretto: è una conoscenza concreta
e immediata, non basata sul "sentito dire", ma sul contatto per-
sonale, che coinvolge la totalità del protagonista sul piano sen-
sibile e su quello intellettuale, implica un rischio ed esige una
certa audacia, stimolando la persona ad essere viva e attiva, e
non semplicemente passivamente recettiva, di fronte a ciò che
accade ("erleben" tedesco — altro termine per designare l'e-
sperienza — dice appunto 1'"esser viventi davanti all'evento").
L'esperienza investe perciò non solo il piano esistenziale della
persona, determinando o modificando il suo modo di vedere la
vita, ma anche il piano "esistentivo", il suo stesso concreto porsi
in rapporto al complesso degli eventi in cui è situata. « L'uomo
ascolta e vede in modo esistenziale quando si comprende, s'in-
terpreta e si esprime da uomo, quando egli è presente con tutta
la prontezza e la verità dell"'Io sono"... Il modo esistenziale
di udire e di vedere è quello in cui la ragione e l'origine di me
stesso, del mio esistere, si rendono presenti allo stesso modo
in cui lo diventa il fine di questo esistere... Se c'è un modo esi-
stenziale di udire e di vedere, ce ne sarà poi anche uno esistenti-
vo, quello che ci coinvolge, c'impegna, ci tocca da vicino: " T u
sei quell'uomo!" (2Sam 12,7), "tua, mea res a g i t u r " » 5 . L'e-
sperienza incide non solo sul "pro-porsi" della persona, nelle
4
Sul concetto di "esperienza" cfr. E. Schillebeeckx, Il Cristo..., o. e, 20ss, con am-
pia bibliografia.
5
H. Fries, Teologìa fondamentale, Brescia 1987, 102s.
188
idee che essa si fa di sé, degli altri, della vita, ma anche nel suo
"porsi", nel concretissimo agire e situarsi nei rapporti dell'esi-
stenza.
Come si realizzano queste caratteristiche della esperienza uma-
na nell'incontro con l'autocomunicazione divina, che è la rive-
lazione? Anche qui c'è una immediatezza, che nella "pienezza
del tempo" si attua nell'incontro personale col Gesù storico e
con Lui risorto dai morti, e successivamente si compie attra-
verso la mediazione del testimone e della Parola di vita, da lui
annunciata: « Ora, come potranno invocarlo senza aver prima
creduto in lui? e come potranno credere, senza averne sentito
parlare? e come potranno sentirne parlare senza uno che lo an-
nunzi? E come lo annunzieranno, senza essere prima inviati? »
(Rm 10,14s). Di testimone in testimone, nella forza dello Spi-
rito, è come se si trasmettesse il contatto diretto col Cristo vi-
vente, in modo che la fede in Lui non si fondi sul sentito dire,
ma sull'esperienza che i viventi possono fare di Lui nella Paro-
la e nello Spirito. Qui emerge il ruolo fondamentale della tra-
smissione della fede apostolica nella Chiesa, che diventa, anche
in questo senso, il "Corpo di Cristo", il luogo concreto e stori-
co dove si può fare diretta esperienza di Lui. In tal modo, il
sensibile — così pregnante nell'esperienza umana — non solo
non è trascurato, ma entra a pieno titolo nell'incontro con la
rivelazione: « I sensi sono ciò che dell'anima è esteriorizzato e
Cristo è Dio che si è esteriorizzato » 6 . Perciò i sensi e Cristo
sono fatti per incontrarsi, e questo avviene nella Chiesa: « Cri-
sto non può essere distinto come un puro abbozzo dai restanti
abbozzi del mondo. Egli appare al singolo nell'immagine globa-
le della Chiesa, nella comunità della fede ogni volta vivente e
storicamente vissuta. La Chiesa è lo spazio più ristretto dell'ir-
raggiamento della sua forma, sul quale non si posa soltanto il
suo raggio come sulle immagini del mondo, ma che è penetrata
da esso e lo può quindi irraggiare a sua volta attivamente» 7 .
Esperienza diretta e immediata, l'incontro con la rivelazione
della Parola non è meno esperienza rischiosa, esposta al pericolo
e alla prova: costitutivamente la prova è implicita nel fatto che
attraverso il visibile e l'udibile l'uomo è chiamato nell'incontro
di fede ad aprirsi all'invisibile e al Silenzio. L'ostendersi di Dio
6
H. Urs voti Balthasar, Gloria. 1: La percezione della forma, Milano 1975, 376.
1
lb., 388.
189
nel Suo ritrarsi, lo svelamento che vela e la Parola, che tace di-
cendo e dice tacendo, sono la sfida alla libertà e all'audacia del-
l'assenso, la prova dello "scandalo", senza la quale non si
perviene alla comunicazione del Mistero: « L'uomo umile e tut-
tavia salvatore e redentore dell'umanità » è veramente « il se-
gno dello scandalo e l'oggetto della fede ». Perciò l'invito, che
nella rivelazione egli rivolge, « sta nel crocevia che divide la morte
dalla vita »: rispetto a lui « si partono due vie, l'una porta allo
scandalo e l'altra alla fede, ma non si giunge mai alla fede senza
passare attraverso la possibilità dello scandalo» 8 . E nella de-
cisione libera e rischiosa della donazione di sé al Dio che si ri-
vela e dell'incondizionata auto-destinazione per Lui, che si
aprono gli occhi della mente e viene mosso il cuore e c'è dolcez-
za nel consentire e nel credere alla verità.
Questa esperienza diretta e rischiosa, che l'uomo fa dell'auto-
comunicazione divina, è suscitata, sostenuta e nutrita dall'opera
dello Spirito Santo: è Lui — si potrebbe dire — l'esperienza del
Mistero, perché è Lui che attualizza la rivelazione e rende possi-
bile e realizza l'incontro dell'uomo con la Parola e col Silenzio,
contagiandogli il coraggio della decisione e provocandolo all'auda-
cia della libertà. Veramente, nell'esperienza dell'incontro si com-
prende perché « dov'è lo Spirito del Signore c'è libertà » (2Cor
3,17)! Grazie al Consolatore l'esperienza umana dell'autocomuni-
cazione divina è incontro autenticamente umano e umanizzante.
Esperienza totale, diretta e immediata, rischiosa e audace, esi-
stenziale ed esistentiva, l'incontro con la rivelazione è "cono-
scenza" nel senso suggerito da una fantasiosa, ma non di meno
suggestiva etimologia del termine: un "nascere insieme" ("cum-
nascere": in francese "connaissance" come "co-naissance"), un
"ri-nascere", nascendo di nuovo e in modo nuovo "dall'alto".
« I n verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da
Spirito, non può entrare nel Regno di D i o » (Gv 3,5).
8
S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze
1972, 693-822, passim.
190
sacramentale: in esso la forma dell'avvento si offre nella manie-
ra più conveniente al vedere e all'udire, al toccare e al gustare
del sentire umano. Il "sacramento" — termine equivalente a
quello biblico-paolino di "mistero" — è il farsi presente dell'a-
zione salvifica del Dio trascendente attraverso la mediazione
di parole e gesti di questo mondo, resi dallo Spirito strumenti
dell'autocomunicazione divina: è la Gloria, che viene a nascon-
dersi e al tempo stesso a irradiarsi nei segni della storia. In que-
sta luce, il grande sacramento di Dio è il Cristo, la Parola fatta
carne, il Verbo uscito dal Silenzio per mettere le Sue tende in
mezzo a noi: Parola visibile — « Questa è infatti la volontà del
Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia
la vita eterna » (Gv 6,40) —, udibile — « Chi ascolta la mia pa-
rola e crede a Colui che mi ha mandato ha la vita eterna » (Gv
5,24) —, palpabile — «Metti qua il tuo dito e guarda le mie
mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non esse-
re più incredulo, ma credente! » (Gv 20,27) —, gustabile — « Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna » (Gv
6,54), Gesù è la suprema autocomunicazione di Dio, il Figlio
eterno venuto fra noi, l'Emmanuele.
E partecipando alla sacramentalità originaria del Cristo che
la Chiesa si pone essa stessa nel tempo come sacramento di sal-
vezza, forma concreta, storicamente determinata, della parte-
cipazione alla vita divina nel tempo degli uomini, "Corpo di
Cristo", "Tempio dello Spirito", "icona della Trinità" 9 : in tal
senso, la Chiesa è la vivente mediazione storica della rivelazio-
ne, il farsi presente della Parola e del Silenzio alla esistenza uma-
na nella forza dello Spirito. Essa è il mistero dell'incontro nella
sua forma comunitaria e sociale, il popolo creato dalla Parola
per adorare il Silenzio e ricondurre all'Origine i dispersi figli
di Dio nella potenza del Consolatore. La Chiesa è in tal senso
il "luogo ermeneutico" della rivelazione: in essa è trasmesso il
dono divino nell'economia delle parole e dei segni voluti dal Si-
gnore; in essa la comprensione della verità rivelata si sviluppa
sotto la guida dello Spirito, ed è resa possibile nella maniera
più vera l'interpretazione del messaggio e la sua comunicazione
vitale al cuore dell'uomo 10.
9
Cfr. B. Forte, La Chiesa, icona della Trinità. Breve ecclesiologia, Brescia 1974.
10
Cfr. su questi temi B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia, Mi-
lano 1987, 166ss (« La vivente memoria della Parola »).
191
Il sacramento, che è la Chiesa, trova negli eventi sacramen-
tali specifici il culmine e la fonte della propria esistenza: i sa-
cramenti sono gli eventi dell'auto-comunicazione divina, offerti
secondo l'economia dei bisogni di nascita, di crescita, di guarigio-
ne e di testimonianza dell'esistenza redenta, nel suo aspetto per-
sonale ed ecclesiale. In essi la rivelazione del Mistero si rende
attuale per l'azione dello Spirito Santo, agente trascendente ne-
cessario di ogni atto sacramentale: la Parola viene resa presente
e contagiosa nella sua economia di incarnazione e il Silenzio —
rivelandosi come Origine ultima e nascosta — si offre al tempo
stesso accessibile come meta e come Patria. Il sacramento ab-
braccia in tal senso l'economia della Parola: lungi dall'essere sepa-
rati, Parola ed evento sacramentale fanno parte dell'unica di-
spensazione nel tempo del dono dell'autocomunicazione divina,
compiutosi nella rivelazione. La Parola risuona come "sacramen-
to udibile" e il sacramento si offre come "Verbo visibile", massi-
ma densificazione dell'evento rivelativo, che è la Parola di Dio.
Veramente, « accedit verbum et fit sacramentum »: il sacramento
è l'evento della Parola nel suo pieno compimento!
Nella densità dell'atto sacramentale è così l'intera economia
della rivelazione che si rende presente e accessibile: Parola, Si-
lenzio e Incontro si raccolgono nella sobria concretezza del se-
gno, per comunicarsi in essa, pur senza in essa esaurirsi. La
Trinità viene a incontrare la storia e la storia si apre alle inson-
dabili profondità divine: nella grazia dell'Incontro sacramenta-
le, operata dallo Spirito, risuona la Parola procedente dal Silenzio
e raggiunge il cuore dell'uomo per comunicargli la vita divina;
nella stessa grazia, attraverso la Parola, la creatura ascolta il Si-
lenzio, e impara a celebrarne la gloria con l'intera sua esisten-
za. Dal Padre per il Figlio nello Spirito viene il dono della
rivelazione, perché nello Spirito per il Figlio tutto ritorni al Pa-
dre, è «Dio sia tutto in tutti» (cfr. ICor 15,28). Dal Silenzio
attraverso la Parola nella comunione dell'Incontro si autocomu-
nica la vita divina negli eventi sacramentali, affinché nell'espe-
rienza personale ed ecclesiale dell'Incontro, attraverso l'ascolto
e la sequela del Verbo, sia celebrata in ogni cuore la gloria del-
l'Origine, e l'universo intero si orienti e cammini verso l'ospi-
tale Silenzio della Patria.
« Signore mio Dio, unica mia speranza,
fa' che stanco non smetta di cercarTi,
192
ma cerchi il Tuo volto sempre con ardore.
Dammi la forza di cercare,
Tu che ti sei fatto incontrare,
e mi hai dato la speranza
di sempre più incontrarTi.
Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza:
conserva quella, guarisci questa.
Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza;
dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare;
dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.
Fa' che mi ricordi di Te,
che intenda Te,
che ami Te...
Amen» 11 .
11
S. Agostino, De Trìnitate, 15, 28, 51.
193
PARTE SECONDA
INIZIO
15.
197
l'uomo è inseparabile dalla lacerazione della natura in cui egli
vive; come, peraltro, la responsabilità della persona si riflette
inevitabilmente sull'universo nel quale essa si esercita. Si può
anzi affermare che è proprio la crisi ecologica a rivelare le di-
mensioni più profonde della scissione che investe l'essere uma-
no. Mai come oggi risulta evidente che il deterioramento delle
condizioni vitali non è un processo autonomo rispetto alle scel-
te dei soggetti umani che operano in esse. La crisi ecologica non
presenta perciò soltanto una fenomenologia, da accettare come
dato scontato, ma anche una eziologia individuabile nei com-
portamenti umani, che va indagata e chiarita: ed è questa inda-
gine delle ragioni, che stanno alla base dei processi che hanno
reso sempre più invivibile la grande casa del mondo, che rivela
la responsabilità delle scelte culturali alle origini del dolore pre-
sente. E anche un diverso modo di concepire l'inizio che pro-
duce comportamenti diversi: perciò, dopo un richiamo alle
caratteristiche della crisi ecologica, bisognerà rivisitarne le ra-
gioni, per verificare le responsabilità. Fra queste si affacciano
come non secondarie quelle della teologia, al punto che prospet-
tare una rinnovata teologia dell'inizio sembra essere un contri-
buto non trascurabile a un rapporto ecologicamente responsabile
fra l'uomo e la grande casa del mondo.
a) La crisi ecologica
1
Sulla crisi ecologica cfr. la denuncia, che ha avuto ampio impatto, del rapporto del
Massachusetts Institute of Technology (MIT) per il Club di Roma, I limiti delh sviluppo,
198
antico, quanto usuale, questo complesso viene designato come
"natura" (dalla radice latina gna, che significa generazione, e
indica quindi il processo generativo e il risultato di esso, e per-
ciò l'ambiente, le forme e i soggetti della vita nella sua genesi
e nel suo sviluppo) 2 .
La natura vive di ritmi ed equilibri, che si sono definiti —
anche attraverso passaggi traumatici — in tempi molto lunghi
a paragone di quelli dell'uomo: in base a questi rapporti conso-
lidati di interdipendenza vitale tutto si tiene col tutto, e nessu-
na modifica "violenta" resta senza conseguenze. « Natura non
facit saltus »: nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasfor-
ma, e ciò che superficialmente appare un "salto" è in realtà un
nuovo rapporto di elementi reciprocamente interagenti nella com-
plessità della grande sfera della vita.
E in questo quadro di totalità dinamica che va letta la "crisi
ecologica", oggi da tante parti denunciata e descritta 3 : essa
Milano 1972. Una preziosa raccolta di dati è offerta annualmente dal rapporto dell'Istitu-
to di controllo ecologico di Washington, diretto da Lester R. Brown: cfr. State of the
World (1988). Rapporto annuale del Worldwatch Institute, Torino 1988. Per i dati relativi
a un solo paese, significativi però dell'interazione con le dimensioni planetarie, cfr. ad
esempio la Relazione sullo stato dell'ambiente del Ministero italiano dell'ambiente, Ro-
ma 1989, articolata in tre parti; « Lo stato dell'ambiente », « I fattori di pressione: per
una lettura integrata del rapporto uomo-ambiente » e « Stato, società civile e ambiente ».
Per un approccio teologico ai problemi dell'ecologia cfr. Basilea: giustizia e pace, a
cura di A. Filippi, Bologna 1989; G. Campanini, II cristiano fedele alla terra. Contributi
a una teologia del mondo, Bologna 1984; R. Faricy, Vento e mare obbeditegli. Approccio
a una teologìa della natura, Assisi 1984; G. B. Guzzetti - E. Gentili, Cristianesimo ed
ecologia, Milano 1989; O.Jensen, Condannati allo sviluppo, he religioni di fronte al pro-
blema ecologico, Torino 1981; J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottrina ecologica del-
la creazione, Brescia 1988; Id., La giustizia crea futuro, Brescia 1990; Questione ecologica
e coscienza cristiana, a cura di A. Caprioli e L. Vaccaro, Brescia 1988; La questione eco-
logica, Roma 1989; Th. Sieger Derr, Ecologìa e liberazione umana. Critica teologica del-
l'uso e abuso del nostro diritto di primogenitura, Brescia 1974.
Per l'approfondimento etico-teologico cfr. in particolare A. Auer, Etica dell'ambien-
te. Un contributo teologico al dibattito ecologico, Brescia 1988; A. Autiero, Essere nel
mondo. Ecologia del bisogno, in Corso di Morale. IL Diakonia, a cura di T. Goffi e G.
Piana, Brescia 1983, 97-125, con bibliografia ragionata (123-125); B. Hàring, Ecolo-
gia ed etica, in Id., Lìberi e fedeli in Cristo, III, Roma 1982, 213-263. Cfr. in prospetti-
va ebraica C. Chalier, L'Alliance avec la nature, Paris 1989. Per una riflessione
etico-filosofica sul tema cfr. M. A. La Torre, Ecologìa e morale. L'irruzione dell'istanza
ecologica nell'etica dell'Occidente, Assisi 1990, con bibliografia (145-153).
2
Cfr. R. Lenoble, Storia dell'idea di natura, Napoli 1975.
3
Fra le tante, una suggestiva descrizione della "crisi ecologica", rapportata alle bi-
bliche "piaghe" inflitte all'Egitto, e articolata intorno ai quattro elementi primordiali
(acqua, terra, aria, fuoco) e all'uomo, si trova in G. Martirani, Una ^interpretazione
storica dell'Occidente, in AA.VV., Alle radici storiche della solidarietà, Viterbo 1990,
129-149. Un rapporto puntuale sulla situazione mondiale in tema di ecologia, unito
a valutazioni pertinenti, è offerto da E. Bonnafous, Dossier completo sull'ecologia nel
mondo, Roma 19753.
199
consiste propriamente nel turbamento indotto nei ritmi e negli
equilibri naturali dalla trasformazione accelerata cui essi sono
sottoposti a causa del comportamento umano. Si potrebbe af-
fermare che il nucleo della crisi ambientale stia nella differenza
tra i "tempi storici" e i "tempi biologici", nella sfasatura cioè
fra i velocissimi tempi della tecnologia e i lentissimi tempi della
biologia4. «Trasformazioni che prima avvenivano in milioni di
anni possono ora avvenire (per lo squilibrio indotto) in poche
decine di anni e le conseguenti variazioni per gli equilibri uma-
ni e sociali corrisponderanno a un'accelerazione di milioni di
anni di storia... I tempi biologici e i tempi storici seguono ritmi
diversi»5. Le conseguenze di questa sfasatura di tempi — di
cui l'esempio forse più eclatante è il possibile impiego distrutti-
vo dell'energia nucleare6 — non sono solo riscontrabili negli
effetti devastanti che essa ha sul deterioramento ambientale e
sul ricambio energetico, ma anche nelle prospettive che si dise-
gnano per i soggetti storici: « I limiti delle risorse, i limiti di
resistenza del nostro pianeta e della sua atmosfera indicano chia-
ramente che quanto più acceleriamo il flusso di energia e di ma-
teria attraverso il sistema-Terra, tanto più accorciamo il tempo
reale a disposizione della nostra specie. Un organismo che con-
suma più rapidamente di quanto l'ambiente produca per la sua
sussistenza non ha possibilità di sopravvivenza » 7 .
Questa lettura della "crisi ecologica" rende ragione anche del
suo carattere di "modernità". In realtà, un approccio "squili-
brato" alla natura da parte dell'uomo è sempre esistito: quello
che è nuovo e "moderno" è il carattere planetario che esso ha
assunto in conseguenza dello sviluppo tecnologico e dell'acce-
lerazione dei tempi di trasformazione ad esso collegati. Mai co-
me negli ultimi due secoli l'uomo ha acquisito tante possibilità
di intervento nel cambiamento della realtà: se la prima "rivolu-
4
Cfr. le interessanti tesi di E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, Milano 1984
5
ìbid., 62.
6
Si pensi alla possibilità dell"'inverno nucleare": con una minima parte degli at-
tuali arsenali nucleari si potrebbe in pochi secondi sollevare nell'atmosfera una tale quan-
tità di fumo, cenere, polvere e scorie, da oscurare per mesi e mesi il sole su interi
continenti, arrestando ogni fotosintesi e facendo calare la temperatura a livelli insoste-
nibili per la sopravvivenza di piante, animali e uomini, Si consideri inoltre il problema
della durata delle radiazioni: il tempo di dimezzamento della radioattività di un reatto-
re nucleare è calcolato in 24 mila anni. Per questi e altri dati relativi alla crisi ecologica
cfr. a livello di seria e documentata divulgazione: Atlante di Gaia. Un pianeta da salva-
re, a cura di N. Myers, Bologna 1987.
7
E. Tiezzi, Tempi storici, tempi biologici, o. e, 56.
200
zione industriale' ' gli ha offerto lo strumento tecnico per agire
sulla trasformazione della natura, accelerando i tempi di pro-
duzione e di consumo dei beni, la seconda rivoluzione — di ca-
rattere tecnologico — ha consentito un'ulteriore accelerazione
degli stessi tempi di progettazione, oltre che di realizzazione,
mentre si profila su tutta la linea la così detta ' 'rivoluzione post-
industriale", indotta dall'uso generalizzato di processori ed ela-
boratori, capaci di "riprodurre" il reale per calcolarne le possi-
bili "resistenze" e individuare le vie di superamento delle stesse,
con interventi in tempo "reale". Al di là delle innegabili diffe-
renze esistenti fra di loro, questi livelli della rivoluzione scien-
tifica sono collegati dalla caratteristica comune della crescente
accelerazione che essi inducono nei processi di trasformazione,
e quindi dall'accrescimento della distanza che si determina fra
il tempo storico e il tempo biologico.
La crescita di complessità dell'"homo sapiens" sembra così
essere inversamente proporzionale alla possibilità di durata del-
l'ecosistema: la minaccia ecologica si profila come la rivincita
del tempo biologico sul tempo storico. Nella crisi ambientale
il duro ceppo della realtà naturale viene a opporsi alla manipo-
lazione di un pensiero presuntuosamente sicuro delle sue po-
tenzialità e della bontà dei cambiamenti, che esso produce.
Questo rilievo già spinge a cercare le ragioni ultime della crisi
ecologica nella mentalità che sta dietro l'esasperata accelerazione
del tempo storico...
8
Cfr. M. Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Id., Sentieri interrotti, Fi-
renze 1984, 71-101.
201
rità come certezza del rappresentare stesso » 9 . Il conoscere di-
viene possesso e dominio del conosciuto, e la ricerca esercizio
della "volontà di potenza" della ragione assoluta: «La ricerca
decide dell'ente sia calcolandone anticipatamente il corso futu-
ro sia completandone il corso passato. Nel primo caso è, per co-
sì dire, posta la natura, nel secondo la storia. Natura e storia
divengono oggetti di una rappresentazione esplicativa. Questa
conta sulla natura e fa i conti con la storia. Solo ciò che diviene
così oggetto è, vale, come essente » 10.
Conseguenza di questa impostazione del conoscere è che l'uo-
mo, soggetto della conoscenza e voce della ragione, si relaziona
al mondo esterno come al vasto campo del suo dominio: gli es-
seri umani, « maitres et possesseurs de la nature » (Descartes),
sono arbitri e misura del destino del mondo! La ragione finaliz-
za ogni cosa al proprio interesse: il « sapere aude » illuministico
si congiunge al «sapere è potere» (Bacone), che sta alla base
del moderno sviluppo della scienza e della tecnica. L'espugna-
zione della natura diventa compito fondamentale del nuovo or-
dine del conoscere: è conoscendolo come è, che si domina il
mondo. « La scienza e la potenza umana coincidono, perché l'i-
gnoranza della causa fa mancare l'effetto. La natura infatti non
si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha va-
lore di causa, nell'operazione ha valore di regola » n . Si profi-
la a pieno campo il trionfo della ragione strumentale!
La forma speculativa in cui prende corpo e trionfa la conce-
zione della conoscenza come dominio è l'equazione idealistica
fra ideale e reale: essa esprime in maniera compiuta la presun-
zione di totalità della ragione "adulta", la sua intolleranza ver-
so ogni limite estrinseco, la sua volontà di chiarezza ed evidenza,
che annullino le pmbre della notte, « in cui tutte le vacche sono
nere» (Hegel). È, su tutta la linea, il trionfo dell'idea: non è
il pensiero che deve adeguarsi alla realtà, ma la realtà che deve
adeguarsi al pensiero. La violenza che si esercita sul reale, per
assimilarlo alla "rappresentazione" concettuale, è percepita come
una forma di affermazione della verità, come uno stabilire 1' 'or-
dre de la raison" sull'irrazionale disordine del tempo storico.
L'idea, in quanto "visione", è possesso: essa abbraccia col suo
9
ft.,83s.
10
Ib., 83.
11
F. Bacone, La grande instaurazione. Aforismi sull'interpretazione della natura e sul
regno dell'uomo, I, 3, in Id., Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Torino 1975, 552.
202
sguardo l'intero oggetto, e non può tollerare residui. La ragio-
ne dell'idealismo moderno è totalizzante: proprio per questo essa
si converte in razionalità strumentale, che finalizza ogni cosa
alla affermazione di sé, al primato della "sua" rappresentazio-
ne del mondo, e perciò al proprio esclusivo interesse. Imperia-
lismo della soggettività, volontà di potenza e rapporto stru-
mentale con la natura si corrispondono.
Anche la concezione del tempo è plasmata dalla "svolta mo-
derna": la ragione, che sa di sapere e vuole tutto dominare, im-
prime ai processi storici di adeguamento del reale all'ideale una
incalzante accelerazione. Questa "fretta della ragione" si esprime
tanto nella crescente rapidità dello sviluppo tecnico e scientifi-
co, quanto nell'urgenza e passione rivoluzionaria, connessa al-
l'ideologia. Il "mito del progresso" non è che un'altra forma
della volontà di potenza della ragione: in esso la presunzione
della finale conciliazione, che superi la dolorosa scissione fra reale
e ideale, diviene chiave di lettura dei processi storici, anima ispi-
ratrice dell'impegno di trasformazione del presente, anticipa-
zione militante di un avvenire dato per certo. Le moderne
"filosofie della storia" sistematizzano il "sogno diurno" della
ragione in visioni totali, che non si limitano a interpretare il
mondo, ma intendono trasformarlo secondo la propria immagi-
ne e somiglianza. L'emancipazione — motivo ispiratore e sem-
pre ammaliante dello spirito moderno — porta con sé una
indiscutibile carica di urgenza, una indifferibile accelerazione
sui tempi: il divario fra "tempo storico" e "tempo biologico"
è spinto al massimo dalla sete di compimento totale, di "solu-
zioni finali", tipica della religione emancipata del progresso.
Non infondatamente c'è chi legge in questo rapporto fra trion-
fo della ragione, volontà di potenza, atteggiamento strumenta-
le verso la natura e accelerazione esasperata del progresso il volto
"maschilista" proprio della modernità: i modelli culturali del
dominio del maschio vengono trasferiti alla razionalità strumen-
tale. Non a caso si dice che la natura nei suoi segreti è violata,
le ricchezze della terra sfruttate, le acque regolate, la foresta
vergine penetrata: « È appunto il linguaggio della violenza eser-
citata dal maschio »12. La storia emancipatoria — che pure ha
prodotto effetti indiscutibili di libertà e di promozione dei di-
ritti umani — si rivela nella sua rischiosa parzialità: dove man-
12
J. Moltmann, La giustizia crea futuro, o. e, 80.
203
ca la reciprocità, si induce lo squilibrio. Il rapporto di dominio
fra uomo e donna viene a corrispondere all'asservimento della
natura al soggetto umano; la reciprocità negata fra maschile-
femminile viene a riflettersi nella relazione squilibrata fra tem-
po storico e tempo biologico, in cui sta la radice ultima della
crisi ecologica. Emblematico in tal senso è il titolo che France-
sco Bacone dà a un suo scritto dedicato alla « grande instaura-
zione del dominio dell'uomo sull'universo »: la vastità e la
grandiosità dell'impresa sono definite « il parto maschio del
tempo » 15 !
13
Cfr. F. Bacone, Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del do-
mìnio dell'uomo sull'universo, in Id., Scritti filosofici, o. e, 101-121.
14
Cfr. Lynn Whitejr., The Historical Roots of Our Ecologica! Crisis, in Science 155
(1967) 1203-1207 (trad. it. in II Mulino, marzo-aprile 1973). La tesi della responsabili-
tà storica del cristianesimo nella crisi ecologica è ripresa e sviluppata ad esempio da
C. Amery, Das Ende der Vorsehung. Vie gnadenlosen Folgen des Christentum, Hamburg
1972; E. Drewermann, Der tódliche Fortschritt. Von derZerstòmng derErde und desMen-
schen im Erbe des Christentums, Regensburg 1980 19833; U. Krolzik, Vmweltkrìse. Folge
des Christentums, Stuttgart-Berlin 1979; G. Liedke, Im Bauch des Fìsches. Òkologische
Theologie, Stuttgart-Berlin 1979.
204
vuto una fondazione assoluta e una completa giustificazione mo-
rale. All'uomo, immagine di Dio e signore del creato, tutto sa-
rebbe permesso nel suo rapporto con gli altri esseri creaturali:
«Se è così, la cristianità porta un grave peso di colpa»15.
La suggestione di questa tesi non deve farne ignorare l'ec-
cesso di semplificazione: il senso originario del testo biblico non
può non essere integrato con l'affermazione dell'altro e più an-
tico racconto della creazione — « Il Signore Dio prese l'uomo
e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custo-
disse» (Gen 2,15) —, dove l'atteggiamento richiesto all'uomo
è tutt'altro che di sopraffazione e si connota anzi con i tratti
dell'attenzione, della sollecitudine, dell'affidamento e della cu-
ra. La stessa "storia degli effetti", poi, mostra come la tradi-
zione ebraico-cristiana abbia espresso esempi altissimi di rapporto
non strumentale ed anzi amorevole con la natura, che non si
comprenderebbero se il significato di Gen 1,28 fosse univoca-
mente negativo: san Francesco e il suo « Cantico delle creatu-
re » ne sono una prova luminosa; la laboriosità benedettina, ricca
di tensione spirituale, un'altra. L'atteggiamento della "conser-
vazione" francescana e quello dell'"organizzazione" benedet-
tina rivelano, in forma diversa, uno stesso rapporto di amore
e di dedizione alla realtà mondana, affidata dal Creatore
all'uomo 16.
Un secondo rimprovero che viene mosso alla tradizione
ebraico-cristiana è quello di aver operato un originario « disin-
canto del mondo » (Max Weber), che avrebbe consentito l'ab-
bandono di ogni atteggiamento sacrale verso la natura: enfa-
tizzando la divinità di Dio e la Sua sovrana trascendenza, il pen-
siero biblico avrebbe operato la più radicale delle secolarizza-
zioni, perché, spopolando l'universo dei suoi "numi", lo avrebbe
ridotto a semplice terra di conquista, abbandonata alla cupidi-
gia dell'uomo. Il monoteismo ebraico-cristiano sarebbe stato fun-
zionale agli interessi umani nei confronti della natura, servendo
da garante teologico dell'esasperato antropocentrismo della con-
cezione biblica.
Anche questa tesi non deve ingannare con la sua suggestio-
ne: mentre è del tutto discutibile l'ipotesi che una natura la-
15
« If so, Christianity bears a huge burden of guilt »: Lynn White Jr, The Histori-
cal Roots..., o. e, 1206.
16
Cfr. R. Dubos, lidio interno, Milano 1977, 151ss.
205
sciata in balia di presunte e capricciose divinità sarebbe stata
veramente più rispettata, c'è anche da domandarsi se non sia
vero piuttosto che proprio la relazione dell'uomo e della natura
all'unico loro Creatore fondi una responsabilità ecologica di al-
to livello nella coscienza del soggetto storico. Inoltre, se il "di-
sincanto del mondo" avesse prodotto effetti così devastanti, ne
sarebbero responsabili gli stessi valori di libertà e maturità del-
l'uomo, che a quel disincanto conseguono, e che appaiono irri-
nunciabili anche nel tempo della crisi ecologica.
Viene infine attribuita alla tradizione teologica ebraico-
cristiana la responsabilità del profilarsi di quella concezione li-
neare del tempo, che è alla base del moderno "mito del pro-
gresso", causa di tanta violenza nei confronti della realtà
naturale, forzatamente piegata alla sua rappresentazione ideale
e totalizzante. La visione biblica dell'esodo e del Regno, la reli-
gione della promessa e l'etica della speranza sarebbero colpevo-
li di aver proiettato gli uomini verso il futuro, imprimendo
un'esasperata accelerazione alla coscienza e alla realizzazione del
tempo storico. Lo squilibrio determinatosi fra tempi biologici
e tempi dell'uomo, attraverso le varie tappe della "rivoluzione
industriale", sarebbe il frutto dell'ideologia violenta, conseguente
alle "filosofie della storia", nate nel solco della cristiana "teo-
logia della storia".
La critica va esaminata nelle due parti che la compongono:
se è indiscutibile la forzatura operata dalle ideologie sul reale
e va denunciata senza mezzi termini la volontà di potenza che
ispira ogni sistema ideologico della totalità, dialettico è il rap-
porto del "mito del progresso" alla religione dell'esodo e del
Regno. La derivazione della moderna "filosofia della storia" dalla
teologia ebraico-cristiana è indubitabile: tuttavia, è proprio dal
rifiuto della radice teologica che nascono i vicoli ciechi dell'i-
deologia moderna17. Dove è perduto il senso della Trascenden-
za, ogni alterità è svuotata di consistenza e l'imperialismo del
soggetto storico ha libero corso, anche nei suoi rapporti con la
natura18. Non è dunque la radice teologica, ma la sua perdita
che trasforma il mito moderno del progresso in una permanen-
17
Cfr. le tesi di K. Lowith, Significato e fine della storia, Milano 1989.
18
Una coraggiosa denuncia delle disastrose conseguenze ecologiche delle realizza-
zioni storiche dell'ideologia è contenuta nella relazione tenuta all'Assemblea Ecumeni-
ca Europea di Basilea (15-21 maggio 1989) dal metropolita Cirillo di Smolensk e
Kaiiningrad: Basilea: giustizia e pace, o. e, 25-56.
206
te minaccia all'equilibrio dei rapporti fra l'uomo e il suo am-
biente. L'analisi delle responsabilità teologiche della crisi eco-
logica mostra dunque l'intreccio dialettico di elementi che vi
si affaccia: se non è possibile accettare le semplificazioni di chi
vede nella concezione biblica la causa remota del disordine esi-
stente nelle relazioni fra soggetti storici e ritmi biologici, non
è possibile neanche escludere semplicemente ogni influenza che
alcune espressioni della tradizione ebraico-cristiana hanno po-
tuto avere sugli squilibri manifestatisi. Ciò che sembra più cor-
retto ammettere è che il pensiero biblico contiene motivi
molteplici, suscettibili di essere isolati e fraintesi, esposti a un
uso strumentale condizionato dagli interessi dei tempi e delle
situazioni. L'interrogativo che nasce diventa allora quello in-
torno al tipo di teologia che è necessario sviluppare per aiutare
la consapevolezza e la prassi di un rapporto ecologicamente re-
sponsabile fra gli uomini e la natura in cui vivono.
207
re a Noè — «il segno dell'alleanza che io ho stabilito tra me
e ogni carne che è sulla terra » (Gen 9,17), « alleanza che io pongo
tra me e voi e tra ogni essere che è con voi per le generazioni
eterne » (Gen 9,12). Pur ricevendo una particolare dignità e re-
sponsabilità, l'uomo sta davanti a Dio nella solidarietà con tut-
to il creato, chiamato a realizzare lo spirito dell'alleanza nel suo
rapporto col Creatore ed in quello con gli altri uomini e l'uni-
verso intero. La natura, di conseguenza, non ha nulla di divi-
no: essa è creatura, come lo è l'uomo. Tuttavia, proprio in quanto
oggetto dell'amore creatore del Dio dell'alleanza, la natura ha
una sua dignità altissima, costantemente richiamata dall'espres-
sione del compiacimento divino dinanzi all'opera dei sei gior-
ni: « Dio vide che era cosa buona » (Gen 1). Il "disincanto del
mondo" compiuto dalla rivelazione biblica si traduce allora non
nel rapporto esclusivo uomo-natura, interpretato nella forma del-
lo sfruttamento e del dominio, ma nella relazione articolata fra
l'universo creaturale, la più alta delle creature e l'unico Creato-
re e Signore del cielo e della terra. Sul piano etico questa rela-
zione impegna l'uomo a render conto al Dio vivente della maniera
in cui si rapporterà alla natura, che l'Eterno ha affidato alle sue
cure.
La forza e il limite di questa concezione stanno nel suo caratte-
re bipolare: da una parte essa vede la presenza e l'azione del Crea-
tore, dall'altra quelle dell'uomo e della natura, solidali nel loro
essere creaturale. E nel quadro di questa dualità che si è svilup-
pata la cosmologia teologica, caratteristica dei trattati scolasti-
ci sulla creazione: essa appare convergente con una possibile
cosmologia filosofica, costruita come riflessione sull'atto di pas-
saggio fra l'essere eterno e l'essere temporale, fra il divino Crea-
tore e la realtà creata. In questa prospettiva un rilievo peculiare
viene dato all'uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio, posto
quasi come essere di frontiera fra i due mondi, il mondo dell'E-
terno da cui tutto viene, e il mondo creato, con i suoi ritmi ed
i suoi tempi e con le possibili tensioni, che in essi possono in-
tervenire. Solo l'uomo è in grado di ammirare « il cielo stellato
sopra di sé, e la legge morale dentro di sé ». E tuttavia, l'uomo
è in grado di produrre paurosi squilibri fra i tempi della natura
e i tempi della storia. Sono questi possibili squilibri che segna-
lano il limite della concezione bipolare "Dio-mondo": essa può
convertirsi in un rapporto di forze, che pone da una parte il
Creatore e colui che ne è il luogotenente nella storia, l'uomo,
208
dall'altra il complesso delle restanti realtà naturali. Su questa
linea, l'antropocentrismo biblico può venir esasperato, fino a
giustificare l'atteggiamento di dominio e di sopraffazione del-
l'uomo sulla creazione. Il « diventerete come Dio », pronostica-
to del Tentatore (Gen 3,5), viene a realizzarsi nella relazione
squilibrata del libero e cosciente soggetto di storia con l'ambiente
in cui è posto.
È il Nuovo Testamento che offre una via di superamento del
rischio insito nella concezione bipolare: la rivelazione del mi-
stero trinitario non solo approfondisce ed innova la visione di
Dio, ma cambia anche profondamente il modo di concepire l'uo-
mo e il suo rapporto con la natura. Nel momento in cui l'Eter-
no non è semplicemente la controparte, trascendente e sovrana,
rispetto al mondo, ma è in se stesso relazione d'amore del Pa-
dre, del Figlio e dello Spirito, è in questa stessa rete di relazio-
ni intradivine che si offre lo spazio per la gratuita e libera
iniziativa divina di dare esistenza, energia e vita al mondo. A
partire dall'evento pasquale, rivelazione suprema del mistero tri-
nitario, è possibile vedere non più solo il mondo davanti a Dio,
ma il mondo in Dio e Dio stesso all'opera nel mondo, pur senza
risolversi in esso.
Il mondo è in Dio: lo è perché il suo inizio è posto nell'atto
libero e gratuito col quale il Padre per il Figlio e in vista di lui
lo ha chiamato ad esistere. La creazione è in tal senso un even-
to del dialogo eterno fra l'Amante e l'Amato, e lo "spazio" della
sua esistenza, inteso come l'eterna condizione della sua possi-
bilità, è la processione eterna del Generato dal Generante. Il
mondo è poi in Dio perché, creando nello Spirito, il Creatore
ha impresso l'impronta di sé in ogni cosa, in modo che l'essere
nel più profondo degli esseri è segnato dal dinamismo trinitario
e vive in qualche modo di questo stesso dinamismo, che pure
immensamente lo supera e lo contiene. Nella relazione intradi-
vina è posta la radice ultima del mistero del mondo, lo spazio
di alterità in cui è dato all'essere creato di esistere come altro
da Dio, pur permanendo in Dio. In verità, solo il Dio trinitario
garantisce al mondo la possibilità di esistere in Dio come altro
da Dio: un Dio rigidamente monoteistico, assimilato all'Uno gre-
co, pone il mondo davanti a sé e fuori di sé, per cui, se il mon-
do è qualcosa, è identico a Lui (panteismo), o, se non è identico
a Lui, è nulla (nichilismo).
Dove il dualismo Uno-molteplice vede 1"'esteriorità" della
209
creatura rispetto al Creatore, la fede trinitaria — e la conse-
guente "ontologia trinitaria", che in base ad essa è possibile
sviluppare — vede 1'"interiorità" del mondo, il suo essere rac-
colto nell'eterno dinamismo della vita divina, pur senza in al-
cun modo confondersi con essa. Il mondo è come « nascosto con
Cristo in Dio » (Col 3,3), al tempo stesso in cui è infinitamente
trasceso dal mistero di Dio. L'incarnazione del Verbo è la ri-
prova che tra Dio e il mondo esiste una infinita differenza: se
il mondo fosse nel grado d'essere di Dio, non ci sarebbe motivo
per la "discesa" del Figlio. Il Verbo incarnato rivela così l'au-
tonomia del mondo, proprio mentre ne manifesta la destinazione
ultima e la dimora presente, il suo essere in Dio, totalmente di-
pendente da Dio e "destinato" a Lui. La creazione si offre al-
lora al tempo stesso come la "kenosi" e lo "splendore" della
Trinità, la forma della Sua libera e gratuita autocomunicazione
nella dialettica di nascondimento e di manifestazione.
In forza della "kenosi" divina nell'atto creatore, di cui la "ke-
nosi" della Croce è suprema rivelazione, Dio e mondo restano
distinti, sì che il creato ha una sua autonoma consistenza e per-
ciò una propria forma e bellezza, espresse nelle categorie della
"terra" e della "corporeità", ma anche nella dialettica di "sa-
lute" e "malattia". In forza dello "splendore" la gloria della
Trinità si irradia già in questo mondo, quasi anticipando i cieli
nuovi e la terra nuova in cui Dio sarà tutto in tutti, come si
è irradiata nella sua più alta rivelazione nel giorno di Pasqua:
Dio nel mondo manifesta l'aspetto anticipatorio della realtà crea-
ta, la dimensione del Regno veniente e del "cielo" nella loro
incidenza sul presente stato del mondo, e l'apertura dello spiri-
to creato alle profondità del Creatore ed all'atto della Sua libe-
ra autocomunicazione (1'"anima").
In nessuna creatura il gioco di "kenosi" e di "splendore" della
Trinità è più manifesto che nell'uomo: si potrebbe dire che l'es-
sere a immagine e somiglianza di Dio ne fa il luogo privilegiato
dello "splendore della kenosi" e della "kenosi dello splendo-
re". Una lettura trinitaria dell'antropocentrismo biblico non ne
nega la rilevanza, ma lo caratterizza come antropocentrismo re-
lazionale: non come despota, ma come custode ed amico l'uo-
mo è posto nel creato, sì che la sua relazione col mondo sia
all'insegna non del dominio, ma della comunione. In analogia
con la vita relazionale della Trinità, l'uomo è fatto per amare,
e realizza se stesso solo se stabilisce con gli altri esseri umani
210
e con tutte le creature una relazione d'amore, proporzionata a
ciascuno.
Quanto è posto all'inizio segna così anche il destino del mon-
do: la lettura trinitaria della creazione si unisce alla visione del-
la Trinità come permanente, adorabile e trascendente "grembo"
della storia. In un tale orizzonte, l'ampiezza del mondo creato
non può essere limitata alla visuale esclusiva dell'uomo, ma ab-
braccia in una reale e misteriosa comunicazione l'intero insie-
me degli esseri: l'universo angelico appare, in questa luce, come
il forte richiamo alla trascendenza del creato rispetto all'oriz-
zonte meramente sensibile e dominabile dall'intelligenza uma-
na. E questo ampio universo delle creature è custodito, nutrito,
conservato e accresciuto nel seno misterioso ed accogliente del-
le relazioni trinitarie: Dio è veramente il mistero del mondo,
in una rete di rapporti vitali, che nulla tolgono alla trascenden-
za divina, e possono essere feriti solo dal peccato dell'uomo,
come dramma del rifiuto del dono della vita veniente dalle sor-
genti eterne. Anche la sfida ecologica acquista in questa pro-
spettiva nuova luce: e sul fondamento della fede pasquale
trinitaria diviene possibile tracciare le linee di una spiritualità
ecologica e di un'etica dell'ambiente ispirate al progetto puro
del cristianesimo, la gloria della Trinità, Dio tutto in tutti 20 .
20
La bibliografia sulla teologia della creazione è molto vasta: fra le opere recenti
cfr. J. Auer, Il mondo come creazione, Assisi 1977; W. Beinert, Cbristus und der Ko-
smos. Perspektiven zu einer Tbeologie der Schópfung, Freiburg i. Br. 1974; L. Bouyer,
Cosmos. Le monde et la gioire de Dieu, Paris 1982; M. Flick - Z. Alszeghy, Il creatore,
Firenze 19643; A. Ganoczy, Dottrina della creazione, Brescia 1985; P. Gisel, La crea-
zione, Genova 1983; R. Guelluy, La Creazione, Roma 1968; A. Hulsbosch, Storia della
creazione, storia della salvezza, Firenze 1967; J. Moltmann, Dio nella creazione. Dottri-
na ecologica della creazione, Brescia 1986; Mysterium Salutis 4, (II/2: La storia della sal-
vezza prima di Cristo), Brescia 1970; G. Panteghini, Il mondo materiale nel piano della
salvezza, Roma 1968; A. Rizzi, Creazione e grazia, in Enciclopedia di Teologia Vanda-
mentale I, Genova 1987, 653-703; J. L. Ruiz de la Pena, Teologia della creazione, Ro-
ma 1988; L. Scheffczyk, Schópfung und Vorsehung (Handbuch der Dogmengeschìchte II/2a),
Freiburg i. Br. 1963; Id., Einfùhrung in die Schòpfungslehre, Darmstadt 1975; P. Schoo-
nenberg, Alleanza e creazione, Brescia 1972; B. Stòckle, Credo nella creazione, Brescia
1969; S. Vergés, Diosy elhombre. La Creación, Madrid 1980; C. Westermann, Crea-
zione, Brescia 1974.
211
16.
212
e raccolto nella sua originarietà, alba preziosa non disponibile
ad alcuna cattura.
E tuttavia il fascino dell'inizio non è cancellato dall'impossi-
bilità logica del suo raggiungimento: è come se l'esperienza stessa
del mondo, nel suo ineliminabile carattere di contingenza, di
finitudine e di morte, pungolasse la sete della conoscenza di ciò
che sta "fuori" e "prima" rispetto al fragile ac-cadere del tem-
po. Lo sfondo oscuro su cui si staglia la luce pallida o corposa
degli esseri, il loro orizzonte prossimo e remoto, il silenzio che
tutto fascia al di là del chiasso della vita, restano domande non
rinunciabili: sono le domande del Parmenide di Platone, aperte
per ogni stagione. L'uno e il molteplice, l'identità e la differen-
za, attendono sempre un'ardita riconciliazione: affermare il trion-
fo dell'identità significa negare la contingenza lacerante del
mondo; risolversi per la vittoria della differenza significa rinun-
ciare all'intelligibilità delle cose e alla possibilità di dare un senso
unificante della vita; affermare insieme la differenza e l'identi-
tà significa rischiare la prigionia di una totalità, che volendo
tutto abbracciare, finisce col perdere il contatto con la miste-
riosa trascendenza del reale. L'ultimo approdo della ricerca volta
a scrutare l'inizio è il senso del mistero che avvolge tutte le co-
se, la percezione dell'incompiutezza di ogni sforzo teso dal bas-
so a voler offrire una spiegazione totale, e perciò la resa al silenzio
invitante dell'ultima sponda.
Questa resa può certo assumere la forma — tragica o rasse-
gnata — della rinuncia nichilista: si può perdere la scommessa
sul senso; si può rinunciare a porsi la domanda, sopprimendo
la stessa nostalgia che è alla base dell'interrogare; si può accet-
tare come unica promessa possibile la dignità eroica di vivere
il frammento del presente, come se fosse capace di ospitare tut-
ta la consistenza — o la leggerezza — dell'essere. Ma la resa
nichilista è solo apparente: in realtà, assegnare al nulla il ruolo
di orizzonte finale significa restare ancora nel trionfo dell'iden-
tità. Anche il nulla — se esteso ad avvolgere tutte le cose —
resta la forma rovesciata del trionfo dell'io: ciò che manca al
nichilista è la vera coscienza dell'altro, il riconoscimento di non
essere il tutto, l'uscita dalla solitudine e dalla rinuncia a comu-
nicare. La resa al nulla resta il canto trionfale dell'identità, la
sua celebrazione nella presunzione più alta...
L'itinerario partito dalla domanda sull'inizio conduce però
a un altro possibile approdo: dove è riconosciuto lo spazio si-
213
lenzioso di ciò che è al di là dello spazio e il tempo senza tempo
di ciò che è al di là del tempo, una voce può offrirsi. Non la
voce veniente dall'ai di qua, semplice prolungamento dei ragio-
namenti mondani imprigionati negli schemi dell'identità, ma la
voce dell'Altro, che sia puramente tale. L'alterità irrompe nel
regno della logica prigioniera di sé; la differenza si fa strada nel
dominio dell'identità. L'evento di questo puro inizio, che su-
pera le secche delle proiezioni dei desideri e dei fallimenti mon-
dani, perché non diviene nella coscienza dell'uomo, ma viene
a lui, indeducibile e improgrammabile, è il miracolo della rive-
lazione. Dove il domandare tace, perché riconosce l'impossibi-
lità di superarsi, l'ascoltare diviene la forma non negligente della
ricerca: l'attesa diventa invocazione; l'esodo fa spazio all'av-
vento.
Rivelazione è l'accadere dell'avvento, il venire al finito del-
l'infinito, il tradursi in parola udibile e percepibile dell'illimi-
tato Silenzio. Se il filosofo postulerà in questa suprema possibilità
l'esplicito affacciarsi dell'unico necessario sull'orizzonte della
contingenza del mondo, il teologo vi riconoscerà l'atto libero
e personale della gratuità che fonda e redime la storia. L'inizio
non è oggetto di dimostrazione, ma di rivelazione: se la sua pos-
sibilità rimanda filosoficamente a una alterità non contingente,
la sua realtà ed effettualità rinvia alla gratuita e libera iniziati-
va dell'amore divino creatore. « Che il mondo non sia sempre
stato, è ritenuto per sola fede, e non può essere provato in ma-
niera dimostrativa... E la ragione di ciò è che la novità del mondo
non può ricevere dimostrazione da parte del mondo stesso »1.
Il conoscere a partire dalla realtà mondana non può trascende-
re le coordinate del tempo e dello spazio, dell'"hic et nunc",
che caratterizzano ogni esperienza del mondo: solo il libero at-
to della rivelazione del Dio vivente, che è fuori dello spazio e
prima del tempo, può comunicare a chi è nel tempo e nello spa-
zio la conoscenza dell'evento che ha posto in essere il tempo
e lo spazio. E solo questa comunicazione dà il vero spessore della
contingenza del mondo, del suo essere avvolto dal puro atto di
liberalità della gratuità creatrice: in questo senso è perfettamente
giusto asserire che « nihil constat de contingentia mundi nisi ex
revelatione » 2 .
1
S. Tommaso d'Aquino, Summa Tbeologiae I q. 46 a. 2c.
2
K. Barth, Die kirchlkhe Dogmatik, III/l, 5.
214
È allora l'atto di rivelazione — riconosciuto nella gratuità della
fede — a illuminare la domanda sulT inizio ed a donare ad essa
una possibilità di risposta: la fede nella creazione è il contribu-
to che la teologia può offrire alla ricerca del senso della vita e
del mondo ed alla fondazione di una piena responsabilità verso
di essi. Il domandare originario del filosofo, figura del più ge-
nerale domandare umano, si incontra nella questione pura del-
l'inizio con l'ascoltare originario del credente: la riflessione
interna alla fede conduce a percorrere in qualche misura i sen-
tieri del silenzio cui è approdata l'impossibilità del conoscere
l'inizio. Per parlare dell'inizio, è necessario porsi in ascolto del
puro auto-comunicarsi di Colui che solo pone l'inizio. E poiché
la rivelazione è atto trinitario — evento unico e in sé distinto
del Silenzio, della Parola e dell'Incontro —, anche la riflessio-
ne credente sull'inizio troverà la sua luce più alta nella storia
trinitaria che si è narrata al mondo nella morte e resurrezione
di Cristo: a partire da essa scruterà — nell'unità dei due Testa-
menti e nella novità del Nuovo — non solo il primo mattino
del mondo, raccolto nell'atto trinitario dell'amore fontale, ma
anche il permanere degli esseri nel grembo adorabile della Tri-
nità Santa, madre trascendente, sovrana ed amorosa dell'uomo
e di tutte le cose3.
Le tappe della riflessione biblico-teologica sull'inizio sono così
tracciate: dopo aver colto la creazione come preistoria dell'al-
leanza nella prospettiva della testimonianza veterotestamenta-
ria, il "dato" emerso dovrà essere interpretato nella rilettura
che esso ha ricevuto dalla fede pasquale delle origini cristiane
e negli approfondimenti di cui essa è stata fatta oggetto nella
successiva storia della fede. Per tale via il pensiero dell'inizio
si offrirà a partire dall'ascolto credente dell'evento di rivelazione,
nell'unica prospettiva, cioè, in cui sia consentito parlarne, sen-
za cadere nella pura e semplice ripetizione della "rappresenta-
zione" del mondo propria di colui che parla.
3
Emerge così la vicinanza di sensibilità ed insieme la profonda lontananza delle ri-
flessioni che seguono rispetto alle tesi di M. Cacciari, Dell'inizio, Milano 1990. La pie-
na concordia sulla decisività del porre la questione dell'inizio e sull'impossibilità logica
di risolverla (cfr. il Libro Primo, 15ss), non elimina, anzi forse evidenzia la diversità
di approccio alla rivelazione trinitaria, accostata da Cacciari nella linea della Filosofia
della rivelazione di Schelling, piuttosto che nella prospettiva teologica pura, qui segui-
ta, dell'ascolto credente dell'offrirsi gratuito dell'Avvento nella Croce e nella Resurre-
zione del Crocifisso.
215
b) La creazione, preistoria dell'alleanza
4
C. Westermann, Creazione, Brescia 1974, 19. Dell'ampia bibliografia sul tema del-
la creazione nell'Antico Testamento basti ricordare — oltre al citato, prezioso testo
di Westermann — La création dans l'Orient ancien, Paris 1987; L'antropologia biblica,
Napoli 1981; Il cosmo nella Bibbia, Napoli 1982; M. Cimosa, Genesi 1-11. Alle origini
dell'uomo, Brescia 1984; F. Festorazzi, La Bibbia e il problema delle origini, Brescia
19682; P. Grelot, Le origini dell'uomo (Gn 1-11), Torino 1981; O. Loretz, Creazione
e mito, Brescia 1974; G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, I (Teologia delle
tradizioni storiche), Brescia 1972; Id., Genesi, Brescia 19782; W. H. Schmidt, Die
Schópfungsgeschichte derPriesterschrift, Neukirchen 1964; C. Westermann, Genesis, Neu-
kirchen 19762; H. W. Wolff, Antropologia dell'Antico Testamento, Brescia 1985 2 . Per
una antologia dei commentari ebraici, patristici, medioevali e moderni al testo della
Genesi cfr. Biblia. I libri della Bibbia interpretati dalla grande Tradizione, AT 1: Genesi,
a cura di U. Neri, Torino 1986.
216
ce sovrapposizione, ma integrazione, operata mediante la rilet-
tura del dato mitico arcaico a partire dalla fede storico-salvifica
d'Israele, senza peraltro escludere una non perfetta fusione di
questi due elementi (testimoniata ad esempio dalle ripetizioni
di Gen 1,6 e 7; 11 e 12; 14s e 16ss; 24 e 25; dalla sfasatura
fra il numero delle opere e il numero dei giorni; e dal contrasto
fra l'atto creatore significato in Gen 1,1 e l'idea di un caos pri-
mordiale, preesistente all'azione creatrice-ordinatrice).
In questa luce, i primi tre capitoli del libro della Genesi non
possono essere letti isolatamente, ma formano un tutt'uno con
i seguenti della tavola di ha-'Adam («l'uomo »: Gen 1-11), do-
ve, nell'intreccio di narrazioni e genealogie, l'essere umano è
visto non solo di fronte a Dio, ma anche nel suo rapporto con
gli altri uomini e con la natura, negli ambiti della socialità, del
lavoro e della vita politica. In tal modo, la responsabilità del-
l'uomo verso il Creatore non è separata da quella nei confronti
delle creature, della comunità degli uomini e della grande "ca-
sa" che è il mondo (Gen 3, la disobbedienza verso Dio, non
è separabile da Gen 4, il delitto contro il fratello). L'unità di
Gen 1-11 impedisce, inoltre, di considerare il lavoro umano nella
sola ottica negativa della punizione del peccato, perché le varie
forme di attività, descritte in Gen 4, restano illuminate dalla
benedizione espressa in 1,26-28 e si presentano come veicoli
della sua trasmissione. Il racconto del diluvio, infine, quando
non sia separato da quello della creazione, mostra come la pro-
messa della conservazione della vita stia in stretta continuità
con la generosità dell'atto creatore, in modo che nell'una e nel-
l'altra viene a risplendere lo stesso amore di Dio e la sua fedel-
tà eterna.
Il racconto della creazione del mondo e dell'uomo in Gen
l,l-2,4a appartiene alla tradizione sacerdotale (P: Priestercodex,
sec. VI-V a.C), quello riportato in Gen 2,4b-24 alla più antica
tradizione jahvista (J, sec. X-IX). Entrambi i testi vanno collo-
cati sullo sfondo delle narrazioni più remote dell'umanità rela-
tive all'inizio, rispetto alle quali si staglia anche la loro peculiare
originalità.
Un primo elemento di assoluta singolarità in Gen 1 è l'arti-
colazione del racconto nei sei giorni, che tendono al riposo del
settimo: la presentazione della creazione della luce è posta per
prima proprio per garantire la distribuzione cronologica delle
opere. L'essere nel tempo viene così privilegiato rispetto al sem-
217
plice esser presente, all'esserci della cosa. Il divenire storico,
il situarsi nella successione degli atti e la conseguente relazione
vitale appaiono più importanti che il dominio dell'oggetto, la
sua forzata riduzione a ente. L'essere, che sta a cuore alla fede
biblica, non è statico, cosificato, ma è l'essere in relazione, l'es-
sere storico, che è quello proprio della prospettiva dell'alleanza
e della storia della salvezza: già qui emerge come la tradizione
delle origini sia riletta alla luce dell'esperienza della fede nel Dio
salvatore, venuto incontro all'uomo nel tempo. « L'ebraismo è
una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo...
La eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel
libro della Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estre-
mamente significativo che essa venga applicata al tempo: "E
Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò". Nel racconto della
creazione, a nessun oggetto dello spazio viene attribuito il ca-
rattere della santità» 5 .
I sei giorni tendono al settimo: il fine di tutte le opere e di
ogni attività ad esse connessa è il riposo di Dio nella creazione
e del creato in Dio nel giorno di sabato. I giorni non son fatti
per susseguirsi senza fine: c'è per essi un termine, che coincide
col riposo sabbatico del Protagonista divino dell'inizio, e che,
rispetto all'inizio, presenta la novità meravigliosa della creatu-
ra associata al Creatore nella festa dell'ultimo giorno. Il tempo
storico è celebrato in tutta la sua dignità, ma ne è anche indica-
ta la relatività, la necessaria provvisorietà: il sabato della crea-
zione dice non solo la finale destinazione di tutto il creato a
Dio e la Sua sovrana trascendenza rispetto a ogni creatura, ma
anche l'incompiutezza del tempo, il suo costitutivo e necessa-
rio riferimento all'eterno, e l'esigenza per tutte le relazioni sto-
riche di inverarsi nel sabato eterno, in cui uomo e natura, singolo
e comunità sono riconciliati nella gioia di Dio. « Il Sabato ci
mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno sia-
mo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a vol-
gerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal
mondo della creazione alla creazione del mondo » 6 .
II fatto che ognuna delle opere di Dio sia vista come buona
da Lui, come ricorda la conclusione di ognuno dei giorni — « E
Dio vide che era cosa buona » —, sta a indicare come essa sia
5
A. J. Heschel, il Sabato, Milano 19873, 14 e 16.
6
Ib., 18.
218
adatta al suo fine, conforme al suo senso, e perciò disposta a
incontrare il Creatore nella festa del settimo giorno: la bontà
e la bellezza delle creature (l'ebraico toh racchiude i due signi-
ficati) sta nel loro essere aperte verso Dio, tutte relative a Lui,
fatte per incontrar Lo ed entrare nel Suo riposo. La storia del-
l'umanità, come quella del mondo, ha una meta di bellezza, e
perciò un senso più forte di ogni caduta e di ogni fallimento
possibile. Il settimo giorno rivela il significato profondo della
bontà del creato e carica il tempo di dignità e di promessa, per-
ché ne mostra l'ultimo sbocco nel giorno del riposo di Dio e
della creazione intera in Lui.
Questa continuità fra il Creatore e la creatura, garantita e
richiamata dal sabato, si congiunge al forte senso della loro al-
terità: di fronte all'unico Signore tutto sta come pura creatura.
Lo stesso uso del verbo bara, che è il "creare" riferito esclusi-
vamente all'azione divina, al puro e originario "porre l'ini-
zio" 7 , nega ogni forma di semplice continuità fra Colui che
crea e quanto è creato. Il fatto che in Gen 1,2 si parli di un
caos primordiale nulla toglie al senso della sovranità e della tra-
scendenza divine: per una mentalità concreta come quella se-
mitica, che ragiona per immagini, il caos è la rappresentazione
figurata del nulla, da cui la volontà divina creatrice chiama li-
beramente le creature all'esistenza. Il sole e la luna, come gli
astri del firmamento, sono visti come opera di Dio, totalmente
sdivinizzati dinanzi a Lui, solidali con la condizione finita di
ogni altra creatura: è qui che la fede biblica — segnata dall'e-
sperienza storica dell'alleanza — compie un obiettivo "disin-
canto" del mondo. La "mondanità" del creato è il preciso
corrispettivo della divinità del Creatore: Dio regna sovrano su
tutte le cose, mentre ciascuna di esse misura in rapporto a Lui
la consistenza e la fragilità del proprio essere. Anche l'uomo rien-
tra in questa assoluta creaturalità: il racconto sacerdotale non
si interessa al modo della creazione dell'uomo, rispettandone
il mistero e situando la creatura umana in una stretta rete di
solidarietà con tutte le altre creature. Si preoccupa però di evi-
denziare — nell'alterità da Dio — l'originaria destinazione del-
l'essere umano a divenirne il partner nell'alleanza: «Facciamo
l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (1,26). Soli-
dale col creato, l'uomo — altro dal Creatore, creatura fra le crea-
7
G. von Rad, Teologia dell'Antico Testamento, I, o. e, 171.
219
ture — è l'interlocutore del Dio vivente, la creatura relazionale
per eccellenza, fatta per la reciprocità (« maschio e femmina li
creò »: v. 27) nella prospettiva dell'originaria unità dei due.
L'immagine e la somiglianza divina vanno lette, dunque, nel-
l'orizzonte dell'alleanza: esse esprimono la capacità dell'uomo
a entrare nel patto in maniera consapevole e libera, la sua atti-
tudine a relazionarsi e a situarsi in un rapporto di accoglienza
e di gratuità. E questa originaria e costitutiva destinazione al-
l'alleanza della creatura responsabile e dotata di libertà che il
racconto intende evidenziare: l'uomo è l'altro protagonista del
patto, l'interlocutore possibile, l'alterità relazionale, capace di
accoglienza o di rifiuto, l'esteriorità del mondo creato rispetto
a Dio, nelle sue riserve di interiorità e quindi nella sua attitudi-
ne all'assenso ospitale e alla comunione col Creatore. «L'uo-
mo — ogni uomo — è creato affinché accada qualcosa tra lui
e Dio, e la sua vita acquisti proprio per questo il suo signi-
ficato » 8 .
E parimenti nella luce dell'alleanza che va letto il versetto
seguente, in cui Dio benedice l'uomo e la donna ed esplicita
questa benedizione nel compito della loro fecondità e del loro
dominio della terra (v. 28). La benedizione è energia di pro-
creazione e di diffusione della vita, che accomuna l'essere uma-
no all'intero mondo animale e stabilisce fra loro vincoli di
solidarietà e di comunione vitale: il dominio della terra, letto
nella prospettiva dell'alleanza, è l'ufficio regale che fa dell'uo-
mo il mediatore della benedizione di Dio a ogni creatura, il re-
sponsabile della conservazione e della crescita della salute del
mondo affidatogli. « L'ingiunzione a dominare la terra è imme-
diatamente connessa con la benedizione delle creature; molti-
plicarsi e dominare sono esplicitazioni della benedizione» 9 . Il
senso.di Gen 1,28 è dunque tutt'altro che l'idea di uno sfrutta-
mento della creazione da parte dell'uomo nella prospettiva di
un antropocentrismo esasperato: come l'alleanza si estende ad
abbracciare l'universo intero, pur passando attraverso il part-
ner umano, fatto a immagine e somiglianza del Protagonista di-
vino, così gli eventi dell'inizio, letti nella luce del patto, mentre
evidenziano il ruolo del protagonista umano, abbracciano con
lui e in lui l'intero mondo creato nel segno dell'unica benedi-
8
C. Westermann, Creazione, o. e, 106.
9
Ih., 96.
220
zione di Dio. Di essa l'uomo è depositario e responsabile verso
tutte le altre creature.
La tensione fra l'origine da Dio dell'uomo e la sua possibilità
di opporsi a Lui è al centro del racconto jahvista della creazio-
ne, indissolubilmente congiunto a quello della caduta: ciò che
emerge come proprio e peculiare di Gen 2-3 è l'attenzione al-
l'uomo come essere relazionale, nel suo rapporto originario e
anche dialettico al Creatore, nel suo costitutivo essere con gli
altri e per gli altri, nel suo legame alla terra dalla quale è tratto,
di cui vive e a cui ritornerà. In questa rete di rapporti, che lo
costituiscono e lo definiscono, l'uomo conserva tuttavia la sua
singolarità: egli è un « essere vivente » {nefesh haja: v. 7), uni-
totalità creata, non scomponibile in parti separate, né riducibi-
le a oggetto o cosa. E l'uomo soggetto di relazioni, protago-
nista dell'accettazione e del rifiuto, l'uomo integrale, che « di-
viene » essere vivente (v. 7) nella complessità dei rapporti vita-
li, dai quali non può prescindere: della sua identità fa parte il
rapporto con l'ambiente (v. 8), il lavoro (v. 15), la comunità
nel suo aspetto di reciprocità interpersonale e di responsabilità
verso ogni altro vivente (vv. 18-24), il linguaggio (vv. 19.23),
il decisivo rapporto con Dio (cap. 3). Un'esistenza carente di
un rapporto armonico col creato o priva del lavoro o svuotata
di legami comunitari e bloccata nella comunicazione appare, in
questa prospettiva, indegna dell'uomo e alienante: solo l'uomo
che sa relazionarsi con attenzione e responsabilità al creato, che
vive il lavoro in ogni sua possibile forma come espressione es-
senziale della sua identità, che si rapporta agli animali associan-
doli al suo mondo in uno scambio vitale, che incontra l'altro
essere umano nella reciprocità nutrita di consapevolezza e li-
bertà, è veramente se stesso davanti a Dio e per il mondo.
In particolare, il rapporto uomo-donna è stabilito nell'asso-
luta parità di dignità, nell'unità originaria che si conserva nel
tempo attraverso l'aiuto reciproco, fatto di comprensione mu-
tua nella parola, nel silenzio e nei gesti: « Se ci si domanda che
cosa si dica qui del rapporto tra uomo e donna quale forma fon-
damentale della comunità, è da rilevare anzitutto che l'intera
esistenza è pensata in senso ampio. Essa sussiste non solo nel-
l'incontro d'amore, con la sua forza elementare di unire due es-
seri umani in una nuova comunità. Questo incontro d'amore
è collocato nell'orizzonte più ampio di una comunione d'amo-
re, in cui l'essenziale è che i due stiano così bene insieme e va-
221
dano così d'accordo che possano aiutarsi a vicenda e vivere l'u-
no per l'altro. Così la comunità di uomo e donna è fatta risali-
re, nella sua essenza, fino ai primordi; soltanto in questa
estensione su tutto l'arco dell'esistenza essa è veramente se
stessa » 10 .
Il complesso di relazioni storiche in cui l'uomo è pos,to trova
il suo fondamento e la sua verifica nella relazione con Dio: i
caratteri di questo rapporto — espressi nel racconto sacerdota-
le della creazione con concetti — sono presentati in forma nar-
rativa nel racconto della caduta (Gen 3). Come l'idea del-
l'immagine e somiglianza del Creatore veicolava la capacità del-
l'uomo a entrare liberamente nell'alleanza, così il comandamento
di Gen 2,17 e il dialogo della tentazione in Gen 3 esprimono
il fatto che l'uomo è costituito nella pura alterità e nella radica-
le libertà davanti al Creatore e Signore della sua vita e della
storia. L'esteriorità del precetto è condizione dell'interiore de-
cisione di assenso o di rifiuto da parte della creatura: la libertà
del comportamento si afferma nei confronti del comando posto
davanti all'uomo. Tuttavia, questa libertà non è assoluta, sen-
za condizioni: che essa sia fragile ed esposta al fraintendimento
e all'inganno lo mostra il racconto della seduzione da parte del
Tentatore. Esso rivela la seduzione stessa come fenomeno uma-
no, e perciò manifesta quanto sia limitato l'essere della creatu-
ra, quanto soggiaccia alla dura condizione del conoscere per
esperienza, e quanto viva nella dialettica fra apertura trascen-
dentale infinita dello spirito e necessaria finitudine di ogni de-
terminazione concreta, in cui di fatto la libertà viene ad
esprimersi. Si comprende in questa luce l'essenza del peccato:
essa non sta nel volere l'infinito, ma nel volerlo autonomamen-
te da Dio, nel costringerlo nel proprio limitato orizzonte, nel-
l'ergersi a giudici e signori esclusivi del proprio destino, nel
chiudere le porte all'Altro. E del peccato si comprende così an-
che il fascino: esso accresce indubbiamente la conoscenza, per-
ché fa fare esperienza di ciò che altrimenti resterebbe possibilità
irrealizzata; esso dona l'illusoria ebbrezza di determinare da sé
il proprio futuro, di decidere del proprio essere possedendolo
in proprio. Negando l'Altro, l'uomo ha l'impressione di affer-
mare se stesso: non tarderà ad accorgersi di quanto povera sia
questa conquista. La vergogna, che segue al peccato (vv. 8ss),
10
ih., 146s.
222
mostra l'acquisita consapevolezza del proprio limite, il senso nuo-
vo e doloroso della propria finitudine materiale e morale, ma
proprio per questo il nuovo livello di conoscenza, cui la colpa
conduce, e il prezzo amaro che esso comporta.
Il dialogo fra Dio e i progenitori dopo la caduta mostra in
forma narrativa il peso di responsabilità che implica per l'uomo
l'essere fatto per l'alleanza: il tentativo dei due di deresponsa-
bilizzarsi fa risaltare ancor più la grandezza e la miseria della
loro libertà, mentre lascia trasparire il livello oscuro di ango-
scia e di solitudine in cui pesca il dramma del peccato. Il ser-
pente, cui la donna rimanda, non viene interrogato: l'ultima
origine della colpa resta inspiegata, presenza tenebrosa e incom-
bente della realtà del male. Così il racconto veicola due dati pre-
ziosi: l'uomo è responsabile delle sue azioni, ma non è responsa-
bile della realtà del male in quanto tale. Questa l'avvolge, l'at-
trae, lo compenetra, ma egli ne diviene partecipe solo in forza
di una libera scelta, quando, rifiutando di affidarsi all'oscura
e vivificante presenza di Dio, cede alla tentazione di farsi pa-
drone esclusivo di sé e del proprio destino. Ed è con l'esperien-
za del peccato che il limite costitutivo della creatura, il suo essere
necessariamente temporale e finito, viene avvertito con nuova
pesantezza e dolore: la sofferenza e la morte entrano nel mon-
do con la colpa non perché prima non vi fossero, ma perché con
la conoscenza scaturita dal peccato e col disordine da esso in-
trodotto esse gravano sulla coscienza dell'uomo e sulla realtà
del creato con pesantezza e negatività nuove.
La cacciata dal giardino rende in immagine densa questa nuova
condizione: con e al cospetto di Dio, l'uomo vive separato da
Dio; la Sua benedizione non l'abbandona, né si ritrae la fedeltà
dell'Eterno (è Dio stesso a preoccuparsi di fabbricare all'uomo
tuniche di pelli: 3,21; è sempre Lui il datore della vita: 4,1);
tuttavia, il prezzo necessario per vivere in pienezza la propria
esistenza terrena diviene ben più arduo e gravoso. Il contrasto
fra l'originaria chiamata alla vita e la quotidiana esperienza del-
l'essere destinato alla morte diviene lacerazione e fatica: colui
che è stato creato per stabilire col Creatore un'alleanza eterna,
sperimenta con le conseguenze del peccato la miseria della pro-
pria condizione, che ha voluto assolutizzare e di cui ha scoper-
to tutta la drammaticità con la disobbedienza del peccato.
La prosecuzione teologica dell'opera dei sei giorni e della sua
destinazione al sabato è offerta dal racconto dell'alleanza con
223
Noè: la corruzione del mondo (Gen 6,5ss), il decreto divino di
giudizio (Gen 6,7.13) e l'inaudita nuova possibilità offerta alle
creature in un patto che investe l'universo intero (cfr. Gen 9,8ss)
mostrano come la creazione tenda all'alleanza con Dio e si compia
veramente soltanto in essa. La fedeltà divina al patto è più for-
te dell'infedeltà umana: l'autodestinazione libera e gratuita di
Dio per il mondo mostra come il vero fondamento intrinseco
del creato e la sua realizzazione più piena stiano nelP autodesti-
nazione dell'uomo a Dio in un rapporto di comunione con tut-
te le altre creature. Noè è la figura dell'essere umano solidale
e responsabile nei confronti di tutto ciò che esiste davanti al
Signore della storia: nella sua vicenda l'alleanza storica — nella
cui luce è riletto l'inizio — si estende a divenire la chiave inter-
pretativa dell'alleanza cosmica, il senso e il fine del creato e della
sua storia. La fedeltà del Dio che salva viene ad abbracciare l'u-
niverso intero, come provvidente fedeltà del Dio che ha creato
e mantiene in vita ogni essere.
All'infuori dalla tavola di ha-'aàam l'unico testo dell'Antico
Testamento che situi le affermazioni circa la creazione in un
quadro teologico unitario, di chiara impronta storico-salvifica,
è il Deutero-Isaia (Is 40-55), il "libro della consolazione": l'eso-
do dalla schiavitù di Babilonia vi viene atteso come un nuovo
esodo, che è anche, al pari del primo, un atto della potenza crea-
trice di Dio. L'annuncio della liberazione (40,lss) si congiunge
alla celebrazione della grandezza del Creatore (40,12ss); la nul-
lità degli idoli (41,21ss) magnifica per contrasto l'onnipotenza
del Signore (43,8ss); e nel Servo sofferente — protagonista del-
l'attesa redenzione — si manifesta la chiamata e l'opera di Co-
lui « che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che
vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l'alito a quanti
camminano in essa » (Is 42,5). Per la prima volta il termine tec-
nico indicativo della creazione primordiale {bara) è usato in Is
43,1 e 15 per designare la formazione del popolo eletto: signifi-
cativo congiungimento linguistico fra l'atto creatore e l'azione
del Dio salvatore nella storia d'Israele!
La domanda sottesa a queste testimonianze non è solo la ge-
nerale questione del senso del dolore del mondo e della caduci-
tà dell'esistenza, come in Gen 1-11, ma anche, molto concre-
tamente, il bisogno di liberazione di un popolo, che ha cono-
sciuto la sofferenza dell'esilio e della schiavitù e fonda la fidu-
cia nel suo Dio liberatore nella certezza dell'onnipotenza creatrice
224
e della fedeltà di Lui. Sarà in questa linea che il Trito-Isaia si
aprirà alla speranza di una nuova creazione, che non solo rin-
novi i prodigi della prima, ma porti l'opera dei sei giorni al suo
definitivo e sorprendente compimento: « Ecco infatti io creo
nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non
verrà più in mente, poiché si godrà e si gioirà sempre di quello
che sto per creare» (Is 65,17s; cfr. 66,22).
Se la teologia storico-salvifica della creazione, presente in Gen
1-11 e nei testi profetici citati, evidenzia l'iniziativa libera e
gratuita del Creatore e illumina nella prospettiva del patto le
possibilità della decisione affidata alla creatura, il motivo della
risposta della lode di fronte alle meraviglie operate dal Signore
nel creato e nella storia è ricorrente nei Salmi: la vicenda del
popolo eletto (cfr. Sai 78) o quella del singolo credente (cfr. Sai
22) è l'esperienza che spinge alla lode; questa si nutre della con-
templazione di Colui, che ha creato i cieli e ha stabilito la terra
e dà il cibo ad ogni vivente (cfr. Sai 136), e tutto ha fatto me-
diante la Sua parola (cfr. Sai 33,6 e 9, e 148,5). Lo splendore
della creazione rinvia alla grandezza del Creatore, in una medi-
tazione in cui il "disincanto del mondo" si salda allo stupore
e all'adorazione nei confronti dell'unico Signore (cfr. Sai 104).
La gioia di Dio di fronte alla Sua opera si unisce alla gioia del-
l'uomo, che ne celebra la grandezza: « Gioisca il Signore delle
sue opere... Voglio cantare al mio Dio finché esisto... la mia
gioia è nel Signore » (Sai 104,3 lss). Tutta la creazione è convo-
cata peraltro dal salmista per celebrare la gloria del Creatore
e renderGli testimonianza col fatto stesso di esserci (cfr. Sai 148
e inizio del Sai 19) n .
Il motivo dell'azione divina creatrice e quello della risposta
dell'uomo nell'atto della lode si uniscono, infine, nella medita-
zione sapienziale d'Israele: essa contempla nell'ordinaria esperienza
della vita, impastata di prova e di dolore (cfr. Giobbe), e nello
svolgersi dei ritmi della natura (cfr. ad esempio Sir 43,2-31),
l'impronta della presenza provvidente e ordinatrice del Crea-
tore (Pr 3,19-21 e 8,22s sottolineano l'ordine del mondo, che
promana dall'intelligenza divina). Questa meditazione sfocia nel-
la personificazione della Sapienza, colta tanto nel suo aspetto
divino, quale termine del riconoscimento e della lode (« artefi-
11
Cfr. C. Westermann, La créatìon dans les Psaumes, in La Création dans l'Orient
ancien, o. e, 301-321. Cfr. pure ld..Salmi. Genesi ed esegesi, Casale Monferrato 1990.
225
ce di tutte le cose », come afferma Sap 7,21, « emanazione del-
la potenza di Dio, effluvio genuino della gloria dell'Onnipo-
tente », come si dice in Sap 7,25, presente all'atto della crea-
zione, come ricorda Sap 9,9, può testimoniare di sé in Pr 8,35:
« Chi trova me, trova la vita », e lodare se stessa nei suoi tratti
quasi divini in Sir 24,1-9), quanto nel suo carattere di creatura
distinta dal Creatore, nel suo aspetto di impronta creata dell'a-
gire divino (« Il Signore mi ha creato all'inizio della sua attivi-
tà, prima di ogni sua opera... Quando non esistevano gli abissi,
io fui generata»: Pr 8,22.24). L'idea della profonda compene-
trazione fra l'opera divina creatrice e l'esistenza umana, nella
sua capacità di riconoscimento e di risposta sapienziale, si esprime
nell'uso frequente del termine "cosmo" per designare il mon-
do come insieme ordinato (diciannove volte nel libro della Sa-
pienza), e nell'insistenza sulla continua, amorevole presenza di
Dio alla sua opera (Sap 6,7; 11,22-26; 12,13.16.18), collegata
all'idea di «provvidenza» (Sap 14,3; 17,2). E così che alla sa-
pienza d'Israele apparirà stolto chi non sa riconoscere dalla gran-
dezza e bellezza delle creature per « analogia » il loro autore (cfr.
Sap 13,1-5).
La meditazione veterotestamentaria sulla creazione trova
un'ultima espressione, altissima e di commovente immediatez-
za, nella testimonianza della madre dei sette martiri maccabei:
« Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, osserva quanto
vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesistenti;
tale è anche l'origine del genere umano» (2Mac 7,28). In un
contesto analogo a quello dei profeti dell'esilio, ritorna il richiamo
alla creazione come motivo di speranza di fronte al dolore pre-
sente, quale testimonianza dell'onnipotenza e della fedeltà del
Dio dell'alleanza. La prospettiva storico-salvifica del patto si
offre ancora una volta come motivo unificante della lettura che
Israele dà del creato: iniziativa e fedeltà divina nella creazione,
risposta meditativa e celebrante dell'uomo sono i due poli dello
stesso rapporto d'alleanza, in cui la rilettura biblica ha inscrit-
to la sua riflessione sull'inizio.
226
cifisso Risorto della comunità cristiana delle origini ha riletto
il dato preesistente della concezione veterotestamentaria della
creazione: questa rilettura, pur essendo necessariamente succes-
siva all'esperienza fontale dell'incontro col Signore Gesù, non
ne è distanziata cronologicamente, perché sin dal primo momento
l'evento Cristo trasforma così radicalmente la vita dei discepo-
li da indurli a ripensare nella sua luce il loro presente, il loro
passato, inserito in quello della storia della salvezza fino al pri-
mo mattino del mondo, e il loro futuro, in direzione del compi-
mento ultimo e definitivo. Gli inni che veicolano questa "cri-
stologia cosmica" sono pre-paolini: la loro appartenenza alla più
antica liturgia cristiana testimonia come l'esperienza pasquale
e la riflessione sulla creazione si siano saldate nella coscienza
della fede sin dalle origini del movimento cristiano. Il compi-
mento ha illuminato di luce nuova l'inizio; la pienezza cristolo-
gica ha rivelato le profondità dell'atto creatore; l'escatologia ha
offerto la chiave di comprensione della protologia 12 .
Il dato biblico veterotestamentario relativo alla creazione
emerge con chiarezza nei testi del Nuovo Testamento: che tut-
to provenga da Dio (cfr. ICor 11,12; Rm 11,36; l T m 6 , 1 3 ; A t
4,24; 14,15; 17,24) e che tutto Gli appartenga (cfr. ICor 10,26
e Sai 24,1), che Egli abbia chiamato all'esistenza ogni cosa me-
diante la Sua parola (cfr. Rm 4,17 e 2Cor 4,6) è convinzione
data per scontata. Il rapporto fra il Creatore e la creatura è per-
cepito con i tratti della tenerezza paterna, che riflettono l'idea
che Gesù trasmette di Dio come Abbà (cfr. ad esempio Mt 5,45;
10,29; Le 6,35). Ciò che è assolutamente nuovo è la rilettura
che questo dato riceve alla luce dell'evento pasquale: la resur-
rezione del Crocefisso è colta non solo come il nuovo inizio della
Sua opera, ma anche come la vera svolta della storia del mon-
do. L'identità nella contraddizione, che i racconti pasquali con-
fessano a riguardo del rapporto fra l'Umiliato del Venerdì Santo
e l'Esaltato da Dio, vittorioso sulla morte, si estende a com-
prendere la vita dei discepoli, che da pavidi fuggiaschi si tra-
sformano in coraggiosi testimoni, e l'intera vicenda mondana
12
Per la testimonianza neotestamentaria sulla creazione, oltre alle opere sulla teo-
logia del Nuovo Testamento e le trattazioni corrispondenti nei manuali di teologia del-
la creazione, cfr. in particolare W. Foerster, Kxilfa, in Grande lessico del Nuovo
Testamento, V, Brescia 1969, 1235-1330 e F. Mussner, Creazione in Cristo, in Myste-
rium Salutis IV, Brescia 1970, 77-86, con bibliografia.
227
sin dal suo primo inizio 13. Tutto è lo stesso e non è più lo stes-
so: tutto ciò che esiste è creazione, eppure lo è in un modo, che
l'evento della Pasqua illumina di luce nuova. La resurrezione
di Cristo è la nuova creazione, che manifesta, pur senza esau-
rirle, le nascoste profondità della prima creazione: la novità del
Vangelo di Dio, promesso per mezzo dei profeti e ora annun-
ciato dall'Apostolo, riguarda « il Figlio suo, nato dalla stirpe di
Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza
secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai
morti, Gesù Cristo, nostro Signore» (Rm l,3s). L'evento del
risuscitamento del Figlio come storia trinitaria è la chiave in-
terpretativa dell'atto creatore, concepito ormai come atto tri-
nitario. La memoria pasquale illumina delle relazioni intradivine
l'inizio 14.
Questo processo di rilettura pasquale è registrato nei testi della
cosiddetta "cristologia cosmica": essi superano la semplice bi-
polarità Creatore-creatura, per cogliere la presenza del Cristo
nell'atto creatore come mediazione universale originaria, come
centro e fine del creato, come destino ultimo di tutto ciò che
esiste. « Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto pro-
viene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, per
mezzo del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui »
(ICor 8,6): secondo questa confessione la realtà intera è opera
del Padre e del Figlio, in un gioco di relazioni diversificate, per
cui tutto viene da Dio Padre e tende a Lui (si, ed sìcj e tutto
passa per la mediazione del Cristo (Sia), originaria e finale. L'u-
nico mediatore della salvezza (cfr. l T m 2,5) è il mediatore uni-
versale della creazione: l'esperienza del Dio che salva determina
anche qui il riconoscimento del Dio che crea. E come la salvez-
za è ormai sperimentata in una rete di relazioni divine — il Pa-
dre resuscita il Figlio e dà vita a noi per mezzo di Lui —, così
la creazione è colta nella relazione dell'Origine e della Destina-
zione divine — il Padre — con Colui che è la Mediazione asso-
luta della vita divina e del suo rapporto col mondo — il Figlio
— : il messaggio è così esplicito, che alcuni codici hanno senti-
to il bisogno di completarlo, aggiungendo al testo la frase « e
13
Per questa idea dell'"identità nella contraddizione" applicata alla Pasqua cfr. B.
Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Roma 1981, 88ss e 168ss.
14
Per la riflessione sulla creazione come atto trinitario cfr. B. Forte, Trinità come
storia, Milano 1985, 51ss e lólss.
228
uno lo Spirito Santo, nel quale tutte le cose e noi in Lui »! Que-
sta relazione complessa non è avvertita in alcun modo in con-
correnza col monoteismo biblico, come dimostra l'intento
polemico antipoliteista dell'affermazione nel suo immediato con-
testo (cfr. v. 5). Se è probabile riconoscere un ascendente su
questo testo della personificazione della Sapienza divina crea-
trice in Pr 8,22ss e Sir 24,1-9, non può non sorprendere la ra-
pidità e la maturità con cui la fede cristiana ha integrato il
monoteismo ebraico con la confessione pasquale trinitaria, an-
che a proposito della creazione.
Il Mediatore di tutto il creato è anche forma originaria di es-
so: « Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni
creatura; poiché per mezzo di lui sono state create tutte le co-
se, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle in-
visibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose
sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima
di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo
del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di colo-
ro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte
le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienez-
za e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacifi-
cando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le
cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli » (Col 1,15-20). Anche
in questo inno della primitiva liturgia cristiana, è l'esperienza
della salvezza per mezzo di Cristo che induce a riconoscere in
Lui, « immagine del Dio invisibile », il mediatore, il principio,
la forma e il centro della creazione: tutto è in, mediante e in
vista di Cristo; tutto ha una impronta cristologica e trova nel
« generato prima di ogni creatura » non solo il riconciliatore del
tempo ultimo, ma anche l'archetipo originario, la misura della
propria consistenza e verità. « Tutte le cose sussistono in lui »:
ciò che è avvenuto nell'atto dell'inizio, si perpetua nell'esisten-
za del creato. Tutto vive nello spazio della relazione fra il Pa-
dre e l'eterno Generato: quanto è stato chiamato ad esistere per
mezzo di Lui, vive anche in Lui e in vista di Lui. Si potrebbe
concludere che la generazione del Figlio è il "luogo" eterno della
creazione, il processo divino in cui essa accade, la condizione
trascendente di possibilità del creato. « Erede di tutte le cose »,
per mezzo del quale Dio ha fatto il mondo, il Figlio, «irradia-
zione della sua gloria e impronta della sua sostanza », « sostiene
tutto con la potenza della sua parola » (Eb 1,1-3): la mediazio-
229
ne salvifica universale del Cristo rivela l'eterna mediazione del
Figlio, Parola divina, in cui e per cui tutto vive.
Mediatore universale della creazione, principio e forma ar-
chetipa di tutto ciò che esiste, il Risorto rivela anche il destino
di tutto il creato: lo dimostra l'inno di azione di grazie, con cui
si apre la lettera agli Efesini (Ef 1,3-14). Presentando il dise-
gno eterno di Dio sulla creazione in forma di benedizione, il
testo indica nel Cristo il "luogo" dell'eterna elezione e prede-
stinazione delle creature e al tempo stesso il ricapitolatore fina-
le di tutto quanto esiste: « Benedetto sia Dio, Padre del Signore
nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione
spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della crea-
zione del mondo... Egli ci ha fatto conoscere il mistero della
sua volontà...: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le
cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef l,3s. 9s). È
come se, creando, Dio Padre non solo abbia agito per mezzo
di Cristo e in vista di Lui, ma in Lui abbia operato la sua ele-
zione di grazia e in Lui voglia portarla a compimento: il Figlio
è al tempo stesso causa efficiente, formale, esemplare e finale
di tutto ciò che esiste. La creazione si svolge nel dialogo eterno
di Dio con Dio, del Padre col Figlio, per una decisione divina
libera e gratuita, che è il "mistero", il disegno di grazia per il
quale tutto è chiamato ad esistere e a raggiungere la sua pienez-
za finale nel Cristo.
L'insieme dei motivi della "cristologia cosmica" è presente
anche nel denso prologo del quarto Vangelo: Gv 1 si presenta
come una nuova Genesi alla luce dell'evento Cristo. La formu-
la d'introduzione è la stessa, secondo la versione greca dei LXX:
« in principio »; la struttura settimanale scandisce il racconto (cfr.
vv. 29.35.43; 2,1); il richiamo alla Parola creatrice è esplicito
(v. 3), come pure il riferimento al gioco della luce e delle tene-
bre (vv. 4 e 5). Se è intenzionale la continuità con la prima crea-
zione, non meno evidente è la novità offerta dall'evento pasquale:
essa emerge sin dalla formula « in principio », che rimanda non
al primo momento del tempo, ma all'eternità del Verbo, che
era presso Dio. La preesistenza del Logos, il suo eterno faccia
a faccia con Dio, è l'ambito trascendente in cui si pone l'atto
creatore: « Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto
per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò
che esiste» (1,3). Quanto vive è in Lui che vive (cfr. v. 4); il
suo avvento nel mondo rivela come « il mondo fu fatto per mezzo
230
di lui » (v. 10) e come dalla sua pienezza ogni grazia sia ricevuta
(cfr. v. 16). Il suo venire da Dio e porre la tenda in mezzo a
noi mostra non solo il venire da Dio di tutto ciò che esiste, ma
anche il permanere in Dio delle creature e la possibilità offerta
ad esse di partecipare alla pienezza divina mediante la Parola
fatta carne. L'avvento della Luce nelle tenebre rivela al tempo
stesso la creazione come proveniente da Dio e come destinata
a Lui nell'unica mediazione del Verbo, preesistente e incarna-
to. Anche qui l'esperienza salvifica rimanda alle eterne profon-
dità divine e schiude l'accesso alla possibilità di conoscere l'inizio
e il suo significato per noi: il Verbo preesistente è lo stesso che
si è fatto carne, per mezzo del quale tutto è stato creato e viene
ora ri-creato nella grazia e nella verità (v. 14: binomio corri-
spondente all'ebraico hesed-emet, compendio di tutti i beni sal-
vifici, come mostrano ad esempio i Sai 25,10; 61,8; ecc.). Nel-
l'esplicita, caratteristica accentuazione dell'evento dell'incarna-
zione, ritornano così nel prologo di Giovanni le grandi idee della
cristologia cosmica attestata nella tradizione paolina 15.
Tutto, dunque, è creato per mezzo di Cristo e in vista di Lui:
tutto vive in Lui. La relazione fra Dio Padre e il Figlio è il "luo-
go" eterno in cui viene a porsi la decisione divina, libera e gra-
tuita, di creare il mondo. L'azione dei due non esclude lo Spirito
Santo, nel quale si compie di fatto l'atto creatore e l'opera del-
la "nuova creazione" e in cui l'intero creato riceve esistenza,
energia e vita: come il Crocifisso è stato risuscitato da Dio « se-
condo lo Spirito di santificazione » (Rm 1,4), così la nuova crea-
zione si compie nello Spirito, datore di vita: « Se lo Spirito di
colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che
ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi
mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (Rm 8,11).
Lo Spirito, che « soffia dove vuole » (Gv 3,8), è colui « che dà
la vita » (Gv 6,63). L'intero creato, peraltro, solidale con l'uo-
mo nella caducità, « geme e soffre nelle doglie del parto » (Rm
8,22), in sintonia col gemito di chi possiede le primizie dello
Spirito (cfr. v. 23) e con gli « inesprimibili gemiti » dello Spiri-
to stesso (cfr. v. 26). Su ogni creatura il Risorto ha effuso il
Suo Spirito (cfr. At 2,17 e 33), che è stato «mandato» (cfr.
Gal 4,6; lPt 1,12), «versato » (cfr. Rm 5,5; ICor 12,13; Tt 3,6),
« consegnato » (cfr. Gv 19,30), « elargito » (cfr. Gal 3,5; Fil 1,19),
15
Cfr. A. Feuillet, Le prologue du quatrième évangile, Bruges 1968, 275-284.
231
«dato » (cfr. 2Cor 1,22; 5,5; Ef 1,17; lTs 4,8; l G v 3,24; 4,13)
e corrispondentemente « ricevuto » (cfr. Gv 7,39; Rm 8,15; ICor
2,12; 2Cor 11,4; Gal 3,2.14): si potrebbe affermare che è lo
Spirito il punto di contatto fra Dio e il mondo, mediante Cri-
sto e l'umanità nuova che Egli ha inaugurato. La densità della
presenza dello Spirito nell'opera della salvezza — intesa frequen-
temente come «nuova creazione» (cfr. 2Cor 5,17; Gal 6,15;
Col 3,10) — lascia pertanto intravedere il suo ruolo nell'opera
della creazione, in stretto rapporto con quello del Padre e del
Figlio. Lo Spirito, che «abita» (cfr. Rm 8,9.11; ICor 3,16) o
«inabita» (cfr. Rm 8,11; 2Tm 1,14) nella «nuova creatura»,
è dimora di Dio nel creato e al tempo stesso è Colui che alimen-
ta nella creazione la speranza di dimorare in Dio, entrando nel-
la Sua gloria (cfr. Rm 8,19ss).
La luce nuova che l'evento pasquale getta sul mistero dell'i-
nizio sta dunque tutta nelle possibilità offerte per l'approfon-
dimento trinitario: sebbene non tematizzata nelle forme che
assumerà attraverso lo sviluppo del dogma, la fede trinitaria —
radicata nella parola e nell'opera del Nazareno e proclamata in
stretta connessione col Vangelo della Sua morte e resurrezione
— rilegge la concezione biblica della creazione all'interno delle
relazioni divine, rivelate dalle missioni del Figlio e dello Spiri-
to. L'inizio è liberamente e gratuitamente posto da Dio Padre
per mezzo del Figlio e in vista di Lui nella potenza dello Spiri-
to, datore di vita: il mondo creato ha il suo "luogo" trascen-
dente in Dio stesso, nel processo della generazione eterna del
Figlio, vera condizione divina di possibilità per l'esistenza del
mondo, altro da Dio anche se non separato da Lui e anzi viven-
te in Lui. E questa la novità della rilettura operata dalla memo-
ria pasquale dell'inizio: ed è questo il dato che la riflessione
successiva della fede cercherà di scandagliare, per una più pro-
fonda intelligenza del mistero del mondo, fondato, avvolto e
orientato dal mistero della Trinità, adorabile e santa.
232
care al principio divino positivo un principio negativo, una bruta
materia o uno spirito maligno, in relazione al quale l'atto crea-
tivo si porrebbe come momento di eterna e perciò mai sopita
conflittualità; dall'altra, il rifiuto di ogni visione monistica, te-
sa a confondere o mescolare il divino e il mondano, in una sor-
ta di unità indifferenziata, che farebbe dell'atto creatore il
permanente e sempre nuovo porsi dell'unico soggetto assoluto,
la cui storia sarebbe di fatto assimilata alla storia del mondo 16.
Se il dualismo manicheo soddisfa la pia cura dello spirito greco
di non contaminare l'Uno con le miserie del molteplice e sem-
bra discolpare il divino di tutto il male che c'è nel mondo, cari-
candone il peso sul principio negativo della realtà, il monismo
dello spirito incontra il favore di ogni concezione gnostica della
redenzione, perché, affermando l'ininterrotta continuità fra mon-
dano e divino, pare garantire la possibilità di un'autoredenzio-
ne della creatura, di fatto assimilata al Creatore.
Le due anime percorrono la storia della dottrina della crea-
zione in forme sempre nuove, fino alle loro formulazioni più
radicali in epoca moderna: se dietro l'esuberante pienezza del-
lo Spirito assoluto del sistema hegeliano si coglie la più ardita
espressione speculativa della concezione monistica, negli sviluppi
del tardo Schelling si raggiunge la teorizzazione più alta del dua-
lismo ontologico, ipotizzando la presenza del nulla in Dio stes-
so, senza la quale — secondo le tesi dell'antihegeliana Filosofìa
della rivelazione — la libertà divina non avrebbe possibilità di
esercitarsi e la stessa distinzione fra il Padre e il Figlio risulte-
rebbe impossibile 17 . Il risvolto etico di queste opzioni specu-
lative è tutt'altro che indifferente: da una parte, la visione
monistica conduce a una illimitata presunzione della ragione ri-
guardo alle proprie capacità creative, dall'altra il filone mani-
cheo sfocia nel pessimismo nichilista o nella resa al potere delle
tenebre, con la connessa giustificazione morale fondata sull'i-
dea dell'inevitabilità del male. Questi risvolti mostrano perché
la difesa della fede pasquale riguardo alla creazione sia stata av-
vertita sin dalle origini come un'urgenza salvifica, un compito
in cui la posta in gioco non è un'astratta visione del mondo,
16
Per la storia del dogma e della dottrina della creazione resta fondamentale L.
Scheffczyk, Schópfung una Vorsehung (Handbuch der Dogmengeschichte II/2a), Freiburg-
Basel-Wien 1963. Un contributo significativo, ricco di originali rivisitazioni storiche,
è quello di P. Gisel, ha creazione, Genova 1987.
17
Cfr. quanto detto sull'idea di rivelazione in Hegel e Schelling sapra, cap. 2.
233
ma il modo di relazionarsi ad esso nelle scelte operative, e quindi
lo spessore etico dell'esistenza. Anche il dogma della creazione
risponde a un intento soteriologico!
Ai due opposti estremismi la simbolica della fede ecclesiale
reagisce ribadendo la convinzione espressa nella testimonianza
biblica: è Dio che ha creato il mondo per una decisione di amo-
re assolutamente libero e gratuito. L'inizio è posto dalla pura
Origine divina di tutto ciò che esiste, senza alcuna presupposi-
zione o concorso o finalità che siano estranei a Dio stesso, né
per alcuna necessità intrinseca, ed è l'atto col quale il mondo,
in tutti i suoi elementi e sotto tutti gli aspetti, nella sua spazia-
lità come nella sua temporalità, è originato dal Creatore. Con
concisione e chiarezza il Concilio Lateranense IV (1215), in po-
lemica con rinascenti forme di dualismo ma facendo eco a una
tradizione antichissima e unanime, afferma: « Unico è il princi-
pio di tutto, creatore di tutte le realtà visibili e invisibili, spiri-
tuali e corporali: il quale per sua virtù onnipotente nell'atto stesso
dell'inizio del tempo {simulab ìnitio temporìs) pose dal nulla {de
nihilo condìdii) l'una e l'altra creatura, la spirituale e la corpo-
rea, l'angelica e la mondana, e poi l'umana, commista per così
dire di anima e di corpo » 18 . Nella stessa linea, il Concilio di
Firenze, nel Decreto per i Giacobiti (1442), dichiara: « La Chie-
sa fermissimamente crede, professa e predica che l'unico, vero
Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, è creatore di ogni cosa, sia
visibile che invisibile. Quando lo volle, nella sua bontà egli po-
se tutte le creature {unìversas... condidit creaturas), tanto spiri-
tuali quanto corporee, buone, in quanto fatte dal sommo bene,
ma mutabili, perché tratte dal nulla » 19 . L'unanime tra-
dizione della fede è confermata, in opposizione al monismo pro-
prio della ragione moderna, dal Concilio Vaticano I (1870), che
riprende le parole del Lateranense IV, precisandole ulteriormente
con là chiarificazione che « l'unico vero Dio » creò dal nulla tutte
le cose « per sua bontà e onnipotente virtù, non per accrescere
la propria beatitudine né per acquistare, ma per manifestare la
sua perfezione mediante i beni, che comunica alle creature, con
liberissimo consiglio» 20 .
La formula densa, che ritorna in questi e in molti altri testi
18
DS 800: il testo si trova nella Definitio cantra Albigenses et Cathams.
19
DS 1333: il testo è nella bolla di unione « Cantate Domino ».
213
DS 3002: la dichiarazione è contenuta nella Costituzione dogmatica « Dei Filius »
(24 aprile 1870).
234
della simbolica ecclesiale 21 , è quella dellaproductio o creatio ex
nihilo: essa si è caricata nella storia della fede di una complessa
ricchezza di significati, che trovano il loro fondamento origina-
rio nell'intera testimonianza biblica (e non solo nei passi solita-
mente richiamati di 2Mac 7,28 e Rm 4,17: « Ti scongiuro, figlio,
contempla il cielo e la terra, osserva quanto vi è in essi e sappi
che Dio li ha fatti non da cose preesistenti; tale è anche l'origi-
ne del genere umano »; il Dio, nel quale Abramo credette, « dà
vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esi-
stono »). In primo luogo, l'espressione ex nihilo, riferita alla crea-
tio, sta a dire l'assenza di ogni presupposto estrinseco all'atto
creatore: essa veicola il rifiuto di ogni dualismo, che veda Dio
necessitato o costretto a creare da un principio altro da Lui e
pari a Lui, come di ogni confusione monistica, che ponga una
sorta di obbligo o costrizione in Dio stesso, quasi che Egli ab-
bia dovuto creare il mondo per intrinseca necessità. Accanto
a questo primo significato, marcatamente negativo, la formula
vuol esprimere in positivo la libertà e la gratuità assolute del-
l'atto creatore, il suo sgorgare dal puro Amore divino, motiva-
to dalla sola irradiante diffusività del bene che gli è proprio.
In tal modo l'espressione celebra la gloria del solo Dio e ne ri-
vendica la sovranità assoluta su tutto ciò che esiste. Infine, coe-
rentemente con i significati già esposti, ex nihilo viene a
equivalere a "senza ragione", quasi a sottolineare come l'inizio
resti senza possibilità di assimilazione in una sequenza lineare
e logica, e sia rottura di ogni semplice continuità fra Dio e mon-
do, che trascuri l'assoluta alterità e trascendenza divine. In que-
st'ultimo senso l'espressione rimanda a Dio come mistero del
mondo e alla radicale, insondabile misteriosità del reale posto
da Lui: si potrebbe dire che Dio ha voluto riservare a sé l'intel-
ligenza ultima della creazione!
Il carattere puramente teologico dell'inizio si congiunge nel-
la fede pasquale allo specifico approfondimento trinitario: il Dio
che crea il mondo ex nihilo è Padre, Figlio e Spirito Santo, il
Dio uno e trino. Anche su questo punto la simbolica ecclesiale,
a partire dal fondamento neotestamentario, non lascia adito a
dubbi: oltre ai testi già citati, basti richiamare la professione
di fede, richiesta da Innocenzo III ai Valdesi (1208): « Noi cre-
diamo di cuore e confessiamo con la bocca che l'unico Dio, Pa-
21
Cfr. ad esempio DS 285; 790; 3025; 3955; ecc.
235
dre, Figlio e Spirito Santo, è creatore, fattore, governatore e
ordinatore di tutte le cose, corporee e spirituali, visibili e invi-
sibili. Crediamo che l'unico e identico autore del Nuovo e del-
l'Antico Patto sia il Dio, che, permanendo nella Trinità, ha creato
tutto dal nulla {qui in Trinitate permanens de nihìlo cuncta crea-
vit) »22. Il Dio dell'inizio è il Dio della pienezza pasquale del-
l'alleanza, e perciò il Padre che — come nel resuscitamento del
Crocifisso, cosi nel primo mattino degli esseri — opera mediante
il Figlio e in vista di Lui nella potenza dello Spirito Santo. L'i-
dea è stata sintetizzata in forma lapidaria da Agostino: « Il mondo
è stato fatto dal Padre per il Figlio nello Spirito Santo »23. Es-
sa sistematizza i dati della cristologia cosmica e della pneuma-
tologia del Nuovo Testamento, e li scruta in direzione del-
l'immanenza del mistero rivelato nell'economia salvifica.
Tommaso d'Aquino — al culmine di una tradizione vastissi-
ma — fa propria e approfondisce questa prospettiva: « La co-
noscenza delle divine Persone fu a noi necessaria in duplice
modo. In primo luogo, per avere un'idea esatta della creazione
delle cose. Col dire infatti che Dio ha fatto tutto mediante il
suo Verbo, si esclude l'errore di chi ritiene che Dio abbia pro-
dotto le cose per necessità di natura. Col porre poi in lui la pro-
cessione dell'amore, si mostra che Dio non ha prodotto le
creature per una qualche indigenza, né per una qualche altra
causa estrinseca, ma per amore della sua bontà... In secondo
luogo, e principalmente (la conoscenza delle divine Persone ci
fu necessaria) per avere un'idea esatta della salvezza del genere
umano, che si compie per mezzo del Figlio incarnato e per il
dono dello Spirito Santo» 24 . Nella linea unanime della tradi-
zione della fede, Tommaso salda la dottrina della creazione a
quella della salvezza, il cui primato di prospettiva è ribadito,
e coglie il cuore dell'una e dell'altra nella rivelazione trinitaria.
In tal modo, egli si avvia a superare con rara audacia la pura
22
DS 790. Cfr. W. Kern, II creatore è il Dio uno e trino, in Mysterium Salutis, IV,
o. e, 106ss.
23
« Unus mundus factus est a Patre per Filium in Spiritu Sancto »: In Joannis evan-
gelium 20,9: PL 35, 1561. Cfr. pure De vera religione 55,113: PL 34, 172, e De Trinità-
te 1, 6, 12: PL 42, 827.
24
Summa Tbeologiae I q. 32 a. 1 ad 3. Cfr. I Sent. 10, 1, 1 sol.; 4, 1, 1; Summa
Theologìae I q. 33a 3 ad 1. Cfr. poi, anche per quanto segue, E. Bailleux, La création,
oeuvre de la Trinité, selon Saint Thomas, in Revue Tbomiste 72 (1962) 27-50 e M. Seck-
ler, Das Heil in der Geschichte. Geschìchtstheologisches Denken bei Thomas von Aquin,
Miinchen 1964, specie 81-108.
236
cosmologia filosofica dell'aristotelismo, imbrigliata nelle maglie
insolubili alla sola logica umana del problema dell'inizio.
La grande idea della simbolica della fede, che Tommaso svi-
luppa, è quella della corrispondenza fra il processo eterno della
vita divina e il processo temporale di produzione delle creatu-
re: « Come la natura divina, sebbene sia comune alle tre Perso-
ne, conviene ad esse in un certo ordine, in quanto il Figlio
accoglie la natura divina dal Padre e lo Spirito Santo da entrambi,
così anche la virtù della creazione {virtus creandi), sebbene sia
comune alle tre Persone, conviene ad esse in un certo ordine:
il Figlio infatti l'ha dal Padre e lo Spirito da entrambi» 2 5 .
« Dio Padre ha operato la creazione per il suo Verbo, che è il
Figlio, e per il suo Amore, che è lo Spirito Santo. Pertanto le
processioni delle Persone sono ragioni della produzione delle crea-
ture (processiones Personarum sunt rationes productìonis creatura-
rum), in quanto includono gli attributi essenziali, che sono la
scienza e la volontà » 26 . « Come quindi il Padre dice se stesso
e ogni creatura mediante il Verbo che generò, in quanto la Pa-
rola generata rappresenta sufficientemente il Padre e ciascuna
delle creature, così ama se stesso e ogni creatura nello Spirito
Santo, in quanto lo Spirito Santo procede come l'amore della
bontà prima, secondo la quale il Padre ama se stesso e ciascuna
delle creature» 2 7 . Di fronte a queste prospettive si avverte
l'assoluta originalità dell'approfondimento trinitario dell'atto del-
la creazione rispetto alla cosmologia di stampo filosofico e la
vastità d'orizzonte che lo "scandalo cristiano" apre alla cono-
scenza dell'inizio. « Si può osare d'esprimere in una maniera più
forte, più profonda e più propria — rimanendo nell'ambito del-
l'ortodossia — l'inserimento del mondo nella più autentica, in-
tima e divina vita di Dio?» 2 8 .
L'atto della creazione si pone, dunque, all'interno della stes-
sa comunicazione intratrinitaria e del suo dinamismo eterno co-
me un atto che porta in sé l'impronta delle processioni divi-
ne: mentre però queste sono necessarie, perché eternamente co-
stitutive della divinità tripersonale, l'atto della creazione è libero
e gratuito, e scaturisce dalla divina Origine come inizio puro,
25
Summa Theologiae I q. 45 a. 6 ad 2.
26
Ih., corpus.
27
lb., q. 37 a. 2 ad 3. Cfr. pure 1 Sent. 14, 1, 1: « Processiones personarum aeter-
nae sunt "causa" et "ratio" totius productionis creaturarum ».
28
W. Kern, II Creatore è il Dio uno e trino, o.c, 119.
237
privo di ogni presupposto, che non sia la decisione motivata da
solo amore presa nel dialogo eterno dei Tre. E anzi unicamente
la concezione trinitaria di Dio che garantisce la libertà e la gra-
tuità dell'atto creatore, mentre professa la verità salvifica che
Dio è amore: « La dottrina della Trinità è l'ineludibile premes-
sa della dottrina della creazione. Un Dio solitario o è un Dio
senza amore (l'amore richiede alterità) o è un Dio che produce
qualcosa al di fuori di sé per avere dove collocare il suo amore;
in questo caso, la creazione sarebbe necessaria e l'amore non
sarebbe propriamente tale, perché gli mancherebbe la compo-
nente di base, che è la libertà» 29 . L'Uno greco può porre il
mondo come parte di sé prodotta eventualmente per via di ema-
nazione secondo l'affascinante continuità della visione di Plo-
tino, o come alternativa a sé, molteplice retto da un principio
negativo, secondo le varie intuizioni dualistiche: se l'Uno è l'Es-
sere, ciò che è altro dall'Uno è nulla, e tutta la realtà — per
essere tale — deve essere assorbita nel monismo dello spirito;
se l'Uno è un essere, cui si contrappone in un piano di parità
un Altro, connotato negativamente, il molteplice resta abban-
donato a se stesso, come mondo della pura negatività, perduto
nelle tenebre. Solo lo scandalo trinitario introduce in maniera
radicale il molteplice nell'Uno, senza mescolanza o confusione,
senza divisione o separazione, in quanto pensa l'Uno come Tri-
no: solo esso è capace di fondare la consistenza del mondo co-
me altra da Dio, e tuttavia non separata o contrapposta a Dio.
È nella relazione intradivina che si pone il presupposto trascen-
dente della creazione del mondo, la condizione divina di possi-
bilità perché esso esista autonomamente e al tempo stesso sia
oggetto dell'amore eterno, chiamato a ricambiare l'amore. Nel
gioco della vita del Dio Amore, c'è spazio per l'Amante, per
l'Amato e per lo stesso Amore personale, che li unisce e che
li apre: in questo stesso gioco risiede lo "spazio" trascendente
per l'esistenza della creatura, chiamata dal nulla all'essere e av-
volta contemporaneamente dall'amore divino che l'ha fatta esi-
stere e la sostenta.
L'idea delle opere ad extra della Trinità non va intesa, di con-
seguenza, nel senso che il mondo esista al di fuori del Dio tri-
no, come realtà separatamente altra e contrapposta alla divinità:
correttamente essa verrà interpretata nel senso dell'alterità fra
29
J. L. Ruiz de la Pena, Teologia della creazione, Roma 1988, 131.
238
trascendenza di Dio e contingenza del mondo, fra eternità di-
vina e temporalità mondana. Ad extra sta a dire la non conti-
nuità fra l'Origine e l'inizio, il rifiuto dell'idea che l'una si riversi
semplicemente nell'altro, senza un atto, posto non nel tempo
ma insieme col tempo, come atto di decisione libera e gratuita,
che segna la permanente, infinita distanza e dissomiglianza fra
Dio e mondo, fra tempo ed eternità: l'atto, appunto, della crea-
zione. Quest'atto non può che essere fuori del tempo da parte
di Colui che lo pone, evento della storia eterna del Padre, del
Figlio e dello Spirito: in quanto tale viene a radicarsi nel pro-
cesso senza tempo delle Persone come puro e divino agire del-
l'Origine; esso è tuttavia nel tempo, se considerato da parte
dell'universo originato, in quanto inizio di tutto ciò che esiste
nel mondo delle creature, aurora del divenire temporale, primo
mattino degli esseri e del loro spazio vitale. Nella creazione si
toccano i due mondi: il mondo divino, nell'unità dinamica del
suo essere eterno e necessario, trascendente e libero; e il mon-
do creato, nell'insieme dei processi finiti che lo costituiscono,
nella contingenza assoluta che lo caratterizza, mondo dell'ini-
zio prodotto e avvolto nella sua immanenza dal mondo sovrano
e altro dell'Origine. In rapporto a questa fondamentale distin-
zione fra Creatore e creatura, ineliminata e ineliminabile, l'at-
to della creazione, come atto dell'Origine che pone l'inizio,
appare giustamente comune alle tre divine Persone, atto del Dio
uno, agire divino creatore, altro e sovrano rispetto ad ogni pos-
sibile agire creaturale, da esso stesso posto in essere: vale, cioè,
il principio che in Dio « omnia sunt unum, ubi non obviat rela-
tionis oppositio »30. In quanto divino l'atto della creazione è
proprio dei Tre secondo la loro indivisibile unità, per cui essi
sono l'unico Dio trascendente che crea tutte le cose dal nulla,
la pura e sovrana Origine che liberamente pone l'inizio del mon-
do col tempo e con lo spazio.
L'unicità dell'atto creatore e la sua caratteristica propriamente
divina, compendiata nella formula ex nìhtlo, secondo la quale
esso è comune al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, non deve
far trascurare la proprietà dell'agire di ciascuna delle tre Perso-
ne nel porre l'inizio. Secondo la testimonianza pasquale delle
origini, trasmessa e sistematizzata nella storia della fede, tutto
viene dal Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo (a Patre - per
30
Concilio di Firenze, Decretimi prò lacobith (1442): DS 1330.
239
Filium - in Spiritu Sanctó). Il dinamismo delle relazioni divine,
che rapporta ciascuno dei Tre agli altri nell'unità e nella distin-
zione, investe l'atto della creazione, collegandolo specificamente
alla generazione del Figlio, Parola eterna, e alla processione dello
Spirito, Incontro personale eternamente fecondo e datore di vita.
Tutto viene dal Padre: questa formula, radicata nella testi-
monianza biblica relativa alle missioni divine che hanno in Dio
Padre la loro origine eterna, sottolinea l'iniziativa pura e prin-
cipale della Prima Persona nel porre l'inizio. La convinzione di
fede in proposito è stata espressa concisamente sin dalle più an-
tiche formulazioni della simbolica ecclesiale, riprese solennemen-
te dal Credo niceno-costantinopolitano: « Credo (crediamo) in
un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili {Credo < credimus > in unum
Deum, Patrem omnipotentem, factorem caeli et terrae, visibilium
omnium et invisibilium)»}1. Ciò che si vuole sottolineare in
queste parole è che l'unico principio senza principio di ogni real-
tà, la sorgente eterna e inesauribile di tutto quanto esiste è
Dio, il Padre: come nella vita intradivina, così nel rapporto col
mondo è al Padre che spetta il primato, la sorgività pura, la prin-
cipialità assoluta. È Lui che dona unità e vita alla comunicazio-
ne trinitaria, è Lui la fonte eterna unificante che garantisce
consistenza e realtà ad ogni essere dell'universo creato. Il solo
motivo del suo agire è l'amore: Dio, il Padre di Gesù Cristo,
è amore (cfr. lGv 4,8.16); da nulla egli è necessitato o costret-
to in sé o fuori di sé, da nulla causato ad agire. Egli è purissima
gratuità, "bonum diffusivum", pienezza di carità che trabocca
per la sola gioia di amare, Origine silenziosa e feconda. Confes-
sare il Padre come primo nella creazione significa allora ricono-
scere che l'ultimo motivo dell'esistenza del mondo è l'amore,
e che dietro tutto ciò che esiste vi è un mistero eterno di gra-
tuità irradiante. Riconoscere Dio Padre come ultimo, radicale
e fontale mistero del mondo equivale così a confessare nella con-
tingenza di tutte le cose non la debolezza di un ac-cadere senza
fondo, ma la consistenza della pura grazia, l'e-venire dell'amo-
re, l'irradiarsi della gloria del solo Dio come libera, non neces-
sitata comunicazione di vita e d'amore. Paradossalmente, la non-
ragione delle cose, la loro finitudine e contingenza, l'eterno Si-
31
Symbolum Comtantinopolitanum (381): DS 150.
240
lenzio che le origina e le avvolge, rivela la suprema ragione di
esse, la bellezza della carità che le ha volute e poste in essere,
la gratuita sorgività che dà luogo all'inizio. Dio Padre come pu-
ra e silente Origine illumina l'iniziativa dell'atto creatore come
liberissima decisione d'amore. E l'Amore che fa esistere, nel
tempo e nell'eternità! Ed è in questo eterno Amore, sorgivo e
perennemente gratuito, che si fonda la dipendenza assoluta del
mondo da Dio: la contingenza rimanda al necessario non in ter-
mini di necessità schiavizzante, ma nella linea della libertà del-
l'atto di amore creativo. La fragilità del mondo non ne motiva
il disprezzo, ma ne rivela il legame alla gratuita, fontale comu-
nicazione di esistenza, energia e vita fatta dal Padre, principio
senza principio dell'Amore, fonte e origine eterna della divi-
nità, Dio che pone l'inizio come evento di libertà, di gratuità
e perciò di traboccante e inesauribile amore. Dove la contin-
genza del mondo fosse negata, dove la Trascendenza fosse ri-
solta nella pura immanenza del divenire storico, dove la crea-
zione fosse vista come necessaria espressione o emanazione della
divinità, sarebbe tolto il mistero del Padre, il silenzio fecondo
dell'Amore che fa esistere, e perciò la stessa dignità e libertà
della creatura, oggetto di puro amore, chiamata dalla libertà al-
la libertà.
Tutto è creato dal Padre per il Figlio: l'iniziativa del bene dif-
fusivo di sé genera dall'eternità l'Altro, che l'accolga. Dio Amore
non è mai stato né mai sarà solitudine: il Padre, sorgente eter-
na, si dice nel Figlio, Parola eterna, recettività pura del puro
amore, gratitudine infinita correlata all'infinita gratuità come
luogo eterno del suo dirsi, come originario " t u " del suo comu-
nicarsi. Il silenzio fecondo dell'Origine viene a pronunciarsi nel-
l'eterno Verbo del suo amore: se il Padre è provenienza, gratuita
e liberissima, il Figlio è venuta, divino ricevere, eternamente
generato nell'atto stesso di accogliere l'amore fontale. Uno col
Primo perché a Lui congiunto nello stesso amore essenziale, al-
tro da Lui, perché termine personale della infinita ed eterna co-
municazione d'amore, il Verbo è alterità dialogica, Amato
rispetto a cui l'Amante è eternamente se stesso, e che proprio
nel suo essere amato è eternamente il Figlio, l'Altro necessario
e coeterno all'Amore. Il fatto che il Padre crei attraverso l'uni-
versale mediazione del Figlio significa allora che egli produce
il mondo dal nulla come oggetto d'amore, come " a l t r o " con-
tingente posto in essere nell'alterità necessaria del Generato,
241
come "altro" nell'amore chiamato ad esistere nello spazio tra-
scendente del dialogo eterno dei due: "parola" nella Parola, ver-
bum in Verbo. Il processo del dirsi eterno dell'amore infinito
è, pertanto, la condizione trascendente di possibilità dell'esi-
stenza della creatura come altra da Dio, totalmente dipendente
da Lui e insieme unita a Lui: « Sicut trames a fluvio derivatur,
ita processus creaturarum ab aeterno processu personarum » i 2 .
Nella distinzione fra il Generante e il Generato, fra il fecondo
Silenzio dell'Origine e la Sua eterna Parola, trova posto la co-
munione nell'infinita alterità fra il Creatore e la creatura: « Il
rapporto delle Persone divine fra loro è così vasto, che il mon-
do intero vi trova spazio » (Adrienne von Speyr). Come il Ver-
bo è l'espressione divina della traboccante pienezza del Dio
Amore, così per mezzo di Lui e in Lui è possibile che il Padre
esprima la Sua carità chiamando le creature ad esistere: prima
che essere una mediazione storica, quella del Figlio è mediazio-
ne eterna; anzi, la mediazione storica, realizzata nella missione
del Verbo incarnato, non è che la rivelazione dell'eterna fun-
zione di mediatore del Generato, per mezzo del quale e in vista
del quale sono state create tutte le cose. In questa prospettiva,
si comprende con ancora maggiore evidenza come l'"opus Tri-
nitatis ad extra" non vada inteso nel senso della esteriorità del
mondo rispetto a Dio, quasi che qualcosa possa esistere al di
fuori o separatamente da Lui, ma debba essere compreso come
indice della creaturalità del mondo, del suo essere in Dio, nel
seno delle relazioni trinitarie, quale espressione contingente e
finita della infinita e necessaria processione del Figlio. Ciò che
è escluso non è allora l'interiorità del mondo in Dio, ma la con-
fusione indifferenziata, il monismo avvilente, l'incapacità a ri-
spettare la distanza fra i mondi, quello del Creatore e quello
delle creature.
La corrispondenza fra la generazione eterna e la produzione
dell'universo dal nulla illumina anche l'essere della creatura: come
il Figlio è caratterizzato dalla pura accoglienza del puro amore
dell'Amante, e quindi dall'essere puramente il Verbo del Pa-
dre, la Parola del fecondo Silenzio dell'Origine, così la creazio-
ne che avviene per Lui e in vista di Lui ne assumerà l'impronta
32
S. Tommaso, In ISent., Prol.: cfr. F. Marinelli, Personalismo trinitario nella sto-
ria della salvezza. Rapporti tra la 55. Trinità e le opere ad extra nello Scriptum super Sen-
tentiis, Roma-Paris 1969.
242
nella radicale struttura di recettività, che la caratterizza. L'es-
sere creato, proprio in quanto prodotto dal nulla, è incondizio-
natamente "donato": la sua consistenza sta nel ricevere,
nell'essere "detto", "pronunciato" da Dio, "esistenza accol-
ta", chiamata a "star fuori da sé" (ex-sistere) per lasciarsi riem-
pire di sé dall'Altro, in una dialettica di esteriorità e interiorità,
in cui si gioca la vita del mondo. In quanto interiorità, la crea-
tura comunica permanentemente col Creatore, perché, lascian-
dosi amare nel profondo, fa spazio al dono dell'essere che le viene
partecipato dal Padre per il Figlio; in quanto esteriorità, la crea-
tura si pone come altra da Dio, davanti a Lui nella sua autono-
mia, distinta in una relazione dialogica, che porta nel tempo
l'impronta della relazione eterna fra il Generante e il Genera-
to, fra la Parola e il Silenzio. La creatio per Filium dimostra così
al tempo stesso la dipendenza del mondo da Dio, la permanen-
te comunicazione fra il Creatore e la creatura, e la dignità e la
consistenza dell'essere creato di fronte all'essere eterno: «Dio
disse... e così fu».
L'atto della creazione — posto dall'iniziativa del Padre at-
traverso la mediazione del Verbo e in vista di Lui — si compie
nello Spirito Santo. Nell'evento pasquale lo Spirito è Colui che
consente la separazione dell'Abbandonato da parte di Dio e
insieme Colui nel quale il Crocefisso viene resuscitato dal Pa-
dre nella riconciliazione di Pasqua: nell'immanenza del miste-
ro, che traspare nell'economia della rivelazione, Egli sarà allora
al tempo stesso l'unità e la pace dell'Amante e dell'Amato, l'A-
more personale da essi reciprocamente donato e ricevuto, il lo-
ro Incontro divino, e, al tempo stesso, l'apertura e la fecondità
del loro incontrarsi, l'estasi divina, Colui nel quale l'amore tri-
nitario si apre nel dono alla creatura33. La creazione nello Spi-
rito Santo sta a dire pertanto in primo luogo la profonda
immissione delle creature nella circolazione della vita divina,
il loro essere poste nella comunione dell'incontro eterno dell'a-
more, per cui tutto ciò che esse sono è avvolto dal mistero tra-
scendente della carità divina, e da esso trae esistenza, energia
e vita. Lo Spirito assicura così la coincidenza della perfetta tra-
scendenza con la più profonda immanenza: il Dio sovrano e li-
bero dimora anche nel più profondo delle Sue creature. Il mondo
33
Per queste, come per le altre riflessioni di teologia trinitaria rimandiamo alle te-
si presentate in B. Forte, Trinità come storia, o. e.
243
altro da Dio, nella partecipazione alla relazione dialogica del Ge-
nerante e del Generato, nella loro pur ineliminabile distinzio-
ne, non è straniero a Dio, perduto o separato rispetto a Lui:
come nella divinità lo Spirito è vincolo di unità e di pace, " n o i "
divino dell'Amante e dell'Amato, così nell'atto della creazione
Egli è la condizione trascendente di possibilità della comunio-
ne fra il Creatore e le creature, il legame indistruttibile ed eter-
no di ogni essere creato con l'Amore fontale che lo ha chiamato
ad esistere, il personale Incontro fra Dio e il mondo. Nello Spi-
rito di verità si compie la presenza e la fedeltà dell'Origine a
tutto ciò che ha avuto inizio. In secondo luogo, in quanto lo
Spirito è l'energia liberante dell'amore, quella che eternamente
apre il cerchio dell'Amante e dell'Amato, l'estasi e il dono in
quanto eternamente presenti in Dio, Egli opera nell'atto crea-
tore come condizione trascendente che rende possibile l'effet-
tiva autonomia e libertà della creatura. Grazie allo Spirito il
mondo è in comunione col mistero di Dio: grazie allo stesso Spi-
rito l'universo è segnato dalla libertà, e può conoscerne i frutti
meravigliosi e drammatici, compreso quello del rifiuto di Dio
e delle conseguenti "doglie del parto" di tutto il creato.
Creatio in Spiritu Sancto sta a dire allora al tempo stesso il
vincolo e la possibile separazione fra Creatore e creatura, il lo-
ro incontrarsi, la comunione per la quale il destino ultimo del
creato è essere il luogo del riposo di Dio tutto in tutti, e la di-
stinzione, per la quale questo destino non si compirà senza una
vera partecipazione di ogni creatura, e non solo dell'uomo, so-
lidale con tutte e responsabile verso tutte le altre creature. In
questa dialettica di unità e libertà, lo Spirito si offre, proprio
nell'atto creatore, come dono del Dio Altissimo: se è proprio
del dono esprimere e fondare la comunione, è non meno carat-
teristico di esso porsi nello spazio della libertà. Lo Spirito crea-
tore è, così, il dono in cui è posta in essere la creatura in quanto
"donata": tutto ciò che esiste è parola di Dio nella Parola eter-
na, espressione della pura Origine, che ha chiamato ogni essere
dal nulla all'esistenza per puro amore, ed è al tempo stesso do-
no di Dio nell'eterno Dono, manifestazione della gratuità e della
libertà con cui, creando, Dio pone l'altro da sé nella profonda
comunione con sé, vero nell'alterità e vero nella comunicazio-
ne, libero di aprirsi o di rifiutarsi all'amore che fa esistere. Sin
dall'atto creatore, pertanto, « dove c'è lo Spirito del Signore c'è
libertà » (2Cor 3,17). Sin dalla prima creazione Egli è presente
244
a garantire la possibilità di incontro vivo e vivificante fra il Crea-
tore e la creatura, per il quale ciò che è informe e vuoto diviene
capace di alleanza, interlocutore del patto: « Ora la terra era in-
forme e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di
Dio aleggiava sulle acque» (Gen 1,2). Nella pienezza del tem-
po, ora della nuova creazione, l'incontro possibile è divenuto
realtà: «E, uscendo dall'acqua, vide aprirsi i cieli e lo Spirito
discendere su di lui come una colomba» (Me 1,10)...
245
17.
LA D I M O R A NELLA TRINITÀ
246
tiera fra il creato e il Creatore, sta la persona umana. In questo
quadro si lascia anche scrutare la vastità e la profondità del mon-
do della creazione, nelle sue dimensioni spazialmente percepi-
bili ed in quelle non esclusivamente sensibili, di cui è densa cifra
la creatura angelica.
L'approfondimento della realtà creata nella sua consistenza
metafisica — condotto sempre alla luce della rivelazione pasquale
— consente quindi di delineare i tratti di una specifica "onto-
logia trinitaria", nella quale la Trinità appare come il silente
e santo grembo del mondo, la sorgente e il luogo divino del sem-
pre nuovo evento della donazione, che è l'atto di essere di tut-
to ciò che esiste. Il livello dell'essere si congiunge, peraltro, a
quello dell'agire: fra l'intero universo creato e il Dio vivente
si intesse una rete feconda di rapporti, per i quali la dimora di-
vina si offre al mondo come il suo "sempre nuovo inizio", e
il mondo stesso viene a relazionarsi alle divine Persone — in
particolare attraverso la responsabilità umana — nel gioco del-
la libertà e nell'impegno di un'etica e di una spiritualità ecolo-
giche, vissute a gloria della Trinità.
247
di kenosi, che lascia trasparire il suo presupposto eterno nella
disponibilità del Figlio a lasciarsi "consegnare" alla morte per
amore della creatura chiamata alla vita. All'umiltà donante del
Padre corrisponde l'umiltà accogliente del Figlio: Dio si limita
donando la vita e accettando la morte. L'unità di questa vita
donata e di questa morte accettata è l'eterno evento dello Spi-
rito: l'auto-limitazione del Padre e la dolorosa consegna del Fi-
glio si compiono nel vincolo del Loro infinito amore, come
separazione che nasce dall'infinita comunione e la rivela nel se-
gno del contrario. Lo Spirito è la condizione trascendente di
possibilità della separazione tra il Padre e il Figlio, che non eli-
mina la comunione, e della loro comunione infinita, che non
annulla la possibilità della distanza dolorosa del Venerdì San-
to. Analogamente lo Spirito è nei rapporti col creato la garan-
zia che il mondo esiste come altro da Dio, senza essere per questo
separato da Dio: mistero di un amore umile, che accompagna
l'altro nella fedeltà, ma lo rispetta in tutta la dignità e l'auto-
nomia della sua alterità.
In questa luce si comprende perché « il Dio biblico è ritiro,
e il mondo accade perché egli si ritira »: il ritirarsi di Dio è « dif-
ferenziazione creatrice» 1 , kenosi dell'amore eterno che con-
sente all'essere finito di venire all'esistenza e di permanere in
essa nella contingenza della libertà. È questo il motivo ispira-
tore della dottrina giudaico-cabalistica dello "zim-zum" divi-
no, secondo la quale il mondo è potuto apparire proprio perché
Dio si è nascosto e contratto 2 . Per creare l'altro come partner
dell'alleanza, l'Eterno accetta di raccogliersi in un atto di so-
vrana autolimitazione in modo che la creatura possa esistere "al
di fuori di Lui": lo spazio di abbandono di Dio diventa l'am-
biente vitale dell'autonomia dell'essere creato, la condizione della
sua libertà di accettazione o di rifiuto del Creatore e Signore
della storia. Dio nasconde il Suo volto perché l'interlocutore
del patto non resti accecato dalla Sua luce: Dio si ritrae perché
il suo ostendersi non bruci come fuoco la differenza fra il finito
mondano e l'infinito divino. La Sua umiltà è condizione della
1
P. Gisel, La creazione, Genova 1987, 228.
2
Cfr. la presentazione di questa tradizione in G. Scholem, Schópfung aus Nichts
undSelbstverschrànkung Gottes, Eranos-Jahrbuch 1956, 87-119. Dello stesso cfr.: Con-
cetti fondamentali dell'ebraismo, Genova 1986; La cabala, Roma 1985 ; Le grandi corren-
ti delia mìstica ebraica, Genova 1987. J. Moltmann riprende questa dottrina in Trinità
e Regno di Dìo, Brescia. 1983, 120ss., e in Dio nella creazione, Brescia 1986, 109ss.
248
consistenza del mondo: la Sua autodeterminazione ad essere il
Creatore si congiunge a questa libera autolimitazione, che con-
sente alla creatura di esistere. Egli è veramente grande nella Sua
umiltà!
Il rischio di questa concezione è facilmente individuabile nella
sua difficoltà ad armonizzarsi con una prospettiva rigidamente
monoteistica: se il mondo è il risultato dell'autolimitazione di
Dio, la sua consistenza è e resta "limitante" per Dio. Dio sta
davanti al mondo come il suo sovrano Signore e il mondo sta
davanti a Dio come la Sua creatura: e tuttavia, Dio si "con-
trae" perché il mondo esista, quasi a cedere uno "spazio" divi-
no perché sia riempito dall'essere finito. L'onnipresenza divina
può risultarne mortificata, perché viene ad essere oscurata l'in-
sistenza profonda del mistero divino nell'intimo di ogni crea-
tura, che il linguaggio biblico esprime con l'idea della "co-
noscenza" amorosa che Dio ha di tutto ciò che esiste. È forse
per questo che la dottrina dello "zim-zum" resta marginale ri-
spetto all'ortodossia ebraica, gelosa custode della trascendenza
ed insieme della forza unificante del Regno del Signore nei con-
fronti di ognuna delle Sue creature.
E la fede trinitaria di Pasqua ad offrire una nuova possibilità
di comprensione della dottrina dell'auto-limitazione divina: se
la relazione in cui essa si compie non è semplicemente quella
fra Dio e il mondo, ma più in profondità quella fra il Padre e
il Figlio nello Spirito, allora lo "spazio" ceduto dall'Eterno non
è occupato da una creatura a Lui inferiore e ipoteticamente ca-
pace di "limitarLo", ma è pervaso da un'altra Presenza divina.
Il Padre fa "spazio" al Figlio accogliente, nella cui infinita re-
cettività è posta la condizione eterna di possibilità dell'esisten-
za della creatura, in quanto termine dell'amore divino e ac-
coglienza di esso. E, d'altra parte, se 1'"auto-limitazione" divi-
na è colta nella figura del Figlio, in quanto umiltà dell'eterno
lasciarsi amare e dell'obbediente ricevere, allora la "contrazio-
ne' ' divina non lascia il posto a un ipotetico emergere della crea-
tura in alternativa al divino, ma fa "spazio" alla sovrabbondante
effusione dell'amore irradiante del Padre, alla sorgività infinita
della Sua iniziativa, nella quale trova origine ogni esistenza, ener-
gia e vita delle creature. Inoltre, se il divino umiliarsi è riferito
allo Spirito, in quanto unità di dono e accoglienza e apertura
liberante del gioco dell'eterno amore, allora la kenosi del divi-
no non cede il posto a una pretesa esaltazione del mondo crea-
249
to, ma alla sua permanente unità col Dio vivente che lo ha po-
sto in essere ed alla sua autonomia relazionale nei confronti del
Padre, da cui proviene, e del Figlio, per il quale e nel quale ogni
cosa è stata creata. La fondazione intradivina della dottrina
dell'auto-limitazione dell'Eterno è dunque veramente possibile
solo in un'ottica trinitaria, che colga la relazione in Dio stesso,
e non in un preteso "al di fuori" di Lui. La consistenza del mon-
do non esige un contrarsi del divino che faccia "spazio" all'al-
tro da sé, ma rimanda all'eterno dinamismo dell'amore umile
dei Tre, per il quale ciascuno esce da sé e si dona all'altro, per-
dendosi per ritrovarsi nella comunione con l'altro. In altre pa-
role, l'auto-limitazione divina, in quanto si svolge nel seno stesso
delle relazioni intratrinitarie, è la condizione di possibilità eterna
dell'esistenza del mondo creato come altro da Dio, pur non es-
sendo separato da Lui e "fuori" di Lui. L'umiltà divina non
è che l'altro nome della libertà da sé con cui ciascuna Persona
divina ama l'altra, e con cui il Dio trinitario crea il mondo per
amore e per amore lo conserva in vita e lo alimenta nei dinami-
smi della sua esistenza.
La categoria dell"'ad extra", di ciò che sta "fuori" rispetto
a Dio, va dunque ripensata nel suo significato più proprio: essa
dice la trascendenza e la sovranità di Dio, ma non esclude in
alcun modo che il mondo esista in Lui, nello "spazio" trascen-
dente delle relazioni intradivine e nel dinamismo di umiltà e
auto-limitazione che le caratterizza. L'esteriorità del mondo ri-
spetto a Dio non si contrappone all'interiorità di Dio al mon-
do, ma la esige: la consistenza della creatura sta nel suo "esistere"
creato ("ex-sistere"), nel suo venire da Dio, per Lui e in Lui,
dal Padre, per il Verbo, nello Spirito. L'essere creaturale è co-
stantemente rapportato al Creatore, presente al Padre nel Fi-
glio, recettivo in Lui del dono di Dio, congiunto nello Spirito
all'Eterno e insieme in Lui chiamato a libertà. La suprema tra-
scendenza viene così ad identificarsi con l'immanenza suprema:
« Quanto una cosa possiede l'essere, tanto occorre che Dio le
sia vicino, in base al modo in cui possiede l'essere. L'essere è
quanto di più intimo ci sia a ogni cosa, e quanto di più profon-
do dimori in tutte... Perciò occorre che Dio sia in tutte le cose,
e intimamente» 3 .
L'esteriorità del mondo rispetto a Dio è dunque la figura della
3
S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae I q. 8 a. le.
250
sua alterità e della sua autonomia creaturale, ineliminabilmen-
te congiunta alla sua dipendenza da Lui ed al suo permanente
dimorare in Lui, nel dinamismo delle relazioni divine: questa
esteriorità della creatura, in quanto costitutivamente rapporta-
ta all'interiorità, è ciò che corrisponde all'idea biblica di spa-
zio. Esso non è la semplice estensione dei corpi, né il mero
rapporto fra di essi, né il puro sistema delle coordinate del mo-
vimento di ciò che esiste: nella Bibbia lo spazio è sempre su-
bordinato al tempo, come esteriorità che deve venire conquistata
mediante un contenuto interiore, come "terra" relazionata al
"cielo", come "carne" che deve essere vivificata dallo "spiri-
to". « L'entità sconfinata, ininterrotta, ma al tempo stesso vuota,
che viene realisticamente chiamata spazio, non è la forma ulti-
ma della realtà. Il nostro è un mondo dello spazio che si muove
attraverso il tempo, dall'Inizio alla Fine dei Giorni» 4 . E tut-
tavia lo spazio è tutt'altro che secondario o disprezzato: in quanto
forma dell'esteriorità della creatura rispetto al Creatore, lo spazio
è il richiamo costante della sua autonomia, il luogo delle sue pos-
sibilità, la concretezza del suo agire, l'ineliminabile veicolo del-
le sue espressioni, anche le più profonde. La Bibbia ignora il
rigido dualismo greco che fa dello spazio la prigione dell'ani-
ma: e questo perché riconosce nell'esteriorità, figurata dallo spa-
zio, il segno pregnante della consistenza del creato, il richiamo
permanente della sua alterità dal Creatore, l'ambito delle sue
possibilità proprie. « Tutto è creatura e Dio rimane fondamen-
talmente esterno, altro... La priorità attribuita all'alterità del
Creatore non poteva che esigere una creazione pensata in ter-
mini di spazio, e di spazio strutturato ». Il tempo stesso « ha
la priorità sullo spazio, ma è istituzione di spazio» 5 . In que-
sto senso, lo spazio biblico è soprattutto "corporeità", esterio-
rità della creatura non solo rispetto al Creatore, ma anche rispetto
al più profondo di se stessa, volto in cui si esprime l'interiorità,
mediazione sensibile delle scelte del cuore, veicolo della comu-
nicazione, linguaggio della libertà. Non il corpo separato o con-
trapposto all'anima, ma l'esteriorità di ciò che è interiore e
profondo, l'alterità di ciò che consiste in se stesso senza essere
separato dall'Altro: tale è l'idea di "corporeità" che emerge dalla
fede nella creazione.
4
A. Heschel, Il Sabato, Milano 1987, 140.
5
P. Gisel, La creazione, o. e, 57 e 56.
251
Lo spazio così concepito non è allora che la risultante dell'at- I
to dell'amore creatore per cui lo splendore della Trinità si "ri-
trae" perché la creatura esista: esso è la kenosi dell'interiorità
perché l'esteriorità del mondo consista e viva; esso è l'esibizio-
ne dell'autonomia del mondo, frutto dell'amore umile dei Tre;
esso è il volto del creato, reso possibile dalla kenosi dello splen-
dore eterno. In questo senso, lo spazio può più o meno lasciar
trasparire l'interiorità cui è indissolubilmente connesso: quan-
do la trasparenza è la più alta possibile, e nel frammento della
corporeità viene a riflettersi il tutto dell'interiorità trascenden- i
te, la forma dello spazio si configura come bellezza; quando in-
vece l'esteriorità viene assolutizzata e il rapporto con la pro-
fondità nascosta è indebolito o spento, allora lo spazio si con-
verte in superficialità, in vuotezza e banalità di contatti. An-
che i concetti di salute e di malattia, nel loro significato anzitutto
corporeo, si chiariscono alla luce del gioco di esteriorità e di in-
teriorità, che costituisce lo spazio: sano e salutare sarà ciò che
rispetta e valorizza la consistenza e l'autonomia del corporeo
nella sua relazione costitutiva e vivificante con l'interiorità, in
un equilibrio rispettoso dell'una e dell'altro. Malato sarà ciò che
rompe questo equilibrio, creando ostacoli a che l'esteriorità cor-
risponda all'interiorità, e l'una e l'altra conservino la propria
necessaria autonomia e consistenza. In questa linea, la conce-
zione biblica vedrà il disordine della malattia congiunto a quel-
lo morale del peccato: lo squilibrio indotto dall'autoaffermazione
inospitale dell'esteriorità della creatura si riflette anche nella
dolorosa conseguenza del male fisico, che visibilizza lo stato ge-
nerale di disarmonia in cui il creato è precipitato dalla ' 'violen-
za" del rifiuto libero e consapevole del Creatore. In questa
medesima luce si comprende però anche come il dolore fisico,
accettato e vissuto con adesione interiore al Creatore, possa con-
vertirsi in strumento di redenzione e di equilibrio dello spazio
creato: di un tale miracolo di inaudita bellezza il dolore del Cro-
cefisso è la prova più eloquente!
La kenosi del Verbo nell'ora della Croce illumina, dunque,
l'atto creatore come evento di un'auto-limitazione che si con-
suma in Dio e consente di riconoscere nello spazio creato la forma
della kenosi dell'amore trinitario. In maniera analoga, lo splen-
dore del Risorto illumina la creazione come atto di irradiante
pienezza e conduce a riconoscere nel tempo della creatura l'im-
pronta dello stesso divino splendore. Il Padre, pura sorgente della
252
vita, chiama all'essere tutto ciò che esiste con un atto di assolu-
ta gratuità e potenza, analogo a quello col quale ha resuscitato
il Crocefisso nello Spirito di santificazione: Egli è e resta la pro-
venienza silente e nascosta, ma non di meno presente e irra-
diante, di tutto il creato. Il Figlio, recettività infinita, è
l'accoglienza ospitale di ogni dono perfetto, e perciò la condi-
zione eterna di possibilità dell'esistenza della creatura in quan-
to esistenza accolta da Dio: Egli è e resta la venuta, il continuo
avvento della vita, in cui si compie l'e-venire del mondo in ogni
suo istante. Lo Spirito, vincolo della carità eterna e insieme
apertura dell'amore divino al dono creatore, è Colui nel quale
il creato è chiamato ad esistere come altro da Dio non separato
da Dio, autonomo e libero dinanzi a Lui, e insieme legato a
Lui dal vincolo costitutivo del permanente venire della vita: Egli
è e resta l'avvenire del mondo, il Paraclito in cui l'Eterno con-
tinuamente esce da sé per farsi dono alla Sua creatura, l'esodo
e l'estasi del Dio vivente, che assicura al tempo stesso l'unità
del presente e del futuro del creato con il promesso compimen-
to nel Regno.
La luce del Risorto illumina pertanto l'atto creatore del di-
namismo dell'amore irradiante dei Tre e fa cogliere nel tempo
della creazione l'impronta dell'eterna Provenienza, dell'eterna
Venuta e dell'eterno Avvenire di Dio: lo splendore della Trini-
tà viene a riflettersi sulla creatura proprio nel suo essere tem-
porale, nel suo permanente e sempre nuovo stare fra una
provenienza e un avvenire come "evento" sempre nuovo di tutto
ciò che esiste. Che il tempo sia il riflesso privilegiato della Glo-
ria divina sulle creature è convinzione profonda della Bibbia:
« È nella dimensione del tempo che l'uomo incontra Dio e di-
venta cosciente che ogni istante è un atto di creazione, un Ini-
zio, che schiude nuove vie per le realizzazioni ultime. Il tempo
è la presenza di Dio nello spazio, ed è nel tempo che noi possia-
mo sentire l'unità di tutti gli esseri» 6 . Il tempo è la perenne
novità del dono che l'Eterno fa alla creatura dell'esistenza, del-
l'energia e della vita, l'atto della continua creazione, l'eternità
che si proietta nello spazio. « Assistere all'eterna meraviglia della
creazione del mondo significa sentire in ciò che è dato la pre-
senza del Donatore, significa comprendere che la sorgente del
tempo è l'eternità, che il segreto dell'essere è l'eterno che è nel
6
A. Heschel, Il Sabato, o. e, 148.
253
I
tempo... Così la fede è il concretizzarsi di tanti momenti di me-
raviglia. Vivere in modo spirituale, creativo è convertire le co-
se dello spazio in momenti del tempo» 7 .
Il tempo viene così ad essere indissolubilmente congiunto al-
l'idea dell'inizio come creazione: esso è la partecipazione allo
spazio creato del dinamismo dell'amore eterno, l'inserzione del-
l'esteriorità del mondo nell'interiorità di Dio, l'atto sempre nuo-
vo per il quale ciò che è avvenuto nel primo mattino degli esseri
si compie in ogni istante del loro esistere. È Agostino che ha
avuto l'intuizione grandiosa del tempo come dimensione del-
l'interiorità, in cui si riflette il movimento dell'amore eterno:
solo il presente esiste, riflesso fugace dell'eternità, attimo sem-
pre nuovo in cui il futuro trapassa nel passato, l'uno e l'altro
trattenuti nel presente nella forma rispettivamente della memoria
e dell'attesa. Presente del passato, presente del presente, pre-
sente del futuro {memoria, contuitus, expectatio), il tempo non
è che "dilatazione" {distensio) dell'anima, evento della interio-
rità, che abbraccia nell'unità del suo atto la propria provenien-
za e il proprio avvenire8. A differenza di Aristotele, che
definisce il tempo in rapporto all'esteriorità dello spazio, come
misura del movimento secondo il prima e il poi 9 , Agostino ra-
dica il tempo in quello stesso spirito, nel quale riconosce le ve-
stigia della Trinità nella forma della memoria, dell'intelligenza
e della volontà {memoria, intelligentìa, amor)10: è così che egli
sottrae la sua concezione della temporalità all'intimismo sog-
gettivistico e alla cattura dell'incomunicabilità, perché l'inte-
riorità in cui si pone il tempo è l'interiorità stessa del mondo
in quanto creatura di Dio e non la semplice, puramente sogget-
tiva dimensione dell'anima.
In quanto evento dell'interiorità, il tempo è dunque l'impronta
di Dio mistero del mondo nelle forme dello spazio, è il riflesso
dello splendore della Trinità sul creato, è l'insistenza della Pro-
venienza, della Venuta e dell'Avvenire eterni sull'umile eveni-
re del presente del mondo n . Il tempo è la creazione nell'atto
del suo continuare, è l'inizio che si fa permanente dimora, è
7
Ih., 155 e 151.
8
Cfr. il libro XI delle Confessione!, che è per intero il libro del tempo.
9
F K . , VII, 1: 251b,17-23; 252a,4.
10
Cfr. ad esempio De Trinitate, 15, 23, 43.
11
Per questa lettura trinitaria del tempo cfr. pure B. Forte, Trinità come storia, Mi-
lano 1985, 185ss.
254
il qui ed ora del creato ricevuto come dono sempre nuovo e sor-
prendente del Creatore. Perciò il tempo non esiste in quanto
tale fuori della creazione: esso è l'atto del creare in cui la Pro-
venienza eterna, il Padre, nell'eterna Venuta, il Figlio, pone ogni
essere, e lo chiama a vivere nella sua autonomia e insieme nel
suo legame all'Eterno nella potenza dello Spirito. Perciò la crea-
zione non avviene nel tempo, ma col tempo: « Procul dubio non
est mundus factus in tempore, sed cum tempore »12. Anzi, il
tempo non è che l'atto stesso del creare visto dalla parte del-
l'interiorità della creatura, l'inizio primo e sempre nuovo, la crea-
zione originaria e continua, il punto di contatto e insieme la
differenza radicale fra il Creatore e il mondo creato: perciò Dio
non è prima del tempo, ma trascendente il tempo, in quanto
è Colui che, creando, pone in essere il tempo. E il tempo —
creatura dell'Eterno — è la dimensione in cui esistono tutte le
creature, in quanto poste e conservate nell'essere dal Creatore,
è il riflesso e la partecipazione di esse alla vita di Dio, il loro
comunicare — «per speculum in aenigmate» (ICor 13,12) —
a Dio Trinità in quanto vita eterna. Dove manca l'idea di crea-
zione, manca anche quella di tempo come dimensione dell'in-
teriorità del mondo: perciò Tommaso argomenta che la creazione
col tempo può essere solo oggetto di fede, come lo è l'inizio pen-
sato in quanto creazione, per lo stesso identico motivo che « la
novità del mondo non può essere oggetto di dimostrazione da
parte del mondo stesso »13. Anche in questa argomentazione si
rivela come il tempo riporti il creato alla sua struttura fonda-
mentale di essere originato all'inizio e sempre nuovamente nel
mistero di Dio, nel dinamismo delle insondabili relazioni d'a-
more della Trinità.
Se lo spazio rinvia alla kenosi del Dio vivente, perché si of-
fre come l'esteriorità del creato davanti al Suo amore umile, il
tempo rinvia dunque allo splendore della Trinità, perché rivela
l'interiorità della creazione in quanto partecipe del dinamismo
di provenienza, di venuta e di avvenire della vita divina, chia-
mata perciò a divenire la dimora di Dio, tutto in tutti. Se lo
spazio rimanda alla "terra" nella sua autonomia e nella sua pe-
santezza dinanzi al Creatore, il tempo rimanda al "cielo", co-
12
Agostino, De civitate Dei, 11, 6: PL 41, 322. Cfr. pure Confessione*, 11,30: PL
32, 826: « Nullum tempus esse posse sine creatura ».
13
Summa Theologìae I q. 46 a. 2.
255
me origine, grembo e destino del mondo, come dimensione ine-
liminabile dell'interiorità e della profondità della vita creata.
Terra e cielo sono metafore dell'esteriorità e dell'interiorità del
creato, e perciò dello spazio e del tempo nella loro distinzione
e nel loro indissolubile rapporto. Se lo spazio rinvia ancora al
"corpo", in quanto forma dell'esteriorità di tutto ciò che esi-
ste, il tempo rinvia all" < anima", forma dell'interiorità, mondo
della coscienza, della memoria e dell'attesa, in cui si qualifica
dal di dentro la vita e gli stessi oggetti dello spazio vengono con-
vertiti in eventi del tempo, in forme della decisione e in tappe
nel cammino della libertà. E come il corpo ritorna alla terra,
dissolvendo la forma dell'esteriorità nella solidarietà con la più
generale esteriorità del creato, cosi l'anima è fatta per il cielo,
partecipa cioè del dinamismo della vita eterna ed è chiamata
ad accogliere ed esprimere l'eternità nel tempo e ad aprire il
tempo alla pienezza senza tramonto dell'eternità. Nello spazio
trionfa la morte, apparente vittoria dell'esteriorità abbandona-
ta da ogni vita interiore; nel tempo trionfa la vita, permanente
durata dell'interiorità, che, gratuitamente suscitata dall'Eter-
no nell'atto della creazione, è chiamata a celebrare l'alleanza
eterna con Lui, per un'esistenza che vinca ogni lacerazione e
ogni fine.
È dunque solo il tempo che vivifica lo spazio col "gemito della
creazione", e ne supera la costitutiva caducità, liberandolo dal-
la schiavitù della corruzione per la via dell'interiorità aperta al
mistero del Creatore, che conduce alla libertà della gloria dei
figli di Dio (cfr. Rm 8,18ss). Nella dimensione del tempo si of-
frono le "primizie dello Spirito", che interiormente redimono
ciò che è esteriore: « Sappiamo bene infatti che tutta la crea-
zione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non
è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spiri-
to, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la re-
denzione del nostro corpo » (Rm 8,22s). Il problema, allora, non
è fuggire le cose dello spazio, ma redimerle dal di dentro viven-
do la profondità della vita nel tempo, santificando il tempo con
la nostalgia e l'attesa dell'eternità. Non è il tempo quantificato
che darà l'anima al mondo, il mero succedersi cronologico degli
istanti legati allo spazio (xpóvocj, ma il tempo qualificato, l'o-
ra della decisione e dell'accoglienza della grazia (Kcupócj, che
trasforma l'esteriorità dello spazio in interiorità della vita, l'i-
stante cronologico e il giorno che tramonta in tempo di salvez-
256
za e "oggi" dell'eternità: « Poiché siamo suoi collaboratori, vi esor-
tiamo a non accogliere invano la grazia di Dio... Ecco ora il mo-
mento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! » (2Cor 6,ls).
Spazio e tempo, in quanto forme rispettivamente dell'este-
riorità del creato rispetto al Creatore e dell'interiorità del mon-
do in quanto avvolto dal mistero di Dio e di Dio in quanto
presente nel più intimo di ogni Sua creatura, rinviano dunque
alla kenosi e allo splendore della Trinità nell'universo della crea-
zione: dimensioni strutturanti di ogni essere creato, essi riman-
dano rispettivamente alla trascendenza e all'immanenza del Dio
vivente nell'opera delle Sue mani. In forme diverse e comple-
mentari lo spazio e il tempo celebrano la presenza e la gloria
dell'amore creatore della Trinità nelle Sue creature, e segnano
il destino del mondo, in quanto chiamato ad esistere davanti
a Dio, a dimorare in Lui nello "spazio" delle relazioni in tradi-
vine, ed a configurarsi nel più profondo del suo essere al "tem-
po" eterno del processo della vita dei Tre, finché Dio sia tutto
in tutti (cfr. ICor 15,28), nell'unità e nella distinzione dell'in-
finito amore.
14
Cfr. C. Duquoc, Uomo/Immagine di Dio, in Enciclopedia Teologica, a cura di P.
Eicher, Brescia 19902, 1125-1133, con bibliografia. Cfr. pure per quanto segue B. For-
te, Trinità come storia, o. e, 174ss (« L'uomo immagine del Dio trinitario »).
257
La creatura umana riflette in sé anzitutto la sorgività che è
propria del Padre nella vita eterna e nell'atto creatore: essa è
capace di cominciare ad amare attraverso una decisione cosciente
e Ubera; essa può farsi soggetto e protagonista della propria storia
attraverso atti di cui ha l'iniziativa e la responsabilità; essa può
operare scelte di gratuità, da nuli'altro motivate che dalla pro-
pria volontà e dalla propria intelligenza. Questa sorgività della
persona umana, che la stabilisce come interlocutore privilegia-
to del patto voluto dal Dio vivente, investe inseparabilmente
l'esteriorità dello spazio e l'interiorità del tempo: la decisione,
libera e consapevole, è anzitutto evento dello spirito, presa di
posizione nel divenire, per cui il presente, carico del proprio
passato, si apre creativamente all'avvenire. Perché però la de-
cisione sia espressa e comunicata nella storia, essa deve inevita-
bilmente investire dal di dentro l'esteriorità, agendo sulla
corporeità e trasparendo in essa: la parola e il gesto sono il vei-
colo proprio dell'interiorità, la casa in cui viene a dimorare la
libertà e la consapevolezza del cuore. In particolare, il volto può
offrirsi come la densa evocazione dell'anima, non solo finestra
sulla segreta sorgività del mondo interiore della persona, ma an-
che luogo del suo comunicarsi, sguardo che rivela e gestualità
che esprime. Lungi dall'essere prigione dell'anima, il corpo è
l'anima stessa nel suo rivelarsi sorgivo, è lo spazio abitato dal
tempo, l'esteriorità che veicola l'iniziativa dell'interiorità. Re-
nosi dello splendore divino, in quanto esteriorità che evidenzia
l'alterità e l'autonomia dal Creatore del soggetto delle decisio-
ni spirituali, la corporeità dell'uomo è inseparabilmente splen-
dore della kenosi, forma in cui "prende corpo" l'interiorità,
spazio in cui viene a irradiarsi la dimensione del tempo come
eco di eternità. Perciò anche solo un "bicchiere d'acqua" può
aprire le porte della vita eterna (cfr. Mt 10,42): nel semplice
gesto di un'offerta — carica di tutta la densità dello spazio ed
insieme evento del tempo vissuto dal cuore — può rivelarsi nella
creatura umana l'immagine divina del Padre amoroso.
La persona umana riflette parimenti l'eterna recettività del
Figlio, nella cui ospitalità infinita è accolto il dono dell'atto crea-
tore: l'uomo è capace di ricevere l'amore nella gratitudine, di
lasciarsi raggiungere e modificare dall'altro, di farsi abitare dal
dono, senza per questo perdere la propria identità. Non sono
solo l'individualità e l'assoluta singolarità che costituiscono l'uo-
mo come persona, ma anche la sua capacità di farsi tutto a tut-
258
ti, ospitando il diverso nella conoscenza e nell'amore, il suo es-
sere razionale, che gli consente di "comprendere" l'altro e di
accoglierlo nel rispetto della sua alterità. Questa recettività si
compie pienamente nel gioco inseparabile dello spazio e del tem-
po, dell'esteriorità che accoglie in quanto segno e strumento del-
l'accoglienza interiore, e dell'interiorità che anima il linguaggio
corporeo della recettività: se l'accoglienza si consumasse tutta
e solo nelle profondità dell'anima, l'altro non verrebbe veramente
ospitato, e l'identità del singolo soppianterebbe la differenza
dei due. Solo se l'altro è ricevuto come altro, in tutto il ceppo
pesante della sua alterità, di cui è cifra ineliminabile la diversi-
tà spaziale e corporea, la sua identità è rispettata e la differen-
za mantenuta, pur nel vincolo stabilito dall'incontro nella
conoscenza e nell'amore. L'accoglienza del cuore è inseparabile
dall'accoglienza del gesto, dalla comunicazione esteriore, visi-
bile e corporea dell'ospitalità decisa nel tempo dell'anima: lo
sguardo rivela l'occhio interiore, che accoglie o rifiuta; il volto
lascia trasparire lo spirito, che si apre o si chiude alla venuta
dell'altro; il corpo significa l'evento della gratitudine o dell'au-
toaffermazione inospitale. « Quando era ancora lontano il pa-
dre lo vide e ' ommosso gli corse incontro, gli si gettò al collo
e lo baciò » (Le 15,20): l'accoglienza più alta si esprime nel lin-
guaggio del gesto, nell'eloquenza silenziosa della corporeità di-
venuta rivelazione del cuore! Nell'essere recettiva la persona
umana congiunge così lo splendore e la kenosi del Figlio, quali
si offrono nell'opera creatrice: lo splendore, in quanto essa ir-
radia nel tempo un riflesso dell'accoglienza eterna dell'amore,
nella quale tutto è stato creato; la kenosi, in quanto questo evento
personale della gratitudine è significato nella povertà e nella de-
terminatezza di un atto, segnato dalle coordinate dello spazio
e dalla finitezza della corporeità, che richiamano l'alterità del
mondo creato rispetto al Creatore. Kenosi dello splendore e
splendore della kenosi, la recettività è corporeità plasmata dal-
la gratitudine del cuore e interiorità che investe e qualifica dal
di dentro il gesto dell'accogliere: è spazio abitato dal tempo del-
l'assenso e tempo espresso nella concretezza della parola e del
volto, capacità di lasciarsi raggiungere e abitare dall'altro nelle
dimensioni dell'esteriorità e del mondo interiore. Proprio così
la recettività rivela la persona umana come immagine traspa-
rente dell'eterna accoglienza del Verbo creatore.
L'uomo è infine immagine dello Spirito Santo: l'iniziativa e
259
l'accoglienza si saldano nella reciprocità delle coscienze, nella
capacità che la persona umana ha di essere al tempo stesso sog-
getto e termine delle relazioni di conoscenza e di amore. Capa-
ce di stabilire vincoli di comunione, l'essere umano è non di
meno capace di aprirsi alla perenne novità e alle sorprese del-
l'altro e del divenire della storia. L'impronta dello Spirito del-
l'unità e della pace divina, impressagli nell'atto creatore, rende
l'uomo costitutivamente fatto per amare, chiamato da sempre
ad autodestinarsi all'Altro per realizzare la verità di se stesso:
la socialità, la capacità di relazionarsi agli altri e di stabilire con
loro vincoli profondi di reciprocità e di solidarietà, è costituti-
va dell'immagine di Dio nella creatura umana, segnata dall'a-
zione creatrice dello Spirito Santo. Ed insieme la stessa impronta
del Consolatore, in quanto è la perenne apertura e il dono di
Dio, l'estasi e il sempre nuovo inizio dell'amore trinitario, fa
della persona umana un essere storico aperto nel divenire, in-
quieto nel più profondo di sé fino a quando non riposerà nel
supremo Altro da sé: nella storicità, nell'essere soggetto e pro-
tagonista del divenire aperto al nuovo nella complessa rete del-
le relazioni con gli altri, l'immagine dello Spirito di Dio nell'uomo
si esprime in pienezza. Reciprocità delle coscienze e storicità,
intesa come permanente esigenza di situarsi nel cambiamento
e di anticipare il domani, segnano nel più profondo della crea-
tura umana il suo essere creata e continuamente vivificata nel-
lo Spirito Santo. Anche questa forma dell'immagine divina si
realizza nel gioco di interiorità e di esteriorità, caratteristico della
persona umana: l'interiorità della persona si comunica all'altro
investendo dal di dentro l'esteriorità dello spazio, mentre è grazie
alla sua esteriorità che la coscienza altrui è in grado di raggiun-
gere nella reciprocità la propria. Non c'è incontro interperso-
nale che non si stabilisca nella mediazione della corporeità,
trasformando dal di dentro lo spazio in dimensione del tempo,
veicolo della reciprocità delle coscienze. D'altra parte, anche
l'apertura dell'interiorità al veniente e al nuovo ha bisogno del-
lo spazio per realizzarsi: è nell'intreccio delle relazioni mediate
dalla corporeità della storia che viene a compiersi ogni possibi-
lità di incontro trasformante e di avvento sovversivo. E nella
totalità del suo essere spazio-temporale che la persona umana
si apre al nuovo ed è raggiunta da ciò che può cambiare il cuore
e la vita. Reciprocità delle coscienze e movimento esodale ver-
so l'avvenire — forme dell'immagine dello Spirito divino nella
260
creatura umana — esigono dunque il gioco della kenosi dello
splendore e dello splendore della kenosi del Creatore nell'ope-
ra delle Sue mani: l'esteriorità del tempo e l'interiorità dello
spazio sono i presupposti ineliminabili della comunicazione e
dell'apertura del cuore, in cui si realizza nell'uomo l'immagine
dello Spirito creatore.
La persona umana — strutturata nell'atto creatore a imma-
gine e somiglianza della Trinità, nell'iniziativa e nell'accoglien-
za del dono della vita e nella reciprocità anticipante delle sue
relazioni — vive pertanto nella maniera più alta la duplice ap-
partenenza all'esteriorità dello spazio e all'interiorità del tem-
po, non alla maniera di un dualismo lacerante, ma nell'unità
profonda del suo essere soggetto libero e consapevole della pro-
pria storia, capace di qualificare lo spazio dal di dentro ed in-
sieme di esprimere e propriamente storicizzare l'interiorità del
tempo che dà sapore alla vita. In tal senso, l'uomo è creatura
di frontiera, che coniuga nella forma più alta l'autonomia del
creato rispetto al Creatore, visibilizzata nell'esteriorità dei cor-
pi, e l'interiore possibilità di adesione a Lui e di comunione col
mistero della Sua vita eterna, affidata alla qualificazione libera
e consapevole del tempo. Perciò nella prospettiva biblica l'es-
sere umano è solidale col creato ed insieme responsabile verso
di esso, creatura dello spazio, destinato a riempire la terra (cfr.
Gen 1,28), ed insieme protagonista del tempo, chiamato a qua-
lificare l'esteriorità del mondo con l'interiorità delle scelte spi-
rituali attraverso la loro conveniente storicizzazione, come
coltivatore e custode del giardino di Dio (cfr. Gen 2,15).
261
posto, Origine silenziosa e raccolta di tutto ciò che esiste. Ri-
conoscere l'inizio come creazione significa necessariamente am-
mettere che il Creatore possiede un'infinita riserva di possibilità
nel porre la realtà creata secondo il Suo beneplacito. L'ampiez-
za del creato, allora, non è misurabile a partire dalle coordinate
di cui la creatura umana dispone, ma è riservata, nell'estensio-
ne e nella forma, all'assoluta libertà di Dio.
Una densa cifra di questa ulteriorità della creazione rispetto
all'orizzonte della percezione spazio-temporale dell'essere umano
è l'esistenza della creatura angelica 15: essa è attestata ampia-
mente nella tradizione giudaico-cristiana. In particolare, un'at-
tenzione teologica verso gli angeli, concepiti come messaggeri
dell'Eterno (mal'ak jhwh), è presente nella fonte elohista (cfr.
ad esempio Gen 31,11; Es 3,2), e, con tratti più leggendari, in
testi come Es 23,20ss (l'angelo che accompagna Israele nel de-
serto), 2Sam 24,16s (l'angelo della peste), IRe 19,5s (l'angelo
che ristora Elia). La funzione di lodare Dio è parimenti attri-
buita agli angeli (cfr. Sai 103,20), come pure quella di interpre-
tare la profezia (cfr. l'angelus interpres di Ez 40,3s; Zac l,8s;
2,2; Dn 8,16; 9,2ls; Ap 1,1; 10,1-11) e di difendere gli uomini
cui il Signore li invia (cfr. Sai 91,11 o la storia di Tobia). Nel
corso dei secoli si tende a moltiplicare il numero delle figure
angeliche, a precisarne le funzioni e persino a designarle con
nomi propri (cfr. Tb 3,17; 12,15; Le 1,19.26; Ap 12,7). Que-
ste tradizioni si combinano con altre che non menzionano alcu-
na forma di esistenza angelica, forse per meglio salvaguardare
la purezza dell'adorazione al solo Dio (così gli scritti sacerdota-
li e il Deuteronomio), e si affiancano a testi in cui l'angelo del
Signore non è che il Signore stesso nel suo manifestarsi agli uo-
mini in forma visibile (cfr. ad esempio Gen 16,7; 21,17-19).
Nell'antico Israele si manifesta pure una credenza negli spiriti
nocivi, che colpiscono i malati (cfr. Sai 22 o Giob 6,4). Solo
successivamente si profilerà l'idea di creature angeliche deca-
dute in seguito ad una colpa (cfr. il libro extrabiblico di Enoch
etiopico e le testimonianze neotestamentarie di Gd 6 e 2Pt 2,4).
15
Per la storia del dogma cfr.: G. Tavard, Die Engel, Handbuch der Dogmengeschich-
te II, Fasz. 2b, Freiburg 1968. Per la riflessione sistematica cfr. ad esempio T. van
der Hart, Teologia degli angeli e dei demoni, Catania 1971; K. Rahner, Sugli angeli, in
Id., Dìo e rivelazione. Nuovi Saggi VII, Roma 1981, 471-527, e i volumi miscellanei
Angeli e diavoli, Brescia 1972 e Diavolo-demoni-possessione. Sulla realtà del male, Bre-
scia 1985. Cfr. infine il numero monografico di Concìlium 11 (1975) 3.
262
Satana, originariamente concepito come un membro della cor-
te celeste (cfr. Giob l,ls; Zac 3,ls), verrà poi identificato con
l'istigatore al male (cfr. lCron 21,1), fino a essere indicato co-
me l'avversario di Dio, "il dio di questo mondo", sovrano di
una propria corte di angeli decaduti (cfr. Mt 25,41; 2 Cor 4,4;
12,7).
Nel Nuovo Testamento la credenza nell'esistenza di un mondo
angelico è data per scontata: Gesù stesso mostra familiarità con
gli angeli (cfr. ad esempio Mt 4,11; 26,53; Me 1,13; Le 22,43;
Gv 1,51) e sembra presupporre come ovvia la loro presenza di
custodi e garanti presso ciascuno dei piccoli, cui appartiene il
Regno dei cieli (cfr. Mt 18,1-10). Nella sua attività pubblica
il Nazareno si presenta spesso come colui che scaccia i demoni
in segno dell'avvento del Regno di Dio (cfr. ad esempio Mt
9,32ss; 12,22ss; Le 13,32; ecc.). Il Profeta galileo presuppone
con naturalezza l'esistenza di Satana (cfr. Le 10,18), che viene
anche presentato come suo antagonista (cfr. Me l,12s; Le 22,3).
Non meno di Lui Paolo identifica in Satana l'avversario che osta-
cola il suo lavoro apostolico (cfr. lTess 2,18; 3,5; cfr. pure 2Cor
12,7s). Negli scritti più recenti del Nuovo Testamento la de-
monologia si intensifica ulteriormente (cfr. Gd; 2Pt 2,4; Ap
20,7-10), ed in Giovanni esercita un ruolo decisivo come figu-
ra densa del negativo nella crisi, che la venuta del Verbo nella
carne induce nel mondo.
La rappresentazione del mondo angelico esclude da esso la
corporeità (cfr. Mt 22,30 e par.), collocandolo piuttosto dalla
parte dell'interiorità e della profondità del creato: esso appar-
tiene a quell'ambito delle cose invisibili, su cui si estende, non
meno che su quelle visibili, l'azione e la sovranità creatrice del-
l'Onnipotente, autore, appunto, «di tutte le cose, visibili e in-
visibili»16. Il Concilio Lateranense IV (1215) preciserà che il
Creatore « insieme con l'inizio del tempo pose dal nulla l'una
e l'altra creatura, la spirituale e la corporea, l'angelica cioè e
la mondana: e quindi l'umana, commista per così dire di anima
e di corpo ». Recependo la tradizione della caduta degli esseri
spirituali originariamente buoni (« diabolus enim et alii daemo-
nes a Deo quidem natura creati sunt boni, sed ipsi per se facti
sunt mali »), lo stesso Concilio evidenzierà la libertà della crea-
16
Simbolo del Concilio di Nicea (325): DS 125. Cfr. pure il Costantinopolitano I
(381): DS 150.
263
tura angelica, in quanto capace di accettazione o di rifiuto del-
la volontà dell'Eterno 17 . Esseri creati, non corporei, pu-
ramente spirituali, liberi e consapevoli, soggetti di decisioni che
ne qualificano il destino e dunque di potenzialità diversamente
realizzabili, che ne rivelano la distinzione da Dio: tali appaiono
le creature del mondo angelico alla luce di questa amplissima
tradizione della fede, mirabilmente sintetizzata dal genio di Tom-
maso d'Aquino 18.
Sarà l'epoca moderna a mettere in dubbio la realtà degli an-
geli e dei demoni: sfuggendo a ogni controllo della razionalità,
questo mondo apparirà intollerabile alla ragione adulta ed eman-
cipata del "secolo dei lumi". Alla credenza negli spiriti Voltai-
re riserverà soltanto lo scherno, escludendo categoricamente ogni
possibilità di esistenza di una "catena di esseri creati" («chai-
ne des ètres créés »), che oltrepassino l'uomo. L'impressionan-
te mole della testimonianza religiosa sull'universo angelico sarà
semplicemente interpretata come proiezione del desiderio o della
paura, segno della debolezza e dell'irrequietezza dello spirito
umano, o come insieme di "entità culturali", da spiegarsi in rap-
porto agli interessi e alle insicurezze agenti sulla collettività. Il
"congedo dal diavolo" apparirà la sola forma sensata di un at-
teggiamento religioso che sia all'altezza del moderno 19.
E così che la crisi delle presunzioni totalizzanti della ragione
illuminista produce un nuovo interesse nei confronti del mon-
do angelico: il solo orizzonte terreno sembra non bastare più;
i sentieri del mondo adulto ed emancipato si rivelano paurosa-
mente interrotti; la "nostalgia del totalmente Altro", garante
di perfetta e consumata giustizia, si profila con inquietante evi-
denza (M. Horkheimer). Si ode di nuovo "il brusio degli ange-
li" (P. L. Berger): «L'Angelo soltanto, custode del Verbo
divino... può compiere lunghi viaggi da quel Non-dove invisi-
bile... verso il tempio interiore dell'uomo, penetrarne le tene-
bre, aiutarlo a trovare il proprio Oriente» 20 . L'Angelo ricorda-
17
DS 800. Cfr. pure il Decreto per i Giacobiti del Concilio di Firenze (1442): DS
1333; il Vaticano I: DS 3002; YHumani generis (1950); il Credo del popolo di Dio di
Paolo VI (1968) e il Documento della Congregazione per la dottrina della fede Fede
cristiana e demonologia (1975).
18
Cfr. Summa Theologiae I qq. 50-64 e 106-114.
19
Cfr. gli scritti di H. Haag, Liquidazione del diavolo?', Brescia 1970 e Teufelsglaube,
Tùbingen 1974.
20
M. Cacciari, L'Angelo necessario, Milano 1986, 13s. Cfr. P. L. Berger, Il brusio
degli angeli, Bologna 1969.
264
che non tutto è in questo mondo, che non tutto è questo mon-
do: « Ciò a cui propriamente educa l'Angelo è questa nostalgia
per la visione che nessuno ha visto né vedrà mai» 21 . Messag-
gero dell'ai di là delle cose — come dice il suo nome —, l'An-
gelo è il testimone dell'invisibile, il richiamo al Mistero più
grande del nostro cuore, il segno che noi siamo circondati ed
insieme infinitamente superati dalla divina presenza, irriduci-
bile alla presa della nostra conoscenza spazio-temporale. L'An-
gelo dice l'ampiezza del mondo creato, ben al di là delle
possibilità di cattura della ragione umana, e rimanda all'ulte-
riorità del Creatore, che avvolge tutte le cose.
La ricchissima testimonianza della tradizione giudaico-cristiana
sul mondo angelico risuona così con nuova freschezza nel tem-
po post-moderno, che segue alla "dialettica dell'Illuminismo":
se non tutto ciò che fa parte di questa tradizione può essere
interpretato in senso letterale, perché diversi sono i generi let-
terari usati e vario il linguaggio simbolico, è innegabile la per-
manenza di un nucleo irriducibile legato alla rivelazione,
attestante la realtà della creatura angelica, appartenente a un
ordine diverso e per certi aspetti superiore a quello familiare
all'essere umano. Quest'universo di esseri spirituali, intelligen-
ti, liberi, non solo testimonia dell'inesauribile capacità creativa
dell'Altissimo, aprendo alle profondità di Dio mistero del mondo,
ma rende anche più bello e vivibile il mondo dell'uomo. Gli an-
geli segnalano alla creatura umana l'infinita vicinanza dell'eterno
Amore: testimoni della tenerezza di Dio, che si ricorda di cia-
scuno dei suoi piccoli e li segue con attenzione fedele (cfr. Mt
18,10), essi assicurano che la memoria divina si fa presenza, pros-
simità illuminante e corroborante nelle prove della vita (cfr. Sai
34,8), ed aprono alla speranza nel compimento delle promesse
dell'Eterno: « In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto
e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell'uomo » (Gv
1,51). L'Angelo è il messaggero dell'amore che ci ha preceduto
da sempre, che ci accompagna sempre e che resterà per sempre,
il segno della sovrabbondante ricchezza dell'amore divino che
crea, conserva e salverà il mondo.
Anche la realtà demoniaca aiuta a meglio comprendere la gran-
dezza del Creatore e la dignità della creatura umana: da una
parte, l'esistenza dei demoni dimostra la libertà data dall'Altis-
21
M. Cacciari, L'Angelo necessario, o. e, 23.
265
simo alle creature appartenenti all'ordine puramente spiritua-
le, altro e diverso rispetto a quello spazio-temporale del mondo
umano. Dando loro la libertà, Dio dimostra il Suo amore anche
verso le creature che trascendono l'universo sensibile. L'esistenza
del demonio, poi, consente di meglio comprendere e garantire
la libertà e la responsabilità della persona umana: se il male che
pervade la terra è frutto anche dell'opera di queste creature spi-
rituali, esso non graverà tutto e unicamente sulla coscienza de-
gli uomini. Nonostante la presenza dell'attrattiva del male in
se stesso, l'uomo resterà libero di fronte ad essa e soprattutto
non immediatamente responsabile di essa. La distinzione fon-
damentale fra la tentazione e l'acconsentimento ad essa, che è
il peccato, così decisiva per misurare la storia della responsabi-
lità morale, è garantita proprio dall'esistenza di Satana: para-
dossalmente, per quanto dolorosa e drammatica, la presenza di
questo angelo del male salvaguarda le possibilità di scelta libera
e responsabile della creatura umana, senza caricare su di essa
il peso della concupiscenza, come fascino misterioso esercitato
dal male. È dunque la realtà di Satana, come essere spirituale,
intelligente e libero, e non semplicemente il significato simbo-
lico del suo ruolo nel mondo, che va affermata, in continuità
con la grande tradizione ebraico-cristiana e al servizio di una
visione del creato e in particolare della persona umana che ri-
spetti la trascendenza, la vastità e la complessità dell'opera di
Dio, senza ridurla al puramente misurabile dalla ragione spazio-
temporale dell'uomo.
266
trinitaria pasquale: nella donazione originaria, in forza della quale
dal nulla emergono tutte le cose per la generosità libera e pura
dell'atto creatore, sono segnati dalla Trinità Santa anche la più
profonda struttura e il destino degli esseri. Diviene così possi-
bile tracciare le linee di una ontologia trinitaria, intesa come la
riflessione sull'essere degli enti sviluppata a partire dall'acca-
dere originario e sempre nuovo, che è l'evento della donazione
creatrice operata dalla Trinità e rivelata pienamente nella ke-
nosi del Venerdì Santo e nella gloria di Pasqua: la Trinità si of-
fre come il mistero del mondo, la sua profondità ultima e
originaria, la sua origine e il suo grembo trascendenti, che se-
gnano di sé tutto ciò che esiste22.
Alla base di questa ontologia trinitaria si pone la domanda
metafisica pura, prima fra tutte le domande, perché di tutte è
la più vasta, la più profonda, la più originaria: «Perché vi è,
in generale, l'essente e non il nulla? »23. A questo interrogati-
vo il filosofo non può dare altra risposta che la resa della sua
iniziale presunzione interrogante a un ascolto quieto dell'auto-
donazione dell'essere, specialmente nell'evento del linguaggio.
Alla stessa domanda, il teologo, che ha posto l'ascoltare alla ba-
se del suo pensiero di fronte all'evento sorprendente della do-
nazione, che è l'atto di rivelazione, dà la risposta che questa
stessa rivelazione gli consente: tutto ciò che è è perché è chia-
mato ad essere ed è conservato in essere dall'atto della pura,
infinita e libera generosità, che è l'atto trinitario della creazio-
ne. Vi è in generale l'essente e non il nulla per un'unica fonda-
mentale ragione: l'amore. In quanto crea "ex nihilo", e cioè
senza ragione, il Creatore non ha altro motivo per creare che
non sia l'amore stesso, la gratuità infinita, la pura, irradiante
gioia del comunicare l'essere e la vita. L'evento originario e ori-
ginante dell'essere è la carità, la sorgività inesauribile dell'A-
mante, l'accoglienza infinita dell'Amato, la comunione libera
e liberante dell'Amore. Un rapporto costitutivo ed essenziale
è allora posto dall'atto originario dell'inizio fra l'essere e l'a-
22
Cfr. K. Hemmerle, Tesi di ontologìa trinitaria, Roma 1986, nonché L. Oeing-
Hanhoff, Trinitarische Ontologie una Metaphysik der Person, in Trinìtàt. Aktuelle Per-
spektiven der Theologie, hrsg. v. W. Breuning, Freiburg-Basel-Wien 1984, 143-182. Un
contributo significativo in direzione della fondazione di un'ontologia trinitaria è offer-
to da P. Coda, Evento pasquale. Trinità e storia, Roma 1984 (specie 153ss), e Id., li
negativo e la Trinità. Ipotesi su Hegel, Roma 1987.
23
Cfr. M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, Milano 1968, 13ss (« La domanda
metafisica fondamentale »).
267
more: questo rapporto si lascia cogliere al triplice livello del-
l'atto di essere, della storia dell'amore e del negativo presente
nell'universo degli esseri.
Se l'essere è originariamente atto di amore, l'essere è origi-
nariamente evento, accadere della donazione, atto della libera
comunicazione dell'essere, "actus essendi": « Iniziare dall'amore,
dal darsi, è iniziare dall'accadere, dal fare. In principio non è
più il problema: come può il soggetto uscire da sé e ritornare
a sé? O, in altra versione: come può la sostanza arrivare a diffe-
renziarsi, definirsi, produrre effetti, senza sminuire la sua pre-
minenza, il suo essere in sé? Il pensare non è un ritorno dopo
un processo, per ricostruire quest'ultimo fondandosi su un punto
di origine isolato. Anzi il pensiero si trova già, fin dal princi-
pio, nel processo. Il nome di un tale pensiero non è più il so-
stantivo, ma il verbo »24. L'essere è in quanto accade, in
quanto cioè è dono che si compie, evento della donazione del-
l'esistenza, dell'energia e della vita: cosificare l'essere, ridurlo
a ente fra gli enti, è l'equivoco metafisico fondamentale, che
sostituisce il pensiero dell'essenza al pensiero della vita, in quanto
atto dell'essere. Una metafisica che parta dall'evento origina-
rio dell'autocomunicarsi divino non potrà dare il primato all'es-
senza, ma all'atto di essere, o, in altre parole, all'evento del-
l'amore: è qui che il genio cristiano di Tommaso si distacca si-
gnificativamente dall'eredità greca, centrata sulle essenze. « San
Tommaso segna la nascita di una nuova ontologia. Per ben com-
prenderla, vanno capite due cose, del resto collegate tra loro:
la nozione di essere come atto; il rifiuto di distinguere essenza
ed esistenza come due "realtà" che potrebbero giustapporsi l'una
all'altra, staccarsi o unirsi... La teologia di San Tommaso è cen-
trata non sull'essere in quanto essere (come hanno fatto credere
alcuni suoi interpreti), ma sull'atto d'essere (esse), che costitui-
sce nel suo punto più intimo ciascun ente (ens) particolare e con-
tingente» 25 . La caduta dell'ontologia deR'actus essendi in un
"cosismo" tanto arido quanto rassicurante, perché disponibile
alla volontà di dominio dell'uomo sugli enti, trova la sua defi-
nitiva cristallizzazione nel pensiero di F. Suarez, che condizio-
nerà tutta la successiva "scuola tomista" 26, allontanandola
24
K. Hemmerle, Tesi di ontologia trinitaria, o. e, 40s.
25
P. Gisel, La creazione, o. e, 119s.
26
Cfr. C. Fabro, Partecipazione e causalità secondo San Tommaso d'Aquino, Torino
1960.
268
dalla novità cristiana di Tommaso rispetto al pensiero dei Gre-
ci. Contro questa deformazione — stigmatizzata da Heidegger
come onto-teo-logia — occorre ribadire che l'essere è atto, evento
della donazione, comunicarsi della vita, creazione continua, o,
per dirlo in una parola: amore.
Se l'essere è originariamente e costitutivamente l'evento della
carità creatrice, la storia dell'essere è la storia dell'amore: come
l'amore, l'essere è provenienza, venuta, avvenire, iniziativa, ac-
coglienza, loro unità e sempre nuovo inizio. E qui che si lascia
cogliere l'impronta trinitaria presente nell'essere in quanto ac-
cadere: l'essere come evento rimanda all'Origine che sempre nuo-
vamente lo pone, al Silenzio fecondo che pronuncia la Parola
eterna e in essa le parole che sono gli enti della creazione. L'es-
sere è avvolto dal Silenzio, è anzi l'atto dell'autocomunicarsi
creatore della silenziosa Origine: in quanto tale, la sua profon-
dità si rivela nell'ascolto riverente dell'atto della donazione, che
sempre nuovamente si compie. Tanto più si è, quanto più si ascol-
ta nel silenzio l'originario sgorgare dell'amore che crea e lo si
vive nell'atto della gratuità suscitatrice di vita: realizzarsi nel-
l'essere esige profondità. E insieme l'essere è venuta: in quanto
accadere l'essere è accoglienza del dono, povertà radicale del
lasciarsi dire, purezza del ricevere. L'essere è verbo nel Verbo,
parola creata pronunciata nella Parola eterna, gratitudine fini-
ta eco del divino Amato. Quanto più si possiede il linguaggio
del creato e ci si lascia abitare dal mistero della Parola divina,
quanto più si accoglie l'originario dirsi del Silenzio nell'azione
di grazie, tanto più si è. L'essere è l'atto del lasciarsi amare,
l'evento della gratitudine, il ricevere che fa spazio alla donazio-
ne dell'altro. Infine, l'essere è avvenire: in quanto atto sempre
nuovo della donazione e sempre nuovo evento dell'accoglienza
della vita, l'essere è divenire, è il farsi incessante degli enti, il
loro provenire e ricevere che unisce ogni istante al suo passato
e al suo futuro e lo apre alle sorprese del dono. L'essere è reci-
procità e anticipazione, partecipazione alla vita dello Spirito come
evento eterno della carità dell'Amante e dell'Amato, unità del-
l'amore che permane e novità dell'amore che crea. Quanto più
si vive la relazione con gli esseri colti nella originarietà del loro
atto di essere, e quindi nella sorpresa sempre nuova del loro esi-
stere, tanto più si è. L'essere è l'evento dell'amore che fa esi-
stere e suscita vita sempre antica e sempre nuova. Proveniente
dall'amore, strutturato nell'accoglienza della carità eterna, l'es-
269
sere è destinazione all'amore: tanto più si è, quanto più si ama.
Provenienza, venuta e avvenire dell'evento dell'amore, l'essere
in quanto accadere rivela l'impronta delle relazioni eterne fra
le divine Persone: esso è relazione, atto del provenire, del com-
piersi e del divenire della creazione di Dio.
La questione che resta aperta di fronte a queste linee di on-
tologia trinitaria è lo spazio che essa riserva al negativo: se l'es-
sere è amore, come è possibile che il non amore sia? « Non c'è
qualcosa che resta fuori da una ontologia trinitaria: quello che
non si può assorbire, la colpa, la solitudine, la tristezza di que-
sto mondo caduco, il non raggiungere lo scopo? Anche se que-
ste esperienze venissero negate, o relativizzate nella sintesi quali
puro e transeunte momento antitetico, sarebbe comunque com-
promessa la credibilità dell'insieme »27. La risposta non può es-
sere cercata che nell'evento della più alta rivelazione dell'amore:
se il Dio, che è Amore, fa sua la morte, amore e morte non solo
non si escludono, ma possono giungere a identificarsi. La kenosi
dell'Amato nel dolore infinito della Croce rivela fino a che punto
il Creatore abbia rispettato la libertà che la creatura ha di rifiutare
il Suo amore, e il prezzo che è stato disposto a pagare per di-
mostrare e donare l'amore. La morte della Croce è al tempo stesso
giudizio del male del mondo, assunzione nell'amore redentivo del
dolore che devasta la terra e rivelazione dell'infinito amore, vinci-
tore della morte. L'essere come amore è evento di una donazione,
che rispetta l'alterità della creatura, e perciò anche la possibilità
del suo rifiuto, ma che non cessa di offrirsi, anche nelle situazioni
di dolore e di abbandono più grandi, come 1"'impossibile possibi-
lità" della riconciliazione. Nella kenosi del Figlio tutte le contrad-
dizioni e le lacerazioni del creato sono assunte nella solidarietà
dell'amore e a tutte è offerto, nel rispetto della loro dignità nel-
l'essere, l'accesso al dono della vita, che vince il dolore e la morte.
L'essere, come l'amore, è rivelato nell'Abbandonato della Cro-
ce come unità di morte e di vita a favore della vita, per chi nel-
la libertà si apre all'evento sempre nuovo della donazione. In
tal senso, finché c'è essere c'è possibilità di amore, e il non amore
non è che amore rifiutato, essere non accolto, donazione avve-
nuta ma non recepita nella libertà, chiusura della creatura alla
creazione sempre nuova che il Creatore compie, non cessando
di donare l'esistenza, l'energia e la vita.
27
K. Hemmerle, Tesi di ontologìa trinitaria, o. e, 55s.
270
In tal senso, resta del tutto valida nella prospettiva di una
ontologia trinitaria l'intuizione agostiniana del "non essere" del
male e del residuo di positività comunque presente nell'atto an-
che più cattivo, per il solo fatto che è: « privatio essendi et bo-
ni» 28 , il male è rifiuto dell'essere in quanto evento della
donazione, non accoglienza dell'amore, che può avere effetti
drammatici proprio perché ostacola l'accadere della vita e l'av-
venire dell'amore stesso. La distinzione decisiva fra male fisico
e male morale, intesi rispettivamente come privazione dell'es-
sere dovuta alla costitutiva finitezza della creatura e dei suoi
processi vitali nella differenziazione dall'infinitezza del Crea-
tore, e come rifiuto libero e cosciente dell'evento della dona-
zione, non elimina la fondamentale identità delle forme del
negativo come "privatio essendi". E sarà proprio accettando
liberamente la finitudine fisica fino all'amaro calice della mor-
te, che il Figlio incarnato darà al mondo la possibilità di reden-
zione dal rifiuto colpevole dell'amore: la Sua morte sarà la morte
della morte, l'evento della donazione accolto nel supremo ab-
bandono della vita. La Croce rivela l'essere come possibilità aper-
ta alle sorprese dell'amore riconciliatore e sanante dell'Eterno:
e d'altra parte, giudicando il non amore del mondo, essa rivela
come il rifiuto della donazione avvicini paurosamente al nulla.
Dove c'è amore, c'è essere; dove l'amore è rifiutato e negato,
trionfano il nulla e la morte. « Se non avessi la carità, non sono
nulla... La carità non avrà mai fine» (lCor 13,2.8).
271
l'intera realtà creata a entrare nel patto con Lui, non ritrae il
Suo impegno libero e gratuito verso tutto ciò che esiste, ma si
auto-destina, nella stessa decisione creatrice, all'atto della sem-
pre nuova creazione, con cui gli esseri sono mantenuti nell'es-
sere e sorretti nell'adempimento della loro originaria vocazione
al patto. E la prospettiva dell'alleanza e della fedeltà ad essa
che dà ragione della fede biblica nella provvidenza: anche se
il termine ricorre solo in due testi della Bibbia greca (cfr. Sap
14,3 e 17,2), l'idea di una finalizzazione delle realtà create al-
l'ordine proprio del patto da parte del Creatore e Signore della
storia e quella di una sua continua, provvidente azione, orien-
tata a soccorrere le creature nel loro esistere e nel loro autode-
stinarsi all'alleanza con Lui, percorrono l'intera testimonianza
ispirata della fede giudaico-cristiana. L'amore creatore è lo stesso
amore che si impegna nel patto e che sempre nuovamente dona
alle creature l'essere, l'energia e la vita, in vista del compimen-
to di quanto nell'alleanza è stabilito e promesso: « Tu ami tutte
le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi
odiato qualcosa non l'avresti neppure creata. Come potrebbe
sussistere una cosa, se tu non vuoi? o conservarsi se tu non l'a-
vessi chiamata all'esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché
tutte son tue, Signore, amante della vita, poiché il tuo spirito
incorruttibile è in tutte le cose» (Sap 11,24-26; cfr. anche ad
esempio Sai 104,27-30). « Guardate gli uccelli del cielo: non se-
minano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre
vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?... Os-
servate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non
filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la
sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'er-
ba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno,
non farà assai più per voi, gente di poca fede? » (Mt 6,26.28-30).
In quanto Dio è il « Dio vivente » (Ger 10,10; cfr. Dn 6,27;
14,25; ecc.) e il Suo amore è per sempre (cfr. ad esempio il Sai
135), l'atto del Suo libero chiamare all'essere le creature per
puro amore si compie in modo sempre nuovo in ogni istante
del loro esistere: l'evento dell'essere come evento dell'amore crea-
tore è inseparabilmente evento della provvidenza. L'universo,
creato dal nulla da Dio, è preservato incessantemente dal nulla
da Lui nel continuo e sempre nuovo accadere della donazione
originaria, che è l'atto di essere, la continua creazione ("crea-
tio continua"). E come l'ontologia trinitaria rivela nell'evento
272
dell'essere l'impronta del dinamismo eterno dei Tre, così la stessa
idea di provvidenza va interpretata trinitariamente, secondo un'i-
niziativa, un'accoglienza e un loro incontro unificante e libe-
rante, radicati nel mistero di Dio. L'iniziativa è del Padre, che
comincia da sempre ad amare e tutto orienta all'Amato, in un
disegno di grazia che unisce il tempo e l'eterno. In tal senso,
la provvidenza è la proiezione nel mondo creato dell'eterna re-
lazione di gratuità che unisce il Generante al Generato. L'ac-
coglienza è propria del Figlio, che, lasciandosi amare dal Padre,
riceve anche il dono di tutto ciò che è chiamato ad esistere, creato
per mezzo di Lui e in vista di Lui. In questa luce, la provviden-
za è la solidarietà del Verbo a ogni creatura, il Suo eterno e sem-
pre nuovo accogliere l'evento dell'essere creaturale, fino al
supremo abbandono della Croce, in cui tutto è compiuto, per-
ché tutto è accolto, anche il peccato e la morte in vista della
loro redenzione. L'iniziativa e l'accoglienza si incontrano nella
forza unificante e liberante dello Spirito: Colui che unisce l'A-
mante e l'Amato e li apre al dono esodale dell'amore, unisce
anche il mondo creato al Creatore e lo apre alle sorprese sem-
pre nuove dell'Altissimo. In tal senso, la provvidenza è l'azio-
ne del Consolatore che sostenta ogni creatura rapportandola alla
sorgente della vita e la rinnova nell'apertura al disegno di Dio.
La provvidenza — come continua creazione e ordinamento del
mondo alla gloria della Trinità — è allora la pericoresi divina
partecipata all'universo creato, il dinamismo dell'amore eterno
che viene a pervadere tutto ciò che esiste per l'atto originario
e sempre nuovo della creazione per sovrabbondanza d'amore.
Così « Dio con la sua provvidenza protegge e governa l'univer-
so da Lui creato, "tutto abbracciando da un confine all'altro
con forza e governando con bontà eccellente ogni cosa" (cfr.
Sap 8,1). "Tutto infatti è nudo e scoperto ai suoi occhi" (Eb
4,13), anche le cose che per la libera azione delle creature sono
future» 29 .
Questa presenza totale della provvidenza ad ogni essere in
ogni istante del suo attuarsi non esclude l'autonomia e la consi-
stenza del creato rispetto al Creatore: proprio in quanto la crea-
zione continua è atto sempre nuovo dell'amore eterno che dona
esistenza, energia e vita, essa si compie nel rispetto dell'alteri-
tà, senza la quale l'amore scadrebbe in possesso e la differenza,
29
Concilio Vaticano I, Comtìtutìo dogmatica Dei Filius (1870), cap. I: DS 3003.
273
da esso esigita, in semplice identità. Creando, Dio pone l'altro
come altro per pura abbondanza d'amore, in un rapporto di pro-
fondissima unità e di non meno profonda distinzione con la crea-
tura. L'unità è dovuta alla dipendenza ontologica di ogni essere
dall'atto della donazione, che continuamente lo costituisce in
essere; la distinzione è legata al fatto che questo stesso atto,
in quanto evento di puro amore, si stabilisce nella relazione ed
esige perciò che Colui che dona l'essere non sia colui che lo ri-
ceve. Dove è perso il senso di questa distinzione, l'idea di crea-
zione si risolve in quella di semplice emanazione e il rapporto
fra Dio e mondo scade in volgare panteismo o nell'idealistico
monismo dello Spirito. L'atto di essere pone dunque l'essere
creato in Dio e davanti a Dio, come essere temporale, dipen-
dente e insieme altro rispetto all'essere eterno.
E in questo gioco di unità e di distinzione che si colloca la
libertà della creatura: essa non dice possibilità di separazione on-
tologica dal Creatore o di radicale alternativa a Lui. Se ciò fos-
se possibile, l'esercizio della libertà si convertirebbe in tragica
caduta nel nulla. La libertà non interrompe il rapporto vitale
della donazione, senza il quale la creatura non esisterebbe: essa
è però la possibilità aperta di accogliere o di rifiutare il dono,
di aprirsi all'evento dell'essere come evento dell'amore o di chiu-
dersi ad esso nell'autoaffermazione inospitale. La libertà non
può negare la provenienza, il costitutivo venire del creato da
Dio, mistero del mondo: ciò che essa può rifiutare è l'accoglienza,
la conformazione all'Amato, o, in termini storici, la sequela del
Figlio Incarnato, impedendo quindi la realizzazione dell'incon-
tro unificante e vivificante, in cui si compie l'avvento dello Spi-
rito. Si comprende allora come l'esercizio della libertà della
creatura sia pieno e vero, senza per questo intaccare il suo on-
tologico dipendere dall'evento creatore della donazione: nell'atto
del rifiuto la libertà si chiude a quel medesimo essere che pur
necessariamente riceve nel porre l'atto stesso! Perciò l'eserci-
zio negativo della libertà è in se stesso contraddittorio: nell'at-
to del negare, la libertà afferma ciò che nega; rifiutando l'amore
di Dio la creatura libera ne celebra indirettamente l'infinita gran-
dezza.
È nella creatura spirituale — che unisce l'esteriorità dello spa-
zio all'interiorità del tempo — che questo processo si rivela nella
maniera più evidente: la libertà definisce la persona umana co-
me soggetto responsabile delle proprie azioni. È anzi solo a par-
274
tire dall'esperienza umana della libertà che ci è dato di parlare
di essa: l'uomo può accogliere o rifiutare l'amore, può aprirsi
all'evento della donazione, vivendo in pienezza il proprio esse-
re come gratuità, o può chiudersi al dono. La libertà pone così
la creatura umana nella più profonda vicinanza al mistero del
Figlio: il suo esercizio di accoglienza o di rifiuto dell'amore crea-
tore si traduce in assimilazione o estraneazione rispetto all'e-
terno ricevere del Verbo divino. Il sì radicale che l'atto della
libertà può dire a Dio rende l'essere umano figlio nel Figlio, lo
costituisce nella gratitudine realizzante, per la quale l'evento
della donazione creatrice è pienamente accolto e la persona at-
tua se stessa nella verità dell'amore. Il rifiuto della libertà —
che è il dramma del peccato, come mistero dell'ingratitudine
di fronte all'evento irradiante dell'amore che fa esistere — non
solo estranea l'uomo da Dio, ma lo aliena anche rispetto a se
stesso, perché lo pone in contraddizione con l'atto di essere che
in ogni momento gli è partecipato: « Questo mio figlio era mor-
to ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato » (Le
15,24). Esistenza autentica diventa allora quella che nell'eser-
cizio della libertà si apre all'evento della donazione e vive in
ogni relazione l'accoglienza che fa scaturire la gratuità; esisten-
za inautentica è quella di chi, negandosi all'amore, si chiude al-
la crescita nell'essere e nella verità della vita. Il dramma della
colpa emerge qui in tutta la sua radicalità di evento di aliena-
zione e di caduta verso il nulla e la morte.
Perché la libertà si decide al rifiuto? Perché accade la colpa
nell'evento dell'amore? La risposta a queste domande va anco-
ra cercata nella luce dell'impronta trinitaria: se la libertà in po-
sitivo assimila l'uomo all'eterna storia del Figlio, in quanto
Amato che tutto accoglie nella gratitudine, il suo esercizio ne-
gativo nasce dalla pretesa di autopossedersi, di sostituirsi alla
Sorgente eterna della vita, divenendo presunta origine a se stessa.
La colpa è voler gestire da soli la propria esistenza, è presumere
di fare a meno della donazione originaria e sempre nuova, co-
me se l'esistenza donata fosse ormai possesso e non povertà sem-
pre nuovamente visitata e abitata dall'atto di essere, che è il
continuo evento creatore della provvidenza. Nei termini della
simbolica trinitaria, la colpa è ribellarsi alla condizione di assi-
milazione al Figlio per rapire la condizione del Padre, è negare
l'Origine eterna e rifiutarne il Silenzio, per affermare la sorgi-
vità incondizionata dell'io e riempire il mondo del chiasso delle
275
proprie parole. Veramente, allora, il peccato è auto-affermazione
inospitale, fascino di un'autonomia cercata come separazione
e come lontananza, solitudine orgogliosa che dà l'illusoria per-
cezione di divenire creatori al posto di Dio. La colpa offusca
l'immagine della Trinità nella persona umana e cosifica l'even-
to dell'essere, perché tende a ridurlo da donazione originaria
a possesso geloso.
E per questo che l'esercizio negativo della libertà dell'uomo
non resta senza conseguenze sull'insieme della realtà creata: at-
tingendo la profondità dell'atto creatore, sempre nuovamente
posto in essere dal Dio amore nella Sua provvidenza, la colpa
ferisce la relazione che l'essere umano stabilisce con ogni altro
essere creato, perché ostacola e in certo modo paralizza lo scor-
rere creativo della vita. Il peccato introduce nel mondo la mor-
te, come rifiuto della vita veniente dall'alto, e fa emergere la
dolorosa possibilità di alienazione dell'essere, di perdita nel nulla.
La drammaticità di questa conseguenza è stata resa nella fede
ecclesiale mediante la dottrina del "peccato originale"30. Es-
sa muove dal testo paolino di Rm 5,12-21: «Come a causa di
un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato
la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, per-
ché tutti hanno peccato... ». Quanto avviene nell'originario ri-
fiuto dell'amore creatore introduce nel mondo l'esperienza del
potere della morte, con tutta la drammaticità della sua irrever-
sibilità: l'originario atto di autoaffermazione inospitale inaugura
un disordine nel creato, una perdita nell'essere che segnerà di
sé l'intero genere umano e la creazione tutta. Uno "stato origi-
nale" di accoglienza pura dell'evento della donazione creatrice
è perduto per sempre: la chiusura della libertà fa assaporare l'e-
sperienza dolorosa della caduta nell'essere, del nulla e della morte
che fasciano e condizionano la creatura umana e l'intero uni-
verso creato, cui essa è solidale nell'esteriorità dello spazio e
nell'interiorità del tempo. Un bisogno universale di redenzione
consegue allora alla colpa originaria: una carenza oggettiva, che
30
La trattazione di questa dottrina compete propriamente all'antropologia teolo-
gica: qui se ne fa cenno nella misura della sua incidenza sulla concezione teologica della
realtà e della vita del creato. Fra l'immensa bibliografia cfr.: A.-M. Dubarle, Il peccato
originale. Prospettive teologiche, Bologna 1984; M. Flick - Z. Alszeghy, Il peccato origi-
nale, Brescia 1972; G. Martelet, Libera risposta aduno scandalo. La colpa originale, la
sofferenza e la morte, Brescia 1987; e, per la storia del dogma, J. Gross, Geschicbte des
Erbsùndendogmas, 4 voli., 1960-1972.
276
tocca la vita personale e la storia della libertà di ciascuno, si
trasmette con lo stesso atto di essere della creatura finita. Il pec-
cato originale, nella solidarietà di tutti gli esseri, tutti relativi
all'attuarsi del continuo evento della donazione, produce una
situazione di peccato originato, di debolezza nell'essere, inse-
parabile dalla storia personale della creatura consapevole e li-
bera. E a questo livello — rischiarato dall'ontologia trinitaria
— che si coglie tanto la drammaticità della colpa originale, quan-
to la potenza e la vastità delle sue conseguenze e della sua tra-
smissione "ontologica". Solo una nuova, radicale accoglienza
dell'evento della donazione originaria potrà allora redimere la
colpa e restituire la pienezza della vita: all'universalità del pec-
cato e del bisogno che esso induce risponde l'universalità della
redenzione compiuta nel nuovo Adamo, il Figlio accogliente en-
trato nella carne del mondo: « Se infatti per la caduta di uno
solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono con-
cesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati
in abbondanza su tutti gli uomini » (Rm 5,15). Quanto l'ingra-
titudine dell'Adamo originario aveva perduto, la recettività in-
finita dell'Amato, fatto uomo per noi, ha reso possibile non solo
di nuovo, ma in modo nuovo e più alto. In Cristo la creatura
umana è resa capace di dire il sì al sempre nuovo evento della
donazione: il silente abbandono della Croce e l'accoglienza del
Povero che viene resuscitato dal Padre nello Spirito di santifi-
cazione aprono le porte della "nuova creazione" ("creatio no-
va"), evento di un dono nuovo e più alto e di un ricevere che
trasforma il tempo quantificato in tempo qualificato, ora di grazia
e oggi di salvezza. Tutto il creato — segnato in Adamo dal ri-
fiuto dell'amore, e perciò dell'essere e della vita — trova nel
Crocefisso Resuscitato la possibilità di un nuovo inizio: l'esse-
re nuova creatura risponde all'attesa della libertà dell'uomo de-
caduto e al gemito impaziente dell'universo intero: « Se uno è
in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate,
ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17; cfr. Gal 6,15). «La
creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli
di Dio... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schia-
vitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei
figli di Dio» (Rm 8,19-21). La vita riconciliata nello Spirito
dona alla creazione intera nuova esistenza, nuova energia e nuova
vita.
277
f) L'ecologia e la gloria della Trinità:
per un'etica e una spiritualità ecologiche
278
fine è quanto il linguaggio della tradizione ebraico-cristiana chia-
ma la gloria di Dio: il termine dice la potenza e lo splendore del-
l'Altissimo, il Suo comunicarsi gratuito e creatore alle creature,
e, da parte di queste, il riconoscimento accogliente della dona-
zione, l'autodestinarsi recettivo a Colui che liberamente e per
amore si è autodestinato ad esse32. « Il mondo è stato fatto per
la gloria di Dio »33 significa che il fine ultimo e vero cui ten-
de l'essere e l'agire di ogni creatura coincide con quello che ha
spinto il Creatore a creare: l'amore, in quanto donato e ricevu-
to. Un comportamento ispirato a un'etica e a una spiritualità
ecologiche non tenderà ad altro che a celebrare la gloria del Dio
vivente, ad accogliere cioè il Suo amore creatore nell'atto sem-
pre nuovo della donazione dell'esistenza, dell'energia e della vita,
e a rispondere al dono col dono, all'amore creatore con l'amore
creato. Nel vivere questa risposta di amore la creatura umana
realizzerà la verità di se stessa secondo il progetto del Creato-
re: « Gloria Dei vivens homo, vita hominis visio Dei» (Ireneo
di Lione).
La forma in cui si concretizzano quest'etica e questa spiri-
tualità ecologiche è segnata dalla partecipazione dell'agire creato
al mistero dell'agire eterno: come il divino evento dell'amore
si compie nel gioco dell'Amante, dell'Amato e dell'Amore per-
sonale, che li unisce e li apre al dono di sé, così — per l'atto
della gratuita partecipazione dell'essere e della vita da parte del
Dio vivente — la persona umana celebra la gloria della Trinità
attraverso una provenienza, una venuta e un avvenire, un'ini-
ziativa, un'accoglienza e un incontro, che segnano il suo rap-
porto con l'universo creato e con la profondità divina del suo
mistero. La gloria del Padre viene ad essere così celebrata nella
creazione come dono accolto gratuitamente e gratuitamente re-
stituito per il Figlio nello Spirito Santo. Il movimento più pro-
fondo di una spiritualità ecologica vive di gloria in gloria: dalla
gloria dell'Origine essa riceve — mediante la Parola e nell'In-
contro d'amore — quanto restituisce autodestinandosi alla glo-
ria di Dio Padre in obbedienza al Verbo e nella forza del
Consolatore. Il dinamismo ultimo dell'etica della responsabili-
tà ecologica e della spiritualità in cui essa si radica è quello su-
32
Cfr. ad esempio F. Raurell, Gloria, in Enciclopedia della Bibbia III, Torino 1970,
1300-1305.
33
Concilio Vaticano I, Constitutio dogmatica Dei Filius, cap. I, can. 5: D5 3025.
279
k
scitato ed espresso dal mistero della liturgia: « A Patre per Fi-
lium in Spiritu Sancto ad Patrem» 3 4 . Perciò l'eucaristia è il
denso compendio di ogni vero rapporto fra la creatura umana,
il creato e il Creatore, fino al tempo in cui l'umanità stessa di-
venterà oblazione accetta a Dio: « Un pegno di questa speranza
e un viatico per il cammino il Signore lo ha lasciato ai suoi in
quel sacramento della fede nel quale degli elementi naturali col-
tivati dall'uomo vengono tramutati nel corpo e nel sangue glo-
rioso di Lui, come banchetto di comunione fraterna e pre-
gustazione del convito del cielo» 3 5 .
La spiritualità e l'etica ecologiche vivono anzitutto di una
"provenienza", che riflette in esse l'iniziativa dell'amore fon-
tale del Padre: il rapporto dell'uomo col creato ne risulta carat-
terizzato da una certa partecipazione alla stessa azione creatrice
di Dio, in cui viene a consistere propriamente ciò che è chia-
mato lavoro. «L'attività umana individuale e collettiva, ossia
quell'ingente sforzo col quale gli uomini nel corso dei secoli cer-
cano di migliorare le proprie condizioni di vita, considerato in
se stesso, corrisponde al disegno di Dio. L'uomo, infatti, crea-
to a immagine di Dio, ha ricevuto il comando di sottomettere
a sé la terra con tutto quanto essa contiene, e di governare il
mondo nella giustizia e nella santità (cfr. Gen 1,26-27; 9,2-3;
Sap 9,2-3), e così di riportare a Dio se stesso e l'universo inte-
ro, riconoscendo in lui il Creatore di tutte le cose, in modo che,
nella subordinazione di tutte le realtà all'uomo, sia glorificato
il nome di Dio su tutta la terra (cfr. Sai 8,7 e 10) » 36 . Il lavo-
ro, allora, rapporta l'uomo alla natura creata in un modo, che
deve riflettere in sé la gratuità dell'azione creatrice del Padre:
esso stabilisce con il mondo della creazione una relazione di tra-
sformazione e di finalizzazione, che non deve però essere di sem-
plice strumentalizzazione e sfruttamento. Il lavoro richiede,
pertanto, il rispetto delle cose create nella loro autonomia pro-
pria e nella loro finalizzazione generale al progetto di Dio: que-
sta relazione, che coordina l'iniziativa operosa e trasformante
della creatura umana con la dignità e il destino proprio di cia-
scuna realtà creata, è stata espressa nella tradizione cristiana
nella sua forma forse più alta dalla spiritualità della "organiz-
34
Cfr. C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Roma 1965 (IV edizione rive-
duta), specie cap. VII, 196ss.
35
Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, 38.
36
Ib., 34. Cfr. anche l'Enciclica Laborem exercens di Giovanni Paolo II (1981).
280
zazione' ' benedettina. Il lavoro scandisce la giornata del mona-
co come una componente necessaria della sua vocazione alla glo-
rificazione di Dio 37 , ed entra armonicamente nel ritmo del
tempo qualificato dalla lode dell'Altissimo, inserendovi la na-
tura con i suoi cicli e le sue stagioni: l'interiorità del tempo si
salda all'esteriorità dello spazio in un unico processo vitale, che
è al tempo stesso gloria dell'Eterno e realizzazione del creato
in comunione con la persona umana e la comunità degli uomi-
ni, non nonostante, ma attraverso le trasformazioni che il lavo-
ro introduce nei ritmi della natura. Vivificato dalla preghiera
di lode e di intercessione, finalizzato al solo necessario, il lavo-
ro rende l'uomo con-creatore con Dio.
La spiritualità e l'etica ecologicamente responsabili vivono
quindi di una "venuta", che è riflesso nel tempo dell'eterno ri-
cevere del Figlio, l'Amato: il rapporto fra la persona umana e
il creato ne risulta caratterizzato da una relazione di rispetto
profondo verso tutto ciò che esiste, di accoglienza obbediente
della dignità e della ricchezza di essere di ogni creatura. Que-
sto rapporto, fatto di sobrietà e di spirito di povertà, di atten-
zione e di ascolto discreto, riconosce e accoglie in ogni realtà
creata l'evento della donazione da parte del Creatore, che in
essa si compie, il miracolo, sempre nuovo e sorprendente, del-
l'atto di essere. Perciò questo rapporto può essere caratterizza-
to con la categoria, propria della tradizione spirituale, della
reverenda. Essa può essere illustrata con le riflessioni della Con-
templazione per ottenere l'amore, con cui si chiudono gli Esercizi
spirituali di S. Ignazio di Loyola: « Il primo punto è richiamare
alla memoria i benefici ricevuti di creazione, redenzione e doni
particolari... Il secondo è osservare come Dio abita nelle crea-
ture: negli elementi, dando l'essere; nelle piante, facendole ve-
getare; negli animali, facendo sentire; negli uomini, dando
l'intendere; e così in me, dandomi l'essere, la vita, i sensi e fa-
cendomi intendere... Il terzo è considerare come Dio opera e
lavora per me in tutte le cose create sulla faccia della terra, si
comporta, cioè, come uno che lavora: cosi, per esempio, nei cieli,
negli elementi, nelle piante, nei frutti, negli armenti... dando
l'essere, conservando, facendo vegetare, sentire... Il quarto è
osservare come tutti i beni e i doni discendono dall'alto: come
37
Cfr. S. Benedetto, La Regola, Testo, versione e commento a cura di A. Lentini,
Montecassino 19802, cap. 48, 418ss.
281
la mia limitata potenza dalla somma e infinita di lassù; e così
la giustizia, la bontà, la pietà, la misericordia... così come dal
sole scendono i raggi, dalla fonte le acque... »38.
La memoria grata delle meraviglie di Dio, compiute nel tem-
po e nello spazio, nell'uomo e in tutte le creature, induce al ri-
conoscimento dei doni attuali che il Creatore compie nel-
l'universo creato, rendendo la persona attenta al loro discerni-
mento e alla loro accoglienza umile e grata. Lo stupore e la me-
raviglia dinanzi all'evento sempre nuovo dell'amore, che è
l'evento dell'essere in ogni creatura, divengono spirito di azio-
ne di grazie, povertà recettiva del dono, rispetto e delicatezza
verso tutto ciò che esiste. Il puro riflesso del Cristo, l'Amato
accogliente fatto carne nell'obbedienza filiale, risplende allora
nel santo, che vive in armonia con tutto il creato: « Il santo la-
scia percepire, nei riguardi di ogni essere umano, un comporta-
mento pieno di delicatezza, di trasparenza, di purezza nel
pensiero e nei sentimenti. La sua delicatezza si estende anche
agli animali e alle cose, perché in ogni creatura egli vede un do-
no dell'amore di Dio, e non vuole che questo amore sia ferito,
trattando questi doni con negligenza o indifferenza. Egli rispetta
ogni uomo e ogni cosa. Se un uomo soffre, o anche un animale,
manifesta ad essi una compassione profonda »39.
La spiritualità e l'etica ecologicamente responsabili vivono
infine di un "avvenire": esse si realizzano in un continuo e sem-
pre nuovo incontro fra iniziativa e accoglienza, fra lavoro e re-
cettività riverente, che riflette nel rapporto fra l'uomo e il creato
l'opera che lo Spirito Santo compie nell'eterno mistero di Dio.
Come il Paraclito si offre a partire dal mistero pasquale come
l'estasi e la pace dell'Amante e dell'Amato, la loro apertura ge-
nerosa nel dono e la loro unità nella comunione dell'Amore, co-
sì Egli partecipa all'uomo nel suo agire verso l'universo creato
una capacità "estatica" e "comunionale". La persona umana
vive il dinamismo dell'estasi nel suo rapporto con la creazione
quando anticipa in essa il futuro promesso della Patria nella forma
della festa: solo l'uomo è in grado di pregustare e di far pregu-
stare a tutte le creature del suo ambiente vitale la Domenica
J8
S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, IV Settimana, Contemplatiti ad amorem.
w
D. Staniloae, La preghiera dì Gesù e lo Spirito Santo, Roma 1988, 23. Cfr. pure
A. Schweitzer, Die Lehre von der Ehrfurcht vor dem Leben, Miinchen 1966, e le opere
di K. Lorenz, fra cui ad esempio i racconti contenuti in L'anello di Re Salomone, Mila-
no 19892.
282
della vita, il giorno della nuova creazione, in cui è anticipata
e promessa all'intero creato la bellezza della festa senza fine del
Dio tutto in tutti. L'ottavo giorno, il giorno della resurrezione
del Crocefisso nella potenza dello Spirito di santificazione (cfr.
Rm 1,4), è pegno nutriente della Domenica senza tramonto della
definitiva creazione rinnovata. Celebrare il giorno del Signore
è allora esigenza profonda di una spiritualità ecologica, che alla
festa dell'uomo col suo Dio invita l'universo intero, nel supera-
mento delle lacerazioni antiche, nel rinnovamento dei rapporti
fra uomini, animali e cose, nel coraggio di nuovi inizi conformi
al disegno dell'Altissimo. L'avvenire di Dio viene così a pren-
dere corpo nel presente del mondo e i giorni feriali vengono il-
luminati e redenti dal giorno della festa, pegno e anticipazione
del domani dell'universo totalmente partecipe della nuova crea-
zione nella Trinità.
Lo Spirito partecipa alla creatura umana nel suo rapporto con
l'universo creato anche la Sua forza di unità e di riconciliazio-
ne: grazie all'azione del Paraclito l'uomo può tessere vincoli di
comunione e di pace con tutte le creature. Un segno e uno stru-
mento di queste relazioni rinnovate è il riposo: esso non è la
semplice cessazione delle attività produttive, ma la rigenerazione
di tutti i rapporti, il tempo in cui tutto è visto e trasfigurato
nella prospettiva dello shalom biblico, della creazione unificata
in Dio. Nulla illumina meglio il senso teologico e spirituale del
riposo che la concezione ebraica del Sabato, il giorno della me-
nuchà, del riposo di Dio (cfr. Gen 2,2 ed Es 20,11): «Lungo
tutto l'arco della settimana siamo sollecitati a santificare la no-
stra vita impiegando le ore dello spazio. Nel giorno del Sabato
ci è dato di partecipare alla santità che è nel cuore del tempo.
Anche quando l'anima è indurita, anche quando dalla nostra
gola rinsecchita non esce alcuna preghiera, il riposo pulito e si-
lenzioso del Sabato ci conduce a un regno di infinita pace, o
alla fonte di consapevolezza di ciò che significa l'eternità... L'e-
ternità esprime un giorno »40. La pace sabbatica è compimen-
to del lavoro umano come riflesso del compimento del lavoro
del Creatore, è riposo come riconciliazione del mondo e dell'uo-
mo in Dio, è esperienza rigenerante dell'eternità nel tempo, è
sguardo retrospettivo che si tuffa nella serena e riconciliante
memoria del Santo. Il Sabato è l'ultimo giorno, come la Dome-
40
A. Heschel, Il Sabato o. e, 163.
283
i
nica è il primo: il Sabato è il tempo sacro del riposo dell'uomo
e della creazione, come la Domenica è l'ora di grazia del nuovo
inizio del mondo, la festa della creazione rinnovata. « Se il Sa-
bato israelitico è prevalentemente giornata dedicata al ricordo
e al ringraziamento, la festa cristiana della risurrezione è soprat-
tutto giorno di inizio e di speranza»41: perciò, lungi dall'op-
porsi, l'uno rinvierà all'altro, senza eliminarne la bellezza e il
significato, « il giorno del compimento della creazione si aprirà
al giorno della nuova creazione e il primo giorno della nuova
creazione presupporrà il giorno del compimento della creazio-
ne originaria»42. Il "settimo giorno" sta all'"ottavo" come il
riposo alla festa: il compimento vissuto e gustato nell'uno si co-
niuga al nuovo inizio celebrato nell'altra.
Un esempio vivente della capacità di realizzare la relazione
della persona umana col mondo della creazione nell'unità del
riposo e della festa, del compimento e del nuovo sorprendente
inizio, è la spiritualità francescana della "custodia" del creato:
essa è ispirata a un rapporto di profonda armonia, di pace e
di gioia con l'universo intero, dagli esseri inanimati agli ani-
mali, alle creature spirituali, ma è anche carica della tensione
anticipatrice della creazione rinnovata. Francesco nel suo « Can-
tico delle creature » loda l'Altissimo « cum tucte le creature »,
e « per » loro, cioè inseparabilmente con esse, a ragione di loro
e attraverso loro, in un legame di comunione e di solidarietà
col creato, che, mentre rende grazie per il dono che in esso si
è già compiuto, si apre alla Trascendenza inesauribile dell'E-
terno e alla nuova creazione in essa promessa. "Custodire" il
creato è allora al tempo stesso vivere la pace del riposo sabbati-
co in solidarietà con esso, e aprirsi — a ragione di esso e me-
diante esso — alla festa della donazione sempre nuova del
Creatore in spirito di "perfetta letizia". Francesco unisce la spi-
ritualità del Sabato all'esperienza gioiosa del giorno del Risor-
to: « Attribuiamo al Signore Dio altissimo e sommo tutti i beni
e riconosciamo che tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo
grazie perché procedono da Lui. E lo stesso altissimo e sommo
solo vero Dio abbia, e gli siano resi, ed Egli stesso riceva tutti
gli onori e l'adorazione, tutta la lode e tutte le benedizioni, ogni
41
J. Moltmann, Dio della creazione, o. e, 339.
42
lb., 340.
284
rendimento di grazie e ogni gloria, poiché ogni bene è suo ed
Egli solo è buono» 43 .
Benedetto, Ignazio, Francesco offrono cosi tre modelli elo-
quenti delle attitudini fondamentali che costituiscono l'etica e
la spiritualità ecologiche radicate nella fede trinitaria: lavoro e
riverente accoglienza, riposo nella pace del compimento e festa
nella gioia del nuovo inizio accomunano l'uomo e il creato in
uno stesso rapporto di amore, che partecipa della donazione ori-
ginaria e sempre nuova dell'amore creativo dei Tre, e celebra,
nella responsabilità verso la grande "casa" del mondo, la gloria
della Trinità, "dimora" trascendente e santa di tutto ciò che
esiste.
43
Regola non bollata (1221), 17,17ss: 49. Cfr. C. B. Del Zotto, Creato, in Dizio-
nario Francescano, Padova 1983, 279-299.
285
ì
PARTE TERZA
COMPIMENTO
18.
1
Cfr. per questa analisi e i suoi sviluppi B. Fotte, La teologia come compagnia, me-
moria e profezia, Milano 1987, 15ss.
289
to alienato nel tempo »; e « l'alienazione di questa alienazione »
è il ritorno dello spirito in se stesso, a un livello di coscienza
che supera la notte della conoscenza e schiude la rivelazione di
ciò che è profondo. La storia concettualmente intesa costitui-
sce allora « la commemorazione e il calvario dello Spirito asso-
luto, l'effettualità, la verità e la certezza del suo trono, senza
del quale esso sarebbe l'inerte solitudine; soltanto "dal calice
di questa ricchezza dello Spirito spumeggia per lui la sua in-
finità"» 2 .
In una simile "estasi dell'adempimento" non c'è più spazio
per l'ulteriorità: assolutizzando l'atto della ragione come pura
fenomenologia dello Spirito assoluto, Hegel ha consumato il
trionfo del presente non solo sul passato, ma anche sull'avveni-
re. Se da una parte nel compimento del sistema si riposano i
millenni delle "fatiche dello Spirito", dall'altra in esso si chiu-
dono le porte del futuro: una volta raggiunto il vertice, non c'è
più posto per la novità. La legge del divenire della storia si è
fatta chiara alla coscienza al punto che non c'è da aspettarsi più
nulla di nuovo, nulla almeno che possa turbare la comprensio-
ne solare del tutto e delle sue leggi immanenti. Perciò il tempo
della filosofia come "sapere assoluto" è la "domenica della vi-
ta" : giorno di pienezza, godimento della meta raggiunta. La do-
lorosa scissione, da cui nasce ogni conoscere, è sanata nella più
alta riconciliazione: la civetta di Minerva — che segnala alla
notte della coscienza l'approssimarsi della piena luce del sapere
— annuncia una escatologia compiuta, dove ciò che è penulti-
mo cede il posto all'ultimo e definitivo avvento dello Spirito
a se stesso. Sta qui la concisione feconda del sistema, « che sa-
tura dialetticamente tutta l'opera di Hegel e continuamente, in
modo altamente polifonico, altamente unitario, la penetra »: il
soggetto adegua l'oggetto, l'uno è la totale mediazione dell'al-
tro, « l'io e la cosa coincidono nell'espressione laconica della fe-
licità e della conciliazione»3. In tal modo, però, la "domenica
della vita" si converte inesorabilmente nel "venerdì santo" del-
2
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. E. De Negri, Firenze 1973, II,
304s: le ultime parole, con cui si conclude l'opera (« aus dem Kelche dieses Geisterrei-
ches / schaumt ihm seine Unendlichkeit »), sono una citazione libera dalla poesia di
Schiller « Freundschaft ».
3
E. Bloch, Soggetto-Oggetto. Commento a Hegel, Bologna 1975, 32 e 39. Tutta l'o-
pera dimostra la tesi espressa in conclusione dell'Introduzione del 1951: « Hegel negò
il futuro, nessun futuro negherà Hegel »: 5.
290
l'avvenire: se tutto è compreso, nulla c'è più da aspettarsi. La
ripetizione eterna del processo non aggiungerà niente di inedi-
to: la presunta maturità del pensiero non conoscerà più stupore
e meraviglia, perché non attenderà alcun avvento né temerà al-
cuna sorpresa.
Nel compimento del sistema il cerchio della vita si chiude:
a tutto è stato dato un senso. La domanda antica del dolore ha
avuto la risposta più rassicurante: il negativo del mondo non
è il lacerante opposto del positivo, ma appartiene ad esso come
un momento necessario del processo, come una tappa della ve-
rità. « Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone
e ha all'inizio la propria fine come proprio fine, e che solo me-
diante l'attuazione e la propria fine è effettuale »: questa idea
— che è poi quella della vita di Dio e del conoscere divino
« espressi come un gioco dell'amore con se stesso » — degrada
certo «fino all'edificazione e addirittura all'insipidezza quan-
do mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del
negativo » 4 . Ma quando la forza del negativo è stata conside-
rata e colta in tutta la sua dolorosa serietà, allora essa può veni-
re assunta e superata nel divenire dialettico della vita dello
Spirito: « Il vero è l'intiero. Ma l'intiero è soltanto l'essenza che
si completa mediante il suo sviluppo. Dell'Assoluto si deve di-
re che esso è essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò
che è in verità ». Il negativo e il positivo si rivelano in tal modo
come momenti della storia dello Spirito, poli necessari e com-
plementari del processo, superati entrambi nella finale riconci-
liazione: « Il movimento è così il duplice processo e divenire
dell'intiero: vale a dire, ciascun momento pone l'altro momen-
to e ciascuno ha poi in sé entrambi i momenti come due aspet-
ti. Essi, presi insieme, costituiscono l'intiero in quanto dissolvono
se stessi e si fanno momenti suoi» 5 . La verità è la totalità: e
questa, guadagnata e abbracciata dalla "fatica del concetto",
è la risposta esauriente alla domanda di senso, che si leva dalle
dolorose contraddizioni del reale. Nel movimento vitale del pro-
cesso ogni contraddizione è dissolta, ogni scissione superata:
« Quel che è contraddizione nel regno della morte, non lo è nel
regno della vita» 6 . «Poiché non solo la sostanza dell'indivi-
4
G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, o. e, I, 14.
5
lb., 15 e 33s.
6
G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, tr. E. Mirri, Napoli 1977, 420.
291
duo, ma addirittura lo Spirito del mondo ha avuto la pazienza
di percorrere queste forme in tutta l'estensione del tempo, e
di prender su di sé l'immane fatica della storia universale per
riplasmare quindi in ciascuna forma, per quanto questa lo com-
portasse, il totale contenuto di se stesso»7. Il vero è il senso
compiuto, la totalità spiegata e conciliata, e perciò « il trionfo
bacchico dove non c'è membro che non sia ebbro; e poiché ogni
membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si ri-
solve, il trionfo è parimenti la quiete trasparente e semplice »8.
Quello che in Hegel è stato risposta a un bisogno acuto di
riconciliazione storica, dopo la drammatica crisi della rivoluzione
francese e dei suoi sviluppi, diviene spesso nella multiforme ere-
dità hegeliana seduzione della totalità, cedimento al fascino di
un sapere assoluto, presuntuoso protagonismo storico della ra-
gione adulta: sta qui il costitutivo, drammatico limite dell'ideo-
logia moderna, in tutte le sue coniugazioni, borghesi o rivo-
luzionarie. Eredità di Hegel, in quanto prodotto della sintesi
compiuta di ideale e reale realizzata nel sistema, l'ideologia in-
tende cambiare il mondo e la vita a partire dal concetto: la real-
tà vissuta deve adeguarsi alla realtà programmata; il "negativo"
e il "positivo" vanno portati alla sintesi, che li supera entram-
bi, attraverso un processo dialettico, che investe i rapporti sto-
rici, le situazioni reali. La totalità — abbracciata dal pensiero
— non tarderà a convertirsi così in totalitarismo, storicità dura
e violenta, trasformazione rivoluzionaria protesa ad adeguare
il reale, resistente e ottuso, all'ideale progressista e illuminato.
La parabola delle ideologie moderne non farà che rendere evi-
dente questa spaventosa consequenzialità: la mancanza di ade-
renza alla realtà "reale" e la chiusura al nuovo e alle sue sorprese
manifesteranno al tempo stesso la terribile noia e l'altissimo costo
— in termini umani, non meno che sociali ed ecologici — delle
presunzioni ideologiche. Così, la "dialettica dell'Illuminismo"
muoverà dalla palese, dolorosa constatazione di come « la terra
interamente illuminata splenda all'insegna di trionfale sventu-
ra» 9 .
Questo destino dell'epoca moderna accomuna l'ideologia ri-
voluzionaria all'ideologia borghese: se il totalitarismo della pri-
7
Id., Fenomenologia dello spirito, o. e, I, 23s.
8
fó., 38.
9
M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, Torino 1967, 11.
292
ma è sfacciato, manifestamente repressivo e violento, quello della
seconda è sottile e penetrante, diffuso dai "persuasori occulti"
delle società del benessere, esigenti e presuntuosi non meno dei
vari "signori" della rivoluzione. Nell'uno e nell'altro caso si pre-
suppone un senso già dato a tutte le cose, una giustificazione
ideale che esorcizzi la drammaticità dei costi, un "progetto"
compiuto, che deve essere solo totalmente attuato perché tutto
funzioni. L'amaro fallimento infrange l'uno e l'altro sogno di
totalità: la noia collettiva non è meno drammatica della nausea
di chi possiede tutto; l'ansia di libertà non è meno grande del
bisogno di giustizia e di autentica qualità della vita. Da entrambe
le parti si guarda al futuro con il desiderio diffuso che esso non
sia la ripetizione del passato, e che il senso promesso e decanta-
to dall'ideologia non torni a opprimere la fatica di vivere. Dal-
l'Oriente e dall'Occidente la crisi della "ragione adulta" si profila
come rifiuto della sua totalità sazia e programmata, come crol-
lo degli orizzonti di senso da essa offerti, come bisogno, nuovo
e veramente rivoluzionario nelle sue potenzialità, della diffe-
renza, che spezzi il cerchio delle risposte dedotte dall'identità
già data. Il futuro si affaccia con sorprendente irruenza: non
quello programmato e deducibile dal presente, proprio dell'i-
deologia, ma quello oscuro, inquietante e non disponibile della
vita e della storia reali. Al di là della modernità e della sua pa-
rabola, il cosiddetto "post-moderno" si presenta anzitutto co-
me disagio, insofferenza e rifiuto 10.
La crisi della "totalità" dello spirito moderno viene così in
generale a profilarsi nella forma di una "caduta del senso": li
dove la ragione emancipatoria aveva soluzioni chiare ed evidenti,
organizzate all'interno di un significato onnicomprensivo e so-
lare, il post-moderno riscopre l'oscura eccedenza della vita ri-
spetto ad ogni "senso" ideale, il ceppo doloroso della finitudine
e della morte, il travaglio non risolto del negativo, la differen-
za, che spiazza ogni tranquilla presunzione di possesso dell'i-
dentità. E una presa di congedo dalle sicurezze, una restituzione
della morte e del nulla, l'abbandono di ogni fondamento, per
navigare verso l'ignoto, "senza senso", anzi finalmente liberi
dalla cattura del senso. « Pensiero debole », « lungo addio all'es-
10
Cfr. l'informazione accurata e l'orientamento per un discernimento critico in A.
Villani, Le "chiavi" del postmoderno: un dialogo a distanza, Napoli 1988, con ampi rife-
rimenti bibliografici.
293
sere e al fondamento », l'avventura della differenza dopo il trion-
fo bacchico dell'identità pare risolversi in un puro e vuoto "ac-
cadere", in un permanente precipitare nel nulla11. La perdita
del senso, conseguente alla crisi delle risposte totalizzanti della
ragione moderna, diventa cosi sempre più, sull'onda lunga del
rifiuto, perdita del gusto a porsi la domanda sul senso: ciò che
alla fine è contestato non è tanto la risposta, quanto la stessa
legittimità dell'interrogativo e perfino la consistenza del dolo-
re da cui esso nasce. Se tutto "ac-cade", non cade forse nel vuoto
anche il dolore? perché allora chiederne il senso? perché cercar-
ne una via di uscita?
Il futuro — riemerso in tutta l'inquietudine e l'oscurità che
gli convengono dalle ceneri delle catture ideologiche — sembra
così annegare in un nuovo abbraccio di totalità: il fondamento
"forte", onnicomprensivo e rassicurante, cede il posto all'as-
senza di fondamento, che però non è meno vasta e totale. Se
il nulla può offrirsi come la semplice forma rovesciata del tut-
to, il segno meno davanti alla parentesi della realtà, l'avvenire
perde nuovamente la sua oscurità: esso sarà prolungamento del
presente, perpetuarsi della debolezza, continua caduta. Parados-
salmente, proprio la categoria di "futuro", in rapporto alla quale
si è reso evidente il fallimento della ragione "forte" della mo-
dernità, mostra il filo rosso della continuità che lega il post-
moderno nichilista al mondo da cui esso proviene e che con tanta
energia rifiuta. Il "pensiero debole" deduce l'avvenire dal pre-
sente in modo non meno totalitario di quanto faccia il ' 'pensie-
ro forte" dell'identità di reale e ideale: esso è incapace di stupore
e di accoglienza del nuovo almeno quanto lo era la presunzione
totalizzante della ragione ideologica.
L'indeducibilità e la novità del futuro richiedono allora un
pensiero altro, non negligente, capace di abbandonare le cattu-
re dell'ideologia, ma anche sufficientemente vigile per non ca-
dere in quelle del suo rovesciamento. Aprirsi a un tale pensiero
significa fare i conti con l'autentica alterità e novità dell'avve-
nire, e perciò misurarsi con l'ultimo, senza dedurlo dal penultimo.
L'escatologia — in quanto è appunto la dottrina delle cose ulti-
me (boxata) e nuove ("novissima") — rivela qui la sua sor-
11
Cfr. ad esempio il volume collettivo II pensiero debole, Milano 1983, nonché di
G. Vattimo, Al di là del soggetto, Milano 1984 e La fine della modernità, Milano 1985.
Cfr. pure le considerazioni svolte supra, cap. 1.
294
prendente attualità di riserva critica rispetto alle secche della
modernità e del suo sviluppo nichilista: essa è pensiero "nuo-
vo" perché ha l'audacia di pensare il "nuovo", di aprirsi fino
in fondo alle sue sorprese.
In rapporto alla caduta del senso e alla stessa perdita del gu-
sto a porsene la domanda, il pensiero escatologico si offre come
un'alternativa possibile, in quanto ricerca di un senso non cat-
turante, capace di sprigionare energie di libertà e prassi di libe-
razione nella storia degli uomini e nel loro rapporto con la grande
casa del mondo. Risulta così che il recupero dell'escatologia è
non solo promettente come alternativa critica al tramonto del-
le ideologie e ai suoi sbocchi nichilisti, ma anche come orizzon-
te capace di illuminare e guidare una storia di liberazione dalle
oppressioni ideologiche di tutti i segni e dai ripiegamenti debo-
li e rinunciatari di fronte alla fatica di vivere e all'oppressione
dei poveri. Il "pensiero del nuovo" è anche così "nuovo pen-
siero", che suscita e sostiene scelte di libertà e cammini di libe-
razione personale e collettiva nel tempo degli uomini e nella storia
del mondo.
295
cosa della sua luce »13. Alla riscoperta dell'escatologia corri-
sponde anche un recupero della questione del senso e delle pos-
sibili risposte ad essa, al di là della crisi moderna e della caduta
nichilista postmoderna: il rinnovato affacciarsi dell'orizzonte ul-
timo si congiunge così alla ricerca del senso perduto.
La ripresa escatologica nella teologia del Novecento può es-
sere ricostruita in tre tappe, al tempo stesso cronologiche e spe-
culative: la prima è riconducibile all'ingresso dell'"éschaton"
nel pensiero della fede nella forma dell'Oggetto puro, altro e so-
vrano rispetto ai presupposti mondani; la seconda si rapporta
alla rivendicazione della necessaria apertura del soggetto alla po-
tenza veniente dal futuro, e quindi alla decisione come condi-
zione escatologica, necessaria all'ingresso di ciò che è ultimo nel
tempo penultimo; la terza tappa si sforza infine di realizzare
la mediazione del soggetto e dell'oggetto, proponendo un avven-
to dell'"éschaton" coniugato alla vigile e impegnata accoglien-
za dell'esodo umano w.
La prima tappa si era profilata sin dagli inizi — nel passaggio
fra i due secoli — come critica alla riduzione moderna del futu-
ro di Dio al presente dell'uomo: era stato l'"escatologismo con-
seguente" a denunciare la miopia delle interpretazioni liberali
della predicazione di Gesù e del suo oggetto centrale, il Regno.
Per i teologi ammaliati dal fascino della ' 'ragione moderna' ' la
religione si riduceva a una dimensione dello spirito (« eine Pro-
vinz des Geistes »: F. Schleiermacher), prodotta «necessaria-
mente e spontaneamente » (« notwendig und von selbst »)
nell'intimo di ogni anima migliore dal « sentimento della dipen-
denza » infinita (« Abhàngigkeitsgefiihl »). Di conseguenza, il Re-
gno di Dio si risolveva in ideale morale, pace e concordia gustate
già nel presente dalle « anime belle », « unione degli uomini per
mezzo dell'amore » (A. Ritschl). Veramente beato risultava es-
sere chi, «per l'onestà della sua volontà e la poesia della sua
anima, sa di nuovo creare nel proprio cuore il vero Regno di
Dio » (E. Renan). « Insito in questi concetti si avverte l'impres-
13
J. Moltmann, Teologia della speranza, Brescia 1971 2 , 10.
14
Una significativa ricostruzione della "querelle eschatologique" del nostro secolo
si può trovare in J. Moltmann, Teologia della speranza, o. e, 33ss. cfr. pure B. Forte,
Cristologie del Novecento, Brescia 1983, 20ss. Non si intende qui, naturalmente, rico-
struire la vicenda dell'escatologia cristiana del nostro tempo in tutti i suoi aspetti: si
mira piuttosto a individuare delle "cifre", che consentano di cogliere l'effettiva novità
teologica ed esistenziale della riscoperta dell"'éschaton".
296
sionante ideale di vita presentato alla borghesia alla fine del se-
colo XIX »15: la crisi di questo mondo borghese, coincisa con
lo scoppio inaspettato della prima guerra mondiale, ne rivela
la presunzione, soddisfatta nelle sue conciliazioni ideali, ma
smentita dalla realtà drammatica dei processi storici.
La denuncia di questa "splendida continuità" fra il divino
e l'umano era peraltro risuonata nella lettura che gli "escatolo-
gisti conseguenti" avevano dato della "buona novella": « Il Re-
gno di Dio, secondo la concezione di Gesù, — scrive Johannes
Weiss 16 — è un'entità assolutamente ultraterrena, che si tro-
va in contrasto di mutua esclusione rispetto a questo mondo...
L'uso etico religioso che la teologia recente fa di quell'idea, spo-
gliandola del suo originario significato escatologico-apocalittico,
è ingiustificato. Quando si impiega quell'espressione in un sen-
so diverso da quello usato da Gesù, si procede in un modo solo
apparentemente biblico ». Nella veemenza del rifiuto, l"'esca-
tologismo conseguente" esaspera i toni di rottura della predi-
cazione del Profeta galileo, e ne fa un « fanatico apocalittico »,
che « non ha più nulla in comune con questo mondo, ed ha già
un piede nel mondo futuro » (J. Weiss), un grande illuso e un
grande sconfitto, che ha saputo afferrare la ruota della storia
e farla girare vorticosamente in avanti, ma ne è rimasto schiac-
ciato (A. Schweitzer). In tal modo, però, la verità riconquistata
è nuovamente perduta: il realismo dell"'éschaton" annunciato
da Gesù è risolto in un messaggio senza possibile presa sulla sto-
ria. In questo senso «la cosiddetta "escatologia coerente" non
è mai stata veramente coerente: perciò ha condotto sino ad og-
gi un'esistenza singolarmente opaca»17.
E merito di Karl Barth l'aver riscoperto il contenuto escato-
logico della fede cristiana in tutta la sua irriducibile oggettività:
contro le presunzioni dell'universo liberale, smascherate dalla
crisi del tempo storico, il suo commento a L'Epistola ai Romani
di Paolo, nella seconda edizione (1922), rappresenta il grido di
denuncia, al tempo stesso violento e liberatore. Partendo da Rm
8,24 — « Nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che
si spera, se visto, non è più speranza » — Barth osserva: « Un
cristianesimo che non è in tutto e per tutto e senza residui esca-
15
W. Pannenberg, Cristologia. Lineamenti fondamentali, Brescia 1974, 39.
16
J. Weiss, Die Predigt Jesu vom Reiche Gottes (1892), riedito a cura di F. Hahn,
Gòttingen 1964, 49s.
17
J. Moltmann, Teologia della speranza, o. e, 33.
297
tologia, non ha niente a che fare con Cristo. Uno Spirito che
non è in ogni attimo del tempo rivolto alla nuova vita sorgente
dalla morte, non è in nessun caso lo Spirito Santo... Quello che
non è speranza è tronco, blocco, ceppo, pesante ed angoloso come
la parola "realtà". Esso non libera, anzi tiene in cattività. Non
è grazia, ma giudizio e perdizione... La redenzione è l'invisibi-
le, l'irraggiungibile, l'impossibile, che ci incontra come speran-
za »18. La motivazione ultima di questo primato assoluto
dell'elemento escatologico sta nella trascendenza di Dio, nel Suo
essere l'Oggetto puro, irriducibile alla cattura del soggetto: « Sì,
così dura e santa e potente è la verità. Essa è a tal punto la no-
stra salvezza, Dio stesso, Dio per noi, che non possiamo in nes-
sun caso possederla come vittoria, come pienezza, come presenza,
se non "in speranza". Come potrebbe essere la verità se noi,
come siamo, potessimo prenderne visione direttamente? Come
potrebbe essere Dio se potesse diventare per noi una qualsiasi
possibilità fra altre?... Una comunicazione diretta di Dio non
è una comunicazione di Dio »19. Il cristianesimo è in tutto e
per tutto escatologia in quanto ha a che fare in tutto e per tutto
con l'incatturabile sovranità ed eccedenza del Dio della rivela-
zione, che si è comunicato all'uomo nella forma della promessa
e della speranza, non in quella di un qualunque oggetto del co-
noscere, ma come l'Oggetto puro e trascendente che ci precede
e ci supera in ogni dimensione.
Anche Barth, tuttavia, non si sottrae al radicalismo del rifiu-
to: il confronto dialettico col pensiero liberale lo porta a negare
ogni consistenza dell'umano e del mondano davanti al Dio ve-
niente. « In Cristo parla Dio, come è, e convince di menzogna
il non-Dio di questo mondo. Egli afferma se stesso, in quanto
nega noi come siamo e il mondo come è» 20 . «La risurrezione
è la rivelazione, la scoperta di Gesù come il Cristo, l'apparizio-
ne di Dio e il riconoscimento di Dio in lui, il presentarsi della
necessità di dar gloria a Dio, di calcolare con l'ignoto e il non
intuibile in Gesù, di riconoscere Gesù come la fine del tempo...
Nella risurrezione, il nuovo mondo dello Spirito Santo viene
in contatto col vecchio mondo della carne. Ma esso lo tocca co-
me la tangente tocca il cerchio, senza toccarlo, e appunto in quan-
18
K. Barth, L'Epìstola ai Romani, a cura di G. Miegge, Milano 1962, 295s.
19
Ib., 295.
20
Ih., 16.
298
to non lo tocca, lo tocca come la sua limitazione, come mondo
nuovo »21. In tal modo, però, la forza dell'Oggetto puro è tale
da schiacciare ogni possibilità di accoglienza e da lasciare il sog-
getto in tutta la sua estraneità e lontananza davanti all'avvento
divino: contro tutte le premesse, il «positivismo della rivela-
zione » (D. Bonhoeffer) diviene il risultato finale del radicali-
smo escatologico del giovane Barth. « L'irruzione trascendentale
delYéschaton nella storia conduce la storia umana alla sua crisi
finale. Ma in questo modo Yéschaton diventa l'eternità trascen-
dentale, il significato trascendentale di tutti i tempi, ugualmente
vicino e lontano a tutti i momenti della storia» 22 . L'escatolo-
gia è svuotata di ogni presa diretta sulla corposità della vicenda
umana, e questa resta puro dominio del protagonismo storico:
« Il positivismo della rivelazione rende le cose troppo sempli-
ci... il mondo è in certa misura messo sui suoi piedi e lasciato
a se stesso, e questo è l'errore» 23 .
È perciò anche in reazione al radicalismo del primo Barth che
Rudolf Bultmann, inizialmente unito a lui sul fronte della "teo-
logia dialettica" antiliberale, se ne distacca, per recuperare la
dignità del soggetto umano non contro, ma in rapporto all'of-
ferta del dono escatologico di Dio. Anche per lui « la predica-
zione di Gesù è annuncio escatologico, cioè annuncio che il
compimento della promessa è ormai imminente, che il Regno
di Dio è alle porte »24. Anche per lui questa categoria decisiva
non può essere ridotta a una concezione etica: « Il Regno di Dio
non è un "sommo bene" in senso etico. Non si tratta di un bene
al quale si volga il volere e l'agire umano. Non si tratta di una
grandezza che possa essere realizzata in qualche modo da un
comportamento umano e che in qualche modo abbia bisogno
degli uomini per giungere all'esistenza... Il Regno di Dio è qual-
cosa di prodigioso, anzi è per eccellenza "il prodigioso" che si
oppone a tutto ciò che esiste ora e qui, ed è "totalmente al-
tro" »25. Proprio in quanto tale, il Regno non può essere fis-
sato in contenuti rappresentativi, neanche in quelli dell'apoca-
21
Ib., 5s. cfr. su K. Barth B. Forte, Cristologie del Novecento, o. e, 63ss.
22
J. Moltmann, Teologia della speranza, o. e, 35.
23
D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Milano 1988, 355
(lettera del 5 maggio 1944).
24
R. Bultmann, Gesù (1926), Brescia 1972, 123. Cfr. sulla teologia bultmanniana
B. Forte, Cristologie del Novecento, o. e, 105-144.
25
R. Bultmann, Gesù, o. e, 129.130s.
299
littica: « Gesù non dipinge i castighi dell'inferno, né abbozza
magnifiche immagini della gloria celeste... Il significato vero del
"Regno di Dio" per la predicazione di Gesù non sta negli av-
venimenti drammatici della sua venuta né in ciò che la fantasia
umana è in grado di immaginare sul suo modo di essere. La pre-
dicazione vi porta interesse non come ad un modo di essere,
bensì come all'avvenimento straordinario che per l'uomo signi-
fica il grande aut aut, che lo pone nella decisione »26. In altri
termini, non conta ciò che il Regno è, ma il fatto che esso ven-
ga in modo indeducibile e improgrammabile, spingendo l'uomo
alla decisione: «Il Regno di Dio è una potenza, che determina
totalmente il presente, benché sia totalmente futuro. Determina
il presente per il fatto che spinge l'uomo alla decisione»27.
L'ora escatologica è allora per Bultmann quella in cui il Dio
veniente incontra il singolo, in tutta la concretezza e la dignità
della sua singolarità: « Per Gesù Dio è la potenza che pone l'uomo
nella situazione di decisione » e l'uomo è colui « che sta nel suo
hic et nunc, nella decisione, con la possibilità di decidersi per
mezzo della sua libera azione» 28 . La definitività di quest'ora
— « l'ora della decisione » — sta nel fatto che nessuno può de-
cidere al posto di un altro, né alcuno può programmare o de-
durre il suo tempo: « Sono io che devo vivere la mia vita, come
sono io che devo morire la mia morte» 29 . Sta qui, peraltro, il
fascino e il dramma delle presunzioni ideologiche, delle visioni
totali del mondo: « Ben si comprende perché le ideologie {Wel-
tanschauungen) siano tanto care all'uomo:... gli rendono il soli-
to gran servizio: lo mettono in grado di liberarsi di se stesso,
lo dispensano dai problemi che gli pone la sua esistenza concre-
ta, dalla preoccupazione e dalle responsabilità che vi sono con-
nesse... per cui, proprio nel momento in cui la sua esistenza è
scossa e si fa problematica, egli trova di che liberarsene e inve-
ce di prenderla sul serio, preferisce intenderla come un caso da
ridurre alla comune generalità, da integrare in un contesto, da
obicttivare per evadere dalla sua personale esistenza »30. L'ur-
genza della decisione impedisce all'uomo di affidarsi a un sen-
26
lb., 132s.
27
lb., 141.
28
lb., 185 e 144.
29
R. Bultmann, La concezione del mondo e dell'uomo nel Nuovo Testamento e nella
grecità (1940), in Id., Credere e comprendere, Brescia 1977, 428.
30
Id., Che senso ha parlare di Dio? (1924), in Credere e comprendere, o. e, 40.
300
so già disponibile, a un quadro già dato: di fronte all'annuncio
del Regno veniente, kerygma al tempo stesso gioioso ed esigen-
te, ognuno gioca la verità di se stesso, e trova il senso del pro-
prio esistere soltanto decidendosi all'accoglienza, all'autenticità
di una vita, che libera dalla prigionia delle false sicurezze e del-
la morte del cuore. La responsabilità del soggetto umano nella
sua singolarità ne risulta talmente accentuata, da lasciare l'im-
pressione di una "teologia della solitudine" in cui alla fine la
potenza del Regno veniente dal futuro è consegnata nelle mani
del presente della decisione. Si tratta di un rimpianto delle "ci-
polle d'Egitto", dopo aver assaporato l'esperienza esaltante della
liberazione dalla schiavitù dell'universo liberale31? Si tratta di
una "riduzione" dell'alterità di Dio, e in particolare di quella
escatologica, all'arbitrio di una fede «che crea il suo ogget-
to»32? O si tratta invece di una "interpretazione esistenziale",
che tende a cogliere il significato attuale del preponderante mes-
saggio escatologico del Nuovo Testamento? Quale che sia la ri-
sposta da dare a queste domande, resta vero che P"escatologismo
esistenziale" di Bultmann non pare in grado di rendere total-
mente ragione del contenuto dell'escatologia cristiana. Gli estre-
mi dell'oggettivismo radicale e della soggettività esasperata si
toccano, rinviando a una sintesi che eviti tanto di concepire
l'"éschaton" come gloria di Dio a prezzo della morte dell'uo-
mo, quanto di pensarlo come gloria dell'uomo a prezzo della
morte di Dio. Il rifiuto della compiutezza di senso delle visioni
totalizzanti della ragione moderna non legittima a cercare il senso
né nel semplice crollo delle grandezze mondane, né nella pura
esaltazione delle possibilità decisionali dell'uomo.
Nella ricerca di questa sintesi, intesa come superamento del-
l'oggettivismo barthiano e del rischio di "riduzione esistenzia-
le" deU'"éschaton", si muove il terzo ingresso dell'escatologia
nel pensiero teologico del Novecento: esso fa tesoro della nuo-
va consapevolezza della circolarità ermeneutica, operante fra il
soggetto e l'oggetto in ogni atto di conoscenza, e interpreta in
questa luce il rapporto fra l'elemento escatologico e la co-
31
È la critica di Barth a Bultmann: K. Barth, Rudolf Bultmann. Ein Versuch ihn
zu verstehen (1952), ora in Comprendre Bultmann, Paris 1970, 133-190 (tr. it. Torino
1970).
32
Cfr. ad esempio le critiche di I. Mancini a Bultmann, Novecento teologico, Fi-
renze 1977, 212ss.
301
i
scienza dell'uomo e del mondo ". In particolare esso oppone
alla "storicità violenta" del pensiero "forte" della ragione mo-
derna una "storicità aperta", che mantenga il presente dell'uo-
mo e il futuro di Dio in un rapporto necessariamente asim-
metrico, tale da non dimenticare mai l'eccedenza e l'ulteriorità
che stanno dalla parte di Dio e del "novum" che la Sua pro-
messa schiude alla storia.
Densa cifra di questa "escatologia storica" può essere consi-
derato il pensiero di Jùrgen Moltmann, specialmente nell'ope-
ra Teologia della speranza34. Essa si presenta come un progetto
ermeneutico, che investe l'intero pensiero cristiano: « L'esca-
tologia potrebbe ricuperare la sua preminenza nel campo della
teologia e rimanere tuttavia uno sterile tema di discussioni teo-
logiche qualora non si riuscisse a ricavarne le conseguenze per
un nuovo modo di pensare e di agire nei rapporti con le cose
e con le situazioni di questo mondo. Finché la speranza non af-
ferra e trasforma il pensiero e l'azione dell'uomo, essa rimane
inoperante e inefficace»35. La ragione teologica viene conce-
pita in questa luce come "spes quaerens intellectum", fatica inar-
restabile di adeguamento del pensiero al futuro promesso,
disponibilità alle sorprese di Dio e all'originalità del divenire
storico. Lungi dal presupporre l'identità di reale e ideale, la co-
scienza dell"'éschaton" tiene aperto il soggetto alla permanen-
te eccedenza dell'Oggetto puro, e quindi alla novità dell'avvento
del Dio vivente, non deducibile da alcuna premessa, ma radi-
calmente frutto della Sua libertà. Lo stesso evento di rivelazio-
ne non adegua il mistero di Dio alle parole umane: perciò esso
si offre soprattutto come "promessa", comunicazione nella spe-
ranza, che anticipa e prepara il compimento, senza afferrarlo
e costringerlo nell'urgenza dell"'adesso". Cosi, lungi dal chiu-
dere o fermare la storia, la rivelazione la apre al futuro di Dio:
« Il ricordo della promessa... pungola come una spina nella car-
ne qualsiasi presente e lo apre al futuro... Appunto questa pro-
mìssìo inquieta impedisce che l'esperienza umana del mondo
diventi una completa e autosufficiente immagine cosmica della
33
Sull'impatto dei vari ingressi della "storia" nella coscienza teologica del Nove-
cento cfr. B. Forte, Cristologie del Novecento, o. e, specialmente 9-62.
34
Cfr. J. Moltmann, Teologia della speranza (1964), Brescia 1971. Su Moltmann
cfr. R. Gibellini, La teologia di jùrgen Moltmann, Brescia 1975.
35
J. Moltmann, Teologia della speranza, o. e, 26.
302
divinità e fa sì, invece, che l'esperienza del mondo rimanga aperta
alla storia» 36 .
Se l'apertura del pensiero al veniente e al nuovo è la forma
che l'"éschaton" imprime alla ragione teologica, il contenuto
che esso le trasmette è il futuro di Dio: non un futuro già posto
nelle mani e nella mente dell'uomo — come è l'"homo abscon-
ditus", presente nel "principio speranza" di Ernst Bloch" —
ma il futuro di Gesù Cristo, come è rivelato in speranza nella
contraddizione della sua resurrezione rispetto alla morte di Cro-
ce: « L'escatologia cristiana parla di "Cristo e del suo futuro".
Il suo linguaggio è il linguaggio della promessa. Essa intende
la storia come la realtà inaugurata dalla promessa. Nella pro-
messa e nella speranza presente, il futuro della promessa, che
non si è ancora realizzato, si trova in contraddizione con la realtà
data. In questa contraddizione si fa l'esperienza della storicità
del reale sulla linea del fronte che divide il presente dal futuro
che è stato promesso. La storia, con le sue estreme possibilità
e pericoli, viene rivelata nell'evento promissorio della risurre-
zione e della croce di Cristo »38. In tal modo il contenuto del-
l'escatologia cristiana è totalmente ricondotto all'autocomuni-
cazione del Dio vivente e alla relazione che essa stabilisce fra
il presente del mondo e l'avvenire dischiuso nella Sua promes-
sa: ogni senso della storia, frutto di visioni presuntuosamente
totali, è spiazzato; come pure, nella prospettiva dell'alleanza ce-
lebrata nell'evento pasquale, sono superate tanto la negazione
dell'uomo in nome dell'assoluto primato dell'avvento divino,
quanto l'indebita esaltazione della decisione del singolo. L'Og-
getto puro e il soggetto storico, il Dio vivente della rivelazione
e l'uomo artefice e protagonista del domani si incontrano nel-
l'alleanza escatologica, carica del definitivo futuro promesso.
In un tale quadro interpretativo questo futuro resta indeter-
minato nella sua eccedenza: esso è raggiunto nella forma della
"promessa" e delTitineranza, non in quella dell'anticipazione
realizzante, della "prolessi". Un'impressione di instabilità e di
incertezza non può essere evitata, perfino nel pensiero del be-
ne più alto, della verità più profonda: il "già" della salvezza
risulta squilibrato a favore del "non ancora". L'escatologia "pre-
*>Ib., 85.
37
Al confronto con Bloch Moltmann dedica l'Appendice, aggiunta a Teologia della
speranza, o. e, 349ss.
™lb., 229.
303
sentica", riscontrabile ad esempio con ampiezza negli scritti gio-
vannea sembra sacrificata al primato assoluto dell'avvenire39.
C'è, tuttavia, nell'interpretazione di Moltmann, una presenza
del futuro, che non va trascurata: al futuro si crede e ci si affi-
da, perché — in quanto futuro personale, legato all'evento del-
la risurrezione di Cristo — in esso abita il mistero stesso di Dio.
Né questo credente affidarsi è evasione consolatoria o fuga in
avanti o nostalgia del passato: al contrario esso è vigile speran-
za, apertura presente della vita e del cuore, impegno di rinno-
vamento e di liberazione nell'oggi. « Chi spera in Cristo non
si adatta alla realtà così com'è, ma comincia a soffrirne e a con-
traddirla. Pace con Dio significa discordia con il mondo, poi-
ché il pungolo del futuro promesso incide inesorabilmente nella
carne di ogni incompiuta realtà presente »40. Non è il cor in-
quietimi che inventa o produce il domani, ma è la risurrezione
di Cristo che rende inquieto il cuore, liberandolo già oggi dalle
false sicurezze e stimolandolo all'impegno per la liberazione del
mondo, per tirare nel presente degli uomini l'avvenire della pro-
messa di Dio. Il "già" è gravido del "non ancora", che è venu-
to a prendere in esso dimora. Il senso che la teologia della
speranza offre all'uomo inquieto non è certezza tranquillizzan-
te o possesso illusorio, ma sfida e fiducia, lotta e contemplazio-
ne, vigilanza e attesa serena, che cambiano già ora il presente
dell'uomo...
39
Nell'indice biblico di Teologìa della speranza, o. e, 380s, vi è una sola citazione
dal "corpus johanneum", lGv 3,2, e anche questa richiamata solo nella parte che ri-
guarda il futuro. Cfr. le osservazioni critiche di C. Pozo, Teologia dell'aldilà, Milano
19864, 74ss. Si gioca sulla distinzione fra "promessa" e "prolessi" la differenza di pro-
spettive fra il pensiero di Moltmann e quello di W. Pannenberg, Cristologia, o. e. Cfr.
B. Forte, Cristologie del Novecento, o. e, 23ss.
40
J. Moltmann, Teologia della speranza, o.c, 15.
304
Dio" viene coniugato allo sforzo di non oscurare la dignità del
protagonista umano, e perciò di tener conto di quella singolare
"umanità dell'uomo", trascurando la quale l'escatologia non
avrebbe alcuna presa sul reale. La via per tenere insieme le due
affermazioni si trova in quella "escatologia storica", che legge
nell'evento della morte e resurrezione del Signore Gesù il luo-
go dove "l'umanità di Dio" ha reso possibile la "divinizzazio-
ne dell'uomo". Se il supremo abbandono del Figlio, che consegna
lo Spirito al Padre nell'ora della morte, schiude la storia all'ul-
teriorità insondabile della silenziosa Origine, la Sua resurrezio-
ne nello Spirito manifesta la destinazione ultima del mondo alla
gloria di Dio tutto in tutti: rivelando il mistero del Dio trinita-
rio, Pasqua rivela Dio stesso come mistero del mondo, come sua
profondità ultima e nascosta, e perciò non solo come trascen-
denza dossologica, alla quale aprirsi nello stupore e nell'adora-
zione, ma anche come trascendenza escatologica, come
"custodia", verso la quale muovere nella speranza vigile e im-
pegnata per realizzare fino in fondo l'autentica "umanità del-
l'uomo", che è al tempo stesso glorificazione dell'Eterno.
L'evento pasquale si offre come il luogo dove è posta la circola-
rità più vera fra il soggetto umano e il mistero divino, Oggetto
puro e altro rispetto a ogni riduzione mondana: e 1"'identità
nella contraddizione" che si lascia cogliere fra il Crocefisso e
il Risorto viene a risplendere come la promessa identità nella
contraddizione fra il presente del mondo e l'avvenire di Dio.
Le conseguenze che derivano da questa "escatologia pasqua-
le" per la comprensione delle "cose ultime" sono di grande ri-
lievo: emerge in primo luogo lo spessore cristologico e trinitario
di ogni asserzione riguardo all'"éschaton". Colui che è "il pri-
mo e l'ultimo e il vivente" (Ap l,17s; cfr. pure Ap 22,13) è
il fondamento, la norma e l'oggetto della speranza, che non de-
lude: Lui in persona è l'"éscnaton"! L'attenzione dell'interes-
se escatologico si trasferisce di conseguenza dagli oggetti e dai
luoghi dell'immaginazione al rapporto personale dell'"essere con
Cristo": non il "dove" si compie il destino dell'uomo e del mon-
do sta al centro dello sguardo della fede, ma il "come" esso ri
realizza nella relazione col Risorto, vincitore della morte. Egli,
che si è consegnato incondizionatamente al Padre sulla Croce
e ne ha ricevuto in pienezza lo Spirito della vita, alla fine "con-
segnerà il regno a Dio Padre", perché "Dio sia tutto in tutti"
(ICor 15,24.28). La Trinità, origine e santa dimora del mon-
305
do, ne sarà anche la patria, nella quale e rispetto alla quale si
compirà il destino eterno di ogni creatura.
In quanto, poi, l'evento pasquale è il centro irradiante di tutto
il mistero cristiano, questa riconduzione dell'escatologia alla Pa-
squa mostra come la presenza dell'"éschaton" venga a incide-
re su tutti gli aspetti dell'essere e dell'agire della fede: il su-
peramento di ogni "escatologia settoriale", relegata al termine
della dogmatica in una sorta di "splendido isolamento", si co-
niuga all'esigenza di cogliere la dimensione escatologica di tutti
gli asserti teologici e al tempo stesso la rilevanza profonda che
l'indole escatologica ha per l'intera vita cristiana. La speranza
si rivela come il rapporto della fede e dell'amore teologale al
Dio del compimento ultimo e al Suo Regno: in tal senso essa
unisce l'intero presente al futuro promesso nel Risorto e opera
perché l'oggi si lasci inquietare e trasformare dall'eccedenza ve-
niente del domani di Dio. Come non è concepibile la Croce senza
la Resurrezione, così non è immaginabile una fede o una carità
senza speranza, o una Chiesa senza "éschaton", o una teologia
senza il ruolo determinante dell'elemento escatologico.
La riscoperta dell"'escatologia pasquale" richiede poi che fede,
teologia e Chiesa sappiano mantenersi nella tensione costituti-
va del tempo "penultimo", in cui sono poste: quella fra il "già"
della prima venuta del Cristo e il "non ancora" del Suo ritor-
no. Come la Pasqua è il compimento delle promesse, ma anche
la promessa di un nuovo e definitivo compimento, come essa
realizza le attese dell'antica Pasqua, ma rinvia alla pienezza della
Pasqua escatologica, così 1'"éschaton" rivelato nel mistero del
Crocifisso Risorto non può fermarsi al "già" dato, né identifi-
carsi con quanto "non ancora" è venuto. Ogni "escatologia rea-
lizzata" rischia di falsare la tensione che esiste fra il "già" e
il "non.ancora", facendo della fede cristiana una illusoria "estasi
dell'adempimento" 41: se il presente è «l'ora del raccolto per la
storia passata », svanisce la drammaticità del tempo intermedio,
e il futuro finisce con l'essere svuotato di ogni carica di possibi-
le novità. D'altra parte, neanche un'accentuazione esclusiva del
"non ancora" rende ragione dell"'escatologia pasquale": se tutto
è proiettato nell'avvenire, e il presente non è che il campo di
41
Sta qui il limite obiettivo dell'interpretazione di C. H. Dodd, Le parabole dei
regno (1935), Brescia 1970, influenzata certamente dal maggior rilievo che l'escatolo-
gia "presentica" ha nell'opera giovannea.
306
lotta dove il nuovo che viene si scontra con la resistenza del-
l'antico, la vittoria della resurrezione sulla morte resta senza frut-
to e potenza. Il titanismo dell'impegno storico di trasformazione
dell'oggi è celebrato nella sua forma più alta, ma la consolante
presenza e azione dello Spirito del Risorto, "già" effuso su ogni
creatura, è trascurata42. L'escatologia, letta alla luce dell'even-
to trinitario pasquale, è contemporaneamente radicata nell'og-
gi e fedele al mondo che deve venire: essa qualifica il tempo
presente come "penultimo", non tanto perché esso si situi cro-
nologicamente dopo l'irruzione anticipatrice dell"'ultimo" 43,
quanto perché vive in se stesso della tensione costitutiva fra la
provenienza dell'amore eterno, manifestatasi nell'azione divi-
na del Padre a Pasqua, e l'avvenire dello stesso amore, assicu-
rato per tutto il creato nella forza dello Spirito del Risorto. La
tensione fra "già" e "non ancora" viene così ad avere una fon-
damentale struttura cristologica: in essa si compie la vicinanza
di ogni istante del tempo all'evento personale dell'accoglienza
e della donazione, che è il Figlio nella carne. E Lui il centro
non tanto "cronologico", quanto "escatologico" del tempo,
l'"Alfa" e l'"Omega" su cui tutto si misura, « il Primo e l'Ulti-
mo, il Principio e la Fine » (Ap 22,13). Fra "escatologia realiz-
zata" ed escatologia radicalmente proiettata nel futuro, 1"'esca-
tologia pasquale" rispetta la struttura del disegno divino, che
è, nel più profondo, riflesso nel tempo dell'eterno dinamismo
d'amore delle relazioni divine.
Un'ulteriore conseguenza, che va tratta dalla riscoperta
dell'"éschaton" compiuta a partire dall'evento pasquale, riguarda
l'ermeneutica delle asserzioni escatologiche e il linguaggio, che
esse adoperano: proprio in quanto la Pasqua è un evento stori-
co e la tensione che essa inaugura fra il "già" e il "non ancora"
passa attraverso tutta la corposità del presente, « l'escatologia
biblica deve sempre esser letta come asserzione proveniente dal
presente, in quanto rivelato, e non come asserzione provenien-
te da un futuro anticipato e destinata al presente. L'espressio-
42
E il rischio che alcuni intravedono nel pensiero di Moltmann e nelle varie espres-
sioni della "teologia politica", intesa come coscienza critica del cambiamento storico
alla luce del futuro che viene: cfr. ad esempio J. B. Metz, Sulla teologia del mondo,
Brescia 1969 e Id., La fede nella storia e nella società, Brescia 1978.
43
Come sembra essere nella lettura "cronologica" della centralità del tempo di Cri-
sto fatta da O. Cullmann, Cristo e il tempo, Bologna 1965, e, in forma più temperata,
Id., Il mistero della redenzione nella storia, Bologna 1966.
307
i
ne proveniente dal presente, proiettata nel futuro, è escatolo-
gica, quella proveniente dal futuro e diretta al presente è apo-
calittica» 44 . È, cioè, a partire dall'evento di rivelazione,
compiutosi nella sua pienezza nel mistero pasquale, che si può
costruire un'escatologia cristiana: essa non è né proiezione del
desiderio presente o passato dell'uomo, né fantasiosa ricostru-
zione di un futuro inattingibile, ma obbedienza alla Parola e
al Silenzio dell'autocomunicazione divina, linguaggio della fe-
de suscitata dal Verbo nello Spirito di vita. Perciò, 1'"escatolo-
gia pasquale" unirà la metafora e il simbolo alla concretezza
esistenziale e alla dossologia45. Mediante il linguaggio metafo-
rico e simbolico il pensiero deU"'éschaton" si sforzerà di dire
l'indicibile del futuro di Dio rispettandolo nella sua indicibili-
tà: evocherà perciò l'avvento ultimo, a partire dal primo avvento
del Verbo nella carne, senza presumere di esaurirlo o catturar-
lo. Di conseguenza anche l'uso delle metafore e dei simboli sa-
rà sobrio e consapevole della sua inadeguatezza all'oggetto:
termini come "cielo", "paradiso", "inferno", "purgatorio",
"fuoco", "giudizio" e "vita eterna" andranno usati con neces-
saria discrezione e sobrietà. Mediante il linguaggio esistenzia-
le, concreto, descrittivo e autoimplicativo, 1"'escatologia
pasquale" si sforzerà di esprimere la condizione presente del-
l'uomo e del mondo, cui il messaggio escatologico apporta al
tempo stesso luce e inquietudine, speranza e contestazione: e
ciò perché P"éschaton" non riguarda solo le cose future, ma
tocca e trasforma anche il presente, in quanto esso è segnato
dall'attesa escatologica e dal suo compimento. Infine, median-
te il linguaggio della fede celebrata e vissuta, specialmente nel-
la forma dell'invocazione e della dossologia, 1'"escatologia
pasquale" si sforzerà di veicolare l'incontro di esodo e di av-
vento che si celebra sempre nuovamente nella speranza: in questa
luce, il pensiero escatologico non potrà che costruirsi nella soli-
darietà al vissuto ecclesiale e nella responsabilità consapevole
verso il passato, il presente e il futuro del popolo di Dio.
Questi orizzonti dell'escatologia, infine, tracciati in risposta
alla ricerca di futuro e di senso emersa con nuova forza dopo
la crisi della modernità e l'inquieto profilarsi del post-moderno,
44
K. Rahner, Principi teologici dell'ermeneutica delle asserzioni escatologiche, in Id.,
Saggi sui sacramenti e sull'escatologia, Roma 1969, 425 (eh. l'intero saggio: 399-440).
45
Cfr. in proposito B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia, o.
e, 189ss (sul linguaggio teologico).
308
proprio in quanto trovano nell'evento trinitario pasquale il lo-
ro fondamento, il loro contenuto e la loro forma, non si lascia-
no facilmente scomporre nei due settori convenzionali del-
l'escatologia individuale e dell'escatologia collettiva. Suprema
autocomunicazione del Dio vivente alla storia, la Pasqua è al
tempo stesso redenzione del singolo e vita nuova della Chiesa
e del mondo: perciò, più che evidenziare il destino individuale
e quello collettivo, 1"'escatologia pasquale" esige di ripensare
il futuro del singolo nella sua solidarietà con quello della comu-
nità e del cosmo intero. Rispetto alla persona, vitalmente inse-
rita nella comunione interpersonale, e rispetto alla comunità delle
persone la Trinità si offrirà come senso della vita e della storia,
origine, grembo e meta dell'esistenza redenta, personale ed ec-
clesiale; rispetto alla finale ricapitolazione cosmica essa si pre-
senterà come la patria del mondo, il destino ultimo e meraviglioso
di tutto quanto il Dio vivente ha chiamato ad esistere per con-
durlo alla vita senza tramonto 46 .
46
La bibliografia sul tema escatologico è vasta. Fra le opere più significative del
dibattito e della sistematica recenti cfr.: AA. VV., Il mistero dell'ai di là, a cura di E.
Quarello, Roma 1979; AA. VV., Il tempo intermedio e il compimento della storia della
salvezza, Mysterium Salutis V/II, Brescia 1978; J. Alfaro, Speranza cristiana e liberazione
dell'uomo, Brescia 1972; H. Urs von Balthasar, I novissimi nella teologia contempora-
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1965; G. Biffi, Linee di escatologia cristiana, Milano 1984; L. Boff, Il destino dell'uomo
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1983; H. Kùng, Vita eterna?, Milano 1983; G. E. Ladd, The Presence of the Future:
Eschatology of Biblica! Realìsm, Grand Rapids 1974; W.-D. Marsch, Futuro, Brescia
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del discorso su Dio come futuro, Venegono Inferiore 1975; H. Vorgrimler, Hoffnung
auf Vollendung. Aufriss der Eschatologìe, Freiburg-Basel-Wien 1980; D. Wiederkehr,
Prospettive dell'escatologìa, Brescia 1978.
309
19.
310
morte: il morire del Figlio di Dio nella tenebra del Venerdì Santo
e il Suo risorgere alla vita. Nell'evento infinitamente doloroso
della "morte in Dio" è rivelato e promesso il senso del vivere
e del morire umano. A quell'evento, letto nell'orizzonte più am-
pio della storia della salvezza come storia dell'alleanza fra Dio
e il mondo, si volge lo sguardo della fede alla ricerca di un si-
gnificato, che faccia non solo della vita il cammino responsabi-
le dell'imparare a morire, ma anche della morte il "dies natalis",
l'evento supremo e misterioso del nascere alla vita, che sta ol-
tre la morte.
311
i
egli non chiedeva a Dio che un segno e una promessa, il Nome
di Es 3,14 è tutt'altro che un enunciato astratto, una definizio-
ne metafisica. Esso non trasmette contenuti noetici sull'essen-
za divina, ma garantisce la fedeltà a quanto promesso, la cor-
roborante vicinanza e il perpetuo sostegno di Colui che ha par-
lato dal roveto ardente. « Io sono » è Colui che è e sarà col Suo
popolo, « un Dio che ha "il futuro come caratteristica essenzia-
le", un Dio della promessa e della partenza dal presente verso
il futuro, un Dio dalla cui libertà sgorgano le cose venienti e
nuove. Il suo nome non è una sigla che sta per "eterno presen-
te"... Il suo nome è il nome di un itinerario, di una promessa
che schiude un nuovo avvenire, la cui verità si sperimenta nella
storia in quanto la sua promessa schiude alla storia le sue possi-
bilità future» 3 . L'indicibilità del Nome divino — in un con-
testo in cui pronunciare il nome è possedere la cosa — sta
appunto a significare l'inafferrabile trascendenza del Mistero
e al tempo stesso l'imprevedibile novità del futuro che viene
promesso. Il Dio d'Israele non si lascia catturare dal concetto,
ma lo supera in profondità e in avanti, verso l'avvenire, smuo-
vendo continuamente il Suo popolo dalla stasi del presente per
proiettarlo verso il futuro, nell'impegno vigile e nell'apertura
alla sempre nuova e sorprendente azione della Sua fedeltà. Nel-
l'esperienza d'Israele fedeltà e novità divine vengono pertanto
a coincidere: proprio perché è eternamente fedele, il Dio della
speranza è sempre nuovo nella vicinanza al Suo popolo e sem-
pre in atto di venire. In maniera radicale Egli è il Signore del-
l'avvento, l'Eterno che è e che viene, il Dio vivente e santo.
Davanti a questo Dio, interpellato nella storia del patto e coin-
volto nel disegno dell'Altissimo, sta l'Israele dell'elezione e della
promessa: popolo costitutivamente scelto come sentinella del
futuro di Dio nella storia degli uomini, Israele vive della per-
manente tensione fra l'esperienza e l'attesa. Il "messianismo",
che ne caratterizza l'identità e la missione, nasce esattamente
dalla continua inadeguatezza sperimentata fra l'eccedenza del-
la promessa e la realtà del presente4. «Questa "spina dorsale
3
J. Moltmann, Teologia della speranza, Brescia 1971 2 , 23s. Cfr. G. von Rad, Teo-
logia dell'Antico Testamento, Brescia 1972, I, 212, nonché B. Forte, Gesù di Nazaret,
storia di Dio, Dio della storia, Roma 1981, 67ss (« La speranza d'Israele »).
4
Cfr. ad esempio AA. W . , Il messianismo, Brescia 1966; H. Cazelles, Il messia della
Bibbia, Roma 1981; J. Coppens, Le messianìsme et sa relève prophétìque, Gembloux 1974;
P. Grelot, La speranza ebraica al tempo di Gesù, Roma 1981.
312
della Bibbia", questa tensione che percorre tutta la storia d'I-
sraele, è l'aspirazione al compimento delle promesse di Jahvè
e la vigile attesa del futuro garantito da esse, che, investendo
le strutture concrete in cui si articola la vita del popolo, costan-
temente le sovverte e le apre all'"oltre" e al "nuovo" »'. È a
motivo di questa incessante apertura che l'atteggiamento fonda-
mentale del popolo eletto davanti al Suo Dio si compendia nel-
l'ascolto: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signo-
re è uno » (Dt 6,4). Lo "shemà" è al tempo stesso professione
di fede e richiamo allo stile di vita che ne consegue: Israele vi-
ve nella docile attesa delle cose venienti e nuove, aperto alle
sorprese dell'Eterno, e perciò costantemente in esodo, orienta-
to al futuro, proteso verso il sorprendente avvenire del suo Dio.
La speranza diventa così una dimensione fondamentale della
religiosità ebraica, fondata nell'esperienza delle meraviglie ope-
rate dall'Eterno e aperta alla novità del Suo amore, fedele al
patto: essa unisce il presente degli uomini alla sorprendente ec-
cedenza della promessa, e tira l'avvenire di Dio nell'oggi del
Suo popolo, schiudendolo alle «impossibili possibilità» (K.
Barth) del Signore. « Quanti sperano nel Signore riacquistano
forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, cam-
minano senza stancarsi » (Is 40,31). Il contenuto di questa spe-
ranza è costituito anzitutto dai beni dell'alleanza, che Dio
garantirà al Suo popolo: « Farò di te un grande popolo e ti be-
nedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizio-
ne » (Gen 12,2). Questi beni sono promessi all'intera comunità
d'Israele, che si riconosce nei protagonisti umani del patto se-
condo la logica della "personalità corporativa": in Abramo, o
Isacco, o Giacobbe, in Mosè come in Davide, o nel misterioso
Servo sofferente del Deutero-Isaia, è all'intera nazione santa
che si riferiscono le promesse del Signore. L'attesa della novità
operata dall'Altissimo si estende perciò all'intera vita della co-
munità, che attende per sé un nome nuovo (cfr. Is 62,2), una
nuova alleanza (cfr. Ger 31,31), un cantico nuovo (cfr. Sai 33,3;
40,4; 96,1; Is 42,10), uno spirito e un cuore nuovi (cfr. Ez 11,19;
Sai 51,12). Nessuna sconfitta, nessun insuccesso può spegnere
l'ardore di questa attesa, radicata nell'amore fedele del Dio vi-
vo: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo an-
cora pietà. Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine
5
B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e, 73.
313
d'Israele » (Ger 31,3s). In tempi di apparente sicurezza, la pa-
rola della promessa sarà critica verso ogni miope presunzione
umana, come testimonia ampiamente la missione profetica; in
tempi di debolezza e di dolore, come l'esilio o il fragile post-
esilio, essa diverrà il canto della speranza d'Israele, alimentan-
do l'attesa del «giorno del Signore» (cfr. Am 5,18; 9,11; GÌ
1,15; 2,ls; 3,4; 4,1; Sof 1,14-18; Is 2,6-21; 11,11; ecc.), gior-
no escatologico di vittoria e di giustizia divina, al tempo stesso
desiderato e temuto.
In questa prospettiva, segnata dall'orizzonte dell'alleanza, la
speranza del singolo viene a identificarsi con quella del popolo
intero: in particolare, la grande speranza di ogni pio israelita
è di avere una propria discendenza, attraverso la quale poter
partecipare all'attesa gioia messianica. I figli sono la continuità
vivente dell'alleanza, e perciò il permanente oggetto su cui ri-
posa la promessa: « Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua
grazia il frutto del grembo» (Sai 127,3). Quando proprio si
proietta sulla storia individuale, la speranza è rivolta ai beni ter-
reni, che possono significare la benedizione dell'Altissimo: «Il
Signore tuo Dio ti concederà abbondanza di beni, quanto al frut-
to del tuo grembo, al frutto del tuo bestiame e al frutto del tuo
suolo, nel paese che il Signore ha giurato di darti. Il Signore
aprirà per te il suo benefico tesoro, il cielo, per dare alla tua
terra la pioggia a suo tempo e benedire tutto il lavoro delle tue
mani» (Dt 28,lls).
Non sorprende, allora, che la speranza d'Israele non abbia co-
nosciuto in generale, nei tempi più antichi, una "escatologia indi-
viduale": il destino del singolo al di là della morte sfugge al qua-
dro immediato dell'alleanza, che si compie nella storia fra Dio e
il suo popolo, proiettato nella propria discendenza. Le stesse im-
magini usate per designare lo stato dei morti {sheol, refa'ìm), di
etimologia incerta, designano in generale la condizione di non
ritorno di un'esistenza umbratile, penosa: dimora dei morti, lo
sheol non ha niente a che vedere con l'idea di una retribuzione
morale secondo i meriti o le colpe. Esso evoca le profondità della
terra (cfr. Dt 32,22; Is 14,9; ecc.), alle quali i morti discendono
(cfr. Gen 37,35; ISam 2,6; ecc.), e dove buoni e cattivi sono
mescolati (cfr. ISam 28,19; Sai 89,49; Ez 32,17-32), accomunati
in una sopravvivenza tetra (cfr. Qo 9,10), come ombre {refa'ìm:
cfr. Sai 88,11; Is 14,9; 26,14), su cui tuttavia si esercita ugualmente
la sovranità dell'Altissimo (cfr. ISam 2,6; Sap 16,13; Am 2,9).
314
Sarà solo nell'esperienza dolorosa dell'esilio che il popolo elet-
to, confrontato con le prove laceranti della vita, maturerà il senso
della responsabilità individuale dinanzi all'Eterno: se il dolore
accomuna, esso fa emergere anche chiaramente alla coscienza
la propria solitudine radicale davanti al mistero del vivere e del
morire. « Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella
del figlio è mia; chi pecca morirà... Perciò, o Israeliti, io giudi-
cherò ognuno di voi secondo la sua condotta. Oracolo del Si-
gnore Dio» (Ez 18,4.30; cfr. l'intero cap. 18 e 33,12-20). La
dottrina tradizionale della ricompensa intramondana si trova
esposta sempre più a una critica devastatrice di fronte all'espe-
rienza dolorosa del male (si pensi a Giobbe e al disincanto del-
l'Ecclesiaste: cfr. Qo 1,2 e 9,1-3). Sul fondamento dell'idea della
giustizia e della fedeltà dell'Altissimo va emergendo la prospet-
tiva di una retribuzione corrispondente alle responsabilità, in
questa vita (cfr. ad esempio Ez 28,24-26; 33,25-29; ecc.) e ol-
tre la sua fine. Questa attesa è almeno preparata da alcuni Sal-
mi (i cosiddetti "Salmi mistici": 16, 49 e 73), che evocano la
nostalgia di perennità affidata alla fede nel Signore: « Il Signo-
re è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia
vita... Anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abban-
donerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo santo ve-
da la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena
nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra » (Sai 16,5.
9-11; cfr. pure ad esempio 49,16 e 73,23-28).
La fiducia nel potere divino sulla morte e la conseguente attesa
del ritorno alla vita dei morti grazie a un intervento potente del
Signore si profilano già in alcuni testi profetici: « (Il Signore) ci ha
percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il
terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua presenza » (Os 6, ls;
cfr. pure la visione delle ossa aride, vivificate dall'Eterno in Ez
37,1-14). L'idea della sopravvivenza oltre la morte, però, emerge-
rà chiaramente solo nella riflessione sapienziale nella forma del-
l'immortalità-incorruttibilità, il cui fondamento resta la potenza
e la fedeltà del Dio dell'alleanza: « Le anime dei giusti sono nelle
mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti
parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura; la loro
partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace... Quanti
confidano nel Signore comprenderanno la verità; coloro che gli
sono fedeli vivranno presso di lui nell'amore, perché grazia e mi-
sericordia sono riservate ai suoi eletti» (Sap 3,1-3.9).
315
Con il diffondersi dell'apocalittica, che trasferisce la speran-
za escatologica collettiva nell'attesa di un imminente interven-
to storico dell'Eterno a difesa dei suoi fedeli, terribilmente se-
gnati dal dolore presente (II secolo a . C ) , anche l'idea di una
resurrezione oltre la vita mortale si chiarisce: all'ingresso po-
tente del Signore nel tempo, viene a corrispondere l'immagine
di un ingresso del tempo nella vita del Dio vivo. « Molti di quelli
che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni
alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna.
I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; colo-
ro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno co-
me le stelle per sempre» (Dn 12,2s). L'ingiustizia e il dolore
del presente saranno riscattati non solo per quanti vedranno ve-
nire il Figlio dell'uomo sulle nubi del cielo (cfr. Dn 7,13s e 27),
ma anche per coloro che saranno passati attraverso la morte:
solo così la giustizia dell'Eterno sarà consumata e perfetta.
Le stesse idee, diffuse a livello di fede popolare, si trovano
nel secondo libro dei Maccabei, nel commovente racconto del
martirio dei sette fratelli e della loro madre: qui la questione
esistenziale è la vittoria del martire sulla morte cui va incontro.
L'attenzione è spostata: non ci si interessa tanto alla sorte de-
gli empi, quanto a quella dei giusti, disposti ad anteporre la fe-
deltà e quindi la dignità della vita alla vita stessa. « Tu, o
scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo
che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed
eterna... Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le di-
sprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo» (2Mac 7,9.11;
cfr. pure i vv. 14.23.29.36). La medesima concezione è sottesa
al "sacrificio espiatorio" che Giuda Maccabeo fa celebrare in
Gerusalemme per i caduti in battaglia, sul cui corpo sono stati
trovati oggetti idolatrici: secondo il narratore egli agisce così
« in modo buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurre-
zione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sa-
rebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i
morti » (2Mac 12,43s; cfr. tutto il racconto 38-45). La fiducia nel-
la fedeltà e nella misericordia del Dio dell'alleanza ha ormai rag-
giunto tutti gli aspetti e le dimensioni dell'esistenza personale e
collettiva, in questa vita e al di là del confine della morte 6 .
6
Cfr. sull'insieme dell'escatologia veterotestamentaria ad esempio J. L. Ruiz de la
Pena, L'altra dimensione. Escatologia cristiana, Assisi 1988, 45-101, con indicazioni bi-
316
b) L'evento pasquale come "storia della storta": la Nuova Alleanza
bliografiche. Sull'escatologia biblica nel suo insieme cfr. S. Zedda, L'escatologia bibli-
ca, 2 voli., Brescia 1972-1975.
7
B. Forte, Gesù di Nazaret..., o. e, 93. Cfr. tutta la trattazione sulla cristologia
neotestamentaria: 88-132. Sull'escatologia del Nuovo Testamento cfr. l'informazione
bibliografica di W. G. Kummel, Ein Jahrhundert Erforschung àer Eschatologie des Neuen
Testamenti, in Theologische Literatur-Zeitung 107 (1982) 81-96, e, tra le varie ricerche,
K. H. Schelkle, Escatologia neotestamentaria, in Mysterium Salutis 11 (V/II), Brescia 1978,
218-287.
317
zione": quella fra il Crocefisso e il Risorto, per la quale "quel"
Gesù che era stato umiliato è ora confessato come il resuscitato
da Dio e il Signore (cfr. At 2,36); quella, determinata dall'in-
contro trasformante col Vivente (cfr. At 1,3), fra i vergognosi
fuggiaschi del Venerdì Santo e i coraggiosi testimoni di Pasqua;
e quella, infine, che i testimoni stessi tendono a suscitare fra
il passato dei loro uditori e il nuovo inizio della loro vita, cui
li apre il Cristo nella potenza della Sua risurrezione: « Dio lo
ha risuscitato da morte, e di questo noi siamo testimoni » (At
3,15). ^
Non è solo, però, l'"oggi" della salvezza che viene illumina-
to dall'evento pasquale: in esso trova nuova luce il passato del-
la storia personale e collettiva, e il futuro promesso della vita
e del mondo. La "memoria" pasquale si spinge — attraverso
la narrazione della vita del Gesù terreno e il ricordo d'Israele
— fino ai racconti protologici, tanto che l'inizio è colto come
storia trinitaria e Pasqua anticipata (cfr. Col 1,16 e Ef l,3ss)8.
Ma anche il futuro è riletto in una sorta di "profezia" pasqua-
le: la resurrezione del Crocefisso è compimento delle promesse
antiche e promessa del nuovo e definitivo compimento, che viene
descritto in chiave trinitaria, quasi ultima e consumata Pasqua:
« Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono mor-
ti... Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la
vita in Cristo... Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il re-
gno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e
potestà... L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte...
E quando tutto gli sarà sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sot-
tomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio
sia tutto in tutti» (ICor 15,20.22.24.26.28). Il tempo ultimo
sarà il giorno « che il Padre ha riservato alla sua scelta » (At 1,7),
l'ora dell'avvento del Regno di Dio (cfr. Le 22,18 e Me 14,25),
e insieme il « giorno del Signore nostro Gesù Cristo » (cfr. ICor
1,8; 5,5; 2Cor 1,14; lTs 5,2; 2Ts 2,2; ecc.), il tempo del Suo
ritorno (cfr. At 1,11) e della Sua attività di giudice escatologi-
co (cfr. il ruolo del Figlio dell'uomo nel giudizio finale: Me 13;
Mt 24-25; Le 21; 17,20-37; cfr. pure 2Ts 2,1-12; lTs 4,13-18;
ecc.). Anche lo Spirito, effuso sul Crocefisso e da Lui risorto
donato a ogni creatura (Cfr. ad esempio At 2,17, che cita GÌ
3,1), opererà nel giorno della resurrezione, lui che è caparra della
8
Cfr. quanto si è detto supra, cap. 16.
318
nostra eredità futura (cfr. Ef 1,13 s): « Se lo Spirito di colui che
ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risusci-
tato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali
per mezzo dello Spirito che abita in voi » (Rm 8,11). L'escato-
logia, non meno che la protologia e il presente del mondo, è
vista nella luce di Pasqua come storia trinitaria.
L'idea che emerge dall'insieme di queste testimonianze è che
nel resuscitamento di Gesù la Trinità ha introdotto nel mondo
storico un dinamismo di vita nuova, che troverà il suo pieno
compimento nella finale resurrezione di ogni carne: è come se
alla contraddizione nell'identità che c'è fra il Crocefisso e il Ri-
sorto debba corrispondere quella che intercorrerà fra il presen-
te stato del mondo e il regno finale di Dio tutto in tutti. Nel-
l'evento del resuscitamento dell'Umiliato, che il Padre opera nello
Spirito, è tracciato il destino della storia e l'universale vocazio-
ne alla gloria della Trinità: la "storia della storia" risplende nella
Pasqua del Signore! La resurrezione di Cristo è il fondamento
dell'attesa della resurrezione finale e la garanzia indubitabile
che il destino del mondo non è la morte, ma la vittoria sulla
morte: « Se non esiste resurrezione dai morti, neanche Cristo
è risuscitato!... Se infatti i morti non risorgono, neanche Cri-
sto è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede
e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono
morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speran-
za in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più
di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato, primizia
di coloro che sono morti» (ICor 15,13.16-20). La vocazione
ultima dell'uomo e del mondo, rivelata a Pasqua, è la vita, non
la morte!
Questa vita futura ha con l'esistenza presente un rapporto
di continuità nell'inaudita novità, analogo a quello che la re-
surrezione ha nei confronti della croce: «Noi crediamo infatti
che Gesù è morto e risuscitato; cosi anche quelli che sono mor-
ti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui» (lTs
4,14: cfr. i vv. 13-18). «Ecco io vi annunzio un mistero: non
tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante,
in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà in-
fatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo
trasformati. E necessario infatti che questo corpo corruttibile
si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di im-
mortalità» (ICor 15,51-53; cfr. pure la «dimora eterna» e il
319
« corpo celeste », di cui si parla in 2Cor 5,1-5, e l'idea del « cor-
po spirituale » presente in lCor 15,44: in tutto il contesto, pe-
raltro, di lCor 15,35ss Paolo evidenzia l'alterità nella pur
permanente continuità, caratteristica della resurrezione dei morti
rispetto allo stato attuale). La resurrezione è il nuovo, che con-
testa e inquieta ogni apparente approdo, e lo schiude all'azione
potente di Dio, apparsa nel Risorto: « La risurrezione di Cristo
non ha paralleli nella storia che conosciamo. Ma appunto per-
ciò può essere considerata come un "evento che fa storia", e
che illumina, mette in questione e trasforma tutto il resto della
storia. Il modo in cui questo evento è proclamato e ricordato
con speranza deve essere presentato come un modo di ricorda-
re la storia, totalmente governato da quell'evento stesso, tanto
nel contenuto quanto nella procedura » 9 . Così la resurrezione
di Cristo, mentre fonda la certa speranza della resurrezione fi-
nale, raggiunge e contagia con la sua potenza anche il presente
dell'attesa: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla
sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore... per-
ché io possa conoscere lui e la potenza della risurrezione di lui
e la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme
nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai mor-
ti» (Fil 3,8.10).
Continuità e inaudita novità si lasciano cogliere parimenti nel
rapporto che la speranza del Risorto ha con la speranza propria
dell'antica alleanza: la continuità si individua facilmente nel-
l'orizzonte delle aspettative apocalittiche che pervade il Nuo-
vo Testamento, come nella fede incondizionata nel Dio della
promessa e nella Sua capacità di intervenire nella storia e di su-
scitarvi il nuovo. Lo stesso Profeta galileo vive di questa spe-
ranza credente e la proietta verso il futuro della sua opera, come
testimoniano le parabole del Regno, cariche della tensione fra
l'umiltà del presente e le meraviglie che saranno operate dall'a-
zione divina (cfr. ad esempio Mt 13 e paralleli). Gesù, inoltre,
fa sue con naturalezza le aspettative di resurrezione maturate
nella storia d'Israele: la disputa con i Sadducei (cfr. Me 12,18-27)
dimostra come egli vedesse nella resurrezione dei morti alla fi-
ne dei tempi una conseguenza evidente della fede nella fedeltà
e nella potenza del Dio dell'alleanza. Ciò che è nuovo e inaudi-
to rispetto all'antico Patto è che il Nazareno annuncia la pre-
9
J . Moltmann, Teologia della speranza, o. e, 185.
320
senza del Regno nella sua missione e opera (cfr. ad esempio Me
1,15; Mt 4,17; Le 4,16-21; ecc.), e che i testimoni pasquali ri-
conoscono nella Sua morte e resurrezione il nuovo inizio, che
supera e rende "antico" il patto con Israele (si pensi solo all'i-
dea degli « ultimi giorni »: At 2,17; Eb 1,2; dell'« ultima ora »:
lGv 2,18; dell'«ultimo Adamo»: ICor 15,45; di Gesù «Pri-
mo, Ultimo e Vivente»: Ap 1,17). Nell'incontro con Cristo la
« vita eterna » è già cominciata: « Questa è la vita eterna: che
conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù
Cristo » (Gv 17,3; cfr. la tematica della « vita » nel Vangelo gio-
vanneo: 3,36; 5,24; 6,47.53s; ecc.). Questa forte coscienza del
dono "già" compiuto si unisce nella Chiesa nascente all'attesa
del definitivo compimento, "non ancora" avvenuto (si pensi solo
all'insistenza sulla vigilanza, come forma impegnata dell'atte-
sa: Me 13,33ss e paralleli; o al motivo della "parusia", il ritor-
no futuro di Cristo: Mt 24,27.37.39; lTs 2,19; 3,13; 2Ts 2,1.8;
2Pt 3,4.12; cfr. specialmente lTs 4,13-18). Una antichissima
esclamazione cristiana, conservata nell'originaria forma aramaica,
veicola la duplice coscienza del "già" e del "non ancora", pre-
sente nella comunità delle origini: « Maranà tha - Maran atha »
— « Vieni, o Signore! - Il Signore viene » (ICor 16,22; cfr. Ap
22,20). Il compimento della speranza d'Israele è insieme la pro-
messa d'un nuovo e definitivo compimento.
Nell'orizzonte di questa certezza e insieme di questa aspet-
tativa della fede si situa anche la speranza per il destino del sin-
golo dopo la morte: l'incontro con Cristo, sorgente di vita nuova,
non può non illuminare il futuro dell'immortalità, a cui la fede
biblica era ormai pervenuta. Ciò che è nuovo è l'accento sul rap-
porto col Signore crocefisso e risorto, di cui è prova luminosa
il dialogo dell'ora della Croce fra Gesù e il "buon ladrone", ri-
portato da Luca: « Gesù, ricordati di me quando entrerai nel
tuo regno » — « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradi-
so » (Le 23,42s). « La salvezza definitiva non è una realtà mera-
mente escatologica, ma sortisce effetti immediati in colui che
ha optato per la comunione con Cristo »10. Questa convinzio-
ne è ribadita nella teologia paolina, che postula una unione del
cristiano col Cristo immediatamente dopo la morte individua-
le: « Sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lon-
tano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione.
10
J. L. Ruiz de la Pena, L'altra dimensione, o. e, 287.
321
Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo
ed abitare presso il Signore » (2Cor 5,6-8). L'Apostolo, che pur
non si sottrae alle fatiche della missione, non nasconde « il de-
siderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo » (Fil
1,23), mostrando la sicura speranza che la morte introduce im-
mediatamente in una esistenza con Cristo desiderabile e migliore
dall'attuale (cfr. la conclusione del versetto: « il che sarebbe as-
sai meglio»).
In questa prospettiva si comprende pure come per la fede cri-
stiana l'alternativa all'essere con Cristo e al partecipare in Lui
della vita eterna sia l'allontanarsi da Lui, il rimaner fuori, l'es-
sere cacciati dal banchetto, nel dramma di una morte (cfr. ad
esempio Le 13,3; Gv 5,24; 6,50; 8,51; lGv 3,14; 5,16s; Ap
20,14; Rm 5,12; 6,21; ecc.), cui il linguaggio simbolico del Nuovo
Testamento attribuisce le immagini di « geenna di fuoco » (Mt
18,9), «fornace ardente» (Mt 13,50), «fuoco inestinguibile»
(Me 9,43.48), «stagno di fuoco e zolfo» (Ap 19,20). Queste
immagini — familiari all'universo culturale della Chiesa nascente
— esprimono la tristezza del fallimento irrevocabile, la tragici-
tà del rifiuto del dono di Dio e le sue conseguenze sull'uomo,
nel presente della sua vita terrena e nel futuro della vita oltre
la morte e della destinazione finale. Esse evidenziano come l'o-
ra escatologica, compiutasi nella Pasqua, chiami a una definiti-
vità di decisione, su cui si gioca totalmente il destino dell'uomo.
La "profezia pasquale", testimoniata nel Nuovo Testamen-
to, raggiunge così tutti i livelli dell'escatologia: essa non solo
legge nella resurrezione di Cristo il futuro ultimo dell'uomo e
del mondo, ma vi coglie anche la contraddizione permanente
alla vittoria della morte, fondando lo stile di speranza vigile pro-
prio dell'esistenza redenta e confessando la fede in un "essere
con Cristo", che si inaugura nel tempo presente e continua, in
forma diversa ma non meno reale, anche dopo il termine dell'e-
sistenza terrena, nella gioia della comunione o nel dramma di
un ormai irrevocabile rifiuto.
322
nuovo, di chi ha incontrato il Signore e col battesimo è entrato
nel mistero della Sua morte e della Sua vita nuova. « Per mezzo
del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte,
perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria
del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuo-
va » (Rm 6,4; cfr. Col 2,12; 3,3; ecc.). Questa vita è conformi-
tà a Cristo (cfr. Gal 2,20), partecipazione alla Sua esperienza
filiale nel rapporto col Padre (cfr. Gal 4,6), vita secondo lo Spi-
rito (cfr. Rm 8,14): il cristiano vive nella Trinità! « In lui (Cri-
sto) anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare
dimora di Dio per mezzo dello Spirito » (Ef 2,22; cfr. ICor 3,16;
1 Pt 2,5; ecc.). Esistenza pasquale, partecipe del dinamismo del-
l'amore trinitario, la vita cristiana è sempre nuova provenien-
za, sempre nuova venuta e sempre nuovo avvenire. La "pro-
venienza" si realizza nell'iniziativa della carità, in cui viene a
riflettersi nel credente l'impronta della nascosta Sorgente di ogni
dono perfetto: « L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori
per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).
La carità, in quanto impronta dell'Origine, è ciò che è primo
e ultimo, e tutto ispira e rende autentico e vero (cfr. ICor 13).
La "venuta" si realizza nell'accoglienza della fede, in cui — nella
sequela del Cristo, che ci ha preceduto nel combattimento del-
la fede (cfr. Eb 12,2) — si riflette l'eterna accoglienza dell'A-
mato e la Sua obbedienza al disegno del Padre nei giorni della
Sua carne: « Giustificati per la fede, noi siamo in pace con Dio
per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rm 5,1). L'"av-
venire", infine, si compie nell'attesa vigile e impegnata della
speranza, in cui si esprime nel cuore del credente l'azione dello
Spirito, che unisce il tempo all'eterno e apre il presente degli
uomini alle sorprese della promessa di Dio: « Noi, infatti, per
virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che
speriamo» (Gal 5,5). L'esistenza pasquale fa del cristiano —
"nascosto" nella Trinità (cfr. Col 3,3 e Gv 14,23) — un inna-
morato, un credente e uno speranzoso, chiamato a perdersi nella
notte della fede e nel servizio dell'amore, e a ritrovarsi nella
vita nuova, sperimentata nella speranza.
Alla luce del dinamismo trinitario-pasquale della vita cristia-
na va compresa anche la morte11: essa è inseparabile dalla to-
11
Sul tema della "morte" è abbondante la riflessione teologica: cfr. ad esempio M.
Amigues, Le chrétien devant le refus de la mort. Essai sur la Résurrectioti, Paris 1981;
323
talità della vita della persona e dal suo rapporto col mistero as-
soluto. "Verbum abbreviatum" della finitudine umana, la morte
unisce la dolorosa lacerazione delle vicinanze con l'oscurità del
futuro senza ritorno: "viaggio nelle tenebre", sentinella dell'av-
venire assoluto, non deducibile dal presente né disponibile ad
esso, la morte compendia l'intero enigma della condizione umana
e ripropone la questione del senso nella maniera più densa e
violenta u. Illuminata dalla morte e resurrezione di Cristo, in
cui essa è stata ingoiata per la vittoria (cfr. ICor 15,54, nonché
Rm 6,9 e 8,19-22), la morte si presenta nell'analogia che la uni-
sce all'evento pasquale: come questo essa abbraccia un supre-
mo abbandono e una comunione suprema.
11 supremo abbandono consiste anzitutto nell'infinita fragi-
lità e caducità dell'esistere, che la morte rivela: chiamati alla
vita dal nulla per un atto di pura gratuità, gli esseri sono avvol-
ti dalla silenziosa Origine da cui totalmente dipendono e in cui
"si abbandonano". L'Abbandonato della croce manifesta, pe-
rò, il volto paterno e amoroso di questa nascosta Origine: Egli
si lascia "consegnare" dal Padre alla morte, in una povertà e
fiducia radicale, che gli fanno bere fino in fondo il calice della
finitudine umana. La Sua angoscia e paura rivelano la solida-
rietà infinita con la condizione umana, nella quale egli è entra-
to. Nessuna mistica della morte potrà allora cancellare il tratto
oscuro di essa, l'aspetto misterioso e drammatico di questo ab-
bandono senza apparente ritorno. E per questa incancellabile
tragicità della morte che la Bibbia la collega alla radice profon-
da del male del mondo: il peccato. « Come a causa di un solo
L. Boff, La nostra risurrezione nella morte, Assisi 1975; Id., Vita oltre la morte. Il futuro,
la festa e la contestazione del presente, Assisi 19843; M. Bordoni, Dimensioni antropolo-
giche della morte. Saggio sulle ultime realtà cristiane, Roma 1969; P. Grelot, Dalla morte
alla uitó.'Roma 1975; E. Jùngel, Morte, Brescia 1975; W. M. Klein, Christliches Sterben
als Gabe una Aufgabe. Ansàtze zu einer Theologie des Sterbens, Frankfurt a. M.-Bern
1983; J. Kremer, Essi vivranno. Sulla morte, risurrezione, nuova vita, Brescia 1978; X.
Léon-Dufour, Di fronte alla morte: Gesù e Paolo, Torino - Leumann 1982; K. Rahner,
Sulla teologia della morte, Brescia 19662; E. Schmalenberg, Tod und Tótung. Eine dog-
matische Studie zur theologia mortis, Stuttgart 1976; H. Thielicke, Lehen mit dem Tod,
Tùbingen 1980. A livello divulgativo cfr. ad esempio V. Messori, Scommessa sulla mor-
te. La proposta cristiana: illusione o speranza?, Torino 1982. Fra filosofia e teologia cfr.
J. Manser, Der Tod des Menschen. Zur Deutung des Todes in der gegenwàrtigen Philoso-
phie und Theologie, Frankfurt a.M.- Bern 1977; V. Melchiorre, Sul senso della morte,
Brescia 1964 e L. V. Thomas, Anthropologie de la mort, Paris 1975. Per un orienta-
mento bibliografico cfr. infine A. J. Miller - M. J. Acri, Death. A Bibliographical Gui-
de, Metuchen (N.J.) 1978.
12
Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, 18.
324
uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte,
così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti
hanno peccato »(Rm 5,12: cfr. purev. 17; 6,23 e ICor 15,21s.;
nonché Gen 2,16s e 3,19). Il fatto stesso che la morte sia vinta
soltanto dalla morte dell'Innocente dimostra come fra colpa e
peccato esista un misterioso, ma reale legame. La presenza di
questo legame non vuol dire che senza il peccato non ci sarebbe
stata la morte, ma mostra come l'aspetto di lacerazione doloro-
sa non avrebbe gravato sulla morte, se non vi fosse stato intro-
dotto dall'inimicizia derivante dalla colpa. Atto del supremo
abbandono, il morire conduce la persona alla soglia della più
profonda separazione dall'Origine della vita e perciò alla lace-
razione più grande. Si muore soli: la solitudine è e resta il prez-
zo immancabile dell'ora suprema: « La mia anima è triste fino
alla morte; restate qui e vegliate con me... Non siete stati capa-
ci di vegliare un'ora sola con me?... Dio mio, Dio mio, perché
mi hai abbandonato?» (Mt 26,38.40; 27,46).
All'abbandono può unirsi, però, in modo nuovo e non meno
misterioso la comunione: l'Abbandonato è colui che si abban-
dona, accettando in obbedienza d'amore la volontà di Colui che
l'abbandona: «Padre mio, se questo calice non può passare da
me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà» (Mt 26,42).
« Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Le 23,46). Al-
la consegna di Colui che non risparmia il proprio Figlio (cfr.
Rm 8,32), risponde l'autoconsegna del Figlio stesso (cfr. Gal
2,20): la morte, evento dell'abbandono, può essere vissuta co-
me atto di libertà e di accoglienza supreme. La Croce rivela,
allora, la possibilità di vivere la lontananza più alta come la più
profonda vicinanza: nel dolore della separazione più grande può
consumarsi la comunione dell'amore, che è forte come la morte
(cfr. Ct 8,6). Morire in Dio diventa così l'evento pasquale, per
il quale la persona, consegnata al supremo abbandono dal Pa-
dre, accetta con Cristo e per Lui di vivere la morte come offer-
ta suprema di sé, in un atto di povertà infinita e di obbedienza
totale: morire è "abbandonarsi" nel seno della Trinità. « La par-
tecipazione al martirio di Cristo è quel modo di morire che è
la fede e l'amore, per cui accetto la mia vita e la rendo accetta
a Dio, il quale, solo in quanto Trinità, può essere amore, e solo
in quanto amore rende il mondo sopportabile »13.
13
J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita etema, Assisi 19852, 115.
325
La forza, che rende possibile l'apparentemente impossibile
unità di comunione e di abbandono nell'ora della morte, è lo
Spirito Santo: è Lui che unisce e separa al tempo stesso l'Ab-
bandonante e l'Abbandonato del Venerdì Santo. « Cristo con
uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio » (Eb 9,14).
«Gesù disse: "Tutto è compiuto". E, chinato il capo, conse-
gnò lo Spirito » (Gv 19,30). Come nel seno delle relazioni trini-
tarie il Paraclito è l'unità e la pace dell'Amante e dell'Amato,
e al tempo stesso l'estasi divina, che consente ad essi di uscire
da sé nel dono dell'amore, così nell'evento pasquale della mor-
te di Croce lo Spirito è il vincolo della consegna amorosa del
Padre e dell'obbedienza filiale del Crocifisso, e il fuoco del sa-
crificio (cfr. Eb 9,14), in cui essi consumano la lacerazione do-
lorosa per amore del mondo. Lontananza e prossimità possono
allora coincidere grazie alla potenza del Consolatore della mor-
te di Cristo e d'ogni morte umana: mentre sorregge l'abbando-
nato nel suo destino mortale, lo Spirito lo tiene unito a Dio,
rendendolo capace dell'offerta suprema. « Lo Spirito attesta che
la morte è una realtà che la resurrezione sperata non elimina,
ma anzi conserva come condizione della propria possibilità...
(egli) è presente per rendere concreto il legame con Cristo e ren-
derne attuale la testimonianza... in nome di Cristo, egli aiuta
a constatare che la prova di spogliamento insita nella morte ha
un significato, in quanto inscritta nella linea della storia prece-
dente... Infine, si può identificare l'attività dello Spirito, all'atto
della morte, nel "conflitto delle speranze": quelle del mondo
e quella della promessa... Egli aiuta a portare insieme le due
voci e a mantenerne lo scarto »14. Mentre illumina dal di den-
tro la morte, il Paraclito agisce in essa, aiutando a morire: nel-
l'atto dello "spirare", Egli non si sostituisce al morente, ma lo
unisce a Cristo e lo rende così capace dell'ultimo dono, "spi-
rando" in lui la carità suprema.
Abbandono della comunione e comunione nell'abbandono,
la morte è dunque un evento trinitario pasquale, che è stato il-
luminato una volta per sempre dalla Croce del Signore: il mori-
re viene a partecipare del dinamismo delle relazioni divine,
misteriosamente presenti in quest'atto supremo. È questa par-
tecipazione all'intreccio profondissimo dei rapporti interperso-
nali nella Trinità, che rende "personale" al massimo l'evento
14
IL Bourgeois, La speranza ora e sempre, Brescia 1987, 278s.
326
della morte: e ciò non solo nel senso che nessuno può sostituirsi
a un altro nell'ora del morire, ma anche e propriamente nel senso
che di fronte alla morte la vita è condotta a una sorta di ricapi-
tolazione sommamente personalizzante. « La morte è il momento
terminale, per eccellenza, della esistenza personale del-
l'uomo, nel quale essa si definisce una volta per sempre in for-
za del confluire, nel passaggio di questa morte stessa, come mo-
mento di sintesi, di tutto l'orientamento fondamentale del suo
passato di libertà. Il che dà alla morte il valore di personalizza-
zione somma dell'uomo e consente di poter parlare perciò di una
sua dimensione pienamente antropologica, ovvero, di una sua
autentica dimensione umana» 15 . E partendo da questo carat-
tere marcatamente personale della morte, che alcuni hanno vo-
luto vedervi il luogo dell' opzione finale, l'atto dell'ultima e
definitiva decisione dell'uomo: « La morte è il primo atto pie-
namente personale dell'uomo e quindi il luogo essenzialmente
privilegiato del divenire della coscienza, della libertà, dell'in-
contro con Dio e della decisione sul destino eterno »16. In tal
modo la morte diventa il vero "dies natalis", il giorno della su-
prema nascita dell'uomo a se stesso davanti a Dio e in rapporto
a Lui. Quest'ipotesi rende ragione non solo del carattere ulti-
mo e definitivo dell'evento della morte, ma anche dell'univer-
salità della salvezza in Cristo, resa accessibile alla libertà di tutti
almeno in questa decisione suprema. Resta oscuro, tuttavia, dove
propriamente si situi questo atto: se esso è veramente umano,
deve situarsi nella storia, e dunque non può essere caratterizza-
to da una definitività assoluta; se esso è assolutamente definiti-
vo, bisognerebbe ipotizzarne l'attuazione già al di là del tempo
delle decisioni storiche. E per questo che, recependo il forte ri-
lievo del carattere personale dell'evento del morire, occorre la-
sciare indeterminato il modo della decisione finale, che, se potrà
essere tematizzato nell'ora della morte di più per alcuni, di me-
no per altri, per tutti rimanderà alla globalità dell'esistenza per-
sonale, nell'insieme delle opere e dei giorni che l'hanno intessuta,
delle possibilità che le sono state offerte e delle risposte consa-
pevoli e libere, che la persona ha dato e che restano note fino
in fondo a Dio solo.
15
M. Bordoni - N. Ciok, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia, Bologna 1988,
210.
16
L. Boros, Mysterium mortis. L'uomo nella decisione ultima, Brescia 19793, 242.
327
d) Al di là della morte: giudizio, purgatorio, paradiso e inferno
nell'orizzonte della Trinità
328
si situa l'orizzonte ultimo di comprensione non solo della mor-
te, come evento pasquale, ma anche della vita oltre la morte,
manifestata e fondata dalla potenza del Risorto dai morti. Emer-
ge il carattere relazionale, e quindi personale, di tutti i possibili
aspetti di questa esistenza dopo la morte: « E Dio il "fine ulti-
mo" della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l'in-
ferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui,
il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è Colui per il qua-
le muore tutto ciò che è mortale e che risuscita per Lui e in Lui.
Ma Egli lo è precisamente nel senso in cui è orientato verso il
mondo, nel Figlio suo Gesù Cristo, che è la rivelazione di Dio
e perciò il compendio dei "fini ultimi" »18.
In continuità con la testimonianza rivelata, la fede della Chiesa
ha affermato al tempo stesso la definitività della morte, che chiu-
de per sempre la condizione di pellegrinaggio dell'unica e sin-
golare esistenza della persona, amata da sempre e per sempre
da Dio come irripetibile "tu" del patto, e l'ingresso immedia-
to, che segue alla morte, in una condizione eterna di salvezza
o di perdizione, e perciò di beatitudine o di dannazione. In par-
ticolare, nel quadro dell'interesse antropologico tipico del se-
condo millennio, la Bolla dogmatica Benedictus Deus del 29
gennaio 1336 di Benedetto XII intese precisare che le anime
dei defunti non bisognose di purificazione sono in cielo « an-
che prima del ricongiungimento col loro corpo e del giudizio
universale », cosicché esse già « vedono l'essenza divina in vi-
sione diretta e faccia a faccia senza la mediazione di alcuna crea-
tura », mentre quelle dei morti « in stato di peccato mortale già
dopo la morte discendono all'inferno », anche se non di meno
tutti gli uomini « compariranno davanti al tribunale di Cristo
nel giorno del giudizio »19. Questo testo, mettendo fine alle
polemiche suscitate da alcune omelie del predecessore di Bene-
detto XII, Giovanni XXII, intendeva ribadire la tradizione
comune della fede contro chi, influenzato dalla concezione ari-
stotelica dell'incompletezza dell'anima separata dal corpo, non
18
H. Urs von Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, Brescia 1967, 44s.
19
D5 1000-1002. Cfr. J. Ratzinger, Benedictus Deus/1, in Lexikonfùr Tbeologie una
Kirche 2, 171-173. Il Concilio di Firenze confermerà le tesi della Bolla di Benedetto
XII nel suo dialogo con i Greci: DS 1305-1306. Sull'insieme dei dati dogmatici relativi
alla vita oltre la morte è rilevante la Lettera su alcune questioni riguardanti l'escatologia,
pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della fede in data 17 maggio 1979 (in
L'Osservatore Romano del 16-17 luglio 1979).
329
ammetteva che la persona umana potesse essere oggetto di giu-
dizio e di retribuzione piena e immediata subito dopo la morte.
Con linguaggio più biblico, le medesime idee sono state affer-
mate dal Vaticano II: « Siccome poi non conosciamo né il gior-
no, né l'ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo
assiduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita ter-
rena (cfr. Eb 9,27), meritiamo con lui di entrare al banchetto
nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr. Mt 25,31-46), né
ci si comandi, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di
andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori
dove "ci sarà pianto e stridore di denti" (Mt 22,23 e
25,30) »20. La condizione dei beati al di là della morte viene
descritta in rapporto alla Trinità Santa, la cui contemplazione
è indicata perciò come la meta ultima del popolo dei pellegrini
di Dio e di ogni singolo credente in Lui: « Fino a che dunque
il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui (cfr.
Mt 25,31) e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte
le cose (cfr. ICor 15,26s), alcuni dei suoi discepoli sono pelle-
grini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno pu-
rificandosi, altri infine godono della gloria contemplando
"chiaramente Dio uno e trino, qual è" »21.
L'intelligenza di questi dati della fede va condotta alla luce
della chiave trinitaria pasquale offerta dal Nuovo Testamento:
la vita oltre la morte apparirà allora anzitutto come incontro
col Dio vivente, e precisamente con Cristo, mediante il quale
si stabilisce ogni relazione col Padre, nello Spirito dell'unità e
della distinzione personale. Questa idea è espressa nella testi-
monianza della rivelazione attraverso l'immagine del giudizio
e la figura del Cristo giudice: « Quando il Figlio dell'uomo verrà
nella sua gloria con tutti i suoi angeli » egli giudicherà tutte le
genti, chiamando a sé i « benedetti del Padre suo », che lo han-
no amato e soccorso nell'affamato, nell'assetato, nel forestiero,
nel povero, nel malato e nel carcerato, e scacciando « nel fuoco
eterno » i « maledetti », che non hanno fatto altrettanto (cfr. Mt
25,31ss). Non solo, però, nel tempo escatologico Cristo si offre
come giudice: già ora Egli è la pietra di paragone, su cui si mi-
sura la morte e la vita: « In verità, in verità vi dico: chi ascolta
20
Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium, 48.
21
Ib., 49. La citazione finale è dal Concilio di Firenze, Decretum prò Graecis: DS
1305.
330
la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eter-
na e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla
vita» (Gv 5,24). È dunque la Parola del Signore il metro del
giudizio, presente e futuro: « Chi mi respinge e non accoglie le
mie parole, ha chi lo condanna: la parola che ho annunziato lo
condannerà nell'ultimo giorno » (Gv 12,48). Anche dopo la morte
è l'incontro col Cristo l'evento in cui si consuma il giudizio:
« Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, cia-
scuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché
era nel corpo, sia in bene che in male » (2Cor 5,10, nel contesto
in cui si parla dell'« andare in esilio dal corpo e abitare presso
il Signore »: vv. 6ss). Cristo è dunque Colui « che verrà a giudi-
care i vivi e i morti» (2Tm 4,1) nel giudizio "universale", e
insieme il giudice di quel giudizio, che il linguaggio della fede
chiamerà "particolare": «Come è stabilito per gli uomini che
muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cri-
sto, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di toglie-
re i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna
relazione col peccato, a coloro che l'aspettano per la loro sal-
vezza» (Eb 9,27s).
In che consiste quest'evento decisivo del giudizio, che si com-
pie nell'incontro con Cristo subito dopo la morte? La lettura
trinitaria dell'atto del morire introduce alla comprensione tri-
nitaria dell'evento che segue immediatamente alla morte: T'es-
sere con Cristo" posteriore alla morte suggellerà l'"essere con
Cristo" vissuto nella totalità della vita. Il giudizio è, in questa
prospettiva, l'emergere della verità dell'esistenza totale, il ve-
nire alla luce dell'opzione fondamentale, che ha posto la perso-
na nella comunione o nel rifiuto in rapporto al mistero di
accoglienza, proprio del Figlio. Il Cristo giudice è Colui il cui
sguardo rende la persona trasparente a se stessa, facendole as-
sumere piena coscienza del modo in cui essa si è situata nella
storia eterna dell'amore, che in Lui le era stata partecipata. Non
si tratta di un "auto-giudizio", ma di un incontro, personale
al massimo, con Colui che è la Verità in persona, e che consen-
te perciò alla coscienza di tematizzarsi senza più ombre o infin-
gimenti: il Cristo giudice non è l'arbitro dispotico e accecato
dall'ira, di alcune rappresentazioni infelici, ma il volto della mi-
sericordia di Dio, che trapassa la coscienza personale e le dà il
coraggio della piena verità su se stessa. « Chi accuserà gli eletti
di Dio? Dio giustifica. Chi condannerà? Cristo Gesù, che è mor-
331
1
to, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per
noi? » (Rm 8,33s). In altri termini, accogliendo la persona che
ha compiuto l'esodo pasquale della morte, il Cristo la rende pie-
namente partecipe della propria accoglienza dell'amore del Pa-
dre: è così che essa può misurare fino in fondo la bellezza del
proprio assenso o la tragica gravità del proprio rifiuto. Lo Spi-
rito, Paraclito del giudizio, aiuta la persona a restare sotto lo
sguardo di Dio, lasciandosi amare e percependo in piena chia-
rezza l'accoglienza o la resistenza con cui essa ha risposto nella
propria vita all'Amore. Con Cristo e per Cristo, nel mistero della
Sua recettività infinita, l'essere umano "in esilio dal corpo" si
trova davanti al Padre, raggiunto dal Suo infinito amore, e nel-
lo Spirito conosce la comunione che lo lega o la distanza che
lo separa dalla Sorgente eterna della vita e del bene.
La lettura trinitaria dell'evento del giudizio consente di com-
prendere in maniera rinnovata l'idea trasmessa dalla tradizione
della fede con l'immagine del purgatorio: « Illuminata dallo Spi-
rito Santo, attingendo dalla Sacra Scrittura e dall'antica tradi-
zione dei Padri, la Chiesa cattolica ha insegnato nei sacri Concili
e in ultimo in questa assemblea plenaria che il purgatorio ipur-
gatorium) esiste e le anime lì tenute possono essere aiutate dai
suffragi dei fedeli, in modo particolarissimo col santo sacrificio
dell'altare. Il santo sinodo comanda ai vescovi che con diligen-
za facciano in modo che la sana dottrina del purgatorio, quale
è stata trasmessa dai santi Padri e dai sacri Concili, sia creduta,
ritenuta, insegnata e predicata dappertutto» 22 . Se attraverso
la morte si accede all'incontro col Cristo, che immette la perso-
na con nuova coscienza nelle relazioni trinitarie, lo stato che
emergerà alla piena consapevolezza personale potrà per molti
essere caratterizzato dalla mescolanza di rifiuto e di accettazio-
ne dell'amore, anche quando fosse quest'ultima a prevalere. Il
Dio, che ha avuto "tempo" per l'uomo e ha fatto Sua la storia
in Cristo, potrà concedere in Lui alla persona una partecipazio-
ne ulteriore al dinamismo dell'amore eterno, che le consenta di
portare a compimento l'opzione di carità, rimasta parziale e in-
compiuta. In tal modo, la dottrina del purgatorio prende sul se-
rio il fatto che il Dio biblico è il Dio della speranza e proietta
22
Concilio di Trento, Senio XXV, Decretum de purgatorio (3 dicembre 1563): DS
1820. Il termine latino rimanda semplicemente all'idea di "purificazione": non c'è al-
cuna indicazione di luogo, né di modo (il tedesco "Fegefeuer" utilizza indebitamente
l'immagine del fuoco). Cfr. pure il testo già citato di Lumen Gentium, 49.
332
il dono della speranza stessa nella vita che sta oltre la morte.
In quanto partecipazione della creatura all'eterno evenire del-
l'amore, questo processo non è descrivibile se non metaforica-
mente in termini temporali, anche se tocca veramente la storia
della persona in quanto questa è unita nel giudizio al Figlio in-
carnato, che col Suo corpo di Risorto ha portato la storia nel
più profondo del mistero di Dio. Ciò che può essere descritto
è piuttosto il significato morale di questo processo: « Un pecca-
to che continua a ripercuotersi, che brucia ancora provocando
sofferenze dirette, è definito "purgatorio": che significa, quindi,
soffrire fino in fondo per l'eredità lasciata, già nella certez-
za, tuttavia, di essere definitivamente accettati, ma anche nel-
l'indicibile tormento per il ritardo della presenza dell'Ama-
to» 23 .
Nella luce di questa interpretazione, anche la preghiera per
i morti — patrimonio già maturato dalla fede vetero-testa-
mentaria (cfr. 2Mac 12,40-43) — trova la sua giusta colloca-
zione, in quanto espressione di quella comunione e comunica-
zione in Cristo, che lega 1'"essere con Lui" del tempo morta-
le e l'"essere con Lui" al di là della morte. L'unico corpo eccle-
siale del Cristo, pellegrinante nella storia e beato nella gloria,
abbraccia anche coloro che attraverso il giudizio sono stati fat-
ti partecipi di un dinamismo di purificazione nella carità. L'e-
spressione di questa unità cristologica e trinitaria è appunto la
preghiera, che consente ai vivi e ai morti di aiutarsi reciproca-
mente nell'amore: anche così Dio raduna « quelli che sono morti
per mezzo di Gesù insieme con lui » (lTs 4,14). Lo Spirito tie-
ne viva questa unità, al tempo stesso in cui mantiene in essa
la distinzione in Dio e davanti a Dio: « Tutti quelli che sono
di Cristo, avendo il suo Spirito, formano una sola Chiesa e so-
no tra loro uniti in lui (cfr. Ef 4,16). L'unione quindi di coloro
che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non
è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della
Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spiritua-
li» 24 . Anche cosi la salvezza si manifesta come comunione, nel
tempo e nell'eternità!
23
J. Ratzinger, Escatologìa, o. e, 199. Sul purgatorio cfr. anche B. Monconi, Il Pur-
gatorio soggiorno dell'amore, in Ephemerides Carmeliticae 31 (1980) 539-578. Da un punto
di vista di storia e antropologia culturale cfr. J. Le Goff, Naissance du Purgatoìre, Paris
1981.
24
Concilio Vaticano II, Lumen Gentìum, 49.
333
La stessa lettura cristologico-trinitaria del giudizio getta nuova
luce sulla realtà del paradiso e dell'inferno, che fa parte integrante
della simbolica della fede ecclesiale: « Quanti operarono il bene
andranno nella vita eterna, quanti fecero il male andranno nel
fuoco eterno. Questa è la fede cattolica, e non può salvarsi chi
non la crede fedelmente e fermamente»25. Nella luce della vit-
toria pasquale sul male e sulla morte, che rivela il fine ultimo
dell'azione di Dio, occorre sottolineare anzitutto l'assoluta su-
premazia della destinazione alla vita e alla gioia nel disegno di-
vino. Il destino finale dell'uomo e della storia coincide con la
carità infinita che ne è l'Origine: Dio «vuole che tutti gli uo-
mini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità » (lTm
2,4). « Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli
né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza
né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dal-
l'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38s).
Ne consegue che « l'inferno non è creazione di Dio. La volontà
divina rispetto ad esso è identica alla volontà divina rispetto
al peccato, dato che la morte eterna non è che il frutto del pec-
cato. Orbene, è evidente che Dio non può creare né volere il
peccato. Non si vede allora come possa creare o volere l'infer-
no... Ci sarà inferno solo per colui che avrà voluto, in modo
lucido e riflesso, edificare la sua vita lontano da Dio »26. Con
ciò è esclusa la conseguenza che alcuni hanno voluto trarre dal-
l'universale volontà salvifica dell'Eterno: che l'inferno, cioè, non
esista, e che alla fine tutti e tutto saranno riconciliati in Dio.
Questa visione dell'"apocatastasi" 21, intesa come finale "re-
staurazione" di tutto il creato secondo l'iniziale progetto divi-
no, svuota di dignità e di serietà la libertà della creatura e di
consistenza la storia che essa produce: se tutto è comunque
destinato a un fine che lo sorpassa e che sarà conseguito nono-
stante o addirittura attraverso ogni possibile resistenza o cadu-
ta, non c'è più spazio per la tragica serietà del rifiuto, e la stessa
accettazione risulta svalutata nel suo prezzo e nel suo rischio.
La negazione della possibilità di una dannazione eterna si tra-
25
Simbolo Quicumque - pseudo Athanasianum: DS 76.
26
J. L. Ruiz de la Pena, L'altra dimensione, o. e, 271s.
27
Diffusa nella coscienza teologica soprattutto a partire da Origene, assunta in ma-
niera moderata anche da Gregorio di Nissa, l'idea fu contestata da Agostino, De civita-
te Dei, 21, 17, e condannata dal Sinodo di Costantinopoli del 543: DS 411, e dal
successivo Concilio Costantinopolitano II del 553.
334
duce così nella negazione della stessa autonomia della creatura,
e perciò diviene alla fine negazione della stessa carità del Crea-
tore: in forma a prima vista paradossale si potrebbe asserire che,
se non ci fosse l'inferno, Dio stesso non sarebbe amore, perché
creerebbe degli esseri privi di libertà, incapaci di essere auten-
tici protagonisti dell'alleanza.
La realtà dell'inferno è dunque la conseguenza di una libera
scelta della creatura, che si chiude al dono dell'amore creatore
e redentore: a questa scelta, decisiva in ordine al destino eter-
no, il Profeta galileo chiama l'uomo con la Sua predicazione.
« Nell'incontro con Gesù a nessuno viene lasciato ancora tem-
po: il passato da cui viene non è confermato, e il futuro che
ognuno sogna per sé non viene più assicurato. Ma proprio così
ogni individuo riceve il suo nuovo presente. Perché la vita, il mon-
do e l'esistenza di ogni singolo si trovano ora nell'improvviso
fascio di luce dell'Iddio che viene, nella luce della sua realtà e
della sua presenza. Questo è il tema dell'annunzio di Gesù» 28 .
La decisione, quando è vissuta come rifiuto consapevole e libe-
ro del dono veniente da Dio, si converte in affermazione di sé,
presunzione inospitale e ingrata. Il destino ultimo di chi si è
radicato nel rifiuto è descritto dal Nazareno con le immagini
proprie dell'apocalittica giudaica: "fuoco" (cfr. Mt 5,22; 13,42;
18,8; 25,41; ecc.), "tenebra" (cfr. Mt 8,12; 22,13; 25,30), "pian-
to e stridore di denti" (cfr. Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51;
25,30; Le 13,28). Ma Gesù usa anche altre immagini, che ren-
dono in maniera non meno densa la drammaticità della danna-
zione: il restare fuori dalle nozze, l'essere esclusi dalla festa (cfr.
Mt 25,1-13; Le 14,16-24). L'idea è quella di una irrevocabile
perdita, e perciò di una singolare contraddizione fra il deside-
rio infinito e l'impossibilità di realizzarlo. L'inferno appare con
i tratti definitivi della "morte seconda" (Ap 20,6), e insieme
con quelli di una inesausta irrequietezza, di una vita bruciata
dal fuoco del desiderio incompiuto.
Colui che, unito a Cristo nell'incontro del giudizio, prende
dolorosa coscienza del suo rifiuto radicale dell'amore, resta co-
me paralizzato in questo rifiuto: in Cristo e per Lui egli sta da-
vanti al Padre, sorgente della carità eterna, conservato nell'essere
dallo stesso amore che l'aveva chiamato ad esistere. Ma all'a-
more non può più rispondere con l'amore: l'inferno è la tristez-
28
G. Bornkamm, Gesù di Nazareth, Torino 1975, 59.
335
za di non poter più amare, è il rimpianto infinito di non poter
più vivere la gratitudine, senza la quale lo stesso dono è perdu-
to. Si comprende, allora, come Dio non cessi di amare il danna-
to: senza un tale amore, questi non esisterebbe neppure! Ma,
nello Spirito che unisce e distingue, chi ha rifiutato in forma
radicale l'amore, sapendosi amato, sa di non saper amare, e si
consuma nell'infinito dolore di una possibilità irrevocabilmen-
te perduta. E quanto la tradizione teologica chiama poena
damni: fatta per amare, la persona non sa né può più amare.
La sofferenza maggiore dell'inferno è « quella di essere ormai
come imprigionati in un irrevocabile rifiuto e repulsione dal cen-
tro di attrazione assoluta di tutto il dinamismo umano. E vive-
re fino in fondo la propria esistenza come irrimediabile
contraddizione. E come sperimentare l'interiore frattura di se
stesso e la totale vanificazione del vivere»29.
Nella prospettiva trinitaria-pasquale si lascia cogliere anche
la realtà del paradiso: il termine, mutuato dal persiano, signifi-
ca "giardino", e trova il suo archetipo biblico nell'Eden dell'i-
nizio. L'immagine, usata volentieri dai profeti (cfr. ad esempio
Ez 36,35; Is 51,3; ecc.), è ripresa da Gesù: « Oggi sarai con me
nel paradiso » (Le 23,43). Il significato è quello di uno stato di
compimento, di gioia e di pace senza fine, assicurate dalla fe-
deltà del Dio vivente, Dio dei viventi: « Quanto poi alla risur-
rezione dei morti, non avete letto quello che vi è stato detto
da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio
di Giacobbe? Ora, non è Dio dei morti, ma dei vivi » (Mt 22,32).
Unita a Cristo, nell'incontro con Lui dopo la morte, che è il
giudizio, la persona che ha letto nella luce di Dio la verità della
propria piena e definitiva opzione per Lui partecipa dell'even-
to eterno dell'amore dei Tre, lasciandosi amare dal Padre nel-
l'accoglienza del Figlio, amandoLo nella risposta della libertà,
distinta da Lui e unita a Lui nello Spirito Santo. E quanto la
simbolica della fede rende con l'idea della visione del Dio, uno
e trino, rapportata in modo pienamente personale alla capacità
e alla storia di ciascuna persona beata: « Le anime di coloro che,
dopo aver ricevuto il battesimo, non incorsero mai in alcuna
macchia di peccato, e anche quelle che, dopo aver contratto
29
M. Bordoni - N. Ciola, Gesù nostra speranza, o. e, 217. Questa sofferenza inve-
ste tutta la persona umana: perciò la tradizione teologica parla anche di una poena sen-
sus, che evidenzia il coinvolgimento della dimensione fisica nel dolore della dannazione.
336
la macchia del peccato, sono state purificate nel proprio corpo
o una volta uscite dal corpo, sono accolte immediatamente in
cielo e vedono chiaramente lo stesso Dio trino e uno, così co-
m'è, l'uno più perfettamente dell'altro in rapporto alla diversi-
tà dei meriti »30. La Trinità accoglie pienamente in sé chi ha
risposto al suo amore con l'amore: la storia di ciascuno non so-
lo non è vanificata, ma viene rispettata fin nell'eternità divina,
nella varietà del rapporto che ciascuno stabilisce col mistero eter-
no. Per tutti i beati, però, l'essere ammessi a partecipare piena-
mente dell'evento eterno dell'amore è sorgente di indicibile gioia:
è un sentirsi amati di un amore sempre nuovo, al quale si ri-
sponde nello slancio sempre nuovo di un movimento di indici-
bile ed eterna bellezza. La Trinità si rivela così come il senso
ultimo e compiuto della persona e della vita nel mondo: in essa
solo — eterno evento dell'amore — si compie il destino di chi
dall'amore e per l'amore è stato chiamato ad esistere. L'amore,
che risplende nella Trinità, è la vocazione del cuore umano e
del mondo. Solo esso dà veramente senso alla vita e alla storia:
«L'amore non avrà mai fine» (lCor 13,8).
30
Concilio di Firenze, Decretum prò Graecis: DS 1305.
337
20.
1
Cfr. E. Bloch, Das Prinzìp Hoffnung, Frankfurt a.M. 19785, I, 15 e III, 1622ss.
338
che non vive della nostra potenza, perché esso è potente» 2 .
L'Avvento soltanto, allora, con la carica di sorpresa e di gra-
tuità, che gli deriva dall'essere l'ingresso del totalmente Altro
nella storia, può offrirsi come lo spazio della "patria" dell'iden-
tità, l'affacciarsi del mondo delle cose venienti e nuove, che sov-
vertono l'attesa, e solo così la realizzano a un livello più alto
e impensato. La rivelazione, perciò, che è l'accadere dell'Av-
vento, è il luogo in cui la "patria" si lascia intravedere: in essa
la silente Provenienza si comunica nella venuta della Parola, che
schiude all'Incontro nel tempo e nell'eternità. In questa sua for-
ma trinitaria la rivelazione si offre come promessa: essa annun-
cia l'eccedenza di Dio, non elimina l'ulteriqrità del Suo amore,
ma comunica anche realmente la Sua vita. E così che nell'acca-
dere dell'Avvento viene anticipata, "per speculum in aenigma-
te", la bellezza del mondo che deve venire, ed è garantita e
promessa la compiuta "patria" dell'esistenza personale e col-
lettiva e dell'intero universo creato. Pertanto, l'evento pasqua-
le, vertice e pienezza della rivelazione, rivela non solo il senso
dell'esistenza personale e della comunione interpersonale, ma
anche l'ultimo orizzonte, la "patria" promessa dell'identità del-
l'uomo e del mondo, avvolta nel misterioso evento dell'eterno
amore, che è la Trinità del Dio vivo.
339
ti, talaltra la forma della consolazione di fronte all'inaudito do-
lore del presente, traducendosi nella invocazione della speran-
za pura, rivolta all'intervento dell'Eterno: « Se tu squarciassi
i cieli e discendessi! » (Is 63,19). Grazie a questa tensione, ra-
dicata nel forte senso della "trascendenza escatologica" di Jah-
vé, « il Dio d'Israele non è mai divenuto un Dio che sanziona
il presente, vincolato ai luoghi e al ritmo inalterabile della vi-
cenda cosmica: è restato sempre il Dio che muove al futuro, che
inquieta la sazietà, suscitando fame, che sostiene lo smarrimento,
suscitando speranza, che libera dalla prigionia del presente, su-
scitando futuro» 4 . Il mondo dell'Avvento si è così offerto al-
la coscienza del popolo eletto come la permanente "riserva
escatologica", critica e costruttiva al tempo stesso rispetto a ogni
compimento raggiunto.
Con la morte e resurrezione di Cristo l'attesa d'Israele ha tro-
vato, secondo la fede cristiana, l'adempimento sperato: « Il Fi-
glio di Dio, Gesù Cristo... non fu "sì" e "no", ma in lui c'è
stato il "sì". E in realtà tutte le promesse di Dio in lui sono
divenute "sì" » (2Cor 1,19-20). In Lui si compiono le Scritture
(cfr. la formula di adempimento « secondo le Scritture »: ICor
15,3s, o l'analogo «perché si adempisse la Scrittura» ad esem-
pio in Gv 19,24.28.36), perché nella Sua vicenda « Dio ha adem-
piuto ciò che aveva annunziato per bocca di tutti i profeti » (At
3,18; cfr. 26,22). Il compimento della promessa è a sua volta
promessa di un nuovo e definitivo compimento: quanto è avve-
nuto nel Crocifisso Risorto è l'inizio del mondo nuovo, l'inaugu-
razione della nuova alleanza. « Cristo è risuscitato dai morti,
primizia di coloro che sono morti» (ICor 15,20). Il tempo co-
minciato con la Sua esaltazione alla destra del Padre vivrà del-
l'attesa del Suo ritorno: «Uomini di Galilea, perché state a
guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto
fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete
visto andare in cielo» (At 1,11; cfr. 3,20-22; 17,31; ecc.). «Il
già del Risorto rimanda al non ancora del suo ritorno: il tempo
intermedio è il "frattempo" della Chiesa, tempo penultimo, ca-
ratterizzato dall'attesa e dalla missione. L'attesa si esprime nel-
l'invocazione ardente: "Vieni, o Signore!" (ICor 16,22; Ap
22,17.20), e sostiene i credenti nell'oscurità talora drammatica
4
B. Forte, Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio della storia, Roma 1981, 71. Cfr. l'in-
tero capitolo dedicato alla speranza d'Israele: 67-87.
340
del presente, nella fiducia che "le tenebre stanno diradandosi
e la vera luce già risplende" (lGv 2,8)... Il tempo dischiuso dal-
l'alba di Pasqua non può risolversi in un"'estasi dell'adempi-
mento", contemplazione disimpegnata della vittoria del Risorto,
ma deve aprirsi al futuro della storia di liberazione, che in Cri-
sto Dio promette di edificare insieme con gli uomini» 5 .
Il mondo futuro viene così, nella coscienza della fede, a de-
terminare il mondo presente: il "non ancora" grava sul "già"
e lo qualifica. A volte nel Nuovo Testamento questa incidenza
è tale, da motivare la tesi di un"'escatologia realizzata": con
l'attività del Profeta galileo è iniziata "qui e ora" l'opera defi-
nitiva di Dio nella storia; l'eterno si è reso ormai presente nel
tempo; l'oggi è l'ora del raccolto rispetto alla storia passata; con
l'irruzione dell'"éschaton", che è la venuta del Verbo nella carne,
la presenza del futuro promesso è già data 6 . Sono in partico-
lare 1"'escatologia presenziale" e l'etica dell'amore del messag-
gio giovanneo, che giustificano questa lettura: « Dio ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiun-
que crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna... Chi crede
in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condan-
nato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di
Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli
uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro ope-
re erano malvagie... Ma chi opera la verità viene alla luce » (Gv
3,16.18s.21). «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte al-
la vita, perché amiamo i fratelli » (lGv 3,14). La predicazione
di Gesù, tuttavia, è chiaramente aperta a un futuro che segue
al compimento della Sua missione terrena e in cui si prepara
il definitivo avvento escatologico del Regno (si pensi solo alle
"parabole del Regno" di Mt 13 o al "discorso escatologico"
di Mt 24 e paralleli). Anche la coscienza della Chiesa nascente
unisce all'idea di una escatologia attuale o imminente l'elabo-
razione molto antica di una teologia della storia che valorizza
il tempo dell'attesa (si pensi alla concezione lucana di Cristo,
"centro del tempo", da cui si diparte la via verso i pagani come
ampio spazio del futuro7). Se ne può dedurre che nel Nuovo
5
Ib., 295s. Cfr. l'intero capitolo sulla singolarità di Gesù Cristo: 287-307.
6
Cfr. l'interpretazione di C. H. Dodd, Le parabole del Regno, Brescia 1970; L'in-
terpretazione del quarto vangelo, Brescia 1974 e Storia e Vangelo, Brescia 1976.
7
È quanto ha dimostrato H. Conzelmann, Die Mitte der Zeit. Studien zar Theolo-
gie des Lukas, Tiibingen 19643.
341
Testamento « non esiste uno sviluppo lineare in ciò che concer-
ne l'attesa della fine prossima. A seconda delle circostanze, il
tempo ha acuito oppure attenuato la tensione temporale » 8 .
Il rapporto fra mondo futuro promesso e mondo presente è dun-
que avvertito dalla fede biblica nella tensione fra il "già" e il
"non ancora": questa tensione, proprio perché fluttuante e ir-
risolta nella testimonianza delle origini, diviene suscettibile nel
tempo di interpretazioni teologiche diversificate, specialmente
riguardo alla consistenza della realtà mondana attuale alla luce
del compimento sperato9. C'è anzitutto chi, sottolineando la
rilevanza del "non ancora", ha postulato la novità assoluta
dell'"éschaton", e ne ha dedotto la semplice rottura che le realtà
ultime rappresentano rispetto alla continuità evolutiva della sto-
ria: la conseguenza inevitabile di questa interpretazione è la sva-
lutazione generale dell'operato umano, unita al senso della ra-
dicale caducità dell'intero mondo della creazione. Anche senza
far proprio il pessimismo antropologico del primo Barth10, la
tendenza "escatologista" — propria della "neo-scolastica" —
intende ribadire l'assoluto primato dell'iniziativa di Dio sulla
storia e richiamare, contro le presunzioni della ragione "adul-
ta" della modernità, l'estrema fragilità dell'agire storico u. Es-
sa, tuttavia, non rende ragione del rapporto costitutivo ed
essenziale che la Pasqua di Cristo rivela fra l'inizio e il compi-
mento: se l'escatologia fosse il semplice disfacimento dell'ope-
ra della creazione, la fedeltà del Dio creatore al patto stabilito
con le Sue creature per mezzo del Figlio e in vista di Lui risul-
terebbe incomprensibile. La Trinità, rivelata nella croce e nella
resurrezione di Gesù di Nazaret, non edifica la Sua gloria sulle
rovine dell'universo, da Lei stessa chiamato ad esistere per pu-
ro amore.
La debolezza della posizione "escatologista" stimola ad ela-
8
J. Ratzinger, Escatologia. Morte e vita etema, Assisi 1979, 57.
9
Cfr. su quanto segue F.-J. Nocke, Escatologia, Brescia 1985, 76ss (« Futuro in-
tramondano e speranza escatologica nella teologia attuale »). Cfr. pure le riflessioni di
G. Panteghini, Il mondo materiale nel piano della salvezza, Roma 1968.
10
Cfr. ad esempio K. Barth, L'Epistola ai Romani (1922), Milano 1974, 13: « La
creaturalità (dell'uomo) è la sua catena. Il suo peccato è la sua colpa. La sua morte è
il suo destino. Il mondo è un informe ondeggiante caos di forze... La sua vita è un'ap-
parenza ».
11
Cfr. l'informazione sulla controversia "intracattolica" fra "escatologisti" e "in-
carnazionisti" subito dopo la seconda guerra mondiale in C. Pozo, Teologia dell'aldilà,
Milano 19864, 133ss.
342
borare l'interpretazione contraria: insistendo sul "già" dell'o-
pera divina nella creazione e nella redenzione, la tendenza "in-
carnazionista" sottolinea la continuità fra il presente del mondo
e l'avvenire della promessa di Dio. L'"éschaton" valorizzerà
i frutti dell'azione umana e celebrerà con la gloria dell'Eterno
anche la gloria della Sua creatura: « Se abbiamo fede nell'effi-
cacia dello Spirito, se crediamo che Dio è più potente del Male,
se ammettiamo che la grazia di Cristo è più grande del peccato
d'Adamo, possiamo pensare che il peso del bene compiuto nel
mondo per opera dello Spirito aumenti continuamente portan-
do l'insieme degli uomini verso una maggiore unità organica,
verso una maggiore universalità, verso una maggiore pace, una
maggiore libertà e una maggiore santità» 12 . La conseguenza di
questa interpretazione è la forte valorizzazione della dignità delle
realtà terrestri e un notevole ottimismo antropologico, che porta
a cogliere un valore spirituale in ogni cambiamento operato dal-
l'uomo, fino a valutare i cambiamenti in se stessi come prepa-
razione e anticipazione del Regno.
In questa linea si muove l'evoluzionismo cristologico di P.
Teilhard de Chardin, secondo il quale la storia è un continuo
ascendere verso il punto omega, Cristo, per mezzo del quale e
in vista del quale tutto è stato fatto (cfr. Col 1,16), in una "cri-
stogenesi" totale, che consente di superare l'antico conflitto fra
i "servitori del cielo" e i "servitori della terra": « In ultima analisi
il compimento ultraumano dell'evoluzione intravisto dal neou-
manesimo coincide concretamente con il coronamento dell'in-
carnazione atteso da tutti i cristiani... Il "verso l'alto" cristiano
si incorpora ali"'in avanti" umano. Ed ecco che di colpo la fe-
de in Dio ritrova, proprio nella misura in cui nella propria linfa
assimila e sublima la linfa della fede nel mondo, la sua totale
capacità di seduzione e di conversione » I3 . Un'analoga prospet-
tiva si ricava dalle premesse della "cristologia trascendentale"
di Karl Rahner: il movimento di autotrascendenza, insito nel
cuore dell'uomo e nella storia, troverà il suo pieno compimento
12
G. Thils, Teologia della storia, II ed. rifusa, Alba 1968, 76s. L'opera completa
era uscita nell'immediato dopoguerra: Théologie des réalìtés terrestres. I. Préludes, Paris-
Bruges 1947; II. Théologie de l'histoire, Paris-Btuges 1949. Nella stessa linea Cfr. M.
D. Chenu, Pour une théologie du travati, Paris 1955.
13
P. Teilhard de Chardin, L'avvenire dell'uomo, Milano 1972, 412. Cfr. G. H. Bau-
dry, Les grandi axes de l'eschatologie teilhardienne, in Mélanges de Sciences Keligìeuses
34 (1977) 213-235; 35 (1978) 37-71.
343
nell'incontro escatologico in cui l'« assoluto portatore di salvez-
za », il Cristo, lo adeguerà perfettamente. Intanto, grazie al fatto
che « il Logos di Dio ha fatto e sofferto la storia », è possibile
dire che « la storia stessa costruisce la propria dimensione defi-
nitiva; ciò che rimane è opera dell'amore concreto nella storia.
Essa rimane come vera e propria opera dell'uomo, non è un di-
stillato morale da materiali poi inservibili. Anche la storia si im-
merge nella definitività di Dio »14.
È tuttavia lo stesso Rahner che rileva come l'incontro del com-
pimento sia e resti asimmetrico: « Il regno di Dio, ciò che è de-
finitivo, che concluderà e "porrà termine" alla storia, è qualcosa
che verrà davvero... Tale situazione definitiva non esisterà sol-
tanto come stadio o risultato finale di una storia programmata
e attuata dall'uomo, ma sarà opera di Dio, anche se è possibile
— qui come in tutta la storia della natura e del mondo — pen-
sarla come l'a«fotrascendenza (divina, libera, semplicemente im-
prevedibile dal nostro punto di partenza) della storia »15.
L'eccedenza rivelata a Pasqua non deve essere vanificata: la po-
tenza della resurrezione non può venire equiparata al semplice
potere nascosto nell'uomo o nel mondo. La novità promessa nel
Risorto dai morti è novità vera, anche se essa è unita inscindi-
bilmente con la realtà del Crocefisso. L'ottimismo antropologi-
co deve fare i conti allora con questa ulteriorità divina, ma deve
anche misurarsi sulla verità più profonda dell'agire umano, ri-
velata dalla Croce: c'è nella storia un "mistero d'iniquità", che
non è possibile ignorare o minimizzare. Esso è frutto della col-
pa originaria e attuale, ma si lega anche a quella presenza mi-
steriosa, e tuttavia reale, che la Scrittura chiama « principe di
questo mondo ». « Crux probat omnia » (Lutero): la Croce è la
pietra di paragone su cui tutto si misura e appare nella sua ve-
ra grandezza e nella sua obiettiva miseria. Nessuna semplice con-
tinuità fra presente del mondo e futuro della promessa può es-
sere affermata, se si ignora lo scandalo della resistenza a cui si
è opposta la morte in Croce del Figlio di Dio: il "non ancora"
e il "già" si costruiscono insieme nella vittoria sulla dolorosa
presenza del male, che abita nel cuore dell'uomo e che devasta
la terra.
14
K. Rahner, Sulla problematica teologica della "nuova terra", in Id., Nuovi Saggi
III, Roma 1969, 665. Cfr. l'intero saggio: 653-668.
l
Ub., 664.
344
Diventa allora necessario concepire il rapporto fra il domani
escatologico e l'oggi dell'uomo e della natura in termini propria-
mente pasquali, e perciò dialettici, comprensivi tanto del mo-
mento della morte, quanto di quello della vittoriosa risurrezione.
L"'éschaton", significato e promesso nel Risorto per la perso-
na umana e per tutto il creato, sarà in un rapporto di "identità
nella contraddizione" con il presente del mondo, analogo a quello
che esiste fra il Vivente, risuscitato "al terzo giorno", e l'Umi-
liato del Venerdì Santo. Questo rapporto implica anzitutto la
negazione e la rottura, proprie della contraddizione: in tal sen-
so, il futuro di Dio non conferma, né confermerà, il peccato
del mondo; ne è e ne sarà, anzi, il giudizio. Il contenuto del-
l'''éschaton" sperato si pone qui come permanente "riserva esca-
tologica", critica nei confronti di ogni miope compimento mon-
dano, non tuttavia in modo pessimistico e semplicemente
negativo, ma nell'orizzonte positivo della speranza: « Le pro-
messe escatologiche della tradizione biblica — libertà, pace, giu-
stizia, riconciliazione — non possono essere privatizzate. Esse
spingono sempre di più alla responsabilità sociale. Certo queste
promesse non possono essere mai identificate con alcuno stato
sociale in qualunque maniera noi vogliamo descrivere e deter-
minare quest'ultimo. La storia del cristianesimo conosce abba-
stanza siffatte identificazioni e politicizzazioni dirette della
promessa cristiana. In esse viene tuttavia abbandonata quella
"riserva escatologica", grazie alla quale ogni stato storicamen-
te raggiunto della società si manifesta nella sua provvisorietà.
Sia però ben notato: nella sua provvisorietà e non nella sua in-
differenza! Questa "riserva escatologica" ci porta infatti non
già ad un rapporto negatore, bensì ad un rapporto critico e dia-
lettico nei confronti del presente storico »16.
Alla funzione critica, che il "non ancora" escatologico eser-
cita sul presente del mondo, si congiunge il compito positivo:
alla denuncia, l'annuncio. La vittoria di Pasqua sulla morte è
promessa di vita, in cui entra la "carne" dell'uomo e del mon-
do in tutto il suo spessore: sta qui la verità ineliminabile del-
l'ottimismo "incarnazionista". Ogni impegno per la crescita della
qualità della vita della persona umana e dell'ambiente in cui es-
sa vive è partecipazione alla potenza vittoriosa del Risorto, e
16
J. B. Metz, Sulla teologìa del mondo, Brescia 1971 2 , 113. Cfr. pure dello stesso
La fede, nella storia e nella società, Brescia 1978.
345
va perciò sostenuto da un'etica pasquale, che colga nel servizio
storico della promozione umana e nella responsabilità ecologi-
ca verso ogni creatura forme autentiche della sequela del Cri-
sto, e quindi vie regali di realizzazione del compimento nella
santità. La speranza escatologica diventa qui prassi liberatrice,
azione di trasformazione del presente per renderlo meno dissi-
mile dal futuro della promessa di Dio, anticipazione militante
dell"'éschaton": essa « non è un'evasione dalla storia ma opera
una chiara ed energica incidenza sul politico e sulla prassi so-
ciale... La speranza che vince la morte deve gettare le sue radi-
ci nel cuore della prassi storica; se non prende corpo nel presente
per portarlo più avanti, non sarebbe altro che un'evasione, un
"futurismo"... La proclamazione che "la vittoria che ha vinto
la morte è la nostra fede" sarà vissuta, senza evasioni, nel cuo-
re stesso della storia, all'interno di un unico processo di libera-
zione che porta questa storia alla sua pienezza: l'incontro
definitivo con Dio. Sperare in Cristo è, al tempo stesso, crede-
re nell'avventura storica; il che apre un campo vastissimo di pos-
sibilità all'amore e all'azione del cristiano »17.
Il rapporto fra futuro escatologico e presente del mondo vie-
ne illuminato, infine, dall'evento pasquale nel senso di un su-
peramento più alto: l'"éschaton" non solo critica e nega l'oggi
della storia nelle sue resistenze e negatività, non solo lo affer-
ma e lo qualifica nel suo processo positivo di liberazione e di
attuazione della giustizia sociale ed ecologica, ma lo supera del-
la stessa eccedenza del mistero di Dio rispetto alla Sua creazio-
ne. «La sola qualificazione conduce all'identificazione e al
livellamento; la critica soltanto si limita a porre una distanza
ed una contrapposizione. Con il "superamento" si dovrà inve-
ce giungere ad una sintesi fra i diversi enunciati antitetici »1S.
Questo superamento va inteso non solo come nuovo recupero
dei valori mondani, a cui Dio si è fatto solidale nell'incarnazio-
ne del Figlio, né soltanto come certezza di realizzazione della
speranza « che non delude », ma anche nel senso del futuro tra-
scendente: « La realtà di Dio e la sua autocomunicazione all'uomo
e al mondo rimangono in una differenza infinita con questo mon-
17
G. Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia 1972, 211.215s.245.
Dello stesso cfr. anche La forza storica deipoveri, Brescia 1981. Cfr. poi J. Alfaro, Spe-
ranza cristiana e liberazione dell'uomo, Brescia 1972.
18
D. Wiederkehr, Prospettive dell'escatologia, Brescia 1978, 261. cfr. tutto il capi-
tolo su « L'éschaton come qualificazione critica e superamento del presente »: 256-263.
346
do e con tutto ciò cui esso giunge nel suo movimento e in esso
diventa »19. E proprio questa eccedenza che costituisce la per-
manente riserva della speranza cristiana, e fonda una spirituali-
tà dell'attesa vigile e impegnata, che trova nella profondità
contemplativa ed eucaristica il suo nutrimento più vero: « Spe-
rare non è conoscere il futuro ma essere disposti, in un atteg-
giamento d'infanzia spirituale, ad accoglierlo come un dono. Ma
lo si accoglie nella negazione dell'ingiustizia, nella protesta per
i diritti umani conculcati e nella lotta per la pace e per la fra-
tellanza »20.
E questo rapporto dialettico fra mondo futuro sperato e mon-
do presente, che il Vaticano II ha voluto descrivere, facendo
suoi gli aspetti validi della tendenza "escatologista" e di quella
"incarnazionista": «L'attesa di una terra nuova non deve in-
debolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro re-
lativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell'umanità
nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adom-
bra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente
distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del regno di Cri-
sto, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordi-
nare l'umana società, tale progresso è di grande importanza per
il regno di Dio. E infatti i beni, quali la dignità dell'uomo, la
fraternità e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e
della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello
Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi
di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigu-
rati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e
universale»21. L'etica e la spiritualità che conseguono a que-
sta prospettiva potrebbero ricondursi a una duplice e insieme
unica fedeltà: fedele al mondo presente, il cristiano deve essere
non di meno fedele al mondo che deve venire. Il "già" della
salvezza lo impegna a costruire oggi, con i doni di Dio, il doma-
ni, organizzando la speranza nei giorni degli uomini e nella sto-
ria del mondo; ma il "non ancora", con la sua eccedenza,
nascosta nel mistero stesso della Trinità adorabile e santa, lo
stimola a non assolutizzare alcun compimento mondano, ad eser-
citare verso tutti e tutto la "riserva critica" della speranza
19
ré., 26i.
20
G. Gutierrez, Teologia della liberazione, o. e, 216.
21
Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes, 39.
347
più grande, a non perdere mai la fiducia nella finale vittoria di
Dio, e perciò della giustizia e dell'amore. La speranza della re-
surrezione si offrirà allora propriamente come la sola e autenti-
ca "resurrezione della speranza": essa denuncerà la miopia di
tutto ciò che, sperato, è meno di Dio; essa assumerà i valori
di carità e di pace, dovunque e comunque presenti nell'atto di
chi spera; essa aprirà al futuro della speranza che non muore,
e che è senso e patria per l'uomo e per il destino del mondo.
348
La fede ecclesiale ha vissuto e sperimentato questa certezza della
vita nella Trinità oltre la morte soprattutto attraverso l'espe-
rienza della comunione orante: « L'unione di coloro che sono
in cammino con i fratelli morti nella pace di Cristo non è mini-
mamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa,
è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali»22. La
"lex orandi" ha nutrito la "lex credendi" e ne è stata nutrita.
Pregare con i morti e per i morti, invocare l'intercessione di co-
loro che già sono presso il Signore vuol dire sperimentare la co-
munione in Cristo Risorto, che vince la morte.
È la riflessione antropologica che ha messo in questione —
soprattutto nel secondo millennio — questa certezza della fe-
de: l'obiezione nacque originariamente dall'ingresso nel mon-
do medioevale del pensiero aristotelico, secondo il quale l'uomo
è costituito in maniera inseparabile da anima e corpo, in modo
che l'una sta all'altro come la forma alla materia. Dalla recezio-
ne di questa idea si deduceva che la morte del corpo è insepara-
bilmente morte dell'anima, e ci si vedeva costretti a trasferire
la speranza nella vita eterna alla ricostituzione finale dell'unità
di anima e corpo nella resurrezione della carne. E in questo con-
testo che maturò la Bolla dogmatica di Benedetto XII Benedic-
tus Deus, del 29 gennaio 1336, che assume un decisivo rilievo
per aver riaffermato — in diretta risposta alle obiezioni — la
fede relativa alla sopravvivenza immediata dopo la morte23.
L'argomento aristotelico sembra peraltro corrispondere al dub-
bio legato all'antropologia semitica, in base alla quale l'uomo
è considerato sempre, nell'Antico come nel Nuovo Testamen-
to, una unità vivente: egli è contemporaneamente « anima » {ne-
fesh), « carne » {basar), « spirito » {mah) (cfr. ad esempio Gen 2,7;
Gb 34,14s; ecc). Per Paolo « carne » (odpc^) e « spirito » (nveOna)
sono l'uomo totale orientato contro Dio o aperto a Lui (cfr. ad
esempio Gal 5,16-24 e Rm 8,3ss; così pure « corpo »-oò>ua e
« anima »-\|/uxn> che si ritrovano insieme in lTs 5,23, non so-
no mai posti in contrasto). Non mancano, tuttavia, nei due Te-
stamenti segnali di un superamento dell'antropologia semitica:
l'anima diviene il soggetto responsabile della vita morale (cfr.
Sap 9,19s; 9,15), per cui si spera in una sua immortalità
22
Id., Costituzione Lumen Gentium, 49. Cfr. pure il n, 48 e Sacrosanctum Conci-
lium, 8.
23
DS 1000-1002. Cfr. quanto detto in proposito nel capitolo precedente. Cfr. pu-
re le affermazioni del Concilio di Lione (1274): DS 857.859.
349
beata (cfr. Sap 3,1-4; cfr. 4,7.14; 2,22). Si introduce l'idea di
un'uccisione del corpo, che non è uccisione dell'anima (cfr. Mt
10,28), di un disfacimento del corpo, «nostra abitazione sulla
terra », distinto dall'abitazione che riceveremo da Dio, « dimo-
ra eterna, non costruita da mani d'uomo, nei cieli » (cfr. 2Cor
5,1); si parla di un « abitare nel corpo » contrapposto all'essere
« esiliato » da esso per « abitare presso il Signore » (cfr. 2Cor
5,6-9). Anche in questi testi, tuttavia, è difficile riconoscere la
concezione platonica di un'anima prigioniera del corpo, desti-
nata a vivere pienamente solo dopo la liberazione da esso. Il
dato dell'antropologia biblica è insomma più complesso di ogni
semplificazione arbitraria 24 . Di esso fa comunque parte, come
elemento certo, l'idea della finale resurrezione della carne, in-
terpretata nel Nuovo Testamento a partire dal mistero pasqua-
le del Cristo, morto e resuscitato (cfr. ICor 15; cfr. poi ad
esempio Gv 5,28s; At 24,15; ecc.), e continuamente ribadita
nella simbolica della fede ecclesiale 25 .
Per conciliare il rifiuto di un'antropologia dualista, secondo
cui l'anima possa vivere separata dal corpo, con la fede biblica
nella resurrezione e nell'immediata vita con Cristo dopo la morte,
alcuni hanno proposto di superare del tutto l'idea di una "esca-
tologia intermedia", relativa allo stato dei defunti fra la morte
e il giudizio universale, a favore di una escatologia del compi-
mento immediato, inteso come "resurrezione nella morte".
« Non è un'anima senza corpo che trasmigra dal mondo per tro-
vare in Dio la sua patria ultima, ma è l'uomo intero, con tutto
il patrimonio delle sue azioni, a poter sperare nel proprio com-
pimento, l'uomo intero che è intessuto nel mondo e nella socie-
tà, e nella storia diventa in libertà colui che finalmente egli è
nella morte... Non abbiamo la necessità di sobbarcarci ancora
il peso di diverse ingenue rappresentazioni del tempo andato.
Non c'è più bisogno di dire: nella morte l'anima si separa dal
corpo e raggiunge Dio, alla fine della storia la seguirà poi, in
un certo senso, anche il corpo... Il cristiano spera che nella morte
avvenga la risurrezione. Risurrezione non nel senso che il cor-
24
Si accenna solo, qui, a questioni che appartengono propriamente all'antropolo-
gia biblica e teologica: cfr. ad esempio G. Barbaglio, Uomo, in Nuovo Dizionario di
Teologia Biblica, Milano 1988, 1590-1609.
25
Della resurrezione della carne parlano tutti i Simboli e le formule dogmatiche:
cfr. D.S 2.5.10-64.76 (simbolo Quicumque -pseudo-Athanasianum), 150 (Simbolo Niceno-
Costantinopolitano).
350
pò visibile venga trasformato... Risurrezione significa piutto-
sto che nella morte l'uomo intero, con il suo mondo concreto
e la sua storia, riceve da Dio un nuovo futuro »26. Questa ipo-
tesi, che vorrebbe essere fedele all'insieme complesso dei dati
della Scrittura e della fede ecclesiale, lascia in realtà aperti i pro-
blemi che vorrebbe risolvere: in primo luogo, se il corpo resta
abbandonato alla morte, non è certo la persona nella sua inte-
gralità che risorge nella morte. Sia pure con diverso linguaggio,
si continua a postulare un corpo corruttibile e una sopravvivenza
personale. In secondo luogo, sembra scomparire la distinzione
fra il "già" dell'essere con Cristo dopo la morte, e il "non an-
cora" dell'essere con Lui nell'universale resurrezione della car-
ne: questa obiezione è cosi avvertita, che anche alcuni sostenitori
del superamento dell'escatologia intermedia ricorrono all'idea
di un "aevum" (G. Lohfink) o di una incompletezza, che pre-
parerebbero la trasformazione gloriosa del mondo alla fine del
tempo: «Noi potremo vivere l'elemento corporale della nostra
risurrezione nel suo pieno sviluppo, quando il mondo sarà en-
trato nello stato di glorificazione»27. Infine, resta l'impressio-
ne che i sostenitori dell'idea di "resurrezione nella morte"
abbiano soprattutto difficoltà ad accettare la possibilità di una
temporalità che si estenda oltre il tempo della vita mortale: in
questo essi sono legati al pensiero di ispirazione platonica mol-
to più di quanto siano disposti a riconoscere.
E invece forse proprio a partire da un ripensamento dell'i-
dea di "temporalità", che 1"'escatologia intermedia" si lascia
interpretare: il tempo fa parte della creazione; ma la creazione
non si esaurisce con l'orizzonte spazio-temporale della conoscenza
umana28. Come esiste un mondo creato di ordine spirituale,
cosi nulla vieta che esista un "tempo" della creatura spirituale,
analogo al tempo storico, caratterizzato come questo dalla di-
mensione dell'interiorità. Un'idea di questo "tempo" può es-
sere data dallo iato del Sabato Santo nel mistero pasquale: Cristo
non risorge immediatamente, "nella morte", ma «dalla mor-
te » e dal regno dei morti, dove egli discende (cfr. lPt 3,19-21),
26
G. Greshake, Breve trattato sui Novissimi, Brescia 19822, 62.66. Dello stesso cfr.
Auferstehung der Toten. Ein Beìtrag zur gegenwàrtigen theologìschen Diskussion uher die
Zukunft der Geschìchte, Essen 1969, e, in collaborazione con G. Lohfink, Naherwar-
tung Auferstehung Vnsterblichkeìt, Freiburg i. B. 1975.
27
L. Boros, Esistenza redenta, Brescia 1966, 48.
28
Cfr. quanto detto supra, cap. 17.
351
« vivo nello Spirito », mentre il suo corpo giace nella tomba. Egli
entra cosi in un tempo al di là del tempo, che lo porta a incon-
trare nella profondità dell'essere, avvolta dal mistero di Dio,
« gli spiriti, che attendevano in prigione ». In questa missione,
il Figlio, eternamente presente presso il Padre, agisce come il
redentore storico, la Parola entrata nella carne, Verbo pronun-
ciato nel tempo, che va ad estendere nel tempo al di là del tem-
po l'efficacia della Sua redenzione. I morti, che egli incontra,
vivono anch'essi in questo tempo oltre il tempo della storia, senza
il quale molte delle affermazioni neotestamentarie riguardo al-
la condizione dei morti risulterebbero incomprensibili29. Que-
sto tempo, che si potrebbe chiamare "spirituale", o anche
semplicemente "umano" in rapporto all'idea agostiniana del
"tempo memoria" 30, stabilisce una continuità fra l'interiorità
del mondo visibile, rappresentata dal tempo storico, e l'inte-
riorità della vita con Cristo oltre la morte. Anche questo "tem-
po spirituale" partecipa, come il tempo storico, alla "pro-
venienza", alla "venuta" e ali"'avvenire" dell'evento eterno
dell'Amore: esso è nascosto con Cristo in Dio. La "provenien-
za" si affaccia nel fatto che colui che è morto è stato consegna-
to alla morte dal Padre; la "venuta" si coglie nel suo essere
solidale con Cristo, unito a lui nell'accoglienza della donazione
dell'essere; l'"avvenire" si presenta nella partecipazione all'a-
zione dello Spirito, che mentre unisce colui che è morto al Dio
dei viventi, lo apre al futuro della finale riconciliazione del mon-
do, a cominciare da quella con il proprio corpo, che sarà alla
fine chiamato in modo nuovo alla vita dal Creatore di tutto ciò
che esiste. « L'uomo interiore, spogliato dal corpo, non è più
solo, egli non conduce più questa esistenza d'ombra che era il
solo oggetto di attesa dei giudei e che non poteva essere consi-
derata come una vita. Il cristiano che la morte ha privato del
corpo è già stato trasformato da vivo dallo Spirito Santo, già
è compreso nella risurrezione (Rm 6,3s; Gv 3,3s), se è stato dav-
vero rigenerato, da vivo, dallo Spirito. Lo Spirito è un dono
che non si perde morendo. Il cristiano morto possiede lo Spiri-
to, sebbene ancora dorma e attenda sempre la risurrezione del
29
Cfr. in proposito O. Cullmann, Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti?
La testimonianza del Nuovo Testamento, Brescia 1970, a proposito di ITs 4,13ss e in
polemica con l'idea "prestata" da K. Barth a Paolo della trasformazione del corpo car-
nale al momento della morte, come se i morti fossero fuori del tempo.
30
Cfr. J. Ratzinger, Escatologia, o. e, 193.
352
corpo che sola gli conferirà la vita piena e vera» 31 . La fedeltà
del Dio trinitario, che chiama la creatura umana ad esistere, non
l'abbandona dunque nella morte: non solo le promette in Cri-
sto la vita nella finale resurrezione, ma la introduce anche do-
po la morte in questo "tempo spirituale", rivelato a Pasqua dal
soggiorno del Signore fra i morti.
Questo modo di intendere 1'"escatologia intermedia" non si
oppone all'uso del concetto di "anima": se con esso si vuole
intendere la personalità dell'uomo, in quanto permane nella vi-
ta e, con Cristo in Dio, anche oltre la morte fino al finale ricon-
giungimento col corpo ri-creato dei risorti, non si vede quale
difficoltà questo linguaggio comporti. Tuttavia, sarà necessa-
rio evitare ogni confusione con la concezione aristotelica, che
renderebbe impensabile proprio quel "tempo spirituale", tipi-
co dell"'escatologia intermedia": è significativo notare in pro-
posito che Tommaso d'Aquino, pur assumendo la definizione
aristotelica dell"'anima forma corporis", l'ha caricata del signi-
ficato teologico, che qui è stato spiegato32. Usando il termine
"anima" si dovrà inoltre sfuggire alla possibile equivocazione
in senso platonico, che quasi opponga l'interiorità spirituale del-
l'uomo alla sua esteriorità corporea, lasciando in ombra quel-
l'unità della persona, che è patrimonio della fede biblica,
esplicitamente messo a fuoco nelle controversie cristologiche dei
primi secoli. È per questo, forse, che si è oggi diventati cauti
nell'uso della parola "anima", preferendo piuttosto parlare della
sopravvivenza "personale" della creatura umana, ammessa, già
dopo la morte, a partecipare dell'intreccio misterioso e vivifi-
cante delle relazioni delle Persone divine.
L"'escatologia intermedia" si situa, dunque, come la vita e
come la morte, nell'orizzonte della Trinità: sono le relazioni di-
vine la condizione trascendente di possibilità di una vita oltre
la morte dell'essere personale creato; ed è l'evento pasquale la
piena rivelazione storica di questa possibilità data all'uomo di
trascendere la morte e di entrare nella vita. Con questo non si
vuole affermare che solo il credente vive con Cristo al di là del-
l'esistenza terrena: in forza dell"'ontologia trinitaria" quanto
è stato rivelato a Pasqua è chiave di comprensione dell'intero
31
O. Cullmann, Immortalità dell'anima o risurrezione dei morti?, o. e, 53.
32
Cfr. per questa interpretazione del pensiero di S. Tommaso J. Ratzinger, Esca-
tologia, o. e, 158ss.
353
esistere umano e dell'universo creato. A tutti è data la possibi-
lità di entrare nella tensione fra il "già" e il "non ancora"
dell"'escatologia intermedia", anche se la condizione del "tempo
spirituale" per alcuni sarà già di beatitudine, per altri di dan-
nazione. Per i credenti, incorporati al Corpo ecclesiale di Cri-
sto, questa condizione sarà comunque segnata dal conforto della
"comunione dei santi", che, radicata nella vita delle relazioni
divine, consente la comunicazione interpersonale nella fede, nella
speranza e nella carità, espressa e nutrita dalla preghiera. In que-
sto senso, il tempo dell"'escatologia intermedia" si presenta come
una forma del tempo escatologico della Chiesa in cammino, pel-
legrinante verso l'"éschaton" di tutta la creazione in Cristo.
La comunione ecclesiale, icona della comunione trinitaria, ab-
braccia così il tempo storico, il tempo al di là del tempo e rag-
giunge l'eterno del Suo Dio, origine, dimora e patria dell'uomo
e del mondo.
354
libertà dell'Eterno. Anche partendo dalla rivelazione, perciò,
P"éschaton" resta avvolto di silenzio: l'ulteriorità e la profon-
dità del nuovo non sono risolte, anche se ciò che è intravisto
è già nutrimento sufficiente della speranza militante e dell'in-
vocazione credente.
E F "escatologia pasquale" che illumina i tratti accessibili degli
ultimi tempi: a partire dall'evento della risurrezione del Croce-
fisso anche la fine è letta in chiave trinitaria. « Cristo è risusci-
tato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a
causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà an-
che la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo,
così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo
ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli
che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il
regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato
e ogni potestà e potenza... E quando tutto gli sarà sottomesso,
anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomes-
so ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti » (ICor 15,20-24.28;
cfr. pure ad esempio 1 Ts 4,14-17). In Colui, per mezzo del
quale e in vista del quale tutto è stato creato, verrà anche ad
abitare ogni pienezza, nell'universale riconciliazione del crea-
to: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza
e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando
con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di lui, le cose che
stanno sulla terra e quelle nei cieli » (Col l,19s). Si compirà co-
sì « il mistero della Sua volontà... il disegno cioè di ricapitolare
in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra »
(Ef l,9s). A questo compimento non potrà essere estraneo lo
Spirito Santo, « il quale è caparra della nostra eredità, in attesa
della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato, a
lode della sua gloria» (Ef 1,14).
E in forza di questa speranza, fondata nell'evento trinitario
di Pasqua, che la simbolica della fede può guardare, attraverso
la Pasqua temporale, alla Pasqua definitiva ed eterna: « Igno-
riamo il tempo in cui avranno fine la terra e l'umanità, e non
sappiamo il modo in cui sarà trasformato l'universo. Passa cer-
tamente l'aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sap-
piamo, però, dalla rivelazione che Dio prepara una nuova
abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui
felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che
salgono dal cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli
355
I t
di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato nella
debolezza e nella corruzione rivestirà l'incorruzione; e restan-
do la carità con i suoi frutti, sarà liberata dalla schiavitù della
vanità tutta quella realtà, che Dio ha creato appunto per l'uo-
mo» 33 . In Cristo, morto e risorto, i tratti del futuro assoluto
del mondo, carichi di oscurità e incertezza, si colorano della spe-
ranza, fondata nella rivelazione della Trinità.
« I nuovi cieli e la nuova terra » dell'atteso compimento esca-
tologico (cfr. Is 65,17-21; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1) vanno dun-
que intesi alla luce dell'evento trinitario pasquale: essi veicolano
l'idea di una partecipazione nuova e piena dell'uomo e del co-
smo all'eterno evento dell'amore, che è la Trinità Santa. La realtà
creata sarà totalmente svelata a se stessa nella vittoria di Cri-
sto, che è il giudizio finale (cfr. Mt 25,3 lss; 2Ts 2,8; ICor
15,24-28; ecc.): in Colui, « che verrà a giudicare i vivi e i mor-
ti »34, tutto ciò che è stato chiamato ad esistere sarà posto sot-
to lo sguardo della amorosa sovranità di Dio, distinto da Lui
e a Lui unito nella potenza dello Spirito Santo. Tutto entrerà
così nella definitiva e nuova partecipazione al dinamismo delle
relazioni divine, nell'insondabile e incancellabile unità dell'E-
terno, Dio "tutto in tutti". In questo evento escatologico con-
sisterà propriamente la "risurrezione finale", che investirà ogni
"carne", abbracciando, attraverso la corporeità, l'intera dimen-
sione spazio-temporale del creato35.
La partecipazione al dinamismo dell'Amore eterno si lascia
intravedere anzitutto come ingresso nell'unità divina: è la par-
tecipazione allo shalom, che è pienezza di vita personale, co-
munitaria e cosmica. « L'unità di Dio, che potremmo senz'altro
qualificare come l'unico "dogma" d'Israele, non è né un'unità
di tipo matematico, né di tipo quantitativo, da intendersi come
rigida uniformità, ma piuttosto un'unità viva e dinamicizzan-
33
Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium etspes, 39. Sulla fine del tempo dal
punto di vista storico-filosofico cfr. J. Pieper, JJber das Ende der Zeit. Etne geschichts-
philosophische Betrachtung, Miinchen 19803. Per l'aspetto biblico-teologico, oltre ai vari
testi di escatologia citati, cfr. ad esempio AA. W . , Le retourdu Chrìst, Bruxelles 1983.
34
Cfr. ad esempio il cosiddetto Simbolo Apostolico: DS 10. Quando si perse il senso
gioioso e trionfale del giudizio finale fu necessario aggiungere l'inciso « con gloria »:
cfr. ad esempio il Simbolo di Nicea-Costantinopoli: DS 150.
35
L'idea della "resurrezione della carne", come s'è detto (nota 25), è presente am-
piamente nella simbolica della fede ecclesiale, dove viene caratterizzata come evento
escatologico (cfr. ad esempio DS 72.76.859.1002; LG 48) e universale (cfr. DS
76.540.801.859.1002), che implica l'identità corporea dei risorti (cfr. DS
72.76.540.797.801.859.1002).
356
te, che per sua stessa essenza mira all'unificazione del genere
umano nella riconciliazione di uno shalom universale »36. Dal
punto di vista della fede cristiana l'unità essenziale del Dio vi-
vo è « il suo amore in eterno movimento di uscita da sé, come
Amore amante, di accoglienza di sé, come Amore amato, di ri-
torno a sé e di infinita apertura all'altro nella libertà, come Spi-
rito dell'amore trinitario: l'essenza del Dio cristiano è l'amore
nel suo processo eterno, è la storia trinitaria dell'amore, è la
Trinità come storia eterna di amore, che suscita e assume e per-
vade la storia del mondo, oggetto del suo puro amore »37. Par-
tecipare dell'unità divina in modo nuovo e — per quanto
possibile al limite della creatura — perfetto, vorrà dire allora
vivere una profonda unificazione: sarà anzitutto la persona a
ritrovare se stessa nella pienezza della sua unità psico-somatica,
ricevendo da Dio il corpo della sua identità storica, e sperimen-
tando, al livello più alto, la comunione interpersonale che la uni-
sce nei vincoli della carità agli altri esseri umani. Questa
corporeità dei risorti non può essere certo pensata come sem-
plice ripresa di quella posseduta nel tempo storico, ma non de-
ve neanche essere concepita in assoluta differenza da essa: come
suggerisce Paolo, in analogia al corpo resuscitato del Signore,
questa nuova condizione corporea va intesa in termini di iden-
tità nella contraddizione con la precedente, si che il soggetto
personale si riconosca e sia riconosciuto in essa, anche se ormai
al di fuori dei vincoli limitanti della condizione spazio-temporale
(cfr. ICor 15,35ss). Anche l'unificazione delle persone nella co-
munione dovrà essere concepita in continuità e novità con quella
possibile nel tempo storico: in particolare, la comunione eccle-
siale — che nel tempo è l'icona più fedele della Trinità — si
manifesterà pienamente nella condizione definitiva del Regno,
che in essa è presente sotto forma di germe e di mistero. Que-
st'unificazione dei viventi non potrà non estendersi ad abbrac-
ciare la creazione intera, che nella storia « geme e soffre nelle
doglie del parto » (Rm 8,22; cfr. l'intero passo: vv. 18ss): lo sha-
lom della partecipazione all'unità divina è festa della creazione
tutta, armonia e gioia cosmica, che solo la metafora dell'impos-
sibile riesce a evocare: « Il lupo dimorerà insieme con l'agnel-
36
P. Lapide in P. Lapide - J. Moltmann, Monoteismo ebraico - dottrina trinitaria cri-
stiana. Un dialogo, Brescia 1982, 14.
37
B. Forte, Trinità come storia, Milano 1985, 143. Cfr. pure la trattazione sul fu-
turo trinitario della storia: ivi, 204ss.
357
lo, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leon-
cello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca
e l'orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro pic-
coli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si tra-
stullerà sulla buca dell'aspide; il bambino metterà la mano nel
covo di serpenti velenosi. Non agiranno più iniquamente né sac-
cheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la saggezza del
Signore riempirà il paese come le acque ricoprono il mare » (Is
11,6-9; cfr. pure 65,25).
I contenuti della speranza assoluta vengono a precisarsi ulte-
riormente, se si considera la partecipazione nuova e definitiva
delle creature al dinamismo distintivo delle relazioni divine: l'in-
contro definitivo col Padre, origine pura ed assoluta di tutto
quanto esiste, imprimerà in ogni essere creato una nuova sorgi-
vità. Ciascuna creatura sarà finalmente e pienamente se stessa,
sorgente di vita e di amore secondo che le è stato dato dalla
silenziosa Origine: nei termini della speranza biblica questa nuo-
va e perfetta originarietà di tutti e di ciascuno è chiamata ' 'giu-
stizia" (cfr. ad esempio Is 41,2 in ebraico; 45,8; Mi 6,1-8; ecc.).
Ad essa si affiancherà la nuova e perfetta recettività, che l'in-
contro col Figlio imprimerà in ogni essere: ciascuno sarà final-
mente pienamente accogliente dell'altro, ospitale in un mistero
di gratitudine, che solo l'eterno Amato può partecipare. A que-
sta reciproca e perfetta accoglienza il linguaggio biblico dà il
nome di "riconciliazione" (cfr. ad esempio Col 1,20). "Giusti-
zia" e "riconciliazione" si rapporteranno nell'incontro fecon-
do della loro unità e della loro distinzione: sarà questa la "pace"
e insieme la "libertà", che lo Spirito Santo comunicherà in pie-
nezza alle creature nell'incontro del compimento perfetto. Cia-
scuno potrà vivere la gioia dell'unità con tutto e con tutti (cfr.
Os 2,20; Is 11,6; ecc.): e questo, lungi dal togliergli la libertà,
gliela farà sperimentare nella maniera più perfetta: « Dove c'è
lo Spirito del Signore c'è libertà » (2Cor 3,17). In quanto par-
tecipazione al dinamismo senza fine delle relazioni divine, i be-
ni escatologici così evocati saranno oggetto di una accoglienza
sempre nuova: tutt'altro che stasi mortale, la vita eterna nella
Trinità sarà pienezza di un dinamismo senza fine, in cui il mondo
dei viventi, partecipe della storia eterna dell'amore, esprimerà
l'opera perfetta della "nuova creazione" del Dio vivente.
L'insieme dei beni escatologici — giustizia, riconciliazione,
pace e libertà — si effonderà sulla creatura personale secondo
358
la recettività, che la sua storia di accettazione o di rifiuto avrà
maturato in lei: qui si percepisce in tutta la sua finale dramma-
ticità la possibilità di una dannazione eterna, che separa defini-
tivamente la persona dalla capacità di amare, in cui solo ormai
essa sa di poter trovare se stessa e la sua felicità. Eppure, senza
lo sfondo della possibilità della tragedia dell'inferno, tutta la
visione di speranza che è stata appena evocata, partendo dalla
fede pasquale, si risolverebbe in una fantasia priva di serietà,
in una fin troppo facile proiezione del desiderio. Solo il dram-
ma della libertà, solo l'essere arduo della speranza, unito alla
promessa certa che essa resta possibile a conseguirsi, dà spesso-
re storico e dignità alla rappresentazione della bellezza del-
l'"éschaton". Lungi dall'essere evasione consolatoria, essa è og-
getto della promessa pasquale, e perciò contenuto della fonda-
ta speranza, che impegna il cuore e la vita in un'etica e in una
spiritualità di responsabilità piena verso Dio, verso gli altri uo-
mini e verso il mondo. La patria dell'universo intero nella Tri-
nità, il mondo intero come patria di Dio, "tutto in tutti", non
è sogno che fugge il presente, ma orizzonte che stimola l'impe-
gno e dà ad ogni essere il sapore della dignità, al tempo stesso
grande e drammatica, che gli è stata donata.
359
SOGLIA
361
Al termine del cammino, soglia di nuovi pensieri e, soprat-
tutto, di nuova operosità credente, speranzosa e amante, il di-
scorso si fa riconoscimento e confessione di quel Dio tre volte
santo, che si è offerto nella Sua rivelazione come il mistero del
mondo, che tutto avvolge e pervade nella Sua trascendenza in-
finita. Con tutte le creature, a causa loro e attraverso di loro,
diviene possibile con nuova consapevolezza cantarne la gloria,
e insieme confessare l'impegno e la responsabilità della vita e
del cuore:
Altissimu onnipotente bon signore
tue so le laude la gloria e Vhonore
et onne benedictìone
Ad te solo altissimo se konfano
et nullu homo ène dignu te mentovare
362
Laudato si mi signore per quelli ke perdonano
per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et trìbulatione
beati quelli kel sosterrano in pace
ka da te altissimo sirano incoronati
* Dal codice 338 della Biblioteca Comunale di Assisi, dove il « Cantico delle creature »
di san Francesco è preceduto da queste parole: « Incipiuntur laudes creaturarum quas
fecit beatus franciscus ad laudem et honorem dei, cum esset ìnfirmus apud sanctum
damianum ».
363
INDICE DEI NOMI
365
Colombo G. 61. Fries H. 61. 96. 123.136.143. 148. 188.
Comte A. 27. Frohschammer J. 134.
Congar Y. 23. 153. 159.
Conzelmann H. 341. Gadamer H.G. 113-120.
Coppens J. 312. Ganoczy A. 211.
Costa F. 84. 96. Geffré C. 187.
Costantino 2ò. Gentili E. 199.
Crocco A. 21. Gibellini R. 302.
Cullmann O. 31. 307. Ò52. 35). Gilson E. 20.
Gioacchino da Fiore 21-25. 33. 34.
Daniélou J. 17. Giovanni della Croce (S.) 61.
Dartigues A. 61. Giovanni XXII 329.
Dauenhauer B.P. 87. Giovanni Paolo II 280.
Del Zotto B. 285. Gisel P. 211. 233. 248. 251. 268.
De Negri E. 41. 290. Goffi T. 199.
Descartes R. 201. 202. 289. Gregorio Nazianzeno (S.) 66.
Di Napoli G. 21. Gregorio Nisseno (S.) 334.
Dionigi l'Areopagita 64. 67. 72. Grelot P. 216. 312. 324.
Dodd C.H. 306. 341. Greshake G. 309. 351.
Drewermann E. 204. Grillmeier A. 109.
Dubarle A.-M. 276. Gross H. 212.
Dubos R. 205. Gross J. 276.
Ducquoc C. 159. 175. 257. Grundmann H. 23.
DufortJ.M. 309. Guardini R. 309.
Dulles A. 61. Guelluy R. 211.
Gùnther A. 134.
Gutierrez G. 346. 347.
Eicher P. 61. 257. Guzzetti G.B. 199.
Eichrodt W. 122.
Eliade M. 10-12. 15. Haag H. 264.
Endo S. 86. Habermas J. 26.
Eutiche 110. Haring B. 199.
Evdokimov P. 153. 159. Hart T. van der 262.
Hegel G.W.F. 26. 27. 28. 41-44. 47.
Fabro C. 190. 268. 49. 50. 53. 54. 95. 104. 165. 202.
Faricy R. 199. 233. 267. 289. 290. 291. 292.
Festorazzi F. 216. Heidegger M. 74-84. 119. 147. 165.
Feuillet A. 231. 170. 173. 201. 267. 269.
Filippi A. 199. Hemmerle K. 267. 268. 270.
Fisichella R. 61. 187. Hermes G. 134.
Flick M. 211. 276. Heschel A.J. 218. 251. 253. 254.
Foerster W. 227. 283
Forte B. 21. 40. 55. 58. 65. 67. 84. Hirsch-Reich B. 22.
103. 108. 109. 111. 122. 128. 130. Hocedez E. 134.
146. 148. 152.153.154.158.175. Horkheimer M. 5. 29. 147. 264. 292.
177. 181. 191. 228. 243. 254. 257. Hulsbosch A. 211.
289. 296. 299. 302. 304. 308. 312. Humboldt W. v. 115. 118.
313. 317. 340. 341. 357. Husserl E. 170.
Francesco (S.) 24. 284. 285. 363.
366
Ignazio di Antiochia (S.) 56. 58. Maesschalck M. 45.
Ignazio di Loyola (S.) 281. 282. 285. Malka S. 170.
Innocenzo III 235. Manaranche A. 61.
Ireneo di Lione (S.) 279. Mancini I. 301.
ManigueJ.P. 310.
Jacob E. 122. Manser J. 324.
Jaspers K. 96-100. Marinelli F. 22. 242.
Jensen O. 199. Marion J.L. 82. 83.
Jungel E. 64. 69. 71. 147. 160. 162. Marrou H.-I. 20.
324. Marsch W.-D. 309.
Kant I. 32 Martelet G. 276. 309.
Kasemann E. 23. Martirani G. 199.
Kasper W. 17. 18. 34. 45. 46. 142. Masi G. 76.
144. Masini F. 14.
Kehl M. 309. Mazzarella E. 78.
Kern W. 61. 236. 237. Melchiorre V. 324.
Kierkegaard S. 100. 190. Messori V. 324.
Klein W.M. 324. Metz J.B. 34. 164. 307. 345.
Knauer P. 61. Miccoli P. 26.
Konrad F. 61. Miegge G. 298.
Korosak B.J. 309. Milano A. 16.
KremerJ. 324. Miller A.J. 324.
Krolzik U. 204. Mirri E. 291.
Kummel W.G. 317. Moioli G. 134. 309.
Kving H. 309. MoltmannJ. 18. 21. 34. 199. 203.
211. 248. 284. 296. 297. 299. 302.
Ladd G.E. 309. 303. 304. 307. 309. 312. 320. 339.
Lafont G. 310. 357.
Lamennais F. de 144. Montanari M. 14.
Lapide P. 357. Moran G. 61.
La Torre M.A. 199. Moriconi B. 333.
LatourelleR. 61. 122. 123. 137. 138. Mottu H. 21. 23. 24.
148. Muhlen H. 153. 175.
Le Goff J. 333. Mura G. 170.
Lenoble R. 199. Mussner F. 227.
Lentini A. 281. Myers N. 200.
Léon-Dufour X. 324.
Lessing G.E. 175. 177. Neher A. 85-92. 125.
Lévinas E. 30. 91. 164. 170-174. Neri U. 216.
Liedke G. 204. Nestorio 106. 107. 110.
Loewenich W. v. 84. Niebuhr A. 30.
Lohfink G. 351. Nietzsche F. 13. 14. 79.
Lorenz K. 282. Nocke F.-J. 309. 342.
Loretz O. 216.
Lorizio G. 310. Oberti E. 41.
Lowith K. 9. 13. 14. 20. 25-29. 206. O'Collins G. 61. 187.
Lubac H. de 21. 23. 61. Oeing-Hanhorf L. 267.
Lutero M. 83. 84. 344. Origene 65. 334.
367
Pachimere 64. Schillebeeckx E. 175. 186. 188.
Pannenberg W. 15. 18. 34. 40. 131. Schiller F. 290.
137. 297. 304. Schleiermacher F.D. 168. 296.
Panteghini G. 211. 342. Schiette H.R. 61.
Parmenide 213. Schmalenberg E. 324.
Penati G. 91. Schmaus M. 309.
Penzo G. 84. Schmidt W.H. 216.
Petrosino S. 170. Scholem G. 248.
Piana G. 199. Schoonenberg P. 211.
Picard M. 87. Schultz H.J. 164.
Pieper J. 356. Schweitzer A. 282. 297.
Platone 11. 46. 75. 114. 115. 118. Scilironi C. 76.
213. Seckler M. 61. 236.
Plotino 20. 238. Sequeri P.A. 309.
Pottmeyer H.J. 61. Sieger Derr Th. 199.
Pozo C. 304. 309. 342. Speyr A. v. 242.
Staniloae D. 282.
Quarello E. 309. Steiner G. 87.
Stòckle B. 146. 211.
Rad G. v. 122. 125. 216. 219. 312. Suarez F. 268.
Rahner K. 33. 54. 55. 61. 152.
164-169.174. 262. 308. 309. 324.
339. 343. 344. Tavard G. 262.
Ratzinger J. 61. 146. 309. 325. 329. Teilhard de Chardin P. 33. 343.
333. 342. 352. 353. Testa B. 61.
Raurell F. 279. Thielicke H. 324.
Reeves M. 22. Thils G. 343.
Regina U. 84. Thomas L.V. 324.
Régnon Th. de 153. Tiezzi E. 200.
Renan E. 296. Tommaso d'Aquino (S.) 5. 21. 22.
Rendtorff R. 15. 40. 65. 66. 71. 110. 116. 139. 147.
Rendtorff T. 15. 40. 156. 214. 236. 237. 242. 250. 255.
Ritschl A. 296. 264. 268. 353.
Rizzi A. 211. Tondelli L. 22.
Rondet H. 309. Torres Queiruga A. 61.
Ròper A. 169 Trapé A. 20.
Rosenzweig F. 30. Troeltsch E. 295.
Rossi P. 26. 202.
Rovatti P.A. 32. Vaccaro L. 199.
Rudoni A. 309. Vagaggini C. 280.
Ruggieri G. 40. 61. Vanzan P. 164.
Ruiz Arenas O. 61. Vattimo G. 32. 75. 79. 113. 119.
Ruiz de la Pena J.L. 211. 238. 309. 294.
316. 321. 334. Vergés S. 211.
Vico G.B. 28.
Saint-Exupéry A. de 159. Villani A. 293.
Sansonetti G. 113. Vitiello V. 75.
Scheffczyck L. 211. 233. Volta G. 136.
Schelkle K.H. 317. Voltaire 27. 264.
Schelling F.WJ. 45-49. 50. 233. Vorgrimler H. 309.
368
Waldenfels H. 61. Wilckens U. 15. 40.
Weber M. 205. Wolff H.W. 216.
Weiss J. 297.
Werner M. 24. Yannaras C. 84.
Westermann C. 211. 216. 220. 222.
225. Zahrnt H. 96.
White L.Jr. 204. 205. Zarathustra 13. 14.
Wiederkehr D. 309. 346. 347. Zedda S. 317.
369
INDICE GENERALE
Introduzione pag. 5
1. Per una teologìa della storia » 9
a) Il mito dell'eterno ritorno » 10
b) La concezione biblica della storia » 15
e) La "teologia della storia" e le sue forme » 19
d) La moderna "filosofia della storia" » 25
e) Verso quale teologia della storia? » 29
PARTE PRIMA
RIVELAZIONE
IL SILENZIO
371
4. Il Silenzio dell'essere pag. 74
a) M. Heidegger, "pastore dell'essere" » 74
b) La "svolta" verso l'ascolto » 75
e) Il silenzio dell'essere come spazio del Sacro? » 78
6. Ascoltare il Silenzio » 93
a) In ascolto del Silenzio » 93
b) "Fede filosofica" e "fede rivelata": in dialogo
con K. Jaspers » 96
LA PAROLA
372
10. Accogliere la Parola pag. 142
a) "Rivelazione naturale" e "rivelazione storica" » 142
b) Apertura al Mistero e "segni di credibilità" » 146
e) "Avvento della donazione" e "auto-destina-
zione" dell'uomo » 149
L'INCONTRO
373
PARTE SECONDA
INIZIO
15. Nella crisi ecologica pag. 197
a) La crisi ecologica » 198
b) Le ragioni della crisi » 201
e) Le responsabilità della visione teologica del
mondo » 204
d) Verso una teologia trinitaria della creazione » 207
PARTE TERZA
COMPIMENTO
18. Nella crisi del senso » 289
a) La parabola della modernità e il problema del
senso » 289
374
b) Alla ricerca del senso perduto: la riscoperta del-
l'escatologia pag. 295
e) Verso un'escatologia pasquale: la Trinità come
senso e come patria » 304
Soglia » 361
375
Stampa: 1991
Società San Paolo, Alba (Cuneo)
Printed in Italy
The challenges confronting the idea of a 'teologia della storia' include dealing with historical inadequacies and philosophical contradictions intrinsic to Enlightenment-driven narratives. These challenges derive from the need to remain open and free from ideological constraints, rooted instead in the promise and anticipation inherent in divine revelation. Theologies must navigate the secularization of history while maintaining a teleological and eschatological focus on the divine encountering humanity over time, thereby confronting modernity's ambition for total explanation without acknowledging God's ultimate transcendence .
The concept of 'Dimora nella Trinità' in Source 10 integrates creation and the Creator by presenting the Trinitarian God as both the origin and continuous dwelling place of the universe. Creation's ongoing existence, energy, and vitality originate from the eternal love of the Trinitarian union, where every creature and cosmic dynamic is rooted in divine relationships. This dynamic also reflects the Paschal mystery, highlighting creation as an expression of the Trinity's love, which sustains and continually renews the cosmos .
Source 7 critiques the interaction between plenitude and limitation within the concept of revelation by illustrating how the eternal Silence and the generative Word interact within their mutual death and life. The source emphasizes that revelation is not merely the verbal expression of divine truth but is rooted in an intrinsic relationship where silence and the verbal unite and transcend into deeper meaning. This revelation reflects God's immanent actions (Word) and transcendence (Silence), highlighting the need for human openness to understand beyond worded revelation .
Source 6 offers insights into the divine Silence and the Word by presenting the divine Silence as the original and eventual rest of creation. This Silence serves as both the origin, providing the primordial ground for creation, and the destination, representing the divine mystery into which all creation aspires to return. The Word is the action within time that carries the essence of the Silence, speaking creation into being while continuously referring back to the Silence, thus bridging earthly existence with the divine origin and conclusion .
Source 2 describes the limitations of the Enlightenment's approach to history and ideology by highlighting its failed effort to remove fear and empower humanity, leading to a world characterized by 'triumphal disaster.' The critique focuses on the Enlightenment's inability to embrace the novel and unforeseeable future, as it remains a construct reliant on presently available and calculable possibilities. It also points out the disillusionment with ideological violence and its clash against reality's resistance .
The concept of 'teologia della storia' in Source 3 encompasses an understanding that starts from divine revelation, where the Trinitarian event allows for humanity's intersection with divine purposes. This theology contrasts with modern history's ideologies by remaining open and refusing reduction to ideological constructs. It sees the unfolding of history in the scope of salvation, categorized by the fulfillment of time through Christ and calling the human heart to salvific decisions. It intertwines protology and eschatology, interpreting beginnings and ends through divine revelation .
Source 8 defines the role of the Holy Spirit as essential for bridging the gap between divine revelation and human understanding. The Holy Spirit enriches the human capacity to perceive divine mysteries by enabling the comprehension and recognition of Christ's revelation. It actively works to make God's love accessible and pertinent in varied human contexts, ensuring grace is present across time, thus energizing human faith and guiding humanity towards participating in the divine life .
In Sources 5 and 6, the relationship between silence and revelation is depicted as a profound theological dynamic where silence is both the origin and conclusion of the Word. The Word contains silence inherently, reflecting in the paradigm of Christ's abandonment at the Cross, where the divine communion reveals itself amidst perceived silence and absence. Silence symbolizes God's otherness and the mystery beyond verbal communication, emphasizing the relational character of divine mystery where silence holds the depth of revelation and facilitates human encounter with the divine .
Time is conceptualized within the context of divine creation, according to Source 11, as not existing independently but as a dimension created alongside the universe by God. It is an active aspect of divine creativity, integral to the Creator's relationship with creation. Time arises with creation and serves as the medium through which creatures engage with the divine, reflecting the Trinity's ongoing gift of existence and participation in God's eternal life .
Hegel's attempt to translate theology into philosophy reveals a deep ambiguity because he fails to recognize the difficulty in identifying the 'idea of freedom' with the 'will of God.' Hegel believed he understood this will as 'a priest of the absolute,' thus making his attempt paradoxical. By justifying the ways of the spirit based on historical consequences, he essentially becomes a reversed prophet. This reflects the broader theme that history cannot be justly summative without 'another' reference to measure it .