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Riassunti Lett - Latina Definitivi

Il documento analizza la figura di Livio Andronico, primo traduttore di opere greche in latino, e il suo impatto sulla letteratura latina, evidenziando la sua traduzione dell'Odissea e il suo contributo alla cultura romana. Si discute anche di Nevio, primo letterato romano, e della sua opera principale, il Bellum Punicum, che intreccia mito e storia, e infine di Plauto, noto per le sue commedie caratterizzate da situazioni comiche e personaggi tipici. L'opera di questi autori segna l'inizio della letteratura latina e la sua evoluzione attraverso l'adozione di forme e temi greci.

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Riassunti Lett - Latina Definitivi

Il documento analizza la figura di Livio Andronico, primo traduttore di opere greche in latino, e il suo impatto sulla letteratura latina, evidenziando la sua traduzione dell'Odissea e il suo contributo alla cultura romana. Si discute anche di Nevio, primo letterato romano, e della sua opera principale, il Bellum Punicum, che intreccia mito e storia, e infine di Plauto, noto per le sue commedie caratterizzate da situazioni comiche e personaggi tipici. L'opera di questi autori segna l'inizio della letteratura latina e la sua evoluzione attraverso l'adozione di forme e temi greci.

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LETTERATURA LATINA
LIVIO ANDRONICO
Livio Andronico giunse a Roma da Taranto, e secondo alcuni al seguito di Livio Salinatore, alla
conclusione della guerra fra Roma e Taranto (272 a.c). questo tra l’altro spiegherebbe il prenome
romano Livio: Andronico era a tutti gli effetti un greco, e assume il prenome del suo patrono Livio
Salinatore, di cui fu liberto.
Fu attivo a Roma come grammatico, autore di testi scenici. Nel 240 una sua opera fu il primo testo
drammatico rappresentato a Roma.
Di lui abbiamo circa una sessantina di frammenti. Ci restano i titoli di 8 tragedie, tutte legate al
ciclo della guerra di Troia. Compose anche palliate, ce ne rimangono sei frammenti di un solo
verso. Uno solo è attestato con sufficiente sicurezza: Gladiolus.
L’opera più significativa di Andronico è la versione in saturni dell’Odissea di Omero, il cui titolo
doveva suonare Odusia.
Le informazioni sulla vita da noi raccolte si basano essenzialmente su Cicerone e Livio. Pare che
Accio fissasse al 209 a.c, data della presa di Taranto durante la seconda guerra punica, la venuta di
Andronico a Roma. Il dato di Accio è però da scartare.

NASCITA DELLA TRADUZIONE POETICA


Livio è l’iniziatore della letteratura latina. L’iniziativa di tradurre in lingua latina e in metro italico, il
saturnio, l’Odissea di Omero ebbe una portata storica enorme. Livio rese disponibile ai romani un
testo fondamentale della cultura greca. L’Odusia ebbe fortuna anche come testo scolastico.
Andronico stesso era maestro di scuola e nel suo lavoro riuscì insieme a divulgare la cultura greca
a Roma a far progredire la cultura letteraria in lingua latina.
L’importanza di Livio nella storia letteraria sta nell’aver concepito la traduzione come operazione
artistica.
Non avendo una tradizione epica alle spalle, Livio cercò per altre vie di dare solennità e intensità al
suo linguaggio letterario. Forme come il genitivo in -as, erano già volutamente arcaizzanti rispetto
alla lingua in uso ai tempi di Andronico. Comincia cos’ la tendenza arcaizzante che avrà tanta
importanza nella storia della poesia latina. La lingua letteraria si stacca dal linguaggio quotidiano e
rende l’omerica Musa con l’antichissima “Camena”, divinità italica, puntando sull’etimologia da
Casmena/Camena, quindi da carmen, poesia.
I frammenti mostrano una notevolissima volontà di aderenza all’originale: tradurre significa tanto
conservare ciò che può essere recepito quanto però modificare ciò che è intraducibile. Ad esempio
Omero parla di un eroe simile agli dei, ma questa nazione non è accettabile per la mentalità
romana: e Andronico varia, senza perdere in solennità e traduce come “ grandissimo fra i primi”.
In altri casi invece si ha l’impressione che Andronico modifichi Omero per intenzioni
specificatamente artistiche. Tipica della poesia romana arcaica, rispetto ai modelli greci, è la

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ricerca del phatos, della forza espressiva e della tensione drammatica. Questa capacità di
“drammatizzare” il racconto omerico ci fa pensare che Andronico fu anche un notevole
drammaturgo. La ricerca del patetico è una costante di poetica in quasi tutta la poesia latina
arcaica.

NEVIO
Nevio, cittadino romano di origine campana, combattè nella prima guerra punica. Sembra che
fosse un plebeo di nascita. La sua biografia reca tracce di polemiche anti-nobiliari e non abbiamo
indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici. Si racconta che attaccasse in poesia la potente
famiglia dei Metelli, che gli risposero minacciosamente; si sospetta anche che fosse incarcerato
per certe allusioni contenute nei suoi drammi. Morì, forse in esilio, a Utica.
Di lui abbiamo numerose tragedie, fra cui almeno due praetextae, il Romulus e il Clastidium e
commedie. Del Romolus e Clastidium abbiamo in tutto due brevissimi frammenti. Delle commedie
conosciamo invece ventotto titoli, circa 125 versi.
La sua opera principale è il Bellum Punicum, in saturni. L’opera non aveva divisioni in libri, ma fu
poi ripartita in sette libri da un contemporaneo di Accio. Il poema narrava la storia di Enea che da
Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della prima guerra punica, che Nevio
aveva vissuto. Composto negli anni della guerra annibalica, il poema aveva un contenuto di grande
attualità per il popolo romano.
Notizie occasionali su Nevio ci vengono date da Cicerone e San Girolamo. Un indizio di grande
interesse è suggerito da un’allusione di Plauto: nel Miles gloriosus si parla di un poeta incarcerato
e costretto al silenzio: secondo alcuni potrebbe trattarsi di Nevio.

TRA MITO E STORIA


Nevio è il primo letterato latino di nazionalità romana e il primo letterato romano inserito nelle
vicende contemporanee, partecipe di eventi storici e politici. Nevio è anche, in tutta l’epoca
medio-repubblicana, il solo letterato romano che prenda parte autonoma e attiva alle contese
politiche.
Il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano. Romulus e Clastidium
sono i primi titoli a noi noti di praetextae. Il Romulus trattava la drammatica storia della
fondazione di Roma; il Clastidium era una celebrazione della vittoria di Casteggio contro i Galli
insubri. Un argomento così vicino di nel tempo è una novità.
Nel Bellum Poenicum, la scelta di un tema storico quasi contemporaneo non è la sola novità. Nevio
non si limita a trattare in poesia la prima guerra punica, nel momento in cui Roma affrontava
nuovamente la tremenda minaccia cartaginese; il suo racconto, con un salto temporale
arditissimo, affondava nella preistoria di Roma. Nevio narrava con una certa ampiezza la leggenda
di Enea. Abbiamo quindi, in Nevio, uno strato per così dire “omerico”: la fondazione di Roma si
ricollegava alla caduta di Troia. Nel nuovo poema nazionale romano, il tradizionale apparato divino
sanzionava, attraverso grandiosi conflitti, la fondazione di Roma.

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Ma il poema aveva anche, come sua struttura portante, uno strato storico, il racconto della guerra
contro Cartagine. Purtroppo non sappiamo come questi due strati fossero connessi. Sicuro è che
non c’era nessun tipo di narrazione continua. Può darsi perfino che Nevio trovasse modo di
inserire tra i viaggi di Enea anche un incontro con Didone: in tal modo un grande arco di tensione
drammatica avrebbe saldato i destini dei due popoli.
Il Bellum Punicum presuppone Omero e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema
storico-celebrativo, in cui si cantava secondo il codice omerico qualche vicenda storica di interesse
contemporaneo. L’idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra, sembra indicare un
“incrocio” fra Iliade e Odissea.
La sperimentazione di un nuovo linguaggio poetico si sviluppò in due direzioni principali. La
sezione mitica del poema imponeva a Nevio “la sfida” del linguaggio poetico greco. Anche la
sezione storica poneva diversi problemi. Nevio adatta il suo stile poetico a una lunga narrazione
continua, il linguaggio è semplice e concreto e l’ordine delle parole lineare. Nevio introduce in
poesia numerosi termini tecnici.
Nel complesso il Bellum Punicum appare come un’opera di forte sperimentalismo.
Nevio epico avrà un suo preciso influsso nell’ispirazione dell’Eneide.
Nevio compose anche tragedie mitologiche, di cui parecchie legate al ciclo troiano, Equos troianus,
Danae, l’Hector proficiscens e l’Iphigenia. Ci rimangono inoltre frammenti di una tragedia
importante storicamente, il Lycurgus: il mito trattava del culto di Dioniso che stava prendendo
piede anche a Roma.
Di gran lunga più importante sembrerebbe la produzione comica. Tra i testi comici neviani si
distingue la Tarentilla, il ritratto di una ragazza civettona. Presenta una colorita invetiva verbale
che anticipa Plauto.
Per quanto riguarda la produzione teatrale sappiamo che le sue opere contenevano attacchi a
personaggi politici.

PLAUTO (250-184 a.c)


Nelle edizioni moderne fino all’ottocento figura il nome completo M. Accius Plautus. Questa forma
è di per sé sospetta: i tria nomina si usano per chi è dotato di cittadinanza romana e non sappiamo
se Plauto l’abbia mai avuta. Un antichissimo codice di Plauto portò migliore luce sulla questione. Il
nome completo del poeta si presenta nella più attendibile versione Titus Maccius Plautus, da
Maccius era uscito fuori il tradizionale M.Accius. si tratta invece di una derivazione da Maccus, il
nome di un personaggio tipico della farsa italica, l’atellana. È dunque verosimile che il poeta
teatrale umbro si fosse dotato a Roma, di un nome di battaglia che alludeva chiaramente al
mondo scena comica e quindi conservasse nei tre nomi la traccia del suo mestiere di
“commediante”. Plauto non era dunque di origine romana: non apparteneva però a un’area
culturale italica già pienamente grecizzata. Si noti anche che Plauto era sicuramente un cittadino
libero.

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La data di morte, il 184 a.c, è sicura. La data di nascita si ricava indirettamente da una notizia di
Cicerone, secondo cui Plauto scrisse da senex la sua commedia Pseudolus.
Plauto fu autore di enorme successo. Sembra che nel corso del 2 secolo circolassero qualcosa
come centotrenta commedie legate al nome di Plauto.
La fase critica nella trasmissione del corpus dell’opera plautina fu segnata dall’intervento di
Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di
commedie sulla cui autenticità c’era generale consenso. L’ultima posizione della Vidularia la rese
esposta a danneggiamenti nel corso della trasmissione manoscritta: ne abbiamo infatti solo
frammenti. Molte altre commedie continuarono ad essere lette e rappresentate nella Roma
antica. Noi ne abbiamo solo titoli e brevissimi frammenti.

TIPOLOGIA DEGLI INTRECCI E DEI PERSONAGGI


La grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo
l’altra e dalla creatività verbale.

 AMPHITRUO: unica con soggetto mitologico. Giove arriva a Tebe per conquistare la bella
Alcmena. Il dio impersona Anfitrione, signore della città e marito della dama, aiutato
dall’astuto Mercurio. Giove approfitta dell’assenza di Anfitrione per entrare nel letto della
moglie ignara. Ma improvvisamente torna a casa il vero Anfitrione: dopo una brillante serie
di equivoci, Anfitrione si placa onorato di aver avuto come rivale un dio.

 AULULARIA: la pentola piena d’oro. Oggetto che è il corrispettivo della vita del personaggio
principale della commedia. L’avaro non che tipo fisso della Commedia latina.

 CAPTIVI: la commedia si distingue in tutto il panorama plautino per la smorzatura dei temi
comici e per gli spunti di umanità malinconica. Qui è assente qualsiasi intrigo a sfondo
erotico.

 CASINA: un vecchio e suo figlio desiderano una trovatella che hanno in casa, escogitano
perciò due trame parallele. Il vecchio però viene raggirato e trova nel suo letto un maschio
invece che Casina. Casina si scopre infine essere una fanciulla di libera nascita e può quindi
sposare il suo giovane pretendente.

 CISTELLARIA: un giovane vorrebbe sposare una fanciulla di nascita illegittima, mentre il


padre gliene destina un’altra di legittimi natali. Il caso vanifica ogni ostacolo, rivelando la
vera e regolare identità della fanciulla desiderata. È una commedia che ha come sfondo il
contrasto generazionale.

 MENAECHMI: il fortunato prototipo fi tutte le “commedie degli equivoci”. La commedia è


tutta nel viluppo degli scambi di persona, fino al reciproco simultaneo riconoscimento.

 MILES GLORIOSUS: la commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, mette in scena
un servo arguto e un comicissimo soldato fanfarone. Lo schema di fondo è quello abituale,
un giovane si affida al servo per sottrarre a qualcuno la disponibilità della ragazza amata,
ma l’esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni.

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 MOSTELLARIA: c’è un fantasma nella casa del vecchio Tepropide? Lo fa credere il diabolico
servo per coprire in qualche modo gli amorazzi del giovane padrone. L’inganno è divertente
ma non può reggere a lungo, la vicenda si chiude con un perdono generale al giovane.

 PSEUDOLUS: insieme al Miles, è tra i culmini del teatro plautino. Lo schiavo del titolo è il
campione dei servi furbi di Plauto. Pseudolo riesce a spennare il suo avversario portandogli
via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più.
Un’osservazione d’insieme deve innanzitutto accettare la fortissima prevedibilità degli intrecci e
dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. È chiaro che Plauto desidera proprio questa prevedibilità,
né ha particolare interesse per l’etica o la psicologia dei suoi personaggi. Plauto tende anche ad
usare dei prologhi espositivi che forniscono informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a
spesa di qualsiasi sorpresa o colpo di scena. Infatti si insiste non sui nomi propri ma sui termini
tipologici.
Ancora più caratteristica di Plauto è la prevedibilità degli intrecci. Praticamente tutte le commedie
possono essere ridotte a una lotta fra due antagonisti per il possesso di un “bene”: generalmente
una donna o una somma di denaro necessaria per accaparrarsela. È buona norma che il vincitore
sia il giovane e che il perdente abbia in sé le giustificazioni del suo essere perdente. La vittoria
finale di una parte sull’altra trova piena rispondenza nei codici culturali. L’azione di conquista del
“bene” è delegata dal giovane ad un sevo ingegnoso. Al centro dell’azione sta, nelle opere più
mature, un vero demiurgo: un artista della frode.
La coppia “giovane desiderante-servo raggiratore” è quindi la più solida costante tematica del
teatro di Plauto.
La presenza della fortuna ha un grande valore stabilizzante. La trama comica ha spesso bisogno di
uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile.
Sono tutte commedie che ruotano su un riconoscimento, possono passare per una lunga fase di
errori e confusioni di persona, si parla allora propriamente di “commedia degli equivoci”. Tutte
hanno in comune il riconoscimento che scioglie ogni difficoltà.
In molte di queste commedie c’è uno schiavo furbo al lavoro. Lo schiavo opera su una realtà
preesistente, e il suo lavoro è falsificare, confondere. Il contrasto tra messa in scena e realtà non
può durare per sempre, anche se divertente: e qui appunto entra in gioco la fortuna. Grazie alla
fortuna scopriamo che esiste una realtà per così dire più autentica e sincera della realtà iniziale,
quella su cui lo schiavo operava i suoi trucchi.

I MODELLI GRECI
Un aspetto con cui Plauto si distacca dai suoi modelli greci è sicuramente la predilezione per le
forme cantate, estranee alla struttura del teatro menandreo. Inoltre Plauto si preoccupa molto
poco di comunicare il nome, ed eventualmente, la paternità della commedia greca sulla quale si è
orientato. Il suo teatro non presuppone un pubblico così ellenizzato da gustare il riferimento a
certi famosi modelli.
Su alcuni modelli siamo ben informati: Cistellaria ad esempio si basa su tre commedie menandree.

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Lo stile di Plauto è vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia. Il registro
di stile formato da giochi di parole, enigmi, doppi sensi, allusioni scherzose alle istituzioni, è senza
dubbio un’iniziativa originale di Plauto.
Rispetto alle commedie greche, quelle di Plauto non vedono mai la divisione in atti, inoltre Plauto
non dà quasi mai ad un personaggio il nome che l’originale greco gli attribuiva. Sono sempre nomi
greci ma non gli stessi dei modelli e nomi sempre nuovi, non i nomi fissi che portavano le
maschere della farsa italica.
Ha poi lavorato con intensità nel distruggere molte qualità fondamentali dei modelli che si era
scelto: sviluppo psicologico, realismo linguistico e caratterizzazione.

IL LIRISMO COMICO
È il senso del comico, schietto e popolaresco he rende Plauto un artista autonomo, ben distinto dai
suoi modelli greci. Plauto tende a trascurare la coerenza dell’azione drammatica e le sottili
sfumature nel carattere di personaggi. Rinuncia a certe virtù dei suoi modelli greci per spostare
l’accento su altri elementi.
Nelle commedie plautine è quasi sempre lo schiavo furbo a gestire lo sviluppo dell’intreccio. La
posizione del servo stuto ne fa quasi un equivalente del poeta drammatico. Non a caso il servo è il
personaggio che più di ogni altro gioca con le parole ed è quindi il più vero portavoce dell’originale
creatività verbale di Plauto. Pur essendo il personaggio socialmente più debole, sulla scena è lui la
figura centrale e il punto di attrazione per il pubblico e per gli altri personaggi.
Nei suoi momenti migliori Plauto utilizza gli intrecci dei suoi modelli greci come materia, in sé già
dotata di significato, ma disponibile a significati nuovi e imprevedibili. Il comico sta appunto nel
contatto fra la materia dell’intreccio, che Plauto riprende dai greci, e l’aprirsi di occasioni in cui
l’azione si fa libero gioco creativo, diventa “lirismo comico”.

LE STRUTTURE DEGLI INTRECCI E LA RECEZIONE DEL TEATRO PLAUTINO


In Plauto la messa in gioco di un “bene” si tramuta in una fase critica, dove possono vacillare valori
sociali e familiari di riconosciuta importanza. In questa fase le commedie minacciano una
sovversione di tutto ciò che il pubblico accetta come normale e naturale. La commedia plautina
tratta questi conflitti entro il piano comico dell’intreccio, senza mai assumere direttamente un
valore di riflessione critica e di rinnovamento della mentalità tradizionale. Qualche volta la crisi
rimescola e confonde valori ancora più generali e fondamentali quali l’identità personale.
Lo scioglimento tipico della commedia consiste in un rimettere a posto le cose. È chiaro che il
pubblico trova in questo movimento dal disordine all’ordine un particolare piacere.
Nessuna pretesa insegnativa e moraleggiante governa però queste vicende. Basta a mostrarcelo il
primato e il protagonismo dello schiavo furbo, il personaggio, in cui meno di tutti, il pubblico può
riconoscere un fondamento realistico. È il personaggio che più spesso marca il distacco di Plauto
dalla traccia dei suoi modelli.
L’azione imprevedibile e amorale del servo ingegnoso porta nella trama un quoziente di disordine
e irriverenza che arriva quanto meno a sospendere la normalità della vita quotidiana. Il servo è per
lo più colui che persegue un risultato legittimo ma lo fa con mezzi illegittimi e truffaldini. Da

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questa contraddizione di fondo nasce il paradosso di un’arte che sfugge alle nostre tradizionali
definizioni.

LA FORTUNA DEL TEATRO PLAUTINO


Le venti commedie che risalivano alla scelta canonica di Varrone continuarono ad essere copiate
per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto
eccezionale. Plauto rimase per lunghissimo tempo estraneo alla tradizione dell’insegnamento. Le
ragioni di questa poca fortuna sono molteplici: lingua, stile e metrica risultano troppo difficili.

ENNIO (239-169 a.c)


Ennio nacque a sud di Taranto, un’area profondamente intrisa di cultura greca. Il poeta amava
sottolineare la sua natura trilingue, divisa fra latino, greco e osco. Ennio giunse a Roma in età
matura, nel 204, in piena seconda guerra punica. A condurlo con sé, fu secondo la tradizione
Catone che lo avrebbe trovato in Sardegna. Nel trentennio successivo però Catone e Ennio si
trovarono su posizioni molto diverse.
Ennio a Roma svolse l’attività di insegnante ma fu anche un autore scenico. Nel 189-187,
accompagna il generale romano Fulvio Nobiliore in Grecia, per illustrare nei suoi versi la campagna
militare. Alla vittoria di questa campagna Ennio dedica un’opera, probabilmente una praetexta.
Ennio sarà protetto dalla famiglia Nobiliore e da quella degli Scipioni e proprio grazie a loro
riceverà la cittadinanza romana. Nell’ultima parte della sua vita. Durante i ludi Apolinnares. Si
dedicò alla scrittura degli ANNALES, il poema epico che gli darà fama perpetua.
Di tutti i suoi testi abbiamo solo frammenti di tradizione indiretta. Un dato sicuro e che iniziò
molto presto e continuò fino a poco prima della sua morte a comporre tragedie di grande
successo. Ci restano una ventina di titoli di coturnate. Due praetextae, una di argomento
contemporaneo e una legata alla leggenda della fondazione di Roma.
Gli Annales, un poema epico in esametri, narrava la storia di Roma, ce ne rimangono 600
frammenti.
Abbiamo poi una varietà di opere minori: HEDYPHAGETICA, un poemetto sulla gastronomia, si
tratta della prima poesia latina composta in esametri a noi attestata. SOTA, un testo in versi
parodico e spesso osceno. Lo SCIPIO, un’opera in onore del vincitore di Zama, una poesia
celebrativa. Sicura è anche la composizione di epigrammi in distici elegiaci. Ne possediamo
quattro, di cui due di autocelebrazione e due in onore di Scipione Africano.
Ennio è sicuramente il più in vista dei poeti arcaici, in molte sue opere faceva sentire una voce
diretta e personale.
Ennio fu un fecondo poeta di teatro, fu l’ultimo poeta latino a coltivare insieme commedia e
tragedia, ma il genere della commedia non gli era molto congeniale. Ennio fu essenzialmente un
poeta tragico per la tendenza al patetico, non a caso il suo modello preferito è Euripide, il più
aperto all’introspezione psicologica e alle situazioni di maggiore passionalità. Ennio doveva essere
un uomo molto attento alle preferenze del pubblico. Il rapporto con i modelli greci non sembra

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essere esclusivamente emulativo; il progetto stesso della traduzione è l’impegno di un teatro vivo.
Il tradurre enniano lo si capisce appieno solo interpretandolo nella tradizione di una prassi greca.
Così anche quell’intensificazione patetica che sembra propria di Ennio non va attribuita al
passionale gusto latino ma a una retorica della commozione tipica di una langue drammatica
greca. Una langue che riconosciamo soprattutto in espressioni ridondanti. La scelta di
un’espressione patetica corrisponde ad un’esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre
interesse nel pubblico, di coinvolgerlo emotivamente e suscitare processi psicologici di
identificazione. Nelle rappresentazioni di Ennio, nonostante le difficoltà pratiche della scena latina,
poteva comparire il coro, un coro che gli spettatori, per identificazione, avrebbero potuto sentire
come composto da cittadini virtuali. La ricerca di un’identificazione tra pubblico e personaggi è il
principio della poetica teatrale di Ennio.

GLI ANNALES
Gli annales sono il più famoso testo epico romano fino ad Augusto. Una funzione celebrativa
doveva essere fondamentale in tutta l’opera. Si andava stabilendo un vincolo sempre più stretto
tra letteratura e potere. Ennio vedeva la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche, così si
avvicinò all’ambizioso progetto di una celebrazione di tutta la storia romana, svolta in un unico e
mastodontico poema epico, gli annales appunto. Il piano si sviluppò in 18 libri. Ennio decise di
narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se è chiaro che certe fasi storiche ebbero
molto più risalto di altre. Particolarmente sacrificata fu la prima guerra punica. Un’altra
innovazione importante rispetto a Nevio, fu l’articolazione del racconto in libri, concepiti come
unità narrative accostate in un’architettura complessiva.
Il titolo Annales, fa riferimento agli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi condotte
anno per anno. Di fatto anche l’opera di Ennio era condotta in ordine cronologico progressivo,
dalle origini fino ai giorni dell’autore. Ennio è molto più selettivo di uno storico e si occupa per lo
più di eventi bellici.
Gli annales utilizzano molte fonti storiografiche che sono però a noi sconosciute. Tra le fonti
poetiche primeggia Omero e la poesia ellenistica.

ENNIO E LE MUSE: LA POETICA


Sembra che Ennio, avesse pianificato, in origine, una narrazione in quindici libri, in questo caso
l’opera sarebbe dovuta terminare con il trionfo di Fulvio Nobiliore, narrato nel 15 libro e con la
consacrazione del tempio delle muse. Ennio aggiunse poi tre libri al piano originario. La sua opera
è contrassegnata da due grandi poemi, uno al libro 1 e l’altro al libro 7, in cui il poeta prende
direttamente la parola e svela l’ispirazione e le sue ragioni del fare poesia.
Nel primo proemio il poeta raccontava di un suo sogno. Era di tradizione che il poeta facesse
derivare il suo canto da un incontro con le muse; Ennio invece, nel sogno, incontra l’ombra di
Omero, che gli garantiva di essersi reincarnato proprio in Ennio. Ennio si presentava così come la
reincarnazione e addirittura il vivente “sostituto” del più grande poeta greco di tutti i tempi.
Nel proemio al libro 7 vediamo, invece, le muse che con lui prendevano piena cittadinanza a
Roma. Il poeta sottolineava che le sue muse erano proprio le muse dei grandi poeti greci, non più
le “camene” di Livio Andronico. Inoltre polemizzava con Nevio che aveva poetato in saturni, un

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verso del passato. Ennio è invece il primo grande poeta filologo, il primo che può stare alla pari
con la raffinata cultura alessandrina ed il primo ad aver usato l’esametro dattilico, il verso della
grande poesia greca.

LO SPERIMENTALISMO ENNIANO: LINGUA, STILE E METRICA


Ennio è un poeta profondamente sperimentale. Accolse nel suo testo numerosi grecismi,
desinenze greche come un occasionale genitivo in –oeo per riprodurre il genitivo omerico in –oio.
Scrisse esametri tutti in dattili e tutti in spondei, ideò versi tutti allitteranti. Le sue opere sono
ricchissime di figure di suono, lo stile allitterante accompagna il pathos della situazione. Questo
stile allitterante era tipico dei carmina più antichi, Ennio lo importò nell’esametro, sottoponendo
così un verso greco all’effetto di uno stile romano. Egli lavorò per adattare l’esametro alla lingua
latina e la lingua latina all’esametro. L’aspetto più arcaico dello stile ennianao sta proprio
nell’incontro fra esametro e stile allitterante. Tuttavia l’esametro era un verso molto uniforme e
regolare, applicato all’esametro dunque lo stile allitterante suonava monotono e cadenzato.

ENNIO E L’Età DELLE CONQUISTE


Sul piano dei contenuti morali e ideali, gli annales, come già il poema di Nevio, forniscono esempi
di comportamento e modelli culturali. Gli annales celebravano la storia di Roma come somma di
imprese eroiche, dettate dalla virtus degli individui, degli individui eccellenti, i grandi nobili e
magistrati. Ennio è dunque il più grande poeta di una cerchia aristocratica che rilegge la storia di
Roma in funzione dei propri valori e interessi. Ennio non elogia solo le virtù guerriere, come faceva
Omero, ma anche le virtù di pace. C’è un tentativo di amalgamare virtù aristocratiche e cultura
greca.
Ennio restò per molto secoli il poeta nazionale romano. Ebbene ricordare che Ennio morì un anno
prima della battaglia di Pidna. Certamente la sua opera recava testimonianza di un mutamento.

CATONE (234-149 a.c)


Marco Porcio Catone nacque a Tusculum da una famigli di contadini benestanti. Combattè nella
guerra contro Annibale. Nel 204 fu questore al seguito di Scipione in Sicilia e in Africa. Nel 195
Catone, l’homo novus, fu console insieme a Valerio Flacco, gli fu affidata la Spagna, dove agì con
severità nei confronti delle tribù ispaniche e coltivò la propria fama di efficienza. a partire dal 190
è impegnato in una serie di processi politici contro esponenti della fazione degli Scipioni. Nel 184 è
censore, presentandosi come campione delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei
costumi e il dilagare di tendenze individualistiche parzialmente influenzate dalla cultura ellenistica.
La censura di Catone rimase celebre per l’intransigenza con cui esercitò questa carica. Dando sfogo
al suo rigore moralistico. Catone si fece promotore della terza guerra punica, ma morendo nel 149
a.c. non arrivò a vedere la distruzione di Cartagine.
Oggi conosciamo circa 80 orazioni di Catone, una ventina delle quali risalgono all’anno della
censura. Abbiamo poi le ORIGINES, un’opera storica in sette libri. Un trattato il DE AGRI CULTURA,
il testo di prosa latina più antico che ci sia giunto intero. Presenta una prefazione e circa 170 brevi

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capitoli. Po abbiamo una serie di precetti indirizzati al figlio Marco, fra le quali un DE MEDICINA,
un’opera di retorica, un trattato di arte militare, l’opera in toto chiamata PRAECEPTA AD FILIUM.

GLI INIZI DELLA STORIOGRAFIA SENATORIA


Catone scrisse le origines in vecchiaia, dando origine alla storiografia in latino, per l’annalistica
romana in lingua greca il censore ostentava disprezzo. Abbiamo visto, come fin dagli inizi, la
storiografia romana fosse stata elaborata soprattutto da membri dell’elite senatoria ma non da
personaggi politici di primo piano: il caso di Catone, cioè di un uomo politico di primo piano che
scrive storiografia, è destinato a restare isolato nella cultura latina.
Nell’opera storica di Catone avevano grande spazio le sue preoccupazioni per la corruzione dei
costumi, la rievocazzione delle battaglie condotte personalmente, in nome della saldezza dello
stato contro l’emergere di singoli personaggi di prestigio con tendenze individualistiche. Perciò
Catone accoglieva nelle origines le proprie polemiche politiche e vi riportava proprie orazioni. Egli
tendeva a privilegiare la storia contemporanea.
Nelle origines, il 1 libro era dedicato alla fondazione di Roma, il 2 e il 3 alle origini delle città
italiche, il 4 libro narrava la prima guerra punica, il 5 la seconda, il 6 e il 7 gli avvenimenti fino alla
pretura di Galba; gli ultimi due libri abbracciavano meno di un cinquantennio e costituivano una
dettagliata storia contemporanea.
Per Catone la creazione dello stato romano era vista come l’opera collettiva del popolo romano,
perciò Catone, in controtendenza rispetto alla tradizione annalistica elaborata da alcuni membri
delle famiglie nobili, non faceva i nomi dei condottieri. Probabilmente intendeva oscurare il
prestigio degli individui con quello dello stato.
Forse la sua provenienza extraurbana contribuì al suo vivo interesse per la storia delle popolazioni
italiche, mettendo in rilievo il contributo che queste avevano dato alla grandezza di Roma e alla
costruzione del modello etico tradizionale. Catone inoltre dimostrava un interesse etnografico
anche per le popolazioni africane e spagnole.

IL TRATTATO SULL’AGRICOLTURA
L’opera consiste per gran parte, in una serie di precetti esposti in forma schematica ma talvolta di
grande efficacia. Il tono è precettistico e sentenzioso. Per comprendere intenti e destinatari del DE
AGRI CULTURA è importante il proemio: qui Catone dice che l’agricoltura è più sicura e più onesta
ed è con il lavoro agricolo che si formano buoni cittadini e buoni soldati. Il tipo di propietà che
Catone descrive rappresenta probabilmente le grandi tenute basate sullo sfruttamento degli
schiavi. Catone pensa che restando attaccata alla terra, la classe dirigente resterà attaccata anche
ai valori etici e politici che costituiscono il fondamento del loro potere.
Il De agri cultura costituisce una precettistica generale del comportamento del proprietario
terriero. Questo nelle vesti di pater familias, dovrà essere presente nella propria tenuta il più
possibile. lo stile è scarno e conciso con formulazioni proverbiali. Da alcuni passi traspare la
brutalità dello sfruttamento degli schiavi.
Si possono cogliere qui i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono poi gli stessi costitutivi del
mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze.

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LA BATTAGLIA POLITICO CULTURALE DI CATONE


Una famosa massima tramandata nei precetti ad filium, sembrerebbe sintetizzare le idee di
Catone in fatto di retorica: rem tene, verba sequentur (“abbi chiaro il contenuto e le parole
verranno da sé”): un ostentato rifiuto dell’ars e della tecnica retorica. Questo rifiuto
dell’elaborazione stilistica va interpretato alla luce della costante polemica catoniana contro la
penetrazione della cultura greca. Nelle origines la tecnica retorica greca, più che assente era
sapientemente dissimulata in modo da dare all’uditorio l’impressione dell’immediatezza e non
dell’elaborazione a tavolino.
Personalmente impregnato di cultura greca, Catone non combatteva la cultura in sé quanto
l’azione corrosiva che alcuni suoi aspetti operavano sulle basi della res publica. Inoltre c’era il
pericolo che l’imitazione di certi costumi ellenizzati potesse mettere in pericolo l’unità e la
coesione interna dell’aristocrazia, portando all’affermazione di personalità carismatiche.
Nella sua opera letteraria probabilmente Catone si propose il compito di elaborare una cultura
che, mantenendo ben salde le radici nella tradizione romana, sapesse accogliere alcuni apporti
greci.

LA FORTUNA DI CATONE
L’appellativo censore di Catone, ne fa il simbolo di rigido custode della tradizione del
conservatorismo. Cicerone lo idealizzò, mitigandone però le più dure asprezze e i tratti più
intransigenti della sua avversione contro la nobiltà filoellenica. Il de agri cultura sopravviverà
integralmente.

TERENZIO (185-159 a.c)


Originario di Cartagine sarebbe giunto a Roma come schiavo di un certo senatore. Tutte le fonti
sottolineano i suoi stretti rapporti con Scipione Emiliano e Lelio, questi nobili furono sicuramente
suoi protettori e anche lo stesso Terenzio nelle sue commedie accenna al sostegno ricevuto da
amici illustri.
Terenzio sarebbe morto nel 159, prima della terza guerra punica, durante un viaggio in Grecia
intrapreso con scopi culturali. Questo è un dato interessante perché questi tour culturali della
Grecia diventeranno in seguito caratteristici nella formazione dei romani colti. I dettagli sulle
circostanze di morte, annegamento, sono poco credibili, si può pensare che ci sia una volontà di
accostamento al suo modello Menandro.
La cronologia delle sue opere è attestata con precisione nelle didascalie anteposte sui manoscritti
delle singole commedie. Si tratta di sei commedie integralmente tramandate a noi. I modelli greci
utilizzati da Terenzio e dichiarati nei prologhi, appartengono tutti alla Commedia Nuova:
Menandro e Apollodoro di Caristo.
Il riferimento principale a questo autore è la VITA TERENTI nel DE VIRIS ILLUSTRIBUS di Svetonio.

LO SFONDO STORICO

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Il debutto teatrale di Terenzio risulta collocarsi due anni dopo la battaglia di Pidna, che con la
definitiva vittoria sui macedoni, inaugura un lungo periodo di pace. In seguito alla vittoria furono
deportati a Roma mille ostaggi achei, tra cui anche lo storico Polibio. Inizia così la penetrazione dei
modelli e della cultura greca a Roma. Tutte queste nuove influenze portarono anche in Terenzio
innovazioni nella poesia scenica. Il genere comico era stato con Plauto un momento di
intrattenimento popolare. Il teatro di Terenzio accetta l’inquadramento convenzionale e ripetitivo
delle trame plautine ma in Terenzio domina l’interesse per i significati: per la sostanza umana. Il
tentativo di Terenzio è quello di usare un genere popolare per comunicare interessi nuovi, che
sono maturati nel campo ristretto di una elite.
Ad esempio una delle commedie, l’HECYRA, nella prima rappresentazione del 165, il pubblico le
preferì uno spettacolo di funamboli; alla seconda nel 160, tutti se ne andarono quando si sparse la
voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori, sola alla terza
rappresentazione la recita potè arrivare al termine.
Le vicende delle commedie terenziane mostrano il declino del teatro popolare latino che
nell’epoca successiva andrà accelerando e soprattutto nel divaricarsi dei gusti del pubblico di
massa e dell’elite colta, nutrita di cultura greca.
All’autore interessa soprattutto la psicologia dei personaggi e per questo rinuncia all’esuberanza
comico-fantastica.
Le commedie:
1) ANDRIA: modello greco è l’andria di Menandro. L’intreccio si scioglie con il riconoscimento
finale.
2) HECYRA: Terenzio rielabora una commedia dallo stesso titolo di Apollodro di Caristo,
contaminandola con l’EPITREPONTES (l’arbitrato) di Menandro. Sotrata, la protagonista, è
una figura completamente diversa dalla madre stereotipata gelosa del figlio e ostile alla
nuora.
3) HEAUTONTIMORUMENOS (il punitore di se stesso): riprende il misantropo di Menandro.
Chiusura in se stesso del protagonista. Il protagonista rimane coerente con i suoi
comportamenti.
4) ADELPHOE: rielabora la commedia di Menandro, i fratelli, traendo tuttavia una scena da
una commedia di Difilo. La commedia mette a confronto due diversi sistemi di educazione
Terenzio più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo sembra interessato a quella del
tipo. I personaggi terenziani spesso sono anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, la
prostituta moralmente migliore di tanta altra gente; caratteri largamente innovativi rispetto alle
aspettative del pubblico. L’approfondimento psicologico inoltre comportava una notevole
riduzione e della comicità, che contribuì allo scarso successo delle sue commedie.

STILE E LINGUA IN TERENZIO


In sei commedie tutte incentrate sull’amore la parola “bacio” non compare più di due volte, come
ha osservato Alfonso Traina. Si parla poco in genere di corpi, di bere, di mangiare e di sesso. I
personaggi bassi non portano sulla scena la loro particolare carica linguistica, sembra che la
materia linguistica sia stata selezionata. Acquistano spazio le parole astratte e l’analisi psicologica.
L’impressione che si ha è quella di una conversazione quotidiana. L’elemento che più distingue

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Terenzio nel quadro della commedia latina è l’attenzione e la preoccupazione per il verosimile. Ciò
non significa che Terenzio riproduca la parlata quotidiana dell’epoca, ma si adegua, utilizza una
lingua settoriale, quella parlata dalle classi urbane di buona educazione. Riduzione della varietà
metrica rispetto a Plauto, sono scarse le parti propriamente liriche, molto contenuta è l’estensione
delle parti cantate rispetto alle parti recitative.

I PROLOGHI DI TERENZIO: POETICA E RAPPORTO CON I MODELLI


Terenzio cura molto l’impermeabilità dell’illusione scenica. Lo sviluppo dell’azione non prevede
mai sviluppi “metateatrali”, vengono eliminate le battute dei personaggi che non abbiano una
diretta motivazione interna allo svolgimento drammatico ma che si rivolgono direttamente al
pubblico (interrompendo l’illusione scenica). La palliata di Terenzio non apre al suo interno
nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione vengono tutti concentrati nel
prologo. Nella commedia nuova, il prologo era generalmente concepito come uno spazio
espositivo, di informazione preliminare alla comprensione della trama; questo permetteva al
pubblico di prestare più attenzione allo sviluppo dell’azione e apprezzare gli effetti di ironia che si
sviluppano via via sulla scena. Terenzio rinuncia a questa funzione informativa dei prologhi.
Utilizza invece i prologhi come presa di posizione dell’autore: chiarisce il rapporto con i modelli
greci che ha utilizzato e risponde alle critiche dei suoi avversari su questioni poetiche. È evidente
che questo nuovo tipo di prologo presuppone un pubblico più avanzato, attento ai problemi di
gusto e tecnica, quindi anche più ristretto.
Questo uso dei prologhi di Terenzio lo avvicina all’ideale alessandrino di poeta-filologo. Quel che
viene rifiutato da Terenzio è in sostanza la farsa popolare e i personaggi caricaturali, Terenzio
opponeva a questo stile un ideale di arte più riflessiva, più “verosimile” che cioè fondasse l’azione
drammatica sui dialoghi. Terenzio si attiene piuttosto fedelmente agli intrecci menandrei senza
però rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccano.

TEMI E FORTUNA DELLE COMMEDIE DI TERENZIO


Terenzio sacrifica la ricchezza dell’inventiva verbale per approfondire il carattere dei personaggi, la
palliata latina era sempre stata ancorata alle situazioni familiari, ma in Terenzio i rapporti tra i
membri della famiglia diventano veramente umani, sentiti con maggiore serietà problematica.
Quest’approfondimento risente della circolazione di ideali umanistici di origine greca. A questo si
deve in Terenzio l’apparizione de3l concetto di humanitas, influenzato dal greco philantropia, che
non rappresenta una caratteristica esclusiva di Terenzio ma è in perfetta sintonia con la cultura
greca che si sta diffondendo. Non è casuale però che la commedia terenziana di maggior successo
sia quella che più si avvicina alla comicità plautina e in cui meno compaiono i temi psicologici e
umanistici.
Terenzio comunque ebbe sempre il consenso dei critici più colti e sensibili che apprezzarono
soprattutto la purezza della sua lingua e la raffinatezza del suo stile.

LUCILIO (180.102 a.c)

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È il primo letterato di buona famiglia che conduce una carriera da scrittore, volontariamente
lontano dalle cariche pubbliche e della vita politica.
Oggi abbiamo trenta libri di satire tutti in frammenti. I libri 1-21 sono tutti in esametri dattilici, 22-
25 forse in distici elegiaci, 26-30 in metri giambici. Lucilio si orientò progressivamente verso
l’esametro, segno di provazione, così infatti un verso “eroico” come l’esametro, veniva adattato a
una materia quotidiana e a una dizione colloquiale.
Non è sicuro che il titolo SATURAE risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine SATURA per
designare quel genere di poesia inaugurato da Lucilio. Nei frammenti che ci restano Lucilio chiama
le sue composizioni poemata o anche sermones.

LUCILIO E LA SATIRA
L’opera di Lucilio si radica nello sfondo culturale del circolo scipionico, i grandi personaggi del
circolo furono i protettori di Lucilio. Tipiche dell’opera di Lucilio sono l’indipendenza di giudizio,
l’interesse per la vita contemporanea e la verve polemica. La sua appartenenza alla ricca
aristocrazia gli permetteva di non vivere del proprio lavoro letterario e il suo inserimento
nell’ambiente degli Scipioni gli consentiva di muovere attacchi contro alcuni degli uomini più in
vista della sua Roma contemporanea.
La satira all’inizio non sembra aver nulla a che fare né con i satiri, né con il teatro comico greco. È
invece sicuro che nella Roma antica, satura lanx indicasse un piatto misto di primizie che venivano
offerte agli dei; ma anche lex per saturam, quando si riunivano stralci di vari argomenti in un
singolo provvedimento legislativo. Fondandosi su queste attestazioni è probabile che il valore di
“mescolanza e varietà” fosse quello originario e che lo si percepisse anche nell’impiego letterario
del termine. L’impulso originario della satira è specificatamente romano. Questo impulso, forse
inizialmente si può riconoscere come un genere letterario disponibile ad esprimere la voce
personale del poeta; ripercorrendo infatti la letteratura latina fino a Lucilio si nota che nessun
genere prevede uno spazio di espressione diretta, in cui il poeta può rispecchiare il rapporto con
se stesso e con la realtà contemporanea.
La grande importanza storica di Lucilio sta nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere della
satira che invece Ennio, ad esempio, aveva coltivato solo come genere minore. Lo sviluppo della
satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta e desideroso
di una letteratura più vicina alla realtà contemporanea.
Il primo libro conteneva una composizione nota come “CONCILIUM DEORUM”, attraverso una
parodia dei concili divini, Lucilio prendeva di mira un personaggio inviso agli Scipioni: gli dei
decidevano di farlo morire per indigestione.
Il terzo libro conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia. In più di una satira si fornivano
precetti culinari.
Il libro 16 pare fosse dedicato alla donna amata. Sono poi ampiamente attestate disquisizioni su
problemi letterari: giudizi su questioni di retorica e di poetica e vere e proprie analisi critico-
letterarie.
Lucilio deride il gusto enfatico e declamatorio. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile e si apre
in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell’epica e i linguaggi specializzati, forme del

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linguaggio di tutti i giorni. In questo senso Lucilio è quanto di più vicino al contemporaneo offre la
letteratura latina. Non manca inoltre un impegno educativo legato alla critica sociale e
all’anticonformismo. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente rivolta a un preciso
programma espressivo, che fonde insieme vita e arte.
Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini. Orazio tuttavia critica Lucilio per la vena
torrenziale e la scarsa finitura formale.

LA POESIA NEOTERICA E CATULLO


Poetae novi, è la sprezzante definizione usata da Cicerone per indicare il moderno gusto poetico di
una corrente che si sviluppa e si afferma nel 1 secolo. Questi poeti mostravano un rifiuto
irriverente per la tradizione nazionale, per seguire un ideale poetico d’avanguardia: cantores
Euphorionis, dal nome del poeta Euforione di Calcide, celebre per la ricercata densità e la preziosa
erudizione dei suoi versi. La nascita dei cosiddetti poetae novi non è altro che uno degli aspetti del
fenomeno di ellenizzazione dei costumi. Nel campo letterario si assiste ad un lento ma progressivo
indebolimento dei valori e delle forme della tradizione, di generi letterari politicamente impegnati
e di contro l’emergere di tendenze nuove date dall’affinarsi del gusto e della sensibilità.
Una manifestazione dell’attenzione rivolta alla cultura greca è la comparsa, fra l’elite romana, di
un nuovo tipo di poesia leggera e breve, destinata al consumo privato e all’espressione dei
sentimenti personali. I latini chiamarono questo genere di componimenti nugae cioè “bagatelle”,
per indicarne la natura disimpegnata, di semplice intrattenimento. Questa poesia nugatoria è
frutto dell’otium, dello spazio sottratto agli impegni civili, la rivendicazione delle esigenze
individuali, l’interesse per i sentimenti privati come l’amore. Una caratteristica fondamentale è poi
ricerca di elaborazione formale.
Nonostante gli elementi di continuità tra la poesia nugatoria e quella neoterica, lo scarto che
quest’ultima introduce nella letteratura latina è molto più netto. La poesia neoterica non concede
all’otium, solo uno spazio limitato, ma lo colloca al centro dell’esistenza. Questa rivolta del genere
letterario è però certamente accompagnata da una più generale rivolta di carattere etico e mostra
la crisi dei valori del mos maiorum. Da una parte abbiamo un crescente disinteresse per la vita
attiva al servizio dello stato; dall’altra parte l’affermarsi del gusto dell’otium, del tempo libero
dedicato alle lettere e ai piaceri. Il rifiuto della vita impegnata si riflette nel diffondersi
dell’epicureismo, di una filosofia che predica la rinunzia ai negotia politico-militari per una vita
appartata e tranquilla.
È evidente la convergenza fra l’epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici ma c’è una differenza
fondamentale nel rapporto dei due con l’amore. Per gli epicurei, il cui fine è l’atarassia, cioè il
piacere senza turbamenti, l’amore è una malattia insidiosa; mentre per i poeti neoterici l’amore è
il sentimento centrale della vita. Esso diventa perciò anche il tema privilegiato della loro poesia ed
è proprio il culto delle passioni ad alimentare la poesia stessa.
La cura scrupolosa, il lavoro di lima sono il tratto distintivo della nuova poetica callimachea. Catullo
e i neoteori deridono gli stanchi imitatori di Ennio e l’epica tradizionale. Saranno invece altri generi
quelli preferiti dalla poetica callimachea a e adatti al labor limae: quelli brevi come ad esempio
l’epigramma o l’epillio, il poema mitologico in miniatura, che così danno modo al poeta di far

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sfoggio della propria preziosa erudizione e di attuare raffinate strategie compositive. Nasce così un
nuovo linguaggio poetico.

I POETI NEOTERICI
Il poeta Levio segna un progresso rispetto alla prima poesia nugatoria: egli elabora più
originalmente i suoi modelli e sperimenta nuove forme espressive. È un anello intermedio, un
precursore della poesia neoterica vera e propria.
Un caposcuola delle nuove tendenze poetiche è invece Valerio Catone. Lettore e critico temuto di
poesia, severo maestro del gusto. Oltre a opere filologiche compose opere poetiche, molto
probabilmente epilli.
Sltro è Varrone Atacino che continuò la poesia di stampo enniano componendo un poema storico
ma aderì al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata LEUCADIA, dal nome della donna amata,
che i poeti elegiaci indicheranno fra gli incunaboli della poesia erotica latina. Ma di lui va
soprattutto ricordato il poema epico ARGONAUTAE, libera traduzione in esametri latini delle
Argonautiche di Apollonio Rodio, epica che faceva largo spazio all’eros.
Due altri poeti di rilievo nella cerchia neoterica sono Cinna e Calvo. Cinna fa da punto di
riferimento per la poesia neoterica grazie alla sua adesione ai principi del nuovo gusto. Uno dei
componimenti di Cinna costituì il modello esemplare della poetica di ascendenza callimachea.
Calvo fu oratore famoso e atticista, compose oltre a epigrammi di invettiva politica anche
epitalami. Scrisse anche lui un epillio.

CATULLO (84-54 a.c)


Catullo nasce nella Gallia Cisalpina. A Roma Catullo conobbe e frequentò personaggi di spicco
dell’ambiente politico e letterario, come Ortensio Ortalo, Cinna, Calvo, Cornelio Nepote. Ebbe una
relzione d’amore con Clodia, la Lesbia dei suoi versi, sorella del tribuno Plubio Clodio Pulcro e
moglie di Cecilio Metello, console nel 60. Probabilmente nel 57 andò in Bitinia membro
dell’entourage del governatore Gaio Memmio; in questa occasione visitò la tomba del fratello.
Di Catullo abbiamo circa 116 carmi, raccolti in un liber che si suole di norma suddividere, su base
metrica, in tre sezioni. Il primo gruppo 1-60, è costituito da componimenti brevi e di carattere
leggero, di metro vario, soprattutto in endecasillabi faleci ma anche trimetri giambici e saffiche. Il
secondo gruppo 61-68 abbraccia carmi di maggiore estensione e impegno stilistico, sono i
cosiddetti carmina docta. La terza sezione 69-116 comprende carmi generalmente brevi in distici
elegiaci, i cosiddetti “epigrammi”.
Per la composizione del liber catulliano, i più tendono a credere che questo ordinamento non sia
opera dell’autore ma di altri, organizzato dopo la sua morte. Abbiamo dunque un’edizione
postuma che tra l’altro non comprende nemmeno tutti i carmi di Catullo dal momento che alcuni
di questi ci sono giunti per tradizione indiretta, cioè non all’interno del liber. Bisognerà quindi
supporre che il libellus dedicato da Catullo a Cornelio Nepote non corrispondesse esattamente al
liber intero, ma ne costituisse solo una parte.

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Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi, ma ci informa di lui anche Svetonio
nella biografia di Giulio Cesare. Invece che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia lo sappiamo da
Apuleio.

I CARMI BREVI
In Catullo l’attività letteraria non si rivolge più all’epos o alla tragedia, i generi portavoce della
civitas, ma alla lirica, la poesia individuale, introversa. A questo progetto della dimensione intima,
dei sentimenti, risponde quella produzione poetica di Catullo che si è soliti chiamare “carmi brevi”,
cioè l’insieme degli epigrammi e dei polimetri, caratterizzati dalla modestia dei contenuti,
occasioni e avvenimenti della vita quotidiana e soprattutto la ricerca della perfezione formale.
Affetti, amicizie, odi e passioni sono gli oggetti della poesia di Catullo.
La celebrata spontaneità catulliana è in realtà un’apparenza ricercata ottenuta grazie a un ricco
patrimonio di dottrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato
della realtà, hanno i loro modelli letterari.
Non si deve dimenticare che il destinatario di ogni carme catulliano è una cerchia raffinata e colta.
Così entrano nei componimenti precise risonanze letterarie dissimulate in una parvenza di
immediatezza giocosa. D’altra parte sono presenti solide strutture formali. Si può scoprire che un
bilanciato gioco di antitesi o di richiami simmetrici si cela dietro quelle parole che vogliono
apparire dettate dalla passione più immediata. Ad esempio l’analisi del carme 5, il carme dei baci,
rivela l’attenta costruzione di quel che appare espressione spontanea, incontrollata, nulla è
lasciato ad una disposizione casuale degli effetti.
Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall’ambiente letterario della capitale, da un ideale di
grazia e brillantezza di spirito: lepos, venustas, urbanitas, sono i principi che fondano questo
codice etico e insieme estetico che ispira il gusto letterario ed artistico. Su questo sfondo risalta la
figura di Lesbia, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che
rievoca Saffo, è sufficiente a creare attorno alla donna un alone idealizzante, oltre alla grazia, sono
soprattutto cultura e spirito brillante ad alimentare la passione di Catullo. Gioie, sofferenze e
tradimenti scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza più
importante della sua vita. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli attribuiva la
letteratura tradizionale, ora diventa il centro dell’esistenza, il solo in grado di risarcire la fugacità
della vita umana.
All’amore e alla vita sentimentale Catullo dedica tutto il suo impegno. Sottraendosi ai doveri e agli
interessi di un cittadino romano: resta estraneo alla politica.
Il rapporto con Lesbia, nato come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto
esclusivo dell’impegno morale del poeta, tende a configurarsi come un vincolo di matrimonio. Le
recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del
poeta che si appella a due valori cardini dell’ideologia romana, la fides, che garantisce moralmente
il patto stipulato e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri.
L’offesa ripetuta del tradimento di Lesbia produce nel poeta una dolorosa dissociazione fra la
componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene velle).

I CARMINA DOCTA

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Catullo contrappone ai caratteri della scuola enniana, brevità, eleganza e dottrina. Solo i più
raffinati tuttavia potranno apprezzare la nuova epica elaborata come ad esempio l’epillio, un
poemetto breve che favorisce il paziente lavoro fi rifinitura stilistica e sul piano dei contenuti
permette al poeta di dar sfoggio alla sua preziosa dottrina, infatti all’interno dell’epillio troviamo di
solito vicende mitologiche esotiche e dai risvolti passionali.
Dottrina e impegno stilistico sono particolarmente noti ed evidenti nei carmi che per questo
motivo sono definiti “dotti”, all’interno dei quali Catullo sperimenta anche nuove forme
compositive.
Anche Catullo, come tutti i poeti neoterici, si cimenta nell’epillio, il carme 64 ne costituirà quasi il
modello esemplare della letteratura latina. Questo celeberrimo poemetto narra le nozze tra Peleo
e Teti, ma nella vicenda principale, troviamo la tecnica alessandrina dell’ekphrasis e della
digressione, incastonata vi è infatti un’altra storia oltre a quella principale, la storia
dell’abbandono di Arianna da parte di Teso. L’intreccio delle due vicende d’amore, amore infelice
di Arianna e amore felice di Peleo e Teti, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il
loro nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano. Il mito si fa
proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno di avere un vincolo saldo, un
foedus duraturo.
Epitalami, cioè canti nunziali sono i carmi 61 e 62. Il carme 61 riunisce il carattere greco di questo
componimento, genere letterario fiorito da Saffo all’età alessandrina e una serie di elementi
tipicamente italo-romani per quanto riguarda il rito nunziale, con tutte le sue implicazioni etiche e
sociali.
L’altro epitalamio il 62, è costituito da una serie di strofe cantate alternatamente da due cori di
giovani e fanciulle sul tema del matrimonio e della verginità. Questo componimento, rispetto al
61, rivela una maggiore adesione ai caratteri formali del genere, evidente soprattutto nella
struttura e nei topoi saffici.
Nel ciclo dei carmina docta è presente anche un componimento che è un omaggio a Callimaco: si
tratta di una traduzione in latino di un’elegia famosa del poeta greco, “la chioma di Berenice”. Qui
Catullo accentua temi centrali della sua ideologia: esaltazione della fides, della pietas, condanna
dell’adulterio e celebrazione delle virtù eroiche, dei valori tradizionali.
Particolarmente complesso è il carme 68 che riassume i temi principali della poesia di Catullo,
come l’amicizia, l’amore, l’attività poetica. Il ricordo dei primi amori con Lesbia sfuma nel mito che
si fa archetipo esemplare della vicenda di Catullo e Lesbia, di un’unione precaria e imperfetta. Il
carme 68, con il largo spazio concesso al ricordo e alla vita vissuta, diventerà il progenitore della
futura elegia soggettiva latina.

LO STILE
In Catullo dominante è l’influsso della letteratura alessandrina e dell’intensa affettività di Saffo e
Archiloco. La lingua catulliana è il risultato di un originale combinazione di linguaggio letterario e
sermo familiaris: il lessico e le movenze della lingua parlata vengono assorbite e filtrate da un
gusto aristocratico. Uno stile composito. La vitalità del linguaggio affettivo e del pathos non sono
assenti nemmeno nei carmina docta anche se la selezione di un lessico generalmente più ricercato

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e le movenze della poesia alta, concorrono a dare ai carmina docta un carattere più spiccatamente
letterario.

LA FORTUNA
Catullo ebbe un successo vasto e immediato, esercitò un influsso profondo sui più grandi poeti
augustei.

LUCREZIO (98-55)
La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nella traduzione di San Gerolamo dell’opera di
Eusebio. Alcuni manoscritti di Gerolamo collocano la data di nascita nel 96, altri nel 94, la data di
morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51. Oggi 98 e 55 sono generalmente ritenute le date più
verosimili.
Va con ogni probabilità esclusa la notizia sulla follia di Lucrezio, nata in ambiente cristiano nel 6
secolo, al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio.
Nulla di concreto si può affermare sulla provenienza del poeta, alcuni pensano sia campano,
mentre altri sostengono sia nato a Roma. All’interno della “Vita Borgiana” di Gerolamo Borgia si
sostiene che il poeta visse in stretta intimità con Cicerone. Però l’unico riferimento a Lucrezio
nell’opera di Cicerone è in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54.
Il poema in esametri De Rerum Natura, in sei libri, forse non finito o comunque mancante
dell’ultima revisione, è dedicato all’aristocratico Memmio, verosimilmente da indentificare con
Gaio Memmio, amico e patrono di Catullo. Il de rerum natura dopo la morte di Lucrezio venne
rivisto e pubblicato da Cicerone. Il testo del de rerum natura è conservato integralmente da due
codici del 9 secolo. Un certo numero di codici umanistici riproduce il testo tratto dal codice che
Poggio Bracciolini riscoprì nel 1418.

LUCREZIO E L’EPICUREISMO ROMANO


La via scelta dall’elite romana nei confronti della cultura greca era stata quella di un filtraggio
attento, che eliminasse gli elementi potenzialmente pericolosi per l’assetto istituzionale della res
publica. Tra questi pericoli, come sosteneva lo stesso Cicerone, vi era sicuramente l’epicureismo.
Questo è visto come dissolutore della morale tradizionale, perché predicando il piacere come
sommo bene e suggerendo la ricerca della tranquillità, tende a distogliere i cittadini dall’impegno
politico. Anche la concezione epicurea di divinità, negando l’intervento divino nelle azioni umane,
tendeva a creare impicci ad una classe dirigente che utilizzava la religione come strumento di
potere. Tuttavia nel 1 secolo l’epicureismo si era riuscito a diffondere negli strati elevati della
società romana. E un cenacolo epicureo sorgeva anche a Napoli. Pian piano l’epicureismo iniziò a
diffondersi anche presso la plebe, attratta dalla facilità di comprensione dei testi; va infatti
ricordato l’universalismo del messaggio epicureo, rivolto a persone di ogni rango sociale.
Lucrezio per divulgare a Roma la dottrina epicurea scelse il poema epico-didascalico. Ciò destò
molta sorpresa, Epicuro infatti aveva condannato la poesia per la sua stretta connessione con il
mito e per le belle invenzioni con cui raggirava pericolosamente i lettori, allontanandoli da una

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comprensione razionale della realtà. Nella sua scelta, Lucrezio fu guidato, probabilmente, dal
desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che, anche nella forma,
non avesse niente da invidiare alle altre filosofie. Proprio all’inizio del poema Lucrezio afferma che
il suo scopo è “cospargere col miele delle muse” una dottrina che è apparentemente amara.
Lucrezio ha dunque come modello Omero, maestro del poema; ma anche Empedocle e il suo
atteggiamento profetico di rivelatore della verità.

IL POEMA DIDASCALICO
Il titolo del poema lucreziano De rerum natura, traduce fedelmente quello della più importante
opera di Epicuro, il perduto Peri physeos. In 1 41 Lucrezio afferma che Memmio non può sottrarsi
alla cura del bene comune in un momento difficile per la patria, si tende a pensare che il
riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59.
Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi). Nel 1 libro, dopo l’apertura con
l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della natura, sono esposti i principi della
fisica epicurea: gli atomi, muovendosi nel vuoto, si aggregano in modi diversi e danno origine a
tutte le realtà esistenti. Nascita e morte sono costituite da questo continuo processo di
aggregazione e disgregazione.
Nel 2 libro è illustrata la teoria del clinamen: nel moto degli atomi interviene una “inclinazione”
minima che permette una grande varietà di aggregazioni
I libri 3 e 4, che costituiscono la seconda coppia, espongono l’antropologia epicurea. Il libro 3
spiega come il corpo e l’anima siano entrambi costituiti da atomi aggregati ma di forma diversa;
l’anima non può perciò sottrarsi al processo di disgregazione che investe tutti gli atomi in quanto
tali, di conseguenza essa muore con il corpo e non c’è da attendersi un destino ultraterreno. Il
libro 4 prende in esame il procedimento della conoscenza, trattando la teoria dei simulacra: sottili
membrane, composti di atomi, che arrivano fino agli organi di senso. A questo punto Lucrezio,
introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e indica la causa unica di questa
passione nell’attrazione fisica.
La terza coppia di libri ha per oggetto la cosmologia: il libro 5 dimostra la mortalità del nostro
mondo. Il libro 6 si sforza di fornire spiegazioni naturali di vari fenomeni fisici. Sulla narrazione di
terribili eventi catastrofici, si colloca la descrizione della peste di Atene del 430, con cui si chiude
l’opera.
Il de rerum natura probabilmente non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore: lo dimostrano
alcune ripetizioni di versi. Problemi particolari ha destato il finale del poema. Poiché nel libro 5,
Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dei, si è pensato che proprio questa
descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del de rerum natura. Se si
accoglie questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena, andando
a chiudere il cerchio con l’inno a Venere con cui si apre. Oppure, la chiusura con la peste di Atene,
risponde alla precisa volontà di Lucrezio di contrappore l’apertura del poema e il finale come una
sorta di “trionfo della vita” e “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna
conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.

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Prima del De rerum natura la letteratura latina non aveva prodotto opere di poesia didascalica di
grande impegno. La tradizione latina non offriva dunque molti esempi di poesia didascalica. D’altra
parte Lucrezio rispetto ai poeti ellenistici, che avevano utilizzato questo genere, si differenzia in
quanto ambisce a descrivere e soprattutto a spiegare, ogni aspetto della vita del mondo e
dell’uomo e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea.
Nell’opera lucreziana, il lettore-discepolo viene continuamente esortato affinchè segua con
diligenza il percorso educativo. Questa è un'altra differenza rispetto alla poesia ellenistica
didascalica che si limita per lo più a descrivere fenomeni, mentre quella di Lucrezio indaga le cause
e propone al lettore una verità, una ratio.
L’intenzione del genere didattico ellenistico era stato encomiastico: esso rendeva lode alle cose e
suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé meraviglioso. Al contrario in Lucrezio non c’è
meraviglia davanti al fenomeno perché esso è connesso necessariamente con una regola oggettiva
e non può trarne stupore chi ha capito i principi delle cose. Alla “retorica del mirabile” Lucrezio
sostituisce “la retorica del necessario”.
Il sublime, non è solo una forma di interpretazione del mondo per l’autore, ma diventa una forma
di percezione delle cose per il lettore che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue
leggi. Il sublime dunque rende il lettore partecipe della grande ed emozionante descrizione
lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Così tutto il de rerum natura si configura come un
protreptikos logos, un insegnamento che contiene un drammatico consiglio: il lettore deve
divenire lo specchio della sublimità universale e trovare dentro di se la forza dell’accettazione e
dell’adeguamento.
Nel progetto didascalico lucreziano il testo prevede un lettore pronto ad ingaggiare quasi una lotta
con l’insegnamento. Sembra che Lucrezio attraverso il sublime voglia liberare il suo destinatario
dalla schiavitù del piacere facile.
Quel che nel genere didascalico tradizionale è una cornice, il rapporto docente-allievo, diventa nel
De rerum natura, un centro di tensione ed un tema problematico. Da questo discendono alcune
delle caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Uno
spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto,
ciò che è troppo lontano per essere osservato direttamente.
Il 3 libro è dedicato alla confutazione del timore per la morte. Lucrezio propone ben 29 diverse
prove per sostenere la sua tesi, il loro accumularsi e l’elaborazione nella scelta degli esempi,
creano un’innegabile forza persuasiva.
In questo libro è inoltre chiaro un altro carattere dell’opera, il suo collegamento con la letteratura
diatribica. Questa aveva come caratteristica la presentazione semi-drammatica del contenuto, con
frequenti spunti satirici e il concorso di più personaggi fittizi.

STUDIO DELLA NATURA E SERENITà DELL’UOMO


Lucrezio rivolgendosi al lettore, chiede di non considerare empia la dottrina che si accinge ad
illustrare e a riflettere piuttosto su quanto empia fosse invece la religione tradizionale. Secondo
Lucrezio, la religione è in grado di opprimere sotto il suo pesola vita degli uomini: ma se gli uomini
sapessero che dopo la morte c’è il nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione

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religiosa e dei timori che esse comporta. A tal fine è dunque necessaria una conoscenza sicura
delle leggi che regolano l’universo. Questo messaggio di Lucrezio è capace di mettere in
discussione i fondamenti culturali dello stato romano.
Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia religiosa. Il filosofo greco era stato il primo
che “osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa nel cielo”. Per questo egli
può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali:
tranne il 2 il 4 tutti i libri si aprono con una celebrazione dei meriti di Epicuro. Questi credeva che
gli dei vivessero negli intermundia, la zona tra terra e cielo, e fossero incuranti delle vicende
umane, essi potevano costituire solo un riferimento ideale. Era invece esclusa l’ipotesi che l’uomo
fosse soggetto ad un rapporto di dipendenza agli dei. Lucrezio recupera questo senso intimo della
religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente.
Nell’ambito del 5 libro una sezione è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge
spontaneo per ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo.

IL CORSO DELLA STORIA


Lucrezio dedica un’ampia parte dell’opera alla storia del mondo, del quale era stata chiarita la
natura mortale, originato da una casuale aggregazione di atomi e destinato alla distruzione. Il
terreno umido e il calore hanno poi generato i primi esseri viventi. I primi uomini conducevano
una vita agreste. 7
Fra le tappe del progresso umano Lucrezio tratta un profilo di quelle positive: la scoperta del
fuoco, del linguaggio, dei metalli, della tessitura e di quelle negative: l’inizio dell’attività bellica e
del timore religioso. Sono caso e bisogno materiale i fattori di avanzamento della civiltà.
Lucrezio si concentra poi sulla decadenza morale che il progresso ha portato con se: il sorgere dei
bisogni innaturali, della guerra, delle ambizioni e cupidigie personali, hanno corrotto la vita
dell’uomo. Tuttavia a questi problemi l’epicureismo, secondo Lucrezio, è in grado di fornire una
risposta invitando a riscoprire le poche cose di cui ha bisogno il corpo. Epicuro aveva prescritto di
evitare i bisogni non naturali e di badare solo al soddisfacimento di quelli naturali e necessari. Il
“progetto sociale” di Epicuro e di Lucrezio è coerente con queste premesse: il saggio deve
allontanarsi dalle tensioni della vita politica (lathe biosas: vivi nascosto) e dedicarsi allo studio
della natura con gli amici più fidati.
Nel proemio del 2 libro, i saggi sono paragonati a coloro che al sicuro sulla terraferma, osservano
distaccati il mare in tempesta, l’altrui pericolo. Lucrezio vuole insegnare a tutti gli uomini come
raggiungere le regioni fortificate della scienza dei saggi.

L’INTERPRETAZIONE DELL’OPERA
Uno degli obiettivi dell’autore è certamente quello di convincere razionalmente il suo lettore.
L’accesa confutazione della tesi stoica spiega perché Lucrezio insiste a lungo sull’idea che la natura
è del tutto incurante delle esigenze dell’uomo.
Quando, nel finale del 4 libro, si scaglia contro le insensatezze della passione amorosa, è
probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una
passione irrazionale che non ha alcuna giustificazione nella natura. In questo particolare caso,

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avranno agito anche altri stimoli culturali, come la volontà di opporsi alla poetica dei poeti
neoterici.
Lucrezio ripete molto spesso, che la ratio da lui esposta è, per chi la assimila, messaggera di
serenità e libertà interiore, che trae origine dalla comprensione razionale dei meccanismi di
nascita. Lucrezio invita all’accettazione consapevole di ogni cosa.
Nel terzo libro Lucrezio afferma che con la morte la nostra sensibilità si perde del tutto e dunque
sarebbe stolto temere un oltretomba che non esiste. Tutto questo però non basta ad eliminare
l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba finire; proprio su questo punto
Lucrezio si irrigidisce: se la vita trascorsa è stata piacevole, nulla di diverso può essere
sperimentato in futuro; al contrario se la vita è stata piena di sofferenze meglio concluderla.

LINGUA E STILE DI LUCREZIO


Cicerone esalta la grande capacità di elaborazione artistica di Lucrezio. Anche lo stile doveva
piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano così le frequenti ripetizioni, nelle quali a lungo
si è visto un segno di immaturità stilistica.
L’invito all’attenzione del lettore doveva essere ripetuto spesso e alcuni termini della fisica
epicurea e alcuni nessi logici dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di
familiarizzare con un linguaggio difficile. Inoltre alla lingua latina mancava la possibilità di
esprimere certi concetti filosofici e dunque Lucrezio dovette ricorrere a perifrasi nuove. Lucrezio
sfrutta una gran mole di vocaboli poetici che la tradizione arcaica fornisce, specie nel campo degli
aggettivi composti. Uso di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, proprio del gusto espressivo-
patetico dei più antichi poeti di Roma.
In campo grammaticale i due più vistosi fenomeni sono il gran numero di infiniti passivi in –IER e il
prevalere della desinenza –AI nel genitivo singolare della prima declinazione.
L’esametro lucreziano predilige l’incipit dattilico. Verso per lo più composto da due parti
equivalenti che con il moderato ricorso alle enjambement, permette una struttura lineare e pacata
per la comprensione del contenuto.
Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano
le riprese di Omero, Platone, Eschilo, Euripide e tutta la descrizione della peste di Atene. Non
mancano i segni nemmeno del ricorso ai poeti ellenistici più raffinati come Callimaco
Certamente però il tratto distintivo dello stile lucreziano va individuato nella concretezza
dell’espressione. Visibilità e percettività degli oggetti, corporalità dell’immaginario; mancanza di
linguaggio astratto. Lucrezio inoltre deve supplire i vuoti verbali ricorrendo a una vasta gamma di
immagini ed esempi esplicativi. Ma le immagini e le similitudini, utilizzate per evocare, non restano
soltanto mezzi destinati ad illustrare in modo comprensibile l’argomentazione astratta ma
diventano il risvolto emozionale di un discorso intellettuale.
Stile severo, capace di durezze e di eleganze, pronto alla commozione e alla meraviglia ma anche
all’invettiva profetica.

LA FORTUNA DI LUCREZIO

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Scarsa è la presenza di Lucrezio negli autori del 1 secolo, anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non
mancano di tributargli lodi.
Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a
Firenze perché sia copiato: ha inizio la rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna.
Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del
moderno metodo filologico.

CICERONE (106- 43 a.c)


Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a.c, compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma e inizia a
frequentare il foro sotto la guida di Licinio Crasso. Nel 80 debutta come avvocato difendendo la
causa di Sesto Roscio, che lo mette in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Tra il
79 e il 77 compie un lungo viaggio in Grecia e in Asia. Al ritorno sposa Terenzia. Nel 75 è questore
in Sicilia, nel 70 sostiene trionfalmente l’accusa dei siciliani contro Verre. Nel 66 è pretore e da
appoggio alla proposta di concedere a Pompeo potrei straordinari per la lotta contro Mitridate, re
del Ponto. Nel 63 e console e reprime la congiura di Catilina. Dopo la formazione del primo
triunvirato, nel 58 deve recarsi in esilio, con l’accusa di aver messo a morte senza processo i
catilinari, la sua casa viene rasa al suolo. Tra il 56 e il 51 compone il De Oratore, il De Republica e
inizia a lavorare al De Legibus. Allo scoppio della guerra civile nel 49, aderisce con lentezza alla
causa di Pompeo. Nel 46 scrive il Brutus e l’Orator. Nel 45 muore la figlia Tullia, inizia la
composizione di una serie di opere filosofiche, mentre il dominio di Cesare lo tiene lontano dagli
affari pubblici. Nel 44 dopo la morte di Cesare, torna alla vita politica e inizia la lotta contro
Antonio. Dopo il voltafaccia di Ottaviano che si stringe in triunvirato con Antonio e Lepido, il nome
di Cicerone viene inserito nelle liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio nel 43.
Opere:
1) orazioni: Pro Roscio Amerino nel 80; Pro lege Manilia nel 66; Pro Murena nel 63;
Catilinariae nel 63, Pro Archia nel 62; De Domo Sua nel 57; Pro Sestio nel 56; Pro Caelio nel
56; In Pisonem nel 55; Pro Milone nel 52; Philippicae nel 44-43
2) opere retoriche: De inventione nel 84; De Oratore nel 55; Brutus nel 46; Orator nel 46;
3) opere politiche: De Re Publica nel 54-51; De Legibus nel 52
4) opere filosofiche: De finibus bonorum et malorum nel 45; Tusculanae Disputaziones nel 45;
De natura deorum nel 45; De officis nel 44
5) epistolario: Ad familiares, Ad Atticum, Ad Qiuntus Fratem, Ad Marcum Brutum (di
autenticità controversa)
6) opere poetiche: solo frammenti Juvenalia; Aratea; De consulatu suo; Marius
7) opere in prosa perdute: Hortensius nel 45; De Gloria nel 44

TRADIZIONE E INNOVAZIONE NELLA CULTURA ROMANA


Cicerone è protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica, egli elabora
un progetto etico-politico nel vano tentativo di porvi rimedio. La sua rimane un’ottica legata al

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progetto di egemonia di un blocco sociale, dei ceti più ricchi cioè. Cicerone grande avvocato,
manipolatore delle parole ai fini della persuasione, mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li
teorizza nei trattai retorici. La sua ars dicendi utilizza una tecnica funzionale al dominio
dell’uditorio.
Il fine delle sue opere filosofiche e di dare una solida base ideale, etica, politica a una classe
dominante, il cui rispetto per la tradizione nazionale (il mos maiorum) non impedisca
l’assorbimento della cultura greca; una classe dominate all’interno della quale l’assolvimento dei
doveri verso lo stato non renda insensibili ai piaceri di un otium nutrito di arti. In poche parole
tutto ciò che è rinchiuso nel concetto di HUMANITAS: quella coscienza culturale che è frutto di
incivilimento. L’humanitas, formata dall’otium e dall’officium, dà vita al bonus vir.

L’EGEMONIA DELLA PAROLA: CARRIERA POLITICA E PRATICA ORATORIA


L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma.
Cicerone aveva già all’attivo alcune cause quando nel 80 assunse la difesa in un processo che, per i
suoi risvolti politici, ebbe vasta risonanza nella società romana (Pro Roscio Amerino). All’interno di
questa orazione per quanto probabilmente provasse disgusto per gli aspetti più ripugnanti del
regime sillano, Cicerone non potè fare altro che coprire Silla di lodi.
Lo stile oratorio della Pro Roscio Amerino non è ancora quello del Cicerone maturo. L’oratore si
mostra ancora legato agli schemi dell’asianesimo. Mette in mostra la capacità di creare ritratti
satirici.
Dopo il successo della difesa di Roscio, Cicerone si allontanò da Roma per un paio d’anni. Compì un
viaggio di studio in Grecia e in Asia e nel 75 ricoprì la questura in Sicilia. Nel 70 i siciliani, data la
fama che si era guadagnato, gli proposero di sostenere l’accusa del processo da essi intentato
contro l’ex governatore Verre, accusato di concussione. Cicerone si trovò ad affrontare il suo
maestro, Ortensio Ortalo, difensore di Verre. Al processo Cicerone potè pronunciare solo la prima
delle sue actiones in Verrem: dopo pochi giorni Verre venne dichiarato colpevole e condannato in
assenza. Cicerone pubblicò successivamente, in forma di orazione accusatoria, la seconda parte
dell’accusa contro Verre. Questa opera costituisce un documento importantissimo per conoscere i
metodi di cui si serviva l’amministrazione romana nelle province e mostare dunque la corruzione
dei singoli e delle masse.
La vittoria su ortensio fu anche una vittoria in campo letterario. Lo stile delle Verrine è già
pienamente maturo, Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze. Il periodare è più
armonioso, architettonicamente complesso. La gamma dei registri va dalla narrazione semplice,
all’ironia arguta, al pathos tragico. Verre è raffigurato come un personaggio squallido, come un
tiranno avido degli averi e un dissoluto.
Entrato in senato, Cicerone nel 66 parlò in favore del progetto di legge presentato dal tribuno
Manilio, per la concessione a Pompeo di poteri straordinari, reso necessario dall’urgenza di
affrontare in modo efficace la minaccia costituita da Mitridate. Cicerone insiste in particolare
sull’importanza dei tributi che affluivano dalle province orientali. Di tale beneficio la popolazione
di Roma sarebbe stata privata se Mitridate avesse vinto. Più che gli interessi del popolo però
Cicerone difendeva quelli dei pubblicani, i titolari delle compagnie di appalto delle imposte, per lo
più il ceto equestre, le cui attività erano ostacolate dall’operato di Mitridate. Cicerone aveva

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bisogno del loro sostegno per cementare la concordia dei ceti abbienti nella quale cominciava a
scorgere la via di uscita dalla crisi che minacciava la repubblica. Per sostenere il suo progetto era
necessario ascendere alla carica più alta dello stato e anche da questo punto di vista il sostegno
del ceto equestre era vitale per l’homo novus, che non aveva certo l’appoggio dell’aristocrazia.
Dunque la convergenza di Cicerone con Pompeo mirava all’appoggio del ceto equestre.
Fu proprio grazie alla moderazione di Cicerone che parte dell’aristocrazia decise di coalizzarsi con il
ceto equestre e di appoggiare la candidatura dell’homo novus di Arpino. Intanto i bisogni delle
masse trovavano risposta nell’azione di un aristocratico di origine sillana, Catilina, anche egli
aspirante alla magistratura. Console nel 63, Cicerone soffocò la congiura di Catilina. Le più celebri
fra le orazioni di Cicerone sono certamente le quattro catilinarie, con cui egli svelò le trame del
nobile sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la
decisione di far giustiziare i complici di Catilina senza processo. Sul piano artistico spicca la prima
catilinaria, nella quale Cicerone attaccò Catilina di fronte al senato riunito. I toni sono veementi,
minacciosi e ricchi di pathos. Cicerone fece inoltre ricorso ad un artificio retorico che in
precedenza non aveva mai utilizzato: la prosopopea (personificazione) della Patria, che è
immaginata rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Nella seconda catilinaria troviamo invece il
ritratto di Catilina e dei suoi complici.
Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda catilinaria, Cicerone si trovò a dover difendere
da un’accusa di corruzione elettorale Murena, console designato per l’anno successivo (Pro
Murena). Si oppongono a Murena e dunque Cicerone, Sulpicio Rufo e Catone l’utincese. Cicerone
scelse la via dell’ironia e dello scherzo. La Pro Murena è fra le orazioni più divertenti di Cicerone,
ha saputo trovare i toni di una satira lieve e arguta. L’orazione è poi interessante perché prende
qui l’arpinate prende posizione nei confronti dell’arcaico moralismo di Catone e inizia a
tratteggiare le linee di un nuovo modello etico, un modello in cui il rispetto per il mos maiorum sia
contemperato dall’addolcimento dei costumi.
Negli anni successivi Cicerone non cessò di esaltare la funzione storica del proprio consolato e
della lotta contro Catilina. Si ritenne un “padre della patria”.
Tuttavia la formazione del primo triunvirato segnò un rapido declino delle sue fortune politiche.
Un tribuno popolare, Clodio, presentò nel 58, una legge secondo la quale doveva essere
condannato all’esilio chi avesse fatto mettere a morte dei cittadini romani senza processo. La
legge mirava a colpire l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Non più sostenuto
dalla nobiltà, abbandonato da Pompeo, Cicerone fu costretto all’esilio. Richiamato a Roma nel 57
trovò una situazione tragica, si fronteggiavano, in continui scontri, le bande di Clodio e di Milone,
difensore della causa degli ottimati. Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovatosi a difendere
Sestio, un tribuno accusato da Clodio, espose nella Pro Sestio, la nuova versione della sua teoria
sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto intesa fra il ceto senatorio e quello equestre, la
CONCORDIA ORDINUM si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di
CONSENSUS OMINUM BONORUM, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate amanti
dell’ordine politico, pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della
famiglia. I boni, saranno d’ora in poi i destinatari della predicazione etico-politica di Cicerone.
Dovere dei boni sarà di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi
privati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. Tuttavia la
situazione di Roma spinge Cicerone a desiderare che il senato e i boni, per superare le loro

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discordie, siano guidati da personaggi eminenti, una teoria che verrà approfondita nel De
republica. In quest’ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento di Cicerone ai triumviri, nella
speranza di far si che il loro potere non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti
delle istituzioni repubblicane. Il periodo della collaborazione con i triumviri è tuttavia, un periodo
di grande incertezza per Cicerone; infatti da un lato continua ad attaccare Clodoio, come ad
esempio In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno
dei responsabili del suo esilio; dall’altra dà il suo appoggio alla politica dei triumviri, nel 56 parla in
favore del primo comando di Cesare in Gallia e difende vari personaggi legati a Cesare.
Fra le orazioni anti-clodiane un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (Pro
Celio), amico personale di Cicerone. Celio era stato l’amante di Clodia, contro Celio erano state
elaborate una serie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti di
Clodia. Attaccando Clodia Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del
fratello: la donna è dipinta come una volgare meretrice. Con questa orazione Cicerone ha modo di
dipingere uno spaccato della società romana del tempo e si sforza di giustificare agli occhi ei
giudici i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e che possono destare scandalo solo
agli occhi dei moralisti troppo attaccati al passato. Il modello culturale che Cicerone propone mira
a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala di valori che continui a essere
dominata dalle virtù della tradizione, tuttavia spogliate del loro eccesso di rigore e resi più
flessibili.
Nel 52 poi Clodio rimase ucciso e Cicerone assunse la difesa di Milone, l’avversario di Clodio (Pro
Milone). L’orazione è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle
argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del tirannicidio. Tuttavia
quella che noi abbiamo è una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi. Cicerone infatti
non riuscì a pronunciare l’orazione davanti ai giudici e Milone fu costretto all’esilio.
Nel 49, allo scoppio della guerra civile Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo.
Dopo la vittoria di Cesare, fu da quest’ultimo perdonato. Le orazioni cosiddette “cesariane” (Pro
Marcello, Pro Ligario e Pro rege Deiotaro) si collocano fra il 16 e il 45. Le orazioni miravano ad
ottenere la concessione del perdono ai pompeiani. Abbondano gli elogi a Cesare. La Pro Marcello
si sforza anche di suggerire a Cesare un programma politico di riforma dello stato rispetto alle
forme repubblicane.
Dopo l’uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere un uomo politico di primo piano. La manovra
politica di Cicerone tendeva a staccare Ottaviano da Antonio e a riportare il primo sotto le ali
protettrici del senato. Cicerone pronunciò, per indurre il senato a dichiararlo nemico pubblico,
contro Antonio, a partire dal 44, Le Filippiche (il nome allude alle requisitorie pronunciate Da
Demostene contro Filippo di Macedonia), forse 18. Per i toni di indignata denuncia si distingue la
seconda filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata). Un’orazione che spira odio,
dove Antonio viene presentato come un tiranno, un ladro del denaro pubblico, un ubriacone. La
manovra politica di Cicerone era destinata al fallimento. Con un brusco voltafaccia Ottaviano si
sottrasse alla tutela del senato e strinse un accordo con Antonio e Lepido (secondo triumvirato).
Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome fu inserito nelle liste di proscrizione.
Venne raggiunto a Formia nel 43.

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Cicerone durante la sua vita rimase sempre fedele all’ideale della concordia e alla causa del
senato. Anche il momentaneo riavvicinamento a Cesare fu dettato dal desiderio di mitigarne le
tendenze autocratiche. Il progetto di concordia dei ceti abbienti, significò un tentativo di superare,
in nome del superiore interesse della collettività, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la
scena politica romana. Cicerone però sottovalutò il peso degli eserciti personali nelle guerre civili e
forse si fece troppe illusioni sui boni: al tempo della guerra civile i ceti possidenti ritennero che le
loro esigenze fossero meglio garantite da Cesare, anche successivamente non fecero mancare il
loro consenso alla politica di Augusto.

L’EGEMONIA DELLA PAROLA: LE OPERE RETORICHE


Quasi tutte le opere retoriche di Cicerone sono state scritte a partire dal 55, un paio di anni dopo il
ritorno dall’esilio. Esse nascono dal bisogno di una risposta politica e culturale alla crisi.
In gioventù Cicerone, aveva iniziato senza portarlo a termine, un trattatello di retorica, il De
Inventione. Interessante è il proemio dove il giovane avvocato si pronuncia in favore di una sintesi
di eloquenza e sapientia, quest’ultima ritenuta necessaria alla formazione della coscienza morale
dell’oratore, l’eloquenza priva di sapientia è quella dei demagoghi, degli agitatori popolari ed ha
portato più di una volta gli stati alla rovina.
Molti anni dopo egli ritornerà sulle stesse tematiche nel De Oratore. Venne composto nel 55,
mentre Roma era sconvolta dalle bande di Clodio e Milone. È in forma di dialogo ed è ambientato
nel 91, vi prendono parte alcuni degli oratori più insigni dell’epoca, Marco Antonio e Lucio Licinio
Crasso. Nel 1 libro Crasso sostiene la necessità per l’oratore, di una vasta formazione culturale.
Antonio gli contrappone l’ideale di un oratore più istintivo, la cui arte si fondi sulle proprie capacità
naturali e sulla pratica nel foro. Nel 2 libro Antonio espone i problemi riguardanti la inventio, la
dispositio e la memoria. Nel 3 libro Crasso discute le questioni riguardanti l’elocutio e la
pronuntiato, cioè all’actio dell’oratore.
La scelta dell’anno 91 ha un significato particolare: e l’anno della morte di Crasso e l’anno che
precede di poco la guerra sociale.
Il modello a cui si ispira Cicerone per quest’opera è il dialogo platonico, nella villa di campagna di
un nobile romano. La ripresa del modello platonico per un’opera retorica, costituiva un notevole
scarto rispetto ai manuali greci del tempo, che si limitavano ad enunciare regole. Cicerone ha
saputo creare un’opera che, per quanto basata sulla conoscenza della letteratura specialistica
greca, si nutre dell’esperienza romana e conserva uno strettissimo rapporto con la pratica forense.
Il talento, la tecnica della parola non possono ritenersi bastevoli per la formazione dell’oratore, si
richiede invece una vasta formazione culturale (vir bonus). Crasso insiste perché probitas e
prudentia siano radicate nell’animo di chi dovrà apprendere l’arte della parola: consegnarla a chi
manca di queste virtù vorrebbe dire mettere delle armi nelle mani di forsennati. La formazione
dell’oratore viene in questo modo a coincidere con quella dell’uomo politico della classe dirigente,
egli dovrà servirsi della sua abilità, non per calmare il popolo con proposte demagogiche. Ma per
piegarlo alla volontà dei boni.
Nel 46 Cicerone riprese le tematiche del De Oratore in un trattato più esile, L’Orator. Delineando il
ritratto dell’oratore ideale, Cicerone sottolinea i tre fini ai quali la sua arte deve indirizzarsi:
probare (mostrare la tesi con argomenti validi); delectare (produrre con le parole una piacevole

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impressione estetica); flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondono
i tre registri stilistici che l’oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o patetico
(principalmente nella peroratio).
Molti accusavano Cicerone di non aver preso abbastanza le distanze dall’asianesimo: le accuse alla
sua oratoria si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, all’accettazione dell’elemento
ritmico; gli avversari di Cicerone invece privilegiavano uno stile semplice.
Sul contrasto Cicerone prese posizione nel 46, nel dialogo Brutus, dedicato a Marco Bruto, uno dei
principali rappresentanti delle tendenze atticiste. Nel Brutus Cicerone disegna una storia
dell’eloquenza greca e romana. Si comprende come la storia dell’eloquenza culmini in una
rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone. L’ottica in cui Cicerone
guarda al passato dell’oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali. la rottura
rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria di Cicerone: situazioni diverse richiedono
l’alternanza di registri diversi. La grande oratoria senza schemi ha il suo modello principe in
Demostene.
Contemporanea al Brutus è il De optimo genere oratorum, in un certo senso complementare ad
esso. E poi del 44 sono invece i Topica, ispirati ad un’omonima opera di Aristotele, i quali trattano
dei topoi, i luoghi comuni a cui può far ricorso l’oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare
nel discorso.

UN PROGETTO DI STATO
Il modello del dialogo platonico viene ripreso anche nel De Republica, a cui Cicerone lavorò
lungamente tra il 54 e il 51. Cicerone si proiettò nel passato per identificare la migliore forma di
stato nella costituzione romana.
Il dialogo si svolge nel 129 nella villa di Scipione Emiliano, che è con l’amico Lelio, uno dei principali
interlocutori. Una parte cospicua del dialogo venne ritrovata da Angelo Mai in un palinsesto
vaticano; alcuni brani di altre sezioni si sono trasmessi attraverso citazioni di scrittori antichi. Ci è
giunta in modo indipendente dal resto, la sezione finale, il Somnium Scipionis.
Nel primo libro Scipione parte dalle tre fondamentali forme di governo e della loro necessaria
degenerazione nelle forme estreme. Riprendendo una tesi dello storico greco Polibio, Scipione
mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse dalla degenerazione per il fatto di aver
saputo far coesistere le tre forme fondamentali.
Il libro secondo si occupava dello svolgimento della costituzione romana.
Il libro tre trattava della iustitia e si concentrava in una confutazione della critica che l’accademico
Carneade aveva svolto dell’imperialismo romano.
Il 4 libro si occupava dell’educazione dei cittadini.
Nei libri 4 e 5 Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae, o princeps; è
questa la parte più lacunosa dell’opera.
Il 6 libro si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione Emiliano, del sogno in cui gli era
apparso l’avo Scipione l’Africano, per mostragli, dall’alto cielo, l’insignificanza di tutte le cose
umane e rivelargli tutta la beatitudine che attende nell’al di là le anime dei grandi uomini di stato.

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Cicerone in quest’opera sembra pensare ad un èlite di personaggi eminenti che si ponga alla guida
del senato e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quello che nella
repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Cicerone intende mantenere il ruolo
del princeps all’interno dei limiti della forma statale, pensa alla coagulazione del consenso politico
intorno a leader prestigiosi. Perché la sua autorità non travalichi oltre i limiti costituzionali, il
princeps dovrà andare contro tutte le passioni egoistiche, è questo il senso del disprezzo verso
tutte le cose umane: repressione dei desideri individualistici e persecuzione del bene collettivo
(motivo del sogno).
Proprio la consapevolezza dei pericoli che comportava l’accentramento di enormi poteri nelle
mani di pochi capi, spinsero Cicerone verso un avvicinamento a Pompeo, nella speranza di
mantenere l’operato sotto il controllo del senato.
Cicerone completò il dialogo sullo stato con il De Legibus, iniziato nel 52 e mai pubblicato. Se ne
sono conservati i primi tre libri e frammenti del 4 e del 5. L’azione, stavolta, è posta nel presente e
interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico. L’ambientazione è nella
villa di Cicerone ad Arpino. Nel 1 libro Cicerone spone la tesi stoica secondo la quale la legge non è
sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini. Nel libro successivo,
l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa sulla
tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel
libro 3 Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.

UNA MORALE PER LA SOCIETà ROMANA


Cicerone cominciò a scrivere di filosofia solo nel 46, con l’operetta sui Paradossi degli stoici,
dedicata a Marco Bruto. Me è nel 45 che i lavori filosofici si infittiscono, in contemporanea con
eventi dolorosissimi nella vita di Cicerone. Nel febbraio di quell’anno morì la figlia Tullia e proprio
in questa occasione scrisse, per lenire il dolore, la Consolatio, per noi perduta.
Inoltre la dittatura di Cesare lo aveva privato di qualsiasi possibilità di intervento negli affari
pubblici. L’Hortensius, perduto, era un’esortazione alla filosofia, sul modello di Aristotele
Gli Academica, ebbero una doppia redazione. Ci restano il libro 2 della prima redazione, chiamato
Lucullus e il libro 1 della seconda redazione, il Varro.
Il De Finibus bonorum e malorum, dedicato a Bruto, è considerato da alcuni il capolavoro filosofico
di Cicerone. Tratta questioni etiche, cioè il problema del sommo bene e del sommo male che è
affrontato in cinque libri, comprendenti tre dialoghi: nel primo è esposta la teoria degli epicurei,
cui segue la confutazione di Cicerone; nel secondo si mette a confronto la teoria stoica con quelle
peripatetiche e accademiche; nel terzo è esposta la teoria eclettica di Antioco, maestro di
Cicerone.
Sempre di etica tratta un’altra delle maggiori opere filosofiche di Cicerone, le Tuscolanae
Disputationes, dedicate anche esse a Bruto e ambientate nella villa di Cicerone a Tusculo. L’opera,
in cinque libri, segna il massimo punto di avvicinamento di Cicerone allo stoicismo, è condotta in
forma di dialogo tra Cicerone e un anonimo interlocutore. Nei libri sono trattati rispettivamente i
temi della morte, del dolore, della tristezza, dei turbamenti dell’animo e della virtù come garanzia
della felicità. Siamo di fronte ad una grande summa dell’etica antica, davanti ad un trattato sul
tema della felicità.

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Nelle Tusculanae Cicerone cerca una risposta anche ai suoi personali interrogativi, da qui la
profonda partecipazione emotiva.
Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi: il De Natura Deorum, tre libri dedicato a
Bruto; il De Divinatione, in due libri; il De fato, giuntoci incompleto.
Ci sono poi il Cato maior de Senectute e il Laelius amicitia, in cui i precetti filosofici trovano
incarnazione in due personaggi della tradizione romana.
A partire al 44 Cicerone iniziò la stesura del De Officis, il suo testamento filosofico. In quest’opera,
Cicerone cerca di ricomporre il corpus di metodi, riflessioni, teorie cresciute nelle scuole
filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende così offrire un
punto di riferimento alla classe dirigente romana. Non guarda solo ai problemi immediati, ma si
pone questioni che riguardano i fondamenti stessi della crisi sociale. Si tratta di ricucire le membra
del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica operativa nei confronti della
società romana.
L’eclettismo di Cicerone obbedisce ad un metodo che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un
dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia dell’humanitas, invitava ad
un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. L’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura
radicale verso l’epicureismo. I motivi dell’avversione ciceroniana sono soprattutto due: il primo, la
filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, mentre è dovere dei boni l’attiva
partecipazione alla vita pubblica; inoltre l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale delle
divinità e indebolisce così i legami con la religione tradizionale, per Cicerone base fondamentale
dell’etica.
Nel De Natura Deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell’indifferenza degli dei
rispetto alle cose umane. Poi viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale. Nel
De Divinatione invece, più legato alla situazione romana, Cicerone si mostra esitante tra la
denuncia della falsità della religione tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di
conservare il dominio su ceti sociali inferiori.
Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini
verso la collettività, ma il rigore etico degli stoici gli appariva anacronistico, scarsamente
praticabile in una società che era andata incontro a radicali trasformazioni. L’eclettismo
ciceroniano significa anche apertura verso quelle filosofie moderatamente aperte al piacere, come
quella peripatetica e il probabilismo accademico.
Un posto particolare occupano i due brevi dialoghi Cato Maior de Senectute e Laelius de amicitia,
composti entrambi nel 44 e entrambi dedicati ad Attico. Nel Cato Maior l’azione è posta nel 150,
l’anno prima della morte di Catone. Cicerone immagina di vestire i panni dell’antico censore, nel
raffigurare quest’ultimo egli si è concesso molte libertà rispetto alla sua immagine storicamente
accertabile. Il personaggio appare come addolcito, raffinato cultore dell’humanitas. Nella sua
vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto dell’otium e la tenacia dell’impegno politico,
due opposte esigenze che Cicerone ha cercato in vano di conciliare per tutta la vita.
Diversa è l’atmosfera che si respira nel Laelius. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129, pochi
giorni dopo la misteriosa morte di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la
figura dell’amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul

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valore stesso dell’amicizia. Amicitia, per i romani, era soprattutto la creazione di legami personali a
scopo di sostegno politico. La novità dell’impostazione ciceroniana consiste nello sforzo di
allargare la base sociale delle amicizie: a fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus e
probitas. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve
servire a cementare la coesione dei boni. Ma l’amicizia tratta nel Laelius, non è solo amicizia
politica, si avverte un disperato bisogno di rapporti sinceri.
La stesura del De Officis venne iniziata probabilmente nel 44, si tratta stavolta di un trattato
dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. Cicerone cerca nella filosofia un
progetto, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana. La base filosofica viene
offerta dallo stoicismo moderato di Panezio, deciso nel rifiuto dell’edonismo e della conseguente
etica del disimpegno, rispettoso della tradizione, ma senza fanatismi e rozzezze arcaiche.
Quest’opera ha una funzione pedagogica come conferma Cicerone stesso affermando di rivolgersi
ai giovani. Il compito che Cicerone si assunse era quello di mostrare che l’assolvimento dei doveri
non sarebbe stato possibile senza aver assorbito e meditato la riflessione filosofica dei greci. I tre
libri in cui il de Officis è diviso trattano dell’honestum, dell’utile e del conflitto tra i due.
La dottrina di Panezio di distingueva rispetto allo stoicismo antico per un giudizio più positivo sugli
istinti, che non devono essere oppressi dalla ragione, ma piuttosto corretti e disciplinati. Le
tradizionali virtù cardinali stoiche venivano reinterpretate.
Si tratta di una serie di prescrizioni per l’uomo politico in varie occasioni del quotidiano, la giusta
misura nelle parole e nelle azioni, il decorum. Il concetto di decorum permette di fondare la
possibilità di una pluralità di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti,
legittimazione si scelte di vita anche diverse da quella tradizionale, purchè chi le intraprenda non
dimentichi i suoi doveri verso la collettività.

CICERONE PROSATORE: LINGUA E STILE


Cicerone introdusse nel latino molte parole nuove, gettò le basi di quel lessico astratto destinato a
diventare patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas, quantitas, essentia,
tutte prese dal greco. Creò un tipo di periodo complesso e armonioso, fondato su un perfetto
equilibrio fra le parti. Il periodo ciceroniano ha in genere una rigorosa architettura logica, la
creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione.
Sostituzione della paratassi (coordinazione) con l’ipotassi (subordinazione). Varietà dei toni e dei
registri stilistici. La disposizione verbale è sempre strutturata in modo da realizzare il numerus,
sistema di regole metriche adattate alla prosa. La sede specializzata per l’effetto metrico-ritmico è
la clausola, la parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore si sente impressionato dagli
effetti suggeriti dalla successione dei piedi.

LE OPERE POETICHE
In gioventù compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico. L’opera poetica più
fortunata fu l’Aretea, una traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato.
Rimangono poi i poemi epici: il Marius e il De Consulatu Suo, composto intorno al 60 per celebrare
l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina. Fu l’opera più sbeffeggiata di Cicerone, sia dai
contemporanei che dalla critica successiva; oltre che per il suo non grande valore poetico anche

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per le stucchevoli lodi che l’autore si autoprodigava. Cicerone contrapponeva le proprie glorie
come magistrato civile agli allori dei comandanti militari.
Per quel che rimane dei resti della sua produzione giovanile in versi, le prime prove poetiche di
Cicerone lo farebbero definire un precursore dei neoterici. Bel presto i suoi gusti dovettero farsi
più tradizionalistici, fino all’ostilità più o meno aspra verso i poeti moderni.
Forse si possono distinguere due momenti, il periodo della primissima produzione, di gusto e di
modi sostanzialmente alessandrineggianti perché dedicato a componimenti brevi e a contenuto
erudito e didascalico; e il periodo dei poemi epico-storici di tipo enniano.
Egli contribuì molto a regolamentare l’esametro latino rendendolo più duttile e vivace nel ritmo.
Favorì in poesia lo sviluppo dell’enjambement e della tecnica dell’incastro verbale. Cicerone riuscì
a realizzare il suo programma di latinizzazione della cultura greca.

L’EPISTOLARIO
Per la conoscenza dell’epistolario di Cicerone disponiamo di uno strumento di impareggiabile
valore: le lettere che egli scrisse ad amici e parenti. L’epistolario ciceroniano si compone di 16 libri
Ad Familiares (parenti ed amici, le lettere vanno dal 62 al 43); 16 libri Ad Atticum (fino dalla
gioventù per tutta la vita, il migliore amico di Cicerone, dal 68 al 44); 3 libri Ad Quintum Fratem
(dal 60 al 54) e 2 libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa, le lettere sono tutte del 43).
Furono tutte pubblicate in una data incerta dopo la morte di Cicerone.
La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia in quella dei toni: Cicerone è
a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi
personali.
Si tratta di lettere vere, quando le scrisse Cicerone non pensava ad una loro pubblicazione, percò
esse ci mostrano un Cicerone non ufficiale che nelle confidenze private rivela dubbi, incertezze,
esitazioni frequenti. Anche lo stile è molto diverso rispetto a quello delle opere destinate alla
pubblicazione. La sintassi mostra molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato da parole
pittoresche e troviamo termini ibridi greco-latini. È una lingua che rispecchia il sermo cotidianus
delle classi elevate.
Non va dimenticato l’eccezionale valore storico dell’epistolario che ci permette di seguire giorno
per giorno l’evolversi degli avvenimenti politici.

FORTUNA DI CICERONE
Bisogna operare una divisione tra gli estimatori e i detrattori di Cicerone, tra i secondi vanno
ricordati Asinio Pollione e Sallustio. Il 1 secolo vide il modello senecano fondato sul periodare
nervoso e rapido, riprendere quello di Cicerone. Nella tradizione scolastica l’arpinate occupava
una posizione di predominio quasi assoluto. Per il medioevo cristiano Cicerone è uno dei massimi
mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica. Cicerone è l’unico modello di prosa latina. Ha
inoltre il primato dell’eloquenza. Egli in epoca moderna ha contribuito soprattutto ad alimentare il
moderatismo politico; è stato importante per la ricerca di un equilibrio fra impegno politico e
libertà interiore.

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CESARE (100-44 a.c)


Gaio Giulio Cesare nacque a Roma nel 100 a.cda una famiglia patrizia di antichissima nobiltà.
Venne in gioventù perseguitato dai sillani. Dopo la morte di Silla, ritornò a Roma dall’Asia e
incominciò la carriera forense e politica. Nel 60 stipulò con Pompeo e Crasso l’accordo segreto,
cosiddetto “primo triumvirato”. Rivestì per la pima volta il consolato nel 59. A partire dall’anno
successivo Cesare ottenne il proconsolato nella Illiria e nella Gallia. Prendendo a pretesto presunte
provocazioni da parte di tribù impegnate in vasti movimenti migratori, intraprese l’opera di
sottomissione dell’intero mondo celtico, presentandola come un’operazione difensiva. La
conquista delle Gallie fu la base di un vastissimo potere personale.
Ostacolato con cavilli giuridici dai suoi avversari, Cesare invase l’Italia alla testa delle sue legioni,
dando così inizio alla guerra civile. Nell’agosto del 48 sconfisse a Farsalo in Tessaglia l’esercito
senatorio guidato da Pompeo. Intanto divenuto padrone di Roma, aveva ricoperto
contemporaneamente la dittatura e il consolato a partire dal 49. Il 15 marzo del 44 veniva
assassinato da un gruppo di aristocratici di fede repubblicana, preoccupati per le tendenze
autocratiche di Cesare.
Opere conservate: Commentarii de bello Gallico, in sette libri, più un ottavo libro composto
probabilmente dal luogotenente di Cesare; Commentari de bello Civili, in tre libri e un epigramma
in versi su Terenzio.
Opere perdute: diverse orazioni, un trattato su problemi di lingua e stile e vari componimenti
poetici giovanili.
Fonti: opere autentiche e spurie dello stesso Cesare e La vita di Cesare di Svetonio e quella di
Plutarco.

IL COMMENTARIUS COME GENERE STORIOGRAFICO


Il termine commentarius indicava un tipo di narrazione a mezzo fra la raccolta di materiali grezzi,
nel caso di Cesare appunti personali e rapporti del senato, e la loro elaborazione in una forma
artistica. Cicerone parla dei commentari di Cesare come un’opera composta per offrire ad altri
storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione. Lo stesso Cicerone però sottolineò
come nessuno storico avrebbe osato provare a riscrivere quanto Cesare aveva già detto con
ineguagliabile semplicità. Drammatizzazione di certe scene e ricorso in alcune parti ai discorsi
diretti.
Cesare usa un’ammirabile sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica, in
questa direzione va anche l’uso della terza persona, che distacca il protagonista dall’emozionalità
dell’ego e lo pone come personaggio autonomo.

LE CAMPAGNE IN GALLIA NELLA NARRAZIONE DI CESARE


I sette libri del De bello Gallico coprono il periodo dal 58 al 52, in cui Cesare procedette alla
sottomissione della Gallia; la conquista si svolse secondo fasi alterne, registrando anche pesanti
sconfitte che il racconto di Cesare attenua o giustifica, ma non nasconde. Nel 5 libro Cesare
fornisce un resoconto sulle due spedizioni contro i Britanni, nel 55 e 54. Nel 52 poi esplode una

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rivolta generale guidata dal capo della tribù degli Averni, Vercingetorige. La resistenza gallica ha
termine con l’espugnazione di Alesia, dove Vercingetorige viene catturato.
Sui tempi di composizione del De bello Gallico vi è disaccordo: secondo alcuni sarebbe stato scritto
di getto nell’inverno del 52-51, altri invece preferiscono pensare ad una composizione anno per
anno, durante gli inverni, cioè nei periodi in cui erano sospese le operazioni militari. Questa ipotesi
sembra dare ragione della sensibile evoluzione stilistica dei commentarii. Tale evoluzione sembra
procedere dallo stile scarno e disadorno a ornamenti tipici dell’historia. Così ad esempio nella
seconda parte dell’opera si fa più frequente l’uso del discorso diretto. È comunque possibile che
Cesare, per comodità compositiva abbia redatto separatamente, in forma più o meno abbozzata, i
resoconti delle varie campagne e li abbia poi in un secondo momento riordinati e coordinati.

LA NARRAZIONE DELLA GUERRA CIVILE


Il De bello Civili si divide in tre libri, i cui primi due narrano gli eventi del 49, e il terzo quelli del 48. I
tempi di composizione sono incerti e si è addirittura dubitato se il racconto della guerra civile sia
stato pubblicato da Cesare vivo o da qualcun’altro dopo la sua morte. Quest’ultima ipotesi può
farsi forza del fatto che l’opera appare incompiuta: la narrazione lascia in sospeso l’esito della
guerra di Alessandria.
Dall’opera affiorano le tendenze politiche di Cesare, che non si lascia sfuggire occasioni per colpire
la vecchia classe dirigente. Cesare ricorre all’arma di una satira sobria per svelare le basse
ambizioni e i meschini intrighi dei suoi avversari. La rappresentazione satirica culmina nel quadro
del campo pompeiano prima della battaglia di Farsalo: sicuri della disfatta di Cesare, i suoi
avversari si aggiudicano i beni di coloro che stanno per proscrivere e si contendono le cariche
politiche.
Nel de bello Civili, Cesare aspira soprattutto a dissolvere di fronte all’opinione pubblica l’immagine
che di lui dava la propaganda aristocratica, presentandolo come un rivoluzionario, un continuatore
dei Gracchi, o peggio ancora, di Catilina. Il destinatario della sua opera è lo strato “medio e
benpensante” dell’opinione pubblica romana, che vede nei pompeiani i difensori della costituzione
repubblicana. Ciò spiega la tendenza nell’opera, a rassicurare i ceti possidenti, per esempio a
proposito di una questione come quella dei debiti. Cesare sa inoltre ragione di alcuni suoi
provvedimenti di emergenza ma mette in risalto anche che da parte sua non ci si deve attendere
provvedimenti di cancellazione dei debiti. Sottolineando di essersi sempre mantenuto nei limiti
della legalità repubblicana, Cesare trova il modo di insistere sulla propria costante volontà di pace:
lo scatenarsi della guerra si deve solo al rifiuto di trattative serie da parte dei pompeiani.
Un altro fondamentale motivo dell’opera è la clemenza di cesare verso i vinti, contrapposta alla
crudeltà degli avversari. Cesare si preoccupa di rassicurare la popolazione.
Non si possono poi dimenticare le lodi, che in quest’opera, Cesare fa ai suoi soldati. Probabilmente
l’elogio, da parte di Cesare, dei componenti del suo esercito non può essere staccato dal processo
di promozione sociale, fino all’ammissione nei ranghi del senato, degli homines novi di
provenienza militare.

LA VERIDICITà DI CESARE E IL PROBLEMA DELLA DEFORMAZIONE STORICA

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Lo stile scarno dei commentarii, la forte riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono
moltissimo al tono oggettivo e impassibile della narrazione cesariana. Sotto questa impassibilità
tuttavia, la critica moderna ha creduto di scorgere deformazioni di avvenimenti a fini di
propaganda politica.
In ambedue le opere la presenza di procedimenti di deformazione è innegabile: non si tratta mai di
falsificazioni vistose, ma di omissioni più o meno rilevanti. Cesare dispone le argomentazioni in
modo da giustificare i propri insuccessi.
Coerentemente con queste tendenze, il De bello Gallico, non può essere letto come un’esaltazione
della conquista. Cesare infatti mette in rilievo le esigenze difensive che lo hanno spinto a
intraprendere la guerra; era inoltre una strategia consolidata dell’imperialismo romano presentare
le guerre di conquista come necessarie a proteggere lo stato romano. Nel De bello Civili cesare
sottolinea come le sue azioni di siano sempre mosse nel solco delle leggi, si presenta come un
politico moderato.
In ambedue le opere egli mette in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma non
alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura.
La fortuna è un elemento largamente presente nella sua narrazione, non viene presentata come
divinità protettrice, è piuttosto un concetto che serve a spiegare cambiamenti repentini di
situazione; è ciò che sfugge alla capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo. Cesare
infatti cerca di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali e non fa praticamente
mai ricorso all’intervento delle divinità.

I CONTINUATORI DI CESARE
Il luogotenente di Cesare, Irzio, compose il libro 8 del De bello Gallico, per congiungere la
narrazione di quest’ultimo con quella de De bello Civili tramite il racconto degli avvenimenti degli
anni 51 e 50. La lapidaria eleganze e suggestione di Cesare però rimangono ignote ad Irzio e agli
altri continuatori.

LE TEORIE LINGUISTICHE DI CESARE


Cesare agì da purificatore della lingua latina, correggendo un uso difettoso e corrotto con un uso
puro e irreprensibile. Cesare espose le proprie teorie linguistiche in tre libri De Analogia, dedicato
proprio a Cicerone.
I pochi frammenti conservati mostrano come Cesare ponesse a base dell’eloquenza l’accorta scelta
delle parole, per la quale il criterio fondamentale è la “analogia”, la selezione razionale e
sistematica, contrapposta alla “anomalia”, l’accettazione di ciò che diviene mano mano consueto
nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verbi usitata, le parole già nell’uso. È evidente
la coerenza di queste prescrizioni con lo stile asciutto e preciso dei commentarii. L’analogismo di
Cesare è cura della semplicità e dell’ordine e soprattutto della chiarezza.

SALLUSTIO (86-34 a.c)

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Gaio Sallustio nacque nella Sabina nel 86 a.c., fu homo novus, come il suo conterraneo Catone il
Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Compì probabilmente i suoi
studi a Roma, dove ben presto i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica. Si legò
inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro
l’uccisione di Clodio, poco dopo dovè subire la vendetta degli aristocratici: nel 50 venne spulso dal
senato per indegnità morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combattè dalla parte di Cesare e
fu riammesso nel senato. Nel 46 divenne pretore. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare
nominò Sallustio governatore della provincia Africa Nova. Sallustio dette tuttavia prova di
malgoverno e di rapacità e al ritorno dalla provincia venne colpito da un’accusa di malversazione.
Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da questo momento in poi
che Sallustio di dedicò alla storiografia. La morte lo colse o nel 35 o nel 34, facendo si che restasse
incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.
Due monografie storiche: il De Catilinae Coniuratione e Bellum Iugurthinum, composte e
pubblicate probabilmente negli anni fra il 43 e il 40. La sua più importante opera, le Historiae,
iniziate intorno al 39 e rimasta incompiuta al 5 libro; l’opera copriva il periodo fra il 78 e il 67, ne
restano numerosi frammenti tra cui alcuni di vaste dimensioni, buona parte del proemio e quattro
discorsi completi.
Per la data di nascita ci si basa su Gerolamo. Per il ritiro dalla vita politica è importante la
testimonianza dello stesso Sallustio nel Bellum Iugurtinum.

LA MONOGRAFIA STORICA COME GENERE LETTERARIO


Ad ambedue le sue monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione, nei quali si
sforza di giustificare il fatto di essersi ritirato dalla vita politica, dedicandosi alla composizione di
opere storiche. I proemi sallustiani rispondono alla profonda esigenza di dare conto della propria
attività di fronte ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è
compito più importante che scriverne. Sallustio attribuisce alla storiografia un valore di gran lunga
inferiore rispetto a quello della politica. Per Sallustio infatti la storiografia resta strettamente
legata alla prassi politica e la sua maggiore funzione è nel contributo alla formazione dell’uomo
politico.
I pochi cenni biografici contenuti nei proemi salllustiani sono volti a spiegare l’abbandono della
vita politica con la crisi che ha irrimediabilmente corrotto le istituzioni e la società. Sallustio
denuncia l’avidità e la ricchezza. Ma la cosa più importante è che la stessa storiografia sallustiana
tende ad configurarsi come indagine sulla crisi.
L’impostazione monografica serve a mettere a fuoco un singolo problema storico. Così il Bellum
Catilinae illumina il punto più acuto della crisi; il Bellum Iugurtinum affronta direttamente il nodo
costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta di difendere lo stato e insiste sulla prima
resistenza vittoriosa dei populares.
La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare un nuovo stile storiografico.

LA CONGIURA DI CATILINA E IL TIMORE DEI CETI SUBALTERNI

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Catilina, la cui congiura era stata sventata da Cicerone, aveva intravisto la possibilità di coalizzare
una sorta di blocco avverso al regime senatorio: il proletariato urbano, i ceti poveri, i membri
indebitati dell’aristocrazia.
Dopo il proemio Sallustio muove dal ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico
corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani, dovuta
all’accrescersi della potenza dell’impero e al dilagare del lusso e delle ricchezze. Catilina ragruppa
intorno a se persone che auspicano ad un cambiamento di regime. Catilina estende i suoi
preparativi a tutta l’Italia. Catilina, sconfitto nelle elezioni consolari, compie alcuni attentati alla
vita di Cicerone fin quando quest’ultimo ottiene dal senato pieni poteri per reprimere la rivolta e
nel 63 accusa apertamente Catilina in senato. Catilina insieme ai suoi complici fugge e viene
dichiarato dal senato nemico dello stato. A questo punto Sallustio introduce un excursus sui motivi
della degenerazione della vita politica. La narrazione riprende con le varie vicende fin quando
Cicerone riesce a far incarcerare i complici di Catilina e a far riunire il senato per deliberare sulla
loro sorte. Si oppongono alla proposta di condanna a morte i discorsi di Cesare e Catone il giovane.
Dopo averne riportato i discorsi Sallustio introduce un parallelo tra Cesare e Catone, due
personaggi dalla virtù opposte e complementari, i soli grandi uomini del tempo. Catilina dopo aver
combattuto valorosamente in battaglia muore.
Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel pericolo catilinario uno dei sintomi della ben
più grave malattia di cui soffriva il popolo romano e alla quale dedica un ampio excursus, quasi
all’inizio del Bellum Catilinae. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che con ispirazione
tucididea, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è
individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale, con la cessazione del timore verso i
nemici esterni, Sallustio fa incominciare il deterioramento della moralità romana.
Un secondo excursus, collegato a metà dell’opera, denuncia la degenerazione della vita politica
romana. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares: da un lato
demagoghi che con elargizioni e promesse aizzano la plebe; dall’altro gli aristocratici che
combattono solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio ripone tutte le sue
aspettative in Cesare, lo storico auspicava un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi
dello stato ristabilendo l’ordine nella res Publica, rinsaldando la concordia tra i ceti possidenti,
restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini nuovi. Sallustio però sarà stato
disgustato da uno degli aspetti più importanti della politica di Cesare, l’inserimento dei militari nel
senato.
Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel Bellum Catilinae Sallustio
ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo da ogni contatto e legame con i catilinari ed
evitando la condanna come capo dei populares.
Il discorso che Sallustio fa pronunciare a cesare durante il processo per la condanna a morte di
Catilina, non è totalmente una falsificazione; infatti l’insistenza sulle tematiche legalitarie è
coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni.
Sallustio subito dopo delinea i ritratti di Catone e Cesare, che in quella occasione aveva dato pareri
opposti. L’idea del confronto tra i due personaggi ha rapporti con la polemica su Catone che si era
sviluppata dopo il suo suicidio ad Utica. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una
riflessione che approda a una sorta di “ideale conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di

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Cesare si sofferma sulla sua liberalità, munificentia e misericordia. Le virtù tipiche di Catone sono
invece quelle, radicate nella tradizione, integritas e severitas. Differenziando i mores dei due
personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano,
individuava nelle loro virtù, virtù complementari; in particolare nei principi etico-politici affermati
da Catone, Sallustio riconosceva un fondamento irrinunciabile della res publica.
Nell’opera di Sallustio, Cicerone non è il politico che domina gli eventi grazie alla propria mente,
ma un magistrato che fa il suo dovere.
Attinge invece una sua grandezza il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un
personaggio a tinte forti, sottolineando da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile
consuetudine alla depravazione. Il ritratto è dominato dall’esigenza moralistica, mentre tratteggia
il suo personaggio, Sallustio lo giudica.
Il moralismo di Sallustio è coerente con il suo moderatismo politico. Lo storico, indicando le cause
del fenomeno catilinario in una degenerazione morale della società romana, può fare di quel
avvenimento una conseguenza logica e necessaria della crisi. Ma dai discorsi che Catilina
pronuncia affiorano i motivi profondi della crisi che da tempo travaglia lo staro romano: da una
parte pochi potenti che monopolizzano cariche politiche, dall’altra una massa senza potere,
comperta di debiti.

IL BELLUM IUGURTHINUM: SALLUSTIO E L’OPPOSIZIONE ANTINOBILIARE


All’inizio della sua seconda monografia, Sallustio spiega che la guerra contro Giagurta (svoltasi tra
il 111 e il 105) fu la prima occasione in cui si osò andare contro l’insolenza della nobiltà. In effetti il
Bellum Iugurtinum è indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente
aristocratica nella crisi dello stato romano.
Giugurta dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, aveva corrotto gli
esponenti dell’aristocrazia romana inviati a combatterlo in Africa ed era pertanto riuscito a
concludere una pace vantaggiosa. Metello, inviato in Africa ottiene successi notevoli ma non
decisivi. Nel 107, Mario, luogotenente di Metello, diviene console e gli viene affidato il compito di
portare a termina la guerra in Africa. Mario modifica la composizione dell’esercito arruolando i
capite censi. La guerra si conclude solo quando il re di Mauretania tradisce Giugurta e lo consegna
ai romani.
Sallustio introduce al centro dell’opera un excursus che indica nel “regime dei partiti” la causa
prima della lacerazione e della rovina della Res publica. Nella seconda monografia il bersaglio
principale di Sallustio è la nobiltà. Le linee direttive della politica dei populares sono esemplificate
nei discorsi che Sallustio fa tenere dal tribuno Memmio e successivamente da Mario, quando
convince la plebe ad arruolarsi in massa. Per Sallustio entrambi i discorsi sono rappresentativi dei
migliori valori etico-politici espressi dalla “democrazia” romana nella sua lotta contro la nobiltà.
Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dell’oligarchia dominante, enumera i mali
del regime aristocratico: il tradimento degli interessi della Res publica, la dilapidazione del denaro
pubblico, la monopolizzazione delle ricchezze e delle cariche.
Nel discorso di Mario il motivo centrale è costituito dall’affermazione di una nuova aristocrazia,
l’aristocrazia della virtus, che si fonda non sulla nascita ma suoi talenti naturali. Mario si richiama

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ai valori antichi, quei valori che hanno permesso di emergere agli stessi capostipiti delle casate
aristocratiche.
L’ammirazione di Sallustio per l’uomo che seppe opporsi all’arroganza nobiliare, è in qualche
modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che Mario si sarebbe assunto durante le
guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura:
Sallustio non sembra approvare il provvedimento in cui si individuava l’origine degli eserciti
personali e professionali che avrebbero distrutto la repubblica e pare che egli veda come inquinata
dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario esalta nel proprio
discorso.
Nel Bellum Iugurthinum il ritratto di Giugurta è pieno di virtus, anche se di una virtus corrotta. La
sua natura però non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diviene progressivamente. Il seme della
corruzione di Giugurta viene gettato durante l’assedio di Numanzia. Giugurta una volta che la sua
indole si è corrotta, appare solo come un tiranno perfido, ambizioso e privo di scrupoli.

LE HISTORIAE E LA CRISI DELLA RES PUBLICA


La maggiore opera storica di Sallustio rimase incompiuta per la morte dell’autore: le Historiae
iniziavano nel 78 a.c, ma non sappiamo fino a che punto Sallustio volesse arrivare, i frammenti che
ci restano si fermano al 67 a.c
Sallustio con quest’opera, dopo due monografie, ritorna alla forma annalistica. Alcuni dei
frammenti che abbiamo sono particolarmente ampi, si tratta di quattro discorsi, quello del tribuno
Licinio Macro per la restaurazione dei poteri tribunizi; quello di Marcio Filippo, una violenta
reazione agli elementi demagogici del discorso di Lepido), e un apio di lettere, una di Pompeo e
una di Mitridate. Di queste lettere ha particolarmente importanze quella che Sallustio immagina
scritta da Mitridate: affiorano qui i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma.
Il solo motivo che i romani hanno di portare guerra a tutte le altre nazioni, scrive Mitridate, è la
loro inestinguibile sete di ricchezza e di potere.
Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe: la corruzione dei costumi dilaga
senza rimedio, sulla scena politica si affacciano soprattutto demagoghi e nobili corrotti. In
generale il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera, dopo l’uccisione di Cesare.

LO STILE DI SALLUSTIO
Sallustio, nutrendosi di Tucidide e di catone il censore, elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas,
il contrario della ricerca ciceroniana di simmetria, sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie e
variationes di costrutto. Questo produce un effetto di gravitas austera e maestosa. Alla gravita
austera di questo stile contribuisce la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo non è solo nella scelta di
parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi che è di tipo paratattico. I
pensieri così si giustappongono, è evitato il periodare per subordinazione sintattica, sono evitate le
strutture bilanciate e le clausole ritmiche. Frequenti asindeti e omissioni e il gusto per l’accumulo
di parole ridondanti. L’allitterazione dà colore arcaico ma potenzia il senso delle parole. Uno stile
dunque arcaizzante ma innovatore perché il suo andamento spezzato è del tutto
anticonvenzionale.

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Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà imponeva la rinuncia a tutta una serie di
effetti drammatici. La limitazione approda ad una drammaticità più intensa perché più controllata.
Le Historiae costituiranno uno dei modelli per la successiva storiografia latina.

L’EPISTULAE E L’INVETTIVA
Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato.
I manoscritti di Sallustio ci conservano una Invectiva in Ciceronem, che anche Quintiliano
considerava autentica, ma è probabile che l’autore sia un retore di età augustea.
Ugualmente spurie sono da ritenersi le Epistulae ad Cesarem, trasmesse anonimamente. Lo stile è
quello sallustiano ma, oltre che risultare eccessivamente arcaizzante, la scrittura pare impropria. Il
contenuto è scontato: irrisione violenta di Cicerone, suggerimenti a Cesare affinchè scelga la via
della clementia, concili le fazioni e restituisca la pace.

VIRGILIO (70-19 a.c)


Virgilio nacque a Mantova nel 40 a.c da piccoli proprietari terrieri. Tutta la cronologia del suo
periodo giovanile è discussa. Un’informazione di particolare interesse si ricava da una poesiola
attribuita a Virgilio, la quinta della raccolta Catalepton, vi si allude a una scuola che il giovane
Virgilio avrebbe frequentato a Napoli, presso il filosofo epicureo Sirone. Il primo testo che Virgilio
ha composto, le Bucoliche, denuncia chiaramente frequentazioni epicuree. Virgilio allude più volte
nell’opera ai gravi avvenimenti del 41, quando nelle campagne del mantovano ci furono confische
di terreni, destinate a ricompensare i veterani della battaglia di Filippi. Il periodo è infatti segnato
da gravi disordini e Virgilio riecheggia il dramma dei contadini espropriati. Una notizia vuole che
Virgilio stesso, avesse perso nelle confische il podere di famiglia e l’avesse poi riacquistato. Si è
pensato per intervento diretto di Ottaviano stesso. È certo che le Bucoliche non recano nessuna
notizia invece su Mecenate.
Subito dopo la pubblicazione delle Bucoliche, Virgilio entra nella cerchia intima di mecenate e
quindi anche di Ottaviano. Nei lunghi anni sino alla battaglia di Azio, Virgilio lavora al poema
georgico. Nel 29, Ottaviano, che torna vincitore dall’Oriente, si fa leggere da Virgilio le Georgiche
appena compiute.
Di qui in avanti il poeta fu tutto assorbito dalla composizione dell’Eneide. Virgilio visse abbastanza
da leggere al principe alcune parti del poema, ma non abbastanza da poter dire chiusa l’opera.
L’Eneide fu pubblicata per volere di Augusto e per opera di Vario Rufo: il poeta era morto il 21
settembre del 19, a Brindisi, di ritorno da un viaggio in Grecia.
Le Bucoliche, 10 brevi componimenti in esametri, composti fra il 42 e il 39. Georgiche, poema
didascalico in quattro libri di esametri, completati nel 29. Eneide, poema epico in dodici libri in
esametro, metro proprio del genere. L’opera fu edita dagli esecutori del testamento. Restano a
segnare la mancanza dell’ultima mano, qualche incongruenza e qualche ripetizione compositiva e
alcuni versi incompleti che Virgilio stesso chiamava tibicines, puntelli per sostenere un edificio in
costruzione.

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