Riassunti Lett - Latina Definitivi
Riassunti Lett - Latina Definitivi
LETTERATURA LATINA
LIVIO ANDRONICO
Livio Andronico giunse a Roma da Taranto, e secondo alcuni al seguito di Livio Salinatore, alla
conclusione della guerra fra Roma e Taranto (272 a.c). questo tra l’altro spiegherebbe il prenome
romano Livio: Andronico era a tutti gli effetti un greco, e assume il prenome del suo patrono Livio
Salinatore, di cui fu liberto.
Fu attivo a Roma come grammatico, autore di testi scenici. Nel 240 una sua opera fu il primo testo
drammatico rappresentato a Roma.
Di lui abbiamo circa una sessantina di frammenti. Ci restano i titoli di 8 tragedie, tutte legate al
ciclo della guerra di Troia. Compose anche palliate, ce ne rimangono sei frammenti di un solo
verso. Uno solo è attestato con sufficiente sicurezza: Gladiolus.
L’opera più significativa di Andronico è la versione in saturni dell’Odissea di Omero, il cui titolo
doveva suonare Odusia.
Le informazioni sulla vita da noi raccolte si basano essenzialmente su Cicerone e Livio. Pare che
Accio fissasse al 209 a.c, data della presa di Taranto durante la seconda guerra punica, la venuta di
Andronico a Roma. Il dato di Accio è però da scartare.
ricerca del phatos, della forza espressiva e della tensione drammatica. Questa capacità di
“drammatizzare” il racconto omerico ci fa pensare che Andronico fu anche un notevole
drammaturgo. La ricerca del patetico è una costante di poetica in quasi tutta la poesia latina
arcaica.
NEVIO
Nevio, cittadino romano di origine campana, combattè nella prima guerra punica. Sembra che
fosse un plebeo di nascita. La sua biografia reca tracce di polemiche anti-nobiliari e non abbiamo
indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici. Si racconta che attaccasse in poesia la potente
famiglia dei Metelli, che gli risposero minacciosamente; si sospetta anche che fosse incarcerato
per certe allusioni contenute nei suoi drammi. Morì, forse in esilio, a Utica.
Di lui abbiamo numerose tragedie, fra cui almeno due praetextae, il Romulus e il Clastidium e
commedie. Del Romolus e Clastidium abbiamo in tutto due brevissimi frammenti. Delle commedie
conosciamo invece ventotto titoli, circa 125 versi.
La sua opera principale è il Bellum Punicum, in saturni. L’opera non aveva divisioni in libri, ma fu
poi ripartita in sette libri da un contemporaneo di Accio. Il poema narrava la storia di Enea che da
Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della prima guerra punica, che Nevio
aveva vissuto. Composto negli anni della guerra annibalica, il poema aveva un contenuto di grande
attualità per il popolo romano.
Notizie occasionali su Nevio ci vengono date da Cicerone e San Girolamo. Un indizio di grande
interesse è suggerito da un’allusione di Plauto: nel Miles gloriosus si parla di un poeta incarcerato
e costretto al silenzio: secondo alcuni potrebbe trattarsi di Nevio.
Ma il poema aveva anche, come sua struttura portante, uno strato storico, il racconto della guerra
contro Cartagine. Purtroppo non sappiamo come questi due strati fossero connessi. Sicuro è che
non c’era nessun tipo di narrazione continua. Può darsi perfino che Nevio trovasse modo di
inserire tra i viaggi di Enea anche un incontro con Didone: in tal modo un grande arco di tensione
drammatica avrebbe saldato i destini dei due popoli.
Il Bellum Punicum presuppone Omero e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema
storico-celebrativo, in cui si cantava secondo il codice omerico qualche vicenda storica di interesse
contemporaneo. L’idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra, sembra indicare un
“incrocio” fra Iliade e Odissea.
La sperimentazione di un nuovo linguaggio poetico si sviluppò in due direzioni principali. La
sezione mitica del poema imponeva a Nevio “la sfida” del linguaggio poetico greco. Anche la
sezione storica poneva diversi problemi. Nevio adatta il suo stile poetico a una lunga narrazione
continua, il linguaggio è semplice e concreto e l’ordine delle parole lineare. Nevio introduce in
poesia numerosi termini tecnici.
Nel complesso il Bellum Punicum appare come un’opera di forte sperimentalismo.
Nevio epico avrà un suo preciso influsso nell’ispirazione dell’Eneide.
Nevio compose anche tragedie mitologiche, di cui parecchie legate al ciclo troiano, Equos troianus,
Danae, l’Hector proficiscens e l’Iphigenia. Ci rimangono inoltre frammenti di una tragedia
importante storicamente, il Lycurgus: il mito trattava del culto di Dioniso che stava prendendo
piede anche a Roma.
Di gran lunga più importante sembrerebbe la produzione comica. Tra i testi comici neviani si
distingue la Tarentilla, il ritratto di una ragazza civettona. Presenta una colorita invetiva verbale
che anticipa Plauto.
Per quanto riguarda la produzione teatrale sappiamo che le sue opere contenevano attacchi a
personaggi politici.
La data di morte, il 184 a.c, è sicura. La data di nascita si ricava indirettamente da una notizia di
Cicerone, secondo cui Plauto scrisse da senex la sua commedia Pseudolus.
Plauto fu autore di enorme successo. Sembra che nel corso del 2 secolo circolassero qualcosa
come centotrenta commedie legate al nome di Plauto.
La fase critica nella trasmissione del corpus dell’opera plautina fu segnata dall’intervento di
Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di
commedie sulla cui autenticità c’era generale consenso. L’ultima posizione della Vidularia la rese
esposta a danneggiamenti nel corso della trasmissione manoscritta: ne abbiamo infatti solo
frammenti. Molte altre commedie continuarono ad essere lette e rappresentate nella Roma
antica. Noi ne abbiamo solo titoli e brevissimi frammenti.
AMPHITRUO: unica con soggetto mitologico. Giove arriva a Tebe per conquistare la bella
Alcmena. Il dio impersona Anfitrione, signore della città e marito della dama, aiutato
dall’astuto Mercurio. Giove approfitta dell’assenza di Anfitrione per entrare nel letto della
moglie ignara. Ma improvvisamente torna a casa il vero Anfitrione: dopo una brillante serie
di equivoci, Anfitrione si placa onorato di aver avuto come rivale un dio.
AULULARIA: la pentola piena d’oro. Oggetto che è il corrispettivo della vita del personaggio
principale della commedia. L’avaro non che tipo fisso della Commedia latina.
CAPTIVI: la commedia si distingue in tutto il panorama plautino per la smorzatura dei temi
comici e per gli spunti di umanità malinconica. Qui è assente qualsiasi intrigo a sfondo
erotico.
CASINA: un vecchio e suo figlio desiderano una trovatella che hanno in casa, escogitano
perciò due trame parallele. Il vecchio però viene raggirato e trova nel suo letto un maschio
invece che Casina. Casina si scopre infine essere una fanciulla di libera nascita e può quindi
sposare il suo giovane pretendente.
MILES GLORIOSUS: la commedia, considerata uno dei capolavori di Plauto, mette in scena
un servo arguto e un comicissimo soldato fanfarone. Lo schema di fondo è quello abituale,
un giovane si affida al servo per sottrarre a qualcuno la disponibilità della ragazza amata,
ma l’esecuzione prevede un gran numero di brillanti variazioni.
MOSTELLARIA: c’è un fantasma nella casa del vecchio Tepropide? Lo fa credere il diabolico
servo per coprire in qualche modo gli amorazzi del giovane padrone. L’inganno è divertente
ma non può reggere a lungo, la vicenda si chiude con un perdono generale al giovane.
PSEUDOLUS: insieme al Miles, è tra i culmini del teatro plautino. Lo schiavo del titolo è il
campione dei servi furbi di Plauto. Pseudolo riesce a spennare il suo avversario portandogli
via la ragazza amata dal padroncino e anche dei soldi in più.
Un’osservazione d’insieme deve innanzitutto accettare la fortissima prevedibilità degli intrecci e
dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. È chiaro che Plauto desidera proprio questa prevedibilità,
né ha particolare interesse per l’etica o la psicologia dei suoi personaggi. Plauto tende anche ad
usare dei prologhi espositivi che forniscono informazioni essenziali allo sviluppo della trama, a
spesa di qualsiasi sorpresa o colpo di scena. Infatti si insiste non sui nomi propri ma sui termini
tipologici.
Ancora più caratteristica di Plauto è la prevedibilità degli intrecci. Praticamente tutte le commedie
possono essere ridotte a una lotta fra due antagonisti per il possesso di un “bene”: generalmente
una donna o una somma di denaro necessaria per accaparrarsela. È buona norma che il vincitore
sia il giovane e che il perdente abbia in sé le giustificazioni del suo essere perdente. La vittoria
finale di una parte sull’altra trova piena rispondenza nei codici culturali. L’azione di conquista del
“bene” è delegata dal giovane ad un sevo ingegnoso. Al centro dell’azione sta, nelle opere più
mature, un vero demiurgo: un artista della frode.
La coppia “giovane desiderante-servo raggiratore” è quindi la più solida costante tematica del
teatro di Plauto.
La presenza della fortuna ha un grande valore stabilizzante. La trama comica ha spesso bisogno di
uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile.
Sono tutte commedie che ruotano su un riconoscimento, possono passare per una lunga fase di
errori e confusioni di persona, si parla allora propriamente di “commedia degli equivoci”. Tutte
hanno in comune il riconoscimento che scioglie ogni difficoltà.
In molte di queste commedie c’è uno schiavo furbo al lavoro. Lo schiavo opera su una realtà
preesistente, e il suo lavoro è falsificare, confondere. Il contrasto tra messa in scena e realtà non
può durare per sempre, anche se divertente: e qui appunto entra in gioco la fortuna. Grazie alla
fortuna scopriamo che esiste una realtà per così dire più autentica e sincera della realtà iniziale,
quella su cui lo schiavo operava i suoi trucchi.
I MODELLI GRECI
Un aspetto con cui Plauto si distacca dai suoi modelli greci è sicuramente la predilezione per le
forme cantate, estranee alla struttura del teatro menandreo. Inoltre Plauto si preoccupa molto
poco di comunicare il nome, ed eventualmente, la paternità della commedia greca sulla quale si è
orientato. Il suo teatro non presuppone un pubblico così ellenizzato da gustare il riferimento a
certi famosi modelli.
Su alcuni modelli siamo ben informati: Cistellaria ad esempio si basa su tre commedie menandree.
Lo stile di Plauto è vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia. Il registro
di stile formato da giochi di parole, enigmi, doppi sensi, allusioni scherzose alle istituzioni, è senza
dubbio un’iniziativa originale di Plauto.
Rispetto alle commedie greche, quelle di Plauto non vedono mai la divisione in atti, inoltre Plauto
non dà quasi mai ad un personaggio il nome che l’originale greco gli attribuiva. Sono sempre nomi
greci ma non gli stessi dei modelli e nomi sempre nuovi, non i nomi fissi che portavano le
maschere della farsa italica.
Ha poi lavorato con intensità nel distruggere molte qualità fondamentali dei modelli che si era
scelto: sviluppo psicologico, realismo linguistico e caratterizzazione.
IL LIRISMO COMICO
È il senso del comico, schietto e popolaresco he rende Plauto un artista autonomo, ben distinto dai
suoi modelli greci. Plauto tende a trascurare la coerenza dell’azione drammatica e le sottili
sfumature nel carattere di personaggi. Rinuncia a certe virtù dei suoi modelli greci per spostare
l’accento su altri elementi.
Nelle commedie plautine è quasi sempre lo schiavo furbo a gestire lo sviluppo dell’intreccio. La
posizione del servo stuto ne fa quasi un equivalente del poeta drammatico. Non a caso il servo è il
personaggio che più di ogni altro gioca con le parole ed è quindi il più vero portavoce dell’originale
creatività verbale di Plauto. Pur essendo il personaggio socialmente più debole, sulla scena è lui la
figura centrale e il punto di attrazione per il pubblico e per gli altri personaggi.
Nei suoi momenti migliori Plauto utilizza gli intrecci dei suoi modelli greci come materia, in sé già
dotata di significato, ma disponibile a significati nuovi e imprevedibili. Il comico sta appunto nel
contatto fra la materia dell’intreccio, che Plauto riprende dai greci, e l’aprirsi di occasioni in cui
l’azione si fa libero gioco creativo, diventa “lirismo comico”.
questa contraddizione di fondo nasce il paradosso di un’arte che sfugge alle nostre tradizionali
definizioni.
essere esclusivamente emulativo; il progetto stesso della traduzione è l’impegno di un teatro vivo.
Il tradurre enniano lo si capisce appieno solo interpretandolo nella tradizione di una prassi greca.
Così anche quell’intensificazione patetica che sembra propria di Ennio non va attribuita al
passionale gusto latino ma a una retorica della commozione tipica di una langue drammatica
greca. Una langue che riconosciamo soprattutto in espressioni ridondanti. La scelta di
un’espressione patetica corrisponde ad un’esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre
interesse nel pubblico, di coinvolgerlo emotivamente e suscitare processi psicologici di
identificazione. Nelle rappresentazioni di Ennio, nonostante le difficoltà pratiche della scena latina,
poteva comparire il coro, un coro che gli spettatori, per identificazione, avrebbero potuto sentire
come composto da cittadini virtuali. La ricerca di un’identificazione tra pubblico e personaggi è il
principio della poetica teatrale di Ennio.
GLI ANNALES
Gli annales sono il più famoso testo epico romano fino ad Augusto. Una funzione celebrativa
doveva essere fondamentale in tutta l’opera. Si andava stabilendo un vincolo sempre più stretto
tra letteratura e potere. Ennio vedeva la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche, così si
avvicinò all’ambizioso progetto di una celebrazione di tutta la storia romana, svolta in un unico e
mastodontico poema epico, gli annales appunto. Il piano si sviluppò in 18 libri. Ennio decise di
narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se è chiaro che certe fasi storiche ebbero
molto più risalto di altre. Particolarmente sacrificata fu la prima guerra punica. Un’altra
innovazione importante rispetto a Nevio, fu l’articolazione del racconto in libri, concepiti come
unità narrative accostate in un’architettura complessiva.
Il titolo Annales, fa riferimento agli annales maximi, le pubbliche registrazioni di eventi condotte
anno per anno. Di fatto anche l’opera di Ennio era condotta in ordine cronologico progressivo,
dalle origini fino ai giorni dell’autore. Ennio è molto più selettivo di uno storico e si occupa per lo
più di eventi bellici.
Gli annales utilizzano molte fonti storiografiche che sono però a noi sconosciute. Tra le fonti
poetiche primeggia Omero e la poesia ellenistica.
verso del passato. Ennio è invece il primo grande poeta filologo, il primo che può stare alla pari
con la raffinata cultura alessandrina ed il primo ad aver usato l’esametro dattilico, il verso della
grande poesia greca.
capitoli. Po abbiamo una serie di precetti indirizzati al figlio Marco, fra le quali un DE MEDICINA,
un’opera di retorica, un trattato di arte militare, l’opera in toto chiamata PRAECEPTA AD FILIUM.
IL TRATTATO SULL’AGRICOLTURA
L’opera consiste per gran parte, in una serie di precetti esposti in forma schematica ma talvolta di
grande efficacia. Il tono è precettistico e sentenzioso. Per comprendere intenti e destinatari del DE
AGRI CULTURA è importante il proemio: qui Catone dice che l’agricoltura è più sicura e più onesta
ed è con il lavoro agricolo che si formano buoni cittadini e buoni soldati. Il tipo di propietà che
Catone descrive rappresenta probabilmente le grandi tenute basate sullo sfruttamento degli
schiavi. Catone pensa che restando attaccata alla terra, la classe dirigente resterà attaccata anche
ai valori etici e politici che costituiscono il fondamento del loro potere.
Il De agri cultura costituisce una precettistica generale del comportamento del proprietario
terriero. Questo nelle vesti di pater familias, dovrà essere presente nella propria tenuta il più
possibile. lo stile è scarno e conciso con formulazioni proverbiali. Da alcuni passi traspare la
brutalità dello sfruttamento degli schiavi.
Si possono cogliere qui i tratti salienti dell’etica catoniana, che sono poi gli stessi costitutivi del
mos maiorum: virtù come parsimonia, duritia, industria, il disprezzo per le ricchezze.
LA FORTUNA DI CATONE
L’appellativo censore di Catone, ne fa il simbolo di rigido custode della tradizione del
conservatorismo. Cicerone lo idealizzò, mitigandone però le più dure asprezze e i tratti più
intransigenti della sua avversione contro la nobiltà filoellenica. Il de agri cultura sopravviverà
integralmente.
LO SFONDO STORICO
Il debutto teatrale di Terenzio risulta collocarsi due anni dopo la battaglia di Pidna, che con la
definitiva vittoria sui macedoni, inaugura un lungo periodo di pace. In seguito alla vittoria furono
deportati a Roma mille ostaggi achei, tra cui anche lo storico Polibio. Inizia così la penetrazione dei
modelli e della cultura greca a Roma. Tutte queste nuove influenze portarono anche in Terenzio
innovazioni nella poesia scenica. Il genere comico era stato con Plauto un momento di
intrattenimento popolare. Il teatro di Terenzio accetta l’inquadramento convenzionale e ripetitivo
delle trame plautine ma in Terenzio domina l’interesse per i significati: per la sostanza umana. Il
tentativo di Terenzio è quello di usare un genere popolare per comunicare interessi nuovi, che
sono maturati nel campo ristretto di una elite.
Ad esempio una delle commedie, l’HECYRA, nella prima rappresentazione del 165, il pubblico le
preferì uno spettacolo di funamboli; alla seconda nel 160, tutti se ne andarono quando si sparse la
voce che contemporaneamente stava cominciando uno spettacolo di gladiatori, sola alla terza
rappresentazione la recita potè arrivare al termine.
Le vicende delle commedie terenziane mostrano il declino del teatro popolare latino che
nell’epoca successiva andrà accelerando e soprattutto nel divaricarsi dei gusti del pubblico di
massa e dell’elite colta, nutrita di cultura greca.
All’autore interessa soprattutto la psicologia dei personaggi e per questo rinuncia all’esuberanza
comico-fantastica.
Le commedie:
1) ANDRIA: modello greco è l’andria di Menandro. L’intreccio si scioglie con il riconoscimento
finale.
2) HECYRA: Terenzio rielabora una commedia dallo stesso titolo di Apollodro di Caristo,
contaminandola con l’EPITREPONTES (l’arbitrato) di Menandro. Sotrata, la protagonista, è
una figura completamente diversa dalla madre stereotipata gelosa del figlio e ostile alla
nuora.
3) HEAUTONTIMORUMENOS (il punitore di se stesso): riprende il misantropo di Menandro.
Chiusura in se stesso del protagonista. Il protagonista rimane coerente con i suoi
comportamenti.
4) ADELPHOE: rielabora la commedia di Menandro, i fratelli, traendo tuttavia una scena da
una commedia di Difilo. La commedia mette a confronto due diversi sistemi di educazione
Terenzio più che alla rappresentazione psicologica dell’individuo sembra interessato a quella del
tipo. I personaggi terenziani spesso sono anticonvenzionali: la suocera per niente bisbetica, la
prostituta moralmente migliore di tanta altra gente; caratteri largamente innovativi rispetto alle
aspettative del pubblico. L’approfondimento psicologico inoltre comportava una notevole
riduzione e della comicità, che contribuì allo scarso successo delle sue commedie.
Terenzio nel quadro della commedia latina è l’attenzione e la preoccupazione per il verosimile. Ciò
non significa che Terenzio riproduca la parlata quotidiana dell’epoca, ma si adegua, utilizza una
lingua settoriale, quella parlata dalle classi urbane di buona educazione. Riduzione della varietà
metrica rispetto a Plauto, sono scarse le parti propriamente liriche, molto contenuta è l’estensione
delle parti cantate rispetto alle parti recitative.
È il primo letterato di buona famiglia che conduce una carriera da scrittore, volontariamente
lontano dalle cariche pubbliche e della vita politica.
Oggi abbiamo trenta libri di satire tutti in frammenti. I libri 1-21 sono tutti in esametri dattilici, 22-
25 forse in distici elegiaci, 26-30 in metri giambici. Lucilio si orientò progressivamente verso
l’esametro, segno di provazione, così infatti un verso “eroico” come l’esametro, veniva adattato a
una materia quotidiana e a una dizione colloquiale.
Non è sicuro che il titolo SATURAE risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine SATURA per
designare quel genere di poesia inaugurato da Lucilio. Nei frammenti che ci restano Lucilio chiama
le sue composizioni poemata o anche sermones.
LUCILIO E LA SATIRA
L’opera di Lucilio si radica nello sfondo culturale del circolo scipionico, i grandi personaggi del
circolo furono i protettori di Lucilio. Tipiche dell’opera di Lucilio sono l’indipendenza di giudizio,
l’interesse per la vita contemporanea e la verve polemica. La sua appartenenza alla ricca
aristocrazia gli permetteva di non vivere del proprio lavoro letterario e il suo inserimento
nell’ambiente degli Scipioni gli consentiva di muovere attacchi contro alcuni degli uomini più in
vista della sua Roma contemporanea.
La satira all’inizio non sembra aver nulla a che fare né con i satiri, né con il teatro comico greco. È
invece sicuro che nella Roma antica, satura lanx indicasse un piatto misto di primizie che venivano
offerte agli dei; ma anche lex per saturam, quando si riunivano stralci di vari argomenti in un
singolo provvedimento legislativo. Fondandosi su queste attestazioni è probabile che il valore di
“mescolanza e varietà” fosse quello originario e che lo si percepisse anche nell’impiego letterario
del termine. L’impulso originario della satira è specificatamente romano. Questo impulso, forse
inizialmente si può riconoscere come un genere letterario disponibile ad esprimere la voce
personale del poeta; ripercorrendo infatti la letteratura latina fino a Lucilio si nota che nessun
genere prevede uno spazio di espressione diretta, in cui il poeta può rispecchiare il rapporto con
se stesso e con la realtà contemporanea.
La grande importanza storica di Lucilio sta nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere della
satira che invece Ennio, ad esempio, aveva coltivato solo come genere minore. Lo sviluppo della
satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta e desideroso
di una letteratura più vicina alla realtà contemporanea.
Il primo libro conteneva una composizione nota come “CONCILIUM DEORUM”, attraverso una
parodia dei concili divini, Lucilio prendeva di mira un personaggio inviso agli Scipioni: gli dei
decidevano di farlo morire per indigestione.
Il terzo libro conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia. In più di una satira si fornivano
precetti culinari.
Il libro 16 pare fosse dedicato alla donna amata. Sono poi ampiamente attestate disquisizioni su
problemi letterari: giudizi su questioni di retorica e di poetica e vere e proprie analisi critico-
letterarie.
Lucilio deride il gusto enfatico e declamatorio. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile e si apre
in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell’epica e i linguaggi specializzati, forme del
linguaggio di tutti i giorni. In questo senso Lucilio è quanto di più vicino al contemporaneo offre la
letteratura latina. Non manca inoltre un impegno educativo legato alla critica sociale e
all’anticonformismo. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente rivolta a un preciso
programma espressivo, che fonde insieme vita e arte.
Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini. Orazio tuttavia critica Lucilio per la vena
torrenziale e la scarsa finitura formale.
sfoggio della propria preziosa erudizione e di attuare raffinate strategie compositive. Nasce così un
nuovo linguaggio poetico.
I POETI NEOTERICI
Il poeta Levio segna un progresso rispetto alla prima poesia nugatoria: egli elabora più
originalmente i suoi modelli e sperimenta nuove forme espressive. È un anello intermedio, un
precursore della poesia neoterica vera e propria.
Un caposcuola delle nuove tendenze poetiche è invece Valerio Catone. Lettore e critico temuto di
poesia, severo maestro del gusto. Oltre a opere filologiche compose opere poetiche, molto
probabilmente epilli.
Sltro è Varrone Atacino che continuò la poesia di stampo enniano componendo un poema storico
ma aderì al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata LEUCADIA, dal nome della donna amata,
che i poeti elegiaci indicheranno fra gli incunaboli della poesia erotica latina. Ma di lui va
soprattutto ricordato il poema epico ARGONAUTAE, libera traduzione in esametri latini delle
Argonautiche di Apollonio Rodio, epica che faceva largo spazio all’eros.
Due altri poeti di rilievo nella cerchia neoterica sono Cinna e Calvo. Cinna fa da punto di
riferimento per la poesia neoterica grazie alla sua adesione ai principi del nuovo gusto. Uno dei
componimenti di Cinna costituì il modello esemplare della poetica di ascendenza callimachea.
Calvo fu oratore famoso e atticista, compose oltre a epigrammi di invettiva politica anche
epitalami. Scrisse anche lui un epillio.
Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi, ma ci informa di lui anche Svetonio
nella biografia di Giulio Cesare. Invece che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia lo sappiamo da
Apuleio.
I CARMI BREVI
In Catullo l’attività letteraria non si rivolge più all’epos o alla tragedia, i generi portavoce della
civitas, ma alla lirica, la poesia individuale, introversa. A questo progetto della dimensione intima,
dei sentimenti, risponde quella produzione poetica di Catullo che si è soliti chiamare “carmi brevi”,
cioè l’insieme degli epigrammi e dei polimetri, caratterizzati dalla modestia dei contenuti,
occasioni e avvenimenti della vita quotidiana e soprattutto la ricerca della perfezione formale.
Affetti, amicizie, odi e passioni sono gli oggetti della poesia di Catullo.
La celebrata spontaneità catulliana è in realtà un’apparenza ricercata ottenuta grazie a un ricco
patrimonio di dottrina: anche i componimenti che sembrano più occasionali, riflesso immediato
della realtà, hanno i loro modelli letterari.
Non si deve dimenticare che il destinatario di ogni carme catulliano è una cerchia raffinata e colta.
Così entrano nei componimenti precise risonanze letterarie dissimulate in una parvenza di
immediatezza giocosa. D’altra parte sono presenti solide strutture formali. Si può scoprire che un
bilanciato gioco di antitesi o di richiami simmetrici si cela dietro quelle parole che vogliono
apparire dettate dalla passione più immediata. Ad esempio l’analisi del carme 5, il carme dei baci,
rivela l’attenta costruzione di quel che appare espressione spontanea, incontrollata, nulla è
lasciato ad una disposizione casuale degli effetti.
Lo sfondo della poesia di Catullo è costituito dall’ambiente letterario della capitale, da un ideale di
grazia e brillantezza di spirito: lepos, venustas, urbanitas, sono i principi che fondano questo
codice etico e insieme estetico che ispira il gusto letterario ed artistico. Su questo sfondo risalta la
figura di Lesbia, protagonista indiscussa della poesia catulliana. Il suo stesso pseudonimo, che
rievoca Saffo, è sufficiente a creare attorno alla donna un alone idealizzante, oltre alla grazia, sono
soprattutto cultura e spirito brillante ad alimentare la passione di Catullo. Gioie, sofferenze e
tradimenti scandiscono le vicende di questo amore che è vissuto da Catullo come l’esperienza più
importante della sua vita. All’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli attribuiva la
letteratura tradizionale, ora diventa il centro dell’esistenza, il solo in grado di risarcire la fugacità
della vita umana.
All’amore e alla vita sentimentale Catullo dedica tutto il suo impegno. Sottraendosi ai doveri e agli
interessi di un cittadino romano: resta estraneo alla politica.
Il rapporto con Lesbia, nato come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi oggetto
esclusivo dell’impegno morale del poeta, tende a configurarsi come un vincolo di matrimonio. Le
recriminazioni per il foedus d’amore violato da Lesbia sono un motivo insistente sulla bocca del
poeta che si appella a due valori cardini dell’ideologia romana, la fides, che garantisce moralmente
il patto stipulato e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri.
L’offesa ripetuta del tradimento di Lesbia produce nel poeta una dolorosa dissociazione fra la
componente sensuale (amare) e quella affettiva (bene velle).
I CARMINA DOCTA
Catullo contrappone ai caratteri della scuola enniana, brevità, eleganza e dottrina. Solo i più
raffinati tuttavia potranno apprezzare la nuova epica elaborata come ad esempio l’epillio, un
poemetto breve che favorisce il paziente lavoro fi rifinitura stilistica e sul piano dei contenuti
permette al poeta di dar sfoggio alla sua preziosa dottrina, infatti all’interno dell’epillio troviamo di
solito vicende mitologiche esotiche e dai risvolti passionali.
Dottrina e impegno stilistico sono particolarmente noti ed evidenti nei carmi che per questo
motivo sono definiti “dotti”, all’interno dei quali Catullo sperimenta anche nuove forme
compositive.
Anche Catullo, come tutti i poeti neoterici, si cimenta nell’epillio, il carme 64 ne costituirà quasi il
modello esemplare della letteratura latina. Questo celeberrimo poemetto narra le nozze tra Peleo
e Teti, ma nella vicenda principale, troviamo la tecnica alessandrina dell’ekphrasis e della
digressione, incastonata vi è infatti un’altra storia oltre a quella principale, la storia
dell’abbandono di Arianna da parte di Teso. L’intreccio delle due vicende d’amore, amore infelice
di Arianna e amore felice di Peleo e Teti, istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il
loro nucleo nel tema della fides, la virtù cardinale del mondo etico catulliano. Il mito si fa
proiezione e simbolo delle aspirazioni del poeta, del suo bisogno di avere un vincolo saldo, un
foedus duraturo.
Epitalami, cioè canti nunziali sono i carmi 61 e 62. Il carme 61 riunisce il carattere greco di questo
componimento, genere letterario fiorito da Saffo all’età alessandrina e una serie di elementi
tipicamente italo-romani per quanto riguarda il rito nunziale, con tutte le sue implicazioni etiche e
sociali.
L’altro epitalamio il 62, è costituito da una serie di strofe cantate alternatamente da due cori di
giovani e fanciulle sul tema del matrimonio e della verginità. Questo componimento, rispetto al
61, rivela una maggiore adesione ai caratteri formali del genere, evidente soprattutto nella
struttura e nei topoi saffici.
Nel ciclo dei carmina docta è presente anche un componimento che è un omaggio a Callimaco: si
tratta di una traduzione in latino di un’elegia famosa del poeta greco, “la chioma di Berenice”. Qui
Catullo accentua temi centrali della sua ideologia: esaltazione della fides, della pietas, condanna
dell’adulterio e celebrazione delle virtù eroiche, dei valori tradizionali.
Particolarmente complesso è il carme 68 che riassume i temi principali della poesia di Catullo,
come l’amicizia, l’amore, l’attività poetica. Il ricordo dei primi amori con Lesbia sfuma nel mito che
si fa archetipo esemplare della vicenda di Catullo e Lesbia, di un’unione precaria e imperfetta. Il
carme 68, con il largo spazio concesso al ricordo e alla vita vissuta, diventerà il progenitore della
futura elegia soggettiva latina.
LO STILE
In Catullo dominante è l’influsso della letteratura alessandrina e dell’intensa affettività di Saffo e
Archiloco. La lingua catulliana è il risultato di un originale combinazione di linguaggio letterario e
sermo familiaris: il lessico e le movenze della lingua parlata vengono assorbite e filtrate da un
gusto aristocratico. Uno stile composito. La vitalità del linguaggio affettivo e del pathos non sono
assenti nemmeno nei carmina docta anche se la selezione di un lessico generalmente più ricercato
e le movenze della poesia alta, concorrono a dare ai carmina docta un carattere più spiccatamente
letterario.
LA FORTUNA
Catullo ebbe un successo vasto e immediato, esercitò un influsso profondo sui più grandi poeti
augustei.
LUCREZIO (98-55)
La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nella traduzione di San Gerolamo dell’opera di
Eusebio. Alcuni manoscritti di Gerolamo collocano la data di nascita nel 96, altri nel 94, la data di
morte oscillerebbe così tra il 53 e il 51. Oggi 98 e 55 sono generalmente ritenute le date più
verosimili.
Va con ogni probabilità esclusa la notizia sulla follia di Lucrezio, nata in ambiente cristiano nel 6
secolo, al fine di screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio.
Nulla di concreto si può affermare sulla provenienza del poeta, alcuni pensano sia campano,
mentre altri sostengono sia nato a Roma. All’interno della “Vita Borgiana” di Gerolamo Borgia si
sostiene che il poeta visse in stretta intimità con Cicerone. Però l’unico riferimento a Lucrezio
nell’opera di Cicerone è in una lettera al fratello Quinto del febbraio 54.
Il poema in esametri De Rerum Natura, in sei libri, forse non finito o comunque mancante
dell’ultima revisione, è dedicato all’aristocratico Memmio, verosimilmente da indentificare con
Gaio Memmio, amico e patrono di Catullo. Il de rerum natura dopo la morte di Lucrezio venne
rivisto e pubblicato da Cicerone. Il testo del de rerum natura è conservato integralmente da due
codici del 9 secolo. Un certo numero di codici umanistici riproduce il testo tratto dal codice che
Poggio Bracciolini riscoprì nel 1418.
comprensione razionale della realtà. Nella sua scelta, Lucrezio fu guidato, probabilmente, dal
desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che, anche nella forma,
non avesse niente da invidiare alle altre filosofie. Proprio all’inizio del poema Lucrezio afferma che
il suo scopo è “cospargere col miele delle muse” una dottrina che è apparentemente amara.
Lucrezio ha dunque come modello Omero, maestro del poema; ma anche Empedocle e il suo
atteggiamento profetico di rivelatore della verità.
IL POEMA DIDASCALICO
Il titolo del poema lucreziano De rerum natura, traduce fedelmente quello della più importante
opera di Epicuro, il perduto Peri physeos. In 1 41 Lucrezio afferma che Memmio non può sottrarsi
alla cura del bene comune in un momento difficile per la patria, si tende a pensare che il
riferimento sia alle turbolenze interne degli anni successivi al 59.
Il De rerum natura è articolato in tre gruppi di due libri (diadi). Nel 1 libro, dopo l’apertura con
l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della natura, sono esposti i principi della
fisica epicurea: gli atomi, muovendosi nel vuoto, si aggregano in modi diversi e danno origine a
tutte le realtà esistenti. Nascita e morte sono costituite da questo continuo processo di
aggregazione e disgregazione.
Nel 2 libro è illustrata la teoria del clinamen: nel moto degli atomi interviene una “inclinazione”
minima che permette una grande varietà di aggregazioni
I libri 3 e 4, che costituiscono la seconda coppia, espongono l’antropologia epicurea. Il libro 3
spiega come il corpo e l’anima siano entrambi costituiti da atomi aggregati ma di forma diversa;
l’anima non può perciò sottrarsi al processo di disgregazione che investe tutti gli atomi in quanto
tali, di conseguenza essa muore con il corpo e non c’è da attendersi un destino ultraterreno. Il
libro 4 prende in esame il procedimento della conoscenza, trattando la teoria dei simulacra: sottili
membrane, composti di atomi, che arrivano fino agli organi di senso. A questo punto Lucrezio,
introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e indica la causa unica di questa
passione nell’attrazione fisica.
La terza coppia di libri ha per oggetto la cosmologia: il libro 5 dimostra la mortalità del nostro
mondo. Il libro 6 si sforza di fornire spiegazioni naturali di vari fenomeni fisici. Sulla narrazione di
terribili eventi catastrofici, si colloca la descrizione della peste di Atene del 430, con cui si chiude
l’opera.
Il de rerum natura probabilmente non ha ricevuto l’ultima revisione dell’autore: lo dimostrano
alcune ripetizioni di versi. Problemi particolari ha destato il finale del poema. Poiché nel libro 5,
Lucrezio annuncia la descrizione delle sedi beate degli dei, si è pensato che proprio questa
descrizione, e non quella della peste di Atene, fosse la chiusa progettata del de rerum natura. Se si
accoglie questa supposizione, il poema avrebbe dovuto concludersi con una nota serena, andando
a chiudere il cerchio con l’inno a Venere con cui si apre. Oppure, la chiusura con la peste di Atene,
risponde alla precisa volontà di Lucrezio di contrappore l’apertura del poema e il finale come una
sorta di “trionfo della vita” e “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna
conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze.
Prima del De rerum natura la letteratura latina non aveva prodotto opere di poesia didascalica di
grande impegno. La tradizione latina non offriva dunque molti esempi di poesia didascalica. D’altra
parte Lucrezio rispetto ai poeti ellenistici, che avevano utilizzato questo genere, si differenzia in
quanto ambisce a descrivere e soprattutto a spiegare, ogni aspetto della vita del mondo e
dell’uomo e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea.
Nell’opera lucreziana, il lettore-discepolo viene continuamente esortato affinchè segua con
diligenza il percorso educativo. Questa è un'altra differenza rispetto alla poesia ellenistica
didascalica che si limita per lo più a descrivere fenomeni, mentre quella di Lucrezio indaga le cause
e propone al lettore una verità, una ratio.
L’intenzione del genere didattico ellenistico era stato encomiastico: esso rendeva lode alle cose e
suggeriva che l’oggetto della descrizione era di per sé meraviglioso. Al contrario in Lucrezio non c’è
meraviglia davanti al fenomeno perché esso è connesso necessariamente con una regola oggettiva
e non può trarne stupore chi ha capito i principi delle cose. Alla “retorica del mirabile” Lucrezio
sostituisce “la retorica del necessario”.
Il sublime, non è solo una forma di interpretazione del mondo per l’autore, ma diventa una forma
di percezione delle cose per il lettore che assiste allo spettacolo grandioso dell’universo e delle sue
leggi. Il sublime dunque rende il lettore partecipe della grande ed emozionante descrizione
lucreziana, gli suggerisce un bisogno morale. Così tutto il de rerum natura si configura come un
protreptikos logos, un insegnamento che contiene un drammatico consiglio: il lettore deve
divenire lo specchio della sublimità universale e trovare dentro di se la forza dell’accettazione e
dell’adeguamento.
Nel progetto didascalico lucreziano il testo prevede un lettore pronto ad ingaggiare quasi una lotta
con l’insegnamento. Sembra che Lucrezio attraverso il sublime voglia liberare il suo destinatario
dalla schiavitù del piacere facile.
Quel che nel genere didascalico tradizionale è una cornice, il rapporto docente-allievo, diventa nel
De rerum natura, un centro di tensione ed un tema problematico. Da questo discendono alcune
delle caratteristiche essenziali del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativa. Uno
spazio assai considerevole occupa anche l’analogia, grazie alla quale si tenta di ricondurre al noto,
ciò che è troppo lontano per essere osservato direttamente.
Il 3 libro è dedicato alla confutazione del timore per la morte. Lucrezio propone ben 29 diverse
prove per sostenere la sua tesi, il loro accumularsi e l’elaborazione nella scelta degli esempi,
creano un’innegabile forza persuasiva.
In questo libro è inoltre chiaro un altro carattere dell’opera, il suo collegamento con la letteratura
diatribica. Questa aveva come caratteristica la presentazione semi-drammatica del contenuto, con
frequenti spunti satirici e il concorso di più personaggi fittizi.
religiosa e dei timori che esse comporta. A tal fine è dunque necessaria una conoscenza sicura
delle leggi che regolano l’universo. Questo messaggio di Lucrezio è capace di mettere in
discussione i fondamenti culturali dello stato romano.
Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia religiosa. Il filosofo greco era stato il primo
che “osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa nel cielo”. Per questo egli
può essere venerato quasi come un dio, perché ha liberato gli uomini da enormi sofferenze morali:
tranne il 2 il 4 tutti i libri si aprono con una celebrazione dei meriti di Epicuro. Questi credeva che
gli dei vivessero negli intermundia, la zona tra terra e cielo, e fossero incuranti delle vicende
umane, essi potevano costituire solo un riferimento ideale. Era invece esclusa l’ipotesi che l’uomo
fosse soggetto ad un rapporto di dipendenza agli dei. Lucrezio recupera questo senso intimo della
religiosità, intesa come capacità di vivere serenamente.
Nell’ambito del 5 libro una sezione è dedicata alla nascita del timore religioso, che sorge
spontaneo per ignoranza delle leggi meccaniche che governano il mondo.
L’INTERPRETAZIONE DELL’OPERA
Uno degli obiettivi dell’autore è certamente quello di convincere razionalmente il suo lettore.
L’accesa confutazione della tesi stoica spiega perché Lucrezio insiste a lungo sull’idea che la natura
è del tutto incurante delle esigenze dell’uomo.
Quando, nel finale del 4 libro, si scaglia contro le insensatezze della passione amorosa, è
probabilmente mosso dalla volontà di ribadire che il saggio epicureo deve tenersi lontano da una
passione irrazionale che non ha alcuna giustificazione nella natura. In questo particolare caso,
avranno agito anche altri stimoli culturali, come la volontà di opporsi alla poetica dei poeti
neoterici.
Lucrezio ripete molto spesso, che la ratio da lui esposta è, per chi la assimila, messaggera di
serenità e libertà interiore, che trae origine dalla comprensione razionale dei meccanismi di
nascita. Lucrezio invita all’accettazione consapevole di ogni cosa.
Nel terzo libro Lucrezio afferma che con la morte la nostra sensibilità si perde del tutto e dunque
sarebbe stolto temere un oltretomba che non esiste. Tutto questo però non basta ad eliminare
l’angoscia dell’uomo di fronte all’idea che la sua vita debba finire; proprio su questo punto
Lucrezio si irrigidisce: se la vita trascorsa è stata piacevole, nulla di diverso può essere
sperimentato in futuro; al contrario se la vita è stata piena di sofferenze meglio concluderla.
LA FORTUNA DI LUCREZIO
Scarsa è la presenza di Lucrezio negli autori del 1 secolo, anche se Virgilio, Orazio e Ovidio non
mancano di tributargli lodi.
Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto del De rerum natura e lo invia a
Firenze perché sia copiato: ha inizio la rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna.
Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura curata da Karl Lachmann è il banco di prova del
moderno metodo filologico.
progetto di egemonia di un blocco sociale, dei ceti più ricchi cioè. Cicerone grande avvocato,
manipolatore delle parole ai fini della persuasione, mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li
teorizza nei trattai retorici. La sua ars dicendi utilizza una tecnica funzionale al dominio
dell’uditorio.
Il fine delle sue opere filosofiche e di dare una solida base ideale, etica, politica a una classe
dominante, il cui rispetto per la tradizione nazionale (il mos maiorum) non impedisca
l’assorbimento della cultura greca; una classe dominate all’interno della quale l’assolvimento dei
doveri verso lo stato non renda insensibili ai piaceri di un otium nutrito di arti. In poche parole
tutto ciò che è rinchiuso nel concetto di HUMANITAS: quella coscienza culturale che è frutto di
incivilimento. L’humanitas, formata dall’otium e dall’officium, dà vita al bonus vir.
bisogno del loro sostegno per cementare la concordia dei ceti abbienti nella quale cominciava a
scorgere la via di uscita dalla crisi che minacciava la repubblica. Per sostenere il suo progetto era
necessario ascendere alla carica più alta dello stato e anche da questo punto di vista il sostegno
del ceto equestre era vitale per l’homo novus, che non aveva certo l’appoggio dell’aristocrazia.
Dunque la convergenza di Cicerone con Pompeo mirava all’appoggio del ceto equestre.
Fu proprio grazie alla moderazione di Cicerone che parte dell’aristocrazia decise di coalizzarsi con il
ceto equestre e di appoggiare la candidatura dell’homo novus di Arpino. Intanto i bisogni delle
masse trovavano risposta nell’azione di un aristocratico di origine sillana, Catilina, anche egli
aspirante alla magistratura. Console nel 63, Cicerone soffocò la congiura di Catilina. Le più celebri
fra le orazioni di Cicerone sono certamente le quattro catilinarie, con cui egli svelò le trame del
nobile sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la
decisione di far giustiziare i complici di Catilina senza processo. Sul piano artistico spicca la prima
catilinaria, nella quale Cicerone attaccò Catilina di fronte al senato riunito. I toni sono veementi,
minacciosi e ricchi di pathos. Cicerone fece inoltre ricorso ad un artificio retorico che in
precedenza non aveva mai utilizzato: la prosopopea (personificazione) della Patria, che è
immaginata rivolgersi a Catilina con parole di biasimo. Nella seconda catilinaria troviamo invece il
ritratto di Catilina e dei suoi complici.
Nei giorni che intercorsero fra la prima e la seconda catilinaria, Cicerone si trovò a dover difendere
da un’accusa di corruzione elettorale Murena, console designato per l’anno successivo (Pro
Murena). Si oppongono a Murena e dunque Cicerone, Sulpicio Rufo e Catone l’utincese. Cicerone
scelse la via dell’ironia e dello scherzo. La Pro Murena è fra le orazioni più divertenti di Cicerone,
ha saputo trovare i toni di una satira lieve e arguta. L’orazione è poi interessante perché prende
qui l’arpinate prende posizione nei confronti dell’arcaico moralismo di Catone e inizia a
tratteggiare le linee di un nuovo modello etico, un modello in cui il rispetto per il mos maiorum sia
contemperato dall’addolcimento dei costumi.
Negli anni successivi Cicerone non cessò di esaltare la funzione storica del proprio consolato e
della lotta contro Catilina. Si ritenne un “padre della patria”.
Tuttavia la formazione del primo triunvirato segnò un rapido declino delle sue fortune politiche.
Un tribuno popolare, Clodio, presentò nel 58, una legge secondo la quale doveva essere
condannato all’esilio chi avesse fatto mettere a morte dei cittadini romani senza processo. La
legge mirava a colpire l’operato di Cicerone nella repressione dei catilinari. Non più sostenuto
dalla nobiltà, abbandonato da Pompeo, Cicerone fu costretto all’esilio. Richiamato a Roma nel 57
trovò una situazione tragica, si fronteggiavano, in continui scontri, le bande di Clodio e di Milone,
difensore della causa degli ottimati. Fu in questo clima che nel 56 Cicerone, trovatosi a difendere
Sestio, un tribuno accusato da Clodio, espose nella Pro Sestio, la nuova versione della sua teoria
sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto intesa fra il ceto senatorio e quello equestre, la
CONCORDIA ORDINUM si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di
CONSENSUS OMINUM BONORUM, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate amanti
dell’ordine politico, pronte all’adempimento dei propri doveri nei confronti della patria e della
famiglia. I boni, saranno d’ora in poi i destinatari della predicazione etico-politica di Cicerone.
Dovere dei boni sarà di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi
privati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. Tuttavia la
situazione di Roma spinge Cicerone a desiderare che il senato e i boni, per superare le loro
discordie, siano guidati da personaggi eminenti, una teoria che verrà approfondita nel De
republica. In quest’ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento di Cicerone ai triumviri, nella
speranza di far si che il loro potere non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti
delle istituzioni repubblicane. Il periodo della collaborazione con i triumviri è tuttavia, un periodo
di grande incertezza per Cicerone; infatti da un lato continua ad attaccare Clodoio, come ad
esempio In Pisonem, una violenta invettiva contro il suocero di Cesare, ritenuto da Cicerone uno
dei responsabili del suo esilio; dall’altra dà il suo appoggio alla politica dei triumviri, nel 56 parla in
favore del primo comando di Cesare in Gallia e difende vari personaggi legati a Cesare.
Fra le orazioni anti-clodiane un ruolo particolare occupa quella in difesa di Marco Celio Rufo (Pro
Celio), amico personale di Cicerone. Celio era stato l’amante di Clodia, contro Celio erano state
elaborate una serie di accuse, fra cui quella di un tentativo di avvelenamento nei confronti di
Clodia. Attaccando Clodia Cicerone ebbe modo di sfogare il suo astio anche nei confronti del
fratello: la donna è dipinta come una volgare meretrice. Con questa orazione Cicerone ha modo di
dipingere uno spaccato della società romana del tempo e si sforza di giustificare agli occhi ei
giudici i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e che possono destare scandalo solo
agli occhi dei moralisti troppo attaccati al passato. Il modello culturale che Cicerone propone mira
a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala di valori che continui a essere
dominata dalle virtù della tradizione, tuttavia spogliate del loro eccesso di rigore e resi più
flessibili.
Nel 52 poi Clodio rimase ucciso e Cicerone assunse la difesa di Milone, l’avversario di Clodio (Pro
Milone). L’orazione è considerata uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle
argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del tirannicidio. Tuttavia
quella che noi abbiamo è una radicale rielaborazione compiuta in tempi successivi. Cicerone infatti
non riuscì a pronunciare l’orazione davanti ai giudici e Milone fu costretto all’esilio.
Nel 49, allo scoppio della guerra civile Cicerone aderì senza entusiasmo alla causa di Pompeo.
Dopo la vittoria di Cesare, fu da quest’ultimo perdonato. Le orazioni cosiddette “cesariane” (Pro
Marcello, Pro Ligario e Pro rege Deiotaro) si collocano fra il 16 e il 45. Le orazioni miravano ad
ottenere la concessione del perdono ai pompeiani. Abbondano gli elogi a Cesare. La Pro Marcello
si sforza anche di suggerire a Cesare un programma politico di riforma dello stato rispetto alle
forme repubblicane.
Dopo l’uccisione di Cesare, Cicerone tornò ad essere un uomo politico di primo piano. La manovra
politica di Cicerone tendeva a staccare Ottaviano da Antonio e a riportare il primo sotto le ali
protettrici del senato. Cicerone pronunciò, per indurre il senato a dichiararlo nemico pubblico,
contro Antonio, a partire dal 44, Le Filippiche (il nome allude alle requisitorie pronunciate Da
Demostene contro Filippo di Macedonia), forse 18. Per i toni di indignata denuncia si distingue la
seconda filippica (l’unica che non venne effettivamente pronunciata). Un’orazione che spira odio,
dove Antonio viene presentato come un tiranno, un ladro del denaro pubblico, un ubriacone. La
manovra politica di Cicerone era destinata al fallimento. Con un brusco voltafaccia Ottaviano si
sottrasse alla tutela del senato e strinse un accordo con Antonio e Lepido (secondo triumvirato).
Antonio pretese ed ottenne la testa di Cicerone, il cui nome fu inserito nelle liste di proscrizione.
Venne raggiunto a Formia nel 43.
Cicerone durante la sua vita rimase sempre fedele all’ideale della concordia e alla causa del
senato. Anche il momentaneo riavvicinamento a Cesare fu dettato dal desiderio di mitigarne le
tendenze autocratiche. Il progetto di concordia dei ceti abbienti, significò un tentativo di superare,
in nome del superiore interesse della collettività, la lotta di gruppi e di fazioni che dominava la
scena politica romana. Cicerone però sottovalutò il peso degli eserciti personali nelle guerre civili e
forse si fece troppe illusioni sui boni: al tempo della guerra civile i ceti possidenti ritennero che le
loro esigenze fossero meglio garantite da Cesare, anche successivamente non fecero mancare il
loro consenso alla politica di Augusto.
impressione estetica); flectere (muovere le emozioni attraverso il pathos). Ai tre fini corrispondono
i tre registri stilistici che l’oratore dovrà sapere alternare: umile, medio e elevato o patetico
(principalmente nella peroratio).
Molti accusavano Cicerone di non aver preso abbastanza le distanze dall’asianesimo: le accuse alla
sua oratoria si riferivano alle ridondanze del suo stile oratorio, all’accettazione dell’elemento
ritmico; gli avversari di Cicerone invece privilegiavano uno stile semplice.
Sul contrasto Cicerone prese posizione nel 46, nel dialogo Brutus, dedicato a Marco Bruto, uno dei
principali rappresentanti delle tendenze atticiste. Nel Brutus Cicerone disegna una storia
dell’eloquenza greca e romana. Si comprende come la storia dell’eloquenza culmini in una
rievocazione delle tappe della carriera oratoria dello stesso Cicerone. L’ottica in cui Cicerone
guarda al passato dell’oratoria è quella di una rottura degli schemi tradizionali. la rottura
rispecchia una tendenza di fondo della pratica oratoria di Cicerone: situazioni diverse richiedono
l’alternanza di registri diversi. La grande oratoria senza schemi ha il suo modello principe in
Demostene.
Contemporanea al Brutus è il De optimo genere oratorum, in un certo senso complementare ad
esso. E poi del 44 sono invece i Topica, ispirati ad un’omonima opera di Aristotele, i quali trattano
dei topoi, i luoghi comuni a cui può far ricorso l’oratore alla ricerca degli argomenti da sviluppare
nel discorso.
UN PROGETTO DI STATO
Il modello del dialogo platonico viene ripreso anche nel De Republica, a cui Cicerone lavorò
lungamente tra il 54 e il 51. Cicerone si proiettò nel passato per identificare la migliore forma di
stato nella costituzione romana.
Il dialogo si svolge nel 129 nella villa di Scipione Emiliano, che è con l’amico Lelio, uno dei principali
interlocutori. Una parte cospicua del dialogo venne ritrovata da Angelo Mai in un palinsesto
vaticano; alcuni brani di altre sezioni si sono trasmessi attraverso citazioni di scrittori antichi. Ci è
giunta in modo indipendente dal resto, la sezione finale, il Somnium Scipionis.
Nel primo libro Scipione parte dalle tre fondamentali forme di governo e della loro necessaria
degenerazione nelle forme estreme. Riprendendo una tesi dello storico greco Polibio, Scipione
mostra come lo stato romano dei maiores si salvasse dalla degenerazione per il fatto di aver
saputo far coesistere le tre forme fondamentali.
Il libro secondo si occupava dello svolgimento della costituzione romana.
Il libro tre trattava della iustitia e si concentrava in una confutazione della critica che l’accademico
Carneade aveva svolto dell’imperialismo romano.
Il 4 libro si occupava dell’educazione dei cittadini.
Nei libri 4 e 5 Cicerone introduceva la figura del rector et gubernator rei publicae, o princeps; è
questa la parte più lacunosa dell’opera.
Il 6 libro si conclude con la rievocazione, da parte di Scipione Emiliano, del sogno in cui gli era
apparso l’avo Scipione l’Africano, per mostragli, dall’alto cielo, l’insignificanza di tutte le cose
umane e rivelargli tutta la beatitudine che attende nell’al di là le anime dei grandi uomini di stato.
Cicerone in quest’opera sembra pensare ad un èlite di personaggi eminenti che si ponga alla guida
del senato e si raffigura probabilmente il ruolo del princeps sul modello di quello che nella
repubblica romana aveva ricoperto proprio Scipione Emiliano. Cicerone intende mantenere il ruolo
del princeps all’interno dei limiti della forma statale, pensa alla coagulazione del consenso politico
intorno a leader prestigiosi. Perché la sua autorità non travalichi oltre i limiti costituzionali, il
princeps dovrà andare contro tutte le passioni egoistiche, è questo il senso del disprezzo verso
tutte le cose umane: repressione dei desideri individualistici e persecuzione del bene collettivo
(motivo del sogno).
Proprio la consapevolezza dei pericoli che comportava l’accentramento di enormi poteri nelle
mani di pochi capi, spinsero Cicerone verso un avvicinamento a Pompeo, nella speranza di
mantenere l’operato sotto il controllo del senato.
Cicerone completò il dialogo sullo stato con il De Legibus, iniziato nel 52 e mai pubblicato. Se ne
sono conservati i primi tre libri e frammenti del 4 e del 5. L’azione, stavolta, è posta nel presente e
interlocutori sono lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico. L’ambientazione è nella
villa di Cicerone ad Arpino. Nel 1 libro Cicerone spone la tesi stoica secondo la quale la legge non è
sorta per convenzione, ma si basa sulla ragione innata in tutti gli uomini. Nel libro successivo,
l’esposizione delle leggi che dovrebbero essere in vigore nel migliore degli stati si basa sulla
tradizione legislativa romana, che ha i suoi punti di riferimento nel diritto pontificio e sacrale. Nel
libro 3 Cicerone presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze.
Nelle Tusculanae Cicerone cerca una risposta anche ai suoi personali interrogativi, da qui la
profonda partecipazione emotiva.
Di argomenti religiosi e teologici trattano tre dialoghi: il De Natura Deorum, tre libri dedicato a
Bruto; il De Divinatione, in due libri; il De fato, giuntoci incompleto.
Ci sono poi il Cato maior de Senectute e il Laelius amicitia, in cui i precetti filosofici trovano
incarnazione in due personaggi della tradizione romana.
A partire al 44 Cicerone iniziò la stesura del De Officis, il suo testamento filosofico. In quest’opera,
Cicerone cerca di ricomporre il corpus di metodi, riflessioni, teorie cresciute nelle scuole
filosofiche ellenistiche per ricomporlo in un blocco di senso comune: egli intende così offrire un
punto di riferimento alla classe dirigente romana. Non guarda solo ai problemi immediati, ma si
pone questioni che riguardano i fondamenti stessi della crisi sociale. Si tratta di ricucire le membra
del pensiero ellenistico, per trarne fuori una struttura ideologica operativa nei confronti della
società romana.
L’eclettismo di Cicerone obbedisce ad un metodo che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un
dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia dell’humanitas, invitava ad
un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. L’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura
radicale verso l’epicureismo. I motivi dell’avversione ciceroniana sono soprattutto due: il primo, la
filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, mentre è dovere dei boni l’attiva
partecipazione alla vita pubblica; inoltre l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale delle
divinità e indebolisce così i legami con la religione tradizionale, per Cicerone base fondamentale
dell’etica.
Nel De Natura Deorum viene esposta e confutata la tesi epicurea dell’indifferenza degli dei
rispetto alle cose umane. Poi viene presa in esame la tesi stoica del panteismo provvidenziale. Nel
De Divinatione invece, più legato alla situazione romana, Cicerone si mostra esitante tra la
denuncia della falsità della religione tradizionale e la necessità del suo mantenimento al fine di
conservare il dominio su ceti sociali inferiori.
Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini
verso la collettività, ma il rigore etico degli stoici gli appariva anacronistico, scarsamente
praticabile in una società che era andata incontro a radicali trasformazioni. L’eclettismo
ciceroniano significa anche apertura verso quelle filosofie moderatamente aperte al piacere, come
quella peripatetica e il probabilismo accademico.
Un posto particolare occupano i due brevi dialoghi Cato Maior de Senectute e Laelius de amicitia,
composti entrambi nel 44 e entrambi dedicati ad Attico. Nel Cato Maior l’azione è posta nel 150,
l’anno prima della morte di Catone. Cicerone immagina di vestire i panni dell’antico censore, nel
raffigurare quest’ultimo egli si è concesso molte libertà rispetto alla sua immagine storicamente
accertabile. Il personaggio appare come addolcito, raffinato cultore dell’humanitas. Nella sua
vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto dell’otium e la tenacia dell’impegno politico,
due opposte esigenze che Cicerone ha cercato in vano di conciliare per tutta la vita.
Diversa è l’atmosfera che si respira nel Laelius. Il dialogo è immaginato svolgersi nel 129, pochi
giorni dopo la misteriosa morte di Scipione nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la
figura dell’amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul
valore stesso dell’amicizia. Amicitia, per i romani, era soprattutto la creazione di legami personali a
scopo di sostegno politico. La novità dell’impostazione ciceroniana consiste nello sforzo di
allargare la base sociale delle amicizie: a fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus e
probitas. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve
servire a cementare la coesione dei boni. Ma l’amicizia tratta nel Laelius, non è solo amicizia
politica, si avverte un disperato bisogno di rapporti sinceri.
La stesura del De Officis venne iniziata probabilmente nel 44, si tratta stavolta di un trattato
dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. Cicerone cerca nella filosofia un
progetto, indirizzato alla formulazione di una morale della vita quotidiana. La base filosofica viene
offerta dallo stoicismo moderato di Panezio, deciso nel rifiuto dell’edonismo e della conseguente
etica del disimpegno, rispettoso della tradizione, ma senza fanatismi e rozzezze arcaiche.
Quest’opera ha una funzione pedagogica come conferma Cicerone stesso affermando di rivolgersi
ai giovani. Il compito che Cicerone si assunse era quello di mostrare che l’assolvimento dei doveri
non sarebbe stato possibile senza aver assorbito e meditato la riflessione filosofica dei greci. I tre
libri in cui il de Officis è diviso trattano dell’honestum, dell’utile e del conflitto tra i due.
La dottrina di Panezio di distingueva rispetto allo stoicismo antico per un giudizio più positivo sugli
istinti, che non devono essere oppressi dalla ragione, ma piuttosto corretti e disciplinati. Le
tradizionali virtù cardinali stoiche venivano reinterpretate.
Si tratta di una serie di prescrizioni per l’uomo politico in varie occasioni del quotidiano, la giusta
misura nelle parole e nelle azioni, il decorum. Il concetto di decorum permette di fondare la
possibilità di una pluralità di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti,
legittimazione si scelte di vita anche diverse da quella tradizionale, purchè chi le intraprenda non
dimentichi i suoi doveri verso la collettività.
LE OPERE POETICHE
In gioventù compose poemetti alessandrineggianti di argomento mitologico. L’opera poetica più
fortunata fu l’Aretea, una traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato.
Rimangono poi i poemi epici: il Marius e il De Consulatu Suo, composto intorno al 60 per celebrare
l’anno della gloriosa battaglia contro Catilina. Fu l’opera più sbeffeggiata di Cicerone, sia dai
contemporanei che dalla critica successiva; oltre che per il suo non grande valore poetico anche
per le stucchevoli lodi che l’autore si autoprodigava. Cicerone contrapponeva le proprie glorie
come magistrato civile agli allori dei comandanti militari.
Per quel che rimane dei resti della sua produzione giovanile in versi, le prime prove poetiche di
Cicerone lo farebbero definire un precursore dei neoterici. Bel presto i suoi gusti dovettero farsi
più tradizionalistici, fino all’ostilità più o meno aspra verso i poeti moderni.
Forse si possono distinguere due momenti, il periodo della primissima produzione, di gusto e di
modi sostanzialmente alessandrineggianti perché dedicato a componimenti brevi e a contenuto
erudito e didascalico; e il periodo dei poemi epico-storici di tipo enniano.
Egli contribuì molto a regolamentare l’esametro latino rendendolo più duttile e vivace nel ritmo.
Favorì in poesia lo sviluppo dell’enjambement e della tecnica dell’incastro verbale. Cicerone riuscì
a realizzare il suo programma di latinizzazione della cultura greca.
L’EPISTOLARIO
Per la conoscenza dell’epistolario di Cicerone disponiamo di uno strumento di impareggiabile
valore: le lettere che egli scrisse ad amici e parenti. L’epistolario ciceroniano si compone di 16 libri
Ad Familiares (parenti ed amici, le lettere vanno dal 62 al 43); 16 libri Ad Atticum (fino dalla
gioventù per tutta la vita, il migliore amico di Cicerone, dal 68 al 44); 3 libri Ad Quintum Fratem
(dal 60 al 54) e 2 libri Ad Marcum Brutum (di autenticità controversa, le lettere sono tutte del 43).
Furono tutte pubblicate in una data incerta dopo la morte di Cicerone.
La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia in quella dei toni: Cicerone è
a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e i problemi
personali.
Si tratta di lettere vere, quando le scrisse Cicerone non pensava ad una loro pubblicazione, percò
esse ci mostrano un Cicerone non ufficiale che nelle confidenze private rivela dubbi, incertezze,
esitazioni frequenti. Anche lo stile è molto diverso rispetto a quello delle opere destinate alla
pubblicazione. La sintassi mostra molte paratassi e parentesi, il lessico è costellato da parole
pittoresche e troviamo termini ibridi greco-latini. È una lingua che rispecchia il sermo cotidianus
delle classi elevate.
Non va dimenticato l’eccezionale valore storico dell’epistolario che ci permette di seguire giorno
per giorno l’evolversi degli avvenimenti politici.
FORTUNA DI CICERONE
Bisogna operare una divisione tra gli estimatori e i detrattori di Cicerone, tra i secondi vanno
ricordati Asinio Pollione e Sallustio. Il 1 secolo vide il modello senecano fondato sul periodare
nervoso e rapido, riprendere quello di Cicerone. Nella tradizione scolastica l’arpinate occupava
una posizione di predominio quasi assoluto. Per il medioevo cristiano Cicerone è uno dei massimi
mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica. Cicerone è l’unico modello di prosa latina. Ha
inoltre il primato dell’eloquenza. Egli in epoca moderna ha contribuito soprattutto ad alimentare il
moderatismo politico; è stato importante per la ricerca di un equilibrio fra impegno politico e
libertà interiore.
rivolta generale guidata dal capo della tribù degli Averni, Vercingetorige. La resistenza gallica ha
termine con l’espugnazione di Alesia, dove Vercingetorige viene catturato.
Sui tempi di composizione del De bello Gallico vi è disaccordo: secondo alcuni sarebbe stato scritto
di getto nell’inverno del 52-51, altri invece preferiscono pensare ad una composizione anno per
anno, durante gli inverni, cioè nei periodi in cui erano sospese le operazioni militari. Questa ipotesi
sembra dare ragione della sensibile evoluzione stilistica dei commentarii. Tale evoluzione sembra
procedere dallo stile scarno e disadorno a ornamenti tipici dell’historia. Così ad esempio nella
seconda parte dell’opera si fa più frequente l’uso del discorso diretto. È comunque possibile che
Cesare, per comodità compositiva abbia redatto separatamente, in forma più o meno abbozzata, i
resoconti delle varie campagne e li abbia poi in un secondo momento riordinati e coordinati.
Lo stile scarno dei commentarii, la forte riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono
moltissimo al tono oggettivo e impassibile della narrazione cesariana. Sotto questa impassibilità
tuttavia, la critica moderna ha creduto di scorgere deformazioni di avvenimenti a fini di
propaganda politica.
In ambedue le opere la presenza di procedimenti di deformazione è innegabile: non si tratta mai di
falsificazioni vistose, ma di omissioni più o meno rilevanti. Cesare dispone le argomentazioni in
modo da giustificare i propri insuccessi.
Coerentemente con queste tendenze, il De bello Gallico, non può essere letto come un’esaltazione
della conquista. Cesare infatti mette in rilievo le esigenze difensive che lo hanno spinto a
intraprendere la guerra; era inoltre una strategia consolidata dell’imperialismo romano presentare
le guerre di conquista come necessarie a proteggere lo stato romano. Nel De bello Civili cesare
sottolinea come le sue azioni di siano sempre mosse nel solco delle leggi, si presenta come un
politico moderato.
In ambedue le opere egli mette in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma non
alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura.
La fortuna è un elemento largamente presente nella sua narrazione, non viene presentata come
divinità protettrice, è piuttosto un concetto che serve a spiegare cambiamenti repentini di
situazione; è ciò che sfugge alla capacità di previsione e di controllo razionale dell’uomo. Cesare
infatti cerca di spiegare gli avvenimenti secondo cause umane e naturali e non fa praticamente
mai ricorso all’intervento delle divinità.
I CONTINUATORI DI CESARE
Il luogotenente di Cesare, Irzio, compose il libro 8 del De bello Gallico, per congiungere la
narrazione di quest’ultimo con quella de De bello Civili tramite il racconto degli avvenimenti degli
anni 51 e 50. La lapidaria eleganze e suggestione di Cesare però rimangono ignote ad Irzio e agli
altri continuatori.
Gaio Sallustio nacque nella Sabina nel 86 a.c., fu homo novus, come il suo conterraneo Catone il
Censore, che fu per lui importante esempio ideologico e letterario. Compì probabilmente i suoi
studi a Roma, dove ben presto i suoi interessi cominciarono a gravitare verso la politica. Si legò
inizialmente ai populares: tribuno della plebe nel 52, condusse una campagna accanita contro
l’uccisione di Clodio, poco dopo dovè subire la vendetta degli aristocratici: nel 50 venne spulso dal
senato per indegnità morale. Dopo lo scoppio della guerra civile combattè dalla parte di Cesare e
fu riammesso nel senato. Nel 46 divenne pretore. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare
nominò Sallustio governatore della provincia Africa Nova. Sallustio dette tuttavia prova di
malgoverno e di rapacità e al ritorno dalla provincia venne colpito da un’accusa di malversazione.
Cesare gli consigliò di ritirarsi una volta per tutte dalla vita politica. Fu da questo momento in poi
che Sallustio di dedicò alla storiografia. La morte lo colse o nel 35 o nel 34, facendo si che restasse
incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae.
Due monografie storiche: il De Catilinae Coniuratione e Bellum Iugurthinum, composte e
pubblicate probabilmente negli anni fra il 43 e il 40. La sua più importante opera, le Historiae,
iniziate intorno al 39 e rimasta incompiuta al 5 libro; l’opera copriva il periodo fra il 78 e il 67, ne
restano numerosi frammenti tra cui alcuni di vaste dimensioni, buona parte del proemio e quattro
discorsi completi.
Per la data di nascita ci si basa su Gerolamo. Per il ritiro dalla vita politica è importante la
testimonianza dello stesso Sallustio nel Bellum Iugurtinum.
Catilina, la cui congiura era stata sventata da Cicerone, aveva intravisto la possibilità di coalizzare
una sorta di blocco avverso al regime senatorio: il proletariato urbano, i ceti poveri, i membri
indebitati dell’aristocrazia.
Dopo il proemio Sallustio muove dal ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico
corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani, dovuta
all’accrescersi della potenza dell’impero e al dilagare del lusso e delle ricchezze. Catilina ragruppa
intorno a se persone che auspicano ad un cambiamento di regime. Catilina estende i suoi
preparativi a tutta l’Italia. Catilina, sconfitto nelle elezioni consolari, compie alcuni attentati alla
vita di Cicerone fin quando quest’ultimo ottiene dal senato pieni poteri per reprimere la rivolta e
nel 63 accusa apertamente Catilina in senato. Catilina insieme ai suoi complici fugge e viene
dichiarato dal senato nemico dello stato. A questo punto Sallustio introduce un excursus sui motivi
della degenerazione della vita politica. La narrazione riprende con le varie vicende fin quando
Cicerone riesce a far incarcerare i complici di Catilina e a far riunire il senato per deliberare sulla
loro sorte. Si oppongono alla proposta di condanna a morte i discorsi di Cesare e Catone il giovane.
Dopo averne riportato i discorsi Sallustio introduce un parallelo tra Cesare e Catone, due
personaggi dalla virtù opposte e complementari, i soli grandi uomini del tempo. Catilina dopo aver
combattuto valorosamente in battaglia muore.
Sallustio, come molti suoi contemporanei, vedeva nel pericolo catilinario uno dei sintomi della ben
più grave malattia di cui soffriva il popolo romano e alla quale dedica un ampio excursus, quasi
all’inizio del Bellum Catilinae. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che con ispirazione
tucididea, traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è
individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale, con la cessazione del timore verso i
nemici esterni, Sallustio fa incominciare il deterioramento della moralità romana.
Un secondo excursus, collegato a metà dell’opera, denuncia la degenerazione della vita politica
romana. La condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares: da un lato
demagoghi che con elargizioni e promesse aizzano la plebe; dall’altro gli aristocratici che
combattono solo per consolidare e ampliare i propri privilegi. Sallustio ripone tutte le sue
aspettative in Cesare, lo storico auspicava un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi
dello stato ristabilendo l’ordine nella res Publica, rinsaldando la concordia tra i ceti possidenti,
restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini nuovi. Sallustio però sarà stato
disgustato da uno degli aspetti più importanti della politica di Cesare, l’inserimento dei militari nel
senato.
Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che nel Bellum Catilinae Sallustio
ha compiuto del personaggio di Cesare, purificandolo da ogni contatto e legame con i catilinari ed
evitando la condanna come capo dei populares.
Il discorso che Sallustio fa pronunciare a cesare durante il processo per la condanna a morte di
Catilina, non è totalmente una falsificazione; infatti l’insistenza sulle tematiche legalitarie è
coerente con la propaganda cesariana degli ultimi anni.
Sallustio subito dopo delinea i ritratti di Catone e Cesare, che in quella occasione aveva dato pareri
opposti. L’idea del confronto tra i due personaggi ha rapporti con la polemica su Catone che si era
sviluppata dopo il suo suicidio ad Utica. Sallustio sembra essere stato il primo a tentare una
riflessione che approda a una sorta di “ideale conciliazione” fra i due personaggi. Il ritratto di
Cesare si sofferma sulla sua liberalità, munificentia e misericordia. Le virtù tipiche di Catone sono
invece quelle, radicate nella tradizione, integritas e severitas. Differenziando i mores dei due
personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano,
individuava nelle loro virtù, virtù complementari; in particolare nei principi etico-politici affermati
da Catone, Sallustio riconosceva un fondamento irrinunciabile della res publica.
Nell’opera di Sallustio, Cicerone non è il politico che domina gli eventi grazie alla propria mente,
ma un magistrato che fa il suo dovere.
Attinge invece una sua grandezza il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un
personaggio a tinte forti, sottolineando da un lato l’energia indomabile, dall’altro la facile
consuetudine alla depravazione. Il ritratto è dominato dall’esigenza moralistica, mentre tratteggia
il suo personaggio, Sallustio lo giudica.
Il moralismo di Sallustio è coerente con il suo moderatismo politico. Lo storico, indicando le cause
del fenomeno catilinario in una degenerazione morale della società romana, può fare di quel
avvenimento una conseguenza logica e necessaria della crisi. Ma dai discorsi che Catilina
pronuncia affiorano i motivi profondi della crisi che da tempo travaglia lo staro romano: da una
parte pochi potenti che monopolizzano cariche politiche, dall’altra una massa senza potere,
comperta di debiti.
ai valori antichi, quei valori che hanno permesso di emergere agli stessi capostipiti delle casate
aristocratiche.
L’ammirazione di Sallustio per l’uomo che seppe opporsi all’arroganza nobiliare, è in qualche
modo limitata dalla consapevolezza delle responsabilità che Mario si sarebbe assunto durante le
guerre civili; ma già l’arruolamento dei capite censi getta ombre inquietanti sulla sua figura:
Sallustio non sembra approvare il provvedimento in cui si individuava l’origine degli eserciti
personali e professionali che avrebbero distrutto la repubblica e pare che egli veda come inquinata
dall’affermarsi del proletariato militare quell’aristocrazia della virtus che Mario esalta nel proprio
discorso.
Nel Bellum Iugurthinum il ritratto di Giugurta è pieno di virtus, anche se di una virtus corrotta. La
sua natura però non è corrotta fin dall’inizio, ma lo diviene progressivamente. Il seme della
corruzione di Giugurta viene gettato durante l’assedio di Numanzia. Giugurta una volta che la sua
indole si è corrotta, appare solo come un tiranno perfido, ambizioso e privo di scrupoli.
LO STILE DI SALLUSTIO
Sallustio, nutrendosi di Tucidide e di catone il censore, elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas,
il contrario della ricerca ciceroniana di simmetria, sull’uso frequente di antitesi, asimmetrie e
variationes di costrutto. Questo produce un effetto di gravitas austera e maestosa. Alla gravita
austera di questo stile contribuisce la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo non è solo nella scelta di
parole desuete, ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi che è di tipo paratattico. I
pensieri così si giustappongono, è evitato il periodare per subordinazione sintattica, sono evitate le
strutture bilanciate e le clausole ritmiche. Frequenti asindeti e omissioni e il gusto per l’accumulo
di parole ridondanti. L’allitterazione dà colore arcaico ma potenzia il senso delle parole. Uno stile
dunque arcaizzante ma innovatore perché il suo andamento spezzato è del tutto
anticonvenzionale.
Sul piano della tecnica narrativa, l’esigenza di sobrietà imponeva la rinuncia a tutta una serie di
effetti drammatici. La limitazione approda ad una drammaticità più intensa perché più controllata.
Le Historiae costituiranno uno dei modelli per la successiva storiografia latina.
L’EPISTULAE E L’INVETTIVA
Le opere di Sallustio ottennero un successo immediato.
I manoscritti di Sallustio ci conservano una Invectiva in Ciceronem, che anche Quintiliano
considerava autentica, ma è probabile che l’autore sia un retore di età augustea.
Ugualmente spurie sono da ritenersi le Epistulae ad Cesarem, trasmesse anonimamente. Lo stile è
quello sallustiano ma, oltre che risultare eccessivamente arcaizzante, la scrittura pare impropria. Il
contenuto è scontato: irrisione violenta di Cicerone, suggerimenti a Cesare affinchè scelga la via
della clementia, concili le fazioni e restituisca la pace.