Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
2 visualizzazioni44 pagine

RIASSUNTO Libro - Filosofie Medievali. Dalla Tarda Antichità All'Umanesimo

Il documento analizza il platonismo latino durante la tarda antichità, evidenziando la sua inferiorità rispetto a quello greco e il contributo di filosofi come Apuleio e Boezio. Si discute anche della figura di Agostino d'Ippona, la sua conversione al cristianesimo e l'importanza delle sue opere filosofiche, tra cui le 'Confessiones'. Infine, si esplora il suo approccio alla conoscenza e alla verità, in contrapposizione al pensiero scettico degli accademici.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
2 visualizzazioni44 pagine

RIASSUNTO Libro - Filosofie Medievali. Dalla Tarda Antichità All'Umanesimo

Il documento analizza il platonismo latino durante la tarda antichità, evidenziando la sua inferiorità rispetto a quello greco e il contributo di filosofi come Apuleio e Boezio. Si discute anche della figura di Agostino d'Ippona, la sua conversione al cristianesimo e l'importanza delle sue opere filosofiche, tra cui le 'Confessiones'. Infine, si esplora il suo approccio alla conoscenza e alla verità, in contrapposizione al pensiero scettico degli accademici.
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 44

CAPITOLO I

LA FILOSOFIA DELLA TARDA ANTICHITÀ LATINA

I.I IL PLATONISMO LATINO TARDOANTICO

Durante la tarda antichità, la letteratura filosofica prodotta in lingua latina è ancora inferiore rispetto a
quella greca sia per quantità che qualità, fatta eccezione per Agostino e Boezio. I filosofi latini condividono
con i loro colleghi greci alcune caratteristiche, come l’utilizzo del commento come genere letterario.
Solamente Boezio intraprenderà il progetto sistematico di tradurre e commentare le opere di Platone e
Aristotele per mostrarne l’armonia. Al contrario, rispetto ai platonici greci tendono ad attribuire un ruolo
maggiore alle arti liberali e minore alle pratiche religiose del paganesimo – tuttavia, la differenza più
sostanziale è la totale assenza di scuole di filosofia in lingua latina. In nessun angolo dell’Impero romano. La
filosofia in latino era frutto dell’otium di singoli intellettuali che si rivolgevano a un pubblico ristretto di
persone altolocate, prive di competenze filosofiche.

Il primo rappresentante significativo del platonismo latino è Apuleio di Madura (africano del II secolo); la
sua opera De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina) è classificato tra i manuali “medioplatonici”
di filosofia platonica come il Didaskalikós di Alcinoo.
Apuleio espone in maniera sistematica il contenuto del pensiero platonico secondo la tripartizione della
filosofia in:
¾ NATURALE à l’esposizione della filosofia naturale comincia con l’enunciazione della teoria dei tre
princìpi (DIO-MATERIA-FORME) e vede al centro del pensiero il Parmenide.
[Diversamente il platonismo preplotiniano prevede la dottrina delle tre ipostasi (UNO =/= DIO,
INTELLIGENZA, ANIMA) e utilizza il Timeo].
¾ MORALE,
¾ RAZIONALE.

Un punto della filosofia naturale di Platone viene trattato nel De deo Socrati, dove espone la teoria dei viventi
razionali: in mezzo agli uomini e gli dèi, distinti in invisibili e visibili (corpi celesti), vi sono i demoni à hanno
caratteristiche intermedie tra quelle divine (ad es. l’immortalità) e umane (ad es. le passioni). Essi sono oggetti
di venerazione religiosa, rendono possibile la divinazione.
Tuttavia, il platonismo di questi due scritti non impedisce ad Apuleio di richiamarsi ad Aristotele e a Teofrasto
per descrivere la struttura del cosmo, come si può vedere nel De mundo, oppure alla logica peripatetica, come
nel trattato Perì hermeneías.

A un tipo di platonismo del genere appartiene il commento parziale di Calcidio al Timeo, quest’opera seppure
databile al IV secolo, riflette una interpretazione di Platone basata ancora sulla teoria dei tre principì (initia,
deus silva, exemplum) anziché sulla dottrina delle tre ipostasi. Il commento si compone in due parti:

1. Presenza di trattazioni di ordine matematico,


2. Ampia sezione sui quattro generi di esseri viventi (tra cui i demoni) e si chiude con una
discussione intorno alla materia.

Di Calcidio non sappiamo nulla ma possiamo evincere che fosse, almeno, un simpatizzante del cristianesimo
(opera dedicata ad Osio, forse vescovo di Cordova).

Il neoplatonismo fa il suo ingresso nella letteratura latina con l’opera di Mario Vittorino (Africa, fine III
secolo). Rinomato professore di retorica a Roma, si converte al cristianesimo e nel 362 si dismise a causa
dell’editto di Giuliano l’Apostata che vietava l’insegnamento ai cristiani.

Possiamo dividere la sua produzione scritta in anteriore alla conversione – che prevede un commento al De
inventione di Cicerone – e quelli composti dopo la conversione, i quali documentano la sua familiarità con il
neoplatonismo.

1
Agostino ci informa che Vittorino aveva tradotto anche certi «libri di platonici», non identificati ma
probabilmente si tratta di Plotino e Porfirio. È sopravvissuta in parte, grazie a Boezio che se ne serve per il
proprio commento al trattato porfiriano, la sua traduzione dell’Isagoge. Vittorino si serve del loro pensiero per
costruire una dottrina trinitaria antiariana e pronicena.1 L’esito è una teologia con spiccati connotati metafisici,
espressa in un linguaggio tecnico e ricco di neologismi. La realtà è concepita come una grande catena, al cui
vertice sta Dio e seguito dalle «cose che realmente sono» (intelligibili, come l’Anima del Mondo), dalle cose
che «meramente sono» (intellettuali, come le anime individuali), dalle «cose che non sono realmente non-
esistenti» (i corpi costituiti di materia e forma) e infine dalle «cose che non sono» (materia). Dio è un atto puro
di essere (esse, Padre) che si estrinseca negli atti di vivere (vivere, Figlio) e di comprendere (intellegere,
Spirito). Il Padre, Figlio e Spirito si distinguono tra loro a seconda di quale fra questi tre atti predomini in
ciascuna Persona.

Un esempio di neoplatonismo pagano, o perlomeno non esplicitamente cristiano, ci viene fornito da


Macrobio (IV-V secolo). Nelle sue opere menziona Cicerone e Platone, oltre a fare riferimento ai platonici
come Plotino e Porfirio – a dire il vero, è mediante Porfirio che interpreta Plotino. Emerge chiaramente la sua
adesione alla dottrina delle tre ipostasi.

Invece, una generica coloritura platonica, priva di evidenti indizi di neoplatonismo, è riscontrabile
nell’opera De nuptiis Philologiae et Mercurii del pagano Marziano Capella, qui espone in sintesi il contenuto
delle sette arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, geometria, aritmetica, astronomia e musica. Nel
Medioevo godrà di grande fortuna, in particolare il libro sulla dialettica in cui sono raccolte le nozioni basilari
della logica.

I.2 AGOSTINO D’IPPONA

I.2.I. L’UOMO DELLE CONFESSIONES E I SUOI SCRITTI

Agostino (Tageste, Algeria, 354 – Ippona, 430) è il pensatore antico di cui conosciamo meglio la vita, in
quanto ha dedicato nove libri delle Confessiones al racconto della sua vita, dall’infanzia sino al momento della
propria conversione e della morte di sua madre. Lo scopo delle Confessiones non è meramente autobiografico:
racconta la propria storia rivolgendosi costantemente a Dio, Agostino intende così confessare il male che ha
commesso, oltre a rendere lode a Dio per il bene che ha ricevuto.

BIOGRAFIA à Agostino compì studi di retorica per poi preferire ad essa la filosofia. La sua “conversione”
filosofica avvenne all’età di diciotto anni, leggendo un dialogo perduto di Cicerone. La sua formazione
filosofica avvenne totalmente da autodidatta, in parallelo allo studio e all’insegnamento della retorica. Lesse
ad esempio le Categorie di Aristotele (sicuramente in versione latina, a causa della sua limitata conoscenza
del greco), mentre di Platone lesse solamente la parte del Timeo tradotta da Cicerone – le sue fonti principali
della sua conoscenza della filosofia classica ed ellenistica furono proprio Cicerone e Varrone. Successivamente
nel 386 lesse «alcuni libri dei platonici» tradotti in latino da Mario Vittorino. In Plotino e Porfirio ritenne di
trovare, nella sostanza e non nelle parole, la stessa dottrina proclamata nel prologo del Vangelo di Giovanni,
ossia l’essenza di una Verità divina incorporea, mediante la quale il mondo è creato e la mente umana viene
illuminata.

1
“Dottrina trinitaria antiariana e pronicena” si riferisce a una specifica concezione teologica del cristianesimo sviluppata nei primi
secoli della Chiesa à 1) la dottrina della Trinità afferma che Dio è un'unica essenza divina ma si manifesta in tre persone distinte; 2)
antiariana si riferisce all'opposizione all'Arianesimo, una dottrina proposta da Ario, che sosteneva che Gesù Cristo fosse una creatura
creata dal Padre – cioè negava la coeternità e consustanzialità del Figlio con il Padre; 3) pronicena si riferisce al Concilio di Nicea (325
d.C.) che condannò l'arianesimo e definì la dottrina ortodossa della Trinità, stabilendo che il Figlio è consustanziale al Padre. Quindi,
tale dottrina difende l'unità consustanziale delle tre persone della Trinità, in opposizione alle idee ariane e in linea con le decisioni prese
dal Concilio di Nicea.

2
La lettura dei Platonicorum libri fu un fattore decisivo per la sua conversione al cristianesimo (386). Egli
in realtà era stato educato fin da piccolo alla fede cristiana dalla madre; tuttavia, si era allontanato dal
cattolicesimo per aderire al manicheismo. La conversione di Agostino fu piuttosto un ritorno alla forma
cattolica del cristianesimo, più precisamente a una forma ascetico e filosofico (ciò implicava la rinuncia dei
beni mondani, la continenza sessuale e la completa dedizione alla ricerca e alla contemplazione della verità).
Battezzato dal vescovo Ambrogio nel 387, rinuncia alla sua cattedra di retorica nella sede imperiale di Milano
e al matrimonio programmato con la fanciulla che le aveva dato il figlio Adeodato.
La conversione liberò le energie intellettuali di Agostino, nacquero i “dialoghi di Cassiciaco”, dal nome
della località dove si era ritirato. Si trattano dei tre dialoghi (Contro gli accademici, La vita felice e L’ordine)
e dei Soliloqui, un dialogo tra Agostino e la propria ragione. Tra il 387-388 si trova a Roma dove compone
altri due dialoghi, La grandezza dell’anima e Il libero arbitrio. Tornato a Tageste, scrisse i suoi ultimi due
dialoghi, La musica e Il maestro; oltre ai primi trattati antimanichei, il più noto è La vera religione.

Nel 391, durante una visita ad Ippona, il vescovo della città lo ordinò improvvisamente presbitero e da lì a
poco seguì la sua ordinazione a vescovo coadiutore. Alla morte del vescovo, intorno al 396, Agostino divenne
a tutti gli effetti vescovo d’Ippona sino alla morte, nel 430.
Il ministero sacerdotale obbligò Agostino a questioni urgenti che travagliavano la Chiesa africana del tempo,
come lo scisma donatista originatosi dalla persecuzione di Diocleziano. Fu proprio Agostino il principale
artefice della vittoria della parte cattolica alla conferenza di Cartagine del 411. Inoltre, dovette dedicarsi alla
predicazione, abbiamo documento di circa seicento sermoni e i commenti omiletici ai Salmi, al Vangelo di
Giovanni e alla Prima lettera di Giovanni. Gli impegni legati al ruolo ecclesiastico non impedirono ad
Agostino di scrivere e far valere il suo profondo spirito filosofico. Verso la fine della sua vita, passò in rassegna
le sue opere in ordine cronologico, in uno scritto intitolato Retractationes, dove sono recensite opere anteriori
e posteriori all’episcopato, tra cui le Confessiones, il De trinitate e il De civitate dei.

I.2.2. FEDE E ILLUMINAZIONE

La prima opera che Agostino iniziò a comporre dopo la conversione è il dialogo Contra Academicos, si
trattano dei maggiori esponenti della fase scettica dell’Accademia platonica e il cui pensiero era stato difeso
da Cicerone (ad es. Arcesilao, Carneade e Filone di Larissa).

Agostino attribuisce loro una tesi di fondo: nulla si può conoscere con certezza. Da questa tesi ne consegue
che non bisogna dare il proprio assenso ad alcuna rappresentazione e che nessuna conoscenza scientifica, in
filosofia, è impossibile. Secondo gli accademici, rappresentazioni “catalettiche”,2 come quelle rappresentate
dagli stoici, non esistono – specialmente in filosofia in cui regna il più ampio dissenso tra le varie scuole di
pensiero. Le tesi degli accademici, se prese sul serio, generano una radicale disaffezione nei confronti della
filosofia e della ricerca del vero. Perché mai applicarsi con tutte le proprie forze a cercare una verità che non
possiamo mai essere certi di aver trovato? Seguire ciò che appare più probabile non ci mette al riparo
dall’errore, a volte ciò che appare più probabile è falso. Agostino intende mostrare che la tesi degli accademici
non regge: non è vero che nulla si possa conoscere con certezza à il mondo, se esiste, o è uno solo o è più di
uno; ancora possiamo conoscere con certezza che esistiamo e viviamo, anche se per assurdo ci sbagliassimo
esso risulterebbe tuttavia vero, perché solo esistendo e vivendo è possibile sbagliarsi – «Si enim fallor, sum»
à “cogito” agostiniano. Perciò la conoscenza della verità in filosofia è possibile, seppur difficile. Secondo
Agostino essa si occupa essenzialmente di due questioni: Dio e l’anima, la cui natura incorporea sfugge ai
nostri sensi.

2
È un concetto centrale nella filosofia stoica, legato alla teoria della conoscenza. Secondo gli stoici, le rappresentazioni (phantasiai)
sono le impressioni mentali che derivano dai sensi e che ci permettono di percepire il mondo esterno. Tuttavia, non tutte le
rappresentazioni sono vere o affidabili; alcune possono essere false o ingannevoli. Una rappresentazione catalettica è quella che si
impone alla mente in modo tale da essere conforme alla realtà e quindi riconoscibile come vera; gli stoici ritenevano che solo queste
rappresentazioni catalettiche potessero fornire una conoscenza certa e sicura.

3
È necessario, dunque, distaccarsi dalle cose sensibili e per fare questo è utile appoggiarsi inizialmente
all’insegnamento di qualche autorità: anzitutto dall’autorità divina (Cristo) ma anche dall’autorità umana dei
dotti che istruiscono alla cultura liberale, essa può essere in grado di mostrare le strutture intelligibili che
regolano la realtà sensibile e che rinviano ad una realtà immutabile (coincidente con la Verità divina). Ben
presto perse la fiducia nella “metafisica” delle arti liberali preferendo accentuare il valore della fede religiosa.

Contro il razionalismo manicheo egli sostenne l’utilità del credere (nell’opera De utilitate credendi),
distinguendo l’atto del credere sia da quello di comprendere (intellegere) che da quello di presumere di sapere
(opinari) e spiegando che il credere è indispensabile anche in altri campi differenti dalla religione, come la
storia e le relazioni sociali. Tuttavia, nella lettera 120, Agostino sottolinea che la fede può essere più o meno
ragionevole, cioè più o meno supportata da motivi razionali, e che la sua autentica funzione è quella di
preparare la mente alla comprensione, ossia la visione intellettuale di Dio. LA FEDE È IL PUNTO DI PARTENZA,
IL PUNTO D’ARRIVO È LA COMPRENSIONE, CHE PUÒ ESSERE RAGGIUNTA SOLO NELLA VITA FUTURA.

L’insegnamento impartito dalle autorità avviene per mezzo dei segni à i maestri insegnano con un
linguaggio fatto di parole, le quali sono appunto segni, e la scrittura non è altro che un insieme di segni scritti
di parole. L’uso delle parole nell’insegnamento è al centro del dialogo De magistro.
Il dialogo perviene alla tesi paradossale che la conoscenza delle cose non dipende né dalle parole né dai segni.
Ad esempio, nella frase «le loro sarabare non erano state danneggiate» (Libro del profeta Daniele, 3,94), la
parola “sarabare” non è in grado di farci conoscere la cosa che essa significa. Ciò che impariamo dalle parole,
in realtà, è unicamente il loro suono, ciò che esse significano lo impariamo o attraversi i sensi oppure attraverso
la contemplazione mentale se si tratta di una cosa intelligibile. Essa diventa visibile grazie a una luce interiore
che proviene dalla Verità stessa, la quale «abita nell’uomo interiore» e si identifica con Cristo (Verbo e
Sapienza di Dio), l’unico vero maestro. ILLUMINAZIONE A OPERA DELLA VERITÀ.

I.2.3. MALE MORALE, LIBERO ARBITRIO E PREDESTINAZIONE

L’abbandono del manicheismo rese acuto l’interrogativo circa l’origine del male. Secondo la dottrina
manichea, esso è un principio coeterno al bene. Il principio luminoso del Bene e quello tenebroso del Male
esistono da sempre. In origine essi erano separati finché il Male, attratto dalla Luce, non invase il regno del
Bene à la religione manichea si proponeva di contribuire al rilascio della Luce rimasta imprigionata nei corpi3
attraverso l’opera ascetica degli Eletti, chiamati a una totale astinenza delle carni e dai rapporti sessuali fino al
ripristino dell’equilibrio.
Secondo Agostino, la dottrina manichea del male è insostenibile:

1. Per motivo teologico à se Dio è inviolabile, come i manichei riconoscono, allora non c’è ragione
per cui egli debba reagire all’assalto della “stirpe delle Tenebre”.
2. Il male non può essere una sostanza e non può sussistere indipendentemente dal bene à le sostanze
sono tutte buone, piuttosto è corruttibile o incorruttibile. Se è corruttibile è buona, perché venire
corrotti significa essere resi meno buoni; se invece è incorruttibile, allora, è migliore di una
corruttibile. IL MALE NON PUÒ SUSSISTERE DA SOLO, ESISTE SOLTANTO COME CORRUZIONE DI UNA
SOSTANZA BUONA, CIOÈ COME DIMINUZOONE E SOTTRAZIONE DELLA BONTÀ.

Poiché il male non è una sostanza e non è coeterno a Dio (Bene in sé), il mondo non può derivare dalla lotta
tra il bene e il male, ma soltanto da Dio.

3
Per reagire all’assalto delle Tenebre, il Padre della Grandezza trasse da sé la Madre della Vita, la quale generò l’Uomo
primigenio. Questi affrontò le Tenebre, ma ne uscì imprigionato. Il Padre della Grandezza inviò altri esseri a liberarlo,
riuscendoci ma alcuni frammenti di Luce restarono intrappolati nelle Tenebre. Il Padre della Grandezza creò allora il Sole
e la Luna come “navette” per trasportare tali frammenti nel suo regno. Il Male reagì facendo accoppiare tra loro dei
demoni in modo tale che generassero i primi esseri umani terrestri, Adamo ed Eva, affinché mantenessero prigioniera nei
loro corpo materiali (e nei loro discendenti) quella certa quantità di Luce costituita dall’anima.
4
Tuttavia, esiste. Dio è autore anche del male? Ciò è impossibile, Dio in quanto causa dell’essere delle cose,
non può essere anche la causa del male. Piuttosto, il male ha origine dalla possibilità che le cose si corrompano,
ossia dalla loro creaturalità: le sostanze create non possiedono il bene per essenza, dunque possono perderlo.

Nel dialogo De libero arbitrio, Agostino considera il male compito dall’uomo, ossia il peccato à l’uomo
agisce male quando preferisce un bene precario, temporaneo e incerto, al Bene eterno che è Dio. Ciò
rappresenta il prevalere della passione (libido) sulla mente all’interno dell’uomo e dipende esclusivamente da
una libera scelta: nessuna causa esterna può piegare nelle creature una mente rivolta virtuosamente verso Dio
e renderla viziosa, un atto del genere sarebbe ingiusto. LA POSSIBILITÀ DEL MALE SPECIFICATAMENTE MORALE
SI RADICA NEL LIBERO ARBITRIO DELLA VOLONTÀ, DIPENDE DA UN USO DISORDINATO DI TALE POTERE. IL
FATTO DI AVER DONATO ALL’UOMO IL LIBERO ARBITRIO NON RENDE IN ALCUN MODO DIO RESPONSABILE DEL
MALE CHE L’UOMO COMPIE à IL PECCATO CONSISTE PRECISAMENTE NELL’ALLONTANARSI DA DIO.
Il primo peccato commesso è stato causa di altri mali (corruzione del corpo, morte fisica, diminuzione della
propria libertà, etc.) che l’uomo subisce anziché compiere, essi sono la giusta punizione che Dio infligge ai
malvagi. Tale condizione non sarebbe giusta se non fosse meritata e poiché segna l’esistenza umana sin dalla
nascita, occorre ammettere che noi uomini nasciamo già colpevoli à la colpa con cui già nasciamo è quella
discendente da Adamo. Come la colpa di un altro possa essere realmente anche la nostra resta un mistero –
una ipotesi è che le anime umane siano tutte tratte dall’anima di Adamo.

A partire dal 411, Agostino difese la dottrina del peccato originale contro il pelagianesimo, la cui tesi
fondamentale è che l’uomo sia libero di decidere e operare la propria salvezza à in quanto dotato di libero
arbitrio, egli è sempre capace di obbedire ai comandamenti divini e quindi di salvarsi. Agostino obietta che se
fosse così verrebbe svuotata radicalmente la fede in Cristo salvatore. È invece essenziale alla fede cristiana
credere che la salvezza non sia possibile senza l’azione redentrice di Cristo. Dopo la caduta, è necessario l’aiuto
di Dio, ossia della grazia, meritata da Cristo e infusa a opera dello Spirito sotto forma di amore per il bene. Ls
grazia risana l’anima dal vizio del peccato e restituisce all’arbitrio della volontà la libertà necessaria per amare
la giustizia e mettere in pratica la Legge divina.

LA GRAZIA è chiamata così perché data gratis, cioè senza alcun merito da parte di chi la riceve. Agostino
giunge così alla DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE. La formula iniziale di questa dottrina si trova nel suo
primo scritto da lui composto in qualità di vescovo, l’Ad Simplicianum. Commentando un passo della Lettera
ai Romani, in cui Paolo cita l’esempio biblico dei fratelli Giacobbe ed Esaù, Agostino conclude che tutto il
genere umano costituisce una sola «massa di peccato», da cui Dio ha scelto dall’eternità coloro a cui concedere
la sua grazia per pura misericordia, indipendentemente dalla previsione delle loro future opere e dalla loro
futura fede. La fede stessa è un dono di Dio, il quale chiama i suoi eletti. NON SI SALVANO SE NON COLORO
CHE DIO HA SEMPRE PREDESTINATO ALLA SALVEZZA.

I.2.4. IL TEMPO E LE RAGIONI CAUSALI DELLE CREATURE

Le obiezioni dei manichei contro la fede cattolica spinsero Agostino ad approfondire il racconto della
creazione (Genesi). I manichei proponevano una narrazione dell’origine dell’universo alternativa a quella
biblica, ritenevano quest’ultima insostenibile. Di fronte all’affermazione iniziale della Bibbia «in principio
Dio creò il cielo e la terra» posero un interrogativo ironico: che cosa faceva prima?
Agostino rispose che l’espressione “in principio” non va intesa in senso temporale ma in riferimento al
Verbo divino, principio e causa di tutte le cose à il Verbo contiene tutte le ragioni eterne di ogni genere di
cosa creata (le quali equivalgono alle Idee di cui parlava Platone).
Nel libro XI delle Confessiones la domanda dei manichei offre lo spunto per una indagine sul tempo e sulla
sua differenza rispetto all’eternità di Dio. Chiedere che cosa facesse Dio “prima” di creare significa
immaginarlo come inserito in una successione temporale che prevede un “prima” e “dopo”. Dio invece è al di
là di tale distinzione, il suo essere è assolutamente immutabile, stabile, mentre il tempo è esattamente il
contrario.

5
Come possono esistere il tempo passato e il tempo futuro, se il passato non esiste più e il futuro non esiste
ancora? Come può essere lungo ciò che esiste solo per un istante? Agostino intraprende una via psicologica:
il tempo esiste ed è misurabile solo all’interno dell’animo, dove IL PASSATO È RICORDO, IL PRESENTE
ATTENZIONE E IL FUTURO ATTESA. L’estensione temporale si costituisce come tensione dell’animo ed è una
dinamica spirituale che in Dio, del tutto immutabile, non può verificarsi; per tale ragione l’atto creativo divino
deve essere inteso come posto al di là del tempo. I sei giorni in cui Dio ha creato il mondo non vanno intesi in
senso temporale ma piuttosto come riferirsi al rapporto tra materia informe delle creature (creata dal nulla) e
la forma che viene loro impressa à il primo giorno indica gli angeli, mentre il ritmo degli altri giorni
corrisponde alle fasi logiche in cui gli angeli conoscono le altre creature, cioè la contemplazione delle ragioni
eterne delle creature presenti nel Verbo (mattina), alla conoscenza delle creature stesse (sera) e alla
riconduzione di tale conoscenza alla lode del Creatore (mattina successiva). Il riposo nel settimo giorno
potrebbe rappresentare il fatto che Dio non ha bisogno delle sue creature. L’ATTO ORIGINARIO CON CUI DIO HA
CREATO IL MONDO NON SI È DISPIEGATO NEL TEMPO MA È STATO ISTANTANEO – come recita il libro del
Siracide (18,1), Dio ha creato tutte le cose simultaneamente (simul). Ciò non significa, secondo Agostino, che
il mondo sia stato creato nella forma in cui lo vediamo attualmente: eccettuati gli angeli e l’anima del primo
uomo. LE CREATURE SONO STATE POSTE IN ESSERE SOLO IN MANIERA POTENZIALE E CAUSALE, cioè di esse
sono stati creati solamente gli elementi materiali e le ragioni causali (analogo all’albero che è precontenuto nel
suo seme). DIO CONTINUA AD AGIRE NEL MONDO ATTRAVERSO LA SUA PROVVIDENZA, COSÌ CHE LE
POTENZIALITÀ CONTENUTE NELLE RAGIONI CAUSALI SI ATTUINO AL MOMENTO OPPORTUNO. La creazione,
dunque, si esplica in due fasi: istantanea e temporale.

I.2.5. IL DE TRINITATE

L’unico scritto aristotelico studiato da Agostino fu le Categorie, inizialmente ne fece un uso teologico
scorretto (Confessiones, IV.16.29). Ritenendo che tutti gli enti fossero sostanze che fungono da soggetti di
accidenti, Agostino pensava anche Dio come soggetto della sua grandezza e della sua bellezza à errore, perché
la particolare grandezza e bellezza di un corpo non sono essenziali al suo essere un corpo, mentre la grandezza
e bellezza di Dio sono Dio stesso.

Nel De trinitate corregge il proprio errore. Non si può parlare di Dio come di una sostanza, che è soggetto
di accidenti, perché Dio è semplice e immutabile: in quanto semplice, Dio non presenta in sé la diversità tra il
soggetto e i suoi accidenti; in quanto immutabile non ammette in sé accidenti à quando di Dio si dice che è
grande, lo si dice in un senso diverso da quello in cui si dice che un corpo è grande – un corpo partecipa della
grandezza, mentre Dio si dice grande nel senso che è la grandezza stessa. Dunque, la grandezza di Dio non è
quantità (accidente) ma essenza (sostanza). CIÒ NON IMPLICA PERÒ CHE DI LUI TUTTO SI DICA SECONDO LA
SOSTANZA. Questo è l’errore commesso dagli avversari del dogma della consustanzialità stabilito al concilio
di Nincea nel 235.
Concludendo che la sostanza del Figlio è diversa da quella del Padre è errato, predicati come questi vanno
espressi secondo la relazione, non sostanza e accidente. Dunque, dire che il Figlio è generato significa
affermare che egli è figlio, cioè è (dall’eternità) in relazione di figliolanza con un genitore (il Padre), mentre
dire che il Padre è ingenerato significa negare che egli sia figlio, cioè che sia (mai) in relazione di figliolanza
con un genitore. In entrambi i casi si dice ciò che nessuno di loro immutabilmente è o non è in relazione a un
altro. La sostanza delle tre Persone è la stessa senza la minima differenza.

La fede biblica nell’uomo come creato a immagine di Dio spinge Agostino a intraprendere una lunga
indagine sull’essere umano, per ritrovare in esso l’immagine della Trinità. Questa immagine viene ricercata
non nella dimensione corporea dell’uomo ma in quella mentale.

6
STUTTURA TRINITARIA DELLA MENTE UMANA:

¾ MENS, NOTITIA, AMOR (MENTE, CONOSCENZA DI SÉ, AMORE DI SÉ)

Sono tre termini distinti tra loro e legati da relazioni reciproche, tuttavia hanno la stessa sostanza
spirituale. Agostino distingue il conoscere (nosse) dal pensare (cogitare), perché si può conoscere una
cosa e non pensarla. La mente si conosce anche quando non si pensa, essa conosce sempre
immediatamente se stessa e la conoscenza di sé non può essere parziale. LA CONOSCENZA CHE LA
MENTE HA DI SÉ E DEI PROPRI ATTI È INDUBITABILE, NON PUÒ ESSERE CIÒ CHE NON È CERTA DI ESSERE.
Inoltre, ogni realtà materiale può essere pensata solo mediante una rappresentazione prodotta
dall’immaginazione sulla base di percezioni sensoriali. Questo modo di pensiero è quello che la mente
usa per pensare oggetti esterni assenti, mentre la mente è presente interiormente a se stessa.
¾ MEMORIA, INTELLEGENTIA, VOLUNTAS (MEMORIA, INTELLIGENZA, VOLONTÀ)

Questa seconda trinità mentale si presenta

1. A livello implicito, ossia quello della natura della mente in cui i tre termini da un lato esistono
sempre in atto (avendo la mente per oggetto) e dall’altro sono sempre in potenza rispetto ad altri
oggetti. LA MENTE HA SEMPRE MEMORIA, INTELLIGENZA E AMORE DI SÉ: TRE ATTI DISTINTI E IN
RELAZIONE CHE HANNO IDENTICA SOSTANZA E PARI GRANDEZZA; LA MENTE INOLTRE PUÒ
SEMPRE AVERE MEMORIA, INTELLIGENZA E AMORE DI ALTRO.
2. A livello esplicito, ossia quello del pensare (cogitare). Emerge quando la mente pensa se stessa
o un’altra realtà intelligibile. Il pensiero è una visione interiore che viene a presentarsi fintantoché
la volontà dirige lo sguardo mentale su una forma contenuta nella memoria.

Nella nostra mente esistono contenuti conoscitivi che noi conserviamo nella nostra memoria ma di cui non
siamo coscienti fino a che non li pensiamo. Nessuno di questi contenuti può essere espresso a parole finché
non è pensato. IL PENSIERO È IL TRAMITE TRA IL SAPERE E LA SUA ESPRESSIONE, È UN DIRE INTERIORE CHE
PRECEDE QUELLO ESTERIORE à È UNA SPECIE DI «DISCORSO DEL CUORE», È UN LINGUAGGIO UNIVERSALE.
La parola (verbum) interiore è quello specchio attraverso il quale si può intravedere il Verbo di Dio (il
Figlio) così come la parola interiore è generata dalla conoscenza à precede ogni creatura così come la parola
interiore precede ogni opera esteriore; ha assunto natura umana, senza perdere la natura divina, così come la
parola interiore si manifesta in suono, senza trasformarsi in esso.

I.2.6. IL DE CIVITATE DEI

Il 24 agosto 410, le truppe dei Visigoti entrarono a Roma e diedero inizio a tre giorni di saccheggio. I pagani
colsero l’occasione per inasprire le loro critiche al cristianesimo à le critiche ed obiezioni spinsero Agostino
a scrivere un’opera a difesa del cristianesimo (De civitate dei).

Si tratta di un’opera divisa in due parti: nella prima intende confutare la tesi per cui il culto politeistico
sarebbe utile alla prosperità terrena o alla vita ultraterrena; nella seconda parte espone l’origine e il destino
finale delle sole due “città” in cui si dividono veramente gli esseri umani à la città di Dio (Gerusalemme) e
la città di questo mondo (Babilonia).

I temi trattati da Agostino sono vari, come il rapporto tra lo Stato e la giustizia à lo Stato non può esistere
in assenza di giustizia perché lì dove non c’è iustitia non c’è nemmeno lo ius. Se non c’è diritto non c’è
nemmeno il popolo. Ebbene la giustizia esige di dare a ciascuno il suo e ciò vale anche a livello religioso. Il
paganesimo impedisce a una collettività di essere giusta e quindi di essere un vero popolo à in modo coerente,
espone che nell’antichità pagana non sono mai esistiti dei veri Stati. La vera religione non è necessaria perché
si dia un popolo e quindi uno Stato, anche se è indispensabile affinché il popolo e lo Stato siano giusti.

7
La storia umana presenta, sul piano politico, una molteplicità di popoli e di Stati. Al di sotto, su un piano
spirituale, non esistono che due sole “città” à le città mistiche sono solamente due perché due soltanto sono i
modi di vivere fondamentali possibili agli uomini: vivere amando Dio come merita oppure amandolo meno di
come merita.
Le due città hanno avuto origine nel mondo angelico, quando gli angeli si sono divisi in fedeli e ribelli a
Dio. Nel mondo umano, poiché la prima coppia ha generato i propri figli dopo essere caduta nel peccato, gli
esseri umani vengono generati come membri della città terrena e dalla «massa dannata» Dio, mediante la sua
grazia, trae gli eletti che ha predestinato e li rende cittadini della sua città. GLI UOMINI VIVONO NEL MONDO
TERRENO COME PELLEGRINI IN CAMMINO VERSO LA LORO PATRIA CELESTE. La riunificazione delle due
civitates avverrà unicamente con il giudizio finale, fino ad allora vivranno mescolate (permixtae) tra loro,
condividendo la pace terrena come obiettivo. Solo amando Dio più di se stessi e delle realtà terrene si può
possedere la vera virtù

I.3. SEVERINO BOEZIO E LE OPERE ENCICLOPEDICHE

Nel 510 Boezio fu nominato console. Nel 522 diventò direttore degli uffici, l’anno dopo difese un senatore
dall’accusa di complotto contro il re goto Teodorico ma venne accusato a sua volta di tradimento e
imprigionato a Pavia, dove venne eseguita la sua condanna a morte nel 525.
Durante la prigionia Boezio compose la sua opera più famosa, Philosophiae consolatio. Si tratta di un
dialogo in prosa e in versi, Filosofia appare in persona e cerca di convincere Boezio che il rovesciamento delle
sue fortune mondane non intacca la vera felicità né l’ordine provvidenziale delle cose. La fine prematura di
Boezio gli impedì di portare a compimento un grandioso progetto che avrebbe cambiato il corso della filosofia
medievale.

La traduzione in latino di tutte le opere di Platone e Aristotele e il loro commento è volto a mostrare
l’accordo di fondo tra i due filosofi [dell’Organon aristotelico tradusse solamente alcuni scritti: Categorie, De
interpretatione, Analitici primi, Topici e Confutazioni sofistiche à gli unici testi aristotelici conosciuti nel
Medioevo latino fino al XII secolo]. Commentando l’Isagoge, Boezio prende posizione sulla questione degli
universali; propone una soluzione in accordo con la posizione di Alessandro di Afrodisia. Gli universali sono
concetti ai quali, nella realtà, non corrisponde alcuna sostanza, non hanno sussistenza extramentale. Tuttavia,
non vuol dire che gli universali siano concetti falsi o vuoti. Un concetto falso è quello del centauro, quando
invece si opera mentalmente (mediante sottrazione) il risultato che si ottiene è fondato nella realtà, ad es. il
concetto di linea à nella realtà non esistono linee sussistenti di per sé, tuttavia esse esistono nei corpi, perciò
il concetto di linea non è affatto falso.
Analogamente, i generi e le specie delle cose sensibili non esistono separatamente da esse, tuttavia vengono
pensati astrattamente. Il processo di astrazione si basa sulla similitudo. Ad esempio, percependo vari individui
umani è possibile osservare che, nonostante le loro differenze individuali essi si assomigliano per la loro
umanità à questa somiglianza, una volta pensata, diventa specie. La specie è dunque definibile come «il
pensiero raccolto dalla somiglianza sostanziale tra individuali numericamente diversi», mentre il genere è
definibile come «il pensiero raccolto dalla somiglianza tra specie». La somiglianza, dunque, quando è negli
individui diventa sensibile e quando è negli universali diventa intelligibile.

Nel suo terzo opuscolo teologico risolve un problema formulato, ossia capire in che modo le sostanze siano
buone in ciò che sono pur non essendo bene sostanziali. Boezio formula nove proposizioni che fungono da
«termini e regole»:
1. Una concezione comune dell’animo è un enunciato che ognuno approva avendolo udito;
2. L’essere è diverso da ciò che è; l’essere stesso infatti ancora non è, mentre ciò che è, ricevuta la forma dell’essere, è e
sussiste concretamente;
3. Ciò che è, può partecipare a qualcosa, ma l’essere stesso non può in alcun modo partecipare a qualcosa;
4. Ciò che è, può possedere qualcosa oltre a ciò che esso stesso è; l’essere stesso, invece, non possiede altro di aggiunto
oltre a sé;

8
5. Essere soltanto qualcosa è diverso da essere qualcosa in ciò che è; lì infatti è significato l’accidente, qui la sostanza;
6. Tutto ciò che è, partecipa a ciò che è l’essere, per essere; partecipa invece ad altro, per essere qualcosa;
7. Ogni cosa semplice possiede il proprio essere e ciò che è come una cosa sola;
8. Per ogni cosa composta, altro è l’essere, altro è la stessa cosa
9. Ogni diversità è discorde, la somiglianza invece va desiderata; e ciò che desidera un’altra cosa, si mostra essere
naturalmente tale, quale è quella cosa stessa che esso desidera.

La regola più importante da comprendere è la seconda, cioè la famosa distinzione tra l’essere (esse) e ciò
che è (id quod est). LA SOSTANZA (SOCRATE) PARTECIPA SIA DI UNA FORMA SOSTANZIALE (L’UMANITÀ), CHE
LA FA ESSERE UNA DETERMINATA SOSTANZA (UN UOMO), SIA DI FORME ULTERIORI (LA BIANCHEZZA), CHE LA
FANNO ESSERE DOTATA DI QUALITÀ (BIANCO) O DI ALTRE PROPRIETÀ ACCIDENTALI.

Di fronte alla proposizione nove bisogna ammettere che tutte le cose tendono al bene, allora tutte le cose
sono buone. Se le cose fossero buone per via di una partecipazione accidentale, non sarebbero buone in ciò
che sono, la bontà sarebbe una qualità che si aggiunge a ciò che esse sono in sé. Se l’essere delle cose
coincidesse in tutto e per tutto con la bontà, ogni cosa buona sarebbe buona in tutto e per tutto, cioè in ultima
analisi sarebbe Dio, il che è inammissibile.
L’essere delle cose non è identico alla bontà, tuttavia è legato alla bontà in maniera non accidentale. Questo
legame è dato dal fatto che l’essere delle cose deriva dal bene assoluto, il quale vuole che esse siano. L’ESSERE
DELLE COSE È ALLO STESSO TEMPO BUONO MA NON ASSOLUTAMENTE BUONO. LE COSE SONO BUONE “IN CIÒ
CHE SONO”, SOSTANZIALMENTE, SENZA ESSERE BENI SOSTANZIALI COME INVECE LO È DIO, LA CUI SOSTANZA
SEMPLICE È TUTT’UNO CON LA BONTÀ (SOCRATE È UNA SOSTANZA COMPOSTA).

Il tema del bene è al centro dei libri II e III della Consolatio. Filosofia fa riflettere Boezio sulla natura di
quei beni che egli ha improvvisamente perduto (tutto ciò che contribuisce alla prosperità mondana), questi beni
appaiono sottoposti al «gioco capriccioso e cieco» della fortuna. Paradossalmente, la fortuna giova di più
quando è avversa, perché è allora che essa si mostra quale è realmente.
La felicità (beatitudo) viene definita come uno «stato reso perfetto dalla riunione di tutti i beni». La felicità
è infatti il fine ultimo, ossia quel bene ottenuto il quale non si può desiderare di più. L’errore umano consiste
nel volere raggiungere la felicità per vie diverse.
In quanto sommo Bene, Dio coincide con la felicità ed è il fine ultimo di tutte le cose, supera tutte le cose
à da qui Filosofia trae alcuni corollari.
1. OGNI PERSONA FELICE È UN DIO, PERCHÉ PARTECIPARE DELLA FELICITÀ EQUIVALE A PARTECIPARE
DELLA DIVINITÀ;
2. IL BENE È IDENTICO ALL’UNO, PERCHÉ TUTTE LE COSE, CHE DESIDERANO IL BENE, DESIDERANO
ANCHE SUSSISTERE, E CIASCUNA COSA SUSSISTE FINCHÉ È UNA, MENTRE SI DISTRUGGE QUANDO
CESSA DI ESSERLO;
3. DIO GOVERNA TUTTE LE COSE, E LO FA SENZA AIUTI ESTERNI, CON DOLCEZZA E FORZA: GOVERNA
TUTTE LE COSE, PERCHÉ TUTTE LE COSE SUSSISTONO IN VIRTÙ DELL’UNITÀ, E QUINDI GRAZIE A LUI
CHE È L’UNO-BENE. L’AUTOSUFFICIENZA È UNO DEI SUOI ATTRIBUTI;
4. IL MALE È NULLA, PERCHÉ DIO, CHE PUÒ FARE OGNI COSA, NON PUÒ FARE IL MALE, E QUINDI IL
MALE NON È UNA COSA.

L’esito a cui perviene Filosofia fa sollevare a Boezio un nuovo problema: se il mondo è governato da un Dio
buono e onnipotente, come può accadere che i buoni non vengano premiati e i malvagi non vengano puniti?
IL BENE STESSO È IL PREMIO DEI BUONI, E LA MALVAGITÀ STESSA È LA PUNIZIONE DEI MALVAGI. Ma allora
perché, domanda Boezio, talvolta succede che i buoni siano anche puniti (sta pensando al suo caso) e i malvagi
anche premiati?

La trattazione prende avvio con la definizione della provvidenza e del fato: sono due forme distinte in
quanto appartenenti a due livelli diversi di realtà, uno immutabile e l’altro mutevole; tuttavia sono anche
collegate tra loro, perché il fato dipende dalla provvidenza. Tutto ciò che è sottoposto al fato, quindi anche le
vicende terrene, è di conseguenza soggetto alla provvidenza. NOI NON SAPPIAMO CHI SIA VERAMENTE BUONO
E CHI SIA VERAMENTE MALVAGIO.

9
Nulla sfugge all’ordine fatale delle cause, che è l’attuazione dell’ordine provvidenziale, il caso non esiste.
Quello che chiamiamo “caso” non è altro che «un evento inatteso derivante da cause confluenti nelle cose
che si compiono per qualche scopo» (Aristotele, Fisica).
Nella serie delle cause c’è comunque spazio per la libertà dell’arbitrio. Chiunque possa, per sua natura,
far uso della ragione, possiede la capacità di giudizio con cui discernere quali cose ricercare e quali fuggire,
benché tale libertà sia maggiormente quanto più ci si avvicina a Dio e minore quanto più ci si allontana.
Dio conosce dall’eternità non solo le azioni umane, ma anche gli atti di volontà da cui queste scaturiscono,
allora tali atti non potranno essere se non quelli che Dio ha previsto, altrimenti Dio non ne avrebbe una
conoscenza certa, ma solo un’opinione incerta. Senza la libertà però non vi sarebbe merito, la punizione
provvidenziale di alcuni e la premiazione di altri diventerebbero ingiuste. Speranze e preghiere verrebbero
svuotate di senso. Dio non conosce le cose come le conosciamo noi, perché la sua sostanza è diversa dalla
nostra. DIO CONOSCE LE COSE SIMULTANEAMENTE. SE UN ATTO FUTURO È PER SUA NATURA LIBERO, IL
FATTO CHE DIO LO CONOSCA NON TOGLIE AD ESSO IL SUO CARATTERE. GLI UOMINI, COSÌ, SONO RESTITUITI
ALLE LORO RESPONSABILITÀ.

CAPITOLO II
LA FILOSOFIA DEI BIZANTINI, ARABI ED EBREI

2.I. LA FILOSOFIA NELL’AREA CULTURALE BIZANTINA

2.I.I. IL NEOPLATONISMO E LE SCUOLE DI ATENE E ALESSANDRIA

Nel 330 l’imperatore Costantino rifondò la città di Bisanzio con il nome di “Nuova Roma”. La filosofia
greca viveva il periodo più omogeneo della sua storia. Le scuole filosofiche si erano ridotte di fatto a una sola,
quella platonica à che progressivamente aveva inglobato quella peripatetica e quella stoica.
Contemporaneamente, il platonismo aveva assunto una nuova forma, oggi denominata “neoplatonismo” i cui
principali esponenti furono Plotino, Porfirio e Giamblico.

Il neoplatonismo si caratterizza per tre aspetti:

1. LA DOTTRINA DELLE TRE IPOSTASI à una teoria metafisica secondo la quale l’universo corporeo deriva
da tre supreme cause incorporee (Uno, Intelletto, Anima).
L’Uno coincide con il Bene, principio semplice e ineffabile. Da esso si genera l’Intelletto che procede
per emanazione dall’Uno e si determina nella molteplicità delle forme intelligibili (platonicamente, il
vero Essere). L’Intelletto, dunque, coincide con il mondo delle Idee e pensa eternamente se stesso. Da
qui procede l’Anima. Si differenzia dall’intelletto perché il suo pensiero è di tipo discorsivo. L’ANIMA
È INFERIORE ALL’INTELLETTO COME L’INTELLETTO È INFERIORE ALL’UNO. Infine, procede la materia
del mondo corporeo, sulla quale l’Anima proietta le forme che danno origine ai corpi.
2. FINE ULTIMO DELL’UOMO à l’essere umano è il risultato dell’unione temporanea di un’anima razionale
a un corpo: descritta come “caduta dell’anima”. Essa deve risollevarsi da tale caduta e ritornare nel
mondo divino, da cui proviene. Secondo Plotino, tale risalita è in potere dell’anima grazie al fatto che
una parte dell’anima non è mai discesa nel corpo. Per il ritorno dell’anima è sufficiente la filosofia,
anche se solo in pochi sono in grado di praticarla. [A partire da Giamblico, invece, la filosofia non basta
a nessuna anima per purificare se stessa dal contatto con i corpi, vi è il bisogno di ricorrere alle pratiche
del culto politeistico e ai rituali della teurgia à giustificazione del paganesimo in contrapposizione alla
fede cristiana).
3. ARMONIZZAZIONE DELL’ARISTOTELISMO CON IL PLATONISMO à questa tendenza viene inaugurata da
Porfirio, egli fu il primo filosofo platonico a impegnarsi sistematicamente nel commentare anche i
trattati di Aristotele, nel tentativo di mostrare la conciliabilità tra i due filosofi. L’Isagoge è un breve
trattato che si propone di esporre l’insegnamento degli antichi e soprattutto dei peripatetici in merito a
cinque nozioni: il genere, specie, differenza, proprio e accidente (trattati da Porfirio come predicati).

10
GENERE à ANIMALE; SPECIE à UOMO; DIFFERENZA à RAZIONALE;
PROPRIO à CAPACITÀ DI RIDERE; ACCIDENTE à NERO

La conoscenza di esse deve considerarsi propedeutica alla dottrina aristotelica delle categorie, alla
correttezza delle definizioni e ai procedimenti logici. Tuttavia, si astiene dall’affrontare il problema
dello statuto ontologico dei generi e della specie, ossia se essi siano realtà sussistenti oppure posti nei
concetti puri e semplici. Ciò darà luogo alla “disputa degli universali”.

Porfirio precisa che la definizione di SPECIE come “ciò che si predica, in relazione alla loro essenza, di più
soggetti che differiscono tra loro per numero” si applica unicamente alla specie “specialissima” cioè che non
funge da genere per altre specie. Una definizione più estesa è “ciò che è posto sotto il genere e di cui il genere
si predica in relazione all’essenza”. Questa definizione si applica anche ai livelli intermedi che in ciascuna
categoria esistono tra le specie specialissime e il genere “generalissimo” à “sostanza” è il genere
generalissimo di tale categoria, mentre “uomo” è una delle specie specialissime in essa incluse. Sotto il genere
“sostanza” non c’è immediatamente la specie “uomo”, ma prima c’è la specie “corpo”, poi la specie “corpo
animato”, poi specie “animale”, poi la specie “animale razionale”.
All’interno di ogni categoria, i predicati universali si dispongono in una scala gerarchica che ha al suo
vertice il genere generalissimo, ossia il nome stesso della categoria, alla base la specie specialissima, e in
mezzo alcuni predicati che sono specie subordinate (a un genere superiore) e generi sovraordinati (a specie
inferiori). Il passaggio dai livelli superiori a quelli inferiori avviene mediante l’aggiunta delle differenze
specifiche à si pongono come coppie di qualità opposte tra loro, ad es. il genere generalissimo “sostanza” si
divide nella specie “sostanza corporea” e “sostanza incorporea”.

All’inizio del V secolo, Atene ridivenne un centro importante di rielaborazione del pensiero platonico.
Plutarco, figlio di Nestorio, fu a capo di una scuola destinata a durare sino al 529, quando fu chiusa
dall’imperatore Giustiniano. Esistono solo testimonianze, in particolare Proclo gli attribuisce il merito di avere
fornito una interpretazione sistematica delle ipotesi del Parmenide.4
Dopo la sua morte assunse la direzione della scuola Siriano, che morì pochi anni dopo. Suo successore fu
Proclo. Egli è generalmente considerato il maggior esponente del platonismo post-plotiniano e l’ultimo grande
filosofo greco di religione pagana.

L’opera di Proclo si presenta come un grandioso tentativo di ordinare in maniera organica le verità sul
mondo divino trasmesse dalla tradizione ellenica, non solo in campo filosofico. Il suo progetto di scienza
teologica emerge esplicitamente nella Teologia platonica, un trattato incompleto nel quale il pantheon delle
divinità pagane viene classificato e giustificato mediante mostrandone la processione dal dio supremo (l’Uno).
L’originalità della sua filosofia si nota più nella forma che nel contenuto: sistematica, la cui espressione
emblematica è rappresentata dagli Elementi di teologia (si tratta dello scritto procliano che più ha influenzato
la filosofia successiva, in particolare grazie all’uso che ne fece l’autore arabo del Liber de causis). L’opera si
ispira al modello geometrico degli Elementi di Euclide. A differenza però che l’opera di Proclo è priva di
definizioni, postulati e assiomi à QUELLI CHE IN PLOTINO ERANO ASSIOMI, IN PROCLO DIVENTANO TEOREMI.
Nulla viene assunto senza giustificazione e tutto viene dimostrato. Ciò non vuol dire che si limiti a
sistematizzare il pensiero plotiniano. Non esita a prendere esplicitamente le distanze dall’autore, ad es. respinge
l’identificazione del male con la materia. Il male non possiede alcuna sussistenza propria, piuttosto una
paraesistenza, come se fosse una sorta di effetto collaterale di quell’azione causale che produce la realtà.
Il contributo più noto alla teoria della causalità fornito da Proclo si trova negli Elementi di teologia e si
riassume nella triade PERMANENZA-PROCESSIONE-CONVERSIONE.

4
La prima ipotesi concerne l’Uno; dalla seconda alla quinta ipotesi concernono le realtà che derivano dall’Uno (Intelletto,
Anima, le cose sensibili e la materia); le ultime quattro ipotesi mostrano che se si nega l’esistenza dell’Uno, bisogna
negare l’esistenza anche di tutte le realtà.
11
Senza la permanenza nella sua causa, l’effetto sarebbe totalmente dissimile da essa; senza la processione
dalla sua causa, l’effetto sarebbe totalmente indistinguibile da essa; senza la conversione alla sua causa,
l’effetto non tenderebbe al Bene, fine ultimo di tutte le cose. L’attività di ogni effetto è pertanto circolare,
procedere dalla e ritornare alla propria causa, nella quale esso sempre anche permane. L’Uno, che è il
principio di tutte le cose, è anche il Bene, ossia la meta a cui esse ritornano. La processione delle cose dall’Uno
e il loro ritorno ad esso in quanto Bene avvengono in maniera mediata, tranne il primo effetto dell’Uno, tutto
il resto deriva dall’Uno mediante cause intermedie.

L’ultimo scolarca della scuola di Atene fu Damascio. La sua metafisica segna un ritorno a Giamblico,
reintroduce, prima e al di là dell’Uno che è il principio di tutte le cose, un principio ineffabile. Damascio
tuttavia distingue due aspetti: l’Uno-Tutto che è la causa dell’unità e il Tutto-Uno che è la causa della
molteplicità. Quando andò in esilio a seguito dell’editto del 529 di Giustiniano, lo accompagnò Simplicio.

L’esegesi aristotelica di Simplicio è animata dal proposito di mostrare l’armonia di fondo tra Aristotele e
Platone. Il maestro alessandrino di Simplicio, Ammonio, è il fondatore della scuola alessandrina di
interpretazione aristotelica. Una scuola pagana di filosofia neoplatonica ad Alessandria d’Egitto esisteva già
prima, ma nessuno si dedicò all’esegesi. Fu Ammonio a dare inizio alla tradizione alessandrina di esegesi
aristotelica.

Tra i suoi allievi, il più originale sul campo teorico fu Giovanni “Filopono”. Lo stesso anno dell’editto di
Giustiniano, egli pubblicò il trattato Sull’eternità del mondo contro Proclo, seguito pochi anni dopo dal trattato
Sull’eternità del mondo contro Aristotele. Filopono passa dal platonismo alessandrino di Ammonio a una
visione cristiana del mondo, basata sull’idea della creazione dal nulla. Egli sostiene che Aristotele è in
contraddizione con Platone e con la verità.

2.I.2. LA PATRISTICA GRECA NEI SECOLI IV-VII

Il cristianesimo conquistò l’Impero, fino a essere proclamato unica religione di Stato (editto di Tessalonica,
380). Venuti meno i nemici esterni, l’attenzione della Chiesa si rivolse al proprio interno. I secoli IV e V furono
attraversati da accesi dibattiti teologici sulla Trinità e sulla natura di Cristo.

La principale disputa ebbe al centro la dottrina del prete Ario di Alessandria, secondo egli la caratteristica
essenziale di Dio è il fatto di essere non-generato, di conseguenza il Figlio non è propriamente Dio. Questa
dottrina fu condannata nel 318, ma ciò non ne impedì la diffusione. Costantino decise di convocare a Nicea i
vescovi di tutte le Chiese per decidere la questione. Il concilio di Nicea (325) fu il primo concilio ecumenico
della storia. Da esso uscì il celebre Simbolo della fede o Credo, nel quale si afferma – contro l’arianesimo –
che IL FIGLIO È GENERATO, NON CREATO, ED È DELLA STESSA SOSTANZA DEL PADRE. Strenuo difensore
dell’ortodossia nicena fu Atanasio.

Si può dire che tutte le figure più significative della patristica del IV secolo furono impegnate nella lotta
contro l’arianesimo. Fu coinvolto anche Eusebio di Cesarea, noto soprattutto come il padre della storia
ecclesiastica. Egli aveva composto una Cronaca allo scopo di mostrare l’anteriorità cronologica della religione
ebraica su tutte le altre. Essa fu tradotta e completata da Girolamo.
Il IV secolo è considerato il periodo aureo della letteratura patristica greca. Questo giudizio è pienamente
giustificato se si pensa all’opera dei cosiddetti “Padri cappadoci”.

BASILIO IL GRANDE à nel sermone Sull’Esamerone, egli fornisce un’interpretazione non allegorica dei sei
giorni dalla creazione attingendo a Platone, Aristotele e Plotino. Nel sermone Discorsi ai giovani, traspare un
atteggiamento di singolare apertura nei confronti dell’eredità culturale del mondo classico.

GREGORIO DI NAZIANZO à fu autore di discorsi, poemi e lettere. Tra essi spiccano i cinque Discorsi
teologici e in particolare il secondo, dove si affronta il tema di quello che oggi chiameremmo lo statuto
epistemologico della teologia. Si afferma che di Dio la ragione umana può conoscere l’esistenza, non l’essenza.

12
GREGORIO DI NISSA à il suo vero talento era la speculazione. Al pari di Origene era convinto che la filosofia
pagana, utilizzata con discernimento in conformità alla Scrittura e alla tradizione dei Padri, rappresentasse uno
strumento indispensabile per la crescita della sapienza cristiana. Gregorio di Nissa adottò consapevolmente
termini e concetti platonici e neoplatonici, ciò si può vedere ad esempio in Non sono tre dèi in cui egli applica
alla Trinità il rapporto tra universale e individui tipico della dottrina delle Idee: Padre, Figlio e Spirito Santo
sono tre Persone divine ma non tre dèi. In campo esegetico predilesse l’interpretazione allegorica, volta a
scoprire i significati spirituali e mistici del testo biblico. L’uomo è capace di conoscere direttamente Dio perché
è fatto a sua immagine, grazie all’anima dotata di intelletto, libertà e virtù. Per ascendere alla visione suprema
è indispensabile, tuttavia, purificare l’immagine interiore dal peccato e dall’attaccamento alle cose del mondo.
Questo sforzo catartico è ad opera non solo della volontà ma anche della grazia di Dio.

Tra la fine del V e l’inizio del VI secolo un autore sconosciuto produsse uno dei casi più eclatanti di
pseudepigrafia che si siano mai verificati nella storia del pensiero filosofico e teologico. Presentandosi come
quel Dionigi, membro dell’Areòpago, egli compose in greco alcuni scritti che furono ritenuti autentici e
godettero perciò di un’enorme fortuna durante il Medioevo, costituendo uno dei principali fattori di
assimilazione del neoplatonismo all’interno del cristianesimo. Pseudo-Dionigi espone in La gerarchia
ecclesiastica la sua visione gerarchica del mondo angelico e di quello ecclesiastico, i due mondi sono strutturati
in modo analogo (gradi raggruppati in triadi):
¾ TRIADI ANGELICHE à Serafini, Cherubini, Troni / Dominazioni, Potenze, Potestà / Principati,
Arcangeli, Angeli.
¾ TRIADI ECCLESIASTICHE à Vescovi, Sacerdoti, Ministri (coloro che sono in grado di iniziare) / Monaci,
Illuminati, Purificati (coloro che vengono iniziati).

La causa di entrambe le gerarchie è Dio, il quale ha istituito tali gerarchie per la salvezza degli esseri
razionali – riecheggiando il Teeteto.
Nei Nomi divini invece analizza i nomi intelligibili di Dio presenti nella Scrittura: BENE, LUCE, BELLO,
AMORE, ESSERE, VITA, SAPIENZA, POTENZA, GIUSTIZIA, SALVEZZA, REDENZIONE, INUGUAGLIANZA, GRANDE E
PICCOLO, MEDESIMO E ALTRO, SIMILE E DISSIMILE, STATO E MOTO, UGUAGLIANZA, ONNIPOTENTE, ANTICO DEI
GIORNI, PACE, SANTO DEI SANTI, RE DEI RE, SIGNORE DEI SIGNORI, DIO DEGLI DEI, PERFETTO E UNO à anche
qui è presente un aggancio alla tradizione platonica. La trattazione del nome “Bene” inizia con un paragone
tra il Bene e il Sole. Il Bene diffonde bontà per il semplice fatto di essere Bene. Il male non può derivare dal
Bene, esso è privazione e mancanza di qualità positive. Dio-Bene è al di sopra di tutti gli esseri perché di tutti
è causa. In quanto tale, Dio è inconoscibile e inesprimibile. Egli è detto “Bene” in quanto causa della bontà
delle creature, “Essere” in quanto causa del loro essere, e così via. Per questo, la teologia affermativa deve
essere affiancata e superata dalla «salita delle negazioni». Il procedimento negativo non si oppone a quello
affermativo, ma lo integra e lo corregge. Alla fine, esso deve superare anche se stesso, culminare nel silenzio.
L’esperienza estatica dell’unione mistica richiede che si ponga a tacere ogni discorso. La conoscenza di Dio si
ottiene nell’ignoranza.
Il primo teologo bizantino importante che risentì dell’influsso del pensiero dello Pseudo-Dionigi fu
Massimo il Confessore. Egli intervenne nella controversia tra il patriarca di Costantinopoli (Sergio) e il
patriarca di Gerusalemme (Sofronio). Nel 638 la dottrina di Sergio, nota come monotelismo à Cristo possiede
un’unica volontà, fu assunta dall’imperatore come posizione ufficiale. Massimo interviene a sfavore: due
volontà, una divina l’altra umana à necessaria per salvaguardare la piena umanità di Cristo e la possibilità di
una piena divinizzazione dell’uomo.

13
2.I.3. PLATONISMO, ARISTOTELISMO E CONTROVERSIE TEOLOGICHE BIZANTINE

La figura più rilevante di teologo bizantino è quella di Giovanni Damasceno, autore di Tre discorsi sulle
immagini e nei quali difende il culto delle immagini sacre (icone), distinguendo la venerazione per esse
dall’adorazione (latreía) che si deve soltanto a Dio. La sua posizione fu condannata dall’imperatore Costantino
V, propugnatore dell’iconoclastia; tuttavia, fu riabilitata dal secondo concilio di Nicea (787).

Durante il IX secolo, nel mondo bizantino, si verificò un processo di rinascita culturale. Gli esponenti più
significativi sul piano filosofico furono Leone il Matematico, Fozio di Costantinopoli, Areta di Cesarea ma
uno dei più grandi eruditi della storia bizantina visse nel XI secolo: “Psello” (Costantino che prese il nome di
Michele entrando in monastero nel 1054). Il suo sapere spaziava pressoché in tutti i campi dello scibile di
quell’epoca. In ambito filosofico, si occupò di questioni fisiche, psicologiche ed etiche seppur riservando una
particolare attenzione per la logica aristotelica. Ebbe anche una predilezione per i neoplatonici, in particolare
Proclo, cercando di conciliare la loro filosofia e la fede cristiana. Un atteggiamento diametralmente opposto
avrà nel secolo successivo Nicola di Metone.
Giovanni detto “Italo”, fu allievo di Psello e gli succedette a capo della scuola filosofica di Costantinopoli.
Documento della sua attività didattica sono le Questioni quodlibetali, novantatré risposte a quesiti posti dagli
studenti su vari argomenti. Degna di nota è la sua posizione in merito al problema degli universali. Sostiene
che essi esistono in tre modi:

1. «Prima dei molti», ossia nella mente di Dio;


2. «Nei molti», ossia negli individui sensibili;
3. «Dopo i molti», ossia nella mente umana sotto forma di concetti.

Gli universali nella mente umana e in quella divina essi sono incorporei, mentre negli individui sensibili in
qualche modo partecipano della corporeità. Dunque, l’incorporeità non è una proprietà essenziale degli
universali ma una caratteristica accidentale.
Nel 1082 i suoi insegnamenti furono condannati come contrari alla fede cristiana. Alla condanna riuscì a
sfuggire uno dei suoi allievi, Eustrazio, che tuttavia incorse in una condanna per eresia nel 1117. Egli era
convinto di poter utilizzare la sillogistica aristotelica nella discussione di argomenti teologici. Anche lui prese
posizione circa gli universali, sostenendo che generi e specie non sussistono nella realtà ma sono meri concetti.
Tuttavia, egli è noto principalmente come commentatore di Aristotele, ci restano il commento al libro II degli
Analitici secondi e quello ai libri I e VI dell’Etica Nicomachea à questo commento esercitò un notevole
influsso sul pensiero latino per opera specialmente di Alberto Magno.
Tra i commentatori del XII secolo merita una menzione anche il poeta Teodoro Prodromo.

La conquista della crociata di Costantinopoli nel 1204 inferisce un duro colpo alla vita culturale della città
che si riprese solo nel 1261 con la riconquista da parte di Michele VIII, fondatore della dinastia dei Paleologi.
L’avvento dei Paleologi portò a una nuova fioritura degli studi a Costantinopoli, nella cui prima fase spiccano
Giorgio Pachimere (che riassunse l’intero corpus aristotelico nell’opera Filosofia), Niceforo Cumno (autore
di nove trattati dedicati alla filosofia naturale; respinge la teoria aristotelica del quinto elemento e la dottrina
plotiniana della pre-esistenza delle anime) e Teodoro Metochite (egli si occupò di astronomia tolemaica e di
filosofia naturale aristotelica, che parafrasò). Allievo di quest’ultimo fu Niceforo Gregora che inasprì la sua
critica ad Aristotele coniugando il dogmatismo fideistico con un atteggiamento scettico sul piano
epistemologico. Inoltre, polemizzò contro Barlaam Calabro (fu maestro di Petrarca) e Gregorio Palamas à
difensore dell’esicasmo, pratica spirituale che consiste nella ricerca della quiete interiore e dell’unione con Dio
attraverso la ripetizione della “preghiera di Gesù”.
La “controversia esicastica” aveva come nocciolo teologico il rapporto tra l’essenza di Dio e le sue
operazioni. Barlaam equiparava la dottrina di Palamas all’eresia massaliana che ammetteva la possibilità di
vedere Dio con gli occhi del corpo, Gregorio Acindino obiettava che distinguere realmente essenza e
operazioni naturali significa introdurre in Dio una molteplicità incompatibile con la semplicità divina.

14
L’ultima grande polemica si svolse nel XV secolo e fu innescata dalla pubblicazione del pamphlet intitolato
Le differenze tra Platone e Aristotele di Giorgio Gemisto, detto “Pletone”. Egli sosteneva la superiorità di
Platone su Aristotele. Giorgio Scolario, difensore dell’aristotelismo e seguace di Tommaso d’Aquino rispose
con Contro le aporie attribuite per ignoranza ad Aristotele da Pletone. Pletone rispose a sua volta, ma Scolario
divenuto patriarca di Costantinopoli ordinò il rogo postumo dell’opera maggiore di Pletone, Trattato sulle
leggi con l’accusa di reintrodurre il paganesimo. La polemica continuò anche dopo la morte di Pletone. Per
comprendere l’importanza storica di questo dibattito occorre ricordare che soltanto nel 1484 Marsilio Ficino
darà alle stampe la prima traduzione latina dei dialoghi di Platone.

2.2. LA FALSAFA DALLE ORIGINI AD AVERROÈ

2.2.1. LA FILOSOFIA IN LINGUA ARABA SINO AD AL-FĀRĀBĪ

L’avvento della dinastia califfale degli ‘Abbāsidi determinò l’ingresso massiccio della filosofia e della
scienza greca nel mondo islamico. Califfi come al-Ma’mūn promossero la traduzione in arabo di un gran
numero di testi greci; il suo interesse per il sapere greco è legato anche alla sua adesione al mu’tazilismo, una
corrente teologica che considerava il Corano come creato e quindi interpretabile allegoricamente con gli
strumenti della razionalità umana (proclamato dottrina di Stato nel 827). Il movimento di traduzione che si
sviluppò nei secoli VIII e IX ebbe come centro Bagdād, la nuova capitale fondata nel 752 dal secondo califfo
‘abbāside, al-Mansūr. I traduttori erano in maggior parte cristiani di rito siriaco. Sono riconoscibili due circoli
principali: quello del filosofo musulmano al-Kindī e quello del medico nestoriano Hunayn ibn Ishāq. A una
generazione successiva di traduttori appartiene Mattā ibn Yūnus, che ebbe tra i suoi allievi il grande filosofo
al-Fārābī. Grazie all’attività di questi traduttori, furono resi disponibili in arabo quasi tutti i trattati aristotelici,
alcuni dei quali con i commenti e le parafrasi di Alessandro di Afrodisia, Temistio e Olimpiodoro.
Il Catalogo compilato dal libraio Ibn al-Nadīm e completato a Bagdād nel 987 documenta il lungo elenco
dei libri che si potevano leggere allora.

Nell’ambito del circolo di al-Kindī si realizzarono non solo traduzioni ma anche adattamenti di testi
precedenti che testimoniano le caratteristiche particolari della falsafa. I casi più noti e importanti sono quelli
di due scritti basati su opere neoplatoniche falsamente attribuiti ad Aristotele: il Libro del filosofo Aristotele
detto in greco “Teologia”, ossia “Discorso sulla sovranità divina” (versione parafrasata delle Enneadi IV, V
e VI di Plotino) e il Libro di Aristotele sull’esposizione del Bene puro. Nel prologo l’autore (forse al-Kindī) si
presenta come Aristotele e asserisce che lo scopo dell’opera consiste nel mostrare come Dio sia la Causa Prima,
creatrice delle altre cause. Il falso Aristotele elogia Platone per aver distinto le cose sensibili da quelle
intelligibili e per aver riconosciuto come causa unica di entrambe l’Essere primo e vero, ossia il creatore
coincidente con il Bene puro à AD ARISTOTELE VIENE DUNQUE ATTRIBUITA UNA DOTTRINA CHE È IN
ACCORDO CON IL MONOTEISMO ISLAMICO E CON IL PLATONISMO.
Il secondo scritto pseudoaristotelico riconducibile al circolo di al-Kindī è conosciuto come Liber de causis,
tradotto in latino da Gerardo da Cremona nel XIII secolo. Esso in realtà è tratto dagli Elementi di teologia di
Proclo interpretati in modo tale da accordarli il più possibile con la fede islamica sia con Aristotele e Plotino.
Anche nel Liber de causis la Causa Prima si identifica con il Bene puro, posto al di là dell’Intelletto e della
forma: mentre l’Intelletto è forma ed essere, la Causa Prima è «soltanto essere» ed è infinita. Essa è l’Essere
primo che conferisce l’essere a tutte le cose.

Il primo faylasūf fu Abū Yūsuf Ya’qūb ibn Ishāq al-Kindī, traspare nei suoi scritti il suo atteggiamento di
fondo verso il sapere degli antichi Greci. La “filosofia prima” è la scienza più nobile di tutte perché ha per
oggetto la Causa Prima, che è la causa di ogni verità conoscibile. Alla conoscenza di tale causa hanno
contribuito anche i filosofi vissuti prima della rivelazione coranica, proprio perché la fonte della verità del
Corno e della filosofia è la stessa, cioè Dio. Da ciò ne deriva che la filosofia e le scienze coltivate dagli antichi
possono essere d’aiuto nell’interpretare correttamente il Corano nei suoi passi più ambigui.

15
La concezione della filosofia prima come di un sapere che procede per accumulazione consente ad al-Kindī
di fondere la metafisica aristotelica con quella neoplatonica. L’esito di questa operazione è una concezione che
salda il tawhid islamico, ossia la fondamentale affermazione dell’unicità di Dio, da una parte con l’idea
aristotelica di un’immobile Causa Prima che è atto puro; dall’altra con la dottrina neoplatonica dell’Uno quale
principio di tutte le cose che è posto al di là persino dell’Intelletto.
Nella Lettera sull’intelletto al-Kindī sostiene che secondo Aristotele ci sono quattro specie di intelletti:
quello che è sempre in atto; quello in potenza; quello che è passato dalla potenza all’atto; intelletto “secondo”.
L’intelletto che è in potenza è posseduto dall’anima in maniera innata e diventa intelligente in atto, quando
entra in contatto con l’intelletto che è sempre in atto; l’intelletto passato all’atto è paragonabile alla capacità
di una abilità acquisita che quando viene esercitata dà luogo all’intelletto “secondo”.
Questa quadripartizione sente l’influsso di Alessandro di Afrodisia, tuttavia non condivide l’identificazione
alessandrina del primo intelletto con Dio, dato che per lui è (plotinianamente) superiore al livello dell’Intelletto.
Inoltre, pur ritenendo che il primo intelletto sia esterno all’anima, al-Kindī non pensa affatto che per Aristotele
l’anima sia mortale. L’anima è “entelechia” (perfezione, compiutezza) in se stessa, è una sostanza che rende il
corpo perfetto e continua a sussistere anche quando il corpo viene meno.

Mattā ibn Yūnus ampliò il patrimonio filosofico disponibile in arabo grazie a traduzioni dal siriaco non
solo di Aristotele ma anche dei suoi commentatori. Egli diede vita a Bagdad ad una scuola di pensatori che
assunsero la logica aristotelica come strumento basilare del sapere, scelsero come forma privilegiata di scrittura
il commento. I principali esponenti di questa scuola peripatetica araba (che include sia cristiani che musulmani)
furono Abū Nasr al-Fārābī (il quale si guadagnò un posto di rilievo nella storia della filosofia, tanto da meritarsi
il titolo di “maestro secondo”, cioè secondo soltanto ad Aristotele), il suo allievo Yahyā ibn ‘Adī e Abū al-
Farag ibn al-Tayyib.
La maggior parte degli scritti di al-Fārābī sono andati perduti, egli scrisse commenti agli scritti logici e
fisici di Aristotele, oltre a trattati polemici contro i critici di Aristotele (Filopono fra tutti, invece utilizzato da
al-Kindī) e opere originali.

Alcuni degli scritti di al-Fārābī furono tradotti in latino e influenzarono il pensiero occidentale, ad es. con
il Catalogo delle scienze e il trattato Sull’intelletto à anche al-Fārābī distingue quattro sensi del termine
“intelletto” nel De anima aristotelico: tre appartengono all’anima umana (in potenza, in atto e acquisito) e una
no. All’intelletto in potenza al-Fārābī attribuisce anche la astrazione delle forme intelligibili; ricevute le forme,
l’intelletto in potenza diventa intelletto in atto rispetto alle forme stesse, trasformandosi così in intelletto
acquisito. L’intelletto che è esterno all’anima è quello agente, unico per tutti gli uomini. Nemmeno al-Fārābī
condivide l’identificazione dell’intelletto agente con Dio operata da Alessandro di Afrodisia; diversamente da
al-Kindī però concepisce aristotelicamente Dio stesso come un intelletto che pensa a se stesso.
L’intelletto agente è l’ultimo dei NOVE INTELLETTI che scaturiscono uno dall’altro a partire da Dio secondo
un processo di emanazione per mezzo del quale si costituiscono anche le nove sfere celesti. Contemplando se
stesso, Dio genera un secondo intelletto, il quale contemplando Dio genera a sua volta un terzo intelletto, il
quale contemplando se stesso genera la sfera del primo cielo. Il terzo intelletto, analogamente, genera il quarto
intelletto e la seconda sfera, e così via fino all’INTELLETTO AGENTE, con il quale IL PROCESSO SI ARRESTA.
Esso agisce sugli intelletti umani ed è in grado di agire anche sulle facoltà immaginativa dell’anima, rendendo
alcune anime capaci di ricevere la profezia. In assenza di tali guide ispirate, spetta al filosofo essere a capo
della città. Scopo della politica è infatti raggiungere la felicità umana, ciò si realizza propriamente nella
filosofia. E su questo punto Aristotele e Platone sono perfettamente in accordo.

16
2.2.2. AVICENNA

Avicenna riuscì a comporre molte opere, due delle quali occupano un posto di primo piano nella storia del
sapere: il Libro del canone in medicina che diventerà un testo fondamentale degli studi medici sia nella
tradizione araba che in quella latina, e il Libro della guarigione, il suo capolavoro filosofico à si tratta di
un’opera strutturata in quattro parti: logica, filosofia della natura, matematica e metafisica. Nel prologo l’autore
afferma che il suo Libro include tutto ciò che di importante si trova nei «libri degli antichi» (Porfirio,
Aristotele), integrato con le verità che egli stesso ha scoperto. L’ultima parte è costituita da un’unica sezione
dedicata alla “scienza delle cose divine”.
La distinzione che sta alla base del pensiero filosofico di Avicenna è tra “essenza” ed “esistenza” à
l’essenza è ciò che risponde alla domanda “che cos’è?” e in quanto risponde a tale domanda, allora può dirsi
“quiddità” della cosa; mentre l’esistenza risponde alla domanda “esiste?”.
A livello logico, la distinzione tra essenza ed esistenza trova corrispettivo nella distinzione tra
rappresentazione concettuale e credenza. Il CONCETTO rappresenta mentalmente l’essenza della cosa, espressa
dal termine che la significa; mentre la CREDENZA consiste nell’assenso dato al giudizio che afferma l’esistenza
della cosa e che si esprime nella proposizione. LA VERITÀ APPARTIENE NON AI CONCETTI MA ALLE CREDENZE
e consiste in quel nesso tra giudizio e realtà.
La logica aiuta a formulare definizioni corrette però non si occupa della comprensione diretta della realtà,
riflette sul modo in cui la verità viene rappresentata e giudicata. Il suo “soggetto” è costituito dalle “intenzioni
intelligibili seconde”, cioè dai concetti di concetti. Esempi di “intenzioni intelligibili seconde” sono i cosiddetti
universali, come i concetti di genere e specie. La soluzione che egli propone al problema dello statuto degli
universali poggia proprio sulla distinzione tra essenza ed esistenza:
L’ESSENZA PUÒ ESSERE CONSIDERATA DA TRE ANGOLATURE
à NELLA REALTÀ EXTRAMENTALE, NELLA MENTE, IN SE STESSA

Nella realtà extramentale, l’essenza esiste sempre come essenza di una cosa individuale. Nella mente esiste
sempre come un concetto che può essere predicato di molti individui, perciò universale. In se stessa non è né
individuale né universale: queste sono caratteristiche che si aggiungono all’essenza solo in quanto considerata
nella sua esistenza rispettivamente reale o mentale; la stessa essenza può esistere sia individualmente nella
realtà che universalmente nella mente. Il fatto che l’essenza sia quantitativamente indifferente e l’esistenza
invece sempre quantitativamente determinata, conferma che essenza ed esistenza sono distinte.

Il modo in cui l’uomo conosce la realtà è studiato nel Libro dell’anima (sezione VI del Libro della
guarigione). Egli elabora rispetto alla psicologia aristotelica i sensi esterni: l’anima umana e degli animali
possiedono altre cinque facoltà: il senso comune, la “portatrice di forme”, l’“immaginativa” (negli animali) o
“cogitativa” (negli uomini); l’“estimativa” e la memoria.

Un’altra teoria originale è quella che concerne l’intelletto umano. Egli distingue ben cinque stadi, in
relazione alle forme intelligibili che sono il suo oggetto e che esso ricava per congiunzione con l’intelletto
agente. Si tratta dell’intelletto “materiale” che è la pura capacità di ricevere le forme intelligibili; dell’intelletto
“in possesso” che ha la possibilità di acquisire gli intelligibili secondi; dell’intelletto “in atto” che essendo
entrato in possesso degli intelligibili secondi è in grado di pensarli effettivamente; dell’intelletto “acquisito”
che ha attualmente intellezione di tali intelligibili e infine dell’intelletto “santo” proprio del profeta, è la
capacità di raggiungere intuitivamente l’intellezione degli intelligibili senza passare attraverso la mediazione
del ragionamento.

Quanto all’intelletto agente, Avicenna condivide la tesi di al-Fārābī per cui esso è il decimo e ultimo
intelletto che deriva per emanazione da Dio e dà le forme sia all’intelletto umano che al mondo sublunare.
Tuttavia, precisa che l’autocontemplazione degli intelletti creati presenta due aspetti: quando contemplano se
stessi in quanto necessari producono l’anima delle sfere celesti, mentre quando contemplano se stessi in quanto
possibili ne producono il corpo.

17
Per capire come gli intelletti creati siano allo stesso tempo necessari e possibili occorre prendere in
considerazione, ancora una volta, la sua metafisica. L’essenza, in sé, è indifferente all’esistenza: essa, cioè,
può esistere come non esistere, è possibile. Per esistere effettivamente, essa ha bisogno di qualcos’altro da sé
che la faccia esistere. Essendo effetto di una causa esterna all’essenza, l’esistenza è necessaria.
Poiché l’esistenza è effetto di una causa, è necessario risalire a una Causa Prima. Una catena causale infinita
non è pensabile. Bisogna ammettere un essere che è necessario per se stesso e che è la Causa Prima
dell’esistenza di tutti gi altri. Un essere del genere è unico e semplice à Dio.

Ciò implica, come Tommaso D’Aquino metterà in evidenza, che in Dio non c’è diversità tra essenza ed
esistenza. Non è semplicemente un primo motore immobile come per Aristotele, Dio è causa dell’esistenza
stessa delle cose à dimostrazione dell’esistenza di Dio, primo trattato della “scienza delle cose divine”. La
sua esistenza non rappresenta tuttavia il vero “soggetto” della filosofia prima ma solo uno dei suoi “oggetti”.
Il “soggetto” della metafisica è invece l’esistente in quanto esistente.

2.2.3. AVERROÈ

Noto ai latini come il “Commentatore” per eccellenza dei testi aristotelici. Egli conobbe la filosofia
aristotelica grazie a un medico, Abū Ga’far ibn Hārun, dopo essersi già formato negli studi religiosi, giuridici
e medici. Le opere di Averroè che interessano la storia della filosofia sono di due tipi: i commenti ad Aristotele
e i trattati sul rapporto tra filosofia e religione. I primi si dividono in compendi giovanili, le parafrasi e i
commenti letterali à alcune opere aristoteliche sono state commentate da Averroè in tutte e tre le forme, come
la Fisica, il De anima e la Metafisica. Tuttavia, passando dai compendi e dalle parafrasi ai commenti letterali,
non di rado cambia anche la sua interpretazione di Aristotele. Si allontana dall’aristotelismo neoplatonizzato
e si sforza di avvicinarsi all’autentico e originario pensiero aristotelico, ciò risulta evidente nella sua teoria
metafisica della causalità. Nel compendio della Metafisica, Averroè condivide sostanzialmente l’impostazione
di al-Fārābī e Avicenna sulla Causa Prima, pur correggendo in alcuni punti il modello emanazionista. Nella
parafrasi, nell’Incoerenza dell’“Incoerenza” e nel commento della Metafisica invece critica apertamente quel
modello, in nome di un ritorno genuino alla dottrina aristotelica. DIO È LA CAUSA PRIMA DEL MONDO NON
COME UNA CAUSA EFFICIENTE (CHE FACCIA ESISTERE UN INTELLETTO DA CUI DERIVINO GLI ALTRI INTELLETTI
E CON ESSI LE SFERE CELESTI) BENSÌ COME MOTORE IMMOBILE (CHE FA MUOVERE TUTTI QUANTI GLI
INTELLETTI).

Un altro tema su cui il pensiero di Averroè ha subito un’importante evoluzione è quello dell’intelletto
“potenziale” di cui Aristotele, nel De anima, dice che è potenza di diventare qualsiasi forma intelligibile e in
tal senso è analogo alla materia. Nel compendio di quest’opera Averroè segue Alessandro di Afrodisia nel
ritenere che tale intelletto “potenziale” sia una pura disposizione, legata però non al corpo umano bensì
all’immaginazione. L’immaginazione, infatti, elabora delle rappresentazioni di cose sensibili (ciò che
Aristotele chiamava “fantasmi”), da cui l’intelletto agente può astrarre le forme intelligibili.
INTELLETTO POTENZIALE à LA POTENZIALE INTELLIGIBILITÀ DELLE “FORME IMMAGINATE”,
OSSIA LA LORO DISPOSIZIONE A DIVENTARE INTELLIGIBILI MEDIANTE L’ASTRAZIONE

L’intelletto potenziale è una mera disposizione, però non esiste finché non viene attuata. Nella parafrasi
Averroè preferisce sostenere che l’intelletto “materiale” è anche una sostanza. Lo è nel momento in cui diventa
“intelletto”, ossia quando si congiunge con l’intelletto agente. Nel commento, infine, Averroè perviene a una
posizione che è la sintesi e il superamento delle precedenti. Da un lato, le rappresentazioni dell’immaginazione
svolgono ancora un ruolo imprescindibile, che consiste non solo nel subire passivamente l’operazione
dell’intelletto agente ma anche nell’attivare quella dell’intelletto potenziale. L’individuo contribuisce in misura
determinante all’atto di pensiero. Dall’altro lato, l’intelletto potenziale attivato dalle rappresentazioni non
appartiene all’individuo ma è unico per tutta la specie umana – anch’esso è una sostanza separata, come
l’intelletto agente nella tradizione della falsafa. L’anima individuale umana non possiede alcun intelletto,
nemmeno quello potenziale e pertanto è destinato a perire totalmente con la morte.

18
Una dottrina come quella che nega l’immortalità individuale appare in contraddizione con la credenza
religiosa. La gestione dei casi di conflitto tra filosofia e religione è uno degli argomenti di cui si occupa il
Trattato decisivo, una fatwā. Il comportamento in questione è qui il filosofare stesso. La risposta di Averroè è
poiché la filosofia è la speculazione sugli esseri esistenti che a partire da essi dimostra l’esistenza del Creatore,
essa è non solo autorizzata ma anzi raccomandata dalla Legge religiosa. Inoltre, la Legge religiosa autorizza e
raccomanda l’uso del sillogismo dimostrativo (la speculazione filosofica procede per via sillogistica). Infine,
la Legge religiosa autorizza e raccomanda lo studio dei «libri degli antichi» da cui il sapere filosofico trae
giovamento.
La «speculazione dimostrativa» non può di per sé condurre a conclusioni contrastanti con quelle rilevate
nel testo sacro, «il vero non può contrastare con il vero». Nei casi di apparente conflitto, ciò di cui c’è bisogno
è un’interpretazione allegorica del testo sacro. Essa, tuttavia, è prerogativa di pochi sapienti e non va
assolutamente divulgata perché provoca miscredenza, la massa di credenti deve rigorosamente attenersi al
senso letterale del testo sacro. Un esempio di come la “filosofia aristotelica per pochi” e il “letteralismo
religioso per i più” possono convivere viene fornito nello Svelamento, in cui egli critica la teologia
maggioritaria dell’epoca (as‘ariti) come poco efficace a persuadere le masse e ne propone una più in sintonia
con la visione del mondo di Aristotele sia con il linguaggio usato nel Corano.
Uno dei bersagli polemici di Averroè è il persiano Abū Hāmid al-Gazālī, teologo as‘arita e mistico sufi,
egli accusa i falāsifa di empietà ed eresia.

L’opera commentaristica di Averroè fu straordinariamente influente sulla filosofia ebraica e latina dei secoli
XIII-XV, non però sulla restante filosofia araba medievale, che invece proseguì in Oriente e si polarizzò sulla
ricezione dell’eredità di Avicenna.

2.3. I FILOSOFI EBREI

La letteratura filosofica medievale in lingua araba fu opera non soltanto di pensatori musulmani o cristiani,
ma anche di autori ebrei che vivendo in territori islamizzati assunsero l’arabo come lingua colta per veicolare
il loro pensiero. Tutti i più importanti filosofi ebrei medievali fino al XII secolo scrissero in arabo o in giudeo-
arabo; verso la fine del XII secolo alcune loro opere iniziarono ad essere tradotte in ebraico e soltanto con le
Guerre del Signore di Gersonide fece la sua comparsa il primo capolavoro filosofico scritto direttamente in
lingua ebraica.

La filosofia medievale arabo-ebraica sorse all’insegna del neoplatonismo, ciò si può notare in
¾ Isaac Israeli à il primo filosofo ebreo medievale, il suo pensiero si ispira all’aristotelismo fortemente
neoplatonizzato di al-Kindī. Secondo Israeli, Dio crea dal nulla la materia prima e la forma prima,
quest’ultima dà origine all’intelletto, in cui sono contenute tutte le Forme intelligibili e da cui per
emanazione derivano le anime e l’universo fisico;
¾ Avicebron à egli usò l’ebraico per i suoi componimenti poetici, mentre si servì dell’arabo per gli
scritti filosofici. Il più importante è Fonte della vita, nella versione latina il testo si presenta come un
dialogo tra maestro e discepolo in cui è sostenuta la dottrina dell’ilemorfismo universale à tutte le
realtà create sono composte di materia e forma, precisamente tale composizione segna la demarcazione
tra le creature e il Creatore, il quale invece ne è scevro. Non solo le sostanze corporee ma anche quelle
“semplici”, ossia le sostanze spirituali, sono costituite di forma e una materia che fa da sostrato.
La Causa Prima, in sé inconoscibile, crea per sua volontà anzitutto la materia e la forma universali e
in base a queste le sostanze spirituali, ossia Intelletto, Anima e Natura à da quest’ultima emana la
materia corporea, che ricevendo la forma della corporeità va a costituire i corpi.
¾ Una certa vicinanza al neoplatonismo, sul piano etico, si può notare nell’Introduzione ai doveri del
cuore di Bahya ibn Paquda che persegue lo scopo di interiorizzare la religione rendendola un cammino
di elevazione del credente verso l’amore intellettuale di Dio.

19
Il fatto di vivere in società a predominanza islamica pose alle comunità ebraiche delle sfide di carattere
religioso e intellettuale. Tra VIII e IX secolo si formò in Mesopotamia una variante dell’ebraismo chiamata
caraismo che, sollecitata dal monoteismo islamico a ritornare alla purezza originaria del monoteismo ebraico,
rifiutava la tradizione orale trasmessa dal Talmud (lett. “studio”) à una raccolta della Mishnah (lett.
“ripetizione”), cioè la legge orale ebraica codificata dal rabbi Giuda il Santo nel II secolo della nostra era, e
della Ghemarah (lett. “completamento”), cioè del commento rabbinico della Mishnah.
Il più notevole difensore dell’ebraismo rabbinico contro il caraismo fu Saadya ben Yosef, presidente
dell’accademia talmudica babilonese di Sura. Egli tradusse la bibbia in arabo e compose il primo dizionario e
la prima grammatica di ebraico. Pur non essendo un filosofo, influenzato più dalla kalām (teologia islamica)
che dalla falsafa, Saadya è un autore di un’opera degna di nota per la storia della filosofia; il Libro delle
dottrine e delle opinioni difende la ragionevolezza della fede e delle tradizioni ebraiche. I comandamenti e i
precetti dell’ebraismo sono in parte “leggi di ragione” e in parte “leggi di rivelazione”, le prime sono
razionalmente evidenti mentre le seconde hanno bisogno della rivelazione divina per essere rese note, tuttavia
non sono contrarie alla ragione.

Un’apologia dell’ebraismo di segno opposto rispetto a quella razionalistica di Saayda si trova nel Libro di
confutazione e di prova in difesa della religione disprezzata del poeta Yehudah Ha-Lewi. Il libro è un dialogo
immaginario di un re dei Cazari con un filosofo, un cristiano, un musulmano e un ebreo. Quest’ultimo fa notare
come gli unici profeti riconosciuti da tutti sono quelli ebrei. Bisogna allora pensare che il popolo ebraico sia
dotato di una facoltà speciale, la quale per esercitarsi ha però bisogno della terra di Israele e del culto sacrificale
nel tempio di Gerusalemme. Il filosofo rappresenta l’aristotelismo neoplatonizzante che Ha-Lewi critica
opponendo il “Dio di Aristotele” al “Dio di Abramo”. La teoria dell’emanazione viene addirittura ridicolizzata.

Tutt’altro atteggiamento verso l’aristotelismo neoplatonizzante di al-Fārābī e Avicenna si riscontra in


Abraham ibn Daud, egli crede che il pensiero elaborato dai due grandi filosofi musulmani sia una “vera
filosofia” e dunque non possa essere in contrasto con la rivelazione.

Il massimo filosofo ebraico medievale fu rabbi Moshè ben Maimon (noto come Mosè Maimonide). Il testo
per cui ha guadagnato un posto di spicco nel pensiero medievale è la Guida dei perplessi, intitolata così perché
intende sciogliere le perplessità dei credenti istruiti nelle scienze filosofiche di fronte a certe espressioni della
Bibbia. Un caso tipico è quello dei termini antropomorfici con cui Dio viene descritto. Del resto, il linguaggio
umano non è in grado di dire che cosa Dio sia in se stesso. Gli attributi che gli vengono riferiti vanno intesi in
due modi: attributi di azione, oppure attributi negativi. Esprimere attributi di Dio propriamente positivi è
impossibile, perché ogni attributo positivi indica una parte dell’essere di una cosa, mentre Dio non ha parti,
essendo assolutamente semplice. Tuttavia, di Dio è possibile affermare e provare l’esistenza: vi è almeno un
ente la cui esistenza è necessaria di per sé, anzi, ve n’è uno solo, perché esso deve coincidere con la sua essenza.
La prova di Maimonide è simile a quella di Avicenna e sarà ripresa da Tommaso nella sua terza “via”. Inoltre,
Maimonide enuncia argomenti a favore della tesi secondo cui Dio ha creato il mondo ex nihilo. La Guida di
Maimonide divenne il punto di riferimento fondamentale dei filosofi ebrei successivi che operarono
nell’Europa cristiana. Questi filosofi ereditarono sia la predilezione per una tradizione aristotelica interpretata
alla luce di Averroè, sia la problematica della conciliabilità tra scienza filosofica e fede biblica.

20
CAPITOLO III
IL PENSIERO DELL’OCCIDENTE LATINO DALLA RINASCENZA CAROLINGIA AL XII
SECOLO
3.1. L’EPOCA CAROLINGIA E GIOVANNI SCOTO

La rinascita degli studi nell’Europa occidentale avviene con la rifondazione dell’Impero su basi cristiane a
opera di Carlo Magno. Egli impose a tutto il clero l’obbligo di possedere un’istruzione almeno elementare e
promosse l’istituzione di scuole locali sotto il controllo della Chiesa. Il principale ispiratore della rinascenza
carolingia in campo culturale fu Alcuino, fulcro del circolo di intellettuali noto come “scuola palatina”. Egli è
autore di numerosi scritti, tra cui De fide sanctae trinitatis in cui giustifica l’utilità della dialettica in campo
teologico ricorrendo all’esempio di Agostino: «i più profondi problemi relativi alla santa Trinità non possono
essere spiegati senza la sottigliezza delle categorie».
Alcuni annoverano Alcuino tra i possibili estensori dei Libri Carolini [ossia quattro libri in cui si articola
il Capitolare sulle immagini di Carlo Magno, emanato per contestare le affermazioni del secondo concilio di
Nicea], la cui posizione in merito alla questione del culto delle immagini sacre è una via di mezzo: le immagini
non devono essere distrutte né devono essere adorate à ESSE RAPPRESENTANO VISIBILMENTE REALTÀ
INVISIBILI, possono essere servite a indirizzare la mente verso il divino ma il divino non potrà mai essere
esperito direttamente in esse.

Suo allievo fu Rabano Mauro a cui si deve la compilazione del primo commento sistematico integrale alla
Bibbia, attingendo ai commenti patristici. Inoltre, Rabano Mauro fu coinvolto nella più aspra fra le dispute
teologiche che caratterizzano il periodo di regno di Carlo il Calvo, ovvero quella sulla predestinazione. Nel
848 fece condannare la dottrina di Gotescalco, monaco tedesco, che sosteneva in base all’autorità di Agostino
à secondo Gotescalco, Dio dall’eternità ha predestinato gli eletti alla salvezza e gli altri alla dannazione.

Contro Gotescalco si schierò Giovanni Scoto Eriugena. Nell’opera De divina praedestinatione liber egli
sostiene che l’assoluta unità di Dio e la sua bontà rendono impossibile una predestinazione: quella al Bene.
Non è Dio a punire il peccato ma sono i peccatori che si autopuniscono. La data di questo libro (851) è l’unica
data sicura della vita di Eriugena. Quando fu incaricato di intervenire nella controversia sulla predestinazione,
era già da qualche anno presso la corte di Carlo il Calvo, il quale gli commissionò la traduzione degli scritti
dello pseudo-Dionigi. La traduzione effettuata da Ilduino era insoddisfacente e si sentiva la necessità di rifarla.
I testi dionisiani divennero noti in Occidente e influenzarono profondamente anche la teologia latina. Tradusse
anche La creazione dell’uomo di Gregorio di Nissa e gli Ambigua e le Questioni a Talassio di Massimo il
Confessore; commentò la Gerarchia celeste dello pseudo-Dionigi e parzialmente il Vangelo di Giovanni.
L’opera maggiore di Eriugena porta il titolo in greco, Periphyseon (Sulle nature) e consiste in un lunghissimo
dialogo in cinque tra il maestro (nutritor) e un alunno (alumnus, dal verbo alo, “nutro”). Il titolo fa riferimento
alle quattro specie in cui viene suddiviso il genere comprensivo di tutte le realtà, cioè la natura creante e non
creata; la natura creante e creata; la natura non creante e creata e la natura non creante e non creata.

¾ LA NATURA CHE CREA E NON È CREATA à È DIO


Dio è una natura in sé inconoscibile: né gli uomini né gli angeli sono in grado di conoscerla e nemmeno
lui stesso. Tuttavia, egli si manifesta nelle sue creature, teofanie (ossia “manifestazioni di Dio”)
nell’intelletto di chi le contempla. La creazione è dunque il movimento con cui Dio viene a manifestarsi
pur restando nella sua inattingibile trascendenza. Si può dire che Dio “crea” se stesso nelle creature e
nello stesso tempo è nulla. Il discorso su Dio ammette due modalità fondamentali, quella catafatica (+)
e quella apofatica (–). Le due modalità non sono contraddittorie ma complementari; si può indicare con
il prefisso “sopra-” o “più-che-” quei predicati che la teologia catafatica afferma e quella apofatica nega.

21
¾ LA NATURA CREANTE E CREATA à CAUSE PRIMORDIALI DELLE COSE (PRIMORDIALES CAUSAE
RERUM)
Esse sono create e contenute nel Verbo di Dio e rappresentano il modo in cui [Dio] conosce le cose
dall’eternità. Infatti, egli non conosce in base agli accidenti ma in base alle cause perenni che le
producono à la bontà, l’essenza, la vita, etc. in cui la natura divina anzitutto si manifesta. Le creature
partecipano di esse in misura diversa: tutte partecipano della bontà, ma non tutte partecipano dell’essenza
in senso proprio, della vita e così via.
Le cause sono eterne, perché la conoscenza che Dio ha delle cose è eterna; tuttavia, non sono coeterne a
Dio perché è a causa di Dio che sussistono.
¾ LA NATURA NON CREANTE E CREATA à EFFETTI DELLE CAUSE PRIMORDIALI
Eriugena studia questa terza natura attraverso una interpretazione allegorica del racconto biblico della
creazione (Esamerone). Tra le creature una posizione centrale è occupata dall’uomo, il quale nella propria
anima riepiloga ogni specie di vita: irrazionale (sensibile, vegetativa) e razionale. Inoltre, è creato a
immagine della Trinità à triade intelletto-ragione-senso interiore. Per queste ragioni, l’uomo è superiore
agli angeli.
Il corpo materiale, nella sua differenza sessuale, non appartiene alla creazione originaria ma è frutto di
una seconda creazione, in previsione del peccato originale. Tuttavia, il peccato non intacca la natura
dell’uomo: esso è come una malattia della pelle destinata a scomparire con la guarigione.
¾ LA NATURA NON CREANTE E NON CREATA à È NUOVAMENTE DIO (CONSIDERATO NON COME CASA
MA COME FINE DEL CREATO)
Il ritorno a Dio è un processo che avviene per natura e in parte per grazia à il mondo visibile è destinato
a tornare alle sue cause nascoste, percorrendo a ritroso il processo causale (dalla corporeità
all’incorporeità), mentre il ritorno delle creature sensibili avviene mediante il ritorno della componente
corporea dell’uomo. Questo, a sua volta, ritorna non solo per natura ma anche grazie a Cristo che con la
sua incarnazione ha salvato la natura umana dal peccato, cosicché gli uomini torneranno alla loro
condizione originaria à difatti, Cristo è risorto con un corpo spirituale privo di distinzione sessuale. A
subire le pene saranno le volontà dei dannati, le quali soffriranno nel rimorso del male compiuto e
nell’incapacità di realizzare i propri desideri cattivi.
Tutti gli uomini ritorneranno alla condizione paradisiaca ma solo alcuni eletti accederanno alla
deificazione (cioè saranno una cosa sola in lui e con lui).

Nel X secolo non emergono in ambito latino pensatori comparabili per statura speculativa a Eriugena,
meritano una menzione Gerberto di Aurillac e Abbone di Fleury.

3.2. LE CONTROVERSIE TEOLOGICHE DELL’XI SECOLO E ANSELMO D’AOSTA

Nel corso dell’IX secolo il rapporto fra teologia e le arti liberali, e in particolar modo la dialettica), divenne
materia di aspre contrapposizioni. Da un lato, vi erano coloro che fondavano il discorso teologico sui metodi
e i principi della disciplina dialettica; dall’altro vi erano quelli che denunciavano i limiti di tali metodi,
sottolineavano l’eccedenza della verità di fede rispetto alle possibilità di comprensione della ragione umana.
Terreno di scontro fra queste due impostazioni fu il sacramento dell’Eucarestia.

Berengario di Tours pensava che il pane e il vino consacrati diventano segni del corpo risorto di Cristo, un
corpo che si colloca in una dimensione diversa da quella materiale. Questa tesi fu condannata. Tra i suoi
oppositori spicca Lanfranco di Pavia, il quale rimprovera Berengario di aver invertito l’ordine corretto tra fede
e ragione. Non si deve dunque mettere in dubbio che, con la consacrazione, il pane e il vino diventino realmente
il corpo e il sangue di Cristo.

L’onnipotenza divina è il tema della lettera di Pier Damiani del 1065, uno dei protagonisti del movimento
di forma monastica ed ecclesiastica dell’IX secolo. Egli prende lo spunto da un’affermazione di Girolamo
ascoltata a Montecassino, dove afferma che Dio può tutto; tuttavia, non può restaurare la verginità di una

22
ragazza che l’ha perduta. Secondo Pier Damiani invece può fare anche questo, sia dal punto di vista morale
che fisico. L’unica cosa che non può fare è volere il male.

Ma quindi Dio può cambiare il passato? Lo stesso problema si potrebbe porre sul futuro e sul presente. Sarebbe
assurdo dire che Dio non avrebbe potere nemmeno su quelli. La necessità di affermare che un certo evento sia
accaduto o accada o accadrà è meramente logico-verbale e non concerne l’effettiva realtà delle cose. Lo studio
della logica non permette di cogliere il reale al di là dei propri discorsi.

La maggiore figura di pensatore è indubbiamente Anselmo, nominato nel 1093 arcivescovo di Canterbury.
Tra il 1095 e ’98 scrisse la sua opera teologica più nota, ossia Cur deus homo (Perché Dio uomo), in cui
l’incarnazione è presentata come necessaria per ripagare all’offesa fatta dall’uomo a Dio con il peccato. Solo
un Dio-uomo era in grado di espiare tale colpa, perché solo Dio poteva espiare una colpa di gravità infinita ma
solo un uomo doveva farlo.
Il Monologion è una delle opere che lo hanno reso più celebre in ambito filosofico, insieme al Proslogion.
L’origine del Monologion viene indicata dall’autore nella richiesta dei suoi confratelli di mettere per iscritto il
suo insegnamento relativo a Dio nella forma di una “meditazione” che prescindesse dall’autorità della Sacra
Scrittura e giungesse alle proprie conclusioni unicamente in forza di una cogenza razionale. Tale opera propone
argomenti puramente razionali per mostrare che esiste un’unica natura (o sostanza o essenza suprema), la quale
esiste per sé e da sé, mentre tutte le altre esistono per essa e da essa. Ancora, quali siano i suoi attributi
sostanziali; che essa è una Trinità, in sé incomprensibile ma riflessa nello specchio della mente umana; che
essa è il sommo bene delle creature razionali e che le anime devono nutrire nei suoi confronti amore, speranza
e fede.
Terminato il Monologion, Anselmo si chiese se fosse possibile trovare un unico argomento sufficiente a
provare che Dio esiste veramente, che egli è quel sommo bene che non ha bisogno di altro e di cui tutte le cose
invece hanno bisogno per esistere. Consegnò tale argomento al Proslogion. Mentre il punto di vista del
Monologion era quello di uno che va alla ricerca di ciò di cui ancora non si rende conto; il punto di vista del
Proslogion è quello di uno che si sforza di innalzare la propria mente alla contemplazione di Dio e cerca di
capire intellettualmente ciò di cui già si è certi per fede.
“UNICO ARGOMENTO” à noi crediamo che Dio è «qualcosa di cui non si possa pensare nulla di più grande»,
Anselmo osserva però che quest’espressione comprende ciò che viene detto. Questo “qualcosa” è nel suo
intelletto. Ciò di cui non si può pensare una cosa più grande, non può essere solamente nell’intelletto. Se lo
fosse, sarebbe possibile pensare che esso esista anche nella realtà. Non v’è dubbio, pertanto, che qualcosa di
cui non sia possibile pensare una cosa più grande esista non solo nell’intelletto ma anche nella realtà. Dunque,
SE DIO NON ESISTESSE REALMENTE, SI PRODUREBBE UN’IMPOSSIBILE CONTRADDIZIONE, UNA COSA SAREBBE E
CONTEMPORANEAMENTE NON SAREBBE. Anselmo procede a mostrare che Dio non si può pensare come non
esistente.
Il Proslogion viene pubblicato insieme alle obiezioni di un certo Gaunilone, le sue critiche si concentrano
su due passaggi fondamentali: 1) comprendere una cosa enunciata non basta per affermare che essa esista
nell’intelletto, si possono enunciare e comprendere anche cose false e inesistenti. Tali cose false non sono
propriamente dell’intelletto ma del “pensiero”. Per giunta, quando sentiamo parlare della “cosa maggiore di
tutte”, non riusciamo nemmeno a formarcene un pensiero in base alle cose che non conosciamo; 2) anche
ammettendo che esista nell’intelletto, non ne segue che essa esista nella realtà.
Anselmo risponde ribadendo che la comprensione di un enunciato è sufficiente per dire di avere il contenuto
di quell’enunciato nell’intelletto e che avere qualcosa nell’intelletto non equivale a comprendere che esso esista
nella realtà. Ripropone un esempio criticato da Gaunilone, quello di un pittore che ha l’opera nel suo intelletto
ma non ha già l’intellezione che essa esista realmente. Inoltre, non è vero che non possiamo formarci un
pensiero di Dio sulla base delle cose che conosciamo. Il concetto di “ciò di cui non si possa pensare una cosa
più grande” non è identico al concetto “cosa maggiore di tutte” con cui Gaunilone ha imprecisamente
riformulato l’argomento.

23
I tre dialoghi tra maestro e discepolo, il De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, costituiscono
una trilogia che l’autore stesso ha raccomandato di leggere in quest’ordine. Il primo dialogo ha come obiettivo
di chiarire l’essenza della verità, gli ambiti in cui essa esiste e la natura della giustizia. Il secondo dialogo
propone come definizione della libertà dell’arbitrio «il potere di conservare la rettitudine della volontà per la
rettitudine stessa», ossia la capacità di essere giusti, posseduta dall’uomo anche dopo il peccato, sebbene non
sia in grado di attuarla. Il terzo dialogo definisce l’ingiustizia studiando il caso del primo peccato, quello
commesso dal diavolo. L’ingiustizia è una forma di male e il male è una forma di privazione o di non-essere:
il male è il non-bene. Pertanto, l’ingiustizia è quel male consistente nell’assenza della giustizia lì dove la
giustizia dovrebbe esserci, cioè in una volontà dotata di liberto arbitrio à una volontà è libera quando è capace
di conservare la giustizia. IL PECCATO DEL DIAVOLO CONSISTETTE NEL PERDERE QUELLA GIUSTIZIA CHE
AVEVA RICEVUTO DA DIO E CHE AVREBBE POTUTO CONSERVARE, SE AVESSE VOLUTO.

3.3 FIGURE, SCUOLE E TENDENZE NELLA FRANCIA DEL XII SECOLO

3.3.1. ABELARDO E LE SCUOLE DI LOGICA

Pietro Abelardo è il più importante filosofo latino del XII secolo. Noto per la famosa relazione con la sua
alunna, Eloisa. I due si innamorarono, lei rimase incinta e diede alla luce un bambino, Astrolabio. Siccome la
notizia del loro matrimonio cominciò a diffondersi, mandò Eloisa nel monastero di Argenteuil. Lo zio, adirato,
lo fece evirare a tradimento. Allora, entrambi si monacarono: lei ad Argenteuil e lui a Saint-Denis.
Fino ad allora si occupò prevalentemente di logica, si interessò sempre di più alla teologia, specialmente
quella trinitaria.

La sua prima opera teologica (Theologia “Summi boni”) fu condannata nel 1121. Nel 1122 fondò un
oratorio presso il quale insegnò per cinque anni, fino a quando accettò l’invito di diventare abate in un
monastero in Bretagna, dove rischiò però di essere ucciso dai monaci a causa del suo zelo riformatore.
Le opere abelardiane sono classificabili in tre categorie:

¾ Le OPERE LOGICHE sono legate all’attività didattica di Abelardo, basata sul commento di sette testi (tre
tradotti da Boezio, Isagoge, le Categorie e il De interpretatione; altri quattro scritti di Boezio stesso)
à il trattato in cui li commenta tutti e sette è la Dialectica.
¾ Le OPERE TEOLOGICHE includono tre Teologie sul dogma trinitario, a cui Abelardo lavorò per un
ventennio. Ne fanno parte la già citata Theologia “Summi boni”, poi la Theologia christiana e la
Theologia “Scholarium”. Altri testi teologici sono il Sic et non, dagli scritti dei Padri della Chiesa
raccoglie pareri opposti (apparentemente) su 158 questioni teologiche; i commenti all’Esamerone e
alla Lettera ai Romani; alcune Sententiae.
¾ Infine, le OPERE ETICHE sono due: le Collationes (Confronti), un dialogo in cui un filosofo discute
prima con un giudeo, poi con un cristiano sulla legge di vita seguita da ciascuno e lo Scito te ispum,
un trattato incompiuto sul peccato e sulla riconciliazione.

Il pensiero abelardiano è caratterizzato da una spiccata originalità in tutti gli ambiti in cui si esercitò. Pur
occupandosi di testi e temi tradizionali, Abelardo porta approcci e contributi innovativi.
Riguardo alla QUESTIONE DEGLI UNIVERSALI, respinge le teorie analiste dei suoi tempi, che consideravano
generi e specie come cose (res), in tal modo l’individuo Socrate e l’individuo Platone venivano a essere il
risultato dell’aggiunta di accidenti diversi alla medesima essenza, quella dell’uomo.
Abelardo adduce molteplici argomenti per confutare questa teoria. Egli osserva che se il genere fosse
un’identica materia comune che riceve come forme le differenze specifiche, allora lo stesso genere si
troverebbe a ricevere contemporaneamente forme contrarie: l’animale sarebbe razione e irrazionale, il che
contraddice il principio aristotelico per cui due contrari non possono inerire simultaneamente allo stesso
soggetto. Inoltre, se sottraendo agli individui tutte le forme si ottenesse per ogni categoria un unico sostrato

24
materiale comune a tutti, non esisterebbero che una sola sostanza e uno solo per ciascuno dei nove accidenti:
ma come potrebbero gli accidenti differenziare la sostanza in modo tale da produrre individui diversi tra loro?

Abelardo critica anche un’altra teoria realistica, secondo la quale l’universale è una “raccolta” di cose, in
tal modo un genere è dato dall’insieme delle sue specie e una specie è data dall’insieme dei suoi individui.

Egli obietta che un insieme non può essere predicato di ogni singolo elemento che lo compone, perché il tutto
non si predica di ciascuna delle sue parti, come invece il genere si predica delle sue specie e la specie si predica
dei suoi individui. L’UNIVERSALITÀ APPARTIENE SOLTANTO ALLE PAROLE.

L’universalità delle parole non è arbitraria, si fonda sulla somiglianza che esiste tra le cose. È dunque una
parola che significa l’immagine mentale di un certo status e che viene usata per denominare tutti gli individui
che si assomigliano per il fatto di avere in comune quel determinato status.
Gli storici della logica riconoscono ad Abelardo il merito di aver distinto tra loro la forza illocutoria di un
enunciato e quello che oggi si chiama il “contenuto proposizionale” (che egli chiama dictum). Il “detto” non è
una cosa ma un fatto, un evento o uno stato di cose. Questa scoperta consente ad Abelardo di trattare in maniera
originale tre operazioni logiche:
(1) SOCRATE È UN UOMO
(2) SOCRATE È UN UOMO?
(3) SOCRATE NON È UN UOMO
¾ LA NEGAZIONE à è una operazione che modifica non il “detto” di una proposizione, ma la sua forza
illocutoria affermativa. La proposizione (3) ha lo stesso “detto” della proposizione (1), ma anziché
affermarlo lo nega;
¾ LE MODALITÀ à le modalità di necessità e possibilità non riguardano il “detto” della proposizione, ma
la cosa di cui si parla. “È POSSIBILE CHE IL SOGGETTO S SIA P” e “È NECESSARIO CHE S SIA P” significano
non che sia possibile oppure necessario il fatto che S sia P, ma che S è possibilmente oppure
necessariamente P. Ad esempio, “È POSSIBILE CHE UNA PERSONA IN PIEDI SIA SEDUTA”;
¾ IL CONDIZIONALE à il condizionale, che connette due proposizioni p e q nella forma “SE P ALLORA Q”,
esprime una connessione tra i “detti” delle due proposizioni. Un condizionale è vero soltanto nel caso in
cui si verifichino entrambe le seguenti condizioni: che sia impossibile che p sia vera e q sia falsa e che q
sia contenuta nel significato di p à “SE SOCRATE È UN UOMO, ALLORA È UN ANIMALE”.

La teologia trinitaria di Abelardo in passato è stata accusata di razionalismo, ossia della pretesa di spiegare
razionalmente il mistero cristiano dell’uni-trinità divina. L’obiettivo di Abelardo era chiarire che cosa
significhi credere in Dio uno e trino, in maniera logicamente coerente e accettabile. Analizza in particolare i
significati di “identico” e “diverso” à Padre, Figlio e Spirito Santo sono identici (“nell’essenza”, sono tre cose
ma un solo essere: Dio) tra loro e al contempo diversi (“nella definizione”, “nel numero”, “nella proprietà”
perché ciascuna di esse ha proprietà esclusive e distintive).

In campo etico, la concezione più nota e discussa di Abelardo è quella del peccato, distinto dal vizio,
dall’azione cattiva e dalla volontà cattiva.
Il peccato dell’adulterio consiste nell’acconsentire al desiderio di compiere quell’azione sconveniente, a
cui il vizio rende incline il lussurioso, che è il giacere con la donna di un altro. Il peccato è pertanto il consenso
dato a un desiderio cattivo, consenso per cui si è senz’altro pronti a commettere l’azione cattiva qualora se ne
abbia la possibilità. Il peccato non solo non è l’azione cattiva, ma non è nemmeno accresciuto dall’azione
cattiva, poiché il peccato è un’offesa fatta a Dio, e poiché Dio non può essere offeso da un danno ma solo dal
«disprezzo del Creatore».

L’insegnamento logico di Abelardo fu portato avanti nella seconda metà del XII secolo, dai cosiddetti
nominales, sostenitori della tesi che gli universali non sono cose. Le teorie realistiche degli universali tuttavia

25
non scomparvero, vi sono quattro scuole principali: quella degli Adamitae, quella degli Albricani, quella dei
Porretani e infine quella dei Robertini.
I Porretani fuorono la scuola più influente e diffusa, nella quale gli universali sono concepiti come realtà
intelligibili di cui le cose sensibili partecipano.

3.3.2. I MAESTRI DELLA COSIDETTA “SCUOLA DI CHARTRES”

Le scuole di logica sono solo una parte di un fenomeno più ampio che caratterizza il XII secolo nella Francia
settentrionale, il “secolo delle scuole”. La più famosa e discussa è la scuola di Chartres, che più che scuola
vera e propria è preferibile parlare di un insieme di pensatori.
«Noi siamo come nani sulle spalle di giganti, capaci di vedere più cose di loro e più lontane, non per
l’acutezza della nostra vista o la statura del corpo, ma perché siamo trasportati e innalzati dalla loro gigantesca
grandezza», si tratta di una notissima metafora che esprime bene il tipico modo medievale di filosofare
basandosi sui grandi autori del passato. I “giganti” furono Platone del Timeo – nella traduzione parziale di
Calcidio –, Macrobio con il commento al Somnium Scipionis di Cicerone e Boezio con la Philosophiae
consolatio.

È con Bernardo che la scuola ha il suo primo maestro riconosciuto in campo filosofico. Il suo allievo,
Guglielmo di Conches, rivolge il proprio interesse soprattutto ai temi di filosofia naturale, sui quali egli scrisse
un trattato. Egli sostiene una teoria di tipo atomistico, negando che acqua, aria, terra e fuoco siano i veri
elementi materiali. Ciascuno di essi possiede più di una qualità elementare (freddo, caldo, secco, umido) e
quindi sono piuttosto “elementati”. La sua concezione della natura risente di nozioni mediche.

Giovanni di Salisbury, allievo di Teodorico di Chartres e anche Abelardo, apprese la logica e la politica:
questi sono l’oggetto delle sue opere maggiori, rispettivamente il Metalogicon e il Policraticus.
Nel primo trattato difende il ruolo della logica e dello studio dell’intero Organon aristotelico nel campo
dell’istruzione superiore. Ad esempio, egli classifica le teorie sugli universali, elencando prima le non-realiste,
poi le realiste.

¾ NON-REALISTE à Roscellino (universali come “voci”), Abelardo (universali come “discorsi”) e di chi
considera gli universali come concetti.
¾ REALISTE à Gualtiero di Mortagne (universali come aspetti dell’individuo), Platone e Bernardo di
Chartres (universali come idee) e di chi ritiene gli universali come “permanenze”.

Il Policraticus invece è considerato il primo trattato filosofico-politico nel Medioevo latino. Giovanni
presenta una concezione organicistica della società politica – i capi religiosi ne sono l’anima; il principe è la
testa; i giudici gli occhi, orecchie e lingua; i soldati le mani; i contadini i piedi. Solo al primo ordine sociale si
richiede che sia virtuoso. Nel caso in cui il principe si comporti da tiranno, se tuttavia il suo potere è legittimo,
il popolo dovrà sopportarlo con pazienza finché Dio non provveda a rimuoverlo. Tuttavia, ci sono casi talmente
gravi da giustificare il tirannicidio, Giovanni fa l’esempio dell’imperatore Giuliano detto l’Apostata, ucciso
secondo la leggenda dalla lancia del martire Mercurio per ordine della Vergine Maria.

3.3.3. TENDENZE E SVILUPPI DELLA TEOLOGIA

Nel XII secolo si assiste a una progressiva sistematizzazione della teologia, la cui evoluzione si può
osservare prendendo in esame la produzione di “sentenze”. All’inizio del secolo, esse sembrano non seguire
né un ordine né un metodo precisi. Con il Sic et non di Abelardo il confronto tra le affermazioni dei Padri della
Chiesa assume una forma dialettica.

Pietro Lombardo, allievo di Abelardo, si deve a lui il libro di Sententiae più fortunato di tutto il Medioevo,
destinato a diventare il libro di testo degli studi teologici universitari. Non si limita a raccogliere citazioni dai
Padri, ma le armonizza in modo tale da fornire una soluzione ai casi di apparente divergenza.

26
Due altri generi che i teologi del XII secolo cominciarono a coltivare sono la summa e la questione.

1. La summa si presenta come una raccolta di sentenze, ad es. la Summa sententiarum, opera anonima e
che figura tra le fonti del Lombardo, altre volte può essere una sorta di dizionario biblico. La lettura
del testo sacro, effettuata con l’ausilio di interpreti autorevoli, pone di fronte a problemi in merito ai
quali esistono pareri opposti, che vanno discussi per individuare la soluzione corretta da proporre
successivamente nella predicazione.
2. La formulazione del problema nei termini di una domanda dà luogo alla “quaestio”, gradualmente
assunta a metodo didattico privilegiato.

Guglielmo di Champeaux è il primo maestro attestato a insegnare presso il monastero (poi abbazia) di Saint-
Victor, nei pressi di Parigi. L’abbazia di Saint-Victor ospitava una comunità di canonici regolari (“vittorini”),
presbiteri che seguivano la regola monastica di sant’Agostino.
Vari membri della comunità diedero un contributo rilevante agli studi teologici, tra cui emerge Ugo di
Saint-Victor che nel trattato De tribus diebus, dove il creato viene paragonato a un libro scritto da Dio, con le
creature come segni che rinviano all’autore stesso e alle sue tre perfezioni invisibili: potenza, sapienza e
benignità.

Il XII secolo vide lo sviluppo e la diffusione di un nuovo ordine monastico, quello cistercense, fondato da
Roberto di Molesme e altri monaci cluniacensi desiderosi di ritornare a una stretta osservanza della regola
benedettina. Grande promotore dell’ordine fu Bernardo di Clairvaux, egli esercitò un profondo influsso sulla
spiritualità dei suoi contemporanei e su quella di molte generazioni successive grazie all’accentuazione
dell’esperienza personale nella relazione intima con Dio (nonostante sia spesso ricordato per motivi poco
simpatici, come l’accusa mossa contro Abelardo o ancora come promotore dei Templari, oltre ad essere stato
predicatore della seconda crociata).

3.4. IL PENSIERO DELLE DONNE

Non possediamo alcuna opera di filosofe antiche. Per avere un testo di interesse filosofico composto da una
donna occorre attendere il IX secolo.

Il 2 febbraio del 843, nella Francia meridionale (Uzès) una nobildonna di nome Dhouda terminò il suo
Liber manualis. Il libro era indirizzato al primogenito Guglielmo, ostaggio di Carlo il Calvo. Scritto in prosa
con l’inserimento di alcuni versi, ha come scopo l’educazione morale del figlio.

Di nobile nascita dovette essere anche la sassone Rosvita, capo di «un piccolo, orgoglioso, indipendente
principato guidato da donne». Donne sono anche le protagoniste dei sei dialoghi drammatici, primi testi
“teatrali” di un certo rilievo prodotti nell’Occidente medievale. Rosvita è inoltre autrice di poemetti agiografici
e storici. I suoi scritti presentano chiari indizi della sua conoscenza delle arti liberali e di autori come Agostino,
Boezio ed Eriugena.

Di notevole cultura era anche Eloisa, l’allieva e amante di Abelardo. Infatti, Eloisa richiamava le opinioni
e gli esempi stessi dei filosofi antichi per mostrare l’incompatibilità della vita matrimoniale con le esigenze
della filosofia. I suoi argomenti sono quelli di una giovane donna erudita e perdutamente innamorata del suo
maestro, che secondo lei «la natura aveva creato per tutti» e che pertanto non avrebbe dovuto legarsi a una
persona soltanto.

27
Nel XII secolo, un’altra figura che riveste un particolare interesse per la storia del pensiero è quella della
monaca benedettina tedesca Ildegarda di Bingen. Ella raccontò di aver avuto sin da piccole visioni speciali, il
cui contenuto cominciò a mettere per iscritto solo in età matura.
Ildegarda si mostra interprete di una disuguaglianza à REINTERPRETAZIONE DEL PECCATO DI EVA
come salvifico e provvidenziale «se Adamo avesse violato il precetto prima di Eva, allora quella trasgressione
sarebbe stata tanto più grave e irreparabile», mentre «la colpa, commessa prima da Eva, si poté cancellare più
facilmente, perché lei era più fragile dell’uomo». Ildegarda accetta l’idea della maggiore potenza fisica e della
più solida razionalità di Adamo, ma questa differenza non si risolve in uno svantaggio per Eva, la quale è
capace di una mente leggera e acuta e dotata di un’esistenza fatta per il piacere. Ella è “molle” e per questo
libera e lieve (ricorda: l’uomo è creato dal fango, la donna dalla carne dell’uomo).
Troviamo in Ildegarda avverbi e aggettivi che richiamano l’idea della “tenerezza” e “pazienza”, visione
opposta alla condanna della figura femminile medievale (“nemica dell’uomo”, “ingannatrice”, “traditrice”,
“frivola” e “insaziabile”, “irrazionale”, “non indipendente”, “sottoposta all’uomo”).

I temi centrali di queste opere sono quelli della tradizione cristiana, risuona spesso il concetto di “viridità”,
una sorta di armonia naturale che è appassita con il peccato e deve essere recuperata mediante un’azione
restauratrice e terapeutica. Il benessere dell’uomo presenta un duplice aspetto: fisico e spirituale, al benessere
materiale è utile il buon uso della medicina naturale.

CAPITOLO IV
FILOSOFIA E TEOLOGIA NEL CONTESTO SCOLASTICO DEL XIII SECOLO

4.1. NUOVE TRADUZIONI E ISTITUZIONI

Le profonde trasformazioni subite dalla filosofia nell’Occidente latino durante il XIII secolo dipendono da
due fattori:

1. L’AMPLIAMENTO DELLA BIBLIOTECA FILOSOFICA, grazie alla traduzione in latino di testi appartenenti
alla tradizione greca e araba;
2. L’INSERIMENTO DELLA FILOSOFIA COME MATERIA DI STUDIO in un nuovo contesto istituzionale,
rappresentato sia dalle UNIVERSITÀ che dagli STUDI DEGLI ORDINI MENDICANTI.

Il processo di traduzione si svolse secondo varie fasi, in diversi centri e con molteplici traduttori:

¾ Dapprima vi furono le traduzioni DAL GRECO, fra i traduttori di questa prima fase, legati probabilmente
all’ambienze bizantino, spicca Giacomo Veneto, il quale tradusse molte opere aristoteliche;
¾ La seconda generazione di traduttori vede come protagonisti Gerardo da Cremona che tradusse
DALL’ARABO numerosi testi filosofici e scientifici, aristotelici e no (ad es. Alessandro di Afrodisia,
Isaac Israeli, al-Kindī, al-Fārābī e al-Hawārizmī, Avicenna, Euclide, Tolomeo);
¾ La terza fase consistette da un lato nella TRADUZIONE DEI COMMENTI ARISTOTELICI di Averroè da
parte di Michele Scoto, Ermanno Alemanno e Guglielmo di Luna; dall’altro lato si ebbero NUOVE
TRADUZIONI DAL GRECO, tra cui l’Etica Nicomachea. Infine, il domenicano Guglielmo di Moerbeke
rivide e completò le precedenti traduzioni degli scritti di Aristotele, in modo tale da offrire ai latini
una versione standard dell’intero Corpus Aristotelicum; tradusse anche testi neoplatonici come gli
Elementi di teologia di Proclo, consentendo così a Tommaso d’Aquino di avere la prova del carattere
pseudoaristotelico del Liber de causis.

Si ebbe tuttavia anche un altro fattore innovativo che incise sul pensiero del XIII secolo, cioè la nascita e il
consolidamento nell’Occidente latino: le università. Esse sorgono essenzialmente come corporazioni di
studenti (Bologna) o talvolta anche insieme ai maestri (Parigi), per ottenere il riconoscimento di certi diritti.

28
Il primo atto formale che sancisce tale riconoscimento da parte dell’autorità è la costituzione Habita
promulgata da Federico I di Barbarossa nel 1155, con la quale concedeva immunità e privilegi di tutela di
studenti “fuori sede” presso le scuole bolognesi di diritto. Spesso la migrazione di un gruppo di studenti e
docenti diede origine a nuove università: è il caso di Cambridge (migrazione da Oxford) e di Padova
(migrazione da Bologna).
Le aree disciplinari delle università medievali erano quattro: Arti (cioè arti liberali), Medicina, Diritto
(civile e canonico) e Teologia. Poche università medievali comprendevano tutte le aree: nel XIII secolo l’unica
fu Oxford. Teologia era comunque considerata la disciplina più importante, mentre le arti erano ritenute
propedeutiche alle altre scienze. Parigi si distingueva per le arti e teologia, Bologna per il diritto e Salerno per
la medicina.
Accanto alle università si costituirono anche scuole conventuali degli Ordini mendicanti, a cominciare dai
domenicani e finalizzate allo studio della teologia.

All’università di Parigi, la più importante per la filosofia e la teologia nel XIII secolo, la carriera tipo di
uno studente delle arti cominciava intorno ai quindici anni. Per quattro anni egli frequentava le lezioni di
grammatica, specialmente logica, e seguiva “dispute” – prima come semplice uditore, poi come parte attiva in
qualità di “opponente” o “rispondente”. Superato un esame, diventava quindi BACCELLIERE. A questo punto
può tenere lezioni introduttive e continuando a frequentare lezioni, estese agli ambiti della filosofia naturale,
della metafisica e del quadrivio.
Dopo un periodo congruo e superato un nuovo esame, il baccelliere otteneva la licenza di insegnare e
diventava “MAGISTER” con l’obbligo di reggere la cattedra per almeno un biennio. I testi oggetto di studio alle
arti erano l’Organon di Aristotele, l’Isagoge di Porfirio, i trattati di logica di Boezio e l’anonimo Liber sex
principiorum per la logica; per fisica e metafisica veniva utilizzato il Timeo di Platone tradotto da Calcidio e
la Consolatio di Boezio, poi soppiantati dai trattati di filosofia naturale e dalla Metafisica di Aristotele e dal
Liber de causis a lui falsamente attribuito; per l’etica invece si utilizzava l’Etica nicomachea; per il quadrivio
il De nuptiis di Marziano Capella e l’Almagesto di Tolomeo.
Solo chi era in possesso del magistero in Arti poteva accedere agli studi teologici, i quali duravano ben
quindici anni (sette anni di corsi sulla Bibbia e sulle Sentenze del Lombardo + otto anni di baccellierato). Il
ruolo di maestro “reggente” a Teologia finiva presto, le cattedre a disposizione erano poche.
I metodi didattici, sia alle Arti sia a Teologia, consistevano nella lettura dei testi autorevoli (lectio) e nella
disputatio. La disputa era considerata un esercizio fondamentale, consisteva in una discussione compiuta
secondo regole precise intorno a un quesito che prevedeva solo due possibili risposte antitetiche tra loro. Nelle
dispute dette “quodlibetali”, che si tenevano solo in determinati periodi dell’anno (Avvento e Quaresima)
chiunque poteva porre al maestro un quesito su qualsiasi argomento.

4.2. I PRIMI MAESTRI UNIVERSITARI A PARAIGI E OXFORD

Tra i primi maestri delle Arti spiccano nomi di provenienza inglese, non solo ad Oxford ma anche a Parigi.
Il problema della causalità di Dio sul mondo mediante i cieli, sorto nell’aristotelismo arabo, è lo sfondo su cui
si colloca la “metafisica della luce” elaborata originalmente da Roberto Grossatesta ed esposta in particolare
nel trattato De luce. Egli sostiene che la luce è identica alla corporeità, essa è infatti l’estensione
tridimensionale della materia, ma siccome la materia in sé non ha dimensioni e nemmeno la forma in sé ne ha,
solo una forma capace di moltiplicarsi all’infinito e di diffondersi nello spazio in ogni direzione può estendere
la materia, questa forma è precisamente la luce. Il cosmo è il risultato del processo di diffusione della luce, che
ha dato luogo anzitutto alla prima sfera celeste. Successivamente Grossatesta si dedicò alla traduzione
dell’Etica nicomachea e del Corpus Dionysiacum.
Ruggero Bacone fu maestro di Arti a Parigi, fece lezione sui libri naturales di Aristotele; a Ofxord si
avvicinò agli interessi scientifici coltivati da Grossatesta e si fece francescano. L’influsso di Grossatesta si nota
ad esempio nei trattati di ottica.

29
Il De multiplicatione specierum fu inviato da Bacone a papa Clemente IV nel 1268 insieme a Opus maius,
in quest’opera dispone le scienze in ordine gerarchico dando il primato a quelle che hanno un fine pratico, utile
alla salvezza umana, cioè teologia e filosofia morale. Un bravo teologo necessita di una preparazione
preliminare, non solo nelle arti liberali ma anche in discipline come la medicina, agricoltura e quella che egli
chiama la “scienza sperimentale” à basata sull’esperienza diretta delle cose e non sulla pura logica. Inoltre,
deve conoscere le lingue originali della Sacra Scrittura, ebraico e greco.

Nel Compendium studii theologiae (Compendio dello studio della teologia) riprende esplicitamente la
dottrina enunciata da Agostino nel De doctrina christiana e classifica i segni in naturali e dati dell’anima:

¾ I segni naturali sono quelli il cui rapporto con i relativi significati è di inferenza oppure di somiglianza,
ad es. il fatto che la donna ha latte è segno che ha partorito per inferenza, mentre un bambino è segno
di suo padre per somiglianza;
¾ I segni dati dall’anima sono in rapporto con i relativi significati in maniera naturale (gemito per il
dolore) oppure arbitraria (in una lingua parola x per definire una cosa).

Bacone pone una relazione diretta tra le parole e le cose da esse significate e ritiene che anche i concetti
siano segni, e non mere immagini, delle cose.

Nel 1229 a Parigi una grave crisi dei rapporti tra gli studenti e le istituzioni portò a uno sciopero
universitario che durò due anni. Filippo il Cancelliere assegna, sotto invito del vescovo Guglielmo di Alvernia,
la cattedra di teologia a un domenicano, Rolando da Cremona, primo magister mendicante.

Nel 1236 Alessandro di Hales vestì l’abito francescano, così anche l’Ordine francescano ebbe il suo primo
magister in teologia. Egli aveva composto una Glossa sulle Sententiae, la Glossa adotta un approccio alle fonti
che sarà tipico dei maestri francescani: il pensiero di Aristotele, interpretato in modo avicenniano, viene
utilizzato ampiamente ma corretto ogni qualvolta sia percepito come contrastante con la fede e tradizione
cristiana.

4.3. ALBERTO MAGNO E BONAVENTURA DI BAGNOREGGIO

I maggiori maestri mendicanti del XIII secolo, prima della condanna del 1277, furono i domenicani Alberto
Magno e Tommaso d’Aquino e il francescano Bonaventura di Bagnoregio.

Alberto Magno e Bonaventura possono essere visti come rappresentanti di due atteggiamenti diversi (e in
un certo senso opposti) nei confronti della filosofia aristotelica. Ad esempio,

¾ Per Alberto Magno, la filosofia è opera della ragione umana “naturale”, ossia della ragione comune a
tutti e indipendente dalla fede. La filosofia è quindi essenzialmente distinta dalla teologia (quest’ultima
si basa sulla rivelazione e trae la propria certezza dalla fede e non dalla dimostrazione razionale).
Autonoma rispetto alla teologia, la filosofia ne costituisce una indispensabile propedeutica. Alberto,
insieme a Tommaso e altri tre maestri incaricati dal capitolo generale dei domenicani, elaborò il
programma di studio del suo Ordine, stabilendo che il primo biennio fosse dedicato alla filosofia.
¾ Secondo Bonaventura, invece, la filosofia soffre di molti limiti e, senza la luce della rivelazione, rischia
di cadere in gravi errori, come di fatto è accaduto ad Aristotele. La filosofia deve essere supportata e
superata dalla teologia che può avvalersi della verità rivelata da Dio stesso nella Sacra Scrittura.

Nel ventennio 1250-70, Alberto Magno lavorò al commento parafrastico di tutti gli scritti aristotelici,
incluso il Liber de causis, proponendosi di renderli comprensibili ai latini e di completarli in prima persona lì
dove essi fossero lacunosi. Egli si avvalse di un ricco materiale, proveniente dalle fonti più disparate: dai testi
filosofici arabi ai trattati di medicina, commenti logici di Kilwardby, etc. Nel corso della sua attività
intellettuale, compose anche commenti e trattati teologici, quest’ultimi anche filosofici.

30
Nello scritto De causis et processu universitatis a prima causa, Alberto fa propria la teoria dell’emanazione
degli intelletti che era stata elaborata da al-Fārābi e Avicenna: dalla Causa Prima fluisce un primo intelletto
separato, in quale produce l’anima e il corpo della prima sfera celeste e così via. Tuttavia, rifiuta
l’identificazione degli intelletti separati con gli angeli. Inoltre, non accetta la dottrina avicenniana del decimo
intelletto come “datore delle forme”: le forme degli enti materiali non vengono donate alla materia ma
“estratte” dalla materia stessa. Ciò avviene mediante l’influsso esercitato dai movimenti celesti sul mondo
terrestre. L’anima umana stessa è un intelletto (l’anima, quindi, è di nobile natura), che tuttavia a contatto con
il corpo corruttibile si indebolisce e diventa “potenziale”, cioè mera capacità.
La questione centrale per Alberto è quella della congiunzione dell’intelletto potenziale con l’intelletto
agente; quest’ultimo è sempre congiunto all’anima come una sua parte o facoltà, ma non sempre lo è in quanto
tale da produrre il pensiero in atto. La congiunzione in atto dell’intelletto agente con quello potenziale avviene
in due modi: prima come CAUSA EFFICIENTE, quando l’intelletto agente “produce” gli intellegibili mediante
l’astrazione dando luogo all’intelletto “speculativo”; poi come CAUSA FORMALE, quando l’intelletto potenziale
riceve tutti gli intelligibili astratti dall’intelletto agente, li pensa in atto diventando intelletto “acquisito”. La
felicità consiste nel raggiungimento dello stato di intelletto acquisito: questa è la dottrina enunciata da
Aristotele nell’Etica nicomachea, come spiegato da al-Fārābī.

Bonaventura di Bagnoregio, a causa della polemica contro i mendicanti, in cui fu coinvolto anche
Tommaso, poté assumere ufficialmente la cattedra francescana di teologia nel 1257, tuttavia dovette subito
rinunciarvi perché fu eletto ministro generale del suo Ordine lo stesso anno. Bonaventura si adoperò per
ricomporre la frattura tra due correnti interne all’Ordine: quella degli “spirituali”, che intendevano ritornare al
rigore della Regola francescana soprattutto in tema di povertà, e quella dei “rilassati”, che propendevano invece
per una mitigazione della Regola. Polemizzò a più riprese contro l’aristotelismo coltivato presso la Facoltà
delle Arti di Parigi.
Tra i testi di Bonaventura sono particolarmente indicativi il De reductione, l’Itinerarium e le conferenze
sull’Esamerone. Il De reductione prende avvio dalla citazione di un versetto della Lettera di Giacomo:

«Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto, discendono dal Padre dei lumi»

Alberto lo interpreta secondo la dottrina agostiniana dell’illuminazione, Dio è la sorgente di ogni


conoscenza. I “lumi” di cui Dio è padre sono quattro:

1. L’ESTERIORE à è proprio delle arti meccaniche e illumina riguardo alle figure artificiali;
2. L’INFERIORE à è proprio della conoscenza sensitiva e illumina riguardo alle forme naturali;
3. L’INTERIORE à è proprio della conoscenza filosofica e illumina riguardo alla verità intellettuale;
4. IL SUPERIORE à è proprio della grazia e della Sacra Scrittura e illumina riguardo alla verità
salvifica.

Tutte queste “illuminazioni”, come hanno origine da una sola luce, quella di Dio, così sono finalizzate a
una sola conoscenza, quella della Sacra Scrittura.
La citazione del versetto di Gc 1,17 apre anche l’Itinerarium, nel cui prologo l’autore narra la genesi
dell’opera. Meditando su un episodio della vita di san Francesco (la visione di un serafino), Bonaventura
comprese che le sei ali del serafino indicano le sei tappe attraverso le quali si perviene, mediante l’amore per
Cristo crocifisso, alla pace estatica della contemplazione di Dio.
Le conferenze sull’Esamerone proseguono anch’esse l’obiettivo di elevare la mente alla visione di Dio
partendo dalla considerazione del creato. Bonaventura lo intende nel senso che Dio, con l’illuminazione, ha
fatto vedere la verità ai filosofi, consentendo loro la conoscenza scientifica delle cose e quella sapienziale di
Dio come principio, fine e ragione esemplare delle cose stesse. Non tutti i filosofi però, pur avendo capito che
la Causa Prima è principio e fine delle cose, negarono che in essa vi siano gli esemplari delle cose. Tra questi
filosofi vi fu Aristotele, il quale criticò la teoria platonica delle Idee. Da questo errore di fondo, ossia dalla
negazione dell’esistenza in Dio delle Idee delle cose, ne derivano inevitabilmente a catena molti altri: cioè che

31
Dio non ha prescienza né provvidenza; che tutte le cose avvengono per una necessità fatale; che il mondo è
eterno; che l’intelletto è unico per tutti gli uomini; che dopo questa vita non c’è né felicità né pena. Secondo
Bonaventura, dunque, l’errore capitale di Aristotele è l’abbandono della dottrina platonica delle idee.

4.4. L’ARISTOTELISMO ALLE ARTI E LA CONDANNA PARIGINA DEL 1277

Gli errori di Aristotele che Bonaventura denunciava erano insegnati in quegli stessi anni alla Facoltà
parigina delle Arti da alcuni maestri che sono stati designati come “averroisti latini” o “aristotelici radicali”. I
due nomi più conosciuti è Boezio di Dacia, insegnò alle Arti nel decennio 1265-75, diversamente dagli altri
colleghi non lasciò l’insegnamento dopo il biennio.
La filosofia era per lui una disciplina autonoma: non era la propedeutica a un sapere ulteriore e più elevato,
né era un mezzo teorico utile a scopi pratici ad esso esterni; al contrario, era un’attività intellettuale dotata di
metodi e principi propri e in grado di assicurare il massimo bene possibile agli uomini in questa vita.
Boezio di Dacia, nell’opuscolo De aeternitate mundi, pone alla base del suo ragionamento una premessa
epistemologica generale: in ogni disciplina scientifica è possibile dimostrare, ammettere o negare qualcosa
soltanto in base ai principi propri della disciplina stessa. Il filosofo naturale non può dimostrare, ammettere o
negare se non ciò che è possibile per natura. L’inizio del mondo, la creazione dal nulla e l’esistenza di un primo
uomo sono tutte cose impossibili per natura, quindi il filosofo naturale non solo non può dimostrarle ma anzi
deve negarle. Quelle cose sono impossibili per natura, e ciò non contraddice la fede, la quale infatti fa
riferimento a una causa superiore alla natura, cioè a Dio.
In un altro opuscolo, De summo bono, Boezio commenta che l’uomo può raggiungere quello che per lui è
il bene più alto con l’attività della più alta tra le sue facoltà, cioè con l’attività dell’intelletto speculativo. Tale
attività non è che l’attività del filosofo, pertanto il filosofo è l’uomo perfetto, quello che più di tutti vive
secondo la natura. Non pecca e gode del più alto piacere possibile in questa vita.

4.5. TOMMASO D’AQUINO

4.5.1. LA TEOLOGIA COME SCIENZA E IL SUO RAPPORTO CON LA FILOSOFIA

BIOGRAFIA à La vita di Tommaso d’Aquino si divide in due parti, cioè prima e dopo il suo ingresso
nell’Ordine domenicano (1244). Fu destinato dai genitori a una carriera ecclesiastica. A Napoli, alla Federico
II, incontrò due frati domenicani e decise di diventare come loro ma fu osteggiato dalla famiglia. Nel 1245
poté seguire il maestro generale dell’Ordine fino a Parigi. Da quel momento in poi la vita di Tommaso fu
dedita completamente allo studio e all’insegnamento. Studiò filosofia, finché nel 1248 Alberto Magno lo portò
con sé a Colonia presso il nuovo studio generale dei domenicani. Nel 1252 Tommaso ritornò a Parigi con
l’incarico di baccelliere in Teologia, dove compose le sue prime opere (Commento alle Sentenze, I principi
della natura, Ente ed essenza).
Documento della sua prima attività di maestro sono le Quaestiones disputatae de veritate e il commento
all’opuscolo De sancta trinitate di Boezio, oltre ad iniziare la Summa contro i Gentili, terminata poi nel 1261
ad Orvieto.
Tra il 1265 e il 1268 vive un periodo di intensissima attività didattica e compositiva, come la composizione
della Summa theologiae e varie questioni disputate come il De potentia, De anima, De spiritualibus creaturis,
il commento ad alcune opere di Aristotele, come il De anima, De interpretatione, Analitici secondi, Fisica,
Metereologici, Metafisica, Etica nicomachea, Politica + Liber de causis scoprendone la provenienza da Proclo,
oltre al commento ai Nomi divini dello pseudo-Dionigi e il De hebdomadibus di Boezio).
Nel 1272 organizzò uno Studio di teologia a Napoli, dove conclude la terza parte della Summa (iniziata nel
‘65) e nel 1274 muore in viaggio verso Lione.

Tutte le opere di Tommaso nascono dal contesto del suo insegnamento teologico; tuttavia, hanno spesso
una notevole rilevanza filosofica, in certi casi appartengono in toto al genere filosofico.

32
Per capire come Tommaso concepisse la teologia e il suo rapporto con la filosofia, è utile rivolgersi alla
prima questione della Summa. Tommaso, con il metodo della quaestio, risponde a dieci quesiti (ma ce ne
interessano solo otto):
1. SE LA “SACRA DOTTRINA”, OSSIA LA TEOLOGIA, SIA NECESSARIA IN AGGIUNTA ALLE DISCIPLINE
FILOSOFICHE à in quanto insegnamento basato sulla rivelazione divina, la teologia è necessaria in
aggiunta alle discipline filosofiche, in quanto basate sulla ragione umana. In primo luogo, perché il fine
ultimo dell’uomo è posto nella conoscenza di Dio, che eccede la ragione umana. In secondo luogo,
perché le verità su Dio conoscibili con la ragione umana sono di fatto accessibili a pochi.
2. SE ESSA SIA UNA SCIENZA à sì, la teologia è una scienza. I principi della teologia sono gli articoli di
fede, noti grazie alla scienza superiore di Dio stesso, che li rivela, e dei beati.
3. SE ESSA SIA UNA SOLA O PIÙ DI UNA à la teologia è una sola, perché uno solo è l’aspetto formale sotto
il quale è l’aspetto formale sotto il quale essa considera i propri oggetti, ossia divinamente rivelabili.
4. SE ESSA SIA SPECULATIVA O PRATICA à la teologia è sia speculativa che pratica, perché concerne gli
atti umani solo nella misura in cui mediante essi l’uomo viene orientato alla conoscenza di Dio.
5. QUALE SIA IL SUO RAPPORTO CON LE ALTRE SCIENZE à la teologia è superiore a tutte le altre scienze
speculative, in primis perché si fonda su un grado maggiore di certezza, perché si occupa di una materia
che trascende la ragione. È superiore anche a tutte le scienze pratiche perché il suo fine è la beatitudine
eterna.
6. SE ESSA SIA UNA FORMA DI SAPIENZA à la teologia è la forma più alta di sapienza perché considera la
causa più elevata di tutte, Dio, in quanto conoscibile non solo mediante le creature ma anche in se
stesso, per rivelazione.
7. QUALE SIA IL SUO OGGETTO à il soggetto della teologia è Dio, poiché i suoi oggetti sono Dio stesso e
le creature in quanto ordinate a Dio.
8. SE ESSA È ARGOMENTATIVA à la teologia è argomentativa, i suoi argomenti mirano a mostrare in base
agli articoli di fede qualcos’altro.

La teologia è dunque una scienza distinta dalla filosofia, perché basata sulla fede e non sulla ragione, ed è
superiore ad essa, perché la rivelazione consente una conoscenza di Dio più certa e più elevata. Ciò però non
vuol dire che la teologia soppianti la filosofia e faccia a meno di essa. I doni della grazia non tolgono la natura
ma la perfezionano: il lume della fede, infuso per grazia, non distrugge il lume della ragione naturale. Inoltre,
non possono essere in contrasto tra loro non distrugge il lume della ragione naturale. Inoltre, non possono
essere in contrasto tra loro, altrimenti uno dei due sarebbe falso e provenendo entrambi da Dio, egli sarebbe
autore di una falsità. È impossibile che il contenuto della filosofia sia contrario a quello della fede, è meno
perfetto ma presenta delle somiglianze.

4.5.2. ESSERE ED ESSENZA

Tommaso ha rivestito i panni del filosofo senza esplicitate connessioni con il discorso teologico, come nel
caso dell’opuscolo De ente et essentia, il cui scopo è chiarire le nozioni di “ente” ed “essenza”. Il metodo da
lui seguito è quello aristotelico, ossia partire dalle cose più facili, dunque inizia dalla nozione di “ente”.
Tale opera è divisa in sei capitolo:

1. In questo primo capitolo chiarisce i due termini e parte dall’ente, che può essere definito in due modi,
il primo modo si basa sulla logica ed è uno dei pensieri cardini di Aristotele: l’ente è tutto ciò su cui si
può formulare una proposizione affermativa; il secondo modo definisce l’ente come tutto ciò che si può
dividere nelle dieci categorie, ovvero i vari accidenti dell’essere.
La differenza tra le due proposizioni è che alla prima possono intendersi sia le cose concrete sia quelle
astratte (si possono formulare proprietà affermative il cui argomento può essere più o meno tangibile);
mentre nella seconda proposizione si possono intendere solo le cose concrete.

33
Tommaso a questo punto spiega il significato della parola “essenza”: infatti, essa essendo intesa come
ciò che l’essere era (entità originaria comune a tutte le cose), non può non appartenere all’ambito della
concretezza. È definita anche “quidditas” e natura à intesa come tutto ciò che può essere raggiunto
dall’intelletto umano. L’ente in senso primario è quindi la sostanza (sinonimo di essenza).
2. Nel secondo capitolo, le sostanze si dividono in semplici e composte. Partiamo dalle sostanze composte
perché sono più facili da riconoscere: sono costituite da un sinolo di materia e forma; bisogna precisare
che l’essenza riguarda il tutto (non solo materia/forma) e lo stesso vale per l’essere. A questo punto,
poiché la materia è il principio di individuazione degli enti, essa è universale (e non particolare).
Per chiarire ciò, Tommaso afferma che il principio di individuazione degli enti specifici, come
“Socrate”, è la cosiddetta “materia segnata”, ad es. “Socrate” e “uomo” hanno la stessa essenza ma
UOMO à MATERIA NON SEGNATA, SOCRATE à MATERIA SEGNATA. Perciò la materia segnata distingue
un gruppo di enti indeterminati aventi la stessa essenza, che Tommaso chiama “specie” =/= da un ente
singolo determinato (appartenente alla specie perché stessa essenza ma caratteristiche più specifiche)
che viene chiamato individuo.
Se la materia segnata distingue specie e individuo, la divisione dell’essenza è necessaria per distinguere
specie e genere. Al genere si aggiungono delle “perfezioni”, ovvero insieme di attributi più specifici.
Le perfezioni formano la “differenza costitutiva” tra genere e specie.
3. In questo capitolo si spiega il rapporto dell’essenza delle sostanze composte con il genere, specie e la
differenza, considerati come UNIVERSALI. Prendiamo come esempio il concetto di “umanità”: esso non
va indentificato con l’idea di uomo à all’umanità appartengono la “comunanza” e “l’unità” che non
può appartenere al concetto di uomo in senso astratto. Non va neanche identificato come molteplicità
degli individui. Il concetto di universale può trovarsi solo nell’intelletto umano.
4. In questo capitolo si trattano l’essenza delle sostanze semplici, che sono immateriali e costituite solo
dalla forma; accolgono forme intelligibili. Se le sostanze composte sono un sinolo di materia e forma,
quelle semplici sono una composizione di forma ed essere, ciò è possibile perché è la forma a dare la
materia e non viceversa. La forma dipende dalla materia.
L’essenza delle sostanze semplici presenta due differenze principali, rispetto a quella delle sostanze
composte: 1) l’essenza della sostanza semplice, identificandosi con la sua stessa forma, va classificata
necessariamente come un tutto; 2) essa non si divide nella molteplicità degli enti (non esistono
individui della stessa specie) ma esistono tante specie quanti individui.
Tutto ciò che caratterizza una realtà proviene da una causa efficiente, a sua volta prodotta da
qualcos’altro. Da qui si forma una catena di cause che porta ad una Causa Prima, che è causa di tutte
le altre cause; questo principio primo corrispondente al primo motore immobile aristotelico è Dio.
Dalla Causa Prima si crea una gerarchia di intelligenze (ognuna causa dell’altra) in base al concetto di
potenza e atto – altro cardine del pensiero aristotelico e ripreso da Tommaso:
¾ Un ente in potenza è qualcosa che deve ancora realizzarsi;
¾ Un ente in atto ha già raggiunto la sua realizzazione finale.

L’intelligenza superiore è quella più vicina al primo principio ed è forma in potenza rispetto all’essere
che riceve da Dio. Le forme vicine al primo principio esistono senza bisogno della materia e queste
sono le intelligenze angeliche, costituite da solo forma.
L’anima umana si colloca all’ultimo posto tra le sostanze intellettive, poiché al di sotto dell’anima si
trovano solo le forme che non possono esistere al di fuori della materia.

34
5. In questo capitolo si chiariscono le tre modalità in cui l’essenza si trova nelle diverse categorie di enti:
¾ NELLA CAUSA PRIMA (DIO) à l’ESSENZA DI DIO È IL SUO STESSO ESSERE
Dio non si può classificare in nessun genere, inoltre è un essere puro e indivisibile. Siccome è un
essere a cui nulla si può aggiungere, è causa di se stesso e per questo viene definito Causa Prima.
Ulteriormente, possiede tutte le perfezioni, tanto da essere definito “perfetto per eccellenza”;
¾ NELLE SOSTANZE INTELLETTUALI CREATE à L’ESSENZA COINCIDE CON L’ESSERE
Sono sostanze “limitate dall’alto” e “illuminate dal basso”. Sono finite perché ricevono l’essere
da ciò che è a loro superiore, allo stesso tempo sono illimitate perché per esistere non necessitano
per forza della materia come le forme sensibili;
¾ NELLE SOSTANZE COMPOSTE à LE SOSTANZE MATERIALI SONO FINITE E COMPOSTE DA MATERIA
E FORMA
Si moltiplicano in individui della stessa specie e a loro volta appartengono agli stessi generi. Sono
sostanze finite “sia in alto che in basso” e appartengono a manifestazioni concrete che l’uomo vede
intorno a sé e di cui riconosce gli accidenti.
6. Nell’ultimo capitolo viene trattato il tema dell’essenza negli accidenti. Gli accidenti hanno una
definizione incompleta, poiché non possono essere definiti senza associarli al soggetto della loro
definizione. Il soggetto completa gli accidenti ma non è completato da essi, perché esso sussiste
indipendentemente da loro. La sostanza, che possiede l’essenza al massimo grado, è la causa degli
accidenti, i quali sono e possiedono un’essenza in modo relativo alla sostanza.

4.5.3. DIO E IL MONDO

Il fatto che Dio sia il suo stesso essere fa sì che la proposizione “Dio esiste” sia evidente in se stessa, poiché
il predicato è identico al soggetto. Tuttavia, l’affermazione dell’esistenza di Dio non è evidente per noi. Perciò,
la proposizione ha bisogno di essere dimostrata mediante le cose che noi conosciamo di più, cioè gli EFFETTI
di cui Dio è causa. Tommaso non ritiene sufficiente l’“unico argomento” elaborato da Anselmo per provare
l’esistenza di Dio à bisogna concedere che nella realtà, e non solamente nell’intelletto, esista qualcosa di cui
non si può pensare una cosa più grande, il che non è concesso da coloro che negano l’esistenza di Dio.
Nella Summa Tommaso indica cinque “vie” per provare l’esistenza di Dio:

1. La prima via viene presentata anche come la più manifesta e viene desunta dal MOVIMENTO.
Il “movimento” (motus) di cui parla Tommaso va inteso aristotelicamente, ossia come il passaggio
dalla potenza all’atto, passaggio che richiede l’azione di una causa motrice già in atto. Tale CAUSA
MOTRICE non può essere costituita dalla cosa “mossa”, altrimenti sarebbe contemporaneamente in
potenza e in atto. Dunque, «TUTTO CIÒ CHE SI MUOVE, È MOSSO DA ALTRO». Se la causa motrice si
muove a sua volta, occorre che sia mossa da un’altra causa motrice e così via. Tuttavia, non si può
risalire all’infinito, è pertanto necessario addivenire a un MOTORE PRIMO, cioè tale da non essere
mosso da altro, «e questo tutti lo intendono come Dio».
2. La seconda via è desunta dalla nozione di CAUSA EFFICIENTE (ossia la causa dell’essere) e si basa
sull’esistenza di serie ordinate di cause efficienti che, analogamente alle cause motrici, sarebbero
impossibili se fossero infinite. È dunque necessario porre una CAUSA EFFICIENTE PRIMA, non causata
da altro e nemmeno da se stessa.
3. La terza via è desunta dalle modalità del “POSSIBILE” e del “NECESSARIO”. L’esistenza di cose che
si generano e si corrompono mostra che esistono cose possibili. Secondo Tommaso, solo ciò che in
un determinato momento non esiste non può essere, e per questo ritiene che se tutte le cose fossero
“possibili”, allora ci sarebbe stato un determinato momento in cui nessuna cosa esisteva. Se così
fosse, nulla potrebbe esistere adesso, perché non ci sarebbe stata nessuna cosa esistente a causarne
l’esistenza. Dunque, occorre che nella realtà vi sia qualcosa che è sempre esistito e sempre esisterà.
Nemmeno in questo caso si può risalire all’infinito, sicché bisogna porre qualcosa che sia necessario
per se stesso.

35
4. La quarta via è desunta dai GRADI DI PERFEZIONE delle cose, in esse troviamo infatti una maggiore
o minore verità, bontà, etc. ma qualcosa si può dire “maggiore” o “minore” solo in relazione al
massimo grado. Vi è dunque qualcosa che è vero in massimo grado e quindi che “è” in massimo
grado, secondo l’equivalenza tra maxime vera e maxime entia stabilita da Aristotele. Ne segue che
l’ente che “è” in massimo grado è causa dell’essere per tutti gli altri enti.
5. La quinta e ultima via è desunta dalla REGOLARITÀ con cui i corpi naturali, privi di coscienza,
operano per conseguire ciò che è meglio per essi; tale regolarità presuppone un essere intelligente
che orienti tutte le realtà naturali verso il loro fine.

Le cinque vie di Tommaso sono tutte dimostrazioni che risalgono dalla conoscenza degli effetti alla
conoscenza delle cause. Tale dimostrazione mediante effetto è detta “dimostrazione che” (demonstratio quia),
dove dato l’effetto viene riconosciuta la causa.
Vale anche il contrario? Essendoci la causa, deve esserci anche l’effetto (emanazionismo)? Poiché Dio
esiste, allora deve esistere anche il mondo? Secondo Tommaso non è necessario che Dio causi un effetto
dall’eternità, in quanto agente volontario, ma non è nemmeno necessario ritenere che Dio non causi un effetto
dall’eternità à avrebbe potuto, se avesse voluto.

4.5.4. ANIMA, INTELLETTO E CONOSCENZA

Dell’anima umana Tommaso parla in vari luoghi delle sue opere, in particolare nella Summa contra
Gentiles, nella prima parte della Summa theologiae e nelle Quaestiones de anima, oltre naturalmente al
commento del De anima di Aristotele.
Sin dall’opuscolo De ente et essentia, Tommaso considera l’anima intellettiva contemporaneamente come
sostanza “semplice” e come forma sostanziale di quella sostanza composta che è l’uomo. Si tratta di una
sostanza perché è il principio dell’operazione intellettuale, la quale è indipendente dal corpo. Mediante
l’intelletto, l’uomo può conoscere la natura di ogni corpo, ma ciò sarebbe impossibile se l’intelletto fosse a sua
volta un corpo o si servisse di un organo corporeo, perché la natura determinata di quell’ipotetico corpo o
organo corporeo non consentirebbe di ricevere la forma di qualche altro corpo. Operando dunque per se stessa,
la mente è qualcosa di sussistente. Lo stesso motivo per cui l’anima intellettiva è una sostanza è anche la
ragione per cui essa è unita al corpo umano come forma dell’uomo stesso. Il principio dell’attività compiuta
da un certo ente è infatti la forma di quell’ente, perché un ente agisce in quanto è in atto, ed è in atto in quanto
è dotato di una certa forma.
Sostenendo che l’intelletto umano è forma dell’uomo, unita al corpo che è la materia stessa dell’uomo
stesso, Tommaso si oppone alla teoria di Averroè secondo la quale l’intelletto “possibile” o “materiale” è una
sostanza separata dal corpo e unica per tutti gli esseri umani. Tommaso critica tale teoria, non solo
incompatibile con la fede cristiana – nella misura in cui comporta la corruttibilità dell’intera anima umana e
quindi l’impossibilità di una retribuzione post mortem – ma anche contraria all’opinione di Aristotele e dei
peripatetici (Averroè viene definito un «depravatore della filosofia peripatetica»).
La specie intelligibile esiste nei fantasmi (phantasmata, rappresentazioni prodotte dall’immaginazione) in
quanto è pensata in potenza, mentre esiste nell’intelletto possibile in quanto è pensata in atto, ed è pensata in
atto in quanto è stata astratta dai fantasmi e perciò non congiunge ma separa il singolo uomo dall’intelletto
possibile. Inoltre, per mezzo della specie intelligibile qualcosa viene pensato, mentre per mezzo della facoltà
intellettiva qualcosa pensa. Il singolo uomo non penserebbe se l’intelletto possibile fosse separato da lui, ma
semplicemente verrebbero pensati i suoi fantasmi.
Unendosi al corpo come forma e non come motore (come pensava Platone), l’anima dell’uomo è una sola,
quella intellettiva, che assolve anche le funzioni vegetativa, sensitiva, appetitiva e motiva. Riguardo alla facoltà
sensitiva, Tommaso la definisce come «una certa potenza passiva, che per natura è atta a subire un mutamento
da parte di un oggetto esteriore sensibile». Ad esempio, la forma di un colore viene ricevuta dalla pupilla
senza che la pupilla stessa diventi di quello stesso colore (intentio). Nelle percezioni visive, uditive e olfattive,

36
si produce nell’organo di senso un mutamento spirituale; nelle percezioni tattili e gustative invece si produce
anche un mutamento fisico.

Tommaso è d’accordo con Avicenna nel riconoscere anche dei sensi interni, ma diversamente ritiene che
questi siano solo quattro:

1. IL SENSO COMUNE à capacità di discernere tra oggetti propri di sensi esterni e consente di percepire
di percepire;
2. L’IMMAGINAZIONE à conserva le forme sensibili percepite e le compone in rappresentazioni;
3. L’ESTIMATIVA (COGITATIVA nell’uomo) à apprende le “intenzioni”che non sono percepibili
mediante i sensi esterni;
4. LA MEMORATIVA à conserva tali “intenzioni”.

L'intelletto “possibile” è una delle potenze intellettive dell'anima umana. Anch'esso è una potenza passiva,
in quanto è in potenza rispetto agli intellegibili, e originariamente è simile a una tabula rasa su cui non sia
stato ancora scritto nulla. È necessario porre un intelletto “agente”, il cui compito è quello di far diventare
intellegibili in atto le forme degli enti naturali. Contrariamente a Platone, Aristotele non pensava che tali forme
potessero sussistere senza la materia; di conseguenza, spiega Tommaso, egli aveva bisogno di postulare
qualcosa in grado di astrarre dalla materia e renderle in tal modo pensabili. L'intelletto agente appartiene
all'anima, tuttavia non esclude che vi sia un intelletto superiore all'anima umana, quello divino, al quale
l'intelletto umano partecipa: il primo è come il Sole, il secondo è come la luce.
Tommaso tuttavia critica Platone per avere sostenuto che oggetto della conoscenza intellettuale non sono i
corpi sensibili, ma le Forme o Idee, separate dalla materia e dal movimento. È stato indotto da un presupposto
sbagliato, secondo il quale la forma dell'oggetto conosciuto si trova nel soggetto conoscente, constatando che
le forme delle cose pensate si trovano nell'intelletto in modo immateriale e immobile. Platone ha pertanto
ritenuto che esse fossero così anche nella realtà ma, al contrario, il modo in cui una forma si trova nel soggetto
conoscente dipende dalla natura del soggetto stesso, non dalla natura dell'oggetto: «difatti, il ricevuto e nel
ricevente secondo il modo del ricevente».
Tommaso critica Platone anche per avere sostenuto l'innatismo, ossia l'attesa sì che l'anima è piena di forme
intelligibili ma è impedita di pensarle a causa del corpo a cui è unita. Se qualcuno è privo di un determinato
senso, non può conoscere certe cose, come un cieco non può avere conoscenza dei colori.
Critica poi Avicenna, il quale riteneva che le “specie intelligibili” presenti nel nostro intelletto fluisse da
forme separate, non sussistenti come le idee platoniche ma contenute nell'intelletto agente, da lui identificato
con l'ultima delle intelligenze celesti. Una tesi del genere non spiega come mai l'anima intellettiva sia unita al
corpo, visto che avrebbe la possibilità di esercitare l'operazione intellettuale semplicemente rivolgendosi
all'intelletto agente. In realtà il nostro intelletto non può pensare qualcosa in atto senza rivolgersi ai “fantasmi”
– l'immaginazione non può operare senza un organo corporeo, prova ne è il fatto che certe lesioni cerebrali
impediscono all'uomo di pensare o il fatto che quando vogliamo farci capire ricorriamo a esempi che possiamo
immaginare. L'oggetto proprio dell'intelletto umano è costituito dalla quiddità esistente in una materia
corporea. A tale quiddità appartiene il fatto di esistere in qualche individuo e poiché ciò che è individuale può
essere colto solo dal senso e dall'immaginazione, il nostro intelletto ha dunque bisogno dei “fantasmi” per
cogliere la natura esistente negli individui.
L'intelletto agente “illumina” i fantasmi e ricava da essi l'aspetto intelligibile degli oggetti, astraendo dalle
condizioni individuali degli oggetti stessi. Tommaso sottolinea che la specie intelligibile non è ciò che viene
conosciuto intellettualmente bensì ciò mediante cui l'intelletto conosce il proprio oggetto, la natura delle cose
materiali. La specie intelligibile è una similitudo di tale oggetto e poiché l'intelletto umano conosce mediante
specie intelligibili universali, allora non conosce direttamente gli individui ma indirettamente ed è in grado di
predicare di essi la loro natura.

37
4.5.5. BEATITUDINE E LEGGE

Essendo costretto a rivolgersi ai “fantasmi” per pensare, l'intelletto umano non è capace di conoscere
direttamente le sostanze prive di materia, ossia gli angeli e Dio. Ciò comporta che l'uomo in questa vita non
possa essere perfettamente felice, perché la sua perfetta felicità consiste nella visione intellettuale dell'essenza
di Dio.
La felicità o beatitudine è il fine ultimo della vita umana. Più precisamente, la felicità è il fine ultimo dal
punto di vista soggettivo che Tommaso chiama con Aristotele “fine quo” e distingue dal fine ultimo “fine
cuius” inteso dal punto di vista oggettivo. Il fine ultimo inteso oggettivamente e Dio al quale tendono tutte le
creature; mentre la felicità intesa soggettivamente è la fruizione da parte delle creature razionali di quel bene
sommo che è Dio. Consiste dunque in un atto e specificatamente nell'operazione intellettuale con la quale
l'uomo si congiunge a Dio – e poiché nella condizione della vita presente questa operazione non può essere
continua, l'uomo può raggiungere solo una felicità imperfetta e chi si realizza la maggior parte delle volte nella
vita completa contemplativa.
La felicità perfetta risiede unicamente nella visione dell'essenza divina: in primo luogo, perché l'uomo non
è perfettamente felice finché non gli resta qualcosa da desiderare; in secondo luogo, perché la perfezione di
una potenza è relativa alla natura del proprio oggetto e l'intelletto raggiunge la propria perfezione quando
conosce l'essenza delle cose. Sesso conosce l'essenza di un effetto ma non l'essenza della causa, all'uomo
rimane il desiderio di conoscere anche quest'ultima. La felicità perfetta, dunque, si potrà ottenere solo quando
il nostro intelletto potrà conoscere l'essenza stessa di Dio, cioè nell'aldilà.
Orientati in ultima analisi verso la felicità, gli atti propriamente umani dipendono da due generi di principi:
interni ed esterni e si distinguono entrambi in buoni e cattivi: virtù e vizi e Dio e il diavolo.

4.6. LE DISPUTE DELL’ULTIMO QUARTO DI SECOLO

L'ultimo quarto del XIII secolo è caratterizzato da accesi dibattiti tra teologi su questioni però di genere
filosofico. Un esempio è la controversia sulla distinzione tra essenza ed essere, Enrico di Gand affronta il
quesito se la creatura sia il suo stesso essere. Egli risponde che per risolvere correttamente il problema, occorre
escludere un modo sbagliato di concepire il modo in cui la creatura partecipa all'essere in virtù di Dio, che è
per essenza il puro essere stesso. Questo modo sbagliato consiste nel pensare che l'essenza della creatura sia
qualcosa che funga da sostrato e che riceva l'essere come una forma. Il modo corretto invece consiste nel
pensare l'essenza della creatura come qualcosa di astratto mediante l'intelletto. Da questo punto di vista la
partecipazione va intesa come somiglianza dell'effetto alla causa che non è qualcosa di ulteriore rispetto
all'essenza stessa della creatura e che non si aggiunge all'essenza stessa per farla esistere.
Enrico di Gand introduce la distinzione tra due tipi di essere delle creature, sulla scorta di Avicenna, ossia
l’essere che una cosa possiede essenzialmente di per sé è l'essere che una cosa riceve da altro.
La tesi della distinzione reale tra essenza ed essere fu invece sostenuta con rigore, contro Enrico, da Egidio
Romano frate dell'Ordine degli agostiniani. Secondo Egidio, se la distinzione tra essenza ed essere non fosse
reale e l'essere non si aggiungesse all'essenza, allora verrebbe indebolita la nozione di creazione come
donazione dell'essere e verrebbe meno la possibilità di una annichilazione delle cose da parte di Dio. Secondo
Enrico, al contrario, se essenza ed essere fossero due res, allora ciascuna di esse sarebbe a sua volta composta
di essenza ed essere e così via all'infinito.
Nel dibattito intervenne anche Goffredo di Fontaines, egli respinse sia la distinzione reale postata Egidio
sia la concezione di Enrico dell'indifferenza dell'essenza all'essere e al non-essere. Tra il non-essere e l'essere
non vi è nulla di intermedio. I termini “essere” ed “essenza” si diversificano per il modo di significare l'ente:
“essere” lo significa in modo concreto ed “essenza” lo significa in modo astratto.

38
CAPITOLO V
GLI SVILUPPI DEL SAPERE FILOSOFICO NEL XIV SECOLO

5.1. LA LOGICA TRA DUECENTO E TRECENTO

Fino alla prima metà del XII secolo, lo studio della logica nell’Occidente latino si basava su un corpus
ristretto di testi che nel suo insieme costituiva la “LOGICA VETUS” (antica). Ne fanno parte l’Isagoge di Porfirio,
le Categorie e il De interpretatione di Aristotele tradotti da Boezio, i trattati logici dello stesso Boezio, le
Categorie decem pseudoagostiniane, le sezioni logiche presenti nel De nuptiis di Marziano Capella, nelle
Institutiones di Cassiodoro e nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, infine un trattato dello stesso XII secolo
intitolato Liber sex principiorum.
Nel corso del XII secolo si scoprirono gradualmente gli altri scritti dell’Organon aristotelico, i Topici, gli
Analitici primi e secondi e le Confutazioni sofistiche, chiamati nel complesso “LOGICA NOVA”.
A partire dalla seconda metà del XII secolo, i maestri latini di logica apportarono una serie di contributi
originali, indipendenti dalla logica aristotelica e che vengono designati come “LOGICA MODERNORUM”.
Quest’ultima conobbe il suo massimo sviluppo lungo i due secoli successivi, in particolare nella Summule di
dialettica di Ruggero Bacone.

Un primo ambito teorico caratteristico della logica modernorum è quello che concerne le “proprietà dei
termini”, ossia le valenze semantiche che le parole assumono quando sono usate in una proposizione. Le
proprietà principali distinte dai logici del XII secolo in avanti sono la SIGNIFICAZIONE (significatio), la
SUPPOSIZIONE (suppositio), la COPULATIVA (copulatio), la RESTRIZIONE (restrictio), l’AMPLIAMENTO
(ampliatio) e l’APPELLAZIONE (appellatio). La definizione di queste proprietà varia a seconda degli autori.
Altri ambiti tipici della logica modernorum sono quelli che riguardano i SOFISMI, gli INSOLUBILI e le
OBBLIGAZIONI.

¾ I SOFISMI erano frasi la cui interpretazione poneva dei problemi logici e per questo erano proposti
come esercizi per gli studenti. Una raccolta particolarmente rilevante è quella del cosiddetto “maestro
delle astrazioni”, in essa per ciascun sofisma vengono forniti argomenti a favore sia della sua verità
che della sua falsità, e infine la soluzione. Ad esempio, “ogni uomo è ogni uomo” è una proposizione
VERA se la si intende come una tautologia (A=A, B=B) mentre è FALSA se la si intende nel senso che
ogni singolo uomo è tutti gli uomini (A=A+B, B=A+B).
¾ Gli INSOLUBILI erano dei paradossi, il più celebre è quello del mentitore (X dice che sta mentendo).
Discussi generalmente all’interno delle trattazioni sulle fallacie. Suscitarono vari tentativi di soluzione:
i cassatores ritenevano che gli insolubili non significassero nulla e andassero perciò “cassati” mentre
secondo Tommaso Bradwardine ogni proposizione significa e afferma la propria verità, sicché la
proposizione “Questa proposizione è falsa” significa e afferma contemporaneamente la propria falsità
e la propria verità e perciò, implicando una contraddizione, è falsa.
¾ Le OBBLIGAZIONI erano un gioco dialettico inventato per esercitare gli studenti. L’opponente aveva il
compito di presentare delle proposizioni che il rispondente doveva concedere, negare oppure mettere
in dubbio. Il rispondente era obbligato ad accettare in partenza una proposizione falsa e a seguire certe
regole.

Nel campo della logica delle proposizioni, la logica modernorum contribuì specialmente alla teoria delle
conseguenze, cioè delle relazioni di dipendenza tra proposizioni. Una “conseguenza” è una relazione tra due
proposizioni tale per cui la seconda (“conseguente”) conseguente dalla prima (“antecedente”). Pur essendo già
note alla logica anteriore, le “conseguenze” cominciarono ad essere studiate specificatamente nel XIV secolo.
Le più importanti trattazioni medievali dedicate ad essa sono contenute nella Summa logicae di Guglielmo di
Ockham e nella Logica magna di Paolo Veneto.

39
L’obiettivo principale di queste trattazioni è individuare delle regole per stabilire la validità delle
conseguenze, ad es. “se q consegue dalla proposizione p e r consegue dalla proposizione q, allora la
proposizione r consegue dalla proposizione p”; oppure “se la proposizione s è incompatibile con la
proposizione t, allora dall’affermazione di s consegue la negazione di t”, e così via.
I logici medievali distinsero inoltre la conseguenza formale dalla conseguenza materiale à la conseguenza
“un uomo corre, quindi un animale corre” non è formale, perché non valida se al posto di “uomo” si pone
“cavallo” e al posto di “animale” si pone “albero”. La teoria delle conseguenze portò inoltre alla scoperta di
quelli che oggi sono noti come i “paradossi dell’implicazione”, ossia il fatto che da un antecedente impossibile
consegue qualsiasi cosa e il fatto che da un qualunque antecedente consegue un conseguente necessario.

Nell’ultimo quarto del XIII secolo si sviluppò una corrente teorica negli studi della grammatica, nota come
“grammatica speculativa”. La genesi di questa corrente è individuabile nel tentativo di conformare la
grammatica ai requisiti della scienza stabiliti da Aristotele negli Analitici secondi. Secondo Aristotele, il
proprio della scienza è la dimostrazione, la quale è un tipo di argomentazione le cui premesse indicano le cause
di ciò che è indicato nella conclusione. Le premesse di un sillogismo scientifico devono essere vere, prime,
necessarie e universali. La grammatica, invece, sembra occuparsi di sistemi linguistici particolari, non
universali e non necessari. Grammatici come Tommaso di Erfurt, Martino di Dacia e Radulfo Brito cercarono
di superare questa difficoltà introducendo la teoria dei “modi di significare” (modi significandi), per questo
furono chiamati “modisti”. Secondo questi autori, esistono strutture grammaticali universali che esprimono i
modi fondamentali di pensare (modi intelligendi) comuni a tutti i parlanti, i quali modi a loro volta riflettono i
modi fondamentali di essere delle cose (modi essendi).
I modi di significare si divino in due imposizioni. La “prima imposizione” è quella per cui un determinato
suono pronunciato (la “voce”) viene connesso a un determinato referente nella realtà che da quel momento in
poi viene significata da quella voce. Alla voce dotata di significato vengono poi imposti ulteriori modi di
significare che esprimono i diversi modi in cui vengono pensati i differenti modi di essere della cosa à questa
è la “seconda imposizione”.

Raimondo Lullo merita una menzione singolare, benché egli non sia stato un magister universitario ne
abbia coltivato la logica “scolastica”, ma anzi l'abbia criticata, elaborò una originale “arte di trovare la verità”.
La missione di cui si sentiva investito era di convertire i musulmani al cristianesimo attraverso la discussione
razionale. Secondo Raimondo esistono dei principi generali di tutto il sapere che corrispondono agli elementi
fondamentali da cui deriva tutta la realtà, attraverso la combinazione di tali principi è possibile giungere a
qualsiasi verità, compresa quella relativa ai misteri della fede cristiana, in particolare l'uni-trinità di Dio.
L’“arte” di Raimondo ambisce essere un metodo conoscitivo dimostrativo universale, capace di superare i
confini tra differenti discipline e le barriere tra diverse culture e religioni. Il metodo combinatorio lulliano sarà
studiato da pensatori come Cusano, Pico della Mirandola, Giordano Bruno e Leibniz.

5.2. GIOVANNI DUNS SCOTO E IL PRIMO SCOTISMO

Dopo la professione religiosa come francescano, Giovanni Duns Scoto studiò teologia a Oxford dal 1288
al 1301. A questo periodo risale la gran parte dei suoi scritti filosofici, costituiti da commenti in forma di
“questioni” a Porfirio e Aristotele. Documento della sua attività di baccelliere a Oxford è la redazione al
commento alle Sentenze del Lombardo, detta Lectura. Ci restano vari appunti delle sue lezioni e una Ordinatio
del commento alle Sentenze a cui lavoro sino alla morte e che rappresenta la sua opera principale.

Come Tommaso, anche Duns Scoto comincia il suo commento alle Sentenze affrontando il quesito se sia
necessaria una dottrina ulteriore rispetto alle scienze acquisibili mediante i mezzi conoscitivi naturali
dell'uomo. Nel prologo dell’Ordinatio osserva che su tale questione appare esservi una controversia tra filosofi
e teologi: l'uomo ha bisogno di ricevere per via soprannaturale la conoscenza del fine verso cui è diretto (vedere
e godere di Dio) e dei mezzi che servono a raggiungerlo, tutte cose che non sono conoscibili mediante la
ragione naturale. Questo ragionamento però è appunto quello di un teologo, cioè di uno che argomenta a partire

40
da premesse credute per fede e che non possono essere assunte dal filosofo in quanto «persuasioni teologiche».
Nell'ambito della filosofia vale solo la ragione naturale, dunque non sono validi argomenti basati sulla fede.
Ne conclude pertanto che filosofia teologia sono due saperi indipendenti l'uno dall'altro.
La teologia che muove da premesse rivelate e la teologia “nostra”, la quale ha una conoscenza limitata di
Dio e che parte dalla rivelazione contenuta nella Sacra Scrittura, mentre quella “in sé” e la conoscenza perfetta
di Dio, una conoscenza che solo Dio ha di se stesso. Anche gli angeli e i beati godono della visione diretta di
Dio, conoscono Dio e in misura parziale e questa è la teologia dei “beati” che resta tuttavia inferiore alla
teologia “in sé”, sebbene superiore alla teologia “nostra”. Quest'ultima è una scienza pratica il cui scopo è
farci vivere nell'amore per Dio. Esiste tuttavia una teologia naturale, cioè una qualche conoscenza di dio
raggiungibile mediante la ragione e quindi mediante la filosofia. La possibilità della teologia naturale si fonda
sul l'univocità del concetto di ente, ossia sul fatto che termini come “ente” e altri che esprimono le perfezioni
dell'essere sono predicabile di Dio e delle creature nello stesso senso. La dottrina dell'univocità dell'ente si
oppone sia alla dottrina dell’equivocità (Enrico di Gand) sia a quella dell'analogia (Tommaso d’Aquino). Duns
Scoto obietta che se tutti i termini con cui si parla di Dio fossero equivoci o soltanto analogici rispetto a quelli
usati per parlare delle creature, allora non sarebbe possibile dire nulla di Dio in senso proprio.
Duns Scoto adduce vari argomenti per dimostrare l’univocità dell'ente:

1. l'intelletto umano nello stato di “viandante” può essere certo del fatto che Dio esiste e tuttavia essere
in dubbio se sia finito oppure infinito; quindi il concetto di ente è diverso sia da quello definito sia
da quello di infinito e incluso in entrambi.
2. Se il concetto di Dio come ente fosse diverso da quello delle creature come enti, esso dovrebbe
prodursi nell'intelletto umano in modo diverso da quest'ultimo, cioè non per opera del fantasma e
dell'intelletto agente. Quindi, sarebbe impossibile avere un concetto naturale di Dio, il che è falso.
3. Se il concetto di Dio come ente riguardasse esclusivamente Dio stesso, da esso dovrebbe essere
possibile ricavare le nozioni proprie dell'essere divino, come la Trinità.
4. Se una perfezione presa in assoluto non fosse concepibile in modo univoco, comune alle creature e
a Dio, allora sarebbe propria esclusivamente o delle creature o di Dio. Nel primo caso Dio sarebbe
privo di perfezioni possedute dalle creature, nel secondo caso sarebbe falso quanto affermato da
Anselmo nel Monologion, poiché il ragionamento di Anselmo esige che la perfezione in questione,
prima di essere attribuita a Dio, sia pensabile in assoluto.

L'univocità del concetto di ente fonda la possibilità di svolgere un discorso filosofico sull'essere di Dio e di
fornire con la ragione naturale una prova della sua esistenza. Il trattato di Duns Scoto De primo principio Ne
è un esempio. Punto di partenza è la nozione di ordine essenziale, inteso come «la relazione di paragone detta
dell'anteriore rispetto al posteriore e viceversa». Gli ordini essenziali sono sei: quello di eminenza, i quattro
ordini di dipendenza tra causato e causa (a seconda che la causa sia finale, efficiente, materiale o formale) e
l'ordine di dipendenza tra due causati da una medesima causa. Duns Scoto sceglie tre di questi ordini, ossia
quelli di dipendenza tra l'effetto è la sua causa efficiente e tra ciò che è e finalizzato e il suo fine, e quello di
eminenza. Per ciascuno di essi mostra che esiste in atto uno e uno solo anteriore primo, non posteriore ad altro,
cioè una causa efficiente prima che non è effetto di altro, una causa finale prima che non è finalizzata da altro
e una natura eminente prima che non è ecceduto da altro.
L'esistenza in atto di una e una sola causa efficiente prima viene dimostrata attraverso i seguenti passaggi:

1. Tra gli enti vi è qualche natura capace di produrre effetti;


2. qualche natura capace di produrre effetti è prima in senso assoluto;
3. la prima natura capace di produrre effetti è quindi incausabile;
4. la prima natura capace di produrre effetti e esistente in atto;
5. L'essere dell’incausabile è di per se necessario;
6. La necessità di essere da sé si addice a una sola natura.

41
Il passaggio a sei consente a Duns Scoto di concludere che la causa efficiente prima coincide con la causa
finale prima e con la natura eminente prima. Infine, mostra che la natura prima in sé è semplice; possiede ogni
perfezione presa in senso assoluto; è intelligente e volente; causa in maniera contingente ogni suo causato; è
infinita; è una sola anche numericamente àcioè è propria di un solo ente, Dio.

Duns Scoto è d'accordo con Tommaso nel sostenere che gli enti finiti non siano tutti composti di materia e
forma, cioè nel respingere l'ilemorfismo universale di Avicebron, E invece in disaccordo con la nozione di
materia prima, il numero delle forme sostanziali e il principio di individuazione delle sostanze materiali. Per
Duns Scoto la materia prima non è pura potenzialità ma possiede un'esistenza attuale; le forme sostanziali
inoltre possono essere più di una nella stessa sostanza e il principio di individuazione non è dato dalla materia
“segnata”, bensì da una differenza individuale.
L'originalità di Duns Scoto rispetto all’aristotelismo di Tommaso si nota anche negli ambiti della teoria
della conoscenza, della psicologia morale e dell'etica. In campo gnoseologico, egli ritiene che la conoscenza
intellettuale umana, in questa vita, non sia soltanto astrattiva ma anche intuitiva. La conoscenza intuitiva coglie
l'esistenza effettiva della cosa ed è possibile non solo ai sensi ma anche all'intelletto, mentre la conoscenza
astrattiva coglie l'essenza di una cosa prescindendo dalla sua attuale esistenza nella realtà. In campo
psicologico sostiene il primato della volontà sull'intelletto, essa rimane libera di fronte a qualunque bene
appetibile e conserva sempre il potere di volere altro. È presente, dunque, non solo un'inclinazione verso il
proprio benessere ma anche la capacità di decidersi verso ciò che è giusto fare.

5.3. MEISTER ECKHART FRA TRADIZIONE ALBERTINA E MISTICISMO

Contemporaneamente alla nascita e alla prima diffusione dello scotismo, si assiste nell'ambito dei
domenicani tedeschi alla formazione di correnti di pensiero che si propongono in alternativa rispetto
all’aristotelismo tomista, accentuando temi neoplatonismo e mistici. Le premesse di questo fenomeno sono
costituite dall'opera di due discepoli di Alberto Magno: Ugo Ripelin di Strasburgo e Ulrico di Strasburgo.
Quest’ultimo in particolare considera l'intelletto ciò che rende l'uomo simile a dio è capace di unirsi a dio
stesso mediante la contemplazione. La dottrina dell'intelletto è al centro del pensiero filosofico di Teodorico
di Freiberg, nel trattato L'origine delle realtà predicamentali sostiene che l'intelletto, nel processo conoscitivo,
non è passivo rispetto agli oggetti naturali ma attivo perché conferisce agli oggetti stessi la loro quiddità, ossia
la loro essenza. L'intelletto è anche la causa è il principio costitutivo di tutte le determinazioni categoriali
accidentali, tranne quantità e qualità. L'intelletto umano si costituisce in quanto pensiero della propria origine,
ossia Dio. Pensando a Dio, che è causa di tutto, l'intelletto pensa anche a se stesso e tutte le cose. L'intelletto
agente è un atto di pensiero autocosciente. Esso agisce sull'intelletto possibile come causa efficiente in quanto
produce le specie intelligibili che l'intelletto possibile riceve; invece nei beati l'intelletto agente e causa formale
dell'intelletto possibile ed è così che conoscono Dio.

Nel 1296 nominò come suo vice il confratello Eckhart, priore del convento di Erfurt. Nei suoi testi appaiono
temi come il rapporto tra l'essere divino, assoluto, indeterminabile e quello creaturale, determinato e definibile;
oppure l'umiltà come virtù che consente all'uomo di ricevere Dio. La vera obbedienza e quella in virtù della
quale l'uomo esce da ciò che gli è proprio, che lo identificano come un individuo empirico e lascia che Dio si
appropri di lui. L'uomo in realtà si riappropria del suo vero io che coincide con Dio stesso. Per questo obbedire
a Dio rende liberi, perché consiste nell'obbedire alla propria essenza più profonda.
Analogamente la vera povertà consiste nel distacco, non tanto dai beni materiali, quanto dalle proprie
determinazioni individuali per riscoprire il proprio autentico fondamento, che è di natura divina.
Opus tripartitum è un’opera tripartita (Opus generalium propositionum, Opus quaestionum, Opus
expositionum) a cui iniziò a lavorarci durante la cattedra a Parigi (da qui il titolo di Meister) senza purtroppo
riuscire a portarlo a termine.

42
Nel prologo generale dell'Opus, Eckhart premete tre avvertenze importanti:

1. I termini generali come “essere”, “unità”, “verità”, “sapienza”, “bontà” e simili non vanno concepiti
alla stregua degli accidenti. Essi sono posteriori al soggetto mentre i termini generali sono anteriori
a tutte le cose. L'essere stesso viene prima di tutto il resto, come afferma la proposizione quattro del
Liber de causis.
2. Le cose anteriori superiori non ricevono nulla da quelle posteriori e inferiori, al contrario influiscono
su di esse con le loro proprietà, tra le quali l'unità e la non-divisione.
3. La soluzione delle questioni e l'esposizione della Scrittura si fondano sulle preposizioni stabilite
nella prima parte dell'opera. Egli adduce ad esempio il legame che sussiste tra la prima posizione
(“L’essere è Dio”), la prima questione (“Se Dio sia”) il primo versetto biblico («In principio Dio
creò il cielo e la terra»). Che l'essere sia Dio risulta evidente dalle conseguenze assurde che derivano
dall'ipotesi contraria; dunque, Dio non sarebbe la Causa Prima e anzi sarebbe nulla.

Nella prima questione parigina si serve del concetto di analogia per giungere a una conclusione
apparentemente opposta: se l'essere appartiene formalmente solo agli enti creati, allora Dio non è un ente in
senso form ma solo analogicamente come causa degli enti. Dio non si può dire niente in tale accezione
delimitata, perché al contrario a lui compete la purezza dell'essere. Egli come causa dell'essere delle cose,
contiene in sé tale essere non “formalmente” ma “virtualmente”. Tale maniera coincide con l'atto del pensare,
nel senso che pensare ed essere in lui coincidono. La natura intellettuale di cui l'uomo è dotato lo rende simile
a Dio. Grazie all'intelletto, infatti, l'uomo è della stessa natura di Dio. L'intelletto umano non è propriamente
creato ma generato esattamente come il Verbo; perciò, si può dire che eternamente il Padre genera il Figlio
dentro di noi. Nell'anima umana vi è dunque qualcosa di increato, di divino, che ne costituisce il “fondo”
(grunt) e che rappresenta il vero io dell'uomo. Tutte le virtù subiscono di conseguenza una radicale
ridefinizione. Le virtù religiose, come l'umiltà, l'obbedienza e la povertà, vengono rifondate sulla base della
coscienza del “fondo” divino dell'anima e riorientata verso il lasciar essere Dio nella propria interiorità. L'uomo
giusto, pertanto, è tale in quanto Dio è in lui. Dunque, non agisce in vista di uno scopo ma per un'intima
adesione al bene.

5.4. IL DIBATTITO SUL POTERE ECCLESIASTICO

La Politica di Aristotele fu l'unico scritto aristotelico a godere di fortuna nel Medioevo, all'interno
dell'Occidente latino e pressoché ignoto nell’Oriente greco e nel mondo arabo. Il trattato fu tradotto in latino
da Guglielmo di Moerbeke nei primi anni ‘60 del XIII secolo. Poco dopo fu commentato da Tommaso e
Alberto Magno.
Le dottrine aristoteliche determinarono un profondo cambiamento nel pensiero politico, inducendo a
considerare la comunità politica come una realtà derivante dalla naturale socievolezza dell'essere umano è
funzionale alla sua tendenza verso una vita terrena felice. Viene messo in crisi il cosiddetto “agostinismo
politico” medievale secondo cui, a causa della corruzione prodotta dal peccato originale, l'uomo è incapace di
realizzare con le sue forze un'autentica giustizia e abbisogna della grazia mediata dalla Chiesa.
Il contesto storico in cui avvenne la ricezione della Politica aristotelica era caratterizzato dal declino
dell'impero a favore di regni, comuni e l'affermazione del primato assoluto dell'autorità papale su qualsiasi
altra autorità umana. Una parte consistente dell'attività politica del primo quarto del XIV secolo è coinvolta
nel dibattito tra i difensori della tesi ierocratica del papa e i suoi oppositori (Dante Alighieri e Marsilio da
Padova).

43
5.5. NOMINALISMO E REALISMO DA GUGLIELMO DI OCKHAM A GIOVANNI WYCLIF

Guglielmo di Ockham entrò in giovane età nell'Ordine francescano e compì i suoi studi nelle arti liberali e
in filosofia presso lo studio francescano di Londra dove iniziò anche gli studi teologici. La Summa logicae
raccoglie le dottrine logiche di Guglielmo. L'opera divisa in tre parti e dedicate rispettivamente ai termini, alle
proposizioni e ai sillogismi. L'originalità di Ockham si nota fin dal primo capitolo in cui egli suddivide i termini
in “scritti”, “proferiti” e “concepiti” e chiarisce il loro rapporto. Aristotele aveva affermato nel De
interpretatione che ciò che sta «nella voce» è «simbolo» delle «affezioni dell’anima», di cui le lettere e le voci
sono «segni», sia le «cose» di cui le affezioni psichiche sono «immagini somiglianti». Ockham leggeva
Aristotele nella traduzione e con il commento di Boezio. Egli spiega che il rapporto di significazione non
intercorre solo tra i termini scritti e quelli proferiti e tra i termini preferiti e quelli concepiti, ma anche
soprattutto fra tutti e tre i tipi di termini e le cose. I concetti significano le cose naturalmente, mentre i termini
orali o scritti le significano «mediante un'istituzione convenzionale»; tutti e tre i termini, tuttavia, hanno la
funzione di significare le cose.
I termini, sia concepiti sia profetici o scritti, vengono ulteriormente suddivisi in categorematici e
sincategorematici. I termini sincategorematici non significano cose diverse da quelli categorematici, ma
aggiungendosi ai termini ne precisano il significato. Ockham si concentra quindi sui nomi e li divide prima in
concreti astratti, poi in assoluti e connotativi. I nomi assoluti vengono definiti come «quelli che non significano
qualcosa principalmente e qualcos'altro o quella stessa cosa secondariamente». Un nome connotativo al
contrario è «quello che significa qualcosa in modo primario è qualcosa in modo secondario». Secondo Ockham
sono nomi connotativi tutti i nomi che esprimono relazioni, quantità e altre categorie diverse dalla sostanza e
dalla qualità e non è necessario ipotizzare realtà diverse da queste.
Quando un termine viene usato all'interno di una proposizione ha la proprietà di significare qualcosa per
“supposizione”. Un termine suppone per una cosa o in qualità di soggetto o in qualità di predicato. In qualità
di soggetto esso sta al posto della cosa a cui si attribuisce un predicato; in qualità di predicato esso sta al posto
della cosa rispetto alla quale il soggetto è tale. La suddivisione principale delle supposizioni proposta da
Ockham è quella in supposizione “personale”, “semplice” e “materiale”. Un termine usato in supposizione
personale quando suppone per la cosa significata, è usato invece in supposizione semplice quando suppone per
un concetto che non è il significato proprio del termine stesso e infine è usato in supposizione materiale quando
suppone per un termine proferito o scritto senza significarlo propriamente.
I concetti costituiscono un linguaggio mentale che è identico per tutti i parlanti. Sulla natura dei concetti
Ockham ha cambiato parere nel corso del tempo. Inizialmente pensava che fossero delle rappresentazioni
prodotte dalla mente, poi ha abbandonato questa teoria e ha identificato i concetti con atti di pensiero. In ogni
caso un concetto è definibile come «qualcosa nell'anima che è un segno significante in maniera naturale
qualcosa per cui può supporre o che può essere parte di una proposizione mentale».

44

Potrebbero piacerti anche