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Riassunto Completo Di Psicologia Generale Riassunto Professore Stefano Federici

Il documento discute l'origine e lo sviluppo della psicologia scientifica, distinguendo tra psicologia ingenua e scientifica. Viene evidenziato il ruolo di Wilhelm Wundt nella fondazione della psicologia come disciplina scientifica nel 1879 e le successive correnti come il funzionalismo e il comportamentismo. Infine, si accenna all'emergere delle scienze cognitive e all'importanza delle nuove tecnologie nel comprendere il funzionamento della mente.

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Riassunto Completo Di Psicologia Generale Riassunto Professore Stefano Federici

Il documento discute l'origine e lo sviluppo della psicologia scientifica, distinguendo tra psicologia ingenua e scientifica. Viene evidenziato il ruolo di Wilhelm Wundt nella fondazione della psicologia come disciplina scientifica nel 1879 e le successive correnti come il funzionalismo e il comportamentismo. Infine, si accenna all'emergere delle scienze cognitive e all'importanza delle nuove tecnologie nel comprendere il funzionamento della mente.

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Riassunto completo di Psicologia generale riassunto


professore Stefano Federici
Psicologia generale (Università degli Studi di Perugia)

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iassunto di Psicologia Generale di L. Anolli e P.Legrenzi.


Capitolo 1. origine e sviluppi della psicologia scientifica.

In questo capitolo si cerca di distinguere la differenza tra psicologia ingenua e psicologia


scientifica. La psicologia ingenua è quella forma di psicologia che utilizziamo tutti i giorni
per risolvere in maniera più o meno veloce ed efficace i problemi e le situazioni che ci
troviamo dinanzi. Da essa si fonda di conseguenza una psicologia scientifica, basata su di una
ricerca approfondita e sulla sperimentazione. Si ha quindi che entrambe le psicologie
affrontano le opportunità e i vincoli della vita cui andiamo incontro, ma le trattano in maniera
differente a seconda specialmente della nostra esperienza, sia filogenetica sia ontogenetica.

Paragrafo 1 – PSICOLOGIA INGENUA E PSICOLOGIA SCIENTIFICA

1.1: Presupposti evolutivi della psicologia: In questo paragrafo si cerca di comprendere la


nascita della psicologia nei nostri antenati. Si parte da una differenziazione rispetto alle
scimmie inizialmente solo di carattere fisiologico (cambiamento della struttura genitale
maschile con una derivata capacità di prolungare il rapporto sessuale, caratteristica essenziale
per la costruzione di una coppia). In seguito anche il gene inibitore del tumore celebrale
scompare, di conseguenza siamo soggetti a tale tumore ma il nostro cervello si è evoluto,
ingrossato, quadruplicato. Si inizia ad usare il simbolo, inteso come un’entità che ne
rappresenta altre a livello mentale. Questa capacità simbolica e l’inizio della linguistica (che
si innestano su capacità non verbali) consentono all’uomo di divenire una specie psicologica,
in grado di riflettere in termini mentali. Con l’avvento dell’agricoltura l’uomo si stanzia nei
luoghi, smette di essere nomade. Si creano di conseguenza le prime forme di civiltà. Si è
creata dunque una sorta di cassetta degli attrezzi mentali (pensiero, coscienza,
comunicazione, elevata socialità, valori ecc..) tuttora validi ed in uso.

È la configurazione base della psicologia e rappresenta la nascita della cultura.

1.2: Esperienza, psicologia del senso comune e scienze psicologiche:

Secondo gli empiristi inglesi la base della conoscenza è dunque l’esperienza e in questa sede
parleremo solo dell’esperienza intesa come la totalità delle singole esperienze, cioè quel
raggruppamento di conoscenze esplicite ed implicite, accumulate nel corso del tempo tramite
il coinvolgimento personale nelle azioni o l’imitazione dei comportamenti altrui. L’esperienza
è essenziale, utile per prendere decisioni o agire in maniera efficace in una data situazione.
Dall’esperienza nasce di conseguenza la psicologia del senso comune o psicologia ingenua,
che ci permette di utilizzare l’esperienza stessa per cercare di comprendere e interpretare i
comportamenti nostri e altrui in base al ragionamento pratico. Si evince però che la
psicologia ingenua è inattendibile dal punto di vista scientifico, poiché priva di metodo
sperimentale e/o spiegazioni plausibili e dimostrate. Dunque è la mancanza di controllo che
dimostra la differenza tra psicologia ingenua e scientifica. Sta di fatto comunque che la
psicologia scientifica, come ogni altra scienza, presenta un carattere di contingenza, cioè un
proseguo delle conoscenze della psicologia ingenua. Inoltre da considerare anche il carattere
di necessità della psicologia scientifica; i criteri scientifici da essa ammessi valgono per tutti
gli studiosi di tale materia: è necessario dare la possibilità a qualunque scienziato di
verificare i dati raccolti da altri scienziati, in modo che le teorie precedenti possano essere

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confutate o meno. Questa divulgazione scientifica è il vero distacco tra i due tipi di psicologie
qui affrontati.

1.3 Presupposti moderni per la comparsa della psicologia scientifica:

In questo breve paragrafo si descrive il percorso della psicologia, a partire dai primi
contributi filosofici, con Aristotele che descrisse alcuni processi cognitivi (percezione,
memoria), con Ippocrate e le sue definizioni di personalità, infine Erasistrato che per primo
comprese la differenza tra nervi sensoriali e nervi motori. Ma non si può parlare di psicologia
intesa come al giorno d’oggi sino al 1700 quando, per la prima volta, Christian Wolff distinse
la psicologia razionale da quella empirica. La prima di natura filosofica, basata su riflessioni
teoriche, la seconda naturalistica, fondata sul metodo dell’osservazione, la base per l’attuale
psicologia scientifica. Si passa poi dal razionalismo, inteso come quel primato della ragione
sul corpo, all’empirismo, che consente di studiare la mente come un insieme di facoltà. Col
tempo e con l’inizio dello studio diretto sull’apparato celebrale, iniziarono ad essere stilate le
prime teorie sul funzionamento della mente direttamente connesso con l’organo preposto; si
arrivò alla teoria dell’arco riflesso (connessione fra sensazioni e movimenti) e in seguito alla
frenologia, secondo cui le varie funzioni mentali dipendono da aree ben definite del cervello.
Ma taluni, come Kant, mossero critiche su questi metodi di ricerca, poiché la mente rimaneva
qualcosa non misurabile con la matematica, quindi non poteva rientrare nella categoria di
“studi scientifici”. Si iniziarono dunque a fare misurazioni temporali di tempi di reazione del
cervello sotto vari stimoli; nasce la cronometria mentale, che portò alla psicofisica odierna,
grazie al quale si studiano le corrispondenze tra stimoli fisici e risposte psichiche.

Paragrafo 2 – NASCITA DELLA PSICOLOGIA SCIENTIFICA

Si fa coincidere la data di esordio della psicologia scientifica con la fondazione del


laboratorio sperimentale a Lipsia da parte di Wilhelm Wundt nel 1879.

2.1: Wilhelm Wundt e lo strutturalismo.

Per Wundt oggetto della psicologia è l’esperienza immediata che differisce dall’esperienza
mediata dalle altre scienze naturali, che ricorrono a strumenti di mediazione per lo studio
della stessa. Per contro la psicologia non ha necessità di ricorrere a questi strumenti, poiché lo
studio può essere effettuato direttamente dal soggetto tramite l’introspezione, cioè quella
capacità di accertare l’avvenimento di una data esperienza, sia essa interna che esterna.
Questo metodo non è esente da difficoltà: a causa dello spostamento di attenzione
dall’avvenimento accaduto all’introspezione stessa è possibile che alcuni dati vengano
distorti o persi. Wundt dunque comprende che la chiave è la variazione tra un atto di
introspezione e un altro comparabile e non il contenuto stesso dell’introspezione. Grazie a
questo elaborò una teoria complessa in cui distinse: -la percezione: sensazioni immediate così
come si presentano in coscienza; - la appercezione: organizzazione delle sensazioni così
come si presentano in coscienza; la volontà di reazione: intervento della volontà per produrre
azioni congrue con gli stimoli. La scuola di Lipsia fallì miserabilmente; negli annali si verrà
chiamata Strutturalismo questo metodo di ricerca di Wundt, atto a rilevare le strutture della
mente umana.

2.2: Evoluzionismo e Funzionalismo.

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Secondo il Funzionalismo, che è un punto di vista, la psicologia è uno studio dell’attività


mentale tutta (percezione, memoria, apprendimento, emozioni, ecc…) come via per adattarsi
all’ambiente in modo adattivo. Quindi il funzionalismo si occupa di verificare come opera un
processo mentale e non che struttura presenta. Con esso si comprese che non è possibile
comprendere la struttura della coscienza con il solo atto dell’introspezione. Con
Evoluzionismo intendiamo il proseguo del lavoro di Darwin e il suo darwinismo. Secondo la
sua teoria dell’evoluzione vi è una discendenza comune di tutti gli organismi e una selezione
naturale secondo cui solo gli individui capaci a evolversi in determinati ambienti
sopravvivono. Con la Sintesi moderna o Neodarwinismo si arriva ad una concezione di
sopravvivenza (fitness) più elaborata. A parità di condizioni si riproduce di più (fitness
assoluta) e sopravvive più a lungo (fitness relativa) una popolazione con un grado di fitness
superiore alle altre (ma và!?). Con la sintesi moderna si arrivò in seguito a comprendere
anche il modello degli equilibri punteggiati, confutando la precedente teoria che
l’evoluzione avvenisse tramite lenti e graduali cambiamenti; per la nuova teoria invece
l’evoluzione avviene in balzi improvvisi derivanti da cambiamenti bruschi di condizioni
esterne varie. Questi salti evolutivi implicano l’exaptation: una struttura biologica destinata
ad una certa funzione inizia a svolgerne un’altra mantenendo la principale. Ad esempio le
pieghe laringee umane, che originariamente avevano la sola funzione di impedire al cibo
rigurgitato di entrare nei polmoni, si modificarono in corde vocali in grado di emettere suoni,
mantenendo la funzione originaria. Nei primi anni del Duemila venne proposta la Sintesi
estesa; questa introduce tra i vari concetti, tre idee madri. Il modello evo-devo (evolutionary
developmental biology) studia la relazione tra lo sviluppo embrionale e fetale di un
organismo (ontogenesi) e l’evoluzione della sua popolazione di appartenenza (filogenesi).
Con la costruzione di una nicchia si vuole dimostrare quanto la selezione naturale venga
influenzata a seconda dei cambiamenti del proprio habitat che un organismo compie
consciamente per aumentare le probabilità di sopravvivenza. Infine con l’evolvibilità si vuole
dimostrare non solo che siamo il frutto delle specie più adatte alla sopravvivenza, ma anche
quelle specie che si sono dimostrate più disponibili ad evolvere.

REAZIONI ALLO STRUTTURALISMO IN EUROPA E NEGLI USA

Franz Brentano costituisce in antitesi allo strutturalismo la psicologia dell’atto, constatando


che la mente è costituita da atti dotati di intenzionalità. Dicendo ad esempio “vedo un cerchio
rosso” non è importante il contenuto (cerchio) bensì l’atto di vedere. Da qui si arriva alla in-
esistenza intenzionale, cioè il fatto che il contenuto sia necessariamente posto in funzione
dell’atto. L’intenzionalità della mente è l’architrave della causalità degli atti mentali,
paragonabile alla forza per gli atti fisici. Le idee di Brentano trovano evoluzione nella scuola
di Graz dalla quale deriverà la scuola della Gestalt. La scuola della Gestalt si occupa
principalmente ai processi cognitivi, specialmente alla percezione e al pensiero. Uno dei
principi è “il tutto è più della somma delle singole parti”, poiché percepiamo molto di più di
quanto gli stimoli ci presentano. Da qui infatti gli studi psicologici sulla percezione delle
figure geometriche; prendendo ad esempio un quadrato, esso non è costituito dalla somma dei
singoli elementi che lo compongono, bensì dall’insieme dei rapporti fra loro esistenti. Esso è
percepito quadrato sia coi lati interi, sia anche solo con gli angoli, sia in condizioni
estremamente minimali: quattro puntini disposti in modo regolare. In fondo, essi non sono un
quadrato, ma noi lo percepiamo come tale. Ciò che contraddistinse la Gestalt fu l’utilizzo del
metodo fenomenologico, che consiste nel definire il campo percettivo in cui il soggetto si
trova e nel rilevare ciò che in esso gli appare (fenomeno). Per “campo percettivo” si intende
l’insieme dei suoi percetti, ciò che vede, non ciò che sa o pensa di sapere. Quindi è necessario

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evitare l’errore dello stimolo: descrivere ciò che vediamo (percetto) e non ciò che sappiamo
(concetto).

3.3

Negli Stati Uniti la reazione allo strutturalismo fu altrettanto forte che in Europa. John
Watson sostenne che la psicologia doveva essere una scienza rigorosa e oggettiva al pari delle
altre scienze naturali. Oggetto di studio della psicologia sono le manifestazioni del
comportamento, studiate con metodi obbiettivi, in quanto osservabili dall’esterno o in modo
diretto o con l’utilizzo di appositi strumenti. Nasce così il Comportamentismo, inteso come
l’insieme delle risposte muscolari o ghiandolari dell’organismo in risposta ad un dato
stimolo. Lo stimolo è un dato fisico mentre la risposta è un dato fisiologico. Lo psicologo
comportamentista dunque studia le associazioni stimolo-risposta (S-R), non entrambi gli
elementi in maniera separata e si concentra in particolare le variazioni di stimoli tra variabile
indipendente e la variabile dipendente. Da ciò Watson attribuì importanza
all’apprendimento, atto a istituire nuove associazioni S-R in funzione dell’adattamento
all’ambiente. Il Neocomportamentismo si distinse dal comportamentismo poiché prese in
considerazione anche le variabili intermedie, cioè le pulsioni, le intenzioni e/o le motivazioni
che un dato individuo ha mentre compie una data azione. Si evince che questo tipo di
variabile è incalcolabile. La mappa cognitiva, frapposta tra la variabile indipendente S e
quella dipendente R, è una rappresentazione mentale schematica di un luogo, una situazione,
un movimento, un percorso, ecc. (utilizzata anche dai ratti per apprendere la strada in un
labirinto), è per Tolman una variabile interveniente.

Paragrafo 4 – COGNITIVISMO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

Verso gli anni settanta sono sorte negli Stati Uniti nel 1978 le scienze cognitive, sviluppate
grazie alla comparsa di nuove tecnologie digitali e delle nuove metodiche di neuroimmagine
cui scopo è quello di studiare il funzionamento di un sistema (sia esso naturale che artificiale)
di conoscenza della mente in grado di riprodurre una serie di operazioni che indichiamo come
percepire, ragionare, calcolare, memorizzare, immaginare o progettare. Sono operazioni che
consentono all’individuo di conoscere il mondo in cui vive e di farne una “mappa” cognitiva
(diversa dal significato inteso da Tolman). Oggetto di studio del cognitivismo sono i processi
di conoscenza: come gli individui elaborano le informazioni e costruiscono rappresentazioni
mentali utili per interagire con l’ambiente.
Con l’intelligenza artificiale si cerca di ricreare i processi mentali seguendo determinate
coordinate: i calcoli, i confronti, le graduatorie, le combinazioni logiche, le manipolazioni dei
simboli, le operazioni di misura, l’adeguamento a regole prefissate ecc. L’elaborazione
digitale delle informazioni è il processo necessario per digitalizzare questi dati elementi, ma
ciò avviene in maniera esclusivamente binaria: il processo ha esclusivamente valore di 0
(inesistente) o di 1 (esistente). Grazie al codice binario si arriva alla teoria della
computabilità, cioè un insieme finito di elementi semplici può essere impiegato per costruire
una varietà illimitata di processi complessi livello mentale o digitale. Con essi si poté
simulare l’intelligenza umana con macchinari elaboratissimi, tanto che riguardo a determinati
comportamenti e risoluzioni di compiti le macchine e le persone possono essere
indistinguibili da un esterno (test di Turing). Per contro l’IA non è assoluta, poiché si basa

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esclusivamente sulla logica binaria (valida per la sintassi formale), ma è priva della logica
sfocata, esclusiva della mente umana, e riguarda tutti quei processi sfumati e imprecisi,
continuamente variabili della stessa. Questo accade perché non solo la mente umana
manipola sintatticamente i simboli, ma li interpreta e vi attribuisce un significato che la
sintassi, da sola, non è in grado di spiegare.

Paragrafo 5 – MODULARISMO, PSICOLOGIA EVOLUZIONISTICA E


CONNESSIONISMO

Jerry Fodor propose una concezione forte della mente computazionale, governata dal
linguaggio della mente (mentalese). Per egli, è la combinazione di concetti semplici ed
innati, intesi come entità univoche e chiuse, discrete e fisse, in grado di esprimere verità
necessarie, elaborate secondo regole logiche, attente solo alla forma (sintassi) e non ai
contenuti (semantica). Secondo il modularismo la mente è organizzata in modulo o
“cassetti”, ciascuno dei quali con una struttura specializzata che lo rende un sistema esperto
in ambito scientifico nell’interazione con l’ambiente. Non possiamo scegliere di organizzare
la nostra percezione visiva come desideriamo. I moduli attribuiscono una specifica struttuta
alla mente, che può funzionare solo secondo processi predefiniti. Secondo la psicologia
evoluzionistica questi moduli sarebbero il risultato delle selezioni naturali avvenute per la
razza umana in decine e decine di migliaia di anni. Si confà che questi moduli sarebbero
universali e costruiti in base ai cosiddetti “algoritmi darwiniani”. La prospettiva modulare
però, non avendo prove empiriche certe né tanto meno verificata sul piano neuropsicologico,
è in sostanza infondato. Verso la metà degli anni ottanta nasce una nuova corrente, il
connessionismo, che pone in relazione strettissima la struttura biologica del cervello con la
struttura della mente cognitiva attraverso reti neurali artificiali. Queste reti neurali sono
simulazioni che riproducono le proprietà e i processi di funzionamento del sistema nervoso.
Secondo il connessionismo, l’elaborazione delle informazioni avviene all’interno di ogni rete,
composta da un numero elevato di unità che procedono in modo parallelo, in grado di
influenzarsi l’un l’altra mediante connessioni eccitatorie e inibitorie.

Paragrafo 6 – MENTE SITUATA E RADICATA NEL CORPO

L’errore dell’essenzialismo: la mente non può essere un’entità separata dai vincoli biologici
ed ecologici. L’errore sta nel considerare gli stati mentali come entità fisse, regolari,
corrispondenti a fenomeni circoscritti e isolati. È una sorta di “cecità platonica”,
un’incapacità di vedere l’importanza decisiva del contesto. Mente situata e radicata nel
corpo: ad oggi nella psicologia si dà molta importanza alla situazionalità della mente,
costantemente immersa in un contesto immediato, inteso come l’insieme delle informazioni
disponibili nella situazione contingente, compresi i particolari secondari. In quanto tale, è
fondata sull’esperienza, intesa come motore di ogni attività mentale. La mente è inoltre
radicata nel corpo, fondata sull’elaborazione dei dati da parte delle singole modalità
sensoriali e di controllo motorio. In particolare sono oggetto di studio i neuroni specchio, che
ci pongono in condizione di capire e imitare gli altri. Nel futuro la psicologia è diretta, in
ambito sperimentale, verso frontiere che legano sempre più assiduamente la mente con il
corpo, poiché ogni teoria psicologica priva di evidenze cerebrali in supporto appare debole e
inconsistente.

 Capitolo 2

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Metodi della ricerca in psicologia

Paragrafo 1 – OGGETTO E METODO DELLA PSICOLOGIA SCIENTIFICA

Come detto nel capitolo 1, esistono differenze tra psicologia ingenua e scientifica; di
conseguenze esistono anche nella teoria ingenua e teoria scientifica. La differenza
fondamentale risiede nei metodi di controllo delle spiegazioni nella capacità di impiegare
criteri espliciti per acquisire conoscenze e fare previsioni. Viene adottato il metodo
sperimentale, che è considerato l’unione delle sensate esperienze con le necessarie
dimostrazioni supportate dal contributo della matematica. Si ottiene dunque con questo
metodo un oggetto (ciò che osservo) e metodo (punto di vista con cui osservo); questi due
fattori sorgono congiuntamente, poiché per natura inseparabili. Il ricercatore deve predisporre
un disegno di ricerca: è la mappa delle sue attività, ne orienta le scelte e le decisioni e
consente di apportare eventuali modifiche e correzioni. Prima però è necessario trovare la
meraviglia, quel qualcosa che desta in noi attenzione, stupore e curiosità, da cui derivano
anche le volontà di trovare nuove soluzioni a teorie già avanzate e proposte. È necessario
dunque porsi la domanda di ricerca: cosa voglio studiare? Perché? Queste domande servono
per creare un percorso di senso della ricerca e delineare i confini del campo di ricerca.
Questi confini non devono essere troppo estesi (causa dispersione), troppo limitati (causa
ripetizione) né troppo complessi (fallimento calcolo variabili). Ovvio che la domanda deve
avere carattere di originalità; per evitare questo è necessario che il ricercatore sia
perfettamente a conoscenza della letteratura di riferimento e i risultati dei precedenti
scienziati, poiché è da essi e dal loro lavoro che si può partire con nuove teorie (contingenza
della ricerca). Da definire inoltre è lo scopo della ricerca, ciò che si vuole ottenere e
dimostrare con essa. In un momento successivo la domanda di ricerca diviene l’ipotesi di
ricerca, cioè enunciati provvisori che, sia pure in forma probabilistica, stabiliscono una
relazione esplicita e accurata fra più fatti osservati. L’ipotesi è costruibile con il metodo “se…
allora”; è essenziale stabilire la natura del legame fra antecedente e conseguente. Tale
legame può essere in relazione al Causa-effetto (causalità) oppure in associazione tra due o
più eventi (correlazione). Le operazioni per verificare le ipotesi devono essere rispettose dei
criteri di protocollarità ammessi dalla data scienza (es: per valutare la temperatura di una
stanza, per il fisico sarà un criterio corretto dire “ci sono 37°”, per uno psicologo invece dire
“fa molto caldo”). Infine per verificare la validità delle ipotesi si procede con la verifica
sperimentale, metodo non sempre totalmente attendibile in senso positivo e diretto, questo
perché ci sono da considerare ed ammettere eventuali errori umani sia a livello di ipotesi sia a
livello di verifica. Non essendo al 100% attendibile, si ricorre per verificare una data ipotesi
al metodo dell’ipotesi nulla: se l’ipotesi diametralmente opposta a quella effettuata dallo
scienziato è dimostrabilmente falsa, allora si può avere ragione di credere che l’ipotesi
originale sia attendibile. La totalità dei risultati atti alla dimostrazione dell’inattendibilità
dell’ipotesi nulla viene chiamata regione critica. Precisate le ipotesi si passa al metodo
scientifico vero e proprio. È necessario assicurarsi la partecipazione dei soggetti che
corrispondano alle variabili decise dallo scienziato (età, sesso, ecc..). L’insieme di questi
soggetti costituisce il gruppo target. I gruppi sono portati a compiere i propri compiti
sperimentali nell’ambiente preposto, che può essere in condizioni artificiali (laboratorio) o in
condizioni naturali. Ne consegue che in laboratorio abbiamo esperimenti guidati mentre
nell’ambiente esperimenti naturali. I partecipanti verranno sottoposti, attraverso strumenti
atti ad una precisa misurazione, agli stimoli sperimentali loro presentati e gli sperimentatori
ne constateranno l’accuratezza attraverso l’osservazione. La combinazione di alternanza di
stimoli, interferenze, condizioni di facilitazione o inibizione, compiti di distrazione ecc..
compongono la situazione sperimentale. Infine il ricercatore si serve del controllo di

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manipolazione, che consiste nel verificare la coerenza e la congruenza fra gli obbiettivi
dell’esperimento, le istruzioni fornite e il comportamento dei soggetti sperimentati.

I dati raccolti vengono poi elaborati da statistica descrittiva e/o inferenziale e


preferibilmente pubblicati per meglio procedere con confronti insieme ad altri esperti.

Paragrafo 2 – RICERCA PSICOLOGICA IN PRATICA

Il motivo per cui spesso ci poniamo la fatidica domanda “perché?”, riguardo agli avvenimenti
che ci accadono, risiede nel principio di causalità. Vi sono due tipi di causalita:

1)Causalità fisica; 2) Causalità psicologica. Se per la prima il fondamento è la forza, per la


seconda è l’intenzione. Se la contiguità temporale è necessaria per entrambe, non lo è la
contiguità spaziale, che per l’intenzione essa può essere espressa a distanza.

In disposizione di ciò, l’essere umano diviene naturalmente un sistema teleonomico, in


quanto tali avvertono l’esigenza di raggiungere uno scopo e di mettere in atto la ricerca e a
mettere in funzione azioni indispensabili per raggiungere lo scopo (l’atteggiamento
teleologico è più presente nei bambini, secondo cui tutto esiste per raggiungere uno scopo).
Per far sì che un esperimento sia definito tale, il metodo sperimentale deve necessariamente
avere due aspetti:

1. essere basato sull’assegnazione casuale alla condizione;


2. manipolazione e controllo delle variabili. Il compito dello scienziato è quello di
determinare il rapporto tra tutte le variabili (ovvero entità che variano o in qualità o
in quantità).
Il compito fondamentale di un ricercatore è determinare il rapporto che esiste fra le variabili
che osserva. Occorre distinguere per questo:
1. Variabili indipendenti: variabili determinate e controllate dallo scienziato;
2. Variabili dipendenti: variabili che variano in funzione e a seconda di quelle
indipendenti.
3. Variabili estranee: si distinguono in sistematiche o confondenti e asistematiche. Le
prime influiscono costantemente sulle dipendenti (come ad esempio il tempo, da cui
derivano naturalmente maturazione e apprendimento). Quelle asistematiche invece
sono pressoché infinite e variano da situazione a situazione: dalle condizioni mentali
dei soggetti e dei ricercatori (stanchezza, distrazione, ansia ecc..) alle condizioni
atmosferiche.
Per rendere univoche tutte queste variabili è necessario fornire una definizione operativa
(esempio: in riferimento all’età, non dirò bambino o anziano, bensì bambini dai 36 ai 48
mesi o soggetti tra i 35 e i 44 anni). Le variabili, in quanto tali, presentano valori in termini
qualitativi e quantitativi, quindi è necessario procedere con le misurazioni, che ve ne sono di
quattro tipi differenti:

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1. Livello nominale: in questo caso i numeri hanno valore di semplici etichette, e


fungono a dimostrare semplicemente una differenza; es: femmina = 1 come maschio =
2.
2. livello ordinale: la misurazione si concentra sulla relazione asimmetrica di ordine
crescente o decrescente dei numeri reali. Si misurano quindi in questo caso i differenti
gradi di intensità dei fenomeni; es: attenzione massima = 10 come attenzione minima
= 1.
3. Livello di intervallo: si basa sulla grandezza di un dato intervallo. Prendendo ad
esempio il numero 4, esso è medesimo tra 11 e 15 e tra 20 a 24; ciò nonostante avendo
uno zero arbitrario, non si possono fare rapporti.
4. -Livello di rapporto: in questo caso invece ritenendo lo zero non arbitrario ma reale,
possiamo eseguire rapporti: sappiamo che 10 è la metà di 20 e 20 è la metà di 40
ecc…

I disegni di ricerca: individuate le variabili, il ricercatore ha il compito di confrontarle, al fine


di verificare l’esistenza (o meno) di legami significativi fra loro. È un’operazione di
importazione generale degli esperimenti che conduce al “disegno di ricerca”. Di norma, negli
esperimenti sono previste differenti condizioni sperimentali (trattamenti). mediante il quale è
in grado di raggiungere un’interpretazione di ciò che ha osservato e porre inoltre opportune
previsioni. Normalmente in ogni esperimento i gruppi sono posti a determinate situazioni o
trattamenti. In un esperimento tra i soggetti ogni trattamento corrisponde ad un gruppo; in
un esperimento entro i soggetti lo stesso soggetto è sottoposto alle diverse condizioni. Nel
disegno entro i soggetti, si ha il pericolo che, essendo tutti i soggetti sottoposti a tutte le
condizioni, che essi vengano influenzati dall’ordine delle condizioni. Per esempio,
solitamente, i soggetti hanno prestazioni migliori all’inizio dell’esperimento che non alla fine,
quindi a seconda dell’ordine delle condizioni il risultato riguardo le stesse cambierà. Inoltre
vi sono anche gli effetti della sequenza (effetto àncora o contrasto), che dipendono dalle
interazioni tra le condizioni. Prendiamo una pallina da 100 g: il soggetto la sentirebbe più
pesante se prima avesse impugnato una pallina da 30g e più leggera se prima avesse
impugnato una pallina da 200g. Nel disegno tra i soggetti, per assicurarsi solidità, è
necessario operare l’assegnazione casuale alla condizione, in modo che i gruppi siano
equivalenti e più o meno equilibrati. Nel disegno semplice abbiamo due gruppi: quello
sperimentale e quello di controllo. Il primo gruppo è quello che viene sottoposto realmente
al trattamento mentre il secondo viene sottoposto ad un trattamento fasullo. Se affiorano
differenze significative tra i due risultati, si potrà affermare che il trattamento sperimentale
può funzionare. In questo caso però si può incappare nell’effetto placebo, che si verifica
quando i partecipanti modificano le loro risposte in assenza di manipolazione sperimentale,
indotti a credere che siano comunque influenzati da una determinata condizione. Per evitare
questo effetto, si usa la tecnica del doppio cieco: né i soggetti né chi somministra la
condizione è a conoscenza del vero scopo delle stesse e quali delle due è la condizione
sperimentale e quella di controllo. Solo lo sperimentatore ne è a conoscenza. Nei disegni tra i
soggetti rientrano anche i disegni fattoriali, nei quali il ricercatore intende valutare nello
stesso esperimento l’effetto di due o più variabili. Durante gli esperimenti molti sono i fattori,
più o meno calcolabili, che possono portare ad una distorsione, come le variabili, l’effetto
placebo ecc… tra questi un fattore importante è l’aspettativa, sia dello sperimentatore che
dei soggetti, a influire molto sull’esito dell’esperimento. L’aspettativa provata da parte del
ricercatore verso i soggetti può divenire l’effetto Rosenthal (profezia che si auto-avvera), si
ha quando un individuo, convinto o timoroso dell’accadersi di un evento, altera il suo
comportamento in modo tale da finire per causarlo, specialmente se i soggetti sono animali.

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Di seguito alcune delle tecniche utilizzate per la sperimentazione in ambito delle scienze e
tecniche psicologiche: Tecnica self-report: utile in fase esplorativa, consiste nell’allargare un
determinato campo di indagine mediante questionari, interviste o colloqui clinici. Il
questionario è standardizzato, indicato per un ampio spettro di soggetti.

Può essere di tre tipi:

- Chiuso: quando si deve scegliere una risposta, tra quelle indicate, che più si avvicina al
proprio punto di vista;

- Aperto: domande totalmente aperte;

- Scalato: la risposta è su una scala graduatoria; es:

1= totalmente in disaccordo e 5= totalmente d’accordo.

L’intervista avviene tra soggetto e sperimentatore; quest’ultimo pone le domande scelte come
meglio crede. Il colloquio clinico è simile all’intervista, ma lo sperimentatore inoltre chiede
al soggetto di compiere un determinato compito e, durante lo svolgimento, chiede di
descrivere i processi mentali che il soggetto ritiene di avere in quel momento. Come detto il
metodo self-report è utile in fase esplorativa ma presenta diversi limiti: i soggetti possono
fraintendere le domande, essere influenzati dalla desiderabilità e aspettativa della società,
rispondere a caso o in maniera incoerente, ingannevole ecc…! Procedure di osservazione:
consiste nel metodo dell’osservazione del comportamento. È necessario stabilire l’importanza
dei parametri della griglia di osservazione (tempo, movimenti, azioni ecc…) e, essendo
questo un metodo a “zoom”, stabilire se l’osservazione tende al microscopico o al
macroscopico.

L’osservazione in laboratorio ha luogo in un ambiente protetto e controllato sia nei


parametri fisici (luce, suoni e rumori ecc.) sia nei comportamenti che lo sperimentatore
intende osservare. Ha il vantaggio dell’attendibilità e lo svantaggio della poca validità
ecologica. Da esso però derivano, grazie a sofisticate tecniche di videoregistrazione digitale,
preziose osservazioni microanalitiche, grazie al quale è possibile constatare l’esistenza di
microindizi altrimenti invisibili all’occhio umano, come le microespressioni.

L’osservazione naturalistica si svolge in ambienti naturali (casa, piazza, negozio, foresta


ecc.) e segue un piano a grana grossa, in diversi casi è episodica e ha specifiche tipologie di
soggetti (bambini, disturbati, animali ecc). Questo tipo di osservazione è specifica per lo
studio del comportamento dei gruppi.

Il Tempo è un fattore importante per le rilevazioni di modelli di comportamento. Grazie ad


esso non solo si costituisce una dimensione lineare per esaminare la successione degli eventi,
ma anche di rilevare la loro durata, la loro ripetizione nel flusso dell’interazione, così come il
ritmo con cui essi si svolgono e si organizzano. Mediante il ricorso dello studio approfondito
delle influenze temporali e l’utilizzo di sofisticati algoritmi, si sono scoperti i modelli
nascosti di comportamento, invisibili ad occhio nudo, grazie i quali è possibile constatare
che ogni individuo ripete determinate azioni regolarmente. Queste possono essere azioni

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constatabili facilmente (come il muoversi degli zingari) oppure con strumenti appositi (il
comportamento del DNA o dei collegamenti delle reti nervose).

Esistono poi tecniche neuropsicologiche grazie le quali si possono studiare i flussi ematici
cerebrali regionali e l’attività a zona del cervello. Una volta completato l’esperimento, è
necessario constatare l’attendibilità delle misure. In primo luogo, è necessario usare la
tecnica test-retest: si ripete la rilevazione sugli stessi soggetti in diversi archi temporali. In
seguito è necessario constatare la validità delle misure, esaminando i contenuti impiegati e il
grado di connessione con altre prove che misurano contenuti simili. Le misure ottenute
necessitano poi di una elaborazione finale, che può avvenire tramite statistica descrittiva o
statistica inferenziale. La statistica descrittiva fornisce un quadro sintetico dell’insieme dei
dati grezzi ottenuti con le misure sia della tendenza centrale sia della variabilità. Le prime
sono il centro principale dei dati mentre le seconde sintetizzano la dispersione degli stessi.
Con questo tipo di statistica è utile constatare la correlazione tra due variabili, che può essere
positiva (più si è in grado di risolvere problemi più è alto il QI) e negativa (più l’offesa di un
amico è grave più scende il livello di autostima). Il coefficiente di correlazione misura
questa correlazione e va da un massimo di +1 (max positivo) a -1 (max negativo). Il valore 0
indica che le due variabili non sono connesse fra loro. La statistica inferenziale permette di
fare ipotesi utilizzando i dati ottenuti. Ad esempio, con le variabili ottenute e il calcolo delle
probabilità, si può inferire se un tipo di comportamento di discosta più o meno a quello
standard. Poiché non siamo però in grado al 100% di dimostrare l’ipotesi di ricerca, siamo
autorizzati ad accettarla solo se dimostriamo che l’ipotesi nulla (cioè quella contraria) è falsa.
L’insieme dei risultati che ci consente di rigettare l’ipotesi nulla è detta regione critica, che
però è soggetta anch’essa dalle leggi di probabilità. Se siamo troppo prudenti nell’accettare
un’ipotesi potremmo incorrere nell’errore beta o falso negativo, cioè di non accettare ciò
che in realtà esiste; per contro, se siamo propensi all’azzardo potremmo incorrere nell’errore
alfa o falso positivo, quindi accettare qualcosa che non esiste. In ricerca psicologica si ritiene
accettabile una differenza quando la probabilità che essa sia dovuta al caso sia al di sotto del
5% o al 1%. Questa differenza viene detta differenza significativa.

Capitolo 3

Sensazione e percezione.

Paragrafo 1 – SENSAZIONE

L'ambiente fisico in cui viviamo produce una varietà e una moltitudine pressoché infinita di
stimoli che giungono ai nostri organi di senso.

La sensazione può essere definita come l’impressione soggettiva, immediata e semplice che
corrisponde a una data intensità dello stimolo fisico. Le sensazioni sono eventi privati e
soggettivi, dei quali solo ciascuno di noi ha un’esperienza diretta. Pur essendo soggette a
variazioni, le sensazioni possono essere comunicate agli altri e sono da loro agevolmente
comprese. Avviene così un confronto fra le sensazioni proprie e quelle altrui. Questa
situazione di comunicabilità, comprensibilità e confrontabilità fra le sensazioni di diversi
soggetti è dovuta a una relazione sistematica fra stimolo fisico e sensazione medesima. Sono
le relazioni psicofisiche, per cui a date configurazioni di stimoli fisici corrispondono
determinate sensazioni sul piano psicologico. L’uomo però incorre in due limiti intrinsechi
alla sensibilità umana:

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1. Cogliamo solo una parte degli stimoli fisici presenti in natura;

2. Cogliamo gli stimoli solo quando essi hanno una certa intensità.

Siamo capaci di cogliere gli stimoli solo quando questi hanno una certa intensità. Qualsiasi
stimolo fisico deve raggiungere un livello minimo per suscitare una sensazione. Questo
livello, chiamato soglia assoluta segna il confine fra gli stimoli che vengono recepiti
dall’organismo e gli stimoli che non sono avvertiti dall’individuo. La soglia assoluta è il
valore di uno stimolo che nel 50% dei casi ha la probabilità di suscitare la sensazione
corrispondente.

Gli stimoli presenti che percepiamo vengono detti sovraliminari mentre quelli presenti ma
non percepiti vengono detti infraliminari. La soglia assoluta è iniziale (limite inferiore;
stimolo non percepito perché poco intenso) e terminale (limite superiore; stimolo non
percepito perché troppo intenso e alle volte doloroso). Anche la differenza tra due stimoli
entrambi percepiti, per essere colta, deve essere di una certa intensità; parliamo dunque del
superamento della soglia differenziale, che deve essere rilevata da almeno il 50% dei casi. Vi
sono tre differenti metodi psicofisici per la misurazione della soglia assoluta:

1. Metodo dei limiti: si parte da uno stimolo infraliminare e lo si produce via via in maniera
ascendente finché non viene percepito; viceversa si può partire da uno stimolo sovraliminare
e produrlo in maniera discendente. Uno degli errori più comuni del metodo dei limiti è
l’errore della direzione di serie: i valori di soglia differiscono a seconda che sia usato un
metodo ascendente o discendente per il fenomeno di inerzia e abitudine psicologica.

2. Metodo dell’aggiustamento: il soggetto “aggiusta” manualmente gli stimoli finché non li


percepisce.

3. Metodo degli stimoli costanti: il soggetto è esposto continuamente a diversi stimoli, sia
infra che sovraliminari, e viene invitato a dire ogni volta che riceve uno stimolo a riferire se
ha avvertito o meno una sensazione.

Per la misurazione della soglia differenziale i metodi sono analoghi, solo di solito si usano
uno stimolo standard, che viene tenuto costante, e uno stimolo di confronto, che appunto è
utilizzato come confronto e viene cambiato di volta in volta. Colla misurazione della soglia
differenziale si possono incorrere in due errori: l’errore del campione (lo stimolo standard
viene sovrastimato a quello di confronto) e l’errore di posizione (se gli stimoli sono posti in
una data posizione nello spazio, si può verificare una sovrastima dello stimolo posto in data
posizione rispetto all’altro).

La psicofisica, ci mostra non solo il funzionamento di determinate caratteristiche sensoriali


dell’uomo, ma anche alcune caratteristiche delle stesse. Ad esempio con la legge di Weber si
è scoperto che in ambito tattile, percepiamo la differenza di peso in maniera proporzionale: se
ad esempio poggiamo una biglia da 50g, riusciamo a discriminare (quindi renderci conto
della differenza di peso) quando poggiamo una biglia di 49 o 51 g; proporzionalmente se
poggiamo una da 100g discriminiamo quella che pesa 102 o 98g, con una da 200g
discriminiamo una da 204 o 96g e via dicendo.

Stanley Stevens poi fondò la psicofisica soggettiva, grazie la quale poté definire il grado di
giudizio personale dell’individuo, cosa che la psicofisica originaria non si prefissò di fare.

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L’essere umano però non solo si limita a percepire determinati stimoli, ma anche decidere se
tale stimolo è realmente esistito o meno.

Secondo la teoria della decisione statistica abbiamo quattro possibilità di scelta:

1. Vero positivo: affermare la presenza di uno stimolo effettivamente esistito;

2. Falso positivo: affermare la presenza di uno stimolo non esistito;

3. Falso negativo: affermare la non presenza di uno effettivamente esistito;

4. Vero Negativo: affermare la non presenza di uno stimolo non esistito.

Con la teoria della detenzione del segnale si sono posti in evidenza due fattori utili allo
studio di queste quattro matrici:

A. La sensibilità dell’organismo nella finezza discriminativa, che è soggettiva;

B. Il criterio soggettivo di decisione, legato ai fattori mentali del soggetto.

Paragrafo 2 – PERCEZIONE.

Attraverso quello che definiamo realismo ingenuo, si crede che ciò che noi percepiamo sia
esattamente ciò che esiste nella realtà che ci circonda; è vero invece il contrario, cioè che noi
conosciamo è la realtà fenomenica, ovvero quella che appare a noi. Le sensazioni non
contengono le informazioni sufficienti per spiegare le nostre percezioni, vanno integrate in
modo coerente nei percetti attraverso articolari processi di associazione ed elaborazione.

Il passaggio dalle sensazioni ai percetti (ciò che percepiamo) è il risultato di una sequenza di
mediazioni fisiche, fisiologiche e psicologiche, nota come catena psicofisica. Gli oggetti del
mondo circostante producono in continuazione una molteplicità indefinita di radiazioni
(luminose, sonore o di altra natura) di varia intensità e frequenza. Queste radiazioni, che
costituiscono le stimolazioni distali, vanno a suscitare negli apparati recettivi precise
sollecitazioni, definite stimolazioni prossimali.

L’elaborazione di questi dati, per via appunto psico-fisico-fisiologica costituisce una serie di
mappe topografiche, cioè quella disposizione neuronale nel cervello. In sostanza dunque,
essendo la percezione intesa come attività fenomenica, può essere intesa come
l’organizzazione immediata, dinamica e significativa delle informazioni sensoriali.

Queste impressioni costituiscono il campo fenomenico.

I flussi di processi che portano alla percezione sono due e vengono detti dall’alto verso il
basso e dal basso verso l’alto.

1. I processi dal basso verso l’alto sono niente meno che le informazioni sensoriali che
recepiamo, necessarie per lo sviluppo di una percezione ma non esaustive, poiché per
loro natura sono disperse e caotiche.
2. I processi dall’alto verso il basso sviluppano le informazioni sensoriali tramite le
conoscenze della memoria, le credenze, le aspettative e gli scopi della nostra condotta.

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La distinzione fra i due processi si fonda su robuste evidenze empiriche: consideriamo la


ricerca visiva di uno stimolo in mezzo a numerosi altri. In alcuni casi è immediata, quando
prevalgono i processi dal basso verso l’alto; in altri casi si richiede una precisa strategia
cognitiva che implica i processi dal basso verso l’alto per individuare il bersaglio, facendo
entrare in gioco le conoscenze disponibili nei registri di memoria, credenze, aspettative.

Si evince che la conoscenza influenzi i processi di percezione.

Una prova empirica di questi processi è l’attività di riconoscimento degli oggetti, poiché
grazie alla memoria possiamo:

A. Confrontare le singole parti di un oggetto con quello standard (prototipo immagazzinato a


memoria), considerando l’oggetto nella sua totalità;

B. Individuare esclusivamente le caratteristiche salienti e discriminanti di un oggetto,


assegnando una funzione selettiva in base alla nostra conoscenza (se ad esempio percepisco
un oggetto provvisto di lama, a prescindere dalla forma, saprò che la sua funzione è quella di
tagliare).

Molte furono le teorie riguardo alla percezione; elencherò quelle più significative.

Teoria empiristica: secondo Helmholtz (1876) i dati sensoriali costituiscono un mosaico di


sensazioni elementari che vengono integrate e sintetizzate grazie ai processi di associazione e
dell’esperienza. Nell’adulto il procedimento è pressoché automatico, poiché agisce sotto
forma di inferenza inconscia.

Scuola della Gestalt: si oppose al principio empiristico constatando che l’esperienza ha un


valore secondario. Secondo i gestaltisti la percezione non è preceduta da sensazioni, ma è un
processo primario e immediato. Sostenevano, in sintesi, la supremazia dell’organizzazione
globale sule parti. Il tutto precede le parti che assumono valori diversi in funzione del tutto di
cui sono parti. Il campo percettivo di organizza attraverso la distribuzione dinamica delle
forze generate dai vari aspetti dell’oggetto. Di seguito, queste forze vengono unificate tramite
i principi di unificazione, costituendo una totalità coerente e strutturata.

Movimento del New Look: è una prospettiva funzionalista, poiché pone in evidenza le
funzioni della percezione. Secondo questo movimento la percezione dipende anche da fattori
mentali come bisogni, aspettative, emozioni ecc. Quando il soggetto percepisce uno stimolo
dunque compie un’operazione di categorizzazione: a partire da certi indizi provvede
all’identificazione dello stimolo stesso.

Secondo la teoria ecologica di Gisbon invece la percezione non è una rielaborazione di


informazioni percettive attraverso processi cognitivi né un’integrazione con l’apporto di altre
fonti, bensì un semplice insieme di informazioni ecologiche collocato in determinati spazio-
temporali che deve essere colto dall’individuo.

Paragrafo 3 – PRINCIPALI FENOMENI PERCETTIVI DELLA VISIONE

La nostra mente organizza costantemente l’attività percettiva così da cogliere gli oggetti inn
modo unitario e coerente. La percezione visiva è possibile grazie sia alla presenza di
radiazioni luminose, sia dell’informazione ottica proveniente dall’ambiente (insieme delle

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disomogeneità e dislivelli presenti nell’ambiente della distribuzione della luce). Con


l’articolazione figura-sfondo Edgar Rubin (1915) ha posto in evidenza che non esiste figura
se non c’è sfondo, poiché il rapporto figura-sfondo implica un’interdipendenza intrinseca fra
stimolo e contesto. Percepiamo dunque gli oggetti non in assoluto, ma sempre in quanto
immersi in un contesto immediato. Diversi sono i fattori che contribuiscono all’articolazione
percezione figura-sfondo:

1. Inclusione: a parità delle altre condizioni, diventa figura la regione inclusa nel contesto;

2. Convessità: a parità delle altre condizioni, diventa figura la regione convessa rispetto a
quella concava;

3. Area relativa: a parità delle altre condizioni, diventa figura la regione di area minore; 4.
Orientamento: a parità delle altre condizioni, diventa figura la regione i cui assi sono orientati
secondo le direzioni principali dello spazio percettivo.

Quando questi fattori non intervengono, si creano le condizioni per ottenere le cosiddette
figure reversibili, figure in cui si ha un’inversione tra sfondo e figura. Un altro esempio di
articolazione figura-sfondo è il già citato effetto Kanizsa; le figure da lui ideate hanno
contorni anomali, “quasi percettivi” e si basano sulla composizione dello sfondo. Se tale
composizione viene cambiata e distorta otterremo un esito diverso. Tendiamo inoltre, secondo
la segmentazione del campo visivo, a organizzare gli elementi singoli e/o discreti in
un’unica unità. A tal proposito Wertheimer pose in evidenza alcuni principi fondamentali:

1. Vicinanza: a parità delle altre condizioni, si unificano gli elementi vicini;

2. Somiglianza: a parità delle altre condizioni si unificano gli elementi simili;

3. Destino comune: a parità delle altre condizioni si unificano gli elementi che condividono lo
stesso tipo e la stessa direzione di movimento;

4. Buona direzione: a parità delle altre condizioni si unificano gli elementi che presentano
continuità di direzione;

5. Chiusura: a parità delle altre condizioni vengono percepiti come unità gli elementi che
tendono a chiudersi fra loro;

6. Pregnanza: sono preferite le configurazioni più semplici, regolari, simmetriche.

Si evince che l’articolazione degli elementi in unità percettive non dipende dalla qualità
possedute dai singoli elementi, bensì dall’organizzazione totale della configurazione degli
elementi (seguendo la proprietà del tutto, secondo cui il tutto è maggiore della somma dei
singoli elementi). Per quanto riguarda la percezione della profondità i procedimenti sono
molteplici e ne facciamo uso in maniera più o meno istintiva. Uno di questi è la disparazione
binoculare, mediante la quale, secondo meccanismi puramente fisiologici (come la funzione
degli emicampi o l’accomodamento del cristallino) la profondità viene percepita in maniera
coerente. Nel caso della “convergenza” (indizio binoculare), quando fissiamo un oggetto, gli
occhi, che hanno una certa distanza fra loro, convergono di un determinato angolo, in modo

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che l’immagine dell’oggetto cada sulla fovea di ciascun occhio. L'angolo di convergenza è
più ampio quando l’oggetto è vicino rispetto a quando è lontano. Anche l’”accomodamento”
del cristallino (indizio monoculare) consente la messa a fuoco dell’oggetto e costituisce
un’altra informazione di profondità.

Quando le immagini retiniche non corrispondono, abbiamo una visione doppia (o diplopia).
La disparazione retinica, dà origine a diplopia solo quando è piuttosto grande. Quando
invece la disparazione è piccola, le due immagini disparate si fondono e danno luogo a una
visione chiara e nitida. Inoltre vi sono anche indizi pittorici di profondità, utilizzati dagli
artisti per incrementare il senso di profondità in un’opera essenzialmente 2d, come il
chiaroscuro o la sovrapposizione di un oggetto rispetto ad un altro. Infine anche la parallasse
del movimento ci fa comprendere la distanza e profondità: quando muoviamo la testa in una
direzione gli oggetti percepiti si muovono in direzione opposta sulla retina e ci accorgiamo
della profondità perché più l’oggetto è vicino più si muove velocemente.

Le costanze percettive sono processi in base ai quali gli individui percepiscono gli oggetti
nel mondo circostante come dotati di invarianza e stabilità pur al continuo variare delle
stimolazioni prossimali. Secondo la legge di Euclide, la grandezza dell’immagine retinica è
inversamente proporzionale alla distanza dell’oggetto dall’occhio; seppur vera questa legge,
continuiamo a percepire gli oggetti lontani come dotati di una grandezza relativamente simile
a quella con cui li percepiamo quando sono vicini.

È il fenomeno della costanza di grandezza e avviene perché gli oggetti sono posti in un
contesto che genera schemi di riferimento e in una scala costante della distanza. Brevemente,
la costanza di grandezza è una proprietà del campo percettivo ed è generata dalla relazione
fra l’oggetto e il contesto immediato.

Come la costanza di grandezza, anche la costanza di forma è una proprietà di campo più che
una proprietà degli stimoli in sé. La costanza di forma è la tendenza ad attribuire agli oggetti
la medesima forma, nonostante la varietà di forme che essi proiettano nel tempo sulla retina.
Grazie alla prospettiva lineare e al gradiente di densità microstrutturale è possibile spiegare
questa costanza: pur con inclinazioni diverse, l’oggetto contiene il medesimo numero di
elementi nelle diverse posizioni. Infine v’è da considerare anche la costanza cromatica,
secondo cui gli oggetti dell’ambiente hanno un colore stabile, per quanto grandi possano
essere le variazioni dell’illuminazione.

Percezione di movimento: la percezione del movimento reale consiste nella capacità di


cogliere nel tempo gli spostamenti reali di un oggetto lungo una specifica traiettoria rispetto
ad altri oggetti che restano immobili nello spazio percepito. Il movimento indotto confuta la
teoria del movimento reale perché se prendiamo un rettangolo, all’interno del quale si trova
un punto luminoso, e lo stesso è spostato in una determinata traiettoria, sarà invece il puntino
ad essere percepito in movimento nella direzione opposta. Il movimento apparente consiste
nella percezione di oggetti in movimento a partire da stimoli statici presenti a intervalli
regolari nel tempo. Questa percezione di movimento è data dall’organizzazione temporale
nella successione di stimoli statici; se questo ritmo è abbastanza rapido, emerge il fenomeno
del movimento apparente (se ad esempio proietto una serie di punti vicini l’uno all’altro in
una determinata direzione, a seconda della velocità percepirò o diversi punti in movimento o
una linea retta in movimento). Col movimento autocinetico sappiamo invece che, privi di
ogni sistema di riferimento, siamo incapaci di mantenere a lungo la traccia dell’esatta

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direzione verso cui si guarda. Se osserviamo ad esempio un punto luminoso in una stanza
totalmente buia, il movimento oculare e quindi lo spostamento della percezione del punto
luminoso sulla retina ci ingannerà, facendoci credere che sia il punto luminoso stesso a
muoversi. Per neutralizzare questo effetto è sufficiente introdurre un altro punto luminoso o
alternare la sua comparsa/scomparsa (come nei fari marittimi).

Capitolo 4 – ATTENZIONE, COSCIENZA, AZIONE.

Paragrafo 1 – Attenzione

L’attenzione è l’insieme dei dispositivi che consentono di:

a. Orientare le risorse mentali disponibili verso gli oggetti e gli eventi;

b. Ricercare e individuare in modo selettivo le informazioni per focalizzare e dirigere la


nostra condotta;

c. Mantenere in modo vigile una condizione di controllo su ciò che stiamo facendo.

È un processo grande al quale, in un dato momento, attribuiamo rilievo a una data


informazione, ne inibiamo un’altra, selezionando ciò che per noi è saliente e trascurando ciò
che per noi è indifferente.

L'attenzione si divide in:

Attenzione endogena: è avviata dalle nostre esigenze personali (interessi, bisogni, scopi),
governata dai processi mentali dall’alto verso il basso; implica un orientamento volontario.

Attenzione esogena: attivata da uno stimolo esterno e regolata da processi mentali dal basso
verso l’alto; implica un orientamento automatico dell’attenzione caratterizzato dal fatto che:

a. Non può essere interrotto;

b. Distrae l’attenzione dal compito in corso;

c. Non è soggetto a interferenze da parte di un compito accessorio (secondario).

Attenzione spaziale: implica l’esplorazione e volontà di conoscere l’ambiente; di solito vi è


coincidenza con la direzione dello sguardo, ma non sempre, come nel caso del fenomeno
della vista periferica oppure l’attenzione riposta esclusivamente in altri organi di senso.

Attenzione basata sugli oggetti: essa si può concentrare solo su di un oggetto ignorando
parzialmente l’ambiente. Ciò che mettiamo dunque a fuoco è il bersaglio della nostra
attenzione. Il fuoco dell’attenzione consente dunque di concentrare le risorse attentive su
uno specifico stimolo ambientale

Esso ha dimensioni variabili, presenta una relazione inversa con l’efficienza di rilevazione
degli stimoli; si muove nello spazio a velocità costante lungo la traiettoria prescelta per
raggiungere il bersaglio. La velocità e l’accuratezza della rilevazione di un bersaglio sono
indici di efficacia mentale. In questa attività assume importanza la validità o meno degli

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stimoli ricercati, ove per validità intendiamo l’effettiva individuazione del bersaglio ricercato.
Siamo dunque più precisi e veloci a individuare lo stimolo che ci interessa rispetto ad un
altro. Questo avviene perché entrano in gioco fattori individuali come conoscenza,
esperienza, memoria, volontà ecc. in particolare sono gli stimoli dotati di rilevanza emotiva
ad essere catturati più velocemente dalla nostra attenzione e impiegano nel tempo maggiori
risorse attentive (es: rileveremo più velocemente e ci ricorderemo più a lungo di una frase
negativa nei nostri confronti rispetto ad una frase neutra). La velocità di rilevazione ha una
notevole importanza, ad esempio, durante gli avvenimenti di emergenza (es: incidente
stradale).

Cecità al cambiamento: la forza degli stimoli salienti conduce a trascurare e/o ignorare
stimoli ambientali ben visibili, in alcuni casi macroscopici. Questo procedimento si basa
sull’economia delle risorse, secondo cui ci interessa individuare bersagli salienti e trascurare
ciò che è superfluo. (es: esperimento del colloquio con un passante passaggio porta che oscuri
completamente l’intervistatore spostamento dell’intervistatore…50% dei casi non si accorge
dello spostamento).

Effetto Simon: siamo più rapidi e i tempi di reazione sono inferiori quando la posizione dello
stimolo coincide con la risposta che dobbiamo dare (es: se devo indicare una forchetta a
tavola con la mano destra, i tempi di reazione saranno inferiori se la forchetta stessa è alla
mia destra rispetto se fosse a sinistra). Nella rilevazione degli stimoli entrano in funzione due
processi di elaborazione:

1. Elaborazione controllata: è lenta e consapevole, richiede un notevole impegno e una


rilevante partecipazione delle risorse attentive, è accompagnata da errori, non consente di
svolgere altri compiti nello stesso tempo, implica un controllo diretto e costante;

2. Elaborazione automatica: rapida, non coinvolge la memoria a breve termine, non


richiede risorse attentive, è sostanzialmente inconsapevole, difficile da modificare, permette
di svolgere più compiti nello stesso tempo.

Qualsiasi elaborazione automatica può tornare ad essere controllata secondo la propria


volontà; qualsiasi elaborazione controllata può divenire automatica con il tempo e
l’esperienza. In una condizione di vigilanza siamo in grado, tramite il fenomeno della
selezione, di discriminare e scegliere ciò che è rilevante da ciò che non lo è. Uno dei primi a
ipotizzare il funzionamento della selezione fu Donald Broadbent (1958), secondo cui
l’attenzione è un filtro per selezionare le informazioni rilevanti per l’organismo. È questa
l’ipotesi della selezione precoce: gli stimoli irrilevanti sono filtrati e scartati mentre solo i
segnali pertinenti sono ammessi all’elaborazione successiva in base alle loro caratteristiche
fisiche. Occorre però modificare questa ipotesi, essendo non esaustiva, con la teoria della
selezione tardiva (Treisman, 1969): nella nostra enciclopedia delle conoscenze
(specialmente i ricordi lessicali) alcuni elementi hanno una soglia di attivazione più bassa di
altri, sono quindi più facilmente e rapidamente rilevati e richiedono meno analisi e, quindi,
più agevolmente passano attraverso il filtro attentivo per giungere alla coscienza. A questo
punto però dobbiamo affrontare la ricerca disgiuntiva e la ricerca congiuntiva degli stimoli.
Nel primo caso il bersaglio differisce dagli altri stimoli distrattori per una sola caratteristica,
mentre nel secondo il bersaglio è definito dalla congiunzione di più caratteristiche.

La differenza tra queste due ricerche viene enfatizzata con la teoria dell’integrazione delle
caratteristiche: se ricerchiamo un bersaglio in base ad una sola caratteristica basta fare

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riferimento solo ad essa per trovare il bersaglio; se invece lo ricerchiamo in base alla
relazione di due o più caratteristiche è necessario fare controlli incrociati, spendendo maggior
tempo.

Attenzione focalizzata: la concentrazione è diretta nei confronti di una sola fonte


informativa.

Attenzione divisa: la concentrazione è diretta nei confronti di due o più fonti informative,
portando ad una accuratezza di elaborazione dati inferiore.

Il fenomeno dell’attenzione divisa è l’interferenza da doppio compito. Può essere:

a. Interferenza strutturale: le fonti informative condividono lo steso canale di assimilazione,


quindi l’attenzione non può rivolgersi verso entrambe (es: guidare e guardare un film non
possono essere azioni simultanee poiché entrambe hanno lo stesso canale di assimilazione,
cioè l’apparato visivo).

b. Interferenza da risorse: quando uno dei due compiti da eseguire richiede un estremo
prezzo di risorse, esso (primario) viene eseguito in maniera molto migliore rispetto al
secondario, cui vengono dedicate ben poche risorse.

c. Interferenza da incongruenza: nell’eseguire un compito abbiamo tempi di reazioni più


brevi se entrambi gli stimoli sono congruenti che non fossero incongruenti.

Chiari esempi sono:

Effetto Stroop, se abbiamo cartelli di determinati colori con scritte sopra delle lettere dello
stesso colore i tempi di riconoscimento del colore dello sfondo saranno minori se il colore dei
due elementi fosse diverso.

Effetto Navon: stessa cosa dell’effetto stroop, solo qui vengono utilizzate lettere globali
composte strutturalmente da lettere locali (più piccole). Se le lettere locali sono medesime
alla lettera globale il tempo di reazione sarà differente rispetto a lettere incongruenti.

Quando gli stimoli sono in competizione fra loro si possono creare due condizioni: a.
Competizione semplice: lo stimolo che riceve maggior quantità di risorse per la sua salienza
è analizzato con maggior accuratezza e conduce all’attenzione focalizzata;

b. Competizione polarizzata: gli stimoli sono presentati simultaneamente portando


all’effetto dell’attenzione divisa.

La competizione (semplice e polarizzata) pone in evidenza che, l’attenzione è un dispositivo


dinamico, variabile, in grado di adattarsi in modo attivo a una gamma assai variegata di
fenomeni.

Paragrafo 2 – COSCIENZA

La coscienza può essere definita come uno stato particolare della mente in cui si ha
conoscenza dell’esistenza di sé e dell’ambiente. La coscienza rappresenta la mente nella sua
soggettività e in modo inevitabile rinvia al concetto di sé nelle sue diverse forme. Ma non un

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sé statico come fosse un’entità, bensì un sé dinamico, in continuo cambiamento in funzione


della situazione contingente e immediata. Il sé come processo, no come cosa. Arriviamo
dunque alla differenza tra coscienza e vigilanza, poiché essere vigili è un prerequisito della
coscienza, ma non è ancora coscienza. La vigilanza consente la rappresentazione mentale
degli oggetti, la pianificazione di ciò che intendiamo fare, come pure di monitorare e
controllare in continuazione lo svolgimento delle nostre azioni

La dissociazione fra vigilanza e coscienza è ben osservabile nei soggetti in stato


neurovegetativo (il sistema neurovegetativo controlla le funzioni involontarie del corpo). Pur
non essendo consapevoli, il loro elettroencefalogramma presenta un’alternanza fra veglia e
sonno, e spesso aprono gli occhi senza dirigere lo sguardo verso un particolare bersaglio. Lo
stato di vigilanza dipende da alcuni nuclei del tronco dell’encefalo e dell’ipotalamo che
influenzano, a loro volta, altri nuclei della corteccia celebrale.

Tuttavia non è un processo on-off, cioè valore 0 per sonno e valore 1 per veglia, bensì è un
processo che mostra ampie gradualità. La coscienza consiste innanzitutto nella capacità di
rispondere agli stimoli provenienti dall’ambiente “qui e ora” (consapevolezza percettiva).
Ognuno di noi è consapevole di quanto accade attorno a lui e dentro di lui, infatti chi è in
coma può essere vigile, ma non è in grado di fornire una risposta consapevole agli stimoli.

. Essa svolge anche una funzione di comparatore, poiché consente di confrontare lo stato
attuale del mondo con quello previsto in base alla propria esperienza e alle proprie
conoscenze ed aspettative (consapevolezza cognitiva). Inoltre la coscienza esercita un
controllo sui processi cognitivi e, in quanto tale, svolge la funzione di sistema di rilevazione
degli errori: se qualcosa non va bene nell’esecuzione di un compito attuato o previsto essa è
in grado di scoprire l’errore e nel caso riprogrammare l’azione. A differenza di altre
dimensioni psichiche la coscienza può essere consapevole di sé stessa, in un processo
teoricamente infinito (consapevolezza metacognitiva). Questa capacità di autoriflessione è
alla base dell’evoluzione ontogenetica e filogenetica umana. Occorre distinguere ora i diversi
livelli della coscienza:

1. Sé originario questi sono i processi che riguardano l’organismo e sono composti dai
segnali somatoviscerali. Questi segnali, che insieme formano la cenestesi (che indica
il funzionamento dell’organismo), sono di due tipi:

a. Interocettivi: suscitati dai visceri;

b. Propriocettivi: generati dalla condizione fisiologica del corpo nell’ambiente.

Grazie a questi segnali somatoviscerali possiamo sentire il morso della fame, ad esempio, e
cercare di soddisfarlo. Tutte queste operazioni insieme garantiscono l’omeostasi, cioè
appunto l’insieme di parametri biochimici dell’organismo mantenuti entro una gamma
compatibile con la vita. Sono connessi dunque ai sentimenti primordiali, associati a
sensazioni di benessere o pena. In breve, forniscono un’esperienza diretta ed immediata
dell’esistenza del proprio corpo. È dunque una coscienza radicata nel corpo.

2. Sé Nucleare: con essa vengono generate immagini mentali, che costituiscono la


enciclopedia delle conoscenze e generano quindi il “sentimento” di conoscere. In tal

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modo diventiamo protagonisti delle vicende, influenziamo con il nostro volere


l’ambiente circostante. La coscienza si allarga con la consapevolezza dell’ambiente,
non rimane più tra le mura del corpo umano. È la coscienza del qui ed ora, una
coscienza frammentata, legata essenzialmente al presente e allo scorrimento continuo
delle situazioni.
3. Sé Autobiografico: grazie ad essa siamo consapevoli di ciò che è accaduto in passato e
fare previsioni in base ad esso sul futuro. È una coscienza estesa, in grado di elaborare
contenuti immaginativi e mondi possibili, essenziale per la creatività umana. Questa
coscienza non è elaborata da zone celebrali precise, è come se fosse presente ovunque.
Il senso avanzato di questa coscienza dà il senso di identità e continuità della propria
vita. Consente di riflettere su sé stessi, dandoci la possibilità di generare processi
mentali infiniti e di giungere a forme di consapevolezza sempre più profonde tramite
la meditazione. Ci consente specialmente di affrontare la “tragedia della conoscenza”:
la consapevolezza della morte. Il sé autobiografico si presenta sia come sé spirituale
sia come sé culturale. La progressione della coscienza è associata all’evoluzione della
specie umana.

Quando la coscienza assume forme diverse da quelle sopracitate si parla di stati alterati di
coscienza. Qui esamineremo i tre più conosciuti e principali: il sonno, l’ipnosi e la
meditazione.
Il sonno è uno stato dell’organismo caratterizzato da una ridotta capacità agli stimoli
ambientali e da una sospensione parziale della coscienza. Sorge spontaneamente e
periodicamente, si autolimita nel tempo ed è reversibile. Si crea così un’alternanza sonno-
veglia. Il sonno ha diverse fasi che sono due riguardanti la veglia e quattro concernenti il
sonno vero e proprio; queste ultime costituiscono un ciclo di sonno e durante il riposo
notturno vi sono circa 4-6 cicli completi, ciascuno di circa 90 minuti.

1. La veglia attiva: presenta onde beta rapide e irregolari (elevata frequenza e bassa
ampiezza)

2. La veglia rilassata: con gli occhi chiusi, presenta onde più lente e regolari (alfa occipitale
8-12Hz);

3. Stadio 1: prima stadio del sonno vero e proprio; caratterizzata da onde Theta con ampiezza
ridotta;

4. Stadio 2; contraddistinto dai <<fusi del sonno>> (variazioni rapide e irregolari delle onde
celebrali), si attiva dopo 10-20 minuti rispetto allo stadio 1;

5. Stadio 3 e 4: caratterizzati da onde delta lente e ampie, fra l’1 e i 2 Hz. Lo stadio 4 è noto
come sonno profondo e svolge la funzione principale per il recupero delle forze; questo è il
momento in cui un soggetto è più difficile da svegliare e dove si possono verificare fenomeno
come sonnambulismo, enuresi, terrori notturni.

Sonno REM: il rapid eye movement, è il passaggio dallo stadio 4 allo stadio 1. Esso è detto
anche sonno paradosso, poiché in questo momento le onde celebrali sono simili a quelle della
veglia attiva. In questo stadio abbiamo dunque un cervello attivo in un corpo pressoché
paralizzato; abbiamo inoltre un aumento dell’attività del sistema nervoso autonomo (aumento
della pressione arteriosa, polso e respirazione) e un decremento del tono muscolare.

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Solitamente è accompagnato da un’erezione del pene e dal turgore clitorideo. Le persone che
vengono svegliate in questo lasso di tempo (circa l’80% dei casi) ricorderanno più
nitidamente ciò che stavano sognando. È maggior mente presente nelle fasi terminali del
sonno.

Sonno NREM: il sonno non-REM o sonno ortodosso (onde celebrali sincronizzate e


regolari) è caratterizzato invece da un notevole rilassamento muscolare e un metabolismo
celebrale al di sotto di quello dello stato di veglia di circa 30%; non è caratterizzato da
movimenti oculari. Le persone che vengono svegliate in questo lasso di tempo ricorderanno
meno facilmente il sogno (circa il 30%). È maggior mente presente nelle fasi iniziali del
sonno. Il sonno notturno in media dura 7,5 ore, ma non è uguale per durata e qualità per tutte
le persone. Vi sono infatti i brevi dormitori che dormono circa 6,5 ore a notte e i lunghi
dormitori che ne dormono in media 8,5. Abbiamo poi le “allodole”, individui mattutini
caratterizzati da un precoce addormentamento serale e un miglior e repentino risveglio
mattutino e i “gufi” che invece si comportano in maniera opposta. Il ritmo sonno-veglia per i
neonati e i bambini è polifasico (nell’arco della giornata intercambiano più volte questo
ritmo) mentre negli adulti è monofasico, anche se ci sono individui che compiono un riposo
pomeridiano e in qual caso abbiamo un ritmo bifasico.

Vi sono due teorie che spiegano il perché della nostra necessità del sonno:

a. Teoria ristorativa: secondo cui il corpo dorme per necessità di recuperare le forze sia
somaticamente che cerebralmente parlando. Il sonno svolgerebbe la funzione di riparazione
dai danni subiti durante la veglia.

b. Teoria circadiana: secondo cui il sonno è comparso durante l’evoluzione per mantenere
gli animali inattivi nei momenti in cui non era necessario mantenere una soglia di
sopravvivenza elevata.

Privazione del sonno: nonostante le credenze comuni, non dormire (privazione totale del
sonno) per svariati lassi di tempo (entro le 200 ore) non comporta danni o malfunzionamenti
sui processi fisiologici e sulle prestazioni psicologiche, né comporta un declino delle funzioni
cognitive, specialmente di quelle complesse; tuttavia l’attuazione di compiti semplici,
ripetitivi e noiosi viene velocemente compromessa. Dopo alcuni giorni di privazione
compaiono i microsonni, cali improvvisi di vigilanza della durata di pochi secondi in cui i
soggetti non rispondono agli stimoli ambientali. Nella privazione parziale (in cui il sonno è
ridotto quotidianamente rispetto al normale) osserviamo un incremento nell’efficienza del
sonno: una diminuzione nella latenza di addormentamento, un decremento di risvegli notturni
e una riduzione degli stadi 1 e 2 del sonno NREM, nonché una riduzione del REM. Rimane
medesima la quantità di sonno dello stadio 4.

L’ipnosi è un procedimento in cui un esperto ipnotizzatore induce il paziente (ipnotizzato) a


sperimentare cambiamenti significativi nei propri comportamenti, in connessione con una
sospensione temporanea della coscienza. Nell’induzione ipnotica, quando il paziente è
consenziente e quindi esercita meno controllo della propria mente, esso accetta le indicazioni
(suggestioni) dettate dall’ipnotizzatore, che possono condurre ad uno stato alterato di
coscienza. In passato venivano utilizzate strategie imperative, come comandi autoritari,
pendoli, occhi puntati magneticamente ecc. Oggi invece la tecnica è molto meno “invasiva”:
l’induzione ipnotica consiste nel raccontare una “storia” in cui si inseriscono frasi ricorrenti
che conducono ad un profondo rilassamento e portano l’attenzione su un determinato

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pensiero. I fenomeni più ricorrenti nell’ipnosi sono: 1. Allucinazioni positive e negative:


percepire qualcosa che non c’è o non percepire qualcosa che esiste; 2. Reazioni ideomotorie:
rispondere con comportamenti automatici alle idee proposte dall’ipnotizzatore; 3.
Regressione d’età; 4. Inibizione al dolore; 5. Incremento del recupero dei ricordi.

Nella fase terminale si prepara suggestivamente il paziente al ritorno repentino alla realtà e
all’ambiente, cercando di creare una amnesia postipnotica. Secondo Stanford e la sua scala
di suscettibilità ipnotica il 15% della popolazione è altamente ipnotizzabile; per contro un
5/10% non può essere ipnotizzata. Secondo la psicologia ingenua sarebbero più facilmente
suscettibili gli individui più suggestionabili e più accondiscendenti. È invece vero che essi
sono caratterizzati da qualità distintive:

a. Dissociazione: sono capaci più di altri di fare ricorso a meccanismi dissociativi (vivere una
situazione non in prima persona ecc.).

b. Immaginazione: hanno un’immaginazione ricca, sono portati a fare sogni ad occhi aperti e
riescono a concentrarsi così tanto sulle proprie fantasie da sentirsi totalmente coinvolti in esse
come fossero reali;

c. Disposizione al contesto ipnotico: riescono a rispondere all’ipnosi in maniera favorevole.

L’analgesia ipnotica è un fenomeno particolare dell’ipnosi, costituito dalla possibilità di


esercitare un controllo diretto sul dolore, senza la necessità di interventi farmacologici. Si
fonda sulle modificazioni dell’attività nervosa della corteccia celebrale a seguito delle
suggestioni ipnotiche e comporta una sorta di separazione fra la stimolazione dolorose e
l’esperienza affettiva della medesima. Fra i diversi campi di applicazione di questo
fenomeno, i risultati più interessanti, concernono i dolori da parto, della schiena e al petto. Di
solito si fa ricorso a tecniche di autoipnosi, attraverso cui ci convinciamo che la parte
dolorante non sia collegata al corpo o che gli stimoli dolorosi siano trasformati (da dolorosi a
piacevoli).

La meditazione costituisce uno stato modificato di coscienza attraverso l’esecuzione


ripetitiva e sequenziale di alcuni esercizi mentali, di solito realizzati in un ambiente
tranquillo. Essa crea una piacevole sensazione di benessere psico-fisico e di armonia tra sé e
l’ambiente. Genera un’espansione di coscienza, simile a quella che si ottiene con
l’autoipnosi. Alcuni soggetti dopo una lunga pratica di meditazione possono avere esperienze
mistiche, nelle quali perdono la consapevolezza di sé e assumono forme di conoscenza più
ampie. V’è lo yoga, pratica induista, lo zen, pratica buddhista cinese e giapponese. Tra queste
forme tradizionali troviamo:

a. La meditazione di apertura: il soggetto si concentra e non pensa a niente, facendo si che la


mente sia aperta a nuove idee e sentimenti;

b. Meditazione di concentrazione: il soggetto si concentra totalmente su un unico oggetto,


idea o parola, escludendo ogni altra cosa.

c. Meditazione trascendentale: consiste nella ripetizione mentale di suoni speciali (mantra),


che porta all’attenzione estrema su un singolo stimolo interno. Da qui il principio zen: essere
totalmente presente per essere totalmente assente. La frequenta cardiaca rallenta,

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diminuiscono la temperatura corporea e la pressione arteriosa; si stabilizza il flusso


sanguigno.

A livello psicologico la meditazione trascendentale risulta opportuna per combattere lo stress


negativo e gli stati di ansia cronica. Inoltre è efficace per aumentare l’efficienza mentale e la
memoria, nonché per migliorare l’autostima. Anche nelle attività sportive è utile, perché
favorisce il raggiungimento del massimo delle proprie potenzialità fisiche attraverso un grado
ottimale di concentrazione. Non solo è utile, ma non è per niente dannosa.

Paragrafo 3 – AZIONE

L’azione è una sequenza consapevole e deliberata di movimenti finalizzati al raggiungimento


di uno scopo, svolta in base ad un piano e controllata dall’attenzione esecutiva, idonea a
generare specifici effetti sull’ambiente. L’insieme di azioni diverse ma coordinate tra loro per
raggiungere un solo scopo è detta attività. Come individui siamo in grado di far accadere
delle cose nel corso degli avvenimenti; è il concetto di agentività, cioè quella capacità di
esercitare un potere causale sugli accadimenti e di influenzare il loro andamento.

I movimenti in sequenza implicati in un’azione sono volontari, idonei a realizzare uno scopo.
Ogni azione si svolge secondo un piano che controlla l’ordine di sequenza di operazioni
motorie per consentire il raggiungimento dello scopo predefinito. È la simulazione mentale
che consiste in una mappa della traiettoria delle operazioni da svolgere una dopo l’altra,
prefigurando gli effetti di un’operazione su quella successiva, in modo da apportare le
opportune correzioni nello svolgimento stesso dell’azione. Ogni nostra azione è contingente,
poiché è l’insieme di tutti gli esiti delle nostre attività personali congiunte agli aspetti casuali.
Nell'esecuzione di un’azione siamo responsabili, ma è una responsabilità limitata poiché
intervengono in modo necessario fattori ambientali.
Le aree celebrali coinvolte in questi processi si trovano in modo elettivo nella corteccia
prefrontaale. Essa è un’area importante, estesa negli umani in modo sproporzionato, in
grado di ricevere informazioni da tutte le altre regioni corticali percettive e motore, come
pure da quelle sottocorticali. A sua volta questa corteccia (PFC) ha molteplici proiezioni di
ritorno ai sistemi sensoriali, percettivi e motori, esercitando un’influenza robusta e continua
(dall’alto verso il basso) nei loro confronti. Tali condizioni hanno condotto all’ipotesi
dell’esecutivo frontale, che presiede a numerose attività mentali, fra cui: l’attenzione
esecutiva, l’alternanza del fuoco di attenzione, l’inibizione di un’informazione già percepita.
L’attenzione esecutiva dirige e governa le operazioni implicate nello svolgimento
dell’azione; funge da regia nel governo della complessa rete delle connessioni
interdipendenti fra l’individuo e l’ambiente. Questa funzione di coordinamento e
supervisione dell’attenzione esecutiva appare particolarmente efficace quando abbiamo
diverse operazioni da compiere entro la stessa azione (gioco degli scacchi) o differenti azioni
da affrontare nella stessa situazione (sto lavorando al computer e suona il telefono). In questi
casi l’attenzione esecutiva determina quale compito avrà il sopravvento rispetto agli altri. Di
norma presenta quello che presenta il grado più elevato di compatibilità con la configurazione
della situazione per il raggiungimento degli scopi previsti.
L’alternanza del fuoco di attenzione ci permette di essere tempestivi, efficaci e dinamici
nell’affrontare, svolgere e monitorare la realizzazione di attività diverse entro la stessa

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situazione (multitasking). Questa alternanza ha dei costi energetici e attentivi da pagare, per
passare da un’azione all’altra. L’accuratezza, la velocità e l’agilità nell’esecuzione di
un’azione sono strettamente associate all’esercizio; da ciò si evince inoltre che l’azione è una
fonte intrinseca di apprendimento e che per lo svolgimento della stessa può e deve in alcuni
casi intervenire la memoria lavoro, quel tipo di memoria che ci consente di produrre ciò che
intendiamo fare. Dall’azione deriva infine il sentimento dell’autoefficacia, quella credenza e
verifica di riuscire a controllare un’attività e di svolgerla con una buona riuscita.

Capitolo 5

RAPPRESENTAZIONE, CONOSCENZA, SIMULAZIONE MENTALE!

Paragrafo 1 – RAPPRESENTAZIONE MENTALE


Per affrontare e governare l’ambiente in cui viviamo, le informazioni da esso provenienti
vanno non solo acquisite (percezione) selezionate e ricercate (attenzione e coscienza), ma
anche elaborate a livello mentale. Il nostro scopo è avere una rappresentazione mentale
abbastanza fedele e completa del mondo con cui dobbiamo interagire.
In generale la rappresentazione di un oggetto o evento è un’entità che sta per quell’oggetto
e trasmette informazioni a esso congruenti. Per rappresentazione mentale invece
intendiamo un’immagine, simbolo o modello presente nella mente, basato su una mappa
cerebrale e l’esperienza, in corrispondenza a un certo oggetto o evento. Il mondo è
un’esplosione di differenze; La differenza tra le cose consente alla mente di elaborare le
informazioni, questo perché la differenza è alla base della conoscenza e i significati si
fondano sul contrasto e sull’opposizione. La mente computazionale è la mente in grado di
fare calcoli, confronti, combinazioni logiche, manipolare simboli, operazioni di misura e di
classificazione, equivalenze e graduatorie, capace di scelta tra alternative, di adeguamento a
regole prefissate. Le rappresentazioni mentali consentono di svolgere queste operazioni
mentali in modo agevole, talvolta, servendosi di automatismi associati alle abitudini apprese,
talvolta richiedendo un notevole impegno di risorse attentive. In tempi recenti, il
funzionamento della mente è stato spiegato da due prospettive fra loro opposte: la mente
modulare e la mente radicata nel corpo.

Secondo Fodor e la sua ipotesi esiste una sorta di universalità umana, intesa come
impostazione mentale uguale per tutti. Da qui nasce la convinzione dell’esistenza di una
lingua della mente (mentalese), analoga ad una lingua naturale. Seguendo l’idea si giunge
alla consapevolezza che le rappresentazioni mentali sarebbero combinazioni di concetti
semplici innati, e sarebbero elaborate secondo logiche regole, attente solo alla forma
(sintassi) che non al contenuto (semantica). Nonostante questa cecità semantica, la mente
computazionale diviene in grado di tradurre le rappresentazioni mentali in proposizioni,
divenire mente proposizionale, atta alla computazione di simboli modali (non provenienti
dalle diverse modalità sensoriali o propriocettive, ma già presenti in modo innato). Si parla
qui ancora del modularismo. In contrapposizione al modularismo v’è l’idea di una mente
fondata momento per momento sull’interazione senso-motoria con l’ambiente. Una mente del
qui ed ora. È la mente situata e radicata nel corpo.

Grazie alla scoperta italiana dei neuroni specchio, un sistema di neuroni distribuito in
numerose aree celebrali e costituisce la base celebrale per competenze mentali fondamentali,

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è stato possibile comprendere al meglio l’atteggiamento dell’imitazione. Essa non è mera


emulazione, cioè copiare meccanicamente delle azioni senza un fine preciso, bensì un
atteggiamento atto non solo alla vera e propria emulazione fisica ma anche una comprensione
di intenzioni, scopi, anticipando e facendo previsioni sugli esiti finali. Passiamo in tal modo
dal ripetere ciò che gli altri fanno al riprodurre ciò che gli altri intendono fare. La
comprensione delle intenzioni degli altri è resa possibile dall’attivazione dei neuroni
specchio. Una delle fondamenta dell’imitazione è l’empatia, la dote di dirsi “gli altri hanno
le stesse emozioni che io proverei al loro posto”. Il cervello è destinato a creare mappe
dell’interazione costante dell’ambiente: queste sono le mappe celebrali, grazie le quali il
cervello informa sé stesso, modelli nervosi in continuo cambiamento, poiché si modificano
ogni istante in corrispondenza ai cambiamenti che hanno luogo nei neuroni implicati. A
livello fenomenologico le loro rappresentazioni costituiscono le immagini mentali generate
dalle corrispondenti mappe cerebrali momentanee di una data situazione. Mappe celebrali e
immagini mentali implicano un costante processo di influenza reciproca fra cervello e mente.
Nessuna delle funzioni distinte dalla nostra mente è presente al momento della nascita. Tali
funzioni si sviluppano solo grazie all’interazione con altri umani in un dato ambiente
culturale. Per dare origine alla mente, il cervello ha bisogno delle menti di altri, poiché queste
offrono gli stimoli appropriati al cervello per creare le connessioni indispensabili alla
formazione dei circuiti nervosi implicati nelle varie attività psichiche (pensare, parlare,
immaginare, scegliere...). il cervello non è autosufficiente. Senza stimoli è in difficoltà e non
è più in grado di funzionare in modo regolare. Dati questi requisiti, il confine tra ciò che è
biologico e ciò che è psicologico appare piuttosto debole. Quando qualcosa non va nel nostro
corpo, il segnale celebrale corrispondente va a condizionare in modo rilevante la mente a
livello cognitivo (trovare una spiegazione plausibile), emotivo (ansia, preoccupazione) e
comportamentale (prendere un farmaco); viceversa se qualcosa non va in modo regolare nella
nostra mente (idee fisse, stress, paure immotivate ecc…) si riverbera profondamente sul piano
biologico nel nostro organismo (disturbi psicosomatici ecc..).

Paragrafo 2 – CONOSCENZA

La conoscenza è un’attività fondamentale della nostra mente che ci consente di capire e


spiegare le cose. Alla base della conoscenza v’è la comprensione, quella capacità di
intendere ed interpretare in modo appropriato una data situazione, stabilendo le dovute
connessioni e relazioni fra le sue varie componenti. Comprendere vuol dire inoltre cogliere il
significato. Il significato, inteso sia come riferimento alla realtà, sia come valore linguistico,
sia come percorso interpretativo dell’esperienza è una realtà non monolitica, bensì complessa
e analizzabile. Comprendere vuol dire infine trovare una spiegazione plausibile e
sufficientemente attendibile dei fenomeni e degli eventi dell’esperienza. La conoscenza porta
alla categorizzazione. Essa è un’attività mentale universale, basilare per gli esseri umani. Va
intesa come la capacità di rendere equivalenti entità differenti fra loro discriminabili, di
raggruppare oggetti, eventi e persone in classi, nonché di rispondere ad essi in quanto
componenti di una classe piuttosto che per la loro unicità. In quanto risultato di convenzioni,
le categorizzazioni dipendono dalla cultura di riferimento. Si creano dunque naturalmente
delle categorie. In quanto tali, le categorie costituiscono, nel loro insieme, un sistema di
differenze. Siamo in grado di categorizzare le cose perché il nostro cervello e la nostra mente
lavorano sulla base delle differenze. È la differenza il motore che genera la conoscenza, la

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comprensione e l’intelligibilità delle cose, il pensiero e il mondo dei significati. Le categorie


possono essere impiegate per fare delle inferenze sulla base di loro proprietà implicite.
Le categorie mentali implicano un processo mentale assai esteso e articolato che si configura
in una gamma di tipologie.
Secondo Rosch le categorie presentano due dimensioni: una verticale e una orizzontale. La
dimensione verticale consente di collegare fra loro diverse categorie attraverso il processo di
inclusione. In questo caso le categorie di base sono le più importanti poiché hanno maggiore
validità di indizio (es: se non conoscessi l’utilizzo di un badile potrei facilmente
categorizzarlo tra gli oggetti di lavoro agricolo manuale, avendo esso un’impugnatura di
legno tipica e una testa di metallo). La dimensione orizzontale di una categoria concerne il
modo in cui ogni categoria è organizzata al proprio interno e quali relazioni sono istituite fra i
suoi diversi membri in termini di appartenenza e rappresentatività. I vari membri di una
categoria non sono tutti uguali, ma alcuni di essi presentano il valore di prototipo, poiché
sono i migliori esemplari della categoria, quelli che la rappresentano meglio e che sono dotati
di salienza.

Le categorie per somiglianza di famiglia sono quei tipi di categorie in cui possono essere
riunite in un gruppo e sono determinate dalla polisemia semantica della una parola (differisce
da sinonimia e omonimia). In sostanza ad esempio la parola FRESCO può avere un
significato molteplice: nuovo o recente, in condizioni ottimali o incontaminato, infine non
caldo. Le categorie radiali invece sono quelle categorie intese come ramificazioni che
partono da una categoria centrale e procedono in modo associativo. Le categorie funzionali
sono basate su uno scopo e ciascuna di esse è formata in modo coerente dai componenti
indispensabili per raggiungerlo. Le categorie ad hoc non emerge finché non sono attivate le
nostre conoscenze enciclopediche e comprendono le proprietà degli oggetti e come esse sono
fra loro collegate. Ad esempio un sasso, una sedia, un dizionario sono prese in un contesto
nella norma come oggetti non raggruppabili nella stessa categoria; ma se ad esempio una
porta sbatte per il vento, possono rientrare nella categoria ad hoc, poiché tutte, grazie ad una
qualità (in questo caso peso sufficiente per lo scopo) possono bloccare la porta. È dunque una
categoria momentanea e contingente, utilissima per il risparmio di energie cognitive e la
facilitazione del problem solving. Alla domanda “esistono categorie universali?” non si può
che rispondere: no, non possono esistere perché ogni cultura ha una propria concezione sia
dell’ambiente in cui vive sia di categorizzarlo ergo, com’è ovvio nella loro relatività, le
categorie mentali più che nella natura risiedono nella cultura, che è diversa in tutto il mondo.
La conoscenza, sia come comprensione sia come categorizzazione, consente dunque di
acquisire informazioni sia sulla nostra esperienza diretta sia su quella altrui. Vanno a formarsi
naturalmente diversi tipi di conoscenza e di reazione delle stesse. Le conoscenze
dichiarative sono in breve le conoscenze esplicite, che promuovono l’acquisizione di nuove
teorie, modelli o concetti. Sono conoscenze consapevoli; sono il “che cosa” sappiamo e
riguardano i fatti.

Le conoscenze procedurali sono invece acquisite tramite le procedure e le azioni; sono in


sostanza il “come” sappiamo fare le cose e riguardano le competenze operative. In molti casi
queste conoscenze portano alla formazione di conoscenze tacite, implicite, in
contrapposizione con quelle esplicite. Queste si configurano, solitamente in modo
progressivo, dalle pratiche quotidiane e dai procedimenti seguiti per raggiungere un certo
risultato. Spesso queste conoscenze sono impiegate in modo meccanico per accorciare i tempi
e per ridurre l’impegno nella pianificazione ed esecuzione delle attività. Infine la conoscenza

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riflessiva è la conoscenza derivata dalla rivisitazione della nostra esperienza, per creare una
conoscenza più critica e consapevole.

Paragrafo 3 – SIMULAZIONE MENTALE

Cervello e mente sono potenti dispositivi per riprodurre e anticipare eventi dell’ambiente.
Sono quindi in grado di “simulare” la realtà.

Parliamo in questo paragrafo della mente simulativa. La simulazione in generale è la


riproduzione di oggetti o eventi attraverso l’elaborazione di appositi modelli. È la
rappresentazione proporzionale di un aspetto dell’ambiente. Fra modello e fenomeno esiste
una struttura equivalente e dinamica di rapporti. Costruendo ipotesi, si crea dunque con la
simulazione il mondo del possibile, ciò che ora non esiste ma che potrà esistere in futuro.
Ovviamente, in quanto riproduzione, la simulazione non è realtà. La simulazione ha enormi
vantaggi per la conoscenza e la comprensione dell’esperienza, poiché consente di esplorare
un numero elevato di funzioni e processi mentali: dalla ricostruzione del passato
all’anticipazione del futuro, alla presa di decisione e alla creatività ecc. Rende possibile una
versalità illimitata di studio e di applicazione; essa si dimostra una strada percorribile per
analizzare, capire e spiegare meglio i sistemi complessi, di qualunque genere essi siano.
Poiché la simulazione è la ricreazione dei fenomeni indagati per approssimazione, privilegia
il processo di sintesi e ricostruzione dei processi sottesi ai fenomeni stessi.
Quanto più la simulazione è articolata, tanto maggiori sono le probabilità di ottenere
previsioni attendibili, valide e discriminative. Può accadere (in realtà molto spesso, anche agli
scienziati) che nello stabilire connessioni fra teoria e fatti compaiano distorsioni mentali.
Nel formulare giudizi e prendere decisioni siamo soggetti a distorsioni ricorrenti, come quella
della conoscenza retrospettiva o hindsight bias: è l’errore del senno di poi, cioè credere di
aver previsto correttamente l’esito di un evento quando l’evento è ormai noto. Inoltre v’è
anche la fallacia della pianificazione: le persone spesso si mostrano ottimiste quando
prevedono i tempi di completamento di un compito crederlo di terminarlo in anticipo. Spesso
questa previsione fallisce poiché non si tiene conto degli innumerevoli imprevisti che
possono accadere. Per evitare di incorrere in questi errori è necessario usare le debiasing
stragies, strategie mentali simulative nelle quali si considera l’opposto: non solo l’attenzione
va riposta nella veridicità delle nostre supposizioni, ma va inoltre riposta nei perché il tale
ragionamento è in potenza sbagliato.

La simulazione è uno strumento formidabile, unico dell’essere umano, poiché non solo
permette di ri-creare una condizione, ma anche di crearla da zero, come nei casi dei libri,
videogiochi, realtà virtuali ecc…Come detto la simulazione è uno strumento molto potente
sia per ricostruire il passato (pensiero controfattuale) sia per anticipare il futuro (pensiero
prefattuale). Nel primo caso ci riferiamo ovviamente ad avvenimenti già accaduti e
ipotizziamo cosa sarebbe potuto accadere se ci fossimo comportati in maniera differente da
ciò che realmente è avvenuto. È una forma di pensiero condizionale, in cui siamo di fronte al
modo congiuntivo delle possibilità: rispetto ad una situazione ipotetica, in cui solitamente le
persone si concentrano solo ad un’unica possibilità (solitamente connessa con le proprie
aspettative), nel modo congiuntivo si presta attenzione sia a ciò che realmente accaduto sia
alla possibilità che sarebbe potuta accadere. Le simulazioni prefattuali, cioè le anticipazioni
mentali di come attuali condizioni reali possano essere in potenza nel futuro, hanno utilità

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ben chiare sia in ambito individuale sia in ambito scientifico. A livello individuale queste
simulazioni concernenti il proprio futuro sono assai più frequenti di quanto crediamo e
servono a disegnare il futuro del proprio sé possibile. La pianificazione del proprio futuro
consolida il senso della nostra identità, precisa la traiettoria della nostra vita e quindi implica
una miglioria a livello del presente sotto diversi versanti. Soddisfa in modo efficace il
bisogno di sentirsi preparati, capaci di governare l’incertezza del futuro in caso sia di
opportunità (autorealizzazione) che di minacce (autoprotezione). Le simulazioni concernenti
il nostro futuro oscillano fra la desiderabilità e la fattibilità. È in gioco in contrasto mentale
fra il conseguimento di un futuro desiderato e la valutazione delle condizioni attuali
disponibili per raggiungere tale stato. Infine la simulazione è il motore di base di ogni forma
di creatività umana.

Paragrafo 4 – LIMITI DELLA SIMULAZIONE

I motivi dei limiti della simulazione si basano su due caratteristiche delle stesse: l’architettura
e l’utilizzo. L’architettura è il livello di costruzione della simulazione da parte degli esperti e
se è distorta, o quanto meno, lontana dai fenomeni che intende rappresentare è indubbiamente
destinata al fallimento, poiché presenta una bassa validità di costrutto. A livello dell’impiego
della simulazione da parte dei destinatari possiamo avere un impiego “cieco”, automatico
delle simulazioni. In altri casi i fruitori possono avere un alto livello di aspettativa e fiducia
nei confronti della simulazione, col rischio di confondere la realtà con la finzione. È
necessario ricorrere per non incappare in tali errori nel principio del rispetto-sospetto: trattare
i fenomeni col rispetto dovuto e con il necessario sospetto. Si riducono così le possibilità
dell’errore dello stimolo (descrivere non ciò che si osserva ma ciò che già si sa) e l’errore
dell’esperienza (attribuire alla propria realtà proprietà che invece appartengono in modo
esclusivo al soggetto). ! La simulazione può anche portare a conseguenze patologiche o lesive
nei confronti di sé e degli altri. Vi sono dunque i reati di simulazione: un comportamento
diretto a far sorgere in altri un falso giudizio sia per mezzo di dichiarazioni concordate fra le
parti ma non corrispondenti all’effettiva volontà delle stesse (simulazione di contratto =
truffa), sia con la denuncia di fatti inesistenti o diversi da quelli realmente accaduti
(simulazione di reato), sia con la fabbricazione di documenti fasulli o con la contraffazione di
prodotti. Sul piano relazionale vi sono persone con una personalità machiavellica, solite a
servirsi della simulazione machiavellica. Essa consiste in una ricostruzione appositamente
manipolatoria della realtà, con la trasformazione sistematica dei dati di realtà a proprio
esclusivo vantaggio.

Infine vi sono simulazioni deliranti, con elevati gradi di deformazione della realtà; di solito
in queste simulazioni vi sono sempre indizi di realtà, trovabili solo grazie ad
un’investigazione attenta e acuta.

Capitolo 6

APPRENDIMENTO ED ESPERIENZA

Paragrafo 1 – Esperienza come fonte di apprendimento


L’apprendimento è inteso come una modificazione relativamente duratura e stabile del
comportamento a seguito di un’esperienza di solito ripetuta nel tempo. La radice di qualsiasi

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tipo di apprendimento è l’esperienza, ergo, ogni apprendimento è esperienziale, ci mette


nella condizione di imparare sempre. (ogni apprendimento è esperienziale).
L’apprendimento quindi è un vincolo, non possiamo non imparare, poiché l’alternativa
sarebbe, vista la mancanza di stimoli per il cervello, il coma vegetativo. In quanto connesso
con l’esperienza l’apprendimento è situato, legato al contesto immediato e radicato
nell’organismo. In taluni casi procediamo con un apprendimento intenzionale, orientato a
raggiungere uno scopo, in grado di promuovere un’elaborazione accurata delle informazioni;
in altri casi abbiamo un apprendimento accidentale, connesso non con lo scopo definitito di
acquisire qualcosa di nuovo, ma dovuto a fattori imprevedibili; la maggior parte delle volte
però abbiamo un apprendimento contingente, che implica la combinazione tra elementi
incidentali che provengono dall’ambiente (dall’alto verso il basso), e opzioni operate dagli
individui in base ai loro interessi ed esigenze, (dall’alto verso il basso).

L’apprendimento latente invece è una forma di apprendimento implicito: impariamo senza


accorgercene. Questo apprendimento può avere luogo grazie alla semplice esposizione
all’ambiente e introduce la distinzione tra competenza e prestazione. Secondo Tolman, nello
svolgimento delle varie attività abbiamo modo di scoprire le connessioni che esistono
nell’ambiente in base a indizi o segnali. Tale rilevazione conduce alla costruzione di mappe
cognitive, facilitando l’animale a trovare la soluzione più breve ed efficace (principio del
minimo sforzo). Chiari esempi sugli esperimenti sui ratti. L’apprendimento latente dunque ha
un’importanza fondamentale non solo per ragioni di economia di risorse mentali e cognitive,
ma anche per le grandi opportunità che ci offre. Grazie alla riflessione sull’esperienza per
tornare all’esperienza giungiamo ad un apprendimento riflessivo. Infine siamo disposti
anche di un apprendimento fisiologico che, essendo un vincolo per la nostra sopravvivenza
e per il mantenimento della salute fisica e del benessere mentale, ci permette di conseguire
con efficacia un governo del nostro corpo. Tale apprendimento trova fondamento
nell’esperienza diretta che facciamo in continuazione del nostro corpo in connessione con gli
stimoli. Riguarda sia lo stato di salute che quello di malattia. Per giungere ad uno stato di
omeostasi, ovvero la tendenza naturale al raggiungimento di una stabilità fisica e psichica,
occorre riuscire a riconoscere e cogliere i segnali del nostro corpo. Sono i sintomi che
possono manifestarsi in modo patologico (febbre, pressione alta) o standard (battito cardiaco,
respiratorio). Nel loro insieme le sensazioni somatoviscerali ci aiutano ad avere una
soddisfacente rappresentazione del funzionamento del nostro corpo.

Paragrafo 2 - APPRENDIMENTO ASSOCIATIVO.

Grazie allo sviluppo celebrale gli individui sono in grado di compiere previsioni riguardo a:

1. Quali eventi seguono ad altri eventi nell’ambiente.

2. Quali eventi sono controllabili e quindi modificabili.

Per raggiungere questo traguardo è necessario essere in grado di associare due o più eventi
fra loro. È l’apprendimento associativo. Connessi a questo tipo di apprendimento vi sono i
riflessi, cioè quelle azioni di risposta condizionate/incondizionate che abbiamo rispetto ad un
dato stimolo.

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Il condizionamento pavloviano (da Pavlov), o classico, comporta l’associazione tra gli


stimoli incondizionati (SI), le risposte incondizionate (RI), gli stimoli condizionati (SC) e le
risposte condizionate (RC). Quando ad una SC viene associata una RC tutti gli stimoli simili
a SC daranno una RC. È il fenomeno della generalizzazione dello stimolo: quanto più lo
stimolo è simile a quello originario, tanto più forte è la risposta. L'estensione del
condizionamento classico fu realizzata da Skinner con l’Apprendimento per prove ed
errori: il fenomeno grazie il quale si dimostrò, con l’esperimento del gatto nella problem-
box, che le risposte corrette tendono ad essere ripetute mentre quelle erronee ad essere
abbandonate.

Legge dell’effetto: la connessione dei legami associativi tra stimolo e risposta dimostra che
essi non dipendono solo dalla loro contiguità temporale (come con Pavlov), ma anche degli
effetti che seguono la risposta.

Legge dell’esercizio: la ripetizione di una risposta diventa tanto più probabile quanto più
spesso è ripetuta.

Skinner introdusse la distinzione tra:

a. Comportamenti rispondenti: derivano da riflessi innati o appresi tramite il


condizionamento pavloviano e la risposta non è controllata;

b. Comportamenti operanti: non derivanti da riflessi innati ma emessi spontaneamente


dall’animale.

Egli dimostrò inoltre che una ricompensa costituisce un rinforzo al condizionamento e alla
risposta emessa in seguito. Le ricompense possono essere positive (gratificazione) o negative
(eliminazione di situazione negativa). Per converso anche le punizioni hanno effetti simili e
possono anche loro essere positive (stimolo doloroso) o negative (diminuzione
gratificazione). I rinforzi possono essere continui o parziali; Skinner constatò che quelli
parziali sono quelli più efficaci, poiché conducono al fenomeno dell’assuefazione, ovvero
all’adattamento a condizioni particolari.

Giunse alla definizione dei piani di rinforzo per favorire l’incremento di un certo
comportamento:

1. Piano di rinforzi a intervallo fisso: il rinforzo è fornito a scadenze regolari (come gli
stipendi);

2. Piano di rinforzi a intervallo variabile: il rinforzo è fornito in lassi temporali variabili,


ottenendo una linea crescente continua;

3. Piano di rinforzi a rapporto fisso: il rinforzo è fornito dopo un numero sempre uguale e
prefissato di risposte (lavoro a cottimo);

4. Piano di rinforzi a rapporto variabile: il rinforzo è fornito dopo un numero di risposte


che varia in modo casuale (lotteria).

Tra questi è l’ultimo rinforzo ad essere più efficace.

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Da considerare anche l’apprendimento che avviene tramite la selettività dell’associazione;


gli uomini, così come gli animali, sono capaci di scartare correlazioni casuali e di selezionare
solo le relazioni causa-effetto interessanti. Questo condizionamento associativo selettivo
non è riducibile solo ad un accoppiamento tra due eventi temporalmente contigui. Anche
l’apprendimento tramite intuizione o insight è da tenere conto; esso si fonda sull’attivazione
di processi cognitivi che conducono alla soluzione di difficoltà e d’imprevisti che
incontriamo nel corso della vita quotidiana, quindi allo svolgimento del problem-solving.

Paragrafo 3 – APPRENDIMENTO DA MODELLI

Paragrafo 3 – APPRENDIMENTO DA MODELLI

L’apprendimento può essere individuale o sociale. L’apprendimento individuale è la


competenza nell’acquisire nuove informazioni a seguito di un’esperienza personale
nell’interazione diretta con l’ambiente. È un apprendimento costoso (dal punto di vista di
risorse cognitive), è lungo, è soggetto ad errori, tuttavia è efficace in situazioni di
cambiamento ambientale repentino. L’apprendimento sociale è la capacità di acquisire nuove
conoscenze e pratiche tramite e con i propri consimili. È un apprendimento da modelli,
poiché implica l’interazione con l’ambiente e fondata sull’esperienza di altri. È un
apprendimento economico, veloce, stabile, con un alto livello di attendibilità, esteso e
condiviso; tuttavia nei periodi di cambiamento e di turbolenza viene meno, poiché tende a
riproporre forme già consolidate e quindi obsolete. Uno degli apprendimenti per così dire
innati è il fenomeno dell’imprinting, sia dal punto di vista faunistico che umano. Esso è un
apprendimento qualitativamente differente da quello associativo, si basa sul legame neonato-
modello, avviene in un lasso di tempo breve ed è pressoché irreversibile. Questo lasso di
tempo viene chiamato periodo sensibile, cioè quel periodo nel quale le influenze ambientali
sono più efficaci per l’apprendimento di conoscenze e abilità. Nell’uomo questo lasso di
tempo varia circa tra i 2 e i 6 anni d’età, periodo fertile per l’apprendimento delle lingue.
L’apprendimento osservativo comprende l’interazione dei neuroni specchio,
l’interdipendenza tra percezione e azione e il ricorso a processi cognitivi. Implica
un’interazione modulare tra individui e non la successione tra stimoli. Dall’apprendimento
osservativo scaturisce l’apprendimento imitativo, cioè quando un individuo riproduce in
modo consapevole l’azione di un altro per ottenere il medesimo scopo/risultato di
quest’ultimo. Si evince l’importanza dell’interazione sociale che avviene tra gli individui, sia
tra adulto/adulto che tra adulto/bambino. Grazie all’interazione sociale, tra gli altri, avviene
anche l’apprendimento culturale: attraverso conversazioni, riunioni, pasti, tradizioni ecc…
gli uomini possono acquisire nuove informazioni in modo indipendente dalla dotazione
genetica; questo comporta ad un accumulo perpetuo degli apprendimenti che non può
avvenire tra gli animali.

Paragrafo 4 – ORGANIZZAZIONE GERARCHICA DELL’APPRENDIMENTO.

L’apprendimento non è un processo lineare per semplice accrescimento, bensì ricorsivo e


circolare, cioè ciò che abbiamo appreso fino ad ora è la premessa per ulteriori e diversi
apprendimenti. Nascono in questo modo diversi livelli di apprendimento, conseguenti l’uno
all’altro.

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1. L’apprendimento zero: avviene quando siamo giunti al massimo dell’apprendimento di


una certa competenza;

2. L’apprendimento uno: consiste nella modificazione della condotta dell’individuo e


implica un miglioramento delle prestazioni in oggetto. Le prestazioni iniziali sono lente, ma a
mano a mano che si avanza esse diventano più repentine e meno soggette ad errori.

3. L’apprendimento due: è la naturale conseguenza dell’apprendimento uno; consiste


nell’imparare ad imparare. Per raggiungere questo livello occorre che le situazioni di un certo
apprendimento uno siano simili e comparabili tra loro.

4. L’apprendimento tre: è un cambiamento nel processo di apprendimento due e consiste


nella modificazione dei contesti di apprendimento dell’individuo. Esempi sono la
conversione o gli effetti della psicoterapia, in cui quando ha successo v’è una modificazione
delle premesse cognitive, affettive e sociali.

Paragrafo 5 – APPRENDIMENTO DA MONDI VIRTUALI.

Grazie allo sviluppo dei media esiste l’apprendimento a distanza, come l’e-learning. Si
basa sulla formazione a distanza e non è più il discendente della sapienza a doversi adattare ai
processi di apprendimento, bensì è l’insegnamento ad adeguarsi alle esigenze del
discendente; inoltre vi è un’elevata indipendenza nel processo di apprendimento, visto che si
è svincolati sia dalla presenza fisica che di orari precisi. Occorre però un monitoraggio
costante dell’apprendimento, sia via valutazione esterna che autovalutazione. Vi sono poi i
serious game, quelle attività digitali interattive che attraverso la simulazione virtuale
consentono ai partecipanti di fare esperienze precise ed accurate (anche complesse), in grado
di promuovere attraverso la forma del gioco percorsi attivi, partecipanti e coinvolgenti di
apprendimento nei vari domini dell’esistenza umana. Ovviamente in Italia non si sono mai
visti. L’apprendimento derivante dai serious game è di tipo esperienziale, in cui il virtuale è
una riproduzione attendibile e fedele dei processi di realtà. È un imparare facendo. Infine i
serious game comportano una valutazione dinamica, repentina e in tempo reale, nello stesso
momento in cui un’azione viene svolta.

Paragrafo 6 – FONDAMENTI BIOLOGICI DELL’APPRENDIMENTO.

Mi basti sapere che è l’epigenetica che esplora le possibilità e modalità illimitate


dell’interdipendenza fra gene e ambiente. L’ambiente è (quindi indirettamente anche
l’esperienza) la “terza elica” del DNA, poiché i geni da soli, non sono in grado di agire e
produrre alcun comportamento.

Capitolo 7

MEMORIA E OBLIO

Paragrafo 1 – NATURA DELLA MEMORIA

L'esperienza che facciamo in ogni momento è appresa in base a complessi dispositivi mentali.
L'apprendimento sarebbe inutile se non avessimo la capacità di conservare nella mente ciò
che abbiamo appreso per poter utilizzare le competenze e le conoscenze acquisite in un
momento successivo in funzione delle esigenze individuali e di quelle poste dall’ambiente.

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La conoscenza va immagazzinata nel nostro cervello per poter essere poi recuperata in tempo
successivo. La memoria è la capacità di conservare nel tempo informazioni apprese e di
recuperarle quando servono in modo pertinente. Ogni nuova esperienza comporta dei
cambiamenti nei circuiti nervosi, quindi la memoria è un sistema in continuo divenire¸ nella
sua natura dinamico. Per certi aspetti noi siamo la nostra memoria. Essa è la nostra storia
come individui (memoria personale) e come comunità a cui apparteniamo (memoria
collettiva). Non è la fotografia della storia. Essendo un’elaborazione, una ricostruzione e
una conservazione attiva delle informazioni, implica in ogni caso un certo grado di
distorsione. Solitamente, inoltre, tendiamo a rielaborare nel tempo un miglioramento dei
ricordi (ottimismo mnestico). La memoria è strettamente correlata all’oblio, ma non è un
fattore negativo, perché ci permette di eliminare dalla mente informazioni superflue e lasciare
spazio a nuovi apprendimenti, poiché la memoria non è infinita.

La memoria è di due grandi insiemi: la memoria a lungo termine e la memoria di lavoro


(chiamata una volta a breve termine). La memoria a lungo termine ha una natura multi
sistemica, formata da processi e insiemi anche diversi fra loro. Fra i vari sistemi di memoria
a lungo termine ricordiamo:

-La memoria procedurale riguarda la conservazione delle competenze e procedure con cui
fare le cose; tale memoria è valutabile solo attraverso l’esecuzione delle attività in oggetto.

-La memoria dichiarativa concerne la conservazione delle conoscenze sui fatti che possono
essere acquisite in una volta sola e che sono direttamente accessibili alla coscienza.

- La memoria episodica si riferisce alla capacità di memorizzare e recuperare eventi specifici


e contiene informazioni spaziali e temporali che definiscono il dove e il quando l’evento ha
avuto luogo. In media le donne presentano risultati migliori con questo tipo di memoria.
Questa memoria è talvolta caratterizzata dai flash di memoria, ricordi particolarmente vivi di
eventi sorprendenti che ci hanno colpito in modo profondo a livello emotivo e cognitivo.

- La memoria semantica va considerata come un lessico mentale che organizza le


conoscenze che una persona possiede circa le parole e i simboli e le relazioni fra essi
esistenti. Secondo alcuni studiosi ha sede nei lobi temporali mediali (danni a queste aree
celebrali conducono alla demenza semantica: l’incapacità di ricordare conoscenze
semantiche). Si è ipotizzata l’esistenza di reti semantiche, in grado di collegare una parola
con altre sulla base di relazioni logiche o associative. Mentre l’emisfero sinistro attiva una
rete semantica in modo distinto, selezionando le proprietà essenziali della parola, l’emisfero
destro attiva tale rete in modo distinto includendo proprietà semantiche anche distanti.

La memoria episodica ha a che fare con ciò che ricordiamo, quella semantica con ciò che
sappiamo.

La memoria ha a che fare con la consapevolezza, per questo distinguiamo:

- La memoria esplicita è la conservazione di informazioni che riguardano specifici eventi o


conoscenze generali.

- La memoria implicita riguarda la capacità di ricordare senza averne consapevolezza,


poiché è una conoscenza che si manifesta in prestazioni senza che il soggetto ne abbia
coscienza. (es: abilità motorie).

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La memoria autobiografica indica la capacità di conservare le informazioni e le conoscenze


legate al sé a partire, in media, dal 3° anno d’età. Essendo la memoria in genere una
componente essenziale dell’identità umana, chi soffre di amnesia compromette la propria
identità. È connessa al CORTISOLO, e alti livelli di questo ormone provocano un
deterioramento della memoria autobiografica, come avviene nella depressione.

- La memoria retrospettiva concerne la conservazione e il recupero di ricordi riguardanti


fatti, episodi e conoscenze del passato. È la nostra storia.

- La memoria prospettica è la memoria per gli eventi futuri, il ricordarsi che si dovrà fare
qualcosa.

Paragrafo 2 – MEMORIA COME PROCESSO!

La memoria è un’organizzazione articolata e dinamica delle informazioni che implica una


sequenza continua di processi: la codifica e l’elaborazione delle informazioni, il loro
consolidamento nel tempo e il loro recupero in un tempo successivo in funzione delle nostre
esigenze. Per poter depositare la memoria, prima è necessario codificarla. La codifica
consiste nel trasformare un’informazione in una rappresentazione mentale collocata in un
deposito di memoria.

Ad esempio, pensando all’attenzione, è chiaro che se non prestiamo attenzione ad un


determinato evento lo ricorderemo meno facilmente. L’attenzione, insieme ad altri fattori
emotivi e motivazionali, determinano la forza della codifica. Abbiamo, con la teoria dei
livelli di elaborazione, stimato tre livelli:

1. Livello superficiale: ci fermiamo ad aspetti strutturali e fisici di uno stimolo; ricordiamo


solo il 16% degli stimoli.

2. Livello intermedio: consideriamo anche gli aspetti fonologici di uno stimolo (come suoni,
rime, assonanze); ricordiamo il 57% degli stimoli.

3. Livello profondo: consideriamo le componenti semantiche (significato, appartenenza ad


una categoria). Ricordiamo il 78% degli stimoli.

Vi sono però degli effetti che contribuiscono a dare forza alla memoria:

1. Effetto produzione: quando siamo attivi nella produzione delle informazioni, le


ricordiamo molto di più;

2. Effetto distanziamento temporale: a parità del numero di ripetizioni, la codifica è assai


più potente se è distribuita nel tempo in differenti periodi, anziché in un periodo unico.

Allan Paivio ha sottolineato l’importanza del sistema a doppia elica della codifica: essa è sia
verbale che immaginativa. Le componenti immaginative sono più semplici da ricordare,
primo dal punto di vista filogenetico (sono proporzionalmente più anni in cui l’uomo pensava
per immagini che non per parole), secondo dal punto di vista immediato le immagini sono più
velocemente codificabili e da esse può derivare la componente verbale. Quindi le parole ad

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alto valore di immagine sono più facilmente ricordabili che non quelle a basso valore di
immagine. È grazie alla ritenzione che conserviamo nei magazzini di memoria le
informazioni acquisite. Per favorire questo processo si utilizza la reiterazione (quando ad
esempio per fissare meglio nella mente qualche informazione continuiamo a ripeterla).

Le informazioni immagazzinate sono disponibili ad essere recuperate nel momento opportuno


in base alle nostre esigenze, ma può avvenire anche per caso, quando siamo esposti ad indizi
che ci rievocano nella mente qualcosa già avvenuto. Il recupero delle informazioni è sotteso a
diverse operazioni mentali:

Il recupero delle informazioni è sotteso a operazioni mentali diverse come:

1. Rievocazione: capacità di ricordare in modo spontaneo la quantità massima possibile del


materiale prima esposto;

2. Riconoscimento: capacità di identificare correttamente le informazioni presentate in


precedenza distinguendole da altre informazioni non pertinenti, note come distrattori; 3.
Riapprendimento: capacità di apprendere nuovamente nozioni già conosciute. Questo
metodo si rivelerà essere più veloce e semplice del primo apprendimento.

Nel riconoscimento assume una particolare importanza la familiarità dello stimolo


considerato. Tanto più è elevato il grado di somiglianza fra stimolo di origine e lo stimolo da
riconoscere, quanto più il compito è seguito in tempi rapidi. La memoria come citato prima
può essere distorta.
Falsa attribuzione: fenomeno comune, accade quando uno stimolo è simile ma non uguale
ad uno precedentemente avuto.
Domanda fuorviante: metodo per comprendere quanto la memoria possa essere influenzata
da altri stimoli.

L’esperimento che fecero ad una classe di bambini fu il seguente: fu chiesto loro di che colore
fosse la barba dell’insegnante dell’anno precedente, se nera o castana. Una buona percentuale
rispose in un modo e la restante nell’altro. La verità è che l’insegnante non aveva la barba.
Come già detto, la ricostruzione dei ricordi è un affare puramente soggettivo, poiché basato
sull’esperienza.

Daniel Schacter elencò quelli che egli ritenne essere i “sette peccati” della memoria:

1. Labilità - carenza da omissione: debolezza della memoria a ricordare ciò che abbiamo
fatto a distanza temporale, specialmente se abitudinaria;

2. Distrazione –carenza da omissione: mancanza di attenzione

3. Blocco – carenza da omissione: incapacità di ricordare un’informazione che, in realtà non


abbiamo dimenticato e che ci verrà in mente quando sarà inutile;

4. Errata attribuzione – carenza da commissione: riferire un’informazione di un ricordo a


una fonte o a un contesto sbagliato;

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5. Suggestionabilità – carenza da commissione: induce e crea ricordi falsi;

6. Distorsione – carenza da commissione: indica il processo secondo cui i ricordi del passato
vengono modificati in base alle convinzioni attuali;

7. Persistenza: è l’incapacità di dimenticare, porta alla ruminazione mentale, secondo cui si


torna spesso sugli stessi ricordi, specialmente se son negativi.

Gli studi di tutti questi fattori legati alla memoria sino ad ora citati hanno portato alla
creazione della psicologia della testimonianza, branca della psicologia che si occupa della
validità, attendibilità e accuratezza dei ricordi di un testimone.

La memoria è un processo attivo di ricostruzione delle informazioni che va incontro a


fenomeno particolari di eccitazione o depressione. In caso di eccitazione o esaltazione della
memoria, parliamo di Ipermnesia: capacità lucida di ricordare scene complesse in tutti i
particolari, anche se lontane dal tempo; avviene in caso di eccitazione o esaltazione della
memoria/coscienza, Amnesia: perdita totale o parziale della memoria a seguito di un trauma
fisico o psichico o di una malattia cerebrale. Può essere retrograda quando la perdita di
memoria riguarda le informazioni prima del trauma e anterograda se invece si ricordano gli
eventi passati ma non si avesse più possibilità di ricordare nulla di nuovo (come
nell’Alzheimer).

Paragrafo 3 – OBLIO E DIMENTICANZA


La mente non è in grado di conservare tutto ciò che elabora. Un sistema come la memoria che
raccoglie e conserva le informazioni, deve affrontare due problemi:
A) la selezione delle informazioni in entrata;
B) l’eliminazione delle informazioni non rilevanti o diventate tali.

L’oblio è l’eliminazione volontaria o involontaria di informazioni già memorizzate.


Costituisce una componente adattiva della memoria e va distinto dall’amnesia, poiché
quest’ultima è patologica mentre l’oblio è inevitabile. L’oblio svolge un lavoro di selezione,
poiché pur essendo molto potente non è infinita, ergo se vogliamo ricordare alcuni processi e
funzioni indispensabili, talune informazioni vanno dimenticate. Ci sono svariate ipotesi su
come l’oblio operi, come quella del disuso. La più attendibile comunque è la teoria
dell’interferenza, che è di natura duplice:

a. Interferenza proattiva: i ricordi remoti interferiscono e/o inibiscono l’assimilazione di


nuovi

b. Interferenza retroattiva: i ricordi recenti limitano o danneggiano quelli passati. Questa


spiega come mai è più facile ricordare la sera che non il mattino. Ai processi dell’interferenza
sono correlati gli effetti primacy e recency, già affrontati in Psicologia Sociale.

Infine l’oblio può essere provocato anche dal blocco di un’informazione già depositata in
memoria. Si verifica quando vi sono diverse associazioni riferite ad un indizio e una di esse è
più forte delle altre, ostacolando il recupero totale delle informazioni del target.

Paragrafo 4 – MEMORIA DI LAVORO

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La memoria lavoro (ML) può essere paragonata alla RAM dei pc, dove la memoria a lungo
termine è l’hard disk. Come la RAM, la ML è completamente flessibile rispetto ai contenuti e
quanto più è estesa tanti più “programmi” può far “girare” insieme. La capacità della ML è
direttamente proporzionale alle nostre competenze mentali (intelletto, ragionamento,
linguaggio). Come detto il termine ML viene sostituito a quello precedente, cioè memoria a
breve termine. La MBT è una memoria assai precaria e volatile, di duratura relativamente
breve. In presenza di compiti distrattori la volatilità della MBT può diventare molto elevata,
con una durata di appena due secondi.

Se desideriamo non perdere le informazioni, occorre ripeterle con frequenza per mantenerle
in quel dato spazio chiamato tampone di reiterazione.

La memoria sensoriale è la capacità di mantenere in modo sostanzialmente fedele le


informazioni ambientali. È una memoria modale, poiché corrisponde alle varie modalità
sensoriali. Le informazioni sensoriali vengono tenute nel registro sensoriale. La ML è
suddivisa, secondo il modello Baddeley e Hitch, in quattro sistemi.

1. Esecutivo centrale: è il sistema flessibile per il controllo e la regolazione dei processi


cognitivi richiesti dalla situazione. Governa gli altri tre sistemi, è in grado di cambiare i piani
di reiterazione e attivare momentaneamente la MLT.

2. Circuito fonologico: concerne il parlato e conserva l’ordine in cui le parole sono


presentate.

3. Taccuino visivo-spaziale: riguarda l’immagazzinamento e il trattamento delle


informazioni visive e spaziali, nonché delle immagini mentali.

4. Tampone episodico: sottosistema schiavo, è dedicato a collegare le informazioni


provenienti da diversi ambiti per formare unità integrate e coerenti a partire dalle
informazioni visive, spaziali e verbali a disposizione in funzione dell’ordine cronologico.

Capitolo 8

DECISIONE, RAGIONAMENTO E CREATIVITÀ

Paragrafo 1 – ESPERIENZA DIRETTA E PENSIERO

Solitamente quando abbiamo una sensazione ambigua riguardo a ciò che abbiamo sentito (es:
della figura del bosco al buio), è la nostra prima impressione fare da matrice per le
impressioni seguenti. Questo avviene tramite il sistema di riconoscimento, che ci fa
assumere una certa probabilità a priori sulle impressioni. Quando poi otteniamo nuove
informazioni, siamo disposti a cambiare l’impressione iniziale, ma sempre da essa partono
poi i lavori di elaborazione. Questa procedura è rapidissima e inconscia.

Paragrafo 2 – LA DECISIONE

Quando dobbiamo prendere una decisione, qualsiasi essa sia, si va a creare una sorta di
albero decisionale nella nostra mente. Esso parte dal punto di decisione (il momento in cui
siamo posti dinanzi alla scelta) e si dirama nella possibilità dello status quo (mantenere la
situazione com’è) oppure si dirama verso un’altra scelta. Ovviamente prendere una scelta

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diversa comporta dei rischi (ad esempio finire in una situazione peggiore di quella
precedente), senza contare ovviamente la possibilità del lato positivo; d’altro canto anche il
rimanere sullo status quo può comportare dei rischi (perdere una buona occasione). Quando
siamo posti dinanzi a delle scelte che in possibilità possono o farci vincere o farci perdere,
subentra la tendenza dell’avversione alle perdite, grazie la quale si rischia pure di evitarle
(finendo in possibilità in una situazione di maggiore perdita), questo perché è chiaro il fatto
che le perdite fanno più male rispetto al guadagno. Inoltre quando si vive in questa
avversione, subentra anche l’effetto dotazione, ovvero la preferenza per ciò che si ha per il
fatto stesso che è in nostro possesso. Ovviamente prendere una scelta non è semplice, poiché
subentrano diverse e infinte variabili come il rapporto tra le possibili decisioni, il passare del
tempo e l’utilità soggettiva. Capita alcune volte però che abbiamo cadute dell’autocontrollo,
scegliendo le azioni di gratificazioni immediate. Queste, per quanto piacevoli sul momento,
possono avere pessimi risultati nel futuro (come l’abuso di alcool o l’utilizzo di sostanze
stupefacenti). Siamo indotti a comportarci così da una tendenza ad apprezzare il presente e a
“svalutare” il futuro lontano (tendenza chiamata sconto temporale).

Paragrafo 3 – INDUZIONI, ABDUZIONI, ANALOGIE E CREATIVITÀ

Induzione: ragionamenti che producono generalizzazioni a partire da esperienze, ma che non


conducono a conclusioni necessarie. L’induzione, basandosi esclusivamente sulla propria
esperienza, è in possibilità falsa. (es di Johnson Laird nel bar italiano, pag 210).

Abduzione: è lo strumento che utilizziamo per dare un senso all’induzione; non abbiamo
quindi solo fatto una generalizzazione, ma la abbiamo anche spiegata.

Analogia: metodo ulteriore per produrre conoscenze di fronte a nuove situazioni; procedendo
col cosiddetto ragionamento analogico (es: ho una vite da svitare, non ho un cacciavite
piatto uso uno strumento simile per compiere l’azione per cui il cacciavite era destinato),
deduciamo una conoscenza. Essa, come le abduzioni, ovviamente, non garantiscono
conclusioni certe. Sono cinque i processi che caratterizzano il ragionamento analogico:

1. Recupero: va tenuto nella ML (memoria di lavoro) un bersaglio, mentre si accede a un


caso più familiare che troviamo nella MLT. (memoria a lungo termine)

2. Corrispondenze: tenendo nella ML sia la sorgente sia il bersaglio, bisogna allinearli. La


mente costruisce un ponte che poggia sulle proprietà che sorgente e bersaglio hanno in
comune.

3. Valutazione: decidere se l’analogia è utilizzabile ed efficace.

4. Astrazione: isolare le invarianti tra sorgente e bersaglio.

5. Spiegazione e Predizione: sviluppare ipotesi sul comportamento o sulle caratteristiche del


bersaglio basandosi su quello che si sa della sorgente.

Paragrafo 4 – DEDUZIONI

La deduzione è quella capacità di ricavare conoscenze “vere” a partire da altre conoscenze


“vere”, semplicemente pensandoci su; è stata definita la quintessenza dell’umanità. La logica

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invece consiste nel precisare le regole che permettono di ricavare conclusioni da premesse,
indipendentemente dal fatto che esse siano vere o false. ! Dai primi studi filosofici a.C., dove
si insegnava a convincere gli altri con la retorica e a pensare bene con la propria testa e a
smascherare gli altri con la logica. Da questi primi studi siamo arrivati, solo da una
cinquantina d’anni, alla psicologia sperimentale del ragionamento. Per molto tempo si è
pensato che l’uomo avesse una sorta di logica naturale, un insieme di regole che
producevano le prestazioni corrette. Con gli studi di suddetta psicologia, è stato scoperto
invece che la variabile cruciale non è la logica in sé, bensì il contenuto del ragionamento.

Paragrafo 5 – L’INCOERENZA E LA FOCALIZZAZIONE

L’incoerenza, legata per natura all’irrazionalità (per meglio definire, incongruenza) è un


aspetto abbastanza evidente nella sua natura, ergo non mi cimenterò nella spiegazione di
esempi inutili e prolissi. Per quanto riguarda la focalizzazione è quella sorta di restringimento
della visione su poche opzioni. Tale focalizzazione conduce spesso a ritenersi soddisfatti di
una ricerca delle alternative possibili anche quando la ricerca è incompleta, questo perché ci
fidiamo specialmente nelle nostre medesime impressioni e/o idee. L’errore poi, se prendiamo
ad esempio un caso in cui è necessario scegliere tra l’azione e la non azione, è che ci si
focalizza maggiormente sulla ricerca delle informazioni sull’azione e non sulla non azione.
Tralasceremo dunque la ricerca di informazioni su azioni alternative, ed è sbagliato, poiché
per una migliore soluzione è necessario considerare la maggior parte di variabili.

Paragrafo 6 – SOLUZIONE DI PROBLEMI E CREATIVITÀ

Nella vita incappiamo spesso in problemi di svariata natura; vi sono quelli di semplice e
veloce risoluzione e quelli invece complessi. Per quelli complessi possiamo ricorrere a due
strategie:

a. Suddividere il problema in sotto problemi e risolverli uno ad uno;

b. Non usare algoritmi di soluzioni, ma euristiche.

Gli algoritmi sono una serie di regole che, se adottate esplicitamente, permettono di risolvere
il problema; sono regole utilizzabili quando non vi sono eccessive possibilità. Le euristiche
sono strategie e scorciatoie mentali, regole che non riescono a dare una descrizione esaustiva
delle strategie per giungere alla soluzione. Le euristiche non portano alla soluzione ottimale,
ma possono portare comunque a risultati soddisfacenti. Seguendo la tendenza a focalizzarsi
che abbiamo visto, una delle euristiche più potenti è quella dell’analisi mezzi-fini. A tale
scopo è utile affrontare un problema distinguendo:

1. Stato iniziale: il modo in cui vengono descritte le condizioni di partenza;

2. Stato-obbiettivo: il modo in cui viene illustrato l’obbiettivo;

3. Operatori: operazioni per passare da uno stato all’altro;

4. Stati intermedi del problema: stati che si ottengono applicando un operatore a uno stato
in vista del raggiungimento dell’obbiettivo. Queste quattro componenti definiscono lo spazio
del problema. Simon (1982) mostrò che la risoluzione dei problemi (problem solving) è
comparabile alla progettazione. Inoltre la risoluzione da parte di agenti a razionalità

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limitata (cioè coloro che sono costretti ad usare esclusivamente euristiche, dato il loro limite
cognitivo) procede tramite la decomposizione del problema stesso. Si ottengono così sotto-
problemi che si possono risolvere uno ad uno.

In determinati casi possiamo parlare anche di soluzioni creative dei problemi, cioè soluzioni
pressoché inventate da zero e a cui nessuno ha pensato prima. In qualsiasi caso avvenga la
risoluzione di un problema, per velocizzare il processo è necessario adottare la strategia
basata sulla falsificazione delle ipotesi. Come già noto, tendiamo a focalizzarci su data idea o
ipotesi (meccanismo di fissazione) e questo può portarci a non vedere soluzioni creative
oppure ad una risoluzione veloce e coerente. Quindi, quando creiamo una prima ipotesi
dobbiamo subito pensare a confutare l’ipotesi opposta, in modo da verificare la prima. Siamo
talmente abituati alle funzioni per cui uno oggetto è stato inventato che non riusciamo a
vedere e concepire funzioni alternative. Infine la creatività alla base di scoperte scientifiche
importanti non utilizza processi cognitivi diversi da quelli che utilizziamo tutti i giorni per
risolvere i nostri problemi. È l’importanza sociale, artistica o scientifica del prodotto che ne
determina fama e celebrità.

Capitolo 9

COMUNICAZIONE E LINGUAGGIO

Paragrafo 1 – COMUNICAZIONE, COMPORTAMENTO, INTERAZIONE

Noi siamo esseri comunicanti. La comunicazione non è un mezzo per mettersi in contatto
con qualcuno, bensì un vincolo costitutivo con noi stessi.; costituisce una piattaforma mentale
in cui convergono funzioni:

1. Funzioni cognitive, ove la comunicazione è in stretta connessione con il pensiero, il


ragionamento, l’intenzionalità e l’azione pianificata.
2. Funzioni relazionali, ove la comunicazione avviene nell’interazione con qualcun altro
entro una cornice di socialità persuasiva.
3. Funzioni espressive, ove la comunicazione è in stretta connessione con espressioni
artistiche, come poesia, musica, pittura ecc.

È tramite il simbolo che l’essere umano ha potuto iniziare a comunicare come al giorno
d’oggi. È necessario precisare che la comunicazione non coincide con il comportamento,
inteso come una qualsiasi azione motoria di un individuo osservabile in una qualche maniera
da un altro. V’è però tra essi un rapporto di inclusione: ogni comunicazione è un
comportamento ma non ogni comportamento è una comunicazione, poiché nella
comunicazione deve esserci necessariamente un certo gradi di intenzionalità. Similmente, è
necessario distinguere fra comunicazione e interazione, intesa come qualsiasi contatto (sia
volontario che involontario) fra due o più individui. Come nel primo caso anche qui abbiamo
un rapporto di inclusione: ogni comunicazione è un’iterazione ma non ogni interazione è una
comunicazione. Tutto ciò che non è comunicazione rimane a livello di notizia, cioè dei
semplici dati. Dunque la comunicazione è uno scambio interattivo osservabile fra due o più
individui, dotato di un certo grado di consapevolezza e di intenzionalità reciproca, capace di
partecipare e di far condividere un certo percorso di significati sulla base di sistemi
convenzionali secondo la cultura di riferimento.

Paragrafo 2 – PRINCIPALI PUNTI DI VISTA SULLA COMUNICAZIONE

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Vi sono diversi punti di vista riguardo alla comunicazione; ne sono citati alcuni:

1. Modello matematico: la comunicazione va intesa come una trasmissione di informazioni,


dove l’informazione è intesa come una dimensione della realtà indipendente rispetto a quella
di massa e di energia, poiché essa è espansiva, comprimibile e facilmente trasmissibile.
L'approccio matematico costituisce una teoria forte del codice. Condizione necessaria e
sufficiente per comunicare è avere a disposizione un codice, inteso come un insieme di regole
in grado di associare in modo coerente e biunivoco gli elementi di un sistema con gli elementi
di un altro sistema (es nel codice stradale il rosso significa fermarsi e il verde il c 2. Modello
Semiotico: la semiotica è la scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale;
secondo la semiotica la comunicazione deve specialmente valutare come avviene il processo
di significazione (la capacità di produrre significati).

3. Modello Pragmatico: che differisce dalla semantica (significato dei segni) e dalla sintassi
(relazione formale tra i segni), poiché la pragmatica (che esplora la relazione dei segni coi
parlanti) si occupa dell’uso dei significati. I modi con cui i significati sono impiegati nelle
diverse circostanze.

Grice distinse fra la logica del linguaggio e la logica della conversazione. La prima si occupa
a livello superficiale dei significati; la seconda considera i processi che gli individui usano
per inferire ciò che il parlante intende comunicare. La logica della comunicazione implica la
differenza fondamentale tra il dire e il significare. Fra questi due livelli esiste uno scarto,
poiché ciò che è significato è più esteso di ciò che è detto. Per superare lo scarto è necessario
fare ricorso ad un lavoro mentale chiamato dallo stesso Grice implicatura conversazionale.
Costituisce un impegno comunicativo aggiunto per andare oltre le parole dette, in modo da
individuare l’intenzione comunicativa del parlante. La comunicazione si articola su più piani:
quello della comunicazione intesa come i contenuti che si scambiano e la
metacomunicazione, cioè la comunicazione sulla comunicazione, la cornice con cui
intrepretare i messaggi. La comunicazione diventa lo spazio che crea, mantiene, modifica e
rinnova i legami fra i soggetti. La comunicazione diventa la base costitutiva dell’identità
personale e della rete di relazioni cui ciascuno è inserito.

Paragrafo 3 – NATURA DEL SIGNIFICATO

Secondo la semantica logico-filosofica il significato di una parola o di una frase è dato dal
rapporto che esiste tra linguaggio e realtà. In quanto insieme di condizioni di verità il
significato non è un monolite, ma una realtà articolata, scomponibile in unità specifiche.

Per la semantica vero-condizionale il significato sarebbe composto da un insieme limitato di


tratti semantici, intesi come condizioni necessarie e sufficienti; ad esempio, per descrivere
l’uomo, potremmo usare questi tratti semantici: animato, umano, maschio e adulto. La
semantica strutturale si prefigge di giungere a una definizione esclusivamente linguistica
del significato. Essa concepisce il significato come valore, ossia la possibilità per ogni parola
di essere confrontata e opposta a qualsiasi altra parola della medesima lingua. Facendo un
esempio la parola PERA non è da considerare in senso positivo dell’identità della pera e ciò
che essa è, ma è da considerare riguardo al confronto con tutti gli altri termini opponibili
della lingua. PERA è quello che è poiché nessun altro termine occupa quella posizione in
quella lingua. È una semantica differenziale in negativo: il significato di un termine non è
definito per quello che è ma per quello che non è. La semantica cognitiva ha interpretato il

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significato come il modo con cui comprendiamo le espressioni linguistiche e con cui
rappresentiamo mentalmente la conoscenza della realtà.

È di facile comprensione quindi che il significato, nella sua natura convenzionale, è anche il
prodotto della partecipazione di più persone, è uno scambio interpersonale.

Paragrafo 4 – INTENZIONE COMUNICATIVA

La comunicazione non appare un processo causale e involontario, ma implica una


pianificazione intenzionale, poiché ogni messaggio è voler rendere l’interlocutore
consapevole della propria intenzione. Senza intenzionalità non vi può essere comunicazione.
Quando generiamo un messaggio, abbiamo l’intenzione di voler comunicare qualcosa a
qualcuno. Grice ha distinto tra intenzione informativa (ciò che viene detto) e intenzione
comunicativa (ciò che intendiamo dire). È necessario parlare della forza dell’intenzione,
direttamente proporzionale sia all’importanza dei contenuti trasmessi sia alla rilevanza
dell’interlocutore. Essa genera il fuoco comunicativo, quel processo attivo di concentrazione
dell’attenzione e dell’interesse del parlante su certi aspetti della realtà da condividere con il
destinatario. Esiste dunque una gerarchia delle intenzioni. Lo stesso Grice sostenne che per
avere successo è necessaria una reciprocità intenzionale: uno scambio comunicativo deve
essere caratterizzato non solo dalla manifestazione di un’intenzione comunicativa da parte del
parlante, ma anche del suo riconoscimento da parte del destinatario. In modo più articolato, il
destinatario procede con una reale attribuzione di intenzione al messaggio del soggetto,
percependolo attraverso le proprie idee e intenzioni.

Paragrafo 5 – LINGUAGGIO

Ogni lingua è un sistema simbolico che consiste nella corrispondenza regolare fra un sistema
di differenze di suoni e un sistema di differenze di significati. Ogni linguaggio è ovviamente
composto da simboli arbitrari e convenzionali, e risulta idoneo a generare un numero
illimitato di enunciati e discorsi partire da un numero limitato di elementi (generatività).

La composizionalità della lingua comporta:

a. La sistematicità: gli enunciati possono essere composti solo seguendo le regole sintattiche
previste dalla lingua;

b. La produttività: la lingua permette di generare e comprendere un numero infinito di


significati che possono costituire un numero illimitato di enunciati;

c. La possibilità di dislocazione: la referenza spaziale e temporale diversa da quella


dell’enunciato non fanno perdere significato allo stesso (es: se al bar dirò ai miei amici
“domani ci vediamo in Uni” [dislocazione differente] la semantica non cambia).

La fonetica è lo studio fisico della produzione e percezione dei suoni linguistici. La


fonologia è lo studio dei suoni di una lingua in rapporto alla loro funzione distintiva e
discreta nella comunicazione linguistica. La morfologia è lo studio delle strutture interne
delle parole e descrive le varie forme che esse assumono a seconda delle categorie di numero,
genere, modo, tempo e persona. Il lessico è l’insieme delle parole di una data lingua. La
sintassi è l’insieme organico delle regole che governano la formulazione degli enunciati e dei
discorsi. Chomsky sostenne con la teoria della grammatica universale, e unendo la

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fonologia e la morfologia alla sintassi, che la derivazione grammaticale delle lingue è il


prodotto di un insieme limitato di regole naturali e universali. Per converso, Sapir e Whorf
con la concezione della relatività linguistica, sostennero che il linguaggio sia un prodotto
storico, culturalmente definiti e in grado di influenzare il modo in cui le persone pensano e
agiscono.

Paragrafo 6 – COMUNICAZIONE NON VERBALE

Vi sono diversi sistemi di comunicazione non verbale,

Abbiamo anzitutto il sistema vocale, composto da caratteristiche:

a. Paralinguistiche: variazioni tono, intensità e velocità del parlato, pause comprese;

b. Extralinguistiche: proprietà foniche della voce dell’individuo che dipendono dall’apparato


fonico.

La mimica facciale, in quanto esito dei movimenti volontari e involontari del volto,
costituisce un sistema semiotico privilegiato, poiché è una regione focale del corpo per
attirare l’attenzione e l’interesse degli altri. Le configurazioni universali delle mimiche
facciali furono studiate da Paul Ekman e Wallace Friesen. Anche lo sguardo è un potente
segnale comunicativo, così come i gesti, anche se questi ultimi costituiscono un sistema nv
distinto, articolato in diverse categorie:

1. Gesti iconici: accompagnano il parlato;

2. Pantomima: rappresentare situazioni o azioni;

3. Emblemi: gesti simbolici o stereotipati, come quello dell’autostop;

4. Gesti motori: adattamento in situazioni di stress e di tensioni.


5. Linguaggio dei segni: quello usato dai sordo-muti.

I sistemi di contatto: la prossemica concerne la percezione, l’organizzazione e l’uso dello


spazio, la distanza e del territorio nei confronti di altri.

L’aptica fa riferimento all’insieme di azioni di contatto corporeo con un altro individuo.

Nel loro insieme, i sistemi non verbali di significazione e di segnalazione risultano poco
idonei a definire e a trasmettere conoscenze, soprattutto quelle astratte, poiché presentano un
grado limitato di convenzionanillazione. Per contro si dimostrano potenti ed efficaci per
generare, sviluppare mantenere e modificare le relazioni interpersonali.

Capitolo 10

VALORI, DESIDERI E MOTIVAZIONI

Paragrafo 1 – VALORI E DESIDERI

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Quando compiamo un’azione, non ci comportiamo in modo causale né automatico, ma siamo


orientati a raggiungere uno scopo.

Come esseri umani tendiamo a dare alle cose un valore; per la sicurezza, per l’immagine e
prestigio, per l’economia, per la fede o per avidità ecc…il valore tuttavia non è cosa assoluta,
ma relativa nella sua natura, poiché nient’altro è che una convenzione. I valori sono costrutti
motivazionali che definiscono ciò che consideriamo importante e che indicano quali scopi
siano da raggiungere. Possiamo dunque dire che ha valore ciò che per noi è desiderabile e
positivo. Ognuno ha e si crea la propria gerarchia dei valori. La psicologia del desiderio ha
ricevuto ottimi apporti dalla più recente psicologia positiva; questa ha focalizzato la sua
attenzione sul benessere soggettivo e sulle qualità della vita, seguendo una prospettiva sia
edonica (dimensione del piacere come benessere personale) sia eudaimonica (realizzazione
del piacere come benessere personale). Il desiderio è il tendere a qualcosa il cui
raggiungimento riteniamo ci consentirà di trovarci in uno stato delle cose migliori rispetto a
quello passato e attuale. Per definizione il desiderio è unicamente connesso con la
realizzazione futura ed è strettamente connesso anche con il costrutto della speranza.
Nell’appagamento del desiderio gioca un ruolo fondamentale la ricompensa, che causa
effetti positivi sia a livello neurobiologo sia a livello mentale.

Come detto, essendo il valore una convenzione, è impossibile ritenere corretta l’ipotesi di
valori assoluti, anzi, questa contingenza tipica del valore ha consentito e consente la
formazione di prospettive ispirate al relativismo. D’altro canto però, pur ammettendo questa
natura contingente, dal valore deriva la necessità sia individuale che sociale di creare
gerarchie più o meno ritenute valide per un gruppo consolidato. Facendo un esempio il valore
che diamo all’oro, seppur in maniera convenzionale, è necessariamente diffuso su gran parte
del globo tra molte delle civiltà esistenti. Questi valori comuni fanno si che si crei la
possibilità ad un pluralismo, una via intermedia tra assolutismo e relativismo. Legato al
pluralismo v’è il principio della tolleranza: è la disponibilità degli individui ad accettare la
diversità come risorsa quale condizione per raggiungere forme soddisfacenti di convivenza
tra i gruppi. È la comprensione e il governo delle diversità all’interno del parametro delle
pari dignità. Di conseguenza nasce il principio dell’intolleranza dell’intolleranza, secondo
cui per dare forza al principio della tolleranza, è necessario non tollerare la non tolleranza.

aragrafo 2 – MOTIVAZIONE

La motivazione è una spinta a svolgere una certa attività e si può definire come un processo
di attivazione dell’organismo finalizzato alla realizzazione di un dato scopo in relazione alle
condizioni ambientali. Esistono diversi livelli della motivazione:

a. Riflessi: è il sistema più semplice di risposta dell’organismo come reazione a stimoli


esterni o interni.

b. Istinti: sequenze congenite, fisse e stereotipate di comportamenti specie-specifici su base


genetica in relazione a date sollecitazioni ambientali.

c. Bisogni: condizione fisiologica di carenza e necessità (fame, sete, sesso ecc…)

d. Pulsioni: esprimono uno stato di disagio e di tensione interna che l’individuo tende a
eliminare o, quanto meno, ridurre qualora i bisogni non siano soddisfatti

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e. Incentivi: da distinguere dalle pulsioni, essi rappresentano gli oggetti e/o eventi in grado di
venire incontro ai bisogni dell’individuo.

Quindi ad esempio, un panino può essere l’incentivo per soddisfare un bisogno (fame) che a
sua volta creò pulsioni interne proprio a causa del mancato soddisfacimento.

Le motivazioni possono essere in genere di due tipi:

1. Motivazioni primarie: bisogni fisiologici;

2. Motivazioni secondarie: processi di apprendimento sociale.

Esiste dunque una gerarchia dei bisogni, illustrata da Abraham Maslow, secondo cui se i
bisogni più gerarchicamente elevati non vengono soddisfatti, quelli di livello inferiore
vengono presi poco o niente in considerazione. Il paragrafo 3 è relativo alle motivazioni della
fame come esempio.

Paragrafo 4 – PUNTI DI VISTA SULLA MOTIVAZIONE

Vi sono diverse teorie e ipotesi per spiegare la natura della motivazione.

A. Teoria biologica: alcuni centri nervosi sono sottesi alle motivazioni, quindi si ritenne che
tali centri fossero in grado di spiegare in modo esauriente la loro genesi e il loro svolgimento
e che fossero al servizio dell’omeostasi, concepita come l’esigenza di conservare in modo
stabile nel tempo i livelli di equilibrio adatti per il funzionamento dell’organismo.

B. Concezione comportamentista: il comportamentismo propose un modello esplicativo dei


bisogni degli individui fondato sull’interazione fra pulsioni e abitudini. È la sensazione di
mancato soddisfacimento che porta alla spinta propulsiva.

C. Prospettiva cognitivista: ribalta il punto di vista del comportamentismo, sostenendo che


le motivazioni e bisogni cambiano in rapporto alla qualità delle informazioni provenienti
dall’ambiente che siamo in grado di elaborare. Secondo il cognitivismo tendiamo a
raggiungere il successo cercando di evitare l’insuccesso; inoltre fornisce elementi utili per
spiegare l’induzione di bisogni nuovi negli individui.

D. Interazionismo: secondo il punto di vista interazionista le motivazioni sono suscitate,


alimentate e regolate dall'interazione con gli altri.

Paragrafo 5 – MOTIVAZIONI SECONDARIE

David McClelland individuò tre grandi costellazioni di motivazioni secondarie:

1. Bisogno di affiliazione: ricercare la presenza degli altri per la gratificazione intrinseca che
deriva dalla loro compagnia e dalla sensazione di appartenenza ad un gruppo; uno dei bisogni
di affiliazione più noti e importanti è la relazione di attaccamento che il bambino ha con la
genitrice o con la figura di accudimento principale. Dal bisogno di affiliazione derivano
comportamenti prosociali, che sono alla base dell’aiuto, cooperazione e condivisione. Il caso

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estremo ed emblematico è quello dell’altruismo che genera azioni vantaggiose per terzi,
anche a discapito di un costo personale.

2. Bisogno di successo: consiste nella motivazione a fare sempre meglio per un intrinseco
bisogno di affermazione sociale e di eccellenza. Chi ha tale bisogno tende a prefiggersi
obbiettivi impegnativi ma realistici. Una delle radici di questo bisogno sta nelle aspettative
genitoriali ricevute durante la crescita. Quando tali aspettative sono elevate e realistiche vi è
una buona probabilità che il figlio generi un elevato bisogno di successo. Quando invece le
aspettative sono troppo alte (irraggiungibili) o troppo basse (demotivazionali) è possibile che
il bisogno di successo abbia una natura modesta e contenuta.

3. Bisogno di potere: consiste nell’esercitare in qualsiasi ambito la propria influenza e il


proprio controllo sulla condotta di altre persone. Chi ha questo bisogno tende ad occupare
cariche socialmente elevate ed influenti, e non teme il confronto né la competizione. Vi sono
diversi livelli di leadership: autoritario, democratico e permissivo.

Al di là di questi bisogni, esiste una necessità motivazionale di funzionare per la


soddisfazione derivante dal funzionamento stesso. L’esercitare un’attività è gratificante di per
sé, poiché in tal modo si possono dimostrare competenza e fiducia nelle proprie risorse. Entra
in gioco la competenza di base, intesa come capacità di realizzare con successo i propri
obbiettivi. Su questa piattaforma motivazionale si distinguono:

a. La motivazione intrinseca: svolgere un’attività perché gratificante in sé;

b. La motivazione estrinseca: svolgere la medesima attività per raggiungere un altro scopo.

In linea generale, concludendo, il livello motivazionale del soggetto è dato dalla quantità e
qualità dei suoi interessi, intesi come la tendenza a preferire determinati stati di sé e del
mondo. Gli interessi sono strettamente correlati con il piano emozionale, delineando il
sistema credenze-interessi-emozioni che costituisce il cuore dell’esperienza umana ed è alla
base della definizione della propria identità.

Capitolo 11

EMOZIONI E AFFETTI

Paragrafo 1 – CHE COS’È UN’EMOZIONE

Le emozioni sono processi emergenti in funzione dell’organismo e degli accadimenti


all’interno di un dato contesto (situazionalità). Sono dispositivi mentali di adattamento attivo
all’ambiente, in grado di consentire all’individuo di rispondere in modo flessibile, efficace e
dinamico agli accadimenti contingenti. Le emozioni preparano l’organismo a fornire una
risposta agli eventi in causa e, di conseguenza, hanno una forza motivazionale molto potente.
Sono esperienze globali che coinvolgono in modo sinergico la totalità del nostro organismo,
poiché implicano l’attività di numerose componenti, quali i sistemi somatoviscerali,
percettivi, motori e cognitvi. L’interesse è il cuore delle emozioni, poiché è ciò che
attribuisce significato affettivo agli eventi. È ovvio che le emozioni siano strettamente

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collegate con le relazioni interpersonali; sono indispensabili per avviare, mantenere,


modificare, rafforzare o rompere la relazione con un’altra persona.

Teoria periferica: secondo James, l’emozione è il sentire i cambiamenti a livello


neurovegetativo che hanno luogo a livello viscerale, nel sistema nervoso enterico. È la
situazione rilevante che scatena una data risposta in questo sistema simpatico (come
dilatazione della pupilla, accelerazione del battito, sudorazione, secchezza della bocca,
innalzamento del tono e dell’intensità della voce ecc.…) e noi, percependo il cambiamento,
sentiamo l’emozione. Si evince che il corpo e la mente sono in continua connessione e
influenza reciproca. Si dà inoltre molto peso al sentimento che non coincide con l’emozione,
ma si aggiunge a essa e consente di “sentirla” in modo consapevole.

Teoria centrale: in contrapposizione alla teoria periferica, Cannon espone la teoria centrale
delle emozioni secondo cui i centri di attivazione e di regolazione dei processi emotivi sono
localizzati centralmente nella regione talamica del cervello. I segnali nervosi provenienti da
tale regione sarebbero in grado sia di indurre le manifestazioni delle emozioni, sia di suscitare
le loro componenti consapevoli attraverso le connessioni con la corteccia celebrale. Cannon
sostiene inoltre, in opposizione a James, che tali strutture celebrali attivino una
configurazione specifica di variazioni fisiologiche per ogni emozione. Vi sarebbe una
corrispondenza biunivoca fra ogni esperienza emotiva e il suo corrispondente quadro
neurofisiologico. Entrambe le teorie si sono dimostrate, pur essendo contrapposte, entrambe
vere, poiché entrambe hanno colto (seppur parzialmente) aspetti importanti della vita
emotiva.

Teoria dei programmi affettivi: intorno agli anni sessanta, l’emozione ha iniziato ad essere
studiata anche sotto il punto di vista psicologico e non solo neurobiologo. Rifacendosi alle
teorie evoluzionistiche, molti studiosi asserirono che ogni emozione è regolata da uno
specifico programma affettivo nervoso, evolutosi nel tempo per consentire alla nostra
specie un adattamento efficace al proprio habitat.

All’interno di questa prospettiva, oltre alle analisi dell’evoluzione riguardanti le espressioni


emotive motorie così come comportamenti ed esperienze, sono state individuate sei emozioni
di base (primarie): collera, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa. Esse vanno considerate
come blocchi emotivi evolutivi universali, cui ogni individuo è dotato. È quindi una
concezione categoriale delle emozioni, poiché sono considerate come generi naturali
immodificabili. Le emozioni di altra natura sono miste, dette secondare, e sono delle miscele
delle emozioni primarie. Accenniamo qui che Paul Ekman individuò nelle espressioni facciali
l’universalità delle sei emozioni primarie, in quanto configurazioni distinte del sistema
nervoso autonomo.

Teoria dell’apprasail: sorte intorno agli anni Sessanta sostengono che le emozioni siano
suscitate da un’attività di conoscenza (cognition) e di valutazione (appresail) della situazione
in riferimento ai propri significati, interessi e scopi. L'interesse è il cuore delle emozioni,
poiché è ciò che attribuisce un significato affettivo agli eventi. Questi ultimi sono valutati
come favorevoli o dannosi in riferimento agli interessi di una persona, e la funzione delle
emozioni è quella di soddisfarli. Essi costituiscono un atteggiamento affettivo basilare, e le
emozioni possono essere considerate come una loro variante e un loro sviluppo. Possiamo
distinguere interessi profondi da quelli superficiali: i primi riguardano gli scopi, le aspettative
e i desideri generali condivisi dalla maggioranza delle persone; i secondi concernono scopi e
desideri di una singola persona o di singoli gruppi. Vi è quindi una stretta connessione tra

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interessi e desideri, poiché questi ultimi sono il motore del nostro funzionamento mentale. In
generale individui e culture differiscono profondamente tra loto per la natura e la forza degli
interessi. Il risultato è che essi presentano emozioni diverse. Le emozioni non compaiono in
modo gratuito, all’improvviso, senza una ragione d’essere, come accadimenti imprevisti e
casuali, bensì sono l’esito di un’attività di conoscenza e di valutazione della situazione in
riferimento alle sue conseguenze per l'individuo, alle sue aspettative nonché agli standard
sociali e culturali. Le emozioni cambiano quando cambiando i significai e i valori di
riferimento o quando le situazioni sono valutate in maniera differente. Questo significato
situazionale è fondamentale per capire la diversità e ‘intensità delle emozioni e per spiegare
la dimensione soggettiva dell’esperienza emotiva. La stessa situazione, pertanto, può
suscitare emozioni molto diverse fra loro, allo stesso modo, la medesima situazione può
essere attivata da condizioni differenti.

Il manifestarsi delle emozioni avrebbe dunque una natura esclusivamente situazionale e


contingente e hanno una configurazione componenziale, poiché le emozioni sono intese
come mediatori fra il mondo interno e quello esterno, variando secondo alcune componenti
continue. Da qui nasce la definizione di emozione modale, cioè quell’emozione che è più
compatibile con una data situazione. Es: se veniamo colti di sorpresa da un uomo che ci vuole
derubare, le emozioni modali saranno sorpresa e paura. La prospettiva dell’apprasail
consente inoltre di capire meglio le vicissitudini delle emozioni nel loro decorso, poiché le
stesse non sono solo suscitate dall’avverarsi di tali eventi, ma possono essere suscitate anche
da altre emozioni.

Si ha dunque ad esempio, che nel caso del ladro poc’anzi menzionato, l’emozione modale
della sorpresa dopo tempo variabile scompaia, facendo posto alla collera e/o al disgusto.

Teoria costruttivistica: le emozioni si configurano non come fenomeni biologici bensì come
prodotti sociale e culturali; esse vanno intese come uno standard di condotta sociale,
acquisito verso educazione familiare e scolastica, che indica e prescrive come comportarsi in
date situazioni. Si evince quanto, secondo la teoria, l’emozione sia puramente situazionale,
contingente e nella sua natura relativa. La teoria da inoltre, ovviamente, estrema importanza
alla relazione emozione-memoria, poiché quando si verifica un episodio emotivo, le
informazioni relative agli antecedenti situazionali, alle reazioni fisiologiche, ai
comportamenti messi in atto, ai significati e ai sentimenti sono organizzati in circuiti di
memoria che costituiscono lo “schema” di quell’episodio emotivo. La ripetizione del
medesimo episodio o di episodi simili favorisce il consolidamento della memoria e a questo
punto anche soltanto una parte dello schema può attivare la specifica emozione
corrispondente.

Paragrafo 2 – PRINCIPALI COMPONENTI DELLE EMOZIONI

Le componenti puramente neuro-fisiologiche cui riferirsi riguardo all’emozione sono


l’ipotalamo e l’amigdala.

L'ipotalamo svolge la funzione di governo del sistema autonomo ed è la sede della


regolazione centrale dell’ambiente interno dell’organismo (omeostasi: temperatura, fame,
sazietà, sete, sessualità ecc…). Esso produce reazioni emotive complete, riscontrabili negli
atteggiamenti predatori, difensivi, competizioni intrasessuali ecc…presenti in tutte le forme

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animali. In generale, l’eccitazione dell’ipotalamo posteriore e mediale genera in modo


prevalente risposte simpatiche ad alta attivazione, come collega e paura; mentre la
stimolazione dell’ipotalamo anteriore e laterale produce risposte parasimpatiche a bassa
attivazione, come tristezza e depressione.

L’amigdala, invece, è un sistema di connessione e di raccordo fra tutte le informazioni


sensoriali provenienti dall’ambiente e i vari sistemi di risposta emotiva. Dal punto di vista
mentale le emozioni sorgono come risposta alle informazioni che definiscono il significato
delle situazioni (come visto nell’apprasail). Le emozioni positive sono contingenti,
rispecchiano i cambiamenti e diminuiscono con il ripetersi degli stimoli piacevoli, mentre
quelle negative persistono nel tempo. Questo avviene a causa della nostra inclinazione a
prestare maggiore attenzione e a imparare di più dalle informazioni negative che da quelle
positive. È la distorsione della negatività, intesa come disposizione generale ad essere
influenzati molto più dalle info negative che da quelle positive. Come detto, le emozioni sono
connesse con la memoria. Ma possono influire positivamente o negativamente con la
memoria stessa. In generale, rispetto agli stimoli neutri, quelli emotivi suscitano un
potenziamento della memoria, specialmente nella donna che rafforza i processi di memoria
con gli eventi emotivi. L’attivazione emotiva condurrebbe a mettere a fuoco le parti centrali e
salienti dell’episodio emotivo (restringimento dell’attenzione) a svantaggio delle
informazioni periferiche.

Questa memoria tunnel sarebbe l’esito combinato di una forte attivazione dell’organismo e
di una valenza negativa degli stimoli. Parliamo anche di memorie flash, ricordi connessi con
eventi pubblici fortemente emotivi (come l’assassinio di Kennedy o il crollo delle Twin
Towers). Nei disturbi da stress post-traumatico le persone manifestano rilevanti disturbi
della memoria, in cui si alternano intrusioni involontarie dei ricordi del trauma (flashback o
incubi notturni) e assenza di ricordi (amnesia traumatica, deterioramento mnemonico e
frammentazione di ricordi).

3.1 insorgenza delle emozioni

In generale, le emozioni sono generate da una molteplicità di cause, poiché, nello stesso
tempo, presentano alcuni aspetti universali (attivazione di specifici processi neurofisiologici),
altri comuni a un gruppo di persone, altri ancora esclusivamente individuali.

Secondo la prospettiva evoluzionistica, le pressioni selettive dell’ambiente hanno dato forma


alle emozioni come modelli di attivazione e di risposta dell’organismo a specifiche categorie
di stimoli, al fine di assicurare la sopravvivenza della specie. Vi è una corrispondenza fra la
categoria degli stimoli e la condotta emotiva conseguente. Ogni emozione svolge una
specifica funzione per garantire il raggiungimento di uno scopo. Le emozioni, quindi,
sorgono come conseguenza dell’attivazione di specifici programmi nervosi, a loro volta
innescati dalla comparsa di certi stimoli ambientali.

Nel flusso della vita quotidiana, assieme agli accadimenti attesi, avvengono eventi particolari
che attirano la nostra attenzione, che toccano i nostri interessi e che sono da noi valutati come
rilevanti. In queste circostanze, proviamo emozioni. In questo senso, l’emozione è
un’interruzione nel corso continuo dell’esperienza e costituisce un segnale di allerta per
l’organismo. È un segnale interno di attenzione con valore di precedenza, in grado di
interrompere le altre attività, per consentire all’individuo di raccogliere le sue risorse e di
fornire una risposta pronta, pertinente ed efficace alla nuova situazione.

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Siamo una specie ultra sociale e nello stesso tempo la più emotiva. È ovvio che le emozioni
siano strettamente intrecciate con le relazioni interpersonali. Le emozioni sono indispensabili
per avviare, mantenere, modificare, rafforzare o rompere la relazione con un’altra persona. La
qualità dei rapporti interpersonali, i desideri e le aspettative, le credenze e le valutazioni degli
altri, incidono profondamente su occorrenza, decorso, tempi, modi e intensità delle
esperienze emotive. In particolare, la violazione delle aspettative, suscita rilevanti risposte
emotive, poiché tali aspettative forniscono una guida su quando e come le emozioni
dovrebbero essere provate. Questa condizione, ha promosso negli esseri umani la comparsa
delle emozioni autoconsapevoli (colpa, vergogna, imbarazzo, orgoglio). Allo stesso tempo,
sono emozioni che riguardano la nostra immagine, associata ad aspetti sociali rilevanti
(onore, pudore, autostima, senso di responsabilità). Ogni cambiamento di tale immagine in
senso sia positivo (successo, affermazione), sia negativo (fallimento, trasgressione), suscita in
noi una di queste emozioni autoconsapevoli. I legami interpersonali suscitano una gamma
molto estesa di emozioni in riferimento a vari giochi umani (umiliazione, imbroglio,
esaltazione, persecuzione, inganno, seduzione). Gioia, felicità e amore, collera, disprezzo e
pausa, ansietà e stress, sorpresa e altre emozioni costituiscono l’intreccio principali delle
emozioni provate in concomitanza con lo svolgimento di questi giochi.

Le emozioni rappresentano degli indicatori palesi per una costante lettura dello stato
psicologico dell’individuo, in quanto impegnato nell’affrontare e nel condividere con altri le
varie situazioni. Sono una sorte di spettro che riflette il grado e la natura dell’adattamento
attivo del soggetto al proprio ambiente.

Una volta provata un’attivazione del nostro organismo, dobbiamo darvi un nome ed
“etichettarla”. Non è un processo automatico né così ovvio come potrebbe apparire. Tale
difficoltà trae origine dalla discrepanza fra ciò che sentiamo e il vincolo di chiudere tale
esperienza in una categoria. Le nostre “sensazioni interne”, chiamate da David Dennet
“qualiia” sono spesso impalmabili e sfuggenti. Diventa importante quindi riflettere su ciò che
è stato definito il “lessico emotivo”. Sembra esistere un soddisfacente grado di somiglianza
nei concetti emotivi fra le varie culture, almeno a livello superficiale. Ma l’ipotesi
universalista delle emozioni non appare oggi così scontata, poiché si scontra con l’evidenza
della “diversità dei lessici emotivi”. Ogni cultura ha elaborato il proprio lessico emotivo, in
funzione del quale gli individui riescono a segmentare e circoscrivere le proprie esperienze
emotive, dare loro un nome, comunicarle, condividerle e riconoscerle negli altri.

Le categorie emotive sono costrutti articolati e rimandano a esperienze che nascono, si


sviluppano e si esauriscono nel tempo. In quanto tali, le emozioni seguono un copione o
“script”, inteso come una forma schematica di rappresentazione mentale di un evento,
organizzata in modo sequenziale a livello temporale e psicologico. Sono scomponibili in una
sequenza di sottoeventi conoscibili che compongono l’emozione stessa: le situazioni
antecedenti, le cause e le credenze, i desideri e gli interessi, i cambiamenti fisiologici, le
espressioni verbali e non verbali, le azioni di risposta. Tali componenti dell’esperienza
emotiva si svolgono secondo una data sequenza e sono organizzate secondo una certa
articolazione in modo da definire la sua configurazione globale. Il modello dello script
emotivo comporta un metodo di analisi e sintesi, di scomposizione e ricomposizione
dell’esperienza emotiva nelle sue diverse componenti essenziali e tipiche. Indica il percorso
mentale utilizzato per cogliere, assemblare e ordinare le informazioni derivanti dal flusso
degli eventi, nonché per impiegarle in modo efficace. Nello stesso tempo, lo script consente
di collegare in modo interdipendente gli aspetti semantici delle emozioni con le pratiche
quotidiane ad esse connesse.

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Non solo le emozioni sono “sentite” ma altresì manifestate all’esterno dell’organismo.


Diversamente dai pensieri, fantasie e dai ricordi, le emozioni emergono in modo visibile dal
nostro corpo attraverso una serie molto estesa di indizi più o meno palesi, compresi micro
indizi.

Per primo Darwin si è chiesto se le espressioni facciali delle emozioni fossero culturalmente
invarianti. Collera- disgusto- paura-gioia- tristezza-sorpresa sono le sei emozioni di base,
uniche e universali, presenti in tutte le culture, già presenti al momento della nascita. Sulla
base di questi dati, Ekman ha sostenuto che le espressioni facciali delle emozioni siano
biologicamente programmate, universali e univoche, costanti in tutte le culture, ammettendo
però che nella loro esibizione esistono rilevanti differenze culturali. Tali differenze espressive
sono generate e governate dalle “regole di esibizione” apprese nei primi anni di vita in
funzione delle esperienze e degli apprendimenti culturali. Data una certa situazione
impariamo a esprimere le emozioni così come le stiamo provando. Nell'analisi delle
manifestazioni emotive facciali occorre distinguere “espressioni genuine” (involontarie e non
intenzionali) e quelle “false” (volontarie e intenzionali). Le prime corrispondono a esperienze
veramente sentite dall’organismo in funzione dell’attivazione dei processi neurofisiologici; le
seconde sono finte e posate, segni di simulazione e finzione sociale. Ogni persona, facendo
riferimento a questo, ha la possibilità di apparire emotivamente appropriata in una data
situazione sociale, perché in grado di individuare e rispettare gli standard e le aspettative
culturali in atto. In questo caso, l’osservatore ingenuo è incapace di discriminare
un'espressione genuina da una simulata. Per questo è fondamentale il “contesto”, poiché esso
è in grado di fornire gli indizi necessari per attribuire un significato attendibile all’espressione
facciale. La stessa espressione può generare espressioni facciali diverse. La percezione delle
manifestazioni di un’emozione è quindi multimodale poiché coinvolge l’organismo nelle sue
diverse modalità e sua volta il contesto fisico e quello sociale sono fondamentali per il
processo qui in esame.

EFFETTO KULESOV, anche la successione, reale o arbitraria, degli stimoli emotivi modifica
il modo intrinseco la loro valutazione. L'effetto kulesov, dal nome del regista, dimostrò il
valore fondamentale del montaggio per far percepire l’espressione dei personaggi in un certo
modo. Se l’espressione neutra di un volto è fatta precedere da una scodella di zuppa, gli
spettatori percepiscono la sensazione di fame nei suoi occhi; se è anticipata dall’immagine di
un cadavere, colgono una profonda tristezza nello sguardo; se prima vi è l’immagine di una
donna nuda, allora viene individuata eccitazione. Le espressioni facciali delle emozioni sono
influenzate dal contesto sociale, effetto uditorio. La presenza degli altri svolge una funzione
di inibizione quando si tratta di esperienze negative e spiacevoli, per contro assume un valore
di facilitazione in presenza di eventi favorevoli e piacevoli.

Ad oggi, senza gli indizi contestuali, le espressioni emotive corrono il rischio dell’ambiguità.

Come esseri umani, non solo proviamo emozioni, ma siamo anche in grado di procedere alla
loro regolazione. La “regolazione delle emozioni” consiste nel dare forma alla condotta
emotiva a fronte di un evento saliente, in modo da orientare la sua esperienza e
manifestazione nel senso più consono ed efficace con la situazione. È un processo che
mettiamo in atto molto spesso. Inoltre è possibile modulare la risposta emotiva attraverso la
condivisione sociale delle emozioni. Il 90% delle persone di età diverse condivide con gli
altri le proprie emozioni, di solito nel giorno stesso in cui le hanno provate. Il fatto di parlare
di ciò che si prova con altri favorisce la definizione del loro significato e della loro rilevanza

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personale e sociale, consente di ottenere aiuto, conforto e consolazione aumentano la


possibilità di tollerare la situazione.

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