L'ITALIA GIOLITTIANA
La crisi di fine secolo e inizio di un nuovo corso politico: la fine dell'età umbertina
La fine dell'età umbertina
Negli ultimi anni del XIX secolo, l’Italia attraversò un periodo di profonda crisi caratterizzato da conflitti sociali e dal fallimento delle sue ambizioni coloniali. I governi
di Depretis e Crispi avevano tentato un’espansione imperialista in Eritrea e in Etiopia, ma la loro politica si rivelò disastrosa, culminando nella sconfitta di Adua del
1° marzo 1896. Questo evento segnò la fine, almeno temporanea, delle aspirazioni coloniali italiane.
Parallelamente, il paese era scosso da un’intensa conflittualità sociale. Nonostante alcuni tentativi di riforma a favore di contadini e operai, i governi dell’epoca si
concentrano principalmente sul mantenimento dell’equilibrio del bilancio statale. Per farlo, aumentarono le tasse, colpendo soprattutto i ceti popolari. Ciò alimentò
scioperi e proteste sia nelle campagne che nelle fabbriche. Il governo rispose con estrema durezza, ricorrendo alla repressione violenta e all’adozione di misure
autoritarie, tra cui restrizioni alla libertà di stampa e di associazione.
Uno degli episodi più sanguinosi avvenne nel 1898, quando il generale Bava Beccaris ordinò di usare i cannoni contro la folla a Milano, causando numerose vittime.
La repressione accese ulteriormente il malcontento e rafforzò il fronte dell’opposizione, che vedeva uniti socialisti e sinistra liberale. La tensione culminò il 29 luglio
1900 con l’assassinio del re Umberto I, ucciso dall’anarchico Gaetano Bresci, che voleva vendicare la strage di Milano. Questo evento segnò simbolicamente la fine
di un’epoca di violente contrapposizioni sociali e politiche in Italia.
Il governo Zanardelli
Dopo l’assassinio di Umberto I, il trentunenne Vittorio Emanuele III salì al trono con un’impostazione politica più progressista rispetto al padre. Fin da subito
manifestò l’intenzione di abbandonare l’autoritarismo repressivo e di favorire il dialogo per affrontare le profonde tensioni sociali che dividevano il paese. A conferma
di questo nuovo orientamento, nel febbraio 1901 affidò la formazione del governo a Giuseppe Zanardelli, leader della sinistra liberale, il quale nominò Giovanni
Giolitti ministro degli Interni. Entrambi avevano già dimostrato in passato un atteggiamento più aperto e riformista: Zanardelli, nel 1890, aveva abolito la pena di
morte e concesso un limitato diritto di sciopero, mentre Giolitti si era distinto per una posizione conciliante nei confronti del movimento dei Fasci Siciliani.
Il 4 febbraio 1901, durante un dibattito parlamentare sugli scioperi di Genova, Giolitti espose una visione innovativa del rapporto tra Stato e società, sostenendo
che il governo dovesse mantenere una posizione di neutralità nei conflitti tra operai e industriali. Secondo questa impostazione, lo Stato non doveva schierarsi
automaticamente dalla parte dei padroni, ma favorire il dialogo e rispettare le leggi per risolvere le tensioni sociali. Questa linea politica caratterizzò l’azione del
governo Zanardelli, che rimase in carica fino al novembre 1903 e promosse importanti riforme.
Tra le misure più significative vi fu l’introduzione di una legislazione sociale volta a tutelare il lavoro delle donne, a limitare quello minorile e a garantire un sistema di
assicurazione per la vecchiaia e gli infortuni sul lavoro. Inoltre, venne istituito il Consiglio Superiore del Lavoro, con il compito di mediare tra le diverse categorie di
lavoratori e avanzare proposte legislative in materia sociale. Un’altra innovazione importante fu la legge sulla municipalizzazione, che trasferiva la gestione di servizi
pubblici essenziali, come trasporti, energia elettrica e gas, dai privati ai comuni, rafforzando così il ruolo dello Stato nella regolamentazione del benessere collettivo.
La nascita di nuove organizzazioni sindacali
La nuova legislazione e la politica di neutralità del governo nei conflitti lavorativi favorirono la crescita e l’azione delle organizzazioni sindacali. In diverse città del
centro e del nord Italia si diffusero le Camere del Lavoro, alcune di nuova formazione e altre ricostituite dopo la chiusura imposta negli anni della repressione. Un
momento cruciale fu la fondazione, nel 1906 a Milano, della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), la prima organizzazione sindacale nazionale, strutturata
in diverse categorie professionali, tra cui operai metalmeccanici, tessili, ferrovieri e braccianti.
Anche nel settore agricolo si formarono nuove associazioni: nel 1901, a Bologna, nacque la Federterra, che si impegnò nella lotta per migliori salari, la riduzione
dell’orario di lavoro e la collettivizzazione delle terre. Sebbene molte di queste organizzazioni avessero una matrice socialista, anche il mondo cattolico iniziò a
strutturarsi in difesa dei lavoratori. Nacquero così le Società di mutuo soccorso cattoliche per gli operai e le Leghe bianche nelle campagne, che fondarono le casse
rurali, istituti bancari che offrono prestiti ai contadini con tassi agevolati. Tuttavia, mentre i sindacati socialisti mantenevano un atteggiamento di forte opposizione ai
governi, quelli cattolici erano generalmente più concilianti e in competizione con i socialisti per il consenso tra i lavoratori.
Da Zanardelli a Giolitti
Il 3 novembre 1903, a causa di gravi problemi di salute, Giuseppe Zanardelli si dimise dalla carica di presidente del Consiglio e fu sostituito da Giovanni Giolitti, che
avrebbe guidato il governo quasi ininterrottamente fino alla Prima guerra mondiale. La sua azione politica fu così determinante da dare il nome all’intero periodo,
noto come “età giolittiana”.
Giolitti si impegnò a proseguire la linea riformista avviata dal governo Zanardelli, cercando di gestire i conflitti sociali senza ricorrere alla repressione. Nonostante le
nuove leggi sul lavoro e la nascita delle organizzazioni sindacali, le tensioni tra lavoratori e ceti padronali non si placarono. Il governo continuò a evitare l’uso della
forza contro le proteste operaie, anche se l’atteggiamento fu meno tollerante nei confronti delle manifestazioni contadine. Parallelamente, Giolitti tentò di ampliare la
base sociale dello Stato liberale, adottando una politica più aperta verso i socialisti e i cattolici, due forze politiche fino a quel momento ostili ai liberali. Questa
strategia mirava a stabilizzare il sistema politico e a integrare nuovi gruppi nella vita istituzionale del paese.
socialisti e cattolici: nuovi protagonisti della vita politica italiana
Riformisti e rivoluzionari
Il Partito Socialista Italiano (PSI) nacque nel 1892 per iniziativa di Filippo Turati con il nome di Partito dei Lavoratori. Fu il primo partito di massa in Italia e divenne
rapidamente il principale punto di riferimento per le classi operaie, soprattutto nel Nord del paese, mentre nel Meridione faticò a radicarsi.
Al suo interno emersero presto due correnti: quella riformista e quella rivoluzionaria. I riformisti, guidati da Turati, si ispiravano alla socialdemocrazia tedesca e
ritenevano che i socialisti dovessero partecipare alla vita parlamentare, collaborando con le altre forze politiche per ottenere riforme fondamentali come il suffragio
universale, la libertà sindacale, l’istruzione obbligatoria e la rinuncia alla politica coloniale. Secondo questa visione, il compromesso con la borghesia liberale
sarebbe stato solo temporaneo, finalizzato a rendere irreversibili tali conquiste.
La corrente rivoluzionaria, guidata da Arturo Labriola, respinge invece ogni forma di collaborazione con i governi borghesi, sostenendo che il socialismo potesse
realizzarsi solo attraverso una rivoluzione armata, sintetizzata nel cosiddetto “programma massimo”.
Nel congresso del 1900, il programma minimo proposto dai riformisti fu approvato con un’ampia maggioranza, ma ciò non indebolì l’influenza dei rivoluzionari, che
nel 1904 organizzarono il primo sciopero generale su scala nazionale in Europa e continuarono a esercitare una forte leadership nelle Camere del Lavoro di città
come Milano e Parma.
I cattolici e la politica: verso una maggiore partecipazione
Dopo l’unificazione, anche il mondo cattolico mantenne un atteggiamento ostile nei confronti dello Stato liberale. Il contrasto risaliva al 1870, quando l’Italia aveva
occupato Roma con la forza, provocando la reazione di papa Pio IX, che rifiutò ogni rapporto con il nuovo Stato e proibì ai cattolici di partecipare alla vita politica
attraverso la formula non expedit (“non conviene”). Tuttavia, col tempo divenne evidente che questa esclusione danneggia soprattutto la Chiesa, isolandola dai
cittadini del Regno d’Italia e privandola di ogni influenza sulle decisioni politiche.
Molti lavoratori cattolici, inoltre, cominciarono a sentire la necessità di battersi per una maggiore giustizia sociale, senza per questo aderire alle organizzazioni
socialiste. Gradualmente, quindi, i cattolici tornarono a prendere parte alla vita politica, inizialmente appoggiando i candidati liberali nelle elezioni. Un momento
decisivo fu la pubblicazione, nel 1891, dell’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, che sancì l’impegno della Chiesa a occuparsi della questione sociale e favorì la
nascita delle prime organizzazioni cattoliche, segnando l’inizio di un loro ruolo più attivo nella politica italiana.
Anche nel mondo cattolico, come nel Partito Socialista, esistevano diverse correnti in contrasto tra loro. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento aveva prevalso la linea
degli intransigenti, contrari a qualsiasi integrazione dei cattolici nello Stato liberale. Con il tempo, però, questa posizione perse forza a favore dei moderati, che
vedevano nella collaborazione con i liberali un modo per contrastare l’ascesa del socialismo.
Accanto a queste due correnti, vi era un terzo orientamento più innovativo, legato al modernismo, il cui principale esponente fu il giovane sacerdote Romolo Murri.
Egli cercò di dar vita a un movimento democratico cristiano che si occupasse attivamente della politica e delle problematiche delle classi popolari. Tuttavia, il suo
programma fu osteggiato sia da Leone XIII sia da Pio X, che, in sintonia con le alte gerarchie ecclesiastiche, lo consideravano troppo radicale. Murri criticava
apertamente il sistema liberale, accusandolo di non tutelare adeguatamente le classi più umili. Di fronte alle sue posizioni, Pio X lo sospese dal sacerdozio e,
quando nel 1909 Murri si candidò alle elezioni nazionali come deputato radicale, lo scomunicò definitivamente.
la politica interna di giolitti
Giolitti e Turati
Fin dal suo insediamento come ministro degli Interni, Giolitti si era mostrato aperto al dialogo con i socialisti, ritenendoli non una minaccia per lo Stato liberale, ma
una componente essenziale della nazione. Secondo la sua visione, il loro coinvolgimento nella vita politica avrebbe potuto favorire la regolazione dall’alto dei
processi economici e produttivi, contribuendo così allo sviluppo del capitalismo in Italia.
Una volta divenuto presidente del Consiglio, cercò di rafforzare questa strategia invitando i socialisti a entrare nel governo, rivolgendosi in particolare a Filippo
Turati, leader della corrente riformista del PSI. Un’alleanza con i socialisti moderati avrebbe avuto anche il vantaggio di isolare l’ala rivoluzionaria del partito.
Tuttavia, Turati rifiutò la proposta: i rapporti di forza all’interno del PSI erano cambiati e la corrente rivoluzionaria aveva guadagnato maggiore peso, rendendo
impraticabile qualsiasi collaborazione con un governo borghese. Di conseguenza, il tentativo di Giolitti di aprire ai socialisti si concluse con un fallimento.
Il sistema giolittiano e le varie riforme
Dopo il rifiuto dei socialisti, Giolitti cercò sostegno in altre aree politiche, convinto che coinvolgere il maggior numero possibile di uomini politici nella gestione del
governo li avrebbe resi più consapevoli delle sue difficoltà e responsabilità. Il suo programma riformatore ottenne l’appoggio di gruppi eterogenei, dai liberali
progressisti ai conservatori, creando una maggioranza parlamentare che, più che su basi ideologiche, si reggeva sulla sua leadership. Per questo motivo, alcuni
storici hanno parlato, seppur con una certa esagerazione, di “dittatura giolittiana”.
Tra il 1903 e il 1914, Giolitti guidò diversi governi e attuò importanti riforme. Tra il 1904 e il 1906 varò leggi per favorire lo sviluppo del Mezzogiorno, con interventi
per l’industrializzazione della provincia di Napoli, la modernizzazione agricola in Basilicata e la costruzione di un acquedotto in Puglia. Inoltre, promosse la
nazionalizzazione delle ferrovie per migliorare la gestione del trasporto ferroviario, ridurre i costi per le industrie e garantire risorse pubbliche per il potenziamento
del settore. Questa riforma fu sostenuta dai socialisti riformisti, che la vedevano come un modo per sottrarre profitti ai privati a favore della collettività, ma fu
osteggiata dai socialisti rivoluzionari, preoccupati che i ferrovieri perdessero il diritto di sciopero. Nonostante le resistenze, la legge fu approvata e il 1° luglio 1905
nacquero le Ferrovie dello Stato. Nel quadro del progressivo processo di democratizzazione che stava investendo gli Stati liberali, Giolitti ritenne opportuno ampliare
il diritto di voto per avvicinare le masse alle istituzioni. Nel 1911 propose il suffragio universale maschile, che fu approvato nel 1912. La nuova legge concedeva il
voto a tutti i cittadini maschi di almeno 21 anni con licenza elementare e agli analfabeti sopra i 30 anni, escludendo però ancora le donne. Grazie a questa riforma,
gli elettori passarono dal 9% al 24% della popolazione italiana, segnando un’importante svolta nella partecipazione politica del Paese.
Il patto Gentiloni
Sempre nel 1912, Giolitti fece approvare il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, con l’obiettivo di rafforzare il primato dello Stato sul settore privato.
Questa misura mirava a creare un fondo utile per la previdenza sociale e le pensioni, rendendo più organico il sistema avviato con le precedenti riforme del governo
Zanardelli. Grazie alla nuova legge elettorale, le elezioni del 1913 segnarono un’importante svolta: il numero degli elettori passò da 3 a quasi 9 milioni. In questo
nuovo scenario, Giolitti comprese la necessità di rivolgersi all’elettorato cattolico, non solo per la sua ampia diffusione sul territorio, ma anche per la forza
organizzativa delle associazioni cattoliche.
Pur essendo un politico di formazione laica, Giolitti aveva già mostrato interesse per una collaborazione con il mondo cattolico. Tuttavia, la sua apertura fu
soprattutto dettata dal fallimento dell’alleanza con i socialisti e dalla necessità di trovare nuovi interlocutori. Questo portò alla stipula del patto Gentiloni, dal nome di
Vincenzo Gentiloni, presidente dell’Unione Elettorale Cattolica Italiana. Secondo l’accordo, i cattolici promisero di sostenere i candidati liberali per evitare il successo
dei socialisti, mentre Giolitti si impegnò a non approvare leggi contrarie agli interessi della Chiesa, come quelle sul divorzio o sulla limitazione delle scuole
cattoliche. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita, i liberali ottennero la vittoria con il sostegno esplicito della Chiesa e del mondo cattolico. Questo segnò la
fine dello storico conflitto tra la borghesia liberale e il papato, uniti dalla comune opposizione al socialismo.
Il decollo dell'industria e la questione meridionale
Una fase di Crescita
A partire dal 1896, l’Italia conobbe un’importante fase di sviluppo industriale, interrotta solo temporaneamente dalla crisi economica mondiale del 1907. Questo
processo di modernizzazione trasformò il paese in una nazione parzialmente industrializzata, anche se ancora lontana dal poter competere con le grandi potenze
europee come Gran Bretagna, Francia e Germania.
L’industria italiana non era del tutto assente già nell’Ottocento: il settore tessile aveva avuto una certa crescita e, negli ultimi decenni del secolo, si erano registrati
tentativi di sviluppo della siderurgia, come dimostra la fondazione delle Acciaierie di Terni nel 1884. Tuttavia, queste realtà produttive erano ancora fragili e
penalizzate da un contesto economico internazionale sfavorevole.
Alla fine dell’Ottocento, con la conclusione della lunga crisi che aveva colpito l’Europa, iniziò una nuova fase di espansione economica, che in Italia si tradusse in un
aumento significativo della produzione industriale. Crebbe il Prodotto Interno Lordo, il reddito pro capite e così il consumo di ciascuna famiglia.
I fattori della crescita
L’Italia, nonostante la sua economia prevalentemente agricola e la scarsità di materie prime, riuscì a sviluppare un settore industriale significativo, soprattutto
durante l’età giolittiana. Questo processo fu reso possibile grazie all’intervento dello Stato, alla riorganizzazione del sistema bancario e alla modernizzazione delle
infrastrutture. Il governo ebbe un ruolo centrale nello sviluppo industriale, finanziando la costruzione della rete ferroviaria, il potenziamento dei trasporti e il
rafforzamento della flotta da guerra. Inoltre, il protezionismo doganale introdotto nel 1887 con la cosiddetta “guerra delle tariffe” contro la Francia consentì alle
industrie italiane di affermarsi, proteggendole dalla concorrenza estera e permettendo loro di vendere i propri prodotti a prezzi più elevati.
Parallelamente, la riforma del sistema bancario contribuì alla crescita del settore industriale. La fondazione della Banca d’Italia garantì un maggiore controllo e
coordinamento del credito, mentre la nascita delle banche miste – istituti capaci di offrire sia credito ordinario sia finanziamenti alle imprese – fornì un sostegno
essenziale allo sviluppo industriale. Il Credito Italiano favorì in particolare il settore chimico e siderurgico, mentre la Banca Commerciale Italiana sostenne l’industria
elettrica, settore emergente che avrebbe avuto un ruolo sempre più importante nella modernizzazione del paese.
I settori strategici
L’industrializzazione italiana si concentrò principalmente su tre settori: la siderurgia, la meccanica e l’industria elettrica. La siderurgia si sviluppò attorno a poli
industriali e cantieri navali situati lungo la costa ligure e tirrenica, con stabilimenti chiave come quello dell’Ansaldo di Genova. Sebbene fosse un’industria con costi
di produzione molto elevati, la crescente domanda di acciaio e ghisa da parte del settore meccanico – per la costruzione di treni e navi – e di quello militare – per la
produzione di armi – contribuì alla sua espansione. La meccanica, in particolare nel comparto dei trasporti ferroviari e navali, beneficiò dell’intervento statale, mentre
l’industria elettrica crebbe grazie agli investimenti delle banche, diventando un settore chiave per l’industrializzazione del paese.
Un caso emblematico dello sviluppo industriale italiano fu la nascita dell’Ilva, che dimostrò il forte legame tra industria e finanza. La siderurgia, infatti, richiedeva
ingenti investimenti in macchinari e impianti, e per questo era fondamentale garantire una domanda costante di acciaio per rendere sostenibili i costi di produzione.
Inizialmente, il settore incontrò difficoltà, ma con il sostegno dello Stato e delle banche riuscì progressivamente a consolidarsi.
Nonostante questi progressi, l’industria italiana rimase comunque indietro rispetto alle grandi potenze europee come Gran Bretagna, Francia e Germania. Tuttavia,
il paese compì un passo fondamentale verso la modernizzazione, avviando un processo di industrializzazione che, pur limitato ad alcune aree geografiche e settori
specifici, rappresentò un cambiamento significativo rispetto alla precedente economia prevalentemente agricola.
Lo sviluppo della siderurgia ebbe un impatto diretto sull’industria meccanica, che dipendeva dalla lavorazione dell’acciaio per la produzione di macchinari e
componenti. Tuttavia, a differenza del settore siderurgico, quello meccanico non beneficiò della protezione garantita dalla tariffa doganale del 1887 e dovette
affrontare la forte concorrenza delle industrie straniere. Nonostante queste difficoltà, alla fine del XIX secolo si verificarono importanti progressi, in particolare nel
settore automobilistico, con la fondazione nel 1899 della FIAT a Torino, destinata a diventare il principale polo dell’industria automobilistica italiana.
Anche il settore elettrico conobbe un notevole sviluppo, grazie soprattutto all’industria idroelettrica, che permise all’Italia di ridurre la propria dipendenza dal
carbone, una risorsa di cui il paese era carente. L’elettricità divenne essenziale non solo per il funzionamento delle fabbriche, ma anche per l’illuminazione pubblica
e domestica. Tra il 1896 e il 1913, il numero di società elettriche in Italia crebbe rapidamente, passando da circa venti a oltre duecentocinquanta, concentrate
principalmente nel Nord. Tra le aziende più rilevanti emerse la milanese Edison, fondata nel 1883, che riuscì a imporsi sul mercato e ad acquisire il controllo di
numerose società minori, trasformandosi in un colosso del settore.
Oltre alla siderurgia, alla meccanica e all’industria elettrica, anche altri comparti industriali registrarono una forte espansione. Tra questi, l’industria chimica, che
conobbe uno sviluppo significativo soprattutto nella lavorazione della gomma, grazie all’attività della società Pirelli di Milano. Complessivamente, tra la fine
dell’Ottocento e lo scoppio della Prima guerra mondiale, la crescita della produzione industriale italiana fu talmente marcata da essere definita il “primo miracolo
economico italiano”, un fenomeno che avrebbe trovato un parallelo nel secondo dopoguerra, tra gli anni Cinquanta e Sessanta.
Lo squilibrio tra nord e sud
Nonostante il forte sviluppo industriale, l’Italia presentava un grave squilibrio territoriale, con un’industrializzazione concentrata esclusivamente nel Settentrione e
l’esclusione del Mezzogiorno. Il riformismo di Giolitti, pur portando innovazioni significative, non riuscì a ridurre il divario economico tra Nord e Sud, un problema che
già i governi precedenti, sia di destra che di sinistra, non erano riusciti a risolvere. Anzi, con la crescita economica, questa disparità si accentuò ulteriormente.
Gli interventi statali a sostegno dell’industria beneficiarono soprattutto le regioni già più avanzate, dotate di infrastrutture adeguate, di un sistema di trasporti
sviluppato e di manodopera qualificata. Il risultato fu che, alla vigilia della Prima guerra mondiale, l’Italia moderna si identificava con il cosiddetto “triangolo
industriale”, delimitato dalle città di Genova, Torino e Milano. Il Mezzogiorno, invece, restava ai margini del processo di modernizzazione. Sebbene Giolitti avesse
promosso alcuni interventi per favorire lo sviluppo del Sud, questi non furono sufficienti a rimuovere le cause profonde della sua arretratezza economica.
Le cause dell’arretratezza del Mezzogiorno erano oggetto di un ampio dibattito tra intellettuali e politici italiani. Secondo Gaetano Salvemini, uno dei principali
critici di Giolitti, il problema principale risiedeva nella persistenza del latifondo, un sistema di grande proprietà terriera di origine feudale, posseduta da pochi ricchi
proprietari che non si curavano di sfruttarla adeguatamente, lasciandola incolta o affidandola a contadini poverissimi privi di risorse.
Alla base della questione meridionale, dunque, c’era la mancata riforma agraria, che avrebbe dovuto redistribuire la terra ai contadini, ma che non era mai stata
attuata. Per Salvemini, l’unico modo per favorire lo sviluppo del Sud era abolire il latifondo, incentivare la formazione di una piccola e media proprietà terriera e
promuovere riforme che garantissero un maggiore decentramento amministrativo, rendendo più democratica la società rurale.
Le riforme negate
La politica proposta da Salvemini non era rivoluzionaria, ma riformista, eppure risultava comunque troppo radicale per Giolitti. Il suo riformismo, infatti, era
fortemente orientato allo sviluppo industriale e si concentrava su aree già parzialmente modernizzate, senza includere il Mezzogiorno.
Una delle ragioni di questa esclusione era il fatto che Giolitti basava il proprio consenso anche sull’appoggio dei grandi latifondisti meridionali, dai quali dipendeva
una parte importante del suo sostegno politico. Mentre si era dimostrato disponibile verso le rivendicazioni operaie del Nord, non aveva mostrato la stessa apertura
nei confronti dei braccianti del Sud. Al contrario, per tutelare gli interessi dei proprietari fondiari, non aveva esitato a far intervenire l’esercito per reprimere le
manifestazioni contadine. Giolitti consolidava il suo potere ricorrendo a metodi discutibili, tra cui la corruzione e il controllo del voto, soprattutto nel Mezzogiorno e
nelle isole, dove l’influenza dei partiti di sinistra era più debole. Per ottenere risultati elettorali favorevoli, si serviva dei notabili locali e persino della mafia. In un’Italia
che si stava modernizzando, questi metodi apparivano sempre più inaccettabili, tanto che Gaetano Salvemini definì Giolitti “ministro della malavita”.
Anche il Partito Socialista, troppo concentrato sulle condizioni operaie del Nord, trascurava le problematiche del Sud, contribuendo così al mancato avvio delle
riforme proposte da Salvemini. Nel frattempo, il Mezzogiorno fu colpito da gravi catastrofi naturali: nel 1906 l’eruzione del Vesuvio causò centinaia di morti, mentre
nel 1908 un devastante terremoto distrusse Reggio Calabria e Messina, provocando 80.000 vittime. Giolitti destinò ingenti risorse pubbliche ai soccorsi e alla
ricostruzione, ma questi interventi non riuscirono a cambiare in modo duraturo la condizione di arretratezza della popolazione meridionale.
L’industrializzazione non riuscì a risolvere tutti i problemi storici della società italiana. Se nelle grandi città le condizioni di vita degli operai migliorarono, grazie anche
alla riduzione dell’orario di lavoro, nelle campagne, soprattutto nel Mezzogiorno, la situazione restava drammatica. I contadini, che rappresentavano più della metà
dei 34 milioni di abitanti del paese, vivevano ancora nella miseria e nell’arretratezza. L’analfabetismo colpiva quasi un terzo della popolazione, con percentuali che
superavano il 50% nelle regioni meridionali.
Di fronte a questa condizione di povertà e alla mancanza di prospettive, molti contadini scelsero di lasciare la propria terra e cercare fortuna altrove, dando vita a un
fenomeno migratorio di grandi proporzioni.
La politica coloniale e la crisi del sistema giolittiano
La politica estera di Giolitti
Dopo la sconfitta di Adua nel 1896, l’espansione coloniale voluta da Crispi venne momentaneamente interrotta e sostituita da una politica di relazioni diplomatiche
più concilianti con gli altri Stati europei. Giolitti, una volta al governo, scelse di proseguire su questa strada, cercando di rafforzare i legami con tutte le potenze,
nonostante l’Italia fosse formalmente alleata con Germania e Austria-Ungheria nella Triplice Alleanza. In particolare, cercò di migliorare i rapporti con la Francia, con
cui in passato vi erano stati diversi contrasti.
Tuttavia, questa politica pacifica si fece sempre più difficile da mantenere con il progressivo deterioramento delle relazioni tra le grandi potenze europee. Tra il 1905
e il 1911 si verificarono due crisi internazionali legate al Marocco, mentre nel 1908 l’Austria-Ungheria approfittò della crisi dell’Impero ottomano per annettere la
Bosnia-Erzegovina. Quest’ultima mossa irritò profondamente l’Italia, che non era stata consultata, nonostante la Triplice Alleanza prevedesse un obbligo di
reciproca informazione tra i suoi membri in caso di iniziative diplomatiche o militari.
Nuove ambizioni coloniali
L’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria evidenziò il ruolo marginale dell’Italia all’interno della Triplice Alleanza e contribuì a rafforzare il
nazionalismo, che trovava sempre più sostenitori tra gli intellettuali, la classe politica liberal-conservatrice e alcuni gruppi economici. Molti chiedevano al governo di
adottare una politica estera più decisa e di rilanciare l’espansionismo coloniale, interrotto dopo il 1896. Tra i nazionalisti si diffuse l’idea che la trasformazione
dell’Italia in una potenza coloniale, al pari di Francia e Inghilterra, avrebbe ridotto l’emigrazione, permettendo agli italiani di lavorare per il proprio paese anziché per
nazioni straniere.
Queste rivendicazioni nazionaliste si scontravano con la politica di equilibrio sociale perseguita da Giolitti, poiché tendevano ad avvicinare conservatori e cattolici,
isolando i socialisti, storicamente contrari al colonialismo e al militarismo. Tuttavia, per mantenere il controllo dello schieramento conservatore, Giolitti non poté
ignorarle e decise di riprendere l’espansionismo, concentrandosi sul Mediterraneo. In particolare, la sua attenzione si rivolse alla Libia, allora sotto il dominio
dell’Impero ottomano, su cui le potenze europee avevano riconosciuto all’Italia un diritto di influenza. Il progetto di conquista libica ottenne il sostegno non solo dei
nazionalisti, ma anche di alcuni gruppi industriali, che avrebbero beneficiato delle spese militari, e di importanti settori finanziari, come il Banco di Roma, interessato
a espandersi nel mercato nordafricano.
La guerra di Libia
Giolitti era consapevole dei rischi legati a un’avventura coloniale e temeva un nuovo disastro come quello di Adua, che avrebbe compromesso la sua posizione
politica. Inoltre, diffidava dei nazionalisti e delle loro idee, ma la pressione a favore della guerra era troppo forte. Il contesto internazionale, poi, spingeva in questa
direzione: quando la Francia ottenne il diritto di occupare il Marocco al termine della seconda crisi marocchina, il governo italiano decise di agire e lanciò la
campagna di conquista della Libia.
La guerra iniziò il 28 settembre 1911. L’esercito ottomano, consapevole della superiorità militare italiana, evitò scontri diretti e adottò tattiche di guerriglia, rendendo
il conflitto più lungo e difficile del previsto. Solo dopo più di un anno di combattimenti e pesanti perdite, l’Italia riuscì a ottenere la vittoria. Il 18 ottobre 1912 fu
firmata la pace di Losanna, che sancì la sovranità italiana sulla Libia e l’occupazione temporanea del Dodecaneso, un gruppo di isole greche strategicamente
rilevanti.
Terminata la guerra, la Libia venne divisa nelle colonie di Tripolitania e Cirenaica, e il governo incentivò l’immigrazione italiana. Le grandi città costiere come Tripoli
e Bengasi assunsero un aspetto sempre più simile a quello delle città italiane, alimentando l’illusione che la regione fosse ormai parte integrante del paese. Tuttavia,
la popolazione araba dell’interno non accettò mai l’occupazione straniera, e la resistenza, alimentata da motivazioni patriottiche e religiose, non si spense mai del
tutto. Per sedare la guerriglia, l’esercito italiano ricorse a dure repressioni e violenze, smentendo nei fatti la propaganda ufficiale, che presentava il colonialismo
italiano come un’operazione di civilizzazione e progresso per le popolazioni locali.
Nuove tendenze politiche
Giolitti era consapevole che la conquista della Libia avrebbe aumentato il suo consenso tra gli italiani, ma la guerra del 1911-1912 segnò un punto di svolta nella
sua politica, entrando in contraddizione con le scelte fatte fino ad allora e rafforzando tendenze politiche e culturali incompatibili con il suo sistema di governo. I
principali sostenitori del conflitto erano stati i nazionalisti, che trassero dalla vittoria un grande vantaggio, consolidando l’idea dell’imperialismo come via per
rafforzare lo Stato e contrastare il socialismo. Tuttavia, i nazionalisti non si limitavano a opporsi alla lotta di classe, ma rifiutavano anche l’ideologia liberale, di cui
Giolitti era considerato il principale esponente.
Nel frattempo, anche il Partito Socialista subì una trasformazione: i riformisti, che fino a quel momento avevano mantenuto un dialogo con Giolitti, vennero messi in
minoranza dai socialisti rivoluzionari, contrari a qualsiasi compromesso con lo Stato liberale. Così, due correnti opposte – il nazionalismo imperialista e il socialismo
rivoluzionario – divennero protagoniste della scena politica, rendendo difficile la politica di mediazione parlamentare su cui si basava il giolittismo. A peggiorare la
situazione, nel 1913 una nuova crisi economica, seppur meno grave di quella del 1907, aumentò il malcontento e acuì le tensioni sociali, rendendo sempre più
arduo il governo del paese attraverso il compromesso.
Le dimissioni di Giolitti
Il 4 marzo 1914, a seguito delle dimissioni di alcuni ministri, Giolitti lasciò la guida del governo, cedendo il posto ad Antonio Salandra, un liberale di tendenze più
conservatrici. La sua scelta fu dettata da un calcolo politico: come già accaduto in passato, pensava di ritirarsi temporaneamente per poi tornare al potere in un
momento più favorevole. Tuttavia, la situazione del paese era profondamente mutata, e la sua strategia si rivelò inefficace.
Le tensioni sociali si acuirono ulteriormente e trovarono la loro massima espressione nella “settimana rossa”, un’ondata di scioperi e proteste che sconvolse l’Italia
centro-settentrionale tra il 7 e il 14 giugno 1914. La scintilla fu l’uccisione di alcuni anarchici durante una manifestazione antimilitarista, evento che scatenò
un’ondata di agitazioni, particolarmente violente nelle Marche e in Romagna. Alcuni vi videro l’inizio di un’insurrezione rivoluzionaria, ma il movimento, privo di una
direzione chiara, fu rapidamente represso. L’episodio segnò in modo evidente il fallimento del tentativo giolittiano di conciliare le masse popolari con le istituzioni
liberali, evidenziando la frattura ormai insanabile tra il governo e una parte sempre più ampia della società.