Centro Internazionale di Studi Liturgici
The Roman Canon and the Eucharistic Prayers
Colloquium XIV
Istituto Maria Ss.ma Bambina, Roma, 30 gennaio 2025
1) Presentazione del colloquio
Prof. Rubén Peretó Rivas
Il Centro Internazionale di Studi Liturgici (CIEL) si è dedicato, nel corso della sua storia quasi
trentennale, a incoraggiare e promuovere lo studio della liturgia, intesa non solo come parte
integrante della vita e della spiritualità cristiana, ma anche come disciplina scientifica.
Uno degli aspetti della liturgia che è stato studiato con interesse negli ultimi anni è la sua
dimensione sensibile. Più avanti presenteremo un progetto di ricerca in tal senso nel quale
participiamo.
[…]
Rabano Mauro fornisce una definizione della liturgia che ne sottolinea il carattere sensoriale,
costituito da tutti gli elementi che la compongono, compresa la dimensione sonora. Qui, tutti questi
elementi appaiono come “luoghi” di espressione del sacro, destinati a servire come
mezzo per esprimere il sacro e come modello per coloro che partecipano alla liturgia,
incoraggiandoli a diventare “immagine” del tempio di Dio e a coltivare gli ornamenti del loro cuore,
che si riflettono nel rito, in particolare nel suono e nelle immagini. Per Rabano Mauro, la liturgia
non deve essere considerata semplicemente in termini di testi sacri, ma anche nel suo
aspetto “multidimensionale”, con la sua sensorialità e la sua realtà “performativa”, in cui i vari
elementi visivi e sonori appaiono come elementi costitutivi del rito.
Il rito diventa allora l'espressione della costruzione del tempio interiore che ogni cristiano e ogni
uomo deve intraprendere nel profondo del suo essere per diventare “immagine” del tempio di Dio e
contribuire alla realizzazione del piano divino, cioè alla costruzione del tempio della Chiesa. Così,
l'uomo che costruisce il proprio tempio interiore sulla base dei vari elementi sensoriali del rituale sta
imitando o seguendo le orme del “Saggio Architetto”, in parole del autore.
[…]
I teologi del Medioevo hanno espresso una concezione molto particolare della dimensione sonora
della liturgia attraverso la nozione di “buona tonalità” o “giusta tonalità”. Nel IX secolo,
Walafrido Strabone, nel suo grande trattato sulle “cose liturgiche” - uno dei principali commenti alla
liturgia del periodo carolingio, insieme agli scritti di Amalario di Metz - propone una lettura della
dimensione sonora della liturgia in stretta relazione con l'allegoria biblica, una lettura fortemente
segnata dalla concezione performativa dei riti in generale e dei “diversi modi di pregare e della
diversità delle voci”, per usare le parole dell'esegeta carolingio.
[…]
Questo tipo di studi, come quello che ho appena citato relativo alla dimensione e all'importanza
degli elementi sonori nella liturgia, ci mostrano la necessità e l'importanza del lavoro che ci siamo
prefissati al CIEL. Proprio per questo motivo, vi ringraziamo per esservi uniti a noi in questa
occasione.
2) «Il latino del Canone Romano»
R.P. Jean-Christophe de Nadaï, O.P. (Le Saulchoir, Paris)
L'obiettivo è quello di effettuare un'analisi stilistica del canone romano, al fine di individuarne la
genialità specifica. Per “stile” intendiamo la terza delle cinque parti dell'arte oratoria, che gli antichi
chiamavano elocutio, cioè la scelta delle parole e la stesura vera e propria del discorso.
[…]
La questione dell'eloquenza cristiana è senza dubbio una questione del nostro secolo. Nasce
dall'imbarazzo di alcuni di fronte a una retorica ritenuta pomposa nella sua indiscreta deferenza nei
confronti di un Dio che ci impegna in un rapporto di carità, cioè di amicizia, che esige maggiore
semplicità. Questi tratti “solenni” sono tanto più evidenti nella liturgia rinnovata, poiché il canone
viene pronunciato ad alta voce. Ancor più della maggiore ampiezza della Prima Preghiera
Eucaristica, hanno molto a che fare con il suo abbandono nella pratica odierna, a favore
della Seconda e Terza Preghiera, una preferenza giustificata dalla loro semplicità, considerata più
biblica.
[…]
Propongo che questo quarto libro del De doctrina christiana di San Agostino serva da guida per
l'analisi stilistica del canone romano. In questo modo, sfruttiamo il fatto che i due testi sono
probabilmente contemporanei e che è noto che il primo lavoro di Agostino fu quello di insegnare
l'eloquenza, per cui fu uno dei maestri delle scuole di retorica a cui si attribuisce l'origine di questa
preghiera.
[…]
In quanto preghiera, il canone romano è l'anima stessa della predicazione cristiana, che esprime
direttamente. Sappiamo anche che il Signore si è compiaciuto di dare alla preghiera dei suoi fedeli e
della sua Chiesa “la dignità della causalità”, per dirla con Pascal, quando ha comandato: Chiedete e
vi sarà dato (Mt 7,7). Dio sa di cosa ha bisogno la sua Chiesa, eppure non intende darle nulla che
non abbia chiesto.
Ogni preghiera eucaristica è così avvolta nella storia dell'Istituzione, in cui il dono di Dio alla sua
Chiesa si compie ex opere operato. In quanto narrazione più che discorso, e in quanto efficace più
che persuasiva, non appartiene all'ordine retorico. Ma è il luogo in cui il dono è immediato rispetto
alla richiesta del dono, che è marcata nella Quam oblationem, dove il sacerdote chiede expressis
verbis la conversione delle specie nel corpo e nel sangue di Cristo.
[…]
L'ethos retorico su cui si basa il canone romano risiede, ci sembra, nella tensione tra questa
abdicazione tutta religiosa dell'uomo di fronte alla maestà di Dio, che dà a questa preghiera il suo
colore caratteristico, e le notazioni brevi, ma tanto più notevoli e significative, attraverso le quali il
popolo cristiano e colui che parla in suo nome rivelano la certezza di essere figli, senza osare
dichiarare direttamente questa condizione se non attraverso questo tipo di tratti; proprio come il
figlio prodigo medita di dire: Padre, non sono degno di essere chiamato tuo figlio, eppure in fondo
sa di essere figlio, indignandosi che i lavoratori del padre abbiano una sorte migliore della sua.
[…]
Così, per quanto la Chiesa sia umiliata davanti a Dio nella persona del suo ministro, si erge in piedi
alla sua presenza e gli offre una preghiera, la cui fattura non è affatto avvilente: una prosa di alta
fattura, piena degli ornamenti che la retorica raccomanda per affascinare le orecchie degli
ascoltatori umani con la varietà e l'armonia delle sue cadenze. In assenza di tale scopo, si tratta
quindi di un'offerta a Dio, resa possibile dalla certezza della sua carità paterna, poiché il sentimento
della sua immensa maestà gli avrebbe altrimenti chiuso la bocca e reso muto.
3) Alcune riflessioni a partire da una descrizione comparativa delle anafore del primo
millennio
Rev. Gabriel Díaz Patri
Secondo autori come Bouyer, la preghiera sinagogale ebraica sarebbe già fissata nel primo secolo e
il rito eucaristico dei primi cristiani avrebbe semplicemente mutuato la sua prima parte da un
servizio di tipo sinagogale.
Tuttavia, verso la metà del XX secolo sono stati iniziati per la prima volta dei studi scientifici sulla
storia della liturgia sinagogale e questo ad opera di studiosi ebrei, tra cui spunta soprattutto Joseph
Heinemann, in ampie pubblicazioni, ma in particolare al suo volume fondamentale Prayer in the
Talmud: Forms and Patterns e nel suo insegnamento.
Questi studi hanno messo in luce l'eccessiva semplicità della fondazione delle teorie che
presupponevano che la preghiera ebraica fosse rimasta immutata per otto o nove secoli dato che il
più antico rituale ebraico completo conosciuto è la compilazione di Amram Gaon, che risale solo al
IX secolo, cioè un secolo dopo il più antico manoscritto del Sacramentario Gelasiano e diversi
secoli dopo le anafore cristiane attestate in papiri come quelli di Strasburgo, Barcellona o
Manchester. Di un periodo precedente abbiamo alcuni manoscritti trovati per caso nel 1896 nella
genizah di una sinagoga del Cairo, un'antica chiesa cristiana che era stata convertita in sinagoga
nell'882, quindi alcuni di quelli manoscritti potrebbero risalire all'VIII secolo. Per quanto riguarda
Amram Gaon (il capo della yeshiva di Sura, in Mesopotamia) avrebbe ricevuto l’incarico dagli
ebrei di Spagna di documentare l'ordine delle preghiere e le loro leggi ma non disponiamo di un
manoscritto con la versione originale del siddur, ma solo di versioni vive filtrate dalle tradizioni dei
suoi utilizzatori. Per questo motivo, è impossibile sapere quali parole Amram abbia effettivamente
scritto.
[…]
Al contempo, però a volte quella influenza non consisteva nel fatto che i cristiani adottassero le
stesse usanze degli ebrei, ma che facessero il contrario per distinguersi dagli ebrei, mentre altre
volte potevano essere gli ebrei a dover differenziare le loro pratiche da quelle dei cristiani. Non
possiamo comunque scartare del tutto la possibilità che tanti siano semplicemente casi di sviluppi
paralleli del tutto indipendenti piuttosto che la reazione di uno all'altro. Oggi se vede infatti che il
cristianesimo primitivo e il giudaismo tannaitico sono due religioni che si sono formate nello stesso
periodo e nelle stesse condizioni. Non c'è motivo per non ipotizzare uno sviluppo parallelo e
reciproco delle due religioni, durante il quale talvolta il giudaismo ha interiorizzato le idee del suo
rivale piuttosto che il contrario.
[…]
Inoltre, i cristiani moderni che vogliono studiare la liturgia dei primi secoli devono fare una vera e
propria acrobazia mentale. Sono talmente abituati a rituali scritti, completi e obbligatori, che
rischiano di proiettare il modo di funzionamento attuale della liturgia sui primi secoli della Chiesa.
La verità è che per il primo millennio la liturgia è stata organizzata secondo pratiche molto diverse
dalle nostre: tradizione orale e autonomia istituzionale erano la regola.
Per questo motivo, la documentazione disponibile sui primi secoli è per forza di cose limitata, e la
sua interpretazione è tanto più difficile in quanto ci si chiede continuamente se si tratti di un
campione sufficientemente rappresentativo.”
La cultura orale è infatti un aspetto fondamentale per comprendere la liturgia del primo millennio.
Ma concetti come apprendimento e trasmissione “a memoria”, ad essa strettamente legati, non
hanno in questo caso il significato che evocano per noi, cioè un testo fisso che si impara
memorizzando fedelmente e poi si ripete tale e quale. Infatti, la cultura orale include sempre in
qualche misura un elemento di “improvvisazione” che porta a un'inevitabile variabilità del testo,
che pur conservando la sua identità essenziale è “incarnato” in formulazioni diverse. Riproduzione
fedele in queste culture non è sinonimo di “letteralità” (che, come lo dice il nome stesso,
presuppone l'esistenza di “lettere”, che però per definizione qui non ci sono, visto che si parla
proprio di trasmissione “orale”).
[…]
È urgente una seria revisione della metodologia utilizzata per lo studio dello sviluppo della liturgia
nel primo millennio, e in particolare dell'anafora. La metodologia solitamente utilizzata, che cerca
di ripristinare un ipotetico “urtext” applicando i principi sviluppati nel XIX secolo per realizzare
una “edizione critica” di un testo classico, presuppone l'esistenza, a un certo punto, di un testo unico
prodotto da un Virgilio, un Cicerone o un Orazio. Tuttavia, questo metodo, applicato a testi liturgici
(sia cristiani che ebraici) nati in un contesto totalmente diverso, è chiaramente inadeguato. Diventa
dunque necessaria una revisione della visione abituale, che tenga conto delle caratteristiche della
cultura orale in cui sono nati e che è stata presente in qualche forma fino all'epoca carolingia e
anche dopo (sarebbe interessante applicarla, per essempio, allo studio delle abbondanti varianti di
testi più recenti come le “apologie” e altri corrispondenti alle chiamate “parti molli” della liturgia).
Una lettura alla luce della cultura orale, che, per quanto più limitata nel corso del tempo, era ancora
predominante, e del suo correlato, l'improvvisazione sulla base di schemi prefissati, potrebbe far
luce su aspetti in cui l'identità essenziale e allo stesso tempo l'aggiunta o la sottrazione di elementi,
così come le variazioni di vocaboli ed espressioni non si spiegano a sufficienza se viste come
varianti testuali dovute all'intervento di un copista in un contesto di cultura scritta.
4) Presentazione Volume degli Atti
Il Centro Internazionale di Studi Liturgici, CIEL, è stato fondato nel 1994 nel contesto dello
sviluppo della liturgia tradizionale dopo la promulgazione del motu proprio Ecclesia Dei nel 1988.
Il suo obiettivo era “facilitare la pietà attraverso una migliore conoscenza dei tesori della liturgia
della Chiesa”.
Era un'iniziativa guidata ed eseguita da laici. Ma era il loro compito? E ancora oggi, spetta a noi
laici occuparci di un argomento apparentemente clericale come la liturgia? La risposta è
affermativa. E per due motivi.
- Il primo è che la liturgia è un tesoro che appartiene a tutta la Chiesa nella sua cattolicità, non solo
nello spazio ma anche nel tempo. Mentre è il clero a celebrare la liturgia, i laici vivono di essa.
Certo, non potremmo vivere una vita cristiana senza i sacramenti e non potremmo entrare nei
misteri della fede, nel mysterium tremens et fascinans, senza la liturgia. Proprio per questo motivo,
la liturgia è nostra come di coloro che hanno ricevuto il sacramento dell'Ordine.
- Il secondo è che prendiamo alla lettera gli inviti della gerarchia che, dal Concilio in poi, invitano
noi laici ad assumerci le nostre responsabilità con iniziative proprie. Negli ultimi anni abbiamo
sentito parlare con grande insistenza dei mali del clericalismo. Vogliamo collaborare con Papa
Francesco per porre fine a questo flagello.
Tra il 1994 e il 2003, la CIEL ha organizzato undici colloqui universitari di tre giorni in Francia, a
Roma e a Oxford, durante i quali professori e ricercatori hanno offerto le loro riflessioni sui vari
aspetti teologici, canonici, storici e spirituali della liturgia perennis.
Dopo questi colloqui, gli atti sono stati regolarmente pubblicati in cinque lingue - oggi introvabili -
e inviati a più di mille vescovi, università e comunità religiose in tutto il mondo. Ciò ha reso il CIEL
una delle istituzioni pioniere di una rinascita dell'interesse per la tradizione liturgica, nel quadro di
quello che il cardinale Ratzinger ha definito il “nuovo movimento liturgico”.
Quando i colloqui sono stati ripresi nel 2020, si è deciso non solo di pubblicare gli atti di questi
incontri, ma anche di ripubblicare gli atti dei primi colloqui, soprattutto quelli con i contenuti più
preziosi, per renderli nuovamente disponibili agli interessati. Così, il volume che presentiamo ora
contiene articoli scientifici attuali e altri meno recenti, ma ugualmente interessanti e di valore.
In questa occasione, presentiamo il terzo volume, che ha una prefazione del cardinale Robert Sarah
e una prefazione di padre Claude Barthe, in cui sviluppa alcuni aspetti della concelebrazione della
Messa nel rito romano.
Le opere raccolte sono le seguenti, in ordine alfabetico:
Padre Claude Barthe, noto liturgista e autore di numerose opere su questa disciplina, sviluppa il
particolare tipo di “concelebrazione” che era in uso a Lione fino alla riforma di Paolo VI e che, in
forma simile, veniva celebrata anche in diverse diocesi francesi fino alla metà del XIX secolo. Si
trattava di un'imitazione del rituale dell'antica concelebrazione romana, di cui la concelebrazione
del Giovedì Santo a Lione era l'ultima vestigia: il pontefice celebrava con l'assistenza di tutto il suo
“senato”, cioè di un certo numero di sacerdoti che lo circondavano e consacravano con lui. Lo
sviluppo storico descritto dall'autore ci permette non solo di apprezzare la solennità di tali
cerimonie, ma anche di notare che questa concelebrazione era di natura molto diversa da quella
odierna.
Il cardinale Brandmüller, ex presidente della Pontificia Commissione di Scienze Storiche, affronta
un tema di grande attualità: la predicazione dei laici. Nella Chiesa non può esistere una predicazione
da parte di persone non ordinate, né sacerdoti donne, né diaconato sacramentale per le donne,
afferma. Dopo un'accurata analisi storica e teologica, l'autore stabilisce che la Chiesa non ha mai
autorizzato i laici a predicare: al contrario, questa pratica è stata espressamente vietata, per ragioni
dogmatiche fondamentali. Tale divieto si basa sulla consapevolezza della Chiesa del rapporto
essenziale tra predicazione e ordinazione. La predicazione laica non corrisponderebbe al carattere
del Vangelo come rivelazione divina e soprannaturale, in cui la parola di Dio rivolta agli uomini e
l'annuncio di Dio fatto agli uomini in Cristo non sarebbero accolti come tali, ma semplicemente
come un processo che fa parte della sociologia della comunicazione e che serve solo a costituire o
rafforzare una comunità.
Dom Gérard Calvet, O.S.B. († 2008), fondatore del monastero di Le Barroux, sviluppa nella sua
opera una preziosa meditazione sulla liturgia, sulla sua importanza, sulla sua bellezza e sulla sua
centralità nella vita della Chiesa e nella vita di ogni cristiano. Con continui riferimenti alle opere
degli autori classici della tradizione benedettina, accende un fuoco nel cuore dei fedeli,
incoraggiandoli ad amare la liturgia della Chiesa e a lavorare per la sua difesa.
Il canonico Stéphane Drillon, cancelliere della diocesi di Nizza, è un rinomato canonista che
sviluppa un'analisi dettagliata della questione della concelebrazione dal punto di vista del diritto
canonico. Partendo dal Codice di diritto canonico del 1917, esamina poi i dibattiti che hanno avuto
luogo durante le sessioni preparatorie del Concilio Vaticano II, e quindi ciò che è stato stabilito dal
Concilio Vaticano II. Prende in considerazione anche le successive disposizioni del Magistero e si
concentra su un'analisi dettagliata delle disposizioni dell'attuale Codice di diritto canonico. Una
delle conclusioni più importanti a cui giunge è che i sacerdoti sono liberi di concelebrare o celebrare
la Messa in privato e che, secondo l'insegnamento della Chiesa, è sempre auspicabile celebrare la
Messa in privato, con le poche eccezioni previste.
Martin Edwards, sacerdote dell'arcidiocesi di Southwark (Inghilterra), è autore di uno studio sulla
partecipazione dei fedeli alla liturgia da Pio XII al Concilio Vaticano II. L'espressione che compare
più frequentemente è senza dubbio quella di “partecipazione attiva”. In effetti, la actuosa
participatio è stata la preoccupazione che ha dominato la riforma liturgica preconciliare. Da San Pio
X in poi, la partecipazione attiva è stata un elemento essenziale del movimento liturgico, poi un
leitmotiv della Costituzione sulla Sacra Liturgia (Sacrosanctum Concilium) del Concilio Vaticano
II, e infine il principio guida delle riforme liturgiche successive. L'Ordo missae è stato concepito in
termini di partecipazione attiva e si è sviluppato considerando la partecipazione dei fedeli alla sacra
liturgia come la cosa più importante. La domanda a cui questo articolo cerca di rispondere è cosa si
sia inteso nel corso del XX secolo con tale espressione e quale sia stato il risultato
dell'interpretazione che è stata infine adottata.
Il canonico Gilles Guitard dell'Istituto Cristo Re affronta il tema della concelebrazione da una
diversa angolazione: studiando l'origine e l'evoluzione storica delle cosiddette “Messe private”, cioè
quelle celebrate “in privato”, senza solennità e recitate da un sacerdote accompagnato da un
ministro. Dopo aver analizzato in dettaglio le diverse fasi storiche attraverso le quali è passata
questa forma di celebrazione della messa, l'autore conclude che questa evoluzione rituale si è
sviluppata in modo organico: lentamente, progressivamente, con interventi delle autorità che sono
rimasti discreti e si sono limitati ai casi di abusi evidenti. Di conseguenza, la messa “privata” fa
parte della tradizione della Chiesa romana.
Manfred Hauke, professore alla Facoltà di Teologia di Lugano, offre un ampio e dotto contributo in
cui analizza dapprima le posizioni di vari teologi sulla concelebrazione, in particolare quella di Karl
Rahner, e le principali obiezioni che sono state sollevate contro di esse. Poi, in una fase sistematica,
compie uno studio teologico approfondito sul tema della concelebrazione della Messa, in particolare
in relazione alla celebrazione di Messe private. Infine, si sofferma sulle conseguenze pratiche,
studiando e commentando le recenti disposizioni del diritto canonico e delle congregazioni romane
in materia.
Padre Reto Nay, dottore in Sacra Scrittura presso il Pontificio Istituto Biblico, sviluppa un'analisi
del sacerdozio regale di Cristo. Inizia confutando le posizioni archeologiche e, in ultima analisi,
ideologiche, secondo le quali il sacerdozio nella Chiesa cattolica non sarebbe altro che una
costruzione culturale specifica dell'ambiente greco in cui si è sviluppato il cristianesimo.
Utilizzando le Scritture, in particolare la Lettera agli Ebrei e la Prima Lettera di San Pietro, padre
Nay dimostra che Cristo è un sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec e che il sacerdozio
ministeriale del sacerdote deriva da quello di Cristo.
Ángel Pazos López, professore di Storia dell'Arte presso l'Universidad Rey Juan Carlos di Madrid,
affronta il tema dell'altare dall'interessante prospettiva dell'iconografia medievale, che compare nei
libri liturgici o devozionali. Analizzando un gran numero di immagini del tardo Medioevo, l'autore
trae conclusioni sugli elementi costitutivi dell'altare, sulla sua decorazione, sulla sua collocazione e
sul cerimoniale dei ministri che lo circondano.
Padre Franck Quoëx († 2007), con la professionalità e l'immensa competenza che lo caratterizzano,
studia in dettaglio la dottrina dei riti e delle preghiere dell'ordinazione sacerdotale, analizzando
ciascuno di essi dai primi libri liturgici - i sacramentari - in cui compare la cerimonia di ordinazione
fino al Pontificale del 1595. Egli presenta la cerimonia di ordinazione così come appare, secondo il
piano del Pontificale romano, stabilendo il ruolo e il significato delle varie forme, gesti e cerimonie
che sono state aggiunte al suo elemento essenziale nel corso dei secoli.
Infine, il professor Wolfgang Waldstein († 2023), già rettore e professore all'Università di
Innsbrück, sviluppa in modo dettagliato e con citazioni dei protagonisti, in particolare dalle
memorie dell'arcivescovo Annibale Bugnini, il modo in cui si è sviluppata la riforma liturgica post-
conciliare, mostrando le enormi incongruenze tra ciò che era stato inteso e, come tale, promulgato
da Pio XII e Giovanni XXIII, e ciò che alla fine è risultato: il novus ordo Missae, molto lontano
dalla tradizione liturgica della Chiesa, e il divieto di celebrare la Messa tradizionale in latino.
5) «Per manus sancti Angeli tui: Sull'identità e l'importanza dell'angelo mediatore nelle
Supplices te rogamus»
Rev. Dr. Ryan T. Ruiz, S.L.D. (Mount St. Mary Seminary, Cincinnati, OH)
Tra le molte caratteristiche uniche contenute nel Canone Romano, una delle più intriganti si trova
nella sezione che ospita le Supplices te rogamus. Qui il sacerdote si inchina profondamente davanti
all'altare e prega che un angelo senza nome porti il sacrificio dall'altare terreno a quello celeste. Ci
sono diversi dettagli interessanti in questa formula che hanno portato a una serie di domande da
parte degli studiosi.
[…]
L'obiettivo di questo articolo è quello di rivisitare il dibattito scientifico che è sorto sull'identità
dell'Angelo nelle Supplices. Con i molteplici modi in cui i teologi hanno affrontato questo
argomento e le sfumature che ciascuno di questi approcci ha aggiunto alla nostra comprensione
complessiva di questa sezione del Canone, una riflessione più approfondita sull'identità dell'Angelo
può aiutare a stabilire una maggiore chiarezza sul ruolo della mediazione nel Sacrificio della Messa,
nonché sulla nostra partecipazione qui sulla terra a queste realtà anamnetiche, mimetiche ed
escatologiche.
[…]
Le argomentazioni delle tre scuole interpretative - quella letteraria e storica che vede l'Angelo come
rappresentante dell'ordine angelico collettivo, quella pneumatologica che vede l'Angelo come lo
Spirito Santo e quella cristologica che vede l'Angelo come Cristo - sono tutte ben fondate sia nella
critica testuale che nell'intuizione teologica. L'argomentazione letteraria e storica, radicata nell'uso
della forma plurale di angelus che si trova nel Canone di Sant'Ambrogio nel Libro Quarto del De
Sacramentis (per manus angelorum tuorum), e nel riferimento della Liturgia di San Marco/St.
Cirillo alla “liturgia/ministero arcangelico”, fornisce una forte evidenza testuale del ministero degli
angeli in questo punto della liturgia, che serve come ordine collettivo in un modo che non è senza
precedenti nella sacra scrittura. Per quanto riguarda l'approccio pneumatologico, lo status delle
Supplices come forma di epiclesi post-consacratoria per la ricezione fruttuosa della Santa
Comunione da parte dei fedeli fornisce lo sfondo per evidenziare l'attività dello Spirito. Non solo la
pratica orientale di collocare l'epiclesi pneumatologica dopo la consacrazione dà credito
all'esistenza di un tale elemento nella liturgia romana, ma anche i riferimenti post-consacratori allo
Spirito Santo in alcuni formulari della post-primaria mozarabica permettono questa speculazione.
Infine, l'approccio cristologico ha il solido sostegno di molti Padri della Chiesa post-apostolici e
tardo-antichi, e ha anche il peso di voci significative del periodo scolastico che vedono il ruolo di
mediazione nel Canone come un'attività che appartiene esclusivamente alla Seconda Persona della
Santissima Trinità.
[…]
A tal fine, sebbene l'argomentazione cristologica presenti punti di critica legittimi, tra cui le
sfumature teologiche che devono essere mantenute per evitare qualsiasi parvenza di eterodossia, e
anche alla luce della variante testuale che esiste tra il Canone romano e uno dei suoi primi esemplari
(De Sacramentis), si potrebbe sostenere che i vantaggi di questa scuola di pensiero sono duplici.
6) «Les nouvelles prières eucharistiques de la réforme liturgique de Paul VI»
Rev. Claude Barthe
In Olanda, un paese molto progressista dopo il Concilio Vaticano II, le iniziative liturgiche stavano
diventando sempre più sovversive, e il canone veniva già detto molto diffusamente in olandese.
Detto e modificato. Infatti, la necessità di adattare il canone romano era diventata un'idea comune.
Il teologo svizzero Han Küng ha scritto: “C'è anche un'urgente necessità di riformare il canone
stesso. [Anche agli occhi degli altri cristiani, qualsiasi riforma che si fermasse al canone, senza dare
all'Eucaristia e al racconto dell'istituzione dell'Eucaristia l'espressione di cui hanno bisogno, sarebbe
una riforma superficiale”. Le trasformazioni che il canone subì nelle traduzioni olandesi furono così
significative che si poteva già parlare di nuove preghiere eucaristiche. Nel 1966 erano già in
circolazione 50 preghiere eucaristiche “selvagge”.
[…]
Si dà il caso che il cuore della liturgia romana, il canone della Messa, sia esploso nel maggio 1968!
Come ho già detto, nel 1965 era stata elaborata una rielaborazione del canone romano, sotto gli
auspici del Consilium, e sperimentata durante la quarta sessione del Concilio, con le prove del 20 e
22 ottobre, proprio qui nella cappella dell'Istituto Maria Santissima Bambina. Prima della fine del
Vaticano II, dunque, il canone romano non era più inviolabile. Invece di essere trasformato, però, vi
si aggiunsero altre preces euchristicæ.
[…]
In questo modo è finita la sacrosanta unicità della preghiera eucaristica romana. Lo stesso cardinale
Gut ha osservato che il canone romano “esisteva certamente all'inizio delV secolo; dall'inizio del
VII non è cambiato quasi per niente”. In realtà, è molto probabile che la preghiera eucaristica
romana sia sempre stata unica, fin da quando il culto romano ha iniziato a usare il latino, cioè
all'epoca di Papa Cornelio, a metà del III secolo. Il De Sacramentis, come abbiamo detto, si
comporta come se fosse l'unica preghiera conosciuta. Annibale Bugnini la definì una “rigida
monoespressione” e salutò la diversità delle preghiere eucaristiche come “un ritorno alla tradizione
autentica, il superamento di un deplorevole impoverimento, tipico prodotto di secoli di decadenza
liturgica”. Dopo quindici o forse diciassette secoli di decadenza, Bugnini è finalmente arrivato.
[…]
In queste quattro preghiere (compresa la prima), il racconto dell'Istituzione è stato leggermente
modificato: alla consacrazione del pane furono aggiunte le parole tratte da Prima Corinzi (11, 24)
quod pro vobis tradetur; il finale della consacrazione del vino divenne Hoc facite in meam
commemorationem (Lc 22, 19), invece di Hæc quotiescumque feceretis, in mei memoriam facietis;
e il mysterium fidei a metà della consacrazione del vino fu rimandato a dopo la consacrazione come
formula per le acclamazioni del popolo.
[…]
Nel complesso, se consideriamo le prime tre nuove anafore, abbiamo una Preghiera II breve e
concettualmente semplice, una Preghiera IV abbastanza sviluppata, che pretende di essere di tipo
antiocheno, dà una sintesi della storia della salvezza, con un prefazio sempre identico, e un'anafora
III intermedia, che può essere adottata in ogni circostanza.
Non siamo più nel ritmo sobrio e solenne del canone romano, anche se c'è una certa parentela che
spinge al confronto. Ma le molte altre preghiere eucaristiche non sfuggono a questa blandizia,
accentuata dalle lingue vernacolari.
[…]
Esse furono imposte dal fatto che la riforma liturgica avvenne come un processo che qualificava
l'intera riforma conciliare e non era aperto alla discussione. Tuttavia, proprio questo attacco al
carattere esclusivo del canone romano non piacque ai riformatori moderati, ad esempio quelli della
Curia, che volevano una riforma, ma saggia e controllata. Queste nuove anafore suscitarono
un'opposizione molto forte nell'entourage di Paolo VI, che non sembrava del tutto convinto. In
particolare il cardinale Seper, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ed è quasi
certo che questo portò alla disgrazia di Annibale Bugnini.
7) «L'anafora della cosiddetta “tradizione apostolica” e la preghiera eucaristica romana. Sulla
ricerca di Matthieu Smyth»
Prof. Rubén Peretó Rivas
Nei primi anni del XX secolo si era creato un consenso generale sul fatto che un antico e anonimo
ordine ecclesiastico, scoperto in varie versioni linguistiche alla fine dell'Ottocento, non fosse altro
che un'opera di un certo Ippolito, la Tradizione apostolica, precedentemente ritenuta perduta.
Sebbene l'originale greco non sia sopravvissuto, a parte alcuni frammenti, le traduzioni in latino, in
due dialetti copti (sahidico e bohairico) e in etiope hanno fornito prove del suo contenuto e diversi
studiosi hanno tentato di ricostruirlo. Poiché si ritiene generalmente che Ippolito sia vissuto a Roma
all'inizio del III secolo - e molti ritengono che sia stato un presbitero o addirittura un antipapa - si
conclude generalmente che il contenuto di questo documento rappresenti in gran parte le tradizioni
ufficiali e le pratiche liturgiche della Chiesa di Roma in quel periodo. È stato quindi utilizzato non
solo dagli studiosi che hanno cercato di ricostruire quello che poteva essere il culto della Chiesa
primitiva, ma anche dai riformatori liturgici del XX secolo in varie tradizioni ecclesiastiche, nel
tentativo di incorporare i modelli antichi nel culto moderno. Così la sua anafora è diventata la base
di una delle attuali preghiere eucaristiche della Chiesa cattolica romana, della Chiesa d'Inghilterra e
di molte altre denominazioni; una versione della sua preghiera per l'ordinazione di un vescovo ha
sostituito quelle precedentemente utilizzate nella Chiesa cattolica romana e nella Chiesa episcopale
degli Stati Uniti; e il modello dei suoi riti di iniziazione ha influenzato e plasmato i riti rivisti del
battesimo e della cresima in molte chiese.
Negli ultimi decenni, tuttavia, un numero crescente di studiosi ha messo in dubbio che questo
ordine ecclesiastico fosse davvero quello che si pensava fosse. La sua mancanza di unità o di
progressione logica, le sue frequenti incoerenze, duplicazioni e contraddizioni rendono impossibile
concludere che ci sia stata un'unica mano redazionale, e suggeriscono invece che si tratti di un'opera
composita, un pezzo di “letteratura vivente", una raccolta di regole comunitarie tratte da tradizioni
molto diverse. Alcuni dubitano persino dell'esistenza di un'opera intitolata Tradition apostolique
d'Hippolyte de Rome. Questo titolo compare in un elenco di opere sulla base di una statua scoperta
a Roma nel 1551. Poiché alcune delle opere dell’elenco erano note come opere di un certo Ippolito,
si è ipotizzato che fossero tutte di lui e che la statua fosse opera sua. Ma questo elenco non
corrisponde esattamente alle opere di Ippolito registrate sia da Eusebio che d Girolamo, e molto
sorprendentemente omette quelle più fortemente attestate come autenticamente sue, tra cui un
commento al Libro di Daniele. Ciò ha indotto alcuni a proporre che le opere provengano da una
scuola di autori di Roma piuttosto che da un'unica persona, e ha spinto John Cerrato a spingersi
oltre e a suggerire che, poiché Ippolito era un nome comune nell'antichità, le varie opere potrebbero
essere creazioni di autori molto diversi e non collegati tra loro, provenienti da diverse parti del
mondo antico. Infine, le ricerche moderne hanno rivelato che la statua stessa in origine non
rappresentava Ippolito, ma una figura femminile, che nel XVI secolo fu restaurata come vescovo
maschio a causa dell'elenco delle opere iscritte sulla sua base, utilizzando parti prese da altre statue.
Qualunque altra cosa venga attribuita a Ippolito, sembra probabile che la cosiddetta Tradizione
apostolica non rappresenti la liturgia della Chiesa romana nel III secolo. Mentre alcune parti di essa
possono essere precedenti a quella data, altre sembrano appartenere al IV secolo e hanno
relativamente poca somiglianza con quelle che sappiamo essere state le pratiche liturgiche di Roma
in un periodo successivo.
Questo è particolarmente vero per l'anafora. Diversi studiosi hanno sostenuto che il materiale
eucaristico più antico del documento fosse costituito dalle istruzioni per i pasti comuni e che
l'anafora fosse un inserimento successivo, quando tali pasti avevano cessato di essere considerati
eucaristici. Questo non vuol dire che la preghiera in sé sia una composizione del tutto successiva -
ha una serie di caratteristiche molto arcaiche - ma suggerisce che sia stata aggiunta all'ordinamento
ecclesiastico in un momento successivo e che abbia raggiunto la sua forma attuale solo nel IV
secolo.
Questo è l'obiettivo del presente contributo del dottor Smyth. Egli argomenta in modo dettagliato
non solo che l'anafora è diversa da qualsiasi altra preghiera eucaristica romana o occidentale
conosciuta, ma anche che presenta i tratti distintivi dell'appartenenza al modello siriano occidentale.
Altri studiosi possono divergere sul fatto che la cosiddetta tradizione apostolica (a cui preferisce
dare il nome di Diataxeis) conservi un tenue legame con un'opera nota con questo nome e composta
da Ippolito, e che la preghiera esistente si sia evoluta proprio nel modo da lui previsto, ma la sua
tesi di fondo sembra ben fondata. Questa conclusione non significa, tuttavia, che sia
necessariamente un errore per il rito romano moderno includere una preghiera che si è sviluppata da
questa antica anafora, anche se non è affatto identica ad essa, come dimostra Smyth. Ma non
possiamo più supporre che il suo archetipo sia più indegnamente romano di qualsiasi altra preghiera
della raccolta, ad eccezione dello stesso Canone romano antico. Il suo posto in questo o in qualsiasi
altro repertorio futuro dovrebbe dipendere, come le altre preghiere, dai suoi meriti dottrinali,
liturgici e letterari, non da una presunta filiazione privilegiata.