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Letteratura Latina, A.A. 2022:2023, M. Lentano

Il documento analizza il contesto storico di Publio Virgilio Marone, evidenziando la transizione dalla Repubblica all'Impero romano e il ruolo di Ottaviano Augusto nella promozione della cultura e della letteratura per consolidare il suo potere. Virgilio, parte del circolo di Mecenate, scrisse l'Eneide come parte della politica culturale di Augusto, mirata a legittimare il nuovo regime attraverso la letteratura. La biografia di Virgilio, influenzata da elementi simbolici e oracolari, sottolinea la sua nascita eccezionale e il suo ascendente nella società romana.

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Letteratura Latina, A.A. 2022:2023, M. Lentano

Il documento analizza il contesto storico di Publio Virgilio Marone, evidenziando la transizione dalla Repubblica all'Impero romano e il ruolo di Ottaviano Augusto nella promozione della cultura e della letteratura per consolidare il suo potere. Virgilio, parte del circolo di Mecenate, scrisse l'Eneide come parte della politica culturale di Augusto, mirata a legittimare il nuovo regime attraverso la letteratura. La biografia di Virgilio, influenzata da elementi simbolici e oracolari, sottolinea la sua nascita eccezionale e il suo ascendente nella società romana.

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Letteratura latina, P. Virgilio M.

Contesto storico
Publio Virgilio Marone (nome proprio, gentilizio e cognome) ha i suoi estremi cronologici in 70 a. c.
e 19 a. c.

Secondo la tradizione, Roma venne fondata a metà dell’ottavo secolo a.c.; per i primi due
secoli era stata una monarchia, n quando nel 509 non si istaurò un regime repubblicano, un
sistema oligarchico per cui la città era comandata da un gruppo di famiglie che si spartiva le
varie magistrature. Questo sistema entrò in crisi proprio a causa delle disuguaglianza tra il
territorio da governare e gli strumenti governativi.
Si susseguirono vari tentativi di superamento del regime repubblicano attraverso l’istituzione di un
potere personale, che voleva sostituire la pluralità del regime repubblicano con uno monarchico,
con una singola gura al comando. Il primo fu proprio Cesare, che tentò di forzare il sistema
verso una direzione autoritaria a nché non venne nominato senatore a vita nel 44, poi liquidato
da una congiura organizzata dai ceti lo repubblicani nel tentativo di recuperare il potere.
Da questo evento, i cesaricidi furono animali dall’illusione che eliminando il tiranno fosse possibile
tornare alla normalità e alla repubblica, ma così non fu: alla sua morte si scatenò una nuova
guerra tra coloro che volevano riprendere il suo progetto proponendosi come suoi continuatori.
Tra questi, Gaio Giulio Cesare Ottaviano, glio adottivo di Cesare nel suo testamento, seppur
nipote di sua sorella, assunse il nome dell’adottante assieme ad uno che ne ricordasse le origini,
Ottavio: si trattava del legittimo erede del suo progetto.
Ottaviano però non era il solo a voler raccogliere l’eredità politica di Cesare: anche Marco
Antonio, maestro della cavalleria e a suo tempo vice di Cesare, e Marco Emilio Lepido,
condividevano questa ambizione. I tre decisero quindi di allearsi, unendosi tra di loro: fu così che
nel 43 a.c., nacque una magistratura senza precedenti, il triumvirato costituente. Attraverso
questo, i tre si ponevano al vertice del sistema statale, soppiantando le altre magistrature e il
sistema istituzione tradizionale con un tempo di carica di cinque anni. Si trattava però, a
di erenza del triumvirato costituito precedentemente da Cesare, di un elemento u cioso e legale.
Questo terzetto, che da prima aveva imbastito una lotta per prendere la carica del defunto, alla
ne si alleò e fece votare il triumvirato costituente: questi avrebbero dovuto mettere in piedi una
riforma della repubblica nel suo assetto costituzionale. Si tratta di una magistratura senza
precedenti che diverse nella sua costruzione dal primo triumvirato stipulato tra Cesare, Crasso e
Pompeo, il quale voleva agire da dietro le quinte.
La prima operazione attuata dai triumviri fu quella di liquidare i cesaricidi: ebbe luogo una guerra
civile che giunse a compimento con la battaglia di Filippi, nel nord ovest della Grecia,
nell’autunno del 42, a meno di un anno di distanza dall’istituzione della magistratura. Questa si
concluse con la vittoria dell’esercito triumvirale, il quale si era mosso no ad allora in maniera
compatta; ciononostante, raggiunto l’obbiettivo i annientare il gruppo, insorsero al suo interno
delle rivalità tra Ottaviano e Marco Antonio. Questa situazione, provvisoria e precaria, non
de nitiva, trovò una data fondamentale nel 40, quando i due congenero a una consensuale
spartizione dell’impero con l’Accordo di Brindisi, un porto d’imbarco ma anche punto di
interfaccio tra oriente e occidente. Non si trattava comunque di un patto risolutivo, ma di un
tentativo di stemperare le tensioni e stabilire una divisione dei territori. Ottaviano avrebbe
esercitato la sua leadership sulla parte occidentale, come Italia, Gallia e penisola iberica, mentre
ad Antonio sarebbe stato assegnato il controllo delle province orientali e in ne, a Lepido, le
provincie africane, escluso l’Egitto, la provincia più ricca. Questo venne siglato alla presenza
dei due consoli in carica, tra cui Gallio Asinio Pollione.
Così, Marco Antonio pose la sua base di operazione in una città non formalmente parte
dell’Impero, Alessandria, la quale era stata dominata per tre secoli dai Tolomei e capitale
dell’Impero tolemaico, con in carica la regina Cleopatra, prima amante di Cesare, ora di Antonio.
Le vicende dei due triumviri si separarono durante gli anni trenta, mentre si andava a creare una
nale resa dei conti. I due sapevano che il triumvirato sarebbe venuto a meno in un certo
momento, giungendo così allo scontro de nitivo nel 31 con la Battaglia di Azio, una località sulla

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costa orientale dell’adriatico meridionale. Fu una battaglia navale che vide vincere Ottaviano,
mentre Antonio e Cleopatra ripararono in Egitto alla stregua del primo: si diedero la morte e così
Ottaviano occupò l’Egitto nel 30, conquistandolo e rendendolo parte del regno, da che era
rimasto indipendente.
Il 31 viene considerato come l’ultimo anno della Repubblica romana: da qua in poi ebbe inizio
l’età imperiale, che giunse no alla metà del V secolo d.c., almeno per quanto riguarda l’impero
d’occidente. Ottaviano non aveva in mente di ripercorrere il medesimo percorso di Cesare:
sapeva che non si poteva imporre un improvviso cambio di regime e che non era opportuno
forzare la mano; prese avvio un lento processo di transizione che portò alla creazione di un
potere personale senza che questo fosse esplicitamente dichiarato. Cominciò quindi ad
accumulare prerogative, ruoli e titoli, seppur la repubblica continuava a funzionare: se
apparentemente l’assetto del potere non mutava, al di la della facciata questo andava
concentrandosi nelle mani di Ottaviano - poi “Augusto" dal 27 -. Si presenta inizialmente com un
restauratore della repubblica quando, senza alcuna accelerazione o rottura netta andava
accentrando il potere nelle proprie mani, trasformando il suo regno in un regime imperiale.

È negli anni trenta che Ottaviano ebbe un’intuizione di fondamentale importanza: per vincere la
battaglia contro Antonio non sarebbero bastate le armi, ma il sentire di uso avrebbe dovuto
dare sostegno alle sue ragioni politiche, attraverso dei mezzi mediatici come la letteratura, la
prosa e la poesia. Quindi a anco alla campagna militare, si svolse una politica culturale ad
ampio raggio per dirigere l’attività intellettuale. Si trattava di un tentativo di ingerirsi all’interno
dell’ambito della produzione intellettuale e indirizzarla verso i suoi personali interessi.
Tra i suoi collaboratori, Ottaviano poteva contare su Gaio Clinio Mecenate, il quale lo aveva
sostenuto n da primo momento: poeta in prima persona, era “poeta di poeti funzionario”, abito a
raccogliere attorno a se’ esordienti di belle speranze; mobilità il mercato letterario romanzo
tentando di attirare nella sua rete persone promettenti e mettendo su il “circolo di Mecenate”, una
sorta di corte di uomini di cultura. Virgilio vi entrò a far parte proprio dal 39, coerente con quella di
Orazio, che nel 38 a ermò di esser diventato “amico di Mecenate” proprio grazie alla mediazione
del primo. La loro funzione non era volgarmente encomiastica: non gli veniva chiesto di comporre
carmi d’elogio, ma qualcosa di più ra nato, vale a dire che nella scelta dei temi da trattare e nella
maniera in cui lo avrebbero fatto erano chiamati a sostenere le scelte politiche di Ottaviano .

È tra il 29 e il 28 che Virgilio iniziò a scrivere l’Eneide: la scelta del tema non è evidentemente
slegata alla sua appartenenza all’entourage di Mecenate; tramite la madre mortale di Romolo,
Enea sarebbe considerato come il capostipite dei romani, creando una gura signi cativa per
tutto il popolo ma prediligendo la famiglia dei Giuli, alla quale apparteneva - seppur per adozione
- anche Augusto.
La scelta dell’argomento epico sarebbe stata in uenzata dal fatto che non si trattava di un poeta
indipendente, ma che operava all’interno della cerchia di Augusto e pertanto condizionato.

La politica culturale di Augusto non consisteva solo in questo: volgeva pure l’intento di riempire il
regno di sue statue attraverso una sorta di bombardamento mediatico. Voleva che i sudditi e i
cittadini familiarizzassero con la sua immagine.

Per gli ultimi venti anni della sua vita, Virgilio operò all’interno della cerchia di Augusto, da che era
stato selezionato dopo aver scritto le Bucoliche nel 39. Questi dieci carmi gli consentirono
l’accesso nel circolo di Mecenate, che aveva gura di massimo spicco in Asinio Pollione, il
console dell’anno 40, anche lui protettore di letterati e probabilmente suo primo patrono, a cui è
dedicata la quarta Bucolica.
La sua perfezione formale non avrebbe permesso che circolasse nulla che non avesse soddisfatto
i suoi standard: per questo motivo distrusse tutta la sua produzione giovanile. Si pensa
addirittura che non sarebbe riuscito a distruggere l’Eneide in quanto morì prima di procedere alla
sua ultima revisione.

Biografie virgiliane
La maniera in cui gli antichi raccontano la vita di Virgilio raccoglie una serie di riferimenti storici. Le
fonti sono numerose e le Vite di Virgilio furono redatte, probabilmente, subito dopo la sua morte.

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Tra questi, Svetonio, autore delle “Vite dei dodici cesari”, vale a dire delle biogra e dei dodici
imperatori romani, da Cesare a Domiziano, un archivista imperiale, scrisse il “De poetis”, una
raccolta delle vite dei grandi poeti romani, tra cui proprio Virgilio. Questa non ci è però pervenuta;
ciononostante, Elio Donato, avrebbe steso, intorno al 350 d.c., una biogra a di Virgilio destinata ai
suoi alunni prendendo d’esempio quella narrata in precedenza dal primo, aggiungendovi delle
fonti e mettendo su in maniera tru aldina la biogra a del poeta. Nella premessa ci conferma che
volendo redarre la vita di Virgilio avrebbe preso d’esempio proprio la scrittura di Svetonio, a cui
avrebbe aggiunto poi ulteriore materiale.

(1.1) Vita virgiliana (1-3), Donato


“Publio Virgilio Marone, mantovano, fu di genitori modesti e in particolare il padre, che alcuni
hanno tramandato fosse un artigiano vasaio e molti altri un salariato, di un certo Magio, segretario
(di un magistrato) di li a poco, grazie al suo impegno, genero (di questo) e accrebbe notevolmente
la consistenza del suo patrimonio acquistando boschi e allevando api. Nacque nell’anno in cui
erano consoli Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso per la prima volta nel giorno delle idi
di ottobre (il 15 ottobre) nel villaggio detto Andes e dista da Mantova non molto. Incinta di lui, la
madre sognò di partorire un ramo di alloro che a contatto (della) con la terra si sviluppò e crebbe
in un attimo ( no a raggiungere l’) nell’aspetto di un albero adulto e pieno di diversi frutti e ori.”

Veniamo informati riguardo la famiglia del poeta: ci viene riferito lo status sociale dei suoi genitori
e in particolare, di suo padre, il quale fece fortuna grazie alla propria industrias. È una storia di
ascesa sociale riuscita, che potrebbe assurgere ad un topos tipico delle abe o motivo
folclorico, quello dell’eroe non promettente, che pare improbabile riuscire ad aver successo.
L’ultimo paragrafo osserva un motivo di uso all’interno delle biogra e dei grandi personaggi - non
solo della storia, ma anche del mito - ovvero l’idea che la nascita di un individuo illustre venga
preannunciata da un oracolo o da un sogno premonitore, il quale solitamente viene compiuto
dalla madre del nascituro.
Questo venne ripreso storicamente dalla madre di Ciro il Grande, fondatore del’Impero persiano,
cui madre, si narra, sognò che dai propri genitali sarebbe emersa una vite che crebbe no a
coprire con la sua ombra l’Asia intera. Anche la madre di Romolo e Remo avrebbe sognato di
partorire due palme, le quali sarebbero cresciute no al cielo, pur l’una più grande dell’altra -
sappiamo di fatto che Remo morì ucciso mentre l’altro sarà destinato a fondare l’impero romano
-.
La madre di Virgilio, Magia, sognò allora di partorire un ramo d’alloro: si credeva che fosse
destinato, questo glio, alla luce di questo, a grandi cose, nei campi più svariati, e che la sua
nascita, al di sotto di questo dato, avrebbe preannunciato una carattere di eccezionalità. Quindi,
l’uomo eccezionale è colui cui nascita viene in qualche modo preannunciata: viene assunto che
quando i grandi vengono al mondo, sono preceduti da sogni, oracoli, cui contenuto viene stabilito
sulla base di un codice simbolico che il narratore condivide con il suo pubblico.
Ora, per gli antichi, come anche per noi, gli alberi indicherebbero un preciso valore simbolico: non
appartengono solo al campo vegetale, ma anche a un immaginario simbolico. Come la palma era,
per gli antichi, simbolo di vittoria, l’alloro, la pianta sacra al dio Apollo, è come se segnasse
questa nascita nel segno della poesia.

A contatto con la terra, questo alloro conosce uno sviluppo prodigioso, di una rapidità
miracolosa, oltre a dar vita a un albero pieno di frutti e ori vari: i due elementi hanno anche
questi una simbologia ben precisa; questo troverebbe spiegazione nel fatto che Virgilio divenne
immediatamente un poeta riconosciuto e in quanto si cimentò in generi letterari diversi gli uni
dagli altri.
Le tre grandi opere di Virgilio coincidono con tre generi letterari molto diversi tra di loro: le
Bucoliche sono poesia pastorale, le Georgiche poesia descrittiva e in ne, l’Eneide è un
poema epico.

Per nire, quel “contatto con la terra” nasconderebbe un ulteriore signi cato oltre quello ovvio: il
bambino appena nato veniva letteralmente poggiato a terra; questa usanza possedeva una nalità
pratica: far piangere il neonato a contatto con il freddo. La vitalità di un bambino si manifesta
proprio nel grido, nel primo pianto, ma non solo: la sua voce è, come se fosse, prodotto del
contatto con la terra stessa. Nell’ottica degli antichi ogni nascita era una reiterazione di ciò che

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era accaduto in origine, quando la terra aveva per prima generato la vita e quindi la parola è un
dono di questa, oltre che elemento di fatale importanza, soprattutto per un poeta.

(1.2) Vita virgiliana (5), Donato


“E si aggiunse (al sogno del ramo di alloro) un ulteriore presagio: dal momento che, un ramo di
pioppo, secondo l’usanza del territorio, in occasione delle nascite, piantato subito nel luogo
stesso, in breve tempo si sviluppò (ra orzò, consolo) così da pareggiare, raggiungere pioppi
piantati molto prima.”

Si tratterebbe di un secondo presagio dal carattere vegetale: lo sviluppo miracoloso di un ramo


piantato nel terreno; la di erenza con il sogno premonitore è che qua siamo in un contesto ben
diverso, vale a dire reale e legato alle usanze del territorio.
Dobbiamo pertanto immaginare che, nei pressi di Andres, fossero venuti su dei veri e propri
boschetti di pioppi in riferimento a questo uso.

Se nel caso precedente dovevamo capire il valore del ramo d’alloro qua invece, il senso di questa
operazione, ci proviene da un’altra delle vite di Virgilio, quella di Foca, scritta in versi: il limite del
pioppo non solo raggiunge velocemente quello degli altri, ma spicca ben presto su di questi. Il
secondo però, Foca, aggiunge anche un dettaglio inedito: fu il padre a piantare il pioppo così da
indagare il destino di suo glio.
L’idea sottintesa è quella per cui l’albero andrebbe di pari passo, o quantomeno
preannuncerebbe, le sorti della vita del nascituro, rappresentando un suo doppio vegetale: le
sorti del bambino e dell’albero è come se si rispecchiassero. L’albergo indaga allora, in forma
divinatoria, il carattere dell’individuo sulla base di un’identità esterna a questo stesso, che però si
presume ne segua specularmente la sorte.

(1.3) Vita (59-62), Foca


Il faggio sottolineerebbe la straordinarietà del destino del poeta, ma anche il padre starebbe
tentando di venire a conoscenza del destino di questo: ciò che avviene al glio, si ripercuoterebbe
anche sull’albergo a lui legato, così che possa dare l’idea di una misura di eventi che starebbero
accadendo sulla persona.
Si tratta di una credenza di usa tra culture non solo latine: anche James George Frazer pubblicò
a inizio Novecento un’enciclopedia, Il ramo d’oro, contenente una raccolta di pratiche popolari,
tra cui anche la suddetta.
In molte culture è di usa la presenza di un rapporto simbiotico tra uomo e albero, al punto che
l’uno costituirebbe un rapporto simbiotico con l’altro, come una sua doppia identità: è una sorta
di specchio capace di cogliere le vicende nell’individuo d’eccezione.

(1.4) Galba (1), Svetonio


Le dodici vite di Svetonio è una raccolta delle vite degli imperatori romani, a partire da Cesare,
che di fatto mai lo fu ma che secondo lui, in quanto padre nobile del regime imperiale, meritava di
gurare tra questi; la raccolta si chiude con Domiziano, morto nel 96 d.c., arrivando dunque alla
sua contemporaneità. Svetonio era un archivista imperiale, il quale aveva accesso alla
documentazione de principiato e che, in virtù di questo, poteva citare materiale altrimenti
inaccessibile.

Ci collochiamo qua nell’anno dei quattro imperatori, quello di passaggio dalla dinastia Giulio
Claudia a quella Flavia per cui le due, attraverso una serie di matrimoni, si sarebbero intrecciate. È
con la morte di Nerone del 68 che venne meno la prima e si pose dunque il problema della
successione: dopo di lui, si susseguirono in breve tempo quattro imperatori, primo dei quali
Galba, il quale restò al potere solo pochi mesi. L’ultimo di questi Vespasiano, riuscì a mantenersi
no al 79 e a fondare la sua dinastia, quella dei avi, poi continuata dai suoi due gli, Tito, che
morì dopo due anni, e Domiziano, morto nel 96. Dopodiché anche quest’ultimo morì senza eredi e
si ripropose la questione di Nerone.
Quando Svetonio iniziò a scrivere la biogra a di Galba, prima di dare notizie intorno alla sua
famiglia, sentì di dover chiudere i conti in qualche modo con la dinastia Giulio Claudia.
Racconta quindi che un giorno Livia, dopo le nozze con Augusto, si sarebbe recata a vedere la
sua proprietà di Veglio. Questa terza e ultima moglie di Augusto, oltreché madre del suo
successore, Tiberio, della gens Claudia, si recò quindi presso questa villa, in un territorio di
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tradizione etrusca sulla riva destra del Tevere e, mentre si trovava qui, in questa villa detta “di
prima porta”, le sarebbe piombata in grembo una gallina bianca, sfuggita dagli artigli di
un’aquila, la quale portava nel becco un ramoscello di alloro. Ci sono qui tre elementi di
interesse: l’aquila, un volatile legato ad immagini di forza, potenza e autorità, un uccello sacro a
Giove e di buon auspico, poi la gallina, bianca, che trova responso nell’enciclopedia latina dei
colori con una valenza di buon augurio e in ne, il ramoscello.
Svetonio allora ci dice che, in maniera indipendente (anche se altre versioni suggeriscono su
consiglio di alcuni indovini) Livia avrebbe deciso di allevare la gallina e di piantare questo alloro,
ottenendo degli esiti prodigiosi. Dalla gallina si ebbero moltissimi pulcini mentre, dal ramoscello,
sarebbe nato un vero e proprio boschetto. Siamo dinanzi a un meccanismo per cui l’ente
vegetale e quello animale indicano un segno di buona sorte per l’intera dinastia.
Augusto e i suoi successori presero così l’abitudine di celebrare il trionfo con allori provenienti
esclusivamente dalla villa “ad gallinas” e ciascuno di questi, niti i festeggiamenti, ripiantava
allora l’arbusto nel boschetto della tenuta: quando l’imperatore moriva, periva con lui anche
l’albero a questo legato; si tratta evidentemente di una narrazione analoga a quella della nascita
di Virgilio.
Quando Nerone stava per morire, con lui non morì solo il suo alloro, ma tutto il boschetto e
tutte le galline; contestualmente si sarebbe veri cato un inquietante fenomeno: un fulmine,
segno della volontà divina, capace di trasmettere i messaggi dall’olimpo, si sarebbe abbattuto sul
tempio dei Cesari, dove si trovavano le statue degli imperatori, facendo cadere
contemporaneamente le teste di tutte queste. Termina con la morte di Nerone la dinastia Giulio
Claudia, ma questa ne non riguarda solo la sua persona sica o il concetto astratto, ma anche
tutti i suoi doppi - alberi, statue, galline -. Evidentemente, le statue dei cesari rappresentavano gli
imperatori e anche questi sono segnale del medesimo concetto: è terminata un’epoca storica, si
va incontro alla rovina e la statua di Augusto, oltre alla testa, perde anche lo scettro.
Si tratta di una serie di eventi simbolo che coinvolgono tutte le espressioni che rimandavano alla
dinastia conchiusa: al ne di questa è come se fosse parte del volere provvidenziale, del disegno
divino e il fulmine è testimone della volontà di Giove.

Ora, se per noi la parola “trionfo” ha accezione metaforica, per gli antichi era un evento materiale:
si trattava di una processione che il generale vincitore conduceva attraverso le vie di Roma
risalendo dal foro, nella parte bassa, n sulla cima del Campidoglio, sede del tempio di Giove
Capitolino. Era un’onori cenza ambita e concessa dal Senato celebrata, in età imperiale,
dall’imperatore, e non dal generale stesso, in quanto ognuno di questi agiva in quanto suo
emissario, diversamente dall’età repubblicana.

(1.5) Vespesiano (5, 2-4), Svetonio


La nascita di Vespasiano viene annunciata da un ramo di quercia tanto grand e orido che
sarebbe parso un albero a se’.
La gura del cipresso tornerà in seguito in Domiziano.

(1.6) Domiziano (15, 2), Svetonio


Con la dinastia Flavia la tradizione avrebbe elaborato una nuova leggenda dinastica, anche
questa di carattere vegetale, ponendosi sulla falsa riga di Augusto e dell’operato dei Giuli Claudi,
banalmente in quanto unico modello a cui ispirarsi.
La necessità di una narrazione encomiastica e che abilitasse questi al governo era tanto più
necessaria a causa delle circostanze sociali: se i Giuli e i Claudi erano state due famiglie alle quali
non solo erano appartenuti i primi grandi imperatori romani, ma anche storicamente aristocratiche
e appartenenti alla classe dirigente romana - in particolare i Claudi -, un fatto che legittimava la
loro posizione, in quanto abituati ad occupare posizioni di comando nel sistema, i Flavi erano
invece una famiglia di cavalieri provenienti da Rieti, della Sabina, privi di un pedigree
aristocratico. Per quanto fossero una buona famiglia, non possedevano alcun titolo che gli
avrebbe permesso di aspirare a guidare l’impero, secondo la logica dell’antico regime romano: il
mito della legittimizzazione diventa allora prezioso.
La loro ascesa sarebbe dovuta alla fortuna di Vespasiano, a cui Nerone aveva a dato la guerra
contro gli ebrei, un con itto impegnativo e durato quattro anni.

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(1.7) (13,7) Severus Alexander
Tra le reminiscenze di una tradizione biogra ca legata al mondo vegetale, ecco che Alessandro
Severo, colui che avrebbe scon tto l’esercito persiano, si dice che sarebbe nato dinanzi a un
pesco: l’albero in latino si chiama “malus persica”, vale a dire “mela persiana”.

(1.8) Trattatello in laude di Dante (16), G. Boccaccio


All’inizio degli anni cinquanta del Trecento, Boccaccio compose un’opera riguardante l’opera di
Dante che si apre con la sua biogra a, noi pervenuta in tre varianti d’autore.
Dice questo che, la madre di Dante, prima di partorire, avrebbe avuto un sogno premonitore
riguardo la sua grandezza: non a caso è attestata la conoscenza della Vita di Virgilio di Donato da
parte di Boccaccio.
Queste immagini disegnano percorsi e traiettorie: quando un’immagine funziona attraversa i secoli
e si ricicla, si riadattandosi al contesto che la recepisce.

I racconti relativi Virgilio vedono intervenire solitamente due alberi diversi, ma non sono elementi
idiosincratici, legati alla sua speci ca vicenda, quanto piuttosto appartenenti a un immaginario
di uso. Evidentemente, questo modo di pensare una relazione tra il mondo umano e quello
vegetale è trasversale.
Il mondo antico, e in maniera particolare la letteratura latina, sono importanti non solo in se’ per
se’, ma questa sarebbe stata capace di una ricezione nei secoli successivi che arriva no ad oggi,
in un modo che nessun’altra letteratura ha mai avuto: è un alfabeto, un codice narrativo
indispensabile per comprendere la letteratura successiva.

La fortuna del parallelo tra uomo e albero trova pregio nella sua ssità: si sa sempre dove
trovarlo e dunque, con rispetto alla strutturale mobilità degli esseri umani - che nel mondo antico
signi cava perderne le tracce - questo fungeva da doppio nella sua staticità; se si possono
perdere tracce di qualcuno, dell’albero no, si sa sempre dove andarlo a trovare.
Verso gli alberi, l’atteggiamento della cultura romana era duplice: la vita vegetale è cosa da
principi, modelli e pratiche diverse dalla vita animale e umana ma ci sono delle analogie non
indi erenti anche dal punto di vista lessicale - “chioma”, “braccia”, “piedi”, tronco”, ma anche il
momento della “ oritura” inteso come acme e del “disseccamento” -.
All’a nità morfologica-funzionale (nella misura in cui i rami sembrano braccia, il tronco il busto, i
rami secondari le dita ecc.), si aggiunge il fatto che questo, diversamente dalla statua, priva di vita
o di un divenire, incapace di trasformarsi nel tempo, l’albero è soggetto a dei fenomeni di crescita,
sviluppo, deperimento, vicini all’essere umano. La natura ha un andamento ciclico che può fare
da parallelo o da contraltare a quello umano.

2.1 Vita di Virgilio (6), Donato


Finché non dovette indossare la toga virile, Virgilio trascorse la sua vita a Cremona. Nato il 15
ottobre del 70, avrebbe dovuto compiere diciassette anni nel 53, ma Donato dice che questo
cadde nell’anno del secondo mandato dei consoli Pompeo e Crassi, nel 55: si tratta di una prima
incongruenza.
La toga virile, detta anche “bianca” o “pura”, era l’abito del cittadino romano adulto, l’abito
nazionale romano per eccellenza: anche nell’Eneide, per riferirsi ai romani, vengono chiamati “il
popolo con la toga”. Questa poteva essere portata esclusivamente dai cittadini romani, era un
costume identitario, che contraddistingueva il cittadino adulto. Indossare questa segnava il
passaggio alla maggiore età e il pieno ingresso nella vita adulta.
Ciononostante, l’età adulta non era segnata da un momento preciso anagra co; si adottava
in un arco di tempo compreso tra i quindici e i diciassette anni, per cui il padre decideva il
momento propizio; no a questo momento si indossava la toga pretesta, “tessuta alle estremità”,
con un’applicazione purpurea lungo l’orlo. Assumere la toga virile osservava anche un passaggio
di netta distinzione per donne e uomini: se i secondi iniziavano la vita pubblica, le donne potevano
smettere la toga pretesta solo la notta prima del matrimonio, passando immediatamente da
bambine a mogli e poi madri.
Con questo si segnava il momento in cui un individuo non era più un minore privo di consisteva
sociale: diventava un membro attivo della comunità e la cerimonia aveva una componente
pubblica, per cui si svolgeva in casa per poi condurre il giovane nel foro.

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Il fatto che il giorno della presa della toga virile di Virgilio coincida con quello della morte di
Lucrezio viene osservato come una “traditio accolis”, un passaggio della aoccola: si inserisce
nella tendenza di sincronismo tra gli autori che si sono distinti nel medesimo genere letterario. La
biogra a pare suggerire che, tra gli esponenti del medesimo genere, vi sia una sorta di sta etta
per cui si passa il proprio testimone al successore. Immaginare che Lucrezio, un poeta latino di
enorme rilievo e modello per Virgilio stesso, anche in quanto esponente della poesia didascalica,
praticata pure dal secondo, sia morto il giorno in cui Virgilio abbia raggiunto la maturità stabilisce
un legame: è un modo tradizionale per indicare un passaggio generazionale, incardinandolo in
una ricorrenza biogra ca - è un momento di trapasso, di consegna -.
La verità è che però, nessuno sa veramente quando Lucrezio sia morto: l’unica notizia che
abbiamo a riguardo è che perì a 44 anni, dopo aver ingerito un ltro d’amore, ma è un’invenzione
malevola di origine cristiana. Il meccanismo si fonda su dei dati plausibili, e non certi, ma di
ingerenza simbolica.

Bucoliche
Al momento della stesura delle Bucoliche, Virgilio è ormai un autore trentenne. La sua prima
raccolta poetica aveva visto la luce nel 39 a.c., e conteneva dei componimenti scritti nei due anni
precedenti; le Bucoliche constano dieci componimenti brevi, chiamati si “Bucoliche”, ma anche
“egloghe”, una parola greca - che signi ca “scelta” - e che indicherebbe una serie di “poesie
scelte”, ma anche “Bucoliche” deriverebbe da una parola greca, “boukolos”, da cui l’aggettivo
“boukolikos”, ovvero “riguardante il bovaro”: le Bucoliche allora, sono le poesie dei bovari1.
Si tratta, in generale, di poesia pastorale, con protagonisti i pastori: è un genere che era stato
inventato in precedenza da Teocrito ma Virgilio introdusse il genere a Roma, fondando la
tradizione europea.
Nonostante questo, la poesia Bucolica non accende i fari su un mondo estraneo alla letteratura:
tutto è fortemente stilizzato e idealizzato e anche l'elemento della fatica, dello sfruttamento e
del lavoro è attenuato, se non addirittura cancellato. I pastori sono dei poeti impegnati a
cantare versi d’amore con l’accompagnamento di strumenti musicali in un paesaggio che è a
sua volta fatto di foglie che stordiscono, ruscelli che scorrono e fresche sorgenti. È il mito
dell’arcadia, una regione della Grecia caratterizzata dalla sua economia pastorale. I pastori, detti
“arcadi”, assumono i tratti di un paesaggio ideale e rasserenante, in cui la natura viene percepita
come un ente materno che si dispone benevolmente nei confronti dei suoi abitanti. Leggendo le
Bucoliche non dobbiamo aspettarci di trovarci dinanzi a delle condizioni di vita ardue o
disincantate: è un mondo pastorale che avrebbe subito un processo di romanticizzazione e non
sociale. Virgilio non ha intenzione di descrivere le reali condizioni di vita, ma un mondo ideale.
Ciononostante, in questo mondo apparentemente utopico, separato e lontano dalla realtà,
subentra la storia, quella di lacrime e sangue, la storia degli individui e della violenza: anche
questo luogo non è una bolla perfetta e separata, ma è presente una contaminazione inattesa
facendo si che questo luogo astratto si incontri con la tragedia, creando un cortocircuito.

Nel novembre del 43 a.c., si formò il triumvirato costituente al momento che fu varata una
legge che istituiva questa magistratura straordinaria. Questi triumviri avevano il compito di
riformare la repubblica ed avevano pieni poteri di governo.
Il loro primo provvedimento, la loro prima iniziativa, fu quella di chiudere i conti con i cesaricidi,
quella ventina di repubblicani che, esponenti della classe dirigente romana, avevano avversato
l’esperimento autoritario di Cesare e che si batteva ora per ristabilire il sistema repubblicano
tradizionale, di forma oligarchica e arginare quindi la deriva autoritaria, minimizzando questa
svolta. Dietro quelli che si erano macchiati dell’omicidio di Cesare si trovava un ampio gruppo e
contro di questi i triumviri si schierarono. Si realizzò nell’autunno del 42 a.c. la battaglia di Filippi:
durante questa, entrambe le parti avevano arruolato un proprio esercito, che diede poi vita. Una
guerra civile che si chiuse con la vittoria del terzetto.
All’indomani di Filippi però, si pose il problema dell’assegnare le terre ai veterani dell’esercito
vincitore: da lungo tempo vigeva la consuetudine, a Roma, secondo cui i soldati giunti alla
propria ferma fossero ricompensati con un appezzamento di terra - inserendosi allora nella

1 R. Poggioli, Il auto d’orzo.


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tradizione del soldato contadino -. Questo dato si realizzava con l’assegnazione di una terra a
quei soldati che fossero giunti al termine del loro servizio.
Nella regione più propizia alla concessione, e vale a dire, nella pianura padana, vennero
sequestrate delle terre appartenenti a quelle città che si erano schierate con i cesaricidi e
furono dunque punite, sanzionate con la con sca di terreni, poi ridistribuiti ai veterani vincitori.
Una delle città maggiormente colpite fu Cremona ma, dal momento che il territorio agricolo di
questa era insu ciente, le con sche colpirono anche Mantova, due città non a caso
protagoniste delle prima biogra a di Virgilio: la tradizione biogra ca, che con uisce in Donato,
riferisce che anche la sua famiglia rimase colpita da questi eventi, percepiti in termini
traumatici, facendo si che il poeta si trasferì prima a Milano e poi a Roma. Si diceva che Virgilio,
grazie alle sue relazioni con personaggi di spicco della scena pubblica, prima con il suo ingresso
nel gruppo di Mecenate grazie ad Asinio Pollione, sarebbe riuscito a farsi restituire quei campi
e che quindi, avrebbe scritto le Bucoliche in celebrazione dell’intervento dei suoi amici.
Se fosse stato più o meno coinvolto non importa, ma conta piuttosto il setting disposto dal suo
autore: lo sconvolgimento di una vita tranquilla di provincia, dove fa ingresso una massa di
veterani che diventano presto possessori di quelle stesse terre. Il contesto in cui nasce la prima
Bucolica è proprio la con sca degli appezzamenti da parte dei triumviri in seguito alla battaglia di
Filippi.

Titiro e Melibeo sono due pastori quale sorte è ben diversa: se il primo riesce a mantenere
possesso delle sue terre, il secondo ne è stato scacciato. La scena iniziale della prima Bucolica si
ambienta in un tardo pomeriggio, quando un pastore si trova disteso per terra suonando, sotto un
faggio, che sorge ai lati di un sentiero di campagna; qua Titiro si trova, senza pensieri, godendosi
l’ombra, mentre modula le note sul suo strumento. Melibeo, che transita lungo il sentiero con il
suo gregge, incontra l’altro e i due avviano un dialogo.
La prima Bucolica è infatti dialogica, ovvero è una successione di battute che si scambiano come
in una sceneggiatura teatrale: l’autore non prende mai parola ma le battute dei due si alternano
regolarmente.

Bucolica I
L’iniziale contrapposizione è tra Titiro, che indugia all’ombra cantando la donna amata, e Melibeo,
il quale è stato costretto con altri pastori a lasciare le proprie terre.
La pace in cui si trova il primo sarebbe merito di un uomo, considerato ora come un dio e che dio
sempre sarà, al quale Titiro ammetterà dei sacri ci. Intanto Melibeo starebbe fuggendo
velocemente assieme al suo gregge di pecore: le loro due condizioni di partenza sono
estremamente diverse, se non opposte.
Il frutto del parto di una di queste pecore sarebbe stato abbandonato a causa dell’impossibilità di
indugiare ulteriormente in questo luogo: in questo spazio letterario di incongrua oasi di pace,
quella dove giace Titiro, il quale sembra starsene in una sorta di bolla, ma ecco che giunge
Melibeo, il quale invece proviene da una campagna sconvolta. Titiro non risponde
immediatamente intorno alla misteriosa identità del dio che avrebbe salvati i suoi terreni,
ma fa intendere che avrebbe incontrato costui a Roma.
Titiro è uno schivo liberato, il quale proprio a Roma sarebbe stato emancipato per iniziativa
unilaterale del suo padrone, il quale concedeva ai propri schiavi la libertà o per merito o per
denaro, ma la seconda possibilità gli sarebbe stata esclusa a causa di una tale Galatea, una
donna molto esigente di cui si era infatuato e che sembrava assorbire le risorse che riusciva a
guadagnarsi. Dice quindi che mai le sue amni erano pesanti di rame - il metallo con cui si soleva
forgiare le monete - ma che fortunatamente, grazie ad Amarillide, una donna di poche pretese,
sarebbe riuscito ad ottenere la libertà.
Dopo questa spiegazione allora, Titiro si avvia a rispondere alla domanda di Melibeo intorno
all’identità del suo dio e speci ca che compierebbe sacri ci in suo nome una volta al mese.
Come pure Titiro, anche altri si erano diretti a Roma per supplicare il possesso dei loro campi, ma
Melibeo a erma che lui continuerà a vivere in questo modo, solito e familiare, altrove, circondato
da altrettanti elementi bucolici.
Allora Titiro, tramite l’adynaton - una gura retorica che implicherebbe l’impossibilità di un’azione
- sostiene che mai potrà dimenticarsi di questo giovane dio a cui tutto deve: dimenticarsi di lui
succederà solo quando “i cervi pascoleranno nell’aria e i pesci si muoveranno sulla spiaggia”. È
dunque presente una componente umana - riferita all’impero dei parti, originario della

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Mesopotamia, e quello germano, sostenendo che mai uno di questi ultimi si abbevererebbe come
uno dei primi dall’Arari - ma anche animale in questa negazione.
Melibeo allora denuncia l’esilio a cui sarebbe costretto assieme ad altri sfrattati: devono migrare
ora verso i quattro angoli della terra. L’ultima battuta vede Titiro invitare Melibeo presso il suo
casolare.

Evidentemente questi due pastori possiedono dei nomi greci: Melibeo è un nome parlante che
indica “chi si prende cura dei buoi, così come pure le due amate di Titiro, Amarillide e Galatea.
Le vicende sono chiaramente allusive alla contemporaneità di Virgilio: è una raccolta che
appare quasi scritto a caldo, quando i fatti stanno avvenendo e questo crea un cortocircuito tra
ciò che avviene tra il mondo narrato e i fatti presenti.

Se diamo ascolto ai biogra antichi, Virgilio avrebbe scritto le Bucoliche per ringraziare i suoi
potenti amici romani per avergli restituito quei campi che gli erano stati sottratti. Dunque Titiro
sarebbe una controparte del suo autore: si mette dunque in scena attraverso di lui. Allora, nel
giovane misterioso, celebrato come un dio, possiamo e ettivamente rivedere la gura di
Ottaviano.
In realtà, la narrazione si concentrerebbe sul con itto tra destini antitetici. Si tratta dell’egloga di
tanti sommersi e di un solo salvato: Melibeo parla di se’ al plurale sin dall’inizio mentre Titiro è
un “tu”, che si contrappone ad un “noi”. La sorte di Melibeo è collettiva, è quella propria degli
sradicati, esclusi, quelli che la storia l’hanno subita e che si sono trovati travolti dalla umana e da
questa lasciati ai margini. È allora una situazione squilibrata, per cui Titiro si trova in un recinto di
benessere, fermo mentre tutti corrono e scappano, uomini e animali; si trova non a caso allora
steso, mentre gode di una condizione di privilegio assoluto e la sua ostentazione di benessere
appare morti cante, in ultima istanza, nei confronti di Melibeo.

Bucolica IV
Del seguente componimento, i cristiani si appropriano interpretandolo come una pre-
annunciazione della venuta di Cristo.
È presente inoltre il termine “myricae”, rivendicato da Pascoli nell’omonima raccolta.

Il modello letterario fondamentale di Virgilio è Teocrito, un poeta siracusano e le “muse siciliane”


sono le ispiratrici della poesia siciliana.

L’idea è che, n qua, egli avrebbe trattato di elementi umili, come la campagna e il regno dei
pastori, un ambito marginale, ma ora l’autore vuole lasciare da parte questi per parlare dei
boschi, quelli “degni di un console”.
Dopo questa breve premessa allora, sostiene che metterà da parte i termini semplici, ripresi però
immediatamente nella Quinta Bucolica: la prospettiva si volge a inquadrare la storia del mondo, il
“grande ciclo dei secoli”.
Viene ripreso un mito molto antico nella tradizione classica, trattato per la primissima volta dal più
antico dei poeti greci di cui si è ricostruita la personalità e la produzione, Esiodo, vissuto nel VII
secolo a.c.. Se le storie dell’Iliade e dell’Odissea sono a questo precedenti, nate
dall’assemblaggio di diversi pezzi trasmessi oralmente, l’identità del suo autore, Omero, è una
mera astrazione, un’ipotesi di lavoro.
Esiodo, oltre ad aver ispirato le Georgiche, tratta del “mito dell’età”: si sarebbero infatti
succeduta nella storia del mondo una serie di generazioni secondo un processo di decadenza
costante metaforizzato attraverso metalli più o meno pregiati; quindi, partendo dall’età di spicco,
quella dell’oro, le seguiteranno quella argentea, quella bronzea e in ne, l’età del ferro. È
importante capire che vi sia un’età ulteriore, quella degli eroi.
L’idea è quella che la storia umana starebbe sperimentando una decadenza che l’avrebbe fatta
scivolare verso il presente. In questa suddivisione, Esiodo riteneva di vivere nell’età del ferro,
quella dominata dalla cattiveria, dalla morte e dalla frode, cose che inizialmente non esistevano
nell’età dell’oro.
Questa maniera di concepire il cosmo non ci è estranea: anche la tradizione giudaico cristiana si
sarebbe mossa verso questo principio, con una beatitudine iniziale, poi persa a causa del peccato
primigenio e con il passaggio alla vita; questa analogia non è a atto casuale, ma anche Esiodo
attingeva a delle tradizioni proprie del vicino oriente e a noi note attraverso la Bibbia ebraica.

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Nell’età dell’oro era assente la fatica, il lavoro, la guerra e il commercio: la terra procedeva
spontaneamente tutto ciò di cui gli esseri umani necessitavano e tutti disponevano di tutto. Nella
ripresa fatta da parte dei romani di questo mito greco, l’età dell’oro coincide con quella di
Saturno, una divinità italica cui nome suona si etrusco ma che è legato all'agricoltura e che
coinciderebbe con Crono. Questo era il padre di Zeus, Giove, che lo avrebbe poi scalzato, di una
generazione precedente a quella degli dei dei olimpici.
Evidentemente siamo dinnanzi alla vigilia di uno straordinario cambiamento cosmico:
raggiunto l’acme della decadenza, all’interno di questa visione ciclica, non si può che risalire; il
progredirà della storia si rimetterà in movimento, riportando sulla terra l’età dell’oro e il regno di
Saturno.

La vergine a cui ci si riferisce nel testo è la dea giustizia, cui immagine divina si dice che avrebbe
abbonato la terra dopo essersi resa conto che quivi non vi era più posto per lei, soppiantata
dall’ingiustizia.

Questa nuova età viene preannunciata dalla gura di un bambino che porterà con se’ l’età
dell’oro: viene invocata Lucina per favorire questa nascita; questa è un’epiclesi, vale a dire un
termine che si a anca al nome di un dio sul quale ha pertinenza: sarebbe Diana, protettrice delle
partorienti e sorella gemella di Apollo - Lucina è infatti quella dea invocata dalle donne romane in
travaglio, in quanto colei che aiuterebbe i neonati a venire alla luce -.
La gura del bambino è una novità in cui si incardina inoltre la compromissione della lettura della
quarta Bucolica: è una metafora o anzi, starebbe facendo riferimento a un vero e proprio
bambino? Si pensa che potrebbe star alludendo al glio di Pollione, il destinatario del
componimento in questione, nato nel 41, Asinio Gallo - proprio di questo si dice che da adulto si
sarebbe vantato di esser stato invocato all’interno di un’opera virgiliana -. Altri identi cano questo
pargolo come il frutto di un matrimonio celebrato magari quello stesso anno oppure, con il
nascituro proveniente dall’unione di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, o ancora,
potrebbe essere una semplice metafora della condizione umana.

Viene rilevata la fertilità della terra, dominata da piante aromatiche e piacevoli, mentre quelle
pericolose, velenose, non nasceranno più a seguito della venuta del predetto: la natura sarà
depurata dai suoi aspetti nocivi, mostrando il suo volto benevolo e amico. Inoltre questa si
caratterizzerà per l’abbondanza, per cui le carpette riporteranno a casa poppe gon e di latte, e
gli armenti non avranno paura dei grandi leoni: il carattere con ittuale che regola le specie animali
è destinato a sparire e al tipico rapporto di predazione ne seguirà uno di paci ca convivenza.
Quest’ultimo elemento rientra in un di uso immaginario di età dell’oro: anche negli scritti di Isaia
si ripropone l’immagine simile di un bambino che “scon ggerà il serpente”.

L’avvento dell’età dell’oro però, non sarà istantaneo: è messo in relazione a questa nascita ma
non direttamente consequenziale, si generalizzerà a mano a mano con la sua crescita, seppur
già da quando questo sarà in culla se ne manifesteranno i primi segnali.
Quando questo sarà in età scolare e conoscerà le imprese degli antichi eroi, comprendendone le
gesta, si renderà capace di distinguere bene e male e quindi, i campi si riempiranno di grano,
l’oca crescerà e si otterrà miele; è un momento intermedio dove permanerebbero comunque le
tracce di “un’antica frode” infatti, il mare - il luogo topico dell’età del ferro - non scomparirà da
un giorno all’altro, ma solo progressivamente e le due età consoceranno un momento di
sovrapposizione: la guerra, l’agricoltura, la navigazione e le mura, ci vorrà ancora del tempo prima
che scompaiano del tutto.
Questi sono tutti elementi propri dell’età del ferro: ad esempio la navigazione viene considerata
come un’attività empia e indebita, nella misura in cui violerebbe uno spazio non destinato
all’uomo; gli dei avrebbero assegnato loro la terra e avventurarsi per mare sarebbe sinonimo di
commettere un’empietà.
Anche l’agricoltura sarebbe, in qualche misura, un’attività violenta: incidere dei solchi nella
terra signi cherebbe violare l’integrità di questa stessa. L’insediamento umano è si legittimo,
ma violare la natura rappresenterebbe una violazione rispetto alla volontà divina. Ecco che allora il
campo “non subirà il rastrello” e la scelta del verbo è a atto causale: cesserà di esistere l’unità
agricola fondamentale e anche gli animali verrano liberati dal loro stato servile.

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Viene detto che non sarà nemmeno più necessario tingere le lane: pecore e arieti nasceranno già
colorati; gli antichi estraevano i colori dal mondo naturale e Tertulliano a sua volta aveva esposto
una teoria per cui la donna, come pure la pecora, dovrebbe esser lasciata bianca.
La natura sostanzialmente, fornirà di tutto ciò di cui si ha bisogno, senza alcuna necessità
di riproduzione arti ciale o di inquinamento da parte dell’uomo.

Vengono nominate le Parche, quelle dee che lavano il destino umano: queste si starebbero
preparando a tessere il destino prossimo, quello voluto dalla provvidenza e Virgilio si augura di
vivere abbastanza a lungo da cantare le imprese di questo pargolo una volta che sarà adulto, per
metterle in lirica.
Il poeta sta celebrano l’avvio di un processo che dice cambierà il volto del mondo, descrivendo
questo come in brillazione nell’attesa che si compia questa profezia. Il mondo è gravido di
questa novità e anela il momento della sua realizzazione.
Invita quindi il nascituro a sorridere a sua madre: gli antichi erano ben consapevoli della
necessità del pianto del neonato ma, se i medici lo descrivevano come necessario a stabilirne la
vitalità, i loso credevano si trattasse di un presagio dei mali che lo attendevano in vita - un
elemento che giunge no a Leopardi -; ecco che allora Virgilio segna un elemento che
caratterizzerà personaggi come pure Cristo o Zarathustra.

Ora, il testo della quarta Bucolica nasce da una sollecitazione storica: l’anno 40, a cui si
riferisce, è quello degli Accordi di Brindisi, durante cui Antonio e Ottaviano addivengono a patti,
disinnescando, almeno apparentemente, le tensioni nel triumvirato a seguito della battaglia di
Filippi. Queste sembravano essere già sul punto di sfociare in una guerra civile, ma questo
accordo avrebbe posto i triumviri al di sotto del patronato del console Pollione: per i
contemporanei, questo evento sarebbe stato capace di scongiurare a lungo le tensioni per
aprire un lungo periodo di pace.
Il testo sembra essere aperto a una dimensione utopica in prospettiva di una palingenesi e
proiettarsi allora in una dimensione, quella dello straordinario, che però nascerebbe da eventi
concreti e cronachisti, legati al mondo politico.

La prima e la quarta Bucolica nascerebbero dalle sollecitazioni della cronaca


contemporanea: la prima sotto le tensioni dovute dalla con sca dei campi nella pianura
padana mentre, la quarta, da un accordo che sembrava capace di aprire un duraturo periodo
di pace disinnescando le tensioni del triumvirato.
Sono due modi diversi di rispondere all’attualità e attraverso cui si articola una dialettica tra storia
e utopia, eventi contingenti e grandi orizzonti.
Un evento della storia politica rappresenta allora un punto di svolta capace di investire
l’intera storia del mondo, il quale si accingerebbe a tornare su suoi passi e a riportare sulla Terra
un’epoca felice, quella delle origini.
Questo tema, recuperato da Virgilio, viene riproposto anche nell’Eneide, dove ad Augusto viene
riservato il ruolo di protagonista dell’imminente età dell’oro. Un testo come questo ci racconta
anche delle aspirazioni di uomini vissuti all’interno di un drammatico momento storico di Roma,
quella segnata da una trasformazione radicale e dal sogno di un mondo che possa essere
ricostruito da capo. Sono testi che si traggono a partire da condizioni insoddisfacenti e nelle quali,
per essere felici, sembra necessario proiettassi in un futuro radicalmente diverso.

Questo ri ette a modo proprio un codice di immagini comprensibili ai suoi contemporanei, ad


esempio il 17 dicembre veniva celebrata la festa dei saturnali, dedita al dio Saturno, che
riproduceva un temporaneo ritorno dell’età dell’oro nelle sue atmosfere.

La quarta Bucolica esprime contemporaneamente angoscia e speranza: quella di un’epoca di


precarietà, in cui il rischio della guerra e la percezione dell’abisso è incombente e mai troppo
lontano ma anche l’aspirazione a un rinnovamento radicale e a riscrivere il mondo abolendo
questo presente frustrante.
L’utopia è un modo per sottrarsi alla contingenza: quella di Titiro è allora un’oasi di abbondanza in
termini spaziali per cui, nel cuore di un mondo che va a rotoli, la siepe circoscrive un perimetro.
Nella prima Bucolica ci muoviamo in termini spaziali per cui si contrappongono quelli di Titiro
e di Mellibeo ma nella quarta, ci muoviamo nell’articolazione di un discorso temporale, dove
sono i momenti, le ere a scontrarsi e ad articolarsi.
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Le Georgiche
Le Georgiche sono il secondo grande poema virgiliano, quale composizione si distende per circa
un decennio, per un arco di composizione che va dal 38 al 29 a.c.. Queste sono un’opera scritta
all’indomani dell’ingresso di Virgilio all’interno del circolo di Mecenate.
All’epoca delle Bucoliche, Virgilio era legato ad Asinio Pollione, console nell’anno 40 ed ex-
cesariano, protettore di intellettuali e poeti, animatore culturale, un retore si, ma che nulla aveva a
che vedere con Ottaviano, che negli anni 30 avviò una politica di direzione culturale. Le Georgiche
sono un testo dedicato a Mecenate, come le opere di tutti gli artisti facenti parte la sua cerchia,
targando queste come appartenenti allo speci co ambito.
In un passaggio del terzo libro, Virgilio dichiara che queste sarebbero frutto di “haud mollia
iussia” di Mecenate: avrebbe scritto queste sulla base di ordini tutt’altro che blandi, aprendo
quindi uno spiraglio su quali che sarebbero stati i rapporti di potere all’interno di questo circolo, in
cui gli scrittori si sarebbero ritrovati subordinati ad un potere politico che ne avrebbe dettato le
linee di attività culturale e i suoi contenuti.
Donato racconta che, nell’estate del 29, quando Augusto era di ritorno dall’oriente dopo un lungo
giro diplomatico, in Agosto si celebrano la vittoria della battaglia di Azio e la conquista dell’Egitto;
quindi fece convocare Virgilio da Napoli, dove viveva e dove pure aveva composto le Georgiche,
mentre si trovava di ritorno a Roma lungo la via Appia. I due si incontrarono ad Atella e per
quattro giorni consecutivi gliele recitò: il potere politico agiva a monte e a valle dell’operazione
poetica, per cui non solo gli ordini di Mecenate, ma anche Augusto medesimo svoleva una
funzione di controllo, dando una sorta di imprimatur. Ottaviano impose al poeta una lettura
privata dell’opera, a partire da cui conobbe di usione: è una prassi che Augusti seguì anche in
altri casi, come in quello circa l’Eneide, quindi un suo tipico modus operandi.

Il titolo proverrebbe da una parola greca, “georgos”, “contadino”: sono “cose relative ai
contadini”, “georgikos”. Dai pastori, osserviamo un cambio nei protagonisti, che sono ora
contadini: per l’ordine di composizione, Virgilio aveva seguito quello con cui si erano pure
succedete le attività economiche durante la storia umana, per cui prima c’era stata la
pastorizia e dunque l’agricoltura. La distinzione tra le due per gli antichi era fondamentale:
segnava un passaggio dalla natura alla cultura, da un’attività di mero sfruttamento di risorse
già presenti in natura a una sua manipolazione attiva. L’agricoltura contempla una tecnica
umana per produrre qualcosa che altrimenti non sarebbe spontaneo.
Il contenuto dei quattro libri riguarda la coltivazione dei campi, gli alberi, l’allevamento e in ne,
l’apicoltura.

C’è evidentemente un cambio nel genere letterario: non è più poesia pastorale questa, ma
didascalica; questa aveva modello in Esiodo e ne la sua Le opere e i giorni. Questa ha un ne
didattico: il poeta si pone nel ruolo di maestro e precettore, è colui che è depositario del sapere e
che intende comunicarlo ai propri lettori, o rendo questi una serie di precetti - ed è anche per
questo che la poesia didascalica è piena di imperativi -.
È un poema estremamente ra nato dal punto di vista letterario e presuppone un lettore capace di
rintracciare i vari riferimenti letterari.
Alcuni studiosi pensano che questa fosse indirizzata ai grandi proprietari terrieri, ma sembra
essere, quella didascalica, una cornice funzionale a veicolare una visione del mondo -
esattamente come pure le Bucoliche non erano indirizzate veramente ai pastori -. Quello che
voleva fare il poeta era di proporre un modello etico, per cui il contadino sarebbe incarnazione
di una determinata idea che Virgilio vorrebbe suggerire al suo lettore.
Un altro dato che farebbe pensare alla forma didascalica come mero mezzo è che si aprono
excursus, digressioni e punti in cui la successione dei precetti si interrompe, per vedere Virgilio
sviluppare alcuni temi di ordine generale che non hanno direttamente a che vedere con
l’impianto precettistico della opera, ma si tratterebbe piuttosto luoghi privilegiati in cui divampa
il vero sentito delle Georgiche.

Georgiche I
Gli dei a cui Virgilio si rivolgerebbe nel proemio sono quelli legati al mondo agricolo, i quali
verrebbero invocati assieme ad Ottaviano. Si tratta di una strategia di autenticazione: il poeta sa
che, invocando le Muse, garantisce la credibilità del testo.

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Nel proemio, Virgilio inizia a parlare dei campi e dei criteri necessari per la seminagione, aprendo
pressoché immediatamente però la prima delle digressioni, imbattendoci in una visione
radicalmente diversa con rispetto a quella della Bucolica IV.

“Il Padre stesso (Giove in persona), volle che la via del coltivare, del processo della coltivazione,
non fosse facile e per primo, smosse i campi attraverso la tecnica pungolando, sollecitando,
a lando i cuori mortali con le preoccupazioni, con le di coltà e non consentì che i suoi regni
intorpidissero, dormissero, in acchissero in un’inerte, greve paralisi. Prima di Giove infatti, nessun
contadino sottometteva i campi, lavorava i campi, neppure segnalare o suddividere con un
con ne un campo era lecito, si procuravano da vivere in comune, la terra stessa produceva tutte
le cose più abbondantemente senza che nessuno lo chiedesse, spontaneamente. Quello (Giove)
aggiunse il cattivo succo ai neri serpenti e ordinò ai lupi di di fare bottino, aggradire le loro prede e
al mare di agitarsi.”

“Giove scosse vie (decussit) il miele dalle foglie, fece sparire il fuoco e cancello, eliminò, fermò i
vini che scorrevano nei umi qua e là a nché la pratica a nché l’esperienza (usus), attraverso la
ri essione, tirasse fuori a colpi di martello, ottenesse le diverse tecniche un po’ alla volta e -
a nché - si procurasse l’erba del grano dai i solchi, si estraesse il fuoco nascosto nelle venature
della pietra. Allora, per la prima volta, i umi, i corsi d’acqua, avvertirono, percepirono (come se
fossero soggetti animali in grado di sentire) i tronchi scavati - Virgilio ha qua presente
un’imbarcazione che si ricava invocando un lungo tronco d’albero come una canoa - allora, il
marinaio, diede i numeri e i nomi alle stelle, iniziò a contare e a nominare le stelle Pleiadi, Iadi e la
luminosa Orsa ( glia) di Licaone. Allora si inventò il modo di catturare le belve, le ere, con le reti e
di ingannarli con il vischio e circondare i grandi boschi con i cani; e uno, qualcuno già frusta,
batte, esplora un grande, largo ume con la rete (funda) cercando il punto in cui l’acqua è più
fonda, un altro tira a se’ i li bagnati. Allora, la durezza del ferro e la lama di una rumorosa sega
infatti, i primi uomini spaccavano il legno che si lascia spaccare con dei cunei, allora vennero le
varie arti. La dura fatica vinse tutte le cose, ebbe ragione di tutte le di coltà e insieme il bisogno,
che pungola, stimola (urgens) nelle di coltà.”

“Il miele dalle foglie” è una delle immagini della Bucolica IV, per cui nell’età dell’oro - dice Virgilio
- anche le querce trasudavano miele.
Il fuoco è come se fosse stato conservato all’interno delle pietre, per cui gli uomini sarebbero
tenuti a manifestare la potenza tramite la loro fregatura.
Nascono quindi le prime arti, cui prima fu la navigazione, a cui seguirà la sedentarietà - in virtù
della presenza dei e beni e della ricchezza -; allora, terminata l’età del ferro, si chiuderebbe anche
la necessità della navigazione e dello scambio di merci.
Vengono indicati nomi particolari delle stesse, come le Pleiadi, le stele invernali, e l’Orsa, un
richiamo alla dimensione del mito, una dei gli di Callisto, una ninfa amata da Zeus.
Ancora, la caccia con le reti era una maniera solita, mentre il vischio indicherebbe un collagene il
quale faceva si che gli uccelli rimanessero invischiati nel materiale, quindi un’alternativa alla prima
modalità di caccia.

Per “teodicea del lavoro” si indicherebbe la giusti cazione divina del lavoro: la fatica e il
bisogno sono ricondotti a una matrice provvidenziale, esattamente come pure nella tradizione
cristiana, in cui il lavoro sarebbe stato posto come necessario a partire dalla cacciata dal giardino
edenico. Come il mito della Genesi, questi racconti vogliono giusti care l’atto empio come un’idea
edenica originaria.
Secondo la visione di Virgilio, questo esisterebbe e sarebbe necessario in quanto desiderio di
Giove. D’altro canto, questo è anche una condizione che avrebbe permesso all’uomo di
scoprire le arti e suggerito la virtù e allora, l’età dell’oro è un “veternus”, un rimbambimento,
la condizione solita degli anziani che perdono lucidità mentale. Si tratta di una condizione
paralizzante, dove non si muove nulla, in cui tutto è stazionario: creare delle di coltà è il modo
attraverso cui Giove impone del movimento alla stasi. C’è una forte insistenza sul tema e sui
verbi di movimento: il mondo, da che era statico e morto, in una condizione comatosa, ora si
muove grazie a queste di coltà imbastite da Giove. Gli uomini che si trovavano in una condizione
di assuefazione sono ora tenuti a sfruttare le proprie potenzialità siche ed intellettuali:
allontanandosi dalla beatitudine delle origini, l’uomo fa allora ricorso a quelle risorse che
erano in stato potenziale.

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“Curis acuens mortalia corda”: le di coltà, gli a anni e le angosce sono gli strumenti di cui
Giove si serve per smuovere i cuori umani e permettergli di a rontare l’esistenza.
Si tratta di un punto di rottura radicale con la tradizione: in tutta la scrittura precedente,
l’immagine dominante era quello dettato anche all’interno della Bucolica IV, ovvero che, l’età
dell’oro fosse un momento invidiabile ed auspicabile in quanto epoca felice per l’umanità, di
benessere e di assenza di pena. Giove allora, sotto questo punto di vista, non sarebbe più il dio
punitore, ma avrebbe dato occasione agli uomini di emanciparsi attraverso il lavoro: è un
“pater” cui animo benevolo verso gli uomini vorrebbe guidarli, e non giudicarli.
La fatica è una condizione per vincere la condanna del mondo e della vita: allora la stasi letterale
di Titiro si contrappone al movimento di Melibeo, ora da intendere a panni rovesciati.

Georgiche II
Gli alberi della vite e l’ulivo dominano questa sezione, dedita alla coltivazione.
La sezione nale è una di quelle ideologicamente e concettualmente più importanti e ricche,
capace di dare il tono all’intero poema e apportandogli un signi cato intellettuale. Si tratta di un
elogio dei contadini, a cui segue un elenco delle ragioni per cui la vita contadina sarebbe una
condizione privilegiata.
Questo viene fatto non solo in funzione contrastiva, come a ancando la possibilità della vita del
contadino ad altre scelte, come quella della vita urbana e vengono a proposito proposti dei quadri
di via quotidiana dei cittadini di Roma. A possibili vite alternative, Virgilio oppone idealmente la
vita contadina, ricordando un paesaggio ameno che sembra esser tratto dalle Bucoliche.

Ora non c’è più l’immagine del contadino che combatte contro un natura ostile, ma questa rende
giustamente al contadino sulla base di quanto avrebbe investito tramite un prestito ad interesse
rispetto a quanto seminato. L’immagine è conciliata, la relazione tra le due entità è giusta e
reciproca.
Il rapporto di guerra è cessato, ora il contadino è in amicizia con la natura, ma il chiaroscuro
che domina il poema, tra fascino e ambiguità, ci suggerisce che non dobbiamo ridurre la nostra
considerazione a un’unità inviolabile.
È comunque presente un’implicazione etica: i contadini, non sono solo quelli che godono della
natura genuina, ma vivono anche lontani dal tran tran cittadino e dalla realtà urbana e sono
portatori di un’etica diversa, di un diverso sistema di valori, concentrato sulla religione
tradizionale, sulla famiglia - in cui le mogli sono fedeli e i padri rispettati -, per cui la fatica
viene valorizzata, a discapito dell’ozio urbano, e il guadagno è ottenuto per sforzo e in
maniera genuina. Sono i valori contadini, quelli che determinano una vita giusta e per cui la dea
Giustizia, in procinto di abbandonare la terra, una volta nita l’età dell’oro, trascorre il suo ultimo
soggiorno proprio nelle campagne.
Il carattere incessante della fatica non corrisponde più al duro lavoro del primo libro, di cui se ne
sottolineavano la pena e la di coltà, ma ora la terra, perennemente fertile e feconda, imporrebbe i
suoi prodotti al contadino: è una visione positiva in cui anche la fatica pare scendere in secondo
piano.

Qua Virgilio starebbe proponendo un modello etico cui pure Ottaviano avrebbe tentato di
rigenerare e rifondare nella società romana, tramite un sano recupero di un modello antico
esaltato qua nelle Georgiche: questi uomini qua narrati avrebbero reso grande Roma.

4.6 Georgiche
Anche questo passo è ispirato al confronto tra alternativi modelli di vita, ma continente
un’allusione che dobbiamo decapitare, e questo si apre con il makarismos, una movenza
stilistica che consiste nel dichiarare la fortuna di qualcuno, come pure abbiamo già incontrato con
riferimento al discorso di Melibeo.
“Felice colui che riuscì a capire il perché delle cose”: il riferimento sarebbe a Lucrezio, quale
morte, secondo le fonti, sarebbe cascata esattamente il giorno in cui Virgilio avrebbe assunto la
toga virile.

Tito Lucrezio Cano (94 a.c. - 50 a.c.) fu autore di un poema didascalico in sei libri, esattamente
come pure le Georgiche, ma di contenuto loso co: avrebbe voluto nel suo De rerum vulgarum
natura insegnare una dottrina loso ca greca, riproponendo i fondamenti dell’epicureismo.

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Questo prende il nome dal suo fondatore, Epicuro, del IV secolo a.c., nato ad Atene, dove aveva
istituito una scuola cui adepti avrebbero continuato no alla conclusione del mondo antico.
Questa conobbe qualche di usione anche nel mondo romano, tra il II e il I secolo a.c. e a queste
posizioni si avvicinò lo stesso Cesare.
Aspetto caratterizzante del pensiero epicureo è la sua visione rigorosamente materialista:
secondo questa, non solo l’uomo, ma anche tutto ciò che esiste sarebbe composto da un
aggregato di minutissime particelle, quelle che i greci chiamavano “atomo”, ovvero “ciò che non si
può dividere”. Queste sono particelle non ulteriormente divisibili che, aggregandosi tra di loro,
formano ciò che esiste e disgregandosi, tramite il movimento opposto, ritornerebbero disponibili
per nuove trasformazioni: la materia del mondo è nita ma la sua capacità di aggregarsi e
disgregarsi fa si che le possibilità di aggregazione di questi elementi siano in nite. Altro
elemento chiave è il “vuoto”, vale a dire lo spazio in cui si muovono gli atomi, i componenti della
materia, e questo occupa dunque uno spazio: questo sarebbe il “vuoto”, una sorta di cornice
spaziale che fungerebbe da ambiente al movimento degli atomi. Per comprendere gli atomi,
Lucrezio si servirebbe un’immagine particolare: quando in una stanza penetra un fascio di luce e
vediamo muoversi i granelli di polvere.
Da Omero in poi, si sarebbero distinti nell’individuo un corpo e un’anima: la seconda sarebbe
un principio immateriale, capace di tenere in vita il corpo, una sorta di principio vitale che la
cultura greca, come pure quella cristiana, avrebbero da sempre assunto - e quindi proprio anche
di Lucrezio come di Epicuro -. Epicuro non nega questa duplicità umana, ma sostiene che
queste due parti siano fatte si di atomi, ma atomi diversi.
Da questa premessa si conclude che alla morte non sopravviva nulla: sia gli atomi del corpo,
con la decomposizione, che quelli dell’anima, sarebbero destinati alla disgregazione. Non c’è
alcuna sopravvivenza dunque, ne’ forma di vita, oltre la morte ne’ tantomeno un aldilà. È il terzo
libro della Natura quello dedicato in senso stretto alla questione della mortalità dell’anima.
“Epicuro e i suoi seguaci che l’anima col corpo morta fanno” viene detto nel canto X dell’Inferno.
In questo sistema il divino, l’epicureismo viene condannato super cialmente per ateismo ma in
realtà, sostiene una cosa non meno rivoluzionaria della precedente: non si importa se la vita
umana è caduca o se vi sia un aldilà, di fronte alle ingiustizie del mondo non possiamo
credere in una divinità provvidenziale; gli dei dunque, secondo Epicuro, se esistono non
fanno comunque muovere il mondo, il quale seguirebbe delle cause meccaniche. Certo
dovremmo onorarli, ma non perché ci aspettiamo qualcosa da loro, ma in quanto ne riconosciamo
la natura evidente e rendiamo loro onore in quanto rappresentanti un’entità superiore ed
eminente. Allora, l’attività religiosa non sarebbe concentrata su di uno scambio ma su di un
prestito, conferito da un inferiore ad un suo superiore.
Ultimo punto cruciale di questo sistema è la volontà di liberare l’uomo dalle paure suscitate
dalla vita: ciò che rende infelici sarebbero proprio queste, le quali pure rimarrebbero sotto traccia,
arrecando un tormento di carattere più o meno cosciente, come la paura degli dei o della morte.
La paura della morte “nasce anche in mezzo ai ori”: è un tarlo che corrode la nostra anima; ma lo
scopo di questo sistema è liberare l’individuo da questi: degli dei non dobbiamo temere, in
quanto non si curano di noi, conducendo un’esistenza separata, e per quanto riguarda la morte,
sostiene che “il piacere e il dolore sono solo nella sensazione ma non proveremo più
sensazioni quando morti”, in quanto la dove non vi è sensazione e non vi è dolore non bisogna
temere qualcosa.
Lucrezio insiste che la conoscenza della dottrina epicurea sarebbe fondamentale per
godere di un’esistenza serena: Epicuro avrebbe strappato la maschera alla realtà e sarebbe
stato portatore di un pensiero libero e liberatorio, il quale meriterebbe di essere conosciuto nella
misura in cui sarebbe da de nirsi salvi co. Lucrezio si presenta allora, nel vero senso della parola,
come portatore del verbo salvi co di Epicuro, de nito un “dio” all’interno di un’a ermazione
iperbolica. Questo viene presentato come colui che avrebbe prodotto l’unico sistema di pensiero
capace di assicurare la felicità agli uomini e insiste nella possibilità di acquisire questo pensiero
come unica possibilità di vivere appieno il reale.
Virgilio insiste e ribatte il fatto che questa possa essere l’unica via della felicità: conosce Lucrezio
e anzi, possiamo anche dire che sicuramente il De rerum natura fu uno dei libri della formazione di
Virgilio, con cui si sarebbe intellettualmente impegnato. Si tratta di un riferimento intellettuale e
obbiettivo di carattere polemico, ma la via che Virgilio ha in mente non è quella epicurea: ha si
avuto simpatie epicuree, ed ha studiato in una scuola epicurea, quella della Villa dei Papiri - dove
studiava la miglior gioventù romana dell’epoca - ed elementi di epicureismo sono rintracciabili
nelle Bucoliche, ma la questione è più complessa.
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Lucrezio sarebbe colui che avrebbe “capito tutte le cose” - nella condizione e manifestazione
meccanicistica della realtà e dei fenomeni -, colui il quale avrebbe schiacciato sotto ai piedi le
paure, degli dei e della morte, per ricavarne una loso a positivista al ne della felicità. Epicuro in
questo senso, avrebbe cancellato la geogra a della morte, sostenendo che le anime dei morti si
disgregherebbero con la morte del corpo e avrebbe allora “schiacciato l’Acheronte”, uno dei
quattro umi infernali.
Questi versi di Virgilio sono inoltre la prova che Lucrezio non sarebbe morto pazzo, una
congettura cristiana, in quanto lo de nito “felice”.
Virgilio dice che si è fortunato chi conobbe la dottrina epicurea, ma anche chi, contadino,
conobbe gli dei Silvano e Pan, e che non si cura della sfera politica, rappresentata dal fascio
delle magistrature superiori. I rischi della guerra gli sono lontani e non gli interessano le vicende di
Roma o dei regni, perché vive la propria vita in un mondo sperato, ignorando il foro romano con le
sue beghe politiche.
L’epicureismo, in ultima istanza, non sarebbe l’unica via per giungere ad una vita buona o
ad un’esistenza priva di paure, ma anche la vita del contadino, legato alle sue divinità
tradizionali, quella di chi è ignorante, che non si interpella di queste questioni, anche la sua può
arrivare agli stessi obiettivi che si propone la loso a epicurea, tramite una strada che non è
quella della ri essione intellettuale o del pensiero loso co, ma una via empirica e tradizionale,
senza le so sticatezze della dottrina, vivendo nella semplicità, nella fede semplice, nel rapporto
sano con la terra e allontanandosi dal mondo della politica e della guerra. Allora, il contadino non
è meno felice del losofo epicureo. Anche qua avviene un confronto, come in precedenza, per
cui se prima considerava diversi stili di vita è vengono chiamate in causa due loso e.
Virgilio ritiene che la vita dei contadini sia “naturalmente loso ca”: è una loso a che non
passa dai libri, ma attraverso la natura.
Gli agricoltori sono gure che avrebbero maturato determinate convinzioni alla luce del loro stile di
vita: la vita della campagna è felice e questa felicità si conseguirebbe tramite un percorso
biogra co particolare, con vertice assoluto nelle Georgiche. Al pari dei loso , questi hanno
trovato una loro via verso la vita buona che li renderebbe non meno felici e fortunati.
Virgilio riprende spesso alcune espressione del De rerum natura senza fare espressamente il
nome di Lucrezio.
Nel passo vengono declinati due possibili motivi di vita buona, due vie per la vita felice: quella di
chi conosce le cause delle cose, del losofo che permette di interpretare la realtà e superare le
paure degli uomini, ma al contempo si potrebbe giungere alla felicità tramite la via del contadino,
quella della tradizione. La loso a di Epicuro è laica, ma si libera della presenza divina, mentre il
contadino conduce una vita immune dalla guerra e dal mondo urbano pur privo delle
so sticatezze della loso a, pervenendo al medesimo risultato.

Il primo libro delle Georgiche riguarda la coltivazione dei campi, il secondo gli alberi e il terzo,
l’allevamento degli animali, e in particolare del bue, un animale legato all’attività agricola, e del
cavallo, quale impiego si lega al mondo bellico. Esisterebbero si cavalli da parata o da corsa,
impiegati nei giochi del circo, di impiego civile e ordinario, ma è principalmente uno strumento del
soldato. Anche il terzo libro è dunque di funzione didascalica, per cui Virgilio fornisce una serie di
precetti.
Ci sono poi delle digressioni che riguardano temi non prettamente didascalici ma che dalla
precettistica prendono spunto.

4.7 Georgiche
Virgilio tratta dell’eros all’interno del mondo animale, per cui lo spunto che da origine alla
digressione è il precetto secondo cui il modo migliore di consentire agli animali di crescere e
svilupparsi sarebbe quello di ritardare il più possibile l’esperienza sessuale. Per Virgilio
infatti, la copula dovrebbe essere un elemento a cui il bravo allevatore ripone particolare
attenzione.
“L’amore è uguale per tutti”: il poeta ha una visione dell’eros che, nelle Georgiche, si applica al
mondo animale si, ma che è pure analoga alla storia d’amore tra Enea e Didone nel quarto libro
dell’Eneide, quello consacrato alla storia amorosa. La visione dell’eros che ne emerge, ma che già
si poteva captare all’interno delle Bucoliche, è fondamentalmente negativa. L’amore, il desiderio,
l’esperienza erotica è destabilizzante e devastante, è una sorta di follia che prende nello stesso
modo e misura il mondo umano e quello animale.

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Per esempio, quando le cavalle si troverebbero nel loro periodo d’amore, sarebbero preda di una
forza che le renderebbe delle vere e proprie mine vaganti, facendole sfuggire a qualsiasi tentativo
dell’allevatore di placare. È una forza che rappresenta una rottura con rispetto al placido
andamento della vita animale, una follia temporanea che induce ad atteggiamenti di lotta o di
aggressione. Questi animali sarebbero preda di impulsi a cui non vi è punizione che li disciplini:
è un sentimento sordo a qualsiasi tentativo di addomesticamento.

“A tal punto sulla terra qualsiasi stirpe di uomini, di animali e della stirpe marina, gli animali che
vivono in branchi e i variopinti uccelli precipitano nella follia e nella amma.”

Il verbo “ruere”, che non ha dato origine a un termine italiano, indica letteralmente il “crollare” ed
è l’antenato della parola italiana “rovina”, da “ruina”, riferendosi però all’e etto, e non all’azione
precedente. Si allude dunque ad un processo che porterebbe alla rovina, al crollo di qualcosa
prima integro, ma che va incontro a un fenomeno di disgregazione. Anche nelle lingue moderne si
ritrova un principio di caduta nei termini che indicano l’innamoramento. Questa visione del
cadere non ha una considerazione positiva verso il sentimento amoroso: non ha una visione
empatica dell’esperienza, ma di una perdita di stabilità. Queste espressioni si de-semantizzano e
a furia di essere usate diventano idiomatiche e prive di signi cato letterale. Non è presente in
italiano moderno un giudizio di valore, ma è piuttosto descrittivo il suo sentito a di erenza delle
altre lingue.
Il verbo “ruere” implica una caduta distruttiva che scompaginerebbe l’integrità di ciò che cade e
dunque, questa caduta presenterebbe un’implicazione in più, quella della rovina, di
disarticolazione di un’unità precedente ora ridotta in frantumi. Secondo questo verso si cadrebbe
nella follia, nell’obnubilamento della ragione, nella “ignis”, nella “furias”, nella follia.

Secondo il diritto romano ci sono tre categorie di persone assoggettate ad un tutor: i


minorenni, che non possono acquistare o vendere da soli, ma tramite un “tutore” che li
rappresenti, le donne, tutte e a prescindere dall’età, che devono avere un “podestà”, e i furiosi, i
pazzi, i quali non possono compiere scelte o detenere un patrimonio e a cui lo stato assegna
pertanto un tutore che decida per lui; l’innamorato sarebbe esattamente come l’ultimo di questi
stadi, quello della follia, viene considerato al pari di una condizione clinica.

Il bruciare è una delle comuni metafore per indicare l’esperienza amorosa, ma in Virgilio non è un
fuoco dalle connotazioni positive: in questo frangente sono chiamate in causa le sue connotazioni
distruttive, che desertifcano l’anima.

Non c’è una di erenza tra il mondo animale e quello umano per quanto riguarda l’amore. Uomini e
animali sono investiti, travolti da quest’esperienza allo stesso modo e con la stessa forza, nella
stessa misura e con gli stessi e etti.
Gli e etti di quest’innamoramento sono la follia, la amma distruttiva e il tracollo, inteso come una
perdita di integrità, un’esperienza rovinosa tale da un abbattersi al suolo. È una visione cupa,
fosca e pessimista dell’eros - non che nelle Georgiche o nell’Eneide esistano amori felici come
nelle Bucoliche, nel caso dell’amore di Titiro per Amarillide -. Sono però rare eccezioni: Virgilio
parla sempre di amori infelici e la sua visione dell’amore è radicalmente negativa.
È intrinseca nella cultura romana una visione pessimista dell’eros e questo diviene chiaro anche
nel quarto libro dell’Eneide: si era infatti di denti verso questo sentimento.

4.8 Georgiche
Il Norico è una regione meridionale dell’Austria, mentre per “peste” si intende spesso nell’antica
Roma in maniera generale qualsiasi malattia endemica.
Si parla delle malattie comuni degli animali e di come curarle ma delle volte, sarebbe
impossibile contrastare questa fatalità.
La scelta di chiudere il terzo libro delle Georgiche con questo tema non è casuale, ma si
rifarebbe al racconto di Lucrezio della peste di Atene, accaduta nella prima fase del
Peloponneso, tra cui vittime cadde anche Pericle, a seguito della scelta di far a uire la
popolazione alla città dalle campagne, facendo divampare il male. Questa era stata narrata a sua
volta da Tucidide, testimone oculare dell’evento, e Lucrezio avrebbe ripreso la sua descrizione: gli
dei non si curano degli uomini e il mondo stesso non sarebbe funzionale al loro insediamento; la
terra, non è un posto per uomini.
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Virgilio riprende il testo di Lucrezio e colloca la peste animale in chiusura di libro. C’è una ripresa
del testo precedente però che, anche qua, appare evidente ma con una di erenza: questo non è
l’ultimo libro delle Georgiche. Anticipando la conclusione dell’ultimo libro delle Georgiche, che si
occupa dell’apicoltura, la sua chiusa principia con la peste delle api, in quanto anche gli alveari
possono andare incontro a malattie che ne causerebbero la morte; il lettore dunque suppone che,
dopo la trattazione sulla peste nel terzo libro, ora venga narrata la pestilenza delle api, ma così
non è: Virgilio racconta un mito, quello di Aristeo, che secondo alcune varianti fu inventore
dell’apicoltura.
Il mito vuole che Aristeo vide i suoi alveari colpiti dalla malattia e i propri sciami annullati dal male.
Egli dunque, si sarebbe recato da sua madre Cirene, una ninfa, la quale gli consigliò come uscire
da questa situazione: avrebbe dovuto uccidere degli animali, lasciarli in putrefazione per nove
giorni e dunque, dopo le sue preghiere, da queste si sarebbe liberato uno sciame di api. Non si
tratta di una convinzione arginata solo al mito, ma di un costituente della scienza antica. Aristeo
vide compiersi il mito, il fenomeno da cui dalle carni in putrefazione nacquero nuovi sciami che
ripopolarono quegli alveari deserti cati dalla malattia, ma in mezzo a questo racconto, se ne trova
un secondo, innestato, quello di Orfeo ed Euridice.

C’è un rapporto dialettico tra Georgiche e il De rerum vulgarium Natura: questo passa
attraverso un’imitazione di Lucrezio ma al contempo anche tramite una presa di distanza. Se
il messaggio conclusivo del secondo alludeva a un disastro, dando prova dell’inospitalità del
mondo, questa non è l’ultima parola di Virgilio. La sua ultima parola è anzi di luce e di speranza
verso quella stessa natura che avrebbe distrutto le api, ma che è anche capace di rigenerarle. La
perdita di Aristeo sarebbe stata ripagata da una terra che è capace di togliere, ma anche di dare.
Il dialogo con Lucrezio è complesso e non univoco: non è mera imitazione ma è presenta anche
una ripresa per contrasto.
All’idea di un mondo disertato dalla provvidenza e di una divinità capace di abbandonare gli esseri
umani a una vita dominata dal caso, Virgilio ri uta di rassegnarsi e, come pure nell’Eneide, non
aderirà a questa visione epicurea, prendendone le distanze.

Aristeo avrebbe seguito scrupolosamente le indicazioni di sua madre e quando si reca, dopo
alcuni giorni, nel luogo dove gli animali erano stati uccisi, vede uno sciame di api che popoleranno
nuovamente i suoi alveari.
Le ragioni della sua sciagura nascono da una punizione: egli fu l’arte ce della morte della
ninfa Euridice, sposata al cantore Orfeo, di cui si era invaghito. Orfeo era una gura di mitico
cantore: era un suonatore di lira, glio a sua volta di una dea, una musa.
Per gli antichi, il regno dei morti si trovava ai con ni del mondo, o al centro della terra, e tramite
dei varchi o delle grotte sarebbe possibile per i mortali avervi accesso. Grazie alla sua musica,
Orfeo sarebbe riuscito ad ottenere questo esito unico e mitico e si indirizzò dunque
all’Averno, nei pressi di Napoli, per fare ingresso negli inferi.
In conclusione del quarto libro delle Georgiche si accompagna un testo di carattere mistico e
dubbio.

4.9 Commento alle Bucoliche, Servio (10,1)


Servio era un grammatico, vale a dire un professore di scuola, quella della primissima pubertà -
assimilabile alla nostra scuola media -, a cui seguiva poi quella del retore; presso la scuola del
gramatico era uso leggere poesia e Virgilio già da quando era in vita era stato adottato all’interno
delle antologie scolastiche.
Servio si occupò di scrivere note di commento ai suoi testi: questo, dotto e ricco, è arrivato no a
noi grazie al lavoro dei monaci medievali.

“Costui (Gallo) fu in un primo tempo, inizialmente tra le amicizie di Cesare Augusto: in seguito,
successivamente, essendo caduto in sospetto che avrebbe congiurato contro di lui, venne ucciso.
Inoltre, fu amico di Virgilio al punto tale che, il quarto (libro) delle Georgiche, dalla metà no alla
ne conteneva, riportava le lodi di quello, un elogio di quello: su ordine di Augusto, (Virgilio) le
trasformò (le lodi) nel mito di Aristeo.”.
Una notizia non dissimile viene ripetuta anche all’inizio del commento al quarto libro delle
Georgiche.

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4.1 Commento alle Georgiche, Servio
“Infatti, conteneva le lodi di Gallo quel passo che adesso, contiene il mito di Orfeo, che venne
inserito dopo che, essendo Augusto adirato, Gallo venne ucciso.”

In origine, il nale del quarto libro delle Georgiche avrebbe contenuto una lode a Gallo, un
amico di Augusto in seguito caduto in disgrazia: congiurò contro l’imperatore e fu punito con
la pena capitale; alla luce di questo, Virgilio si ritrovò a dover modi care il testo, recidendo
queste lodi e inserendo così la digressione mitica intorno ad Orfeo - o forse, quella su di Aristeo -.
Gaio Cornelio Gallo era un coetaneo di Virgilio: i due erano nati ad un anno di distanza l’uno
dall’altro e provenivano entrambi dalla pianura padana. Questi pure fu poeta: fu il fondatore del
genere elegiaco, che deve il suo nome non ad un certo contenuto, ma al suo metro - distici
elegiaci, coppie di versi formate da un esametro e da un pentametro -.
Gallo scrisse quattro libri elegiaci, il De amores; la poesia elegiaca a Roma considera una
tormentata storia d’amore, tra il poeta e una donna, ma i libri di Gallo non ci sono giunti.
Ciononostante, dopo di lui, un’intera generazione di poeti, ispirandosi proprio a lui, tra cui pure
Ovidio, avrebbe scritto poesie elegiache - pervenute noi, a di erenza di quelle del suo capostipite
-. Questi autori riconoscono in Gallo il loro modello letterario e sulla base di ciò possiamo farci
un’idea del contenuto della sua opera, la quale non doveva discostarsi troppo dal prodotto suoi
discepoli letterari.
A questo era già stata dedicata la decima Bucolica, per cui si diceva che questo ricercasse
sollievo nel mondo fatato dei pastori virgiliani dopo esser stato abbandonato dall’amata Licoride.
In questo caso, Virgilio aveva allora ricoperto i panni del consolatore.
Gallo si tratta però di un individuo bicefalo: poeta si, ma anche uomo politico. Conosciamo solo
la fase terminale della sua carriera e non sappiamo come arrivò nel punto massimo della sua
ascesa politica. Nel 30 a. c. si trovava in Egitto al anco ad Ottaviano, con un ruolo di enorme
spicco: era infatti il responsabile del genio militare, della logistica dell’esercito romano. Una
volta che Antonio e Cleopatra si uccisero, Ottaviano dichiarò il termine dell’indipendenza
dell’Egitto, no ad allora al di sotto della dinastia dei Tolomei, a cui apparteneva la stessa
Cleopatra, e annetté l’Egitto all’Impero - e tale rimarrà no al 640 d. c., quando fu occupato dagli
arabi -.
Oltre a fare il poeta, Gallo era allora anche politico e militare e ricopriva una posizione vicina ad
Augusto. Quando i romani conquistavano un territorio c’erano due possibilità: o la sua
amministrazione veniva a data ad un re del posto - che però era, di fatto, una longa manus dei
romani - appartenente alla popolazione locale ma subordinato a Roma, tramite una forma di
controllo indiretto - come Erode, re della Giudea, conquistata nell’epoca di Pompeo -; oppure,
una seconda possibilità, contemplava l’annettere direttamente il territorio e di farlo amministrare
da un governatore, il quale rimaneva in carica per un tempo limitato e che governava per conto
dell’impero la provincia. Ma per l’Egitto, Augusto inventò un’alternativa tutta nuova: questo
divenne proprietà privata dell’imperatore e veniva amministrato da un prefetto che
rispondeva direttamente a lui; questo era allora un suo rappresentante, un amministratore della
sua proprietà. Anche i senatori che avrebbero voluto recarsi in Egitto avrebbero avuto bisogno di
uno speciale lascia-passare emanato dall’imperatore. Ottaviano si rendeva conto che si trattava di
un paese pericoloso, in quanto da secoli indipendente e che, pertanto, poco volentieri si sarebbe
adattato al dominio romano; inoltre, qualcuno avrebbe potuto scatenare una guerra di liberazione
raccogliendo il testimone della defunta Cleopatra. Si trattava, in soldoni, di una situazione molto
turbolenta che Augusto tentò di controllare tramite un delegato di ducia: Cornelio Gallo, primo
governatore dell’Egitto. Augusto evidentemente si dava di Gallo se doveva avergli a dato un
ruolo tanto importante.
Intanto, le Georgiche videro la luce nel 29. Si pensa che la scelta di dedicare la conclusione
delle Georgiche a Gallo fosse dovuta dal fatto che questo si trovava ad uno dei vertici del potere:
questo era il primo poema di Virgilio da quando era entrato nel circolo di Mecenate e questa
scelta poteva esser nata dalla volontà di compiacere l’amico, come pure ai tempi delle Bucoliche,
e che ora era tra i primi e più importanti collaboratori di Augusto.
Probabilmente le cose non andarono come sperato: Gallo si prese delle libertà politiche improprie
dovute al suo ruolo di spicco. Per tradizione, i faraoni venivano considerati delle divinità, e anche i
Tolomei avevano ripreso quest’idea; su questo lone, Gallo, sedendo su quel trono dei faraoni,
venne abbagliato dal potere e cominciò a condurre una politica autonoma, scatenando guerre e
conducendo delle campagne militari nel sud del paese senza alcuna autorizzazione del principe a

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cui rispondeva. Non solo, pare che cominciò inoltre ad innalzare, qua e la in Egitto, un
monumento tipico della cultura, l’obelisco; su uno di questi fu inoltre inciso, in latino e gerogli ci,
un auto-elogio che lo avrebbe indicato erede dei faraoni, quando era in realtà un semplice
amministratore. Nell’anno 27, Gallo fu chiamato a Roma, processato e condannato a morte.
Si era creata una situazione imbarazzante: un poeta, tale Virgilio, che tutti riconoscevano come un
poeta augusteo, il più in vista del circolo di Mecenate, aveva scritto un poema, uscito qualche
anno prima, il quale si concludeva con un elogio di Gallo - una situazione pertinente almeno
nché questo non fu giustiziato -. Nel momento in cui questo suo “fedelissimo” fu condannato a
morte, si era creato allora un grande incidente diplomatico. Augusto avrebbe ordinato a Virgilio
di riscrivere il nale delle Georgiche, eliminando le lodi di Gallo, per cui il poeta avrebbe
ottemperato rimpiazzando questa sezione con il mito di Orfeo.
Si tratta di una parte di storia della censura, mirata, chirurgica: Augusto, de nito un principe
illuminato, era però anche un personaggio capace di reprimere il dissenso, al punto di dare alle
braci intere opere letterarie. L’intervento adoperato sulle Georgiche, già in circolazione dopo il 29,
non era di cile nel mondo antico: il libro era un bene di lusso riservato ad un’élite che poteva
permetterselo, e che aveva un costo enorme in termini di materiale - il papiro, che cresceva solo
in Egitto - e di manodopera. Questo circolava pertanto all’interno di ristrette élite privilegiate e non
fu di cile rintracciare ed individuare i possessori di queste copie - seppur fossero opere di use
anche oralmente -. Le operazioni di repressione operata dal governo risulto ben e cace: a noi è
pervenuta soltanto la seconda versione mentre della prima, non si hanno manoscritti o
testimonianze materiali, fatta eccezione per questi riferimenti di carattere critico; proprio per
questo, la maggior parte degli studiosi ritengono che le informazioni di Servio siano false.

La volontà di dedicare le Georgiche a Gallo si inserisce in un tentativo di continuità cercato da


Virgilio tra le Bucoliche e la seconda opera, facendo si che entrambe si concludessero con
delle lodi e degli elogi di personaggi ai massimi vertici dell’establishment augusteo. Gli antichi
sapevano bene che all’inizio e alla ne di uno scritto, come di consuetudine retorica, si potessero
trovare elogi o dediche e possiamo pensare che Virgilio possa averne lasciato traccia nella
seconda edizione.

L’elegia, come genere, dopo Gallio, Tibullo, Properzio e Ovidio, scomparse.


Tibullo scrisse due libri di elegie, a cui se ne aggiungono altri due, giunti sotto suo nome ma che
suoi, in realtà, non sono - di cui uno di produzione femminile, le elegie di Sulpicia -. Vi si
aggiungono quattro di Propezio e tre di Ovidio. Nonostante la grande disponibilità di poesia
elegiaca, di Cornelio Gallo non è stato tramandato niente.
Se è stata conservata pressoché tutta la poesia elegiaca latina, appare strano che di Gallo non ci
sia pervenuto niente, ciononostante sappiamo di alcuni poeti i quali, ricevuta una condanna,
anche la loro opera venne messa interamente al rogo. Si può pensare che la sua opera venne
censurata e distrutta a seguito della pena capitale.

Per quanto riguarda le Bucoliche, sarebbe stato di cile operare una loro censura, in quanto in
circolazione da dieci anni; inoltre non si trattava di un’opera nata nell’entourage di Mecenate, ma
al disotto dell’egira di Asinio Pollione.

4.1 Commento alle Georgiche, Servio


Il Tenero era una gola greca che consentiva l’accesso all’oltretomba, il regno di Plutone, Ade. La
katabasi di Orfeo, insieme al IV dell’Eneide, sono dei modelli per l’inferno dantesco.
Disceso al regno di Dite, migliaia di ombre si accalcano intorno a lui per ascoltarlo: il potere della
sua musica sarebbe tanto forte da far fermare i supplizi eterni quivi scontati.
Nelle rappresentazioni dell’oltremodo fornite dal mito greco e latino la pena costruisce uno dei
fondamentali ciononostante questa, in quanto imperitura, priva di conclusione, risulta svuotata del
senso iniziale.

Emerge la seguente osservazione: in un mondo giusto dovrebbero essere i gli a seppellire i padri,
ma quando accade il contrario, ciò sommamente innaturale; questa sensibilità è ben presente,
anche e soprattutto, nelle culture antiche.
Virgilio mette in luce un aspetto patetico: la morte non risparmia nessuno e non guarda in faccia
alla giovane età, tantomeno si cura delle regole o delle presupposizioni sociali, così che anche la
stessa Euridice si fa esempio di una morte anzitempo.

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Intanto si va delineando una geogra a del mondo infero, dominato dal fango: il Cocito e lo
Stige sono due dei quattro umi infernali e, in particolare il secondo, compie una sorta di
movimento circolare, segnando il con ne del monto dei morti, arrovellandosi nove volte intorno al
primo.
A questo panorama non mancano le furie, le divinità proposte alla vendetta, contro i delitti
commessi contro i consanguinei, e Cerbero.

Issione era un personaggio della tradizione classica ed esempio di empietà punita: questo aveva
provato a sedurre Era, Giunone, moglie di Zeus.

Verosimilmente il mito vorrebbe alludere all’impossibilità di riportare qualcuno dal mondo dei
morti: la posizione umana è limitata; o forse, Orfeo, in quanto vinto dalla passione, si sarebbe
voltato per ristabilire un contatto visivo con l’amante.
Anche nelle parole di Euridice compare il termine “follia”: l’amore è questo per Virgilio,
insensatezza, passione e irrazionalità; l’amore è forza rovinosa e distruttiva e non un principio
vitale, o di gioia, o di pienezza, quanto piuttosto la premessa di un esito infausto. Orfeo non
sarebbe riuscito a dominare il suo desiderio di guardare l’amata e ne avrebbe segnato la
condanna de nitiva.
Il divieto di Proserpina di non voltarsi nascerebbe dal divieto per gli uomini, nella religione romana,
di instaurare alcun contatto con chi sta al di sopra - gli dei - e al di sotto di loro. Pertanto, nché
non sarebbero riemersi dagli inferi, i due non potranno riacciu are alcuna reiterazione visiva
dell’altro.
Il mito termina con Orfeo che, disperato, per mesi continua a cantare questo amore due volte
perduto nché non viene ridotto in brandelli dalle donne della Tracia, la regione di cui era
originario. Queste erano sdegnate dal fatto che questo ri utasse le loro o erte amorose in quanto
votato all’amore per una donna perduta; la sua testa, si dice, continuò a pronunciare il nome di
Euridice.

Immaginando che davvero queste pagine non si trovassero nella prima edizione delle Georgiche,
dando allora ragione a Servio, possiamo immaginare che in qualche modo, criptico e sotterraneo,
Virgilio avesse comunque voluto alludere all’amico Gallo.
Orfeo è un poeta, un musicista, cantore: nel mondo antico poesia e musica erano due momenti di
un medesimo fenomeno culturale. Non è un caso allora che Orfeo sia un poeta d’amore, cui
poesia aveva come argomento questo e questo soltanto. L’esperienza che gli pertiene, narrata nel
mito, è quella di richiamare in vita una persona morta ciononostante, questa responsabilità è
ingestibile e si rivela di fatto inadeguata: gli è stata data una possibilità, ma si sarebbe dimostrato
indegno del bene cio datogli dai signori dell’oltretomba.
Allora la storia di Orfeo nel IV libro delle Georgiche è la storia di un poeta d’amore a cui venne
riservato un privilegio, del quale si è però rivelato non degno, e al di sotto del quale fardello
non avrebbe potuto fare altro che soccombere: è, per certi versi, anche la storia di Cornelio
Gallo. Lui, poeta d’amore, gli fu a dato il compito di governare l’Egitto, una responsabilità per lui
troppo grande e che lo avrebbe condotto alla sua personale rovina. Virgilio trova dunque una
maniera alternativa per raccontare la storia di Gallo: si tratta di un modo di alludere alla gura del
poeta ma parlando di altro.
In entrambi i casi abbiamo a che fare con dei poeti, poeti d’amore, cui tema maggioritario è la
donna amata e a cui fu concesso un privilegio senza precedenti, politico o mitico che sia, ma
questi furono incapaci di gestirlo, lasciandosi prendere da passioni devianti. Sono anche due
personaggi che si scontrano con delle gure maggiori, tali la morte e il potere imperiale. Virgilio
avrebbe comunque voluto pagare il suo debito verso l’amico, una volta visto questo condannato a
morte dal proprio patrono letterario, ma lo avrebbe fatto in maniera opaca e indiretta.

L’espressione latina “labor” è la parola chiave del testo: la fatica e la so erenza, a seconda dei
passi e dei luoghi delle Georgiche, ha caratteristiche diverse, oltre ad essere una costante della
vita umana per volontà di Giove, che inserì l’elemento della pena per mettere in movimento il
mondo e far progredire la stazionaria e dormiente vita dell’età dell’oro.
La fatica, in questo caso, sarebbe stata versata come quando “si rovescia un liquido”: sarebbe
stata dispersa in un modo che l’avrebbe resa un mero sforzo vago. Questa forza superiore che
avrebbe disperso la fatica come un liquido l’abbiamo incontrata nel terzo libro delle Georgiche, e
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si trova anche nel IV dell’Eneide: è la forza dell’amore, vista dal poeta come un elemento negativo
e distruttore.
La potenza dell’amore, che avrebbe spinto Orfeo a compiere una cosa straordinaria, quale
discendere agli inferi per riportare in vita la propria amata, ci spinge oltre la normalità, oltre la
quotidianità, ma ne viene sottolineato l’e etto rovinoso e distruttivo: non sarebbe che uno spreco
del suo labor. La ragione che avrebbe spinto questo ad un gesto simile, realmente
controproducente, sarebbe stata una passione al pari della follia. Allora le ultime parole di
Euridice, prima di essere risucchiata de nitivamente nel mondo dei morti, sono, non a caso:
“quale follia ti ha preso”. L’amore è una passione scon nante nella follia che porterebbe al
deragliamento dei sensi, ad un oblio della ragione tale da spingere l’individuo a scelte auto-
lesionistiche, mandando in rovina entrambi gli amanti. È un sentimento che si ritorce contro chi lo
prova e condurrebbe alla so erenza, alla pena e all’angoscia la dove si presenta come occasione
di gioia e pienezza.

Due miti si intrecciano, uno cornice e uno quadro: quando le donne della Tracia avrebbero
fatto a pezzi il corpo di Orfeo, allora il narratore fa ritorno al mito di Aristeo. Nessuno prima di
Virgilio aveva messo in relazione questi due miti, super cialmente irrelati: anche se siamo convinti
che il mito di Orfeo sia in realtà un’allusione a Gallo o che Virgilio voglia ripetere un suo light motif,
la rovinosi dell’amore, ancora non si giusti ca questa scelta.
Gian Biagio Conte propose un’interpretazione per cui i due miti sarebbero meno eterogenei di
quanto appaiono a prima vista: Aristeo e Orfeo si troverebbero in situazioni assimilabili l’una
all’altra, per cui hanno entrambi avrebbero subito una perdita che avrebbe colpito qualcosa
per loro di molto prezioso. La perdita è un innesto di storia: nelle favole il danno o la mancanza
sono gli input che danno inizio alla storia. Entrambi chiedono dunque aiuto al divino, ma se
Aristeo segue precisamente gli ordini della madre, ecco che invece Orfeo, non attenendosi
pedissequamente alle indicazioni datogli, non viene premiato. Aristeo risarcisce la mancanza
di partenza, riconquistando la presenza delle api, mentre questo non accade per Orfeo, quale
mancanza non viene compensata. La sua disobbedienza lo avrebbe condotto ad una perdita
de nitiva, nonostante gli fosse stata data la possibilità di compensare questa condizione.
Entrambi hanno perduto quanto di più caro e fanno richiesta di aiuto, ma solo uno, seguendo in
maniera scrupolosa le indicazioni, riesce in ne a colmare il disagio iniziale.
La verità è che Aristeo rappresenterebbe un destinatario modello per le Georgiche: attraverso
lui Virgilio avrebbe ra gurato il modello di uomo ideale che l’opera vorrebbe proporre al lettore.
Egli si da da fare, è eroe del labor, ma anche obbediente alla divinità: c’è una dimensione umana
nel suo impegno e nella sua fatica, ma anche religiosa, e sappiamo quanto sia fondamentale nelle
Georgiche. Aristeo è allora la sintesi del modello etico che Virgilio vuole proporre nelle Georgiche:
è qualcuno capace di labor e pietas, di devozione verso la divinità o la provvidenza L’impegno in
prima persona è mutilo, imperfetto, metà di un inter che si deve associare all’a damento agli dei.
Se si possiede meramente il labor, ma non la pietas, questo risulta “e usus”, come un liquido che
si disperde e risulta improduttivo e infruttuoso, ine cace.
Chi scrive sa che il nale, come l’inizio, tende a ssarsi facilmente nella memoria del lettore e
dunque pone un modello e un anti-modello per facilitare la lettura.

L’Eneide
Probabilmente Virgilio aveva, sin da giovane, sentito una vocazione alla poesia epica: anche
nelle Bucoliche a erma di aver voluto raccontare di re e battaglie, ma che il dio Apollo gli avrebbe
“tirato l’orecchio”, riportandolo alla poesia pastorale. “Re e battaglie” è un’elusione non troppo
velata alla poesia alla poesia epica. Naturalmente non è un episodio autobiogra co, ma un modo
per alludere al fatto che egli avvertì precocemente, n da appena trentenne, questa spinta alla
composizione della poesia epica, che rimase però un solo accenno e il presunto tema generico: i
re e le battaglie non sono temi speci ci, non ci danno la misura dello stadio di percorso ideale o di
un particolare soggetto epico, ma ci accontentiamo di registrare la circostanza.

Quando dalle Bucoliche passiamo alle Georgiche, questo accenno viene precisato nettamente
all’inizio del terzo libro, in cui Virgilio sostiene di dover concludere il presunto poema
didascalico, su ordine di Mecenate, ma che non appena questo verrà portato a termine egli
canterà le “battaglie di Cesare”, ovvero di Augusto, e dei suoi antenati troiani. Dunque quello che

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era un generico riferimento a re e battaglie ora si viene chiari cato: l’obiettivo sarà cantare le
guerre di Augusto. L’intenzione è allora quella di comporre un poema epico che abbia come
soggetto nientemeno che il principe regnante e i suoi avi troiani.
Quando però, terminate le Georgiche, decise nalmente di dare concretezza a questo suo
progetto la situazione era radicalmente mutata: l’Eneide non è un poema su Augusto, o sulle
sue battaglie, dove pur egli compare, in pochi ma cruciali punti, ma il focus non è su di lui,
ridotto a comparsa nella trama e non il protagonista; questo è Enea, uno di quelli che già nelle
Georgiche aveva chiamato “avo” troiano di Augusto.

Enea aveva fatto la sua comparsa già nel secondo libro dell’Iliade, il Catalogo delle navi, in
cui Omero descrive i continenti della guerra panellenica. Si tratta pertanto di un personaggio
cantato e con una vita letteraria precedente.
Quando Omero aveva stilato una lista dei partecipanti all’evento, divisi nave per nave - in quanto
ogni contingente possedeva una propria otta - aveva riportato anche i nomi dei troiani. Le città
limitrofe a Troia avevano mandato dei sostegni per condurre la guerra contro gli achei e uno di
questi era guidato proprio da Enea, proveniente, almeno nel mondo omerico, da una città vicina a
Troia. Egli è però un personaggio minore, presente e stimato nel campo troiano; Omero, a suo
riguardo, a erma chiaramente che, per voce di Poseidone, questo si salverà e che sarà uno dei
superstiti della guerra. Secondo la volontà di Zeus, Enea si salverà, scampagno sia ai dieci anni
di guerra che all’ultima notte di Troia, in cui il cavallo di legno penetrò nelle mura delle città.
L’autorevolezza di Omero, summa del mito antico, lo rendeva un grande campionario da cui
attingere anche nei suoi minimi dettagli quindi, anche questo cenno, minimo e super ciale,
casuale, viene recuperato dai posteri, che fecero di Enea un eroe viaggiatore.

Dell’arrivo di Enea in Italia si era iniziato a parlare già alle origini della letteratura latina, con
Nedio ed Ennio, due massimi poeti epici arcaici, i quali parlarono di Enea in termini di
capostipite dei romani e progenitore di Romolo e Remo, fondatori di Roma.
Dalla ne del III secolo a. c., il mito secondo cui Enea fosse arrivato nel Lazio e qua avrebbe
fondato Roma era consolidato - e proprio per questo si ritrova nei lavori di questi due suddetti -.
Purtroppo l’Eneide divenne tanto famosa da oscurare la fama dei suoi predecessori, che a un
certo punto non furono nemmeno più copiati.
Intanto Romolo e Remo già possedevano una storia propria: erano gli di una donna
mortale e Marte, che si era unito a una sacerdotessa. Questo sarebbe dovuto dal fatto che i
romani siano rinomatamente dei guerrieri e dei conquistatori - e allora, la bellicosità appare come
una sorta di elemento insito, genetico -.
Questo mito però, non sembrava su ciente a giusti care la loro attitudine: apparve vantaggioso
legarsi ad un personaggio ulteriore. Supposto che Enea non potesse essere padre diretto dei due,
questo divenne allora, nel mito, il padre della madre di Romolo e Remo. A Roma era inoltre
consuetudine per le grandi famiglie creare alberi genealogici che le vedesse discendere da
enti mitologici: per questo la dinastia dei Giuli, a cui apparteneva anche lo stesso Augusto, si
riconduceva ad Enea, a sua volta glio di Venere ed Anchise.

Una vocazione etica da parte di Virgilio era già emersa all’interno della Bucolica VI, in cui
sosteneva di essersi accinto a parlare di re e battaglie ma che Apollo lo avrebbe spinto verso la
poesia pastorale. Già a questa altezza cronologica sembrava allora coltiva, in qualche modo,
l’idea di dedicarsi alla poesia epica. Dieci anni dopo, quest’ambizione ritorna in misura più
dettagliata in un passo delle Georgiche, all’inizio del terzo libro, in cui Virgilio a erma la sua
intenzione di dedicare un’opera alle imprese di Cesare, per intendere Ottaviano Augusto, e dei
suoi avi troiani, procedendo dunque ad una genealogia troiana di Augusto.
Era caratteristico delle famiglie dell’élite repubblicana fa risalire le proprie origini a personaggi del
mito: i Fabi, per esempio, altra grande famiglia aristocratica romana, sostenevano di essere
discendenti da Ercole, un eroe poi divinizzato al momento della morte e personaggio di spicco del
mito antico.
I Giuli sostenevano di essere discendenti da un tale Iulo, glio di Enea. Il suo nome fu elaborato
a posteriori per derivarne il gentilizio della famiglia, facendo si che discendessero da Venere ed
Anchise; questi si legarono inoltre a tutta una serie di antenati troiani, quale capostipite fu un certo
Dardano, da cui derivò il patronimico dei troiani - “dardani” - e a sua volta glio di Giove. Nel

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momento in cui Ottaviano entrò nella genealogia Giulia entrò a far parte di questa s lza di
antenati.
Virgilio a erma però il proprio dovere in primis verso le Georgiche, sulla base di quei “ad moliam
iussa”: questo farà, a breve - scrivere un poema epico -, ma intanto, ha un’urgenza per rendere
omaggio a quegli “ordini tutt’altro che teneri”. Questo è un riferimento più preciso e puntuale
rispetto a quello delle Bucoliche: l’oggetto della poesia epica è evidentemente Augusto e le sue
imprese militari, compresa la battaglia di Azio a cui fa riferimento il proemio suddetto. Viene detto
che qua parlerà inoltre dei suoi antenati troiani: nelle sue intenzioni si trovava già la volontà di
aprire uno squarcio sulle origini mitiche della famiglia di Augusto.

Virgilio ha in mente in quel momento, intorno al 30 a. c., un poema etico-storico cioè, un poema
epico cui vicende non sono tratte dal mito, come nell’Iliade, ma anzi dalla storia e della
storia contemporanea.
Da questo punto di vista, Virgilio poteva contare su illustri precedenti nella tradizione letteraria
latina: i due più importanti poemi epici no ad allora composti nei due secoli precedenti, da cui
era nata la medesima letteratura latina, che possiede i propri natali nel 240 a. c., erano La
guerra punica - il primo e più antico, composto da un poeta campano di Capua, Medio -, la
quale narrava la prima delle tre battaglie complessive e che si combatterono a cavallo della metà
secolo (Medio, il suo autore, era stato legionario e racconta epicamente, e quindi non da storico,
quel momento ancora recentissimo della storia romana); mentre il secondo era stato scritto da
Ennio, gli Annali, un tipico titolo per un’opera storica in quanto la storiogra a latina è detta, non a
caso, anche “annalistica”, per cui le opere storiche erano organizzate attraverso una narrazione
che procedeva anno per anno. Ennio racconta qua la storia di Roma, dalla fondazione ai tempi
suoi, e seguiva pubblicando assieme ai fatti e agli eventi che costellavano la storia a lui
contemporanea.
Non ci stupisce pensare che, in un primo momento, Virgilio avesse immaginato di scrivere pure
lui un poema epico-storico, a cui magari in un secondo momento avrebbe fatto subentrare
il mito, ma cui focus sarebbe stato sulle vicende storiche, come pure avevano fatto Ennio e
Medio. Del resto è probabile che questa fosse stata la richiesta di Augusto, il quale desiderava
dai poeti della sua cerchia che questi celebrassero le sue imprese, sennonché nel breve tempo
intercorso tra questo proemio del terzo libro delle Georgiche e il momento in cui mise nalmente
mano all’Eneide, tra il 28 e i 27, il progetto fu rivoltato come un guanto: quello che doveva essere
un focus su Augusto, divenne l’excursus, e ciò che doveva essere l’excursus divenne il focus. Egli
elesse comunque a protagonista un eroe che fosse connesso ad Augusto ma ciò che doveva
essere un aspetto marginale e periferico, laterale, era ora il centro, mentre ciò che doveva essere
il centro divenne sfondo.
La sua volontà di variare questo progetto trova forse principio nel fatto che Virgilio si rese conto
che trattare della storia contemporanea e mettere in scena un personaggio vivente e che
ricoprisse un ruolo tale, colui che sarebbe diventato in futuro imperatore - in quanto Roma a suo
tempo si era avviata verso un regime monocratico - avrebbe creato degli enormi problemi e
avrebbe posto dei vincoli troppo rigidi alla sua libertà compositiva.
L’Eneide è un poema completamente diverso da quello preannunciato pochi anni prima nel
proemio del terzo libro delle Georgiche: da che qua si annunciava un poema epico-storico con
al centro le imprese militari di Augusto ma alla ne, di questo, si parla di questo solo in tre
punti di pochi versi in un poema compostone da migliaia. La sua è una presenza fondamentale
come marginale mentre al centro campeggia la gura di Enea.
Circa questa scelta possiamo fare solo congetture: Virgilio forse evitò di raccontare la storia
contemporanea, che è un fatto enormemente complesso, o volle forse, anche, liberarsi dai vincoli
che sarebbero sopraggiunti dal raccontare una gura tanto ingombrante, oltre che vivente e ben
decisa a intervenire sulla letteratura quando non gli fosse gradita. Dunque Virgilio evitò di
cacciarsi in una situazione che ne avrebbe compromesso la libertà di ispirazione.
Questo è allora, in ne, un poema di esaltazione di Augusto, il quale perde però centralità
tematica.
I romani avevano già un proprio mito di fondazione secondo cui la città era stata fondata da due
gemelli gli del dio Marte, e di una sacerdotessa di Vesta, parente se non glia diretta di Enea. Era
un mito funzionale in quanto poneva come fondatori di Roma due gli del dio della guerra, per
esplicare la vocazione bellica e conquistatrice del popolo e inoltre, l’idea che un dio si unisca a
una vergine per dare dei gli capaci di creare grandi cose è un mitema, un modulo mitico che si
applica a numerose occasioni. Intanto, nella tradizione greca, era stato elaborato il motivo
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secondo cui dopo la distruzione di Troia, Enea fosse salpato con alcuni superstiti verso
occidente: è improbabile che lo facessero fondatore di Roma, allora solo una piccola potenza
mondiale, ed è altrettanto improbabile che già loro parlassero di Enea come progenitore dei
romani nel V secolo a.c., ma esisteva comunque una robusta tradizione secondo cui i troiani
fossero sbarcati in Sicilia e vi avessero fondato delle città, tra cui Segesta. Sia secondo Medio
che Ennio, due poeti latini arcaici, questo legame, tra il viaggio di Enea e la fondazione di Roma, è
già realizzato - di cui possiamo leggere però solo in frammenti -.
Si potrebbe discutere circa le cause di questa scelta, non ovvia: i romani già possedevano un
mito di fondazione e dunque non avrebbero avuto bisogno di complicarlo ulteriormente, e se
proprio avrebbero voluto farlo, avrebbero potuto immaginare di essere stati fondati da
Odisseo, di cui pure si dice che fosse giunto in Italia, ove pure avrebbe fondato una serie di città.
Questa variante del mito fu però spazzata via dagli studi degli antichi circa la precisa datazione
della fondazione di Roma e della guerra di Troia: emerse che circa la prima, le date oscillano
tra nono e ottavo secolo a. c., tra cui il 753 divenne poi l’anno canonico, imponendosi sulle altre,
mentre, per quanto riguarda la guerra di Troia, si pensava avesse avuto luogo intorno al 1100 a.
c.; così quando queste date si a ermarono divenne chiaro che questo legame risultasse
impossibile a causa di un divario di secoli interi. La soluzione adottata da Virgilio e dalla tradizione
precedente fu quello che contemplava Enea arrivare in Italia, per cui però non avrebbe avuto
alcun tipo di rapporto diretto con i fondatori di Roma, ma quindi suo glio avrebbe fondato la
città di Albalonga, dando origine a una lunga dinastia, quella dei re di Albalonga, che durò oltre
tre secoli ed è da questa linea di cui fu ultima discendente la madre di Romolo e Remo. L’idea
che Enea sia l’antenato della madre dei gemelli primigeni rimane, ma nelle versioni antiche si
contempla una maggiore immediatezza per cui questo sarebbe direttamente il padre della madre
di Romolo e Remo. Per riempire questa “lacuna mitica”, venne inventata la lunga tra la di re di
Albalonga, ultimo dei quali abbe come glia la futura madre di Romolo e Remo.
Questa era la situazione che Virgilio aveva dinnanzi al momento di comporre l’Eneide: era ormai
consolidata l’idea secondo cui Enea fosse il capostipite dei romani, ma anche e più
speci catamente, che da questo discendesse la famiglia del princeps.

Il primo progetto di Virgilio era quello di un’epica-storica ma questa Eneide non fu mai scritta: si
trattava di un progetto che non fu mai elaborato e che mai divenne un’opera reale e che rimase
soltanto una possibilità virtuale.
Avrebbe dato origine ad un poema epico-mitico cui oggetto del racconto era rappresentato da
vicende che appartenevano al mondo mitico.

Lo studioso che ssò la cronologia della guerra di Troia fu Eratosthenes di Cirene, un grande
erudito vissuto ad Alessandria d’Egitto, una colonia greca nel nord africa, e che lavorò ad
Alessandria, centro culturale di eccellenza, contemporaneo di Medio.

5 Eneide
Virgilio fece dei riassunti in prosa del contenuto dei dodici libri del poema, per poi procedere
ad un’operazione di ispirazione e di virtuosismo stilistico. Egli seguiva il proprio estro, saltando
anche episodi per riassumerli in un verso provvisorio che aspettava di essere sostituito da
un ampliamento capace di sostituire questi piccoli puntelli, che fungevano da memento.

La vita di Virgilio composta da Donato, che pure si basa su quella di Svetonio, il quale aveva
accesso agli archivi imperiali, reca un fascicolo della corrispondenza epistolare di Augusto in cui
si potrebbero rintracciare anche delle lettere indirizzate ai poeti. Questo trovò, tra le cose, anche
le tracce di una corrispondenza tra Augusto e Virgilio: la guerra contro i Cantambri fu
condotta tra il ’26 e il ’25 mentre Virgilio aveva iniziato l’Eneide nel ’28-’27. Questa fu una
guerra impegnativa tanto che il principe stesso decise di guidare egli medesimo le truppe, ma al
contempo trovava il tempo di scrivere a Virgilio, che gli recapitava gli abbozzi della sua nuova
opera, mostrando da parte del primo un interesse di tipo non letterario ma funzionalistico per
il poema. Si tratta di modalità che vedeva Augusto stare con il ato sul collo dei suoi poeti
a nché portassero a compimento i loro progetti letterari.
Quando Virgilio ebbe completato del materiale lesse al principe i libri II, IV e VI del poema, e si
tratta di un episodio accertato, quello della lettura presso la corte augustea; questi sono i libri più
antichi del componimento e il poeta li avrebbe letti ad Augusto secondo una modalità analoga
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della lettura di Apella, un episodio del 29 per cui Augusto si fece leggere le Georgiche da Virgilio
per dare il suo imprimatur. Qui accade la medesima cosa: Augusto continua a pretendere di
essere il primo lettore di un’opera non ancora pubblicata e questa aveva luogo a corte. La sorella
di Augusto, Ottavia, che assisteva, si dice che svenne dalla commozione, in quanto si parlava in
versi del glio morto prematuramente di questa.
Nel ’19 la stesura fu completata ma Virgilio ritenne di dover usare altri tre anni per completare
la sua revisione: aveva programmato di condurla in quegli esatti luoghi narrati, tra Grecia e
Asia, in cui ambientò la sua storia ma, in partenza, si sarebbe imbattuto in Augusto, il quale
stava rientrando da una missione diplomatica in oriente. Il caos volle che ad Atene, un porto di
passaggio per la Grecia, i due si incontrano e il principe decide di tornare indietro, verso Roma,
insieme con lui. I due si imbarcano in direzione Brindisi ma Virgilio, che intanto si era
ammalto per una forte insolazione contratta a Megara, morì di li a pochi giorni. L’anno è il 19, il
giorno il 21 settembre e sulla sua lapide, con la frase “pascoli, i campi e i condottieri” sarebbe
riassunta la sua intera produzione poetica; per questo i famosi “puntelli” rimasero tali.

È inverosimile pensare che prima delle Bucoliche Virgilio non avesse scritto niente ma questa
produzione non ci è pervenuta, in quanto probabilmente andò distrutta per mano dello stesso
autore. Anche alla luce di questi precedenti è consono pensare che non volesse pubblicare
postumamente niente che non fossero stato reso già pubblico. Questo, in punto di morte,
supplicò che i suoi manoscritti fossero dati alle amme, ma nessuno ascoltò le sue preghiere
e non solo, Augusto diede ordine che l’Eneide fosse pubblicata così com’era e dunque,
probabilmente poco dopo la sua morte, fu pubblicata postuma quest’edizione così com’era stata
lasciata.

Il problema centrale sarebbe rappresentato dai cosiddetti “puntelli”, quei versi sommari su cui
Virgilio aveva in mente di tornare sopra in un secondo momento. Sono poche decine di versi, ma
il problema è che il poema, così come Virgilio l’aveva lasciato, presenta delle disarmonie e
delle contraddizioni, come nel caso del libro II, in un passo in cui Enea starebbe raccontando
l’ultima notte di Troia e la fuga, quella durante cui portò Anchise, il padre, sulle spalle, con a
seguito sua moglie Creusa: quando Enea arrivò fuori dalle mura della città, scappando attraverso
vicoli bui, mentre i greci avevano intaso invaso la città, facendone massacro, intanto che il gruppo
tentava di tenersi lontano dai combattimenti, ecco che uscito dalla città, questo si rende conto
che Creusa non c’è più.
Questa poi gli sarebbe apparsa, ma non è più donna viva ma “ancella della grande madre”:
avrebbe raggiunto uno statuto semi-divino e dice a questo che non fosse destino per lei di
seguirlo, in quanto gli dei avrebbero previsto per lui un’altra moglie, che incontrerà al suo
arrivo.
Creusa dice inoltre, espressamente, che la sua meta sarà l’Italia ma aprendo poi il libro III,
risulta che i troiani non abbaino alcuna idea della meta del loro viaggio tant’è che questi si
troveranno a sbarcare in una serie di luoghi che scopriranno non essere l’obbiettivo ssato per
loro dal fato, dovendosene allora andare.
Se Virgilio avesse avuto occasione di rivedere l’Eneide questa contraddizione sarebbe stata
sanata ma non ne ebbe il tempo e dunque, ad oggi leggiamo un libro con una vistosa disarmonia
tra due libri a stretto contatto l’uno con l’altro.
Altre contraddizioni del tipo si ritrovano anche in altri punti, luoghi della narrazione. Probabilmente
per questo motivo, la volontà di Virgilio era di archiviare l’opera o addirittura darla alle amme e
non tanto a causa di pochi versi mancanti. L’Eneide è dunque solo l’ultima versione elaborata
dal poeta ma non quella che avrebbe consegnato alle stampe qualora avesse avuto il tempo
di rivederla.
Nonostante questo, Augusto diede ordine ugualmente di pubblicare il poema, violando le ultime
volontà di Virgilio. Queste sue azioni, erano causate dal desiderio di “far conoscere la storia di
Roma”, secondo la biogra a fornitoci da Donato, un’interpretazione ingenua: la sua volontà era
quella di mettere in circolo un poema che celebrasse la sua persona, seppur in forma periferica
con rispetto alla centralità delle gesta di Enea. Dopo un’attesa di dieci anni, Augusto non aveva
alcuna intenzione di rinunciare a quest’opera solo obbedendo agli scrupoli di perfezione formale
del suo autore. Egli non possedeva alcun interesse letterario di fondo, per quando fosse colto, e
seppur avesse sporto un apprezzamento per la qualità letteraria del poema è di cile pensare che
fosse stata questa la motivazione che lo avrebbe spinto a trasgredire alla volontà del poeta: era

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un monumento eretto alla genesi Giulia e dunque anche ad Augusto stesso. Pochi ma buoni sono
infatti i luoghi in cui la sua gura viene presentata come il vertice della storia di Roma.

L’intera biogra a del poeta si è sempre più strettamente intrecciata con quella del principe.
È un apologo di quanto fosse duro entrare in collaborazione con un potere assoluto come quello
di Augusto. Virgilio aveva scelto di mettere il proprio talento a disposizione di Ottaviano ma,
seppur questo gli avesse fornito tranquillità materiale, notorietà e nanziamenti, tale vincolo
possedeva anche dei prezzi: la costante ingerenza del potere politico nell’attività intellettuale.
Questo condizionamento del potere si spinge oltre la sua morte e in un danno alla luce del
poema, a prescindere dalle lacune e contraddizioni interne al poema.
Questa storia allora si fa intreccio di due storie: quella del potere politico e che anche della
letteratura, che cerca la propria legittimizzazione, oltre alla storia di un poeta che si imbarcamena
tra la propria vocazione e le richieste pressanti e continue dal potere al cui sta al servizio.

L’Eneide ha inizio in medias res: non segue un vero e proprio ordine cronologico e la fabula si
lega strettamente all’intreccio.
I troiani si trovano nello stretto di Sicilia, in mezzo ad una tremenda tempesta; questa non è
mai un evento puramente meteorologico: a monte delle tempeste dell’epica si trovano sempre gli
dei. Questa era stata infatti scatenata dal nemico giurato dei troiani, che tale rimarrà dall’inizio
alla ne dell’Eneide, Giunone, che a seguito del giudizio di Paride aveva giurato questi odio e
guerra eterni, arrivando a cercare di ostacolare in qualsiasi modo il viaggio di Enea alla volta
dell’Italia. La tempesta avrebbe fatto si che la otta naufraghi sulla costa nord africana.
Osserviamo in atto allora l’intromissione di una divinità molto legata ai troiani, oltre che madre di
Enea: Venere, che non si presenta direttamente, in veste divina - in quanto sarebbe invisibile agli
uomini -, ma in forma mortale ai naufraghi, che vagano sulla costa della Tunisia. Ella si manifesta
come una cacciatrice e comunica loro che si troverebbero nei pressi di una città in via di
costruzione, Cartagine, e che qui potranno chiedere accoglienza e ospitalità per il tempo di
riparare le loro navi e rimettersi in mare.
Le cose vanno e ettivamente così: Enea e gli altri superstiti giungono in città, dove vengono
accolti dalla sua regina, Didone, la quale li accetta per tutto il tempo necessario e organizza un
grande banchetto di benvenuto per i suoi ospiti. Questa pone allora ad Enea la domanda più
ovvia: “come sei arrivato n qui?” Si aprono così i libri II e III.
Il libro II narra l’ultima notte di Troia, mentre il III il viaggio verso la Sicilia, l’ultima tappa raggiunta
sino a quel momento, quando vennero colti dalla tempesta di Giunone che li avrebbe fatti
naufragare.
Il poema inizia dunque in medias res e gli eventi precedenti recuperati dal racconto di Enea.
Virgilio segue un modello letterario preciso: stessa cosa accade nell’Odissea, dove Ulisse si
ritrova naufrago sull’isola dei Feaci e racconta allora al re Alcino la sua storia e le sue
avventure più note - come quelle dei ciclopi o della maga Circe -. Virgilio assume questo modulo
narrativo per applicarlo con alcuni aggiustamenti al proprio protagonista, vivacizzando il racconto.
Viene applicata un’analessi: il ricordo delle vicende passate viene esplicitato nel racconto diretto
di Enea.

Tutto questo viene però preceduto da un proemio, una sezione iniziale di un’opera in prosa o
poesia in cui l’autore a erma il tema, l’oggetto della narrazione e così fa pure Virgilio e come già
aveva fatto Omero. Il proemio è di undici versi e vengono messi sul tavolo i principali protagonisti
della vicenda: uno in carne ed ossa ed uno materiale.

5 Proemio dell’Eneide
“Io canto le armi e l’uomo che per primo, giunse in Italia e alle coste Lavinie dal territorio di Troia,
profugo a causa, per volere del fato. Molto sballottato sia sulle terre sia in mare aperto per la
violenza degli dei celesti a causa della memore ira della crudele Giunone, avendo subito,
a rontato molte pene anche in guerra pur di fondare la città e di portare gli dei nel Lazio da cui
(derivano) la stirpe latina, i padri Albani e le mura dell’alta Roma. Musa, ricordami le cause, per
quale maestà o esa ho, per quale dolore, la regina degli dei abbai spinto, indotto un uomo che
eccelleva per la sua pietas ad a rontare tante sciagure e a sobbarcarsi tante fatiche. Così grandi
sono le ire negli animi divini?”

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Le armi è la prima parola del poema, tale da far entrare la realtà epica all’interno della
narrazione.

I Troiani, al loro arrivo, fondarono la città di Lavinio e per questo le coste Lavinie sono quelle
prospicienti il luogo in cui fu fondata la città: Virgilio ci dà sia l’incipit che la conclusione del
viaggio di Enea. Viene anticipato nel proemio non solo l’itinerario, ma anche che la storia consta
di una sezione dedicata al viaggio che alla guerra, la quale Enea dovette combattere una volta
giunto in Italia.

L’ira di Giunone è “memore”: la sua è una rabbia che non dimentica quella antica morti cazione
alla sua bellezza.

I padri Albani citati sono i re di Albalonga, città fondata dal glio di Enea, quale avrebbe dato inizio
alla discendenza.

La domanda nale è un’intima perplessità di Virgilio: è possibile che delle divinità possano
coltivare dentro di sé sentimenti così rancorosi? Così ostili e inappropriati all’animo di un dio?
Questi non dovrebbero essere immuni a questi sentimenti? È possibile che anche negli animi
celesti abitino sentimenti di questo tipo?

Enea subirebbe l’e etto di azioni di terzi i quali avviarono precedentemente la storia; è uno che
ha subito delle ripercussioni e che è stato pertanto sballottato dagli eventi della storia, è colui
che ha dovuto a rontare pene e fatiche, vicende laboriose per cause altrui. Si tratta di un eroe
canonicamente so erente: la sua prima caratteristica non è il coraggio né l’ardore guerriero,
ma il primo quadro che ci viene proposto è quello di un’esperienza so erta.
Altra sua caratteristica è che eccellerebbe per pietas. Questa è l’atteggiamento del pius, di
qualcuno che compie i propri doveri nei confronti di un’istanza che percepisce come
superiore a lui sovra-ordinata.
Ci sono tre livelli di pietas: può essere esplicata verso gli dei, quali si trovano su di un livello
totalmente altro rispetto agli individui — e qua si potrebbe trovare un punto di tangenza con il
signi cato di “pietà” — verso la patria, ma anche verso i genitori, e in maniera speci ca con
riferimento al padre. Questo è l’atteggiamento di chi è pronto e disponibile a compiere i propri
doveri in base alla volontà dei suoi superiori. Quello che è sorprendente è che un personaggio
caratterizzato proprio dalla pietas venga osteggiato da un dio: si tratta di un disallineamento
tra i meriti individuali e la sorte incontro a cui si va. Allora, anche le più grandi virtù non ci
salvano dall’esperienza del dolore dell’espulsione.
La pietas è una virtù che ha a che fare con il senso del dovere e che, non a caso, viene
considerata di estrema importanza all’interno della cultura romana. Non a caso, la militaris virtus
e la pietas sono considerati i valori portanti della cultura e del popolo romano.
Enea, eroe nazionale e capostipite romano, deve possedere nel segno più alto quella stessa virtù
che i romani consideravano loro speci ca caratteristica. Fra i grandi eroi dell’epica, Enea è
forse il meno brillante: non sembra essere dotato di un particolare appeal, sembra essere un
personaggio passivo e smidollato, che si fa manovrare dal destino, ma dobbiamo in realtà solo
comprendere il suo carattere.
La principale caratteristica di Enea, subito menzionata, non è il suo valore guerriero — per quanto
sia poi anche un combattente di spicco, e tutta la seconda parte dell’Eneide si concentrerebbe sul
racconto della guerra sostenuta per guadagnare il diritto di insediarsi nel territorio italico, per cui
lui si distinguerebbe proprio per le sue capacità guerriere — ciononostante, Virgilio ce lo rivela per
la sua pietas.
Virgilio sottolinea l’aspetto della persecuzione che Enea avrebbe dovuto a rontare per via della
“memore ira” di Giunone: ella, da un capo all’altro dell’Eneide, è la nemica giurata dei troiani e
cerca in ogni modo di ostacolare il loro viaggio verso l’Italia, frapponendo sulla loro via una serie
di ostacoli. La frase nale del proemio indica proprio quest’aspetto: “possibile che l’ira nell’animo
di un dio sia così grande?”.

La posizione teologica epicurea considerava esistenti gli dei ma in quanto questi vivrebbero
in mondi separati, dunque, non si preoccuperebbero del mondo umano. Uno degli argomenti
canonici che Epicuro utilizzava per sostenere la sua tesi era che, se gli dei si occupassero delle
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vicende umane e avessero a cuore i loro fatti si darebbe il caso per cui i virtuosi prospererebbero
mentre i malvagi vivrebbero brevemente e nella sfortuna. Il fatto che questo non succeda sarebbe
una delle prove dell’assenza del divino sulla scena del mondo. Epicuro aveva elaborato una sorta
di sillogismo: “di fronte al male del mondo o il dio non vuole rimuoverlo, e allora è cattivo, o non
può rimuoverlo, e allora è impotente, o non può e non vuole, e allora è cattivo e impotente, o può
e vuole, e allora perché non lo fa?”
L’esistenza del male nel mondo e il male sperimentato dai buoni è, dal punto di vista di
Epicuro, la prova che gli dèi non si occupino delle vicende umane. Tutte le loso e del mondo
antico, come lo stoicismo — seconda grande scuola loso ca del mondo antico — e più tardi
anche il cristianesimo, come pure le seguenti religioni, che postularono l’idea di una divinità
benevola (come la nozione di “provvidenza”), si trovano a dover fare i conti con il problema del
male. C’è allora una tendenziale contraddizione tra l’idea di un dio che si occupi delle vicende
umane e si curi di loro e la constatazione che, invece, la vita non sembri essersi accorta di un dio
del genere, dal momento che il male e il dolore colpiscono a prescindere dai meriti e dalle colpe.
Virgilio non vuole rinunciare a un’idea provvidenziale del mondo però, non può fare a meno di
constatare come quest’idea strida con un’esistenza per cui l’esperienza del dolore e della
so erenza venga patita anche da coloro che si comportano in maniera virtuosa. Questo non
risolve il problema, ma lo si patisce e il senso di questa domanda nale non ha alcuna risposta
nell’Eneide, ma è una delle grandi linee che attraversano il poema, delle grandi contraddizioni che
lo attraversano. Il poeta non intende rinunciare alla provvidenza, all’idea di un mondo dove si trovi
un posto anche per gli dèi, rinnegando dunque la sua giovanile aderenza all’epicureismo, ma
comunque non perde l’occasione di sottolineare la condizione dei giusti, che sono comunque
vittime del fato divino. Virgilio avverte la contraddizione: gli dei sono ovunque nell’Eneide, che è
un poema epico, e non si può fare poesia epica senza dei in quanto consisterebbe in
un’interazione tra mondo umano e divino, senza la quale non esisterebbe l’epica in sé per sé;
gli dei qui ci sono e interagiscono costantemente con le vicende umane.
Enea ha subito quello che ha subito per volere divino e la contraddizione è avvertita nel momento
in cui questo intervento svantaggia e uccide coloro che spiccano per virtù, come la pietas, che si
manifesta anche nella devozione agli dei.

Virgilio non ha una risposta circa l’origine del male, ma il proemio mette in luce anche un aspetto
positivo. Ai vv. 5-7, troviamo scritto che “pur di fondare la città e di portarvi gli dèi nel Lazio […]”:
questi versi stabiliscono l’orizzonte ultimo della vicenda di Enea, che ebbe come esito la
nascita della stirpe latina, cioè quella che ebbe i natali dal momento in cui si saldò la fusione tra
Troiani e Italici, dando origine ad un popolo misto, da cui pure nacquero gli antenati di Albalonga e
le mura dell’alta Roma.
Questo signi ca che è vero, c’è stata so erenza, dolore, morte, ma tutto questo non è
arbitrario: tutto è funzionale a un obiettivo ultimo. Enea è stato sballottato sulla terraferma, sul
mare, ha subito pene, ma non è arbitrario e privo di senso: tutto è funzionale e allora, quelle
so erenze, quella fatica, quelle guerre degli ultimi versi sono state il prezzo da pagare purché la
grande storia del mondo potesse realizzarsi. La so erenza individuale, che c’è e resta e viene
enfatizzata da Virgilio, non è gratuita, non è priva di senso o di orizzonte, ma grazie a questa si è
potuto dare quella storia di cui lui è l’ultimo esponente in ordine di tempo.
Si instaura allora una dialettica tra la so erenza del singolo e la felicità della storia: è valsa la
pena che Roma fosse fondata? Sì, è un obiettivo per cui valeva investire la propria vita, e
seppur questo non elimina la so erenza che ci è voluta per arrivarci, dà un signi cato al
sacri cio. Ciò che rende la so erenza inaccettabile è quando questa è priva di signi cato.
Lucano, nel proemio della Pharsalia, a erma cinicamente che la morte e la so erenza di tanti,
durante le guerre civili, sarebbe “valsa” la salita al potere di Nerone; qua Virgilio, diversamente,
a erma sì l’esistenza di un dio ma anche l’ingiusta so erenza degli uomini virtuosi. Queste due
istanze, in quest’ultimo, convivono: la storia cammina verso la fondazione di Roma, e questo
orizzonte è sempre presente nell’Eneide n dai primi versi, ma ciò non toglie che la “ umana del
progresso” lascia comunque morte e so erenza.

Un ragionamento non dissimile va fatto intorno alla locuzione “fato profugus”: anche qui emerge
la so erenza dell’individuo (il “profugo”) costretto a lasciare la propria patria, perduta, che si è
dovuto allontanare in quanto il suo luogo di appartenenza è stato cancellato dalla guerra. Ma se
accosto a questa parola, il “fato”, il binomio controbilancia la so erenza individuale: Enea è
profugo per volere del fato e la so erenza viene almeno in parte riscattata dalla volontà di
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inserirsi in una cornice che le dà un senso.
La parola “fato” è spesso ricorrente all’interno dell’Eneide e indica una nozione sfuggente per gli
stessi antichi e non solo per Virgilio. Potrebbe indicare il “destino” e non sarebbe errato, ma si
tratta più speci catamente di una forza, un potere immateriale e non un dio, ma un progetto, un
disegno sulla storia. È una forza che muove il divenire in una certa direzione piuttosto che in
un’altra.
Questa storia, questa forza, questo motore che mette in movimento i fatti, come si colloca
rispetto agli dei? Sta sotto? Sopra? Coincide? Gli antichi e Virgilio stesso hanno dato risposte
diverse: delle volte un potere più grande, a cui gli stessi dei erano soggetti e su cui essi stessi non
avevano giurisdizione - una visione per cui il fato diviene il grande burattinaio, un “agente occulto”
che persino gli dei non riescono a contrastare -. In Virgilio sembra coincidere, se non con la
volontà degli dei tutti, perlomeno con la volontà di Giove ma possiede comunque statuto di
carattere ambiguo - in ogni caso è una forza che stabilisce il movimento della storia -.
Il disegno del fato è “a maglie larghe”: ha un suo certo grado di essibilità, stabilisce solo
alcuni grandi punti fermi, ma non tutti gli eventi che portano in quella direzione. Si tratta di
una “road map” degli obiettivi da raggiungere, e magari di obiettivi intermedi, ma non contempla
tutte le tappe per raggiungerli, si contenta di ssare solo alcuni punti imprescindibili, lasciando
una certa essibilità sui modi e sui tempi di realizzazione di questi. Enea non può cancellare e
rimuovere la volontà di Giunone e lei, al contempo, non può contrastare gli obiettivi del fato,
ma può far sì che questa fondazione costi il più possibile in termini di sacri cio e vite
umane, attardando la sua realizzazione quanto più possibile: gli dei non possono intervenire
circa gli esiti ultimi decisi dal fato, ma tutto ciò che sta nel mezzo è loro terreno di caccia. C’è un
orizzonte ultimo della storia, l’arrivo dei Troiani in Italia e la nascita di Roma, ma tutto ciò che sta
nell’arco di questa campata è soggetto a intervento divino.
La storia non è un casuale succedersi di eventi senza direzione o signi cato. Se la storia
abbia un signi cato è un problema di uso e la risposta di Virgilio in merito è che non vi sia un
casuale succedersi di eventi irrelati, ma ha un obiettivo, una direzione, un vettore che procede
nella direzione della fondazione di Roma in virtù di un grande disegno e depositario di questo è
quest’entità sfuggente, alla quale dà il nome di “fato”. Ancora una volta, la vita dell’umanità e del
singolo è sottratta all’arbitrio, e al contempo la via per realizzare quello che deve essere realizzato
può risultare estremamente complicata e dolorosa in virtù di questi spazi di indeterminazione che
sono spazi nessuno, tra una campata e l’altra nel ponte del fato, oltre che terreno di battaglia in
cui gli dei possono manovrare così da ritardare, ostacolare e renderne penoso l’attraversamento.
Negli ultimi versi dell’ultimo libro, Giunone si arrende, nalmente, al fato in un dialogo con
Giove: questa lascia che si celebri la mescolanza tra Troiani e Italici da cui nascerà la gens latina
del proemio, promettendo di ostacolare più la storia o tentare più di attardarla. Questa dice inoltre
che farà in modo che il popolo si chiami “latino” - in quanto questo un aspetto non regolato da
alcuna legge del fato -. Che i troiani si fondessero con le popolazioni del Lazio era volere del fato
però, nel momento stesso in cui questa presenta la sua resa, vuole almeno detenere il diritto
alla nominatio pertanto, seppur il nuovo popolo avrebbe dovuto essere nominato a seguito della
sua parte maschile, vale a dire quella troiana, Giunone fa si che questo assuma il suo nome dalla
Lavinia, ovvero il territorio in cui i primi si sarebbero insediati. È una questione di dettagli, di cui il
fato non si preoccupa: questo si occupa di grandi eventi storici, ma i particolari della storia non
sono posti al di sotto la sua giurisdizione. Allora possiamo dire che il fato sia il grande
protagonista dell’Eneide assieme a Enea.

Enea ha raggiunto Cartagine e qui la regina Didone o re ai suoi ospiti un banchetto, durante
il quale, attraverso l’espediente del racconto - ripreso dall’episodio di Odisseo presso la corte
dei Feaci - viene introdotto il racconto del libro II.
La fonte più antica circa la storia dell’inganno del cavallo di Troia è proprio l’Eneide, in
quanto l’episodio non è pervenuto attraverso le opere greche.

Si pone il problema della teodicea: in cosa consiste la giustizia degli dei?


Al vv. 4, Virgilio usa l’aggettivo “saeva” per appellare Giunone, ma questo viene solitamente
applicato alla matrigna o al tiranno: è un aggettivo tanto radicale che, se andiamo a leggere il
commento a Virgilio di Servio, un professore della tarda antichità, egli sosterrebbe che, nel latino
arcaico, questo avrebbe signi cato anche “grande”, ma sembra essere una falsa testimonianza, in
quanto un poeta pio come Virgilio non potrebbe aver usato un aggettivo del genere per de nire la

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regina degli dei; si tratterebbe di un atteggiamento empio, e se l’ha fatto evidentemente è perché
nella lingua antica possedeva evidentemente un signi cato positivo.
Il quadro che Virgilio dà di Giunone è quello di una donna mossa da sentimenti di ostilità verso i
Troiani.

Nel libro II dell’Eneide, Enea racconta la sua storia, dal momento della simulazione della
dipartita dei Greci, lasciando sulla spiaggia un certo Sinone, un uomo mutilato assieme al mitico
cavallo di legno. Sinone doveva simulare di voler essere accolto tra i Troiani, ma la verità è che il
suo compito altri non è che quello di aprire le porte della città, per dare così inizio al massacro.
Si creò allora una discussione circa l’accogliere o meno il cavallo di legno in città: Laocoonte,
accompagnato dai suoi due gli, tentò di indurre i troiani a di dare da questo presunto dono
o erto a Minerva. “Ho paura dei Greci anche quando sembra che si comportino benevolmente”.
Dal mare, però, spuntarono due enormi serpenti che arrivano sulla spiaggia, la risalirono, e si
avvolsero intorno al sacerdote e ai suoi due gli. Laocoonte morì, nonostante fosse un
sacerdote di Poseidone, e con lui i suoi gli: l’episodio venne interpretato alla luce di vendetta
divina e per cui sarebbe risultato empio ri utare questo dono, tant’è vero che Laocoonte, che
proponeva di distruggere questo, sarebbe stato ucciso in circostanze soprannaturali.

5. Eneide, vv. 426-430


Enea ci riferisce l’ultima notte di Troia e ne vengono segnalate alcune morti. Egli sta ricordando
alcuni compagni che, in ingiusta, estrema e cocciuta resistenza, sarebbe caduti sul campo di
battaglia, tra cui Ripeo. Il gruppo di Enea, intanto, aveva indossato, per sfuggire all’orda
greca, le vesti degli invasori, ma contro di questi si erano scatenati gli stessi troiani, che
evidentemente non avevano riconosciuto i propri compagni.

“Cadde anche Ripeo, di gran lunga il più giusto tra i troiani, rispettosissimo dell’equità (agli dèi
sembrò diversamente); muoiono Ipani e Dimante, tra tti dai compagni, e la tua ricca pietas,
Panto, e la benda di Apollo non hanno protetto te che cadevi.”

Ripeo viene considerato come il più giusto e il più rispettoso dell’equità: gli aggettivi, "giusto" ed
"equo", appaiono come dei sinonimi, ma di fatto non lo sono, o comunque hanno una sfumatura
di signi cato che li distingue. “Iust-” deriva da “diritto” e dunque “iustus” è ciò che è conforme
alla legge e al diritto, mentre “equo” potrebbe signi care “pianeggiante” o “liscio”, da qua il
senso morale di questo aggettivo. “Equo” non indica una giustizia conforme al diritto ma
piuttosto al senso morale: indica qualcosa che si percepisce come giusta non perché lo
stabilisce la norma, ma perché lo avvertiamo tale per una naturale percezione di ciò che è giusto.
In questo senso, l’equità potrebbe anche andare contro la giustizia.
Ripeo era dunque un personaggio giusto secondo ogni classi cazione di giustizia, etica e
legislativa. Nonostante queste qualità, che possedeva in misura eminente, Ripeo è morto e, quasi
parenteticamente, Enea è come se parlasse di sé, sostenendo che, alla luce della sua caduta,
pare che gli dei lo considerassero diversamente.
Viene a galla in quest’occasione la questione riguardo il male, che tocca agli innocenti e ai
buoni: Ripeo sicuramente è un innocente, un giusto, forse il più giusto di tutti, ma era anche equo
e ciononostante è caduto sul campo di battaglia. Gli dei forse hanno avuto di lui opinione diversa,
ma questa viene constatata, non spiegata: egli è morto e dunque, evidentemente, non era poi
così meritevole come dico io che fosse, ma perché ciò sia successo non viene spiegato; Enea si
limita a spiegare che l’opinione degli dei non coincide con quella umana.
Le morti di Ipani e Dimante vengono razionalmente spiegate e non commentate, e sono le uniche
due delle quattro a cui non segue un commento di Enea.
Panto, invece, non solo era dotato di grande pietas, ma era anche un sacerdote, esattamente
come Laocoonte, che portava la fascia di Apollo, la quale indicava il suo status: non sono stati
su cienti a proteggerlo il suo statuto sociale e morale, due qualità di cui una soggettiva (e
dunque anche opinabile), ma anche una oggettiva - ovvero il fatto che fosse sacerdote di Apollo,
consacrato a un dio -, queste non svolsero la funzione di scudo dalla morte che si abbatteva su di
lui.
La lunga notte di Troia va avanti: Venere compare a Enea per spingerlo a portare in salvo la
sua famiglia, altrimenti spacciata. Si apre una scena particolarmente intensa: per dimostrare a
Enea che per Troia non c’è più alcuna possibilità e che dunque qualsiasi resistenza sarebbe

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inutile, Venere dice a lui che gli dei stessi starebbero attivamente operando per la
distruzione della città e questa - con un motivo già presente in Omero - glielo dimostra. Gli
uomini hanno una sorta di velo davanti agli occhi che gli impedisce di vedere gli dei, ma
Venere rimuove dagli occhi di Enea questa caligine, e lui si trova dinanzi a una scena
raccapricciante: i grandi dei dell’Olimpo sono impegnati nella distruzione della città. Gli uomini
non possono vederlo, ma a lui viene dato questo dubbio privilegio di assistere a questa scena.
L’immagine degli dei che si accaniscono contro una città vinta, dando manforte ai greci, facendo
terra bruciata, è di portata raccapricciante, specialmente in un contesto dove il problema della
giustizia degli dei è stato già precedentemente posto.
Enea allora torna in casa, dove si trovano il glio, la moglie e il padre Anchise, o eso alle gambe
dopo aver avuto la concessione di unirsi alla dea Venere, dalla quale unione era nato Enea,
questa però gli aveva dato un preciso mandato: di non rivelare a nessuno la loro precedente
relazione e, pertanto, quando una notte, ubriaco, aveva accennato al fatto fu perciò punito da
questa.
Anchise fa resistenza: non vuole essere fonte di rallentamento, ma un tuono improvviso dalla
destra fa comprendere lui che si tratta di un monito divino. Il gruppo di fuggiaschi si ingrossa man
mano, passando per i vicoli di Troia e lontano dai gruppi greci bellicosi.

5 Eneide III, v.v. 1-8


I Superi in questione, quelli del vv. 1, sono gli dei celesti.

I troiani sono gente “incolpevole”, o almeno tali appaiono ad Enea. Certo è però che non si manca
di sottolineare l’inesplicabilità di tutto questo. Gli dei seguono un criterio? Una meritocrazia? Una
retribuzione equa? C’è un criterio di giustizia? Certamente non sono parametri umani, ma questa
inesplicabilità viene espressa senza che ne venga data una spiegazione.

Troia Nettunia è un tipo di de nizione che farebbe riferimento al mito, dove la tradizione voleva
che le mura di Troia fossero state costruite da Poseidone. Si diceva che il predecessore, il padre
di Priamo, Laomedonte, avesse stretto un patto con gli dei, i quali si erano impegnati a realizzare
le mura della città. Allora, se questo è vero, comprendiamo che anche in quest’aggettivo c’è un
retrogusto amaro: avrebbero distrutto qualcosa che questi stessi avevano costruito. È allora
inevitabile che il lettore attento si ricordi della scena di Enea, che vede sicamente Nettuno
abbattere quelle stesse mura, che aveva costruito, con il suo tridente.
Dietro questo aggettivo c’è la spia d’atto di un arbitrio quasi capriccioso degli dei, che si
divertono a costruire e a distruggere quelle stesse cose che hanno costruito, ma c’è dunque una
ratio nel comportamento divino? Se c’è, sfugge alla ragionevolezza umana, ma la religione
pagana non richiede agli dei di essere etici e per questo, possono agire al di fuori della
concezione di giusto e sbagliato.

Il libro IV è uno dei più importanti dell’Eneide e, non a caso, uno di quelli che Virgilio aveva letto
ad Augusto nel 23, uno dei meglio scritti e meglio ri niti ma che, teoricamente, non dovrebbe
trovarsi in un poema epico, in quanto ci parla di una tragica storia d’amore, quella tra la regina
di Cartagine Didone, impegnata nella costruzione di questa nuova città, ed Enea.
Che cosa ci fa un libro interamente dedicato a una storia d’amore in un poema epico?
Non che nel modello dei modelli non ci fosse già qualche segnale di questo tipo: nel sesto libro
dell’Iliade, in cui Ettore incontra la moglie Andromaca per prendere un momento di respiro dalla
battaglia, incontrando prima la madre, poi la cognata e in ne, sulla porta, la moglie e il glio, la
scena che segue è tenera, toccante e Andromaca chiede lui di non esporsi oltre a rischi che
potrebbero compromettere la sua incolumità, ma si tratta solo di un pugno di versi, giusto una
decina, e non di un intero libro in cui i temi sentimentali e passionali occupano un ruolo di spicco.
Il personaggio di Didone proviene, letterariamente, dalla tradizione pre-virgiliana. La fonte
più antica che ce ne parla è uno storico greco, o meglio siceliota, Timeo di Tauromenio o
Taormina. Questo era un greco di Sicilia che scrisse una storia, probabilmente traendo il racconto
su Didone, di cui è il primo a riportarne la gura, dalla tradizione cartaginese, in quanto non va
dimenticato che no all’epoca della conquista romana, la Sicilia era un condominio greco-
cartaginese, un’isola in cui si erano insediati sia greci, che da tempo vi avevano formato delle
colonie, sia cartaginesi, per i quali la Sicilia era una testa di ponte, un appoggio sulle rotte
mediterranee. Dunque, greci e cartaginesi convivevano in Sicilia senza che nessuno dei due fosse
mai riuscito a scacciare l’altro. Sostanzialmente, rimase no alla metà del III secolo tale e dunque,
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questo storico di Taormina, vivendo in un contesto storico e culturale misto, avrebbe ricavato da
una fonte cartaginese la storia di questa donna, proveniente dalla Fenicia, madrepatria di
Cartagine stessa - una colonia della città fenicia di Tiro -. Didone veniva proprio da lì, ed era la
sorella di Pigmalione, personaggio del mito noto per essersi innamorato di una statua da egli
stesso scolpita che venne animata per bene cio di Afrodite. Suo marito fu ucciso e lei costretta a
fuggire con un pugno di esuli verso occidente, giungendo sulla costa nord-africana, e lì si insediò,
costruendo la sua città: è un mito di fondazione che, insolitamente, vede una donna
protagonista. I fondatori del mito greco sono solitamente maschi, ma qua incontriamo un
elemento dissonante. Timeo, tra IV e III secolo a.C., per primo riportò il suo mito senza raccontare
di Enea.
La letteratura fa incontrare questi due quasi certamente a partire da Nevio, di cui ci sono
pervenuti solo frammenti, e in cui viene narrato l’arrivo di Enea e il loro incontro. È opinione
condivisa che egli raccontasse la vicenda di Enea e Didone in quanto o riva una causa mitica
dell’ostilità tra Roma e Cartagine. Si tratta di un mito che serve a giusti care l’ostilità tra
queste due grandi potenze: questo aveva partecipato alla Prima guerra punica e dunque era
consapevole che la guerra contro Cartagine fosse uno scontro tra superpotenze allora, o rì di
questo scontro una giusti cazione, per cui Enea avrebbe abbandonato Didone, la quale giurò
eterna vendetta e inimicizia tra i loro discendenti.
Ciononostante, se i fatti della guerra contro Cartagine sono contemporanei a Nevio, per Virgilio
non lo sono a atto: ben 120 anni prima la città era stata distrutta. La poesia epica è un genere
in cui le cose avvengono a livello umano e divino, e questi due piani interagiscono l’uno con
l’altro: gli dei dell’epica non osservano i fatti del mondo, non sono spettatori impassibili e neutrali,
ma anzi si impicciano negli eventi umani, così anche l’innamoramento di Didone è frutto di un
accordo al vertice, dovuto dal fatto che due dee, ovvero Venere e Giunone, che si combattono
per interessi opposti, in questo caso stringono un accordo; Venere vuole assicurare al glio e ai
troiani un soggiorno a Cartagine esente da rischi, perché sa che non sarà a atto breve, sarà
necessario riparare la otta e aspettare che nisca l’inverno, quindi il soggiorno dei troiani non
sarà a atto breve, ma si protrarrà per molto tempo, e siccome ha la signoria sul mondo dei
sentimenti, degli a etti e del desiderio, le viene in mente che il modo migliore per raggiungere
questo obiettivo è far si che Didone si innamori di Enea, in virtù del benestare dei troiani. Il piccolo
Cupido, longa manus di Venere, dio alato e armato di arco, assume le fattezze di Ascanio, glio
di Enea, che Didone ama cullare tra le sue braccia, e scocca allora la sua freccia, inducendo la
passione divorante di Didone. Ciononostante, questa ha giurato fedeltà al marito morto,
secondo il modello perfetto della matrona romana, ma questo intervento va a genio anche a
Giunone: il fato non può essere alterato nelle sue scansioni fondamentali e non ha il potere di far
sì che Enea non arrivi in Italia, ma ha ampio margine di azione per far sì che questo esito si realizzi
il più tardi possibile. Probabilmente, la dea spera trattarsi di una scelta de nitiva e che Enea
rimanga lì a tempo indeterminato, ed e ettivamente pare che, a un certo punto, le cose
prendano questa piega. Giunone e Venere dunque, per motivi diversi, vogliono la medesima cosa:
che Enea resti a Cartagine.
Il IV libro si apre con Didone già colta dal sentimento.

5.4 Eneide IV
“Ma la regina, già da molto tempo, piagata da un’opprimente angoscia, alimenta la ferita nelle
vene ed è consumata a poco a poco da un invisibile fuoco. Le ritorna in mente la grande virtù
dell’uomo e il grande prestigio del popolo (al quale appartiene quest’uomo). Il volto (di Enea) e le
parole (di Didone) aderiscono a lei, inchiodate nel cuore e l’angoscia non consente al corpo di
trovare riposto nel sonno.”

Segue un omissis in cui viene narrato della sorella minore di Didone, Anna, con cui ha una forte
complicità e una totale e assoluta con denza; quando questa comprende che il suo sentimento
sta diventando qualcosa di incontrollabile, si con da con lei: dall’inizio della vedovanza,
“riconosce i segni dell’antica amma”, torna nuovamente a provare qualcosa che rassomiglia il
sentimento provato per il defunto marito e se solo non avesse giurato lui fedeltà, forse, per
quest’ospite troiano avrebbe potuto compiere una follia. Anna spinge Didone a non farsi
condizionare dal passato e a non opporsi a un amore così grati cante tramite un meccanismo
psicologico che l’avrebbe indotta a riferire ciò che già Didone stava pensando ovvero, il
suggerimento di abbandonare il voto precedente in virtù di questo nuovo amore.
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“Tu credi davvero che i morti si occupino di queste cose?”.
“Con queste parole, in ammò l’animo (di Didone) con un amore smisurato e diede una prospettiva
alla mente inerte e sciolse la vergogna. All’inizio, entrano nei templi e cercano pace sugli altari.”
“Ahime, ignare menti degli indovini! A che servono le preghiere, a che servono i templi ad una
dominata dalla follia? Una amma sottile mangia le midolla (ciò che sta di più intimo in Didone),
una ferita silenziosa vive sotto il petto. Infelice Didone brucia e vaga, si aggira in preda alla
follia…”

Ha inizio una similitudine, tipica della poesia epica che partendo da un fenomeno del mondo
umano cerca in quello extra-umano un elemento analogo. Per descrivere un fenomeno del mondo
umano come il vagabondare di Didone per la città, si cerca un corrispettivo in quello animale, da
cui una similitudine con una cerva colpita da una freccia.

“… come una cerva, dopo che è stata lanciata una freccia che da lontano, tra i boschi cretesi un
pastore ha colpito la cerva che non era pronta a difendersi (incautam), inseguendola con le frecce
e inconsapevole, lasciò l’arma volante. Quella, in fuga, attraversa i boschi e i monti dittei (ovvero
cretesi in quanto il monte Ditte sorge sull’isola di Creta), la canna letale aderisce al anco.”

Didone viene colpita dal sentimento quando non stava in guardia e non era pronta a difendersi:
l’elemento chiave di questa similitudine è che nonostante la cerva corra attraversando boschi,
monti, questa le rimane con ccata nel anco. Il movimento che fa nella fuga non ha il potere di
liberarla, per quanto si muova e si agiti. Questo funziona bene nel contesto in cui si inserisce: il
suo è un movimento nevrotico, fatto da chi come la cerva si muove, corre nel tentativo di liberarsi
mentre la ferita lacera la carne in profondità. Non solo, ci viene rivelata l’arma che ha colpito la
regina: è una canna letale, che in qualche modo suggerisce l’idea che questa piaga la condurrà
alla morte e se questo è vero per la cerva, allora, per il principio della similitudine, viene lasciato
intendere una verità ancora ignota ovvero che questa passione, che ha colpito Didone come la
freccia ha colpito la cerva, avrà esito letale.
“Nescius”, “inconsapevole”: che Enea abbia provocato questa piaga in maniera non maliziosa?
Non tutto quello che viene rivelato dalla similitudine è realtà, verità, ma alcuni studiosi ritengono
che Enea abbia provocato questa ferita letale senza alcuna intenzione.

“Ora, conduce con se’ Enea lungo le mura e gli mostra le ricchezze fenicie e la città pronta (già in
gran parte costruita), comincia a parlare e si ferma (resistit) nel mezzo del discorso; ora, mentre il
giorno scivola via, cerca gli stessi banchetti e chiede di ascoltare di nuovo le pene troiane e pende
nuovamente dalle labbra del narratore, quando si separano e la luna oscura cancella a sua volta la
luce e le stelle tramontando inducono ai sonni, (Didone) si a igge sola nella casa vuota e si
stende sul letto abbandonato. (Lei) lontana, sente e vede lui lontano oppure, trattiene in grembo
Ascanio, catturata dall’immagine (cioè dalla somiglianza) del padre se possa ingannare un amore
inconfessabile. Le torri avviate non sorgono, la gioventù non si esercita con le armi o allestisce i
porti o le sicure difese per la guerra: le opere interrotte rimangono sospese e i grandi merli delle
mura e la macchina alta no al cielo.”

L’idea che emerge dal primo blocco di versi è quella di una regina che non sa staccarsi
dall’oggetto della propria passione, ma anche di una donna che è talmente dominata da questo
sentimento da non riuscire a svolgere nemmeno un’operazione banale come parlare: le mancano
le parole e rimane appesa nel mezzo di una frase. L’amore nirebbe per inabilitare chi lo prova
persino rispetto alle competenze più ovvie e quotidiane come pronunciare una frase di senso
compiuto, interferendo persino su operazioni semplici.
Nei versi immediatamente successivi (v. 77-79), l’idea è quella della ripetizione: Enea ha già
raccontato la sua storia, ma Didone sembra non stancarsene mai e chiede che le vengano di
nuovo raccontate le medesime avventure che la spingono a rifare continuamente gli stessi gesti.

Nei versi successivi si aggiunge a questa fenomenologia amorosa un deragliamento dei sensi,
un’allucinazione sensoriale spinge Didone a vedere Enea e a sentirlo nonostante i due siano
lontani, come se il contatto visivo e uditivo tra i due futuri amanti non sia cessato anche dopo che
si sono separati e questa ha la sensazione che lui continui ad essere con lei. Ancora una volta
questo si presenta come elemento capace di distorcere il funzionamento, anche biologico, del
corpo.
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Ella culla in grembo Ascanio, e lo fa per due motivi diversi: come tutti i gli modello è la
precisa immagine del padre - come vuole l’ideologia romana (secondo cui il glio perfetto
riprodurrebbe puntualmente le fattezze del padre) - e tenta inoltre di ingannarsi che la sua
simulata attrazione per Enea sia in realtà verso Ascanio. Didone cerca di ricorrere a un
meccanismo psicologico che sovrapponga alla realtà fattuale una ttizia, funzionale a far pace
con la nostra coscienza: sta cercando di ingannare se stessa rendendo questo sentimento
come indirizzato in senso materno ad Ascanio. Starebbe tentando di mascherare un amore
altrimenti inconfessabile e inaccettabile.
Anche il carme 61 di Catullo, scritto in occasione del matrimonio di due amici, riferisce che non
sarebbe giusto per una famiglia tanto prestigiosa non aver discendenti e augura pertanto ai
neosposi di avere un glio, Torquato, che riproduca tanto bene le fattezze del padre, tanto da
poterne indovinare la discendenza solo al guardarlo. La madre deve sì portare a compimento la
gestazione, ma non lasciare traccia dei suoi tratti somatici.

Gli ultimi versi riconducono a un’idea di un mondo addormentato, di un paese dove no a prima
ferveva un’attività instancabile. Questa freneticità è come se si fosse arrestata: il fatto che lei sia
così presa da questa passione ha un e etto che pervade la città tutta.
Didone non è una privata cittadina o una donna qualsiasi - che può fare quello che vuole della
sua vita sentimentale - ma una regina da cui dipende la vita della città e la sua costruzione: se
Didone, presa dal suo amore, completamente ripiegata su se stessa, si disinteressa e abdica al
proprio ruolo di leader politico, tutto questo avrebbe e etto paralizzante sul mondo che la
circonda e dunque, la sua colpa non è solo individuale ma anche collettiva, in quanto è venuta
meno ai suoi doveri verso la collettività a cui è a capo. Questo ragionamento vale pure per Enea:
anche lui ha qualcosa da costruire e quindi, in questo momento, il focus di Virgilio è su Didone
ma l’idea che l’amore distolga dal compimento dei propri doveri riguarda anche Enea.
L’amore è un problema dal momento in cui da l’amante dipendono altri, terzi o addirittura una
comunità.

Prendendo in particolare il verso 82, Didone dorme da sola nella casa vuota su di un letto
abbandonato.
Assistiamo in questo caso allo “stile soggettivo” di Virgilio: con questo si intende il fatto che
spesso sembri nascondersi dietro gli occhi dei suoi personaggi e usare espressioni o
aggettivi che non esprimano tanto una condizione oggettiva quanto la percezione di chi
osserva quella determinata situazione. Quando Virgilio usa un’espressione come “vacua”,
vuota, ci si riferisce al fatto che nessuno vi abiti insieme a lei ma che solo allora, in quel momento,
lei si renda conto no in fondo della propria solitudine. Questa condizione viene percepita come
opprimente, as ssiante.
Per dire che il letto fosse vuoto, l’autore avrebbe potuto usare molti aggettivi ma sceglie proprio
“relictus”, participio perfetto di “relinquere” (lasciare o abbandonare). Dal punto di vista oggettivo
non è un letto abbandonato in quanto presuppone una precedente presenza venuta a meno:
si tratta ancora una volta di una percezione soggettiva. In questa descrizione viene assunto lo
sguardo del personaggio che dunque si impregna di soggettività: è una descrizione che si carica
delle emozioni e dei sentimenti, delle so erenze del personaggio di cui Virgilio in quel momento
ha assunto lo sguardo di Didone, ma senza dirlo espressamente, in un modo sottile di descrivere
la situazione.

Si possono riassumere dei campi semantici che descrivono il sentimento amoroso:


1. La ferita, la piaga, come quella della cerva.

2. La amma che brucia l’infelice amante nel fuoco: Didone viene consumata da questo
sentimento come un albero viene privato dei suoi frutti o una margherita dei propri petali; la
amma mangia le midolla di Didone: questa immagine non si connota nei termini dello spazio
domestico ma il fuoco ha veste, immagine, assolutamente negativa.

3. La follia, la pazzia che comporta un abbandono dei sensi e un loro malfunzionamento: Enea è
una presenza ossessiva nella sua mente, la passione d’amore diventa ossessione - come
riferiva Lucrezio nel De rerum natura - tant’è che conduce Didone a un’abdicazione della

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razionalità. La passione priva l’individuo della facoltà di ragionare e di compiere le funzioni più
elementari in più, nel caso di un personaggio che sia pubblico, assume secondo livello: questa
totale concentrazione su di sé, questa riconversione su di sé, la porta ad abdicare anche al
suo ruolo di regina, perché murata nel suo sentimento e Virgilio. Con quest’immagine, ci viene
dato il quadro di un mondo fermo, bloccato dal fatto che chi dovrebbe assicurarne il
movimento, la dinamica, stenta a farlo in quanto preso da altre priorità.

Questa di denza verso l’amore-passione apparteneva alla cultura romana e al contempo, se


Virgilio dà ampio conto delle emozioni di Didone, nel caso di Enea non succede a atto: la
parola “amore” viene attribuita in un solo caso all’eroe troiano, al verso 395, in cui Virgilio riferisce
che Enea sia scosso nell’animo dal grande amore (“magno libefactus amore”), in una frase
ambigua in cui non sappiamo se si riferisca a lui oppure a Didone.

L’innamoramento si compie quando in un giorno di caccia, Giunone fa scoppiare la pioggia e i


due si rifugiano in una grotta dove si uniscono. Questa relazione sembra non porsi il problema del
futuro, ma vive giorno per giorno, naturalmente: la cosa però non poteva continuare e, a
sbloccare la situazione, interviene un amante respinto di Didone, il re di un popolo con nante
con Cartagine, Iarba, rinnegato da una donna che invocava la sua in essibile fedeltà coniugale
ma che ha intrapreso una relazione con Enea.
Egli si rivolge dunque a Giove per lamentarsi dell’ingiustizia ed egli reagisce immediatamente
inviando a Cartagine Mercurio, il quale deve riferire ad Enea “poche e non buone parole”.
Perché Enea sta sprecando il suo tempo in terra libica? Se proprio la prospettiva dei regni italici
gli è indi erente, quanto meno non privi di questo suo glio Ascanio, al quale quei regni sono
destinati. Che navighi! Che si metta in mare!
Mercurio riporta fedelmente il messaggio ad Enea, il quale, naturalmente, non è previsto che
possa replicare. Dunque Mercurio scompare immediatamente, mentre l’eroe rimane raggelato e
sembra risvegliarsi da una specie di torpore: convoca immediatamente i compagni per allestire la
otta; è tempo di riprendere la navigazione e al contempo, cerca l’occasione migliore per parlare
con Didone e comunicarle questo sviluppo delle cose. Subito dopo che Virgilio ci riferisce questa
cosa, la regina Didone avverte l’inganno e ciò che sta per accadere.

5.5 Eneide
Didone sottolinea il paradosso di una navigazione in tempi non adatti, con venti che so ano
da nord, per chi deve raggiungere la penisola italiana partendo dal Nord Africa.
C’è un’alternanza di toni nel discorso di Didone: ora prevale il tono della supplica mentre lo prega
di non partire. La sua prima osservazione riguarda un calcolo dei rapporti di forza: se egli se ne
va, Cartagine sarà esposta ai popoli circostanti, che non aspettano altro che cancellare dalle
loro terre questa ciste lì insediata; vi se ne aggiunge una seconda: è consapevole di aver
macchiato in maniera irreparabile la propria reputazione, che si basava sul rispettare le norme
della sua cultura o meglio, di quella latina, per cui una perfetta matrona romana non solo
preserva la fedeltà coniugale mentre il marito è in vita ma gli rimane fedele anche dopo la
sua morte. Ad Enea, Didone avrebbe sacri cato se stessa, sporcandosi ai suoi stessi occhi, ma
ora questo le si ripropone in tutta la sua gravità.
Di tutti i modi con i quali avrebbe potuto appellarlo, “ospite” ora è l’unico in cui potrebbe
chiamarlo.
Ritorna non solo un’allusione interna - Virgilio starebbe facendo riferimento a quei versi in cui
Didone era stata catturata, resa prigioniera dalla somiglianza di Ascanio con il padre - ma anche
quel motivo per cui il glio è perfetta immagine del padre.
Il discorso di Didone si muove alternando toni diversi e facendo appello a ragioni diverse, legate
alla sicurezza di Cartagine ma anche alla personale integrità della stessa, lasciando intendere che
se Enea partirà, allora lei “morirà di acerba morte”.

Enea ristabilisce una certa distanza appellandosi a lei come “regina”: ha raccolto la
suggestione di Didone di procedere a un’unione coniugale ma a erma che mai “o rì
accole nuziali”. La difesa di Enea è disastrosa: sostiene qua che, se anche non fosse guidato
dal fato, e potrebbe scegliere la propria strada, correrebbe a rifondare Troia e che sarebbe
rimasto lì per ricostruire le torri di Priamo e Pergamo, per far si che una nuova città risorgesse per
coloro che erano rimasti. Ciononostante, gli sarebbe stato intimato di recarsi in Italia: “questo
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è il mio amore, questa è la mia patria”. Anche lei, dice lui, in quanto fenicia stanziata lì, in Libia, in
Nord Africa, dovrebbe desiderare non di meno per la popolazione troiana.

Anchise è morto quando i Troiani approdarono in Sicilia e quivi fu sepolto, a Trapani, maa
salpando da lì, una tempesta li avrebbe sospinti verso Cartagine.
Enea riporta allora lei le parole di Giove, giuntogli tramite Mercurio; la sua replica è imbarazzata,
sulla difensiva seppur logicamente impeccabile, in quanto è vero che mai avrebbe fatto
promesse matrimoniali e che i Troiani avrebbero il diritto di spostarsi per cercare l’Italia
esattamente come aveva fatto Didone per fondare Cartagine, e che pure Anchise gli sarebbe
comparso in sogno ribadendo le parole di Mercurio, ma non prende in considerazione i
sentimenti implicati in questa relazione, tace, è vittima di afasia emotiva: non ha la capacità di
articolare emozioni e sentimenti, forse una scelta intenzionale ma che certamente non sortisce
l’e etto di placare Didone, anzi tutt’altro, la esasperano ulteriormente.
Croce, nel 1936, in “Enea difronte a Didone”, considera malissimo il protagonista: Enea non pare
pronunciare queste parole con indi erenza, nonostante un’impressione di gelo, è qualcuno
animato da un sentimento di angoscia, che c’è ma viene schiacciato in fondo al cuore; ciò che
rimane visibile è uno sguardo puntato agli ordini di Giove. Questo motivo ritorna pure altrove: si
capisce che esistono una volontà e dei desideri ma che Enea sceglie di mettere da parte, di
schiacciarli in fondo al cuore in nome dell’adempimento al compito il quale è stato chiamato a
portare a termine.
Non è un caso che l’ultimo verso sia esattamente uno di quei famosi versi che Virgilio aveva
lasciato incompiuti: si tratta di una frase breve e strozzata troppo presto. “Non è di mia
spontanea volontà che io cerco l’Italia”: Donato diceva che Virgilio soleva lasciava dei versi
incompiuti qualora sentisse di dover andare avanti, lasciandosi indietro in sospeso alcuni passi,
per tornarci su in un secondo momento, ma forse qua c’è qualcosa di più. Forse si rese conto
della delicatezza del punto in questa tessitura: qui il suo protagonista si trovava di fronte a un
dilemma particolarmente angosciante.

Didone lo ascolta volgendogli le spalle, evitando il suo contatto visivo e toccando in maniera
nevrotica gli oggetti attorno; lui avrebbe succhiato il latte di un feroce animale e da qua,
discenderebbe la sua indole. Anche quando Didone ed Enea si incontreranno nel mondo degli
inferi, lei non gli riferirà una parola, ma sarà lui a parlare.
Ella crolla svenuta e le schiave la stendono sul letto: mette da parte i toni della supplica adottando
quelli dell’invettiva e i versi nali ci lasciano in sospeso. “Mai pio Enea”. È la prima volta, da
quando è cominciata l’Eneide, in cui Virgilio usa l’aggettivo “pio” riferendosi a Enea.

Virgilio pone gli interventi nel seguente ordine: Didone, Enea, Didone, a cui viene lasciata
l’ultima parola e che si pone dunque in una posizione di vantaggio non dando la possibilità
all’altro di replicare.
Signi cativo che Virgilio dia l’ultima parola proprio alla regina di Cartagine: nel mondo antico, la
retorica aveva un’importanza molto grande e lo spazio dell’oralità era in nitamente più ampio
della scrittura, che occupava nel mondo moderno un ruolo prioritario. La retorica, la teoria che
cerca di fornire i precetti per parlare in maniera persuasiva, occupava una posizione di prim’ordine
nel mondo antico. La retorica è l’insieme di precetti che vogliono organizzare un discorso nel
massimo della sua forza persuasiva. Un bravo oratore, soprattutto nel contesto del tribunale e
dunque in oratoria giudiziaria, mette al centro gli argomenti più deboli, quelli più facilmente
controvertibili, le prove meno decisive, che siano di accusa o difesa, in quanto ciò che rimane
impresso è ciò che rimane all’inizio e alla ne. Anche qua c’è un discorso di accusa e uno di
difesa e può sembrare signi cativo che Virgilio ponga al centro la replica di Enea, in omaggio alla
convinzione degli antichi per cui ciò che è debole e confutabile debba essere messo al centro, in
quanto sfuggirebbe all’attenzione del lettore.
Il discorso di Enea non è particolarmente irresistibile: da un lato contesta il tentativo di
Didone di con gurare la loro relazione in termini matrimoniali ma dall’altro, imputa la propria
decisione di partire a una serie di pressioni come il padre, che gli compare in sogno, e poi
direttamente agli dei, che lo hanno - in maniera sbrigativa - ingiunto di rimettersi in mare - anche
questa sarebbe una strategia retorica, una “relatio criminis”, un “trasferimento dell’accusa” -.
Enea è sulla difensiva e soprattutto, non menziona minimamente né replica circa il punto chiave
del discorso di Didone: cosa resta del loro amore?

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Si alternano toni diversi: le tigri avrebbero allattato Enea, in ordine con una credenza per cui il
latte materno sarebbe un tramite delle caratteristiche dell’individuo. Romolo e Remo furono
allattati proprio da una lupa, un animale sacro a Marte e pertanto, i Romani si legarono a
Marte sia dal lato paterno che da quello materno: sono gli di Marte e di una sacerdotessa, che
però non li allattò, delegando ad un animale sacro a Marte, il quale avrebbe fatto ereditare loro il
DNA del dio da entrambi i lati della loro discendenza. Quest’espressione di Didone sulle tigri
ircane, particolarmente aggressive, è un modo di insinuare l’origine dei suoi tratti di durezza e
selvatichezza.

Questo è l’ultimo scambio tra Enea e Didone, che non si rincontreranno più nel IV libro. Didone
compierà un ultimo tentativo di trattenere Enea tramite la sorella Anna, che andrà a parlare con lui,
inutilmente; si incontreranno nuovamente negli inferi ma anche lì non ci sarà comunicazione
causa lo sdegnoso silenzio di Didone alle rivendicazioni di Enea. Queste sono le ultime parole che
i due amanti si scambiano.

Il punto di attenzione e di focus è concentrato sui versi conclusivi. Didone crolla svenuta, è chiaro
che l’investimento emotivo è stato fortissimo dopo questo dialogo che l’ha evidentemente
spossata e le ancelle la depongono sul letto.
Enea è tentato di fermarsi a consolarla, di lenire le sue parole e cancellare la sua angoscia,
scosso dal “grande amore”: questo verso è ambiguo, non sappiamo se pertenga all’uno o
all’altro amante, ma molto probabilmente Virgilio si riferisce a Didone. Anche questa maledizione
nale di Didone non nega la persistenza e la forza del suo amore, anzi dimostra che sia ancora
profondamente coinvolta, nonostante sia in procinto di sfaldarsi.

“Il pio Enea” appare quasi come una frase fatta: avevamo già parlato degli epiteti formulari -
un aggettivo o una locuzione che viene stabilmente associata a un determinato personaggio della
poesia epica -. Questa tecnica si rifà a Omero - l’abitudine di usare gli epiteti deriva da lui - ma i
due li usano in modo molto diverso: nel caso di Omero l’uso dell’epiteto non è giusti cato dal
contesto, è decontestualizzato, viene usato anche se non ha una diretta pertinenza al momento o
alla situazione che l’eroe sta vivendo ma in Virgilio no, per lui l’epiteto è sempre
contestualizzato e quando dice “pio Enea” lo fa sempre con una ragione precisa; la formula
viene usata nel contesto in cui quell’aggettivo ha senso e signi cato è non è un semplice
abbellimento, ma ha pieno valore e ne moltiplica la potenza semantica. Enea si rende conto dello
strappo che la sua scelta sta causando, ma schiaccia questi sensi di colpa e proprio in questo
contesto Virgilio lo de nisce “pio”.

La nozione di “pietas” è molto sfuggente, come trovare una perifrasi che possa rendere anche il
termine “pius”. Questo indicherebbe l’attitudine a compiere scelte e gesti che l’individuo
percepisce come doverosi: è un valore legato alla sfera deontologica, quella del dovere.
L’individuo sente o sa che questi comportamenti gli sono imposti da un ente superiore rispetto al
quale si trova in una posizione di subordinazione. Se tutto questo è chiaro, il comportamento di
Enea agli occhi di un lettore moderno può risultare di cile da comprendere, perché questi
potrebbe pensare che in un simile frangente gli ordini di Giove potrebbero aspettare per
soccorrere qualcuno in bisogno.
Ma la pietas non è la pietà, e paradossalmente proprio nella scelta di non consolare Didone, di
non restare lì ma andarsene a rivedere la otta, Enea dimostra la sua pietas: è in quel momento,
ancora una volta, che mette da parte desideri, ambizioni e tentazioni, schiacciandoli sul fondo
della propria anima, per compiere ciò che ritiene essere il proprio dovere.
Questo è un segnale utile per interpretare il signi cato originario di questo episodio, che ci risulta
di cile da cogliere come lettori moderni. Ci sono comunque molti critici che si sono espressi in
termini anche critici nei confronti di Enea, come Benedetto Croce. Questo è uno dei casi in cui si
percepisce una forte distanza temporale. L’abisso che separa questa concezione antica da quella
moderna è il Romanticismo inteso come movimento culturale, che fonda la cultura
dell’individualismo e crea l’ideologia della borghesia, ceto dominante. A noi suonerebbe più vicino
un Enea che si oppone agli dei, contro dogmi, fedi e morali, per ria ermare il proprio desiderio
individuale, ma la cultura romana valorizza la capacità dell’individuo di mettersi da parte per dare
priorità a qualcosa che trascende l’individuo stesso, per raggiungere qualcosa che trascende
l’individualità.

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Questa attitudine a privilegiare ciò che è collettivo rispetto all’individuale, ciò che è della
patria, è il centro dell’etica civica romana, in cui i valori che contano sono quelli della comunità,
mettendo anche se stesso al servizio di quella causa. Qualsiasi deriva soggettivistica,
intimistica o rinunciataria viene condannata, perché viene meno a un obbligo di fedeltà a
qualcosa di ben più grande dell’individuo stesso.
Questa caratteristica dell’etica romana è presente, ad esempio, anche nella lettera di risposta di
Sulpicio a quella di Cicerone per la morte della glia, nella quale lo denuncia di piangere la
morte della glia piuttosto che la condizione romana, che sottostava alla dittatura di Cesare, la
quale rischiava di cancellare il regime della repubblica aristocratica, di cui Cicerone e Sulpicio
erano rappresentanti. Dolori come questo dovevano passare in secondo piano rispetto alla
dimensione civica. Questa è la cultura di Virgilio e non è la nostra o perlomeno, dal Romanticismo
in avanti, questo modo di vedere le cose ha subito una forte incrinatura.
Al lettore dell’Eneide, a quanto pare, Virgilio starebbe segnalando l’atteggiamento necessario della
pietas: quello di chi non è insensibile, ma che schiaccia e reprime i propri sentimenti sul fondo
dell’anima per far emergere ciò che la pietas in quel momento detta a Virgilio. Questo dimostra
essere burattini nelle mani del fato? Un eroe che non si piega o forse privo di spina dorsale?

Perché Enea, con rispetto ai grandi eroi omerici, pare avere così poco appeal? Di questi abbiamo
un’immagine attrattiva, mentre Enea appare come un eroe grigio e in sordina. La risposta si situa
nel diverso tipo di eroismo che Enea esprime rispetto ai grandi personaggi di Omero.
L’Iliade ha inizio con la fantomatica “ira di Achille” e proprio “ira” è la prima parola dell’Iliade ma
anche la prima parola in cui si inscrive la cultura occidentale; Achille - il più valoroso tra gli eroi
greci della guerra di Troia - è adirato perché il comandante in capo all’esercito acheo,
Agamennone, fratello del Menelao, a cui fu rubata la moglie Elena, avrebbe sottratto a lui una
giovane donna che il guerriero aveva conquistato a seguito di un’azione bellica e che gli fu
assegnata al momento della ripartizione del bottino di guerra. Questa ripartizione fu
particolarmente signi cativa: Agamennone si impose su di Achille prendendo per sé questa, delle
cui grazie Achille aveva goduto no a quel momento. Questo sarebbe un misconoscimento, una
morti cazione in itta a un eroe particolarmente meritevole e valoroso per cui questo si chiude
nella sua tenda ritirandosi dalla battaglia. Nel frattempo, le sorti della guerra volgono a favore dei
troiani, tanto che questi arrivano a un passo dall’incendiare le navi degli achei, protette da una
palizzata. Ciononostante Achille, informato di tutto questo, persiste nel suo atteggiamento.
Deciderà di recedere da questa posizione solo quando il suo fraterno amico Patroclo verrà ucciso
da Ettore e dunque, per vendicare la sua morte, tornerà sul campo di battaglia. Questo esempio,
che si potrebbe moltiplicare rispetto ad altri eroi omerici, ci fa capire che l’eroe omerico è quello
che anche in un collettivo si preoccupa innanzitutto del proprio onore, della propria
reputazione e che pure appare pronto ad abbandonare il campo di battaglia lasciando che i suoi
commilitoni vengano massacrati dal nemico in virtù della lesione in itta alla sua onorabilità.
Persino Enea attua un’azione del genere nell’epica omerica: egli è un guerriero troiano della
seconda la, non uno dei protagonisti della parte troiana, appartiene a un ramo collaterale della
famiglia reale; in un passo del libro XIII dell’Iliade Deifobo, eroe troiano, deve a rontare un
campione dell’esercito greco e cerca aiuto: vede Enea, schierato nell’ultima la dell’esercito
troiano, dietro tutti gli altri, una singolarità in quanto l’etica guerriera dell’Iliade vuole che l’eroe
combatta in prima la. Un eroe che si mette in ultima la, ipso facto, starebbe violando una regola
fondamentale del codice bellico omerico e Omero dice che “era sempre molto risentito con
Priamo che non lo onorava abbastanza”: Enea opera una sorta di sciopero bianco. Le due
situazioni sono speculari. L’eroismo di Omero è quello di chi anche se combatte in un collettivo
quello di cui si preoccupa è la difesa della propria onorabilità, n quando questa situazione non
venga sanata si ri utano di combattere. Si mira a una tutela dell’immagine di sé.
L’eroismo dell’Enea virgiliano è radicalmente diverso nella misura in cui l’eroismo dell’Eneide è
quello di chi al contrario, accetta di mettere da parte le proprie ambizioni e i propri desideri,
le proprie aspirazioni e sogni, per compiere una missione che l’eroe non ha scelto e della
quale neppure vedrà i frutti: Enea lo sa e lo ribadirà anche ad Anchise negli inferi, a ermando
che da lui un giorno nascerà Roma, ma passeranno 330 anni dalla sua morte per giungere alla
fondazione. Egli non ha scelto il compito né vedrà i frutti di questo tuttavia, si fornisce al disegno
del fato per portarlo a compimento. Egli accetta di essere la rotella di un ingranaggio più grande,
sapendo bene che però ogni rotella conta per far girare correttamente il meccanismo. Enea è
qualcuno che rinuncia alla sua storia personale per far sì che la storia si possa realizzare: c’è
una storia e la storia, quella di Roma e del mondo.
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Comprendiamo che questo tipo di eroismo sia abissalmente lontano da quello di Omero.
L’eroismo di Omero ha carattere auto-centrato ed è individualistico: bisogna realizzare il
personale ideale di eroismo e gli eroi si traggono dal con itto senza esitazioni. Quello di Enea è
anzi quello di qualcuno che fa esattamente il contrario, che si pone al servizio di un progetto
maggiore di lui e di cui riconosce essere un ingranaggio fondamentale.
Questo modo di impostare la questione è proprio della cultura romana, che valorizza proprio la
capacità del singolo di dare il meglio delle proprie risorse al bene della città,
marginalizzando le proprie inclinazioni. C’è un’isotopia stretta tra quello che fa Enea
nell’Eneide e ciò che il modello di comportamento della cultura romana propone al cittadino
e grazie a questo, Enea diventa l’eroe nazionale, nella misura in cui incarna una serie di aspetti
tipici e decisivi nella cultura romana e nella de nizione della sua identità.

Dunque, perché Virgilio ha voluto far vivere al suo protagonista questo itinerario?
Nel mito di Nevio questo serviva a porre le ragioni della contemporaneaità, a motivare la guerra
punica e dunque l’inimicizia tra Roma e Cartagine, ma dopo 120 anni, quando Cartagine ha già
cessato di essere un problema per Roma e la storia ha già fatto il suo corso, la ragione
risiederebbe nel funzionalismo all’interno del percorso formativo di Enea.
L’Odissea in questo senso, sarebbe un tipico romanzo di formazione per cui Ulisse riesce a trarre
insegnamenti da tutti i personaggi incontrati nel suo decennale viaggio; in questo senso, anche
Enea è un eroe che impara progressivamente a entrare nel suo personaggio e la tappa
cartaginese rappresenterebbe un momento di questo percorso di formazione. Cartagine è la
tentazione di fermarsi, di mettere radici, di legarsi a un amore, di rinunciare al compito lui a dato,
il che comporterebbe un grati cante sentimento e la ne di un viaggio cui meta sembrava
irraggiungibile. È una tentazione seducente oppure, non ci sarebbe merito nella rinuncia. È
una tappa nella formazione dell’eroe, che è chiamato a irrobustire la propria scelta eroica,
specialmente in un momento in cui la possibilità appare tanto consolatoria e confortante e di
fatto, per lungo tempo Enea cede: il richiamo di Mercurio che gli porta il messaggio di Giove
avviene solo dopo mesi che i troiani si trovano a Cartagine. C’è stato un lungo periodo in cui Enea
ha come messo tra parentesi, rimosso il proprio compito. Per lungo tempo sembrò non aver fatto
nulla per non cedere.
Anche alla partenza da Troia, Enea viene tentato dall’eutanasia, la bella morte che
rispecchierebbe i canoni omerici. Solo dopo che Venere sottrae il velo dinnanzi ai suoi occhi,
decide di partire e salvarsi: questo contribuisce a dargli un minimo di profondità umana
altrimenti sarebbe una personi cazione dell’etica romana. L’umanità di Enea consiste nel fatto che
egli entri comunque in dialettica con questo disegno superiore cercando di percorrere altre e
alternative vie, scampargli pure in qualche senso ma in ne, cede, pur non senza avvertire il
fascino di possibilità diverse di organizzare la propria vita. Si potrebbe quasi dire che è un “eroe
per caso”, uno che ad un certo momento si è visto bussare la porta da un potere più grande di
lui. Queste intermittenze della memoria fanno sì che ogni tanto si dimentichi del suo compito ma
in questo risiede la sua umanità. Da questo percorso di formazione, egli ne esce plasmato, nuovo
e maturato.
Le due questioni sono dunque, una visione di Enea come un eroe che dall’oriente è stato portato
in occidente, e che da greco è dovuto diventare romano - Virgilio ha plasmato l’eredità di
Omero e lo ha ripreso in nome di un’idea di eroismo radicalmente diversa da quella omerica, dove
l’individuo mette a disposizione del collettivo -e inoltre, la presenza dell’interludio di Cartagine
vuole mettere Enea dinanzi a un’opzione seducente, che potrebbe distrarlo dal vero obiettivo e
proprio questo, lo rende meno monolitico, non un semplice esecutore di volontà superiori.

Enea salpa, la scelta è fatta e fa ritorno in Sicilia. È passato un anno: fa ritorno nel luogo
dov’era stato sepolto Anchise.
Il libro V è uno dei più scialbi dell’Eneide, in quanto quasi interamente occupato dai giochi
commemorativi per celebrare la morte del padre.
Qua però il gruppo troiano comincia ad avere delle defezioni signi cative: le donne del gruppo
cominciano a pensare che l’idea di raggiungere un’Italia che sembra sempre più lontana non
valga la candela e viene fondata la città di Segesta per permettere a queste di insediarsi. Queste
tentano addirittura di incendiare la otta, cui fuoco viene spento per intervento divino e nel Lazio
giunsero solo troiani uomini, un elemento fondamentale per l’ultimo libro.

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Anchise si ripresenta in sogno ad Enea: deve spingerlo alla catabasi, alla discesa nel mondo
dei morti. Arrivato in Italia, Enea dovrà recarsi nella regione dell’Averno, nei pressi di Cuma, in
Campania, uno dei varchi di accesso al mondo dei morti, che si trova nel cuore della terra. Qua si
trovava inoltre una sibilla, che il mito immaginava come donne le quali vivevano molto a lungo e
dotate di capacità profetica. Enea si dovrà recare allora presso la Sibilla cumana e questa
dovrà guidarlo nella catabasi e sempre lei risponderà alle domande di Enea, analoghe a
quelle di Dante nella discesa all’Averno.
Il modello è anche in questo caso omerico: nell’Odissea non c’è una vera e propria discesa nel
mondo dei morti nel libro XI dell’Odissea, in cui Odisseo si reca in una terra ai margini del mondo,
lungo le rive dell’oceano - il quale veniva concepito come un grande ume che circondava le terre
emerse - lì allora scavò una profonda fossa, dove versò il sangue degli animali sacri cati e da qui
a orarono dei morti. Nel caso dell’Odissea non c’è una catabasi ma piuttosto i morti
vengono a galla, attratti dal sangue, che appare come barlume di esistenza. Sono ombre capaci
di parlare e ragionare.
Il modello è ancora una volta omerico ma si coglie comunque una di erenza culturale: Odisseo
va lì giusto per interrogare Tiresia, veggente per antonomasia del mondo antico, circa cosa
troverà nella sua Itaca quando vi tornerà. Anchise racconterà ad Enea la storia di Roma:
tramite questo cavillo, Viriglio riesce a recuperare la premonizione futura tramite un racconto dei
futuri protagonisti della storia della civiltà romana, di quei grandi eroi e guerrieri che faranno la
storia, che è come se fossero già li come anime in attesa di incarnarsi. Questa narrazione, se per i
personaggi si ambienta nel tempo prossimo, per il lettore è invece il passato. La parata degli eroi
è una sorta di lunga processione di romani futuri, in attesa di nascere ma in qualche modo già
esistenti.
Anche qua si coglie la di erenza tra l’epica greca e romana: nel primo caso, Odisseo chiede
circa le prove che dovrà a rontare nella propria storia individuale mentre nel secondo,
Anchise spreca due versi in forma indiretta sulle vicende che incontrerà Enea ma si prodiga nella
descrizione di questi grandi eroi futuri.

La otta viene ancorata sulla costa campana ed Enea si reca da solo a Cuma e con la sibilla
intraprende questa discesa.
Omero non ebbe bisogno di operare una descrizione della geogra a infera, mentre in Virgilio sì:
egli ebbe la necessità di inventarsi la topogra a infernale. Il luogo delle anime beate sono i campi
Elisi e qui si trovano le anime di Anchise e dei campioni morti in battaglia per difendere Troia, di
sacerdoti, poeti, indovini: è il punto culminante del libro VI.
Il modello odisseico è assunto ma anche fortemente rimaneggiato. In Omero non c’è una vera
descrizione del mondo dei morti ma i defunti a orano da un grande fossato e con questi entra
dialogo, ma non c’è un vero attraversamento del mondo infero, presente invece nell’Eneide.
C’è un’area del mondo infero riservata alla punizione di coloro che si sono macchiati di colpe più
o meno gravi, compresi alcuni personaggi della storia di Roma e anche un’area caratterizzata per
un diverso cromatismo: i colori scuri e bui caratterizzano la zona dei dannati, che lasciano il
posto a un’area di luce solare di usa e di verdi vallate, ed è qui che Enea deve arrivare, nella
regione dell’Elisio, dei campi Elisi dove incontrerà Anchise, altro punto iato che separa la cultura
greca e romana. Se Odisseo vuole avere notizie del suo futuro e del suo viaggio incompiuto
tramite Tiresia, questo elemento viene sbrigato velocemente ad Enea - riguardo le mansioni, i
labores, che dovrà svolgere arrivato in Italia - mentre focus è sulla futura storia di Roma: questo
programma millenario è già perfettamente de nito sotto forma di anime in attesa di incarnarsi e di
vivere il loro momento. Tramite questo escamotage, Virgilio dà misura di queste vicende per
arrivare no ad Augusto.

5.8 Eneide
Virgilio immagina un’area del mondo infero in cui si troverebbero i periti in seguito a una
passione distruttiva, che abiterebbero in un boschetto di mirti.
Il mirto è la pianta sacra a Venere: la religione antica è un fenomeno complesso, in cui le divinità
antiche sono al vertice di una rete di cui fanno parte anche elementi del mondo naturale, come
animali sacri a determinate divinità, e anche certe piante sono legate a queste. Virgilio immagina
che in questo boschetto si trovino i morti per amore: la so erenza che li ha condotti a morte si
prolunga anche nel mondo degli inferi.

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Didone porta ancora i segni della spada con cui si è tra tta alla ne del libro IV. Abbiamo
qua il termine “amore” riferito ad Enea, che parla lei: questo è il motivo del troppo tardi, di un
sentimento che arriva fuori tempo massimo dopo che una situazione si è conclusa, e non solo
Enea, ma anche Virgilio stesso, scrivendo, si può permettere di non essere reticente a riguardo.
Enea, come pure in conclusione del libro IV, vuole lenire la so erenza di Didone, ormai defunta,
che versa lacrime e volge lo sguardo altrove. Virgilio avrebbe voluto o rire a questi personaggi
un'ulteriore occasione di colloquio, ma al contempo la situazione appare ribaltata rispetto al
libro IV: nel secondo caso, Didone teneva la parola e parlava molto a lungo, una prima e ancora
una seconda volta, mentre la balbettante risposta di Enea è piuttosto breve mentre qui, le cose
funzionano al contrario, e allora Enea cerca di articolare ancora una volta una difesa, e la regina
tace e non solo, ma ri uta anche ogni forma di contatto visivo con Enea. L’indicazione per
cui avrebbe gli occhi ssi a terra rivela un ri uto della comunicazione: prima ancora del silenzio,
opposto da lei, è la stessa prossemica, la postura sica, a denunciare un ri uto della
comunicazione, e questo non è legato al fatto che Enea sia un vivo e Didone defunta, in quanto
Enea parla pure con altri defunti, ma Didone sceglie di non farlo.
L’immagine della roccia era stata usata da Didone con riferimento a Enea, per cui questo sarebbe
stato generato dalle rocce del Caucaso a causa della sua insensibilità e che viene ora applicata a
lei per sottolineare l’indi erenza e il ri uto del colloquio, del dialogo, da parte sua. Persino alcuni
tratti stilistici vengono ripresi dal quarto libro: “chi fuggi?”, che riprende “o forse è da me che tu
fuggi?”, il giro di frase e il verbo sono gli stessi. Soprattutto, Didone aveva lamentato il fatto che,
nonostante il carattere accorato della sua preghiera, Enea avesse dimostrato assoluta freddezza
non dando corso alle manifestazioni esteriori del suo disagio e della sua vergogna, lamentando il
fatto che queste manifestazioni non fossero date. Qua Didone non versa una lacrima quando
Enea piange copiosamente. Il motivo delle lacrime viene ricordato all’inizio: “non trattenne le
lacrime” e alla ne, di nuovo, “lei che va via con le lacrime segue”.
Forse in qualche modo Virgilio ha voluto dare una seconda possibilità ad Enea, ora che
l’irreparabile è avvenuto: non c’è più ragione di schiacciare l’angoscia sul fondo del cuore e può
dare sfogo a quelle emozioni, così come pure l’autore può permettersi di usare l’espressione
“dolce amore”, portando il lettore a proiettare questa anche sul libro precedente e ad immaginare
che questi sentimenti covassero nell’animo dell’eroe già da prima, ma che solo ora si potrebbe
permettersi di manifestare pienamente.
Didone si è ricongiunta a Sicheo, marito al quale fedeltà aveva tradito concedendosi ad Enea:
Virgilio dice una cosa che ha tutto il sapore di una presa di distanza rispetto ad Enea, ovvero che
“lo sposo di un tempo le sue attenzioni ricambia con identico amore”. Forse qua si cela
un’implicita contrapposizione con Enea e questo, tra Didone e Sicheo, amore paritario, livellato.
Si tratta di un amore perfettamente reciproco, il che implica che Sicheo abbia perdonato la sua
antica sposa, che sembra contrapporsi implicitamente: Didone si trova sicamente tra due uomini
e abbandona l’uno, senza rispondere all’altro, per rifugiarsi nelle sue braccia, di chi ricambia ed
eguaglia i suoi sentimenti.
Virgilio ora usa senza ambiguità la parola “amore” riguardo a Enea, che però si manifesta in
maniere diverse rispetto a quello di Didone, e poi il “casus iniquus”: Enea è percosso come da
una mazzata di clava, come una botta molto forte che potrebbe indicare anche la morte, in
quanto colpito dalla morte iniqua di Didone, quella di una persona ancora giovane, che va
contro le leggi della natura; ciononostante, “casus”, non signi ca solo “morte”, ma può anche
indicare le vicende imprevedibili e i percorsi stravaganti che prende la sorte dell’individuo,
e, più speci catamente, potrebbe indicare la sciagura. Enea dunque potrebbe esser stato colpito
dall’ingiusta sciagura capitata a Didone: “casus” non alluderebbe alla sua morte, ma piuttosto
all’evento, di per sé casuale e potrebbe far percepire in tutta questa vicenda una nota sbagliata;
Enea si rende conto che nella vicenda, arrivata al suo capolinea qualcosa stona e riuscirebbe ora
a guardare questa cosa si al passato, ma non potrebbe far a meno di avvertire che le cose non
siano andate come dovuto, e che in ciò che gli sia toccato attraversare non vi sia stata giustizia,
che i protagonisti di questa vicenda non abbiano avuto giustizia e che un tratto di questa non
si lascia assorbire dal passato. Dunque, Enea, non sembra essere conciliato e ancora una
volta, non alza le spalle ma deve andare avanti: è assolto, nella misura in cui analizziamo la
vicenda nei termini del diritto stretto, ma c’è una giustizia che non sta nei codici e non è scritta, il
livello dell’equità. C’è un residuo di dolore e so erenza che non si lascia assorbire, una ferita che
non si cicatrizza.

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Il mondo dell’aldilà è quello della giusta retribuzione, dove, chi ha violato le norme morali trova
il suo giusto corrispettivo, ma anche qua c’è qualcosa che non quadra.
Virgilio, da un lato, non vuole rinunciare alla garanzia della provvidenza e all’idea che il mondo sia
non abbandonato a sé stesso, ma accudito dalla presenza di una divinità e che vi sia un disegno
della storia, pur a maglie larghe e piuttosto strambo, ma non è che tutto appaia roseo e giusto. La
credenza nel disegno provvidenziale non mette tutto a posto: Enea crede profondamente nel
disegno provvidenziale, ma al contempo constata che questo non spieghi tutto, né metta tutto a
posto; resta un residuo, una quota, una parte di so erenza, un prezzo da pagare per realizzare i
progetti del fato, del quale non ci si sa dare spiegazione. Enea ha fatto ciò che doveva fare in
maniera convinta, altrimenti la sua pietas non avrebbe merito, ma questo non fa di lui un cinico
sacerdote del destino, in quanto non può fare a meno di notare come l’ordine del mondo sia
pieno di falle e buchi e vi siano eventi e fenomeni e una quota di so erenza e dolore ineliminabile
e ineliminata.

5.10 Eneide VI
Quando gli dei vogliono giurare in maniera incontrovertibile, lo fanno sullo Stige, uno dei quattro
umi infernali.
Enea si trova dinanzi al nocchiero Caronte e si è accorto che costui, alcuni morti li fa salire,
mentre altri li respinge lontano. Egli si riferisce alla vergine Sibilla e gli chiede come mai alcuni
sono ammessi al regno dei morti, mentre altri siano costretti a lasciarne le rive - siamo in un
evento analogo alla Commedia, con un visitatore accompagnato nella sua catabasi da una gura
autorevole -. Quelli che vengono respinti, ovvero gli insepolti, saranno costretti a vagare per
cento anni sull’orlo degli Inferi, esattamente come gli ignavi danteschi, spregiati da entrambi i
regni. In nessuna fonte pre-virgiliana nota si parla di questa regola, che potrebbe essere
un’innovazione del poeta, mentre è radicata l’idea che la sepoltura sia un passaggio
indispensabile purché il morto si avvii a un soggiorno nel mondo dei morti. Gli insepolti sono quelli
che gli studiosi chiamano i morti inquieti, i “restless dead”, gure che non appartengono più al
mondo dei vivi, ma nemmeno totalmente a quello dei morti, e che pertanto si trovano in una sorta
di limbo che gli permette di manifestarsi nel primo di questi due mondi. Nel diritto greco e
romano, il diritto della non-sepoltura poteva costituire una pena aggiuntiva: i morti per
impiccagione infatti, nel diritto romano, non avevano diritto di sepoltura. La mancanza di questa
potrebbe addirittura essere considerata una punizione, e quando Penelope nell’Odissea, ad
esempio, ri ette sul fatto che quasi certamente Ulisse è morto, non si limita a dire che certamente
non tornerà più, ma che probabilmente questa morte è avvenuta in mare e dunque gli avrebbe
precluso la sepoltura. Se questa sarebbe un’invenzione di Virgilio, gli insepolti sarebbero
caratterizzati da una condizione di morte intermedia, che gli rende morti imperfetti, persone non
compiutamente morte.
Nella reazione di Enea, dopo che gli viene spiegato cosa gli si trova dinnanzi, rintracciamo una
forte carica emotiva. La sorte per i morti sarebbe ineguale, come riferisce la spiegazione
asettica della Sibilla, ma questo non giusti cherebbe l’indugio pensoso di Enea: forse alluderebbe
al fatto che l’insepolto non sceglie di essere tale, ma ciò avverrebbe per via involontaria. Agli
occhi di Enea pare incomprensibile che qualcuno venga sanzionato per qualcosa che non ha
cercato e non ha voluto: gli insepolti subiscono un aggravamento della loro condizione, come se
ci fosse un surplus di dolore e pena, che però non appare giusti cato da una qualche colpa della
quale si sono macchiati. C’è un ordine nel mondo, e pure nel mondo dei morti, che è per
eccellenza il luogo dell’ordine, in cui tutto va al suo posto e al contempo vi è una norma precisa
circa la condizione degli insepolti: Enea non si sa dare conto però che questa legge sia tale in
quanto iniqua, non equa, perché imputata una pena supplementare a qualcuno che tale pena non
ha cercato sulla base della propria responsabilità.
Enea è colui che si fa carico, no in fondo, del progetto, del piano di cui è esecutore, ma di cui si
rende conto quale ordine provvidenziale e dunque retributivo sia un sistema di falle,
manifestazioni che non si riesce a far rientrare in questa visione del mondo.

In entrambi i passi c’è un’analoga reazione di Enea: quando si sta muovendo in un tragitto ma
si ferma, ha un momento di indugio. Nel primo caso perché si ferma a guardare Didone
raggiungere Sicheo nei Campi del Pianto, mentre nel secondo caso, dinanzi ad Anchise. Viene
colpito da qualcosa che Virgilio de nisce “iniqus”, ingiusto.

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Iniquo e ingiusto non sono propriamente sinonimi: il secondo è ingiusto dal punto di vista della
legge, della ius, della norma, mentre il primo, in punta di diritto, può essere anche corretto, ma il
diritto e la legge, la giustizia, non esauriscono il campo, c’è spazio per dimensioni come l’equo.
L’equo è qualcosa che obbedisce ai criteri di ciò che appare moralmente corretto e ben
fatto ed è a questo secondo livello che si riferiscono le osservazioni di Virgilio: sono pensieri che
Enea non verbalizza e dunque qua ci troviamo dinanzi a un’ulteriore occasione in cui Virgilio ci dà
la possibilità di sbirciare nell’interiorità del personaggio. Enea non commenta né dice nulla,
nonostante potrebbe, ma si limita a svolgere questa funzione: la sua anima è una stanza dell’eco
in cui si ri ette ciò che accade all’esterno, nonostante non manifesti le sue impressioni.
Gli insepolti ricadono nella sfera dell’iniquo in quanto sono le circostanze della loro morte e non la
loro volontà stessa ad averli condannati a questa condizione, ma la norma, la legge, vuole così,
pur non rispettando la questione dell’equità e appellandosi solamente alla giustizia formale.
Questa condizione crea un disagio dinanzi all’ordine del mondo, universalmente garantito e che
dovrebbe essere dunque sempre giusto, ma che sembra non corrispondere a criteri no in fondo
comprensibili, e questo crea per il protagonista un profondo disagio. Virgilio non risolve questa
situazione né alla maniera degli epicurei, secondo cui gli dei non si curano delle vicende umane,
sulla base del fatto che il mondo non si articola su un principio retributivo — da cui si
articolerebbe la non-provvidenzialità — né si appella alla Pangloss secondo cui questo sarebbe il
mondo migliore di quelli possibili: Virgilio si colloca nel mezzo, accetta il fato, ma al contempo
non lo comprende né cerca di giusti carlo no in fondo.

Enea giunge nalmente nella regione dei Campi Elisi, dove si svolge l’incontro con Anchise e si
realizza la scena del mancato abbraccio, ripreso da Omero e poi in seguito da Dante. Dopodiché
si rende conto che non è solo, ma che anzi, accanto a lui, c’è una lunga la, una parata o
processione di gure molto lunga, e chiede al padre chi siano questi, dunque li passa in rassegna:
sono anime in attesa di incarnarsi, delle virtualità o potenzialità che diventeranno i futuri grandi
protagonisti della storia di Roma.
Virgilio, attraverso questo stratagemma, riesce a convocare all’interno dell’orizzonte del proprio
poema anche la futura storia di Roma, che non avrebbe dovuto, in quanto riguardante la storia
futura, ma questo è uno dei due modi tramite cui cui il poeta preannuncia gli eventi futuri.

5.10 Eneide
La Sibilla rimane de lata, parla Anchise, ma tornerà ad avere ruolo attivo quando condurrà Enea
al di fuori del regno dei morti per riaccompagnarlo alla propria otta.
Viene dato per scontato che i discendenti che fonderanno la storia di Roma provengano da
Ascanio, anche chiamato “Iulo”: ciononostante, Enea ebbe un glio da una principessa del
Lazio, Lavinia e qua si apre uno dei problemi, una delle questioni storiche che dilaniano l’Eneide.
I “garamanti” e gli “indi” sono, i secondi, provenienti da una regione con cui i greci entrarono in
contatto grazie all’opera di Alessandro Magno, che occupò parte della suddetta, e
rappresenterebbero l’estremo oriente dei romani, nonostante sappiano che si stagli un popolo al
di là di questo luogo, ma l’India è l’ultimo paese orientale del quale questi hanno un’idea precisa,
e che non sia solo racconti o leggende, ma di cui hanno esperienza diretta; i primi invece, sono
una popolazione della regione meridionale della Libia attuale, una popolazione nord-africana delle
località interne, prima della fascia del Sahara.
Il “celifero Atlante” è una divinità della seconda generazione che si diceva reggesse sulle spalle il
mondo, da cui l’epiteto “celifero”. Il “settemplice Nilo” è il Nilo dalle sette bocche: nei tempi
antichi il delta del Nilo era disegnato con sette foci, e si trova spesso quest’attributo nei poeti
antichi, anche Catullo nel Carme 11 parlò del “Nilo dalle sette foci gemelle”. La “terra meozia”
indicherebbe per via generica la regione degli stretti tra il Mediterraneo e il Mar Nero.

Siamo dinanzi a un elemento di chiara poesia cortigiana: Virgilio è anche un poeta cortigiano e di
questo non c’è dubbio, l’Eneide doveva servire pure all’esaltazione del principe. Augusto viene
descritto in termini che potrebbero apparire contraddittori ma che sono compresenti: un
grande conquistatore, qualcuno destinato a portare i con ni dell’impero no a farli coincidere con
quelli delle terre conosciute, dire che l’impero si estenderà no ai garamanti e agli indi vuol dire
che raggiungerà i due con ni nel mondo conosciuto.
Si spiega facilmente perché la cultura romana sia bellicosa: nessun grande protagonista della
storia romana è impossibile che non sia anche un grande conquistatore. In realtà Augusto non

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condusse mai campagne militari, ma il fatto che così venga descritto ci fa capire che egli voleva
essere riportato come tale e che Virgilio lo abbia semplicemente assecondato.
C’è anche l’elemento della “imitatio Alexandri”: la vicenda di Alessandro Magno divenne
paradigmatica in quanto in dieci anni, partendo dal minuscolo regno macedone, sarebbe riuscito
a possedere un territorio che andava dall’Egitto no all’India, abbattendo il secolare Impero
persiano, pur morendo giovane; questo è un tratto di una ra gurazione nei termini di un novello
Alessandro Magno ma è anche un motivo che durò molto a lungo; l’idea che fosse un modello a
cui i conquistatori si dovessero rifare rimase nei secoli successivi e questo ci fa intuire che Virgilio
si appelli a questo motivo.
Egli dice che Augusto riporterà nel Lazio l’età dell’oro, realizzata sotto il regno di Saturno. Virgilio
sembra distinguere quelle che sono una rinnovata età di prosperità, interna all’impero, e
un’aggressiva politica di conquista verso chi si trova al di fuori, ma c’è anche una ragione ben
più sostanziale per cui questi due elementi si conciliano e si lega all’idea romana di pace: la pace
è naturalmente l’opposto della guerra ma la condizione per cui si abbia questa, per cui si
possa realizzare è l’avvenuto assoggettamento dei nemici. La pace si può fare solo se Roma
ha imposto il suo ordine sul mondo. Questa, la pace, diceva Augusto nella sua autobiogra a, è
“ glia della vittoria”: non nasce dal rinunciare alla guerra, ma nché ci sarà qualcuno al di fuori
dei con ni, allora la pace non c’è o se c’è è precaria, provvisoria e può essere facilmente
smantellata. Si comprende che il ritorno dell’età dell’oro e l’estensione dei con ni dell’impero non
sono elementi contraddittori: la pace avverrà solo con l’avveramento della conquista e la guerra è
allora la condizione per arrivare all’età dell’oro. È chiaro che Virgilio stia baipassando le
Georgiche per passare alle Bucoliche: non c’è l’idea dell’età dell’oro come condizione negativa
in quanto sedativo e narcosi generalizzata delle intelligenze, ma siamo tornati qua a una visione,
quella della Bucolica IV, pur con un aggiornamento in quanto, se un poeta che aveva massimo
referente e patrono in Asinio Pollione, con cui si gurava l’età dell’oro, il portatore dell’età
dell’oro è ora Augusto attraverso un lungo giro con cui Virgilio si ricollega alle proprie matrici in
una situazione politica mutata. A vent’anni dalla quarta Bucolica il quadro politico è cambiato e se
Roma continua ad essere, formalmente, una repubblica con dei consoli, è in realtà ormai un
regime.
In questo testo dunque, viene rappresentato Augusto: è un elemento cortigiano, di cui è
rappresentazione l’Eneide in sé, seppur questo elemento rimanga di contorno rispetto alla storia
centrale. L’imperatore, riprendendo il modello di Alessandro Magno, viene pre gurato come un
grande conquistatore e si dice di questo che sarà capace di riportare l’età dell’oro nel Lazio.
Seppur i due elementi appaiono in contraddizione (la pace, che conseguirebbe con l’età dell’oro e
la conquista), in realtà sono profondamente legati nell’ottica tipicamente romana: la pace è glia
della vittoria e potrebbe nascere solo dal compiuto assoggettamento di tutti i popoli a Roma. Può
sì esistere una fase di assenza di con itto ma sarebbe solo temporanea e non un bene stabile.

5.11 Eneide
“Altri abbiano l’eccellenza nelle arti e nelle attività intellettuali, ma noi abbiamo il compito speci co
di governare il mondo” dice Anchise con riferimento ai greci.

“Altri scolpiranno pure, con maggiore arte, bronzi che respirano (dunque sculture in bronzo tanto
realistiche sembrano vive) - lo credo certamente (ne sono sicuro) -, trarranno dal marmo volti vivi,
sapranno parlare meglio in occasione di una causa (in senso giuridico e non loso co),
descriveranno con un bastoncino i movimenti del cielo, diranno le stelle sorgenti (che spuntano
ovvero, consoceranno i tempi del sorgere delle stelle, saranno in grado di stabilire i movimenti
delle stelle dal momento in cui sorgono all’orizzonte a quando sono visibili in cielo), tu romano,
ricorda (ora e in futuro, viene usato in questo caso l’imperativo futuro, perso in italiano) di
governare i popoli con il tuo potere/con il tuo impero, queste per te saranno le arti (questo sarà il
campo nel quale la tua vocazione e la tua identità si realizzerà), e di stabilire una regola alla pace,
risparmiare coloro che si sottomettono e stroncare i superbi (si potrebbe usare “debellare” in
italiano ma non rende il vero e proprio termine latino che signi ca voler impedire che qualcuno
possa fare la guerra).”

È sempre Anchise quello che parla e che illustra la parata degli eroi romani. Proprio verso la ne di
questa lunga sezione avviene un cambio di passo, un mutamento di prospettiva: come se si
rivolgesse a tutti i romani del tempo a venire, Anchise pronuncia i seguenti versi.

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La cultura romana ha sempre avuto rapporti con quella greca, la conquista militare della
Grecia e il rapporto diretto con il mondo greco è un fatto solo tardivo ma i romani non dovettero
aspettare di conquistare la Grecia continentale per intrattenere un rapporto con la sua
cultura, fatto ben più anteriore. Questo si ha già in età arcaica grazie ai rapporti con
quell’appendice del mondo greco: la Magna Grecia. Tutta la letteratura latina nasce come una
costola della letteratura greca. La letteratura latina ha una data di nascita precisa: il 240 a. c.,
anno in cui venne messa in scena un’opera teatrale, che non sappiamo se si trattasse di una
commedia o di una tragedia, regolare, e dunque con un copione scritto e non fondato su un
mero canovaccio. L’autore di quest’opera fu dunque il primo autore della letteratura latina ed era
Livio Andronico che veniva da Taranto, una città conquistata dai romani qualche decennio prima
e infatti, il suo nome, che prima era semplicemente Andronico, dal momento in cui andò a far
parte della gens Livia, allora a ancò al suo proprio il gentilizio della famiglia di cui era stato fatto
schiavo e poi liberato. Questo fu anche colui che tradusse per primo dal greco al latino l’Odissea
di Omero e anche l’opera che mise in scena, era la traduzione di un’opera teatrale greca, come lo
saranno tutte le commedie e tragedie messe in scena dai romani: Plauto, il più grande genio
comico della letteratura latina, di cui ci sono giunte ventuno commedie, non ha mai partorito in
maniera esclusiva queste opere ma erano traduzioni con modi che e rimaneggiamenti delle
commedie greche, tant’è che sono sempre ambientate in Grecia, i personaggi hanno nomi greci e
hanno abiti di scena greci. La prima opera storiogra ca latina, gli Annali di Quinto Fabio, storico e
pittore, sono scritti in greco: bisognerà aspettare un secolo con Catone per la prima opera
storiogra ca in latino e oltretutto, questi latini scrivevano in greco le storiogra e per far conoscere
le proprie opere su un piano più esteso rispetto al latino, ovunque nel Mediterraneo le élite
parlavano greco. La cultura romana ha sempre avuto una stretta relazione con quella greca e i
romani sono sempre stati consapevoli di quanto fosse ingombrante il loro “vicino”, la Grecia, sia
dal punto di vista dell’antichità: la letteratura greca nasce nell’VIII secolo a. c., quando furono
messe per iscritto Iliade e Odissea, e quando i romani fondarono la loro letteratura, quella greca
c’era già stata, la grande stagione della letteratura greca era già lì, e i greci avevano già
accumulato un patrimonio di cultura, ri essioni, pensieri enorme e prestigioso anzi, possiamo dire
che quando i romani iniziarono la loro letteratura, i greci erano ormai in una fase di decadenza, e
che il meglio era ormai già stato prodotto e i primi attinsero, sfruttarono questa tradizione, si
innesteranno nel tronco di una tradizione culturale ben più ricca della loro, almeno per lungo
tempo, e tutti i grandi generi letterari, fatta eccezione per la satira, erano gemmazione della
letteratura greca: anche nel poema epico di Virgilio si riconoscono profondi echi greci e omerici;
questa consapevolezza dei romani, di essersi seduti sulla scena della letteratura dopo che i primi
posti erano stati già occupati da un pezzo dai greci, generò in questi un atteggiamento
ambivalente: il contatto con la cultura greca aveva svecchiato e reso meno provinciale la
cultura romana per inserirla in uno spazio di circolazione culturale molto più ampio - la cultura
greca aveva fatto fare un salto di qualità alla cultura romana e questo viene detto in un verso
celeberrimo da Orazio, “la Grecia conquistata conquistò il rozzo vincitore” - dunque se dal punto
di vista militare i romani erano i conquistatori, stessa cosa non furono dal punto di vista culturale,
così parte della cultura latina valutava positivamente questo contatto con il mondo greco;
ciononostante, guardava in maniera sprezzante sempre a questa per la sua parte maggiore: i greci
erano “buoni solo nella teoria”, “parolai” che creato grandi sistemi loso ci ma venivano
considerati eticamente ina dabili e inconsistenti. Plauto, autore e traduttore, perfetto
conoscitore del greco e della letteratura teatrale greca, fa ricorrere proprio nella sua satira lo
schernire della popolazione greca e i loso stessi, inventandosi anche verbi che giocano con la
parola “greco” intendendo la sgretolata esistenza di questi, facendo intendere il disprezzo verso
questa popolazione, scontrandosi dunque e anche con la loro riconosciuta grandezza e svelando
l’altra faccia. Cicerone, ad esempio, si compiaceva di menzionare parole latine che non avevano
un corrispondente in greco e questo nasceva dallo scopo puristico di voler denigrare il
vocabolario greco. Forse anche il fatto di pensarsi come discendenti di un troiano giusti ca sia
l’astio verso la popolazione greca che la volontà di creare maggiori distanze da questa cultura
ingombrante e totalizzante.
Virgilio conosce la cultura greca e anche le Bucoliche non sarebbero potute nascere senza il
patrimonio di Teocrito: sono ricolme di riferimenti al suddetto poeta, e così vale pure per le
Georgiche rispetto a Esiodo e l’Eneide rispetto a Omero. Qui, sembra che, in qualche modo,
questa secolare disputa tra cultura greca e romana approdi a una forma di consensuale
ripartizione dei compiti, come se si dicesse che sarebbe meglio smettere di combattersi l’un
l’altro: sarebbe inutile voler competere con i greci nell’arte, nella scrittura, ma i romani, dice
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Anchise, si troverebbero lì per fare altro e dunque Virgilio non rinuncia a riprendere un tema che
nasce con la nascita stessa della cultura romana ovvero, come porsi rispetto alla cultura greca.
Virgilio non rinuncia a dire la sua circa questa questione che travaglia da secoli la cultura romana
ma non assume né la posizione di Orazio né quella di Cicerone o Plauto: egli sceglie il
compromesso, secondo cui c’è spazio per entrambi al mondo in quanto bravi a fare cose diverse
e pertanto dà spazio alla cultura greca come alle qualità romane.
“Artes” signi ca propriamente tecnica più che arte: anche la capacità di dominare è un’arte; viene
poi detto, proseguendo, che la regola della pace debba essere imposta: l’idea che questa debba
essere qualcosa da imporre e che senza la vittoria di Roma, questa non possa esserci, è tipico
della mentalità romana. “Risparmiare coloro che si sottomettono e stroncare i superbi”: i
primi, i sottomessi, sono quelli che si riconoscono in una posizione subordinata, i subiecti, che si
contrappongono ai superbi - sono parole composte da due su ssi latini che signi cano “sotto” e
“sopra” -; costoro, i primi, possono essere risparmiati nella misura in cui hanno accettato di far
parte dell’ordine romano in gura di sottomessi, ma il superbo invece, oltre ad essere uno dei
sette peccati capitali e il peccato dei progenitori, è anche l’epiteto del re Tarquinio: è
l’atteggiamento di chi non accetta il negoziato ponendosi al di sopra, l’esatto contrario dei
subiecti, quelli che pretendono abusivamente di stare sopra, di ri utare di prendere il loro posto
nel mondo, ostinandosi a difendere una posizione non accettabile. Ecco che, nei confronti di
questi, non è possibile alcun comportamento se non “stroncarli”, un verbo forte in latino che vuole
intendere il costringere qualcuno a fare la guerra. La tecnica dell’impero si modella sulla base del
comportamento dell’avversario, non è monolitico, dipende dall’atteggiamento della controparte.

Nel momento in cui tutto questo viene detto da Anchise nel mondo dei morti, nel momento in cui
si iscrive questo piccolo vademecum su cosa vorrà dire essere romani, tutto questo ha il
signi cato che il destino non è il frutto di una scelta umana, di una decisione umana, di una
serie di circostanze casuali che hanno fatto sì che i romani costruissero un impero, ma tale
sarebbe il prodotto di un destino che è stato già scritto prima ancora che il primo romano venisse
al mondo, è un destino da sempre progettato per i romani quando ancora non è stata fondata la
città. La storia del popolo è già stata scritta e se questo è vero, ne consegue che colui che si
ribella all’ordine romano e che vi si oppone, il superbo, non è solo qualcuno che si oppone a
un avversario ma che si oppone al destino e alla volontà divina e dunque anche empio, in
quanto nel suo ri utare la sottomissione a Roma ri uta anche un compito, un mandato a dato ai
romani dall’origine del mondo. L’immagine che emerge dai testi è un’immagine di Roma, di un
disegno di cui Anchise si fa portavoce, tant’è che mostra ad Enea i suoi discendenti, come
Augusto, destinato a portare nel Lazio l’età dell’oro.
Il fato ha assegnato questo destino a Roma e se questa conquista il mondo non è perché è
capitato o perché i romani siano stati più forti degli altri, ma tutto questo realizza un piano, una
missione che ai romani è stata a data sulla base di un programma scritto con larghissimo
anticipo, ancor prima che il primo romano calchi la super cie del mondo, questo progetto è lì ed è
in attesa di realizzarsi: il programma si compirà con l’opera di Augusto che estenderà i con ni di
Roma ai limiti del mondo conosciuto e perciò è ancora più condannabile la gura del superbo,
non solo come uno che si contrappone ai romani ma che inoltre, sembra disconoscere il compito
impartito dal fato a questi e che è dunque un empio, qualcuno che prende una posizione che va
contro la volontà divina.

Virgilio racconta di come Enea esce dall’Averno e raggiunge la otta: i Troiani si rimettono in
mare e sbarcano non lontano dalle foci del Tevere, appena a sud di queste, dove stabiliscono
una prima testa di ponte, un primo accampamento. Quel territorio è sotto la giurisdizione del
re Latino e che governa su un popolo che in punti diversi dell’Eneide viene chiamato Latini o
Laurenti: questo re ha una moglie, Amata, e una glia, Lavinia, la futura moglie destinata a
Enea. Ella è un personaggio interessante nella misura in cui Virgilio sembra costruirla secondo
un principio esattamente contrario a Didone: in tutta la seconda metà dell’Eneide ella non
pronuncia alcuna parola, né in discorso diretto né indiretto, è una donna che piange, arrossisce,
si dispera e le vengono attribuite una serie di azioni che lasciano intravedere i suoi sentimenti
ma non le viene mai data veramente parola, e questo marca una di erenza sostanziale rispetto
a Didone, che invece ha pieno diritto di parola e quando non parla, è perché ella stessa decide di
non farlo e non perché gli viene negato dal narratore.
Qua si pone un problema signi cativo: è stata promessa sposa a Turno, principe locale, il
signore di un piccolo popolo stanziato a sud della futura Roma, quello dei Rutuli, con capitale
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Ardea. Egli è nipote della regina Amata, in quanto glio di una sua sorella: i professori della
scuola tardoantica come Servio ci fanno sapere che fosse Venilia, ma Virgilio mai le dà nome.
Turno e Lavinia sono cugini di primo grado e destinati, ma gli oracoli fanno sapere a Latino
che in realtà per Lavinia è destinato un genero venuto da lontano: gli dei non vogliono che si
compia questo matrimonio e quando arriva a Latino la notizia che un gruppo di Troiani è sbarcato
lì vicino sa benissimo che l’oracolo si sta per compiere e che il genero profetizzato è il leader del
gruppo, Enea.
Rispetto a questo snodo del mito ci sono due varianti: una paci sta, presente in Livio, storico
contemporaneo di Virgilio e parte della corte ruotante attorno a Mecenate e Augusto, secondo cui
Latino scende in campo con un esercito percependo i Troiani come invasori e con l’idea di
respingerli, ma prima ancora che la battaglia abbia inizio i due leader si presentano
reciprocamente e decidono di accordarsi, piuttosto che combattersi, e per sancire quest’alleanza,
Latino concede a Enea la glia Lavinia in sposa (in questa opzione non c’è Turno e la guerra non
diventa mai un dato reale); Virgilio però accoglie un’altra variante che vuole una lunga guerra
che dipende, come sempre nella poesia epica, da due ordini di fattori, uno umano e uno divino:
Turno non è a atto disposto a rinunciare a Lavinia per fare spazio a Enea - “ho anch’io i miei fati”
- e oppone la propria volontà a quella divina e dunque, si combatte una guerra intorno alla mano
di Lavinia, che è anche un’opposizione tra matrimonio endogamico ed esogamico, che si
realizza nella sfera parentale o con qualcuno di “altro” - alla ne dirà “è tua, Lavinia”, mentre la
regina Amata aveva sua volta aveva sospinto verso questa unione, dipingendo Enea alla stregua
di un nuovo Paride e dunque avversandolo - ma inoltre, Giunone si è rassegnata che i Troiani
siano arrivati in Italia, ma farà in modo che questo matrimonio costi “lacrime e sangue” e
dunque opera attivamente a nché l’iniziale accoglienza da parte di Latino scaturisca in una
guerra a causa di un incidente diplomatico. Enea in qualche modo, suo malgrado, è costretto a
riprendere in mano le armi che aveva abbandonato dopo l’ultima notte di Troia per scendere
di nuovo sul campo di battaglia e tutta la seconda parte è “iliadica”, mentre la prima viene
detta “odissiaca”, analogamente ad Omero. Si tratta di una guerra dalla quale Latino si de la,
preso tra due fuochi: da un lato il volere divino e dall’altro, le pressioni della moglie e del genero
Turno, dimostrandosi un debole incapace di gestire la situazione, mentre Turno prende le redini
del con itto. In tutto questo, cosa pensasse Lavinia non c’è dato saperlo, in quanto Virgilio non le
dà parola e la donna alla quale era stato promesso un matrimonio si trova essere ora la posta in
gioco di una sanguinosa guerra.

Nell’ottavo libro dell’Eneide la guerra è già scoppiata e si sono de nite le alleanze: i Latini hanno
trovato appoggio in un tiranno etrusco, Mezenzio, mentre Enea ha cercato e ottenuto l’alleanza
di un gruppo di esuli dall’Arcadia che sotto la guida di Evandro si sono stanziati nel luogo dove
sorgerà Roma. Evandro è un re anziano e sarà allora il suo giovane glio, Pallante, a guidare le
truppe messe a disposizione.
Sempre nell’ottavo libro, dove Enea chiede a Evandro la concessione di un contingente, è
presente un’eccitante ripresa del modello omerico da parte di Virgilio: nell’Iliade, dal momento in
cui Achille si ri uta di scendere in campo, il suo amico Patroclo decide di indossare le sue armi -
facendo credere ai Troiani che Achille sia tornato in guerra, ma viene ucciso da Ettore, che
assume le sue spoglie - allora Omero immagina che intervenire la madre di Achille, l’oceanina
Teti, per chiede a Efesto di fabbricare nuove armi, uno scudo e un’armatura che poi recherà
al glio; questo motivo viene recuperato in forma integrale da Virgilio, il quale immagina Venere
far forgiare nuove armi per il glio dal medesimo - avvantaggiata, in quanto il dio Vulcano
sarebbe addirittura suo marito a di erenza di Teti, che deve pregarlo di questo favore -. Quella
messa in campo qua da Venere è una vera e propria scena di seduzione, cosa unica lungo tutto il
poema virgiliano.
Una sezione signi cativa è dedicata alla descrizione dello scudo, esattamente com’era stato nel
caso dello scudo di Achille: non è semplicemente una super cie convessa, ma il dio, artigiano di
straordinaria bravura, lo avrebbe decorato con delle scene particolari; se nel caso di Achille sono
generiche immagini di una generica città, senza alcun particolare nesso col poema, Virgilio
riprende il medesimo motivo della descrizione delle immagini a sbalzo, ma queste sarebbero una
sorta di prosecuzione del libro VI, e dunque vengono rappresentate gure della storia romana tra
dannati e beati, come Catilina, protagonista di una famosa congiura o tentativo di colpo di Stato
quarant’anni prima, stroncata da Cicerone, mentre al centro esatto, in corrispondenza del punto
centrale, compare la scena seguente (5.12, Virgilio). Questo scudo è un altro stratagemma con

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cui Virgilio narra la futura storia romana: egli ha bisogno di strumenti che gli consentano di
parlare della storia romana: alla ne dell’ottavo libro, dice che Enea ammira queste scene e si
carica sulle spalle il destino dei suoi discendenti senza saper bene, senza comprendere, e che
dunque appare come strettamente funzionale al lettore, non vi è alcuna didascalia umana che
spieghi a lui cosa vi sia rappresentato ma il lettore può ben riuscire a comprenderlo.

5.12 Eneide
Viene raccontata, a partire dallo scudo, la battaglia di Azio: questo è l’evento conclusivo di
una lunga rivalità interna al triumvirato tra Ottaviano, Antonio e Lepido, quest’ultimo presto
marginalizzato, uno scontro che presto si polarizza tra i primi due e che diventa anche uno
scontro tra oriente e occidente. Dopo l’Accordo di Brindisi si era convenuti alla spartizione del
regno romano e se Antonio si reca ad Alessandria d’Egitto, in un regno ancora indipendente,
legandosi alla regina Cleopatra, ultima rappresentante dei Tolomei, che cerca disperatamente di
mantenere l’indipendenza del suo regno attraverso una relazione diplomatica con i Romani. Viene
combattuta questa guerra sulla costa promontoriale dell’Adriatico: la otta di Ottaviano è guidata
da un collaboratore, Agrippa, mentre Antonio è in questo momento schierato con Cleopatra, “la
regina” che incita le otte con il “sistro”, uno strumento musicale, una sorta di equivalente della
tromba di guerra. Ella è la “coniuge egizia”, espressione fortemente sarcastica nella misura in cui
questo matrimonio risultava ttizio e privo di valore dal punto di vista del diritto romano, in quanto
questa non aveva il diritto di sposare un cittadino romano; lo scherno verso questa emerge anche
nella misura in cui l’autore non ne fa mai il nome: si tratterebbe di una forma di damnatio
memoriae. Al di là della caratterizzazione negativa di Cleopatra, donna che ha preteso di guidare
le schiere dei nemici di Ottaviano e che avrebbe fatto assumere a questa guerra anche una
sfumatura di genere, qui si ritrova un motivo di lunghissima fortuna nella storia dell’immagine
occidentale, ovvero quello della battaglia tra oriente e occidente, l’idea dello scontro tra civiltà.
Il tema dello scontro tra occidente, sano e “dritto”, e oriente, debosciato, attraversa tutta la storia
e la storia culturale a onda le proprie radici nel mondo antico per giungere no ai tempi
contemporanei2. La formula “coi senatori e il popolo” non lascia residui al di fuori di sé, è un
diretto riferimento alla “senatus populusque” e altro non sarebbe che un ulteriore tentativo del
progetto di Ottaviano di occultare la matrice civile della battaglia di Azio, a tutti gli e etti una
guerra civile.
Ovviamente, a anco al senato e al popolo ci sono i penati, gli dei protettori della casa e della
città, proprio il loro nome deriverebbe dalla parola latina “penus” che signi ca “dispensa”, ma ci
sono anche gli dei familiari che fanno capo a Giulio Cesare, il quale venne divinizzato dopo la sua
morte su iniziativa di Ottaviano, cosa che ebbe la fortuna con la coincidenza dell’apparizione di
una cometa sul cielo di Roma; questa era la “stella Iulia” e di lì in poi Cesare venne rappresentato
con una stella sulla testa. I Latini usavano due termini: “deus”, che indicava propriamente il dio, e
“divus”, che indica invece la divinizzazione di un uomo mortale. Gli dei della città, i penati,
sarebbero quelli che lo stesso Enea avrebbe portato da Troia. Tra questi dei ci sono anche
Nettuno, signore dei mari, Venere, progenitrice dei Romani, Minerva, Marte, le Dire, controparte
delle Furie, e poi la personi cazione della discordia, forse unico riferimento alla condizione di
guerra civile, rappresentata con una veste stracciata in quanto metafora dello strazio subito al
corpo sociale su cui si avventa questa sventura, poi Bellona e soprattutto Apollo, divinità
destinata a occupare un ruolo centrale nella teologia politica di Augusto che nel suo racconto
della battaglia di Azio presenterà Apollo come il dio che ha attivamente contribuito ad assicurare
la vittoria di Ottaviano contro Antonio: tant’è vero questo che subito dopo Azio Ottaviano iniziò la
costruzione di un tempio sul Palatino, il tempio di Apollo Palatino, e la residenza di Ottaviano era
contigua con questo tempio. Apollo è il dio dell’ordine e dell’armonia, il dio della luce,
eternamente giovane, con una serie di connotazioni che lo rendono particolarmente adatto a
esprimere i valori e motivi propagandistici che Ottaviano voleva legare alla sua vittoria, che
avrebbe portato l’ordine a prevalere sul disordine e in ogni ra gurazione della battaglia di Azio
viene rappresentato scagliando i suoi dardi. Egli combatte attivamente per la parte di Ottaviano.
Gli dei dall’altro lato, sono mostruosi: con la parte di Antonio, lo zoomor smo della tradizione
religiosa egizia fa gioco alla rappresentazione umoristica e degradante di questa. Questo ibrido,
quelle gure ibride, in parte uomini e in parte animali, suggeriscono l’idea del mostruoso. Lo
scontro di civiltà si consuma a livello umano, da una parte il senato e il popolo, tutti i Romani, e
dall’altro le forze barbare d’oriente, quelle della “Battra”, dell’oriente più estremo (corrispondeva

2 E. Said, Orientalism.
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con le zone del Pakistan). Gli dei luminosi della tradizione romana si scontrano con quelli
mostruosi e ibridi che combattono con Antonio e Cleopatra. Tant’è vero che quando Apollo si
manifesta all’intero Egitto, gli Arabi, i Sabei (abitanti del sud della penisola Arabica) gli voltano le
spalle.
Nel testo Virgilio si confronta con il mito di fondazione del principato augusteo, che avviò il
lungo percorso che porterà nel corso e nel proseguio del tempo, alla monarchia, al potere
monarchico di Ottaviano ed ecco perché tutti i poeti augustei tornano su quest’episodio: questo
chiude una storia e ne inizia un’altra. Quando ne scrive saranno passati circa dieci anni ma è già
diventato un evento mitico, uno scontro tra ordine e disordine, occidente e oriente, Romani e
barbari, una delle tappe del confronto tra civiltà incompatibili tra di loro, duro a morire nella nostra
tradizione.

Lavinia era la glia del re Latino e della regina Amata, appartenenti a un popolo che abitava la
città di Laurento e il popolo chiamato dei latini o dei laurenti: Virgilio avrebbe sanato il dubbio
circa la questione dei due etnonomi, se solo avesse avuto tempo, in quanto si de niscono latini il
popolo che derivò dall’unione tra troiani e laurenti. Lavinia è una giovane vergine in età da marito
promessa a Turno, principe di un popolo con nante, quello dei Rutuli con capitale Ardea. Turno è
glio di una sorella della regina Amata e dunque lui e Lavinia sono cugini. Qualcuno ha visto
nell’insistenza di Amata una sorta di represso desiderio incestuoso. Il loro è un matrimonio intra-
familiare e questo non è un dato irrilevante: nella tradizione romana infatti, il matrimonio tra
cugini era tra quelli non consentiti e in merito ricorre un patrimonio di racconti, leggende e miti
dall’esito infausto. Un caso canonico si ambienta all’epoca del terzo re di Roma, Tullio Ostilio,
quando si tenne una sorta di guerra civile tra Roma e Albalonga - Romolo e Remo stessi
discendevano dalla stirpe dei re di Albalonga, una sorta di madrepatria da cui sarebbe derivata la
colonia romana -: il caso volle che da questo scontro si ricavasse l’incontro tra due coppie da tre
gemelli, i Curazi, da Albalonga, e gli Orazi, romani e, se i primi tre morirono, dei secondi, solo uno
fece ritorno a Roma allora, a sorella di questi, Orazia, non si recò a festa per la vittoria romana,
ma rimase in lacrime, in quanto danzata con uno dei morti, e allora il fratello la tra sse con la
spada -“Così muore qualsiasi romana osi piangere per il nemico”-; si tratta di un racconto
eziologico in cui questi Orazi e Curazi non erano solo due coppie di gemelli, ma tra di loro cugini:
da qua si intuisce una seconda questione che si riallaccia a Lavinia e Turno, ovvero la storia di un
matrimonio impossibile. I racconti eziologici insinuano regole negative, quelle del “non fare”:
non si piangono i nemici né ci si sposerebbe tra cugini nell’Antica Roma. Anche quando
l’imperatore Claudio sposò la cugina Agrippina, questa lo avvelenò con un fungo e portò al potere
Nerone, glio del suo primo matrimonio. Torna in quest’occasione e in altri momenti parte di quel
grande corpus di miti romani circa la storia delle origini della città, che formano un grande insieme
in cui alcuni motivi si ripetono con regolarità, e questo sarebbe proprio uno di quelli.
I troiani arrivati nel Lazio erano tutti maschi ma non perché da Troia partirono solo uomini,
ma perché le donne, arrivate in Sicilia, decisero di fermarsi lì e di lì mettere le loro radici. Enea,
suscitato in sonno da Anchise, segue il consiglio del padre e riparte con la sua scorta di uomini
alla volta del Lazio e insieme a questo dunque, dobbiamo pensare che anche gli altri membri della
otta troiana si siano congiunti con donne latine. Anche i partecipanti alla fondazione di Roma,
ovvero Romolo e i suoi compagni erano tutti uomini e si pose nuovamente il problema di
trovare delle partner femminili: Romolo tentò prima di ottemperare la questione per via
diplomatica, ma si organizzò in ne un vero e proprio ratto delle Sabine, anche loro formalmente
delle straniere, esatte come le Latine rispetto ai troiani, le quali vengono attirate tramite il pretesto
di uno spettacolo teatrale. Se un tema ritorna in più punti in un iper-testo, che è il corpus dei
miti delle origini, è evidente volontà di come far percepire l’identità di un popolo: Roma è una
città aperta e protesa a creare sintesi nuove. Questi miti sono detti “fondativi” proprio perché
fondavano una prassi e davano a questa carattere mitico. In contrapposizione al sovranismo
matrimoniale di Amata, la storia romana contrappone un matrimonio diverso, più ampio e che
fonda l’orizzonte culturale romano all’interno del quale si inserisce anche lo stesso poema.

La gura di Lavinia all’interno dell’Eneide emerge tramite la descrizione di Virgilio ma in questo


caso, non viene descritta individualmente, focalizzandosi sul suo soggetto, ma viene dato uno
stato di famiglia: è una ragazza nubile, sorella di un fratello morto precocemente. Dopodiché
ricompare in un passo del libro VII in cui viene rappresentata mentre sta compiendo un rito, una
cerimonia religiosa con il padre e la madre e mentre questo è in corso, intorno al suo capo

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compare una sorta di corona di amme di natura sovrannaturale. Questo è un fenomeno
sicuramente estraneo che aveva già fatto la sua comparsa nell’Eneide, nel libro II quando,
raccontando la storia dell’ultima notte di Troia, Enea dice che nel convincere Anchise a partire,
sulla testa di Ascanio comparve una corona di amme. Era un prodigio di uso tra i personaggi
del mito romano: la amma è un segno polisemico - dipende dall’interpretazione che se ne dà -
può essere luce (e quindi il soggetto sarà denotato come salvi co come nel caso di Servio Tullio),
ma se riferito come nel IV libro a Didone, potrebbe indicare anche il suo elemento distruttivo;
infatti, gli indovini che Latino consultò gli riferirono che intorno a Lavinia sarebbe scoppiata una
guerra sanguinosa e dunque, diedero di questa una lettura negativa preannunciando distruzione.
La cosa singolare però, è che Lavinia sembra quasi indi erente a questo episodio di cui pure è
protagonista, pare non rendersene conto, non ha alcuna reazione di spavento.

La campata più ampia che viene data di Lavinia è quella del libro XII. Siamo ancora nel pieno
della guerra, ancora lontana dall’essersi conclusa, che si chiuderà solo con il duello tra i due capi
Enea e Turno. Turno è convinto del combattimento, è forte della propria motivazione e viene
addirittura chiamato “genero” - i termini della parentela per a nità, e dunque quella creata
tramite matrimonio, nell’antica Roma venivano usati anche prima del consolidamento dell’unione -
questo tramite un’assunzione, da parte dell’autore, del punto di vista di Amata, che pure
chiede lui di non scendere a combattere perché, la sua eventuale scon tta, con la sua morte
in battaglia, signi cherebbe anche la sua: non potrebbe sopravvivergli, in quanto non vuole
vivere abbastanza da vedere Enea diventare suo genero. La vittoria dei troiani per lei
comporterebbe il completo assoggettamento dei latini e la loro riduzione in schiavitù, esattamente
come accadde alla ne della guerra di Troia. Turno decide comunque di scendere a combattere
per adempiere al suo dovere di guerriero.
Alfonso Traina disse che il “rossore" sulle gote di Lavinia sarebbe quello più studiato della
letteratura latina: Perché ella arrossisce? A cosa si riferisce la sua azione emotiva? Piange e le sue
guance si spargono di lacrime ma soprattutto arrossisce: Virgilio usa una serie di immagini per
evidenziare come questo contrasto con la pelle di Lavinia, pallida come vuole il gusto del canone
di bellezza femminile antico, come se si mescolassero avorio e porpora o rose e gigli.
Servio suggerisce che la consapevolezza di essere, pur suo malgrado, la causa di tutto questo le
suscita pianto e rossore. I moderni hanno però arricchito queste possibilità interpretative: forse
perché sente la madre ventilare l’idea della sua morte tramite suicidio e questo la getta nello
sconforto oppure piange perché forse anche lei è innamorata di Turno e dinanzi alla prospettiva
che questo possa morire allora lei piange e arrossisce in quanto vergine e a questa non si addice
di manifestare palesemente i propri sentimenti, questo è un atteggiamento più consono a una
sposa, altrimenti sarebbe piuttosto inappropriato.
Tutto questo però ricade nella volontà di Virgilio di occultare i sentimenti di Lavinia, di cui
pensieri e sentimenti non siamo a conoscenza e anche l’epifenomeno si dispone come ambiguo.
Questo è il punto di approdo dell’intera Eneide: Turno ai piedi di Enea dice che Lavinia è ora sua e
tutta l’Eneide approda a questa donna ma nonostante la sua enorme importanza, Virgilio
mantiene su di lei un pro lo bassissimo. Lavinia Virgo è una sorta di formula standard, il suo nome
si associa al termine “virgo”, ma per lei si usa spesso anche il termine “donna”, che è comunque
molto ampio, soprattutto se fatto riferimento alla cultura romana, che considerava “donna” una
“femmina” a partire proprio dai dodici anni: questa sarebbe una “donna” che non avrebbe
autonoma capacità di decidere del suo destino, soggetta alla volontà dei genitori soprattutto se
fatto nell’ambito matrimoniale. Qua un’ulteriore contrapposizione con Didone, vedova, regina.
Proprio tramite la gura di Didone, si pensa che Virgilio volesse rievocare la gura di Cleopatra.

5.14. Eneide XII, v.v 593-607


Viene data l’ultima immagine di Lavinia ma non la sua ultima menzione. I troiani hanno deciso di
attaccare direttamente la città di Lavinio e Amata, osservando questo attacco, si rende conto che
se i troiani si sono spinti sotto le mura della città, allora i Rutuli sono stati scon tti e Turno
sarebbe dunque stato ucciso. Ella si convince di questo e dunque, presa dallo sconforto,
dall’abbattimento e dal dolore, allaccia a una trave del so tto un pezzo della veste, oppure una
corda, e si suicida. Servio spiega che la morte viene de nita “infamante” in quanto quella per
impiccagione nella cultura romana veniva così considerata: il diritto romano prevedeva che questi
non avessero sepoltura ma la contempo, è anche tipicamente femminile. La morte virile è
solitamente per arma da taglio e da qua anche la de nizione “virile” riferito alla morte di Didone.
Amata si uccide, convinta che Turno sia morto e quando la notizia si di onde, Lavinia fa un gesto
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tipicamente associato al lutto e che rientra nella sua gestualità tipica. Questo poi diventa il lutto di
tutti i sudditi ma quello della glia è il primo per reazione. È forte la presenza scenica di Lavinia,
ma passa solo attraverso espressioni emotive, senza che dal poema sia possibile ricavare altro.
Ciò però non esaurisce l’importanza del passo.
Amata è l’ennesimo esempio di personaggio che viene travolto dal procedere dal fato: questo
procede a grandi passi per realizzare i suoi obbiettivi, ma continua a mietere vittime anche
innocenti. Amata forse ha sbagliato a insistere sul volere per sua glia un marito locale, ma ciò
che ne segna la scon tta è che i suoi progetti non collimano con quelli del fato e anzi, si trovano
in contrasto con questo e in questo dato si trova un apparentamento con Didone: due donne
suicide, due gure femminili che hanno concepito un futuro non contemplato tra le possibilità che
si aprivano a questi personaggi.
Virgilio ha voluto costruire il personaggio di Lavinia in antitesi a Didone e questo si manifesta
sotto molti punti di vista. Una donna matura, adulta, che ha conosciuto l’esperienza dell’amore da
un lato e una giovane vergine dall’altro, una donna sola e indipendente, capace di
autodeterminarsi e una glia di famiglia quali genitori decidono dall’alto e ancora, una tappa che
l’eroe deve attraversare ma lasciarsi alle spalle e dall’altro un approdo nale. Lavinia però è anche
una sorta di prototipo di primo esempio di perfetta matrona romana: se Enea è un modello per i
romani, cioè rappresenta un eroe che incarna nel suo comportamento i due valori fondamentali
che i romani attribuivano a se - la pietas e l’eccellenza militare - è lecito aspettarsi che anche
Lavinia debba rispecchiare un modello femminile, cosa debba essere una matrona a Roma nella
cultura romana non sono i protagonisti stessi a de nirlo, ma la cultura patriarcale, che stabilisce le
regole, pure quelle del comportamento femminile, che convergono nella gura di una donna
succube del disegno maschile, che accetta di sposarsi sulla base della volontà familiare, che
mette al mondo dei gli e che sopratutto evita di invadere quegli spazi considerati come
un’esclusiva prerogativa maschile, quindi quelli decisionali: sul piano pubblico, da cui le donne
sono escluse a Roma, sono i “vigilia o cia”, i compiti maschili, ambiti che gli uomini rivendicano
come loro esclusiva. Lo spazio della donna è domestico e privato ma anche qua la loro posizione
è di sudditanza, di sottomissione, così da lasciare alle gure maschili, padre e marito, il compito
di governarne la vita. A cominciare proprio dalla loro destinazione matrimoniale, questa viene
decisa da chi ne detiene la podestà, che concorda il matrimonio con il promesso sposo, se
giuridicamente autonomo, o con il padre dello stesso, se questo non lo è. La donna allora viene
ceduta, scambiata sulla base della decisione presa dalle gure maschili della casa. Quando un
uomo necessita di una compagna, non chiede lei la sua mano ma piuttosto al padre. La donna ha
si un ruolo nell’educazione dei gli o nel governare le schiave di casa ma anche nel ruolo più
signi cativo come l’educazione dei gli, in realtà questo deve svolgersi sempre dentro un sistema
di compatibilità, valori e modelli che si confanno alla cultura maschile: i gli vanno educati a fare
propri i valori della cultura patriarcale sulla base del genere. Naturalmente, l’obbligo fondamentale
della donna, al quale una matrona è tenuta, è quello di fedeltà coniugale, di pudicizia. Lo scopo
del matrimonio è infatti assicurare gli legittimi dove per tali si de nisce i gli della quale paternità
non si può dubitare: in questo senso la monogamia rappresenta il presupposto fondamentale.
Nelle culture patriarcali, l’adulterio è una colpa femminile. In questo modello non rientra una
donna come Didone: ella ha un tasso di protagonismo, autonomia e indipendenza incompatibile
con quest’idea del femminile e non solo, è portatrice di un amore vissuto come passione, eros,
sentimento dominante, che nell’idea antica di matrimonio è assolutamente assente3, il che vuol
dire che non fosse una prerogativa nel matrimonio l’amore, ed era bene che non fosse troppo,
questo era volto alla generazione di gli. Se comprendiamo questo quadro, dunque la gura di
Lavinia appare meno singolare se collocata in questo contesto culturale: che il suo destino
matrimoniale non sia deciso da lei ma da un padre collettivo, il fato, o dalla volontà dei suoi
genitori, che sia destinata a un matrimonio già scritto, tutto ciò coincide con l’idea romana di
matrimonio; la donna non doveva accettare il marito ne’ il matrimonio prevedeva un rapporto
sentimentalmente signi cativo. Lei ha il compito di generare la stirpe romana e il tutto non diventa
che pressoché irrilevante. Virgilio non ignora i prezzi di questo ma il modello rimane comunque
tale: Didone esce di scena e il futuro è nelle mani di un personaggio così apparentemente poco
attraente e interessante e lo stesso silenzio di lei rientra in questo modello.
Plutarco, noto per “Le vite parallele”, una raccolta biogra ca, scrisse una serie di operette minori
tra cui “Consigli agli sposi” e in uno di questi, egli riferisce che la donna deve parlare o con il
marito o tramite questo: l’unico luogo di esercizio della parola femminile è quello domestico e se

3 Il cambiamento si realizzerà solo con la mutazione antropologica dell’amore romantico di ne Settecento.


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proprio vuole far arrivare la sua parola fuori dal regno domestico deve rendere il marito portavoce.
Sempre lui, nella biogra a dedicata al secondo re di Roma, Numa, dice che questo aveva stabilito
che le donne romane non potevano parlare se non per cose necessarie e al riguardo, dice che egli
aveva introdotto il culto di una divinità minore quale nome era tutto un programma: si chiamavano
Tacita. Anche dal punto di vista della parola, questa sarebbe cosa degli uomini. In greco poi, la
parola “logos” signi ca sia parola che ragione: le donne sarebbero prive di entrambe, ragione e
parola. A Roma persistente l’idea delle donne come caratterizzate da una sorta di de cit e
debolezza della razionalità, preda dei loro istinti, pura emotività dal punto di vista dei romani,
dominate dalla loro sostanza impulsiva e irrazionale, incapaci di imporsi regola o disciplina. I
romani dicevano che sono “leggere”, capace di esser portate via da un so o di vento, mentre gli
uomini sarebbero “graves”, gravi, pesanti, arpionati a terra. Se tutto questo è vero, allora le donne
non devono parlare in pubblico. Anche questo silenzio di Lavinia, che sembra un dato urtante,
rientra bene in un’idea romana della “donna per bene” come di una che non parla e di cui non si
parla.
Questa cultura aveva conosciuto un rilancio tramite Augusto e dunque anche mentre Virgilio
scriveva: si faceva riferimento ai “sani costumi degli antichi”, che coinciderebbero con una certa
idea del femminile e del comportamento. Augusto rese l’adulterio un reato, si vantava di essere
vestito di soli vestiti confezionati dalle donne della sua famiglia e forse anche Virgilio risenti di
questa morale dei padri riproposta. L’idea degli antichi è quella secondo cui il dio si serve di una
donna come tramite, che si rifà ancora alla sua idea di essere inferiore: ella non detiene parola e
pertanto le viene suggerita dal dio in quanto loro strumenti, ampli catori di cui si serve il dio
maschio.
Amata si dispone come una gura autonoma nella misura in cui persegue un suo progetto
individuale che si contrappone al fato: quei personaggi che mirano a imporre o perseguire,
realizzare un autonomo progetto che non coincide con questo vengono spazzati via dalla storia
ed è il caso di Amata, seconda Didone da questo punto di vista.
L’Eneide è in un certo senso il poema dei vinti: Virgilio rende conto anche sul piano emotivo e
in maniera empatica di tutti i vinti della storia, i quali hanno scoperto troppo tardi che la loro idea
non coincideva con il disegno della storia.

Vulcano consegna le armi ad Enea e la descrizione del suo scudo copre tutta la seconda metà del
VIII secolo, guerre, duelli, la morte di Lampante (ucciso da Turno durante un duello in cui
quest’ultimo dimostra il suo aspetto più feroce e violento), Enea uccide Lauso ( glio di un tiranno
etrusco e alleato di Turno). Il Virgilio della seconda Eneide descrive scene di guerra, sangue, in
maniera dettagliata ed e cace.

5.15 Eneide XII


Il libro XII ha inizio con la decisione di Turno di risolvere la guerra con un duello individuale
con Enea. Questo succede nei primissimi versi del dodicesimo libro, ma viene rallentato da una
serie di ostacoli frapposti ad arte da Virgilio, che si realizzerà solo negli ultimi versi del libro.
Turno ha una sorella, Giuturna, personaggio patetico, donna amata da Giove che in cambio
della sua verginità le concesse l’immortalità. Il suo ruolo doppia quello di Anna, sorella di
Didone, e tiene il fratello lontano dal con itto: ella può assumere l’aspetto che vuole e tenta di
deviare il combattimento. Prima che questo si realizzi, però, avviene la riconciliazione in cielo: un
negoziato stretto sull’Olimpo, Giunone ha lasciato il campo di battaglia e assunto il ruolo di
spettatrice. L’Eneide iniziò esattamente con la memore ira di quest’ultima: questa fu la causa
delle peripezie di Enea, ma in ne accetta la sua ira e il volere del fato. In questo caso, Virgilio ci
o re una serie di spunti sul destino di Enea, come il fatto che sia destinato alla divinizzazione.
Giunone sa che è bene farsi carico di ciò che suggerisce il fato e proprio in quanto non vorrebbe
violarlo, fa una richiesta a cui Giove acconsente: i Troiani sposeranno le Latine e Giunone non
vi si opporrà, accetta il matrimonio misto a cascata che riguardò tutti i Troiani, sancendo così la
pace e le guerre dei due popoli, ma de nisce il peso che queste due componenti debbano avere
nella loro fusione per cui l’elemento troiano andrà perso.

Verso 836: “Si diluiranno qui i teucri” Il termine usato da Virgilio è “subsident”, composto da un
preverbio “sub”, “sotto”, e un verbo che ha lo stesso signi cato di sedersi o posarsi e questo
signi ca che si depositeranno sul fondo. Il verbo in latino si riferisce alla feccia del vino o della
morchia, impurità del fondo, e indica una componente che si deposita sul fondo del vino e non è
diluirsi, in quanto il verbo fa sempre riferimento ai liquidi, ma sembrerebbe disperdersi in maniera
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generica. L’elemento troiano andrebbe depositandosi sul fondo mentre ciò che si vede, lingua,
usi, costumi. Troia è una storia passata e non deve essere mantenuta la sua storia; pertanto Giove
a erma la sua volontà di de nire il popolo con il nome di “Latini”.
Servio ci dice che quando un popolo vince una guerra e ne conquista un altro, i vinti passano nel
nome dei vincitori: il vincitore dunque imporrebbe al vinto il proprio nome e questa cosa ci
informerebbe di una consuetudine o aspetto della vita romana altrimenti poco chiara, ma Servio
dice che probabilmente lo scrittore voleva ingraziarsi elettori latini senza turbare la loro sensibilità.
Al di là di questa, Servio mette in evidenza che nello scontro tra Troiani e Latini sono i primi ad
aver vinto e dunque in termini di pratiche e costumi nella cultura romana tutto suggerirebbe che
fossero i Troiani a nominare i Latini. Nell’idea dei Romani però, nella fusione tra uomo e donna, il
modello positivo e valorizzato a ermava che il glio migliore era quello che riproduceva le fattezze
materne facendo sparire le fattezze paterne e questi erano dunque chiamati a “subsidere” in
punto; gli uni elementi riconoscibili dovevano essere quelli di origine maschile. Qua una
contraddizione nella misura in cui i Troiani sono i padri e le Latine le madri: dal punto di vista del
modello doveva accadere il contrario e le componenti femminili a subsidere. Qui invece Giunone
sta chiedendo che accada il contrario e lo chiede a una dea.
Al di là di queste due cose, una domanda essenziale: ne valeva la pena far sparire i Troiani alla
luce dello sforzo che ne convenne?

5.15 Eneide XII, v.v. 791-842


È come se l’Eneide avesse due conclusioni. Il poema epico è un genere binoculare in cui le
cose accadono sempre a due livelli, uno umano e divino, che intrecciano continuamente i loro
percorsi. La tempesta scatenatasi nel canale di Sicilia e che aveva fatto naufragare i troiani sulla
costa nordafricana era stata scatenata proprio da Giunone. Le vicende umane sono in qualche
modo l’epifenomeno di vicende che si manifestano anche sul piano divino, ed è dunque coerente
che in generale nella poesia epica si crei un’impostazione ereditata anche dalla Gerusalemme
liberata. Alla conclusione dell’Eneide il nale si articola su terra e cielo, ma lascia l’ultima parola
alla vicenda umana.
Giove e Giunone, coniugi e fratelli, sono anche avversari. Giove è il conoscitore del fato e deve
assicurare che le cose vadano in questa direzione. La relazione tra queste due forze, Giove e il
fato, è molto sfuggente: Virgilio si esplica in maniera chiara, ma questo perché mai è stata
dichiarata la relazione tra questi, anche dagli antichi. Giove è colui che garantisce per il fato,
mentre Giunone cerca in ogni modo possibile di mettersi di traverso, sapendo bene che non può
evitare che questo si compia, ma anche sapendo bene che ci sono ampi margini di negoziato per
dilatare questi fatti nel tempo o a un costo in termini di so erenza o vite umane che può essere
molto alto. Questi due dei che si sono in qualche modo a rontati, addivengono a una
paci cazione: Giunone cede all’idea che troiani e latini si fondino tra di loro, accetta che ci sia la
pace e che la guerra abbia termine, che ci siano matrimoni tra Enea e Lavinia e tra gli uomini
troiani e le donne latine, ma pone anche un’ultima condizione, un aspetto non normato dal fato e
su cui c’è la possibilità di orientare le cose nel senso che ella desidera. Ella rimane no all’ultimo
nemica dei troiani e fa almeno sparire Troia e il suo nome, facendo indietreggiare la vittoria troiana
in questa stirpe mista che va a nascere. La risposta più ovvia è che Virgilio abbia dovuto fare i
conti con la storia: deve fare i conti con il mito e la storia, e Roma sa bene di essere una città
latina che fa parte di un gruppo etnico che parla una lingua comune. Forse, in realtà, il fatto di
voler congeniale i fatti in questo modo corrispondeva all’idea di preservare una linea di puro
sangue troiano, quella dei Giuli.
Questa interpretazione ci rende conto del fatto che, ad onta delle apparenze, egli starebbe
rivelando l’elemento troiano come puro all’interno del sistema misto dei latini: se i Giuli
discendono da Ascanio, allora sono gli di due troiani, mentre gli altri romani deriverebbero
proprio dai meticci latini. Augusto sarebbe dunque un romano diverso proprio nella misura in cui
discenderebbe da una linea genealogica diversa da quella di tutti gli altri romani. L’elemento di
debolezza è che in realtà la questione della discendenza è estremamente complicata e Virgilio di
fatto non la risolve: tra tutte le cose rimaste irrisolte nell’Eneide questa è la più eclatante. In
questa discendenza di Enea c’è un elemento di troppo: uno dei suoi due gli è di troppo; se i
romani discendono da Ascanio, allora il glio concepito con Lavinia è pressoché inutile, in quanto
ci sarebbero due linee di discendenza da Enea, ma se i Giuli discendono dal glio che avrà da
Lavinia, allora non si comprende come mai debba portarsi appresso il glio Ascanio. Virgilio non
risolve il problema, per cui ci sono due poli, due discendenze: una troiana e una “mista”, e questo
elemento rende di cile capire come Virgilio immaginasse che fossero andate le cose. C’è un

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indizio molto forte circa la candidatura di Ascanio come padre dei Giuli: Virgilio riferisce in un
punto che Ascanio era chiamato anche Ilo, in quanto questo nome ricordava uno dei nomi di
Troia, e nel corso del tempo si era modi cato nel tempo diventando Iulio e dunque ponendosi
come antesignano della gens Iulia, quella dei Giuli. Se questo fosse vero e fosse stata la
decisione nale di Virgilio, allora l’ipotesi avrebbe una sua forte plausibilità.

"La stirpe che ne va a sorgere, mista col sangue di Ausonia,


tu vedrai superare in pietà tutti gli uomini e dèi,
né altro popolo mai onorerà parimenti il tuo culto”.

“Religio, id est cultus deorum”: non c’è niente di più lontano dalla cultura romana dell’idea
che la religione sia un sentimento intimo, una condizione individuale coltivata nella propria
coscienza; tutto questo è invenzione del cristianesimo: sono gli atti concreti e pratici come
sacri ci e feste che si realizzano per rendere onore alla divinità. Comprendiamo bene che quando
gli imperatori, a partire dalla seconda metà del terzo secolo, per reprimere il cristianesimo
imposero ai sudditi di compiere riti e sacri ci per dimostrare di professare la religione pagana:
religio e religione rimandano a mondi culturali molto diversi e se religio è il culto degli dei, allora
Giunone può ritenersi soddisfatta della risposta di Giove che nessun altro popolo onorerà
parimenti il suo culto. Ella fa parte, insieme a Giove e Minerva, della triade capitolina che si
onorava sul Campidoglio e faceva parte di una sorta di trinità romana. Giunone a Roma aveva
centralità nelle pratiche di culto e a lei sono ad esempio dedicate le calende. Virgilio sta dicendo
una cosa fondamentale che trovò spazio nelle pratiche romane.
Qua si stabilisce inoltre che la pietas è una delle caratteristiche per cui i romani supereranno
gli altri popoli, anche oltre quella degli dei stessi. In un momento fondativo come questo, in un
momento in cui si disegna il corredo genetico del popolo che va a nascere, si stabilisce che la
virtù per cui soprattutto i romani si distingueranno dagli altri uomini è la pietas e soprattutto nel
culto di Giunone. I romani erano convinti di spiccare rispetto agli altri popoli per devozione agli dei
e che questo fosse il secondo motivo della loro strepitosa a ermazione storica: essi avrebbero
costruito un impero mondiale grazie alla loro virtù militare, ma anche grazie proprio alla loro
pietas. Giunone abdica a qualsiasi tentativo di interferire con le vicende umane e da questo
momento, solo gli uomini dovranno portare a compimento le ultime formalità.

5.16 Eneide XII, v.v 869-886


Dovendo comunicare agli umani ciò che era stato deciso dagli dei , il messaggio viene
recato a un personaggio in particolare: Giuturna, sorella di Turno. Ella non è un personaggio
inventato da Virgilio ma una divinità romana, legata alle acque e alla sfera acquatica. Virgilio ne
fa una aiutante divina di Turno e dunque, è l’ennesimo personaggio femminile che persegue
un obbiettivo in contrasto con il fato in quanto deviata dai propri sentimenti. Ella è mossa da
un forte amore nei confronti di Turno e cerca di trattenerlo dal duello nale. A lei, Giunone invia
un uccello non identi cato e appare lei chiaro che il destino di Turno sia stato deciso e che
dunque farà bene a ritirarsi a sua volta dal campo di battaglia. Ella era in origine una donna
mortale che come tante era stata amata, violata da Giove. Capita spesso che Giove violi donne
mortali e che conceda loro una sorta di riconoscimento o ricompensa per questo: nel suo caso, il
dono era stata l’immortalità. Le donne romane sempre usavano portare i capelli raccolti: se portati
sciolti, questo era segno di lutto.
La relazione tra sorelle e fratelli è molto carica nel mondo antico: nella cultura romana viene
fortemente realizzata mentre altre, come quella padre glio sono improntate alla severità, alla
freddezza e al distacco; la relazione sororale o fraterna, appare invece descritta nei termini di una
relazione molto intima e complice.
“Posso io oppormi a un simile mostro?”: quel “mostro”, nel testo originale latino era “monstrum”
e signi ca un segno mandato dagli dei ai loro destinatari e poiché sono spesso immagini contro-
natura ecco che si sviluppa il signi cato moderno della parola - che di per se’ signi ca “monito
divino” -. Ella comprende che non si tratta di un uccello comune e riconosce in questa
apparizione qualcosa di più, un segnale divino. Ciononostante, il rapporto tra fratello e sorella e
quest’espressione colorita risultano marginali: quello che c’è di più rilevante è l’idea profonda e
amara dell’immortalità come trappola, condanna. L’ovvio topos e cliché delle fonti antiche e
moderne vedono gli dei godere di una condizione privilegiata in quanto immortali, mentre gli
uomini vivrebbero una condizione dolorosa a causa della loro mortalità. Il nesso “immortali infelici”
si trova da Omero in poi mentre gli dei sono de niti “beati”. Questo luogo comune viene
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radicalmente ribaltato: siamo in una situazione in cui Giuturna rimpiange di non poter morire e
vede la sua condizione come un prolungamento del dolore che proverà per aver perso il fratello;
quella che doveva essere una ricompensa, un premio, sia pure per una concessione non voluta, si
trasforma in una condanna. La sua condizione verginale è stata sottratta con la violenza e
pertanto Giove ben pensava di averle dato il maggior premio possibile che però, si trasforma in
una trappola: l’impossibilità di morire. Ci sono casi in cui il non poter morire diventa una condanna
e questo è uno di quelli, nella misura in cui ella è a data a un’eternità luttuosa e non felice. La
magnanimità di Giove l’avrebbe condannata all’eterna infelicità e ciò che pensava essere un
proemio diventa una condizione “ ne pena mai”.
È la scon tta di un progetto sentimentale che nisce in maniera tragica e precoce: chiaramente i
loro destini, di Giuturna e Turno, si sarebbero divaricati ma questo accade in un termini prematuri.
C’è sempre un profondo disagio nelle culture antiche verso i morti anzitempo: vi sarebbe una
naturale durata umana e quando una vita viene stroncata prima del suo tempo è come se
avesse un credito con il destino, come se ci fosse qualcosa di innaturale in quanto non si
sarebbe goduto di una porzione di vita che spetterebbe a chiunque. Quando questo lasso di
tempo non viene vissuto no in fondo, la morte appare allora come contro-natura: è come se
prima che il tempo naturalmente destinato si fosse compiuto sarebbe sopraggiunta giunta la
morte. Nell’ultimo verso dell’Eneide la sua anima fuggirà “sdegnata” - immagine di una morte
compiuta prima del suo tempo - . L’idea che il dolore e la so erenza possano tracimare e invadere
uno spazio sottratto a questi è contro natura: gli dei gli sono immuni e Virgilio è riuscito a
congeniale due ambiti in-comunicanti, quello dell’immortalità e della so erenza, in quanto il
dolore non spetta alle divinità ma Giuturna, avendo radici umane e si divide in queste due
sfere. Anche lei sta dal lato delle vittime del fato ma nel suo caso questa condizione prende una
forma particolare.

Per “mani” si intendono le anime dei defunti.

Siamo portati a pensare che i rapporti di parentela siano uguali in ogni cultura e che prescindano
le cornici culturali di riferimento ma non è così: ogni cultura costruisce dei rapporti familiari
diversi; nella cultura romana, come osserviamo leggendo il congedo tra Enea e Ascanio, il
rapporto tra padre e glio è freddo e severo, distaccato, in quanto manifestazioni esplicite di
tenerezza e a etto sono guardate con disprezzo. Al padre è chiesto di incarnare valori e modelli
piuttosto che sentimenti e a etti, mentre rapporto tra fratelli è anzi consacrato alla condivisone e
alla complicità. Anche Valerio Massimo fa ricorrere l’aggettivo “idem”, medesimo, circa una
pagina sulla relazione di fratellanza: la sottolineatura dell’identità è molto forte sopratutto quando
si tratta di gemelli e questo elemento è fortemente valorizzato. Se tra padre e glio è un rapporto
verticale e gerarchico, tra fratelli prevale l’idea dell’orizzontalità, è un rapporto tra padri senza
di erenza gerarchica.
La situazione paradossale in cui si trova Giuturna è che questa condivisone inerente al rapporto
tra fratelli e che ne sottolinea la peculiarità è impossibile e questa condivisone è frustrata dalla
circostanza che lei avverte come un impedimento invalicabile: la sua immortalità; gli dei hanno
deciso di abbandonare Turno alla sua sorte e pertanto, lei deve abbandonare ogni speranza di
riscattarlo da questa. Omero fa presente l’immagine della bilancia degli dei dove pesano le sorti di
due contendenti di un duello e quando questa pende da una parte signi ca che questo ha preso
una svolta irreversibile.

5.17 Eneide XII


Questo è l’unico momento in tutta l’Eneide in cui Enea e Ascanio parlano o meglio, in cui
Enea si rivolge al glio: nonostante il secondo abbia condiviso il tragitto in Italia con il padre e
abbia preso parte, pur con ruolo marginale, alla guerra, piccola incongruenza in quanto alla corte
di Didone sembrava un bambino, ma veniamo a sapere che quando giunsero in Italia, appena
pochi mesi dopo, avrebbe preso le armi, facendo pensare che si tratti perlomeno di un
adolescente, nonostante questa presenza costante accanto al padre, in tutta l’Eneide i due non
parlano mai e questo rientra nella concettualizzazione del rapporto tra padre e glio come
sostanzialmente freddo, il che non vuole essere una generalizzazione, ma si rifà a un modello
culturale. Il fatto che Enea e Ascanio mai si parlino nonostante, abbiano condiviso questi forti
ricordi insieme, non parlano di questi, ma nel momento in cui Enea sta per scendere in battaglia
per il duello de nitivo, comunque vada, che egli vinca o perda, fa un vero discorso volto ad
Ascanio.
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Il testo ha doppia valenza: Enea parla, ma siccome non è solo lui, individuo e padre, ma anche il
capostipite dei romani, è come se queste parole fossero una sorta di testamento spirituale o
ultimo messaggio che sta dando concretamente al glio, ma che idealmente sta rivolgendo a
tutti i romani del tempo a venire, un po’ come le parole di Anchise quando idealmente si rivolge
a tutti i romani. Vengono messi in luce due aspetti tramite gli “esempi dei tuoi”, gli exempla
tuorum, quali farebbero riferimento a un modo di pensare al passato e di insegnarlo a chi vive nel
presente; anche le Storie di Tito Livio, contemporaneo di Virgilio, monumentale opera di storia
romana, nella prefazione viene spiegato il perché il suo autore avrebbe deciso di a rontare
un’impresa così colossale e riferisce che scriverebbe una cosa simile purché il lettore possa
trovare al suo interno degli exempla delle cose da fare e non, per cui tutto il passato di Roma non
è che una galleria di vicende nel bene o nel male esemplari e questo è il modo in cui i romani
immaginano il passato, come un qualcosa portatore di un modello o anti-modello. Ecco che la
storia della città diventa una lunga e interminabile successione di vicende che in positivo o in
negativo appaiono come esemplari e questo i romani attribuiscono al passato. Quello che vale per
il collettivo vale anche i simili che trovano nel valore, nelle imprese dei propri avi, il riferimento
fondamentale a cui ispirare il proprio comportamento. Quando volevano educare i propri gli o
insegnargli qualcosa, i romani raccontavano storie, non additando valori o modelli, ma tramite
narrazioni che veicolavano valori in maniera e cace, facendogli assumere maggiore valenza
persuasiva. Virgilio assume in questa misura inoltre il mito secondo cui Creusa era una di
cinquanta gli di Priamo e dunque anche sorella di Priamo. Dunque l’exemplum di cui Enea è
portatore, i valori che la sua vita incarna, vengono espressamente riferiti: "virtutem ex me
verumque laborem”. “Virtus” indicherebbe in maniera stretta, facendo riferimento alla sua radice
“vir”, la mascolinità e signi cherebbe la piena rappresentazione della mascolinità: è il valore
militare, il coraggio; solamente più tardi assumerà la connotazione di “virtù” nel senso di dote,
qualità morale, ma è un signi cato tardivo e alla base indica il valore militare, la piena
realizzazione dello statuto maschile ed è una parola di forte connotazione di genere. L’ambito
della guerra viene identi cato come quello di massima esplicitazione di questa “virtus”. Il secondo
dei due termini usati da Enea è un termine a noi familiare: la parola “labor” nelle Georgiche
compare dove Virgilio spiega come Giove avrebbe voluto inserire sulla scena del mondo una serie
di insidie per spingere gli uomini a soverchiare queste di coltà, concludendosi con la frase
epigrammatica, “il duro lavoro è venuto a capo di ogni cosa”. La parola “labor”, chiave delle
Georgiche e dell’ultimo messaggio di Enea, ci fa intendere che abbia per l’autore un’importanza
chiave: questo è l’atteggiamento di chi si fa carico della pena di vivere, di una scelta che
comporta dei prezzi da pagare, di coltà e ostacoli ma che va a rontata e portata a
compimento. Siamo però in una dimensione estremamente dilatata e ci sono analogie come
di erenze con le Georgiche - in cui la fatica del contadino era quella per vincere la terra e la
natura in una sorta di corpo a corpo - per cui ora questo valore diventa universale: non è solo la
vita della campagna ma a tutti è richiesto questo atteggiamento, quello di chi non si sottrae alla
lotta, non abdica o cerca scorciatoie ai suoi doveri ma si fa carico dei compiti che gli sono
assegnati pagando i suoi prezzi. Dentro il “labor” c’è il riconoscimento della vita inscritta in
una concezione pessimistica dell’esistenza, cosa che Virgilio ha manifestato n dalla prima
Bucolica, ma anche la rivendicazione della tenacia con cui tutto questo può essere
a rontato.
Gli antenati si pongono come una sorta di esempio per le generazioni a venire: la rassomiglianza
del padre con il glio non riguarda ora solo una questione estetica ma in termini generali, il padre
viene chiamato a essere un modello su cui i gli costruiscono un proprio comportamento che si
concretizza in questi due grandi termini.

5.18 Eneide XII


Il duello tanto attardato e la cronaca di una morte preannunciata, seppur i due protagonisti
non sappiano chi dei due sia il destinato, prende nalmente luogo dopo una serie di eventi che lo
attardano. È il momento della verità e del duello che dovrà porre ne alla guerra. Turno è stato
colpito, ma non in maniera mortale: il modello a cui si fa riferimento è quello tra Ettore e
Achille a conclusione dell’Iliade, dove Ettore viene preso inizialmente dal panico e dunque
Achille lo colpisce ma il primo supplica lui di restituire il suo cadavere ai famigliari. Achille glielo
nega: la sua sarà la morte di un cane. Virgilio fa una scelta ben diversa: Turno è in ginocchio ma è
ancora vivo e il colpo in ittogli non è necessariamente mortale.
Turno chiede lui di non protrarre oltre gli odi: una volta che la storia ha emesso la sua sentenza e

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c’è un vinto e un vincitore, allora è inutile protrarre l’ostilità oltre la posta in gioco che l’ha fatta
scoppiare, che è una richiesta di clemenza, cosa che Ettore non poteva porre in quanto già in n
di vita. Turno chiede lui di restituire il suo cadavere o altrimenti di risparmiarlo. Enea può scegliere
se risparmiarlo o meno e si trova dunque in una posizione diversa da Achille: non riguarda più il
cadavere stesso ma la vita del vinto. Enea si rende conto che sulle spalle Turno porta la cinghia
borchiata di Pallante, glio di Evandro, morto in un duello impari contro questo. Turno ne
spogliò il cadavere ed Enea, vedendo questo trofeo di guerra, ingiusto nella misura in cui Pallante
era solo un ragazzo mentre Turno un uomo maturo che aveva scaricato su di lui tutta la sua furia,
a onda la sua spada nel petto di Turno a ermando essere la mano di Pallante stessa a fare
giustizia.
Lattanzio, precettore dei gli di Costantino, commentò l’ultima scena dell’Eneide: questo sarebbe
il momento in cui “pietas” comincia a signi care “pietà”; Lattanzio non comprende più come
possa essere il gesto di Enea “pio”: le parole avevano ormai iniziato a caricarsi di signi cati diversi
e Lattanzio non è che parte di una lunghissima storia circa l’interpretazione di questo ultimo
passo. Poteva davvero esserci un signi cato diverso? “Risparmiare quelli che si sottomettono”:
Enea starebbe dunque violando la richiesta del padre e c’è una prossemica letteralmente sica,
Turno è letteralmente un “subiectus” e questo eroe, allora, non è poi così tanto eroe come sembra
e starebbe il poeta stesso cercando di minare il suo stesso poema.
La scena nale è una delle pietre d’inciampo nell’interpretazione del poema. Intorno
all’interpretazione del nale si scontrano due scuole di pensiero circa l’Eneide virgiliana:
quella che ne fa un poema in qualche modo augusteo e quella che vede in Virgilio una sorta
di sotterraneo contestatore del regime, un poeta impegnato a delegittimare in maniera sottile il
suo protagonista; siccome Enea è a contro gura di Augusto e suo capostipite, de-legittimandone
il personaggio vorrebbe marcare una presa di distanza dall’ultimo discendente di questo eroe, il
principe in carica. La scuola di Harvard sarebbe tendente a interpretare l’Eneide in questa visione
anticonformista. Questo appare come l’episodio decisivo della guerra e si ispira direttamente a
quello della morte di Ettore nell’Iliade ma al contempo, in Omero emerge l’idea che lui sia
l’ultimo baluardo della città, colui che impedisce la vittoria dei greci e che dopo la sua morte è
solo questione di tempo prima che la città cadrà, per cui quando Achille ferisce Ettore a morte,
non è prevista la possibilità che lui si salvi, tant’è vero che le sue ultime parole riguardano il suo
cadavere, per far si che sia restituito ai suoi cari, mentre Virgilio invece aveva contemplato la
salvezza di Turno costruendo la possibilità che Enea facesse una scelta diversa, ma che tuttavia
sceglie di non compiere.
Su questo punto si è cominciato a dibattere n da subito: Lattanzio, scrittore cristiano che vive
ancora nel pieno della cultura romana, scrive sapendo di riferirsi a lettori che sanno per certo
l’episodio a cui si fa riferimento e avanza due questioni ovvero: che Enea non sarebbe pio, in
quanto il vinto lo starebbe supplicando di salvarlo, appellandosi anche al padre e che questa
uccisione avviene in una condizione in cui il protagonista si troverebbe sotto la spinta di una
reazione di tipo emotivo, per cui la “furiis” di Enea lo spinge a uccidere il rivale; questa parola non
è a atto ovvia da tradurre in italiano, in quanto per noi ha un signi cato esclusivamente laico
mentre le “furie” latine sono le divinità della vendetta: è una decisione impulsiva la sua, che non
gioca a favore del suo personaggio, che starebbe agendo sulla base delle proprie emozioni e non
dopo una seria e lucida ri essione. L’elemento chiave è che, nonostante le apparenze, Turno non
rientra nella categoria dei subiecti che vanno risparmiati ma dei superbi, che vanno
stroncati, e dunque non è vero, come potrebbe sembrare a una prima lettura, che Enea starebbe
venendo meno al precetto di Anchise: certo è che in quel preciso momento Turno sia in una
posizione di soggezione a Enea e in quel momento è un sottomesso, ma nella seconda metà
dell’Eneide egli fu un superbo. Il superbo è qualcuno che si contrappone al disegno del fato in
favore di un suo proprio disegno mostrando di non riconoscere il valore preminente che ha invece
ciò che il destino ha stabilito. Turno è un personaggio di questo genere: egli quando viene a
sapere che il matrimonio di Lavinia con un genere venuto da lontano sia l’esito di un oracolo e di
più oracoli che procedono in questo senso, risponde “anche io ho i miei fati”. Dunque, Turno è
esattamente l’anti-Enea in quanto anche lui, Enea, avrebbe un suo fato e lo dice a Didone che
“se i fati mi permettessero di disporre della mia vita secondo i miei desideri…”, egli
ciononostante, è un eroe in quanto accetta di subordinare o cancellare progetti alternativi per
prestarsi a un progetto trascendentale e questo è il modello che Virgilio addita al lettore. Turno è
un anti-modello in quanto non accetta tutto questo e anzi impugna le armi proprio allo scopo di
a ermare una propria idea di bene futuro e di bene individuale che non coincide con quella che

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pure gli è stata indicata e dunque non può nemmeno additare la variante dell’ignoranza. Chi fa
così come Turno viene inteso come un superbo nel sistema dell’Eneide e rientra nella tipologia
delle gure che vanno stroncate. Anche nel duello contro Pallante, vinto da Turno, questi inferisce
contro l’avversario morto strappandogli le spoglie.
Non dobbiamo cadere nell’errore di Lattanzio: il suo consiste nell’applicare in maniera retroattiva
le sue convinzioni ai testi passati, egli si situa in un altro sistema etico diverso dalla cultura
virgiliana in cui si può dire che i veri valori siano quelli cristiani e della cultura cristiana, se ancora
marginale e periferica, egli starebbe misurando le proprie categorie etiche per misurare un poema
che gli è culturalmente ed eticamente lontano. La cultura cristiana potrebbe indurre anche i lettori
moderni a contemplare il perdono anche nella cultura di Virgilio: non è che non esisteva la
clemenza, “l’atto di chi pur potendo punire si astiene dal farlo”, ma al tempo stesso, nella cultura
latina la vendetta è un obbligo morale, soprattutto quando occorre punire chi si è reso
responsabile di crimini contro chi è legato intimamente al vendicatore.
Di tutto questo, abbiamo una prova eclatante contemporanea a Virgilio: Augusto, ormai vicino
alla morte, scrisse una sorta di resoconto delle sue imprese, l’Indice delle imprese, un breve
testo in cui racconta la storia della sua vita politica e del suo principato; nelle sue disposizioni
testamentarie, Augusto chiese che questo fosse di uso nelle province imperiali in forma di
epigramma ed ecco che qui a ermerebbe, proprio nell’incipit, di essersi vendicato del padre
ucciso, Cesare. Augusto ha la consapevolezza di parlare a un pubblico che tollera e sostiene
la vendetta verso l’uccisione di un padre e anzi la osserva come una dimostrazione di
pietas.
Anche nel momento in cui Enea accetta di prendere con sé Pallante e il suo piccolo esercito a
rinforzo delle truppe troiane, promette a Evandro di vigilare sull’incolumità di suo glio: quando
allora il padre apprende la morte di questo, dice ad Enea che pur non avendo altre ragioni,
continuerà a vivere in attesa del momento in cui verrà vendicata la sua morte ed il protagonista ha
dunque un vincolo morale nei confronti di Evandro. La vista del balteo di Pallante è ciò che
spinge Enea ad a ondare il colpo di grazia dopo che sembrava tentennare e quasi abbracciare
una diversa soluzione.
Allora, nonostante tutto, anche quest’ultima pagina come quella del quarto libro, ci riferisce una
cosa importante: nel valutare un testo letterario dobbiamo essere molto attenti a non sovrapporre
le nostre categorie con quelle della cultura che ha prodotto quel testo letterario e questa deve
essere tanto maggiore più lo è la distanza che ci separa dalla produzione del testo in questione.
L’orizzonte del nale si colloca all’interno di quello della cultura romana e anzi, Virgilio presta al
protagonista un sentimento che fu lo stesso con cui Augusto legittimava la sua vendetta
contro i cesaricidi nella guerra di Filippi, spinta dalla vendetta contro gli uccisori del padre.
Ciononostante ci sono due aspetti che emergono da questo evento: il primo è che Virgilio
avrebbe potuto scambiare di posto il nale, quello in cielo e quello in terra, prima
raccontando il duello tra Enea e Turno e poi il negoziato tra Giove e Giunone e in quel modo,
l’Eneide si sarebbe chiusa non con la scena di una morte, ma con la luminosa prospettiva di
un popolo che sta per nascere, con un tono più ottimista e proiettato e aperto a un futuro di
gloria e invece sceglie un’organizzazione diversa della materia; inoltre, secondo fatto, è che
l’ultima parola dell’Eneide è “umbras”, “ombra” - e quest’ultima questione colpisce per due
ragioni -: “umbra” è anche l’ultima parola della prima Bucolica, quando Melibeo si avvia con il
suo gregge di caprette le ultime parole fanno cadere dagli alti monti le ombre di queste che si
allungano, che suggerisce una coerenza di fondo, come se Virgilio avesse creato una
composizione ad anello chiuso da un tono non di trionfo o di luce e splendore, ma l’ultima parola
viene lasciata all’ombra mentre, il secondo motivo è che l’ultima parola del poema è un sostantivo
che chiude la narrazione non con la vita, ma con la morte, e non si chiude con una singola
ombra, ma con molte, come a suggerire che in realtà quell’episodio sia qualcosa di tragico e non
di luminoso. Si tratta di una scelta di insensibilità verso le contraddizioni di questo cammino, in
cui si situerebbe il segreto ultimo dell’esperienza di Virgilio.

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