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Felice Il Divario Nord-Sud 2019

Il saggio di Emanuele Felice analizza la narrazione storica riguardante il divario economico tra Nord e Sud Italia, in particolare durante il periodo dell'Unità. Felice sostiene che l'idea di un Sud Italia prospero e avanzato prima dell'unificazione sia infondata e che, al contrario, il Regno delle Due Sicilie fosse tra i più arretrati d'Europa. Utilizzando ricerche storiche recenti, l'autore cerca di dimostrare che le affermazioni di una 'Borbonia felix' sono errate e basate su miti storici.
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Felice Il Divario Nord-Sud 2019

Il saggio di Emanuele Felice analizza la narrazione storica riguardante il divario economico tra Nord e Sud Italia, in particolare durante il periodo dell'Unità. Felice sostiene che l'idea di un Sud Italia prospero e avanzato prima dell'unificazione sia infondata e che, al contrario, il Regno delle Due Sicilie fosse tra i più arretrati d'Europa. Utilizzando ricerche storiche recenti, l'autore cerca di dimostrare che le affermazioni di una 'Borbonia felix' sono errate e basate su miti storici.
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Economia e societàAuthor(s): Emanuele Felice

Source: Meridiana , No. 95, BORBONISMO (2019), pp. 39-62Published by: Viella SRL

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BORBONISMO

Economia e società:
il divario Nord-Sud all’Unità
di Emanuele Felice

1. Introduzione

La storia – reinterpretata, mitizzata, stravolta in qualche caso – è magma


sempre caldo con cui si forgiano le identità. Non stupisce che al centro del-
la narrazione «sudista», che contrappone acriticamente i meridionali al resto
degli italiani, ci sia la riscrittura del passato (economico, politico, militare,
culturale), a uso e consumo di un’identità localistica. Né stupisce che il tor-
nante chiave su cui si concentrano gli sforzi sia il periodo intorno all’Unità:
autentico spartiacque che segnerebbe un prima e un dopo, fra la Borbonia
felix1 e il Sud oppresso dai colonizzatori del Nord.
Sul piano economico e sociale, l’idea fondamentale di questa narrazione è
che il Sud Italia fosse, alla vigilia dell’Unità, un Paese avanzato e ben governa-
to. Le sue sventure si devono quindi al processo di unificazione, vale a dire a
delle responsabilità esterne al Mezzogiorno. Non interessa qui soffermarsi su
quanto di autoassolutorio, o di consolatorio se vogliamo, vi sia in quest’impo-
stazione. In questa sede vogliamo piuttosto indagare il fondamento storico di
tali tesi che, sempre presenti ma minoritarie nel dibattito culturale e politico,
sono oggi assai diffuse fra l’opinione pubblica meridionale e forse stanno di-
ventando conventional wisdom. Quello che è di gran lunga il più importante
best seller nell’ormai ampia pubblicistica sudista, Terroni di Pino Aprile, dà
ovviamente ampio risalto all’idea di una Borbonia felix: «[Io non] sapevo che
il Regno delle Due Sicilie fosse, fino al momento dell’aggressione, uno dei
Paesi più industrializzati del mondo (terzo, dopo Inghilterra e Francia, prima
di essere invaso)», scrive ad esempio l’autore già all’inizio del volume (p. 9).
«Meridiana», n. 95

1 Per un giudizio critico sulla valenza semantica di quest’espressione, come anche per
un’ampia disamina sulle cause che hanno portato alla fine di quel regno, cfr. R. De Lorenzo,
Borbonia Felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, prefazione di A. Barbero, Aculei,
Salerno 2013.

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Borbonismo

E poi ancora, più avanti: «Siamo uno degli Stati più antichi d’Europa, il più
esteso ed economicamente progredito d’Italia [...] Nell’industria siamo avanti
e, in molti campi, all’avanguardia» (p. 106, corsivo mio)2. Ma si potrebbero
fare molte altre citazioni, da questo volume come da altri meno noti; e natu-
ralmente pure da blog, siti internet, da pubblicazioni estemporanee e perfino
da opere teatrali. Il senso lo si è ben compreso: il Regno delle Due Sicilie
sarebbe stato, all’epoca dell’Unità, lo Stato più avanzato d’Italia; addirittura
il terzo Paese più industrializzato al mondo, dopo Francia e Inghilterra. Se
quest’ultima è un’enormità cui davvero pochi sembrano credere (e il Belgio?
E gli Stati Uniti? Il grande regno di Prussia in Germania? E poi in base a quali
parametri?)3 la prima affermazione riscuote invece un certo credito. Ma è del
tutto priva di fondamento.
Il presente saggio intende dimostrare, avvalendosi dei più recenti risultati
della ricerca storico-economica così come di altri più consolidati, che il Regno
delle Due Sicilie non solo non era il più avanzato Stato d’Italia all’epoca dell’U-
nità (tantomeno fra i più industrializzati al mondo), ma era anzi con ogni pro-
babilità il più arretrato, e fra i più arretrati d’Europa. Prima di cominciare però
mi si consenta ancora un appunto, per quanto ovvio – ma oggi tocca ribadire
finanche l’ovvio. Se un medico diagnostica a un paziente una malattia, peraltro

2 P. Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meri-
dionali», Piemme, Milano 2010.
3 La storia del terzo Paese più industrializzato al mondo è talmente fantasiosa che può
essere perfino imbarazzante scriverne in una pubblicazione scientifica. Si tratta di una vera
e propria bufala. Stando a Pino Aprile, «alla Mostra del 1856, a Parigi, siamo stati premiati
come Paese più industrializzato d’Italia; terzo nel mondo» (Terroni cit., p. 106). Da lì deriva il
giudizio di Pino Aprile da noi riportato, posto a inizio dello stesso volume, il celebre Terroni
(p. 9), e che quindi ha goduto di grande risalto. A Parigi, ci fu un’«Esposizione Universale
dei prodotti dell’Agricoltura dell’Industria e delle Belle Arti» nel 1855 (dal 15 maggio al 15
novembre), non nel 1856. Sempre a Parigi, nel 1856 si tenne invece un «Concorso agricolo
universale». All’Esposizione del 1855 il Regno delle Due Sicilie partecipò con stand espositivi
solo nel settore delle Belle arti (nell’Industria non fu nemmeno presente): due napoletani
ottennero altrettanti diplomi, uno per corde armoniche e uno per stamperie. Nel concorso
agricolo del 1856, Napoli ottenne invece una medaglia per la produzione di pasta. In nessun
caso furono stilate classifiche fra Paesi. Si veda in particolare il resoconto di R. Della Rocca
e A. Casiere, Interessante: la vera storia delle esposizioni del 1855 e del 1856, 26 agosto 2010,
disponibile su https://forum.termometropolitico.it/75751-interessante-la-vera-storia-delle-
esposizioni-del-1855-e-del-1856-a.html. Per un quadro storico cfr. anche G. Fumi, Emu-
lazione o profitto? L’avvio delle esposizioni agricole nell’Italia preunitaria, in Arti, tecnologia,
progetto. Le esposizioni d’industria in Italia prima dell’unità, a cura di G. Bigatti e S. Onger,
F. Angeli, Milano 2007, pp. 197-240. Per chi voglia tornare alla fonte, rimando a Aa.Vv.,
Rapport sur l’exposition universelle de 1855 présenté à l’empereur par S.A.I. le prince Napoléon
président de la Commission, Imprimerie Imperiale, Parigi 1857.

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Felice, Il divario Nord-Sud

curabile, non viene certo accusato di fare un torto a quel paziente, o di avercela
con lui (il medico anzi di norma è apprezzato, per aver svolto il suo mestiere
con scrupolo e coscienza). Questo facevano, dovrebbero fare, i meridionalisti. Il
medico che invece racconta a un malato che sta benissimo, e che non ha bisogno
di alcuna cura, di certo quel paziente non l’aiuta. Lo condanna.

2. Il reddito

Qual era il divario di reddito intorno all’Unità, fra il Sud Italia e il re-
sto della Penisola? La domanda può apparire semplice, ma la risposta non
è facile. Stime coeve non esistono, per il mero fatto che la misura cardine
utilizzata per calcolare il reddito pro capite – il Prodotto interno lordo –
nell’Ottocento non era stata ancora inventata. Verrà concepita e comincerà
a essere utilizzata solo negli anni trenta del Novecento, negli Stati Uniti, per
approdare in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Con riferimento ai
periodi precedenti, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso statistici,
economisti, storici hanno dovuto ricostruire il Pil procedendo a ritroso, sul-
la base di ipotesi e conteggi utilizzando le diverse fonti a loro disposizione. È
inevitabile pertanto che margini di incertezza, anche significativi, si riscon-
trino per le serie storiche nazionali4; e che questi siano ancora maggiori per
le serie regionali, che generalmente vengono ricavate da quelle nazionali ma
con l’ausilio di molti meno dati. A livello regionale la prima stima affidabile
del reddito per abitante è disponibile per il 1871, realizzata da chi scrive sia
ai confini regionali dell’epoca sia, più tardi, ai confini attuali5.

4 Cfr. A. Baffigi, I conti nazionali, in L’Italia e l’economia mondiale. Dall’Unità a oggi, a cura
di G. Toniolo, Marsilio, Venezia 2013, pp. 215-55; Id., Il Pil per la storia d’Italia. Istruzioni
per l’uso, prefazione di G. Toniolo, Marsilio, Venezia 2015; E. Felice, G. Vecchi, Italy’s Growth
and Decline, 1861-2011, in «The Journal of Interdisciplinary History», 45, 2015, pp. 507-48;
E. Felice, Ascesa e declino. Storia economica d’Italia, il Mulino, Bologna 2015. Per un inquadra-
mento globale sulle stime storiche del Pil per l’età contemporanea, e per i problemi che queste
comportano, rimando a Id., GDP and Convergence in Modern Times, in Handbook of Cliome-
trics, eds. C. Diebolt and M. Haupert, Springer-Verlag, Berlin Heidelberg 2016, pp. 263-93.
5 E. Felice, La stima e l’interpretazione dei divari regionali nel lungo periodo: i risultati
principali e alcune tracce di ricerca, in «Scienze Regionali: Italian Journal of Regional Science»,
14, 2015, pp. 91-120; Id., The roots of a dual equilibrium: GDP, productivity and structural
change in the Italian regions in the long-run (1871-2011), in «European Review of Economic
History», 2018, di prossima pubblicazione, DOI: 10.1093/ereh/hey018. Per una discussione
storica più approfondita, in particolare sulle stime ai confine del tempo, rimando poi a Id.,
Perché il Sud è rimasto indietro, il Mulino, Bologna 2013, pp. 26-40. Il successivo capoverso
riassume quanto argomentato lì in maniera più distesa.

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Borbonismo

Ma il 1871 è dieci anni dopo l’Unità. In un tentativo davvero pioneristico,


nel 2007 Vittorio Daniele e Paolo Malanima hanno provato a estrapolare all’in-
dietro le stime regionali disponibili a quel tempo per altri benchmark (il 1891 e
il 1911 per servizi e agricoltura, il 1871 per l’industria), utilizzando l’andamento
nazionale (non regionale ovviamente, non essendovi dati) dei tre settori dell’e-
conomia6. Il risultato di questa retropolazione era abbastanza sorprendente: nel
1861 i redditi pro capite del Sud Italia e del Centro-Nord sarebbero stati grosso
modo sullo stesso livello. Era però un risultato che poggiava su una procedura
davvero precaria, tanto che in uno studio successivo gli stessi Daniele e Malanima
hanno preferito accantonarlo, scrivendo che, sull’esistenza e l’entità di un divario
nel 1861, «non vi è alcuna certezza»7. Ma soprattutto, oggi abbiamo maggiori
elementi per dirlo, era un risultato che partiva da un dato (quello per l’industria
nel 1871, ricavata da una stima preliminare di Stefano Fenoaltea)8, che sotto-
valutava il divario fra Nord e Sud: l’autore di quella prima stima, Fenoaltea, vi
sarebbe poi tornato più volte insieme a Carlo Ciccarelli, in uno sforzo davvero
monumentale che ricostruisce serie annuali regionali dei singoli settori industriali
dal 1861 al 1913, concretizzatosi in numerosi saggi e volumi e per certi aspetti
ancora in corso, finendo per produrre numeri ben diversi in termini di divario,
anche per il 1861 (ci stiamo per tornare)9. Era inoltre un risultato gonfiato anche
da un banalissimo errore di attribuzione della popolazione dai confini storici a
quelli attuali, dalla Campania al Lazio (il denominatore, la popolazione, risultava
pertanto minore per il Sud, aumentando il reddito per abitante)10. La stima cui
si è fatto cenno per il 1871 tiene conto sia delle ultime acquisizioni del lavoro di
Ciccarelli e Fenoaltea per l’industria, sia di più corrette procedure per il passaggio
dai confini dell’epoca ai confini attuali (il dato del Sud ai confini attuali viene
comunque leggermente rivalutato, salendo da 89,4 a 90,0, fatta 100 l’Italia).

6 V. Daniele, P. Malanima, Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-


2004), in «Rivista di Politica Economica», 67, 2007, pp. 267-315.
7 Idd., Il divario Nord-Sud in Italia. 1861-2011, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)
2011, p. 189.
8 S. Fenoaltea, Peeking backward: Regional aspects of industrial growth in post-unification
Italy, in «Journal of Economic History», 63, 2003, pp. 1059-102.
9 Per una sintesi, tuttora provvisoria, si vedano i due volumi: C. Ciccarelli, S. Fenoaltea,
La produzione industriale delle regioni d’Italia, 1861-1913: una ricostruzione quantitativa, vol.
1, Le industrie non manifatturiere, Banca d’Italia, Roma 2009; Idd., La produzione industriale
delle regioni d’Italia, 1861-1913: una ricostruzione quantitativa, vol. 2, Le industrie estrattivo-
manifatturiere, Banca d’Italia, Roma 2014.
10 Su questo cfr. in particolare E. Felice, Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica. Una replica
a Daniele e Malanima, in «Rivista di Storia Economica», 30, 2014, pp. 197-242; cfr. anche V.
Daniele e P. Malanima, Perché il Sud e rimasto indietro? Il Mezzogiorno fra storia e pubblicistica,
in «Rivista di Storia Economica», 30, 2014, pp. 3-35.

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Felice, Il divario Nord-Sud

Sin da quando la stima di Daniele e Malanima è stata pubblicata, nel 2007,


diversi storici e storici economici si sono mostrati scettici verso quel risultato;
specie quanti erano consapevoli che l’originaria stima di Fenoaltea sottovalutava
il divario Nord-Sud11. È difficile tuttavia aspettarsi dagli scrittori e dai giornalisti
di avere la stessa accortezza (o in certi casi perfino maggiore), nel maneggiare e
soprattutto nell’interpretare i dati, degli storici di professione. E difatti quell’ac-
cortezza non si è avuta. Pino Aprile, nel già citato Terroni (uscito appena tre anni
dopo la stima di Daniele e Malanima), ha dato a quei numeri (assai precari) un
ampio risalto, avvalorandoli senza alcun senso critico. Diverse pagine di quel
libro descrivono in modo entusiasta quel «preziosissimo studio», senza mai en-
trare nel merito della solidità delle stime: «Aver buttato una luce mica da niente
su una disputa ormai ultrasecolare gli ha dato qualche emozione?» chiede a un
certo punto (p. 102) Pino Aprile a Paolo Malanima (ma ottiene una risposta
di doveroso distacco sentimentale). Né c’è solo questo. Perfino Ciccarelli e Fe-
noaltea, che nelle loro ricerche facevano semplicemente notare come nel 1861
la debole struttura industriale di un Paese ancora largamente agricolo, quale
l’Italia, fosse ancora geograficamente concentrata, di lì a poco sarebbero finiti
arruolati nell’ampia pubblicistica sudista, quali sostenitori di un Sud industriale
avanzato vessato dall’unificazione. Davvero paradossale, in questo secondo caso,
perché Ciccarelli e Fenoaltea – a leggerli! – affermano esattamente l’opposto.
Sostengono, loro dati alla mano, che il prodotto delle regioni meridionali è pro-
babilmente migliorato, nei dieci anni successivi all’Unificazione, più di quello
del Centro-Nord; ne risulta quindi che, a loro giudizio, fra il 1861 e il 1871 il
divario Nord-Sud si è ridotto! È vero infatti che la troppo rapida adozione della
tariffa liberoscambista del Piemonte danneggiò le industrie presenti nel napo-
letano e in Calabria, generosamente protette dai Borbone (non è vero invece
che gli storici non se ne siano occupati: al contrario)12. Ma si trattava di attività
ancora di portata modesta, che avevano un peso davvero marginale sul prodotto

11 S. Lupo, L’economia del Mezzogiorno postunitario. Ancora su dualismo e sviluppo, in


«Meridiana», 69, 2010, pp. 197-213; V. Zamagni, La situazione economico-sociale del Mezzo-
giorno negli anni dell’unificazione, in «Meridiana», 73/74, 2012, pp. 267-81; F. Barbagallo, La
questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Laterza, Roma-Bari 2013, in particolare
p. 49.
12 Cfr. ad esempio L. De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno,
II ed., Laterza, Roma-Bari 1974, pp. 63-5; G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale.
1850-1918, il Mulino, Bologna 1988, pp. 87-9; G. Pescosolido, Unità nazionale e sviluppo
economico. 1750-1913, Laterza, Roma-Bari 1998, pp. 180-4; L. De Matteo, «Noi della me-
ridionale Italia». Imprese e imprenditori del Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Edizioni
Scientifiche Italiane, Napoli 2002, pp. 85-107; Felice, Ascesa e declino cit., p. 118. Sulla fon-
deria calabrese di Mongiana, inaugurata nel 1771 e chiusa nel 1874, cfr. A. Placanica, Storia
della Calabria dall’antichità ai giorni nostri, Donzelli, Roma 1999.

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Borbonismo

aggregato. Quella stessa liberalizzazione delle tariffe favorì invece le esportazioni


agricole e la connessa industria agro-alimentare del Sud, ben più importante.
L’effetto aggregato sarebbe stato quindi un avvicinamento nel reddito fra il Mez-
zogiorno e il Centro-Nord. Ciccarelli e Fenoaltea concludono un loro saggio
dedicato specificamente all’argomento, pubblicato nel 2012, con queste parole:
Non sorprende [...] che la crescita più rapida dopo il 1861 si sia verificata
nel Mezzogiorno, che solo allora ricevette il beneficio di un commercio estero
relativamente libero, di un miglioramento delle infrastrutture; che all’interno
del Mezzogiorno la crescita sia stata massima nelle aree favorite dalla produzione
di beni esportabili, dalla presenza di porti che attiravano il nuovo commercio.
Sarebbe forse provocatorio concludere che l’Unità nazionale giovò innanzi-
tutto (e fino alla svolta protezionistica) al Mezzogiorno; sembra però acquisito
che giovò molto al Mezzogiorno il mutamento delle politiche economiche (com-
merciali, infrastrutturali) che accompagnò l’Unità. [...] Per come governarono,
con le politiche che di fatto attuarono, sembra proprio che i Borboni avessero
ingabbiato l’economia del Mezzogiorno, che questa con i Savoia prese il volo13.

Stando insomma alla ricostruzione più approfondita e aggiornata sul


prodotto delle regioni italiane per tali anni – quella appunto di Ciccarelli e
Fenoaltea – il Sud Italia si trovava, nel 1861, un po’ più indietro di quanto
non fosse nel 1871, sul resto del Paese. All’Unità il divario Nord-Sud era
maggiore, non minore, di quanto non sarebbe stato dieci anni dopo. Visto
che, come accennato, nel 1871 doveva essere intorno all’89-90% della me-
dia nazionale, nel 1861 poteva essere ad esempio, come ipotizzo in Perché il
Sud è rimasto indietro (pp. 39-40), circa all’85% della media italiana, ovvero
fra il 75 e l’80% del Centro-Nord. Si tratta di un dato non dissimile da
quello proposto dallo studioso americano Richard Eckaus in un articolo
pubblicato sul «Journal of Economic History» ormai quasi sessant’anni fa,
dopo aver passato in rassegna i singoli indicatori per specifiche attività o
comparti reperibili per il periodo unitario, oltre ai dati sull’occupazione e le
infrastrutture, sull’import-export e, per un periodo un po’ successivo, sulla
potenza installata nell’industria.
È difficile sintetizzare in un unico numero le differenze qualitative e quantitative
che si osservano nei diversi comparti. Nel prodotto pro capite dell’agricoltura, il
Nord aveva un margine sul Sud di almeno il 20%. I margini nei settori delle ma-
nifatture e dei trasporti erano probabilmente meno grandi, ma questi settori erano
relativamente piccoli. In altri, meno importanti settori, le differenze regionali erano

13 C. Ciccarelli e S. Fenoaltea, La cliometria e l’unificazione italiana: bollettino dal fronte, in


«Meridiana», 73/74, 2012, pp. 258-66 (p. 266).

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Felice, Il divario Nord-Sud

probabilmente assai modeste. Nell’insieme, appare plausibile un divario di reddito


pro capite fra Nord e Sud oscillante fra il 15 e il 25%14.
Siamo, certo, in un campo di inevitabili speculazioni. Ma giova ricordate
che, almeno a grandi linee, questa cifra ipotetica trova conferma nei dati pun-
tuali di cui disponiamo per specifiche branche della produzione. I principali
vengono qui riassunti nella Tabella 1. Non tutti sono attendibili, come spiegato
in un breve «apparato critico» in fondo alla Tabella. E anzi alcuni fra i più im-
portanti (il valore della produzione agricola) non lo sono affatto. Nondimeno lo
scarto è molto netto, anche maggiore di quello indicato da Eckaus. La produzio-
ne agricola per abitante, ad esempio, è al Sud il 75% di quella del Centro-Nord,
che include la Sardegna (ed è l’83% della media nazionale). Se pensiamo che al
Sud fosse sottovalutata, come sostiene Guido Pescosolido, possiamo forse torna-
re al margine di vantaggio indicato da Eckaus fra Nord e Sud (il 20%). Sembra
comunque difficile che non vi fosse un divario nella produzione pro capite, in
quello che era di gran lunga il settore più importante dell’economia.
In aggiunta, il differenziale pro capite che emerge da singole branche dell’in-
dustria è maggiore di quello complessivo ipotizzato da Eckaus. D’altronde, il
fatto che nell’industria il divario fosse abbastanza profondo è ora confermato
anche dalle stime di Ciccarelli e Fenoaltea. Così ho sintetizzato i loro risultati,
in una recente pubblicazione:
Stando alla più recente ricostruzione di Ciccarelli e Fenoaltea (2014: 676-677), il
Regno delle Due Sicilie contava nelle industrie estrattivo-manifatturiere (metallurgia,
meccanica, lavorazione dei minerali non metalliferi, chimica, gomma) una produzio-
ne pro capite pari al 93% della media nazionale; nelle industrie non-manifatturiere
(estrattive, costruzioni, utilities), il dato per il Mezzogiorno era però più basso, 81,5%
(Ciccarelli, Fenoaltea 2009: 498-499); nel tessile, in base alle nuove stime (Fenoaltea,
2004) il Mezzogiorno si trovava ancora più indietro, al 64%. Per l’insieme di queste
tre branche ‘conosciute’, il valore aggiunto industriale per abitante dell’ex Regno delle
Due Sicilie si attestava intorno all’83% della media nazionale15.
Un divario pari all’83% della media italiana è per coincidenza lo stesso regi-
strato dalle stime disponibili sulla produzione agricola, presentate nella Tabella 1
a pagina 48. Questo vuol dire che il divario rispetto al Centro-Nord è anch’esso
identico: al 1861, nella produzione industriale per abitante il Sud era al 75%.

14 R.S. Eckaus, The North-South differential in Italian economic development, in «Journal of


Economic History», 20, 1961, pp. 285-317 (p. 300; traduzione mia).
15 Felice, La stima e l’interpretazione cit., p. 101. Le pubblicazioni di Fenoaltea e di Cicca-
relli e Fenoaltea riportate nella citazione sono: Ciccarelli, Fenoaltea, La produzione industriale
delle regioni d’Italia, 1861-1913, vol. 1 (2009) e vol. 2 (2014) cit.; S. Fenoaltea, Textile Produc-
tion in Italy’s Regions, in «Rivista di Storia Economica», 20, 2004, pp. 145-74.

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Borbonismo

Più di quanto suggerito da Eckaus16. È da notare infine che anche i dati dispo-
nibili sul commercio suggeriscono che vi fosse una chiara disparità fra Nord e
Sud. L’avvertenza è che non si tratta, in questi casi, di indicatori diretti di pro-
duzione (e naturalmente vi influiscono anche la posizione geografica, i confini,
la popolazione, oltre che le risorse naturali); pur con tutte queste cautele, si può
ritenere che il grado di apertura internazionale, sia nelle importazioni che nelle
esportazioni, sia in qualche modo legato al livello di avanzamento economico.
Tanto più che le differenze sono davvero profonde. Secondo la più recente rico-
struzione di Giovanni Federico e Antonio Tena, negli anni cinquanta dell’Otto-
cento il valore pro capite dell’import-export nel Regno delle Due Sicilie e nello
Stato Pontificio era appena il 50% della media nazionale17.
Se poi estendiamo lo sguardo dal prodotto di agricoltura e industria alle reti di
traporto e comunicazioni – cioè alle infrastrutture fondamentali per lo sviluppo
economico – otteniamo un quadro ancora più netto. Il divario più profondo è
nelle ferrovie, la misura stessa della modernità nel diciannovesimo secolo. Il Re-
gno delle Due Sicilie aveva avuto il primato della Napoli-Portici, la prima linea
ferroviaria inaugurata in Italia, nel 1839 (collegava la capitale, Napoli, con la
residenza estiva dei Borbone). Ma al di là di quello vi era stato pochissimo altro,
nella sostanza estensioni e ramificazioni attorno alla prima linea, e nulla al di
fuori della Campania: nel 1859, benché fosse di gran lunga lo Stato più esteso, il
regno borbonico poteva tristemente vantare la più piccola rete ferroviaria d’Italia,
di appena 99 chilometri (superato dallo Stato Pontificio a 101). Impressionante,
anche in termini assoluti, il divario con Piemonte e Liguria (850 chilometri),
Lombardo-Veneto (522 chilometri), Toscana (257 chilometri), cioè con il Cen-
tro-Nord. E ancora più impressionanti erano i dati per superficie: nel Regno delle
Due Sicilie vi erano appena 0,9 metri di ferrovie per chilometro quadrato, quasi
un terzo rispetto ai territori della Chiesa (2,6 metri); abissale la distanza con la
Toscana (11,2), il Lombardo-Veneto (10,6), il Piemonte e la Liguria (25 metri).
Dalla Toscana in su le ferrovie erano ormai una solida realtà. In tutto il Meridione
e nelle isole non esistevano, ad eccezione di qualche area in Campania. Nel chilo-
metraggio stradale il divario risultava meno pronunciato in termini assoluti (ma
le strade erano presenti da secoli e millenni, naturalmente, non il frutto di scelte
politiche recenti come le ferrovie), benché fosse ugualmente molto elevato in rap-

16 Da notare che invece secondo le prime stime di Fenoaltea, quelle utilizzate da Daniele e
Malanima nella loro retropolazione, nel 1871 la produzione industriale pro capite del Sud Italia
sarebbe stata l’88% della media nazionale, cinque punti sopra il dato (ristimato) per il 1861,
Fenoaltea, Peeking backward cit.
17 G. Federico, A. Tena, The Ripples of the Industrial Revolution: Exports, Economic Growth,
and Regional Integration in Italy in the Early Nineteenth Century, in «European Review of
Economic History», 18, 2014, pp. 349-69.

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Felice, Il divario Nord-Sud

porto alla superficie: nel 1863, nel Nord-Ovest correvano 645 metri di strade per
chilometro quadrato, 538 in Toscana; appena 130 nel Regno delle Due Sicilie18.
Le telecomunicazioni erano allora, soprattutto, le lettere ricevute per abitante: nel
Regno delle Due Sicilie se ne contavano appena un quarto di quelle in Piemonte
e Liguria (1,6, a fronte di 6,1), fra un terzo e un quarto quelle della Lombardia
(5,3), poco più della metà che in Toscana (3,1).
Va riconosciuto che il Sud Italia borbonico aveva investito molto nella
navigazione marittima, anziché nelle vie di terra, e che questa aveva una certa
importanza data la conformazione geografica del Mezzogiorno. Si tratta di un
aspetto di solito sottovalutato, in queste analisi comparative. Tuttavia, non
sembra tale da modificare sostanzialmente la situazione (tantomeno ribaltar-
la). Come abbiamo visto, già solo nel chilometraggio stradale il divario per
chilometro di superficie è davvero molto ampio, di un ordine di tre-quattro
volte: ma nei fatti sarebbe ancora più ampio, dato che occorre tenere conto
della più difficile orografia del territorio a Sud, rispetto alla pianura Padana (ci
vogliono più chilometri di strade per collegare due paesi di montagna, rispetto
a due paesi di pianura). In quanto alle ferrovie, è da notare che queste arri-
varono in misura significativa al Sud proprio dopo l’Unità, nei due decenni
successivi: già nel 1863, Napoli è collegata con Roma, quindi nel 1866 con
Firenze e il Centro-Nord; da Ancona, nel 1866 la ferrovia arriva a Lecce e
poi, attraverso la costa ionica, nel 1875 raggiunge Reggio Calabria; attraverso
l’interno, Napoli e Bari sono collegate nel 1870, Salerno, Potenza e Taranto
nel 1880; anche in Sicilia, e in Sardegna, le linee essenziali vengono costruite
fra la metà degli anni sessanta e il 1880; infine, la Salerno-Reggio Calabria
verrà realizzata sotto la Sinistra storica, fra il 1883 e il 189519. Queste linee
ferroviarie si svilupparono senza che fosse, almeno inizialmente, compromessa
la navigazione di cabotaggio di epoca borbonica, che infatti sarebbe rimasta
ampiamente concorrenziale, se non più conveniente, ancora per due o tre de-
cenni. Nel complesso, si può dire pertanto che in tema di infrastrutture il Sud
Italia, davvero molto arretrato, abbia beneficiato dall’Unificazione. E come
abbiamo visto, tutto sommato (al netto di alcuni errori per le manifatture,
peraltro ampiamente riconosciuti dalla storiografia) sembra aver beneficiato
anche della nuova politica economica liberoscambista.

18 Felice, Perché il Sud è rimasto indietro cit., pp. 22 (ferrovie) e 23 (strade). Per le ferrovie e
le strade, come anche per le lettere ricevute, i dati originali per gli Stati pre-unitari sono presi da
Correnti, Maestri, Annuario statistico italiano cit.; cfr. anche Zamagni, La situazione economico-
sociale del Mezzogiorno cit., pp. 280-1; Felice, The Socio-Institutional Divide cit., pp. 45-7.
19 Felice, Ascesa e declino cit., pp. 119-20 e 162; cfr. anche S. Fenoaltea, L’economia italiana
dall’Unità alla Grande guerra, Roma-Bari, Laterza 2006, pp. 193-203, anche per il giudizio
sulla navigazione di cabotaggio.

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Tabella. Indicatori quantitativi relativi alle regioni italiane intorno all’unificazione:
stato dell’arte e problemi aperti

Valore della produzione Seta grezza, 1857 (b)


Cotone, Carta, Grandi imprese Lana, Cuoio,
agricola (circa 1857) (a) num. valore metalmeccaniche, num. tonnellate
fusi, prodotto occupati (d) telai 1866 (f )
Tot. Per ettaro Per ab. Num. Val. Per ab. circa 1858 1866
(mln lire) (lire) (Ita = bacinelle prod. (Ita = 1857 (c) (mln lire) (e)
100) (mln 100)
lire)
Piemonte 516 169 126 25.000 59 151 197.000 6,4 2.204 2.700 4.150
Liguria - - - - - - - - 2.255 350 -
- - - - - 40 0 0
Sardegna 48 23 70

48
Lombardia 435 238 116 34.627 80 260 123.046 4,5 1.522 550 1.909
Borbonismo

Veneto 270 128 103 20.000 33 154 30.000 0 1.250 850 2.150

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Parma-
197 174 193 2.500 6 72 0 1,5 100 0 -

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Modena

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Stato
264 68 73 5.000 12 40 30.000 1,8 759 400 796
Pontificio
Toscana 242 117 112 3.300 8 45 3.000 2,2 1.147 600 1.286
Regno
870 81 83 14.400 35 41 70.000 3,0 2.500 1.640 4.083
Due Sicilie
Italia 2.842 104 100 104.827 233 100 453.000 19,4 11.777 7.090 14.274
Si veda la Legenda seguente.
Felice, Il divario Nord-Sud

Legenda della Tabella

Note: Per la seta, il cotone e la carta, i dati di Liguria e Sardegna sono inclusi
nel Piemonte; per la produzione agricola e il cuoio, i valori della Liguria sono
inclusi nel Piemonte.

Fonti: Zamagni, La situazione economico-sociale del Mezzogiorno cit., pp. 280-


1; E. Felice, The Socio-Institutional Divide: Explaining Italy’s Long-Term Regional
Differences, in «Journal of Interdisciplinary History», 49, 2018, n. 1, pp. 43-70
(pp. 45-7); il valore della produzione agricola è preso da C. Correnti e P. Mae-
stri, Annuario statistico italiano per cura di Cesare Correnti e Pietro Maestri, Tipo-
grafia letteraria, Torino 1864; i dati sulla seta, il cotone e la carta sono presi da
P. Maestri, Della industria manifatturiera in Italia, in «Rivista Contemporanea»,
88, 1858, n. 22, pp. 207-431; i dati sugli occupati nell’industria metalmecca-
nica provengono da Camera dei Deputati, Atti Parlamentari, sessione 1865-66,
n. 24A, Stabilimenti meccanici esistenti in Italia, Tipografia eredi Botta, Torino
1864, pp. 70-89 e F. Giordano, L’industria del ferro in Italia, Tipografia Cotta e
Capellino, Torino 1864; i dati sulla lana e il cuoio nel 1866, da P. Maestri, L’Ita-
lia economica nel 1868, Stab. di Civelli, Firenze 1868, pp. 198-9. In aggiunta a
quei dati, si è proceduto qui al calcolo delle produzioni agricola e della seta pro
capite; a tale scopo, i numeri sulla popolazione degli Stati pre-unitari sono presi
da Svimez, Un secolo di statistiche italiane. Nord e Sud 1861-1961, Stabilimento
tipografico Fausto Failli, Roma 1961.

Apparato critico: (a) a giudizio di molti autori, la stima della produzione


agricola proposta da Correnti e Maestri non è attendibile e tanto il dato dello
Stato Pontificio, quanto quello del Regno delle Due Sicilie sono probabilmente
sottovalutati (ma anche le stime per le altre regioni andrebbero ricostruite); per
una critica approfondita, cfr. G. Pescosolido, Alle origini del divario economico,
in Radici storiche ed esperienza dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Ta-
ormina, 18-19 novembre 1994, a cura di L. D’Antone, Bibliopolis, Roma 1996,
pp. 13-36; (b) i dati sulla seta si riferiscono al periodo precedente la malattia del
baco; a giudizio di Vera Zamagni, comunque, «successivamente, il primato del-
la Lombardia si consolida, mentre la produzione del Sud diventa trascurabile»
(Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, il Mulino, Bologna 2007,
p. 43); (c) le stime dei fusi di cotone di Veneto, Stato Pontificio, Toscana, Regno
delle Due Sicilie, e quindi giocoforza anche dell’Italia, sono tutte approssimati-
ve; (d) per le grandi imprese metalmeccaniche, secondo una stima alternativa il
numero di addetti all’industria metalmeccanica in Piemonte nel 1861 ammonta
a circa 7.500 (M. Abrate, L’industria siderurgica e meccanica in Piemonte dal
1831 al 1861, Museo Nazionale del Risorgimento, Torino 1961); il dato per
il Regno delle Due Sicilie si riferisce solo a Campania (2.225) e Sicilia (275),
per le altre regioni non si hanno notizie; (e) nella lana, dalle stime per lo Stato
Pontificio, e quindi anche per l’Italia, è escluso il Lazio; (f ) nel cuoio, dalle stime
per lo Stato Pontificio (e quindi anche per l’Italia) è escluso il Lazio, ma sono
inclusi Parma e Modena.

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Borbonismo

Infine vale la pena aggiungere che anche l’infrastrutturazione creditizia ri-


sultava, all’epoca dell’Unità, nettamente sbilanciata a favore del Centro-Nord.
Nel Regno delle Due Sicilie all’Unità troviamo, accanto alla casa bancaria dei
Rothschild che serviva la monarchia e a qualche sparuto banchiere privato, solo
due vere e proprie banche moderne, entrambe pubbliche, il Banco di Napoli
e il Banco di Sicilia. Il primo aveva un’unica filiale, a Bari, aperta peraltro nel
1857; il secondo una filiale a Messina, oltre alla sede di Palermo20. Da notare
inoltre che nessuno dei due emetteva moneta cartacea (ma solo moneta metal-
lica e fedi di credito), la quale non esisteva ancora nel Mezzogiorno, mentre era
già abbastanza diffusa nel Centro-Nord (si trattava di un’innovazione recente,
legata, come le ferrovie, all’utilizzo della macchina a vapore). Il dato riportato
da Francesco Saverio Nitti, di una maggiore quantità di moneta metallica al
Sud rispetto al Centro-Nord, si deve semplicemente a questo: era quindi un
segno di arretratezza, non certo di progresso. Al contrario nel Centro-Nord
esistevano già diversi banchi di emissione (la Banca Nazionale degli Stati Sar-
di, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito e altri istituti
minori come la Banca di Parma, lo Stabilimento Mercantile Veneto, la Banca
delle Quattro Legazioni di Bologna), numerosi banchieri privati, un istituto di
antica tradizione come il Monte dei Paschi di Siena, a partire dagli anni 1850
nel Regno di Sardegna anche banche private sotto forma di società per azioni;
ancora, ben 129 casse di risparmio, i più moderni istituti dell’epoca per finan-
ziare le piccole attività (di questi 24 nel Lombardo-Veneto, 22 nel regno sabau-
do, 32 in Toscana e nei ducati emiliani, 51 nello Stato Pontificio; in tutto il
Mezzogiorno vi era invece una sola cassa di risparmio). Si contavano nel regno
borbonico circa 1.200 monti frumentari, istituti di epoca tardomedievale che
esercitavano credito in natura nel settore cerealicolo (prestavano sementi); diffi-
cile stimare il loro impatto, ma va tenuto conto che non erano nemmeno tanti,
in rapporto alla popolazione, se si pensa che la sola Sardegna ne annoverava ben
360. Molto minori rispetto al Centro-Nord erano invece i monti di Pietà, che
pure esercitavano credito in natura, ma nei contesti urbani. Per farla breve: nel
Centro-Nord esisteva un’infrastruttura creditizia ampiamente diversificata, in
evoluzione verso il moderno capitalismo; nel Mezzogiorno, da questo punto di
vista si era invece ancora nel medioevo, o poco più in là21.

20 D. Demarco, Banca e congiuntura nel Mezzogiorno d’Italia. 1: 1809-1863, Esi, Napoli


1963; M.C. Schisani, La Banca “C.M. Rothschild e figli” di Napoli, in Per i 150 anni della
Comunità Ebraica di Napoli. Saggi e Ricerche, a cura di G. Lacerenza, Università degli studi di
Napoli L’Orientale, Napoli 2015, pp. 9-32.
21 Oltre ai due saggi della nota precedente, per un quadro comparative cfr. Felice, Perché
il Sud è rimasto indietro cit., pp. 24-5 e la bibliografia ivi citata.

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Felice, Il divario Nord-Sud

Nell’insieme tutti questi dati, uniti alle stime del Pil per il 1871 che ab-
biamo richiamato e alle ipotesi sul trend 1861-71, indicano con nettezza che
il Sud Italia non era affatto lo Stato industrialmente più progredito d’Italia
– tantomeno il terzo del mondo. Era anzi in assoluto il più arretrato (seguito
forse a breve distanza dallo Stato Pontificio). Le regioni più progredite d’Italia
erano il Piemonte e la Liguria (nel Regno di Sardegna), la Lombardia; seguite
dall’Emilia e dalla Toscana. Non è un caso infatti che proprio la monarchia
sabauda a Nord, benché più piccola del regno borbonico, si sia imposta come
guida del processo di unificazione.

3. Il divario sociale

Se il divario nel reddito è presente e visibile, quello negli indicatori sociali


è impressionante. Prendiamo l’istruzione. I livelli medi di alfabetizzazione,
probabilmente il più importante motore di sviluppo economico nell’Ottocen-
to – e ancora oggi a dire il vero – non lasciano adito a dubbi: all’Unità d’Italia,
l’86% dei meridionali (popolazione con più di 15 anni) è analfabeta, contro
il 63% del Centro-Nord; 23 punti di differenza sono enormi, dati i tempi.
In Piemonte e in Lombardia, per la verità, metà della popolazione sa ormai
leggere e scrivere, mentre Basilicata e Sardegna detengono il record dell’89%
di analfabeti, seguite da Calabria e Sicilia (88 e 87). Nel Meridione, solo la
Campania ha una quota di analfabeti (82%) paragonabile a quella delle più
arretrate regioni del Centro-Nord, l’Umbria e le Marche; ma lontana dalla
terzultima regione, l’Emilia-Romagna (75%)22.
Ancora nel 1871, la situazione a livello provinciale è quella indicata nella
Figura 1. Come si collocano questi dati a livello internazionale? Alcune pro-
vince di quello che (non a caso) sarebbe stato il futuro «triangolo industria-
le» potevano vantare livelli di scolarizzazione non dissimili da quelli dei più
avanzati Paesi europei. Nel 1871, sulla popolazione con più di 15 anni di
età la provincia di Torino totalizzava il 67% di persone in grado di leggere e
scrivere, più della percentuale registrata allora dalla Prussia: naturalmente si
tenga presente che in un caso stiamo parlando di una provincia, (ex) capita-
le, nell’altro di un Paese intero; ma il livello di capitale umano raggiunto dei
torinesi è davvero ragguardevole, 35 punti sopra la media nazionale (32%).
Alla stessa data, il Sud, ancora fermo al 17%, era 13 punti sotto la Spagna

22 B. A’Hearn, C. Auria, G. Vecchi, Istruzione, in In ricchezza e in povertà. Il benessere degli


italiani dall’Unità a oggi, a cura di G. Vecchi, il Mulino, Bologna 2011, pp. 159-206 e 425-6
(in particolare si guardino i dati nell’Appendice statistica).

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Borbonismo

Figura 1. Tassi di alfabetismo nelle province italiane al 1871 (percentuale su


popolazione con più di 15 anni di età).

Tassi alfabetismo 15+ (1871)


(80,100]
(60,80]
(40,60]
(20,40]
[0,20]

Fonte: G. Cappelli, Capitale umano e crescita economica: l’evoluzione del sistema educativo italiano, in Ricchi
per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, a cura di P. Di Martino e M. Vasta, il Mulino, Bolo-
gna 2017, pp. 75-127 (p. 89); elaborazioni dal Censimento della popolazione del 1871.

(30%), un Paese all’epoca senza subbio piuttosto arretrato. La Sicilia (15%),


ma tutto il Mezzogiorno per la verità si trovavano decisamente più vicini al
Nord Africa (6%), che non al Centro-Nord (42%)23.

23 G. Cappelli, M. Vasta, Does centralization foster human capital accumulation? Quasi-


experimental evidence from Italy’s Liberal Age, mimeo 2016. Per i dati della Sicilia e del Centro-
Nord, A’Hearn, Auria, Vecchi, Istruzione cit.

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Felice, Il divario Nord-Sud

I tassi di scolarizzazione, per gli anni immediatamente successivi all’Uni-


tà, confermano questo quadro (si veda la Figura 2). Quelli di istruzione per
abitante, per il primo anno per cui è stato possibile ricostruirli (il 1871) non
sono diversi: su una media italiana di 1,44 (sulla popolazione con oltre 25
anni di età), il Mezzogiorno si trovava a 0,7, il Nord-Ovest a 2,6 (cioè quasi
il quadruplo; l’area del Nord-Est e Centro, pur con grandi differenze al suo
interno di collocava intorno alla media nazionale)24. In sostanza, il Sud Italia
borbonico si collocava, in termini di capitale umano, in una situazione peg-
giore della Spagna e non dissimile (forse appena un po’ migliore) da quella
della Russia zarista25, un Paese in cui vigeva la servitù della gleba, abolita
formalmente nel 1861 (ma per molti aspetti proseguita per diversi decenni).
È da notare peraltro che aveva un assetto simile all’impero zarista anche
l’ordinamento politico del Regno delle Due Sicilie: un’autocrazia, senza par-
lamento. Del resto nel Sud borbonico non esistevano scuole dell’obbligo, e
le istituzioni e condizioni economiche e sociali, a cominciare dal latifondo
estensivo, non davano nessun incentivo alla scolarizzazione dei ceti popolari
– anzi la scoraggiavano.
Può essere interessante provare a capire quando un divario così profon-
do, che peserà questo sì (sul serio) sulle sorti future del Mezzogiorno26 e per
certi aspetti dell’Italia tutta27, si è prodotto. Di recente, un lavoro di Carlo

24 Cfr. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro cit., Tabella A.9 dell’Appendice statistica
online; per le stime si veda anche E. Felice, M. Vasta, Passive Modernization? The New Human
Development Index and its Components in Italy’s Regions (1871-2007), in «European Review of
Economic History», 19, 2015, pp. 44-66.
25 Qui ancora alla fine dell’Ottocento gli analfabeti censiti erano il 79% della popolazio-
ne: O. Crisp, Lavoro e industrializzazione in Russia, in Storia economica Cambridge, vol. VII
L’età del capitale, I. Stati Uniti. Giappone. Russia, a cura di M.M. Postan e P. Mathias, Einau-
di, Torino 1980, pp. 383-523 (p. 478). I dati per il periodo precedente sono molto frammen-
tari, benché sembrano supportare il giudizio di cui sopra: cfr. B. Mironov, The development of
literacy in Russia and the Ussr from the tenth to the twentieth centuries, in «History of Education
Quarterly», 31, 1991, pp. 229-52. Per la Spagna, cfr. in particolare C.E. Núñez, Educación,
in Estadísticas históricas de España. Siglos XIX y XX, II ed., vol. I, a cura di A. Carreras e X.
Tafunell, Fundación Bbva, Madrid 2005, pp. 157-244.
26 Sul ruolo del capitale umano per il decollo industriale del triangolo, rimando a E.
Felice, Regional Development: Reviewing the Italian Mosaic, in «Journal of Modern Italian
Studies», 15, 2010, pp. 64-80; Id., Regional Convergence in Italy (1891-2001): Testing Human
and Social Capital, in «Cliometrica», 6, 2012, pp. 267-306; C. Ciccarelli, S. Fachin, Regional
Growth with Spatial Dependence: a Case Study on Early Italian Industrialization, in «Papers in
Regional Science», 96, 2017, pp. 675-95.
27 P. Di Martino, M. Vasta, Istituzioni e performance economica in Italia: un’analisi di
lungo periodo, in Ricchi per caso. La parabola dello sviluppo economico italiano, a cura di P. Di
Martino e M. Vasta, il Mulino, Bologna 2017, pp. 231-64; A. Nuvolari, M. Vasta, The Ghost

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Borbonismo

Figura 2. Alunni delle scuole primarie nelle province italiane, 1862-63


(quota su popolazione dai 6 ai 14 anni)

Tassi iscriz. lordi 6-14 (1862/3)


(80,100]
(60,80]
(40,60]
(20,40]
[0,20]

Fonte: J. Westberg, G. Cappelli, How did education policy shape the race towards mass education? A comparative
perspective based on France, Italy, Spain and Sweden, c. 1840-1940, 2019 (mimeo). Cfr. anche G. Cappelli, Esca-
ping from a human capital trap? Italy’s regions and the move to centralized primary schooling, 1861-1936, in
«European Review of Economic History», 20, 2016, pp. 46-65 (p. 50).

Ciccarelli e Jacob Weisdorf ha cercato di fornire una risposta, ricostruendo


all’indietro i tassi di alfabetizzazione a livello regionale, per il periodo dal
1821 all’Unità. Secondo le loro stime, dettagliate a livello provinciale e an-
che suddivise per sesso, il divario Nord-Sud in termini di alfabetizzazione

in the Attic? The Italian National Innovation System in Historical Perspective, 1861-2011, in
«Enterprise & Society», 16, 2015, pp. 270-90.

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Felice, Il divario Nord-Sud

era già evidente nel 1821: in Campania, la più avanzata regione del Sud da
questo punto di vista, il 31% dei maschi adulti sapeva leggere e scrivere,
contro il 56-57% di Piemonte e Lombardia. Poi però è cresciuto conside-
revolmente nei decenni successivi. Si pensi che in Campania la quota di
popolazione maschile alfabetizzata nel 1861 era rimasta immutata, al 32%,
mentre in Lombardia era salita al 62%, nel Piemonte di Cavour addirittura
al 70%. Ma soprattutto, nel Centro-Nord aumentarono molto più rapida-
mente i tassi di alfabetizzazione femminile: dal 1821 al 1861, in Piemonte
passarono dal 23 al 43%, in Lombardia dal 31 al 47%; in Campania, appe-
na dall’11 al 14%28. Il Sud quindi, già indietro per il sostanziale fallimento
delle riforme illuministe, perde ancora più terreno nel periodo della restau-
razione borbonica, dal 1821 all’Unità. Non stupisce: dopo la repressione
(solo grazie all’esercito austriaco) della rivoluzione del 1820-21, il governo
borbonico torna addirittura indietro sul versante dell’istruzione popolare: la
osteggia apertamente, temendone i suoi effetti potenzialmente dirompenti
per il vecchio ordine autocratico. Si tratta di risultati che gettano una luce
inedita sull’evoluzione del divario Nord-Sud nel periodo precedente l’Unità
e che, mi sembra, confermano e irrobustiscono la spiegazione delineata in
Perché il Sud è rimasto indietro29.
Anche le stime sulla longevità, piuttosto attendibili come del resto quelle
sull’istruzione, lasciano intravedere un divario nelle reali condizioni di vita
della popolazione chiaro, marcato. A quell’epoca (il 1871, per il quale ab-
biamo numeri solidi), in Italia la vita media si aggirava intorno ai 33 anni,
molto meno di adesso soprattutto perché era molto più elevata la mortalità
infantile: nel Sud continentale scendeva a 30,7 anni, nel Nord-Ovest saliva a
34,730. Chi nasceva nel Meridione viveva poi quattro anni in meno, rispetto
a chi nasceva nel Nord-Ovest: non sono pochi, se rapportati alla longevità
dell’epoca, corrispondono a circa il 12% la durata della vita media a quel
tempo (sulla metrica di oggi è come se fossero 10 anni).
È da osservare peraltro che tanto nell’istruzione, quanto nella speranza di
vita, si è registrato dall’Unità in poi un percorso di convergenza del Sud Italia:
è apparso lento, stentato; insoddisfacente se, per esempio, nei dati sull’istru-
zione andiamo un po’ più a fondo e guardiamo agli indicatori di apprendi-
mento effettivo. Chi scrive, insieme a Michelangelo Vasta, ha parlato a tale

28 C. Ciccarelli, J. Weisdorf, Pioneering into the past: Regional literacy developments in Italy
before Italy, in «European Review of Economic History», 2018 (di prossima pubblicazione).
https://doi.org/10.1093/ereh/hey014.
29 Felice, Perché il Sud è rimasto indietro cit., pp. 41-61.
30 Ibid., Tabella A.10 dell’Appendice statistica online.

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proposito di «modernizzazione passiva», riprendendo e aggiornando una defi-


nizione di Luciano Cafagna31. Ma comunque il divario si è ridotto. Nelle due
più importanti dimensioni di quello che Amartya Sen considera lo «sviluppo
umano», oltre al reddito (appunto la conoscenza e la longevità), il bilancio fra
Nord e Sud, a centocinquant’anni dall’Unità, non è negativo. Solo nel reddito
il divario si è ampliato, pur se ovviamente in termini assoluti il Sud è cresciuto
molto (anche a questo proposito si può parlare di industrializzazione passiva,
o «esterna» secondo la definizione di Adriano Giannola)32.
Ancora un dato, fondamentale anche se, giocoforza, un po’ più incerto.
Si tratta delle stime sulla povertà. Riscostruite da Giovanni Vecchi insieme
a Nicola Amendola e Fernando Salsano, queste suggeriscono che all’Unità
d’Italia la povertà avesse nel Mezzogiorno un’incidenza maggiore che nel resto
del Paese: colpiva il 52% della popolazione, contro il 37% del Centro-Nord (e
una media nazionale del 44%); si tratta, si noti, di un divario di dimensione
maggiore di quel che si riscontra nel reddito per abitante (ma va ribadito che
le stime sono particolarmente precarie in entrambi i casi)33. A ogni modo,
anche i dati sulle altezze – che riflettono i valori nutrizionali nei primi venti
anni di età – fanno pensare che le condizioni di vita, in particolare delle fasce
di reddito più basse maggiormente esposte al rischio di denutrizione, fossero
peggiori nel Mezzogiorno: gli abitanti (maschi ventenni) del Sud e isole nati
nel 1861 (misurati nel 1881) erano 3,2 centimetri più bassi degli abitanti del
Centro-Nord: appena 160,9 centimetri, contro 164,1 (e una media italiana di
162,9). Certo, su questa misura occorre procedere con cautela non tanto sul
versante della sua affidabilità, quanto su quello interpretativo: le altezze riflet-
tono non solo le calorie disponibili ma anche il tipo di dieta, oltre che fattori
genetici. Nondimeno, è un fatto che anche in questa dimensione il divario
semmai si è ridotto, nei centocinquant’anni intercorsi dall’Unità, piuttosto
che ampliarsi: per coloro nati nel 1980 è appena di 2,8 centimetri, mentre nel
frattempo l’altezza media è considerevolmente aumentata (quella italiana ha
raggiunto i 174,5 centimetri)34. A parità di altri fattori, la condizione nutri-

31 Felice, Vasta, Passive modernization? cit.; Felice, Perché il Sud è rimasto indietro cit., p. 91; L.
Cafagna, Modernizzazione attiva e modernizzazione passiva, in «Meridiana», 2, 1988, pp. 229-40.
32 A. Giannola, Mezzogiorno oggi: una sfida italiana, in Lezioni sul meridionalismo. Nord e
Sud nella storia d’Italia, a cura di S. Cassese, il Mulino, Bologna 2016, pp. 261-96.
33 N. Amendola, F. Salsano, G. Vecchi, Povertà, in In ricchezza e in povertà, a cura di G.
Vecchi cit., pp. 271-317. Ma si veda anche la discussione critica in Felice, Perché il Sud è rimasto
indietro cit., pp. 41-6.
34 B. A’Hearn, G. Vecchi, Statura, in Vecchi, In ricchezza e in povertà cit., pp. 37-72. Su
questo cfr. anche E. Felice, I divari regionali in Italia sulla base degli indicatori sociali (1871-
2001), in «Rivista di Politica Economica», 97, 2007, pp. 359-405.

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Felice, Il divario Nord-Sud

zionale dei meridionali è quindi migliorata rispetto al Centro-Nord, proprio


mentre nello stesso periodo il divario nel reddito medio si è allargato: un’altra
conferma, da un lato, della modernizzazione passiva, dall’altro di differenze
molto profonde nelle condizioni di vita all’Unità, in particolare delle classi più
umili, che il mero dato sul reddito medio non riesce a cogliere.
Infine anche nei salari reali possiamo dire, forse adesso meglio e più di
prima, che le differenze erano piuttosto nette, almeno fra Nord e Sud. La
recente ricostruzione di Giovanni Federico, Alessandro Nuvolari e Michelan-
gelo Vasta fornisce in proposito diverse stime, a seconda dei panieri adoperati
per calcolare il livello dei prezzi. Secondo il paniere proposto da Robert Al-
len35, ampiamente utilizzato per i confronti internazionali, nel 1862 i salari
dei lavoratori non specializzati al Sud erano il 76% dei corrispondenti salari
del Nord, il 96% di quelli del Centro (ma va detto che in quest’ultimo caso i
salari sono meno rappresentativi, per via della più diffusa mezzadria). Inoltre è
molto probabile che quello del 1862 fosse un dato anomalo, eccezionalmente
favorevole per il Mezzogiorno: le differenze si sarebbero ampliate già l’anno
successivo, a tutto svantaggio del Sud i cui salari si sarebbero attestati per tutti
i decenni Sessanta e Settanta fra il 55 e il 60% di quelli del Nord (con poche
eccezioni ma sempre sotto il 70%); in seguito sarebbero diminuiti ancora.
Secondo il paniere ricostruito invece dagli stessi Federico, Nuvolari e Vasta,
più specifico per il contesto italiano e che tiene conto anche delle differenze
regionali nei consumi, nel 1862 i salari reali dei lavoratori non qualificati al
Sud sarebbero stati il 91% di quelli del Nord (e i salari del Centro ancora più
bassi, al 78% rispetto al Nord: ma di nuovo per quest’area l’interpretazione
deve tener conto della mezzadria); a ogni modo, anche in questo caso i salari
reali del Sud diminuiscono già nel 1863, all’81% rispetto al Nord (scendono
fino al 76% nel 1866, per poi risalire)36. Naturalmente bisogna tenere bene a
mente che i salari reali, anch’essi con le incertezze di cui sopra, non sono una

35 R. Allen, The great divergence in European wages and prices from the Middle Ages to First
World War, in «Explorations in Economic History», 38, 2001, pp. 411-47.
36 È inoltre da notare che, nel Mezzogiorno, si registra una performance inaspettata-
mente positiva delle isole, le quali presumibilmente hanno sistema dei prezzi e mercato del
lavoro meno integrati con il resto del Paese; nel solo meridione continentale, i salari reali,
secondo il paniere di Federico, Nuvolari e Vasta, sono nel 1862 l’87% di quelli del Nord. G.
Federico, A. Nuvolari, M. Vasta, The origins of the Italian regional divide: evidence from real
wages, 1861-1913, in «The Journal of Economic History», 79, 2019, pp. 63-98. Esiste una
stima precedente dei salari reali, elaborata da Vittorio Daniele e Paolo Malanima, più favo-
revole al Mezzogiorno. Tuttavia, in questo caso la ricostruzione del paniere dei prezzi risulta
meno accurata e anche meno confrontabile a livello internazionale. V. Daniele, P. Malanima,
Regional wages and the north-south disparity in Italy after the Unification, in «Rivista di Storia
Economica», 23, 2017, pp. 117-58.

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perfetta approssimazione del reddito medio, dato che non tengono conto del-
le diverse condizioni dell’economia (se l’industria e i servizi sono più o meno
presenti, ad esempio) e dell’occupazione (i tassi di partecipazione al lavoro di
donne e minori): vanno presi come indicazione di massima, che è appunto
quella di un divario Nord-Sud già presente all’epoca dell’Unità.
Proviamo a riassumere. Tutti gli indicatori sociali disponibili, che riflet-
tono le condizioni di vita della popolazione, evidenziano, in maniera con-
corde, come al Sud queste fossero peggiori che al Nord. Il risultato è asso-
dato. Tuttavia ne discende anche un’asimmetria, perlomeno apparente: in
particolare per quel che risulta dagli indicatori sociali, l’impressione è che in
questo campo il divario fosse maggiore rispetto al reddito medio (ma dove
pure era presente, l’abbiamo visto). Come si spiega? Due sono le possibilità.
Una è che le stime del Pil che abbiamo presentato nel paragrafo precedente
siano in realtà, anch’esse, alquanto ottimistiche per il Sud (ampi margini di
incertezza esistono soprattutto per il settore agricolo, le cui ricostruzioni si
basano, in parte, su dati del tempo poco attendibili; naturalmente l’agricol-
tura rappresentava all’epoca di gran lunga il settore più importante). Altro
quindi che il regno più avanzato d’Italia! Il Sud sarebbe stato il più arretrato
e di gran lunga, in linea con quanto emerge dagli indicatori sociali.
L’altra possibilità è che le nostre stime del Pil siano sostanzialmente atten-
dibili: il divario nel reddito per abitante, cioè nel Pil medio, era in effetti meno
pronunciato di quello nelle condizioni sociali. Se questo è vero, allora bisogna
concludere che nel Sud era maggiore la disuguaglianza. In particolare, quella
disuguaglianza che si polarizza fra una minoranza di privilegiati e la gran parte
della popolazione: la sperequazione fra ricchi e poveri, che comprime il ceto
medio (e che in quanto tale emerge in modo meno chiaro dall’indice di Gini,
più sensibile alle differenze nelle parti centrali della distribuzione)37.
Questa seconda ipotesi è quella avanzata in Perché il Sud è rimasto in-
dietro. Risulta in linea con una vasta storiografia, anche di tipo qualitativo
e piuttosto consolidata, circa le condizioni politiche e sociali del Mezzo-
giorno, e sulla composizione e l’orientamento delle sue classi dirigenti. Si
può parlare, a questo proposito, di un divario di tipo socio-istituzionale,
fra il Mezzogiorno e il resto della penisola: la maggiore disuguaglianza era
sostenuta, e sosteneva a sua volta, istituzioni di tipo estrattivo. Istituzioni

37 Va detto che le stime disponibili sull’indice di Gini assegnano inizialmente un valore


più alto al Centro-Nord (la situazione si inverte sul finire dell’Ottocento); ma sono considerate
dagli autori molto precarie, per i decenni post-unitari: N. Amendola, A. Brandolini, G.
Vecchi, Disuguaglianza, in In ricchezza e in povertà. Il benessere degli italiani dall’Unità a oggi,
a cura di G. Vecchi, il Mulino, Bologna 2011, pp. 235-69 (in particolare pp. 259-60).

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Felice, Il divario Nord-Sud

economiche: anzitutto il latifondo estensivo, ma per molti aspetti anche la


criminalità organizzata (sia la mafia che la camorra erano già sorte in epoca
borbonica, anche se si rafforzeranno a seguito dell’Unità). Istituzioni poli-
tiche: dapprima l’autocrazia borbonica, poi, dopo l’Unità, quando formal-
mente le istituzioni politiche divennero le stesse (almeno fino all’istituzione
delle regioni nel 1970), a fare la differenza sarà piuttosto il loro diverso fun-
zionamento (il clientelismo, per i diversi livelli di capitale civico), pur sotto
la patina di una comune definizione formale. La distinzione fra istituzioni
estrattive ed inclusive, e fra le correlate classi dirigenti, richiama immediata-
mente allo schema analitico di Daron Acemoglu e James Robinson, propo-
sto in Perché le nazioni falliscono e nei saggi correlati38. In linea di massima,
risulta uno schema applicabile anche al contesto italiano, tantoppiù che i
due autori insistono non solo sulle differenze formali, ma anche sul diverso
funzionamento di istituzioni nominalmente identiche, o comuni. In Perché
il Sud è rimasto indietro, tuttavia, l’approccio di Acemoglu e Robinson viene
un po’ modificato, forse arricchito, grazie a una maggiore attenzione alle
condizioni sociali, vale a dire proprio al ruolo della disuguaglianza (e in
particolare alla sperequazione fra ricchi e poveri), la quale come accennato fa
da sostrato a istituzioni estrattive e ne viene a sua volta rafforzata. Messa in
questi termini, altri schemi analitici si possono rilevare altrettanto proficui,
di fatto risultando complementari. Kenneth Sokoloff e Stanley Engerman,
analizzando le differenze di sviluppo fra l’America del Nord e l’America
Latina, pongono l’accento sul ruolo del latifondo e sulle connesse disugua-
glianze nel capitale umano e nel potere politico: in un tipico processo di
path dependence, tali aspetti si riflettono in istituzioni (formali e informali)
che a loro volta tendono a perpetuare queste disuguaglianze, ostacolando
l’avvio di un autonomo (e va da sé, inclusivo) processo di crescita39. Altri
studi di taglio istituzionalista si concentrano invece sulla capacità dello Stato
di mantenere l’ordine e garantire il rispetto della legge: il passaggio da un
«ordine ad accesso limitato» a un «ordine ad accesso aperto», ad esempio,
sarebbe a giudizio di Douglass North, John Joseph Wallis e Barry Weingast
la grande transizione che segna l’avvio della crescita economica moderna40.
La distinzione di North, Wallis e Weingast appare ugualmente calzante per

38 D. Acemoglu, J. Robinson, Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and
Poverty, Profile, London 2012; trad. it. Perché le nazioni falliscono. Le origini di prosperità,
potenza e povertà, Il Saggiatore, Milano 2013.
39 K. Sokoloff, S. Engerman, Institutions, Factor Endowments, and Paths of Development in
the New World, in «The Journal of Economic Perspectives», 14, 2000, pp. 217-32.
40 D.C. North, J.J. Wallis, B.R. Weingast, Violence and Social Order. A Conceptual
Framework for Interpreting Recorded Human History, Cambridge U.P., Cambridge 2009.

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Borbonismo

il caso italiano, non alternativa ma piuttosto complementare agli altri due


approcci: si pensi all’influenza della criminalità organizzata nel Mezzogiorno
dall’Ottocento a oggi e alle differenze regionali di capitale sociale e civicness,
pure risalenti al diciannovesimo secolo41.
Porre al centro dell’analisi le differenze socio-istituzionali vuole dire
quindi ricollegare le cause profonde del divario Nord-Sud, l’evidenza dispo-
nibile sugli indicatori economici e sociali e sulla loro evoluzione, al grande
dibattito internazionale sui fattori dello sviluppo e sulla ricchezza delle na-
zioni (e delle regioni); sprovincializzando, per così dire, la questione meri-
dionale – un’aspirazione in linea con la migliore vocazione meridionalista.
Tuttavia significa anche porsi, piaccia o meno, su una linea interpretativa
irriducibilmente antitetica rispetto a quella della retorica sudista: una linea
che rifugge da una facile (e fallace) contrapposizione fra «popolo» meridio-
nale, unitariamente inteso in termini di composizione sociale e di interessi,
e popolo settentrionale; ma che piuttosto si propone di guardare, anzitutto,
dentro il Mezzogiorno, con l’ausilio di un’analisi approfondita della società
meridionale che porti anche a una più precisa individuazione dei diversi
interessi in campo. Interessi di classe, si sarebbe detto una volta, o almeno
anche gli interessi di classe (gli «oppressi» e gli «oppressori», anzitutto nei
rispettivi contesti di riferimento). Per alcuni potrà sembrare un linguaggio
demodé. Ma è in realtà proprio delle scienze sociali moderne, e delle diverse
scuole storiografiche non solo marxiste, procedere in questo modo. Così
come, più in generale, è in fondo uno dei compiti alti della disciplina storica
quello di decostruire le identitarie fittizie, non di rado volte all’invenzione di
nemici esterni e immaginari; nel nostro caso, volte a coprire le responsabilità
nel Mezzogiorno, delle classi dominanti e del connesso blocco di consenso.

4. Conclusioni

Facendo tesoro delle più recenti acquisizioni della letteratura storico-eco-


nomica, il saggio ridiscute le condizioni del Mezzogiorno all’epoca dell’U-
nità, in rapporto al Centro-Nord, per quel che riguarda sia gli indicatori

41 P. Di Martino, E. Felice, M. Vasta, A tale of two Italies: ‘access-orders’ and the Italian
regional divide, in «Scandinavian Economic History Review», 2019 (di prossima pubbli-
cazione). DOI: 10.1080/03585522.2019.1631882. Per una rivisitazione complessiva della
spiegazione fondata sul divario socio-istituzionale, attualizzata e un po’ arricchita rispetto a
Perché il Sud è rimasto indietro, anche se naturalmente più sintetica, rimando a E. Felice, The
Socio-Institutional Divide: Explaining Italy’s Long-Term Regional Differences, in «Journal of
Interdisciplinary History», 49, 2018, pp. 43-70.

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Felice, Il divario Nord-Sud

economici, sia gli indicatori sociali. Dai risultati ne discende un giudizio


severo, senza appello, nei confronti della monarchia borbonica. Nel reddito
e nelle pre-condizioni dello sviluppo il Regno delle Due Sicilie risulta lo
Stato più arretrato della Penisola italiana, non certo il più avanzato. E non
solo. Il Sud Italia era probabilmente gravato da una sperequazione al suo in-
terno, fra ricchi e poveri, maggiore che nel resto d’Italia; una disuguaglianza
che alimentava, ed era sostenuta da, istituzioni di tipo estrattivo, e analoghe
strategie da parte delle classi dirigenti meridionali. A dirla tutta, il Sud Ita-
lia appariva all’Unità talmente arretrato che probabilmente, a quel tempo,
le sue popolazioni non erano nemmeno nelle condizioni di emigrare. Gli
studi storico-economici sull’emigrazione nel mondo ci dicono infatti che
per attivare movimenti consistenti, come saranno quelli di fine Ottocento, è
necessario raggiungere una soglia minima di reddito, cioè un certo sviluppo
economico e sociale (che consente ad esempio di poter pagare il viaggio, o
anche solo di immaginare di ricostruire una vita lontano dai luoghi natii),
nonché avere già intrapreso la cosiddetta transizione demografica (più in
dettaglio bisogna trovarsi nella fase iniziale di forte crescita demografica,
conseguenza della riduzione della mortalità, a fronte di una fecondità an-
cora elevata)42. Sono tutte condizioni che nel Sud Italia cominceranno a
prodursi solo una ventina d’anni dopo l’Unità, in ritardo rispetto al Centro-
Nord (dove infatti l’emigrazione inizia prima). Se questo è lo schema che
gli studi comparativi sull’emigrazione ci consegnano, il fatto che l’assenza
di significativi movimenti migratori attorno all’Unità sia stato addotto a
riprova di un presunto benessere dei sudditi borbonici prende addirittura il
sapore di una beffa, benché forse involontaria.
Tutto ciò in termini generali, certo. Vi potevano essere eccezioni, locali
o settoriali. Ma qui preme sottolineare il quadro di fondo: il Regno delle
Due Sicilie era a quel tempo ben lungi dagli albori di un autonomo sviluppo
industriale; men che mai poteva qualificarsi fra i Paesi più industrializzati
dell’epoca, come una certa pubblicistica favoleggia, o anche solo vantarsi di
essere bene amministrato. Vero era piuttosto il contrario. Fra le condizioni
essenziali che l’avvio dello sviluppo economico moderno esige, figurano l’al-
fabetizzazione di una quota adeguata della popolazione e la modernizzazio-
ne del settore agricolo: entrambe erano assenti nel Mezzogiorno. Figurano
anche, di norma, la modernizzazione del settore creditizio e un’adeguata
dotazione infrastrutturale: nemmeno di queste vi era traccia nel Sud borbo-
nico. Qui i deboli ceti borghesi concentrati attorno a Napoli, e in misura

42 Per tutti valga T.J. Hatton, J.G Williamson, The Age of Mass Migration: Causes and Eco-
nomic Impact, Oxford U.P., Oxford 1998.

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Borbonismo

minore a Palermo, svolgevano un ruolo marginale e nemmeno godevano


di rappresentanza politica (il regno borbonico era un’autocrazia): anzi, ri-
petutamente, all’incirca a ogni generazione (nel 1799, 1820-21, 1848), gli
slanci liberali erano stati ferocemente repressi dai sostenitori del vecchio
ordine, peraltro stranieri (austriaci) nel 1820-21. Insomma, sotto tutti gli
aspetti nel Regno delle Due Sicilie siamo ancora in pieno ancien régime. Lo
Stato non aveva nemmeno un pieno controllo della violenza, confermando
anche da questo punto di vista un assetto socio-istituzionale tipicamente
pre-moderno: in diverse province, spesso quelle più povere dagli Abruzzi
alle Calabrie, il brigantaggio era endemico; nelle regioni più ricche, cioè
in Campania e Sicilia, osserviamo già le prime forme di criminalità orga-
nizzata, la camorra e la mafia, le quali trovavano giustificazione economica
proprio nella debolezza delle strutture statuali43. Immaginare che una realtà
del genere fosse già avviata sulla strada dello sviluppo economico moderno,
o che addirittura potesse far concorrenza e paura all’Inghilterra del tempo
(la quale, per questo motivo, avrebbe favorito la spedizione di Garibaldi)44,
è un azzardo che può coltivare solo chi si trova sprovvisto delle più ovvie
nozioni di storia. Che poi fosse addirittura uno Stato progredito e prospero
è una tesi che può suscitare, alla prima, perfino ilarità. Eppure, questa è una
narrazione che è riuscita a far presa. Dopo l’iniziale reazione, si tratta forse
di comprendere a chi essa giova e perché, pur essendo palesemente fallace,
sta riscuotendo un così ampio successo.

43 Felice, Perché il Sud è rimasto indietro cit., pp. 61-74.


44 L’Inghilterra favorì la spedizione di Garibaldi, ma per ragioni di equilibrio geo-politico
(la rivalità con la Francia) e per ben altri motivi economici, di tipo semi-coloniale (l’interesse
per le miniere di zolfo siciliane). Cfr. E. Di Rienzo, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze
europee. 1830-1861, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2012.

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