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cattolici della Valtellina, con rappresentargli le tiranniche ingiustizie e
crudeltà usate contra di loro dagli eretici Grigioni, non si potea
presentare un titolo più vistoso alla pietà spagnuola che questo, per
imprendere la lor protezione, e per incoraggirli a scuotere il giogo.
Ma sotto il manto della religione giudicarono i politici che si
nascondesse il desiderio e disegno di riunir quei popoli con lo Stato
di Milano. Sapeva il governatore quanto la corte di Francia fosse
contraria ai maneggi de' Veneziani per la lega da essi con gran calore
bramata e procurata; e però maggiormente si animava ad entrare in
questo ballo, per la speranza che i Franzesi nol frastornerebbono in
tale impresa; e tanto più perchè nuova guerra civile si risvegliava in
quel regno fra i cattolici ed ugonotti nei tempi correnti.
Copertamente dunque animati i Valtellini alla rivolta, con promettere
loro il suo appoggio, nel dì 19 di luglio del presente anno presero
l'armi, ed uniti colla fazione opposta ai Veneziani, s'impadronirono di
Sondrio, Morbegno, Bormio, in una parola, di tutta la Valtellina, e
misero a fil di spada quanti eretici caddero nelle lor mani, e non
furono pochi. Spinse allora scopertamente il duca di Feria in aiuto
d'essi molte schiere d'armati, condotte da Gian-Maria Paravicino, da
Cristoforo Carcano e da don Girolamo Pimentello generale della
cavalleria leggiera dello Stato di Milano. E quindi si venne ad
accendere un'aspra guerra in quelle parti.
Ricorsero i Grigioni per aiuto agli eretici di Berna e Zurigo, e non
vi ricorsero in vano. Ricevuto da essi un gagliardo rinforzo di
combattenti, con parte d'essi munirono di buon presidio Chiavenna,
e con gli altri si mossero per ricuperare la Valtellina. Varii
combattimenti ne seguirono, che io non posso fermarmi a
descrivere, bastandomi solo di dire che riuscirono svantaggiosi ai
Grigioni, e che restò quella valle col contado di Bormio in poter de'
cattolici; laonde il duca di Feria si affrettò di alzar varii forti ai confini
non men di essi Grigioni, che de' Veneziani, giacchè questi ultimi
apertamente con danari davano braccio agli eretici, e gli animavano
a discacciar di là l'armi spagnuole. Grande inquietudine cagionò
questo movimento degli Spagnuoli in tutti i principi d'Italia, e
massimamente nei suddetti Veneziani. Imperciocchè, dividendo la
Valtellina lo Stato di Milano dal contado del Tirolo, se ne fossero
restati padroni gli Spagnuoli, s'apriva loro una sicura comunicazione
con gli Stati germanici della casa d'Austria, per poterne trarre aiuti,
qualora se ne presentasse loro il bisogno, senza passare per paese
altrui. E all'incontro veniva a serrarsi la porta a quei soccorsi che la
repubblica veneta ed altri principi potessero sperare dalla Francia,
dagli Svizzeri e da altre potenze oltramontane. E però i Veneziani
sopra gli altri s'impegnarono in favore dei Grigioni, per escludere
dalla Valtellina le armi di Spagna. Nè pur lo stesso papa Paolo V,
tuttochè per proteggere il cattolicismo in quelle contrade fosse
pronto a somministrar buone somme di danaro, sapea consentire
che in poter degli Spagnuoli venisse o restasse quel paese. Pertanto
furono proposti varii ripieghi, e spezialmente ebbe plauso la
proposizion di lasciare in libertà la Valtellina, e di formare d'essa un
cantone da aggiugnersi agli altri cinque cantoni degli Svizzeri
cattolici. Tanto ancora declamarono i ministri della repubblica veneta
alla corte di Parigi contro gli ambiziosi pensieri del duca di Feria,
ossia della Spagna, che il re Cristianissimo fece passar premurosi
uffizii, ed anche proteste alla corte di Madrid, per isventar le mine
del medesimo duca, che pareano indirizzate a mettere in ischiavitù
l'Italia. Passò poi il resto dell'anno in varii negoziati, proposti dai
ministri del papa e del re di Francia per trovare onesto ripiego alla
Valtellina, acciocchè vi restasse in salvo la religion cattolica, e si
contentassero della sola protezion d'essa gli Spagnuoli.
Curiosa fu in quest'anno la scena del duca d'Ossuna vicerè di
Napoli. Di mirabil ingegno avea la natura provveduto questo
personaggio. I suoi spiritosissimi detti e fatti, gl'ingegnosi rescritti ai
memoriali delle persone, la vivacità del suo talento in ogni occasione,
erano pregi in lui che si tiravano dietro l'ammirazione di chiunque
allora il conobbe, e son tuttavia pascolo della nobil curiosità, perchè
tramandati ai posteri in un libro intitolato il Governo del duca
d'Ossuna. Ma questo cervello trascendentale tutto dì macchinando
idee di novità, e facendo uno stravagante governo con insoffribil
aggravio de' popoli, quanto riempieva di meraviglia gli spettatori
delle sue azioni, tanto apriva l'adito alle gelosie dei vicini, e
fabbricava a sè stesso un processo nella corte di Madrid. Era egli
giunto a far conoscere quanto potesse il regno di Napoli, coll'aver
tenuta in piedi un'armata di venti galeoni di alto bordo e di venti
galee tutte ben armate, oltre a tanti altri legni da trasporto. Avea
mantenuti sedici mila combattenti, dati soccorsi agli Austriaci di
Germania e allo Stato di Milano; e tutto ciò senza vendere un briciolo
del reale patrimonio, ma con ispremere a furia il sangue di que'
popoli. Colla repubblica di Venezia come si fosse egli adoperato, già
l'abbiano veduto; minacciava anche i Turchi, e si studiava di
guadagnar l'affetto della plebe di Napoli, con opprimere intanto i
nobili, e tener milizie straniere al suo soldo. Non cessava la nobiltà
napoletana di far segrete doglianze, e di portar accuse contra di lui
alla corte del re Cattolico; e i saggi Veneziani sotto mano anch'essi
faceano penetrar colà dei brutti ritratti dell'Ossuna, come d'uomo
che fosse dietro a cangiare il ministero in principato. Divulgossi
ancora ch'egli avesse comunicato questo disegno al duca di Savoia,
sapendo quanto egli fosse disgustato degli Spagnuoli, affine di unir
seco le forze e discacciare d'Italia questa nazione. Probabilmente
nulla di vero contenne si fatta diceria, per varie ragioni, e
massimamente perchè l'onore, massima primaria de' signori
spagnuoli, non si dee credere che avesse preso il bando dal cuor
dell'Ossuna. La verità non di meno si è, che si accesero forti sospetti
nella corte del re Cattolico, e si pensò daddovero a richiamarlo in
Ispagna. E perchè scoperta da lui l'intenzion della corte, con regali e
maneggi si studiava di continuar nel governo, vieppiù crebbero nei
primi ministri le diffidenze, e fu perciò creduto che per timore di
trovare in lui disubbidienza, non dalla Spagna, ma da Roma si
trovasse lo spediente di mandargli il successore. Il cardinal Borgia fu
scelto per questo; ma l'Ossuna con quanti artifizii potè procurò di
frastornare la di lui comparsa, inventando in questo mentre varie arti
per accumular danari, e prorompendo in altri atti, che sembravano
indizii d'animo inclinato a qualche furiosa mutazione. Ma restò
burlata quella gran testa da un prete, siccome egli poi con amarezza
andò dicendo, lagnandosi forte di lui. Accostossi il Borgia sull'entrar
di maggio a Napoli, sempre mostrando di trovar giuste le ragioni
dell'Ossuna, il quale assai risoluto comparve di non dimettere per
allora il governo, sì per le minaccie de' Turchi, come per le
turbolenze interne del regno. Esibivasi il cardinale unicamente di
essergli di aiuto e sollievo; ma perciocchè stava il duca saldo nel suo
proposito, l'accorto porporato con intelligenza d'alcuni nobili più
coraggiosi, segretamente entrò una notte nella fortezza di
Castelnuovo; e comunicato il suo arrivo anche ai governatori delle
altre due di Sant'Ermo e dell'Uovo, improvvisamente allo spuntar
dell'alba colla salva delle artiglierie diede segno alla città del nuovo
suo vicerè. A questa salva andarono per terra tutte le trame ordite
dall'Ossuna, per indurre il popolo a non accettare il Borgia.
Imbarcatosi dipoi lo stesso Ossuna, sbarcò in Provenza, e per terra
passò alla corte di Spagna, dove sostenuto dagli amici, e dalla
pecunia seco recata, trovò buon volto e carezze nel re, finchè,
mancato di vita nel susseguente anno esso monarca, venne meno
anche la fortuna del medesimo duca, il quale, imprigionato in un
castello, quivi dopo qualche mese, non si sa il come, finì i suoi giorni.
Non erano senza fondamento i sospetti decantati dall'Ossuna di
qualche invasione di Turchi nel regno di Napoli, bench'egli stesso
forse ne fosse stato il promotore co' suoi armamenti, e col tanto
minacciar le coste della Turchia. Scommetterei ancora che non
mancò qualche malevolo che attribuì ai segreti maneggi suoi la
mossa di que' cani, per farsi conoscere alla sua corte troppo
necessario in questi tempi al governo di quel regno. Sbarcò nel mese
di agosto la flotta turchesca ai lidi della città di Manfredonia nella
provincia di Capitanata; prese quella città, la saccheggiò, e ne
condusse via gran copia d'anime battezzate dell'uno e dell'altro
sesso. Nè si dee tacere che l'armi dell'imperador Ferdinando,
congiunte con quelle di Massimiliano duca di Baviera, di Gian-Giorgio
elettor di Sassonia, e d'altri principi, si affrettarono a ricuperar la
Boemia occupata, siccome dicemmo, da Federigo elettor palatino del
Reno, gran calvinista. Nello stesso tempo per ordine del re di
Spagna, il marchese Ambrosio Spinola, generale dell'armi
dell'arciduca Alberto in Fiandra, si mosse con poderoso esercito alla
volta del Palatinato inferiore, e quivi occupò varie città. Poscia nel dì
9 di novembre in vicinanza di Praga si venne ad un terribil fatto
d'armi fra la lega Cattolica, e il suddetto usurpator Palatino. Toccò
una fiera sconfitta ai Boemi, le cui conseguenze furono la presa e il
sacco di Praga, e la fuga con pochi dell'efimero re palatino, il quale
dopo lunghi giri coll'ambiziosa sua moglie passò in Olanda, a
mendicar ivi il pane da quella repubblica, e da Giacomo re
d'Inghilterra suocero suo. Fu poi ricuperata nell'anno seguente
dall'Augusto Ferdinando la Slesia con gli altri paesi ribellati, e gli
restò solamente il peso della Ungheria, occupata da Bethlem Gabor.
Per assistere in questi bisogni all'imperadore con soccorsi d'oro, il
pontefice Paolo V gravò di decime l'uno e l'altro clero. Nel dì 15 di
marzo dell'anno presente seguì la solenne entrata in Torino di
Cristina di Francia, sorella del re Cristianissimo Lodovico XIII,
maritata in Vittorio Amedeo principe di Piemonte. Sontuose feste
furono ivi fatte in tal congiuntura, alle quali concorse anche l'infanta
Isabella principessa di Modena, e sorella d'esso principe,
accompagnata nel viaggio dal cardinal Maurizio suo fratello.
Cristo mdcxxi. Indizione iv.
Anno di Gregorio XV papa 1.
Ferdinando II imperadore 3.
Ebbe di grandi faccende in questo anno la morte. Primieramente
il pontefice Paolo V dopo quindici anni, otto mesi e tredici giorni di
pontificato, e dopo uno stabile tenor di vita religiosa e limosiniera, fu
chiamato da Dio ad un miglior paese. Dappoichè sui principii del
governo suo ebbe conosciuto che la bravura non era più un mestier
da papa, fu sempre amator della pace, impiegando i suoi pensieri
nella conservazione ed aumento della religione cattolica, nella
riforma del clero secolare e regolare, e nell'ornare sempre più di
magnifiche fabbriche l'impareggiabil città di Roma. Soprattutto attese
ad ampliare la basilica Vaticana, tempio perciò divenuto una delle
maraviglie del mondo. Quanto egli operasse in questa impresa,
esigerebbe non poche carte. Son da vedere intorno a ciò il vescovo
Angelo Rocca, i padri Oldoino e Bonanni della compagnia di Gesù.
Insigni memorie di magnificenza lasciò ancora nella basilica
Liberiana, dove spezialmente si ammira la cappella Borghese.
Accrebbe di varie fabbriche il palazzo del Quirinale. Dal territorio di
Bracciano tirò con insigne acquedotto per lo spazio di
quarantacinque miglia, abbondanti e perenni acque per sovvenire al
bisogno della parte trasteverina della città. Tralascio altre sue nobili
fatture, per le quali fu sommamente benemerito di Roma, delle quali
si trova il catalogo e la descrizione nella di lui vita composta dal
Padre Bzovio dell'ordine dei predicatori. La sola taccia che fu data al
suo pontificato, si ridusse all'esorbitante profusione ne' nipoti, i quali
e dentro e fuori di Roma fabbricarono palagi sì superbi, che
gareggiavano con quei dei re. Il solo principe di Sulmona nipote suo
giunse ad avere rendite annue di cento, e vi ha chi dice di ducento e
più mila scudi, oltre il danaro in cassa. Nè è da stupirsene. Il cardinal
Borghese, dianzi chiamato Scipione Caffarelli, figlio di una sorella del
papa, e ministro dispotico della sacra corte, tutto quanto veniva a
vacare, lo conferiva ai parenti suoi: del che pubbliche erano le
doglianze. E però ebbe a dire Andrea Vettorelli di questo pontefice:
Si una caruisset nota, largitione nempe in suos, Beatissimis
comparandum fuisse omnes fatentur. Convengono tutti i più
accreditati scrittori che la di lui morte avvenne nel dì 28 di gennaio
dell'anno presente, e questo si raccoglie ancora dalla sua iscrizion
sepolcrale, che difettosa poi si legge nell'edizion dell'Oldoino, dove il
dì 28 per errore di stampa è divenuto il dì 22. Entrati nel concistoro i
porporati, parve sul principio che il cardinal Pietro Campori
Modenese, portato dalla fazion Borghese, avesse a riportare
indubitatamente il pallio; ma mutato all'improvviso parere, si
rivolsero i voti alla persona del cardinale Alessandro Ludovisio di
patria Bolognese ed arcivescovo d'essa città, che nel dì 9 di febbraio
restò eletto papa, e prese il nome di Gregorio XV. Era egli
personaggio di vita esemplarissima, perito nella scienza delle leggi
ecclesiastiche e civili, esperto negli affari del mondo, di tal benignità
e modestia ornato, che lo stesso popolo romano con uno
straordinario plauso diede risalto maggiore alla di lui elezione,
sperando di vedere rinato in lui l'altro glorioso pontefice bolognese
Gregorio XIII. S'era già introdotto che i papi, e massimamente se
vecchi, quale appunto era esso Gregorio XV, eleggessero uno dei
nipoti cardinale, a cui poscia si conferiva il titolo di primo ministro, e
volgarmente veniva appellato il cardinal padrone. Pertanto non tardò
il novello pontefice, nel dì 15 di febbraio, a fregiar colla sacra
porpora il nipote Lodovico Ludovisio, giovane di gran talento, che
sollevò da lì innanzi il quasi settuagenario zio dalle fatiche e regolò
gli affari non men con lode che con arbitrio supremo.
S'affollarono tosto addosso al nuovo papa i ministri di Francia,
Spagna, Venezia e Savoia, per interessarlo vivamente nelle
controversie della Valtellina; nè fu egli pigro a scrivere di proprio
pugno lettera premurosa al re Cattolico Filippo III, esortandolo a
tagliare il corso a quella pendenza, minacciante oramai un'asprissima
guerra in Italia. Ma non andò molto che lo stesso monarca delle
Spagne fu sottratto dalla morte nel dì ultimo di marzo ai pensieri ed
imbrogli dei mondo, con lasciar dopo di sè una illustre memoria della
sua scrupolosa pietà e buon volere, ma una molto infelice del suo
governo. Imperciocchè o per poca abilità o per troppo amore alla
quiete, avendo lasciato in balia dei favoriti, e massimamente di
Francesco duca di Lerma (che nel 1618 creato fu cardinale da Paolo
V) tutto il reggimento, parve che null'altro conservasse per sè
fuorchè il titolo di re. Perciò sotto di lui decaduta la monarchia
spagnuola da quel colmo di riputazione ed autorità, in cui la lasciò
Filippo II suo padre, andò poi maggiormente declinando per tutto il
presente secolo. A lui succedette Filippo IV suo figlio primogenito,
verso di cui nè pur era stata assai liberale di belle doti la natura.
Oltre all'età di sedici anni, che il rendea poco atto all'amministrazion
degli affari, più cuore mostrava egli ai divertimenti geniali che alle
serie applicazioni; e però anche sotto di lui colla depression de'
precedenti continuò la disordinata fortuna di altri favoriti; anzi questa
si ridusse ad un solo, cioè a don Gasparo di Guzmano, conte di
Olivares, il quale, avendo ottenuto il titolo di duca, si fece poi
pomposamente nominare il conte duca, e riuscì un cattivo arnese di
quella sì potente monarchia. Fece fine ai suoi giorni anche Cosimo II
gran duca di Toscana nel febbraio di quest'anno. Fu principe di
elevato ingegno, liberale, benigno ed amato dai popoli, ma sì mal
fornito di sanità, che quasi sempre fece alla lotta colle infermità;
laonde, nulla gustando della sua grandezza, invidiava la condizione
de' privati sani. I figli restati di lui furono Ferdinando II proclamato
gran duca, Gian Carlo, che fu poi cardinale, Leopoldo, fregiato
anch'egli della porpora, Mattias e Francesco, ed oltre a due altre
femmine, Margherita maritata in Odoardo duca di Parma. Perchè il
nuovo gran duca era tuttavia in età pupillare, presero la di lui tutela
il cardinal Carlo suo zio, e l'avola Lorenese Caterina, e la madre
Austriaca Maria Margherita. Nè si dee tacere che nel dì 13 di luglio
cessò parimente di vivere in Fiandra Alberto arciduca, con vere
lagrime compianto da quei popoli che un placido governo aveano
provato sotto di lui. L'infanta Isabella sua moglie, da cui non avea
tratta prole alcuna, tosto prese l'abito monastico, restando
nulladimeno governatrice di nome di que' paesi. Il marchese
Ambrosio Spinola godeva ivi il comando dell'armi; e perciocchè,
essendo terminata la tregua fra la Spagna e gli Olandesi, di nuovo si
riaccese la guerra, quel prode generale passò in quest'anno ad
assediare Giulliers; del che io nulla altro dirò, se nonchè dopo
mirabili pruove del suo saper militare se ne impadronì, con aver
precluso l'adito ad ogni soccorso del conte Maurizio di Nassau.
Intanto il duca di Feria governator di Milano, che sosteneva con
vigore in Lombardia il credito della corona di Spagna, dall'un canto
seguitava a fabbricar nuovi forti nella Valtellina, e dall'altro sempre
facea giocar le proteste d'essere pronto a demolir tutto, e di
atterrare infino quel di Fuentes, benchè piantato nella giurisdizione
dello Stato di Milano. E denari ed artifizii seppe egli adoperar sì a
proposito, che mise la disunion fra gli stessi Grigioni, e parte di essi
ancora tirò nel febbraio ad una capitolazione o lega, che non fu poi
accettata dagli altri; anzi gl'incitò a maggior sollevazione, con restar
vittima del loro furore non pochi Cattolici, e spogliate le chiese con
altri assai gravi disordini, senzachè gli eretici la perdonassero a quel
lor nazionali che si erano accordati col duca di Feria. Riuscì in questo
mentre al Bassompiere, ambasciatore di Francia spedito a Madrid,
d'indurre il nuovo re Filippo IV e il consiglio di Madrid ad un accordo,
per cui nel dì 25 d'aprile restò determinato che la Valtellina tornasse
in poter dei Grigioni, ma colla conservazione della religion cattolica in
quelle parti: al che eziandio condiscese il nunzio pontificio. Ma
questo trattato venne da tante parti attraversato, che ne andò per
terra l'esecuzione, soffiando tutti i litiganti contra di esso. Al duca di
Feria non si può dire quanto dispiacesse il vedere in un fascio tutte
le macchine sue per l'ingrandimento della potenza spagnuola. Ne
erano assai disgustati anche i Veneziani, perchè veniva troncata con
esso ogni lor pretensione della lega col Grigioni. E gli stessi Grigioni
vi trovarono più di un motivo di rigettarlo. Il perchè, risoluti essi
Grigioni di ricuperar colle proprie forze la Valtellina, furiosamente
uscirono in campagna con più di dieci mila combattenti, ma
disordinati e mal capitanati, che al primo rimbombo delle artiglierie
spagnuole nella contea di Bormio, presi da terror panico, diedero alle
gambe. Per questa invasione il duca di Feria dalle parti del Milanese,
e l'arciduca Leopoldo da quelle del Tirolo mossero le lor armi.
S'impadronì il primo di Chiavenna, e l'altro delle valli d'Engedina e di
Parentz e d'altri siti, e poscia della stessa città di Coira, con rimetter
ivi il vescovo che dianzi ne era Stato cacciato. Sicchè sempre più
venne a peggiorar la fortuna dei Grigioni, provandone anche un
incredibil dispiacere i Veneziani, che miravano crescere ogni dì più i
lor pericoli per li felici progressi degli Austriaci. E pure, contuttochè
sommamente abbisognassero del braccio del papa e della Francia
per liberar la Valtellina dalle unghie spagnuole, e tanto il pontefice
Gregorio XV che il re Lodovico XIII si prevalessero di questa
congiuntura per indurli coi più caldi uffizii a ricevere in lor grazia i
gesuiti; pure s'incontrò in quel senato un'insuperabile resistenza a tal
petizione. Era tuttavia vivo il famoso fra Paolo Sarpi lor teologo,
essendo egli mancato di vita solamente nell'anno seguente.
Probabilmente non li dovette consigliare che fossero indulgenti in
questo caso. Merita il cardinal Roberto Bellarmino della compagnia di
Gesù che si faccia qui menzione della morte sua, accaduta nel dì 17
di settembre dell'anno presente, con lasciare un celebratissimo ed
immortal nome sì per li suoi libri pieni di singolar dottrina, che per le
sue rarissime virtù morali e cristiane. Uomo in tutto mirabile, e che
più onore compartì alla porpora, che la porpora a lui.
Cristo mdcxxii. Indizione v.
Anno di Gregorio XV papa 2.
Ferdinando II imperad. 4.
Già era tornato a Milano il duca di Feria, come trionfante per le
conquiste e vittorie sue nella Valtellina, e più non degnava d'un
pensiero la capitolazione segnata in Madrid fra il suo re e quello di
Francia. Ma i Veneziani, che più degli altri principi aveano questo
interesse a cuore, altamente strepitavano in tutte le corti, e
massimamente in Roma e a Parigi, rappresentando come troppo
svelati i misteri della politica spagnuola, che, sotto l'ombra di
proteggere la religione cattolica della Valtellina, erano chiaramente
incamminati a slargar le ali e, coll'ingoiar quello Stato, ad opprimere
la libertà d'Italia, mettendo un forte catenaccio a quella porta per cui
possono calare i soccorsi stranieri. Carlo Emmanuele duca di Savoia,
sì perchè principe avido sempre di nuove guerre, e che non potea
sofferire gl'ingrandimenti della Spagna, e la baldanza dei ministri di
quella corte; si ancora per suoi particolari riguardi, e per l'alleanza
sua colla veneta repubblica, cominciò vigorosamente a procurar una
lega fra il re Cristianissimo, la repubblica veneta e lui. Essendo
venuto a Lione esso re di Francia, il duca insieme col principe di
Piemonte suo figlio e colla nuora Cristina, sorella del medesimo re,
colà si portò ad inchinare la maestà sua, da cui ricevette molte
finezze. Perorò egli molto contro l'avidità degli Spagnuoli, e si esibì di
concorrere ad una lega con dieci mila fanti e mille cavalli; ma ritrovò
che nel cuore di quel monarca aveano troppo polso i riflessi della
stretta parentela col re Cattolico e la guerra viva contro gli ugonotti,
non mai quieti nelle viscere del suo regno. Tornò il duca nel dì 17 di
novembre ad abboccarsi col re in Avignone. Tutto quel che per ora
tanto egli che i Veneziani ottennero, fu che il re Lodovico fece parlar
alto dai suoi ministri alla corte di Spagna, acciocchè si desse
esecuzione al trattato di Madrid per gli affari della Valtellina. Perciò si
rinforzò il negoziato fra i ministri delle due corone, intervenendovi
sempre anche il nunzio pontificio: e siccome era stato fatto il
progetto di depositar la Valtellina con tutte le fortezze in mano del
papa, oppure del gran duca, o del duca di Lorena, senza che per
anche si fosse arrivato a fissare chi ne avesse da essere il
depositario; così la maggiore applicazione si rivolse ad effettuare il
proposto deposito. Ma intanto i Grigioni, ora inviliti, ora temerarii,
pensarono ad ottener colla forza ciò che amichevolmente s'era dietro
a procurar colla destrezza nei gabinetti. Però mossi a furore, ed
animati dai veneti zecchini, benchè i più armati di soli bastoni a
foggia di mazze, si diedero a ricuperar i luoghi dall'armi dell'arciduca
Leopoldo, e quanti Tedeschi trovarono nei presidii, tutti li
sacrificarono alla lor collera, a riserva di quei ch'erano alla guardia di
Maienfelt e di Coira, i quali rifugiati ne' castelli, si renderono con
patti onesti. Ma nel settembre si cangiò scena, perchè le truppe
arciducali diedero una sconfitta ad essi Grigioni e agli Svizzeri loro
ausiliarii, e ricuperarono Maienfelt e Coira con altri importanti luoghi.
Seguì poscia una sospension d'armi, e continuò nelle corti il filo
pacifico de' trattati.
Attento il pontefice Gregorio XV non solo alla difesa, ma anche
all'accrescimento della religion cattolica, istituì nel giugno dell'anno
presente una congregazione di cardinali, appellata de propaganda
fide, e le assegnò varie rendite: congregazione rinforzata
maggiormente dipoi da altri aiuti, onde singolar vantaggio è poscia
provenuto e proviene alla religione cristiana. Di somma consolazione
riuscì ancora ad esso papa e a tutto il cattolicismo l'occupazione
della città d'Eidelberga, capitale del Palatinato inferiore, tolta
all'eretico Federigo elettor palatino, al cui esercito e de' suoi collegati
fu data una gran rotta, talmente che egli di nuovo fu ridotto ramingo
e alla disperazione, siccome posto al bando dell'imperio e
abbandonato da tutti. Trovavasi in questi tempi vedovo e senza
successione l'Augusto Ferdinando, e però ricercò in moglie Eleonora
Gonzaga sorella di Francesco duca di Mantova. Furono celebrate le di
lui nozze nel febbraio dell'anno presente. Sul principio di marzo
terminò i suoi giorni Ranuccio I duca di Parma e Piacenza, sorpreso
da improvviso male. Il suo funerale non fu accompagnato dalle
lagrime d'alcuno, giacchè coll'aspro suo, anzi crudele governo, s'era
egli sempre studiato di farsi piuttosto temere che amar da' suoi
popoli. Perchè gran tempo passò che Margherita Aldobrandina sua
moglie non produceva frutti del suo matrimonio, s'era messo in
pensiero di far abilitare alla successione de' suoi Stati Ottavio suo
bastardo. Ma divenuta feconda la duchessa, gli partorì poi
Alessandro mutolo, Odoardo e Francesco Maria, che fu poi cardinale,
oltre a due principesse, Maria e Vittoria, che furono poi duchesse di
Modena. La nascita di questi principi fece poscia eclissar l'amore di
Ranuccio verso dell'illegittimo Ottavio; e perciocchè questi era
giovane di alti spiriti, ed universalmente amato dai Parmigiani e dagli
altri sudditi, il duca suo padre, siccome principe pregno sempre di
sospetti e gelosie, dubitando d'intelligenze e di pretensioni dopo sua
morte al ducato, il confinò nella terribil rocchetta di Parma, sepoltura
de' vivi, dove da lì ad alquanti anni miseramente diede fine al suo
vivere. Perchè la sordità e mutolezza rendevano incapace di governo
il primogenito Alessandro, succedette in quel ducato Odoardo,
marito di Margherita figlia di Cosimo II gran duca di Toscana.
Per esempio ancora e cautela ai posteri, degna è qui di memoria
l'infelice morte di Antonio Foscherini, cavaliere e senator veneto, che
accusato di aver tenute corrispondenze segrete con istranieri
ministri, pubblicamente terminò col capestro la vita. Siccome
lasciarono scritto il cavalier Nani, Vittorio Siri ed altri, per le insidie
passate e per le turbolenze presenti, la veneta repubblica (sempre
per somiglianti delitti gelosissima ed inesorabile) gran credito diede
ai sospetti, e troppa fede agli accusatori e testimonii; laonde
precipitosamente si venne alla sentenza di morte. Ma fu fatto morire
un innocente: il che casualmente dopo qualche tempo si venne a
scoprire. Perciocchè in leggere un processo, per cui venivano certuni
convinti di false testimonianze, si risovvenne uno del consiglio de'
dieci che un di costoro avea testimoniato contro del senatore
suddetto. Preso costui, confessò di aver concertata la calunnia per
cogliere il lucro proposto a chi rivela delitti di Stato; laonde egli ne
ebbe con gli altri il meritato gastigo. Fu poi pubblicato un editto, che
restituiva all'onor primiero il giustiziato cavaliere, e tutta la sua
nobilissima casa; ma senza che si restituisse per questo la vita a chi
per un sì mal fondato e mal pesato processo l'avea già
indegnamente perduta. È da lodar lo zelo per la salute della patria,
ma questo dee ben sempre camminar con somma circospezione,
affinchè gl'innocenti non soggiacciano alle pene riserbate solo ai veri
delinquenti. E che un caso tale abbia aperti gli occhi a quei saggi
signori, si è assai conosciuto dipoi, ed anche ai giorni nostri se ne
son vedute le pruove.
Cristo mdcxxiii. Indizione vi.
Anno di Urbano VIII papa 1.
Ferdinando II imperadore 5.
Avea il duca di Baviera Massimiliano nella guerra mossa contro
Federigo elettor palatino, siccome dicemmo, fatto l'acquisto
d'Eidelberga e di tutto il Palatinato inferiore. In essa città si trovava
un'insigne biblioteca di antichi codici scritti a mano, ebraici, greci,
latini e d'altre lingue, raccolti, per quanto fu divolgato, da tutti i
monisterii di quella provincia, introdotta che vi fu l'eresia. Attento il
pontefice Gregorio a profittar anch'egli dell'altrui naufragio, sì per
qualche ricompensa de' sussidii prestati al duca in quell'impresa,
come ancora per la pretensione che appartenesse alla santa Sede
quel tesoro di manuscritti, come spoglio di luoghi sacri, fece
gagliarde istanze di ottenerli, e il duca vi condiscese. Scrivono alcuni
che la persona inviata dal papa ad Eidelberga per trasportar que'
codici a Roma, a cagion della poca sua accortezza, lasciò sfiorar
quella sì riguardevole libreria, essendone stati asportati i codici
migliori. Non pochi certamente se ne trovano nella imperiale
biblioteca di Vienna. Di poca attenzione per questo fu accusato
Leone Allacci, uomo di gran credito per la sua erudizione e per tanti
libri dati alla luce, giacchè a lui fu appoggiata l'incombenza suddetta.
Non cessavano intanto i maneggi della repubblica veneta e del duca
di Savoia alla corte del re Cristianissimo, per trarre dalle mani degli
Austriaci la Valtellina, e gli altri paesi occupati nella Rhetia. E perchè
si scorgeva troppo manifesto l'artificio degli Spagnuoli di dar sempre
belle parole, senza mai venire ai fatti, finalmente sul principio di
febbraio fu conchiuso a Parigi di adoperar mezzi più forti per
terminar questa briga. Si stabilì dunque una lega del re Lodovico
XIII, della repubblica veneta e del duca suddetto, affin di obbligare
tanto il re Cattolico che l'arciduca Leopoldo a rimettere in pristino le
cose de' Grigioni, salva sempre nella Valtellina la religione cattolica.
Non sembra che la corte di Francia nudrisse vera voglia d'impiegar le
sue armi in questo litigio, e fu piuttosto creduto che il solo strepito
della formata confederazione metterebbe il cervello a partito agli
Austriaci, siccome appunto avvenne. Era già stato altre volte messo
in campo il partito di consegnare in deposito al papa tutte le fortezze
occupate o fabbricate dagli Austriaci nella Rhetia e Valtellina,
acciocchè la santità sua le guernisse con presidio suo proprio, e
tenesse quel paese finchè fosse assicurato il punto della religione
d'essa Valtellina per l'avvenire. Ora il re Filippo IV nel dì 17 del
suddetto febbraio spedì l'ordine che si dovesse far la consegna
d'esse fortezze, forse lusingato dalla speranza di far anche buon
mercato col mezzo d'un pontefice, in cui non si potea presumere
molta inclinazione ai Grigioni seguaci dell'eresia. Ripugnavano a
questo impegno i cardinali per timore che entrasse in un labirinto la
dignità della santa Sede, stante non poter ella trattare con essi
Grigioni, e il rischio di disgustar infine alcuna delle potenze
interessate. Ma i nipoti del papa, siccome pensionarii della Spagna,
col forte motivo di risparmiare una guerra all'Italia e di poter meglio
accudire agl'interessi della religione nella Valtellina, trassero la
santità sua ad accettare il deposito. Pertanto nel mese di maggio
spedì il pontefice don Orazio Ludovisio suo fratello, creato sui primi
giorni del di lui pontificato generale della Chiesa, e poscia divenuto
duca di Fiano, che con cinquecento cavalli e mille e cinquecento fanti
nel dì 6 di giugno prese il possesso dei forti della Valtellina, e dopo
molti contrasti anche di Chiavenna e della Riva. Nel qual tempo
l'arciduca Leopoldo ritirò il presidio da altri luoghi della Rhetia: con
che per ora si tolsero i semi di una grave perturbazione alla
Lombardia; e tutti i negoziati per tal pendenza si ridussero alla corte
di Roma, giacchè a lei era rimessa la deliberazione di questo affare.
Perchè il papa dopo il deposito parve che non si affrettasse, come
bramavano i Franzesi, a sentenziare sulla Valtellina, e andava
prolungando i negoziati, non mancò gente maliziosa che sognò in lui
inclinazione a ritener quel dominio per la Chiesa romana, o a
trasferirlo ne' suoi nipoti. Ma a questi lunarii e sospetti mise fine la
morte che nel dì 8 di luglio rapì alla terra esso Gregorio XV pontefice
degno di più lunga vita, e glorioso per non avere ommessa diligenza
veruna per sostenere la religion cattolica in Germania, e la quiete in
Italia. Neppur egli dimenticò di arricchire, per quanto potè, la propria
casa, ma con onesti mezzi. Impetrò specialmente dal re Cattolico
che si maritasse con un suo nipote l'unica figlia ed erede del principe
di Venosa, che portò in dote un'annua rendita di quaranta mila
ducati in tanti feudi del regno di Napoli. Nè poco contribuì a questo
ingrandimento il cardinale Lodovico Ludovisio nipote, il quale, per
risparmiare al pontefice zio le brighe spinose del governo, le assunse
egli, lasciando che il papa si divertisse in ascoltar le accademie
istituite da lui nel palazzo, alle quali interveniva con piacere, siccome
persona dottissima e amante dei professori delle lettere. Questo
cardinal padrone nondimeno riportò lode d'aver esercitata la
giustizia, e mantenuta l'abbondanza de' viveri e grani in Roma, in
tempi di notabil carestia, ed esercitata in varie maniere la sua pietà e
la sua carità verso de' poveri. Acquistò poi la casa Ludovisia l'insigne
principato di Piombino, che ultimamente, per mancanza della
medesima, è ricaduto col mezzo della madre Ludovisia in don
Gaetano Boncompagno duca di Sora. Avea il pontefice Gregorio
pubblicato nell'anno 1621 due riguardevoli costituzioni intorno
all'elezione de' romani pontefici, che anche oggidì servono di norma
ai conclavi per procedere con voti segreti in quel delicato impiego.
Adunato pertanto il sacro collegio, concorsero nel dì 6 d'agosto i
concordi voti, dove meno inclinava l'opinion dei politici e dei curiosi,
cioè nella persona del cardinal Maffeo Barberino di patria Fiorentino,
non senza stupore di chiunque mirava caduta la sacra tiara in un
personaggio di età di soli cinquantacinque anni e di complessione
molto robusta, con rimaner troncate le speranze ai vecchi cardinali di
giugnere a maneggiar le chiavi di san Pietro. Era questo porporato
uomo di amenissimo ingegno, ed eccellente massimamente nelle
lettere umane, ed assai versato negli affari di Stato, per gl'impieghi
importanti da lui sostenuti con gran decoro in addietro. Prese egli il
nome di Urbano VIII; e contuttochè nelle prime apparisse in lui
disposizione a farla da padre comune senza veruna parzialità, pure
tardò poco a trapelare in lui non lieve inclinazione alla Francia, ed
unione con chi sofferiva mal volentieri la prepotenza de' ministri
spagnuoli. Trovossi ben tosto il nuovo pontefice in molte angustie a
ragion dell'impegno preso dall'antecessore della Valtellina; giacchè,
disputandosi a chi dovesse toccare il mantenimento di que' presidii,
ne voleano per onore tutto il peso gli Spagnuoli, mentre all'incontro
pretendeano anche i Franzesi per loro decoro concorrere alla metà
della spesa; e intanto, senza mai accordarsi, venne a restar quella
milizia tutta a carico della sola camera apostolica. Fioccavano poi le
istanze di Francia, Venezia e Savoia, per ultimar questo affare, e il
papa non ne trovava la via, per non tirarsi addosso il disgusto della
corte di Madrid. Però con varii dibattimenti, ma senza conclusione
alcuna intorno a quegli affari, passò l'anno presente. Merito grande
s'era acquistato coll'imperador Ferdinando II il cattolico duca di
Baviera Massimiliano pel suo valore in avere restituito alla casa
d'Austria il regno della ribellata Boemia, ed avere atterrato l'eretico
palatino Federigo, tuttochè della propria casa. Volle l'Augusto signore
premiarlo, e compensarlo ancora per le immense spese fatte in
difesa sua; e però, oltre all'avergli dato il dominio del Palatinato
superiore, trasferì eziandio in lui nel dì 25 di febbraio la dignità
elettorale, tolta già al duca Gian-Federigo suo antenato
dall'imperador Carlo V. A tal disposizione gran contrasto fecero
alquanti principi, e massimamente i protestanti; ma infine ebbe
adempimento la cesarea volontà, con singolar approvazione della
corte di Roma. Pagò nel dì 12 d'agosto dell'anno presente il tributo
della mortalità Antonio Priuli doge di Venezia, e in luogo suo fu eletto
Francesco Contarino. Venne parimente a morte Federigo della
Rovere principe d'Urbino, unico figlio di Francesco Maria duca di
quelle contrade; nè del suo matrimonio con Claudia de Medici figlia
di Ferdinando I gran duca di Toscana (la qual poscia passò alle
seconde nozze coll'arciduca Leopoldo) altra prole restò che una
picciola principessa per nome Vittoria. E perciocchè non v'era
apparenza che il vecchio duca potesse più avere successione
legittima maschile, la corte di Roma cominciò tosto ad adocchiar quel
ducato, come Stato vicino a ricadere alla camera apostolica, e a far
preparamenti per assicurarsene in avvenire il dominio.
Cristo mdcxxiv. Indizione vii.
Anno di Urbano VIII papa 2.
Ferdinando II imperadore 6.
Armando di Plessis di Richelieu, già vescovo di Luzzon, s'era
saputo così bene introdurre nella grazia di Maria de Medici regina
vedova di Francia, e poscia del re Luigi XIII, che dopo la
riconciliazione della madre col figlio fu introdotto nel real consiglio,
ed arrivò a lasciarsi indietro ogni altro ministro della corona, e a
diventar l'arbitro di quella corte. Mirabile era la penetrazion del suo
ingegno, la sua attività, la sua accortezza; e maggiormente crebbe il
credito e l'autorità di lui, dappoichè al merito suo personale
s'aggiunse il lustro della sacra porpora, conferitagli da papa Gregorio
XV nel dì 5 di settembre del 1622. E siccome egli nulla altro
meditava che di rimettere in miglior sistema e riputazione la corona
di Francia, che parea scaduta per la melensaggine del precedente
ministero, e specialmente ardiva di voglia di reprimere la da lui
appellata baldanza dell'una e dell'altra casa d'Austria; così pensò agli
affari della Valtellina, e a muovere altri turbini in Italia contra degli
Spagnuoli. A questo l'incitavano ancora le doglianze continue de'
Veneziani e di Carlo Emmanuele duca di Savoia, nel cui capo non
aveano mai posa i desiderii di nuove guerre, e soprattutto di vedere
alle mani tra loro i due monarchi di Francia e Spagna, per isperanza
di profittare della lor disunione. Affin di potere con più sicurezza
promuovere i suoi grandiosi disegni, il Richelieu fece un trattato cogli
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