LA CUCINA ITALIANA FRA LINGUA, CULTURA E DIDATTICA A Cura Di Pierangela Diadori e Giovanna Frosin
LA CUCINA ITALIANA FRA LINGUA, CULTURA E DIDATTICA A Cura Di Pierangela Diadori e Giovanna Frosin
a cura di
Pierangela Diadori e Giovanna Frosini
Tutti i contributi del presente volume sono stati sottoposti alla procedura di valu-
tazione secondo una modalità di revisione doppia, cieca e anonima.
ISBN 979-12-5496-044-8
Introduzione
Pierangela Diadori, Giovanna Frosini 9
italianismi nel mondo che, nonostante le prime indagini svolte in diverse aree geogra-
fiche e settori terminologici, non è stato portato a compimento per ragioni editoriali,
ma che in seguito è stato rilanciato sotto l’insegna dell’Accademia della Crusca come
Osservatorio degli italianismi nel mondo (OIM), prima coordinato da Harro Stam-
merjohann e ora da Matthias Heinz (2017). Il progetto originario prevedeva lo spo-
glio degli italianismi in ben 66 lingue straniere, e un primo sondaggio faceva ammon-
tare il numero di questi a circa 20.000. Il repertorio sarebbe stato molto significativo,
sia per le informazioni sulla consistenza effettiva e sulle modalità del neoitalianismo,
sia dal punto di vista endolinguistico (adattamenti, resistenza della struttura dell’ita-
liano a contatto con altre lingue), sia da quello extralinguistico (il cosiddetto “italiano
percepito” e l’immagine della cultura italiana proiettata attraverso la lingua, con le sue
ricadute per la diffusione e l’insegnamento dell’italiano all’estero).
Ora, se è vero che gran parte degli italianismi provengono dal ruolo storica-
mente svolto dall’italiano come “lingua di cultura”, assai rilevante è anche l’apporto
della cultura alimentare, tanto che è stato calcolato che, per limitarsi all’impatto
sull’inglese, gli italianismi gastronomici (gastronimi: “nomi vari di prodotti alimen-
tari”, intesi anche in senso eponimico: Caffarelli, Gagliardi 2018; sfr. anche Lubello
2014) rappresentavano circa un quarto del totale nella prima metà del Novecento,
arrivavano a superare il 50% nella seconda parte del secolo, e toccavano il 70% ver-
so la fine. I primi gastronimi (maccheroni, mortadella, vermicelli, antipasto, polenta,
bologna, lasagne, pappardelle, panettone, eccetera) erano entrati nelle lingue europee
già a partire dal primo Cinquecento; ma, come è ovvio, l’afflusso di un gran numero
di voci italiane della cucina era legato al fenomeno della grande emigrazione italia-
na otto-novecentesca e all’insediarsi di vaste comunità di italofoni (anzi, all’inizio,
di dialettofoni) al di là dell’Oceano, poi in Europa, infine in Australia, essendo il
cibo parte rilevantissima del legame con la madrepatria (ma anche con fenomeni di
ibridazione: si pensi alla cucina italo-americana studiata nei suoi risvolti linguistici
per es. da Haller 2009). Così si affermarono negli Stati Uniti parole come lasagne
(1846), salami (1852), risotto (1855), ricotta (1877), spaghetti (1888), mozzarella
(1911), rigatoni (1923), scampi (1923), ziti, zucchini, prosciutto (1929), infine pizza
(1935) (traggo questi dati dal portale della Crusca sull’italiano nel mondo VIVIT.
Vivi italiano https://www.viv-it.org/schede/7-2-italianismi-gastronomici).
Secondo i primi dati del progetto del Dizionario degli italianismi nel mondo,
è dunque prevedibile che, in un campione di 66 lingue, spaghetti sia presente in
54 lingue, pizza (peraltro la parola italiana più nota nel mondo, assieme a ciao) in
50 e cappuccino “bevanda” in 40, seguiti da ravioli (36), salame (32), espresso (31),
risotto (27), cannelloni (25), e così via. Ma è certo meno prevedibile, commenta
Serianni (2009), la fortuna, molto più recente (anni Novanta) di tiramisù (presente
in 23 lingue diverse, anche giapponese, indonesiano, thai e laotiano), pesto (16),
carpaccio (13), bruschetta (13), rucola (11), e altri ancor più di nicchia (come il
recentissimo maritozzo, popolare nei Paesi dell’Estremo Oriente): termini che con-
fermano il persistente successo della cucina italiana (Serianni 2011).
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Due gastronimi italiani sulle tavole del mondo: tiramisù e ciabatta
Più recentemente, Perissinotto (2015) ha potuto elencare ben 138 gastronimi di ma-
trice italiana tratti da ricette pubblicate nel 2013 in due quotidiani americani (The Wall
Street Journal e The New York Times) e due inglesi (The Daily Telegraph e The Guardian):
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È superfluo in questa sede sottolineare quanto cucina (e vino), oltre a essere un ro-
busto apporto all’economia del nostro Paese contribuiscano all’immagine di eccellenza
dell’Italia nel mondo, testimoniata anche dal fenomeno del cosiddetto italian sounding,
cioè della contraffazione caratterizzata dall’uso di pseudoitalianismi o italianismi di
fantasia (i vari parmesan, regianito eccetera). Altro è il caso di pseudoitalianismi come il
freddoccino greco studiato da Vedovelli (2005) o i latte (latte macchiato), frappuccino e
mokkaccino nei menu della catena di caffè Starbucks, magari destinati a diventare ita-
lianismi di ritorno. Ciò che si nota, negli ultimi decenni, è la presenza di gastronimi an-
che inattesi e persino peregrini, portatori di un’immagine chic e tutt’altro che popolare
o scontata: stiamo passando dal Made in Italy a Eataly, la fortunata creatura di Oscar
Farinetti, come ha sintetizzato brillantemente Patrizia Bertini Malgarini (2011: passim).
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Due gastronimi italiani sulle tavole del mondo: tiramisù e ciabatta
ne: “coffee trifle”, da A. Del Conte, Good Housekeepers vol. 121(1), 1982) e, nella
forma analitica tira mi su, nel 1983 (commento: “regional temptation”, dal New
York Times vol. 18(3), 4 febbraio 1983). Il DIFIT online lo registra nelle tre lingue
di arrivo (francese, inglese, tedesco), e l’OIM, allo stato della ricerca, in sei lingue
(francese, portoghese, inglese, tedesco, polacco, cinese). Ma, come si è visto più
sopra, le lingue in cui è presente tiramisù sono molte di più (almeno 23).
È possibile retrodatare la comparsa di tiramisù in italiano almeno al 1972 (recensio-
ne di M. Monti al Ristorante Tre Leoni di Somma Lombardo MI (Corriere della Sera
giugno 1972), con successive attestazioni in recensioni del noto critico gastronomico
Edoardo Raspelli, tutte nel Corriere d’Informazione (al Ristorante El Toulà di Milano, 3
dicembre 1976; alla Pizzeria Charleston di Milano, 2 novembre 1978; il 3 dicembre 1981
Raspelli cita con tono negativo “il tirami su (a parte l’orribile nome) […]”).
L’indagine sulle origini del tiramisù conduce a retrodatare ulteriormente la
parola. Ma chi ha “inventato” davvero il tiramisù? Il notissimo dolce ha almeno
quattro padri (e madri), tutti del Nord Est d’Italia. L’ipotesi finora più accreditata
portava al Ristorante Alle Beccherie della famiglia Campeol di Treviso, dove il
pasticciere Roberto “Loli” Linguanotto, con esperienza a Vienna, aveva sperimen-
tato la preparazione del dolce “Gioioso et Amoroso” secondo la classica ricetta (in
seguito riconosciuta con atto notarile dall’Accademia Italiana della Cucina) dei sei
ingredienti (caffè amaro, tuorlo d’uovo, zucchero, mascarpone, savoiardi, cacao
spolverato: https://www.tiramesu.it/) nel 1970 (di “tiramesù” (tiramisù) ‘legittimo’
parla Giuseppe Maffioli in Vin Veneto vol. 1, primavera 1981).
Ma nel 2016, con l’uscita del volume “definitivo” sul tiramisù, frutto di una lunga
ricerca da parte dei coniugi giornalisti torinesi Clara e Gigi Padovani, si cominciarono
a muovere le acque (e le polemiche). Spuntò un altro ristorante trevigiano, Al Camin
di Speranza Bon, con la sua ricetta autografa (datata 1958) della “Coppa Imperiale”,
con ingredienti molto simili a quelli del tiramisù, “9 rossi d’uovo, gr. 350 di zucchero,
savoiardi o pan di Spagna, 1 kg. di mascarpone, Gran Marnier, caffè ristretto (abba-
stanza)”, ma con forma (appunto, di una coppa) diversa da quella che conosciamo e
soprattutto senza il nome tiramisù o simili. D’altra parte, dolci del genere (detti sba-
tutìn o sbatudìn), destinati soprattutto ai bimbi gracili (nonostante – o forse proprio
per questa! – la presenza di alcolici) non erano ignoti nella tradizione popolare veneta.
Percorrendo, con la guida dei coniugi Padovani, la strada a ritroso, si attraversa il
confine friulano (causa di grandi polemiche tra le due regioni circa la primogenitura
del dolce) per scoprire un “dolce Tirami su” all’Albergo Ristorante Roma, proprie-
taria Norma Pielli Dal Fabbro, di Tolmezzo UD, prima chiamato semplicemente
“trancio al mascarpone” in un menù del 9 aprile 1952 e poi battezzato tirami su
secondo la testimonianza (del 1954 o 1955) del marito Beppe (“Norma, da domani
lo chiameremo Tirami su”). Per trovarne una testimonianza scritta si deve vedere il
libro di cucina manoscritto (risalente ai primi anni Cinquanta: vi si legge “dolce tira-
mi su”) di Norma Pielli e, più tardi, la ricevuta del conto manoscritto del ristorante
del 13 dicembre 1959 con la voce “tirami su 2” (ossia per due commensali).
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Non è finita, perché sempre in Friuli, anzi nella zona estrema orientale, a San Can-
zian d’Isonzo, frazione di Pieris GO, Mario Cosolo, patron del Ristorante Al Vetturi-
no, che fin dal 1935-1939 presentava nel suo menu una “Coppa Vetturino”, attorno
al 1946 coglieva a volo l’esclamazione (rivolta al dolce e, forse, anche alle grazie della
cameriera che lo portava) del cliente triestino Bruno Cimadori (confermata da una let-
tera del 6 settembre 2013 al quotidiano Il Piccolo da parte del nipote Giorgio): “questo
è un tirime su!” (in dialetto locale). E Cosolo, convinto: “Si chiamerà Tirime su” [la
Coppa Vetturino]. Come sempre, a supporto delle testimonianze orali, è necessaria
una conferma scritta, che troviamo in una locandina (del 1950 ca.) affissa nel locale
(e fortunatamente fotografata durante il banchetto di nozze del campione di pugilato
Tiberio Mitri) dove si legge: “il tirime su creato da Mario vale più di quel che costa”.
La disputa sulla nascita del tiramisù è tutt’altro che conclusa (v. anche Bucci,
Fabrizi 2015) ma si può affermare che per ora siamo a un pareggio tra la primoge-
nitura friulana della denominazione, sia pure in forma dialettale (anni 1946-1950)
e quella veneta del dolce nella forma con cui lo conosciamo adesso (1970).
Altre ipotesi (tra cui quella, molto diffusa soprattutto tra letterati come Alberto
Arbasino, Goffredo Parise, Giovanni Comisso e il ristoratore Alberto Beltrami), che
il tiramisù fosse utilizzato nelle case di tolleranza (e in particolare nella “casa” San
Nicolò di vicolo dei Dall’Oro a Treviso), sembrano destituite di fondamento (e so-
prattutto prive di conferma scritta: una testimonianza orale si colloca attorno al 1945).
Fig. 1 - Tiramisù porzionato. Nella versione di Roberto Linguanotto, il dolce era di forma circola-
re, con una raggiera fatta di savoiardi. La ricetta classica prevede tuorli d’uovo, zucchero, mascar-
pone, savoiardi, caffè amaro, cacao a spolvero
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Due gastronimi italiani sulle tavole del mondo: tiramisù e ciabatta
Fig. 2 - Manifesto del film Tiramisù (Italia, 2016, 95’), regia Fabio De Luigi, interpreti principali
Fabio De Luigi, Vittoria Puccini. Il titolo del film dimostra l’ampia diffusione mediatica del termi-
ne. Altro film in cui è citato il tiramisù è Sleepless in Seattle (USA, 1993, 105’; tit. italiano Insonnia
d’amore) di Nora Ephron, con Tom Hanks e Meg Ryan, segno della notorietà del dolce fuori d’Italia
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è una delle poche, genuine invenzioni ad avere una data di nascita certa e un
luogo di origine ben definito. Tipi di pane del genere erano prodotti attorno
a Como, ma ora l’azione si sposta ad Adria, Rovigo. Ciò che è stato imitato in
tutto il mondo è il frutto dell’ingegno di Arnaldo Cavallari, che nel 1982 ab-
bandonò il mondo delle macchine da corsa per i mulini di famiglia ad Adria,
Veneto, dove allestì un forno sperimentale per stabilire la metodologia e l’au-
tenticazione del prodotto “ciabatta Italia”, fatto industrialmente con una sua
speciale versione di farina, “tipo 1 Italia”.
La ciabatta nasce nel comasco nella seconda metà degli anni Settanta, ma la sua
formula è stata perfezionata nel Rovigotto, che è diventata pure la zona di produ-
zione più significativa. Attualmente, questo pane è brevettato e viene prodotto in
numerose città italiane. La ciabatta comasca era preparata con pasta per pani sof-
fiati, “rinfrescata”, ossia ammorbidita con acqua, e rappresentava una produzione
di ripiego, utile per recuperare gli impasti non utilizzati in altre panificazioni. Nel
1982, presso i “molini adriesi” (cioè di Adria, in provincia di Rovigo, “capitale”
del Polesine), Armando Cavallari, dopo aver abbandonato il mondo delle corse
automobilistiche, decise di proseguire l’attività panificatoria della sua famiglia;
cominciò, così, la produzione della ciabatta. Cavallari adottò lo stesso sistema di
lavorazione utilizzato a Como, ma impiegò una farina diversa, ossia integrale di
grano tenero “tipo 1 Italia”: questa si prestava a lievitazioni lunghe e garantiva un
prodotto particolarmente fragrante, con mollica soffice, ricca di occhiatura alveo-
lata. Da allora Armando Cavallari ha iniziato una intensa attività di promozione di
questo tipo di farina e del nuovo pane attraverso manifestazioni all’estero; in pa-
tria, questo imprenditore ricco di iniziativa ha organizzato corsi di specializzazione
gratuiti per i panificatori perché aderissero al progetto della “ciabatta Italia” .
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Due gastronimi italiani sulle tavole del mondo: tiramisù e ciabatta
Da quella data è cominciata la fortuna della ciabatta nel mondo, anche grazie all’i-
niziativa dell’imprenditore rodigino, che ha depositato i marchi “ciabatta polesana” e
“ciabatta Italia” (1982) e insegnato a produrre la ciabatta in 123 panifici italiani e in
panifici di 56 Paesi di tutti i continenti, come si può vedere dalle immagini del sito www.
accademiadelpane.it. Già nel 1985 i grandi magazzini chic di Londra Marks & Spencer
misero in vendita le ciabatte, e nel 1987 la catena Orlando Bakery di Cleveland, Ohio,
si incaricò di diffondere il pane italiano in tutto il territorio degli States. Come insegna-
no anche le vicende di tiramisù e di ciabatta, questi sono oggi i canali (e i tempi) con cui
si diffondono cose e parole italiane dalle regioni al mondo, dal locale al globale.
Fig. 3 - Ciabatte. Oltre alla forma e alla spolveratura di farina, si noti la tipica alveolatura “a spugna”.
Nella preparazione della classica ciabatta si usava farina integrale di grano tenero “tipo 1 Italia”, che
con lunga lievitazione permetteva di ottenere pane dotato di croccantezza unita a morbidezza
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Fig. 4 - Manifesto (2012) del Comune di Adria (Rovigo) celebrativo del trentesimo anniversario
della nascita, a opera di Arnaldo Cavallari dei Molini Adriesi, della ciabatta “polesana” o “Italia”,
che quindi è precisamente collocabile il 21 settembre 1982. Cavallari è morto a 84 anni il 2 aprile
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