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Giovanni Falcone Davanti All Mafia. Una Intervista de 1988.CROSS 2022

Il documento presenta un'intervista inedita con Giovanni Falcone, condotta nel 1988 da Chiara Lupani e Paola Monzini, studentesse che stavano lavorando su una tesi riguardante la mafia siciliana. L'intervista evidenzia l'importanza delle fonti orali nello studio della mafia e offre un'analisi delle trasformazioni della mafia nel tempo, sottolineando la sua natura unitaria e la sua adattabilità alle nuove esigenze sociali ed economiche. La testimonianza di Lupani ricorda anche l'atmosfera tesa di Palermo negli anni '80 e il coraggio di Falcone nel suo lavoro contro la mafia.
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Giovanni Falcone Davanti All Mafia. Una Intervista de 1988.CROSS 2022

Il documento presenta un'intervista inedita con Giovanni Falcone, condotta nel 1988 da Chiara Lupani e Paola Monzini, studentesse che stavano lavorando su una tesi riguardante la mafia siciliana. L'intervista evidenzia l'importanza delle fonti orali nello studio della mafia e offre un'analisi delle trasformazioni della mafia nel tempo, sottolineando la sua natura unitaria e la sua adattabilità alle nuove esigenze sociali ed economiche. La testimonianza di Lupani ricorda anche l'atmosfera tesa di Palermo negli anni '80 e il coraggio di Falcone nel suo lavoro contro la mafia.
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Storia e memoria

GIOVANNI FALCONE DAVANTI ALLA MAFIA.


UN’INTERVISTA INEDITA
a cura di Chiara Lupani

Title: Giovanni Falcone in front of the mafia. An unpublished interview

Abstract

The Storia e Memoria section of this issue offers an unpublished document: the interview with
Giovanni Falcone collected by Chiara Lupani and Paola Monzini in 1988, at that time students
working on an undergraduate thesis on the Sicilian mafia. The text is introduced by Chiara Lupani’s
testimony who vividly traces the journey-research to Palermo that she conducted with her friend-
colleague Paola Monzini, who unfortunately passed away in 2017. From Lupani’s reconstruction and
from the profound and precise words shared by Falcone in the course of the interview, the value of
the oral source in the study of the mafia clearly emerges.

Key words: interview, Sicilian mafia, Palermo, Falcone.

La sezione Storia e Memoria di questo numero ospita un documento inedito: l’intervista a Giovanni
Falcone raccolta nel 1988 da Chiara Lupani e Paola Monzini, allora studentesse impegnate in un
lavoro di tesi sulla mafia siciliana. Il testo è introdotto dalla testimonianza di Chiara Lupani che
ripercorre in modo vivido il viaggio-ricerca a Palermo che condusse con la sua amica-collega Paola
Monzini, purtroppo scomparsa nel 2017. Nella ricostruzione di Lupani e nelle profonde e precise
parole condivise da Falcone nel corso dell’intervista emerge chiaramente tutto il valore della fonte
orale nello studio della mafia.

Parole chiave: intervista, mafia siciliana, Palermo, Falcone.

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Storia e memoria

RICORDO DI UN INCONTRO
Chiara Lupani

Anno 1987. Paola Monzini ed io, studentesse della Facoltà di Lettere Moderne
dell’Università Statale di Milano, decidiamo di dedicare la nostra tesi di laurea al
fenomeno della mafia siciliana con l’intento di partire dal riconoscimento delle
specificità storico- culturali della Sicilia e analizzare le diverse fasi che avevano
scandito il processo di espansione delle egemonie mafiose dall’Unità d’Italia ai giorni
nostri. Data l’ampiezza dell’argomento, decidiamo di proporre al nostro relatore
Professor Giulio Sapelli di svolgere la ricerca assieme, producendo comunque due
testi distinti1.
Studiando la vasta letteratura sul fenomeno, sin da subito Paola ed io ci rendemmo
conto che la complessa evoluzione dell’agire mafioso non potesse essere separata
dai processi di sviluppo dell’intera società in cui si manifestava. E che le sfere
operative, così come i limiti dei gruppi mafiosi, si potessero comprendere solo
studiando - nel loro divenire storico - i rapporti tra gli “uomini d’onore “ e gli altri
gruppi sociali, con i quali formavano reti di relazioni che venivano di volta in volta
ad assumere connotati diversi.
L’intento della nostra ricerca era quello di utilizzare un approccio non solo
storiografico, ma anche sociologico e antropologico. E di studiare il fenomeno
attraverso l’analisi della vasta documentazione che la Commissione parlamentare
d’inchiesta sulla mafia aveva prodotto nel corso delle diverse legislature. Tale studio
ci permise di verificare le nostre ipotesi mediante un confronto continuo con i dati
e le testimonianze raccolte dalla Commissione d’inchiesta.
Il nostro lavoro di analisi fu lungo e complesso e trovò il suo massimo compimento
nella ricerca sul campo che si svolse a Palermo nel settembre del 1988. Il viaggio ci
permise di raccogliere materiale inedito e di intraprendere un vivo confronto con

1 Chiara Lupani, Politica, mediazione sociale, cultura: la “mafia siciliana”. Un tentativo di sociologia
storica, Università degli Studi di Milano, 1987/1988; Paola Monzini, L’economia della violenza: la
“mafia siciliana”. Un tentativo di sociologia storica, Università degli Studi di Milano, 1987/1988.
Parte dei risultati del lavoro sono stati pubblicati in Chiara Lupani, Paola Monzini, L’organizzazione
come strategia: la mafia siciliana nel secondo dopoguerra, in “Meridiana”, 1989-1990, n. 7-8.

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l’oggetto del nostro studio. I dialoghi tenuti con magistrati, giornalisti e poliziotti, ci
consentirono di ampliare l’orizzonte delle nostre conoscenze, confutando o
rafforzando alcune idee di fondo che avevamo elaborato man mano che studiavamo
la letteratura e gli atti della Commissione e che riguardavano aspetti cruciali per la
comprensione del fenomeno, quali il legame tra mafia e territorio, soprattutto le
campagne, la mafia come organizzazione criminale che si adegua alle trasformazioni
sociali ed economiche, l’uso della violenza come elemento distintivo della mafia, il
ruolo centrale della famiglia come nucleo di Cosa Nostra.
Tutti aspetti che potemmo discutere con Giovanni Falcone nel corso dell’intervista
che il giudice ci concesse il 3 settembre 1988 e che riportammo in appendice ai due
volumi delle nostre tesi. In questa breve introduzione all’intervista vorrei ricordare
come Paola ed io riuscimmo ad avvicinarci al giudice Giovanni Falcone,
soffermandomi su alcuni dettagli di questo straordinario incontro.
Il professore Giulio Sapelli, entusiasta del nostro progetto, ci indirizzò verso Nando
dalla Chiesa, il quale ci avrebbe potuto fornire contatti in Sicilia utili a organizzare
la ricerca sul campo. L’incontro con Nando dalla Chiesa fu molto importante per lo
sviluppo del nostro lavoro, un incontro che non scorderò mai. Nando ascoltò con
grande interesse il nostro progetto, con uno sguardo misto di benevolenza, ma
anche di preoccupazione. Ci chiese se eravamo sicure di voler intraprendere un
viaggio in Sicilia e ci suggerì – al fine di maturare una conoscenza più chiara e
approfondita del fenomeno mafioso - di incontrare il Giudice istruttore Giovanni
Falcone.
Quando comprese la serietà delle nostre intenzioni, porgendoci un foglietto di carta,
ci disse queste parole, che non scorderò mai: “Ora vi do il numero di telefono per
contattare Giovanni Falcone. Non trascrivetelo da nessuna parte, imparatelo a
memoria e poi distruggete il foglietto di carta”. Ricordo quanto “scottasse” quel
biglietto nelle nostre mani e come Paola ed io continuassimo a controllare di averlo
sempre nelle nostre tasche. Arrivammo lo stesso giorno nella mia casa sul Lago
d’Orta. Presi il telefono e composi il numero, con Paola al mio fianco. Una voce
rispose: “Pronto”. Sentita la risposta, seguii immediatamente le istruzioni che ci
aveva fornito Nando: presentai me e Paola, dicendo che avevamo avuto il numero da
Nando dalla Chiesa e che eravamo impegnate in una tesi di laurea sul fenomeno della

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mafia in Sicilia e che avremmo voluto verificare sul campo il vero significato del
fenomeno. Silenzio. Solo dopo alcuni secondi la voce all’altro capo del telefono
esclamò: “Sono Giovanni Falcone”. Ricordo l’emozione incredibile, tenevo la
cornetta in aria, perché anche Paola potesse sentire la sua voce. Il magistrato ci disse
che a Settembre sarebbe dovuto partire per gli Stati Uniti (solo dopo ci rivelò che
aveva un incontro con il pentito Tommaso Buscetta) e che avremmo potuto
incontrarci il 3 Settembre a Palermo presso il Palazzo di Giustizia. Chiuse la breve
telefonata con un veloce arrivederci.
In casa il silenzio fu rotto solo dalla gioia mia e di Paola che iniziammo a saltare di
qua e di là. Felici della straordinaria opportunità che si stava aprendo davanti a noi,
mandammo a memoria il numero di telefono e distruggemmo il biglietto.
Dopo aver preso contatti anche con giornalisti, altri uomini del pool antimafia e
poliziotti impegnati sul fronte antimafia, partimmo alla volta di Palermo. Ricordo lo
sguardo dei miei genitori, si fidavano di me, io non diedi loro molte spiegazioni e
dettagli sul viaggio per non farli preoccupare.
A Palermo nel 1988 l’atmosfera era tesissima, tutto parlava di mafia, di una lotta
feroce. Ricordo lo sbarco a Palermo, con un vento di scirocco che rendeva l’aria
infuocata.
Al porto ci aspettava un esponente del Coordinamento antimafia, ispettore-capo
della polizia di Palermo. Gli avevamo chiesto al telefono come avremmo fatto a
riconoscerlo. Ci disse: “É facile, lo capirete da voi”. E infatti così fu. Vedemmo cinque
gazzelle delle polizia schierate in cerchio, un uomo ci venne incontro stringendoci la
mano e con un caloroso sorriso ci diede il benvenuto a Palermo.
Entrammo in un bar, l’uomo volle sedersi di fronte alla porta: “Voglio vedere in
faccia chi mi ammazza”. Avevamo poco più di vent’anni. E questa frase non ci lasciò
indifferenti. Un senso di paura iniziò a pervadermi tanto che un nodo alla gola mi
impediva di deglutire. Paola, invece, sembrava essere a suo agio. Già si mostrava lo
spirito di ricercatrice che l’avrebbe poi accompagnata nel corso delle sue successive
esperienze di lavoro2.

2I lavori di Paola Monzini sono numerosi e hanno riguardato soprattutto il tema della criminalità
organizzata e successivamente quello dell’immigrazione irregolare e della tratta di esseri umani.
Ricordiamo in questa sede in particolare: Paola Monzini, Gruppi criminali a Napoli e Marsiglia. La

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E così, in questa atmosfera rovente, iniziammo a raccogliere testimonianze,


abituandoci ad andare in giro con persone che avevano sempre la scorta. Una vita
incredibile, lontana dalla nostra anni luce, ma che ci appariva man mano sempre più
reale.
Tutti ci dicevano che Falcone e Borsellino erano morti che camminavano. E che la
loro fine sarebbe stata solo questione di tempo. In tale clima e con questo spirito
incontrammo Giovanni Falcone. Ricordo tutto di quel 3 settembre. La lunga attesa,
la lettera di presentazione scritta da Nando dalla Chiesa per poter accedere all’ala
blindata del Palazzo di Giustizia, dove c’erano gli uffici di Giovanni Falcone e Paolo
Borsellino.
Ricordo con chiarezza l’improvviso movimento, una velocità di spostamento
nell’aria. Paola ed io capimmo che il giudice era arrivato. Non lo si vedeva quasi,
circondato com’era da molti uomini della scorta. Ci fecero salire al primo piano, un
ufficio non molto grande, pieno di telecamere. Una grande poltrona lo accolse, lui
era un uomo minuto.
Ricordo la sua stretta di mano, ferma, decisa, il suo sguardo trasparente e
intelligente, la sua stanchezza in volto. Era incredulo nel vedere due giovani donne
venire da Milano per affrontare una ricerca sulla mafia siciliana. Ci definì coraggiose
e intraprendenti.
E cominciò a parlare, per un’ora intera e forse anche di più.
Nell’intervista riportata qui di seguito e che riproduce per intero la trascrizione che
abbiamo inserito in appendice alle nostre tesi manca l’ultima domanda che
ponemmo al giudice: “Dottor Falcone, ma lei come fa a vivere così?” Risposta: “La
mia è una vita senza convivialità - ristoranti cinema, teatro- ma è l’unica vita che mi
appartiene”.

Ringrazio Nando dalla Chiesa per aver ospitato nella Rivista da lui diretta questa
testimonianza inedita. Purtroppo la mia amica Paola non c’è più. A lei va la mia
gratitudine infinita per aver condiviso con me questa incredibile esperienza.

delinquenza organizzata nella storia di due città (1820-1990), Donzelli, Roma, 1999; Paola Monzini, Il
mercato delle donne. Prostituzione, tratta e sfruttamento, Donzelli, Roma, 2002.

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LA SOSTANZA DELLA MAFIA. INTERVISTA A GIOVANNI FALCONE


a cura di Chiara Lupani e Paola Monzini

Palazzo di Giustizia, Palermo, 3 Settembre 1988

D. — E' legittimo attuare una distinzione concettuale tra "mafia vecchia" e "mafia
nuova"?
R. — No, non direi. La mafia è sempre stata unica e unitaria, le trasformazioni in atto
riguardano gli obiettivi, anche nell'uso della violenza che resta comunque, da
sempre, una delle caratteristiche della mafia. Le trasformazioni si colgono nella
scelta dei tempi e nelle modalità di azione. La principale differenza, se così si può
dire, tra "nuova mafia" e "vecchia mafia" è che la vecchia mafia non era
un'organizzazione criminale, mentre la nuova mafia lo è.
D. — E' più corretto parlare di un adeguamento della mafia ai tempi?
R. — Sì, è un adeguamento alle nuove esigenze. Negli anni Cinquanta, nel periodo
della ricostruzione, vi è il primo momento di una ferma attenzione della mafia al
mercato edilizio. Ma è un errore di prospettiva ritenere che la mafia si sia
trasformata da rurale in edilizia. Tuttora la forza di Cosa Nostra è nelle campagne.
Noi abbiamo puntato molto l'attenzione su Palermo, su Catania, su altri centri, su
tutta quella che è la striscia interna della Sicilia; soltanto adesso stiamo cercando di
vedere che cosa avviene al di fuori di questo territorio. È proprio lì il nocciolo.
D. — Nella letteratura è invece scandito questo modello di passaggio e si perde di vista
l’evoluzione nella campagna.
R. — Tutta la storia della mafia è sempre una vittoria della campagna sulla città, dei
quartieri periferici sui quartieri centrali della città. Poche persone si sono chieste
perché i vertici attuali di Cosa Nostra provengono da Poggioreale e non da Palermo,
visto che il centro del potere è a Palermo, e non può essere che qui.
D. — Come è possibile situare la figura di Angelo La Barbera negli anni Cinquanta?
R. — La storia di Angelo La Barbera è una storia molto complessa, è la storia di una
lotta interna di Cosa Nostra, della lotta di una famiglia di Palermo centro contro tutto
il resto di Cosa Nostra. Prima vi era una maggiore localizzazione degli affari a livello

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di famiglia, adesso gli affari attraversano orizzontalmente tutte le famiglie, tutta la


Sicilia e anche l'Italia intera. A questo punto diventa poco attuale un modello
organizzativo basato sulla famiglia come il nucleo di Cosa Nostra. Si crea così un
vincolo più generalizzato, unitario, più gerarchizzato insomma.
D. — Come si ottiene questo?
R. — Un organismo di emergenza è la reggenza delle famiglie. Quando avvengono
fatti straordinari che impediscono la normale elezione dei capi all'interno delle
famiglie, il "mandamento" o, a volte, la commissione nomina il reggente e questo
viene sostituito agli organi ordinari. Nel momento in cui Cosa Nostra si trova a dover
subire una forte pressione da parte dello Stato, gli organismi ordinari vengono
sostituiti da parte dei reggenti, che rispondono esclusivamente al vertice. In tal
modo si crea la compartimentazione. Per esempio, mentre prima vi era un obbligo
di presentazione fra gli uomini d'onore, ora c'è un obbligo contrario. Quindi se ora
dovesse presentarsi un nuovo pentito pronto a parlare potrebbe riferire solo i fatti
che riguardano la sua famiglia, non certamente l'intera Sicilia. Questo a scopo
difensivo e funzionale: è più funzionale un'organizzazione così verticistica. Nel
momento in cui c'è un traffico di stupefacenti che non si può ovviamente esaurire
nell'ambito della famiglia, ecco che il passaggio da un'organizzazione di tipo
familistico a quello, fra virgolette, di tipo più ampio è inevitabile. I vari uomini
d'onore che si occupano materialmente del traffico di stupefacenti fanno parte di
diverse famiglie.
D. — La famiglia è ancora il nucleo dell'organizzazione, nella fase attuale?
R. — Certo. La famiglia resta sempre un elemento fondamentale. Il controllo del
territorio è fondamentale nella ragion d'essere di Cosa Nostra. Ma vi sono
collegamenti e rapporti molto più intensi che nel passato.
D. — All'interno di questo contesto come si evolve il problema della territorialità?
R. — La territorialità è un problema fondamentale ancora oggi. Caluala e Pontrera,
grandi trafficanti di stupefacenti, vivono nel Venezuela e appartengono alla famiglia
di Siculiano, un paesino vicino ad Agrigento, e come tali sono conosciuti al paese.
L'uomo d'onore è sempre collegato ad una fetta del territorio siciliano. La
Cassazione parlava di germinazione spontanea del fenomeno mafioso: non è così,
non si può essere mafiosi senza alcun riferimento alla terra di origine del fenomeno.

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Il mafioso appartiene a Cosa Nostra, altrimenti non è mafioso. Si può appartenere ad


una organizzazione di tipo mafioso, che ricorre cioè al metodo mafioso per
raggiungere propri fini, ma questo è un altro discorso. Il problema si atteggia
diversamente nelle diverse zone; ad esempio a Palermo il fenomeno mafioso è così
totalizzante che non c'è spazio per organizzazioni di tipo diverso: o l'organizzazione
è mafiosa o non esiste. A Catania è diverso la mafia esiste dal 1905 ed esistono
diverse organizzazioni collaterali di tipo mafioso. Queste appaiono all'esterno come
vere organizzazioni criminali e questa è la caratteristica della mafia: fino a quando
non ha raggiunto una potenza tale da controllare tranquillamente tutto il proprio
territorio questa si mimetizza, quindi all'esterno non appare.
D.— Esistono ancora legami diretti tra la mafia siciliana e quella d'oltreoceano?
R. — Cosa Nostra americana ha origine da una serie di famiglie di Cosa Nostra
siciliane. Bisogna comunque distinguere i membri siciliani di Cosa Nostra che vivono
in America dagli appartenenti a Cosa Nostra americana. Non è molto facile
distinguerli: mentre prima della guerra un mafioso siciliano che andava negli Stati
Uniti era riconosciuto come uomo d’onore dalle organizzazioni americane, questo
adesso non avviene più, non è più possibile.
D.— Non si parla molto del traffico di armi: lei pensa che Cosa Nostra non sia implicata
in questo commercio?
R. — Io non credo che l'organizzazione complessiva di Cosa Nostra sia coinvolta nel
traffico delle armi. É possibile che alcuni personaggi mafiosi si occupino anche di
traffico di armi, ma questo non significa che sia Cosa Nostra ad organizzarli, o
almeno non abbiamo evidenze procuratorie che ce lo dimostrino. É possibile che vi
siano vertici che si occupano anche del traffico di armi, come è sicuro che vi sono
vertici che hanno avuto rapporti con la massoneria e con la P2, con certi ambienti
politici, ma non che Cosa Nostra in quanto tale si occupi del traffico di armi.
D. — Leggendo nella Commissione Antimafia gli interrogatori di Frank Coppola, di
Buscetta e altri emerge l’ignoranza di questi personaggi.
R. — E' una peculiarità dei mafiosi. É la Commissione Antimafia che deve cercare di
adeguarsi, di capire, e non loro. É un po' come gli inglesi che desiderano che tutti
parlino la loro lingua. Non è una debolezza, è una qualità. Quello che dovrebbe essere
messo in chiaro una volta per tutte è che la mafia non è un'escrescenza, una piaga,

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ma è un'organizzazione criminosa che costituisce la "sublimazione" di tutte le


caratteristiche negative e positive del popolo siciliano. In Sicilia il siciliano è prima
di tutto siciliano, poi comunista, democristiano, repubblicano, è ingegnere o è
medico ma mantiene sempre la sua identità. É un marchio che si porta appresso
ovunque. Ci sono negli Stati Uniti siciliani della terza generazione che sono sempre
siciliani.
D. — La mafia è un fenomeno "inestinguibile"?
R. — La mafia come organizzazione criminale è un fatto umano e come tutti i fatti
umani può essere ampiamente contenibile. Questa sensazione di ineluttabilità è un
bellissimo alibi per non fare nulla; che sia una questione difficile non ci vuole molto
a dirlo, ma che sia un qualcosa di invincibile, una sorta di maledizione divina, non
credo proprio.
D. — Il significato di omertà, ieri e oggi, è cambiato?
R. — Prima l'omertà era paura e interesse. Oggi è interesse e paura.
D. — Come vede il fenomeno del pentitismo?
R. — C'è chi lo vede come un ulteriore strumento di lotta all'interno delle cosche
mafiose. Più palesemente è il riconoscimento dello Stato come interlocutore. Le
prime importanti collaborazioni di elementi mafiosi sono cominciate in quanto essi
hanno riconosciuto l'esistenza di un interlocutore serio, non nello Stato ma nel
singolo giudice, nel singolo funzionario di polizia.
D. — Come mai la mafia negli ultimi anni ha deciso di lanciare una sfida evidente allo
Stato?
R. — É l'impostazione di una strategia. Nel dicembre 1969 e nel 1970 c'è stata una
serie di attentati che passarono quasi inosservati, tutta una serie di bombe che
cominciarono a scoppiare nei pubblici edifici. Poi ci fu il coinvolgimento della mafia
nel golpe Borghese. Ed è dal 1971 che cominciarono gli omicidi eccellenti. Si è
avviata una spirale in cui non è sufficiente uccidere un uomo, perché lo Stato, per
quanto inefficiente accumula sempre più forze contro la mafia.
D. — Come mai questi delitti eccellenti non sono ancora stati spiegati del tutto e gli
assassini sono ancora sconosciuti?

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R. — Tutti sanno rispondere, ma nessuno lo vuol fare. Com'è che si potranno mai
scoprire certe cose che vengono dall'interno delle stesse istituzioni? Quando ci si
avvicina troppo succede sempre qualcosa, sempre.
D. — Lo Stato è più forte della mafia, ma...
R. — Questo è un ragionamento schematico, lo Stato è un entità astratta. Esistono
personaggi delle istituzioni che sono coinvolti. Non ha senso dire: la Democrazia
Cristiana è coinvolta nella mafia, il partito Socialista si sta aprendo ai voti mafiosi.
Queste sono schematizzazioni che non comprendono il problema. Questo è chiaro
solo per chi lavora su queste cose: dall’esterno non si può comprendere tutto quello
che accade. Sono fenomeni di una complessità tale che se si perde un solo passaggio
non si capisce più niente. Quando Orlando parla di mafia che rischia di avere il volto
delle istituzioni, quando il capo della polizia parla di criminalità come "anti stato"
denunzia un fenomeno che mette in crisi le stesse istituzioni democratiche. La
compenetrazione sempre maggiore tra criminalità e gangli vitali dello Stato è il
punto fondamentale su cui ancora non si è fatta chiarezza, e su cui non si può far
chiarezza pensando di arrivarci dal vertice, ma solo dal basso, pensando di seguire i
gradini della scala uno dietro altro.

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