MUSEO STORICO DELLA LIBERAZIONE
Roma, Via Torquato Tasso 145
Il carcere di Via Tasso rappresenta una delle pagine più oscure dell’occupazione
nazista a Roma. Originariamente concepito come elegante palazzo per uso
civile, l’edificio venne rapidamente riconvertito in prigione subito dopo
l’occupazione. Mentre il civico 155 era destinato a funzioni amministrative e di
caserma per le SS, il civico 145 fu trasformato in un “Hausgefängnis” (casa-
prigione).
Le stanze, originariamente appartamenti, furono sbrigativamente convertite in
celle. I mobili vennero rimossi e le finestre furono murate, sostituite da piccoli
sopraluci protetti da grate in ferro per garantire una ventilazione minima. Le
celle, spesso prive di luce naturale e con pochissima aria, offrivano spazi
angusti e mal ventilati. I prigionieri, che includevano antifascisti, partigiani,
militari e civili, venivano sottoposti a duri interrogatori e torture per estrarre
informazioni. Le celle di isolamento erano particolarmente crudeli: in esse i
detenuti venivano segregati per lunghi periodi, e spesso lasciati senza contatto
con il mondo esterno, tanto da incidere sui muri messaggi di addio o di
speranza con le unghie o con strumenti improvvisati.
Le porte delle celle venivano dotate di piccoli spioncini e, in molti casi, le
stesse chiusure e infissi originali venivano lasciate in opera per consentire ai
carcerieri di controllare visivamente i detenuti senza doverli far uscire dalla
cella. Oltre alle celle di detenzione, alcune parti dell’edificio venivano adibite ad
archivi e magazzini, dove venivano conservati i documenti personali dei
prigionieri e altre prove delle torture e degli abusi subiti.
Le pareti delle celle, segnate dai graffiti e dai messaggi scritti dai detenuti, sono
diventate un simbolo della sofferenza e della resilienza di chi ha vissuto quel
periodo. Queste tracce rimangono oggi come testimonianza diretta della
crudeltà del regime nazifascista e della determinazione degli italiani a resistere.
Dopo la liberazione, il carcere venne abbandonato e, successivamente, gli
appartamenti furono donati allo Stato per essere trasformati in Museo storico
della Liberazione, con l’obiettivo di conservare e trasmettere alla collettività la
memoria di quei tragici eventi.
Lettera incisa su un muro di una cella del partigiano Spazio tra due celle nel carcere di Via Tasso.
Arrigo Paladini alla madre.
Gioacchino
Gesmundo
«Io sono un sacerdote della verità, la mia
esistenza è votata al suo servizio: sono
impegnato a tutto fare, tutto osare, tutto
soffrire per essa. Foss’ io perseguitato e
odiato per causa sua, dovessi pur morire
per essa, che farei di straordinario? Non
altro che il mio dovere assoluto».
Gioachino Gesmundo nacque a Terlizzi il 20 novembre 1908 da una
famiglia piccolo-borghese, compiendo nella città nativa gli studi
inferiori. Nel 1928 dopo aver riscontrato un grande interesse negli
studi filosofici si trasferisce a Roma, città in cui si laureerà nel 1932.
Discuterà una tesi dal forte carattere sociale, dimostrazione
dell’idealità di Gesmundo, cresciuto in un ambiente con forti tensioni
tra ceto medio e classe operaia che lo spingeranno ad avere
tendenze socialiste ed un animo ribelle. Gesmundo dimostrerà anche
interesse per le teorie marxiste e leninistiche, mantenendo sempre il
suo grande idealismo morale del martirio per l’idea.
Divenendo professore di storia e filosofia al Liceo scientifico
“Cavour” di Roma nel 1937, dimostra una grande inclinazione
all’insegnamento, considerando la scuola come una propaganda di
antifascismo e libertà, insegnando la storia non censurata ai suoi
alunni e non temendo le ritorsioni. Si impegnò per rendere la scuola
un vivaio di ribellione rendendosi anche disponibile a ricevere gli
studenti nel suo appartamento, diventando un amico, compagno dei
suoi allievi. Gesmundo pensa che la liberazione non debba essere
condotta solo idealmente, ma anche tramite la guerra partigiana,
trovandosi alla testa della lotta, per questo aderirà al PCI, rendendo la
sua abitazione un covo della resistenza e ritrovo dei Gruppi di Azione
Patriottica (GAP), diventando un armiere partigiano. Fu tra i primi a
costituire un nucleo attivo di propaganda comunista operando con
coraggio e coscienza. Verrà successivamente arrestato dalle SS dato
il ritrovamento di chiodi che sarebbero stati utilizzati in un sabotaggio
e condotto nelle carceri di via Tasso. La ferma adesione di Gesmundo
ai suoi princìpi emerge sicuramente durante la detenzione, dove sarà
sottoposto per oltre un mese a inenarrabili torture, resistendo
stoicamente e alimentando le speranze degli altri prigionieri. Verrà
condannato a morte e assassinato come parte di una rappresaglia
tedesca dopo l’attentato di Via Rasella il 24 marzo 1944 alle Fosse
Ardeatine insieme ad altre 334 martiri.
La camicia indossata da Gesmundo durante l’eccidio. L’interno della cava in cui sono stati ritrovati i corpi.
Don Pietro
Pappagallo
Pietro Pappagallo nacque anch’esso a Terlizzi il 28 giugno 1888, collaborò
inizialmente con la sua attività di garzone nella bottega paterna, poi la madre gli
consentì di entrare in seminario e fu ordinato sacerdote il 3 aprile 1915. Giunto a
Roma nel 1925, divenne viceparroco della Basilica di San Giovanni in Laterano e
Durante l'occupazione tedesca, il sacerdote si impegnò nel fornire aiuto a soldati
italiani sbandati, partigiani, alleati, ebrei e altre persone ricercate dal regime. Il 29
gennaio 1944, don Pietro fu arrestato dalle SS, dopo la delazione da parte della
spia Gino Crescentini. Sarà anch’egli detenuto nelle carceri di via Tasso con
Gesmundo. Durante la sua detenzione, egli osservò con occhio critico le
dinamiche di oppressione e la crudeltà dei regimi totalitari, evidenziando come la
fede potesse rappresentare non solo un conforto spirituale, ma anche uno
strumento di consapevolezza storica. La sua riflessione si fondava sull'idea che, in
tempi di estrema sofferenza, avere una prospettiva critica sul valore della libertà e
della giustizia fosse indispensabile per non ripetere gli errori del passato. Dopo la
condanna a morte verrà assassinato il 24 marzo 1944 nelle Fosse Ardeatine.
Giuseppe
Cordero Lanza
di Montezemolo
Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo nacque a Roma il 26 maggio
1901 in una famiglia di antica nobiltà piemontese: il padre Demetrio era
generale di brigata e la madre Luisa era figlia del generale Giuseppe.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale come volontario negli
Alpini, proseguì la carriera nel Genio militare e conseguì la laurea in
ingegneria civile nel 1923. Promosso capitano nel 1928 e poi tenente
colonnello per meriti nella campagna di Spagna, passò nel 1940 allo Stato
Maggiore Supremo e nel 1943 raggiunse il grado di colonnello in Africa
settentrionale, venendo decorato con medaglie d’argento e di bronzo e
con la Croce di Ferro tedesca.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, scelse la clandestinità e contribuì
alla creazione del Fronte Militare Clandestino su incarico via radio da
Brindisi, con il compito di coordinare in tutta Italia le formazioni partigiane
legate al Regio Esercito. Operò sotto gli pseudonimi di “ingegner Giacomo
Cataratto” e “professor Giuseppe Martini”, privilegiando la raccolta di
informazioni e vietando azioni che potessero provocare dure rappresaglie
sui civili. Il 25 gennaio 1944, al termine di una riunione clandestina, fu
arrestato dai tedeschi e tradotto nel carcere di via Tasso.
Durante i successivi 58 giorni di detenzione a via Tasso, Montezemolo fu
sottoposto a feroci interrogatori e sevizie progettate per spezzare la sua
volontà, ma non rivelò mai alcun dettaglio sull’organizzazione partigiana.
Malgrado il generale Armellini avesse richiesto al governo di Brindisi uno
scambio di prigionieri di pari grado, Badoglio non diede seguito alla
proposta. Il 24 marzo 1944, a seguito dell’attentato di via Rasella,
Montezemolo fu incluso tra i 335 ostaggi fucilati nelle Fosse Ardeatine in
una tragica rappresaglia nazista. Postumo Medaglia d’Oro al Valor Militare,
il suo sacrificio è diventato simbolo del coraggio e della resistenza civile e
militare contro il nazifascismo italiano.