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angustie dell'esercito alemanno in Italia, perchè l'elettor bavaro
cresciuto cotanto di forze entrò nel Tirolo, e giunse ad impossessarsi
della capitale d'Inspruch. L'avrebbe bene accomodato il possesso e
dominio di quella provincia confinante ai suoi Stati; ma si
aggiugnevano due altre mire, l'una di togliere ai Tedeschi quella
strada per cui solevano spignere in Italia i soccorsi di milizie, e l'altra
di aprirsi un libero commercio coll'esercito franzese, esistente in
Italia, affin di riceverne più facilmente gli occorrenti sussidii.
Mossesi infatti il duca di Vandomo nel mese d'agosto dalla
Lombardia con parte del suo esercito alla volta del Trentino,
sperando di toccar la mano ai Bavaresi, che avevano da venirgli
incontro. Marciarono i Franzesi per Monte Baldo e per le rive del lago
di Garda, e cominciarono ad aggrapparsi per quelle montagne, con
impadronirsi delle castella di Torbole, Nago, Bretonico e d'altre, che
non fecero difesa, a riserva del castello d'Arco, il quale per cinque
giorni sostenne l'empito de' cannoni nemici, con fatiche incredibili fin
colà strascinati. Giunse poi sul fine d'agosto dopo mille stenti
l'esercito franzese alla vista di Trento, ma coll'Adige frapposto, e con
gli abitanti nell'opposta riva preparati a contrastare gli ulteriori
avanzamenti dei nemici. Nè le minaccie del Vandomo, nè molte
bombe avventate contro la città atterrirono punto i Trentini, e
massimamente dacchè in aiuto loro accorse con alcuni reggimenti
cesarei il generale conte Solari. All'aspetto di questi movimenti,
comune credenza era in Italia che in breve si avessero a vedere in
precipizio gli affari dell'imperadore, fatta che fosse l'unione del
Bavaro col duca di Vandomo. Stettero poco a disingannarsi al
comparire all'improvviso mutata tutta la scena. I Tirolesi d'antico
odio pregni contra de' Bavaresi, e massimamente i bravi lor
cacciatori, sì fattamente cominciarono a ristrignere e tempestar coi
loro fucili le truppe nemiche, prendendo spezialmente di mira gli
uffiziali, che altro scampo non ebbe l'elettore, se non quello di
ritirarsi alle sue contrade. Medesimamente non senza maraviglia dei
politici fu osservato ritornarsene il duca di Vandomo in Italia, dopo
aver sacrificato inutilmente di gran gente e munizioni in quella
infelice spedizione. Ora ecco il motivo di sua ritirata.
Non avea mai potuto Vittorio Amedeo duca di Savoia, siccome
principe di mirabile accortezza, e attentissimo non meno al presente
che ai futuri tempi, mirar senza ribrezzo la tanto accresciuta
grandezza della real casa di Francia, e parevagli fabbricato il
mortorio alla sua sovranità, dacchè il ducato di Milano era caduto in
mano d'un monarca sì congiunto di sangue colla potenza franzese.
Portò la congiuntura dei tempi ch'egli si avesse a collegar colle due
corone, tuttochè scorgesse così fatta lega troppo contraria ai proprii
interessi; ma stava egli sempre sospirando il tempo di poter rompere
questa catena; e parve ora venuto, dacchè era vicino a spirare il
tempo del contratto impegno della sua lega coi re di Francia e di
Spagna. Non lasciava la corte cesarea di far buona cera a questo
principe, benchè in apparenza nemico, nè sul principio della rottura
scacciò da Vienna il di lui ministro, come avea praticato con quello
del duca di Mantova. Spedì eziandio nel luglio dell'anno presente a
Torino (per quanto pretesero i Franzesi) il conte di Aversbergh
travestito per intavolare con lui qualche trattato, ma senza sapersi se
ne seguisse conclusione alcuna finora. Quel che è certo, non avea
voluto il duca permettere che le sue truppe passassero verso il
Trentino. Ora i forti sospetti conceputi nella creduta vacillante fede
del duca Vittorio Amedeo diedero impulso al re Cristianissimo di
richiamare in Lombardia il duca di Vandomo. Tornato questo
generale colle sue genti a San Benedetto di Mantova di qua dal Po,
già da lui scelto per suo quartier generale, nel dì 28 oppure 29 di
settembre, messo in armi tutto l'esercito suo, fece disarmar le truppe
di Savoia che si trovavano in quel campo ed altri luoghi, ritenendo
prigioni tutti gli uffiziali e soldati. Non erano più di tre mila; altri
nondimeno li fecero ascendere a quattro o a cinquemila. Per questa
impensata novità e violenza alterato al maggior segno il duca,
principe di grande animo, ne fece alte doglianze per tutte le corti;
mise le guardie in Torino agli ambasciatori di Francia e Spagna;
occupò gran copia d'armi spedite dalla Francia in Italia, ed
imprigionò quanti Franzesi potè cogliere nei suoi Stati. Quindi si
diede precipitosamente a premunirsi e a mettere in armi tutti i suoi
sudditi, per resistere al temporale che andava a scaricarsi sopra i
suoi Stati; giacchè non tardò il duca di Vandomo a mettere in viaggio
buona parte dell'esercito suo contro il Piemonte. Saltò fuori in tal
guisa un nuovo nemico delle due corone, e un nuovo teatro di
guerra in Italia.
Nel dì 5 di dicembre pubblicamente dichiarò il re di Francia Luigi
XIV la guerra contra di esso duca di Savoia, i il quale nel dì 25 di
ottobre, come scrisse taluno, o piuttosto nel dì 8 di novembre, come
ha lo strumento rapportato dal Lunig, avea già stretta lega
coll'imperadore Leopoldo. In esso strumento si vede promesso al
duca Vittorio Amedeo tutto il Monferrato, spettante al duca di
Mantova con Casale, e inoltre Alessandria, Valenza, la Valsesia e la
Lomellina, con obbligo di demolir le fortificazioni di Mortara.
Promettevano inoltre le potenze marittime un sussidio mensile di
ottanta mila ducati di banco ad esso principe, durante la guerra. Fu
poi aggiunto un altro alquanto imbrogliato articolo della cessione
ancora del Vigevanasco, per cui col tempo seguirono molte dispute
colla corte di Vienna. Per essersi trovato il duca colto all'improvviso
dallo sdegno franzese, e specialmente sprovveduto di cavalleria, gli
convenne ricorrere al generale conte di Staremberg, il quale,
desideroso di assistere il nuovo alleato, mise improvvisamente in
viaggio, nel dì 20 di ottobre, mille cinquecento cavalli sotto il
comando del generale marchese Annibale Visconti. Benchè sollecita
fosse la lor marcia, più solleciti furono gli avvisi al duca di Vandomo
del lor disegno; laonde ben guernito di milizia il passo della
Stradella, Serravalle ed altri siti, allorchè colà giunsero gli affaticati
Alemanni, trovarono un terribil fuoco, e andarono presto in rotta.
Molti furono gli uccisi, molti i prigioni, ed a quei che colla fuga si
sottrassero al cimento, convenne dipoi passare fino a San Pier di
Arena presso Genova, e valicare aspre montagne per giugnere in
Piemonte. Questo picciolo rinforzo, e l'essere stati i Franzesi, a
cagion del suddetto passaggio, impegnati in varii movimenti, servì di
non lieve respiro al duca di Savoia; ma non già a preservarlo
dagl'insulti a lui minacciati dal potente nemico. Il perchè determinò
in fine il saggio conte Guido di Staremberg un'arditissima impresa,
che, per essere felicemente riuscita, riportò poscia il plauso
d'ognuno. Quando si pensava la gente che l'esercito suo, postato sul
Modenese e Mantovano di qua da Po, si fosse ben adagiato nei
quartieri d'inverno e pensasse al riposo, all'improvvisa con circa dieci
mila fanti e quattro mila cavalli, seco menando sedici cannoni, nel
giorno santo del Natale passò esso Staremberg la Secchia, e pel
Carpigiano s'indirizzò alla strada maestra chiamata Claudia,
prendendo pel Reggiano e Parmigiano con marcie sforzate il
cammino alla volta del Piemonte, senza far caso dei rigori della
stagione, delle strade rotte e di tanti fiumi gravidi di acqua che
conveniva passare. Era già tornato il duca di Vandomo al campo di
San Benedetto di Mantova. Al primo avviso di questo impensato
movimento dei nemici, raunate le sue truppe, si diede ad inseguirli
con forze, chi disse minori, e chi maggiori, ma senza poter mai
raggiugnerli, oppure senza mai volerli raggiugnere, per poca voglia
di azzardare una battaglia. Si contarono bensì alcune scaramucce ed
incontri, nei quali lasciarono la vita i due valorosi generali Lictenstein
Tedesco e Solari Italiano; ma questi non poterono impedire al prode
comandante di felicemente superar tutti i disagi, e di pervenire ad
unirsi col duca di Savoia nel dì 13 del seguente gennaio, con infinita
consolazione di lui e de' sudditi suoi.
Presero in questi tempi, cioè nel dì 8 di dicembre, i Franzesi
dimoranti in Modena il pretesto di confiscare al duca Rinaldo d'Este
tutte le sue rendite e mobili, perchè il suo ministro in Vienna,
trovandosi nell'anticamera della regina de' Romani, in passando
l'arciduca Carlo, dichiarato re di Spagna, l'inchinò. A chi vuol far del
male, ogni cosa gli fa giuoco. Entrato nel novembre il maresciallo di
Tessè nella Savoia, s'impadronì di Sciambery sua capitale, e poscia
strinse con un blocco la fortezza di Monmegliano. Riuscì in
quest'anno alle potenze marittime e all'imperatore Leopoldo di ritirar
seco in lega un'altra potenza, cioè Pietro II re di Portogallo. Gli
articoli di questa alleanza furono sottoscritti nel dì 16 di maggio, e
fatte di grandi promesse a quel monarca, fondate nondimeno sugli
incerti avvenimenti delle guerre. Di qui sorsero speranze ne' collegati
di potere un dì detronizzare il re di Spagna Filippo V, al qual fine
creduto fu non solamente utile, ma necessario, che lo stesso
arciduca Carlo, proclamato re di Spagna col nome di Carlo III,
passasse in persona colà per dar polso ai Portoghesi, e per animare
l'occulto partito austriaco che si conservava tuttavia nei regni di
Spagna. Pertanto questo savio, affabile e piissimo principe, preso
congedo dagli augusti lagrimanti suoi genitori e dal fratello Giuseppe
re de' Romani, si mise nel settembre in viaggio alla volta dell'Olanda,
con ricevere immensi onori per dovunque passò. Pertanto ecco
oramai gran parte dell'Europa in guerra per disputare della
monarchia di Spagna; nel qual tempo anche il Settentrione ardeva
tutto di guerra per la lega del Sassone re di Polonia collo czar della
Russia contro il re di Svezia, che diede lor delle aspre lezioni. Presero
in quest'anno i Franzesi Brisac, ricuperarono Landau, diedero una
rotta ai Tedeschi sotto esso Landau; e all'incontro gli Anglolandi
s'impadronirono di Bona, Huz e Limburgo.
Cristo mdcciv. Indizione xii.
Anno di Clemente XI papa 5.
Leopoldo imperadore 47.
Veggendosi Rinaldo d'Este duca di Modena sì maltrattato ed
oppresso dai Franzesi, altro ripiego non trovò che di ricorrere a papa
Clemente XI per implorare i suoi paterni uffizii appresso le due
corone, o, per dir meglio, alla corte di Francia, che sola dirigeva la
gran macchina, e sotto nome del re Cattolico sola signoreggiava
negli Stati d'esso duca. Si portò a questo fine incognito a Roma, e vi
si fermò per più mesi. Giacchè non volle indursi a gittarsi in braccio
a' Franzesi, non altro in fine potè ottenere che una pensione di dieci
mila doble; e questa ancora gli convenne comperare con cedere ad
essi Franzesi il possesso della provincia della Garfagnana, situata di
là dall'Apennino colla fortezza di Montalfonso; unico resto de' suoi
dominii, finora sostenuto nel suo naufragio: dopo di che si restituì a
Bologna ad aspettare senza avvilirsi lo scioglimento dell'universal
tragedia. Ma alle sue disavventure si aggiunse in quest'anno la
demolizione della sua fortezza di Brescello, fatta dai Parmigiani:
tanto pontò il duca di Parma, per levarsi quello stecco dagli occhi.
Furono asportate parte a Mantova, parte nello Stato di Milano tutte
quelle artiglierie e attrezzi militari. Cominciarono in quest'anno a
declinar forte in Italia gli affari dell'imperadore e del collegato duca
di Savoia. L'incendio commosso in Ungheria dai sollevati, e in
Germania da Massimiliano elettor di Baviera, siccome quello che più
scottava la corte di Vienna, a lei non permetteva di alimentar la sua
armata in Italia coi necessari rinforzi di truppe e danaro. Nulla
all'incontro mancava al general franzese duca di Vandomo. Da che fu
egli maggiormente rinvigorito dalle nuove leve spedite dalla
Provenza per mare, divise l'esercito suo in due, ritenendo per sè le
forze maggiori a fine di far guerra al duca di Savoia; e dell'altra parte
diede il comando al gran priore duca di Vandomo suo fratello,
acciocchè tentasse di cacciar d'Italia il corpo di Tedeschi che assai
smilzo restava nel Mantovano di qua da Po, e teneva forte tuttavia la
terra di Ostiglia di là da esso fiume. Allorchè i Franzesi s'avviarono,
sul fine dell'anno precedente, dietro al conte Staremberg, aveano gli
Alemanni occupato Bomporto e la Bastia sul Modenese, con far
prigioniere il presidio di questa ultima. Tornato che fu a Modena il
generale signor di San Fremond, non perdè tempo a ricuperare, sul
principio di febbraio, quei luoghi: sicchè si ritirarono i Tedeschi alla
Mirandola, e attesero a fortificarsi in Revere, Ostiglia ed altri siti
lungo il Po di qua e di là, con istendersi ancora sul Ferrarese a
Figheruolo.
Venuto il mese d'aprile, si mosse il gran priore di Vandomo col
grosso delle sue milizie per isloggiare i Tedeschi da Revere. Non
l'aspettarono essi, e si ridussero di là da Po ad Ostiglia: con che
venne a restar separata la Mirandola dal campo loro. Allora fu che il
giovane Francesco Pico duca di essa Mirandola, accompagnato dal
principe Giovanni suo zio, e da don Tommaso d'Aquino Napoletano,
suo padrigno, e principe di Castiglione, comparve a Modena, con
dichiararsi del partito delle due corone, e con pubblicare un
manifesto contra dei cesarei. Fu bloccata da lì innanzi quella città da'
Franzesi; fu anche, sul fine di luglio, regalata da una buona pioggia
di bombe, ma senza suo gran danno, e senza che se ne
sgomentasse punto il conte di Koningsegg comandante in essa.
Pensavano intanto i troppo indeboliti Tedeschi, ridotti di là dal Po, a
mantenere almeno la comunicazione colla Germania; al qual fine
fortificarono Serravalle, Ponte Molino, e varii posti sotto Legnago
negli Stati della repubblica veneta. Di qua dal Po stavano i Franzesi,
cannonando incessantemente Ostiglia nell'opposta riva. Il gran priore
passò dipoi ad assediar Serravalle. Ma perciocchè non men le sue
truppe di qua dal fiume suddetto e i Tedeschi dall'altra parte si
stendevano sul Ferrarese, diede ciò motivo al sommo pontefice di
farne gravi querele per mezzo del cardinale Astalli legato di Ferrara,
intimando agli uni e agli altri di sloggiare, e nello stesso tempo
minacciando di unir le sue truppe colla parte ubbidiente per
iscacciarne la disubbidiente. Sì questi che quelli si mostrarono pronti
ad evacuare il Ferrarese, e in fatti si ritirarono i Franzesi dalla
Stellata, e gli Alemanni consegnarono Figheruolo agli uffiziali del
papa, con promesse di ritirarsi sul Veneziano. Mentre si allestivano a
partire, nella notte precedente la natività di san Giovanni Batista,
avendo i Franzesi raunata gran copia di barche, o trovate in Po, o
fatte venir dal Panaro, alcune migliaia di essi, imbarcati alle
Quadrelle, quetamente passarono di là dal fiume, ed ottenuto il
passo dalle guardie pontificie, diedero addosso agli Alemanni, i quali,
in vigore dell'accordo fatto se ne stavano assai spensierati e quieti.
Alquanti ne furono uccisi, gli altri colla fuga scamparono; restò il loro
bagaglio in man de' Franzesi. Fu cagion questo colpo ch'eglino
poscia abbandonassero Ostiglia, Serravalle e Ponte Molino, e che il
picciolo loro esercito, valicato l'Adige, andasse a mettersi in salvo sul
Trentino. Proruppe la corte di Vienna in escandescenze per questo
fatto, con pretendere di aver pruove chiare che fosse seguito di
concerto coi ministri del papa, perchè nello stesso tempo era andato
il conte Paolucci generale pontificio ad abboccarsi col gran priore, e
per altre ragioni che non importa riferire. Commosso dalle amare
doglianze di Cesare, il pontefice spedì a Ferrara monsignor Lorenzo
Corsini, che fu poi cardinale e papa, acciocchè ne formasse un
processo. Nulla risultò da questo che i pontifizii avessero consentito
o contribuito alla cacciata de' Tedeschi; ma non perciò si potè levar
di capo alla corte cesarea che il papa, assicurato oramai della fortuna
favorevole ai Gallispani, avesse data mano ad essi per cacciare lungi
da' suoi Stati quel molesto pugno di gente. Da che si trovarono
rinforzati gli Alemanni da alquante milizie calate dal Tirolo, dopo la
metà di settembre calarono di nuovo nel Bresciano, fortificandosi a
Gavardo e Salò sul lago di Garda, e in altri luoghi. Poche son le
nazioni e i principi che nelle prosperità sappiano conservar la
moderazione. Cadde allora in pensiero ai Franzesi di parlar alto, e di
obbligar la repubblica veneta ad impedire la calata e la dimora delle
soldatesche alemanne ne' suoi stati. E perciocchè la saviezza veneta,
risoluta di conservare la già presa neutralità, rispose con non minore
coraggio, e vieppiù rinforzò i presidii delle sue piazze, allora il gran
priore per forza entrò in Montechiaro, Calcinato, Carpanedolo,
Desenzano, Sermione ed altri luoghi, e non si guardò di far altre
insolenze e danni a quelle venete contrade, finchè arrivò il verno che
mise freno alle operazioni militari.
Quanto al Piemonte, avea bene il duca Vittorio Amedeo, con varie
leve fatte nei suoi Stati e negli Svizzeri, accresciuto di molto l'esercito
suo, ma per la gran copia di Franzesi, venuta per mare al duca di
Vandomo, si trovò sempre di troppo inferiore alle forze nemiche. Sul
principio di maggio contò esso Vandomo circa trentasei mila
combattenti nell'oste sua, e però, con isprezzo degli alleati postati a
Trino, passò in faccia di essi il Po, e gli obbligò a ritirarsi con qualche
loro perdita. Poi imprese l'assedio di Vercelli, città che, quantunque
presidiata da sei mila persone, non fece che una misera difesa; ed
ostinatosi il Vandomo a voler prigioniera di guerra quella guernigione
a fine di sempre più tagliar le penne al duca di Savoia, trovò
comandanti ed uffiziali che condiscesero a cedergli la piazza con sì
dura condizione. Ordine emanò ben tosto di spogliar quella città di
ogni fortificazione nel dì 21 di luglio. Calato intanto anche il duca
della Fogliada dal Delfinato con dieci mila combattenti, dopo essersi
impossessato della città di Susa, mise l'assedio a quel castello;
espugnò la Brunetta e il forte di Catinat; e nel dì 12 di luglio
costrinse il presidio del suddetto castello di Susa a rendersi con patti
molto onorevoli. Obbligò dipoi colla forza i Barbetti abitanti nelle
quattro valli ad accettare la neutralità. Andò quindi ad unirsi sotto la
città d'Ivrea col Vandomo, il quale sedici giorni impiegò a
sottomettere quella città. Ritiratosi il comandante nella cittadella,
poscia, nel dì 29 di settembre, dovette cedere, con restar prigioniere
egli e tutti i suoi. Vi restava in quelle parti la città d'Aosta renitente
alla fortuna; ma nè pur essa potè esimersi dall'ubbidire ai Franzesi
insieme col forte di Bard: con che restò precluso al duca di Savoia il
passo per ricevere soccorsi dalla parte della Germania e degli
Svizzeri. E pure qui non finirono le imprese dell'infaticabil duca di
Vandomo. Si avvisò egli, al dispetto della contraria stagione che si
appressava, d'imprendere l'assedio di Verrua, fortezza non solo pel
sito, perchè posta sul Po sopra un dirupato sasso ma eziandio per le
fortificazioni aggiunte, creduta quasi inespugnabile; e tanto più
perchè il duca di Savoia unito al maresciallo di Staremberg colla sua
armata stava postato di là dal Po a Crescentino nella riva opposta del
fiume, e mercè di tre ponti manteneva la comunicazione con Verrua.
Oltre a ciò, davanti a Verrua si trovava il posto di Guerbignano ben
trincerato e difeso da cinque mila fra Tedeschi e Piemontesi. Non si
atterrì per tutte queste difficoltà il Vandomo, e alla metà di ottobre
andò a piantare il campo contro di Guerbignano. Intanto perchè sì
fattamente calarono le acque del Po, che si poteano guadare, finse,
o pure determinò egli di voler passare col meglio delle sue genti, ed
assalire il campo di Crescentino. Ne fu avvisato a tempo il duca di
Savoia, che perciò richiamò la maggior parte della gente posta alla
difesa di Guerbignano. Tra la partenza di queste truppe e il fuoco di
molte mine che fecero saltare i trincieramenti di quel posto, il
Vandomo se ne impadronì, e dipoi si diede agli approcci e alle
batterie contro Verrua, continuando pertinacemente l'assedio pel
resto dell'anno; assedio memorabile non men per le incredibili offese
degli uni, che per l'insigne difesa e bravura degli altri.
Era mancata di vita nell'anno precedente Anna Isabella duchessa
di Mantova, moglie di Ferdinando Carlo Gonzaga duca regnante:
principessa che per la somma sua pietà, carità e pazienza meritò
vivendo e morta gli encomii d'ognuno. Volle in quest'anno esso duca
portarsi alla corte di Parigi, dove non gli mancarono onori e carezze
quante ne volle. Ottenne anche il titolo di generalissimo delle armate
in Italia di sua maestà Cristianissima. O il suo desiderio di lasciar
dopo di sè qualche posterità legittima, giacchè di questa era privo, o
le premure dei suoi domestici, e fors'anche della corte stessa di
Francia, lo invaghirono di passare alle seconde nozze. Si fermarono i
suoi voti sopra Susanna Enrichetta di Lorena, figlia di Carlo duca di
Elboeuf, principessa dotata al pari di beltà che di saviezza. Tornato
poi in Italia, arrivò nel dì 28 d'ottobre al campo del duca di
Vandomo, ricevuto ivi con sommo onore qual generalissimo, e
applaudito dal rimbombo di tutte le artiglierie. Condotta la novella
sua sposa per mare da quattro galee di Francia, corse gran rischio,
perchè malamente salutata da più cannonate di due armatori inglesi
presso Genova. Si celebrò poscia il suo maritaggio in Toscana nel dì
8 di novembre coll'assistenza del principe e principessa di
Vaudemont suoi parenti. Ma il duca, che avea logorata la sua sanità
nei passati disordini, nè pur trasse prole da questa degna
principessa. Ora mentre l'Italia mirava in ben cattiva situazione l'armi
cesaree e savoiarde, con prevalere cotanto le franzesi, cominciò la
fortuna a mutar volto in Germania. Avea l'elettor di Baviera slargate
molto l'ali, con essersi impadronito anche di Ratisbona, Augusta,
Passavia ed altri luoghi, e minacciava conquiste maggiori: quando
con segreta risoluzione fu spedito da Anna regina d'Inghilterra il suo
generale milord Marlboroug con isforzate marcie ad unir le sue forze
colle cesaree, comandate dal principe Eugenio in Germania. Non
mancò il re Cristianissimo d'inviare anch'egli in aiuto del Bavaro il
maresciallo di Tallard con ventidue mila combattenti. Occuparono i
due prodi generali anglocesarei la città di Donavert con un
combattimento, in cui grande fu il macello dei vinti, e forse non
minore quello dei vincitori.
Erano le due armate nemiche forti ciascuna di quasi sessanta
mila persone, e nel dì 13 d'agosto in vicinanza di Hogstedt vennero
alle mani. Da gran tempo non era seguita una sì terribil battaglia;
dall'una parte e dall'altra si combattè con estremo valore e furore;
ma in fine si dichiarò la vittoria in favore degl'imperiali ed Inglesi.
Secondo le relazioni tedesche d'allora, dieci mila Gallo-Bavari vi
perderono la vita, sei mila se ne andarono feriti, e dodici o
quattordici mila rimasero prigioni, la maggior parte colti separati
dall'armata e stretti dal Danubio, che furono forzati a posar le armi.
Fra essi prigionieri si contò il maresciallo di Tallard. Il duca di Baviera
e il maresciallo di Marsin, colla gente che poterono salvare,
frettolosamente marciarono alla volta della Selva Nera e della
Francia. Anche l'esercito vittorioso lasciò sul campo circa cinque mila
estinti, e a più di sette mila ascese il numero de' feriti. Le
conseguenze di sì gran vittoria furono la liberazion d'Augusta, Ulma
ed altre città della Germania, e l'acquisto di nuovo di quella di
Landau in Alsazia. La Baviera, che dianzi facea tremar Vienna stessa,
venne in potere di Cesare con patti onorevoli per la elettrice, che si
ritirò poi a Venezia, essendo passato l'elettore consorte al suo
governo di Fiandra. Al primo avviso di quella sanguinosa battaglia
portato in Italia, si adirarono forte i Franzesi, con chi riferiva essersi
rendute prigioniere tante migliaia de' lor nazionali senza fare difesa.
Si accertarono poi della verità con loro grande rammarico. Ed ecco la
prima amara lezione che riportò delle sue vaste idee il re
Cristianissimo Luigi XIV. Fu ancora gran guerra in Portogallo, dove
era giunto il re Carlo III con rinforzi di milizie inglesi ed olandesi.
Andò in campagna lo stesso re Filippo V; riportò di molti vantaggi
sopra de' Portoghesi, e se ne tornò glorioso a Madrid; se non che le
sue allegrezze restarono amareggiate dall'avere gl'Inglesi occupata la
città di Gibilterra, posto di somma importanza nello stretto, ma posto
mal custodito dagli Spagnuoli in sì pericolosa congiuntura. Tentarono
essi di ricuperarlo con un vigoroso assedio, che durò sino all'anno
seguente, ma senza poterne snidare di colà i nemici, che anche
oggidì ne conservano il dominio. Seguì parimente una fiera battaglia
circa il fine d'agosto verso Malega fra le flotte franzese ed
anglolanda. Sì gli uni che gli altri solennizzarono dipoi col Te Deum la
vittoria, che ognun si attribuì, e niuno veramente riportò. Nel dì 23 di
febbraio di quest'anno mancò di vita in Roma il cardinale Enrico
Noris Veronese, ben degno che di lui si faccia menzione in queste
memorie. Militò egli nell'ordine dei frati agostiniani, fu pubblico
lettore in Pisa, e custode della biblioteca Vaticana; poi promosso alla
sacra porpora nel 1695; personaggio che pel sodo ingegno, raro
giudizio e profonda erudizione non ebbe pari in Italia ai tempi suoi,
come ne fanno e faran sempre fede le opere da lui date alla luce.
Cristo mdccv. Indizione xiii.
Anno di Clemente XI papa 6.
Giuseppe imperadore 1.
Fu questo l'ultimo anno della vita di Leopoldo Austriaco
imperadore, morto nel dì 5 di maggio: monarca, ne' cui elogii si
stancarono giustamente le penne di molti storici. La pietà, retaggio
singolare dell'augusta casa d'Austria, in lui principalmente si vide
risplendere, e del pari la clemenza, la affabilità e la liberalità
massimamente verso dei poveri. Mai non si vide in lui alterigia nelle
prospere cose, non mai abbattimento di spirito nelle avverse. Parea
che nelle disavventure non gli mancasse mai qualche miracolo in
saccoccia per risorgere. Lasciò un gran desiderio di sè, e insieme due
figli, l'uno Giuseppe, re da molti anni de' Romani, e Carlo III
appellato re di Spagna, il primo di temperamento focoso, e l'altro di
una mirabil saviezza. A lui succedette il primo con assumere,
secondo il rito, il titolo d'imperador de' Romani, ed accudire al pari,
anzi più del padre defunto, al proseguimento della guerra contro la
real casa di Francia. Pubblicò nel luglio di quest'anno il pontefice
Clemente XI una nuova bolla contra de' giansenisti. Ma sotto il
novello imperadore Giuseppe crebbero le amarezze della corte
pontificia, di maniera che il conte di Lemberg ambasciatore cesareo
in Roma se ne partì, passando in Toscana, e fu licenziato da Vienna
monsignore Davia Bolognese nunzio di sua santità. Gran tempo era
che il magnanimo pontefice pensava ad accrescere un nuovo
ornamento alla città di Roma coll'erezione della colonna Antoniana;
perciò diede l'ordine che fosse disotterrata. Nel dì 25 di settembre fu
questo bel monumento solamente cavato dal terreno per opera del
cavalier Fontana; e gran somma d'oro costò sì nobile impresa.
In Piemonte continuò ancora gran tempo la forte piazza di Verrua
a sostenersi contro le incessanti offese del campo franzese. Nel dì 26
di dicembre dell'anno precedente un gran guasto fu dato alle trincee
degli assedianti da quel presidio, rinforzato segretamente dal duca di
Savoia da due mila persone, giacchè egli manteneva tuttavia la
comunicazion colla fortezza mediante il ponte di Crescentino: ma
senza comparazione più furono i periti nel campo d'essi Franzesi a
cagion dei gravi patimenti di un assedio ostinatamente sostenuto in
mezzo ai rigori del verno, ancorchè non ommettesse il duca di
Vandomo diligenza alcuna per animarli con profusion di danaro e di
alimenti. Intanto innumerabili furono gli sforzi delle artiglierie,
bombe e fuochi artifiziali contro l'ostinata piazza per li mesi di
gennaio e febbraio. Frequenti erano ancora le mine e i fornelli sì
dell'una che dall'altra parte. Ma perciocchè si conobbe troppo difficile
il vincere questa pugna, finchè il duca Vittorio Amedeo potesse
dall'opposta riva del Po andare rinfrescando quella fortezza di nuovi
combattenti, viveri e munizioni; nel primo dì di marzo il Vandomo
improvvisamente spinse un grosso distaccamento ad occupar l'isola
e forte del Po, a cui si atteneva il ponte nemico; e così tagliò ogni
comunicazione con Verrua. Ritirossi allora il duca di Savoia col
maresciallo di Staremberg a Civasso, lasciando Crescentino in poter
de' Franzesi. Si trovò in breve il valoroso comandante di Verrua
obbligato a cedere; ma prima di farlo, co' fornelli preparati mandò in
aria i recinti e bastioni, e poi si rendè nel dì 10 di marzo a
discrezione, rimproverato poscia e insieme lodato dal Vandorno per
sì lunga e gloriosa difesa. Presero dopo tale acquisto le affaticate
milizie franzesi riposo fino al principio di giugno, ed allora, uscendo
in campagna, si mossero con disegno di assediare Civasso; e di
aprirsi con ciò il campo fino a Torino, già meditando offese contra di
quella capitale. Stava accampato in quelle vicinanze il duca di Savoia
con lo Staremberg, e di là diede molte percosse alle truppe franzesi,
ma senza poter impedire l'assedio di Civasso. Si sostenne questa
picciola piazza sino al 29 di luglio, in cui esso duca alla sordina fece
di notte evacuarla, per quanto potè, di artiglierie e munizioni, e la
lasciò in potere del duca della Fogliada, comandante allora di
quell'armata franzese, giacchè il duca di Vandomo avea dovuto
accorrere al basso Po contro l'armata cesarea, siccome diremo.
Di grandi ed incredibili preparamenti fece dipoi esso Fogliada,
passato sino alla Veneria, per mettere l'assedio a Torino; ma perchè
sopraggiunsero ordini dal re Cristianissimo di differire sì grande
impresa all'anno seguente, portò egli la guerra altrove. Avea questo
general franzese molto prima, cioè nel dì 10 di marzo, obbligata a
rendersi la picciola città di Villafranca sulle rive del Mediterraneo.
Lasciato poscia un blocco intorno a quella cittadella, che poi si
arrendè nel dì primo di aprile, andò ad aprir la trincea sotto la città
di Nizza. Se ne impadronirono i Franzesi, ma non vedendo maniera
di forzare quel castello, l'abbandonarono di poi con rovinare le
fortificazioni. Da che queste furono alquanto ristorate dal marchese
di Caraglio governatore, sul principio di novembre comparve colà di
nuovo con forze maggiori il duca di Berwich, ed entratovi nel dì 14 di
esso mese, si accinse poi a far giocare le batterie contra di quel
castello, il quale non meno pel sito che per le fortificazioni atto era a
far buona resistenza. Aveano, per non so qual ordine male inteso, i
Franzesi ritirata la lor guarnigione da Asti verso la metà d'ottobre. Vi
accorse tosto il maresciallo di Staremberg, e piantò quivi il suo
quartiere. Tanto ardire non piacendo al duca della Fogliada, andò ad
accamparsi in quei contorni; con poca fortuna nondimeno, perchè
usciti gli Alemanni con tal bravura li percossero, che vi restò ucciso il
general franzese conte d'Imercourt con alquante centinaia de' suoi;
laonde fu giudicato miglior consiglio il ritirarsi. Verso la metà di
dicembre la fortezza di Monmegliano in Savoia, vinta non dalla forza
ma da un ostinato blocco d'un anno e mezzo, si trovò in fine
obbligata a capitolare con condizioni onorevoli. Per ordine poi del re
Cristianissimo ne furono smantellate tutte le fortificazioni. Così
andavano moltiplicando le perdite e sciagure addosso al duca di
Savoia, il quale non avea cessato di tempestare la corte di Vienna e
le potenze marittime per ottenere gagliardi soccorsi.
Con occhio certamente di compatimento miravano gli alleati
l'infelice positura di questo sì fedele sovrano; e però fu presa la
risoluzione di rispedire in Italia con forze nuove il principe Eugenio,
in cui concorrendo un raro valore e saper militare, e di più la stretta
attinenza di sangue colla real casa di Savoia, si potea perciò da lui
promettere ogni maggiore studio per la causa comune. Ma non gli
furono consegnate forze tali, che potessero per conto alcuno
competere colle franzesi. Ne presentì la venuta il duca di Vandomo;
e per assicurarsi che egli non pensasse alla da tanto tempo bloccata
Mirandola, ordinò che il signor di Lapurà tenente generale degli
ingegneri alla metà d'aprile passasse ad aprir la trincea sotto quella
fortezza. Benchè si trovasse fornito di tenue presidio il conte di
Koningsegg ivi comandante cesareo, pur fece una bella difesa sino al
dì 10 di maggio, in cui si arrendè co' suoi prigioniere di guerra.
Arrivò in questo mentre in Italia il prode principe Eugenio; e da che
ebbe raunato un sufficiente corpo d'armata, costeggiando il lago di
Garda, giunse a Salò. Quivi fu egli indarno trattenuto dalla opposta
nemica armata, perchè seppe aprirsi il passo al piano della
Lombardia, e far poi molti prigioni dei nemici. A Cassano sul fiume
Adda si trovarono poscia a fronte le due nemiche armate nel dì 16 di
agosto, e vennero a giornata campale. Erano maestri di guerra i due
generali, piene di valoroso ardire le truppe di amendue, e però
ciascuna delle parti menò ben le mani, ma con lasciare indecisa la
vittoria, avendo la notte posto fine agli sdegni. Si studiò poi ciascuna
delle parti, secondo il privilegio dei guerrieri, di fare ascendere a più
migliaia la mortalità de' nemici, e tanto meno la propria, di modo che
si intesero da lì a poco intonati due contrarii Te Deum. Forse
maggiore fu la perdita dei Franzesi, ma certo compensata dell'avere i
Tedeschi compianta la morte di più loro generali, oltre a quella del
principe Giuseppe di Lorena. Perchè l'uno e l'altro esercito restò
infievolito da sì copioso salasso, pensò di poi più al riposo che ad
ulteriori militari fatiche, ed altra impresa non succedette pel resto
dell'anno in quelle parti.
Anche nell'alto Reno, alla Mosella e al Brabante non mancarono
azioni militari e sanguinose, e fra queste specialmente rimbombò
l'avere il milord Marlboroug forzate, nel dì 19 di luglio, le linee
franzesi del Brabante, con far prigioni circa mille e cinquecento
Gallispani, fra i quali due generali, e con prendere alquanti cannoni,
bandiere, stendardi e qualche parte del bagaglio. Lo strepito
nondimeno maggiore della guerra fu in Ispagna. Qualche picciolo
acquisto fecero i Portoghesi, assistiti dagli Anglolandi. Assediarono
anche Badaios; ma entrato colà un buon soccorso di Spagna, meglio
si stimò di lasciare in pace quella città. All'incontro la potentissima
flotta combinata degl'Inglesi ed Olandesi con gente da sbarco, e
collo stesso re Carlo III in persona si presentò davanti Barcellona. Al
nome austriaco in gran copia concorsero colà i Catalani armati: dal
che rinvigoriti gli Anglolandi formarono, l'assedio di quella città, e ne
furono direttori il principe di Darmstadt e il milord Peterboroug. Dopo
essersi gli assedianti impadroniti de' forti del Mongiovì, nella quale
impresa quel valoroso principe lasciò la vita, strinsero maggiormente
la città, e finalmente indussero, sul principio d'ottobre, il vicerè
Velasco a capitolare, con accordargli tutti gli onori militari. Ma andò
per terra la capitolazione, perchè prima di effettuarla si mosse a
sedizione il popolo di Barcellona, e v'entrarono gli Austriaci, accolti
con festosi ed incessanti viva. L'acquisto della capitale fu in breve
seguitato da Lerida, Tarragona, Tortosa, Girona ed altri luoghi della
Catalogna. Tumultuarono parimente i popoli del regno di Valenza, e
questa città con Denia, Gandia ed altre terre alzò le bandiere del re
Carlo III. Per quanti sforzi facessero nell'anno presente gli Spagnuoli
per ricuperare Gibilterra con un pertinace assedio, non furono
assistiti dalla fortuna, perchè padroni del mare gli Anglolandi, colà
introdussero di mano in mano quante forze occorrevano per la
difesa. Nel novembre dell'anno presente avvenne una memorabil
rotta del Po sul Mantovano di qua, che rotti gli argini della Secchia e
del Panaro, e seco unite quelle acque, recò incredibili danni a tutta
quella parte del Mantovano, al Mirandolese, a parte del Modenese, e
ad un gran tratto del Ferrarese sino al mare Adriatico. Arrivarono le
acque sino alle mura di Ferrara, atterrarono un'infinità di case e fenili
rurali, colla morte di gran copia di bestie e di non poche persone.
Cristo mdccvi. Indizione xiv.
Anno di Clemente XI papa 7.
Giuseppe imperadore 2.
Se mai fu anno alcuno in Italia, anzi in Europa, fecondo di
avvenimenti militari e di strane metamorfosi, certamente è da dire il
presente. Fra i gran pensieri che agitavano la corte di Francia per
sostenere la monarchia spagnuola lacerata o minacciata in tante
parti dalle armi collegate, uno dei principali si scoprì essere quello di
ultimar la distruzione di Vittorio Amedeo duca di Savoia, principe che
colle sue ardite risoluzioni avea fin qui obbligato il re Cristianissimo
Luigi XIV a mantenere in Italia una guerra che gli costava non pochi
milioni ogni anno. Oppresso questo coraggioso principe, si credea
facile il mettere le sbarre ad ulteriori tentativi della Germania contra
lo Stato di Milano. Già avea per cinquantacinque giorni il marchese di
Caraglio sostenuto il castello di Nizza, benchè flagellato
continuamente da cannoni e mortari del duca di Berwich, quando si
vide ridotto all'estremo, e ridotto a capitolarne la resa con tutti gli
onori militari nel dì 4 di gennaio. Fu poscia condannato quel castello
a vedere uguagliate al suolo tutte le sue fortificazioni. Tanti
preparamenti andava in questo mentre facendo il duca della
Fogliada, che poco ci voleva a comprendere tendenti le sue mire
all'assedio di Torino. Perciò il saggio duca attese a ben premunire
quella capitale e cittadella di quanto potea occorrere in sì fiero
emergente; e da che vide cominciare le offese, con passaporti del
nemico general franzese spedì a Genova la real sua famiglia, ed
anch'egli si mise poi alla larga per maggior sicurezza, riducendosi a
Cuneo e ad altri luoghi fin qui preservati dalle nemiche violenze. Ora
non sì tosto ebbe il suddetto Fogliada ricevuta nuova gente da
Francia con promessa ancora di maggiori rinforzi, che passata la
metà di maggio accostatosi a Torino, diede principio alla
circonvallazione intorno a quella cittadella, dove il prode conte Daun,
lasciato dal duca per governator di Torino insieme col marchese di
Caraglio, avea messo un forte presidio de' suoi Tedeschi. Venuto
poscia il giugno, aprì la trincea sotto quella fortezza, contando dopo
l'acquisto di essa presa anche la città, benchè nè pure ommettesse
le offese contro la città medesima. Orrendo spettacolo era il gran
fuoco dì circa ducento tra cannoni e mortari continuamente impiegati
dai Franzesi a gittar palle, bombe e sassi contro di essa città, e più
contro della cittadella; e un pari trattamento lor faceano i tanti
bronzi e fuochi degli assediati. Nello stesso tempo non lasciò il
Fogliada di marciare con alcune migliaia di fanti e cavalli per voglia di
cogliere, se gli veniva fatto, lo stesso duca di Savoia. Ma egli
vigilante, ora scorrendo in un luogo ed ora in un altro, seppe sempre
schermirsi dai nemici, e dar loro anche qualche percossa, finchè si
ritirò nella valle di Lucerna, dove trovò assai fedeli e arditi alla sua
difesa que' Barbetti. L'essersi perduti in questa diversione i Franzesi,
cagion fu che non progredisse l'assedio di Torino con quel vigore che
richiedeva la positura dei loro affari.
Tornato nella primavera il principe Eugenio sul Trentino, quivi
attese a far massa dei rinforzi a lui promessi, che, secondo il solito
dei Tedeschi, con poca fretta andavano calando dalla Germania. Più
sollecito il duca di Vandomo, dappoichè fu ritornato anch'egli da
Parigi, passata la metà di aprile, uscì in campagna con venticinque
mila combattenti (altri han detto molto meno) a motivo di cacciar dal
piano della Lombardia quelle brigate alemanne che vi erano restate,
e di ristringere le loro speranze fra le montagne delle Alpi. Ben lo
previde il principe Eugenio, e per non perdere l'adito in Italia, ordinò
al generale Reventlau di postarsi fra Calcinato e Lonato con dodici
mila tra fanti e cavalli alla Fossa Seriola, che gli avrebbe servito di
antemurale. Furono malamente eseguiti gli ordini suoi, avendo quel
generale trascurato di ben fortificarsi dalla parte di Lonato. Ora ecco,
nel dì 19 d'aprile, sopraggiugnere il Vandomo dalla parte di
Montechiaro, e poi di Calcinato il quale si spinse contro
l'accampamento nemico. Aspro fu il conflitto, ma in fine i meno
cedettero ai più, e gli Alemanni in rotta si ritirarono il meglio che
poterono a Gavardo. Esaltarono i Franzesi questa vittoria,
pretendendo che restassero prigionieri circa tre mila imperiali, ed
altrettanti freddi sul campo; laddove gli altri contavano solamente
ottocento gli estinti, e circa mille e cinquecento i prigioni e feriti.
Certo è che i Franzesi acquistarono alquanti pezzi di cannone, molte
baudiere e stendardi, e fecero bottino del bagaglio e delle
provvisioni. Dopo questa percossa il principe Eugenio, vedendo
chiusi i passi del Bresciano, andò a poco a poco ritirando dalle rive
del lago di Garda le sue truppe, e a suo tempo improvvisamente
sboccò di nuovo sul Veronese. Gravissimi danni avea patito nel
precedente anno la repubblica veneta sul Bresciano, calpestato dalle
due nemiche armate; maggiori li provò nel presente, perchè il
Vandomo venne colle maggiori sue forze ad accamparsi in vicinanza
di Verona, e stese le sue genti lungo l'Adige, per impedirne il
passaggio agli imperiali. Con pretesto che dai Veneziani si prestasse
o potesse prestare aiuto alle truppe cesaree, alzò dei fortini contro la
città di Verona, non solamente minacciando essa, ma fino il senato
stesso, se non usciva di neutralità. Spinti da sì fatte violenze quei
saggi signori, accrebbero il loro armamento, e risposero di buon
tuono ai Franzesi, senza mai dipartirsi dalla presa risoluzione di non
voler aderire a partito alcuno. Aveano stretta a questo fine, nel dì 12
di gennaio, una lega colle città svizzere di Berna e Zurigo. Intanto
con finte marcie andava il principe Eugenio imbrogliando
l'avvedutezza franzese, finchè, nel dì 6 di luglio, riuscì a un corpo di
sua gente di valicar l'Adige alla Pettorazza, e di afforzarsi
nell'opposta riva: il che aprì l'adito al passaggio di tutta la sua
armata, che, per quanto si figurò la gente, ascendeva a trenta mila
persone, benchè la fama la facesse giugnere sino a quaranta mila.
Curiosa cosa fu il vedere come i dianzi sì baldanzosi Franzesi
battessero una frettolosa ritirata senza mai voler mirare il volto
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