STORIA
MEDIEVALE
ANDREA ZORZI
ANNO 21/22
APPUNTI DI
LORENZO MICHELE
NOÈ CARUSO
Lezione N°1: lunedì 13/09/2021
CAPITOLO 1: L’IDEA DI MEDIOEVO E LE SUO INTERPRETAZIONI
Che cos’è il medioevo?
Inizialmente diremmo con sicurezza che è un’epoca storica che possiamo limitare tra la caduta
dell’impero romano (476 d.C) e la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo (1492). Ma
poi ragionandoci sopra nessuno di coloro che visse tra il V e il XV secolo ebbe la percezione di essere
immerso un’età medievale. E questo perché di per se il medioevo non è mai esistito, come tutte le
altre epoche che noi abitualmente usiamo. Infatti siamo noi che per studiare la storia abbiamo creato
la suddivisione del tempo passato in ere, età ed epoche. Inoltre non bisogna dimenticare che la
periodizzazione del medioevo è prettamente legata alla storia dell’Europa occidentale.
Il concetto di medioevo e le caratteristiche a esso connesse nei secoli si sono evoluti
nei secoli:
Tra il XIV e il XV secolo nacque la concezione negativa di questi secoli, concezione che nei secoli
successivi e fino ai nostri giorni è rimasta nell’immaginario comune.
-Il medioevo è però una varietà di concetti che vanno oltre la definizione data dagli umanisti
italiani nel XV secolo: “un lungo intervallo di molti secoli che separa il tempo degli umanisti
stessi dal mondo degli antichi”. Quindi per loro non è altro che un’età di mezzo, di passaggio,
che divide due grandi epoche.
-La percezione di colore che vissero, soprattutto nei primi secoli del medioevo è quella
di vivere in continuità non interrotta con l’Impero romano e non in un periodo di
rottura
Nel XIV e XV però inizia a svilupparsi l’idea che il mondo antico è ormai lontano e il periodo di mezzo
acquisisce un’accezione di decadenza culturale, sociale, artistica e politica rispetto a quel mondo
antico florido e sviluppato.
-Giorgio Vasari definisce l’arte gotica un’arte arretrata che aveva perso la classicità che
rinasce con Giotto che riporta in vita i canoni classici.
-Filippo Melantone (collaboratore di Lutero) scrisse un’opera che descrive la funzione
positiva dell’impero di Carlo Magno e dei suoi successori, a differenza della Chiesa romana
corrotta e mondanizzata che portò al decadimento della società nei secoli del medioevo.
Quindi qui si fa una critica ideologica alla quale la Chiesa di Roma rispose con un metodo
storico.
-La Chiesa Cattolica infatti in risposta a Melantone sviluppa una nuova visione del periodo
medievale, con un metodo storico, filologico e linguistico.
Nel 1643 viene pubblicata l’“ACTA SANCTORUM” ad Aversa: era una raccolta
filologica della vita dei santi stampata
nel 1681 viene pubblicato il “DE RE DIPLOMATICA” scritto da un benedettino
francese che pone i fondamenti del metodo per distinguere e analizzare i documenti
autentici da quelli falsi della documentazione ecclesiastica.
Nel 1678 Du Cange scrive un’opera in 6 volumi:il “GLOSSARIUM AD SCRIPTORES
MEDIAE ET INFIMAE LATINITATIS” cioè un vocabolario del latino medievale utile
a cogliere la varietà dell’evoluzione della lingua nel medievo.
Nella seconda metà del XVII secolo maturò l’idea che l’età in cui stavano vivendo era ormai del tutto
originale rispetto al passato
-Georg Horn nel 1666 pubblicò una storia universale che proponeva una nuova
periodizzazione:
Mondo Antico (vetus)
Medioevo (medium aevum)
Mondo Moderno (recentior)
Horn individuava la fine del mondo antico con la deposizione di Romolo Augustolo nel 476.
Quindi il medioevo lo fa durare dal 476 fino alla caduta dell’Impero Romano d’Oriente
avvenuta nel 1453.
Horn individua inoltre alcune caratteristiche della fine del Medioevo
l’invenzione delle armi da fuoco
l’invenzione della stampa
le scoperte geografiche
la rinascita culturale
-Christoph Keller nel 1688 scrisse una “HISTORIA MEDII EVI” che limitava il medioevo
dall’Impero di Costantino alla conquista di Costantinopoli da parte dei turchi.
Nel XVIII secolo l’illuminismo rielaborò una sua definizione di Medioevo:
- Nel 1758 il filosofo Voltaire nel “SAGGIO SUI COSTUMI E LO SPIRITO DELLE NAZIONI
E SUI PRINCIPALI FATTI STORICI DA CARLO MAGNO A LUIGI XIII” scrisse che le
invasioni barbariche e il potere della chiesa avevano promosso un periodo di rozzezza,
violenza e superstizione e solo i tettami della ragione e della giustizia del 1700 avevano
cominciato a liberare l’uomo da quella condizione.
- Nel 1776 lo storico Edward Gibbon interpretò il medioevo come la storia del lungo declino
e caduta dell’Impero Romano. A fronte della decadenza della civiltà antica il Medioevo
espresse comunque valori propri come quelli delle popolazioni germaniche, arabe e turche, e
fenomeni originali quali le crociate e le trasformazioni religiose.
Nel corso del XVIII secolo, peraltro, l’immagine negativa del medioevo fu sottoposta a revisione in
primo luogo dall’erudizione storica che moltiplicò le raccolte di documenti e gli studi sul passato.
- Tra il 1723 e il 1751 Ludovico Antonio Muratori diresse un’imponente raccolta di cronache
comprese tra il VI e il XVI secolo: il “RERUM ITALICORUM SCRIPTORES ”. Egli si accorse
che pur non essendo politicamente unita l’Italia condivideva una tradizione storica comune
che si era formata non in era antica ma nel medioevo(lingua, costumi, leggi, cultura,
commercio, religione…)
Compone in oltre tra il 1738 e il 1742 le “ANTIQUITETES ITALICAE MEDII AEVI” cioè 75
dissertazioni che costituiscono la prima indagine originale sulla civiltà medioevale italiana.
Nel periodo del Romanticismo si diffuse un’immagine positiva del Medioevo. Il Romanticismo
infatti rivalutando il medioevo si contrappone all’illuminismo definendola un’età di fede religiosa,
rassicurante e pacifica e non di superstizione . I romantici iniziano ad ambientare i loro
romanzi(Gotici) nel Medioevo. Il Romanticismo inoltre sviluppa una lettura del medioevo come la
radice della nascita delle identità nazionali. Per prima la cultura tedesca fu a rivendicare la
peculiarità delle popolazioni germaniche contrapponendo alla decadenza morale del tardo impero
romano, la fede e la capacità di fondere individualismo e solidarietà collettiva delle istituzioni
dell’impero carolingio.
Anche la cultura francese evidenziò il ruolo di Carlo Magno e della gallia come regione dove il mondo
romano si è fuso con il popolo dei franchi.
Il Risorgimento italiano vide invece il Medioevo come epoca in cui la penisola aveva subito le prime
dominazioni straniere, ed esaltò l’epoca dei comuni come il momento fondante della reazione contro
questi domini.
Nella prima metà del 900 il Medioevo è individuato in un unico millennio che ha caratteristiche
unitarie e simili: l’autunno del Medioevo ch quindi si estingue nella consapevolezza di vivere una
condizione di crepuscolo. Nel 900 però il medioevo è interpretato come un’età che necessità delle
suddivisioni periodiche:
- Il belga Henri Pirenne nel “MAOMETTO E CARLOMAGNO” del 1937 indagò il passaggio
Antico-medioevale non nell’invasione dei popoli barbarici ma nell’espansione islamica nel
mediterraneo;
- Il francese March Bloch presentò invece la società franca dal IX al XIII secolo in “LA
SOCIETÀ FEUDALE(1939-1940)”.
Negli ultimi decenni gli storici hanno rinunciato alle interpretazioni organiche del Medioevo,
privilegiando ricerche su singoli temi.
Negli ultimi secoli si sono diffuse nella società occidentale altre immagini del medioevo. Le crescenti
produzioni industriali di beni di consumo indussero artisti come l’inglese William Morris (1834-1896)
a rilanciare l’artigianato, offrendo a un pubblico borghese oggetti in “stile medievale”. I movimenti
artistici dei Preraffaelliti e dei Nazareni recuperarono forme pittoriche medievali. In Inghilterra lo
studio degli edifici medievali diede vita a un revival gotico nella progettazione di nuove chiese e dei
colleges universitari. In Inghilterra si diffuse una narrativa di argomento medievale che sfociò nella
definizione del genere fantasy, grazie soprattutto ai romanzi di John R.R Tolkien ambientati in un
mondo di fantasia che derivava i propri elementi dalle saghe e dalle mitologie nordiche e dalla
letteratura anglosassone medievale. Alle tendenze che dall’800 hanno diffuso un’immagine ideale e
reinventata del medioevo si usa dare il nome di medievalismo, per distinguere la distanza che separa
il medioevo indagato dagli storici da quello, spesso astorico, che troviamo nei mezzi di
comunicazione.
Lezione N°2: martedì 14/09/2021
CAPITO 2: QUADRI GENERALI(1)
La storia medioevale è un periodo storico dove si è venuta a formarsi l’identità europea. Infatti
innanzitutto dobbiamo dire che la storia medioevale è una storia europea: il millennio che noi
definiamo con il termine medioevo rappresenta un periodo del passato attraverso il quale è venuta
costruendosi l’identità storica dell’Europa come un’insieme di realtà e ideali che l’hanno distinta
dalle altri parti del mondo. Infatti l’identità nasce dall’incontro e dalla fusione del mondo romano e
quello barbarico e dal confronto con il mondo bizantino e quello islamico. Un esempio di
quest’identità è l’impero di Carlo Magno che oggi coincide territorialmente con i moderni stati della
Francia, dell’Olanda, del Belgio della Germania e dell’Italia che non a caso sono gli stessi paesi che
nel secondo dopo guerra fondarono prima la CECA poi la CEE e infine la UE.
La parola medioevo è stata utilizzata, in modo improprio, anche per altre civiltà e periodi storici da
storici occidentali, assegnando a quei periodi una connotazione negativa di età di mezzo. Un esempio
ne è il medioevo ellenico, cioè quel periodo che va dalla fine della civiltà micenea alla formazione
delle poleis(XII/VIII a.C.) caratterizzato da una crisi economica, demografica, e dalla perdita della
scrittura.
Nella nuova visione dello studio della storia in una prospettiva mondiale è necessario confrontare le
caratteristiche del periodo medioevale con quelle delle civiltà e i mondi con cui l’Europa medioevale
si è scontrata e confrontata.
L’identità cristiana dei popoli europei si è proprio sviluppata nel medioevo e ne è il pilastro
fondamentale dell’esistenza dell’identità europea. Nei secoli inoltre quest’identità si è dovuta
confrontare con la minaccia di un invasione da parte di altri popoli come i mongoli e gli ungari che
provenivano dall’Asia e raggiunsero il mediterraneo dal nord est europeo.
La periodizzazione del medioevo:
La periodizzazione di Georg Horn:
-inizio: 476 (deposizione di Romolo Augustolo);
-fine: 1453 (caduta dell’Impero Romano d’Oriente);
La periodizzazione italiana
-inizio: 569 (arrivo dei longobardi nella penisola italica);
-fine: 1492 (scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo Colombo) ;
La periodizzazione francese
-inizio:496 (conversione al cristianesimo del re franco Clodoveo);
-fine1453 (fine della guerra dei cent’anni);
Per la periodizzazione inglese il medioevo finisce con l’avvento della dinastia dei Tudor (1485);
Per la periodizzazione spagnola il medioevo finisce con la sconfitta e conquista dell’ultimo emirato
musulmano a Granada(1492);
Per la periodizzazione tedesca il medioevo finisce con la ribellione di Lutero e l’elezione imperiale
di Carlo V(1517-1519).
Gli storici tendono a individuare in questa storia millenaria dei momenti diversi, precisamente 3 fasi
in cui il medioevo può essere diviso per osservare nel dettaglio le varie caratteristiche che lo
compongono:
I fase IV/VII secolo: appare caratterizzata dall’insediamento delle popolazioni
barbariche nel territorio dell’impero romano, dal predominio dei ceti militare
dall’economia locale e dalle prime sintesi di civiltà tra tradizioni barbariche, cristiane e
romane. Infatti questi fenomeni portarono al progressivo sgretolarsi dell’impero romano
con tutte le sue istituzioni e all’affermarsi dei regni romano- barbarici-cristiani. È quindi
la fase di passaggio dalla civiltà romana a quella romano barbarica.
II fase VIII/XIII secolo: appare caratterizzata dall’affermazione di nuove e attività
economiche e nuove figure sociali, come quella del mercante e del chierico,
dall’abbassamento della spiritualità cristiana nelle forme della vita laica e da una
maggiore ricchezza economica distribuita tra le classi.
III fase XIV/XV secolo:appare caratterizzata da una più complessa articolazione della società,
dalla distinzione in classi e gruppi diversi e spesso contrapposti, dalla crisi ecclesiastica e
culturale dell’unità cattolica, dalla depressione economica, ma anche dalle carestie e dai
cambiamenti climatici, dall’incapacità di sfamare tutta la popolazione e dalla peste che
portarono a una crisi demografica imponente(morì il 30 % della popolazione europea).
Lezione N°3: lunedì 20/09/2021
QUADRI GENERALI(2)
CLIMA, AMBIENTE, EPIDEMIE:Gli studiosi del hanno rivelato come il nostro pianeta abbia subito
nei millenni continue variazioni climatiche con l’alternanza di periodi caldi e freddi. Tali evoluzioni
hanno influenzato gli andamenti delle produzioni agricole e delle attività economiche ad esse
connesse, condizionando l’incremento e il decremento della popolazione. Durante l’impero romano
fu raggiunto il cosiddetto optimum climatico, seguito da un peggioramento tra il IV e il VII secolo
durante il quale i ghiacciai avanzarono sensibilmente. Dall’inizio del IX secolo fino a tutto il XIII
secolo le condizioni climatiche tornarono a migliorare durante la quale l’arretramento dei ghiacciai
favorì la colonizzazione della Groenlandia da parte dei Vichinghi: in quel periodo le temperature
globali furono mediamente più alte di almeno un grado rispetto a oggi. Dal XIV secolo la fese calda
fu interrotta da un brusco calo delle temperature che inaugurò la cosiddetta età glaciale, che durò
fino alla metà del XIX secolo, con temperature medie anche di due gradi inferiori a quelle odierne.
L’abbassamento delle temperature del IV secolo determinò una migrazione dei popoli del nord verso
i territori dell’impero romano, sicuramente più miti, del mediterraneo. Questo, insieme a disordini
conseguenti alla migrazione portò all’abbandono della manutenzione dell’ambiente: ne seguì una
generale avanzata delle paludi, delle foreste e delle terre incolte. Il miglioramento climatico avviatosi
dal IX secolo favorì l’espansione delle produzioni agricole, e imponenti operazioni di bonifica dei
terreni e irreggimento delle acque. A condizionare l’evoluzione della popolazione sono anche le
malattie infettive che si svilupparono in un arco di tempo molto breve. Le regioni europee nel
medioevo furono particolarmente segnate da tre epidemie diverse:
la peste: il bacino del mediterraneo ne fu colpito nel VI secolo. Essa proveniva dall’Asia
centrale che infierì a ondate successive per due secoli. L’epidemia estintasi per alcuni secoli,
ricomparì in occidente nel 1347 a causa delle rotte commerciali terresti e marittime con la
Cina. In breve tempo colpì in maniera molto diffusa tutta l’Europa. In pochi decenni provocò
tali danni che la popolazione europea diminuì di circa un terzo.
il vaiolo: colpì l’Europa del nord e nelle isole britanniche nel VI secolo per poi diventare una
vera e propria epidemia dal VII secolo. Venne debellata con il vaccino nell’età contemporanea.
la lebbra: alternò momenti di espansione (VI e VIII secolo) ed altri di regressione (VII e IX-
XI secolo) raggiungendo il suo picco tra il XII e il XIII secolo.
LA DEMOGRAFIA:L’evoluzione della popolazione europea durante il medioevo può essere
rappresentata come un ciclo demografico articolato in tre fasi: depressione- espansione- depressione
con le punte minime toccate nel VII secolo e nella seconda metà del XIV secolo e il picco raggiunto
nella seconda metà del XIII secolo. I numeri della popolazione sono stime approssimative a causa
del fatto che non si hanno censimenti prima del XIX secolo. Possiamo ritenere che alla fine del VII
secolo la popolazione europea si aggirava intorno ai 27 milioni di abitanti, alla fine del XIII secolo ai
73 milioni, e alla fine del XIV ai 45 milioni. Le cause di queste depressioni ed espansioni della
popolazione dipendono dalle condizioni climatiche, dalla comparsa e dalla scomparsa delle epidemie,
dall’andamento della produzione, dallo stile di vita e dagli atteggiamenti culturali.
INSEDIAMENTI: i popoli germanici avanzando sempre di più nei territori romani si insediarono sia
nelle città che nelle campagne. Però i primi secoli del medioevo furono caratterizzati da un grande
fenomeno di ruralizzazione, determinato principalmente dall’abbandono delle città da parte dei
grandi proprietari fondiari per la crisi della vita pubblica. Per quasi tutto il millennio la maggior parte
della popolazione, circa il 90% del totale, abitò nelle campagne. Solo nelle regioni Mediterranee
questa percentuale poteva ridursi al 60/70%. L’insediamento più diffuso, soprattutto nel X secolo,
era il villaggio, che , pur nella varietà di forme e dimensioni, era organizzato in genere in tre aree
concentriche:
- I: il “nucleo abitato” recintato
- II: area coltivata
- III: fascia delle terre comuni(cioè quelle terre adibite ai pascoli e i boschi)
Lezione N°4: martedì 21/09/2021
QUADRI GENERALI(3)
ASPETTI ECONOMICI: Le trasformazioni dell’economia medioevale corrispondono, nelle linee di fondo, a
quelle demografiche, basandosi il sistema principalmente sull’economia agraria, soggetta a sua volta alle
variazioni climatiche.
Fino al II secolo l’impero romano si era retto su un sistema di autonomie locali gestito quasi senza apparati
burocratici. Ma raggiunta la massima espansione territoriale gravata da spinte centrifughe e dalla pressione
crescente delle popolazioni barbariche, l’organizzazione politica si diede un’amministrazione civili sempre più
ampia e un esercito enorme formato da circa 600.000 mila soldati. Per finanziare questo sistema fu creato un
apparato fiscale sempre più pesante. Ma le invasioni barbariche misero fine a questo sistema, poiché molte
regioni smisero di versare le tasse. L’impossibilità di riscattare le tasse fece cedere tutto l’apparato burocratico
dell’impero. La crisi delle strutture pubbliche comportò anche la forte contrazione dei commerci. Ma, mentre
si verifica una graduale scomparsa dell’economia commerciale, rimase sostanzialmente invariata l’economia
agraria. La scomparsa dell’economia commerciale portò l’economia agraria a localizzarsi e isolarsi.
Un’inversione di tendenza cominciò a manifestarsi tra VIII e IX secolo, soprattutto nell’Europa continentale.
A differenza dell’economia romana la ripresa del commercio nell’Europa medievale fu espressione
dell’accresciuta ricchezza delle aristocrazie. L’espansione demografica favorì l’avvento, graduale ma continuo,
della produzione e degli scambi di beni agricoli e di manufatti. Selve e paludi lasciarono il posto a terre coltivate;
si costruirono strade, canali e ponti; si fondarono nuovi borghi e luoghi di mercato; le città tornarono a crescere.
Nel XIV secolo si ebbe una depressione demografica che però non determinò il contrarsi della prospettiva
economica, ma anzi, permise alla ricchezza media e alla domanda dei beni di consumo di aumentare
notevolmente.
Nel tardo impero il sistema monetario si basava sull’utilizzo di 3 metalli diversi per scopi:
- le monete in bronzo per la compravendita di beni primari;
- le monete in argento per pagare i salari;
- le monete in oro per pagare le tasse e commerciare.
Nel corso del VI secolo i successivi regni barbarici abbandonarono la monetizzazione in bronzo e dal VII secolo
le monete in oro furono utilizzate solo come medaglie in segno di autorità e prestigio. La ripresa economica fu
sostenuta dalla riforma attuata da Carlo Magno che si riappropriò della prerogativa imperiale di battere
moneta introducendo il “denarium” d’argento e l’unità di conto come la lira e il soldo. Dal XIII secolo le monete
d’oro tornarono nuovamente ad essere destinate per il commerci internazionali e dall’alta finanza.
Lezione N°5: lunedì 27/09/2021
QUADRI GENERALI(4)
LA SOCIETÁ:La Famiglia costituisce l’istituzione di base di ogni società. In età romana prevalse il modello
agnatizio che riconosceva la linea maschile di discendenza nella successione. Alcune popolazioni
barbariche, invece, svilupparono un modello di famiglia cognatizio, centrato sulla parentela materna. Nel
XI secolo l’aristocrazia sviluppò un sistema di discendenza in linea maschile dando forma al lignaggio
soprattutto per rendere ereditario il potere signorile. Tra XII e XIII secolo i lignaggi cominciarono a
distinguersi grazie alla fissazione di cognomi e alle definizione di genealogie e sistemi araldici. Il
matrimonio regolamentato dalla chiesa introdusse linee di demarcazione tra legittimità e illegittimità
della discendenza. Nel medioevo la famiglia mantenne prevalentemente una struttura mononucleare.
L’elemento decisivo nella definizione di famiglia fu il matrimonio che fino all’XI secolo non fu
regolamentato ecclesiasticamente. Ma dalla seconda metà del XII secolo una serie di papi riconobbero al
matrimonio la natura di sacramento.
La prevalenza dell’economia rurale configurò a lungo il predominio di una minoranza aristocratica, sia
romana che di stirpe germanica, su una larghissima maggioranza di contadini. Tra il X e il XI secolo
l’aristocrazia ecclesiastica sviluppò l’idea di una tripartizione della società:
- oratores cioè coloro che pregano per la salvezza di tutti;
- bellatores cioè coloro che combattono per la difesa di tutti;
- laboratores cioè coloro che lavorano per il sostentamento di tutti.
Tra XII e XIII secolo la diffusione della cavalleria presso l’aristocrazia signorile favorì la trasformazione
di quest’ultima da élite sociale aperta in nobiltà preclusa a nuovi ingressi. Il re fu l’esclusivo depositario
dell’accesso al rango della nobiltà. La ripresa demografica e lo sviluppo di un’economia degli scambi favorì
l’articolazione della società e la differenziazione, al suo interno, di nuovi soggetti: artigiani, bottegai,
commerciati, notai,etc. La figura però più importante fu quella del mercante, che entrò a par parte
dell’élite della società e portò all’affermazione tra il XIV e XVI secolo dei patriziati. Dopo la fine
dell’impero le popolazioni romane e quelle germaniche mantennero le proprie consuetudini orali, poi
messe per iscritto. A sua volta anche la chiesa iniziò ad elaborare un proprio diritto canonico.
Lezione N°6: martedì 28/09/2021
QUADRI GENERALI(5)
LEGAMI SOCIALI: Sia la società romana che le popolazioni barbariche praticarono la schiavitù cioè
il possesso su un uomo da parte di un padrone. Gli stessi cristiani non predicarono l’abolizione della
schiavitù interpretandola come l’esito della colpa degli uomini, anche se posero un limite al diritto
di vita e di morte di cui i padroni avevano goduto in età antica. Nel medioevo quindi si continuò a
sfruttare la manodopera servile nei lavori domestici e in quelli agricoli. Ma rispetto all’antichità gli
storici preferiscono parlare di servaggio, più che di schiavitù. Infatti anche se il termine risale dal
latino servus, esso indica che le condizioni non sono più le stesse. Infatti non è più oggetto di
proprietà del padrone: è un schiavo lavoratore, cioè che lavora per ricevere protezione, pagare
l’affitto e per tenere, dopo aver reso la parte dovuta al padrone, una parte del raccolto per se. La
schiavitù è una condizione ereditaria che poteva essere riscattata solo grazie a un affrancamento.
Questo gli permetteva di diventare un uomo libero, ma la stragrande maggioranza delle volte
continuava comunque a lavorare, da uomo libero, per il suo ex padrone. La condizione di servitù
poteva anche essere frutto del fatto che si era prigionieri di guerra o si perché si avevano molti debiti.
Inoltre la condizione di servaggio si poteva presentare anche quando un piccolo proprietario terriero
si metteva al servizio di un signore per ricevere protezione.
Ampiamente diffusi nell’Impero romano e tra le popolazioni barbariche furono anche i legami di
fedeltà personale che ebbero un ruolo centrale nell’organizzazione sociale del medioevo. Questo
legame consisteva nel giurare fedeltà a un potente chiedendo protezione e offrendo in cambio i propri
servigi (militari la maggior parte delle volte), senza perdere la libertà giuridica. Questo giuramento,
essendo individuale, non era ereditario. Nell’alto medioevo e fino all’XI secolo i re si servirono di
questi legami di fedeltà, per controllare territori molto vasti e i poteri locali, demandando importanti
compiti di governo ai propri fideles, che affiancavano e controllavano i funzionari pubblici. Nel basso
medioevo invece, si diffusero legami di fedeltà, come quelli fondati sulle relazioni di amicizia, che si
rivelarono altrettanto efficaci anche se meno formali. Il legame di fedeltà che conobbe la maggior
fortuna nel medioevo fu quello vassalitico-beneficiario: il vassallo(vassus), giurava fedeltà al re
impegnandosi a prestare aiuto militare e consiglio politico in cambio di protezione e di un beneficium
a titolo vitalizio (in seguito ereditario) cioè dei beni fondiari. A loro volta questi vassalli aveva un
seguito di suoi vassalli- guerrieri (milites) che costituiva un vero e proprio esercito privato. Nel XI
secolo i sovrani dei regni che era nati dalla disgregazione dell’impero cercarono di mettere ordine e
centralizzare il potere dei vari signori. Lo fanno riprendendo il controllo sull’intero territorio e
chiedendo ai signori un giuramento. Ecco che si arriva al rapporto feudale. Infatti a differenza dei
giuramenti precedenti, i signori non sono solo beneficiari di un territorio ma prende un ruolo politico
e giuridico sul suo feudo. I rapporti feudali nei secoli si evolsero ma rimarrà in vigore come sistema
fino alla Rivoluzione francese. A questi tipi di rapporti i vescovi non furono estranei tanto che
potevano essere vassalli che avere fideles. Inoltre esistevano dei giuramenti collettivi dove non si
giurava a un superiore ma a un gruppo.
POLITICA : Le società europee del medioevo furono gerarchiche, piena espressione del dominio di
ristrette aristocrazie. La nozione di libertà indicava uno stato di privilegio e non uno stato naturale.
Solo nel basso medioevo cominciarono a essere avanzare posizioni che limitavano il potere regio o
che contestavano le pretese di intervento nelle questioni politiche da parte del papato. Il principio di
autorità fu rafforzato dall’idea che il potere derivasse direttamente da Dio: i sovrani erano
responsabili solo davanti a Dio. La loro sacralità fu certificata dal rito dell’unzione. L’unzione fu
considerata come una sorta di sacramento che poneva i re al di sopra degli altri membri della società
politica; allo stesso tempo attribuiva un ruolo centrale all’episcopato nel processo di legittimazione
e di controllo dei sovrani. L’ordine politico del medioevo ereditò dal mondo tardo antico l’idea del
necessario dominio “universale” di un’autorità suprema. In continuità diretta con quello romano
d’Oriente si pose l’impero bizantino che venne prendendo forma, tra v e VII secolo, nell’area dei
Balcani, l’Egeo e l’Anatolia, come sintesi della struttura statale romana, della cultura greca e della
religione cristiana. In continuità ideale fu riproposto un impero anche in Occidente, per iniziativa
dei franchi: l’attribuzione del titolo di imperatore romano a Carlo Magno ad opera di Papa Leone III
nell’anno 800 significò la consacrazione del sovrano come protettore della Chiesa e il
disconoscimento dell’autorità universalistica di Bisanzio sull’Occidente. L’investitura papale
dell’imperatore suggeriva che l’imperium – il potere supremo – fosse da ritenere una prerogativa
dell’autorità del pontefice: la riforma del papato in senso monarchico nell’XI secolo rivendicò a sé
l’egemonia universalistica sulla cristianità aprendo un duro conflitto con l’impero. Le autorità
universali cominciarono a declinare dal XIII secolo per effetto dell’affermazione di poteri sempre più
autonomi come i regni nazionali e le città comunali e signorili italiane.
ISTITUZIONI POLITICHE:
L’IMPERO: L’autorità dell’impero riuniva nel medioevo entità regie e principesche: Carlo Magno
unificò nella propria persona i titoli di re dei franchi e dei longobardi. Quando il papato riformato
nell’11° sec. elaborò la teoria della translatio imperii, secondo la quale il potere imperiale derivava
non direttamente da Dio ma dal pontefice, e cominciò a rivendicare il diritto di attribuirlo o revocarlo
ai titolari, gli imperatori cercarono di svincolarsi dalla tutela papale, nella seconda metà del 12°
secolo.
I REGNI: Tra la dissoluzione dell’impero romano d’Occidente e la formazione di quello carolingio,
l’organizzazione politica prevalente fu quella dei regni romanobarbarici. Dal V all’VIII secolo
soprattutto quelli visigoto e franco furono laboratorio delle sperimentazioni di convivenza tra
popolazioni romane e germaniche. La tradizione barbarica del potere sulle persone si incontrò con
la concezione romana dell’esercizio del potere su un territorio. Eletti in origine dai capi tribù per
esercitare il comando militare, quando si insediarono stabilmente nei territori dell’impero i re
barbarici dovettero trasformarsi in re di tutte le popolazioni che vi risiedevano. Per legittimare il loro
ruolo, i re tesero a limitare i caratteri dell’autorità imperiale: continuarono a battere moneta,
emanarono leggi, si affidarono ai ceti eminenti locali per l’amministrazione civile. L’organizzazione
dell’esercito continuò a essere affidata alle fedeltà personali della cultura barbarica.
LE SIGNORIE: Si stima che, al tempo della sua massima estensione, l’impero carolingio fosse
amministrato da circa 300 tra conti, duchi e marchesi, posti a capo di circoscrizioni (“comitati”).
Dalla fine del IX secolo, con il progressivo indebolimento del potere centrale, tali ufficiali fecero delle
proprie prerogative pubbliche la base per la costruzione, tra X e XII secolo, di autonomi poteri locali,
le signorie. Nello stesso periodo altre famiglie aristocratiche, non detentrici di poteri pubblici ma
forti anch’esse di clientele armate, costituirono a partire dai propri possessi fondiari degli analoghi
poteri di dominio politico che estesero a territori più ampi, in genere centrati su singoli castelli: le
signorie di “banno” o “territoriali”.
MONARCHIE: La frammentazione signorile fu superata dalla ricomposizione territoriale avviata,
tra XI e XII secolo, dai poteri monarchici che vennero affermandosi a partire da nuclei politici di
origine carolingia – che diedero poi forma ai regni di Francia, Germania e Italia. A differenza di quelli
romano-barbarici, i regni del basso medioevo non ebbero alcuna connotazione etnica. In origine
grandi principi territoriali, i re dovettero legittimare la propria autorità ricorrendo, in primo luogo,
agli elementi sacrali, alla definizione dei diritti e dei beni spettanti stabilmente alla corona. Strumenti
fondamentali di dipendenza politica si rivelarono i rapporti feudo-vassallatici, che consentirono ai
sovrani di legare a sé i grandi principi territoriali garantendo loro ampia autonomia nei propri feudi.
L’espansione economica consentì alle autorità regie di incrementare le entrare fiscali e, di
conseguenza, di stipendiare apparati sempre più ampi di ufficiali destinati all’amministrazione dei
regni.
I COMUNI: Nel basso medioevo si affermarono anche forme di governo collegiale nelle campagne e
nelle città. Tra XII e XIII secolo le comunità rurali furono in grado di patteggiare con i rispettivi
signori: ciò fu reso possibile dal declino dei poteri signorili. Di maggiore portata fu invece
l’affermazione dell’autogoverno cittadino. Tra XI e XII secolo, in molte regioni dell’Europa
settentrionale, i mercanti e gli abitanti delle città cominciarono a ottenere dai re e dai principi
territoriali delle carte di “franchigia” o di “comune” che ne riconoscevano lo status giuridico
differenziato rispetto ai residenti nelle campagne. Fu soprattutto nelle città del regno d’Italia che i
comuni raggiunsero un grado pieno di autonomia politica. Gli ultimi secoli del medioevo conobbero
un generale orientamento verso forme di dominio caratterizzate da una sempre maggiore
articolazione di apparati amministrativi, centrali e territoriali. Protagonisti furono sia le monarchie
sia gli autonomi governi cittadini (“stati”).
All’inizio del XIV secolo le monarchie cominciarono a rivendicare la piena autonomia da ogni
autorità universalistica affermando il principio che all’interno del proprio regno ogni sovrano era
detentore del potere supremo. Entrò così in uso la convocazione da parte dei sovrani di assemblee
rappresentative, i parlamenti, dove le rivendicazioni della nobiltà, del clero e delle città potevano
trovare ascolto.
Lezione N°7: lunedì 04/10/2021
QUADRI GENERALI (6)
RELIGIONE Nel medioevo le regioni mediterranee ed europee furono teatro di diffusione, della
coesistenza e della conflittualità delle tre grandi religioni monoteiste: ebraismo, cristianesimo, e
islamismo(le tre religioni abramitiche).
EBRAISMO: Il fulcro dell’ebraismo è la fede nella signoria di dio (yahweh) sull’universo, come
prolungamento della realtà divina, e sulla storia come l’evoluzione senza fratture di spazio e tempo,
dalla genesi alla fine dei tempi. Il rapporto con dio culmina con l’alleanza, con il quale il popolo
ebraico ricevette le 10 tavole dei comandamenti. Con la distruzione del tempio di Gerusalemme da
parte dei romani nel 70 d.c. i vecchi riti di sacrificio compiuti dai sacerdoti, furono sostituiti con
nuovi culti guidati dai rabbini nelle sinagoghe e incentrate sulla lettura dei testi sacri tra i quali è
fondamentale la bibbia ebraica. Gli ebrei non sono solo degli adepti di una religione, ma un popolo
segnato dal destino della diaspora, cioè la dispersione nel mondo dalla terra d’Isdraele, rinominata
Palestina dai romani. Le comunità ebraiche furono tollerate nell’impero islamico, nell’Europa
cristiana, invece, furono emarginate e perseguitate a causa del deicidio.
CRISTIANESIMO: Il dio dei cristiani è un dio redentore che ha mandato il suo unico figlio per salvare
l’umanità. Infatti i cristiani hanno riconosciuto in Cristo Gesù di Nazaret il Messia, mentre gli ebrei
lo stanno ancora aspettando. La fede cristiana si diffuse, anche se inizialmente perseguitata, in tutto
l’impero romano. Nel corso del III secolo l’elite urbana era tutta cristiana.
ISLAM: Cristiani ed ebrei cominciarono a confrontarsi, dalla metà del VII secolo, con una nuova
religione monoteista, l’islam, irradiatasi dall’Arabia. A predicarla fu Maometto dopo la rivelazione
del Corano, cioè della parola di Dio (Allah). Maometto è l’ultimo di una lunga serie di profeti che ha
in Abramo il capostipite. L’islam è dunque il compimento dell’autentico monoteismo: è resa
incondizionata (islam significa “sottomissione”, “abbandono”) al solo e unico Dio onnipotente.
L’islam si diffuse rapidamente tra VII e VIII secolo in molti territori dell’Asia, dell’Africa e in parte
dell’Europa in seguito alle conquiste militari degli arabi. L’espansione musulmana – motivata dal
precetto della jihad, la guerra condotta “per la causa di Dio” contro gli infedeli – entrò in conflitto
con la cristianità europea.
L’ALDILÀ: Il cristianesimo condivise con le religioni abramitiche la negazione dell’idea di
un’estinzione totale dell’uomo al momento della morte e l’elaborazione di dottrine di salvezza
centrare sul giudizio divino sul comportamento in vita.
CRISTIANESIMI E CHIESE
EVANGELIZZAZIONE: Decisive per l’iniziale espansione del cristianesimo si rivelarono le scelte
pastorali degli apostoli e dei loro successori. I ceti più umili individuarono nel cristianesimo la
speranza di riscatto dalla propria condizione, le aristocrazie una risposa alle inquietudini speculative
e pratiche di culto adeguate alle esigenze di decoro sociale. Roma divenne il centro simbolico del
cristianesimo: già nel II secolo. la sua Chiesa, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, cominciò a
rivendicare un maggior prestigio rispetto alle altre sedi episcopali. La liberalizzazione del culto nel
313 e la proclamazione come unica religione dell’impero nel 380 sancirono l’istituzionalizzazione del
cristianesimo.
CHIESE PARITARIE: Per oltre un millennio, fino all’XI secolo, la cristianità non ebbe un capo. Ogni
chiesa era presieduta da un vescovo, appartenente inizialmente alla classe senatoria romana. Il
vescovo di Roma, in quanto successore di Pietro, era il vescovo più eminente in Occidente, e
condivideva il titolo di patriarca con quelli orientali di Costantinopoli, Antiochia, Alessandria
d’Egitto e Gerusalemme. La sostanziale autonomia in cui operavano le chiese locali determinò un
varietà di interpretazioni del Vangelo e lo sviluppo di un pluralismo dottrinario che sfociò in
controversie teologiche sul problema della natura divina e/o umana del Messia e sul mistero della
Trinità. Sedi di discussione erano i concili (assemblee) degli ecclesiastici. Nel primo concilio di
carattere universale, convocato a Nicea nel 325 dall’imperatore Costantino, fu definita l’ortodossia
cattolica.
PAPATO GERARCHICO:Una mutazione profonda nell’assetto della Chiesa si avviò nell’XI secolo,
quando il papa promosse una ristrutturazione in senso gerarchico delle istituzioni ecclesiastiche
nell’ambito del più generale movimento di riforma. Fino ad allora il papa era stato solo il vescovo di
Roma. Dal XII secolo divenne effettivamente il capo assoluto di tutta la cristianità cattolica: da
“orizzontale” (un corpo di chiese episcopali), l’organizzazione ecclesiastica acquisì una dimensione
“verticale” (una piramide di chiese al cui vertice si collocava il vescovo di Roma, pontefice massimo
e vicario di Cristo). La progressiva definizione giuridica dell’ortodossia da parte dei pontefici
incontrò forti resistenze anche tra i laici: colori tra questi che, tra XII e XIV secolo, contestarono il
primato del papa e denunciarono la degenerazione della Chiesa furono perseguitati come eretici per
via giudiziaria.
ORTODOSSI E CATTOLICI: In Oriente, le chiese vescovili rimasero configurate come una
costellazione coordinata dai concili. Solo lentamente il patriarcato di Costantinopoli aveva affermato
la sua autorità ecumenica sulle altre sedi. Maturò così la separazione della Chiesa di Roma,
annunciata nel VI secolo dallo scisma dei Tre Capitoli, acuitasi con la mancata adesione delle chiese
occidentali alla proibizione del culto delle immagini (iconoclastia) nel VII e VIII secolo, e palesatasi
con il sostegno del papato alla potenza franca e alle sue ambizioni imperiali tra VIII e IX secolo. La
riforma pontificia dell’XI secolo non fu accettata dalle chiese orientali e portò allo scisma di
Costantinopoli nel 1054. Da allora i cristiani d’Oriente si chiamarono ortodossi, mentre quelli
d’Occidente si chiamarono cattolici e si riconobbero nella guida del papa.
IL MONACHESIMO: A differenza dell’ebraismo e dell’islam il cristianesimo sviluppò il
monachesimo – vale a dire il distacco dal mondo e l’esperienza individuale (eremitica) o comunitaria
(cenobitica). La rinuncia ai beni terreni e il distacco dalle ricchezze materiali, tipica del monachesimo
alto medievale, fu ripresa tra XI e XII secolo da movimenti che intesero contrapporre alla ricchezza
e alla mondanità della Chiesa la povertà: il fenomeno giunse al suo culmine nel XIII secolo con gli
ordini mendicanti e la predicazione francescana. Specifica del cristianesimo fu la precoce distinzione,
all’interno delle comunità ecclesiali, di un gruppo a sé stante, il clero, addetto alle funzioni di culto e
all’amministrazione dei beni delle chiese. Il divario tra le gerarchie ecclesiastiche e gli altri fedeli, i
laici, fu accentuato dalle origini sociali: il clero fu monopolizzato dalle èlites dell’impero e poi dalle
aristocrazie medievali. Con l’istituzionalizzazione del cristianesimo i vescovi furono chiamati ad
affiancare i funzionari civili e, scomparso l’impero in Occidente, ad assumere il governo effettivo
nelle città. Il forte intreccio che venne a crearsi tra il clero e il potere politico fu sancito dal ruolo di
mediazione sacerdotale che i vescovi acquisirono nei rituali di sacralizzazione dei re, e incrementato
dalle funzioni pubbliche assunte dai vescovi. Ciò rese il clero un ordine sociali ricco di privilegi:
dotato di immensi patrimonio, frutto delle donazioni di regnanti e fedeli, immuni alla giurisdizione
pubblica.
Lezione N°8: martedì 05/10/2021
QUADRI GENERALI (7)
CULTURA Nel medioevo si sviluppò un quadro eterogeneo di tradizioni differenti, dominate
dall’eredità della cultura antica, dalla pervasività della cultura cristiana e dal domino dell’oralità. Per
esempio, con Carlo Magno, che rivivificò la tradizione dell’impero romanzo grazie a un cenacolo di
dotti intellettuali di corte, ci fu la riscoperta del diritto codificato dall’imperatore Giustiniano. Nel
passaggio tra l’antichità e il medioevo si ridusse drasticamente la capacità di scrivere, e la memoria
e la trasmissione del sapere si affidarono largamente alla cultura orale di cui erano portatrici le
popolazioni barbariche. L’attitudine alla scrittura era stata molto diffusa nel mondo romano tra 1° e
2° d.C., anche tra persone di condizione culturale e sociale modesta. La scomparsa delle scuole di
grammatica e di retorica in seguito alla crisi delle città e alla dissoluzione dell’impero determinò
invece una discontinuità epocale. Dal 6° sec. alcune scuole cominciarono a essere riattivate, nelle
città, dalle sedi vescovili per la formazione del clero e, nelle campagna, da alcuni monasteri per
l’avvio alla vita religiosa e aperte, alcune, anche ai laici. Per molti secoli l’Europa occidentale riservò
l’uso della scrittura a ecclesiastici specializzati e a pochi laici capaci di redigere in un latino di solito
approssimativo qualche schematico documento privato. Le invasioni barbariche condussero tra 4° e
8° sec. alla morte del latino quale lingua parlata. La lingua parlata assunse caratteri originali fino a
generare, tra 7° e 9° sec., le lingue romanze, nelle regioni che erano state romanizzate, e le lingue
d’altro ceppo nelle altre aree. Il latino rimase la lingua della comunicazione scritta in tutta l’Europa
medievale in virtù del monopolio ecclesiastico delle strutture educative. Lo sviluppo economico delle
città e l’affermazione dei poteri monarchici e comunali furono all’origine, tra 12° e 13° sec., di nuove
istituzioni educative non più controllate dalla Chiesa ma promosse da privati e dalle autorità
pubbliche. La ritrovata alfabetizzazione dei laici determinò l’estensione massiccia delle scritture
correnti negli affari economici e nelle attività di governo. Correlato fu un fenomeno nuovo: la messa
per iscritto di testi in lingua materna per necessità pratiche e per uso privato. In questo contesto
originarono anche le letterature in lingua volgare. Nel mondo in espansione della cultura scritta la
presenza delle donne in grado di scrivere, e non più solo di leggere, costituì una novità assoluta. Al
rinnovamento culturale promosso in età carolingia e caratterizzato dall’imitazione dei valori e delle
forme classiche, fecero seguito altri periodi culturalmente omogenei. Tra 10° e 12° sec. si diffuse il
cosiddetto “romanico”, contraddistinto, in architettura, da un’edilizia massiccia in pietra ispirata a
quella romana. Irradiatosi dalla Francia settentrionale dal 12° sec. come linguaggio artistico della
monarchia francese, il cosiddetto “gotico” si allontanò invece dai modelli classici privilegiando lo
slancio verticale degli edifici, linee più duttili ed eleganti; adottato dalla Chiesa pontificia, il gotico si
impose ovunque nel tardo medioevo come stile “cortese”. A esso reagì l’Umanesimo, sorto in Italia
nel 14° sec., che si propose un sistematico recupero della cultura e dei modelli antichi, che sfociò nel
Rinascimento artistico e in innovazioni scientifiche e tecnologiche.
Lezione N°9: lunedì 11/10/2021
CAPITOLO 3: LE TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO
La fine del mondo antico maturò tra il III e IV secolo per effetto di tre grandi fenomeni:
1. la crisi economica, sociale e politica dell’Impero Romano
2. la diffusione del cristianesimo, che divenne la religione ufficiale dell’impero alla fine del IV secolo
3. le invasioni barbariche tra IV e V secolo, che vennero evangelizzate e che riuscirono ad integrarsi
solo dopo la conversione al cattolicesimo (in origine di fede ariana).
LA CRISI DELL’IMPERO ROMANO
Fino all’inizio del III secolo l’impero romano aveva assicurato sviluppo economico e stabilità politica.
Ma all’inizio di questo secolo le guerre di espansione si fermarono per l’incapacità di gestire dei
territori così vasti. L’economia subì un forte arresto e questo portò a un crescente squilibrio tra
risorse e necessità: la spesa pubblica superò l’ammontare delle entrate ,a causa delle spese militari
per mantenere l’esercito e pagare i salari a tutti i milites che erano ormai 500.000, e questo portò
alla crescita dell’inflazione. Il divario tra ricchi e poveri si accentuò, molti furono costretti a vendere
i loro beni e lavorare come dipendenti nei latifondi dei senatori. Inoltre l’elezione degli imperatori
dipese sempre più dall’esercito e le legioni finirono per acclamare i loro comandanti, imperatori: tra
il 235 e il 284 se ne succedettero ben 28.
Diocleziano: fu imperatore dal 284 al 305 e avviò un periodo di riforme che ebbero dei
risultati positivi:
- Affidò a Massimiliano il governo delle regioni del Reno e si trasferì in Asia minore per
controllare personalmente le aree danubiane e orientali spostando la sua residenza da
Roma a Nicomedia e spostando la capitale da Roma a Milano (286). Nel 293 il governo
fu trasformato in una tetrarchia, quando ai due augusti furono associati due cesari:
Galerio e Costanzo Cloro (che ebbero rispettivamente il controllo dell’illirico il primo e
della Gallia e della Britannia il secondo) allo scopo di sottrarre la nomina dei successori
al controllo dell’esercito.
- Nel 297 per rendere più efficace l’amministrazione del territorio, le provincie furono
rese più piccole(101) riunite in grandi diocesi (12) a loro volta riunite in prefetture (4).
- L’esercito fu diviso fu diviso fra truppe stanziali sui confini (limitanei) e legioni da
combattimento (comitatenes)
- Inoltre per sostenere la crescita della spesa furono adottate varie misure:
a) Riforme del fisco attraverso un più equo sistema di riscossione della tassa fondiaria
fondata sul catasto
b) Per frenare la fuga dalle campagne dei coloni*che avevano preso in locazione
(contratto) dei lotti di terreno appartenenti ai latifondi del ceto senatorio, e che
avevano visto aumentarsi le tasse superando gli affitti, furono obbligati a risiedervi.
c) Nel 301 nel tentativo di arginare l’inflazione furono fissati dei prezzi massimi dei
beni di consumo e delle merci ma questo non produsse gli effetti sperati.
Costantino: dopo una lunga serie di conflitti tra il 306 e il 314, Costantino, il figlio di
Costanzo cloro rimase l’unico imperatore fino alla sua morte nel 337. Sul piano politico
trasformò la città di Bisanzio in Costantinopoli (330) spostando definitivamente il baricentro
dell’impero ad oriente. Le città quindi decaddero progressivamente in occidente mentre
mantennero un ruolo centrale nei commerci e nelle produzioni in oriente.
Teodosio : fu imperatore dal 379 al 395. Salvaguardata l’unità dello stato dopo le prime
gravi migrazioni barbariche, dispose la suddivisione dell’impero alla sua morte tra i due figli:
Arcadio ad Oriente e Onorio ad Occidente. Da allora i destini dei due imperi avrebbero
seguito percorsi differenti: mentre in oriente lo sviluppo dell’ordinamento pubblico continuò
a essere sostenuto dalla crescita economica, in occidente la sua crisi ampliò le disparità sociali
e accentuò la disgregazione delle istituzioni.
LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO
Alla trasformazione del mondo romano contribuì decisivamente la diffusione del cristianesimo. La
sua progressiva diffusione nei territori dell’impero sostanziò l’uniformità religiosa e culturale da cui
emerse l’Europa occidentale nell’età successiva. La religione politeistica tradizionale, incentrata sulla
venerazione delle antiche divinità e intesa alla celebrazione dei valori civici e politici, era intanto
venuta fondendosi a culti influenzati dai riti solari, in un generale clima di mescolanza di dottrine di
origine diversa. Tali culti trovarono larghe adesioni nell’esercito e in alcuni imperatori, che mirarono
a farne la religione ufficiale. Proprio il rifiuto intransigente dei cristiani di tributare atti di culto
all’imperatore valse loro accuse di scarso lealismo o addirittura di cospirazione,e fu all’origine delle
sistematiche persecuzioni di massa disposte da Decio nel 249, da Valeriano nel 258 e, la più
sanguinosa di tutte, da Diocleziano nel 303. La concessione della libertà di culto da parte di
Costantino nel 313 assicurò invece all’imperatore l’appoggio incondizionato dei cristiani: l’editto di
Milano garantì infatti alle loro chiese privilegi destinanti ad avere enormi conseguenze nei tempi
successivi. Il cristianesimo fu progressivamente accettato dall’impero fino ad essere riconosciuto
come religione ufficiale. Costantino adottò le misure in favore dei cristiani continuando ad agire
come pontifex maximus, cioè come capo della religione di stato romana, ed arrogandosi il diritto di
intervenire nelle questione ecclesiastiche. Fu lui, infatti, a convocare a Nicea, nel 325, il primo
concilio ecumenico, cioè la prima grande assemblea dei vescovi di tutta la cristianità. Nel concilio si
affermò il cattolicesimo, cioè la dimensione universale della Chiesa, custode della “retta fede”. Tra le
eresie condannate, la più diffusa era l’arianesimo, una dottrina formulata da un prete di Alessandria
d’Egitto, Ario, per cui a Cristo si attribuiva soltanto la natura umana, considerandolo
gerarchicamente inferiore al Padre. Il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero nel 380
in seguito all’editto emanato a Tessalonica da Teodosio. Con esso si imponeva a tutti i sudditi
l’accettazione dell’ortodossia cattolica secondo i dettami definiti dai concili di Nicea del 325 e poi di
Costantinopoli del 381. Nel corso del 4° sec. il cristianesimo fu oggetto di un più generale processo
di istituzionalizzazione, che lo dotò di una propria organizzazione fondata su una gerarchia
ecclesiastica. Il cristianesimo rimase a lungo una religione prevalentemente urbana, mentre penetrò
più lentamente nelle aree rurali, che conservarono i culti tradizionali. Per molte popolazioni
barbariche la conversione al cristianesimo dal politeismo tribale fu mediata inizialmente dalla
dottrina ariana. In Italia, per esempio, se gli ostrogoti guidati da Teodorico (493-526) cercarono la
collaborazione con i romani e ne rispettarono la confessione cattolica, i longobardi, anch’essi ariani,
nel primo periodo della dominazione (569-584) compirono invece violenze, uccidendo preti e
distruggendo chiese e monasteri. L’evangelizzazione dei popoli barbarici ebbe intensità diversa.
L’opera di conversione fu promossa soprattutto dai vescovi cattolici che in seguito al crollo delle
strutture imperiali erano rimasti la sola autorità capace di inquadrare la società romana e di trattare
con i barbari. L’obiettivo fu quello di convertire i re e i capi militari delle popolazioni; così, la scelta
dei re sarebbe stata seguita dal resto della loro gente. Per tal via, il primo a convertirsi fu il re dei
franchi salii Clodoveo, seguito poi da quasi tutti i sovrani degli altri regni. L’adozione della fede
cattolica costituiva per i sovrani un allargamento della base di legittimazione del loro potere, che si
estendeva così anche alla popolazione romana. In alcuni ambiti ciò suscitò l’ostilità delle aristocrazie
barbariche. Fu il caso soprattutto degli angli e dei longobardi. Ancora per tutto il 7° sec. si
manifestarono vigorose spinte anticristiane un po’ da tutte le aristocrazie germaniche dell’Occidente.
La scomparsa del cristianesimo fu contrastata da un’intensa opera di evangelizzazione di cui si resero
protagonisti, in successive ondate, centinaia di monaci missionari. Tra 5° e 6° sec. monaci
provenienti dalla Gallia cristianizzarono dapprima l’Irlanda e poi la Britannia. Tra 7° e 8° sec.
l’empito missionario si rivolse infine verso le regioni più orientali della Frisia, della Turingia e della
Sassonia, al seguito dell’espansione militare dei franchi e sempre sotto il coordinamento della Chiesa
di Roma.
LE INVASIONI BARBARICHE Accanto alla diffusione del cristianesimo, l’altro grande fenomeno
che trasformò il mondo romano fu l’incontro di civiltà determinato dalle migrazioni dei popoli
barbarici all’interno dell’impero tra 4° e 6° secolo. Si trattò di “migrazioni”, non di “invasioni”, cioè
di spostamenti di intere popolazioni. Le regioni mediterranee più miti esercitarono un’attrazione per
le tribù stanziate nei freddi paesi del nord. Per il peggioramento delle condizioni climatiche, su di
esse cominciarono a premere dalle steppe euroasiatiche anche altre tribù seminomadi alla ricerca di
nuovi spazi verso ovest. “Barbari” erano per i romani quei popoli che non parlavano il latino, ma
lingue incomprensibili (da qui l’espressione “bar-bar”). Il termine designava tutte le popolazioni
stanziate al di là del limes, cioè il confine dell’impero. I termini “germano” e “barbaro” non vanno
intesi come sinonimi, dal momento che quella germanica fu solo una delle molte componenti
nell’insieme delle popolazione barbariche. Le popolazioni barbariche si formarono in un clima di
forte contaminazione: in origine le varie tribù non avevano un’identità etnica o culturale precisa.
L’incontro tra i barbari e i romani era cominciato ben prima delle invasioni. L’impero aveva
rinunciato alla conquista della Germania già al tempo di Tiberio (14-37). Si preferì invece consolidare
il limes in corrispondenza dei due grandi fiumi europei, Reno e Danubio. Le popolazioni barbariche
confinanti cominciarono così a entrare nell’orbita del sistema imperiale, costituendone una sorta di
periferia. I capi ebbero frequenti contatti con la corte imperiale ed i guerrieri furono arruolati
nell’esercito romano. Incursioni sempre più frequenti si susseguirono dal 3° sec., ma fu lo
spostamento dei visigoti alla ricerca di uno stanziamento definitivo l’elemento che destabilizzò
l’equilibrio politico dell’impero tra la fine del 4° e l’inizio del 5° sec. Aggrediti dagli unni, essi erano
stati accolti in Tracia nel 375; da lì, i visigoti condussero scorrerie in Grecia, in Macedonia,
nell’Illirico e nella pianura padana, dove nel 401 saccheggiarono Aquilea e minacciarono Milano,
prima di essere respinti dall’esercito guidato dal generale di origine vandala Stilicone. Guidati da
Alarico, essi tornarono in Italia puntando direttamente a Roma, che saccheggiarono nel 410. Risalita
la penisola ottennero di potersi stanziare nella Gallia meridionale dove misero sotto controllo l’intera
Aquitania, costituendo di fatto nel 418 il primo regno barbarico all’interno del territorio imperiale.
Dopo il fallimento del tentativo di stanziare i visigoti all’interno dei confini e la sconfitta di
Adrianopoli, l’impero d’Oriente evitò eccessive contaminazioni con i barbari. La tenuta delle
istituzioni, sostenute da un’economia solida, portò all’estromissione violenta degli ufficiali di origine
germanica dalle alte cariche militari, con il massacro nel 400 del generale goto Gainas e di migliaia
di suoi connazionali. Da quel momento si badò a preservare il territorio da ogni significativa
infiltrazione barbarica. In Occidente, invece, sentimenti di chiusura si alterarono a tentativi di
integrare le popolazioni barbariche che vi affluivano con ondate migratorie sempre più intense.
Soluzioni furono tentate attraverso le formule della foederatio e dell’hospitalitas. Con la prima, le
truppe barbare sottoposte al comando dei capi tribali vennero inquadrate in veste di alleate,
ricevendo un compenso. La seconda prevedeva invece la concessione di un terzo delle tasse sulle
terre di una determinata regione a gruppi etnici di rilevanti dimensioni che, insediandovisi,
dichiararono fedeltà all’impero e di impegnavano a fornire un appoggio militare pur rimanendo
indipendenti. All’inizio del 5° sec. cedettero le frontiere dell’impero. Per affrontare i visigoti, il grosso
dell’esercito era stato spostato in Italia. Il limes del Reno fu attraversato nell’inverno del 406-407 da
diversi gruppi, soprattutto alani, burgundi, suebi e vandali, che dilagarono nella Gallia incontrando
la sola opposizione dei federati franchi. Su incarico dell’impero, tra 415 e 418, i visigoti vi dispersero
gli alani, stringendo i vandali nell’estremo sud, che prese il nome di Vandalusia (l’odierna Andalusia).
Sotto Valentiniano III (425-455) l’impero seppe reagire in Gallia attraverso azioni militari. Il
generale Ezio ebbe un ruolo decisivo alla guida di un esercito innervato da contingenti barbarici:
contenne le pressioni dei visigoti a sud e dei franchi sul Reno, in alleanza con franchi e visigoti,
respinse l’invasione degli unni guidati da Attila, sconfitti in battaglia nel 451 e ritiratisi anche
dall’Italia nel 452. Per intrighi di palazzo Ezio fu fatto uccidere dall’imperatore nel 454. Nel
Mediterraneo i vandali si erano spostati nell’Africa del nord nel 429 dove invano l’impero cercò di
federarli. Sotto la guida di Genserico (428-477) essi occuparono Cartagine nel 439, da dove
esercitarono una continua azione di pirateria nel Mediterraneo e invasero le isole: la Sicilia dal 440,
le Baleari, la Corsica e la Sardegna dal 455. Sempre via mare, saccheggiarono Roma nel 455. Quando
le migrazioni sembrarono finalmente cessate, una serie di imperatori privi di reale potere,
indebolirono le capacità di controllo sull’impero. Qui il generale romano Siagrio resse dal 464 al 486
un dominio personale tra la Loira e la Senna. In Italia nel 476 il generale sciro Odoacre depose il
giovane Romolo Augustolo e restituì le insegne imperiali, dando il via a un dominio personale che
non fu però riconosciuto dall’imperatore d’Oriente Zenone. Zenone affidò invece l’amministrazione
della prefettura dell’Italia a Teodorico. Sconfitto Odoacre nel 493, Teodorico diede vita a un regno
che avrebbe governato la penisola fino al 553.
Lezione N°10: martedì 12/10/2021
CAPITOLO 4: L’OCCIDENTE POST IMPERIALE
Nel corso del V secolo lo stanziamento dei barbari entro i confini dell’impero d’occidente portò alla
formazione di una serie di regni detti, non a caso, romano barbarici proprio a sottolineare la natura
mista sul piano etnico e istituzionale. In essi si sperimentò l’incontro delle tradizioni e dei modelli di
vita barbarici con le strutture sociali e politiche e i modelli ideologici e religiosi della romanità. Questi
regni che, dureranno dal VI al VIII secolo,e la loro longevità sarà basata al gradi di integrazioni tra
le due società. Là dove l’integrazione dalle tue componenti è perseguita porterà a funzionare a lungo.
Invece là dove l’integrazione tra le due parti non c’è allora porterà a un ‘instabilità tale da non far
durare il regno a lungo. A permettere l’integrazione fra romani e barbari fu soprattutto la Chiesa, che
era forse l’unica ad avere la netta percezione d’angoscia della fine di un’epoca e s’impegnò nel trattare
con i nuovi abitanti. Inoltre la crisi iniziata nel III secolo, e il crollo dell’impero hanno portato a un
crescente abbandono delle città e a un incremento dell’importanza del mondo rurale, dove le grandi
proprietà fondiarie divennero il luogo primario dell’organizzazione economica e sociale di questi
regni. I latifondi rimasero saldamente in mano all’aristocrazia senatoria che mantenne la sua
autorità e il suo prestigio. Quelle famiglie aristocratiche che invece rimangono nelle città sono
direttamente legate al vescovo della città, in quanto lui stesso appartenente all’aristocrazia cittadina.
I barbari, in netta minoranza rispetto ai romani, si stanziarono in aree ristrette, per lo più intorno ai
centri politici e ai luoghi di difesa strategica. Infatti, in molte aree rurali e urbane, la loro presenza
era del tutto assente. I re dei regni romano- barbarici erano capi militari eletti dagli uomini armati
riuniti in assemblea. Nel corso del tempo la loro abilità di comandare sugli uomini dovette
trasformarsi nell’abilità di comandare sui territori. Crollata con l’impero la capacità di imporre tasse,
le risorse di cui i re potevano disporre provenivano soprattutto dal fisco regio, cioè dal patrimonio
della loro stirpe. L’amministrazione centrale si limitava a poche persone, spesso romani, che eranogli
unici alfabetizzati. L’organizzazione delle istituzioni in questi regni, quindi,fu così costruita:
La guida politica e militare fu prettamente barbarica
L’amministrazione civile e religiosa invece fu nelle mani dei vescovi, nelle città, e dei
proprietari fondiari, nelle zone rurali, che facevano parte delle grandi famiglie
dell’aristocrazia romana.
Mentre i romani continuarono a vivere secondo le regole del diritto romano, i barbari, invece,
conservarono le proprie consuetudini giuridiche ma quando i regni iniziarono a stabilizzarsi, misero
per iscritto le loro consuetudini redatte in lingua latina, subendo l’influsso del diritto romano, e con
l’andare del tempo assunsero una validità estesa per tutti i sudditi del regno.
Come abbiamo già accennato furono pochi i regni che durarono a lungo e questo dipese dal grado di
integrazione che si stabilì tra i popoli barbari e i romani: determinanti furono i tempi di conversione
al cattolicesimo e là dove le istituzioni imperiali furono rimodellate in funzione di una convivenza le
esperienze si rivelarono più durature. Prendendo in esempio queste caratteristiche possiamo trovare
3 regni che ebbero durate diverse
-Il regno dei vandali che fu il regno che durò di meno;
-Il regno degli ostrogoti che ebbe una durata media;
-Il regno dei visigoti che ebbe una lunga durata;
L'assetto più fragile fu quello del regno dei VANDALI nell'Africa del nord. Il dominio militare, lo
sfruttamento economico, l'intolleranza religiosa e sopratutto il rifiuto dell'hospitalitas alienarono
loro l'appoggio della popolazioni romane. Nonostante il mantenimento di alcuni aspetti dello stile di
vita romano e la conservazione di forme di legittimazione imperiale, ma mancata volontà di
integrazione rese strutturalmente debole la loro dominazione. Nel 533 Giustiniano intervenì e i
bizantini riconquistarono all'impero nel 534 l'Africa e le isole mediterranee, ponendo fine al regno
dei vandali (fatti schiavi o incorporati nell'esercito).
Nel regno degli OSTROGOTI in Italia i romani conservarono le proprie prerogative di fronte alla
minoranza barbarica, insediata attraverso il sistema dell'hospitalitas. Re Teodorico attuò
inizialmente una politica di convivenza e tolleranza, tenendo separate le popolazioni ciascuna con le
proprie leggi, lingua e religione. L'amministrazione civile fu appannaggio della popolazione latina,
mentre il comando militare delle guarnigioni fu assunto dai goti (coesistenza e collaborazione di due
corpi distinti senza assimilazione reciproca). La convivenza “condominiale” si risolve però in una
coesistenza sul medesimo territorio di due corpi distinti, senza sforzi significativi di assimilazione
reciproca pur nella collaborazione per il governo del regno. Essa si rivelò fragile quando nel 518
Giustino, zio di Giustiniano, si riconcilia con la Chiesa di Roma, e Bisanzio attuò una campagna di
unità religiosa, perseguitando gli ariani7 in oriente e perseguitando i goti. Teodorico rispose con una
dura repressione antiromana e antinicena che portò alla morte di importanti funzionari come Boezio
e Simmaco e alla carcerazione di papa Giovanni I nel 526. Le lotte per la successione al trono si
intrecciarono alla lunga guerra con l’esercito bizantino che pose fine al regno nel 553.
Il regno dei VISIGOTI durò fino all’avanzata araba nel 711-716 a testimonianza della solidità della
convivenza con I romani. L’integrazione fu progressiva, grazie all’hospitalitas e all’iniziale
distinzione di ruoli, militari per i goti e civili per i latini. Superata la fase delle guerre che
consolidarono il regno nella penisola iberica, difendendolo anche dall’avanzata bizantina nel 553-
554, re LEOVIGILDO (568-586) creò strutture di governo ispirate al modello romano e rinnovò
l’apparato legislativo. Il successore RECAREDO (586-601) decise di convertirsi al cattolicesimo
nonostante le resistenze del clero ariano. Egli si convertì per cercare di dare all’autorità regia una
base più ampia e per cercare di coinvolgere i vescovi niceni attraverso concezioni di competenze civili
e giurisdizionali. La cooperazione tra le varie componenti del regno si espresse nei concili generali,
cioè delle grandi assemblee del regno. La fusione etnica, favorita anche da un numero sempre
maggiore di matrimoni misti, fu suggellata al tempo di re RECESVINDO (649-672), intorno agli anni
centrali del VII secolo, dalla pubblicazione di un corpo di leggi valido per entrambe le popolazioni e
noto con il nome di Liber iudiciorum.
Il regno dei FRANCHI fu in assoluto il più longevo. Questo perché la loro è una fusione con i romani
molto precoce, partita già dal IV secolo, quando si stanziarono al confine difendendolo insieme ai
galli-romani dalle incursioni germaniche. Inizialmente più che una popolazione etnicamente definita,
i franchi costituivano un insieme eterogeneo di tribù sparte. Ma Clodoveo (che per leggenda e
discendente di Meroveo e per questo la sua dinastia sarà chiamata dei Merovingi. ), re dal 481 al 511,
riuscì a superare il frazionamento tribale e ad affermare la sua autorità sugli altri capi militari,
ponendo le basi per la costruzione del regno franco ed estendendolo ai territori gallici. Infatti nel 486
egli sconfigge l’ultimo nucleo di resistenza gallo romana, cioè il regno di Siagrio, e innesto il suo
potere sulle precedenti strutture amministrative romane. Inoltre arginò le pressioni dei turingi ad
est, spinse verso il Reno gli alamanni, e sconfisse i visigoti, nel 507 a Vouille, occupando l’Aquitania
e costringendoli a spostarsi nella penisola iberica. Importante fu la sua conversione al cattolicesimo,
in quanto comprese l’importanza di stabilire rapporti con le chiese cattoliche. Nel 496, quindi, si fece
battezzare dal vescovo di Reims, Remigio, presentandosi così alla popolazione gallo romana come
difensore delle chiese. La conversione diretta dal politeismo al cattolicesimo niceno senza passare
dall’arianesimo agevolò il rapporto con il clero e le popolazioni di fede nicena che riconobbero
l’autorità del re legittimandone l’azione politica. Questo rapporto fu fortificato dalla convocazione,
dal 511, di una serie di concili del regno. Clodoveo inoltre promosse la fondazione di nuovi monasteri
e del culto di San Martino, che divenne il patrono del regno franco. Nel 508, inoltre, ricevette
dall'imperatore bizantino il titolo di patricius e nel 510 fece redigere il Pactus legis salicae (norme di
convivenza della popolazione).Alla sua morte, nel 511, il regno fu diviso tra i suoi eredi. Però, la
frammentazione non impedì ulteriori espansioni territoriali tra 531 e 536 come l’annessione della
Provenza e la sottomissione di burgundi, turingi e alamanni. Nel regno iniziarono così a distinguersi
diverse regioni:
• L’Austrasia o terra dell’est;
• La Neustria o “nuova terra dell’ovest”;
• La Burgundia o Borgogna che era l’antico regno dei burgundi;
• L’Aquitania dove era scarsa la presenza dei franchi ed erano radicate le trazioni gallo-romane.
Il regno, inteso da sempre come un insieme di regni tra loro conflittuali, riuscì a trovare una certa
unità sotto CLOTARIO II (613-629) e DAGOBERTO (629-639), che dovettero concedere ampie
prerogative all’aristocrazia che fondava l’elemento germanico con quello romano. Vigeva, ormai, una
convergenza di stili di vita. Infatti, l’aristocrazia gallo- romana avviava i figli alle carriere militari
mentre quella germanica alle carriere ecclesiastiche. Dalle famiglie aristocratiche locali erano
reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti (comites) e i duchi. Una grande famiglia dell’aristocrazia
austrasiana fu quella dei Pipinidi.
Dopo un lungo conflitto protrattosi fino al 553, che prostrò duramente la società italica (regresso
demografico ed economico) e che segnò la vera fine della civiltà antica nella penisola, GIUSTINIANO
ristabilì il dominio imperiale sull'Italia, a cui estese la legislazione bizantina (Prammatica sanzione,
554). Il paese, tuttavia, era ormai allo stremo e non riuscì ad opporsi all'invasione dei LONGOBARDI,
i quali si erano trasferiti dalla Pannonia alla fine del V secolo ed erano migrati in Italia attraverso il
Friuli nel 569 guidati dal re Alboino, insediandosi in modo disomogeneo (principalmente nella
pianura padana, in Toscana e tra Spoleto e Benevento). Gran parte della penisola restò invece in
mano bizantina così che l'Italia di trovò divisa sotto due dominazioni profondamente diverse per
tradizioni, costumi, lingua e istituzioni. L'insediamento dei longobardi, inoltre, comportò la
dispersione dell'aristocrazia senatoria, le cui terre vennero confiscate e distribuite tra i membri
dell'esercito longobardo, i quali si trasformarono in proprietari fondiari, pur restando arimanni
(uomini liberi capaci di portare le armi), distinti dai servi e dagli aldii (uomini semiliberi che non
possedendo terra o armi erano costretti a lavorare per un padrino in cambio di protezione). I
longobardi si distribuirono sul territorio in ampi raggruppamenti familiari con funzioni militari
(fare), sottoposti all'autorità dei capi guerrieri, i duchi (cristiani di fede ariana), i quali, in conflitto
con il re, agivano in sostanziale autonomia. Dopo un decennio (574-584) di divisione politica senza
alcun re, dapprima Autari (584-590) e poi Agilufo (590-616) si diedero a un'opera di rafforzamento
dell'autorità regia, costituendo un vasto patrimonio fiscale grazie alla cessione al sovrano da parte
dei duchi della metà delle terre dell'antico fisco imperiale. Un graduale superamento della
contrapposizione tra i longobardi ariani e i romani cattolici fu avviato, grazie anche alla mediazione
della regina Teodolinda, con papa Gregorio Magno (590-604) preoccupato di salvare Roma. Nel 653
re Ariperto abolì ufficialmente l'arianesimo. Una volta costituita nel 626 la corte (palatium) a Pavia,
Rotari (636-652) rafforzò il potere regio, sviluppò un apparato di governo e organizzò il territorio in
distretti più ordinati. I duchi furono progressivamente trasformati in ufficiali regi e affiancati da
funzionari minori (es. sculdasci e gastaldi). L'insieme dei territori rimasti sotto il controllo dei
bizantini (all'epoca impegnati dall'avanzata araba) era stato riorganizzato alla fine del VI secolo e
affidato un funzionario, l'esarca, che risiedeva a Ravenna e riuniva funzioni civili e militari. Passata
la fase della conquista e dell'occupazione delle terre, le condizioni della popolazioni migliorarono.
All'inizio del VIII secolo possessori di stirpe romana entrarono a far parte dell'esercito, mentre tra i
vescovi e i monaci erano ormai numerosi gli appartenenti alla stirpe longobarda. La società
etnicamente mista trovò ulteriore consolidamento durante il regno di Liutprando (712-744), che si
fregiò del titolo di christianus et catholicus princeps con l'intendo di fare delle istituzioni
ecclesiastiche un elemento di sostegno alla monarchia. Approfittando dell'indebolimento
dell'autorità bizantina, Liutprando puntò alla conquista dell'esarcato e dei territori bizantini sino al
ducato di Roma. Il progetto suscitò la reazione del papato che sollecitò una vasta mobilitazione
contro i longobardi. I re Astolfo (749-756) e Desiderio (756-774) subirono le spedizioni dei franchi
sollecitate dai papi, che culminarono nella conquista del regno nel 774 da parte di Carlo Magno, il
quale unì al titolo di “re dei franchi” quello di “re dei longobardi”. Il regno fu incorporato nel dominio
dei franchi ma mantenne la sua autonomia e molte caratteristiche specifiche (es.
conferma/assimilazione dell'élite longobarda, mantenimento in vigore delle leggi del regno).
Resistette solo il ducato di Benevento, che diede continuità al regno nel meridione d'Italia. Furono i
normanni nella seconda metà del XI secolo a porre fine all'autonomia longobarda. Salerno fu l'ultima
città a cadere nel 1076.
Lezione N°11: lunedì 25/10/2021
CAPITOLI 5 e 6 : I TRE GRANDI IMPERI DEL MEDITERRANEO E DELL’EUROPA (1)
Tra VI e VII secolo il Mediterraneo, intorno al quale aveva gravitato l’impero romano, si trasformò
da mare solcato incessantemente dai mercanti a mare di confine. La fine dell’unità mediterranea
corrispose all’emersione di tre aree di civiltà spesso in conflitto:
La civiltà carolingia (cristiana cattolica)
La civiltà bizantina (cristiana ortodossa)
La civiltà arabo-turca (islamica)
BISANZIO: Dissolto a Occidente nel V secolo, l’impero romano continuò la sua millenaria vicenda
a Oriente. L’imperatore Giustiniano (527- 565) nei suoi 30anni di impero elaborò un ambizioso
programma di restaurazione per ridare all’impero la sua estensione originaria.
- Tra il 533 e il 534 riconquista la costa del nord Africa invasa dai vandali;
- Tra il 535 e il 553 riconquista la penisola italica;
- Tra il 553 e il 554 riconquista le coste meridionali della penisola iberica.
Il grande progetto di Giustiniano fu accompagnato da altre riforme
- rafforzamento del potere dei vescovi per tutelare la chiesa e la fede;
- persecuzioni contro i culti non cristiani ed eretici
- rafforzamento della rete dei funzionari statali per frenare gli abusi dei grandi proprietari
terrieri;
- promozione di una sistematica revisione del diritto (redazione del Corspus iuris civilis).
Questa operazione però richiese grandi quantità di investimenti da parte dell’impero ma i suoi
successori non ebbero le risorse finanziare e militari per governare stabilmente l’intero spazio
Mediterraneo:
- parziale conquista longobarda dell’Italia (569);
- assestamento nei Balcani degli slavi (592);
- abbandono della penisola iberica (629).
Il baricentro dell’impero era stato definitivamente spostato ad Oriente, dove tuttavia si rivelò
effimero anche il consolidamento della frontiera asiatica a causa del dominio arabo. Caddero sotto il
dominio degli arabi:
- La Siria e la Palestina (632-634);
- La Mesopotamia e l’Armenia (639-640);
- L’Egitto e il nord Africa(entro il 645).
In poco meno di un secolo l’impero si ridusse a potenza regionale gravitante tra l’egeo e l’Anatolia.
Nell’età di Eraclio (610-641) si completò il passaggio dalla fase tardo antica dell’impero romano a
quella propriamente greco-bizantina, tanto che l’imperatore iniziò ad essere indicato con il termine
greco βασιλέυς. Per il continuo stato di guerra, le funzioni militari acquistarono un peso crescente,
di pari passo con l'indebolirsi del potere centrale e l'accentuarsi delle autonomie locali. Furono create
nuove unità amministrative, i thèmata (temi), posti al comando di uno stratego. Nel 678 gli arabi
assediarono Costantinopoli, nel 681 i bulgari crearono un regno nei Balcani e negli anni successivi
Bisanzio perse gli ultimi avamposti in Africa del nord aprendo la via alla conquista araba della
Spagna. DI fronte a tali pressioni solo il cristianesimo restava a baluardo dell'identità collettiva
dell'impero. Una controversia religiosa divenne così un affare politico che ne travagliò a lungo la vita.
Nel 726 l'imperatore Leone III proibì la venerazione delle immagini sacre. Infatti egli aderì a quella
corrente ortodossa che considerava idolatra la venerazione delle immagini, e ne predicava la
distruzione (iconoclastia). Questa fu una mossa principalmente politica: infatti la prima ipotesi
avanzata dagli storici è quella che tentava di indebolire i monasteri che anche grazie al culto delle
icone stava avendo sempre più influenza sulla popolazione. Questo permise di confiscare le terre dei
monasteri e darle ai soldati. L’altra ipotesi è quella che di fronte all’avvicinamento pericoloso degli
arabi, tentare di mantenere un fronte religioso compatto nei confronti dell’islam, rendendo la fede
più astratta. Questo comunque fu un grande errore che portò solo a una spaccatura dell’impero che
consentirono agli stranieri di approfittare della debolezza bizantina. La mancata adesione delle
regioni bizantine dell'Italia centro-settentrionale segnò però l'irreversibile allontanamento della
Chiesa di Roma da quella orientale. La crisi politica si chiuse con la riammissione del culto delle
immagini nel 843. Gli slavi si erano insediati sin dal VI secolo nei Balcani in piccole comunità di
villaggio. Furono guidati militarmente dalle etnie turche degli avari, con cui assediarono
Costantinopoli nel 626, e dei bulgari, con cui diedero vita a un regno nel basso Danubio nel 681.
Costantinopoli favorì allora l'opera di evangelizzazione degli slavi per assimilarli alla civiltà bizantina.
Il re Boris si convertì nel 864-865, ma decisiva si rivelò la missione dei monaci Cirillo e Metodio che,
per favorire la diffusione del cristianesimo, tradussero la Bibbia in slavo elaborando un nuovo
alfabeto (detto poi cirillico) derivato dal greco. Gli slavi occidentali (croati, sloveni, moravi, polacchi
e slovacchi) furono cristianizzati da missionari legati ai franchi e alla chiesa di Roma; gli slavi
orientali (ucraini e russi) così come i bulgari, i serbi e i macedoni rimasero invece legati alla Chiesa
di Costantinopoli.
Approfittando della crisi dell'impero islamico, Bisanzio riprese l'iniziativa nella seconda metà del IX
secolo. I discendenti di Basilio I (867-886) affermarono la successione ereditaria al trono, in
discontinuità con la tradizione elettiva. Ciò permise alla dinastia dei Macedoni (867-1057) di guidare
l'impero a una rinnovata fase di sviluppo politico, economico e militare. La riconquista di alcuni
territori in Asia Minore (es. Siria, Armenia, Mesopotamia) segnò la fine dell'egemonia navale araba
e il riavviarsi delle relazioni commerciali con l'Occidente. Basilio II (976-1025) riconquistò l'intera
penisola balcanica, annientando il regno dei bulgari. Alla sua morte l'impero era tornato a esse la
maggiore forza del Mediterraneo orientale e dell'Europa balcanica. L'esercito impegnato nelle guerre
di espansione era tornato ad essere composto da soldati stipendiati, che sostituirono le milizie
formate da contadini, e l'amministrazione civile tornò ad essere separata da quella militare. La
distribuzione della ricchezza si basava su un efficiente sistema fiscale che doveva garantire il
pagamento degli stipendi pubblici e delle spese militari. I mercanti erano sottoposti invece a forti
vincoli da parte dello stato, che controllava produzione, distribuzione e consumo dei beni. La
ricchezza continuò a basarsi sulla terra e non sul commercio. I vincoli posti al commercio si
trasformarono in fattori di debolezza quando cominciarono a operare in Oriente i mercanti
occidentali. La concessione nel 1082 di privilegi commerciali ai veneziani segnò l’inizio del declino
economico di Bisanzio. Ai segnali di crisi economica si accompagnarono quelli militari. Infatti, la
sconfitta con i turchi in Armenia, nel 1071 avviò l’erosione territoriali dell’impero da parte dei turchi.
Come se non bastasse, a destabilizzare ulteriormente l’ambiente ci si mise lo scisma tra Chiesa di
Costantinopoli e Roma nel 1054. La civiltà bizantina iniziò così il suo declino.
L’ISLAM: Il vasto territorio della penisola arabica era rimasto sempre ai margini dell’impero
bizantino e persiano. In gran parte desertica e priva di città, l’Arabia era abitata da tribù di beduini
che praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi piste carovaniere che collegavano le
oasi e che assicuravano la circolazione delle merci dalla più fertile regione meridionale verso i
mercati dell’Egitto. Il nomadismo della popolazione dava vita a confederazioni tribali politicamente
instabili. L'unico elemento di coesione era costituito dal pellegrinaggio (aperto a tutti i culti) al
santuario della Ka'ba, alla Mecca dove si venerava un meteorite. In tale occasione si concludevano
affari, si saldavano debiti e si risolvevano conflitti.
Maometto nacque a Mecca intorno al 570, da dei commercianti. Nel 610 egli ebbe una crisi spirituale
e si ritira in meditazione dove ebbe una rivelazione fondamentale: gli appare l’arcangelo Gabriele,
che gli ordina di diffondere la parola di Dio, cioè il Corano. La predicazione di un monoteismo
rigoroso, senza compromessi, che richiedeva la sottomissione assoluta (islam) del fedele alla volontà
di Dio (Allah). Ciò pose Maometto in contrasto con le grandi famiglie meccane, che fondarono il
proprio potere sul rispetto delle varie religioni, base della fortuna economica della città. Il profeta fu
così costretto a rifugiarsi con i seguaci nell’oasi di Medina, nel 622, data della cosiddetta migrazione
(ègira) da cui ha inizio il calendario islamico. La comunità raccolta intorno a Maometto si organizzò
non più sulla base dei vincolo tribali bensì sulla condivisione della stessa fede. Maometto guidò
personalmente le razzie contro i vari clan, costringendoli a sottomettersi. Anche Mecca cedette nel
630 e fu eletta luogo sacro dell’Islam. La predicazione di Maometto riuscì a dare un’identità unitaria
a una moltitudine di irrequiete tribù: da allora il mondo arabo si trovò a godere di un’eccezionale
compattezza religiosa e politica e a essere identificato con il mondo musulmano. Alla morte di
Maometto (632) il problema di successione nella guida della vita pubblica fu risolto con la creazione
della figura del califfato, capo supremo della comunità islamica incaricato di far rispettare la legge
divina.(sharia). Dopo i primi quattro califfi, eletti per acclamazione fra i discendenti del clan di
Maometto, il califfato divenne ereditario. Con l’elezione di Alì nel 656 esplose il conflitto tra i suoi
seguaci (sciiti) e quanti sostenevano il principio che potesse essere eletto qualsiasi fedele (khargiti).
Nel 661 Alì fu ucciso e lo scontro aprì una frattura dottrinale fra musulmani sciiti e sunniti. I sunniti
si rifanno direttamente alla sunna, alla tradizione del profeta e mantengono distinte autorità
religiosa e civili, gli sciiti che sono una netta minoranza, si rifanno all’insegnamento del quarto califfo
Alì e per loro l’autorità religiosa e civile coincidono. Il nuovo califfo Mu’awiya, del clan degli
Omayyadi, introdusse un modello imperiale sull’esempio bizantino e persiano, con una capitale
amministrativa posta a damasco, e affermò il principio ereditario del califfato. Sotto la dinastia
omayyade l’impero raggiunse la massima espansione: infatti penetrò nel cuore del continente
asiatico fino al fiume Indo(711-713), completò la conquista del nord Africa fino all’Atlantico(670-709)
e occupò la Spagna visigota(711-716). La conquista di Rodi, <creta e cipro diede agli arabi il
predominio sul mare. Ad arrestare quest’espansione furono i frachi, che vinsero la battaglia di
Poitiers nel 732, e i bizantini, che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. Gli arabi
costituirono un’èlite militare cui era impedito possedere terre e che si mantenne separata dalle
popolazioni locali, che poterono conservare le tradizioni e culti: gli ebrei e i cristiani potevano vivere
in una condizione di “protetti” pagando un tributo. Si avviò poi un processo di integrazione sancito
dal califfo Omar II(717-720) con l’abolizione dello status separato degli arabi e la creazione in un
sistema politico fondato sull’uguaglianza di tutti i musulmani. La sua riforma era finalizzata a
fronteggiare le tensioni crescenti tra le diverse componenti etniche e religiose. Nel 750 Abul Abbas,
un discendente di Maometto e sostenuto dalle elites non arabe convertite all’islam, rovesciò gli
Omayyadi, dando il via alla dinastia califfale degli Abbasidi e, muovendo la capitale da Damasco a
Baghdad, spostò il baricentro dell’impero dal Mediterraneo verso l’Asia. Abul Abbas aveva un
progetto politico ben preciso: superare il periodo Arabo dell’islam. Il territorio fu diviso in provincie
rette da emiri e l’interpretazione sunnita della fede islamica si impose definitivamente sulle altre. La
dinastia degli Abbasidi perdurò fino al 945. gli omayyadi controllarono l’emirato iberico(755-1031).
Il territorio fu diviso in province rette da emiri e l'interpretazione sunnita della fede islamica si
impose definitivamente sulle altre. Lo spostamento verso Oriente dell'impero frenò ulteriori
espansioni in Occidente e lasciò spazio alla ripresa bizantina nel Mediterraneo. L'impero conobbe
un considerevole sviluppo economico, tuttavia l'enorme estensione raggiunta acuì, già nel IX secolo,
le spinte secessionistiche delle regioni periferiche. L'unità politica cominciò a disgregarsi quando gli
emirati cominciarono a promuovere politiche autonome.
APPROFONDIMENTO SULL’ISLAMISMO
L’islam in sé si affermò come una religione universale, che aveva l’obiettivo di rendere l’umanità
una comunità in cui non esistevano divisioni in stati ma HUMMA, comunità di musulmane sparse
nel mondo e Maometto si presentò come l’ultimo profeta (il primo era Mosé) dell’unico Dio
esistente, Allah, il quale, a differenza del cristianesimo, non è morto in croce e non fa parte di un
sistema trinitario, idee queste inaccettabili per l’Islam.
RAPPORTO DEI MUSULMANI CON EBRAISMO E PAGANESIMO:
per principio, i pagani erano obbligati a convertirsi all’Islam, per il quale non erano tollerabili delle
false divinità venerate, mentre gli ebrei (come i cristiani) possono essere tollerati a patto che non
costruiscano chiese o sinagoghe troppo vistose, (comunque sono accettati in quanto monoteisti).
CINQUE PILASTRI DEL’ISLAM:
→ PROFESSIONE (testimonianza di fede);
→ DIGIUNO: con divieto di carne suina sempre, mentre in un mese all’anno c’è il RAMADAM;
→ PELLEGRINAGGIO: ogni musulmano dovrebbe recarsi alla mecca almeno una volta nella sua
vita;
→ PREGHIERA: 5 volte al giorno rivolti verso la Mecca, dopo essersi purificati con abluzioni;
→ ELEMOSINA LEGALE: versamento di certi beni ai bisognosi e alla comunità.
CONCETTO DI JIAD (GUERRA SANTA): lotta soprattutto interiore contro vizi e passioni del
proprio animo che si traduce in lotta esterna, i nemici di dentro contro i nemici di fuori, inteso da
alcune correnti estremiste che dicono che bisogna combattere contro tutti coloro che non sono
musulmani. Ci sono dei passi del corano più aperti verso le altre culture e altri passi più duri. (l’unica
cosa che è rimasta delle precedenti religioni pagane in Arabia è la pietra nera che si dice fosse
discesa dal cielo)
LA DONNA: Altro elemento discusso del corano è il concetto della donna che è vista sotto l’uomo,
l’idea di un uomo solo vale come quella di due donne dal punto di vista della testimonianza di un
processo. È comune l’infanticidio delle figlie femmine, considerate inutili, mentre le adultere
vengono lapidati e gli omosessuali condannati (anche se nel Corano nessuna di queste cose è
specificata).
Lezione N°12: martedì 26/10/2021
CAPITOLO 7 : I TRE GRANDI IMPERI DEL MEDITERRANEO E DELL’EUROPA(2)
L’EUROPA CAROLINGIA: Alle due grandi civiltà mediterranee si affianca in in un periodo
successivo nell’Europa Occidentale , infatti tra il VIII e il IX viene a formarsi l’impero di Carlo Magno
che si ripropone come la rinascita dell’impero romano d’occidente. Questo fu possibile grazie
all’integrazione dei vari regni. I franchi infatti, che si integrarono per primi rispetto agli altri popoli
barbarici diede la possibilità al regno di avere una lunga e solida durata. Approfittando della
debolezza dei re merovingi nel corso del VII secolo, l’amministrazione dei vari regni fu sempre più
condotta dai maestri di palazzo (o maggiordomi), cioè i massimi funzionari di corte. Una grande
famiglia dell’aristocrazia austrasiana, quella dei PIPINIDI, affermatasi con PIPINO DI LANDEN,
riuscì a rendere ereditaria tale carica e, PIPINO II DI HERSTAL, riuscì a riunire, nel 687, i ruoli di
maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio di Pipino II di Herstal, CARLO
MARTELLO (cioè piccolo marte), avviò una forte espansione contro alamanni, turingi, sassoni…, e
nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro gli islamici arrestandone
definitivamente l’avanzata verso nord. La vittoria rafforzò il potere dei Pipinidi e fu la premessa della
deposizione dell’ultimo sovrano merovingio, re CHIELDERICO III, ad opera del figlio di Carlo
Martello, PIPINO IL BREVE, acclamato re nel 751. Si affermò così sempre di più la dinastia dei
Pipinidi e I re Merovingi furono denominati “ re fannulloni”. L’affermazione dei Pipinidi fu
legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma. Infatti, Pipino il Breve si fece ungere con il
sacro crisma nel 754 dal papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo (futuro Carlo
Magno). Infatti, i franchi rappresentavano per il papato gli alleati ideali per perseguire l’autonomia
politica da Bisanzio. Tra il 754 e il 756, Pipino il Breve, chiamato da papa Stefano II, effettuò due
spedizioni militari in Italia contro i longobardi e così facendo il dominio longobardo si avvicinava al
suo definitive tracollo, tracollo che si verificò nel 774 per opera di Carlo Magno. Nel 778 muore Pipino
il Breve e nel 771 muore anche il figlio maggiore Carlomanno. Quindi Carlo (che poi sarà denominato
il Magno) ereditò il regno franco e con lui esso conobbe un’espansione su larga scala. Egli infatti
grazie ai rapporti vassallatico-beneficiari che riuscì ad instaurare con le aristocrazie del regno
disponeva di unga grande forza militare. Questi rapporti vassallatico-beneficiari era un patto
personale, e quindi non ereditario, che si costruivano sul giuramento di fedeltà del vassallo che in
cambio di un beneficio doveva andare in guerra a fianco del re, fornendo anche soldati, cavalieri e
armi. Questo permise a queste aristocrazie di arricchirsi e ampliare le proprie proprietà e permise al
re di rafforzare il suo potere e i suoi legami di vassallaggio. Egli innanzitutto spense il ribellismo di
alcune regioni dove furono sostituite le dinastie dei conti. Esse sono:
La Borgogna
L’Aquitania
La Provenza
E poi conquista una serie di territori limitrofi al regno:
Nel 772 fu avviata una lunghissima guerra contro i sassoni ai quali fu imposta
l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi che durò fino al 804.
Nel 774 fu conclusa la conquista del regno longobardo.
Nel 788 fu sottomessa la Baviera.
Nel 796 fu distrutto il regno dagli àvari sul Danubio.
Tra l’801 e il 813 vengono sottratte la Marca Hispanica al dominio arabo.
Nella notte di Natale dell’800 a Roma viene incoronato a Imperatore dal papa Leone III. L’atto
sanciva il rapporto che da tempo aveva garantito ai sovrani franchi la piena legittimazione del loro
potere e ai papi un aiuto imprescindibile nell’opera di evangelizzazione e di pretesa di guidare la
cristianità, proprio nel momento in cui si faceva irreversibile di distacco dalla Chiesa d’Oriente. Carlo
si presenta come il sovrano della cristianità, difensore della chiesa di Roma.
Carlo Magno sottomise a sé circa 1 milione di kmq, a cui cercò di garantire un’organizzazione
amministrativa efficace, dividendo il territorio in circoscrizioni centrate sulle città (comitati), guidate
da conti e marchesi reclutati tra le famiglie aristocratiche, che esercitavano le funzioni pubbliche, e
spostò l’amministrazione ad Aquisgrana, dove fece costruire un palazzo e una residenza, e dove
risiedevano il conte palatino che amministrava la giustizia e l’arcicappellano che dirigeva la
cancelleria. Tale organizzazione era comunque molto lontana dalle moderne amministrazioni statali
e si basava più che altro sull’autorevolezza di Carlo Magno e sulla sua capacità di legare a se gli
aristocratici. Per controllare conti e marchesi Carlo introdusse i missi dominici (inviati dal signore),
un laico e un ecclesiastico incaricati inoltre di diffondere nei territori le leggi emanate dal
sovrano(capitolari). Sotto Carlo Magno si ebbero una rinascita culturale (es. sviluppo di scuole
vescovili e centri scrittorii) e delle riforme in ambito economico (es. introduzione delle gabelle sul
transito delle merci sulle strade e nei porti). Fu reintrodotto anche un sistema monetario basato
sull’argento che si adeguava alle esigenze di un’economia di tipo locale, fondata sul sistema curtense.
Monete d’oro continuarono a circolare solo a Bisanzio e gli stati islamici. Mise fine nel 774
all’esperienza politica longobarda in tutt’Italia, infatti il regno fu incorporato al dominio dei franchi
ma mantenne la propria autonomia e Pavia ne rimase la capitale. Si mantennero molte
caratteristiche come i gruppi arimanni che servivano militarmente il re. Carlo Magno dispose
nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli Carlo, Ludovico (poi detto il Pio) e Pipino.
Unico sopravvissuto, LUDOVICO detto IL PIO ne ereditò il potere alla morte nel 814. Nell’824, con
la Constitutio romana, Ludovico il Pio vincolò la consacrazione papale a un preventivo giuramento
di fedeltà all’imperatore. La sua successione, disposta molto prima della sua morte per garantire
l’unità dell’impero, in cui riconobbe, con la Ordinatio imperii (ordinamento dell’impero), come unico
erede il figlio LOTARIO, aprì lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo
siglato a Verdun nell’843 tra gli eredi riconobbe a LUDOVICO IL GERMANICO (figlio di Ludovico il
Pio) i territori a est del Reno (la Germania), a CARLO IL CALVO quelli più a Occidente (l’attuale
Francia), e a LOTARIO quelli compresi nella fascia intermedia dal Nord al regno d’Italia. La morte
senza eredi di Ludovico II (875) avviò il tracollo della dinastia carolingia, che si estinse nel 887 con
la deposizione di Carlo il Grosso. Le lotte dinastiche avevano finito col rafforzare il potere delle
aristocrazie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio patrimonio le cariche pubbliche di
conte, duca e marchese.
CIVILTÀ A CONFRONTO
BISANZIO: Si fonda su un sistema di tassazione e sulla possibilità di pagare i salari e
un’amministrazione adeguata
IMPERO CAROLINGIO: in assenza di un sistema burocratico adeguato, per far funzionare il regno
viene utilizzato il sistema di rapporti vassallatico-beneficiari.(viene quindi rielaborato il sistema
clientelare romano)
IMPERO ISLAMICO:si fonda sui rapporti commerciali e quindi necessita di un altro tipo di sistema.
Lezione N°13: martedì 02/11/2021
CAPITOLO 8 : L’ETÀ POSTCAROLINGIA (1)
ECONOMIA; SOCIETÀ, POLITICA: Gli aspetti economici, sociali e politici dell’età carolingia:
-ECONOMIA: con la caduta dell’impero romano si sfalda anche il sistema economico, del
mondo antico, basato sulla fiscalità. A determinare la crisi economica fu la fine dell’economia
statale romana. Infatti, per secoli l’impero aveva sviluppato le attività produttive e garantito
le infrastrutture per le attività commerciali grazie a un efficiente sistema fiscale. Esso si
basava per lo più sulle tasse fondiarie e sul ruolo economico delle città che erano centri di
riscossione delle imposte, luoghi di consumo e sedi di attività artigianali. La fine dell’impero
significò la scomparsa del ciclo di prelievo fiscale e di ridistribuzione della ricchezza. Inoltre,
nel corso del IV secolo si ridussero drasticamente gli scambi in moneta. Le città persero la
loro centralità di luoghi di consumo e di ridistribuzione della ricchezza.
Si costruisce invece un nuovo sistema economico e commerciale che inizialmente è locale e
ruralizzata ma che con Carlo Magno riprende la sua forma internazionale, con gli empori.
Nell’economia rurale sia attuano delle riforme che permettono alle aristocrazie di accumulare
ricchezze e investire nell’economia del commercio.
-SOCIETÀ RURALE: è una società, quella carolingia, che è molto arretrata rispetto alle
fiorenti società bizantina e islamica. È una società ruralizzata che infatti si raccoglieva
soprattutto intorno a grandi proprietà fondiarie, dette villae o curtes, entro cui si sviluppano
nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo. Le città, che avevano costituito l’ossatura
dell’ordinamento civile e politico dell’impero romano, subirono una profonda ruralizzazione.
L’impianto di età romana – fondato sulla piazza principale (forum), sulla quale si
affacciavano gli edifici pubblici (praetorium, curia) all’incrocio delle due strade principali
(cardum e decumanum) – fu sostituito da nuovi poli aggregativi intorno alle istituzioni
ecclesiastiche (cattedrale, battistero, cimitero, palazzo del vescovo). Venuti meno gli organi
dell’amministrazione municipale romana (le curie), i poteri pubblici delle città furono quasi
ovunque svolti dalle gerarchie ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Così, le città non
persero mai del tutto le antiche funzioni amministrative, politiche, religiose e culturali anche
se con molte differenze tra le diverse aree di dominazione.
- POLITICA:Alla conservazione della centralità politica della città contribuì in modo
determinante la presenza del vescovo. Tra V e VI secolo la debolezza del potere esercitato
nelle città dai rappresentanti del potere regio (duchi, conti…) fece sì che le prerogative
vescovili si ampliassero fino ad assumere funzioni civili di supplenza nei vari ambiti
(giudiziario, fiscale…). Tra VII e VIII secolo il potere carolingio riuscì a ripristinare
un’effettiva divisione di funzioni tra le competenze degli ufficiali pubblici e quelle dei prelati
(vescovi…) che continuarono ad avere per lo più funzioni di guida morale e religiosa. Così, la
città tornò a essere appieno sede amministrativa e religiosa. Il vescovo acquisì la pienezza dei
poteri pubblici quando la dissoluzione dell’impero carolingio (887) rese inefficace la presenza
dei conti nelle città. Sotto la pressione della seconda ondata di scorrerie e invasioni di
popolazioni esterne, in molte aree, i vescovi assunsero responsabilità pubbliche in città
provvedendo così direttamente alla difesa delle popolazioni, e dal X secolo, per sottolineare
le responsabilità pubbliche del vescovo, venne loro riconosciuta la concessione formale da
parte dell’imperatore del districtus, vale a dire il potere di costringere e obbligare. Nell’XI
secolo il vescovo agiva ormai come primo rappresentante dei suoi cittadini. Sin dalle sue
origini, egli fu espressione dei gruppi dirigenti locali delle maggior famiglie cittadine. I
cittadini si congregarono spontaneamente intorno a lui alla ricerca di una guida, di tutela e
conforto e così il vescovo divenne una figura sempre più autorevole.
Come abbiamo già detto l’impero carolingio non viene sostenuto da un’organizzazione burocratica
efficiente ma dalla capacità dell’imperatore di instaurare e mantenere saldi i suoi rapporti
vassallatici-beneficiari con i suoi vassalli e con la chiesa. Quindi questo funziona finché alla guida
dell’impero c’è una figura carismatica. Essa si esaurisce nella figura di Carlo Magno, poiché i suoi
successori non riuscirono mai a costruire una rete di relazioni adeguata per mantenere saldo il potere
centrale. Oltre all’instabilità del potere centrale si aggiungono due fattori cruciali che portano al
totale sfaldamento dell’impero:
la suddivisione dell’impero in diversi regni franchi
la sempre maggior autonomia delle aristocrazie locali
Quindi è evidente che dopo Carlo Magno l’unità politica si frammenta e si localizza. Infatti dopo il
susseguirsi di imperatori poco carismatici, nella metà del IX secolo la divisione dinastica dell’impero,
combinandosi con il rafforzamento delle signorie locali portò allo sfacimento del potere imperiale e
accentuò la frammentazione dell’ordinamento pubblico. Ma il post carolingio non è un periodo di
caos grazie alla forza gestionale del potere aristocratico locale. L’esito finale, alla deposizione di Carlo
il Grosso nell’887, fu la divisione dell’impero in più regni e l’attribuzione della dignità imperiale al
titolare del regno italico. Però, all’interno dei regni si formarono politiche quasi autonome, detti
“principati”. Infatti, gli ufficiali pubblici (conti e marchesi), inizialmente di nomina imperiale,
riuscirono a rendere ereditaria la propria funzione, riducendo la capacità di controllo dei sovrani e
l’efficacia del suo governo. Così, i conti e i marchesi si trasformarono in grandi signori e dinasti locali.
Dalla fine del IX secolo i conti e i marchesi esercitarono le loro funzioni su territori ormai differenti
dalle circoscrizioni pubbliche, perché di minore e diversa estensione, che gli storici preferiscono
chiamare contee e marchesati, che erano appunto territori dove, in seguito alla dissoluzione
dell’impero carolingio, alcuni marchesi e alcuni conti crearono una propria dominazione su cui
esercitavano poteri signorili. L’autorevolezza dei poteri locali si fondava su diversi fattori:
- l’acquisizione patrimoniale delle cariche pubbliche e la loro trasmissione ereditaria.
- il possesso di beni fondiari.
- la rete di alleanze e di clientele armate con le aristocrazie del territorio.
All’interno dei principati l’autorità dei titolari incontrò un’opposizione crescente da parte degli enti
ecclesiastici e delle famiglie aristocratiche che tra il IX e l’XI secolo iniziarono ad imitare il potere
esercitato dai conti e dai marchesi all’interno dei vari principati. In particolare, vescovi e monasteri,
ma progressivamente anche i grandi proprietari laici, ottennero dai sovrani delle concessioni di
immunità cioè il diritto di non essere sottoposti nei propri possessi alla giurisdizione dei funzionari
pubblici, come il pagamento delle imposte, la giustizia, il reclutamento dell’esercito... Si formarono
così giurisdizioni autonome nelle varie conte, nei marchesati e nei ducati.
Il regno dei franchi occidentali (la Francia), distaccato ormai dall’888 da ogni effettiva dipendenza
dal potere imperiale, subì un accentuato frazionamento causato dallo sviluppo di potenti principati.
Solo alla fine del X secolo si affermò la potenza dei conti di Parigi, che con Ugo Capeto ottennero il
titolo regio nel 987. Però, anche dopo la stabile affermazione dinastica dei Capetingi, il re Ugo Capeto
non riuscì mai ad esercitare una vera autorità su tutte le sue regioni. Infatti, il dominio del re si limitò
ai territori che riusciva a controllare direttamente, e a quelli che costituivano il suo patrimonio
personale, in una regione compresa fra la Senna e la Loira, intorno a Parigi e a Orléans. La
dipendenza dei grandi signori dal re fu poco più che formale, soprattutto nel Sud della Francia, dove
accanto ai vari ducati (Aquitania…) e contee (Tolosa…) ampiamente autonomi, si formarono due
regni di carattere regionale lungo il bacino del Rodano: quello di Borgogna e quello di Provenza, poi
assorbito dal primo.
Più instabile fu la situazione che si determinò nel regno italico, dove il conflitto per il trono fu lungo
a causa dei molti pretendenti e degli interventi dei pontefici. Territorialmente, il regno ricalcava
quello longobardo e carolingio, e continuarono ad essere esclusi i domini bizantini (Calabria, Puglia,
Lucania), arabi (Sicilia) e longobardi (ducato di Benevento) del meridione. A contendersi la corona
furono gli esponenti di quattro grandi famiglie: i duchi e i marchesi di Spoleto, di Toscana, di Ivrea
e del Friuli. Essi coinvolsero nei loro conflitti anche I re di Borgogna e di Provenza e i duchi di
Carinzia. Dopo alcuni decenni di regno di Berengario del Friuli (888-924) fu la volta di Rodolfo II di
Borgogna (924-926), di Ugo di Provenza (926- 945) e di Berengario II di Ivrea (950-961). Al titolo
di re d’Italia era connessa la dignità imperiale, con la consuetudine carolingia dell’incoronazione da
parte del pontefice. Per questo motivo, quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato di
Giovanni XII a intervenire contro Berengario II (re d’Italia), egli ricevette oltre a quella di re d’Italia
nel 961 anche la corona imperiale nel 962. Da quel momento si saldò il legame tra le corone e I re di
Germania iniziarono a scendere periodicamente in Italia per poter indossare altre corone. Si iniziò
così ad affermare la dinastia sassone degli ottoni.
Nel regno dei franchi occidentali (Germania) l’elezione di Alfonso di Carinzia(887-899), nipote di
Ludovico il Germanico, ritardò di qualche tempo la crisi dell’autorità regia, che nel caso della
Germania dovette fronteggiare la presenza di ampi ducati regionali come quello di Baviera, di Svevia
e di Sassonia. Il re, eletto dai grandi del regno, ebbe soprattutto un ruolo simbolico di giudice
supremo e guida militare. Enrico di Sassonia (919-936) acquistò prestigio organizzando l’esercito
che si oppose vittoriosamente agli ungari nel 933. alla sua morte il figlio Ottone I (936-973) fu eletto
re ad Aquisgrana e rafforzò in modo decisivo l’autorità regia. Privo di una rete ufficiale, integrò nella
gestione del potere vescovi e abati. Respinse inoltre le invasioni ungare, vinte nel 955, e avviò
l’espansione verso oriente. La sua incoronazione a Roma (962) restaurò l'autorità imperiale, ormai
incentrata sull'area tedesca. Non potendo contare su un apparato burocratico, gli imperatori della
dinastia sassone rinunciarono a emanare leggi e a esercitare la giustizia, puntando a concedere
privilegi ai propri interlocutori locali attraverso diplomi. Il rilancio del ruolo sacrale dell'imperatore
ribadì la sua funzione di protettore della cristianità: con il Privilegium del 962 Ottone I stabilì che il
papa dovesse prestare giuramento di fedeltà all'imperatore. Fu Ottone II a vagheggiare una renovatio
imperii carica di elementi simbolici di tradizione romana ed elaborata dagli intellettuali di corte,
come il teologo Gerberto d’Aurillac, che fece eleggere papa nel 999.
La perdita di autorevolezza degli ultimi imperatori carolingi fu determinata in parte anche
dall’incapacità di garantire la sicurezza del territorio dell’impero dalle incursioni che dal IX secolo
furono condotte da alcune popolazioni ad esso estranee. Questi nuovi aggressori non miravano ad
insediarsi come invece fecero le truppe barbariche ma a saccheggiare. Le prime incursioni furono
effettuate dai Saraceni provenienti dalle sponde del Mediterraneo. Questo popolo costruì degli
insediamenti fortificati dai quali potersi muovere. La Provenza, la Liguria e il Piemonte occidentale
furono particolarmente presi di mire. Solo alla fine del X secolo le scorrerie saracene andarono
esaurendosi.
Dalla fine del IX secolo cominciarono a compiere spedizioni di saccheggio in vaste regioni
dell’Europa centrale e in Italia anche gli Ungari. In Italia compirono la prima incursione nell’899,
saccheggiarono Pavia nel 924 e si spinsero fino alle ricchezze delle grandi abbazie campane nel 937.
Le loro spedizioni furono contrastate efficacemente solo quando in Occidente cominciò a diffondersi
la cavalleria leggera. Da quel momento gli ungari si stabilizzarono nel proprio territorio.
Gruppi di pirati provenienti dalla penisola scandinava e capaci di risalire il corso dei fiumi così da
depredare città e abbazie dall’interno. L’espansione scandinava si mosse su più direttrici:
Dalla NORVEGIA verso Scozia, Irlanda, Islanda e Groenlandia si mossero i cosiddetti
“Vichinghi”;
Dalla SVEZIA verso Bisanzio e l’Oriente si mossero i “Vareghi” o “Rus” (che diedero vita al
primo embrione della Russia incentrato su Kiev;
Dalla DANIMARCA si spinsero verso Inghilterra e Francia i “Normanni”, che fecero delle vere
e proprie conquiste territoriali, creando un ducato nel meridione della Francia che prese da
loro il nome di Normandia, a opera del Capo Rollone, conte e duca di Carlo il Semplice dal
911, da cui ottenne giuramento di vassallaggio.
Nel XI secolo i Normanni arrivano nel sud Italia, sono i progenitori di Federico II.
Lezione N°14: lunedì 08/11/2021
CAPITOLO 9 : L’ETÀ POSTCAROLINGIA (2)
I POTERI LOCALI
In età carolingia le grandi proprietà fondiarie si organizzarono intorno delle aziende caratterizzate
da una bipartizione funzionale. Nella riserva padronale (dominico) i lavori esano svolti dagli schiavi,
che vi risiedevano a totale carico del proprietario. Nella parte a conduzione indiretta (massaricio), i
lavori erano, invece, portati avanti da coltivatori liberi, i quali avevano l’obbligo di prestate corvees
(prestazioni lavorative gratuite) sulle terre del dominico. Questo modello prese il nome di sistema
curtense (VIII secolo) e nonostante perseguisse un obiettivo di autosufficienza, presto il surplus
agricolo venne commercializzato in centri di scambio rurale (stationes), in mercati delle città vicine
o negli emporia per gli scambi a lunga distanza. Inoltre, la progressiva riduzione del dominico a
vantaggio del massaricio, che si osservò tra il IX e l’XI secolo, non fu resa necessaria solo
dall’aumento della popolazione, ma anche dalla volontà di ottimizzare le rendite delle aziende per
ricavare più ricchezza. La divisione della proprietà fondiaria favorì l’emersione di una piccola e media
proprietà di contadini indipendenti, nelle campagne dell’Occidente europeo. Accanto ai coltivatori
del massaricio, che erano tenuti a corrispondere al padrone un canone in natura o denaro, nei villaggi
convivevano proprietari di varia estrazione sociale: piccoli contadini proprietari dei loro fondi e medi
proprietari che non coltivavano direttamente le terre e che costituivano l’élite del villaggi. La crescita
di ricchezza dei grandi proprietari terrieri, accompagnata spesso dalla loro affermazione come
signori, avvenne a spese dei contadini indipendenti. Infatti dal IX secolo tutti coloro che lavoravano
la terra con le proprie mani si ritrovavano progressivamente sottomessi al potere signorile.
Nell’età post-carolingia si affermò un sistema sociale orientato in senso aristocratico che si fondava
sugli arricchimenti resi possibili dal sistema curtense. La necessità di mantenere uniti e trasmettere
tali patrimoni determinò, tra x e Xi secolo, un’importante cambiamento nelle strutture familiari
aristocratiche, si impose cioè, il lignaggio patrilineare(famiglie formate esclusivamente dai
discendenti in linea maschile di un medesimo antenato). I patrimoni di queste famiglie aristocratiche
erano costituiti da nuclei di provenienza diversa: accanto ai terreni posseduti in piena
proprietà(allodi) si sommavano terre concesse in beneficio (o feudo) dal re o dal signore maggiore, e
poi rese ereditarie. Se la famiglia aveva dinastizzato una carica pubblica assommava anche territori
in origine appartenenti alla circoscrizione amministrativa. Intorno alle grandi proprietà, laiche ed
ecclesiastiche, vennero così affermandosi poteri di comando, di giustizia e di esazione fiscale, che
costituirono il fondamento del potere signorile. Due tendenze caratterizzarono questo potere:
- il carattere territoriale, l’estendersi cioè a tutti i residenti di una certa zona;
- la patrimonializzazione dei diritti pubblici, che in origine erano di pertinenza delle
istituzioni regie e che i signori assimilarono ai propri patrimoni privati.
La costruzione di fortezze e castelli rafforzò la fisionomia locale del potere.
Tra X e XI secolo, la natura dei poteri e dei diritti che il signore esercitava su persone e beni era molto
ampia, a cominciare dalle prerogative che erano state degli ufficiali carolingi: l’amministrazione della
giustizia, l’organizzazione della difesa militare e la riscossione delle tasse. Quando il signore
esercitava tali diritti nei limiti del suo possesso fondiario e sui suoi lavoratori, servi e affittuari, si usa
parlare di signoria fondiaria. Era più frequeste però il la signoria estesa a tutti i residenti di una
detrminata area, che potevano appartenere al signore stesso, ad altri proprietari o agli stessi
contadini. In tal caso si parla di signoria territoriale o banno.
Le tendenze alla frammentazione locale del potere, furono controbilanciate anche nell’età delle
signorie dalla trama di relazioni personali, vassallatiche, che legavano tra loro i grandi e i piccoli
signori. La rete di relazioni di fedeltà personale, costituì il vero collante della società occidentale
europea. Tra le popolazioni barbariche era consuetudine che i singoli guerrieri si legassero a un capo,
offrendosi di combattere assieme a lui in cambio di un bottino. Furono i franchi a perfezionare uno
speciale rapporto di natura personale che vincolava tra loro due individui. Il successo politico e
militare dei carolingi dipese dalla diffusione di questi legami di fedeltà armata. Il vassallo, con il
giuramento di fedeltà al signore, entrava nella clientela di un potente, impegnandosi a prestare per
lui un servizio di carattere militare. In cambio, il signore si impegnava a mantenerlo concedendogli
delle fonti di reddito, quasi sempre terre da sfruttare. Il bene concesso era chiamato “beneficio”.
Questo tipo di rapporti vassalitico-beneficiari si diffuse in tutto il territorio dell’impero carolingio a
ogni livello: il re aveva un largo seguito di vassalli e fra questi sceglieva gli ufficiali del regno per
tenerli vincolati a sé; gli aristocratici si dotavano di proprie clientele armate. Tutto questo richiese
una crescente disponibilità di terre da offrire in beneficio.
Nell'ordinamento carolingio alla morte dei titolari sia le cariche di ufficiale pubblico sia i benefici
dovevano ritornare al re che li assegnava a un’altra persona. Era però comune che i benefici e gli
uffici pubblici fossero riconfermati agli eredi del defunto. Il capitolare emanato da Carlo il Calvo
sancì che le cariche e i benefici che fossero rimasti vacanti non dovessero essere attribuiti ad altri
prima del rientro dei figli dell’ufficiale. La tendenza a rendere ereditari i benefici si consolidò tra IX
e XI secolo, fino a valere anche per i benefici minori. Nel 1037 l’imperatore Corrado II riconobbe con
l’Edictum de beneficiis (o anche noto come Constitutio de feudis) che a un vassallo non poteva essere
sottratto il beneficio senza una giusta causa.
Nelle campagne dell’Occidente europeo fu edificata una fitta trama di nuovi castelli. Questo fu per
vari motivi, come la necessità di difendersi da incursioni saracene o ungare o vichinghe, ma anche
per l’esigenza dei signori di garantirsi una base dalla quale esercitare la propria egemonia sul
territorio. I grandi proprietari utilizzarono il clima diffuso di insicurezza per consolidare il proprio
potere sugli uomini. L'incastellamento fu un fenomeno complesso: nella Francia centro-
settentrionale furono i sovrani, principi a dare vita a pochi castelli di grandi dimensioni. In Spagna
e in Italia si formò un reticolo di insediamenti medio-piccoli, costituiti dalla fortificazione di villaggi
preesistenti. La popolazione, prima dispersa nei villaggi e nelle fattorie, si concentrò nei nuovi abitati
fortificati. I castelli rafforzarono la fisionomia locale del potere; il castello attirava abitanti ed era
anche una sede di mercato. La diffusione delle signorie incentrate sui castelli favorì la formazione di
specialisti della guerra che aiutavano i potenti nell’esercizio del loro dominio e ne difendevano i beni.
Fu il servizio militare a determinare la loro fortuna: non solo figli cadetti di famiglie aristocratiche,
ma contadini agiati che possedevano armi e cavalli. Questi guerrieri furono chiamati “cavalieri”
perché erano i soli a spostarsi e a combattere a cavallo. I cavalieri furono protagonisti dei conflitti
dell’epoca, spesso compiendo violenze. Per disciplinarne il comportamento, si diffuse il movimento
delle “paci o tregue di Dio”, che mirava a imporre la sospensione delle violenze in certi periodi
dell’anno e a vietarle contro contadini ed ecclesiastici.
Lezione N°15: martedì 09/11/2021
CAPITOLO 10: LE ESPERIENZE CRISTIANE NEL PRIMO MILLENNIO
La diffusione del cristianesimo nell’impero romano, a partire dal IV secolo, fu accompagnata da
un’organizzazione sempre più ordinata delle comunità di fede, chiamate “chiese”. Esse erano
assemblee di credenti che vivevano secondo i dettami e gli insegnamenti di Cristo e si riconoscevano
reciprocamente. Tendenza di fondo fu la separazione tra i laici e il clero, dedito all’esercizio del culto
e alla gestione dei beni delle chiese, e che con il tempo divenne un gruppo sociale a se stante.
Responsabile di ogni comunità era il vescovo che ne era guida spirituale e amministrativa, affiancato
da preti e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e di amministrazione. I laici
partecipavano, insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari della comunità. Le
chiese si svilupparono nelle città e il territorio su cui il vescovo esercitava la sua influenza, cioè la
diocesi, generalmente coincideva con la circoscrizione amministrativa urbana della città di origine
romana. Dal V secolo le campagne furono evangelizzate attraverso la fondazione di chiese battesimali:
le pievi. I vescovi ottennero sempre più autorevolezza e, oltre a funzioni di guida spirituale, ottennero
anche funzioni di guida civile e politica delle città. I vescovi venivano scelti tra le famiglie che
costituivano le élites urbane, e diventarono dei punti di riferimento per le comunità, sia di cittadini
e sia di contadini. Tra IV e V gruppi di più Diocesi furono sottoposti all’autorità di un vescovo di
rango superiore, il Metropolita, che consacrava e confermava i vescovi della propria provincia. Nelle
sedi maggiori, come Roma, Alessandria, Antiochia, Gerusalemme e Costantinopoli i Metropoli
ebbero titolo di Patriarchi, grado di maggiore dignità dell’episcopato. L’organizzazione delle chiese
in ambito locale e intorno a gerarchie episcopali regionali generò presto l’esigenza di un
coordinamento fra le diverse comunità. Fino all’XI secolo, la Chiesa cattolica fu, infatti, priva di un
capo universale. In assenza quindi di un capo universale della chiesa furono i sovrani a essere i
protettori delle comunità cristiane. Ma essi non avevano il ruolo di capo gerarchici effettivo del
proprio regno, bensì quello di convocare i concili. Un ruolo centrale nella vita delle chiese fu così
svolto dalle assemblee del clero. Esse erano convocate periodicamente dai metropoliti in sede
provinciale e presero il nome di sinodi, per decidere questioni organizzative e disciplinari. Meno
frequenti erano invece le grandi adunanze, dette concili, in cui si riunivano i vescovi delle varie
provincie della cristianità. Nei concili universali, cioè ecumenici (i primi 7 concili), si riunivano i
vescovi sia d’Oriente che d’Occidente. . I concili erano convocati in genere dagli imperatori e, in essi,
si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e si emanavano le leggi
ecclesiastiche, cioè i canoni, che regolamentavano la vita della Chiesa e costituirono il diritto
canonico. Il cristianesimo dei primi secoli presentava una varietà di culture teologiche e di
interpretazioni del dogma, e ciò era l’esito dell’adattamento del messaggio cristiano da parte delle
diverse culture che lo fecero proprio. Il problema centrale fu quello di conciliare il principio del
monoteismo (la fede in un unico Dio) con la molteplicità delle persone divine (Trinità). Così, le
dispute dottrinali si concentrarono sulla definizione della natura di Cristo. Nel IV secolo si
confrontarono l’ARIANESIMO, che era la dottrina che sosteneva la natura umana e non divina di
Cristo, che era dunque inferiore al Padre, difesa da ARIO di ALESSANDRIA, e la dottrina fissata nel
concilio di Nicea del 325 (primo concilio ecumenico della storia), che sosteneva la consustanzialità
(cioè l’identità di sostanza e natura) del Figlio col Padre, promossa da ATANASIO di ALESSANDRIA.
Nel V secolo il patriarca di Costantinopoli, NESTORIO, sostenne la duplicità della natura, umana e
divina, di Cristo e si parlò di NESTORIANESIMO, mentre tra l’Egitto e la Siria si diffuse la dottrina
che sosteneva l’unicità della natura divina di Cristo e si parlò di MONOFISISMO. Gli imperatori
cercarono di salvaguardare l’unità della cristianità emanando editti e convocando concili per
formulare dogmi universalmente accettati, cioè dogmi ortodossi (→ da “retta dottrina”) e
condannare le eresie, cioè le credenze ritenute erronee perchè in opposizione alla verità rivelata da
Di oche è dunqu ortodossa cioè corretta. Così, ad esempio, con il concilio di Nicea del 325, convocato
dall’imperatore Costantino, si condannò l’arianesimo e si approvò il Credo, cioè la professione di fede
Cattolica, mentre con il concilio di Calcedonia del 451, convocato dall’imperaatore Marciano, si cercò
di trovare un compromesso tra il nestorianesimo e il monofisismo, che venne condannato. L’editto
dei Tre capitoli, cioè contro gli scritti di tre teologi, emanato da GIUSTINIANO nel 544, che
condannava il nestorianesimo, produsse una profonda spaccatura. Infatti, i vescovi occidentali,
guidati da VIGILIO di Roma che però fu obbligato a sottoscrivere l’editto, rifiutarono di aderirvi,
aprendo uno scisma tra chiesa occidentale e orientale che durò fino alla fine del VII secolo. Tra le
pratiche del culto cristiano si diffuse una speciale venerazione per i santi, per i martiri e per le figure
religiose esemplari, protagoniste dell’affermazione del cristianesimo. Inoltre, la tutela assicurata da
alcuni vescovi sulle proprie comunità li trasformò in figure di santi patroni, cioè in protettori
ultraterreni delle chiese che avevano retto da vivi. Un ulteriore elemento di protezione celeste fu
individuato nelle reliquie dei santi, che erano custodite gelosamente e furono spesso oggetto di
traffico e furti. Per tutto il Medioevo furono scritte vite dei santi e dei beati, con l’obiettivo di formare
i fedeli, ma solo in età moderna con l’agiografica (=scienza che studia criticamente la vita dei santi)
si riuscì a distinguere tra gesta (vite leggendarie) e acta (documentazione attendibile).
Accanto al fenomeno centrato sulle chiese urbane, guidate dale gerarchie sacerdotali e controllate
dall’aristocrazia, l’altra principale esperienza di vita cristiana fu quella caratterizzata dalla scelta
individuale monastica (monaco significa “solitario”), in risposta a un’esigenza diffusa di distacco dal
mondo, di rinuncia ai beni terreni e di redenzione attraverso la preghiera e l’ascesi, cioè la rinuncia
delle passioni. Le prime pratiche di ricerca di solitudine spirituale assunsero forme diverse:
- I monaci eremiti, che si ritiravano a vivere nelle necropoli, sugli alberi o nel deserto;
- I monaci cenobiti, che vivevano in comunità, appunto cenobitiche, nella condivisione della
preghiera, della penitenza, del lavoro e dell’alimentazione. A capo di queste comunità
cenobitiche vi erano gli abati.
Il monachesimo non fu caratteristico del cristianesimo delle origini ma si sviluppò solo a partire dalla
fine del III secolo in Oriente quando, soprattutto in Egitto, Siria e Palestina, alcuni cristiani si
rifugiarono a condurre una vita eremitica nel deserto. La prima comunità cenobitica fu organizzata,
in Oriente, da un monaco egiziano, Pacomio, all’inizio del IV secolo. Dopo la metà del IV secolo le
esperienze monastiche, soprattutto cenobitiche, si diffusero anche in Occidente, specialmente in
Italia, coinvolgendo anche le donne. I primi a esserne coinvolti furono i membri delle aristocrazie
urbane. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la redazione di regole che regolassero
ogni aspetto della vita dei monaci, i quali dovevano primariamente seguire l'esempio di Gesù,
mettendo in pratica i principi della povertà, castità e obbedienza. Le norme, inizialmente varie e
diverse da una comunità all'altra, furono uniformate per iniziativa dell'imperatore Ludovico il Pio,
che nel 817 dispose che la regola benedettina diventasse il testo di riferimento per tutti i monasteri
dell'Europa carolingia. I monaci furono i principali responsabili dell'evangelizzazione delle
popolazioni rurali non raggiunte dal clero urbano. Una fisionomia particolare mostrò il
monachesimo in Irlanda, che non era stata toccata né dai romani né dalle invasioni barbariche ed
era abitata da tribù guidate da sacerdoti del culto celtico (druidi). L'evangelizzazione fu avviata nella
seconda metà del V secolo da un monaco della Britannia, Patrizio. L'isola era priva di città e di una
potenziale rete diocesana episcopale, pertanto fu il monachesimo a costituire l'ossatura dell'intera
struttura ecclesiastica. Tra VI-VII sec i monaci irlandesi si riversarono nel continente europeo e
presero a fondare monasteri sottoposti a una regola più rigida di quella benedettina. Fondati dai
sovrani e dalle grandi famiglie aristocratiche i monasteri divennero destinatari di donazioni. Il
monachesimo fu un'esperienza aristocratica infatti essi per proteggere i monasteri ne fecero dei
luoghi di inquadramento della popolazione mantenendo intorno al monastero di famiglia una
consapevolezza unitaria. I monasteri non erano solo dei luoghi di preghiera ma anche dei centri di
organizzazione economica e politica delle società rurale. Intorno ai monasteri maggiori si
raccoglievano numerose famiglie di contadini che trovavano in esso protezione. Alcuni divennero
nuclei di organizzazione agricola e gli abati finirono per esercitare poteri signorili.
Rispetto all'alfabetismo delle città romane, la società occidentale dei secoli VII-XI fu una società
analfabeta. Tre furono le cause principali: la scomparsa delle scuole dell'impero tra V e VI secoli; la
cultura orale e le differenti tradizioni dei barbari accentuarono il mancato ricorso alla scrittura e
infine in nuovi assetti economici non incentivavano la produzione e conservazione dei documenti
scritti. . Leggere e scrivere serviva solo agli uomini di chiesa per accedere alle scritture e diffondere
il messaggio tutti gli altri no. Dal VI le scuole cristiane divennero luogo di apprendimento elementare,
dal VIII si diffusero scuole anche presso molti monasteri. Cosi la scrittura e la produzione culturale
divennero monopolio della chiesa. Carlo Magno promosse l'istruzione per formare i funzionari
destinati all'amministrazione e il clero impegnato nella cristianizzazione. Tre furono gli interventi
principali: la riforma della liturgia; il miglioramento della loro formazione (come la conoscenza della
grammatica latina) e la riaffermazione dell'importanza della scrittura nell'amministrazione e negli
affari politici. Le scuole furono riorganizzate ad ogni livello, le biblioteche arricchite. La corte di
sovrani si raccolse un’accademia di intellettuali detta anche schola palatina, che approfondì la
conoscenza delle opere classiche e produsse testi originali. La cultura rimase ancora, in quell’epoca,
un patrimonio di pochi.
Lo sviluppo di poteri territoriali da parte di vescovi e abati intorno alle grandi proprietà, alle fortezze,
ai diritti e alle immunità possedute dalle chiese episcopali e dai monasteri, diede vita a una fitta
trama di signorie ecclesiastiche largamente autonome. Le famiglie aristocratiche che avevano
fondato chiese e monasteri “privati” e che erano in grado di condizionare la designazione dei vescovi,
abati e chierici, cercarono di impossessarsi in maniera duratura delle cariche ecclesiastiche
rendendole ereditarie. Gli aristocratici che riuscivano a ottenerle erano però quasi sempre sprovvisti
di un'adeguata preparazione o di un'autentica vocazione. . A sua volta, il clero inferiore era in genere
incolto. La necessità di interventi di riforma fu avvertita già dai sovrani carolingi, i cui obiettivi
furono di restituire prestigio religioso alle autorità ecclesiastiche ed efficacia all'azione pastorale, in
quanto difensori della Chiesa di Roma. Infatti, I sovrani carolingi cercarono di migliorare la
formazione del clero, rafforzando la rete di scuole episcopali e monastiche. Fu istituita la decima,
cioè la tassa che prevedeva che la decima parte del raccolto e del reddito, che i proprietari e i
coltivatori pagavano, doveva andare alla Chiesa per il sostentamento del clero in cambio alle funzioni
che la Chiesa svolgeva per i fedeli. La decima era gestita dal vescovo e veniva utilizzata anche per
soccorrere i poveri. Ancora, nell’817 per volontà di LUDOVICO IL PIO, a tutte le comunità
monastiche furono estese le regole benedettine e furono poi riorganizzate anche le comunità
canonicali, formate dai preti, che vivevano secondo una propria regola, che fu anch’essa uniformata
a tutto l’impero (816). Le donne religiose furono escluse dall’amministrazione dei beni della Chiesa
e fu loro precluso ogni contatto al di fuori dei monasteri. I numerosi compiti svolti dai vescovi
nell'amministrazione dell'impero legittimarono il crescente intervento regio. Vescovi e abati
divennero organico supporto dell'autorità regia, che si assicurò la facoltà di designarli. Con il
Privilegium (962) Ottone I ribadì il controllo imperiale sull'elezione pontificia, che era già stato
sancito dalla Constitutio romana (824) di Ludovico il Pio. Da allora e fino al 1058 i papi furono tutti
legati al trono imperiale. Gli interventi imperiali rafforzarono le istituzioni ecclesiastiche ma resero
ancora più inestricabile la commistione fra ordinamenti ecclesiastici e laici. Dal X secolo si fecero
sempre più avvertite due esigenze principali di riforma: la moralizzazione dei costumi del clero e la
tutela delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze e dai condizionamenti del mondo laico. La spinta
verso il rinnovamento non si espresse in un vero e proprio progetto fino alla seconda metà del XI
secolo in quanto mancò un soggetto capace di coordinare in modo unitario le diverse istanze.
L'autorità papale, oltre che subordinata a quella imperiale, era infatti ostaggio locale delle grandi
famiglie romane che si contendevano la scelta dei pontefici. Più che in ambito vescovile, dall'interno
del mondo monastico che si avvertì la necessità di ridare prestigio e credibilità morale alla Chiesa.
Protagonisti principali furono i monaci dall'abbazia di Cluny, fondata nel 910 in Borgogna dal duca
di Aquitania Guglielmo. I monaci di Cluny elaborarono un nuovo stile di vita monastico basato sulla
specializzazione liturgica, sulle opere di misericordia e sullo studio. Il lavoro manuale fu demandato
ai servi e ai monaci conversi, cioè quei laici che, pur facendo atto di professione, e seguendo una vita
analoga a quella dei altri monaci, non avevano ricevuto gli ordini sacri. Riconoscendo il primato
papale, Cluny ottenne l'autorizzazione a porre sotto la propria autorità i monasteri che accettassero
il nuovo modo di vivere la regola benedettina e l'ordine cluniacense divenne una potenza imponente
della Chiesa riformata. Al rinnovamento monastico contribuirono anche altre esperienze
profondamente diverse da Cluny. Rifiutando di trasformare le abbazie in centri di potere, conobbero
un deciso rilancio tra X e XI secolo le esperienze eremitiche, che intendevano riprendere gli ideali
del primo monachesimo. Così, figure come Romualdo di Ravenna, e Giovanni Gualberto diedero vita
a spazi di isolamento e ascesi individuale, come Vallambrosa in Toscana e Fonte Avellana nelle
Marche. Anche nel clero secolare emersero nel corso del X secolo impulsi a forme di vita più rigorose
e spirituali. Molti vescovi (come Attone di Vercelli) si impegnarono con le opere e gli scritti per il
rinnovamento dei costumi e per l’elevazione morale e culturale del clero. Infatti, i fedeli non
accettavano l’attaccamento alle ricchezze materiali, la simonia , cioè la compravendita delle cariche
ecclesiastiche, il nicolaismo, cioè le pratiche di concubinato, i furti nelle chiese effettuati per opera
di vescovi e preti e molto altro ancora. L’offensiva moralizzatrice puntò alla deposizione dei sacerdoti
simoniaci e alla scomunica dei preti concubinari. Una forte spinta al rinnovamento venne anche dal
laicato, in particolare quello urbano. Oggetto di contestazione furono le ricchezze accumulate e
gestite dai prelati, come vescovi e abati, e il loro coinvolgimento nelle questioni temporali. Come
rimedio si iniziò a predicare l’ideale evangelico delle povertà, la rinuncia ai beni terreni e il ritorno
alla chiesa delle origini (pauperismo). La polemica si concentrò contro l’alto clero episcopale, che
tentava di controllare le chiese locali. Lotte violente si ebbero nei decenni centrali dell’XI secolo a
Firenze e soprattutto a Milano, dove il movimento popolare prese il nome di “patarìa”. La pataria fu
fondata dal diacono milanese ARIALDO. Essa non riconobbe la validità dei sacramenti amministrati
dai sacerdoti concubinari e indegni e chiese l’accesso diretto dei laici alle strutture, in assenza di
chierici adeguati a svolgere i vari compiti. Le aspirazioni dei movimenti laicali mettevano dunque in
discussione la Chiesa come istituzione, e per questo il clero riformatore smussò spesso gli eccessi dei
movimenti pauperistici, temendone la carica eversiva. Le varie espressioni della riforma, sorte in
ambito monastico, secolare e laicale, trovarono solo alla metà dell’XI secolo, nel papato, l’elemento
capace di coordinarle. L’imperatore, ENRICO III di FRANCONIA(1039-1056) sostenne l’iniziativa
pontificia, deponendo nel 1045 tre contendenti papi, appartenenti alle famiglie aristocratiche
romane, e nominando una serie di papi riformatori, il primo dei quali fu CLEMENTE II. Significativa
fu l’opera del cluniacense papa LEONE IX (1049- 1054), che chiamò a Roma alcuni dei principali
esponenti riformatori e ingaggiò una dura battaglia contro simonia e concubinato. Alla morte di
Enrico III, Niccolò II nel 1059 convocò un concilio e fissò nuove regole per l’elezione pontificia. La
scelta fu riservata ai soli cardinali, escludendo la partecipazione dei laici, compresa quella
dell’imperatore. Effetto immediato fu che la nomina di Alessandro II, uno degli ispiratori della
pataria milanese, non fu riconosciuta dalla corte imperiale.
Parola CARDINALE: dal latino cardo (cardine), il termine indicava nell’alto medioevo, i vescovi
titolari delle basiliche confinanti (cioè incardinate) con la diocesi di Roma, i preti titolari delle chiese
di Roma e i diaconi di San Giovanni in Laterano e dei rioni di Roma.
Lezione N°16: lunedì 15/11/2021
CAPITOLO 11: LA CHIESA PONTIFICIA
Con l’elezione a pontefice di ildebrando di Saona, salito al soglio pontificio con il nome di Gregorio
VII nel 1073, il processo di riforma delle istituzioni ecclesiastiche raggiunse il culmine. Il suo progetto
fu quello di imporre alla chiesa un modello fortemente gerarchizzato del corpo ecclesiastico,
escludendo i poteri laici dalla vita religiosa, con il papa come unico vertice, e la netta separazione tra
gli stili di vita laici ed ecclesiastici fondata sul celibato del clero. . La nuova struttura enfatizzava il
ruolo del papa, unico vertice della Chiesa, e minava l'autorità del potere imperiale. Gregorio VII diede
fondamento dottrinale al primato papale attraverso il Dictatus papae (1075), delineando così un
progetto di monarchia universale della Chiesa (es. solo il papa poteva convocare concili, deporre gli
imperatori, sciogliere i sudditi dall'obbedienza ai sovrani, nominare i vescovi). Egli puntò a far
riconoscere la supremazia del papato da parte di numerosi sovrani cristiani, che gli si dichiararono
vassalli. La contrapposizione tra papato e impero si focalizzò sulla designazione dei vescovi.
L'investitura era l'atto con cui il signore, ricevuto l'omaggio dal vassallo, lo “investiva” del beneficio
e, poiché ai vescovi furono riconosciute crescenti funzioni di potere, la loro nomina da parte
dell'imperatore assunse dal X-XI secolo i connotati di un investitura di poteri feudali. L'investitura
laica era ritenuta all'origine della corruzione del clero episcopale. Preoccupati di difendere le
ricchezze e l'autonomia, i vescovi si schierarono in genere con l'imperatore. Nel 1076 Enrico IV
convocò un concilio di vescovi tedeschi che dichiarò deposto papa Gregorio VII, il quale reagì
scomunicando l'imperatore e sciogliendone i sudditi da ogni obbedienza. Di fronte alle prime
ribellioni aristocratiche, Enrico IV indusse il pontefice, tramite un atto clamoroso di penitenza
(rimase per tre giorni davanti al castello della contessa di Canossa umiliandosi), a revocare la
scomunica nel 1077. Tuttavia, una volta rilegittimato, fece eleggere come antipapa l'arcivescovo di
Ravenna, Guiberto, insediandolo con la forza a Roma (1084). Salvato dai normanni, Gregorio VII
morì a Salerno nel 1085. Le tensioni tra papato e impero proseguirono per decenni. Dopo conflitti e
trattative si giunse all'accordo di Worms (1122), sottoscritto da Calisto II ed Enrico V. Esso
distingueva la consacrazione spirituale, riservata al clero, dall'investitura temporale, lasciata
all'imperatore, le cui ambizioni universalistiche erano ormai state ridimensionate. Le rivendicazioni
a una guida più efficace della Chiesa spinsero a dotare il papato, tra XI e XII secolo, di strumenti
idonei a svolgere compiti di tutela del buon funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche. La Chiesa
romana cominciò a operare come “curia” (come centro di governo). Esito generale fu il forte
ridimensionamento dell'autonomia delle chiese locali e dei poteri dei vescovi che segnò un netto
punto di svolta nel ordinamento della chiesa verso una marcata subordinazione all'autorità pontificia
anche del mondo monastico. Il papato animò anche la lotta contro i suoi nemici, guidando il
movimento crociato che dalla fine del XI secolo si propose la liberazione dei luoghi santi della
Palestina, occupati dai musulmani.
Se la lotta per la libertà delle istituzioni ecclesiastiche dai condizionamenti dei poteri laici conseguì
risultati evidenti, irrisolte rimasero invece molte delle aspirazioni per un rinnovamento della
spiritualità. Il ruolo monarchico e autoritario del papato provocò contestazioni in particolare dal
mondo dei laici, portando all'estremo la radicalità dei movimenti pauperistici e patarinici. Il potere
ecclesiastico dimostrò, dalla fine del XI secolo, un minor grado di tolleranza nei confronti delle forme
di dissenso, bollandole come “eresie”, diverse da quelle dei primi secoli, che affrontavano questioni
teologiche ed erano promosse da ecclesiastici, ma che contestavano le ricchezze, i poteri temporali
e l’indegnità morali del clero. Un’intonazione pauperistica ebbe il movimento avviato da un mercante
di Lione, Valdo, che rinunciò ai propri beni e si mise a predicare il Vangelo in lingua volgare.
Scomunicato Valdo nel 1215, i suoi seguaci sopravvissero alle persecuzioni rifugiandosi nelle valli
alpine tra Francia e Italia. Ispirazioni millenaristiche ebbe il cirstencense calabrese Gioacchino da
Fiore che predicava l’avvento dell’età dello spirito santo e la sostituzione delle istituzioni
ecclesiastiche con un nuovo ordine monastico, spiritualmente puro. Il movimento eretico più diffuso
tra XII e XIII fu quello dei catari (“puri”), che rifiutavano alcuni sacramenti come il battesimo e
l’eucarestia e che contrapponevano alla Chiesa romana una propria chiesa, con propri sacerdoti.
Contro i catari si svilupparono dure persecuzioni. Il papato reagì con crescente vigore a tutela del
dogma cattolico e del ruolo di mediazione sacrale dei propri sacerdoti. Inizialmente gli eretici furono
scomunicati con bolle ovvero lettere dal papato in maniera spirituale e temporale, scritte in latino.
Successivamente alcune decretali di Innocenzo III del 1199 li equipararono ai rei di lesa maestà,
condannandoli a morte. La lotta si inasprì nel 1208 quando venne bandita dal papa una crociata,
condotta da aristocratici contro i catari nella Francia meridionale che provocò stragi della
popolazione. Accanto allo sviluppo di un forte apparato repressivo contro gli eretici (tribunale
dell'inquisizione), la sensibilità per le nuove esigenze religiose si rivolse verso nuove forme di
religiosità regolare. Nacquero cioè ordini che diffondevano il messaggio evangelico attraverso
l'azione pastorale e caritativa, operando nella realtà sociale.
Straordinario successo e vastissima diffusione in tutta Europa ebbero gli ordini fondati da:
Domenico di Guzman che propose un ideale di cristianità ortodossa fondato su una solida
cultura teologica e sulla predicazione del Vangelo come antidoto alle suggestioni ereticali. I
frati domenicani ebbero approvata la priora regola da Onorio III nel 1216. Diversi esponenti
dell’ordine, come Tommaso d’Aquino, furono chiamati a insegnare teologia e filosofia nelle
principali università occidentali.
Francesco d’Assisi fu straordinario esempio di una vita condotta seguendo ideali di povertà,
umiltà e fratellanza. Dichiarando fedeltà all’autorità della chiesa costituì L’ORDINE DEI
FRANCESCANI, detti frati “Minori”, in segno di umiltà e sottomissione. Incoraggiata da
Francesco, Chiara d’Assisi, fondò un gruppo di sorelle, le clarisse, nel 1214. L’intransigenza
pauperistica gli attrasse i sospetti di eresia ma la sua dichiarazione di fedeltà all’autorità della
chiesa gli consentì la costituzione dell’ordine dei francescani, detti minori in segno di umiltà
e sottomissione. Infatti nel 1209 INNOCENZO III ne approvò oralmente lo stile di vita e,
dopo la scrittura della “Regula non bullata” del 1221 che non venne approvata dal papa,
ONORIO III ne approvò la regola “bullata” nel 1223.
Entrambi centrarono la propria predicazione sull’esigenza di un ritorno alla povertà evangelica, non
possedevano beni e vivevano nelle elemosine e delle offerte dei fedeli. Nel corso del XII sec anche
l’ordine monastico, in particolare quello di Cluny, fu criticato per la sua ostentata potenza e ricchezza.
In contrapposizione nacque a Citeaux un nuovo ordine, quello dei Cistercensi, guidati da Bernardo
da Chiaravalle la cui regola fu approvata nel 1119. Egli criticava lo sfarzo cluniacense, e predicava la
restaurazione della regola benedettina tramite una maggiore austerità di vita. Nel 1133 fu invece
approvata la regola dei Certosini, monaci che, pur vivendo in comunità, passavano la maggior parte
del tempo a pregare nelle proprie celle. I nuovi monasteri non erano più centri di dominio signorile
ma importanti centri di attività agricola, condotti col sistema delle grange.
Nell'impero bizantino la Chiesa continuò a dipendere dal ruolo sacrale attribuito al sovrano (vicario
di Dio sulla terra). Dal VII secolo le sedi patriarcali di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia si
ritrovarono fuori dall'impero per l'avanzata islamica, e solo quella di Costantinopoli poté appoggiarsi
all'autorità secolare. A differenza della Chiesa cattolica, le chiese locali mantennero una forte
autonomia (assenza di un vertice gerarchico). Preoccupazione costante degli imperatori fu dunque
quella di mantenere l'unità dogmatica del cristianesimo ortodosso, minacciata dalle continue
controversie dottrinali tra le chiese. Il protagonismo degli imperatori nelle controversie dottrinali e
l'aspirazione del papato a difendere la propria autonomia nei confronti di ogni potenza temporale
furono alla base del graduale allontanamento del monto religioso e culturale bizantino da quello
occidentale che si produsse tra VIII e XI secolo. Già in epoca giustiniana, l’editto dei Tre Capitoli del
544 aveva suscitato un primo scisma dei vescovi occidentali. Poi, la politica iconoclasta intrapresa
dagli imperatori, che dal 726 provocò l’immediata opposizione del papato e la fine del dominio
bizantino nell’Italia centro-settentrionale. Approfittando della crisi bizantina, il papato si appoggiò
ai franchi a cui riconobbe il titolo imperiale nel natale dell’800, in aperta concorrenza con gli
imperatori bizantini che videro intaccata definitivamente l’immagine ecumenica (universale) del
loro dominio. Inoltre, le diocesi balcaniche ed egee furono separate dalla giurisdizione romana,
segnando così la divisione tra Chiesa greca (orientale) e Latina (occidentale). L’espansione bizantina
nei Balcani acuì, tra IX e X secolo, la competizione con la Chiesa romana per l’evangelizzazione delle
popolazioni slave e bulgare. In un clima conflittuale, papa NICCOLO’ I si intromise nella scelta del
patriarca di Costantinopoli, scomunicandone nell’863 il titolare FOZIO, nominato dall’imperatore al
posto del monaco IGNAZIO. Sancendo lo scisma, Fozio accusò a sua volta di eresia la Chiesa cattolica,
condannando la questione del filioque, cioè la discendenza dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio,
che era estranea alla formula fissata dal concilio di Nicea del 325, secondo la quale lo Spirito Santo
discendeva solo dal Padre. In gioco era anche il controllo delle diocesi dell’Italia meridionale, e le
controversie dottrinarie e liturgiche, basate non solo sull’idea dello Spirito Santo ma anche sull’uso
del pane azzimo o lievitato nel rito eucaristico e sul matrimonio dei preti, ammesso in Oriente,
offrirono il pretesto per la scomunica reciproca tra il papa LEONE IX e il patriarca MICHELE
CERULARIO nel 1054. Lo scisma tra la Chiesa orientale, che da allora si proclamò “ortodossa”, e
quella Cattolica, che rivendicò il primato universale del pontefice perchè successore dell’apostolo
Pietro (→ primato petrino), non fu più ricomposto.
La storia del popolo ebraico coincise a lungo con quella del regno di Israele, fino alla definitiva
conquista dei romani nel 63 a.C. Alcune rivolte portarono nel 135 d.C. alla sua soppressione politica
e Gerusalemme fu vietata agli ebrei (prima diaspora). Con l'editto del 212 gli ebrei diventarono
cittadini romani a pieno titolo, ma le comunità restarono legate alle tradizioni mantenendo un forte
senso di identità nazionale. Gli ebrei erano considerati dai cristiani il popolo eletto ai cui profeti Dio
aveva dettato la base del Vangelo, l'Antico Testamento, e dai musulmani un “popolo del libro”. Ciò
garantì loro la libertà di culto sia nella cristianità sia nell'Islam per un lungo periodo. L'ostilità e
l'intolleranza nei confronti degli ebrei furono alimentate dal loro forte senso di identità, visto dagli
antisemiti come estraneità nazionale e religiosa. Nella cristianità l'accusa prevalente fu quella di
deicidio. La Chiesa fu perciò favorevole alla loro emarginazione dalla vita civile. Agli ebrei furono
impediti l'acquisto di terre e l'iscrizione alle corporazioni dei mestieri (le uniche attività economiche
loro consentite erano il commercio e il prestito a interesse). Il concilio lateranense del 1215 impose
loro di portare un segno di riconoscimento (un cerchio di stoffa gialla) e dal XIII secolo furono reclusi
nei ghetti. Sopratutto nelle città tedesche si verificarono, a partire dal 1096, i primi casi di sommosse
popolari antiebraiche (pogrom).
Lezione N°17: martedì 16/11/2021
CAPITOLO 13: LA DIFFUSIONE DEI RAPPORTI FEUDALI
L'aristocrazia sviluppò un sistema di rapporti fondato sullo scambio tra fedeltà militare offerta da
un vassus e impegno di protezione garantito da un senior attraverso la concessione di un beneficio.
Gli storici usano distinguere perlomeno due fasi di evoluzione di questo sistema:
Rapporti vassallatico-beneficiari → Fino al X secolo i rapporti vassallatico-beneficiari
servirono da collante dell'ordinamento pubblico. Il vassallo non poteva esercitare funzioni
pubbliche (es. giustizia) sulle terre ottenute in beneficio, che non appartenevano al suo
patrimonio ma gli erano concesse solo come compenso economico in cambio della fedeltà
militare. Solo con la dissoluzione dell'impero carolingio tra IX e X secolo le grandi famiglie
aristocratiche (conti, marchesi) resero ereditarie le cariche pubbliche e i benefici.
Rapporti feudo-vassallatici → Nel XI secolo, con lo sviluppo dei poteri signorili, tali legami si
rivelarono uno strumento utile per collegare tra loro i nuclei di poteri dispersi. Fu l'estrema
frammentazione del potere pubblico che trasformò la natura dei poteri vassallatici. Col tempo
era venuto meno l'obbligo del servizio armato, anche perché i vassalli si erano legati a una
pluralità di signori. Inoltre i benefici erano ormai incorporati nei patrimoni dei vassalli e resi
ereditari dall'Edictum de beneficiis di Corrado II (1037).
Da quel momento i rapporti vassallatici mutarono definitivamente trasformandosi da legami di
fedeltà personale di tipo militare in raccordi di tipo eminentemente politico. Anche il modo di
indicarli cambiò significativamente: il termine “feudo” venne sostituendosi a quello di “beneficio”.
Tra XI e XIII secolo la società europea fu caratterizzata da un generale processo di ricomposizione
dei poteri territoriali che il precedente sviluppo dell'ordinamento signorile aveva frammentato in
una pluralità di nuclei (laici, ecclesiastici, urbani, etc.). il principale strumento di ristrutturazione
furono le relazioni feudali. Il feudo divenne lo strumento preferenziale di concessione di diritti
pubblici e ciò consentì di coordinare intorno a nuove gerarchie quei poteri locali che l'eccessiva
frammentazione esponeva al rischio di isolamento e di conflitti. Viceversa, tali poteri poterono
inquadrarsi in rapporti di subordinazione che non intaccavano la loro autonomia. Ciò potè avvenire
perchè il feudo divenne sempre più parte del patrimonio del vassallo, ereditario e revocabile solo in
casi eccezionali di infedeltà. Dal XII secolo venne elaborato un vero e proprio diritto feudale per
regolare le varie configurazioni di rapporti feudali. Quando i principi cominciarono a dare come
benefici ai loro fedeli non solo le terre ma anche la giurisdizione su di esse, i documenti indicano tale
investitura con il termine di feudum nobile. Poteva anche avvenire che i signori locali, per legittimare
i propri incerti poteri, donassero le loro terre a un principe che gliele restituiva subito come feudi. Si
parla così di feudo “oblato”. Inoltre, per assicurarsi la fedeltà dei vassalli, alcuni principi imposero
loro di prestare un omaggio, detto “ligio”, che in caso di conflitto era considerato superiore a tutti gli
altri omaggi prestati. Il tradimento degli obblighi di fedeltà feudale tra il signore e il vassallo assunse
il nome di “fellonia”. La moltiplicazione dei legami feudali fu determinata dalla convergenza tra la
pressione dei principi territoriali e la convenienza dei signori più piccoli di raccordarsi politicamente
con i potenti. Nel XII e nel XIII secolo giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono ad
elaborare lo schema ideologico di una struttura piramidale del potere, discendente da un unico
grande centro erogatore di legittimità: il sovrano. Ad esso facevano vassallaticamente capo i principi
territoriali, che a loro volta annoveravano tra i propri vassalli i signori locali, i quali avevano come
vassalli dei cavalieri, e così via. Lo schema della piramide feudale non corrispondeva però alla realtà
ma rappresentava un modo di descrivere la gerarchia di poteri, elaborato dai giuristi a partire dal
XII secolo. Inoltre, i cavalieri non dovevano essere confuse con i vassalli. Infatti, il rapporto tra
signore e vassallo era un rapporto tra pari e lo indicava anche il rito dell’ investitura attraverso cui il
rapporto si stabiliva sin dall’età carolingia. Questo rito prevedeva infatti che sia il signore e sia il
vassallo stesssero impiedi e si scambiassero simbolicamente un bacio. L’addobbamento cavalleresco,
invece, non era un rapporto tra pari ma era una promozione sociale che un membro della nobiltà
compiva a vantaggio di un uomo di sua fiducia. Diverso era, infatti, anche il rito che prevedeva che il
future cavaliere si inginocchiasse davanti al signore, che gli consegnava la spada e il cinturone e gli
dava simbolicamente un colpo con la mano o con la spada stessa.
Le aspirazioni universalistiche del papato (di proporsi cioè come vertice politico assoluto della
cristianità e non solo come capo della Chiesa cattolica) trovarono nei raccordi vassallatici lo
strumento ideale per attuarsi. La consacrazione papale rafforzava l'autorità dei regnanti, che grazie
al legame feudale non erano costretti a rinunciare alla piena sovranità sui propri territori. Il primo
importante omaggio di fedeltà al pontefice fu prestato nel 1059 dal normanno Roberto il Guiscardo
a Niccolò II che gli infeudò i ducati di Puglia e di Calabria. Fu poi la volta di Gregorio VII che ottenne
l’omaggio vassallatico anche da parte dei re d’Inghilterra, Ungheria e Croazia. Attraverso la gerarchia
feudale il papato poteva porsi al vertice della società cristiana. Sin dall’età carolingia l’impero aveva
ricorso alle fedeltà vassallatiche per rafforzare il proprio ordinamento. Ma, fu soprattutto con la
dinastia SVEVA degli Hohenstaufen che, tra XII e XIII secolo, i sovrani tedeschi cercarono di
consolidare la propria autorità attraverso il nuovo significato politico assunto dalle relazioni feudali.
Si formò così un sistema di feudi soggetti all’autorità imperiale, che fu codificato da un testo giuridico
dell’inizio del XIII secolo, lo Sachsenspiegel (Specchio dei sassoni), che disegnava una catena di
dipendenze feudali tra il sovrano e i principi e tra questi e i signori minori. Inoltre, l’azione degli
imperatori tedeschi fu limitata dalla capacità dei principi di controllare efficacemente i propri
territori e di ciò ne era riprova l’impossibilità dei sovrani di incorporare nel proprio patrimonio i
feudi che tornavano alla corona per estinzione dei vassalli o per fellonia. Essi infatti dovevano essere
concessi ad un nuovo feudatario. A differenza dei pontefici, gli imperatori non furono in grado di
utilizzare gli strumenti feudali a sostegno delle proprie ambizioni universalistiche. In qualche caso,
furono addirittura costretti a prestare omaggio feudale ai pontefici. L’apogeo feudale pontificio fu
raggiunto da Innocenzo III che elaborò il principio che il papa riceveva da Dio sia il potere spirituale
che quello temporale e delegava l’autorità temporale ai sovrani che dovevano esercitarla sotto la sua
guida. Egli fu capace di imporre l’omaggio feudale a vari re della cristianità.
CAPITOLO 14: LA FORMAZIONE DEI REGNI
Il processo di ricomposizione territoriale che caratterizza la storia politica dell'Occidente tra XI e
XIII secolo ebbe i suoi principali protagonisti nelle monarchie, le quali furono capaci di estendere
progressivamente il proprio dominio su territori sempre più estesi e di disciplinare sotto la propria
autorità i vari poteri che vi risiedevano. Dalla frammentazione politica che era seguita all'impero
carolingio presero corpo, all'inizio del XIII secolo, regni capaci di inquadrare i dispersi poteri
signorili in una rete di vincoli che faceva capo alla figura del re (che in origine era un grande signore
territoriale). Alcune casate furono in grado di affermarsi sulle altre (tramite conquista militare o
relazioni diplomatiche e alleanze) e di presentarsi come principi superiori agli altri. I nuovi poteri
monarchici seppero differenziarsi dall'aristocrazia signorile rivendicando titoli e funzioni superiori,
elaborando nuovi contenuti ideologici, carismatici e giuridici (es. natura sacrale del potere) e
instaurando con i signori relazioni feudali che sottolineassero la loro posizione di preminenza. Gli
attributi tradizionali della regalità medievale erano: garantire la pace e la giustizia, e difendere i
deboli e la Chiesa. Le nuove monarchie li rielaborarono conferendo loro nuovi contenuti ideologici e
giuridici. Grazie alla riflessione degli uomini di Chiesa, i re rivendicarono la natura sacrale del
proprio potere. Le dinastie stabilizzarono anche il principio che assicurava la continuità dinastica e
la legittima successione. Importante fu il fenomeno che rese sia il patrimonio sia il titolo regio
indipendenti dalla persona che li deteneva. La corona divenne una nozione astratta che indicava il
complesso di patrimoni, diritti dell'autorità regia. Le relazioni feudali ebbero un ruolo centrale nel
processo di ricomposizione politica, infatti, si parla di monarchie feudali. I nuovi re se ne servivano
per affermare e mantenere la propria superiorità. Il feudo faceva riconoscere l'autorità del regno su
tutto il territorio. Le nuove dinastie regie non intesero superare la pluralità di soggetti titolari di
diritti e di poteri. Il loro ruolo fu di coordinamento politico, e si fondò sull'adozione dei rapporti
vassallatici. Per affermarsi come poteri superiori, i re puntarono anche al governo diretto del
territorio attraverso ufficiali che esercitavano poteri giudiziari e fiscali. Le monarchie si dotarono di
apparati burocratici sempre più articolati, potenziando anche le cancellerie e gli organi centrali di
governo. Gli ufficiali regi potevano agire solo nelle aree di diretto dominio della corona. Il numero di
sceriffi, prevosti, balivi, castellani, dislocati nei territori periferici del regno, tese a crescere nel tempo.
Questi ufficiali non erano vassalli del re, bensì degli stipendiati. Rispetto ai regni delle età precedenti,
dove il potere si fondava sulle relazioni personali tra il re e il popolo, la concezione del potere delle
nuove monarchie era diversa. La potestà regia era orientata sulla capacità di comando su tutti gli
abitanti di uno spazio definito. Era fondamentale il controllo del territorio, che fu perseguito
attraverso la rivendicazione di quote crescenti di giurisdizione che i signori e le comunità locali
furono costretti a cedere attraverso patti e accordi.
IL REGNO DI FRANCIA: Il regno dei franchi occidentali, dopo la dissoluzione dell'impero carolingio,
corrispondeva all'area della Gallia romana e costituiva un'area politica caratterizzata da un sistema
di principati. La dinastia dei Capetingi che aveva assunto nel 987 il titolo regio controllava infatti
solo uno dei principati territoriali in cui era frammentata la Francia dell'epoca. Il dominio diretto dei
Capetingi era limitato a un'area ristretta compresa tra la Loira e la Senna. La debolezza del potere
dei Capetingi si trasformò paradossalmente in un fattore di forza per la loro affermazione
monarchica. Proprio perché debole, il loro esercizio della regalità non era avvertito come una
minaccia effettiva dagli altri potenti locali, che lo accettavano in quanto simbolo dell'unità del regno
e di garante della pace e della giustizia. Così i Capetingi mantennero vivo il regno per tutto l'XI secolo
e posero le basi per l'aumento del proprio potere nel secolo successivo. Assicuratosi il pieno controllo
del principato reale, i Capetingi assunsero il compito effettivo di protettori delle chiese e di garanti
delle paci di mercato in aree soggette ad altri principati, così guadagnandosi il sostegno delle
gerarchie ecclesiastiche e delle città del regno. Essi seppero inoltre costruire una fitta trama di
relazioni vassallatiche con i duchi e i conti, che garantì loro la superiorità feudale. Il loro prestigio
accrebbe in tutta Europa tra XII e XIII secolo, quando la propaganda regia iniziò a presentare
l'immagine del re come un personaggio dotato di poteri taumaturgici. Fu a partire dall'epoca di
Luigi VI (1108-1137) e, sopratutto, di Luigi VII (1137-1180) che si avviò un primo deciso processo di
consolidamento delle strutture del regno. La graduale espansione del potere capetingio condusse
all'assorbimento di altre regioni, sia attraverso alleanze matrimoniali sia per via militare. Decisiva fu
la formalizzazione delle relazioni feudali tra i grandi vassalli e la corona: Luigi VII fu in grado di
promuovere la diffusione del feudo che premiava la fedeltà al re prima di ogni altra. Anche la
superiorità giudiziaria del re cominciò a essere affermata durante il lungo regno di Luigi VII: egli
divenne il punto di riferimento per la soluzione delle dispute tra i grandi signori. Luigi VII dovette
affrontare un lungo e duro conflitto con i piu potenti dei loro vicini, i Plantageneti che limitavano a
Occidente l'espansione del regno di Francia. Essi discendevano da Goffredo conte d'Angiò e da sua
moglie Matilde, figlia del re d'Inghilterra e signora dei ducati di Normandia e Bretagna. Il loro figlio
Enrico sposò nel 1152 Eleonora, signora d'Aquitania e dei Poitou e nel 1154 ricevette anche la corona
d'Inghilterra. Egli venne cosi concentrando sotto l'unica autorità un dominio vastissimo, esteso sulle
due coste della Manica e che andava dalla Scozia ai Pirenei. L'aspetto paradossale fu dato dal fatto
che Enrico era formalmente vassallo del re di Francia per il possesso di vari feudi, ma era ben piu
potente di lui, in quanto controllava la maggior parte del territorio francese. Il conflitto fu inevitabile,
ma pur perdurando a lungo si risolse nel riconoscimento della presenza minacciosa del re
d'Inghilterra entro i confini del regno di Francia. Il problema della potenza plantageneta fu risolto
da Filippo II detto Augusto durante il cui regno si ebbe la triplicazione dei territori sottoposti al
diretto controllo delle corona. La politica matrimoniale assicurò il controllo sulle aree orientali del
regno mentre con decise azioni militari furono strappate agli eredi di Enrico d'Inghilterra la maggior
parte dei territori francesi. Decisiva fu la vittoria nella battaglia di Bouvines presso Lille nel nord
della Francia del 1214 dove Filippo Augusto II sconfisse la coalizione tra l'imperatore Ottone IV e il
re d'Inghilterra, Giovanni I Plantageneto detto Senza Terra: quest'ultimo fu costretto a cedere alla
Francia tutti i possedimenti a nord della Loira. . Dopo tale vittoria Filippo II sviluppò ulteriormente
gli apparati burocratici: gli obblighi dei vassalli cominciarono ad essere redatti per iscritto e la rete
delle fedeltà feudali fu resa più gerarchica.
IL REGNO DI INGHILTERRA: Alla fine del IX secolo il re anglosassone del Wessex ALFREDO il
GRANDE (871-899) era riuscito a fermare l’espansione vichinga in Inghilterra e ad avviare
un’energica azione di govern oche fu poi rafforzata dai suoi successori. Dalla prima metà del X secolo
il regno anglosassone unificò i numerosi poteri locali presenti sul territorio dell’isola britannica. Il
regno venne infatti diviso in circoscrizioni territoriali in cui operavano gli agenti del re (sherifs),
incaricati della riscossione dei tributi e dell’amministrazione della giustizia. La società locale era
organizzata in insediamenti rurali (tuns, da cui poi town) i cui abitanti partecipavano alle corti
giudiziarie nelle quali si amministrava la giustizia. I grandi possessori fondiari (earls) svolgevano per
il re compiti di coordinamento militare su base territoriale. All’inizio dell’XI secolo (1016), si
impadronì della corona il danese CANUTO II, detto il GRANDE perchè fu capace di creare un
dominio esteso anche alla Danimarca e alla Norvegia. A sua volta, CANUTO III designò come proprio
successore sul trono anglosassone il fratellastro EDOARDO il CONFESSORE, figlio di Emma di
Normandia, eletto re nel 1042 dall’assemblea dei nobili. Il regno d’Inghilterra pervenne così ai
normanni. Infatti, attraverso una rivendicazione dinastica e per mezzo di una grandiosa opera
militare, avvenne che il duca di Normandia GUGLIELMO, dopo aver consolidato il proprio potere
nel 1042 con l’appoggio del re di Francia ENRICO I, alla morte senza figli del cugino EDOARDO il
CONFESSORE re d’Inghilterra nel 1066, che lo aveva indicato come suo erede al trono inglese, si
oppose all’incoronazione di AROLDO del Wessex. Attraversata la Manica, GUGLIELMO sbarcò
sull’isola e il suo potente esercito di cavalieri vinse le truppe sassoni nella battaglia di Hastings del
1066, dove fu sconfitto e ucciso Aroldo. Nel Natale del 1066 GUGLIELMO fu consacrato re
d’Inghilterra, con l’attributo di CONQUISTATORE, nella abbazia di Westminster. La resistenza degli
anglosassoni durò per qualche tempo ma la conquista fu completata nel 1071, ad esclusione del Galles
e dela Scozia. Guglielmo confiscò le proprietà dei sassoni uccisi e ribellI e le distribuì ai normanni
del suo seguito, riservando alla propria famiglia enormi estensioni, pari a circa un quinto dell’intero
territorio. Il Conquistatore mantenne la preesistente suddivisione amministrativa del regno in una
trentina di contee e in gruppi di villaggi posti sotto il comando di uno sceriffo con funzioni giudiziarie,
fiscali e militari. Il potere degli sceriffi era bilanciato dalla presenza di giudici itineranti che agivano
da corti d’appello. Guglielmo costruì poi molti castelli su tutto il territorio del regno, posti su unità
fondiarie (manors), che erano concesse in feudo a baroni, cioè vassalli del re, e cavalieri per lo più
normanni, cercando di impedire la creazione di signorie territoriali. Infatti, il re puntò ad uno stretto
controllo del sistema feudale e, con il giuramento di Salisbury del 1086, ribadì che la fedeltà dei
vassalli minori all’autorità regia non doveva essere eliminata. Con il censimento detto Domesday
Book, completato nel 1086, il sovrano registrò, a fini fiscali, tutte le proprietà fondiarie, i nomi dei
vassalli e il numero dei capifamiglia del regno, anche per evitare eventuali usurpazioni. Alla morte
di Guglielmo (1087) e di Enrico I (1135) i baroni scatenarono una serie di lotte interne, risolte
dall’ascesa al trono di Enrico II, primo re della famiglia dei Plantageneti capace di riaffermare il
potere monarchico:
Cercò di recuperare i diritti regi sul demanio;
Fece abbattere molti castelli signorili e esentò i baroni dal servizio militare (così da diminuire
il peso militare dell’aristocrazia);
Rafforzò l’obbligo degli sceriffi di versare i proventi fondiari e fiscali delle loro contee nella
camera dello Scacchiere, organismo centrale della tesoreria;
Nelle assise di Clarendon del 1164 emanò delle disposizioni (Costituzioni) che rivendicavano
alla corona il pieno esercizio dell’autorità giudiziaria, cercando di sottomettere alla giustizia
regia anche il clero, ledendo il suo privilegio di immunità. Tale decisione aprì un conflitto
durissimo con il papa Alessandro III e l’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, già
cancelliere della corona e a capo del clero inglese, che fu costretto all’esilio in Francia e poi
assassinato misteriosamente nel 1170, evento che costrinse il re a fare qualche concessione
alla chiesa ma che non ostacolò la giurisdizione regia, che ne uscì comunque rafforzata.
Enrico II lasciò dunque ai suoi eredi una struttura politica organizzata che aveva il re al suo vertice,
tali conquiste conobbero un forte regresso con i suoi successori come Riccardo Cuor di Leone, spesso
assente a causa delle crociate e delle guerre in Francia, che lasciò nuovamente spazio alle
rivendicazioni della nobiltà; e Giovanni Senza Terra, deposto dal papa per contrasti con l’arcivescovo
di Canterbury e sconfitto a Bouvines nel 1214, costretto poi a concedere nel 1215 la Magna Charta
Libertatum (Grande carta della libertà) che ridefiniva i rapporti tra il sovrano e i sudditi e che
obbligava il sovrano a rispettare l’approvazione o negazione dei nobili, del clero e delle comunità
mercantili cittadine, nel caso di nuove imposizioni fiscali = a tale fine fu formato un consiglio (magna
curia) di 25 baroni che avrebbero dovuto assistere il re nel governo del regno.
L’ITALIA MERIDIONALE: L'Italia meridionale tra X e XI secolo appariva caratterizzata da una forte
frammentazione politica:
In ciò che rimaneva del ducato longobardo di Benevento si erano sviluppate due entità
autonome, il principato di Salerno e la Contea di Capua, mentre Benevento si era data alla
Chiesa di Roma;
Il dominio bizantino si limitava alla Puglia e alla Calabria;
Città costiere come Gaeta, Napoli, Sorrento e Amalfi erano autonome e a capo di piccole
contee;
La Sicilia era in mano agli arabi da più di un secolo.
In questo clima di frammentazione i principi longobardi e bizantini in guerra tra loro chiamarono
numerosi cavalieri provenienti dal ducato di Normandia, nel giro di pochi decenni alcuni
avventurieri normanni riuscirono a costituire piccoli domini, come ricompensa per i servizi militari
prestati inserendosi nella rete dei poteri locali come signori territoriali22. Il culmine della conquista
di territori da parte dei normanni avvenne nel 1059 quando strinsero con Nicolò II a Melfi un accordo
per il quale in cambio della sottomissione feudale al papato veniva conferito a ROBERTO
D’ALTAVILLA DETTO IL GUISCARDO (l’Astuto), il titolo di duca di Puglia e di Calabria e l’appoggio
alla conquista della Sicilia musulmana. L’accordo di Melfi garantiva al papato un prezioso aiuto
alleato nello scenario del Mediterraneo e, a sua volta, come vassallo del papa, ROBERTO IL
GUISCARDO assicurava un’alta legittimazione al proprio dominio, che iniziava a proporsi come una
grande potenza. Sotto la sua guida infatti, i normanni occuparono la quasi totalità dell’Italia
meridionale, conquistando Calabria, Puglia e le città di Amalfi e Salerno. L’azione di Roberto il
Guiscardo mise fine alle presenze longobarde e bizantine in Italia. Egli tentò anche una spedizione
contro la Grecia bizantina dove trovò la morte nel 1085. Il fratello RUGGERO avviò la conquista della
Sicilia nel 1061, che si prolungò per un trentennio, terminando nel 1091 con la presa di Noto. Ai suoi
sostenitori RUGGERO concesse in feudo piccolo domini, riservando alla sua famiglia il controllo
della maggior parte dei territori occupati e, per questo, RUGGERO fu detto ”il GRANCONTE”.
Inoltre, papa URBANO II gli concesse nel 1098 l’autorità di legato apostolico, con il compito di
ridefinire le circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola, profondamente islamizzata, e di nominarvi i
titolari delle sedi vescovili per riuscire a diffondere il cristianesimo. A differenza della conquista
dell’Inghilterra che puntava ad un regno già organizzato, la conquista normanna del Mezzogiorno
italiano dovette dar luogo alla costruzione di una nuova monarchia. Fu il figlio di Ruggero il
Granconte, Ruggero II, a riunificare i diversi principati normanni, raccogliendo l'eredità dell'ultimo
duca di Puglia e Calabria nel 1127, nonostante l'opposizione di Onorio II. Apertosi lo scisma tra
Innocenzo II e Anacleto II, Ruggero si schierò con l'antipapa, dal quale ottenne nel 1130 il titolo di
re di Sicilia (unzione sacra). Il suo regno si fondava, come in Inghilterra, su un'efficente
organizzazione feudale. Ruggero II perseguì inoltre una politica espansionistica in Africa e in Grecia,
che lo porto alla conquista di Gerba (1135), Tripoli (1146) e Corfù (1147). Il controllo della fedualità
e il contenimento degli sviluppi urbani, che ne mortificò le autonomie, accrebbero le tensioni che
esplosero in rivolte da parte dei baroni e delle città dopo la morte di Ruggero II (nel 1156-1157 e 1160-
1161). Esse furono fronteggiate dal successore Guglielmo I, detto Malo (1154-1166), per mezzo di
decise repressioni. Alla morte di Gugliemo II (1166- 1189) senza eredi maschi la corona passò a
Costanza, figlia di Ruggero II, che avendo sposato l'erede al trono imperiale Enrico degli
Hohenstaufen (incoronato nel 1191), portò in dote il regno di Sicilia alla dinastia sveva. Alla morte
del conte di Lecce Tancredi d'Altavilla, che i baroni siciliani avevano eletto re, Enrico IV si impadronì
del regno nel 1195, procedendo all'annientamento del gruppo dirigente normanno.
Lezione N°18: lunedì 22/11/2021
CAPITOLO 15: L’ESPANSIONE ARMATA DELLA CRISTIANITÀ
Oltre alle nuove monarchie normanne, fuori dai confini dell’impero si creano delle monarchie dopo
un’espansione armata della cristianità europea verso diversi luoghi geografici come l’estrema Europa
orientale, e verso altre aree del mediterraneo. Nella penisola iberica la riorganizzazione monarchica
si svolse in relazione con il grande movimento di reconquista da parte dei cristiani dei territori
conquistati dai musulmani. Nell'ambito del più generale moto di espansione dell'Europa dei secoli
XI-XIII, la riconquista trasse una spinta ideale dalla lotta per la cristianizzazione delle regioni
islamizzate e per questo godette dell'appoggio del papato. Essa, frutto dell'iniziativa di dinasti locali,
diede vita non a un regno unitario ma a una pluralità di organismi minori che inglobarono nuovi
territori (es. Regno di Castiglia e León, regno di Aragona). Alla base della reconquista era la crisi
generale del mondo musulmano. Come la Sicilia, anche il regno dell'"al-Andalus", alla morte del
califfo Al-Mansur nel 1002, si era frammentato in un pulviscolo di signorie territoriali (taifas) che
proliferarono dopo la sua definitiva dissoluzione nel 1031. L'IX secolo vide l'avanzata degli eserciti
cristiani verso sud, fino alla conquista di Toledo nel 1085 da parte del re di Castiglia e León Alfonso
VI, che vi trasferì la capitale. Per reazione il califfato fu conquistato dalla dinastia berbera degli
Almoravidi nel 1086, la cui robusta organizzazione politico-militare frenò l'avanzata cristiana. La
seconda fase della reconquista riprese solo verso la fine del XII secolo, lungo tre direttrici principali
corrispondenti all’espansione dei regni di Portogallo, Castiglia e Aragona. Decisiva si rivelò la vittoria
degli eserciti cristiani uniti a Las Navas de Tolosa, presso Cordova, nel 1212, che aprì la strada alla
riconquista delle principali città, per mano di FERDINANDO III DI CASTIGLIA, e delle isole Baleari,
per iniziativa di GIACOMO I D’ARAGONA. I regni cristiani iberici dovettero affrontare, al proprio
interno, problemi analoghi a quelli che nelle monarchiche europee definivano i rapporti fra un potere
regio in via di affermazione e un’aristocrazia resa sempre più potente dalle rendite militari. Nel regno
di Castiglia e Léon, ALFONSO VI puntò sulla sacralizzazione del potere monarchico per riuscire ad
esaltarne l’autorità. Egli si proclamò “imperatore” di tutta la Spagna, ottenendo il riconoscimento
dal re di Aragona. Poi, ALFONSO VII riuscì a imporre alla nobiltà una serie di prestazioni collettive
e a subordinare i benefici dei vassalli alla prestazione dell’omaggio al re. Nel corso del XII secolo le
città riconquistate e i centri di nuova fondazione ricevettero dai sovrani franchigie (esanzioni) (cartas
de poblàcion) e privilegi (fueros) che prevedevano consigli municipali liberi dall’influenza della
nobiltà.
Mentre in varie regioni dell’occidente, la riconquista politica fu promossa dall’affermazione dei regni,
fra XII e XIII secolo l’area imperiale, e soprattutto il regno germanico e l’Italia centro- settentrionale,
rimasero caratterizzate da una notevole frantumazione locale dei poteri. L’impero non riusciva a
proporsi con la medesima capacità delle altre monarchie come una struttura di inquadramento del
territorio, a fronte della forza persistente di signorie territoriali, principati, città e delle comunità
alpine. La debolezza dell’impero derivava anche dalla mancata affermazione del principio di
ereditarietà della corona. Infatti, il titolo regio, a cui era connessa la dignità imperiale, era elettivo e
la nomina degli imperatori continuava a essere soggetta all’approvazione dell’assemblea dei principi.
Dopo la morte dell’imperatore ENRICO V nel 1125, la lotta per la corona si polarizzò tra la casata dei
duchi di Svevia e quella dei duchi di Baviera. Fu solo l’elezione a re di Germania, nel 1152, di
FEDERICO I di Svevia, noto con il nome di FEDERICO BARBAROSSA, discendente per parte di
madre della casata bavarese, a ricomporre il dissidio che lacerava l’aristocrazia germanica.
FEDERICO I (imperatore dal 1155 al 1190) incrementò i domini della casata degli Hohenstaufen,
concentrati nelle regioni sud-occidentali della Germania, affidandoli all’efficiente amministrazione
dei propri ministeriali, cioè funzionari di provata fedeltà di origine servile a cui i principi e i signori
affidavano il governo della propria casa e l’amministrazione dei beni fondiari. Anch’egli e i suoi
successori utilizzarono i legami feudali per consolidare il potere monarchico, ma l’impossibilità di
inglobare nel patrimonio della corona i feudi vacanti, li costrinse a rafforzare la nobiltà con costanti
concessioni di terre e diritti. Inoltre, le frequenti assenze dalla Germania degli imperatori li indussero
a riconoscere con sempre maggiore frequenza la piena sovranità territoriale dell’aristocrazia.
FEDERICO II (1212-1250), per esempio, concesse ampi poteri ai vescovi nel 1213 con la Bolla d’oro
e ai principi nel 1231, con lo Statutum in favorem principum, tra i quali il divieto ai loro sudditi di
potersi appellare alla giustizia dell’imperatore. Grande importanza nella storia tedesca ebbe anche il
movimento di espansione territoriale verso l’Europa Orientale, abitato ancora da popolazioni pagane.
Dalla metà del XII secolo furono soprattutto i principi di Sassonia e Baviera a prendere l’iniziativa
militare lungo le coste del Baltico e nelle regioni meridionali della Boemia e delle Alpi orientali. Agli
inizi del XIII secolo, protagonisti della cristianizzazione forzata di queste aree furono soprattutto gli
ordini monastici dei cavalieri teutonici e dei portaspada, fondati nel 1198 e 1202 (fine XII e inizio
XIII secolo). Nei territori conquistati verso oriente si formarono nuove signorie ad opera dei nobili
e dei cavalieri tedeschi o di dinasti locali. Al seguito degli eserciti e dei missionari, fu massiccia la
migrazione di contadini attratti dall’abbondanza di terre e dalle favorevoli condizioni di
insediamento. Furono così fondati migliaia di villaggi e numerose nuove città.
Uno degli aspetti del rinnovamento religioso del XI secolo fu la diffusione crescente della pratica del
pellegrinaggio nei luoghi sacri della cristianità. Il pellegrinaggio a lungo raggio veniva affrontato da
uomini di ogni condizione sociale, per devozione, per adempiamento di un voto, per espiazione dei
peccati. Dalla metà del XI secolo si consolidò anche l'uso da parte dei pontefici di ocncedere
l'indulgenza, cioè la remissione dei peccati a chi partecipasse alla reconquista armata della penisola
iberica contro i musulmani. Si sanì così l'idea di difendere la fede cristiana con le armi. Il
pellegrinaggio armato acquistò dimensioni imponenti nel momento in cui fu indirizzato alla
liberazione della Terrasanta, cioè dei luoghi in cui era nato e vissuto Gesù, che erano stati occupati
da seocli dagli infedeli. Si sancì così l'idea di dinfedere la fede cristiana con le armi.
Prima crociata (1096-1099) → papa Urbano II esortò ad avviare una spedizione armata
finalizzata alla liberazione della Terrasanta, che si concluse con la conquista di Gerusalemme.
Nei territori conquistati furono costituiti vari regni cristiani (quello di Terrasanta, il
principato di Antiochia, la contea di Edessa e quella di Tripoli), che tuttavia non furono in
grado di resistere a lungo di fronta alla reazione musulmana.
Seconda crociata (1145-1149) → la perdita di Edessa nel 1144 indusse il re di Francia a
promuovere una nuova spedizione, sostenuta dal papa e dal predicatore Bernardo di
Chiaravalle, che però si risolse in un nulla di fatto. Pochi decenni dopo di formò una nuova
potenza islamica tra Egitto e Siria, sotto il dominio del sultano Salah ed-Din Yusuf (Saladino),
che riconquistò quasi tutti i territori occupati dai cristiani ed entrò trionfalmente a
Gerusalemme nel 1187.
Terza crociata (1189-1192) → una nuova spedizione fu guidata direttamente dall'imperatore
e dai re di Francia e di Inghilterra. Anche questa volta i risultati militari furono scarsi per le
divisioni tra i sovrani: Gusalemme rimase in mano musulmana e i cristiani si arroccarono in
alcuni centri fortificati sulle coste (fu sancita la fine sei regni crociati). La riconquista
musulmana di San Giovanni d'Acri, nel 1291, segnò la fine della presenza crociata in Oriente.
Pur basandosi sull’idea della “militia Christi”, cioè della lotta contro i nemici della cristianità, le
prime spedizioni cristiane erano prive di un disegno organico. Questo disegno organico fu sviluppato
solo a partire dal pontificato di INNOCENZO III (1198-1216) durante il quale fu messa a fuoco l’idea
di crociata. In precedenza infatti, le spedizioni militari in Terrasanta erano state indicate nei termini
di pellegrinaggio e di viaggio di oltremare. Ma, a partire dalla fine del XII secolo, si diffuse l’idea di
crociata per indicare le azioni militari dirette sia alla difesa dei luoghi della cristianità e sia alla
repressione dei suoi nemici interni, in primo luogo gli eretici. Innocenzo III, per esempio, indisse nel
1208 una crociata, nota con il nome di crociata contro gli albigesi, contro i catari, considerati eretici,
della Francia meridionale. Questa crociata fu condotta dagli aristocratici del nord della Francia,
guidati da SIMONE DI MONTFORT, e terminò nel 1129. Le crociate divennero un aspetto costante
della vita dell’Occidente. I crociati, cioè coloro che portavano una crocie rossa sulle vesti in segno di
riconoscimento, potevano partire individualmente o aggregandosi alle spedizioni minori che ogni
anno si dirigevano verso la Terra Santa e verso l’est europeo. Le cruciate però non si nutrirono solo
di ideali religiosi e di interessi politici, ma offrirono anche occasioni di arricchimento ai mercanti,
che si insediarono nelle città costiere degli stati crociati per incrementare i propri commerci. Furono
soprattutto gli interessi dei mercanti italiani a colpire a un certo punto anche l’impero bizantino.
Quarta crociata (indetta da Innocenzo III nel 1198 contro i musulmani in Terra santa, ma in
realtà risolta nel saccheggio di Costantinopoli nel 1204) → temendo per un peggioramento
delle condizioni di commercio a Bisanzio, i mercanti veneziani offrirono ai crociati di
trasportarli in Oriente in cambio di una spedizione contro Costantinopoli. Anziché puntare a
Gerusalemme i crociati si spartirono con i veneziani i territori dell'impero, dando vita
all'Impero latino d'Oriente (1204-1261).
Dopo questa impresa, a cui seguirono altre quattro spedizioni nel rìcorso del XIII secolo, il
movimento crociato esaurì gli ideali religiosi originari e si dimostrò incapace di realizzare gli
obbiettivi militari. A ciò si associò anche la crescente intolleranza dei musulmani nei confronti dei
pellegrini e dei mercanti occidentali.
Protagonisti della grande espansione crociata tra XI e XIII secolo furono i cavalieri che non devono
essere confuse con i vassalli. Fino al XIII secolo la cavalleria fu una professione praticata da persone
appartenenti a gruppi sociali molto diversi. Infatti, intorno al Mille i milites (guerrieri a cavallo)
potevano avere umili origini e potevano anche essere servi che difendevano il proprio signore con le
armi. Tra XI e XII secolo il mestiere di cavaliere si specializzò e con questo termine si indicarono solo
“professionisti della guerra”. Il costo elevato delle armi fece si che la cavalleria divenne un’élite
sociale, mentre il prestigio dell’attività di cavaliere indusse un numero sempre più elevato di persone
di alto rango a intraprendere il mestiere delle armi. Le disposizioni regie, emanate tra XII e XIII
secolo, conferirono privilegi giuridici ai cavalieri e ai loro figli, e resero così la cavalleria una cerchia
di famiglie giuridicamente superiore agli altri. Così, la nobiltà utilizzò progressivamente la dignità
cavalleresca per differenziarsi dagli altri gruppi sociali. Ad accrescere il rango dei cavalieri contribuì
la definizione di un nuovo modello etico elaborato dagli uomini di chiesa per disciplinarne il
comportamento violento. Dall’XI secolo furono infatti promosse dai vescovi le “paci di Dio”, cioè
assemblee durante le quali i cavalieri giuravano di astenersi da violenze ingiustificate e di non usare
le armi in certi periodi dell’anno. I cavalieri erano dunque parte integrante della società del tempo
nella quale si distinguevano tre gruppi: coloro che pregavano per la salvezza dell’anima di tutti, cioè
gli oratores, coloro che combattevano per la difesa della società, cioè I bellatores, e coloro che
lavoravano per la società, cioè i laboratores.
Lezione N°19: martedì 23/11/2021
CAPITOLO 12: LA CRESCITA DEMOGRAFICA, ESPANSIONE AGRARIA, E
SVILUPPI DEI COMMERCI
A partire dal IX-X secolo iniziò un po' ovunque nell’Occidente europeo una lunga fase di incremento
demografico destinato a durare fino a tutto il XIII secolo. Secondo alcune valutazioni la popolazione
crebbe da 23 milioni di abitanti intorno all’anno 700 a circa 42 milioni intorno al 1000. Alla crescita
contribuirono:
- la scomparsa delle grandi delle grandi epidemie dalla metà del VIII secolo;
- aumento della natalità;
- allungamento dell’aspettativa di vita.
Ciò fu possibile grazie al miglioramento delle condizioni di vita, a cominciare dall’alimentazione (più
ricca di vitamine e proteine).
L’indizio più significativo dell’aumento della popolazione che ci arriva dall’archeologia, è la
fondazione di nuovi villaggi nei secoli XI-XIII (arrivarono ad essere ben 150.000 villaggi). L’aumento
della popolazione fu un fenomeno comune a tutta l’Europa diversi furono i ritmi di incremento a
secondo delle aree e delle condizioni di partenza in Italia e in Francia, dove la rete umana aveva
origini romana, e nelle Fiandre la densità fu maggiore. Più scarsa fu invece in altre regioni come la
Spagna, la Germania, L’Inghilterra e l’Europa Scandinava e Orientale.
La crescita della popolazione andò di pari passo con l’estensione delle coltivazioni. Condizione
favorevole fu il miglioramento naturale del clima europeo che nei secoli a cavallo del mille fu più
dolce rispetto al periodo precedente. I limiti tecnologici del tempo, nonostante alcuni progressi,
resero però determinante per l’incremento della produzione agricola l’ampliamento delle superfici
coltivate avviato tra il X e il XI secolo e che ebbe il suo culmine nel XII. Un po' ovunque, la superficie
dei campi guadagnò terreno sui boschi, sugli sterpi e sui pantani. Si diffuse un vasto fenomeno di
occupazione delle terre, di dissodamenti e di colonizzazioni. Negli ambienti più isolati e disabitati
furono inviati dei coloni per coltivare nuove terre e si svilupparono i nuovi centri di insediamento,
chiamati “ville nuove” e “borghi franchi”, che attiravano contadini con la promessa di esenzioni
fiscali. L’iniziativa fu promossa dai grandi principi territoriali, dai signori laici ed ecclesiastici e,
successivamente, dalle città. Inoltre, anche il miglioramento degli strumenti di lavoro e
l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione favorì l’espansione dell’agricoltura. I progressi
principali si ebbero nell’aratura. A partire dal XII secolo fu introdotta la rotazione triennale delle
terre, che mette a riposo una parte dei campi, detta maggese, ogni 3 anni anziché due, accrescendone
la fertilità. Pur rinnovando profondamente l’economia agraria e l’aspetto delle campagne europee,
espansione agricola a cavallo del Mille, non superò però il problema dell’approvvigionamento
alimentare. La carestia fece la sua comparsa nel IX secolo e rimase una preoccupazione costante
anche nei secoli successivi. La produttività dei terreni, infatti, non crebbe molto, a causa della
scarsità di concime e così fu perseguita la coltura estensiva, soprattutto di cereali, e di colture
specializzate (vino, lino, cotone). Ciò avvenne però a sfavore delle varietà di coltivi tipiche del sistema
curtense, funzionale all’autosussistenza della singola famiglia Contadina. Ciò portò a una minore
ricchezza e varietà dell’alimentazione, che fu aggravata da annate sfavorevoli. L’espansione
demografica determinò anche profonde trasformazioni nella struttura della proprietà e
nell’organizzazione del lavoro agricolo. La crisi del sistema curtense, avviata nel X secolo, si accentuò.
Il dominio,cioè la terra gestita dal signore attraverso i propri servi, scomparve tra il XI e il XII secolo
e fu frazionato tra i contadini, rimanendo però nelle mani di un unico proprietario. Così, le aziende
si trasformarono e i campi furono tutti concessi in affitto e anche le corvèes cui i contadini erano stati
tenuti scomparvero sostituite da canoni di denaro. Così, il numero di coltivatori concessionari di
terre aumentò, grazie a contratti più elastici di lunga durata che prevedevano risarcimenti di denaro
o in natura. L’affitto incoraggiava i contadini a produrre di più e meglio, e permetteva al proprietario
di aumentare la propria rendita fondiaria. Infatti, le differenziazioni già presenti nella società rurale
si accentuarono. Resi più autonomi, i coltivatori più intraprendenti approfittarono dell’aumento
della produzione agricola e della sua commercializzazione, accumulando ricchezze. Inoltre, grazie
alla lunga durata degli affitti e all’esiguità del canone, essi poterono consolidare i diritti sulla terra
che lavoravano, maturando su di essa una sorta di diritto di possesso (“dominio utile”), che
consentiva loro di lasciarla in eredità o di alienarla perché il proprietario ne manteneva il “dominio
diretto”, riconosciuto dal pagamento di un affitto periodico.
Già nel sistema curtense si era manifestata la capacità dei grandi proprietari fondiari di indirizzare
la raccolta agricola alla vendita dei sovrappiù produttivi. L'aumento delle rendite fondiarie e della
conseguente disponibilità di spesa da parte delle famiglie aristocratiche si tradusse in una domanda
di beni e servizi che creò nuovo reddito nei settori delle produzioni manifatturiere. Lo sviluppo
economico ebbe origine nelle campagne. Da un’economia basata esclusivamente sulle rendite agrarie
si passò progressivamente a un’economia trainata dagli scambi. Merito dei signori fu anche quello
di investire in infrastrutture che favorirono lo sviluppo commerciale delle campagne. Assicurando
protezione e tutelando i movimenti delle persone e delle merci, i poteri signorili incentivarono la
diffusione degli scambi e trassero profitto dalla vita economica del territorio sottoposto alla loro
giurisdizione. Tornò a essere curata anche la rete delle vie di comunicazione terrestri e acquee. Il
trasporto sull’acqua restò + facile di quello terrestre. Furono sfruttate le potenzialità dei bacini
fluviali, creando approdi, ponti e canali. Lungo le vie di comunicazione si moltiplicarono i luoghi di
scambio e di mercato. Nei villaggi, nei borghi, nei porti fluviali si creò una rete di mercati periodici
che costellò molte regioni. L'espansione degli scambi fu sostenuta da una crescente disponibilità di
moneta. Alla riforma monetaria di età carolingia fece seguito la proliferazione di zecche e la
moltiplicazione di emissioni di denaro. Nell'Europa del nord la domanda di moneta fu soddisfatta
dallo sfruttamento delle miniere d’argento della Sassonia avviato al tempo di Ottone I.
Fenomeno connesso alla crescita demografica, agricola manifatturiera e commerciale fu quello dello
sviluppo urbano che caratterizzò un po tutte le regioni europee a partire dai secoli X-XI. Il fenomeno
cittadino fu conseguenza diretta della crescita della popolazione e l'intensità dell'urbanizzazione
corrispose alle regioni a più alta densità demografica. L'intensità dell'urbanizzazione dipese in parte
anche dall'eredità romana. Infatti, nella Francia meridionale e in Italia la continuità degli
insediamenti non venne mai meno e le città conservarono l’antica importanza rispetto al territorio
circostante. Invece, l’urbanizzazione fu minore nelle aree dove la presenza romana era stata
superficiale o del tutto assente. Le maggiori città europee erano concentrate in prevalenza nelle
regioni delle fiandre e dell'Italia settentrionale che erano diventate il fulcro di commerci a lungo
raggio di imponenti attività di bonifica e canalizzazione. La fitta rete di centri urbani disposti intorno
al bacino fluviale del Po lungo la via Emilia e nella Toscana centrosettentrionale costituiva il vero
cuore urbano del continente. La fioritura urbana fu l'esito della rinascita di molte città antiche, dopo
la crisi dell'alto medioevo. Caratteristica comune dello sviluppo urbano fu la sua stretta connessione
con le attività commerciali. I mercanti e gli artigiani vi acquisirono un peso politico rilevante che gli
affiancò all'aristocrazia legata alla terra. Era questa una significativa differenza rispetto alle città
romane. La forte espansione urbana trasse la sua forza dalla continua immigrazione verso le città. Il
fenomeno coinvolse i diversi gruppi sociali, innanzitutto i contadini poveri. La residenza stabile in
città rendeva i suoi abitanti dei cittadini differenziati per condizione economica e status giuridico dai
lavoratori della terra e dell'aristocrazia signorile. Mentre le città italiane erano quasi tutte di origine
romana quelle del nord si erano sviluppate di recente intorno a borghi, porti e mercati, abitate quasi
esclusivamente da mercanti e artigiani(borghesi), l'articolazione sociale delle città italiane era molto
più varia. Le città italiane tradussero la propria influenza sulla campagna in un vero e proprio
dominio territoriale costituendo dei stati cittadini.
I progressi tecnologici non riguardano solo le coltivazioni agricole ma anche altri settori. Intenso fu
lo sviluppo delle tecniche di estrazione e di lavorazione dei metalli, per la manifattura degli strumenti
agricoli e delle armature per i cavalieri. Nelle campagne si diffuse dal XI secolo il mulino ad acqua,
che divenne poi un elemento tipico del paesaggio rurale che consentì di utilizzare l'energia idraulica
per molte attività. L'attività manifatturiera si intensificò nei villaggi, nei domini e nelle città. Nelle
città si svilupparono gruppi di artigiani specializzati, organizzati in corporazioni. La più ampia
disponibilità di beni incrementò le attività commerciali. Gli scambi locali e regionali furono rafforzati.
I mercati dei centri rurali e delle città cominciarono a interagire con la ripresa dei grandi commerci
a lunga distanza. Diverse regioni europee si trovarono a essere collegate tra loro da scambi
commerciali che erano sostenuti da una crescente domanda di beni alimentata dai consumi
aristocratici e urbani. Per la posizione geografica al crocevia dei flussi di scambio tra oriente e
occidente e tra nord e sud dell'Europa, i mercanti italiani furono gli iniziali protagonisti
dell'espansione commerciale. Nell'Europa del nord i traffici gravitavano intorno al mare del nord e
al baltico. Per la favorevole posizione geografica conobbero importanza dal XII le fiere che si
tenevano a rotazione bimestrale in sei centri della Champagne, dando vita a una sorta di mercato
permanente lungo tutto l'anno.
CAPITOLO 16: LA RICCHEZZA ECONOMICA
L’incremento di popolazione che si era avviato dal IX-X secolo, e che aveva già assunto dimensioni
consistenti nel corso dell’XI-XII secolo, divenne impetuoso nel corso del XIII secolo. La curva della
crescita demografica, che aveva invertito verso l’alto la sua direzione tra il VII e il VII secolo,
raggiunse il suo culmine tra il XIII e il XIV secolo. La popolazione dell'Occidente europeo crebbe a
circa 42 milioni intorno al 1000 e raggiunse i 73 milioni intorno al 1300. La crescita demografica era
l’effetto combinato dell’assenza di gravi epidemie e del migliorato sistema alimentare, frutto
dell’espansione dei coltivi e dei progressi dell’agricoltura, che ridussero la mortalità infantile e
garantirono un allungamento della vita media. L’indicatore più evidente di questa crescita
demografica fu l’incremento della popolazione urbana, che spinse masse crescenti di popolazione
rurale (contadini, proprietari terrieri...) a risiedere nelle città. Tuttavia, la maggior parte della
popolazione europea rimase insediata nelle campagne. L’incremento della popolazione urbana
comportò però il calo della manodopera rurale e una crescita del fabbisogno alimentare delle città,
che le nuove tecniche agricole, seppur migliorate, non erano in grado di fronteggiare. Ciò spinse i
proprietari terrieri a mettere a coltura terre marginali e meno fertili, perchè più esposte alle
variazioni del clima. L’equilibrio tra il numero di uomini e le risorse disponibili su ruppe, e la
popolazione, in crescita da secoli, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, smise di crescere e, in
alcune regioni, cominciò anche a diminuire. Ciò anticipò la gravissima crisi scoppiata alla metà del
Trecento (XIV secolo).
La tendenza economica espansiva iniziata intorno al Mille proseguì anche nel corso del XIII secolo.
Il commercio a lungo raggio conobbe una generale ripresa, favoria dalla maggiore sicurezza delle vie
di collegamento garantita dalla dalle accresciute condizioni di stabilità politica. Furono sopratutto i
mercanti italiani a dominare il commercio internazionale. Dal XII secolo essi avevano acquisito il
monopolio del commercio nelle rotte del Mediterraneo, fondando colonie permanenti nei principali
empori. Nel secolo successivo Venezia e Genova si scontrarono per la supermazia. Il saccheggio di
Costantinopoli (1204) fruttò ai veneziani enormi bottini, il controllo mercantile del Bosforo,
l'estromissione dei genovesi e dei pisani dal territorio bizantino e l'apertura di empori in Siria, da
quali alcuni mercanti raggiunsero la Cina attraverso l'Asia (es. Marco Polo). I genovesi tornarono
attivi nell'area a seguito della restaurazione dell'impero bizantino per opera di Michele Peleologo nel
1261, che compensò l'appoggio militare e finanziario dei genovesi con ampie concessioni per
commerciare a Costantinopoli e nel Mar Nero. Nel Tirreno, invece, i genovesi si scontrarono con i
pisani per il controllo della Corsica, della Sardegna e delle rotte siciliane. La battaglia navale della
Meloria (1284) segnò la supremazia di Genova nel Mediterraneo occidentale. L'ampliamento della
sfera dei traffici sollecità una migliore organizzazione delle attività mercantili: alla figura
avventurosa del singolo mercante si sostituirono forme di impresa più evolute (le compagnie).
Vennero inoltre elaborati nuovi strumenti monetari e finanziari che facessero fronte alla crescente
domanda di denaro: le zecche coniarono monete d'argento e d'oro (es. Fiorino, zecchino, scudo);
cambiatori e banchieri diffusero le lettere di cambio, che consentivano di trasferire denaro da un
banco all'altro. Come nelle epoche precedenti l'attività economica principale restò l'agricoltura, che
però raggiunse proprio nel XIII secolo limiti di sviluppo insuperabili per le tecnologie del tempo. Per
fronteggiare il crescente fabbisogno alimentare fu creata una rete di commerci che assicurassero
l'invio regolare di cereali per mare dalle grandi aree di produzione (es. Tunisia, Sicilia, Provenza)
verso le regioni urbanizzate e consumatrici.
L'impetuoso sviluppo demografico ed economico determinò profonde trasformazioni nella società,
la quale non si raccoglieva più soltanto intorno alle grandi proprietà fondiarie laiche ed ecclesiastiche,
ma era distribuita in una miriade di villaggi e di centri urbani. La popolazione si spostava
incessantemente in cerca di nuove condizioni di vita: dalle campagne alle città o verso i nuovi territori
(es. Nell'est europeo, in Terrasanta). La crescita delle attività economiche creò nuove opportunità di
arricchimento, divisioni e specializzazioni nel mondo del lavoro e una più accentuata
differenziazione sociale, sopratutto nelle città. La concentrazione urbana di un numero sempre
crescente di abitanti sollecitò la domanda di prodotti diversi, cui rispose la moltiplicazione di
tipologie di artigiani (es. muratori, fornai, fabbri, beccai). Caratteristiche dell'epoca non furono più
solo le figure di ecclesiastici (preti e chierici) e religiosi (monaci e predicatori) come nei secoli
precedenti, ma anche nuove figure di laici come, in primo luogo, i mercanti e i notai. Lo sviluppo dei
commerci favorì le attività in proprio e una più marcata professionalizzazione, con il risultato che i
mercanti diventarono presto membri dei gruppi dirigenti delle città europee. Problematica, tuttavia,
fu la questione del prestito a interesse, condannato moralmente dalla chiesa come usura (prestito
per il quale si richiedeva un interesse a termine che oltrepassava la misura ritenuta lecita).
Lezione N°20: 29/11/2021
CAPITOLO 17: PAPATO, IMPERO E REGNI
Le varie riforme della chiesa e il proporsi come vertice monarchico e universale della cristianità del
vescovo di Roma, dall’XI secolo, hanno rovesciato il rapporto tra papato e impero. Questo rapporto,
che diventa sempre più conflittuale tra XI e XII secolo, si esprime al massimo nella lotta per le
investiture dei vescovi. Questa lotta trova una soluzione nel concordato di Worms del 1122, anche se
il nuovo equilibrio ritrovato è tutto in favore del papato. Questo porta a una reazione imperiale nei
confronti dell’affermazione del papato come nuova guida universale della cristianità con un tentativo
di sacralizzazione dell’impero. Infatti Federico I di Svevia, il nuovo imperatore eletto nel 1155, reagì
attraverso le teorie formulate dal suo cancelliere, Rinaldo di Dallel, che elaborò una legittimazione
del potere imperiale, sganciandolo dalla mediazione del papa. In questa idea, che vine prodotta come
dottrina politica, la volontà divina, che fa si che l’imperatore svolga la sua missione universale, non
derivi dall’incoronazione da parte del pontefice, ma dall’unzione e si manifesta nell’elezione da parte
dl principi elettori. Questo consente di fare l’operazione di sacralizzazione dell’impero. Quindi è
l’impero che è sacro prima dell’unzione dell’imperatore, mentre in precedenza era l’imperatore che
sacralizzava l’impero attraverso la sua incoronazione. Fu probabilmente, durante il suo dominio che
cominciò a essere utilizzata l’espressione di “sacrum imperium”. Questo consente all’imperatore di
non riconoscere i pontefici e di contrarre al papa di Roma degli antipapi, aprendo dei conflitti non
da poco con il papato. Da qui la determinazione di non riconoscere la supremazia papale e il sostegno
all'elezione dell'antipapa Vittore IV nel 1159, che aprì uno scisma, ricomposto solo nel 1176-1177 con
il tardivo riconoscimento di Alessandro III. A sua volta Federico II rilanciò il concetto di una
dominazione illimitata, alimentato dal recupero dell'ideologia classica e del diritto romano. Egli
ingaggiò con i pontefici un conflitto durissimo, fino alla deposizione, che scioglieva i sudditi dal
giuramento di fedeltà, sancita da Innocenzo IV nel 1245. Federico I si propose di pacificare la
Germania e di riaffermare il potere imperiale in Italia, dove entrò in conflitto con le città. Nel 1158
convocò a Roncaglia un'assemblea pubblica del regno d'Italia in cui riaffermò le prerogative
dell'autorità regia (es. esercizio della giustizia, riscossione delle imposte). Milano non si assoggettò
e fu attaccata dall'esercito di Federico I che ne distrusse le mura nel 1162 e vi insediò un funzionario
imperiale. La crescita della pressione fiscale spinse molte città alla formazione di un'alleanza detta
"lega lombarda" sostenuta da papa Alessandro III, che sconfisse militarmente Federico I e lo
costrinse a concedere, attraverso la pace stipulata a Costanza nel 1183, l'esercizio delle regalie ai
comuni in cambio del riconoscimento formale dell'autorità imperiale. . Prima di morire nel 1190
durante la terza crociata, Federico I assicurò al figlio Enrico IV l'eredità del regno di Sicilia
combinandone il matrimonio con Costanza d'Altavilla. Egli però morì nel 1197, quando il figlio
Federico era bambino. La madre ne affidò la tutela al papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano
vassalli, che lo incoronò nel 1208. L'elezione a re di Germania nel 1212 aprì a Federico II la strada
all'incoronazione imperiale nel 1220. Fu solo nel regno si Sicilia che egli riuscì a perseguire una
politica di piena affermazione della propria sovranità. Vano fu invece il tentativo di imporre l'autorità
imperiale sulle città del centro-nord, sostenute da papa Gregorio IX, che scomunicò Federico II per
eresia nel 1227(poi ribadita nel 1239 e nel 1245). Dopo la vittoria di Cortenuova (1237) contro
l'esercito della lega lombarda, egli non riuscì a fare seguire che un precario controllo di alcune città.
Dopo gravi sconfitte militari (Parmanel 1248 e Fossalta nel 1249 ), Federico II morì nel 1250,
lasciando incompiuto il progetto di unificare il potere imperiale dalla Germania alla Sicilia. Dopo la
morte nel 1254 del figlio Corrado IV, la dinastia sveva si estinse con Corradino, dapprima usurpato
dallo zio Manfredi della corona di Sicilia nel 1258 e poi sconfitto e condannato a morte dal nuovo
sovrano Carlo I d'Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII e quindi fratello di Luigi IX, nel 1268. Si
aprì allora una nuova fase di instabilità politica (il titolo regio tedesco e quello imperiale erano
vacanti) che durò fino al 1273, quando fu eletto imperatore Rodolfo I d'Asburgo. Affinando la teoria
teocratica, che attribuiva al papato il potere assoluto su tutti i governi, fu Innocenzo III a sviluppare
una dottrina che ne affermava la supremazia universale (il papa riceveva da Dio sia il potere
spirituale sia quello temporale, delegando quest'ultimo ai sovrani). Innocenzo IV (1243-1254)
sostenne il diritto papale di scegliere e deporre gli imperatori. La prestesa dei papi si fondava su un
documento apocrifo noto come come "Donazione di Costantino", secondo il quale Costantino
avrebbe concesso a papa Silvestro il dominio su Roma e sulla pars occidentis dell'impero. Con il
pontificato di Innocenzo III (1198-1216) l'affermazione del potere pontificio raggiunse il suo punto
più alto.
Il papa si intervenne attivamente nelle vicende politiche dell'epoca:
Appoggiò l’elezione a imperatore a Ottone IV di Brunswick nel 1208, che aveva rinunciato
alla sovranità in Italia, incornandolo nel 1209;
Sostenne l’alleanza tra il re di Francia e Federico II, che però lo sconfisse nel 1214;
Elaborò una nuova idea di crociata (vedi sopra) e inaugurò una serie di guerre interne come
quella contro i catari nel 1208;
Acquistò un immenso prestigio, come si può notare dal grande numero di partecipanti
(prelati e vassalli) al IV concilio lateranense da lui convocato nel 1215.
Alla fine del secolo si succedettero Celestino V (Pietro del Morrone), che abdicò dopo pochi mesi, e
Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), che nel 1300 proclamò il primo giubileo (anno di remissione e
indulgenza). Quando tuttavia il re di Francia Filippo IV revocò l'immunità fiscale del clero, aprì un
conflitto che minò ogni residua pretesa universalistica dei successivi pontefici.
Tra XII e XIII secolo, la Chiesa conobbe anche un processo di rafforzamento interno. L'elezione del
papa, di cui il concilio lateranense III del 1179 ribadì l'esclusiva pertinenza ai cardinali, fu disciplinata
con l'istituzione del conclave. I cardinali facevano parte del concistoro, il consiglio del pontefice, e lo
assistevano nel governo quotidiano della Chiesa. I cardinali erano nominati dal papa: nel 12 secolo
furono soprattutto italiani. Il papa si riservò anche la nomina dei vescovi, che fu sottratta al clero
diocesano e ai canonici delle cattedrali. Le decretali, cioè i pareri richiesti ai papi sulle materie più
varie, acquisirono valore di norma e furono integrate nel diritto canonico. In generale, si accentuò la
tendenza a limitare la partecipazione dei laici al governo della Chiesa, rafforzando, al contrario, la
componente sacerdotale.
Nel corso del XIII secolo i poteri monarchici conobbero un ulteriore rafforzamento in quasi tutti i
regni europei. Nel corso dell’XI e del XIII secolo, nel processo di ricomposizione dei poteri e di
affermazione dll’autorità sovrana, erano risultati fondamentali i rapporti feudali e l’enfasi posta sui
poteri sacrali e carismatici della corona. Questi non vennero mai meno ma, nel corso del XIII secolo,
a contribuire decisivamente al consolidamento dei poteri regi furono l’espansione del territorio
controllato dai sovrani e il potenziamento degli apparati burocratici, che collegavano le circoscrizioni
periferiche agli uffici centrali. Il crescente esercizio regio delle funzioni militari, fiscali e giudiziarie
determinò nuovi conflitti con la nobiltà e le comunità urbane, che vedevano ridotti o contestati I
propri diritti. Si accentuò dunque la natura composita dei regni, in una ricerca costante di equilibrio
tra le prerogative regie e gli ordinamenti particolari.
REGNO DI FRANCIA: : Le conquiste avviate da Filippo II furono consolidate dai successori Luigi
VIII (1233- 1226) e LUIGI IX (1226-1270) che ampliarono verso sud il controllo regio: con la pace di
Parigi del 1259 sancì la definitiva acquisizione di gran parte dei territori francesi dei Plantageneti.
Luigi IX poi favorì la conquista del regno di Sicilia da parte del fratello Carlo d’Angiò nel 1266 e
promosse due sfortunate crociate in cui trovò la morte. Dopo di lui FILIPPO IV IL BELLO cercò di
limitare l’autonomia giurisdizionale e fiscale del clero entrando in conflitto con Bonifacio VIII e
convocando per la prima volta il parlamento (stati generali) nel 1302, per ottenere il sostegno dei
sudditi e ribadire la natura sacra del potere imperiale.
IL REGNO D’INGHILTERRA: Le perdite in terra francese e la Magna Charta avevano indebolito le
prerogative dei re inglesi; Enrico III (1216-1272) dovette confrontarsi ripetutamente con le pretese
di baroni, piccoli nobili rurali (gentry) e delle città, che cercarono sempre di ostacolare il potere regio.
Tali rivolte permisero però a Enrico III di rafforzare l’apparato amministrativo e fiscale e di
finanziare l’estensione del dominio regio a tutta l’isola, impresa iniziata dal successore Edoardo I che
conquistò il Galles (1283), la Scozia (1305, per poco), espulse gli ebrei dal regno (1290), convocò il
parlamento regio (1295).
IL REGNO DI SICILIA: il rafforzamento del potere regio in Sicilia fu perseguito da Federico II che
vi si insediò dopo l’incoronazione imperiale nel 1220. Egli sviluppò un efficiente apparato
amministrativo e raccolse nel Liber Augustalis (1231) tutta la sua legislazione, che rivela il disegno
di un governo ordinato e assicurò al clero l’immunità fiscale e giurisdizionale. Alla morte di Federico
II le violente lotte di successione (Corrado, Corradino, Manfredi…) indussero il papa francese
Urbano IV a affidare la corona di Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX, che
sconfisse Manfredi nel 1266 e ripristinò l’organizzazione amministrativa del regno.
REGNI DI CASTIGLIA E ARAGONA: Dopo la sconfitta dei musulmani del 1212 i regni iberici
conquistarono altre terre: la Castiglia annesse le città di Cordova e di Siviglia mentre l’Aragona
conquistò Valensia e le isole Baleari. Grazie ai mercanti catalani l'economia commerciale era
proiettata sui traffici nel Mediterraneo e sostenne l'espansione politica e militare dei re aragonesi
che si insediarono in Sicilia tra 1282 e 1302 e avviarono la conquista della Sardegna nel 1323.
LO STATO PONTIFICIO: Agendo come un monarca anche il Papa rafforzò i propri poteri temporali
sul proprio territorio: inizialmente l'area papale si trovava tra Umbria e Lazio dove si concentravano
i maggiori possessi fondiari pontifici; con Innocenzo III il dominio papale si estese su Lazio, Marche,
Umbria, Tuscia, Ducato di Spoleto e Romagna.
Nell'Europa orientale e slava si erano formati tra XI e XII secolo alcuni regni di grande estensione
territoriale, ma di debole coesione politica (aree poco popolate, senza precisi confini naturali, prive
di grandi centri urbani e di un'economia mercantile). Le monarchie non riusirono a dare vita a
strutture di governo capaci di contrastare la crescente potenza della nobiltà rurale. Fu la
cristianizzazione a dare un senso di identità a regioni su cui l'impero tedesco riuscì facilmente a
estendere la propria superiorità feudale. Intorno al IX secolo gli slavi orientali e gli scandinavi
(chiamati "rus") penetrarono nell'attuale Ucraina e nelle regioni vicine. Il capo varego Oleg nel 882
unificò il principato settentrionale di Novogrod e quello meridionale di Kiev, dando vita al principato
di Kiev (o Rus). Sotto Vladimir I (980-1015), che sposò la sorella dell'imperatore di Bisanzio Basilio
II, si aprì all'influenza della civiltà bizantina e della religione ortodossa. Con Iaroslav il Saggio (1016-
1054) il principato raggiunse l'apice della sua potenza e si estese fino a controllare le vie di commercio
tra il Baltico, l'Europa e l'Oriente. Sotto Vladimir II (1113-1115) il dominio andrò incontro a un
processo di divisione in vari principati, che ne resero inarrestabile il declino. Dall'inizio del XIII
secolo si formò nelle steppe asiatiche una vasta dominazione per opera di tribù mongole guidate da
Temujin, detto Gengis Khan (1162-1227), che conquistò la Cina settentribale, l'Asia centrale e la
Russia orientale. L'espansione del suo impero verso l'Europa rese i principati slavi tributari del
khanato dell'Orda d'oro, accentuando il distacco dell'area russa dal resto d'Europa.
Lezione N°21: 30/11/2021
CAPITOLO 18 : IL RINNOVAMENTO DELLA CULTURA
La crescita economica che si manifestò dall’XI secolo ebbe conseguenze anche sul piano culturale. Il
numero di persone in grado di leggere e scrivere si allargò considerevolmente, coinvolgendo anche i
laici. L’aumento dell’alfabetizzazione fu la conseguenza delle necessità di una società in espansione
dove la crescita dei commerci richiese la redazione per iscritto degli accordi e delle transazioni. Si
fece così più intensa la produzione e la conservazione di testi scritti, redatti dai notai e dai mercanti
stessi. Inadeguato rispetto alle nuove esigenze si rivelò il sistema scolastico centrato sulle scuole
monastiche e vescovili, dette scuole cattedrali, che nel corso dell’XI e del XII secolo avevano svolto
un ruolo importante nelle città. Nelle città sorsero così le scuole di base, dapprima private, poi, dal
XII secolo, organizzate dalle autorità pubbliche, che insegnavano a leggere, scrivere a fare di conto,
e le scuole di apprendistato, organizzate dalle corporazioni dei mestieri. È dunque possibile parlare
di laicizzazione della cultura, cioè di una diffusione del sapere al di fuori degli ambienti ecclesiastici,
svincolata dall’esclusivo monopolio dei chierici ma non per questo dal messaggio e dal pensiero
cristiano.
Tra XI e XII secolo si affermò un nuovo fenomeno: la messa per iscritto di testi in volgare. In
precedenza lo scritto era stato riservato quasi esclusivamente al latino. Da allora acquisirono dignità
letteraria anche le lingue parlate. Ebbero un ruolo di rilievo i gruppi nobiliari, con la diffusione della
letteratura epica che narrava le gesta dei guerrieri e della poesia d'amore. La prima si sviluppò nel
nord della Francia, presso un pubblico che stava elaborando l'etica del cavaliere cristiano: le Chanson
de Roland ne è il testo più rilevante. La seconda affascinò il pubblico delle corti e fu diffusa dai
trobadori. Nella penisola iberica si trova Cantar del mio Cid, in Germania il Nibelungenlied e l'Italia
con i rimatori siciliani. Nelle regioni meno romanizzate la comparsa dei testi volgari era stata più
precoce. Al monaco cluniacense Rodolfo il Glabro, l'Europa dei primi decenni dopo il Mille parve
rivestirsi di un “candido manto” di nuove chiese. Lo stile romanico si diffuse prima nell'Italia
settentrionale e in Catalogna per poi estendesi a tutto il continente; le chiese romaniche
rappresentarono il trionfo della pietra; con la quale si facevano sculture architettoniche. Le città si
dotarono di nuove cattedrali, simbolo della crescita economica e civile: esempio è il duomo di Pisa.
Le forme del romanico furono varie a seconda delle regioni: influenzate dallo stile arabo.
Il XII secolo rappresentò un periodo denso di novità anche dal punto di vista culturale. Infatti, alla
crescita del numero di persone alfabetizzate e alla diffusione delle lingue volgari, si aggiunsero
innovazioni nei metodi, nei contenuti e nell’organizzazione scolastica. Fondamentale fu l’evoluzione
dell’atteggiamento nei confronti degli autori della tradizione latina e patristica (→ quella dei padri
della Chiesa come S.Agostino, S.Tommaso), in quanto si iniziò a reputando lecito di non fermarsi a
essa ma di ricercare nuove verità. Le curiosità intellettuali fecero leva innanzitutto sul recupero dei
testi di autori greci come Platone, Aristotele o Euclide fino ad allora poco o per nulla conosciuti in
Occidente. Un numero elevato di traduzioni dal greco, dall’ebraico e dall’arabo consentendo così la
riscoperta di questi testi. L’afflusso di nuove conoscenze e la crescente richiesta di istruzione di
carattere avanzato sottolinearono che le scuole cattedrali e il chiostro monastico non erano più
sufficienti per esaurire la sete di conoscenza e, così, a partire dall’XI e dal XII secolo, vennero formati
nuovi luoghi di formazione del sapere. Nacquero così gli studi (studia), cioè le università dell’epoca,
che ebbero sedi urbane e origini diverse. Il primo studium sorse a Bologna alla fine dell’XI secolo per
iniziativa di studenti interessati a ricevere lezioni di diritto da maestri laici qualificati. Nel 1155,
l’università di Bologna ottenne il riconoscimento di FEDERICO I BARBAROSSA in quanto Bologna
era uno snodo fondamentale dei commerci e dei pellegrinaggi nell’Italia centro-settentrionale e
anche perché l’imperatore voleva rafforzare gli studi di diritto romano a sostegno delle proprie
rivendicazioni contro i comuni italiani. Invece, a Parigi, alla fine del XII secolo, lo stadium nacque
per la volontà dei chierici, professori di teologia della scuola episcopale, di sottrarsi dal controllo del
vescovo. Altre università sorsero a Padova (1222), Napoli (1224) per volontà di FEDERICO II, e a
Tolosa. Però, prima dello stadium di Bologna, un prototipo di università sorse a Salerno fra il X e l'XI
secolo. Esso non era un vero e proprio istituto universitario, con corsi ed esami di laurea, ma era una
scuola di grande fama in cui si studiava medicina e filosofia, traducendo in latino, dal greco e
dall’arabo, testi come quelli di Ippocrate, Galeno e Avicenna. A farne una università provvedette
FEDERICO II DI SVEVIA che nelle Costituzioni del 1231 istituì dei veri e propri esami di laurea
pubblici, mentre, prima di questa data, non si hanno notizie certe sul funzionamento dell’istituto
salernitano. Le università ebbero rapporti non sempre facili con le autorità cittadine locali, e
cercarono invece riconoscimenti e privilegi dai sovrani e dai pontefici. Nella seconda metà del XII
secolo gli studenti iniziarono ad organizzarsi in gilde, cioè corporazioni che, a partire dal 1215, furono
riconosciute ufficialmente dall’autorità ecclesiastica. L’organizzazione degli studi variava in ogni
università. In linea di massima il primo ciclo era organizzato secondo il sistema d’insegnamento
romano ed era fornito della facoltà delle arti liberali, così dette perché “libere” e non finalizzate al
guadagno, a differenza di quelle chiamate “meccaniche”, cioè manuali e pratiche che erano finalizzate
al guadagno. Le arti liberali furono distinte in due gruppi: le arti del Trivio, cioè le discipline filosofico
letterarie, (grammatica latina, retorica e dialettica cioè la filosofia), e quelle del Quadrivio, cioè le
discipline della natura e della matematica (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Il primo
ciclo durava circa sei anni e vi si accedeva intorno ai 13 anni. Il conseguente titolo di “baccelliere”
dava accesso alle facoltà maggiori di diritto civile, diritto canonico, medicina e teologia. Le università
presentavano dunque programmi specifici, esami di laurea e una divisione in facoltà. Al termine degli
studi era rilasciato il titolo di “dottore”, che permetteva di insegnare ovunque. L’insegnamento era
impartito in latino e consisteva nella lettura (lectio) e nel commento (quaestio) di un testo
fondamentale da parte del maestro, che evidenziava i problemi interpretativi che venivano poi
discussi con gli studenti (disputatio). Questo metodo di insegnamento e di ricerca, che si usa indicare
con il termine “scolastico”, si proponeva di coniugare verità di ragione e verità rivelata, ovvero la
rivelazione religiosa con l’ambito scientifico. Al di fuori della Francia e dell’Italia le università
fiorirono in leggero ritardo. Nel 1218 nacque l'importante polo castigliono Salamanca e nei primi due
decenni del Duecento furono fondate le università di Oxford e di Cambridge. Oxford nello specifico,
a partire dal 1180, aveva acquisito importanza politica in quanto sede di amministrazione reale ed
ecclesiastica e così molti giuristi furono spinti a sceglierla come sede per aprire gli studi di legge. Il
XII secolo fu caratterizzato anche da una marcata ripresa degli studi giuridici, che fornì un
riordinamento teorico e funzionale dei diritti attivi nell’Occidente europeo. Il diritto della Chiesa
(diritto canonico), che si era sviluppato nel corso dei secoli grazie ai canoni, ai testi biblici, ai decreti
papali, fu raccolto e razionalizzato intorno al 1140 dal monaco GRAZIANO nel “Decretum Graziani”,
che rimase a lungo il testo fondamentale degli studi di diritto canonico. Inoltre, nell’università di
Bologna si tornò a studiare, nella sua integrità, il Corpus iuris civilis, proponendolo come diritto
comune di tutta la cristianità e come la cornice entro cui disciplinare i diritti particolari. Anche il
diritto feudale fu oggetto di riflessione teorica e di una più compiuta definizione. Inoltre, dalla
seconda metà del XII secolo, molte città italiane iniziarono a mettere per iscritto, in statuti, i propri
diritti locali. Nel latino medievale “universitas” significa “corporazione”. Infatti, nelle città si
potevano trovare universitates di mercanti, produttori, artigiani … e dunque le universitates
studiorum (o studia) devono essere considerate come delle corporazioni che volevano rappresentare
gli interessi di coloro che volevano studiare a livelli di eccellenza e di coloro che volevano insegnare.
Le corporazioni dei docenti mettevano infatti il loro sapere al servizio di chi voleva servirsene sotto
pagamento. Nelle città del XII e XIII secolo nasceva così la figura dell’intellettuale che fa della propria
conoscenza un lavoro e che dunque ha la necessità di tutelarsi attraverso l’adesione alle corporazioni.
Gli intellettuali laici furono innanzitutto i giudici e i notai. Essi si impegnarono ad esempio nella
stesura di trattati morali destinati all’educazione dei cittadini e dei rettori. In larga misura furono
notai anche gli autori delle numerose cronache delle vicende cittadine elaborate a partire dal XII
secolo e ai notai si deve anche la produzione e conservazione documentaria dei diritti e delle attività
amministrative dei comuni.
Lezione N°22: 09/12/2021
CAPITOLO 19 : LE AUTONOMIE POLITICHE
Lo sviluppo demografico, economico e sociale che le città europee conobbero tra XI e XIII secolo si
tradusse in forme di governo orientate all’autonomia. Tale assetto fu denominato con il termine
“comune”, per la messa in comune di diritti e privilegi da parte delle collettività urbane. Il fenomeno
interessò molte aree ma con tempistiche e gradi di autonomia diversi. Le più precoci furono le città
italiane del centro-nord appartenenti al regno italico, che formarono dei comuni a partire dalla fine
dell’XI secolo, a cui seguirono quelli delle altre regioni europee, sorti tra il XII e il XIII secolo.
Tranne che nel regno italico, le autonomie si svilupparono nella forma di concessioni e di diplomi,
detti carte di “comune” o di “franchigia”, da parte dei re e dei principi territoriali, che riconoscevano
prerogative e diritti parziali, imponevano quasi ovunque la presenza di propri ufficiali, e davano
dunque luogo a forme di governo misto. L’autogoverno cittadino si sviluppò in tutta Europa, ma le
aree italiane, appartenenti al regno italico (nord) e allo stato pontificio, furono all’avanguardia del
fenomeno. Si può infatti affermare che solo in quelle regioni si sviluppò una vera e propria “civiltà”
comunale, che assunse caratteristiche omogenee in tutte le città, come:
l’alto grado di effettiva autonomia politica, che fu un tratto tipico solo delle città italiane;
l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro;
la forte articolazione e differenziazione sociale, che offrì possibilità di ascesa e promozione;
lo stretto legame con le aree extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto
della costruzione di contadi (=territori controllati dalle città);
il legame organico instauratosi tra la politica e le elaborazioni intellettuali, che si
impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia.
Le città dell’Italia meridionale NON conobbero invece una vera esperienza comunale, che fu bloccata
dall’affermazione di una forte autorità centrale in seguito all’instaurarsi della monarchia normanna.
Nelle città meridionali infatti, i magistrati locali venivano nominati dal re e i cittadini non ottennero
mai un pieno autogoverno. Essi ricevettero limitate prerogative amministrative, pur conservando e
vedendosi confermate le proprie consuetudini. Dunque, la loro condizione fu quella di universitates
perchè avevano appunto scarse prerogative amministrative, erano dipendenti dall’autorità centrale
normanna e non avevano così piena autonomia. Inoltre, le città meridionali non costituirono un
proprio contado e rimase forte il condizionamento dell’aristocrazia rurale. Lo sviluppo di ampie
autonomie politiche da parte delle città italiane fu la conseguenza di due condizioni principali:
FORZA ECONOMICA, POLITICA, SOCIALE;
DEBOLEZZA, rispetto ad altre aree europee, dei sistemi politici entro cui erano inserite
(impero e signori territoriali);
Nella maggior parte delle città europee gli abitanti avevano un’origine sociale omogena, di
impronta mercantile e “borghese” che non investiva in proprietà fondiarie e non aveva legami
feudali con i signori rurali. Nelle città italiane, invece, la società si articolava intorno a tre
componenti principali: un’aristocrazia militare urbana (milites), legata vassallaticamente al
vescovo e spesso detentrice di diritti signorili e beni fondiari, un’élite commerciale
(negotiatores) fornita di ricchezze mobile (case..) e fondiarie, e un ceto di uomini di cultura
(iudices), cioè giudici e notai. Ciascuno di questi gruppi fornì un contributo determinante allo
sviluppo comunale. Nello specifico, essi garantirono, rispettivamente, la potenza militare, la
disponibilità economica e la competenza giuridica.
Nella maggior parte delle città italiane le prime esperienze di autogoverno maturarono in rapporto
all’autorità vescovile. In alcune ciò avvenne senza conflitti e dunque in continuità con il potere
vescovile stesso. In altre fu invece determinante l’indebolimento delle figure episcopali per l’azione
riformatrice del papato, che tendeva a sottrarre la nomina dei vescovi al controllo dei gruppi
eminenti della società. Le lotte per le investiture, di cui I vescovi furono oggetto nel conflitto tra
papato e impero, diedero vita a conflitti violenti tra i sostenitori delle due parti (papato e impero) in
molte città, negli ultimi decenni dell’XI secolo. Le iniziative di pacificazione lasciarono spazio a un
nuovo ordine politico, quello del comune, che consistette inizialmente in assemblee (conciones) di
cittadini eminenti (cives) che eleggevano come loro rappresentanti temporanei dei consoli (consules)
per il governo politico, militare e giudiziario della città. Il nuovo sistema politico consolare era
dunque espressione di un assetto cittadino aristocratico ed elitario dove I ceti dirigenti governavano
e quelli subalterni non avevano voce. Ma, con il tempo si sviluppò una pratica fondata sulla
partecipazione dei cittadini, sul principio elettivo, sull’alternanza dei governanti e sulla discussione
pubblica. Le molte rivendicazioni di autonomia da parte delle città si manifestarono nello scontro
con l’impero, scontro che iniziò alla metà del XII secolo, quando in quasi tutte le città si erano
formate le prime istituzioni comunali. Le città non disconobbero l’autorità imperiale, ma
rivendicarono il diritto all’autogoverno, il diritto ad una libera politica di alleanze e all’estensione
della loro autorità sui contadi, rifiutando l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di
tributi. Il conflitto con FEDERICO I BARBAROSSA DI SVEVIA portò alla formazione di leghe tra le
città venete e lombarde, poi fuse nella “lega lombarda” giurata a Pontida nel 1167, e sostenuta da
papa ALESSANDRO III. La lega longonbarda si rivelò capace di sconfiggere l’esercito imperiale nel
1176 a Legnano. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città l’autonomia, il diritto di esercitare i
poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe, di esercitare diritti sul territorio e di
erigervi fortezze in cambio del riconoscimento formale dell’autorità imperiale. Il rinnovato conflitto
tra la lega lombarda e FEDERICO II (→nipote di Federico I Barbarossa perché figlio di Enrico VI e
Costanza d’Altavilla) culminato nella battaglia di Cortenuova del 1237, in cui prevalse l’esercito del
sovrano, si risolse in una provvisoria sottomissione delle città al governo diretto di Federico II,
sottomissione che però svanì con la morte di quest’ultimo nel 1250. Lo sviluppo politico dei comuni
maturò pienamente nella prima metà del XIII secolo. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura
del podestà, affiancata da un consiglio ristretto di cittadini. Il podestà era reclutato ogni anno tra un
gruppo di professionisti della politica che si muovevano tra le città, contribuendo a renderne
omogenee le pratiche di governo. Il nuovo regime del podestà, che si affermò in tutte le città italiane
del centro-nord tra il 1180 e il 1220 ca., consentì di allargare a famiglie, cresciute in ricchezza, a volte
anche provenienti dal contado, la partecipazione ai consigli e agli uffici del comune, superando il
sistema consolare che era stato diretto da una ristretta cerchia di famiglie potenti (milites), alleate a
volte con I vescovi e provocando così conflitti crescenti. Il podestà cominciò anche a fare redigere
per iscritto ai propri giudici e notai i diritti delle città, le sue leggi e consuetudini, ovvero gli statuti,
e iniziò a far registrar le attività amministrative quotidiane in volume conservati in archivi pubblici.
Inoltre, la crescita demografica e lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi
sociali e familiari detti di “popolo” (mercanti, artigiani, notai, banchieri), fino ad allora esclusi dalla
partecipazione politica. Furono dapprima i fanti (pedites), cioè uomini del contado dotati di semplice
armature, a lottare contro i privilegi dei cavalieri (milites), come l’esenzione fiscale e risarcimento
dei danni di guerra, e ciò a favore di una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli
del comune. Alla metà del XIII secolo in alcune città, il “popolo” riuscì a mobilitare le sue società
armate a base rionale per imporre nello spazio politico circostante proprie istituzioni, che
affiancarono quelle del comune, come ad esempio un consiglio generale e uno ristretto, un collegio
di “anziani”.... L’affermazione dei governi di “popolo” non fu, però, duratura. La proiezione
territoriale delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado (comitatus), cioè di un’area
corrispondente in larga misura alla diocesi cittadina. La conquista del contado, avviata nel XII secolo
e consolidata nel XIII, ricorse alle armi e agli accordi, utilizzando anche vincoli feudali per legare alla
città i signori rurali. La sottomissione politica e fiscale delle comunità rurali garantiva
approvvigionamenti alimentari e favoriva la diffusione della proprietà fondiaria dei cittadini. Anche
le liberazioni dei contadini dalle dipendenze signorili ebbero l’obiettivo di aumentare il numero di
contribuenti alla fiscalità cittadina, di sottrarre uomini ai signori rurali e dunque di liberare
manodopera per le manifatture urbane. Non tutti i comuni furono città. A dare vita a forme di
autogoverno furono infatti anche le comunità rurali. Infatti, in una prima fase, i signori precisarono
i limiti del proprio potere, mediante concessioni di privilegi ai propri contadini, dette carte di
“franchigia” o di “libertà”. In genere esse riconoscevano ai contadini il diritto di trasferirsi altrove,
riducevano la fiscalità, e limitavano l’attività dei signori nell’amministrazione e nella giustizia. Nel
corso del Duecento, in alcune aree di espansione e di colonizzazione, come la Spagna e l’est europeo,
alcune comunità diedero luogo a organismi dotati di ampie libertà, cioè di autonomie ma non di
indipendenza perché le comunità continuavano a riconoscere la superiorità di altri poteri imperiali,
regi o principeschi. In Italia diverse comunità rurali si organizzarono con istituzioni di tipo consolare
analoghe a quelle urbane, per difendere i propri interessi e rivendicare nuove autonomie. A
promuovere i comuni rurali furono le élites che erano emerse dalla trasformazione e dalla
differenziazione della società rurale.
Alla morte di FEDERICO II nel 1250, gli ordini interni alle città italiane non ritornarono allo stadio
precedente all’azione lanciata dal sovrano contro la lega lombarda. Infatti, lo spazio politico delle
città, che prima dell’età federiciana era occupato principalmente dalle istituzioni del commune
podestarile, fu ora condiviso da più soggetti: non solo dal “popolo”, ma anche dalle corporazioni di
mestiere (arti), dalle parti (partes) e dai poteri personali e signorili. Ciascuna di queste forze si
affermò con proprie istituzioni e propri statute, agendo in uno spazio condiviso e rielaborando i
valori e i linguaggi del discorso pubblico cittadino. Nel tempo il sistema sociale si fece sempre più
complesso e i conflitti iniziarono a basarsi sempre più sull’accesso al governo e ai consigli cittadini,
cioè sul controllo delle risorse finanziarie e dei beni del comune. Ciò comportò la moltiplicazione dei
processi di esclusione dagli uffici politici e dalle città. Il fenomeno delle esclusioni politiche si
generalizzò infatti nella seconda metà del Duecento. Protagoniste principali ne furono le parti che si
erano formate all’interno delle città tra i sostenitori della pars imperii e quelli della pars ecclesiae nel
contesto del conflitto che aveva contrapposto i sovrani svevi (Hohenstaufen) ai pontefici, tra la metà
del XII secolo e la metà del XIII secolo. Alle partes aderivano non solo le famiglie di milites e di
grandi banchieri e mercanti, ma anche le rispettive clientele di amici, parenti e vicini. Gli
schieramenti cercarono di dominare lo spazio politico cittadino, attraverso alleanze intercittadine
che, nella seconda metà del Duecento, assunsero i nomi di guelfa e ghibellina. L’affermazione
violenta di una parte determinava l’esclusione dalla città dei nemici della parte avversa, che venivano
privati dei loro beni e della cittadinanza. I fuoriusciti, banditi o esiliati, si rifugiavano nei castelli del
contado o nelle città amiche, cercando militarmente di ritornare nelle città di origine e costituendo
così una minaccia costante di vendetta. Anche i conflitti che avevano opposto il “popolo”
all’aristocrazia urbana subirono un’accelerazione. La flessibilità istituzionale, che aveva consentito
al “popolo” di affiancare con proprie rappresentanze quelle del comune podestarile, venne meno di
fronte all’incapacità di unire la disciplina della società con il mantenimento di un carattere aperto
alla partecipazione politica. Infatti, in alcune città, i governi di “popolo”, che si battevano per
l’allargamento della base sociale della cittadinanza, non esitarono a escludere dagli uffici politici
numerose famiglie della aristocrazia militare che vi erano da tempo presenti. I membri di queste
famiglie furono colpiti da una legislazione speciale che li indicò come magnati, ovvero i potenti, in
base all’accusa di praticare uno stile di vita violento, soprattutto quando era rivolto ai “buoni cittadini
popolani”, e che combinò l’esclusione dagli uffici politici con l’imposizione di pene più gravi rispetto
all’ordinario. La “magnatizzazione” della nobiltà fu accompagnata da una propaganda di “popolo”
che si richiamava ai valori della pace e della giustizia. Nella seconda metà del XIII secolo emerse con
evidenza l’inadeguatezza delle istituzioni comunali nel rappresentare, sul piano politico, la
complessità dell’evoluzione delle città a seguito della forte crescita demografica, dell’ascesa di nuovi
gruppi sociali e del declino di altri. Così, in questo periodo, si assistette, quasi ovunque, al
superamento dei governi comunali, superamento che determinò la formazione di soluzioni spesso
ibride, come governi di parte, di “popolo” … a guida personale, di signore …, che esprimevano però
la continua ricerca di un assetto che conferisse maggiore coerenza e stabilità allo spazio politico e
istituzionale. Alla base di ciò vi fu un processo di selezione dei gruppi dirigenti, quasi ovunque
costituiti da cerchie ristrette di famiglie di tradizione nobiliare o di recente fortuna mercantile. Esito
generale fu il venir meno della partecipazione allargata a gruppi sociali diversi che avevano
caratterizzato la vita politica di alcune città, sotto la guida dei governi di “popolo”. La nuova stabilità
si tradusse così in una restrizione dello spazio politico cittadino. La varietà di configurazioni che
potevano assumere i sistemi politici cittadini è bene esemplificata dal caso di Firenze, dove tra il XIII
e il XIV secolo si alternarono governi di “popolo”, esclusioni magnatizie, bandi ed esili di parte,
esperienze signorili e chiusure in senso oligarchico, cioè forme in cui il potere era concentrato nelle
mani di poche famiglie potenti. Tutto ciò a dimostrazione di come, per i gruppi in affermazione, le
diverse forme istituzionali costituissero delle risorse alternative del gioco politico, cui ricorrere a
seconda delle opportunità e delle momentanee prevalenze. L’alternanza tra forme di governo diverse
fu un’ esperienza ricorrente e si verificò, oltre che a Firenze, anche a Modena, Parma, Bologna.
L’affermazione di forme di potere personale e signorile fu contemporanea a quelli dei governi “di
popolo” nei decenni centrali del Duecento. In numerose città i consigli municipali cominciarono
infatti a conferire a un singolo cittadino eminente, spesso titolare di cariche come quelle di podestà
o di “capitano del popolo”, un potere incondizionato (arbitrium), svincolato dagli statuti della città,
per un tempo definito o a vita. Al signore (dominus) così eletto erano assegnati compiti particolari
per la difesa militare, la pacificazione e la sicurezza delle città. Inoltre, al signore veniva data
l’autorizzazione di espellere i menbri delle fazioni avverse. L’affermazione di poteri signorili, che
rappresentarono una sperimentazione avanzata di gestione della sempre maggiore complessità degli
spazi politici cittadini, fu più precoce nelle città padane rispetto a quelle dell’Italia centrale. Ciò fu
dovuto alla capacità di alcuni grandi signori, dotati di beni fondiari e di investiture temporali, di
costituire dominazioni su molte città e territori rurali, sfruttando i conflitti tra le fazioni e le rivalità
tra diverse città. Queste signorie, che dominavano città e territori rurali ma che non erano radicate
in città specifiche, si dimostrarono però molto fragili e così si estinsero con la morte dei grandi signori
feudali che le avevano originariamente fondate. Invece, più stabili e durature si rivelarono le signorie
che si svilupparono all’interno di singoli centri urbani per iniziativa di famiglie influenti, il cui profilo
sociale poteva essere vario. Per esempio, origini comitali (=di conte) avevano i Della Torre che si
appoggiarono alle organizzazioni di “popolo” a Milano per affermare la loro signoria dal 1259, mentre
una famiglia cittadina ma non di milites era quella dei Della Scala, che si affermarono a Verona tra
il 1259 e il 1262; e ancora, di stirpe aristocratica, legata all’episcopato, fu la famiglia dei Visconti, che
nel 1277 sostituirono i Della Torre a Milano. Tendenza comune a molte esperienze signorili fu la
capacità dei discendenti di farsi attribuire cariche a vita in qualità di “signori generali e permanenti”.
Alcuni ottennero anche la facoltà di designare un successore che doveva esssere riconosciuto
formalmente dagli organi del commune. L’introduzione del principio ereditario consentì di fondare
vere e proprie dinastie signorili, come quelle dei Della Scala a Verona, dei Visconti a Milano o dei Da
Polenta a Ravenna. Ciò contribuì a rafforzare il potere dei signori, che trasformarono
progressivamente, nel corso del XIV secolo, il sistema di governo con la creazione di organi ristretti,
di cancellerie e di archivi a loro direttamente dipendenti, e abolendo molti uffici comunali. Così,
intorno alle dinastie signorili cominciarono a formarsi delle corti, con ruoli, cerimoniali e stili di vita
cavallereschi. Pur diversi nella forma, i governi signorili non cancellarono i tratti più tipici del
sistema politico comunale, di cui costituirono l’evoluzione e il superamento. L’eredità cittadina fu
infatti una delle caratteristiche dei poteri signoril. La partecipazione politica assunse un ruolo per lo
più consultivo ma molte istituzioni di origine comunale rimasero in vita. Infatti, il sistema delle
corporazioni sopravvisse, solidi rimasero gli organismi mercantile e i gruppi dirigenti, quando le città
furono sottomesse a signorie esterne, non persero completamente il loro ruolo in quanto
continuarono ad occupare gli uffici municipali. Verso la metà del XIV secolo si erano ormai
stabilmente affermati i governi signorili in quasi tutte le città comunali. Solo in pochissime erano
sopravvissute esperienze a comune, attraverso ristrutturazioni in senso oligarchico (=potere nelle
mani di pochi). Questo è il caso, ad esempio, di Siena, Venezia e Genova.
Lezione N°23: 13/12/2021
CAPITOLO 20 : DEPRESSIONE DEMOGRAFICA E RISTRUTTURAZIONI
ECONOMICHE
La popolazione europea, precedentemente aumentata (IX-XIII secolo), subì un drammatico calo nel
corso del XIV secolo. La spiegazione più plausibile appare quella della “sovrappopolazione relativa”,
cioè uno squilibrio tra la disponibilità di risorse alimentari e l’eccessivo numero degli uomini. Infatti,
a causa della carenza di concime, l’agricoltura non riuscì a incrementare la produzione cerealicola
per sfamare una popolazione sempre più numerosa. La percentuale dei morti iniziò così ad alzarsi e
nella prima metà del Trecento, la popolazione iniziò lentamente a calare.
All'inizio del XIV secolo si manifestarono crisi di sussistenza. Una successione di cattivi raccolti,
dovuti all'eccesso di piogge, si infittirono dalla fine del XIII secolo determinando carestie sempre più
frequenti. Una serie di annate di maltempo influì nella situazione, con inverni più rigidi e piogge più
frequenti. La crisi annonaria era strutturale, dovuta agli scompensi dell'economia agricola e
all'evoluzione demografica. Una prima serie di gravi carestie colpì l'Italia nel 1271-72 e l'Inghilterra
nel 1293-95. In alcune città morì di stenti circa il 10% degli abitanti. La Catalogna e Barcellona furono
colpite nel 1333, mentre l'Italia soffrì di gravi carestie negli anni 1328-30, 1339-42, 1346-47. I prezzi
di cereali aumentarono fino a dieci volte, rendendo proibitivo l'acquisto del pane. La
sottoalimentazione accrebbe la mortalità per l'indebolimento delle difese immunitarie, che resero gli
uomini più esposti alle malattie. Infatti su una popolazione già provata da anni di difficoltà si abbatté
nel giro di pochi mesi dal 1347 una terribile epidemia di peste bubbonica o “nera”, così detta perchè
provocava dei bubboni di colore nero, proveniente dall’Asia. La malattia era infettiva e il suo dilagare
fu favorito dalle precarie condizioni igieniche e dalla denutrizione che colpiva gli strati sociali più
umili della popolazione. La peste si diffuse attraverso le vie di commercio. Dal Kazakistan giunse in
Europa attraverso le vie carovaniere. La peste “sbarcò” dapprima a Costantinopoli e poi a Messina.
Dalla Sicilia risalì il continente, toccando il culmine dell'infezione quando il contagio raggiunse
l'Italia comunale, la Francia, Spagna, Germania e poi Inghilterra, Scandinavia e Ungheria e infine
Russia. Si calcola che nella sua prima ondata la peste falcidiò circa un terzo della pop europea. La
peste rimase endemica in Europa fino al XVIII secolo. Napoli per esempio, fu infettata 9 volte;
Firenze 5. Non si assistette a un calo repentino della pop: essa subì un calo graduale, raggiungendo
il punto più basso solo nel XV secolo. A rinvigorire le città di nuovi abitanti furono i flussi di
immigrazione dalle campagne più che la crescita naturale della natalità.
Gli eserciti, le milizie mercenarie disoccupate, saccheggiavano le aree rurali razziando raccolti e le
bestie, compiendo violenze sulle donne, catturando ostaggi. Inoltre, contribuivano a diffondere le
epidemie, per le pessime condizioni igieniche in cui vivevano i soldati. I saccheggi e le devastazioni
spingevano la gente a fuggire dalle campagne e a trovare rifugio nelle città. Dopo la peste la pop
europea era diminuita a circa 50 milioni rispetto ai 70 raggiunti nel 1300; all'inizio del XV secolo si
era ulteriormente ridotta a meno di 45. Per esempio Firenze, una delle metropoli europee all'inizio
del 300 con circa 110.000 abitanti, si ridusse a 37.000 nel 1427. Nella Normandia orientale, fatto
100 il numero degli abitanti nel 1314, si scese a 45 nel 1380. Intere regioni spopolate dalla crisi, come
per esempio l'Andalusia e la Maremma, non si ripresero più. Nelle campagne il calo demografico
significò una ristrutturazione dell'habitat: diffuso fu il fenomeno dell'abbandono dei villaggi,
scomparvero molti piccoli insediamenti, soprattutto quelli non fortificati.
Oggetto di discussione tra gli storici è la valutazione se al calo della popolazione, verificatosi tra il
XIV e il XV secolo, corrispose anche una crisi economica. Alcuni sostengono che l’Occidente fu
attraversato da una profonda depressione perchè il declino demografico avrebbe determinato una
riduzione della domanda di beni, riducendo il livello della produzione e del commercio. Secondo altri
studiosi, invece, il calo della popolazione avrebbe portato più vantaggi ai sopravvissuti,
migliorandone il tenore di vita e l’aumento della ricchezza media avrebbe stimolato la domanda di
beni di consumo. In ogni caso si assistette ad una profonda trasformazione dell’economia e della
società. Si può così dire che in alcuni settori e in alcune regioni la trasformazione portò occasioni di
sviluppo, in altre invece accentuò il ristagno e la recessione. e. Il calo della pop significò meno
persone disponibili per la coltivazione dei campi e le lavorazioni manifatturiere e meno bocche da
sfamare. La crescita dei salari fece aumentare i costi di produzione e i prezzi dei manufatti. I prezzi
dei cereali e dei generi alimentari diminuirono. Ciò comportò una riduzione dei margini di profitto
sia dei proprietari sia degli imprenditori. Nelle campagne i proprietari fondiari risposero in modi
diversi alla nuova situazione: alcuni furono in grado di investire per produrre una maggiore quantità
di raccolto e di generi vendibili a prezzi più alti; altri si dovettero accontentare di sfruttare ciò che la
terra forniva da sola. Il ritorno alla coltivazione di terre migliori consentì di ottenere rendimenti più
elevati aumentando le rese medie dei raccolti nel XV secolo a oltre 4 volte le sementi. Inoltre, data la
caduta dei prezzi dei cereali, molti proprietari diversificarono la produzione verso colture
specializzate e generi più pregiati e redditizi: vino, olio, riso, canna da zucchero, frutta. Le terre
incolte furono trasformate in pascoli dando luogo a uno sviluppo di allevamento, soprattutto ovino.
Intere regioni si dedicarono alla pastorizia, organizzando la transumanza, lo spostamento regionale
delle greggi dalle montagne alle pianure. Fu ricostituito progressivamente l'equilibrio tra le risorse
disponibili e il numero degli uomini, capace di fronteggiare le carestie. Il calo dei prezzi dei generi
alimentari e l'aumento dei salari permisero anche un miglioramento dell'alimentazione. La carne
tornò anche sulla tavola dei contadini e dei salariati. Le aree del Mediterraneo non erano più solo
“granai” di cereali, ma anche esportatrici di olio; alcune regioni della Francia, Spagna e Portogallo
produttrici di vino. In alcune regioni crebbe la proprietà cittadina per gli investimenti di mercanti e
imprenditori. Il ricambio di uomini promosso dalla crisi demografica offrì l'occasione ai proprietari
di rinnovare i contratti agrari. I patti consuetudinari a lungo termine e a canone fisso furono
affiancati e sostituiti da contratti scritti di breve durata, che prevedevano la ripartizione dei prodotti
della terra tra proprietario e contadino, in cambio di una serie di investimenti da parte del padrone.
Questi vennero chiamati mezzadria.
Anche nelle città la crisi demografica determinò un calo della manodopera e un conseguente
aumento dei salari degli operai. Ci fu la crisi del settore tessile, a Firenze dove c'era uno dei maggiori
centri di produzione di lana, ma anche nelle Fiandre. Anche gli scambi subirono una forte
contrazione. Il mutamento più evidente nella produzione manifatturiera fu la diversificazione delle
merci. Da un lato le produzioni di pregio, come i tessuti di qualità, la seta, le armi, i vetri, la carta.
Dall'altro i prodotti di uso comune a prezzi accessibili, destinati a una più larga fascia della
popolazione: tessuti non pregiati, di cotone, lino, fustagno. Lo sviluppo di nuovi settori produttivi
determinò la crescita economica di alcune regioni e il declino di altre. Per esempio, al calo di
produzione dei panni di lana Firenze e la Toscana risposero con lo sviluppo della manifattura della
seta. Inoltre perse importanza la figura dell'artigiano che fino al XIII secolo lavorava in proprio la
materia prima fino alla finitura del prodotto e allo smercio nella sua bottega. Dalla metà del XIV
secolo le fasi della lavorazione cominciarono a separarsi da quelle della vendita. Ciò avvenne nel
settore tessile, dove nuove figure di mercanti-imprenditori acquistavano le materie prime, le
affidavano a varie botteghe artigiane ognuna delle quali presiedeva a un momento della produzione
e provvedevano a collocare il prodotto finito su mercati anche a lunga distanza.
Le difficoltà dell'economia coinvolsero anche le attività creditizie. Rispetto al passato, esse non si
limitarono più a sostenere il commercio e le attività produttive, ma cominciarono a finanziare anche
i sovrani europei. Questi chiedevano prestiti anche ai banchieri internazionali. Inoltre alcuni
imposero svalutazioni forzose delle proprie monete, come fece il re di Francia Filippo IV il Bello. Con
la propria insolvenza (impossibilità di pagare un debito), egli determinò la bancarotta della
compagnia dei Bonsignori di Siena (1297-1308). Il fallimento dei fiorentini fu gigantesco e provocò
un effetto a catena che coinvolse altre 350 compagnie di mercanti e banchieri che fallirono entro il
1346. Questo indusse gli operatori ad adottare misure tese a evitare crolli generalizzati. La
ristrutturazione del sistema bancario articolò le compagnie in filiali di capitali propri e di autonomia
di gestione, così che la bancarotta di una non potesse determinare il cedimento dell'intero complesso.
Anche le attività mercantili furono organizzate intorno a una rete di operatori stabili nei maggiori
centri commerciali internazionali. Furono anche sviluppati sistemi complessi di contabilità come la
partita doppia, che teneva distinte le entrate dalle uscite. Il sistema delle fiere fu sostituito dalla rete
stabile delle filiali commerciali e dal forte incremento dei trasporti marittimi, reso possibile anche
da costanti miglioramenti delle tecniche di navigazione e dall'adozione di navi di stazza crescente.
Lo sviluppo delle economie di Inghilterra, Spagna e Olanda favorì l'apertura di nuovi assi
commerciali. Iniziarono a muoversi anche nuove rotte lungo le coste occidentali dell'Africa.
CAPITOLO 21 : REAZIONI E RIPRESA
Nel XIV secolo la peste si diffuse molto velocemente tra la popolazione. Così, per circoscriverne la
diffusione, vennero prese alcune misure: divieto di assembramenti, limitazione degli spostamenti e
segregazione dei malati, che dal XV secolo furono posti nei lazzaretti, collocati in zone periferiche o
al di fuori delle mura delle città. Nelle città furono poi istituite delle magistrature per isolare gli infetti
e, durante l’epidemia, la vita politica ed economica delle varie aree rimaneva paralizzata, a causa
della paura del contagio. L’epidemia aveva seminato il terrore. La gente non riusciva a spiegarsi le
cause del susseguirsi di cattivi raccolti, delle pestilenze, delle guerre e di eventi naturali, come per
esempio l’alluvione che colpì Firenze nel 1333. La risposta più immediata fu di interpretarli come
annunzio apocalittico. In questi eventi si iniziò così a vedere l’azione delle forze del male, che
segnalava l’approssimarsi della fine del mondo. Si diffusero così pratiche di penitenza in
confraternite di devozione, le quali praticavano la flagellazione e compivano pellegrinaggi per espiare
le colpe e ottenere la salvezza. Si intensificò anche il culto dei santi, come Sebastiano e Rocco, ritenuti
protettori contro la peste, e si sviluppò il culto della passione di Cristo. Le reazioni individuali e
collettive furono le più diverse. Crebbero coloro che disposero nei testamenti donazioni alle chiese e
in favore di poveri, ammalati, ma vi fu anche chi si divertì durante le epidemie, con feste, banchetti,
giochi, tornei e baldorie in generale. Le processioni dei flagellanti, che attraversavano l’Europa,
accrebbero l’istigazione contro coloro che si ritenevano complici del demonio nell’opera di
destabilizzazione della cristianità. In molti casi furono incitate le popolazioni al linciaggio dei non
cristiani ritenuti responsabili del contagio. In particolare gli ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e di
uccidere il bestiame, furono vittime di violente persecuzioni (pogrom) in diverse regioni e
specialmente in area tedesca. Nel 1348 in alcune zone dell’Inghilterra alcune donne che vivevano da
sole, praticando guarigioni, furono accusate di stregoneria, e linciate dalla popolazione, in cerca di
capi espiatori della peste. Questi episodi diedero avvio a un plurisecolare fenomeno di “caccia alle
streghe”, che ebbe per oggetto le donne, ritenute responsabili del peccato originale e quindi
potenziali interlocutrice con il demonio. La stregoneria infatti era da sempre stata combattuta dalla
chiesa cristiana che vi vedeva la sopravvivenza di superstizioni pagane, che minacciavano il ruolo
sacerdotale di mediazione con il Sacro. Dalla metà del XIV secolo si sviluppò così l’idea che la
stregoneria fosse una setta ostile, fondata sul patto con il demonio e sul suo culto, culminante
nell’adunanza periodica del sabba (assemblea periodica di streghe e stregoni). La sua repressione fu
affidata, come eresia, all’Inquisizione.
Tra XIV e XV secolo le campagne e le città dell’Europa furono attraversate da un’ondata di rivolte.
A determinarla fu il peggioramento delle condizioni di vita a causa del susseguirsi di carestie,
epidemie, guerre e recessioni economiche. La crisi travolse, per lo più, i gruppi sociali più deboli,
accentuandone la loro subalternità e marginalità. Ad accrescere le tensioni, inoltre, furono anche le
pressioni che i grandi signori, i proprietari fondiari e gli imprenditori esercitarono sui lavoratori.
Ogni rivolta ebbe origine da situazioni particolari ed ebbe caratteri propri, ma caratteristica comune
fu l’assenza di ogni contestazione della legittimazione dell’autorità. I contadini infatti si batterono
per la redistribuzione della ricchezza e la partecipazione politica, senza mai contestare la figura del
re, e lo stesso valse anche per i lavoratori salariati urbani che non contestarono mai i loro governi.
Nelle campagne la condizione dei contadini non migliorò. Il calo della rendita fondiaria indusse molti
signori a tornare ad esigere i vecchi diritti signorili, a cominciare da quelli fiscali e dalle corvées (→il
lavoro che il vassallo doveva fare per il signore). Le tensioni sociali, che assunsero la forma di un
sempre più aperto contrasto tra ricchi e poveri, furono accentuate dall’introduzione di nuove tasse
per finanziare le guerre, e ciò fu all’origine delle maggiori rivolte rurali. Tra le altre rivolte si può
ricordare che:
Le città delle Fiandre conobbero per più di un secolo, sin dalla fine del XIII secolo (1297),
tumulti e insurrezioni, inaspriti dal blocco delle importazioni di lana inglese in seguito alla
guerra. In molte città gli artigiani tessili, in lotta con gli imprenditori, riuscirono a prendere
posto nei consigli cittadini e a imporre governi basati sulle arti. Apprendisti e lavoratori si
batterono per migliori condizioni di lavoro e per accedere alle rappresentanze corporative.
Inoltre, nelle fiandre occidentali una tassa disposta dal re di Francia nel 1323 spinse i
contadini a ribellarsi contro la nobiltà francofona, coinvolgendo anche gli operai tessili di
Bruges e Ypres. La repressione che durò fino al 1328, uccise migliaia di rivoltosi.
Improvvisa e violenta fu la rivolta dei contadini, nota come jacquerie, che scoppiò nella
Francia del nord nel 1358 che era ormai prostrata dalla Guerra dei cento anni (1337-1353) e
dalla pressione fiscale. La rabbia dei contadini si rivolse contro i nobili per via delle disfatte
militari che avevano subito contro gli inglesi, e per il desiderio di sottrarsi allo sfruttamento
signorile appesantito dagli oneri di guerra. La rivolta, che ebbe anche l’appoggio del popolo
e dei mercanti di alcune città, si manifestò con assalti e saccheggi ai castelli. I nobili
bloccarono rapidamente la ribellione, incendiando villaggi e uccidendo moltissimi uomini.
In Inghilterra fu istituita nel 1351 lo Statuto dei lavoratori che fissava un tetto massimo ai
salari con cui i coltivatori integravano i loro redditi lavorando a giornata le terre altrui.
L'introduzione di una tassa personale (poll tax) per finanziare la guerra fu la scintilla che
scatenò la rivolta dei contadini del Kent e dell'Essex nel 1381. A differenza dei rivoltosi
francesi, essi avanzarono precise rivendicazioni. Tra le richieste erano l'abolizione della
servitù, il ripristino degli usi sulle terre comuni, la soppressione dello statuto del 1351. I
rivoltosi saccheggiarono palazzi nobiliari a Londra e ottennero dal re la concessione di alcuni
privilegi.
Nelle città le condizioni dei lavoratori delle manifatture diventarono più precarie. Forte sviluppo
avevano avuto tra XIII e XIV secolo le corporazioni (arti, gilde) dei mestieri, sorte per tutelare gli
interessi comuni dei diversi settori, attraverso propri organi di governo e statuti. Di esse facevano
parte i proprietari e i capi delle botteghe, i soci, i collaboratori ma non i lavoratori salariati, che non
avevano neanche diritto a costituire proprie corporazioni. Una tale divisione sociale e giuridica del
lavoro consentiva agli imprenditori di fissare i massimi salariali, e ciò creò tensioni e sommosse nel
mondo delle manifatture, come quelle scoppiate a Firenze, che conobbe anche il primo sciopero
operaio della storia. Gli artigiani e i salariati in rivolta non contestarono la legittimità dei governi
urbani, ma aspirarono a costituirsi in corporazioni e a garantirsi la partecipazione politica. In Italia,
sommosse popolari scoppiarono nel corso del XIV secolo in diverse città. Soprattutto nei centri in
cui era forte la produzione tessile, l’obiettivo era quello di tutelare i salari e di estendere i diritti dei
lavoratori. Il tumulto più noto fu quello che esplose a Firenze nel 1378 per iniziativa degli operai della
lana, chiamati spregiativamente “ciompi” per la loro sporcizia, e da ciò deriva il nome “la rivolta dei
ciompi”. I ciompi avevano richieste specifiche. Essi infatti richiedevano: la partecipazione al governo
del comune con una propria arte, l’aumento dei salari e la tutela dalle oppressioni giudiziarie della
corporazione della lana. I ciompi ottennero inizialmente, per i propri rappresentanti, un terzo delle
cariche di governo, ma come in molte altre rivolte, anch’essi furono duramente repressi dalla
reazione degli imprenditori. Le condizioni di vita dei braccianti e dei salariati erano pessime e
precarie. Reclutati spesso a giornata, senza protezioni corporative e senza fissa dimora,essi
scivolavano facilmente nella povertà e molti si davano alla mendicità, alcuni alla piccola delinquenza.
Il fenomeno si fece massiccio e socialmente allarmante. Così, i vagabondi cominciarono a essere
percepiti come individui pericolosi, e in Inghilterra (1349) e in Francia (1351), negli anni centrali del
XIV secolo, vennero adottate le prime misure repressive nei loro confronti. Per combattere la povertà
molti governi adottarono politiche di assistenza, fondando enti caritativi e ospizi, distribuendo
elemosine, raccogliendo i fanciulli abbandonati, … . Per impulso dei francescani, nelle città italiane
furono fondati i “monti di pietà”(→ il primo a Perugia nel 1462), che concedevano piccoli prestiti
interessi contenuti.
Il ritrovato equilibrio tra risorse alimentari e numero degli uomini e l’aumento della produttività dei
raccolti posero le basi per l’inversione della tendenza demografica. Infatti, tra la fine del XIII secolo
e la prima metà del XV secolo, la popolazione europea non aveva fatto altro che diminuire
costantemente ma, a partire dalle metà del XV secolo, cominciarono ad avvertirsi dei segnali positivi
di ripresa demografica, che non conobbe battute d’arresto fino ai primi decenni del XVII secolo.
Infatti, il miglioramento dell’alimentazione aumentò la resistenza alle malattie e alle avversità
climatiche, le epidemie cominciarono a farsi meno virulente e il tasso di natalità aumentò. La crescita
demografica fu più precoce in Spagna e in Italia e più tardiva in Francia e in Inghilterra. La ripresa
demografica diede luogo anche a una redistribuzione della popolazione, come avvenne, per esempio,
in Italia, dove il peso demografico del Mezzogiorno si fece più consistente vivendovi un italiano su
tre. Le città meridionali diventarono infatti tra le più popolose del continente. Anche la ripresa
economica fu più marcata in alcune regioni europee rispetto ad altre. Nel settore agricolo, per
esempio, l’Olanda, la Lombardia e l’Inghilterra meridionale svilupparono un sistema integrato di
colture e allevamento molto progredito per l’epoca, alla cui base vi era un avanzato regime idraulico
che consentiva l’irrigazione dei prati e la coltivazione dei foraggi (fieno…) che servivano per nutrire
il bestiame, il quale forniva concime e prodotti alimentari (formaggio, carne…) per i mercati urbani.
Al contrario, le regioni come la Spagna e l’Italia meridionale, che si erano dedicate all’allevamento
brado e transumante di ovini (capre, pecore…) subirono un impoverimento dei terreni a lungo
termine. Nel corso del XV secolo si accentuò poi la trasformazione del mercante che da negoziatore
impegnato in prima persona nei commerci a lunga distanza, come era stato fino al XIII secolo,
divenne una figura sedentaria a capo di grandi compagnie con filiali estere operanti non più solo nel
traffico delle merci ma anche nel cambio del denaro, nella produzione manifatturiera e negli
investimenti fondiari. Un’organizzazione del genere consentì, per esempio, ai mercanti fiorentini di
superare i fallimenti di metà Trecento e di tornare ad essere protagonisti a livello internazionali, con
banchi come quelli dei Medici e degli Strozzi. Il caso più eclatante fu quello dei tedeschi Fugger, che
cominciarono la loro attività come commercianti di tessuti, ma operarono poi come operai e
banchieri sus cala europea, diventando i maggiori proprietari di miniere di rame e argento e dunque
ricchi a tal punto da poter finanziare l’elezione imperiale di CARLO V d’ASBURGO nel 1519. La lunga
fase di crisi attraversata dall’Occidente europeo coincise però con l’avvio del periodo di fioritura
artistica, letteraria, architettonica denominata Rinascimento. Ci si potrebbe chiedere com’è possibile
conciliare una depressione economica con una rinascita culturale. Ciò accadde perchè la
concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi benestanti permise loro di diversificare le proprie
attività economiche e di investire in cultura. Essi sostennero una forte domanda di beni di lusso
(palazzi, chiese, sculture, cappelle, pitture…) che dovevano essere arredate con prodotti di qualità e
di gusto, favorendo così lo sviluppo artistico, architettonico e letterario. Le élites mercantili e
nobiliari italiane furono all’avanguardia del fenomeno.
Lezione N°24: 14/12/2021
CAPITOLO 22 : IL PAPATO E LA SOCIETÀ CRISTIANA
Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo maturò, sul piano istituzionale ed ideologico, il declino
delle concezioni universalistiche del papato e dell’impero. In occasione del conflitto con il re di
Francia, Filippo IV, su chi avesse diritto di imporre le tasse sul clero e sui beni della Chiesa francese,
il papa Bonifacio VIII portò all'estremo gli ideali teocratici dei suoi predecessori. Nella bolla Unam
sanctam egli affermò che il potere temporale era affidato ai laici “secondo il comando e la
condiscendenza del clero”, e la necessità che “ogni creatura umana” si sottomettesse all'autorità del
“pontefice di Roma” per la propria salvezza. Quindi ogni potere civile doveva subordinarsi al potere
spirituale. Nonostante la crisi seguita all'interregno imperiale e al debole governo di Rodolfo I
d'Asburgo, s mantenne viva l'idea della necessità di un'autorità civile superiore, autonoma rispetto a
quella pontificia. In occasione della discesa in Italia di Enrico VII nel 1310, Dante Alighieri sostenne
la necessità di un impero universale, la cui autorità derivava direttamente da Dio. Il fallimento della
spedizione di Enrico non spense l'ideale imperiale, ma trovò nuove argomentazioni. Guglielmo di
Ockham concepiva la Chiesa come una società spirituale nella quale era negato al papa ogni
intervento nel dominio politico; Marsilio da Padova considerava il potere politico derivante da Dio
ma poggiante sul consenso del popolo. Ludovico fu incoronato nel 1328 ad opera di un laico. Filippo
IV il Bello (1285-1314) può essere considerato il sovrano che prima di altri comprese le conseguenze
della crisi dei poteri universali e le opportunità che si aprivano per una nuova legittimazione di quelli
monarchici. Nel conflitto contro Bonifacio VIII, egli ricorse agli “stati generali” per garantirsi il
sostegno delle diverse componenti del regno. Pietro Dubois giunse ad accusare Bonifacio di eresia
per aver osato attribuirsi il potere temporale, in una campagna contro il papa. Guglielmo di Nogaret
disse che i re non riconoscono alcun superiore al di sopra di loro, nemmeno l'imperatore, i poteri e
diritti del quale appartengono al re all'interno del proprio regno.
Dopo lo scontro il re fu scomunicato dal papa. Su consiglio di Guglielmo di Nogaret, il re concepì il disegno
di condurre il papa davanti a un tribunale francese per sottoporlo a giudizio di lesa maestà. Nel 1303 una
spedizione condotta da Nogaret e appoggiata dalla famiglia dei Colonna, nemica dei Caetani cui
apparteneva Bonifacio, lo raggiunse ad Anagni, sede della curia, dove fu coperto di insulti e arrestato.
Morì pochi giorni dopo. Nonostante lo scandalo sollevato, il re riuscì a far eleggere papa Bertrand de Got,
vescovo di Bordeaux, col nome di Clemente V. Temendo un'accoglienza ostile, il nuovo pontefice trasferì
la curia ad Avignone. La permanenza ad Avignone rafforzò i rapporti tra papato e regno di Francia. I 7
pontefici del periodo furono tutti francesi, come lo fu la maggior parte dei cardinali da loro nominati.
Anche il personale di curia fu francese. La curia poté sviluppare un efficiente apparato amministrativo
che consentì ai pontefici di rafforzare la natura monarchica del loro governo sulla Chiesa. Gli uffici di
curia furono rafforzati. La cancelleria, l'organo che produceva e conservava i documenti di
amministrazione e di governo, fu riordinata e ampliata nel 1331. A risolvere le situazioni + spinose furono
inviati i cardinali “legati”, che si posero anche personalmente a capo delle milizie mercenarie del papa. La
camera apostolica divenne l'ufficio di curia più importante, gestendo con scritture contabili correnti la
mole crescente di tasse, sussidi e cespiti raccolti nella cristianità attraverso un'estesa rete di nunzi e
collettori. Le entrate di cui i papi avignonesi poterono disporre ne fecero la quarta potenza finanziaria
d'Europa dopo i regni di Francia, Inghilterra e Napoli. La residenza ad Avignone fu caratterizzata anche
dall'accentuarsi dei fenomeni di corruzione che affliggevano la curia pontificia. Uno sviluppo lo ebbe la
vendita delle indulgenze, della remissione delle pene temporali inflitte ai peccatori. Dal XIV secolo fu più
facile ottenerle, bastava pagare una piccola somma di denaro. Queste pratiche contribuirono alla perdita
di autorità morale del papato. La curia pontificia fu oggetto di accuse crescenti di amoralità e di
mondanizzazione, del prevalere degli interessi temporali su quelli spirituali. Dante Alighieri espresse un
giudizio negativo, definendo Avignone un luogo di corruzione: scrisse di una “cattività avignonese”, di
una prigionia del papato da parte della corona francese. Si fecero più intense le preghiere e le sollecitazioni
perché il papato facesse ritorno a Roma da parte di prestigiose figure del mondo cristiano, come Santa
Brigida di Svezia. Gregorio XI riportò a Roma la curia nel 1377. La morte improvvisa di Gregorio XI aprì
un conflitto all'interno del collegio di cardinali, che si spaccò sull'elezione del nuovo pontefice. Il conclave
si svolse in un'atmosfera turbata da tumulti popolari. Venne eletto papa l'arcivescovo di Bari, Bartolomeo
Prignano con il nome di Urbano VI. I francesi elessero poi il cardinale Roberto di Ginevra con il nome di
Clemente VII e si trasferì di nuovo ad Avignone. Si aprì uno scisma interno alla Chiesa. I papi diedero vita
a due curie, una a Roma e una ad Avignone ed entrambi ebbero dei successori. Il mondo cristiano si trovò
diviso per anni in due schieramenti contrapposti, religiosi e politici.
La mondanizzazione della Chiesa acuì il malessere di chi manifestava esigenze di spiritualità più
intima e rigorosa e portò alla nascita di nuove correnti spirituali e alla loro violenta soppressione, chi
si opponeva alla sovranità pontificia fu accusato di ribellione e eresia e l’Europa Cristiana fu
attraversata da un’ondata di processi senza precedenti. Esempi di nuovi fermenti religiosi:
o ORDINE FRANCESCANO: una corrente di frati ispirati da Gioacchino da Fiore, ripresero
gli ideali di Francesco di povertà assoluta (pauperismo radicale = Francesco faceva parte di
una famiglia di mercanti ed era lui stesso un abile mercante che SCEGLIE la povertà. Questo
rifiuto della ricchezza portò scandalo. All’interno del movimento francescano, i credenti più
rigorosi si chiameranno “osservanti”; libro Frate Francesco di Giovanni Merlo). Alcuni
sostenitori di Gioacchino come Gerardo da Borgo san Donnino e Pietro di Giovanni Olivi
furono ritenuti colpevoli di eresia. Per contrastare il francescanesimo, al concilio di Vienna
del 1311 venne condannata la tesi centrale del pauperismo (secondo cui Cristo e gli apostoli
non possedessero niente) e quando nel 1322 il capitolo generale dell’ordine approvò certe
affermazioni sulla povertà di Cristo, papa Giovanni XXII le condannò come eretiche.
L’imperatore Ludovico il Bavaro sostenne gli spirituali e dichiarò deposto il pontefice nel
1328, ma molti frati furono comunque perseguitati dall’inquisizione, incarcerati o messi al
rogo;
APOSTOLICI: dai francescani si distaccò Gherardo Segarelli che fondò la setta degli
Apostolici, rifiutando l’autorità ecclesiastica e praticando la penitenza, il movimento fu
condannato come eretico e Gherardo fu messo al rogo nel 1300. A Gherardo subentrò fra
Dolcino, il quale predicava l’avvento di una quarta età in cui il papa e i cardinali sarebbero
stati deposti inaugurando un nuovo avvento dello Spirito Santo. Clemente V gli bandì contro
una crociata e Dolcino fu condannato a morte nel 1307;
GUGLIELMITI: i guglielmiti erano i seguaci di una donna, la boema Guglielma, che
sosteneva di essere inviata da dio e morta nel 1282. Tale setta credeva nell’avvento di una
nuova era dominata dalle donne e venerava Guglielma come una santa. Le autorità
ecclesiastiche ne bruciarono il cadavere e perseguitarono i suoi seguaci;
ORDINI MISTICI: in area francese e tedesca ebbe ampio sviluppo la mistica (rapporto diretto
con la divinità alla ricerca di una illuminazione interiore), e alcune donne che ebbero
atteggiamenti profetici, estasi e visioni divine vennero circondate da discepoli che credevano
che dio parlasse attraverso loro, fu il caso per esempio di Caterina da Siena, che sollecitò il
papa a tornare a Roma;
TESI DI JHON WYCLIF: il teologo britannico Jhon Wyclif contrappose alla “chiesa visibile”
del papa e dei sacerdoti, una “chiesa invisibile” fatta di tutti i cristiani sotto la diretta guida
di Cristo. Per lui il dovere del cristiano era seguire la parola di Dio e per questo promosse la
traduzione italiana della Bibbia. Nel 1382 le sue teorie furono dichiarate eretiche ma i suoi
seguaci detti lollardi continuarono a predicare per tutto il XV sec perseguitati
dall’inquisizione. Il pensiero di Wyclif fu ripreso dal boemo Jan Hus, fondatore della corrente
Hussita, condannato al rogo a Costanza nel 1415.
Lo scisma inaugurò un periodo difficile per il papato. I papi contrapposti furono costretti a
moltiplicare concessioni e privilegi ai sovrani e ai principi che li sostenevano. L'effetto fu quello di
un indebolimento dell'autorità pontificia. Alcuni principi cercarono di indurre i papi a riconciliarsi
con l'avversario. La situazione si era irrigidita nel corso di un trentennio che quando i prelati di
entrambi i fronti riuscirono a convocare a Pisa un concilio che depose e dichiarò scismatici ed eretici
entrambi i pontefici ed elesse un nuovo papa, Alessandro V, gli altri pontefici si rifiutarono di
abdicare. I papi divennero addirittura 3. Si diffuse poi la convinzione che solo un concilio ecumenico,
una grande assemblea di tutte le componenti della Chiesa, avrebbe potuto riportare ordine al suo
interno. Il problema era costituito anche dalla necessità di avviare un'opera di riforma che arginasse
il malessere diffuso nella vita religiosa e la diffusione delle eresie. Alcuni dottori e canonisti giunsero
a sostenere la superiore autorità del concilio su quella del pontefice in materia di dottrina e di fede,
e la necessità di riunirlo. A prendere l'iniziativa fu il re di Germania Sigismondo, che convocò il
concilio nella città imperiale di Costanza, inaugurando il 5 novembre 1414. Il concilio di Costanza
radunò centinaia di prelati e teologi e durò fino al 1418, dopo avere assunto importanti decisioni in
merito all'unità e alla riforma della Chiesa e alla purezza della fede. L'approvazione dei decreti Haec
Sancta e Frequens affermò che il concilio derivava il suo potere direttamente da Cristo ed esercitava
la sua autorità su tutti i cristiani compreso il papa. Nel 1417 fu eletto il primo papa ecumenico dopo
quarant'anni, Martino V, che convocò nuovi concili a Pisa e a Basilea. Qui furono ridimensionate le
prerogative del papa in materia di benefici e di fiscalità. Queste decisioni riaprirono i contrasti con il
nuovo pontefice Eugenio IV. Eugenio IV dichiarò decaduto il concilio e indisse una nuova assemblea
a Ferrara, dove convennero anche prelati e teologi greci per una soluzione dello scisma con la Chiesa
ortodossa con la quale fu sancita una precaria riunificazione nel 1439 a Firenze. La maggioranza dei
conciliaristi rimase a Basilea, processando Eugenio e nominando Felice V. mentre la Chiesa di Roma
si riconciliava con quella di Costantinopoli, il concilio promuoveva l'ennesimo scisma all'interno
della chiesa cattolica. Il pensiero radicale di Wyclif fu ripreso dal boemo Jan Hus che criticò
aspramente le indulgenze, il potere temporale, la ricchezza della Chiesa e l'indegnità del clero,
finendo scomunicato dalla curia romana nel 1412. Hus si recò a Costanza dove fu però processato
per eresia e condannato al rogo. La morte di Hus scatenò una violenta reazione nazionale in tutta la
Boemia: soprattutto i contadini e il basso clero si batterono per un rinnovamento religioso e sociale
contro l'oppressione dell'aristocrazia tedesca. L'ala hussita moderata degli “utraquisti” trovò un
compromesso con il concilio di Basilea, mentre quella più radicale dei “taboriti” fu sconfitta in
battaglia nel 1434 e dispersa. Il movimento conciliarista fu anche alla base della fondazione di Chiese
nazionali, che ruppero l'unità della cristianità. L'indebolimento dell'autorità pontificia consentì ai
sovrani di svincolare dal controllo della curia il governo delle istituzioni ecclesiastiche locali. Fu
questo il motivo principale del sostegno che le autorità laiche diedero inizialmente al movimento
conciliarista. Nel 1438 il re di Francia emanò la Prammatica sanzione, che si richiamava ai decreti di
Costanza e Basilea per proclamare l'elezione locali del vescovi e degli abati.
Lo scioglimento del concilio nel 1449 segnò la prevalenza dell'autorità del papato all'interno della
Chiesa. Anche teologi che avevano sostenuto le tesi conciliariste tornarono a insistere
sull'importanza di un governo unitario della Chiesa: il domenicano Juan de Torquemada svolse un
importante ruolo di mediazione tra la sede romana e i vescovi francesi, che riconobbero come papa
legittimo Eugenio IV; il filosofo tedesco Nikolaus Krebs che a Basilea si era impegnato per mediare
tra le posizioni conciliariste e quelle della curia pontificia, fu nominato cardinale e legato pontificio
in Germania. Lo stesso pontefice Pio II con la bolla Execrabilis negò l'idea del concilio come organo
permanente e superiore nel governo della cristianità. Dalla metà del 15 sec tornarono a consolidarsi
le tendenze alla centralizzazione del governo pontificio che si erano allentate in conseguenza dello
scisma. Con i sovrani europei furono raggiunti accordi che riconoscevano loro ampi gradi di controllo
locale delle tasse, delle giurisdizioni e degli uffici ecclesiastici in cambio del riconoscimento della
superiore autorità pontificia. Anche le entrate fiscali si fecero nuovamente intense. Il collegio dei
cardinali si dilatò fino a contare una settantina di membri, dando rappresentanza alle varie famiglie
sovrane. Il papato tornò a integrarsi pienamente nella politica italiana, restaurando il proprio
dominio sullo stato pontificio. Nel XIV secolo le gerarchie ecclesiastiche accentuarono il loro
orientamento mondano. I cardinali e i vescovi si occuparono di politica e di diplomazia, trascurando
la cura d'anima. Divenne prassi abituale l'accumulo dei benefici ecclesiastici e il loro subappalto.
Crebbe la pratica della non residenza: moltissimi titolari di cariche e di benefici consumavano le
rendite spesso senza risiedere in sede. Molti vescovi risiedevano stabilmente presso la curia
pontificia. Sin dal 12 sec i pontefici avevano affidato cariche e benefici ecclesiastici a membri della
propria famiglia. Questa pratica rispondeva all'esigenza di dotarsi di persone fidate
nell'amministrazione di curia e del governo della Chiesa. Alcune famiglie avevano arricchito le loro
fortune secolari, sfruttando le entrate dei grandi uffici ecclesiastici e le rendite dei benefici. Il
fenomeno si chiamava “nepotismo”, riprese vigore nella seconda metà del 15 sec. I papi conferirono
le alte cariche ecclesiastiche a fratelli, cugini, nipoti. Si crearono così vere e proprie dinastie di
cardinali, vescovi, alti prelati, dotate di grandi patrimoni. Dalla metà del 400 la curia pontificia
ritornò a essere un luogo ricco e fastoso, dove convenivano artisti, architetti e uomini di lettere in
cerca di committenze, uffici. Roma si avviò a diventare la capitale della Chiesa universale grazie a
profondi interventi urbanistici. Il Vaticano divenne la residenza stabile dei papi. Sorsero splendidi
palazzi privati per iniziativa dei cardinali e degli alti prelati che vi fissarono dimore piene di familiari.
La città divenne anche centro di nuovi interessi politici, finanziari e clientelari. Si rafforzarono le
esperienze di vita in comune, soprattutto femminile, dette di beghinaggio. I laici svilupparono
attività caritative e assistenziali attraverso l'opera delle confraternite. Grande diffusione ebbero i
“terzi” ordini laici che si impegnavano in esercizi di devozione e di pietà. Sorsero inoltre numerose
congregazioni di “osservanti”, perché in molti ordini monastici si manifestò l'esigenza di tornare alla
piena osservanza delle regole iniziali che si erano attenuate nel tempo.
Lezione N°25: 16/12/2021
CAPITOLO 23 : GLI IMPERI
Il potere dell'impero era stato ridimensionato dall'interregno seguito alla morte di Federico II e dalla
debolezza dei suoi successori, come Rodolfo I d'Asburgo. Dopo il fallimento dei tentativi di Enrico
VII di Lussemburgo e di Ludovico di Baviera di ridare vigore al potere imperiale, l'influenza degli
imperatori si ridusse al territorio tedesco. L'autorità imperiale non era riuscita a imporsi con efficacia
nemmeno all'interno della Germania. Il patrimonio imperiale era andato disperso nel corso del XIII
secolo. A indebolire l'autorità dell'imperatore concorreva anche il fatto che egli venisse eletto, senza
riuscire a creare una stabilità dinastica. Si venne affermando il ruolo di un numero di grandi elettori,
laici ed ecclesiastici, chiamati a designare il re di Germania: il re di Boemia, il marchese di
Brandeburgo, il duca di Sassonia nella dieta di Rhens, essi stabilirono che il futuro sovrano avrebbe
associato la corona regia e quella imperiale, senza la conferma del papa. Carlo IV di Lussemburgo
avvertì ancora la necessità di scendere in Italia per cingere la corona imperiale e legittimare la sua
autorità. Nel 1356 egli emanò una disposizione nota come Bolla d'oro. Questa fissò il collegio dei 7
principi che avevano il privilegio di eleggere l'imperatore secondo determinate ritualità. Il titolo
imperiale fu conteso tra XIV e XV secolo tra alcune grandi famiglie, le uniche che facendo leva su
grandi possessi erano in grado di assicurare un reale contenuto all'autorità regia. Ad alternarsi sul
trono furono le casate di Wittelsbach, Lussemburgo, Asburgo. I Lussemburgo riuscirono a
controllare la corona per circa un secolo (1348-1437), ma non poterono renderla dinastica. L'ultimo
sovrano della casata, Sigismondo, che anche re d'Ungheria, diede in sposa la figlia Elisabetta ad
Alberto II d'Asburgo favorendo la convergenza delle corone d'Austria, Boemia e Ungheria nelle mani
degli Asburgo. La carica imperiale divenne da allora dinastica. L'impero non ebbe mai una sovranità
uniforme. L'accentramento del potere regio non raggiunse mai i risultati e l'intensità delle principali
monarchie dell'Europa occidentale. Le concessioni di privilegi e diritti avevano reso la città e i
principati territoriali sempre più autonomi. L'autorità imperiale fu esercitata attraverso l'organismo
rappresentativo del parlamento imperiale (Reichstag). Solo Massimiliano d'Asburgo riuscì a
recuperare l'amministrazione della giustizia regia su tutti i territori tedeschi, istituendo un tribunale
imperiale e proclamando la “pace perpetua”. I territori erano chiamati Länder, cioè i territori retti
da un signore, accomunati da un unico diritto e spesso da patti di pace territoriale sottoscritti dai
diversi organismi politici presenti al loro interno. Nel Länder i principi affermarono strutture
amministrative tipiche degli stati sovrani, con apparati fiscali, eserciti, tribunali d'appello, funzionari,
assemblee rappresentative. Nell'area renana si erano sviluppate le maggiori città tedesche. Il
rafforzamento dei principati territoriali indusse la città a unirsi in leghe. Le alleanze erano state
vietate dalla Bolla d'oro, ma il fenomeno dilagò dopo la morte di Carlo IV. La Germania fu travagliata
da uno stato di guerra continuo tra i principi e le città. La lega delle città sveve, si batté contro i conti
del Württemberg. Le leghe poi subirono pesanti sconfitte dagli eserciti signorili e furono costrette a
sciogliersi in seguito alla pace generale del 1399. Le città dell'area baltica e renana avevano dato luogo
sin dalla metà del XII secolo a unioni di mercanti tedeschi indicate col termine Hansa. Le varie
associazioni si fusero in unica lega egemonizzata da Lubecca, che giunse a comprendere oltre 200
centri non solo tedeschi ma anche dei Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Polonia. L'Hansa divenne una
potenza economica e militare di primo piano per tutto il XV secolo, compiendo spedizioni navali.
Essa puntò a tutelare gli intensi traffici commerciali che si svolgevano nei suoi empori. Per quanto
riguarda il regno di Boemia: Giovanni di Lussemburgo, incorporò la Boemia nell'impero
inaugurandovi la presenza della sua casata. Raggiunse il suo apogeo con il lungo regno di Carlo IV
che rinunciò ad esercitare il potere imperiale sull'Italia. Pose a Praga la propria residenza, vi fondò
la prima università dell'Europa centrale, ed estese il regno incorporando il Brandeburgo. Carlo fu
considerato dai suoi sudditi il “padre della patria” boema, perché controbilanciò la presenza degli
elementi tedeschi al vertice della Chiesa e della società locali. Un principato territoriale particolare
fu quello costituito dall'ordine religioso militare dei Cavalieri teutonici, protagonista dell'espansione
tedesca lungo le regioni baltiche. Essa diede nuovo slancio alla conquista e all'evangelizzazione della
Pomerania e della Prussia. Il principato dell'Ordine teutonico si dotò di un'articolata organizzazione
amministrativa centrata intorno al Gran maestro residente nella Prussia orientale. Il culmine della
potenza fu sotto la guida di Winrich von Kniprode, quando furono fondati oltre 1.400 villaggi e varie
città.
Dopo il saccheggio di Costantinopoli del 1204, i crociati si spartirono il territorio bizantino in
principati dando vita a un cosiddetto “impero latino d'Oriente”, di cui i veneziani monopolizzarono
gli empori commerciali. Intorno alla dinastia dei Lascaridi si organizzò a Nicea il progetto di
riconquista bizantina della compagine imperiale. L'alleanza con i mercanti genovesi consentì a
Michele Paleologo di riprendere Costantinopoli nel 1261 e di restaurare la sovranità imperiale. Anche
l'impero bizantino si vide sempre più costretto a una dimensione regionale: impero “greco” e non
più “romano”. L'impero bizantino dovette difendersi dagli attacchi che provenivano dagli stati slavi
nei Balcani e dall'avanzata dei turchi in Oriente. Sotto la dinastia dei Paleologi la concessione di terre
in beneficio divenne generalizzata ed ereditaria. La gerarchia burocratica non fu più selezionata dal
potere centrale ma basata sui legami familiari. L'economia ne uscì indebolita: il commercio e la
finanza restarono nelle mani dei veneziani e dei genovesi; la continua svalutazione della moneta
contribuì a determinare un'irreversibile recessione. Nonostante la crisi, si sviluppò un'intensa vita
culturale che ebbe nella città di Mistrà nel Peloponneso il suo centro maggiore. Il movimento
culturale rivendicò l'antico primato della civiltà greca sostituendolo al mito dell'universalismo
imperiale bizantino. All'interno della Chiesa ortodossa permaneva viva una dialettica tra un
orientamento favorevole a ricucire lo scisma con la Chiesa cattolica e uno deciso a rafforzare le
differenze. La prima componente fece un estremo tentativo di riconciliazione tra le due Chiese
durante il concilio di Firenze del 1439. La seconda si strinse intorno al movimento monastico guidato
dal monte Athos.
Sin dal 1058 la dinastia turca dei Selgiuchidi aveva assunto la guida di fatto del califfato di Baghdad, dove
la dinastia arabi degli Abbasidi conservò solo nominalmente il titolo califfale fino all'invasione dei
mongoli. Anche l'Egitto passò sotto il controllo dei Selgiuchidi, quando il sultano Yusuf dichiarò deceduta
la dinastia araba dei Fatimidi e costituì una vasta dominazione personale estesa fino alla Siria, Arabia.
Dal 1250 vi si installarono i mamelucchi, in origine soldati schiavi di etnia turca che si erano emancipati
al servizio dei vari potentati musulmani. Nelle regioni orientali l'invasione dei mongoli aveva reso i
Selgiuchidi soggetti al gran khan, frantumando l'Anatolia in una serie di piccoli emirati. Da uno di questi
prese avvio l'affermazione degli Ottomani, una piccola tribù turca che cominciò ad espandersi in tutta
l'Asia Minore sotto la guida della dinastia, l'emiro Osman I. Nel 1354 si insediarono nella penisola europea
di Gallipoli. Nei Balcani gli Ottomani si scontrarono con il regno di Serbia, che aveva conosciuto il proprio
apogeo al tempo di Stefano IX Dusan, che sfruttando una crisi dinastica a Bisanzio si era fatto proclamare
“imperatore dei bizantini”. L'esercito serbo venne battuto nel 1371 e poi sbaragliato nel 1389 a Kossovo,
dove trovò la morte lo stesso Murad I. I serbi dovettero assoggettarsi ai turchi, come aveva fatto
l'imperatore di Bisanzio. L'espansione ottomana proseguì verso la Macedonia, Bulgaria e Valacchia. Una
crociata fu bandita dal papa Bonifacio IX non appena si sparse la notizia della caduta della Morea
bizantina: alla spedizione parteciparono francesi, veneziani e genovesi con l'intento di soccorrere
Costantinopoli. L'esercito dei cavalieri occidentali fu sconfitto a Nicopoli e il califfo di Baghdad riconobbe
al capo ottomano Bayazid I il titolo di sultano.
Gli Ottomani stavano per puntare alla conquista di Bisanzio quando furono investiti dalla rinnovata
espansione mongola. A promuoverla fu un capo tartaro, Timur-lenk, di fede musulmana sunnita, che
dalla regione di Samarcanda mosse una serie di fulminee campagne di guerra. Entro il 1388 completò la
conquista della Persia, saccheggiò Delhi in India, per poi spingersi alla conquista della Mesopotamia,
della Georgia e dell'Armenia compiendo incursioni in Siria e saccheggiando Baghdad nel 1401. L'anno
dopo sconfisse e catturò Bayazid I, arrestando l'ascesa dell'impero ottomano e conquistando parte
dell'Anatolia. Tamerlano morì alla testa di una grande spedizione diretta alla conquista della Cina.
Durante il suo regno Samarcanda conobbe grande splendore e fu centro di un'intensa vita culturale. Dopo
la sua morte il vasto impero si disgregò in pochi decenni. Gli Ottomani ripresero l'espansione in Asia, nel
Mar Nero e nei Balcani. Di fronte alla minaccia gli imperatori bizantini chiesero invano aiuto a un'Europa
prostrata dalla guerra dei Cent'anni. Un esercito crociato guidato dal re di Polonia e di Ungheria fu
sconfitto a Varna in Bulgaria. Maometto II cinse d'assedio Costantinopoli che cadde il 29 maggio 1453 e
fu saccheggiata per giorni: l'ultimo imperatore bizantino, Costantino IX vi morì combattendo. Nei
decenni successivi i sultani sottomisero gran parte della Grecia e dei Balcani, spazzando via dall'Egeo e
dalla Crimea. Nel 1480 occuparono anche Otranto sulle coste pugliesi. Fu Maometto II ad assicurare
l'uniformità amministrativa e giuridica dell'impero, sul fondamento della legge coranica musulmana
(sharia). L'organizzazione dell'impero ottomano fu accentrata nelle mani del sultano. Nelle funzioni di
primo ministro agivano i vizir, spesso uomini di umili origini, mentre le province dell'impero e gli stati
venivano governati da governatori. I sultani legarono a sé una dirigenza ottomana etnicamente slava o
greca ma culturalmente islamica. Il nucleo della potenza militare era costituito dal corpo dei “giannizzeri”,
istituito nel 1334 dal sultano Orkhan, reclutati tra i giovani cristiani delle province balcaniche dell'impero.
Il governo turco fu meno oppressivo di quello bizantino e tollerante della religione delle popolazioni
sottomesse, che rimasero in larga parte cristiane ortodosse.
CAPITOLO 24 : DAI REGNI AGLI STATI
In rafforzamento in senso statale dei regni fu caratterizzato dall'evoluzione di processi già in atto e
dell'emergere di nuovi fenomeni. Tra gli elementi di continuità va evidenziato:
Molteplicità degli organismi di base che costituivano gli stati e godevano di propri poteri
(signorie, città, comunità rurali, istituzioni ecclesiastiche…). Il peso dei poteri locali continuò
a essere forte, solo in Francia e Inghilterra si costituirono delle monarchie di carattere
nazionale;
La nobiltà continuò a godere dei suoi privilegi, i nobili continuarono a ricevere investiture
feudali dai sovrani e gli si aprirono inoltre prestigiose cariche ecclesiastiche;
Le città e i gruppi dirigenti urbani continuarono a esercitare influenza politica sul potere regio
e nelle magistrature crebbe la presenza di membri delle corporazioni mercantili e artigiane;
Anche il clero continuò a godere dei privilegi giurisdizionali e fiscali, nonostante la volontà di
sovrani e principi di controllare le istituzioni ecclesiastiche;
La forza dei poteri locali costrinse i sovrani a creare con essi un dialogo politico
coordinandone le diverse istanze. Così facendo i re si mostrarono come i referenti delle varie
parti del regno, tutori dell’ordine interno e difensori dai nemici. Questa fu la base ideologica
che legittimò il potere regio consentendogli di imporre tasse, amministrare la giustizia e
potenziare gli apparati militari;
L’apparato amministrativo continuò a essere articolato in organismi centrali e uffici periferici.
Invece gli elementi di novità da evidenziare sono:
Sorsero le alte corti di giustizia, uffici specializzati del regno (camere fiscali, consigli del re…).
Come conseguenza sorsero un numero crescente di ufficiali con funzioni sempre più definite:
castellani, capitani, balivi, sceriffi… = con gli ufficiali cominciò a formarsi un’embrionale
burocrazia che reclutava gli uomini non in base allo status ma alle conoscenze acquisite nelle
nuove università. Tali funzionari furono impiegati negli uffici finanziari, nei tribunali, nelle
cancelleria… dove era cioè richiesta la conoscenza del diritto. Col tempo gli ufficiali
costituirono un vero e proprio ceto;
Tali crescenti funzioni del governo aumentarono le esigenze finanziarie dei sovrani e le
rendite dei territori si rivelarono insufficienti a coprire tutte le spese del regno. Per risolvere
il problema fu fatto ampio ricorso al prestito dei banchieri internazionali (garantendo in
cambio introiti futuri o concedendo feudi) = quando i re non furono in grado di pagare tutti
i debiti provocarono clamorosi fallimenti delle compagnie finanziarie. Altro modo per
procurarsi denaro fu l’imposizione di sempre più tasse, che talvolta scatenarono rivolte; o Per
garantire l’ordine pubblico contingenti di milizie furono dislocate nei territori del regno per
controllare periodicamente l’attività di tribunali locali e istituendo nuovi tribunali affidati ai
giudici della corona, che in Francia furono chiamati parlamenti;
Novità importante riguardò gli eserciti, chiamati a sostenere battaglie sempre più lunghe e
costose, e per questo non più formati da truppe male addestrate ma da mercenari (che
potevano però rivelarsi infedeli e compiere saccheggi in caso di mancati pagamenti), o eserciti
permanenti, mantenuti anche in tempi di pace e nominati direttamente dal re;
Furono creati funzionari incaricati di occuparsi delle relazioni diplomatiche con i governi
stranieri (sistemi di relazioni diplomatiche permanenti): essi risiedevano stabilmente presso
le corti estere, godevano della salvezza della vita ed erano in costante rapporto con la
madrepatria.
La formazione degli stati europei si svolse in continuità con i precedenti processi di affermazione dei
poteri monarchici. Malgrado il rafforzamento dei poteri sovrani gli stati rimasero caratterizzati però dalla
presenza di una molteplicità di “corpi” politici, quali le città, i principati territoriali, che esercitavano
poteri e prerogative con ampi spazi di autonomia. L'autorità dei sovrani non fu mai esercitata ovunque
nel regno in forma diretta e assoluta. I re non avevano la forza politica e militare di poterla imporre, ma
nemmeno la volontà e il loro potere fu limitato da un'eterogenea pluralità di organismi politici e minori.
Una tendenza comune fu rappresentata dalla capacità dei sovrani di accrescere le proprie prerogative e
di consolidare i propri poteri. A renderne precari i risultati non furono solo le crisi dinastiche e le sconfitte
militari, ma soprattutto la forza dei “corpi” politici presenti nel regno. Ci furono rivolte della nobiltà e
delle città. Per esempio a Parigi, la corporazione dei mercanti, che con a capo Etienne Marcel si batteva
per porre sotto controllo la gestione delle finanze del regno, si pose alla guida della rivolta che portò
all'instaurazione di un governo borghese. L'esito dei conflitti e delle resistenze dei corpi politici fu la
ricerca da parte dei sovrani di modi di legittimazione che derivassero da accordi consensuali. Le città e
signori si sottomisero all'autorità dei sovrani e questi delegarono loro una parte del governo dei territori
dello stato. Si delineò una duplice tendenza solo in apparenza contraddittoria: da un lato verso
l'estensione dei poteri di intervento centrale e dall'altro verso il riconoscimento delle prerogative dei corpi
locali. Questi si proposero come mediatori tra i vari corpi politici, tutelandone le autonomie e garantendo
che l'equilibrio degli interessi e dei privilegi non minacciasse la pace e l'unità del regno. Espressione
istituzionale del patto tra il sovrano e i corpi del governo furono le assemblee: “stati generali” in Francia,
cortes in Spagna, parlamenti in Inghilterra, le diete in Germania. Esse erano costituite dai rappresentanti
dell'aristocrazia e della piccola nobiltà, del clero, dei mercanti delle città. Il sovrano era tenuto a
convocarle quando intendeva emanare una legge o introdurre una tassa che potesse ledere i privilegi
tradizionali: si diffuse il principio “ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti”. Le assemblee
divennero il luogo del dialogo e della mediazione tra gli interessi della corona e quelli dei gruppi politici
e sociali più importanti dei regni. Le assemblee contribuirono a rafforzare la coesione sociale e politica
dei regni. In vari stati si era cominciata a formare una consapevolezza dell'esistenza di interessi comuni
tra tutti gli abitanti di un territorio e dell'appartenenza a un'unica comunità politica. In alcuni stati la
coscienza di appartenere a una comunità con caratteri propri anche dal punto di vista linguistico e
culturale diede forma a un comune sentimento di appartenenza nazionale. Un segnale importante fu dato
dal concilio di Costanza, dove i partecipanti decisero di votare per nazioni. Perfino nei documenti
imperiali cominciò ad apparire a metà dal 15 sec la definizione di “sacro romano impero della nazione
germanica”. L'affermazione dei poteri statali non passò solo attraverso il rafforzamento degli apparati
istituzionali, ma molto contarono anche gli aspetti informali del potere. In primo luogo, la sua natura
sacrale: l'unzione dei re al momento dell'incoronazione. Inoltre essi ricorsero alla fedeltà di parenti e
amici, ricompensando le proprie clientele con l'assegnazione di uffici, rendite, e benefici ecclesiastici.
Decisivo si rivelò anche il riconoscimento da parte del potere centrale dell'esistenza nei territori locali di
aggregazioni parentali e di fazioni politiche che organizzavano il consenso e gestivano la distribuzione
delle risorse nelle città.
Lezione N° 26: 20/12/2021
CAPITOLO 25 : VERSO GLI STATI NAZIONALI
Si usa definire come guerra dei Cent’anni la serie di conflitti bellici che, in Francia, contrapposero la
corona inglese a quella francese tra 1337 e 1453:
- FASE 1: Da secoli i re Inglesi possedevano territori nel regno di Francia. Quando nel 1328 il
re di Francia Carlo IV morì senza eredi, suo nipote re d’Inghilterra Edoardo III rivendicò il
diritto di succedergli MA la guida del regno fu affidata a Filippo VI di Valois che confiscò i
feudi francesi di Edoardo costringendolo a muovere guerra nel 1337. L’esercito di Edoardo
sbaragliò più volte la meno organizzata cavalleria francese facendo precipitare la Francia nel
caos: nel 1358 i contadini insorsero contro la nobiltà mentre a Parigi si rivoltarono i mercanti
che imposero agli stati generali il controllo dell’amministrazione regia. La pace di Brétigny
del 1360 sancì la sovranità inglese su circa un terzo del territorio francese.
- FASE 2: nei decenni seguenti le ingenti spese belliche fecero scoppiare disordini anche in
Inghilterra, consentendo ai francesi di riconquistare entro il 1380 tutti i domini inglesi sul
continente (a esclusione di pochi avamposti costieri).
- FASE 3: a causa dei disturbi mentali del nuovo re di Francia Carlo VI emersero due fazioni
che portarono a una lunga guerra civile in Francia che permise a Enrico V d’Inghilterra di
riprendere le ostilità, vincere la battaglia di Azincourt nel 1415 e conquistare nel 1420 quasi
tutta la Francia settentrionale ottenendo la reggenza di Francia;
- FASE 4: alla vittoria di Enrico V prese corpo una reazione antinglese per opera delle
popolazioni contadine, spinte da Giovanna d’Arco, una giovane che sosteneva di sentire voci
dal cielo che le dicevano di aiutare Carlo VII. Fu Giovanna a guidare le milizie regie alla
liberazione di Orleans nel 1429 ridando morale alle truppe francesi. Quando nel 1435 il duca
di Borgogna si riconciliò con Carlo VII il conflitto ebbe fine con una serie di vittorie francesi
tra 1449-1451. Dal 1453 agli inglesi rimase in territorio francese solo il porto di Calais.
Dopo la guerra entrambi i regni assunsero una fisionomia stabile, destinata a durare nel tempo, e
videro nascere un nuovo sentimento nazionale che portò alla trasformazione di un conflitto fra
dinastie, a un conflitto fra paesi, che maturarono senso di appartenenza e odio per gli stranieri. In
Francia e Inghilterra il processo di formazione statale fu più intenso rispetto agli altri regni, e solo in
essi i poteri monarchici riuscirono a delimitare fortemente gli altri corpi politici.
LO STATO FRANCESE:In Francia, Filippo IV fu capace di attuare decisi interventi di rafforzamento
patrimoniale e fiscale. L’esito favorevole del conflitto con il papato, gli consentì di attuare confische
ai danni del clero ed incrementare nel 1312 i ricchi beni francesi dell’ordine dei templari, dopo averne
decretato la soppressione e fatto processare dall’inquisizione i membri. Egli rafforzò anche gli uffici
periferici con i funzionari pagati dalla corona. lo sviluppo delle istituzioni di governo regio alternano
fasi di affermazione e di arretramento, che possono essere distinte in almeno tre periodi:
tra il 1330 e il 1380 la pressione fiscale si inasprì per le spese belliche dando luogo a conflitti
sociali che furono in parte composte da un più intenso coinvolgimento degli stati generali e
provinciali le quali erano assemblee straordinarie che il sovrano convocava in circostanze
particolari.
tra il 1380 e 1430, L’autorità del re si indebolì profondamente per motivi dinastici e per le
vicende della guerra.
tra il 1430 e il 1490 la ritrovata autorità regia promosse un deciso rafforzamento del controllo
monarchico del territorio del regno, grazie al radicamento di un apparato di ufficiali ormai
inamovibili e all’integrazione nello stato dei principati periferici.
Nel corso del XIV secolo a corte furono creati organi supremi giudiziari, fiscali e di controllo:
rispettivamente, il parlamento, la tesoreria e la corte dei conti. Nel 1328 fu redatto il primo
censimento fiscale del territorio regio e nel 1341 indotta la gabella del sale. Il controllo strategico
delle entrate fiscali fu affidata a specialisti: i cosiddetti “ricevitori”. Questi ultimi erano eletti dagli
Stati generali. Nel 1345 furono convocati per la prima volta anche gli Stati provinciali. quando nel
1392 Carlo VI fu riconosciuto incapace di governare emersero due fazioni contrapposte. Quella
guidata dal fratello del re Luigi d’Orleans Che sostenne la continuità della politica fiscale e che
favoriva la nobiltà, il clero e ora anche gli stessi ufficiali. A questa fazione si opponeva la fazione
guidata dal duca di Borgogna Filippo l’ardito, zio paterno di luigi, che sosteneva una riforma in senso
antifiscale e sostenuta dalla nobiltà minore, le elites urbane mercantili, le stesse masse popolari
parigine. La fazione degli armagnacchi sostenne la centralità della corte reggia. La fazione dei
borgognoni sostenuta dagli inglesi li affiancò nella guerra. Carlo VII attuò delle riforme, sul piano
fiscale la taglia fresa stabilmente annua. Riformò l’esercito con la creazione di compagnie
permanenti di cavalieri e di arcieri. Nel 1454 fu ordinata la redazione per iscritto di tutte le
consuetudini territoriali del regno. Luigi XI fu impegnato a fronteggiare l’irrequietezza dell’alta
nobiltà, quali data nel 1465 e sconfitta. Ciò gli consentì di recuperare il controllo diretto del regno
dei feudi. in Francia si sviluppò un diffuso sentimento di identità nazionale, negli anni dello scisma
si diffuse infatti tra il clero francese un movimento che sosteneva la propria autonomia e che subito
ottenne l’interessato sostegno dei sovrani. Anche la vicenda di Giovanna d’arco che incarnò un
patriottismo mistico in cui la fede in Dio e la libertà della Francia si fondevano, contribuì ad
alimentare il sentimento nazionale soprattutto dopo che nel 1431 gli inglesi la fecero condannare a
rogo come eretica. Riabilitata nel 1456 Giovanna è considerata la Santa nazionale francese.
LO STATO INGLESE: L’affermazione di forme statali più complesse si caratterizza in Inghilterra per
il maggiore equilibrio tra il potere della corona e le altre forze politiche del regno. Centrale in questo
processo, risulta il ruolo del parlamento. Accanto ai baroni e agli altri prelati di figurarono anche i
rappresentanti delle contee e delle città e il basso clero. Tra il 1320 e il 1340 il parlamento divenne
una vera e propria istituzione di governo, stabile e codificata, con responsabilità legislative e fiscali.
Si venne anche articolando in una camera alta detta house of Lords cioè degli aristocratici e in una
camera bassa la House of Common cioè dei rappresentanti delle contee e delle città che presto si dotò
di un portavoce. Gli organismi centrali si stabilirono a Westminster, che accoglie l’ufficio finanziario
dello scacchiere, le alte corti di giustizia affidati a professionisti e la cancelleria. Nelle contee, nel
1327 furono introdotti i giudici di pace che ne assorbirono buona parte delle funzioni giudiziarie e di
polizia. la novità era costituita dal fatto che si erano eletti localmente tra la piccola nobiltà per
sovraintendere all’amministrazione locale in nome del parlamento e del re. la media e piccola
aristocrazia regionale, cominciò a rappresentare stabilmente le con te nella camera dei comuni dalla
metà del trecento e a crescere ulteriormente di status mettendosi al servizio sia del re sia dei Lord. la
grande aristocrazia era costituita invece da poche decine di potenti e partecipava al titolo individuale
ma ereditario alla camera dei Lord. Fortescue, osservò come a differenza del re francese, quello
inglese potesse governare solo con il consenso dei sudditi. le conseguenze fiscali della guerra contro
i francesi determinarono rivolte e malessere sociale alla fine del trecento. Gli aristocratici si divisero
in due fazioni guidate luna dalla dinastia regnante dei Lancaster e l’altra dalla casata degli York: la
prima ebbe come simbolo una rosa rossa, la seconda una rosa bianca. Da qui il nome di guerra delle
due rose per indicare le furiose lotte che insanguinarono il paese tra il 1455 e il 1485. Quando Enrico
VII della casata dei Tudor, imparentata con i Lancaster, sconfisse Riccardo III di York nel 1485 e
sposò Elisabetta di York, mettendo fine al lungo conflitto e trovò un patrimonio della corona
enormemente incrementato. oltre ai territori francesi definitivamente perduti nel 1453 le ambizioni
di espansione territoriale del regno inglese si rivelarono fallimentari anche nei confronti della Scozia
e delle Fiandre. Gli scozzesi avevano stretto alleanza con la Francia di Filippo Quarto che intese così
controbilanciare l’appoggio che gli inglesi avevano dato alle città delle Fiandre. Nemmeno gli inglesi
riuscirono a radicarvi nelle Fiandre e la regione fu infine annessa al ducato di Borgogna nel 1384.
Anche in Inghilterra emerse un sentimento di appartenenza nazionale che riguardò principalmente
le élites del regno. A corte dove dai tempi di Guglielmo il conquistatore si era parlato francese,
l’inglese cominciò essere impiegato soprattutto per l’impulso dato dai sovrani come Enrico Quarto
Enrico V. L’inglese divenne lingua ufficiale anche nei tribunali, la Bibbia fu tradotta nel 1380 e i
racconti di Canterbury scritti da Chaucer fondarono la letteratura nazionale inglese. Il mancato
coinvolgimento popolare si spiega invece anche con il fatto che la guerra contro i francesi non fu
combattuta in territorio inglese.
CAPITOLO 26 : ALTRE ESPERIENZE STATALI
GLI STATI IBERICI: Anche nei regni iberici che si erano consolidati dopo la riconquista si possono
osservare delle tendenze comuni verso la formazione dello Stato. In primo luogo il rafforzamento
delle strutture amministrative centrali e territoriali, con la formazione di gruppi di ufficiali
professionisti. Crescente si fece il ruolo delle elites della città cui il re avevano concesso ampie
autonomie. Non si era formata nemmeno una cultura uniforme né tantomeno un comune
sentimento nazionale. il rafforzamento dei poteri dei re portoghesi subì un’accelerazione con Dionigi
primo, che contrappose alla potenza nobiliare il sostegno alle Elite mercantili, fondando l’università
a Lisbona, promuovendo lo sviluppo dei commerci e avviando la creazione di una flotta da guerra. I
suoi successori riorganizzarono l’amministrazione della giustizia e costruirono un esercito nazionale.
Le Cortes acclamarono re Giovanni I che promosse le esplorazioni geografiche lungo le coste nord
occidentali africane di cui fu grande artefice il principe Enrico il navigatore: dopo la conquista di
Ceuta, seguirono quelle delle isole di Madera, delle Azzorre, di capo verde, delle coste del Senegal e
del Gambia, e di Tangeri. Il controllo delle rotte marittime attraverso le basi commerciali e militari
lungo le coste, diede ai portoghesi il monopolio delle spezie. la struttura economica del paese, rimase
sostanzialmente agricola. Nel regno di Castiglia già Alfonso X aveva promosso una grande opera di
unificazione giuridica che fu ulteriormente completata da Alfonso XI. Le leghe urbane furono
soppresse dallo stesso Alfonso, durante il suo regno nelle città furono inviati degli ufficiali regi
mentre negli uffici centrali crebbe l’importanza della componente formatasi nelle università detti i
letrados. si formarono delle ampie signorie aristocratiche, dominio dell’economia pastorale, e nelle
città fu favorita la nobiltà urbana. il ruolo politico delle Cortes perse centralità mentre crebbero le
relazioni clientelari che facevano capo alla corte reggia. Il regno di Aragona si configurò piuttosto
come una confederazione in cui le diverse componenti: Aragona, catalogna, Valencia e Maiorca
formalizzarono per iscritto le proprie consuetudini e negoziarono privilegi generali di tipo diverso
con la monarchia. Il potere delle cors riconosciute sin dal 1283 rimase condizionante. Esse giunsero
a istituire nel 1359 un organo permanente di controllo finanziario e amministrativo. il governo
unitario del regno resta pertanto sempre debole. alla conquista delle Baleari, della Sicilia e della
Sardegna, fece seguito nel corso del XIV secolo anche l’acquisto di alcuni possedimenti
nell’arcipelago Egeo. La Sicilia fu pienamente incorporata nel regno, nel 1442 fu acquisito anche
quello di Napoli per opera di Alfonso il magnanimo che cerco un vasto dominio Mediterraneo della
corona d’Aragona. il predominio aragonese compromise l’egemonia commerciale dei mercanti
italiani in particolare di quelli genovesi.La lunga lontananza di Alfonso, provocò gravi squilibri
politici all’interno del regno che dopo la sua morte generarono in una guerra civile. solo quando nel
1469 Isabella, erede al trono di Castiglia, sposò Ferdinando Secondo, erede al trono d’Aragona, si
posero le basi per la pacificazione e la formazione di uno Stato nazionale spagnolo. I sovrani
puntarono a creare un elemento unificante mobilitando a una rinnovata crociata contro i nemici
della cristianità. Nel 1481 fu rilanciata la riconquista che portò alla caduta nel 1492 dell’ultimo
emirato musulmano in terra iberica, quello di Granada. La sua popolazione fu sottoposta a una
cristianizzazione forzata. Nello stesso anno furono espulsi dal regno anche le numerose comunità
ebraiche. A vigilare sulla purezza della fede dei territori liberati dai suoi nemici fu posto il tribunale
dell’inquisizione guidato dal domenicano Tommaso di Torquemada che perseguitò inflessibilmente
ogni sospetto di eresia.
L’evoluzione in senso statale non fu promossa solo dalle monarchie ma anche da alcune regioni
europee, che diedero vita a formazioni politiche diverse. Tra queste:
- Le ricche città mercantili delle Fiandre, del Brabante e dell’Hainaut riuscirono a
ottenere nel corso del XIV secolo ampi margini di autonomia dal regno di Francia dopo la
vittoria a Courtrai nel 1302. Tra il 1337 e il 1345 partì da Gand (in Belgio) una rivolta che
diede vita a una lega di città. Questa rivolta fu guidata dal borghese JACOB VAN
ARTEVELDE e si caratterizzò per il fatto che le aspirazioni all'autonomia urbana si univano
con i sentimenti nazionali a carattere antifrancese. La regione fu annessa dal 1384 al ducato
di Borgogna, ma mantenne sempre una rilevante autonomia, testimoniata dalla concessione
nel 1477 di un “Grande Privilegio” da parte della duchessa MARIA DI BORGOGNA, dopo una
serie di rivolte verificatesi nella seconda metà del XV secolo.
- Ducato di Borgogna: approfittando della guerra franco-inglese (cioè la Guerra dei 100
anni), si formò tra la Francia e l’impero un ampio ducato centrato sulla Borgogna e poi
progressivamente esteso alla Lorena, al Lussemburgo, alle Fiandre, ai Paesi Bassi e ad altri
territori. I duchi del ducato di Borgogna, a cominciare da FILIPPO L’ARDITO (1363-1404),
erano formalmente vassalli del re e dell’imperatore di Francia ma acquisirono l’indipendenza
dalla Francia nel 1435. Il loro dominio, anche se eterogeneo, comprese aree di avanzata
economia agricola e grandi centri manifatturieri e commerciali. Si aprì così un favorevole
periodo di prosperità economica e artistica, e di consenso politico, durante il quale furono
istituiti gli “stati provinciali” e “generali”, la camera dei conti e le corti fiscali e di giustizia.
Mentre nelle città fiamminghe si sviluppava la grande stagione della pittura realistica, la corte
ducale di Digione, che era capitale del ducato di Borgogna, luogo di unione di ideali
aristocratici e cavallereschi, si propose come uno splendido modello culturale e politico per
le corti principesche del XV secolo. Solo la pretesa di CARLO il TEMERARIO (1467-1477) di
farsi eleggere imperatore posero fine all’esperienza borgognona, la cui eredità fu divisa tra il
re di Francia a gli Asburgo alla morte della duchessa MARIA DI BORGOGNA nel 1482.
- La confederazione svizzera: alla morte di RODOLFO I (principe tedesco della casata
degli Asburgo, re di Germania) nel 1291, un’alleanza tra comunità di montagna cominciò a
formarsi nel cuore delle Alpi nord-occidentali, sottoposte alla giurisdizione degli Asburgo. Le
prime comunità ad associarsi, per tutelare gli interessi economici comuni sui pascoli e sui
passi alpini, furono quelle di URI, UNTERWALDEN e SCHWYZ, da cui presero il nome di
confederazione “svizzera”. La dipendenza della confederazione dall’impero fu riconosciuta da
LUDOVICO di BAVIERA nel 1316. Tra 1332 e 1353 ai tre cantoni iniziali se ne aggiunsero altri
cinque, compresi importanti centri urbani e mercantili come Lucerna, Zurigo e Berna. Nel
corso del XV secolo l’alleanza si espanse ulteriormente, affrontando conflitti con le potenze
signorili confinanti degli Asburgo, dei Savoia e dei duchi di Milano e Borgogna, grazie anche
a una capacità dei fanti svizzeri, che servirono come mercenari anche in molti altri eserciti
dell’epoca. Nel 1499 l’imperatore MASSIMILIANO I D’ASBURGO riconobbe definitivamente
l’autonomia della Svizzera.
I REGNI DELL’EUROPA ORIENTALE: Formazioni statali più stabili si affermarono tra il 14º e XV
secolo anche nella vasta area europea che dalla Scandinavia scendeva le pianure orientali abitate dai
popoli slavi. La popolazione era assai scarsa, disperse in territori immensi e mal collegati.le città
erano poche, la loro economia non fu mai in grado di sviluppare manifatture e scambi commerciali
avanzati. Nelle campagne si rafforzò ulteriormente la grande proprietà nobiliare. In molte arie si
ridussero le libertà rurali in un processo che dal XV secolo vide i coltivatori trasformarsi
progressivamente in servi obbligati a risiedere sulla terra. Le rare città ebbero gradi molto limitati di
autonomia, l’unica interlocutrice politica dei sovrani fu la grande aristocrazia terriera. Era la nobiltà
rurale ad eleggere i sovrani tra le dinastie locali. I sovrani dipendevano pertanto dal consenso dei
nobili, ricompensandoli con ampie deleghe di potere. La nobiltà fondiaria continua a esercitare le
tradizionali funzioni di giustizia, la riscossione delle imposte, la mobilitazione militare e il controllo
sulle istituzioni ecclesiastiche. Un appoggio ai sovrani venne invece dalle gerarchie ecclesiastiche che
ne sacralizzarono l’autorità. L’esercizio dell’autorità monarchica si affida principalmente alle
assemblee rappresentative dominate dalla grande aristocrazia. In esse i re negoziavano accordi e in
qualche caso i sovrani furono in grado di emanare raccolte di leggi valide per l’intero regno. Sempre
in Polonia i re riuscirono a creare ufficiali periferici con compiti giudiziari e militari. Ma nel
complesso non si sviluppò un’amministrazione locale autonoma dalla nobiltà e dipendente dalla
corona. Spesso fu anche difficile fissare durevolmente i confini geografici dei regni.
In Scandinavia si erano formati tra l’XI e XII secolo i regni di Danimarca, Norvegia e Svezia in
concomitanza con l’evangelizzazione delle popolazioni. Le Elite mercantili controllavano le città delle
coste baltiche. Per fronteggiare l’espansionismo politico ed economico dei tedeschi, nel 1397 i tre
regni strinsero un’unione dinastica dichiarando la perpetua. Questa unione venne detta Kalmar.
All’espansione tedesca si erano posti a lungo con successo le tribù baltiche accomunate dalla lingua
e da comuni credenze pagane, si erano dati un’organizzazione politica unitaria intorno alla metà del
XIII secolo. Fu infatti dalla Lituania che cominciò la reazione delle popolazioni orientali contro le
pressioni esterne. Essa conobbe una notevole espansione verso sud est sotto il granduca Gedimino.
I suoi successori Algirdas e Vitold sconfissero i tartari estendendo la potenza fino al mar Nero.
Jagellone ne divenne re nel 1386 realizzando l’unione tra Lituania e Polonia. La nuova potenza
politica costrinse l’ordine dei cavalieri teutonici a una progressiva ritirata.
La Polonia sotto Casimiro III il grande fu ricostruita da una notevole unità territoriale. Il re contrasto
il potere dei grandi signori territoriali appoggiandosi alla nobiltà. Diede al paese una legislazione
unitaria nel 1347 e favorì la ripresa economica delle città. Ladislao II sconfisse i cavalieri teutonici e
dopo l’acquisizione di Danzica nel 1466 la sua dinastia costituì un grande regno esteso dal Baltico al
Mar Nero. Con Casimiro quarto la Polonia conobbe ulteriori progressi economici e un periodo di
splendore culturale.
Il regno di Ungheria: nessuna dinastia riuscì ad affermarsi stabilmente il potere rimase in mano alla
grande nobiltà che fu sempre in grado di condizionare l’azione dei re. Su pressione dei papi francesi
la corona pervenne nel 1309 un ramo degli Angiò. Luigi I detto il grande legando a sé la nobiltà portò
il regno alla massima espansione territoriale grazie ad una serie di conquiste. Ladislao III unì per
breve tempo le corone di Lituania polacca e ungherese. con il condottiero Mattia corvino l’Ungheria
visse un ultimo momento di splendore culturale e politico raggiungendo un armistizio con i turchi
nel 1483. Dopo la catastrofica sconfitta subita contro i turchi il regno di Ungheria fu stabilmente
annesso al dominio imperiale degli Asburgo. Nel corso del XIV secolo emerse con sempre maggiore
autonomia il Ducato di Mosca, il duca capace di incrementare la pressione fiscale sulla nobiltà e sul
clero per pagare i tributi ai tartari e ottenne aiuto militare per incorporare gli altri principati, ottenne
in cambio dal khan mongolo il titolo di “principe di Mosca e di tutte le Russie”. con Ivan III il grande
l’egemonia moscovita si consolidò. Sconfitto il granduca di Lituania nel 1494 fu riconosciuto come
zar di tutta la Russia, nel 1497 pubblicò un codice di leggi che rafforzò il potere monarchico a scapito
dell’antica nobiltà. un appoggio determinante all’affermazione dell’autorità dei duchi moscoviti fu
data dalla Chiesa russa ortodossa. come a Bisanzio la gerarchia ecclesiastica era strettamente legata
al potere politico e svolse un’importante funzione di unificazione nazionale sul piano religioso e
culturale. Quando nel 1453 Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi, Mosca ne raccolse l’eredità
divenendo il centro indiscusso del cristianesimo orientale: Mosca rivendicò la totale indipendenza
sia da Roma sia da Costantinopoli.
Lezione N°27: 21/12/2021
L’ITALIA DEL TARDO MEDIOEVO
CAPITOLO 27 : UN SISTEMA POLITICO FRAGILE
Negli ultimi secoli del Medioevo (XIII-XV) l’Italia fu protagonista di una serie di processi politici che
la differenziarono profondamente dal resto dell’Europa occidentale. Questi ptocessi politici
contribuirono a fare dell’Italia una regione avanzata di civiltà ma rafforzarono anche alcuni caratteri
strutturali che la resero più debole rispetto ai grandi stati europei. Le “anomalie” italiane derivavano
dal fatto che le città furono troppo forti e le monarchie troppo deboli. Infatti, le città del centro-nord
conobbero tra XII e XIV secolo uno straordinario sviluppo, ponendosi all’avanguardia nell’Europa
del tempo per le loro ricchezze, per i traffici internazionali, per le affinate tecniche finanziarie, il
primato artistico e letterario... A differenza degli altri paesi europei, le città furono anche
protagoniste del processo di ricomposizione territoriale. Ma, mentre nelle grandi monarchie europee
i centri mercantili avevano visto garantita la possibilità di un’intensa attività commerciale all’interno
di stati più ampi che li difendevano militarmente e li tutelavano economicamente, le grandi città
mercantili e manifatturiere italiane (Firenze, Venezia, Milano, Genova, Lucca…) si dovettero
trasformare in stati territoriali tra XIV e XV secolo, con largo dispendio di risorse economiche e a
costo di difficili ristrutturazioni degli assetti politici. Allo stesso tempo, il rafforzamento delle
monarchie sembrava avvicinare l’Italia meridionale all’Europa, per l’analogia dei processi di
affermazione del potere regio in un contesto di forte articolazione dei soggetti politici e dei “corpi”
territoriali. Ma, per controbilanciare la perdurante potenza della nobiltà, i sovrani meridionali non
poterono avvalersi, nella stessa misura di quelli d’Oltralpe, dell’appoggio delle città e dei gruppi
dirigenti urbani. Le città meridionali infatti non conobbero uno sviluppo economico e sociale tale da
proporre proprie reti di mercanti sulle piazze internazionali. Ai sovrani meridionali mancò dunque
l’appoggio decisivo di una forte componente borghese nella costruzione di solidi assetti statali e ciò
viene testimoniato anche dalla minor forza e rappresentatività delle assemblee parlamentari rispetto
a quelle delle monarchie europee. Le assemble parlamentari italiane furono infatti convocate con
minore frequenza anche perchè egemonizzate dalle istanze baronali (nobiltà). Un’altra peculiarità
italiana fu la presenza precoce di uno stato della Chiesa, che operò a difesa della propria
sopravvivenza e che si frappose tra l’Italia delle città e degli stati territoriali e quella dei regni. La
realtà istituzionale italiana fu dunque policentrica (come quella dell’area tedesca) ma nessuna delle
forze statali italiane risultò abbastanza forte da egemonizzare le altre, e tutte furono in grado di
contrastare l’espansionismo delle altre (mentre in Germania l’impero era per tutti una cornice di
riferiento). Lo stesso passaggio dai comuni italiani agli stati regionali confermò la vocazione al
policentrismo politico della penisola. Nel corso del XV secolo le grandi monarchie europee avevano
raggiunto un grado avanzato di unificazione territoriale, governando su paesi estesi e popolosi, e
potendo contare su molte entrate fiscali . Gli stati regionali italiani erano invece entità territoriali di
media e piccola dimensione che non potevano mettere a disposizione risorse umane e finanziarie
analoghe a quelle delle grandi monarchie d’Oltralpe. Alla fine del XV secolo l’Italia era ed appariva
all’estero come un paese molto ricco, al centro dei traffici mediterranei e un’area strategica nei
confronti dell’aggressiva potenza turca. Per questo divenne uno degli obiettivi della lotta per
l’egemonia continentale tra le grandi monarchie nazionali. Già nei secoli precedenti, l’Italia aveva
conosciuto attacchi dalle potenze estere, come quelle dell’impero Tedesco, ma alla fine del
Quattrocento si mossero verso la penisola più stati potenti, che provenivano d’Oltralpe e che furono
capaci di effettuare conquiste territoriali stabili e di incorporarle nei propri territori. Gli stati italiani
non furono in grado di reggere l’urto con le potenze transalpine. Infatti, sul piano militare le grandi
monarchie disponevano di eserciti professionali e permanenti, che erano meglio organizzati ed
equipaggiati, in quanto facevano anche ricorso alle nuove armi da fuoco, rispetto agli stati italiani,
che invece si affidavano a eserciti guidati da condottieri mercenari non potendo attingere al
reclutamento stabile dei propri sudditi. Sul piano politico la mancata unificazione territoriale costituì
un grave elemento di debolezza per gli stati italiani, debolezza che fu aggravata dalla costante
divisione e dal conflitto tra gli stati regionali stessi. Nel giro di pochi decenni l’indipendenza di molti
stati venne meno e numerose regioni furono poste sotto il dominio straniero per molti secoli.
LA POLITICA PONTIFICIA: L’Italia del tardo medioevo (XIII-XVsecolo), come l’area imperiale
tedesca e la Borgogna, fu caratterizzata da un’accentuata frammentazione politica. A ostacolare i
tentativi di costruire uno stato unitario di grandi dimensioni si pose il papato, che temeva di vedere
minacciato il proprio dominio territoriale che dal Lazio meridionale si estendeva, alla fine del XIII
secolo, a gran parte della Tuscia (Viterbo → Toscana del sud e Lazio del nord), dell’Umbria, delle
Marche e della Romagna. A orientare la politica pontificia fu, dalla metà del Duecento, l’alleanza con
la corona francese in funzione antimperiale. Un’alleanza che non venne meno con la fine della
dinastia sveva (1266 con la sconfitta di Manfredi per opera di Carlo I d’Angiò), ma che anzi si allargò
in Italia e, nello specifico, in Sicilia, che venne retta dalla dinastia francese degli ANGIO’, e alle grandi
città del centro-nord. Così facendo, anche durante il periodo avignonese (1309-1377) i pontefici si
collocarono al centro di un sistema politico sovranazionale, centrato sulle corti di Parigi, Avignone e
Napoli e sul ruolo finanziario di Firenze. La lunga stagione dello scisma avignonese fece però
rinunciare il papato ad ogni residua ambizione universalistica e al primato europeo. Da allora la sua
azione politica si limitò all’Italia, puntando ad un controllo più saldo del suo stato territoriale.
L’ITALIA ANGIOINA: Dagli anni sessanta del Duecento (1260) una presenza determinante nel
sistema politico italiano fu a lungo quella della dinastia francese ANGIOINA e per questo si parla di
Italia angioina. Investito dal papa CLEMENTE IV del regno di Sicilia nel 1266, CARLO I D’ANGIO’
(1266-1285) se ne impossessò, sconfiggendo gli ultimi svevi e nello specifico MANFREDI (=figlio di
Federico II) che fu sconfitto a Benevento nel 1266 e CORRADINO (=nipote di Federico II perchè
figlio di Corrado IV altro figlio di Federico II) che fu sconfitto a Tagliacozzo nel 1268. Carlo I fissò
così la capitale del suo regno a Napoli. Da lì egli coordinò un’azione politica ad ampio raggio che lo
portò a far riconoscere la propria autorità anche a molte città comunali, come in Piemonte, in
Toscana e in Lombardia. Fu proprio dal 1266 circa che il termine “ghibellino” iniziò a essere usato
sistematicamente per indicare i nemici dell’alleanza che si era stretta tra la casata di Francia (gli
Angiò), il papato e Firenze, che erano chiamati “guelfi”. Dopo la crisi seguita alla perdita della Sicilia
nel 1282, il nipote di Carlo I d’Angiò, ROBERTO I (1309-1343) rilanciò la presenza regia nell’Italia
comunale, fronteggiando la campagna italiana di ENRICO VII DI LUSSEMBURGO e rinnovando la
signoria angioina su varie città, tra cui Firenze, Brescia, Asti e Piacenza. Così, la cultura e le istituzioni
politiche di impianto monarchico iniziarono a condizionare le realtà cittadine.
LE ULTIME CAMPAGNE IMPERIALI: Dopo l’estinzione della dinastia Sveva, gli imperatori si
affacciarono in Italia solo nella prima metà del trecento. La discesa di Enrico VII di Lussemburgo tra
il 1310 e il 1313 fu ispirata dal programma di pacificare le lotte interne alle città sotto l’alta sovranità
imperiale. Esso si infranse però contro la tenace resistenza dell’alleanza guelfa guidata da Firenze e
da Roberto D’Angelo re di Napoli. La sua azione non ebbe così successo. Anche la spedizione di
Ludovico di Baviera, tra il 1327 e 1328 fu sollecitata dal fronte ghibellino e non ebbe altro risultato.
L’ultimo imperatore a farsi incoronare a Roma fu Carlo IV di Lussemburgo che rinunciò ad ogni
ambizione di effettiva autorità in Italia.
GUELFI E GHIBELLINI: L’alleanza potente che si venne a creare tra il papato e gli Angiò fu all’origine di
un processo di progressivo coinvolgimento di tutte le realtà politiche italiane in due grandi schieramenti:
da un lato quello guelfo che inquadrò gli alleati dei sovrani angioini e dei pontefici; dall’altro quello
ghibellino, dove militarono coloro che si opponevano. Dopo il 1266 i guelfi assunsero il potere nella
maggioranza delle grandi città e di restarono perlomeno fino alla discesa dell’imperatore in Italia nel 1310.
Anche nel regno meridionale si diffusero le parti dei guelfi e dei ghibellini, in seguito alla rivolta che nel
1282 portò alla divisione territoriale del regno tra la Sicilia e il mezzogiorno continentale.
LA MUTAZIONE DEI POTERI SIGNORILI: Il riaffacciarsi degli imperatori in Italia si offrì l’occasione ai
signori cittadini di rafforzare la propria autorità attraverso l’attribuzione del titolo di vicario, in cambio
di cospicui tributi. La pratica fu ripresa dai successori e poi imitata anche dai pontefici. Ciò contribuì in
maniera determinante a mutare la qualità dei poteri signorili, allentando i rapporti e il grado di consenso
e di legittimazione dei signori con la comunità cittadina, disperdendone la capacità di interpretare
interessi e aspirazioni. Irreversibili divennero fenomeni come la dinastizzazione delle cariche, oppure la
formazione di vere proprie corti.
LA TIRANNIDE: La percezione di una discontinuità nelle pratiche di governo fece emergere nel lessico
politico delle città italiane e nella dottrina politica e giuridica della prima metà del trecento, i termini di
tiranno e tirannide. Vi influì in primo luogo la rielaborazione che del pensiero aristotelico aveva condotto
il teologo Tommaso d’Aquino nel secolo precedente che diceva che ogni forma di governo è tirannica
quando chi detiene il potere lo esercita nel proprio interesse e non per il bene comune. A sua volta, il
giurista Bartolo da Sassoferrato sottolineò come la tirannide consistesse nel carattere essenzialmente
oppressivo di ogni governo che non si fondasse sul diritto. la questione di fondo era soprattutto la qualità
dei governi in rapporto alla loro capacità o inclinazione a esercitare o meno il bene comune.
GLI STATI TERRITORIALI: Il processo di ricomposizione territoriale, nell’Italia centro
settentrionale fu avviato da quelle 40/50 città che tra il XII e XIII secolo costituirono un proprio
contado. A cominciare dagli anni 30 del XIV secolo, alcuni centri urbani maggiori e alcuni signori
potenti ridussero ulteriormente la frammentazione politica sottomettendo altre città, comunità e
signorie rurali. A prevalere furono le realtà demografiche ed economiche che più forti, capaci di
adattare le proprie istituzioni alle necessità di maggiori entrate per finanziare l’espansione
territoriale. Per molte città autonome da lungo tempo fu doloroso ritrovarsi assoggettate da altre
tradizionalmente rivali e nemiche. nell’Italia centro settentrionale i principati territoriali ebbero
minor importanza nell’organizzazione politica del territorio. Essi si svilupparono soprattutto nelle
zone alpine ed appenniniche. Principati ecclesiastici furono quelli dei vescovi di Bressanone di
Trento. Un marcato impianto feudale ebbe anche la signoria della casata degli Este che giunse a
inglobare tra il XIII e XV secolo le città di Ferrara, Modena, Reggio e Rovigo. Nell’Appennino tosco
romagnolo rimase importante fino al XV secolo il dominio signorile dei conti Guidi. Nel Piemonte
subalpino fra varie contee minori si distinsero il marchesato di Saluzzo, quello di Monferrato e
soprattutto il dominio dei conti di Savoia.
L’ITALIA MONARCHICA: L’Italia del sud era da tempo organizzata politicamente in forma
monarchica e tendenzialmente accentrata. L’Italia più simile al resto dell’Europa occidentale era
questa, caratterizzata dalla preponderanza della nobiltà, dallo sviluppo di assemblee rappresentative
e da analoghi processi di formazione in senso statale. Il regno di Sicilia passò dalla dinastia imperiale
imperiale degli svevi a quella francese del degli Angiò poi sotto l’espansione catalano aragonese e
infine riunificata sotto il regno per opera del re Alfonso il Magnanimo nel 1442.
IL PARTICOLARISMO: La formazione di domini territoriali da parte delle principali città comunali
e signorili polarizzò il sistema politico italiano intorno a cinque Stati regionali centrati su Milano,
Venezia e Firenze, sullo Stato pontificio e sul regno di Napoli e Sicilia. La ricomposizione territoriale
promossa da una monarchia fu frenata dal forte particolarismo locale che caratterizzò corpi
intermedi, ciò vale a dire dei privilegi accumulati e tenacemente difesi.
CAPITOLO 28 : GLI STATI
GLI STATI TERRITORIALI: Anche negli Stati italiani le autorità superiori non esercitarono mai la
totalità dei poteri sul territorio, ma la condivisero con una varietà di corpi territoriali in un
ordinamento di tipo dualistico. La differenza che caratterizzò l’esperienza delle realtà statali italiane
fu data invece dal diverso ruolo che vi giocarono le città. in Italia a promuovere la formazione dei
maggiori Stati territoriali furono le grandi città come Firenze, Venezia e anche Milano, che sostenne
con la propria potenza sociale ed economica l’intraprendenza politica e militare della dinastia dei
Visconti. Inoltre, le città italiane che si imposero come dominanti assoggettarono altri centri urbani.
Le città si proposero come interlocutrici privilegiate e dirette delle dominanti, senza la mediazione
di strutture rappresentative come i parlamenti nei regni. I gruppi dirigenti locali furono esclusi dal
governo degli Stati, ma mantennero il controllo delle risorse economiche e amministrative
municipali. le campagne militari affidata a truppe mercenarie, accrebbero notevolmente le spese, cui
le dominanti sopperirono incrementando la pressione fiscale e ricorrendo a strumenti finanziari. Nei
regimi oligarchici si affermò anche la pratica del debito pubblico consolidato, cioè dell’investimento
in titoli emessi dallo Stato che garantivano interessi e potevano essere scambiati: nel 1407 Genova
creò un apposito banco per attirare investimenti anche dall’estero. furono irrobustiti anche alcuni
uffici centrali, affidati a funzionari specializzati formati in università appositamente fondate e la rete
degli ufficiali periferici inviati nelle città assoggettate. I primi tentativi di creare degli Stati sovra
cittadini furono promossi da alcuni signori urbani nella prima metà del trecento. I Della Scala di
Verona posero dapprima sotto controllo le città del Veneto e poi estesero il proprio dominio fuori
regione. In Toscana ebbe un certo rilievo il dominio costituito dal nobile lucchese Castracani: egli
ottenne anche il titolo di duca da Ludovico di Baviera. L’espansione maggiore fu quella guidata
dall’arcivescovo Giovanni Visconti in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia. Ognuna di queste
iniziative suscitò la mobilitazione militare di una lega avversa di città, che nel caso della guerra contro
i Visconti ottenne anche il sostegno del pontefice. I domini conquistati furono persi quasi tutti. fu
Gian Galeazzo Visconti a imprimere nuovamente un forte dinamismo militare al suo dominio che
giunse a comprendere Verona, Vicenza, Padova e Belluno nel 1387 e si spinse nell’Italia centrale. La
morte improvvisa del duca nel 1402 Fece sì che le conquiste territoriali furono disperse nuovamente
e solo il secondo genito Filippo Maria riuscì a ricompattarli intorno a un profilo più limitatamente
lombardo dello Stato visconteo. Nel 1395 Gian Galeazzo Visconti acquistò il titolo di principe e duca
di Milano. Il duca poté così utilizzare le relazioni più tali per legare a sé sia alle signorie locali sia le
città e le comunità rurali: una delle formule più ricorrenti negli atti di sottomissione viscontee fu
infatti la richiesta di pacificazione da parte delle città che si assoggettavano. Per finanziare le spese
il duca ricorse a prestiti personali. Milano infatti non era la dominante ma solo la residenza del duca
e il patriziato milanese fu coinvolto in modo non esclusivo nel governo dello Stato: non a caso esso
diede un ultimo segnale di vitalità alla morte, senza eredi, di Filippo Maria istituendo una
“Repubblica Ambrosiana”che durò dal 1447 al 1450. Firenze venne formando il proprio Stato
territoriale con maggiore continuità e più saldo controllo rispetto a quello visconteo. Per un gruppo
dirigente fatto di mercanti facoltosi fu difensivo volto a tutelare l’indipendenza delle città e la libertà
dei suoi commerci. Firenze acquisì già tra il 1330 e 50 il controllo dei centri di rilievo come Pistoia,
Prato e colle Valdelsa. L’espansione fiorentina fu agevolata dalla crisi demografica che colpì
profondamente la Toscana impoverendo uomini e le ricchezze città che Firenze aveva sottomesso. I
contadi delle città sottomesse furono separati dai loro centri urbani e amministrati direttamente dal
gruppo dirigente fiorentino, attraverso una rete di uffici territoriali tutti riservati al patriziato. Il
frazionamento del dominio corrispondeva all’idea di poterlo governare come un contado. Ciò indusse
a redigere un catasto dei beni e delle ricchezze di tutti i sudditi del dominio nel 1427 e a rafforzare le
comunità soggette imponendo la revisione degli statuti e dei consigli locali. Artefice della costruzione
del dominio fu un gruppo dirigente di matrice mercantile. Dopo il tumulto dei ciompi, esso accentuò
le proprie connotazioni oligarchiche delimitando l’accesso agli uffici a un gruppo di famiglie che
costituivano il cosiddetto “reggimento”. Anche Venezia aveva coltivato da secoli la propria vocazione
mercantile, concentrando tutti i suoi sforzi nella costruzione dei porti del Mediterraneo orientale.
Nell’Adriatico Venezia controllava direttamente tutte le coste istriane e dalmate. la minaccia portata
da Gian Galeazzo Visconti fin sui margini della laguna determinò nel gruppo dirigente veneziano la
profonda svolta strategica di formare un dominio anche in terraferma, dove Venezia si era limitata a
occupare solo Treviso. Tra il 1404 e il 28 assoggettò città come Belluno, Padova, Verona, Bergamo.
Nella terraferma il patriziato veneziano rispetto agli equilibri locali, limitandosi a controllare
direttamente sono i podestà delle città elettori delle aree signorili. Attraverso i suoi ufficiali Venezia
si infilò spesso nelle questioni di competenza dei consigli municipali e nei conflitti tra le città soggette
ai loro contadi. un apposito consiglio di Savi di terraferma affiancò nel XV secolo il doge per la
gestione del territorio. Anche il doge ottenne nel 1437 il titolo di vicario imperiale, che consentì di far
dipendere fedelmente dalla Repubblica le aree signorili del dominio. Gli Stati di impianto cittadino
erano quelli dei Gonzaga e degli Este. L’autorità dei primi si limitò a Mantova e al suo territorio. La
signoria dei secondi si centrò soprattutto su Modena e Reggio e su Ferrara. La signoria dei Savoia si
era estesa invece sui territori rurali delle Alpi occidentali. Nel corso del trecento il dominio si allargò
al Piemonte accidentale. Ottenuto il titolo ducale nel 1416 egli si diede a un’opera di coordinamento
politico amministrativo culminata nell’emanazione di importanti statuti nel 1430 e nella
suddivisione del Ducato in 12 province affidate a balivi a loro volta suddivise in castellanie.
Sopravvissero anche alcuni Stati mono cittadini: vale a dire perduranti domini di città che non ne
sottomisero altre ma che si limitarono a controllare i territori poco più ampi dei contadi di partenza.
fu il caso di Lucca e di Siena, i loro gruppi dirigenti dominati da mercanti attivi a livello
internazionale accentuarono le caratteristiche di patriziato oligarchico. Genova invece pur
minacciata dai Visconti non si trasformò in una potenza territoriale come Venezia ma si limitò a
controllare i centri costieri della Liguria e della Corsica. Il suo patriziato si sottomise spesso nel XV
secolo a signorie esterne.
LO STATO PONTIFICIO : Nel 1278 il dominio pontificio comprendeva formalmente sette province
con a capo Un rettore: Romagna, Ancona, il Ducato di Spoleto, la Tuscia, la Sabina, marittima e
campagna e il patrimonio di San Pietro. Le signorie rurali e feudali nei territori più meridionali
dell’Lazio e in Tuscia caratterizzati dall’economia pastorale ma anche in Romagna. le città erano di
tradizione comunale come Perugia in Umbria e Ancona. Le signorie cittadine come quelle dei
Montaldeschi a Orvieto dei Manfredi a Faenza. pur riconoscendo la sovranità del pontefice, queste
forze si erano affermate localmente ed erano spesso ostili al papato. lo spostamento ad Avignone
della corte pontificia impoverì il dominio e Roma in particolare. Tornò in balia delle fazioni cittadine
il Senato, capeggiate dalle grandi famiglie dei colonna. La città stessa ripiegò la sua ridotta vita
sociale e politica. Tra le rovine e monumenti dell’età antica vivevano oltre al clero e ai notai, le potenti
famiglie signorili e baronali e contornate da un popolo composto perlopiù da pastori. Una vicenda
politica particolare prese corpo da un’insurrezione popolare che scoppiò a Roma nel 1347 capeggiata
da un notaio: Cola di Rienzo.Con il consenso della curia avignonese egli si impadronì del
Campidoglio proclamandosi tribuno della pace, della libertà e della giustizia. Cola si propose di
restaurare una Repubblica romana che doveva riunificare l’Italia centrale pacificandola e
restaurando l’ordine.L’iniziativa ebbe iniziale successo per le riforme dell’amministrazione cittadina
che Cola attuò seguendo una politica antinobiliare. vittima di una congiura che lo allontanò dalla
città nel 1350, egli ritornò nel 1354 inviato Innocenzo sesto con la carica di senatore per appoggiare
l’opera di ripristino dell’autorità pontificia che era stata avviata dal cardinale Albornoz. Egli fu ucciso
nello stesso anno nel corso di una sommossa popolare. Il cardinale castigliano Albornoz, inviato nel
1353 seppe invece dominare energicamente la situazione e riuscì a sottoporre le città al controllo dei
rettori provinciali e a costringere i signori locali a riconoscere l’autorità pontificia. Promosse inoltre
un sistema di fortificazioni e nel 1357 promulgò le costituzioni egidiane: una raccolta di norme che
ribadiva le prerogative del governo pontificio e riconosceva alcune autonomie e diritti ai comuni e ai
signori. La restaurazione del cardinale si rivelò effimera dopo la sua morte. Durante il pontificato di
Niccolò quinto il controllo delle terre pontificie e tornò ad essere effettivo. I pontefici negoziarono
con le città, grandi centri come Bologna e Perugia mantennero il controllo dei propri contadi e le loro
antiche magistrature continuarono a governare in sostanziale autonomia in cambio della giurata
fedeltà al Papa. un particolare rilievo assunsero nella geografia dello Stato pontificio le esperienze
signorili che presero corpo nelle città e nei territori della Romagna e delle Marche. La debolezza
dell’autorità papale in quelle aree permise per esempio ai Malatesta signore di Rimini di estendere il
loro dominio su Pesaro, Cesena e Fano; ai Montefeltro di creare un vasto territorio a cavallo tra la
Romagna, le Marche e l’Umbria; ai Da Polenta radicarsi su Ravenna e il suo territorio. In genere
questi signori traevano i loro titoli di legittimità della carica di vicario. Una connotazione comune a
quasi tutte queste stirpi fu la spiccata attitudine militare, nella situazione di disordine dello Stato
pontificio alcuni tentarono di dar vita a proprie signorie.
I REGNI: Carlo I d’Angio per coprire i debiti contratti e per sostenere la sua politica nell’Italia comunale
fu costretto ad aggravare l’imposizione fiscale nel regno di Sicilia. Egli concesse terre in feudo ai cavalieri
francesi che lo avevano seguito in armi nell’impresa, affidò ad ecclesiastici francesi vescovadi e abbazie e
inserì burocratici francesi nell’amministrazione reggia. Una parte consistente dell’aristocrazia siciliana
mantenne viva l’identità ghibellina che si manifestò con un’insurrezione armata nel 1268 quando lo Svevo
Corradino tentò di riconquistare il regno. Dopo la rivolta contro i francesi detta “la rivolta dei vespri” i
siciliani chiesero aiuto a Pietro III d’Aragona, una corona che stava attuando una politica di espansione
mediterranea in concorrenza con gli Angiò. La rivolta dei vespri aprì un lungo conflitto internazionale, di
cui segnò una svolta importante nel 1296 l’offerta della corona di re di Sicilia al figlio del re aragonese che
si dichiarò Federico III. La corona siciliana si separò da quella di Barcellona dando vita a un regno
autonomo detto di Triancria. Federico III introdusse il parlamento sul modello Patrizio delle Cortes
catalane, alla sua morte l’aristocrazia si divise in fazioni catalane e latine che si batterono per decenni per
dividersi i maggiori uffici dello Stato. Dopo la morte di Federico IV nel 1377 i capi delle grandi famiglie
baronali si divisero il regno. pur cercando a lungo di riconquistare la Sicilia, gli Angiò si concentrarono
sul governo del regno di Napoli che diventò il cuore politico del guelfismo italiano. Inoltre per finanziare
l’onerosa politica internazionale i sovrani dovettero ricorrere intensamente alle investiture feudali. I re si
indebitarono anche con i banchieri fiorentini, che in cambio delle ingenti anticipazioni ricevettero
privilegi finendo con esercitare una pesante influenza sulla corte. Il regno di Napoli conobbe un lungo
periodo di splendore con Roberto I che era un cultore di teologia e di letteratura ed era considerato uno
dei monarchi più saggi della cristianità. Fu signore per molti anni di comuni come Firenze Genova e Roma;
Napoli divenne uno dei centri più importanti della vita intellettuale del tempo. Presso la corte di re
Roberto furono ospitati letterati e artisti come Petrarca Boccaccio e Giotto. Profondo fu anche il
rinnovamento urbanistico. Un’ interessante evoluzione subi la condizione politica delle città meridionali
con l’avvento delle nuove dominazioni. Le amministrazioni politiche urbane cominciarono a darsi dalla
fine del XIII secolo i propri organi di governo sottraendosi in parte al controllo degli ufficiali regi: quasi
ovunque un consiglio eleggeva gli ufficiali minori e talora le magistrature collegiali. Le popolose città
siciliane conobbero un significativo sviluppo politico a partire dal regno di Federico III. Punto debole
delle città meridionali rimase però il mancato sviluppo delle componenti mercantili e artigiane. Sia il
regno di Napoli sia quello di Sicilia costituivano due Stati territorialmente compatti ma caratterizzati dalla
debolezza del potere Reggio. Nel primo regno la situazione più complicata dalle divisioni tra i vari rami
internazionali degli Angiò: la contesa che si aprì alla morte di Giovanna I si protrasse a lungo e apri la
strada alla conquista del regno da parte degli aragonesi. In Sicilia una spedizione militare guidata nel
1392 da Martino nipote del re d’Aragona sconfisse i baroni e gli permise di riorganizzare il regno
dotandolo nuovamente di un parlamento. Alla sua morte l’isola fu riunita al regno di Aragona e sottoposta
dal 1412 all’amministrazione di un viceré. A sostenere la monarchia furono le Elite urbane passate nei
ranghi della aristocrazia fondiari. Vicende proprie ebbe invece la conquista aragonese della Sardegna.
Concessa loro in feudo da Bonifacio VIII nel 1297, gli aragonesi cominciarono la conquista nel 1323,
accordandosi con Pisa che mantenne il possesso di Cagliari. Fu tenace la resistenza opposta dai sardi
tradizionalmente organizzati in clan locali e in regni detti “giudicati”. Dei quattro “giudicati” originari era
sopravvissuta alle invasioni straniere solo giudicato di Arborea. Si trattava di un regno forte, nel 1347 il
giudice Martino IV aveva emanato un codice rurale di norme che disciplinavano il mondo agricolo e
pastorale e nel 1392 la giudice Eleonora emanò una raccolta delle consuetudini civili e penali. Solo la
battaglia di Sanluri del 1409 apri la strada alla definitiva conquista da parte degli aragonesi. L’incertezza
di Giovanna II d’Angiò che era priva di eredi ma poi aveva adottato come figlio Alfonso V d’Aragona al
quale aveva lasciato il regno, scatenò un duro conflitto dal quale uscì vincitore l’aragonese. Decisivo si
rivelò l’appoggio di Filippo Maria Visconti. Alfonso V detto il Magnanimo, ricostruì l’antica unità del
regno meridionale. Alfonso stabilì la propria corte a Napoli e suo figlio Ferrante proseguì l’opera di
riorganizzare amministrativamente e fiscalmente il regno. I baroni diedero luogo a un’aperta ribellione
nel 1485 che fu repressa dal re l’anno seguente. il dominio angioino e aragonese integrò l’economia
meridionale nelle reti commerciali internazionali dei mercanti toscani e catalani con aspetti positivi. Nel
regno di Napoli l’economia conobbe un’accelerazione testimoniata dalla coniazione da parte di re Roberto
di una moneta d’argento. Dai porti pugliesi e campani la lana e il grano vennero esportati in tutto il bacino
del Mediterraneo, in Sicilia invece l’agricoltura si specializzò maggiormente. La presenza dei mercanti
forestieri e toscani frenò lo sviluppo di una solida imprenditoria meridionale e deboli furono sempre la
produzione di manufatti.
LA CRISI DEL SISTEMA : Nel 1450 Francesco sforza che aveva sposato una figlia naturale di Filippo
Maria, era stato chiamato dal patriziato milanese a difendere la fragile Repubblica Ambrosiana. A
sostenerli furono i fiorentini anche per contrapporsi all’avanzata che i veneziani avevano attuato in
Lombardia. La guerra si trascinò fino al 1453 quando la notizia della caduta di Costantinopoli indusse i
veneziani a concentrarsi nuovamente sulle vicende del loro dominio del mare minacciato dall’avanzata
dei turchi. Alla base era la trasformazione degli eserciti comunali, mercanti e artigiani si organizzarono
in compagnia e permanenti dette compagnie di ventura guidate da un capo. A partire dal 1380 circa gli
stati italiani tesero a reclutare i comandanti italiani e a rendere stabili i rapporti con i condottieri. Alcuni
di loro finirono col mettere le radici negli stati che servivano come fu il caso di Francesco sforza. A loro
volta alcuni signori soprattutto dei territori pontifici divennero condottieri. una pace fu stipulata a Lodi
nel 1454 sancendo l’ascesa di Francesco sforza al Ducato di Milano e alcune delle conquiste di Venezia in
territorio lombardo. Tra il 1454 e il 55 fu stretta anche una lega tra gli statuti situati nei confini italiani.
Essa prevedeva una durata di 25 anni rinnovabili e consisteva nella creazione di un esercito comune per
la difesa da eventuali attacchi dall’estero. Alla lega, promossa dal duca di Milano da Venezia e da Firenze,
aderirono il Papa, il re di Napoli, il duca d’Este E poi quasi tutti gli altri Stati. Lo scopo era quello di
mantenere gli equilibri politici esistenti e si consolidò così l’assetto del sistema politico italiano incentrato
sui cinque Stati maggiori: il Ducato di Milano, Stati territoriali di Venezia e di Firenze, Stato pontificio e
regno di Sicilia. L’obiettivo di garantire la pace fu sostanzialmente raggiunto per circa un quarantennio.
Lorenzo de’ medici e la sua abilità diplomatica che nasceva anche dalla consapevolezza che Firenze
rappresentava lo Stato più debole e più esposto al rischio di perdere la propria indipendenza. Attraverso
una stabile alleanza con gli Sforza e con i sovrani napoletani Lorenzo riuscì a frenare i tentativi di
espansione veneziani e le ambiguità della politica pontificia. Per un certo periodo il sistema politico
disegnato dalla lega italica assicurò stabilità ma non tranquillità. Negli Stati che ne costituivano l’asse
diplomatico si susseguirono infatti alcune congiure tra cui: l’assassinio di Galeazzo Maria Sforza, Lorenzo
dei medici scampò a un agguato organizzato dalla famiglia fiorentina dei Pazzi, nel 1485 Ferrante di
Aragona fu oggetto della congiura dei baroni del regno. A incrinare gli equilibri fu la politica di Sisto IV
che appoggiò il disegno del nipote di creare uno Stato nell’Italia centrale. Il momento più critico per la
tenuta della lega fu la guerra contro Ferrara. La pace del 1484 ridimensionò le ambizioni pontificie ma
riconobbe Rovigo e il Polesine a Venezia. Nell’ultimo decennio del XV secolo l’equilibrio tra gli Stati della
penisola si ruppe definitivamente portando al collasso il precario sistema politico italiano. con l’appoggio
interessate dei veneziani, il re di Francia, che rivendicava a sua volta i diritti su quello di Napoli scese col
proprio esercito in Italia tra il 1494 e il 95 impossessandosi del regno senza opposizioni di rilievo. la
discesa del re di Francia chiuse la fragile stagione dell’equilibrio e inaugurò un duro periodo di contesa
dei paesi stranieri per il controllo dell’Italia.
ALTRI CAPITOLI
CAPITOLO 29 : L’UMANESIMO: UNA DISCONTINUITÀ INTELLETTUALE
UN’EPOCA NUOVA : Fino al XIV secolo gli uomini colti non avevano sviluppato l’idea di vivere in
un’epoca estranea rispetto all’età antica. In effetti, l’impero romano aveva continuato a esistere,
anche se solo in Oriente, imponendo la propria autorità su Costantinopoli, e la Chiesa cristiana,
istituzionalizzandosi al tempo di Costantino, era poi stata una realtà onnipresente e in continua
espansione. Per questo motivo, per secoli, gli europei avevano vissuto sentendosi legati agli ideali
dell’impero e della Chiesa. La lingua delle relazioni ufficiali e degli intellettuali rimase infatti quella
di Roma, cioè il latino, che veniva insegnato in tutto l’occidente. Inoltre, nelle scuole e nelle università,
accanto alla Bibbia, erano letti e studiati autori latini e greci in quanto l’idea dominante era quella
che il pensiero degli antichi, in tutte le discipline, costituisse un retaggio di autorità. L’eredità romana
appariva dunque una realtà viva, un serbatoio di modelli, cultura e soprattutto diritto a cui attingere
per consolidare le sovranità universali e per legittimare i nuovi poteri. Una percezione nuova
cominciò a farsi strada nel corso del XIV secolo, quando si sviluppò la sensazione che l’età antica
fosse ormai finita. Infatti, l’impero bizantino era ormai un piccolo staterello greco minacciato dai
turchi, l’impero romano-germanico si era trasformato anch’esso in una potenza regionale e Roma
era stata abbandonata dai papi. I grandi ideali universalistici che avevano ordinato la società europea
apparivano così tramontati. Il mondo antico iniziò dunque ad apparire estraneo alla società che si
era delineata nei tempi recenti. Così, la coscienza della rottura rispetto all’antichità cominciò ad
accompagnarsi alla volontà di restaurare i valori positivi e gli ideali di bellezza che sembravano
scomparsi con la fine del mondo antico. Il confronto con i modelli classici divenne il metro di giudizio
di un nuovo movimento intellettuale basato sui temi della “rinascita” della civiltà e del ritorno
all’antico. Gli uomini colti del XIV e XV secolo cominciarono così a definire sé stessi come “moderni”,
per evidenziare l’orgoglio di vivere in un periodo di rinnovamento, capace di trarre nuova ispirazione
dalla cultura greca e romana. Maturò così la consapevolezza di vivere un’epoca nuova, molto diversa
da quella appena trascorsa (il Medioevo). In effetti, i tempi recenti erano stati dominati da un clima
continuo di guerre, pestilenze, carestie e superstizioni. Questa immagine fu proiettata negativamente
anche sui secoli precedenti. Si sviluppò così l’idea di un lungo intervallo che separava la grandezza
degli antichi dall’età della “rinascenza”: l’idea, vale a dire, di un’ “età di mezzo” fra l’antichità e il
presente, di un “medio evo” percepito come una fase di declino e di offuscamento dei valori dell’età
classica. Il richiamo alla civiltà classica, come espressione insuperabile della pienezza vitale
dell’uomo, attivo nella natura e nel mondo, divenne dunque il nuovo obiettivo da raggiungere nelle
varie azioni.
L’UMANESIMO : Con l’espressione “humanae litterae” nell’antichità si indicava l’insieme delle
discipline classiche cioè la letteratura, la grammatica, la retorica, la poesia, la storia e la filosofia, che
erano definite “humanae” perché concorrevano alla formazione dell’uomo. Gli “studia humanitatis”,
cioè lo studio delle “humanae litterae”, rispondevano all’aspirazione dei “moderni” di assimilare lo
spirito degli autori antichi. I romani ritenevano infatti che la letteratura desse insegnamenti sulle
passioni degli uomini e sulle loro vicende, la retorica preparasse alla vita politica insegnando l’arte
del comunicare, e che la filosofia introducesse alle forme più alte del sapere. Per questo motivo gli
“umanisti” concepirono sé stessi come coloro che, “coltivando le lettere”, potevano realizzare quei
sentimenti, quegli aspetti e quei valori che distinguono l’uomo, per la sua cultura, dalle altre creature.
Gli umanisti inseguirono la formazione di un uomo integrale, buon cittadino, buon soldato e uomo
colto, capace di godere della bellezza e di gustare la vita, traendo dalla natura tutto ciò che essa può
dargli. L’Italia ebbe un ruolo preponderante nello sviluppo dell’Umanesimo e ciò per due motivazioni
principali. Infatti, in Italia, dal XII secolo, vi vivevano i maggiori intellettuali laici dell’Europa
occidentale mentre altrove erano per lo più gli ecclesiastici ad egemonizzare la cultura, le scuole e gli
studia. Inoltre, nel suo complesso, l’Italia era l’area economicamente e socialmente più sviluppata
dell’Occidente, senza contare che vi erano concentrati la maggior parte dei monumenti dell’età
romana, che ricordavano la civiltà degli “antichi”. Fu proprio la volontà di imitare lo stile del latino
antico ad introdurre una nuova prospettiva intellettuale, della quale si fecero interpreti alcuni
letterati attivi a Padova tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV secolo. La città veneta era infatti,
all’epoca, il centro culturale più importante, con varie università ed era un vero e proprio luogo di
incontro tra la poesia francese e provenzale, e il volgare italiano e il latino. Fu per primo il giudice
padovano, copista e collezionista dei testi classici, LOVATO DEI LOVATI (1240-1309) a ricavare
dallo studio dei poeti antichi gli strumenti per creare una lirica originale, attenta ai problemi del
presente. Egli riunì intorno a sé un circolo di poeti che possedevano una completa conoscenza della
letteratura latina dalla fine dell’antichità fondata sullo studio dei testi rintracciati in biblioteche. Un
suo discepolo, il notaio ALBERTINO MUSSATO (1261-1329), fu solennemente incoronato
storiografo e poeta, dai suoi concittadini, secondo l’usanza classica, cioè dopo la lettura pubblica
della tragedia “l’Ecerinis”. La nuova poesia seppe esprimere, da subito, sentimenti e riflessioni con
una precisione e una ricchezza di sfumature che il latino ecclesiastico e universitario non erano in
grado di offrire. Alle prime generazioni di eruditi e letterati fece seguito la grande figura di
FRANCESCO PETRARCA (1304-1374), studioso dei testi antichi ma anche innovatore della poesia,
che creò intorno a sé una comunità internazionale di intellettuali capace di conquistare un vasto
rispetto tra i potenti del tempo. Cresciuto non nell’Italia delle città ma all’ombra della corte pontifica
avignonese, Petrarca, che prese gli ordini minori, dotò di una coscienza cristiana un movimento
essenzialmente secolare. Per molti anni viaggiò in Italia e in Europa, impegnato in missioni
diplomatiche per il cardinale Giovanni Colonna, e la sua notorietà crebbe a tal punto da essere
incoronato poeta, al modo antico, dal senato di Roma nel 1341. Un ammiratore di Petrarca fu il
fiorentino GIOVANNI BOCCACCIO (1313-1375), che trascorse molti anni presso la corte angioina di
Napoli per poi commentare la “Commedia” di Dante per il commune di Firenze. Maggiore prosatore
del suo tempo e perfezionatore “dell’ottava rima”, egli fu anche un importante scopritore e studioso
di testi antichi. Molti umanisti infatti si dedicarono in prima persona alla pratica della ricerca dei
codici, conservati e magari dimenticati nelle biblioteche dei monasteri. Gli umanisti considerarono
le opere degli antichi, che per secoli furono lette dagli uomini colti come se fossero a loro
contemporanee sovrapponendovi le proprie idee e cocorregendo spesso i testi, come documenti di
un’altra cultura di cui occorreva rispettare la fisionomia originale e comprenderne il significato
autentico. La riscoperta dei classici comportò cioè un’attenzione del tutto nuova alla storia dei testi.
Nacque così la filologia, ovvero l’insieme delle discipline che servono a leggere, comprendere e
interpretare i documenti. Il nuovo metodo consentì di datare molti codici e di individuare errori di
attribuzione e manipolazioni apportate dagli amanuensi nel corso delle numerose trascrizioni. Per
esempio, LORENZO VALLA dimostrò che la Donazione di Costantino era un falso, databile all’VIII
secolo, fornendo così un’argomentazione importante a coloro che volevano confutare il fondamento
giuridico del potere temporale del papato. Il cancelliere fiorentino COLUCCIO SALUTATI (1331-
1406) ebbe il merito di rilanciare la conoscenza della lingua greca, istituendo nel 1397 la prima
cattedra di greco a Firenze. Decisivo fu inoltre l’arrivo in Italia, favorito dalla caduta di
Costantinopoli nel 1453, di molti eruditi greci, che portarono con loro i propri libri, che costruirono
i nuclei di importanti biblioteche, come quelli dell’odierna “Biblioteca Marciana” di Venezia.
Attraverso la lettura di un numero sempre più ampio di autori della letteratura classica (greci, latini
ma anche ebraici e orientali in generale) maturò un gusto per l’imitazione degli ideali di vita e una
rivalutazione di aspetti del mondo antico che si tradusse nella ricerca non solo dei codici ma anche
nella ricerca di ogni manufatto dell’età antica, che erano per gli umanisti dei veri e propri tesori.
CANCELLIERI E CORTIGIANI: La lezione degli antichi e l’esempio dato dalla cultura classica non
rimasero dei modelli astratti ma vennero posti al centro di un programma educativo nel quale gli
studia humanitatis erano considerati una tappa fondamentale nella formazione dell’uomo virtuoso.
Questo orientamento rappresentò una rottura rispetto alla tradizione educativa precedente nella
quale, un ruolo importante era stato attribuito al pensiero astratto e alla riflessione interiore, spesso
ispirata a modelli mistici. Il nuovo progetto intellettuale, che non era solo filosofico e letterario,
investì a fondo nelle arti, nelle scienze e nel costume, per presentarsi come una concezione generale
e originale della realtà e della vita. Gli umanisti affermarono un’idea dell’uomo che mirava a
sviluppare nell’individuo le potenzialità personali, per raggiungere l’obiettivo di esercitare le “virtù
civili”, nella dimensione sociale e cittadina. Il sapere era considerato un patrimonio che poteva essere
così messo in commune e non era solo una virtù personale. Alcuni umanisti non furono infatti
soltanto dei dotti ma parteciparono attivamente alla vita civile e politica della loro città, ricoprendo
incarichi pubblici di rilievo in primo luogo come funzionari di cancelleria. A Firenze, per esempio,
segretario della cancelleria dal 1498 fu Niccolò Machiavelli, considerato l’inventore di una nuova
scienza della politica fondata sul realismo delle osservazioni. Fu soprattutto nelle corti signorili
cittadini, cioè nei luoghi dove i signori risiedevano insieme alla propria famiglia, ai propri servitori e
alle persone al loro seguito (artisti, letterati, funzionari…), che i nuovi sviluppi culturali trovarono il
loro ambiente ideale, perché i principi finanziavano generosamente imprese culturali e artistiche,
per ottenere prestigio dinastico e politico. A Milano presso la corte degli Sforza, a Firenze dei Medici,
a Mantova dei Gonzaga, … letterati, artisti, scienziati vennero chiamati ad intrattenere i nobili e gli
ospiti di cui il principe amava circondarsi, e a produrre opere encomiastiche (=di elogio).
Umanesimo cittadino e tradizione aristocratica si fusero in una cultura nella quale ritrovarono posto
anche gli antichi ideali cavallereschi, secondo il modello tracciato nel trattato “Il Cortegiano”, del
1528, di Baldassare Castiglione e nel poema cavalleresco di L. Ariosto “L’Orlando furioso”, del 1516.
Infatti, la “maniera cortese” distingueva la vita nella corte. Ciò sigifica che vi erano un insieme di
regole e un’etichetta di comportamento che si rifaceva al concetto medievale di “cortesia”, che era un
misto di grazia e misura, di dolcezza e cultura.
IL RINASCIMENTO ARTISTICO: Fu soprattutto nelle arti figurative (pittura, scultura…) che il
rinnovamento portò a un’evidente rottura rispetto alla tradizione, dando vita ad un linguaggio
espressivo nuovo che prese il nome di “Rinascimento artistico”. Avviato con lo studio dei manufatti
antichi e dei tratti classici, esso si tradusse in una rappresentazione più realistica del paesaggio e
della natura, nell’accostamento di soggetti profani (come le battaglie) ai tipici temi sacri dell’arte
precedente, … . Determinante fu la scoperta della prospettiva lineare, che diede concretezza all’idea
di centralità dell’uomo nella natura, tipica degli studi umanistici, introducendo il punto di vista
soggettivo dell’osservatore e associandolo ad una visione della realtà ancorata a regole razionali. La
scoperta della prospettiva da parte di BRUNELLESCHI premise dunque di superare lo spazio a “due
dimensioni”, tipico dell’arte precedente, che però appiattiva l’uomo e la rappresentazione, che era
quasi irreale per l’osservatore. Gli esordi del Rinascimento si rintracciano nell’opera di alcuni artisti
fiorentini dei primi decenni del XV secolo: il pittore Masaccio, l’architetto Brunelleschi e lo scultore
Donatello sono considerati dei veri e propri capiscuola, che tracciarono le linee guida del
rinnovamento che, con il tempo, dall’Italia raggiunse tutta l’Europa. La fioritura del movimento si
ebbe a cavallo tra XV e XVI secolo, quando in varie città lavoravano contemporaneamente alcuni dei
più grandi artisti di tutti i tempi, come Leonardo da Vinci a Milano, Raffaello Sanzio a Urbino. Inoltre,
Michelangelo, dopo aver lavorato a Firenze, fu coinvolto, insieme a Raffaello, nei progetti di
rinnovamento della Roma papale portati avanti da papa GIULIO II, LEONE X e dai successori. Nelle
loro raffigurazioni, presenti in vari edifici, come nella Cappella Sistina, l’imitazione dei modelli
classici giunse al massimo splendore. Le guerre d’Italia per il dominio spagnolo segnarono l’inizio
della fase finale della grande stagione rinascimentale italiana. Per l’alto grado di alfabetizzazione dei
suoi abitanti, per la forte domanda di beni di lusso da parte delle èlites mercantili e nobiliari, e per il
mecenatismo della signoria dei Medici, cioè per la tendenza di questa famiglia di commissionare
opera d’arte, di proteggere artisti e studiosi, per motivi culturali ma anche di prestigio e di consenso,
il centro propulsore del Rinascimento fu Firenze, dove si concentrò uno straordinario numero di
artisti e intellettuali. A Firenze, il personaggio che forse meglio incarnò lo spirito dell’Umanesimo fu
LEON BATTISTA ALBERTI (1404-1472), fine letterato, teorico della pittura e della scultura, e
grandissimo architetto, animato da una straordinaria curiosità per il mondo romano, che fu preso
da modello per innovazione e non per imitazione. Sempre a Firenze, BRUNELLESCHI, tra il 1420 e
il 1436, guidò il cantiere per la costruzione della cupola della cattedrale di Santa Maria del Fiore,
risolvendo i problemi che ne avevano interrotto la costruzione nel XIV secolo. Nel corso del XV secolo
si assistette a una trasformazione della figura dell’artista, che si sganciò dalla modesta
considerazione di mestiere artigianale per avvicinarsi allo status dell’intellettuale umanista. Infatti,
pittori, scultori, architetti e artisti in generale, non si sentirono più confinati nei limiti della propria
arte e si dedicarono ai vari aspetti della cultura e delle lettere, alla matematica, all’astronomia, tra il
XV e il XVI secolo. Si assistette così ad una generale rivalutazione dell’artista, sia in virtù
dell’ammirazione che generavano le sue opera e sia per gli alti compensi che gli venivano dati per la
loro creazione, compensi che corrispondevano a somme di denaro ma anche a titoli e cariche.
FILOSOFIA E RELIGIONE: Il senso dell’umanità, della cultura e della storia che gli umanisti
elaborarono, confrontandosi con le opera del passato, fu alla base della diffusione di una grande
fiducia nell’intelligenza umana, che portò ad esaltare la superiorità degli uomini sugli altri esseri
naturali e le sue numerose capacità creative. Il concetto di humanitas riassunse infatti la voglia di
conoscenza che distingue l’uomo da tutti gli altri esseri animati. La nuova visione umanistica in cui
l’uomo era posto al centro dell’universo ed era considerato padrone del proprio destino, costituiva
una netta discontinuità con la cultura dell’epoca precedente, caratterizzata da una visione della vita
che poneva Dio al centro dell’universo e imponeva all’uomo di sottomettersi al volere divino.
All’accettazione, diffusa e incontestata per secoli, dell’autorità ecclesiastica, si contrappose
progressivamente il senso della dignità dell’uomo, del suo destino e della sua funzione nel mondo.
Assegnando un’autonomia allo spirito umano nei confronti del sovrannaturale e rivalutando il
pensiero dell’uomo, una nuova sensibilità religiosa indirizzò il pensiero sulla strada della
laicizzazione, rifiutando i dogmatismi religiosi e affermando la libera ricerca attraverso l’esame
critico e la discussione. Ciò però non impedì a gran parte dei massimi pensatori e artisti
dell’Umanesimo rinascimentale di vivere una fede profonda, espressa anche nelle loro opere. Il
filosofo GIOVANNI PICO DELLA MIRANDOLA ricostruì i lineamenti di una filosofia universale, che
si proponeva di concordare tutte le correnti di pensiero che sin dall’antichità miravano a giungere
alla Sapienza, e in cui l’uomo doveva essere inteso come il prosecutore dell’opera divina della
creazione. Nella sua “Oratio de hominis dignitate” (=discorso sulla dignità dell’uomo, 1486), Pico
esaltò la libertà, che differenziava l’uomo dagli altri esseri del creato. Essendo libero spettava dunque
all’uomo decidere se degradarsi nelle cose inferiori o elevarsi a quelle superiori. A sua volta, il filosofo
fiorentino MARSILIO FICINO (1433-1499) si propose di saldare filosofia e religione, elaborando una
“docta religio” (=religione colta) basata sulla dottrina dell’anima umana, come centro del mondo e
punto intermedio tra la realtà fisica e la realtà divina, e sulla dottrina dell’amore, come forza che
permette all’uomo di elevarsi dal mondo sensibile fino a Dio. Per volere di COSIMO DE MEDICI,
signore di Firenze, Ficino fondò nel 1459 l’Accademia platonica al fine di studiare e di promuovere
la diffusione del filosofo ateniese Platone, la cui opera incontrava la sensibilità religiosa del momento.
Ficino si dedicò alla traduzione in latino e al commento dei “Dialoghi” di Platone, sfruttando le opera
portate in Italia dai dotti bizantini dopo la caduta di Costantinopoli per opera dei turchi ottomanni,
contribuendo così, in modo determinante, alla sua fortuna non solo tra gli umanisti italiani, ma
anche negli ambienti francesi, tedeschi e inglesi che si stavano aprendo all’influenza dell’Umanesimo.
LA SCIENZA: L’affermazione della centralità dell’uomo nel cosmo consentì di osservare la natura
con uno sguardo più libero, lontano dalle regole tradizionali e dalle influenze religiose per rendere
indipendente il pensiero scientifico. Ciò condusse per esempio a riconsiderare l’idea stessa di
universo, al di fuori della visione tradizionale basata sulle “sfere” celesti di Aristotele, secondo la
quale la Terra era fissa al centro dell’universo (perchè l’uomo è la migliore creazione di Dio) e il Sole
girava intorno ad essa(→teoria aristotelico-tolemaica). Infatti, NICCOLO’ CUSANO (1401-1464),
filosofo e matematico tedesco, rifiutando la tradizionale cosmologia aristotelica, sviluppò l’idea che
l’universo potesse non essere finito e non avere un centro unico. Su questa strada proseguì il polacco
NICCOLO’ COPERNICO, che, attraverso lo studio delle orbite dei pianeti, nell’opera “De
revolutionibus orbium coelestium” (“Sulla rivoluzione dei corpi celesti”, 1543), sostenne che il sole,
e non la terra, costituiva il centro fisso del pianeta e la Terra vi girava intorno. TOLOMEO aveva
sostenuto la tesi della sfericità della Terra, che nel XV secolo divenne ormai un’ipotesi generalmente
accettata. Il matematico fiorentino PAOLO DAL POZZO TOSCANELLI (1397-1482), rifiutando le
idee tradizionali, si dedicò, con spirito nuovo, agli studi geografici, raccogliendo, dalla voce e dalle
relazioni di esploratori e di missionari, molte notizie geografiche, relative soprattutto all’Asia. Giunse
così a sostenere che la via più diretta per raggiungere l’Oriente fosse la traversata dell’Atlantico, e
rappresentò su una carta il mondo conosciuto, lo spazio marino e le distanze tra Europa e Asia. Delle
sue idee venne probabilmente a conoscenza il navigatore Cristoforo Colombo, che cercò di
raggiungere l’Oriente seguendo quella via nautica. L’osservazione della realtà attraverso una visione
razionale fu poi posta alla base della ricerca. Si delineò così un nuovo modo di concepire il sapere,
fondato sul rigore dei procedimenti e sul grado di certezza da essi raggiunto, che condusse a collocare
non solo la matematica e la logica, ma anche la poesia e le arti al di sopra della metafisica e della
teologia, in base al principio secondo cui la dignità di una disciplina non deriva dalla nobiltà del suo
oggetto di studio. La figura che rappresentò meglio questa sintesi tra scienza, e nello specifico l’arte,
e tecnica fu quella di LEONARDO DA VINCI (1452-1519). Egli, negli anni trascorsi a Milano, fu poeta
e pittore, ma anche architetto, ingegnere, studioso di astronomia, di matematica e di botanica, fine
anatomista, … . Egli non percepiva alcuna frattura tra l’arte e la scienza, che, secondo lui, avevano
entrambe come fine la conoscenza della natura. Nelle sue opera è infatti facile cogliere il desiderio di
un sapere globale.
LA DIFFUSIONE DELLA CULTURA: L’evoluzione tecnica che dai testi e dai disegni incisi sul legno
portò alla stampa a singoli caratteri mobili fusi nel piombo, sviluppata dall’artigiano tedesco
JOHANNES GUTEMBERG a Magonza, che nel 1456 stampò una Bibbia in latino di grande formato,
determinò una profonda trasformazione delle modalità di trasmissione della cultura. Non a caso fu
nelle città italiane che si svilupparono le potenzialità di questa innovazione. A Roma, Firenze e
soprattutto Venezia si diffusero stamperie che si trasformarono velocemente in imprese commerciali.
Venezia divenne infatti rapidamente la capitale europea dell’editoria, con molte botteghe di
stampatori ed editori. ALDO MANUNZIO, editore e umanista italiano, inventò un nuovo tipo di
carattere sulla base della scrittura dei testi latini classici. Questo carattere fu detto “corsivo” o
“italico”, rese le pagine stampate molto più leggibili, permise di ridurre anche la dimensione della
pagina, il formato dei volumi e di conseguenza il loro costo si ridusse notevolmente. Lo sviluppo del
mercato editoriale favorì la diffusione dei testi non solo nelle lingue antiche ma anche dei classici
tradotti in volgare. La diffusione della stampa provocò quella che è stata definita una “rivoluzione
inavvertita”, determinando, in modo continuo ma impercettibile per i contemporanei, una serie di
trasformazioni nel modo di pensare e di accumulare la conoscenza. Cambiarono infatti i modi di
apprendimento, rendendo obsoleto lo studio a memoria basato sulla ripetizione di rime e cadenza.
Si sviluppò poi l’uso delle immagini e la stampa permise la riproduzione in numero illimitato di
disegni e mappe, incentivò la classificazione e l’uso di indici ordinati e sequenziali, favorendo così
una mentalità sistematica. Pubblicazioni a stampa come calendari, fogli di notizie e breviari per le
preghiere cominciarono a diffondersi in ogni fascia della popolazione. Originata negli ambienti
intellettuali delle città italiane e poi sviluppata nelle loro corti signorili, la straordinaria fioritura
letteraria, artistica e culturale dell’Umanesimo trovò in Roma, all’inizio del XVI secolo, il proprio
centro propulsivo. Infatti, il progetto di diversi papi di riportare la città allo splendore dell’età classica,
consentì a vari artisti di realizzare opere spettacolari. Dopo il “sacco” di Roma, avvenuto nel 1527 per
opera dei soldati mercenari tedeschi, i lanzichenecchi, e il conseguente venir meno del ruolo
internazionale degli stati italiani, il Rinascimento si irradiò in tutta l’Europa nel corso del 1500. Un
impulso determinante alla circolazione delle idee fu dovuto alla diffusione della stampa. Infatti, la
circolazione dei libri dovuta alla sua invenzione consentì la creazione della vasta “repubblica delle
lettere”, cioè del sentimento, condiviso dagli uomini di cultura del Rinascimento, di formare una
comunità unitaria di cultura e scambio delle informazioni e dei saperi, della quale gli umanisti
europei del Cinquecento sentivano di far parte. La figura più significativa della diffusione della
cultura umanistica fuori d’Italia fu quella del teologo olandese ERASMO da ROTTERDAM (1466/69-
1536). Erasmo viaggiò per tutta la vita, insegnando in molte università europee e stando in continuo
contatto con i principi intellettuali della sua epoca. Nei suoi scritti, l’ideale della vita attiva divenne
critica aperta all’ozio dei conventi, e lo sguardo razionale portò al rifiuto delle superstizioni, delle
reliquie e del culto dei santi. Per lui, la fede doveva portare l’uomo esclusivamente alla ricerca della
pace e al ripudio della guerra. La sua opera più celebre, “l’Elogio della follia”, costituisce una satira
forte della presunzione dei teologi, dell’immoralità del clero e dell’indegnità della curia romana, in
nome di una nuova visione umanistica che dà centralità all’uomo. Secondo Erasmo il rapporto
dell’individuo con Dio doveva basarsi prima di tutto sulla parola divina, e quindi sulle Sacre Scritture,
restituite nella loro autenticità, ovvero senza gli errori e i commenti dell’epoca precedente.
CAPITOLO 30: LE ESPANSIONI GEOGRAFICHE: UNA DISCONTINUITÀ
SPAZIALE
LA RICERCA DI UNA NUOVA VIA PER LE INDIE: Per secoli i commerci tra l’Europa e l’Asia si
erano indirizzati dai porti mediterranei fino ad Alessandria d’Egitto, da dove le merci venivano
condotte, via terra, fino alla località di Suez, sul Mar Rosso, e poi ancora per mare fino a raggiungere
le coste indiane. Qui si trovava il centro della produzione mondiale di spezie, ricercate soprattutto
per la conservazione delle carni e per la produzione di farmaci, che, per arrivare in Occidente,
dovevano attraversare l’oceano Indiano e il deserto egiziano dove le compagnie commerciali europee,
presenti negli emporia nord-africani, le ridistribuivano in tutto il continente. Ancora più insicuri e
lenti erano i percorsi terrestri che univano il bacino del Mediterraneo con l’Asia orientale, al centro
dei quali vi era il traffico della seta. Viste tutte le difficoltà per reperirle e per farle giungere sulle
coste del Mediterraneo, i costi delle merci che seguivano le vie dell’Oriente erano molto elevati.
Fattori economici favorirono dunque in Occidente lo sviluppo dell’idea di poter raggiungere
direttamente, via mare, le cosiddette Indie, cioè la parte sud-orientale del continente asiatico. Diffusa
era anche la convinzione che lungo la via che portava a esse si potessero trovare altre materie prime
preziose, in primis l’oro, di cui i sistemi finanziari del tempo avevano costante bisogno. Alle
motivazioni economiche si accompagnavano quelle religiose. Infatti, sin dal XII secolo circolava in
Europa la leggenda di un sovrano cristiano nemico dei musulmani, chiamato PRETE GIANNI, che
avrebbe controllato un vasto dominio oltre le terre dell’islam, costituendo un potenziale alleato
contro gli infedeli. Da secoli ormai la Terrasanta era sotto il dominio dell’islam e quando anche
Costantinopoli divenne ottomana nel 1453, emerse rapidamente l’idea, sostenuta dalla Chiesa, di
raggiungere tale regno, per interrompere l’assedio dell’islam di cui era vittima l’Europa cristiana.
Particolarmente sensibili a questa impresa si rivelarono i regni iberici del Portogallo, della Castiglia
e dell’Aragona, dove era ben radicato l’ideale della reconquista, cioè della liberazione del “suolo
cristiano” dagli arabi che da secoli si erano insediati nella penisola iberica. Fu proprio nel corso del
XV secolo che la reconquista dei territori fu portata a termine, con la ripresa degli eserciti catalano-
aragonesi della città di Granada nel 1492, in cui vi era l’ultimo regno arabo. In questo clima in cui
l’elemento religioso rivestiva il progetto di esplorazioni di terre lontane anche nel senso di una
missione per l’affermazione universale del cristianesimo, si sviluppò un’accesa competizione tra i
regni per organizzare viaggi d’oltremare. L’arricchimento delle conoscenze matematiche e
geografiche, favorito dal rinnovamento scientifico che attraversò l’Europa umanistica nella seconda
metà del XV secolo, permise di sviluppare tecnologie avanzate che furono messe al servizio della
navigazione. Tra le varie innovazioni fondamentale fu lo sviluppo ed il perfezionamento di un nuovo
tipo di nave commerciale, la caravella, e la messa a punto del sestante, cioè dello strumento che
permetteva alle navi di determinare la loro posizione geografica misurando l’altezza degli astri
sull’orizzonte, permettendo così ai navigatori di seguire rotte anche in alto mare e di notte, senza
basarsi esclusivamente sui punti di riferimento offerti dalla costa. Inoltre, vennero realizzare delle
carte geografiche più precise, grazie alla nuova abilità di rappresentare lo spazio. Nato nel 1451 a
Genova, Cristoforo Colombo cominciò a navigare da giovane tra il Mediterraneo, l’Inghilterra e le
Canarie (costa nord-occidentale africana). Dal 1476 entrò al servizio dei portoghesi come capitano di
navi da trasporto lungo le coste atlantiche dell’Africa. Nel corso di quei viaggi maturò l’idea di
raggiungere l’Asia viaggiando in direzione opposta rispetto all’itinerario narrato nel Milione di
Marco Polo. Venuto probabilmente a conoscenza delle tesi di TOSCANELLI, che sosteneva che la via
più diretta per raggiungere l’Oriente fosse la traversata dell’Atlantico, nel 1484 Colombo presentò il
suo progetto di “raggiungere il levante (oriente) passando per il ponente (occidente)” al re di
Portogallo GIOVANNI II, che, essendo più interessato all’espansione economico-militare sulle coste
africane, lo bocciò ritenendolo un inutile spreco di denaro. La regina ISABELLA di CASTIGLIA,
invece, completata la reconquista di tutta la penisola iberica nel 1492, decise di investire sull’ipotetica
nuova via per le Indie, soprattutto perché temeva i piani portoghesi di arrivarvi circumnavigando
l’Africa. Infatti, protagonista iniziale della ricerca di una nuova via per le Indie era stata proprio la
dinastia portoghese degli AVIZ, che aveva promosso le esplorazioni lungo le coste e le isole nord-
occidentali africane sin dal tempo di re ENRICO il NAVIGATORE (1433-1460) nella metà del XV
secolo. Il re aveva a cuore l’aspetto militare delle spedizioni. Infatti, il controllo delle rotte marittime
attraverso le basi commerciali e militari nelle isole delle Azzorre, di Capo Verde, sulle coste del
Senegal … consentì di fare affluire direttamente via mare, e non più attraverso il deserto del Sahara,
le spezie, la polvere d’oro, l’avorio e gli schiavi. Il primo carico di schiavi fu portato in Portogallo nel
1444.
L'AFRICA: Le spedizioni portoghesi, che raggiunsero le coste dell’Africa, allargando i rapporti
costruiti da secoli con le regioni mediterranee. Il continente africano era quasi sconosciuto a sud del
deserto del Sahara. Esso era estraneo geograficamente al continente europeo, perché diverso dal
paesaggio europeo e dalle sue dinamiche economiche e di popolamento, ma era anche “vicino”, dal
momento che anche in esso, come in Europa, si svilupparono, nel corso dei secoli, formazioni statali
che possono essere definite come “imperi” e “regni”. Infatti, in un ambiente specifico, quello del
Sahel, che è una fascia di territorio estesa tra il deserto del Sahara e la savana del Sudan (centro
Africa), sorsero i più grandi imperi africani perchè il clima favoriva l’agricoltura e l’allevamento.
Nell’area più occidentale sorse nel III-IV secolo l’impero del Ghana, che raggiunse il suo massimo
splendore nell’XI secolo. Nel XIII secolo, la dinastia dei KEITA, convertita all’islam, costituì l’impero
dei Mali. Con fortune alterne i Keita regnarono in un’area progressivamente estesa alle regioni
centro-occidentali africanee, e, nello specifico, alla valle del Niger e alle regioni aurifere (=ricche di
oro) sul fiume Senegal, fino a quando nel XV secolo il loro dominio fu interrotto dal popolo berbero
dei TUAREG, provenienti dall’Africa sahariana, e dall’espansione dell’impero del SHONGAI, sorto
lungo il corso interno del fiume Niger. Quest’ultimo, era l’impero africano territorialmente più vasto,
ed era sorto nel IX secolo dalla fusione di popolazioni locali con i berberi (=popolazioni africane
autoctone) del nord. Le popolazioni dell’impero del Shongai si convertirono all’islame puntarono poi
alla conquista del Mali. Nell’Africa equatoriale e centro-meridionale la preponderanza del ceppo
linguistico bantu e le rovine di Zimbabwe, risalenti al V-VI secolo, testimoniano un forte dinamismo,
confermato, a partire dal XIII secolo, da alcuni regni. Infatti, i portoghesi entrarono in contatto con
il regno di MANIKINGO nel 1482, nel tratto finale del fiume Congo, il cui re NZINGA NKUWU si
fece battezzare come GIOVANNI I nel 1491 e accolse missionari e artigiani europei. La ribellione dei
successori a impegnarsi nel commercio di schiavi spinse i portoghesi a spostare la loro attenzione sul
regno di NDONGO, nell’attuale Angola, che cercarono di sottomettere nel 1575. L’importanza delle
coste e dell’entroterra orientali del continente africano consiste invece nell’aver costruito, fra Nubia
e Abissinia, fin dal IV secolo, significativi regni cristiani, come il regno di Abissinia, che durò fino al
XX secolo, nonostante gli scontri con l’islam. Questo regno visse in una sorta di isolamento dal
mondo ma, nel XIII secolo, il regno si trovò in uno stato di guerra quasi permanente con i vicini
musulmani e, nel XV secolo, una missione del clero abissino (=africano), presso il concilio di Firenze
del 1439, convinse i cristiani europei ad identificare l’imperatore di Etiopia con il Prete Gianni e così,
i portoghesi giunsero alla corte di Etiopia nel 1493.
INDIA E SUD-EST ASIATICO: Il navigatore portoghese VASCO DA GAMA fu il primo a raggiungere le
Indie via mare, bordeggiando le coste africane oltre la punta meridionale del continente, cioè il capo di
Buona Speranza, già raggiunto da BARTOLOMEO DIAZ nel 1487. La sua spedizione era sia commerciale
che militare. Vasco sbarcò a Calicut, sulla costa Indiana di Malabar, nell’attuale Kerala (costa Indiana
sud-occidentale), nel 1498 (il 18 maggio). Il re locale (raja) lo accolse dapprima con favore, poi si mostrò
ostile, spinto a fare ciò dagli arabi, che erano molto numerosi in quella città perchè centro importante dei
loro commerci. Vasco si rese conto che la sovranità si sarebbe potuta ottenere per via di tributi e commerci,
sostenuti dalla forza militare. Così, ripartendo da Calicut, Vasco lasciò dietro di sé un’agenzia
commerciale, costituita con il consenso del signore locale. Al suo ritorno a Lisbona, si fecero celebrazioni
per aver raggiunto le Indie e il re portoghese EMANUELE I AVIZ (1495- 1521) aggiunse ai suoi titoli quello
di “signore della conquista, della navigazione e del commercio d’Etiopia, di Arabia, Persia e India”. La
rotta per l’India aperta da Vasco da Gama rivoluzionò i commerci tra Europa e Asia. La società indiana
era tradizionalmente divisa in caste, ovvero gruppi sociali chiusi i cui membri sono uniti da comunanza
di razza, nascita, religione o mestiere. Per questo motive si parla di: casta dei sacerdoti, dei guerrieri e
degli “intoccabili”. Inoltre, la società indiana era prevalentemente induista e, in misura minore, buddhista.
La preponderanza induista si accompagnava a una varietà linguistica più accentuata. Infatti, vi erano
lingue indoeuropee e iraniche nel centro-nord, contaminate con componenti turco-mongole nel sud. Tra
IV e VI secolo quasi tutta la parte settentrionale del continente fu unificata dalla dinastia GUPTA, il cui
impero coincise con il periodo aureo della storia della civiltà Indiana, per lo sviluppo che conobbero la
scienza, l’arte, la letteratura e la filosofia e per l’autonomia concessa dal dominio alle signorie locali.
Furono le invasioni degli UNNI dal nord-est, che si impadronirono della maggior parte delle province
dell’impero, a determinare la disgregazione dell’impero. Nei suoi territori sorsero così nuovi regni,
intorno a dinastie locali. Con l’arrivo delle popolazioni turche, l’islam penetrò fino al golfo del Bengala
(India nordorientale). Una lega di sovrani indù fu sconfitta presso l’attuale Delhi nel 1192. Nel XIII secolo,
la stessa Delhi fu al centro di un sultanato costituito da una dinastia resasi indipendente dai precedenti
conquistatori. I regni locali indù o musulmani furono via via controllati dall’espansione del sultanato
durante il 1300, che spostò la capitale a Daulatabad nel 1328. I regni che venivano soppiantati dal
sultanato videro nel secolo successivo l’emergere di un regionalismo. A ricomporre il continente fu
l’impero MOGHUL fondato nel 1526 da BADUR il CONQUISTATORE, che estese il suo dominio
dall’Afghanistan al Bengala, accrescendo così il peso della religione islamica in Asia centrale. Una vasta
are di quello che è oggi il sud-est asiatico restò largamente ignota agli europei. Nei secoli precedenti la
regione era stata il teatro dello sviluppo di due vasti imperi: l’impero khmer e l’impero del Dai Viet.
L’impero del KHMER sorse nel territorio dell’attuale Tailandia, Laos e Cambogia nel IX secolo e
rappresentò una sintesi tra la cultura cinese e quella indiana. L’impero declinò per motivi religiosi con la
conversione della maggior parte della popolazione dall’induismo al buddhismo, ma anche per motivi
militari a causa della conquista della capitale Angkor nel 1431 da parte della popolazione THAI, che
costrinse la dinastia KHMER a trasferirsi sulle montagne dell’attuale Cambogia. L’impero del DAI VIET
si sviluppò invece nel territorio più orientale, corrispondente all’attuale Vietnam. Questo impero nacque
invece per iniziativa del grande condottiero NGO QUYEN che sconfisse i cinesi nel 939. Nel XII e XIII
secolo, il dominio si scontrò più volte con il regno islamico indiano dei CHAMPA. Caduto nel 1407 sotto
la dinastia cinese dei MING, l’impero fu ricostituito dalla dinastia LE nel 1428, che liberò i territori
occupati e si repropose come grande potenza regionale. Molto più a sud e a est della penisola indocinese
si estende l’ultimo dei continenti ad essere raggiunto dagli europei: l’Oceania, costituita dall’Australia,
dalla Nuova Zelanda, dalla Polinesia, dalla Melanesia e Micronesia. Nel primo millennio le popolazioni
che abitavano l’Oceania hanno lasciato scarse tracce materiali e così abbiamo poche informazioni sulle
popolazioni dell’Oceania fino all’anno mille circa. Fu lo spagnolo FERDINANDO MAGELLANO che, nel
1521, raggiunse per primo la Polinesia navigando da est verso ovest, per poi dirigersi verso le Filippine.
CINA E GIAPPONE: Le Filippine si trovano a metà strada tra l’arcipelago che forma il Giappone e il
mondo cinese, un mondo che, agli europei, appare familiare per la forma politica che lo governò a
partire dal primo millennio a.C, quando la Cina fu per la prima volta unificata, prima sotto la dinastia
CHIN, poi sotto la dinastia HAN. Diversamente da quanto avvenne con l’impero romano, il territorio
cinese subì una ulteriore e profonda spinta unificatrice in seguito alle incursioni delle popolazioni
nomadi asiatiche che, a partire dal III secolo d.C, interessarono il nord del paese. A partire dal VII
secolo, la dinastia regnante divenne quella dei TANG, che mantenne il potere fino al 907. Dopo il
960 fu la volta dei SONG, che governarono il paese, dominato localmente da un’aristocrazia fondiaria
simile a quella signorile europea, fino al 1279. Elemento centrale del loro potere fu il sostegno alla
diffusione del confucianesimo, cioè di un sistema di dottrine religiose, sociali e politiche basato su
una particolare attenzione verso la formazione morale ed etica dell’individuo, cui si uniscono i doveri
dell’individuo verso sé stesso, verso lo stato e la famiglia. Infatti, la morale del confucianesimo si
prestava bene alla formazione etica della burocrazia, chiamata ad amministrare l’impero. I Song
promossero innovazioni scientifiche, in particolare in campo astronomico, e tecnologiche. Infatti,
sotto di essi fu compilato un atlante cartografico delle varie province. La Cina settentrionale, detta
Catai, fu invasa intorno al 1220 dalle tribù nomadi originarie della Mongolia, guidate dal condottiero
TEMUJIN, detto GENSIN KHAN (“signore universale”) perché capace di sottomettere anche l’Asia
centrale e la Russia orientale. Dopo la sua morte, nel 1227, i suoi successori si espansero nei territori
meridionali della Cina, e arrivarono a stabilire un ambito di dominazione plurinazionale, noto come
“impero del Gran Khan”, che comprendeva anche la Russia, la Mongolia e la Corea. Un nipote di
Gengis Khan, QUBILAI, riuscì ad imporsi come capo incondizionato dal 1260 al 1294, spostando la
capitale dell’impero da Karakorum a Khanbaliq (l’odierna Pechino) nel 1272. Così, QUBILAI, nel
1272 fondò la dinastia mongola degli YUAN e completò la conquista della parte meridionale del paese
nel 1279. Alla sua corte giunse nel 1275 il viaggiatore veneziano MARCO POLO, che, ottenuta la
fiducia del sovrano, ebbe nei 17 anni di soggiorno in quel paese importanti missioni politico-
amministrative, che gli permisero di approfondire la conoscenza delle condizioni di vita, delle lingue
e dei costumi di gran parte dell’Asia orientale. Di queste missioni è rimasta straordinaria
testimonianza nella relazione dei suoi viaggi, nota con il titolo di “Milione”, che si diffuse in tutta
Europa. Per quasi un secolo gli Yüan riuscirono a governare un territorio vastissimo. Però, la dinastia
perso il potere per le difficoltà di contrastare la corruzione della propria burocrazia imperiale e per
l’incapacità di adottare riforme economiche capaci di fronteggiare le frequenti carestie. Un moto di
rivolta sorse così nelle campagne, guidato da un membro della setta buddhista del Loto bianco, ZHU
YUANZHANG, che seppe coalizzare gli interessi dei contadini con quelli delle élites cittadine, che
estesero la rivolta nelle città. Zhu, dopo aver acquisito prestigio grazie alle sue strategie militari,
occupò nel 1359 Nanchino, per poi conquistare nel 1368 Pechino, dove si proclamò imperatore,
cacciando gli Yüan e dando inizio alla dinastia dei MING. Il nuovo sovrano abbandonò il buddhismo
per il confucianesimo, e gettò le basi di un potere dinastico che sarebbe durato fino al 1644. Allo
sviluppo protrattosi per tutto il XV secolo, fece seguito un declino, tra XVI e XVII, di cui si
avvantaggiarono le potenze europee in ascesa e soprattutto la potenza regionale giapponese, detta
Cipango. La regione di isole vicine alla Cina continentale aveva conosciuto durante il primo
millennio(0-1000) cristiano una forma di governo monarchico. Il tenno (“sovrano celeste”) regnava
su una popolazione scintoista, che era una tradizione religiosa e rituale giapponese fondata sulla
credenza che tutti i fenomeni naturali siano espressione di forze divine, e buddhista divisa al proprio
interno almeno fino al periodo in cui fu capitale Nara (710-782), che divenne il massimo centro
culturale e letterario del paese, quando la società si strutturò in maniera indipendente dalle dispute
religiose. Con il nuovo millennio (il secondo 1000-2000), la figura del tenno perse la sua importanza
mentre le lotte per il potere si giocarono intorno al possesso della carica di supremo capo militare
(shogun). Dal 1185 al 1333 lo shogunato (=regime militare) fu controllato dalle dinastie MINAMOTO
e HOJO, che seppero fronteggiare l’invasione mongola del 1274-1281, guidata da Qubilai. Un
tentativo di restaurazione del pieno potere imperiale da parte del tenno GO DAIGO provocò la fine
politica degli HOJO nel 1333, aprendo una lunga fase di guerra civile contrassegnata fino al 1392
dall’esistenza di due corti imperiali. A guidare il paese fu lo shogunato degli ASHIKAGA, dal 1338 al
1573, caratterizzato dall’espansione dei commerci interni e con la Cina, ma anche dallo sviluppo, dal
1467 in poi, di forti e autonomi poteri locali da parte dei governatori militari (daimyo).
LE AMERICHE: Il continente americano fu probabilmente raggiunto dalle popolazioni europee
nell’XI secolo. Infatti, i vichinghi erano giunti sulle coste disabitate dell’attuale Groenlandia sud-
occidentale dove esistono resti archeologici che risalgono al X secolo. Inoltre, in Canada, diversi resti
di insediamenti, identificati come probabili villaggi vichinghi, lasciano supporre che viaggi
esplorativi, muovendo via mare dalla Groenlandia, furono effettuati prorpio in Canada. L’eventuale
colonizzazione vichinga fu però modesta e di breve durata, e non lasciò alcuna memoria nella società
europea. L’esistenza tra Europa e Asia di un alto continente era dunque ignota quando, il 3 agosto
1492, tre caravelle salparono dal porto spagnolo di Palos, sotto la guida del genovese CRISTOFORO
COLOMBO, appoggiato dalla regina ISABELLA DI CASTIGLIA. Egli intendeva arrivare in Cina e in
Giappone, cioè in quelli che egli credeva essere, sulla base della lettura del “Milione” di Marco Polo,
il Catai e il Cipango, cioè le Indie o per meglio dire la parte sud-orientale del continente asiatico. Il
suo intento era dunque quello di raggiungere le Indie attraversando l’Atlantico in quanto, secondo il
matematico fiorentino Toscanelli, la via più corta e più diretta per raggiungere l’Oriente era proprio
la traversata dell’Atlantico. Nel 1492, dopo soli 36 giorni di navigazione dallo scalo delle Canarie
(Africa nord-occidentale), venne avvistata la terra. Sceso sulla spiaggia, Colombo vi piantò la
bandiera della Castiglia e si impossessò del territorio in nome dei “re cattolici spagnoli”. Colombo si
trovava in realtà su un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, che venne da lui chiamata San Salvador.
Dunque colombo approdò nelle Americhe. Nel 1494, cioè due anni dopo il primo viaggio di Colombo,
Spagna e Portogallo siglarono il trattato di Tordesillas, che era una località della Spagna nord-
occidentale. Con il trattato di Tordesillas, i sovrani di Castiglia e di Aragona, rispettivamente
ISABELLA e FERDINANDO, e il re del Portogallo, GIOVANNI II, nel 1494, tracciarono una linea
un’immaginaria sull’asse nord-sud dell’Atlantico a 2000 km a ovest delle isole di Capo Verde e, con
questo trattato, si stabile che a ponente (ovest) di questo meridiano le terre “scoperte” sarebbero
state spagnole, mentre quelle a levante (est) sarebbero state portoghesi. Però, solo una minima parte
dell’area divisa era stata esplorata e, di conseguenza, la Spagna finì col guadagnare territori
ampissimi, mentre solo la parte più orientale dell’odierno Brasile venne garantita al Portogallo. Il
trattato rappresentò il punto di partenza per la successiva creazione di un Atlantico europeo e del
fenomeno del colonialismo, che garantì l’occupazione e lo sfruttamento territoriale del nuovo
continente da parte delle potenze europee. Il trattato di Tordesillas disegnò dunque una mappa nella
quale due regni, che aspiravano a diventare imperi, stavano per muovere verso un luogo nel quale,
in realtà, esistevano già plurinazionali, come quello dei Maya, degli Aztechi e degli Inca. Lo sbarco
di Colombo nel 1492 segnò una svolta epocale che consentì all’Europa di conquistare e colonizzare
immensi territori e di avviarne lo sfruttamento economico, impadronendosi per secoli di enormi
ricchezze. Per un decennio, però, il continente non fu considerate come una nuova scoperta ma
continuò ad essere ritenuto una propaggine delle Indie. Fu solo l’esplorazione delle coste atlantiche
meridionali nel 1499-1500 e 1501-1502, condotta su navi portoghesi dal navigatore fiorentino
AMERIGO VESPUCCI, a indurre proprio il navigatore Amerigo Vespucci a ritenere di essere di
fronte ad un nuovo continente. Egli infatti, in alcune lettere, sostenne che quell “nuovo mondo” non
poteva essere l’estremità orientale dell’Asia. La rapida diffusione, attraverso la stampa, del contenuto
delle sue relazioni indusse il cosmografo tedesco MARTIN WALDESEEMULLER ad usare il genere
femminile “America” del nome latinizzato Americus Vespucius per indicare il nuovo continente, e
nello specifico l’America meridionale, cioè le terre raggiunte da Vespucci, in una carta del mondo
disegnata nel 1507. La separazione dalle terre antartiche fu accertata nel 1520 dalla spedizione del
portoghese MAGELLANO, mentre solo verso il 1570 il nome America fu esteso all’intero continente,
pur conservandosi anche il nome “Indie occidentali” per indicare gli arcipelaghi delle Antille e delle
Bahamas. Quando Colombo raggiunse l’America, il nuovo territorio, come detto, non era disabitato
in quanto in esso vi erano diversi imperi plurinazionali. Infatti, l’impero dei maya era sorto, nei secoli
IV-VII d.C, sulle radici della civiltà degli olmechi, nell’area dell’attuale Guatemala (America centrale).
Però, l’arrivo del popolo dei Toltechi nel IX secolo lo confinò alla penisola dello Yucatan. Le
differenze tra Toltechi e Maya non erano molto accentuate. Infatti, Toltechi e Maya furono popoli
che diedero entrambi vita a forme statali complesse e centralizzate, a città di pietra elaborate, e
svilupparono una cultura artistica e astronomica raffinate. I maya inoltre perfezionarono anche
l’unica forma di scrittura (geroglifica) del continente. I toltechi dominarono le regioni centrali del
Messico, fino al XII secolo, quando il loro regime politico precipitò in un lungo periodo di anarchia
a cui pose fine, nel XIV secolo, l’invasione degli aztechi, che fondarono il primo nucleo di quella che,
dopo 200 anni (XVI secolo), divenne la più grande città del continente, cioè Tenochtitlan
(nell’attuale Messico centrale). Sotto il re MONTEZUMA I (1440-1468) e I suoi successori, la potenza
azteca crebbe rapidamente, estendendo a gran parte del Messico centro-meridionale il controllo
delle vie commerciali e l’imposizione di tributi. L’impero crollò all’arrivo dei conquistadores spagnoli
nel 1519, mentre i maya resistettero fino al 1697. A sud del golfo del Messico, nella regione andina
(=costa occidentale del sud America) di Cuzco, nel XIII secolo il popolo dei quechua cominciò a dare
forma politica all’impero degli inca, che era la civiltà più progredita del continente prima dell’arrivo
degli europei. La popolazione era impiegata prevalentemente nell’agricoltura, e il sovrano, detto
“inca”, al quale spettava l’amministrazione di gran parte della ricchezza prodotta, era ritenuto di
origine divina. Un’ampia espansione dei confini verso sud e verso nord fu attuata dagli inca del XV
secolo, dotando il territorio di un’immensa rete viaria nonostante la mancata conoscenza della ruota
e del cavallo. Una guerra dinastica coincise con lo sbarco, nel 1531, sulle coste dell’oceano Pacifico
dei conquistadores spagnoli, provenienti da Panama (America centrale). Essi erano guidati da
FRANCISCO PIZARRO, che attirò in un’imboscata l’imperatore ATAHUALPA e lo prese prigioniero.
Nonostante il pagamento di un ingente riscatto in oro, il sovrano fu ucciso e il suo popolo fu
sottomesso e spesso massacrato nel giro di pochi anni. Infatti, migliaia di inca furono schiavizzati e
mandati a morire nelle miniere d’oro e d’argento della regione e l’impero fu assediato.