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Il Sentiero Della Gioia. 7 Passi Per Creare Un Mondo Nuovo - Thomas Torelli - (Mondadori 2020-10)

Il libro 'Il sentiero della Gioia' di Thomas Torelli esplora il tema della solitudine moderna e propone un percorso di consapevolezza per attrarre gioia nella propria vita. Attraverso esperienze personali e interviste con pensatori contemporanei, l'autore invita a trasformare la percezione della realtà, abbandonando paura e odio in favore di amore e perdono. Ogni capitolo rappresenta una tappa di un viaggio interiore verso la gioia, sottolineando l'importanza di conoscere se stessi e di utilizzare le parole come strumenti di creazione.

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Il Sentiero Della Gioia. 7 Passi Per Creare Un Mondo Nuovo - Thomas Torelli - (Mondadori 2020-10)

Il libro 'Il sentiero della Gioia' di Thomas Torelli esplora il tema della solitudine moderna e propone un percorso di consapevolezza per attrarre gioia nella propria vita. Attraverso esperienze personali e interviste con pensatori contemporanei, l'autore invita a trasformare la percezione della realtà, abbandonando paura e odio in favore di amore e perdono. Ogni capitolo rappresenta una tappa di un viaggio interiore verso la gioia, sottolineando l'importanza di conoscere se stessi e di utilizzare le parole come strumenti di creazione.

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Il libro

“S uccede ogni giorno sotto i nostri occhi: perennemente


connessi da una rete virtuale, viviamo in un quotidiano
stato di solitudine condizionata. Questo isolamento di
anime nello sconfinato mondo dei like ha un effetto estremamente
reale: percepiamo il mondo nel quale viviamo come sempre più
alieno, dissonante e pericoloso. Nella nostra quotidiana frenesia ci
dimentichiamo l’insegnamento fondamentale di quella che viene
chiamata la ‘legge dell’attrazione’: per attrarre la gioia dobbiamo
vivere nella gioia, dobbiamo essere gioia.”

Attingendo alla sua esperienza personale e al lavoro di ricerca


condotto negli anni, che l’ha portato a incontrare alcune menti
illuminate dei nostri tempi, da Deepak Chopra a Bruce Lipton,
Thomas Torelli, regista e conferenziere da anni impegnato nella
diffusione di una nuova prospettiva secondo cui interpretare la realtà,
ci guida passo passo lungo il “sentiero della Gioia”, un percorso di
consapevolezza in grado di trasformare la nostra esistenza.

Non si tratta di cambiare il mondo, ma di cambiare noi stessi:


dobbiamo allenarci ogni giorno a distinguere i fatti dalle opinioni, le
notizie dai condizionamenti. Scuoterci dall’inerzia della passività,
ascoltare attivamente, ricominciando a pensare da donne e uomini
liberi. Abbandonare l’odio e la paura per fare spazio all’amore e al
perdono. E, soprattutto, dobbiamo ritornare a conoscere noi stessi,
riappropriandoci della capacità di sentire, quella capacità innata di
indagare con il cuore la profondità insondabile dentro di noi, la parte
che ci connette all’anima del mondo. “Conosci il tuo demone,
realizzalo bene. Fallo secondo misura, in un moto espansivo e
costruttivo per l’intero universo. In questo modo, nel tempo della tua
vita, realizzerai te stesso. E avrai lavorato per il bene del mondo
intero. Questo è il cammino ed è la meta. Questo è il sentiero della
Gioia.”
L’autore

Thomas Torelli è regista, autore e produttore


indipendente. Scrive, produce e dirige numerosi
documentari distribuiti in tutto il mondo, tra i
quali ricordiamo Zero, inchiesta sull’11 settembre
(2007), in concorso al Festival del Cinema di
Roma, e Sangue e Cemento (2009), sul terremoto
in Abruzzo, candidato ai Nastri d’Argento come
miglior documentario. Nel 2014 conclude il film documentario Un
Altro Mondo, rivoluzionando il concetto di produzione e distribuzione
indipendente in Italia. Da quel momento tutti i suoi progetti vengono
realizzati attraverso campagne di crowdfunding sul web. Nel 2017
esce Food ReLOVution, opera che analizza gli effetti dell’industria
della carne nell’ambiente. Nel 2018 completa Choose Love, film
documentario che racconta l’importanza di scegliere l’Amore in ogni
gesto. Nel 2019 dà vita a UAM.TV, una web tv indipendente che
promuove un modello sociale e culturale migliore: Un Altro Mondo,
per l’appunto. Del 2020 è il nuovo documentario Il sentiero della
Gioia. Tiene conferenze e seminari in tutta Italia per portare alle
persone una nuova visione del mondo, basata sulla condivisione di
valori positivi quali la gratitudine e il perdono.
Thomas Torelli

IL SENTIERO DELLA
GIOIA
7 passi per creare un mondo nuovo e vivere una vita piena
Il sentiero della Gioia

A Isabel e a Amelie, e a tutti

i figli e le figlie del mondo.

Che possano percorrere

il sentiero della Gioia.


Introduzione

In questa epoca, gli anni Venti del terzo millennio, la nostra


vita è attraversata da immagini e parole che scandiscono ogni
nostro pensiero, azione, decisione. Isolate, ci trasmettono
informazioni, emozioni, input. Combinate, amplificano la
portata del messaggio.
Consapevoli di essere immersi in un universo fluido,
connesso, siamo istintivamente coscienti di vivere in un
mondo di manipolazione mediatica, che costruisce ad arte i
nostri bisogni per poi soddisfare le nostre pulsioni. Se
qualcuno di voi ha iniziato a preoccuparsi lo rassicuro subito:
non sono un “esperto” di relazioni pubbliche né di strategie di
comunicazione. A dirla tutta, non sono nemmeno uno scrittore.
Sono un regista e, nella mia esperienza professionale, ho
cercato di indagare la storia e il sapere delle popolazioni
native, la loro visione del mondo. La scrittura è una
conseguenza di questa ricerca, uno strumento per
rappresentare con le parole una nuova prospettiva con la quale
interpretare la realtà. I temi dei quali mi sono occupato sono i
più disparati: dal Messico del subcomandante Marcos all’11
settembre, dai popoli nativi all’emergenza delle risorse
alimentari a livello planetario. Ma la ricerca che, più di ogni
altra, ha fatto nascere in me queste prime riflessioni è quella
che mi ha condotto alla realizzazione di Choose Love. Mentre
lavoravo a questo documentario mi sono chiesto: è possibile
creare una società di persone che scelgono l’amore come
risposta a quello che accade nella vita? La mia risposta è sì.
Guardandoci attorno, abbiamo però la percezione che questo
non avvenga. Perché?
La percezione che abbiamo del mondo – influenzata dai
mass media – è fondata su paura, separazione, odio. Ma questa
è, appunto, una percezione indotta. Modificando lo stimolo,
cambierebbe la sensazione derivante e, forse, il mondo sarebbe
diverso. Siamo stati educati all’odio e la società che
conosciamo è il risultato diretto di questo sentimento. Per
questo motivo i miei ultimi film e questo libro cercano di
vedere il mondo da un’altra prospettiva. Di dimostrare che si
può educare all’amore. Non è forse questo il nostro stato
naturale? La condizione di quando nasciamo? L’insegnamento
più importante che il mio lavoro mi ha trasmesso è proprio
questo. La rappresentazione della realtà è demandata a
immagini e parole che, unitamente alla volontà che soggiace a
ogni racconto, rappresentano i pilastri sui quali si ergono i
confini del nostro universo. Oltre questi limiti, si profila un
cammino. Ho scelto di chiamarlo “il sentiero della Gioia”: non
una meta, ma un viaggio che si compie con i passi di coloro
che lo intraprendono. Ogni capitolo di questo libro sarà una
tappa su questa via che, al pari del Dao cinese, è al contempo
cammino e parola, nella consapevolezza che ciò che diciamo e
ascoltiamo può diventare il nostro personale modo di avanzare
nell’infinita potenzialità dell’esistenza. In questa chiave,
immagini e parole influenzano la percezione che abbiamo del
mondo e possono trasformare la nostra esistenza in un
miracolo irripetibile di coscienza, istante per istante.
Se davvero è esistito ed esiste un potere così grande di
controllo, in grado di orientare il pensiero di milioni di
persone, perché non viene utilizzato per creare una società
dove l’amore prevale sull’odio, dove la fiducia sconfigge la
paura? Detto in un altro modo: perché non optare per un’altra
narrazione? Una prospettiva che invece di instillare paura e
divisione miri alla felicità? Questo è il filo conduttore del mio
primo documentario Un altro mondo, che propone una visione
della vita basata sulla cooperazione e l’amore. Il film cerca di
dimostrare come la filosofia, la saggezza dei popoli nativi e la
scienza parlino la stessa lingua e giungano alla stessa
conclusione: tutto è connesso. Questa evidenza è però stata
vista come sospetta e quando ho presentato il film per
organizzarne l’uscita ho trovato buona parte delle porte chiuse.
I rappresentanti della distribuzione hanno rifiutato Un altro
mondo dicendo che era “difficile parlare di questi argomenti”.
Tale rifiuto si è però trasformato in un’incredibile occasione: è
stato il pubblico stesso a organizzare le proiezioni in tutta
Italia. Risultato? Più di quattrocento serate, a dimostrazione
del fatto che ci sono migliaia di persone pronte a impegnarsi
per una nuova visione del mondo.
A differenza di Un altro mondo, questo libro rappresenta
una sorta di istantanea di quello che sono in questo momento.
È la summa dei miei trascorsi, delle conoscenze che mi hanno
trasmesso le persone che ho avuto l’onore di incontrare e
intervistare in questi anni, dei miei studi e, soprattutto,
dell’evoluzione della mia coscienza. Non è un punto di arrivo,
ma un viaggio alla ricerca della gioia che risiede dentro di noi.
La ricerca è iniziata quando mi sono interrogato sul reale
significato del termine “gioia”. Non sapendo da dove partire,
ho sfogliato un vecchio dizionario e ci ho trovato un mondo.
Ecco perché, in queste pagine, ci metteremo spesso alla ricerca
del significato delle parole. So che a volte potrà sembrare
pesante o, peggio, apparire come un semplice esercizio di stile.
Ma non lo è. Le parole creano, la loro natura è vibrazione.
Quando pronunciamo una parola entriamo in risonanza con la
sua natura creatrice: l’onda che diventa sostanza.
Comprenderle, e non limitarsi a usarle passivamente, è
fondamentale per utilizzare la legge dell’attrazione che ci
permette di attirare con le nostre forme-pensiero ciò che
realmente desideriamo. Il titolo Il sentiero della Gioia è frutto
di questa riflessione: non si tratta di un manuale per
raggiungere una meta, ce ne sono già tanti e non era quello che
si agitava nel profondo della mia anima. È un “sentiero”: un
cammino che si crea a ogni passo, in ogni singolo istante della
nostra vita. Con i suoi ostacoli, le sue salite ma, anche, con le
sue splendide giornate di sole.
Parallelamente a questo libro, ho lavorato a un
documentario che avrà lo stesso titolo. Non si tratta di due
lavori sovrapponibili: il documentario si concentra soprattutto
sugli argomenti trattati nell’ultimo capitolo mentre il libro
abbraccia tutta la mia esperienza personale e professionale.
Rappresenta ciò che la vita mi ha insegnato fino a questo
momento. Tra dieci anni sarà sicuramente diverso.
Al pari di ogni altro viaggio, anche questo rappresenta una
sfida: passo dopo passo ci porterà a conoscere sempre meglio
noi stessi e il mondo nel quale viviamo immersi. Per questo ho
avvertito l’urgenza di iniziare con un capitolo dedicato alla
percezione, ossia al modo in cui la nostra coscienza interpreta
la realtà. I due capitoli successivi sono dedicati alle coordinate
secondo le quali la nostra vita si declina: lo spazio e il tempo.
Questi assi cartesiani, che dettano i confini dell’esperienza
umana, ci conducono al quarto capitolo, dove viene affrontato
il tema dell’anima e del suo destino terrestre. Se buona parte
delle tradizioni culturali convergono sul fatto che l’anima
sceglie di incarnarsi per rispondere alla sua personale necessità
evolutiva, le strategie per affrontare le sfide che la vita ci
propone sono in larga misura orientate verso il perdono e la
sospensione del giudizio, preludi per l’esperienza della Gioia,
come vedremo nel quinto capitolo. I temi fin qui analizzati
attraverso le esperienze delle persone che ho avuto modo di
conoscere e intervistare e del sapere delle più svariate culture
ancestrali trovano conferma nella moderna fisica quantistica:
per questo, nel sesto capitolo, affronteremo gli stessi
argomenti da una prospettiva che vede la scienza sfumare nella
mistica. A conclusione del viaggio, scopriremo il significato
della Gioia che si spinge ben al di là di un istante di felicità
fugace, delineandosi come un sentiero che è al contempo
viaggio e meta del nostro peregrinare umano.
Ogni capitolo viene introdotto da una storia raccontata in
prima persona. Esistono molte strade per affrontare gli
argomenti ma, personalmente, ritengo che le storie e i miti
siano quelle più efficaci. Sono strategie utilizzate fin dagli
albori dei tempi per far comprendere all’uomo la sua
condizione e offrirgli una chiave di lettura di un mondo che è
per sua natura complesso e mutevole. Ne troverete tanti lungo
questo cammino, seguendo il fil rouge dettato
dall’insegnamento del maestro Mahatma Gandhi: “La vita non
è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto
la pioggia”.
Da qui ha inizio il viaggio.
Prima storia
Il mito della caverna

Uomini prigionieri in una caverna, le gambe e il collo


incatenati, gli occhi fissi sulla parete animata da ombre
parlanti, che rappresentano la loro realtà.
Uno di loro riesce a liberarsi e si volta.
Vede un muro, oltre il quale uomini privi di catene sono
indaffarati a trasportare delle statue d’argilla: persone,
animali, piante. Amplificate e distorte dalla caverna, le loro
voci diventano quelle delle ombre.
Oltre al muro e agli uomini che muovono le figure arde un
fuoco. La sua luce proietta le forme sulla parete che aveva
rappresentato, fino ad allora, il suo intero mondo.
Intuisce una nuova verità delle cose.
Si mette in cammino.
Il viaggio è tortuoso e faticoso. Le sue gambe non sono
abituate e dolgono a ogni passo.
Poi, all’improvviso, è costretto a fermarsi. L’oscurità della
caverna ha lasciato posto a una luce accecante. Prova a
ripararsi da quella insostenibile esplosione che lo tramortisce.
Attende. Lentamente, gli occhi si abituano alla nuova
condizione. Le forme, i colori che lo circondano gli sembrano
però irreali.
Sopraggiunge la sera, poi la notte stellata. È nuovamente
giorno e nuovamente sera.
Passa del tempo, molto tempo. Matura una nuova
consapevolezza della realtà. Riflette. Si chiede se debba
ritornare nella caverna per liberare i suoi compagni.
Potrebbe parlargli di ciò che ha visto, del mondo al di fuori
della caverna in cui vivono incatenati, immensamente più vero
e bello di quello delle forme proiettate.
Immagina.
Sente su di sé gli occhi impietositi dei suoi vecchi
compagni. Le loro risa di scherno.
“I tuoi occhi si sono guastati” gli direbbero. Se si
spingesse fino a tentare di liberarli dalle catene verrebbe
probabilmente ucciso. L’assuefazione è più forte di ogni
catena, ragiona tra sé e sé.
“Per questi uomini” conclude “la verità non può essere
altro che l’ombra degli oggetti.”
Capitolo 1
Parole, immagini e percezione

Per sintonizzarci sulla frequenza della gioia, per portarla nella


nostra vita, dobbiamo prima prendere coscienza di quanto i
confini del nostro mondo siano dettati dalla percezione e di
come essa sia, come già detto, influenzata dalle immagini e
dalle parole.
Il primo ostacolo che incontriamo su questo sentiero è la
rappresentazione del mondo che ci viene fornita dai mass
media. Un esempio lampante: abbiamo ben incisa nella mente
l’immagine di Nerone che gode nel veder massacrare cristiani,
gladiatori e belve nel Colosseo. Quest’immagine potente, più
volte cavalcata dal cinema, accende il sadismo degli spettatori.
Basterebbe però sfogliare un saggio di storia per scoprire che
quello che ci viene descritto come uno degli imperatori romani
più malvagi e folli non amasse per nulla questi spettacoli ma,
soprattutto, per renderci conto che il Colosseo fu costruito anni
dopo la sua morte. A volerne la realizzazione fu infatti il
morigerato Vespasiano e a inaugurarlo fu il suo successore
Tito, “amore e delizia del genere umano”.
Questo esempio chiama in gioco una nozione particolare,
quella di “percezione”, ovvero il modo in cui la nostra
coscienza interpreta il mondo esteriore. Di che cosa di tratta
esattamente? Facciamolo dire a una delle più grandi agenzie di
PR americane, la Burson-Marsteller: “Le percezioni
rispecchiano la realtà… colorano ciò che vediamo… ciò in cui
crediamo… il modo in cui agiamo”. 1 Non c’è nulla di
sconvolgente, si potrebbe pensare. La percezione è un atto
libero e personale che caratterizza ogni individuo nella sua
singolarità, rispecchiando la sua esperienza di vita. Ma,
invece, è proprio qui che tutto si complica, perché tra coloro
che hanno compreso a fondo questo meccanismo c’è chi ha
deciso di sfruttarlo per orientare il pensiero e i comportamenti
delle persone, facendo leva su uno dei sentimenti più potenti e
radicati dell’essere umano: la paura. Lo scopo? Rispondiamo
con le parole di colui che viene considerato il padre delle
relazioni pubbliche: Edward L. Bernays. L’obiettivo è:
“Controllare e ordinare le masse secondo la nostra volontà
senza che queste se ne rendano nemmeno conto”. 2 La prima
volta che ho letto questa frase, ho pensato che saltasse fuori
dai diari di Goebbels, il ministro della Propaganda nazista.
Herr Doktor, come veniva chiamato dallo stesso Hitler. Un
uomo estremamente colto, con un dottorato in letteratura, che
assunse il dominio di ogni aspetto dell’informazione, dalla
stampa al cinema, dalla radio al teatro fino allo svolgimento
degli eventi sportivi, diventando il deus ex machina della
cultura del Terzo Reich. Ogni suo sforzo era volto a rafforzare
la popolarità di Hitler, organizzare un forte consenso nei
confronti della politica del Reich e dell’arianizzazione del
popolo tedesco, attraverso la continua ripetizione di
informazioni rigidamente controllate dal vertice. Quello su cui
faceva affidamento era la convinzione che ciò che viene
raccontato finisce prima o poi con il diventare reale. Una bugia
ripetuta all’infinito diventa realtà. Questa intima certezza gli
veniva da un concetto del tutto fluido della verità, che ai suoi
occhi doveva apparire come un contenitore vuoto da riempire.
Conosciamo tutti l’esito della Seconda guerra mondiale e
spesso ci chiediamo com’è potuto accadere, in che modo le
masse si siano fatte condizionare a tal punto, in Germania
come in Italia, in Giappone come nella Russia di Stalin. Ma
sarebbe un errore liquidare questa domanda relegandola al
passato. Poniamocela oggi, nel nostro mondo, nella nostra
vita.
Proviamo a fare qualche esempio di questi
condizionamenti, non per spaventarci, ma per essere più
consapevoli e iniziare il cammino di conquista della gioia.
Perché se comprendiamo i meccanismi che reggono il sistema,
sarà più difficile esserne condizionati.
È risaputo che gli USA detengono il macabro primato di
morti causate da armi da fuoco. Il massacro della Columbine
High School, nel quale due studenti armati hanno ucciso
dodici compagni e un insegnante per poi togliersi la vita nel
1999, è ancora nei nostri occhi. Per farci un’idea della
violenza che attraversa il paese a stelle e strisce, nel
famigerato anno delle Torri Gemelle sono state freddate con
armi da fuoco più di 11.127 persone, contro 165 in Canada,
381 in Germania, 244 in Francia e 65 in Australia. Purtroppo
ancora attuali, queste cifre sono estrapolate dal documentario
del 2002 Bowling a Columbine, nel quale Michael Moore
cerca di far luce con drammatica ironia sulle cause che
spingono gli americani a spararsi con tanta nonchalance.
La prima e più intuitiva ipotesi sulla causa di questa follia
sociale rimanda alle armi. Gli americani sparano perché sono
armati fino ai denti e perché chiunque, e dico proprio
chiunque, ha facile accesso a fucili e pistole.
Bowling a Columbine, che valse al regista il premio Oscar
come miglior documentario nel 2003, inizia con Moore che
entra alla North Country Bank per aprire un conto e ne esce
imbracciando un fucile. La banca, infatti, per invogliare le
persone ad aprire un conto corrente, non ha trovato nulla di più
efficace che regalare un fucile a scelta tra un vero e proprio
arsenale custodito regolarmente nel suo caveau. Ma i caveau
delle banche non sono pensati proprio per evitare che qualcuno
armato possa entrarci? Negli USA , no. Sembrerebbe di no.
Tuttavia, nonostante le evidenze, questa risposta non ha
convinto il regista e gli è stato sufficiente recarsi nel vicino
Canada per capire il perché. Questo paese, abitato da
cacciatori e pescatori, detiene un arsenale degno di un esercito.
Su 37 milioni di abitanti, il Canada conta 7 milioni di armi
dichiarate e, nonostante questo, le persone vivono tranquille.
Hanno così tanta fiducia nel prossimo da non avvertire
nemmeno la necessità di chiudere la porta a chiave di notte.
“Se chiudessimo le porte a chiave non ci sentiremmo sicuri,
ma prigionieri” dicono. Negli Stati Uniti, invece, dove
circolano mediamente trecento milioni di armi, nel solo 2014
queste hanno causato più di cento vittime per ogni milione di
abitanti. Per riassumere: nel paese a stelle e strisce non si
dorme con le porte aperte.
Scartata la teoria delle armi, Moore ricerca la causa della
follia omicida che attraversa gli USA nella storia cruenta che ha
dato i natali all’America. Ma per quanto ragionevole,
soprattutto se si guarda alla vicenda americana dal punto di
vista degli indiani e degli schiavi, anche questa ipotesi è presto
crollata: la storia ci insegna che non esiste paese al mondo
senza un passato funestato da guerre e violenze. Quindi,
conclude il regista, ci si dovrebbe sparare in Germania e in
Italia come in America.
Abbandonate le teorie dalle quali si era mosso progettando
il documentario, Moore guarda dunque la questione da un’altra
prospettiva. L’aberrazione sociale secondo la quale per sentirsi
cittadini responsabili è necessario possedere un’arma e
possibilmente utilizzarla coinvolge la percezione di cui
parlavamo poco fa: gli americani sparano perché vivono in una
condizione di perenne terrore. La causa prima e ultima è da
ricercarsi nella paura, che genera un’endemica necessità
difensiva. «Bisogna difendersi e difendere chi si ama» gli
risponde un intervistato. “Ma difendersi da cosa?” verrebbe da
chiedersi. La risposta questa volta è semplice: da tutto. Gli
americani hanno la percezione di vivere in un mondo
estremamente ostile e pericoloso. Le insidie alla loro vita si
nascondono ovunque, perfino nelle noccioline! Uno studio ha
infatti dimostrato che negli USA ci sono più persone morte per
essersi strozzate mangiando noccioline che per atti di
terrorismo. Eppure fanno la guerra al terrorismo, non alle
noccioline!
La situazione in Europa non è sostanzialmente diversa ed è
sufficiente fermarsi a guardare per un attimo il mondo nel
quale viviamo, le parole e le immagini che invadono il nostro
quotidiano, per rendercene conto. Se da un lato i telegiornali
sembrano passare di tragedia in tragedia, i libri, i film, le serie
televisive sono sempre pronti a ricordarci la pericolosità del
mondo che ci circonda, dal quale sentiamo il bisogno
pressante di proteggerci. Malattie dai sintomi più fantasiosi e
terrificanti di quelle dei racconti di Stephen King, sfide epiche
che rivaleggiano con quelle di Guerre stellari, un susseguirsi
di situazioni drammatiche che assumono i contorni di
apocalissi, climatiche e non, devastanti e definitive. Tutto
questo dipinge un panorama ben poco rassicurante, nel quale
l’informazione nel suo insieme diventa uno strumento che
genera paura.
Le immagini e le parole non sono la realtà, però mediano la
percezione che abbiamo di essa. La realtà esiste ma spesso è
ben diversa da come la immaginiamo, e questo perché vivere
in un continuo stato di terrore ci rende ciechi e facilmente
manipolabili. Cediamo con maggiore facilità agli istinti più
bassi. Giudichiamo. Criminalizziamo. Odiamo. Siamo meno
disposti ad ascoltare. Riflettiamo di meno. E spariamo di più.
L’idea di utilizzare la paura come strumento di controllo
sociale, come detto, non è nuova. Anzi. Torniamo per un
attimo nell’America che dopo aver vissuto gli orrori della
guerra civile si era liberata dall’infamia della schiavitù.
Pensiamo a questa realtà non in chiave sociale ma come a un
fenomeno economico. Il paese aveva intrapreso la scalata
all’economia mondiale grazie alla manodopera gratuita
derivante dagli schiavi, ma ora non era più disponibile. Certo,
c’erano gli immigrati a fornire manodopera a basso costo, ma
non era sufficiente. “Come possiamo porre rimedio a questa
situazione in grado di affossare la nostra economia?” devono
essersi domandati i grandi affaristi e i proprietari terrieri. La
risposta era là esattamente dove era sorto il problema. Dopo
essersi affrancate dalle catene, quattro milioni di persone di
colore si erano trovate improvvisamente allo sbando, senza
una casa, senza un lavoro, senza sapere come gestire
l’indipendenza conquistata a caro prezzo. La libertà mostrava
l’altra faccia della medaglia. Libertà, una parola per cui si
sono combattute guerre e fatte rivoluzioni, ma pensateci:
cos’era la libertà per una persona che era stata schiava per tutta
la vita? Cosa poteva rappresentare la libertà per un uomo o una
donna nati da una famiglia di schiavi, da generazioni di
schiavi? Erano diventati liberi, certo, ma liberi di fare cosa?
Senza una casa, senza un soldo. Una persona di colore in un
paese razzista. Che cosa potevano fare se non cominciare a
vagabondare cercando fortuna?
La storia non manca di ironia e così proprio una legge che
era stata pensata per garantire la libertà si rivelò un perfetto
strumento in grado di privare le persone di questo diritto
fondamentale. Si tratta del XIII emendamento, dove si enuncia
che non è possibile tenere una persona in schiavitù “except as
a punishment for crime”. Su questa semplice parola si è fatto
leva: “eccetto” che come punizione per un crimine. Poche
sillabe che hanno creato una falla nel sistema in grado di
rendere nuovamente legale una pratica aberrante: la schiavitù.
Grazie a questa astuzia i neri liberati furono accusati di
vagabondaggio, arrestati e nuovamente resi schiavi, non più
dell’élite produttiva questa volta, ma del sistema. In questo
modo, ciò che era stato fatto uscire dalla porta era rientrato
dalla finestra e l’America aveva nuovamente a disposizione
manodopera gratuita. Non era però sufficiente. Perché per
rendere più digeribile la nuova condizione sociale, che
contraddiceva l’ideale per il quale molti giovani si erano
sacrificati durante la guerra di secessione, era necessario
ottenere la benedizione dell’opinione pubblica. Era
indispensabile che gli afroamericani fossero percepiti come un
pericolo per la società bianca, che in questo modo avrebbe non
solo compreso ma anche approvato i metodi brutali messi in
atto nei confronti degli ex schiavi.
Se è stato un libro a portare sotto le luci dei riflettori le
condizioni inumane in cui versavano milioni di schiavi in
America, sollevando un’indignazione che avrebbe contribuito
allo scoppio della guerra civile americana, sarebbe stato un
film a creare lo stereotipo del nero pericoloso, stupratore,
cannibale. Il libro di cui sto parlando è il celeberrimo romanzo
abolizionista La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher
Stowe, pubblicato nel 1852. Il film, pietra miliare della storia
della cinematografia, è invece Nascita di una nazione diretto
da David Wark Griffith. Tratto dal romanzo del pastore battista
Thomas Dixon, apologia assoluta del Ku Klux Klan, è costato
circa 100.000 dollari e ne ha incassati più di quindici milioni,
creando le condizioni per la nascita di Hollywood e il suo
predominio sul cinema americano e mondiale. Immenso per la
sua potente narrazione, per una forza espressiva viscerale, per
l’attenzione riservata alla psicologia dei personaggi, il tutto
presentato con un nuovo approccio alle tecniche
cinematografiche utilizzate ancora oggi (tra cui il montaggio
alternato), questa pellicola di portata storica è universalmente
riconosciuta come la prima opera inequivocabile del cinema
narrativo. Un film muto, in bianco e nero, in grado di
calamitare l’attenzione dello spettatore creando una perfetta
simbiosi tra il dramma collettivo e quello individuale. Fu
proiettato in anteprima l’8 febbraio 1915 a Los Angeles e il
pubblico di 2500 persone pagò un biglietto di due dollari: il
più caro di sempre, corrispondente a trentasei dollari attuali.
Grandioso affresco dell’America della seconda metà
dell’Ottocento, Nascita di una nazione racconta la vicenda di
due famiglie amiche, una sudista e una nordista, che si trovano
inevitabilmente su fronti opposti allo scoppio della guerra
civile. Non voglio inoltrarmi nella trama complessa del film,
quanto piuttosto sottolineare gli effetti che sortì a livello
sociale. Cominciamo dicendo che la pellicola venne
inizialmente proibita per il suo razzismo tutt’altro che velato in
Europa, dove le truppe di colore combattevano nei ranghi
degli eserciti alleati nel corso della Prima guerra mondiale. In
America l’opinione pubblica si divise, portando allo scoppio di
vere e proprie rivolte in diverse città. A Chicago, Denver,
Pittsburgh, Saint Louis, Minneapolis e in Ohio se ne vietò la
proiezione, sostenendo che incoraggiasse la violenza contro i
neri. Già, perché tutta la pellicola è attraversata dalla volontà
di disumanizzare gli ex schiavi e di presentarli nella forma più
degradante, toccando l’apice drammatico nella sequenza in cui
una giovane bianca si getta da una rupe per sfuggire al terribile
violentatore. Ovviamente di colore. La disumanizzazione e la
criminalizzazione dei neri a cui assistiamo ancora oggi erano
iniziate e a far scattare la scintilla era stato un film… un film:
immagini e parole. L’ondata di esaltato terrore che ne seguì
portò alla morte di migliaia di afroamericani, uccisi dalla
percezione che fossero pericolosi. Massacrati perché era stata
creata un’immagine dei neri come degli esseri più simili a
bestie fameliche che a persone. In questo modo, ciò che era
stato fino ad allora inaccettabile, l’arresto per vagabondaggio e
la nuova forma di schiavitù, divenne non solo accettabile ma
auspicabile, uno strumento per proteggere la civiltà. Non solo.
L’immagine sbiadita del Ku Klux Klan venne rinvigorita da
nuova linfa vitale, che la rivitalizzò in una forma romantica,
luminosa, eroica. Il simbolo della croce che brucia, una trovata
scenica di Griffith, venne ripreso poi nella realtà dal KKK . Una
finzione tanto potente da determinare la realtà. Una realtà che
portò milioni di persone di colore a migrare dal Sud verso le
coste per fuggire all’ondata di violenza scaturita da un film. Il
buon vecchio zio Tom aveva mostrato il suo vero volto, quello
di un allupato e irrefrenabile predatore dal quale si sentiva
l’impellente necessità di difendersi. A qualunque costo. Per
fortuna c’erano i nuovi cavalieri crociati, limpidi nei loro abiti
bianchi, a salvare il popolo. Che poi si coprissero il volto con
cappucci era solamente questione di umiltà!
Negli anni successivi, la vocazione segregazionista
americana ha gradualmente ceduto il passo alla diffidenza nei
confronti di immigrati, comunisti, anarchici, sindacalisti, ma
l’idea ormai radicata della pericolosità della popolazione
afroamericana ha continuato a vagare come un’ombra
pestilenziale nel paese. Lungi dal volerla stemperare, per
creare un clima sociale distensivo e fiducioso, i politici
americani hanno cavalcato questa idea ai fini elettorali. Sono
le parole di Lia Wother, stratega della campagna presidenziale
di Reagan, a svelarne l’evoluzione nella comunicazione, e gli
effetti. Non sapendo di essere registrato, spiegò ai suoi
collaboratori: «Avete iniziato nel 1954 dicendo: negro! negro!
negro! Dal 1968 non si può più dire negro, ti si ritorce contro.
Quindi avete detto altre cose, come “spostamenti forzati”,
“diritti di Stato” e tante altre parole. Ora dovete essere ancora
più astratti. Parlare di tagli alle tasse, e che tutto quello di cui
parlate ha una motivazione economica. E il risultato sarà che i
neri staranno peggio dei bianchi». 3 Il risultato? Negli Stati
Uniti d’America vive oggigiorno il 5 per cento della
popolazione mondiale e il 25 per cento dei detenuti dell’intero
pianeta. La probabilità di finire in carcere per i bianchi è di 1
su 17 mentre per i neri è di 1 su 3. Questi dati non ci parlano
semplicemente di criminalità e di prigioni, ma sono il riflesso
di un sistema più ampio, che coinvolge direttamente la nostra
percezione della vita umana, del suo diritto alla libertà e alla
felicità. Quello che si può intravedere nel riproporsi sempre
uguale e in maniera ciclica di questo schema è
l’identificazione di un nemico, il dilagare di odio e paura con
la conseguente risposta difensiva di chiusura e violenza, in un
circolo vizioso che innesta un crescendo di diffidenza
reciproca e ostilità.
Ci avviciniamo al presente. Nel 2015 la celebre testata “The
Guardian” ha attivato The Counted, un contatore che tiene il
conto delle persone che vengono uccise negli Stati Uniti per
mano delle forze dell’ordine. Questo conteggio macabro si è
prefissato lo scopo di accendere i riflettori su una strage
silenziosa, di cui l’informazione il più delle volte non si fa
portavoce. I dati raccolti segnalano una proporzione
inquietante: i cittadini neri uccisi sono più del doppio di quelli
bianchi e ispanici. Ma in cima alla lista svettano i nativi
americani. Mentre il 2019 volge al termine e il mio albero di
Natale si colora di luci festanti, sul sito del “Guardian” il
numero delle persone uccise sale a 1093. Per ogni milione di
abitanti, 10,13 sono nativi, 6,66 afroamericani, 3,23 ispanici e
latini, 2,9 bianchi, 1,17 tra asiatici e persone provenienti dalle
isole del Pacifico.
Diamo un volto a uno di questi numeri. Siamo nel 2012,
quando il poliziotto George Zimmerman fredda in strada un
afroamericano diciassettenne. Si chiama Trayvon Martin e ha
dato al poliziotto armato la percezione di essere minacciato
perché è nero e indossa una felpa con il cappuccio. Il
poliziotto ha agito muovendosi nel perimetro della Stand-your-
ground law, la legge di difesa a oltranza che permette di
uccidere anche nel caso in cui ci sia solamente il sospetto di
minaccia “senza prima fare un passo indietro e avvertire
l’assalitore”. La sequenza è stata filmata e le immagini hanno
fatto il giro del mondo, sconvolgendo l’opinione pubblica che,
parafrasando De André, dopo essersi indignata e costernata,
getta la spugna mantenendo intatta la sua dignità. Gettando la
spugna davanti a una questione tanto annosa, la giuria della
Seminole County Courthouse ha scagionato il poliziotto
ventiseienne ispanico perché aveva percepito un “ragionevole
timore”.
Un ragionevole timore è anche quello che deve aver
provato il controverso “Palla di Neve” Steven quando ha visto
avvicinarsi a Candyland, la villa del suo padrone, l’irriverente
cacciatore di taglie di origine tedesca dottor King Schultz in
compagnia di Django, uno schiavo nero che ha prima
comprato e poi liberato perché lo aiuti nella caccia ai fratelli
Brittle. Sto parlando del capolavoro di Quentin Tarantino,
Django Unchained. Vi ricordate come il servo nero Palla di
Neve accoglie Django? Gli chiede stupefatto chi sia il negro a
cavallo. Già. “Che cosa diavolo ci fa un nero a cavallo in un
moderno spaghetti western?” mi sono chiesto anch’io. Siamo
nello stesso periodo storico di Nascita di una nazione. Siamo
in Texas, poco prima dello scoppio della guerra di secessione.
Ci sono i cowboy con i fucili, i cavalli e tutto il resto. Ma non
c’è traccia degli indiani. Al loro posto ci sono gli schiavi neri.
Sconvolgente. Mi si è aperto un mondo. Altro esempio della
magia del cinema: Tarantino cambia radicalmente prospettiva,
inserisce la questione della schiavitù in un western e in un
attimo riesce a ridefinire i confini di un intero universo.
“Succedeva tutto nello stesso periodo” mi sono detto, ma nella
mia percezione fino ad allora erano state realtà separate,
distinte, lontane anni luce. Non avevo mai pensato che si
trattasse di fenomeni contemporanei perché i western, che ho
visto a decine, avevano cristallizzato nella mia mente
un’immagine ben precisa di quel periodo, nel quale la
questione dello schiavismo non c’entrava. C’erano le città
polverose, i saloon, le ballerine, i rotolacampo sospinti dal
vento dell’Ovest, i cani affamati che giravano per le strade, gli
eroi cinici dagli occhi di ghiaccio, ma gli afroamericani non
comparivano per nulla. Eppure erano ambientati tutti in quel
preciso periodo storico e spesso avevano proprio la guerra
civile come sfondo. Quindi c’erano i cowboy, gli schiavi neri e
anche gli indiani! Tutti insieme! E questo l’ho interiorizzato
guardando Django.
Da bambino, invece, con i miei amici scendevo in strada a
giocare ai cowboy e agli indiani. La televisione trasmetteva
un’infinità di film western che hanno contribuito a creare nel
nostro immaginario il mito della frontiera del selvaggio West,
popolato da indiani cattivi, anzi cattivissimi, il cui passatempo
preferito era fare lo scalpo ai solitari ed eroici cowboy. La
percezione dei nativi, come già era avvenuto per i neri, era
stata demandata per decenni a immagini e parole, creando una
situazione di indicibile razzismo. Rileggiamo i dati del
“Guardian”: sono i nativi a vincere il macabro record di
persone uccise dalla polizia. Nel 2019, per ogni milione di
abitanti, 10,13 sono nativi, 6,66 afroamericani. Lo avreste mai
sospettato? Forse sì, se pensiamo che, ancora oggi, in America
non c’è quasi nessuna forma di integrazione con i nativi e i
pochi sopravvissuti allo sterminio vivono nelle riserve, un
termine che fa accapponare la pelle. Come può un uomo
mettere un suo “fratello” in una riserva? Come può essere
equiparato un uomo a un animale in via d’estinzione?
Una lenta riscoperta delle culture native è cominciata
all’inizio degli anni Settanta, a cinquecento anni dalla scoperta
dell’America e a cento dallo sterminio degli indiani
d’America. Più precisamente in una notte del 1973, quando dal
cuore pulsante di Hollywood si alzò una voce che non poteva
essere messa a tacere né tanto meno passare inascoltata.
Quando vinse l’Oscar come miglior attore protagonista per Il
padrino, Marlon Brando rifiutò il prestigioso premio e inviò al
suo posto una giovane apache, la poco nota attrice Sacheen
Littlefeather, alla quale affidò una lettera che ancora oggi è
considerata un vero e proprio atto di accusa contro lo
sterminio degli indiani d’America. Lo show boicottato diventò
un dito puntato contro l’industria del cinema e l’immagine che
dava dei nativi. Brando non si limitò a ripercorrere la storia del
genocidio ma si soffermò su un aspetto che nessuno aveva fino
ad allora valutato: «Quando i bambini indiani guardano la
televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza
raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi
che non possiamo immaginare». Il j’accuse dell’attore
terminava con una frase lapidaria, che tutti dovremmo
mandare a memoria: «Se non siamo l’angelo custode di nostro
fratello, almeno lasciateci non essere il suo carnefice».
Sebbene i dati raccolti da The Counted testimonino che
questo appello cadde nel vuoto, gli anni Settanta segnarono un
punto di svolta nella rappresentazione dei nativi americani. Si
iniziarono a produrre alcuni film che rimettevano in luce la
saggezza dei nativi e la crudeltà “dell’uomo bianco”.
Ovviamente tra mille difficoltà. Lampante l’esempio di Balla
coi lupi prodotto e interpretato da Kevin Costner. Nonostante
la sua fama, dopo mille peripezie Costner si è dovuto
indebitare per produrre da solo il film vincitore di sette premi
Oscar. Un altro esempio, raccontato anche da una delle mie
canzoni preferite, è rappresentato dal massacro del fiume Sand
Creek. A portare in scena questa vicenda e la crudeltà
dell’uomo bianco nei confronti dei nativi è stato Soldato blu,
pellicola che ha saputo far vacillare uno stereotipo fino ad
allora in grado di garantire sogni sereni alla coscienza storica
degli americani.
Era il 29 novembre 1864. I soldati al comando del
colonnello John Chivington, a dispetto dei trattati di pace,
attaccarono un accampamento delle tribù Cheyenne e
Arapaho, composto per lo più da donne e bambini. Non
c’erano uomini a difenderli perché, come cantò De André, i
guerrieri erano troppo lontani, a caccia di bisonti. Fiume Sand
Creek, una canzone tanto dolce nelle parole quanto devastante
nelle immagini che ancora ora non riesco ad ascoltare senza
emozionarmi. Forse anche il generale Chivington avvertì un
ragionevole timore di fronte al pericolo rappresentato dai
“selvaggi”. Non lo sappiamo, ma ciò che è certo è che De
André ha saputo trasformare in dolcezza e pace il grido di
onirico terrore che un bambino ha rivolto prima al suo vecchio
nonno e poi a un cielo soffocato da tanto orrore. Il potere delle
parole sta anche in questo: dare forma alla nostra percezione
del mondo, plasmandola e riplasmandola continuamente, come
in una danza di volute di fumo che si susseguono senza mai
estinguersi nelle profondità siderali della nostra mente.
La realtà è molto più fluida di quanto non siamo pronti ad
ammettere e possiede più volti di quanti ci sia consentito
immaginare. La nostra personale visione del mondo è filtrata
dalla percezione che abbiamo della realtà e tale percezione è
influenzata e influenzabile.
Tra le immagini che più di tutte hanno cambiato la nostra
percezione del mondo c’è quella dell’11 settembre. Proviamo
a rifletterci insieme. Se qualcuno domandasse cosa stavamo
facendo il giorno del nostro compleanno di due anni fa, in
molti non sapremmo rispondere, io per primo. Se invece ci
venisse chiesto dove eravamo quel martedì 11 settembre 2001,
immediatamente riemergerebbe nitido il ricordo di quella
giornata. Questo semplice test è stato riproposto più volte da
diverse facoltà di Sociologia, per dimostrare come l’attentato
che papa Giovanni Paolo II definì “Il giorno buio della storia
dell’umanità” rappresenti l’evento che più di tutti ha colpito
l’immaginario contemporaneo, creando uno squarcio nella
coscienza collettiva. Per una macabra coincidenza, martedì 11
settembre 1973 Pinochet, appoggiato dagli USA , portava a
compimento un golpe militare in Cile, dando inizio a una delle
dittature più sanguinose del Sudamerica. Di quell’11
settembre, forse perché più lontano, forse perché non gli è
stato riservato nessuno spazio a livello mediatico, è più
difficile ricordarsi. Di quell’11 settembre rimane però,
nell’etere dell’informazione, un nome collettivo: quello di
130.000 desaparecidos.
Questo esempio mette in luce anche un altro aspetto
dell’informazione: sono gli eventi raccontati dagli USA a
determinare buona parte della coscienza collettiva. Per questo
ho deciso fin qui di citare avvenimenti che riguardano
soprattutto tale nazione.
Un altro raccapricciante paragone con l’11 settembre non
riguarda la data ma i numeri. In America, a causa degli
attentati perirono poco meno di tremila persone. Nel Ruanda,
fazzoletto di terra più piccolo del Belgio, tra il 7 aprile e il 17
luglio 1994, ogni dieci secondi è stato ucciso a colpi di fucile,
di machete panga e di bastoni chiodati un bambino, una donna,
un uomo. Quattrocento vittime all’ora. Poco meno di diecimila
al giorno. Ogni giorno, per centoventi giorni, nel paese delle
mille colline sono state trucidate tre volte il numero di persone
dell’11 settembre, senza contare i feriti, le donne stuprate e
tutti coloro che hanno subito violenze indescrivibili. Le cifre
ufficiali parlano di circa un milione di morti. I numeri del
genocidio ruandese tolgono le parole, l’orrore diventa
indicibile e tanto i carnefici quanto le vittime hanno scelto per
lo più il silenzio. Ma, anche in questo caso, l’immaginario
collettivo non ne è stato sconvolto, tanto da causare un’inerzia
tradottasi nell’immobilismo della comunità internazionale e il
mancato intervento delle Nazioni Unite. Un milione di persone
sono morte mentre il mondo, come le stelle, stava a guardare.
Paradossalmente, sono stati proprio i numeri ad aver permesso
a questo massacro, tanto sistematico da sottrarre il primato a
quello nazista, di assumere i connotati del genocidio. Ma
questi stessi numeri non hanno avuto la potenza comunicativa
di penetrare la percezione degli occidentali, lasciandoci se non
indifferenti almeno protetti da un velo di ignoranza.
Mi sono occupato di questo genocidio nel documentario
Choose Love. Nel farlo mi sono accorto di quanto le parole
non siano sufficienti per raccontare l’orrore che ha attraversato
il Ruanda, di come questa vicenda non sia comprensibile né
rappresentabile. Ho avuto l’onore di intervistare Yolande
Mukagasana, sopravvissuta a quei centoventi giorni. Yolande
ha visto massacrare i suoi tre figli e il marito da persone che
conosceva per nome, con le quali era cresciuta, in mezzo alle
quali aveva sempre vissuto insieme alla sua famiglia. Yolande
nel film racconta di come l’odio tra tutsi e hutu, inesistente
prima della colonizzazione belga, venne gradualmente
inculcato agli studenti nelle scuole. Ricorda che la concezione
di una differenza razziale tra queste due etnie, entrambe di
fede cristiana, era estranea alla storia del Ruanda. Di come è
stato proprio questo controverso lascito del retaggio coloniale
a creare nel tempo l’ondata di violenza esplosa nel 1994.
Ai bambini che poi alzeranno i machete contro i loro
connazionali era stato insegnato non solo a percepire le
differenze tra le due etnie ma anche a odiarsi. Però
chiediamoci: se fosse accaduto il contrario? Se quegli stessi
bambini fossero stati indottrinati all’amore, catechizzati
all’integrazione e alla fratellanza, quella orrenda strage si
sarebbe potuta evitare? Probabilmente sì.
Dell’intervista di Yolande, una frase più di tutte mi ha
segnato: «Quando si ha troppo sofferto, per l’odio non c’è più
posto, diventa un dettaglio». Dal suo racconto, scevro da ogni
desiderio di vendetta, ho compreso intimamente che non solo i
fatti ma anche il modo in cui vengono raccontati ha il potere di
cambiare la nostra percezione. Di trasformare un genocidio in
un’occasione di evoluzione per l’umanità intera, seguendo la
strada che per noi tutti hanno tracciato Gandhi, Mandela, la
stessa Yolande e tanti altri. Di andare oltre le rappresentazioni
e le esperienze per trasformare la paura e l’odio in amore.
Sulle orme di questa sopravvissuta, per intraprendere il
sentiero della Gioia, dobbiamo chiederci se siamo disposti a
permettere alle immagini e alle parole di condizionare la
nostra personale visione della realtà, rinchiudendoci in una
gabbia di terrore. No, credo di no. Per questo è importante
lavorare sulla percezione che abbiamo del mondo, per non
permettere che le catene della paura e dell’odio prendano il
sopravvento sulla nostra libertà. Per farlo esiste un solo
strumento: essere consapevoli del contesto in cui viviamo,
delle sue infinite potenzialità ma anche delle sue insidie e dei
suoi pericoli. Non si tratta di cambiare il mondo, ma di
cambiare noi stessi. Dobbiamo allenarci quotidianamente a
distinguere i fatti dalle opinioni, le notizie dai
condizionamenti. Scuoterci dall’inerzia della passività,
ascoltare attivamente. Informarci sempre di più, cercando di
non sovrapporre il giudizio agli eventi e, soprattutto,
conoscerci meglio. Conoscere le coordinate spazio-temporali
nelle quali viviamo e, più di ogni altra cosa, riappropriarci
della nostra capacità di pensare da donne e uomini liberi.
Libertà. Che parola meravigliosa. Tutta la nostra storia
potrebbe essere racchiusa in questa sola, semplice parola.
Siamo il frutto delle scelte che chi ci ha preceduto ha potuto o
non ha potuto fare. Quindi chiediamoci: quanto siamo liberi
noi, oggi, nella nostra quotidianità? Quanto sono libere le
scelte che compiamo ogni giorno? Lo scrittore Charles
Bukowski, in una straordinaria lettera al suo editore John
Martin, rievoca un vecchio adagio: “La schiavitù non è mai
stata abolita, è stata solo estesa per includere tutti i colori della
pelle”. Nella stessa lettera, vera e propria riflessione sulla
schiavitù del lavoro, il poeta si rammarica nell’assistere alla
diminuzione di umanità che attraversa la società: “Le persone
semplicemente si sono svuotate. Sono corpi con teste
ubbidienti e piene di paura. Il colore abbandona i loro occhi.
La voce s’imbruttisce. E il corpo. I capelli. Le unghie. Le
scarpe. Tutto s’imbruttisce”.
Schiavi senza catene in un mondo fluido, libero dai confini
del tempo e dello spazio, negli ultimi anni abbiamo osservato
immobili un fenomeno pazzesco, che ha a che fare
direttamente con la nostra libertà. Sul mercato mondiale i dati
sensibili di ognuno di noi hanno superato il valore del petrolio.
Cosa c’entra, vi chiederete? Tutto. Perché in un universo
atomicamente connesso, non siamo più considerati esseri
umani ma merce. E la merce non ha nessuna libertà. Non si
tratta di complottismo, ma di consapevolezza. Non si tratta
dello spionaggio vecchia maniera, ma di algoritmi che
funzionano maledettamente bene. Chissà cosa ne pensa il buon
vecchio Charles se ci sta osservando mentre accarezza un gatto
in compagnia della sua macchina da scrivere e di una birra.
Forse lui sarebbe in grado di scrivere con ironia sul fatto che
tutto è iniziato con il sogno di un sistema in grado di annullare
le distanze, di creare condivisione, di cancellare la solitudine.
Presi come eravamo da questo miracolo, nessuno di noi ha
letto i termini e le condizioni scritti in piccolo, e ora agenzie di
cui non conosciamo nemmeno l’esistenza detengono i
cosiddetti dati sensibili. Quanti? Si stima che per ognuno di
noi siano stati classificati dai 3000 ai 7000 dati. “Sanno più
loro di me di quanto non sappia io” ho pensato la prima volta
che ho sentito queste cifre. Ma chi sono questi fantasmagorici
“loro”? Sono agenzie di profilazione dati che elaborano ogni
interazione digitale: quando pago con la carta di credito, metto
un like, accetto o richiedo un’amicizia su un social network,
commento un piatto in un ristorante, guardo un video di un
cagnolino o di un gattino, mi reco in un locale e ho il
geolocalizzatore attivo. Più che profilazione sembra
profanazione dei dati. Ma poi cosa succede a questi dati?
Vengono collegati alla mia identità e permettono di
catalogarmi a seconda dei miei impulsi emotivi, consentendo
alle aziende di fornirmi contenuti pensati esclusivamente per
me, in grado di orientare il mio comportamento. Se non ci
credete, vi consiglio di guardare con molta attenzione il film di
Oliver Stone Snowden o il documentario The Great Hack –
Privacy violata che ripercorre il caso della Cambridge
Analytica, coinvolta con Facebook nell’elezione del presidente
Trump e nella Brexit, veri e propri esperimenti volti a
dimostrare che è possibile condizionare a tal punto la
popolazione di un paese da indurla a votare secondo le
preferenze dei loro clienti. Sono le stesse parole della
Cambridge Analytica a fare un po’ di luce sull’obiettivo che
queste aziende si pongono: “Cambiamento comportamentale.
Il sacro Graal della comunicazione è riuscire a cambiare il
comportamento della gente” 4 e per farlo bisogna lavorare sulla
percezione che le persone hanno del mondo.
Questo è il nocciolo della questione. Non siamo nella
fantascienza, nel mondo di Matrix, ma nelle nostre vite tra
bollette da pagare, code infinite per trovare un asilo nido per i
nostri figli e il sogno di un paio di scarpe firmate o di
un’automobile nuova. In questa quotidianità: “La
manipolazione consapevole e intelligente delle abitudini
sociali e delle opinioni delle masse è un elemento
fondamentale della società democratica … noi siamo
governati, le nostre menti sono plasmate, i nostri gusti
vengono creati, le nostre idee vengono influenzate soprattutto
da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare … In quasi
tutte le azioni della nostra vita, nella sfera politica o
economica, nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero
morale, siamo dominati da un numero relativamente ristretto
di persone … che comprendono i processi mentali e i modelli
di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che
controllano la mente delle persone”. Sapete chi lo ha scritto?
Edward L. Bernays, già citato all’inizio del capitolo. Ma chi
era questo personaggio?
Considerato il padre delle relazioni pubbliche, Bernays era
il nipote di Sigmund Freud. Proprio così: se il fondatore della
psicoanalisi era convinto che far emergere l’inconscio sul
piano cosciente avrebbe aiutato le persone a vivere una vita
migliore, suo nipote (figlio di sua sorella Anna Freud Bernays)
si è impegnato invece a creare strategie comunicative mirate a
mantenere il pubblico inconsapevole delle forze che agiscono
sulla sua mente al fine di manipolarlo. Perché? Per renderci
più docili, più propensi ad accettare le idee che qualcuno pensa
per noi. Cosa mangiare, come vestirci, cosa comprare, per chi
votare, di chi possiamo fidarci e chi invece dobbiamo temere;
insomma come pensare e indirizzare i nostri comportamenti.
In una società che ha fatto della libertà il suo baluardo, è
strano parlare di condizionamenti e di schiavitù. Eppure
succede ogni giorno sotto i nostri occhi: perennemente
connessi da una rete virtuale, viviamo in un quotidiano stato di
solitudine condizionata. Questo isolamento di anime nello
sconfinato mondo dei like ha un effetto estremamente reale:
percepiamo il mondo nel quale viviamo come sempre più
alieno, dissonante e pericoloso. Poniamo la nostra felicità in
oggetti o in traguardi che, appena conquistati, ci rimandano un
indefinito senso di insoddisfazione. Nella nostra quotidiana
frenesia ci dimentichiamo l’insegnamento fondamentale di
quella che viene chiamata la legge dell’attrazione: per attrarre
la gioia dobbiamo vivere nella gioia, dobbiamo essere gioia.
Quindi la gioia intesa non come il fine ma come il mezzo per
vivere la vita che desideriamo. La meta e il sentiero per
raggiungerla.
Seconda storia
L’isola alla fine del mondo

Chiede a sua nipote di accompagnarlo sul promontorio della


spiaggia di Anakena, vuole vedere per l’ultima volta i grandi
Moai. Ha così tante cose da raccontare e sa di non avere più
tempo. Arranca lungo la strada immersa in un paesaggio
brullo e senza alberi. Poi, sfinito, siede ai piedi di un gigante
di pietra che, come tutte le altre sentinelle, ha le spalle rivolte
al mare che si estende a dismisura oltre quel triangolo di
terra. Nulla nel suo sguardo di pietra grave, nelle sue lunghe
orecchie, nell’imponente naso, negli occhi enormi, nulla
sembra interessarsi alla loro presenza. Consegnato al silenzio,
tace.
Quella è davvero un’isola alla fine del mondo.
Vi è stato un tempo in cui là, dove oggi non vi è altro che
sabbia e vento, gli uomini prosperavano e vivevano
nell’opulenza. Insaziabili, guidati dal potere dei sacerdoti,
hanno abbattuto una dopo l’altra le foreste, per costruire i
Moai. La terra, da fertile e lussureggiante, è diventata sterile e
desertica, esposta al vento e alle intemperie. Gli uccelli hanno
smesso di solcare il cielo, lasciando il posto a fame e miseria.
A lunghe guerre fratricide.
Poi, dal mare, è giunta una barca, tanto grande da
sembrare un villaggio, e l’isola di Pasqua è diventata l’isola
di San Carlos. Insieme a cavalli, pecore e uomini, è arrivato
un re, a dirgli che Rapa Nui non era più loro. Dove prima
crescevano imponenti alberi, ora svetta il legno morto di una
croce.
Questo racconta il vecchio, mentre accarezza i lunghi
capelli della bambina. Riprende fiato, c’è una cosa importante
che deve ancora dirle.
«Ricorda. Verranno altre navi dal mare e dal cielo. Ci
saranno altri re e altri padroni. Parleranno lingue diverse ma
diranno tutti la stessa cosa. Che questa terra è loro, che
appartiene al loro Dio e alle loro leggi. Ma anche loro si
sbagliano, come ci siamo sbagliati noi. La terra appartiene
solo al grande mistero della terra. Tutto ciò che su di essa vive
e prospera le deve rispetto. Noi abbiamo abbattuto i suoi
alberi per innalzare e far camminare i Moai. Per costruire
case sfarzose. Ma la vita si è ritirata e ha lasciato il posto a
fame e disperazione. Ricorda. Ciò che fai alla Terra lo fai a te
stessa. Rispettala e sarai rispettata. Distruggila e verrai
distrutta. Perché la Terra è memoria, la Terra non dimentica.»
Detto questo, come i grandi Moai, anche il vecchio si
consegna al silenzio.
Capitolo 2
L’invenzione della Terra

È stata una fotografia, un’immagine appunto, a far scoprire al


mondo occidentale l’ecosistema Terra e a dar vita ai primi
movimenti ecologisti. Nel guardarla abbiamo capito che
viviamo tutti in una navicella spaziale che viaggia a circa 1700
chilometri orari intorno al Sole. Scattata da un satellite nel
1972, questa foto mostrava con straordinaria semplicità quello
che le popolazioni ancestrali sentivano e sapevano da sempre:
che facciamo parte di un unico popolo che condivide una sola,
meravigliosa casa abitata da innumerevoli creature
interconnesse. Le culture precolombiane la chiamavano
Pachamama, Madre Terra, la madre viva che protegge e dà la
vita, nutrendo le proprie creature e lasciandole godere dei suoi
molteplici doni. Proprio per questo ne avevano cura e le
rendevano omaggio. Nel 1979, muovendo da questa
concezione, lo scienziato inglese James Lovelock formulò
l’ipotesi Gaia, secondo la quale tutti gli esseri del pianeta e
l’ambiente stesso concorrono al mantenimento di un equilibrio
in grado di favorire la vita. Ma prima di scoprire questa
visione vitalista, in Occidente la Terra è stata pensata e
ripensata da astronomi, filosofi, padri della Chiesa. Questo
perché dall’immagine che abbiamo del nostro pianeta dipende
il modo con cui il pensiero collettivo percepisce il suo vivere
terrestre e l’essere umano si relaziona con la Terra a cui
appartiene.
Prima che le navi solcassero i mari e i cieli, la percezione
del mondo che aveva caratterizzato la storia dell’Occidente era
attraversata dalla continua tensione tra scienza e fede. Poi, tra
Quattro e Cinquecento, le testimonianze inconfutabili di
viaggiatori e marinai crearono la necessità di un cambiamento
nella percezione del mondo, costringendo l’ecumene cristiana
a rielaborare le proprie posizioni e gli imperi europei a
stabilire nuove priorità e a pensare a nuove strategie.
A partire dal Quattrocento, lungo le rotte di esploratori e
mercanti, i confini del mondo occidentale si sono espansi in
modo irreversibile. Paradossalmente, proprio questo
allargamento ha portato a uno slittamento nella concezione
della Terra, che da immensità inesplorata e misteriosa si è
ridotta a una distanza da percorrere nel minor tempo possibile,
rappresentabile su di una carta geografica attraverso un
sistema di linee. Come scrive il geografo e presidente
dell’Associazione dei geografi italiani Franco Farinelli ne
L’invenzione della Terra, 1 si può dire che Colombo, con la
scoperta del Nuovo Mondo, ha ridotto la Terra a tempo di
percorrenza. La percezione che ne è scaturita, nel comune
sentire dell’Europa della prima età moderna, è stata di una
sfera estesa ma non infinita, che non doveva più essere
scoperta ma conquistata. L’esplorazione, spogliata dal senso di
avventura, diventa così lo strumento per l’espansione
imperialistica europea, funzionale alle spinte universalistiche
di matrice religiosa, politica ed economica. La nascente
geografia si trova coinvolta nelle dinamiche complesse del
potere e della ragion di Stato, mentre le carte geografiche, da
strumenti per l’esplorazione, si trasformano in atti
amministrativi in grado di creare confini e rivendicare il
possesso di territori. In questa concezione della Terra come di
uno spazio da conquistare e dominare, nel quale si dispiega il
gioco delle potenze temporali e secolari, affonda le radici il
colonialismo moderno. La cultura geografica del potere che ne
deriva era, ed è ancora oggi, legittimata dalla concezione
dell’esportazione di un modello di governo più civile,
razionale ed evoluto. Ma la spinta civilizzatrice si è
trasformata ben presto in sfruttamento e sterminio, mentre il
trionfo spirituale ha comportato la morte dell’identità
dell’Altro, l’estinzione della diversità.
Già Montaigne, riflettendo sulla scoperta del Nuovo Mondo
e sulle sue conseguenze, scriveva: “Il nostro mondo ne ha
appena incontrato un altro … Temo proprio che avremo assai
affrettato, con il nostro contagio, il suo declino e la sua rovina
e che a ben caro prezzo gli avremo venduto le nostre opinioni
e le nostre arti … quanto alla religione, osservanza delle leggi,
bontà, liberalità, lealtà, franchezza, ci è stato molto
conveniente non averne quanto loro; tali prerogative li hanno
rovinati e li hanno spinti a vendersi e a tradirsi da soli”. 2
Nel leggere le parole del pensatore francese, mi è tornata in
mente la bella e al contempo dura poesia del saggista e
scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, intitolata 1492:
Nel 1492
i nativi scoprirono che erano degli indiani
scoprirono che vivevano in America
scoprirono che stavano nudi
scoprirono che esisteva il peccato
scoprirono che dovevano ubbidire
a un re e una regina di un altro mondo
e a un dio di un altro cielo
e che questo dio aveva inventato
la colpa e il vestito
e aveva dato l’ordine di bruciare vivo colui
che adorasse il sole e la luna e la terra
e la pioggia che la bagna.
Questa poesia descrive in pochi versi il destino a cui
andarono incontro le popolazioni dell’intero continente
americano. Nudi, senza Dio, senza re, avevano peccato
adorando e rispettando la Terra, il Sole, la Pioggia e la Luna.
Per espiare le loro colpe furono bruciati vivi, trucidati,
consumati dalle malattie. Questo era il volere di sovrani
cristianissimi e caritatevoli. Le cifre di questo massacro ci
fanno parlare oggi di un vero e proprio genocidio. Per citare
solamente un esempio, la popolazione dei Caraibi passò in
pochi anni da cinque milioni a 125. Ma questo non sconvolse
l’opinione pubblica europea, più ansiosa di gustare le notizie
strabilianti che giungevano dal Nuovo Mondo che a valutare le
conseguenze della cosiddetta “scoperta”. Tra i fatti
meravigliosi e terribili che fecero presa sul pensiero collettivo
europeo, vale forse la pena ricordare quello dei cosiddetti
“cannibali”. Nel suo Giornale di bordo, Cristoforo Colombo
narrò la disavventura occorsa al suo equipaggio che, costretto
ad attraccare a Capo Samanà per un lavoro di restauro, venne
attaccato da una tribù feroce, straordinariamente crudele e
inumana, che a suo dire praticava l’antropofagia. Fu così che,
seguendo un percorso arzigogolato, il termine caribe, “arditi”,
che designava gli abitanti dei Caraibi delle Piccole Antille,
entrò nell’idioma spagnolo come caníbal, alterazione
dell’originario caríbal, andando a definire le popolazioni
dedite a questa pratica. Questa parola ha attecchito con forza
nell’immaginario collettivo, come tante altre che sono
conseguenti alla “scoperta” del Nuovo Mondo. Primo tra tutti
il sostantivo “America”. America, al pari di Europa, definisce
un intero continente, ma nell’uso e nel costume quotidiano
quando si parla di America si pensa istintivamente agli Stati
Uniti, non al Messico, al Brasile o al Cile. Per renderci conto
di quanto questa predazione identitaria sia endemica e
profonda, proviamo a immaginare il disagio che proveremmo
se “Europa” definisse al contempo una singola nazione e il
nostro continente, e se nel pensiero collettivo il termine
“europei” definisse gli abitanti di uno Stato percepito come il
più forte e importante. Non ci sentiremmo forse un popolo di
serie B?
La confusione identitaria americana riguarda però anche la
definizione dei popoli nativi che, a distanza di mezzo
millennio, continuiamo ostinatamente a definire con
l’etnonimo “indiani”. Ero nel Grand Canyon per girare Un
altro mondo. Mentre mi intrattenevo con dei nativi che si
stavano prendendo cura dei loro cavalli, al nostro gruppo si
avvicinò un enorme fuoristrada, come quelli a cui ci hanno
abituato le pellicole hollywoodiane. Scese un omone che,
rivolgendosi a una donna, chiese: «Come sellate i cavalli voi
indiani?». La donna guardò a destra e a sinistra. Poi fissò negli
occhi questo uomo che la sovrastava, con lo sguardo di chi è
abituato alle grandi distanze. Quello sguardo ampio e profondo
che solamente gli occhi non assuefatti alle mura e alle
limitazioni delle città sanno avere. Non rispose e riprese il suo
lavoro. L’uomo, allora, rifece la domanda, scandendo le
parole, forse per paura di non essere stato compreso. La donna
lo fissò negli occhi, poi scrutò l’orizzonte. Dopo un lungo
silenzio disse: «Mi scusi, io qui non vedo nessun indiano».
Detto questo tornò ai suoi cavalli. Avrei voluto farle un
applauso. In poche parole aveva riassunto l’intero dramma dei
nativi. Perché un nome è ben più dell’insieme delle lettere che
lo compone. Un nome è identità, è storia. In America non ci
sono “indiani”, termine che risale all’errata convinzione di
Cristoforo Colombo di aver raggiunto le coste dell’India. Non
ci sono nemmeno “pellerossa”, calco dal francese peau-rouge
legato al folclore del Far West, che deriva dall’usanza di
alcune tribù di cospargersi la pelle di terra per proteggersi dal
sole. Ci sono Lakota, Inuit, Yupik, Hare, Tlingit, Tsimshian,
Haida, Yakima, Walla Walla, Nimipu, Ute, Modoc, Sioux,
Cheyenne, Arapaho, Lakota, Creek, Quapax, Hopi, Navajo…
e questo solo per citare alcune di queste popolazioni con
tradizioni proprie. Etnie che hanno visto la loro identità
violentata da semplificazioni e appiattimenti stereotipati.
Popoli a cui è stato vietato usare e tramandare la propria
lingua. Perché la lingua è identità. Come scriveva il siciliano
Ignazio Buttitta nella straordinaria poesia-riflessione Lingua e
dialettu:
Un populu diventa poviru e servu
quannu ci arrubano a lingua
addutata di patri:
è perso pi sempri.
Diventa poviru e servu
quannu i paroli non figghianu paroli
e si mancianu tra d’iddi.
Mi n’addugnu ora,
mentre accordu la chitarra du dialettu
ca perdi na corda lu jornu. 3
La lingua rappresenta il ponte che unisce passato e futuro.
È il mezzo su cui viaggia l’identità di una cultura. Per questo,
ogni volta che si vuole sottomettere un popolo, si avverte
l’impellente necessità di reciderla.
Al contrario di quanto accadde con la lingua e le tradizioni,
che i nativi cercarono di proteggere e tramandare, queste
popolazioni si privarono senza troppi problemi di oro, perle,
pietre preziose. Ma questo atteggiamento disinteressato lasciò
increduli gli esploratori europei, tanto che Vespucci si trovò a
scrivere: “Le ricchezze che in questa nostra Europa e in altre
parti usiamo, come oro, gioie, perle e altre divitie, non le
tenghono in cosa nessuna, et anchora che nelle loro terre
l’habbino, non travagliano per haverle né le stimano”. 4
Proprio la mancanza di interesse verso quelli che erano e
sono considerati beni preziosi offrì, se non un appiglio legale
alla predazione delle ricchezze delle popolazioni native,
almeno una giustificazione morale. Un ragionamento poco
dissimile venne fatto con la terra. Estremamente elegante nella
formulazione e perfettamente in linea con gli interessi delle
potenze coloniali, il principio della terra nullius risale all’età
romana, quando i grandi filosofi si trovarono tutti concordi nel
sostenere che la terra dovesse appartenere a chi la coltivava.
Dunque, se una terra non veniva coltivata, era di fatto a
disposizione di chi per primo piantava una bandiera e ne
rivendicava il possesso.
Quando gli inglesi giunsero nell’America del Nord, forti di
questo concetto, la definirono terra nullius ma si trovarono
immischiati in un sanguinoso conflitto con i formidabili
guerrieri nativi. A causa della guerra, delle carestie e delle
epidemie, da circa 20 milioni di individui (o secondo altre
stime 70 milioni), queste popolazioni parlanti più di mille
lingue e dialetti diversi si ridussero a 4 milioni, e il loro
bagaglio linguistico e culturale declinò per sempre. Un
insegnamento riguardante la concezione della terra è però
rimasto, scritto da Capo Seattle nel 1854 nella celebre lettera
indirizzata al presidente Franklin Pierce, in risposta alla
proposta del governo degli Stati Uniti d’America di comprare
le terre del suo popolo, nella zona dell’odierna Seattle:
“Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai
nostri: la terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che di buono
arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini
sputano sulla terra, sputano su se stessi. Noi almeno sappiamo
questo: la terra non appartiene all’uomo, bensì è l’uomo che
appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose
sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della
stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto ciò che
si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non è l’uomo che ha
tessuto le trame della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò
che egli fa alla trama lo fa a se stesso. C’è una cosa che noi
sappiamo e che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro
Dio è lo stesso vostro Dio. Voi forse pensate che adesso lo
possedete come volete possedere le nostre terre, ma non
potete. Egli è il Dio dell’uomo e la sua pietà è uguale per tutti:
tanto per l’uomo bianco quanto per l’uomo rosso. Questa terra
per lui è preziosa. Dov’è finito il bosco? È scomparso. Dov’è
finita l’aquila? È scomparsa. È la fine della vita e l’inizio della
sopravvivenza”. 5
Agli occhi dei conquistatori, la terra però era ed è tuttora un
qualcosa da possedere. Quando, 250 anni dopo, gli inglesi
sbarcarono in Nuova Zelanda, tentarono nuovamente di
utilizzare il principio della terra nullius, ma trovarono la stessa
accoglienza riservatagli in Nord America, perché i maori
opposero una resistenza tale da ridurli a più miti consigli.
Così, invece di pagare la terra con il sangue dei soldati,
decisero di comprarla.
In Australia, invece, non ci fu nessuna trattativa. Quando,
nell’aprile 1770, l’esploratore britannico James Cook giunse in
questo continente grande come l’intera Europa, vi erano più
canguri che persone. I suoi abitanti, stimati in 1,5 milioni, non
solo non praticavano l’agricoltura, ma erano nomadi. Non
sembravano riconoscere la proprietà territoriale per come la
concepivano gli europei e non avevano né città né grandi
villaggi. Non avvertivano la necessità di costruire case né
capanne: dormivano nelle grotte o per terra, sotto gli alberi.
Non portavano indumenti, dimostravano una scarsa
propensione al lavoro e un’endemica predisposizione
all’ubriachezza. La loro igiene pareva inesistente. Indifferenti
al commercio, tecnicamente arretrati, vivevano di raccolta o di
caccia. Per farla breve, perfettamente in linea con L’origine
delle specie di Darwin, gli indigeni australiani incarnavano il
popolo più primitivo della Terra, l’anello mancante tra l’uomo
e la scimmia. Forse, agli occhi dei civilizzatissimi inglesi,
erano più vicini alle scimmie che all’uomo. Come scrive
Amadeus Leaflets, in un interessante quanto agghiacciante
articolo pubblicato dall’International Press Agency: “Gli
inglesi potevano legalmente e filosoficamente considerare
l’Australia come una terra deserta … gli aborigeni non
avevano diritti su quella terra più di quanti non ne avessero i
canguri, che erano oltretutto maggiori in numero. E come i
coloni potevano legittimamente sparare ai canguri per
difendere il raccolto, così potevano sparare agli aborigeni per
difendere la terra assegnata. … Anche i meglio disposti tra gli
inglesi non capivano come gli aborigeni preferissero morire
nudi e pagani piuttosto che civilizzati e britannici. Ogni sforzo
di convivenza veniva frustrato e alla fine sostanzialmente
abbandonato. I problemi di coscienza legati al concetto di
terra nullius passarono sotto traccia: togliere la terra agli
aborigeni sembrava forse ingiusto ma semplicemente
inevitabile”. 6
Fu in questo modo che gli indigeni australiani, che avevano
accolto le navi inglesi gridando: “Wangi, wangi!” in segno di
benvenuto, convinti che quegli uomini pallidi fossero le anime
dei loro avi che facevano ritorno dalle terre dell’Ovest, si
videro privati con la forza del diritto di vivere come avevano
fatto per 40.000 anni nella terra a cui appartenevano e di
prendersi cura di essa.
Considerandoli prima “pericolosi selvaggi” da eliminare,
poi “poveri selvaggi indifesi” da proteggere, il governo
federale instaurato sull’isola adottò strategie che andarono
dallo sterminio al protezionismo, fino a confluire in una
politica di assimilazione e rieducazione, affidata per lo più a
missioni di stampo religioso, che portò a quella che viene
definita la “generazione rubata”. Il risultato di questi strumenti
tutti egualmente tragici, sommati alle epidemie che sempre si
accompagnano alle colonizzazioni, fu un vero e proprio
sterminio. Il caso più drammatico fu quello della Tasmania,
dove una guerra non ufficiale causò la scomparsa degli
indigeni, fatta poi passare per un’estinzione “naturale”.
I membri dei clan tribali vennero separati, sradicati dalla
terra di appartenenza. Si cercò di spezzare il legame spirituale
con il territorio, di interrompere la trasmissione del sapere e le
tradizioni tramandate per millenni. I valori di cooperazione e
rispetto che guidavano le comunità furono sostituiti dalla
concorrenza e dall’ottimizzazione della produttività. Le oltre
trecentocinquanta lingue parlate vennero soverchiate
dall’inglese e la politica dell’assimilazione sbiancò
letteralmente la pelle degli indigeni. Nel corso di un’intervista
per il film Choose Love, Phil Walley-Stack della comunità
aborigena di Margaret River mi confidò: «La gente dice che
scoprire nuovi paesi è entusiasmante… ma pensate alla nostra
frustrazione nel sentirci dire che l’Australia è stata scoperta,
fondata».
Prima che gli occidentali “scoprissero” l’Australia, questa
era la terra a cui appartenevano i popoli delle Prime Nazioni.
Un’isola sconfinata, sulla quale convivevano oltre
trecentocinquanta gruppi etnici, guidati da un forte spirito di
condivisione e rispetto. Organizzati in territori tribali, i
membri dei vari clan non sentivano la necessità di invadere i
territori vicini perché, come racconta Phil: «Lì dove si viveva
c’era tutto ciò che serviva. Si viveva per la terra e ci si
occupava della terra, del territorio di appartenenza. Se si
andava in un altro Stato, si doveva rimanere seduti ad aspettare
che qualcuno ti vedesse e ti venisse incontro, per chiederti il
motivo della visita». Questa era la sacralità che guidava le
persone che si mettevano in cammino, ricalcando le
peregrinazioni degli antenati totemici che avevano creato ogni
essere e ogni cosa attraverso il canto, la danza e le gesta in
quello che viene definito “Dreamtime”, il Tempo del Sogno. In
questa dimensione onirica all’origine dei tempi, dove l’eternità
è in divenire, gli esseri primordiali che giacevano nella terra in
uno stato simile al sonno uscirono dai loro giacigli per creare il
mondo. Immaginato nelle loro menti di uomini, animali,
piante, il verbo si fece canto e il canto diventò un cammino di
creazione.
Seguendo le Vie dei Canti o Piste del Sogno tracciate dagli
esseri mitici ancestrali nel loro peregrinare, gli australiani per
millenni compirono viaggi rituali, vivendoli come
un’occasione di incontro con il paesaggio, con le popolazioni
che appartenevano a territori diversi e con le loro tradizioni.
Uno strumento di conoscenza empatico con il territorio, in
grado di unire il sapere del passato mitologico e l’esperienza
personale, in un paesaggio che non era considerato solamente
produttivo ma spirituale e dispensatore di identità. A guidarli
verso la propria meta, invece di mappe e rotte commerciali,
c’era una “Terra parlante”, un labirinto di percorsi visibili solo
a chi possedeva un forte legame con il territorio, destinati a chi
conosceva le Vie dei Canti. Queste rappresentazioni musicali
delle caratteristiche geografiche e topografiche del paesaggio
australiano descrivevano con le parole degli antenati totemici i
deserti, i mari, le montagne, gli alberi e l’immensità
dell’Australia, indicando ai viaggiatori la strada e la meta.
Cantavano di come controllare gli eventi atmosferici, l’affetto
per il proprio paese. Cantavano la bellezza umana e l’amore.
Percorrere fisicamente o spiritualmente le Vie dei Canti, così
ben descritte da Bruce Chatwin nell’omonimo libro pubblicato
nel 1987, era al contempo un viaggio iniziatico e un momento
di conoscenza, durante il quale il tempo assumeva i contorni di
un’eterna presenza e i confini non erano linee che separavano
ma che univano i diversi clan tribali. Questo arricchimento
personale rappresentava il fulcro dell’economia e del vivere
sociale.
Lo stesso vale per molte altre popolazioni che non hanno
mai spezzato il legame con la terra. Quando mi trovavo negli
Stati Uniti d’America per girare il documentario Un altro
mondo, riuscii in modo assai rocambolesco a parlare con
Westin Luke Penuma, della tribù degli Hopi. Per non farsi
vedere mentre rilasciava l’intervista (per gli Hopi è vietato
farsi riprendere dalle telecamere), mi condusse su di un monte
e insistette per portare con sé il tamburo. Quando gli domandai
perché fosse tanto importante averlo con sé in quel frangente,
lui mi rispose: «Il tamburo rappresenta il cuore, è come il tuo
cuore: batti su di esso al ritmo del tuo cuore. Questo è il polso
della natura. Credo di essere più un custode di Madre Natura
che una persona che distrugge Madre Natura». Queste parole
rimandano a una sacralità che noi abbiamo smarrito. Prima e
dopo l’intervista compì una cerimonia in cui cantava e
suonava il tamburo cercando di “sincronizzare” i cuori. Per
dimostrare l’unione con Madre Natura, madre viva che ci
nutre e ci dà la vita. Tutto questo ci mostra un altro modo di
essere al mondo, una condivisione e un rispetto che non
avrebbero mai portato l’umanità a distruggere la terra che la
ospita. La stessa concezione attraversa l’intera Australia, dove
vige il detto: “Condividi gli usi e i costumi, e condividi il
rispetto”. Una semplice frase in grado di regolare la vita
secondo una tradizione che intende la legge come la giusta
pratica del passato, risalente al Tempo del Sogno. Di come
fosse applicato questo principio ci dà contezza Alberto Furlan,
nella testimonianza raccolta nella sua tesi di laurea sulle
tradizioni degli aborigeni australiani: “La legge della storia
dice che noi non dobbiamo prendere la terra; combattere sulla
terra; rubare la terra; dare via la terra. La terra è solo mia
perché io sono venuto come spirito di quella terra: la terra è il
mio fondamento”. 7 Se proviamo a intendere la terra in questa
chiave profonda, allora lo slogan utilizzato nelle lotte degli
indigeni australiani per il riconoscimento delle terre si spoglia
della sua lettura metaforica per diventare letterale: “La nostra
terra è la nostra vita”. In questo modo possiamo comprendere
perché quando gli indigeni rivendicarono la proprietà della
terra non lo fecero per una semplice volontà di possesso: loro
erano i discendenti di quella terra. Erano i soli a conoscerla e
ad averne fatto esperienza. Erano i custodi delle tradizioni che
da essa derivavano e, per questo, si sentivano responsabili nei
suoi confronti. Lottarono per rivendicare il diritto di
prendersene cura, di salvaguardarla e di continuare a cantarla.
“Una terra non cantata è una terra morta” recita un detto, e gli
indigeni hanno lottato perché i canti non venissero meno.
Quando chiesi a Phil quale fosse secondo lui la più grande
differenza tra il pensiero dell’Occidente industrializzato e
quello degli indigeni australiani, lui mi rispose: «Il senso di
appartenenza e la condivisione». Principi che rappresentano
ancor oggi la chiave per la felicità dei popoli australiani.
Djurapin, “felice”, è la condizione di chi, forte della propria
identità, consapevole di appartenere a una terra e a una
tradizione, conosce e si prende cura della casa in cui abita e
dei suoi abitanti, secondo il principio onnipresente del rispetto.
In questa terra, dove non esistono alberi genealogici ma boschi
di famiglia popolati da tanti alberi, sempre secondo Phil: «Lo
scoprire di appartenere al posto a cui appartieni ti rende più
forte mentalmente, forte nel tuo credo e nel tuo cuore, nella tua
essenza. Una volta trovata la tua appartenenza, la tua lingua,
diventi forte e allora puoi perdonare, ritrovare la fiducia e
amare».
Oggi, in Australia vivono meno di 400.000 indigeni.
Nonostante nel maggio 1967 siano riusciti ad acquisire la
cittadinanza nella loro terra e la dottrina della terra nullius sia
stata abolita nel 1993 con il Native Title Act (con il quale si
riconosceva di fatto l’antecedenza del diritto di proprietà
aborigena rispetto alla legge del Commonwealth), la
situazione in cui versano è drammatica. La ferita lasciata dalla
“generazione rubata”, di quei bambini sottratti alle famiglie
per essere allevati e educati secondo lo stile europeo, stenta a
cicatrizzarsi. Si calcola che più di un terzo della popolazione
indigena non abbia un’adeguata sistemazione e, a fronte di una
mortalità infantile più elevata, la speranza di vita è inferiore di
15-20 anni rispetto a quella degli euroaustraliani. Il tasso di
disoccupazione è significativamente più accentuato, mentre il
salario medio parecchio più basso. La popolazione indigena è
flagellata da un’endemica epidemia di suicidi e il fenomeno
dell’alcolismo è ancora molto diffuso.
Durante il mio viaggio in Australia ho avuto modo di
parlare più volte con gli abitanti delle Prime Nazioni. Una cosa
mi ha colpito più di altre: pur non vedendosi attribuito lo status
di persone, perché la corona inglese aveva decretato che la
loro terra era a tutti gli effetti una “terra che non appartiene a
nessuno” e pur non vedendosi neppure garantito il diritto alla
cittadinanza, hanno mantenuto saldo il legame spirituale con il
proprio paese. Ma c’è di più. Mi sono accorto di quanto in
Australia il senso di appartenenza alla terra sia forte e
resiliente, tanto da non permettere alla colonizzazione né al
progresso di cancellare l’identità degli indigeni. Ho capito
empaticamente che in quella vastità, dove un intimo e
imprescindibile legame unisce tutti gli esseri al Tempo del
Sogno, dove la terra non si possiede ma si appartiene a una
terra, dove le Vie dei Canti indicano la strada per una vita in
sintonia con la natura e le altre popolazioni, esistono ancora
oggi luoghi in cui la materialità cede il posto all’essenza.
Arricchito da questa nuova concezione della terra e del
viaggio, tornando nel vecchio continente mi sono interrogato
sulla visione del mondo come di un qualcosa da conquistare,
sulle potenze planetarie che rappresentano al meglio la volontà
e la capacità di dominio. Mi sono domandato se esistano dei
limiti, se esista una misura in grado di soddisfare questo
bisogno patologico di possesso. Poi ho ripensato alla scritta
incisa sulla facciata del palazzo del governatore spagnolo di
Santo Domingo: “Il mondo non è sufficiente”.
Nella sua brutalità, questa frase è oggi più che mai vera.
Nel nostro mondo consumistico, dove il 20 per cento della
popolazione mondiale sfrutta l’80 per cento delle risorse
naturali, il mondo non sembra essere sufficiente per soddisfare
il nostro sistema di vita “business as usual”, ossia “usa e
consuma”. Gli studi della FAO ci dicono che oggigiorno 821
milioni di persone soffrono di fame cronica. Un terzo della
popolazione mondiale è malnutrito ma, contemporaneamente,
una persona su otto soffre di obesità. Come recita una famosa
frase di Eduardo Galeano: “Nel mondo gli affamati sono tanti
quanto i grassi. Gli affamati mangiano spazzatura nelle
discariche; i grassi mangiano spazzatura da McDonald’s”.
Tutto questo mentre assistiamo a una perdita allarmante della
biodiversità globale.
La biodiversità è il parametro in base al quale viene
misurato lo stato di salute della Terra. Rappresenta la
complessa e invisibile rete della vita sul pianeta, ossia
l’insieme di tutti gli organismi viventi e degli ecosistemi di cui
fanno parte. Nell’edizione del 2018 del Living Planet Index
(Indice del pianeta vivente) si legge che dal 1970 al 2018 il
declino della biodiversità è stato pari al 60 per cento. La Red
List delle specie minacciate della IUCN (International Union
for Conservation of Nature), il più completo inventario del
rischio di estinzione delle specie a livello globale, parla di
oltre 8500 specie a rischio. Questi dati ci dicono una sola cosa:
se non modifichiamo il nostro modello “usa e consuma”, se
continuiamo a “sputare” sulla terra che ci ospita, il sistema è
destinato a deteriorarsi irrimediabilmente. Segnali di allarme
inequivocabili ci giungono da ogni dove. Accanto a piogge
eccezionali assistiamo a siccità e desertificazione. Eventi
meteorologici estremi si accompagnano all’innalzamento dei
livelli dei mari e alla devastazione causata dagli incendi. Solo
per citare un esempio della portata di questi fenomeni,
l’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM ) ha valutato
che il fumo dei roghi in Siberia del 2019 ha coperto una
superficie di 5 milioni di km 2, un’area più grande dell’intera
Europa. Ma né questo né l’allarme di una terra che brucia
sembra aver catalizzato l’attenzione dei leader mondiali, che
stentano a riconoscere il collegamento tra il nostro stile di vita,
il deterioramento dell’ambiente e il cambiamento climatico.
Questo nonostante l’approfondimento del World Economic
Forum che, nel maggio 2019, ha evidenziato come il
riscaldamento globale stia rendendo più diffuse e facili le
condizioni che permettono agli incendi di divampare in grandi
aree geografiche.
Mi sono occupato di questi temi nel documentario Food
ReLovution, nel quale ho cercato di far luce sui costi della
nostra alimentazione. Parlare di alimentazione ci proietta in
problematiche che hanno una dimensione etica globale. Il
sistema “business as usual” ha un costo insostenibile: negli
ultimi cinquant’anni la nostra impronta ecologica, la misura
del consumo delle risorse naturali, è aumentata del 190 per
cento. Agricoltura e allevamento intensivi; monocolture e semi
transgenici; uso eccessivo di nutrienti, antibiotici, pesticidi,
diserbanti; inquinamento delle falde acquifere; inquinamento
luminoso; sovrasfruttamento delle risorse naturali (idriche,
minerarie)… sono tutti fenomeni antropogenici di cui ognuno
di noi ha sentito parlare. Food ReLovution è stato un
documentario difficile, che ha sollevato numerose polemiche.
Per alcuni era troppo estremo, per altri non lo era abbastanza.
Il messaggio che ho cercato di trasmettere era quello della
necessità di esercitare un controllo diretto sulla nostra vita. Di
prendere coscienza del costo reale delle nostre scelte
alimentari, senza doversi identificare con un’ideologia a ogni
costo. Non per essere mossi dal senso di colpa, ma dalla
consapevolezza. Perché il cibo ci connette al pianeta che
abitiamo, mangiare significa essere parte di un sistema. Questo
sistema è la Terra, la nostra casa. Chiediamoci: quale può
essere la destinazione di una società che definisce se stessa
consumistica la quale, letteralmente, consuma ed esaurisce i
beni del pianeta in cui vive? Durante l’intervista per il
documentario, Carlo Petrini, fondatore dell’associazione Slow
Food, ha detto in modo semplice e schietto che dobbiamo:
«Cambiare il nostro stile di cultura alimentare se non vogliamo
marciare a passi forzati verso l’estinzione», e questo può
essere esteso a tutti gli ambiti della nostra vita. Come
possiamo essere felici in una civiltà che procede spedita verso
una sistematica distruzione? Come possiamo conquistare la
gioia se una parte della popolazione mondiale è cronicamente
dipendente da cibo-spazzatura mentre un’altra muore
letteralmente di fame? Se siamo al contempo ipernutriti e
malnutriti? Se l’abuso di luci che illuminano a giorno le nostri
notti ci impedisce di guardare le stelle? Se, come ha scritto
Capo Seattle: “Non c’è luogo tranquillo nelle città dell’uomo
bianco. Nessun luogo per ascoltare l’aprirsi delle foglie in
primavera o il fruscio delle ali di un insetto”? 8 Quanto dovrà
essere “silenziosa la primavera” prima che si possa ripensare
al nostro sistema di valori?
Primavera silenziosa è il libro-fenomeno della biologa
Rachel Carson, il cui titolo descrive la quiete spettrale dell’aria
primaverile dovuta alla scomparsa di intere colonie di passeri e
uccelli, sterminate dal DDT . Prima opera ad aver creato una
coscienza sociale ambientalista, è dedicata a: “… Albert
Schweitzer che disse: ‘L’uomo ha perduto la capacità di
prevenire e di prevedere. Andrà a finire che distruggerà la
Terra’”. 9
Sulla capacità di prevenire e prevedere gli effetti delle
nostre azioni dovremmo riflettere a lungo, prendendo proprio
per esempio il caso del DDT . Il para-
diclorodifeniltricloroetano, o più semplicemente DDT , è stato il
primo e più conosciuto insetticida moderno, che valse il
premio Nobel in Fisiologia e Medicina al suo scopritore, il
chimico svizzero Paul Hermann Müller. Efficace veleno da
contatto contro la zanzara della malaria, venne acclamato
come una vera e propria panacea sia in ambito agricolo che
casalingo a partire dal 1939. I rischi potenziali per la salute
umana, per l’ambiente e per la fauna non solo vennero
sottostimati, ma furono ritenuti addirittura inesistenti. Anni
dopo la sua messa in commercio, Rachel Carson, colpita dal
silenzio dei campi in primavera, iniziò a studiare gli effetti del
pesticida sugli uccelli e analizzò campioni di terreno
contaminato dal DDT . Le conclusioni a cui giunse furono
devastanti: non solo il DDT era altamente tossico per
l’ambiente e per gli uccelli, nei quali danneggiava gli organi
riproduttori e assottigliava il guscio delle uova, ma dimostrava
effetti cancerogeni nell’uomo. In seguito al clamore provocato
dalla pubblicazione del libro, il famigerato insetticida venne
dapprima vietato in America (1972) e poi in Europa,
classificato come elemento R40, nella fascia degli elementi a
rischio cancerogeno.
Nella sua introduzione a Primavera silenziosa del 1999, Al
Gore scrisse: “Il libro di Rachel Carson, pietra miliare
dell’ambientalismo, è la prova innegabile di quanto il potere di
un’idea possa essere di gran lunga più forte del potere dei
politici. Nel 1962, quando Primavera silenziosa venne
pubblicato per la prima volta, ‘ambiente’ non faceva parte del
vocabolario politico … Primavera silenziosa giunse come un
grido nel deserto … che cambiò il corso della storia. Forse,
senza questo libro, la nascita del movimento ambientalista
sarebbe avvenuta più tardi o non avrebbe avuto luogo
affatto”. 10
Fra visione e azione, questo “grido nel deserto” si aggiunge
alle tante voci dei popoli nativi di tutto il pianeta che non
hanno mai perso il sapere legato alla Terra intesa non come un
qualcosa che si possiede, ma come una casa meravigliosa alla
quale si appartiene, che ci accoglie e ci nutre. Si somma
all’invito che ci giunge da un’Australia in fiamme di prendere
coscienza che non siamo parte di un singolo albero
genealogico, ma di uno straordinario bosco popolato da tanti
alberi. Di non ridurre la Terra a una mappa su cui piantare le
bandierine di una conquista piegata alla volontà di possesso,
ma di camminare in essa e di continuare a cantarla.
Grazie a una fotografia scattata dallo spazio, agli studi della
Carson e di tutti coloro che hanno seguito il suo esempio,
grazie alla visione di Lovelock e di tanti altri scienziati, anche
noi stiamo realizzando ciò che i nativi sanno da sempre: che la
Terra è un sistema vivente interconnesso, attraversato da una
rete che lega tutto ciò che esiste. Oggigiorno il sapere della
scienza sta riscoprendo i saperi antichi del misticismo e dello
sciamanesimo. L’odierna fisica quantistica riesuma
conoscenze ancestrali. Come spiegato in Un altro mondo,
questo cambiamento è destinato a modificare la coscienza
collettiva e a creare la “massa critica” in grado di cambiare il
destino del mondo. Il calendario maya, che essendo ciclico
non è destinato a esaurirsi, ci indica che la Terra è entrata in un
quadrante dell’universo dal quale riceviamo un’energia
inusuale, in grado di favorire l’interconnessione delle nostre
menti e di innescare il cambiamento. Parafrasando Platone,
non esiste il cambiamento senza che esista il luogo, e il luogo
del nostro cambiamento è la Madre Terra. E su di essa
procediamo sul sentiero della Gioia. Per questo il nostro
cammino non può non dipendere da come interpretiamo il
nostro vivere terrestre. Se comprenderemo intimamente che:
“La Terra non ci è stata lasciata in eredità dai nostri padri, ma
ci è stata data in prestito dai nostri figli”, secondo
l’insegnamento di Capo Seattle, allora forse saremo in grado
di intraprendere il sentiero della Gioia e di tornare a cantare la
bellezza della vita.
Terza storia
I giorni di non compleanno

Prima di fare il salto nella tana del Bianconiglio, quando gli


ha chiesto dove mai andasse così di corsa lui, guardando il
suo orologio da taschino, le ha risposto: «Non ho tempo, non
ho tempo!».
Sembra essere successo giorni prima, ma in quello strano
mondo chi poteva mai dire quanto tempo fosse passato? Ore,
giorni, settimane? Alice non lo sa davvero. Proprio mentre si
scervella nell’inutile tentativo di dare una dimensione al
tempo, il Bianconiglio le attraversa nuovamente la strada e,
senza pensarci due volte, lei gli chiede di nuovo: «Dov’è che
corri nel tuo panciotto?».
«Non c’è tempo! Non c’è tempo!» le risponde e corre via.
Che strano, pensa Alice. “Non ho tempo!” mi ha risposto
prima. “Non c’è tempo” mi ha risposto adesso… che ci sia
una qualche differenza?
Tutta presa dal suo ragionamento, si incammina su un
vialetto circondato da fiori e alberi da frutto che non aveva
mai visto prima di allora. In fondo, da una casetta assai
bizzarra, si alzano voci festanti. Curiosa, entra.
Seduti a un grande e lungo tavolo, un estroso Cappellaio,
circondato da bizzarri orologi, sorseggia il tè in compagnia
della Lepre Marzolina che, a ben vedere, sembra essere
completamente pazza pure lei. Senza osare avvicinarsi, Alice
allunga l’orecchio, per capire di che cosa mai parlino quei
due.
«Quando la Regina mi disse di organizzare un festival della
canzone, non mi sarei mai aspettato che finisse così» ammette
sconsolato il Cappellaio, mentre gioca con uno strano cilindro
che gli copre la testa.
«E come avresti potuto» gli risponde la Lepre «come
avresti potuto immaginare di essere accusato di “ammazzare il
tempo”?»
“Ammazzare il tempo?” si domanda Alice. “Chi mai
potrebbe fare una cosa del genere?”
Sempre più incuriosita, si rimette all’ascolto.
«E come diavolo avresti potuto prevedere che il Tempo,
offeso con te e con tutti i tuoi amici, decidesse di vendicarsi
fermandosi alle cinque?»
«Be’, cara amica, per fortuna si è fermato all’ora del tè!»
conclude il Cappellaio sorseggiando un tè inesistente.
Alice cede alla curiosità e si avvicina ai due.
«Buongiorno egregi signori» li saluta cordialmente.
I due, sorpresi, sussultano. Lei prosegue, cercando di non
fissare le strane macchie arancioni che ricoprono il viso del
Cappellaio.
«Sapreste dirmi che giorno è oggi?»
I due la guardano stralunati. Poi, all’unisono, rispondono:
«Ma è il giorno del non compleanno, non lo sai mia cara?».
«Davvero?» dice Alice. «E che cos’è un giorno di non
compleanno?»
«Non sai che cos’è un giorno di non compleanno?» dice
indispettita la Lepre.
«Come puoi non sapere che cos’è un giorno di non
compleanno?» le fa eco il Cappellaio.
«Tutto le dobbiamo spiegare, proprio tutto!»
«Cara mia, ascolta bene. Quante volte festeggi il
compleanno in un anno?»
«Una» risponde seria Alice.
«Bene. E, tu, Lepre Marzolina, quanti giorni di non
compleanno festeggi?» domanda il Cappellaio.
«Trecentosessantaquattro!»
«Hai capito, ora, sciocca bambina?»
«Ma allora è anche il mio non compleanno!» si illumina
Alice.
«Ah, com’è piccolo il mondo!» conclude la Lepre,
versandole una tazza di tè dalla caraffa vuota.
Capitolo 3
Padroni del tempo

In questo preciso istante, mentre leggete queste righe, provate


a collocarvi nel tempo. Fatelo pensando a quanto la misura del
tempo ci connette alla Terra, al cielo e al nostro infinito vagare
nell’universo sconfinato. Fermatevi per un attimo a pensare
all’anno, al mese, al giorno della settimana, all’ora esatta.
Vivete lo scorrere dei secondi. Poi tornate con la mente a un
evento preciso che ha rappresentato un momento speciale della
vostra vita e stabilite una relazione temporale tra quello e il
presente. Ora immaginate una data futura, nella quale un
vostro sogno finalmente potrà realizzarsi: quanti anni, mesi,
giorni, ore o minuti vi separano da esso?
Se riusciamo a compiere questo esercizio in modo del tutto
naturale, è perché abbiamo interiorizzato fin da piccoli un
complesso sistema di riferimento in grado di governare il
continuo scorrere del tempo. Ma per quanto esso faccia parte
della nostra quotidianità, e la plasmi in ogni suo aspetto, il
modo di afferrare l’essenza del tempo è da un lato
assolutamente soggettivo, mentre dall’altro la sua misurazione
è legata alle necessità che ogni società ha espresso. La lingua,
dal canto suo, ha registrato le suggestioni che abbiamo del
tempo; mentre Cicerone era solito affermare: “O tempora, o
mores”, “Che tempi! Che costumi!” per deplorare la perfidia e
la corruzione della sua epoca, nel loro insieme i romani ne
colsero l’evanescenza nel famoso “tempus fugit!”. Meno
poetico ma altrettanto efficace, diciamo che il nostro tempo
può essere colto, sprecato, perso, speso e perfino ammazzato.
Il tempo vola, passa e non passa mai. Nessuno può fermare il
tempo che, secondo un antico detto, è “galantuomo”.
Ma che cos’è il tempo? Anzitutto il tempo è una misura che
non è in funzione di se stessa ma che dipende direttamente
dallo spazio, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente.
Facciamo un esempio: l’anno, come unità di misura, è il tempo
che impiega la Terra per compiere un’intera rivoluzione
intorno al Sole. Quindi, noi per calcolare il “tempo” ci
rifacciamo allo “spazio”. Al fisico James Clerk Maxwell viene
attribuita la definizione per cui il tempo è un’idea: “L’idea che
una sequenza ordinata è individuabile nel complesso delle
nostre conoscenze”. Un’intuizione, dunque, in grado di
rappresentare in modo ordinato gli eventi che si susseguono
nell’ineluttabilità del divenire, di imprimere un ritmo
all’eternità. Da quando l’uomo ha avuto contezza di sé ha
sempre avvertito la necessità di individuare la periodicità che
scandisce il succedersi delle stagioni, il variare della durata del
giorno e della notte e, in qualche modo, di concettualizzare il
tempo, di sentirsi “padrone” del tempo, ordinando l’immensità
e riducendola a un concetto rappresentabile.
Nelle nostre vite frenetiche, nelle quali il tempo sembra non
essere mai abbastanza, spesso perdiamo di vista il quadro nel
quale si inseriscono le nostre vite. Ma come possiamo
riappropriarci della nostra esperienza terrena senza dare il
giusto valore alla misura che ne scandisce il divenire?
Nelle culture ancestrali, il tempo era percepito come un
ciclo ordinato di eventi, osservando i quali gli uomini
creavano un dialogo tra la natura e la cultura. Guardando con
sempre maggior attenzione ai grandi luminari che solcano il
cielo con moti periodici, compresero quale era il periodo
migliore per la semina e il raccolto, per la caccia, la pesca, così
come per ogni altra attività umana. L’osservazione divenne
metodo e il metodo condusse all’addomesticamento del tempo.
Così, a seconda che si seguisse il corso della Luna o del Sole,
si sono venuti creando dei calendari lunari e solari o, nel caso
che si guardasse a entrambi, i calendari cosiddetti lunisolari.
Vi siete mai chiesti cos’è un calendario? La Treccani ci dice
che il calendario è un: “Sistema convenzionale di divisione del
tempo: l’intervallo base di tale divisione è di solito l’anno, la
cui durata (anno civile) è fissata in modo che si discosti il
meno possibile dalla durata della rivoluzione della Terra
intorno al Sole (anno solare, più propriamente anno solare
tropico); accanto a questo calendario solare sono stati e sono
tuttora in uso, specialmente per fini religiosi di culto, il
calendario lunare, basato sul moto della Luna (anno di 12
lunazioni, per es. quello musulmano), e il calendario
lunisolare, basato sulla coincidenza dei mesi con le lunazioni,
cioè sull’anno lunisolare”. Ma prima di questa definizione,
anche l’importante enciclopedia indaga sul significato di
questo termine e, così, scopriamo che inizialmente il
calendario non era un sistema che faceva riferimento al
concetto astratto di tempo, ma era legato a un aspetto
economico-sociale della temporalità. Calendarium deriva
infatti da calendae, il “libro di credito, di scadenze”, sul quale
venivano annotati gli interessi che, nell’antica Roma,
maturavano ogni primo del mese. Passarono secoli prima che
Calendarium venisse citato con l’accezione attuale. A
proporre uno slittamento semantico fu Isidoro di Siviglia che,
nel settimo secolo, utilizzò questo termine per indicare il
registro dei santi e le relative festività, segnando il passaggio
da un ambito economico a uno liturgico. Il termine calendario
quindi, diversamente da sincronario, non ci connette alla Terra
e al cielo, ma ai debiti e alle imposte prima, e alla liturgia
cristiana poi. Detto questo, torniamo alla definizione di
calendario o, meglio, di calendari.
I calendari lunari, adottati dalla maggior parte delle
popolazioni antiche, si basano sulle 12-13 lunazioni che si
susseguono nel corso di un anno, spesso messe in relazione
con il mestruo e l’aspetto energetico femminile. I calendari
solari stabiliscono invece la durata di un anno in
quell’intervallo compreso tra due passaggi consecutivi del
Sole alla stessa posizione vista dalla Terra (corrispondente al
ciclo delle stagioni), intervallo che viene chiamato anno
tropico, dal greco tropos, “rotazione”. I calendari lunisolari
cercano poi, attraverso strategie diverse, di far corrispondere le
lunazioni con il naturale succedersi delle stagioni all’interno di
un anno. Cosa non facile, perché come recita un antico detto:
“La luna sui trenta non può arrivare e sui ventinove non può
stare” a indicare la durata media di una lunazione, che
corrisponde a 29 giorni, 12 ore, 44 minuti e 2,9 secondi, da cui
deriva la danza imperfetta tra anno solare e lunare. Come
avrete già intuito, si tratta di sistemi estremamente complessi.
Partiamo dagli egizi. Il calendario dell’antico Egitto, detto
calendario civile vago, era di tipo solare. L’anno era diviso in
tre stagioni di quattro mesi ciascuna (inondazione, emersione
delle terre dalle acque e raccolto); il giorno contava 24 ore, il
mese 30 giorni e l’anno 12 mesi, per un totale di 360 giorni.
Alla fine dell’anno si aggiungevano 5 giorni, detti epagomeni
o giorni supplementari, per far sì che il Wepet Renpet, o
Capodanno, cadesse il più precisamente possibile dopo un
anno solare da quello precedente. Ma qui sorge il primo
problema, perché l’anno tropico non dura 365 giorni, bensì
365 giorni e sei ore circa. Questo porta a un giorno di
differenza ogni quattro anni che, sul lungo periodo, come
testimoniato da un papiro dell’epoca ramesside (XIX e XX
dinastia), fece sì che in Egitto l’estate iniziasse in inverno! I
burocrati non sembrarono dare troppo peso a questo
scostamento, perché se da un lato i contadini continuavano a
riferirsi al calendario stagionale per la semina e la raccolta, il
calendario civile continuava a dettare i tempi
dell’amministrazione e della tassazione. In qualche modo
devono essersi detti: la cosa importante è che le tasse vengano
pagate, poco importa quando.
Nell’antica Roma la situazione non era certo migliore. La
tradizione vuole che a istituire il calendario romano sia stato
Romolo, nel 753 a.C. Gli antichi romani però, che non
sapevano di vivere 753 anni prima della nascita del Salvatore,
presero a contare gli anni ab Urbe condita, vale a dire dalla
fondazione di Roma, partendo ovviamente da 1. In origine, il
calendario romano era un calendario lunare che contava 10
mesi, con inizio alla luna piena di marzo. I primi quattro mesi
erano dedicati alle principali divinità del pantheon romano:
martius (Marte, dio della guerra), aprilis (Venere, dea
dell’amore), maius (Maia, dea della fertilità della Terra),
iunius (Giunone, dea della prosperità e della fertilità). I
successivi sei erano invece nominati numericamente: quintilis
(da cinque), sextilis (da sei), september (da sette), october (da
otto), november (da nove), december (da dieci). Terminato
dicembre si smetteva il computo del tempo per circa 61 giorni,
fino alla prima luna piena di marzo. La Terra riposava e
l’uomo smetteva di calcolare il tempo. Di questo sistema di
conteggio rimane testimonianza nel nostro modo di nominare i
mesi: avete mai fatto caso che il nostro decimo mese, ottobre,
significa letteralmente “ottavo”? Novembre, l’undicesimo,
“nono” e dicembre, il dodicesimo, “decimo”? Ecco, deriva da
qui.
Fu Numa Pompilio, secondo re di Roma, mutuando
probabilmente dal calendario greco, ad aggiungere i due mesi
mancanti alla fine dell’anno civile: gennaio (da Giano, il dio
degli inizi) e febbraio (da Febus, dio minore dell’antichità poi
fatto corrispondere con Plutone, il ricco sovrano
dell’Oltretomba). Ma anche in questo modo, l’anno civile
rimaneva comunque più breve dell’anno tropico di circa 11
giorni. Per compensare questa mancanza, che avrebbe
condotto a uno sfasamento dei mesi rispetto al naturale
susseguirsi delle stagioni, si decise di aggiungere un periodo
intercalare, alternativamente di 22 e 23 giorni, chiamato
“mercedonio”. Ma quando introdurlo? Si scelse febbraio, mese
di purificazione, che era diviso in due parti: la prima terminava
il 23, con i terminalia, considerati la fine dell’anno religioso,
mentre i restanti cinque formavano la seconda parte. Proprio i
terminalia sembrarono rappresentare il momento più adatto
per l’inserimento del mercedonio, la cui aggiunta però non era
stabilita secondo uno schema fisso ma dipendeva dalla
decisione del pontefice massimo. In questo modo, una
strategia pensata per allineare l’anno civile con quello tropico,
finì per diventare uno strumento in mano al collegio dei
pontefici, attraverso il quale esercitare un potere politico, per
favorire o sfavorire coloro che detenevano le magistrature e i
pubblici appalti, per allungare o accorciare la durata dei
contratti. Ancora una volta, vediamo come il computo del
tempo finì per essere una questione amministrativa, uno
strumento di potere economico e sociale.
Se Tarquinio Prisco, quinto re di Roma, stabilì che gennaio
diventasse il primo mese dell’anno e febbraio il secondo, fu
Giulio Cesare a rivoluzionare il calendario romano, che da
quel momento prese il nome di giuliano. Infatti, in seguito al
suo soggiorno in Egitto e alla frequentazione di Cleopatra,
Giulio Cesare conobbe l’astronomo alessandrino Sosigene che,
molto probabilmente, propose una riforma del calendario su
base solare e l’introduzione di un ciclo quadriennale composto
di tre anni di 365 giorni e un anno di 366. Il giorno intercalare
fu fissato ai terminalia, che come abbiamo visto cadevano il
23 di febbraio, ossia il sesto prima delle calende di marzo, bis
sexto die ante kalendas martias, “nel doppio sesto giorno
prima delle calende di marzo”, da cui bisestile. Per riallineare
l’anno civile con quello tropico, all’anno 708 di Roma (il 46
a.C.) venne assegnata una durata di 445 giorni e l’anno passò
alla storia come ultimus annus confusionis. Ma subito dopo la
morte di Cesare, si iniziò a commettere errori, inserendo
l’anno bisestile ogni tre anni anziché ogni quattro. A rimettere
le cose a posto intervenne Ottaviano Augusto che, nell’8 a.C.,
decretò che fossero omessi i tre successivi anni bisestili.
Riassumendo: un casino pazzesco.
Ma non finisce qui. Visto che Marco Antonio nel 44 a.C.
aveva cambiato il nome di luglio da quintilis in iulius, in onore
di Giulio Cesare, il senato decise di attribuire a Ottaviano
Augusto lo stesso onore. Così sextilis divenne augustus. Non
contenti, visto che luglio aveva 31 giorni, decisero che agosto
non poteva essere da meno: fu così che venne aggiunto un
giorno al mese dedicato ad Augusto togliendolo a febbraio,
che da 29 giorni si vide ridotto a 28! Tanto poteva l’ego degli
imperatori e la nevrosi di dominare lo scorrere del tempo.
Ma il cammino rocambolesco del nostro calendario non era
ancora concluso. Anzi, il bello arriva proprio adesso, perché il
tempo stava per essere sconvolto dalla nascita del Cristo.
Sempre più inseriti nel tessuto sociale e politico
dell’impero, i cristiani decisero di fondare anch’essi una nuova
era e stabilirono che l’inizio dovesse coincidere con l’ascesa al
trono dell’imperatore persecutore dei cristiani Diocleziano (20
novembre 284 d.C.), da cui era dei martiri o di Diocleziano.
Per darci un’idea della differenza di computo del tempo tra
quell’epoca e la nostra, la caduta dell’Impero romano che noi
diciamo essere avvenuta nel 476 d.C., ai tempi corrispondeva
al 192 dell’era dei martiri. Ma questa fu, per così dire, una
falsa partenza.
Nel VI secolo, il monaco originario della Scizia Dionigi il
Piccolo, basandosi sui Vangeli canonici, calcolò la data
approssimativa della nascita di Cristo, che fissò a 753 anni
dalla fondazione di Roma. Ebbe l’idea di numerare gli anni ab
incarnazione Domini nostri Iesu Christi, “dall’incarnazione di
nostro Signore Gesù Cristo”, coniando di fatto l’espressione
“anno Domini”. Inizialmente in uso solamente tra gli storici e i
cronisti, questo sistema venne adottato dalla cancelleria
pontificia durante il pontificato di Giovanni XIII (965-972). A
questo punto è necessario fare una precisazione sull’anno zero.
L’era cristiana, al pari di tutte le epoche, non inizia con l’anno
zero. Infatti il computo degli anni ha un valore ordinale, che
prende il via con “primo”, rendendo di fatto privo di valore lo
zero. Ma non solo. Al tempo di Dionigi il concetto dello zero
era del tutto sconosciuto in Occidente: a importarlo in Europa
furono gli arabi e il primo a farne uso in ambito latino fu
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci, l’ideatore della famosa
serie di numeri, con la pubblicazione del suo Liber Abaci, nel
1202. Scrive: “Le nove cifre indiane sono: 9 8 7 6 5 4 3 2 1.
Con queste nove cifre e con il segno 0, che gli arabi chiamano
zefiro, si può scrivere qualsiasi numero”. 1 Quindi, il computo
degli anni di un’epoca parte da uno. Niente anno zero.
Quando, nel diciottesimo secolo, entrò in uso la pratica di
contare gli anni prima di Cristo in ordine decrescente, il
calendario “negativo” partì da −1. Il nostro calendario passa da
−1 a.C. a +1 d.C. Ripeto, niente anno zero. Su questo modo di
interpretare il divenire ci sarebbe molto da dire, ma
limitiamoci a fare una riflessione: il tempo lineare, il solo che
la nostra mente riesca a concepire, ha un’unica direzione, dal
passato al futuro. La fisica più estrema ci dice che si può
procedere nell’altra direzione solamente sfruttando la
curvatura dello spazio-tempo attraversando un wormhole, un
cunicolo spazio-temporale, come ben descritto nel film
Contact.
Ma torniamo al nostro calendario, perché le sue
vicissitudini non sono ancora terminate, anzi. Il più bello
arriva proprio ora.
Nonostante le riforme di Cesare e di Augusto, c’era ancora
uno scarto di circa sei minuti tra il calendario giuliano e l’anno
tropico. Poca cosa, direte voi. Vero, ma nel sedicesimo secolo,
questo aveva portato la data dell’equinozio di primavera a
discostarsi di 10 giorni dall’evento astronomico. Qualcuno
deve aver fatto notare a Gregorio XIII, pontefice dal 1572 al
1585, che se fossero andati avanti di questo passo, la Pasqua si
sarebbe festeggiata subito dopo il Natale. Perché? Perché se il
Natale è una festa fissa, la Pasqua è una festa mobile, che si
festeggia la domenica successiva al primo plenilunio dopo
l’equinozio di primavera, che il concilio di Nicea del 325 d.C.
aveva fissato al 21 marzo.
Allarmato dallo scostamento del calendario liturgico voluto
dal concilio di Nicea dall’anno solare, il papa istituì una
commissione a cui affidò il difficile compito di porre rimedio
alla situazione che si era venuta a creare. Fu così che il 24
febbraio 1582, con la bolla papale Inter Gravissimas, “Tra le
cose gravissime”, venne annunciata al mondo la riforma che
segnò la fine del calendario giuliano e inaugurò l’epoca
gregoriana. Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché sia
stata un’istituzione religiosa a farsi carico di una riforma tanto
importante. La risposta è semplice e rimanda a uno dei motivi
per cui stiamo trattando questo argomento: la chiesa, che
aveva bisogno di riappropriarsi dei tempi della liturgia, lo fece
tramite un’azione che andava di fatto ad affermare il suo
potere sul tempo. In questo modo, qualcosa che riguarda la
vita di tutti veniva posto sotto il controllo diretto di
un’istituzione il cui potere era tale da poter scandire i ritmi
dell’esistenza di un intero continente prima e della quasi
totalità del pianeta poi. Pensateci: il nostro modo di vivere nel
tempo è determinato dalla riforma gregoriana, espressione del
potere secolare della Chiesa.
Se per noi questo modello di computo del tempo è naturale,
e in qualche modo inevitabile, non fu così che venne recepito
dalla società dell’epoca. Infatti, la riforma non solo stabiliva
un nuovo sistema per il calcolo degli anni bisestili ma
imponeva che, per riallineare l’anno civile con quello tropico e
correggere gli errori accumulati nei secoli, si sarebbe dovuto
portare avanti l’orologio della storia di 10 giorni.
Arbitrariamente, venne deciso che il giorno successivo a
giovedì 4 ottobre sarebbe stato venerdì 15 ottobre. Questo è il
motivo per cui, nei testi di storia del cristianesimo, si legge che
santa Teresa d’Ávila è morta nella notte tra il 4 e il 15 ottobre.
Quando venne dato l’annuncio di questa decisione, i paesi
cattolici insorsero al grido di “ridateci i nostri 10 giorni!”. Ma
la bolla papale era stata emanata e le parole in essa contenute
sfociavano in minacce nemmeno tante velate: “A nessuno sia
quindi lecito trasgredire questa pagina contenente i nostri
precetti, comandi, ordini, volontà, approvazione, proibizione,
esortazione e richieste, né osi opporvisi. E se qualcuno
presumesse di provarci, sappia che incorrerà nell’ira
dell’Onnipotente e dei santi apostoli Pietro e Paolo”. Le
intimidazioni divine accompagnavano “Questo calendario,
riformato e reso perfetto per l’immensa benignità di Dio verso
la sua Chiesa”, per sottolineare la verità di cui il papato si
faceva portatore e garante. Orwell, nel suo capolavoro 1984,
scrive che è il Ministero della Verità a dirci cos’è vero e la
ragione non può socraticamente dubitare, né tanto meno osare
non accettare la realtà decretata da un potere che si impone
come assoluto. Perché la Verità, dal punto di vista di chi la
detiene, è qualcosa da difendere con ogni mezzo. Per questo,
la famigerata bolla contiene una raccomandazione che
ribadisce in modo esplicito come il tempo fosse di proprietà
della Chiesa.
Tuttavia, nonostante le garanzie di infallibilità e le minacce,
qualcuno ai tempi osò dubitare e, se la scelta estrema e molto
impopolare di Gregorio XIII venne recepita nell’immediato
dagli Stati cattolici, i paesi luterani e calvinisti si opposero con
vigore alla riforma, tanto che a quanto si dice Keplero
ironizzò: “I protestanti preferiscono essere in disaccordo col
Sole piuttosto che essere d’accordo col papa”. Per questo il
calendario gregoriano fu adottato in Gran Bretagna nel 1752;
in Germania nel 1775; in Romania e Iugoslavia nel 1919; in
Turchia nel 1927; in Grecia nel 1928. In Giappone nel 1853, in
Cina nel 1912.
Un caso tragicomico è rappresentato dalla Russia che, nel
1918, dopo essersi sbarazzata degli zar, decise di adeguarsi al
calendario gregoriano. Ma sorse subito un problema perché la
cosiddetta rivoluzione d’Ottobre, che secondo il calendario
giuliano si era consumata tra il 24 e il 25 ottobre, era avvenuta
tra il 7 e l’8 di novembre secondo il calendario gregoriano. Per
questo una rivoluzione di novembre è passata alla storia come
la rivoluzione d’Ottobre!
Ci fu poi chi decise di non sottostare al dominio della
chiesa cattolica sul tempo, rifiutando di adottare il calendario
gregoriano. Ancora oggi, le chiese ortodosse russe, serbe,
moldave, bosniache, dell’Azerbaigian e di Gerusalemme
mantengono il calendario giuliano: da ciò scaturisce lo scarto
di 13 giorni tra le festività fisse cristiane e quelle ortodosse,
che festeggiano il Natale il 7 di gennaio e il Capodanno il 13.
La chiesa ortodossa copta, invece, continua il computo del
tempo in base all’era di Diocleziano.
Ma le diverse confessioni religiose non furono le sole a
ribellarsi. La Francia rigenerata dalla Rivoluzione, dopo aver
elaborato il sistema metrico decimale, decise di mettere mano
al calendario, al fine di rinnegare: “L’era volgare, l’era della
crudeltà, della menzogna, della perfidia, della schiavitù”. 2
Queste le parole di Gilbert Romme, professore di matematica
e fisica che presiedeva alla commissione scientifica per la
riforma del calendario. Abbandonando del tutto il sistema
romano, il calendario della Rivoluzione francese fu costruito
sul sistema decimale, sulla scienza moderna e sul rifiuto del
cattolicesimo, bollato come il “complice di tutti i crimini del
re”. 3 La sua epoca, ossia il Capodanno dell’anno I, venne fatta
iniziare il 22 settembre 1792, giorno della proclamazione della
Repubblica, e rimase in vigore fino al 22 fruttidoro dell’anno
XIII, ovvero il 9 settembre 1805, quando Napoleone la abolì.
Lo scopo dichiarato dell’epoca della Rivoluzione era quello di
mostrare agli uomini, attraverso il nuovo computo del tempo,
“Le ricchezze della natura, per fargli amare i campi e
designargli con metodo l’ordine delle influenze del cielo e
delle produzioni della terra”. 4 L’anno venne organizzato in 12
mesi da 30 giorni ai quali si aggiungevano a partire dal 17
settembre cinque giorni (sei negli anni bisestili) detti
sanculottidi: il giorno della virtù, del genio, del lavoro,
dell’opinione, delle ricompense e, nei soli anni bisestili, il
giorno della rivoluzione. Il mese era diviso in tre decadi,
ognuna delle quali contava 8 giorni e mezzo di lavoro, e un
giorno e mezzo di riposo garantito. Il giorno era suddiviso in
dieci ore di 10 decimi e 100 minuti. Ogni minuto contava 100
secondi (un’ora corrispondeva dunque a 2 ore e 24 minuti
dell’orologio sessagesimale). I nomi dei mesi rimandavano a
caratteristiche climatiche o agricole: c’erano così in autunno i
mesi vendemmiaio, brumaio e frimaio; in inverno nevoso,
piovoso e ventoso; in primavera germinale, floreale e pratile;
in estate messidoro, termidoro e fruttidoro.
Discorso a parte, ovviamente, va fatto per l’islam, il cui
calendario inizia il 16 luglio dell’anno 622, giorno in cui il
Profeta compì l’Egira.
Queste righe non vogliono mettere in discussione la validità
della riforma gregoriana. Ma solamente mostrare il cammino
arzigogolato del calendario da cui dipende la nostra percezione
del tempo e del nostro concepirci nel mondo.
I testi classici cinesi ci dicono che l’uomo è situato tra
Cielo e Terra, ossia che la sua vita si dispiega nel Tempo e
nello Spazio. Come nella moderna fisica, queste due nozioni
non conoscono soluzione di continuità nelle tradizioni orientali
che, fin dall’antichità, hanno guardato ai Rami terrestri per
quanto concerne la nozione di spazio-tempo legato ai
movimenti della Terra e ai Tronchi celesti per ciò che si
relaziona con i moti dell’universo. Muovendo da questi, per
millenni, l’uomo ha vissuto il legame tra Cielo e Terra,
sentendo che ogni cosa è comunicazione con il Tutto, che ogni
cosa è collegata.
Prima dell’adozione del calendario gregoriano nel 1912, in
Cina erano in vigore tre diversi calendari: il nongli, lunisolare
agricolo, il yangli, solare astronomico, e il nianhao, il
calendario di regno di ciascun imperatore, la cui era iniziava
dall’ascesa al trono. Questi rispecchiavano tre aspetti
fondamentali della vita: l’agricoltura da cui dipendeva il
sostentamento di tutta la popolazione, l’influenza del cielo e
dei corpi celesti su ogni aspetto della vita terrestre e
l’imperatore che impersonava la volontà del cielo e dalle cui
azioni dipendeva il destino dell’intero Tianxia, letteralmente
“ciò che si trova sotto il cielo”.
L’anno cinese iniziava nel primo giorno di luna nuova più
vicino al periodo Lichun, “inizio di primavera”, e durava 12 o
13 mesi. Organizzati in quattro stagioni che iniziavano con gli
equinozi e i solstizi, i mesi contavano 30 giorni, divisi in due
parti o jieqi, i cui nomi rimandavano al clima e agli eventi
meteorologici propri di ogni periodo. In questo modo si
celebrava la connessione dell’uomo con i cicli della Terra e del
Cielo. Per esempio al Piccolo Freddo (dal 5 al 20 di gennaio
circa) seguiva il Grande Freddo; l’Equinozio di Primavera era
preceduto dal Risveglio degli Insetti e, ad agosto, la Fine della
Canicola era seguita dalla Rugiada Bianca. Il computo degli
anni era concepito su di un ciclo sessagesimale, il cui inizio
venne fissato al 2637 a.C. (o, secondo un altro computo al
2697 a.C.). In questo ciclo, ogni anno assumeva un nome dato
dall’incontro di uno dei 12 Rami Terrestri (Dizi) con uno dei
10 Tronchi Celesti (Tiangan). Il 2020 è, secondo questo
computo, il 4717 gengzi, anno astrologico del topo.
Questo sistema di numerazione sessagesimale del tempo
era detto Ganzi (contrazione di Tiangan e Dizi) e veniva anche
applicato ai mesi, ai giorni e alle ore. Dalle quattro copie di
Tiangan e Dizi dell’ora, del giorno, del mese e dell’anno
presero vita gli “otto caratteri” che, secondo l’oroscopo cinese,
determinavano istante per istante le energie emanate dal Cielo
e dalla Terra, influenzando ogni aspetto della vita umana, dalla
fortuna alla salute, dal rapporto con i genitori al successo di un
matrimonio. Tutto questo non vi ricorda il sincronario maya?
Quella cinese è per noi occidentali una cultura affascinante
quanto lontana, misteriosa quanto impenetrabile. Lo studioso
Simon Leys ha scritto: “Dal punto di vista occidentale, la Cina
è semplicemente l’altro polo dell’esperienza umana. Tutte le
altre grandi civiltà sono morte (Egitto, Mesopotamia, America
precolombiana) o assorbite troppo esclusivamente da problemi
di sopravvivenza in condizioni estreme (culture primitive), o
troppo prossime a noi (culture islamiche, India) per poter
offrire un contrasto così totale, un’alterità così completa,
un’originalità così radicale e illuminante quanto la Cina.
Soltanto quando consideriamo la Cina possiamo davvero
prendere una misura più esatta della nostra identità … La Cina
è l’Altro fondamentale senza il cui incontro l’Occidente non
può diventare veramente consapevole dei contorni e dei limiti
del suo Io culturale”. 5 Mi ha sempre colpito molto questa
definizione e non per ciò che dice sulla cultura cinese, ma per
il valore che attribuisce all’incontro, all’esperienza dell’altro.
Noi impariamo a conoscerci quando ci confrontiamo con il
diverso. Prima ancora di comprendere la diversità, nell’altro
definiamo noi stessi, misuriamo la nostra identità, valutiamo i
nostri limiti. È nel confronto con l’altro che costruiamo la
nostra consapevolezza. Nell’indagare l’altro esploriamo noi
stessi. Muovendo da questa definizione, l’insegnamento che si
può trarre dal modo di esperire il tempo nella cultura
tradizionale cinese è che esiste un’altra concezione possibile.
Certo, non era necessario scomodare la Cina per arrivarci.
Sappiamo tutti che buona parte delle civiltà ancestrali
condividevano la visione di un tempo circolare, nel quale il
Tutto si manifesta per poi riassorbirsi nella potenzialità
indistinta. Ma l’immagine dei Tronchi Celesti e dei Rami
Terrestri mi ha sempre affascinato. La trovo meravigliosa, per
quanto non riesca a comprenderla fino in fondo. Rievocarla mi
ricollega al Cielo e alla Terra, mi fa sentire immerso nel tutto,
collegato con il Tutto. Non solo con gli altri esseri umani, ma
con l’intero universo. Quando penso alla vita in questi termini
è la parola “sincronicità” quella che mi viene in mente. Questo
termine deriva dalle radici greche syn, “con”, che segna l’idea
di riunione, e khronos “tempo”: riunione nel tempo,
simultaneità. Sincronicità ci rimanda a un’armonia che nulla
ha a che vedere con la casualità né con il sistema scientifico di
causa-effetto, ma ha a che fare, per dirla con le parole
dell’astrofisico e ambientalista Hubert Reeves, con il “fattore
universale esistente in tutta l’eternità”. Sincronicità ci porta
inevitabilmente a parlare di coloro che sono stati maestri
indiscussi di questo principio: i maya.
Chi non ha sentito parlare, almeno una volta, dei misteriosi
sovraintendenti di quello che noi chiamiamo tempo? Dei
signori della sincronizzazione? Del calendario maya o, meglio,
dei 17 sincronari maya?
Spesso si è parlato di quella maya come di una civiltà
“ossessionata” dal tempo. Questo aggettivo sprezzante è, a
mio modesto avviso, figlio della frustrazione che la nostra
civiltà tecnocratica dimostra nei confronti delle conoscenze
matematiche e astronomiche dei maya che, pur non avendo
mai inventato la ruota, sono riusciti a calcolare la durata
dell’anno solare in 365,2420 giorni, con un errore per difetto
pari a 0,0002 giorni. Tutto questo secoli prima che in Europa
si decidesse di sottrarre arbitrariamente 10 giorni alla storia.
Qualche maligno ha anche osato supporre che il fatto che la
riforma gregoriana del calendario sia avvenuta poco dopo la
cosiddetta “scoperta” dell’America, dopo che erano stati
trovati e opportunamente bruciati o occultati i testi del sapere
cosmologico maya, non sia una coincidenza del tutto casuale.
La risposta tra l’isterico e lo sprezzante di una parte del
mondo scientifico al sapere maya non è che la continuazione
dell’opera dei primi conquistadores che, venendo a contatto
per la prima volta con una civiltà in grado di concepire e
realizzare opere come quelle che ancor oggi ci lasciano
letteralmente senza parole, hanno reagito distruggendo
sistematicamente il loro sapere, bruciando e occultando
centinaia se non migliaia di testi, codici e oggetti sacri. Gli
inquisitori del paradigma scientifico, dimostrando una pari
ottusità, parlano di un’ossessione, incapaci di ammettere che
sia esistita in passato una cultura in grado di esprimere una
tecnologia più avanzata della nostra. Ossessionati o meno, i
maya rimangono per noi enigmatici e lontani. Infatti, dopo
cinque-seicento anni di intensa attività, intorno all’anno 832
d.C., quando avevano raggiunto l’apice della loro civiltà,
semplicemente i maya abbandonarono i loro splendidi centri
abitati nella giungla e scomparvero nel nulla. Le ipotesi su
quello che è realmente accaduto si sprecano, mentre le
piramidi che riposano nel verde lussureggiante delle foreste
ammiccano alla nostra ignoranza.
Nel documentario Un altro mondo ho intervistato Antonio
Giacchetti, traduttore de Il fattore maya. La via al di là della
tecnologia di José Argüelles. Insieme ad Alberto Ruz Buenfil,
pioniere del movimento degli eco-villaggi, delle reti bio-
regionali e del cambiamento sociale e spirituale, Antonio mi
ha parlato della concezione del tempo dei maya, delle loro
ampie conoscenze, dei loro calendari e del sincronario delle 13
lune. Secondo la visione cosmica dei maya, il tempo opera in
grandi cicli o ere cosmiche, caratterizzate da un particolare
tipo di energia. Il famigerato 21 dicembre 2012 segnava la fine
di un’era iniziata il 13 agosto 3114 a.C.: non la fine del
mondo, come i profeti della disinformazione globale hanno
gridato al mondo, ma la conclusione della Quinta Era, che ha
seguito quelle dell’Aria, dell’Acqua, del Fuoco e della Terra.
Proprio perché il tempo è pensato come ciclico, destinato a
ripetersi, i concetti di fine e di inizio si fondono fino a
scomparire. In merito, trovo illuminante il simbolo
dell’uroboro, il serpente o il drago che si morde la coda:
“Apparentemente immobile, ma in eterno movimento,
rappresenta il potere che divora e rigenera se stesso, l’energia
universale che si consuma e si rinnova di continuo, la natura
ciclica delle cose”. 6
Questa visione cosmologica del tempo, in grado di
calcolare con precisione eventi occorsi millenni addietro e
predire con sconvolgente precisione quelli futuri, è il frutto di
una struttura mentale intuitiva, di un comune sentire, di una
risonanza che metteva i maya in perfetta sincronicità non solo
con la Terra, la Luna e il Sole, ma con l’intero universo. In
questa visione, il tempo assumeva i contorni di un “circuito
dalla cui sorgente comune scorrono ugualmente il passato e il
futuro, incontrandosi sempre e unendosi nel momento
presente”. 7 Una danza armonica e sincronica, dove tutto si
evolve nel Tutto e nulla è al di fuori dell’insieme. Per ritrovare
questa corrispondenza cosmica, José Argüelles, che ha
dedicato la sua vita allo studio dei maya, ha dato vita a un
movimento di riforma del tempo basato sul potente messaggio
per cui il “tempo è arte” in opposizione all’oppressivo
paradigma secondo il quale il “tempo è denaro”, proponendo
l’adozione del sincronario maya delle 13 lune. È sempre
Argüelles a metterci in guardia sul fatto che “chi possiede il
tuo tempo, controlla la tua mente. Libera il tuo tempo, e
possederai la tua mente”. Proprio questa frase mi ha aperto gli
occhi sull’importanza del tempo, di quanto sia essenziale
prendere consapevolezza di questo grande sincronizzatore, il
cui scorrere impercettibile e ineluttabile ci connette con la vita
della Terra.
Ne Il fattore maya Argüelles propone una teoria
affascinante, secondo la quale il calendario maya non sarebbe
un semplice computo del tempo, ma uno strumento in grado di
registrare le calibrazioni armoniche in rapporto “non solo ai
posizionamenti spazio-temporali, ma alle qualità risonanti
dell’essere e dell’esperienza”. 8 Non un sistema in base al
quale pagare le tasse o le bollette. No! Uno strumento perfetto
per armonizzare la vita dell’uomo con l’energia cosmica.
Pensiamo al fenomeno studiato da Alain Aspect, quello che
Erwin Schrödinger aveva chiamato entanglement, fenomeno
che, al momento, non è spiegabile da nessun paradigma
scientifico tradizionale ma che viene continuamente replicato
sperimentalmente da numerosi laboratori sparsi in tutto il
mondo. Aspect ebbe l’intuizione di produrre dei fotoni gemelli
scaldando con un laser degli atomi di calcio, che fece poi
viaggiare in direzione opposta verso degli analizzatori di
polarità. Notò che modificando l’angolo di polarizzazione di
uno dei due fotoni, istantaneamente anche l’altro si
modificava. Fu in questo modo che il candidato al premio
Nobel verificò sperimentalmente il fenomeno non locale
dell’entanglement. Detto più semplicemente: due particelle
che hanno un’esperienza in comune continuano a mantenere
una “connessione”, anche se poste a grande distanza, per cui il
comportamento di una delle due influenza istantaneamente
quello dell’altra. Inspiegabilmente, ma incontrovertibilmente.
Ora chiediamoci: se siamo fatti tutti della stessa materia, di un
pugno di atomi sempre uguali che si combinano, perché non
dovremmo rispondere anche noi a questa grande legge del
campo universale? Perché non dovremmo reagire all’energia
del cosmo, del quale condividiamo l’origine e di cui siamo
parte? Di questo fenomeno e della sua portata mi ha parlato
per la prima volta il compianto fisico Emilio Del Giudice, che
avevo intervistato per Un altro mondo. Con il suo linguaggio
semplice e divertente mi aveva raccontato di come
l’entanglement ci rimandi al principio di non-località, secondo
il quale due parti di un sistema, per quanto distanti, restano in
qualche modo unite nello spazio quantico, dove ogni cosa non
è vista come un individuo singolo, ma come entità in continua
e reciproca connessione con il Tutto. Le parole di Emilio
hanno confermato l’unione tra fisica e spiritualità, che ai miei
occhi non sono più state saperi distinti, ma un continuum
nell’evoluzione della ricerca umana. Per riassumere,
l’entanglement è l’empatia dell’universo, una connessione in
grado di annullare lo spazio-tempo e di farci risuonare con ciò
a cui apparteniamo. Lo abbiamo provato tutti almeno una volta
nella vita, quando per esempio abbiamo pensato a una persona
che non sentivamo più da tantissimo tempo e lei ci ha
“inspiegabilmente” chiamato.
La fisica, però, ci viene in soccorso non solo per quanto
riguarda la connessione tra il Tutto, che mette in relazione il
nostro tempo con il divenire dell’universo e cancella di fatto le
barriere spazio-temporali, ma anche per quanto concerne la
percezione che abbiamo del tempo. Conoscete il film
Interstellar? Diretto da Christopher Nolan, la sceneggiatura si
è avvalsa della consulenza scientifica del fisico teorico Kip
Thorne che nel 2017 ha ottenuto il premio Nobel per la Fisica
grazie alla scoperta delle onde gravitazionali. Il film narra di
un gruppo di astronauti che viaggiano attraverso un wormhole
per cercare nello spazio profondo una nuova casa per
l’umanità, dopo che la Terra è diventata invivibile a causa
della “piaga”, un flagello naturale che si nutre di azoto e
consuma l’ossigeno dell’atmosfera. Come immediata
conseguenza di questa catastrofe, la società umana destinata
all’estinzione si è aggrappata a una post-verità, che nega le
conquiste scientifiche e si concentra sulla sola produzione di
cibo. In questo clima apocalittico il direttore di un centro della
NASA chiede a Cooper, ex astronauta, di compiere un viaggio
spaziale insieme ad altri scienziati per cercare un pianeta in
grado di sostenere la vita. Non voglio spoilerarvi il film, per
cui mi soffermo solamente su alcuni aspetti che riguardano il
tema di questo capitolo. Il primo pianeta che gli astronauti
raggiungono nel loro viaggio viene esplorato dalla scienziata
Miller. Esso si trova molto vicino a Gargantua, un gigantesco
buco nero la cui gravità altera lo scorrere del tempo, tanto che
ogni ora trascorsa sulla sua superficie equivale a sette anni
terrestri. Dopo innumerevoli vicissitudini, Cooper si ritrova in
un cubo quadridimensionale, un non-luogo fuori dal tempo che
ha una corrispondenza con la stanza della figlia di Cooper, la
quale non voleva che il padre partisse per la spedizione. Lì
Cooper capisce di poter comunicare con lei e intervenire sul
suo spazio-tempo. In questo modo riuscirà a inviare dei
messaggi a sua figlia nel passato, quegli stessi messaggi che
aveva ricevuto prima di intraprendere il viaggio, senza riuscire
ad attribuire loro un significato. Come già nella visione dei
maya, il passato e il futuro si fondono nel presente, nella
simultaneità dell’esperienza, dove la causa e l’effetto
coincidono. Ho parlato a lungo di questa visione del tempo
con il medico e scrittore Massimo Citro che ho conosciuto
durante le riprese per Un altro mondo e al quale continuo a
essere legato da una profonda amicizia. In una chiacchierata
davanti a un buon bicchiere di amarone, mi ha espresso la sua
visione del tempo o, più precisamente, della percezione del
tempo di cui parla nei suoi convegni e che è il tema di un
saggio a cui sta lavorando. Muovendo dalla teoria dei “minimi
naturali”, ossia dei confini che la natura ha imposto alla nostra
mente, Massimo ha elaborato una teoria davvero illuminante.
La frazione di tempo più piccola che noi riusciamo a percepire
è il secondo; sebbene al di sotto del secondo la nostra mente
non riesca a cogliere nessun evento, ciò non significa che non
si verifichi nulla prima di questa soglia. Ora proviamo a
immaginare che per un altro essere la soglia minima non sia
rappresentata dal secondo, ma dal millisecondo. Nel suo
orologio, le lancette che per noi si spostano di un secondo alla
volta si muoverebbero ogni sedici minuti e mezzo. Capite? La
sua esistenza, rispetto alla nostra, ne risulterebbe rallentata.
Per quanto questa teoria possa sembrare strana, proviamo a
considerarla da un’altra prospettiva. Quando proviamo ad
acchiappare una mosca, ci sorprendiamo sempre nel vedere
quanto questo animaletto sia veloce. Ci avviciniamo di
soppiatto, convinti di riuscire a prenderla quando, all’ultimo
secondo, vola via. In un interessante articolo pubblicato su
“Focus”, ci viene spiegato che il motivo del nostro fallimento
non è dovuto a “superpoteri” della mosca, quanto al fatto che
“questo insetto percepisce il tempo diversamente e si muove in
un mondo che per noi potrebbe essere quello di un video al
rallentatore. Gli impulsi di luce giungono al suo cervello con
una frequenza elevatissima, 250 flash al secondo (contro i
nostri 60 al secondo). Così, per quanto il nostro movimento
possa sembrarci veloce, alla mosca risulterà simile a una
sequenza in slow motion e troverà il modo di mettersi in
salvo”. 9 Teniamolo presente quando ci rattristiamo al pensiero
che una farfalla vive un giorno solo, perché questo tempo, che
a noi pare infinitamente limitato, nella sua percezione potrebbe
corrispondere all’eternità.
Se teniamo conto di tutto questo, dal calendario alla non-
località, dal sincronario ai minimi naturali, ci rendiamo conto
di quanto il nostro tempo sia legato alla percezione che
abbiamo di esso. Di come il sistema nel quale siamo inquadrati
ci allontani dalla naturalità dello scorrere dell’esistenza,
imbrigliandoci in un sistema di pagamenti e scadenze da
rispettare che ci suscitano un’ansia temporale. L’antico
proverbio afghano che recita: “Voi avete gli orologi, noi
abbiamo il tempo” sembra essere oggi più che mai vero. Nella
società moderna, il tempo non basta mai.
È stato calcolato che, in media, ogni essere umano ha a
disposizione circa tre miliardi di secondi di vita. Tale unità di
misura non rappresenta solamente una quantità ma, secondo
me, dovrebbe determinare anche la qualità della nostra vita.
Questa è una delle riflessioni che mi ha spinto a parlare del
tempo in questo libro.
E ciò ci porta alla vera domanda: chi e perché sceglie di
fare esperienza della dimensione spazio-temporale?
È il tema che cercheremo di indagare nel prossimo capitolo.
Quarta storia
Spiga di grano

Sono e non sono. Vivo della potenzialità indistinta, dove ciò


che è in alto è come ciò che è in basso e ciò che è in basso è
come ciò che è in alto. Libero da spazio e tempo, in me dimora
la promessa.
L’indistinto si perturba, come l’acqua di un placido lago al
planare di una colomba, e dalla materia prende forma la mia
singolarità.
Uno sguardo antico, senza giorni, mi mostra una clessidra:
la mia eternità prende a scorrere come sabbia, attraverso
istanti che scivolano da un infinito a un altro infinito.
La Terra umida mi accoglie. In questa oscurità viva non
vedo ma percepisco ogni cosa: sono ciò che ero e sono ciò che
sarò. In me si dispiega la promessa: sono nel mondo.
Poi, qualcosa del mio essere viene attratto verso il basso:
ecco le radici; qualcosa verso l’alto: ecco il busto, con piccole
foglioline che vibrano nella speranza del cielo. L’indistinto
cade nella forma e ogni parte di me ha un nome. I secondi
creano le ore, le ore i giorni, i giorni i mesi e in loro io
divengo.
Nella calda estate sono ormai imponente: le radici salde
nella terra, lambisco con le spighe l’immensità del cielo. La
terra mi nutre, l’acqua mi disseta, il sole mi scalda, la notte mi
dà conforto. Presto attenzione al mio divenire: vivo il suo
mutamento.
Le fibre che prima erano forti e flessuose, ora
scricchiolano al vento. Il verde delle foglie è scivolato nel
giallo. Sono carico di semi: in me cresce la promessa della
vita.
La calda estate volge in un autunno prospero. È tempo di
riposare, mi adagio a terra e trovo conforto nel suo abbraccio.
Ed è nuovamente oscurità: sono e non sono. Vivo della
potenzialità indistinta. In me dimora la promessa.
Capitolo 4
Anima mundi

Nel primo capitolo abbiamo parlato della realtà nella quale


siamo immersi, che muove dalle immagini e dalle parole, ossia
dagli strumenti con i quali conosciamo e facciamo esperienza
del mondo. Abbiamo poi provato a delineare le coordinate
spazio-temporali lungo le quali la nostra vita si dispiega,
sottolineando come le misure create dall’uomo spesso non
abbiano attinenza con la verità dell’universo, quanto con
l’ossessione di dominare il mondo. Ma ora, per procedere con
consapevolezza sul sentiero della Gioia, è giunto il momento
di chiederci chi siamo, da dove veniamo e dove faremo ritorno
dopo che questo viaggio volgerà al termine. In altre parole, di
interrogarci sulla vera natura dell’universo e di ciò che ci
anima.
Nel documentario Pachamama, il cui filo conduttore è la
riscoperta di Madre Terra, quando ho domandato a Enzo
Braschi, che ha dedicato la sua vita a studiare la spiritualità dei
nativi americani, quale fosse la concezione della vita, della
morte e della nostra vera essenza per i popoli nativi,
parafrasando Alce Nero mi ha risposto: «È l’ignorante che
vede tante cose là dove non vi è che Uno». Mi sono
interrogato a lungo sul significato profondo di queste parole,
andando a curiosare tra le altre culture. Quello che tutti i miti
antichi e i saperi ancestrali indistintamente ci tramandano,
dall’Oriente fino alla tradizione mesopotamica ed ebraica,
dallo sciamanesimo ai miti orfici, dalle teogonie alle
cosmogonie, è l’esistenza di una realtà oltre il mondo delle
forme sublunari, che non si può indagare perché preesistente
agli eventi fisici, alla parola, al tempo e allo spazio.
Recita il Daodejing, il Classico della Via e della Virtù, il
grande libro del taoismo:
Indistintamente qualcosa prese forma,
Qualcosa nato prima di Cielo e di Terra.
Silente! Vago!
Romito e inalterabile.
Definir lo potremmo “Madre del Cielo e della Terra”.
Il suo nome io ignoro,
Ma “Via” lo si designa.
Se costretto a nominarlo, “Grande” lo direi.
“Essere grande” vuol dire “congedarsi”
“Congedarsi” vuol dire “allontanarsi”
“Allontanarsi” vuol dire “far ritorno”. 1
Sembrano parole criptiche, ma in realtà ci rimandano una
visione universale della nascita dell’universo da un Dao, da
una via che è anche parola nella sua accezione di gesto
generatore, che non è possibile nominare, che precede l’Uno e
che dà vita al due: il Cielo e la Terra, lo Spazio e il Tempo.
Principio eterno, innominabile e insondabile, il padre del
taoismo lo definisce “Grande”. Essere supremo, grande Anima
dell’universo, è anche il significato del termine sanscrito
mahātmā, che si compone di mahā-, “grande”, e ātmān,
“anima”. Questo è anche l’essenza del Grande Spirito delle
popolazioni native americane: Wakan è inspiegabile,
onnipotente, portatore di vita e di sapienza.
Dall’altra parte del mondo, in un Occidente che gravitava
intorno al mondo greco, nello stesso periodo nel quale il padre
del taoismo componeva una delle opere più importanti
prodotte dall’umanità (VI secolo a.C.), anche i filosofi
appartenenti alla scuola ionica si interrogavano sul principio
originario che genera ogni cosa e dal quale ogni cosa prende
origine. Partendo dal principio che “dal nulla, nulla si genera”,
si misero alla ricerca dell’unità che dà vita alla molteplicità del
mondo. Anassimandro lo ha chiamato apeiron, “ciò che non è
determinato”, dal quale tutto trae origine e nel quale ogni cosa
si riassorbe. Talete lo identifica con l’acqua, Anassimene da
Mileto lo ravvisa nell’aria, mentre per Eraclito è il fuoco
eternamente vivo, principio attivo e intelligente. Passando per
Pitagora e gli insegnamenti orfici, fu Platone nel Timeo, vero e
proprio dialogo cosmologico, a parlare non già di un elemento
ma di un’anima universale, che trovò seguito nel Logos degli
stoici, presenza divina nelle vicende del mondo. Una “syn-
patheia, sentimento di compassione che unifica la sfera
soprannaturale con quella umana, per cui ogni evento se pur
minimo, si ripercuote su ogni altro”. 2
Da Platone ad Aristotele, giungendo fino ai grandi
pensatori del Rinascimento italiano vicini all’alchimia, si
dipana un filo conduttore che vede la creazione dell’universo
da un’anima mundi: una materia pura, informe e, proprio
perché priva di forma, non contaminata dal divenire, non
soggetta al tempo.
Una bellissima definizione di questa anima mundi,
reinterpretata in chiave cristiana dai padri della Chiesa come
Spirito Santo, è stata data dal filosofo Guglielmo di Conches
(1090-1154) che la descrive come: “Divina armonia che è ciò
da cui tutte le realtà hanno l’essere, il muoversi, il crescere, il
sentire, il vivere, il giudicare”. 3
Lungi dall’essere esaurita, questa ricerca intorno a ciò che
presiede l’origine dell’universo e al suo funzionamento ha
trovato grandi rappresentanti tra i pensatori e i fisici moderni.
Così il principio filosofico “dal nulla, nulla si genera”,
unitamente al panta rei, “tutto scorre”, di Eraclito, riecheggia
nella legge della conservazione della massa, postulata nel
Settecento da Lavoisier: “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto
si trasforma”. Mentre il grande computer coscienziale che è
l’anima del mondo, nell’interpretazione di Stephen Hawking, è
stato splendidamente raffigurato come “la mente di Dio”, nella
quale gli uomini sarebbero “immagini nella mente di Dio”.
Se sappiamo spingerci oltre i nomi e le definizioni, al di là
degli idealismi e degli scetticismi, vediamo come la tensione
che ha animato tutta la filosofia dall’Oriente all’Occidente, al
pari della riflessione mitologica, religiosa e teologica fino alla
più recente fisica quantistica, interpreti la vita come qualcosa
che discende da una ragione formante, da una coscienza
universale, da un principio indivisibile e immateriale.
“Grande” lo definisce Laozi, spiegandoci anche il valore che
attribuisce a questo termine, lungo una via, un Dao, che
nell’allontanarsi porta al ritorno: “Essere grande” vuol dire
“congedarsi”, “Congedarsi” vuol dire “allontanarsi”,
“Allontanarsi” vuol dire “far ritorno”.
Questa immagine ci riconduce al mutamento che, per sua
stessa natura, rende priva di valore la cessazione definitiva: se
tutto muta nulla finisce. La nascita è un passaggio, un “bardo”
secondo la definizione tibetana. La vita è un bardo. La morte è
un bardo. In poche parole, la nostra intera esistenza non è che
un avvicendarsi di passaggi.
In questo quadro, l’anima, questa animula vagula blandula,
“piccola anima smarrita e soave” a cui l’imperatore Adriano si
rivolge nelle Memorie di Adriano, non è che un frammento
coscienziale dell’anima del mondo, che non precipita nel
mondo materiale per un qualche peccato, ma discende in esso
per farne esperienza. A quest’anima il medico statunitense
Duncan MacDougall provò a dare consistenza, ad attribuirle
un peso. Secondo la sua teoria, supportata da numerosi
esperimenti, il corpo umano al momento della morte
perderebbe il peso della sua anima, lasciandola libera di
migrare verso altri lidi. Il suo peso, nel 1901, fu stabilito in 21
grammi. Accolta con grande scetticismo dall’ambiente
scientifico, questa scoperta vanta però un importante
precedente, quello della psicostasia egizia, ossia della pesatura
del cuore. Nel Libro dei morti ci viene descritta nei dettagli la
cerimonia alla quale, secondo gli egizi, veniva sottoposta
l’anima del defunto prima di poter accedere all’aldilà. Nella
sala del tribunale di Osiride, il dio Anubi poneva il cuore su
uno dei due piatti di una bilancia. Sull’altro piatto era invece
deposta una piuma a rappresentare Maat, la Giustizia. Se il
cuore era più leggero della piuma, l’anima era accolta nel
regno dei defunti. In caso contrario veniva divorata da Ammit.
Questa immagine mi torna in mente ogni volta che mi sento il
cuore “pesante”.
La naturale essenza dell’anima è dunque collegata con la
leggerezza. I termini con i quali viene designata rimandano,
nel ventaglio delle loro sfumature, al respiro. Anima deriva dal
latino anima, connesso al greco ànemos, “soffio, vento”.
Parimenti psyche, l’anima metafisica, deriva da psychein,
“respirare, soffiare”, mentre il significato di spirito è da
ricercare nel latino spiritus, “soffio, respiro, spirito vitale”, da
cui l’accezione di “soffio, alito, respiro”. La Genesi ci dice
che: “Dio formò l’uomo dalla polvere della Terra, gli soffiò
nelle narici l’alito vitale e l’uomo divenne un’anima vivente” 4
e nel Qoelet o Ecclesiaste si parla di hevel, “alito, soffio”:
“Soffio dei soffi, dice l’Ecclesiaste, soffio dei soffi. Tutto è
soffio”. 5 Nella Cina antica troviamo un principio affine nello
Shen, Anima o Spirito del Cielo. Antecedente allo Yin e allo
Yang, lo Shen non possiede definizione né conosce limite.
Accanto allo Shen troviamo il Qi, “pienezza e perfezione dello
Shen” secondo Confucio. Il Qi, vapore e spirito vitale, è
l’elemento più sottile che entra nella composizione di tutte le
cose, ma anche la manifestazione esteriore dello spirito, le sue
attitudini. 6 Energia universale, il Qi è al contempo l’essenza
individuale che caratterizza ogni persona. Anche in questo
caso, dall’anima mundi all’animula vagula blandula.
Legati etimologicamente, i termini che rimandano
all’anima spalancano a un’infinità di interpretazioni che, a
seconda delle culture, divergono sulle concezioni relative alla
natura, al numero, all’origine e al destino delle anime. Scrive
Lucrezio nel De rerum natura: “S’ignora infatti quale sia la
natura dell’anima, se sia mai nata o al contrario s’insinui nei
nascenti, se perisca insieme con noi disgregata nella morte o
vada a vedere le tenebre di Orco e gli immani abissi, o per
volere divino s’insinui in animali di altra specie”. 7 S’ignorava
e s’ignora ancora, se vogliamo avvicinarci a questo concetto
seguendo una logica razionale, cartesiana. Mentre viaggiavo in
America centrale per girare Un altro mondo, mi sono sentito
ripetere più volte che noi occidentali pensiamo molto ma
sentiamo poco. Questo sentire non ha a che fare solamente con
l’aspetto emotivo dell’esistenza, ma con la capacità di aprirsi
all’invisibile. Camminando sul sentiero della Gioia ci
dobbiamo domandare com’è possibile provare gioia se
abbiamo smarrito la capacità di sentire. Proviamo a chiederci
non già cosa pensiamo, cosa sappiamo, ma cosa sentiamo. A
riappropriarci di quella capacità innata di indagare con il cuore
la profondità insondabile che non è al di fuori di noi ma dentro
di noi. La parte che ci anima con l’energia del Tutto, che ci
connette all’anima del mondo, che ne è una sua emanazione.
Ricordate la scena finale de Il grande dittatore, uscito nelle
sale nel 1940, nella quale Charlie Chaplin tiene il suo discorso
all’umanità?
«Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi
stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la
scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e
cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. … voi non siete
macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate
l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che
odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati,
non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel
Vangelo di Luca è scritto: “Il Regno di Dio è nel cuore
dell’Uomo”.» Profetico.
Avete fatto caso alla data? Questo capolavoro non è stato
pensato e realizzato dopo il conflitto, ma nel bel mezzo della
Seconda guerra mondiale, quando il destino del mondo intero
era ancora incerto. Anche in questo sta la tragica grandezza del
cinema e dell’arte tutta.
Forti di queste parole, proviamo a indagare la nostra anima
di uomini come faremmo con un profumo nuovo che ci giunge
inatteso, proviamo a sentire, non a pensare a quel “Regno di
Dio” che è nel nostro cuore. Assaporiamo la meraviglia di
riscoprire un qualcosa di ignoto ma, al contempo, familiare, di
cui non abbiamo memoria ma che conosciamo da sempre,
perché ancor prima di raggiungere i nostri sensi è parte di noi.
Apriamoci alla possibilità infinita, spogliandoci almeno per un
istante dalle sovrastrutture mentali che ci ingabbiano in un
eterno conflitto tra psiche e soma, tra volontà e materia.
Proviamo a sentire, a intraprendere un dialogo con questa
sconosciuta che risponde al nostro nome, soglia bifronte
dell’inconoscibile e pur familiare anima del mondo.
Nell’antico Egitto si contavano sette (o secondo altre
versioni nove) tipi di anime. Conosciamo il loro nome, ma
solamente di tre sappiamo qualcosa di concreto. Akh: l’ipostasi
luminosa dell’eterna energia cosmica, veicolo immortale che
garantiva l’unione tra il Ba e il Ka. Ba: l’anima personale, che
contraddistingue la persona in una sua esperienza terrena. Ka:
la forza vitale, anima comune a tutte le reincarnazioni, scrigno
dei ricordi, delle emozioni e dei sentimenti. Attraverso l’Akh,
il Ba (l’anima che caratterizza ogni individuo in un’esperienza
terrena) si univa al Ka (la scintilla vitale di ogni esistenza):
con un’immagine possiamo dire che il Ka rappresenta una
collana di perle, il Ba una singola perla e l’Akh il filo che le
unisce.
Anche la tradizione ebraica ci rimanda all’esistenza di più
anime. Lo Zohar, testo appartenente alla tradizione della
cabala, elenca tre anime: Nefesh, “respiro”, Ruach, “spirito,
vento, soffio vitale comunicato da Dio”, e Neshamah, “soffio”.
La tradizione orientale, che non vive il dualismo mente-corpo,
preferisce parlare di relazione tra diversi aspetti
complementari: lo Jing, che riguarda la struttura fisica, la
memoria genetica; il Qi, collegato alla funzione energetica e lo
Shen, fonte della forza spirituale dell’uomo, inerente alla
psiche, alla percezione e alle emozioni di cui abbiamo parlato
poco sopra. Dal macrocosmo al microcosmo, dall’universale al
singolare, ogni elemento di questa triade si compone a sua
volta di diversi aspetti, in grado di esprimere ogni funzione del
nostro essere. Shen, spirito celeste che discende nell’uomo,
trova nel cuore il suo organo di elezione e si accompagna e
completa altre quattro emanazioni, che sono al contempo
energie di natura psichica coinvolte nella fisiopatologia umana
e forze con status di entità autonome. Sebbene ben
caratterizzate, non esiste una linea di separazione netta tra di
loro, ma un movimento di creazione e assorbimento, in una
prospettiva di continuo scambio e mutamento, proprio come
avviene per il corpo-anima. Se restringiamo il campo al
concetto di anima, la tradizione cinese ci parla di due soffi
essenziali che animano l’essere umano: Po e Hun, che non
sono in contrapposizione ma in continua relazione tra loro e,
insieme alle altre emanazioni, compongono la danza
dell’esistenza.
Essenza della profusione di due opposti in un nuovo essere,
l’anima o le anime organizzano il miracolo di una nuova vita.
Personalmente ritengo che le diverse anime non siano che
sfaccettature di un’unica essenza. La rappresentazione della
nostra straordinaria complessità. Come abbiamo detto non si
tratta di credere, di pensare, quanto di sentire. Di godere della
meraviglia di un soffio, un alito, un respiro che procedendo
dall’anima del mondo discende nel tempo per farne
esperienza. C’è una canzone che, pur nei diversi significati che
le sono stati attribuiti, parla con parole sublimi dell’anima,
dell’unità da cui discende, della tensione continua tra il Tutto e
la sua manifestazione e della continua ricerca. Questa canzone
è E ti vengo a cercare di Franco Battiato. Non trovate anche
voi che, al pari di tante altre canzoni di Battiato, allievo del
grande maestro sufi Gabriele Mandel, questa sia una poesia
mistica che parla della ricerca dell’anima?
Personalmente, ho iniziato a riflettere con maggiore
trasporto su questa tematica quando mio padre ha lasciato il
corpo. Per quanto naturale, la sua dipartita mi ha colto
impreparato, mi ha travolto, creando in me la necessità di
indagare con maggior profondità il tema dell’anima e del suo
viaggio. È così che è nato Un altro mondo. Inizialmente avevo
pensato a un documentario sulla reincarnazione ma, man mano
che procedevo nel lavoro, il film ha acquisito per così dire una
sua anima personale, conducendomi in un’altra direzione,
verso quella risonanza che unisce tutti gli uomini, la Terra che
abitiamo e ogni suo essere, dall’infinitamente piccolo fino alle
vastità siderali. Guardando e riguardando Un altro mondo nel
corso delle proiezioni e confrontandomi con il pubblico, mi
sono accorto di quanto questi temi siano intimamente
connessi. Per questo ho voluto parlare dell’anima mundi. E
non solo perché le tradizioni filosofiche, religiose e la scienza
stessa seguono questo cammino, ma perché lo sento
intimamente, perché in qualche modo percepisco la sua
presenza invisibile e, al contempo, infinitamente potente.
Questa sensazione di comunione universale, di un Tutto che
diviene e non si estingue, di continuo mutamento che
ritroviamo nelle nostre vite di ogni giorno, nella meraviglia di
un inverno che cede il posto alla primavera, di un seme che
diventa frutto, dell’amore di due anime che spalancano la
possibilità a una vita, mi ha condotto lungo un sentiero che
rende più che mai vera la frase con cui Franco Battiato ha
aperto il suo documentario Attraversando il bardo. Sguardi
sull’aldilà: «Noi non siamo mai morti e non siamo mai nati». 8
Noi siamo, punto. Nei diversi passaggi e transizioni, siamo.
Prima di sant’Agostino, tutte le tradizioni avevano una
visione del tempo circolare alla quale, in molti casi, si
accompagnava l’idea della reincarnazione delle anime e della
metempsicosi. Poi, i padri della religione cristiana si trovarono
di fronte a un grande dilemma: con la venuta del Cristo, il
peccato originale era stato cancellato dal mondo. Ma la visione
circolare del tempo comportava il ripresentarsi di un nuovo
peccato e della conseguente necessità di una nuova venuta del
Cristo a redimerlo. Questo era però in disaccordo con tutta
l’impalcatura teologica cristiana. Per cui si reinterpretò il
tempo in chiave lineare. La visione del tempo lineare ha
estirpato l’idea della reincarnazione dal comune sentire
occidentale, sostituendo all’immutabilità dell’anima nella
perpetua mobilità e mutabilità del mondo, la dottrina
escatologica della resurrezione dei morti. Secondo la visione
cristiana, la persona umana è concepita come un insieme
corporeo e spirituale, corpus et anima unus dicevano i padri
della Chiesa. Ereditato il concetto dell’anima dal mondo
greco, questa viene descritta come ubiquitaria nel corpo
(quindi non collocabile in un solo organo), preesistente da
sempre nella mente di Dio ma, al contempo, non preesistente
al corpo, personale, libera di scegliere tra il bene e il male,
immortale e soggetta a una sola vita terrena. Alla fine dei
tempi, a risorgere dalla morte, come ben enunciato nella
professione della fede, sarà la “carne”, ossia l’uomo nella sua
condizione di debolezza e di mortalità, come scritto nella
Bibbia. 9 Nel Credo, si dice che nel giorno del giudizio, Cristo
verrà a giudicare i vivi e i morti: coloro che saranno in stato di
amore e amicizia con Dio torneranno alla vita mentre chi sarà
ritenuto in stato di peccato (anche dopo la purificazione del
purgatorio o dell’inferno) verrà consegnato alla morte. Questo,
per i cristiani, è un atto di fede, una verità alla quale si è tenuti
a credere. Questo è anche la quintessenza dell’insegnamento di
cui si fa portatore Raymond A. Moody: oltre il bardo del
morire non c’è spazio per il giudizio, resta solo l’amore. Ma,
di questo, avremo modo di parlare più avanti.
Tuttavia, negli ultimi secoli, l’ingenua e spensierata fiducia
nel sogno tecnologico, anch’esso basato su un progresso
lineare e continuo, in grado di redimerci da un’ignoranza che
spesso assume i connotati del peccato, ha allontanato
l’Occidente industrializzato dalla riflessione sulla morte e
dalla sua reale comprensione, strada che ha portato a
conseguenze che non riguardano solamente l’ambito spirituale.
Negli ultimi decenni, abbiamo assistito inerti
all’allontanamento della morte dalle nostre vite, fino alla sua
negazione. Con un’acrobazia terminologica, in ambito
sanitario non si parla nemmeno più di morte ma di “fine vita”,
espressione che personalmente trovo terrificante. Ci siamo
sbarazzati non solo della morte, ma di tutto ciò che ricorda,
anche solo lontanamente, il declino e la vecchiaia: abbiamo
allontanato i nostri anziani come si fa con i giocattoli rotti o
che non usiamo più, costringendoli a morire soli e
abbandonati. Ci siamo dimenticati di tutti quegli strumenti in
grado di aiutare e accompagnare le persone che soffrono e che
stanno morendo. Non solo. Convinti che questa esistenza sia
l’unica, piegati a un progresso autoreferenziale e indifferente
al mondo, la società consumistica ha progredito saccheggiando
il pianeta, chiusa in una visione egoistica priva di prospettive a
lungo termine. José Antonio Lutzenberger, ex ministro
brasiliano per l’Ambiente, ha detto in merito agli inizi degli
anni Novanta: «La società industriale moderna è una religione
fanatica. Stiamo demolendo, avvelenando e distruggendo tutti
gli ecosistemi del mondo. Ci comportiamo come se fossimo
l’ultima generazione di questo pianeta». 10 Questo
atteggiamento irresponsabile è direttamente collegato con la
percezione della morte intesa come un baratro senza ritorno.
Prede di un sistema massmediatico che ci avvelena la mente
con i miti dell’eterna giovinezza, la società in cui viviamo ha
così tanta paura della morte da averla cancellata dalle nostre
vite, trasformandola in un tabù. Ne Il libro tibetano del vivere
e del morire di Sogyal Rinpoche viene fatta una riflessione
lapidaria sulle conseguenze di questo atteggiamento: “Quale
commento più raggelante sulla società moderna del fatto che
quasi tutti gli uomini muoiono impreparati a morire, proprio
come hanno vissuto impreparati a vivere?”. 11 Tenzin Gyatso,
sua santità il Dalai Lama, aveva espresso questo stesso
pensiero dicendo: «Quello che mi ha sorpreso di più negli
uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e
poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al
futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera
che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono
come se non dovessero morire mai e muoiono come se non
avessero mai vissuto». 12
Sono riflessioni alle quali, per lo più, non siamo abituati.
Sono parole che, a una prima lettura, ci spaventano. Eppure
contengono un forte messaggio di consapevolezza e di
speranza, che ci permette di inquadrare la nostra vita in una
prospettiva più ampia e compassionevole, in grado di
ridisegnare i confini della nostra esistenza. Milarepa, santo e
poeta tibetano, diceva che la sua religione era vivere e morire
senza rimpianto. Che bella religione, mi sono detto la prima
volta che ho letto questa frase.
Viviamo in un mondo dove, secondo la lapidaria sentenza
di Nietzsche, “Dio è morto”. Questa frase è tanto breve quanto
capace di scuotere l’intero sistema che ha retto per secoli la
nostra civiltà. Tre semplici parole hanno letteralmente
scoperchiato il vaso di Pandora, attraversando la nostra società
dalla filosofia alle canzoni. “Dio è morto”: che cosa significa?
Se avessimo tolto dall’equazione della società preindustriale
Dio, il suo stesso fondamento sarebbe venuto meno. Pensiamo
alla società medievale: tutto gravitava intorno al concetto di
Dio, dall’architettura alla politica, dalla vita comunitaria
organizzata intorno alle chiese e alle cattedrali, alla
quotidianità. Erano le campane a richiamare i cittadini alla
preghiera, alla festa ma anche ad avvisarli di un pericolo
imminente. Ma nella nostra società tecnologica, Dio è
scomparso. Se togliamo “Dio” dalle nostre vite, ben poco
vacilla. Proviamo invece a togliere le parole “denaro”,
“economia”, “tecnologia”, con le loro banche, elette a
cattedrali, i loro strumenti sacri quali i telefonini, le
televisioni… l’universo che conosciamo verrebbe meno.
Quando alle piazze antistanti alle chiese si sono sostituiti i
centri commerciali come luogo di incontro, “Dio è morto”. Per
questo siamo spinti nella nostra ricerca a guardare altrove.
La religione buddhista, e in particolare quella tibetana, ha
concentrato buona parte della sua riflessione e delle sue
indagini sulla vita e sulla morte intese come un tutt’uno,
costituito da una serie di realtà transitorie, in costante
mutamento, chiamate “bardo”. Sebbene questo termine sia
comunemente usato per indicare lo stato intermedio tra la
morte e la rinascita, in realtà i bardo accadono continuamente,
sono occasioni eccezionali: “Congiunture in cui si intensifica
la possibilità della liberazione, o illuminazione”. 13 Liberazione
dal ciclo incontrollato di nascita e di morte nel quale gli esseri
senzienti perdurano a causa delle azioni negative e delle
emozioni distruttive; liberazione da quell’oceano di sofferenza
che i buddhisti chiamano samsara. Questo è il fulcro
dell’insegnamento della più antica scuola del buddhismo
tibetano, convogliato in parte in quello che l’Occidente
conosce come il Libro tibetano dei morti. 14 Vero e proprio
“tesoro nascosto” dell’antica scuola Rnying ma pa, fu
composto nell’ottavo o nono secolo dal grande maestro
Padmasambhava e nascosto per le generazioni a venire, per
poi essere ritrovato nell’Ottocento dal noto “scopritore di
tesori” Karma Lingpa.
Se è vero che buona parte delle tradizioni antiche era
incentrata sulla reincarnazione, sulla metempsicosi e sulla
trasmigrazione delle anime, è però innegabile che proprio il
buddhismo tibetano ha indagato e definito con maggiore
precisione ogni singola fase di questo ciclo. Ci potremmo
chiedere da dove derivi questo sapere. Robert Thurman, padre
della famosa attrice Uma Thurman, in MindScience: an East-
West Dialogue (un dialogo tra scienza moderna e buddhismo
che prende via dall’Harvard Mind Science Symposium, nel
quale il Dalai Lama e altri studiosi di filosofia indo-tibetana
hanno incontrato eminenti autorità nel campo della medicina,
della psichiatria, della psicologia e psicobiologia, della
neurobiologia e dell’educazione) scrive che la scienza interiore
del buddhismo si fonda su “una conoscenza minuziosa e
insieme globale della realtà, su una profonda e già comprovata
conoscenza di sé e dell’ambiente, cioè sulla perfetta
illuminazione del Buddha”. 15 Questo concetto di mente
perfettamente risvegliata e illuminata, cuore degli antichi
insegnamenti della tradizione tibetana volti a mostrare la
natura essenziale della mente, è estraneo alla tradizione
scientifica occidentale che possiede un concetto di mente
estremamente ristretto, legato per lo più alla conoscenza di
processi biologici che avvengono a livello celebrale. Ma anche
in Occidente le cose stanno cambiando e non sono pochi gli
scienziati e i filosofi che si sono avventurati lungo i sentieri
già battuti per millenni da mistici e praticanti delle religioni di
tutto il mondo.
Indipendentemente da quali siano il nostro sentire e la
nostra personale visione del supremo passaggio, ancor prima
di credere o meno nella reincarnazione, nella risurrezione della
carne o anche nella morte come a una cessazione definitiva, è
importante riportare nelle nostre vite la riflessione sulla morte.
E non mi sto riferendo alle sempre più frequenti immagini che
rimandano alla morte, quali teschi, scheletri, che colorano i
nostri screensaver e le nostre magliette. Con la presenza della
mente chiediamoci: come possiamo raggiungere la gioia
vivendo nell’indifferenza, nell’esaltazione o nel terrore di un
evento ineludibile? Scrive Sogyal Rinpoche: “Sia temere la
morte, rifiutando di guardarla in faccia, sia idealizzarla,
significano banalizzarla. Disperazione ed euforia sono solo
illusorie vie di fuga. La morte non è deprimente né seducente:
è semplicemente un fatto della vita”. 16 Come per gli altri fatti
della vita, da un incontro di lavoro a una cena, da un esame al
primo appuntamento con una persona che ci piace, anche nel
caso del bardo del morire è bene arrivare preparati. Non solo
per l’evento in sé, ma anche per le ricadute nella nostra vita e
nella ricerca della gioia.
Vi ricordate il memento mori latino, che tanto ci ha fatto
ridere nella versione di Roberto Benigni e Massimo Troisi nel
film Non ci resta che piangere? «Ricordati che devi morire!»
dice il predicatore. «Ricordati che devi morire!» ripete.
«Eh, mo’ me lo segno!» gli risponde Troisi.
Avrò visto questa scena almeno un centinaio di volte e
immancabilmente mi ha fatto morire dal ridere. Scusate il
gioco di parole. Ma dietro il riso si nasconde un insegnamento
profondo. Contemplare il bardo della morte ci permette di
godere appieno del bardo della vita. Nelle nostre esistenze
caratterizzate da una pigrizia attiva, 17 riempiamo ogni istante
di attività futili e non lasciamo spazio a ciò che è essenziale.
Pensare a quella grande livellatrice che è la morte, come la
definisce Totò nella nota poesia, ci aiuta invece a stabilire
delle priorità. Chiediamoci: cosa faremmo in questo preciso
istante se sapessimo di dover morire domani, la prossima
settimana? Questo semplice esercizio ci aiuta a capire quali
sono le cose davvero importanti nella nostra vita. Quanto
spesso ci è accaduto di aver rimandato qualcosa di
fondamentale per seguire attività futili e di nessun valore? Una
lettera mai scritta, una visita mai fatta, una rappacificazione
demandata a un domani che non è mai arrivato? Quanti cerchi
lasciamo aperti nella nostra frenesia quotidiana? Quante sono
le questioni sospese, che mentre noi rimandiamo e
continuiamo a rimandare, producono ansia? Contemplare il
grande cerchio della vita, che nel chiudersi si apre a una nuova
potenzialità, ci aiuta a farci comprendere ciò che è veramente
importante, a porci un limite temporale per la sua
realizzazione, liberandoci dall’ansia che le situazioni sospese
comportano e donandoci serenità e pace interiore.
Vivere lo scorrere dei secondi innumerevoli ma non infiniti
che ci sono concessi ci permette poi di ridimensionare tante
cose. Proprio da questo aspetto nasce il memento mori della
civiltà romana, estremamente sensibile al tema della morte e
della vita. Questa locuzione trae origine da una particolare
usanza in uso nell’antica Roma: quando un generale rientrava
vittorioso da una campagna di guerra all’urbe e l’intera città
accorreva a tributargli il trionfo, per evitare che il generale
osannato cadesse in un delirio di onnipotenza, nella superbia,
nella volontà di prevaricazione, a uno schiavo tra i più umili
era affidato il compito di ricordargli la sua natura mortale,
sussurrandogli all’orecchio: memento mori. Anche a noi, a
volte, è successo di correre su di un carro dorato, osannati per
una nostra conquista. Se qualcuno ci avesse ricordato questa
verità ineludibile, forse la caduta dagli allori sarebbe stata
meno rovinosa. Ma la valenza di questo ammonimento si
spinge ben oltre: spesso diamo valore a cose che, in realtà, non
lo hanno. Nel già citato documentario di Franco Battiato
Attraversando il bardo mi ha colpito molto una frase: «Alla
fine della nostra vita non conteranno le nostre prestazioni e le
opere compiute, né la nostra fede o la nostra religione, ma
quanto abbiamo amato». 18 Queste parole mi riportano a una
frase di Un altro mondo, quando Massimo Citro, citando la
prima lettera di san Paolo ai Corinzi, dice: «Alla fine solo tre
cose rimarranno quando tutto cadrà e, di queste tre, la più
importante è l’amore». Quando riflettiamo, senza la necessità
di giudicare, rimane solo l’amore. Questo è anche quanto ci
dice Raymond A. Moody, medico, psicologo e saggista
statunitense, noto per i suoi studi sugli stati di premorte. Al
pari di Elisabeth Kübler-Ross, che ha dato nuova linfa vitale
alla pratica dell’accompagnamento alla morte in Occidente,
nelle sue conferenze e nei suoi numerosi libri Moody dichiara
che la morte, intesa come cessazione dell’esistenza, non esiste.
Basandosi sulle numerose testimonianze di persone che hanno
vissuto uno stato di premorte, Moody ha raccolto gli elementi
comuni a questo genere di esperienza, tra cui l’abbandono del
proprio corpo e la fluttuazione verso l’alto; il passaggio
attraverso un tunnel e l’emersione in una luce di amore, pace e
gioia. Tutti coloro che hanno fatto ritorno da questo viaggio
hanno dichiarato di aver rivisto la loro vita nella misura in cui
hanno dato e ricevuto amore, in una condizione di pace scevra
da qualunque giudizio. Questo sguardo sull’aldilà li ha
arricchiti, spogliandoli dalla paura della morte e infondendogli
un nuovo e più profondo significato della vita e dell’amore che
ne è espressione.
Tra le tante domande che mi sono posto nel corso della mia
vita, trovano un posto speciale il “da dove veniamo” e “dove
torniamo quando lasciamo il corpo”. Domande alle quali non
sono ovviamente riuscito a rispondere, anche se mi piace
molto l’immagine del “ritorno a casa”.
In merito al grande insegnamento rappresentato dal bardo
del morire, voglio condividere con voi un’esperienza
personale che ho vissuto mentre lavoravo al mio nuovo
documentario, che tratterà della vita oltre la morte, un tema
che mi è molto caro. Mosso dalla riflessione aperta dalla
dipartita di mio padre, ho intrapreso una ricerca che mi ha
condotto a Un altro mondo. Come ho già detto, questo film si
è poi sviluppato lungo un’altra strada, ma la spinta originaria
non è mai venuta meno e ora credo di essere pronto ad
affrontarla. Per farlo ho deciso di intervistare Raymond A.
Moody. A colpirmi profondamente, non sono state tanto le sue
parole, quanto l’energia che emanava, il suo stato di profonda
serenità e grazia. In quelle ore, ho percepito e condiviso il
coraggio e l’amore di chi ha superato la paura della morte e
vive libero nella gioia. Parlare con lui ha rafforzato in me la
consapevolezza che la morte è davvero la grande maestra.
Parlando di morte come liberatrice, c’è poi un altro aspetto
che dev’essere preso in considerazione. Il bardo della morte
rappresenta una liberazione, non solamente dal samsara, ma
dalla pesantezza della materia e dei suoi vincoli. Anni fa lessi
una poesia intitolata Dialogo immaginario tra un uomo stanco
di vivere e la propria anima, che fa parte dell’Insegnamento
per Merikara, scritto dal sovrano della città di Heracleopolis
Magna per suo figlio. Siamo in Egitto, all’epoca della X
dinastia, intorno al 1230 a.C.
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come quando un malato risana,
come l’uscir fuori dalla detenzione.
La morte è davanti ai miei occhi oggi
come il profumo della mirra,
come seder sotto una vela in un giorno di vento.

La morte è davanti ai miei occhi oggi
come quando un uomo desidera veder casa sua
dopo molti anni passati in prigionia. 19
Quella del ritorno a casa è un’immagine evocativa
estremamente potente. Abbiamo iniziato questo capitolo
descrivendo l’anima del mondo dalla quale discendiamo.
Siamo coscienza cosmica in viaggio, alla scoperta di se stessa.
Non si tratta di credere, ma di sentire: di prestare ascolto, tra la
cacofonia di voci assordanti che ci impegna istante per istante
la mente, alla nostra essenza più profonda. A quella parte di
noi che risuona con l’universo.
Parlando di questa unione con il Tutto, esiste un ulteriore
aspetto che vale la pena accennare. È quello del ricordo delle
anime di coloro che hanno lasciato il corpo terreno. Buona
parte delle popolazioni non ancora contagiate dall’isteria della
tecnologia e del progresso continuano a onorare i loro defunti
attraverso ricorrenze gioiose, festose. Ho avuto l’occasione di
partecipare alle cerimonie che ancora oggi in Messico si
celebrano nel giorno dei morti. Sono stato invitato a recarmi in
un cimitero e a festeggiare sulle tombe gli antenati, per
ricordare e onorare la loro anima. Sembrava di essere a Natale.
Insieme abbiamo mangiato il loro cibo preferito, bevuto i vini
che più apprezzavano, cantato le loro canzoni. È stato
bellissimo ed emozionante. Le barriere tra i mondi sono
crollate, in un unico spirito di festa e di gioia.
In Messico, come in numerose altre parti del mondo, si è
consapevoli del fatto che il ricordo mantiene viva la presenza.
Questo sapere era parte della cultura dell’antico Egitto, dove
l’anima Ren rappresentava il nome proprio che racchiudeva in
sé l’identità e il destino di chi lo portava e che continuava a
vivere fino a quando era pronunciato. Ricordare il nome di un
defunto equivale dunque a un’evocazione della sua presenza;
festeggiare il giorno dei defunti è una ritualità che mette in
comunicazione i mondi e le anime che li popolano.
Tutto questo ci conduce a una prospettiva che non conosce
cessazione, ma trasformazione e comunione. Come recita un
antico adagio: “Ciò che il bruco chiama morte, il mondo lo
chiama farfalla”.
Il grande nemico, se visto da questa prospettiva, non è
dunque il bardo della morte, quanto l’ignoranza che aleggia
intorno a questo passaggio. Tale mancanza di consapevolezza
è lo strumento utilizzato per farci vivere in una perenne
condizione di paura. Affrontare il timore della morte, come
testimonia con la sua vita Raymond A. Moody, libera da ogni
condizionamento, turbamento e disinnesca la necessità del
giudizio, proiettandoci in una dimensione di fiducia e amore.
La tradizione buddhista ha sviluppato tecniche
estremamente avanzate per indagare la nostra vera essenza,
così come per rendere familiare al nostro essere il bardo
doloroso della morte, in modo da giungervi preparati. Questo
perché l’afflizione mentale che creiamo con l’ignoranza ci
porta a essere causa della nostra stessa sofferenza. La
meditazione più importante e profonda, per ogni cultura, è
quella riservata alla morte e al morire, che si delinea come una
riflessione continua in grado di prepararci a questo grande
passaggio. Ad esempio, quando il tempo era giunto, gli
abitanti dell’isola di Pasqua si preparavano alla morte
ritirandosi dalla società. Consapevoli del fatto che era giunto il
momento di compiere questo passaggio, cercavano una grotta
e lì attendevano di iniziare il grande viaggio. Lo stesso
accadeva nelle popolazioni native americane.
Qualunque sia il nostro stato, la nostra preparazione, il
nostro credo, non è mai troppo tardi. Possiamo incominciare
qui e ora, seguendo la via che più risuona con la nostra anima,
con la nostra sensibilità. Conoscere ed essere consapevoli del
nostro destino allontana le paure, le cancella.
Nel mio personale cammino sul sentiero della Gioia, vorrei
condividere una pratica che una mia cara amica utilizza da
tempo. Ogni mattina, subito dopo il risveglio, in qualunque
situazione, stato d’animo o luogo in cui si trovi, si guarda allo
specchio e chiede alla sua anima: «Come potrò onorarti oggi,
anima mia?».
Quinta storia
Il fienile è bruciato

Guarda le fiamme che si alzano alte nel cielo d’inverno. Le


scintille che sfidano l’oscurità per scomparire nel mistero
della notte.
La trave portante si spezza e crolla in un luccichio
assordante, trascinando ogni cosa con sé. L’oscurità si colora
di arancione, di giallo e di rosso. I suoi occhi non riescono a
non guardare.
Ha lavorato mesi per costruire il fienile. Ha tagliato ogni
bambù, si è spinto lontano nella foresta per raccogliere gli
alberi già secchi, pronti a una nuova esistenza.
Attratti come falene, gli abitanti del tempio accorrono. Le
loro voci interrompono la bellezza plastica di quell’istante. Li
ferma, li placa. Tutti osservano la sua imperturbabilità. Dopo
un tempo che pare infinito, il monaco parla:
Kura yakete
Sawaru mono naki
Tsukimi kana. 1
Capitolo 5
L’arte delle preziose cicatrici

Riportare la presenza sulla nostra anima attraverso un


semplice gesto o una frase ci riconduce al qui e ora, lo spazio-
tempo in cui ci è concesso di agire e di essere protagonisti di
questa nostra vita. Richiamare la presenza o, per usare un’altra
immagine, richiamare il ricordo di sé in ogni istante richiede
una volontà indomita, un alto livello di attenzione e un
allenamento costante. Chiediamoci: quante volte siamo
veramente presenti a noi stessi?
Un giorno mi è stata raccontata una storia tragicamente
buffa da una ragazza che si era rotta due volte lo stesso
mignolo del piede. Quando si è ripresentata all’ospedale
dolorante, il dottore che le stava fasciando il ditino fracassato
le ha detto: «Che fortunata che sei, tutti gli spigoli ti ricordano
di essere presente! Gli Spiriti si prendono cura di te!». Da quel
giorno non si è più rotta niente. Grande insegnamento.
L’essere presenti a noi stessi non ci permette solamente di
evitare piccoli e meno piccoli incidenti. Ci aiuta anche a
diventare sempre più consapevoli di chi siamo realmente, a
non identificarci con gli stati emotivi che a volte ci travolgono
né con le maschere dietro le quali spendiamo una quantità
enorme di energia. Ma, soprattutto, a recidere sul nascere il
flusso continuo del pensiero che fagocita e tormenta la mente.
Noi non siamo la maschera che indossiamo, non siamo i nostri
pensieri, non siamo le nostre emozioni. Noi siamo anima, ma
spesso ce ne dimentichiamo e finiamo per identificarci con una
sola parte della nostra immensità o, peggio, con un qualcosa
che ci è stato indotto dall’esterno.
Quando si parla della presenza o del “ricordo di sé”, non si
può non parlare di Georges Ivanovič Gurdjieff, filosofo,
scrittore e maestro di danza armeno. Ispiratosi alle tradizioni
sufi, islamiche, cristiane, buddhiste, indiane, Gurdjieff si è
fatto portatore di un messaggio per il quale lo scopo ultimo
dell’esistenza umana è il risveglio dallo stato di veglia
apparente simile al sogno nel quale vive l’essere umano.
Risveglio ottenibile solamente attraverso il superamento dagli
automatismi psicologici ed esistenziali che condizionano
ciascuno di noi, delle sue “funzioni” per dirla con le parole di
Bruce Lipton, noto biologo cellulare statunitense, autorità
nello studio dei legami tra scienza e comportamento. Il
risveglio a uno stato superiore di coscienza è fondamentale per
Gurdjieff perché, secondo la sua visione, l’uomo nasce
senz’anima e l’obiettivo stesso della vita è quello di crearla,
così da non “morire come un cane”, solo, privo della sua parte
animica.
Se la presenza in Gurdjieff diventa “ricordo del sé” è
perché: «Tu dimentichi, non hai memoria, dimentichi. Devi
ripetere, ripetere, ripetere. Non hai potere di concentrazione. È
lo stesso per tutti. Questo è lo scopo del lavoro. Se un uomo
potesse concentrarsi e mantenere l’attenzione soltanto per un
quarto o per un’ora senza essere distratto, sarebbe grande
come la vostra Notre-Dame, come Cristo. Gli chiederei di
essere il mio maestro». 1
Per diffondere le tecniche del risveglio, Gurdjieff fondò
l’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, all’interno del
quale lo strumento per eccellenza erano le danze sacre.
Esistono numerosi esercizi, innumerevoli tecniche che ci
aiutano nel ricordo del sé. Dal canto mio credo che per
richiamare la presenza nel qui e ora sia importante scuoterci
dalla pigrizia attiva ed esercitare un controllo diretto sulla
nostra vita. Questo genere di pigrizia, molto in voga nel
mondo occidentale, viene definita da Sogyal Rinpoche come:
“Imbottire la vita di attività compulsive, in modo da non avere
mai tempo di occuparsi delle cose serie”. 2 Trascinati dalla
frenesia, in balia di distrazioni il più delle volte insensate,
passiamo la maggior parte del tempo a inseguire sogni che
un’economia consumistica pensa per noi e che per noi soddisfa
in modo da creare nuovi bisogni, in un circolo vizioso che ci
impedisce di progredire e che ci allontana dalla gioia. In
quest’ansia esistenziale nutrita da valori effimeri, finiamo per
non prendere sul serio la vita. Demandiamo, rimandiamo,
rinunciamo. Oppure invochiamo il soccorso di qualche entità
esterna. Non voglio pronunciarmi in merito. Mi limito a
riportare quello che scrisse Arthur Schopenhauer, riflettendo
sulla differenza tra il pregare e l’operare: “In ogni tempo e in
tutti i paesi, la grande maggioranza degli uomini trova assai
più facile elemosinare il cielo con le preghiere che
guadagnarselo col proprio operare”. 3
Quando, per Un altro mondo, ho intervistato lo scrittore e
studioso di teologia e teosofia Igor Sibaldi in merito a un
possibile cambiamento in questo “momento di grande
incertezza”, lui mi ha risposto: «Un cambiamento, come
quello che intendi tu, è possibile solo se la dignità
dell’individuo viene posta sopra a tutto il resto: cioè se si
comincia a riflettere su un piano estremamente realistico.
Realistico è quel modo di pensare che parte dall’idea: chi sono
io e cosa ci faccio, io, qui?». 4 Allora proviamo a domandarci:
chi sono io e cosa ci faccio qui? Chiediamocelo sul serio, con
tutta la presenza di cui siamo capaci. Rispondere a questa
domanda è un’impresa da funamboli. Difficilissimo.
Facciamoci dunque aiutare dalle testimonianze delle persone
che hanno vissuto un’esperienza di premorte. Ricordiamo
come la quasi totalità racconta che, nel momento del
passaggio, ha rivisto la propria vita nella misura in cui ha dato
e ricevuto amore. A conclusione di Un altro mondo, Vittorio
Marchi dice: «Quando abbiamo capito cos’è l’Amore, noi
abbiamo capito noi stessi». 5 In realtà non ci sarebbe
nient’altro da aggiungere perché, per dirla con il Poeta è:
“l’amor che move il sole e l’altre stelle”. Questa frase, che tutti
conosciamo, non è solo la grandiosa conclusione del Paradiso
e dell’intera Divina Commedia di Dante, ma anche la sintesi e
la comprensione della verità della vita. È lo scopo della ricerca
e la via stessa che percorriamo. Un sentiero sul quale
camminiamo tutti insieme, forti nel sentire di essere connessi.
Anche Dante ce lo dice chiaramente:
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna. 6
Nella profondità di Dio, il Poeta vede che tutto ciò che
percepiamo come slegato nell’universo, proprio come un
volume che ha perso la sua rilegatura, in realtà è legato
dall’Amore in un unico libro. Se ci limitiamo alla percezione
del mondo, a quello che cade sotto il dominio dei nostri sensi,
viviamo una continua frattura, in uno stato di perenne
divisione e smarrimento. Ma questa è apparenza, non sostanza.
In realtà, proprio come in un quaderno tutti i fogli sono legati,
così l’Amore unisce e dà senso al Tutto in una realtà che i
sensi ci rimandano come frammentata.
Quante volte ci siamo sentiti così? Come fogli sparsi di un
libro senza rilegatura? Fratturati, slegati, incapaci di dare un
senso alla storia della nostra personale esistenza?
Quando indaghiamo nelle profondità della nostra vita, ci
accorgiamo che la prima frattura da rinsaldare non è quella con
il mondo, con gli altri esseri umani, ma quella che ci tiene
separati da noi stessi.
In Giappone esiste un’arte antica che ci parla di
trasformazione e di resilienza. In un processo di guarigione
alchemica, essa infonde nuova vita ai cocci, sublimando in oro
le fratture e infondendo forza e speranza. È il kintsugi: l’arte di
esaltare le ferite. Metafora dell’esistenza umana, muove dai
frammenti delle ceramiche rotte che, attraverso una lunga e
minuziosa opera di restauro, vengono valorizzati e rinsaldati
con polvere d’oro mista a lacca. Come nella ricomposizione di
una frattura, anche nel kintsugi ci sono passaggi da seguire,
tempi da rispettare: soffrire per la ferita, accettare il dolore,
perdonare; scegliere di ricostruire, immaginare e visualizzare
l’opera; preparare tutto l’occorrente, riunire i pezzi, pulire, far
respirare, trasformare, attendere…
Con grande pazienza, ogni singolo pezzo ritrova la sua
giusta collocazione, accettando e mettendo in mostra la sua
debolezza, anziché nasconderla. In questo modo la fragilità si
trasforma in resilienza e diventa promotrice di un nuovo
concetto di bellezza e di perfezione. Come scrive Céline
Santini in Kintsugi. L’arte segreta di riparare la vita: “Le
vostre cicatrici, visibili e invisibili, sono la dimostrazione del
fatto che avete incontrato e superato delle difficoltà. Rivelano
la vostra storia, mostrano che siete ‘sopravvissuti’ e vi
infondono coraggio. Ancora più belli, ancora più resistenti,
ancora più preziosi, ancora… lì”. 7
Rimango incantato nell’osservare le ceramiche che
riprendono a vivere, nel pensare che proprio la rottura
permette loro non solo di essere delle vere e proprie opere
d’arte, ma entità uniche e irripetibili. Nelle venature dorate che
legano ciò che era frattura, mancanza, vedo la resilienza della
vita, la sua straordinaria capacità di trasformare il dolore in
amore, la fragilità in forza e la catastrofe in bellezza. Ci sono
storie di persone che ci parlano esattamente di questo, della
straordinaria capacità di trasformare in un miracolo irripetibile
i frantumi di una vita.
Voglio raccontarvi la storia di Scarlett Lewis, una donna
che dopo un dolore incommensurabile ha saputo rimettere
insieme i cocci della propria esistenza e trasformarla in un
esempio di amore e di coscienza, non solo per se stessa e la
sua famiglia, ma per il mondo intero.
Siamo a Sandy Hook, borgo ordinario e tranquillo dal
fascino rurale della città di Newtown, nel Connecticut. Sono le
9.30 di venerdì 14 dicembre 2012. Adam Peter Lanza, un
ragazzo di vent’anni che i suoi insegnanti definiscono brillante
e intelligente ma nervoso e irrequieto, spara quattro colpi in
testa a sua madre Nancy, che nel processo sarà definita: “Una
fanatica in possesso di dozzine di armi da fuoco”. I Lanza
rispecchiano la descrizione che abbiamo dato nel primo
capitolo della famiglia media americana: al sicuro nella loro
piccola abitazione, protetti da un arsenale di armi. Affascinato
dagli omicidi di massa, in particolare il massacro della
Columbine High School e quello della Illinois University,
Adam dopo aver ucciso la madre si reca alla Sandy Hook
Elementary School. Con un fucile disintegra il pannello di
vetro della porta ed entra. Ha con sé dieci caricatori da 30
pallottole ciascuno. Di quello che succede nei minuti
successivi hanno parlato con dovizia di dettagli tutti i mass
media, sempre solerti nelle descrizioni di un massacro. Non
c’è bisogno che ci ritorni. L’ultimo sparo riecheggia alle
9.40.03.
L’ultima pallottola Adam l’ha tenuta per sé. Si suicida
sparandosi in testa con la sua Glock 20SF, nella classe numero
10. In una decina di minuti ha ucciso 27 persone, tra le quali
20 bambini di età compresa tra i sei e i sette anni. Erano:
Charlotte Bacon, anni 6; Daniel Barden, anni 7; Olivia Engel,
anni 6; Josephine Gay, anni 7; Dylan Hockley, anni 6;
Madeline F. Hsu, anni 6; Catherine Violet Hubbard, anni 6;
Chase Kowalski, anni 7; Jesse Lewis, anni 6; Ana Marquez-
Greene, anni 6; James Mattioli, anni 6; Grace McDonnell, anni
6; Emilie Parker, anni 6; Jack Pinto, anni 6; Noah Pozner, anni
6; Caroline Previdi, anni 6; Jessica Rekos, anni 6; Avielle
Richman, anni 6; Benjamin Wheeler, anni 6; Allison N. Wyatt,
anni 6.
Uno di loro, Jesse Lewis, prima di uscire di casa aveva
scritto qualcosa sulla lavagnetta della cucina. Sua madre
Scarlett vedrà la scritta solo al ritorno dalla scuola, dopo aver
sperimentato sulla sua pelle un dolore che nessun genitore
dovrebbe mai conoscere. Su quella lavagna leggerà “Nurturing
Healing Love”, amore che nutre e cura.
James Knoll, psichiatra forense della State University of
New York, consultato dai giudici per comprendere il motivo
che spinse Adam a compiere quel gesto disse che prima della
sparatoria il ragazzo aveva postato sui social un messaggio:
“Ho un profondo dolore, lo trasformerò in proiettili e lo
trasferirò su di voi”. Grido di dolore rimasto inascoltato.
Richiesta di aiuto caduta nel vuoto impersonale dell’etere
digitale.
Due storie di dolore. Due risposte: odio e amore.
Scarlett, ispirata dalle tre parole che suo figlio
profeticamente aveva scarabocchiato sulla lavagna, sceglie
l’amore e si mette in cammino. Le parole di Jesse le indicano
la via: nella vita non c’è posto per odio, rabbia, risentimento.
Quello è il sentiero della distruzione. L’amore è l’unica scelta
possibile. Fonda la Jesse Lewis Choose Love Foundation,
nella quale sviluppa programmi educativi volti a far emergere
nei bambini il potenziale emotivo, in grado di infondere
fiducia nella possibilità di una vita libera da paura e odio.
Scrive il libro Nurturing Healing Love 8 in cui racconta la
storia della sua vita, esempio di trasformazione e cambiamento
per un mondo migliore: “Sebbene la mia storia abbia molti
momenti di dolore, non è una storia triste – è una storia
d’amore. Riguarda il mio amore per i miei figli, la mia
famiglia, la mia comunità e Dio. Questo è il viaggio di una
madre di speranza, guarigione, destino, e persino miracoli”. 9
Ho intervistato Scarlett per il documentario Choose Love a
casa sua. È stata un’esperienza molto forte, durante la quale ho
preso coscienza dell’umanità che sta dietro a questa donna.
Quando conosciamo un personaggio attraverso un film, un
documentario o un libro, tendiamo a idealizzarlo, e questo ci
impedisce di comprendere appieno i suoi trascorsi e la
sofferenza celati dietro l’esperienza. Quando mi sono trovato a
tu per tu con lei, questa barriera è crollata e sono stato travolto
dal suo coraggio, dalla potenza del suo messaggio di perdono e
di amore. Non saprei esattamente come spiegarlo: è diventato
tutto tangibile, palpabile. Percepire questa forza mi ha fatto
capire come il perdono e l’amore siano scelte quotidiane, che
si rinnovano giorno dopo giorno, in ogni istante. Non si tratta
di una scelta fatta una volta per tutte, ma di un sentiero che si
percorre passo dopo passo. Per questo sono convinto che ci sia
più forza e coraggio nell’amore che nell’odio: per quanto
possa sembrare strano, la scelta dell’amore è la strada più
impervia.
È stato proprio a casa sua che mi ha parlato del disegno che
suo figlio aveva fatto pochi giorni prima di essere ucciso. Ho
visto quel disegno: un uomo oscuro, un essere mostruoso che
sparava a un piccolo angelo. Mi vengono i brividi tutte le volte
che ci ripenso. Quando Scarlett ha condiviso con me la sua
interpretazione di questo disegno mi ha stupito ancora una
volta. Da un punto di vista esoterico, ha detto, in quel disegno
intravedeva la realizzazione di un progetto più ampio: suo
figlio, forse, si era incarnato proprio per essere ucciso, per
permettere che il suo messaggio “Amore che nutre e cura”
potesse essere diffuso in tutto il mondo. Per far sì che tragedie
come quella della Sandy Hook Elementary School non
debbano mai più verificarsi.
Ho accompagnato Scarlett alle conferenze che tiene nelle
scuole. Impressionante. Anch’io, nel mio piccolo, mi sono a
volte trovato a parlare davanti a una platea di bambini. Sono
meravigliosamente ingestibili. La loro vivacità li porta a essere
rumorosi, caotici, disattenti. Nel caso di Scarlett questo non è
successo. Quando ha iniziato a parlare si è creata una sorta di
alchimia di rispetto e di attenzione. Ha iniziato con queste
parole, accompagnate dalla proiezione di una foto di suo
figlio: «Vedete questo bambino? Questo è mio figlio ed è
morto durante una sparatoria nella sua scuola». Poi, mostrando
l’immagine di Lanza, ha ripreso: «Vedete quest’altro
bambino? È Adam Lanza, colui che ha ammazzato mio figlio
in questa sparatoria». Ma la cosa straordinaria è arrivata subito
dopo: «E sapete che Adam era un bambino vittima di
bullismo, emarginato dai suoi genitori, che viveva in una casa
piena di armi? Sapete che prima di compiere quella strage
Adam aveva scritto dei messaggi su Facebook nei quali
chiedeva aiuto? Ma nessuno lo ha ascoltato, nessuno gli ha
dato retta. Adam è vissuto nell’isolamento e
nell’emarginazione. Questo porta a coltivare un senso di odio e
di vendetta. Per questo voi bambini avete una grande
responsabilità: quella di creare ogni giorno nella vostra vita
quotidiana un mondo che si fondi su valori diversi. Ogni volta
che emarginate qualcuno, che bullizzate un vostro compagno,
ogni volta che non porgete la mano a chi si trova in difficoltà,
state in qualche modo coltivando la disperazione e l’odio che
conducono alle stragi come quella in cui mio figlio ha perduto
la vita».
I bambini si sono commossi nell’ascoltare le parole di
Scarlett. Hanno capito perfettamente il messaggio che voleva
trasmettere. Credo dipenda dal fatto che questa mamma parla
di un’esperienza vissuta in prima persona, non di cose astratte,
filosofiche. Sentire una madre che ti dice: “Io non sono qui per
cercare vendetta, ma per farvi comprendere quanto sia
importante creare una società che si fondi su altri valori” è
meraviglioso e straziante al contempo. Straziante perché
Scarlett porta il suo messaggio proprio lì, nelle scuole, dove è
stato ammazzato suo figlio. Perché si rivolge a dei bambini
che hanno la stessa età che Jesse avrebbe avuto se la sua vita
non fosse stata interrotta. Ci vuole un coraggio indomito. Non
oso immaginare quanto sia dura per lei compiere la sua
missione, portare avanti il messaggio lasciato da suo figlio
sulla lavagnetta della cucina.
Se ci pensate è lo stesso messaggio di Yolande
Mukagasana, che nei centoventi giorni del Ruanda ha visto
massacrare i suoi figli, suo marito e numerosi conoscenti.
Anche le sue parole sono volte a farci riflettere su come quella
tragedia avrebbe potuto essere evitata se solo si fossero educati
i bambini all’amore anziché all’odio. Se invece di insistere
sulle differenze tra le etnie tutsi e hutu, a scuola si fosse
parlato di compassione e di fratellanza, forse quella strage si
sarebbe potuta evitare.
Non ci sono solo madri, ma anche padri, fratelli, figli di
speranza e di guarigione.
Antoine Leiris, all’indomani della strage al teatro Bataclan
di Parigi del 13 novembre 2015, svegliatosi vedovo con un
figlio di 17 mesi, scrive una lettera ai terroristi responsabili
dell’attentato. Rimbalzate su Facebook, le sue parole fanno il
giro del mondo. Ricordo bene quell’episodio, perché quel
giorno ero alla proiezione di Un altro mondo in un grazioso
paesino vicino a Verona. A tavola con gli altri relatori, questa
lettera che il “Corriere della Sera” ha definito “l’istantanea di
un dolore”, mi si è incisa nel cuore: “Venerdì sera avete rubato
la vita di un essere eccezionale, l’amore della mia vita, la
madre di mio figlio, ma non avrete il mio odio … Se questo
Dio per il quale voi uccidete ciecamente ci ha fatti a sua
immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata
una ferita nel suo cuore … Naturalmente sono devastato dal
dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma durerà poco. …
Siamo due, io e mio figlio, ma siamo più forti di tutti gli
eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo
andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena
17 mesi e farà merenda come tutti i giorni e poi giocheremo
insieme come tutti i giorni e per tutta la sua vita questo piccolo
vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, non
avrete mai neanche il suo odio”. 10 Sua moglie si chiamava
Hélène. Antoine di lavoro fa il giornalista.
“Poteva esserci mia moglie” ho pensato. “Poteva esserci
uno qualsiasi di noi in quella strada, in quel preciso
momento.” Poi mi sono chiesto se avrei avuto la forza e la
presenza per reagire in quel modo. Se avrei avuto il coraggio
di scrivere ai terroristi: “Non vi farò il regalo di odiarvi.
Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello
che siete”. 11 Perché l’odio e la sete di vendetta derivano da
una mancanza, da un’ignoranza. Gurdjieff diceva che la vita è
reale solo quando “Io sono”: sono nella presenza, nel ricordo
del sé, nella consapevolezza. Nell’amore.
Come ha ben spiegato Antoine nelle interviste rilasciate
dopo la pubblicazione del libro Non avrete il mio odio, non si
tratta di non provare odio, di non nutrire un’inevitabile rabbia
condita di impotenza. Si tratta di essere in grado di
comprendere questi stati emotivi, di affrontarli con tutta la
presenza di cui siamo capaci e di non farsi travolgere. Questa è
la vera forza. Questa è la quintessenza di una vita reale,
consapevole e felice.
La tradizione buddhista tibetana ci rimanda un’immagine a
mio avviso molto potente, in grado di insegnarci a gestire
queste emozioni e questi sentimenti. Noi siamo il cielo. La
rabbia, la paura, il dolore sono nuvole passeggere. Possono
irrompere nella nostra immensità con la violenza di una
tempesta, di un uragano. Ma se nel cuore nutriamo la
consapevolezza di essere cielo, allora possiamo imparare a
vederle arrivare, a ringraziarle per il messaggio di cui sono
portatrici e, poi, a lasciarle andare. La rabbia, così come la
paura, hanno una funzione ben precisa nella nostra vita. Non
dobbiamo sottovalutarle ma nemmeno lasciare che prendano il
sopravvento. La cosa importante è non identificarci con esse,
non permettergli di assumere il controllo. Sono un messaggio,
una funzione. Se le sentiamo ribollire dentro di noi dobbiamo
accoglierle senza farci travolgere e comprendere il motivo per
il quale si sono manifestate. La consapevolezza ci aiuterà a
ringraziarle per il messaggio che portano e a lasciarle andare.
Proprio come le nuvole cariche di pioggia, anche queste
emozioni sono destinate a lasciare dietro di sé un cielo sereno.
Le vicende di queste persone sono pagine che la storia
dell’umanità non avrebbe mai dovuto scrivere. Eppure, nel
loro dolore incommensurabile, si cela un insegnamento
prezioso, come preziosa è l’arte del kintsugi. Per camminare
nella gioia, dobbiamo liberare il passato dai contenuti di
dolore e sofferenza. In una prospettiva di cambiamento,
trovare la forza per trasformarli in incentivi di riflessione e
ricerca. Porte del perdono. Sentieri della gioia.
Il perdono è un concetto chiave di tutta la nostra cultura,
fondata sul peccato e la sua remissione. Al di là di tutto quello
che possiamo pensare sulla Chiesa e sulla sua storia, Gesù è
stato un grande rivoluzionario. Forse il più grande
rivoluzionario di tutti i tempi. Sulla croce, invece di inchiodare
i suoi aguzzini alla loro prigione di aggressività e violenza, ha
detto: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno». 12
Questa frase chiarisce come sia l’ignoranza, e non il male, il
contrario dell’amore. In Si chiamava Gesù, De André ha
compreso e rappresentato, a mio giudizio, meglio di tanti
teologi questo amore “inumano”, possibilità autentica di un
bene che non conosce confini.
Inumano perché al di là della debolezza che caratterizza
l’odio, dell’impotenza a cui ci conduce la paura,
dell’ignoranza propria della violenza. Eccolo il rivoluzionario
“inumano”, al di là dell’umano, che viaggia in direzione
“ostinata e contraria”. Questa frase è diventata un po’ il motto
della mia vita. Ho citato molte volte De André. Non posso
farne a meno. Lo ritengo un grande maestro, un visionario. Le
sue canzoni e le sue parole mi accompagnano in ogni istante
della mia esistenza, mi insegnano a interpretare il mondo con
occhi diversi. In realtà, quando ero più giovane era anche il
mio argomento preferito di qualsivoglia discorso. Non perdevo
mai l’occasione per parlare di lui, dei suoi messaggi, del
significato profondo delle sue canzoni. Quando nel 1970 uscì
il disco “La buona novella”, i testi fecero scalpore e si gridò
allo scandalo. La RAI della Democrazia cristiana lo censurò,
mentre in Vaticano qualcuno pensò che era bene interloquire
con quel cantante che aveva dato nuova voce ai testi sacri.
Sacri per modo di dire, perché De André si era ispirato agli
apocrifi, a quei testi che la Chiesa aveva escluso nel tempo dal
canone cristiano. In particolare al Protovangelo di Giacomo e
al Vangelo arabo dell’infanzia. Pagine, frammenti che ci
raccontano la vita reale di Gesù, della gente del suo tempo,
fatta di carne e ossa, tra sessualità, riti, costumi
matrimoniali…
Quando mise mano ai testi de “La buona novella” correva
l’anno 1969. L’Italia si trovava nel mezzo della rivoluzione
sessantottina: «Si era quindi in piena lotta studentesca e le
persone meno attente – che sono poi sempre la maggioranza di
noi – compagni, amici, coetanei, considerarono quel disco
come anacronistico. Mi dicevano: “Ma come? Noi andiamo a
lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e
soprusi e tu invece ci vieni a raccontare la storia – che peraltro
già conosciamo – della predicazione di Gesù Cristo”. Non
avevano capito che in effetti “La buona novella” voleva essere
un’allegoria – era un’allegoria – che si precisava nel paragone
fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del ’68 e
istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate
ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un
signore 1969 anni prima aveva fatto contro gli abusi del
potere, contro i soprusi dell’autorità, in nome di un
egualitarismo e di una fratellanza universali». 13
Il tempo scorre, ma non in modo lineare, bensì circolare. La
storia si ripete. Ai “meno attenti” può sembrare assurdo
parlare delle idee rivoluzionarie del Cristo in un momento
come il Sessantotto o, anche, come questo. Eppure è proprio
quello stesso messaggio sul quale, ancor oggi, dobbiamo
concentrare la nostra attenzione. Se la storia della Chiesa
cattolica e i suoi espedienti ci allontanano dalla fede cristiana
rendendo il messaggio di Gesù indisponente, guardiamo
altrove. Ci sono centinaia di esempi ai quali possiamo
ispirarci. Nello stesso periodo in cui De André pubblicava “La
buona novella” c’era qualcun altro che viaggiava in direzione
“ostinata e contraria”. Sto pensando a Nelson Rolihlahla
Mandela.
Mandela è il nome assunto dal nonno paterno. Rolihlahla,
invece, quello datogli alla nascita, che significa letteralmente
“colui che provoca guai”. Il nome cela la potenzialità del
destino: quanti guai ha provocato Mandela agli oppressori di
tutto il mondo!
Nato nel 1918 a Transkei, figlio di un capo tribù, Mandela
crebbe nel Sudafrica dell’apartheid. Questo termine, che
possiamo tradurre con “separazione”, fu utilizzato per la prima
volta nel 1916. Negli anni seguenti vennero introdotti
gradualmente nel paese gli elementi della segregazione
razziale, che trovarono la loro teorizzazione definitiva nel
corso della Seconda guerra mondiale, grazie anche
all’influenza del nazismo. Ufficialmente introdotto nel 1948,
l’apartheid fu definito da Hendrik Frensch Verwoerd, primo
ministro sudafricano dal 1958 al 1966, “una politica di buon
vicinato” e consisteva nella separazione etnica tra le
popolazioni bianche e quelle di colore (compresi gli asiatici).
Negli anni Sessanta più di tre milioni di neri di etnia bantu
subirono uno spostamento coatto dalle loro case verso i
cosiddetti “bantustan”, termine dispregiativo che indicava le
riserve del Sudafrica e della Namibia assegnate alle etnie nere.
Verwoerd sosteneva che, in realtà, si trattasse delle “terre
natìe”, homeland. Certo, il fatto che le homeland si trovassero
sistematicamente escluse dalle zone ricche di risorse naturali e
dai centri industriali era sicuramente da attribuirsi al caso. Una
casualità che comportò un tasso elevatissimo di
disoccupazione e una povertà dilagante. La sopravvivenza in
questi territori dipendeva direttamente dall’elemosina che,
sotto forma di sussidi, proveniva dal governo sudafricano.
Fondi che, a causa della corruzione serpeggiante nei governi
dei bantustan, non giungevano alla popolazione ma
scomparivano nelle maglie di una burocrazia violenta e
viziata. L’altra fonte di reddito erano i casinò e i locali a luci
rosse che, proprio come accadeva e accade nelle riserve
indiane d’America, il governo ufficiale vietava nel suo
territorio perché “immorali”. È così che è nata Sun City, la Las
Vegas del bantustan Bophuthatswana. Proprio quella Sun City
che ispirerà tanti cantanti. Da Bob Dylan a Bono, da Bruce
Springsteen a Miles Davis utilizzarono le loro canzoni per
dichiarare che non sarebbero mai andati a cantare a Sun City,
gridando così il loro sdegno nei confronti dell’apartheid.
In queste riserve le persone, private della cittadinanza
sudafricana, furono spogliate da ogni diritto politico e civile,
costrette a subire controlli da parte della polizia, obbligate a
portare con sé un passaporto che, di fatto, teneva separate le
famiglie e impediva gli spostamenti. Chi poteva permettersi di
far studiare i propri figli vedeva le possibilità di scelta limitate
alle sole scuole agricole e commerciali a loro dedicate. I
cartelli affissi nei negozi ricordavano ai neri che dovevano
aspettare che fossero prima serviti tutti i clienti bianchi.
L’obiettivo dichiarato del cosiddetto “sviluppo separato” era
quello di cancellare la presenza dei neri dal Sudafrica: «Ogni
nero sarà sistemato in uno Stato indipendente in modo
onorevole e questo Parlamento non sarà più tenuto a occuparsi
politicamente di queste persone». 14 Su questo “onorevole”
preferisco non esprimermi, perché nei bantustan la
delinquenza, gli omicidi, i furti erano il pane quotidiano.
Questo per inquadrare il clima in cui è cresciuto “colui che
provoca guai”.
Mandela, formatosi alla scuola metodista, si specializzò per
corrispondenza all’università del Sudafrica. Unitosi
all’African National Congress (ANC ) nel 1943, iniziò una dura
campagna di resistenza contro il segregazionismo razziale e a
favore dei diritti civili. Contribuì alla fondazione dell’ala
armata Umkhonto we Sizwe (“lancia della nazione”) dell’ANC
che, attraverso scioperi, sabotaggi e azioni di “distruzione
costruttiva”, portò al crollo del sistema dell’apartheid. Nel
1962 venne condannato a cinque anni di reclusione per aver
violato il divieto di viaggiare all’estero e, due anni dopo,
all’ergastolo per tradimento e sabotaggio. Rimarrà in carcere
ventisei anni.
Oggi, quando sentiamo il suo nome, pensiamo a uno dei più
grandi simboli della lotta per i diritti umani. Al premio Nobel
per la Pace (1993), al premio Lenin per la pace (1962), al
premio Sacharov per la libertà di pensiero (1988). Pensiamo
alle tante frasi che hanno segnato la Storia, quella con la “S”
maiuscola: «Ho lottato contro il dominio bianco e contro il
dominio nero. Ho coltivato l’ideale di una società democratica
e libera nella quale tutti potessero vivere uniti in armonia e con
pari opportunità. È un ideale per il quale spero di poter vivere
e che spero di ottenere. Ma se necessario, è un ideale per il
quale sono pronto a morire». Ecco un esempio di vita reale, di
chi si è ostinato a viaggiare controcorrente.
La sua vita è esemplare. Non si tratta di una persona che si
è limitata a teorizzare un mondo migliore, ma di un uomo che
è andato oltre le parole e che ha lottato per costruirlo. Che ha
pagato con ventisei anni di carcere per far sì che il suo sogno
si realizzasse, rifiutando la libertà condizionata offertagli in
cambio della rinuncia alla lotta armata (1985): «Un vincitore è
semplicemente un sognatore che non si è mai arreso».
Da quando, nel 1990, è stato finalmente liberato non ha mai
pronunciato, nemmeno una volta, parole d’odio contro i suoi
aguzzini. Non ha mai parlato di vendetta nei confronti di chi lo
aveva privato, insieme al suo popolo, della dignità e della
libertà. Le sue parole sono state sempre e solo di amore, di
fratellanza, inni per costruire una pace completa, giusta e
duratura. Ma sono state le sue azioni a farci capire quanto le
sue parole fossero reali. Proclamato primo presidente nero del
Sudafrica, invece di vendicarsi sulla classe politica che lo
aveva incarcerato e minacciato, Mandela decise di accogliere
nel suo Parlamento quegli stessi politici che lo avevano tenuto
in carcere. Ha riconfermato al loro posto le ex guardie del
corpo del presidente precedente. Queste azioni non erano solo
il frutto della capacità di perdonare, ma anche di una indomita
volontà di giungere a una riconciliazione. Proprio in chiave di
rappacificazione e riavvicinamento, Mandela lavorò in prima
persona per la creazione e il buon funzionamento della Truth
and Reconciliation Commission, la Commissione per la verità
e la riconciliazione, un tribunale che invece di imporre un
giudizio aiutava le vittime e i carnefici dell’epoca
dell’apartheid a confrontarsi, ad ascoltare entrambe le versioni
al fine di giungere a una riconciliazione. Questo tribunale
favorì la nascita di una democrazia nella quale bianchi e neri
godevano degli stessi diritti ma, soprattutto, la ricomposizione
di una ferita profonda, che aveva attraversato l’intero paese
per quasi un secolo.
Il discorso che Mandela pronunciò al momento del suo
insediamento a presidente del Sudafrica, il 10 maggio 1994,
racchiude un messaggio che invito tutti a leggere e rileggere:
«Il momento di costruire è giunto … ci impegniamo a liberare
tutto il nostro popolo dalla schiavitù della povertà, della
privazione, della sofferenza, delle differenze di genere e di
ogni altro tipo di discriminazione … Abbiamo trionfato nel
tentativo di installare la speranza nei cuori di milioni di
sudafricani. Firmiamo il patto di creare una società in cui tutti
i sudafricani, sia bianchi sia neri, potranno camminare a testa
alta, senza alcun timore nei loro cuori, certi del loro
inalienabile diritto alla dignità umana: una nazione arcobaleno,
in pace con se stessa e con il mondo».
Ecco un esempio grandioso di perdono e ricostruzione. Di
quel perdono che, sempre nelle parole di Mandela: «Libera
l’anima, rimuove la paura. È per questo che il perdono è
l’arma più potente».
Il perdono è davvero l’arma in grado di porre fine a ogni
guerra, di scacciare ogni paura. Qualche mese fa, quando
l’intero sistema giudiziario nazionale è stato travolto dalle
scarcerazioni dei boss mafiosi per il coronavirus, è tornata alla
ribalta la storia di Piera Aiello e Rita Atria.
Piera nasce nel 1967 a Partanna, in provincia di Trapani, un
paese segnato dalle faide tra cosche mafiose. A diciott’anni,
viene costretta a sposare Nicola Atria, figlio di Vito, capo
mafioso associato a Cosa Nostra che, dopo soli nove giorni di
matrimonio, viene ucciso. Sei anni dopo, anche il marito viene
assassinato in una pizzeria davanti ai suoi occhi e a quelli della
loro figlia di tre anni. Sconvolta dalla sequenza infinita di lutti
che hanno attraversato la sua vita, decide di diventare una
testimone di giustizia. Grazie a un maresciallo dei Carabinieri,
viene scortata davanti al giudice Paolo Borsellino, ritenuta la
persona che meglio di chiunque altra avrebbe potuto
garantirne la sicurezza e l’incolumità. Senza nulla conoscere di
quel mondo, senza sapere chi fosse quell’uomo, nell’udire il
forte accento palermitano del giudice gli dice: «Lei con questo
accento mi sembra un mafioso». 15 Borsellino ride. Poi, non
sapendo bene come rivolgersi a quell’uomo importante, che
tutti ossequiavano, si rivolge a lui chiamandolo “onorevole”.
Era così che ci si rivolgeva alle persone di un certo rilievo
nell’ambiente nel quale era cresciuta. Il giudice Borsellino la
ferma, alzando le mani: «Alt! Con tutto il rispetto per la
categoria, non sono un onorevole, sono un semplice
procuratore della Repubblica. Chiamami zio Paolo, così non ci
sbagliamo più!». 16 Piera, per sua stessa ammissione, non
sapeva che cosa fosse un procuratore della Repubblica. Forte
del suo esempio, anche sua cognata, Rita Atria, deciderà di
testimoniare. Lo fa mossa dal senso di vendetta, perché in quel
mondo una donna non può imbracciare un fucile, e le parole
sembrano l’unico strumento con il quale rivalersi sulle persone
che avevano ucciso suo padre e suo fratello. Ma quando
conosce “zio Paolo” capisce che il mondo nel quale era fino ad
allora vissuta era un mondo viziato, sbagliato. Che c’era
un’altra possibilità, un’altra strada. “Zio Paolo” conquista la
sua fiducia e diventa il padre che aveva perso. Da buon padre,
Borsellino le insegna una cosa: «Dimenticati della vendetta,
perché la vendetta ha portato solo sangue nella tua famiglia. Se
vuoi agire lo devi fare per giustizia». 17
Non tutte le storie hanno un lieto fine. Dopo la strage di via
D’Amelio, nella quale il giudice Borsellino perde la vita, Rita
decide di seguirlo e si getta dal balcone dell’appartamento al
settimo piano di un palazzo in viale Amelia, a Roma, dove
viveva sotto un’altra identità. Nell’assonanza tra quei due
nomi aveva visto il suo destino. Rita, per molti, è un’eroina
che ha intrapreso un percorso di consapevolezza e rinascita,
alla ricerca della vera giustizia. Per altri, tra i quali sua madre,
era una traditrice. Proprio quella madre che la ripudiò e che,
dopo la sua morte, ne ha distrutto la lapide a martellate.
Piera, invece, dopo trent’anni vissuti nell’ombra, presenta il
libro Maledetta mafia, 18 scritto a quattro mani con Umberto
Lucentini, giornalista e biografo di Paolo Borsellino, dove
leggiamo: “Vedova di un mafioso, vestita a lutto come
impongono le regole della mia terra, con una bimba di tre anni
da crescere e una rabbia immensa nel cuore. In quel momento
il destino ha messo un bivio lungo il mio percorso: dovevo
scegliere quale futuro dare a mia figlia Vita Maria … mi ha
preso sottobraccio e mi ha piazzato davanti a uno specchio,
eravamo in una caserma dei Carabinieri … Da quando lo ‘zio
Paolo’ mi ha piazzato davanti a quello specchio e mi ha
ricordato chi ero, da dove venivo e dove sarei dovuta andare,
sono diventata una testimone di giustizia. Io non ho mai
commesso reati, né sono mai stata complice dei crimini di mio
marito e dei suoi amici, gli stessi che poi ho accusato nelle
aule dei tribunali e nelle corti d’assise. Quel che è certo è che
la mia storia, la mia vita, è stata rivoluzionata dalla morte”. 19
Oggi, è deputata della Camera del governo italiano. È la prima
parlamentare nella storia della Repubblica italiana con lo
status di testimone di giustizia ed è componente della
Commissione giustizia e della Commissione parlamentare
antimafia.
L’esempio di queste due donne ci insegna come per
ricostruire sia fondamentale perdonare. Non per gli altri ma
per noi stessi. Superlativo del dono, il perdono è la grande
alchimia in grado di trasformare il dolore in amore, le ferite in
straordinarie possibilità di evoluzione. In questo senso il
perdono è il sentiero per la guarigione, che libera la vita dal
passato di sofferenza che continua a fratturare la nostra anima,
avvelenandola con odio e sete di vendetta. Questi sentimenti,
queste emozioni, per quanto utili, non ci permettono di vivere
nella gioia, perché ci imprigionano in un universo chiuso, fatto
di paura e di ignoranza.
Se vogliamo provare e vivere la gioia è necessario scuoterci
da questo stato. Raggiungere la condizione di Anime salve che,
nell’interpretazione originaria di De André, si rifà all’etimo
delle due parole: “anima” e “salvo”, ossia spirito solitario.
Scelta autonoma e consapevole, non imposta da nessuna
autorità, tendenza o economia, questo stato ci fa accedere a
una tranquillità dell’animo che “permette di abbandonarsi
all’assoluto, alle sue immagini e alle sue voci, interiori ed
esterne, senza marchi posticci”. 20 Di essere presenti nelle
nostre vite e, anche a costo di andare sempre in direzione
“ostinata e contraria”, seguire l’esempio di “colui che provoca
guai”.
Questo in una società molto legata al senso di colpa e,
dunque, al perdono. Ma, come accade in tutti gli ambiti umani,
non è il solo modello, né il solo tipo di cultura. Così, se
guardiamo all’Oriente, scopriamo che esiste un approccio
diverso, che può essere sintetizzato nella pratica della
sospensione del giudizio.
L’Occidente conosce questo processo cognitivo grazie alla
tradizione greca e al metodo di indagine scientifica inaugurato
da Cartesio. Gli antichi greci parlavano di epoché, termine con
il quale descrivevano eventi particolarmente rilevanti, in grado
di segnare la storia quali, ad esempio, l’inizio di una nuova
era, la fondazione di un regno, la nascita di un profeta ecc.
Impossibilitati a comprendere la situazione che si veniva a
creare con i tradizionali schemi interpretativi, consapevoli che
qualsiasi lettura era soggetta alle percezioni e all’arbitrarietà
del pensiero, sospendevano il giudizio. Questa condizione gli
permetteva di raggiungere l’atarassia, l’imperturbabilità.
Secoli più tardi, conscio che il contrario del processo della
sospensione del giudizio era il pregiudizio al quale, pur in
assenza di ragioni oggettive, accordiamo una piena validità,
Cartesio nel procedimento che nominò dubbio metodico,
sostenne che nella costruzione della conoscenza è necessario
dubitare di tutto, eliminando ogni forma di preconcetto. La
strada che conduce alla verità, per Cartesio come già per
Socrate, era quella del dubbio: dubitare di tutto, interrogarsi su
tutto, sospendendo il giudizio. Ecco l’essenza
dell’insegnamento racchiuso nel motto socratico: “So di non
sapere”.
Nelle nostre vite questo metodo cognitivo ha un riflesso
pratico e liberatorio: quando ci troviamo davanti a una
qualsiasi situazione, invece di cadere nella facile tentazione di
apporvi un giudizio, etico o morale che sia, interroghiamoci
sul motivo per la quale si è venuta a creare, sulle dinamiche
profonde che l’hanno causata. Impariamo a dubitare, a
comprendere in piena libertà. Quante volte, nelle nostre vite,
una sciocchezza è degenerata in una catastrofe perché abbiamo
ceduto alla necessità impellente di giudicare invece di tentare
di capire? Quante volte avremmo potuto interrompere l’isteria
di un litigio, se solo fossimo stati in grado di analizzare con
maggiore chiarezza gli eventi, senza rifiutare né accettare a
priori la nostra parziale interpretazione di essi? Se invece di
aderire ai nostri preconcetti fossimo stati più tolleranti e
compassionevoli non solo nei confronti della persona che
avevamo di fronte, ma anche verso la nostra endemica
incapacità di sapere e capire tutto? Quante guerre, quante
morti si sarebbero potute evitare se solo l’umanità avesse
seguito l’invito-provocazione dello scrittore e medico indiano
Deepak Chopra: “Smettila di avere ragione”? Geniale. Se tutti
noi applicassimo questo insegnamento, la Terra intera
verrebbe istantaneamente pervasa dalla pace e dalla concordia.
La storia dell’umanità può essere riassunta in un susseguirsi di
guerre tra popoli che erano convinti di avere ragione, di essere
dalla parte del giusto. Salvo poi essere puntualmente smentiti.
Perché la ragione, il senso del giusto, sono visioni parziali e
soggettive, proiezioni di un ego smisurato e autoreferenziale.
Pensiamo solamente alla giusta e santa causa della conquista
dell’America e della cristianizzazione dei popoli nativi non
solo dell’America ma di tutto il mondo. Per fortuna ci sono
esempi dialetticamente opposti ai quali possiamo ispirarci nel
nostro cammino lungo il sentiero della Gioia.
Torniamo per un istante alla storia di Yolande Mukagasana.
Sopravvissuta a centoventi giorni di massacri nei quali
perirono oltre un milione di persone, Yolande avrebbe potuto
cedere al giudizio, mettersi dalla parte della ragione. Avrebbe
potuto puntare il dito contro chi aveva ucciso i suoi figli, suo
marito. Avrebbe potuto invocare una “giusta” vendetta.
Avrebbe potuto, ma non lo ha fatto. Invece di giudicare ha
cercato le cause di quell’odio, di quella inenarrabile violenza,
diventando una madre di speranza, di guarigione. Una madre
di destino per l’intera umanità. Sapeva che gli uomini che
avevano alzato i machete contro i suoi figli erano stati educati
al senso di separazione, ai pregiudizi. E sapeva anche che
l’unico modo per interrompere quel flusso di odio e vendetta
era la comprensione, la compassione e l’amore. È stata più
forte della necessità di schierarsi dalla parte dei giusti,
evitando accuratamente la sete di vendetta che, spesso, questa
comporta. Si è spinta oltre ogni perdono, come hanno fatto
Mandela e altri grandi uomini e donne. Oggi l’energia che
emana è più eloquente di tante parole, per belle che possano
essere. Il senso di pace che trasmette è più efficace di ogni
insegnamento. In lei ho visto la manifestazione
dell’imperturbabilità, di quel cielo che ha mantenuto la sua
essenza dopo la più tremenda delle tempeste. Yolande
Mukagasana è una donna libera.
Anche noi, nelle nostre vite, quando mettiamo in atto la
sospensione del giudizio ci accorgiamo di quanto sia
liberatorio, di come alleggerisca il cuore. Non si tratta di una
scappatoia, anzi. Richiede una grande presenza e la
costruzione di una consapevolezza in grado di permeare ogni
angolo dell’esistenza. Sperimentiamo il suo potenziale
liberatorio ogni volta che distinguiamo le opinioni dai fatti, la
verità dai pregiudizi, quando rallentiamo o riusciamo a
interrompere sul nascere la necessità di giudicare, di essere
dalla parte della ragione.
Questo vale a maggior ragione quando siamo noi stessi a
metterci sul banco degli imputati. Quando ci mettiamo sotto
accusa, giocando al contempo il ruolo di giudice e indagato, di
vittima e carnefice, di condannato ed esecutore. Per tornare
all’immagine della piuma preposta a pesare il cuore di
un’anima defunta della tradizione egizia: siamo noi il cuore,
siamo noi la piuma.
Mettere in atto la sospensione del giudizio significa
comprendere in modo straziante quanto fragile e prezioso sia
ogni singolo istante della nostra vita e quello di ogni essere
vivente. Lungo questo sentiero il nostro “io” personale si
dissolve, l’ego si smarrisce, lasciando il posto alla
compassione verso noi stessi e verso ogni essere.
L’io, quintessenza della nostra fissazione egoica,
rappresenta in questo processo la più grande illusione, il nostro
vero nemico. Ci aggrappiamo a esso con attaccamento
smisurato, perdendo la capacità innata di sentirci parte di un
tutto che non conosce soluzione di continuità. Quando ci
riappropriamo di questa capacità di percepire il Tutto, vediamo
come l’interesse assoluto sia distante dai piccoli e spesso
meschini tornaconti dell’io. Esercitare costantemente la
compassione è lo strumento per far crollare ogni limite, ogni
barriera che ci separa dagli altri. C’è una frase molto bella che
mi è stata detta un giorno, durante la proiezione di Choose
Love: «Quando la paura incontra il dolore, ecco la pietà;
quando l’amore incontra il dolore, ecco la compassione». L’ho
trovata meravigliosa. La compassione è quel sentimento
sincero e genuino che ci accompagna nell’incontro con l’altro,
con il suo dolore, le sue paure, le sue debolezze. Senza farsi
travolgere, la compassione ci fa partecipe della sua
condizione, aiutandoci a risanare ogni frattura. Esiste un
ampio ventaglio di pratiche che ci aiutano a perfezionarsi alla
compassione, a trovare in noi stessi la sua fonte. Per quanto
distinte, partono però tutte dal medesimo principio: quello di
considerare l’altro come identico a noi. Parte di noi e noi parte
di lui. In questo ritengo che “In Lak’ech”, divenuto il motto
del documentario Un altro mondo, sia esemplare: “Io sono un
altro te stesso”. Questo saluto, questo inno alla compassione,
possiamo estenderlo a ogni creatura, al mondo intero, a quella
parte di coscienza che anima ogni cosa. Quando diventiamo
consapevoli di questo, allora comprendiamo che il male che
facciamo a un altro essere umano, a un animale, a una pianta,
alla natura nel suo insieme, lo stiamo in realtà facendo a noi
stessi, alla parte più vera di noi. Capire se stiamo agendo bene
o se, al contrario, stiamo agendo male non è poi così difficile
se ci alleniamo a chiederci come ci sentiremmo se fossimo al
posto dell’altro. E, con “altro”, non intendo solamente una
persona, ma ogni essere animato o inanimato. Quando,
istintivamente, stiamo per gettare una lattina, chiediamoci
come ci sentiremmo se fossimo il filo d’erba sul quale cadrà.
Se fossimo il pesce o l’uccello che mangerà il tappo di plastica
abbandonato distrattamente su di una spiaggia, o in un fiume.
Chiediamoci come si sente la persona che astutamente siamo
riusciti a sorpassare mentre ci troviamo in fila. Senza grandi
voli pindarici, proviamo sinceramente a metterci al posto
dell’altro. Se quello che proviamo è dolore, sopraffazione,
mancanza di rispetto, rabbia… be’, allora ricordiamoci che
quell’“altro” non siamo che noi stessi e che quell’azione ci
allontana dalla gioia.
C’è poi un altro aspetto che dobbiamo tenere in
considerazione: in realtà, quello che ci ferisce o ci infastidisce
di una persona non è la persona stessa, la sua anima, ma la sua
programmazione. Di questo ho parlato a lungo con Lipton, per
Choose Love. In qualche modo, possiamo immaginarci come
dei computer, nei quali vengono caricati dei programmi: ma
quali programmi? Dall’educazione che riceviamo in famiglia,
a quella della scuola, fino ai mass media che ci bombardano
continuamente di notizie. Chiediamoci: a che cosa ci sta
programmando il nostro mondo, la società nella quale siamo
immersi? Quando prendiamo consapevolezza di tutti i
messaggi che ci vengono dall’esterno proviamo un senso di
disorientamento. Chi siamo noi in questo flusso? E gli altri?
Per questo Lipton pone l’accento sulla programmazione: «In
realtà tu non hai niente da perdonare a qualcuno, perché quel
qualcuno non è altro che il frutto di una programmazione».
Proviamo a fare un esempio. La storia dovrebbe essere il
racconto degli avvenimenti così come si sono verificati, ma
noi sappiamo che questa è una visione utopica. Perché quello
che la storia ci racconta in realtà è la percezione che una data
cultura (o parte di essa) ha di ciò che è successo. Se prendiamo
un bambino che frequenta una scuola in Occidente e gli
chiediamo “Quando è stata scoperta l’America?”, lui ci
risponderà nel 1492. Questo è stato programmato a rispondere.
Ora, se la stessa domanda la rivolgiamo a un nativo, la risposta
cambia radicalmente. Sapete cos’ha risposto uno di questi
bambini? «Io già mi conoscevo.» Per avere la stessa risposta,
dovremmo dunque chiedergli: “Quando vi abbiamo invasi?”.
Questo ci mostra come spostando il punto di vista, la
programmazione, la realtà cambi sostanzialmente.
Siamo sommersi da una miriade di condizionamenti volti
alla paura, programmazioni indirizzate all’odio. Nel mio
piccolo, fondando Uam.Tv, mi sono ripromesso di provare a
cambiare la programmazione, fondandola sull’amore, sulla
gioia e sulla speranza. È lo scopo anche di questo libro. Non
un fine, ma un mezzo. Non una meta, ma un sentiero. Per
questo ho deciso di portare solo esempi costruttivi, di rinascita.
Perché l’incontro con l’altro è spesso fonte di amore,
gentilezza, tenerezza e, soprattutto, crescita. La comunione
con l’altro, con un frammento di quella potenzialità che
abbiamo chiamato l’Uno, l’anima mundi, il Tutto, ci permette
di attingere a stati di beatitudine infinita. In tutte queste
situazioni costruttive, che sono più frequenti di quanto siamo
disposti ad ammettere, dovremmo cedere al senso di profonda
gratitudine. Questo atteggiamento mentale non solo ci scuote
dalla pigrizia attiva, ma ci permette di diventare i protagonisti
della nostra vita e di assaporarla appieno. Quando mi ricordo,
quando sono davvero presente a me stesso, prima di mangiare
ringrazio l’universo per il cibo che mi elargisce. Mi sono
accorto che questo semplice rito mi fa gustare di più ogni cosa,
per semplice che sia. Fosse anche una caramella. La
gratitudine arricchisce chi la sperimenta, chi la coltiva. Così ho
iniziato ad annotare ogni giorno cinque motivi per cui essere
grato, il che mi ha reso più felice e più consapevole della gioia
che attraversa la mia vita. Questo semplice esercizio è stato
proposto e studiato da numerosi ricercatori che sembrano tutti
confermare che la gratitudine è il vero segreto per la felicità.
Per sperimentare nelle nostre vite il senso di compassione e
di gratitudine è però necessario coltivare l’empatia, che mi
piace definire come la risonanza tra le anime, la capacità di
sentire non solamente l’altro ma anche noi stessi. Così
torniamo alla frase che mi hanno ripetuto più volte nei miei
viaggi in Mesoamerica: noi occidentali pensiamo molto ma
sentiamo poco. Forse è per questo che la nostra civiltà si è
allontanata tanto dalla gioia. Ma siamo in cammino e
possiamo invertire la tendenza. Tutti insieme.
Passare dal paradigma del pensare-sapere a quello del
sentire ci permette di intraprendere un vero e proprio processo
alchemico, che da una vita incentrata sull’io parziale, sull’ego
autoreferenziale, ci conduce verso un’esistenza sincronizzata,
mai distante dalla coscienza universale. Sentire la connessione
con il Tutto, qualunque sia il nome con il quale viene
chiamato, ci aiuta a capire lo scopo per il quale abbiamo
intrapreso il nostro viaggio in questa dimensione spazio-
temporale e a esprimere noi stessi, il nostro potenziale infinito.
Avevo terminato il capitolo precedente con la frase che una
mia amica ripete ogni mattina. Adesso voglio confidarvi,
invece, il pensiero che mi anima a ogni risveglio, modellato su
un insegnamento del mio amico Giorgio Cerquetti, maestro di
guarigione psicosomatica e meditazione: “Oggi è una nuova
giornata dell’eternità e io farò in modo di creare il meglio della
vita”.
Sesta storia
L’indicibile forza 1

Cara Lieserl,
ti scrivo una lettera che il mondo non è pronto a leggere.
Non importa. Non era pronto nemmeno per la legge della
relatività.
La indirizzo a te perché tu ne sia custode negli anni e nei
decenni a venire, fino a quando la società non sarà pronta ad
ascoltare questo messaggio.
Esiste una forza più potente di ogni altra forza al mondo.
La scienza l’ha sempre ignorata, non perché non la conosca
ma perché la teme e non è in grado di piegarla alla sua
volontà. Ignorandola testardamente, i fisici che vanno alla
ricerca di una teoria in grado di unificare le altre forze
dell’universo non fanno che costruire il loro fallimento.
Non mi sottraggo a questa critica: io stesso ho dovuto
sostituire questa forza nella mia più celebre equazione per non
essere tacciato di pazzia o stregoneria. Ero giovane, allora,
ma oggi mi pento di questa scelta. Se avessi agito
diversamente, forse il mondo, invece di approdare alla bomba
atomica, sarebbe approdato a una pace più duratura e salda
di quanto non abbia mai conosciuto in passato. A mia discolpa
posso dirti che non ho mentito: ho mascherato la realtà.
Medita profondamente su quello che sto per dirti, perché è
la chiave della gioia per te e il mondo intero:
E = mc 2
La massa della mia formula, in realtà, è l’amore.
La materia che collassa in questo mondo sensibile non è
nient’altro che l’amore. Questa è la forza che precede ogni
altra e da cui ogni altra deriva. Senza di essa nulla sarebbe
possibile. L’amore è la coscienza dell’universo che vuole
conoscere se stessa, in un moto di espansione attraverso la
luce.
Per questo ti dico, mia adorata Lieserl, che l’unica
salvezza per l’umanità è di nutrirsi di questa forza, della sua
energia. Se vogliamo sopravvivere come specie, se vogliamo
salvare il mondo e ogni essere senziente che lo abita,
dobbiamo essere amore. Allora tutto sarà possibile e nulla ci
sarà precluso. Quando capiremo che la forza che governa
ogni cosa è l’amore, che noi stessi siamo amore, allora e solo
allora potremo dirci uomini e camminare nella gioia.
Tuo padre
A.E.
Capitolo 6
I mistici della fisica

L’epoca nella quale la nostra anima ha deciso di fare


esperienza di questa dimensione spazio-temporale è
caratterizzata da un forte dogmatismo, ossia da
quell’atteggiamento che nella ricerca della verità accetta un
principio perché imposto da un’autorità che ne costituisce la
fonte. Come abbiamo già visto, nella nostra società “Dio è
morto”, ma i meccanismi che hanno contrassegnato le epoche
passate si sono riproposti identici: l’economia e la scienza
hanno preso il posto di Dio. Per nostra fortuna, è però la
scienza stessa ad aver fatto vacillare la sua intera impalcatura
dogmatica dall’interno; più precisamente, responsabile di
questo vero e proprio tsunami è stata la fisica. Anticamente
questa scienza era detta Filosofia Naturale e, ancora nel 1934,
era questo il nome della cattedra assegnata a Oxford al grande
Max Born, premio Nobel nel 1954. 1 Descritta dal Tommaseo
come la “scienza delle cause prime, delle ragioni supreme dei
primi principi o delle ragioni ultime, la scienza della
scienza”, 2 la fisica ha come scopo quello di rendere
intelligibile la costituzione specifica delle cose, in un mondo
ricco di molteplicità e mutamenti.
Da sempre, il grande quesito di questa scienza gravita
intorno alla natura della realtà. In particolare, la fisica si è a
lungo interrogata sulla natura della luce: la luce, e per
estensione tutta la materia fisica, è composta da onde o da
particelle? Cosa c’entra questo discorso con la gioia? vi starete
chiedendo. Tutto, rispondo io. Ma per capire il motivo vi devo
chiedere un po’ di pazienza. Ne vale la pena perché quello che
stiamo per compiere è un viaggio alla scoperta di ciò che è
stato definito “l’esperimento più bello di tutti i tempi”. Pronti?
Se Newton aveva definitivamente stabilito che la luce era di
natura corpuscolare, ossia composta da piccolissime particelle
fisiche, nel 1801 Thomas Young, scienziato britannico famoso
per le sue ricerche condotte sulla luce, sulla meccanica dei
solidi nonché per i suoi apporti nel campo della fisiologia e
dell’egittologia, ideò l’esperimento della doppia fenditura,
dimostrando il contrario. Questo esperimento prevedeva
l’utilizzo di un fascio di luce prodotto da una sorgente e di una
lastra rivelatrice, tra i quali veniva interposta una barriera
opaca con due fenditure verticali. Lo scopo dichiarato era di
osservare il modo in cui la luce, emessa dalla sorgente, si
sarebbe impressa sulla lastra rivelatrice, dopo aver attraversato
le due fenditure. Per semplificare: se questa si fosse impressa
come una serie di biglie sparate su di un pannello di
polistirolo, localizzandosi in corrispondenza delle fenditure e
disegnando una forma simile alle fenditure stesse, avrebbe
dimostrato di possedere un comportamento corpuscolare. Se,
invece, attraversata la doppia fenditura, si fosse diradata come
farebbero le onde prodotte dal lancio di innumerevoli sassolini
su una superficie d’acqua, andando a interferire le une con le
altre e creando di conseguenza, su di un ipotetico muro, una
distribuzione alternata con zone più intense e altre meno
intense, avrebbe dimostrato di possedere un comportamento
ondulatorio. Le similitudini sono mie, mi perdonino tutte le
persone che masticano di fisica, ma riesco a capire le cose solo
se le riduco a immagini semplici. Quello che venne rilevato fu
una propagazione a “zebra”, l’immagine è sempre mia, con
zone colpite più intensamente e altre meno. L’esperimento
dimostrò quindi, inconfutabilmente, che la natura della luce
era ondulatoria, smentendo l’ipotesi di Newton.
Ma questa dimostrazione non segnò la fine della questione.
Anzi. Agli inizi del ventesimo secolo, con le rivoluzionarie
teorie di Einstein e della fisica quantistica, fecero capolino
nuove contraddizioni. La luce sembrava possedere una doppia
natura, presentandosi a volte come onda e altre volte come
particella, evidenza che gettò le basi per quello che oggi è
considerato il dualismo onda-corpuscolo. Ma sebbene gli
esperimenti dimostrassero che la luce possedeva una doppia
natura, gli scienziati non riuscivano a concepire come questo
fosse possibile. Così, nell’ambito della neonata fisica
quantistica si sollevarono innumerevoli domande che spinsero
gli scienziati a condurre nuovi esperimenti i quali, lungi dal
farli approdare a una spiegazione definitiva e condivisa, non
fecero che aprire la strada ad altre ipotesi e ulteriori dubbi. Ma
procediamo con ordine.
Con il perfezionarsi della tecnologia, si effettuò
nuovamente l’esperimento di Young “sparando” però elettroni
e fotoni, ossia particelle molto più piccole rispetto a quelle
utilizzate in precedenza e, invece di far attraversare loro due
fenditure, si provò con una soltanto. Il risultato fu che queste si
imprimevano sulla lastra rivelatrice come avrebbero fatto delle
biglie, ossia dimostrando un comportamento corpuscolare,
smentendo il risultato ottenuto da Young e confermando
l’intuizione di Newton. Aspettandosi lo stesso risultato,
l’esperimento venne nuovamente condotto riproponendo lo
schema iniziale della doppia fenditura. Ma l’ipotesi iniziale
non trovò conferma: facendo attraversare loro una doppia
fenditura le particelle dimostrarono di possedere una natura
ondulatoria.
Penso che gli scienziati, a questo punto, abbiano creduto
che l’universo si stesse prendendo gioco dei loro sforzi e delle
loro ipotesi: com’era possibile che la materia fisica possedesse
una natura duale, presentandosi a volte sotto forma di onda e
altre volte come corpuscolo?
Questo ci conduce all’esperimento più bello che sia mai
stato fatto. Siamo nell’Italia del 1974 e, più precisamente,
all’università di Bologna. Tre scienziati, Pier Giorgio Merli,
Gianfranco Missiroli e Giulio Pozzi, per capire che cosa
diavolo stesse succedendo decisero di fare quello che è stato
chiamato esperimento a singolo elettrone, il quale conduceva
nella direzione di una natura ondulatoria della materia,
confermando le teorie di Einstein e della teoria quantistica: la
massa è energia condensata, la materia è onda.
A questo punto gli scienziati stavano davvero dando di
matto, perché questa evidenza non era spiegabile e i suoi
risvolti sembravano sfuggire al senso comune. Decisero
dunque di guardare più da vicino, di spiare quello che
succedeva. Per questo, all’esperimento originario venne
aggiunto un potente rilevatore, un occhio esterno se vogliamo.
In questo modo volevano osservare se l’elettrone, entità
inseparabile, passasse attraverso una sola fessura o se, in
qualche modo che non riuscivano a immaginare né
comprendere, fosse in grado di attraversarle entrambe. Questa
è l’essenza dell’esperimento which way, “quale via”, il cui
obiettivo dichiarato era di tracciare il percorso dell’elettrone
attraverso la doppia fenditura. Il risultato fu un vero e proprio
shock. Tenetevi forte: l’esperimento which way ha dimostrato
che se si osserva un elettrone, questo cambia la propria natura,
che da ondulatoria si trasforma in corpuscolare. Spero di
essermi spiegato in modo sufficientemente chiaro: se non
osservato, l’elettrone si comporta come un’onda. Se qualcuno
lo osserva, invece, si comporta come una particella fisica.
Consapevole di essere osservato, l’elettrone cambia la sua
natura. Detto altrimenti: l’atto di osservare è in grado di
modificare la realtà, l’osservatore perturba l’esperimento
determinandone l’esito attraverso la sua osservazione. Scrisse
Heinz Rudolf Pagels, fisico e accademico statunitense: “Vorrei
sottolineare che ciò che è in discussione qui è la natura della
materia fisica … L’elettrone sembra acquistare
improvvisamente esistenza come oggetto reale (come
particella) solo quando noi lo osserviamo!”. 3
Esistono numerosi esperimenti che dimostrano questa
evidenza scientifica. Ne cito ancora uno, per fugare ogni
dubbio, quello realizzato dal professor Andrew Truscott, il
quale ha dimostrato che l’atomo si comporta come particella o
come onda a seconda della configurazione dello strumento,
ossia a seconda che lo scienziato creda che l’atomo si
comporti in un modo piuttosto che in un altro. È la coscienza
di chi opera a determinare il risultato. La sua attesa a renderlo
reale.
Tra tutti, quello che preferisco è però il bizzarro e
controintuitivo paradosso del gatto di Schrödinger. Si tratta di
un esperimento mentale per dimostrare che un sistema fisico –
secondo la visione quantistica di quel tempo – poteva esistere
in una combinazione di stati multipli, anche contraddittori tra
loro: il gatto nella scatola è contemporaneamente vivo e
morto… finché non si guarda dentro la scatola stessa, allora o
è vivo o è morto. Fino a quando la coscienza non opera sul
mondo fisico.
Se non avete capito niente non preoccupatevi: «Credo di
poter dire con sicurezza che nessuno la comprende davvero» 4
ebbe a dire Richard Feynman nel 1965 riferendosi alla
meccanica quantistica. Imprevedibile quanto intuitiva, questa
scienza si è però rivelata essere l’unica in grado di spiegare la
natura e il comportamento della materia fisica e, nel farlo, si è
avvicinata dell’antico sapere mistico. Max Planck, padre della
fisica quantistica e premio Nobel per la Fisica nel 1918, nel
suo discorso intitolato Das Wesen der Materie, “La natura
della materia”, tenuto a Firenze nel 1944, disse: «In quanto
uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla scienza pura, allo
studio della materia, posso dirvi come risultato della mia
ricerca sugli atomi: la materia come tale non esiste! Tutta la
materia ha origine ed esiste solo in virtù di una forza che porta
le particelle di un atomo alla vibrazione e tiene insieme questo
minuscolo sistema solare che è l’atomo. Dobbiamo
presupporre dietro questa forza l’esistenza di una Mente
cosciente e intelligente. Questa Mente è la matrice di tutta la
materia. Considero fondamentale la coscienza. Considero la
materia come derivata dalla coscienza. Non possiamo
trascurare la coscienza. Tutto ciò di cui parliamo, tutto ciò che
consideriamo esistente, postula la coscienza».
Ecco l’essenza di tutto questo discorso: la realtà, in quanto
tale, non esiste fino a quando non la si osserva. Fino a quando
la coscienza non la fa collassare dallo stato di potenza, come
lo chiama Heisenberg, nel quale si trova in forma di onda di
possibilità, alla realtà sensibile. Sempre Pagels scrisse: “La
vecchia idea che il mondo esista effettivamente in uno stato
definito non è più sostenibile. La teoria quantistica svela un
messaggio interamente nuovo: la realtà è in parte creata
dall’osservatore”. 5 Dunque non solo la coscienza permette alla
realtà di manifestarsi, ma la fisica dimostra che è partecipe
della creazione stessa.
Alla luce di queste ricerche, l’intuizione originaria di tutta
l’umanità per la quale siamo noi i creatori della nostra realtà
assume un valore tangibile, pragmatico. La materia si presenta
come onda di possibilità. Tra le diverse possibilità la coscienza
sceglie e, nell’atto di scegliere, fa precipitare la possibilità nel
campo del sensibile in una forma percepibile. Scrive il
professore di fisica Amit Goswami in Il dottor Quantum: “Si
apre così una nuova, visionaria finestra: tra queste possibilità
la coscienza può scegliere … la coscienza è il fondamento
dell’essere. Occorre comprendere che le possibilità materiali
sono possibilità tra cui la coscienza può scegliere, non sono
esterne né separate da essa”. 6
Lo scenario in cui questo collassare si verifica è il
cosiddetto campo di Higgs, una grandezza fisica che ha valori
in tutti i punti dello spazio-tempo. Proprio quel campo a cui si
associa il bosone di Higgs, che conosciamo come la “particella
di Dio”. Un “campo” in fisica è teorizzato come un qualcosa
di invisibile che fa avvertire la sua presenza indirettamente,
producendo effetti sul comportamento degli oggetti che stanno
al suo interno. In particolare, è stata proposta
un’interpretazione del campo di Higgs che allude a una
possibile interazione tra il campo di Higgs stesso e la
Coscienza Universale e, per conseguenza, anche una sua
possibile connessione con le coscienze individuali. Il campo di
Higgs ci proietta in una dimensione olistica, non locale di
esistenza, nella quale ogni cosa è connessa al Tutto,
indifferentemente dalla sua collocazione spaziale.
Non si tratta di una teoria New Age ma di una plausibile
visione conseguente alle attuali premesse (e promesse) della
fisica dei quanti, i cui esponenti hanno mostrato di avvicinarsi
sempre più all’antico sapere mistico. Non soltanto a livello
concettuale, ma anche dal punto di vista terminologico. Per
questo quando incontriamo delle frasi di Planck, Bohr,
Broglie, Heisenberg, Pauli, Schrödinger, Einstein e di tanti
altri, pur non essendo sempre in grado di comprendere appieno
la portata del loro messaggio scientifico, risuona nella nostra
anima una eco ancestrale, che vibra con l’essenza stessa
dell’umanità. Sentiamo che le loro parole sono portatrici di un
messaggio che si spinge oltre lo spazio e il tempo, e che si
mantiene sempre uguale a se stesso nonostante le
reinterpretazioni fornite nelle diverse epoche, nei sistemi
dogmatici o religiosi e nei canoni elaborati da ogni cultura.
Questa eco antica come il mondo ci parla di noi, della nostra
vera natura, delle nostre infinite possibilità di creatori della
nostra realtà.
La domanda che ci poniamo a questo punto è: che cos’è la
coscienza? Qual è il “fondamento dell’essere”?
Questa è forse la domanda più importante del viaggio lungo
il sentiero della Gioia e di tutti i viaggi di ricerca dell’intera
umanità. I pensatori del passato, al pari di quelli
contemporanei, hanno cercato di fornire una risposta a questo
grande quesito.
Se l’enciclopedia Treccani ci dice che la coscienza è la
consapevolezza che il soggetto ha di sé, della propria identità e
del complesso delle proprie attività interiori, per sant’Agostino
questa consapevolezza del sé si esercitava attraverso il dubbio:
Si fallor, sum, “Se sbaglio, esisto”. La frase, per intero, recita:
“Si fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest; ac per
hoc sum si fallor” (“Se sbaglio io sono. Infatti chi non è non
può neppure sbagliare; [e] siccome io sbaglio, sono”). Nel
dubbio e nell’errore, sant’Agostino ravvisava la
consapevolezza dell’esistenza, la presenza della coscienza.
Questa riflessione, che si trova all’origine della più celebre
affermazione di Cartesio Cogito ergo sum, “Penso, dunque
sono”, si arenava però nel dualismo mente-corpo, ritenute due
entità distinte che in nessun modo potevano comunicare né
interagire tra di loro. Per una parte del pensiero religioso lo
spirito e la materia erano anzi in aperta contrapposizione. A
cavallo tra il Seicento e il Settecento, con il filosofo tedesco
Gottfried Leibniz si giunse a considerare che queste due
viaggiassero per così dire in parallelo, ma anche questa lettura
tradiva un preconcetto dualistico. Solo con le riflessioni e gli
esperimenti della fisica quantistica si è riusciti a spingersi
oltre, e alcuni sono giunti alla conclusione che è la coscienza a
mediare l’interazione tra mente e materia: “La coscienza, in
ogni esperienza, non solo ha la percezione fisica di ogni
oggetto fisico, ma anche la percezione mentale del suo
significato. La coscienza non è la mente; è il fondamento della
materia e della mente stessa”. 7 Torniamo dunque al sapere
antico per cui siamo noi i co-creatori della realtà.
Tra le indagini che hanno messo in discussione l’intero
sistema spazio-temporale nel quale la nostra coscienza opera,
permettendo al nostro sapere di progredire, ve ne voglio citare
ancora due. La prima è contenuta in un affascinante articolo
intitolato Constraints on the Universe as a Numerical
Simulation, ossia “Vincoli sull’universo come simulazione
numerica”, pubblicato sull’“European Physical Journal”
nell’ottobre 2012, nel quale si indaga il postulato filosofico per
cui il nostro universo potrebbe essere il risultato di una
simulazione al computer, realizzata dai nostri lontani
discendenti, che avrebbero creato il nostro spazio-tempo
utilizzando una griglia ipercubica spazio-temporale. La
seconda riguarda le ricerche che conducono invece i fisici
quantistici a pensare che il nostro mondo, così come lo
percepiamo, in realtà non esista. Ho già accennato a questa
teoria nel capitolo sul bardo del vivere e del morire. L’energia
oscura, che accelera l’espansione dell’universo, sembrerebbe
suggerire l’idea che viviamo in una realtà virtuale, una
simulazione di immagini olografiche tridimensionali. Un
universo virtuale potrebbe spiegare i miracoli, i fenomeni
paranormali, la magia, il dualismo onda-particella e tutto ciò a
cui la scienza non è al momento in grado di fornire una
spiegazione. Immersi in uno spazio-tempo virtuale così
concepito, l’unica cosa “reale” rimarrebbe la nostra coscienza.
Per dirla come l’oracolo bambino del film Matrix: «Non
cercare di piegare il cucchiaio, è impossibile. Cerca invece di
fare l’unica cosa saggia: giungere alla verità! Il cucchiaio non
esiste. E allora ti accorgerai che non è il cucchiaio a piegarsi
ma sei tu stesso!». Devo ammettere che mi alletta molto l’idea
di immaginarci come coscienza cosmica in viaggio, alla
scoperta di se stessa.
Muovendo da queste rivoluzionarie ricerche sulla
coscienza, nel 1998 è stato ideato un esperimento di
parapsicologia volto a rilevare possibili interazioni della
“coscienza globale” con i sistemi fisici della Terra. Il Global
Consciousness Project (GCP ), chiamato anche EGG Project,
monitorando una rete geograficamente distribuita di generatori
di numeri casuali, ha rilevato che: “Quando la coscienza
umana diventa coerente, il comportamento dei sistemi casuali
può cambiare. I generatori di numeri casuali (RNG ) basati sul
tunnel quantico producono sequenze completamente
imprevedibili di zero e di uno. Ma quando un grande evento
sincronizza i sentimenti di milioni di persone, la nostra rete di
RNG diventa sottilmente strutturata. Calcoliamo una su un
trilione di probabilità che l’effetto sia dovuto al caso.
L’evidenza suggerisce l’esistenza di una noosfera emergente o
il campo unificante della coscienza descritto dai saggi in tutte
le culture”. 8 Muovendo dai risultati ottenuti, i matematici e gli
ingegneri coinvolti nel progetto hanno dunque concluso che
una coscienza globale coerentemente orientata dal verificarsi
di un evento in grado di catalizzare le menti di un numero
significativo di persone nel mondo sarebbe in grado di
modificare i generatori di numeri casuali, dimostrando così
non solo l’esistenza della coscienza globale stessa, ma anche
che tutti gli esseri umani sono interconnessi tra di loro e con il
sistema Gaia.
Tra le circostanze più significative esaminate, nemmeno a
dirsi, troviamo ovviamente l’11 settembre 2001. Dall’analisi
dei dati raccolti è stato dimostrato che questo attacco
terroristico ha fortemente traumatizzato l’intera umanità,
provocando un forte flusso di emozioni in tutto il pianeta in
grado di modificare le stringhe prodotte dai generatori di
numeri casuali. Il monitoraggio dei dati prendeva in
considerazione un lasso di tempo che andava da pochi minuti
prima dello schianto dell’aereo sulla Torre Nord a diverse ore
dopo. L’analisi che ne è seguita, tra gli altri, ha portato a un
risultato che ritengo fondamentale segnalarvi: la coscienza
globale era, per così dire, già in allerta prima che l’evento si
verificasse. Non voglio commentare questo esperimento né le
conclusioni che ne derivano. Per correttezza, aggiungo che
l’intero Global Consciousness Project è stato fortemente
criticato dal mondo scientifico. Ma, personalmente ritengo che
questo non ci debba impedire di porci il dubbio sul fatto che
una coscienza globale esista o meno, né di chiederci se questa
coscienza sia in grado in qualche modo di prevedere ciò che
sta per accadere nel pianeta nel quale abitiamo.
Questa preveggenza potrebbe spiegare, almeno in parte,
un’ulteriore anomalia che riguarda l’11 settembre. Ma, prima,
una piccola parentesi personale. Mi sono occupato di questo
argomento quando il compianto Giulietto Chiesa mi ha chiesto
di collaborare al documentario Zero. Lavorare con lui mi ha
permesso di affrontare l’intera vicenda da un’altra prospettiva,
insegnandomi a utilizzare il dubbio come strumento
metodologico. Mi esortava continuamente a non formulare
delle teorie, ma a pormi delle domande. C’era un esempio che
Giulietto faceva: in presenza di un omicidio, si indaga nella
direzione del portinaio. Ma qualcuno si trovava personalmente
con il portinaio al momento dell’omicidio e la sua
testimonianza lo scagiona da ogni accusa. A questo punto, chi
indaga non può concludere di essere arrivato alla soluzione del
caso, ma deve ricominciare da capo le indagini e porsi nuove
domande. Invece, troppo spesso, il fatto stesso di aver escluso
un’ipotesi porta a trarre delle conclusioni: “Se non è A deve
per forza essere B”. Ma il mondo non è un sistema binario di 0
e di 1! Forse. C’è stato chi, infatti, ce lo ha descritto proprio in
questi termini. Questo ci conduce all’anomalia di cui vi
parlavo prima.
Credo che abbiamo tutti visto il film Matrix del 1999,
scritto e diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski. Vi
ricordate la scena in cui l’agente Smith, espressione del
sistema, interroga per la prima volta Neo o più correttamente
Thomas A. Anderson, il signor Anderson? Vi ricordate che gli
chiede di mostrargli il suo passaporto? Forse no, si tratta solo
di un fotogramma, sembra un dettaglio. Ma non lo è. Andate a
vedere. Quello che scoprirete è che la data di scadenza,
l’expire date del passaporto di Neo è fissata per l’11 sep 01. Se
non ci credete, e non dovete credermi ma dubitare, verificate
voi stessi. Lo troverete al minuto 17:30. Per vederlo
chiaramente dovrete usare il fermo immagine e ruotare
l’inquadratura.
Sconvolgente. Coincidenza? Premonizione? Avviso? Non
saprei dirvi. I produttori di Matrix non si sono mai pronunciati
in merito. Inoltre, a che anno si riferisca quell’11 settembre
non ci è dato saperlo. Ma, paradossalmente, proprio questa
ignoranza potrebbe essere utile per decriptare l’“anomalia”. Lo
stesso Morpheus ammette di non sapere quando è stata
costruita Matrix per ridurre gli uomini a schiavi inconsapevoli.
Le uniche date sono quelle della nascita di Neo, la data di
rilascio del suo passaporto e la sua scadenza, rispettivamente
13 sep 71, 12 sep 91, 11 sep 01. L’ultima data segna un
passaggio tra un secolo e un altro e, indicando la scadenza, la
fine di un qualcosa, rimanda a uno spartiacque. Qualunque sia
la vostra personale visione dell’expire date fissata all’11
settembre, questa data ha senza dubbio rappresentato uno
spartiacque per l’intero mondo.
L’unico modo di giungere a una qualche verità, lo abbiamo
detto più volte e lo diremo ancora, è quella di dubitare, di
continuare a porci delle domande. Il sapere non procede per
certezze, ma attraverso gli errori e il dubbio. “Cerchiamo come
coloro che vogliono trovare e troviamo come coloro che
devono cercare ancora” diceva sant’Agostino. Ho letto per la
prima volta questa frase nell’introduzione della tesi di
dottorato di una mia amica che ha vissuto per anni in un
piccolo villaggio sulla costa orientale di Taiwan, presso la
popolazione dei famigerati tagliatori di teste Truku. Quando le
ho chiesto che cosa significasse per lei, mi ha risposto che
siamo condannati a progredire e che questa condanna è la via
per la gioia. L’ho trovato bellissimo. Per questo tutte le teorie e
le evidenze scientifiche di cui vi ho parlato, insieme alle
innumerevoli altre che non possiamo affrontare qui, non fanno
altro che spingerci a formulare un’altra domanda: perché, nel
percorso della nostra storia, si è perduta la conoscenza che i
popoli antichi sembravano tutti, indistintamente, possedere?
Quel sapere che solo oggi la fisica quantistica sembra
gradualmente riscoprire e rendere digeribile alle nostre menti
bisognose di scientificità? Quel sapere che permetteva agli
uomini di essere consapevoli che ciò esiste è tale perché lo
abbiamo coscientemente manifestato, mentre ciò che non
esiste lo custodiamo dentro di noi in potenza. Che permetteva
di comunicare telepaticamente, come ancora oggi fanno le
popolazioni native australiane. Di guarire a distanza. Di
dislocarci senza doverci spostare. Di sfruttare appieno le
possibilità infinite di cui siamo custodi, di compiere magie e
miracoli, ossia di divenire co-creatori della realtà. Di vivere la
morte come un semplice cambiamento di apparenza, immersi
nella legge del mutamento. In una sola frase: di vivere in
risonanza con il Tutto. Quando e perché è andato smarrito
questo sapere?
Divide et impera, dicevano i romani. Lo abbiamo visto nel
primo capitolo di questo libro. Un essere libero, consapevole
della sua immensità, non può essere incatenato con la paura,
non è manipolabile, non è orientabile. Chi vive il dubbio come
una necessità non può essere ciecamente convinto a credere o
a fare qualcosa. Per questo la strategia espressa dal divide et
impera romano è stata applicata non solamente per governare i
popoli, ma per creare una frattura all’interno di ogni essere
umano, per farlo vivere in una perenne condizione di
divisione, così che non solo si allontanasse dalla
consapevolezza dell’Uno, ma anche, e soprattutto, da se
stesso. Per vivere la parzialità e non la pienezza del nostro
essere immensi.
Esistono numerose storie che ci parlano di questa perdita
della consapevolezza. Tra queste quella che trovo più
affascinante è il mito della creazione raccontato ad apertura
del Popol Vuh, il “Libro della comunità” che racchiude i miti e
le leggende dei vari gruppi etnici che abitarono la terra
Quiché, uno dei regni maya del Guatemala. Opera
appartenente alla cultura maya “moderna”, dopo la conquista
spagnola questo antico testo, a causa del divieto imposto dai
conquistatori di utilizzare la scrittura geroglifica, venne
trascritto illegalmente usando l’alfabeto latino. Una delle copie
venne scoperta all’inizio del Settecento dal sacerdote
Francisco Ximénez che, invece di bruciarla come era costume
fare in quell’epoca, decise di copiarla e tradurla in castigliano.
Questa versione copiata e tradotta venne poi dimenticata per
più di un secolo e, aggiungo, fu forse questo a permetterle di
sopravvivere e di essere riscoperta nel 1854. Da quel momento
il Popol Vuh venne letto e studiato in tutto il mondo.
Sebbene la versione che ci è giunta abbia subito numerosi
rimaneggiamenti, aggiunte, omissioni ed errori, il testo
rimanda a un sapere antico e condiviso che muove dal mito
della creazione dell’uomo. Anticipo che, se questo racconto vi
farà pensare alla Genesi dell’Antico Testamento o alla
mitologia sumera e gnostica, non vi dovrete preoccupare.
Perché il messaggio, per quanto rimaneggiato e reinterpretato
dalle varie culture nel tempo, è esattamente lo stesso.
Proviamo dunque, nel rileggerlo, a spingerci oltre le immagini
raccontate e a penetrare il significato dietro le parole.
All’origine tutto era sospeso, calmo, immobile e silente. La
terra non era ancora manifesta e il cielo si estendeva sopra le
acque di un mare ineffabile. Nulla emergeva dall’immobilità,
dal silenzio e dall’oscurità della Tenebra. Secondo la
tradizione maya, solamente Tzacol, il Creatore; Bitol, il
Formatore; Tepeu, il Potente; Gucumatz, il Serpente Piumato e
i Progenitori vivevano nelle acque. La loro natura era di
grande saggezza e presero a parlare e a meditare tra di loro.
Parlarono della creazione della vita, del crescere delle piante e
dell’uomo, un essere in grado di adorarli. “Nelle tenebre e
nella notte tutto trovò la sua giusta collocazione” grazie
all’opera del “Cuore del Cielo”, Huracan.
«Che tutto questo sia! Che il vuoto si riempia! Che l’acqua
si ritiri.» 9 E così fu.
Così il Creatore e il Formatore, dopo aver separato la terra
dall’acqua, crearono tutti gli animali grandi e piccoli, e dopo
questo sforzo dissero: «Lodateci e ringraziateci per avervi
creato. Invocate i nomi dei Creatori e degli Artefici che sono i
Padri e le Madri di tutta la vita. Ringraziate il vostro
progenitore che è Dio, il cuore del Cielo e il cuore della
Terra». 10 Ma gli animali, che non erano dotati della parola,
non li ascoltarono né li lodarono. Nel cuore dei Fabbricatori
avvenne dunque un “cambiamento” e stabilirono che la carne
degli animali, da quel momento in poi, sarebbe stata “arsa e
consumata” per nutrire gli dèi e qualunque altro essere fosse
stato in grado di dominarli. Il Creatore e il Formatore si
rimisero quindi al lavoro per creare un essere rispettoso, in
grado di cantare le loro lodi. Procedettero attraverso creazioni
e distruzioni del loro creato, che per ben tre volte li deluse.
Dapprima provarono a creare la carne dell’uomo modellando
il fango. Ma i corpi così formati si disgregavano, non
riuscivano a reggersi in piedi e non avevano la forza di
muoversi. Per questo i Fabbricatori distrussero la loro prima
creazione. Poi dissero: «Dobbiamo riunirci per trovare il modo
di creare l’uomo, l’essere che ci alimenti, che ci sostenga, in
grado di invocarci e adorarci, che si ricordi dei suoi creatori.
La nostra ricompensa sarà in parole. Fate in modo che questo
accada». 11
Cancellata la prima creazione, provarono a realizzare
l’uomo intagliandolo nel legno. Ma anche questi non fu che un
abbozzo di esistenza: gli uomini così fabbricati si
moltiplicarono, ebbero figli e figlie che colonizzarono l’intera
terra, ma non avevano anima né intelletto, non lodavano chi
gli aveva dato la vita e si prendeva cura di loro. Camminavano
proni, senza meta. Allora “Cuore del Cielo” inviò un grande
diluvio sulla terra, facendo scendere dalle nubi una pioggia
simile alla resina. Poi giunsero delle divinità animalesche che
scavarono gli occhi dei burattini di legno e staccarono le loro
teste inutili dal corpo. Le loro ossa vennero spezzate e i nervi
frantumati. “I loro volti furono fatti a pezzi perché essi non
avevano rivolto i loro pensieri alla loro madre e al loro padre.
La faccia della terra si oscurò e iniziò a cadere una pioggia
nera, sia di giorno, che di notte.” 12
A questa creazione seguì un terzo tentativo, anch’esso
abortito. Dopo tutti questi fallimenti, Tepeu e Gucumatz si
riunirono di nuovo con le altre divinità. Il sole non era ancora
sorto, e nel consiglio notturno gli dèi non riuscivano a trovare
una soluzione per dare vita all’immagine che loro avevano
dell’uomo. Ma ecco che quattro animali, Yac, la lince; Utiú, il
coyote; Quel, il pappagallino e Hoh, il corvo, giunsero
all’assemblea portando delle pannocchie di mais bianco e
giallo, che provenivano dalle terre meravigliose e feconde di
Paxil e Cayalá. Così, gli dèi si rallegrarono e dalla farina del
mais macinata furono creati i primi quattro uomini: dalle
pannocchie gialle formò la loro carne e da quelle bianche il
loro sangue. “Non ebbero né padre né madre e non furono
nemmeno creati dal Creatore, dal Formatore o dai Progenitori.
Furono chiamati uomini. Fu attraverso il prodigio, attraverso
la magia che vennero alla luce, così furono creati dal Creatore,
dal Formatore, dai Progenitori, da Tepeu e Gucumatz. E
avendo l’aspetto di uomini, uomini furono.” 13
Ci viene raccontato che i primi quattro uomini, progenitori
dell’umanità, furono finalmente perfetti, “dall’aspetto di
uomini”. I loro nomi erano “Giaguaro Sincero”, “Giaguaro
Oscuro”, “Non-duraturo” e “Giaguaro della Luna”. Dotati
della stessa saggezza e intelligenza degli dèi parlarono,
pensarono, udirono e conobbero tutto. La loro vista
abbracciava il mondo intero: per quanto spingessero lontano il
loro sguardo, riuscivano a distinguere ogni cosa, ciò che era
vicino come ciò che era lontano, ciò che era piccolo come ciò
che era grande. Ma il Formatore e il Creatore non furono felici
di questo e tennero nuovamente consiglio. «Non sono forse
per loro stessa natura dei semplici bambini, nostra creazione?
Devono forse essere anch’essi dèi? E se non si riproducessero,
se non si propagassero quando nasce l’alba, quando spunta il
sole? … Limitiamo un po’ i loro desideri. Devono forse essere
equivalenti a noi, i loro creatori, che possiamo percorrere
grandi distanze, che conosciamo e abbiamo la percezione di
ogni cosa?» 14
Ciò detto, “Cuore del Cielo” gettò sopra i loro occhi una
nebbia e i loro occhi si velarono, come quando si alita sulla
lastra di uno specchio. E fu così che la sapienza degli uomini e
tutto il loro sapere si dispersero al vento. E i quattro uomini,
progenitori dei Quiché, poterono vedere e comprendere
solamente una parte del Tutto.
I miti della creazione e, in particolare, quelli della creazione
degli esseri umani, ci raccontano tutti la stessa storia: quella di
uno o più demiurghi che modellano la materia attraverso la
tecnica o la magia per dare vita all’uomo. Gelosi o infastiditi
della loro creazione decidono poi di distruggerla o di limitarne
il sapere, attraverso vari espedienti. Per utilizzare la versione
raccontata dal Popol Vuh, i nostri occhi sono solo velati da una
nebbia e, se ci pensate bene, Adamo ed Eva, tentati dal
serpente, hanno assaggiato il frutto dell’albero che si trovava
in mezzo al giardino, dell’albero della conoscenza. «(Se lo
assaggiate) non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi
ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come
Dio, conoscendo il Bene e il Male» 15 rivelò il serpente. Se
proviamo a interpretare queste frasi da un’altra prospettiva, ci
dicono che noi siamo stati creati con questa conoscenza, che
l’abbiamo assaggiata. Subito dopo aver gustato il frutto del
sapere, Adamo ed Eva si accorgono di essere nudi, ossia privi
di un corpo che permetta loro di sperimentare la fisica
manifestazione, di prendere piena consapevolezza del loro
essere, ossia di acquistare coscienza. Così lasciano il Giardino
in Eden e si avviano verso la Terra.
A questo punto, accusandoli di aver peccato o temendo che
gli uomini diventassero simili ai loro creatori, le divinità
offuscano la vista dei primi uomini o, nella versione
veterotestamentaria, Dio li allontana dal giardino dell’Eden,
con tutte le conseguenze che conosciamo. Ma, se ci riflettete,
sono gli stessi testi a dirci che il sapere non è stato cancellato
né distrutto: è stato offuscato, velato come uno specchio sul
quale si alita, secondo la versione maya. C’è poi un’altra
“coincidenza” che dobbiamo tenere in considerazione: Māyā,
in sanscrito, significa originariamente “creazione” e
secondariamente “illusione”. Nei testi vedici, questo termine
indica il potere da cui ha origine il mondo materiale. Potere
che appartiene ai deva e agli asura, gli dèi e i demoni della
cultura indiana, grazie al quale trasformano una loro immagine
in materia fisica. Dallo stato di potenza a quello di atto. Nelle
Upanisad ̣ possiamo leggere: “O caro, come da una zolla
d’argilla si conosce tutto ciò che è fatto d’argilla: la forma
particolare è questione di parole, è un nome, la realtà è una
sola, l’argilla”. 16 Le forme fenomeniche prodotte dall’attività
creatrice dei deva, ovvero da maya in quanto forza creatrice,
sono dunque illusioni: maya.
Muovendo da questa lettura del mondo, Arthur
Schopenhauer ha coniato l’espressione “velo di maya” che ha
riscosso un grande successo nel mondo occidentale. Ne Il
mondo come volontà e rappresentazione, il filosofo ci dice che
la vita è sogno e che il “sognare” rappresenta la nostra unica
realtà. Questa dimensione onirica risponde a regole precise,
valide per tutti gli esseri e insite nei nostri schemi conoscitivi.
Il velo di maya, la cui natura è metafisica (si pone cioè al di
sopra del mondo fisico) e illusoria, ci separa dalla conoscenza
della realtà, dalla sua reale percezione, impedendoci di
ottenere la liberazione spirituale, la moksa, ̣ e imprigionandoci
nel ciclo delle morti e delle rinascite, il samsara. Gli occhi
dell’uomo, dunque, per Schopenhauer sono velati: quando
riuscirà a liberarsi da questo velo, la sua anima si risveglierà e
sarà in grado di contemplare l’essenza della realtà. Questa
impalcatura filosofica ci riporta al mito della caverna di
Platone, con il quale abbiamo aperto questo viaggio.
Torniamo per un istante all’immagine di un’antica quanto
perduta età dell’oro, o del giardino che dir si voglia.
Esistono affascinanti teorie che sostengono che l’uomo,
prima della comparsa della scrittura, non avesse coscienza di
se stesso per come l’intendiamo noi oggi. Che, in qualche
modo, fossero libero dall’ego e che non pensasse a se stesso in
termini di “io”, ma vivesse in risonanza con la Terra e con il
Tutto. Se ci pensiamo, la scrittura non è uno strumento pensato
per trascrivere la lingua parlata ma è un espediente per andare
al di là dei limiti che questa possiede. Uno strumento per
dislocare il pensiero nello spazio e nel tempo. La possibilità di
elaborare gli eventi in modo dissociato dall’immediatezza
dell’esperienza sembrerebbe aver avuto una significativa
ripercussione nella coscienza del sé, garantendole una
dimensione persistente nel tempo, articolandola
indipendentemente dal flusso degli eventi. Con questo non sto
dicendo che la scrittura sia un qualcosa di negativo: ma che
questa, al pari di tutti gli strumenti con cui l’uomo è entrato in
contatto, ha finito per influenzare e modificare l’essere umano
stesso.
Marshall McLuhan, sociologo e filosofo canadese, noto per
la sua interpretazione innovativa degli effetti pervasivi prodotti
dalla comunicazione sull’immaginario collettivo e individuale,
che lo portò a elaborare la famosa intuizione “il medium 17 è il
messaggio”, disse: «Prima noi costruiamo gli strumenti, poi gli
strumenti costruiscono noi». 18 Quando parliamo di strumenti
credo sia corretto non limitarci solamente ai mezzi tecnologici
ma estendere la nostra riflessione anche e soprattutto a quel
grande strumento che ha permesso all’essere umano di
diventare ciò che è: la lingua. In particolar modo alla scrittura
e a quel fenomeno tanto recente che è il cinema, che non
utilizza più le parole ma uno strumento ancora più potente,
ossia le immagini. Quelle che sono riconosciute come le più
grandi religioni, sono “religioni del libro”. Buona parte delle
filosofie e delle ideologie si rifanno a dei libri. Lo so che può
sembrare strano affiancare Il capitale di Marx alla Bibbia o
alla Bhagavadgītā. Ma lo scopo è lo stesso: orientare il
pensiero delle persone. Questo, come abbiamo visto nel primo
capitolo, è quello che viene fatto tanto magistralmente anche
dal cinema. Bisogna dunque smettere di leggere, di utilizzare
degli strumenti per essere liberi, per permettere alla nostra
coscienza di manifestarsi appieno nella nostra realtà? No,
assolutamente no. Ma dobbiamo riappropriarci della facoltà di
dubitare, pensando che quei messaggi possono essere stati
manipolati per uno scopo che è poi sempre lo stesso. Lo
abbiamo già visto: divide et impera. Nel tempo, questo
imperativo è rimasto immutato: tutto è stato cambiato per
impedirci di vedere che, in realtà, non è cambiato nulla. Siamo
stati divisi da noi stessi, fratturati e allontanati da quel sapere
antico che la fisica quantistica sta riscoprendo, da cui siamo
partiti. Ma, nonostante gli sforzi di oscurare i nostri occhi, il
messaggio originale è giunto fino a noi e, parafrasando Il
Pimandro di Ermete Trismegisto, possiamo dire che: “Tutto è
Uno. Noi viviamo in potenza, in atto e in eternità”. In questa
dimensione spazio-temporale, le anime sono tante ma lo
spirito è uno solo. Questi frammenti del Tutto che noi
chiamiamo anime sono immerse in un campo che consente
loro di conoscere se stesse attraverso la coscienza, strumento
attraverso il quale siamo co-creatori della nostra realtà. In
questo campo, ogni singola anima vibra in risonanza con ogni
cosa e con il Tutto.
Abbiamo parlato spesso di risonanza, ma non abbiamo mai
detto che cos’è. È giunto il momento di farlo. Nel 1665, il
fisico e matematico olandese Christiaan Huygens, tra i primi a
postulare la teoria ondulatoria della luce, osservò che
disponendo due pendoli su di una stessa parete, questi
tendevano a sincronizzare il proprio movimento oscillatorio.
Pur partendo da moti oscillatori diversi, i due pendoli si
comportavano come se volessero assumere lo stesso
movimento ondulatorio, come se uno dei due pendoli
inducesse l’altro a risuonare alla propria frequenza. Per lo
stesso principio, quando percuotiamo un diapason, che
produce onde alla frequenza fissa di 440 Hz, e lo poniamo
vicino a un secondo diapason non percosso, dopo poco tempo
anche questo prenderà a vibrare alla stessa frequenza. Quando
per il documentario Un altro mondo sono andato in Giappone
per intervistare Masaru Emoto, secondo il quale la coscienza
umana è in grado di influenzare la struttura molecolare
dell’acqua, la prima cosa che ha fatto è stata proprio riprodurre
davanti ai miei occhi l’esperimento dei due diapason. Lo
conoscevo già, ma sono rimasto ugualmente incantato nel
vedere la legge della risonanza in azione. Per questo ho deciso
di mettere l’intervista di Emoto prima di introdurre il tema
della massa critica nel documentario: è lo stesso principio!
Quando noi vibriamo coerentemente alla frequenza
dell’amore, della gioia, abbiamo la possibilità di far danzare
con noi le persone che ci circondano, e loro “contageranno”
altri a loro volta e così di seguito, fino a creare una massa
critica in grado di far vibrare l’intero mondo a questa
frequenza. In questo modo il pensiero collettivo potrebbe
orientarsi coerentemente verso frequenze più elevate,
lasciando andare la paura e l’odio. Ci sono numerosi
esperimenti che dimostrano come le frequenze emesse dalla
nostra mente non si esauriscano nella nostra testa ma
continuino a viaggiare per metri, andando a perturbare
l’ambiente circostante e l’intero campo energetico. Questo
campo di energia, dove danza la risonanza, è lo stesso che
garantisce il funzionamento della legge di attrazione, il
principio per il quale siamo in grado di attrarre ciò che
pensiamo, lo strumento con cui possiamo manifestare la
volontà della nostra coscienza.
Quando comprendiamo tutto questo, comprendiamo anche
che ognuno di noi ha in sé il potenziale per cambiare il mondo.
Parafrasando le parole di Bruce Lipton a chiusura di Choose
Love: più persone vibreranno alla frequenza dell’amore e della
gioia, più l’incedere del cambiamento sarà ineluttabile. E il
cambiamento è qui e ora, e inizia da ognuno di noi.
Se, dopo aver letto queste pagine vi sentite confusi,
spiazzati ripensate alle parole di Deepak Chopra: «Tutti i
grandi cambiamenti sono preceduti dal caos. Se ora ti senti
confuso, demoralizzato o triste non ti preoccupare. È solo il
modo in cui la vita ti sta preparando a un grande cambiamento.
Sei al sicuro. Accetta il fluire delle cose. Come diceva
Nietzsche: “Solo dal caos può nascere una stella danzante”».
Il grande cambiamento è ora e non dobbiamo affrontarlo
con paura ma affidandoci alla nostra coscienza per esserne
partecipi. Perché, come ripeteva spesso John F. Kennedy: «Le
grandi cose non accadono, si fanno accadere». A farle
accadere è la volontà, di cui parleremo nell’ultima tappa del
nostro viaggio.
Settima storia
Nascondiamola nel loro cuore

Gli uomini, conquistata la Gioia, hanno smesso di credere agli


dèi. Non conoscono più la paura, né il timore divino. I templi
si sono svuotati e i sacrifici sono cessati.
Per questo sono stati chiamati a consulta divina. La gravità
della situazione richiede la presenza di tutti.
In mezzo alla sala brilla la Gioia, sostenuta dal destino. Un
dono troppo prezioso perché gli uomini possano goderne
liberamente. Ma dove nascondere un tesoro tanto grande?
«Dio dei metalli, costruisci un contenitore in grado di
contenerla e celarla per sempre» chiede uno.
Il dio che abita i vulcani si alza e si avvicina alla Gioia.
Allunga una mano a volerla sfiorare ma subito la ritrae.
«Non c’è forgia né metallo in grado di fare ciò che chiedi.»
«Gettiamola nelle profondità degli oceani, il dio dei mari la
coprirà con il velo oscuro degli abissi. Lì l’uomo non andrà
certo a cercarla!» propone un altro.
«Non esiste un abisso tanto profondo e oscuro né nei mari
né nei cieli. Nemmeno nell’aldilà esiste un luogo capace di
tanto.»
Gli uomini sono curiosi. Gli dèi lo sanno. Presto o tardi,
sfideranno le altezze dei cieli e le profondità degli oceani e
non ci sarà luogo che rimarrà inesplorato. Per quanto si
sforzino, la Gioia non sarà mai sufficientemente nascosta.
Le divinità riunite si infervorano. Propongono soluzioni,
ma ogni idea cade davanti alla naturale propensione
dell’uomo a indagare. Alla sua fame insaziabile di sapere e di
possedere.
Alla fine si alza lo Splendente. Apollo è il suo nome.
«Io conosco gli uomini. Li osservo ogni giorno, dal mio
carro del Sole. Nascondiamo la Gioia nell’unico posto in
grado di contenerla. Nell’unico posto dove gli uomini non
andranno mai a cercarla. Celiamola nel loro cuore.»
Gli dèi si congratulano con lo Splendente. Gli uomini, fin
dalla loro creazione, hanno rivolto lo sguardo più all’esterno
che all’interno. Non cercheranno mai la Gioia nel loro cuore.
Perduta la Gioia torneranno ad avere paura e a invocare gli
dèi perché prestino loro soccorso.
Capitolo 7
Il sentiero della Gioia

Cos’è dunque che fa accadere le cose senza dover attendere,


probabilmente invano, che queste accadano? Per rimanere nel
campo della fisica, è Einstein a risponderci: «C’è una forza
motrice più forte del vapore, dell’elettricità e dell’energia
atomica: è la volontà». Certo non è stato il primo a dirlo. Già
Machiavelli ne Il principe scriveva: “Dove c’è grande volontà,
non possono esserci grandi difficoltà”.
Frasi come queste possono apparire come semplici
incentivi motivazionali, ma sono molto di più: sono la chiave
per la Gioia. Voglio raccontarvi la storia di uno straordinario
“dilettante dell’atletica”, che ha saputo orientare la sua volontà
per mandare in frantumi un vero e proprio muro di
convinzione generale. Questo ragazzo si chiama Sir Roger
Gilbert Bannister e, nel 1954, era uno studente di medicina
presso la St Mary’s Medical School di Londra. Aveva
venticinque anni. Nove anni prima lo svedese Gunder Hägg
aveva corso un miglio in 4’01”4. Gunder non era un
principiante né tanto meno un atleta della domenica: aveva
conquistato ben cinque record mondiali nella sua lunga
carriera. Per ricordarne solamente uno: nel 1942, in piena
guerra, era riuscito a correre i 5000 metri in meno di 14
minuti. Il fatto stesso che avesse stabilito lui il record del
miglio in quattro minuti fece sì che diventasse un vero e
proprio muro impossibile da superare. Anche i fisiologi si
erano pronunciati in merito: scendere sotto quella soglia era
ben al di là delle capacità umane. Così tutti si arresero
all’evidenza e nessuno ci provò più. In fondo era la scienza
stessa a dire che era impossibile.
Ma Bannister, come abbiamo detto, oltre che a dichiararsi
un “dilettante dell’atletica”, era anche uno studente di
medicina e amava molto la neurologia. Quella mattina del 6
maggio 1954, tra le sferzate di vento e la pioggia, da buon
tirocinante si reca prima in ospedale per le visite di controllo e
poi prende il treno per Oxford, per la pista di Iffley Road. Ha
un obiettivo ben chiaro in testa: mandare in frantumi quel
muro. Sono le sei di pomeriggio quando con il pettorale
numero 41 inizia a correre. Il tempo è girato verso il bello.
Sostenuto e aiutato dai suoi due amici compie i primi tre giri,
ma è al quarto che realizza il miracolo: allunga e lo macina
sotto i 60 secondi. Andate a vedere la foto di Bannister che
taglia il traguardo: «Non vedevo più niente, bruciavo tutto,
avevo dolori ovunque, mi era come passata la voglia di
sopravvivere». 1 I giudici non credono ai loro occhi, verificano
e verificano ancora. Poi, lo speaker, quel Norris McWhirter
che pochi anni dopo insieme a suo fratello Ross creerà il The
Guinness Book of Records, dà l’annuncio: Bannister ha corso
un miglio, ossia 1,609 metri e 36 cm, in 3’59”4. «Tutti erano
convinti che un uomo non avrebbe potuto correre il miglio
sotto i quattro minuti, che fosse fisiologicamente impossibile.
Ma io studiavo neurologia, che poi sarebbe diventata la
materia della mia professione di medico. Sapevo che per
andare oltre, l’organo più importante resta sempre il
cervello.» 2
Anche se non si direbbe, ho corso la maratona di New
York, nel 2005. La cosa che mi ha colpito più di tutte di questa
esperienza è stata proprio il fatto che si tratta di un
allenamento fisico quanto mentale. Infatti, l’amico che mi ha
aiutato in questa esperienza incredibile, mi ha spiegato che se
è il fisico a sostenere i primi 35 chilometri, gli ultimi 7
dipendono esclusivamente dalla testa. Per questo la maratona è
l’unico sport al mondo che si prepara senza mai correrla in
allenamento. Non essendo un professionista e non avendo un
fisico esattamente pensato per la corsa, sono partito piano.
All’inizio mi hanno superato tantissime persone. Ma alla fine
dei primi 35 chilometri, che in quella maratona capitano
esattamente nel quartiere del Bronx, ho visto molte di queste
persone a terra con i crampi, altre che piangevano appoggiate a
un palazzo, altre ancora che davano di stomaco… Mentre
correvo osservavo queste scene incredulo, tra il viavai di
ambulanze. In quel momento, quando non sentivo più le
gambe, la testa ha fatto il suo e nella mia lentezza sono
arrivato al traguardo. Un po’ come nella storiella della
tartaruga e della lepre di Esopo.
Parentesi personale a parte, Bannister mantiene il record
mondiale per soli 46 giorni: il muro è stato abbattuto e nessuno
si sarebbe più fatto influenzare dalla sua ombra. Da quel
giorno, il mondo ha cambiato paradigma, avanzando di sfida
in sfida e continuando a vincere, a far crollare ogni singola
barriera. Tutto grazie a un ragazzo che non ha corso con le
gambe ma con la mente, orientando la sua volontà verso un
obiettivo. Sfidando la convinzione comune e i limiti costruiti
dalla scienza. Mi torna in mente un’altra frase di Einstein:
«Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché
arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa». Il
progresso e l’evoluzione sembrano dunque essere in mano agli
sprovveduti, a tutti coloro che non credono nei limiti o, più
semplicemente, che non li conoscono.
La sfida veramente difficile che ci presenta la vita dunque
non è allenare le nostre gambe a correre, ma conoscere la
strada e la meta che vogliamo raggiungere. Orientare la nostra
volontà. Ma verso cosa?
Già i greci si erano posti questa domanda e la risposta o,
meglio, le risposte delineano i confini della felicità e della
gioia, il motivo per il quale, in questo preciso istante, stiamo
camminando insieme.
La felicità, ci dicono i filosofi, è fatta di attimi. Fugge,
sfugge. “Raptim quasi per transitum” 3 scriveva sant’Agostino:
“La felicità ci prende improvvisamente e quasi di passaggio”.
Non siamo noi che la creiamo, è lei che ci coglie e ci trascina.
Quando veniamo rapiti dalla felicità, il tempo s’inchina
all’eternità e le cede il passo. Abbiamo vissuto tutti attimi di
felicità. Il mondo si è fermato, è scomparso. L’orizzonte
temporale ha cessato di esistere. Questa è l’essenza della
felicità. La lingua ha registrato questo aspetto: i greci si
riferivano a essa con il termine eutikia, “il buon momento”,
indicando al contempo la buona sorte e la felicità, così come il
tedesco glück rimanda tanto alla felicità quanto alla fortuna, in
modo non dissimile dall’inglese happy. L’etimologia della
parola felicità è da ricondursi alla radice indoeuropea foe-, poi
divenuta fe-, da cui deriva il greco fyo, “produco, genero”, dal
quale hanno origine i termini “fecondo, fertile, feto”; e quelli
latini foemina, “fertile, che genera”, filius e anche festa. Tutti
questi termini ci rimandano a momenti in grado di rompere il
ritmo della continuità, in una prospettiva di espansione, di
generazione, di creazione.
Tutte queste situazioni ci indicano quanto la felicità sia
transitoria e instabile, segnalandoci che il modo con il quale la
esperiamo è connesso alla nostra sfera emotiva che viene
travolta da attimi inattesi, in grado di sottrarci alla
quotidianità. Il termine emozione deriva dal latino emòtus,
participio passato di emovère, “trasportare fuori, scuotere,
smuovere”. In qualche modo, rappresentano per la nostra
mente-cuore ciò che le sensazioni fisiche rappresentano per il
corpo. Quando iniziamo a interessarci delle emozioni
scopriamo un vero e proprio mondo: sono state osservate,
classificate, studiate e i risultati ai quali si è giunti, più che
fornire risposte, aprono a nuovi scenari d’indagine. Quello che
sembra però certo è che le emozioni sono innate nell’uomo e
che sono “contagiose”.
A dircelo è uno studio pubblicato su “Plos One”, rivista
scientifica open access pubblicata da Public Library of Science
(PLOS ). Prendendo in considerazione oltre un miliardo di
aggiornamenti di stato postati da più di 100 milioni di utenti
Facebook americani, si è giunti alla conclusione che i post
positivi “attraggono” altri post positivi, mentre quelli negativi
altri post negativi. «I nostri dati dimostrano che le espressioni
emotive si diffondono online, e che quelle positive si
propagano più velocemente di quelle negative» 4 spiega James
Fowler, uno degli autori della ricerca. In questo studio
possiamo vedere ancora una volta le leggi dell’attrazione e
della risonanza in azione. Se sono felice attraggo felicità, sono
un portatore attivo di felicità. Se sono spaventato contagerò
con la mia paura quelli che mi sono vicini. Vi siete mai fatti
travolgere dal terrore di notte in un bosco? Avete notato
quanto questa emozione sia virale ed esponenziale? La cosa
meravigliosa di questa evidenza è che la felicità si dimostra
essere più contagiosa della paura, della rabbia, della tristezza,
perché vibra a una frequenza più alta e libera. Ma, come per
tutto il resto, anche in questo caso è necessario possedere una
risonanza emotiva con noi stessi. Una campana rotta non
suona, non vibra se non in modo distorto. Per fortuna abbiamo
visto che esiste l’arte preziosa del kintsugi che può insegnarci
a trasformarla in un qualcosa di unico e meraviglioso, e farla
vibrare con una voce nuova.
Per vibrare di felicità e portarla nel mondo dunque c’è
bisogno di una educazione sociale orientata al bene: quella di
cui ci hanno parlato con i loro insegnamenti Yolande
Mukagasana, Antoine Leiris, Nelson Rolihlahla Mandela,
Piera Aiello, Scarlett Lewis… ricordate la scritta di suo figlio
sulla lavagnetta della cucina? “Nurturing Healing Love”:
amore che nutre e cura. Si tratta di educare, non di istruire
come dice spesso Umberto Galimberti che, citando Platone, ci
ricorda che: «La testa non si apre se prima non si apre il
cuore». 5
Eppure la nostra società tecnologica sembra andare nella
direzione opposta. Fin dalla scuola ci viene insegnato che non
esistono più compagni ma colleghi con i quali siamo
perennemente in competizione. Veniamo addestrati a diventare
esperti di piccolissimi settori ultra specializzati, così da sapere
tutto di un minuscolo nulla che ci limita e ci impedisce di
spaziare nella vastità delle possibilità umane. Il mercato
genera i nostri bisogni in modo da soddisfare necessità che
non sapevamo di avere. La società che abbiamo creato è
profondamente nichilista, impegnata a distruggere se stessa e
l’ambiente che la ospita. Viviamo come schegge impazzite
nell’accelerazione del tempo, sperduti nella cancellazione
dello spazio e delle distanze, nella promessa di un’immortalità
tecnologica. La nostra economia si vuole consumistica,
dichiaratamente impegnata nell’esaurimento delle risorse e
delle ricchezze della Terra nel minor tempo possibile. Tutto
questo ci porta a vivere in uno stato di ansia continua, di
inadeguatezza esistenziale. Fondiamo la nostra identità sulla
società e ci sentiamo sempre soli, nello sconfinato mare dei
like digitali. Siamo cittadini di un mondo che si vuole
globalizzato ma che continua a erigere muri. Soffermiamoci
un attimo su questo aspetto. Secondo uno studio condotto nel
2015 da Elisabeth Vallet, docente di geografia presso
l’università del Québec a Montréal, negli ultimi vent’anni sono
state costruite oltre cinquanta barriere di confine. Come
dimostrano i dati, alla fine della Guerra fredda, con il crollo
della Cortina di ferro, si contavano “appena” 15 barriere di
confine. Nel 2015 il loro numero era salito a 65 e, da quel
momento, non solo gli Stati Uniti d’America ma anche
l’Estonia, l’India, il Kenya, l’Arabia Saudita, Israele e la
Tunisia e chissà quanti altri Stati hanno iniziato a erigere
barriere lungo le loro frontiere. Si tratta di opere costosissime
e, per lo più, inutili che vengono abbattute poco dopo la loro
costruzione, sia che il loro obiettivo sia tenere dentro le
persone che impedir loro di entrare.
Oggigiorno i muri vengono costruiti prevalentemente come
disincentivi per coloro che non hanno altra possibilità di vita
che quella di abbandonare le proprie case, i propri famigliari e,
in condizioni spesso disumane, tentare di entrare
clandestinamente in Stati che non vogliono accoglierli.
Dichiaratamente eretti per tener fuori, questi muri in realtà non
sono che la rappresentazione plastica e istintiva dello stato di
paura e di odio della nostra società quotidianamente
terrorizzata. Lo abbiamo visto nel primo capitolo. Se
interpretiamo questo bizzarro fenomeno in tale prospettiva, ci
accorgiamo che l’ombra che proiettano non è che una
limitazione alla nostra libertà, al moto espansivo della nostra
anima. I muri attuali non vengono costruiti per tenere gli
“altri” fuori, ma per tenerci in uno stato di perenne assedio:
prigionieri in una bolla di paura, di odio e di separazione.
In questa realtà orientata verso un futuro distopico è quanto
mai necessario e pressante orientare la nostra volontà in modo
che le cose accadano senza impigrirsi nella possibilità che
queste accadano da sole o che sia qualcun altro a farle
accadere per noi. Dobbiamo scuoterci dalla pigrizia attiva e
abbandonare la calda cuccia dello sconforto e dell’impotenza.
Come diceva Rudyard Kipling: «Abbiamo quaranta milioni di
ragioni per fallire ma non una sola scusa». Mettiamoci in
cammino e diventiamo protagonisti della nostra vita: se
sapremo vibrare alla frequenza della felicità, la legge
dell’attrazione catalizzerà su di noi altra felicità e la risonanza
farà danzare l’universo alla nostra frequenza. In noi, in tutti
noi, a livello di memoria biologica, è presente la frequenza
della felicità. L’abbiamo sperimentata tutti una volta: quando
abbiamo detto sì alla vita, quando abbiamo lottato e orientato
la nostra volontà perché la nostra esistenza potesse
manifestarsi. Ricordiamocelo sempre: se siamo qui a leggere
queste righe, significa che ognuno di noi ha vinto nella corsa
del miracolo della vita. Razionalmente non ce lo ricordiamo,
ma quella frequenza è in noi, siamo noi. È sufficiente prestarle
ascolto, lasciarla risuonare nella nostra anima e la felicità
tornerà a sorprenderci. Se, come diceva Nietzsche: “La felicità
non è la sazietà, ma la gloria della Vittoria”, 6 allora quel “sì”
originario alla vita rappresenta la nostra prima, grande
Vittoria, che racchiude in potenza il destino che abbiamo
scelto come anime. Quel “sì” è il preambolo al nostro
cammino sul sentiero della Gioia.
Ma i filosofi del passato non ci hanno parlato solamente di
eutikia, di una felicità che procede per attimi inattesi. Ci hanno
tramandato anche una dinamica più profonda: l’eudaimonìa, la
buona riuscita del proprio demone. Questo termine si compone
dall’accostamento di eu-, “bene”, e -daimon, “demone”. Su chi
fosse questo demone già si era interrogato Socrate, tormentato
da una voce che da dentro di sé gli parlava, lo dissuadeva,
invitandolo a riflettere e a mettere in discussione le proprie
scelte. Il demone si delinea dunque come un qualcosa che vive
all’interno di noi e che ci spinge a realizzare le nostre capacità,
la nostra personale specificità. In una sola frase: a compiere il
destino per il quale siamo nati e abbiamo pronunciato quel “sì”
originario.
Il mito di cui vi voglio parlare è quello di Er, descritto da
Platone nella Repubblica, dove ci viene raccontato della scelta
che le anime compiono per stabilire il destino del loro
peregrinare terrestre, della reminiscenza, ossia del conoscere
come forma di ricordo e dell’innatismo, della presenza in noi
di idee che non ci derivano dall’esperienza sensibile. In modo
non casuale, nel mito di Er viene affermata poi anche la teoria
della metempsicosi, del passaggio delle anime umane e
animali in altre forme viventi.
Er è un soldato valoroso, figlio di Armenio, di schiatta
panfilia. Morto in guerra, il suo corpo viene raccolto incorrotto
dopo dieci giorni. Nel dodicesimo giorno, deposto sulla pira in
attesa di essere arso, si ridesta dal sonno mortale, per
raccontare ai vivi ciò di cui è stato testimone nell’aldilà.
La sua anima, abbandonato il corpo, si unisce a molte altre
in cammino verso un luogo meraviglioso, dove si aprono due
voragini che s’inabissano nelle profondità della terra e, di
fronte a queste, altre due che s’innalzano verso il cielo. In
mezzo alle coppie di abissi siedono i giudici delle anime.
Queste, dopo aver pagato o goduto delle azioni compiute nella
vita precedente in una misura decuplicata, fanno ritorno in
questo prato divino. Sozze e polverose le une, monde e
luminose le altre, le anime si salutano e si scambiano i racconti
di ciò che hanno visto e vissuto nei mille anni trascorsi. Er
viene invitato a osservare e ad ascoltare ogni cosa, per poterla
trasmettere ai viventi. È così che il valoroso soldato viene a
conoscenza di terribili spettacoli e di meraviglie. Quando,
dopo sette giorni di permanenza nel prato divino, le anime
vengono costrette a rimettersi in cammino, lui le segue.
Giungono così, in un luogo dove scorgono “tesa dall’alto
attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una
colonna, molto simile all’arcobaleno, ma più intensa e più pura
… Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke, per il quale
giravano tutte le sfere”. 7
Questa è la parte del mito che ci riguarda più da vicino. Er
vede Ananke, la dea della necessità, personificazione del
destino immutabile, circondata dalle sue tre sorelle, le Moire,
che cantano in armonia. Lachesi, la “fissatrice” della sorte o
qualità di vita toccata all’uomo, canta il passato; Cloto, la
“filatrice” che svolge il filo della vita, canta il presente;
Atropo, “l’irremovibile” Moira dell’ineluttabilità della morte,
canta il futuro.
Sopraggiunge un araldo divino, che mette in fila le anime,
presentandole al cospetto di Lachesi. Poi, preso dalle
ginocchia di questa Moira un gran fascio di sorti e vari tipi di
vita, sale su un podio elevato ed esclama: «Parole della
vergine Lachesi sorella di Ananke. Anime dall’effimera
esistenza corporea, incomincia per voi un altro periodo di
generazione mortale, preludio a una nuova vita e a una nuova
morte. Non sarà un dèmone a scegliere voi, ma sarete voi a
scegliervi il dèmone. Il primo che la sorte designi scelga per
primo la vita cui sarà poi irrevocabilmente legato. La virtù non
ha padrone; secondo che la onori o la spregi, ciascuno ne avrà
più o meno. La responsabilità è di chi sceglie, il dio non è
responsabile». 8
La scelta si prospetta ardua e difficile: vi sono anime che
permutano il bene della vita passata con il male e viceversa.
Altre scelgono ricalcando le esperienze passate. Altre ancora
decidono di reincarnarsi in animali. È questo, per esempio, il
caso di Agamennone che per l’ostilità verso il genere umano
causata dalle sofferenze patite, scambia il destino umano con
quello di un’aquila.
Lo spettacolo delle anime intente a scegliere il proprio
destino, al contempo “miserevole, ridicolo e meraviglioso”, 9
spinge Er a meditare su questa terribile scelta. Attratte dalla
ricchezza e dalla gloria, alcune cedono a tentazioni imprudenti
e avventate. Tra queste numerose sono quelle “inesperte di
sofferenze” 10 che erano state premiate con mille anni di
beatitudine. Le anime invece che avevano peregrinato per lo
stesso periodo negli abissi della terra, patendo indicibili dolori,
si dimostravano più caute e attente.
Alla fine, quando tutte le anime hanno compiuto la loro
scelta, vengono nuovamente condotte al cospetto di Lachesi,
che consegna a una a una il demone corrispondente alla scelta
di vita effettuata. Il suo compito è quello di vegliare sulla vita
affinché l’anima possa adempiere al destino scelto. Scortate
dal proprio demone, si recano poi da Cloto, che conferma la
scelta tessendone la trama e infine da Atropo, che rende
inalterabile il destino filato dalla sorella. Di lì procedono sotto
il trono di Ananke, la necessità, che suggella le scelte e i
destini, e passano oltre.
Er segue le anime che si addentrano nella pianura del Lete,
arsa dalla calura e spoglia. Dopo un intero giorno di cammino,
al calar della sera approdano assetate alle sponde del fiume
Amelete, alle cui acque sono costrette a dissetarsi. Chi tra i
presenti si lascia andare alla smoderatezza è condannato a
dimenticare ogni cosa. Chi, saggiamente, riesce a trattenere la
sua sete, avrebbe posseduto in terra un’eco del ricordo del
trascorso ultraterreno e delle vite passate. L’acqua del fiume
Amelete, ci dice Er, è infatti l’acqua dell’oblio. Pronti a
reincarnarsi e dimentichi in varia misura, i futuri nascituri
vengono poi “portati in su a nascere, ratti filando come stelle
cadenti”. 11
Platone conclude il mito di Er con un consiglio: “Se mi
darete ascolto e penserete che l’anima è immortale, che può
soffrire ogni male e godere ogni bene, sempre ci terremo alla
via che porta in alto e coltiveremo in ogni modo la giustizia
insieme con l’intelligenza, per essere amici a noi stessi e agli
dèi, sia finché resteremo qui, sia quando riporteremo i premi
della giustizia, come chi vince nei giochi raccoglie in giro il
suo premio; e per vivere felici in questo mondo e nel
millenario cammino che abbiamo descritto”. 12
Quello di Er è un mito complesso, che racchiude numerosi
spunti di riflessione. Ma, come ho detto, uno più di altri è
quello che ci riguarda da vicino: la scelta che effettua l’anima
nell’aldilà e la necessità di compiere il proprio destino una
volta reincarnati sulla Terra, con il suo tempo lineare. Per dirla
con Platone, la necessità di “essere amici a noi stessi”. Questo
tema rappresenta oggi un punto centrale della psicologia e
della psicoanalisi: la Gioia è la diretta conseguenza della
conoscenza di noi stessi e del nostro eu, ossia della riuscita del
nostro demone.
Per il documentario Il sentiero della Gioia, al quale sto
lavorando in questo momento, ho intervistato la psicoterapeuta
Erica F. Poli, che ha insistito molto su questo punto: le
difficoltà che incontriamo nel corso della nostra vita sono in
larga misura causate dal fatto che non ci ascoltiamo più, che
non riusciamo a comprendere quale sia lo scopo della nostra
esistenza. Il consiglio che dà a ognuno di noi è quello di
fermarsi la sera e, guardandoci allo specchio, dirci: «Anima
parlami, ti ascolto». Perché sotto gli strati di condizionamenti
che si accumulano nella nostra vita, la nostra anima rimane
spesso la grande inascoltata. Viviamo nella rappresentazione
delle maschere che indossiamo, tralasciando l’essenza. In
fondo “persona” sembra significare proprio questo: voce di
origine probabilmente etrusca, significava letteralmente
“maschera teatrale”. In quanto persone recitiamo, non siamo.
Interpretiamo il ruolo di avvocato, commerciante, giornalista,
panettiere, giornalaio… indossiamo le maschere posticce del
buono, del cattivo, del ricco, del povero… e ci convinciamo di
essere queste. Confondiamo il “chi siamo” con il “cosa
facciamo” o, peggio, con il “cosa possediamo”. Succede ogni
giorno. Avete mai notato che quando chiedi a una persona:
“Chi sei?”, automaticamente ti viene risposto: “Sono un
medico”… Sembra una banalità, ma confondere il chi sei con
quello che fai ha conseguenze drammatiche. Perché se il
“medico”, perfettamente allineato con il suo lavoro, non ha più
pazienti non vedrà solamente crollare la sua professione, ma la
sua intera esistenza. Da qui la depressione che, nella sola
Italia, sembra affliggere una persona su quattro. La perdita
dell’autostima e tutto il resto.
Ciò che facciamo e quello che possediamo non c’entrano
nulla con la nostra anima, con il motivo che ci ha spinto a fare
questa esperienza nello spazio e nel tempo. C’entra invece
molto con il nostro ego che, più di ogni altra cosa, ci allontana
dal nostro essere. Abbiamo visto nel capitolo precedente
quanto l’ego sia una costruzione relativamente recente che ha
influenzato il modo nel quale ci percepiamo nel mondo. José
Argüelles, che abbiamo già incontrato parlando dei maya,
diceva che il primo passo per ogni cammino spirituale è
“prendere a calci l’ego”. Questo perché noi non siamo il nostro
ego e, spesso, questo non ha nulla a che vedere con noi. Chi
mi ha conosciuto in questi anni, sa che è una cosa sulla quale
lavoro quotidianamente, nel mio personale cammino alla
ricerca della voce della mia anima.
Separata dall’ego, l’anima è un qualcosa di precedente a
tutte queste maschere e che continuerà a esistere anche quando
di esse non rimarrà che una pallida memoria. Quello che le
tradizioni antiche ci dicono e su cui la dottoressa Poli lavora
quotidianamente con i suoi pazienti è la necessità di
comprendere e compiere il nostro destino. Fino a quando non
lo faremo, la vita continuerà a bloccarci con mille ostacoli. Ma
non solo: saremo costretti a reincarnarci ancora e ancora,
nell’oceano sconfinato delle esistenze. Le religioni indiane ci
parlano di samsara, di quel ciclo nel quale le anime vagano e
dal quale possono liberarsi solamente tramite l’illuminazione.
Credo che la Gioia abbia molto a che vedere con tutto
questo. Scriveva Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra:
“Ormai nessuno ha più tempo per nulla. Neppure di
meravigliarsi, inorridirsi, commuoversi, innamorarsi, stare con
se stessi. Le scuse per non fermarci a chiederci se questo
correre ci rende felici sono migliaia, e se non ci sono, siamo
bravissimi a inventarle”. 13 Trovare il tempo per esperire il
ventaglio meraviglioso delle nostre emozioni, per conoscere
quest’anima che rappresenta la nostra essenza più profonda è
doveroso. Non possiamo pretendere la gioia senza ascoltare la
nostra anima. Senza riconoscerle l’immensità della sua natura.
Questa esperienza terrena richiede la nostra presenza e la
nostra volontà.
“Conosci te stesso” diceva la Sibilla. “Ascolta il tuo
demone” le ha fatto eco Socrate. Questa e solo questa è la
chiave della Gioia: scoprire lo scopo per il quale la nostra
anima si è incarnata nello spazio-tempo, fino a divenire quelli
che il filosofo Salvatore Natoli definisce “virtuosi
dell’esistenza”. Questa condizione di coscienza, di
consapevolezza di sé, ci permette di vibrare in risonanza con la
voce del nostro “demone”, di essere artefici della melodia
della nostra esistenza, come un virtuoso musicista suona il suo
strumento, senza difficoltà alcuna e nell’impossibilità
dell’errore. Mi meraviglio sempre ai concerti. A volte mi
chiedo come sia possibile suonare con una tale naturalezza,
senza avvertire l’urgenza di guardare i tasti, senza cedere alla
possibilità di sbagliare. Poi penso che in realtà il musicista, lo
strumento e la musica non sono che un tutt’uno che vibra e che
danza l’armonia della vita.
Certo, diventare virtuosi dell’esistenza non è un compito
semplice in questo incubo meccanizzato in cui viviamo,
intrappolati in un’economia che ci propone modelli in grado di
distrarci perfino da noi stessi. I modelli di esistenza che ci
vengono continuamente presentati ci spingono a voler vivere
la vita di qualcuno che non siamo noi. Un attore, un calciatore,
una modella. Ma se ci fermassimo anche solo per un istante a
chiedere alla nostra anima di parlarci, ci accorgeremmo di
quanto è insensato questo desiderio. Vivere la vita di qualcun
altro, del quale per altro non sappiamo nulla, non può essere il
sentiero per giungere alla nostra Gioia. E se anche, per qualche
assurdo scherzo del destino, riuscissimo a ottenere quello che
le macchine nichiliste della moda e della pubblicità producono
per noi, finiremmo per essere in dissonanza con noi stessi:
certo l’ego gongolerebbe, ma la nostra anima continuerebbe a
disperarsi. Andremmo incontro a difficoltà, al dolore, a tutti
quegli stimoli che la vita continuerà a proporci fino a quando
non avremo realizzato noi stessi. La realtà così descritta,
tramandataci dalla filosofia, dalle religioni e passata ora nella
moderna psicoanalisi risuona con le nostre anime.
Poi incontri Manolo e quello che avevi ricucito insieme con
tanta fatica mettendoci tutta la tua volontà, per usare
l’immagine dantesca, si squaderna nuovamente e ti impone
un’altra realtà, l’altra faccia della medaglia. Un destino con il
quale non vorremmo mai doverci confrontare.
In questi anni sono venuto a contatto con storie strazianti,
alcune delle quali mi hanno mostrato quanto il fato possa a
volte spingersi al di là del dicibile, imponendoci non solo di
sospendere il giudizio ma di rivedere ogni nostro preconcetto o
convinzione. Non ero certo di volervi parlare di questa mia
esperienza. Non perché volessi nasconderla, ma perché non
credo che esistano parole in grado di dipingerla. Né che ci sia
un modo corretto per farlo. Ve la racconto così, nuda e cruda,
per come l’ho vissuta, senza nessuna licenza poetica o
imbellettatura.
Durante le riprese per il documentario Choose Love ho
intervistato Manolo, un ex detenuto. Manolo è un ragazzo di
una dolcezza disarmante, un “bonaccione”, come si dice a
Roma. Rimasto orfano della madre a sedici anni è cresciuto
per strada, con l’esempio di suo padre che entrava e usciva di
galera. Il suo percorso di crescita è stato un susseguirsi di
amicizie sbagliate e di ambienti ancor più sbagliati. Questo
tanto per inquadrare i condizionamenti di cui ci ha parlato
Lipton.
Il suo punto di vista è quello dell’altro. Tutte le storie che
ho condiviso fino a ora hanno preso in considerazione la parte
lesa, offesa. Il destino di Manolo, invece, lo ha portato a essere
dall’altra parte. Questo fanciullone, durante uno scippo, ha
strattonato una ragazza che è scivolata per terra sbattendo la
testa. Era una giovane turista giapponese che in Italia ha perso
la vita. È stato Manolo a raccontarci questa vicenda sbagliata,
che “non sarebbe dovuta succedere”. Nel raccontare dello
scippo nel quale ha ucciso la giovane, Manolo si è messo a
piangere. Non sono in grado di descrivervi la verità e la
tristezza di quel pianto. Il dolore provato da Manolo in quel
momento è stato così intenso da contagiarci tutti. Tutta la
troupe, tutti i miei collaboratori e io per primo ci siamo
commossi. È stata la prima e unica volta nella mia esperienza
che ho dovuto fare uno stop tecnico per lacrime collettive. È
stato straziante. Davanti ai nostri occhi c’era un omone di 43
anni che si era fatto 18 anni di carcere. Un uomo che ancora
non riusciva a parlare di quello che aveva fatto senza essere
stravolto dal dolore. Quello che ho provato in quel momento
mi ha fatto riflettere: è molto più facile perdonare gli altri che
perdonare se stessi. Il suo dolore mi ha fatto capire quanto sia
difficile comprendere il proprio destino e riuscire ad
accettarlo. Non solo. Ho capito quanto sia più semplice
perdonare che aspettare il perdono di chi si ha ferito, in questo
caso i parenti della vittima. Perdono che, molto probabilmente,
non arriverà mai. La frase che ha ripetuto all’infinito è: «Non
sarebbe dovuto succedere. Non sarebbe dovuto succedere».
Alla fine dell’intervista, quando ci siamo salutati, me ne sono
andato con un pensiero in testa: a punire Manolo, più della
giustizia, era stata la vita.
Ma, ancora di più, Manolo mi ha fatto capire quanto sia
vero il saluto “In Lak’ech”, “io sono un altro te stesso”. Quello
che facciamo all’altro lo facciamo a noi stessi. L’esempio di
Manolo in merito è talmente forte da essere quasi
insostenibile. Tanto insopportabile da volersi voltare dall’altra
parte piuttosto che prenderne coscienza. Eppure è lì a
ricordarci che quello che “non sarebbe mai dovuto accadere” a
volte accade. Mi ritorna l’immagine de Lo straniero dello
scrittore e filosofo Albert Camus. L’antieroe che mette in
scena è Patrice Meursault, un uomo che si sente “straniero”
rispetto al mondo in cui vive, alieno alla società piccolo
borghese della quale non condivide né i valori né la morale.
Attraversato da una radicale percezione dell’assurdità della
natura umana, Meursault vive passivamente, distaccato da
tutto, sincero fino al parossismo nella sua totale assenza di
emozioni. Un giorno, mentre si trova a passeggiare con la sua
futura sposa sul lungo mare, incontra due arabi la cui storia si
incrocia con la loro. Dalle parole passano alle mani. Accaldato
e sudato, l’antieroe riesce a sottrarre la pistola al suo
avversario e, accecato dal sole, spara. Un arabo cade a terra,
ma Meursault non si ferma e spara altri quattro colpi: “Tutta la
mia persona si è tesa e ho contratto la mano sulla rivoltella. …
Mi sono scrollato via il sudore e il sole. Ho capito che avevo
distrutto l’equilibrio del giorno, lo straordinario silenzio di una
spiaggia dove ero stato felice. Allora ho sparato quattro volte
su un corpo inerte dove i proiettili si insaccavano senza
lasciare traccia. E furono come quattro colpi secchi che
battevo sulla porta della sventura”. 14
Questo è quello che accade ogni giorno nelle nostre vite
quando metaforicamente “spariamo” all’altro: nel premere il
grilletto bussiamo colpi secchi sulla porta della nostra
sventura. Noi siamo l’altro. Quello che facciamo all’altro lo
facciamo a noi.
Se torniamo per un istante al mito di Er potremmo
chiederci: com’è possibile che un’anima scelga un destino del
genere? Quante volte, nel nostro piccolo, ce lo siamo chiesti.
Massimo Citro, il medico mio amico di cui vi ho già parlato,
una volta mi ha raccontato che una sua paziente, disperata per
la sua vita che non rispondeva per nulla ai suoi sogni, gli ha
detto che doveva essere ubriaca, o fatta di qualche sostanza,
per essersi scelta un destino come il suo. Ma Massimo, che
oltre a essere un medico è anche laureato in lettere classiche,
le ha risposto che le meccaniche divine, che sfuggono alla
nostra comprensione, non sbagliano, non si ubriacano. Sfilano
come le anime del mito di Er silenziose sotto il trono di
Ananke, la necessità. Se la nostra anima ha scelto questa vita e
questo demone lo ha fatto perché aveva bisogno di imparare
qualcosa e, attraverso essa, evolvere. Per tremenda, dolorosa o
devastante che sia. In questa prospettiva, imparare a perdonare
noi stessi sembra essere la sfida più difficile, come lo è
attendere il perdono di qualcun altro, sapendo che molto
probabilmente non arriverà mai.
Ho voluto parlarvi di Manolo, perché il suo esempio è
fondamentale per intraprendere il sentiero della Gioia. Perché
la Gioia è per sua stessa natura espansiva e non distruttiva. È
un moto che ci porta a espandere il nostro orizzonte verso
l’esterno, in sintonia con la coscienza dell’intero universo.
Come quando il minuscolo feto cresce nel ventre della madre.
Il suo bene e quello della madre sono una cosa sola. Il suo
espandersi corrisponde a quello del mondo che abita. La sua
gioia risuona in tutto il suo universo.
Apriamo per un attimo il dizionario dei sinonimi del
Tommaseo. “Si gioisce con l’animo” 15 dice Niccolò
Tommaseo. Per questo grande linguista, scrittore e patriota
italiano, la Gioia è uno stato festoso della natura, al quale noi
esseri umani partecipiamo con la nostra anima e con la nostra
gioia. La felicità dipende da cause esterne e fugaci. La gioia è
dentro di noi, partecipe della nostra essenza. È lo scopo primo
e ultimo della nostra vita.
Viviamo in una società nichilista, volta alla distruzione
dell’ambiente che ci ospita e all’annichilimento dell’altro.
Viviamo la natura come un bene economico da consumare e
gli altri esseri umani come concorrenti o, peggio, nemici da
abbattere. “Spariamo” e distruggiamo quello che è al di fuori
di noi, senza nemmeno accorgerci che stiamo puntando la
pistola dritta contro di noi. La società tecnologica agisce nello
stesso modo, costruendo un universo distopico, incapace di
prevedere gli effetti di ciò che crea. Siamo parte di uno
tsunami devastante, che avanza distruggendo ogni cosa.
Castrando ogni possibile futuro o rendendolo impossibile.
Esempio di un’espansione distruttiva e autodistruttiva.
In questo paesaggio apocalittico ogni speranza sembra
perduta. Ma non lo è. In ognuno di noi si cela una promessa di
vita, la realizzazione piena della nostra gioia che coincide con
il bene. Sì, perché la gioia non è semplicemente un sentimento
ma è una virtù che vede nella realizzazione dell’altro e nel suo
bene la sua stessa affermazione, in un moto di espansione
costruttiva. Per questo, nelle epoche passate, accanto alla
necessità di conoscere il proprio “demone” e di realizzarlo al
meglio, c’era il senso della misura. Katametron dicevano i
greci, “secondo misura”. Il giusto mezzo, lo chiamavano i
cinesi.
Veniamo nel mondo varcando l’uscio di Kronos, il tempo,
la divinità che divora i suoi stessi figli. La sua immagine
potente e terrificante ci riporta al senso del limite, di quel
grande limite che è la morte. Ma la morte, lo abbiamo visto,
non è la fine di ogni cosa, è solo la porta della trasformazione.
Tenerlo a mente ci permette di vivere la preziosità di ogni
attimo. Di conoscere e realizzare il nostro demone in ogni
singolo istante. Questo è il dono che ci fa il tempo lineare, che
dal passato corre verso il futuro. Nel nostro universo ci viene
concessa la grazia di fare esperienza di un tempo passato e di
un tempo futuro, che trovano la loro congiuntura nel presente,
l’unico nel quale ci è permesso di agire. Per questo il momento
giusto è sempre adesso. Diceva Confucio: “Il miglior
momento per piantare un albero è vent’anni fa. L’altro è
adesso”. Non possiamo tornare indietro. Piantiamolo ora, il
nostro albero. Non cambieremo il mondo, ma faremo in modo
che si produca una piccola vibrazione che perturberà
l’ambiente, immettendo una frequenza positiva. Ciò che sarà
in seguito non dipende da noi, ma almeno potremo dire di non
aver vissuto invano. Il semplice e meraviglioso gesto di
piantare un albero ci riporta al moto espansivo della gioia, ma
anche a quello del limite. Non aspettiamoci limoni nel
seminare un fagiolo. Orientiamo la nostra volontà, mettendoci
tutta la presenza di cui siamo capaci ma facciamolo con la
consapevolezza di ciò che siamo. Nel rispetto di ciò che
siamo, senza preparare la nostra rovina con aspirazioni al di
fuori della nostra portata, soprattutto se è qualcun altro che le
ha pensate per noi.
Ora non parlo più a noi. Parlo a te che stai leggendo questo
libro. Che hai camminato insieme a me attraverso queste
pagine.
Conosci il tuo demone, realizzalo bene. Fallo secondo
misura, in un moto espansivo e costruttivo per l’intero
universo. In questo modo, nel tempo della tua vita, realizzerai
te stesso. E avrai lavorato per il bene del mondo intero.
Questo è il cammino ed è la meta. Questo è il sentiero della
Gioia.
Note

Capitolo 1. Parole, immagini e percezione


1. Citato in Sheldon Rampton, John Stauber, Fidati! Gli esperti siamo noi: come la scienza corrotta minaccia il nostro futuro, Nuovi
Mondi Media, San Lazzaro di Savena (Bo) 2004.

2. Edward Louis Bernays, Propaganda. Della manipolazione dell’opinione pubblica in democrazia, Fausto Lupetti Editore, Bologna
2008.

3. Dal documentario di Ava DuVernay, XIII Emendamento, 2016.

4. Dal documentario di Karim Amer e Jehane Noujaim, The Great Hack, 2019.

Capitolo 2. L’invenzione della Terra


1. Franco Farinelli, L’invenzione della Terra, Sellerio, Palermo 2007.

2. Michel de Montaigne, L’etica dei piaceri, a cura di Carlo Montaleone, Feltrinelli, Milano 2016.

3. Un popolo diventa povero e servo / quando gli rubano la lingua / ricevuta dai padri: / è perso per sempre. / Diventa povero e servo /
quando le parole non figliano parole / e si mangiano tra di loro. / Me ne accorgo ora, / mentre accordo la chitarra del dialetto / che
perde una corda al giorno.

4. Citato in Adriano Prosperi, Wolfgang Reinhard, a cura di, Il Nuovo Mondo nella coscienza italiana e tedesca del Cinquecento, il
Mulino, Bologna 1992.

5. Citato in Ernesto Balducci, Ludovico Grassi, La pace. Realismo di un’utopia, Principato, Milano 1983.

6. Amadeus Leaflets, Australia: gli aborigeni? Meglio adottarli che accopparli!, in “Pressenza”, 13-2-2018,
https://www.pressenza.com/it/2018/02/australia-meglio-adottarli-accopparli/.

7. Tesi di laurea di Alberto Furlan, Il rapporto formatore di corpo e paesaggio nella cultura aborigena australiana in riferimento alla
pratica rituale musicale, http://www.didgeridoo.it/Old-Site/_aborigeni/tesi2.html.

8. Dalla lettera di Capo Seattle al presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce, 1854, http://www.mexicoart.it/Ita/seattle.htm.

9. Rachel Carson, Primavera silenziosa, Feltrinelli, Milano 1999.

10. Al Gore, “Introduzione”, in ibidem.

Capitolo 3. Padroni del tempo


1. Alfred S. Posamentier, Ingmar Lehmann, I (Favolosi) numeri di Fibonacci, Emmebi, Firenze 2011.

2. Serie dei Decadarj col confronto del calendario romano, Tipografia Marsigli ai Celestini, Bologna 1804.

3. Ibidem.

4. Fabre d’Églantine, Rapport fait à la Convention nationale au nom de la Commission chargée de la confection du Calendrier, 1793.

5. Simon Leys, L’humeur, l’honneur, l’horreur: essais sur la culture et la politique chinoises, Laffont, Parigi 1991.

6. Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Firenze 2005.

7. José Argüelles, Il fattore maya. La via al di là della tecnologia, Wip, Bari 1999.

8. Ibidem.

9. Giuliana Rotondi, Perché è così difficile acchiappare una mosca?, in “Focus”, 27 settembre 2017,
https://www.focus.it/ambiente/animali/perche-e-cosi-difficile-acchiappare-una-mosca.

Capitolo 4. Anima mundi


1. Lao Tzu, Laozi. Genesi del “Daodejing”, a cura di Attilio Andreini, Einaudi, Torino 2004.
2. Ibidem.

3. Ibidem.

4. Gn 2,7-22.

5. Giulio Busi, a cura di, Zohar. Il libro dello splendore, Einaudi, Torino 2008.

6. Dictionnaire français de la langue chinoise, Institut Ricci, Parigi, Kuangchi Press, Taipei 1994.

7. Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, vol. I, Einaudi, Torino 2003.

8. Franco Battiato, Attraversando il bardo. Sguardi sull’aldilà, DVD e libro, Bompiani, Milano 2014.

9. Gn 6,3; Sal 56,5; Is 40,6.

10. Citato in Sogyal Rinpoche, Il libro tibetano del vivere e del morire, Ubaldini, Roma 2011.

11. Ibidem.

12. https://raiawadunia.com/dalai-lama-non-sapete-piu-vivere/.

13. Ibidem.

14. Questo titolo, per quanto suggestivo e in grado di catalizzare l’interesse occidentale, è però tanto fuorviante quanto riduttivo. Il
titolo originale è Bardo Tödröl Chenmo, letteralmente il “Grande libro della suprema liberazione naturale attraverso la
comprensione dello stadio intermedio” e fa parte del più ampio testo buddhista Il profondo insegnamento della liberazione
naturale attraverso la contemplazione delle divinità di Buddha miti e feroci. A tradurlo per la prima volta in una lingua
occidentale è stato nel 1927 Walter Yeeling Evans-Wentz, supportato nel suo lavoro dal Lama Kazi Dawa Samdup, vero e proprio
pioniere nella diffusione del buddhismo in Occidente. Concedendosi un’estrema libertà interpretativa, Evans-Wentz ha reso Bardo
Tödröl Chenmo con un titolo in grado di trasformare questo breve saggio in un vero e proprio longseller. Al pari del titolo, la
traduzione resa è però estremamente libera e inficiata dalla cultura teosofica e vedica alla quale Evans-Wentz si era formato.

15. Dalai Lama XIV, Robert Thurman, Daniel Goleman, La scienza della mente. Un dialogo Oriente-Occidente, Chiara Luce, Pomaia
(Pi) 1992.

16. Sogyal Rinpoche, op. cit.

17. Ibidem.

18. Franco Battiato, op. cit.

19. Edda Bresciani, a cura di, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi, Torino 1969.

Quinta storia. Il fienile è bruciato


1. Il fienile è bruciato / Ora posso / Vedere la luna. Citato in Céline Santini, Kintsugi. L’arte segreta di riparare la vita, Rizzoli,
Milano 2018.

Capitolo 5. L’arte delle preziose cicatrici


1. Bruno Martin, Le pratiche di Gurdjieff. Esercizi, rituali e danze sacre per sviluppare la consapevolezza, Edizioni Mediterranee,
Roma 2011.

2. Sogyal Rinpoche, op. cit.

3. Arthur Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Adelphi, Milano 1998.

4. Thomas Torelli, Un altro mondo. Il libro, Wip, Bari 2016.

5. Ibidem.

6. Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 85-87.

7. Céline Santini, op. cit.

8. Scarlett Lewis, Nurturing Healing Love. A Mother’s Journey of Hope and Forgiveness, Hay House, Carlsbad (Ca) 2014.

9. Ibidem.

10. Antoine Leiris, Non avrete il mio odio, Corbaccio, Milano 2016.

11. Ibidem.
12. Lc 23,34.

13. Dal concerto al teatro Brancaccio, 14 febbraio 1998.

14. Dichiarazione rilasciata dal ministro conservatore sudafricano Connie Mulder il 7 febbraio 1978.

15. Da un’intervista rilasciata a “Non è l’Arena” il 7 giugno 2020.

16. Ibidem.

17. Ibidem.

18. Piera Aiello, Umberto Lucentini, Maledetta mafia. Io, donna, testimone di giustizia con Paolo Borsellino, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi) 2012.

19. Ibidem.

20. Luigi Viva, Falegname di parole. Le canzoni e la musica di Fabrizio De André, Feltrinelli, Milano 2018.

Sesta storia. L’indicibile forza


1. Liberamente ispirata dalla lettera di Albert Einstein a sua figlia Lieserl, lettera dimostratasi falsa ma ugualmente ispiratrice.

Capitolo 6. I mistici della fisica


1. Claudio Cardella, Stefano Costa, Il sogno dei filosofi, Edizioni CiQuadro, 2017.

2. Ibidem.

3. Citato in Fabrizio Coppola, Ipotesi sulla realtà, Lalli, Poggibonsi (Si) 1991.

4. Citato in Manjit Kumar, Quantum. Da Einstein a Bohr, la teoria dei quanti, una nuova idea della realtà, Mondadori, Milano 2011.

5. Citato in Fabrizio Coppola, op. cit.

6. Amit Goswami, Il dottor Quantum. Un approccio quantico alla salute e alla guarigione, L’Età dell’Aquario, Torino 2019.

7. Ibidem.

8. http://noosphere.princeton.edu.

9. Adrian Recinos, Valérie Faurie, a cura di, Popol Vuh: Le Livre des Indiens Mayas Quichés, Albin Michel, Parigi 2013.

10. Ibidem.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Ibidem.

14. Ibidem.

15. Gn 3; 4,5.

16. Carlo Della Casa, a cura di, Upanisad,


̣ Utet, Torino 1983, Chandogya Upanisad
̣ VI.

17. Ossia lo strumento utilizzato per comunicare.

18. Citato in Ray Kurzweil, La singolarità è vicina, Apogeo, Milano 2008.

Capitolo 7. Il sentiero della Gioia


1. Marco Tarozzi, Roger Bannister, un miglio nella storia, in “Runner’s World”, 2 agosto 2019, https://www.runnersworld.it/roger-
bannister-record-miglio-sotto-4-minuti-storia-foto-8374.

2. Ibidem.

3. Citato in Andrea Remine, Sulla felicità di essere liberi, Youcanprint, Tricase (Le) 2013.

4. Lorenzo Coviello, Yunkyu Sohn, Adam D.I. Kramer et al., Detecting Emotional Contagion in Massive Social Networks, in “Plos
One”, 12 marzo 2014.

5. https://www.youtube.com/watch?v=jRCrgo1Bh4c.
6. Salvatore Natoli, L’arte di meditare. Parole della filosofia, Feltrinelli, Milano 2016.

7. Platone, Opere, vol. II, Laterza, Bari 1967.

8. Ibidem.

9. Ibidem.

10. Ibidem.

11. Ibidem.

12. Ibidem.

13. Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Longanesi, Milano 2014.

14. Albert Camus, Lo straniero, Bompiani, Milano 2016.

15. Niccolò Tommaseo, Dizionario dei sinonimi, Vallardi, Milano 1867.


Ringraziamenti

Ringrazio di cuore tutti gli amici, i sostenitori e i collaboratori che mi hanno


supportato e sopportato in questi ultimi anni, in particolare mia moglie Gabriela e le
mie figlie Isabel e Amelie che hanno subito per troppo tempo la mia assenza. Un
ringraziamento speciale lo devo infine a Lea Glarey, senza l’aiuto della quale
questo libro non avrebbe potuto vedere la luce.
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Il sentiero della gioia
di Thomas Torelli
© 2020 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Ebook ISBN 9788835705093
COPERTINA || GRAPHIC DESIGNER: NOEMI SORZE | ILLUSTRAZIONE DI REAL FUN, WOW!
Indice

Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Il sentiero della Gioia
Introduzione
Prima storia. Il mito della caverna
1. Parole, immagini e percezione
Seconda storia. L’isola alla fine del mondo
2. L’invenzione della Terra
Terza storia. I giorni di non compleanno
3. Padroni del tempo
Quarta storia. Spiga di grano
4. Anima mundi
Quinta storia. Il fienile è bruciato
5. L’arte delle preziose cicatrici
Sesta storia. L’indicibile forza
6. I mistici della fisica
Settima storia. Nascondiamola nel loro cuore
7. Il sentiero della Gioia
Note
Ringraziamenti
Copyright

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