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Uuj 1 2023 © Uup

Il numero 1/2023 del 'Urbaniana University Journal' si concentra sulla sinodalità nella Chiesa, esplorando temi come la testimonianza di Paolo, la teologia di una Chiesa sinodale e la ministerialità. Include articoli su diaconia ecclesiale, spiritualità e gestione dei beni materiali. Il volume è stato sottoposto a peer review e presenta contributi di vari autori, con un editoriale che riflette sulle attuali crisi globali.

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Il numero 1/2023 del 'Urbaniana University Journal' si concentra sulla sinodalità nella Chiesa, esplorando temi come la testimonianza di Paolo, la teologia di una Chiesa sinodale e la ministerialità. Include articoli su diaconia ecclesiale, spiritualità e gestione dei beni materiali. Il volume è stato sottoposto a peer review e presenta contributi di vari autori, con un editoriale che riflette sulle attuali crisi globali.

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UUJ

Urbaniana
University Nova Series

Journal 1/2023 LXXVI

FOCUS – Sinodalità in contesto


Antonio Landi
Paolo, testimone “sinodale”. Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli
Kokou Mawuena Ambroise Atakpa
Théologie d’une Église synodale
Mario L. Grignani
La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi
nunzio apostolico in Venezuela alla luce della documentazione vaticana
Luciano Meddi
Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale
Vito Mignozzi
Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

ARTICOLI
Salvatore Currò
La qualità della diaconia ecclesiale: reciprocità, comune umanità e risonanza del Vangelo
Antonino Drago
Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità.
Il libro Introduzione alla vita interiore di Lanza del Vasto
Jean Yawovi Attila
Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

ACADEMICA
Juan Antonio Guerrero Alves
La ministerialità dell’attività economica
nel contesto del rinnovamento missionario della Chiesa
Klaus Schatz Urbaniana
L’affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella University
e la revisione della questione dei riti Press
Copia ad esclusivo uso personale degli aventi diritto. Riproduzione riservata © UUP
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Urbaniana
University Nova Series
Journal 1/2023 LXXVI

I contributi presenti nel volume sono stati sottoposti a peer review


secondo i criteri di scientificità previsti dal Protocollo UPI
(Coordinamento delle University Press Italiane)

U RBANIANA U NIVERSITY P RESS

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Urbaniana
University
Journal
URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL EUNTES DOCETE
Rivista quadrimestrale della Pontificia Università Urbaniana di Roma
Anno di fondazione 1948 Nova Series LXXVI/1 2023

Scientific Committee/Comitato Scientifico


Andrea Aguti (Italy); Stephen Bevans (Usa); Giacomo Canobbio (Italy);
Franca D’Agostini (Italy); Roberto Dell’Oro (Usa); Dariusz Dziadosz (Poland);
Daniel Patrick Huang (Italy); Astrid Kaptijn (Switzerland); Marcin Kowalski (Poland);
Gianpaolo Montini (Italy); Regina Polak (Austria); Therese Scarpelli Cory (Usa)
Direttore/Director
Giovanni Ancona
Redazione scientifica/Scientific editing
Elena Casadei
Comitato di Redazione/Editorial Commettee
Presidente – Leonardo Sileo
Pasquale Bua, Giambattista Formica, Ernest Okonkwo,
Antoine de Padou Pooda, Aldo Skoda
Hanno collaborato a questo numero/Contributors to this issue
Kokou Mawuena Ambroise Atakpa; Jean Yawovi Attila; Salvatore Currò;
Antonino Drago; Mario L. Grignani; Juan Antonio Guerrero Alves; Gabriella Ianieri;
Antonio Landi; Sandra Mazzolini; Luciano Meddi; Vito Mignozzi; Lorenzo Prencipe;
Gaetano Sabetta
ISBN 978-88-401-9066-2 ISSN 2522-6215
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Finito di stampare nel mese di aprile 2023
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Indice

EDITORIALE 5
EDITORIAL 7
Giovanni Ancona

FOCUS – SINODALITÀ IN CONTESTO

Introduzione 11
Kokou Mawuena Ambroise Atakpa – Sandra Mazzolini

Paolo, testimone “sinodale”. 15


Un’indagine alla luce degli Atti degli apostoli
Antonio Landi

Théologie d’une Église synodale 39


Kokou Mawuena Ambroise Atakpa

La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) 61


e l’azione di mons. Filippo Cortesi nunzio apostolico
in Venezuela alla luce della documentazione vaticana
Mario L. Grignani

Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale 83


Luciano Meddi

Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali 109


Vito Mignozzi

ARTICOLI

La qualità della diaconia ecclesiale: 131


reciprocità, comune umanità e risonanza del Vangelo
Salvatore Currò
Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità. 145
Il libro Introduzione alla vita interiore di Lanza del Vasto
Antonino Drago
Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà 183
Jean Yawovi Attila

ACADEMICA – INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO 2022-2023


ACADEMICA – MARTEDÌ 25 OTTOBRE 2022 – PROLUSIONE

La ministerialità dell’attività economica 207


nel contesto del rinnovamento missionario della Chiesa
Juan Antonio Guerrero Alves

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Indice

ACADEMICA – 1622-2022, IV CENTENARIO DI FONDAZIONE


ACADEMICA – DELLA CONGREGAZIONE
ACADEMICA – PER L’EVANGELIZZAZIONE DEI POPOLI

L’affaire dello Yasukuni Jinja, 217


Paolo Marella e la revisione della questione dei riti
Klaus Schatz

RECENSIONI / SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

MASSIMILIANO SCALICI, « Troisième Testament » et nouvelle 251


évangélisation. L’autobiographie comme composante analogique
de la Révélation. De l’hypothèse d’une théologie autobiographique
à une pastorale autobiographique d’évangélisation
Lorenzo Prencipe

FRANCESCO MARCELLI (a cura di), Charles De Foucauld. 255


Storia di un missionario controcorrente.
Un santo con una missione speciale
Gaetano Sabetta

CORNELIO FABRO, Metaphysica. Corso di Metafisica 259


Gabriella Ianieri

Indice dei nomi 263


Norme redazionali per gli autori 269
Guidelines for authors 273

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EDITORIALE

o scenario mondiale di questi primi giorni di marzo del 2023 è davvero


L raccapricciante e, spero, risvegli le coscienze di tutti gli umani di buon
senso. Per parte mia sento il dovere di ritornare a riflettere su certi temi che
non vanno assolutamente dimenticati, nonostante la tendenza in atto a
“normalizzarli”. Il dramma della guerra diffusa, con particolare enfasi su
quanto sta accadendo tra Russia e Ucraina, ad esempio, non può lasciarci
indifferenti. L’impressione è che, condizionati dal flusso continuo di noti-
zie, la guerra venga sempre più considerata normale, legittima, sensata.
Eppure basterebbe soffermarsi sui fatti terribili e sulle scene drammati-
che che ci propone questa assurda e inumana tragedia per capire che gli
umani sono capaci di negare, umiliare, annientare la vita. Ma, a volte, la re-
torica a buon mercato di tanti – forse anche la mia – induce alla declina-
zione delle responsabilità. Nessuno si sente personalmente coinvolto nel
dramma se non perché colpito nella propria emotività dal grande show pro-
posto dai media e dai loro “sacerdoti”, i quali discutono, rilasciano opinio-
ni, avanzano strategie e, in ultima analisi, producono uno sconcertante sen-
so di vuoto del pensiero. A ciò s’aggiunge il continuo e disgraziato olocau-
sto dei migranti, che approdano da morti sulle nostre coste.
Il legame tra guerre e disperate situazioni umane è visibile. Gli approdi,
dopo fughe disumane, sono la morte o ulteriori condizioni di problematici-
tà esistenziale. Davanti a tutti la tragedia di Cutro e le altre tragedie che si
consumano al di fuori dei porti o delle spiagge più o meno famose. E anche
in proposito si erge la logica della delega ai poteri, alle istituzioni, alle or-
ganizzazioni governative e non, alle chiese, al fine di risolvere il tutto. Nes-
suno avverte il personale coinvolgimento nei drammi: the show must go on.
E allora? Personalmente sono convinto che non è per nulla sufficiente la-
sciarsi toccare nell’intimo, avvertire uno shock emotivo, discutere di possi-
bili ragioni, risolvere il peso della coscienza con qualche forma di sostegno
materiale e spirituale, anche se in qualche modo importante. La vera opzio-
ne umana consiste, sempre a mio parere, nella luce della buona notizia di
Gesù Cristo, nel determinarsi a favore della vita di ognuno, anche per quel-
la del nemico. Tutti dovremmo superare gli steccati delle appartenenze ed

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1/2023 ANNO LXXVI, 5-6 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Editoriale

entrare nella mistica condizione della sinodalità umana. Il futuro del pia-
neta non è solo una questione ambientale, ma anche e soprattutto una que-
stione antropologica. Nessuna proiezione apocalittica, ma solo il desiderio
speranzoso di riconoscerci simili e di coltivare insieme quel misterioso ba-
gaglio delle nostre esistenze. Ideale utopico? Forse; e anche piuttosto “leg-
gero”. Ma gli ideali utopici muovono spesso verso direzioni di compiutezza
e di vita riuscita.

GIOVANNI ANCONA
Direttore

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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EDITORIAL

he March 2023 world scenario is a really terrifying one and I hope this
T might raise awareness in human beings of good sense. For my part, once
again, I bear the responsibility of thinking about issues that should definite-
ly not be forgotten, despite the current tendency to “normalize” them. We
cannot remain indifferent to the tragedy of extended and protracted con-
flicts, and my thoughts turn to what is happening between Russia and
Ukraine. Once get used to the steady stream of news, war is perceived as
normal, legitimate, reasonable.
But yet, the monstruous events and pitiful sights reaching us from this
absurd and inhuman tragedy should be enough to disclose that human be-
ings are able to deny, humiliate and annihilate life. Beware that chip rhet-
oric – mine included, perhaps – can make taking on responsibilities more
difficult. None can be personally involved with the drama unless emotion-
ally affected by the big show launched by the media and their debating
pundits and strategists, “high priests” who ultimately produce only a dis-
concerting sense of empty thinking. In addition, there is the ongoing and
wretched holocaust of migrants, washed up on our coasts as dead bodies.
The link between wars and desperate human experiences is clear. Inhu-
man flights end up in landings which mean death or further existential dif-
ficulties. The tragedy of Cutro as well others of the same kind taking places
at the edges of less or more renowned coasts and ports are before our eyes.
And also in circumstances like this, what prevails is the logic of holding
someone else responsible, governmental and non-governmental powers, in-
stitutions, organizations, in order to resolve every problem. Nobody is per-
sonally involved in tragedies anymore: the show must go on. So what? As
for my opinion, being touched at heart, experiencing an emotional shock,
figuring out the causes and, for the purpose of a clear conscience, provid-
ing some sort of material and spiritual support, although helpful, is not
enough. The true human option – again, in my opinion – is the light of the
good news of Jesus Christ, having the determination of supporting the life
of each and every one, enemies included. All of us should overcome the

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1/2023 ANNO LXXVI, 7-8 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Editorial

fences of identities and join the mystical condition of human synodality.


The future of the planet is not only an environmental issue, but also, and
above all, an anthropological one. This is not an apocalyptic projection, on-
ly the hopeful wishing of recognizing ourselves as similar and cultivating
together that mysterious “baggage” of our existences. Utopian ideal? Per-
haps; and rather “light” too. But utopian ideals often push towards fulfill-
ment and good life.

GIOVANNI ANCONA
Director

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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UUJ
FOCUS
Sinodalità in contesto

Kokou Mawuena Ambroise Atakpa – Sandra Mazzolini


Introduzione

Antonio Landi
Paolo, testimone “sinodale”.
Un’indagine alla luce degli Atti degli apostoli

Kokou Mawuena Ambroise Atakpa


Théologie d’une Église synodale

Mario L. Grignani
La II Conferenza episcopale venezuelana (1923)
e l’azione di mons. Filippo Cortesi nunzio apostolico
in Venezuela alla luce della documentazione vaticana

Luciano Meddi
Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

Vito Mignozzi
Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

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Kokou Mawuena Ambroise Atakpa
Sandra Mazzolini

INTRODUZIONE

L’attuale focalizzazione sulla sinodalità della Chiesa è un dato saliente del-


l’odierna stagione ecclesiale. Un dato che ha determinato non soltanto l’av-
vio di processi sinodali, che vedono come protagoniste le Chiese dei vari
contesti continentali, ma anche la ripresa e l’implementazione di approfon-
dimenti teoretici inter- e transdisciplinari. Senza pretendere di esaurire un
argomento, sul quale comunque già tanto si è detto e scritto, i cinque con-
tributi qui raccolti si limitano ad abbozzare un itinerario che prende il suo
avvio dalle origini e che si conclude alla nostra contemporaneità.
Tali origini richiamano, in primo luogo, le origini della Chiesa, della
quale gli Atti degli Apostoli tramandano aspetti e dinamiche fondamentali
per la vita e per la missione ecclesiali. Essi riguardano anche la prassi si-
nodale della Chiesa apostolica, da comprendere sostanzialmente come uno
stile ecclesiale, risultato della convergenza dei seguenti cinque elementi:
la situazione iniziale; l’intervento apostolico; la proposta; il coinvolgimen-
to dell’assemblea; la decisione finale e il ripristino della comunione/uni-
tà. In questa cornice, il professor Landi abbozza la figura dell’apostolo
Paolo, indagata soprattutto dal punto di vista del suo rapporto con la Chie-
sa di Antiochia di Siria, centro nevralgico per l’opera di evangelizzazione
dei Giudei della Diaspora e dei Gentili, opera per la quale Paolo è scelto
dallo Spirito Santo.
L’esperienza di Paolo conferma dunque che la sinodalità è più uno stile
che non un protocollo da applicare in determinate circostanze. Uno stile
che informa altresì la missione evangelizzatrice di Paolo, mettendo così in
luce un aspetto irrinunciabile della sinodalità.
In secondo luogo e coerentemente con la natura teandrica della Chiesa
(cf. LG 8), le succitate origini sono anche di carattere teologico-ecclesiolo-
gico. Si segnala così che la sinodalità non è soltanto riconducibile a una
prassi e/o a uno stile, ma rimanda anche all’identità ecclesiale, mistero di
comunione, sacramento universale e di salvezza e popolo di Dio. Fonda-
menti della sinodalità ecclesiale sono quindi introdotti dal professor Atak-

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1/2023 ANNO LXXVI, 11-14 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Kokou Mawuena Ambroise Atakpa – Sandra Mazzolini

pa, il cui contributo è articolato in un triplice passaggio. Mentre nel primo


sono ripresi dati utili per focalizzare, a partire da una chiarificazione termi-
nologica, la natura e l’essenza del cammino sinodale, il secondo introduce
piuttosto rilevanti elementi dell’ecclesiologia di comunione, vera e propria
sorgente della sinodalità; il terzo, infine, si concentra sul tema ancora aper-
to e per certi aspetti spinoso dei ministeri, tema che richiede non soltanto
l’individuazione e implementazione di ministeri battesimali al servizio del-
la Chiesa sinodale, ma anche un ripensamento del ministero ordinato e del
suo rapporto con altre forme ministeriali.
Tra l’origine della sinodalità e la nostra contemporaneità, si snoda dun-
que un percorso plurisecolare, nel quale si registra la pluralità dell’eserci-
zio della sinodalità nelle diverse tradizioni cristiane. Tale esercizio plurale
è stato oggetto di studio e di indagine, consentendo in tal modo di rilevare
che esso non è stato sempre lineare ed agevole. Tanto momenti di rallenta-
mento, di concentrazione pressoché esclusiva su alcuni soggetti ecclesiali
escludendone altri, di accentuazione marcatamente confessionale ed apolo-
getica, ecc., quanto momenti di ripresa in termini più ampi relativamente,
ad esempio, ai soggetti ecclesiali, al modo di intendere la sinodalità, ecc.,
si sono intersecati nel corso del tempo.
Il contributo del professor Grignani va collocato nel lungo arco dello
sviluppo della pratica sinodale. Nel tempo, le assemblee ecclesiastiche
gerarchiche hanno rappresentato un momento importante di condivisione
e di riflessione, di discussione e di deliberazione, le cui ricadute hanno
inciso sulla missione evangelizzatrice della Chiesa e sulla riforma eccle-
siale da attuare a diversi livelli e coinvolgendo attori differenti. Basato su
fonti archivistiche, il contributo presenta il caso della celebrazione della
II Conferenza Episcopale venezuelana durante la missione diplomatica di
mons. Filippo Cortesi, nunzio apostolico a Caracas in Venezuela dal 1921
al 1925.
Il contributo del professor Meddi si colloca piuttosto nel contesto eccle-
siale contemporaneo e mette sul tappeto, intendendola come compito sino-
dale, la necessità di ridisegnare la ministerialità. La sua è una riflessione
di teologia pratica, incentrata sull’interpretazione della situazione e sulla
ricerca di una criteriologia conforme per pervenire a decisioni che siano
condivise. Proprio per questo, l’argomento è sviluppato in modo critico, non
soltanto rilevando i punti fermi già acquisiti, ma anche segnalando gli ele-
menti di criticità ancora in essere. Interrogativi non secondari emergono dal
contributo soprattutto con riferimento alla ministerialità ecclesiale. Si trat-

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Introduzione

ta in buona sostanza di questioni ancora aperte, che rimandano in ultima


analisi alla comprensione del rapporto “sinodalità-ministeri-riforma della
Chiesa” in conformità con un modello ecclesiologico che recepisca oggi le
prospettive di fondo tracciate dal Concilio Vaticano II. Dalla risposta non
soltanto teorica a questi interrogativi dipende il fatto che effettivamente la
ministerialità sia espressione di sinodalità e che si ponga al servizio della
missione evangelizzatrice della Chiesa.
In maniera in un certo senso complementare, il contributo del professor
Mignozzi offre una riflessione sulla Chiesa sinodale nei contesti socio-cul-
turali attuali. Il tema è relativamente poco indagato anche in questo tempo
nel quale la sinodalità è variamente analizzata, approfondita e vissuta. Si
tratta di un paradosso, dato il radicamento della Chiesa in differenti conte-
sti continentali e socio-culturali, un radicamento dal quale non si può pre-
scindere data non soltanto la peculiare identità ecclesiale, ma anche la na-
tura della sinodalità. Soltanto riduttivamente, entrambe possono essere ri-
ferite alle sole relazioni infra-ecclesiali.
Il succitato tema è piuttosto complesso per diversi motivi, richiede dun-
que una preliminare delimitazione di campo che permetta di rileggere in
chiave contestuale questioni connesse con la sinodalità ecclesiale. Gli at-
tuali contesti, configurati sia dalla fine della cristianità sia dai processi di
secolarizzazione, richiedono dunque di ripensare uno stile sinodale che,
senza alterare o diminuire il portato e le implicazioni di dati fondamentali,
tuttavia prenda forma coerentemente con il vissuto ecclesiale in un dato
tempo e in determinato spazio che non è soltanto territoriale. Decisivo è
quindi il riferimento a un’ecclesiologia delle Chiese locali la cui valorizza-
zione comporta di ripensare differentemente sia la questione della ministe-
rialità e del suo esercizio, cioè in forma plurale e differenziata, sia quella
della riforma delle strutture ecclesiali che supportano la missione evange-
lizzatrice della Chiesa.
Questi brevi cenni attestano a loro proprio modo l’articolata complessità
della sinodalità ecclesiale, che non può essere ridotta a un semplice tema
alla moda, oggi attuale ma domani chissà… Per questo essa esige, per un
verso, il rigore della ricerca e dell’approfondimento di fondamentali que-
stioni, tra le quali occorre segnalare quelle ecclesiologiche, sciogliendo no-
di ancora irrisolti e percorrendo con coraggio anche nuovi possibili sentie-
ri; per un altro, l’elaborazione e la messa in atto di appropriate forme con-
testuali di sinodalità, attivando quelle dinamiche comunionali che sono de-
cisive per la vita e per la missione della Chiesa, dinamiche che comporta-

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1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Kokou Mawuena Ambroise Atakpa – Sandra Mazzolini

no tra l’altro un adeguato discernimento dei segni dei tempi, perché la si-
nodalità non riguarda soltanto le relazioni infra-ecclesiali, ma anche quel-
le inter- ed extra-ecclesiali.

Kokou Mawuena Ambroise Atakpa


Pontificia Università Urbaniana
Facoltà di Teologia
([email protected])

Sandra Mazzolini
Pontificia Università Urbaniana
Facoltà di Missiologia
([email protected])

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Antonio Landi

PAOLO, TESTIMONE “SINODALE”


UN’INDAGINE ALLA LUCE
DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Introduzione – 1. La fondazione della chiesa di Antiochia – 2. Paolo e Barnaba, missiona-


ri prescelti dallo Spirito – 3. Da Antiochia ad… Antiochia: il primo viaggio missionario di
Paolo e Barnaba – 4. La controversia sulla circoncisione: da Antiochia a Gerusalemme –
5. La separazione tra Paolo e Barnaba – 6. Paolo, testimone “sinodale”
Parole chiave: Paolo; Atti degli Apostoli; testimonianza; sinodalità

Introduzione

Il libro degli Atti degli Apostoli offre interessanti spunti per riflettere sulla
prassi sinodale che ha caratterizzato la chiesa di età apostolica1; anche se
Luca non utilizza espressamente il termine sýnodos2, che non compare mai
nella letteratura neotestamentaria, è l’unico autore a impiegare lemmi che
afferiscono la medesima area semantica, come synodéuo- («andare insie-
me»; «condividere il cammino»: At 9,7) e synodía («compagnia di viag-
gio»: Lc 2,44). Soprattutto, è nel libro di Atti che il sostantivo hodós («via»,
«cammino») designa la dottrina cristiana nel suo insieme (At 19,23; 22,4;
24,22) o i cristiani come gruppo (9,2; 24,14).
Al di là delle ricorrenze lessicali, nel racconto lucano la sinodalità carat-
terizza lo stile che impronta la chiesa di Gerusalemme e le consente di af-
frontare e risolvere le tensioni che si verificano al suo interno. Pietro con-
vince la comunità circa la necessità di eleggere un nuovo apostolo che
prenda il posto lasciato vacante da Giuda (1,15-26). Le proteste dei giu-

1
Per un’indagine più accurata ci permettiamo di rimandare ad A. LANDI, Camminare
insieme. Lo stile sinodale nella chiesa delle origini (Dimensioni dello Spirito), San Paolo,
Cinisello Balsamo, MI 2021.
2
Col significato di «riunione», «convegno» è ben attestato nella storiografia greca clas-
sica (cf. ERODOTO, Storie 9,27.43; TUCIDIDE, Storie 1,97; SENOFONTE, Anabasi 6,4) e nella
letteratura filosofica (cf. PLATONE, Fedro 97).

15
1/2023 ANNO LXXVI, 15-38 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Antonio Landi

deo-cristiani di lingua greca (ellenisti) in ragione della trascuratezza patita


dalle loro vedove nel servizio quotidiano delle mense sono sedate grazie al-
l’intervento del gruppo apostolico che provvede ad eleggere «sette uomini
di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza» (6,1-6).
I criteri per l’accoglienza dei Gentili all’interno della chiesa sono moti-
vo di contrasto tra chi ritiene indispensabile la loro circoncisione, e chi in-
vece vi si oppone (15,1-2); le testimonianze di Pietro, di Paolo e Barnaba,
e l’intervento di Giacomo si riveleranno decisivi per scongiurare il perico-
lo di una scissione interna.
Non è azzardato ritenere che il narratore abbia inteso offrire al suo letto-
re non solo una ricostruzione attendibile dei fatti3, ma soprattutto un mo-
dello di risoluzione per disinnescare i conflitti che, inevitabilmente, posso-
no sorgere anche in seguito. A nostro avviso, tre sono gli elementi che ca-
ratterizzano la prassi sinodale della chiesa delle origini.

At 1,15-26 At 6,1-6 At 15 (cf. cc. 10-11)


Situazione iniziale Necessità di La negligenza L’inclusione dei
avvicendare Giuda patita dalle vedove Gentili
elleniste
Intervento apostolico Pietro Apostoli Apostoli e anziani
Proposta Scelta del Elezione di sette Due posizioni:
dodicesimo apostolo: uomini (diákonoi): a) circoncisione
criteri criteri e osservanza della
legge mosaica;
b) nessun obbligo
Coinvolgimento Sono proposti Sono indicati Ascolto delle
dell’assemblea Giuseppe e Mattia sette uomini differenti posizioni
Decisione finale Elezione di Mattia Conferimento del No alla circoncisione
e ripristino della mandato ai sette dei Gentili;
comunione/unità diaconi imposizione delle
quattro clausole.

3
Sull’attendibilità della storiografia lucana, segnaliamo a titolo esemplificativo il volu-
me collettivo di J. SCHRÖTER – J. FREY – C. ROTHSCHILD (eds.), Die Apostelgeschichte im
Kontext antiker und frühchristlicher Historiographie (Beihefte zur Zeitschrift für die neu-
testamentliche Wissenschaft 162), De Gruyter, Berlin 2009.

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Paolo, testimone “sinodale”, Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli

Le difficoltà sorte nella comunità non sono risolte per esclusiva delibera-
zione dell’autorità apostolica. La necessità di nominare un sostituto di Giu-
da non risponde ad un’esigenza emergenziale, che Pietro potrebbe affrontare
e risolvere in piena autonomia in virtù della posizione di primo piano che egli
occupa nel gruppo apostolico4. Il suo compito è quello di condividere con
l’assemblea, composta da circa centoventi fratelli e sorelle, il discernimento
relativo all’affidamento del ministero lasciato vacante dal traditore ad un al-
tro. Pietro non si è lasciato condizionare da esigenze di ordine pratico, ma ha
riflettuto sulla volontà divina alla luce dei fatti accaduti (il suicidio di Giu-
da) e delle Scritture (cf. le citazioni di Sal 69,26 e Sal 109,8 in At 1,20).
Non ha imposto il suo candidato, ma si è limitato a fornirne i requisiti (At
1,21-22):

Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tem-
po nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal batte-
simo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in
cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione.

Anche quando la comunità avanza le candidature di Giuseppe e Mattia,


l’apostolo non esprime la sua preferenza, ma si unisce alla preghiera corale
che chiede al Signore che scruta i cuori di designare il sostituto di Giuda.
Il narratore intende presentare l’elezione del dodicesimo apostolo come un
evento sinergico che coinvolge, rispettivamente, il Signore, Pietro e la co-
munità: l’iniziativa divina ispira il discernimento petrino e manifesta la sua
preferenza per Mattia; l’apostolo convoca l’assemblea non per ratificare la
sua personale decisione, ma per coinvolgerla nel processo decisionale.
La protesta degli ellenisti (6,1-16) e la questione relativa all’imposizio-
ne della circoncisione dei Gentili che hanno aderito al vangelo (c. 15) rap-
presentano una grave minaccia per la stabilità e la comunione della chiesa
di Gerusalemme5. Anche in queste due circostanze, le decisioni non sono

4
È sufficiente ricordare che nelle due liste apostoliche attestate nell’opera lucana, Lc
6,14-15 e At 1,13b, Pietro occupa sempre il primo posto. Inoltre, solo a Pietro Gesù con-
ferisce il mandato di confermare i suoi fratelli nella fede (Lc 22,32). Sulla rilevanza del-
la figura petrina nel dittico lucano, si veda A. LANDI, Pietro, una figura identitaria per la
cristianità lucana, “Rivista Biblica” 67 (2019), 3, 377-399.
5
Sulla composizione della comunità di Gerusalemme e sulla leadership al suo interno,
segnaliamo i contributi di D.A. FIENSY, The Composition of the Jerusalem Church, 213-

17
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calate ex alto, ma sono determinate sulla base di un proficuo confronto tra


il gruppo apostolico e l’assemblea. Il malcontento dei giudeo-cristiani di
lingua greca rappresenta un’occasione propizia per i Dodici perché condi-
vidono con la comunità la decisione di dedicarsi esclusivamente alla pre-
ghiera e alla diakonía della parola, vale a dire alla predicazione, così come
è stato richiesto loro dal Risorto (Lc 24,48; At 1,8).
Si noti il progressivo ampliamento dei soggetti che concorrono alla ri-
soluzione della questione: la mozione d’istituire un gruppo di sette uomi-
ni ai quali conferire il servizio delle mense è proposta dai Dodici, non più
soltanto da Pietro, come nel caso dell’elezione del dodicesimo apostolo.
Anche in tal caso, sono indicate le prerogative dei candidati, e non i lo-
ro nomi: devono godere di buona fama ed essere ripieni di Spirito Santo6
e di sapienza (At 6,3). La scelta dei nomi, così, ricade sull’assemblea,
che approva la proposta e presenta i sette uomini. La volontà del gruppo
apostolico è di ristabilire la comunione della chiesa, senza penalizzare
l’annuncio della parola né trascurare l’assistenza caritativa nei riguardi
dei poveri.
Con la dispersione di numerosi membri della comunità in Samaria (8,4-
40), la predicazione di Pietro in casa del centurione Cornelio (cc. 10-11) e
il primo viaggio missionario paolino (13,1-14,28), il vangelo si è diffuso
ben oltre la Giudea, e ha raggiunto non solo i Giudei residenti nei territori
della Diaspora, ma ha consentito anche la fondazione di nuove comunità
che includono anche i Gentili.
Il dibattito relativo alla regolamentazione dell’accoglienza dei Gentili
nella comunità cristiana (15,1-35) rischia di compromettere seriamente l’u-
nità della chiesa, che non s’identifica più esclusivamente con l’assemblea
di Gerusalemme, ma comprende un numero ben più ampio di comunità. La

236, e R. BAUCKHAM, James and the Jerusalem Church, 415-480, raccolti nel volume col-
lettaneo: ID. (ed.), The Book of Acts in Its First Century Setting. Volume 4. Palestinian Set-
ting, Eerdmans – Paternoster Press, Grand Rapids, MI – Carlisle 1995.
6
In At 2,1-4 Luca non specifica che lo Spirito abbia rivestito solo i Dodici apostoli; l’e-
spressione «tutti erano insieme nello stesso (luogo)» (2,1) richiama la descrizione della
prima comunità di Gerusalemme composta dai Dodici, da alcune donne con Maria la ma-
dre di Gesù e i suoi fratelli, così che il numero complessivo era di circa centoventi fratel-
li (1,12-15). Inoltre, dopo la preghiera d’invocazione elevata al Signore dalla comunità ge-
rosolimitana, grata per la liberazione di Pietro e Giovanni, il narratore riferisce che «tut-
ti furono pieni di Spirito Santo» (4,31).

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Paolo, testimone “sinodale”, Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli

controversia, difatti, avviene ad Antiochia di Siria7, dov’è attiva una comu-


nità mista composta da giudeo- ed etnico-cristiani che convivono pacifica-
mente, e della quale fanno parte, tra gli altri, anche Barnaba e Saulo.
L’arrivo di alcuni giudeo-cristiani da Gerusalemme, appartenenti in pre-
cedenza al movimento farisaico, crea instabilità nell’ambiente antiocheno,
perché essi sostengono la necessità d’imporre la circoncisione ai converti-
ti, così come previsto per i Gentili che intendono aderire al giudaismo: di-
fatti, dopo un periodo d’istruzione nella Torah, era richiesta la circoncisio-
ne e il bagno di purificazione prima di essere accolti definitivamente con lo
status di proseliti8.
A tale risoluzione si contrappongono fermamente Paolo e Barnaba; il
narratore glissa sulle motivazioni che inducono i due missionari della chie-
sa antiochena a respingere la proposta dei predicatori provenienti dalla
Giudea; spetterà a Pietro (15,7-11) e a Giacomo (15,13-21), chiarire in
presenza dell’intera l’assemblea, composta dagli apostoli, dagli anziani
(presbýteroi) e da tutti i fratelli, che l’inclusione dei Gentili risponde alla
volontà divina e l’accesso alla salvezza non può essere vincolato all’osser-
vanza integrale della Legge, ma dipende esclusivamente dalla grazia che
Dio ha concesso loro per mezzo del Signore Gesù (cf. 13,43; 18,27; 20,
24.32)9. Dio si è scelto un popolo (laós) per il suo Nome che non esclude
Israele; è la ekkle-sía che tiene insieme Giudei e Gentili in virtù dell’ade-
sione di fede al vangelo di Cristo10.

17
Sulla comunità di Antiochia di Siria, segnaliamo due pubblicazioni: A. DRIMBE, The
Church of Antioch and the Eucharistic Traditions (ca. 35-130 CE) (Wissenschaftliche Un-
tersuchungen zum Neuen Testament 2, 529), Mohr Siebeck, Tübingen 2020; e M. SLEE, The
Church in Antioch in the First Century CE. Communion and Conflict (Journal for the study
of the New Testament. Supplement series 244), Sheffield Academic Press, London 2003.
18
Sull’argomento si vedano i contributi di L.M. MACIÁ, Conversion and Midrash. On
Proselytes and Sympathisers with Judaism in “Leviticus Rabbah”, “Journal for the Study of
Judaism in the Persian, Hellenistic, and Roman Period” 42 (2011), 1, 58-82; e di É. NODET,
Prosélytes or Craignant-Dieu (Ac 2,11)?, “Revue Biblique” 120 (2013), 4, 596-605.
19
D. MARGUERAT, Gli Atti degli Apostoli. Vol. 2 (At 13–28), EDB, Bologna 2015, 102:
«Sono quindi i giudeo-cristiani a essere invitati a rivisitare l’origine della loro fede, per
scoprirvi il dono della grazia piuttosto che l’adesione alla Legge».
10
Il termine ekkle-sía traduce l’ebraico qāhāl, che designa l’assemblea d’Israele convo-
cata per il dono della Legge presso il Sinai (Es 24,6-8; 34,20-26) e radunata presso il
Tempio per celebrare il dono dell’alleanza. Nel NT ricorre 114 volte, di cui 23 in Atti; nei
vangeli è attestato solo in Mt 16,18; 18,17(2x).

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Gli episodi richiamati nella nostra breve rassegna hanno consentito di


apprezzare la dimensione di ascolto e di comunione che ha caratterizzato le
prime comunità cristiane; la sinodalità alla quale la chiesa odierna intende
ispirarsi non è un protocollo da seguire o una prassi da imitare, ma uno sti-
le di cui riappropriarsi perché appartiene alla natura intrinseca della comu-
nità ecclesiale11. Il nostro contributo intende approfondire il profilo “sino-
dale” della figura di Paolo così come emerge nel racconto degli Atti degli
Apostoli, soprattutto nella sua relazione con la chiesa di Antiochia di Siria,
alla quale egli appartiene, e dalla quale egli è scelto dallo Spirito Santo con
lo scopo di evangelizzare i Giudei della Diaspora e i Gentili.

1. La fondazione della chiesa di Antiochia

A partire da At 10,1-11,18, con la prima significativa apertura del messag-


gio evangelico al mondo gentile rappresentato dal centurione Cornelio e
dalla sua famiglia, il focus del racconto si sposta progressivamente da Ge-
rusalemme, dove si sono svolti gli eventi descritti in precedenza, ad An-
tiochia di Siria, dove per la prima volta i discepoli di Cristo sono denomi-
nati «cristiani, christianói» ([christianoús]: 11,26). Antiochia è soprattut-
to il centro da dove prende l’avvio l’esperienza missionaria di Paolo de-
scritta nei cc. 13-20: il cammino della parola non si arresta con l’uscita di
scena di Pietro (12,17), ma si diffonde lungo le coste orientali del bacino
del Mediterraneo.
Il racconto lucano attesta che il vangelo è giunto ad Antiochia di Siria12
in occasione della dispersione dei membri della chiesa gerosolimitana pro-
vocata dal clima di tensione e di persecuzione determinatosi dopo la lapi-
dazione di Stefano; così tutti, ad eccezione degli apostoli, si allontanano da
Gerusalemme, raggiungendo i territori circostanti della Giudea e della Sa-
maria (8,1-4). Ciò che può apparire una fuga, in realtà risponde al proget-
to missionario che il Risorto ha delineato prima della sua assunzione al cie-

11
La sinodalità «non designa una semplice procedura operativa, ma la forma peculia-
re in cui la chiesa vive e opera»: COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Sinodalità
nella vita e nella missione della Chiesa, Città del Vaticano 2018, 42.
12
Al tempo in cui sono ambientanti gli eventi descritti era la terza città più abitata al
mondo dopo Roma ed Alessandria d’Egitto con una popolazione che oscillava tra i quat-
trocentomila e i seicentomila abitanti; cf. GIUSEPPE FLAVIO, La guerra giudaica III, 4,2.

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lo: «sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria,


e fino all’estremità della terra» (1,8).
L’itinerario della diffusione del vangelo può essere inteso in prospettiva
geografica ed etnica: la proclamazione del messaggio della salvezza ha ini-
zio a Gerusalemme (2,14b-7,60), prima di estendersi in Samaria con la
missione di Filippo (8,5-40) e di terminare a Roma (28,16-31), passando
per le coste dell’Egeo e del bacino orientale del Mediterraneo grazie all’im-
pegno missionario di Paolo e dei suoi collaboratori (13,1-20,38). Tuttavia,
la formula «fino all’estremità della terra» è una citazione che Luca prende
a prestito da Is 49,6; nel contesto isaiano essa fa riferimento alle nazioni
straniere alle quali il servo di JHWH, costituito luce delle genti, deve por-
tare la salvezza. In tal senso, le due estremità del progetto missionario
enunciato dal Risorto, Gerusalemme e i confini della terra, corrispondono
ai due mondi e alle due culture a cui si rivolge il vangelo, vale a dire i Giu-
dei e i Gentili.
Il primato dell’annuncio a Israele è un topos dell’opera lucana: la testi-
monianza apostolica inizia da Gerusalemme (Lc 24,47; At 1,8) e si estende
alle genti. La tappa dell’evangelizzazione antiochena corrisponde a tale mo-
dello: da principio il vangelo è proclamato esclusivamente ai Giudei resi-
denti ad Antiochia (At 11,19); l’iniziativa di predicare la buona novella an-
che ai Greci è dei credenti provenienti da Cipro e da Cirene (11,20). Co-
m’era già accaduto in occasione dell’evangelizzazione della Samaria con
l’invio di Pietro e di Giovanni da parte della chiesa di Gerusalemme (8,14-
25), così avviene anche per la fondazione della comunità antiochena: Bar-
naba, un levita originario di Cipro (4,36-37), membro influente della chie-
sa gerosolimitana, è inviato ad Antiochia.
Il narratore non indica espressamente lo scopo della missione di Barna-
ba, ma la descrive attraverso tre verbi: vedere, gioire ed esortare (11,23-24).
Anzitutto, egli ha potuto vedere la grazia che il Signore ha operato in quel-
la città; il vangelo proclamato in città ha dato vita ad una comunità mista,
la prima stando alla narrazione lucana, composta da Giudei e da Gentili.
Il motivo della gioia è frequente nell’opera lucana, ed è spesso abbinato
all’intervento salvifico da parte di Dio: la nascita di Gesù è motivo di leti-
zia non solo per i pastori, ma per tutto il popolo d’Israele che attende il do-
no della salvezza (Lc 2,10). Il pubblicano Zaccheo accoglie con gioia Gesù
che entra in casa sua per fargli dono del perdono e della salvezza (19,6); è
il sentimento che anima gli apostoli di ritorno a Gerusalemme dopo aver
conversato con il Risorto prima di vederlo salire al cielo (24,52). Anche

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Barnaba può gioire perché non esita a riconoscere che la conversione di


una folla così considerevole ad Antiochia possa essere ascritta all’opera del
Signore (At 11,24).
Infine, non è casuale l’abbinamento del verbo parakaléo- con la figura
di Barnaba, inizialmente definito come il «figlio dell’esortazione» (hyiós
paraklḗseo-s: 4,36): lo scopo della sua missione è di esortare e incoraggia-
re i neo-credenti a perseverare nella fede con cuore risoluto e determina-
to13. La paternità della comunità siriana non è attribuita a Barnaba, ma
l’autorevolezza riconosciutagli dalla chiesa di Gerusalemme si rivela de-
terminante per accompagnare e sostenere i primi passi dell’assemblea
antiochena presso la quale s’intrattiene per un anno intero con lo scopo
di istruire.
Tuttavia, egli decide di non farsi carico da solo dell’istruzione dei cristia-
ni antiocheni; partito per Tarso, cerca Saulo e lo conduce con sé ad Antio-
chia, e condividendo con lui l’attività didascalica. Era stato suo mentore a
Gerusalemme, quando si era trattato di presentarlo al gruppo degli aposto-
li che diffidavano della bontà delle sue intenzioni di unirsi a loro (9,26-27).
La missione evangelizzatrice che Barnaba e Saulo/Paolo14 conducono ad
Antiochia può essere definita come un’esperienza sinodale, perché istrui-
scono insieme (sýn) i membri della comunità circa la via (hodós) del Signo-
re. Il loro impegno sinergico consente alla chiesa locale non solo di perse-
verare nella fede, ma anche di progredire nel consolidamento della koino--
nía al suo interno. Nella prospettiva lucana essa è da intendersi in primo
luogo come effetto dell’ascolto dell’insegnamento apostolico (2,42), realiz-
zando una piena comunione d’intenti e di azione (4,32) in una realtà così
eterogenea come quella antiochena.

13
L.T. JOHNSON, Atti degli Apostoli (Sacra Pagina 5), Elledici, Torino 2007, 174-178.
14
In passato si è ritenuto erroneamente che Sáulos (At 7,58b; 8,1a.3; 9,1.11.22.24;
11,25.30; 12,25; 13,1.2), o Saul (9,4.17; 22,7.13; 26,14) sia il nome utilizzato da Pao-
lo prima della sua cosiddetta “conversione” alla fede in Cristo. In realtà, Sáulos o Saul
è il nomen aramaico. Il greco Páulos, di cui il latino Paulus è un calco, è il cognomen di
origine greco-romana che egli aveva in virtù della cittadinanza romana perché residente
a Tarso. Luca lo sa (cf. At 16,37; 21,25b.29) e, a partire da At 13,9, in concomitanza con
l’inizio della missione ai Gentili, utilizzerà quasi esclusivamente il nome Paolo per voler
indicare la definitiva apertura universale del vangelo. A tal proposito, si vedano M. HEN-
GEL, Il Paolo precristiano (Studi biblici 100), Paideia, Brescia 1992, 50, e S.M. MCDO-
NOUGH, Small Change: Saul to Paul, Again, “Journal of Biblical Literature” 125 (2006),
2, 390-391.

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La comunione si esprime anche in gesti concreti di solidarietà, come ac-


cade in occasione della grave carestia scoppiata al tempo dell’imperatore
Claudio (46/48 d.C.). Preannunciata dal profeta Agabo su ispirazione dello
Spirito Santo, induce i cristiani antiocheni ad organizzare una colletta da
destinare ai fratelli che risiedono in Giudea, affidandone la consegna a Bar-
naba e Saulo (11,27-30)15.

2. Paolo e Barnaba, missionari prescelti dallo Spirito

La testimonianza apostolica ha preso avvio da Gerusalemme per effetto del


dono dello Spirito Santo (Lc 24,47-49; At 1,8). Il programma missionario il-
lustrato dal Risorto prevede la progressiva estensione del vangelo anche ai
Gentili; nel libro di Atti Pietro è rappresentato come l’apripista del messag-
gio di salvezza annunciato a Israele (At 2,14b-41) e agli stranieri, di cui il
centurione Cornelio è il rappresentante (10,1-48). In entrambe le circo-
stanze la presenza dello Spirito è decisiva: il primo discorso che l’apostolo
pronuncia alla presenza dei Giudei radunati per la festività della Penteco-
ste è conseguente all’effusione dello Spirito divino sugli apostoli radunati a
Gerusalemme e su tutti i presenti all’interno della comunità (2,1-4).
Pietro è diffidente prima di entrare in casa del centurione a Cesarea;
egli sa che non è opportuno per un Giudeo unirsi o incontrarsi con perso-
ne estranee al suo popolo (10,28). Tuttavia, la visione di Giaffa (10,9-16)
ha persuaso l’apostolo che nessun uomo può essere definito profano o im-
puro; così, dopo aver udito il racconto della visione avuta da Cornelio
(10,3-6), proclama il vangelo finché lo Spirito non discende su tutti i pre-
senti che ascoltano le sue parole (10,44-48): è la “pentecoste dei Genti-
li”, che conferma la volontà divina di estendere anche alle nazioni il dono
della salvezza.
Lo Spirito è l’autentico protagonista del cammino della parola; la diffu-
sione del vangelo nei territori della Diaspora è affidata a Barnaba e Paolo,
membri della chiesa16 antiochena, che assume un ruolo sempre più rilevan-
te nella missione ecclesiale. Essi sono definiti «profeti e maestri»: non è

15
Cf. 1Cor 16,1; 2Cor 8,3-6; Gal 2,10.
16
In At 11,26 è la prima volta che il termine ekkle-sía è esteso ad una comunità diver-
sa da quella gerosolimitana.

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casuale che nel libro di Atti la prima segnalazione di figure profetiche è col-
locata subito dopo la fondazione della chiesa antiochena; si tratta di profe-
ti provenienti da Gerusalemme; tra di loro, Agabo vaticina, sotto l’ispirazio-
ne dello Spirito Santo, l’imminenza di una grande carestia che si abbatterà
su tutta la terra (11,27-28).
La chiesa di Gerusalemme, dopo aver decretato che per i Gentili conver-
titi non sia necessario l’obbligo della circoncisione, invia una lettera infor-
mativa «ai fratelli di Antiochia, di Siria e di Cilicia che provengono dai pa-
gani» (15,23) per mezzo di Paolo e Barnaba. Ad essi si aggiungono due
esponenti dell’assemblea gerosolimitana: Giuda, conosciuto anche come
Barsabba, e Sila, stimati da tutti (15,22). Terminata la lettura della missi-
va, essendo anche profeti, esortano i cristiani antiocheni incoraggiandoli e
fortificandoli fino alla loro partenza (15,32-33).
Parlare o agire in maniera profetica è opera dello Spirito Santo; dopo es-
sere stati evangelizzati e battezzati, i cristiani di Efeso ricevono il dono del-
lo Spirito e si esprimono in lingue e profetizzano (19,6). L’attività carisma-
tica non è appannaggio esclusivo degli uomini; le quattro figlie nubili del-
l’evangelizzatore Filippo, a Cesarea, hanno il dono della profezia (21,9).
Pertanto, il profeta è colui/colei che parla e agisce per ispirazione dello
Spirito per far conoscere ai credenti il disegno divino; non si tratta sempli-
cemente di prevedere che cosa accadrà in futuro, ma di rivelare come Dio
intende agire perché i credenti possano discernere il suo progetto. Alla pro-
fezia è associata anche la dimensione didascalica. Nel primo grande som-
mario del libro di Atti relativo alle quattro perseveranze che contribuiscono
a delineare lo statuto della vita della comunità (2,42-46), la didachḗ («in-
segnamento») occupa la prima posizione. Il movimento cristiano delle ori-
gini nasce all’interno del giudaismo, e da esso eredita la convinzione che la
fede nasca dall’ascolto della parola. L’insegnamento del vangelo, pertanto,
è parte essenziale del processo di formazione dell’identità cristiana della
comunità antiochena.
Nel libro di Atti si fa cenno all’attività didascalica di Barnaba (11,26) e
di Saulo (18,11; 20,20); tuttavia, solo Saulo è descritto nell’esercizio della
profezia: pieno di Spirito Santo, si contrappone al mago e falso profeta Eli-
mas che intende distogliere il proconsole Sergio Paolo dall’ascolto del van-
gelo, e preconizza la sua temporanea cecità per essersi contrapposto all’o-
pera divina (13,6-12).
Ai nomi di Barnaba e Saulo sono associati anche quelli di Simone detto
Niger, Lucio di Cirene e Manaèn compagno d’infanzia del tetrarca, Erode

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Paolo, testimone “sinodale”, Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli

(13,1). L’elenco nominale non è un aspetto inedito nel racconto lucano; è


inserito in contesti che preludono ad un evento decisivo per la comunità. Il
gruppo apostolico (1,13) rappresenta il primo nucleo che ha inaugurato il
cammino testimoniale della chiesa; il gruppo dei sette diaconi (6,5) è stato
costituito in vista del servizio delle mense, ma due di essi, Stefano e Filip-
po, sono attivi protagonisti della predicazione del vangelo, rispettivamente
a Gerusalemme e in Samaria (cc. 7-8).
I Dodici sono rivestiti di Spirito in vista della missione (2,1-4); anche
Stefano (6,3.5.8.10; 7,55) e Filippo (6,3; 8,29) agiscono sotto l’impulso
dello Spirito. Barnaba e Saulo sono scelti personalmente dallo Spirito, che
fa irruzione all’interno della comunità mentre essi stanno celebrando il cul-
to del Signore e digiunando. Il verbo leiturghéo- è utilizzato nei LXX per
esprimere il culto reso a Dio dai sacerdoti e dai leviti, soprattutto nel Tem-
pio (cf. Es 28,31.35.39; Nm 1,50; 4,35; 8,22; 18,6); oppure, in senso lato,
alla preghiera (Sap 18,21). In At 13,2 designa la preghiera comune che i
cinque membri della chiesa antiochena elevano a Dio, unitamente all’offer-
ta del digiuno (nestéuo-), praticato con buona probabilità in attesa di riceve-
re una direttiva divina17.
In effetti, non è la prima né l’unica volta che nell’opera lucana la pre-
ghiera è abbinata all’astinenza di cibo in attesa della rivelazione divina: la
profetessa Anna dimora nel Tempio servendo Dio notte e giorno con digiu-
ni e preghiere; anch’ella, come Simeone, attende la redenzione d’Israele e
può gioire alla vista del bambino Gesù (Lc 2,37). Alla fine del primo viag-
gio missionario, Barnaba e Saulo fanno ritorno presso le città di Listra, Ico-
nio e Antiochia per designare in ogni chiesa alcuni anziani come guide del-
le comunità fondate; dopo aver digiunato e pregato li affidano al Signore
perché possano attendere con fedeltà al mandato loro conferito (14,23).
Per la prima volta, lo Spirito è descritto con tratti personali: è interessan-
te notare che sino a questo punto del racconto la volontà divina era resa no-
ta ai credenti solo attraverso il Signore risorto; ora, invece, è lo Spirito, sog-
getto del verbo éipen («disse»), a palesare l’elezione divina di Barnaba e
Saulo in vista dell’opera (érgon) che sarà loro demandata. Il narratore tie-
ne con il fiato sospeso il suo lettore, perché è reticente circa il contenuto
della missione per la quale essi sono stati messi a parte.

17
In Eb 10,11 è riferito al servizio del Tempio di Gerusalemme, mentre in Didachḗ
15,1-2 esprime il culto cristiano.

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La scelta di Barnaba e Saulo è un’iniziativa divina che coinvolge attiva-


mente anche il gruppo di discepoli antiocheni presenti: lo Spirito chiede lo-
ro di «mettere a parte», «riservare» i prescelti18. Il verbo aphorízo- («riser-
vare») evoca il linguaggio delle vocazioni profetiche (Is 49,1; Ger 1,5), ed
è utilizzato anche da Paolo per indicare l’incarico che gli è stato conferito
su mandato divino di araldo del vangelo (Rm 1,1). La comunità è chiama-
ta a ratificare la decisione divina; ciò che essa attendeva pregando e digiu-
nando19, è stato palesato attraverso lo Spirito.
Nella tradizione biblico-giudaica, l’imposizione delle mani è simbolo di
benedizione, di trasmissione di autorità; oppure, può esprimere l’identifica-
zione con il sacrificio o denotare appartenenza. Nella prospettiva lucana è
contestuale all’intervento taumaturgico (9,12; 28,8), oppure implica il dono
dello Spirito Santo (8,17-18; 19,5-6), o la collocazione in un servizio comu-
nitario (6,6; 13,3)20. Nel caso dell’elezione di Barnaba e Saulo, la comunità
è interpellata perché riconosca e ratifichi la scelta divina e preghi per coloro
che sono stati scelti in vista dell’opera che lo Spirito intende loro conferire.
La missione affidata a Barnaba e Saulo è un’iniziativa divina, ma è rive-
lata nell’ambito ecclesiale; non è destinata esclusivamente agli interessati,
ma coinvolge il gruppo referente che ha assunto la guida dell’assemblea an-
tiochena. La sinergia e l’interazione tra la dimensione divina ed ecclesiale
è imprescindibile per discernere il disegno divino, ed è la conditio neces-
saria per il cammino sinodale della comunità cristiana.

3. Da Antiochia ad… Antiochia: il primo viaggio missionario


3. di Paolo e Barnaba

La comunità ha imposto le mani su Barnaba e Paolo e li ha congedati (At


13,3), ma il loro invio è scaturito dall’iniziativa divina: l’espressione ek-
pemphthéntes hypò toû haghíu pnéumatos ha valore ridondante, e serve ad
ottenere un duplice effetto: anzitutto, è utile a ribadire che entrambi sono

18
Nel libro di Atti il verbo proskaléomai esprime il senso della vocazione e dell’elezio-
ne divina (2,39; 16,10).
19
Si noti il doppio riferimento alle due attività: At 13,2.3.
20
J. COPPENS, L’imposition des mains dans les Actes des Apòtres, in J. KREMER (ed.), Les
Actes des apôtres. Traditions, rédaction, théologie (Bibliotheca Ephemeridum Theologi-
carum Lovaniensium 48), Duculot – University Press, Gembloux – Leuven 1979, 405-438.

26
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Paolo, testimone “sinodale”, Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli

stati «inviati dallo Spirito Santo» (13,4). Inoltre, è la prima volta che il pun-
to di partenza della missione non è Gerusalemme bensì Antiochia di Siria,
ed è doveroso da parte del narratore lucano sottolineare che la dislocazio-
ne non è casuale, né risponde ad una decisione umana, ma rimanda al pro-
getto divino.
Salpati da Seleucia, giungono presso l’isola di Cipro e a Salamina procla-
mano il vangelo nelle sinagoghe locali (13,5): lo Spirito non ha indicato i
destinatari dell’opera per la quale Barnaba e Paolo sono stati prescelti. L’e-
pisodio più significativo si svolge a Pafo (13,6-12): Paolo, colmo di Spirito
Santo, è costretto a misurarsi con un mago e falso profeta giudeo, di nome
Elimas (Bar-Jesus), che si oppone alla proclamazione del vangelo destina-
ta al proconsole Sergio Paolo.
È il simbolo dell’ostilità alla diffusione del messaggio della salvezza da
parte di un ambiente, che teme di perdere prestigio, potere e lucro dall’e-
sercizio della magia e della falsa profezia, come dimostrano i casi della
schiava che praticava la divinazione procurando notevoli introiti ai suoi pa-
droni fino all’intervento di Paolo, che la libera dallo spirito pitone (16,16-
18); e degli efesini che, dopo la conversione, hanno scelto di rinunciare al-
l’esercizio della magia, bruciano i rotoli contenenti le formule magiche per
un valore di circa cinquantamila monete d’argento (19,18-19).
La tappa più significativa è rappresentata dalla predicazione di Paolo
nella sinagoga di Antiochia di Pisidia (13,14-41): il kerygma è proclamato
alla presenza dei Giudei e dei timorati di Dio, vale a dire Gentili che han-
no aderito al giudaismo, frequentano la sinagoga, osservano il sabato e han-
no discreta familiarità con le Scritture d’Israele. Paolo si rivolge all’udito-
rio ricorrendo all’appellativo adelphói («fratelli»): l’ascolto e l’accoglienza
del vangelo annullano la separazione tra Giudei e Gentili e, in virtù della
promessa fatta ad Abramo (cf. Gen 12,3), sono accomunati per volontà di
Dio nel beneficiare della salvezza concessa per mezzo di Cristo.
L’eco della predicazione paolina si diffonde ben oltre il perimetro sina-
gogale, e attira quasi tutta la città che, il sabato successivo, si reca presso
di lui e Barnaba per ascoltare il suo insegnamento, suscitando la zelo reli-
gioso21 dei Giudei, che si oppongono alla proclamazione della salvezza
estesa anche ai Gentili che non frequentano la sinagoga (13,44-45). La re-

21
Il termine zélos (At 13,45) non esprime il sentimento di gelosia, ma l’ardore religio-
so che anima i Giudei ostili al progetto paolino di evangelizzare i Gentili che non appar-
tengono ai timorati di Dio.

27
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plica è descritta come una dichiarazione congiunta da parte di Paolo e Bar-


naba, ancora una volta a sottolineare lo stile di profonda collaborazione che
caratterizza il loro impegno missionario.
Con franchezza dichiarano che era necessario rivolgere la parola di Dio
anzitutto ai Giudei; tuttavia, la loro reazione di ostilità decreta la svolta ver-
so i Gentili. La loro accoglienza è già prevista nel disegno divino e delinea-
ta nelle Scritture; in tal senso, la citazione dell’oracolo di Is 49,6 («Ti ho
posto come luce delle nazioni perché tu sia come salvezza fino al confine
estremo della terra»: At 13,47) consente di suffragare su base scritturistica
la svolta verso i Gentili, e di evidenziare, ancora una volta, la sýnkrisis
(«comparazione») tra Gesù (Lc 2,32) e i suoi discepoli nel segno della con-
tinuità della storia salvifica.
Il vangelo, rifiutato dai Giudei, è invece accolto con gioia dai pagani an-
tiocheni (At 13,48-49); tuttavia, la persecuzione è la dimensione che carat-
terizza la testimonianza evangelica, e così Paolo e Barnaba sono costretti a
fuggire in direzione di Iconio (13,50-52), dove i due missionari si tratten-
gono predicando e operando segni prodigiosi (14,1-7). Anche da Iconio de-
vono allontanarsi per i disordini scoppiati, e trovano riparo a Listra; la gua-
rigione concessa a un paralitico suscita clamore ed entusiasmo tra la popo-
lazione locale, convinta che Paolo e Barnaba rappresentino, rispettivamen-
te, Hermes e Zeus scesi sulla terra. A malapena riescono a dissuadere gli
abitanti del luogo dalla volontà di offrire in loro onore un sacrificio, pale-
sando l’oggettiva difficoltà che il movimento cristiano incontra inculturan-
dosi nel mondo pagano, caratterizzato da una religiosità improntata al cul-
to politeista (14,8-18).
Il trasferimento a Derbe è una scelta conseguente alla lapidazione sub-
ita da Paolo a Listra da parte di alcuni Giudei provenienti da Antiochia e
da Iconio; tuttavia, il passaggio si rivela prezioso per proseguire l’impegno
di diffondere il vangelo prima di far ritorno nelle città evangelizzate in pre-
cedenza, confermando i discepoli nella fede loro trasmessa e stabilendo in
ogni chiesa alcuni anziani (presbýteroi), affidandoli al Signore dopo aver
pregato e digiunato (14,19-23)22. La struttura comunitaria risponde ad
un’organizzazione “sinodale”, in cui gli anziani assolvono la responsabilità
di custodire la fede e di preservare la comunione interna.

22
Si veda J. DUPONT, Nouvelles Études sur les Actes des Apôtres (Lectio Divina 118), Les
Éditions du Cerf, Paris 1984, 350-357.

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Il viaggio missionario di Paolo e Barnaba termina con il rientro presso la


comunità di Antiochia di Siria, «là dove erano stati affidati alla grazia di
Dio per l’opera che avevano compiuto» (14,26). Il termine érgon fa inclu-
sione con l’inizio della sequenza narrativa (13,2) e si riferisce all’opera che
lo Spirito ha demandato ai due discepoli antiocheni. È interessante notare
l’enfasi posa sul tema della comunione attraverso la reiterazione delle pre-
posizioni sýn e metá che nella lingua greca reggono il complemento di unio-
ne o di compagnia («con», «insieme a»):
a) «Avendo convocato la comunità (synagagóntes tḕn ekkle-sían)
b) riferirono ciò che Dio fece con23 loro (met’autôn) e come avesse
b) aperto la porta della fede ai Gentili.
a ) Poi, si fermavano non poco tempo con i discepoli» (sỳn toîs mathe--
1

a1) taîs).
Nella composizione concentrica individuata emerge in maniera palese
che lo stile comunionale e sinodale che caratterizza le relazioni tra i disce-
poli della chiesa antiochena è consolidato dalla certezza che la missione
condotta da Paolo e Barnaba è stata suscitata e sostenuta dall’azione divi-
na. In effetti, è Dio il soggetto dei verbi epóie-sen («fece») ed ḗnoixen
(«aprì»); tuttavia, ciò è avvenuto non senza l’impegno e lo sforzo profusi dai
missionari antiocheni. La sinergia umano-divina è il presupposto indispen-
sabile per la comunione intraecclesiale.

4. La controversia sulla circoncisione:


4. da Antiochia a Gerusalemme

Nella prospettiva lucana l’apertura del vangelo ai Gentili è parte integran-


te della missione di Gesù e dei suoi discepoli: solo nel terzo vangelo, infat-
ti, sono riportate le parole profetiche pronunciate dal vegliardo Simeone
che, su ispirazione dello Spirito Santo, stringe tra le braccia Gesù e bene-
dice Dio, perché in quel bambino i suoi occhi hanno contemplato la salvez-
za per tutti i popoli, la luce per illuminare tutte le genti e la gloria del po-
polo d’Israele (Lc 2,29-32). In Cristo i destini d’Israele e delle Genti sono
provvidenzialmente intrecciati: la salvezza promessa agli antichi padri ga-
rantisce al popolo eletto il primato dell’annuncio, ma non l’esclusiva; difat-
ti, Dio ha disposto che anche alle nazioni sia estesa la possibilità di acco-
gliere il vangelo e di convertirsi (cf. 4,24-27).

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Ciò che in Cristo è prefigurato, è affidato alla missione degli apostoli: es-
si sono chiamati a rendergli testimonianza da Gerusalemme fino all’estre-
mità della terra, ai Giudei come ai Gentili (24,47-48; At 1,8). Ancor prima
che Pietro si rechi in casa di Cornelio, inaugurando di fatto la definitiva
apertura della comunità cristiana al mondo pagano, il Signore invia Anania,
un discepolo damasceno, presso Saulo, chiedendogli di non aver paura di
lui perché è stato scelto perché divulghi il suo Nome «dinanzi alle nazioni,
ai re e ai figli d’Israele» (At 9,15).
In tal senso, il primo viaggio ha confermato la vocazione missionaria di
Paolo: si è prodigato nell’evangelizzazione dei Giudei che dimorano nei ter-
ritori della Diaspora, privilegiando le sinagoghe come luoghi di annuncio
(13,5.14; 14,1). L’itinerario di viaggio tracciato dallo Spirito ha consentito a
Paolo di far conoscere il messaggio della salvezza anche al proconsole Ser-
gio Paolo (13,6-12); ai timorati di Dio che frequentano la sinagoga e ai resi-
denti di Antiochia di Pisidia (13,14-49); anche gli abitanti di Iconio (14,1)
e di Listra (14,8-18) hanno la possibilità di ascoltare la sua predicazione.
È interessante notare che l’adesione alla fede dei Gentili è preceduta
esclusivamente dall’ascolto del vangelo proclamato dai missionari antio-
cheni; da parte sua, non è richiesto altro: Sergio Paolo crede dopo aver vi-
sto ciò che era accaduto al mago e falso profeta Elimas, colpito dal potere
efficace dell’insegnamento del Signore (13,12); la gioia dei residenti antio-
cheni per aver udito che la volontà salvifica è estesa anche alle genti si tra-
muta in convinta adesione di fede (13,48), così come numerosi sono i cit-
tadini di Iconio che accolgono il vangelo e divengono credenti (14,1). Pao-
lo e Barnaba sono persuasi che l’accesso alla fede dei Gentili dipenda
esclusivamente da Dio: nulla dev’essere richiesto o imposto loro, se non l’a-
scolto e l’accoglienza del vangelo.
Ciò che accade ad Antiochia non resta celato a Gerusalemme, dove una
porzione della comunità, di formazione farisaica, si oppone alla prassi
adottata da Paolo e Barnaba. Il narratore prova a sfumare i contorni dell’i-
dentità degli oppositori paolini, riferendo che coloro che sono giunti ad
Antiochia con l’obiettivo di costringere i credenti locali ad accettare la cir-
concisione sono «alcuni provenienti dalla Giudea» (15,1). È una formula-
zione vaga che non offre maggiori indicazioni sul numero e sulla prove-
nienza dei predicatori; solo quando Paolo e Barnaba salgono a Gerusalem-
me, appare chiaro che l’obbligo della circoncisione e della sottomissione
alla legge mosaica è richiesto da alcuni della setta dei farisei divenuti cre-
denti (15,5).

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Nella sua esposizione dei fatti Luca non ha taciuto il clima di tensione e
di persecuzione patito dai discepoli, né le crisi interne alla chiesa che han-
no rappresentato una grave minaccia per gli equilibri interni. L’inganno
perpetrato da Anania e Saffira, che mentono sull’esatto importo ricavato
dalla vendita di un terreno, può nuocere alla prassi della condivisione dei
beni praticata nella comunità di Gerusalemme (5,1-11); nessuno è obbliga-
to a praticarla, ma il gesto dev’essere compiuto in sincerità e trasparenza.
Anche il malcontento degli ellenisti, che protestano perché la negligenza
nei confronti delle loro vedove nel servizio delle mense (6,1-6), può incri-
nare l’equilibrio interno della comunità.
Nel primo caso, la presa di posizione autorevole di Pietro smaschera la
menzogna dei due coniugi, contro i quali si abbatte una punizione letale; la
loro morte suscita grande timore in tutta la chiesa e in quanti vengono a co-
noscenza dei fatti accaduti. Il malcontento degli ellenisti, invece, è sedato
dall’intervento del gruppo apostolico che, su indicazione dell’assemblea,
individua sette uomini ai quali, dopo l’approvazione apostolica, è affidata
la diakonía delle mense.
Tuttavia, la controversia relativa all’accoglienza dei Gentili rischia di
diventare divisiva, perché tocca l’identità della chiesa che, all’epoca dei
fatti raccontati da Luca, si concepisce come un gruppo interno al giudai-
smo, in cui la circoncisione e la sottomissione alla Toràh sono ritenute
simboli identitari ai quali non è possibile rinunciare senza implicare una
progressiva dissoluzione dello statuto identitario del popolo eletto24. La
propaganda dei missionari giunti ad Antiochia e la mozione proposta dai
giudeo-cristiani di formazione farisaica a Gerusalemme si contrappongo-
no alle scelte fatte da Paolo e Barnaba, refrattari a imporre l’obbligo del-
la circoncisione.

23
Preferiamo tradurre «con», anziché «per mezzo» (cf. CEI 2008), conservando il si-
gnificato della preposizione metá.
24
S.D. BUTTICAZ, L’identité de l’Eglise dans les Actes des apôtres. De la restauration d’Is-
raël à la conquête universelle (Beihefte zur Zeitschrift für die neutestamentliche Wissens-
chaft und die Kunde der älteren Kirche 174), De Gruyter, Berlin – New York, NY 2011,
308; J.D.G. DUNN, Boundary Markers in Early Christianity, in J. RÜPKE (ed.), Gruppenre-
ligionen im römischen Reich. Sozialformen, Grenzziehungen und Leistungen (Studien und
Texte zu Antike und Christentum 43), Mohr Siebeck, Tübingen 2007, 49-68; J.T. SANDERS,
Who Is a Jew and Who Is a Gentile in the Book of Acts?, “New Testament Studies” 37
(1991), 3, 434-455; A. VANHOYE, Les Juifs selon les Actes des Apôtres et les Épîtres du Nou-
veau Testament, “Biblica” 72 (1991), 1, 70-89.

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La posta in palio è elevata, e la discussione non può essere affrontata e


risolta a livello locale; «la questione relativa al modo di regolare l’inclusio-
ne dei Gentili non si configura come una questione marginale, ma tocca la
sostanza dell’identità ecclesiale: l’appartenenza al popolo della nuova al-
leanza è sancita dall’adesione al nómos e all’éthos mosaici, o si fonda su al-
tri presupposti?»25. Per questa ragione è stabilito che la vertenza sia discus-
sa a Gerusalemme, perché il dibattimento sia moderato alla presenza degli
apostoli e degli anziani (presbýteroi), ai quali non compete solo la respon-
sabilità di guidare l’assemblea locale, ma anche il compito di preservare la
fede e di discernere il disegno divino.
Prendono la parola dapprima i sostenitori della circoncisione (15,5); poi,
è il turno di Pietro, secondo cui Dio concede la salvezza ad ogni uomo non
grazie alla legge, ma solo in virtù della grazia concessa per mezzo del Si-
gnore Gesù (15,7-11). Il narratore lucano accenna in maniera sintetica al-
l’intervento di Paolo e Barnaba, che insistono sui segni prodigiosi che Dio
ha realizzato tra le genti durante la loro missione (15,12). L’ultimo interven-
to riportato da Luca è quello Giacomo, esponente di primo piano della chie-
sa locale (cf. 12,17); sulla base della testimonianza petrina e delle profe-
zie, egli ritiene di non vincolare l’accoglienza dei Gentili alla circoncisio-
ne, ma di obbligarli ad astenersi dalla contaminazione con gli alimenti de-
stinati ai sacrifici idolatrici o consumati durante i banchetti in onore delle
divinità pagane; dall’immoralità legata alla sfera morale e, soprattutto, ses-
suale; dalla carne soffocata e, infine, dal bere o spargere sangue.
La lettera decretale, con la quale si rende noto ai convertiti dal mondo
gentile la decisione di non imporre l’obbligo della circoncisione e la neces-
sità di attenersi alle norme indicate da Giacomo, è idealmente sottoscritta
dagli apostoli e dagli anziani ed è consegnata nelle mani di Paolo e Barna-
ba che, insieme a Giuda e a Sila anch’essi profeti, si recano ad Antiochia,
riuniscono la comunità e danno lettura del decreto ed esortano i cristiani
antiocheni a perseverare nella fede (15,22-35).
L’esito della controversia sulla circoncisione non è presentato come un
successo della linea paolina sulla fazione opposta; l’assemblea di Gerusa-
lemme non è stata l’arena dello scontro tra due opposte frange che si con-

25
A. LANDI, Il vangelo fino ai confini della terra. Testimonianza e missione negli Atti de-
gli Apostoli (Studi sull’Antico e sul Nuovo Testamento), San Paolo, Cinisello Balsamo, MI
2020, 133.

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tendevano un primato ideologico, ma ha visto la mobilitazione di tutte le


componenti ecclesiali (apostoli, anziani, assemblea) perché il dibattito por-
tasse ad una decisione ponderata e condivisa da tutti.
La risoluzione di non obbligare i convertiti Gentili alla circoncisione e la
richiesta di attenersi all’osservanza delle quattro norme indicate da Giacomo
può essere definita a tutti gli effetti come una scelta maturata sulla base del-
l’ascolto dei protagonisti del dibattito e del confronto. La ricerca di una solu-
zione non poteva prescindere dalla consultazione delle Scritture profetiche,
in cui si palesa la volontà divina di estendere la salvezza a tutte le genti26.
Infine, nella lettera decretale destinata ai convertiti di Antiochia, Siria e
Cilicia è espresso che la decisione finale non è da attribuire esclusivamen-
te al discernimento dei protagonisti coinvolti, ma essa stessa è stata ispira-
ta dallo Spirito Santo (15,28). È la presenza attiva e operante dello Spirito
che garantisce la comunione ecclesiale e indica le tappe, i tempi e la mo-
dalità della missione.

5. La separazione tra Paolo e Barnaba

La crisi legata alla questione della circoncisione dei Gentili convertiti è or-
mai superata, e Paolo e Barnaba proseguono il loro impegno di evangelizza-
zione ad Antiochia di Siria (At 15,35). Trascorso del tempo, Paolo propone a
Barnaba di tornare presso le comunità fondate durante il loro primo viaggio
(15,36); il motivo che induce Paolo a voler riprendere il cammino non è mis-
sionario, bensì pastorale, come conferma l’uso del verbo episképtomai, nel
senso di «visitare», «sorvegliare», «vagliare con attenzione» (cf. 6,3).
Inoltre, vale la pena sottolineare che l’iniziativa non è ispirata dallo Spi-
rito Santo, come avvenuto in precedenza (13,2-3), ma è presentata come la
volontà di Paolo di fare visita ai fratelli con lo scopo di sincerarsi delle lo-
ro condizioni, memore delle non poche tribolazioni che essi sono stati co-
stretti ad affrontare per restare saldi nella fede (14,22).
Barnaba è d’accordo, e vuole che si unisca anche Giovanni detto Marco
(15,37), che in precedenza aveva condiviso il cammino con loro da Geru-

26
ID., «A People from the Gentiles» (Acts 15,14). The Inclusion of the Gentiles and the
Christian Identity Making in Luke-Acts, “Archivio Teologico Torinese” 26 (2020), 2, 459-
474 (468-473).

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salemme (12,25) fino a Perge, prima di far ritorno a Gerusalemme (13,13).


La ragione del suo allontanamento è inizialmente taciuta dal narratore;
l’impegno dei due missionari antiocheni era proseguita senza soste né in-
terruzioni fino ad Antiochia di Pisidia.
Paolo dissente dalla scelta di Barnaba, perché ritiene che non sia giusto
associarsi chi, in precedenza, si era allontanato (aphísthe-mi), interrompen-
do la collaborazione con loro (15,38). La diffidenza paolina può ricollegar-
si alla motivazione che ha indotto Giovanni Marco a disertare in preceden-
za: non è escluso che egli possa essere stato in disaccordo con la scelta di
evangelizzare i Gentili senza pretenderne la circoncisione27, e per questa
ragione si sia allontanato. Se la sua disapprovazione l’abbia altresì indotto
a informare la chiesa gerosolimitana degli sviluppi della missione paolina
in Asia Minore suscitando la reazione ostile dei sostenitori della circonci-
sione28, è un’ipotesi difficile da dimostrare per assenza di indizi all’interno
del racconto lucano.
Il disaccordo tra Paolo e Barnaba è insanabile: nella letteratura neotesta-
mentaria il termine paroxusmós ricorre altrove solo in Eb 10,24 col signifi-
cato di «incentivo»; in At 15,39, invece, assume il senso di «esasperazio-
ne», «irritazione». I due missionari decidono così di separarsi ponendo fi-
ne ad un sodalizio iniziato allorquando Barnaba si è fatto garante di Paolo
presso il gruppo apostolico (9,27); inoltre, sua è stata l’iniziativa di recarsi
a Tarso per condurre Paolo ad Antiochia di Siria (11,25).
Non è la prima crisi che segna il cammino della chiesa; tuttavia, è l’uni-
ca volta in cui a contrapporsi non sono due gruppi, come nel caso dei giu-
deo-cristiani di lingua greca (ellenisti) che protestavano nei confronti dei re-
sponsabili della chiesa perché le loro vedove erano trascurate nel servizio
delle mense (6,1-6), o come accaduto in occasione del dibattito relativo al-
la circoncisione tra coloro che ne volevano imporre l’obbligo per i Gentili
convertiti e chi, come Pietro e Paolo, non la ritenevano necessaria (15,1-35).
Le controversie appena menzionate si sono risolte con decisioni di carat-
tere sinodale, che hanno coinvolto il gruppo apostolico e l’intera assemblea

27
Per MARGUERAT, Atti degli Apostoli. Vol. 2, 127, «Giovanni sarebbe più vicino alle ri-
serve gerosolimitane sulla missione universale che alle posizioni di Paolo, cosa che ne fa-
rebbe un partner teologicamente poco affidabile».
28
È l’opinione di R. PESCH, Atti degli Apostoli. Seconda edizione (Commenti e studi bi-
blici), Cittadella Editrice, Assisi, PG 20052, 619.

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ecclesiale con lo scopo di risolvere i conflitti e di ripristinare la comunio-


ne. Nel caso di Paolo e Barnaba, invece, la soluzione adottata è la separa-
zione: Barnaba resta fermo nel suo proposito di associarsi Giovanni Marco
e s’imbarca per Cipro; Paolo sceglie Sila, che in precedenza era stato am-
basciatore per conto della chiesa di Gerusalemme della lettera decretale
(15,22.27.31).
Entrambi partono, separatamente; ma il narratore riferisce che la comu-
nità prega per Paolo, il quale prende congedo solo dopo che i fratelli l’han-
no affidato alla grazia del Signore (15,40; cf. 14,26). La rottura tra i due
non ostacola il cammino della parola, né lede gli equilibri interni dell’as-
semblea antiochena. Dal nostro punto di vista, la preghiera non dev’essere
interpretata come una netta presa di posizione della comunità a sostegno di
Paolo nei confronti di Barnaba; questi torna a Cipro, suo luogo di origine
(4,36), ma non è chiaro quale sia il motivo del suo trasferimento. Il viaggio
paolino, invece, serve a consolidare nella fede le comunità evangelizzate in
precedenza (15,41), legate alla chiesa antiochena perché da essa lo Spiri-
to ha scelto Barnaba e Paolo per evangelizzare le genti29.
Dopo la separazione, Barnaba non comparirà più nel racconto, mentre
Paolo assurgerà a ruolo di protagonista umano fino al termine della narra-
zione. Tuttavia, vale la pena rilevare che Paolo non porta avanti l’opera mis-
sionaria da solo; sino al suo arresto a Gerusalemme (21,33), sono numero-
si i collaboratori30 che condividono con lui la fatica della predicazione e
con i quali egli si confronta nello stile “sinodale” che ha caratterizzato la
sua testimonianza a servizio del vangelo.

6. Paolo, testimone “sinodale”?

Nel libro degli Atti degli Apostoli il ritratto di Paolo è caratterizzato dal te-
ma della testimonianza (martyría): egli è scelto dal Risorto per divenire suo
testimone (mártys), proclamando al cospetto delle genti, dei re e dei figli

29
C.K. BARRETT, A Critical and Exegetical Commentary on the Acts of the Apostles. Vol.
II: Acts XV-XXVIII (International Critical Commentary), T&T Clark, London – New York,
NY 1998, 757-758.
30
Sila (At 15,39-17,15; 18,5); Timoteo (16,1-17,15; 18,5; 19,22; 20,4); Aquila e Pri-
sca (18,2-19); Erasto (19,22); Gaio e Aristarco (19,29; 20,4); Sopatro, Secondo, Tichico
e Trofimo (20,4).

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d’Israele (At 9,15) la messianità di Gesù (18,5), il vangelo della grazia di


Dio (20,24), la morte e risurrezione del Cristo (26,22) e la regalità divina
che si è palesata nel Signore Gesù (28,23), esortando tutti coloro che han-
no udito la sua predicazione a convertirsi a Dio e a credere nel Signore Ge-
sù (20,21).
A differenza degli apostoli, egli non è discepolo del Gesù terreno; tutta-
via, anche la sua vocazione testimoniale è di origine divina (9,15; 22,14;
26,16), così come il contenuto del suo annuncio è cristologico al pari di
quello affidato dal Risorto ai suoi discepoli (Lc 24,47; At 1,8; 9,15; 22,15;
26,15). Anch’egli è inviato alle nazioni e ai Giudei (9,15; 22,15; 26,15), e
la sua missione è preceduta dall’intervento dello Spirito (9,17; 13,2).
In particolare, il narratore lucano insiste sulla sofferenza che ha caratte-
rizzato la testimonianza paolina; non è casuale che nell’opera lucana il ver-
bo páscho- («soffrire») sia utilizzato esclusivamente per Gesù (Lc 9,22;
17,25; 22,15; 24,26; At 3,18; 17,3) e per Paolo (9,16); la passione del di-
scepolo ricalca quella del maestro, anche se del primo si evita di racconta-
re la morte31.
Se la sofferenza pone in continuità la missione di Gesù e di Paolo, lo sti-
le sinodale è ciò che accomuna l’agire di Pietro, degli apostoli e di Paolo.
Lo Spirito l’ha prescelto insieme a Barnaba perché, entrambi, divulgassero
il vangelo ai Giudei e, soprattutto, ai Gentili. Fino alla vigilia del secondo
viaggio missionario, il sodalizio missionario, sancito per disposizione divi-
na, ha consentito ad entrambi di collaborare tra di loro, di proclamare la pa-
rola e di esortare i fratelli nella fede senza disattendere la salda comunio-
ne creatasi tra di loro.
Entrambi non hanno mai reciso il rapporto di appartenenza con la chie-
sa antiochena, dalla quale sono stati affidati alla grazia del Signore e pres-
so la quale sono rientrati al termine del primo viaggio per condividere i
frutti del loro impegno missionario. Anche quando decide di separarsi da
Barnaba, non prosegue da solo, ma sceglie di associarsi Sila e Timoteo per
un viaggio che, inizialmente, era destinato a raggiungere le comunità fon-
date in precedenza, finché lo Spirito non interviene e destina i missiona-
ri in Grecia (15,35-18,22), spingendo ancora più avanti le frontiere del

31
Si veda A. LANDI, La testimonianza necessaria. Paolo, testimone della salvezza uni-
versale a Roma in At 28,16-31 (Analecta biblica 210), Gregorian&Biblical Press, Roma
2015, 151-167.

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Paolo, testimone “sinodale”, Un’indagine alla luce degli Atti degli Apostoli

vangelo, nella sede culturale più prestigiosa dell’antichità, Atene, prima


di condurre Paolo, in catene, nella capitale del mondo gentile, Roma
(28,16-31).

Antonio Landi
Pontificia Università Urbaniana
([email protected])

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Antonio Landi

ABSTRACT

PAOLO, TESTIMONE “SINODALE”


UN’INDAGINE ALLA LUCE
DEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI

Nel libro degli Atti degli Apostoli sono soprattutto due i tratti che caratterizzano
la figura dell’apostolo Paolo: egli è il missionario, che diffonde il vangelo nei ter-
ritori della Diaspora (At 13-21) e, dopo il suo arresto a Gerusalemme, il prigio-
niero che rende testimonianza al Risorto sino a Roma (At 22-28). Il suo legame
con la chiesa di Antiochia e la collaborazione con Barnaba contribuiscono a fa-
re di lui un testimone sinodale, che sotto la guida dello Spirito Santo condivide
la fatica di proclamare il vangelo.

PAUL AS “SYNODAL” WITNESS


AN INQUIRY IN THE LIGHT
OF THE ACTS OF THE APOSTLES

In the Book of the Acts of the Apostles there are two traits above all that charac-
terize the figure of the Apostle Paul: he is the missionary, who spreads the
Gospel in the territories of the Diaspora (Acts 13-21), and after his arrest in
Jerusalem, the prisoner who bears witness to the Risen One as far as Rome
(Acts 22-28). His bond with the Church of Antioch and his collaboration with
Barnabas contribute to making him a synodal witness, who under the guidance
of the Holy Spirit shares the effort of proclaiming the Gospel.

Keywords: Paul; Acts of the Apostles; Witness; Synodality

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THÉOLOGIE D’UNE ÉGLISE SYNODALE

La synodalité à la croisée de la théologie et de la sémantique – Ecclésiologie de commu-


nion : Aux sources de la synodalité – Les ministères pour une Église synodale – Conclusion
Mots-clés : Communion ; concile ; conciliarité ; Église ; ministère ; ministérialité ; peuple
de Dieu; synode; synodalité

La synodalité est l’une des réalités majeures dans la vie de l’Église com-
munion. Elle implique et traverse toute la vie de l’Église. En cet article,
nous aimerions au premier abord prendre en examen le sens et la source
théologique de cette réalité qui, de nos jours, passerait comme une mode,
une nouvelle manière, voire une façon plus raffinée de faire la théologie.
Par la suite, nous irons aux sources de la synodalité, l’Église, mystère de
communion, pour cerner, enfin, les ministères dans la vie de l’Église com-
me éléments essentiels du dynamisme synodal.

1. La synodalité a la croisée de la théologie et de la sémantique

La marche de l’Église locale ne se règle […] ni selon le mode hiérar-


chique où un seul impose sa volonté, ni selon le mode démocratique ou
« parlementaire » où tout se fait de façon collective par vote de motions
proposées, amendées et acceptées de la majorité des voix. Elle se règle
selon le mode dit synodal où, à tous les échelons, la communauté en-
tière se trouve active mais dans le respect des fonctions propres, dont
certaines sont données avec le sacrement du ministère1.

Cette réflexion de Jean-Marie Roger Tillard nous introduit à point nom-


mé dans l’essence d’une théologie de l’Église synodale. La synodalité est

1
J.-M.R. TILLARD, L’Église locale. Ecclésiologie de communion et catholicité, Coll.
« Cogitatio fidei » n° 191, Les Éditions du Cerf, Paris 1995, 331.

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une pratique aussi ancienne que l’Église. Elle a refait surface de manière
significative dans la vie de l’Église depuis le Concile Vatican II. De nos
jours, c’est un thème prépondérant dans le magistère du Pape François et
dans la réflexion des théologiens. Aussi bien que l’Église, la synodalité est
une réalité communionnelle. Elle engage tous les baptisés. Le synode est
nécessairement et structurellement communion. C’est un circumincessio
(au sens strict du terme) entre les baptisés en communion intime avec le
Dieu Trinitaire. Le cheminement et la vie de toute l’Église Pérégrinante
vers sa patrie céleste se décline dans les termes « synode/synodalité »,
« concile/conciliarité » au point de les interchanger. Mais il est toujours né-
cessaire de saisir la particularité et le sens propre de chacun de ces termes
pour ne pas céder à toute confusion ou ambiguïté. Aussi, une clarification
sémantique s’impose. Les termes « synodes » et « conciles » relèvent du
contexte historique et confessionnel. En revanche les termes « conciliarité »
et « synodalité » sont des catégories abstraites :

Synode/synodalité et concile/conciliarité sont considérés comme des


termes équivalents, aussi bien en grec qu’en latin, malgré la tentative de
Schmale d’introduire une différenciation pour l’époque du Moyen Âge.
Mais il convient de faire aussi une distinction entre synode et synodali-
té. La synodalité (ou collégialité) est une catégorie abstraite et peut être
comprise différemment par les divers interprètes. Le synode/concile en
revanche est un événement précis, historiquement déterminé, et ne peut
être ramené à un modèle commun, à une Gestalt fixe2.

Synode/concile se réfèrent donc à l’épiphanie et à la liturgie de l’Église


communion. Le synode est une réalité historique concrète en un lieu3. La

2
G. RUGGIERI, À propos des synodes: l’histoire nous interroge, “Recherches de Science
Religieuse” 106, (2018), 3, 363-364. Cf. ID., Per una Chiesa sinodale, in A. MELLONI (a
cura di), Sinodalità. Istruzione per l’uso, EDB, Bologna 2021, 14-15.
3
« Dans l’Église catholique, la distinction dans l’usage des paroles “concile” et “syn-
ode” est récente. Au deuxième concile du Vatican, ce sont des synonymes qui désignent
l’assise conciliaire. Une précision a été introduite par le Codex Iuris Canonici de l’Église
latine (1983) dans lequel on distingue entre concile particulier (général ou provincial) et
concile œcuménique, d’une part, et synode des évêques et synode diocésain, d’autre
part», COMMISSION THÉOLOGIQUE INTERNATIONALE (CTI), La synodalité dans la vie et dans
la mission de l’Église, 2 mars 2018, n. 4.

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synodalité, quant à elle, « signifie le modus vivendi et operandi spécifique


de l’Église Peuple de Dieu qui manifeste et réalise concrètement son être
de communion dans le fait de cheminer ensemble, de se réunir en assem-
blée et que tous ses membres prennent une part active à sa mission évan-
gélisatrice »4. La synodalité émane donc d’une catégorie abstraite qui se ré-
fère à l’essence de l’Église à partir de son dynamisme communionnel dans
la vie concrète et tangible l’Église. L’Église de Dieu, icône de la Trinité, est
synodale dans son dynamisme relationnel. Du fait de sa nature, la synodali-
té est fondamentale dans la vie de l’Église. À raison, il est tout à fait juste
de dire avec Jean Chrysostome que : « Église et synode sont synonymes »5.
Le dynamisme synodal implique donc l’impératif et la primauté de la com-
munion dans la vie de l’Église. L’Église-telle-que-Dieu-veut est, existe et
décline sa raison d’être à partir du dynamisme synodal. L’Église ne peut se
passer de sa nature synodale :

Réduire le dynamisme synodal à l’institution synodale serait en fait ris-


quer de ne pas donner à celle-ci l’importance ecclésiologique qui lui
revient. Car le dynamisme synodal est infiniment plus large que l’ins-
titution synodale dont il ne peut aisément faire l’économie. Elle dépend
de lui, il lui donne son sens ; il l’appelle6.

Le dynamisme synodal est aussi vieux que l’Église. L’institution synoda-


le n’est qu’au service de l’Église communion7. Certes, son histoire est lon-
gue et complexe. Des théologiens comme Jean-Marie Roger Tillard, Giu-
seppe Ruggieri, Hervé Legrand, Gilles Routhier, et, d’autres encore, esti-
ment que le parcours synodal ne peut être réduit à cette institution. Une vi-
sion simpliste risquerait de la réduire aux seuls évêques et à l’instance pon-
tificale qui la régit. Le collège des évêques sans le peuple de Dieu ne se-

4
Ibid., n. 6.
5
Saint JEAN CHRYSOSTOME, Explicatio in Ps. 149, PG 55, 493.
6
TILLARD, L’Église locale, 333-334.
7
« Si les Églises locales des premiers siècles se rassemblent […] pour traiter de ques-
tions graves, en modelant parfois leurs réunions sur les assemblées civiles, c’est qu’elles
ont coulé dans des formes séculières ce que leur conscience de la nature communionnelle
de l’Église de Dieu les incitait à instituer comme moyen normal pour régler les affaires
non plus de la cité mais du “Peuple de Dieu”, de la “maison de Dieu” (Ep 2, 19; 1 Tm 3,
15 ; He 3, 6 ; 1 P 2, 5) », ibid., 348.

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rait pas l’Église-telle-que-Dieu-veut. La collégialité épiscopale serait une


coquille vide sans le peuple de Dieu. La synodalité ne peut donc se rédui-
re à l’assise synodale. Par conséquent, l’institution « synode des évêques »,
bien qu’elle trouve dans la collégialité épiscopale la communion des Égli-
ses locales entre elles et, par conséquent la communion de l’Église univer-
selle, une seule Église, elle n’aurait pas une vocation communionnelle, sa
raison d’être d’ailleurs, sans le peuple de Dieu.
L’élection de l’évêque dans l’Église primitive était, par exemple, un mo-
ment synodal. Toute l’Église locale, fidèles laïcs et fidèles ordonnés parti-
cipaient tous de façon active à ce moment ecclésial. Par conséquent, l’Égli-
se perdrait sa nature si elle venait à ignorer son dynamisme synodal, la
communion8. L’institution synodale est un moment clé du dynamisme syno-
dal. Elle est une épiphanie de la communion de l’Église. Le grand retour
de Vatican II à l’authenticité de l’Église primitive n’est pas seulement l’ex-
hortation à convoquer des synodes, mais est aussi, et surtout, la participa-
tion active des fidèles laïcs. La tenue de synodes est donc une exigence
cruciale dans la vie de l’Église. La synodalité est inhérente à la nature de
l’Église. Ministres ordonnés et fidèles laïcs sont tous membres actifs et pro-
tagonistes de la vie synodale de l’Église. À juste titre, Jean-Marie Roger
Tillard soulignait le retour du Concile Vatican II et du code de 1983 à la
participation active des fidèles laïcs aux synodes de l’Église locale9.
Le dynamisme synodal n’est ni un supplément facultatif ni seulement
l’implication des élus à l’assemblée synodale. Au contraire, il constitue

8
« La signification de la règle de “trois évêques au moins” est capitale. […] Elle ac-
tualise le fait que l’ordination de l’évêque n’est jamais l’affaire de l’Église locale fermée
sur elle-même mais la concerne en tant qu’en elle se trouve en vérité l’Église de Dieu. Or
celle-ci est par nature koinônía, communion non seulement des hommes et des femmes
d’un espace donné mais de toutes les communautés que soude l’Esprit de la réconcilia-
tion pascale. L’évêque de toute Église locale vient à la fois d’elle et d’ailleurs, parce que
sa foi, sa mission, son témoignage, ses moyens de Salut ne sont d’elle qu’en étant aussi
d’ailleurs. Ils n’existent que dans sa communion aux autres Églises locales sans laquelle
elle ne serait pas en toute intégrité Église de Dieu », ibid., 244.
9
« Quand (donc) on lit dans le code de 1983, visant à donner forme institutionnelle
aux intuitions du concile Vatican II et surtout à la constitution Lumen gentium (32), la pe-
tite phrase, à première vue banale, “doivent être convoqués au synode diocésain comme
membres du synode et sont tenus par l’obligation d’y participer […] des fidèles laïcs”
(canon 463, 5), on a la certitude que là s’amorce un retour à l’authentique nature de
l’Église locale », ibid., 353.

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l’exercice permanent de la communion de toute l’Église, Corps du Christ,


icone de la Trinité10. Dans l’histoire des synodes de l’Église primitive, la li-
turgie occupait une place fondamentale11. L’Eucharistie, sacrement de la
communion, est étroitement liée au parcours synodal12. La participation des
christifideles à la célébration des synodes traduit la réalité sacramentelle de
la communion eucharistique :

Dans les conciles généraux l’Église cherche toujours […] un consen-


sus unanime. Il s’agit alors d’autre chose que de soumission à une auto-
rité supérieure, puisque l’épiscopat, soudé en sa communion à la sedes
de Rome, y exerce le pouvoir suprême de façon solennelle (voir LG 22).
On entre dans le consensus qui a émergé et où s’est manifesté par le
« sensus fidei » le sentiment de l’Église de Dieu conduite par l’Esprit, le
« phonème ekklesiastikon » vaut aussi du synode de l’Église locale. La
totalité ne s’y confond pas avec l’addition des voix. On se trouve sur un
autre plan, celui de la conscience ecclésiale s’exprimant en une com-
munion que chacun, loin de vouloir s’imposer à l’autre, s’enrichir à son
tour. C’est cette communion construite par l’Eucharistie, que préside
l’évêque, sacramentum du Christ en acte de réconciliation. C’est elle
qu’il exprime dans ce qu’il retient des débats13.

10
« Au commencement du deuxième siècle, le témoignage d’Ignace d’Antioche décrit la
conscience synodale des diverses Églises particulières qui se considèrent solidairement
comme expression de l’unique Église. Dans la lettre qu’il envoie à la communauté d’Éphèse,
il affirme que tous ses membres sont σύνοδοι, compagnons de voyage, en vertu de la dignité
baptismale et de leur amitié avec le Christ. De plus, il souligne l’ordre divin qui fait l’har-
monie de l’Église, appelée à chanter la louange de l’unité à Dieu le Père dans le Christ Jé-
sus: le collège des prêtres est le conseil de l’évêque et tous les membres de la communauté,
chacun selon son rôle, sont appelés à l’édifier. La communion ecclésiale est produite et man-
ifestée dans la synaxe eucharistique présidée par l’évêque: elle alimente la conscience et l’e-
spérance qu’à la fin de l’histoire, Dieu réunira dans son royaume toutes les communautés qui
aujourd’hui la vivent et la célèbrent dans la foi », CTI, La synodalité, n. 25.
11
Cf. G. KRETSCHMAR, Die Konzile der alten Kirche, in H.J. MARGULL (Hrsg.), Die öku-
menischen Konzile der Christenheit, Evangelisches Verlagswerk, Stuttgart 1961, 13-74; E.
LANNE, L’origine des synodes, “Theologische Zeitschrift” 27 (1971), 3, 201-222; E. JU-
NOD, Naissance de la pratique synodale et unité de l’Église au IIe siècle, “Revue d’histoire
et de philosophie religieuses” 68 (1988), 2, 163-180.
12
RUGGIERI, Chiesa sinodale, IX.
13
TILLARD, L’Église locale, 359-360.

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La réception est un élément fondamental de la communion qui découle


du synode. Elle surmonte toutes les tensions. En elle émerge la profonde
originalité de l’Église. Dans la réception, la communion de l’Église se ré-
alise. Les décisions du synode ne sont pas seulement celles de l’évêque –
ou de l’évêque de Rome et du collège épiscopal – elles sont le sensus fidei
de toute l’Église14. Avant même la réception, un consensus est nécessaire15.
L’Esprit en est le protagoniste aussi bien à la phase de la célébration du sy-
node qu’à la réception. La koinônía à travers le consensus est l’œuvre du
Saint Esprit car le Christ Tête l’Église, agit en son Corps à travers son
Esprit16. Le synode ou le concile est le lieu de formation du consensus. Le
processus de réception est la conséquence d’un fait évangélique fondamen-
tal17. On ne peut la concevoir comme une servilité :

14
« La vie ecclésiale est inconcevable en dehors du dynamisme qui lie Église et évê-
que, les Églises entre elles, les évêques entre eux et au primat romain, le primat romain
aux évêques et à leurs Églises. Si bien que la voix des communautés locales chemine jus-
qu’au nœud de la synodalité et que les décisions du corps épiscopal (que préside l’évê-
que de Rome) retournent aux Églises locales, dans le cycle d’un unique dynamisme, qui
est celui de la koinônía. Où est la puissance de l’Esprit dont vit Église de Dieu en sa ca-
tholicité? Elle n’existe que dans la synergie et la complémentarité des capacités et des
pouvoirs, personnels et collectifs, que l’Esprit distribue au gré de la Divina Providentia
du Père, dans tout le Corps ecclésial du Fils. Car la synodalité ecclésiale se déploie – c’est
son ultime – sous l’emprise de la circumincession trinitaire. Impossible de trancher au
couteau », ibid., 483.
15
Cf. A. GRILLMEIER, Konzil und Rezeption. Methodische Bemerkungen zu einem Thema
der ökumenischen Diskussion der Gegenwart, „Theologie und Philosophie” 45 (1970), 3,
321-352; Y. CONGAR, La “réception” comme réalité ecclésiologique, “Revue des Sciences
Philosophiques et Théologiques” 56 (1972), 3, 369-403; G. ALBERIGO, Elezione-consenso-
recezione nell’esperienza cristiana, „Concilium” 7 (1972), 1247-1260; H.J. SIEBEN, Consen-
sus, unanimitas und maior pars auf Konzilien, von der Alten Kirche bis zum Ersten Vatika-
num, „Theologie und Philosophie” 67 (1992), 2, 192-229; G. ROUTHIER, La réception d’un
concile, (coll. Cogitatio Fidei, 174), Les Éditions du Cerf, Paris 1993; H. LEGRAND – J. MAN-
ZANARES – A. GARCÍA Y GARCÍA (a cura di), Recezione e comunione tra le chiese. Atti del III
colloquio internazionale di Salamanca, 8-14 aprile 1996, EDB, Bologna 1998.
16
Cf. RUGGIERI, Chiesa sinodale, 57.
17
« Un chrétien a toujours besoin d’un frère chrétien : il a besoin de se, faire assurer
ou confirmer par un autre et, autant que possible, par une communauté [...] Le principe
énoncé en Dt 19, 15 sur la nécessité de deux ou trois témoins a été repris dans le Nou-
veau Testament d’une manière qui dépasse le cadre juridique ou procédurier pour pren-
dre une valeur générale de règle du comportement chrétien (68-69) », CONGAR, La Récep-
tion comme réalité ecclésiologique, 51-12.

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Au synode, la « réception » est l’emboîtement de deux types de respon-


sabilité, en vue d’une conclusion à laquelle l’Église locale comme tel-
le – en tant que communion de charismes et de fonctions – doit parve-
nir, à cause de l’Évangile de Dieu. Aucune des fonctions n’a à dévorer
l’autre comme si elle était sa rivale. Elle ne peut s’affirmer contre l’au-
tre. Elle ne peut l’élimer. Rappelons Pascal : « La multitude qui ne se
réduit pas à l’unité est confusion ; l’unité qui ne dépend pas de la mul-
titude est tyrannie » [Pensées, éd. Lafuma 604 ; Brunschvicg 871]18.

La réception est manifeste dans une communion conviviale de foi et dans


la spécificité des Églises locales et des individus. En fin de compte, bien
que soumis au temps et à l’espace, le consensus et la réception puisent leur
source vitale dans la communion trinitaire19.

2. Ecclésiologie de communion : aux sources de la synodalité

Selon Jean-Marie Roger Tillard, l’ecclésiologie de communion est sans nul-


le doute l’ecclésiologie qui a marqué le plus le Concile Vatican II20. Sans
aucun doute, Jean-Marie Roger Tillard est de loin l’un des théologiens ca-
tholiques les plus représentatif de cette ecclésiologie. Toute sa théologie se
fonde sur sa perception de l’Église comme communion. L’Église locale, l’É-
glise universelle, le peuple de Dieu, les ministères ordonnés et le sacerdoce
commun, la synergie de la Catholica Ecclesia Dei, la synodalité, la collégia-

18
TILLARD, L’Église locale, 359.
19
Cf. RUGGIERI, Chiesa sinodale, 62-63.
20
« Relisant d’un seul trait, avec le recul de plus de vingt ans, les principaux docu-
ments du concile du Vatican II, en parallèle avec les textes promulgués en 1870 et ceux
qui, alors en projet, ne purent être menés à terme, on est frappé par la différence non
seulement de langage ou de ton mais de climat. […] La différence vient de ce qu’à Vat-
ican II la communion – pourtant rarement mentionnée – représente la ligne d’horizon
sur laquelle se détachent les grandes affirmations sur l’Église et sa mission. Peu ex-
plicite, souvent mêlé à des positions venant d’une autre ecclésiologie et maintenues sur
la demande d’une minorité inquiète, ce glissement de la pensée catholique (romaine)
vers la vieille vision patristique – toujours attestée dans la liturgie – est pourtant per-
ceptible sauf peut-être dans les documents mineurs», J.-M.R. TILLARD, Église d’Églis-
es. L’ecclésiologie de communion, Coll. « Cogitatio fidei » n°143, Les Éditions du Cerf,
Paris 1987, 9.

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lité épiscopale, la sollicitudo de l’évêque de Rome ; bref notre théologien a


trouvé dans la koinônía l’herméneutique et l’ontologie d’une ecclésiologie21.
Certes, notre théologien n’a pas eu une tâche facile dans l’élaboration de son
ecclésiologie. Cependant, il n’était pas seul dans cette haleine22. Et pour-
tant sa vision ecclésiologique permettait de cerner de façon profonde et glo-
bale les thématiques théo-logiques de l’Église dans le fond et dans la forme.
Depuis la réémergence de la synodalité sous le pontificat du pape Fran-
çois, certains théologiens disent, à raison, qu’il faudrait une « conversion »
théo-logique, une nouvelle manière de faire la théologie23. Cependant, si
on perçoit avec Jean-Marie Roger Tillard la koinônía comme l’ontologie et
l’herméneutique de l’ecclésiologie, le problème ne se poserait pas : « On
est alors surpris que, mis à part d’excellentes études sur la notion de koi-
nônía, si peu de travaux aient été consacrés à une reprise de toute la vi-
sion de l’Église autour de la communion. D’autant que celui-ci, […] per-
met de saisir (au-delà d’une perspective purement institutionnelle) l’être
de grâce de l’Église »24.
La pensée judéo-chrétienne a toujours vu dans la communion la plus
haute et la plus noble expression de la réalisation et de l’épanouissement
de l’être humain25. Au fait, l’isolement est le drame de l’humanité, de la
société et par ricochet de l’Église. Aussi, la tradition judéo-chrétienne a

21
K.M.A. ATAKPA, Mystère de communion : Une seule Église, Universelle et locale. L’ec-
clésiologie de communion de Jean-Marie Roger Tillard, Harmattan, Torino – Paris 2017.
22
Cf. J. RIGAL, L’ecclésiologie de communion. Son évolution historique et ses fondements,
Les Éditions du Cerf, Paris 1997. On trouve tant chez les catholiques, les orthodoxes et
les catholiques des théologiens qui ont donné une contribution significative dans l’élabo-
ration de l’ecclésiologie de communion. Chez les catholiques on retrouve par exemple
Yves Congar, Emmanuel Lanne et Hervé Legrand, chez les orthodoxes Ioannis Zizioulas
et, chez les protestants Jürgen Moltmann.
23
Cf. G. CANOBBIO, Un nuovo volto della Chiesa? Teologia del Sinodo, Morcelliana, Bre-
scia 2023; R. LUCIANI – S. NOCETI, Sinodalmente, Forma e riforma di una Chiesa sinoda-
le, Nerbini, Firenze 2022; N. SALATO (a cura di), La sinodalità al tempo di Francesco 1.
Una lettura storico-dogmatica, EDB, Bologna 2020; F. ASTI – E. CIBELLI, La sinodalità al
tempo di Francesco 2. Una chiave di lettura sistematica e pastorale, EDB, Bologna 2020.
24
TILLARD, Église d’Églises, 9.
25
Cf. A. FINKIELKRAUT, La sagesse de l’amour, Gallimard, Paris 1984; M. BUBER, La Vie
en dialogue, Flammarion, Paris 1992; E. MOUNIER, Écrits sur le personnalisme, préface de
PAUL RICŒUR, (coll. «Points-Essais») Le Seuil, Paris 2000; E. LEVINAS, De l’existence à
l’existant, Vrin, Paris 1998.

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« véhiculé une vision de l’“homme authentique” soulignant que la créatu-


re humaine ne trouve sa vérité et n’affirme sa pleine singularité que dans
la communion »26.
L’Église a ses origines dans le mystère Trinitaire. Sa mission est l’annon-
ce de la bonne nouvelle de l’Évangile à toutes les créatures. L’origine, la
nature et la mission de l’Église est donc communionnelle :

L’Église étant, dans le Christ, en quelque sorte le sacrement, c’est-à-di-


re à la fois le signe et le moyen de l’union intime avec Dieu et de l’uni-
té de tout le genre humain, elle se propose de mettre dans une plus vi-
ve lumière, pour ses fidèles et pour le monde entier, en se rattachant à
l’enseignement des précédents Conciles, sa propre nature et sa mission
universelle. À ce devoir qui est celui de l’Église, les conditions présen-
tes ajoutent une nouvelle urgence : il faut que tous les hommes, désor-
mais plus étroitement unis entre eux par les liens sociaux, techniques,
culturels, réalisent également leur pleine unité dans le Christ27.

La communion n’est pas une réalité de façade de l’Église, elle est son
être : « Communion (non- division) et singularité (non- absorption) dessi-
nent ensemble la nature de l’être créé “à l’image et ressemblance” d’un
Dieu dont la foi chrétienne proclame la nature trinitaire »28. Étant donné
sa nature, Église n’est autre que mystère de communion29. Elle est à la
fois mystère de communion Trinitaire par son essence et de communion
humano-communautaire du fait de sa présence dans le temps et dans
l’espace jusqu’à la fin des temps. En Christ Jésus, il y a à la fois « réconci-
liation » (Éphésien 2, 16) et « élimination du mur de la haine » (Éphé-
sien 2, 14) entre Dieu et l’humanité et, en même temps, entre les humains
eux-mêmes :

Une ecclésiologie visant à saisir la nature de l’Église en sa profondeur


peut difficilement négliger – malgré les doutes sur leur origine – les

26
TILLARD, Église d’Églises, 33.
27
CONCILE ŒCUMÉNIQUE VATICAN II, Constitution dogmatique Lumen gentium (21 no-
vembre 1964), n. 1.
28
TILLARD, Église d’Églises, 34.
29
Cf. Éphésien 2, 13-22.

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premiers chapitres de la lettre aux Éphésiens. […] Cette lettre aux


Éphésiens voit un lien essentiel entre le mystère (Ép 1, 9-10 ; 3, 3-10
à comparer avec Col 1, 26-27 et à éclairer par Rm 16, 25-26 ; 1 Co 2,
7-9) et l’Église de Dieu. Il suffit pour s’en convaincre de lire d’affilée
ses premiers chapitres. Car quel est le musterion « révélé par l’Esprit à
ses apôtres et prophètes » (3, 5) ? L’auteur le résume en ceci : « Les
païens sont admis au même héritage (sunklèronoma), membres du
corps (sunsôma), associés à la même promesse (summetocha) en Jésus
Christ, par le moyen de l’Évangile » (3, 6). Tel est d’ailleurs le conte-
nu de l’annonce évangélique (3, 6)30.

L’action de Dieu se déroule sur « l’arrière-plan du drame humain »31.


Dans sa relation avec l’humanité sous le poids du péché, c’est Dieu qui fait
le premier pas. C’est Lui, le Seul Saint, qui fait un pas de réconciliation
vers et pour ceux qui étaient loin de Lui. Dieu éradique la haine qui est en-
fouie en l’être humain. De ceux qui étaient autrefois séparés, Il en fait des
frères et des sœurs, une communauté, l’Église. En effet, « L’Église est ré-
conciliée par Dieu, mais elle est aussi celle qui réconcilie pour Dieu »32.
L’histoire du salut atteint ici son point culminant dans le mystère de la
Croix, sacrement de l’amour ineffable et rédempteur de Dieu. Il s’ensuit

30
TILLARD, Église d’Églises, 66-67.
31
« L’humanité se trouve divisée, coupée par un mur, un mesotoichon (2, 14), qui n’est
autre quei haine. Le terme indique que cette division s’opère à l’intérieur d’une même
maison. Tel est, depuis l’histoire de Caïn et Abel, la tragédie humaine. Et la division de
l’humanité, que font les juifs, en deux blocs, celui du Peuple et celui des païens, ne fait
qu’exacerber cette situation haineuse. À sa façon, la loi elle-même démontre la déchiru-
re du monde en deux fractions dont l’une est déclarée coupée des bénédictions de Dieu.
Ce qui était fruit de l’amour divin pour le Peuple élu est devenu, par la puissance quasi
contraignante de la haine, occasion de mépris à l’égard des peuples “étrangers aux allian-
ces de la promesse” (2, 12). Le terme que nous traduisons par haine (echthra) est à pren-
dre en son sens fort […]. Il signifie une haine qui suinte l’intolérance, la mauvaise foi
cherchant toujours occasion de querelle, le refus de reconnaître chez l’autre quelque cho-
se d’aimable, la ségrégation, l’hostilité, la guerre, le vouloir de revanche. Or sur cette tra-
me – où la Bible voit la conséquence et l’actualisation du péché humain – que se tisse l’-
histoire d’un monde qui va de guerre en guerre et ne construit sa paix que sur l’équilibre
de la terreur. Il est remarquable que la lettre aux Éphésiens dénonce cette haine de l’hu-
manité elle-même pour Dieu (2, 16, cf. Col 1, 21; Rm 8, 7). La première est comme le sa-
cramentum, le symbole de la seconde », TILLARD, Église d’Églises, 68-69.
32
Ibid., 308.

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que l’Église, communauté de fidèles rassemblée par Dieu à partir du sacri-


fice de son Fils, n’est pas une communauté tout court. Elle est plutôt une
assemblée de Dieu. L’Église de Dieu est donc la communauté des hommes
et des femmes animés par la puissance de l’Esprit Saint et enrichis par la
grâce de Dieu. C’est une communauté transformée du plus profond de ses
fibres humaines. L’Église est une communauté qui a vécu un changement
ontologique radical, une metànoia du tréfond de son être. À partir de la koi-
nônía, essence de l’Église, le dynamisme synodal va de soi dans sa vie et
dans la réflexion ecclésiologique.
La koinônía de l’Ekklesía toû Theoû transcende la logique humaine. La
communion ecclésiale reste profondément une initiative divine. Elle a ses
origines et ses fondements en Dieu lui-même. L’horizon de l’Église ne s’ar-
rête pas à sa composante humaine. L’Église a ses racines dans le mystère
de la Trinité. Aussi, est-elle la communauté jam ab Abel justo. Une fois
convoquée par Dieu, elle trouve son “accomplissement”, sa téléiôsis en Jé-
sus-Christ qui en fait un seul peuple dans sa diversité multiculturelle et
transcontinentale33. L’Église de Dieu, mystère de communion, est donc
orientée à la vocation de l’universelle. Bien sûr, elle s’exprime de mille ma-
nières dans sa réalité locale. Mais son horizon se situe dans l’horizon de
Dieu, Seigneur et Pontife de la communion en son Fils Jésus-Christ. En
Christ, sa logique est sous l’effet de la grâce. La synodalité n’est donc pas
une réponse à l’émergence d’une crise de représentativité ou d’une perte
d’influence de l’Église dans un monde qui change. Elle est avant tout un
“re-tour” à Dieu, source de communion. Le dessein divin de rassembler
l’humanité en un seul troupeau se réalise dans l’Église synodale :

La synodalité exprime la condition de sujet qui appartient à toute l’É-


glise et à tous dans l’Église. Les croyants sont des σύνοδοι, des com-
pagnons de chemin, appelés à être des sujets actifs en tant que partici-
pants de l’unique sacerdoce du Christ et destinataires des divers cha-
rismes conférés par le Saint-Esprit, en vue du bien commun. La vie sy-
nodale est le témoignage d’une Église constituée de sujets libres et di-
vers, unis entre eux dans la communion, qui se manifeste de façon dy-
namique comme un unique sujet communautaire lequel, appuyé sur le
Christ, la pierre angulaire, et sur les colonnes que sont les Apôtres, est

33
Cf. ibid., 114-116.

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édifié comme autant de pierres vivantes en une « maison spirituelle »


(cf. 1 P 2,5), « demeure de Dieu dans l’Esprit » (Ep 2,22)34.

Tout ce qui ne contribuerait pas à la communion ecclésiale serait contrai-


re à la nature même de l’Église. En Jésus-Christ, l’Église sanctifie le temps
et est introduite dans l’éternité. Elle est donc dotée d’une double vocation,
à savoir être le lieu de la réconciliation sur la terre et le guide de l’huma-
nité entière à la communion avec Dieu. Par conséquent, l’Église synodale
est perpétuellement en conversion. Réconciliée en elle-même, elle est mis-
sionnaire et ministre de Réconciliation et de communion35.

3. Les ministères pour une Église synodale

L’Église, Corps du Christ, est la communauté des fidèles unis par la foi au
Dieu de Jésus-Christ. Le baptême, sacrement primordial de la filiation divi-
ne des fidèles, habilite à l’exercice du sacerdoce commun ou baptismal. En
effet, la plus haute et la plus noble vocation des disciples du Christ émane du
baptême. Nul n’a su si mieux le dire comme la Première lettre de Pierre :

Approchez-vous de lui : il est la pierre vivante rejetée par les hommes,


mais choisie et précieuse devant Dieu.
Vous aussi, comme pierres vivantes, entrez dans la construction de la
demeure spirituelle, pour devenir le sacerdoce saint et présenter des
sacrifices spirituels, agréables à Dieu, par Jésus Christ36.

34
CTI, La synodalité, n. 55.
35
«“Tout renouvellement de l’Église consiste essentiellement en une fidélité plus gran-
de à sa vocation”. Dans l’accomplissement de sa mission, l’Église est donc appelée à une
conversion permanente qui est aussi une “conversion pastorale et missionnaire”, et qui
consiste en un renouvellement des mentalités, des attitudes, des pratiques et des structu-
res pour être toujours plus fidèle à sa vocation. Une mentalité ecclésiale façonnée par la
conscience synodale accueille avec joie et promeut la grâce en vertu de laquelle tous les
baptisés sont habilités et appelés à être des disciples missionnaires. Le grand défi pour la
conversion pastorale qui s’ensuit pour la vie de l’Église aujourd’hui est d’intensifier la
collaboration mutuelle de tous dans le témoignage évangélisateur à partir des dons et des
rôles de chacun, sans cléricaliser les laïcs ni séculariser les clercs, et en évitant dans tous
les cas la tentation “d’un cléricalisme excessif qui maintient les fidèles laïques en marge
des décisions”», CTI, La synodalité, n. 104.
36
1 P 2, 4-5.

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L’égale dignité des membres de l’Église a son fondement dans le sacre-


ment du baptême. La vocation du baptisé est ecclésiale et, par conséquent
synodale. La grâce baptismale, grâce sanctifiante, a son origine en Dieu
seul. La dignité du baptisé ne réside pas dans la fonction qu’il exerce au
sein de l’Église, mais dans la fidélité à la vocation reçue au baptême, la
sainteté. L’ecclésiologie de communion permet de saisir, à partir du sacer-
doce commun des fidèles, la primauté de la communion. Les ministères sont
au service de la communion. Une vision pyramidale de l’Église à partir des
ministères atrophie, voire tue la communion. L’ecclésiologie de communion
permet de retrouver une vision correcte de la théologie des ministères dans
l’Église. L’égale dignité des fidèles perçue par Vatican II trouve dans l’ec-
clésiologie de communion l’interprétation la plus intelligible des ministères
dans la vie de l’Église37. Clercs et laïcs sont unis en la Sainte Trinité par la
même dignité : le sacerdoce baptismal. Au fait, les ministères et le charis-
me sont au service de l’Église. Par conséquent, une Église synodale n’est ja-
mais pyramidale mais communionnel. L’impératif communionnelle ne fragi-
lise pas les ministères ordonnés dans l’Église. Au contraire la koinônía, na-
ture de l’Église donne au ministère ordonné l’essence de sa survie :

Dans une ecclésiologie de communion, l’ancienne frontière entre clercs


et laïcs – totalement inconnue du Nouveau Testament puisqu’elle ne se
fixe qu’après la fin IIe siècle (sans doute à partir de Clément d’Alexan-
drie) – tend à se déplacer, à se redéfinir. Des textes d’Augustin pourtant
témoin d’une époque où la distinction clercs-laïcs se trouve nettement af-
firmée, nous ont dit pourquoi la qualification ecclésiologique essentielle
est celle de « fidèle », de christifìdelis. Clercs et laïcs sont christifideles.

37
« S’inscrivant dans le mouvement dont l’encyclique Quadragesimo anno de Pie XI
est sans doute la plaque tournante (en 1931), Vatican II a cherché à réaffirmer la dignité
baptismale des christifideles non ordonnés (surtout dans Lumen gentium 31-38, Presbyte-
rorum ordinis 9, Apostolicam actuositatem et Gaudium et spes 43). Pour ne pas trahir cette
volonté conciliaire, le code de 1983 a donc fait de tous les fidèles le sujet principal des
droits et des devoirs du Corps ecclésial du Christ. Il affirme que, si, par nature, ce Corps
est hiérarchisé, c’est néanmoins sur la base de l’égalité fondamentale des baptisés en dig-
nité et engagement évangélique (can. 208). La diversité des fonctions s’enracine en ce
que le baptême confère à tous comme responsabilité inaliénable dans la mission “que
Dieu a confiée à l’Église pour qu’elle l’accomplisse dans le monde” (can. 204). De
l’évêque sur sa sedes au plus humble des baptisés, tous ont les droits et les devoirs qu’ap-
pelle cette dignitas commune […] », TILLARD, L’Église locale, 306-309.

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La tendance spontanée à identifier l’Église avec la hiérarchie se mon-


tre donc erronée. L’Église est communion de tous les fidèles, ayant cha-
cun une vocation, un charisme. À Vatican II, l’Église catholique a com-
pris qu’il fallait bâtir sa législation sur cette vérité38.

Le sacerdoce commun des fidèles ne doit pas être banalisé. L’Église de


Dieu ne peut être réduite à la seule hiérarchie cléricale. Une banalisation
du sacerdoce commun conduirait à un reniement des fondements de l’être
chrétien. Sans exagération, on peut dire qu’il n’y a pas de catégorie de chré-
tiens hiérarchisés en fonction du ministère, mais au contraire une “hiérar-
chie” de chrétiens à partir de leur fidélité à la vocation du sacerdoce com-
mun, la sainteté. L’exercice des ministères et des charismes dans l’Église
est destiné à la communio Ecclesiae puisque l’Église est la communion des
fidèles ayant répondu à l’appel de Dieu. En fait, le code de 1983 donne une
définition sublime des fidèles à la lumière du Concile Vatican II :

Les fidèles du Christ sont ceux qui, en tant qu’incorporés au Christ par
le baptême, sont constitués en peuple de Dieu et qui, pour cette raison,
faits participants à leur manière à la fonction sacerdotale, prophétique
et royale du Christ, sont appelés à exercer, chacun selon sa condition
propre, la mission que Dieu a confiée à l’Église pour qu’elle l’accom-
plisse dans le monde.
Cette Église, constituée et organisée en ce monde comme une société,
subsiste dans l’Église catholique gouvernée par le successeur de Pier-
re et les Évêques en communion avec lui39.

Par institution divine, il y a dans l’Église, parmi les fidèles, les minis-
tres sacrés qui en droit sont aussi appelés clercs, et les autres qui sont
aussi appelés laïcs40.

Le ministère est à la fois l’assimilation et l’élévation de la réalité humai-


ne de l’Église au service de Dieu pour l’édification de la communion. L’É-
glise est collaboratrice dans la communion au dessein divin du salut de

38
Ibid., 302-303.
39
Can. 204 - §1; §2.
40
Can. 207 - §1.

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l’humanité. Les ministères sont l’instrument de cette communion. Ils ont leur
raison d’être s’ils sont uniquement au service de la communion ecclésiale.
La dignité primordiale qui découle des ministères est la participation active
de chaque ministre à la construction de l’unique corps qu’est l’Église41.
L’Église communion est ministre de la Parole de Dieu. Elle proclame la
Parole de Dieu en évangélisant et est évangélisée par Dieu lui-même à tra-
vers celle-ci. C’est par sa foi en Dieu que l’auditeur de la Parole accueille
la Parole de Dieu, Parole de vie et de rédemption42. Le corps ecclésial n’est
donc pas un canal passif pour la transmission de la Bonne Nouvelle. Au
contraire, il participe activement à l’évangélisation à travers le langage de
son temps, de son histoire, de ses joies et de ses angoisses43.
L’Église est perpétuellement dans une sorte de tension entre la fidélité à
la Révélation et la recherche de la manière appropriée, sans compromis ni
assombrissement, de transmettre le message du salut44. La fidélité à la Pa-
role révélée passe à travers les fibres humaines de l’Église d’une génération
à une autre, d’un espace géographique à l’autre. Le sensus fidelium indique
et maintien l’Église, peuple de Dieu dans le chemin de la fidélité à la Ré-
vélation45. À la différence du sacerdoce commun, le ministère ordonné est
essentiellement un ministère “pour”. C’est un ministère exercé pour le
corps de l’Église et dans le corps de l’Église. Il a une fonction de trait d’u-
nion entre Dieu et l’homme. Aussi, est-il essentiel, voire nécessaire, dans la
vie de l’Église. Son importance est cependant toujours relative à l’Église el-
le-même. Sa nature et sa fonction relèvent du Christ et l’Église. On ne peut
concevoir la ministérialité sans l’Église dont elle-même est membre46. Le

41
Cf. TILLARD, L’Église locale, 373-374.
42
Cf. Dei Verbum n. 10.
43
Cf. TILLARD, Église d’Églises, 306-308.
44
Cf. ID., L’Église locale, 318.
45
Cf. COMMISSION THÉOLOGIQUE INTERNATIONALE, Le sensus fidei dans la vie de l’Égli-
se (2014).
46
« Le ministre qui agit comme sacramentum du Christ Tête est lui-même, en tant que
membre du Corps ecclésial, bénéficiaire du don dont il est ministre. Il reçoit comme les
autres le corps et le sang du Seigneur après avoir comme les autres confessé son indignité
et son péché. Il est un fidèle. […] La démarche sacramentelle du ministre ordonné s’in-
scrit au cœur même de l’acte du Corps sacerdotal comme tel. À la synaxe eucharistique,
celui-ci s’insère dans le Sacrifice de Celui qui est sa Tête (sacramentellement représen-
tée dans le ministre) hors de laquelle il est incapable de se tourner tout entier vers le Père

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ministre ordonné est ontologiquement inséré dans le corps ecclésial dont il


est membre. Il ne peut donc être considéré comme une réalité extérieure à
l’Église, et encore moins comme une structure hiérarchique parallèle au-
dessus du corps ecclésial. L’exhortation du pape François pour un ministè-
re au service de la communion ecclésiale au lieu d’une hiérarchisation du
ministère pour une vaine gloire est remarquable en ce sens :

La synodalité, comme dimension constitutive de l’Église, nous offre


le cadre d’interprétation le plus adapté pour comprendre le ministè-
re hiérarchique lui-même. Si nous comprenons que, comme dit Saint
Jean Chrysostome, « Église et Synode sont synonymes » – parce que
l’Église n’est autre que le « marcher ensemble » du troupeau de Dieu
sur les sentiers de l’histoire à la rencontre du Christ Seigneur – nous
comprenons aussi qu’en son sein personne ne peut être « élevé » au-
dessus des autres. Au contraire, il est nécessaire dans l’Église que
chacun s’« abaisse » pour se mettre au service des frères tout au long
du chemin47.

Ce ministère est au service de la communion de l’Église synodale48. Il


n’est autre qu’une diakonía évangélique léguée par le Christ. Il ne serait
authentique que s’il est vécu dans l’Esprit du Christ. C’est un ministère ac-
compli au nom du Christ et à l’exemple du Christ. Son importance relève
de l’agapè puisqu’il est modelé et a son origine dans le ministère du Christ.
C’est dans l’agapè que nous pouvons trouver la primauté du ministère or-
donné dans le Corps de l’Église49. L’exercice de la diakonía sous l’impul-
sion de l’agapè est la substance du ministère ordonné. Dès le début, l’Égli-

dans le sacrifice de louange. Le sermon 340 d’Augustin [PL 38, 1482-1484], remanié par
Césaire d’Arles [CCSL 104, 919-921], est un excellent témoin de cette soudure chez le
ministre de sa participation au sacerdoce baptismal de sa communauté et de la responsa-
bilité spécifique que lui impose la charge reçue par l’ordination. Il est chrétien avec tous,
peinant dans une charge qui lui est personnelle et néanmoins le reposant dans le bienfait
commun à tous, puisqu’il est racheté avec tous », TILLARD, L’Église locale, 152-153.
47
PAPE FRANÇOIS, Discours. Commémoration du 50e anniversaire de l’institution du
synode des évêques (Salle Paul VI, Samedi 17 octobre 2015).
48
J.-M.R. TILLARD, Chair de l’Église, chair du Christ : Aux sources de l’ecclésiologie de
communion, (coll. Cogitatio Fidei, 168), Les Editions du Cerf, Paris 1992, 155-156.
49
ID., L’Église locale, 183-185.

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se a si bien compris cette vérité que l’eucharistie, sacrement par excellen-


ce, présidée par le ministre ordonné, n’est jamais séparée de l’agapè.
La diakonía épiscopale est la continuation de la diakonía apostolique. En-
tre la visite episkopè de Dieu en Jésus-Christ et l’évêque, il y a bien sûr l’É-
glise apostolique. La diakonía épiscopale ne peut s’accomplir authentique-
ment que dans la mémoire de la diakonía apostolique. La communion reste
le mot d’ordre du ministère épiscopal. Ce noble ministère ne peut se conce-
voir en dehors de la communion. La source et l’action du ministère de l’é-
vêque sont en la koinônía. En effet, l’évêque n’agit jamais dans la solitude.
Il est un ministre de Communion dans l’Église locale. Son ministère ne peut
être, ni isolé, ni solitaire. Ce ministère est une expression de la nature com-
munautaire et communionnelle de l’Église. Ni l’Église, ni ses structures ne
peuvent être conçues sans communion. Le ministère épiscopal est un exer-
cice continu de communion avec l’ensemble du corps ecclésial. En effet, il
faut reconnaître que le charisme de l’évêque ne lui est jamais donné indivi-
duellement :

La solidarité ministérielle ne se borne pas à ce registre des ministères.


Elle implique l’engagement de l’ensemble des baptisés non seulement
dans la célébration liturgique mais dans le service de chaque Église lo-
cale. Car si – au sens premier du mot sacerdoce – c’est l’Église locale
comme telle qui exerce le sacerdotium, c’est elle aussi qui accomplit les
grandes démarches qu’exige sa fidélité à l’appel évangélique. Elle est
responsable d’elle-même. Sa « représentation » dans l’évêque n’équi-
vaut en rien à une pure et simple remise de ses responsabilités à l’un
de ses membres chargés d’agir à sa place. La symphonie de fonctions
que nous décelions au sein de l’acte liturgique déborde celui-ci.
Nul ne l’a mieux perçu que Cyprien : « Je me suis fait une règle, dès
le début de mon épiscopat, de ne rien décider sans [le] conseil [des
presbytres et des diacres] et sans le suffrage du peuple, d’après mon
opinion personnelle […] non seulement avec mes collègues mais avec
tout le peuple [Epist. 14, 4 et 34, 4. Voir aussi Epist. 32]50.

Les ministères ordonnés ont une grande importance dans la consolida-


tion de la communion dans l’Église synodale. L’épiscopat trouve sa légiti-

50
Ibid., 266-267.

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mité et sa solidité dans le collège des évêques. L’évêque qui préside à la


vie de l’Église locale ne peut se passer de la communio Ecclesiarum. La
collégialité est donc l’expression de l’unité et de la communion de l’épis-
copat. C’est pourquoi l’épiscopat est une expression de l’unité et de la com-
munion de l’Église. Sur ce, il serait erroné de conclure que l’Église de Dieu
est la somme des Églises locales, tout comme le Collège des évêques est la
somme des évêques51. Le Collège des évêques reflète la réalité de la com-
munion ecclésiale. La collégialité des évêques n’existerait sans l’Église, le
peuple de Dieu. La « réciproque recognitio », la reconnaissance par chaque
évêque de son épiscopat dans l’autre, est le reflet de l’unité et de la catho-
licité de l’Église52.
Le Collège des évêques n’étouffe pas l’identité d’une Église locale. Il
préserve l’unité dans la diversité de l’Église. Dans la mesure où l’évêque
d’une Église locale sauvegarde la diversité de son Église dans la commu-
nion au sein du collège des évêques, communion des Églises, il commu-
nique et participe avec son Église à la vie de toute l’Église. La communion
de chaque évêque avec le collège épiscopal est une communion avec tou-
te l’Église. Le ministère de koinônía de l’évêque transcende les frontières
de son Église. Chaque évêque a une sollicitude de la communion de tou-
te l’Église :

Les évêques, participant à la sollicitude de toutes les Églises, l’exer-


cent – pour ce qui est du Magistère et du gouvernement – à l’égard de
l’Église universelle de Dieu, tous unis en un collège ou corps, en com-
munion avec le Souverain Pontife et sous son autorité. Ils l’exercent in-
dividuellement à l’égard de la portion du troupeau remise à leurs soins,
chacun prenant en charge l’Église particulière qui lui a été confiée ou
plusieurs parfois, pourvoyant conjointement aux besoins communs de
diverses Églises locales53.

La sollicitudo omnium Ecclesiarum n’est pas seulement la fonction de l’é-


vêque de Rome. Elle résulte aussi de la compétence de chaque évêque en

51
Ibid, 259-260.
52
Cf. ibid., 249-250.
53
CONCILE ŒCUMÉNIQUE VATICAN II, Décret sur la charge pastorale des évêques dans
l’Église Christus Dominus (28 octobre 1965), n. 3.

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communion avec le collège épiscopal et l’évêque de Rome54. La “re-con-


naissance” est une expression de la sollicitudo omnium Ecclesiarum, elle-
même expression de la communion et de l’unité de l’Église. Plusieurs
évêques, voire plusieurs Églises locales, sont impliqués dans l’ordination de
l’évêque d’une Église locale parce que c’est l’Église universelle qui se ma-
nifeste en ce lieu. Il est évident que les autres Églises ne sont pas étrangè-
res à cet événement ecclésial. Il n’y a pas une autre Église en ce lieu, il n’y
a qu’une seule Église, qu’un seul épiscopat55. “Re-connaître” c’est s’assu-
rer de l’identité de foi, fondement du témoignage apostolique, de l’économie
sacramentelle et de l’eucharistie dans la mission du cheminement de l’Égli-
se en Christ et à la suite du Christ56.

Conclusion

La synodalité est l’être en soi de l’Église qui s’exprime dans le temps et


dans l’espace dans son cheminement vers la Cité Céleste. L’Église qui nait
de la communion Trinitaire renierait ses origines si elle n’était pas synoda-
le. Le peuple de Dieu, les ministères ordonnés, l’Église locale, bref tous ce
qui est et émane de l’Église, assemblée de Dieu, ne peut se passer de la

54
«La fonction de l’évêque de Rome n’est pas autre chose qu’une modalité très spéciale
de cette sollicitudo omnium Ecclesiarum donnée avec la grâce épiscopale, donc une forme
particulière d’exercice du sacrement commun de l’épiscopat. Elle est un service dans la
mission globale du collège épiscopal, la fonction du “serviteur des serviteurs de Dieu” se-
lon l’idéal qui perce avec Grégoire le Grand et s’exprime encore dans le titre de chaque
document conciliaire de Vatican II. Il ne tient pas cette modalité d’une hiérarchie sacra-
mentelle qui en ferait un “super évêque”. Mais, évêque comme tous les autres membres
du collège épiscopal il l’est, lui, sur la cathedra de l’Église locale de Rome, que son lien
avec Pierre et Paul investit d’une responsabilité spéciale (une sollicitudo) pour la commu-
nion de toutes les Églises dans la foi, le témoignage et le service. C’est de cette primauté
de son Église locale au sein de toutes les Église locales que l’évêque de Rome tient sa pri-
mauté dans le collège des évêques. En celui-ci, qui possède in globo la responsabilité plei-
ne et suprême sur toute l’Église, il assure une fonction particulière et nécessaire touchant
précisément la cohésion des évêques et leur unité dans la foi que Pierre et Paul ont scel-
lée par leur martyre. La constitution Pastor aeternus de Vatican I, et Lumen gentium de Va-
tican II qui la relit, ne disent pas autre chose», TILLARD, Église d’Église, 328-329.
55
Cf. ID., L’Église locale, 244-245.
56
Cf. ibid., 92.

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Kokou Mawuena Ambroise Atakpa

communion synodale. Aussi l’exhortation du pape François à la vie synoda-


le n’est pas, avant tout, une invitation à une théologie nouvelle mais, bien
sûr, un retour aux sources de l’Église, mystère de communion. Par consé-
quent, l’Ecclesia semper reformanda, est appelée perpétuellement à la con-
version pour ne pas s’éloigner de ses origines, sa source vitale, sa raison
d’être.

Kokou Mawuena Ambroise Atakpa


Pontificia Università Urbaniana
([email protected])

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Théologie d’une Église synodale

ABSTRACT

THÉOLOGIE D’UNE ÉGLISE SYNODALE

Certes, le pontificat du pape François a accru la conscience de la synodalité


dans la vie et dans la réflexion de l’Église. Et pourtant, cette réalité n’est pas une
mode mais, au contraire, elle est l’expression de l’Église communion. Cet arti-
cle veut aller au-delà d’un débat d’actualité en partant de la théologie et de la
sémantique de la synodalité. Il trouve dans l’ecclésiologie de communion les
fondements de la synodalité. Par conséquent, il met en exergue la fonction de
la koinônía des ministères ordonnés dans le dynamisme synodal de l’Église ter-
restre vers l’Église céleste.

THEOLOGY OF A SYNODAL CHURCH

Certainly, the pontificate of Pope Francis has increased awareness of synodali-


ty in the life and reflection of the Church. And yet, this reality is not a fad but, on
the contrary, it is the expression of the Church as communion. This article seeks
to go beyond a debate about the present by starting from the theology and se-
mantics of synodality. It finds in the ecclesiology of communion the foundations
of synodality. Consequently, it highlights the function of the koinônía of ordained
ministries in the synodal dynamism of the earthly Church towards the heavenly
Church.

Parole chiave: Communion; Council; Conciliarity; Church; Ministry; Ministerial-


ity; People of God; Synod; Synodality

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LA II CONFERENZA EPISCOPALE VENEZUELANA


(1923) E L’AZIONE DI MONS. FILIPPO CORTESI
NUNZIO APOSTOLICO IN VENEZUELA
ALLA LUCE DELLA DOCUMENTAZIONE VATICANA

Introduzione – Le conferenze episcopali nelle Istruzioni per i Rappresentanti pontifici in Ve-


nezuela nei primi decenni del secolo XX – La lettera Quod novas di Pio XI ai vescovi del
Venezuela e il programma della II Conferenza episcopale Venezuelana – La II Conferenza
dell’Episcopato Venezuelano e l’azione di mons. Filippo Cortesi – Riflessioni conclusive

Parole chiave: Pio XI; Filippo Cortesi; Vescovi Venezuela; Quod novas e II Conferenza epi-
scopale venezuelana (1923)

Introduzione

Nel Nuevo Mundo ispanoamericano, la celebrazione di assemblee ecclesia-


stiche gerarchiche è stata una caratteristica che ha qualificato l’opera mis-
sionaria di evangelizzazione degli indigeni e di progressiva costruzione del-
la nuova società dopo la conquista militare e politica realizzata dalla coro-
na spagnola. Nell’America spagnola fin dai primi anni del secolo XVI si so-
no infatti realizzate dapprima riunioni, nel caso messicano denominate jun-
tas, e poi, in seguito allo stabilirsi della gerarchia e dell’organizzazione ec-
clesiastica, si sono celebrati concili provinciali e sinodi diocesani, che la
storiografia non ha trascurato di documentare1.

1
L’ingente letteratura induce a segnalare solo alcuni titoli: C. GUTIRÉRREZ VEGA L.C.,
Las primeras Juntas eclesiástica de México (1524-1555), Centro de Estudios Superiores,
Roma 1991; W. HENKEL, Concilio y sínodos hispanoamericanos, in PONTIFICIA COMMISSIO
PRO AMERICA LATINA, Historia de la evangelización de América. Trayectoria, identidad y es-
peranza de un continente – Historia da evangelização da América. Trajéctoria, identidade
e esperança de um Continente, LEV, Ciudad del Vaticano 1992, 661-674; A. GARCÍA Y
GARCÍA, Las asambleas jerarquicas, in P. BORGES (ed.), Historia de la Iglesia en Hispanoa-
mérica y Filipinas (siglos XV-XIX), I. Aspectos generales, BAC Mayor, Madrid 1992, 175-
192 [con prospetti statistici]; PONTIFICIA COMMISSIO PRO AMERICA LATINA, Los últimos cien
años de la evangelización en América Latina. Centenario del Concilio Plenario de América

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1/2023 ANNO LXXVI, 61-82 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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L’episcopato latinoamericano ha poi trovato, alla fine del primo secolo


dell'epoca repubblicana, una propria espressione continentale nel Concilio
Plenario Latinoamericano celebrato a Roma nel 1899 durante il pontifica-
to di Leone XIII. Tra i temi considerati nei 998 numeri, il n. 208 apparte-
nente al capitolo II dedicato ai Metropolitani (titolo III sulle Persone eccle-
siastiche) menzionava ed incoraggiava le riunioni o conferenze dei vescovi:

Siendo evidente que contribuye mucho al buen gobierno de las provin-


cias eclesiásticas y á la edificacion de los fieles la concordia y santa
amistad de los Obispos entre sí [...] deseamos que los lazos de caridad
y santa amistad unan siempre al Metropolitano con sus Sufragáneos, y
se hagan cada día más estrechos con el trato frecuente y los mutuos con-
sejos, sobre todo en los asuntos de mayor importancia. Por lo cual [...]
este Concilio Plenario exhorta á los Obispos [...] “que con frecuencia os
comuniquéis vuestras opiniones y, en cuanto lo permitan las distancias
y vuestros sagrados deberes, multipliquéis más y más las reuniones
episcopales”. El tiempo de estas reuniones no deberá pasar de tres
años, y se fijará en cada Provincia de común acuerdo de los Obispos2.

Di tali conferenze si trova notizia anche nel più recente documento della
Commissione Teologica Internazionale La Sinodalità nella vita della Chie-
sa3. Nel capitolo «La sinodalità nella Scrittura, nella tradizione e nella sto-
ria», ricco di spunti per interessanti approfondimenti storici, si afferma che

Latina, LEV, Ciudad del Vaticano 2000. In prospettiva giuridica con inquadramento sto-
rico si veda J. DONOSO, Instituciones de Derecho Canónico Americano, I-II, Librería de P.
Yuste i C.a, Santiago de Chile 1861-1862² e le più recenti voci di interesse in J. OTADUY
– A. VIANA – J. SEDANO (eds.), Diccionario General de Derecho Canónico, 7 vols., Univer-
sidad de Navarra – Thomson Reuters Aranzadi, Cizur Menor (Navarra) 2012.
2
PONTIFICIA COMISIÓN PARA AMÉRICA LATINA, Acta et decreta Concilii plenarii Americae
Latinae: in Urbe celebrati, Anno Domini MDCCCXCIX = Actas y decretos del Concilio ple-
nario de la América Latina, Edición facsímil, LEV, Ciudad del Vaticano 1999, 135-136
[num. 208, che citava Leone XIII].
3
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Sinodalità nella vita della Chiesa, LEV,
Città del Vaticano 2018. Al riguardo si riportano alcuni passaggi dei numeri 6, 7, 9: «6.
[…] La sinodalità, in questo contesto ecclesiologico [ecclesiologia del Popolo di Dio], in-
dica lo specifico modus vivendi et operandi della Chiesa Popolo di Dio che manifesta e rea-
lizza in concreto il suo essere comunione nel camminare insieme, nel radunarsi in assem-
blea e nel partecipare attivamente di tutti i suoi membri alla sua missione evangelizzatrice.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

Non va dimenticato il nascere e il progressivo consolidarsi, a partire


dalla seconda metà del XIX secolo, di una nuova istituzione che, sen-
za ancora godere di un profilo canonico preciso, vede radunarsi i Ve-
scovi di una stessa nazione in Conferenze Episcopali: segno del risve-
gliarsi di una interpretazione collegiale dell’esercizio del ministero epi-
scopale in riferimento a uno specifico territorio e in considerazione del-
le mutate condizioni geopolitiche. Nello stesso spirito, alla vigilia del
XX secolo si celebra a Roma, convocato da Leone XIII, un Concilio
plenario latinoamericano, che vede la partecipazione dei Metropoliti
delle province ecclesiastiche del Continente (1899)4.

7. Mentre il concetto di sinodalità richiama il coinvolgimento e la partecipazione di tut-


to il Popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa, il concetto di collegialità preci-
sa il significato teologico e la forma di esercizio del ministero dei Vescovi a servizio del-
la Chiesa particolare affidata alla cura pastorale di ciascuno e nella comunione tra le
Chiese particolari in seno all’unica e universale Chiesa di Cristo, mediante la comunio-
ne gerarchica del Collegio episcopale col Vescovo di Roma. La collegialità, pertanto, è
la forma specifica in cui la sinodalità ecclesiale si manifesta e si realizza attraverso il mi-
nistero dei Vescovi sul livello della comunione tra le Chiese particolari in una regione e
sul livello della comunione tra tutte le Chiese nella Chiesa universale. Ogni autentica
manifestazione di sinodalità esige per sua natura l’esercizio del ministero collegiale dei
Vescovi. 9. […] In conformità all’insegnamento della Lumen gentium, Papa Francesco ri-
marca in particolare che la sinodalità «ci offre la cornice interpretativa più adeguata per
comprendere lo stesso ministero gerarchico»[14] e che, in base alla dottrina del sensus
fidei fidelium[15], tutti i membri della Chiesa sono soggetti attivi di evangelizzazio-
ne[16]. Ne consegue che la messa in atto di una Chiesa sinodale è presupposto indispen-
sabile per un nuovo slancio missionario che coinvolga l’intero Popolo di Dio». Si veda
anche FRANCESCO, Discorso conclusivo in occasione della commemorazione del 50° an-
niversario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi (17 ottobre 2015), in https://www.vati-
can.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_2015
1017_50-anniversario-sinodo.html [https://archive.is/nhK8J]. Riguardo alla sinodalità:
ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA – G. ANCONA (a cura di), Dossier Chiesa e sinodalità,
Velar, Gorle, BG 2005; R. BATTOCCHIO – L. TONELLO (eds.), Sinodalià. Dimensione della
Chiesa, pratiche nella Chiesa, Edizioni Messaggero Padova – Facoltà Teologica del Trive-
neto, Padova 2020. Mentre si attende la pubblicazione degli atti della Giornata di studio
Essenza e forme dell’esercizio del primato del Vescovo di Roma: tra sinodalità e collegia-
lità, (Roma 16 febbraio 2023) organizzata dalla Pontificia Università Urbaniana e dal
Pontificio Istituto Orientale, è apparso in libreria a fine febbraio 2023 lo studio di C.
FANTAPPIÈ, Metamorfosi della sinodalità. Dal Vaticano II a papa Francesco, Marcianum
Press, Venezia 2023.
4
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Sinodalità nella vita della Chiesa,
num. 39.

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Alla luce di quanto storicamente si è segnalato nel recente documento


sulla sinodalità, appare rappresentativo considerare, evitando anacronismi
ed attingendo alla relativa documentazione archivistica impiegata secondo
il metodo storico-critico, il caso della II Conferenza episcopale venezuela-
na (1923). Ottemperando alle istruzioni ricevute, mons. Filippo Cortesi,
nunzio apostolico a Caracas in Venezuela dal 1921 al 19255, aveva portato
a compimento il processo per l’erezione di nuove diocesi nella Repubblica
venezuelana e, in occasione della consacrazione a Caracas dei nuovi Pasto-
ri nell’ottobre 1923, si era adoperato per ottenere una Lettera di Pio XI6 per
i vescovi del paese e per riunirli nella II Conferenza dell’Episcopato vene-
zuelano7.
Il presente contributo, di indole storico-ecclesiastica e basato sulla docu-
mentazione conservata nell’Archivio Apostolico Vaticano (AAV, Archivio del-

5
Filippo Cortesi, 1876-1947. Arcivescovo titolare di Sirace, nominato il 30 maggio
1921 nunzio apostolico a Caracas in Venezuela reggerà la nunziatura fino alla nomina a
nunzio in Argentina il 19 ottobre 1926; in attesa della nomina del nuovo nunzio per la Bo-
livia trascorse un periodo a La Paz in Bolivia guidando anche quella Nunziatura (1924-
1925): G. DE MARCHI, Le Nunziature Apostoliche dal 1800 al 1956, I, LEV, Città del Vati-
cano 2006, 263. Il De Marchi non fa menzione dell’incarico svolto a La Paz e neppure vi è
notizia in Annuario Pontificio per l’anno 1926, Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1926,
516. Cf. http://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bcortf.html [https://archive.is/R1Ajr];
prosopografia in S. PAGANO et alii, I «Fogli Udienza» del Cardinale Eugenio Pacelli Segre-
tario di Stato, I (1930), Archivio Segreto Vaticano, Città del Vaticano 2010, 413.
6
Giuseppe Melchiorre Sarto, 1835-1914. Cf. HC, IX, 5-8; www.catholic-hierarchy.org/
bishop/bsartogm.html. M. GUASCO, Pio X, in Dizionario Biografico degli Italiani, 84, Isti-
tuto della Enciclopedia Italiana, Roma 2015, 40-48; G. ROMANATO, Pio X. Alle origini del
cattolicesimo contemporaneo, Lindau, Torino 2014; G. BRUGNOTTO – G. ROMANATO (edd.),
Riforma del cattolicesimo? Le attività e le scelte di Pio X, Pontificio Comitato di Scienze
Storiche – LEV, Città del Vaticano 2016.
7
La storiografia sembra non aver considerato la conferenza episcopale oggetto di que-
sto articolo (e neppure la documentazione presso gli archivi vaticani) come si può costa-
tare nello studio di C.J. IZZO NIEVES, Las Instruccione Pastorales de 1904, 1928 y 1957:un
diagnóstico de la sociedad venezolana en la primera mitad del siglo XX, UCAB Universi-
dad Católica Andrés Bello, Caracas 2018 (chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcgl-
clefindmkaj/http://biblioteca2.ucab.edu.ve/anexos/biblioteca/marc/texto/AAV1930.pdf),
dove solamente si menziona la «2ª Conferencia Canónica Ordinaria» (Caracas, 23-
31/10/1923). Dopo aver trattato alle pagine 68-76 la 1ª Conferencia Canónica Ordinaria
(Caracas,1904), si passa alla 3ª Conferencia Canónica Ordinaria (Caracas, 1928), si de-
dica alla II Conferenza Episcopale del 1923 solo una linea a p. 77 («La segunda se había
efectuado en 1923»), e nella correlata nota 40 al pie di pagina («La Segunda Conferencia
Canónica realizada en 1923, fue convocada para realizar temas propuestos por el Papa en
una carta enviada al Episcopado y actualizar ciertas cuestiones canónicas»).

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

la Nunziatura Apostolica in Venezuela) e nell’Archivio Storico della Segrete-


ria di Stato Vaticana, Sezione per i Rapporti con gli Stati – Archivio della
Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari (ASRS, AA.EE.SS., Ve-
nezuela IV – Pio XI), ha quindi per oggetto la citata conferenza episcopale e
la correlata lettera pontificia che, per iniziativa di mons. Cortesi, ne ha sti-
molato la realizzazione e indirizzato i lavori in vista di un rinnovato impegno
pastorale e missionario dell’ampliato collegio episcopale venezuelano8.

Le conferenze episcopali nelle Istruzioni per i Rappresentanti


pontifici in Venezuela nei primi decenni del secolo XX

Negli anni successivi al Concilio Plenario Latinoamericano le conferenze


episcopali9 erano oggetto di costante richiamo nelle Istruzioni che la Segre-

8
Nel presente contributo non ci si occupa della dimensione politica che pur caratteriz-
zava l’esperienza delle conferenze episcopali come ricordato da G. Feliciani: «Il 16 novem-
bre 1830, all’indomani degli avvenimenti rivoluzionari che avevano assicurato al Paese
l’indipendenza, i Vescovi belgi si riunirono in forma non conciliare a Malines per consul-
tarsi sulle questioni che implicavano rapporti con le nuove autorità civili. Dunque fin dal-
l’inizio della loro storia le Conferenze Episcopali dedicano ampia e specifica attenzione al-
le relazioni della Chiesa con i rispettivi Stati. E non a caso. Si tratta, infatti, di un proble-
ma che si pone ad ogni Vescovo nell’esercizio del suo ministero pastorale, ma che, riguar-
dando tutte le Diocesi di uno stesso Stato, può essere adeguatamente affrontato solo con
una azione congiunta di tutti i Vescovi interessati. Questa attività delle Conferenze, o più
in genere degli Episcopati, si sviluppa e assume ancor maggiore importanza nel secolo XX
al punto che Pio XI ritiene opportuno richiamarla negli stessi Accordi concordatari, sia pu-
re occasionalmente e in misura limitata»: G. FELICIANI, Il ruolo delle Conferenze Episcopa-
li nelle relazioni internazionali della Santa Sede, in M. DE LEONARDIS (ed.), Fede e diplo-
mazia. Le relazioni internazionali della Santa Sede nell’eta contemporanea, EDUCatt, Mi-
lano 2014, 321. Cf. anche G. FELICIANI, Le conferenze episcopali, Il Mulino, Bologna 1974.
9
Sulle conferenze episcopali di quegli anni alla luce del Codice di Diritto Canonico del
1917: «El origen de las conferenzias episcopales suele situarse en 1830, con motivo del
comienzo de las reuniones de los obispos belgas para consultas recíprocas y periódicas.
Más tarde esta praxis de reuniones episcopales se extendió a otros países europeo, como
Alemania, Austria, Italia. A la muerte de León XIII en 1903, estos conventus episcoporum,
aprobados y promovidos por la Santa Sede, existían ya en diversos países, incluso fuera
del continente europeo. El motivo de estas reuniones periódicas venía constituido sobre
todo, aunque no exclusivamente, por la necesidad de una respuesta coordinada a los pro-
blemas referidos a la acción de la Iglesia en la sociedad y de una relación entre los obis-
pos del país y de las autoridades civiles. El CIC 1917 dedicó escasas normas a las confe-
rencias de obispos, sin reconocer todavía su ámbito nacional; sin embargo, el antiguo c.

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teria di Stato della Santa Sede impartiva ai Rappresentanti pontifici in


America Latina e successivamente apparivano disciplinate anche nel Codi-
ce di Diritto Canonico del 1917 al canone 29210.
Il ripetuto richiamo non era fuori luogo in quanto a causa delle conside-
revoli distanze, delle difficili vie di comunicazione, degli impedimenti do-
vuti a malattia o ad anzianità come anche all’inerzia di Metropolitani e ve-
scovi suffraganei e alle opposizioni dei Governi liberali11, l’indicazione di
celebrare tali riunioni ogni tre anni era stata spesso disattesa.

292 §1 establecía ya como principio (“al menos cada cinco años”) la obligatoriedad de
los encuentros entre obispos pertenecientes a una misma provincia eclesiástica, “para de-
liberar en común y ver qué medidas conviene adoptar para promover el bien de la reli-
gión en sus diócesis y preparar los asuntos que hayan de ser tratados en el futuro conci-
lio provincial»: A. VIANA, Conferencia Episcopal, in OTADUY – VIANA – SEDANO (eds.), Dic-
cionario General de Derecho Canónico, II, 484. Ed anche: «Oltre i concili, generali e par-
ticolari, e i sinodi diocesani propriamente detti, assemblee pubbliche e ufficiali per ec-
cellenza, l’ordinamento ecclesiastico prevede altre riunioni periodiche di clero, meno
pubbliche e solenni, a scopo consultivo e didattico professionale, quali le c. foraniali o vi-
cariali e le c. episcopali (cann. 131, 591, 292). […]. Sotto questa denominazione s’inten-
dono i periodici convegni ai quali sono tenuti, almeno ogni 5 anni, i vescovi di una stes-
sa provincia ecclesiastica ovvero, per l’Italia, di una stessa regione conciliare, allo scopo
di consultarsi insieme circa i provvedimenti da adottarsi per promuovere di comune ac-
cordo il bene della religione nelle singole diocesi, concertare una comune linea di con-
dotta nelle speciali contingenze che si presentassero, e preparare il futuro concilio provin-
ciale (can. 292). […]. Giuridicamente, tuttavia, non sono concili: rivestono la figura di
amichevoli incontri a carattere puramente consultivo e le loro deliberazioni non assumo-
no la natura di statuti conciliari, bensì di semplici accordi che ciascun convenuto s’impe-
gna di eseguire come se li avesse deliberati di sua iniziativa per il proprio territorio»: ZAC-
CARIA DA SAN MAURO, Conferenze, in Enciclopedia Cattolica, IV, Ente per l’enciclopedia
cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1950, coll. 218-220.
10
«Can 292 §1. Nisi aliter pro peculiaribus locis a Sede Apostolica provisum fuerit,
Metropolita, eoque deficiente, antiquior e Suffraganeis ad normam can. 284, curet ut Or-
dinarii locorum, saltem quinto quoque anno, stato tempore apud Metropolitam aliumve
Episcopum comprovincialem conveniant, ut, collatis consiliis, videant quaenam in dioe-
cesibus agenda sint ut bonum religionis promoveatur, eaque praeparent de quibus in fu-
turo Concilio provinciali erit agendum. §2. Etiam Episcopi aliique de quibus in can. 285,
una cum aliis Ordinariis convocari et convenire debent. §3. Iidem Ordinarii congregati se-
dem proximi conventus designent»: Codex iuris canonici, Pii X pontificis maximi iussu di-
gestus, Benedicti papae XV auctoritate promulgatus, Typis Polyglottis Vaticanis, Romae
1917, in AAS 9/2 (1917), 1-593; anche in www.jgray.org/codes/cic17lat.html [https://ar-
chive.is/hMDJ]; www.iuscangreg.it/cic1917.php.
11
Si ricorda che in virtù del sistema di relazioni tra la Chiesa e gli Stati allora vigente
i governi latinoamericani esercitavano un certo controllo sulla Chiesa nei rispettivi paesi;

66
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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

Nel caso del Venezuela, dove l’episcopato si era riunito in conferenza una
sola volta nel 1904, i due immediati predecessori di mons. Filippo Cortesi,
avevano ricevuto dalla Segreteria di Stato chiare ed identiche istruzioni al ri-
guardo. Nelle Istruzioni pontificie per mons. Carlo Pietropaoli12 del maggio
1913, a fine pontificato di Pio X, si ordinava:

Da ultimo si fanno a Mons. Delegato Apostolico le seguenti particolari


raccomandazioni:
1° – Con specialissima cura invigili sull’osservanza del Concilio Plena-
rio Latino Americano nelle singole diocesi.
2° – Inculchi la frequente celebrazione dei Concili Provinciali, non che
le frequenti conferenze dei Vescovi di ciascuna Provincia, affinché pos-
sano così più facilmente intendersi circa i vari bisogni dei loro sudditi,
sui mezzi più adatti per provvedere e infine perché più facilmente pro-
cedano con uniformità e concordia nel governo delle rispettive diocesi13.

Parimenti, per mons. Francesco Marchetti Selvaggiani14 nelle Istruzioni


del maggio 1918, a metà del pontificato di Benedetto XV, si trovavano le
medesime indicazioni15.
In Venezuela la celebrazione di frequenti conferenze dei Vescovi di ciascu-
na Provincia era stata disattesa e per questo motivo ai Rappresentanti pon-
tifici si affidava il compito di inculcare tale dovere.

in Venezuela il Concordato vigente dal 1862 se, da un lato, stabiliva che la religione cat-
tolica apostolica romana continuava a essere la religione della Repubblica e il governo ave-
va il dovere di difenderla e conservarla (art. 1), dall’altro, riconosceva al Presidente della
Repubblica il Diritto di Patronato (art. VII): E. LORA (ed.), Enchiridion dei concordati. Due
secoli di storia dei rapporti Chiesa-Stato, a cura di, EDB, Bologna 2003, 374-377.
12
Carlo Pietropaoli, 1857-1922. Arcivescovo titolare di Calcide, delegato apostolico e
Inviato straordinario in Venezuela dal 23 maggio 1913 (a disposizione della Santa Sede
dal febbraio 1918): DE MARCHI, 263. Annuario Pontificio per l’anno 1914, 551; HC, IX,
377; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bpietr.html [https://archive.is/Dp4zs].
13
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 11, fasc. 29, ff. 43r-43v.
14
Francesco Marchetti Selvaggiani, 1871-1951. Arcivescovo titolare di Seleucia, Inter-
nunzio e poi nunzio apostolico in Venezuela dal 10 aprile 1918 al 1 dicembre 1920 (no-
minato nunzio in Austria il 2 dicembre): DE MARCHI, 263. Annuario Pontificio per l’anno
1920, 920, 645; HC, IX, 338; www.catholic-hierarchy.org/bishop/bmase.html [https://ar-
chive.is/NqcdR]; PAGANO et alii (edd.), I “Fogli Udienza” del Cardinale Eugenio Pacelli
Segretario di Stato, I (1930), 452-453.
15
Cf. AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 21, fasc. 56, f. 20r.

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Le Istruzioni della Segreteria di Stato del settembre 1921 per mons. Fi-
lippo Cortesi non contenevano analoghe esplicite indicazioni (salvo il ri-
chiamo all’adempimento del Concilio Plenario Latinoamericano anche ri-
guardo al sostegno economico per il Collegio Pio latinoamericano e all’O-
bolo di san Pietro16). Relativamente alle diocesi e all’episcopato in esse si
menzionava piuttosto la necessità che il nuovo nunzio si occupasse di eri-
gere nuove diocesi:

l’organizzazione ecclesiastica nel Venezuela è costituita da una provin-


cia ecclesiastica, con la Metropolitana di S. Giacomo di Venezuela o
Caracas e le suffraganee di Barquisimeto, Calabozo, Guayana, Mérida
e Zulia.
Ben comprenderà Monsignor Cortesi quanto importi che la circoscrizio-
ne ecclesiastica sia adeguata ai bisogni spirituali dei fedeli. Non trala-
scerà egli, quindi, di portare la sua attenzione su questo rilevante argo-
mento, per vedere se le circoscrizioni permettano di preparare l’erezio-
ne di qualche nuova diocesi, dismembrando qualcuna delle attuali17.

Al riguardo anche le Istruzioni ricevute dalla Concistoriale, la Congrega-


zione con competenze sui vescovi18, richiedevano a mons. Cortesi di occu-
parsi della creazione di nuove diocesi e, insieme ad altri ordini, di richia-
mare i vescovi all’osservanza delle leggi contenute nel Codice di Diritto Ca-
nonico19.
Nel quadro dell’erezione di nuove diocesi, in esecuzione delle istruzioni
romane nel solco del lavoro fatto dai suoi predecessori e delle norme del
Codice del 1917, mons. Cortesi avrebbe approfittato della consacrazione
dei nuovi vescovi a Caracas per realizzare la riunione dell’episcopato il cui
programma si sarebbe desunto da una lettera papale.

16
Cf. AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 23, fasc. 68, f. 15v.
17
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 23, fasc. 68, f. 9v [le sottolineature appaiono nel do-
cumento].
18
Cf. N. DEL RE, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, LEV, Città del Vati-
cano 1998, 135-145.
19
Cf. AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 21, fasc. 56, ff. 52r-53r.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

La lettera Quod novas di Pio XI ai vescovi del Venezuela


e il programma della II Conferenza episcopale Venezuelana

Il 25 aprile 1923 Pio XI indirizzava all’Episcopato del Venezuela una Let-


tera Pontificia dal nome Quod novas la cui genesi è da attribuire all’inizia-
tiva del nunzio apostolico a Caracas.
Tra i vari documenti archivistici ad essa collegati e conservati nel fondo
Archivio della Nunziatura Apostolica in Venezuela dell’Archivio Apostolico
Vaticano, si trova infatti una minuta manoscritta di mons. Cortesi indirizza-
ta al card. Pietro Gasparri20, Segretario di Stato vaticano, datata Caracas 2
agosto 1922 e con titolo Appunti per una lettera del S. Padre all’Episcopato
Venez.21.
Nell’esordio mons. Cortesi faceva riferimento ad un suo precedente rap-
porto del 30 luglio 1922 (N. 546) contenente la «proposta di erezione di
quattro nuove diocesi nel Venezuela»22 e dava comunicazione dell’avvenu-

20
Pietro Gasparri, 1852-1934. Segretario di Stato dal 13 ottobre 1914 al 7 febbraio
1930, era stato delegato apostolico per Perù, Bolivia ed Ecuador dal 1897 al 1901: DEL
RE, La Curia Romana. Lineamenti storico-giuridici, 90. Cf. Annuario Pontificio per
l’anno 1918, 44; HC, IX, 9 e 21-23; www.catholic-hierarchy.org/bishop/bgaspp.html
[https://archive.is/cVGj0]; C. FANTAPPIÈ – R. ASTORRI, Gasparri, Pietro, in Dizionario Bio-
grafico degli Italiani, 52, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1999, 500-507; L.
PETTINAROLI – M. VALENTE (hrsg.), Il cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato (1914-
1930), Heidelberg University Publishing, Heidelberg 2020.
21
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 47r-49v. Si segnala che la numerazio-
ne dei fogli apposta in archivio non corrisponde al contenuto: il primo foglio è numerato
f. 49v, il secondo f. 49r, il terzo f. 48v, il quarto f. 48r.
22
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 49v. Il citato Rapporto N. 546 (Cara-
cas 30 luglio 1922) era stato preceduto dal Rapporto N. 367 (Caracas 23 maggio 1922):
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 169, fasc. 2, rispettivamente ff. 23r-25v e
15r-21r. Nel N. 546 Cortesi scriveva che «Le Diocesi in progetto [Coro, Cumaná, Valen-
cia in Venezuela e San Cristobal di Venezuela] formano, dal punto di vista etnico e geo-
grafico, raggruppamenti ben definiti ad equa distanza dalle altre Sedi vescovili» (f. 25).
Nel N. 367 si menzionava il motivo (pastorale e missionario): «Le diocesi del Venezuela
comprendono ciascuna un vastissimo territorio con differenti Stati e nuclei di popolazioni
differenti e quasi isolate così che per visitarle occorrono lunghi e penosi viaggi e resisten-
za fisica non comune. […] Il lavoro dei miei predecessori, diretto a conseguire l’erezione
di qualche nuova diocesi, non riuscì per il mancato assenso del Governo e per l’inerzia,
se non forse contrarietà, da parte di ecclesiastici influenti» (f. 15rv) e nell’allegato copia
del Memorandum diretto al Governo della Repubblica degli Stati Uniti del Venezuela sul-
l’erezione di nuove diocesi Cortesi scriveva: «La erezione di nuove diocesi, proposta in di-

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ta approvazione di tale proposta da parte del Congresso della Repubblica.


Secondo Cortesi la notizia era stata accolta dalla Chiesa come l’occasione
propizia per restaurare la vita religiosa e morale del paese affetto da molte-
plici piaghe morali soprattutto le unioni illegittime, che in alcuni luoghi su-
peravano quelle legittime, e l’ignoranza religiosa assieme all’analfabetismo
«veramente incredibili delle classi popolari»23.
In questo quadro la costituzione di nuove diocesi appariva come un’op-
portunità promettente «per affermare nel Venezuela l’azione e l’influenza
salvatrice e civilizzatrice della Chiesa»24. Per favorire nei vescovi il rag-
giungimento di tale obiettivo mons. Cortesi segnalava che «tornerebbe op-
portunissima e di prezioso stimolo una lettera del Santo Padre ai Vescovi»25
e suggeriva alcuni punti da trattare (vocazioni sacerdotali e seminari; la fa-
miglia e il sacramento del matrimonio; l’istruzione religiosa; le virtù socia-
li della giustizia e della carità; le missioni), rimettendosi, come d’uso, alla
valutazione di Gasparri e dello stesso Pio XI.
Se la notizia dell’approvazione da parte del pontefice dell’erezione delle
nuove diocesi e dell’accettazione di inviare una sua Lettera è datata 9 otto-
bre del 192226, solo il successivo 7 maggio 1923, con biglietto dattiloscrit-
to N. 17457 a firma del card. Gasparri, dalla Segreteria di Stato si inviava
a mons. Cortesi il «venerato Autografo che l’Augusto Pontefice si è degna-
to destinare a cotesto Episcopato»27. La lettera, denominata Quod novas e
datata Roma 25 aprile 1923, doveva essere trasmessa all’arcivescovo di Ca-
racas e agli altri vescovi della Repubblica del Venezuela28 e nella mente di
Cortesi avrebbe dato le linee guida alla prossima riunione dei vescovi.

verse epoche, si impone oggi come una necessità generalmente sentita, come ne sono pro-
va le reiterate istanze dirette al Governo e alla Nunziatura dai Vescovi e dalle popolazio-
ni interessate» (f. 17r).
23
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 49v-49r.
24
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 49r.
25
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 49r.
26
Cf. minuta mns. datata Roma 9 ottobre 1922 (N. 8174): ASRS, AA.EE.SS., Venezue-
la IV (Pio XI), pos. 169, fasc. 2, f. 29rv.
27
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 53r.
28
Quod novas. Ad RR. PP. DD. Philippum Rincón Gonzalez, archiepiscopum Caracen-
sem, et ad ceteros Episcopos Reipublicae de Venezuela: nonnulla paterno animo admonens in
Ecclesiae utilitatem: in AAS 15 (1923), 275-277. Anche in AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b.
28, fasc. 91, rispettivamente in f. 50rv e f. 52rv il testo latino con la traduzione spagnola.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

L’episcopato venezuelano29 era allora composto dall’arcivescovo di San-


tiago di Venezuela o Caracas, Felipe Rincón González30, e dai vescovi delle
diocesi suffraganee: per Barquisimeto (o Carabobo) mons. Aguedo Felipe
Alvarado Liscano31, per Calabozo mons. Arturo Celestino Álvarez32, per Mé-
rida mons. Antonio Ramón Silva33, per Zulia mons. Marcos Sergio Godoy34;
per Guayana (o Santo Tomás de Guayana o Ciudad de Bolivar) nell’anno
1923 a mons. Sixto Sosa Díaz35 succedeva mons. Miguel Antonio Mejía36
che sarebbe stato consacrato assieme ai vescovi per le nuove diocesi.
La lettera era rivolta anche ai futuri vescovi (“vescovi eletti”) delle nuo-
ve diocesi erette da Pio XI il 12 ottobre 192237. Nominati il 22 giugno
1923, i nuovi Pastori sarebbero stati consacrati assieme a Caracas il suc-
cessivo 21 ottobre 1923 e il consacrante principale sarebbe stato mons.
Cortesi quale rappresentante papale: per la diocesi di Coro mons. Lucas

29
Sui vescovi del paese nelle Istruzioni per mons. Cortesi si legge: «Per quanto riguar-
da i membri dell’Episcopato venezuelano, è da riconoscere che, a prescindere da qualche
deficienza nell’azione pastorale, essi sono generalmente persone degne e zelanti»: AAV,
Arch. Nunz. Venezuela, b. 23, fasc. 68, f. 9v.
30
Aguedo Felipe Rincón González, 1861-1946. Cf. Annuario Pontificio per l’anno
1923, 135; Hierarchia Catholica medii et recentioris aevi, IX (1903-1922), Typis Libra-
riae “Il Messaggero di S. Antonio”, Patavii 2002, 204; www.catholic-hierarchy.org/bis-
hop/brigo.html [https://archive.is/PCvX0].
31
Felipe Alvarado Liscano, 1845-1926. Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 88; HC, IX,
80; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/balvlis.html [https://archive.is/ZAVph].
32
Arturo Celestino Álvarez, 1870-1952. Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 99; HC,
IX, 102; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/balvareza.html [https://archive.is/
W2C2O].
33
Antonio Ramón Silva, 1850-1927. Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 168; HC, IX,
166; Hierarchia Catholica Medii et Recentioris Aevi, VIII (1846-1903), Il Messaggero di
S. Antonio, Patavii 1978, 259; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bsilvaa.html
[https://archive.is/oPSM8].
34
Marcos Sergio Godoy, 1881-1957. Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 242; HC, IX,
400; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bgodoy.html [https://archive.is/5TJjV].
35
Sixto Sosa Díaz (1879-1955). Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 141; https://www.
catholic-hierarchy.org/bishop/bcashe.html [https://archive.ph/WMJOW].
36
Miguel Antonio Mejía (1877-1947). Cf. Annuario Pontificio […] 1924, 144; https://
www.catholic-hierarchy.org/bishop/bcashe.html [https://archive.is/Hn0MH].
37
Cf. Constitutio Apostolica Venezuelana, Dismembrationis et erectionis Dioecesium
Crensis, Cumanensis, Valentinae et Sancti Christophori, in AAS XV (1923), 99-102.

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Guillermo Castillo Hernández38; per Valencia mons. Francisco Antonio Gra-


nadillo39; per San Cristobal mons. Tomás Antonio Sanmiguel Díaz40. La
nuova diocesi di Cumaná sarebbe stata assegnata a mons. Sixto Sosa Díaz
già vescovo di Guayana (sostituito come detto da mons. Miguel Antonio Me-
jía nuovo vescovo consacrato il 21 ottobre 1923).
I temi contenuti nella Lettera di papa Ratti, dall’indole paterna e autore-
vole e dalle espressioni che incoraggiavano ed esigevano l’impegno dei ve-
scovi nell’opera di evangelizzazione, traducevano quanto suggerito dal
Rappresentante pontificio:
– l’importanza delle nuove quattro diocesi sia per la Chiesa che per lo
Stato;
– l’esortazione ai nuovi vescovi, in ragione della nuova organizzazione
ecclesiastica, di sviluppare e migliorare l’azione della Chiesa;
– la cura delle vocazioni sacerdotali con l’erezione dei seminari dioce-
sani, dotati di strutture e ben organizzati, per l’educazione dei giova-
ni che avrebbero poi proseguito gli studi superiori nel seminario di
Caracas;
– la cura del popolo cristiano e della sua istruzione religiosa mediante
la fondazione di scuole parrocchiali;
– la particolare cura pastorale per il sacramento del matrimonio da cui
dipendeva l’avvenire della società venezuelana (per tale ragione il pa-
pa ordinava ai vescovi di lavorare principalmente per la difesa e la
santità della famiglia);
– l’attenzione alle missioni il cui fine era attirare a Cristo gli indigeni non
ancora cristiani, ancora numerosi nelle vaste regioni del paese (se la
recente erezione del Vicariato apostolico del Caroní41 costituiva un
passo in avanti, ancora molto si doveva fare per l’evangelizzazione de-
gli indigeni e par tale motivo il pontefice esortava i vescovi affinché,
confrontando tra loro pareri ed esperienze, trovassero il modo migliore

38
Lucas Guillermo Castillo Hernández (1879-1955). Cf. Annuario Pontificio […] 1924,
119; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bcashe.html [https://archive.is/WMJOW].
39
Francisco Antonio Granadillo (1878-1927). Cf. Annuario Pontificio […] 1924, 237;
https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bgranf.html [https://archive.is/6ZzIX].
40
Tomás Antonio Sanmiguel Díaz (1887-1937). Cf. Annuario Pontificio […] 1924,
121; https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bsmd.html [https://archive.ph/LX6em].
41
Cf. Guayanensis Dismembrationis et erectionis Dioecesium Crensis, Cumanensis, Va-
lentinae et Sancti Christophori, in AAS XIV (1922), 334-336.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

e più efficace per sviluppare l’opera delle missioni ovvero la dilatazio-


ne della fede, richiedendo anche l’appoggio e il contributo dei fedeli);
– l’invito ai fratelli vescovi del Venezuela ad impegnarsi personalmente
nel compito affidato.

Come richiesto da Gasparri a Cortesi la lettera piana, una volta dattilo-


scritta, venne inviata ai rispettivi destinatari, accompagnata da una comu-
nicazione dell’arcivescovo di Caracas42.

La II Conferenza dell’Episcopato Venezuelano


e l’azione di mons. Filippo Cortesi

Da Caracas il 20 agosto 1923 mons. Cortesi indirizzava al card. Gasparri


il rapporto dattiloscritto N. 1461 con oggetto Pubblicazione della Lettera
del Santo Padre ai Vescovi del Venezuela. Prossima riunione di questi in
Caracas (con allegati)43. In esso si menzionava il dispaccio N. 17457 con-
tenente l’autografo di Pio XI e si comunicava che si era provveduto a dar-
ne notizia all’episcopato. La lettera di mons. Felipe Rincón González in-
viata ai colleghi vescovi e la lettera di Pio XI (tradotta in spagnolo) erano
inoltre state pubblicate nei giornali di Caracas. Cortesi segnalava inoltre
che la presenza a Caracas dei vescovi della Repubblica, inclusi i nuovi
quattro, era all’origine dell’idea di realizzare la seconda Conferenza epi-
scopale

sia per mettere le conclusioni alla prima Conferenza, tenuta nel 1905
[sic], di accordo con il Codice di Diritto Canonico e le posteriori pre-
scrizioni della Santa Sede; sia per avvisare in comune i mezzi per ridur-
re alla pratica i speciali suggerimenti contenuti nella sullodata Lettera

42
Di seguito un significativo passaggio del testo (in questo caso copia per il vescovo di
Mérida, mons. Silva (Caracas 5 luglio 1923): «El Padre Santo se ha dignado, en su pater-
nal benignidad y movido del interes apostólico que le anima [...] favoreciendo este aumen-
to del Episcopado Venezolano, ha procurado un nuevo poderoso elemento al avance de la
cultura y prosperidad nacional»: AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 51r.
43
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 21r-22r. Dell’invio da parte di Corte-
si del N. 1461 si ha notizia nel suo successivo N. 1526: ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV
(Pio XI), pos. 177, fasc. 6, ff. 5r-6r.

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di Sua Santità; sia infine per gettare le prime basi dell’azione cattolica,
che manca affatto nelle Diocesi della Repubblica44.

Dopo aver poi comunicato di aver già informato i vescovi di tutto ciò45,
Cortesi concludeva il rapporto osservando che «se una vera e propria Con-
ferenza Episcopale Nazionale non sarà possibile ora, potranno almeno
prendersi alcune deliberazioni più urgenti su i punti indicati e fissare la ri-
unione della prossima Conferenza»46.
Nel successivo rapporto del 25 settembre 1923 (N. 1526)47 il nunzio ag-
giungeva che il programma della Conferenza era quello «tracciato sapien-
temente dalla recente Lettera del Santo Padre ai Vescovi venezuelani»48.
Previamente determinato, il programma era stato affidato allo studio di ec-
clesiastici competenti, incaricati di formulare proposizioni concrete per le
conseguenti deliberazioni dei vescovi.
Celebrate sia la consacrazione dei vescovi il 21 ottobre sia la Conferen-
za dell’episcopato dal 22 al 31 ottobre 1923, mons. Cortesi procedeva a in-
formare dapprima il card. Gasparri e poi il card. Gaetano De Lai49 Segreta-
rio della Congregazione Concistoriale. I rapporti dattiloscritti del medesimo

44
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 21v.
45
Cf. la comunicazione del 24 agosto 1923 indirizzava ai vescovi venezuelani, incluso
gli “eletti”, firmata mons. Cortesi e dall’arcivescovo di Caracas (come annotato nella mi-
nuta): AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 4rv. Si ha copia fedele in ASRS,
AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 7rv come allegato al Rapporto N.
1526. Nel testo si comunicava ai vescovi che «para facilitar los trabajos, mas dejando co-
mo es natural a los Prelados toda libertad de iniciativa, hemos convenido proceder al nom-
bramiento de una Comisión mixta del clero secular y regular con encargo de preparar los
proyectos que serán presentados al examen y deliberación de la Conferencia» (f. 4v).
46
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 22r.
47
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, ff. 5r-6r (con titolo Pro-
getto per la II Conferenza dei Vescovi Venezuelani). In allegato la già menzionata lettera fir-
mata da lui e da mons. Rincón di cui si ha il testo in: AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28,
fasc. 91, f. 4rv.
48
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 5v. Si ommette di ci-
tarli in quanto esposti poi nella Lettera.
49
Gaetano De Lai (1853-1928). Cf. Annuario Pontificio […] 1923, 34-35;
https://www.catholic-hierarchy.org/bishop/bdelai.html [https://archive.is/2rOT]. Prosopo-
grafia in PAGANO et alii (edd.), I “Fogli Udienza” del Cardinale Eugenio Pacelli Segreta-
rio di Stato, I (1930), 416.

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contenuto erano datati a Caracas rispettivamente il 5 novembre 1923 (N.


1604)50 e il 28 novembre 1923 (N. 1622)51.
A Cortesi rispondevano Gasparri e De Lai rispettivamente in data Vati-
cano 22 dicembre 1923 (N. 25327) e Roma 2 gennaio 1924 e mentre nel
dattiloscritto a firma di Gasparri si sottolineava quanto riferito dal nunzio
circa «l’impegno, la buona armonia e il senso di responsabilità con cui co-
testi Vescovi hanno atteso ai lavori della Conferenza»52, nel manoscritto re-
datto e firmato da De Lai questi osservava che «non solo opportuna è stata
l’adunanza, ma apportatrice di saggie ed ottime risoluzioni»53, auspicando
che con la Grazia di Dio fossero realizzate.
Il contenuto di quello che può definirsi “duplice rapporto” di Cortesi è
esposto di seguito. Lo si espone estraendolo dal rapporto N. 1604 per il
card. Gasparri, ricorrendo eventualmente anche alla minuta del rapporto N.
1622 per il card. De Lai.
Dopo aver fatto riferimento al Rapporto N. 1526 ed aver comunicato che
alla conferenza avevano partecipato tutti i vescovi ad eccezione di mons.
Ramón Silva (Mérida) e di mons. Alvarado Liscano (Barquisimeto) in ra-
gione dell’età e della malattia, mons. Cortesi passava ad esporre il conte-
nuto del titolo I Lavoro preparatorio e conclusione della Conferenza.
Realizzata il 21 ottobre 1923 la consacrazione dei nuovi vescovi, il gior-
no seguente si iniziava la conferenza – che si sarebbe conclusa dieci gior-
ni dopo con la solenne celebrazione liturgica del 1° novembre – dando let-
tura della Lettera di Pio XI contenente le seguenti raccomandazioni:

50
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, ff. 9r-12v. Identico testo
nella minuta datt. in AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 26-33.
51
Minuta datt. in AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 34-41 con un allega-
to al f. 42.
52
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 43r.
53
AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 44r. Ai ff. 44-45 si trova una comuni-
cazione di Cortesi a De Lai (Caracas 30 maggio 1926, N. 200) nella quale si propone di
rendere periodica la conferenza dei vescovi del paese: «Come sa l’Em. V. nei paesi sud-
americani, forse più che altrove, si nota il difetto di perseveranza e di continuità nelle ope-
re, soprattutto uniformità di consiglio e di indirizzo nell’apostolato; così che se è vero che
qualch’una delle riferite conclusioni si sta adempiendo, la più parte sono appena iniziate
o rimangono lettera muta. Sarebbe perciò opportuno, secondo il mio umile avviso, di sta-
bilire per il Venezuela, come fu fatto ad esempio per la Colombia, la Conferenza periodi-
ca di tutti i Vescovi, che l’esperienza ha dimostrato particolarmente proficua in paesi più
soggetti a frequenti mutamenti civili e politici».

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1° la santificazione della famiglia, fondata sull’indissolubilità del Matri-


monio;
2° l’istruzione religiosa;
3° l’istituzione dei seminari diocesani;
4° l’Opera delle Missioni;
5° l’Azione Cattolica, diretta a fomentare tra i fedeli la pratica della vita
cristiana54.

Si trattava degli argomenti precedentemente segnalati da Cortesi a Ga-


sparri e affidati allo studio di alcuni ecclesiastici che dovevano preparare
le relative “proposizioni”, come visto in precedenza. Le deliberazioni che
in conferenza i vescovi adottarono furono varie55.
Riguardo al punto 1° si stabiliva di emanare una Istruzione per i parroci
per richiamare la dottrina e la legislazione ecclesiastica sul sacramento del
matrimonio in modo da poter poi istruire adeguatamente i contraenti sugli
aspetti legati al matrimonio, combattendo le unioni illegittime e il divorzio.
Sul punto 2° si decideva di emanare norme particolari per rendere effet-
tivo l’insegnamento del catechismo sia per bambini che per adulti usando il
catechismo del gesuita P. Ripalda come testo unico per l’istruzione fonda-
mentale e quello di Pio X per l’istruzione superiore, in modo da ovviare agli
inconvenienti causati dall’impiego di più testi. A ciò si aggiungeva l’istitu-
zione di Scuole di Religione per la formazione di catechisti di ambo i sessi.
Per il punto 3° si ordinava l’erezione in ogni diocesi del Seminario Mino-
re mentre per gli studi superiori di filosofia e di teologia, considerata la
scarsità delle finanze, delle vocazioni e del personale direttivo, gli alunni
sarebbero stati inviati al Seminario Centrale di Caracas; quelli poi che si
distinguevano per intelligenza e pietà avrebbero compiuto i loro studi a Ro-
ma, al Pontificio Collegio Pio-Latinoamericano.
In tutte le diocesi, si prescriveva per il punto 4°, si doveva fondare l’O-
pera della Propagazione della Fede, quella della Santa Infanzia e l’Unione
Missionaria del Clero, con il preciso intendimento di sostenere l’attività
missionaria.

54
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 9v; AAV, Arch. Nunz.
Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 27.
55
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 9v; AAV, Arch. Nunz.
Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 27.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

Per il punto 5° ci si occupava dell’organizzazione dell’Azione Cattolica e


delle Conferenze di San Vincenzo de Paoli per la formazione e la cura del
laicato.
Infine, si aggiungeva un punto 6° relativo alla riorganizzazione degli ar-
chivi parrocchiali con l’obiettivo di rimediare al disordine che li caratteriz-
zava come era emerso dalle visite che lo stesso nunzio apostolico aveva
compiuto in diverse diocesi del paese.
Al titolo II del rapporto N. 1604 si esponevano gli Speciali accordi presi
nella Conferenza, ovvero:
a) dare impulso alla stampa diocesana soprattutto al giornale cattolico
della capitale La Religión favorendone gli abbonamenti;
b) combattere la propaganda massonica e protestante, impartendo ai
parroci norme particolari sulla condotta da seguire riguardo a tali
«sette»;
c) opporsi alle mode «indecenti» delle donne specialmente nelle chiese;
d) osservare quanto indicato sulla musica e il canto liturgico;
e) istituire l’Obolo di San Pietro e la Festa del Papa;
f) omaggiare gli Ordini e le Congregazioni religiose e sostenerne l’ope-
ra, tanto necessaria per il paese;
g) dirigere al Presidente della Repubblica un messaggio56 di ringrazia-
mento per l’appoggio dato nell’erezione del Vicariato apostolico del
Caroní, per favorire l’apertura di altre missioni e per denunciare il mo-
struoso delitto della tratta degli indigeni ancora compiuto in alcune
regioni del paese57.

56
Il dattiloscritto (Caracas 27 ottobre 1923) è presente in AAV e sulla tratta e schiavi-
tù si affermava: «3° Denunciar ante el Supremo Magistrado el delito monstruoso que to-
davía se comete en algunos parajes remotos de la Repçublica, y el cual constiste en la tra-
ta de indigenas: rebajandolos a la triste condición de esclavos no embargante los princi-
pios consignados en la Carta Fundamental y el celo del Gobierno para cortar estos abu-
sos. Al denunciar los Obispos este inicuo proceder, hacen eco también a la voz de la Si-
lla Apostolica, que en repetidas ocasiones ha expresado sus reclamos contra un mal que
no es solo nuestro y que menoscaba dondequiera sagrados intereses sagrados intereses de
la Religión y de la Patria»: AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 24rv.
57
Al riguardo si può vedere M.L. GRIGNANI, Propaganda Fide, le missioni e le inchie-
ste sulla schiavitù de facto degli indigeni in America Latina (1918-1922), Urbaniana Uni-
versity Press, Città del Vaticano 2022; «Per gl’Indi del Sudamerica. Missione Pontificia di
studio». Relazioni e scritti di Giovanni Genocchi visitatore apostolico in America Latina
(1911-1913), introduzione, trascrizione e note di M.L. GRIGNANI, Edizioni di Storia e Let-
teratura, Roma 2018.

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Tali istruzioni, accordi e decreti sarebbero stati accompagnati da una Pa-


storale collettiva che li avrebbe riassunti e spiegati; documentazione che,
scriveva Cortesi, era in corso di stampa e che successivamente avrebbe
provveduto ad inviare alla Sante Sede.
Mons. Cortesi elogiava infine i vescovi per l’impegno e l’armonia che
avevano profuso durante i dieci giorni di lavoro e si augurava lo stesso com-
portamento nel mettere in pratica quanto stabilito in modo che la società
venezuelana potesse raggiungere «la meta luminosa “Pax Christi in regno
Christi” additata e promossa sapientemente dal Regnante Pontefice»58.
Relativamente al titolo III Menzione del foglio di ringraziamento dei ve-
scovi al pontefice, mons. Cortesi comunicava di aver accluso la lettera con
la quale i vescovi ringraziavano il pontefice, riaffermavano la loro fedeltà e
gli facevano dono della casa recentemente acquistata per la residenza del
Rappresentante pontificio in Venezuela59.
Il rapporto si occupava poi dell’istituzione della Conferenza di Carità di
San Vincenzo de Paoli (titolo IV). Alla presenza del nunzio, di tutti i vesco-
vi, del clero, delle confraternite, delle associazioni e del popolo nella chie-
sa metropolitana, la sera del 28 ottobre 1923 si era data lettura dell’Accor-
do dell’episcopato per la fondazione di tali Conferenze e si era data spiega-
zione della loro origine, natura e scopo. Una Circolare dei vescovi ai parro-
ci avrebbe poi provveduto a indicare le modalità per la loro fondazione. Per
Cortesi tali conferenze avrebbero rappresentato per il Venezuela un «primo
saggio di associazione e di apostolato tra i cattolici»60.
Il giorno 1° novembre si concludeva la II Conferenza dell’Episcopato del
Venezuela con il solenne pontificale nella cattedrale di Caracas (titolo V) e
lo stesso giorno nel palazzo della nunziatura si offriva ai vescovi un ban-
chetto e si esprimevano reciproche congratulazioni (titolo VI), anche nei ri-
guardi della Rappresentanza pontificia in Venezuela61.

58
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 11v; AAV, Arch. Nunz.
Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 31.
59
Di essa non vi è traccia nella documentazione.
60
ASRS, AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 12r; AAV, Arch. Nunz.
Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 32. Alcune brevi comunicazioni dei vescovi a favore delle ci-
tate Conferenze in: AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, ff. 55-60.
61
Nella documentazione non vi è traccia di un menzionato allegato in f. 12v/f. 33 con-
tenente i ringraziamenti dei vescovi a Pio XI.

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

Infine (titolo VII), l’episcopato venezuelano dirigeva alla persona di


mons. Cortesi un particolare messaggio di ringraziamento e di congratula-
zioni (o «voto»)62 per il servizio che egli svolgeva per la Chiesa e per il Ve-
nezuela.

Riflessioni conclusive

Alla luce della documentazione archivistica analizzata si possono formula-


re ora alcune riflessioni conclusive.
In primo luogo risulta evidente, da questo contributo come da altri che
ho potuto redigere sulla storia della Chiesa in America Latina, l’importan-
za della documentazione ecclesiastica conservata negli archivi vaticani,
specificamente nei fondi delle Nunziature apostoliche la cui ricchezza do-
cumentale è ancora da esplorare e collegare nelle molteplici dimensioni e
livelli in essa contenuti.
In secondo luogo la documentazione ha permesso di far luce sulla gene-
si della citata Lettera Pontificia e della II Conferenza episcopale venezue-
lana, identificando in mons. Filippo Cortesi il promotore di entrambe. Il
nunzio apostolico aveva infatti consigliato al card. Gasparri di sostenere e
incoraggiare l’azione pastorale e missionaria dei vescovi tramite una lette-
ra di Pio XI, che ne avrebbe fatto sentire la vicinanza in termini di pater-
nità e di guida, i cui temi – suggeriti da Cortesi in base alle sue conoscen-
ze – avrebbero costituito le linee della riunione episcopale. Papa Ratti, che
nella Quod novas aveva fatto propri i suggerimenti del suo Rappresentante,
concludeva l’epistola invitando i Pastori della Chiesa in Venezuela a esse-
re i protagonisti dell’evangelizzazione, sia a livello pastorale per i battezza-
ti che a livello missionario per gli indigeni ancora non cristiani.
Nella Lettera piana, le dimensioni pastorale e missionaria si accompa-
gnavano: se da un lato vi era la preoccupazione di formare il clero attraver-
so i seminari diocesani (seminari minori) e il seminario centrale di Caracas
(per gli studi ecclesiastici superiori), di istruire i fedeli con il catechismo
per bambini ed adulti, di difendere il matrimonio e sanare i costumi laddo-

62
In questo caso il documento è rinvenibile come allegato nella minuta del rapporto N.
1622 per De Lai: AAV, Arch. Nunz. Venezuela, b. 28, fasc. 91, f. 42. Inoltre in ASRS,
AA.EE.SS., Venezuela IV (Pio XI), pos. 177, fasc. 6, f. 14 è però segnalato come copia fe-
dele Allegato N. 2 al N. 1604.

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ve necessario, dall’altro non si dimenticava il dovere missionario di evan-


gelizzare gli indigeni e si sollecitavano i vescovi a incontrarsi e confrontar-
si per trovare sempre nuove e più adeguate modalità per l’annuncio evan-
gelico ai popoli indigeni dispersi negli immensi territori venezuelani. A tut-
to ciò si aggiungeva la dimensione sociale dell’evangelizzazione contenuta
nei richiami alle virtù della giustizia e della carità.
Sullo sfondo di quanto gli era stato impartito nelle Istruzioni ricevute dal-
la Segreteria di Stato e dalla Congregazione Concistoriale nonché di quan-
to disciplinato nel Codice di Diritto Canonico del 1917, mons. Cortesi ave-
va portato a termine, nel solco dei suoi predecessori, la creazione di quat-
tro nuove diocesi. Erette il 12 ottobre 1922, Pio XI aveva nominato i rispet-
tivi vescovi il 22 giungo 1923 e questi venivano consacrati assieme a Ca-
racas il successivo 21 ottobre 1923 da mons. Cortesi quale consacrante
principale. Tutto ciò era segno della sollecitudine pastorale di Roma e dei
suoi Rappresentanti per le esigenze della Chiesa in Venezuela, delle sue
comunità e dei bisogni innanzitutto spirituali della società venezuelana. Ta-
li erezioni denotavano anche la crescita della autocoscienza della Chiesa
venezuelana, riconosciuta capace di generare nuove guide nel ministero
episcopale. A tutto ciò si univa anche il prestigio dei rappresentanti del Go-
verno e del Congresso venezuelano che vedevano riconosciuto e, per così
dire, premiato, il paese da essi governato.
La consacrazione a Caracas dei quattro nuovi Pastori, che vedeva il con-
corso di quasi tutti i vescovi, era stata considerata da mons. Cortesi l’occa-
sione per celebrare la II Conferenza dell’episcopato che da vent’anni non si
realizzava. Si trattava di una occasione propizia perché l’intero corpo epi-
scopale, arricchito di nuovi vescovi, si sarebbe incontrato e avrebbe potuto
inaugurare un cammino caratterizzato dalla generazione comune nelle de-
liberazioni sulla base di quanto il pontefice aveva inteso comunicare e af-
fidare alla loro corresponsabilità. I rapporti di mons. Cortesi ai cardinali
Gasparri e De Lai precedentemente analizzati hanno offerto un sintetico re-
soconto dei dieci giorni di lavoro e delle deliberazioni a livello pastorale,
sociale e missionario (quest’ultimo, in linea con il magistero dei pontefici e
l’azione dei missionari di Propaganda Fide, conteneva anche la denuncia
dei crimini che ancora si commettevano contro gli indigeni, incluse le ille-
gali tratta e riduzione in schiavitù).
Le iniziative realizzate con successo da mons. Cortesi indicavano, a fron-
te della mancata convocazione delle riunioni dei vescovi venezuelani dal
1904, la concreta volontà del Rappresentante del Papa di dare nuovo avvio

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La II Conferenza episcopale venezuelana (1923) e l’azione di mons. Filippo Cortesi

ad un processo che attraverso la regolare riunione dei vescovi venezuelani


nelle conferenze episcopali (prescritte dal coevo Codice di Diritto Canonico)
intendeva sollecitarli alla corresponsabilità nel governo della Chiesa a ser-
vizio dell’evangelizzazione come affermato da Pio XI nella Quod novas e
sull’esempio delle periodiche riunioni implementate dai vescovi della Co-
lombia62; l’Episcopato venezuelano avrebbe mostrato di recepire tutto ciò
riunendosi come prescritto cinque anni dopo nella III Conferenza episco-
pale venezuelana (1928).
Quanto conseguito per i vescovi del Venezuela, il nunzio apostolico a Ca-
racas lo avrebbe realizzato anche a La Paz in Bolivia (1924-1925), inviato
dalla Santa Sede a reggere l’Internunziatura apostolica in attesa del nuovo
Rappresentante pontificio. Anche in quel caso mons. Cortesi ottenne una
lettera del pontefice in vista della riunione dei vescovi boliviani in confe-
renza episcopale, ma questa è un’altra storia che merita un prossimo docu-
mentato approfondimento storico anche in chiave comparativa. Intanto, in
quel 1923, il promotore della “corresponsabilità ecclesiale”, realizzata nei
termini e nei modi coevi nella II Conferenza dei vescovi venezuelani a ser-
vizio della Chiesa e dell’evangelizzazione, poteva dirsi soddisfatto e il “vo-
to” di plauso espresso nei suoi riguardi dal corpo episcopale venezuelano
ne era la conferma ed anche l’indicazione affinché continuasse a lavorare
per favorire l’esperienza della corresponsabilità dei vescovi nel governo
della Chiesa in Venezuela in unità col Successore di Pietro.

Mario Luigi Grignani


Pontificia Università Urbaniana
([email protected])

63
Le raccomandazioni del Pontefice per i vescovi venezuelani si inserivano in una più
ampia visione a livello continentale come attestato, per esempio, nei capitoli concernenti
l’episcopato, il clero o l’Azione Cattolica presenti nelle inedite Istruzioni per i Rappresen-
tanti pontifici presso le nazioni dell’America del Sud conservate nei fondi delle rispettive
Nunziature apostoliche in AAV, sia durante il pontificato di Pio XI che durante il pontifi-
cato del predecessore Benedetto XV (riguardo a quest’ultimo si può segnalare anche
quanto contenuto nelle Relazioni presentate al S.P. Benedetto XV, sulla situazione delle na-
zioni. 1914, in ASRS, AA.EE.SS., Stati Ecclesiastici III, pos. 1309, fasc. 451, ff. 54r-73v
e Stati Ecclesiastici III, pos. 1310, fasc. 452, ff. 3r-208v, volume pubblicato da R. REGO-
LI – P. VALVO, Tra Pio X e Benedetto XV. La diplomazia pontificia in Europa e America La-
tina nel 1914, Studium, Roma 2018).

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Mario L. Grignani

ABSTRACT

LA II CONFERENZA EPISCOPALE VENEZUELANA (1923)


E L’AZIONE DI MONS. FILIPPO CORTESI
NUNZIO APOSTOLICO IN VENEZUELA
ALLA LUCE DELLA DOCUMENTAZIONE VATICANA

Alla luce dell’itinerario storico esposto nel documento della Commissione Teo-
logica Internazionale La Sinodalità nella vita della Chiesa, l’articolo, di indole sto-
rico-ecclesiastica e fondato sulla documentazione vaticana analizzata, presen-
ta quanto realizzato dal nunzio apostolico in Venezuela mons. Filippo Cortesi
per l’episcopato venezuelano. In occasione dell’erezione di quattro nuove dio-
cesi e della consacrazione a Caracas dei rispettivi vescovi, mons. Cortesi otten-
ne da Pio XI la lettera Quod novas diretta ai prelati venezuelani e, in ottemperan-
za alle Istruzioni ricevute dalla Santa Sede e ai canoni del Codice di Diritto Ca-
nonico del 1917, riuscì a celebrare la II Conferenza episcopale venezuelana
(1923), dopo quasi vent’anni dalla precedente, inaugurando un processo che
intendeva sviluppare, nei termini e modi coevi, la corresponsabilità dei vescovi
nel governo della Chiesa in Venezuela in unità col Successore di Pietro.

THE II VENEZUELAN EPISCOPAL CONFERENCE (1923)


AND THE ACTION OF MGR FILIPPO CORTESI
APOSTOLIC NUNCIO IN VENEZUELA
IN THE LIGHT OF VATICAN DOCUMENTS

In the light of the historical itinerary set out in the document of the International
Theological Commission Synodality in the life of the Church, the article, of histor-
ical-ecclesiastical nature and based on the Vatican analysed documentation,
presents what was achieved by the Apostolic Nuncio in Venezuela mgr. Filippo
Cortesi for the Venezuelan episcopate. On the occasion of the erection of four
new dioceses and the consecration in Caracas of their respective bishops, Mgr.
Cortesi obtained from Pius XI the letter Quod novas addressed to the Venezue-
lan prelates and, in compliance with the Instructions received from the Holy See
and the canons of the Code of Canon Law of 1917, succeeded in celebrating
the II Venezuelan Episcopal Conference (1923), after almost twenty years from
the previous one, inaugurating a process that aimed to develop, in the terms
and manner of those times, the co-responsibility of the bishops in the govern-
ment of the Church in Venezuela in unity with the Successor of Peter.

Keywords: Pio XI, Filippo Cortesi; Venezuela Bishops; Quod novas and II Vene-
zuelan Bishops’ Conference (1923)

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RIDISEGNARE LA MINISTERIALITÀ
COMPITO SINODALE

Introduzione – 1. Ministerialità per la riforma della Chiesa – 2. Il disegno ministeriale del


Vaticano II – 3. Difficoltà nell’esercizio della ministerialità; 3.1. Diminuzione o dispersio-
ne dei missionari? Quale è il problema?; 3.2. Le mute relazioni tra i soggetti missionari;
3.3. L’insufficienza del modello ministeriale dei tria munera; 3.4. La mancata riformula-
zione del ministero ordinato; 3.5. La natura dei blocchi ministeriali – 4. Attivare il popo-
lo di Dio: compito sinodale; 4.1. Le riflessioni preparatorie sinodali; 4.2. Il disegno mini-
steriale di papa Francesco nella fedeltà creativa alla tradizione; 4.3. Ministeri dalla/nella
comunità per la comunità locale – In conclusione

Parole chiave: Riforma della Chiesa; sinodalità; ministeri dei laici; amissione

Introduzione

Quale sarà la figura di ministerialità e di ministeri che verrà ridisegnata dal


Sinodo?1 Che collegamenti avranno il ministero ordinato e i ministeri laica-
li o battesimali? Il tema della ministerialità2 è ritenuto importante per la ri-
forma missionaria della chiesa sia da papa Francesco che da molta parte
della comunità ecclesiale. Proponiamo una riflessione di teologia pratica
che centra il suo compito nella interpretazione della situazione e nella de-
finizione della criteriologia adatta3 per decisioni condivise; saranno quindi

1
Si veda la preziosa documentazione in progress in https://www.synod.va/it/resources/
documenti-ufficiali.html. Il tema della sinodalità nella sua complessità è stato ricostruito
da A. MODA, Sulla sinodalità. Percorso bibliografico, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA
– G. ANCONA (a cura di), Dossier Chiesa e sinodalità, Velar, Gorle, BG 2005, 205-329.
2
Si dovrà fare pace con le diverse espressioni; abbiamo proposto di declinare il tema
nei termini di ministero, ministerialità e ministeri in La ministerialità missionaria. Figu-
ra, figure e competenze del discepolo-missionario, “Urbaniana University Journal” 70
(2017), 1, 153-194 [164-166].
3
L. MEDDI, Il compito della Teologia Pastorale dal Vaticano II ad oggi. Questioni aper-
te, “Theologica Leoniana” 9 (2020), 91-112.

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1/2023 ANNO LXXVI, 83-108 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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privilegiate le recenti fonti magisteriali (nel loro complesso) perché guida-


no le scelte presenti e future. Certamente esse conoscono i diversi dibatti-
ti che sono nati già prima del Vaticano II su questo tema e che sarà neces-
sario tener presenti. Sarà anche utile una lettura trans-disciplinare del te-
ma che ha collegamenti con le scienze del management, delle organizzazio-
ni e dell’apprendimento sociale e comunitario4.
Ci muoveremo dalla comprensione del rapporto sinodalità, ministeri e ri-
forma missionaria della chiesa (1); per ricordare l’impianto proposto dal
Vaticano II (2); per comprendere le difficoltà della ministerialità, soprattut-
to dei ministeri battesimali (3); per individuare – infine - i criteri di rinno-
vamento già oggetto di discussione nella riflessione sinodale (4).

1. Ministerialità per la riforma della Chiesa

Da alcuni anni Papa Francesco sta indirizzando la chiesa verso uno stile di
sinodalità5. Perché? Le motivazioni sembrano essere di diversa natura e im-
portanza ma si concentrano sul fatto che la riforma avviata con il Vaticano
II6 sembra non aver ottenuto sufficienti risultati per realizzare un adeguato
slancio missionario. Questo giudizio riguarda le tre stagioni di riforma post-
conciliare. Sia quella centrata sull’aggiornamento delle fonti e pratiche pa-

4
ID., Apprendere nella Chiesa oggi: verso nuove scelte di qualità, in P. ZUPPA – ASSOCIA-
ZIONE ITALIANA DEI CATECHETI (AICa), Apprendere nella comunità cristiana. Come dare “ec-
clesialità” alla catechesi oggi?, Elledici, Torino 2012, 95-131.
5
Per gli interventi di papa Francesco si veda https://www.synod.va/it/resources/papa-
francesco-e-il-processo-sinodale.html; si devono ricordare anche i criteri per la riforma
della curia romana declinati nel Discorso di Sua Santità Francesco alla Curia Romana in
occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2016: «individualità; pa-
storalità; missionarietà; razionalità; funzionalità; modernità; sobrietà; sussidiarietà; sino-
dalità; cattolicità; professionalità; gradualità».
6
L.F. CAPOVILLA, Il concilio di papa Giovanni per la riforma e l’aggiornamento nella e
della Chiesa. Intervista a cura di Daniele Gianotti – Maurizio Tagliaferri, “Rivista di Teo-
logia dell’Evangelizzazione” 16 (2012), 32, 347-360. Particolarmente utile il quadro of-
ferto da A. SPADARO – C.M. GALLI, Una riforma “missionaria” della Chiesa, in IID., La ri-
forma e le riforme della Chiesa, Queriniana, Brescia 2016, 5-14 [qui 9-11], con una ridu-
zione, ci permettiamo, del tema conciliare alla questione sociologica dei segni dei tempi
che muove la riforma e alla poca valorizzazione del tema della crisi del linguaggio religio-
so-cristiano; ci sembra limitato, inoltre, il quadro semantico di missionario che sembra li-
mitato al ruolo ecclesiale della missio Dei.

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

storali; sia quella centrata sulla prospettiva di nuova evangelizzazione at-


traverso la riaffermazione della dottrina cristiana; sia quella recentemente
proposta della prospettiva della «chiesa in uscita»7. Infatti l’evoluzione dei
diversi post-concilio ha fatto emergere che anche il termine-chiave riforma
è soggetto a comprensioni molto differenti: come riaffermazione di un pas-
sato o come avviamento di un futuro.
Con il percorso sinodale in atto si vuole riprendere il discernimento
operato con il Sinodo straordinario a venti anni dal Concilio per dare una
nuova interpretazione globale alla receptio del Vaticano II8. Alla intuizio-
ne che la Missione derivi dall’Aggiornamento delle fonti e dalla Comunio-
nalità, si deve quindi collegare un terzo elemento: la Partecipazione9. Di
più, si dà avvio al sogno ministeriale di un Vaticano III10. A queste tre pa-
role quindi (riforma, sinodalità, ministerialità) si deve unire il chiarimento

17
L. MEDDI, La conversione missionaria della pastorale. Contributo per la receptio di
Evangelii gaudium, “Urbaniana University Journal” 68 (2015), 2, 79-126. Circa le prime
due si possono vedere i direttori della CONGREGAZIONE DEI VESCOVI, Ecclesia Imago, 22
febbraio 1973; e Apostolorum successores, 22 febbraio 2004.
18
SINODO STRAORDINARIO DEI VESCOVI, La Chiesa - sotto la parola di Dio - celebra i mi-
steri di Cristo - per la salvezza del mondo. Relazione finale, 9 dicembre 1985; si veda an-
che il commento di W. KASPER, Il futuro dalla forza del Concilio. Sinodo straordinario dei
vescovi 1985. Documenti e commento, Queriniana, Brescia 1986; una impostazione da leg-
gere nella prospettiva di nuova evangelizzazione voluta da papa GIOVANNI PAOLO II, Dis-
corso ai partecipanti al VI Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali dell’Europa,
Roma 11 ottobre 1985.
19
Questa visione è chiara già nella titolazione dei documenti dell’attuale sinodo: SE-
GRETERIA GENERALE DEL SINODO DEI VESCOVI, Per una Chiesa sinodale: comunione, parte-
cipazione e missione; Comunione e (=per la) Missione erano state, invece, le indicazioni
conclusive di Sinodo straordinario del 1985.
10
Riflettendo sul Istrumentum laboris per la seconda assemblea speciale per l’Euro-
pa, Martini diceva «penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri or-
dinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anime nel suo
territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’eucarestia (IL 14). Penso
ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa (IL 48),
la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali (IL 49), la sessualità, la
disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Or-
todossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica (IL 60-61), pen-
so al rapporto tra democrazia e valori e tra leggi civili e legge morale»; C.M. MARTINI, In-
tervento al sinodo dei vescovi europei, 7 ottobre 1999 [https://www.Chiesadimilano.it/cms/
documenti-del-vescovo/c-m-martini/cm-interventi/larcivescovo-al-sinodo-dei-vescovi-
europei-15160.html ].

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di fondo che riguarda la natura o compito fondamentale della chiesa che è


la sua missione11.
Nella analisi missionaria del papa sembrano emergere due nodi princi-
pali: che la pastorale dia poca attenzione alla declinazione della salvezza
come espressione integrale dell’amore di Dio, oltre che amministrazione sa-
cramentale12; inoltre che non sia stata sollecitata pienamente la soggettivi-
tà (oltre che responsabilità) missionaria di tutto il popolo di Dio. Per papa
Francesco il mondo di oggi ha bisogno di una testimonianza e operatività
più decisa verso la cura del creato, la costruzione della fraternità universa-
le, l’accoglienza degli ultimi e soprattutto operata dalla chiesa tutta13. So-
no limiti che riguardano, quindi, la finalità e i soggetti della missione.
Questa seconda finalità coincide con la realizzazione del principio tutti
siamo discepoli missionari. Una espressione che pastoralmente comporta
diversi aspetti. Ne sottolineiamo due. La soggettivazione del popolo di Dio
comporta una ristrutturazione della chiesa locale secondo il principio del-
le piccole comunità14 senza le quali si rimane nella prospettiva di chiesa
di cristianità. Ma il passaggio da massa a popolo15 comporta un intenso
rinnovamento dei processi formativi anche perché non tutti i battezzati (da
piccoli) hanno maturato una vocazione missionaria. Comporta inoltre una
rilettura profonda della ministerialità; non per la mancanza di clero, quin-

11
È la prospettiva sottolineata da COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinoda-
lità nella vita e nella missione della Chiesa; cf. R. LUCIANI, L’emergere di un’ecclesialità si-
nodale. «Una definizione più completa della Chiesa», in ID. – S. NOCETI, Sinodalmente.
Forma e riforma di una Chiesa sinodale, Nerbini, Firenze 2022, 19-144.
12
Cf. EN, c. II; EG, c. IV.
13
Questa prospettiva riassume la struttura intima di Evangelii gaudium (24 novembre
2013) ed è la base del riordino della vita e dei compiti della Curia romana; cf. la descri-
zione dei Dicasteri come declinati in Costituzione Apostolica “Praedicate evangelium”
sulla Curia Romana e il suo servizio alla Chiesa e al Mondo, 19 marzo 2022 e la sottoli-
neatura «Pasci» di FRANCESCO, Omelia nel 60° anniversario dell’inizio del Concilio Ecu-
menico Vaticano II.
14
Il tema delle ceb (comunità ecclesiale di base o small communities) era tema ricorren-
te già prima del Vaticano II; venne rilanciato dalla tipologia dei quattro modelli da F. KLO-
STERMANN, Prinzip Gemeind: Gemeinde als Prinzip des kirchlichen Lebens und der Pastoral-
theologie als der Theologie dieses Lebens, Herder, Wien 1965; poi ripreso da moltissimi au-
tori e messo al centro dai documenti successi a EN (anche se con accentuazioni diverse).
15
J.B. CAPPELLARO – G. LIUT – L. CANESSO – F. COSSU – J. MCNAAB, Da massa a popo-
lo. Progetto pastorale, Cittadella, Assisi, PG 1981; J.B. CAPPELLARO, Catecumenato di po-
polo. Cammino di fede di un popolo di battezzati, Cittadella, Assisi, PG 1993.

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di, ma per la riformulazione delle diverse forme di Guida e presidenza eu-


caristico-sacramentale. Un ripensamento della genesi comunitaria del mi-
nistero ordinato.
In ambedue le analisi dell’impasse missionaria sembra che il nodo prin-
cipale da superare sia la mancata comunicazione tra ministero ordinato e
soggettività dei laici. Sia, cioè, la piaga della «divisione del popolo dal cle-
ro nel pubblico culto»16. Alla ministerialità ordinata (e alla teologia) viene
rimproverato di non essere disponibile all’ascolto della profezia (ovvero
della comprensione della fede – sensus fidei fidelium, LG 12; DV 8) e al-
l’esercizio dei diversi carismi missionari del popolo di Dio (cf. LG 12) per-
ché si traducano in una diffusa ministerialità (cf. LG 33-36). Sarebbe que-
sta la causa principale del poco coinvolgimento nella missione dei battez-
zati della chiesa (cf. AA 2.6-8; AG 21). Il ministero ordinato (vescovi e sa-
cerdoti) non cammina avanti, in mezzo e dietro il popolo di Dio17 per susci-
tare e sostenerne la testimonianza.
È una prospettiva che ha bisogno di fare spazio a nuove pratiche già in-
tuite dal Vaticano II ma non sempre accolte anche per preoccupazioni di
natura teologica e tradizionale. Al percorso sinodale si chiede quindi di ri-
prendere a riflettere sulla soggettivazione (cioè animazione) di tutto il po-
polo di Dio per superare la mancata attuazione della apostolicam actuosita-
tem e della stessa fructuosa partecipatio della assemblea liturgica18.

2. Il disegno ministeriale del Vaticano II

Per comprendere le attuali difficoltà della ministerialità ecclesiale sarà uti-


le una breve ricostruzione della sua evoluzione. Il punto a quo è la riaffer-

16
A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della santa Chiesa, Città Nuova, Roma 1998 [1848],
59-78.
17
Espressione utilizzata molte volte da papa Francesco; cf. Omelia nella Solennità San-
ti Apostoli Pietro e Paolo, 29 giugno 2022 [https://www.vatican.va/content/francesco/it/ho-
milies/2022/documents/20220629-omelia-pallio.html; https://archive.is/fJXFx]; Omelia
nel 60° anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 2022
[https://www.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2022/documents/20221011-ome-
lia-60concilio.html; https://archive.is/eFxbK].
18
Molto significativa la sintesi di S. NOCETI, Quali strutture per una Chiesa in riforma?,
“Concilium” 54 (2018), 4, 100-116.

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mazione che duo sunt genera christianorum19. Il punto ad quem non è an-
cora chiaro ma certamente ha qualcosa a che vedere con l’affermazione che
tutti siamo discepoli-missionari20.
La testualità conciliare sul ministero sembra muoversi su due direttrici21.
Una direttrice si riferisce alla organizzazione della chiesa per la quale il
soggetto è il ministero ordinato (e gerarchico) che agisce per conto di Cri-
sto capo ed è quindi di natura cristologica. Questa impostazione si fonda
sulla equivalenza presente nella prima fase del Vaticano II tra missione e
universalizzazione “fisica” del mistero pasquale (cf. SC 5-9). Ma in LG 12
è presente anche una seconda direttrice per la quale il soggetto missiona-
rio è il battezzato che esercita il suo servizio di testimonianza attraverso i
doni o carismi. Quindi di natura pneumatica22 e andrebbe legato alla teolo-
gia trinitaria della missione (LG 1-4; AG 1-4).
Già in LG 10 (Il sacerdozio comune dei fedeli) le due prospettive sembra-
no non avere collegamenti concettuali coerenti per cui la pratica pastorale
sembra rispondere a due principi separati: quello della comune dignità e
responsabilità battesimale e quello della rappresentanza ministeriale di
Cristo-capo che ha il suo centro nella celebrazione eucaristica. Di conse-

19
PIO X (promulgato da) 1905, Compendio della Dottrina Cristiana. Catechismo Mag-
giore, 1905, Capo X, §3 (nn. 180-191).
20
EG, nn. 116-120 con una interpretazione pneumatica e riferita al compito di evan-
gelizzazione.
21
I Testi sembrano preoccupati maggiormente della questione del riconoscimento del
ministero delle chiese riformate più che della riqualificazione missionaria della Chiesa
cattolica: cf. J. SARAIVA MARTINS, Ministero, in S. GAROFALO – T. FEDERICI (redattore capo),
Dizionario del Concilio Vaticano Secondo, Unedi, Roma 1969, coll. 1407-1411; L. TONEL-
LO, I “ministeri laicali” nel processo di recezione del Vaticano II, “CredereOggi” 30 (2010),
175, 17-33; L. VILLEMIN, Éléments théologiques fondamentaux de Vatican II pour une ar-
ticulation entre théologie des ministères ordonnés et mission des laìcs, in M. QUISINSKY – K.
SCHELKENS – F.-X. AMHERDT, Theologia semper iuvenescit : Etudes sur la réception de Vati-
can II offertes à Gilles Routhier, Academic Press Friburg, Friburg, CH 2013, 181-194; G.
ROUTHIER, La diversità dei ministeri nella pastorale diocesana. Insegnamento e recezione
del Vaticano II, in ID., Il Concilio Vaticano II: recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero,
Milano 2007, 185-210.
22
Cf. C. BUTLER, L’istituzione e i carismi, in AA.VV. Teologia del rinnovamento. Mete,
problemi e prospettive della teologia contemporanea, Cittadella editrice, Assisi, PG 1969,
542-553, sottolinea che il carisma è legato all’elemento dinamico della missione; nella
stessa prospettiva si era espresso già H. KÜNG La struttura carismatica della Chiesa,
“Concilium” 1 (1965), 2, 15-37.

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guenza al battezzato è riconosciuta solo la partecipazione alla intelligenza


della fede e testimonianza della vita nuova (LG 33-36)23. Una prospettiva
nella forma della collaborazione e partecipazione.
In effetti ciò che Vaticano II non chiarisce fino in fondo è il rapporto cari-
sma-ministero: essi sono due elementi «costitutivi della chiesa», vanno com-
presi come «intrinseco rimando reciproco», ma che «la natura stessa della
cosa, implica anche un rapporto di tensione»24. Il ministero ordinato conti-
nua ad essere inteso in rapporto con la celebrazione sacramentale per cui è
richiesto il genere maschile e richiede un processo formativo separato dalla
comunità, cioè clericale. Il principio che guida l’ampliamento della ministe-
rialità a partire dal Vaticano II è, quindi, il principio del diritto limitato
(uguaglianza limitata dal munus del ministero ordinato) che porta alla parte-
cipazione limitata alla azione. È vero che il Vaticano II25 aveva affermato che
«il diaconato potrà in futuro essere ristabilito come proprio e permanente gra-
do della gerarchia» e anche che «col consenso del romano Pontefice questo
diaconato potrà essere conferito a uomini di età matura anche viventi nel ma-
trimonio». Figura di mediazione che tuttavia sembra limitata nella sua stes-
sa identità e responsabilità ecclesiale e soprattutto non aperto alle donne26.
In buona sostanza questa è proprio la critica che progressivamente ven-
ne fatta al riordino ministeriale voluto da Paolo VI. In Ministeria quaedam27

23
Così riafferma la dottrina di LG 10 il documento della COMMISSIONE TEOLOGICA IN-
TERNAZIONALE, Temi scelti di ecclesiologia, 8 ottobre 1985 [n. 7: Il Sacerdozio comune nel
suo rapporto con il Sacerdozio ministeriale], dove prevale una interpretazione del collega-
mento delle due fonti ministeriali che in verità fanno pensare ad una separazione origina-
le. Più convincente, ci sembra, è la presentazione del tema nei paragrafi del CCC dedica-
ti al Popolo di Dio (nn. 781-786) e al tema ministero (nn. 874-879) che sembrano ricono-
scere che la differenza sia di tipo funzionale.
24
O. SEMMELROTH – K. MÖRSDORF, Ministero e carisma, in K. RAHNER (a cura di), Sa-
cramentum Mundi, Morcelliana, Brescia 1976 [1967-1969], coll. 279-284 [qui 279].
25
Cf. LG, n. 29 ma si vedano anche SC 35,4; DV 25; CD 15; AG 15; 16; OE 17.
26
AA. VV., Diaconato e sacerdozio, Herder – Morcelliana, Brescia 1971; A. BORRAS, Il
Diaconato vittima della sua novità?, EDB, Bologna 2008 [2007]; M. FAGGIOLI, Women &
the Diaconate. A Debate That Won’t Go Away, “commonwealmagazine.org” 10 giugno
2019 [https://www.commonwealmagazine.org/women-diaconate; https://archive.ph/
rEcth]; S. NOCETI, Donne e ministero diaconale: il tempo del noi, “Il Regno” (2019), 10,
305-314.
27
PAOLO VI, Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio “Ministeria Quaedam”, 15
agosto 1972.

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egli affermava che i ministeri del Lettore e quello dell’Accolito non fossero
più considerati riservati ai candidati al sacramento dell’Ordine ma potes-
sero essere affidati anche ai laici. Apertura ai laici, ma solo agli uomini. La
contraddizione si è radicalizzata nel corso della seconda receptio conciliare
(1978-2013) con il desiderio marcato durante il pontificato di Papa Giovan-
ni Paolo II in molti luoghi28 di mantenere la distinzione tra i ministeri co-
me distinzione di essenza e non di grado.
Si chiarisca subito che la questione non coincide con il tema della “de-
mocratizzazione o protestantizzazione o desacralizzazione della chiesa” co-
me si discusse a lungo in quel periodo. Si riferisce invece alla buona riusci-
ta della missione ecclesiale. Si tratta infatti di riconoscere il pericolo che
nella chiesa molte risorse carismatiche non siano utilizzate; che molte for-
ze apostoliche non abbiano diritto di parola ma solo di esecuzione di com-
piti; che le comunità mancando di una qualche forma di riconoscimento li-
turgico dei ministeri di fatto, siano troppo soggette ai continui cambi della
Guida pastorale; che molti aspetti della testimonianza dell’amore siano non
riconosciuti dalla pastorale o lasciati alla iniziativa di alcuni. Ma soprattut-
to che in futuro non si possa affrontare adeguatamente la progressiva dimi-
nuzione dei ministri ordinati e delle differenti vocazioni religiose (carisma-
tiche). È quindi una considerazione evidentemente pastorale nata, per di-
versi motivi, dalla trasformazione in atto della missione.

3. Difficoltà nell’esercizio della ministerialità

Il disegno ministeriale derivato da Vaticano e centrato sulla separazione di


natura tra ministero ordinato e ministeri dei laici sembra essere una delle
cause della crisi missionaria perché motivo della clericalizzazione della mi-
nisterialità. La ministerialità dei laici, che sembrava essere la risorsa cen-
trale della riforma missionaria del Vaticano II (cf. LG 33; AG 21; AA 2),
venne presto compresa come uno dei suoi problemi fondamentali29. Sarà

28
Ricordiamo il CJC, can. 204.228-231 ripreso da Ch.L. (30 dicembre 1988) c. II, e
soprattutto in CONGREGAZIONI ROMANE, Istruzione su alcune questioni circa la collaborazio-
ne dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti, 15 agosto 1997, n. 4 e nelle successive Dis-
posizione pratiche dove vengono descritte chiaramente tutte le possibilità e limitazioni del-
la partecipazione dei laici alla missione ecclesiale.
29
F. GOMEZ, Ministries: The Crux of the Problem, “East Asian Pastoral Review” 17

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utile descrivere le difficoltà generate da questa visione ministeriale per poi


verificare le soluzioni che si stanno proponendo per superare in modo com-
piuto l’impostazione ecclesiastica del duo sunt genera christianorum.

3.1 Diminuzione o dispersione dei missionari? Quale è il problema?

Da dove partire? Dalla crisi numerica del ministero ordinato o dall’insorge-


re inaspettato di ministerialità laicali e carismatiche? Sarà utile iniziare da
questo aspetto. Infatti la documentazione ufficiale della chiesa fa compren-
dere che il problema a cui dare risposta non sia la crisi di soggetti ma, al
suo contrario della inadeguata gestione della esplosione dei soggetti. Una
lettura significativa e progressivamente aggiornata del “personale” missio-
nario viene fatta, infatti, dalla Santa Sede ogni anno:

I sacerdoti nel mondo sono diminuiti, raggiungendo quota 410.219 (-


4.117) […] I diaconi permanenti continuano complessivamente ad au-
mentare, quest’anno di 397 unità, raggiungendo il numero di 48.635
[…]. I religiosi non sacerdoti sono aumentati di 274 unità, arrivando al
numero di 50.569 […]. Si conferma la tendenza degli ultimi anni alla
diminuzione globale delle religiose, quest’anno di 10.553 unità. Sono
complessivamente 619.546 […]. I seminaristi maggiori, diocesani e re-
ligiosi, quest’anno sono diminuiti, globalmente di 2.203 unità, e hanno
così raggiunto il numero di 111.855 […] Anche il numero totale dei se-
minaristi minori, diocesani e religiosi, è diminuito di 1.592 unità, rag-
giungendo il numero di 95.398 […]. Il numero dei Missionari laici nel
mondo è pari a 413.561, con un aumento globale di 3.121[…] I Cate-
chisti nel mondo sono diminuiti complessivamente di 190.985 unità,
raggiungendo quota 2.883.04930.

Il dato centrale della descrizione non è la perdita di potenziale evange-


lizzatore della Chiesa, ma che ci troviamo di fronte ad una multiforme ric-

(1980), 3, 241-252; S. NOCETI, Ministeri istituiti, le ragioni di un insuccesso, “Rivista di


pastorale liturgica “ 50 (2012), 3, 33-38; per le speranze che si aprono con il sinodo in
atto cf. EAD., Ministeri istituiti. Dall’insuccesso al successo?, “queriniana.it/blog” 11 gen-
naio 2021.
30
Dossier a cura di STEFANO LODIGIANI in http://www.fides.org/it/attachments/view/fi-
le/Dossier_Statistiche_2022.pdf. I dati sono tratti dall’ultimo Annuario Statistico della
Chiesa (31 dicembre 2020).

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chezza di forme ministeriali che sta ridisegnando la figura del ministero


nella chiesa.
Questo principio missionario era stato chiaramente esposto da Agenda
per la futura programmazione:

Le nuove Chiese hanno bisogno non solo della conversione dei cuori,
ma anche della conversione verso nuove strutture che incoraggino il ri-
conoscimento dei carismi presenti nel popolo, promuovano nuovi mini-
steri in armonia con questi carismi, e stimolino la corresponsabilità ai
livelli più bassi della Chiesa31.

L’allargamento dei compiti, anche se non riconosciuta, sta producendo


una nuova figura di ministerialità dove il “chi fa cosa” non è più fondato
sul cosa, ma sulla disponibilità a mettersi a servizio della missione. È una
crisi di management della risorsa missionaria32.
Ci sembra che questa conclusione si possa trovare anche nella sintesi del-
la seconda fase del percorso sinodale. “Allarga lo spazio della tua tenda” ai
nn. 66-70 (Carismi, vocazioni e ministeri) riporta una serie di difficoltà:

Alcuni vescovi riconoscono che «la “teologia battesimale” promossa dal


Concilio Vaticano II, base della corresponsabilità nella missione, non è
stata sufficientemente sviluppata […] Inoltre, la leadership delle attuali
strutture pastorali, così come la mentalità di molti sacerdoti, non favori-
scono questa corresponsabilità. Allo stesso modo, i religiosi e le religio-
se, così come i movimenti apostolici laicali, spesso rimangono sottilmen-
te o apertamente ai margini delle dinamiche diocesane. Così, i cosiddet-
ti “laici impegnati” nelle parrocchie (che sono i meno numerosi) finisco-
no per essere sovraccaricati di responsabilità intraecclesiali che supera-
no le loro forze ed esauriscono il loro tempo»» (n. 66). «Molte sintesi fan-
no riferimento all’esistenza di pratiche di riconoscimento e promozione
dei ministeri, imperniate su un effettivo affidamento degli incarichi da

31
Agenda per la futura programmazione, lo studio e la ricerca della missione, in Aa.
Vv., La missione negli anni 2000. Seminario di ricerca del SEDOS sul futuro della missio-
ne. Roma, 8-19 marzo 1981, EMI, Bologna 1983, n. 62 [449-477 qui 466].
32
L. SOLARI, La gestione delle risorse umane. Dalle teorie alle persone, Carocci, Roma
2004; G. BAGNATO, Fare selezione: Esperienza e metodo nella scelta delle persone, Egea, Mi-
lano 2014.

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parte della comunità: «La promozione dei ministeri laicali e l’assunzio-


ne di responsabilità avviene attraverso l’elezione o la nomina dei fedeli
che si ritiene possiedano i requisiti previsti […] Molti gruppi auspicano
una maggiore partecipazione dei laici, ma i margini di manovra non so-
no chiari: quali compiti concreti possono svolgere i laici? Come si arti-
cola la responsabilità dei battezzati con quella del parroco?» (n. 68)33.

3.2 Le mute relazioni tra i soggetti missionari

Quello che le statistiche citate non dicono è il disagio che serpeggia tra i
diversi soggetti ministeriali: la mancanza o inadeguata comunicazione tra i
diversi soggetti che porta al depotenziamento della missione. Nelle comuni-
tà cristiane troppa ministerialità è non utilizzata o depotenziata34; basti
pensare a cosa avviene nelle diocesi, parrocchie e forse anche nelle comu-
nità religiose nel cambio di guida della comunità35.
Questo spiega in parte la difficoltà di relazioni all’interno delle diocesi
tra i diversi soggetti. I religiosi si sentono corpi estranei e d’altra parte poi-
ché soffrono anch’essi della crisi vocazionale si tirano sempre più indietro.
Essi continuano a sentirsi esenti. I laici soffrono di continua incomprensio-
ne quando non di un vero e proprio spoiling. Anche se presentato in modo
soft il tema è molto presente in Allarga lo spazio (2022). Come segnalato il
disagio è multidirezionale. Riguarda sia il ministero ordinato, sia i religio-
si, che i ministeri laicali.

33
Leggendo si nota che il termine chiave della gestione della ministerialità non potrà
più essere la collaborazione-partecipazione, ma una nuova forma di corresponsabilità. Più
precise ci sembrano essere le trentennali richieste di NOI SIAMO CHIESA, Appello al popolo
di Dio, “noisiamochiesa.org” 6 gennaio 1996: «Alla luce di questo annuncio chiediamo:
il superamento della separazione strutturale tra “chierici” e “laici” per una corresponsa-
bilità nella Chiesa…un aperto confronto sulla Sacra Scrittura per raggiungere la piena
partecipazione delle donne ai ministeri ecclesiali» (n. 2).
34
S. NOCETI, Laici e laiche corresponsabili in una Chiesa sinodale, “CredereOggi” 47
(2022), 247, 133-150; EAD., Vie di una riforma in prospettiva sinodale, in R. LUCIANI – S.
NOCETI, Sinodalmente. Forma e riforma di una Chiesa sinodale, 145-277 [qui c. VI]; si ve-
dano anche R.R. GAILLARDETZ, Il modello sinodale della ministerialità e dell’ordine nella
chiesa, “Concilium” 57 (2021), 2, 122-134 e El ministerio apostólico en una Iglesia sino-
dal, “Seminarios” 67 (2022), 231.
35
L. MEDDI, La parrocchia cambia parroco. Una risorsa per la pastorale, Cittadella, As-
sisi, PG 2012, 13-34.

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Non si faccia l’errore di sottolineare solo la mancanza di comunicazione


intesa come relazione interpersonale, non è questione di mancanza di odore
delle pecore (cf. EG, n. 24); ma della conseguenza del progressivo cambio
delle relazioni di ruolo non oggettivate.
Le relazioni tra i soggetti ecclesiali erano chiare quando il clero si senti-
va sufficiente a svolgere la missione e la cura pastorale. L’iniziale proble-
ma missionario derivato dalla progressiva scristianizzazione ha fatto nasce-
re l’esigenza dell’impegno secolare che, successivamente, è stato poi teolo-
gicamente fondato nella prospettiva battesimale. Ma il Vaticano II lo limi-
tava alla profezia e alla consecratio mundi cioè alla testimonianza.
Indubbiamente la problematica non riguarda solo la chiesa ma ogni or-
ganizzazione (e anche le famiglie) con inevitabili resistenze a nuove forme
di cooperative working; con soluzioni minimali di tipo relazionale-comuni-
cativo (migliorare le relazioni) quando si avverte che l’autorità non è ade-
guata al compito.
Indubbiamente il luogo del conflitto tra i diversi ministeri è solo in par-
te il momento decisionale36. Il percorso sinodale vuole risolvere questo con
la metodologia dell’ascolto spirituale; come già nella espressione comunio-
ne proposta al Sinodo straordinario 1985. Si afferma che la soluzione sta nel
riconoscimento della reciprocità37; ma questa è una prospettiva psicologi-
ca, comunicativa, che non risolve il tema di fondo: il riconoscimento della
competenza per un compito. Espressione (la competenza) che nei documen-
ti viene usata quasi solamente per indicare il campo in cui i laici sono ri-
conosciuti dall’autorità e non la capacità che loro esprimono.

3.3 L’insufficienza del modello ministeriale dei tria munera

Approfondendo i dati statistici, una riflessione da fare riguarda la organizza-


zione o mansionariato del personale missionario38. Si tratta di valutare se
dalla partecipazione del popolo di Dio emerga un adeguato elenco di servizi
per la nuova missione disegnata dal Vaticano II e dalla Riforma della Chie-

36
NOCETI, Vie di una riforma in prospettiva sinodale, 249-265.
37
Lo rileva anche G. ZAMBON, Riconoscimento reciproco di soggettività tra laici e mini-
steri ordinati in ordine ad una forma sinodale di Chiesa, in R. BATTOCCHIO – S. NOCETI (a
cura di), Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, Glossa, Milano 2007, 197-211.
38
Cf. R.L. DAFT, Organizzazione aziendale, R.C. NACAMULLI (a cura di) Maggioli Edi-
tore, Rimini 2021 [2004].

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sa in uscita. Forse c’è uno squilibrio nell’utilizzo delle forze missionarie, e


forse uno scarso interesse verso la liberazione integrale cuore della missione
che porta molti battezzati ad esprimere il loro carisma fuori della chiesa.
La apostolicità realizzata dai laici nella forma non ministeriale (o mini-
steri di fatto) ebbe grande sviluppo nel post-concilio39. A livello di pratiche
pastorali si deve riconoscere che tale sviluppo si incentrò sulla esplorazio-
ne dei ministeri\servizi dei laici nella prospettiva dei tria munera40; pro-
spettiva che riconosceva l’ampliamento delle finalità della missione nella
linea dei grandi documenti conciliari (soprattutto SC, DV e GS). Si riconob-
be cioè la validità della intuizione missionaria della responsabilità di tutto
il popolo di Dio e di ogni battezzato anche se solo per superare la progres-
siva diminuzione del clero.
In effetti i numeri prima ricordati mettono in evidenza l’inadeguatezza
dello schema ministeriale dei tria munera41, espresso dal Vaticano II. Le

39
D. CROWE, New Ministries: EAPI Summer Programme, 1980, “East Asian Pastoral
Review” XVII (1980), 3, 204-240; A. GONZÁLEZ DORADO, Ministerialidad Eclesial y Mi-
nisterios Laicales en el Hoy y en el Futuro de la Iglesia, “Medellín” 11 (1985), 44, 433-
466; EPISCOPATO TEDESCO, Vocazione e missione dei laici nella Chiesa, “Il Regno” (1986),
15, 476; J.M. de VERA, FABC: il laicato in Asia, “Il Regno” (1986), 20, 569; Importanza
e ruolo dei laici nell’attività missionaria in seno alle singole Chiese locali. Asia, Africa,
America Latina: la collaborazione con il clero e i religiosi, Pontificia Unione Missionaria.
Segretariato internazionale, Roma 1986; Cf. L. MEDDI, Rinnovamento pastorale e cateche-
tico nel post Concilio delle missioni. Linee interpretative, in A. TREVISIOL, Il cammino del-
la missione a cinquant’anni dal decreto Ad gentes, Urbaniana University Press, Città del
Vaticano 2015, 183-198.
40
Un esempio in A. MULLER – R. VÖLK, La funzione dei laici nella comunità parroc-
chiale, in F. KLOSTERMANN – N. GREINACHER – A. MULLER – R. VOLKL, La Chiesa locale.
Diocesi, parrocchie, gruppi comunitari, Herder – Morcelliana, Roma – Brescia 1973, 251-
266. Una ricostruzione che tiene presenti le pratiche internazionali e le riflessioni dal
punto di vista giuridico è stata fatta da A. MONTAN, Incarichi, uffici, ministeri laicali nel-
le comunità ecclesiali: parrocchie, unità pastorali, diocesi, in N. CIOLA, Servire Ecclesiae.
Miscellanea in onore di Mons. Pino Scabini, EDB, Bologna 1998, 555-578; si veda anche
la prospettiva missionaria di W. JENKINSON – H. O’SULLIVAN (eds.), Trends in Mission. To-
wards the Third Millennium. Essays in Celebration of Twenty-Five Years of Sedos, Orbis
Books, Maryknoll – New York, NY 1991, Part Two and Three; A. BORRAS, I diversi minis-
teri in seno alla parrocchia, in ID., La parrocchia. Diritto canonico e prospettive pastorali
[c. 7], EDB, Bologna 1997, 189-213.
41
È il modello più utilizzato anche se i diversi episcopati utilizzano anche quello del-
le priorità pastorali; Sinodo Straordinario e poi la NMI preferiscono lo schema delle quat-
tro dimensioni pastorali; cf. L. SARTORI, Valori e limiti della lettura del ministero ordinato

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ministerialità sembrano sbilanciate soprattutto sul versante della edifica-


zione della chiesa e dei battezzati nella speranza che essi saranno realizza-
tori nella società della consacratio mundi. In realtà è una prospettiva che
non rifletteva adeguatamente sulla esplosione della responsabilità salvifica
della chiesa verso la storia e gli avvenimenti; salvare la storia è cosa diffe-
rente da salvare le anime. Non sembra essere scattato il rapporto tra mini-
sterialità e il servizio della chiesa al mondo contemporaneo descritto da
Gaudium et spes.
Questa situazione fa emergere due questioni. In primo luogo chiede di ri-
vedere quale sia il principio che guida la selezione (lo scouting e/o casting)
dei ministeri nelle comunità cristiane. Accanto al modello dell’aiuto\colla-
borazione al compito sacerdotale si dovrebbe affermare il modello dell’ana-
lisi dei bisogni salvifici di un contesto e soprattutto il riferimento alla pras-
si messianica di Gesù e all’invio missionario pre-pasquale42.
In secondo luogo sarebbe facile mostrare come nelle tre fasi della recep-
tio conciliare le diverse evoluzioni ministeriali siano sorte prevalentemen-
te dalla base comunitaria e poi faticosamente accolte dai pastori. Questo fa
comprendere come molti di questi compiti chiedono una competenza e una
vocazione indipendente da quella derivante dal ministero ordinato, di tipo
pneumatico o carismatico. Mette anche in evidenza la insufficienza del ri-
equilibrio evangelizzazione-sacramenti voluto da parte del Magistero. For-
se è proprio questo uno dei criteri sottesi alla recente riarticolazione delle
Congregazioni-Dicasteri della Curia vaticana.
Un elenco di richieste di nuove figure si è progressivamente imposto al-
la riflessione dell’episcopato e venne presentato al sinodo per l’Amazzonia43.

secondo lo schema dei tria munera. Intervista, “CredereOggi” 23 (2003), 133, 63-74; cf.
anche L. BRESSAN, Le nuove figure di ministerialità laicale oggi, “CredereOggi” 30
(2010), 175, 7-16.
42
Cf. K. RAHNER, L’elemento dinamico della Chiesa. Principi, imperativi concreti e ca-
rismi, Morcelliana, Brescia 1970; A. PARRA, I ministeri nella Chiesa dei poveri, Cittadel-
la, Assisi, PG 1994 [1991]; J. SOBRINO, L’essenziale di ogni ministero: servizio ai poveri e
alle vittime in un mondo Nord-Sud, “Concilium” 46 (2010), 1, 17-30; R. YEUNG, Come
intervistare e selezionare i candidati migliori. [Organizzare e condurre il colloquio, indivi-
duare i talenti, assumere i profili migliori per ogni posizione], FrancoAngeli, Milano 2009.
43
SINODO DEI VESCOVI, Il Documento finale: Chiesa alleata dell’Amazzonia, 26 ottobre
2019: Capitolo V – Nuovi cammini di conversione sinodale, nn. 93-96. Cf. la ricostruzio-
ne di S. NOCETI, Una Chiesa tutta ministeriale, “Urbaniana University Journal” 73 (2020),
2, 117-148.

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

Lo ha riconosciuto anche Papa Francesco chiedendo una indagine esplora-


tiva nelle diverse Conferenze Episcopali44.
Soprattutto fa emergere il bisogno urgente del riconoscimento ministeria-
le degli animatori di comunità45 che chiede la riconfigurazione di comuni-
tà ministeriali46. Sembra essere proprio questa la questione da dirimere. La
mancanza di guide di comunità, infatti, si può risolvere nella prospettiva di
allargare la responsabilità dei laici oppure nel modificare l’accesso al mi-
nistero ordinato.

3.4 La mancata riformulazione del ministero ordinato

In questa prospettiva di mute relazioni tra i diversi soggetti ministeriali va


considerata la difficoltà e il ritardo nel ridisegnare il ruolo del ministero or-
dinato, anche per l’alternarsi di visioni discontinue nei diversi post-conci-
lio. Si deve ricordare che le innovazioni intuite dal Vaticano II hanno subi-
to chiesto un ripensamento della identità e dei compiti del ministero ordi-
nato. Si tratta di integrare meglio le diverse visioni di presbitero. Dalla pro-
spettiva di sacerdote che celebra per il popolo alla prospettiva del presiden-
te di comunità che guida tutti i carismi del popolo di Dio47. In questa pro-
spettiva emergeva sempre più chiara

44
«Per questo motivo desidero nei prossimi mesi, nelle modalità che verranno defini-
te, avviare un dialogo sul tema con le Conferenze Episcopali per poter condividere la ric-
chezza delle esperienze ministeriali che in questi cinquant’anni la Chiesa ha vissuto sia
come ministeri istituiti (lettori, accoliti e, solo recentemente, catechisti) sia come ministe-
ri straordinari e di fatto», FRANCESCO, Messaggio in occasione del 50° anniversario della
Lettera Apostolica in forma di «Motu Proprio» Ministeria quaedam di San Paolo VI, 15
agosto 2022, n. 10.
45
A. BORRAS, Des Laïcs en responsabilité pastorale ? Accueillir de nouveaux ministères,
Cerf, Paris 1998.
46
P. VANZAN – A. AULETTA, La parrocchia per la nuova evangelizzazione: tra correspon-
sabilità e partecipazione, Ave, Roma 1998; A. BORRAS, Équipes pastorali parrocchiali: la
sfida del lavoro in équipe e la posta in gioco di un nuovo modello di direzione. Una pro-
spettiva nell’ambito francofono, in L. SORAVITO – L. BRESSAN, Il rinnovamento della par-
rocchia in una società che cambia, EMP – Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2007,
117-144.
47
Cf. la ricostruzione dei modelli in E. CASTELLUCCI, «Ordinati l’uno all’altro». Para-
digmi e modelli storici del rapporto fra ministri ordinati e laici, “CredereOggi” 23 (2003),
133, 1, 37-62.

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un’interpretazione funzionale: “Il ministero sarà invece solo il frutto di


una semplice esigenza funzionale: l’esigenza di coordinare, integrare,
correggere la molteplice attività dei carismi. Si tratta semplicemente di
un indispensabile servizio per l’unità della Chiesa”48; per cui “il loro
compito è assicurare la apostolicità e la comunione [perché] se con il
Concilio il servizio alla fede e alla parola è di tutto il popolo di Dio […]
si conclude che il carisma proprio del sacerdote è l’apostolicità e co-
munionalità”49.

Le pratiche pastorali hanno visto però una difficoltà nell’articolare nuo-


ve forme di vita ministeriale rimanendo legate principalmente al rapporto
ministero ordinato e centralità liturgica identificandola con il compito di
guida della comunità. Riconosciamo, tuttavia, che alcune esperienze sono
rimaste incomplete; come i preti operai, i preti sposati, le comunità presbi-
terali. Ci sembra che in questa prospettiva si debba considerare se il vero
problema sia il matrimonio dei preti.
D’altra parte sembra emergere, sempre dalla pratica pastorale, il mo-
dello del potenziamento dell’autorità o leadership. Questo sta influenzan-
do anche il ripensamento del ministero ordinato che sta assumendo sem-
pre più lo stile del leader50. Ci sembra che la questione non ascoltata sia
la sofferenza dei ministri, desiderati dal popolo di Dio come presbiteri ma
preparati dai vescovi come sacerdoti (magari con lo stile del leader). Il
presbitero sognato è rimasto un sacerdote! Si tratta, sì, di riconsiderare la
leadership nella chiesa, ma nella prospettiva ricordata del primato della
comunità51.

48
S. DIANICH, Nuove prospettive nella teologia del ministero, in A. MARRANZINI, Corren-
ti teologiche post/conciliari, Città Nuova, Roma 1974, 171-190; l’autore cita W. Kasper ma
si deve ricordare lo studio di Y. CONGAR, Ministeri e comunione ecclesiale, EDB [Cerf], Bo-
logna [Paris] 1973 [1971] e il successivo e ampio studio di E. SCHILLEBEECKX, Il ministe-
ro nella Chiesa. Servizio di presidenza nella comunità di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia
1981 [19802].
49
S. DIANICH, Il compito essenziale del ministero ordinato nel popolo di Dio, “Crede-
reOggi” 23 (2003), 133, 1, 75-86.
50
Ci rendiamo contro che l’espressione risulta essere ambigua: una cosa infatti è defi-
nire il compito di guida con leadership altra cosa è implementare il modello tradizionale
di sacerdozio con lo stile leaderistico.
51
NOCETI, Vie di una riforma in prospettiva sinodale, c. VI.

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

3.5 La natura dei blocchi ministeriali

Non riteniamo opportuno classificare questi disagi dentro la categoria del-


la spiritualità. Essi hanno una dimensione più profonda da collegare con
l’incompiuta elaborazione delle intuizioni conciliari. Ci sembrano esistere
diverse questioni sul tema della missionarietà di tutto il popolo di Dio52.
Una riguarda il senso della affermazione che tutti i battezzati rendono pre-
sente il sacerdozio di Cristo. Giustamente essa viene ricollegata a due in-
terpretazioni centrali del Vaticano II: il sensus fidei fidelium (LG 12) e il di-
ritto/dovere di contribuire alla costruzione della tradizione ecclesiale (il
tradere della fede – DV 8).
Da queste affermazioni tuttavia non derivano conseguenze chiare perché
subito si afferma che non tutto il sacerdozio di Cristo deriva dal battesimo;
una parte infatti viene dalla consacrazione sacramentale che conferisce la
potestas celebrandi. Non è questione solo organizzativa. Al sacerdozio batte-
simale viene sottratta l’interpretazione che tutto il popolo di Dio sia aposto-
lico, che possa trasmettere cioè l’insieme dei beni salvifici. Questo compito
venne riservato al solo ministero ordinato. La distinzione è fondata sulla Tra-
dizione che trova qui il compito essenziale del ministero ordinato e fonda an-
che il diritto di Guida della comunità53. Questo, nonostante la affermazione
che anche il fondamento del ministero ordinato abbia la sua base nel batte-
simo (e poi ovviamente nella ordinazione sacerdotale che lo arricchisce).
Quale sarebbe altrimenti il senso che i due sacerdozi hanno medesima di-
gnità (LG 9, e soprattutto il n. 32)? Quale è il contenuto della comune di-
gnità se non la comune possibilità di essere veicolo della Grazia divina? (Al-
tro discorso sarà che questo munus è giustamente regolato dalla Chiesa).
La scelta fatta dai testi ecclesiali giustifica immediatamente altre due
norme: la natura clericale e la natura maschile del ministero ordinato. Ma-
schile significa che l’esercizio della trasmissione della grazia avviene per

52
In verità l’espressione contiene ulteriori questioni che si concentrano sulla delimi-
tazione del “popolo di Dio” e se esso si limiti ai battezzati. Ci sembra ancora valida la de-
scrizione di tutto il tema attorno alla trilogia ministero (testimonianza o missione) di Cri-
sto verso il Padre, ministerialità della Chiesa verso la missione di Cristo, ministeri nella e
per la Chiesa.
53
Cf. la sintesi dei documenti in J. NEUNER – H. ROSS – K. RAHNER, IX. I sacramenti.
8. L’Ordine sacro, in La fede della Chiesa nei documenti del Magistero Ecclesiastico, 1967,
474-501.

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linea di genere. Clericale significa che pur venendo dal popolo dei battez-
zati, il ministro ordinato entra in uno status di santità e capacità testimonia-
le differente; non derivante dal carisma (fede battesimale) ma dalla consa-
crazione (e ufficio).
Si deve chiarire che non si tratta di rivendicazione ma della questione di
chi abbia il diritto di rappresentare il Cristo-Capo e la Apostolicità della
Grazia e di quali siano le condizioni o competenze.
Come in altri contesti si deve garantire l’unione intrinseca del duplice
principio missionario: quello pneumatico e quello cristocentrico54.
Sembra si possa sottolineare che il problema maggiore della riconfigura-
zione della ministerialità per la missione della chiesa sia il non riconosci-
mento di quella parte del popolo di Dio che pur partecipando della voca-
zione battesimale non può esprimere la comunicazione della Grazia, ma so-
lo riceverla. Per questo documenti e autori continuano ad insistere che il di-
ritto /dovere della partecipazione missionaria dei laici si concentra sulla
profezia e la testimonianza, mentre una parte della azione pastorale (la ce-
lebrazione e decisione) rimane loro esclusa nel senso attivo e rimane solo
il senso passivo. Ci si permetta di sottolineare che se di novità di deve dis-
cutere non può essere nella «circolarità delle relazioni» che si devono sta-
bilire tra Christifideles e Ministero ordinato ma nella affermazione chiara
che tutti hanno diritto (con il discernimento della chiesa) ad esprimere la
ministerialità del ministero ordinato.
È sembrato ad alcuni che questa analisi portasse alla eliminazione del
ministero ordinato attraverso la diminuzione della sua fondazione teologi-
ca; derivandolo dalla natura missionaria della chiesa piuttosto che dal di-
ritto divino di Cristo-Capo. Ma forse non si tratta di annullare il compito del
ministero ordinato quanto di riformularlo in ordine al fondamentale dono o
carisma battesimale.
Tra le tante ci piace ricordare due considerazioni55 che provano ad uni-
re la tradizione con la necessaria innovazione missionaria. In contesti si-

54
Su questo si rileggano le affaticate pagine di Y. CONGAR, Lo Spirito Santo nel Cosmo,
in ID., La Parola e il soffio, Borla, Roma 1985 [1984], 151-159.
55
K. RAHNER, Chiesa dalla base, in ID., Trasformazione strutturale della Chiesa come
compito e come chance, Queriniana, Brescia 1973 [1972], 132-145; P.D. MURRAY, La ne-
cessità di una teologia integrata del ministero nel cattolicesimo contemporaneo. Una pro-
spettiva dal Nord del mondo, “Concilium” 46 (2010), 1, 58-74. Si veda, tuttavia, anche il
significativo J. RATZINGER, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 2005 [1970], 99-117.

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mili ai nostri K. Rahner suggeriva alla (sua) chiesa di Germania in stato


di Katholikentag di mantenere la significazione liturgica del ministero or-
dinato per significare la trascendenza del processo salvifico della missio-
ne ma di aprirlo a coloro cui la comunità ne riconosce i segni carismatici.
Fossero uomini (celibi o sposati) o donne (nubili o sposate). Non dimenti-
cava affatto che questo ordinamento di impostazione carismatica avesse il
bisogno del riconoscimento apostolico del Vescovo della chiesa locale.
Una recente riflessione di Murray riflette sulla natura ad vitam che la tra-
dizione unisce al ministero ordinato; ne fa il principio di riconoscimento
(cioè vocazionale) di coloro che possono essere ammessi a tale munus.
Una considerazione ovviamente carismatica e non di genere. Solo in que-
sto modo si può parlare di una vera ermeneutica delle identità della sog-
gettività ecclesiale56.
È questo il principio che va ricompreso per sciogliere le mute relazioni?

4. Attivare il popolo di Dio: compito sinodale

La riforma della chiesa ha bisogno di ridisegnare57 la ministerialità perché


sia espressione di sinodalità, perché sia a servizio dell’evangelicità della
chiesa, perché sappia guidare l’intero popolo di Dio nella sua missione. È
questione missionaria. Ridisegnare comporta: una analisi e valutazione
della visione ecclesiologica precedente; una definizione dei nuovi bisogni
e figure; un processo di aggiornamento della formazione. Ma questo com-
porta la giustificazione di una nuova teoria della ministerialità i cui punti
essenziali sono stati oggetto di discussione già prima del Vaticano II. Sono
il problema e non la soluzione. Si deve fare discernimento sulla tradizione
ecclesiale perché non cada nell’indietrismo che la blocca58.

56
L’espressione la trovo presentata (in verità in modo un po’ incerto) in R. LUCIANI, Er-
meneutica delle identità e delle relazioni in una Chiesa popolo di Dio, in S. NOCETI – R.
REPOLE, Commentario ai documenti del Vaticano II. 9. Il Vaticano II e i suoi documenti,
EDB, Bologna 2022, 149-159.
57
Troviamo sintonia con Il processo di riconfigurazione della ministerialità in una Chie-
sa sinodale proposto da S. NOCETI, Vie di una riforma in prospettiva sinodale, 147-193.
58
FRANCESCO, Ai Membri della Commissione Teologica Internazionale, 24 novembre
2022 [https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2022/november/documents/
20221124-cti.html; https://archive.is/lbLLs].

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4.1 Le riflessioni preparatorie sinodali

Il blocco precedentemente segnalato può essere riassunto nel rapporto ca-


risma-ministero. A tale proposito ci sembra di notare che nel testo che gui-
da il percorso sinodale i due lemmi linguistici (“minst* e caris*) abbiano
una sorprendente e significativa presenza59. Si deve sottolineare la chiarez-
za con cui affronta il tema del rapporto sacerdozio comune-sacerdozio mi-
nisteriale-ministeri battesimali attraverso la descrizione della complemen-
tarietà e distinzione della visione ministeriale della chiesa cattolica e rifor-
mata. Le Comunità ecclesiali nate dalla riforma protestante promuovono
una forma specifica di prassi sinodale, nel contesto di un’ecclesiologia e di
una dottrina e pratica sacramentale e ministeriale che si discostano dalla
Tradizione cattolica e che, nella interpretazione di Calvino, ritiene che il
«presbitero rappresenta la dignità e i poteri conferiti a tutti i fedeli col Bat-
tesimo» mentre la pratica sinodale risolve il tema della «sinergia tra il ca-
risma e l’autorità personale dei Vescovi, da una parte, e, dall’altra, il dono
dello Spirito Santo riversato sull’intera comunità» (n. 36). Quindi la pro-
spettiva cattolica sarebbe posta nella difesa di genere, necessario per il mi-
nistero ordinato.
Non sappiamo come l’esperienza pastorale delle chiese riformate risolve
la questione della elezione ministeriale e quindi il rapporto tra i diversi sog-
getti, tuttavia è certo che essa permette di unire le due dimensioni (carisma
battesimale e ministero) senza dover ricorrere alla sacralità del clero e per-
mettendone l’esercizio a tutti i battezzati. Il tema non sembra essere ben ap-
profondito negli altri documenti preparatori.

4.2 Il disegno ministeriale di papa Francesco nella fedeltà creativa


4.2 alla tradizione

Abbiamo già ricordato la mancata riflessione di Papa Francesco sulla mini-


sterialità e ministeri in EG a vantaggio della ministerialità di tutto il popo-
lo di Dio. Tuttavia nei tempi recenti la sua riflessione si è fatta presente. Ne
possiamo indicare alcuni tratti60.

59
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La Sinodalità nella vita e nella missione
della Chiesa, 2018: minist* 65x; caris* 17x.
60
Tralasciamo le indicazioni di stile riferite ai movimenti popolari, ai movimenti e as-
sociazioni in rapporto al carisma dei loro fondatori.

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

La necessità di collegare ministeri e necessità missionarie (cioè il supera-


mento del modello di tria munera) è stato ben affermato in tutta la riflessio-
ne sulla situazione missionaria della Amazzonia61.
Certamente risultano di notevole importanza le indicazioni più recenti.
Con il Motu proprio Spiritus Domini offre una considerazione globale su
questo tema e impone il superamento di genere nel riconoscimento dei mi-
nisteri non-ordinati62. Inoltre l’importante documento Antiquum ministe-
rium scioglie la discussione terminologica riconoscendo, almeno per la fi-
gura del catechista (in realtà si tratta di animatori di comunità), il suo va-
lore ministeriale63.
Nel suo intervento in occasione del 50° anniversario della Ministeria
quaedam64 afferma che «questi due interventi non devono essere interpre-

61
FRANCESCO, Querida Amazonia. Esortazione Apostolica post-sinodale, 12 febbraio
2020, ai nn. 85-90 accoglie il rapporto tra ministeri e inculturazione o contestualizzazio-
ne [https://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-fran-
cesco_esortazione-ap_20200202_querida-amazonia.html; https://archive.is/32IS2]. Il te-
sto si riferisce ai nn. 93-96 di SINODO DEI VESCOVI, Amazzonia: nuovi cammini per la Chie-
sa e per una ecologia integrale. Documento finale del Sinodo dei Vescovi al Santo Padre
Francesco, 26 ottobre 2019 [https://www.vatican.va/roman_curia/synod/documents/rc_
synod_doc_20191026_sinodo-amazzonia_it.html; https://archive.is/ikKkD].
62
FRANCESCO, Lettera Apostolica in forma di Motu proprio Spiritus Domini, 10 gennaio
2021 e la più ampia Lettera del Santo Padre Francesco al Prefetto della Congregazione per
la Dottrina della Fede circa l’accesso delle donne ai ministeri del lettorato e dell’accolitato,
10 gennaio 2021 («Una più chiara distinzione fra le attribuzioni di quelli che oggi sono
chiamati “ministeri non-ordinati (o laicali)” e “ministeri ordinati” consente di sciogliere la
riserva dei primi ai soli uomini» [https://www.vatican.va/content/francesco/it/motu_proprio/
documents/papa-francesco-motu-proprio-20210110_spiritus-domini.html; https://archi-
ve.is/THJmj; https://www.vatican.va/content/francesco/it/letters/2021/documents/papa-
francesco_20210110_lettera-donne-lettorato-accolitato.html; https://archive.ph/itd8g].
63
FRANCESCO, Lettera apostolica in forma di “Motu Proprio” Antiquum ministerium con
la quale si istituisce il ministero di catechistica, 10 maggio 2021 [https://www.vatican.va/
content/francesco/it/motu_proprio/documents/papa-francesco-motu-proprio-20210510_
antiquum-ministerium.html; https://archive.is/K4iiY].
64
FRANCESCO, Messaggio in occasione del 50° anniversario della Lettera Apostolica in
forma di «Motu Proprio» Ministeria quaedam di San Paolo VI, 15 agosto 2022 [https://
www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2022/documents/2022
0815-messaggio-ministeria-quaedam.html; https://archive.is/y72Qg]; si veda anche
FRANCESCO, Messaggio del Santo Padre Francesco, a firma del Cardinale segretario di Sta-
to Pietro Parolin, in occasione della 72.ma Settimana Liturgica Nazionale, 2022 [https://
www.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2022/documents/
20220822-messaggio-sett-liturgica.html; https://archive.is/6aIE0].

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tati come un superamento della dottrina precedente, ma come un ulteriore


sviluppo reso possibile perché fondato sugli stessi principi». Al n. 4 affer-
ma che ogni ministero è una chiamata di Dio per il bene della comunità e
continua «questi due fondamenti permettono alla comunità cristiana di or-
ganizzare la varietà dei ministeri che lo Spirito suscita in relazione alla con-
creta situazione che essa vive. Tale organizzazione non è un fatto meramen-
te funzionale ma è, piuttosto, un attento discernimento comunitario, nell’a-
scolto di ciò che lo Spirito suggerisce alla Chiesa, in un luogo concreto e
nel momento presente della sua vita».
In buona sostanza il superamento-integrazione di Ministeria quaedam
voluto da papa Francesco si può vedere nella ri-configurazione ministeria-
le dei servizi tradizionali e di nuovi servizi in modo che il popolo di Dio
possa esprimere la sua soggettività. Questo vale soprattutto per il ruolo del-
le donne. Rimane invece nella tradizione quando mantiene il rapporto gui-
da di comunità e potestas celebrandi. Il superamento del clericalismo sareb-
be, in questa prospettiva, solo nello stile dell’esercizio del ministero ordi-
nato65. Queste ultime riflessioni manifestano un equilibrio ancora non rag-
giunto tra diverse interpretazioni all’interno della chiesa; equilibrio che ci
sembra essere l’oggetto del discernimento e decisione della celebrazione fi-
nale del sinodo.
Tuttavia ci sembra che il pensiero di Papa Francesco sia meglio espresso
nell’incipit di Spiritus Domini in cui troviamo la fondazione pneumatica –
non battesimale! – del carisma-ministero a cui segue il necessario ricono-
scimento ecclesiale per l’edificazione della chiesa e della sua missione. In-
terpretiamo che la chiesa deve riconoscere tra i suoi membri coloro che pos-
sono essere elevati ai diversi ministeri senza altra condizione che la mani-
festazione del carisma (competenza).

4.3 Ministeri dalla/nella comunità per la comunità locale

Non sfugge a nessuno che, come riconosce la riflessione di papa Francesco,


la ministerialità come questione non sia di sola natura organizzativa e nep-
pure di rivendicazione di diritti non riconosciuti. Non possiamo nasconde-
re che essa, con tutto il rispetto della tradizione bimillenaria della chiesa,

65
Cf. il suo continuo, ma in fondo tradizionale, riferimento al Cristo servo più che al
Cristo sacerdote.

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

si collega alla riconfigurazione non-sacrale del ministero ordinato. Non un


ministero per la comunità, ma un ministero dalla-nella e per la comunità66.
È la storia (la situazione o contento o problema della missione di una co-
munità) che chiede soluzioni ampie alla verità trasmessa dalla Tradizione
(cf. AG 6).
L’insistenza sul carattere sacrale del sacerdozio ministeriale porta inevi-
tabilmente alla non considerazione della ministerialità che proviene da tut-
ta la chiesa. In modo particolare mantiene i laici (cioè i non maschi consa-
crati) nella prospettiva di destinatari dell’azione missionaria del ministero
ordinato. Non è chiaramente un depotenziamento della capacità missiona-
ria della chiesa?
Certamente, come ricorda Antiquum ministerium, non tutti i battezzati
possono vivere la corresponsabilità effettiva, ma è necessario che essa sia
resa possibile ad alcuni. Sarebbe interessante studiare la contraddizione
dell’uso della espressione “corresponsabilità” e dell’uso incerto che questa
espressione ha avuto a partire da MQ (1972) fino ai recenti documenti si-
nodali. Ci sembra di capire che il cuore della questione sia teologico: cor-
responsabilità è una espressione pneumatica prima che sacramentale ed è
ovviamente collegata alla carismaticità67.
In questo ambito si percepisce forte il disagio che deriva dalla ovvietà
che il vero soggetto della missione nel suo ampio significato di testimo-
nianza e di agente pastorale sia in realtà il mondo femminile. Non sembra
più possibile negare questa situazione di minorità; non è possibile risol-
verla dividendo il potenziale ministeriale tra uomo e donna segnalando le
diverse caratteristiche e potenzialità; non è sufficiente permettere alcune
nomine nell’ambito delle diocesi in alcuni compiti di Curia; non è utile
continuare a cercare fondamenti teologici che giustifichino una prospetti-
va poco evangelica.
La distinzione va semplicemente abolita. Ma con quale nuova “tradizio-
ne” sostituirla68?

66
Oltre gli autori citati in precedenza (E. Schillebeeckx e Y Congar) si può vedere
H. LEGRAND, I Ministeri nella Chiesa locale, in B. LAURET – F. REFOULÉ (direttori), Ini-
ziazione alla pratica della teologia. Vol 3: Dogmatica II, Queriniana, Brescia 1986
[1983], 186-282.
67
L.-J. SUENENS, La corresponsabilità idea dominante del Concilio e le sue conseguen-
ze pastorali, in AA.VV., Teologia del rinnovamento. Mete, problemi e prospettive della teolo-
gia contemporanea, 1969, 66-75 [qui 68.73].

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In conclusione

La circolarità sinodalità per/dalla ministerialità ci sembra uno dei corto-


circuiti della riflessione contemporanea. Uno sembra essere contempora-
neamente il problema e la soluzione dell’altro. Si riconosce una reciproci-
tà che mette in luce la vera questione in gioco: la riforma della chiesa. An-
che in questo caso al centro c’è la questione della receptio del Vaticano II.
Nonostante papa Francesco insista nell’affermare che i ministri debbano
essere avanti-dentro-dopo, il ministero ordinato rimane per. Credo non ci
sia nulla da obiettare se non che, per altre vie, l’accesso a questo ministe-
ro rimane di natura di genere (maschile) e collegato alla prospettiva cleri-
cale (sacerdotale). Questo si afferma per l’equivalenza tra guida di comu-
nità e presidenza eucaristica. Sarà possibile de-clericalizzare (cioè laiciz-
zare ovvero riferire al battesimo) il ministero ordinato?
Il sinodo che stiamo già vivendo e che si concluderà nel 202469 è convo-
cato proprio per fare una esperienza di sinodalità nella condivisione delle
analisi e del loro discernimento per offrire al papa propositiones di soluzio-
ni che nel suo magistero deciderà di accogliere. Il Sinodo in atto, più che i
precedenti, si deve caratterizzare per questa metodologia di ascolto70. È

68
Ricordiamo che su questo punto il pensiero di papa Francesco è al momento fermo:
secondo la tradizione il ministero ordinato è maschile. Per usare il suo linguaggio, appar-
tiene alla radice e non ai rami della Tradizione, cf. Ai Membri della Commissione Teologi-
ca Internazionale, 24 novembre 2022.
69
FRANCESCO, Angelus, 16 ottobre 2022 [https://www.vatican.va/content/francesco/it/
angelus/2022/documents/20221016-angelus.html; https://archive.is/7lRtk]: «Il 10 otto-
bre dell’anno scorso si è aperta la prima fase della XVI Assemblea Generale Ordinaria del
Sinodo dei Vescovi, sul tema “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, mis-
sione”. Da allora si sta svolgendo nelle Chiese particolari la prima fase del Sinodo, con
l’ascolto e il discernimento. I frutti del processo sinodale avviato sono molti, ma perché
giungano a piena maturazione è necessario non avere fretta. Pertanto, allo scopo di dis-
porre di un tempo di discernimento più disteso, ho stabilito che questa Assemblea sino-
dale si svolgerà in due sessioni. La prima dal 4 al 29 ottobre 2023 e la seconda nell’otto-
bre del 2024. Confido che questa decisione possa favorire la comprensione della sinoda-
lità come dimensione costitutiva della Chiesa, e aiutare tutti a viverla in un cammino di
fratelli e sorelle che testimoniano la gioia del Vangelo».
70
Lo ha chiarito FRANCESCO in Costituzione apostolica Episcopalis communio, 15 set-
tembre 2018 [https://www.vatican.va/content/francesco/it/apost_constitutions/docu-
ments/papa-francesco_costituzione-ap_20180915_episcopalis-communio.html;
https://archive.is/j0hph].

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Ridisegnare la ministerialità. Compito sinodale

una sperimentazione e modellizzazione di ciò che si desidera sia la chiesa


del futuro. Per questa importante prospettiva di creazione di consenso e di
impegno (cioè di comunione missionaria) il magistero ha ripreso l’espres-
sione sinodo-sinodalità perché ciò che tutti riguarda, da tutti deve essere
deciso. Ma con qualche limitazione perché questa decisione sarà operata
dai vescovi71.

Luciano Meddi
Pontificia Università Urbaniana
([email protected])

71
L’espressione giuridica «Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet» risale al
Codice di Giustiniano; Y. CONGAR l’ha ripresa in Quod omnes tangit, ab omnibus tractari
et approbari debet, “Revue historique de droit français et étranger” 36 (1958), 210-259;
allo stesso modo papa Francesco (Discorso nella commemorazione del 50° anniversario del-
l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, 17 ottobre 2015) ma limitando il percorso al solo trac-
tari. Tuttavia si dovrebbe tenere in maggior conto la prassi del monachesimo benedettino
in capitulo.

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ABSTRACT

RIDISEGNARE LA MINISTERIALITÀ
COMPITO SINODALE

Da alcuni anni Papa Francesco sta indirizzando la chiesa verso uno stile di si-
nodalità. Le motivazioni sembrano essere che la riforma avviata con il Vaticano
II non pare aver ottenuto sufficienti risultati per realizzare un adeguato slancio
missionario. Egli ritiene che sia mancata una comunicazione tra soggettività dei
laici e ministero ordinato che non si è reso disponibile all’esercizio dei diversi ca-
rismi missionari del popolo di Dio. La ministerialità dei laici, che sembrava esse-
re la risorsa centrale della riforma missionaria del Vaticano II, viene ora compre-
sa come uno dei suoi problemi fondamentali della conversione o riforma mis-
sionaria della chiesa. Per questo papa Francesco chiede di ridisegnare la mini-
sterialità perché sia espressione di sinodalità, perché sappia guidare l’intero po-
polo di Dio nella sua missione. Questa svolta ministeriale, tuttavia, ha bisogno
di scelte sinodali complesse. Al momento il cammino sinodale, che si conclu-
derà nel 2024, non sembra esprimere un adeguato consenso su una nuova let-
tura teologica della ministerialità.

REDESIGNING MINISTERIALITY
AS SYNODAL TASK

For some years, Pope Francis has been directing the Church towards a style of
synodality. The motivations seem to be the fact that the reform started with Vat-
ican II does not seem to have obtained sufficient results to achieve an adequate
missionary impulse. He believes that there has been a lack of communication
between the subjectivity of the laity and the ordained ministry which has not
made itself available for the exercise of the various missionary charisms of the
people of God. Lay ministry, which seemed to be the central resource of the
missionary reform of Vatican II, is now understood as one of its fundamental
problems of the conversion or missionary reform of the Church. For this Pope
Francis asks to redesign ministeriality so that it is an expression of synodality, so
that it knows how to guide the entire people of God in its mission. This ministe-
rial change, however, requires complex synodal choices. At the moment the
synodal process, which will end in 2024, does not seem to express an adequate
consensus on a new theological interpretation of ministeriality.

Keywords: Church Reform; Synodality; Lay Ministries; Mission

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UNA CHIESA SINODALE


NEI CONTESTI SOCIO-CULTURALI ATTUALI

1. I contesti socio-culturali attuali: tra la fine della cristianità e la secolarizzazione – 2. Si-


nodalità e soggettualità di battezzati e di chiese – 3. La questione della ministerialità in una
Chiesa sinodale – 4. La riforma delle strutture – 5. Chiesa sinodale e processi democratici

Parole chiave: secolarizzazione; sinodalità; corresponsabilità; ministeri; riforma; demo-


crazia

1. I contesti socio-culturali attuali: tra la fine della cristianità


e la secolarizzazione

«Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche
nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie
in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è
il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Si tratta di
un passaggio del discorso tenuto da Papa Francesco il 17 ottobre 2015, in
occasione della commemorazione del 50mo anniversario dell’istituzione del
Sinodo dei Vescovi. Lo ritroviamo citato diverse volte in altri contesti di ri-
flessione teologica sul Sinodo e sulla sinodalità. È diventata – soprattutto
l’ultima espressione di quella citazione – quasi uno slogan per avvalorare
l’importanza del processo sinodale nell’attuale stagione ecclesiale.
In verità, si ha come l’impressione che ancora poco sia stata indagata la
connessione tra l’imperativo della sinodalità e la sua pertinenza rispetto al-
la vita e all’azione della Chiesa nei contesti socio-culturali attuali. Direi di
più: si avverte come il rischio che quello della sinodalità sia un processo
dai marcati confini intraecclesiali, che non faccia i conti fino in fondo con
la sorte del cristianesimo nel tempo che viviamo oltre che con la forma di
Chiesa capace oggi di corrispondere da una parte alla fedeltà al Vangelo e
dall’altra ad una sensata presenza nel mondo1. In ragione di ciò pare oppor-

1
Cf. P. CODA, Chiesa sinodale nell’oggi della storia. La via del discernimento comuni-
tario, ed. A. CLEMENZIA, Città Nuova, Roma 2022, 89-99.

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1/2023 ANNO LXXVI, 109-127 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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tuno muovere in questa riflessione dal tratteggiare le principali questioni


che caratterizzano l’attuale panorama socio-culturale, senza trascurare,
d’altra parte, i sintomi più evidenti di una crisi che sta caratterizzando la
Chiesa. È evidente che questa ricognizione si limita ad uno sguardo sul no-
stro Paese e sulle chiese locali che in esso vivono.
Un primo elemento da evidenziare è che da tempo ormai si parla di «fi-
ne della cristianità», di «fuoriuscita dalla cristianità» o addirittura di «ago-
nia del cristianesimo», normalmente in connessione con il dilagare inarre-
stabile del fenomeno della secolarizzazione. In realtà questo non è un feno-
meno da valutare negativamente. Si tratta, infatti, di un processo prevalen-
temente positivo per il cristianesimo, un’occasione propizia che rende pos-
sibile la liberazione da legami troppo stretti con una cultura ormai sorpas-
sata, i quali, se non interrotti, impedirebbero di guardare e sperare nel fu-
turo. In questo processo esodale, in gioco non è solo lo scioglimento di un
vincolo con una cultura ormai al tramonto, ma anche la progettualità cri-
stiana del futuro che ha bisogno, oltre che di un rinnovato ritorno alle fon-
ti originarie del cristianesimo, anche di una seria e approfondita diagnosi
della cultura attuale, delle sue direttrici principali o dominanti2.
Senza dubbio occorre considerare che siamo di fronte a cambiamenti si-
gnificativi portatori di un mutamento del modo di essere presente della
Chiesa nel mondo occidentale. Solo per evidenziare alcuni segnali, che la
recente crisi pandemica ha portato ulteriormente in evidenza, va registrato
un sostanziale calo della frequenza e della partecipazione alla vita liturgi-
ca, come pure una certa diffusa ignoranza del cristianesimo e delle sue que-
stioni di fondo. La stessa appartenenza ecclesiale non è più vissuta come
dirimente in ordine al giudizio su altre dimensioni dell’esistenza. E il rap-
porto complesso della Chiesa con la società civile e con i governi si è ulte-
riormente complicato, anche se all’apparenza sembrerebbe che la politica
vada in cerca di alleanze con la Chiesa.
Se tali fenomeni li si analizza nei loro risvolti intraecclesiali, si ha modo
di notare come emerga in maniera ancora più evidente la fine di un model-
lo. Si pensi, ad esempio, a come si sono interrotti i processi “naturali” di
trasmissione della fede da una generazione all’altra o alla crisi della par-
rocchia tridentina che per secoli ha assicurato una presenza capillare e ben

2
Un riferimento essenziale per tali questioni è sicuramente l’opera di CH. TAYLOR, L’e-
tà secolare, Feltrinelli, Milano 2010.

110
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Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

strutturata della Chiesa, ovunque vi sia una comunità civile. Sono solo al-
cuni dei tratti che mettono in rilievo la crisi del modello della cristianità da
interpretare in concomitanza con il fenomeno della secolarizzazione, che
costituisce un elemento decisivo a partire dal quale poter leggere le trasfor-
mazioni sociali e culturali odierne. A partire dagli studi di N. Luhmann, il
cuore del fenomeno della secolarizzazione non va tanto identificato nell’a-
vanzata della scristianizzazione o nella diffusione dell’ateismo, effetti pur
ben rintracciabili, quanto nella «differenziazione» moderna dei sistemi so-
ciali, che ne è la causa o il nucleo centrale3. Nella società generata dalla
secolarizzazione l’integrazione sociale non è più garantita da un solo fatto-
re, ma da una complessa rete di relazioni tra ogni sistema e il suo ambien-
te4. Ne deriva che la religione, da fattore principale dell’integrazione socia-
le, diventa solo uno dei fattori e, per altro, sempre più marginale. Così si
spiega la sempre più crescente indifferenza nei suoi confronti, motivata dal-
la evidente irrilevanza o scarsa rilevanza sociale5.
A questa lettura dal versante sociale se ne può aggiungere un’altra che
guarda maggiormente al risvolto personale della secolarizzazione e il cui in-
terprete principale è il canadese Ch. Taylor6. La sua lettura del fenomeno
porta l’attenzione su una transizione culturale da una società in cui la fede
in Dio era considerata come un dato incontestabile e non problematico ad
una in cui viene reputata un’opzione tra le altre, e spesso non come la più
facile da abbracciare. Per Taylor, dunque, la secolarizzazione non significa

3
Cf. N. LUHMANN, Funzione della Religione, Morcelliana, Brescia 1991.
4
G. Ferretti sintetizza in questi termini la tesi luhmanniana: «Secondo Luhmann i fon-
damentali sottosistemi in cui l’odierna società complessa è funzionalmente differenziata
sarebbero il sistema economico, che si organizza in base al codice simbolico (o medium
di comunicazione) del “denaro”, il sistema politico, il cui codice è il “potere”, il sistema
giuridico, il cui codice è il “diritto”, il sistema scientifico, il cui codice è la “verità”, il si-
stema famiglia, il cui codice è l’“amore”, il sistema educativo, il cui codice è la “valuta-
zione selettiva”, il sistema “arte”, il cui codice è il “bello”, il sistema morale, il cui codi-
ce è il “bene” ed infine il sistema religioso, il cui codice è la “fede/salvezza”», G. FER-
RETTI, Filosofia e teologia cristiana. Saggi di epistemologia ermeneutica. II. Figure, Edi-
zioni Scientifiche, Napoli 2002, 198.
5
Cf. ID., Essere cristiani oggi. Il «nostro» cristianesimo nel moderno mondo secolare, El-
ledici, Torino 2016, 55-57.
6
Per una presentazione sintetica del pensiero di Ch. Taylor, rimando a R. REPOLE, La
Chiesa e il suo dono. La missione fra teo-logia ed ecclesiologia, Queriniana, Brescia 2019,
56-64.

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la fine della religione, ma porta con sé un mutamento nelle condizioni del-


la credenza le quali inaugurano una nuova epoca caratterizzata dall’auten-
ticità e dall’espressivismo individualista, «secondo cui ciascuno ha un mo-
do specifico di realizzare la propria umanità […] anziché conformarsi ar-
rendevolmente a un modello imposto dall’esterno, dalla società, dalle gene-
razioni precedenti o dall’autorità religiosa o politica»7. Pertanto «la vita o la
pratica religiosa di cui entro a far parte dev’essere non solo frutto della mia
scelta, ma deve anche parlare la mia lingua; deve avere senso nei termini
del mio sviluppo spirituale, così come io lo interpreto»8. È evidente che, in
una condizione del genere, la capacità della Chiesa di non sciupare un ta-
le mutamento di interesse religioso è anche legata alla sua capacità di abi-
tare, nella fedeltà al Vangelo di sempre, una transizione come questa.
In un orizzonte culturale così connotato quali elementi sono da tenere in
conto per la figura ecclesiale e per le sfide con le quali la sinodalità deve
poter dialogare? La prima attenzione da avere è senza dubbio quella di re-
spingere come una tentazione il pensare di ristrutturare in qualche modo
l’orizzonte della cristianità, coltivando l’ambizione di poter dare forma ad
una nuova unità sociale e politica attorno alla proposta cristiana e alla pre-
senza ecclesiale. Non è ammissibile tornare ad immaginare comunità cri-
stiane chiuse in se stesse, smarrite nell’illusione di potersi pensare, sul pia-
no sociale, come autosufficienti o egemoniche. Come pure è da tenere lon-
tana, sul versante opposto, la tentazione di ridurre il cristianesimo ad un
aspetto tra gli altri della vita, connotato da una radicale debolezza e non in
condizioni tali da poter innervare l’intera esistenza nella pluralità delle sue
dimensioni. In questa frattura si apre uno spazio di riposizionamento della
Chiesa, soprattutto in rapporto al ripensamento della propria figura e del
proprio stile di presenza nella storia. È qui che si collocherebbe la doman-
da sullo specifico che la sinodalità può apportare alla figura ecclesiale, so-
prattutto nel rimettere al centro le dinamiche comunionali come decisive
per la vita della Chiesa e per un ripensamento della stessa anche in tempo
di secolarizzazione. Del resto, la configurazione di una Chiesa sinodale, che
ripropone il nesso tra Chiesa e comunione, può essere utile a mostrare co-
me, anche in una società funzionalmente differenziata, la Chiesa può con-
tribuire con un proprium unico ad esibire, nella forma della comunione al

7
TAYLOR, L’età secolare, 598.
8
Ibid., 612.

112
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Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

Dio di Gesù Cristo, un tipo di relazione interumana che nessuna società in-
tramondana può esaurire, al punto da potersi presentare come fermento del-
le diverse realtà della vita sociale.
Come pure, alla luce della tesi di Taylor propugnatrice di una “cultura
dell’espressivismo” e “dell’autenticità”, sul piano della riflessione teologi-
ca si può mettere in luce proprio il dinamismo tipico della sinodalità, che
è capace di evitare due altre tentazioni: quella di “riduzione all’uno” dei
diversi approcci alla fede e dei diversi percorsi e quella contraria di un plu-
ralismo dei percorsi e delle esperienze spirituali e di fede, tale per cui di-
venta poi difficile sperimentare che si cammina sinodalmente, cioè insieme
sulla stessa via del cristianesimo.
Un’altra questione che nel contesto sociale attuale chiede un ripensa-
mento è quella relativa alla figura e all’esercizio dell’autorità. La secolariz-
zazione ha a che fare anche con una maniera diversa di rapportarsi all’au-
torità, soprattutto nel suo modo di darsi e di realizzarsi, soggetto alla storia
e ai cambiamenti in atto. Rispetto a questo elemento, vale la pena doman-
darsi se una Chiesa sinodale non debba essere anche una Chiesa nella qua-
le è ripensata la questione della ministerialità e dell’esercizio dell’autorità.
E ancora, i contesti sociali nei quali la Chiesa vive in Occidente sono dal
punto di vista politico fortemente connotati dall’appello insistente alla de-
mocrazia. Tali contesti inducono la Chiesa a ripensare la sua vita interna
come qualcosa che non può identificarsi certo con la democrazia e che tut-
tavia può offrire un contributo alla realizzazione dei migliori valori demo-
cratici lì dove, paradossalmente, la democrazia stessa è in forte crisi.

2. Sinodalità e soggettualità di battezzati e di chiese

Alla luce degli elementi evidenziati è possibile tornare a considerare la


questione della sinodalità provando a cogliere cosa sia realmente in gioco
ed evitando di utilizzare quella parola come “termine-ombrello”9, col ri-
schio di incorrere nel forte pericolo di alimentare più la retorica che una ri-
flessione teologica rigorosa. Quando parliamo di sinodalità, ci riferiamo
senza dubbio ad una dimensione costitutiva della Chiesa. Volendo sintetiz-
zare quanto si legge al n. 70 del documento della Commissione Teologica

9
Cf. G. CANOBBIO, Sulla sinodalità, “Teologia” 41 (2016), 2, 260.

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Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa10, per


sinodalità si deve intendere anzitutto lo stile proprio che caratterizza la vi-
ta e la missione della Chiesa, in cui si esprime la natura del camminare in-
sieme e del radunarsi in assemblea del popolo di Dio convocato da Cristo
nella forza dello Spirito per annunciare il Vangelo. Su questo fondamento si
svilupperebbe uno specifico modo di vivere e di operare, che si esprime nel-
l’ascolto comunitario della Parola e nella celebrazione eucaristica, nella
fraternità vissuta e nella partecipazione e corresponsabilità di tutto il popo-
lo di Dio, pur nella differenziazione dei ministeri e dei carismi, alla vita e
alla missione della Chiesa. Allo stesso tempo il documento riconosce come
lo stile sinodale non possa prescindere da processi e strutture in cui espri-
mersi, ai diversi livelli della vita ecclesiale. Questi elementi sintetici sono
sufficienti ad evidenziare come la sinodalità non sia un aspetto tangenzia-
le della Chiesa e della sua vita; come pure che, fuori da ogni retorica, essa
riguardi la complessità dei tratti che strutturano il soggetto ecclesiale11.
Proprio di questo soggetto collettivo che è la Chiesa la sinodalità mette
in evidenza il dinamismo relazionale tra i soggetti che dà forma plastica al
dono della comunione e si esprime nella missione. Quanto il Vaticano II
aveva riconosciuto nella collegialità come riferito solo ai membri del colle-
gio episcopale, la sinodalità di fatto lo estende alle dimensioni che coinvol-
gono tutta la Chiesa e tutti nella Chiesa12. Per tale ragione la Chiesa sino-
dale può essere interpretata nella linea della recezione della figura conci-
liare del popolo di Dio, nella quale, in virtù del dono del battesimo e dei
carismi che connotano la vita dei credenti, tutti sono riconosciuti soggetti

10
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinodalità nella vita e nella missione
della Chiesa, in EAD., Documenti 2005-2021, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2022,
429-430. Cf. C.M. GALLI, La figura sinodal de la Iglesia según la Comisión Teológica In-
ternacional, in R. LUCIANI – M.T. COMPTE (edd.), En camino hacia Iglesia sinodal, Funda-
cion Pablo VI, Madrid 2020, 111-132; P. CODA, La sinodalità, esercizio di Chiesa. A pro-
posito del documento della Pontifica Commissione Teologica Internazionale, in R. BATTOC-
CHIO – L. TONELLO (edd.), Sinodalità. Dimensione della Chiesa, pratiche nella Chiesa,
Messaggero – Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2020, 187-200; P. CODA – R. REPO-
LE (edd.), La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa. Commento a più voci al
Documento della Commissione teologica internazionale, EDB, Bologna 2019.
11
Cf. G. CALABRESE, Ecclesiologia sinodale. Punti fermi e questioni aperte, EDB, Bolo-
gna 2021, 49-76.
12
H. LEGRAND, Per una Chiesa sinodale, in ID. – M. CAMDESSUS, Una Chiesa trasforma-
ta dal popolo, Paoline, Milano 2021, 91-100.

114
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Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

che partecipano alla vita e alla missione della Chiesa, in una dinamica di
correlazione degli uni con gli altri. Nello specifico tale correlazione si dà
tra il munus profetico e il munus regale di tutti i christifideles e del popolo
di Dio nel suo insieme e l’esercizio dei munera docendi e regendi dei ve-
scovi. Si assiste, in tal senso, al superamento di quella secolare divisione
tra ecclesia docens ed ecclesia discens che per secoli ha regolato le relazio-
ni ecclesiali, come pure alla decostruzione – almeno teorica - di quel para-
digma sacrale e gerarchizzante con cui si è letto il tema del ministero ordi-
nato e dei ministeri dei battezzati. La sinodalità non solo sottolinea l’esse-
re e camminare insieme dei soggetti ecclesiali, ma anche la loro interazio-
ne: quasi una «coreografia» di figure ministeriali13. In tal senso il coinvol-
gimento di nuovi soggetti (laici, donne) nel processo di comprensione del-
la fede e di sviluppo della tradizione produce un effetto di dislocazione dal
centro degli altri soggetti e di ricollocazione degli stessi in una dinamica re-
lazionale, che traduce nelle pratiche ecclesiali la logica della corresponsa-
bilità secondo una interazione dei tutti con gli alcuni e con l’uno.
Tale interazione dinamica ha bisogno di essere indagata in profondità,
partendo proprio dal chiarire chi siano questi tutti, alcuni e uno. Se, infat-
ti, dovessimo rievocare il principio medievale – utile per descrivere i pro-
cessi di una Chiesa sinodale – in virtù del quale ciò che riguarda tutti de-
ve essere trattato ed approvato da tutti, non si può fare a meno di ricono-
scere come il contesto attuale non ci permetta un’automatica e scontata rea-
lizzazione di quel principio, dal momento che la fine della cristianità di fat-
to presenta una pluralità di vissuti di fede, non omologabili sotto un unico
tipo. Per riferirsi, ad esempio, alla situazione del nostro paese, la maggior
parte degli italiani risulta ancora formalmente cristiana ed ha ricevuto i sa-
cramenti dell’iniziazione cristiana. Rispetto a questa maggioranza, però, so-
no una minoranza coloro che hanno deciso di vivere la vita da credenti. Chi
sarebbero, dunque, questi tutti da coinvolgere nei processi sinodali? E poi,
i contributi differenti di costoro andrebbero collocati tutti sullo stesso pia-
no di un comune esercizio del sensus fidei? Sono domande che pongono in
evidenza come l’imperativo della sinodalità ha bisogno di essere coniugato

13
S. NOCETI, Il processo di riconfigurazione della ministerialità in una Chiesa sinodale,
in R. LUCIANI – EAD., Sinodalmente. Forma e riforma di una Chiesa sinodale, Nerbini, Fi-
renze 2022, 149-150. Si veda pure della stessa autrice, Nuove coreografie. La pluralità
necessaria di ministerialità per una liturgia viva e vitale, “Ecclesia Orans” 39 (2022), 2,
496-503.

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dentro un panorama complesso determinato da differenze, alle volte molto


evidenti, tra i soggetti chiamati in causa, volendo evitare ogni forma di eli-
tarismo escludente. Riflessioni simili andrebbero condotte pure per il coin-
volgimento degli alcuni, il cui profilo è piuttosto indefinito e la cui autori-
tà nei processi sinodali non è chiarita, come accade invece in riferimento a
quella dell’uno. Qui si apre uno spazio ulteriore di indagine teologica che
in tale contesto evidentemente non è possibile approfondire14.
La sinodalità, oltre ad indicare uno stile proprio per l’intero popolo di
Dio circa il modo di essere Chiesa, è pure indicativa di una soggettualità
specifica delle chiese. In tal senso si è ancora nella scia inaugurata dal
Vaticano II a proposito di una ecclesiologia dalle chiese locali che l’ulti-
mo concilio ha reintrodotto, dando il via a quel processo di decostruzio-
ne di una visione meramente universalistica che aveva avuto la meglio
nei secoli precedenti, prima con la riforma gregoriana, poi con quella tri-
dentina, ratificata peraltro dal Vaticano I. Il riconoscimento di una chie-
sa locale quale soggetto pienamente ecclesiale ha di fatto ridisegnato il
tema della universalità della Chiesa nella prospettiva della communio ec-
clesiarum (stando alla lezione di LG 23). A monte di questo sviluppo del-
la dottrina conciliare si colloca un ritrovato rapporto tra Chiesa ed Euca-
restia, come pure nuove acquisizioni sui temi dell’episcopato, della col-
legialità episcopale e della teologia della missione. Non è un caso che
proprio gli stessi temi siano decisivi a proposito della teologia della sino-
dalità, al punto da definire la cornice come pure l’orizzonte di fondo di
quanto si va dicendo.
La riflessione su come una chiesa locale possa essere sinodale è allora
il primo passo per pensare poi una riforma delle strutture, dei processi,
delle procedure, degli istituti sinodali. E, a tal proposito, occorre dire che,
nonostante siano ormai diversi i decenni che ci distanziano dall’evento
conciliare, il cammino di recezione di quella intuizione non è di molto
avanzato. Aveva ragione K. Rahner, all’indomani del Concilio, nel ricono-
scere che «possiamo e dobbiamo approfondire su questa ecclesiologia
“locale”, possiamo e dobbiamo renderla viva in noi stessi. In questo cam-
po ci attende un lavoro smisurato»15. Sono passati più di 50 anni da quan-

14
R. REPOLE, Sinodalità. Il contributo della teologia, “Teologia” 46 (2021), 521-525.
15
K. RAHNER, Il nuovo volto della chiesa, in ID., Nuovi saggi, III, Paoline, Roma 1968.
406.

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do il teologo gesuita si esprimeva con tali considerazioni e la loro attuali-


tà è del tutto ancora oggi evidente. Si tratta, infatti, di attivare processi sul
piano della conversione pastorale che coinvolgano tutti i soggetti ecclesia-
li, dal vescovo ai fedeli laici, come pure su quelli «della formazione, del
rinnovamento delle relazioni e dei segni pubblici di presenza ecclesiale,
delle dinamiche comunicative, delle strutture in cui partecipazione, cor-
responsabilità, sinfonia di voci e sinergia operativa si realizzano nel e per
il Noi ecclesiale»16.
Sono tutte dinamiche che chiedono un mutamento da una prospettiva
unidirezionale, dall’alto verso il basso, ad un’altra circolare, nella quale lo
sviluppo dei processi ecclesiali si dà nella linea di una reciprocità che non
annulla le peculiarità ministeriali, ma le inserisce in un Noi che cresce e
matura proprio grazie a quel dinamismo. È quanto il processo sinodale sta
tentando di far sperimentare a tutta la Chiesa in questi due anni di ascolto
e di discernimento condiviso. L’esito di questo primo tempo del processo in
atto non vorrebbe essere semplicemente quello di rimettere in piedi una
struttura verticistica verso cui tende il lavoro compiuto “dal basso”, quan-
to piuttosto generare una dinamica circolare di sviluppo dello stesso pro-
cesso attraverso un movimento di recezione e restituzione del frutto dell’a-
scolto e del discernimento. In tal senso ci sarebbero le condizioni per met-
tere in atto stili partecipativi e di comunione, nei quali la comunicazione
tesse le relazioni tra i soggetti, ma consente anche la stessa evoluzione dei
processi avviati17.
È evidente che occorre far diventare questo esercizio una pratica eccle-
siale consolidata, per permettere che si attui progressivamente, a partire
dalla maturazione di nuove consapevolezze, il processo di conversione e di
riforma sinodali auspicato.

16
S. NOCETI, Una Chiesa locale sinodale: la riforma delle strutture, in LUCIANI – EAD.,
Sinodalmente, 215. Cf. pure G. ROUTHIER, Il rinnovamento della vita sinodale nelle chiese
locali, in A. SPADARO – C.M. GALLI (edd.), La riforma e le riforme nella Chiesa, Querinia-
na, Brescia 20172, 233-247.
17
Cf. A. BORRAS, Episcopalis communio, mérites et limites d’une réforme institutionel-
le, “Nuovelle Revue Théologique” 141(2019), 82-87; S. DIANICH, Dalla teologia della si-
nodalità alla riforma della normativa canonica, in CODA – REPOLE (edd.), La sinodalità
nella vita e nella missione della Chiesa, 71-82.

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3. La questione della ministerialità in una Chiesa sinodale

Alla luce di quanto affermato, si comprende bene come la figura sinodale


che si va delineando può prendere forma nella misura in cui si assume la
sfida di fare Chiesa insieme nella polifonia delle voci ecclesiali. Assumere
la sinodalità quale modus vivendi et operandi della Chiesa, infatti, è possi-
bile solo secondo una con-spiratio orientata a una sempre più profonda
comprensione del Vangelo nella storia (DV 10), oltre che nella sinergia del-
le diverse componenti, ministri ordinati e laici, come afferma LG 30 «ut
cuncti suo modo ad commune opus unanimiter cooperentur» (che tutti con-
cordemente cooperino, nella loro misura, all’opera comune). In sintesi, la
posta in gioco è di comprensione della fede e di processi decisionali, l’una
e gli altri da compiere insieme.
Questa «opera comune» aggiunge un ulteriore elemento di particolare
importanza nella configurazione di una Chiesa sinodale: mi riferisco alla
questione ministeriale. Non si tratta, in realtà, di una questione nuova. I de-
cenni che ci separano dal Vaticano II, infatti, sono stati un tempo durante
il quale la riflessione teologica sui ministeri e le stesse prassi ecclesiali at-
testano alcuni passi compiuti, non senza resistenze o sbilanciamenti che, di
fatto, ripropongono la questione come bisognosa di una ricollocazione ec-
clesiale nuova, quella sinodale appunto. Gli elementi di autocoscienza ec-
clesiale che stanno a fondamento della sinodalità, del resto, sono proprio gli
stessi a partire dai quali il tema della ministerialità può conoscere una ri-
presa interessante. Faccio riferimento in particolare alla figura ecclesiale di
popolo e alla corresponsabilità di tutti i battezzati nell’edificazione della
Chiesa. Proprio da questi punti di partenza possono svilupparsi nuove vie
per riconsegnare la ministerialità alla comunità ecclesiale tutta intera, svin-
colandola tanto dal vicolo cieco del cursus honorum nella prospettiva del
ministero ordinato, quanto da una lettura della stessa con toni prevalente-
mente sacrali e, in tal senso, escludenti.
Se la Chiesa sinodale è una Chiesa di soggetti, ciascuno portatore di un
proprium che è per l’edificazione comune, è necessario allora che il tema
della ministerialità conosca al contempo un’estensione verso un coinvolgi-
mento maggiore dei battezzati ed un approfondimento nella direzione delle
peculiarità ministeriali oggi richieste. Non è sufficiente, infatti, moltiplica-
re semplicemente i ministeri, lasciando, però, intatta la logica di fondo che
spesso svela processi ecclesiali poco partecipativi, tutt’al più collaborativi,
ma pur sempre poco corresponsabili. Lo stesso ministero ordinato, che di

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per sé potrebbe apparire intangibile, di fatto va ripensato nella polifonia ec-


clesiale tipicamente sinodale, in stretta connessione con altre forme di mi-
nisterialità e secondo una logica di «co-essenzialità di doni gerarchici e ca-
rismatici» (n. 74)18.
In particolare va riconosciuto l’apporto specifico dei christifideles (laici),
che sono «σύνoδοι, compagni di cammino, chiamati a essere soggetti atti-
vi in quanto partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo e destinatari dei di-
versi carismi elargiti dallo Spirito Santo in vista del bene comune» (n.
55)19. Sono soggetti co-costituenti il Noi ecclesiale, portatori di una visio-
ne della realtà e di una esperienza spirituale che devono essere riconosciu-
te e accolte, perché l’opera di evangelizzazione e la vita ecclesiale possano
compiersi. Questo rappresenta davvero un passaggio ineludibile nel cam-
mino di una Chiesa sinodale, perché apre alla pluralità delle soggettualità
che si celano dietro la parola generica laico. Si tratta di voci cui ridare pa-
rola, soprattutto se abitualmente messe a tacere: quelle dei giovani, delle
donne, dei poveri, come pure quelle “critiche”, portatrici di una prospetti-
va altra e per questo bisognosa di essere riconosciuta e accolta. In un tem-
po di congedo da una forma di cristianesimo sociologico che lascia il cam-
po ad una costellazione di vissuti credenti che si presentano in forme e con-
figurazioni diversificate, la pluralità dei soggetti costituisce l’unica via at-
traverso la quale declinare la soggettualità ecclesiale.
In tale contesto va collocato l’impegno di laici e di laiche nei diversi con-
testi e attività della vita pastorale. Qui si inserisce il compito della Chiesa
nel discernere in quali forme ministeriali si possa configurare la ricchezza e
varietà dei carismi, che lo Spirito continua a distribuire come vuole, e quel-
lo di istituire muovi ministeri o rivedere e ampliare i compiti di quelli esi-
stenti, in ragione del mutare dei contesti e delle situazioni in cui la comuni-
tà cristiana si trova a vivere. A chi tocca questo discernimento? Fino ad ora,
di fatto, ogni decisione è stata assunta dal Vescovo di Roma. Non è difficile
riconoscere questo aspetto come un retaggio di un modello di Chiesa che nei
secoli ha via via sempre di più concentrato ogni decisione nelle mani del pa-
pa, istanza prima, oltre che ultima e unica, di autorità nella Chiesa.
Ma deve essere ancora così, anche in una Chiesa sinodale? Il papa, sen-
za dubbio, rimane l’istanza ultima nella Chiesa rispetto ad un processo di

18
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinodalità nella vita e nella missione
della Chiesa, 431.
19
Ibid., 422.

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discernimento ecclesiale, anche in ordine ad alcune questioni decisive in


campo ministeriale. D’altra parte va detto, però, che superando una eccle-
siologia di stampo universalistico, si è fatto chiaro come la Chiesa vive nel-
le e a partire dalle chiese particolari, al punto che ogni chiesa è luogo in cui
vive e cammina il popolo di Dio. Questo porta ad affermare che non solo
nelle chiese e a partire dalle chiese può realizzarsi il discernimento sui ca-
rismi, i ministeri e le vocazioni che lo Spirito distribuisce nella Chiesa; an-
cora di più, si deve affermare che ogni chiesa particolare ha il diritto e il
dovere di individuare – al di là del ministero ordinato e dei ministeri già
istituiti – quelli di cui ha bisogno per rispondere alle urgenze pastorali del
momento presente e che il vescovo, principio di unità della sua Chiesa, può
istituire in forza della «potestà propria, ordinaria e immediata» che ha nel-
la sua Chiesa (LG 27). In tal modo nelle e a partire dalle chiese particolari
viene garantita la ricchezza e varietà dei carismi e dei ministeri che servo-
no alla Chiesa; nella e a partire dalla Chiesa universale è garantito il prin-
cipio di unità, in virtù del quale il Vescovo di Roma istituisce solo quei mi-
nisteri che rispondono al principio dell’utilità per la Ecclesia universa, la-
sciando alle singole chiese la libertà di costruire, attorno al proprio vesco-
vo, un’articolazione di ministeri, secondo i bisogni riconosciuti.
Come fa notare Dario Vitali, un procedimento di questo genere è profon-
damente rispettoso di quello che è l’andamento dello stesso processo sino-
dale, che si sta muovendo attraverso un ascolto che prende forma anzitutto
presso il popolo di Dio, per passare poi ai livelli intermedi della sinodalità
con il discernimento dei pastori e approdare all’Assemblea ordinaria del Si-
nodo per un ulteriore momento di ascolto20. Questo modo di procedere non
è solo un esercizio temporaneo, ma un modo di essere Chiesa nel quale ad
agire è un movimento dello Spirito dal di dentro del corpo ecclesiale e non
per una qualche imposizione dall’alto. In questo movimento entra a pieno
titolo la questione dei ministeri, rimodulata a partire dalle chiese, dentro le
quali lo Spirito continua a suscitare nuove forme di diaconia in risposta al-
le urgenze che la Chiesa si trova ad affrontare.
In questa riconfigurazione della ministerialità complessiva di tutti i bat-
tezzati in un’ottica sinodale si può immaginare la costituzione di team pa-
storali per la conduzione della vita della comunità. In tal senso sarebbe

20
D. VITALI, I ministeri in una Chiesa sinodale. Oltre il modello tridentino. II, “La Ri-
vista del Clero Italiano” 103 (2022), 10, 679.

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plausibile una ricollocazione del ministero ordinato – il servizio di presi-


denza del presbitero e il ministero complementare del diacono – nel qua-
dro della vita comunitaria e di una più complessa articolazione di respon-
sabilità, evitando riduzionismi clericali o sacralizzanti. Questa opzione
aprirebbe a forme di governance cooperativa che faciliterebbe la maturazio-
ne di una spiritualità di comunione e metterebbe meglio in azione un’effet-
tiva cooperazione di tutti all’unica missione ecclesiale. In fondo non si trat-
ta di un’operazione di ridistribuzione di poteri, dando spazio a chi finora è
stato trascurato, o peggio di rivendicazione di ruoli nel corpo ecclesiale, ma
di una dinamica di vita ecclesiale adeguata alla missione della Chiesa in
questi tempi21.

4. La riforma delle strutture

Se la sinodalità mette in movimento una nuova figura di Chiesa, ne deriva


una esigenza inderogabile, che riguarda la riforma delle sue strutture. Non
è immaginabile, del resto, uno stile rinnovato di fare Chiesa che si attesti
esclusivamente sul piano dei “buoni sentimenti” o di “atteggiamenti nuo-
vi”, che tuttavia non arrivano a toccare e a rinnovare il livello strutturale
dei vissuti ecclesiali. Questi ultimi, del resto, non sono accessori all’espe-
rienza ecclesiale, ma rappresentano la forma mediante cui la Chiesa inter-
preta la sua presenza e la sua missione nella storia. Di qui l’esigenza di uno
stile di Chiesa sinodale che prenda coraggiosamente in carico la ri-forma
delle sue strutture. Si tratta evidentemente di un processo complesso, len-
to, ma necessario22.
È un processo che riguarda senza dubbio quel soggetto singolare che è
la Chiesa locale, porzione del popolo di Dio, che si raccoglie attorno al ve-
scovo nell’annuncio del Vangelo e nella celebrazione eucaristica, convoca-
ta dallo Spirito (cf. CD 11). E, all’interno di una Chiesa diocesana, le par-

21
S. NOCETI, Il processo di riconfigurazione della ministerialità in una Chiesa sinodale,
in LUCIANI – EAD., Sinodalmente, 192-193. Si veda pure L. TONELLO, I «ministeri laicali»
nel processo di recezione del Vaticano II, “Credere Oggi” 30 (2010), 1, 17-33; G. ZAMBON,
La sinodalità nella struttura ministeriale della Chiesa, in BATTOCCHIO – TONELLO (edd.),
Sinodalità. Dimensione della Chiesa, pratiche nella Chiesa, 35-56.
22
A. BORRAS, La sinodalità cattolica tra la Chiesa universale e la Chiesa locale, “Ephe-
merides Iuris Canonici” 62 (2022), 525-532.

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rocchie, che rappresentano l’accesso immediato all’esperienza ecclesiale


mediante forme plurali di appartenenza e di partecipazione e che restano il
luogo privilegiato dell’annuncio della Parola, della celebrazione dei sacra-
menti e dell’accompagnamento nell’esperienza della vita cristiana.
Considerando la vita di una diocesi con le sue strutture e la sua organiz-
zazione, emergono con una certa evidenza dei segnali piuttosto antisinoda-
li che invocano una riforma. Serena Noceti parla di gap sinodali che sono
come «barriere (mentali e di procedure) che impediscono la piena parteci-
pazione di parola e di azione di tutti. […] La mancanza di trasparenza, le
informazioni indebitamente riservate a pochi, la scarsa creatività nelle for-
me di comunicazioni, l’ascolto formale e di facciata che non recepisce real-
mente dolori, richieste, domande, alternative possibili, la cultura del segre-
to diffusa rendono le dinamiche comunicative […] inadeguate a una mag-
giore corresponsabilità anche dei laici, quando non veicolano una cultura
ecclesiale in contraddizione con le esigenze evangeliche»23. Tali questioni
vanno portate alla luce perché da queste possa avviarsi un cammino di con-
versione nello stile dell’essere Chiesa. Accanto agli atteggiamenti, ci sono
poi delle prassi pastorali che possono assumere meglio un profilo sinodale.
Si può fare riferimento alle visite pastorali del vescovo o alle lettere pasto-
rali. Le prime possono diventare sempre meglio occasioni di ascolto e di
confronto non solo con i “frequentatori abituali”, ma anche con quanti si ri-
conoscono ancora in una sorta di vita cristiana sebbene ne abbiano abban-
donato la pratica. Si intravedono qui possibilità per un discernimento ec-
clesiale che aiuti le stesse comunità ad evolvere verso pratiche più sinoda-
li, adottando logiche più partecipative ed eventualmente abilitando nuove
forme di ministerialità di cui quella comunità specifica ha bisogno. Simil-
mente per le lettere pastorali con cui il vescovo accompagna la vita di una
diocesi indicando le piste di lavoro, le attenzioni da avere, gli atteggiamen-
ti da maturare. In una logica di Chiesa sinodale, se è pur vero che in gene-
re una lettera pastorale prende forma sulla scrivania vescovile, è anche ve-
ro che gli antefatti della sua redazione potrebbero conoscere un passaggio
previo di ascolto e di coinvolgimento delle diverse espressioni ecclesiali di
una chiesa diocesana. Così come la consegna di una lettera pastorale, av-
viando un processo ecclesiale, ha bisogno successivamente di una forma di

23
EAD., Una Chiesa locale sinodale: la riforma delle strutture, in LUCIANI – EAD., Sino-
dalmente, 216.

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Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

restituzione della stessa comunità diocesana perché si generi una circola-


rità che fa progredire il cammino, senza generare una interruzione imme-
diatamente dopo la consegna. Questo stile mostra come le dinamiche comu-
nicative all’interno di un vissuto ecclesiale, per essere sinodali, devono rea-
lizzarsi attraverso un «sistema pluridirezionale di comunicazione» che co-
involga più soggetti con compiti differenti e faciliti il più possibile i proces-
si partecipativi.
In seno alla Chiesa locale, sul piano delle strutture, lo stile sinodale deve
poter interpellare anche una riforma della curia diocesana come pure degli
uffici pastorali e degli organismi di partecipazione. Questo perché tali stru-
menti, per facilitare il discernimento comunitario e il coordinamento della
vita diocesana, devono diventare sempre meglio contesti di promozione di
una autentica sinodalità. È evidente che, in questo processo di riforma del-
le strutture, l’istituto del sinodo diocesano rappresenta un contesto speciale
nel quale quanto andiamo dicendo trova una peculiare realizzazione.
In una Chiesa diocesana le parrocchie costituiscono una sorta di avam-
posto ecclesiale nel quale lo stile sinodale può/deve essere declinato. Sia-
mo consapevoli della storia e delle vicende che hanno caratterizzato la vi-
ta e gli sviluppi dell’istituzione parrocchiale, soprattutto dell’influsso deter-
minante svolto dalla risoluzione tridentina in merito alla strutturazione del-
la parrocchia. Non è facile smentire i guadagni che quel modello ha porta-
to per alcuni secoli della vita della Chiesa. Come pure non è difficile rico-
noscere che, dal Vaticano II in poi, la parrocchia tridentina ha conosciuto
una messa in questione cui è seguito un lento ma importante processo di
rinnovamento. La solidità e fermezza di quella strutturazione, tuttavia, ha
reso difficile un congedo radicale da quella impostazione, fenomeno questo
che ha rallentato la conversione del modello parrocchiale rispetto alle nuo-
ve sfide che avanzavano e oggi si registra una crisi della parrocchia che per
certi versi appare in affanno rispetto al proprio compito in un attraversa-
mento radicale di epoca come è quello che stiamo vivendo.
È piuttosto evidente che non si deve smarrire la breccia aperta dal rin-
novamento conciliare insieme al riconoscimento di coordinate che vengono
anche dal contesto socio-culturale e religioso nel quale viviamo. Siamo in
un tempo nel quale i processi di urbanizzazione hanno mutato il rapporto
con lo spazio e col tempo, come pure il riferimento ad un territorio. Lo stes-
so panorama attuale delle credenze mette in evidenza il ruolo del singolo in
ordine alla scelta di una appartenenza religiosa e alla forma con cui inter-
pretarla. Anche il pluralismo religioso e culturale con cui si connota la so-

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cietà attuale mettono in chiara evidenza la fine di un cristianesimo i cui


confini combaciavano con gli stessi della società. Questi elementi invoca-
no nuove dinamiche partecipative, come pure una riorganizzazione dei pro-
fili istituzionali perché diventino più capaci di pluralismo, di inclusione, di
senso di appartenenza.
In questa intersezione si colloca l’esigenza di un rinnovamento della par-
rocchia che ormai è improcrastinabile. Se si è ereditata una parrocchia cen-
trata essenzialmente sul clero, sulle attività di sacramentalizzazione e su di-
namiche centripete, la sfida della sinodalità domanda una conversione al-
la corresponsabilità ministeriale, alla priorità dell’evangelizzazione degli
adulti, al mettere in atto dinamiche ecclesiali di estroversione e di presen-
za vitale sul territorio, nelle case, nei luoghi dell’umano. Un modello del ge-
nere, evidentemente, non può reggersi su una struttura che muove dall’uno
(il parroco) e poi si allarga a forme limitate di collaborazione. Vanno piut-
tosto messe in azione dinamiche di partecipazione che vedano reali possi-
bilità di cooperazione di tutti, insieme all’esercizio di una ministerialità dif-
fusa e al ministero dell’uno (il parroco) che è custode del cammino sinoda-
le. Questo può diventare il contesto nel quale le soggettualità dei battezza-
ti possono trovare un debito riconoscimento, al punto che ciascuno può of-
frire la sua parola per la condivisione della fede comune nella comprensio-
ne del Vangelo e per esprimere la propria opinione e valutazione in merito
alle scelte pastorali da compiere. Come pure, questo può essere il contesto
nel quale maturano dinamiche di ascolto reciproco, che facilitano processi
di discernimento comunitario. In questa rete relazionale il ministero dell’u-
no non viene a perdersi o a confondersi. Al contrario l’asimmetria che ca-
ratterizza tali relazioni permette al ministro ordinato di promuovere queste
dinamiche comunicative molteplici che contribuiscono alla maturazione di
una più chiara coscienza ecclesiale e alla sua traduzione sul piano della vi-
ta comunitaria.

5. Chiesa sinodale e processi democratici

Un ulteriore tema che merita attenzione è il rapporto tra la figura di una


Chiesa sinodale e il carattere democratico di alcuni processi sociali e per
certi versi anche ecclesiali. «La Chiesa non è una democrazia», si è soliti
affermare da parte di qualcuno. E qualche altro risponderebbe che, se non
è una democrazia, non è neanche una monarchia. La questione, di fatto,

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non è nuova. L’immediato periodo postconciliare ha mostrato un interesse


non indifferente alla questione della democratizzazione della Chiesa. Vo-
lendo solo richiamare un riferimento ad un autore, potremmo evocare la do-
manda di Giuseppe Alberigo che, agli inizi degli anni ‘90, si chiedeva se
fosse almeno ipotizzabile una introduzione del modello democratico nella
Chiesa24. È evidente che non si tratta di assumere modelli e procedure de-
mocratiche ed “ecclesializzarle”, quanto piuttosto di verificare la possibi-
lità di somiglianze, di richiami tra democrazia e sinodalità per una eventua-
le feconda contaminazione. Anche questa operazione, in verità, non è di fa-
cile praticabilità, se si tiene conto del meccanismo di blocco messo in cam-
po con l’affermazione secondo cui la democratizzazione non è compatibile
con la natura della Chiesa. E ciò nonostante la storia della Chiesa possa
esibire non poche pratiche partecipative che richiamano con una certa evi-
denza logiche democratiche.
Senza dubbio quando si parla di democrazia ci si riferisce ad un sistema
politico, come anche all’organizzazione interna di un gruppo sociale e ai
processi messi in atto per articolare la volontà politica dei suoi membri. In
rapporto a questi elementi sono evidenti le differenze che contraddistinguo-
no il soggetto ecclesiale e il suo darsi sinodale. All’uguaglianza nella digni-
tà di tutti i battezzati corrisponde poi la pluralità di carismi, le relazioni ec-
clesiali si presentano in una forma asimmetrica. Diversa è pure la fonte del
potere: se nella democrazia è il popolo a rappresentarla, nella Chiesa è in-
vece il battesimo per tutti e il sacramento dell’ordine per coloro che sono
costituiti alla guida della comunità, non per una delega da parte del popo-
lo, ma per un atto sacramentale. Ancora, i processi di consenso nella Chie-
sa non seguono logiche di maggioranza, ma sono frutto di interazioni comu-
nicative che vedrebbero il coinvolgimento di tutti i battezzati. Insomma, le
differenze sono diverse e tutte piuttosto evidenti.
Questo, però, non significa che la Chiesa non possa riconoscere come un
guadagno per la propria figura sinodale alcuni procedimenti democratici,
che non snaturano la propria identità e la propria missione, ma che anzi va-
lorizzano pratiche partecipative già codificate. La corresponsabilità nella
vita della Chiesa dà una forma concreta alla logica comunionale, coinvol-

24
Cf. G. ALBERIGO, Ecclesiologia e democrazia. Convergenze e divergenze, “Concilium”
28 (1992), 5, 737; H. LEGRAND, Democrazia o sinodalità per la Chiesa? Convergenze rea-
li e divergenze profonde, “Ricerca” 5-6 (1996), 4-5 e 5-9.

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gendo tutti i battezzati nella pluralità e diversità delle identità di ciascuno.


Al contempo va riconosciuto come la stessa sinodalità possa esprimere
una forza profetica in rapporto alla crisi di partecipazione e di coinvolgi-
mento che oggi caratterizza la scena sociale e politica. Una Chiesa sinoda-
le può essere seme e germe per «una cultura dell’incontro e della solidarie-
tà, del rispetto e del dialogo, dell’inclusione e dell’integrazione, della gra-
titudine e della gratuità» (n. 118)25. Ancora il documento della CTI affer-
ma: «La pratica del dialogo e la ricerca di soluzioni condivise ed efficaci in
cui ci s’impegna a costruire la pace e la giustizia sono un’assoluta priorità
in una situazione di crisi strutturale delle procedure della partecipazione
democratica e di sfiducia nei suoi principi e valori ispirativi, col pericolo
di derive autoritarie e tecnocratiche»26. Questo chiede che le comunità cri-
stiane tornino a prendere la parola nello spazio pubblico, senza attestarsi
soltanto nella difesa di posizioni o nella ripresentazione di soluzioni già
pronte per ogni questione che si pone. «Entrare autenticamente nel dibat-
tito pubblico significa lasciarsi sorprendere e convertire dal Vangelo pre-
sente anche dove non ce lo aspettiamo»27. I processi sinodali in atto do-
vranno condurre le comunità cristiane a sapersi collocare ai crocevia tra il
dentro e il fuori, tra l’alto e il basso, senza paura di prendere posizioni nel-
la società democratica e coscienti di poterlo fare con la forza del Vangelo
che è parola viva per ogni uomo e per ogni tempo.

Vito Mignozzi
Facoltà Teologica Pugliese
([email protected])

25
COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, La sinodalità nella vita e nella missione
della Chiesa, 456.
26
Ibid., n. 119.
27
D. HORAK, Sinodo, democrazia, opinione pubblica, “Credere Oggi” 42 (2022), 1, 95.

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Una Chiesa sinodale nei contesti socio-culturali attuali

ABSTRACT

UNA CHIESA SINODALE


NEI CONTESTI SOCIO-CULTURALI ATTUALI

Il processo sinodale, che sta interessando la Chiesa universale in vista della ce-
lebrazione del prossimo Sinodo dei Vescovi, ha sollecitato una rinnovata atten-
zione alla questione della sinodalità quale stile che deve caratterizzare l’essere
e l’agire della Chiesa. L’attualità del tema emerge con particolare forza se si
prendono in considerazione i principali tratti socio-culturali caratterizzanti l’epo-
ca attuale e il loro impatto sull’esperienza credente nonché sull’istituzione Chie-
sa. In ragione di ciò, il presente studio prova a delineare la cornice contestuale
all’interno della quale la sinodalità costituisce un elemento strutturante il modo
di essere della comunità dei credenti e dei singoli battezzati nel tempo che vi-
viamo. La forma sinodale della Chiesa chiama in causa il principio di correspon-
sabilità esistente tra i christifideles, che trova una forma peculiare di realizzazio-
ne nell’esercizio di una ministerialità plurale e differenziata. D’altro canto l’appel-
lo ad una conversione sinodale della Chiesa chiede pure un impegno di riforma
delle sue strutture.

A SYNODAL CHURCH
IN CONTEMPORARY SOCIO-CULTURAL CONTEXTS

The synodal process in which the universal Church is involved in view of the cel-
ebration of the next Synod of Bishops, has called for renewed attention to the
question of synodality as a style which must characterize the being and the ac-
tion of the Church. The topicality of the theme emerges with particular force if
we take in consideration the main socio-cultural traits characterizing the current
era and their impact on the believing experience as well as on the institution of
the Church. For this reason, the present study tries to outline the contextual
framework within which synodality constitutes a structuring element of the way
of being of the community of believers and of baptized individuals in the times
we live. The synodal form of the Church calls into question the principle of co-
responsibility existing among the christifideles, which finds a particular form of
realization in the exercise of plural and differentiated ministeriality. On the other
hand, the call for a synodal conversion of the Church also calls for a commit-
ment to reform its structures.

Keywords: Secularization; Synodality; Co-responsibility; Ministries; Reform;


Democracy

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UUJ
ARTICOLI

Salvatore Currò
La qualità della diaconia ecclesiale:
reciprocità, comune umanità e risonanza del Vangelo

Antonino Drago
Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità.
Il libro Introduzione alla vita interiore di Lanza del Vasto

Jean Yawovi Attila


Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

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Salvatore Currò

LA QUALITÀ DELLA DIACONIA ECCLESIALE


RECIPROCITÀ, COMUNE UMANITÀ
E RISONANZA DEL VANGELO

Introduzione – 1. Diaconia e reciprocità (o sinodalità) – 2. Diaconia e comune umanità –


3. Diaconia e risonanza del Vangelo

Parole chiave: diaconia; evangelizzazione; reciprocità; sinodalità; comune umanità; Van-


gelo; risonanza; dilemma; sensibilità

Introduzione

La diaconia è una specifica e costitutiva dimensione dell’agire ecclesiale,


che comprende: la testimonianza della carità; il servizio ai poveri; l’impe-
gno sociale, educativo e culturale; le attività di promozione della pace, del-
la giustizia, dell’ecologia integrale e della fraternità sociale. Essa è connes-
sa con le altre dimensioni dell’agire della Chiesa (vive di esse e ad esse rin-
via): l’annuncio e il servizio della Parola, la celebrazione e la vita sacra-
mentale, la promozione della comunione ecclesiale. Ciascuna dimensione
costituisce una buona chiave di ingresso per cogliere il senso della vita e
della missione della Chiesa. La chiave della diaconia dice più immediata-
mente l’estroversione della Chiesa, la sua apertura a tutti, il suo desiderio
di essere a servizio. La Chiesa, infatti, non è centrata su se stessa ma, co-
me ebbe a dire Paolo VI a conclusione del Vaticano II quasi sintetizzando-
ne i lavori, è serva dell’umanità1.

1
«Tutta questa ricchezza dottrinale [quella del Concilio] è rivolta in un’unica direzio-
ne: servire l’uomo. L’uomo, diciamo, in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni
sua necessità. La Chiesa si è quasi dichiarata l’ancella dell’umanità, proprio nel momen-
to in cui maggiore splendore e maggiore vigore hanno assunto, mediante la solennità con-
ciliare, sia il suo magistero ecclesiastico, sia il suo pastorale governo: l’idea di ministero
ha occupato un posto centrale» PAOLO VI, Allocuzione nell’ultima sessione pubblica del
Concilio ecumenico Vaticano II, 7 dicembre 1965 [https://www.vatican.va/content/paul-
vi/it/speeches/1965/documents/hf_p-vi_spe_19651207_epilogo-concilio.html; https://ar-
chive.is/BJcM2].

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1/2023 ANNO LXXVI, 131-144 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Il cammino ecclesiale postconciliare ha fatto spesso leva sulla diaconia


per ridare slancio e credibilità all’evangelizzazione e a tutta la vita e mis-
sione della Chiesa. La prospettiva del servizio si coglie, ad es., nelle preoc-
cupazioni messe a tema negli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana.
Si pensi, per soffermarci sugli ultimi decenni, allo sforzo di pensare la te-
stimonianza della carità nel cuore dell’evangelizzazione2, al desiderio di
misurarsi con i cambiamenti culturali e di pensare in rapporto ad essi la
missione evangelizzatrice3, al tentativo di situare la pastorale ecclesiale in
una prospettiva educativa e a servizio della crescita di tutti4. Su questo
cammino si sono inserite le insistenze di Papa Francesco sulla conversione
missionaria della pastorale e sulla Chiesa in uscita (Evangelii Gaudium),
come anche gli inviti a pensare l’evangelizzazione in rapporto alla cura e
alla custodia della casa comune (Laudato si’) e in rapporto al compito di
costruire una umanità fraterna (Fratelli tutti). È in gioco, sia pur con toni e
accentuazioni diverse, il servizio ecclesiale all’umanità.
Il percorso è stato segnato da tante oscillazioni e ricerche di equilibri: tra
il centramento della Chiesa su se stessa e il suo decentramento sull’umani-
tà e sul Regno di Dio; tra le preoccupazioni per l’identità cristiana ed ec-
clesiale e il desiderio di lasciarsi raggiungere dalle sfide sociali e cultura-
li. Le oscillazioni sono state anche sui modi di intendere il servizio eccle-
siale. Un forte peso hanno avuto le provocazioni culturali e le reazioni ec-
clesiali ad esse, a volte improntate alla paura e alla nostalgia del passato,
altre volte alla speranza e alla fiducia nel futuro. Non ci interessa, qui, ren-
dere conto della varietà e complessità del percorso postconciliare; ci inte-
ressa mettere a fuoco qualche provocazione attuale per la riqualificazione
del senso della diaconia e del servizio ecclesiale in quanto tale. In effetti,
il «cambiamento d’epoca», di cui parla spesso Papa Francesco5, interpella
il senso stesso dell’evangelizzazione, della vita e della missione della Chie-
sa; non soltanto la diaconia come dimensione specifica ma il servire eccle-

2
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Evangelizzazione e testimonianza della carità,
Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni ‘90, 8 dicembre 1990.
3
EAD., Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Orientamenti pastorali per il
primo decennio del 2000, 29 giugno 2001.
4
EAD., Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’Episcopato ita-
liano per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010.
5
Cf. ad es. FRANCESCO, Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù, Incontro con i rappresentan-
ti della Chiesa italiana, Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015.

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La qualità della diaconia ecclesiale

siale in quanto tale. Tenteremo, qui, di far emergere, in una prospettiva cul-
turale e antropologica, tre sfide; esse hanno a che fare: con l’istanza della
reciprocità (o sinodalità) (1), con la necessità di abitare la comune umani-
tà (2), con la provocazione a far risuonare il Vangelo (3). Sono strettamen-
te connesse tra loro; sono forse tre modi di dire un’unica sfida.

1. Diaconia e reciprocità (o sinodalità)

L’istanza della sinodalità, cioè di camminare insieme, che si fa recentemen-


te strada nella comunità ecclesiale e nella sua pastorale, anche e soprattut-
to per una forte spinta di Papa Francesco6, si esprime come esigenza di cor-
responsabilità, di discernimento comune, di porsi insieme di fronte alle sfi-
de, di collegialità nelle decisioni, di lavoro in rete, di riconoscimento della
soggettività e del protagonismo di tutti. Essa rinvia ultimamente a una con-
versione mentale e spirituale, in particolare alla capacità di qualificare le
relazioni nel segno della reciprocità e nell’apertura a incontri veri. Tale
istanza, in realtà, non è solo ecclesiale ma riflette una più ampia istanza cul-
turale. L’esigenza di reciprocità e di cammino insieme è molto diffusa, e a
dire il vero anche molto frustrata, nei vari ambiti di vita: familiare, sociale,
educativo, politico, amicale, e perciò anche ecclesiale, pastorale. Difficile
da realizzarsi nella e per la complessità del nostro tempo, troppo spesso dis-
attesa, essa sempre riemerge, a tal punto che una evangelizzazione attenta
a incrociare la nostra cultura, avverte di doversi misurare seriamente con
essa. La sfida è, in sintesi, di imparare o di riscoprire il “con”, in tutte le

6
Una decisa spinta verso la sinodalità Francesco l’ha data in occasione del 50° anni-
versario dell’istituzione del Sinodo dei Vescovi, affermando con decisione: «Il cammino
della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», Discor-
so in occasione della Commemorazione del 50º anniversario dell’istituzione del Sinodo dei
Vescovi, 17 ottobre 2015. Questa affermazione ha costituito il punto di avvio della rifles-
sione della Commissione teologica internazionale (La sinodalità nella vita e nella missio-
ne della Chiesa, 2 marzo 2018, 1). Il Sinodo del 2018, su I giovani, la fede e il discerni-
mento vocazionale, ha avuto una grande importanza per l’approfondimento e il rilancio
della sinodalità, e ha influito molto sulla scelta di celebrare il prossimo Sinodo sul tema
«Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione» (cf. R. SALA, Pastorale
giovanile 2. Intorno al fuoco vivo del Sinodo. Educare ancora alla vita buona del Vangelo,
invito alla lettura di Papa Francesco, rilancio del cammino di G. COSTA, Elledici, Torino
2020, 327-336; è il capitolo dal titolo: «L’idea di sinodalità missionaria. Dal Sinodo sui
giovani a quello sulla sinodalità»).

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relazioni, ecclesiali, pastorali o sociali; anche in quelle che sembrerebbero


avere una unilateralità buona, come quella del servire e dell’evangelizzare.
Quando tale istanza qualifica le relazioni umane, queste diventano rive-
lative delle nostre identità e delle ricchezze di cui siamo portatori. L’agire e
il discorso, che, per la filosofa Hannah Arendt, tessono la trama dell’uma-
no, implicano una certa interruzione dell’intenzionalità e un rischio di espo-
sizione, che si danno precisamente nel “con”; in tal modo essi diventano ri-
velativi della nostra identità (perché, in fondo, non sappiamo da soli chi sia-
mo) e quindi anche di ciò di cui siamo portatori. «Questa capacità di rive-
lazione del discorso e dell’azione – sottolinea la Arendt – emerge quando si
è con gli altri; non per, né contro altri, ma nel semplice essere insieme con
gli altri»7. Il “con” è dunque meglio del “per” e del “contro” e, al di là del-
le apparenze, il “semplice essere insieme con gli altri” non sarebbe affatto
semplice, perché implica un rischio, una esposizione. A pensarci bene, il
“per” e il “contro” sono in genere più facili; il “con” è più difficile.
Questo elogio del “con” vale anche per la diaconia ecclesiale? E vale, in
genere, per tutta l’evangelizzazione? O forse queste sono esonerate dalla re-
ciprocità del “con”? In realtà, l’istanza ecclesiale della sinodalità va emer-
gendo sempre di più anche laddove l’esigenza evangelizzatrice si manifesta
più forte. È significativo, ad es., che l’istanza sia emersa fortemente nel Si-
nodo sui giovani, laddove era questione di evangelizzazione ed educazione
dei giovani, e di «desiderio di raggiungere tutti i giovani»8. Il Documento
finale del Sinodo ha situato le proposte pastorali nell’orizzonte della «sino-
dalità missionaria»9; l’Esortazione apostolica Christus Vivit, ha ripreso l’o-
rizzonte orientando su una «pastorale sinodale»10. Con i giovani, e non per
i giovani: non è solo uno slogan, ma dice un’istanza radicale di rottura con
l’unilateralismo, ad intra e ad extra per così dire, anzi al di là della distin-
zione (o del dualismo) intra-extra. L’esigenza di rottura dell’unilateralità at-
traversa tutti i processi ecclesiali-missionari e mette in guardia nei confron-
ti di diversi fenomeni: il clericalismo; l’esclusione, spesso sottile ma reale,

17
H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, intr. di A. DAL LAGO, tr. di S. FINZI,
Bompiani, Milano 2012, 131.
18
SINODO DEI VESCOVI – XV ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA: I GIOVANI, LA FEDE E IL DI-
SCERNIMENTO VOCAZIONALE, Documento finale, 28 ottobre 2018, 117.
19
Ibid., 118.
10
Christus Vivit, Esortazione apostolica postsinodale ai giovani e a tutto il popolo di
Dio, 25 marzo 2019, 203.

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La qualità della diaconia ecclesiale

dei più giovani, delle donne, talvolta dei laici in genere, dai processi deci-
sionali; l’emarginazione dei più poveri, dei meno appartenenti all’esperien-
za ecclesiale, ecc. Le relazioni pastorali e di evangelizzazione non devono
certo rinunciare alla propositività (che è insita all’evangelizzazione), né al-
la asimmetria (insita alle esperienze educative, catechistiche e pastorali in
genere), né al senso del dono e del dono gratuito (ad es. nel servizio dei più
poveri). Ma, a pensarci bene, queste istanze si manifestano nel loro vero
senso se la relazione assume il tono della reciprocità, cioè del “con”, e se
rimane aperta all’evento.
Reciprocità non significa appiattimento delle differenze. Si è davvero in
relazione se ci si scambia dei doni. Se è vero che bisogna dare (a seconda
delle situazioni: il Vangelo, il pane, l’amicizia, la cultura etc.), è anche ve-
ro che bisogna saper ricevere (ad es., dal punto di vista di un educatore o
operatore pastorale: sensibilità e idee nuove, punti di vista più radicati
nelle situazioni di vita, interpretazioni nuove della comunità cristiana e
del Vangelo stesso). C’è qualcosa di paradossale e sconvolgente in un’au-
tentica azione evangelizzatrice o di diaconia: colui che riceve un aiuto
vuole anche dare, a volte desidera dare più che ricevere; a volte il dono
più grande che gli si può fare è di saper ricevere. Quando annunciamo il
Vangelo, soprattutto ai poveri o a coloro che sono più distanti dall’espe-
rienza ecclesiale, magari in luoghi decentrati rispetto a quelli della comu-
nità ecclesiale, possiamo sperimentare che il Signore ci precede e possia-
mo avvertire di ricevere noi stessi il dono del Vangelo, proprio mentre lo
annunciamo e proprio da coloro a cui lo annunciamo11. L’evangelizzazione
è nel segno dello scambio dei doni e, proprio per questo, nel segno della
grazia. Se, infatti, si rompe l’unilateralità, se si sa anche ricevere mentre
si dà, la relazione sprigiona il suo carattere di evento e si apre lo spazio
dell’iniziativa di Dio. In fondo, Dio è sempre all’opera in ogni situazione e
nel cuore di ogni persona. Non è forse vero che le comunità cristiane, cre-
sciute un po’ nella capacità di accogliere, sono chiamate a crescere anche
nel ricevere e nel lasciarsi accogliere? E non è forse vero che l’evangeliz-
zazione, in tutte le sue espressioni, deve evitare i rischi del neopelagiane-
simo e attuarsi nel segno della grazia12?

11
Papa Francesco insiste spesso su questi aspetti (v. ad es. Discorso ai partecipanti al
Congresso internazionale sulla catechesi, 27 settembre 2013).
12
V. EG 94.

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La relazione non è dunque il presupposto dell’evangelizzazione ma si ra-


dica nel cuore di essa. L’incontro con l’altro, un vero incontro, è la possibi-
lità che si nasconde in ogni relazione. E un vero incontro ha profondamen-
te a che fare con l’incontro con Cristo. Se è vero che la vita cristiana comin-
cia dall’incontro con Cristo, e non da una decisione etica o da una grande
idea13, è vero anche che l’incontro con Cristo (in tutte le sue espressioni,
anche quella sacramentale) ha un misterioso intreccio con la verità delle
relazioni ecclesiali, di servizio, di evangelizzazione. La Chiesa, che pure è
impegnata a rinnovarsi secondo una mentalità sinodale, fa spesso ancora fa-
tica a riconciliarsi con la verità umana e di fede dell’incontro, con la gra-
tuità, la trascendenza e la grazia, che sono iscritte in un vero incontro14. Le
stesse espressioni di “sinodalità missionaria” o “pastorale sinodale, sopra
richiamate, che pure guidano la pastorale e vanno aprendo nuovi orizzonti,
sottendono spesso una concezione strumentale dell’incontro. La missione
rimane, così, sottilmente unilaterale come se noi, come cristiani, come
Chiesa, ne fossimo il soggetto principale o come se l’iniziativa partisse da
noi. In realtà quando la nostra iniziativa sa ospitare l’iniziativa dell’altro (e
lasciarsi anche interrompere) si apre la possibilità di aprirsi al dono e all’i-
niziativa di Dio15.

2. Diaconia e comune umanità

Un cammino comune, di reciprocità, di riconoscimento della soggettività di


tutti, implica che tutti avvertano le stesse sfide e sentano di abitare lo stes-
so terreno. Tale terreno è al di qua dell’essere credenti o non credenti, ap-

13
«All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, ben-
sì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e
con ciò la direzione decisiva», BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, Lettera enciclica sull’a-
more cristiano, 25 dicembre 2005. Questo testo è ripreso spesso da FRANCESCO, ad es. in
Christus Vivit, 129.
14
Rinvio a S. CURRÒ, Giovani, Chiesa e comune umanità. Percorsi di teologia pratica
sulla conversione pastorale, pref. di E. FALQUE, Elledici, Torino 2021, 75-100 (è il capito-
lo su «Gratuità, trascendenza e grazia dell’incontro»).
15
Interessante il tentativo di R. REPOLE di ripensare radicalmente la missione eccle-
siale nella prospettiva del dono (La chiesa e il “suo” dono. La missione fra teo-logia ed ec-
clesiologia, Queriniana, Brescia 2019).

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La qualità della diaconia ecclesiale

partenenti o non appartenenti alla Chiesa, senza che ciò significhi sminui-
re il senso della fede e dell’appartenenza ecclesiale. Se la missione eccle-
siale si canalizza unicamente sulla finalità di favorire l’esperienza di fede
e l’appartenenza ecclesiale, rimane modulata su una sfida che, in fondo, è
avvertita solo dai cristiani e abita un terreno che non è di tutti, ma solo di
coloro che hanno una qualche disponibilità, sia pur problematica, a misu-
rarsi con la fede. In quest’ottica, sottilmente attraversata da nostalgia di cri-
stianità, la diaconia subisce una restrizione di senso: è ciò su cui far perno
per suscitare apertura al Vangelo; è annuncio attraverso i gesti laddove c’è
resistenza nei confronti della parola che dice la fede; è, nella peggiore del-
le ipotesi, ciò che rimane possibile fare alla Chiesa in un contesto secola-
rizzato e indifferente alla fede.
Non bisogna decurtare il senso della missione ecclesiale. Essa non si ri-
duce all’annuncio del Vangelo e nemmeno ad azione sociale. Si tratta si si-
tuarla in un orizzonte che non sia intraecclesiale e, a pensarci bene, la
preoccupazione per l’evangelizzazione rimane preoccupazione ecclesiale,
non di tutti. L’orizzonte di tutti è evocato dal testo di apertura della Gau-
dium et Spes, ben conosciuto ma che deve ancora sprigionare tutta la sua
forza ispiratrice: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uo-
mini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure
le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nul-
la vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Ciò im-
plica sentire la comunità dei cristiani «realmente e intimamente solidale
con il genere umano e con la sua storia» (GS 1). La comunità cristiana non
è di fronte alla società, ma si realizza nel cuore della comunità sociale. I di-
scepoli di Gesù operano dall’interno stesso delle esperienze di vita, come
luce e lievito, sentendosi in cammino con tutti. Si vanno forse sciogliendo
le barriere ideologiche.
Le differenze in ordine all’esperienza di fede sono ricondotte alle sfide
comuni e alla comune umanità. Si levano sempre più voci laiche che si in-
terrogano sulle risorse del cristianesimo per il futuro dell’umanità16. C’è
la possibilità di superare dei dualismi ancora molto radicati, a partire da
quello fede-vita o vangelo-cultura, come se si trattasse di entità separate
che vanno poi integrate. Un segno del superamento dei dualismi e dei mu-

16
Cf. ad es. F. JULLIEN, Risorse del cristianesimo. Ma senza passare per la via della fe-
de, tradotto da M. GARZILLO – V. OSTUNI, Ponte alle Grazie, Milano 2019.

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ri ideologici è la testimonianza stessa di Papa Francesco. È curioso nota-


re come i suoi gesti e le sue parole raggiungano tanti al di là (o al di qua)
del loro essere credenti o non credenti. Le sue provocazioni sono spesso
umane ed evangeliche allo stesso tempo. Può capitare che trovino alcune
resistenze tra i cristiani e una accoglienza più significativa tra i non cri-
stiani o tra i credenti di altre religioni o tra i non credenti. È come se egli
ci mettesse di fronte a sfide comuni e come se il Vangelo fosse, di fatto,
una provocazione per tutti e come se ci provocasse sulla verità della no-
stra umanità.
Con particolare riferimento alla comunità cristiana, la provocazione di
Francesco si pone a due livelli. Il primo è rappresentato, in modo partico-
lare, dalla Evangelii gaudium. Francesco spinge la Chiesa alla conversio-
ne missionaria e a costituirsi come Chiesa in uscita17; a misurarsi con le
grandi sfide del nostro tempo18; ad evidenziare la dimensione sociale del-
l’evangelizzazione19. In tal modo la Chiesa è chiamata a farsi samaritana,
ospedale da campo, segno di misericordia per gli esclusi, capace di abita-
re le periferie esistenziali, capace di suscitare rinnovamento a partire dal-
le periferie, ecc. (temi che ritornano in tanti interventi del Papa). Ma la pro-
vocazione del Papa alla Chiesa si pone su un livello ancora più radicale,
che si riferisce all’orizzonte della missione ecclesiale e che è rappresenta-
to dalle encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti. Queste encicliche non sono
solo un invito a tener viva la dimensione sociale della fede e dell’evange-
lizzazione. Esse possono (e forse debbono) essere accolte come un invito a
dare all’evangelizzazione e alla missione stessa della Chiesa l’orizzonte del-
la comune umanità. Viviamo, certo da cristiani, ma nella casa di tutti, e,
con tutti, condividiamo la chiamata a farci custodi e responsabili della ter-
ra (Laudato si’). Condividiamo, ancora, con tutti, la sfida a costruire frater-
nità a amicizia sociale (Fratelli tutti).
La testimonianza cristiana, in tale orizzonte, non si indebolisce, ma ha
opportunità di riqualificarsi: si apre a riconoscere le tracce di Dio nel cuo-
re della terra e della storia; riscopre il senso escatologico della fede, cioè
di un Dio che ci viene incontro (anche da fuori della comunità cristiana, dal
futuro, dal cuore di ogni persona); si impegna a ricomprendere e riannun-

17
EG 20-24.
18
Si veda il capitolo secondo della EG.
19
Si veda il capitolo quarto della EG.

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ciare il Vangelo a partire dalle sfide e dalle tracce dell’opera di Dio, spri-
gionandone tutta la carica di promessa e di dono20. La sfida, per la comu-
nità cristiana, sarebbe, dunque, di pensare l’evangelizzazione non solo nel-
la prospettiva della Evangelii Gaudium (la Chiesa in uscita) ma anche e
prima di tutto nella prospettiva della Laudato si’ e della Fratelli tutti (del-
la casa comune, della comune appartenenza all’umanità)21. Tale ricompren-
sione è possibile a partire dalla diaconia.
Non bisogna sforzarsi troppo a sentirsi co-appartenenti e abitanti dello
stesso mondo. Lo siamo già. Si tratta di una riconciliazione o di una resa,
più che di una conquista. Si tratta di arrendersi ai legami che di fatto ci co-
stituiscono, che, possiamo dire, intrecciano (collegano) i nostri corpi, che
lo vogliamo o no. Possiamo ignorare tali legami solo a condizione di diven-
tare insensibili. Ma se ci arrendiamo alla nudità dell’esistenza o, positiva-
mente, se ci riconciliamo con essa, emerge la coappartenenza sensibile e si
impone un richiamo di fraternità, iscritto, per così dire, nella pelle. La pan-
demia ha portato a manifestazione questo piano più radicale e Francesco lo
evidenzia:

Una tragedia globale come la pandemia del Covid-19 ha effettivamen-


te suscitato per un certo tempo la consapevolezza di essere una comu-
nità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno va a
danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si
può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che «la tempesta
smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e super-
flue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri pro-
getti, le nostre abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il
trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre

20
Interessanti, in questo senso, gli approfondimenti biblici sul «Vangelo della creazio-
ne» (nel capitolo secondo della LS) e su «un estraneo sulla strada», cioè sulla parabola
del buon samaritano (nel capitolo secondo della FT). Essi sono in un orizzonte per cui pos-
sono risultare davvero significativi per tutti, a cominciare dai cristiani; nei non cristiani
possono suscitare il senso della forza del Vangelo in rapporto alla verità dell’esistenza.
21
Si tenga presente LS 3, dove Francesco spiega, marcando la differenza tra questa En-
ciclica e l’Esortazione apostolica EG, di volersi rivolgere a tutti. Lo può fare, evidente-
mente, perché assume una sfida di tutti e perché abita il terreno di tutti: «Nella mia Esor-
tazione Evangelii gaudium, ho scritto ai membri della Chiesa per mobilitare un processo
di riforma missionaria ancora da compiere. In questa Enciclica, mi propongo specialmen-
te di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune».

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preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una


volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possia-
mo sottrarci: l’appartenenza come fratelli»22.

La comune appartenenza e l’intercorporeità attraversata dalla chiamata


alla fraternità, sono l’orizzonte più propizio perché la Chiesa ritrovi conti-
nuamente il senso della sua missione. Tale orizzonte si fa strada nella e a
partire dalla diaconia. La Chiesa è così chiamata: a riconoscere la carne di
Cristo nella carne dei fratelli, dei poveri in particolare; a ricomprendersi
corpo di Cristo, lasciando trasparire il suo orizzonte sacramentale; a modu-
larsi sempre di più sulla Rivelazione segnata dall’incarnazione e dalla pas-
sione, morte e risurrezione di Cristo nel suo vero corpo. Tale orizzonte, oriz-
zonte corporeo e sensibile, è anche l’orizzonte di cui il Vangelo ha bisogno
per risuonare in verità, sia per chi già crede sia per chi è invitato a credere.

4. Diaconia e risonanza del Vangelo

La comune umanità non è orizzonte indifferenziato e neutro, ma è segnata da


fondamentali e concrete differenze. Abitiamo la terra prendendo posizione,
nel senso letterale del termine, cioè assumendo una posizione corporea. Ci
co-apparteniamo sensibilmente, nel senso, anche qui molto concreto, che vi-
viamo vedendo, ascoltando, toccando ecc. Siamo, che lo vogliamo o no e che
lo sappiamo o no, sempre già posizionati, sempre nella possibilità o meno di
toccare, ascoltare, vedere, ciò che ci sarebbe da toccare, ascoltare e vedere:
dal bisogno del fratello al grido della terra, alla voce di Dio. Siamo sensibi-
li prima che coscienti e impegnati in attività di coscienza. La coscienza vi-
ve di sensibilità; talvolta può tentare di anestetizzare la sensibilità giustifi-
cando una posizione che di fatto non permette di vedere, ascoltare e tocca-
re, giustificando quindi l’indifferenza23. Si dà, in ciascuno, una disponibili-
tà o chiusura di fondo in ogni situazione, proprio perché posizione e sensi-
bilità non sono neutri. Sono segnati, piuttosto, dalla differenza, e cioè da un

22
FT 32. Francesco riprende quanto aveva affermato nel Momento straordinario di pre-
ghiera in tempo di epidemia, Roma, Piazza S. Pietro, 27 marzo 2020.
23
Papa Francesco, in rapporto ai grandi problemi del nostro tempo, mette spesso in
guardia dai rischi, tra loro connessi, della globalizzazione dell’indifferenza, dell’insensi-
bilità, dell’anestesia delle coscienze (v. ad es.: EG 53 e FT 275).

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La qualità della diaconia ecclesiale

dilemma che si può avvertire bene solo alla prima persona: rimango chiuso
o mi apro? Rimango impermeabile o mi lascio raggiungere? sensibile o in-
sensibile? Mi posiziono in modo da vedere e lasciarmi vedere o rimango
pauroso e ripiegato sul mio mondo? Nel concreto non si dà una terza via24.
L’orizzonte della fede segna l’umanità in tutta la sua ampiezza e profon-
dità, intercetta la differenza, la manifesta in tanti modi. È la differenza tra
il rispondere a Dio e il fuggire da Lui (si pensi alla vicenda di Giona, nel-
l’omonimo libro della Bibbia), tra l’essere uniti a Cristo che è la vite e l’es-
sere un tralcio staccato che non porta frutto (cf. Gv 15, 5-6), tra l’essere sul-
la via del bene, cioè della vita, e l’essere sulla via del male, cioè della mor-
te (cf. Ger 21, 8). La differenza, nella mentalità cristiana, è connessa col
fatto che Cristo è segno di contraddizione o pietra di inciampo, motivo di
caduta o di risurrezione (cf. Lc 2, 34). E lo è, in un modo o nell’altro, per
tutti. Lo si avverte, innanzitutto, su un piano sensibile, corporeo, preco-
sciente. Il «sensus fidei», l’«istinto della fede», che aiuta i cristiani «a di-
scernere ciò che viene realmente da Dio»25, proprio per questo, apre il cuo-
re (e quindi gli occhi e la mente) sulla differenza e fa luce su di essa; allo
stesso tempo vive di essa, dell’essere posizionati in essa. La fede è, certo,
anche interpretazione e visione della vita, ma la visione è connessa con la
posizione. Se l’interpretazione fa la differenza tra i cristiani e i non cristia-
ni, la posizione fa la differenza nel cuore della comune umanità. La posi-
zione, d’altra parte, è intimamente connessa con la fede, apre o chiude a
Dio, invera o vanifica il rapporto con Cristo.
In ambito ecclesiale, ed anche in ambito teologico (o teologico-pastora-
le), ci si preoccupa molto di rapportare l’umano alla fede, ma come se l’u-
mano fosse neutro. L’umano, invece, è sempre nel dilemma del veramente
umano o del falsamente umano (o disumano); e tale dilemma diventa sem-
pre più acuto nel nostro tempo, anche in rapporto alla questione della fede.
La comunione con Cristo ci dà luce per il discernimento (tra l’umano e il
disumano) ma perché, prima di tutto, ci posiziona e ri-posiziona continua-
mente dalla parte del veramente umano26. In Cristo si manifesta l’umano in

24
Ho cercato di rendere conto di una comprensione dell’umano nel segno della diffe-
renza e del dilemma in Giovani, Chiesa e comune umanità, 279-290 (il capitolo su «Il di
più o il proprio dell’umano»).
25
EG 119.
26
Proprio secondo quanto dice GS 1 nel passo già ricordato: «Nulla vi è di genuina-
mente [vere, in latino] umano che non trovi eco nel loro cuore [dei discepoli di Gesù]».

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verità, non, prima di tutto, perché ci è data una dottrina dell’umano o l’es-
senza dell’umano, ma perché ci è data e continuamente ridata la grazia del-
la comunione coi sentimenti, con gli atteggiamenti (con le posizioni) di Ge-
sù: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2, 5)27. Per
questa via, non ideologica, ma di posizionamenti e riposizionamenti conti-
nui, di umiltà, di cadute e riprese continue del cammino, i cristiani hanno
il compito di tener vivi i dilemmi e di essere correttamente posizionati: dal-
la parte dell’umano (del veramente umano) non del disumano, del bene non
del male, della verità non della menzogna, della vita non della morte, del
Dio che ci viene incontro e non della chiusura a Lui. La diaconia è, in que-
sto senso, l’avanguardia di una vita cristiana ed ecclesiale sempre sensibi-
le alla differenza tra il veramente umano e il disumano.
Papa Francesco segnala, a più riprese, che la partita si gioca, per tutti, su
questa differenza. Lo fa con il linguaggio evangelico del «“Sì, sì”, “No,
no”» (Mt 5, 37), che evoca una differenza di posizionamento, prima che
ideologica, e che ritorna in tanti interventi: sì alla cultura dell’incontro, no
alla cultura dei muri; sì a guardare alla vita dalla prospettiva dei poveri e
dalla periferia, no alla cultura dello scarto; sì a una economia solidale, no
al dio denaro; sì al dialogo, no al monologo; sì al dono di sé, no alla custo-
dia gelosa della propria vita28. Questa è la prima differenza, quella della co-
mune umanità, quella trasversale a tutti, quella che ci provoca nei diversi
luoghi di vita e che ci impegna a porre segni di vera umanità. È in questi
luoghi e a partire da questi segni che i cristiani esprimono la differenza cri-

27
Su questa scia si pone l’invito di Papa Francesco alla Chiesa italiana: «Non voglio
qui disegnare in astratto un “nuovo umanesimo”, una certa idea dell’uomo, ma presenta-
re con semplicita alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che e quello dei “sentimenti di
Cristo Gesu” (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rap-
presentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni»,
Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù, Incontro con i rappresentanti della Chiesa italiana, Fi-
renze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore, 10 novembre 2015.
28
Nel capitolo secondo di EG il Papa si impegna in un «discernimento evangelico»
(50). Si tratta di leggere i processi del nostro tempo, riconoscendo quelli che sono secon-
do il progetto del Regno e quelli disumanizzanti. Tutto ciò – sottolinea Francesco - «im-
plica non solo riconoscere e interpretare le mozioni dello spirito buono e dello spirito cat-
tivo, ma – e qui sta la cosa decisiva – scegliere quelle dello spirito buono e respingere
quelle dello spirito cattivo» (51). Questo scegliere che, da un certo punto di vista, è con-
sequenziale al riconoscere e all’interpretare, è anche previo; in certo modo, per ricono-
scere il bene bisogna già averlo scelto. In questo senso, tutto parte, molto sensibilmente e
concretamente, da una (presa di) posizione.

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La qualità della diaconia ecclesiale

stiana. Il Vangelo fa la differenza perché apre alla possibilità (alla grazia)


di poter attraversare la vita in comunione con Cristo. In quanto centrato sul-
la Pasqua di Gesù, cioè sul passaggio dalla morte alla vita, il Vangelo apre,
potremmo dire, alla dinamica pasquale dell’esistenza, laddove è questione
di morte e di vita, di camminare nella morte o nella vita. Il Vangelo, para-
dossalmente, apre alla differenza, mentre si abita già la differenza. Quando
lo si annuncia o lo si ascolta (o lo si riascolta) mentre la vita ha la meglio
sulla morte, mentre l’amore si fa strada sull’odio, mentre la chiusura lascia
spazio all’accoglienza, esso riprende suono.
Il Vangelo, in effetti, ha bisogno di ri-suonare, di ritrovare il suono. E pu-
re questa è una sfida trasversale. Ci si preoccupa molto, nella pastorale, di
spiegare il Vangelo e di mediarlo rispetto alle domande della vita. Ci si
preoccupa di meno se chi ascolta o annuncia il Vangelo è sensibile e ben
posizionato. In realtà, l’accoglienza del Vangelo, prima che sul piano della
coscienza che si interroga (sulla vita, su se stessa, sul senso del Vangelo per
la vita), avviene sul piano sensibile, corporeo, dove appunto ci si posizio-
na, si prende posizione. Il Vangelo è per chi si fa sensibile, per chi è già po-
sizionato in modo tale da poter ascoltare e vedere; altrimenti si rischia di
vedere senza vedere o di ascoltare senza ascoltare29. Il Vangelo della Pas-
qua, per poter risuonare per quello che è (come lieto annuncio), ha bisogno
che si abiti già la dinamica pasquale dell’esistenza, che si sia già, in certo
modo, in rapporto con Cristo (sul piano sensibile, precosciente). Il Vange-
lo, prima di tutto, produce una vibrazione, un suono, una sensazione di bel-
lezza e verità. Ed è come se il Cristo lo si riconoscesse prima di tutto per il
suono della sua voce che per quello che dice (cf. Gv 15, 27).

Salvatore Currò
Pontificia Università Salesiana
([email protected].)

29
Il Vangelo conosce bene questo rischio: v. Mt 15, 13.

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ABSTRACT

LA QUALITÀ DELLA DIACONIA ECCLESIALE


RECIPROCITÀ, COMUNE UMANITÀ
E RISONANZA DEL VANGELO

La diaconia è una dimensione costitutiva dell’agire ecclesiale ed esprime il sen-


so stesso della vita e della missione della Chiesa: la Chiesa, come ebbe a dire
Paolo VI a conclusione del Concilio Vaticano II, è serva dell’umanità. Il tempo at-
tuale sfida la qualità della diaconia. Si segnalano qui tre sfide, connesse tra lo-
ro, che riguardano la diaconia ma che, in realtà, riguardano il senso stesso del-
l’evangelizzazione: 1) la sfida a praticare la diaconia (e l’evangelizzazione) con
stile di reciprocità e sinodalità; 2) la sfida a sentirsi, come cristiani, in cammino
con tutti, sul terreno della comune umanità; 3) la sfida a vivere la diaconia co-
me il luogo della significazione e della risonanza del Vangelo.

THE QUALITY OF ECCLESIAL DIAKONIA


RECIPROCITY, COMMON HUMANITY,
GOSPEL'S RESONANCE

Diakonia is a constitutive dimension of the ecclesial action and expresses the


very meaning of the Church’s life and mission: the Church, as Paul VI had ex-
pressed at the conclusion of the Second Vatican Council, is the servant of hu-
manity. The present time challenges the quality of the diakonia. Three interrelat-
ed challenges are pointed out here, which concern diakonia but, more pro-
foundly, the very meaning of the evangelization: 1) the challenge to practice di-
akonia (and evangelization) in a style of reciprocity and synodality; 2) the chal-
lenge to feel, as Christians, that we are on the way with everyone, on the terrain
of common humanity; and 3) the challenge to live the diakonia as the place of
the Gospel’s signification and resonance.

Keywords: Diakonia; Evangelization; Reciprocity; Sinodality; Common Huma-


nity; Gospel; Resonance; Dilemma; Sensibility

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UN TENTATIVO DI CONCILIARE
TUTTE LE SPIRITUALITÀ
Il libro Introduzione alla vita interiore di Lanza del Vasto

1. La novità dell’argomento del libro e come l’autore lo presenta – 2. La nascita del suo li-
bro sulla spiritualità – 3. La difficoltà della trattazione del tema – 4. Il progetto generale
di Introduzione alla vita interiore: definire la spiritualità non violenta come spiritualità
universale – 5. Le sue dodici idee-guida sulla vita spirituale gandhiana – 6. In Introduzio-
ne alla vita interiore il suo grande progetto è rimasto incompiuto – 7. Una difficoltà cru-
ciale: la definizione di non violenza – 8. Il progetto subordinato: preparare i seguaci ad
entrare nella sua comunità gandhiana – 9. Come riformulare per oggi il libro sulla spiri-
tualità di Lanza del Vasto – Appendice 1: Presentazione di Introduzione alla vita interiore
di Arnaud de Mareuil – Appendice 2: Quale collegamento tra Introduzione alla vita inte-
riore e La Trinità Spirituale? – Appendice 3: La non violenza e la nuova logica – Appen-
dice 4: Il rapporto della vita spirituale gandhiana con le strutture sociali

Parole chiave: Lanza del Vasto; Spiritualità gandhiana non violenta; Definizione di non
violenza; Carenze del suo libro specifico e loro superamento; Spiritualità universale

1. La novità dell’argomento del libro e come l’autore lo presenta

Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto (1901-1981; nel seguito: LdV) è stato
discepolo di Mohandas K. Gandhi negli anni 1937-38. Poi è tornato in Eu-
ropa per fondare comunità gandhiane. Lo scritto del 19751 dichiara quale
è stata la sua strategia per introdurre la non violenza in Occidente. Egli sot-
tolinea che lui è stato quasi l’unico maestro occidentale della non violenza
gandhiana che l’ha scelta non per combattere delle ingiustizie, ma per ade-
sione interiore2; non avendo quindi urgenze di lotta politica, egli ha scelto
scientemente i suoi obiettivi più importanti. Saggiamente non si è proposto

1
LDV, De quel droit nous appelons-nous Gandhiens ?, in LDV, Pages d’Enseignement,
Éd. du Rocher, Monaco 183-195. Le traduzioni verso l’italiano nel corso del testo sono
dell’Autore.
2
Egli era stato preceduto dagli anni ‘30, dal solo Aldo Capitini; il quale viveva la non
violenza secondo una sua particolare religiosità, senza il progetto di fondare comunità non
violente ed è rimasto noto solo in Italia.

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di imitare Gandhi nel lanciare grandi campagne di lotta non violenta con-
tro le pur tante strutture negative della società occidentale; il suo program-
ma invece è stato soprattutto quello di fondare comunità gandhiane in Oc-
cidente, definendole in maniera più precisa di quelle di Gandhi3; e a que-
sto scopo ha seguito la saggia massima: «Prima di fare qualcosa, [occorre]
fare degli uomini»4. Per cui il suo primo obiettivo è stato formare persone
non violente ben motivate.
Per radicare la non violenza gandhiana nelle persone occidentali ha af-
frontato, pubblicando il libro Approches de la Vie Intérieure (d’ora in avan-
ti AVI)5, un tema cruciale: la vita spirituale che è alla base del nuovo at-
teggiamento.
Al suo tempo questo libro è stato molto innovativo perché (forse per la
prima volta) proponeva la vita spirituale in senso non violento. Ma, guar-
dandolo in fretta, appare subito che il libro manca di ciò che è basilare per
la religione cristiana: i dogmi, Cristo e Dio6. Quindi un occidentale che si
accostava ad esso poteva vederci una spiritualità “esotica” ed “orientali-
sta”, tanto da potergli apparire “straniante”7. Ma il senso complessivo del
libro diventava chiaro quando notava che LdV voleva introdurre nella vita
spirituale la orientale non violenza gandhiana, che allora era una grande
novità, perché la società e la cultura occidentale erano del tutto imbevute
di militarismo e nazionalismo. Egli era così ben cosciente di incominciare
una storia del tutto nuova che definiva così il suo ruolo: «Noi siamo degli
spaccatori d’asfalto»8 allo scopo di mettere allo scoperto il buon terreno in
cui poi un seme può nascere e crescere.

3
Cf. ibid., 186-187.
4
Ibid., 185.
5
LDV, Approches de la Vie Intérieure, Denoël, Paris 1962 (tr. It. Introduzione alla vita
interiore, Jaca book, Milano 1989).
6
Infatti la non violenza di Gandhi non è fondata su Dio, ma sulla ricerca della Verità;
che la sua vita gli ha insegnato che doveva considerare più che un attributo di Dio, per-
ché «[la ricerca del]la Verità è Dio», M.K. GANDHI, Antiche come le montagne (orig. 1958),
Comunità, Milano 1969, 100, n. 58], Quindi la non violenza di Gandhi non dà il ruolo pri-
mario a Dio, ma al lavoro interiore della persona per la ricerca della Verità e la non vio-
lenza riguarda soprattutto il rapporto di ogni persona con la sua ricerca della Verità (che
lo può portare a Dio).
7
In effetti, la sua Comunità ha avuto la più grande scissione quando (negli anni ‘70)
diversi suoi membri hanno scelto una spiritualità comunitaria che avesse Cristo al centro.
8
“Casseurs d’asphalte”. LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 10.

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Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità

A sessanta anni dalla prima edizione, il suo libro sulla spiritualità è an-
cora affascinante perché: comunica una esperienza vissuta in pienezza di
anima e spirito, si basa su una profonda esplorazione dell’animo umano,
suggerisce molti esercizi pratici, propone idee originali e il suo linguaggio
è incisivo.
Ma dopo così tanto tempo trascorso, occorre (si è costretti a) guardare il
libro con distacco per vederne sia la parte sostanziale e duratura, sia i suoi
limiti. Nel seguito lo farò allo scopo di rispondere alle domande: quale era
il suo progetto? Se, come dice lui stesso, non lo ha concluso, in che senso es-
so è rimasto incompleto? Come si potrebbe riprenderlo e completarlo?

2. La nascita del suo libro sulla spiritualità

Egli sapeva bene che era difficile descrivere la vita spirituale di una per-
sona non violenta. Un primo motivo era che in Occidente la non violenza
era del tutto originale. Secondo, egli, per fedeltà alla sua esperienza di pel-
legrinaggio nell’India multi religiosa (descritta in Pages d’Enseignement),
doveva indicare una vita spirituale che facesse incontrare la tradizione oc-
cidentale (quella ebraico-cristiana-islamica) con quella orientale (indù e
buddista). Ma egli non voleva trattare questo argomento in maniera intellet-
tuale-informativa (cioè, frugando nelle massime delle immense tradizioni
spirituali del passato):

[…] si troveranno citati dei saggi che non sono della nostra tradizione
[cristiana]. Non bisogna concluderne che si tratta di una sintetica an-
tologia di massime, di ricette, di consigli presi qua e là9.

Invece LdV, come discepolo di Gandhi, ne seguiva l’insegnamento che la


non violenza fa parte del fondo comune di tutte le maggiori religioni. Lo di-
ce bene all’inizio del libro:

Esiste un fondo comune di tutte le tradizioni [religiose] del quale ognu-


no può ritrovare le evidenze in sé stesso, a condizione di sottomettersi
ad una preparazione appropriata10.

19
Ivi.
10
Ibid., 10-11.

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In un libro successivo ripete il concetto del fondo comune, dettaglian-


dolo11.
In più egli voleva seguire l’insegnamento di Gandhi attualizzandolo al-
l’ambiente religioso cristiano dell’Occidente; voleva quindi che la sua spi-
ritualità fosse universale, nel senso di una religiosità previa a tutte le reli-
gioni; e quindi, così come è spesso in Oriente, senza necessariamente rife-
rimenti a Dio o a persone divine; il che è al di fuori del Cristianesimo, ma
è preliminare anche ad esso12.
Infine, sempre al seguito di Gandhi che aveva lottato con le “armi dello
spirito” per l’indipendenza politica dell’India dall’impero coloniale britan-
nico, LdV voleva indicare una vita spirituale che fosse capace di affronta-
re le strutture sociali negative occidentali e costruirne di alternative.
Egli era in grado di scrivere un libro su un tema così impegnativo perché
la sua vita aveva avuto una serie di avanzamenti spirituali. i) A ventiquat-
tro anni, dopo un periodo di irreligiosità, era tornato al cristianesimo con
una conversione, dovuta ad una “costrizione logica” (perché aveva appreso
che il pensiero più profondo avuto fin allora era già stato espresso da San
Tommaso d’Aquino). ii) Poi in Italia, nei tempi bui del fascismo sin dagli
anni ‘30 ha avviato una sua personale esperienza di ricerca di vita spiritua-
le che intanto lo ha fatto decidere per il vegetarianesimo e l’antimilitarismo,
fino al volersi dichiarare obiettore di coscienza. Espressione di questo cam-
mino è un libretto di massime13. iii) Negli anni trascorsi in India (1937-38)
ha conosciuto gli insegnamenti di molti maestri di vita spirituale14; iv) Si è
votato a seguire Gandhi e ne è diventato suo discepolo (chiamato da lui
Shantidas = servitore di pace). Questa esperienza lo ha portato ad una con-
versione totale, sia spirituale sia dalla sua civiltà occidentale15. v) Negli an-
ni 1946-48 il suo insegnamento gandhiano a Parigi ha attirato un gruppo di
seguaci ai quali ha commentato settimanalmente tutto il Vangelo16; con ciò
egli ha verificato la sua direzione spirituale: la sua interpretazione, profon-
da e con riferimenti alle altre grandi religioni, gli ha chiarito che la sua mo-

11
LDV, L’Arca aveva una vigna per vela (orig. 1978), Jaca book, Milano, 1980, cap. VI.
12
Ivi.
13
LDV, Principi e Precetti del Ritorno all’Evidenza (orig.1945), Gribaudi, Torino 1972.
14
LDV, Pellegrinaggio alle sorgenti (orig. 1943), Jaca book, Milano 1986, capp. I-III.
15
Ibid., cap. IV.
16
LDV, Commentaire de l’Evangile, Denoël, Paris 1950.

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Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità

tivazione alla non violenza gandhiana era in pieno accordo con la spiritua-
lità religiosa cristiana, quella delle sue origini. vii) Poi ha attuato in grup-
po ciò che significa la vita spirituale non violenta: nel 1948 ha fondato la
prima Comunità la cui vita anche spirituale era regolata dai testi da lui det-
tati: le Costituzioni17, i nove voti annuali (su cui ha scritto un lungo com-
mento18) e la Regola, ampiamente commentata19. viii) Ha dimostrato la sua
capacità di porsi concretamente a livello pre-religioso formulando in con-
creto per i suoi seguaci e per la sua comunità una base spirituale semplice
e chiara, partecipabile da chiunque. Essa è formata da due elementi; il pri-
mo è la pratica del “richiamo” (il porsi in piedi ben ritti, a occhi chiusi, per
un minuto solamente, sei volte al giorno, per ribaltarsi all’interno e dire a
se stesso: “Presente”20); l’altro è costituito dalle sue due originali preghie-
re; sin dall’inizio della Comunità è sorto il problema: come pregare tutti in-
sieme in maniera pre-religiosa? Quali preghiere comuni dire? La sua in-
ventiva gli ha suggerito due specifiche preghiere (“Oh Dio di Verità” e “La
preghiera intorno al fuoco”); esse, messe assieme alla preghiera della pace
di S. Francesco e alle Beatitudini (compartecipate anche da Gandhi) han-
no dato alla Comunità un sistema di preghiere che era esaltante per profon-
dità e coerenza complessiva21. ix) Inoltre ha mantenuto un insegnamento
spirituale continuo scrivendo (sul bollettino della Comunità, Nouvelles de
l’Arche) molte riflessioni originali sull’argomento; x) Ma soprattutto ha spe-
rimentato la bontà dei suoi insegnamenti in proposito con le persone che vi-
vevano nella sua comunità.
Quindi, come (quasi) primo maestro della non violenza gandhiana in Oc-
cidente egli aveva una base molto sostanziosa di esperienze specifiche per
spiegare agli altri che cosa è la vita spirituale non violenta gandhiana.
Dopo alcuni anni di vita comunitaria, ha sentito la necessità di esprime-
re anche in termini intellettuali occidentali tutto il progetto non violento

17
LDV, L’Arca aveva una vigna per vela, cap. III. Si noti che la prima edizione è del
1978; ma i testi lì riportati risalgono all’inizio della Comunità.
18
Ibid., cap. IV.
19
Ibid., cap. V.
20
Vedasi la prima presentazione del 1952 in LDV, Le Grand Retour, Éd. du Rocher,
Monaco 1993, 125-126.
21
Egli ha commentato diffusamente queste preghiere in Commentaire de la prière
commune de l’Arche (1970), in Les Quatre Piliers de la Paix, Éd. du Rocher, Monaco
1992, 29-83.

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gandhiano. Nel libro I quattro flagelli22 egli, sulla base di alcuni testi sacri
occidentali – ma partecipabili dai seguaci di qualsiasi grande religione –
ha espresso una concezione generale della dinamica spirituale della vita di
una persona non violenta (il peccato originale come origine del male perso-
nale e anche del male delle strutture sociali, compreso il male di Scienza e
Tecnica che si pretendono autosufficienti; la conversione da questi mali; la
partecipazione ad una comunità). Su questa base spirituale, egli ha saputo
abbozzare una analisi delle strutture sociali negative del suo tempo, fino a
caratterizzare le massime strutture del potere politico mondiale (i Due
Blocchi Est e Ovest, e la Bomba); e la sovranità sociale alternativa (tra le
quattro possibili da lui già indicate23), quella che è specifica dei non vio-
lenti, perché strutturalmente non violenta: la comunità; essa appartiene al-
la tradizione storica delle tribù-villaggi-cittadine.
Forte di questo quadro intellettuale generale, cioè comprensivo sia delle
idee basilari di vita interiore, sia delle idee caratterizzanti la società in cui
egli viveva, sia delle idee fondanti la società alternativa, ha colto l’occasio-
ne di comporre il libro sulla spiritualità per esprimere in generale quella non
violenta, andando oltre quanto già realizzato in pratica dentro la Comunità.
Allora già ora possiamo ricavare una prima valutazione complessiva: il
libro fa parte di una storia molto importante, quella dei non violenti in Oc-
cidente; i quali che non sono stati solo innovatori politici, ma anche inno-
vatori della tradizionale vita spirituale occidentale; cioè hanno innovato
anche i valori più interiori e millenari della civiltà occidentale.

3. La difficoltà della trattazione del tema

Ma il tema di per sé è difficile. All’inizio del suo libro egli lo riconosce; in-
nanzitutto perché la spiritualità non è facilmente comunicabile per iscritto:

Non si impara a danzare da un libro. E neppure a meditare […]. Que-


ste cose non possono essere dette e ancora meno scritte, non si posso-
no trasmetterle se non dimostrandole, oppure spingendo il cercatore di
verità a scoprirle egli stesso, in se stesso24.

22
LDV, I Quattro Flagelli (orig. 1959), SEI, Torino 1996.
23
LDV, I Quattro Flagelli, cap. IV, par. 70.
24
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 9.

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Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità

Perché, come lo stesso LdV indica nella “Avvertenza”, c’è un problema:


non si può ridurre la vita spirituale ad espressioni intellettuali e in defini-
tiva: «il vero argomento di tutto questo discorso è il silenzio»25. Il suo bio-
grafo, Arnaud de Mareuil, ne ha concluso in maniera drastica: «L’argomen-
to supera le capacità di un libro e di un qualsiasi autore»26.
Ma LdV sapeva pure che chi trasmette una qualsiasi esperienza umana
profonda incontra sempre il limite suddetto; e sapeva che, nonostante que-
sto limite, i libri hanno la capacità, sia pure limitata, di comunicare queste
esperienze. Per cui, fatta salva questa dichiarazione, il suo libro ha comu-
nicato la novità in maniera che è stata affascinante per la sostanziosa serie
di contenuti di una nuova concezione della vita spirituale; lo testimoniano i
tanti seguaci di LdV che su questo libro hanno rifondato la loro vita inte-
riore e sociale.
Ma egli ha rivolto il libro non ad un generico lettore, che stando seduto in
poltrona, e appartenendo ad una qualsiasi struttura sociale, anche negativa,
voleva conoscere mentalmente che cosa è la spiritualità dei non violenti. Al-
l’inizio del libro egli dichiara di rivolgersi ad un ristretto gruppo di persone:
non al «lettore non preparato», ma «ai Compagni e alle Compagne, […]
gruppi di Amici27[…] e infine a inquieti visitatori [della Comunità]»28.
Ne concludiamo che il libro, non essendo rivolto al pubblico generico,
non è usuale: non è un libro da semplicemente leggere e neanche da sola-
mente meditare; il libro è espressione di un movimento (quello della Comu-
nità dell’Arca da lui fondata) e come tale è da leggere compartecipando la
ricerca di una innovativa vita spirituale non violenta.
Poiché la vita comunitaria gli lasciava pochissimo tempo per l’attività
intellettuale, egli ha costruito AVI compiendo le operazioni per lui più
semplici: raccogliere i suoi principali scritti brevi sul tema e, senza affron-
tare i giudizi dei critici (letterari o religiosi), comporre con essi un libro
sostanzialmente coerente rispetto ai seguenti obiettivi (che appaiono dalla

25
Ivi.
26
A. DE MAREUIL, Lanza del Vasto. Sa vie, son œuvre, son message, Dangles, St. Jean-
de-Braye 1998, 271.
27
LdV ha chiamato Compagni i partecipanti alla Comunità dell’Arca, i quali pronun-
ciavano sette voti annuali; mentre Amici sono quelli esterni alla Comunità (poi ha intro-
dotto la figura degli Alleati, che, vivendo al di fuori della Comunità, si legavano all’inse-
gnamento di LdV con una promessa annuale su cinque punti).
28
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 9.

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lettura del libro): 1) proporre la nuova spiritualità non solo ai Compagni,


ma a tutti quelli che cercano di essere non violenti gandhiani, per indica-
re loro la forza spirituale di appunto esserlo fino in fondo, almeno nella lo-
ro motivazione e direzione di vita; 2) accrescere la vita spirituale già con-
cretizzata dalla vita comunitaria suggerendo ulteriori esercizi e ulteriori
piste di ricerca; 3) chiarire in generale in che consiste la vita spirituale
non violenta gandhiana (cioè pre-religiosa e che in più include il rappor-
to con la vita sociale).

4. Il progetto generale di Introduzione alla vita interiore:


definire la spiritualità non violenta come spiritualità universale

Degli obiettivi indicati alla fine del precedente paragrafo, il primo, riguar-
dante la udienza più ampia, era stato già avvicinato col messaggio spiritua-
le lanciato da lui al tempo della guerra (1943), il libro Pellegrinaggio alle
sorgenti, che raccontava la sua avventura-viaggio-conversione in India e il
suo discepolato da Gandhi. Il libro aveva ricevuto una grande accoglienza
e l’aveva promosso a maestro di vita spirituale. Il secondo obiettivo (accre-
scere gli insegnamenti di vita spirituale già realizzati dalla vita in Comuni-
tà) era facilmente raggiungibile: bastava raccogliere le riflessioni scritte
negli ultimi anni; esse, proponevano vari esercizi e idee suggestive che det-
tagliavano ulteriormente la vita spirituale già attuata; e d’altra parte erano
più che sufficienti per indicare agli esterni alla Comunità un nuovo tipo di
vita spirituale rispetto a quella tradizionale.
Invece il terzo obiettivo (chiarire la spiritualità non violenta anche oltre
Gandhi e per di più agli occidentali) aveva una difficoltà intrinseca. L’ha
dichiarata rispondendo alla domanda specifica che gli ha posto un ascolta-
tore: il lavoro che si fa su se stesso per la ricerca del vero io può arrivare,
come dice la religione indù, fino a Dio, oppure, come dicono le religioni
ebraica, cristiana e islamica, ne resta distinto? O addirittura, come dice il
Buddismo, porta al vuoto? Egli risponde così:

Saremo noi a prendere una decisione drastica nel dibattito tra le due
più grandi correnti religiose dell’umanità? Oppure diremo con Budda
che né la creatura né il Creatore hanno un Io, ma che al posto di que-
sto centro concreto non c’è che il Vuoto, e che è in questo vuoto che av-
viene l’unione che è liberazione e beatitudine?

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Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità

Per un Cristiano la cosa più saggia da fare non sarebbe cercare, mante-
nendo i dati dottrinali della propria tradizione, quello che hanno in co-
mune queste tre affermazioni contrarie?
Cioè: che io sono un’unità interiore come Dio è un’unità interiore. È per
questo che io sono fatto a immagine e somiglianza del mio Creatore.
Questa immagine è l’immagine dell’Uno. L’Uno è un’immagine senza
immagine, un’immagine che non assomiglia a niente, se non a se stes-
sa. Perciò posso ben chiamarla «vuoto» secondo il linguaggio buddista,
aggiungendo che è «un Vuoto che si distingue in modo assoluto dal nul-
la». Sì, e persino un Vuoto che si identifica con l’Essere, luogo infinito
in cui si riuniscono il Sì e il No.
Comunque sia, è unificandomi che mi assimilo all’Uno che è Dio, è ri-
entrando in me stesso che mi introduco nella conoscenza e nell’amore
divino, [che inserisco] il mio centro nella sua orbita e nel suo punto fo-
cale per quel tanto che è dato di farlo alla mia natura.
Facciamo dunque il passo, rientriamo in noi stessi e là sapremo forse,
attraverso noi stessi, chi siamo. Il silenzio interiore avrà ragione29.

È con l’atto di coraggio spirituale e intellettuale su indicato (“cercare


quello che hanno in comune le tre maggiori affermazioni contrarie”) che
egli ha poi affrontato l’impresa.

5. Le sue dodici idee-guida sulla vita spirituale gandhiana

Bisogna avvertire il lettore che la struttura tipografica del libro e la sequenza


dei suoi paragrafi aiutano poco ad individuare i punti più importanti della sua
trattazione del tema. Solo leggendo il libro più volte si può notare che egli
aveva alcune precise idee-guida sull’enorme tema da trattare. Ne do l’elenco.
i) La prima era che in tutte le religioni la vita spirituale è innanzitutto vi-
ta interiore30. Perciò anche nel titolo del libro non c’è la parola “spiritua-

29
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 58.
30
Per “vita interiore” intendo una vita (e soprattutto una elaborazione) rivolta a se stes-
so; mentre per “spiritualità” intendo qualsiasi atteggiamento di sensibilità e adesione a
ciò che non è materiale, sia esso il proprio sé, sia la natura, sia il cosmo, sia la scienza e,
in generale a dei valori, quindi anche a quello che può essere considerato il valore supre-
mo, Dio.

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le”, ma “interiore”. Molti dei primi paragrafi31 sono dedicati al ritorno a sé


stesso; cioè la grande sapienza spirituale che l’Occidente “progredito” ave-
va “dimenticato” ma che era stata conservata dall’Oriente.
ii) La seconda idea molto chiara era che questa vita interiore è basata su
un incessante lavoro di ricerca del vero io, quella ricerca che nella storia
dell’Occidente era stata molto importante fino al tempo di S. Agostino e ol-
tre; ma che poi è stata quasi soppiantata o (vedi i cattolici) dalla obbedien-
za rituale alle strutture religiose, o (vedi i protestanti) dalla lettura perso-
nale della Bibbia. LdV ha posto come primo voto dei Compagni dell’Arca
quello del lavoro (delle mani per la sopravvivenza e) su di sé: “di esercitar-
si ogni giorno per la conoscenza, il possesso e il dono di [sé stesso]” (il che
comprende anche il lavoro per la Festa32).
iii) La terza idea è rara tra tutti i maestri di vita spirituale: la vita spiritua-
le della persona deve impegnare anche la sua mente, affinché rifletta sulla pro-
pria vita; a questo scopo occorre attraversare quattro cerchi: vita intellettua-
le, vita artistica, osservazione di sé e degli altri, coscienza morale 33. Tra que-
sti cerchi l’ultimo è il più difficile da superare, perché è formato da contrad-
dizioni (specie i dilemmi); ma dopo di esso la conoscenza diventa ben più
profonda della sola intellettualità. In definitiva, il progetto di vita spirituale di
LdV è innovativo anche perché vuole che la persona sia pienamente coscien-
te della propria vita e perciò richiede un tipo appropriato di conoscenza.
iv) La quarta idea indica l’obiettivo di questo lavoro per la vita interiore
personale:

Il motivo dominante della dottrina [qui insegnata] è l’unità di vita e il


suo carattere fondamentale è formare una unità vivente34.

È questo l’ideale di vita che è stato soffocato dalle separazioni interiori e


sociali, introdotte dalla civiltà occidentale, tra la vita spirituale, la vita in-
tellettuale e la vita sociale.
v) Ma poi nasce un problema: come poteva egli mettere in relazione que-
sto vero io con Dio? Nella precedente lunga citazione egli dichiara di voler

31
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 12-146.
32
LDV, L’Arca aveva una vigna per vela, 107.
33
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 52-58.
34
Ibid., 11.

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“cercare quello che hanno in comune” le tre maggiori tradizioni di vita spi-
rituale nel mondo. Ricordiamo che per quella indù il vero io può identifi-
carsi con Dio; per quelle ebraica, cristiana e islamica il vero io resta sem-
pre diverso da Dio; e per quella buddista il vero io (e anche Dio) è il Vuo-
to. Già l’includere la terza tradizione era un grande problema; poi il ricer-
care la congiunzione tra tutte queste tradizioni spirituali, che sono netta-
mente differenti tra loro, rendeva il suo programma ancor più problemati-
co35. La fine del brano citato mostra che sa di essere davanti ad un proble-
ma enorme. Egli non si fa illusioni: dandosi l’obiettivo di compiere un
avanzamento nel trovare quello che le grandi tradizioni hanno in comune,
non sta a misurare a che punto potrà arrivare.
vi) Per di più, egli ha ricevuto da Gandhi (non dagli altri maestri spiri-
tuali indiani da lui conosciuti) una sesta idea, molto chiara; l’etica non è
una semplice aggiunta di buona volontà, ma costituisce una parte essenzia-
le della vita spirituale, perché, come indica la vita di Gandhi, la spirituali-
tà non deve riguardare solo se stessi, ma va legata all’etica e anzi va costan-
temente verificata nei rapporti con le altre persone; infatti Gandhi insegnava
che ogni vita spirituale deve essere indirizzata alla orto prassi (ben fare)
piuttosto che alla ortodossia (ben credere e ben vivere con se stessi). Ciò è
nuovo anche rispetto ai maestri spirituali odierni, che di solito insegnano a
vivere una vita spirituale che fa i conti solo con la propria vita.
vii) Specie le ultime due idee hanno aumentato la complessità del suo te-
ma; ma le seguenti due idee-guida portano chiarificazioni. La settima idea,
indicata sin dal primo paragrafo del libro, indica come l’“occhio semplice”
caratterizza la realtà, secondo:

tre verità, quella della Luce, quella del Me e quello del Tu […] l’oc-
chio semplice coglie con uno sguardo […]: La Luce, o verità o Dio, l’Io
o Vita interiore, il Tu o rispetto, giustizia, carità, non violenza e attesa

35
PAOLO TRIANNI [Lanza del Vasto e la tradizione filosofica indiana, in A. DRAGO – P.
TRIANNI (edd.), La filosofia di Lanza del Vasto. Un ponte tra Occidente e Oriente, Jaca
book, Milano 2009, 115-152] illustra bene questa problematica nelle pagine 131-134. Pe-
rò egli poi studia come LdV vuole conciliare le suddette religioni non sulla ricerca della
vita interiore, ma sul punto dogmatico principale del Cristianesimo, la Trinità (la possibi-
le convergenza tra Cristianesimo e Induismo su questo punto è stata poi confermata dalle
esperienze dei monaci occidentali vissuti in Oriente, in particolare quelle di Jules Mon-
chanin ed Henri Le Saux).

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attiva del Regno dei Cieli. In questi tre punti consiste tutto il nostro
insegnamento. Nel primo punto, [c’è] il nostro insegnamento religioso
o meglio pre-religioso; cioè la nostra introduzione a qualsiasi insegna-
mento religioso. Nel secondo [, l’Io, c’è], il nostro metodo di vita inte-
riore. Nel terzo [, il Tu, c’è], la nostra dottrina morale e sociale [della
non violenza] […]36.

Allora questa concezione della vita spirituale è originale anche perché è


di tipo triadico. Come tale corrisponde alla definizione minimale (e univer-
sale) di “religione”: Dio-io-mondo. Questo fatto mostra che la sua spiritua-
lità, pur essendo essenzialmente nuova per l’Occidente, perché non violen-
ta, non deborda in avventure incontrollate; anzi, la visione triadica l’aiuta
ad affrontare in maniera ordinata i vari tipi di spiritualità, nonostante le lo-
ro differenze profonde, e a confrontarli in maniera collaborativa.
viii) Sapientemente LdV pone come problema iniziale dell’etica il pro-
blema: quale è l’origine del male nella persona e nella società? Un para-
grafo incisivo37 individua questa origine nel peccato originale. Egli sape-
va che anche Gandhi credeva in questa idea: il Mahatma, pur non dichia-
randola la base della sua non violenza, la considerava fondamentale per
spiegare la relazione negativa che la persona tende a stabilire con Dio38.
Si noti che anche il buddhismo ha un insegnamento simile. Vedendo ogni
ente in maniera interconnessa, il buddismo considera come negativo il se-
parare qualcosa dal corpo dell’universo al fine di ridurla a proprio posses-
so personale; allora, le cose che sono state separate dal flusso dell’anima
universale perdono il calore originario; e, con il loro corpo lacerato, diven-
tano violente lacerando a loro volta le altre cose. Allora qui LdV stabili-
sce un ulteriore punto d’incontro tra la spiritualità dell’Occidente e quel-
la dell’Oriente.
ix) LdV suggerisce una originale interpretazione di quel peccato: con esso
la conoscenza-contemplazione di una persona verso l’altro e verso il mondo
viene abbassata nelle relazioni umane a conoscenza-calcolo di interesse indi-
viduale sugli altri, visti come cose. L’amore cristiano e/o la non violenza na-

36
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 15-16.
37
Ibid., 148-159.
38
M.K. GANDHI, Hind Swaraj, stampato alla macchia, Amhedabad 1909, prima pag.
del cap. X.

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scono dal ribaltare questa tendenza spontanea nella persona39. L’aver chiari-
to l’origine e la natura del male nelle relazioni con gli altri è la migliore base
per capire come reagire ad esso e, più in generale, come fondare una etica.
x) Avendo collegato la vita spirituale all’etica, ora la tematica è molto più
ampia e impegnativa del solito. A questa maggiore complessità dell’argo-
mento egli risponde con una decima idea-guida, quella di un preciso atto
personale: una conversione totale: che è quel tipo di conversione che egli
aveva completato quando era diventato discepolo di Gandhi; cioè, una con-
versione anche dalle strutture sociali e intellettuali40.
xi) La sequenza di tutte queste idee-guida è finalizzata alla undecima
idea: la conversione deve portare all’atteggiamento di Gandhi, cioè la non
violenza, intesa come atteggiamento universale rispetto ad ogni persona, al-
le diverse religioni, ai confitti sociali e alla ricerca di una nuova vita, an-
che sociale41. Questa idea-guida è una ulteriore novità rispetto alle tradi-
zionali spiritualità; ma ha un ruolo cruciale, perché solo risolvendo i con-
flitti con la non violenza la vita spirituale di una persona non si infrange mi-
seramente davanti ai nemici e davanti alle strutture sociali negative.
xii) Nelle relazioni sociali la conoscenza egoistica del peccato originale
si espande fino a dare origine alle strutture negative della vita associativa.
Mentre le spiritualità tradizionali delegano la politica alle autorità del mon-
do, la novità storica della spiritualità di Gandhi è stata l’aver realizzato un
legame tra la spiritualità e non solo l’etica, ma anche la politica. Lo dice
con forza LdV:

Noi non riusciremo mai penetrare il pensiero politico di Gandhi se


ignoriamo che lo scopo della sua politica tende non ad una vittoria po-
litica ma spirituale42.

Quindi secondo Gandhi e Lanza del Vasto la spiritualità deve riferirsi an-
che alle strutture sociali per saperle affrontare. Questa è stata la grande le-
zione storica del non violento Gandhi.

39
Seguendo in questo la tradizione indù, Gandhi non si basa sul concetto di peccato e
quindi neanche sul concetto di conversione, anche se percorre un cammino simile: egli
invita tutti alla Verità.
40
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 229-248.
41
Ibid., 172-175.
42
LDV, Pages d’Enseignement, IV, § 17.

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Da tutto ciò ricaviamo quattro importanti conclusioni sul libro di LdV


sulla spiritualità. Questo libro: i) per (forse) la prima volta esprime un pro-
getto unitario su un punto cruciale di tutte le religioni: la spiritualità; ii) il
progetto è universale rispetto a qualsiasi religione: propone una spiritualità
non super-religiosa, né a-religiosa ma pre-religiosa, che per primo compito
si dà quello della ricerca del sé; iii) essa è articolata nelle precedenti do-
dici idee-guida, delle quali quella del peccato originale getta un ponte tra
tutte le più importanti religioni che indica come fondare una etica comune;
iv) in particolare, il libro indica che cosa è la spiritualità della non violenza
gandhiana, la quale, includendo anche l’etica sociale, è molto più impe-
gnativa di tutte le spiritualità tradizionali e anche di quelle correnti.
A sessant’anni dalla uscita di questo libro, notiamo che tutto ciò era ed è
ancora nuovo (e forse unico)! Sulla scia della spiritualità di Gandhi, il libro
di LdV ha proposto un nuovo ideale di vita spirituale, il quale è di importan-
za storica.

6. In AVI il suo grande progetto è rimasto incompiuto

Ma LdV ha voluto che il titolo del libro iniziasse con una parola modesta:
“Approcci”43 (de Mareuil dice che il libro rappresenta alcune “piste di ri-
flessione”44). Per di più ha premesso che a suo giudizio il libro non era ri-
uscito un granché bene:

Questa raccolta di annotazioni è ben lungi dal costituire una esposizio-


ne sistematica, metodica e completa dell’insegnamento [mio sulla vita
spirituale]. Di due fra i principali esercizi, il Digiuno e la Veglia, non
si parla se non per allusione45.

Quindi egli ha dichiarato che questa è una raccolta solo parziale e ini-
ziale di suoi scritti sulla vita spirituale46; e che per di più egli non li ha

43
Questa modestia è sminuita dalla parola del titolo della traduzione (postuma) italia-
na del libro; “Introduzione…”; essa fa sperare in entrare in una tematica già definita, che
viene esposta in maniera elementare.
44
DE MAREUIL, Lanza del Vasto. Sa vie, son œuvre, son message, 272.
45
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 10.
46
A giudicare dalla sequenza dei suoi libri, il libro sulla spiritualità sembra l’apice del-
la sua creatività intellettuale [cf. il mio scritto: I Quattro Flagelli di Lanza del Vasto: Le sue

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sistemati secondo un metodo molto meditato47. Probabilmente per rimediare


a queste mancanze, subito dopo LdV ha invitato il lettore ad aggiungere la
lettura di altri libri:

Di questa [mia illustrazione della] disciplina fanno parte [i miei libri


precedenti:] I Principi e Precetti del Ritorno all’Evidenza, il Commento
al Vangelo (raccolta di annotazioni come queste) e I Quattro Flagelli,
studio sulla natura e il destino delle civiltà e sui doveri civici dell’uo-
mo interiore48.

Però questa semplice indicazione di LdV non fa capire se queste opere,


che sono centrate su temi un po’ diversi da quello del suo libro di spiritua-
lità, siano preliminari ad esso, o sviluppino le idee ivi esposte, o aggiunga-
no parti essenziali che non aveva trattato. Di fatto, LdV lascia al lettore il
compito di integrare tra loro quattro libri abbastanza diversi tra loro; quin-
di il suo rimedio alla «esposizione [poco] sistematica e metodica» del suo
libro è impegnativo e il suo risultato appare incerto.
Inoltre si nota che nel libro mancano non solo, come egli ha scritto, al-
cuni suoi esercizi di vita spirituale; manca anche la esposizione della vita
spirituale vissuta nella comunità, benché essa rappresenti la migliore attua-
lizzazione di quello che lui aveva concepito come vita spirituale; ad es., non
vengono ricordate le preghiere comunitarie quotidiane, benché del tutto
originali e benché rappresentino una pratica molto significativa della nuo-
va spiritualità pre-religiosa.

categorie strutturali politiche e intellettuali, in A. DRAGO (ed.), Il pensiero di Lanza del Va-
sto. Una risposta al secolo XX secolo, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani, 2010, 127-150, tabel-
la di pagina 154]; dopo il 1962 LdV ha approfondito il suo insegnamento con altri libri che
però non hanno suggerito innovazioni radicali.
47
Infatti, il libro è poco più di una raccolta di alcuni articoli, comparsi su Nouvelles de
l’Arche negli anni precedenti al 1962; e di questi probabilmente non è la raccolta più rap-
presentativa: tra i suoi articoli di quel periodo (1954-1962) ce ne sono altri che sono im-
portanti ai fini della vita interiore; tanto è vero che dopo la sua morte molti di essi sono
stati utilizzati per le raccolte dei libri antologici postumi: Les Quatre Piliers de la Paix, Le
Grand Retour, e Pages d’Enseignement; il secondo e il terzo libro raccolgono rispettiva-
mente 10 e 15 scritti di prima del 1962 (data della edizione francese di Introduzione al-
la Vita Interiore), che potevano essere inseriti in esso (mentre del periodo successivo i due
libri contengono altri 28 scritti). Quindi la scelta compiuta da LdV per comporre il suo li-
bro di spiritualità ha lasciato da parte importanti riflessioni.
48
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 10.

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Dobbiamo concludere che sicuramente il suo progetto non è stato portato


a compimento: il libro pubblicato rappresenta uno slancio verso un grande
progetto, che però si è risolto in un semplice primo tentativo sull’argomen-
to, tanto che può essere valutato (da lui forse troppo severamente) solo una
“raccolta di annotazioni”. Vediamo meglio.

7. Una difficoltà cruciale: la definizione di non violenza

In effetti il libro dichiara il punto su cui egli ha perso la presa del suo gran-
de progetto.
La illustrazione della vita spirituale non violenta avrebbe dovuto presen-
tare la non violenza in termini generali, cioè indipendentemente dalle espe-
rienze storiche che Gandhi aveva compiuto nella civiltà orientale. Ma pro-
prio qui LdV ha incontrato un serio inciampo: non è riuscito a definire la
parola tipica di Gandhi e della nuova spiritualità: “non violenza”49.
Gandhi stesso aveva provato a cambiare quella parola in una affermativa;
ha proposto: Satyagraha, che significa “Tenacia nella Verità”. Essa però di-
ce poco della non violenza, soprattutto perché la parola “Verità” può avere
più significati, specie durante un conflitto50. Anche LdV ha cercato una pa-
rola o una frase affermativa che potesse sostituire quella parola; ma si è ac-
corto che ciò era molto difficile. Stanco del lungo sforzo intellettuale com-
piuto, ha concluso:
Semplicità sottile
La non violenza è cosa semplice ma sottile.
Difficile da applicare, addirittura da afferrare [con la mente], ché è del
tutto estranea alle abitudini comuni.
Ma la difficoltà diviene insormontabile quando si è convinti di averla
colta a pieno […]51.

49
Sulle varie definizioni di non violenza date da LdV, vedasi il mio scritto: Che cosa è
la nonviolenza. Lanza del Vasto presenta la concezione gandhiana all’Occidente, in A. BON-
GIOVANNI – P. TRIANNI (edd.), Lanza del Vasto. Filosofo, teologo e nonviolento gandhiano,
Aracne, Roma 2015, 193-218.
50
Gandhi ha spesso indicato una caratteristica della non violenza: “adeguazione dei
mezzi ai fini”. Essa è molto utile per opporla alla politica machiavellica, basata sulla fra-
se contraria; ma non dice né la motivazione alla non violenza, né quali fini scegliere.
51
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 215.

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La sua prima definizione (in Pèlerinage aux sources del 1943) era stata
“la carità cristiana”. Però poi52 l’ha ritrattata, per passare a definizioni più
articolate e operative; come appunto ha fatto in questo libro sulla spiritua-
lità. Qui ha dato molta attenzione al tema53: prima ha proposto una nuova
definizione (di tipo triadico: tre definizioni assieme)54, poi ne dà un’altra,
che pensa sia “definitiva”55; essa è di tipo dualistico: «la non violenza è il
più basso grado della Carità e il più alto»; cioè è il «Rispetto di ogni vita»56
e «l’amore del nemico»57 (curiosamente i due paragrafi successivi trattano
i due temi in ordine inverso). Ma anche la definizione dichiarata “definiti-
va” non doveva essere completamente soddisfacente se poi nel libro suc-
cessivo, Che cosa è la non violenza, la prima pagina ripete alla lettera il bra-
no citato sulla sua difficoltà fondamentale; e prosegue riportando tutto
quello che riguarda non questa definizione, ma quella precedente, la tria-
dica. Addirittura nell’ultimo libro, TS (p. 235), la definizione è quella che
aveva suggerito nel 1954: «Carità e Giustizia senza le loro violenze»58.
In effetti, non c’è stato un maestro della non violenza che sia riuscito a
definire in termini affermativi questa parola orientale, “non violenza” (che
è una doppia negazione, così come altre parole tipicamente orientali, ad
es. advaita = non divisione). Dopo cento anni da Gandhi e sessanta anni
da AVI, tuttora non esiste una definizione condivisa di quella parola. Il suo
significato preciso è rimasto attaccato alla vita di Gandhi, al mondo del-
l’Oriente.
Ecco spiegato l’ostacolo intellettuale che ha reso difficile il progetto di
LdV in AVI, così difficile che egli, pur avendo sviluppato in buona parte
quel progetto, non l’ha completato.

52
LDV, I Quattro Flagelli, cap. V, par. 70.
53
Ibid., 215-268.
54
Ibid., 215.
55
Ibid., 251.
56
Ibid., 268.
57
Ibid., 253. Questo passaggio all’affermativo non può evitare parole di tipo idealisti-
co, non operativo; infatti, nella prima delle due definizioni usa la parola “ogni”, che indi-
ca una tensione ad un orizzonte troppo grande, infinito; il che non dice nulla operativa-
mente. Così è stato anche per la seconda definizione: l’“amore dei nemici”; prima di
Gandhi questo tipo di amore era rimasto senza spiegazioni operative.
58
LDV, Vinoba, 60-61.

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8. Il progetto subordinato: preparare i seguaci ad entrare


nella sua comunità gandhiana

Comunque la esposizione di AVI è complessivamente ben organizzata. Giu-


stamente essa è suddivisa secondo ciò che vede l’occhio semplice: prima
vengono indicate (a lungo) le esperienze interiori e personali59; poi altri in-
segnamenti che relazionano l’io al tu60 e poi la relazionano a tutto l’ambien-
te sociale61.
In più vediamo come ha sviluppato le dodici idee-guida. Notiamo che
egli ha trattato più o meno a lungo le prime di esse, fino alla nona. Poi do-
po egli avrebbe dovuto incominciare a caratterizzare la spiritualità non vio-
lenta tipicamente gandhiana; quella che si lega all’etica e affronta spiritual-
mente le strutture sociali violente; cioè, quella che sa reagire ad esse in-
nanzitutto con una conversione (idea x), che va a scegliere la non violenza
(idea xi) e poi (idea xii) passa ad azioni non violente contro quelle struttu-
re; ma soprattutto fonda nuove strutture sociali positive. A questo punto egli
tratta a lungo il tema della non violenza; ma poi non prosegue il suo proget-
to in maniera coerente, poiché è evidente che, nonostante i suoi sforzi in-
tellettuali, non ha una idea precisa di quella parola “non violenza” su cui
organizzare tutto il discorso.
Comunque i suoi risultati sono importanti. AVI ha sicuramente aggiunto
nuovi contenuti di vita spirituale, suggerendo precisi strumenti di vita inte-
riore: il metodo del ritorno dell’attenzione su di sé, il richiamo, le dieci re-
gole per dirigersi (ognuna indicata con una delle dita delle due mani), in
particolare la regola sulla meditazione che LdV ha molto sviluppato. Infine
l’invito a tenersi diritto in qualsiasi circostanza62.

59
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 17-147.
60
Ibid., 148-215.
61
Ibid., 216-fine.
62
Lo esprime con una poesia a p. 98. In più nel 1993 è uscito un libro che raccoglie
una trentina di ulteriori scritti (quasi tutti usciti su Nouvelles de l’Arche) che aggiungono
molteplici temi di vita spirituale. Soprattutto è importante lo scritto che dà il titolo al li-
bro postumo: Le grand Retour, in LDV, Le Grand Retour, 220-260. Esso illustra un eser-
cizio inventato nel dopoguerra, poi da lui rielaborato ma rimasto fino allora inedito: esso
unisce in maniera originale meditazioni, posizioni yoga e canti di sua invenzione. Con es-
si LdV suggerisce la massima portata della vita spirituale: «un inno e una recitazione del-
la Creazione [...], della Caduta [...] e della Conversione o Ritorno» (ibid., 221); cioè, un
esercizio con cui si compartecipa ad una visione spirituale della storia di tutta l’umanità.

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In totale, la buona organizzazione globale, le dodici idee-guida più i ri-


sultati hanno ben indicato la strada da percorrere per ricercare una vita in-
teriore non violenta gandhiana. Perciò la esposizione del libro ha comun-
que offerto una prima approssimazione del grande progetto.
Ma allora l’obiettivo del seguito del libro a che ha ridotto il grande pro-
getto? Ricordiamo che egli voleva essere un “casseur d’asphalte”; sul tema
della spiritualità sicuramente aveva assolto questo suo compito.
Inoltre egli si rivolgeva al lettore non per catturarne la mente con un ben
congegnato sistema di idee, ma per invitarlo a convertirsi a una vita spiritua-
le unitaria e piena: LdV si dava il compito di indirizzare le persone non tan-
to ad una ortodossia teorica non violenta, quanto ad una ortoprassi della vita
spirituale. Guardando bene i contenuti del libro, si scopre che, dopo aver
elencato una serie di esercizi e di idee di vita interiore personale, egli passa
gradualmente a trattare il rapporto della vita interiore con la vita sociale. Pri-
ma collega per la prima volta la spiritualità all’etica con il paragrafo “I sei
demoni del corpo”63 nel quale indica il male interno alla propria persona.
Nel par. successivo (“Del peccato originale”)64 egli individua la origine
generale di questo male e del male in generale e in più descrive rapidamen-
te il suo propagarsi nella vita sociale, fino a creare strutture di peccato (tra
le quali la Bomba). Dopodiché il paragrafo “I sette mammoni”65 ritorna a
fare attenzione alla singola persona, ma ora contornata da un ambiente so-
ciale. Qui avverte il lettore che la vita personale subisce i condizionamen-
ti delle forze sociali negative (chiamate appunto “mammoni”).
Di fatto, dopo questo paragrafo66 inizia una seconda parte del libro. LdV
dedica sessanta pagine67 ad insegnare come approfondire la vita spirituale
al fine di fuoriuscire dalla negatività della società dominante; cioè, in che
modo liberarsi dai condizionamenti delle strutture sociali negative; quindi
come lavorare su di sé per, alla lunga, convertirsi dal ruolo sociale che gli
è stato fissato dalle strutture della società68. Fino a quando, come egli de-

63
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 128-147.
64
Ibid., 148-159.
65
Ibid., 160.162.
66
Vale a dire dalla pag. 160, ibid.
67
Ibid., 176-214.
68
Introduce anche ad una altra scelta di vita, quella che riguarda il rapporto con la
guerra. Qui egli propone una lotta pubblica, la obiezione di coscienza (che egli aveva scelto

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scrive magistralmente69, il seguace arriverà a maturare la conversione dal-


la organizzazione della intera società per poi entrare nella struttura sociale
alternativa, la comunità gandhiana.
In queste sessanta pagine il lavoro interiore non riguarda più l’obiettivo
della prima parte di AVI, imparare a regolare le proprie forze interiori; ma
riguarda l’obiettivo di sfuggire alle pressioni provenienti dalla società ester-
na. Il problema cruciale della vita spirituale ora è quello di reagire alla so-
cietà in cui si vive per prendere una scelta etica decisiva per la propria vita:
partecipare alla comunità.
Da qui alla fine egli si rivolge non tanto a chi voglia costruire una piena
vita spirituale con solo i suoi insegnamenti, ma a quelli che vorrebbero usci-
re dalla società ma che non possono o non riescono ancora ad entrare nella
società alternativa, la Comunità70. Quindi, dopo la trattazione dell’origine
del male71, egli dà al libro una svolta improvvisa e anche non dichiarata.
Se anche non riusciva a stringere una volta per tutte una definizione di
“non violenza”, però nel 1962 egli aveva già dimostrato che l’alternativa
sociale non violenta era possibile anche in Occidente: perché ormai esiste-
va una vita comunitaria non violenta che si era stabilizzata e consolidata.
Essendo il tipo di società con il minino di violenze strutturali. La comuni-
tà realizzava la società alternativa non violenta in tutte le sue dimensioni,
in particolare nei rapporti delle persone in comunità; i quali esprimevano
oggettivamente e strutturalmente che cosa era la non violenza anche nella
sua spiritualità. Per quel tempo la vita nella sua comunità rappresentava il
coronamento della vita spirituale non violenta. Perciò nel 1962 LdV ritene-
va che si era non violenti gandhiani se si faceva parte della società che era
specifica della non violenza, là dove una persona poteva vivere pienamen-
te la sua tipica vita spirituale. Perciò con il suo libro LdV ha voluto non so-
lo trasmettere la esperienza di vita spirituale non violenta (sia personale, sia

sin dagli anni ‘30). La presenta molto bene, rispondendo ad una domanda specifica, in
LDV, Che cosa è la non violenza (orig. 1970), Jaca book, Milano 1979, 40-42. Ma avver-
te che, come dichiarava pubblicamente: “Da giovani si obietta al servizio militare; da per-
sone mature si obietta a tutta la organizzazione sociale attuale”. Perciò il suo primo pro-
blema era piuttosto il costruire la alternativa sociale positiva, la comunità. Quindi è la
scelta di promuovere la Comunità dell’Arca che è la vera lotta sociale fondamentale.
69
Cf. ibid., 162.
70
Cf. ibid., 165.
71
Cf. ibid., 160.

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Un tentativo di conciliare tutte le spiritualità

comunitaria) già accumulata, ma anche, nella seconda parte, favorire la


crescita della comunità: le nuove adesioni ad essa ne aumentavano la vali-
dità sociale72.
Essendogli mancata la definizione della idea-guida non violenza, egli si
è riferito piuttosto alla realtà storica realizzata fin allora, mettendo da par-
te come troppo generale ogni ulteriore precisazione del grande progetto. Per
esempio questa seconda parte del libro indica solo parzialmente come la vi-
ta spirituale porti ad affrontare tutte le strutture sociali negative (idea xii);
non avendo ancora realizzato grandi esperienze di questo tipo, nel libro
tratta il tema giusto per presentare l’importanza della non violenza anche
nel rinnovare la vita sociale73. (Nell’appendice 4 questo tema verrà consi-
derato più attentamente).
Dopo la pag. 160 del libro, LdV ha cambiato il progetto iniziale di deli-
neare una vita spirituale gandhiana in quello di dare sostegno alla vita co-
mune non violenta che il suo gruppo di occidentali riusciva a realizzare. Di

72
Occorre ricordare che egli ha scritto il libro prima del Concilio, quindi in un perio-
do di chiusura quasi totale della Chiesa cattolica, la quale allora dominava in senso dog-
matico e individuale la cultura della spiritualità. Rispetto a questo ambiente la spiritua-
lità presentata dalla prima parte del libro era comunque molto avanzata, perché le sue pri-
me idee erano già sufficienti per aprire nuovi e grandi orizzonti alla spiritualità della gen-
te del suo tempo; in particolare, quattro idee erano rivoluzionarie: il lavoro su di sé, la
apertura a tutte le religioni, la sua nuova interpretazione del peccato originale e la non
violenza di Gandhi. Perciò sembra scusabile la improvvisazione di LdV rispetto alla siste-
maticità secolare della spiritualità cattolica; le novità che lui proponeva erano così gran-
di da poter lasciare imprecisati tanti aspetti della spiritualità non violenta, anche perché
la loro descrizione avrebbe richiesto molto spazio.
73
In effetti i suoi scritti precedenti non sono stati collazionati al meglio. Ad esempio
tratta cinque volte lo stesso tema della non violenza, sotto angoli diversi, in paragrafi an-
che lontani tra loro e senza dare una chiara conclusione. Inizia con domande e risposte
sull’argomento (172-176), cioè informalmente. Ritorna più tardi sul tema, trattandolo con
cinquanta pagine (215-262); qui sono sette paragrafi sulla definizione di non violenza; es-
si terminano con un paragrafo sulla non violenza passiva (cioè, il “rispetto della vita”),
cioè proprio quella non violenza che è solo il primo gradino di una conversione. Dopo que-
sto tema ci sono scritti, i cui contenuti vanno dall’interiore (ad esempio, sentimento, ani-
ma, meditazione) al sociale (ad es. non violenza pubblica e politica), senza un ordine ap-
parente. Ci sono due paragrafi specifici sulla politica e sulla economia (pp. 269-274); ma
questi due temi sociali importanti sono solo accennati. Poi viene la parte finale (275-298)
composta da pochi (6) paragrafi; i quali sono sconnessi dagli altri e anche tra loro (i due
più importanti sono uno sull’anima e uno sulla meditazione). Questa è una strana manie-
ra di terminare un libro: non c’è una conclusione formale.

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fatto ora i destinatari del libro sono diventati le persone esterne alla Comu-
nità74. Cosicché la seconda parte del libro assolve il primo compito dei tre
indicati alla fine del par. 3: proporre alle persone occidentali in genere, già
invogliate dalla lettura di Pellegrinaggio alle Sorgenti, di entrare in Comu-
nità, dove sperimentare direttamente la spiritualità non violenta che i com-
ponenti erano riusciti a realizzare.
Allora la prima parola del titolo del libro, “approcci” alla vita interiore
indica che esso presenta due approcci diversi: uno è l’approccio delle perso-
ne alla vita spirituale gandhiana (quello che avevano lui e i Compagni del-
la Comunità) secondo un grande progetto che abbiamo visto nel par. 6 e che
la prima parte del libro ha solo iniziato a descrivere. La seconda parte in-
dica l’altro approccio alla vita spirituale, quello di coloro che potevano en-
trare in Comunità.

9. Come riformulare per oggi il libro sulla spiritualità


di Lanza del Vasto

A sessanta anni dalla sua prima edizione occorre rendere questo libro non
più un insegnamento (rimasto parziale) sulla spiritualità non violenta e un
indirizzo spirituale per i seguaci di LdV di quei tempi che volevano entra-
re in Comunità, ma uno strumento completo per noi e per i tempi futuri. A
questo scopo suggerisco le seguenti modifiche o aggiunte:
1) Occorre tener conto che oggi non c’è più la spiritualità che implici-
tamente faceva da sfondo alla seconda parte del libro, quella della Chie-
sa cattolica prima del Concilio; anzi, oggi la vita spirituale non è più do-
minata da quella occidentale tradizionale, essendo diventata la più varia.
Allora la seconda parte del libro, rivolta alle persone in tensione verso la
Comunità, oggi dovrebbe essere considerata come una particolare antolo-
gia di scritti vari sulla vita spirituale per le sole persone desiderose di en-
trare nella Comunità; questa antologia oggi si accompagnerebbe alle an-

74
La saggezza di LdV si nota quando a queste persone in tensione egli non chiede una
decisione immediata: «[…] non dico a nessuno: disertate. Dico: sappiate che [ora] siete
degli attori in scena e che dovete recitare un ruolo che non avete scritto voi», LDV, Intro-
duzione alla vita interiore [AVI], 161. Nella sua comunità egli non voleva ribelli o irre-
quieti, sapeva bene che un ruolo sociale c’è comunque, anche nella società alternativa
non violenta.

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tologie uscite nel frattempo: Les Quatre Piliers de la Paix, Le Grand Re-
tour e Pages d’Enseignement. Nell’insieme esse costituiscono un comples-
so molto articolato e suggestivo di insegnamenti che approfondiscono te-
mi particolari in maniera più o meno attuale rispetto al nostro tempo.
2) Ma esse prenderanno importanza nella misura in cui si riuscirà a va-
lorizzare la prima parte del libro in questione e il suo grande progetto. In-
nanzitutto enunciare il progetto generale, che ora è espresso da varie par-
ti75 ma non collegate tra loro; e precisare che LdV voleva sviluppare que-
sto progetto con le dodici idee-guida indicate nel precedente § 5 di que-
sto scritto.
3) Inoltre, occorrerebbe sottolineare la difficoltà che hanno avuto tutti i
maestri della non violenza nel definire la parola “non violenza”. In effet-
ti, LdV aveva intuito la maniera di superare la difficoltà. Sin da quando
era giovane la convinzione di LdV era che la quinta parola di Dio, “Non
uccidere”, aveva un valore “assoluto”76. In Commentaire de l’Évangile77
LdV ha sottolineato che Gesù «ha portato a compimento quell’insegna-
mento»: esso non vale solo nei rapporti interpersonali, ma anche nelle lot-
te politiche per il potere sociale e nelle guerre; per cui il senso di quella
quinta parola, portato a compimento nella pratica anche sociale (“Amate
i vostri nemici”), passa da quello di una legge esteriore in occasione dei
conflitti interpersonali ad un atteggiamento interiore verso tutti e in tutte
le occasioni sociali.
Nel commento del primo articolo del voto di non violenza (commento che
egli sicuramente ha meditato a lungo) spiega che vale il parallelo tra il rin-
novamento del “Tu non uccidere” che ha compiuto Gesù, e il rinnovamen-
to compiuto da Gandhi della tradizionale parola indù “non violenza”:

Ora, così come il Nuovo Testamento porta all’Antico un completamen-


to e un compimento, ma, senza di esso, non lo si capisce, così la nuova
Nonviolenza, gandhiana e [perciò socialmente] rivoluzionaria, resta
zoppicante e senza radici se non si entra nella nobile e universale ve-

75
Per la prima volta, ibid., 58.
76
Lo dice in LDV, I Quattro Flagelli, par. 44 cap. V, in LDV, Introduzione alla vita in-
teriore [AVI], 246 e soprattutto nell’opuscolo “De la Bombe” del 1958, poi riprodotto in
LDV, Che cosa è la non violenza, 65-85; qui a p. 81 egli scrive quella parola di Dio in
stampatello; evidentemente essa gli ha fatto da guida spirituale per la sua vita.
77
LDV, Commentaire de l’Évangile, Denoël, Paris 1951, specie 191.

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rità religiosa che è al fondamento […] della Nonviolenza tradizionale,


indiana, [solo misericordiosa] e, se vogliamo, passiva78.

Con questo confronto tra le storie delle due grandi religioni, Cristianesi-
mo e Induismo, LdV è giunto a chiarire almeno un preciso significato del-
la non violenza, quello storico. La quinta parola di Dio (che riguardava la
violenza più grave nei rapporti interpersonali, l’uccidere) è stata generaliz-
zata anche agli eventi sociali; perciò, per escludere a priori ogni trascina-
mento all’uccidere altri, è stata interiorizzata tanto da diventare un atteg-
giamento di amore universale; mentre la seconda (che per benevolenza in-
vitava ad evitare ogni violenza nei rapporti interpersonali e con l’ambiente)
è stata generalizzata ad un atteggiamento riguardante anche la vita sociale
e la politica, il che richiede un atteggiamento di amore, rivolto a tutti, uni-
versale79 (si noti che il “Non uccidere” e il non fare violenza non vengono
dimenticati dalle ampie generalizzazioni, in quanto essi restano i criteri di
costante verifica di quale amore universale si porti agli altri).
Con questo parallelo dei due insegnamenti, LdV è giunto ad un passo
dalla definizione di non violenza che cercava; questo passo consiste nel te-
ner conto del fatto che ciascuna delle due parole (“Non uccidere” e “non
violenza”) è una doppia negazione; la quale introduce una logica nuova (an-
che questa è stata una novità fondamentale della rivoluzione di Gesù e di
Gandhi. Vedasi l’Appendice n. 3).
In definitiva, oggi una nuova formulazione di AVI deve chiarire che la
definizione di “non violenza” introduce in maniera operativa ad un nuovo
atteggiamento generale verso la vita, sostenuto da una nuova maniera di
pensare e ragionare, che, come è manifestato dalla non violenza messa in
atto, introduce a una nuova logica nei rapporti umani.
4) Aggiungere la teoria della soluzione non violenta dei conflitti. Questo
tema (sviluppato dai non violenti europei dagli anni ‘60) è indispensabile

78
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 268; riportato anche in LDV, L’Arca ave-
va una vigna per vela, 164.
79
LdV ha vissuto personalmente questa generalizzazione. Egli era andato da Gandhi
per trovare una risposta su come combattere la imminente guerra mondiale ed è tornato in
Europa con l’idea di organizzare una Compagnia che facesse guerra alla guerra: «Per far
guerra alla guerra, si solleva un’armata di pace» (ibid., 17). Ma poi, come scrive nelle pag.
13-14 dello stesso libro, è passato a concepire la soluzione del problema guerra così co-
me faceva Gandhi, cioè ha cercato di sviluppare “un metodo per fare la pace”.

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per la spiritualità di chi voglia essere non violento. Una prima formulazio-
ne di questa aggiunta si ottiene mettendo assieme gli scritti di LdV in pro-
posito; essi non sono pochi né poco importanti: hanno anticipato la miglio-
re teoria, quella di tipo triadico di Galtung80.
5) Aggiungere la illustrazione di come la vita spirituale, mediante lotte
nonviolente, può contrastare le strutture sociali negative, perché la novità
storica della spiritualità di Gandhi è proprio l’aver introdotto una nuova eti-
ca che sa lottare contro le strutture sociali negative non con armi, ma non
violentemente, cioè con la “forza dello spirito”. Ma quali sono queste strut-
ture sociali da combattere? Dieci anni prima della Teologia della Liberazio-
ne (1968)81 e trenta prima della Sollicitudo rei socialis di papa Giovanni
Paolo II (1988), nel 1959 LdV ha introdotto con il libro I Quattro Flagelli,
l’idea del peccato (o violenza) strutturale rispetto al peccato (o violenza)
personale. Per lui era importante far capire come questo peccato si svilup-
pi in strutture sociali che sono “fatte da mano d’uomo”, ma che come isti-
tuzioni che vivono di vita autonoma, dominando le persone nella loro vita
sociale e spirituale: Guerra, Sedizione e Rivoluzione violenta, Servitù, Mi-
seria; più l’arroganza del potere sociale di Scienza e Tecnica. Nella storia
la nascita di questo nuovo tipo di peccato ha snaturato le spiritualità tradi-
zionali che insegnavano a rifuggire dai soli peccati individuali (ad es. tan-
ti capitalisti sono molto religiosi, benché ognuno sia indifferente alla mise-
ria strutturale che crea la crescita del suo capitale).

80
Il suo migliore scritto sulla risoluzione non violenta dei conflitti è del 1954: Justice
et Charité. Escluso dalla raccolta del libro sulla spiritualità, è stato inserito in LDV, Le
Grand Retour, 42-55 (qui è erroneamente datato 1959). Esso sviluppa il tema del passag-
gio dalla vita interiore all’azione secondo tre dimensioni. Queste sono le stesse che poi,
negli anni ‘70, Johan Galtung dichiarerà le tre dimensioni di un conflitto (A = assunzio-
ni, principi; B = comportamento, azioni; C = contraddizioni interiori). Ho indicato un
avanzamento di questa teoria, anche collegandola all’uso delle doppie negazioni, in Im-
proving Galtung’s A-B-C to a Scientific Theory of All Kinds of Conflicts, “Ars Brevis. Anua-
ri de la Càtedra Ramon Llull Blanquerna” 21 (2016), 56-91.
81
Nel 1968 è nata la Teologia della Liberazione, che per venti anni ha infiammato il
laicato cattolico. Essa, ignorando l’insegnamento di LdV, ha ripresentato un collegamento
tra spiritualità e politica, ma sulla base di una analisi politica della sola struttura di pec-
cato del capitalismo dittatoriale sudamericano; analisi improntata sul socialismo (marxi-
sta), preteso scientifico; il quale, per sconfiggere l’oppressione, considerava necessaria
una lotta dura e violenta, rispetto alla quale la non violenza appariva una ingenuità. Ep-
pure la lotta a quella struttura sociale sud americana è stata condotta efficacemente da
grandi personalità non violente (Dom Helder Camara, Perez Esquivel).

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Su questo punto LdV è stato profetico, molto di più della Teologia del-
la Liberazione che ha visto solo il peccato della miseria causata dal capi-
talismo; e fin anche del papa che nelle Sollicitudo rei Socialis (1987) ha
appena accennato ai peccati strutturali Est/Ovest e Nord/Sud nel mondo.
Su questo tema egli nel libro sulla spiritualità rimanda a I Quattro Flagel-
li; questo poteva forse bastare ai seguaci del tempo di LdV; ma oggi oc-
corre definire con più precisione il concetto di peccato strutturale (pur-
troppo trascurato anche dai teologi odierni) e in più quali siano le attuali
strutture di peccato che dominano la vita sociale e come la vita spirituale
si rapporti ad esse. Quindi si tratta di completare il progetto generale pre-
cisando sia le strutture sociali negative, sia il rapporto della vita spiritua-
le con esse fino alla conversione da esse e alla lotta contro esse. Un pri-
mo passo è la raccolta di quanto già pubblicato da LdV in proposito, ma
in tanti scritti diversi.
Un secondo passo è il ripensamento del libro I Quattro Flagelli: la sua
struttura è valida; ma, per adeguare il discorso di LdV alla realtà sociale
contemporanea, sono da ripensare in maniera radicalmente nuova soprat-
tutto i capitoli 3-4 (Economia e Potere politico), in modo che essi chiarisca-
no le odierne strutture sociali negative e il modo con cui combatterle. Come
seconda modifica, inserire i brani della seconda parte del cap. V de I Quat-
tro Flagelli sulla conversione, ma ripensandoli in termini pre-religiosi, sin-
tetizzandoli unitariamente e finalizzandoli alla luce di una lotta contro non
solo il flagello della guerra e della struttura militare, alla quale rispondere
con l’obiezione di coscienza, ma a tutte le strutture sociali negative. Que-
sto lavoro non è semplice; ma il risultato costituirebbe un avanzamento per
tutto il mondo non violento (solo Galtung ha scritto in proposito, ma sugge-
rendo soluzioni spirituali di tipo genericamente buddista)82.
6) Nel libro Le Grand Retour c’è uno scritto del 195483 che individua «il
doppio marchio della dignità divina dell’Intelligenza»: «l’Unità [cioè il pro-
prio ben organizzarsi, e […] l’Infinito». Questo “doppio marchio” è stato già

82
Lo scritto di CLAUDE VORON [Le Grand Retour, un chemin d’espérance, in D. VIGNE
(ed.), Lanza del Vasto, Un génie pour notre temps, Institut Catholique de Théologie de Tou-
louse, Toulouse 2006, 87-98] è una possibile maniera di farlo, sia pur sintetica. Esso par-
te dalla interpretazione del peccato originale, passa per i quattro flagelli e termina con l’e-
sercizio il cui nome è quello del titolo.
83
LDV, Conversion de l’Intelligence, du cœur et du corps in LDV, Le Grand Retour, 16-
41, 18.

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scritto in altro libro84, lo ha ripetuto nel 196885 e poi nell’ultimo libro dice:
«Qui lo spirito soffia tra l’Infinito e l’Unità»86. Nel libro del 1968 ha chia-
rito che esso indica le due categorie con cui si può comprendere tutta la vi-
ta umana: la categoria dell’organizzazione (o la organizzazione rivolta a rag-
giungere autonomamente l’unità o quella assoggettata a leggi obbliganti) e
quella dell’infinito (o l’infinito solo potenziale e quindi solo avvicinabile
così come avviene quando lo si fa in maniera operativa, o quello in atto,
cioè come se l’infinito fosse una cosa come le altre cose; può solo essere
concepito dalla nostra mente) 87. Quindi le due dimensioni chiariscono qua-
le è il punto di arrivo dell’intelligenza che ha attraversato i quattro cerchi in-
dicati dalla terza idea-guida88.
Queste categorie, rappresentate come due assi in croce, danno una bus-
sola o rosa dei venti89. Si noti che in una bussola ogni quadrante è caratte-
rizzato da una coppia di scelte sulle due dimensioni; e le coppie di scelte
sono quattro; si può verificare che di fatto LdV si è riferito proprio a queste
quattro coppie di scelte in varie occasioni, cioè quando ha distinto tra loro:
i quattro flagelli90, i quattro tipi di gioco91 e i quattro tipi di sovranità92.
Quindi scopriamo che, anche se non l’ha dichiarato espressamente, LdV ha
avuto una tredicesima idea-guida, quella delle due categorie; e l’ha applica-
ta più volte in punti cruciali della sua esposizione in I Quattro Flagelli93.

84
LDV, Commentaire de l’Evangile, 58; e 447.
85
LDV, La Montée des Ames Vivantes, Denoël, Paris 1968, 59.
86
LDV, La Trinità Spirituale (orig. 1971), Ed. Satyagraha, Pisa 2017, 129.
87
LDV, La Montée des Ames Vivantes. Esse forse possono essere rappresentate dalla li-
nea verticale e dalla linea orizzontale con le quali egli interpretava molte posizioni yoga.
88
Esse coincidono con le due categorie di pensiero indicate da Leibniz come “labirin-
ti” (perché tali appaiono alla sola ragione, che infatti da sola non può scegliere su di es-
si): “legge o libertà [nell’organizzarsi] e infinito potenziale o attuale”.
89
Come quelle disegnate da LdV stesso in LDV, La Trinità Spirituale, 148; ne accen-
na anche in LDV, Le Grand Retour, 185.
90
LDV, I Quattro Flagelli, cap. I par. 1.
91
Ibid., cap. II parr. 3-6.
92
Ibid., cap. IV parr. 3-6.
93
Si noti che essa non contrasta con le tre realtà viste dall’occhio semplice: Luce, Me
e Tu (è la vii idea-guida del progetto generale). Le dodici idee guida indicano con che pre-
messe si vede la vita (cioè danno le categorie della conoscenza), mentre l’occhio sempli-
ce indica che cosa si vede.

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Con le suddette modifiche e aggiunte il suo progetto generale avrebbe


tutto il necessario per rappresentare un sistema di grande importanza, ben
più di quanto esso lo abbia finora rappresentato; cioè costituirebbe un
avanzamento epocale per chiarire all’umanità che cosa è una spiritualità co-
mune a tutti gli atteggiamenti religiosi; e indicherebbe con precisione che co-
sa è oggi una spiritualità non violenta gandhiana.

Appendice 1: Presentazione di AVI di Arnaud de Mareuil 94

«Nell’estate del 1962 terminò la guerra d’Algeria; Lanza del Vasto procla-
ma anche la fine del “satyagraha” iniziato cinque anni prima. Ha colto l’oc-
casione, durante l’estate, per preparare il suo libro Approcci alla vita inte-
riore: infatti, quasi tutta l’opera era già apparsa, mese dopo mese, alle Nou-
velles de l’Arche, ma questa piccola rivista è di tipo privato e viene distri-
buita solo in abbonamento a millecinquecento compagni e amici. Come of-
frire in pasto ad un pubblico anonimo l’insegnamento che Lanza del Vasto
impartisce, soprattutto oralmente, da quasi vent’anni, e che riguarda il mi-
sterioso cammino delle anime, la preparazione e il mantenimento del terre-
no umano per renderlo capace di accogliere, contenere, far germogliare e
fruttificare il seme della Grazia? Lanza del Vasto vi si rassegnò con esitazio-
ni e scrupoli. Ricordiamo che avvenne lo stesso al momento di scrivere la
storia del Pellegrinaggio.
All’inizio degli anni Sessanta ne è sorta la necessità. La corsa al progres-
so meccanico e superficiale ha indubbiamente raggiunto il suo apice, e lo
ha raggiunto anche la cieca fede scientista che è stata riposta in questo pro-
cesso dell’Occidente. Sta sorgendo una generazione un po’ stanca, disgusta-
ta, scoraggiata ma innamorata di altro: beatnik o hippy cominciano a girare
per le strade del mondo, rifiutando l’invito alla festa indigesta, salvo sosti-
tuirla con ricette miracolose basate sulla droga o su ciarlatanerie illusorie,
se non mortali. Urge offrire a chi ha fame di spiritualità un cibo solido, one-
sto, sostanzioso, cioè autentico, leale, esigente: un pane di verità. Gli Ap-
procci alla vita interiore sono solo i rudimenti di un vero apprendimento
(non si impara a ballare in un libro e tanto meno a meditare, dice l’“Avver-
tenza”). Forti basi dottrinali, sapienti (e gustose) considerazioni all’imbocco

94
DE MAREUIL, Lanza del Vasto. Sa vie, son œuvre, son message, 270-271.

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del sentiero che conduce nel paese dell’interiore; al quale ciascuno solo
personalmente e praticamente può sperimentare di avvicinarsi, per poi en-
trarvi appieno. La vera iniziazione alla meditazione silenziosa può essere in-
segnata solo da uomo a uomo, e poi solo da soli con se stessi (e con l’aiuto
di Dio). Lo stesso vale per gli esercizi fisici o respiratori, liberamente ispi-
rati allo hata-yoga indù, e adattati alle capacità o mentalità occidentali.
Non è quindi falsa modestia (l’autore non ne è stato mai capace) se que-
sto libro maestro si chiama (come la sua tesi sulla Trinità): Approcci, per-
ché l’argomento è al di là delle capacità di qualsiasi libro o autore. Resta il
fatto che questa introduzione all’essenziale della vita merita di essere pre-
sa sul serio: assimilare il contenuto di questo libro è già un passo impor-
tante; poi riflettere su questo libro nutrirà lo sperimentatore lungo tutto il
suo viaggio, alimentando il suo approccio personale e perpetuo al mistero
ultimo e infinito... Come sappiamo, l’autore è una guida; “ha messo i piedi
sulle orme dei suoi pensieri”; gli indù direbbero: egli sa almeno un po’, ha
“raggiunto” in parte ciò di cui sta parlando.
Il libro esce da Denoël nel novembre del 1962. Ben accolto, continuerà
una lunga carriera, incessantemente ristampato, incessantemente richiesto.
Con I Quattro Flagelli presenta l’essenza dell’“insegnamento”, o “dottrina”
dell’Arca. Non è solo la filosofia personale di Lanza del Vasto ad essere
esposta in questi libri. Queste vie di riflessione sono date come superiori al-
la misura e al passo del solo Pellegrino; questi pensieri si riferiscono a sag-
gezze o rivelazioni che sono immemorabili e in qualche modo universali.
Ciò che è più personale in Lanza del Vasto, distinto ma non certo oppo-
sto, ha trovato posto in altre opere, molte delle quali emergono successiva-
mente, al ritmo di quasi un volume l’anno. La seconda carriera letteraria di
Lanza del Vasto ormai è aperta, se per questo tipo di autore si può parlare
di letteratura e di carriera.
Sant’Agostino e Pascal sono tra gli scrittori più grandi che l’umanità ab-
bia generato. L’opera di Lanza del Vasto segue la loro linea».

Appendice 2: Quale collegamento tra Introduzione alla vita


interiore e La Trinità Spirituale?

Sin da ragazzo LdV ha iniziato a formulare un sistema di pensiero con cui


voleva interpretare tutta la vita, cioè una concezione filosofica, teologica e
metafisica di tutta la possibile realtà. L’ha fissata per la prima volta del

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1927 con la sua tesi di laurea95. L’ha poi riformulata più volte nella sua vi-
ta; infine nel 1971 ha pubblicato il risultato del suo lungo lavoro intellet-
tuale96. Si può ipotizzare che ci sia un collegamento tra questi due libri.
Il consiglio di LdV sui suoi libri: “La Trinità Spirituale è un libro filosofi-
co”. LdV ha indicato al seguace dell’Arca quali suoi libri leggere e medita-
re: Introduzione alla vita interiore, per i quattro capitoli sulla non violenza,
ed altri libri; ma non La Trinità Spirituale «perché non si può chiedere ad
un Compagno dell’Arca di aver fatto studi di filosofia, né che sia portato al-
la speculazione astratta»97. Tuttavia egli segnala che il libro contiene “una
Filosofia della Conciliazione”98 che indica come superare la contrapposi-
zione tra il sì e il no; cioè una prima teoria della risoluzione non violenta
dei conflitti; il che è di interesse per tutti. Si può supporre che La Trinità
Spirituale possa dare altri contributi al discorso di Introduzione alla vita in-
teriore, sulla vita spirituale. Perciò esaminiamo questo libro.
Il libro La Trinità Spirituale inizia dalla idea della Trinità. Secondo LdV
nel mondo varrebbe una “legge delle Triadi”99 perché ogni essere può esse-
re interpretato con una triade, che LdV formula con queste parole100: inter-
no, esterno e alterno (ovvero il legame tra i primi due). In questo suo sforzo
intellettuale onnicomprensivo il libro è essenzialmente teologico-filosofico.
Infatti La Trinità Spirituale inizia come libro teologico che cerca una
conciliazione tra quante più religioni sia possibile. Egli sottolinea che l’i-

195
LDV, Gli approcci della Trinità Spirituale, Università di Pisa, 1927.
196
LDV, La Trinità Spirituale. È il libro di LdV che è stato studiato da più autori. Es-
si sono: BRUNO FORTE, Il pensiero trinitario di Lanza del Vasto, in D. ABIGNENTE – S. TAN-
ZARELLA (edd.) Tra Cristo e Gandhi, San Paolo, Milano 2003, 125-137; D. VIGNE, La mé-
taphysique de Lanza del Vasto : une surprise posthume, in VIGNE (ed.), Lanza del Vasto. Un
génie pour notre temps, 113-137. G. SALMERI, Lanza del Vasto tra metafisica greca e meta-
fisica cristiana, in DRAGO –TRIANNI (edd.), La filosofia di Lanza del Vasto. Un ponte tra
Occidente e Oriente, 31-46. F. VERMOREL, La Trinità in Lanza del Vasto. La storia dei suoi
esperimenti con la Verità, ibid., 103-114. D. BERTINI, La metafisica trinitaria in Lanza del
Vasto, ibid., 165-178; D. VIGNE, La Rélation Infinie. La Philosophie de Lanza del Vasto,
Cerf, Paris I vol. 2008, II vol. 2010 (complessivamente 1500 pagine).
197
LDV, L’Arca aveva una vigna per vela, 122. Una ricostruzione sintetica della vita fi-
losofica di LdV è in VIGNE, La métaphysique de Lanza del Vasto : une surprise posthume,
113-135.
198
Cf. LDV, La Trinità Spirituale, 66-68.
199
R. DOUMERC, Dialogue avec Lanza del Vasto, Cerf, Paris 1980, 93.
100
Vedasi ad es. LDV, La Trinità Spirituale, 48ss.

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dea di triade è vicina sia all’idea della Trinità cristiana, sia all’idea del Sat
Cit Ananda (che può essere messo al centro dell’induismo)101. Ma si tratta
di solo un avvicinamento. Nell’articolo successivo, ma sempre nel 1971
egli scrive che nel libro: «Alla Trinità Divina non si fanno che allusioni […]
[per rendere più semplice l’] abbordare il Dogma»102; quindi egli non con-
sidera i suoi collegamenti teologici come spiegazioni e nemmeno come
chiarificazioni. A noi interessati a migliorare l’esposizione di Introduzione
alla vita interiore al di fuori di ogni religione stabilita e quindi anche al di
fuori dell’idea di Dio Trinità, le “allusioni” di LdV a questo dogma, benché
possano essere molto suggestive, non danno un contributo specifico.
La Trinità Spirituale è anche un libro filosofico. Il libro Introduzione al-
la vita interiore ha una idea in comune con esso: una triade, quella vista
dall’occhio semplice (“Luce, Me e Tu”). Ma i due libri rappresentano due
punti di vista e due atteggiamenti differenti: mentre la triade di Introdu-
zione alla vita interiore indirizza al lavoro interiore e lo organizza, le tria-
di di La Trinità Spirituale TS appartengono al mondo delle idee già fatte.
Dall’invito di Introduzione alla vita interiore al lavoro su se stessi, in La
Trinità Spirituale si passa alla intellettualità; da un cammino di esperien-
ze, allo sviluppo del proprio pensiero; dalla ricerca di vita, al come orga-
nizzare i risultati intellettuali mediante triadi di idee. Il primo libro tratta
come coordinare le esperienze di vita, l’altro è deduttivo da una idea cen-

101
Però egli ammette che nessuna razionalità (e quindi nessuna triade) può spiegare la
doppia natura di Cristo (TS, p. 25); quindi con le triadi egli non può dare significato alla
incarnazione del Figlio di Dio, né al suo aver redento l’umanità dal peccato originale (che
la sua tesi di laurea non conteneva; DE MAREUIL: Lanza del Vasto. Sa vie, son oeuvre, son
message, 323). Anche l’Unità della Trinità (Dio Uno) non può essere rappresentata da una
triade di LdV. Quindi mentre la idea indù Sat Cit Ananda potrebbe essere assimilata ad
una triade, la Trinità cristiana ha molto di più di qualsiasi triade. Tanto è vero che nelle
ultime pagine di TS egli propone quella che sarebbe “La Chiave” interpretativa di tutta la
realtà; ma lì LdV presenta una tabella di tre triadi che non spiega, perché la lascia alla
meditazione del lettore (LDV, La Trinità Spirituale, 184). Probabilmente per questa incom-
pletezza, egli ha giudicato modesto il risultato di questa sua ultima riformulazione delle
sue idee. In più Daniel Vigne nel paragrafo finale dell’articolo [La Trinità Spirituale. Un
capolavoro finora sconosciuto, in A. DRAGO (ed.), Il pensiero di Lanza del Vasto, Il pozzo di
Giacobbe, Trapani, 2010, 175-186; ripetuto con un titolo un po’ diverso in: La Trinità Spi-
rituale: un libro magistrale, in LDV, La Trinità Spirituale, Ed. Satyagraha, Pisa 2014, 175-
186] dice che La Trinità Spirituale “è un libro difficile e assai speciale”. Poi tutto l’arti-
colo spiega i sette difetti non formali del libro e dà suggerimenti su come superarli.
102
LDV, La Trinità Spirituale, in LDV, Pages d’Enseignement, 277-287, 279.

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trale (triade), collegata alla Trinità cristiana. In definitiva, non è escluso


che l’unica triade di Introduzione alla vita interiore possa essere collega-
ta a quelle di La Trinità Spirituale, ma occorrerebbe farlo con una appo-
sita traduzione.
Svolta di La Trinità Spirituale alla antropologia; ma non alla soggettivi-
tà di Introduzione alla vita interiore. Dopo due capitoli sul Dio della reli-
gione cristiana e quello della religione indù, visti come triadi, LdV esce
dalla teologia filosofica per trattare (per analogia: “l’uomo è stato creato a
somiglianza di Dio”) la triade delle dimensioni dello spirito umano (“Sen-
sibilità, Intelligenza e Volontà”); con queste il libro prosegue in senso an-
tropologico e quindi si avvicina alla problematica di AVI. Però qui il punto
di vista è quello soggettivo della singola persona che cerca; in La Trinità
Spirituale il punto di vista è quello oggettivo, quello delle opere umane che
sono state organizzate in sistemi (Arte, Scienza, Morale, ecc.). Per cui, men-
tre Introduzione alla vita interiore tratta dal basso i problemi personali su
cui lavorare e risolvere, La Trinità Spirituale tratta dall’alto le esperienze
umane collettive già compiute.
Triadi dinamizzate. Inoltre in La Trinità Spirituale Lanza del Vasto sa che
l’idea di triade è di per sé statica. Perciò egli vuole “dinamizzarla”. Già nel-
l’Ottocento il filosofo Hegel lo aveva suggerito; osservo che però LdV ne ri-
fiuta i risultati, perché li giudica confusi103. Piuttosto egli si rifà a Cusano
(1401-1464); il quale propone che due termini, anche se contraddittori,
possono convergere ad un terzo (l’alterno) che trascende i due iniziali. Ma
come li trascende? LdV indica due maniere distinte: 1) passare all’infini-
to; però, per essere ben definita, questa operazione dovrebbe indicare su
quale parametro specifico (riguardante i due termini iniziali) venga esegui-
ta; parametro che però LdV lascia imprecisato; e così resta imprecisata pu-
re la sua idea; 2) usare una nuova logica, diversa da quella classica; però
egli dice che è ancora da scoprire104.
L’etica e la soluzione non violenta dei conflitti. In La Trinità Spirituale so-
lo l’ultimo capitolo, il X, tratta di etica (a parte la linea divisoria del grafi-
co di pag. 31 che rappresenta il peccato originale e la pagina 47 che lo il-

103
Sul rapporto LdV-Hegel si veda, oltre al suo libro già citato, l’articolo di D. VIGNE,
Lanza del Vasto critico di Hegel, in DRAGO – TRIANNI (edd.), La filosofia di Lanza del Va-
sto. Un ponte tra Occidente e Oriente, 47-62.
104
LDV, La Trinità Spirituale, 66-68.

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lustra rapidamente). Qui LdV suggerisce che il processo di limite all’infi-


nito dà un’idea di come risolvere i conflitti: LdV lo esemplifica con una bi-
lancia a due braccia, il cui punto di sospensione può essere elevato sempre
di più, fino all’infinito, Dio, laddove ogni divergenza viene superata105.
Questa analogia è sicuramente da aggiungere ad una nuova edizione di In-
troduzione alla vita interiore; ma non fa superare l’impasse di questo libro
sulla mancanza di una definizione di non violenza.
Possiamo concludere che La Trinità Spirituale è un libro che riguarda
idee; mentre AVI riguarda una ricerca esperienziale personale. Quindi il pri-
mo libro ha una direzione diversa e un obiettivo diverso da quelli di Introdu-
zione alla vita interiore. In definitiva, La Trinità Spirituale è di poco aiuto per
la ricerca spirituale che è l’obiettivo di Introduzione alla vita interiore.

Appendice 3: La non violenza e la nuova logica

Si noti che sia “Non uccidere”, sia “non violenza”, sono doppie negazioni.
In effetti LdV aveva già intuito il ruolo logico delle doppie negazioni; lo di-
mostra il brano seguente:

Allorché l’Indù dice Sì a tutto, conserva e accumula e s’adatta ai contra-


sti come la natura stessa, Buddha dice No al Sì e No al No, e no alla lot-
ta del Sì e del No. Ma le sue negazioni non sono negative, sono mistiche.
E la negazione della negazione non implica una nuova affermazione [co-
me è nella logica classica]: conduce ad una sospensione propizia a “var-
care la Soglia”. Solo il suo [leggi: Là dove il] silenzio è positivo106.

Poi nell’ultimo libro dice:

Nelle opere della Ragione […] volitiva, l’Infinito non è mai “attuale o
“realizzato”. È una negazione dei limiti invece che una affermazione
dell’illimitato107.

105
Ibid., 66-67 e 182.
106
LDV, Vinoba o il nuovo pellegrinaggio (orig. 1954), Jaca book, Milano 1980, 124
(corsivo aggiunto).
107
LDV, La Trinità Spirituale, 115 (corsivo aggiunto).

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Inoltre, nella intervista di R. Doumerc egli dice poco prima della morte:

RENÉ: Quanto all’arte, […] essa è presente ovunque a La Borie-No-


ble... Perciò non mi meraviglio che, tra i mezzi per esprimere il miste-
ro di Dio, lei anteponga la Poesia alla Teologia (Nouvelles de l’Arche,
xix, n° 10). Ma l’affermazione non è comune.
SHANTIDAS: La teologia [affermativa] rimane un sistema di concetti
con definizioni fisse, formule il cui sì esclude un no, mentre la poesia
è un’intuizione, il più delle volte un’intuizione sensibile di cose e per-
sone […] È una delle meraviglie della poesia che essa sa giocare tra il
sì e il no, che non decide come ragione ragionante, che lascia delle
aperture. Va più in alto e penetra di più sotto, va oltre la ragione [affer-
mativa] sia dall’alto sia dal basso. Per questo è più adatta al tipo di co-
noscenza che possiamo avere dei misteri, […]108.

Il brano indica che il pensiero umano deve poter operare al di fuori del-
la contrapposizione tra il sì e il no, la quale è la caratteristica definitoria
della logica classica dominante; o anche, indica che al pensiero umano oc-
corre “una apertura” che va oltre la “ragione ragionante [con la logica clas-
sica]” per saper “giocare tra il sì e il no”, in una sospensione propizia a
“varcare la Soglia” della contraddizione tra sì e no.
Oggi si sa che una doppia negazione indica una logica differente da quel-
la classica del sì contrapposto al no109. In effetti, questa nuova logica è sta-
ta chiarita proprio al tempo di LdV. Essa si distingue da quella classica pro-
prio perché la doppia negazione non equivale alla affermazione e quindi,
come caso indeterminato, sfugge alla opposizione speculare tra sì e no.
Quindi la nascita di questa nuova logica ha comportato la nascita di un
punto di snodo cruciale per il pensiero umano: una divisione tra due diffe-
renti mondi intellettuali.
In effetti negli ultimi anni della sua vita LdV auspicava una logica diver-
sa da quella classica; egli voleva una nuova logica il cui trattato sarebbe
stato chiamato novissimum organon110. In più abbiamo visto sopra che LdV

108
DOUMERC, Dialogues avec Lanza del Vasto, 133-134.
109
Ciò vale anche nella formalizzazione matematica della logica: J.B. GRIZE, Logique,
in J. PIAGET (ed.), Encyclopédie de la Pléyade, Gallimard, Paris 1970, 206-210; C. MAN-
GIONE – S. BOZZI, Storia della Logica, Garzanti, Milano 1993, 590.
110
LDV, La Trinità Spirituale, 66-68.

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ha intuito che nelle doppie negazioni c’era una porta ad un nuovo mondo;
purtroppo non ha saputo aprirla. In particolare, non ha saputo esplicitare le
sue intuizioni sulle doppie negazioni così da riconoscere quella della paro-
la “non violenza”. Se l’avesse fatto, avrebbe potuto chiarire molto bene che
questa parola non ha un contenuto statico (come tutte le idee greco-occi-
dentali), ma rappresenta un metodo (rivolto a condurre bene una interazio-
ne umana); e come metodo non può esser ridotto ad una singola parola af-
fermativa, né ad una regola a sì e no, astratta dalle circostanze specifiche.
Comunque, nella pratica egli sapeva (intuitivamente) tutto ciò: il suo com-
mento al voto presenta non una idea o una idealità, ma un metodo111. È da
questa rivoluzione del pensiero umano che dipendono non solo il “Non uc-
cidere”, ma anche tutti le altre “parole” di Dio che riguardano i rapporti so-
ciali (“Non rubare”, ecc.), ma anche la rivoluzione di Gesù: “Non reagite
[col male] al male”; rivoluzione che poi è stata rinnovata da Gandhi con la
doppia negazione, precisa ed essenziale: “non violenza”112.

Appendice 4: Il rapporto della vita spirituale gandhiana


con le strutture sociali

Sul tema egli all’inizio del libro sulla vita spirituale ha ricordato che ad es-
so occorre aggiungere il precedente libro I quattro flagelli113; ma non ha in-
dicato i contenuti utili di quest’ultimo. Essi sono tutti nella seconda parte
del cap. V (parr. 25-26, 33-39, 53-81). Ma vari di essi (parr. 25-26, 44, 70-
72) riguardano specificamente la fede cristiana; quindi non sono adatti al
progetto pre-religioso di Introduzione alla vita interiore. In questo libro egli
avrebbe potuto riprendere quanto aveva scritto in I quattro flagelli sul rap-
porto tra la vita spirituale e le strutture sociali; cioè avrebbe potuto racco-
glierne le sole parti utili e poi ripensarle in modo nuovo, ordinato e siste-
matico. Questa rielaborazione era impegnativa; in Introduzione alla vita in-
teriore egli non l’ha fatta.

111
Ho presentato questa nuova logica e l’ho applicata all’insegnamento di LdV in: La
filosofia di Dio di Lanza del Vasto. Studio mediante un nuovo metodo di analisi logica, in
DRAGO –TRIANNI (edd.) La filosofia di Lanza del Vasto, 185-222.
112
Lo chiarisce il famoso linguista L.R. HORN, The Natural History of Negation, Chi-
cago University Press, Chicago, IL 1989, 84.
113
LDV, Introduzione alla vita interiore [AVI], 10.

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AVI presenta tutta la vita sociale in maniera poco ordinata (pp. 172-182;
240-279; 300-308). Tra le strutture sociali negative già indicate ne I quat-
tro flagelli (la guerra, la economia capitalista, il marxismo totalitario, la po-
litica machiavellica, lo Stato, la Scienza come potenza sociale mondiale) so-
lo la guerra è ricordata (pp. 231-235, 245-248), mentre ci sono cenni alla
Scienza (pp. 52, 158), ma così fuggevoli che al lettore possono sembrare
iperboli di una tensione morale estremizzata. Cosicché si può ben pensare
che AVI propone “una serie di annotazioni” sulla non violenza, spesso so-
lo al livello individuale: LdV presenta soprattutto la sua forza spirituale, la
sua capacità di affrontare i conflitti interpersonali, la sua prospettiva di pro-
porre una società alternativa; non una esposizione sistematica di essa.
In realtà, tornato dall’India di Gandhi, LdV aveva come compito anche
quello sul tema sociale: inventare una esperienza collettiva, che era del tutto
nuova in Occidente, organizzando un gruppo di non violenti gandhiani che
congiungessero la spiritualità e la politica non solo in una vita comunitaria
ben fondata e programmata, ma anche in azioni non violente pubbliche114.
Egli non poteva imparare come condurre queste azioni da libri su questo te-
ma; allora essi erano quasi inesistenti. Saggiamente non ha voluto fare teo-
ria prima di fare la pratica; ha lasciato alla ulteriore elaborazione colletti-
va, sua e dei Compagni della Comunità, il decidere quando e come incide-
re politicamente sulle vicende della società circostante. Pertanto ha pensa-
to che il suo progetto di vita spirituale gandhiana avrebbe potuto illustrare
solo nel futuro il rapporto con la vita sociale, allorquando la Comunità del-
l’Arca avesse realizzato molte esperienze di lotte spirituali non violente in
Occidente e poi ci si fosse riflettuto sopra.
Nel 1958 egli ha preso il coraggio a quattro mani ed ha lanciato una lot-
ta pubblica non violenta delle persone spirituali contro la struttura sociale
più negative nel mondo: il nucleare militare. Ha organizzato la invasione
della centrale nucleare di Marcoule, nella quale si stavano costruendo di
nascosto bombe nucleari. Ma questa decisione fu dolorosa: quasi la metà
dei seguaci dell’Arca di allora si scandalizzò di questa spiritualità “piaz-
zaiola” e lo abbandonò.
Comunque egli non ha desistito. Dalla fine degli anni ‘50 la Comunità ha
sperimentato varie lotte sociale non violente: il digiuno in gruppo assieme

114
In precedenza egli non aveva avuto esperienze di lotte non violente collettive (in
LDV, L’Arca aveva una vigna per vela, 164-165 si può leggere come egli ha vissuto que-
sta problematica, nel caso della lotta contro la guerra di Algeria).

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a Danilo Dolci in Sicilia (1957), la occupazione della centrale di Marcoule


che costruiva bombe nucleari (1958), la lotta contro la guerra francese in
Algeria (1960), il digiuno per una legge sulla obiezione di coscienza
(1961), i digiuni e le manifestazioni a Roma affinché il Concilio si dichia-
rasse a favore della non violenza (1963-65), ecc.
Sotto questa luce Introduzione alla vita interiore ha una continuazione
precisa in Che cosa è la non violenza: la prima parte di questo secondo li-
bro ripete tutto quello che ha scritto in Introduzione alla vita interiore sul-
la non violenza (a parte i paragrafi meno importanti “Nonviolenza e Carità”
e “Della Nonviolenza Passiva”), quasi a dire che il nuovo libro stava ripren-
dendo il discorso del libro precedente per portarlo avanti nella pratica so-
ciale; pratica che egli illustra nella seconda parte del libro. Qui riporta le
azioni sociali, sue e quelle dei Compagni della Comunità, compiute negli
anni precedenti il 1970. Il racconto di esse dimostra che si può fare azione
sociale da persone spirituali non violente, sia personalmente (difesa legit-
tima, obiezione di coscienza, il suo digiuno a Roma contro le armi nuclea-
ri), sia collettiva (prima di tutto la costituzione della Comunità, pp. 43-47)
con molte lotte sociali incisive115.

Antonino Drago
Alleato della Comunità dell’Arca
Università degli Studi di Napoli Federico II
([email protected])

115
Anche poi dopo, nel 1973, egli sarà l’iniziatore (con un digiuno di quindici giorni)
della lotta contro la espropriazione militare dell’altopiano del Larzac; poi molti della Co-
munità costituirono il nerbo di quella lotta che è diventata di massa (manifestazioni fino
a centomila persone). La lotta finì gloriosamente nel 1981 (dopo la morte di LdV) col ri-
tiro dell’esproprio militare.

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ABSTRACT

UN TENTATIVO DI CONCILIARE
TUTTE LE SPIRITUALITÀ
Il libro Introduzione alla vita interiore di Lanza del Vasto

Nel 1962 Lanza del Vasto ha pubblicato un libro che proponeva quella innova-
tiva spiritualità che egli aveva già concretato in pratiche giornaliere regolari del-
la sua comunità non violenta gandhiana: cioè pre-religiosa e tesa a unire la vita
interiore con l’etica e la politica. Il libro è basato su dodici idee-guida, molto in-
novative anche per il nostro tempo. Però della penultima, la non violenza, non
ha trovato una definizione soddisfacente; perciò il suo progetto è rimasto in-
compiuto; cosicché nella seconda parte del libro indirizza il lettore a uscire dal
suo ruolo sociale per vivere direttamente la spiritualità della sua comunità non
violenta. Elenco le varie mancanze della sua esposizione e suggerisco sia una
precisa definizione di “non violenza” (che egli aveva avvicinato di molto), sia co-
me completare il suo progetto generale di una spiritualità di tipo sia universale
tra tutte le religioni che completa nello spaziare dall’interiore al politico. Quattro
appendici vedono l’opera sotto diversi aspetti.

ATTEMPTING TO RECONCIALE
ALL THE SPIRITUALITIES
Lanza del Vasto Work Introduction to Inner Life

In 1962 Lanza del Vasto published a book presenting an innovative spirituality


that he had already embodied in the regular daily practices of his Gandhian
non-violent community: that is, pre-religious and aimed at uniting the inner life
with ethics and politics. The book is based on twelve guiding ideas, which are
very innovative even for our time. However, he has not found a satisfactory def-
inition of the penultimate one, non-violence; therefore his project remained un-
finished; therefore in the second part of the book he invites the reader to get out
of his social role to experience the new spirituality directly inside the non-violent
community. I list various shortcomings of his exposition and suggest both a pre-
cise definition of “non-violence” (which he had come very close to), and how to
complete his general project of a spirituality of a type both universal among all
religions and complete, i.e. ranging from the interior life to the political life. Four
appendices deal with different aspects of the book.

Keywords: Lanza del Vasto; Non-violent Gandhian Spirituality; Definition of


Non-violence; Shortcomings of His Specific Book and Their Overcoming; Uni-
versal Spirituality

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GESTIONE DEI BENI MATERIALI:


SACERDOTI E SPIRITO DI POVERTÀ

1. Introduzione, gestione e precisazione del concetto – 2. Origine dei beni temporali nel-
la Chiesa e il gestore – 3. Che cos’è lo spirito di povertà e cosa significa essere sacerdote
gestore?; 3.1 In che modo i sacerdoti devono gestire i beni pubblici nello spirito di pover-
tà? – 4. La gestione dei beni personali del sacerdote nello spirito di povertà – 5. Perché
gestire con spirito di povertà?; 5.1 Spirito di povertà nella gestione dei beni e missione dei
sacerdoti; 5.2 Lo spirito di povertà nella gestione e acquisizione dei beni della Chiesa –
Conclusione

Parole chiave: Gestione; beni; sacerdote; povertà

1. Introduzione, gestione e precisazione del concetto

Il termine “gestione”, dal punto di vita semantico, può essere usato in di-
versi ambiti, come in diritto, in economia, in scienza delle finanze, in am-
ministrazione oppure in modo generale1. In senso economico – focus di
questa ricerca – ha un significato preciso, vale a dire: «il complesso delle
operazioni relative alle entrate e alle uscite del bilancio e più specificamen-
te le operazioni che si riferiscono a un determinato bilancio annuale»2.
Questo significato è specifico, perché indica l’insieme delle attività, o ope-
razioni amministrative contabili, che devono essere svolte dall’incaricato
(ad esempio dall’economo). In questo senso, proprio, la gestione «”contie-
ne” l’amministrazione3, intesa come semplice “unità operativa”, sostanzial-

1
Si dice ad esempio la gestione di una situazione, oppure la gestione di una crisi ecc.
2
“Gestione” in TRECCANI, Enciclopedia on line [https://www.treccani.it/enciclopedia/
gestione; https://archive.is/Z5van]; Consultare anche la voce “gestione”, in Dizionario di
Economia e gestione aziendale, Edizioni Giuridiche Simone, Napoli 20074, 459; Cf. “Ma-
nagement”, in F. PICCHI, Economics & Businnes. Dizionario enciclopedico economico e
commerciale. Inglese Italiano. Italiano Inglese, Zanichelli, Bologna 1986, 572.
3
Per non usare come sinonimi i concetti “amministrazione” e “gestione” si vedano P.
GHERRI, Amministrazione e gestione dei beni temporali della Chiesa: primi elementi di con-

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mente ridotta alla mera contabilità quando si parla di beni»4. In effetti, «la
gestione costituisce la parte dinamica, la funzionalità dell’organizzazione,
cosicché – come già variamente accennato – esiste propriamente gestione
laddove si realizzano effettive attività economico-commerciali: acquisti,
vendite, incassi, pagamenti, fatturazioni, versamenti […]»5.
Ciò considerato, la gestione può essere buona o cattiva. In effetti, è buo-
na quando il gestore con le sue attività incrementa il patrimonio, ottenen-
do degli interessi o risultati economici positivi dai beni a lui affidati oppu-
re personali. La cattiva, al contrario, porta alla perdita del patrimonio, per-
ché le azioni compiute dal gestore sono sbagliate, ed è per questo che non
hanno giovato né alla cura né all’aumento dei beni ma piuttosto alla dis-
persione e, nel peggiore dei casi, all’indebitamento finanche alla chiusu-
ra delle attività.
Tali beni materiali, la cui gestione è oggetto nel presente studio, sono in-
dispensabili alla persona, che considerando la sua natura, non può vivere
senza possederli. La buona gestione permette all’uomo di conservarli, farli
fruttificare6 e averne sempre, come mezzi terreni per vivere degnamente
nella continua ricerca dei beni eterni7.
Tenendo conto della necessità dei beni terreni, le persone, sia fisiche sia
giuridiche, sono tenute ad acquistarli o a possederli; essi però devono es-
sere gestiti correttamente al fine di incrementarli per raggiungere i fini fis-
sati. In effetti, ogni persona necessita delle risorse materiali per consegui-
re i suoi obiettivi.
In tale senso, la Chiesa, avendo i suoi propri fini, quali «ordinare il cul-
to divino, provvedere ad un onesto sostentamento del clero e degli altri mi-

cettualizzazione, in J. MIÑAMBRES (ed.), Diritto canonico e culture giuridiche nel centena-


rio del codex Iuris Canonici del 1917, EDUSC, Roma 2019, 389. Si può anche consulta-
re M. CIAN, amministrazione, in TRECCANI, Dizionario di Economia e Finanza (2012)
[https://www.treccani.it/enciclopedia/amministrazione_%28Dizionario-di-Economia-e-
Finanza%29/; https://archive.is/STAp3].
4
GHERRI, Amministrazione e gestione dei beni temporali della Chiesa: primi elementi di
concettualizzazione, 389.
5
Ibid., 394-395.
6
Cf. C. BEGUS, Diritto patrimoniale canonico, LUP, Città del Vaticano 2018, 153. Con-
sultare anche V. DE PAOLIS, I beni temporali della Chiesa. Nuova edizione aggiornata, in
A. PERLASCA (ed.), EDB, Bologna 2011, 191.
7
Cf. MESSALE ROMANO, Colletta della XVII domenica del tempo ordinario.

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

nistri, esercitare opere di apostolato sacro e di carità, specialmente a servi-


zio dei poveri» (can. 1254 § 2), deve, indipendentemente da qualunque po-
tere politico, avere i suoi propri beni per perseguire per le sue finalità. Il
raggiungimento di questi fini, che favoriscono la missione affidata alla
Chiesa, esige l’acquisto e la buona gestione dei beni. Tale esigenza prova
che esiste un legame stretto tra missione e beni materiali.
In effetti, Cristo stesso, Fondatore della Chiesa, nella sua vita terrena, fu
aiutato, nei suoi viaggi per l’insegnamento della Parola da un villaggio ad
un altro, dalle donne con i loro beni (cf. Lc 8, 1-3).
Ciò premesso, analizzando il tema in oggetto possiamo porci queste do-
mande principali: tali beni materiali da gestire sono pubblici, ossia appar-
tengono alla Chiesa, oppure sono personali dei sacerdoti, perciò privati? E
chi è il gestore?

2. Origine dei beni temporali nella Chiesa e il gestore

Per meglio rispondere a questi interrogativi fondamentali, precisiamo bre-


vemente l’origine dei beni della Chiesa. Tutti i beni, con cui la Chiesa prov-
vede all’evangelizzazione dei popoli sono essenzialmente delle offerte libe-
re effettuate dai fedeli in diverse occasioni (cf. cann. 222, 1260. 1264,
1299-1300). In effetti, il patrimonio ecclesiastico viene dai fedeli, di cui
tanti si sacrificano per sovvenire alle necessità della Chiesa8. Nelle comu-
nità, questo patrimonio, cui ci si riferisce con l’espressione “beni ecclesia-
stici”, può essere gestito dai fedeli, tra cui i ministri sacri, al fine di otte-
nere i fini perseguiti, secondo le disposizioni. Senza negligere gli altri fe-
deli, esperti nella gestione dei beni, in questa ricerca si prende soltanto in
considerazione il sacerdote che, nel gestire il patrimonio, ha la sua natura
propria conformemente al suo status. Difatti, l’identità del sacerdote secon-
do le norme, gli impone il modo di gestire il bene materiale, non solo quel-
lo ecclesiastico, ma altresì quello personale (l’uso del proprio bene). Indi-
pendentemente del proprietario del bene (pubblico o privato) il sacerdote
non deve gestirlo a suo piacimento, in quanto esiste un legame tra l’origine
dei beni, l’identità del ministro sacro (gestore) e lo scopo da conseguire

8
Cf. M. CALVI, Commento ad un canone: sovvenire alle necessità della Chiesa (can. 222
§1), “Quaderni di Diritto Ecclesiale” 2 (1989), 1, 95-99.

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nonché la missione di annunziare il Vangelo. Considerando questo legame,


i sacerdoti sono tenuti di avere un certo atteggiamento o comportamento
verso tali beni. Tale condotta viene chiamata “spirito di povertà”.

3. Che cos’è lo spirito di povertà e cosa significa


3. essere sacerdote?

La povertà tout court generalmente è la condizione di chi è indigente, mi-


sero, perché manca dei beni materiali per vivere degnamente9. Questa po-
vertà è quella materiale, perché tale persona indigente non ha le risorse ne-
cessarie per sovvenire ai suoi bisogni quotidiani. In questo senso scriveva
Paolo VI, la povertà ha il senso di «carenze materiali di coloro che sono pri-
vi del minimo vitale»10. La povertà spirituale, invece, non è la mancanza
dei beni, bensì il distacco da tali risorse, seppure la persona possieda enor-
mi ricchezze di questo mondo. Questo è lo spirito di povertà, che è richie-
sto a tutti i battezzati, perché il fedele incorporato a Cristo (cf. can. 204),
deve considerare questi beni materiali che possiede come un mezzo e non
una finalità, giacché ha uno scopo più grande nonché sublime. Tale spirito
di povertà è la povertà evangelica11 che è «sottomissione di tutti i beni ter-
reni al Bene supremo di Dio e del suo Regno»12, il quale è la vera e defini-
tiva “ricchezza”, il cui possesso deve essere l’obiettivo unico e essenziale
di tutti i cristiani, soprattutto dei sacerdoti. Perciò lo spirito di povertà «è
uso grato e cordiale di questi beni ed insieme lieta rinuncia ad essi con
grande libertà interiore, ossia in ordine a Dio e ai suoi disegni»13, e «non è
certamente disprezzo e rifiuto dei beni materiali»14 di questo secolo, per-
ché servono a tutti per vivere degnamente e perseguire le finalità.

19
Cf. voce “povertà” in TRECCANI, XXX; Dizionario di economia e finanza [https://www.
treccani.it/enciclopedia/poverta_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)/; https://archive.is/
HLuVA].
10
PAOLO VI, Enc. Popolorum progressio, n. 21.
11
Si consulti A. ASTE (ed.) Povertà evangelica, missione e vita consacrata: i beni tem-
porali negli Istituti di vita consacrata e nelle Società di vita apostolica, Marcianum Press,
Venezia 2016.
12
Ivi.
13
GIOVANNI PAOLO II, Esort. post Sinod. Pastores Dabo vobis, n. 30.
14
Ivi.

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

Di conseguenza tale spirito di povertà, pronunciato con un voto dai reli-


giosi, è la povertà evangelica, che non è scarsezza delle risorse, bensì il dis-
tacco dalle stesse, seppure abbondino15. Se tale spirito di povertà è obbli-
gatorio giuridicamente per i religiosi, in ragione del voto (cf. can. 600), tut-
tavia i sacerdoti diocesani altresì sono tenuti moralmente a tale dovere,
benché non professino il voto, in quanto sono anche essi consacrati e con-
figurati a Cristo che, nell’uso dei beni, è sempre stato distaccato16. I sacer-
doti devono avere dai beni libertà e docilità, originando in essi «il discer-
nimento spirituale, che consente di mettersi nel giusto rapporto con il mon-
do e le realtà terrene» (PO 17).
Per tutti i sacerdoti, sia religiosi che diocesani, tale rapporto di distacco
è estremamente importante, al fine di dimostrare che vivono in mezzo al
mondo, senza tuttavia appartenergli, e hanno sempre presente l’insegna-
mento di Cristo, il loro Maestro, usando per tanto i beni terreni come se non
ne usassero (cf. PO 17).
Infatti, con il sacramento dell’ordine i sacerdoti «si configurano a Cristo
sacerdote come ministri del capo, allo scopo di far crescere ed edificare tut-
to il suo corpo che è la Chiesa» (PO 12). Cristo – modello nello spirito di
povertà, a cui sono configurati i sacerdoti tramite l’ordine sacro – impone
loro moralmente questo dovere. In virtù di tale configurazione, essi stessi si
contraddirebbero e negherebbero la loro identità o status, se ponessero un
atto contrario.
La questione è di causa ed effetto, ossia dai frutti si riconosce l’albero
(cf. Mt 7, 16-20). Il sacerdote, anche se diocesano, non può contraddire
Cristo nell’uso modesto e sobrio dei beni (cf. can. 282). Infatti, poiché Cri-
sto non si è mai piegato né attaccato ai beni con tutte le proposte offertegli
dal maligno17, i fedeli laici, considerando il comportamento del Maestro,
non tollerano mai i sacerdoti che si attaccano ai beni, negando in toto Cri-
sto con una condotta lussuosa e sontuosa. Al riguardo Papa Francesco affer-

15
Alla ricchezza anche se abbonda non attaccare il cuore (cf. Sal 61, 11).
16
Sul dovere dello spirito di povertà di tutti i sacerdoti, oltre PO 17, si vedano anche
A. ZAMBON, Il consiglio evangelico della povertà nel ministero e nella vita del presbitero dio-
cesano, Roma, Ed. Pont. Università Gregoriana, Roma 2002, 119-122; Y.J. ATTILA, La pé-
réquation financière: un défi pour l’autosuffisance économique des Jeunes Eglises, Marcia-
num Press, Venezia 2011, 217-220; per approfondimento consultare anche B. DI MARTI-
NO, Povertà e ricchezza: esegesi dei testi evangelici, EDI, Napoli 2016.
17
Cf. Mt 4, 1-11, parabola delle tentazioni.

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ma: «Il nostro popolo perdona molti difetti ai preti, salvo quello di essere
attaccati al denaro. Il popolo non lo perdona»18.
Poiché i sacerdoti hanno bisogno di questi mezzi terreni per svolgere il
loro servizi, essi sono tenuti a gestirli con la mens che Cristo19 ebbe dinnan-
zi alle risorse di questo mondo. Infatti, i sacerdoti, per rispettare la loro
identità, sono tenuti ad osservare le disposizioni giuridiche sia comuni sia
particolari date dai Vescovi. Qualunque gestione contraria alle disposizioni
in vigore non solo contraddice la natura di sacerdote configurato a Cristo,
ma altresì lo espone alle critiche che danneggiano lo stesso e tutto il corpo
sacerdotale. Per evitare questi giudizi negativi, i preti sono tenuti di gesti-
re i beni materiali in modo che rispecchi e rispetti la loro identità, come
precisa il principio agere sequitur esse.
Di conseguenza, tenendo conto delle oblazioni dei fedeli, l’essere del sa-
cerdote e le finalità da perseguire con i beni temporali (cf. can. 1254 § 2),
i ministri sacri sono obbligati ad ottemperare alle disposizioni giuridiche in
materia. Quali sono queste disposizioni giuridiche che permettono di ri-
spettare questi beni?

3.1 In che modo i sacerdoti devono gestire i beni pubblici nello spirito
3.1 di povertà?

Le risorse materiali della Chiesa, essendo un bene comune per la missio-


ne, devono essere gestite dai sacerdoti con spirito di povertà, evitando ogni
spreco e ogni attaccamento morboso, nascondendo tutta la gestione ai fede-
li. Per testimoniare lo spirito di povertà, il sacerdote deve innanzitutto rico-
noscere il suo essere configurato a Cristo e l’origine dei beni, al fine di non
gestire come una persona qualsiasi, ma privilegiando una gestione corre-
sponsabile20 negli organi previsti dalla Chiesa, dove tutti sono informati e
nulla è occultato. Nascondere operazioni contabili suscita sospetto e mor-

18
FRANCESCO, Catechesi tenuta nel giubileo straordinario della misericordia, terza medi-
tazione del 2 giugno del 2016 nella basica di San Paolo Fuori le mura, nel sito del Vaticano
[https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/june/documents/papa-france-
sco_20160602_giubileo-sacerdoti-terza-meditazione.html; https://archive.is/006iG].
19
Da ricco come era si è fatto povero per arricchire tutti gli uomini (cf. 2 Cor 8, 9).
20
Cf. A. D’AURIA, Parere, consenso e responsabilità: can. 127, in GRUPPO ITALIANO DO-
CENTI DI DIRITTO CANONICO (ed.), Il governo nel servizio della comunione ecclesiale, Glos-
sa, Milano 2017, 75.

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

morazione, a danno della Chiesa. Per garantire una gestione che permetta
di evitare frodi, segno di un attaccamento alle risorse terrene e espressione
della mancanza dello spirito di povertà, il diritto canonico prevede delle
norme, affinché la gestione della cosa pubblica non sia concentrata nelle
mani di una sola persona, che potrebbe comportarsi come il “proprietario”
delle risorse ecclesiastiche. In tale gestione, i responsabili, seppure siano
rappresentati legali, non sono proprietari, che agiscono a loro piacimento.
A questo proposito, compete a tutti i formatori insegnare e ribadire queste
disposizioni a tutti i pastori, specialmente ai futuri ministri sacri, affinché
siano evitati danni nelle comunità.
Sotto questo profilo, per assicurare una gestione corresponsabile, segno
dello spirito di distacco dai beni terreni, il codice stabilisce in modo genera-
le che ogni persona giuridica «abbia il proprio consiglio per gli affari econo-
mici o almeno due consiglieri, che coadiuvino l’amministratore nell’adempi-
mento del suo compito, a norma degli statuti» (can. 1280). Con questo cano-
ne il codice evita l’esercizio solitario della gestione dei beni materiali della
Chiesa, perché non permette una gestione opaca, in cui nessuno è informato.
Infatti, la gestione individuale comporta il rischio di compiere atti illeciti,
poiché non esiste nessuna contrapposizione o contraddizione anche soltanto
potenziale o tecnica. Questo modo di gestire i beni della parrocchia è in vio-
lazione della norma sopracitata e implica una mancanza di spirito di povertà,
perché il sacerdote si attacca alle risorse e le spende come fossero le sue.
Per evitare questa cattiva gestione individualista da parte di un sacerdo-
te, il can. 1280 dispone che sia un gruppo, i cui membri devono essere al
corrente dei movimenti, entrate, uscite, depositi bancari o compravendite.
Inoltre, per impedire che una sola persona sia il gestore solitario, singo-
lo incontestato e incontestabile, quasi un capo indiscusso, un padre padro-
ne che impone i suoi voleri sui beni della diocesi, le disposizioni previste
per la curia diocesana dal Legislatore nel titolo 3, «il consiglio per gli affa-
ri economici e l’economo» (cf. cann. 492-494) sono molto rilevanti.
In effetti, per scongiurare tale forma di gestione opaca, difficilmente ve-
rificabile, si dispone che «in ogni diocesi venga costituito il consiglio per
gli affari economici, presieduto dallo stesso Vescovo diocesano o da un suo
delegato» (can. 492 § 1). Inoltre, per non permettere che la gestione sia fat-
ta da una sola persona, incompetente in materia economica, che decide
unilateralmente a danno della comunità, si prevede che tale consiglio deve
essere «composto da almeno tre fedeli, veramente esperti in economia e nel
diritto civile ed eminenti per integrità, nominati dal Vescovo» (can. 492 § 1).

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Papa Francesco, nell’esortazione Evangelii Gaudium sottolinea la rilevanza


di questi organismi parlando di comunione dinamica e aperta a tutti21. Per
di più, per garantire una integrità maggiore nella gestione sinodale dei fon-
di, il diritto preserva il consiglio dal nepotismo da parte del Vescovo, per-
ché ci sarebbe il rischio da parte sua di applicare il detto popolare: «i pan-
ni sporchi si lavano in famiglia»22. Infatti, l’autorità, complice degli illeci-
ti in materia della gestione dei fondi ecclesiastici da parte di un famigliare
o parente stretto, incaricato, potrebbe nascondere tali inganni, a danno dei
beni della comunità.
Per fermare tale gestione familiare, espressione della mancanza di spiri-
to di povertà, molto pericolosa per il raggiungimento delle finalità delle co-
munità, si dispone che devono essere «esclusi dal consiglio per gli affari
economici i congiunti del Vescovo fino al quarto grado di consanguineità o
di affinità» (can. 492 § 3).
Infatti, la chiarezza della norma permette di proteggere i beni materiali
della Chiesa contro ogni dilapidazione nel nucleo familiare a scapito della
comunità ecclesiale.
Sempre sotto lo stesso profilo dello spirito di povertà, per evitare una ge-
stione individualista e autoritaria, in cui un solo responsabile si “affeziona”
al denaro della Chiesa e prende delle decisioni senza confrontarsi con al-
tri, si dispone che l’economo, nella sua gestione, seppure nominato, deve
compiere il suo dovere rispettando questi tre elementi:
1) seguire le modalità definite dal consiglio per gli affari economici;
2) amministrare i beni della diocesi sotto l’autorità del Vescovo;
3) fare le spese che il Vescovo o altri da lui incaricati abbiano legittima-
mente ordinato, sulla base delle entrate stabili della diocesi (cf. can.
494 § 3).
Inoltre, per impedire ogni gestione senza controllo da parte dell’econo-
mo, che sia l’unico ad operare in tutto senza verifica, il codice stabilisce

21
«Nella sua missione di favorire una comunione dinamica, aperta e missionaria, do-
vrà stimolare e ricercare la maturazione degli organismi di partecipazione proposti dal Co-
dice di diritto canonico [cfr cc. 460-468; 492-502; 511-514; 536-537] e di altre forme di
dialogo pastorale, con il desiderio di ascoltare tutti e non solo alcuni, sempre pronti a far-
gli i complimenti. Ma l’obiettivo di questi processi partecipativi non sarà principalmente
l’organizzazione ecclesiale, bensì il sogno missionario di arrivare a tutti», FRANCESCO,
Esort. Apost. Evangelii Gaudium n. 31.
22
Detto popolare di tante culture, tra cui quella Ewe nel sud del Togo.

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

che «nel corso dell’anno egli deve presentare al consiglio per gli affari eco-
nomici il bilancio delle entrate e delle uscite» (can. 494 § 4). Sotto lo stes-
so profilo, il Legislatore insiste sul rendiconto annuo che l’economo deve
presentare al Vescovo, il quale per evitare delle frodi deve farlo esaminare
dai membri del consiglio degli affari economici (cf. can. 1287 § 1). Questo
esame, molto rilevante, deve essere fatto dagli esperti per evidenziare ogni
malversazione come ad esempio fatture false o gonfiate messe nel bilancio,
oppure emissioni delle fatture pagate per i lavori mai fatti o inesistenti. Ta-
le controllo non consiste solo nel verificare teoricamente la correttezza del-
le entrate e uscite messe a bilancio, che possono essere false dal punto di
vista dell’oggettività, ma soprattutto nel verificare concretamente la reale
corrispondenza tra le fatture e i prezzi, ossia spese o i lavori realmente ese-
guiti nei cantieri23.
Per assicurare la correttezza nelle spese, tutti i gestori sono tenuti ad at-
tendere alle loro funzioni con la diligenza di un buon padre di famiglia (cf.
can. 1284), che non soltanto deve vigilare e curare i beni rispettando le nor-
me canoniche e civili, ma altresì pagare i debiti e i mutui (cf. can. 1284),
senza dimenticare di stipulare un contratto giusto con gli impiegati al fine
di evitare dei danni ai beni della Chiesa in caso di citazione in giudizio (cf.
can. 1286). Il gestore deve evitare che avvengano errori gravi, dovuti al fat-
to che si è attaccato ai beni per i suoi propri interessi nascondendo le ope-
razioni contabili ai membri degli organismi previsti dal codice, creando
delle perdite alla comunità.
Sulla stessa linea, nelle parrocchie, per la gestione nello spirito di pover-
tà, che non permette che i beni siano gestiti solo dal sacerdote come egli
vuole, si dispone che vi sia il consiglio per gli affari economici in cui i fe-
deli, scelti secondo il diritto universale e particolare, aiutino il parroco che,
fermo restando il suo ruolo disposto dal can. 532, si avvale di tale gruppo
nella gestione e nell’amministrazione24 dei beni della parrocchia (cf. can
537). Tutte queste norme hanno un unico scopo, che è quello di coinvolge-
re i fedeli nella gestione dei beni ecclesiastici, per evitare che una sola per-

23
Cf. Y.J. ATTILA, La trasparenza nell’amministrazione dei beni temporali nelle giovani
Chiese, in A. ASTE (ed.), La trasparenza nella gestione dei beni ecclesiastici: dalla gover-
nance alla accountability, Marcianum Press, Venezia, 2019, 62.
24
Qui l’amministrazione non vuole dire solo gestire ossia esecuzione delle operazioni
contabili fatto dall’economo, ma anche la presa delle decisioni a livello delle riunioni nei
consigli.

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sona si accaparri il patrimonio della Chiesa, come se fosse una sua proprie-
tà privata. Il coinvolgimento dei fedeli nella gestione della cosa pubblica è
un segno di rinuncia ai beni di questo secolo da parte dei sacerdoti.
Possiamo dire che lo spirito di povertà aiuta il sacerdote a costituire que-
sti organismi, affinché sia assistito nella gestione dei beni ecclesiastici per
non monopolizzarli come fossero i suoi. La costituzione di questi organismi
non è un’opzione, ma un obbligo. Ora, dopo avere esaminato la gestione dei
beni ecclesiastici dal sacerdote secondo queste norme, ci si chiede: come
deve gestire i suoi?

4. La gestione dei beni personali del sacerdote


4. nello spirito di povertà

I sacerdoti, sebbene siano uomini bisognosi anche dei beni temporali, pe-
rò devono usarli rispettando il loro essere. Il loro stato li obbliga ad evitare
di usare i beni come farebbe una qualunque persona del mondo, poiché con
la consacrazione essi «vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di
Cristo eterno sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera»25,
che per essere efficace deve essere adempiuta senza nessuno attaccamen-
to ai beni terreni. Questi ultimi, come mezzi per vivere degnamente e ser-
vire il popolo di Dio, devono essere utilizzati secondo gli insegnamenti di
Cristo e della Chiesa in materia. La vita del cristiano, specialmente del sa-
cerdote non dipende dalla quantità dei beni che possiede, ma da come tali
risorse sono gestite per l’annunzio della Parola di Dio in vista del fine ulti-
mo (cf. Lc 12, 15). Il loro stato, infatti, vieta agli stessi di usare i beni, sep-
pure personali, come qualunque individuo, perciò essi devono servirsene
conformemente alla loro identità26. In effetti, i sacerdoti, in virtù della loro
ordinazione sono chiamati volontariamente ad abbracciare lo spirito di po-
vertà, che renderà più evidente la loro configurazione a Cristo e permette-
rà loro di dedicarsi totalmente al loro ministero27.

25
PO 12, cf. anche PIO XI, Enc. Ad Catholici sacerdotii, AAS 28 (1936), 10.
26
Cf. Sal 62, 11: «Alla ricchezza, anche se abbonda, non attaccate il cuore».
27
Cf. CONGRÉGATION POUR L’EVANGÉLISATION DES PEUPLES, Guide de vie pastorale pour
les prêtres diocésains des Églises qui dépendent de la Congrégation pour l’Evangélisation
des Peuples, Juin 1989; cf. anche PAOLO VI, Discorso ai Vescovi, AAS 60 (1968), 639-649;
GIOVANNI PAOLO II, Encyc. Sollicitudo Rei Socialis, AAS 80 (1988), 572-574.

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

Essi, benché vivano nel mondo, non sono del mondo (cf. Gv 17, 14-16),
dove le persone in genere hanno una certa mentalità rispetto ai beni di que-
sto secolo, perciò devono avere un giusto rapporto di distacco e di libertà
rispetto alle risorse temporali28. Questo distacco dai beni si impone a cia-
scun sacerdote, a prescindere che sia religioso o diocesano, perché l’obbli-
go è in virtù della loro configurazione a Cristo, Modello che gli stessi devo-
no non solo imitare ma altresì testimoniare. Se i religiosi lo mettono in pra-
tica in modo peculiare con il voto, che impone l’obbligo del testamento e la
comunione dei beni (cf. can. 668), tuttavia lo spirito di povertà non è op-
zionale per i sacerdoti diocesani.
Quest’ultimi, essendo gli strumenti vivi di Cristo per perpetuare la sua
missione, devono proseguire tale opera attraverso l’uso corretto dei mezzi
materiali personali con lo spirito di povertà evangelica, perché è un dato di
fatto che i popoli si ribellano contro ogni ministro sacro che considera i be-
ni di questo secolo non come un mezzo ma come il fine. Tale attaccamento
compromette gravemente la propagazione della fede, per cui essi sono or-
dinati, al fine di testimoniare Cristo, il loro Modello e Esempio, il quale da
ricco è diventato per noi povero, affinché la sua povertà ci facesse ricchi
(cf. 2 Cor 8, 9; PO 17). La considerazione e l’utilizzo dei beni temporali da
parte di Cristo costituiscono e rimangono l’Ideale unico per i sacerdoti, che
devono seguirlo, rispettarlo e imitarlo. Il legame tra Cristo e i sacerdoti, li
costringe intrinsecamente ad «usare i beni temporali solo per quei fini ai
quali essi possono essere destinati d’accordo con la dottrina di Cristo Si-
gnore e gli ordinamenti della Chiesa»29.
Per questo motivo considerando l’importanza dell’argomento in esame su
quello della gestione e dello spirito di povertà, tante disposizioni giuridiche
e Magisteriali dispongono sulla gestione dei beni materiali personali dei
ministri sacri.
In effetti, il Concilio Vaticano II, riprendendo in sostanza le disposizioni
del sinodo di Parigi nell’ 829 e del Concilio di Trento, stabilisce che i sa-
cerdoti «non trattino dunque l’ufficio ecclesiastico come occasione di gua-
dagno, né impieghino il reddito che ne deriva per aumentare il proprio pa-

28
Cf. CONGRÉGATION POUR L’EVANGÉLISATION DES PEUPLES, Guide de vie pastorale pour
les prêtres diocésains des Églises qui dépendent de la Congrégation pour l’Evangélisation
des Peuples, Juin 1989.
29
PO 17.

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trimonio personale»30. Essi, infatti, senza affezionarsi in modo alcuno alle


ricchezze31, debbono evitare ogni bramosia ed astenersi da qualsiasi tipo di
uso stravagante dei beni (cf. PO 17). «Anzi, essi sono invitati ad abbraccia-
re la povertà volontaria, con cui possono conformarsi a Cristo in un modo
più evidente ed essere più disponibili per il sacro ministero» (PO 17).
Vista la rilevanza dello spirito di povertà evangelica nella gestione dei
beni, tali risorse, seppure proprie dei sacerdoti per il loro sostentamento
economico, non possono essere usate come farebbe una persona qualunque,
che spende il suo salario come le piace. La remunerazione, disposta dal
can. 281 che permette al sacerdote di vivere dignitosamente e servire il po-
polo di Dio, deve essere gestita conformemente allo spirito di povertà, non-
ché secondo il suo stato.
Al riguardo il codice del 1983 stabilisce delle norme chiare.
Tale spirito, in conformità con l’identità dei sacerdoti, obbliga che gli
stessi «conducano una vita semplice e si astengano da tutto quello che può
avere sapore di vanità» (can. 282 § 1). La semplicità e la modestia nell’u-
tilizzo dei beni, menzionate nella norma, non vogliono dire che devono es-
sere miseri e privarsi delle cose necessarie, ma sono tenuti ad evitare ogni
uso mondano delle proprie risorse, apparendo come qualsiasi uomo di que-
sto secolo, perché la loro configurazione in sé glielo proibisce.
Tale moderazione deve essere dimostrata nella vita quotidiana, evitando
ogni accumulazione solo per sé dei beni terreni, ma privilegiando la condi-
visione delle proprie risorse, derivate dalla remunerazione e dai servizi pa-
storali, con le persone più bisognose e impiegandole volontariamente per il
bene della Chiesa e per le opere di carità (cf. can. 282 § 2).
Sotto lo stesso profilo del distacco, si stabilisce che «dal momento che
tutti i sacerdoti operano per un unico fine, cioè l’edificazione del Corpo di
Cristo, siano uniti tra di loro con il vincolo della fraternità» (can. 275).
Quest’ultima non deve essere limitata al mero chiamarsi confratelli, ma de-
ve esprimersi collaborando reciprocamente, e soprattutto condividendo le
risorse materiali, al fine di testimoniare la fraternità in Cristo nonché ap-
partenenza allo stesso presbyterium nella diocesi. Al riguardo non sarebbe

30
SIN. DI PARIGI dell’829, cap. 15: MGH, Legum sectio III, Concilia, tomo. 2, 622; CON.
DITRENTO, Sess. XXV, Decr. de reform., cap. I: Conc. Oec. Decreta, ed. Herder, Romae
1962, 760-761.
31
Cf. Sal 62, 11.

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un controsenso se in una diocesi, il Vescovo con una disposizione partico-


lare stabilisse che tutti i preti che hanno il sostentamento regolare, per di-
mostrare lo spirito di povertà contribuissero con una donazione annua al-
l’incremento del fondo per la cassa comune del can. 1274 § 3. Ciò per di-
mostrare la loro fraternità e condivisione nonché sobrietà.
Inoltre, lo spirito di povertà nella gestione dei beni deve essere dimostra-
to dai sacerdoti, nell’uso delle cose, evitando quelle lussuose come al con-
trario fanno le persone di questo secolo. Per quanto concerne le cose lus-
suose, la loro identificazione dipende da tanti fattori quali:
a) il livello di vita socio-economica dove il sacerdote serve;
b) la condizione materiale dei fedeli del luogo;
c) la situazione economica e finanziaria concreta della popolazione in
genere del luogo.
Questi fattori sono importanti per bene definire le “cose lussuose”, che
possono essere relative da un luogo ad un altro. Ciò che può essere consi-
derato lussuoso in un paese “A” può essere normale in un altro “B”, tutto
dipende dal livello di vita sociale della popolazione. Perciò il sacerdote de-
ve tenere conto di tutti questi fattori nell’uso dei beni, anche propri, evitan-
do le cose superflue e stravaganti che scandalizzano.
Sulla stessa linea, per evitare qualunque comportamento contrario allo
spirito di povertà, dannoso alla Chiesa nonché al loro servizio, i sacerdoti
devono avere «un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate
dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali»
(can. 284). Il problema sull’abito ecclesiastico decoroso, che prova lo spi-
rito di povertà dei sacerdoti rimane molto delicato vista la nostra identità,
perché concerne un dovere morale grave inerente allo stato del consacra-
to32. Come si dice, l’abito non fa il monaco, ma permette di distinguerlo in
mezzo ad altri. Per un sacerdote, qualunque abito, diverso da quello che è
suo, rimane una contro testimonianza se egli invece di presentarsi con la
sua “divisa” secondo le disposizioni della Conferenza Episcopale, si veste
come un laico. Si può dire che se in tale luogo non ci sono delle controin-
dicazioni né persecuzioni dei sacerdoti o proibizioni dal governo per un
segno religioso, è meglio rispettare l’abito ecclesiastico definito dalla Con-
ferenza.

32
In ottemperanza a questa norma per evitare che i sacerdoti portino abiti dei laici, in
tanti paesi essi portano la talare oppure il clergyman.

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Tale abito evita al sacerdote di comprare dei vestiti magari anche lussuo-
si e mondani nonché firmati, contrari allo spirito di povertà. A tale riguar-
do il sacerdote deve interrogarsi: chi sono io e quali sono i miei obblighi?
Per di più, per rispettare tale spirito di povertà conforme alla consacra-
zione, si stabilisce che «i chierici si astengano del tutto da ciò che è scon-
veniente al proprio stato, secondo le disposizioni del diritto particolare»
(can. 285 § 1).
Di conseguenza essi devono evitare tutto «ciò che, pur non essendo in-
decoroso, è alieno dallo stato clericale» (can. 285 § 2).
Queste norme non significano che il sacerdote deve vivere come un in-
digente, privo dei beni materiali, bensì in modo normale possedendo le ri-
sorse necessarie di cui ha bisogno per il suo servizio di pastore e vivere in
maniera degna, evitando l’uso di cose pompose, care e sfarzose.
Inoltre, lo spirito di povertà nella gestione dei beni, seppure personali,
obbliga il sacerdote a non intromettersi negli affari che richiedono una ga-
ranzia finanziaria da parte sua, il che potrebbe distrarlo e impedirgli di pri-
vilegiare il suo ministero sacerdotale, creandogli dei problemi finanziari33.
A tale riguardo è proibita ai sacerdoti «la fideiussione, anche su propri be-
ni, senza consultare il proprio Ordinario; così pure si astengano dal firma-
re cambiali, quelle cioè con cui viene assunto l’impegno di pagare un de-
bito senza una ragione precisa» (can. 285 § 4).
La disposizione si colloca nella linea della gestione con lo spirito di po-
vertà, perché un sacerdote fideiussore, ossia colui che si obbliga personal-
mente verso il creditore con un contratto di fideiussione, può arrivare an-
che a mette a rischio i beni pubblici della Chiesa. Infatti, la fideiussione,
essendo «una garanzia personale mediante cui un terzo si impegna verso un
creditore ad adempiere l’obbligazione del debitore principale»34, riveste un
obbligo giuridico molto gravoso per un consacrato, un sacerdote che deve
evitare affanno e preoccupazione per i beni di questo mondo. Il divieto ha
valore preventivo, perché nel caso in cui il sacerdote non riesca ad onora-
re il suo impegno di garante di un debito con i suoi propri soldi, potrebbe
facilmente appropriarsi delle risorse della comunità, al fine di evitare una

33
Si può citare come esempio quello dei sacerdoti che contraggono debiti o prestiti
bancari.
34
Voce fideiussione in Treccani, Enciclopedia online [https://www.treccani.it/enciclope-
dia/fideiussione; https://archive.is/AnBbg].

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sanzione penale vergognosa. Contro una gestione nello spirito di povertà,


egli, nel peggiore dei casi, potrebbe ipotecare i beni della comunità eccle-
siale, a scapito della Chiesa.
Sotto lo stesso profilo di distacco dei beni «è proibito ai chierici di eser-
citare, personalmente o tramite altri, l’attività affaristica e commerciale, sia
per il proprio interesse, sia per quello degli altri, se non con la licenza del-
la legittima autorità ecclesiastica» (can. 286). Infatti, il sacerdote è ordina-
to per concentrarsi totalmente sul suo ministero, che deve essere la sua uni-
ca, prevalente e costante preoccupazione nel suo pensiero, il quale non può
essere disturbato e perturbato da un’attività affaristica. Quest’ultima, oltre
ad essere la competenza degli esperti in materia, richiede sempre tempo,
strategie e tecniche, le quali per un sacerdote possono essere causa di dis-
trazione dal suo ministero, che lo obbliga a non trascurare i fedeli per an-
dare nel suo negozio o ad occuparsi dei suoi affari. Il divieto permette al sa-
cerdote di dare priorità assoluta al ministero, per cui egli è ordinato. A ta-
le proposito la Congregazione per il Clero scriveva che «difficilmente il sa-
cerdote si renderà vero servo e ministro dei suoi fratelli, se sarà preoccupa-
to delle sue comodità e di un eccessivo benessere»35. Pertanto, si asterrà da
quelle attività lucrative che non sono consone al suo ministero (cf. can.
285). Inoltre, il presbitero deve evitare di offrire motivi perfino alla più lie-
ve insinuazione riguardo al fatto che egli possa concepire il proprio mini-
stero anche come un’opportunità per ricavare benefici, favorire i suoi o cer-
care posizioni privilegiate36.
Sulla stessa linea, relativamente allo spirito di povertà nella gestione dei
beni personali, lo stile di vita del sacerdote rimane una questione molto ri-
levante. I sacerdoti, seppure abbiano il diritto di vivere dignitosamente e
stare in buona salute per servire interamente gli altri quando necessario,
tuttavia sono obbligati dal loro stato ad usare soltanto ciò che è necessario
per esercitare correttamente e convenientemente il loro ministero di annun-
ziatore. Sullo stile di vita, una guida della Congregazione per l’Evangeliz-
zazione dei Popoli nel 1989 scrive: «In certi contesti sociali, diventare sa-
cerdoti significa praticamente salire ad un livello della gerarchia sociale.
Questa situazione, che può esistere, infatti, senza essere ricercata non de-

35
CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri dell’11
febbraio 2013 n. 83.
36
Ivi.

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ve creare una distanza fra il sacerdote e il suo ambiente di vita»37. Questa


concessione descritta può essere riscontrata in alcune regioni, tuttavia, il
sacerdote, conoscendo la sua identità di servo e non dominatore, deve con
il suo comportamento semplice correggere tale errore usando i beni terreni
conformemente al suo stato, che diventerà in tali occasioni segno di inse-
gnamento e di evangelizzazione. Ciò che è contestato sovente ai sacerdoti
circa i beni di questo mondo, non è la cosa in sé bensì la scelta e l’utilizzo
di un materiale che, seppure utile, è talvolta troppo splendente e costoso
per un servizio, che si può fare bene con una cosa modesta, semplice e buo-
na nonché meno cara. Perciò essi devono rinunciare volontariamente a ciò
che non è necessario, soprattutto a ciò che è superfluo.
Nello spirito di povertà, essi devono seguire un criterio di semplicità e
sobrietà nell’organizzazione delle cose personali38, soprattutto la macchina
privata. Qualcuno può obiettare chiedendo: se fosse un’offerta, cosa devo
fare? A tale domanda ogni prete deve interrogarsi e esaminarsi sui suoi ob-
blighi intrinseci nell’uso di tali regali inerenti al suo stato, nel luogo dove
sta servendo e le conseguenze negative nel popolo, che vuole delle testimo-
nianze in materia. Inoltre, i ministri sacri devono evitare viaggi e vacanze
nei luoghi o centri costosi, riservati ai VIP39. I sacerdoti, seppure conside-
rati autorità, sono e devono dimostrare nello spirito di povertà che sono dei
servi per il benessere dei fratelli. «In questo senso, il sacerdote deve com-
battere ogni giorno per non cadere nel consumismo e nella mollezza di vi-
ta, che oggi pervadono la società in molte parti del mondo»40. Egli ha l’ob-
bligo di fare regolarmente degli esami di coscienza che lo aiuteranno «a ve-
rificare come sia il suo tenore di vita, la sua disponibilità a prendersi cura

37
« Dans certains contextes sociaux, devenir prêtre signifie pratiquement gravir un
échelon dans la hiérarchie sociale. Cette situation, qui peut exister de fait sans être recher-
chée, ne doit pas créer une distance entre le prêtre et son milieu de vie », CONGRÉGATION
POUR L’EVANGÉLISATION DES PEUPLES, Guide de vie pastorale pour les prêtres diocésains des
Églises qui dépendent de la Congrégation pour l’Evangélisation des Peuples, n. 28.
38
« Les prêtres suivront un critère de simplicité dans l’organisation de leur maison,
dans le choix des meubles, des vêtements et des moyens de transport, des instruments
audiovisuels ; ils éviteront les vacances dans des lieux recherchés et coûteux. Ils feront
un bon usage de leur temps, fidèles au travail. Tout ceci est requis en esprit de pauvreté
et pour aborder les pauvres sans les humilier », ivi.
39
Very Important Person.
40
CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero dei sacerdoti n. 83.

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dei fedeli e a compiere i propri doveri»41. In tali contesti sociali, il sacer-


dote deve «domandarsi se i mezzi di cui si serve rispondono ad una vera
necessità o se invece egli stia cercando la comodità rifuggendo dal sacrifi-
cio. Proprio nella coerenza tra quello che dice e quello che fa, specialmen-
te in riferimento alla povertà, in buona parte si gioca la credibilità e l’effi-
cacia apostolica del sacerdote»42.
I sacerdoti, oltre a dedicare la loro vita per il ministero sacerdotale, so-
no altresì tenuti ad offrire i loro propri beni (cf. PO 17) dimostrando il dis-
tacco, perché la Chiesa possa conseguire le sue finalità con le donazioni di
tutti i fedeli, senza eccezione. A tale riguardo, gli obblighi definiti dai ca-
noni 222, 1260-1261 per i christifideles di offrire per sovvenire alle neces-
sità della Chiesa non concernono solo i fedeli laici, ma anche i sacerdoti
nonché i consacrati. Sulla stessa linea le disposizioni dei cann. 1299-1300
sulle pie volontà per i testamenti riguardano anche tutti i sacerdoti. Infatti,
la volontà dei christifideles di donare o di lasciare i propri beni per cause
pie sia con atto tra vivi sia con atto valevole in caso di morte è un dovere
per tutti i battezzati nella Chiesa. Tale dovere di scrivere un testamento,
seppure sia un obbligo giuridico per i religiosi prima dei voti solenni (cf.
can. 668), tuttavia riguarda anche i sacerdoti, tenendo conto della loro con-
figurazione a Cristo, il Primo, che sacrificò tutto per gli altri. In queste of-
ferte, il sacerdote deve ricordare che il dono da lui ricevuto è gratuito, ed
essere disposto a dare gratuitamente43. Per questi motivi, si raccomanda ai
sacerdoti di scrivere un testamento sui propri patrimoni personali da depo-
sitare nell’archivio segreto della curia44, al fine di evitare liti e discussioni,
come dei pagani, sui beni temporali tra familiari e autorità ecclesiastiche
della Chiesa.
Tali offerte fatte volontariamente dai sacerdoti confermano il loro disin-
teresse dalle cose terrene nonché spirito di povertà.

41
Ivi.
42
Ivi.
43
Cf. Mt 10,8; At 8,18-25; CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direct. 83. PO 17.
44
CONGRÉGATION POUR L’EVANGÉLISATION DES PEUPLES, Guide de vie pastorale pour les
prêtres diocésains des Eglises qui dépendent de la Congrégation pour l’Evangélisation des
Peuples, n. 28.

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5. Perché gestire con spirito di povertà?

5.1 Spirito di povertà nella gestione dei beni e missione dei sacerdoti

Oggi la mancanza dello spirito di povertà ha delle conseguenze gravi sul-


l’evangelizzazione. Tutti gli uomini cercano e vogliono raggiungere la feli-
cità vera e duratura, che non risiede nelle risorse materiali, in quanto que-
ste, di per sé, non danno tale gioia a meno che non vengano considerate co-
me mezzi in vista del Sommo Bene, che è Dio e Cristo la Verità. Gli uomi-
ni, sebbene desiderino i beni terreni, tuttavia cercano in ultima analisi ta-
le Unico Bene, quale vera e definitiva ricchezza che nulla è superata45. Per
ottenere tale unica ricchezza, l’attaccamento ai beni temporali impedisce e
fa deviare dalla via che vi conduce.
In effetti, l’affezione alle ricchezze di questo secolo, soprattutto da parte
di un sacerdote, prova la negazione del Bene Unico capace di colmare il de-
siderio umano, che è la felicità inesauribile in Dio.
Nell’evangelizzazione dei popoli, il sacerdote, strumento vivo di Cristo,
pur usando i beni di questo secolo deve dimostrare con le sue azioni disin-
teressamento e consapevolezza del loro carattere effimero, rispetto a Dio e
alla salvezza dell’uomo tramite un utilizzo giusto delle risorse di questo
mondo. Il disinteressamento diventa un modo per stupire e attrarre nonché
di evangelizzare i popoli. Con lo spirito di povertà, il sacerdote privilegerà
il suo ministero dell’annunziatore della Parola di Dio (cf. cann. 756-757),
come hanno fatto i primi apostoli e soprattutto renderà credibile tramite il
suo tenore di vita ciò che annunzia. Generalmente, i sacerdoti che si attac-
cano ai beni temporali, specialmente ai soldi, non soltanto sono contestati
dai propri fedeli ma anche dai non cristiani che resistono ad abbracciare la
fede cattolica e si allontanano.
La mancanza dello spirito di povertà, favorisce l’egoismo, l’avarizia, la ri-
cerca dell’interesse personale e «l’isolamento, che è una versione dell’im-
manentismo»46. Tale comportamento del sacerdote lo spinge ad una corsa
sfrenata e eccessiva della ricerca del bene materiale, quasi il “feticismo del
denaro”47 che lo allontana da Dio e dai fedeli che egli sovente può trattare

45
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Esort. post Sinod. Pastores Dobo vobis n. 30.
46
BENEDETTO XVI, Esort. post Sinod. Verbum Domini, Sulla Parola di Dio nella vita e
nella missione della Chiesa, n. 89, del 30 settembre 2010.
47
Ibid. n. 55.

200
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malamente. Tale condotta da parte dei sacerdoti che mancano di spirito di


povertà, danneggia l’annunzio del vangelo e l’adesione di nuovi membri al-
la Chiesa.
In effetti, la mancanza di modestia nella scelta e nell’uso delle cose com-
promette la missione perché la ricerca esagerata delle ricchezze di questo
mondo è la radice di tutti i mali48, che favoriscono il rifiuto di Dio e costitui-
sce la causa di innumerevoli ingiustizie, segnate dalle contro testimonianze.
Nella Chiesa l’assenza di correttezza nella gestione delle risorse eccle-
siastiche costituisce un grave ostacolo all’evangelizzazione dei popoli. Que-
sti ultimi, nel nostro tempo, sono molto attenti al comportamento del sacer-
dote rispetto ai beni materiali, che seppure utili per tutti, devono essere
considerati come sono, senza nessuna idolatria. Nelle Diocesi, tutti i chri-
stifideles, specialmente i sacerdoti hanno l’obbligo di annunziare la Parola
di Dio anche attraverso la gestione nello spirito di povertà dei beni in mo-
do trasparente, giusto, onesto e credibile.
Oggi, per i sacerdoti, una buona evangelizzazione passa obbligatoria-
mente attraverso la gestione dei beni nella sobrietà, che rimane un antido-
to per scongiurare ogni dilapidazione dei fondi. Tale spirito favorisce la ge-
stione trasparente delle risorse e applica nei fatti la Parola di Dio che an-
nunziano. I sacerdoti hanno l’obbligo di essere credenti in Cristo e credibi-
li attraverso la gestione dei beni nello spirito di povertà. Perciò esiste un
grande rapporto tra gestione dei beni (sia pubblici sia privati dei sacerdo-
ti) e la missione nel mondo contemporaneo, in cui l’uomo vuole la concre-
tizzazione delle parole nelle opere, meglio ancora le buone predicazioni tra-
dotte nell’agire quotidiano. La missio ad gentes impone oggi necessaria-
mente a tutti i missionari e sacerdoti il distacco dalle ricchezze terrene,
perché la pratica della povertà evangelica prova non solo la credibilità di
dell'inviato, ma dell’intera Chiesa che vive e testimonia ciò che proclama,
giacché il successo dell’annunzio evangelico dipende soprattutto da come
sono gestiti questi beni offerti dai fedeli.

5.2 Lo spirito di povertà nella gestione e acquisizione


5.2 dei beni della Chiesa

Generalmente, i popoli dicono che la Chiesa è ricca oppure i sacerdoti so-


no benestanti, perché essi hanno tanti beni materiali, di cui sono proprie-

48
Cf. 1 Tm 6, 10.

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tari. Nelle Diocesi sotto la giurisdizione del Dicastero per l’Evangelizzazio-


ne ad esempio, la storia delle missioni rileva che i primi missionari offriva-
no tutte le risorse economiche per le loro attività, che furono quasi finan-
ziate dall’estero. Tale comportamento ha creato nella mentalità dei popoli,
la concezione di una Chiesa già ricca, che non ha più bisogno delle offerte
dei fedeli, che in quella epoca, in diverse missioni, non si chiedevano.
Poiché tale è la concezione diffusa nella mentalità dei fedeli, qualunque
comportamento dei sacerdoti che manchi di spirito di povertà, conferma il
loro preconcetto, che seppure erroneo si accerta con i fatti concreti dei con-
figurati a Cristo in materia dell’uso dei beni.
Visto che le risorse della Chiesa sono le offerte dei fedeli per i fini ec-
clesiastici, la mancanza dello spirito di povertà, ossia una vita lussuosa e
mondana, frena i fedeli, i cui doni costituiscono il patrimonio delle nostre
comunità.
Infatti, senza trascurare le donazioni dei fedeli ricchi, sembra che la
maggiore parte del patrimonio della Chiesa venga dalle persone semplici
e modeste, che si privano e si sacrificano per offrire i loro beni per sovve-
nire alle necessità della Chiesa49. I fedeli, essendo i donatori, si scanda-
lizzano e si scoraggiano nell’offrire i loro beni per le finalità delle diocesi,
tra cui il sostentamento del clero, che viene anche versato a partire dai do-
ni elargiti. Visti tali legami tra l’origine dei fondi, la remunerazione (cf.
can. 281) e lo stato degli stessi, che deve riflettere uno stile di vita confor-
me all’identità dei sacerdoti, i fedeli si disinteressano delle richieste per
sovvenire alle necessità della Chiesa e rimangono sordi e inattivi se i sa-
cerdoti della parrocchia vivono con un tenore di vita molto superiore a
quello del luogo dove si trovano. In tali circostanze, essi spesso rifiutano
di offrire perché la comunità abbia i mezzi economici per conseguire le fi-
nalità e sospettano una cattiva gestione, in quanto i sacerdoti non vivono
secondo il loro stato giuridico. Infatti, lo stile di vita semplice50 è un mez-
zo di educazione all’uso dei beni di questo secolo e di coinvolgimento per
i fedeli, che rimangono convinti dalle testimonianze date dai loro sacerdo-

49
Questa impressione sembra comprovata dalla presenza regolare e costante di perso-
ne povere o di classe media, soprattutto donne che, come al tempo di Gesù, si privano e
si sacrificano per offrire e sovvenire così alle necessità della Chiesa.
50
Cf. CONGRÉGATION POUR L’EVANGÉLISATION DES PEUPLES, Guide de vie pastorale pour
les prêtres diocésains des Églises qui dépendent de la Congrégation pour l’Evangélisation
des Peuples, Juin 1989.

202
URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Gestione dei beni materiali: sacerdoti e spirito di povertà

ti, che con dedizione si preoccupano sempre del bene comune e della sal-
vezza integrale degli altri.
Sotto questo profilo, si nota che è molto dannoso, per l’acquisizione dei
beni ecclesiastici quando i sacerdoti conducono una vita molto elevata a
livello economico, superiore a quella dei fedeli, da cui provengono i beni
della Chiesa, giacché questi ultimi fanno il seguente ragionamento: se i sa-
cerdoti vivono in tale modo, non hanno di certo più bisogno delle nostre
briciole!
Di conseguenza l’autosufficienza economica delle Chiese, dipende anche
dallo spirito di povertà dei sacerdoti.

Conclusione

Tutti i fedeli, attraverso le loro diverse offerte, costituiscono le risorse eco-


nomiche e finanziarie nella Chiesa, che ha il dovere d’organizzare una ge-
stione corretta di tali doni. In questa organizzazione, i sacerdoti, sia religio-
si che diocesani, in virtù della loro configurazione a Cristo, sono essenzial-
mente tenuti di gestire i beni, sia pubblici che privati, conformemente alla
loro natura e secondo le norme stabilite. Nella gestione delle risorse, i sa-
cerdoti devono provare la loro identità, attraverso lo spirito di povertà, co-
me Cristo Gesù, a cui sono configurati con l’ordinazione sacerdote. A pre-
scindere dalle norme positive ecclesiastiche, tutti i sacerdoti, in materia di
gestione dei beni materiali, devono avere, come unica legge da ottempera-
re, il modello di vita di Cristo, che devono imitare.

Jean Yawovi Attila


Pontificia Università Urbaniana
([email protected])

203
1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Jean Yawovi Attila

ABSTRACT

GESTIONE DEI BENI MATERIALI:


SACERDOTI E SPIRITO DI POVERTÀ

I beni materiali, mezzi temporali, sono importanti per ogni persona sia fisica che
giuridica per raggiungere le sue finalità, in particolare quella di una vita dignito-
sa. Per garantire il possesso di tali risorse, la buona gestione occupa un posto
molto rilevante. Nella Chiesa i fedeli in genere e particolarmente i sacerdoti han-
no un ruolo fondamentale nella gestione per assicurare le risorse materiali, al fi-
ne di sovvenire alle necessità delle diverse comunità. Il presente articolo vuole
dimostrare l’importanza della gestione in spirito di povertà da parte dei sacer-
doti, al fine di incoraggiare le offerte per la missione nella Chiesa.

MANAGEMENT OF MATERIAL GOODS:


PRIESTS AND THE SPIRIT OF POVERTY

Material goods, temporal means, are important to each person, both physical
and juridical, to achieve his/her goals, particularly a decent life. To ensure the
possession of these resources, good management occupies a very important
place. In the Church, the faithful in general and particularly priests have a fun-
damental role in management to ensure the economic resources, in order to
pursuit the needs of the various communities. This article aims to demonstrate
the importance for priests of a management carried out in spirit of poverty, in or-
der to encourage offers for the mission in the Church.

Keywords: Management; Goods; Priests; Poverty

204
URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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UUJ
ACADEMICA

Inaugurazione
Anno Accademico 2022-2023
Prolusione
Martedì 25 ottobre 2022

Juan Antonio Guerrero Alves


La ministerialità dell’attività economica
nel contesto del rinnovamento missionario della Chiesa

1622-2022, IV Centenario
di fondazione della Congregazione
per l’Evangelizzazione dei Popoli

Klaus Schatz
L’affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella
e la revisione della questione dei riti

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Juan Antonio Guerrero Alves

LA MINISTERIALITÀ DELL’ATTIVITÀ ECONOMICA


NEL CONTESTO DEL RINNOVAMENTO
MISSIONARIO DELLA CHIESA1

Ringrazio il Professor P. Leonardo Sileo, Magnifico Rettore di questa Ponti-


ficia Università Urbaniana, per avermi gentilmente rivolto l’invito a tenere
la prolusione in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno accademico e
per le cortesi parole con cui ha voluto presentarmi. Condivido con voi alcu-
ne riflessioni che ho maturato in questi ormai quasi tre anni in cui ricopro
l’incarico che mi è stato affidato.

1. Il posto dell’economia in una Chiesa missionaria

Nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudiium (= EG) appare chiaro lo


slancio missionario della Chiesa in questo pontificato. Ovviamente non è
una originalità di questo pontificato. L’enciclica Evangelii Nutiandi di Pao-
lo VI presenta già un forte appello per una Chiesa missionaria. Inoltre, co-
me la stessa EG sottolinea, «Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere
che “bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l’annunzio” a coloro che
stanno lontani da Cristo, “perché questo è il compito primo della Chiesa”.
L’attività missionaria “rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la
Chiesa» e «la causa missionaria deve essere la prima”. Che cosa succede-
rebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente ri-
conosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della
Chiesa. In questa linea, i Vescovi latinoamericani hanno affermato che
“non possiamo più rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre
chiese” e che è necessario passare “da una pastorale di semplice conser-
vazione a una pastorale decisamente missionaria”. Questo compito conti-

1
Pontificia Università Urbaniana, Inaugurazione Anno Accademico 2022-2023, mar-
tedì 25 ottobre 2022, Prolusione.

207
1/2023 ANNO LXXVI, 207-216 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Juan Antonio Guerrero Alves

nua ad essere la fonte delle maggiori gioie per la Chiesa: “Vi sarà gioia nel
cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti
i quali non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7)»2
A partire da questo continuo appello dei Pontifici, come stiamo intenden-
do l’economia alla Santa Sede sotto la guida di Papa Francesco?
Una prima immagine per capire il posto dell’economia in una Chiesa
missionaria mi viene alla mente ripensando alle Udienze che mi vengono
concesse dal Santo Padre. Per esempio, ripenso all’Udienza successiva al-
la scorsa domenica 2 ottobre, quando, durante l’Angelus, Egli si è rivolto al
Presidente della Federazione Russa e al Presidente della Repubblica di
Ucraina per chiedere la Pace. O a quella successiva all’incontro interreli-
gioso in Kazakhstan dello scorso settembre o a quelle che mi vengono con-
cesse dopo qualsiasi Visita Apostolica, lì dov’è il centro della missione
evangelizzatrice, quello di portare la Buona Notizia alle Chiese particolari
nei diversi Paesi del mondo. A parlare di economia mi sembra di abbassa-
re il livello. Quelle sono le cose importanti. Questa, l’economia, è una real-
tà “seconda”, che è al servizio della missione della Chiesa. L’economia ri-
guarda l’amministrazione della casa, è qualcosa di interno. Allo stesso mo-
do per cui non deve governare la nostra vita in comune nella società o nel-
la vita domestica ma, al contrario, essere al servizio, così non deve gover-
nare la Chiesa.

2. Praedicate Evangelium del 2022: la conversione missionaria


della Chiesa riguarda anche l’economia. L’Evangelizzazione al
centro

L’economia è per la missione. Amministriamo la casa in modo che serva


alla missione, dando supporto materiale, ma anche facendo sì che in qual-
che modo sia evangelizzatrice.
• Noi parliamo di un bilancio di missione. Se ci si ferma a una visio-
ne puramente economica della Chiesa e della Santa Sede, quando si
guarda a un Dicastero o a qualsiasi altra istituzione curiale, o alla
maggioranza delle istituzioni ecclesiali, tutto è in perdita. Tutto, o qua-
si tutto, è un servizio non retribuito. La maggior parte degli Enti della

2
Evangelii Gaudium, n. 15.

208
URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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La ministerialità dell’attività economica nel rinnovamento missionario della Chiesa

Santa Sede non hanno entrate, rendono un servizio gratuito. Ma ognu-


no di questi Enti è anche un centro di costo a causa della missione. E
la missione deve essere sostenuta e sostenibile. Alcuni consulenti eco-
nomici pensano che dovremmo avere una dotazione o un patrimonio in
grado di mantenere la Santa Sede. Alcuni ritengono che ciò che il pa-
trimonio non copre sia un deficit. D’altra parte, penso che sia positivo
che dipendiamo dalle donazioni dei fedeli, dall’aiuto di persone di
buona volontà che collaborano con la missione del Papa di Unità nel-
la Carità. In un certo senso è una modalità di povertà evangelica. Se
dobbiamo evangelizzare anche con la nostra economia, non possiamo
rimanere blindati con le nostre proprietà o il nostro patrimonio.
• L’economia della Santa Sede non cerca il lucro ma la sostenibilità.
Oggi la Santa Sede dal punto di vista economico non è sostenibile. Se
sommiamo i ricavi del patrimonio alle donazioni e ai contributi, le spe-
se non sono coperte ed ogni anno dobbiamo utilizzare una parte del
patrimonio. Si decapitalizza. Il patrimonio serve anche per resistere in
periodi di difficoltà. Ma non può essere sempre così.
• Per un’economia per la missione serve avere una strategia, un
piano, un budget. Il budget è uno strumento di governo, dove si de-
finiscono gli aspetti della missione che possiamo attendere. Non basta
prendere le spese dell’anno scorso e aggiungere un 3%. Il budget ci
obbliga a pensare ‘Dove vado e per che cosa?’, ad avere quello che in
inglese dicono “sense of purpose”. Il Vangelo ci ricorda che “quando
si va a costruire una torre…” dobbiamo essere consapevoli delle no-
stre possibilità. Ci chiede anche di avere fiducia. Questo tempo che vi-
viamo, caratterizzato da una serie di ristrettezze, ci obbliga a cercare
di definire l’essenziale della nostra missione.
• Economia serva, non signora. Non è il nostro core business. L’impor-
tante è la missione della Chiesa, ma dobbiamo mantenerla e renderla
sostenibile.
• Diciamo che l’economia vaticana non è quella di un’azienda; ci so-
no molte decisioni che non seguono il principio del massimo beneficio
o il criterio costi-benefici, per esempio. Ma abbiamo qualcosa da im-
parare dalle aziende: la strategia, la disciplina, la capacità di stabili-
re le priorità o di incentivare il buon lavoro.

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3. Una Chiesa missionaria chiede un’amministrazione esemplare,


che non indebolisca la missione, cioè, che eviti la corruzione
e lo scandalo. Detto in positivo: un’amministrazione che dia
credibilità alla missione della Chiesa

Dobbiamo riconoscere che non siamo stati buoni amministratori. Abbiamo


commesso degli errori. I passi che stiamo facendo sono nella giusta direzio-
ne, ma stiamo ancora guarendo dagli errori del passato. L’adeguamento agli
standard internazionali è stato un primo passo compiuto dalla Santa Sede.
Ma, in realtà, un’economia evangelizzatrice dovrebbe diventare una norma
internazionale o servire di ispirazione a essa. Sottolineo alcune note della
riforma che aiutano a recuperare credibilità:
a. Trasparenza: in economia, la trasparenza ci protegge più della se-
gretezza (pubblicazione dei bilanci e della gestione dell’Obolo). La
trasparenza consiste in quanto segue:
– Visibilità dei processi. Una volta tutto era segreto. Abbiamo am-
pliato la portata del bilancio per rendere tutto più visibile. Oggi si
riportano non solo le entrate e le uscite della Curia, ma anche di
tutti gli Enti collegati ed altri che fanno riferimento alla Santa Se-
de. Prima avevamo un budget complessivo di 300 milioni di euro,
ora di 1000 milioni.
– Tracciabilità. Acquisti, entrate e uscite, input e output, anche in-
vestimenti. Tutto deve lasciare una traccia, un’impronta. Abbiamo
fatto grandi progressi. La strada da percorrere è ancora lunga, ma
abbiamo fatto progressi. In questo modo è possibile vedere chi è
responsabile di cosa. Documentare le decisioni e tenere un regi-
stro (follow-up). Non siamo sempre negli stessi posti e chi viene
dopo di noi deve avere il quadro reale della situazione.
– Registro contabile. Tutti i movimenti economici e finanziari de-
vono essere registrati nella contabilità. Questo fa parte della trac-
ciabilità.
b. Sobrietà. Non lasciare spazio al lusso e alla stravaganza. Non possia-
mo apparire come persone con un alto tenore di vita, non si tratta di
“epater le burgeois”. C’è un’estetica del Vangelo. E quando parlo di
un’estetica del Vangelo mi riferisco a un’educazione della sensibilità
secondo il Vangelo. Non parlo di pauperismo, ma di evitare la strava-
ganza e di comunicare semplicità evangelica nei comportamenti, nel-
le installazioni, negli strumenti personali o domestici.

210
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La ministerialità dell’attività economica nel rinnovamento missionario della Chiesa

c. Giustizia. Pagare salari equi, giusti. È vero che non si viene a lavo-
rare nella Chiesa per arricchirsi, ma si ha bisogno di uno stipendio
decente per mantenere sé stessi e la propria famiglia.
d. Generosità. Allontanarsi dell’avidità e prendere l’abitudine a dare.
C’è più gioia nel dare che nel ricevere. È bello che nei momenti più
difficili e incerti del COVID, con le chiese chiuse e le entrate in ca-
lo, la Santa Sede abbia tagliato molto sulle spese amministrative, ma
abbia anche cercato di venire in aiuto alle chiese e alle situazioni più
bisognose. Nonostante la diminuzione delle entrate, sono aumentate
le donazioni a terzi. Non possiamo essere troppo interessati al dena-
ro, ad aumentare il nostro patrimonio. Il patrimonio, come tutto ciò
che riceviamo, è per servire la missione.
e. Professionalità. In campo economico, credo che oggi non abbiamo
credibilità se non abbiamo buoni professionisti o se non facciamo le
cose in modo professionale e con metodi comunemente accettati.
f. Onestà degli amministratori: svilupperò ulteriormente questo
aspetto, perché abbiamo imparato alcune cose dai nostri errori. Il mi-
nistero di amministrare i beni della chiesa deve essere realizzato con
estrema onestà.

4. Il ministero di amministrare, di curare la casa: un’amministra-


zione che dia credibilità e che non indebolisca la missione.
Devo dire con umiltà che stiamo imparando dagli errori

a. Possiamo dire che la proprietà dei beni e del denaro della Chiesa ap-
partiene al Signore e ai suoi poveri. La destinazione dei beni della
Chiesa è la missione di Cristo alla quale collaboriamo. Se guardiamo
all’origine dei beni che amministriamo, possiamo dire che spendia-
mo l’offerta della vedova, le donazioni fatte dai fedeli, molti dei qua-
li hanno scelto di non spendere per sé stessi per aiutare la Chiesa. Ciò
richiede da parte degli amministratori una particolare cura nell’am-
ministrare i beni della Chiesa e un rispetto per lo scopo della dona-
zione, che è sacro. Se non possiamo onorarlo, non dovremmo accetta-
re la donazione.
b. Amministrare come custodi, non come proprietari. Tutti noi sia-
mo custodi, non proprietari. E il custode rende conto, deve risponde-
re a un altro. Il proprietario, invece, vive con la consapevolezza di po-
ter fare delle sue cose ciò che vuole. Serve quindi la rendicontazione.

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Ognuno è responsabile di ciò di cui gli viene affidata la responsabili-


tà e deve rendere conto di come la esercita. Il chiedere conto non è in
relazione ad un’eventuale sfiducia, ma all’essere responsabili.
c. Spossessamento da parte del Superiore o dell’Amministratore:
«Se non è detto diversamente, le offerte fatte ai superiori o agli ammi-
nistratori di qualsiasi persona giuridica ecclesiastica, anche privata,
si presumono fatte alla stessa persona giuridica»3.
d. I figli delle tenebre sono più saggi dei figli della luce. C’è il rischio
che ci possano essere avvoltoi che guardano le debolezze della Chie-
sa per approfittarne. I buoni amministratori dei beni della Chiesa cer-
cano buoni consiglieri. Ed è importante non averne solo uno. Il Di-
ritto Canonico parla di un Consiglio Economico. È importante aver-
lo, sentirlo e curarne la composizione per affrontare la complessità at-
tuale dell’economia.
e. Segregazione dei compiti. Si deve evitare che sia la stessa persona
a fare tutto. Contabilità e cassa, gestore e controllore…
f. Nessun conflitto di interessi. Evitarli nell’Amministratore e impa-
rare a individuarli nei Consiglieri per evitarli.
g. Tutto quanto detto circa gli Amministratori non è molto lontano da
quello che ci raccomanda il Codice di Diritto Canonico4. Tutti gli am-
ministratori sono tenuti a svolgere la loro funzione con la diligenza di
un buon padre di famiglia. Non ripeto il Codice, ma quanto dico al-
la fine con altri accenti è detto nel CIC 1284-1286.

5. Un’amministrazione con discernimento

Il Papa parla molto di discernimento per la scelta dello stato di vita e per le
scelte morali. Mi sembra che si possa applicare anche alle decisioni econo-
miche. Un buon amministratore deve avere capacità di discernimento. Per
un buon discernimento prima di tutto il soggetto deve essere bene situato.
Avere umiltà. Piedi poggiati sulla terra e sguardo verso l’alto.
Fare buone scelte è un capitolo del discernimento, forse il più difficile.
La regola è Cristo, ma prima si devono evitare le scelte cattive, sbagliate.
Fare il bene ed evitare il male.

3
CIC 1267 § 1.
4
Cf. CIC 1284 § 1.

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La ministerialità dell’attività economica nel rinnovamento missionario della Chiesa

Uno dei primi consigli dei Padri del deserto al novizio che arriva è di ri-
nunziare alla volontà propria. Cercare di assoggettarsi a un’altra volontà,
che, in fin dei conti, sarà quella di Dio. Se non si impara a prendere le di-
stanze dalla propria volontà governerà l’arbitrarietà. Non sono buone deci-
sioni quelle che si fanno solo “perché Io lo voglio” o “perché ho il potere
di farlo”. Forse in molti dei nostri sbagli è stato presente questo modo di
prendere decisioni. Serve seguire le regole, avere uno schema di con-
sultazioni, procedure, griglie di approvazione…
Sant’Ignazio di Loyola dice che il demonio in generale opera per mezzo
di tre strategie, la conoscenza delle quali può anche servire per capire le
tentazioni a cui è sottoposto l’Amministratore nella presa di decisioni. Non
entrerò nei dettagli delle tre strategie; sottolineo solo alcuni consigli a par-
tire da esse:
a. Politiche chiare. Orientamenti chiari. Procedure chiare. Decisioni
chiare. Quando sappiamo cosa vogliamo e chi siamo ci sono vo-
ci a cui non diamo credito e negoziazioni che neppure iniziamo.
Ci sono cose che non bisogna ascoltare, o che, se le affronti subito,
non prendono strade sbagliate.
b. Quando ci fanno proposte che ci viene detto che devono rima-
nere segrete, dobbiamo sospettare. La trasparenza, in econo-
mia, protegge più del segreto. Non c’è nulla di nascosto che non
venga alla luce. Gli errori più grandi li abbiamo commessi a causa del-
la paura di venire allo scoperto e per volere, quindi, agire in segreto,
per volere nascondere qualcosa. Sant’Ignazio, nelle sue regole sul di-
scernimento, dice che lo spirito cattivo si serve del segreto per ingan-
nare e trarre dalla sua parte. Infatti, quando induce in tentazione, non
vuole che i suoi propositi siano dati a conoscere a chi può aiutare. Le
buone decisioni non hanno timore di chiedere un buon consiglio.
c. Un grande aiuto viene dal fatto di valutare i rischi: sapere quali so-
no i rischi a cui andiamo incontro, conoscere le nostre debolezze e
i nostri punti di forza, da che parte possiamo subire perdite per rin-
forzarci, da che parte possiamo essere attaccati per cercare la difesa,
in maniera da porvi rimedio.

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1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Juan Antonio Guerrero Alves

6. Considerazioni spirituali sull’amministrazione


e sulla missione dell’Economo

Il compito di Amministratore è spesso ingrato. E non di rado gli Ammini-


stratori della Chiesa preferirebbero posizioni più direttamente legate alla
pastorale o all’evangelizzazione. Ma comunque l’amministrazione è una
missione al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa che qual-
cuno deve svolgere. Nel 1552 sant’Ignazio, allora Generale dei Gesuiti, ri-
spose a una lettera di un Padre amministratore ed economo del Collegio di
Coimbra, padre Manuel Godinho. Questo sacerdote era stato assegnato a
una casa di formazione di giovani gesuiti con il compito di Amministratore
del Collegio. Personalmente, egli era ansioso di lasciare tutti gli affari pro-
fani e materiali, in quanto li riteneva estranei alla vita religiosa. Inquieto
per le dispute finanziarie del Collegio, soprattutto con i canonici regolari di
Sant’Agostino del vicino monastero di Santa Croce, pensava che le dispute
annullassero il bene spirituale che veniva fatto tramite i ministeri. Con un
peso nel cuore scrisse a Sant’Ignazio. Riporto qui di seguito un brano del-
la risposta del Santo:

Circa l’essere occupati nelle cose temporali, anche se in qualche mo-


do può sembrare ed essere distraente, non dubito che la vostra santa
intenzione e retta direzione in tutto ciò che trattate per la gloria divi-
na lo renda spirituale e più gradito alla Sua infinita Bontà, poiché le
distrazioni accolte per il maggior servizio di Lui, e conformi alla Sua
divina volontà, interpretate dall’obbedienza, possono essere non solo
equivalenti all’unione e al raccoglimento di un’assidua contemplazio-
ne, ma ancora più accette, in quanto procedono da una carità più ar-
dente e più forte.

Più avanti, nella stessa lettera, gli dirà:

Se ancora, cercando solo la maggior gloria di Dio e rimanendo nella sua


divina obbedienza, dovessi vedere che tale ufficio non ti si addice, con-
fidalo ai Superiori e io stesso ti aiuterò5.

5
MHSI, Epp. 4, 126-127.

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È importante che la missione ricevuta sia il luogo di incontro tra colui


che è inviato e colui che invia. In definitiva, l’invio, la missione ricevuta
nella Chiesa, ci unisce alla Santissima Trinità e ci rende partecipi, attraver-
so lo Spirito, della missione del Figlio. La missione ricevuta, anche l’ammi-
nistrazione, è il nostro luogo di incontro con Dio. Già Santa Teresa d’Avila
diceva alle sue suore che il Signore era presente anche tra le pentole. Non
è solo nella preghiera che dobbiamo cercare l’unione con Dio, ma anche
nella missione che abbiamo ricevuto da Lui. In una lettera di Ignazio di Lo-
yola a Francesco Borgia leggiamo:

Dio non si serve dell’uomo solo quando prega, perché se così fosse,
qualora le preghiere fossero meno di 24 ore al giorno, anche se questo
fosse possibile, sarebbe poco, perché ogni uomo dovrebbe darsi, per
quanto può, interamente a Dio. Ma è così che il Signore si serve oppor-
tunamente anche di altre cose più che della preghiera, e quanto si ral-
legra che la preghiera sia lasciata per queste cose, tanto più si rallegra
che sia abbreviata6.

Concludo con un paio di considerazioni

Cambiare regole, leggi e istituzioni è un passo importante. Ma cambiare la


“cultura” richiede più tempo, e chiede pazienza, fermezza e costanza.
Nell’Evangelii Gaudium, il Santo Padre critica un certo gnosticismo e un
certo pelagianesimo che rileva nella vita ecclesiale. Non è solo con buoni
documenti e buone idee che cambiamo la realtà, né con il volontarismo che
fantastica di onnipotenza. Abbiamo bisogno dell’umiltà del confronto con la
realtà, della messa a terra delle idee, a volte con umili realizzazioni che so-
no buoni inizi, e di riconoscere, come ci ricorda il quarto Vangelo, che sen-
za di Lui non possiamo fare nulla, perché siamo collaboratori della missio-
ne di Cristo. E ancora un’altra eresia mi sembra che dobbiamo evitare. Sap-
piamo che il fariseismo esiste. È sempre possibile usare le leggi e le paro-
le della Dottrina Sociale della Chiesa contro di essa. Ogni volta che la Chie-
sa parla di economia si espone sempre ad attacchi. Non possiamo preten-
dere di essere inattaccabili. Sappiamo che lo schema della legge, dell’au-

6
MHSI, Epp. 12, 632-654.

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togiustificazione, porta al fariseismo. In realtà, siamo giustificati da un Al-


tro, e, quindi, non dal fatto che possiamo presentarci come giusti. Dobbia-
mo anche considerare che non basta conformarsi esternamente a regole e
leggi, non basta ridipingere la facciata. Abbiamo bisogno di una conversio-
ne del cuore, anche nei nostri modi di amministrare, se vogliamo un’econo-
mia e un’amministrazione che siano evangelizzatrici.

Juan Antonio Guerrero Alves


Già Prefetto della Segreteria per l’Economia

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Klaus Schatz

L’AFFAIRE DELLO YASUKUNI JINJA,


PAOLO MARELLA E LA REVISIONE
DELLA QUESTIONE DEI RITI1

Introduzione – L’incidente dello Yasukuni Jinja e la sua prima composizione – Marella e


lo “spirito di Nagasaki” – Sulla via della decisione romana – Una alleanza fragile – Con-
clusione

Parole chiave: Inculturazione; Controversia dei riti; Nazionalismo giapponese; Scintoismo

Introduzione

L’omaggio reso dai politici Giapponesi allo Yasukuni Jinja, cioè il sacrario
per i caduti di guerra a Tokyo, è divenuto ripetutamente negli ultimi decen-
ni un punto controverso nella politica interna del Giappone, e nello stesso
tempo un punto di conflitto con le nazioni asiatiche che furono vittime del-
la colonizzazione o dell’aggressione giapponese nella seconda guerra mon-
diale. Al problema di superare il proprio passato militaristico e nazionali-
stico se ne aggiunge in Giappone un altro: un tale atto pubblico di uomini
politici avrebbe potuto sembrare in contraddizione con la neutralità religio-
sa dello Stato e quindi anticostituzionale. Ed addirittura quest’ultimo argo-
mento rivela un cambio fondamentale di prospettiva, cioè un ribaltamento
dell’argomentazione di 180 gradi, dato che negli anni ‘30 da parte statale,
in specie da parte del Ministero dell’Educazione giapponese, si insisté mol-
to sul carattere secolare, non-religioso dell’omaggio reso allo Yasukuni Jin-
ja. Le autorità ecclesiastiche, dal canto loro, appoggiandosi su questa inter-
pretazione permisero ai cattolici l’omaggio, perché non avrebbe avuto un
carattere religioso, ma “solo” patriottico.

1
Il presente contributo è la versione italiana dell’articolo dell’autore: The Yasukuni
Shrine Affair: Paolo Marella and the Revision of the Prohibition of Eastern Rites, “Archi-
vum Historicum Societatis Iesu” LXXXI, fasc. 162 (2012), 2, 451-479.

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1/2023 ANNO LXXVI, 217-247 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Klaus Schatz

È ben noto, che negli anni dal 1932 in poi la questione dell’omaggio allo
Yasukuni Jinja portò ad una crisi di coscienza per i Gesuiti dell’università
Sophia di Tokyo. La crisi terminò prima con la dichiarazione da parte del-
le autorità ecclesiastiche in Giappone e poi con l’istruzione di Propaganda
Fide del 26 maggio del 1936. Questa istruzione, ed inoltre un altro docu-
mento per il Manciukuò emanato quasi un anno prima, che permetteva il
culto pubblico di Confucio, contribuirono in modo decisivo alla revisione
delle decisioni romane negative del Settecento riguardanti la controversia
dei riti cinesi. Il punto finale di questo processo fu l’istruzione di Propagan-
da dell’8 dicembre 19392 che – ufficialmente con l’argomento che i riti
avrebbero cambiato il loro carattere nel senso di una “secolarizzazione” –
permise i riti della venerazione di Confucio e degli antenati, fino ad allora
proibiti, ed abrogò il giuramento, che a partire del 1742 tutti i missionari
per la Cina e gli altri paesi dell’Estremo Oriente dovevano prestare, di os-
servare i divieti romani riguardanti i riti.
Su questa vicenda sono stati pubblicati parecchi contributi, soprattutto
sulla base delle fonti giapponesi, dell’università Sophia e delle reazioni
della stampa3. Le esposizioni finora ritenute classiche, che descrivono det-
tagliatamente gli eventi, sono dovute a George H. Minamiki: un articolo del
19804 ed il suo libro del 1985 sulla controversia dei riti, del quale la par-
te maggiore e più importante è dedicata alla ricomposizione della contro-
versia dei riti nel Novecento5. Ambedue espongono tanto la storia della con-
troversia in Giappone quanto la relazione con la revisione della posizione
romana riguardante i riti cinesi. Minamiki ha posto in evidenza soprattutto
il ruolo chiave che rivestono le controversie giapponesi sullo Yasukuni Jin-
ja, già prima del documento di Propaganda del 28 maggio 1935 riguardan-
te la Manciuria. Quest’ultimo, benché emanato un anno prima del docu-
mento riguardante i rituali shintoisti del Giappone, non sarebbe compren-
sibile senza gli eventi precedenti in Giappone6.

2
“Acta Apostolicae Sedis” 32 (1940), 24-26.
3
La prima esposizione contemporanea e dettagliata: P. D’ELIA, Evoluzione di popoli e nuo-
ve provvidenze della Chiesa, “Civiltà Cattolica” 87/III (1936), 101-108, 186-196, 279-291.
4
G.H. MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident and the Chinese Rites Controversy,
“Catholic Historical Review” 66 (1980), 2, 205-229.
5
ID., The Chinese Rites Controversy from Its Beginning to Modern Times, Loyola Press,
Chicago, IL 1985.
6
MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident, 222; ID., The Chinese Rites Controversy, 151 s.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

Gli atti della Congregazione di Propaganda Fide, che da quasi un ven-


tennio sono stati resi accessibili per questo periodo storico7, benché già
usati brevemente nel 1976 dall’allora archivista Joseph Metzler8, fornisco-
no nuova luce su questi avvenimenti. Da essi emerge innanzitutto il ruolo
decisivo del delegato Apostolico e più tardi cardinale Paolo Marella, che
rappresentava la Santa Sede a Tokyo a partire delle fine del 19339. Solo Ma-
rella ha spostato, come si mostrerà, la questione dal livello puramente prag-
matico a quello dei principi, e così fornito lo strumento che rese possibile
una revisione fondamentale nella questione dei riti.

L’incidente dello Yasukuni Jinja e la sua prima composizione

La fonte più importante per gli eventi è la “relazione di Küenburg”. Si trat-


ta di un rapporto dettagliato dell’allora rettore del Collegio di Tokyo (dun-
que del superiore della comunità dei Gesuiti, da distinguere dal rettore ac-
cademico dell’università Sophia), del padre gesuita austriaco Maximilian
Joseph von Küenburg. È datato 4 gennaio 1933 e si trova sia a Tokyo, sia,
come allegato della lettera di Küenburg al superiore generale Ledóchowski
del 5 gennaio, a Roma10. Già Minamiki si è basato soprattutto su questo
rapporto; ed anche noi lo useremo come fondamento dell’esposizione.
Il luogo degli eventi è l’università Sophia, fondata nel 1913 dai Gesuiti
tedeschi. Essa aveva superato in questo tempo, cioè a partire dal 1928/29,

7
Più particolarmente sono da menzionare i volumi seguenti: AP (Archivio Storico del-
la Congregazione di Propaganda Fide) N.S. (Nova Series) 1152, 120-137, 252-267; 1281,
24-33, 495-513, 540-548, 661-708; 1282, 257-263; 1283, 53-61, 149-153, 355-361,
670-693; Acta 307 (1936), 202-212.
8
Il suo resoconto in: J. METZLER (ed.), Sacrae Congregationis de Propaganda Fide me-
moria rerum, III/2, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1976, 485-487.
9
I dati biografici di Paolo Marella: nato il 25 gennaio1895 a Roma, ordinazione sacer-
dotale 1918, 1918-1922 nella Congregazione di Propaganda Fide, 1922-1924 cappellano
privato del papa, 1924-1933 Chargé d’affaires della delegazione Apostolica negli Stati
Uniti, 1933 ordinazione episcopale, 1933-1948 delegato Apostolico nel Giappone e
1948-1953 per l’Australia, Nuova Zelanda ed Oceania, 1953-1959 nunzio in Francia,
1959 Cardinale della curia, 1964-1973 Presidente del secretariato per i Non-Cristiani, †
15.10.1984 (cf. The Cardinals of the Holy Roman Church, Biographical Dictionary 1903-
2009, cf. https://cardinals.fiu.edu/bios1959.htm#Marella; https://archive.is/Ge4AE).
10
ARSI (Archivum Historicum Societatis Iesu), Japonia 1005, III 9.

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la sua fase critica iniziale e si trovava in una fase di crescita11. Nel 1928
aveva raggiunto il pieno riconoscimento statale come università privata. La
visita da parte del p. Bea, poi cardinale, nel 1929 aveva avuto come risul-
tato alcune decisioni importanti e feconde per l’avvenire, per esempio quel-
la di non lasciarsi indurre da considerazioni di breve scadenza ad abban-
donare la favorevole collocazione centrale presso la stazione di Yotsuya a
favore di un’area più ampia nella periferia della città. Come risultato vi fu
una nuova costruzione di maggiori dimensioni negli anni 1930-1932. Il nu-
mero degli studenti crebbe continuamente per assestarsi a 360 nel
1931/32. Esso comprendeva il corso preparatorio triennale (corrisponden-
te alla “High School” americana), le facoltà di filosofia, letteratura ed eco-
nomia. Ma questo sviluppo promettente fu messo in pericolo dagli eventi
seguenti e soprattutto dalla loro risonanza nella stampa.
A partire dal 1925 era stato introdotto per tutte le scuole superiori ed uni-
versità un sistema di educazione premilitare, di cui era incaricato un ufficia-
le di addestramento nominato dall’esercito. Questo portava con sé, da una
parte alcuni privilegi per gli studenti, ossia un servizio militare abbreviato di
solo un anno (invece di tre anni) e lo status di aspirante al grado di ufficiale.
D’altro canto, insieme con questi provvedimenti, vi erano in politica in-
terna una crescente predominanza dell’esercito e del ministero della Guer-
ra ed una manipolazione nazionalistica dell’opinione pubblica; inoltre, una
politica estera aggressiva, che iniziò nel settembre del 1931 con l’occupa-
zione della Manciuria, condusse nel febbraio del 1932 alla fondazione del-
lo stato fantoccio del Manciukuò e culminò nel 27 marzo del 1933 nell’u-
scita del Giappone dalla Lega delle nazioni. Gli eventi seguenti possono es-
sere compresi solo nel contesto di quest’atmosfera surriscaldata.
Un altro aspetto, di carattere più generale, fu la fondazione dello shinto
di Stato nel Giappone a partire della fine dell’Ottocento12. Era il risultato
di un compromesso tra due opposte tendenze della modernizzazione. Da
una parte, c’era un tentativo di introdurre lo shintoismo come nuova “reli-
gione civile” nazionale, ma che non poteva avere successo perché non c’e-
ra modo di integrare in essa il buddismo. L’altra era la necessità inevitabi-
le di accettare la libertà religiosa e la separazione tra religione e politica

11
Esposizione più dettagliata nel libro dell’autore: Deutsche Jesuiten 1810-1983,
Aschendorff, Münster/W. 2013, t. III, 297-301.
12
Cf. MINAMIKI, The Chinese Rites Controversy, 99-119.

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come esigenze della modernità. Ora, lo shinto di Stato cercava di soddisfa-


re ambedue i postulati. Il suo scopo era di creare un tipo di shinto che ca-
desse fuori della categoria di religione e si presentasse come una dottrina
non-religiosa, accettabile da tutti i cittadini indipendentemente dalle loro
personali convinzioni religiose. Cercava di elaborare un culto patriottico,
che avrebbe dovuto unire spiritualmente e culturalmente tutti i sudditi sot-
to l’imperatore, e separare questa forma di vita civile da tutte le religioni13.
Lo shinto di Stato, sebbene non fosse religioso in senso proprio, aveva
un’alta carica ideologica. Le sue forme e celebrazioni erano state rifiutate
da parte cattolica in un primo tempo, però – e questo fu il problema – a mo-
tivo dei suoi supposti legami con la religione tradizionale, e non a causa del
suo legame con il moderno nazionalismo. Tutto ciò divenne chiaro nell’in-
cidente del Yasukuni Jinja e nelle sue conseguenze.
Il 5 maggio del 1932 l’ufficiale di addestramento competente per l’uni-
versità Sophia, il colonello Kitahara, conduceva un gruppo di circa 60 stu-
denti del secondo anno del corso preparatorio al Yushukan, un museo di
storia militare, vicino al Yasukuni Jinja, distante dalla Sophia all’incirca 20
minuti a piedi. Egli disse, all’inizio, che lungo il cammino avrebbero visi-
tato anche il Jinja. Tutto ciò divenne fonte di preoccupazione per alcuni stu-
denti cattolici. Essi incontrarono per caso nel campus dell’università il p.
Hermann Hoffmann, il rettore accademico dell’università, e gli chiesero, se
avrebbero potuto partecipare. Questi lo negò e disse che non avrebbero do-
vuto partecipare.
Ci sono resoconti contrastanti su quanto accadde poi esattamente nella
visita del Jinja. Secondo la relazione di Küenburg, due studenti cattolici ri-
fiutarono il saluto militare con il presentat-arm. Secondo un’altra versione,
due o tre di essi non si inchinarono davanti al Jinja (sampai)14. È certo che
evitarono ogni provocazione e si tennero piuttosto in disparte senza creare
scompiglio. In ogni caso il loro comportamento e la risposta data loro dal p.
Hoffmann corrispondevano alle norme ecclesiastiche fino ad allora vigenti
per i cattolici. La visita ai santuari con l’inchino (sampai) era considerata,
come anche il P. Küenburg sottolineava nella sua relazione, come una cosa
assolutamente proibita, benché a livello interno si fosse delineata a partire

13
Ibid., 112.
14
Su queste versioni differenti MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident, 210 s., n. 16,
ed ID., The Chinese Rites Controversy, 294 s., n. 59.

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degli anni 20, per esempio nel sinodo provinciale di Tokyo nel 1924, una
posizione più articolata15. Questo aveva portato a non pochi conflitti di co-
scienza. Così negli anni ‘20 diversi alti ufficiali del governo erano pronti al-
la conversione, ma non osavano fare questo passo, perché con il loro ufficio
erano tenuti a rendere omaggio allo Jinja; così, solo le loro mogli diventava-
no cattoliche16. Si era soliti, come venne rivelato in rapporti posteriori, chiu-
dere un occhio solo per i soldati. Nondimeno, in un primo momento, il com-
portamento degli studenti cattolici non fu oggetto di biasimo. Ma due gior-
ni dopo, la vicenda divenne oggetto di un colloquio tra il colonnello Kitaha-
ra ed il p. rettore Hoffmann, nel quale p. Hoffmann cercò di spiegare al co-
lonnello la posizione cattolica17. In ogni caso, è certo che il colonnello Ki-
tahara fece rapporto al ministero della guerra, o, come suppone la relazione
di Küenburg, immediatamente dopo l’incidente, o dopo il colloquio.
Il giorno stesso dell’inaugurazione del nuovo edificio dell’università, il
14 giugno, il p. Hoffmann ricevette una telefonata dal Ministero dell’Edu-
cazione. Egli venne informato dal viceministro della guerra, che “lo spirito
dell’università di Jochi [Sophia] non corrispondeva ai principi dell’educazio-
ne nazionale”; e perciò sarebbe stato ritirato l’ufficiale di addestramento.
Una tale misura non avrebbe soltanto significato per gli studenti la perdita
dei privilegi fino ad allora posseduti, ma anche, alla lunga, la fine dell’uni-
versità Sophia. Ma nel Ministero dell’Educazione vi erano resistenze a que-
sto provvedimento, come si comunicava al P. Hoffmann, anche a motivo del
proprio prestigio, che era in gioco, perché era stato si era procurato il rico-
noscimento statale all’università18.

15
Sul comportamento della Chiesa cattolica in Giappone di fronte allo shinto di Stato
fino all’incidente dello Yasukuni Jinja, si veda più dettagliatamente ID., The Chinese Rites
Controversy, 121-138.
16
D’ELIA, Evoluzione di popoli, 282 s.
17
Così nella relazione di Küenburg: «Il 7 maggio aveva poi, in presenza del segretario
della scuola, un colloquio (in giapponese) con il direttore, nel quale mostrava una grande
mancanza di comprensione per i punti di vista religiosi. Così domandò, se il P. Hoffmann
avesse avuto delle obiezioni, se gli studenti avessero fatto un inchino davanti al palazzo
imperiale, per esprimere il loro rispetto verso Sua Maestà. Ma finalmente promise di
esplorare più accuratamente la dottrina cattolica e la scuola. Per questo gli fu dato un li-
bro, che spedì al ministero della guerra come documento con i suoi atti», ARSI Japonia
1005, III 9; traduzione italiana dell’autore.
18
Così secondo la relazione di Küenburg: «Il ministero della guerra voleva per questo
il consenso del Ministero dell’Educazione. Ma gli ufficiali di quest’ultimo dicevano, che

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Il Ministero dell’Educazione era dunque disposto alla cooperazione, ed


il p. Hoffmann aveva la fortuna di poter offrire da parte sua una possibili-
tà di riconciliazione. Già nella sera di quello stesso giorno poteva far spe-
rare al Ministero dell’Educazione in una nuova telefonata, una revisione
della posizione ecclesiastica, fino ad allora chiaramente negativa. Questa
venne dal Vicario Apostolico John Ross di Hiroshima19, che era presente a
Tokyo in quel momento, probabilmente per l’inaugurazione dell’edificio
universitario. Egli stesso si era confrontato molte volte con i problemi le-
gati all’omaggio reso nei santuari shintoisti, ed aveva elaborato un docu-
mento al riguardo. Questo documento di Ross fu all’inizio decisivo per la
tolleranza ecclesiastica provvisoria del Sampai. Esso ancora non parte dal-
l’assunto che le cerimonie nei santuari siano una questione puramente ci-
vile e patriottica, ma anzi presuppone il carattere prevalentemente o alme-
no in gran parte religioso dello shinto di Stato. Alquanto modificato nella
sua versione successiva dell’ottobre 1932, dopo la dichiarazione ufficiale
del Ministero dell’Educazione20, parte invece dal canone 1258 del CIC,
che regolava la partecipazione dei cattolici ad ogni azione di culto acatto-
lica. In questo canone si stabiliva che una partecipazione attiva e formale
sarebbe stata proibita in ogni caso; ma poteva essere tollerata una parteci-
pazione passiva o puramente materiale, per ragioni di cortesia o dovere ci-
vile, nei casi di funerali, matrimoni o simili celebrazioni di non-cattolici,

non potevano in nessun modo rispondere ad una tale lettera, perché conteneva per il Mi-
nistero dell’Educazione, che aveva approvato la scuola, una grave offesa; perciò chiede-
vano il ritiro della lettera». ARSI Japonia 1005, III 9; traduzione italiana dell’autore; pa-
rola sottolineata nell’originale qui riprodotta in corsivo.
19
Il vicariato Apostolico di Hiroshima (con sede ad Okayama), che comprendeva il
Sud-Ovest di Honshu (le prefetture Okayama, Hiroshima, Yamaguchi, Shimane e Totto-
ri) era stato annesso nel 1922 alla provincia gesuita della Germania Inferiore (Germania
Inferior).
20
Sappiamo dalla relazione Küenburg, che il parere di Ross di giugno partiva dal can.
1258 CIC. Il parere di ottobre, identico al testo citato da MINAMIKI, The Yasukuni Shrine
Incident, 218-220, ed ID., The Chinese Rites Controversy, 146-148, si trova come allega-
to nella relazione del delegato Apostolico Everard Mooney del 20 gennaio 1933. AP N.S.
1152, f. 127-132. Qui scrive Ross, che avrebbe già redatto una prima versione del pare-
re nel giugno di quell’anno, ma poi avrebbe aspettato la dichiarazione imminente del Mi-
nistero dell’Educazione e dopo avrebbe rifatto il parere. Nella versione di ottobre si rife-
risce parecchie volte a questa dichiarazione, il più delle volte per rafforzare i suoi argo-
menti. Ma essenzialmente se ne può ricostruire la sua argomentazione nella versione di
giugno.

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lasciando al Vescovo la decisione in caso di dubbio ed escludendo il peri-


colo di apostasia o di scandalo21. Anche la versione di ottobre del docu-
mento di Ross, dopo la dichiarazione del Ministero dell’Educazione, ritie-
ne che le cerimonie allo Jinja fossero un atto anche religioso. Ma l’omag-
gio allo Jinja sarebbe stato, per quanto riguarda l’aspetto religioso, soltan-
to una partecipazione “passiva”22, perché la partecipazione attiva è solo
quanto appartiene alla cerimonia in quanto tale. Inoltre questa partecipa-
zione passiva era già stata tollerata fino ad allora dalle autorità ecclesiasti-
che per i soldati. Infine, si giungeva alla stessa conclusione partendo dal-
la prassi delle scuole cattoliche nelle missioni e in Europa, dove si obbli-
gavano anche gli allievi non-cattolici e non-cristiani a partecipare alla
messa, ad inginocchiarsi ed altro, il che non avrebbe mai potuto essere per-
messo, se si fosse trattato di partecipazione attiva. Dopo la dichiarazione
del Ministero dell’Educazione in ottobre, poteva aggiungere che secondo la
dichiarazione, il semplice chinare il capo fosse considerato solo un gesto
di natura patriottica. Inoltre questa dichiarazione ufficiale avrebbe elimi-
nato il pericolo “perversionis et scandali”.
Ma ritorniamo al 14 giugno. In quel giorno iniziò una attività febbrile.
Già in quel giorno Ross parlò con l’arcivescovo di Tokyo, Jean-Baptiste-
Alexis Chambon (1927-1938). Questi si mostrò convinto dai suoi argomen-
ti e permise, prima oralmente, provvisoriamente e per il caso singolo, la
partecipazione degli studenti cattolici ad una celebrazione comune davan-
ti allo Yasukuni Jinja. Questo permesso provvisorio fu reso noto agli studen-
ti il 5 luglio, ed il giorno successivo il colonnello Kitahara venne avvisato
per iscritto dal segretario dell’università. Secondo informazioni del Ministe-
ro dell’Educazione, ciò sembrò soddisfacente al ministero della guerra23.

21
CIC 1917 C. 1258 § 2: «Tolerari potest praesentia passiva seu mere materialis, ci-
vilis officii vel honoris causa ob gravem rationem ab Episcopo in casu dubii probandam,
in acatholicorum funeribus, nuptiis, similibusve solemniis, dummodo perversionis et
scandali periculum absit».
22
La concentrazione sulla partecipazione “passiva” si trova nel Giappone già dal 1868.
Allora (quando il cristianesimo era ancora vietato e perseguitato) si trattava del problema
delle cerimonie funebri eseguite dai bonzi buddisti e della questione se fosse lecito esse-
re presenti ad esse. Cf. MINAMIKI, The Chinese Rites Controversy, 124.
23
Così secondo la relazione Küenburg: «Le seguenti settimane trascorsero nelle tratta-
tive tra i due ministeri, che alla fine portarono alla conclusione, che ci venne comunica-
ta in forma non ufficiale dal Ministero dell’Educazione (unicamente con il quale doveva-
mo trattare, come nostra autorità superiore), che il ministero della guerra era ormai sod-

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Comunque, lo scopo che ci si sforzava adesso di raggiungere, era una di-


chiarazione scritta ufficiale da parte del Ministero dell’Educazione, che gli
omaggi resi allo Yasukuni Jinja (ed al santuario del defunto imperatore Meiji)

non sono intesi come espressione di un culto religioso, ma come testi-


monianza del patriottismo e della fedeltà dei sudditi. Oralmente questo
era già stato affermato alcune volte, ma solo in modo ufficioso. Ciò che
si voleva era una dichiarazione ufficiale orale, o se possibile scritta, che
avrebbe potuto giustificare davanti ai fedeli la mutata posizione dell’au-
torità ecclesiastica ed avrebbe aiutato ad evitare lo scandalo24.

L’arcivescovo Chambon ed il delegato apostolico Everard Mooney colla-


boravano insieme per questo scopo. Il 22 settembre l’arcivescovo Chambon
inviò una richiesta ufficiale in questo senso al Ministero dell’Educazione25.
Finalmente la dichiarazione fu resa sotto forma di una lettera del vicemini-
stro Awaya a Chambon del 30 settembre. Il passo cruciale recita:

La visita dei santuari nazionali (Jinja) è richiesta agli studenti delle


scuole superiori ed agli allievi delle scuole medie ed elementari in ra-
gione del programma educativo. In questo caso l’omaggio richiesto agli
studenti delle scuole superiori ed agli allievi delle scuole medie ed ele-
mentari non ha altro scopo che quello della manifestazione del patriot-
tismo e della lealtà26.

Dopo questa dichiarazione l’arcivescovo Chambon permise che gli stu-


denti, come i soldati, se venivano portati in gruppo e non potevano assen-

disfatto e che il colonnello, fatto che sarebbe considerato un po’ strano da molti, sarebbe
stato richiamato in luglio. Ma questo non avvenne, e lui continuò a lavorare contro di noi».
ARSI Japonia 1005, III 9; traduzione italiana dell’autore.
24
Ivi.
25
Testo (in traduzione francese dell’originale inglese) come allegato della relazione del
delegato Apostolico Everard Mooney del 20 gennaio 1933. AP N.S. 1152, f. 133; passi de-
cisivi anche in: MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident, 216, ed ID., The Chinese Rites
Controversy, 145.
26
Allegato della relazione del delegato Apostolico Everard Mooney del 20 gennaio
1933. AP N.S. 1152, f. 134; D’ELIA, Evoluzione di popoli, 196; MINAMIKI, The Yasukuni
Shrine Incident, 216 n. 37; ID., The Chinese Rites Controversy, 145.

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tarsi “sine gravi incommodo”, potevano fare l’inchino insieme con gli allie-
vi non-cristiani, essendo questo da parte loro solo un atto civile, perché
questo era richiesto27.
Questo sembrava risolvere la questione. Ma così non fu. Già a partire dal
1° ottobre iniziò una campagna di stampa contro l’università Sophia ed in
generale contro le scuole cattoliche, accusate di mancanza di patriottismo.
Dietro questa campagna c’erano il ministero della guerra ed i circoli più
giovani e più radicali. Nell’università Sophia, si decise in un’assemblea dei
professori del 22 ottobre di non alimentare la polemica con controdichiara-
zioni, perché la stampa dipendeva totalmente dall’esercito per ricevere no-
tizie dalla Manciuria, e non avrebbe osato difendere i Gesuiti. Questa cam-
pagna degli ambienti nazionalistici non rimase senza conseguenze. Il nu-
mero degli studenti a metà del 1934 scese da circa 360 a 196. Questo crea-
va, insieme con la mancanza di leadership del già settantenne p. Hoffmann,
una certa atmosfera di depressione e rassegnazione28.
Ma questa controversia ebbe effetti permanenti sull’atteggiamento eccle-
siastico verso i riti. Questo rimase in un primo tempo sul livello pragmati-
co della cooperazione “passiva”, basandosi sulla dichiarazione del Ministe-
ro dell’Educazione. In questo senso il delegato apostolico Mooney rilasciò,
nel gennaio del 1933, una dichiarazione: prestare omaggio ai “Jinja”, cioè
i santuari nazionali dello shinto, che sarebbero «ugualmente monumenti del
patriottismo e della religione pagana» poteva essere tollerato (“tolerari po-
test”) per gravi ragioni, perché sulla basi della dichiarazione autentica del-
l’autorità statale era da intendersi «solamente come manifestazione dell’a-
more della patria e della fedeltà verso l’imperatore», in quanto dalle circo-
stanze era chiaro, che i fedeli non partecipavano ad un culto religioso non-
cristiano29. Mooney spedì poi a Roma i documenti, soprattutto il parere di
ottobre di Ross e la dichiarazione del Ministero dell’Educazione30.
Ma tra questi documenti si trovava anche un parere chiaramente negati-
vo del prefetto Apostolico di Formosa ed amministratore Apostolico di Shi-

27
Su questo permesso, ormai non più solo provvisorio, non riferisce la relazione Küen-
burg, ma una lettera dello stesso al superiore generale del 6 ottobre1932. ARSI Japonia
1005, II 26.
28
Relazione del P. v. Küenburg al generale del 3 luglio 1934. ARSI Japonia 1005, IV 34.
29
D’ELIA, Evoluzione di popoli, 283 s.; MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident, 220 s.;
ID., The Chinese Rites Controversy, 148 s.
30
Relazione del 20-I-1933 (AP N.S. 1152, f. 120-126) con gli allegati.

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koku, Thomas de la Hoz, o.p.31. Egli partiva dall’unità morale del culto
shintoista e dall’intimo legame con la venerazione degli dei e spiriti protet-
tori dell’impero32. Fino a che quindi i prototipi fossero stati presentati co-
me Dei o spiriti protettori, sarebbe stato illegittimo il corrispettivo inchino;
solo quando queste persone fossero state presentate come eroi nazionali o
come modelli, avrebbe potuto essere tollerato. Mooney osservava, che l’au-
tore non conosceva ovviamente la dichiarazione del Ministero dell’Educa-
zione33. Questo è vero senz’altro, perché non la menziona mai. D’altra par-
te ci si può chiedere se essa avrebbe soddisfatto alle sue esigenze, perché
lui si riferisce espressamente non solo all’inchino (per il quale la dichiara-
zione del ministero aveva affermato una interpretazione solamente civile e
patriottica), ma al contesto generale del culto shintoista nei Jinja, per il
quale egli (de la Hoz) avrebbe voluto una interpretazione puramente “seco-
lare”, nazional-patriottica. Infatti, restringere la questione al semplice in-
chino della testa era il punto debole dell’argomentazione. Essa rendeva
possibile per il momento un accomodamento pragmatico, ma non poteva es-
sere alla lunga soddisfacente. Solo il delegato successivo, Marella, affrontò
il problema in maniera più radicale.

31
Ibid., f. 135.
32
Frasi centrali: «Cum actus humani naturam propriae moralitatis sumant praecipue
ab obiecto seu fine operis ab istisque specificentur, et in casu obiectum et finis inclina-
tionis capitis sit venerare tamquam deos seu numina protectores imperii prototipa, quae
in praedictis templis coluntur, debemus dicere actionem inclinationis capitis ab ipsis
prototipis seu diis aut numinibus suam propriam naturam moralem sumere ab ipsisque
specificari; id est talis inclinatio capitis, quia fertur ad deos, sumit caracterem adora-
tionis et secumfert sensum divinitatis, cuius proprius venerationis actus, si Deus verus
est, dicitur adoratio, si non veri sed falsi, actus venerationis istorum denominatur ido-
lolatria, quam numquam licet praebere» (Parole sottolineate nell’originale qui riprodotte
in corsivo).
33
«Animadversio: In praedicto argumento exponendo nulla videtur haberi ratio decla-
rationis gubernii quae tamen vim videtur habere in determinando praecise obiecto quo
specificatur actus; unde argui posse videretur: Hic actus (inclinatio capitis in visitatione
“Jinja”) ex vi declarationis Gubernii intelligitur dirigi in illa entia in quorum honorem
“Jinja” erigitur prouti merentur venerationem ratione amoris patriae et fidelitatis erga Im-
peratorem (v.g. quatenus talem virtutem exemplificant vel qualitercumque in mentem ve-
nire faciunt). Atque hoc idem est ac dicere illa entia vi declarationis Gubernii proponi ut
venerentur veneratione quae est ordinis civilis tantum. Ergo ille actus prouti specificatur
ab obiecto per illam declarationem praecise determinato est ordinis civilis tantum et non
religiosi» (ibid., f. 136).

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Marella e lo “spirito di Nagasaki”

Nel dicembre del 1933 il nuovo delegato Apostolico Paolo Marella entrava in
carica. Nella sua prima relazione dell’8 gennaio 1934 al Cardinale Prefetto
della Congregazione di Propaganda, Fumasoni Biondi34, riferisce general-
mente di una atmosfera migliorata verso la Chiesa cattolica, ma anche che
non avrebbe trascurato nulla per invitare i missionari alla massima pruden-
za, aggiungendo che in particolare i padri tedeschi erano ansiosi di evitare
ogni sospetto di mancanza di lealtà nazionale35. Ma per lui, almeno i Gesui-
ti tedeschi appartenevano a quei missionari, che avevano capito meglio i se-
gni dei tempi. Invece ciò che egli combatteva continuamente, era lo spirito di
Nagasaki, ovvero la mentalità paternalistica di molti missionari francesi del-
la Société des missions étrangères di Parigi, che a partire dell’apertura del
Giappone era quasi esclusivamente responsabile delle missioni in questo
paese36, in combinazione con la mentalità conservatrice dei vecchi cristiani,
mantenuti in uno stato di immaturità da questi missionari e continuamente
rafforzati nel loro isolamento e nella loro chiusura verso la cultura nazionale.
Così, il 5 aprile 1935, scrisse al Cardinale Prefetto37 che nella sua poli-
tica tesa ad evitare ogni contrasto si trovava tra due fuochi: da una parte gli

34
AP N.S. 1152, f. 253-256.
35
«[...] sentendosi, specialmente i Padri di nazionalità tedesca, gravemente umiliati e
feriti nell’animo, per aver dovuto sottostare alle condizioni di cui parla nei Memorandum.
Li ho compatiti, ho detto loro parole di lode e d’incoraggiamento, ma li ho pregati al tem-
po stesso che facessero ben comprendere ai loro Religiosi che nel servizio della Chiesa
non v’è scelta di sacrifici, ma occorre fare quel che il Signore domanda per la sua gloria
e per la propagazione del suo Regno nel mondo» (f. 254). Nella sua relazione del 24-X-
1937 al Cardinale Prefetto (1284, f. 738-749), dunque già a distanza di quasi 4 anni, rac-
conta come nel suo arrivo a Tokyo nel dicembre del 1933 aveva trovato i padri tedeschi:
«i Padri erano non soltanto avviliti, com’era da aspettarsi, ma irritatissimi, pieni di risen-
timento e collera: né mancava chi avrebbe voluto, contro ogni regola di prudenza, com-
battere a spada tratta, e chi insisteva per andarsene tutti e farla finita... Non ci voleva mol-
to infatti ad accorgersi che in quei cuori non aveva mai albergato un sentimento di affet-
to per quella che era in fondo la loro patria di adozione: da buoni intellettuali tedeschi si
sentirono offesi nel più vivo della loro dignità e non riuscivano ad umiliarsi, se non da-
vanti agli uomini, almeno sub potenti manu Dei!» (f. 741 s.).
36
Solo la regione di Niigata sulla costa occidentale era affidata ai Verbiti (SVD), l’iso-
la di Shikoku ai Domenicani, poi a partire del 1922 la missione di Hiroshima ai Gesuiti
tedeschi.
37
AP N.S. 1281, 24-33.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

ambienti militari ultra-nazionalisti e xenofobi, dall’altra parecchi cattolici,


missionari e preti giapponesi nel Sud (Kyushu) che, più coraggiosi che pru-
denti ed ignari della situazione delicata, chiedevano sempre un’azione più
incisiva e gli rimproveravano titubanza e debolezza38. Proprio allora, ripor-
tava, era uscita una pubblicazione di p. Wachida, parroco di Sasebo presso
Nagasaki (“Lo spirito del Giappone ed il cattolicesimo”), che attaccava du-
ramente il nazionalismo e militarismo giapponese. Lui e l’arcivescovo era-
no molto dispiaciuti di questa imprudenza. Egli infatti aveva dato un ordi-
ne espresso di porre attenzione nella censura dei libri non soltanto all’orto-
dossia, ma anche ad evitare tutto quello che avrebbe potuto sembrare un at-
tacco allo spirito nazionale. Nel caso di questo libro, il vescovo di Nagasa-
ki (mons. Hayasaka) era ammalato, e l’imprimatur sarebbe stato dato da un
censore ottantenne. Il libro, secondo Marella, costituiva un esempio tipico
della vecchia mentalità di Nagasaki, «che non vede altra via per la penetra-
zione Cristiana in Giappone se non quella dell’opposizione»39.
Sulla “mentalità di Nagasaki” Marella racconta dettagliatamente in una
lettera del 25 novembre 1934 al Cardinale Prefetto:

Fino a poco tempo fa il missionario credeva che i cristiani si dovevano


formare umilissimi, soggetti al missionario, con un’idea, diciamolo pu-
re francamente, di inferiorità di razza, pronti a credere tutto ciò che il
Padre diceva e a fare tutto ciò che il Padre voleva. Vi sono anche oggi
intieri villaggi nella diocesi di Nagasaki, dove il prete giapponese, ere-
de del missionario e dei suoi metodi, è l’assoluto padrone, tiranneggia
il popolo che lo teme più che non lo ami. Ho letto degli articoli sui gior-
nali di Tokyo che riferiscono ogni tanto relazioni di viaggiatori stupefat-

38
«Due o tre di questi, e tra i più intelligenti, in una recente Riunione per la Commis-
sione della stampa e Azione Cattolica, tenuta qui alla Delegazione, accusarono di debo-
lezza il nostro modo di procedere: vorrebbero protestare, combattere all’ultimo sangue,
mentre danno prova di non conoscere a fondo le condizioni attuali del paese. Parlano e
agiscono a base di sentimenti, come del resto i loro compatrioti militari, e sarebbero ca-
paci di qualsiasi eccesso, sempre credendo di aiutare la santa causa. E ci vuole molta pa-
zienza per persuaderli e calmarli», ivi.
39
Positivamente menziona un articolo accluso di H. Noll in “Actio missionaria” del
marzo 1935 (Fasc. 16), che richiede di partire positivamente dalla coscienza nazionale
giapponese ed anche dai suoi miti. In ogni caso non sarebbe stato conveniente urtare, me-
diante attacchi contro istituzioni e miti venerabili, quantunque antistorici, le sensibilità di
un popolo così sviluppato, ma anche suscettibile.

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ti a vedere oasi europee, per così dire, in Giappone, con gente del tutto
ignara delle tradizioni giapponesi. Tutto ciò fa gran danno alla reputa-
zione della Chiesa, conferma l’accusa di antipatriottismo e ci espone al
pericolo di perdere la nostra gioventù cristiana. I missionari antichi con
eccesso di zelo e, come un missionario stesso delle MM.EE. [Missions
Étrangères] mi osservava, non senza una punta di rigorismo giansenisti-
co, hanno fanaticamente distrutto senza edificare, Hanno distrutto ciò
che era superstizione e ciò che non era, senza riguardi a tante tradizio-
ni e soprattutto senza sostituire nessuna cerimonia pubblica cristiana,
che attestasse a tutti, fin dai primi anni della riapertura del Giappone,
come la Chiesa inculca amore e fedeltà alla patria ed all’imperatore. Il
Francese che è tanto patriota per sé stesso, non comprende infatti que-
sto nobile sentimento negli altri. Per anni ed anni ha deriso impruden-
temente le cose giapponesi e non ha fatto nulla nelle feste nazionali e
nelle grandi occasioni di gioia o di lutto per la nazione. Solo un tre an-
ni fa è stata fatta la preghiera per l’Imperatore che leggono dopo la mes-
sa, in qualche solennità, ma devo ammettere io stesso, che è cosa fred-
da e non accompagnata dal cuore, Hanno così abituato i cristiani a vi-
vere in margine, come dice bene Mons. Roy, della società giapponese,
con assenteismo da tutto, con coscienze in molti punti falsamente for-
mate, lieti di avere, come dicevano, cristiani veri, tutti d’un pezzo, ma,
di fatto “sgiapponesizzati”. Anche oggi, dopo tanto tempo che è passa-
to, la tendenza dei Missionari è pericolosa. Sebbene prudenti, non fan-
no nulla per meglio istruire i cristiani: gli stessi libri del catechismo e
del libro delle preghiere in certi punti sono compilati in modo da far na-
scere sospetti e dovrebbero esser ritoccati. Insomma c’è da rivedere tut-
te le nostre posizioni lasciate intatte ed invecchiate negli anni scorsi,
nel decennio in cui potevasi e dovevasi far qualche cosa40.

Marella insistette ripetutamente per riconoscere in qualche modo le fe-


ste nazionali. I missionari tedeschi lo compresero, ma non i francesi, ed il
23 novembre, alla festa dell’inizio della raccolta del riso, l’arcivescovo di
Tokyo si congratulò con lui per telefono per la “sua” festa. L’arcivescovo lo
intese in modo scherzoso, ma non si rendeva conto di scherzare col fuoco.
Allo stesso modo esisteva, anche da parte dell’arcivescovo Chambon, una

40
Copia in AP N.S. 1281, 541 s.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

avversione contro la “missiologia” moderna: la prassi, per così dire, avreb-


be dovuto essere tutto, e per un vecchio missionario lo studio della cultura
di un paese non era necessaria41.
Senza mezzi termini Marella considerava questa mentalità, dopo che la
decisione Romana del 1936 aveva aperto una breccia, come permanente
eredità della controversia dei riti. Il 1° ottobre 1937 scriveva al Cardinale
Prefetto42, che nei suoi quattro anni in Giappone aveva incontrato ben po-
chi missionari, che avevano capito il senso del giusto adattamento al paese
di missione. La maggior parte di essi viveva come “perpetui stranieri”: par-
lavano la lingua, conoscevano i costumi, erano disposti a qualsiasi sacrifi-
cio, ma non erano mai venuti a contatto con l’anima giapponese43. Questa
era una disastrosa eredità della controversia dei riti, che aveva come con-
seguenza, che il termine “adattamento” apparteneva più o meno al vocabo-
lario eretico. La grande tradizione di Ricci e Nobili era stata rinnegata e di-
menticata. I più ortodossi erano considerati coloro che semplicemente in-
troducevano costumi europei. Una tale eredità di tradizioni e mentalità, cu-
stodita gelosamente e trasmessa dai Superiori, pesava come una cappa di
piombo sui nuovi arrivati. Solo recentemente, dopo l’enciclica di Benedet-
to XV “Maximum illud” del 1919 sulle missioni, stava nascendo un nuovo
spirito. Come esempio di questa mentalità passata, che sospettava di “pa-
ganesimo” qualsiasi cosa, menziona la proibizione per i Cristiani di entra-
re in un tempio ed anche di passare attraverso un torii. Anche peggiore di
quella dei missionari era la situazione delle suore, la cui mentalità era sta-
tica, e che, invece di giapponesizzarsi, europeizzavano le loro candidate.
Anche se vi erano già numerose suore giapponesi, le suore europee non era-
no pronte a lasciarsi governare da loro.

41
«Essi, dicono, sono la missiologia vivente, i loro sacrifici, la loro esperienza e non le
teorie dei professori. Che non è necessario per i missionari studiare in patria circa i po-
poli che vanno ad evangelizzare; che lo studio si fa sul posto e alla direzione del vecchio
missionario, proprio come si fa dalla Società delle MM.EE. E così si spiega la immobili-
tà; il giovane arriva ignorante di tutto ed è subito circondato e istruito senza che abbia op-
portunità di formarsi idee da per sé stesso, se non quando è troppo tardi», ivi.
42
AP N.S. 1283, 670-673.
43
«Vogliono portare anime a Cristo, senza però immedesimarsi nella cultura, nella mi-
stica, negli interessi, nelle aspirazioni di questa grande nazione; anzi, ciò che è grave,
senza smetterla talvolta di rilevare difetti, lasciandosi anche sfuggire ironie sui modi di fa-
re e di pensare. Non c’è insomma, Eminenza, quella “unio animarum”, che è appunto, se
non erro, la definizione dell’amicizia», ivi.

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Sulla via della decisione romana

Malgrado tutte le dichiarazioni delle autorità ecclesiastiche competenti in


Giappone e la consapevolezza della maggior parte dei missionari che le cir-
costanze erano cambiate, i dubbi non potevano dissolversi del tutto finché
Roma non avesse parlato44. Perciò Marella chiese l’8 maggio 1935 in
un’ampia lettera al Cardinale Prefetto una decisione da parte di Roma45.
Questa lettera è importante per la sua visione globale del problema.
Marella spiega il contesto dello shinto di Stato: gli sforzi ed i tentativi di
avere un “culto ufficiale”, legati ai vecchi riti shintoisti, avrebbero dovuto
essere visti nel contesto dello sforzo di difendere il paese, da una parte, da
una totale occidentalizzazione, e dall’altra, dal comunismo. Le autorità sta-
tali ritenevano che, dopo la secolarizzazione dello Stato e l’introduzione
della libertà religiosa, tutto questo non appariva più come una coercizione
religiosa. Lo shinto di Stato era ormai separato chiaramente dallo shintoi-
smo religioso, ora privato. E qui bisognerebbe domandarsi, se la missione
non era stata troppo al di fuori di questo processo di consapevolezza nazio-
nale, esponendosi alle accuse di mancanza di patriottismo. Specialmente i
missionari francesi avevano certamente educato i fedeli ad una intensa vi-
ta religiosa; ma nella loro prassi pastorale vi era stato anche qualche rigo-
rismo, fino al punto, che qualche volta avevano rifiutato di prestare omag-
gio all’immagine dell’imperatore. In questo, Marella rifiuta di ridurre il pro-
blema solamente all’inchino formale, come era richiesto ad allievi, studen-
ti e soldati. Apparentemente questo semplificava il problema. Ma bisogna-
va vedere come era inteso il culto statale ufficiale nel suo insieme. In que-
sto suggeriva, tra l’altro, che il significato di parole e gesti, che possono ave-
re anche un significato religioso (p.e. Kami, che potrebbe significare “Dei”,
ma anche “eroi” o semplicemente “figure simboliche”), era fluido e sareb-
be stato inappropriato affrontare le terminologie del pensiero giapponese
con le categorie concettuali occidentali, e che infine l’aspetto formale ave-
va un’enorme importanza nel sentimento giapponese.

44
Così nella lettera di Marella citata nel testo seguente: «Inoltre gli Ordinari e gran
parte dei Missionari, specialmente non francesi e non legati perciò da antiche tradizioni,
sono convinti che una reale evoluzione è avvenuta tanto nel governo che nel popolo: ma
nessuno osa prendere una decisione generale apertamente e su tutto il problema se non è
sicuro che la sua attitudine sarà ben vista dai Superiori».
45
AP N.S. 1281, 661-708.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

Un aspetto molto importante per Marella era il pericolo del comunismo:


un Giappone comunista sarebbe stato più pericoloso dell’Unione Sovietica,
e molto più pericoloso dei comunisti cinesi di Mao (che dopo la lunga mar-
cia si erano stabiliti all’inizio del 1934 nello Yenan), i quali in fondo non
erano altro che banditi46. Proprio mentre i fatti erano in evoluzione, era ne-
cessario appoggiare il governo in questo processo di secolarizzazione dello
shintoismo politico. Altrimenti, se invece si fosse insistito sul carattere re-
ligioso dei riti, si sarebbe fatto in realtà il gioco degli ideologi della parte
avversa, che avrebbero voluto fare dello shintoismo una religione naturale
universale. Sarebbe stato importante “collaborare con questa grande opera
di unificazione morale del popolo attorno alla persona venerata del suo Im-
peratore”. Qui le missioni non potevano rimanere assenti. I capi politici del
Giappone erano ben consapevoli, che la Chiesa cattolica non faceva con-
cessioni sui principi. Ma si aspettavano da essa, che potesse collaborare al-
l’opera di edificazione della nazione, senza fare obiezioni contro i Jinja, che
ne erano strumento imprescindibile.
Inoltre Marella si riferiva ad un decreto del concilio di Nagasaki del
1890, dove si stabiliva, che usi e costumi, che avevano una origine super-
stiziosa, ma non avevano più questo senso secondo l’opinione generale, po-
tevano essere praticati con sicurezza. Se si fossero osservate queste regole,
i timori presenti sarebbero stati senza fondamento. Ma a Kyushu si arriva-
va fino al punto di vietare anche gli inchini davanti alla fotografia dell’im-
peratore ed ogni partecipazione alle feste nazionali. Marella rimanda anche
al culto dell’imperatore nell’antichità Romana, che sopravviveva in forma
modificata a Bisanzio47. Si faceva riferimento sempre solo al rifiuto del sa-
crificio all’imperatore presso i primi martiri cristiani, ma non si considera-
va la diversità della situazione storica, soprattutto il fatto che la Chiesa con-

46
«E non bisogna poi dimenticare che la Russia è vicina, vicinissima al Giappone, e
che il pericolo del comunismo non è poi soltanto una chimera. Solo l’attaccamento all’Im-
peratore può salvare questo paese dal bolscevismo che cerca d’infiltrarsi nelle classi in-
tellettuali. I “Rossi” della Cina non sono in fondo che briganti; ma se il fuoco attaccasse
il Giappone avremmo un bolscevismo organizzato con a capo degli studenti per leaders e
sarebbe più terribile di quello russo nella sua opera di distruzione di tutto un passato. Che
Iddio ce ne salvi per la salute dell’Asia!», AP N.S. 1281, 661-708.
47
Qui si riferisce a LOUIS BRÉHIER e PIERRE BATIFFOL, Les survivances du culte impé-
rial romaïn, à propos des rites shintoïstes (Auguste Picard, Paris 1920), che acclude. Sul-
l’importanza dello studio di Batiffol, da parte sua motivato dai problemi giapponesi: MI-
NAMIKI, The Chinese Rites Controversy, 131-134.

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temporanea, diffusa in tutto il mondo con la sua rete globale di relazioni,


aveva ben maggiori possibilità e sicurezze per reagire in maniera diversifi-
cata. Per quanto riguarda il paragone con i riti Cinesi addotto dai rigoristi,
egli nega il parallelismo, senza entrare realmente nell’argomento. Che la
Chiesa avesse fatto così pochi progressi, nonostante gli eventi per sé favo-
revoli degli anni ‘20, lo fa risalire a questo atteggiamento difensivo di fron-
te al patriottismo giapponese.
In particolare, questo atteggiamento aveva creato una impressione spia-
cevole, quando il suo predecessore, Giardini, dopo essere stato presente ai
funerali dell’imperatore Taisho nel 1927, poi nel 1928, in occasione della
incoronazione di Hirohito, a cui tutto il corpo diplomatico era presente, si
era giustificato adducendo un’assenza prolungata dal Giappone, in realtà
perché era previsto un inchino davanti alle insegne imperiali, legato all’o-
rigine divina dell’istituzione imperiale. A maggior ragione, prendendo in
considerazione l’instaurazione di relazioni diplomatiche regolari e l’istitu-
zione di una nunziatura, era assolutamente necessario chiarire questi pro-
blemi in anticipo, principalmente nel senso di come le autorità statali com-
prendevano questi riti. Il comportamento di Mooney, il predecessore di Ma-
rella, aveva già reso possibile una soluzione pratica e portato avanti le co-
se, ma risultava ancora troppo debole e troppo poco radicale48. Comunque,
senza tutto questo, le scuole sarebbero state chiuse ed i militari avrebbero
avuto partita vinta.
Ma questo non era abbastanza. Perché, ad esempio, l’arcivescovo Cham-
bon permetteva visite collettive degli allievi nei Jinja, ma non individuali?
Questo si poteva capire soltanto come una situazione transitoria, nella quale
si apre prima uno spiraglio, e solo dopo tutta la porta. Ma in realtà si sareb-
be già prima aperto uno spiraglio, permettendo ai soldati (cattolici) la visita
dei Jinja e non facendone uno status confessionis, la necessaria conseguenza
di un intrinsece malum. Siccome i rigoristi adducevano ripetutamente que-
sto paragone, bisogna chiarire che questo caso non aveva niente a che ve-
dere con i “riti cinesi”: questa controversia era totalmente differente. Non-
dimeno, il minimo passo falso avrebbe potuto avere delle conseguenze di-

48
«Evitava il problema nel suo complesso e non osava domandarsi se la laicizzazione
degli Jinja era tale da rendere accettevole il culto ai fedeli giapponesi alla stessa guisa
della tomba del soldato ignoto in Occidente. Si limitava soltanto a considerare se le cir-
costanze esteriori erano tali da giustificare una cooperazione da parte dei cattolici, senza
timore di scandalo, e per obbedire al governo» AP N.S. 1281, 661-708.

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sastrose49. Se si dice che certe decisioni non andrebbero prese in una situa-
zione di pressione, per non cedere semplicemente alla coazione, precedente-
mente si sarebbe detto il contrario, cioè che non si dovrebbero prendere cer-
te decisioni finché non ci fosse stata la necessità di decidere, perciò si pote-
va prender tempo. Quando dunque si sarebbero dovuti affrontare certi proble-
mi50? Mentre il suo predecessore Giardini riteneva che un tale sviluppo
dello shintoismo avrebbe richiesto secoli, e Marella stesso forse avrebbe
espresso un giudizio simile dieci anni prima, ora il tempo stava per scade-
re, ed in ogni caso non si poteva rimanere da parte inerti in un tale proces-
so. Quindi chiedeva la risposta ad alcuni Dubia:
1) Appartiene il Giappone a quei paesi, per i quali deve essere prestato
il giuramento dei riti?
2) Siccome le cerimonie presso i Jinja, secondo le ripetute dichiarazioni
ufficiali delle autorità statali ed anche a causa della mentalità moderna,
hanno un significato puramente patriottico, possono i fedeli parteciparvi
senza problemi di coscienza51?
Una risposta a queste domande, negativa alla prima e positiva alla secon-
da, sarebbe stata di grande importanza per il progresso del cristianesimo
cattolico in Giappone. I cattolici avrebbero potuto confessare senza riserva
il loro patriottismo, ed il cattolicesimo avrebbe potuto dare il suo contribu-
to all’opera di rinnovamento nazionale. Il governo avrebbe riconosciuto che
non c’è contraddizione tra “cattolico” e “giapponese”, ed avrebbe accre-
sciuto il suo rispetto per il potere spirituale della Chiesa cattolica.
Inoltre, molti riti familiari in occasione di matrimoni, funerali etc., seb-
bene avessero la loro origine nel buddismo ed altre religioni, avevano per-
duto già da molto tempo questa connotazione ed erano diventati normali

49
«Nell’atmosfera attuale, e la S.C. ben lo comprende, il minimo sbaglio può solleva-
re una violenta persecuzione generale in tutto il Giappone, senza che il Governo, anche
volendo, possa trattenerla: e noi ne porteremo senza dubbio la responsabilità», AP N.S.
1281, 661-708, p. 36 della lettera.
50
«Quando allora, possiamo domandarci, dovranno affrontarsi certi problemi, mai?»,
ibid., n. 39 alla p. 36.
51
«Cum cultus, qui a gubernio Japonensi apud monumenta Jinja sustentantur, tam ex
ipsius gubernii declarationibus pluries iam repetitis, quam ex evolutione idearum in Ja-
ponia modernizata, significationem mere patrioticam habeat, scilicet filialis reverentiae
erga familiam imperialem et venerationis erga patriae benefactores, utrum fideles in par-
ticipatione huic cultui civili a gubernio desiderata sicut ceteri cives agere possint, sine ul-
la conscientiae dubitatione?», ivi.

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formule naturali di cortesia, che non potevano essere trascurate senza vio-
lare tutte le convenzioni sociali. Ma anche in questo caso si potevano espor-
re i cattolici a conflitti di coscienza inutili. Così una ragazza cattolica stava
per essere diseredata, perché si rifiutava di lavare insieme con sua sorella
la lapide di sua madre. Ed in ultima istanza tutto dipendeva dalla ristret-
tezza o dalla larghezza di vedute del missionario52.
Quanti cristiani intelligenti a Tokyo avevano pregato Marella di porre fi-
ne a questa confusione! Molti missionari erano lungimiranti, ma tutto si sa-
rebbe potuto bloccare per paura di una decisione negativa di Roma.
3) Infine si sarebbe potuto formulare il terzo Dubium: Possono i fedeli,
in occasione di funerali, matrimoni ed altri eventi sociali, partecipare a ri-
ti, che, certo, hanno una origine religiosa (“superstiziosa”), ma nella con-
vinzione generale sono diventati forme convenzionali di cortesia e di con-
vivenza sociale53?
Subito dopo giunse, se non ancora la decisione richiesta riguardante i ri-
ti shinto, la decisione sulla venerazione di Confucio per il Manciukuò. Es-
sa era la prima grande revisione delle decisioni del Settecento sulla que-
stione dei riti. E le decisioni e gli sviluppi nel Giappone e nel Manciukuò
erano strettamente collegati54. Nell’impero del Manciukuò, fondato nel
1932, i valori tradizionali cinesi e particolarmente la venerazione di Con-
fucio servivano come fondamento ideologico dell’ordine pubblico, special-
mente come legame delle diverse etnie. Tutto ciò fece nascere nei cattolici
dei dubbi di coscienza. Grazie al modello giapponese si aveva così un pre-
cedente per risolvere il conflitto. Anche in questo caso il vescovo Ernest
Gaspais di Kirin aveva sollecitato una dichiarazione del governo, che gli at-
ti richiesti di venerazione di Confucio avrebbero avuto solo un carattere pa-
triottico commemorativo e non un significato religioso; e questa dichiara-
zione fu resa il 5 marzo 1935 dal Ministero dell’Educazione del Manciu-

52
«Vi è insomma anche oggi una tortura di coscienze che fa veramente pena: tutto dipen-
de se prendono consiglio o da un vecchio Missionario, che vede paganesimo in ogni canto-
ne, o da un giovane o da una Suora, che non ha chiare idee su queste materie» ibid., 45.
53
«In funeralibus, matrimoniis, vel aliis ritibus privatis in vita sociali japonensi usita-
tis, quum caerimoniae quae ab omnibus fiunt, quamvis a superstitione originem forte du-
xerint, ex circumstantiis locorum et personarum et ex communi aestimatione non actuali-
ter retineant nisi sensum urbanitatis et mutuae benevolentiae, utrum fideles in talibus ca-
sibus sese habere possint sicut ceteri adsistentes?» ibid., 47.
54
Su questo: MINAMIKI, The Yasukuni Shrine Incident, 221-223; ID., The Chinese Rites
Controversy, 159-181.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

kuò. Una settimana dopo la questione fu decisa in una riunione dei vesco-
vi della Manciuria. In questa riunione ebbero una parte importante non so-
lo il canone 1258 CIC, ma anche un documento sullo shintoismo in Giap-
pone, che la congregazione di Propaganda aveva inviato in modo confiden-
ziale55. Le decisioni dei vescovi, che permettevano ai cattolici la partecipa-
zione ai riti di pubblica venerazione di Confucio, furono approvate nell’i-
struzione di Propaganda del 28 maggio 193556.
Chiaramente, questo incoraggiò Marella ad andare avanti. In uno scritto
ai vescovi giapponesi del 10 agosto 193557 si riferì da una parte ad alcune
difficoltà manifestate particolarmente dei missionari francesi, che vedeva-
no dovunque l’interpretazione religiosa dei riti shintoisti, dall’altra parte al-
le tendenze di ambienti giapponesi sciovinisti ad attribuire ai riti un signi-
ficato religioso per affermare l’unità ideologica della nazione58. La soluzio-
ne sarebbe stata invece quella di chiarire ai cristiani in qualsiasi occasio-
ne il significato meramente patriottico dei riti. Sarebbe stato importante,
che gli Ordinari informassero chiaramente i missionari ed anche le suore,
che spesso non erano correttamente informati, e chiarissero anche che la
Delegazione Apostolica era pienamente al corrente della situazione e rima-
neva in contatto costante con Propaganda.
L’8 dicembre 1935 seguì una lettera a tutti i Superiori degli ordini reli-
giosi maschili e femminili in Giappone59. Essa riguardava anzitutto le scuo-

55
Così nella lettera del vescovo Gaspais al cardinale prefetto Fumasoni Biondi del 25-
III-1935: «[...] nous nous sommes également inspirés de la lettre qui m’a été confidentiel-
lement communiquée par la S.C. de la Propagande sur le Shintouisme au Japon» [stam-
pato prima nell’Osservatore Romano del 2-VII-1936; poi in: “Periodica de Re Morali Ca-
nonica Liturgica” 26 (1937), 90 s.]. Di che “lettera” si tratta qui? La menzionata lettera
ampia di Marella fu scritta solo l’8-V-1935. Probabilmente si tratta dell’istruzione di Moo-
ney del gennaio del 1933.
56
Testo in: METZLER (ed.), Sacrae Congregationis, 786-788; “Periodica de Re Morali
Canonica Liturgica” 26 (1937), 96 s.
57
AP N.S. 1281, 499 s.
58
«On the other hand, I am well aware that certain parties are striving, through the pa-
pers and other means, for a complete unification of national thought regarding this matter,
and that, in their efforts to attain this end, no respect is paid to the guarantees for freedom
of conscience and religious belief, so that they endeavor to inject a real religious signifi-
cance», ivi.
59
“Periodica de Re Morali Canonica Liturgica” 25 (1936), 88-100; cf. MINAMIKI, The
Yasukuni Shrine Affair, 223 s.; ID., The Chinese Rites Controversy, 152 s.

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le ecclesiastiche ed all’inizio affrontò il tema del comportamento davanti al-


le manifestazioni nazionali e patriottiche. Come regola fondamentale stabi-
liva una comprensione lungimirante di tutto ciò che non fosse contro la fe-
de. Perciò le scuole ecclesiastiche avrebbero dovuto partecipare a tutte le
manifestazioni che non avessero un carattere specificamente religioso, co-
me tutte le altre istituzioni giapponesi. Concretamente questo avrebbe si-
gnificato issare la bandiera giapponese a tutte le feste nazionali. In nessun
caso avrebbe dovuto essere issata insieme con essa un’altra bandiera nazio-
nale, ad esempio quella della patria dei missionari, eccetto nel caso della
visita di un rappresentante ufficiale del rispettivo paese. Nel caso di mani-
festazioni di carattere misto, si sarebbe dovuto permettere tutto ciò che ave-
va una interpretazione non-religiosa. Nei casi dubbi, si sarebbe dovuto di-
re per principio ai fedeli che era permesso tutto ciò che nell’opinione pub-
blica era considerato non come la professione di una credenza religiosa, ma
come espressione tradizionale di un sentimento naturale, lasciando alla co-
scienza individuale trarne l’applicazione concreta. Tutto ciò non era in con-
traddizione con l’atteggiamento precedente della Chiesa, perché il signifi-
cato di molte tradizioni era cambiato, talvolta nel giro di un paio di decen-
ni. Marella poi passava a trattare specifiche questioni della educazione sco-
lastica e religiosa, insistendo ripetutamente che il Cristianesimo non signi-
ficava una rottura radicale con i valori del passato.
La congregazione di Propaganda acconsentì alla proposta di Marella e
preparò un documento. Marella stesso fu coinvolto nella stesura del testo.
La bozza gli fu inviata due volte, nel novembre e dicembre del 1935. A mo-
tivo della sua correzione furono inserite all’inizio, invece di una menzione
solo generale delle dichiarazioni delle autorità statali, la citazione per este-
so della dichiarazione del Ministero dell’Educazione del 1932 e della leg-
ge del 1899, per cui erano proibiti atti religiosi nelle scuole statali oppure
riconosciute dallo Stato (come anche l’istruzione religiosa nelle scuole pri-
vate)60. La sessione decisiva fu poi la plenaria della Congregazione di Pro-
paganda del 18 maggio 193661. Sorprendentemente, il testo proposto fu so-
stanzialmente accettato all’unanimità, malgrado il voto divergente del do-
menicano de la Hoz fosse conosciuto e tenuto in conto. Ma i Consultori par-
tivano dalla convinzione che, da una parte, era vitale per la diffusione del-

60
AP N.S. 1281, 510 s. e 508 s.
61
Protocollo in AP Acta 307, 202 s.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

la fede cattolica in Giappone raggiungere un chiarimento in questa vicen-


da, dall’altra parte che la cultura dei popoli dell’Asia orientale si trovava in
un rivolgimento radicale62. Solo alcune modificazioni furono decise.
1) Si decise di citare all’inizio il passo dell’Istruzione di Propaganda del
1659 ai Vicari Apostolici Pallu e de la Motte, dove si dichiara, che i mis-
sionari non avrebbero dovuto in alcun modo indurre i popoli dell’Asia
orientale a cambiare la loro cultura e i loro costumi, ammesso che essi non
fossero contro la fede. Essi avrebbero solo dovuto annunciare la fede cri-
stiana, che non avrebbe in alcun modo distrutto le usanze dei popoli, ma
anzi li avrebbe conservati, se non fossero stati intrinsecamente cattivi63.
Questo passo citato ripetutamente divenne, specialmente nel XX secolo,
sempre più la “Magna Charta” dell’adattamento missionario. Ovviamente
avrebbe dovuto indicare – visto il cambiamento innegabile nella questione
dei riti – una continuità superiore, e questo nonostante il fatto che Propa-
ganda, malgrado la sua strategia di adattamento (ma che non era la stessa
dei Gesuiti del tempo), era stata già dal XVII secolo tra gli avversari dei
Gesuiti nella controversia dei riti64.
2) Si sarebbe dovuto enfatizzare che la fede cattolica non diminuisce l’a-
more per la madrepatria di ciascuno.
3) Una terza modifica riguardava il giuramento sui riti ancora esistente
(fino al 1939). Qui cresceva progressivamente la consapevolezza che le
norme esistenti erano fluide e nel lungo periodo non potevano più essere
mantenute. Nella prima bozza dell’istruzione si diceva ancora semplice-
mente, che non si sarebbe dovuto cambiare nulla nel giuramento sui riti
(«nihil immutetur»). Ciò fu modificato nel testo presentato: ora si diceva:

62
«Gli Eminentissimi Signori Cardinali [...] considerato il carattere pratico dell’Istru-
zione, e l’urgenza di definire una questione dalla quale dipende in gran parte l’espansio-
ne della fede cattolica nel Giappone, rilevata la rapida e radicale evoluzione del pensiero
e dei costumi dei popoli orientali [...] approvarono unanimemente il senso dell’Istruzione
proposta[...]», ivi.
63
Questo testo in: Collectanea Sacrae Congregationis de Propaganda Fide I (Roma
1907), 42; METZLER (ed.), Sacrae Congregationis, 702.
64
Sulle ragioni: K. SCHATZ, Jesuiten und Propaganda-Missionare. Zwei unter-
schiedliche Wege der Akkomodation, in Evangelisierung und Geschwisterlichkeit in der plu-
ralen Welt. Festschrift 400 Jahre Propaganda, “ZMR” 106 (2022), 1-4, Doppelausgabe,
M. DELGADO – M. ECKHOLT – KL. VELLGUTH (eds.), 281-289. Il passo citato viene del re-
sto già adottato nella convenzione di Canton del 1668 (un consenso tra Gesuiti e Dome-
nicani, poi) per la tolleranza dei riti. Cf. MINAMIKI, The Chinese Rites Controversy, 34.

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«in praesentia nihil immutetur». Pertanto era lecito aspettarsi una revisio-
ne fondamentale in un futuro non troppo lontano65. Ma non ci si trovava già
nel corso di un processo di cambiamento? Così si decise, per evitare ogni
spiacevole contestazione, di lasciare solo la richiesta di ubbidienza all’i-
struzione attuale66.
La nuova versione dichiarava dunque ripetutamente che era stata fatta
richiesta alla Congregazione di Propaganda di norme di comportamento
per i cattolici in Giappone, se leggi o consuetudini richiedessero da essi
atti che sembravano avere la loro origine in riti religiosi non-cristiani. Poi
segue un riferimento al passo riguardante l’adattamento missionario nell’i-
struzione del 1659 e si afferma che la fede cattolica non diminuisce l’a-
more per il proprio paese. In questa materia si tratta di atti che, sebbene
abbiano una origine pagana religiosa, non sarebbero intrinsecamente cat-
tivi in sé stessi, bensì indifferenti, e la cui prestazione non sarebbe stata
chiesta in senso religioso, ma come espressione di lealtà civile e patriotti-
ca67. Tutto ciò è giustificato in dettaglio dalla dichiarazione ufficiale delle
autorità statali, cioè: 1) la distinzione tra lo shinto di Stato con i suoi Jinja,
e lo shinto religioso, che erano anche soggetti a differenti autorità; 2) la di-
chiarazione ufficiale del Ministero dell’Educazione del 1932; 3) la legge
del 1899, che proibiva l’istruzione religiosa o cerimonie religiose in scuole
statali o riconosciute dallo Stato. Questo era valido per gli atti ufficiali che
avevano luogo nei Jinja nazionali, ed ugualmente per le usanze di matrimo-
ni e funerali, che, sebbene avessero un’origine religiosa, erano diventati or-
mai, secondo l’opinione comune, meri gesti di cortesia, con la conseguen-
za che i cattolici, che rifiutavano questi atti, sarebbero stati considerati co-

65
Così nel Concilio plenario cinese a Shanghai nel 1924 si prescindeva coscientemen-
te della questione dei riti, perché si era coscienti di entrare con questo in un “nido di ca-
labroni”; dall’altra parte si era persuasi, che tutta la questione doveva essere nuovamen-
te studiata e che questo doveva farsi a Roma. Cf. J. METZLER, Die Synoden in China, Japan
und Korea 1570-1931, Schöningh, Paderborn 1980, 211 s.
66
«Si ritocchi il terzo punto dell’Istruzione concernente il giuramento contro i riti ci-
nesi, per modo che i missionari sappiano di dover seguire in subiecta materia le norme
dell’Istruzione» AP Acta 307, f. 202 s.
67
«Agitur de illis actibus, qui, quamvis ab ethnicis religionibus primitus orti, non sunt
intrinsece mali, sed per se indifferentes, neque iubentur ut religionis signa, sed tantum
veluti civiles actus ad pietatem manifestandam et fovendam erga patriam, omni intentio-
ne remota compellendi sive catholicos sive non catholicos ad significandam quamlibet ad-
haesionem religionibus a quibus ritus illi orti sunt», ivi.

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L’ affaire dello Yasukuni Jinja, Paolo Marella e la revisione della questione dei riti

me antipatriottici o scortesi, il che era assolutamente da evitare68. Seguono


le dichiarazioni:
1) Le cerimonie che si celebrano nei sacrari statali hanno un senso pu-
ramente civile e patriottico: Di conseguenza, i cattolici possono par-
teciparvi.
2) Similmente, i cattolici possono partecipare ai riti privati dei matrimo-
ni o funerali, che, benché abbiano una origine pagana religiosa, sono
diventati ora, per convenzione sociale, meri gesti di cortesia.
3) Riguardo il giuramento dei riti Cinesi, si dice semplicemente, che ci
si dovrebbe attenere alle istruzioni vigenti.
Il testo venne presentato al papa Pio XI nell’udienza del Cardinale prefet-
to il 25 maggio. Il papa chiarì e precisò il testo su due punti minori. Invece
del riferimento generale alle “publicae auctoritates”, che veniva stato fatto
parecchie volte, subentra l’espressione «Hoc ipsae imperii Japonici auctori-
tates...». Inoltre il Papa insisteva che l’applicazione di questa istruzione non
era lasciata alla discrezione di ciascun vescovo. Per questo alla fine, dove si
diceva che gli ordinari del Giappone avrebbero potuto seguire con sicurez-
za queste norme («sequi tuto posse»), si doveva aggiungere «et debere»69. In
questo senso l’istruzione venne pubblicata il 26 maggio del 193670.
Con questo, la via era fondamentalmente verso l’istruzione più generale
del dicembre del 1939, che si riferiva non solo alla Manciuria ed il Giap-
pone, bensì a tutto l’Estremo Oriente, e che abrogava la proibizione dei riti
anche nella questione cruciale della venerazione degli antenati. I temi e gli
argomenti cardine che emergono in questa istruzione successiva si trovano
già qui nell’istruzione del maggio 1936: i riti, che hanno una origine reli-
giosa pagana, possono essere accettati, quando sono diventati una comune
convenzione sociale; negli ultimi decenni era avvenuto un cambiamento
fondamentale, ed il riferimento alle dichiarazioni ufficiali dei governi.

68
«[...] catholici qui renuant huiusmodi caeremoniis interesse, facile incusantur, et fa-
cile ab hominibus vel non inimicis doctrinae catholicae creduntur esse frigidi erga pa-
triam vel ingrati et inurbani erga familiares et amicos. Valde propterea optandum videtur
ut removeantur causae existimationis huiusmodi falsae et iniuriosae, quae non tantum fi-
deles japonicos multum afflictat, sed etiam animos avertit a via salutis ingredienda», ivi.
69
Protocollo in AP Acta 307, f. 212.
70
Testo in: AAS 28 (1936), 406-409; METZLER (ed.), Sacrae Congregationis, 789-791;
“Periodica de Re Morali Canonica Liturgica” 26 (1937), 103-108.

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Una alleanza fragile

Con questo, era completato il passaggio dal tolerari potest, nel senso di una
mera partecipazione passiva secondo il canone 1258, fino all’accettazione in
principio. La base di tutto era la visione dello shinto di Stato come un’ideo-
logia secolare nazionale, secondo Marella, come baluardo contro il comu-
nismo. Di conseguenza, fu data molta importanza al fatto che durante la pri-
ma visita di un cardinale in Giappone, il cardinal Dougherty arcivescovo di
Philadelphia, ricevuto anche dall’imperatore Hirohito il 18 febbraio 1937,
questi visitasse anche il sacrario Meiji e lo Yasukuni e rendesse loro omag-
gio. La visita fu mostrata anche nei cinegiornali giapponesi71.
Ma Marella dovette riconoscere che il fronte comune contro il comunismo
era solo apparente, quando l’enciclica Divini Redemptoris del 19 marzo 1937
contro il comunismo venne pubblicata in Giappone, e solo con delle restri-
zioni, come lui scrisse il 15 maggio al cardinal Fumasoni Biondi72. La ragio-
ne era che specialmente gli ambienti militaristi pensavano che l’unico rime-
dio contro il comunismo fosse il principio giapponese del kokutai, ovvero l’u-
nità genealogica della nazione giapponese basata sull’origine divina della ca-
sa imperiale, una ideologia, come osserva Marella, che era vicina al razzismo
nazionalsocialista73. Ciononostante, Marella conservò il suo ottimismo. Biso-
gnava riconoscere, così diceva, i meriti del kokutai, che aveva mantenuto l’u-
nità e l’indipendenza del Giappone per 2000 anni; ed anche la Chiesa recen-
temente si era avvicinata al patriottismo giapponese74. Anche il recente opu-
scolo del Ministero giapponese dell’Istruzione sul kokutai, distributo nelle
scuole, non conteneva dottrine contro il cristianesimo75. In questo senso ave-

71
Relazione di Marella su questo viaggio: AP N.S. 1283, 53-61.
72
Ibid., 149-153.
73
«Benché non paragonabile alle degenerazioni del neo-paganesimo tedesco, che ri-
pudia espressamente il Cristianesimo, ci troviamo anche qui di fronte ad una ideologia
razzista di antichissima marca, che fa del Giappone una sola ristretta ma potentissima fa-
miglia», ibid., 53-61.
74
«Anche la Chiesa, da parte sua, è venuta incontro in questi ultimi tempi, con mira-
bile comprensione, al patriottismo giapponese, approvandone anche le forme esterne tra-
dizionali, che per sè, nei giorni in cui viviamo, e con le ripetute dichiarazioni ufficiali, non
urtano contro la dottrina rivelata e il sentimento cristiano», ivi.
75
«Nonostante la vaghezza della lingua, difficile per gli stessi giapponesi, nulla vi è
contro il Cristianesimo; si asserisce soltanto in generale, che le “ideologie occidentali”,

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va scritto una lettera agli ordinari e missionari, dicendo che quanto più gli
estremisti avrebbero attaccato per motivi religiosi, tanto più era importante
distinguere chiaramente la religione soprannaturale da credenze patriottiche
«che non condanniamo». Questa distinzione era chiaramente ancora nuova,
e per questo forse i militari ancora non l’avevano compresa. Forse sarebbe
stata compresa in futuro, quando si sarebbe capito che la base del kokutai
non sarebbe stata sufficiente a salvare il Giappone dal comunismo. Questo
tempo sarebbe probabilmente arrivato quando la crisi economica in Giappo-
ne fosse passata e vi fossero circostanze serene per un ripensamento.
L’enciclica Divini Redemptoris contro il comunismo offriva almeno un
ponte comune. Fu molto più difficile creare accoglienza per la quasi con-
temporanea enciclica Mit brennender Sorge, contro il nazionalsocialismo te-
desco, in un governo alleato con la Germania a partire del 25 novembre del-
l’anno precedente nel Patto Anti-Comintern. Marella assolse questo compi-
to con una certa abilità, ma anche mediante una interpretazione minimali-
stica dell’enciclica, separando il nazionalsocialismo dal neo-paganesimo.
Quando il 21 giugno 1937 presentò al nuovo ministro degli esteri giappo-
nese insieme con la Divini Redemptoris anche la traduzione inglese della
Mit brennender Sorge, lo fece insieme ad un promemoria interpretativo76,
dove spiegava che l’enciclica era stata male interpretata, leggendovi falsa-
mente un significato politico. Ma la Chiesa non rifiutava nessun determina-
to sistema politico; la migliore prova ne era l’accordo tra Chiesa e Stato nel-
l’Italia fascista, il che dimostrava che la vita cattolica poteva ben adattarsi
ad uno Stato totalitario, se questo rispettava l’autonomia della religione.
Nazionalsocialismo e neo-paganesimo non erano necessariamente legati77.

che prescindono dal Kokutai, non possono attecchire in Giappone. Dell’Imperatore chia-
ramente si dice che, nel considerarlo come “Kami” (essere superiore), non si vuole affat-
to intendere il Dio transcendentale, omnipotente, omnisciente etc. delle religioni, ma so-
lamente l’espressione vivente e veneranda di quella ininterrotta serie di Imperatori, come
un tutt’uno, secondo le antiche tradizioni giapponesi che formano appunto lo Shintoismo
di Stato», ivi.
76
Copia della sua lettera del 22-VI al Cardinale Segretario di Stato Pacelli: AP N.S.
1283, f. 355 s.; Pro-memoria francese, ibid., 357-361.
77
«L’établissement du régime national-socialiste et le mouvement anti-chrétien n’ont
aucun lien interne; leur coexistence s’explique par des circonstances historiques tout-à-
fait indépendentes. Le programme politique et culturel du nazisme comme tel n’implique
aucunement la négation d’un Dieu créateur, de l’âme immortelle, de la divinité du Christ
et de l’autorité spirituelle de l’église, qui sont les bases de la vie catholique», ibid., 2.

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Movimenti anticristiani esistevano già da molto tempo prima. La loro ten-


denza era di escludere la Chiesa da ogni attività pubblica per soffocarla
gradualmente. Di pari passo procedevano la propaganda pubblica anti-cri-
stiana e le accuse strumentali di manipolazioni finanziarie e di abusi ses-
suali per denigrare indiscriminatamente la Chiesa ed il clero.
Comunque, Marella non poteva evitare di ammettere, che l’enciclica Mit
brennender Sorge conteneva aspri attacchi contro la politica ecclesiastica
del governo tedesco e la sistematica inosservanza del concordato del Reich
del 1933. Siccome le misure diplomatiche in questo campo rimanevano
inefficaci, la Santa Sede non aveva visto altra via di uscita se non l’appel-
lo all’opinione pubblica. Allo stesso tempo il governo tedesco avrebbe stru-
mentalizzato l’amicizia tedesco-giapponese per influenzare il Giappone
contro il cristianesimo ed il cattolicesimo. Ma la classe dirigente in Giap-
pone aveva compreso che la Chiesa cattolica e la Santa Sede facevano tut-
to il possibile per accordarsi con un sano patriottismo, e lui stesso aveva la
ferma fiducia che il governo giapponese non si sarebbe lasciato indurre da
qualsiasi propaganda a negare alla sincerità di questo atteggiamento. Era
un abile appello a mantenere la propria autonomia anche verso un alleato
ed a non lasciarsi ingannare da esso.

Conclusione

Il cambiamento da un modus vivendi pragmatico nel senso del tolerari pos-


se, come fu raggiunto nel 1932/33, verso una accettazione per principio, e
con questo verso una revisione fondamentale della posizione ecclesiastica
nella questione dei riti, è dovuta principalmente a Marella ed alla sua po-
litica missionaria. Ma essa, giudicata dal punto di vista odierno, presenta
una doppia facciata. Da una parte, è un chiaro rifiuto dell’europeismo del
passato ed una disponibilità ad una “inculturazione”, che parte dal ricono-
scimento dei valori culturali e delle tradizioni del paese di missione, e per-
ciò cerca di presentare il cristianesimo non in una posizione marginale e di
opposizione, ma come compimento positivo delle proprie tradizioni. È que-
sta in fondo la continuazione della tradizione missionaria, della quale Ric-
ci e Nobili sono i protagonisti. D’altra parte, questa scelta di Marella pre-
senta una valutazione a volte molto ingenua del nazionalismo giapponese,
anche se vedeva chiaramente, per esempio nella sua valutazione del koku-
tai, la distanza dalla concezione cristiana del mondo. In ogni caso il p.

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Küenburg riconosceva nella sua relazione sull’affaire dello Yasukuni Jinja


più acutamente tale insormontabile differenza, specialmente nelle conce-
zioni etiche e nei valori78. Di conseguenza, soprattutto alla luce della storia
della guerra e dopoguerra, l’incidente dello Yasukuni Jinja, l’accettazione
ecclesiastica dell’omaggio al sacrario e generalmente le circostanze della
revisione del divieto dei riti, creano una cattiva impressione, particolar-
mente nel Giappone odierno, ma anche nei paesi vittime del colonialismo
o delle aggressioni del Giappone. Forse non sarebbe stato sbagliato chiede-
re solamente se i riti fossero “religiosi” o “patriottici” (e se “patriottici”, di
accettarli senz’altro), tralasciando la questione se fossero nel contesto di
una ideologia politica che sebbene secolare, era anche nazionalista ed es-
senzialmente totalitaria? Più radicalmente, ci si potrebbe porre la domanda,

78
«Die Ursache des Kampfes ist aber in der extrem-nationalen Geistesströmung zu su-
chen, deren Anhänger (von manchen als japanische Fascisten bezeichnet) in der Wieder-
belebung des altjapanischen Nationalgeistes das Heil des Landes erblicken. Nur dadurch
könne man Japan vor dem Kommunismus und Bolschevismus bewahren. Diese Geistes-
richtung wird von den im öffentlichen Leben Japans ja von jeher sehr einflußreichen Mi-
litärkreisen gefördert [...]. Ahnen- und Kaiserkult gehören nun gewiß zu den charakteri-
stischen Bestandteilen altjapanischer Sitte und es ist auch klar, daß jener Kern darin, der
als religiöser gelten muß (und über dessen Abgrenzung vom Profanen man verschiedene
Ansichten hören kann), der christlichen Glaubenslehre und einer monotheistischen Philo-
sophie widerstreitet. Wenn daher die Anhänger jener Nationalpartei unter “altjapani-
schem Geist” das geschichtlich gegebene Ganze verstehen, so sehen sie richtig ein, daß
ein Katholik nie ein “guter Japaner” oder ein “guter Patriot” in ihrem Sinne sein kann
[...]. Eine ähnliche Schwierigkeit objektiver Natur ist auf dem Gebiete der besonderen Sit-
tenlehre vorhanden. Wir lehren, daß die Gebote des natürlichen Sittengesetzes dieselben
sind für alle Menschen und Völker, daß folglich die von uns vorgetragene Ethik auch für
die Japaner paßt; sie hingegen halten an einem eigenen, japanisch-nationalen Sittenko-
dex fest und wer diesen preisgibt, gilt ihnen als schlechter Staatsbürger. Zu dieser jap. Na-
tionalmoral gehört z.B. die Erlaubtheit, ja heldenhafte Lobwürdigkeit des Selbstmordes
unter gewissen Umständen, z.B. um zu zeigen, daß man für einen Vorgang skandalöser
Natur die “Verantwortung” auf sich nehme oder um nicht als Soldat lebendig in die Hand
des Gegners zu fallen u.ä. Man sagt den Studenten im militärischen Unterricht, ein jap.
Soldat dürfe sich unter keinen Umständen lebendig vom Feinde gefangen nehmen lassen;
eher müsse er sich umbringen. Wenn unsere katholischen Studenten uns dann über die-
sen Punkt fragen, dürfen wir die Wahrheit doch nicht verleugnen. Unser Urteil in der Sa-
che wird aber selbstverständlich bei vielen bekannt und kommt auch dem Offizier zu Oh-
ren und wird getreulich dem Kriegsministerium reportiert. Die Offiziere haben davon be-
greiflicherweise eine Stütze für ihr Urteil, die christliche Moral “passe nicht zum japani-
schen Nationalgeist”». Relazione del P. v. Küenburg al generale del 3 luglio 1934. ARSI
Japonia 1005, IV 34, n. 16.

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se la tanto auspicata revisione del divieto dei riti da parte di Roma negli an-
ni 1935-39 sia stata nel concreto contesto politico di allora un omaggio
molto problematico all’imperialismo giapponese, tanto più che il Vaticano
fu il primo stato a riconoscere lo stato fantoccio del Manciukuò?
Dall’altro lato è difficile pensare realistiche alternative possibili a quel
tempo. La continuazione di una politica missionaria paternalistica dello
“stare in disparte” non era una opzione saggia. Se si voleva continuare ri-
solutamente sulla strada tracciata dall’enciclica Maximum illud, era impos-
sibile farlo senza conseguenze in un paese che tecnicamente, politicamen-
te e militarmente era paragonabile alle nazioni europee e che si considera-
va guida e maestro dell’Asia. Nella storia è spesso così. Se si fa una deter-
minata opzione, le implicazioni e le circostanze concrete non sono nella
propria disposizione, ma determinate dalla situazione, e più tardi possono
manifestarsi come problematiche. Ed inoltre, era impossibile aspettarsi una
distanza critica di fronte alla politica estera del proprio paese, che i catto-
lici di allora non erano in grado di realizzare in nessun paese d’Europa, dal-
la minuscola minoranza cristiana in Giappone.

Klaus Schatz
Philosophisch-Theologische Hochschule Sankt Georgen
([email protected])

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ABSTRACT

L’AFFAIRE DELLO YASUKUNI JINJA,


PAOLO MARELLA E LA REVISIONE
DELLA QUESTIONE DEI RITI

La questione dell’omaggio al sacrario Yakusuni a Tokyo, pose alle autorità ec-


clesiastiche in Giappone, a partire del 1932, la questione della natura di tale
omaggio, se religiosa oppure civile-patriottica. Già Minamiki ha rilevato come
queste controversie hanno svolto un ruolo chiave per la revisione dei divieti Ro-
mani del Settecento riguardante la questione dei riti (istruzione di Propaganda
del 26 maggio 1936, che riguarda il Giappone e istruzione dell’8 dicembre 1939,
che permise i riti finora proibiti della venerazione di Confucio e degli antenati).
Questo articolo getta nuova luce sul contesto di questi eventi, fondandosi su
documenti dell’Archivio di Propaganda fide. Da queste fonti emerge soprattutto
il ruolo decisivo del delegato Apostolico (più tardi cardinale) Paolo Marella. I pri-
mi documenti e benestare delle autorità ecclesiastiche in Giappone (particolar-
mente del vicario Apostolico Ross in Hiroshima e del delegato Apostolico Moo-
ney, predecessore di Marella fino alla fine del 1933) presupponevano ancora il
carattere (almeno parzialmente) religioso dello Scinto Statale e rimanevano sul
livello prammatico della cooperazione passiva. Solo Marella ha sollevato la que-
stione dal livello pragmatico del “tolerari posse” a quello dei principi e ha così
creato l’orizzonte nel quale una revisione fondamentale nella questione dei riti
sarebbe diventata possibile. D’altro lato questo fu fatto nel quadro di una opzio-
ne politica problematica (dal nostro punto di vista), cioè ritenere lo shinto di Sta-
to una ideologia secolare nazionale, che avrebbe costituito un baluardo contro
il comunismo. Così una disposizione molto aperta di inculturazione si unisce
con una visione molto ingenua del nazionalismo giapponese.

THE YASUKUNI JINJA AFFAIR,


PAOLO MARELLA AND THE REVISION
OF THE RITES CONTROVERSY

The question of the homage to the Yasukuni shrine in Tokyo confronted, since
1932, the ecclesiastical authorities with the problem if this reverence would be
of religious or patriotic-civil nature. Already Minamiki has emphasized that these
controversies played a key role for the revision of the Roman Rites prohibitions
of the XVIII century (Propaganda instruction of 26 May 1936, which refers to
Japan; instruction of 8 December 1939, which permitted the previously forbid-
den rites of worship of Confucius and the ancestors). This contribution sheds
new light on the whole context, based on the documents of the Propaganda
archive. These sources reveal especially the crucial role of the Apostolic Dele-
gate and later Cardinal Paolo Marella. The first documents and permissions of

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1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Klaus Schatz

ecclesiastical authorities in Japan (especially of the Apostolic Vicar Ross in Hi-


roshima and of the Apostolic Delegate Mooney) presuppose the (at least also)
religious character of the State Shinto and remain on the pragmatic level of pas-
sive cooperation. It was Marella who firstly has raised the question from a pure-
ly pragmatic level of “tolerari posse” to one of principle, by which a fundamen-
tal revision of the question of the rites should be possible. But that was made by
him in the context of a (from our perspective) problematic political option: a pos-
itive valuation of State Shinto as a secular national state ideology, which would
form a bulwark against communism. So, a far-going disposition of inculturation
is connected to a very naive view of Japanese nationalism.

Keywords: Inculturation; Rites Controversy; Japan Nationalism; Shintoism

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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UUJ
RECENSIONI /
SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Lorenzo Prencipe
MASSIMILIANO SCALICI, « Troisième Testament » et nouvelle
évangélisation. L’autobiographie comme composante
analogique de la Révélation.
De l’hypothèse d’une théologie autobiographique
à une pastorale autobiographique d’évangélisation

Gaetano Sabetta
FRANCESCO MARCELLI (a cura di), Charles De Foucauld.
Storia di un missionario controcorrente. Un santo con
una missione speciale

Gabriella Ianieri
CORNELIO FABRO, Metaphysica. Corso di Metafisica

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MASSIMILIANO SCALICI
« Troisième Testament » et nouvelle évangélisation.
L’autobiographie comme composante analogique de la Révélation.
De l’hypothèse d’une théologie autobiographique à une pastorale
autobiographique d’évangélisation, (Praktische Theologie im
Dialog / Théologie pratique en dialogue, vol. 58)
Schwabe Verlag, Basel 2021, 682 pp.

Massimiliano Scalici, sacerdote della diocesi di Palermo e cappellano del-


le carceri, specializzato in Antropologia teologica, esperto in metodologie
autobiografiche e co-autore del libro Dio ti perdono. La misericordia capo-
volta (Ed. Albatros, 2018), presenta – con prefazione di François-Xavier
Amherdt – la sua dissertazione dottorale in teologia conseguita all’Univer-
sità di Friburgo (Svizzera) nel 2021.
Col titolo (traduciamo dall’originale francese) Terzo Testamento e nuova
evangelizzazione l’A., nell’ottica di una teologia autobiografica, caratteriz-
zata da un approccio interdisciplinare, atto a far dialogare teologia dogma-
tica, biblica, fondamentale e pastorale, e transdisciplinare, coinvolgente le
scienze letterarie e umane, si propone di avvicinare sempre più il lettore ad
un “Dio che si rivela raccontando sé stesso”, come indicato in Dei Verbum
2 e riproposto da Benedetto XVI in Verbum Domini 56.
Ricavando dalla riflessione dell’Aquinate e dei tomisti, del teologo lute-
rano Eberhard Jüngel e di quello cattolico Hans Urs von Balthasar, un’ana-
logia sacramentale d’incarnazione, l’A. sostiene che, seguendo l’esempio di
Gesù Cristo, “proto-autobiografo divino”, in quanto narratore narrante di
Dio, le Scritture e la Tradizione continuano a trasmettere la Parola di Dio
perché gli scrittori biblici e i testimoni storici della fede, ispirati dallo Spi-
rito, in esse raccontano sé stessi.
Partendo dai due Testamenti canonici, il “Terzo Testamento”, proposto
dall’A. traduce, allora, l’azione della Rivelazione-Incarnazione di Dio in
Gesù Cristo, con una particolare modalità connotata dalla “testimonianza”
dei cristiani che, attraverso le loro storie umane autobiografiche, esprimo-
no nell’evoluzione dei periodi storici l’unica Storia dell’Umanità di Dio. Nel
passaggio, perciò, dalla epistemologia teologica autobiografica alla pastora-
le autobiografica evangelizzatrice la rilettura di Il Piccolo Principe di An-
toine Saint-Exupéry, tramite le tre mimesi (prefigurazione, configurazione e
refigurazione) di Paul Ricoeur, e l’esperienza dei “cenacoli autobiografici”
si rivelano all’A. come efficaci pratiche di annuncio evangelico.

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1/2023 ANNO LXXVI, 251-254 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Recensioni / Segnalazioni bibliografiche

La convinzione profonda che spinge l’A. nel suo lavoro di ricerca e nel-
la presente pubblicazione è che la narrazione-scrittura autobiografica, pen-
sata e realizzata teologicamente, può aiutare l’azione pastorale della Chie-
sa a rendere sempre più chiara e condivisa quella correlazione tra vita e fe-
de (annuncio del Vangelo) così spesso relegate in ambiti diversi, se non
contrapposti, dell’esistenza umana.
Questa convinzione di partenza diventa l’ipotesi di lavoro dell’A. che
vuole argomentare la maniera per la quale l’autobiografia diventa categoria
teologica capace di giustificare una teologia e una pastorale autobiografica.
Il volume si articola in tre Parti, che corrispondono ai tre campi di rifles-
sione (ambito dogmatico, biblico e pastorale), e sette capitoli. La I Parte po-
ne le fondamenta teologiche circa le condizioni di possibilità di un discor-
so autobiografico di Dio e su Dio. Vengono così sviscerate le due premesse
epistemologico-teologiche, vale a dire la questione analogica e la questio-
ne sacramentale della Parola di Dio.
In questa prima parte troviamo due capitoli. Il cap. 1 tratta dello status
quaestionis circa l’evoluzione della teologia narrativa (ambito dogmatico) e
della questione analogica come prima premessa teologica della ricerca. Il
cap. 2 affronta la dimensione narrativa delle Scritture (ambito biblico) e illu-
stra la seconda premessa teologica, vale a dire la “cristosacramentalità della
Parola-Scrittura” e i suoi elementi analogici: l’autobiografia e la sinestesia.
In effetti, l’A. sostiene che, se la categoria “rivelazione” può essere rilet-
ta e interpretata come “narrazione”, lo stesso concetto teologico di “autori-
velazione”, come definito da Dei Verbum 2, può essere riletto e interpreta-
to come “auto-narrazione” divina.
Tale percorso è possibile perché, secondo l’A. non solo Dio rende la pa-
rola umana “analogica” a “dire Dio”, ma anche perché, trattandosi di una
Parola divina viva ed efficace, nonostante il veicolo umano che la esprime,
l’autobiografia intesa teologicamente assume anche una qualifica di “sacra-
mentalità”.
Riformulando in modo analogico (come teologia positiva) la Parola di
Dio, l’A. pone così le basi per una teologia autobiografica capace di offrire
alla teologia fondamentale che studia la Rivelazione una nuova prospettiva
ermeneutica, quella della “cristosacramentalità”, dove Cristo è allo stesso
tempo Parola di Dio e Immagine del Padre, che si rende presente a partire
dall’“interno stesso dell’umanità” (il Terzo Testamento).
Entriamo allora nella II Parte, con tre capitoli, che costituisce il cuore
della dissertazione, affrontando direttamente la questione di una possibile

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teologia come autobiografia che l’A. presenta sotto la denominazione “Ter-


zo Testamento”, considerato non come “nuova e ulteriore” rivelazione divi-
na, ma come “un testamento nei Testamenti”, vale a dire la volontà “auto-
biografica” di Dio stesso attraverso le storie dei personaggi biblici e degli
stessi autori sacri.
Nel cap. 3, l’A. legge il Vangelo di Giovanni come attestazione canonica
e scritturale per una teologia autobiografica. Allo stesso tempo, l’A. si con-
fronta con le teorie autobiografiche dei più importanti specialisti del setto-
re come i francesi Philippe Lejeune e George Gusdorf e l’italiano Duccio
Demetrio oltre che con la filosofia narrativa di Paul Ricoeur con l’obiettivo
di definire i contorni di una teologia autobiografica con l’apporto transdi-
sciplinare dei diversi ambiti della conoscenza.
Nel cap. 4, se Scrittura e Tradizione veicolano un approccio autobiogra-
fico della (auto)-Rivelazione di Dio, l’A. esplicita il concetto di “Terzo Te-
stamento” e, così, definisce le condizioni di possibilità per una teologia au-
tobiografica. In tal modo, si completa la riflessione dogmatica sulla Scrittu-
ra e si inaugura un approccio dogmatico-pastorale sulla Tradizione, in par-
ticolare sull’evangelizzazione.
In effetti, la Tradizione, come via privilegiata dello Spirito Santo, di cui
l’evangelizzazione è il cuore e la ragion d’essere, spalanca la porta dell’am-
bito pastorale al soggetto dell’autobiografia.
Nel cap. 5, l’A. rileggendo Il Piccolo Principe di Sant-Exupery ne ricava
una testimonianza extra-biblica, da situare nel filone della Tradizione. In
effetti, quel testo “laico”, come le stesse parabole evangeliche, parla di Dio
senza nominarlo e ciò rafforza la convinzione dell’A. secondo la quale il
Terzo Testamento abita tutte le storie umane, nei cui cuori è iscritto il Van-
gelo (i “semina Verbi”).
Con la III e ultima parte, l’A. affronta le sfide dell’evangelizzazione, inte-
sa come “nuova evangelizzazione”, così come l’aveva tracciata Giovanni
Paolo II, indicando la proposta autobiografica come possibile prassi pastora-
le da seguire. E per questo, nel cap. 6, l’A. tratta della dimensione narrati-
va e autobiografica della pastorale che trae forza e radicamento da Evange-
lii nutiandi dove Paolo VI ha voluto ridare all’evangelizzazione il suo fonda-
mentale statuto “testimoniale”.
Nel cap. 7 presenta l’esperienza dei “cenacoli autobiografici” come
esempi di una pastorale autobiografica d’evangelizzazione. In questi “cena-
coli” l’annuncio di Cristo non proviene dall’evangelizzatore ma scaturisce
dai racconti di vita dei membri stessi del cenacolo perché come aveva ri-

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1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Recensioni / Segnalazioni bibliografiche

badito il Concilio di Trento «il Signore ha iscritto anche il suo Vangelo nei
cuori degli uomini».
In sintesi, abbiamo tra le mani un volume degno di interesse e con una
proposta teoretica “non usuale”, ma suggestiva: rendere teologica una ca-
tegoria riflessiva – l’autobiografia – che proviene da altro ambito del sape-
re diverso da quello comunemente chiamato “teologale”.
Lo scopo della ricerca che ha prodotto questa dissertazione è quello di
riconoscere l’autobiografia sia come componente analogica della Rivelazio-
ne e quindi nella Scrittura e nella Tradizione, sia come dimensione dell’e-
vangelizzazione che è il cuore e la ragion d’essere della Tradizione della
Chiesa.
Le riflessioni e le analisi proposte dall’A. rivelano il necessario rigore
metodologico di una ricerca scientifica inter e transdisciplinare, l’accura-
tezza e pertinenza delle fonti e la coerenza delle argomentazioni oltre ad
una certa originalità dell’argomento.
A tal proposito, se una criticità può essere rilevata, questa è dovuta pro-
prio all’oggetto stesso della dissertazione. In effetti, non si tratta né di un
autore in particolare né di un’opera specifica, ma di una tematica ampia, i
cui confini e limiti di ricerca sono mobili e spesso difficili da definire e ab-
bracciare.
Ad ogni modo, riteniamo che quanto prefissato dall’A. raggiunga il suo
obiettivo di offrire alla “nuova evangelizzazione” nuove piste di riflessione
teologica e di pratiche pastorali caratterizzate dalla prospettiva autobiogra-
fica di un Dio che continua a comunicare e comunicar(si) agli uomini e ne-
gli uomini (e donne) di ogni tempo.
Infatti, con le stesse parole dell’A., possiamo concludere che «la Parola
di Dio, in quanto Parola autobiografica e sacramentale, dice insieme Dio e
l’umanità, vale a dire veicola e racconta allo stesso tempo “il dire su Dio
dell’uomo” e “il dire sull’uomo di Dio”, “il dirsi di Dio” e “il dirsi dell’uo-
mo”» (p. 602).

Lorenzo Prencipe

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Recensioni / Segnalazioni bibliografiche

FRANCESCO MARCELLI (a cura di)


Charles de Foucauld. Storia di un missionario controcorrente.
Un santo con una missione speciale, Prefazione di GASPARE MURA
Gruppo Editoriale Tab, Roma 2022, 182 pp.

Il testo curato da Francesco Marcelli, giovane e valente studioso, laureato-


si con lode in scienze storiche presso l’Università degli Studi di Roma Tre,
con esperienze maturate all’estero e con già all’attivo una cospicua attivi-
tà pubblicistica, è interessante a diversi livelli. Innanzitutto si tratta di
un’antologia di testi di Charles de Foucauld che si segnala per la sua com-
pletezza, originalità e profondità. Come tale, essa è in grado di disegnare
in poche pagine la complessa e poliedrica figura di questo missionario
controcorrente. Inoltre, il bouquet di testi selezionati dal Curatore è debi-
tamente inquadrato, nella prima parte del volume, da un’Introduzione. Es-
sa in maniera puntuale ed esaustiva apre uno spazio di riflessione sulla
fraternità universale del Beato Charles de Foucauld, come ricorda papa
Francesco che proprio da lui si è lasciato ispirare (cf. FT 286). Egli nella
sua semplicità voleva imitare Cristo nell’abbassamento, identificandosi
con gli ultimi per arrivare ad essere fratello di tutti.
La parte antologica, di per sé una selezione di testi, è organizzata lungo
tre tematiche: nella prima parte si trova l’epistolario che de Foucauld ha
intrattenuto con alcuni degli amici più cari, con la cugina, la parente a lui
più vicina, e con il padre confessore. In essa incontriamo la dimensione
più comunicativa e diretta di de Foucauld. Nella seconda, l’antologia di te-
sti raccoglie alcuni dei suoi scritti spirituali elaborati durante il ritiro a
Nazareth del 1897. Si tratta di pensieri in origine non destinati al pubbli-
co nei quali si delineano, spesso in maniera asistematica, alcune delle
profonde riflessioni spirituali e di fede che affollano l’animo di frère Char-
les. Nella terza parte, infine, si incontrano le meditazioni che de Foucauld
sviluppa in relazione ai Vangeli. Esse ci aiutano a comprendere la natura
della sua vocazione e del suo impegno di missionario controcorrente. L’uo-
mo, lo spirito, la missione, ecco, in sintesi, le tre porte che la parte anto-
logica apre al lettore.
Il testo di Francesco Marcelli ha il grande pregio di avvicinarci in ma-
niera semplice alla vita di de Foucauld, perché chi conosce frère Charles
sa che il documento essenziale su di lui è la sua stessa vita. Nel caso del-
l’Islam, ad esempio, più che una fede musulmana astratta, egli nel corso
della sua esistenza ha incontrato dei credenti musulmani concreti, arabi

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1/2023 ANNO LXXVI, 255-258 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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prima e berberi poi, con i quali ha intessuto prima di tutto un dialogo del-
la vita. È venticinquenne quando tra il 1883 e il 1884 visita il Marocco,
nel Maghreb, la terra del tramonto, accompagnato da un rabbino ebreo ma-
rocchino con una lunga esperienza di guida a servizio dei francesi. Nel
percorrere il Paese da nord a sud, da Tangeri a Tissint, de Foucauld incon-
tra l’Islam delle confraternite sufi, le zawiya, custodite da famiglie di ma-
rabutti e sotto la guida di shaykh. Le zawiya sono luoghi di accoglienza e
ospitalità per studenti e pellegrini, dove si custodisce lo stile di ricerca
spirituale e di preghiera fervente, dove i sufi, i mistici e i poeti islamici
praticano la religione del cuore, nutrita dal silenzio, dalla meditazione,
dalla ripetizione del nome divino (dikr), dalla lettura spirituale del Cora-
no, dalla memoria dei santi. A Tissint il giovane de Foucauld è sedotto dal-
le persone, dal loro stile di vita, dalla loro mitezza, dall’accoglienza, dal
loro atteggiamento di preghiera e adorazione. Sappiamo dalle sue lettere
che, con gli anni, l’esperienza del Marocco lascia nel suo animo un’im-
pronta indelebile, tanto da costituire per lui il modello di riferimento per
la povertà, l’abbassamento, il nascondimento, lo stile di preghiera e d’o-
spitalità, sia riguardo a sé stesso sia riguardo alle future fraternità che co-
stituirà. Era partito per il Marocco per approfittare della sua giovinezza e
partendo non aveva senza dubbio pensato a Dio. Ma Dio l’aspettava, gra-
zie ai musulmani incontrati, per un viaggio diverso da quello che aveva
programmato. A confronto con un mondo straniero ed estraneo, ritroverà sé
stesso e, nell’intimo di sé stesso, ritroverà Dio. Il fatto certo e documenta-
to, rispetto al ritorno a Dio di de Foucauld, è che nei mesi successivi ai
viaggi attraverso tutto il Sahara, trovandosi a Parigi per redigere il suo Re-
connaissance au Maroc. 1883-1884 una “grazia interiore fortissima” lo
raggiunge e lo spinge a passare lunghe ore nelle chiese e a ripetere la stra-
na preghiera “Mio Dio, se esisti, fa’ che ti conosca!”. La sua è una conver-
sione vera e propria. Si tratta di un incontro con il Dio della fede cristia-
na della sua infanzia e non con quello della šahāda islamica, anche se il
fascino per l’Islam non lo abbandona immediatamente al punto che per
qualche tempo continuerà a leggere insieme il Corano e i Vangeli. Nel suo
viaggio in Palestina, tra la fine del 1888 e gli inizi del 1889, tocca con ma-
no il Dio di Gesù di Nazareth, che lo invita a venire e vedere, per imitar-
lo nella “vita nascosta di Nazareth”. Si sente, così, fortemente chiamato a
vivere tra i musulmani per portare loro la salvezza al modo di Gesù, aman-
doli fino alla fine. Soppesando l’itinerario spirituale di de Foucauld non
possiamo non considerare il suo andamento a spirale. Esso potrebbe de-

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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scriversi come il passaggio dal “Dio più grande”, quello dell’Allāhu akbar,
al Dio che si abbassa fino ad annientarsi sulla croce, per aprirsi, infine, al
Dio amore. Dal Dio “sempre più grande”, che tende all’infinito, al Dio
“sempre più piccolo”, che si avvicina allo zero, fino al Dio che sfocia nel-
l’oceano dell’amore. Questo, in estrema sintesi, è il senso e la direzione
del cammino di fede di frère Charles: dal Dio delle altezze a quello della
vastità oceanica passando per quello delle profondità del nascondimento.
È il Dio che è sempre oltre, a cui nulla può associarsi quello che attrae
de Foucauld. Ha preso coscienza del senso purissimo della trascendenza
divina e ad essa si è arreso, si è abbandonato. Ma d’un tratto, a Betlemme,
a Gerusalemme, a Nazareth, avverte il mistero inaudito, vertiginoso, di que-
sto Dio che, nella sua trascendenza, irrompe nel tempo. Questo Dio che si
rivela “più grande” proprio nel farsi “più piccolo”, nel cedere gratuitamen-
te la sua gloria, nello spogliarsi di ogni grandezza e potenza per mettersi a
servizio delle creature umane e prendersene cura con amore appassionato.
Egli si sente “afferrato da Cristo” (Fil 3,12). Tutto questo abbassamento ha
infine una sola spiegazione: l’agape-carità-gratuità, lo specifico della fede
cristiana e del Dio di Gesù Cristo. Dio non solo ama, Egli è amore (1Gv
4,8), un amore che ama fino alla fine, nell’estrema consegna di sé. Evocan-
do la fede islamica che l’ha attratto, leggendo la Bibbia, frère Charles per-
viene così a ciò che hanno intuito e cantato i grandi mistici di tutti i tempi
e di tutte le fedi, i grandi cercatori dell’assoluto ebraici, cristiani e musul-
mani: la religione dell’amore. Al-Hallaj (858-922), mistico e martire mu-
sulmano, nel suo Diwan iniziava un canto dicendo: «Ho molto pensato al-
le religioni per capirle, e ho scoperto che sono molti i rami di un’unica fon-
te». Ibn ‘Arabi (1165-1241) parla invece della religione dell’amore con
questi versi: «Il mio cuore è divenuto capace d’accogliere ogni forma, è un
pascolo per le gazzelle, un convento per i monaci cristiani, è un tempio per
gli idoli, è la Ka‘ba del pellegrino, è le tavole della Torà, è il libro del sacro
Corano. Io seguo la religione dell’amore, quale che sia la mia strada che
prende la sua carovana: questo è mio credo e mia fede».
Anche l’esperienza vissuta da Charles de Foucauld, quel suo passaggio
dal Dio delle altezze islamiche a quello dell’abbassamento cristiano avvie-
ne, come nel caso dei mistici senza sostituzioni o annullamenti, senza
esclusioni o condanne. Questa è forse la grande eredità spirituale che ci la-
scia frère Charles. Egli mostra una strada che può aiutare ognuno di noi ad
aprirci a una relazione con l’altro che non sia di conquista o superiorità, ma
di accoglienza rispettosa delle radici comuni e di rispetto amoroso per le

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nostre rispettive alterità. Solo così si può favorire un cammino comune che
sia di stimolo reciproco così da trarre il meglio dal proprio e dall’altrui pa-
trimonio spirituale e culturale. Solo così si può procedere insieme verso
Dio, verso quel Trascendente che supera tutti noi. Il Corano e la Bibbia lo
suggeriscono senza alcuna esitazione.
In conclusione, il bel testo di Francesco Marcelli è un forte invito alla
speranza sia per i lettori che volessero avvicinarsi alla figura di frère Char-
les per la prima volta, sia per gli studiosi che proprio attraverso questo te-
sto volessero approfondire qualche aspetto saliente della sua personalità,
del suo spirito e del suo stile missionario.

Gaetano Sabetta

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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CORNELIO FABRO
Metaphysica. Corso di Metafisica
a cura di ELVIO CELESTINO FONTANA, testo latino a fronte,
traduzione di ANDREA DALLEDONNE, ED.IVI, Segni 2022, 601 pp.

Il Progetto Culturale Cornelio Fabro offre ai lettori un inedito di padre Fa-


bro. Si tratta di «dispense dattiloscritte del corso di Metafisica in due qua-
derni» (p. 7) dell’anno accademico 1948-1949 che Fabro tenne presso la
Pontificia Università di Propaganda Fide, ovvero la Pontificia Università
Urbaniana. Le dispense, scritte in latino ad privatum Auditorum usum, so-
no edite con traduzione a fronte per opera di Andrea Dalledonne. Pur non
essendo pensato da Fabro come un libro, la dispensa, sottolinea il tradut-
tore, «contiene tutta la solidità dottrinale della lettura fabriana della me-
tafisica classica» (p. 8). Nella presentazione del volume, il curatore Elvio
Celestino Fontana osserva che a livello contenutistico «il testo presenta al-
tre novità interpretabili come delle riscoperte» (p. 6) del pensiero di san
Tommaso. Si tratta di quelle dottrine fondamentali della metafisica tomista
che «sono passate quasi inavvertite durante ben sette secoli, con grave
danno per la filosofia e la cultura occidentale» (p. 6). Solo per ricordarne
alcune evidenziate dal curatore: la dottrina della partecipazione, la nozio-
ne dell’esse ut actus essendi e «l’impostazione tutta nuova della teoria del-
l’analogia in dipendenza della partecipazione trascendentale e predica-
mentale» (p. 6).
Il volume comprende due quaderni, il primo dei quali si compone di una
Introduzione, che si apre con un breve Proemio, seguito da tre capitoli, e di
due libri. Viene completato da padre Fabro il giorno della Festa di tutti i
Santi del 1948. Di un paio di mesi successivo, nel giorno della Circoncisio-
ne del Signore del 1949, è il completamento del secondo quaderno della
dispensa, composto da un libro e da una breve conclusione.
Nel primo quaderno, i tre capitoli introduttivi sono dedicati rispettiva-
mente alla natura, all’oggetto ed al metodo della Metafisica, scienza del-
l’ente in quanto ente, (cap. 1), al suo inizio (cap. 2) e al suo principio su-
premo (cap. 3). All’introduzione fanno seguito il libro sulla divisione del-
l’ente (quattro capitoli) e sulla sua costituzione e sussistenza (cinque capi-
toli). Il quaderno si chiude con una sintesi della nozione di ente ed un’e-
sposizione del concetto di relazione.
Il secondo quaderno (terzo libro) è dedicato alle cause e consta di sette
capitoli: sulla causa in generale, sul principio di causalità e sulla causa ef-

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1/2023 ANNO LXXVI, 259-261 URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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ficiente fisica (capp. 1-3), sulla nozione metafisica di materia prima e sul-
la nozione di natura (capp. 4-5), infine sulle proprietà dell’ente e dei suoi
modi di predicazione (cap. 6-7).
In questo corso, precisa Fabro nell’introduzione «seguiremo i testi stessi,
sia del Filosofo sia dell’Aquinate, con esattezza e, parola per parola, nella
loro connessione logica e storico-filologica [...]» (19). L’intento del profes-
sore non è tanto o solo quello di «[offrire] una raccolta di tesi quanto la pro-
blematica delle verità che sono le prime e le supreme per l’uomo e che lo
elevano alle realtà più alte, dove l’essere (esse) è l’origine e il termine di
qualsiasi realtà [...]» (p. 19).
Il proemio e l’epilogo offrono l’orizzonte complessivo di questi “appunti
per studenti”. Non sono solo una raccolta di tesi di metafisica classica (ari-
stotelico-tomista) riuniti intorno alla problematica delle verità e arricchiti
dal dialogo serrato e puntuale con altre filosofie (medioevali, moderne ed a
lui contemporanee). Sono anche l’indicazione di un compito e di un sentie-
ro da percorrere.
Scrive Fabro nel proemio: «[è] noto a tutti che l’odierna crisi della filo-
sofia è la crisi della metafisica. Come dimostrano il suo destino e la sua sto-
ria, la metafisica è infatti la suprema investigazione dell’uomo, finalizzata
al contempo alla conoscenza e al raggiungimento dell’Assoluto» (p. 13).
Nella storia del pensiero il concetto di Assoluto, da trascendente quale era,
(in particolare nella tradizione aristotelico-tomista) è stato reso immanente
nella modernità e, eccetto pochissime eccezioni, liquidato dalla novissima
nella quale sottolinea Fabro «non c’è nessuna norma salda di verità perché
non c’è nessun fondamento intrinseco e stabile della realtà» (p. 13). Ecco,
il corso di metafisica di padre Fabro ha questo più ampio orizzonte abbrac-
ciando lo stato problematico della filosofia a lui contemporanea. Agli stu-
denti fornisce gli strumenti necessari per comprendere la metafisica aristo-
telico-tomista, per riconoscerne lungo la storia derivazioni e deviazioni e
per imparare a leggere i tempi (a loro) attuali, senza rimanerne disorienta-
ti. Il compito dei futuri filosofi non è da poco: affrontare la crisi della filo-
sofia, risolvendo quella della metafisica, attraverso l’impegno a «ripristina-
re [...] il realismo aristotelico» (p. 15). Così si esprime padre Fabro: «[...]
noi, con l’aiuto della grazia di Dio, ritorniamo al metodo aristotelico-tomi-
stico e, adattandolo alle esigenze dei tempi, abbiamo la ferma convinzione
che la metafisica del Dottore Angelico sia, nel suo nucleo teoretico, piena-
mente valida in tutti i tempi e, al contempo, virtualmente posta all’inizio di
tutti essi per soddisfarne le esigenze» (p. 19).

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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Il sentiero da percorrere è ripartire dall’inizio, da una nozione di ente,


oggetto della metafisica, precisa, chiara e stabile. Certamente le circa 300
pagine dei due quaderni parlano dell’importanza per l’Autore della preci-
sione terminologica, dell’abbondanza di citazioni e riferimenti, dei continui
confronti diacronici con altri sistemi filosofici. Lungo il viaggio di questa
dispensa si percepisce la paterna preoccupazione del docente di formare
rettamente i suoi studenti, liberandone la mente da dubbi e incomprensio-
ni riguardo le nozioni fondamentali della metafisica. In questa premura,
sembrano riecheggiare le parole del suo illustre maestro: “perché un pic-
colo errore all’inizio...!”. Alla fine dell’introduzione Fabro inserisce il voca-
bolario della nozione di ens dato che la «terminologia fluttua spesso» (p.
93) e le “fluttuazioni” sono riportate in latino, greco, inglese e tedesco. L’e-
pilogo, tanto per ulteriore, definitiva chiarezza, è una sintesi articolata del-
la «nozione tomistica di ente (preso nominaliter = oggetto della metafisi-
ca), che [Fabro ritiene essere] l’unica autentica» (p. 593).
Seguendo il metodo aristotelico del primo libro della Metafisica, al capi-
tolo primo dell’Introduzione Fabro ci offre una breve storia della metafisi-
ca: dallo Stagirita e i suoi maestri fino alla filosofia esistenziale nata da
Kierkegaard, il quale «si impegna nel riconoscimento della realtà stessa
dell’ente stesso, ovvero dell’individuo singolo contro l’universalizzazione
razionalistica e idealistica» (p. 31).
Il volume ha inoltre il pregio di presentare i nuclei teoretici fondamenta-
li della metafisica aristotelico-tomista in uno stile che è modellato sugli au-
ditores, in un linguaggio cioè, per ammissione dello stesso Autore, “grade-
vole” (p. 19), scorrevole, adatto a studenti ma non solo!
Tra l’altro in controluce possiamo intravvedere il volto dell’uomo Corne-
lio, il suo modo simpatico di rapportarsi agli studenti, come quando, doven-
do spiegare il possibile metafisico, principio dell’ente reale, precisa che si
distingue nei confronti dell’atto come per esempio «un fanciullo che ha la
possibilità di diventare Papa o filosofo» (p. 535).
Insomma, questa dispensa ad privatum Auditorum usum, mi ha suscita-
to la anacronistica ma piacevole sensazione di essere anch’io una studen-
tessa, seduta lì, in un’aula di Propaganda Fide, a lezione di Metafisica dal
prof. Fabro.
Ringrazio il direttore e i collaboratori del Progetto Culturale Fabro per
aver dato alle stampe questo prezioso testo.

Gabriella Ianieri

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Abignente D. 174 Brugnotto G. 64


Agostino / Augustin 51, 54, 154, 173, 214 Brunschvicg L. 45
Al-Hallaj 257 Buber M. 46
Alberigo G. 44, 125 Butler C. 88
Alvarado Liscano A.F. 71, 75 Butticaz S.D. 31
Álvarez A.C. 71
Amherdt F.-X. 88, 251 Calabrese G. 114
Ancona G. 5-6, 7-8, 63, 83 Calvi M. 185
Arendt H. 134 Calvino G. 102
[Aristotele] Filosofo, Stagirita 260, 261 Camara D.H. 169
Aste A. 63, 83 Camdessus M. 114
Asti F. 46 Canesso L. 86
Astorri R. 69 Canobbio G. 46, 113
Atakpa K.M.A. 11-14, 39-59 Cappellaro J.B. 86
Attila J.Y. 183-204 Capitini A. 145
Auletta A. 97 Capovilla L.F. 84
Avila di Teresa 215 Cappellaro J.B. 86
Awaya Senkichi 225 Castellucci E. 97
Castillo Hernández L.G. 72
Bagnato L.G. 92 Césaire d’Arles 54
Balthasar von H.U. 251 Chambon J.-B.-A. 224, 225, 230, 234
Barrett C.K. 35 Chrysostome J. 41, 54
Batiffol P. 233 Cian M. 184
Battocchio R. 63, 94, 114, 121 Cibelli E. 46
Bauckham R. 18 Ciola N. 95
Bea A. 220 Claudio imperatore 23
Begus C. 184 Clément d’Alexandrie 51
Benedetto XV / Benedictus XV 66, 81, 231 Clemenzia A. 109
Benedetto XVI / J. Ratzinger 67, 136, 100, Coda P. 109, 114, 117
136, 200, 251, 200, 251 Compte M.T. 45, 114
Bertini D. 174 Congar Y. 44, 46, 98, 100, 105, 107
Bongiovanni A. 160 Coppens J. 26
Borges P. 61 Cortesi F. 12, 61, 63, 64, 65, 67, 68, 69,
Borgia F. 215 70, 71, 73, 74, 75, 76, 77, 78, 79, 80,
Borras A. 89, 95, 97, 117, 121 81, 82
Bozzi S. 178 Cossu F. 86
Bréhier L. 233 Costa G. 133, 228
Bressan L. 96, 97 Crowe D. 95

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Currò S. 131-144 Frey J. 16


Cusano N. 176 Fumasoni Biondi P. 228, 237, 242
Cyprien 55
Gaillardetz R.R. 93
D’Auria A. 188 Galli C.M. 84, 114, 117
D’Elia P. 218, 222, 225, 226 Galtung J. 169, 170
Daft R.L. 94 Gandhi M.K. 145, 146, 147, 148, 149,
Dalledonne A. 259 152, 155, 156, 157, 158, 160, 161, 165,
Dal Lago A. 135 167, 168, 169, 174, 179, 180
De Lai G. 74, 75, 79, 80 García y García A. 44, 61
de Leonardis M. 65 Garofalo S. 88
De Marchi G. 65, 67 Garzillo M. 137
Del Re N. 68, 69 Gaspais E. 236, 237
Demetrio D. 253 Gasparri P. 69, 70, 73, 74, 75, 76, 79, 80
Di Martino B. 187 Genocchi G. 77
Dianich S. 98, 117 Gherri P. 183, 184
Dolci D. 181 Gianotti D. 84
Donoso J. 62 Giardini M. 234, 235
Dougherty D.J. 242 Giovanni, papa 84
Doumerc R. 174, 178 Giovanni Paolo II 85, 90, 169, 186, 192,
Drago A. 145-182 200, 207
Drimbe A. 19 Giuseppe Flavio 20
Dunn J.D.G. 131 Giustiniano 107
Dupont J. 28 Godinho M. 214
Godoy M.S. 71
Erode Antipa 24 Gomez F. 90
Erodoto 15 González Dorado A. 95
Granadillo F.A. 72
Fabro C. 259, 260, 261 Grégoire le Grand 57
Faggioli M. 89 Greinacher N. 95
Falque E. 136 Grignani M.L. 61-82, 12
Fantappiè C. 63, 69 Grillmeier A. 44
Federici T. 88 Grize J.B. 178
Feliciani G. 65 Guasco M. 64
Ferretti G. 111 Guerrero Alves J.A. 207-216
Fiensy D.A. 17 Gusdorf G. 253
Finkielkraut A. 46 Gutirérrez Vega L.C. 61
Fontana E.C. 259
Forte B. 174 Hayasaka J.K. 229
Foucauld de Ch. 255, 256, 257 Hegel G.W.F.
Francesco / Francis / François 40, 46, 54, 58, Hengel M. 22
59, 63, 83, 84, 86, 87, 97, 101, 102, 103, Henkel W. 61
104, 106, 107, 108, 109, 133, 135, 136, Hirohito 234, 242
138, 139, 140, 142, 187, 188, 190, 208 Hoffmann H. 221, 222, 223, 226
Francesco d’Assisi 132, 149 Horak D. 126

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Horn L.R. 179 Maciá L.M. 19


Hoz de la Th. 227, 238 Mangione C. 178
Manzanares J. 44
Ianieri G. 259-261 Mao Zedong 233
Ibn ‘Arabi 257 Marcelli F. 249, 255, 258
Ignace d’Antioche 43 Marchetti Selvaggiani F. 67
Ignazio di Loyola 213, 215, 218 Marella P. 217, 219, 227, 228, 229, 230,
Izzo Nieves C.J. 64 231, 232, 233, 234, 235, 236, 237, 238,
242, 243, 244, 245, 247, 248
Jenkinson W. 95
Mareuil de A. 45, 151, 158, 172, 175
Johnson L.T. 22
Jullien F. 137 Marguerat D. 19, 34
Jüngel E. 251 Margull H.J. 43
Junod E. 43 Marranzini A. 98
Martini C.M. 85
Kasper W. 85, 98 Mazzolini S. 11-14
Kierkegaard S. 261 McDonough S.M. 22
Kitahara Takeo 221, 222, 224 McNaab J. 86
Klostermann F. 86, 95 Meddi L. 83-108, 12
Kremer J. 26 Mejía M.A. 71, 72
Kretschmar G. 43 Melloni A. 40
Küenburg von M.J. 219, 221, 222, 223, Metzler J. 219, 237, 239, 240, 241
224, 226, 245 Mignozzi V. 109-127, 13
Küng H. 88 Miñambres J. 184
Minamiki G.H. 218, 219, 220, 221, 223,
Lafuma L. 45 224, 225, 226, 233, 236, 237, 239, 247
Landi A. 15-38, 11 Moda A. 83
Lanne E. 43, 46 Moltmann J. 46
Lanza del Vasto [LdV] G.G. 145, 146, 147, Monchanin J. 155
148, 149, 150, 151, 153, 154, 155, 156, Montan A. 95
157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, Mooney E. 223, 225, 226, 227, 234, 237,
165, 166, 167, 168, 169, 170, 171, 173, 246, 248
174, 175, 176, 177, 178, 179, 180, 181 Mörsdorf K. 89
Lauret B. 105 Motte de la P.L. 239
Le Saux H. 155 Mounier E. 46
Ledóchowski W. 219 Muller A. 95
Legrand H. 41, 44, 46, 105, 114, 125 Mura G. 188, 255
Leibniz von G.W. 171 Murray P.D. 100, 101
Lejeune Ph. 253
León XIII / Leone XIII 62, 63, 65 Nacamulli R.C. 94
Levinas E. 46 Neuner J. 99
Liut G. 86 Nobili de R. 231, 244
Lora E. 67 Noceti S. 46, 86, 87, 89, 91, 93, 94, 96,
Luciani R. 46, 86, 93, 101, 114, 115, 117, 98, 101, 115, 117, 121, 122
121, 122 Nodet É. 19
Luhmann N. 111 Noll H. 229

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O’Sullivan H. 95 Ruggieri G. 40, 41, 43, 44, 45


Ostuni V. 137 Rüpke J. 31

Pacelli E. 64, 67, 74, 243 Sabetta G. 255-258


Pagano S. 28, 30, 64, 67, 74 Saint-Exupéry A. 251
Pallu F. 239 Sala R. 133
Paolo VI 89, 97, 103, 131, 144, 186, 192, Salato N. 46
207, 253 Salmeri G. 174
Parra A. 96 San Mauro da Z. 66
Parolin P. 103 Sanders J.T. 31
Pascal B. 45, 173 Sanmiguel Díaz T.A. 72
Perez Esquivel A. 169 Saraiva Martins J. 88
Perlasca A. 184 Sarto G.M. 64
Pesch R. 34 Sartori L. 95
Pettinaroli L. 69 Scabini P. 95
Piaget J. 178 Scalici M. 251
Picchi F. 183 Schatz K. 217-248
Pie XI / Pio XI / Pius XI 51, 61, 64, 65, Schelkens K. 88
69, 70, 71, 73, 74, 75, 76, 78, 79, 80, Schillebeeckx E. 98, 105
81, 82, 199, 241 Schmale F.-J. 40
Pietropaoli C. 67 Schröter J. 16
Pio X / Pius X 64, 67, 76, 81, 88 Sedano J. 62, 66
Platone 15 Semmelroth O. 89
Prencipe L. 251-254 Senofonte 15
Sergio Paolo 24, 27, 30
Quisinsky M. 88
Sieben H.J. 44
Rahner K. 89, 96, 99, 100, 101, 116 Sileo L. 207
Ramón Silva A 71, 75 Slee M. 19
Ratti A.M.G.A. 72, 79 Sobrino J. 96
Ratzinger J. / Benedetto XVI 67, 136, 100, Soravito L. 97
136, 200, 251, 200, 251 Sosa Díaz S. 71, 72
Refoulé F. 105 Spadaro A. 84, 117
Repole R. 101, 111, 114, 116, 117, 136 Suenens L.-J. 105
Ricci M. 231, 244
Ricoeur P. 46, 251, 253 Tagliaferri M. 84
Rigal J. 46 Taisho [Yoshihito] 234
Rincón González A.F. 70, 71, 73, 74 Tanzarella S. 174
Ripalda P. 76 Taylor Ch. 110, 111, 112, 113
Romanato G. 64 Tillard J.-M.R. 39, 41, 42, 43, 45, 46, 47,
Rosmini A. 87 48, 51, 53, 54, 57
Ross H. 99 Tommaso d’Aquino 148, 251, 259, 260
Ross J. 223, 224, 226, 247, 248 Tonello L. 63, 88, 114, 121
Rothschild C. 16 Trevisiol A. 95
Routhier G. 41, 44, 88, 117 Trianni P. 155, 160, 174, 176, 179
Roy E. 230 Tucidide 15

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Valente M. 69, 255 Volkl R. 95


Vanhoye A. 31 Voron Cl. 170
Vanzan P. 97
Vera de J.M. 95 Wachida P. 229
Vermorel F. 174 Yeung R. 96
Viana A. 62, 66
Vigne D. 170, 174, 175, 176 Zambon A. 187
Villemin L. 88 Zambon G. 94, 12
Vitali D. 120 Zizioulas I. 46
Völk R. 95 Zuppa P. 84

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mentali:
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iniziale/i del nome/i dell’/degli autore/i seguita dal cognome/i in maiuscoletto A/b,
titolo in corsivo, collana e numero di collana – se presente – tra parentesi tonde,
editore, luogo e anno di pubblicazione (eventuale numero di edizione in apice), pa-
gina/e citate: E. STEIN, In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg – Basel – Wien
1987, 15-23; V. DE PAOLIS – A. D’AURIA, Le Norme Generali. Commento al Codice di
Diritto Canonico, (Manuali – Strumenti di studio e ricerca 35), Urbaniana University
Press, Città del Vaticano 20142, 2-60;
Libro stampato con curatore(i)
Iniziale del nome/i del/dei curatore/i seguita dal cognome/i in maiuscoletto A/b e, in
caso di un unico curatore, da (ed./Hrsg.), nel caso di più curatori, da (edd./eds./
Hrsgg.), titolo in corsivo, collana e numero di collana – se presente – tra parente-
si tonde, editore, luogo e anno di pubblicazione (eventuale numero di edizione in
apice), pagina/e citate: C. DOTOLO (ed.), Muovere verso. Sull’universo di P. Teilhard
de Chardin, (in dialogo 6), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2015; E.
ULRICH – F. MORE CROSS – E.F. RUSSELL – J.E. SANDERSON – P.W. SKEHAN – E. TOV
(eds.), Qumran Cave 4: X. The Prophets, (Discoveries in the Judaean Desert XV),
Clarendon Press, Oxford 1997, 39;

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Articolo in una rivista


Iniziale/i del nome/i dell’/degli autore/i in maiuscoletto A/b seguita dal cognome/i,
titolo in corsivo, nome della rivista tra virgolette alte, annata, anno di pubblicazio-
ne tra parentesi tonde, fascicolo, pagina/e citate: A.-H. CHROUST, The Function of
Law and Justice in the Ancient World and the Middle Ages, “Journal of the History
of Ideas” 7 (1946), 3, 298-320;

Capitolo, sezione, parte, o contributo in un documento ospite stampato con curatore/i


Iniziale/i del nome/i dell’/degli autore/i seguita dal cognome/i in maiuscoletto A/b,
titolo in corsivo seguito da ‘in’ e iniziale del nome/i del/dei curatore/i seguita dal
Cognome/i in maiuscoletto A/b e, in caso di un unico curatore, da (ed./Hrsg.), nel
caso di più curatori, da (edd./eds./Hrsgg.), titolo in corsivo, luogo e anno di pub-
blicazione (eventuale numero di edizione in apice), pagina/e citate: D. EDWARDS,
“For Your Immortal Spirit Is in All Things”: The Role of the Spirit in Creation, in ID.
(ed.), Earth Revealing – Earth Healing. Ecology and Christian Theology, The Liturgi-
cal Press – A Michael Glazier Book, Collegeville, MN 2001, 48;

Risorse elettroniche
Autore, titolo, data e numero di pagina (ove disponibile), identificatori della risorsa
(URL, PURL, DOI, ecc.);

• indicare in nota, dalla seconda citazione non consecutiva in poi, solo il cognome del-
l’autore e il titolo abbreviato dell’opera:
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24;
DE PAOLIS – D’AURIA, Le Norme Generali, 37-42;
ULRICH – MORE CROSS – RUSSELL – SANDERSON – SKEHAN – TOV (eds.), Qumran Cave 4;
CHROUST, The Function of Law and Justice, 319;
EDWARDS, “For Your Immortal Spirit Is in All Things”: The Role of the Spirit in Creation;
• nel caso di citazioni consecutive contenenti riferimenti a:
– stessa opera: usare, dopo la prima citazione, ibid., seguito da numero di pagina
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24.
Ibid., 25;
– stessa pagina: usare, dopo la prima citazione, ivi
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 25.
Ivi;
– stesso/i autore/i
singola autrice: usare, dopo la prima citazione, EAD.
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24.
EAD., On the Problem of Empathy, (The Collected Works of Edith Stein, 3),
transl. by W. STEIN (orig. Zum Problem der Einfühlung), ICS Publications,
Washington, DC 1989;
singolo autore: usare, dopo la prima citazione, ID.
L. SILEO, De rerum ideis. Dio e le cose nel dibattito universitario del tredice-
simo secolo. I Editio textuum Odonis Rigaldi et aliorum, (Saperi Testi Con-
testi), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2011, 67*, nota 127;
ID., Teoria della scienza teologica. ‘Quaestio de scientia theologiae’ di Odo
Rigaldi e altri testi inediti (1230-1250), (Studia 27), 2. voll., ed. Antonianum,
Roma 1984, I, 15-19:

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più di un autore: usare, dopo la prima citazione, IID.


M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Il peccato originale, Queriniana, Brescia 1972;
IID., I primordi della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, AL 1979;
più di un autrice: usare, dopo la prima citazione, EAED.
E. ROCCELLA – L. SCARAFFIA (edd.), Italiane 2: Dalla prima guerra mondiale al
secondo dopoguerra, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento
per le pari opportunità. Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma
2004;
EAED. (edd.), Italiane 3: Dagli anni Cinquanta ad oggi, Presidenza del Con-
siglio dei Ministri. Dipartimento per le pari opportunità. Dipartimento per
l’informazione e l’editoria, Roma 2004.

• applicare con coerenza criteri di uniformità grafica, nell’uso delle maiuscole, (in parti-
colare per alcuni termini ricorrenti), e delle virgolette distinguendo le citazioni testuali
(«...») dall’enfasi eventualmente attribuita ad alcuni termini e le citazioni all’interno di al-
tre citazioni (“...”);
• rispettare le scadenze.

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be placed before punctuation;
• provide full footnote references the first time a source is quoted:
Printed Book
Initial/s of author/s’ name/s and surname/s in small caps, title in italics, series and
series number – if any – in parenthesis, publisher, place and year of publication (in
superscript numbers corresponding to the reprint number), page/s referenced: E.
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg – Basel – Wien 1987, 15-23; V. DE
PAOLIS – A. D’AURIA, Le Norme Generali. Commento al Codice di Diritto Canonico,
(Manuali – Strumenti di studio e ricerca 35), Urbaniana University Press, Città del
Vaticano 20142, 2-60;
Edited Printed Book
Initial/s of editor/s’ name/s and surname/s in small caps followed by (ed./Hrsg.) in
case of a single editor or (edd./eds./Hrsgg.) if there are two or more, title in italics,
series and series number – if any – in parenthesis, publisher, place and year of
publication (in superscript numbers corresponding to the reprint number), page/s
referenced: C. DOTOLO (ed.), Muovere verso. Sull’universo di P. Teilhard de Chardin,
(in dialogo 6), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2015; E. ULRICH – F.
MORE CROSS – E.F. RUSSELL – J.E. SANDERSON – P.W. SKEHAN – E. TOV (eds.), Qum-
ran Cave 4: X. The Prophets, (Discoveries in the Judaean Desert XV), Clarendon
Press, Oxford 1997;
Article in a Journal
Initial/s of author/s’ name/s and surname/s in small caps, title in italics, journal
name surrounded by double quotation marks, volume number, year of publication
in parenthesis, issue number, page/s referenced: A.-H. CHROUST, The Function of
Law and Justice in the Ancient World and the Middle Ages, “Journal of the History
of Ideas” 7 (1946), 3, 298-320;

273
1/2023 ANNO LXXVI URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL

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Chapter, section, part or contribution in an Edited Printed Book


Initial/s of author’s name/s and surname/s in small caps, title in italics, followed by
‘in’ and initial/s of editor/s’ name/s and surname/s followed by (ed./Hrsg.) in case of
a single editor or (edd./eds./Hrsgg.) if there are two or more, title, series and series
number – if any – in parenthesis, publisher, place and year of publication, page(s)
referenced: D. EDWARDS, “For Your Immortal Spirit Is in All Things”: The Role of the
Spirit in Creation, in ID. (ed.), Earth Revealing – Earth Healing. Ecology and Christian
Theology, The Liturgical Press – A Michael Glazier Book, Collegeville, MN 2001, 48;

Web/Electronic Resources
Author/s, Title, Date, page/s if available, resource identifier (URL, PURL, DOI, etc.);

• The second and subsequent times that a given source is cited, simply cite the author’s
surname, the work’s title (abbreviated if long), and the page/s from which the informa-
tion is taken:
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24;
DE PAOLIS – D’AURIA, Le Norme Generali, 37-42;
ULRICH – MORE CROSS – RUSSELL – SANDERSON – SKEHAN – TOV (eds.), Qumran Cave 4;
CHROUST, The Function of Law and Justice, 319;
EDWARDS, “For Your Immortal Spirit Is in All Things”;

• in case of consecutive reference to


– the same work: use ibid., followed by page number
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24.
Ibid., 25;
– the same page: use ivi.
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 25.
Ivi;
– the same author/s:
single female author, use EAD.
STEIN, In der Kraft des Kreuzes, 24; EAD., On the Problem of Empathy, (The
Collected Works of Edith Stein, 3), transl. by W. STEIN (orig. Zum Problem
der Einfühlung), ICS Publications, Washington, DC 1989;
single male author, use ID.
L. SILEO, De rerum ideis. Dio e le cose nel dibattito universitario del tredices-
imo secolo. I Editio textuum Odonis Rigaldi et aliorum, (Saperi Testi Contesti
1), Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2011, 67*, nota 127; ID.,
Teoria della scienza teologica. ‘Quaestio de scientia theologiae’ di Odo
Rigaldi e altri testi inediti (1230-1250), (Studia 27), 2. voll., ed. Antonianum,
Roma 1984, I, 15-19;
multiple male authors, use IID.
M. FLICK – Z. ALSZEGHY, Il peccato originale, Queriniana, Brescia 1972; IID.,
I primordi della salvezza, Marietti, Casale Monferrato, AL 1979;
multiple female authors, use EAED.
E. ROCCELLA – L. SCARAFFIA (edd.), Italiane 2: Dalla prima guerra mondiale al
secondo dopoguerra, Presidenza del Consiglio dei Ministri. Dipartimento
per le pari opportunità. Dipartimento per l'informazione e l'editoria, Roma
2004;

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URBANIANA UNIVERSITY JOURNAL 1/2023 ANNO LXXVI

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EAED. (edd.), Italiane 3: Dagli anni Cinquanta ad oggi, Presidenza del Con-
siglio dei Ministri. Dipartimento per le pari opportunità. Dipartimento per
l'informazione e l'editoria, Roma 2004.
• be consistent in the use of capitals (especially with frequently used words), spelling
and quotation marks that are used to enclose direct quotes («...») and double quota-
tion marks (“...”) which are used to provide emphasis or enclose quotes within anoth-
er quotation;
• comply with the deadlines.

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Pontificia Università Urbaniana

ISBN 978-88-401-9066-2

e 15,00 ISSN 2522-6215

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