LA FORMAZIONE SACERDOTALE
NEI PADRI DELLA CHIESA
Il XIII Convegno di catechesi patristica
Enrico dal Covolo
Salesianum 52 (1990) 703-715
1. Progetto e obiettivi del Convegno
A pochi mesi dal Sinodo dei Vescovi - dedicato, com’è noto, alla forma
zione sacerdotale - la Facoltà di Lettere cristiane e classiche dell’Università Sa
lesiana ha celebrato quest’anno il suo tradizionale Convegno di catechesi patri
stica intorno al tema: «La formazione al sacerdozio ministeriale nella catechesi
e nella testimonianza di vita dei Padri» (Roma, 15-17 marzo 1990). In tal
modo il Convegno ha inteso offrire all’Assemblea Sinodale del prossimo otto
bre un qualificato contributo scientifico, nella prospettiva storico-catechetica
che gli compete.
Il tema del Sinodo «riguarda l’insieme della formazione sacerdotale, che
si realizza nei Seminari, nella Case religiose o nelle Università. Si estende alla
formazione permanente dei sacerdoti e al loro modo di vita e di lavoro pasto
rale. Esso si rapporta all’avvenire: la formazione sacerdotale come può rispon
dere ai bisogni della Chiesa, della sua vita e della sua missione, oggi e nei
prossimi decenni?» (Lineamenta, 1). Ferma restando questa sua specifica fina
lità, è chiaro tuttavia che nello studio e nella discussione del tema prescelto il
Sinodo dovrà pur sempre riferirsi - in maniera più o meno esplicita - alla tra
dizione e all’esperienza secolare della Chiesa.
Del resto, anche la recente (10 novembre 1989) Istruzione della Congre
gazione per l’Educazione Cattolica sullo studio dei Padri della Chiesa nella for
mazione sacerdotale ricordava con fermezza quanto siano intimamente collegati
fra loro lo studio dei Padri e la formazione dei presbiteri. «Gli studi patri
stici», si legge infatti nell’Introduzione alla quarta parte del Documento, «co
stituiscono una componente essenziale e una tematica stimolante dell’insegna
mento teologico e dell’intera formazione sacerdotale». L’interrogativo - spesso
riemergente - sulla pertinenza del ricorso ai Padri nell’itinerario formativo del
presbitero si trova già affacciato nelle prime righe dell’Istruzione: «Perché si
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invitano professori e studenti a rivolgersi verso il passato, quando oggi, nella
Chiesa e nella società, ci sono tanti e gravi problemi che esigono di essere ur
gentemente risolti?». Nel Documento la risposta alla questione è sostanzial
mente mutuata dalla Lettera apostolica Palres Ecclesiae (2 gennaio 1980), là
dove Giovanni Paolo II dichiara: «Della vita attinta ai suoi Padri la Chiesa an
cora oggi vive; sulle strutture poste dai suoi primi costruttori ancora oggi viene
edificata, nella gioia e nella pena del suo cammino e del suo travaglio quoti
diano» (Istruzione sullo studio dei Padri..., 1-2).
Pertanto l’organizzazione e lo svolgimento del Convegno - pur salvando
l’autonomia e le peculiarità proprie della ricerca scientifica - hanno inteso rac
cogliere l’invito del Sinodo, e «stimolare la riflessione comune sulla formazione
dei sacerdoti» (mons. J.P. Schotte, Prologo ai Lineamenta).
I destinatari del Simposio romano - oltre ai cultori di scienze patristiche,
catechetiche e teologiche - sono stati anzitutto i Rettori, gli animatori, gli
alunni dei Seminari e degli Istituti di formazione al sacerdozio, e più immedia
tamente dei Collegi ecclesiastici di Roma. In qualche modo, il Convegno era
stato pensato proprio per loro, tra l’altro perché i Relatori erano per la mas
sima parte noti studiosi ed efficaci mediatori di formazione sacerdotale nelle
pontificie Università romane.
Non per questo i laici sono rimasti esclusi dall’ottica del Congresso. La
sollecitudine per la formazione al sacerdozio ministeriale non poteva far dimen
ticare l’urgenza della formazione al sacerdozio comune, argomento di riflessione
della precedente Assemblea sinodale e della relativa Esortazione di Giovanni
Paolo II sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo (vedi
Christifideles Laici, 59-63): in questo contesto vanno inquadrati due impor
tanti contributi del Convegno.
2. Il programma
Abbiamo delineato fin qui gli obiettivi fondamentali che il Convegno si
proponeva e le «idee-forza» soggiacenti alla sua organizzazione. C’è da ag
giungere che il robusto engagement ecclesiale dell’iniziativa scientifica ha inteso
esprimersi anche nell’invito rivolto ad alcuni autorevoli Pastori di presiedere le
tre sessioni in cui si è articolato il Simposio. Essi sono, nell’ordine: il card. P.
Palazzini, già Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi (giovedì 15
marzo); mons. F. Marchisano, Segretario della Commissione per la Conserva
zione del Patrimonio artistico e storico della Chiesa (venerdì 16 marzo); il
card. A.M. Javierre, Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa (sabato
17 marzo). Altri illustri prelati sono intervenuti come Relatori o come Ospiti
La formazione sacerdotale nei Padri della Chiesa 705
del Convegno: tra essi mons. G. Coppa, Delegato per le Rappresentanze Pon
tificie; mons. P. Meloni, vescovo di Tempio Pausania; mons. L. Belloli, ve
scovo di Anagni.
Trascorrendo ora ai contenuti specifici del Congresso, riteniamo oppor
tuno esporre di seguito, per comodità del lettore, il titolo dei singoli contributi
con il nome dei rispettivi Relatori, avvertendo che l’articolazione del Simposio
in tre sessioni solamente pomeridiane ha inteso favorire al massimo la parteci
pazione degli interessati.
La prima tornata, quella di giovedì 15 marzo, prevedeva - dopo la Pre
sentazione di S. Felici - le relazioni di mons. G. Coppa (Istanze formative e pa
storali del presbitero nella vita e nelle opere di sant’Ambrogio)-, di J. Janssens
(La verecondia nel comportamento dei chierici secondo il «De officiis ministro-
rum» di sant’Ambrogio)-, di O. Pasquato (Ideale e formazione sacerdotale del
giovane Crisostomo: evoluzione o continuità?) e di E. dal Covolo (Sacerdozio
ministeriale e sacerdozio comune. La rilettura patristica di 1 Petri 2,9 nell’attuale
dibattito sulle origini della distinzione gerarchica).
La seconda sessione, nel pomeriggio di venerdì 16, contemplava gli inter
venti di mons. P. Meloni sulla Missione del vescovo in Ignazio di Antiochia e
nella tradizione liturgica-, di C. Riggi sul Sacerdozio ministeriale nel pensiero di
Ignazio di Antiochia e di A. Di Berardino sulle Testimonianze di vita presbite
rale nelle «Institutiones» del IV secolo.
I lavori si sono conclusi nel pomeriggio di sabato 17 marzo con le rela
zioni di G. Pelland (Due formule dei riti di ordinazione. Ispirazione patristica di
un aspetto della formazione sacerdotale)-, di A.M. Triacca (Presbyter Spiritus
Sancti vas. Modelli del presbitero testimoniati dall’eucologio)-, di E. Toniolo
(Agganci storici per una teologia mariana del sacerdozio) e di A. Quacquarelli
(Radici patristiche del sacerdozio dei fedeli nel pensiero di Antonio Rosmini).
Due considerazioni sorgono spontanee dall’osservazione del programma.
Si nota anzitutto la rinuncia a qualunque pretesa di esaustività nei confronti
del tema prescelto; di fatto, il Simposio si proponeva piuttosto di avviare una
riflessione scientifica, aprendo da parte sua il dibattito su alcuni temi e Padri
ritenuti più significativi. Si nota altresì che, proprio per stimolare il confronto e
il dialogo, argomenti simili o identici Padri sono stati affidati a diversi Rela
tori, evidentemente con differenti prospettive e metodologie: è il caso di Am
brogio (Coppa, Janssens) e di Ignazio (Meloni, Riggi), dell’approccio storico
liturgico (Pelland, Triacca) e dell’excursus sul sacerdozio comune dei fedeli
(Quacquarelli, dal Covolo).
/06 Enrico dal Cavolo
3. La prima sessione
Alla presenza di un pubblico attento e competente - costituito soprattutto
da aspiranti al presbiterato e da giovani sacerdoti - il card. P. Palazzini ha
aperto con la sua prolusione i lavori del Convegno. Egli ha illustrato «alcuni
concetti fondamentali su cui poggia la teologia del sacerdozio ministeriale e
della sua specificità» riferendosi anzitutto ai relativi testi del Nuovo Testa
mento. In particolare, rileggendo 1 Vetri 2,9 («Voi siete stirpe eletta, sacerdo
zio regale...») il cardinale ha puntualizzato la distinzione tra il sacerdozio co
mune dei fedeli e il sacerdozio gerarchico dei ministri ordinati, in piena ade
renza con il magistero del Concilio Vaticano II (cfr. Lumen Gentium, 3: La co
stituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’Episcopato) e dell’Assem
blea Sinodale del 1971.
Delineiamo ora il quadro complessivo dei contributi successivi e dei prin
cipali guadagni per la ricerca.
La relazione di mons. Coppa - assai ampia e articolata - ha rivisitato si
stematicamente la vita e l’opera di Ambrogio, per farne emergere le fonda-
mentali istanze della formazione umana, spirituale e pastorale del presbitero. A
parere del Relatore, tali istanze sono molto ricche di contenuti teologici e di
indirizzi pratici. Esse vanno inquadrate in una visuale del sacerdozio che pre
senta precise caratteristiche. È una visuale eristica, com’è del resto l’orienta
mento di fondo di tutta l’opera ambrosiana: Cristo è il vero levita, che comu
nica il proprio sacerdozio all’intera Chiesa e particolarmente ai presbiteri, i
quali perciò devono vivere come divorati da lui, amarlo, imitarlo, presentare la
sua stessa immagine ai fedeli, donare la sua vita. E una visuale totalitaria-, l’in
timità eucaristica, l’umiltà, l’obbedienza al vescovo, la castità perfetta, l’obla
zione di sé, sono espressioni di questo amore per Cristo, che non ammette
compromessi o accomodamenti. È una visuale comunitaria-, la formazione del
presbitero ha un respiro cosmico ed è inserita nel mistero della Chiesa. E una
visuale pratica: Ambrogio non vede il presbitero come «una creatura angeli-
cata» ma come un cristiano in possesso di solide virtù umane, secondo lo
stampo ciceroniano della morale antica, elevata e cristianizzata dalla pratica
del Vangelo. È, infine, una visuale dinamica-, il sacerdote deve santificarsi me
diante l’esercizio, ricco di zelo, dei munera che la Chiesa gli ha affidato attra
verso il vescovo, cioè attraverso la celebrazione dell’Eucarestia, della Peni
tenza, della Parola di Dio.
Su un aspetto particolare della vasta ricerca di mons. Coppa si è esercitato
lo stimolante approfondimento di J. Janssens, concernente il tema della vere
cundia o del «dignitoso comportamento» nel De officiis ministrorum di san-
t’Ambrogio. Il Relatore ha preso le mosse da un complessivo confronto tra il
La formazione sacerdotale nei Padri della Chiesa 707
De officiis di Cicerone e il trattato ambrosiano, per poi restringere l’ambito
della sua analisi al tema specifico della verecondia. Di fatto, tutti e due gli au
tori la consideravano parte integrante della formazione dei giovani, rispettiva
mente cittadini (Cicerone) e chierici (Ambrogio). Secondo Janssens, il valore
attribuito da sant’Ambrogio al decoro esterno è da mettere in relazione con la
sua concezione del comportamento cristiano: questo è caratterizzato da verità
e semplicità. L’importante è essere «dal di dentro» uomo verace e leale, e ciò
apparirà quindi da un comportamento decoroso e naturale. Le regole proposte
dal vescovo di Milano non sono in funzione di un’apparenza mondana, che
mirerebbe a nascondere la vera realtà interiore per ingannare gli altri: al con
trario, esse contribuiscono a mettere in piena luce le intime ricchezze della
persona. Inoltre - se Ambrogio stabilisce per i suoi chierici un certo tipo di
comportamento, per cui assume le regole di condotta in uso nell’ambiente pa
trizio del tempo ciceroniano - bisogna però aggiungere che egli le intende ani
mate da uno spirito evangelico. Il decoro di cui tratta Cicerone, comprensivo
delle virtù fondamentali della prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, e la
stessa sophrosyne dei Greci - pur ricca di costanza, moderazione, modestia -
seppure sono alla base del trattato ambrosiano, ricevono dall’ispirazione bi
blica del santo vescovo una particolare connotazione spirituale, che fa della ve
recondia una componente essenziale della formazione dei chierici.
La relazione successiva ha allargato i confini dell’indagine dall’Occidente
all’Oriente, e l’attenzione - concentrata finora soprattutto sulla dottrina am
brosiana - è stata rivolta all’esplicita rivisitazione di una testimonianza di vita:
così O. Pasquato ha percorso la storia della vocazione sacerdotale del giovane
Crisostomo, dall’infanzia all’ordinazione presbiterale (a. 386). La storia si
fonda sui dati forniti da Palladio, da Socrate e da Teodoreto, dalle opere gio
vanili e dalle omelie posteriori del Crisostomo: da queste ultime, infatti, affio
rano significativi ricordi della sua giovinezza.
Don Pasquato ha poi concesso un’attenzione particolare al Dialogo sul sa
cerdozio, dal quale è possibile ricavare indicazioni preziose sulla mens del gio
vane Crisostomo nella preparazione al sacerdozio. L’ordine presbiterale vi è
colto più in rapporto al servizio della comunità che ai poteri del singolo mini
stro; e poiché il ministero ordinato è finalizzato alla Chiesa, Corpo di Cristo, è
richiesta una particolare attenzione nella scelta dei candidati. Benché l’ultimo
responsabile rimanga sempre il vescovo, anche il clero è chiamato a condivi
dere questa responsabilità, e in una certa misura l’intera comunità ecclesiale.
Complessivamente il Relatore ha focalizzato nella storia della vocazione di
Giovanni e nel coerente itinerario del suo discernimento spirituale il seguente
dilemma: monaco o sacerdote? E ha individuato, nell’arco completo della for
mazione giovanile del Santo, una continuità della vocazione sacerdotale, di cui
708 Enrico dal Covolo
la sessennale fase monastica tra le montagne antiochene sarebbe solo un pe
riodo di più intensa preparazione: dunque non un mutamento di vocazione,
ma uno sviluppo nella continuità.
E. dal Covolo, infine, si è fatto interprete dell’esigenza propria del Conve
gno di non trascurare la problematica relativa al sacerdozio comune dei fedeli.
La riflessione ha preso l’avvio dall’esegesi patristica di 1 Petri 2,9 («Voi siete
stirpe eletta, sacerdozio regale...»), dai tempi del Nuovo Testamento fino ad
Origene. Il Relatore ha poi inquadrato le riletture patristiche della pericope
nell’attuale dibattito critico sulle origini del laicato. Infine egli ha preso in
esame lo sfondo storico-istituzionale della primitiva distinzione gerarchica tra
laici e presbiteri. A suo parere, l’analisi storiografica consente di affermare che
alcune caratteristiche della cosiddetta «svolta costantiniana» vennero antici
pate - entro quale misura è difficile precisarlo - dalla tolleranza degli impera
tori Severi. In questo quadro storico-istituzionale i vescovi di Roma (segnata-
mente Vittore, Zefirino e Callisto) avvertirono lucidamente l’esigenza di rinsal
dare l’organizzazione della comunità e delle sue fondamentali strutture, a par
tire dalla stessa autorità del vescovo. Di conseguenza, il «sacerdozio ordinato»
si fece più marcatamente «gerarchico» e si definì la distinzione sociologica tra
clerici e laici. Tale fenomeno rinviene un preciso riscontro nella storia del ter
mine laikós e in una serie di testimonianze patristiche che giungono ad op
porre le due realtà del clero e del laicato, talvolta anche in funzione peggiora
tiva della condizione laicale. Tuttavia non si affievolì nella Chiesa la consape
volezza che anche i ministri ordinati provengono dal laicato, e che il sacerdozio
dei fedeli rimane la comune caratteristica del nuovo popolo di Dio. Lo certi
fica la linea esegetica sostanzialmente compatta di 1 Petri 2,9. Lo dimostrano
numerose testimonianze, anche di autori solitamente addotti per sottolineare la
progressiva gerarchizzazione della Chiesa. Di conseguenza, non sembra giovare
alla ricerca la precomprensione riduttiva di chi legge nelle testimonianze patri
stiche una sistematica contrapposizione tra laicato e gerarchia. Infatti, se è vero
che non mancano testi nei quali si riscontra una sorta di svalutazione del laico
rispetto al presbitero e al vescovo, ne esistono altri che impongono una diffe
rente prospettiva ermeneutica del rapporto ¿7md-laici. Non è legittimo sotto
valutare l’una o l’altra serie di testimonianze. Conviene piuttosto riconoscere
che ciascuna di esse rappresenta due esigenze differenti, entrambi ineludibili
per la Chiesa di ogni tempo: da una parte quella di valorizzare il sacerdozio
comune dei credenti e la struttura carismatica della Chiesa, dall’altra quella di
rispettare il sacramento dell’ordine e la struttura gerarchica del popolo di Dio.
Questa seconda esigenza, in particolare, venne ulteriormente sollecitata dalle
pressanti istanze organizzative cui la comunità cristiana dovette far fronte tra la
fine del II e l’inizio del III secolo, ai tempi della tolleranza severiana.
La formazione sacerdotale nei Padri della Chiesa 709
4. La seconda sessione
Presieduta da mons. F. Marchisano, la seconda sessione ha visto gli inter
venti di mons. P. Meloni, di C. Riggi e di A. Di Berardino.
Il primo dei tre Relatori ha studiato La missione del vescovo in Ignazio di
Antiochia e nella tradizione liturgica. Com’è noto, l’Antiocheno è tra gli antichi
successori degli apostoli colui che più autorevolmente ha sviluppato e tra
smesso la concezione della Chiesa primitiva sull’episcopato e sul presbiterato.
Secondo Ignazio, il vescovo e i presbiteri debbono avere il pensiero di Cristo,
e i fedeli il pensiero del vescovo: «Correte», scrive agli Efesini, «in armonia
con il pensiero del vescovo!» (4,1).
Al tempo d’Ignazio, anche il pensiero filosofico laico proponeva l’ideale
dell’unità. L’armonia del cosmo era il modello esemplare dell’armonia tra gli
uomini, e l’armonia dell’umanità era la forte aspirazione della spiritualità
stoica. Il sapiente, secondo la sentenza di Epitteto, «sottomette il suo pensiero
a Colui che governa l’universo, come i buoni cittadini alla legge della loro
città» (Dissertazioni 1, 12, 7).
Ma la visione dei Padri, e in particolare di Ignazio, è eminentemente bi
blica. La Sacra Scrittura era il libro più esaltante nel descrivere l’armonia del
cosmo e l’unità del genere umano. La legge d’Israele era la luce che illuminava
il cammino dell’armonia tra gli uomini. Il re, scelto e unto da Dio, era il ga
rante della giustizia. Il profeta, in nome di Dio, condannava l’ingiustizia propo
nendo il rinnovamento della società. Il sacerdote, già nell’Antica Alleanza, ap
pariva come il mediatore tra l’umano e il divino: la liturgia del tempio era sulla
terra il riflesso della liturgia celeste. La celebrazione liturgica divenne l’imma
gine ideale dell’armonia, soprattutto dopo che il Messia apparve come il per
fetto «mediatore fra Dio e gli uomini», il «sommo sacerdote» entrato una
volta per tutte nel santuario del cielo. Egli lasciò sulla terra gli apostoli perché
celebrassero con tutti i credenti l’armonia della comunione. Gli apostoli diven
nero il centro visibile dell’unità della Chiesa e i continuatori della missione di
Cristo.
Era intenzione di Cristo affidare ai «vescovi» il coordinamento dell’azione
missionaria dopo la morte degli apostoli? L’interrogativo non sempre trova
una risposta negli scritti delle prime generazioni cristiane, perché la «succes
sione apostolica» avvenne con grande naturalezza nelle comunità: alla morte
degli apostoli, in quasi tutte le comunità vi era un «presbitero» che esercitava
lo stesso ministero apostolico. Clemente fa leva appunto sull’argomento storico
della successione apostolica, che diviene argomento teologico per il fatto che la
continuità pastorale è pegno della traditio fidei. Il governo ecclesiale è guida
sicura alla fede, garanzia del battesimo e dell’eucarestia, centro della carità. La
710 Enrico dal Covolo
carità poi è la visibile armonia dei credenti attorno ai presbiteri e al vescovo. È
aperta così la strada all’ecclesiologia di Ignazio, il quale approfondisce la rifles
sione teologica sul ministero episcopale e presbiterale con l’accorato linguaggio
del pastore che si avvia al martirio, e semina una serena speranza nelle Chiese
che attraversa lungo il suo viaggio, incoraggiandole all’agape. Alle Chiese del
l’Asia minore, che al tempo di Paolo non avevano conosciuto la figura di un
vescovo unico, Ignazio porta l’esperienza di Antiochia, modellatasi sull’esem
pio ecclesiale di Gerusalemme, dove l’apostolo Giacomo era apparso come il
primo responsabile dopo la partenza di Pietro. Ignazio considera un dono
dello Spirito l’istituzione ecclesiale quale si è andata perfezionando nella valo
rizzazione di tutti i carismi, garantita dalla presenza eminente del vescovo, con
cui i presbiteri e i diaconi sono un cuor solo e un’anima sola. Nel vescovo
Ignazio vede «tutta la comunità» (Trail. 1,2).
L’Antiocheno medita anche sulla missione del vescovo. Per lui, vescovo
significa «pastore». Entrambi i termini racchiudono l’idea della vigilanza sul
popolo. Dio è il pastore, Cristo è il princeps pastorum, e lo Spirito, guidando
alla verità, guida all’armonia pastorale per l’edificazione della Chiesa. E poiché
il frutto principale dello Spirito è l’unità, al vescovo, come a tutti i ministri, è
rivolto l’ammonimento: «Preoccupati dell’unità, di cui nulla è più bello»
(Polie. 1,2). L’unità è innanzitutto nella dottrina, ed è celebrata nell’eucarestia
e nei sacramenti. E dall’eucarestia nasce la carità, in cui si compendiano tutte
le virtù del vescovo e del presbitero.
Tra le virtù specifiche del vescovo, Ignazio dà grande importanza alla
«dolcezza», la mansuetudine e la mitezza delle Beatitudini. Raccomanda poi
l’umanità, la costanza, la calma, la bontà, l’umiltà, la pazienza, l’amabilità, lo
zelo, e soprattutto l’essere «roccia della fede» perseverante nella preghiera e
nell’annunzio del Vangelo (Polie. 1,1).
Ancora ad Ignazio fu dedicata la relazione di C. Riggi, dal titolo: Il sacer
dozio ministeriale nel pensiero di Ignazio d’Antiochia. Rispetto al contributo di
mons. Meloni, quello di Riggi appare caratterizzato da un approccio marcata-
mente filologico; inoltre la trattazione era concentrata di meno sulla figura del
vescovo e di più sul sacerdozio ministeriale in genere, con una breve allusione
anche al sacerdozio comune dei fedeli. Il Relatore ha esordito riferendosi alla
recente bibliografia critica ignaziana (B. Snela, G. Bornkamm), ne ha rilevato
alcune interpretazioni riduttive del tema in esame, e s’è impegnato in un’origi
nale investigazione della dottrina di Ignazio, interpretando i dati relativi al ca
risma apostolico come una tappa significativa della evoluzione storico-cultu
rale, senza sminuire il fatto della loro continuità con la tradizione giudeocri
stiana.
La seduta si è conclusa con la relazione di A. Di Berardino, dedicata alle
La formazione sacerdotale nei Padri della Chiesa 711
Testimonianze di vita presbiterale nelle «Institutiones» del IV secolo. Il Relatore
ha illustrato anzitutto l’evoluzione terminologica di alcune parole essenziali,
come episcopus, presbyter, pontifex. Ma soprattutto egli ha considerato il ter
mine sacerdos, prima applicato a tutti i cristiani, quindi ai vescovi e ai presbi
teri. Nel III e nel IV secolo sacerdos indica il vescovo, per cui possiamo sen
z’altro tradurre le testimonianze coeve con la parola «vescovo». Tuttavia il vo
cabolo viene applicato sempre di più anche ai presbiteri (preti), e lentamente
giunge a diventare sinonimo di presbitero.
L’evoluzione terminologica manifesta un’evoluzione istituzionale. La dif
fusione del cristianesimo, sia nelle città sia nelle campagne, pone ai cristiani
del IV-V secolo quattro generi di problemi: a) un sempre più vasto decentra
mento pastorale e la conseguente autonomia dei presbiteri rispetto al tradizio
nale presbyterium-, b) una riflessione maggiore sull’unità del sacerdozio: anche
se pastoralmente decentrato, esso trova nel sacerdozio di Cristo l’unica fonte
sia per i vescovi sia per i presbiteri; c) l’assunzione di maggiori responsabilità
pastorali da parte dei presbiteri, che amministrano tutti i sacramenti. Per que
sto si discute anche sull’ampiezza dei poteri sacerdotali: alcuni cercano di limi
tarli, altri invece non pongono alcuna restrizione. Tuttavia si permette che i
presbiteri amministrino tutti i sacramenti, compresa la confermazione - ma con
il crisma benedetto dal vescovo —; d) la formazione del clero. Essa non pro
cede attraverso istituzioni appositamente previste: si registrano solo alcuni ten
tativi in tal senso, come la casa fondata da Agostino ad Ippona, o quella di
Eusebio a Vercelli, o la scuola di Diodoro di Tarso. In genere però il clero,
che proveniva dalla classe media, era autodidatta; poteva avere alla base una
preparazione culturale, ma quella religiosa era acquisita attraverso l’assidua
partecipazione alla liturgia, la familiarità con il vescovo, l’ascolto della sua pre
dicazione e la diuturna lettura della Parola di Dio. Spesso la carriera ecclesia
stica iniziava con il lettorato, che costituiva con il suo esercizio una prepara
zione al diaconato e al presbiterato. Naturalmente vi era un clero rurale meno
colto, e spesso, per mancanza di candidati culturalmente idonei, venivano or
dinati dei monaci.
5. La terza sessione
Presieduta e moderata dal card. A.M. Javierre, l’ultima seduta è stata
aperta dalla relazione di G. Pelland, Rettore dell’Università Gregoriana, che ha
commentato due formule dei riti di ordinazione, ricercando l'ispirazione patri
stica di un aspetto della formazione sacerdotale.
Sappiamo poco, ha esordito il Relatore, sulle concrete modalità della for-
712 Enrico dal Covolo
inazione sacerdotale in molte regioni, e spesso per lunghi periodi. Un lembo
del velo potrebbe essere sollevato partendo dai riti di ordinazione, poiché in
essi la Chiesa esprime solennemente la sua comprensione del mistero. Per que
sto il Relatore ha preso in considerazione due formule che accompagnano l’or
dinazione dei sacerdoti e dei diaconi: Videte ut quod docueritis imitemini, e
Imitamini quod tractatis, svelando la storia e la dottrina di queste ammonizioni
rivolte agli ordinandi.
G. Pelland ha dimostrato che già alla fine del secolo XIII alcune temati
che si trovavano concordemente sottese alle due formule in esame: soprattutto
il rapporto essenziale tra eucarestia e passione, l’unione di tutta la Chiesa al
sacrificio di Cristo, l’offerta della vita implicata nella logica interna della cele
brazione (dal momento che il segno non può essere separato dal suo signifi
cato). Intorno alla metà del nostro secolo, la cosiddetta théologie nouvelle le ha
sviluppate e precisate. Soprattutto si è compreso con maggiore chiarezza che -
come la struttura fondamentale del ministero ordinato dipende interamente
dal mistero di Cristo - è in funzione dello stesso mistero che deve prendere
forma l’esistenza di coloro, cui il sacramento viene conferito. Se non si tenesse
presente questo, e il contesto complessivo della liturgia delle ordinazioni, le
due formule liturgiche rischierebbero di ridursi a un patetico appello alla
«grandezza d’animo». In realtà, l’invito all’imitazione di Cristo, che il vescovo
rivolge agli ordinandi prima dell’imposizione delle mani, dev’essere accolto nel
quadro di un contesto allargato, in cui tutto appare legato al dono di Dio.
Al secolare deposito della liturgia si è ricondotta anche la successiva rela
zione di A.M. Triacca, intitolata: Presbyter Spiritus Sancti vas. Modelli del pre
sbitero testimoniati dalleucologia (un approccio metodologico alla lex orandi in
vista della lex vivendi).
Accostandosi alle fonti liturgiche - e più propriamente all’insieme delle
preghiere per l’ordinazione presbiterale proprie delle antiche liturgie orientali
e occidentali - il Relatore ha richiamato anzitutto le linee metodologiche fon
damentali per cogliere nelle formule della liturgia la pregnanza dei loro conte
nuti specifici; in secondo luogo ha posto in evidenza i contenuti stessi dell’eu-
cologia, in rapporto ad alcuni modelli del presbitero. Ieri come oggi la lex
orandi sottesa all’eucologia è testimone della lex credendi e della lex vivendi
della comunità che prega. Le fonti - trattate con metodo adeguato, e lette dia
cronicamente e sincrónicamente - consentono di cogliere almeno quattro pro
fili di presbitero, interpretato: a) come vas Spiritus Sancti (ostensorio dello Spi
rito Santo), dove prevale la considerazione ontologica; b) come minister coram
Dei altari, e qui è più importante l’aspetto cultuale; c) come populi fidelis re
novator, in cui eccelle il punto di vista ecclesiale; d) come crucis gestator, dov’è
prevalente il costitutivo personale del ministro ordinato.
La formazione sacerdotale net Padri della Chiesa 713
Infine il Relatore ha messo in evidenza alcune leggi o costanti emergenti
da una considerazione complessiva dell’eucologia del rito di ordinazione.
E toccato poi a E. Toniolo illustrare alcuni agganci storici per una teologia
mariana del sacerdozio. Egli ha precisato anzitutto che propriamente non si do
vrebbe parlare di una teologia mariana del sacerdozio, quanto piuttosto di una
evidenziazione di Maria nella teologia del sacerdozio; e ha inteso presentare al
cuni «agganci storici» - alcuni riferimenti, bisognosi di essere interpretati -,
piuttosto che una trattazione tematica dei rapporti esistenti tra il sacerdozio
ministeriale e Maria nell’antichità cristiana. In un campo così vasto e indeter
minato, il Relatore si è trovato nella necessità di chiarire in via preliminare lo
schema d’impostazione: quale schema, si è chiesto, per una teologia del sacer
dozio? Altra era infatti l’impostazione preconciliare, altra è quella attuale. La
proposta di Toniolo ha inteso recuperare la linea preconciliare, dominata dal
cristocentrismo, e indicare insieme le piste di ricerca storico-teologica emer
genti dall’impostazione più ecclesiocentrica del Vaticano II. Così egli ha arti
colato la sua relazione in due parti, trattando successivamente degli «agganci
storici» nella «teologia preconciliare» e nella «teologia postconciliare» del sa
cerdozio. Ne sono emerse due differenti prospettive, una cristocentrica e l’altra
ecclesiocentrica, del rapporto tra il sacerdozio ministeriale e Maria: prospettive
non certo antitetiche, ma complementari fra loro. Infatti la dimensione cristo
centrica, che intimamente e indissolubilmente congiunge Maria con Cristo
sommo sacerdote e vittima, deve collocarsi in un rapporto di mutua integra
zione con la dimensione ecclesiocentrica e antropologica. Nell’ottica dei Padri,
Maria è persona umana in progressivo cammino davanti al mistero che la su
pera, ed è insieme strumento e sacramento del Verbo, di cui è portatrice; allo
stesso modo il sacerdote, a imitazione di Maria e col suo aiuto, per poter es
sere strumento efficace della parola e della grazia, deve modellarsi sulla parola
e vivere in pienezza la grazia dello Spirito.
L’ultima relazione del Congresso ha riproposto in modo originale il tema
del sacerdozio comune e dei suoi rapporti con i ministeri ordinati. In questa
prospettiva A. Quacquarelli ha inteso cogliere le radici patristiche del sacer
dozio dei fedeli nel pensiero di Antonio Rosmini.
Il Relatore ha rilevato anzitutto che il sacerdozio dei fedeli è il punto car
dine del sistema teologico del Rosmini, che elabora il tema in stretto rapporto
con la teologia del battesimo (da lui denominato il sacramento della fede).
Per Rosmini infatti la Chiesa è la societas in cui, dopo il battesimo, entra
ogni fedele per unirsi a tutti gli altri nel rendere il culto a Dio insieme a Cri
sto, eterno sacerdote. Col battesimo, che implica una profonda conversione
della mente e dei costumi, i cristiani diventano tutti sacerdoti. Il fondamento
patristico di simili affermazioni va rintracciato soprattutto in Origene, in Cirillo
714 Enrico dal Covalo
d’Alessandria e in Agostino. Secondo Ireneo, poi, tutti i giusti costituiscono
l’ordine sacerdotale, e secondo Ignazio tutti i battezzati, uomini e donne, sono
sacerdoti. Ilario aggiunge che essi devono offrire un sacrificio in operibus
bonis. Per Tertulliano i cristiani sono veri sacerdoti, perché pregano nello spi
rito, e con lo spirito offrono sacrifici, e la loro preghiera pura è accompagnata
dalle opere.
La liturgia è, a dire del Rosmini, il culto di Cristo a Dio che, iniziato sul
Calvario, continua come mediazione tra Dio e gli uomini. Quando il cristiano
entra per il pubblico culto nel tempio, s’inserisce come parte integrante dell’a
dunanza di sacerdoti e popolo raccolti nella preghiera. Diventa, quindi, indi
spensabile che «tal cristiano sappia che cosa dice quell’adunanza di cui è
membro» (Della educazione cristiana, p. 223). La concezione rosminiana del
sacerdozio ministeriale è legata al sacrificio della messa: sacerdozio privato o
di primo grado è quello comune o battesimale; sacerdozio pubblico e solenne
è quello ministeriale, denominato pure sacerdotale o pastorale. Nella messa è
offerto e sacrificato Cristo, e Cristo stesso offre e sacrifica, ma il sacerdote ce
lebra, offre e sacrifica in persona di Cristo, e insieme a lui tutta la Chiesa ed
ogni fedele.
Rosmini ha approfondito la struttura della Chiesa nell’unità sacerdotale
del clero con i fedeli, perché non è possibile dividere il Cristo dalia Chiesa. Se
i fedeli sono parte viva della Chiesa, e con il clero e il pastore formano l’unità
sacerdotale, essi non possono non svolgere il loro ruolo.
Questo tema del sacerdozio dei fedeli, ha concluso il Relatore, si trova
ben attestato nelle antiche comunità cristiane: si possono leggere ad esempio
alcune pagine di Tertulliano, all’inizio del III secolo, e si può considerare -
come ha fatto E. dal Covolo - la storia dell’esegesi patristica di 1 Vetri 2,9
(«Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale...»).
6. Indicazioni per un bilancio
A conclusione del Convegno, il card. A.M. Javierre ha svolto alcune ri
flessioni sintetiche, molto utili per un primo bilancio dell’iniziativa scientifica.
Egli ha fatto notare che il Convegno è ruotato attorno ad un asse, i cui poli
erano, rispettivamente, la recente Istruzione della Congregazione per l’Educa
zione Cattolica sullo studio dei Padri della Chiesa nella formazione sacerdotale e
i Lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi. In tutti e due i Documenti
resta fuori discussione che i programmi di studio del candidato al sacerdozio
esigono la presenza della dottrina dei Padri; e viceversa, che il programma di
patrologia deve includere un capitolo certamente robusto dedicato alla dot
La formazione sacerdotale nei Padri della Chiesa 715
trina del sacerdozio. Riguardo a questo reciproco rapporto, il cardinale ha ri
chiamato la normativa proposta dal Vaticano II a proposito della formazione
dei seminaristi. I Padri conciliari hanno stabilito che nell’insegnamento della
teologia dogmatica venissero proposti i temi biblici, e che si illustrasse poi agli
alunni «il contributo dei Padri della Chiesa orientale e occidentale nella fedele
trasmissione ed enucleazione delle singole verità rivelate, nonché l’ulteriore
storia del dogma, considerando anche i rapporti di questa con la storia gene
rale della Chiesa» (Optatam Totius, 16). Una tale norma è stata oggetto di par
ticolare attenzione e sviluppo concreto nel post-Concilio. I Lineamenta del Si-
nodo accennano, tra l’altro, ai Documenti emanati dalle Congregazioni com
petenti che «hanno portato importanti direttive a riguardo della formazione
sacerdotale» (n. 1). Nella nota corrispondente figurano in particolare la Ratio
Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis e la Formazione teologica dei futuri sa
cerdoti, dove la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha indicato le diret
tive opportune per rendere operante la norma della Optatam Totius. Non
viene citata invece, perché vide la luce in data posteriore alla redazione dei Li
neamenta, l’Istruzione più sopra citata sullo studio dei Padri. Nel paragrafo
conclusivo di essa si legge che l’argomento in oggetto riveste «grande impor
tanza per la solida formazione dei sacerdoti, la serietà degli studi teologici,
l’efficacia dell’azione pastorale nel mondo contemporaneo» (n. 67).
Di fronte a tali sollecitudini della Chiesa, ha concluso il cardinale, il Con
vegno promosso dall’Università Salesiana rappresenta senza dubbio un tempe
stivo e notevole contributo di riflessione, sia per la qualità dei contenuti pro
posti, sia per la soda preparazione dei singoli Relatori.
Da parte loro, i Convegnisti hanno espresso l’auspicio che gli Atti del
Congresso vedano la luce entro il prossimo mese di ottobre, in modo da poter
entrare nel dossier dei Padri sinodali.
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