Biblioteca Universale Laterza
Paolo D'Angelo
Estetica della natura
Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale
Editori Laterza
© 2001, 2023, Gius. Laterza & Figli
Prima edizione 2001
Nuova edizione, con una Prefazione
e un aggiornamento bibliografico,
settembre 2023
Edizione digitale: settembre 2023
www.laterza.it
Proprietà letteraria riservata
Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma
Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy)
per conto della
Gius. Laterza & Figli Spa
ISBN 9788858153406
È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice
Prefazione alla presente edizione
Introduzione
La posizione del problema
Capitolo primo.
Piccola storia del bello naturale
L’Antichità
Il Medioevo
Il Rinascimento
Seicento e Settecento
Il Romanticismo
Ottocento e Novecento
Il dibattito attuale
Capitolo secondo.
Critica dell’estetica ecologica
Ecologia versus estetica?
L’argomento estetico in difesa della natura
L’estetica ecologica tedesca tra filosofia della natura ed etica ambientale
Scienza e natura nell’estetica ambientale americana
Arte e natura nell’estetica ambientale
Capitolo terzo.
Il paesaggio come identità estetica dei luoghi
Il concetto di paesaggio tra geografia, ecologia ed estetica
Un riscontro: la legislazione italiana a tutela del paesaggio
Il ritorno del paesaggio come fenomeno estetico
I limiti delle teorie correnti del paesaggio e il paesaggio come identità estetica dei luoghi
L’interpretazione
Capitolo quarto.
Forme dell’arte ambientale
Immagine contro natura
Dall’arte di paesaggio all’arte nel paesaggio: «Land Art» e dintorni
«Land Art» americana e «Art in Nature» europea
Paradosso dell’arte ambientale
Gli strumenti
Sulla storia del bello naturale
Su estetica ecologica ed estetica ambientale
Sul concetto di paesaggio
Sull’arte ambientale contemporanea
a Lorenzo
Prefazione alla presente edizione
Quel che mi ha spinto, ormai parecchi anni fa, a iniziare a occuparmi di
estetica della natura è stata la constatazione della grande asimmetria che si
era creata tra la sensibilità per l’ambiente, la preoccupazione per la
salvaguardia della natura e il futuro della terra, già allora ben presenti nella
opinione pubblica e nella società in genere, e la scarsità di riflessioni
filosofiche sulla bellezza naturale e sul paesaggio.
I filosofi, per due secoli, avevano ripetuto che la bellezza naturale era un
fenomeno marginale, un semplice riflesso della bellezza artistica e ad essa
apertamente inferiore: a partire dall’inizio dell’Ottocento si era
completamente ribaltata l’idea che per due millenni aveva tenuto campo,
e cioè che la natura fosse la vera sede della bellezza, e che l’arte fosse
chiamata a rappresentarla. Anche la nozione di paesaggio era spesso
circondata dal sospetto: l’eco della polemica di molte avanguardie
artistiche del Novecento contro il paesaggio e la vecchia estetica non si era
ancora spenta del tutto, mentre le esigenze della produzione e dello
sviluppo, responsabili della radicale trasformazione del paesaggio italiano
negli anni del boom economico, parevano ancora difficilmente
subordinabili a quelle del paesaggio.
Negli anni che ci separano dalla prima edizione di questo libro, apparso
nel 2001, molte cose sono cambiate. La preoccupazione per la sorte della
natura è ormai sentita non solo dai movimenti ecologisti, ma da larga
parte dell’opinione pubblica, mentre l’attenzione per il paesaggio si è
manifestata sia a livello teorico, con decine e decine di pubblicazioni sul
tema, sia nelle decisioni politiche e nei provvedimenti amministrativi.
Sono convinto, dunque, che questo libro non abbia perduto di attualità,
ma ne abbia anzi guadagnata. Mentre riconoscevo e utilizzavo quanto era
stato teorizzato dall’estetica ecologica angloamericana e tedesca per
colmare la grande rimozione del bello naturale compiuta dalla filosofia
tradizionale, non nascondevo tuttavia i limiti di quegli orientamenti, solo
in parte superati dalla elaborazione successiva, così come non ignoravo
che la considerazione paesaggistica e quella ambientale, che pure
dovrebbero essere due lati della stessa medaglia, potevano invece entrare
in conflitto. E purtroppo la questione delle energie rinnovabili,
soprattutto la spinta a installare grandi impianti fotovoltaici in pieno
campo, così come generatori eolici su tutto il territorio, lo sta mostrando
in modo lacerante. Come abbiamo devastato il paesaggio nel nome del
benessere, rischiamo di farlo ora in nome dell’ambiente.
Nella prefazione alla prima edizione di questo volume segnalavo alcuni
aspetti che non ero riuscito a trattare a sufficienza. Molte di queste lacune
sono state colmate almeno parzialmente nei miei lavori successivi sugli
argomenti qui toccati. In Estetica e paesaggio (Il Mulino, Bologna 2009) ho
cercato di fornire al lettore quelli che mi paiono i testi fondamentali della
riflessione sul paesaggio, inquadrandoli nel loro contesto e offrendo
quindi, per così dire, le fonti alle quali aveva attinto il primo capitolo di
Estetica della natura per dare al lettore una piccola storia del bello naturale.
Nel mio Filosofia del paesaggio (Quodlibet, Macerata 2014) ho approfondito
i rapporti del paesaggio, tra l’altro, con il cinema e con l’agricoltura.
Infine, nel recente Il paesaggio. Teorie, storie, luoghi (Laterza, Bari-Roma
2021) ho trattato della relazione che intercorre tra giardino e paesaggio,
troppo spesso considerati sinonimi, dei rischi che le ricostruzioni post-
terremoto possono far correre al paesaggio, dell’impossibilità di ridurre il
paesaggio a solo fenomeno ottico.
Anche per questo ho preferito non intervenire nel testo, che si presenta
quindi pressoché immutato, ma ho invece aggiornato la bibliografia in
modo sostanzioso, prendendo in considerazione i contributi più recenti e
interessanti che sono stati scritti sui temi trattati in questo libro negli anni
successivi alla sua pubblicazione, che non sono pochi.
Questo libro, in prima edizione, è apparso in una collana diretta dal mio
maestro Emilio Garroni, scomparso nel 2005, e mi è caro quindi
menzionare il suo nome anche in questa nuova edizione in una diversa
collana. Lo ricordo con affetto e stima immutata.
Roma, 25 aprile 2023
Introduzione
Sebbene questo libro non cerchi di rispondere che a un’unica domanda, e
cioè «Che cosa ne è, oggi, del bello naturale?», sono consapevole del fatto
che esso si occupa di problemi che possono, a tutta prima, apparire non
omogenei, e che di fatto non sono quasi mai trattati negli stessi libri o
dagli stessi autori: i modi in cui è stata considerata, nelle varie epoche
storiche, la bellezza naturale; l’atteggiamento delle attuali tendenze
ambientaliste e delle filosofie ad esse ispirate nei confronti della bellezza
naturale; la nozione di paesaggio e, infine, il rapporto tra natura e arte
nelle tendenze artistiche più recenti.
Ciò configura certamente un rischio, perché non è mai agevole
addentrarsi in terreni di ricerca che non sono esattamente i propri. Ma
l’alternativa, ossia limitarsi a un solo campo di osservazione, avrebbe
comportato un rischio ben maggiore, quello di non riuscire affatto a
rispondere alla domanda. Se, per esempio, avessi scelto di prendere in
esame soltanto le soluzioni che al problema della bellezza naturale sono
state date dai filosofi, sono certo che il bottino sarebbe stato
sorprendentemente magro. Rispondere a una domanda semplicemente
prendendo in esame quello che altri hanno detto prima di noi, senza
riconsiderare la cosa stessa, resta un modo ben curioso di procedere,
anche se troppo spesso il discorso filosofico contemporaneo pare
muoversi proprio così, in un rinvio perpetuo da un testo all’altro che,
nella convinzione che non ci sia nulla al di fuori del testo, dimentica che
invece fuori del testo c’è tutto: purché lo si sappia vedere, naturalmente.
Ma sul nostro particolare argomento c’è da dire poi che le risposte su cui
basarsi e le idee da discutere sarebbero state veramente scarse e poco
significative. Come vedremo nel primo capitolo, che è una piccola storia
del bello naturale, dall’Antichità ai nostri giorni, all’incirca da un paio di
secoli la filosofia e l’estetica hanno cessato di occuparsi della bellezza
naturale. L’argomento, tranne pochissime eccezioni che si troveranno
tutte segnalate, è stato considerato polveroso, antiquato, definitivamente
degno di giacere in archivio. Anzi, questo è stato proprio uno dei motivi
che più mi hanno spinto a occuparmi della questione del bello naturale.
Non tanto, voglio dire, l’ambizione di riempire una casella vuota e di
affrontare un argomento poco studiato (motivazioni che rientrerebbero
tutte in quella concezione libresca del lavoro filosofico dalla quale sarebbe
ora di prender congedo), quanto la constatazione di uno iato profondo tra
l’esperienza estetica della natura propria della nostra epoca e la coscienza
riflessa che ne possediamo. Forse – è una delle tesi di questo libro –
nessun’altra epoca come la nostra ha dato spazio alla bellezza naturale, l’ha
ricercata nella vita quotidiana, inseguita nei viaggi, riprodotta in
immagine, protetta nel paesaggio, elevata almeno a parole a valore
primario. Che poi nei fatti l’abbia anche vilipesa, danneggiata e distrutta
più di ogni altra epoca precedente non è di per se stessa una smentita a
quanto appena affermato, se è vero – ed è un’altra delle opinioni che
questo libro tenta di sostenere – che l’amore per la bellezza naturale è
anche sempre nostalgia per qualcosa che si è perduto, rimpianto,
idealizzazione di quel che si avverte in pericolo. Ma, comunque stiano le
cose, è certo che i secoli a noi più vicini, che sono quelli in cui la
riflessione filosofica ha cancellato il problema del bello naturale, sono
anche quelli che hanno visto sorgere i primi movimenti a difesa della
natura (il che ha significato per lungo tempo a difesa della bellezza della
natura: la difesa della natura come ambiente è venuta dopo), i primi
parchi e le prime riserve naturali, nonché le prime legislazioni a tutela del
paesaggio. Nell’esperienza estetica dell’uomo contemporaneo la natura
occupa un posto tanto più importante quanto meno compreso e indagato,
e ci pare venuto il momento non solo di capire perché, ma di cominciare
anche a colmare quel vuoto di teoria in cui il fenomeno
dell’apprezzamento estetico della natura si è mosso fino a oggi.
Certo, negli ultimi vent’anni qualcosa è cambiato, da questo versante. La
presa di coscienza ecologica, la nascita dei movimenti ambientalisti, la
diffusione del pensiero ‘verde’ hanno prodotto anche qualche accenno di
riconsiderazione del problema della bellezza naturale. Ma, pur volendo
lasciare da parte il fatto, di per sé comunque già significativo, che tutto
questo è avvenuto in misura infinitamente minore di quanto era possibile
aspettarsi, le riflessioni teoriche in tale ambito sono state prodotte tutte
fuori d’Italia, e sono ancora ben poco familiari da noi. Per questo il
secondo capitolo rende conto delle tendenze attuali di quella che nei paesi
di lingua inglese va sotto il nome di environmental Aesthetics (estetica
ambientale) e in quelli di lingua tedesca si chiama piuttosto Aesthetik der
Natur (estetica della natura) o anche ökologische Aesthetik (estetica
ecologica), cercando di presentare dettagliatamente i problemi affrontati e
le soluzioni proposte, illustrando con una certa larghezza autori, temi e
testi ben poco discussi in Italia. Il lettore non si aspetti però un’asettica
rassegna. Introducendo questo dibattito non abbiamo potuto fare a meno
di prendere posizione, perché troppo spesso tanto l’estetica ambientale
quanto l’estetica della natura ci sono sembrate segnate da un vizio di
origine. Si tratta, nell’un caso e nell’altro, di orientamenti che sono
evidentemente nati per influsso del pensiero ecologico, del quale si
dimostrano largamente tributari. Fin qui, ovviamente, niente di male,
anzi molto di bene se la spinta ecologista fosse servita a suscitare anche
una forte riaffermazione dell’esperienza estetica della natura, una nuova
sensibilità e un nuovo interesse per la bellezza naturale. Ma leggendo i
teorici dell’estetica ambientale si ha l’impressione che questo sia accaduto
ben di rado. La subalternità ai temi tradizionali dell’ecologia impedisce
che dell’esperienza estetica della natura si parli davvero. La
preoccupazione per la sopravvivenza della natura e per la salvaguardia del
pianeta domina a tal punto che essi sembrano quasi scusarsi di occuparsi
di un tema tanto futile quanto quello della bellezza della natura. Per farsi
perdonare, allora, intendono l’estetica della natura come la ricerca di un
ulteriore argomento per la difesa della natura. Come dire: abbiamo il
dovere di preservare la natura anche perché essa può essere fonte di
esperienza estetica. Altri, più esplicitamente, riducono l’estetica della
natura a una parte dell’etica. L’amore della bellezza naturale non conta in
se stesso, ma come componente essenziale di una vita buona. Altri ancora
appiattiscono l’esperienza estetica della natura su quella scientifica, e
questo sia nel caso che facciano dell’estetica il paradigma su cui si
dovrebbe orientare una ipotetica «nuova scienza della natura», che eviti il
predominio della considerazione quantitativa, dia nuovamente spazio alle
qualità, e soprattutto si guardi dal concepire la natura come oggetto di
manipolazione infinita, sia in quello per certi versi opposto che vedano
nella osservazione scientifica il modello stesso dell’apprezzamento
estetico, finendo, come certi teorici americani, per non distinguere più
fra lo sguardo del naturalista e quello di chi apprezza la bellezza naturale.
A questi teorici sfugge completamente un fatto che invece mi è parso
importante sottolineare, e cioè che spesso l’interesse di tipo scientifico-
ecologico per la natura, oggi così diffuso anche presso i non-specialisti,
nasconde un coinvolgimento di tipo estetico e da esso trae alimento. In
tutti loro, anche se, ovviamente, in misura diversa, si percepisce l’assenza
di un vero interesse per la bellezza naturale, e nell’estetica della natura
finiscono per mancare tutt’e due le cose: sia la natura sia l’estetica.
Lo si vede molto bene anche nella cura che i teorici dell’estetica
ambientale pongono nell’evitare il termine paesaggio. Si parla solo di
ambiente, evidentemente perché la parola paesaggio appare un residuo del
passato, troppo compromesso con una visione estetistica e soggettivistica
della natura. E anche nel discorso comune il termine ambiente ha finito
per esiliare quello di paesaggio. Eppure lo scambio tra i due termini, che
suppone la riduzione del paesaggio all’ambiente, sembra foriero non solo
di confusione, ma anche di pericolose conseguenze. L’ambiente è un fatto
fisico, descrivibile scientificamente; il paesaggio è un fenomeno
percettivo, che rientra nell’ambito delle esperienze estetiche. Ovviamente,
nessuno si sogna di mettere in dubbio la legittimità di una considerazione
scientifica dell’ambiente, o la necessità della sua protezione. Non è
neppure il caso di impuntarsi sulla terminologia, e si può tranquillamente
riconoscere il diritto, per esempio, della geografia a parlare di paesaggio:
l’importante è sapere che quando parlano di paesaggio il naturalista o il
geografo, e quando si parla di paesaggio in senso estetico, si hanno di mira
fatti differenti, che hanno ognuno la propria legittimità e che, soprattutto,
non possono essere trattati allo stesso modo. La protezione dell’ambiente,
per esempio, non è di per se stessa protezione del paesaggio, e la
protezione del paesaggio in senso estetico richiede la consapevolezza del
carattere culturale, storico di ogni paesaggio, ragione per cui non può
essere pensata in meri termini di conservazione, ma deve contenere in sé
anche una dimensione di progettualità. Certo, contro la tematizzazione
del carattere estetico del paesaggio ha pesato e pesa tuttora un
fraintendimento tenace, che vede nel paesaggio in senso estetico il
semplice panorama, o la mera veduta. Pesa e ha pesato la riduzione del
paesaggio in senso estetico a «stato d’animo», a riflesso puramente
soggettivo e instabile. Per questo uno dei compiti che si propone questo
volume, in particolare nel suo terzo capitolo, è quello di contestare
radicalmente la riduzione del paesaggio in senso estetico al panorama e
all’impressione soggettiva, suggerendo di pensare il paesaggio piuttosto in
termini di identità estetica dei luoghi. Con questa definizione si vuole
rimarcare innanzi tutto l’appartenenza della dimensione estetica alla
fisionomia stessa del territorio, intendendo dire cioè che proprio l’aspetto
estetico concorre ineliminabilmente alla individuazione di un luogo come
quel luogo specifico; si vuole sottolineare la singolarità e l’individualità
caratteristiche di ogni paesaggio; si vuole porre l’accento sulla
coappartenenza, in ogni paesaggio, di natura e storia; si vuole chiarire che
il paesaggio in senso estetico non è ‘soggettivo’ nel senso dell’arbitrarietà e
del capriccio, ma è piuttosto ‘intersoggettivo’ come tutti i valori culturali
e quelli estetici in specie. Ma pensare il paesaggio come identità estetica
dei luoghi implica liberarsi di uno tra i pregiudizi più resistenti del nostro
modo ‘moderno’ di guardare alla natura, quello che consiste
nell’intendere il rapporto tra produzione artistica e osservazione della
natura come uno scambio a senso unico, cioè come la proiezione di
esperienze artistiche sul dato naturale.
Contro questa veduta semplificata dei rapporti tra arte e natura ci si è
imposto, nello svilupparsi stesso di questa ricerca, il dato elementare della
impossibilità di tenere fermo ciascuno dei lati della opposizione, e cioè di
pensare l’arte nella sua pura artisticità e la natura nella sua pura naturalità.
Sappiamo oggi che questa opposizione, come tutte le grandi opposizioni
metafisiche, deve essere decostruita, ovvero che essa non può essere né
accettata né semplicisticamente ribaltata. Si tratta piuttosto di vedere, con
un esercizio analitico paziente, quanta artificialità ci sia in quello che
chiamiamo natura e quanta naturalità in quello che chiamiamo arte, e
scoprire, per dirla con le parole di un nostro poeta che di natura, non a
caso, si intendeva, che «natura e arte sono un dio bifronte». Questa
scoperta, noi abbiamo creduto di farla su un terreno particolare, quello
delle tendenze artistiche dell’ultimo trentennio che hanno scelto di
confrontarsi con la natura, dalla Land Art americana degli anni Sessanta
alle tendenze più recenti dell’Art in Nature europea. Il che non significa
affatto, come si potrà vedere nell’ultimo capitolo, sorvolare sulle grandi
differenze tra la prima e la seconda. La Land Art, con il suo amore per il
gigantismo, per l’uso di mezzi meccanici, per i gesti violenti e imperiosi,
con la sua indifferenza profonda per la scelta degli ambienti e con il suo
desiderio di marcare il territorio appropriandosene, può ben apparire agli
antipodi del modo di agire di artisti che si affidano invece a gesti effimeri,
quasi impercettibili, che sono mossi da un profondo amore per i materiali
naturali e che concepiscono i loro interventi come risultato di una lunga
interazione con i luoghi che li ospiteranno. Ma, al di là di queste
differenze, che saranno tutte prese in considerazione, ci interessa riflettere
su un’arte che ha comunque compreso come il rapporto con la natura
non possa più passare, oggi, attraverso la rappresentazione della natura, e
non possa più mirare a produrre semplicemente delle immagini di essa. Ci
interessa, insomma, un’arte che intende proporsi come esperienza nella
natura, che non vuole in alcun modo riprodurre la natura ma operare
all’interno di essa, e questo al fine di comprendere in che cosa l’arte può
ancora contribuire a plasmare e arricchire il nostro rapporto con la natura,
e attraverso quali strade si possa superare quella estraneità profonda di arte
e natura che è un tratto saliente di molta arte moderna, soprattutto di
molta arte d’avanguardia, e che ha tanto contribuito a fare addensare sulla
bellezza naturale i sospetti della banalità e del Kitsch.
Si potevano, beninteso, seguire anche altri filoni di indagine. Sono
perfettamente consapevole del fatto che il tema del rapporto tra
architettura e natura avrebbe dovuto trovare posto in un lavoro come
questo, o che l’impatto che arti come il cinema e la fotografia hanno
avuto nella nostra percezione del paesaggio avrebbe meritato
infinitamente di più dei pochi accenni che si troveranno in proposito. E
so anche che l’arte del giardino, sulla quale si incontreranno solo poche
osservazioni cursorie, si sarebbe prestata a riflessioni ben più sostanziose e
produttive. A mia discolpa posso osservare soltanto che su questi
argomenti specifici sono già disponibili, anche in italiano, studi
interessanti, e ripetere quanto osservavo all’inizio, e cioè che un libro sulla
bellezza naturale deve per forza mettere in contatto ambiti di ricerca che
troppo spesso se ne stanno ben separati senza comunicare tra loro. Essere
stato capace di farne dialogare alcuni sarebbe già un buon risultato. Anche
perché ogni saggio riuscito – e ovviamente non è detto che questo lo sia –
non è altro, in fondo, che un ragionevole compromesso tra quel che il suo
estensore conosce e quel che, suo malgrado, ignora.
La posizione del problema
Capitolo primo.
Piccola storia del bello naturale
Non occorre credere che la natura abbia una storia per convincersi che ne
abbia una il bello naturale. Ad attestare che poche cose sono cambiate
attraverso i tempi come il nostro modo di guardare alla bellezza della
natura, basta un sondaggio anche superficiale dei documenti della storia
della cultura. Infatti, se è vero che molto è mutato nella nostra percezione
dell’arte, sicché la nostra attitudine nei confronti dei capolavori
dell’Antichità o del Rinascimento non è la medesima con la quale essi
furono vissuti dai secoli che li hanno prodotti, pure è certo che noi
ammiriamo spesso quelle stesse opere che già suscitarono l’ammirazione
delle epoche che le videro nascere; laddove gli spettacoli naturali che per
primi ci vengono in mente quando pensiamo ai valori estetici nella
natura, avrebbero causato negli uomini di quelle età non tanto
indifferenza, quanto aperta avversione o disgusto. Se diciamo bellezza
naturale, è probabile che ognuno di noi pensi subito a una montagna con
le sue nevi e i suoi ghiacciai, a un bosco fitto, a una costa scoscesa verso il
mare: tutte cose che fino a non troppi secoli fa avrebbero prodotto
piuttosto disagio, paura, raccapriccio. Ogni tentativo di trovare qualcosa
di naturale nel nostro atteggiamento verso la natura urta contro questa
evidenza: mentre oggi tutti siamo inclini a pensare che la natura sia tanto
più bella quanto più è incontaminata, vergine, intatta, per secoli, anzi per
millenni, la sola natura apprezzata esteticamente è stata quella segnata dal
lavoro umano, vicina, amichevole. E persino quando gli oggetti
dell’apprezzamento sono stati gli stessi, essi sono stati pensati sulla base di
criteri e di concetti che ben poco hanno in comune con quelli che oggi
utilizziamo parlando di bellezza naturale.
L’Antichità
Anche la nozione che ci potrebbe sembrare la più necessaria e la più
ovvia, ossia la distinzione di una bellezza naturale e di una bellezza
artistica, non è affatto spontanea e onnipresente, e si svela, piuttosto,
come una categoria storicamente condizionata, al pari di tutte le altre.
Intere epoche ne hanno fatto a meno, e, per esempio, essa appare del tutto
estranea al mondo antico. L’Antichità non distingue tra una bellezza
naturale e una bellezza artistica, già solo per il fatto che essa non avverte la
necessità di parlare di bellezza a proposito dell’arte, se non di riflesso e
come di scorcio: la Poetica di Aristotele, per esempio, si costruisce facendo
del tutto a meno dell’idea di bellezza, che nomina solo di passata. Bella,
per gli antichi, è innanzi tutto la natura. Ma, di nuovo, la natura che è
chiamata bella non è ciò a cui noi penseremmo. Quando gli antichi
parlano di bellezza della natura, si riferiscono o alla natura come un tutto,
alla bellezza dell’universo inteso come cosmos, cioè come assieme ordinato,
e proprio per questo bello (cosmos significa sia ordine, sia ornamento, sia
mondo), o al singolo ente naturale che, a sua volta, è bello in quanto
riflette in sé, nella propria costituzione, l’ordine che è proprio
dell’universo. A mancare, caratteristicamente, è l’idea della bellezza di una
porzione di natura attualmente osservabile, di un assieme di dati naturali
che vengono a costituire quello che noi chiameremmo un paesaggio, ossia
una totalità che sia però direttamente percepibile. A mancare è l’idea della
natura come spettacolo. Quando, infatti, a essere dichiarato bello è il
cosmo, l’universo, è chiaro che esso è considerato tale indipendentemente
dalla sua osservabilità. L’universo è bello perché è costruito
armonicamente, attraverso misura e proporzione; ma, appunto perché
l’armonia riguarda l’intero edificio del mondo, si tratta di un’armonia che
è più pensata che intuita, che si nasconde dietro la veste sensibile delle
cose.
È stata in particolare la tradizione pitagorica a elaborare la nozione
dell’ordine del mondo come retto dal numero, da rapporti armonici, ed è
stato Platone a riprendere e sviluppare questa nozione consegnandola alla
metafisica, ma anche all’estetica occidentale. Nelle opere di Platone, e in
particolare nel Timeo, si sviluppa l’idea di un mondo come cosmo
ordinato dalla sapienza di un demiurgo sulla base di un modello eterno, e
della bellezza di tale opera: «quando l’artefice, guardando sempre a quello
che è nello stesso modo e giovandosi di così fatto modello, esprime la
forma e la virtù di qualche opera, questa di necessità riesce tutta bella:
non bella, invece, se guarda a quel che è nato, giovandosi di un modello
generato. [...] Ma è chiaro a tutti che guardò a quello eterno: perché il
mondo è il più bello dei nati, e dio il più buono degli autori. Il mondo
così nato è stato fatto secondo modello, che si può apprendere con la
ragione e con l’intelletto»1. Nel Timeo troviamo anche il passaggio dalla
bellezza del tutto alla bellezza del singolo ente naturale, che riflette in sé
l’armonia delle proporzioni dell’universo: «Tutto ciò che è buono è bello,
e il bello non è privo di simmetria: dunque anche l’animale per essere
buono deve essere simmetrico»2. Che si parli di animale non è frutto del
caso: quando il Greco parla di bellezza del singolo ente naturale egli pensa
in primo luogo a quel che è vivente. Nell’Ippia Maggiore, un altro dialogo
platonico, gli esempi di bellezza che vengono per primi in mente al sofista
Ippia, interrogato da Socrate, sono una bella ragazza e un bel cavallo. La
vita è contrassegno della bellezza: ecco un pensiero che non si limita ad
attraversare tutta l’Antichità (all’altro capo di essa, nel III secolo d.C.,
Plotino dirà che un uomo vivo brutto è sempre più bello di una statua
bella), ma permea gran parte della percezione della bellezza naturale nei
secoli successivi. Ancora Hegel, per esempio, metterà sì in questione,
come vedremo, la bellezza naturale in confronto a quella artistica, ma non
il fatto che, all’interno della natura, è innanzi tutto la vitalità a costituire la
bellezza3; e ci vorrà un lungo cammino perché giunga a essere apprezzata
esteticamente la natura che si mostra inospitale e avversa alla vita, come
quella dei deserti o dei poli4.
Parlando di bellezza del vivente, a venire in primo piano è la bellezza
umana, la bellezza del corpo dell’uomo. In tutta l’Antichità, ma poi ancora
in tutto il Rinascimento e oltre, la bellezza del corpo umano è immagine
ed epitome della bellezza dell’universo: come questa, è fatta di
proporzioni e di armonie. La teoria delle proporzioni che ha tanta parte
nella teoria classica della bellezza è in primo luogo una teoria delle
proporzioni umane, un’antropometria: e fondata sulle proporzioni del
corpo dell’uomo è l’applicazione all’architettura compiuta da Vitruvio (I
secolo a.C.)5. La bellezza naturale si dà in primo luogo come bellezza
dell’uomo: ancora Dante dirà nel Convivio che la bellezza del corpo
umano è segno della sapienza dell’artefice di essa, la natura stessa. Ma ciò
ci offre subito l’occasione per notare come nel corso delle epoche non
siano cambiate soltanto le categorie con le quali pensiamo il bello
naturale, ma anche, per così dire, i confini di esso. Mentre per molti
secoli è stato infatti del tutto pacifico vedere nel corpo umano un
esempio, anzi l’esempio per antonomasia della bellezza naturale, per noi
oggi si dà piuttosto una contrapposizione tra bellezza umana (e
rappresentazione di essa) e bellezza naturale. Ciò è tanto più singolare in
quanto proprio noi post-darwiniani non avremmo alcun motivo di
eccettuare l’uomo dalla naturalità. Eppure quando un pensatore
contemporaneo, Nicolai Hartmann, dedica una delle sezioni della
trattazione del bello naturale della sua Estetica proprio al corpo umano6,
ciò ci appare in qualche misura sorprendente, ingiustificato. Il fatto è che
per noi funziona una contrapposizione tra bellezza naturale e bellezza
umana, che non funzionava in passato: per noi è rappresentazione della
bellezza naturale, per esempio, la pittura di paesaggio, proprio in quanto
essa marginalizza o esclude la rappresentazione dell’uomo; e non ci
verrebbe mai in mente di dire che una pittura di figure è, allo stesso
titolo, rappresentazione della natura. I confini di ciò che chiamiamo
natura si spostano continuamente, a seconda delle opposizioni che
costruiamo per pensare la naturalità stessa (natura-cultura, natura-tecnica,
natura-storia), e questo vale ovviamente anche per le opposizioni che
costruiamo per pensare la bellezza naturale. Da questo punto di vista la
natura è qualcosa di artificialissimo.
L’impossibilità di parlare, per l’Antichità, di una opposizione tra bellezza
naturale e bellezza artistica è confermata anche dalla diffusissima teoria
della mimesi, dell’arte come imitazione della natura. Infatti, per quanto
nell’idea di imitazione della natura possa anche nascondersi il germe di
una opposizione tra natura e arte (come appare già nell’ammissione da
parte di Aristotele, che cose brutte in natura possono diventare belle
riprodotte dall’arte7, un’ammissione relativamente isolata nell’Antichità),
è certo che essa viene assunta prevalentemente nel senso di una
derivazione e dipendenza della bellezza artistica da quella naturale: gli
oggetti riprodotti dall’arte sono belli perché belli sono i loro modelli
naturali. Questa convinzione resterà fondamentale per almeno due
millenni, e non a caso la messa in questione, da parte del Romanticismo,
della teoria dell’imitazione significherà non soltanto l’autonomizzazione
del bello artistico da quello naturale, ma anche il sostanziale
rovesciamento dei rapporti di valore tra bello naturale e bello artistico. In
altre parole, mentre fino al Settecento, cioè fino a quando rimane valida la
teoria dell’imitazione, è la bellezza della natura a essere la condizione della
bellezza dell’arte, con la crisi della teoria dell’imitazione si apre la strada alla
convinzione speculare, che infatti domina, come avremo modo di vedere,
l’Ottocento e il Novecento, quella secondo la quale è l’arte la radice di ogni
bellezza, anche di quella naturale.
Parlando di teoria dell’imitazione non bisogna dimenticare, però, che
essa non significa, se non in certe versioni più ingenue – le celebri storie
delle colombe che vanno a beccare l’uva dipinta da Zeusi o della mosca
dipinta che si cerca di scacciare come se fosse vera, storie che, come si
vede, vanno nel senso di una identificazione completa dell’oggetto dipinto
con l’oggetto naturale – una semplice riproduzione o duplicazione degli
enti di natura. Intanto, occorre precisare che non è tanto la teoria
originaria, greca, dell’imitazione, quanto i suoi sviluppi successivi (in
particolare nella teoria dell’arte rinascimentale) a intendere l’imitazione
come imitazione della natura, come studio diretto del vivente. Nella sua
formulazione antica, per esempio in Aristotele, l’imitazione riguarda in
primo luogo caratteri e azioni umane, ha quindi un contenuto
prevalentemente etico. In secondo luogo bisogna osservare che all’interno
della teoria dell’imitazione si fa strada ben presto un correttivo di essa, che
afferma che si deve imitare non la natura quale si presenta ordinariamente
nei singoli individui, ma quale dovrebbe essere sulla scorta di un modello
ideale di perfezione. La teoria della bellezza ideale, che dall’Antichità
giunge fino al Seicento e Settecento, e avrà in particolare nel
Neoclassicismo l’ultima ripresa importante, introduce nel principio
dell’imitare la natura un elemento di artificialità. La bella natura di cui
parleranno i teorici moderni è infatti qualcosa di profondamente diverso
dalla natura osservabile, vuoi perché ne rappresenta una media, vuoi
perché si ricollega a un archetipo che sta al di là delle cose, vuoi infine
perché, nelle sue versioni estreme, finisce per coincidere con l’arte stessa:
la bella natura dei Neoclassici, per esempio, altro non è che la
riproduzione della natura nell’arte greca e romana. Ma, restando
all’Antichità di cui stiamo parlando, la teoria della bellezza ideale è
importante anche perché ci ricorda che spesso l’affermazione della
bellezza della natura o del mondo si accompagna, nell’antico, alla
convinzione che comunque la bellezza delle cose visibili sia solo un
riflesso di una bellezza ultrasensibile, che è in fondo la sola a meritare
interamente l’appellativo di bella. In Platone e in Plotino veramente bello
non è il mondo reale, la natura quale noi la intendiamo, ma il mondo
intelligibile che sta oltre il nostro mondo visibile.
Se dal piano delle teorie della bellezza naturale passiamo a quello della
effettiva esperienza del bello di natura che fu propria dell’Antichità,
possiamo affidarci solo a qualche sondaggio. E tuttavia non è possibile
lasciar cadere la questione. Infatti chi si propone di raccontare, per sommi
capi, la storia del bello naturale, anche se vuole tendenzialmente limitarsi,
come è il nostro caso, alle teorizzazioni esplicite in materia, non deve
dimenticare, pena una sostanziale distorsione, che un dato saliente di tale
storia è il fatto che spesso si manifesta un’aperta discrasia, un conflitto
evidente, tra quel che sul bello naturale viene teorizzato, nelle diverse
epoche, dalla riflessione filosofica e il modo in cui prende forma la
concreta esperienza della natura. Proprio l’Ottocento e il Novecento ci
daranno, in proposito, degli esempi eclatanti di scollamento tra una
riflessione estetica sorda alla bellezza naturale e un’assai marcata sensibilità
per la natura nell’esperienza comune. Si può immaginare qualcosa del
genere anche per l’Antichità?
I vecchi studi d’assieme su questo argomento, prodotti nella seconda
metà dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, indurrebbero a
una risposta decisamente negativa. Volumi come Le sentiment de la Nature
avant le Christianisme di Laprade, del 1866, o quello di Dauzat sul
Sentimento della natura e la sua espressione artistica, del 1914, o ancora quello
di Biese sullo Sviluppo del sentimento della natura presso i Greci, del 1882,
tendono per esempio a presentare i Greci come un popolo privo di
sensibilità verso la natura8. Eppure è sufficiente essere stati a Delfi o al
capo Sounion per comprendere come una civiltà che collocava i suoi
templi in siti tanto suggestivi doveva possedere un forte senso implicito
dei luoghi. E forse non solo implicito, dato che spigolando nella
letteratura greca è possibile trovare parecchie descrizioni che attestano una
sensibilità naturalistica accentuata, dalle descrizioni omeriche dell’isola di
Ogigia alla poesia idillica, dal celebre passo all’inizio del Fedro platonico
dove si descrive un’incantevole campagna nei pressi di Atene (ma qui
occorrerà fare i conti con l’ironia di Socrate, al quale «la campagna e gli
alberi non sono disposti ad insegnare alcunché, mentre molto impara
dagli uomini della città»), a quel luogo dello Pseudo-Longino in cui, per
la prima volta, sembra affacciarsi l’idea di una natura sublime, e si parla
della maestosità dei grandi corsi d’acqua, come il Nilo, il Reno, il
Danubio, o della violenta potenza dei vulcani, come l’Etna9.
Un geografo che si è occupato a lungo di teoria del paesaggio, Augustin
Berque, nel suo volume Les raisons du paysage. De la Chine antique aux
environnements de synthèse10, oppone le civiltà di paesaggio alle civiltà senza
paesaggio, e individua quattro criteri distintivi: 1) la presenza di una o più
parole che indicano il paesaggio 2) quella di descrizioni verbali, orali o
scritte, della bellezza del paesaggio 3) quella di rappresentazioni pittoriche
di esso 4) quella di giardini ornamentali. Su queste basi, egli oppone
l’Europa dal Cinquecento in poi e la Cina fin da duemila anni fa, come
civiltà «paysagères», all’India e alla Grecia antiche, civiltà «non
paysagères». A rigore, però, soltanto il primo e il terzo requisito sembrano
mancare alla civiltà greca, dato che essa conosce, oltre alle descrizioni
letterarie della natura, il giardino ornamentale, il kepos11. Persino la tesi
della mancanza di una pittura di paesaggio, che del resto deve sempre
tener conto della nostra ridottissima conoscenza della pittura antica, trova
vistose limitazioni nella presenza di una pittura di paesaggio in età
ellenistica, a prescindere dai tentativi di trovarne degli antecedenti, per
esempio nella pittura vascolare. Certamente ci fu una pittura di paesaggio
a Roma: ne fanno fede, oltre agli affreschi pompeiani e a quelli della casa
di Livia a Prima Porta, alcune testimonianze singolari, come quelle di
Vitruvio e soprattutto di Plinio, che parlano di pittori specializzati nella
pittura di paesaggio e di decorazioni paesaggistiche nelle pitture murali12.
In generale, andrà notato che il mondo latino offre già parecchi esempi di
una sensibilità apertamente dichiarata per la bellezza naturale; basti
pensare non tanto alle descrizioni della natura che si possono trovare in
Virgilio o in Ovidio, quanto a certe testimonianze meno letterariamente
condizionate e quindi più indicative, come la lettera di Orazio a Fusco sui
piaceri (anche estetici) della vita in campagna («io lodo i rivi dell’amena
campagna e la selva e i sassi ricoperti di muschio [...] l’erba profuma o
risplende, forse, meno dei mosaici di Libia?») o quella di Plinio il Giovane
sulle bellezze delle proprie ville di campagna13.
Tutti questi dati hanno il loro peso, che sarebbe sciocco ignorare; e
tuttavia sarebbe viceversa precipitoso e imprudente fare leva su essi per
tentare un avvicinamento della sensibilità antica per la natura a quella
moderna. Non bisogna dimenticare, infatti, le differenze fortissime che
permangono. Intanto l’interesse degli antichi per gli aspetti estetici della
natura è sempre mediato dal mito14, si esprime attraverso il legame del
luogo con una divinità o una vicenda mitica, che spesso fa della
descrizione naturale un semplice sfondo o un’occasione per la narrazione
di una storia, rendendo il rapporto con la natura, per così dire, un
rapporto di secondo grado. Inoltre, le descrizioni letterarie della natura
sono pressoché sempre condizionate da criteri preordinati di genere: non
è mai un paesaggio effettivo, identificabile, un coin de nature reale a essere
rappresentato o celebrato, ma sempre un paesaggio costruito artificialmente
attraverso le convenzioni letterarie.
Ciò è evidentissimo nel caso della poesia bucolica greca, a proposito
della quale si è recentemente sottolineato «il carattere puramente
letterario di un quadro che è più indebitato con la poesia omerica di
quanto lo sia alla realtà geografica di Cos o della Sicilia»15. Nelle
descrizioni antiche della natura – e questo vale anche per la letteratura
latina – manca la percezione dell’individualità del paesaggio: lo stereotipo
letterario o mitico fa sempre aggio sulla realtà e identificabilità dei luoghi.
Più in generale, per l’antico il paesaggio è ambiente, sfondo, teatro di
azioni umane o divine, ma non assurge a oggetto autonomo di
considerazione. Manca la percezione del paesaggio come spettacolo (e
quindi, si potrebbe dire, manca il paesaggio in senso moderno, anche se
non manca affatto la sensibilità per la natura, che è altra cosa), e manca del
tutto quella che potremmo chiamare la ‘visione panoramica’ dei moderni.
Le testimonianze di Orazio e di Plinio, come pure i lacerti di pittura di
paesaggio che ci sono pervenuti sono, in questo contesto, tanto più
significativi in quanto si connotano come fenomeni di anticipazione della
modernità, ovvero rappresentano, nell’Antichità, gli embrioni di una
concezione della natura altra rispetto a quella tipica dell’antico, non
diversamente da quanto accade, sul piano artistico, con altri fenomeni
coevi, come il sorgere di un collezionismo artistico o la presenza di
correnti estetistiche. Non a caso, infatti, le parole di Orazio e di Plinio
lasciano intravedere non solo una visione per così dire interamente
laicizzata (ossia, demitizzata) della natura, ma presuppongono già quella
distinzione-opposizione di bellezza naturale e bellezza artistica che
abbiamo visto sostanzialmente estranea all’Antichità. E non a caso quelle
parole sono frutto di una civiltà ormai pienamente urbanizzata.
Questo, infatti, è un ultimo punto rispetto al quale la considerazione
antica della bellezza naturale si presta a un’annotazione di portata
generale. La storia del bello naturale dimostra che si ama sempre la natura
che si è perduta. Chi vive immerso nella natura di solito non la ama. I
contadini non amano il paesaggio, anzi non sanno nemmeno che esista
qualcosa come il paesaggio16. La Stimmung della bellezza naturale è,
fondamentalmente, quella della nostalgia. Sono le epoche, sono le civiltà,
sono i ceti che non hanno più un rapporto vitale, immediato, quotidiano
con la natura a elaborarne la percezione estetica, spesso come surrogato di
quel rapporto che hanno perduto17. Teniamolo per detto, non solo perché
questa piccola storia del bello naturale ci porterà molte conferme di
questo assunto, ma anche perché esso ci tornerà particolarmente utile
quando si tratterà di comprendere l’atteggiamento che il nostro presente
ha nei confronti della bellezza naturale.
Il Medioevo
Molti dei tratti che abbiamo visto caratterizzare la sensibilità antica verso
la natura sono comuni anche all’età medioevale. Anche nella letteratura
dell’età di mezzo mancano, sostanzialmente, le descrizioni autonome
dell’ambiente naturale, che viene introdotto piuttosto come sfondo o
come termine di paragone. Così, esemplarmente, in Dante, nel quale non
c’è paesaggio ma ci sono degli squarci straordinari di natura propiziati
dalle necessità della similitudine e solo eccezionalmente indipendenti («li
ruscelletti che de’ verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno, /
faccendo i lor canali freddi e molli» «suso in Italia bella giace un laco / a
piè dell’Alpe che serra Lamagna...»)18. Nel mondo medioevale, certo, il
comune denominatore per queste aperture sul mondo naturale non è più
il legame col mito, quanto piuttosto il rapporto allegorico in forza del quale
le cose naturali, visibili e corporee, significano qualcosa di incorporeo e di
intelligibile, sono considerate verbum nei, una sorta di riflesso di dio nella
magnificenza delle cose. Come nei versicoli sempre citati di Alano di Lilla
(Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est in speculum /
Nostrae vitae, nostrae mortis / nostri status, nostrae sortis / fidele
signaculum) ogni prodotto della natura rinvia a un significato morale,
adombra un contenuto spirituale (Nostrum statum pingit rosa / nostri
status decens glosa, / nostrae vitae lectio; / Quae dum primo mane floret,
/ defloratus flos effloret / vespertino senio»)19. L’uomo medioevale può
amare un fiore, una pianta, un animale, può gioire di un giardino come
hortus conclusus, ma non li percepisce nel contesto naturale che li circonda,
caso mai li considera esempi di una bellezza universale che riguarda tutto
il creato; così come i mosaici bizantini di Ravenna o quelli normanni di
Palermo possono colpirci con la resa di un pavone o di una palma, di una
pecora o di un albero, ma li isolano, non li immergono nella natura cui
appartengono20, accentuandone così il carattere simbolico.
Ancora maggiori, tuttavia, sono le continuità tra l’Antichità e il
Medioevo per quel che concerne le teorie della bellezza naturale. Il
Medioevo riprende dalla classicità l’idea dell’ordinamento matematico e
armonico del mondo. Il Libro della Sapienza (II secolo d. C.) consegna ai
secoli successivi la convinzione che «Dio ha regolato tutto con misura,
ordine e peso», e Agostino, nel suo De Libero Arbitrio, scrive: «non esitare
ad attribuire a Dio creatore ogni cosa in cui osserverai misura, numero e
ordine». Grande è per Agostino la bellezza della terra, e ovunque l’occhio
si volga alla natura, da ogni angolo essa gli fa cenno. L’armonia del
mondo, il concerto universale, richiede anche la dissonanza e può
spiegare il male: «poiché questo ordine e questa disposizione
garantiscono, grazie a questa stessa distinzione, l’armonia dell’universo, ne
consegue che anche il male è necessario», dice il De Ordine21, e molti
secoli dopo farà eco Vincenzo di Beauvais: «Il mondo è degno di lode per
ogni singola specie, ma assai più lo è per l’armonia di tutte le cose, per la
connessione del tutto, per la stupefacente concordia che emerge dalla
contrarietà; [...] tutte le cose assieme concordano con tutte le altre in vista
della perfezione dell’unico mondo»22. Il pensiero cristiano eredita dal
platonismo antico la convinzione che la bellezza sensibile è il riflesso di
quella soprasensibile. «Visibilis pulchritudo – scrive Ugo da San Vittore
commentando il testo che è alla base delle teorie medioevali della bellezza
universale, il De coelesti hierarchia dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita –
invisibilis pulchritudinis imago est», la bellezza visibile è l’immagine di
quella invisibile23. Questo presupposto può sì dare luogo, talora, alla
svalutazione della bellezza naturale a petto del suo modello più perfetto,
ma assai più frequentemente si traduce in un’esaltazione della perfezione
e dello splendore del cosmo, prova evidente della bontà di Dio. È questo,
anzi, il grande tema e il concetto ricorrente nella speculazione medioevale
sul bello di natura: l’universo è bello perché è prodotto della sapienza
divina, e dio può essere considerato come il sommo artista, il grande
architetto, il musico supremo, creatore di un mondo ripieno di tutte le
perfezioni, e quindi anche della bellezza. Così in un passo delle Confessioni
di Agostino: «Dissi allora a tutto ciò che siede dinanzi alla porta dei miei
sensi: ‘se non siete voi [la divinità], ditemi qualche cosa del mio Dio,
parlatemi di lui’. E a gran voce tutto rispose: ‘È il nostro creatore’.
Guardare le creature era come interrogarle, la loro bellezza era la loro
risposta»24. Il mondo, leggiamo ancora in Scoto Eriugena (IX secolo
d.C.), è una teofania, una rivelazione o manifestazione di Dio, perfetto e
bello come il suo creatore. Perciò, quando l’uomo medioevale considera
l’opera d’arte come imitazione della natura, non mette mai in dubbio la
superiorità della natura sull’arte stessa: la natura è opera di dio, il primo
artista, mentre l’artefice umano non può che cercare di avvicinarsi alla
compiutezza della natura. La quale, leggiamo in Dante, nasce «dal divino
intelletto e da sua arte», e quindi l’arte dell’uomo (intesa, come sempre
nel Medioevo, come capacità produttiva in senso lato, techne) che si ispira
alle cose naturali, è «a Dio quasi nepote»25. Rosario Assunto ha così
sintetizzato la contrapposizione che in tal modo si apre con la maniera
moderna di pensare: «Mentre noi giudichiamo bella la natura quando essa
si approssima all’arte, nel Medioevo l’arte era bella quando si conformava
alla natura»26.
La dottrina della pankalia, della bellezza del mondo come opera d’arte
divina e prova della sua saggezza, può essere interpretata non solo nel
senso che a essere bello è il tutto, l’universo, ma anche in quello che è bella
ogni singola cosa, e quindi non esistono cose brutte. Tale accezione è del tutto
chiara in questo passo, ancora di Agostino: «Confesso di non sapere
perché siano stati creati i topi e le rane, le mosche o i vermi; ma vedo che
ogni creatura, nel suo genere, è bella»27, ma echeggia lungo tutto il
Medioevo, dall’«omnia pulcra sunt» di Bonaventura fino a uno degli
ultimi esponenti della Scolastica, Dionigi il Certosino (morto nel 1471).
Nel suo trattato De venustate mundi et pulchritudine dei, questi scrive:
«quantum res sortitur de entitate, tantumdem habet de bonitate et
pulchritudine, loquendo de bonitate naturae, et pulchritudine naturalis
perfectionis seu formae».
Questi passi ci mostrano quanto le vedute medioevali della bellezza
naturale continuino a essere attive nella riflessione, ma anche nel comune
sentire delle epoche successive. Non solo, infatti, l’interpretazione,
diciamo così, teologica (la bellezza naturale come frutto della provvidenza
divina e prova della sua esistenza) godrà di particolare fortuna nella
filosofia del Sei e Settecento, e sarà ancora alla base del modo di guardare
alla bellezza naturale proprio, in pieno Ottocento, di un Ruskin, ma la
convinzione che non esistano cose brutte in natura, che tutto ciò che è
naturale sia bello, si sedimenterà fino a diventare una delle convinzioni
comuni in materia di percezione estetica della natura, dall’ammissione del
pittore Constable «I never saw an ugly thing in my life», o a quella
dell’architetto di giardini Russel Page «credere che possano esistere piante
brutte in sé sarebbe tradire la nostra intelligenza», fino al principio
enunciato da un teorico contemporaneo dell’estetica ambientale, Allen
Carlson: «tutta la natura intatta è [...] esteticamente buona»28. Quando,
nel prossimo capitolo, discuteremo le tendenze attuali dell’estetica
ecologica, non tarderemo a scoprire che dietro molte posizioni di essa,
specie quando sono ispirate dall’ecologia cosiddetta profonda, si cela un
presupposto teologico spesso non esplicitato.
Il Rinascimento
Da quando Jakob Burckhardt scrisse in proposito pagine memorabili29, è
divenuto consueto iniziare ogni discorso sulla percezione della natura e
sulla scoperta del paesaggio nell’Umanesimo e nel Rinascimento citando
le parole con le quali Francesco Petrarca, in una delle sue Lettere Familiari,
descrive l’ascensione del monte Ventoso (nel sud della Francia, una
cinquantina di chilometri da Avignone) da lui compiuta, in compagnia
del fratello Gherardo, nella primavera del 1336. Solo di recente si è
cominciato a sospettare che ci si trovi di fronte a un luogo comune
storiografico, e che l’atteggiamento di Petrarca nei confronti della natura
sia assai meno moderno di quanto tanti, sulla scia di Burckhardt, hanno
amato credere30. Si è detto che il racconto petrarchesco odora di lucerna
più che di montagna, che, incastonato com’è tra una citazione da Livio e
una da Agostino, è troppo retoricamente costruito per poter valere come
esperienza diretta della natura31; soprattutto, si è ricordato che il responso
dalle Confessioni di Agostino nel quale Petrarca sembra condensare il senso
della sua avventura in montagna suona come una condanna, non certo
come un’esaltazione: «E vanno gli uomini ad ammirare le alte cime dei
monti e i flutti ingenti del mare e i vastissimi corsi dei fiumi e l’immensa
distesa dell’oceano e il corso delle stelle, e di se stessi non prendono
cura»32.
Tutto ciò contiene certamente una parte di verità. Petrarca non perde
l’occasione di dare un senso allegorico alla propria scalata, paragonando il
suo continuo distogliersi dall’arduo sentiero che porta alla vetta agli
smarrimenti cui va soggetta l’anima nella sua avventura terrena. E tuttavia
questi ovvi tributi al proprio tempo non devono farci dimenticare che,
proprio come vide Burckhardt, la lettera di Petrarca rappresenta per altri
versi un documento di straordinario interesse, che attesta un’effettiva
novità nel modo di guardare la natura33. Soprattutto essa consente di
evidenziare nel modo più netto l’antitesi con l’atteggiamento verso la
natura che abbiamo visto proprio dell’Antichità e del Medioevo. E questo
già dall’esordio: «Oggi, spinto dal solo desiderio di vedere un luogo
celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione,
chiamato giustamente Ventoso». E poi, più avanti: «Dapprima, colpito da
quell’aria insolitamente leggera che mai avevo provato e da quello
spettacolo grandioso rimasi come stupefatto». Sola videndi insignem loci
altitudinem cupiditate; spectaculo liberiore permotus: da un lato abbiamo l’idea di
una contemplazione fine a se stessa, fonte per sé sola di soddisfazione;
dall’altro, l’idea che un tratto identificabile e attualmente visibile di
territorio possa costituire uno ‘spettacolo’. «Mi volgo indietro, verso
occidente, per guardare e ammirare ciò che ero venuto a vedere. [...] I
Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono più,
e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola
debolezza della nostra vista. A destra, molto nitidamente, si scorgevano
invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e
quello che batte Acque Morte, lontani alcuni giorni di cammino. Il
Rodano, poi, era sotto i nostri occhi». Qui è una natura realmente
conosciuta, familiare, non la natura come totalità e come fabbrica
dell’universo a suscitare stupore e ammirazione. Petrarca è spinto a salire il
Ventoso non tanto dall’esempio antico di Filippo il Macedone che scala il
monte Emo in Tessaglia, quanto dal fatto che il profilo del Monte
Ventoso gli è stato familiare fin dall’infanzia e con esso, si direbbe, la
curiosità di salirlo: «Da molti anni mi ero proposto questa gita; infatti
come sai, ho abitato in questi luoghi fin dall’infanzia [...] e questo monte,
che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre
negli occhi»34.
Certo, la sensibilità per la natura attestata dalla lettera petrarchesca era
destinata a restare, per lungo tempo, un fatto isolato. Anche quando, nel
Settecento, l’amore per la montagna si estenderà fino a diventare, come
vedremo, appannaggio di un gusto diffuso, non per questo diventerà
consueta l’idea di salire su una cima per il puro gusto di contemplare la
vista che così si scopre. Saranno piuttosto ragioni di ordine scientifico a
essere messe in primo piano, e geologi o naturalisti saranno i primi a fare
dell’alpinismo, almeno fino a quando – ma saremo già in pieno Ottocento
– le montagne diventeranno il terreno di gioco dell’Europa, The
Playground of Europe, come suona il titolo di un volume di Leslie Stephen,
il padre di Virginia Woolf35. Lungo tutto il Quattrocento e il
Cinquecento, ma anche oltre, solo sporadicamente, e solo presso
pochissimi rappresentanti delle classi più colte, si potrà parlare di un
interesse per la montagna e in generale per la natura non lavorata
dall’uomo. Episodi come la scalata del monte Aguille, il mons inascensibilis
del Delfinato, espugnato da Antoine de Ville nel 1492 (del resto più
nell’ottica di un’impresa militare o di una dimostrazione di coraggio che
in quella dell’amante delle alte cime), o come la passione per le Alpi
manifestata dall’umanista Konrad Gesner in pieno Cinquecento, restano
del tutto eccezionali36. Per tutti gli altri, cioè non solo per gli incolti, ma
per la stragrande maggioranza dei letterati, la sola natura che desta
interesse è quella che reca il segno della mano dell’uomo, anzi essa è tanto
più bella, quanto più mostra il segno dell’operosità umana. Le montagne
sono luoghi inospitali, sterili, minacciosi e misteriosi. Piero Camporesi,
nel suo libro Le belle contrade, ha indagato l’immagine dell’Italia corrente
nel Quattro e Cinquecento. Ne è venuta fuori, abbastanza
imprevedibilmente rispetto all’immagine a noi più vicina (ma non meno
storicamente condizionata) del ‘Bel Paese’, un’Italia brulicante di
contadini e artigiani, minatori e fonditori, percorsa da viaggiatori del
tutto sordi alle bellezze paesaggistiche, ma pronti ad ammirare i segni del
lavoro dell’uomo. «Immagini ‘paesaggistiche’, scorci ‘panoramici’, ‘viste’
pittoresche sono impensabili per gli uomini del Cinquecento: il loro
occhio perlustra con particolare attenzione la concretezza ambientale o la
realtà della geografia umana», scrive Camporesi, che può trarre dalla sua
ampia indagine questa conclusione: «Nel Cinquecento non esisteva il
paesaggio, nel senso moderno del termine, ma il ‘paese’, qualcosa di
simile a quello che per noi oggi è il territorio, o, per i francesi,
l’environnement, luogo o spazio considerato sotto il profilo delle sue
caratteristiche fisico-ambientali, alla luce delle forme d’insediamento
antropico e delle sue risorse economiche. Tangibile quasi nella sua
concretezza, apparteneva alla sfera estetica in modo del tutto
secondario»37. Conclusione esattissima, se si guarda alla communis opinio
dei secoli indicati, ma che pure non si saprebbe sottoscrivere interamente
già solo per questa considerazione: è proprio nel periodo studiato da
Camporesi che, in Europa se non in Italia, nascono, si vorrebbe dire quasi
parallelamente, sia la parola ‘paesaggio’ che la moderna ‘pittura di paesaggio’.
Vediamo separatamente i due aspetti. La parola ‘paesaggio’ e i suoi
equivalenti nelle maggiori lingue di cultura possiedono una singolare
duplicità di significato, che continua tuttora ad attrarre l’attenzione38: essi
indicano sia l’oggetto reale, cioè la porzione di territorio, sia la
rappresentazione dell’oggetto reale, ossia l’immagine che riproduce la
porzione di territorio. Ma tale duplicità si è prodotta per vie diverse nelle
diverse lingue, a seconda che fosse o no presente in esse fin da principio il
termine che oggi designa il paesaggio. Così abbiamo da un lato il caso di
lingue come il tedesco e il nederlandese (olandese), in cui i termini
Landschaft e landschap (con grafie ovviamente variabili) sono attestati fin da
epoche molto remote, nel significato di «territorio, regione, provincia»,
dall’altro quello del francese, in cui il termine che designa il territorio era
pays, mentre paysage nasce come neologismo nel corso della prima metà
del Cinquecento (ma forse persino prima), nel senso di «pittura
rappresentante una porzione di territorio». Solo successivamente ‘paysage’
ha potuto essere impiegato come equivalente di ‘paese’ (pays), e,
caratteristicamente, assumere un terzo significato, attinente alla sfera della
percezione, così come i due precedenti sono attinenti a quella della realtà
e della rappresentazione: paesaggio come quel che di un territorio è
percepibile simultaneamente con lo sguardo. Ora, è sempre nel
medesimo periodo, il transito tra Quattrocento e Cinquecento, che i
termini tedesco e olandese acquisiscono, oltre a quello originario, il senso
di «rappresentazione pittorica di un luogo». Dürer, per esempio, già nel
1521 può chiamare Patinier «der gute Landschaftsmaler», il buon pittore
di paesaggi. In italiano, come in spagnolo, la situazione è ancora
differente. Infatti, nella nostra lingua si produce, tra la fine del
quindicesimo e l’inizio del sedicesimo secolo, un passaggio simile a quello
subito dal tedesco Landschaft, perché la parola ‘paese’ passa a significare,
oltre al ‘paese’ reale, il quadro di paesaggio (anche nel diminutivo
apparente ‘paesetto’). Nel 1521 si può parlare di una collezione che
contiene «tavolette di paesi», e poco dopo la Tempesta di Giorgione può
essere definita «un paesetto». Ma, al contempo o poco più tardi, l’italiano
importa il francese ‘paysage’ creando il neologismo ‘paesaggio’,
inizialmente solo in riferimento alla pittura. Ci vorranno secoli perché il
termine diventi quello corrente sia nell’accezione realistica sia in quella
percettiva, che oggi ci sono familiari. Lo spagnolo seguirà un percorso
simile a quello italiano, introducendo ‘paysaje’ come calco dalla nostra
lingua, mentre la situazione dell’inglese è resa più complessa dalla
compresenza, oltre al termine tutt’ora in uso di landscape, dei concorrenti
landskip e paisage, quest’ultimo calco diretto dal francese39. A noi, però,
non interessa addentrarci in sottigliezze etimologiche. Ci basta fissare due
punti capitali: è proprio tra la seconda metà del Quattrocento e i primi
decenni del Cinquecento che, si può dire in tutte le lingue europee, nasce
o si produce per specializzazione un termine che indica la riproduzione
pittorica di una porzione di territorio; successivamente, e proprio a
partire da questo secondo impiego, nascerà il senso di ‘paesaggio’ come
territorio attualmente percepibile con lo sguardo. Quest’ultima
considerazione ci tornerà utile più avanti, nel terzo capitolo, mentre ora ci
è preziosa la prima.
Il Quattrocento e il Cinquecento sono infatti i secoli in cui nasce e si
sviluppa, in Europa, una pittura di paesaggio in senso moderno, mentre
come è noto, la cultura cinese conosceva una pittura di paesaggio già dai
primi secoli della nostra era. Dopo il caso relativamente isolato degli
affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, che
rimontano al 1340, e dopo i precedenti tardo medioevali dei Libri d’Ore, è
appunto all’inizio del quindicesimo secolo che alcuni dipinti cominciano
a offrirci, sia pure come sfondo o come veduta, squarci di paesaggio,
come sarà il caso nella Madonna del cancelliere Rolin di Jan van Eyck, oggi al
Louvre, o in quella del Maestro di Flémalle, Robert Campin, alla
National Gallery. Poco più tardi Konrad Witz dipingerà una pesca
miracolosa nella quale sono ben riconoscibili le rive del lago di Ginevra e,
in lontananza, il massiccio del Monte Bianco, mentre poco oltre la metà
del secolo una Crocifissione di Antonello da Messina si staglierà su una
riconoscibilissima immagine della costa siciliana nei pressi della città
natale del pittore. In Italia la nuova sensibilità per la natura sarà attestata
anche in Piero della Francesca e nei veneti, mentre alla svolta del secolo, al
di là delle Alpi, Dürer dipingerà alcuni schizzi e acquerelli puramente
paesaggistici, che non a caso oggi ci sembrano straordinariamente
moderni. Nei dipinti maggiori, però, il grande artista tedesco non darà al
paesaggio quella prevalenza che riscontriamo nel suo contemporaneo
Patinier o in Altdorfer. In pieno Cinquecento Pieter Bruegel produrrà
grandi quadri di paesaggio, al punto che il suo epitaffio dettato
dall’Ortelio («quadri che sono non opere d’arte, ma opere della natura»)
può forse essere letto non solo come iperbole elogiativa ma anche come
descrizione fattuale. La grande pittura italiana del Cinquecento sarà poco
incline al paesaggio, che subordinerà sempre alla figura umana,
incontrastata dominatrice; ma la pittura di paesaggio era destinata a
ricoprire un ruolo sempre più importante nell’arte occidentale, dai suoi
trionfi nel Seicento olandese e italiano, a quelli del Settecento e primo
Ottocento in Inghilterra, a quelli ottocenteschi in Germania e in Francia.
Non possiamo certo neppure accennare a questi sviluppi, o discutere le
condizioni che hanno reso possibile il sorgere della pittura di paesaggio (la
laicizzazione degli elementi naturali, il distacco dalla natura, o, secondo la
formulazione celebre di Simmel, «la lacerazione rispetto al sentimento
unitario della natura universale»40): la storia della pittura di paesaggio è
una parte cospicua della storia dell’arte occidentale, ed è stata molte volte,
anche magistralmente, narrata41.
Ci importa invece sottolineare che il notevolissimo mutamento nella
percezione della bellezza naturale presupposto e propiziato dal diffondersi
di una pittura di paesaggio ha trovato solo molto lentamente le vie di un
riconoscimento da parte della teoria. I trattati sulla pittura continueranno
per molto tempo a considerare la pittura di paesaggio come un genere
subordinato, e in fondo essa riceverà piena legittimazione soltanto con il
Romanticismo: il primato, ancora per tre secoli, andrà alla pittura di
storia, a quella che rappresenta la figura umana in azione.
Più in generale, si può osservare che i grandi mutamenti di gusto che
abbiamo visto iniziare a prodursi nel Rinascimento si riflettono solo
parzialmente sul piano delle teorie della bellezza naturale. Il principio
fondamentale, tanto presso gli Umanisti quanto presso i trattatisti delle
arti figurative, rimane quello della imitazione della natura, e permane la
convinzione che l’arte umana sia una sorta di sorella minore della grande
arte divina (Cusano parlerà di una ars finita che imita quella infinita
propria della divinità). È vero però che presso gli artisti figurativi e presso
i teorici delle arti visive il tradizionale concetto dell’imitazione assume un
valore almeno in parte nuovo, proprio in quanto accentua l’importanza di
un’osservazione diretta e scrupolosa dei prodotti naturali, che mancava
tanto nell’Antichità quanto nel Medioevo. Ciò è particolarmente evidente
in Leonardo da Vinci, che paragona il pittore a uno specchio ed esige che
egli sia «universale maestro di contraffare [...] tutte le qualità delle forme
che produce la natura». Leonardo non cessa di raccomandare uno studio
autoptico della natura stessa: «Come nelle opere d’importanza l’uomo
non si deve mai fidare tanto nella sua memoria, che non degni ritrarre dal
naturale»42. L’idea che la sorgente prima della bellezza sia la natura e che
la bellezza artistica ne sia un riflesso e una conseguenza è sempre presente
nelle Vite del Vasari, che parla per esempio di un «obbligo», cioè di un
debito «che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale serve
continuamente per esempio a coloro, che cavando il buono dalle parti di
lei migliori e più belle, di contraffarla e imitarla sempre s’ingegnano»43.
Ma il rapporto che il Rinascimento pone tra arte e natura è stato espresso
nel modo più conciso e lapidario nella sentenza di Albrecht Dürer: «Denn
wahrhaftig die Kunst steckt in der Natur; wer sie heraus kann reissen, der
hat sie» («perché in verità l’arte si nasconde nella natura; chi sa trarla fuori
da essa, quegli la possiede»)44.
Per quanto quindi il Rinascimento abbia contribuito alla fissazione di
un concetto di bellezza artistica che, in quanto tale, era rimasto estraneo
alla riflessione antica e medioevale, non si può dire che esso sia giunto a
opporre alla bellezza naturale quella artistica. Il che è provato, su un altro
piano, da quelle raccolte di mirabilia che proprio in questi secoli
cominciano a essere accumulate da privati e da principi, e che godranno
di particolare fortuna, specie nel Centro e nel Nord Europa, ancora in
tutto il Seicento. In queste Wunderkammern, in queste stanze di
meraviglie, che stanno non a caso alla radice sia della moderna galleria
d’arte, sia del moderno museo di storia naturale, prodotti della natura e
opere d’arte si mescolano senza distinzione, in quello che a noi pare un
disordine inestricabile. Dipinti, statue, mobili e monili sono esposti
accanto ad animali imbalsamati provenienti da paesi lontani, a conchiglie
e denti di narvalo. Corna d’antilope e zanne di elefante, uova di struzzo e
corni di rinoceronte sono accumulati assieme a calici e orologi, automi e
strumenti di navigazione. Particolare fortuna hanno i fossili, che in
un’epoca ancora ignara della sterminata antichità della storia terrestre
vengono interpretati come lusus naturae e avvicinati ai mostri45. Tutto
questo è significativo non soltanto perché ci conferma quanto sia stato
lungo il cammino che ha portato a farci sentire come ovvia la distinzione
tra bellezza naturale e bellezza artistica, ma anche perché ci presenta una
modalità di rapporto con l’oggetto naturale che forse appartiene alle
costanti del nostro modo di percepire: quella per cui l’oggetto attrae la
nostra attenzione in quanto viene avvertito come curiosità, stravaganza,
singolarità. Oggi, certo, ci sono i documentari televisivi e non le
Wunderkammern, ma l’interesse per gli animali esotici o bizzarri non è poi
di qualità molto diversa. E la meraviglia di chi fissa in un acquario le
forme e le colorazioni di un pesce tropicale è parente non troppo lontana
di quella di chi raccoglieva lacrime di cervo e bezoari.
Seicento e Settecento
Che la cosiddetta rivoluzione scientifica prodottasi in Europa nel
diciassettesimo secolo comporti conseguenze importantissime anche sul
piano della percezione estetica della natura è cosa troppo ovvia e troppo
frequentemente osservata perché occorra insistervi. Infatti, l’immagine
della natura, non solo sul piano della sua conoscenza strettamente
scientifica, ma anche su quello del pensiero comune e dell’esperienza
quotidiana, ne esce tanto radicalmente trasformata che risulta impossibile
anche solo supporre che la stessa valutazione estetica non ne rimanga
profondamente influenzata. Le «qualità secondarie», cioè quelle più
direttamente legate all’organizzazione percettiva del soggetto,
immediatamente connesse ai sensi (colori, sapori), perdono terreno a
favore delle «qualità primarie», interamente matematizzabili (massa,
peso): la scienza, come risulta già dalla semplice denominazione di tali
qualità, riguarda soltanto ciò che è conoscibile oggettivamente e
matematicamente, ed esclude dal proprio orizzonte tutto ciò che è
irrimediabilmente correlato alla soggettività. Il mondo è scritto in
caratteri matematici, ma il numero si spoglia del valore sacrale e armonico
che aveva nella tradizione pitagorico-platonica per assumere la veste della
pura calcolabilità e della pura quantificazione. L’universo animato, il
«grande animale» del Timeo, l’anima mundi del pensiero medioevale,
lasciano il posto a un’immagine tutta meccanica dell’universo. La scienza
perde progressivamente contatto con il mondo dell’esperienza quotidiana;
l’osservazione a occhio nudo, la palpazione e l’ascolto cedono luogo
all’esperienza organizzata e alla mediazione dello strumento. Tutto ciò
significa anche che il «mondo della scienza» perde i contatti col «mondo
della vita», che la sfera ‘estetica’ nel senso etimologico del termine, cioè
quella della diretta esperienza sensoriale, esce dalla considerazione
scientifica; ma significa anche che tutta l’esperienza della natura, anche
l’esperienza quotidiana, si pone sotto il segno del disincanto. La natura
perde l’aura della sacralità e del mistero, non è più il territorio oscuro del
mito, non è più animata da una vitalità tanto più indubitabile quanto
meno razionalmente compresa.
Se sui dati di fatto qui richiamati a grandissime linee è raro sorgano
divergenze, esse si presentano subito non appena si passi alla valutazione
del quadro che abbiamo delineato. Due posizioni e due interpretazioni
antitetiche sembrano possibili. Da un lato, si può insistere sul carattere
compensativo che per effetto della rivoluzione scientifica viene ad assumere
l’esperienza estetica della natura. Proprio perché il mondo che è oggetto
della conoscenza diventa meccanicistico e quantitativo, l’estetica prende
su di sé il mondo delle qualità e degli aspetti sensibili. La contemplazione
estetica, che in precedenza era inestricabilmente connessa con la
considerazione teoretico-filosofica e faceva tutt’uno con essa, ora si
autonomizza: ne è l’erede, ma insieme è del tutto diversa. Nel modo più
chiaro, tale posizione è stata espressa da Joachim Ritter: «nell’epoca
storica nella quale la natura, la sua forza e la sua materia diventano
‘oggetto’ delle scienze naturali, dell’utilizzazione e dello sfruttamento
tecnico su cui esse si basano, la poesia e l’arte figurativa assumono il
compito di interpretare – in senso non meno universale – la stessa natura
nel suo rapporto con l’uomo sensibile e di rappresentarlo sul piano
estetico. [...] Il paesaggio ha bisogno di essere attestato e raffigurato sul
piano estetico là dove la natura ‘copernicana’ lo esclude, non
comprendendolo in sé. Dove il cielo e la terra dell’esistenza umana non
vengono conosciuti ed espressi nel sapere scientifico, come anticamente
nel concetto della filosofia, la poesia e l’arte si assumono il compito di
mediarli esteticamente in quanto paesaggio»46. Ma, dall’altro lato, si può
invece mettere in luce come la separazione di conoscenza della natura e
percezione estetica di essa costituisca non una compensazione ma un
impoverimento, una perdita irrimediabile per entrambe. Per l’estetica,
perché riduce a mera risposta soggettiva, a puro riflesso sentimentale il
rapporto profondo con la natura stessa, perché fa dell’estetico il territorio
dell’ineffettuale, del voluttuario, dell’insignificante; per la scienza della
natura, perché ne fa una scienza astratta, fredda, incapace di cogliere i
segreti viventi delle cose, le fa dimenticare la lingua oscura, eppure
eloquente che la natura parlerebbe se la sapessimo ascoltare.
Non si tratta affatto, come si potrebbe forse pensare, di due linee
interpretative astratte, di due pure ipotesi di lettura dei fatti storici. Sono
piuttosto due filoni, due grandi orientamenti che percorrono la
modernità e in essa si affrontano, fino al nostro presente. La filosofia
romantica della natura, come vedremo tra poco, è in gran parte una
reazione alla perdita della dimensione sacrale e vivente della natura che è
un portato della scienza moderna, un tentativo di riunire le vie che la
rivoluzione scientifica ha diviso; d’altro canto (e questo lo vedremo
appena un poco più avanti, nel secondo capitolo), molta parte dell’estetica
della natura contemporanea nasce come protesta nei confronti
dell’astrazione della scienza matematizzata e come progetto di recupero di
una visione ricca, sensibile, animata, della natura stessa. In altre parole, se
a qualcuno è parso, forse a torto, che l’ecologia come fenomeno di
opinione sia una filosofia della natura modernizzata, si può sostenere con
migliore ragione che l’estetica ecologica è spesso una critica alla scienza
naturale in nome di qualcosa che assomiglia molto alla filosofia della
natura pre-newtoniana e romantica.
Tornando alla nostra storia, non deve sembrare in contrasto con quanto
abbiamo detto a proposito degli effetti della rivoluzione scientifica sulla
percezione estetica della natura il fatto che il filone forse
quantitativamente più ricco della riflessione teorica sulla bellezza naturale
sia rappresentato, nel Sei-Settecento, dalla considerazione della bellezza
naturale nell’ambito di una fisico-teologia, cioè nell’ambito di una
riflessione che trae spunto dalla bellezza del creato per risalire da essa alla
sagacia e alla benevolenza del suo creatore. È come se, di fronte
all’immagine meccanicistica del mondo, ormai imperante da un punto di
vista scientifico e tale da respingere la divinità ai margini di esso, la
bellezza della natura si offrisse come ultima possibilità di vedere la
benevolenza divina attiva all’interno della natura stessa, capace di parlarci
nei singoli fenomeni e di porgerci una prova vivente e immediata della
provvidenza divina. Certamente, l’argomento che rimonta dall’ordine e
dalla perfezione dell’universo alla esistenza di un suo creatore è tutt’altro
che nuovo, e lo abbiamo incontrato già più volte, per esempio in
Agostino. Alle soglie dell’epoca qui considerata lo troviamo espresso con
grande chiarezza nello scritto di Gesner De montibus admiratione cui
abbiamo fatto riferimento ad altro proposito: «il genere umano è stato
messo al mondo perché potesse risalire dalle meraviglie [dell’universo]
all’esistenza di un essere superiore, dello stesso dio supremo». Ora però
esso prende una forma sistematica e al tempo stesso si collega direttamente
alla soddisfazione soggettiva del contemplatore di bellezze naturali,
introducendo un distacco tra l’aspetto puramente estetico del mondo e la
sua organizzazione. Così Baltasar Gracián scrive: «come, nel fabbricare un
palazzo, l’abile artefice suole curare non solo la sua stabilità e la sua
fermezza, ma anche la bellezza e la elegante simmetria, in modo tale che
ne possa godere il più nobile dei sensi, la vista, allo stesso modo il divino
architetto di questa grande casa che è l’orbe non solo si curò della sua
comodità e stabilità, ma anche della sua bella proporzione. Perciò non si
accontentò che gli alberi producessero solo frutti, ma volle che
producessero anche fiori», infatti «quel savio artefice non si curò soltanto
della stretta necessità dell’uomo [...] ma anche della sua comodità e del
suo piacere. [...] Coglievo questo o quel fiore, richiamato dalla sua
fragranza e, godendo della sua bellezza, non mi saziavo di vederli e di
odorarli, sfogliando i loro petali e compiendo un accurato esame della
loro composizione; e da qui passavo ad ammirare tutta insieme la bellezza,
che risplende in tutto l’universo»47. Gli stessi pensieri troviamo espressi
nelle poesie del tedesco Barthold Hinrich Brockes («O Mensch, betrachte
Gottes Werke! / Sieh einen Baum von unten bis zum Wipfel /
Aufmerksam an; so wird dein Geist / in heiligen Verwund’rung sehn /
Wie viel Vollkommenheit ein jeder in sich schliesst»48 [«Uomo,
contempla le opere di Dio! / Osserva un albero dalla base fino alla cima /
attentamente; così il tuo spirito / pieno di sacra meraviglia vedrà / quanta
perfezione ognuno chiude in se stesso»]) e nella Contemplation de la Nature
del francese Charles Bonnet («[Dio] ha incaricato i cieli e la terra di
annunziarci quel che egli è. Egli ha proporzionato le nostre facoltà a
questo linguaggio divino, e ha fatto nascere dei geni sublimi che ne
approfondissero la bellezza e ne divenissero gli interpreti»)49. Ma forse il
testo più significativo di questa fisico-teologia estetica è rappresentato dai
Colloqui sulla bellezza della natura di Johann Georg Sulzer, l’autore della
monumentale Teoria generale delle belle arti. Il volume di Sulzer è una
dettagliata e ordinata descrizione delle bellezze naturali, da quella dei
minerali a quella delle piante alla bellezza degli animali, che culmina nel
riconoscimento della presenza divina nella natura, anzi precisamente nella
«bellezza della natura», alla quale fanno da pendant le Considerazioni morali
sopra le opere della Natura50.
Venti anni più tardi, nel 1770, Kant rifiuterà ogni argomento fisico-
teologico, mentre farà largo spazio al legame tra bellezza naturale e
moralità. Nel paragrafo 42 della Critica del Giudizio Kant afferma
esplicitamente che la propensione per la bellezza naturale è il segno di un
carattere moralmente buono, mentre il medesimo non può essere
affermato per chi ama la bellezza artistica. «Io concedo volentieri che
l’interesse pel bello dell’arte [...] non fornisca una prova di un carattere
devoto, o anche soltanto inclinato, al bene morale. Ma affermo invece che
il prendere un interesse immediato alla bellezza della natura [...] è sempre
segno di un animo buono; e che, quando questo interesse è abituale e si
accoppia volentieri alla contemplazione della natura, mostra almeno una
disposizione dell’animo favorevole al sentimento morale». Amiamo un
fiore selvatico, un uccello, un insetto, il canto dell’usignolo in una notte
di luna; ma, se scopriamo che qualcuno ci ha ingannato e che si tratta di
prodotti artificiali che contraffanno quelli naturali, perdiamo ogni
interesse per loro. Un uomo morale preferirà sempre la bellezza naturale a
quella artistica: «Se un uomo, che ha gusto sufficiente per giudicare dei
prodotti delle belle arti con la massima giustezza e finezza, abbandona
volentieri la stanza in cui brillano queste bellezze che soddisfano la vanità
e alimentano i piaceri sociali, e si rivolge a cercare il bello naturale per
trovarvi quasi una voluttà pel suo spirito su una via di pensiero di cui egli
non potrà mai raggiungere il termine, noi considereremo questa scelta
con grande rispetto, vedremo in lui una bell’anima, quale non può
pretendere di essere un intenditore o un amatore d’arte»51.
La sottolineatura del rapporto tra bellezza naturale e moralità da parte di
Kant offre l’occasione per notare che tale rapporto individua uno dei tratti
salienti della riflessione sul bello di natura. Non solo, infatti, fin
dall’Antichità la considerazione estetica della natura si è legata a temi etici,
ma questo legame continua a esercitare un ruolo notevole sulla nostra
immagine del bello naturale. Molte riflessioni contemporanee, vedremo,
considerano l’esperienza estetica della natura nell’ambito di tematiche
morali, come condizione o componente di una vita eticamente buona,
ma già in un approccio più tradizionale come quello dell’Estetica
lukácsiana il capitolo dedicato ai Problemi della bellezza naturale si suddivide
in due sezioni intitolate non per caso Tra etica ed estetica e La bellezza
naturale come elemento di vita52. Potremmo dire che mentre la bellezza
artistica, negli ultimi due secoli, ha proceduto quasi linearmente sulla
strada di una sua sempre più completa autonomizzazione (tanto che
parlare di morale a proposito dell’opera d’arte ci suona come un sacrilegio
o un pregiudizio da bacchettoni) alla bellezza naturale è rimasto legato un
elemento assai forte di eteronomia (la bellezza naturale viene considerata
o per il suo interesse morale o per la sua funzione in rapporto alla
conoscenza della natura), al punto che tale elemento viene assunto non di
rado fra i tratti definitori, costitutivi dell’idea di bellezza della natura. Il
che potrebbe forse essere sintetizzato dicendo che nella natura, noi amiamo
sempre qualcosa di diverso dalla natura stessa.
Tornando a Kant, dobbiamo osservare che il primato etico della bellezza
naturale è poi l’unico primato che ad essa il filosofo espressamente
riconosca. Non è esatto, infatti, sostenere, come pure accade spesso di
leggere, che quella di Kant sia un’estetica, anzi l’ultima estetica, della
bellezza naturale. È vero invece che Kant analizza le condizioni del nostro
giudizio estetico, che può riferirsi sia a oggetti naturali sia a oggetti
artificiali, a prodotti dell’arte53. Per Kant, come per molta della più
avvertita estetica settecentesca, per esempio per Hume, la bellezza non è
una qualità delle cose in se stesse, ma del nostro modo di considerare le
cose. Non si può parlare di una bellezza intrinseca alle cose naturali, e chi
voglia cogliere la differenza non ha che da confrontare la terza critica
kantiana con la metacritica di essa che Herder volle dare nella sua opera
intitolata Kalligone. Qui, la sezione sul bello naturale parte ancora
dall’assunto che ci sia una bellezza oggettiva, data dal fatto che è bello
ogni essere che esprime integralmente le possibilità della propria
esistenza, ragione per cui Herder può costruire una gerarchia delle
bellezze naturali (dai minerali alle piante all’uomo) e può escluderne
soltanto gli esseri intermedi, le specie di transizione (anfibi, rettili)54.
Hanno torto, quindi, quelle letture recenti che, a partire da una
considerazione degli esempi kantiani (che poi non sono affatto
esclusivamente naturali), tendono a proporre una immagine della Critica del
Giudizio come estetica della natura55. È vero invece, come verificheremo,
che quella di Kant è l’ultima grande estetica per la quale un prodotto
naturale può essere un esempio di bellezza tanto quanto un’opera d’arte.
Dopo il Romanticismo, questo non sarà più possibile, neanche per i
difensori della bellezza naturale stessa.
Sul piano concreto del gusto, però, sono altri i temi della riflessione
estetica settecentesca che ebbero maggiore influenza, e che fanno del
secolo diciottesimo uno dei periodi di più grandi trasformazioni del
nostro modo di guardare alla bellezza naturale. In primo luogo, la
diffusione delle nozioni di pittoresco e di sublime. Il primo termine è già
nella sua stessa etimologia una prova singolare dell’influsso esercitato dalla
pittura paesaggistica sulla percezione della natura reale. ‘Pittoresco’
significava in origine, infatti, ‘suscettibile di essere rappresentato con
successo in pittura’, e si riferiva in primo luogo alle scene naturali dipinte
da Salvator Rosa, rappresentanti agguati di briganti nei boschi, dirupi
scoscesi, vegetazione fitta e disordinata, corsi d’acqua rapidi e mossi. Nel
corso del Settecento, il termine viene sempre più frequentemente usato
per indicare quegli stessi scenari nella diretta percezione in natura, e verso
la fine del secolo William Gilpin diffonde la moda del ‘viaggio pittoresco’,
cioè del viaggio intrapreso con l’esplicito proposito d andare in cerca di
vedute che meritino tale aggettivo. Gilpin le definisce attraverso
l’opposizione tra ciò che è liscio, levigato, regolare, e ciò che si presenta
mosso, frastagliato, aspro nei contorni. Bella è una collina tondeggiante,
pittoresca una montagna dai pendii rotti e diruti; bello è un prato fiorito,
pittoresca una landa disseminata di gruppi disordinati di alberi; bello è un
giardino geometrico, pittoresco un giardino che alterni senza un piano
apparente querce, cespugli e mucchi di pietre56.
Ancora più significativa è, se possibile, la carriera della nozione di
sublime. Il termine era nato, nell’Antichità, in ambito retorico, in stretto
riferimento allo stile letterario e alle opere di poesia: nel tardo Seicento
viene riscoperto, in Francia, inizialmente soltanto in riferimento alle
opere letterarie. Ben presto, però, esso va incontro, soprattutto in
Inghilterra, a una fortuna amplissima, e, quel che più conta, viene sempre
più correlato non solo a fatti letterari ma a spettacoli naturali. ‘Sublime’,
in opposizione a ‘bello’, viene impiegato in relazione a fenomeni naturali
che ci affascinano per la loro maestosità, terribilità, grandezza. Bello è un
lago calmo, una valle amena, un colle leggiadro; sublime un mare
infuriato, un precipizio pericoloso, una montagna altissima: i caratteri del
sublime sono la grandezza e il senso di terrore provato da chi tuttavia si
trova in una condizione di sicurezza, e che perciò si tinge di diletto. Alla
metà circa del secolo, l’Inchiesta sul bello e il sublime di Edmund Burke
codificherà tutto ciò (sublime è il cielo stellato, una montagna oscura e
tetra, il frastuono di vaste cascate e di furiosi temporali) e distinguerà il
pleasure del bello dal delight, anzi dal «delightful horror» del sublime57. Ma i
mutamenti del gusto di cui è espressione il testo burkiano erano in corso
già da mezzo secolo. A partire dalla fine del Seicento, infatti, diventa
sempre più facile che i viaggiatori che attraversano le Alpi non se ne
ritraggano, respinti da un paesaggio inospitale e sterile, ma anzi si
dichiarino attratti ed emozionati da ghiacciai e burroni, picchi e cascate. È
d’obbligo citare John Dennis, al quale nel 1693 la traversata delle Alpi
suscita «un dilettoso orrore e una gioia terribile», quei sentimenti che di lì
a poco avrebbero trovato un’espressione compendiaria nella parola
sublime. Addison è fra i primi a usare il termine per esprimere il fascino
dell’alta montagna, e anche Shaftesbury mostra la sua predilezione per
una natura irregolare, imponente, potente. Di pari passo procede la
fascinazione per il mare aperto, l’oceano, le burrasche. Il mare era sempre
stato più familiare all’uomo dell’alta montagna; ma esteticamente attraenti
erano apparse soltanto le coste accessibili, i golfi tranquilli, le insenature
sicure. Ora si diffonde invece l’apprezzamento per la vastità e la potenza
del mare, per l’immensità dell’Oceano e la violenza delle tempeste58.
All’altro capo del secolo, ancora nella Critica del Giudizio di Kant, l’alta
montagna e l’oceano saranno i paradigmi del sublime, che evoca subito
«masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine,
con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso», e
che, in quanto sublime «dinamico», è connesso con la natura percepita in
quanto potenza: «Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi
minacciose, le nuvole del temporale che si ammassano in cielo tra lampi e
tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, gli uragani
che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla
tempesta, la cataratta di un gran fiume»59.
Dobbiamo sottolineare che, per la prima volta, ci troviamo di fronte ad
atteggiamenti largamente diffusi. Se nei secoli precedenti l’amore per la
montagna riguardava solo qualche intellettuale isolato, e se negli anni a
cavallo tra Seicento e Settecento è appannaggio di pochi, alla fine del
secolo è divenuto una vera e propria moda60. Il poema di Albrecht Haller
Le Alpi (1732), forse il primo manifesto esplicito del nuovo gusto,
conosce quasi subito traduzioni nelle altre lingue, e poi è continuamente
ristampato; le rappresentazioni pittoriche dell’alta montagna si fanno
sempre più numerose nella seconda metà del secolo; gli scenari naturali
spaventosi o misteriosi dilagano nei romanzi popolari del tempo; le Alpi
diventano meta di viaggi, di escursioni e già, in qualche caso isolato, di
vere e proprie scalate. Tutto ciò significa che, per la prima volta nella
storia, viene a essere oggetto di un apprezzamento estetico diffuso, e viene
anzi a incarnare il modello stesso della bellezza naturale una natura che
non reca segno della mano umana, che non è produttiva o utile, e che
anzi rappresenta l’antitesi di tutti questi caratteri. Un esempio cospicuo
del nuovo gusto è rappresentato dalle tendenze del giardinaggio61. Se nel
Cinquecento e nel Seicento aveva dominato incontrastata la voga di un
giardino geometrico, ordinato, con i viali che si intersecano ad angolo
retto e le piante e gli arbusti piegati dall’arte topiaria in forme artificiali,
insomma il giardino architettonico cosiddetto all’italiana (e la sua versione
più ampia e sontuosa, ma non strutturalmente diversa, alla francese), ora
si diffonde in Inghilterra (e poi, ma solo verso la fine del secolo, dilaga in
Europa), la passione per un giardino che somigli, il più possibile, a un
pezzo di natura libera, un giardino senza parterres, solcato da sentieri
serpeggianti, con masse di alberi sparse come a caso, e pochi o punti fiori:
un giardino pittorico, o all’inglese. Uno dei suoi massimi teorizzatori,
Horace Walpole, ne sottolineava proprio il carattere di reazione contro
l’artificialità, contro quei giardini innaturali, decorati di statue e fontane,
che sono tutto tranne «natural verzura». Il giardino inglese occulta
deliberatamente la propria origine artificiale; vuole inserirsi nella natura
circostante senza che si noti la sua diversità (e a tal fine fu inventato lo ha-
ha, quella particolare forma di chiusura del giardino mediante un muro
collocato in un fossato, in modo che esso non sia visibile né dall’interno
né dall’esterno del giardino); vuole essere, insomma, un giardino che
abbatte la distinzione tra giardino e paesaggio62. A lode di William Kent,
uno dei maggiori architetti di paesaggi del Settecento, si disse che egli
aveva scoperto, per la prima volta, che tutta la natura è un giardino; ma
d’altro canto è stato spesso notato che gli artefici di giardini inglesi
volevano riportare sur nature quel modello di natura libera che avevano
conosciuto nei dipinti di Lorrain, di Poussin, di Rosa.
Fra i propagatori del gusto per il giardino all’inglese sul continente va
annoverato anche Jean-Jacques Rousseau: l’Elisée de Clarens descritto nella
quarta parte della Nouvelle Héloïse è proprio un giardino paesaggistico,
ispirato dal parco di Ermenonville progettato dal marchese de Girardin63.
Ma Rousseau non è soltanto un adepto del nuovo gusto per il giardino
informale, che occulta la propria origine artistica e nel quale non si scorge
«la minima traccia di coltura»; egli è anche ardente estimatore dell’alta
montagna, un appassionato descrittore di passeggiate alpine. La
ventitreesima lettera della prima parte della Nouvelle Héloïse è un inno alle
bellezze dei monti e un idillio di vita alpestre. «Lentamente a piedi scalavo
sentieri assai erti, con un uomo che avevo preso come guida; ma durante
la strada ebbi in lui piuttosto un amico che un mercenario. Avrei voluto
fantasticare, ma sempre qualche spettacolo inaspettato mi distraeva. Ora
immense rupi mi pendevano sul capo come rovine, ora alte e fragorose
cascate m’inondavano con il loro fitto pulviscolo. Ora un torrente eterno
mi spalancava accanto un abisso di cui i miei occhi non ardivano misurare
la profondità».
Accade anzi spesso di leggere che Rousseau sia stato il creatore del gusto
per l’alta montagna. Ciò è inesatto perché, come abbiamo visto, tale gusto
è il prodotto di un secolo intero. Ma anche se si andasse in cerca di un
autore che possa valere come simbolo del nuovo atteggiamento verso le
alte quote, forse altri nomi, in primis quello di Haller, potrebbero avanzare
con maggior diritto la loro candidatura. E tuttavia questo non toglie nulla
alla posizione specialissima e straordinariamente influente che occupa
Rousseau in una storia della percezione della bellezza naturale. Infatti il
ginevrino segna veramente una tappa fondamentale nel nostro modo di
guardare, anche esteticamente, alla natura. Con lui il rapporto con la
natura diciamo così, di tipo oculare, oggettivo, viene soppiantato dal
rapporto di tipo emotivo, sentimentale. La natura è vista e vissuta innanzi
tutto attraverso i suoi riflessi sul nostro sentimento. L’«uomo sensibile»,
l’ideale che il Settecento sostituisce all’«honnête homme» del secolo
precedente, è tale innanzi tutto nella sua relazione con le cose naturali,
che agiscono su di lui disponendolo in un tono emotivo. Il rapporto con
la natura ne esce radicalmente soggettivizzato, ma al tempo stesso esso
acquisisce un’importanza che non poteva assolutamente attingere in
precedenza. È sufficiente leggere più a fondo i luoghi della Nouvelle Héloïse
cui abbiamo già fatto riferimento per rendercene conto. «Lassù, nella
purità di quell’aria, riuscii a districare sensibilmente la vera cagione del
mio umore mutato e del ritorno di quella pace interna che avevo smarrito
da tanto tempo. È infatti un’impressione generale, che tutti gli uomini
risentono anche se non tutti se ne rendono conto: sulle alte montagne
dove l’aria è più pura e sottile, la respirazione è più agevole, il corpo più
agile, lo spirito più sereno, i piaceri meno ardenti, le passioni più
moderate. [...] Si direbbe che, alzandosi al di sopra del soggiorno degli
uomini, ci si lascino tutti i sentimenti bassi e terrestri, e che, a mano a
mano che ci si avvicina alle regioni eteree, l’anima sia toccata in parte
dalla loro inalterabile purezza»64. Ma gli stessi atteggiamenti li troviamo in
molte altre opere di Rousseau. Tralasciando la terza lettera a Malesherbes,
che è quasi un trattatello sul rapporto sentimentale con la natura, le
Fantasticherie del passeggiatore solitario, specialmente la quinta e l’ottava, sono
piene di passi rivelatori. «Al calar della sera scendevo dalle cime dell’isola e
andavo a sedermi volentieri sulla riva del lago, sulla spiaggia, in qualche
luogo nascosto; lì il mormorio delle onde e il movimento dell’acqua
avevano il potere di fermarmi i sensi, scacciandomi dall’animo ogni
agitazione»; Rousseau si siede sulla riva di un corso d’acqua, e si chiede:
«di che si gioisce in uno stato simile? Di niente di esteriore, di niente se
non di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione,
siamo sufficienti a noi stessi, come Dio»65.
Certo, Rousseau non è né il primo né il solo a teorizzare questo
rapporto sentimentale con la natura. Il marchese de Girardin, nel suo
trattato sulla Composizione dei paesaggi, scritto prima delle Rêveries, ha un
capitolo che reca il titolo Il potere dei paesaggi sui nostri sensi e di conseguenza
sul nostro animo; e, ben prima di Rousseau e della sua cerchia,
l’atteggiamento sentimentale si era diffuso in Inghilterra attraverso le
opere del Thomson e l’Ossian di Macpherson. Tuttavia nessuno come
Rousseau è riuscito a dare espressione al nuovo sentimento della natura.
Nessuno, tranne forse Schiller. Che non solo teorizza la contrapposizione
tra un atteggiamento ingenuo e un atteggiamento sentimentale nei confronti
della natura (dove il sentimentale, caratteristico in particolar modo dei
moderni, è il tentativo di ritornare alla natura dopo che ci se ne è
irrimediabilmente distaccati), ma nella elegia La passeggiata ha dato
espressione al senso di liberazione e di gioia che prende chiunque,
cittadino, ritrovi la natura fuggendo dal carcere della propria stanza:
Ti saluto mio monte dalla fulgida vetta rosseggiante,
Ti saluto sole che sì amabilmente l’irraggi,
Te pure saluto, vivace pascolo, voi sussurranti tigli,
Ed il festoso coro che sui rami si culla,
Blu soave, anche te, che immenso ti riversi,
Attorno alla montagna bruna, sul bosco verdeggiante,
E attorno a me, che infine sfuggito al carcere della stanza,
Ed all’angusto colloquio, lieto mi rifugio in te,
Il soffio balsamico dell’aria m’attraversa rigenerandomi,
E lo sguardo assetato abbevera l’energia della luce,
Con forza risplendono sul prato fiorito colori cangianti,
Ma il delizioso litigio si dissolve in grazia,
La prateria m’accoglie aperta con un tappeto esteso lontano,
Attraverso il suo verde gentile si snoda il sentiero campestre,
L’ape operosa mi ronza attorno, con ala incerta
La farfalla si dondola sul trifoglio violetto,
Incandescente mi colpisce il raggio del sole, giacciono i venti di
ponente66.
Il Romanticismo
La cosa difficile, accostandosi all’età romantica dal punto di vista della
bellezza naturale, è comprendere come il Romanticismo abbia potuto
essere, al tempo stesso, l’epoca in cui per l’ultima volta, in Occidente, si è
guardato al rapporto estetico con la natura come alla fonte suprema per la
conoscenza di essa e quella in cui si è consumato il divorzio, che per lungo
tempo è parso definitivo, tra la bellezza naturale e quella artistica. Il
Romanticismo ha da un lato considerato la natura come un fenomeno
estetico, ma dall’altro ha subordinato la bellezza naturale a quella artistica,
fino a dissolvere la prima a vantaggio esclusivo della seconda: tant’è vero
che proprio attraverso il Romanticismo l’estetica ha potuto proporsi, in
modo che per lungo tempo è parso definitivo, esclusivamente come una
filosofia dell’arte.
Da una parte, infatti, il Romanticismo può ben essere considerato come
un grande tentativo di opporsi all’immagine della natura scaturita dalla
rivoluzione scientifica nel Sei e Settecento. In luogo, quindi, dell’idea di
una natura matematizzabile, retta da rapporti meccanici e causali, esso ha
mantenuto o cercato di far nuovamente rivivere l’idea di una natura
animata, organica, irriducibile alla pura quantità. E se, dal punto di vista
che qui direttamente ci interessa, il grande effetto del sorgere della scienza
moderna era stato la separazione tra considerazione scientifica e
considerazione estetica della natura, anzi il proporsi di quest’ultima come
compensazione per quanto andava inevitabilmente perduto nella prima, non
stupirà constatare come il Romanticismo abbia in primo luogo messo in
dubbio la legittimità stessa di tale separazione, e, a fortiori, la pensabilità di
una sua compensazione sul piano estetico. Nel Romanticismo, dunque,
non è a rigore possibile separare l’estetica della natura dalla filosofia della
natura, appunto perché uno dei capisaldi della filosofia romantica della
natura è la inseparabilità di conoscenza della natura e suo godimento
estetico. Così, nella Esposizione del mio sistema filosofico di Schelling, un
testo del 1801, bellezza e conoscenza della natura vanno di pari passo,
tanto che il testo, incompiuto, e contenente soltanto la filosofia della
natura, si chiude intravedendo una unione di poesia e scienza naturale, il
raggiungimento «dell’assoluto centro di gravità, in cui, come le due
somme espressioni dell’indifferenza, cadono verità e bellezza»67; negli
Aforismi scritti quasi un decennio più tardi, la «rivelazione della divinità
del tutto» fa cessare ogni conflitto tra scienza, religione e arte, mentre
quando tale luce si spegne e gli uomini vogliono conoscere le cose
separatamente, «là si vede la scienza trasformata in un deserto di vaste
dimensioni, gli scarsi progressi [...] di una conoscenza che nel suo
sviluppo non fa che contare un grano di sabbia dopo l’altro per edificare
l’universo; e nello stesso tempo si vede sparire la bellezza della vita»68. La
poesia è una fonte di conoscenza della natura, tanto quanto la scienza, o
per meglio dire entrambe assicurano una vera conoscenza solo quando
agiscono di conserva, non quando si guardano come nemiche. Anche
Goethe, antiromantico in poesia ma pienamente romantico nella sua
considerazione della natura, dirà il medesimo: «nessuno voleva ammettere
che si potessero combinare scienza e poesia. Si dimenticava che la scienza
è uscita dalla poesia, né si considerava che, mutando i tempi, le due
potrebbero amichevolmente ritrovarsi, con vantaggio reciproco»69. Ecco
perché Friedrich Schlegel, nelle prime pagine del Dialogo sulla poesia
(1800) potrà indicare nella natura la vera sede e origine di ogni poesia,
mentre Novalis a chi voglia conoscere la natura consiglia di rivolgersi
innanzi tutto ai poeti, dato che è in loro compagnia che «la natura si apre
e manifesta il suo cuore meraviglioso. Chi al contrario non la ama
profondamente, e di essa vuol conoscere soltanto questo o quell’aspetto
deve limitarsi a visitarne gli ospedali, gli ossari»70.
E un ossario o un lazzaretto pareva veramente ai romantici la natura
quale si palesava nella scienza fisico-matematica: un ammasso di cose
morte, prive di legami, astratte, laddove la natura è per loro in primo
luogo connessione di tutti i fenomeni, impossibilità di separarli. Il mondo
è un tutto; di più: è un organismo unico, vivente, dotato di un’anima. Di
«anima del mondo» parlerà Schelling; come «parassiti di un grande
animale» appariranno gli uomini a Novalis. Per Goethe, la natura è
incessante produzione di forme, che possono essere comprese solo nella
loro dinamica artistica; l’inservibilità per l’arte della teoria newtoniana dei
colori è il segno della sua aridità e improduttività anche sul piano
scientifico. La natura è una forza creatrice, non un regno di cose morte.
Essa ci parla attraverso una scrittura meravigliosa, un alfabeto cifrato che,
scrive ancora Novalis, «è visibile ovunque: su ali, gusci d’uovo, nuvole,
neve, nei cristalli e negli strati rocciosi, sopra le acque nel momento in cui
congelano, dentro e fuori le montagne, le piante, gli animali»71. Una frase
che sembrava sfuggita al Kant della Critica del Giudizio quasi al di là della
sua volontà («il linguaggio cifrato attraverso cui la natura ci parla nelle sue
forme belle»), e che comunque in lui può avere soltanto significato
metaforico, diventa per i romantici letteralmente vera: l’universo parla
attraverso la bellezza delle sue forme; ci parla attraverso una lingua
misteriosa, ma che gli artisti sanno decifrare, attraverso una vera simbolica
delle forme.
Non può stupire quindi che il Romanticismo abbia per la prima volta
riconosciuto una piena legittimità alla pittura di paesaggio, anzi abbia
scorto nel paesaggio una forma superiore di espressione artistica, giacché
ciò è avvenuto proprio perché nell’arte paesaggistica si è visto molto di più
che una semplice riproduzione della natura, qualcosa di molto diverso da
una mera traduzione in immagine di essa. La grande diffusione della pittura
di paesaggio nel Seicento e nel Settecento non si era ancora riverberata
appieno sulla teoria dell’arte, dove vigeva ancora quella gerarchia
rinascimentale che relegava il paesaggio agli ultimi posti. Ora però la
pittura paesaggistica attinge, per opera degli stessi pittori, una
consapevolezza nuova, in particolare in Germania. Philipp Otto Runge
vede nel paesaggio la vera grande forma artistica dell’avvenire e scrive
«tutto tende verso il paesaggio»; Caspar David Friedrich scrive: «io credo
che una tale forma pittorica non sia mai stata concepita e rappresentata
degnamente come avrebbe potuto e dovuto essere»72, e di lui un critico
perspicace dirà che ha «portato la tragedia nel paesaggio», intendendo dire
che ne ha ampliato il significato fino a ricomprendere in essa i moti più
profondi dell’anima. Il dipinto di Friedrich raffigurante il Crocefisso sulla
montagna dopo il tramonto del sole, noto anche come Altare di Tetschen, è quasi
l’ostensione diretta di questi nuovi principi: per la prima volta un dipinto
di paesaggio è concepito come grande quadro religioso, con ciò non solo
confermando quella visione della natura come sacro che è propria del
Romanticismo, ma anche saldando in uno i due poli opposti della
gerarchia tradizionale delle arti figurative. Visione romantica della pittura
e scienza della natura goethiana si fondono nell’opera teorica più
completa sulla nuova pittura, le Lettere sulla pittura di paesaggio di Carl
Gustav Carus, composte tra il 1815 e il 1820. Agli occhi di Carus,
medico e pittore, così come Goethe ha potuto essere, insieme, naturalista
e poeta, la bellezza «è ciò che suscita la sensazione dell’essenza divina nella
natura», e non può essere bello quel che è fuori della natura: dunque, la
pittura deve «riprodurre l’eterna e incessante creazione del mondo». Alla
pittura di paesaggio che è un’arte interamente moderna, sconosciuta
all’Antichità, si aprono prospettive amplissime per il futuro, a patto però
che essa non si fraintenda come mera pittura sentimentale, ma cerchi invece
un rapporto profondo («orfico», lo definisce Carus, pensando attraverso
Goethe all’orfismo antico) con la natura, andando così al di là di se stessa
e superando il contrasto e la divisione tra scienza della natura e arte della
natura, diventando, insomma, non semplice pittura di paesaggio ma
Erdlebenbildniskunst, arte della rappresentazione della vita terrestre73.
Qualcosa di non troppo dissimile si potrebbe osservare anche per il più
grande paesaggista inglese dell’Ottocento, Turner, e per il suo instancabile
difensore sul piano teorico, ossia John Ruskin. Anche per Ruskin il
paesaggio è un’arte nuova, che a lungo ha errato per strade senza sbocchi
prima di trovare in Turner il suo grande profeta. E anche per Ruskin la
vera pittura di paesaggio è sempre più che mera pittura, è conoscenza
della verità della natura, una verità che sta al di là delle distinzioni usuali
tra scienza e arte, e che sola ci consente di approssimarci alla grandezza
inarrivabile della natura. La quale, per Ruskin, è sempre più perfetta di
ogni sua raffigurazione artistica: «Non c’è frammento di roccia viva, né
ciuffo d’erica, che non sia una manifestazione dell’opera di Dio degna di
ammirazione. Le armonie del colore tra i licheni sono migliori di quelle
ottenute da Tiziano. I crocchi intrecciati di campanule ed erica sono
migliori di tutti gli arabeschi del Vaticano, non hanno bisogno di
miglioramenti, di modifiche, nemmeno di alterazioni, di nulla se non di
amore, cosicché un pittore non avrà mai bisogno di ripetersi, se solo sarà
sincero»74.
Ma il Romanticismo non conosce soltanto il passaggio dalla scienza
all’arte, bensì anche quello, inverso e complementare, dall’arte alla
scienza. Ne fornisce l’esempio più cospicuo e più splendido l’opera del
grande geografo, esploratore e scienziato Alexander von Humboldt, che
sa unire nel modo per noi oggi più inusitato e sorprendente non solo
l’efficacia dell’esposizione letteraria all’esattezza e alla varietà delle
cognizioni scientifiche, ma, più in profondità, la fascinazione estetica
della natura con la sua sistematica esplorazione empirica. Nelle opere di
Humboldt, le Ansichten der Natur (‘Vedute’ o ‘Quadri’ naturali), e
soprattutto la grande summa Kosmos, sono ancora indivise, o meglio
sempre collaboranti, percezione estetica e sguardo scientifico, geografia,
geologia, botanica e zoologia non si oppongono al godimento estetico
della natura ma lo sostanziano. Lo scopo delle Ansichten, chiariva l’autore
nella prefazione alla terza edizione dell’opera, è quello di «descrivere la
natura in maniera tale da restituire il più possibile il piacere immediato
della visione e al tempo stesso contribuire, sulla base dell’attuale stato
della scienza, a una maggior comprensione dell’armonico nesso che
governa l’agire delle forze naturali», e insomma di unire «l’intento
letterario con uno puramente scientifico», «accendere la fantasia e al
tempo stesso arricchire la vita delle idee attraverso la crescita del sapere»75.
La trattazione estetica della storia naturale, in Kosmos, muove dunque
innanzi tutto dall’esame dei vari tipi di «piacere della natura» familiari a
chiunque abbia con essa un qualche rapporto, anche non scientifico, e
non ritiene superfluo un esame del modo in cui la relazione con la natura
si è sviluppata nelle varie epoche (forse il primo tentativo di tal genere che
sia stato intrapreso, e ancora oggi istruttivo); ma tutto questo può avvenire
proprio perché si tratta di cogliere «la natura vivente nella sua sublime
grandezza». Anche per Humboldt, come per i romantici, la natura non è
morto aggregato, è un tutto animato da una tensione interna, in cui il
particolare può ricevere luce solo dalla totalità, giacché l’intento è quello
di fornire «un universale quadro naturale come sinossi dei fenomeni del
cosmo»76.
E tuttavia il Romanticismo non è soltanto celebrazione dell’esteticità
della natura. È anche l’esatto contrario, ossia l’epoca nella quale la bellezza
artistica si rende indipendente dalla bellezza naturale e la subordina a sé,
fino a eliminarla completamente. L’eclissi del bello naturale, che sul piano
della teoria dominerà nei due secoli seguenti, fino a tempi recentissimi,
ha qui le sue radici: la riflessione estetica dell’Otto- e Novecento sarà
completamente cieca nei riguardi della bellezza naturale: la irriderà, la
condannerà, la negherà.
Le premesse per questa rimozione si annidano già nell’abbandono del
principio di imitazione, che il Romanticismo porta a compimento, dopo che
l’estetica settecentesca lo aveva indebolito, ma non eliminato. Infatti l’idea
che l’arte imiti la natura aveva fondato, per oltre due millenni, la
convinzione che la bellezza dell’arte dipendesse da quella della natura, e che
quindi la natura fosse, in un certo senso, l’origine di ogni bellezza. I
romantici, revocando in dubbio il principio mimetico, liberano l’arte dalla
sudditanza verso la natura, ma così facendo aprono la strada alla
convinzione che la bellezza naturale sia secondaria, o addirittura
superflua. Il primo passo su questa via viene mosso da un autore che sta
alle soglie del Romanticismo vero e proprio, Karl Philipp Moritz, che in
un saggio del 1788 osserva che l’arte è bella perché riproduce non la
natura, cioè questo o quell’oggetto naturale, ma l’attività stessa della natura
in quanto creatrice. Dunque l’imitazione non riguarda la natura naturata,
quanto piuttosto la natura naturans, e ciò che si imita non sono i prodotti,
ma l’energia formatrice della natura77. I sarcasmi con i quali August
Wilhelm Schlegel, pochi anni dopo, liquida la teoria tradizionale
dell’imitazione si basano proprio su quest’idea moritziana: che l’arte imiti
la natura significa che essa, «autonomamente creatrice come la natura»,
deve formare «opere dotate di vita». Perciò il principio tradizionale
dell’imitazione deve essere rovesciato, e non si deve dire che la natura,
nell’arte, funge per l’uomo da norma, bensì, tutt’al contrario, che
«l’uomo, nell’arte, è norma per la natura»78. Che l’arte non dipenda dai
modelli naturali empirici, ma si rifaccia a una legalità più originaria, dalla
quale la stessa natura dipende, è anche la convinzione di Schelling, esposta
nello scritto del 1807 Sul rapporto delle arti figurative alla Natura. L’arte è una
forza produttrice simile alla natura, e perciò l’artista deve allontanarsi dai
prodotti naturali e avvicinarsi alla capacità creativa che sta dietro di essi:
solo così creerà qualcosa di veramente vivo79.
Ma colui che trarrà le conseguenze più radicali dal superamento del
principio di imitazione è un pensatore meno noto, ma non meno
importante, Karl Solger. «Il bello – afferma – dipende dall’arte, che è la
sua fonte». Sono passati pochi anni, ma si è compiuta una rivoluzione
completa: la fonte della bellezza è l’arte, non più la natura, dunque la
bellezza dipende dall’arte, non dalla natura, e l’arte è assolutamente libera.
«Come il diritto di natura è una semplice chimera, ed un diritto esiste
solo nello stato, prodotto dalla libera effettualità della coscienza, così non
esiste neppure il bello naturale. Si potrebbe obiettare che spesso noi
osserviamo anche la natura dal punto di vista della bellezza, senza pensare
in questo caso all’arte. Il dubbio con ciò sollevato si supera se si ricorda
che esiste un punto di vista dal quale noi consideriamo anche la natura
come prodotto artistico, come il prodotto di un’arte divina»80.
Una prima conseguenza di questa trasformazione si opera all’interno
della stessa disciplina che, tradizionalmente, si occupava dei problemi
della bellezza e dell’arte. L’estetica, che era stata battezzata così soltanto
nel Settecento, e il cui nome (che significa, letteralmente, teoria della
sensibilità) si riferisce alla percezione della bellezza, indipendentemente
dalla sua scaturigine naturale o artificiale, si ritrova sempre di meno in
questa denominazione lata, e si autocomprende sempre più come filosofia
dell’arte, quasi che essa possa essere identificata innanzi tutto a partire dal
suo oggetto, e che questo oggetto sia soltanto l’arte. Schlegel scriveva i
passi che abbiamo citato in un’opera che intitolava Dottrina dell’arte;
Schelling è il primo a chiamare la propria estetica (o meglio le lezioni che
teneva sull’argomento), non Estetica ma Filosofia dell’arte. Schleiermacher
dice «la nostra ricerca sarà principalmente teoria dell’arte», mentre Solger
mette subito le mani avanti: «L’estetica deve essere per noi una dottrina
filosofica del bello, o, meglio, una dottrina filosofica dell’arte, perché non
esiste un bello, nel senso pieno, al di fuori dell’arte»81.
Nei Romantici l’affrancamento dell’arte dall’imitazione della natura
trova un contraltare e un freno nella convinzione che la natura sia un
tutto vivente e animato; nel contemporaneo idealismo, non avvenendo
più neanche questo, e la natura risultando subordinata allo Spirito, non
c’è più remora ad affermare, in tutti i sensi, l’inferiorità della bellezza
naturale82. E infatti il verdetto sul bello naturale che più condizionerà
l’estetica successiva, segnandone la definitiva emarginazione, venne
proprio dal massimo rappresentante dell’idealismo tedesco, ossia Hegel.
Nella prima pagina della sua Estetica, in modo simile a quello che abbiamo
appena visto in altri autori, leggiamo: «la scienza che qui si intende
considera non il bello in generale, ma puramente il bello dell’arte»; il suo
vero nome, dunque, dovrebbe essere «filosofia dell’arte». E poi si
prosegue: «con questo nome noi escludiamo subito il bello naturale».
Questa esclusione non è una limitazione, bensì un acquisto. È vero,
infatti, che «nella vita quotidiana» siamo abituati a parlare di un bel cielo o
di un bel fiume, di animali belli e ancor più di uomini belli, «tuttavia si
può senz’altro affermare che il bello artistico sta più in alto della natura.
[...] Infatti la bellezza artistica è la bellezza generata e rigenerata dallo
spirito, e di quanto lo spirito e le sue produzioni stanno più in alto della
natura e dei suoi fenomeni, di tanto il bello artistico è superiore alla
bellezza della natura». Questa superiorità poi non è semplicemente
relativa, ma vale in assoluto, dato che «lo spirito solo è il vero, cosicché
ogni bello è veramente bello solo in quanto partecipe di questa superiorità
e da questa prodotto». Così è aperta la strada per considerare il bello
naturale come un semplice riflesso del bello artistico, «un modo
imperfetto, incompleto, che secondo la sua sostanza è contenuto nello
spirito stesso»83. A Hegel, del resto, sono stati attribuiti alcuni detti che
confermano appieno il suo disprezzo per la bellezza naturale, come quello
secondo il quale anche «il pensiero di un delinquente», come cosa
prodotta dallo spirito, è più bello di una bella cosa di natura, o l’altro che
vede nel cielo stellato, che riempiva il cuore di Kant di ammirazione,
soltanto «un’eruzione cutanea della volta celeste».
Ottocento e Novecento
Il bello naturale non esce però dalla scena dell’estetica senza qualche
strascico, che tuttavia ha più il carattere dell’epilogo comico che di quello
tragico. Proprio gli hegeliani infatti, parte fraintendendo il maestro, parte
sfruttando certe ambiguità che permangono nella posizione hegeliana, e
soprattutto nel testo dell’Estetica84, danno vita a una pedissequa e spesso
pedestre analisi estetica della natura. Così Friedrich Theodor Vischer,
nella sua mastodontica Estetica o scienza della Bellezza, del 1846, dedica
quasi trecento pagine alla bellezza naturale, cominciando con l’analisi
della natura inorganica (luce e colori, aria, acqua, terra e metalli) e
passando poi a quella organica, che è più bella della inorganica e che a sua
volta mostra un crescendo di bellezza nel passaggio dal regno vegetale a
quello animale e infine all’uomo. Karl Rosenkranz, nella sua per altri
versi notevole Estetica del Brutto, del 1853, prende la cosa dal versante
opposto, cioè da quello della bruttezza, ma sempre con lo stesso metodo,
ragione per cui la materia priva di vita non è né bella né brutta, le piante
sono più capaci di bellezza e bruttezza, ma soprattutto lo sono gli animali.
A scendere nei dettagli, si vedrebbero poi delle cose curiose. Per Vischer
sono brutti rospi e rane, ma brutti di quella specie del brutto che è il
comico, mentre gli uccelli sono generalmente belli, tranne il pellicano e il
pinguino. I mammiferi sono più belli ancora, ma formichieri e talpe non
lo sono, e meno che mai lo sono le foche, che egli trova «deformi». Per
Rosenkranz, tra le piante, sono brutte zucche, rape, barbabietole, mentre
nel regno animale «seppie, bruchi, ragni, rospi e roditori sono brutti, e
positivamente brutti». Bruttissimi sono gli esseri dall’aspetto ibrido, e in
particolare l’ornitorinco85. Non occorre aggiungere altro per capire come
mai, per lungo tempo, ogni discorso sulla bellezza naturale è apparso,
anche agli stessi estetologi, un insieme di fandonie e di assurdità.
Ben più pericoloso per le sorti dell’apprezzamento estetico della natura è
però una altro fenomeno che si compie nell’Ottocento, perché esso
riguarda non qualche teorico che pochi allora leggevano e che nessuno
oggi legge più, ma anzi l’opinione diffusa, direi una sorta di comune
sentire nell’ambito della bellezza naturale. Alludiamo a quella riduzione
(che è poi una trivializzazione dell’atteggiamento romantico verso la
natura e anche del sentimento della natura settecentesco) del rapporto con
la natura a rapporto sentimentale, in forza della quale quel che apprezziamo
nella natura non è più la natura, ma lo stato emotivo in cui essa ci pone.
Inizialmente, questa idea si presenta ancora con una certa dignità teorica,
perché espressa da artisti e diretta a spiegare l’atteggiamento dell’artista nei
confronti della natura. Chateaubriand scriveva nelle Memorie di oltretomba:
«Inoltre, ho un bel daffare per arrivare all’esaltazione alpina degli scrittori
di montagna, è fatica sprecata. [...] Ma le montagne non sono propizie alle
meditazioni, all’indipendenza, alla poesia? Lo riconosco; ma
intendiamoci bene: non sono le montagne esistenti quelle che crediamo
di vedere allora, sono le montagne quali le passioni, il talento e la musa ne
hanno tracciato le linee, colorato i cieli, le nevi, i picchi [...] Fatemi
amare, e vedrete che un melo isolato, battuto dal vento, buttato di
traverso in mezzo al grano della Beauce [..], tutte queste piccole cose,
collegate a qualche ricordo, prenderanno il fascino dei misteri della mia
felicità o della tristezza dei miei rimpianti. In definitiva, è la giovinezza
della vita, sono le persone che rendono belli i luoghi»86. Byron scrive
«and, for me / high mountains are a feeling», e Stendhal, nella Vita di
Henri Brulard: «Sono andato in cerca, con squisita sensibilità, della vista
dei bei paesaggi. È per questo che ho viaggiato. I paesaggi erano come un
archetto sulla mia anima».
Ben presto, però, l’idea si banalizza e finisce per essere applicata a
giustificazione della reazione di chiunque apprezzi una veduta naturale. La
celebre frase dal Journal Intime di Frédéric Amiel, secondo la quale un
paesaggio è uno stato d’animo («un paysage quelconque est un état de
l’âme, et qui lit dans tous les deux est émerveillé de retrouver la similitude
dans chaque détail»87), che a onor del vero ha presso il suo autore un
significato più profondo di quello che appare, viene presa a giustificazione
di ogni reazione puramente soggettiva di fronte alla natura88. La natura
stessa non conta più niente, conta soltanto la disposizione di spirito di chi
la osserva, che a sua volta sembra potersi muovere a suo libito: così è
aperta la strada per gran parte del Kitsch paesaggistico che infesterà l’arte,
per i paesaggi ‘da cartolina’ (e le cartoline vedutistiche nascono non per
caso proprio nella seconda metà dell’Ottocento), per la paccottiglia
sentimentale di tanta deteriore letteratura di viaggio. Gran parte dei
volumi sulla ‘Storia del sentimento della natura’ che si producono in
copia in questi decenni non ha altra base che questo atteggiamento
sentimentalistico, e si traduce in un regesto di impressioni soggettive
tratte per lo più dalla letteratura e dalla poesia del passato.
L’argomento idealistico circa l’inferiorità del bello naturale rispetto a
quello artistico e l’argomento psicologistico circa la proiezione nella
bellezza naturale dello stato d’animo soggettivo sono alla base del rifiuto
della bellezza naturale che l’estetica teorica elabora tra la fine
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, unendovi nei casi migliori
l’insofferenza per la banalizzazione del discorso sulla bellezza naturale che
ormai domina. Il figlio di Friedrich Theodor Vischer, Robert, sconfessa
implicitamente la teoria paterna sul bello naturale nello scritto Sulla
contemplazione estetica della natura, che può valere (e infatti storicamente è
valso) come paradigma dell’atteggiamento di tutte le estetiche dell’empatia
nei confronti del bello naturale. Del fatto che gli uomini si sentano in un
atteggiamento di scambio amichevole con la natura, e la osservino con
animo partecipe – scrive Vischer junior – non si può dubitare. Ma come
si possono spiegare simili impressioni? «Come accade che un paesaggio ci
sembri animato, come se in esso fosse contenuto qualcosa che si apparenta
al nostro sentire, anzi coincide con lui?». Può accadere per via di una
fusione della nostra personalità con i fenomeni naturali, una sorta di
trasposizione per la quale Vischer conia un termine destinato ad avere
ampia fortuna, Einfühlung, cioè appunto ‘empatia’, un sentire nell’altro da
sé, un trasporre il proprio sentimento nell’oggetto inanimato. Di questa
trasposizione fa fede anche il linguaggio: diciamo che la montagna sale
rapidamente verso la cima, che le acque si precipitano nella cascata, che i rami
si piegano sotto il peso dei frutti, e questo ‘si’ altri non è che il soggetto
osservatore che sottentra all’oggetto naturale, l’io contemplante che
compenetra la cosa contemplata. Il contenuto di un paesaggio è il nostro
stesso essere, prestato alla natura; il senso estetico fa esperienza della
natura come se in essa agisse lo Spirito, «ma il modo in cui essa ne fa
esperienza è illusione». È il senso estetico che produce per così dire
nuovamente la natura, per possederla fino in fondo, «che accumula colline
e montagne, le copre di boschi, leva, ramifica e riveste di foglie gli alberi,
stende i prati, dispiega le pianure, anima il tutto con l’aria e lo imbeve di
acqua, lo illumina di luce, lo accorda con forme e colori in una nuova
creazione tutta animata. Così per lui la natura diviene personale, egli
stesso diviene Natura». Ecco perché «la luce può apparire come l’intimità
dell’animo, il crepuscolo come presentimento e malinconia, la nebbia
come tristezza, la notte come sogno e come morte»89.
Il saggio di Georg Simmel sulla Filosofia del paesaggio non può certo essere
accusato di banalizzazioni teoriche. È anzi uno scritto importante, che
coglie la specificità dell’apprezzamento del paesaggio nella sua distinzione
dalla fascinazione estetica per la totalità naturale, e, senza sottovalutare il
problema del rapporto tra paesaggio effettivamente percepito e immagine
pittorica di esso, evita una semplicistica identificazione delle due cose («il
paesaggio come opera d’arte sorge come continuazione, intensificazione e
purificazione del processo in cui il paesaggio nel senso linguistico abituale
sorge in noi dalla mera impressione di singole cose della natura»). Eppure
anche per Simmel nel peculiare processo di unificazione dei fenomeni
naturali che origina il paesaggio un ruolo decisivo è giocato dallo «stato
d’animo», dalla Stimmung, cioè dalla tonalità di sentimento che al
paesaggio si collega. «Il paesaggio, diciamo noi, sorge in quanto alcuni
fenomeni naturali, che si estendono l’uno accanto all’altro, vengono
raccolti in un particolare tipo di unità, un’unità diversa da quella in cui
questo campo visivo si costituisce per il dotto che pensa secondo il
principio di causalità, l’adoratore della natura dotato di sensibilità
religiosa, l’agricoltore o lo stratega che perseguono i loro fini. Il più
rilevante fondamento di questa unità è certo quel che chiamiamo
Stimmung del paesaggio». Ciò costringe Simmel a chiedersi subito «con
quale diritto la Stimmung, che è esclusivamente un processo psichico
umano, è una proprietà del paesaggio, cioè di un complesso di cose
facenti parte della natura inanimata?» e se tale tonalità sentimentale può
avere un fondamento oggettivo, dato che essa può evidentemente trovarsi
«solo nel sentimento riflesso dell’osservatore». Tutto il resto del saggio è
un tentativo di sottrarsi a questa conclusione, che sembra obbligata. Ma
una volta avviatosi sulla china del sentimento, riesce difficile fermarsi.
«Non potrebbero in realtà la tonalità spirituale del paesaggio e la sua unità
visiva essere una cosa sola, soltanto vista dai due lati?». Questo è quel che
appunto si verifica, secondo Simmel, ma proprio perché il paesaggio «è
già una forma spirituale» che «vive solo grazie alla forza unificatrice
dell’anima». Accadrebbe del paesaggio come della poesia lirica,
«indipendente da ogni arbitrio e umore soggettivo come il ritmo e la rima
stessa». Ma Simmel trascura il fatto che la poesia lirica è una realtà formale
già costituita, mentre egli nega al paesaggio la capacità di costituirsi in
dato formale prima e indipendentemente da ogni investitura sentimentale.
Così quando egli vuole evitare le consuete trivialità dei paesaggi sereni o
tristi, eroici o monotoni, tempestosi o malinconici, non vi riesce del
tutto: «Ciò che qui si intende per tonalità spirituale di un paesaggio è
assolutamente e soltanto la tonalità di questo paesaggio, e non può mai
essere quella di un altro, anche se forse si possono raggruppare entrambe
sotto un concetto generale, per esempio sotto quello della malinconia»90.
L’esclusione più netta e più perentoria del bello naturale dall’orizzonte
dell’estetica si trova però in Benedetto Croce, per il quale negare
l’esistenza del bello naturale ha rappresentato «la liberazione da un grave
errore». Il bello di natura è «un semplice incidente della riproduzione
estetica», o tutt’al più uno «stimolo alla riproduzione estetica»; non esiste,
infatti, un «bello fisico», del quale il bello naturale farebbe ovviamente
parte91. Se esaminata più attentamente, la posizione di Croce si rivela in
realtà assai più complessa. Croce, negando il «bello fisico», vuole dire che
nessun oggetto materiale, sia esso naturale o artificiale (per esempio il
blocco di marmo che costituisce una statua), può essere detto bello per se
stesso: esso è solo l’occasione perché l’uomo compia un’esperienza
estetica. Da questo punto di vista, non ci sarebbe motivo per escludere
che il bello naturale, in modo analogo a quanto avviene per i «supporti
materiali» dell’opera d’arte, possa dare l’avvio ad autentiche esperienze
estetiche. E infatti Croce già nell’Estetica si lascia sfuggire che non bisogna
eccettuare «quei fatti estetici della fantasia, che si legano a oggetti dati in
natura», mentre nella assai più tarda Aesthetica in nuce può spingersi a
scrivere: «non c’è difficoltà ad ammettere siffatte ‘cose artistiche naturali’,
perché il processo di comunicazione poetica, come si attua con oggetti
artificialmente prodotti, così anche può attuarsi con oggetti naturalmente
dati»92. Queste aperture teoriche, però cozzano contro una preclusione
marcata verso la bellezza naturale, che prende ampiamente il sopravvento.
Il bello naturale non è veramente un fatto estetico, ma, in moltissimi casi,
un esempio di semplice ‘piacevole’ nel senso kantiano, come è piacevole
un cibo o un vino. «Chi chiama bella una campagna, in cui l’occhio
riposa sul verde e il corpo si muove alacre, e dove il tepido sole avvolge e
carezza le membra, non accenna a nulla di estetico». E come il piacevole
kantiano, il bello naturale non arriva alla vera intersoggettività, ma resta
sempre legato alla sfera soggettiva, alle idiosincrasie del singolo, riguardo
alle quali non ha senso disputare: «senza il concorso della fantasia, nessuna
parte della natura è bella, e, per tale concorso, secondo le varie
disposizioni d’animo, uno stesso oggetto o fatto naturale è ora espressivo
ora insignificante, ora di una determinata espressione ora di un’altra, lieto
o triste, sublime o ridicolo, dolce o beffardo». Lo «stimolo alla
riproduzione estetica» fornito dal bello naturale è accidentale, imperfetto,
equivoco: «ciascuno riferisce il fatto naturale all’espressione che gli sta in
mente»93. Persino il brano insolitamente aperto dell’Aesthetica in nuce
citato prima, prosegue: «vero è che queste formazioni [le cose belle di
natura] sono labili: la celia talvolta le dissipa, la sazietà le lascia cadere, il
capriccio della moda le sostituisce; e, diversamente dalle opere artistiche,
non consentono interpretazioni autentiche. Il golfo di Napoli, visto
dall’alto di una delle più belle ville del Vomero, fu dopo qualche anno
d’indistornabile visione, dichiarato dalla dama russa che aveva acquistato
quella villa, une cuvette bleue [una bagnarola azzurra], così odioso nel suo
azzurro inghirlandato di verde, da indurla a vendere la villa»94.
Comunque sia, Simmel e Croce consideravano ancora il bello naturale
come un problema. Quasi tutta la filosofia successiva, invece, esprimerà il
proprio parere sulla questione nel modo più drastico e inappellabile, ossia
semplicemente ignorandola. Non è facile trovare un libro novecentesco di
estetica che faccia parola del bello naturale e ne discuta lo statuto. Per i
più, silenzio completo. Persino i pochissimi che qualche accenno lo
fanno, si esprimono in modo così cursorio, così flebile, da rafforzare
piuttosto che smentire l’opinione corrente, che del bello naturale non vale
la pena di occuparsi. In Italia, dove pure gli studi di estetica, grazie al
magistero crociano, sono a lungo fiorenti, nessuno si occupa del bello
naturale95. Tutta la filosofia di impronta idealistica, del resto, dà il
problema del bello naturale per archiviato. Ma la tradizione marxista non
è da meno.
In tutta la Critica del Gusto del più importante tra i marxisti italiani,
Galvano della Volpe, si accenna alla bellezza naturale solo una volta, e per
deplorare l’atteggiamento ‘barbarico’ di chi non distingue tra opere d’arte
e bellezze naturali. La grande estetica di Lukács, non diversamente da
quella di Croce, apparenta il bello naturale ai fatti di mero piacevole, ed è
persino più netta nel rifiutare la bellezza non artistica: «Neghiamo che i
rapporti degli uomini con la natura e le esperienze di natura abbiano
carattere estetico». È sbagliato anche considerare il bello naturale una
forma inferiore di piacere estetico, giacché «nell’impostazione gerarchica,
quale che sia la soluzione prescelta, questa è anticipata dogmaticamente,
perché qualsiasi coordinamento estetico-gerarchico di bellezza naturale e
di bellezza artistica trasforma entrambe le sfere in parti di un’estetica
unitaria», e questo, a parere di Lukács è un errore. Non resta che
concluderne che «come categoria dell’estetica [...] la bellezza naturale può
creare soltanto confusione filosofica, e non solo nell’estetica, ma anche
nell’etica, nel modo di concepire secondo verità la vita umana»96.
Ma nemmeno presso i teorici anglo-americani di impostazione analitica
la bellezza naturale trova udienza. Anzi, proprio perché questi ultimi
intendono l’estetica come analisi linguistica del linguaggio della critica
d’arte o comunque dei fatti artistici, l’esclusione del bello naturale si attua
ancora più radicalmente, impedendo una qualsiasi tematizzazione che lo
riguardi. In un bilancio complessivo (Filosofia analitica inglese, del 1966),
poteva trovare posto un saggio di Ronald W. Hepburn dal titolo
sintomatico Declino dell’interesse per la bellezza naturale nell’estetica
contemporanea, in cui l’autore esordiva notando che «Oggigiorno gli scritti
di estetica si occupano quasi esclusivamente delle arti e molto raramente
della bellezza naturale, o, se se ne occupano, lo fanno nel modo più
sbrigativo». Infatti «i cultori delle analisi linguistiche e concettuali sono
stati tentati, ed è cosa comprensibile, di applicare le loro tecniche prima di
tutto alle argomentazioni, alle contro argomentazioni e ai ‘manifesti’ a
portata di mano negli scritti dei critici d’arte»97. Il sottotitolo della
Aesthetics di Monroe C. Beardsley, uno dei più influenti trattati di estetica
in lingua inglese, che suona Problems in the Philosophy of Criticism, può
valere come conferma. L’avversione per la bellezza naturale supera anche i
confini, altrove asperrimi, tra filosofi ‘continentali’ e filosofi ‘analitici’.
Eppure risulta difficile pensare che gli unici responsabili del discredito
del bello naturale siano i teorici dell’estetica. È far troppo credito alla loro
influenza ritenere che sia soltanto colpa loro l’eclissi della bellezza
naturale che si può constatare in tanta parte del gusto e della cultura
novecentesche. Se responsabilità e colpa vi è stata, l’estetica non può
essere lasciata sola su questo immaginario banco degli imputati, e si
impone una chiamata di correo nei confronti dell’arte. Non solo la teoria
ma anche la pratica artistica è implicata, anche l’arte moderna (diciamo,
ancora una volta, dal Romanticismo in poi) ha contribuito a scavare il
solco che ci separa dalla bellezza naturale, che ci rende impossibile
scorgerla e, a maggior ragione, comprenderla. Anche l’arte ha guardato
alla bellezza della natura come a un inganno facile, buono per artisti di
second’ordine. Anch’essa ci ha insegnato a diffidare. E, insegnandoci a
diffidare, ha rinunciato a insegnarci a vedere. La nostra percezione della
bellezza naturale, in un circolo perverso, è stata costretta a educarsi – a
corrompersi – sulle esibizioni turistiche dei ‘bei panorami’, sulle
immagini facili della pubblicità, sui richiami troppo gastronomici di certi
film con grandi albe e splendidi tramonti.
C’è di più. Almeno in un suo largo ambito, l’arte moderna (e questa
volta si può prendere l’aggettivo in senso forte: l’arte del moderno) si è
deliberatamente voluta presentare come anti-natura. Ha voluto, cioè,
accentuare appunto il dato della propria artificialità in opposizione a ogni
possibile rapporto con la natura. Ha voluto rivendicare a merito e onore
la sua capacità di costruire un mondo totalmente altro, che sapeva fare
interamente a meno del mondo naturale. Ha voluto ribadire che sua
bellezza è tutta un fatto di costruzione, non chiede nulla alla natura. C’è
una linea della poesia moderna, che va da Baudelaire a Valéry in cui tutto
questo si vede chiaramente. Si pensi alla lettera di Baudelaire a Desnoyer:
«Mi chiedi versi per il tuo libricino. Versi sulla natura, non è vero? sui
boschi, le grandi querce, il verde, gli insetti – di sicuro perfino sul sole!
[...] Ma io non sarò mai capace di credere che l’anima degli dei viva nelle
piante [...] e anzi ho sempre pensato, piuttosto, che la natura che fiorisce e
si rinnova abbia in sé qualcosa di impudente e di rivoltante». Ma anche al
suo sogno parigino, a quel paesaggio da cui Baudelaire aveva bandito «le
végétal irrégulier» e, pittore fiero del suo genio, assaporava nel suo quadro
«l’enivrante monotonie / du métal, du marbre et de l’eau»98.
L’elogio dell’artificialità e il sospetto verso la bellezza naturale come roba
da filistei del gusto è caratteristico anche del movimento che va sotto il
nome di estetismo. Des Esseintes, protagonista del romanzo di Huysmans
A Rebours, ama i fiori finti, i pesci meccanici; fa fabbricare una corazza
d’oro per la propria tartaruga, ed è convinto che «la natura ha fatto il suo
tempo: essa ha per sempre stancato con la stucchevole monotonia dei suoi
paesaggi e cieli la pazienza e l’aspettativa dei raffinati»99; Oscar Wilde non
perde occasione per mettere alla berlina (spesso con buone ragioni, del
resto) gli amanti della bella natura e teorizza la dipendenza della natura
dall’arte. «Ci dicono che l’arte ci fa amare la natura più di quanto
l’amassimo prima; [...] la mia esperienza invece è che più studiamo l’arte
meno ci importa della natura. Quello che l’arte veramente ci rivela è la
mancanza di disegno della natura, le sue curiose crudezze, la sua
straordinaria monotonia, la sua condizione assolutamente incompiuta». È
la natura, secondo Wilde, a imitare l’arte: «L’arte è la nostra protesta, il
nostro baldo tentativo di insegnare alla natura a stare al suo posto. Quanto
alla infinita varietà della natura, questa è un puro mito. Non la si trova
nella natura stessa. Risiede nella immaginazione, o fantasia, o coltivata
cecità dell’uomo che la guarda»100.
Certamente però chi ha più contribuito al discredito della bellezza
naturale è stata l’Avanguardia. L’anti-naturalismo è uno dei tratti genetici
dell’avanguardia storica, ed essa si propone come linguaggio interamente
autonomo, autoreferenziale, capace di costituirsi secondo leggi tutte
proprie. Se poi si va in cerca di dichiarazioni aperte, anzi plateali, basterà
rivolgersi al nostro Futurismo e ai suoi corrispondenti europei. Umberto
Boccioni scrive Contro il paesaggio e la vecchia estetica: «non posso pensare
senza disgusto e compassione che esistono società per la conservazione del
paesaggio. Per la conservazione, si noti bene, di quello che la stampa e i
quadri antichi ci hanno lasciato di certi luoghi [...]. Il paesaggio è stato
creato dagli artisti e conservarlo è panmuseismo, è un voler mettere un
tourmiquet alla natura e darla a tutti un giorno per un franco; la
domenica, entrata libera!»101. Toni quasi identici in Fernand Léger, per il
quale le società a protezione del paesaggio sono «stupéfiantes et ridicules»,
sono «un aeropago di brave persone incaricate di decretare solennemente
che la tal cosa sta bene nel paesaggio e l’altra no. Tanto varrebbe allora
sopprimere subito i pali telegrafici e le case, e non lasciare che degli alberi,
delle dolci armonie d’alberi». Bisogna riconoscere che «ferrovie e
automobili, con i loro pennacchi di fumo o di polvere hanno preso per sé
tutta la dinamica, e il paesaggio diventa secondario e decorativo»102.
La cosa veramente sorprendente, comunque, non è che arte ed estetica
siano solidali nella polemica contro il bello naturale. Quel che è più
degno di nota è il fatto che mentre le tendenze artistiche e le riflessioni
teoriche relegano ai margini l’apprezzamento della bellezza naturale,
quest’ultimo, per altro verso e su differenti piani, conosce una diffusione
che non aveva mai avuto in precedenza, diventa un fenomeno sociale,
culturale e politico rilevante. Il gusto estetico per la natura acquista un
ruolo e un peso impensabili in qualunque società del passato. Avevamo
accennato che la storia della bellezza naturale ci avrebbe messo di fronte a
discrasie evidenti tra il piano della teoria e quello del gusto. Qui ne abbiamo
una ulteriore, palesissima prova. L’Ottocento, ma soprattutto il
Novecento, sono i secoli nei quali la teoria del bello naturale è quasi
inesistente, in cui anzi la filosofia nega sistematicamente la possibilità di
parlare di bellezza naturale, ma sono insieme i due secoli nei quali del bello
naturale più si parla.
L’Ottocento non è solo il secolo in cui la rivoluzione industriale si
estende dall’Inghilterra ai paesi più progrediti d’Europa e agli Stati Uniti.
È anche, e per lo stesso motivo, il secolo in cui si cominciano a considerare la
tecnica, l’industria e l’urbanizzazione dei pericoli per la natura. E ‘per la
natura’ vuol dire, in quest’epoca, non soltanto e non tanto per quelli che
oggi chiameremmo gli equilibri ecologici, ma anche e in primo luogo per
la bellezza della natura. L’interesse per il paesaggio comincia a correlarsi
con la protesta per i danni che esso subisce. Il caso di Ruskin è
emblematico. In lui, l’amore per la bellezza naturale si accompagna e si
alimenta con l’indignazione per gli scempi che comincia a patire. «Il
paesaggio fino ad ora è stato per lo più trascurato dai grandi uomini, o
relegato in secondo piano. E ora sembra che ci stia a cuore, in parte per i
nostri errori, e in parte per circostanze accidentali, perché presto con ogni
probabilità svanirà», leggiamo nei Modern Painters103, mentre in Sesamo e i
gigli troviamo questa invettiva: «avete disprezzato la natura, cioè tutte le
profonde e sacre sensazioni delle bellezze naturali. I rivoluzionari francesi
ridussero a stalle le cattedrali della Francia; voi avete fatto terreni da corsa
delle cattedrali della terra. [...] Non vi è più in Inghilterra una quieta valle
che non abbiate riempito di fuoco strepitante; non v’è rimasta particella di
terra inglese nella quale non abbiate inoculata la cenere del carbone»104.
Le prime associazioni per la difesa del paesaggio e della natura sorgono
nella seconda metà dell’Ottocento, sempre con motivazioni che sono
insieme estetiche e naturalistiche. Nascono i Club Alpini, le associazioni
turistiche. Nei primi decenni del Novecento, in Gran Bretagna, il
National Trust si batte per la conservazione di «quel che è bello e solitario
in Inghilterra», e annovera tra i suoi membri più attivi lo storico George
Macaulay Trevelyan, autore di scritti come The Call and Claims of Natural
Beauty e Must England’s Beauty Perish?, rispettivamente del 1931 e del
1929. Verso la fine dell’Ottocento fanno la loro comparsa i primi tentativi
di legislazione a tutela del paesaggio, nei quali per lo più i criteri guida
sono estetici, piuttosto che biologico-ambientali. Le più avanzate nazioni
europee si sono quasi tutte dotate di strumenti a questo scopo tra la fine
del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo.
Anche l’istituzione dei primi parchi nazionali costituisce una riprova di
questo intreccio spesso indistricabile tra motivazioni estetiche e
motivazioni ecologiche. La prima nazione a istituire dei parchi nazionali
sono gli Stati Uniti. Il parco di Yellowstone nasce nel 1872; seguono
Yosemite e il Grand Canyon National Park. Agisce qui una sorta di
consacrazione pubblica dell’ideologia della wilderness, così che l’immagine
estetica della natura di un paese diventa uno dei collanti della sua unità
anche politica105. Ma poi parchi nazionali sono rapidamente istituiti in
paesi del Commonwealth e, a partire dall’inizio del Novecento, in
Europa, cominciando dalla Svizzera e dall’Austria. Nel 1896 Charles
Eliot, rovesciando in positivo la terminologia di Ruskin, osserva che «le
riserve paesaggistiche sono le cattedrali del mondo moderno».
Caratteristicamente, l’Italia segue le stesse tappe, ma con un ritardo
temporale che si spiega agevolmente col più lento sviluppo del paese. Il
Club Alpino Italiano viene fondato nel 1863, mentre dell’anno 1894 è la
fondazione del Touring Club Italiano. Nel 1906 nasce a Bologna
un’Associazione nazionale pei paesaggi e monumenti pittoreschi d’Italia,
che confluisce qualche anno dopo nel Touring Club. Sono gli stessi anni
nei quali cominciano ad affacciarsi le prime iniziative di legge a tutela del
paesaggio (la prima in assoluto è quella del ministro dell’Agricoltura Rava
in difesa della pineta di Ravenna, del 1905), che di lì a poco sfoceranno
nella prima legge organica in materia, del 1923. Come vedremo nel
capitolo terzo, alla base di questa legislazione c’è sempre la valutazione
estetica del paesaggio, e motivazioni estetiche sono presenti anche nei
movimenti che portano all’istituzione dei primi parchi nazionali italiani,
quello del Gran Paradiso (1922) e quello d’Abruzzo (1923).
L’apprezzamento delle bellezze naturali è un grosso incentivo alla
diffusione del turismo. Certo, la progressiva massificazione del turismo si
attua su modelli ben lontani da quelli del grand tour dei signori del Sei-
Settecento. Le guide turistiche (i Baedeker dell’Ottocento o le guide TCI
che si cominciano a stampare nel 1913) indulgono spesso allo stereotipo
paesaggistico, alla esaltazione acritica della ‘veduta’ pittoresca, alla
scoperta di ‘punti di vista’ che diventano meta di pellegrinaggio. Criticare
il modo in cui la bellezza naturale è descritta nelle guide non è difficile. Il
grande critico d’arte Roberto Longhi se la prendeva con le guide TCI:
«La bellezza naturale non s’impone come a priori... Fissarla secondo le
probabilità dei gusti o dei temperamenti è un insulto alla natura stessa:
come è poca fiducia nella sua divina facoltà di mutazione credere che essa
tenga in serbo per i secoli dei secoli quei bei panorami che alla smania di
concisione della Guida del Touring si sono congelati senz’altro nei ‘bei pan.’
[...] Del resto sarebbe oltremodo interessante fare la storia dell’ipertrofia
tutta di origine snobistica e letteraria dell’ammirazione fittizia per le
bellezze naturali! Credo che sarebbe storia principalmente dell’ultimo
secolo»106. Ancora negli anni Cinquanta, Roland Barthes usava un
sarcasmo non troppo diverso per mettere alla berlina la predilezione della
Guide Bleu per i paesaggi pittoreschi107. C’è da chiedersi, però, se
quest’aria di superiorità sia in tutti i sensi giustificata, e se non si dovrebbe
tenere conto del fatto che l’esaltazione delle bellezze naturali contenuta
nelle guide turistiche è pur sempre un veicolo di conoscenza, che ha
contribuito a diffondere una sensibilità per il paesaggio, e quindi anche
per la sua tutela. Assistiamo qui a una dialettica costante nella percezione
della bellezza naturale. Come l’estensione del suo apprezzamento porta
con sé anche un crescente pericolo per la sua salvaguardia (la diffusione
dell’amore per la montagna significa anche presenze sempre più massicce
di turisti in zone prima non frequentate, e così via), allo stesso modo,
quando il gusto per la natura si fa di massa, esso inevitabilmente si
banalizza. La teoria, allora, è portata a registrare questa trivializzazione e a
farne un argomento contro la bellezza naturale in genere. Lasciato a se
stesso e disertato dall’estetica, il tema della bellezza naturale sembra
sempre più preda del Kitsch. Ma invece di prendere atto che l’antitesi tra
sentimento diffuso della natura e silenzio dell’estetica sul bello naturale è
una questione aperta, la teoria ne ha fatto un ulteriore argomento a favore
della sua fin de non recevoir.
C’è solo un autore che abbia visto con chiarezza che dietro il rifiuto
teorico della bellezza di natura si cela un problema. Nella sua Teoria
estetica, Theodor Adorno ha riproposto con forza la questione del bello
naturale, non per discettarne asetticamente (come accade, per esempio,
nell’estetica di Nicolai Hartmann), ma per chiedersi che cosa ne sia, oggi,
della considerazione estetica della natura. In questa prospettiva, egli ha
incontrato innanzi tutto il rifiuto teorico del bello naturale: «A partire da
Schelling, la cui estetica si chiama Filosofia dell’arte, l’interesse estetico si è
accentrato sulle opere d’arte. Il bello naturale [...] in pratica non
costituisce più un tema per la teoria. [...] Esso è stato rimosso». Ma per
quanto le discussioni sul bello naturale appaiano «codine, noiose,
antiquate», l’estetica «non può rinunciare alla riflessione sul bello
naturale»108. La banalizzazione del bello naturale, di cui Adorno è ben
consapevole («col bello naturale succede lo stesso che con l’istruzione,
esso viene svuotato dall’inevitabile conseguenza del suo ampliamento»;
«chi parla del bello naturale si avvicina alla soglia della poesia anale»109)
non elimina il problema, anzi lo rafforza. «Sentire la natura, addirittura
poi il suo silenzio, è diventato un privilegio, e questo a sua volta
valorizzabile commercialmente. Ma con ciò la categoria del bello naturale
non è condannata e basta. La ripugnanza a parlarne è al culmine là dove
sopravvive l’amore per essa». Adorno, è bene chiarirlo, non crede affatto
che il bello naturale ci apra un rifugio o una via di fuga fuori dalla storia.
La natura, per lui, non è l’Altro in assoluto, ma l’altro dalla storia, e
quindi storica essa stessa («il bello naturale che si pretende astorico ha il
suo fondo storico; tale fatto da una parte lo legittima, dall’altra e nella
stessa misura ne relativizza il concetto»); né Adorno chiude gli occhi di
fronte alla realtà della continua influenza dell’arte sulla percezione del
bello naturale («Quanto strettamente il bello naturale sia intrecciato con
quello artistico appare nell’esperienza che si ha del primo»), o sul
semplicismo dell’antitesi corrente tra tecnica e natura.
Ma tutto questo, lungi dallo svuotare il discorso sul bello naturale, è ciò
appunto che lo sottrae al bamboleggiamento e alla idiozia dell’idillio,
insomma ciò che ne «rimette in movimento» il concetto fissato. Hegel
non ha visto che con il suo rifiuto del bello naturale si è preclusa la via per
capire qualcosa di essenziale per la bellezza in genere. «Il limite che Hegel
obiettava al bello naturale, cioè il suo sottrarsi al concetto preciso e stabile,
è la sostanza stessa del bello». A Hegel, dunque, «manifestamente mancò
l’organo per capire che un’esperienza genuina dell’arte non è possibile
senza l’esperienza di quello strato, per quanto difficile esso sia da cogliere,
il cui nome di bello naturale è divenuto insipido». Dire che l’arte plasma
la nostra percezione della natura è del tutto vero, ma non deve impedirci
di vedere in che misura sia vero anche il contrario: «Se si esamina il
rapporto dell’arte con la natura lo si trova tanto mediato quanto il
rapporto inverso». L’«aurorale indeterminatezza» del bello naturale, il
fatto che in esso parli una «lingua enigmatica» rendono sdrucciolevole e
rischioso ogni discorso sul bello naturale. Il sospetto di banalità è sempre
in agguato per chi parla di bellezza naturale o, peggio, vuole fissarne i
criteri. Del resto altrettanto impossibile, agli occhi di Adorno, è la
rappresentazione del bello naturale, la sua traduzione artistica: «la natura,
come bellezza, non si lascia riprodurre [...] La reazione, per nulla
esoterica, di chi sente come pacchiana la landa lilla o addirittura un
quadro del Monte Cervino va molto al di là di soggetti tanto esposti a
critica: ciò che in questa reazione prende vita è l’irriproducibilità del bello
naturale tout-court». Qui parla, evidentemente, il teorico
dell’Avanguardia. Che però non dispera di poter ritrovare, su un piano
diverso, quel rapporto che ha appena negato: «Tramite la
spiritualizzazione da cui nel corso degli ultimi duecento anni è stata
investita e grazie alla quale è divenuta maggiorenne, l’arte non si è resa
estranea alla natura, come vorrebbe la coscienza reificata, e invece con la
propria stessa configurazione si è avvicinata al bello naturale»110.
La Teoria estetica di Adorno, scritta negli anni immediatamente
precedenti la prematura scomparsa del filosofo, apparve, postuma, nel
1970. Di lì a poco, come vedremo nel prossimo capitolo, si tornò a
parlare di bello naturale. Nell’ultimo quarto del Novecento sono usciti
più libri sull’argomento che in tutto il resto del secolo. Ma non bisogna
precipitarsi ad attribuire alle pagine adorniane un qualche valore
premonitore. La bellezza naturale è tornata per tutt’altre strade da quelle
che Adorno avrebbe immaginato. A riproporla è stata non tanto la filosofia,
quanto l’ecologia. La voga dell’estetica ambientale è una conseguenza
(marginale) non della critica filosofica ma dell’affermazione dei
movimenti ambientalisti. Come spesso accade nella storia delle idee, i cui
percorsi sono tortuosi, il problema della bellezza naturale tornava
seguendo strade sue proprie, diverse da tutte quelle battute in precedenza.
1
Platone, Timeo, 28a-29a; trad. it. di C. Giarratano, Laterza, Roma-Bari 1973
(Platone, Opere complete, vol. VI).
2
Ivi, 87c.
3
G.W.F. Hegel, Estetica, trad. it. Einaudi, Torino 1972, pp. 136 sgg.: «La morta
natura inorganica non è conforme all’idea, e solo la natura vivente organica è una
realtà di essa».
4
Sulla predilezione per il vivente si veda W. Perpeet, Über das lebendig Schöne, in
«Studium generale», 13 (1960), pp. 324 sgg. In una prospettiva completamente
diversa, la biologia e la sociobiologia hanno spesso sottolineato la presenza, nel
bambino e nell’uomo, di un’innata inclinazione per il vivente. Si veda E.O.
Wilson, Biophilia. The Human Bond with Other Species, Harvard University Press,
Cambridge (Mass.)-London 1984; si veda anche K. Richter, Die Herkunft des
Schönen. Grundzüge der evolutionären Aesthetik, Philipp von Zabern, Mainz 1999, pp.
311-12.
5
Cfr. Vitruvio, I dieci libri dell’architettura, I, 2 e III, 1.
6
N. Hartmann, Aesthetik, De Gruyter, Berlin 1966, pp. 132-41.
7
Aristotele, Poetica, 1448b 9-13.
8
V. de Laprade, Le Sentiment de la Nature avant le Christianisme, Didier et Cie, Paris
1866; A. Dauzat, Le Sentiment de la Nature et son expression artistique, Alcan, Paris
1914; A. Biese, Die Entwicklung des Naturgefühls bei den Griechen, Lipsius & Tischer,
Kiel 1882. Cfr. anche, in italiano, L. Pignatelli di Monteroduni, Saggio sul
sentimento della Natura, Sandron, Palermo 1905, e, in inglese H.R. Fairclough, Love
of Nature among the Greeks and the Romans, Longman, White Plains 1930.
9
Platone, Fedro, 230b-d; Pseudo-Longino, Il Sublime, trad. it. di G. Lombardo,
Aesthetica, Palermo 1987, p. 60 (XXXV): «Ecco perché noi siamo naturalmente
portati ad ammirare non i piccoli corsi d’acqua – pur così limpidi e utili – ma il
Nilo, l’Istro, il Reno e ancor più l’Oceano. E la fiamma che noi accendiamo e che
sa conservare senza spegnersi il suo chiarore non ci colpisce più dei fuochi celesti,
che pure spesso s’oscurano; né la consideriamo degna d’ammirazione più dei
crateri dell’Etna, le cui eruzioni succhiano dall’abisso macigni e intere rupi,
riversando talvolta fiumi di quel fuoco spontaneamente nato dalla terra».
10
A. Berque, Les raisons du paysage. De la Chine antique aux environnements de
synthèse, Hazan, Paris 1995.
11
Cfr. M. Venturi Ferriolo, Giardino e filosofia, Guerini, Milano 1992, pp. 27 sgg.
12
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXV, 116: «[pinxit ille] villas et portus ac
topiaria opera, lucos, nemora, colles, piscinas, euripos, amnes, litora...» («[dipinse]
ville e porti e giardini, boschetti sacri, foreste, colline, piscine, canali, fiumi e
spiagge»); Vitruvio, I dieci libri dell’Architettura, libro VII, cap. 5: «pinguntur enim
portus, promontoria, litora, flumina, fontes, euripi, fana, luci, montes, pecora,
pastores...»
13
Orazio, Epistole, I, 10; Plinio il Giovane, Epistole, IX, 7; V, 6; II, 17. Si veda
anche quanto scrive E. Sereni in Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-
Bari 1996, pp. 59-61 (Il ‘bel paesaggio’ della villa urbana): «Già in Varrone è
perfettamente chiara la preoccupazione per una forma del paesaggio agrario che
non mira esclusivamente alla utilitas (come egli scrive) ma anche alla soddisfazione
di esigenze estetiche e di diletto (venustas, voluptas, delectatio)».
14
Ciò è evidente, per esempio, nelle descrizioni di paesaggi e di luoghi naturali
contenute nella Periegesi della Grecia di Pausania (II secolo d.C.).
15
S. Said, Le paysage des idylles bucoliques, in M. Collot (a cura di), Les enjeux du
paysage, Ousia, Bruxelles 1997, pp. 13-31; e cfr. pp. 18-19: «Loin d’être la
représentation d’un lieu réel, le paysage bucolique serait donc un objet purement
littéraire et artificiel».
16
Cfr. in proposito, H. Cueco, Approches du concept de paysage, ora in A. Roger (a
cura di), La théorie du paysage en France, Champ Vallon, Seyssel 1995.
17
Un’ampia dimostrazione di questo assunto riferita al periodo 1500-1800, è il
volume di K. Thomas L’uomo e la natura. Dallo sfruttamento all’estetica dell’ambiente,
trad. it. Einaudi, Torino 1994.
18
Dante, Commedia, Inferno, XX, 61-62; XXX, 64-66.
19
Riportiamo la trad. it. di U. Eco: «Ogni creatura dell’universo / quasi fosse un
libro o un dipinto / è per noi come uno specchio: /della nostra vita, della nostra
morte, / della nostra condizione, della nostra sorte / fedele segno. // La rosa
rappresenta il nostro stato, / leggiadra glossa della nostra condizione, /
interpretazione della nostra vita; / che mentre è fiorente nel primo mattino, /
finisce, sfiorito fiore, con la vecchiaia della sera».
20
Sulla percezione della natura nel Medioevo: F. Ferrand, Le paysage dans la
littérature médiévale des XIIe et XIIIe siècles, in Collot (a cura di), Les enjeux du paysage,
cit., pp. 54-74; C. Deluz, Sentiment de la Nature dans quelques récits de pélerinage au
XIVe siècle, in Etudes sur la sensibilité au Moyen âge, C.T.H.S., Paris 1979.
21
Agostino, De Ordine, I, 7 (trad. it. di M. Bettetini in Agostino, Ordine musica
bellezza, Rusconi, Milano 1992, p. 23).
22
Vincenzo di Beauvais, Speculum Maius, vol. I, Speculum Naturale, XXIX, XVII.
Su questo tema si veda U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Bompiani,
Milano 1987, pp. 25-27 e 39-41.
23
Ugo da San Vittore, Expositio in hierarchiam coelestem Sancti Dionysii, cit. in R.
Assunto, Die Theorie des Schönen im Mittelalter, Du Mont, Köln 1962, p. 201.
24
Agostino, Confessiones, X, 6, 8, trad. it. di C. Vitali. («Et dixi omnibus his, quae
circumstant fores carnis meae: ‘Dicite mihi de deo meo, quod vos non estis, dicite
mihi de illo aliquid. Et exclamaverunt voce magna: ‘Ipse fecit nos’. Interrogatio
mea intentio mea, et responsio eorum species eorum»).
25
Dante, Inferno, XI, 99 sgg.
26
Assunto, Die Theorie cit., p. 19.
27
Agostino, De genesi contra Manichaeos, I, 16, 25-26. («Ego vero fateor me nescire
mures et ranae quare creatae sint, aut muscae aut vermiculi; video tamen omnia in
suo genere pulcra esse»).
28
Per Russel Page, si veda L’educazione di un giardiniere, trad. it. Allemandi, Torino
1994, p. 149; per A. Carlson, Nature and Positive Aesthetics, in «Environmental
Ethics», 1984 (VI), n. 1, pp. 5-34. Una discussione recente di questa tesi, a partire
dalla formulazione che essa trova in Carlson e in altri teorici contemporanei, è S.
Godlovitch, Valuing Nature and the Autonomy of Natural Aesthetics, in «The British
Journal of Aesthetics», 1998 (XXXVIII), n. 2, pp. 188-97.
29
J. Burckardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it. Sansoni, Firenze 1975,
pp. 270-79 (parte IV: La scoperta del mondo esteriore e dell’uomo).
30
Si veda per esempio il resoconto di W. Dilthey, in L’analisi dell’uomo e l’intuizione
della natura, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1974, vol. I, pp. 25-26, ma ancora,
assai più di recente, lo scritto di J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna
(1963), a cura e con un saggio di M. Venturi Ferriolo, Guerini, Milano 1994.
31
Per la critica all’interpretazione burckhardtiana, si vedano in particolare W.
Perpeet, Das Kunstschöne. Sein Ursprung in der italienischen Renaissance, Alber,
Freiburg 1987, pp. 102-14 e G. Billanovich, Petrarca e il Ventoso, in «Italia
medioevale e umanistica», 1966 (IX), pp. 389-401.
32
Agostino, Confessioni, X, 8.
33
È questo, ci pare, il risultato cui perviene anche G. Bertone, Lo sguardo escluso.
L’idea di paesaggio nella letteratura occidentale, Interlinea, Novara 1999, che dedica a
Petrarca un ampio capitolo (pp. 95-148).
34
Petrarca, Lettere Familiari, IV, 1. Citiamo la trad. it. di U. Dotti: F. Petrarca, Le
Familiari, Libri I-IV, Argalia, Urbino 1970, pp. 482 sgg.
35
L. Stephen, Il terreno di gioco dell’Europa (1871), trad. it. Vivalda, Torino 1999.
36
Si veda, in proposito, Ph. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, Einaudi, Torino
1993 e la bibliografia ivi contenuta. Sintetico ma efficace il capitolo La montagna
nella tradizione occidentale in L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano
1997, pp. 71 sgg.
37
P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Garzanti, Milano
1992, cap. I: Dal paese al paesaggio.
38
Cfr. per esempio F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, in «Casabella», 1991, n. 575-
576.
39
Sulla storia della parola ‘paesaggio’: C. Franceschi, Du mot paysage et de ses
équivalents dans cinq langues européennes, in Collot (a cura di), Les enjeux du paysage,
cit., pp. 75-111; J. Martinet, Le paysage: signifiant et signifié, in Lire le paysage, lire les
paysages, Actes du Colloque de Saint Etienne, CIEREC, 1983; R. Fechner, Natur
als Landschaft. Zur Entstehung der ästhetischen Landschaft, Lang, Frankfurt-New York
1986, parte A, cap. I.
40
G. Simmel, Filosofia del paesaggio, in Id., Il volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna
1985.
41
Rinviamo a K. Clark, Il paesaggio nell’arte, trad. it. Garzanti, Milano 1962; A.
Cauquelin, L’invention du paysage, Plon, Paris 1989; N. Schneider, Geschichte der
Landschaftsmalerei, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1999.
42
Leonardo da Vinci, Trattato della pittura, TEA, Milano 1995, nn. 53 e 73
43
G. Vasari, Vite, ed. del 1568, Vita di Giotto (ed. Milanesi, Sansoni, Firenze 1981,
vol. I, p. 369).
44
A. Dürer, Proportionslehre, in Id., Schriften, Tagebücher und Briefe, Stuttgart 1961.
45
Sulle Wunderkammern: J.v. Schlosser, Raccolte d’arte e di meraviglie, trad. it.
Sansoni, Firenze 1974; A. Lugli, Wunderkammer. La stanza delle meraviglie,
Allemandi, Torino 1997.
46
Ritter, Paesaggio cit., pp. 50 e 54-55. La concezione ritteriana è stata oggetto di
numerose critiche. Rimandiamo in particolare a R. Groh, D. Groh, Weltbild und
Naturaneigung. Zur Kulturgeschichte der Natur, Suhrkamp, Frankfurt 1996.
47
B. Gracián, El Criticón, in Id., Obras completas, a cura di E. Correa Calderon,
Aguilar, Madrid 1944.
48
Cr.G. Peters, Blumenblitze. Lektüre und Konstruktion der Natur in der
Physikoteologischen Aesthetik von Brockes zu Goethe, in J. Zimmermann (a cura di),
Aesthetik und Naturerfahrung, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstat 1996,
pp. 195-222.
49
Ch. Bonnet, Contemplation de la Nature, Amsterdam 1776, tomo II, pp. 324-25.
50
J.G. Sulzer, Unterredungen über die Schönheit der Natur (1770), reprint Athenäum,
Frankfurt a.M. 1971 (il reprint contiene anche, alle pp. 147-232, le Considerazioni
morali). Si veda in particolare la Fünfte Unterredung: Gott in der Schönheit der Natur.
51
I. Kant, Critica del Giudizio, trad. it. di A. Gargiulo e V. Verra, Laterza, Roma-
Bari 1997, § 42. Si veda su questi argomenti M. Seel, Kants Ethik der ästhetischen
Natur, in R. Bubner, B. Gladigow, W. Haug (a cura di), Die Trennung von Natur
und Geist, Fink, München 1990, pp. 181-208.
52
Cfr. G. Lukács, Estetica, Einaudi, Torino 1970, cap. XII.
53
Su questo punto si veda E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti,
Milano 1992, pp. 107 e 170; nota 28.
54
J.G. Herder, Kalligone. Vom Angenehmen und Nützlichen (1800), in Id., Sämtliche
Werke, a cura di B. Suphan, vol. 22, Olms, Hildesheim 1967, pp. 74-90.
55
Si veda in particolare G. Böhme, Kants Kritik der Urteilskraft in neuer Sicht,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999.
56
W. Gilpin, Three Essays: On Picturesque Beauty, on Picturesque Travel, and on
Sketching Landscape, London 1794. Sul concetto di pittoresco si veda almeno: W.J.
Hipple, The Beautiful, the Sublime and the Picturesque in Eighteenth Century British
Aesthetic Theory, Southern Illinois U.P., Carbondale 1957; R. Milani, Il pittoresco,
Laterza, Roma-Bari 1996.
57
E. Burke, Inchiesta sul Bello e il Sublime, a cura di G. Sertoli, Aesthetica, Palermo
1985, parte II. Si veda in proposito G. Franci, Il sublime della natura nell’estetica di
Burke, in «Studi di Estetica», 1999, XXVII, pp. 19-27, (numero monografico su
Estetica e paesaggio nell’età di Goethe, a cura di R. Milani).
58
Il testo di riferimento in proposito è A. Corbin, L’invenzione del mare, trad. it.
Marsilio, Venezia 1990.
59
Kant, Critica del Giudizio, cit., §§ 26 e 28.
60
Cfr. M.H. Nicolson, Mountain Gloom and Mountain Glory: The Development of the
Aesthetics of the Infinite, Cornell University Press, Ithaca, N.Y. 1959.
61
La storia del giardino è certamente uno dei campi privilegiati per seguire
l’evolversi della teoria e della sensibilità per la bellezza naturale. Qui possiamo solo
rinviare, per la storia del giardino, a M. Zoppi, Storia del giardino europeo, Laterza,
Roma-Bari 1995, e, per le teorie sul giardino, a R. Assunto, Ontologia e teleologia del
giardino, Guerini, Milano 1988; M. Venturi Ferriolo, Giardino e filosofia, Guerini,
Milano 1992; Id., Giardino e paesaggio dei romantici, Guerini, Milano 1998; C.A.
Winner, Geschichte der Gartentheorie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt
1989.
62
Per questo aspetto, mi sia consentito rinviare a P. D’Angelo, L’illusione di esser
natura. Spontaneità e finzione nelle poetiche del giardino paesistico, in «Quaderni di
Estetica e Critica», 1998 (III), pp. 119-43.
63
J.-J. Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, Lettere di due amanti di una cittadina ai piedi
delle Alpi, trad. it. di P. Bianconi, Rizzoli, Milano 1992, pp. 492 sgg. (parte IV,
lettera XI).
64
Ivi, p. 89.
65
J.-J. Rousseau, Le fantasticherie del passeggiatore solitario, trad. di N. Cappelletti
Truci, Rizzoli, Milano 1979, pp. 261, 264.
66
F. Schiller, La passeggiata, vv. 1-17 (abbiamo utilizzato, per gentile concessione
delle traduttrici, la versione italiana, in corso di pubblicazione, di F. Masi e G.
Pinna). Sul testo di Schiller si veda W. Riedel, ‘Der Spaziergang’. Aesthetik der
Landschaft und Geschichtsphilosophie der Natur bei Schiller, Königshausen & Neumann,
Würzburg 1989.
67
F.W.J. von Schelling, Esposizione del mio sistema filosofico, Laterza, Bari 1969, p.
141.
68
Id., Aforismi introduttivi alla filosofia della natura (1805), in Id. Aforismi sulla filosofia
della natura, trad. it. di L. Rustichelli, pref. di G. Moretti, EGEA, Milano 1992, p.
23.
69
W. Goethe, La metamorfosi delle piante, a cura di S. Zecchi, Guanda, Parma 1983,
p. 86.
70
Novalis, I discepoli di Sais, trad. it. di E. Lander, Tranchida, Milano 1985, pp. 41-
42.
71
Ivi, p. 27.
72
C.D. Friedrich, Scritti sull’arte, trad. it. SE, Milano 1989, p. 48.
73
C.G. Carus, Lettere sulla pittura di paesaggio, a cura di A. Nigro, Edizioni Studio
Tesi, Pordenone 1991, pp. 11; 45 sgg.; 61 («concepita in questo senso, l’arte appare
come il culmine della scienza, essa diventa mistica nel vero senso della parola o,
come Goethe l’ha anche chiamata, orfica»); 67-68.
74
J. Ruskin, Pittori moderni, trad. it. Einaudi, Torino 1998, vol. I, p. 158.
75
A. von Humboldt, Quadri della Natura, a cura di F. Farinelli, La Nuova Italia,
Firenze 1998, p. 5.
76
Id., Kosmos. Entwurf einer physischen Weltbeschreibung, Cotta, Stuttgart 1870, p.
xxii.
77
K. Ph. Moritz, Sull’imitazione formatrice del bello, in Id., Scritti di estetica, a cura di
P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo 1990, pp. 65-93. Su questo tema cfr. N. Rath,
Kunst als zweite Natur. Einige Konsequenzen der Ablösung des Nachahmungsgedanken in
der klassischen Aesthetik, in W. Oelmüller (a cura di), Kolloquium Kunst und
Philosophie III, Paderborn-München-Wien-Zurich, Schöningh 1983, pp. 91-103.
78
A.W. Schlegel, Die Kunstlehre, a cura di E. Lohner, Kohlhammer, Stuttgart
1963, pp. 91-92.
79
Fr. Schelling, Le arti figurative e la Natura, a cura di G. Moretti e L. Rustichelli,
Aesthetica, Palermo 1989, pp. 44 e 50-51.
80
K.W.F. Solger, Lezioni di Estetica, a cura di G. Pinna, Aesthetica, Palermo 1995,
pp. 29-31.
81
Fr. Schleiermacher, Estetica, a cura di P. D’Angelo, Aesthetica, Palermo 1988, p.
48; Solger, Lezioni di Estetica, cit., p. 29. Ha scritto Peter Szondi: «dopo il 1800
‘estetica’ è il nome di una scienza che non ha più il significato indicato dal suo
nome» (Le poetiche di Hegel e Schelling, Einaudi, Torino 1986, p. 19).
82
Su questo tema cfr. D. Henrich, Kunst und Natur in der idealistischen Aesthetik, in
H.R. Jauss (a cura di), Nachahmung und Illusion, Eidos Verlag, München 1964, pp.
123-34.
83
G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di N. Merker, Einaudi, Torino 1972, pp. 5-7.
84
Il testo dell’Estetica stabilito da H.G. Hotho faceva posto infatti, accanto alle
citazioni che abbiamo riportato, a un intero capitolo dedicato al bello naturale. La
situazione dei corsi hegeliani sull’estetica, tuttavia, mostra uno scenario alquanto
diverso, come si può vedere in G.W.F. Hegel, Lezioni di Estetica, Laterza, Roma-
Bari 2000. Su questo aspetto mi sia consentito rinviare alla mia Introduzione
all’opera appena citata, alle pp. xxix-xxxii.
85
Fr. T. Vischer, Aesthetik oder Wissenschaft des Schönen, Olms, Hildesheim-New
York 1975 (reprint dell’ed. 1922), vol. I, §§ 233-340; K. Rosenkranz, Estetica del
Brutto, a cura di R. Bodei, Aesthetica, Palermo 1984, pp. 56-63.
86
F.-R. de Chateaubriand, Memorie d’oltretomba, trad. it., Einaudi, Torino 1995,
vol. II, pp. 506-507.
87
H.F. Amiel, Fragments d’un journal intime, Stock, Paris 1949, p. 76: «ogni
paesaggio è uno stato d’animo, e chi è capace di leggere in entrambi si stupisce di
ritrovare l’affinità in ciascun dettaglio». Si veda, per il senso autentico di questa
frase, R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli 1973, vol. I, pp. 158 sgg.
88
Ciò accade in modo chiarissimo, per esempio, nell’estetismo di Angelo Conti:
«La natura veduta con occhi d’artista, come la natura trasformata in opera artistica,
rappresentano un’idea. E questa idea siamo noi. Federico Amiel ha detto ciò con
una frase che ha la potenza d’una rivelazione. I colori, i suoni, i profumi sono i
segni dei nostri sentimenti; la natura è un simbolo della nostra anima» (A. Conti,
Introduzione ad uno studio su Francesco Petrarca, Società Laziale Editrice, Roma 1892,
p. 37)
89
R. Vischer, Über aesthetische Naturbetrachtung (1890), in Id., Drei Schriften zum
aesthetischen Formproblem, Niemeyer, Halle-Saale 1927, pp. 55 sgg.
90
G. Simmel, Filosofia del paesaggio, in Id., Il volto e il ritratto, a cura di L. Perucchi, Il
Mulino, Bologna 1985, pp. 71-83.
91
B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Laterza, Bari
1965, pp. 516; 115; 107.
92
Id., Aesthetica in nuce, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 37.
93
Id., Estetica cit., pp. 108-109. Per le riserve di Croce sul bello naturale è
indicativo quanto egli scrive in una breve nota su A. Conti, Esempio di Critica
estetizzante (1907), ora in B. Croce, Problemi di estetica, Laterza, Bari 1966: Croce,
quasi riecheggiando Hegel, accusa Conti di porre il bello naturale più in alto di
quello artistico, laddove è vero il contrario, ossia il bello artistico è sempre
superiore a quello naturale.
94
Id., Aesthetica in nuce, cit., p. 38.
95
Farà eccezione, come vedremo, Rosario Assunto, con l’importante Il paesaggio e
l’estetica, cit., e numerosi altri scritti successivi.
96
Lukács, Estetica, cit., vol. II, pp. 742; 711; 765.
97
R.W. Hepburn, Declino dell’interesse per la bellezza naturale nell’estetica
contemporanea, in Filosofia analitica inglese, a cura di B. Williams e A. Montefiore,
trad. it. Lerici, Roma 1967, pp. 353 sgg.
98
Su questi argomenti si veda il saggio di H.R. Jauss, Kunst als Anti-Natur: zur
aesthetischen Wende nach 1789, in Id., Studien zum Epochenwandel der aesthetischen
Moderne, Suhrkamp, Frankfurt 1989.
99
J.-K. Huysmans, Controcorrente, trad. it. Garzanti, Milano 1982, p. 40.
100
O. Wilde, La decadenza della menzogna, in Opere, a cura di M. d’Amico,
Mondadori, Milano 1992, pp. 201-202.
101
U. Boccioni, Contro il paesaggio e la vecchia estetica, in Id., Pittura e scultura futurista,
ora in Per conoscere Marinetti e il futurismo, Mondadori, Milano 1973, pp. 211-17.
102
F. Léger, Les réalisations picturales actuelles, in Id., Fonctions de la peinture, Denoél-
Gonthier, Paris 1975, pp. 21-22.
103
Ruskin, Pittori moderni, cit., p. 1139.
104
Id., Sesamo e i gigli, trad. it. Sonzogno, Milano 1939, Conferenza prima, § 35.
105
Con modalità del tutto diverse, è quel che succede in Italia con l’ideologia del
Bel Paese, il cui teorizzatore è l’abate Antonio Stoppani con il volume omonimo,
Agnelli, Milano 18782.
106
R. Longhi, cit. in L. Di Mauro, L’Italia e le guide turistiche dall’Unità a oggi, in
Storia d’Italia. Annali, vol. V, Il paesaggio, a cura di C. De Seta, Einaudi, Torino
1982.
107
R. Barthes, Miti d’oggi, trad. it. Einaudi, Torino 1974, pp. 118-21.
108
T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1977, p.
105.
109
Ivi, pp. 122 e 119. Cfr. le osservazioni sul paesaggio in Id., Minima Moralia,
Einaudi, Torino 1974.
110
Id., Teoria estetica, cit., p. 132.
Il dibattito attuale
Capitolo secondo.
Critica dell’estetica ecologica
Ecologia versus estetica?
Attorno alla metà degli anni Ottanta il tema della bellezza naturale, quasi
assente, fino ad allora, dall’estetica del Novecento, torna in discussione.
Mentre in precedenza al massimo poteva accadere che qualche trattato di
estetica generale, per semplice amore di completezza, gli dedicasse un
paragrafo o un accenno, e nessun testo lo affrontava sistematicamente,
facendone il proprio oggetto esclusivo, ora tornano ad apparire saggi e
volumi interamente consacrati alla discussione del nostro rapporto
estetico con la natura. Le prime avvisaglie di un mutamento di tendenza
giungono dagli Stati Uniti, dove Allen Carlson pubblica sul «Journal of
Aesthetics and Art Criticism» due contributi dedicati, rispettivamente,
all’Apprezzamento dell’ambiente naturale e a Natura, giudizio estetico e
oggettività1. Negli anni Ottanta appaiono due raccolte di interventi su temi
di estetica dell’ambiente (Environmental Aesthetics. Essays in Interpretation, a
cura di B. Sadler e di A. Carlson, nel 1982, ed Environmental Aesthetics.
Theory, Research, and Applications, a cura di J.L. Nasar, nel 1988), mentre
all’inizio degli anni Novanta si pubblica, a cura di S. Kemal e I. Gaskell,
un volume collettivo dal titolo Il Paesaggio, la Bellezza Naturale e le Arti2.
Nel 1992 Arnold Berleant pubblica un volume intitolato L’estetica
dell’ambiente, in cui affronta i temi della bellezza naturale, del rapporto
estetico con l’ambiente, del paesaggio, della relazione tra arte e natura,
mentre qualche anno dopo stampa, sullo stesso argomento Vivere nel
Paesaggio. Nuovi saggi di Estetica ambientale3. In Europa, e più precisamente
in Germania, si manifestano presto tendenze analoghe. Un filosofo
tedesco, Gernot Böhme, scrive nel 1989 un libro che si intitola Per
un’estetica ecologica della natura; tre anni dopo appare, dello stesso autore
Naturalmente Natura. La Natura nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Nel
1991 vede la luce, ad opera di Martin Seel, quello che è forse il trattato
più sistematico sull’argomento, come già il titolo Un’estetica della Natura
lascia presagire, e più di recente Jörg Zimmermann ha curato una
ponderosa silloge di decine di interventi sul tema Estetica ed esperienza della
Natura4. In Italia il primo a utilizzare la dizione ‘estetica della natura’ è
probabilmente Enzo Tiezzi, nel libro Il Capitombolo di Ulisse. Nuova
scienza, estetica della natura, sviluppo sostenibile, cui farà seguito, sugli stessi
argomenti, un volume più recente su La bellezza e la scienza. Ma i temi
della bellezza naturale sono presenti anche nella cosiddetta geofilosofia, che
coniuga i problemi dell’appartenenza territoriale, del paesaggio e del
rispetto della natura situandosi al confine tra estetica e filosofia della
politica5. Non mancano poi voci provenienti da altri paesi: il giapponese
Hashimoto che propugna una Eco-estetica, il finlandese Sepänmaa che
scrive su The Beauty of Environment, il neozelandese Godlovitch che si
occupa di Ambientalismo ed estetica naturale6. A circa due decenni dal suo
inizio, questo interesse per la bellezza naturale non accenna a venir meno.
Il «Journal of Aesthetics and Art Criticism» ha dedicato nel 1998 un
intero numero speciale all’estetica dell’ambiente, nella cui premessa si
parla di un tema «relativamente nuovo», che «solo da poco ha ripreso ad
attrarre l’attenzione degli studiosi», ma che suscita sempre crescenti
contributi7.
Cercare le motivazioni di questo ritorno del bello naturale nella storia
filosofica del Novecento sarebbe fatica sprecata. Il passaggio dalla
rimozione dell’estetica della natura alla sua celebrazione non è una
conseguenza del dibattito estetico contemporaneo, né della riflessione
sulle arti. Esso ha percorso altre strade, e si è imposto alla filosofia per così
dire dall’esterno. Che il ritorno del bello naturale sia un fenomeno
collaterale alla diffusione del pensiero ecologico e alla voga dei movimenti
ambientalisti è cosa fin troppo palese perché occorra insistervi. Ne fanno
fede già i titoli che abbiamo citato, ai quali se ne potrebbero con facilità
aggiungere molti altri, dalla terminologia ancora più esplicita: per fare
solo un esempio, nel 1986 Hans Martin Schönherr pubblicava le sue Tesi
sul rapporto tra ecologia ed estetica8. La preferenza dei teorici americani per il
termine ‘ambiente’, e la conseguente denominazione di ‘estetica
ambientale’ per gli studi che si occupano della percezione e
dell’apprezzamento estetico della natura si spiegano evidentemente in
questo contesto. E la dizione ‘estetica ecologica’, predominante almeno in
un primo momento in ambito tedesco, nel quale solo successivamente è
stata affiancata dall’altra, più tradizionale, di ‘estetica della natura’, toglie
ogni dubbio in proposito. Come pure non vi è nulla di strano nel fatto
che il nuovo interesse per la bellezza della natura si sia manifestato
dapprima, e sia poi rimasto più forte, in quei paesi in cui più
precocemente si sono diffuse le tematiche ecologiche, e più rapidamente
hanno assunto rilievo politico e sociale i movimenti ambientalisti, ovvero
gli Stati Uniti e la Germania. L’estetica ambientale ha ricalcato, nella sua
nascita e nel suo sviluppo, la parabola percorsa da una disciplina sul
modello della quale sembra aver coniato, del resto, la propria stessa
denominazione, ossia l’etica ambientale. Anche l’etica ambientale è sorta
sulla scia della presa di coscienza della cosiddetta ‘crisi ecologica’ e delle
emergenze ambientali, e ha tratto alimento dalla pubblicistica
ambientalista, affermandosi rapidamente come campo di indagine
autonomo. È vero però che l’etica ambientale è sorta sensibilmente prima
dell’estetica ecologica (i primi scritti di questo filone risalgono già alla fine
degli anni Sessanta, e negli anni Settanta esso appare solidamente
costituito), e ha prodotto una messe di contributi che, per qualità e
quantità, sono ben superiori a quelli dell’estetica ambientale.
Non bisogna, infatti, perdere di vista l’entità dei fenomeni. Anche se
ormai è possibile contare qualche decina di lavori di estetica ambientale, è
vero però che si tratta di riflessioni affette da una buona dose di
marginalità, che stentano a uscire dal ristretto ambito specialistico in cui
sono nate. Sono marginali nel contesto del dibattito estetico, dove non
sono ancora effettivamente penetrate; ma lo sono ancora di più
nell’ambito di quella letteratura ambientalista che pure le ha largamente
ispirate. Il ritardo con cui si è cominciato a riflettere su questi temi,
rispetto alla diffusione stessa del ‘pensiero verde’, è indicativo. Qui si cela
qualcosa che va spiegato. Infatti, mentre è del tutto ovvio che l’ecologia
come disciplina scientifica lasci da parte la nostra percezione estetica della
natura, è meno ovvio che l’ambientalismo non abbia quasi mai invocato la
necessità di proteggere la natura anche come fonte di bellezza. Si può notare,
anzi, una sorta di insofferenza e di sospetto dell’ambientalismo nei
confronti delle argomentazioni di tipo estetico, e la tendenza a
considerare i discorsi sulla bellezza naturale come inadeguati rispetto alla
situazione odierna, nella quale è in gioco la sopravvivenza stessa della
natura. In alcuni dei testi ispiratori dei movimenti ambientalisti, al
contrario, la preoccupazione per la bellezza naturale era tutt’altro che
assente. Aldo Leopold, il primo a parlare di ‘etica della terra’, poneva
anche il valore estetico tra quelli bisognosi di tutela: «L’etica della terra
allarga i confini della comunità per includervi animali, suoli, acque,
piante: in una parola, la terra». Occorre «esaminare ogni questione tanto
in termini di ciò che è esteticamente e moralmente giusto, quanto di ciò che
è economicamente conveniente. Una cosa è giusta quando tende a
preservare la stabilità, l’integrità e la bellezza della comunità biotica, è
ingiusta quando tende altrimenti»9. In Gregory Bateson l’idea che il
mondo sia essenzialmente bello, che l’insieme delle relazioni che
costituiscono la natura si ordini esteticamente è uno dei termini guida
della ricerca, tanto che Bateson stesso parla di una triade «bellezza,
coscienza e sacro», e scrive: «la maggior parte di noi ha perso quel senso di
unità di biosfera e umanità che ci legherebbe e ci rassicurerebbe tutti con
un’affermazione di bellezza. La maggior parte di noi oggi non crede che,
anche con gli alti e i bassi che segnano la nostra limitata esperienza, la più
vasta totalità sia fondamentalmente bella»10. Non c’è dubbio però che
questo pathos estetico non sia presente in una schiera ben più larga di
teorici dell’ambientalismo, da Barry Commoner a Michel Serres, da Bill
McKibben a Paul Ehrlich, e che, cosa che ci interessa maggiormente, sia
quasi del tutto assente in quella che potremmo chiamare ‘coscienza
ecologica media’: sensibilissima a problemi quali la scarsità delle risorse, la
biodiversità, l’inquinamento, il trattamento degli animali, l’accumulo dei
rifiuti, lo è assai meno a quelli della bellezza naturale, che sembrano
obsoleti e del tutto inadatti a fronteggiare le emergenze in atto. Le cause
sono molteplici, e vanno dal retroterra scientifico su cui si appoggiano gli
ambientalismi, all’idea della minaccia incombente sulla natura, che
sembra lasciare poco spazio a considerazioni di tipo estetico, o relegarle
tra i lussi che non possiamo permetterci, al fatto stesso che le poche
eccezioni citate (Leopold e Bateson), evocano una concezione della
bellezza naturale che ricorda piuttosto il modo antico di pensarla (non a
caso Bateson apre il suo Mente e Natura con una citazione sul bello
naturale tratta da Agostino) e dunque appaiono difficilmente
armonizzabili con il modo moderno di concepirla. Un ruolo di particolare
rilevanza lo gioca il fatto che l’ambientalismo pensa innanzi tutto in
termini di minacce alla sopravvivenza del pianeta, e quindi ogni questione
relativa alla bellezza della natura sembra passare in secondo piano, dato
che è possibile porla solo dopo che sia assicurata la sopravvivenza della
natura stessa. È significativo, tanto per prendere un esempio cospicuo, che
tutto il discorso articolato da Hans Jonas in Il principio responsabilità si possa
svolgere senza mai incontrare la nostra responsabilità nei confronti
dell’aspetto estetico della natura, per esempio la nostra responsabilità per il
paesaggio, anche se l’intero volume di Jonas è costruito intorno all’idea
che noi siamo responsabili della situazione del pianeta nei confronti delle
generazioni future11. Come vedremo meglio nel terzo capitolo, discende
da qui la scarsa propensione degli ambientalisti a parlare di paesaggio. Il
termine viene considerato pesantemente connotato da condizionamenti
estetistici, arretrato rispetto ai concetti dell’ecologia, del tutto traducibile
nel termine più ‘scientifico’ di ambiente. La protezione dell’ambiente
riassorbe in sé quella del paesaggio, fino a far credere che il secondo
concetto si possa interamente ricomprendere nel primo.
Tutto ciò non può non riflettersi – vedremo anche questo – sulle
iniziative politiche e sociali in materia di ambiente. Per ora notiamo che
se all’inizio del secolo l’associazionismo spontaneo si coagula, all’estero e
in Italia, sul tema della bellezza naturale e della protezione del paesaggio,
ora, vale a dire dagli anni Sessanta in poi, il vero e quasi esclusivo
catalizzatore dei movimenti in difesa della natura è l’ambientalismo, cioè
la considerazione bio-ecologica della natura. Associazioni di questo tipo
non erano mancate anche in passato, come attestano la Open Spaces and
Footpaths Preservation Society inglese o il Sierra Club americano. Ora
però esse prendono decisamente il sopravvento, sia in termini di numero
di aderenti sia in termini di visibilità e attivismo: nel 1963 si fonda il World
Wildlife Fund; dieci anni dopo nasce l’organizzazione Greenpeace, mentre
due anni prima era sorta l’associazione Friends of Earth. In Italia è possibile
seguire una parabola analoga. Nel 1955 era nata Italia Nostra, ancora nello
spirito di una salvaguardia dei valori estetici della natura, del paesaggio
nella sua dimensione, oltre che ambientale, culturale e artistica. I
movimenti propriamente ambientalisti prendono vita piuttosto nei due
decenni seguenti: la sezione italiana del World Wildlife Fund nel 1966;
quella degli Amici della Terra nel 1977; e poi la Lega italiana per la
protezione degli uccelli; la Lega per l’abolizione della Caccia; la Lega per
l’ambiente (poi, semplicemente, Legambiente)12. Sull’altro versante, è
sintomatico che un’associazione che ricalca nella sua struttura e nei suoi
scopi il National Trust inglese, e che è attenta a salvaguardare dimore
storiche, paesaggi di particolare valore, giardini, quando nasce nel 1975
scelga di chiamarsi Fondo italiano per l’ambiente, dissimulando per dir
così la propria vocazione specificamente estetica sotto l’etichetta piuttosto
naturalistico-biologica che viene evidentemente avvertita come più
attraente e spendibile.
Ovviamente sarebbe azzardato sostenere che tra le organizzazioni
tradizionali a difesa del paesaggio e quelle ambientaliste non vi siano e
non vi siano stati punti di contatto. È certo però che essi sono stati a
lungo inferiori a quelli che l’obiettiva convergenza di molti degli scopi
delle une e delle altre potevano lasciare presagire. Tutto questo,
comunque, può non essere letto soltanto come una conferma dell’eclissi
della bellezza naturale e della sua progressiva rimozione. Che le
organizzazioni ambientaliste abbiano preso, nel panorama della seconda
metà del secolo, il posto che nella prima era occupato dalle associazioni
per il paesaggio, non significa solo che l’ambiente ha soppiantato il
paesaggio in senso estetico. Qualcosa del genere è certamente accaduto, e
dovremo tornare a occuparcene più avanti. Ma non deve impedirci di
vedere che, con tutta probabilità, quell’interesse estetico nei confronti della
natura attestato dall’associazionismo di inizio secolo ha solo mutato vesti,
e ora larvatus prodit, si dissimula e si nasconde sotto le spoglie
ambientaliste. L’interesse per l’ecologia è molto spesso un interesse
estetico déguisé. La difesa della natura buona è spesso una difesa della natura
bella, che però ritiene più produttivo, più serio, più adeguato alla
drammaticità della situazione non confessare le proprie radici estetiche.
Le Guide alla Natura delle diverse regioni d’Italia pubblicate da Fulco
Pratesi e Franco Tassi negli anni Settanta possono valere come una
piccola prova (ma più avanti ne vedremo altre). Si tratta di guide dedicate
alla conformazione fisica del territorio, alle specie vegetali e animali che
lo popolano. Ma il modello sotterraneo, a parole rifiutato, è quello della
guida turistica, quindi della guida alle bellezze naturali: solo che la
singolarità botanica o geologica prende il posto della singolarità estetica13.
Fino a che punto, però, il paradigma occultato non si ricostituisce almeno
per l’utente della guida? L’attenzione per gli alberi secolari (uno dei
Leitmotive della guida), è solo dendrologica o non passa, innanzi tutto, per
le strade dell’apprezzamento estetico, della suggestione poetica? Come
diceva il vecchio Marx a tutt’altro proposito, anche per molti ambientalisti
che considerano il discorso estetico una deminutio si potrebbe ripetere:
«non lo sanno, ma lo fanno».
L’argomento estetico in difesa della natura
Questa sorta di complesso di inferiorità dell’estetica nei confronti
dell’ecologia si manifesta già nel fatto che quasi sempre essa si presenta
come ricerca di argomenti ulteriori in difesa della natura. L’esperienza estetica
che compiamo nella natura non ardisce presentarsi come valore in sé,
bisognoso in quanto tale di tutela e capace per se stesso di fondare
un’esigenza di protezione, ma piuttosto come argomento aggiuntivo, che si
affianca a quelli più sostanziali forniti dalla biologia e dall’ecologia. In
quasi tutta l’ökologische Aesthetik tedesca, ma anche in buona parte
dell’environmental Aesthetics in lingua inglese, il percorso che viene seguito
va dall’esigenza di difendere la natura alla ricerca di motivazioni estetiche per farlo.
Ciò segna subito una differenza molto marcata rispetto alle teorie sulla
bellezza naturale proprie di epoche precedenti, perché in esse questa
esigenza di salvaguardia non era affatto presente. Si tratta, come è ovvio,
di un riflesso della più generale preoccupazione odierna per le minacce
incombenti sulla natura. Non è però la bellezza naturale a essere
considerata in pericolo, dato che per questi autori non sembra esistere un
problema specifico di salvaguardia, per esempio, del paesaggio. È la
necessità di salvare la natura in genere che spinge a domandarsi se la
presenza di valori estetici non sia un buon motivo per esigere il rispetto
della natura. In altre parole, non sembra che ci sia innanzi tutto
l’esperienza estetica della natura, e perciò se ne chieda il rispetto. Si sa già
che la natura va difesa e ci si chiede se accanto ai più consueti argomenti
per difendere la natura non se ne possano mettere in campo altri più
sofisticati, come per esempio che essa va difesa perché portatrice di valori
estetici.
La cosa può sembrare trascurabile: quel che conta, si potrebbe pensare, è
che comunque si arrivi a vedere nella natura una fonte di esperienza
estetica. In realtà, però, così si apre un problema più profondo. Poiché il
punto di partenza è la difesa della natura, e la bellezza naturale è solo un
mezzo per arrivare ad essa, il bello naturale viene collocato nuovamente in
una prospettiva subordinata, contro le esplicite intenzioni dei teorici
dell’estetica della natura. Il bello naturale si pone in una condizione
eteronoma (non è un valore autonomo, ma dipende da altri valori) che fa
risaltare in tutta chiarezza la diversità della sua posizione rispetto al bello
artistico. Se qualcuno fosse convinto che le opere d’arte vanno tutelate,
salvaguardate, protette, e dopo aver esposto questa tesi si mettesse alla
ricerca di motivi per farlo, incontrando anche il fatto che esse consentono
un’esperienza estetica, senza dubbio questo procedimento apparirebbe
stravagante. Certo, è fin troppo facile osservare che nel caso della natura
ci sono molti altri motivi che ci spingono a tutelarla (motivi di ordine
biologico, etico, economico), mentre nel caso dell’arte il valore estetico è
l’unico movente. Ma, a parte il fatto che neppure questo è del tutto vero (le
opere d’arte si tutelano anche come documenti storici, etnografici, come
risorse turistiche ecc.), quello che conta è la dissimmetria che così si apre
tra bello naturale e bello artistico. Quest’ultimo viene assunto come
valore primario, valore in sé, mentre il bello naturale viene assunto come
valore derivato. Esso ci sta a cuore non in quanto di fronte alla natura ci
sentiamo spinti a considerare degno di protezione quel che ci procura un
piacere estetico, ma in quanto scopriamo nel valore estetico un motivo in
più per rafforzare un convincimento che comunque già possediamo: che
la natura vada rispettata.
Un tipico esempio di argomentazione estetica in funzione strumentale,
di servizio, lo troviamo nell’idea che l’apprezzamento della natura possa
servire per avviare gli uomini al rispetto di essa, che comunque è motivato
per altre vie. Come nelle teorie pedagogiche dell’arte, cioè quelle teorie
secondo le quali la funzione dell’arte è quella di renderci più lieve e più
gradevole l’apprendimento di verità conoscitive o morali, così qui il
piacere che proviamo davanti a una natura bella dovrebbe semplicemente
renderci più attraente quella salvaguardia della natura che comunque ci si
è già imposta con l’aspetto più severo e cogente della legge morale. Così
Vittorio Hösle in Filosofia della crisi ecologica: «Insegnare agli uomini a
sentire nuovamente la bellezza della natura è, dal punto di vista delle
motivazioni psicologiche, più importante che presentare loro il male morale
della distruzione dell’ambiente, se si vuol raggiungere qualche risultato
nel lungo periodo»; ma naturalmente per Hösle resta vero che «solo una
fede fondamentale di natura metafisica, anzi religiosa, nella totalità
dell’essere può dare all’uomo la forza di cui ha bisogno»14.
L’argomento estetico in difesa della natura è esposto con maggiore
ampiezza nel volume di Y. Sepänmaa, The Beauty of Environment, che
muove da assunti del tutto condivisibili. «Un aspetto estetico è sempre
presente nei motivi della protezione. La più gran parte della protezione
ambientale è ovviamente di altra natura: la preservazione delle condizioni
di abitabilità, ma questo non è l’unico motivo. Il valore estetico
condiziona la soddisfazione, ed è uno dei fattori di benessere. Ma questo
sarebbe un motivo egoistico a difesa della qualità estetica dell’ambiente. I
valori estetici debbono essere preservati – perché sono valori; non perché
sono valori utilizzati da qualcuno, ma perché sono cose buone». La
comprensione del valore estetico della natura crea una base (non l’unica)
per la protezione dell’ambiente. Ma poi Sepänmaa, nello svolgimento
delle sue argomentazioni, ritira quel che ha concesso. Ammettere che vi
possano essere anche ragioni puramente estetiche per la tutela della natura
gli pare troppo forte. Si deve riportare tutto sotto l’egida ‘scientifica’
dell’ecologia. Sepänmaa dichiara che il suo modello esplicativo sarà «un
modello ecologico»: la natura come ecosistema, «la cui bellezza risiede
nell’indisturbato funzionamento del sistema stesso». L’autonomia delle
motivazioni estetiche ha avuto quindi vita brevissima, e tutto è già
ricondotto nei termini di un modello biologico, in cui l’estetica non ha
alcun posto. «Ciò che è contro le leggi ecologiche non può essere bello» e
«l’ecologia fornisce la norma alla quale il concetto di bellezza deve
conformarsi». Anticipando i temi che analizzeremo nel prossimo capitolo,
potremmo dire che il paesaggio in senso estetico è qui interamente
riassorbito nell’ecosistema. Per paura di cadere nell’estetismo, si rifiuta
ogni autonoma considerazione estetica, cioè si riporta a una dimensione
puramente naturalistica ciò che si dà sempre, anche, in una dimensione
storico-culturale: «il rifiuto di un’estetica ambientale su base ecologica
rischia di portare all’estetismo, all’accentuazione eccessiva del valore
estetico in un senso limitato»15.
Una linea di ragionamento non troppo dissimile si può trovare nelle
prime pagine di Per un’estetica ecologica di Gernot Böhme. Anche qui
l’assunto iniziale, che la bellezza naturale contribuisce alla qualità della
vita, ed è dunque un valore per se stessa, viene messo in dubbio
sollevando la domanda fatidica: «una natura bella è anche una natura
buona?». Questo interrogativo appare a molti teorici dell’estetica
ambientale una sorta di experimentum crucis che dimostra l’impossibilità di
costruire un’estetica della natura se non come riflesso dei valori bio-
ecologici. Infatti, argomenta Böhme, la bellezza della natura non è una
garanzia della sua salubrità e del suo equilibrio. È sintomatico però che
per provare questa tesi Böhme debba ricorrere a casi estremi, i quali –
fortunatamente – non appartengono all’esperienza comune, per esempio
quello di una natura contaminata da radiazioni atomiche, che sul
momento non muta il proprio aspetto ma che è irrimediabilmente
avvelenata. In realtà, l’esperienza quotidiana ci mostra sì che esistono
molte ragioni di tutela della natura che non possono essere fondate
esteticamente, ma ci mostra anche che per lo più un ambiente nel quale
possiamo provare una soddisfazione di tipo estetico è un ambiente sano e
vivibile. Rosario Assunto aveva più ragione di Böhme quando scriveva
nel suo Il paesaggio e l’estetica, un libro sotto molti aspetti pionieristico (fu
pubblicato nel 1971), ma non a caso percorso da una sottile polemica
contro la reductio dell’estetica all’ecologia: «paesaggio è [...] l’ambiente
dell’ecologia considerato come oggetto di contemplazione: e nel
godimento (o nella frustrazione, nella sofferenza) che alla contemplazione
si accompagna è contenuto [...] anche il benessere (o il malessere) che
quello stesso ambiente ci fa provare in relazione all’appagamento o non
appagamento dei nostri bisogni vitali; e il punto di vista ecologico, a sua
volta, si interessa, possiamo dire, allo stesso paesaggio del quale ha cura il
punto di vista estetico; in quanto l’ambiente dell’ecologia altro non è se
non il paesaggio di cui noi parliamo in estetica come di un oggetto di
contemplazione»16.
Ma l’estetica ecologica non si accontenta di percorrere le strade del senso
comune. Se considerare la bellezza naturale dal punto di vista
dell’esperienza che noi ne facciamo, cioè come valore soggettivo (in senso
letterale: fondato dal soggetto percipiente) consente bensì di vedere in tale
esperienza un valore autonomo, e di ricavarne spesso delle buone
indicazioni circa il nostro comportamento nella natura, ma non di
fondare sempre e comunque un’equivalenza tra natura bella e natura
buona, l’estetica ecologica risponde spostando completamente il piano di
riferimento e, con una mossa che non può non suonare azzardata a chi
conosca la storia dell’estetica, tenta di argomentare il carattere oggettivo
della bellezza naturale. Quest’ultima, diventando una proprietà intrinseca
della natura, sarebbe svincolata dalla percezione che ne abbiamo, e
finirebbe per riguardare sempre e comunque la natura nella sua totalità.
Un simile passaggio è tanto poco consueto in estetica quanto familiare al
dibattito ecologico. Infatti, l’alternativa tra bellezza della natura come
esperienza che ne compie il soggetto e come proprietà oggettiva delle cose
corrisponde evidentemente a quella consueta tra un’ecologia shallow, di
superficie, e un’ecologia profonda, o deep ecology. Come in etica
ambientale si distinguono le etiche cosiddette antropocentriche ed etiche
ecocentriche, a seconda che il rispetto della natura venga fondato sul
vantaggio che da esso si ricava per l’uomo, per la qualità della sua vita, la
sua sopravvivenza ecc., oppure sul fatto che la natura ha valore per se
stessa, ha un valore non strumentale, non riferibile soltanto a ciò che è
bene per l’uomo17, così si può parlare di estetiche della natura
antropocentriche (il valore estetico viene misurato sull’esperienza che ne fa il
soggetto) o ecocentriche (il valore estetico appartiene intrinsecamente alla
natura).
Proprio perché sembra consentire di sfuggire ai pericoli del
soggettivismo, l’argomentazione deep, il legame oggettivo della bellezza
con la natura, si ritrova spesso nell’estetica ecologica. Böhme, dopo aver
esposto gli argomenti antropocentrici sopra ricordati, vira bruscamente
verso l’asserzione del carattere oggettivo della bellezza naturale. L’estetica
deve autocomprendersi come una parte dell’ecologia; non si tratta di
trovare nell’argomento estetico un nuovo avvocato difensore per la natura,
ma di comprendere come quella estetica sia una dimensione «dell’oggetto
natura stesso». La bellezza non è una qualità secondaria, cioè una qualità
che nasca dal rapporto tra la cosa e la nostra percezione, ma una qualità
primaria, cioè appartiene alle cose in quanto tali.
Si tratta di un presupposto non facile ad argomentarsi, per chi sappia,
con Hume che «beauty is no quality of things in themselves», o, con
Kant, che il predicato della bellezza non si riferisce all’oggetto, ma al
sentimento del soggetto; e tuttavia sono molti i teorici ambientali che non
arretrano di fronte a questa oggettivazione della bellezza. Un caso
paradigmatico è rappresentato da Eugene C. Hargrove nel suo volume
Fondamenti di etica ambientale. Hargrove ritiene deboli e non conclusivi gli
argomenti antropocentrici addotti dalla shallow ecology a sostegno della
necessità di difendere la natura.
Egli vuole dimostrare che rispettare la natura non è un dovere verso
l’uomo (in vista, per esempio, di garantire la sua sopravvivenza) ma un
dovere verso la natura stessa. Nel tentare di farlo, egli si affida a un
argomento che chiama, non del tutto a ragione, «argomento ontologico»,
e che andrebbe piuttosto chiamato «argomento estetico». In sintesi, esso
suona così: noi abbiamo il dovere morale di preservare l’esistenza del bene
nel mondo; ma il bello naturale fa parte di tale bene; dunque noi abbiamo
il dovere di preservare il bello naturale. Hargrove si rende conto che se il
suo riferimento al bello naturale viene inteso come riferimento a ciò che
alcuni o molti considerano effettivamente bello, si ricade
nell’atteggiamento soggettivistico tanto aborrito.
Il passo successivo consiste quindi nel sostenere che la bellezza è una
qualità oggettiva della natura, il che implica due conseguenze. La prima è
che a suo parere qualsiasi ente naturale è bello per il solo fatto di esistere;
la seconda è che un ente naturale rimane bello anche se esso è sottratto
alla fruizione, attuale ma anche potenziale, di qualsiasi spettatore.
Quest’ultima circostanza deve apparire piuttosto sconcertante a Hargrove
stesso, che infatti si sforza di renderla plausibile attraverso un parallelo con
il bello artistico. Egli sostiene che in determinati casi noi accettiamo che
un prodotto dell’arte resti bello anche se è sottratto a ogni percezione, e
che dunque lo stesso si può ammettere per il bello naturale. Per esempio,
se ci avvediamo che la presenza di visitatori danneggia le pitture rupestri,
come è avvenuto nella grotta di Lascaux e in molte altre, noi vietiamo
l’accesso alle grotte, che tuttavia continuiamo a conservare; anzi lo
facciamo appunto per conservare le pitture rupestri. Ma è evidente che si
tratta di un parallelo fuorviante. Noi conserviamo i dipinti rupestri per
renderne possibile, anche in futuro, la fruizione da parte di persone
particolarmente qualificate, per esempio studiosi o archeologi. Se
sapessimo che un manufatto non potrà in nessun caso essere osservato da
nessuno, perderemmo interesse a conservarlo, o lo conserveremmo solo
nella speranza che le cose possano in seguito mutare.
Il fatto è che parlare di bellezza indipendentemente da qualsiasi
percezione è una contraddizione in termini. Se si attua questo passaggio,
si sta in realtà transitando da una considerazione estetica a una
considerazione di altro tipo, per esempio religiosa o metafisica. Si può
avere fede nel valore sacrale della natura, e in forza di ciò riconoscere
valore intrinseco a ogni oggetto naturale, ma allora è più onesto
ammettere che lo facciamo perché, per esempio, consideriamo la natura
un prodotto divino, che ipotizzando motivazioni estetiche. Così accade
nel volume di Cornelius Meyer-Tasch, Una rete per Icaro. Alla riconquista
dell’unità di natura, cultura e vita. Qui ci si schiera apertamente contro la
‘soggettivizzazione’ che domina tutta l’estetica moderna, da Kant a Hegel
a Croce, e si propugna un ritorno all’estetica antica e medioevale, in cui il
bello era una proprietà oggettiva dell’essere e il cosmo tutto veniva
considerato come un’opera d’arte divina18. Bisognerebbe solo aggiungere
che tali concezioni non sono in prima linea estetiche, ma metafisiche e
cosmologiche.
Una sorta di reductio ad absurdum delle teorie oggettivistiche del bello
naturale può essere rappresentata dalle tesi esposte da Stan Godlovitch nel
suo articolo su Ambientalismo ed estetica naturale apparso sul «Journal of
Applied Philosophy». Anche Godlovitch è alla ricerca di argomenti non
antropocentrici in difesa della natura, ossia di quegli argomenti che egli
chiama «a-centrici». Uno di essi può a suo parere essere fornito da
un’estetica che riconosca nella natura un valore estetico intrinseco, ossia
indipendente da qualsiasi percezione. Ma un’estetica «a-centrica» deve
prescindere da qualsiasi legame con una coscienza o con un punto di
vista. Deve collocarsi al di là della percezione e della scala di grandezza
spaziale o temporale propria dell’uomo. Deve fondarsi su un’esperienza
che non può essere sensoriale. Ma l’unica via per giungere a questa
liberazione dal sensibile è affidarsi alla natura come «mistero», è viverla
come un tutto assolutamente remoto da noi. È sviluppare un senso di
«indifferenza» completa nei confronti delle cose. Godlovitch a un tratto è
assalito dal dubbio che questa esperienza non sia estetica, ma religiosa, e
forse sarebbe più esatto considerarla un atteggiamento di mistico
annullamento nella natura. Certamente è un segno di quell’anti-
umanismo che spesso colora i discorsi dell’ecologia profonda, e che qui si
spinge a vedere nella vita una mera «incrostazione» della terra19.
L’estetica ecologica tedesca tra filosofia della natura ed etica ambientale
Tra gli argomenti messi in campo dall’estetica della natura a difesa
dell’ambiente, ce n’è uno di cui non ci siamo occupati nel paragrafo
precedente, non perché sia meno diffuso degli altri (è anzi uno dei temi
più ricorrenti) ma perché segna il passaggio a un altro ordine di problemi.
Ci riferiamo alla tesi in base alla quale l’atteggiamento estetico nei
confronti della natura contribuisce alla salvaguardia della natura stessa in
quanto costituisce un modello di comportamento non aggressivo, non
prevaricatore, non distruttivo nei rispetti dell’ambiente, e anzi insegna a
essere amichevoli e rispettosi della natura che ci circonda. È, dicevamo,
una tesi diffusa. Basta aprire alla prima pagina l’Estetica della Natura di
Martin Seel per leggervi che uno dei principali, anzi forse il principale
motivo di interesse di una teoria estetica della natura sta nel fatto che essa
conduce a difendere «un comportamento non-strumentale nei riguardi
della naturalità». In quasi tutti gli autori – ma non in Seel – questa tesi
viene argomentata opponendo l’atteggiamento soft dell’estetica a quello
duramente invasivo della scienza. Funziona quindi una contrapposizione,
o meglio un’antitesi, tra l’estetica, che lascia essere la natura così come essa è, la
ama e la rispetta, e la scienza e la tecnica, che invece la aggrediscono per
asservirla, e quindi la alterano o la annientano. Fin qui sembrerebbe di
trovarsi di fronte a una radicalizzazione della dicotomia di Ritter tra
contemplazione estetica della natura e sua manipolazione scientifica. Ma
per i teorici che sviluppano questi argomenti vale di solito esattamente il
contrario di quel che riteneva la tesi ritteriana dell’estetico come
compensazione di quanto va perduto con l’affermarsi del paradigma
scientifico (col corollario della possibile, anzi necessaria coesistenza dei
due atteggiamenti): per loro, si tratta piuttosto di utilizzare il tipo di
approccio estetico come modello per un nuovo tipo di scienza.
L’estetica, secondo questi autori, deve dunque essere recuperata non in
alternativa o a integrazione del procedere scientifico, ma trasportata
all’interno stesso di tale procedere, in modo da inoculare in esso i propri
principi di rispetto e convivenza con la natura. Così, però, è ancora
nuovamente aperta la strada per una fuga dell’estetica ambientale verso
l’eteronomia, per il suo riferirsi a valori altri e diversi da quelli
dell’esteticità stessa. Infatti, ciò di cui vanno in cerca questi teorici, talora
senza confessarlo, ma più spesso dicendolo apertamente, è non un’estetica
ma una filosofia della natura. Il termine non è scelto a caso, perché filosofia
della natura si oppone in loro precisamente alla scienza corrente della
natura medesima. Si tratta, per lo più, dell’idea di superare
l’atteggiamento quantitativo-matematizzato delle scienze naturali alla
volta di un atteggiamento che privilegi gli aspetti qualitativi ed evolutivi.
Queste critiche alle scienze naturali non suonano certo nuove, e noi le
abbiamo già sentite risuonare nel capitolo precedente quando abbiamo
accennato all’estetica romantica e al suo coniugarsi con la romantica
Naturphilosophie. E i teorici di cui ci occuperemo in questo paragrafo lo
sanno benissimo, tanto che spesso si rifanno senza difficoltà proprio al
paradigma romantico della filosofia della natura. Con il risultato, però, di
non rendere affatto più chiare le loro posizioni. Infatti, se la filosofia
romantica della natura aveva, a suo tempo, una fisionomia riconoscibile e
i propri principi e risultati, per quanto ovviamente discutibili, e può
fregiarsi dei nomi di Schelling, di Schubert, di Carus, di Oken, molto
meno chiaro è che cosa possa essere, oggi, una scienza estetica della natura.
E i misticismi di Bateson, i rinvii spesso tutt’altro che coerenti fra loro
all’epistemologia di Kuhn e alla ‘nuova alleanza’ di Prigogine,
all’antiscientismo di Heidegger e alla sociobiologia, ai frattali di
Mandelbrot e a Novalis non sono esattamente quel che ci vuole per
portare chiarezza, e per dissipare il sospetto che la nuova filosofia della
natura sia un’araba fenice.
Tuttavia, non bisogna fare di tutt’erba un fascio. All’interno dello
schieramento dei critici della scienza naturale e dei fautori di una filosofia
della natura che sappia recuperare l’attenzione estetica per le diversità, ci
sono posizioni variegate, e non solo per la maggiore o minore coerenza e
finezza delle argomentazioni, ma anche per i sistemi di riferimento. Hans
Martin Schönherr, nelle Tesi sul rapporto tra ecologia ed estetica, sembra
ispirarsi a un paradigma ‘debole’: non punta cioè a una contrapposizione
tra scienza manipolante e invasiva ed estetica amica dell’ambiente, ma
piuttosto a una loro integrazione. Si tratta dunque di indebolire il modello
puramente quantitativo delle scienze tradizionali grazie all’apporto di un
pensiero attento alle qualità delle cose. «L’arte dà corpo ad un’idea del
rapporto con il mondo che è altra rispetto a quella nella quale la natura è
semplicemente dominata e distrutta»; perciò è possibile che noi, attraverso
l’estetica, ci formiamo un’immagine della natura che non la considera
suscettibile di una sottomissione scientifica o tecnica. «Se le scienze
naturali hanno bisogno di linee conduttrici diverse da quelle della
quantificazione matematica e della tecnicizzazione sperimentale, allora la
questione di come la comprensione scientifica della natura possa venir
ampliata ecologicamente si estende automaticamente anche all’estetica».
Schönherr intende reagire al pessimismo di marca adorniana notando che,
se è vero che l’arte ha la sua origine nella frattura tra uomo e mondo,
uomo e natura, si può però anche dire che essa sublima tale frattura.
L’arte infatti si sviluppa in contrasto con il dominio tecnico sulla natura,
ci ricorda che il mondo è anche oggetto di percezione sensibile, ci addita
una natura più originaria. L’autore che ispira questo modo di vedere è,
evidentemente, Schiller: schillerianamente, Schönherr ritiene che
l’estetica dovrebbe essere in grado di cogliere il momento di libertà del
sensibile, non deformato dalla ragione. A partire da simili presupposti,
egli non cerca una fondazione ‘forte’ di queste posizioni all’interno di un
supposto ordine oggettivo della natura, ma si accontenta di suggerire
all’arte di ‘addolcire’ la razionalizzazione della tecnica, facendo spazio a
forme di espressione sensibile e, nel caso estremo, proponendosi di
decorare artisticamente la natura deformata dalla tecnica. «Non ci resta
che la decorazione estetica della natura tramontata», afferma
malinconicamente Schönherr, enunciando un programma che forse non è
così lontano da alcune tendenze dell’arte ambientale contemporanea che
esamineremo nell’ultimo capitolo.
Altrove, invece, la contrapposizione con la scienza e la tecnica è molto
più radicale. È quel che accade, in particolare, alle posizioni che si ispirano
al pensiero di Bateson o a quello di Heidegger. Infatti, se nell’antropologo
americano (ma la definizione è riduttiva, perché Bateson rilutta a ogni
inclusione nella tradizionale divisione delle scienze, e si muove tra
biologia, psichiatria, epistemologia, oltre che antropologia) un punto
centrale è rappresentato dalla guerra mossa all’«assunto antiestetico» della
scienza occidentale, ovvero alla convinzione, originata dalla «importanza
che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche»,
che «tutti i fenomeni, compresi quelli mentali, possono e devono essere
studiati e valutati in termini quantitativi»20, in Heidegger è costante la
polemica contro la scienza che riduce la natura a mero materiale
disponibile e con le sue «macchinazioni» asservisce l’intera terra al
dominio del Gestell, dell’«impianto» tecnico. L’influsso heideggeriano è
evidente soprattutto nel recente orientamento «geofilosofico». La
geofilosofia, che non a caso preferisce parlare, piuttosto che di ‘natura’ o
di ‘ambiente’, di ‘terra’, rifacendosi alla dicotomia heideggeriana tra Welt
e Erde (cioè tra la dimensione del ‘mondo’, dell’esplicito, della storia e
della cultura da un lato, e quella dell’implicito, dell’origine e della
chiusura in sé dall’altro), vede nella scienza moderna, nella scissione
cartesiana tra res cogitans e res extensa, la radice di quella «oggettificazione
spinta del reale» che è propria della modernità21, e ricerca «uno sguardo
che vada oltre la chiusura del modello che ha concepito la terra e le cose
soltanto come oggetti di sfruttamento e di dominio»22. In questa ricerca,
però, ritiene illusorio appoggiarsi alla considerazione estetica della natura
quale si è venuta configurando negli ultimi secoli, cristallizzandosi
attorno alla nozione di paesaggio. Essa infatti, nella prospettiva
geofilosofica, è soltanto l’altra faccia della pianificazione scientifica e dello
sfruttamento tecnico. Punto di vista scientifico e punto di vista estetico
sono complementari, anzi omologhi: «la natura è diventata un oggetto tra
altri oggetti, di cui si può disporre sia dal punto di vista scientifico e
economico che estetico; campo di indagine e di calcolo tecnico da un
lato, e dall’altro risorsa di sfruttamento immediato oppure oggetto di
fruizione soggettiva come paesaggio»23. Si tratta piuttosto di rifarsi alla
nozione heideggeriana dell’«abitare» come «aver-cura», per non smarrire
«il sentimento della natura come un tutto sacrale»24. Al «deserto» della
civiltà contemporanea si oppone la «foresta», anzi la «macchia» di chi,
come il ribelle di Ernst Jünger, si dà appunto «alla macchia» rivoltandosi
contro la crescente desolazione; all’omologazione planetaria dei «non-
luoghi», cioè di quegli ambienti che hanno perduto ogni legame locale e
si presentano identici dappertutto, come gli aeroporti, si oppone la
«provincia», il terreno della fedeltà alle tradizioni, alla autoctonia, all’ethos
della terra e al genius loci. Va dato dunque atto alla geofilosofia di non
ricercare la solita via d’uscita nella filosofia della natura; ma essa, che pure
fornisce contributi tutt’altro che trascurabili all’elaborazione di un
concetto rinnovato di paesaggio, liberato dalle strettoie panoramicistiche
(come vedremo nel prossimo capitolo), si mostra per altro verso troppo
legata all’impostazione heideggeriana, che segue un po’ troppo
pedissequamente non soltanto nel modo di pensare la tecnica moderna,
ma anche nella mitologia del ‘locale’ e del ‘provinciale’. È lo Heidegger
‘terragno’ e ‘montanaro’, con la mistica del radicamento nell’origine e il
folclore strapaesano della propria baita di montagna (per gli iniziati, la
Hütte di Todtnauberg, nei pressi di Friburgo), autore non a caso di testi di
un Kitsch grottesco sui monti e la natura selvatica, meritevoli di figurare,
per giusto contrappasso, nei dépliants turistici di qualche ridente località
alpina25.
Una netta affermazione della necessità, per l’estetica ambientale, di
trasformarsi in una più comprensiva filosofia della natura la troviamo invece
negli scritti di Gernot Böhme. «L’estetica che viene sostenuta in questo
volume – leggiamo proprio all’inizio di Per un’estetica ecologica della natura –
si considera come una parte di una nuova Filosofia della Natura». Per
Böhme, non è più possibile parlare della natura prescindendo dal rapporto
che essa ha con l’uomo, e dalla consapevolezza che l’essere umano stesso è
una parte della natura. Il rapporto distruttivo nei confronti della natura
implicato nella scienza moderna nell’economia industriale che ne deriva si
traduce immediatamente nel rapporto distorto che l’uomo ha con se
stesso in quanto natura, cioè col proprio corpo26.
La nuova Filosofia della Natura spera di trovare nell’«estetica classica
della natura», cioè nel modo in cui la bellezza naturale è stata pensata nella
modernità, una considerazione diversa del mondo naturale, un rapporto
non distruttivo e asservente. Si tratta tuttavia, a parere di Böhme, di una
speranza destinata ad andare rapidamente delusa. Infatti «un’analisi più
ravvicinata mostra che la relazione con la natura propria dell’estetica
classica rappresenta in sostanza soltanto il riflesso e la controimmagine
dell’estraneamento dalla natura stessa che caratterizza la relazione con la
natura propria della scienza e della tecnica moderne». Di conseguenza,
tutte le richieste che vengono rivolte all’estetica perché ci additi una via di
accesso alla natura alternativa a quella delle scienze tradizionali esigono un
mutamento e una nuova autocomprensione dell’estetica stessa. L’estetica
deve riallacciarsi al progetto originario del suo fondatore Baumgarten,
deve tornare a essere una teoria generale della conoscenza sensibile. Per
contribuire veramente al superamento di quanto di unilaterale c’è
nell’approccio scientifico alla natura, l’estetica deve reintegrare nel nostro
rapporto con le cose anche gli aspetti qualitativi, emozionali, quelli che
Böhme designa col nome di «atmosfere»27. L’altro presupposto per un
incontro e una fusione di estetica e scienza della natura è la rinascita di
una filosofia della natura, che è qualcosa di ben diverso dalle scienze
naturali quali oggi le conosciamo. Ci sono stati per Böhme tre grandi
epoche della filosofia della natura: quella presocratica, quella
rinascimentale, quella romantica. Oggi se ne profilerebbe una quarta,
nata proprio dalla nuova coscienza ecologica, che avrà come scienze guida
quelle biologiche e non più quelle fisiche. I suoi annunzi Böhme li scorge
nell’opera di Ilya Prigogine, nel Tao della Fisica di Fritjof Capra, e
naturalmente nel solito Bateson28.
Böhme critica Adorno e il suo tentativo di riabilitazione del bello
naturale. Ai suoi occhi, il limite di Adorno consiste nel fatto che la
Natura continua a essere per lui solo l’assolutamente altro dalla Società.
La sua rimane una teoria dell’arte, incapace di fondare l’estetica come
percezione allargata. Piuttosto che in direzione di Adorno, dunque,
l’estetica ecologica di Böhme si muove alla volta di quel recupero utopico
del bello naturale che si affaccia nell’opera di Ernst Bloch, per esempio nel
Principio Speranza29. «Le speranze che oggi leghiamo all’estetica della
natura – scrive Böhme – sono rivolte ad una riconciliazione dell’uomo
con la natura. Per la scienza e per l’estetica tradizionali la natura è sempre
stata l’assolutamente altro. Nell’estetica tradizionale non era mai in gioco
l’effettiva esperienza della natura, ma solo il giudizio su di essa. Invece
l’estetica ecologica non ha di mira il giudizio dell’uomo sulla natura, ma la
sua situazione emotiva nella natura». Occorre far sì che l’uomo si senta
una parte della natura, e che per lui diventi possibile un’autentica
esperienza sensibile di essa. Per questo il vero ideale della natura appare a
Böhme non la natura selvaggia, incontaminata, ma piuttosto il giardino,
che è del resto il più antico ideale di natura che l’uomo abbia elaborato.
Ma quale tipo di giardino? Non il giardino geometrico, alla francese, che
sottomette la natura a forme rigidamente pianificate e le sovrappone un
ordine del tutto estraneo e artificiale, quanto piuttosto il giardino
paesaggistico, all’inglese, che lascia la natura svilupparsi liberamente, e
rispetta le forme in cui essa spontaneamente si viene configurando. Nella
contrapposizione un po’ schematica di Böhme30, mentre il giardino
francese incarna «esattamente la relazione con la natura che è stata fino ad
oggi dominante perché il rapporto con la natura è indirizzato
all’appropriazione e al dominio», nel giardino inglese viene a esprimersi
una possibile «tecnica di alleanza» con la natura, giacché questo secondo
tipo di giardino «si sottrae alle dicotomie tradizionali [...] Natura e Arte,
Natura e Tecnica, Natura e Civiltà, Natura e Cultura».
Anche Enzo Tiezzi, che per formazione è uno scienziato e non un
filosofo (è docente di chimica all’Università di Siena) non disdegna di
porre la propria riflessione sotto l’egida della Naturphilosophie romantica.
La conclusione del suo ultimo volume, La bellezza e la scienza, si rifà
esplicitamente a I discepoli di Sais di Novalis. Ma Tiezzi getta subito un
ponte (tutt’altro che peregrino, dal punto di vista storiografico) tra
filosofia romantica della natura e, per esempio, teorie batesoniane: in
entrambi i casi si tratta di «mettere in discussione l’assunto antiestetico,
proprio della fisica di Newton e della filosofia di Cartesio, per cui in
scienza contano soltanto le quantità, le entità misurabili». La visione del
mondo come macchina non è più sufficiente per la nuova scienza
ecologica. «Lo studio dei sistemi viventi evidenzia il ruolo determinante
del tempo nella trasformazione delle strutture (sia molecolari sia
biologiche) e quello della forma nella relazione tra le specie. Viene così di
conseguenza recuperato il valore della ‘qualità’ e sottolineato il
fondamentale apporto scientifico dell’estetica della natura»31. Nelle pagine
di Tiezzi non si va molto oltre la generica richiesta che le scienze si aprano
all’aspetto qualitativo dei fenomeni naturali, e qualche altrettanto generica
tirata sulla bellezza della natura («Che cos’è la bellezza? È la terra con le
sue infinite, diverse creature; è questo pianeta, l’unico che abbiamo, con
la sua storia coevolutiva di 4.500 milioni di anni; è la natura che ci ha
insegnato, dai tempi remoti della fotosintesi e della nostra bisnonna ‘alga
azzurra’, a vivere in armonia con la complessità dei suoi cicli, delle sue
strutture, dei suoi ritmi»32).
È caratteristico però che Tiezzi passi quasi inavvertitamente
dall’atteggiamento estetico dell’osservatore del mondo naturale alla
presupposizione di un carattere estetico dei fenomeni naturali stessi. Per
esempio Tiezzi fa riferimento al «ruolo fondamentale dell’estetica nella
selezione biologica» per via della funzione che rivestono in determinate
specie di uccelli (per esempio nelle Paradiseae) la colorazione dei piumaggi
e i movimenti di danza nelle fasi di corteggiamento. «Gli uccelli del
paradiso, con la loro multiforme cromaticità, [...] possono ben
rappresentare il simbolo dell’estetica nella natura»33. Ma è facile sospettare
che dietro questa interpretazione si celi una proiezione antropocentrica:
dal fatto che noi riteniamo apprezzabili esteticamente certi fenomeni non
segue affatto che essi abbiano una funzione biologica in virtù della loro
bellezza. Al massimo, ma anche qui ci vorrebbero molte cautele, si
potrebbe, seguendo il percorso inverso, indicare un legame tra
acconciature e abbigliamenti vistosi e assolutamente non pratici nella
specie umana, e l’ipertrofia di certi caratteri sessuali secondari in
determinate specie animali, per esempio i sacchi laringei della Fregata
Minor.
Non è soltanto trasformandosi in filosofia della natura che l’estetica
ambientale fugge da quelli che sembrerebbero i suoi compiti istituzionali.
Altrettanto e persino più frequente è la dissoluzione dell’estetica della
natura in una più generale etica ambientale, l’abbandono delle analisi
propriamente estetiche a favore dell’inclusione in un discorso che ha i suoi
punti di riferimento nella morale. Abbiamo già visto che spesso il
compito dell’estetica viene inteso come ricerca di ulteriori argomenti per
la protezione della natura, e come su questa via essa finisca per inglobare
le considerazioni estetiche all’interno di una più generale responsabilità
etica nei riguardi della natura. Dobbiamo ora notare che questo passaggio
non viene affatto operato in modo surrettizio, ma che anzi esso viene
assunto come inevitabilmente connesso allo statuto della bellezza
naturale. Yrjö Sepänmaa, per esempio, inserisce l’estetica ambientale
nell’ambito di una più generale filosofia dell’ambiente, la quale appare
largamente coincidere con l’etica ambientale, se è vero che «l’etica è
sempre coinvolta nella protezione della natura»34. Arnold Berleant, a sua
volta, sottolinea subito i legami tra estetica ambientale ed etica, facendone
un punto di forza della propria Aesthetics of Environment: «a causa della
collocazione centrale del fattore umano, un’estetica ambientale coinvolge
profondamente la nostra comprensione morale dei legami tra gli uomini,
e la nostra etica sociale. [...] L’estetica, quindi, non è una fuga illusoria dal
regno morale ma diventa, infine, tanto la sua guida quanto il suo
compimento»35. Martin Seel concepisce l’estetica della natura in funzione
del «servizio» che essa può rendere alla fondazione «di un giusto modo di
comportarsi con la natura», e passa subito a parlare il linguaggio delle
obbligazioni morali: «Motivazioni estetiche raccomandano la protezione
della natura come possibilità offerta al vivere umano: l’imperativo del
rispetto per le condizioni naturali – e del loro trattamento prudente – si
origina qui dall’interesse portato ad una particolare possibilità di felicità
per l’esistenza umana»: «l’estetica tratta della natura come di una
dimensione privilegiata della prassi umana»36. L’estetica per Seel è una
parte dell’etica, ma ciò può accadere proprio perché Seel pensa innanzi
tutto all’estetica della natura («L’estetica è [...] parte di un’etica della
buona vita. Ciò vale in misura particolare per l’estetica della natura»), e
perché egli ha già inteso la bellezza naturale come sinonimo di una natura
‘buona’ («‘bello’, ‘sublime’, significa nella mia analisi soltanto qualcosa
come ‘buono-per l’essere umano’»), tanto da poter concludere: «La natura
bella o sublime, questo può mostrare l’estetica, è un luogo insostituibile di
un’esistenza non strumentalizzata e non strumentalizzante. L’etica può
accogliere questa veduta e render chiaro per suo conto che l’esperienza di
libertà nell’ambito del bello naturale riveste un valore esemplare per la
condotta umana di vita in genere»37.
Questo orientamento, del resto, è già ben trasparente nella Estetica della
Natura di Seel. Per quanto essa ambisca essere, come già si diceva, un
trattato sistematico e ordinato sulla bellezza naturale, che viene analizzata
sulla base di tre attitudini fondamentali che possiamo avere nei suoi
confronti, ovvero l’attitudine contemplativa, quella che vede nella natura
qualcosa che corrisponde ai nostri stati emotivi e quella che vi trova uno
spazio per l’immaginazione, in realtà tutto il volume sembra convergere
verso la ricomprensione dell’estetica della natura all’interno dell’etica, così
come la sua articolazione materiale converge verso un ultimo capitolo
intitolato, certo a ragion veduta, La morale del bello naturale. Del resto, Seel
dice fin dalla prefazione che per lui l’estetica della natura è parte di una
generale «Etica della vita buona»38, e l’ultima parte del suo libro non fa
che sviluppare organicamente questo presupposto. Le qualità estetiche
della natura hanno tutte un significato etico, e l’estetica della natura non è
soltanto una componente importante di una vita riuscita, è anche un
modello che ci illumina sulla sua possibile struttura. Il bello naturale non è
un bene di genere qualsiasi, ma un bene di tipo etico, perché l’esperienza
del bello naturale acuisce la nostra coscienza del problema morale di un
corretto rapporto con la natura, e ci rende consapevoli del fatto che essa
non è soltanto uno strumento, ma anche una possibilità di vita. Così Seel
prepara la strada alla deduzione che realmente gli sta a cuore: se la bella
natura è una componente della vita buona, allora la difesa della natura è
un imperativo di tipo etico, e il discorso sulla bellezza naturale trova in tal
modo un ancoraggio esterno all’esperienza propriamente estetica39.
In tale prospettiva, in cui l’estetica della natura è una parte dell’etica,
sembra aprirsi però un’asimmetria fortissima tra bellezza naturale e
bellezza artistica. Sebbene, infatti, tutto lo sforzo di Seel nelle altre sezioni
del suo lavoro vada verso l’affermazione della pari dignità di bellezza
naturale e bellezza artistica, la conclusione cui il suo libro mette capo
revoca in dubbio e mina alla radice proprio tale asserita parità. Infatti,
l’eteronomia che gli pare ovvio accettare nel caso del bello naturale (che
finisce per dipendere dall’etica) potrebbe essere difficilmente estesa al
bello artistico: non si può sostenere che l’arte trovi la sua giustificazione
nella sua funzione morale, o, per lo meno, l’estetica moderna si costituisce
proprio tramite il superamento di questo presupposto. Non per nulla il
discorso di Seel incontra le più grandi difficoltà quando cerca di fissare lo
statuto del bello naturale nella sua indipendenza da quello artistico; di
bellezza naturale, nel suo libro, si finisce per parlare assai poco, e sembra
che gli manchino proprio le parole per farlo. L’affermazione che si
incontra quasi subito, secondo la quale, il bello naturale non essendo
citabile, ci si riferirà sempre a descrizioni letterarie o a rappresentazioni
artistiche della natura, è di portata dirompente perché ci colloca subito nel
cuore della difficoltà odierna di pensare la bellezza naturale. Fare
dell’estetica della natura una provincia dell’etica, allora, al di là di tutte le
buone intenzioni, desta il sospetto che tale subordinazione sia una via di
fuga dalle aporie del nostro modo di guardare alla bellezza naturale. E fa
venire in mente che, se della filosofia dell’arte è stato possibile dire che in
essa manca spesso una delle due cose, o la filosofia o l’arte, forse
all’estetica della natura va anche peggio, dato che in essa mancano spesso
entrambe: tanto l’estetica che la natura.
Scienza e natura nell’estetica ambientale americana
Ma, anche ammesso che una conclusione così drastica valga per le
tendenze dell’estetica ecologica ‘continentale’, soprattutto tedesca, si potrà
dire qualcosa di simile per l’estetica ambientale di area anglosassone
(quella, potremmo dire, di ispirazione ‘analitica’, almeno in senso lato),
oppure quest’ultima si sottrae largamente, in virtù delle sue diversità, alle
critiche alle quali si può assoggettare la prima?
In effetti, anche se tra le due non mancano punti di contatto – il
condizionamento che esercita su entrambe il movimento ecologista, o la
tendenza a risolvere il discorso dell’estetica in quello etico, per esempio –
ökologische Aesthetik ed environmental Aesthetics presentano ognuna un
profilo proprio, che le rende difficilmente assimilabili. Le differenze tra i
due orientamenti si possono in gran parte ricondurre al diverso retroterra
filosofico in cui essi affondano le loro radici. Mentre l’estetica ecologica
‘continentale’ si occupa di preferenza dello statuto teorico della bellezza
naturale e delle sue implicazioni metafisiche, l’estetica ambientale di area
anglosassone si propone di analizzare la risposta che le qualità estetiche
dell’ambiente suscitano in noi, assumendo spesso un atteggiamento
osservativo e descrittivo. Non mancano, come sempre, le eccezioni,
perché per esempio la riproposizione del bello naturale che costituisce
uno dei punti qualificanti del volume di Mary Mothersill, Beauty Restored,
apparso in Inghilterra nel 1984, si inserisce in un contesto di forte
riaffermazione teorica della nozione di bellezza, che si vorrebbe rifondare
su un piano addirittura ontologico40; ma, insomma, quando si discute di
bellezza naturale in ambito inglese o americano si ha di mira in genere la
concreta reazione di un fruitore di fronte alla bellezza naturale, si vuole
capire che cosa abbia di specifico tale reazione e se sia possibile stabilire
dei criteri per la sua appropriatezza: dunque, qualcosa di parecchio
lontano dalle derive verso la filosofia della natura che caratterizzano molta
della estetica ecologica tedesca.
Tuttavia, pur in un quadro complessivo così mutato, e in una cornice di
riferimento tanto lontana, anche per l’environmental Aesthetics
angloamericana finisce per valere qualcosa di molto simile a quello che
abbiamo verificato per l’estetica ecologica tedesca. Accade, cioè, che non
si riesca a costituire precisamente la valenza estetica del nostro incontro
con la natura, e che essa perda ogni autonomia e ogni particolarità,
finendo per risolversi in un’esperienza di tipo diverso, sia essa di ordine
conoscitivo o etico. Il ruolo di un’esperienza estetica nella natura risulta
ancora una volta schiacciato da approcci che appaiono suscettibili di una
fondazione più rigorosa, meno soggetti alla variabilità e alla evanescenza
che si ritengono proprie dell’esperienza estetica, almeno quando
quest’ultima viene raggiunta attraverso il rapporto con la natura. Ancora
una volta, insomma, quello che a torto o a ragione viene ritenuto il limite
della bellezza naturale, ossia la sua scarsa istituzionalizzazione, la sua
riottosità a sottomettersi a parametri condivisi, la sua – come si dice
spesso – soggettività (quasi che esistano altrove valori estetici oggettivi),
produce uno spostamento radicale di campo: la famosa oggettività viene
cercata trasferendosi su un piano scientifico, ecologico, e spesso non ci si
avvede che in tale slittamento quello che è andato perduto è proprio il
presupposto stesso della ricerca, l’esperienza estetica della natura.
Ciò è tanto più sorprendente in quanto una delle questioni più spesso
tematizzate dall’environmental Aesthetics, quella dalla quale più di frequente
vengono prese le mosse, è la questione della demarcazione tra esperienza
estetica della natura ed esperienza estetica dell’arte. Ciò di cui si va in
cerca, in questa prospettiva, è quanto distingue e caratterizza l’esperienza
di bellezza che compiamo nella natura dall’esperienza analoga che
compiamo nel caso dell’arte. Anzi, per lo più accade che in tanto si
ritenga esista un problema dell’estetica ambientale in quanto si suppone
che l’esperienza che noi compiamo in natura sia di ordine strutturalmente
diverso da quella che compiamo dinanzi all’arte, abbia regole, modelli,
manifestazioni del tutto specifiche. In questo modo, però, l’estetica
ambientale va incontro a un curioso destino. Proponendosi di definire la
propria posizione in opposizione a quanto avviene nel campo dell’arte,
finisce per legarsi a doppio filo all’ambito dal quale intendeva
differenziarsi. Aspira a fondarsi come campo distinto e separato, ma in
realtà accentua la propria dipendenza, costringendosi spesso a ricalcare i
sentieri seguiti dai discorsi sull’arte.
L’origine di questa impostazione del problema della bellezza naturale si
può cogliere chiaramente già nell’articolo di Ronald W. Hepburn sul
Declino dell’interesse per la bellezza naturale nell’estetica contemporanea che,
come abbiamo visto, anticipa di più di un decennio le successive
discussioni. Hepburn, infatti, ha presente la situazione dell’estetica
nell’ambito della filosofia analitica, ed è per lui ovvio constatare che
l’estetica di impianto analitico si è quasi sempre ristretta a un esame del
linguaggio e delle argomentazioni della critica d’arte. Perciò egli
individua il compito di una teoria che non voglia trascurare la nostra
esperienza estetica di fronte alla natura innanzi tutto nella ricerca delle
differenze che oppongono quest’ultima all’esperienza estetica che si
compie dinanzi all’opera d’arte. «Gli oggetti d’arte hanno delle
caratteristiche generali che gli oggetti in natura non posseggono. Sarebbe
utile se si potesse dimostrare [...] che l’assenza di alcune di queste
caratteristiche non ha semplicemente effetti negativi e privativi, ma può
contribuire, in modo valido e positivo, all’esperienza estetica della
natura»41. Postosi su questa strada, egli nota che nell’esperienza della
natura noi per lo più non guardiamo gli oggetti come osservatori
distaccati, ma siamo circondati dagli oggetti, in mezzo ai quali ci
muoviamo, che ci coinvolgono e ci condizionano, cosicché due termini
chiave della teoria dell’arte, ‘distacco’ e ‘partecipazione’ assumono nel
contesto naturale un significato in gran parte nuovo; fa rimarcare che
l’oggetto artistico è sempre in qualche misura «in cornice», cioè separato
dagli oggetti contigui mediante qualche artificio che ne sottolinea
l’isolamento, laddove l’oggetto naturale è costitutivamente «senza
cornice», ovvero non è mai indicato con chiarezza quali siano i limiti di
ciò che dobbiamo prendere in considerazione. Ancora: l’oggetto artistico
è sempre frutto di una volontà creatrice, mentre in quello naturale manca
ogni possibilità di riportarlo a una spiegazione intenzionale, anche se il
punto di vista teistico (la natura come prodotto divino) e quello
naturalistico (la natura come frutto di un processo di adattamento)
possono in un certo senso reintrodurre un sentimento di ammirazione
per l’operato della natura, restituendo ad essa o al suo creatore un analogo
dell’intenzionalità.
Ma è soprattutto nei lavori di Allen Carlson che i paradossi di questo
approccio differenziale all’estetica della natura vengono in luce. Nel primo
dei molti saggi che lo studioso americano ha dedicato alla bellezza
naturale, Appreciation and the Natural Environment, del 1979, si comincia col
distinguere tre modelli di apprezzamento estetico dell’ambiente. Il primo
è quello che Carlson denomina object model: possiamo considerare un
oggetto naturale come se si trattasse di una scultura non figurativa,
contemplando la quale noi ci rivolgiamo innanzi tutto ai caratteri fisici
osservabili, al disegno, e, forse, ad alcune qualità espressive astratte. «Per
esempio – spiega Carlson – possiamo apprezzare una roccia o un pezzo di
legno abbandonato alla corrente marina nello stesso modo in cui
apprezziamo una scultura di Brancusi, rimuovendo l’oggetto, di fatto o in
immaginazione, da quel che lo circonda». Il secondo paradigma che
Carlson prende in considerazione è il landscape model. Si tratta di
apprezzare la natura come se si trattasse di uno scenario, ossia come se
avessimo di fronte una pittura di paesaggio, e quindi dando particolare,
anzi esclusivo rilievo alle qualità visive, al colore, al disegno. Entrambi i
modelli paiono a Carlson del tutto inadeguati a dar conto dell’effettiva
esperienza estetica che compiamo nella natura. In particolare, essi non
considerano l’ambiente come qualcosa in cui siamo immersi, non lo
considerano come un ambiente, cioè qualcosa che ci circonda e col quale
entriamo in contatto con tutti i nostri sensi, senza possibilità di
oggettivarlo. Nell’object model questa perdita è del tutto evidente (l’oggetto
è estratto e isolato da quel che gli sta intorno), mentre nel landscape model è
palese che noi trascuriamo che si tratta di un ambiente naturale, al punto
che lo esperiamo come se fossimo di fronte a una rappresentazione
bidimensionale. Occorre dunque rivolgersi, secondo Carlson, a un terzo
modello o paradigma, l’unico adeguato, che egli denomina environmental
model, e che deve salvaguardare il fatto che la natura è esperita come un
ambiente, e come un ambiente naturale.
Carlson lascia intendere che l’inadeguatezza dei due primi modelli
deriva dal fatto che essi pensano l’esperienza estetica nella natura sulla
base dell’esperienza estetica di fronte all’opera d’arte, anzi lo dice
esplicitamente: «i due approcci tradizionali, ciascuno dei quali assimila
l’apprezzamento della natura all’apprezzamento di alcune forme d’arte,
lasciano molto a desiderare». Ma, posto di fronte alla questione di
decidere che cosa sia da apprezzare esteticamente in un ambiente naturale,
egli torna a porre il problema in termini che appaiono ricalcati su quelli
del nostro comportamento nei confronti dell’opera d’arte (e anche questo
lo dice apertamente: «L’approccio che ho suggerito, il modello
ambientale, segue ancora dappresso la struttura generale del nostro
apprezzamento dell’arte»). Il punto, per Carlson, è il seguente. Nel caso
delle opere d’arte, noi possiamo sapere che cosa fare oggetto di
apprezzamento estetico e come farlo, perché siamo guidati dalla
conoscenza che ci è fornita dalla storia dell’arte, e dal fatto che le opere
sono nostre creazioni. Si tratta di trovare, per la natura, una conoscenza
che possa svolgere la medesima funzione. In altre parole, è evidente che
Carlson avverte il bisogno di istituzionalizzare il nostro rapporto con la
bellezza naturale, trovando per essa qualcosa che abbia la medesima
funzione delle istituzioni che orientano la nostra conoscenza dell’arte: le
poetiche, le storie dell’arte, i musei. E crede di trovare questo analogo
nella scienza naturale: «questa conoscenza (essenzialmente conoscenza di
senso comune o scientifica) mi sembra l’unico candidato che possa
giocare, in rapporto all’apprezzamento della natura, il ruolo che la nostra
conoscenza dei tipi di arte, delle tradizioni artistiche, e simili, gioca in
rapporto all’apprezzamento dell’arte». Se è vero che nella natura nulla
convoglia il nostro interesse verso determinati fuochi, come invece la
critica e la storia fanno per l’arte, è vero però anche che «alla domanda su
cosa apprezzare esteticamente nell’ambiente naturale deve essere risposto
in maniera analoga a quella in cui si risponde alla domanda simile
indirizzata all’arte». La differenza è rappresentata dal fatto che nel caso
dell’ambiente naturale la conoscenza rilevante è quella fornita dalla
scienza: «Se per apprezzare esteticamente l’arte dobbiamo aver conoscenza
delle tradizioni artistiche e degli stili che si riscontrano in tali tradizioni,
per apprezzare esteticamente la natura dobbiamo aver conoscenza dei
differenti ambienti naturali e dei sistemi e degli elementi che si trovano
all’interno di tali ambienti»42.
Questo «modello ambientale naturale», che forse potremmo definire più
esattamente un modello cognitivista della bellezza naturale, viene messo a
fuoco con maggiore chiarezza nel saggio successivo di Carlson La natura,
il giudizio estetico e l’oggettività, di due anni più tardi. Anche qui, il punto di
partenza è rappresentato dalla posizione di chi ritiene che vi siano
categorie adatte e non adatte per il giudizio sulle opere d’arte, e dunque
che il giudizio estetico in questo caso possa raggiungere una certa
oggettività, ma d’altra parte è convinto che nel caso della natura non vi sia
affatto la stessa possibilità, e quindi il giudizio estetico sulla natura
rimanga necessariamente un giudizio puramente relativo e soggettivo.
Carlson condivide la persuasione che noi apprezziamo le opere d’arte non
solo in virtù delle proprietà sensibili che esse hanno, ma anche
organizzando tali proprietà sulla base di appropriate categorie; è convinto
inoltre che le categorie utilizzate nei giudizi sulle arti non sono di utilità
quando si tratta di bellezza naturale; nega però che non sia possibile
dimostrare che ci sono categorie corrette e categorie non corrette nel
nostro apprezzamento estetico della natura. Nel giudicare esteticamente la
natura, noi non ci limitiamo a prendere in considerazione le sue proprietà
sensibili, ma organizziamo tali aspetti sensibili sulla base di categorie,
proprio come avviene per l’arte. Solo che in questo caso le categorie che
utilizziamo non sono categorie storico-stilistiche, ma categorie
scientifiche. Per esempio, possiamo considerare (correttamente) una
balena come un mammifero oppure (non correttamente) come un pesce,
un anemone di mare (correttamente) come un animale oppure (non
correttamente) come una pianta ecc. Gli enti naturali, quindi, non
ricadono sotto le categorie artistiche, ma ricadono sotto categorie
scientifiche o di «conoscenza comune».
Il discorso di Carlson mira a dimostrare che «la natura in genere può
essere ed è percepita attraverso tali categorie biologiche o geologiche», e
che «tali categorie funzionano psicologicamente in maniera simile alle
categorie artistiche». La differenza sta nel fatto che il fondamento della
correttezza delle categorie di riferimento è rappresentato, nel caso
dell’arte, dall’attività degli artisti e dei critici d’arte, mentre nel caso della
natura è rappresentato dall’attività degli scienziati e dei naturalisti.
«Quando l’apprezzamento estetico dell’arte viene considerato alla luce di
una giustificazione culturale, la componente della nostra cultura che
risulta rilevante è quella compresa in e rappresentata da storia dell’arte e
critica d’arte; laddove, quando l’apprezzamento estetico della natura è
oggetto di una considerazione analoga, la componente della nostra cultura
che risulta significativa è la scienza naturale e la storia naturale». Questo
vuol dire che per apprezzare effettivamente la natura «è essenziale
qualcosa di simile alla conoscenza e all’esperienza del naturalista». Non è
dunque strano, agli occhi di Carlson, che autori come John Ruskin o
Aldo Leopold, nei quali la sensibilità estetica per la natura era acutissima,
siano stati anche degli scienziati, dei provetti naturalisti43.
Successivamente Carlson ha riformulato le proprie tesi, senza
modificarle, in termini di opposizione tra la design appreciation che è
caratteristica delle opere d’arte tradizionali e una order appreciation che è
caratteristica degli oggetti naturali, oltre che di alcune opere d’arte di
avanguardia. Anche in questo caso appare evidente che il filo conduttore
di Carlson è sempre quello delle relazioni e delle distinzioni tra
apprezzamento estetico dell’arte e della natura, e il suo intento sempre
quello di mostrare che assimilare il secondo al primo «è sia un errore
teoretico che un danno per la fruizione». Carlson parla di design
appreciation per indicare quel tipo di relazione con l’opera d’arte che è
guidata dall’idea che si ha a che fare con la creazione di un artista. Tale
forma di fruizione è richiesta pressoché da tutta l’arte pre-novecentesca,
mentre applicarla alla natura, come quando si considera quest’ultima il
frutto della creazione divina, è sviante. Ci sono però, secondo Carlson,
opere d’arte recenti (quelle dell’action painting di Pollock, alcune opere del
surrealismo o del dada, e in particolare gli oggetti di Duchamp), in cui le
opere non sono frutto di una progettazione, ma sono esperimenti in cui
un fruitore seleziona oggetti di apprezzamento dal mondo che lo
circonda, e lo fa sulla base di riferimenti non-estetici. Ora, la fruizione
estetica della natura si sviluppa proprio sul modello della order appreciation.
Ed è a questo punto che si chiude il cerchio con le posizioni viste in
precedenza. Infatti, a fornire i criteri della order appreciation nel caso della
natura sono, ancora una volta, le scienze naturali: «In vista
dell’apprezzamento orientato verso l’oggetto non è affatto sorprendente
che le informazioni fornite dalla scienza naturale svolgano una funzione
nell’apprezzamento estetico della natura». Per esempio, conoscere la
teoria evoluzionista è importante per comprendere l’ordine che è
possibile ritrovare nella flora e nella fauna naturali; se si manca di tale
conoscenza, la biosfera può apparire semplicemente caotica44.
Le tesi di Carlson hanno dato vita a un ampio dibattito, anzi, come
prova pure il recente numero del «Journal of Aesthetics and Art
Criticism» dedicato all’estetica ambientale, gran parte dell’environmental
Aesthetics americana si è sviluppata come critica o difesa delle posizioni
appena viste. In un saggio pubblicato nel 1993 come contributo al volume
collettivo Landscape, Natural Beauty, and the Arts, Noel Carrol ha osservato
che il «modello ambientale» proposto da Carlson, accentuando in modo
esclusivo il ruolo delle conoscenze scientifiche nel nostro apprezzamento
della natura, non rende giustizia a un tipo di fruizione estremamente
comune, quella che consiste nella risposta emotiva suscitata in noi dalla
natura. «Fruire la natura implica per molti di noi – osserva Carrol – essere
commossi o emotivamente stimolati dalla natura stessa». Prendere in
considerazione soltanto il ruolo che le categorie oggettive forniteci dal
sapere scientifico svolgono nel fissare quel che è rilevante nella
considerazione estetica della natura significa trascurare il fatto che ci sono
modi di apprezzare la natura che sono preteoretici, che si basano non su
quanto sappiamo di ciò che osserviamo, ma sulle emozioni suscitate per
esempio dalla forza, dalla grandezza, dalla energia comunicateci da uno
spettacolo naturale. Per ammirare una cascata non ho bisogno di
conoscere i dati fisici che la riguardano (la portata d’acqua, la velocità
della caduta, l’impatto sull’ecosistema di cui essa fa parte); mi è sufficiente
sentire la potenza, la maestosità e la violenza di cui la natura dà prova.
Carrol non ritiene che il modello proposto da Carlson sia errato o
inutilizzabile; ritiene però ingiustificata la sua pretesa di valere come
unico modello corretto possibile della fruizione estetica della natura, e
vuol dunque affiancarvi il proprio arousal model (ossia, potremmo
riformulare, un modello dello «stimolo emotivo»): «Nella misura in cui
l’approccio di Carlson sembra legato a determinati tipi di conoscenza
‘professionale’ della natura quali requisiti per la fruizione, egli appare
indebitamente frettoloso nell’escludere alcune forme correnti di
apprezzamento estetico»45.
Più radicale la critica di Stan Godlovitch in un articolo del 1994 che
abbiamo già preso in considerazione per altri motivi. L’estetica «a-
centrica» da lui proposta si basa, come abbiamo visto, sul senso di mistero
suscitato dalla natura. Ma per avvertire il mistero che la natura è per noi,
argomenta Godlovitch, dobbiamo convincerci della insufficienza di un
approccio cognitivo, scientifico, quale quello proposto da Carlson: «Se la
Natura come un tutto elude la nostra scienza e la nostra emozione,
l’unico sguardo estetico appropriato ad essa è un senso di mistero [...]
Incontriamo il mistero in uno stato di apprezzamento privo di
comprensione; al massimo un riconoscimento dei limiti. Per attingere il
mistero ci si deve convincere della necessità di essere liberi da ogni
prospettiva, sia sensoriale sia categoriale»46. Tornando a punti di vista più
tradizionali, uno studioso giapponese, Yuriko Saito, che era stato tra i
primi a criticare Carlson47, obietta a Carlson che persino il modello
pittorico o pittoresco di apprezzamento della natura (quello che consiste
nel guardare alla natura come a una rappresentazione pittorica di essa)
non può essere messo del tutto fuori gioco dal modello cognitivo. Un
approccio che veda nella natura semplicemente qualcosa che si può godere,
è in grado di accrescere il piacere che traiamo dalla natura anche in
assenza di dati conoscitivi48. Emily Brady e Cheryl Foster, infine,
criticano il modello di Carlson facendo leva soprattutto su quel che tale
modello lascia fuori dal proprio orizzonte. Per Brady, si tratta in primo
luogo dei valori percettivi e immaginativi. «L’immaginazione, assieme alla
percezione, può fornire l’intelaiatura per un modello che presenta
numerosi vantaggi rispetto a quello basato sulla scienza. Innanzi tutto,
esso assicura uno sfondo per l’apprezzamento della natura che è basato su
fonti familiari all’estetica, come percezione, immaginazione, disinteresse.
In contrasto con la conoscenza scientifica, percezione e immaginazione
forniscono un’intelaiatura che è chiaramente di natura estetica e che, nella
pratica, rende il valore estetico distinguibile dagli altri valori ambientali,
per esempio quelli ecologici, storici, e culturali». Un secondo vantaggio è
rappresentato dal fatto che il modello proposto libera dalle costrizioni
della conoscenza scientifica, posto che immaginazione e percezione
facilitano la focalizzazione estetica piuttosto che quella intellettuale; un
terzo, dal fatto che l’approccio proposto non richiede una conoscenza
specifica da parte del fruitore, il che ha importanza anche relativamente
alle decisioni pratiche rispetto all’ambiente, perché legittima l’intervento
in esse dell’uomo comune e di colui che abita e si muove nell’ambiente in
questione49. In modo per molti versi simile, Foster affianca al modello
ambientale di fruizione della natura un modello che denomina
«narrativo». Nell’apprezzare l’ambiente naturale, noi ci lasciamo guidare
anche da qualcosa che sta prima, dietro e oltre quello che vediamo
effettivamente, per esempio legando la natura osservata a dati storici,
oppure a racconti mitologici. Anche in questo caso, non si tratta di
mettere in dubbio la produttività delle conoscenze scientifiche per
l’apprezzamento della natura, ma di affiancarvi un’altra possibile forma di
approccio: «Ridurre ogni forma di apprezzamento estetico alla
dimensione narrativa costituisce egualmente un errore, che va nella
direzione di distillare dall’esperienza solamente quel che si adatta ad
un’attitudine altamente specialistica e culturalizzata, l’attitudine
dell’espressione discorsiva e idealizzata»50.
Chi invece difende le posizioni di Carlson nega che il suo modello sia
eccessivamente intellettualistico e insiste sull’imprescindibilità delle
conoscenze scientifiche per la fruizione estetica della natura. Cosi Marcia
Muelder Eaton: «Nel caso dell’apprezzamento estetico della natura
l’esame è basato sulla e arricchito dalla conoscenza scientifica dei prodotti
naturali; senza di essa non si potrebbe essere sicuri che la propria risposta
sia una risposta alla natura e non a qualcosa d’altro». Un’equilibrata
estetica della natura è fondata, orientata e arricchita dal sapere ecologico.
Esso non elimina il piacere estetico, ma lo incrementa51. E così Holmes
Rolston III: «La scienza ci aiuta a vedere il paesaggio nel modo più libero
dalle nostre soggettive preferenze umane [...] L’esperienza estetica è
costituita sia attraverso la scienza naturale sia attraverso un’esperienza
partecipativa alla storia naturale»52. Sono le stesse convinzioni ribadite da
Carlson nelle risposte ai suoi critici: «un appropriato apprezzamento
estetico della natura richiede conoscenza della natura e la conoscenza
significativa è quella fornita dalle scienze naturali e dai loro antecedenti e
analoghi nel senso comune»53.
È certamente singolare che pressoché tutti i critici di Carlson non
mettano in discussione il suo «modello ambientale»54, ma si limitino a
spezzare una lancia a favore di modelli che essi per primi presentano come
complementari a quello basato sulle scienze naturali. È singolare, perché i
presupposti e gli argomenti di Carlson meritano di essere esaminati e
discussi per se stessi, non tanto in vista di una loro confutazione, quanto
perché si rivelano sintomatici di un atteggiamento verso la bellezza
naturale che è forse quello oggi dominante, e che implica una totale
dipendenza dei valori estetici da quelli ambientali. Ci si può chiedere, per
esempio, se alcune teorie del paesaggio e alcune legislazioni paesaggistiche
che esamineremo nel capitolo successivo non incarnino pienamente,
senza saperlo e senza volerlo, i criteri fatti propri da Carlson. I quali però,
a un esame ravvicinato, si rivelano tutt’altro che esenti da problemi.
Innanzi tutto, è strano che nessuno abbia notato l’evidente asimmetria tra
le categorie storico-stilistiche nel caso dell’arte e le categorie scientifiche
in quello della bellezza naturale, che invece sono del tutto omologhe nel
ragionamento di Carlson. Le categorie storico-stilistiche, infatti, sono già
delle categorie specificamente estetiche, mentre le categorie scientifiche
non lo sono. Il paragone funzionale sarebbe corretto se il confronto fosse
fatto, sul versante dell’arte, non con le categorie storico-artistiche, ma con
quelle, per esempio, fisiche o chimiche. Infatti, sostenere che la categoria
«pittura cubista» svolge nei confronti di un dipinto di Picasso (è uno degli
esempi di Carlson) la stessa funzione che la categoria «conifera» o
«latifoglia» nel caso del nostro apprezzamento di una pianta, mette in
ombra che nel primo caso abbiamo a che fare con una categoria che è già
frutto di un’interpretazione estetica. La vera corrispondenza si avrebbe
con i dati chimici sui colori, o quelli fisici sui supporti, ecc. Sembra però
che Carlson talvolta sia incline a sostenere qualcosa di diverso, e cioè che
le categorie scientifiche funzionano nel caso della natura come, per
esempio, le informazioni di natura storica nel caso delle opere d’arte. Ma,
anche se si accetta questa seconda e diversa versione, nascono nuovi
problemi. Carlson rifiuta di considerare che le conoscenze che egli ha in
mente svolgono, nel caso dell’arte, una funzione di sfondo, e, per quanto
preziose, non è da esse che discende il valore estetico. Sapere che in un
ritratto è rappresentato Carlo VIII è certamente utile per la nostra
conoscenza dell’opera, ma se sostenessimo che è essenziale per il giudizio
estetico ci troveremmo poi a dover spiegare che cosa accade quando
guardiamo un ritratto di ignoto. In effetti, il ruolo delle conoscenze
scientifiche nel caso dell’apprezzamento estetico della natura sembra
paragonabile, più correttamente, a quello, per esempio, dei dati
iconologici rispetto alla pittura. Nessuno nega che una conoscenza dei
dati naturalistici relativi a un certo ambiente sia utile per sostanziare e
ampliare anche il nostro apprezzamento, per esempio, paesaggistico: è
noto che posti di fronte a paesaggi completamente nuovi, nei quali, per
esempio, non riconosciamo alcuna specie arborea familiare, possiamo
avere difficoltà di fruizione; ma l’inverso, ossia sostenere che dobbiamo
avere una precisa conoscenza bio-ecologica, è non meno azzardato.
Infatti, si può notare come Carlson sia del tutto evasivo, o impreciso,
quando si tratta di determinare che tipo di conoscenza scientifica egli ha in
mente. Si oscilla tra la conoscenza fornita dalle scienze naturali e una non
meglio precisata «conoscenza di senso comune», ma è evidente che si
tratta di due cose ben diverse: la seconda infatti è, per definizione, alla
portata del fruitore comune, il quale sarà in grado di distinguere, o di
imparare a distinguere, una quercia da un abete, un prato naturale da un
seminativo, ma, altrettanto certamente, non sarà in grado di conoscere il
metabolismo della piante, i parassiti che possono infestarle, le malattie a
cui vanno soggette. E questa è un’ulteriore, poco sostenibile conseguenza
della posizione di Carlson. A rigore, infatti, se si applicano i suoi criteri
bisognerebbe concludere che nessuno può essere in grado di apprezzare i
paesaggi e gli ambienti nella loro varietà. Nessuno infatti può essere,
insieme, geologo, botanico, agronomo, glaciologo, biologo ecc. Ne segue
che al massimo un singolo tipo di paesaggio potrebbe essere apprezzato
dall’esperto, e nessuno dal fruitore comune che non possiede alcuna
conoscenza specialistica.
Tutti questi inconvenienti, comunque, sono secondari rispetto al limite
saliente della sua posizione: se si accetta la tesi di Carlson per cui la storia
naturale svolgerebbe nei confronti della fruizione estetica dell’ambiente la
stessa funzione che la storia dell’arte svolge nei confronti
dell’apprezzamento estetico delle opere d’arte, non si capisce letteralmente
più che cosa sia un’esperienza estetica nella natura, in quanto essa viene a
coincidere esattamente con un’esperienza di tipo conoscitivo o
scientifico. È del tutto esatta l’osservazione di Brady in proposito: «il
valore scientifico e quello estetico diventano indistinguibili nel processo
deliberativo. [...] Il valore ecologico gioca un ruolo dominante nel
processo che conduce alla decisione di come preservare e gestire
l’ambiente naturale, e tuttavia il valore estetico viene spesso respinto come
troppo soggettivo e troppo difficile da misurare, e così cessa di avere un
ruolo importante in rapporto ad altri valori. Per assicurare che il valore
estetico venga trattato seriamente nella pratica, abbiamo bisogno di un
modello dell’apprezzamento estetico della natura che sappia ricavare una
posizione distinta per l’apprezzamento estetico e che permetta di
considerare il valore estetico come non meramente arbitrario e
soggettivo»55. Ma questo è precisamente quel che non accade nella
prospettiva di Carlson, il quale finisce per dissolvere l’estetica della natura
nella scienza, o, in modo non dissimile da quanto abbiamo visto accadere
in molte tendenze dell’estetica ecologica tedesca, nell’etica. In ultima
analisi, infatti, anche per Carlson la presa di posizione a favore delle
categorie scientifiche è dettata da una motivazione morale: «Se il nostro
apprezzamento estetico della natura aiuta a determinare le nostre vedute
etiche in rapporto alla natura, allora il nostro apprezzamento estetico della
natura dovrebbe rivolgersi alla natura come essa è in realtà piuttosto che
alla natura come essa appare. Apprezzando esteticamente la natura per
quel che essa è in realtà, noi daremo alle nostre vedute etiche una
direzione tale, che vi sarà la migliore opportunità per dare giudizi etici
equilibrati in rapporto ad argomenti ambientali ed ecologici»56.
Carlson può appiattire la nostra fruizione estetica della natura sulle sole
categorie scientifiche perché trascura completamente i riferimenti
culturali che entrano continuamente in essa. Le montagne non sono mai
per noi un dato puramente geologico, come pretenderebbe Carlson; nel
nostro rapporto con esse si sedimentano gli episodi storici che le hanno
avute per protagoniste, i dipinti o le foto di paesaggi alpestri che abbiamo
avuto occasione di osservare, i resoconti delle scalate, le meditazioni
filosofiche sul sublime, le leggende e le tradizioni popolari; se siamo nati
nel luogo esse si collegheranno a valori affettivi e a ricordi; se siamo
cittadini si coloreranno del fascino dell’ignoto, dell’avventura, della
libertà. Un libro come Paesaggio e memoria di Simon Schama, dove singoli
ambienti naturali – le foreste del centro Europa, il Nilo o le montagne
svizzere – diventano il crocevia di mille storie diverse, di reminiscenze
apparentemente inesauribili, è una sorta di confutazione in re della
posizione di Carlson, che appare particolarmente insostenibile a chi,
come noi europei, è abituato a vivere in paesaggi in cui il dato naturale si
unisce a mille tracce di cultura. Non si comprende perché nell’osservare
esteticamente la natura dovrebbe contare solo quel che ci insegnano la
botanica e la zoologia, e non quel che ci insegnano la storia, il folclore, la
mitologia, l’arte, la poesia. Nella teoria dell’environmental Aesthetics sembra
non esserci spazio per tutti gli infiniti casi di interazione tra opera umana
e natura, a cominciare da quello del giardino. Solo fingendo di ignorarli è
possibile presentare come una verità lapalissiana quella che è invece una
proposizione altamente problematica: «Non è certo sorprendente che le
storie umanistiche e le scienze umane siano rilevanti nell’apprezzamento
degli artefatti, laddove le scienze naturali sono rilevanti per
l’apprezzamento della natura»57.
Arte e natura nell’estetica ambientale
Se Carlson è spinto a elaborare il proprio modello cognitivo dal bisogno
di trovare delle categorie che svolgano per l’apprezzamento estetico
dell’ambiente una funzione analoga a quella svolta dalle categorie storico-
artistiche per l’arte, in altri esponenti dell’environmental Aesthetics la ricerca
di omologie con l’arte porta in direzioni diverse, ma non meno cariche di
problemi. Lo si vede bene nei lavori di Arnold Berleant, in particolare nei
due volumi The Aesthetics of Environment, del 1992, e Living in the
Landscape, del 1997. Quando Berleant parla di «estetica dell’ambiente»,
intende il termine nel senso più ampio: non soltanto l’ambiente naturale
(la pura natura non toccata dalle mani dell’uomo, nota Berleant, è sempre
più rara, e al limite non può mai essere esperita come tale, perché la
nostra concezione della natura è sempre condizionata culturalmente e
storicamente), ma ogni contesto in cui ci troviamo a vivere e operare,
quindi anche l’ambiente naturale modificato dall’uomo, per esempio nella
campagna coltivata, o anche l’ambiente in larghissima parte artificiale
delle nostre città, e persino l’ambiente interamente finto di Disneyland58.
Proprio se superiamo l’idea dell’ambiente come natura, o come ciò che
semplicemente è «esterno a noi», e ci rendiamo conto che persona e
ambiente formano un continuo, evitando di incorrere in un dualismo tra
uomo e ambiente, ci rendiamo conto che è sbagliato supporre, come fa
Carlson, che sia necessario elaborare due estetiche, una, basata sulle
conoscenze scientifiche, per la natura e una, basata sulle conoscenze
storico-artistiche, per l’arte. Una stessa estetica può dar conto
dell’esperienza della natura e di quella dell’arte, ma a patto che si superi
l’idea del carattere disinteressato del nostro rapporto con l’una e con l’altra.
A un’estetica del disinteresse, inteso come sinonimo di distacco, di
separatezza, di opposizione tra soggetto e oggetto e di rescissione di tutti i
legami pratici, Berleant oppone un’estetica dell’engagement, ossia,
potremmo dire, del coinvolgimento. L’esperienza dell’ambiente ci
insegna appunto che nell’ambiente noi siamo sempre immersi senza
possibilità di oggettivarlo, e che siamo ad esso legati non solo con i sensi
‘nobili’ che salvaguardano la nostra distanza dalle cose, come la vista e
l’udito, ma anche dai sensi ‘bassi’ del tatto, dell’olfatto e del gusto, che alle
cose invece ci legano strettamente.
Se torniamo all’arte forti di questa esperienza, ci avvediamo che in molti
casi (Berleant sceglie ovviamente l’esempio più facile, l’architettura) l’arte
stessa ci coinvolge e ci lega con nessi che non sono solo contemplativi59.
Delle due strade possibili, la scelta consueta di «guardare all’estetica
dell’ambiente come a un tipo di godimento apprezzativo distinto e
differente dall’arte» e quella di «considerare l’apprezzamento dell’arte e
quello della natura come essenzialmente il medesimo», Berleant sceglie
dunque la seconda che a suo parere «ci obbliga ad abbandonare la
tradizione a favore di un’estetica che faccia posto all’arte e alla natura su
basi paritetiche». Si apre così la strada verso una «estetica del
coinvolgimento» che «conduce a riorganizzare la teoria estetica, una
revisione che è particolarmente congeniale all’estetica ambientale, nella
quale la continuità del coinvolgimento nel mondo naturale prende il
posto dell’apprezzamento contemplativo di un bell’oggetto o di una bella
scena»60.
Nelle intenzioni di Berleant, dunque, dovrebbe essere l’estetica
ambientale ad agire su quella tradizionale modificandone gli assunti; e
dovrebbe essere il paradigma dell’interazione che nasce dalla
considerazione dell’ambiente a soppiantare la veduta tradizionale del
disinteresse anche nel campo dell’opera d’arte. Ma chi prende in mano i
suoi libri è colpito assai di più dal passaggio opposto, non si sa quanto
desiderato da Berleant: è l’estetica ambientale a modellarsi sugli istituti
dell’estetica ‘tradizionale’, ed è il nostro approccio all’ambiente a ricalcare
piuttosto pedissequamente le orme dei discorsi sull’arte. Tanto vero che i
due capitoli teoricamente centrali del volume di The Aesthetics of
Environment (gli altri, a parte quelli già citati, sono per lo più occupati da
descrizioni o applicazioni) sono dedicati a due modi di accedere
all’ambiente, l’«estetica descrittiva» e la «critica ambientale» che sembrano
presi di peso dal mondo dell’arte e trasferiti, non si sa con quanto
costrutto, a quello della bellezza naturale. L’«estetica descrittiva»,
dovrebbe, nella terminologia inutilmente roboante di Berleant, affiancarsi
alla «substantive Aesthetics» e alla «Metaesthetics» come terza branca
principale. Ma, al di là della denominazione, non ci vuol molto a capire
che si tratta del consueto processo di illustrazione verbale delle opere
d’arte, esteso agli ambienti naturali e non, una sorta di ekfrasis applicata
alla natura e agli ambienti («Se l’estetica descrittiva è una forma di ricerca
appropriata nel caso delle arti, essa si adatta particolarmente bene
all’estetica ambientale. L’ambiente esibisce molte delle qualità e degli
aspetti della percezione estetica più esplicitamente e più vigorosamente
che nei nostri incontri consueti con le arti»61).
Ritenendo evidentemente non sufficiente la definizione della cosa,
Berleant passa a offrirne degli esempi concreti. Ecco quindi la descrizione
di «Un’escursione in canoa sul fiume Bantam», e quattro «Scene da un
paesaggio del Connecticut»: «Guidando sotto la pioggia di primavera»,
«Un pomeriggio d’estate a Norfolk», «Una passeggiata d’autunno nei
boschi di Lichtfield», «Sciare su un lago ghiacciato». Sebbene l’autore
scriva che le sue descrizioni «tentano di catturare le straordinarie
sensazioni di un istante e di un luogo nella loro singolarità», il lettore ha
piuttosto l’impressione di trovarsi di fronte a una fiera di banalità:
«Comincio a far muovere la mia canoa lungo la stretta, calma corrente.
Iniziano a emergere i dettagli: macchie di erbe e di arbusti, le ondulazioni
della riva, un albero con le foglie segnate da gelo, che brillano gialle nella
luce del sole. La discesa del fiume è fatta di aspetti particolari, un
panorama continuo, lungo piuttosto che largo, prossimo piuttosto che
drammaticamente distante». Oppure: «Sciando lentamente lungo una
pista raramente usata, vedo molte impronte recenti di animali. Per lo più
sono conigli, ma ci sono anche impronte di scoiattoli e di gatti. Ci sono
pure i segni di topi che hanno lottato coraggiosamente nella soffice
polvere fresca, ma mi meraviglio dell’assenza del cervo, frequente in
quest’area. [...] Mi sto muovendo in un paesaggio in chiaroscuro. Come
in una fotografia stampata su carta ad alto contrasto, tutto è molto chiaro
o molto scuro: sempre verdi verde-neri, ghiaccio blu-nero, il riverbero
della neve intatta lungo l’estensione del lago e sul declivio arborato dietro
di esso». È un miscuglio di piatte descrizioni, di luoghi comuni più che
prevedibili, di aggettivazioni ovvie, di immagini che ci sembra di aver già
visto mille volte. Berleant scrive: «L’estetica descrittiva e le scritture sulla
natura possono evocare il medesimo senso di coinvolgimento ambientale,
e un’antologia di estetica descrittiva dovrebbe certamente contenere
aspetti di tutte e tre [...] ma sebbene l’elemento descrittivo sia comune a
tutte, il predominio degli aspetti cognitivi, comunicativi e partecipativi
suggerisce la differenza tra l’estetica e le arti letterarie»62. Riportiamo
questa dichiarazione non per ribadire quel che è già chiaro, ossia che il
descrittore, nella fattispecie, non possiede nessuna delle qualità che
richiama, ma per sottolineare quel che a Berleant sfugge, e cioè che le
descrizioni della natura sono sopportabili solo quando a farle è un’artista,
o almeno qualcuno dotato di spirito artistico, e che altrimenti si cade nella
goffaggine, quando non apertamente nel ridicolo.
Ma l’«estetica descrittiva» è per Berleant soltanto un passo in direzione
di un’attività ancora più chimerica e stramba, ossia la «critica ambientale».
Se c’è una critica artistica, si argomenta col solito apparente buon senso,
perché non dovrebbe esserci una critica ambientale? «Il medesimo
approccio seguito nella critica delle arti può essere applicato egualmente
bene all’ambiente, e le medesime domande che possono essere rivolte alla
critica delle arti possono essere rivolte anche, con piccoli adattamenti,
all’ambiente»; «lo scopo della critica d’arte è quello di accrescere il valore
estetico arricchendo l’esperienza apprezzativa. La critica estetica
dell’ambiente ha esattamente la stessa funzione»63. Berleant passa in
rassegna una serie di obiezioni alla «critica ambientale» (nell’ordine: nel
caso dell’ambiente, non c’è un oggetto determinato come nel caso delle
opere d’arte; non c’è un artista a cui far risalire la responsabilità dell’opera;
non c’è una tradizione in base alla quale esaminare o giudicare, come
accade con la storia dell’arte; non c’è possibilità di confronti con altre arti,
come accade per esempio tra cinema e narrativa, pittura e scultura ecc.).
Manca l’unica obiezione conclusiva: che, se non è mai esistita una critica
dell’ambiente o del paesaggio, evidentemente è perché tale critica, almeno
nelle forme ricalcate sulla critica artistica che Berleant immagina, non ha
alcun senso. La funzione che Berleant pensa si debba ascrivere a una
fantomatica «critica ambientale» è già svolta dalle descrizioni letterarie, dai
libri di viaggio, dalle opere dell’arte figurativa, dai progetti architettonici
che tengono conto dell’ambiente in cui si inseriscono, dall’architettura di
paesaggio, dai progetti dei giardini: tutte forme che fanno già quello che la
critica ambientale dovrebbe e probabilmente non saprebbe fare, cioè
insegnarci a vedere la natura.
Eppure la strana idea di una critica ambientale affascina più di un teorico
dell’estetica della natura. Anche il finlandese Sepänmaa, e del tutto
indipendentemente da Berleant, anzi sei anni prima di lui, basa gran parte
del suo volume sulla Bellezza dell’ambiente su un’estensione alquanto
meccanica delle istituzioni che orientano il giudizio sulle arti al giudizio
sulla natura. «L’arte come istituzione è un risultato relativamente tardo
dello sviluppo culturale. Ma, nonostante ciò, essa è al momento ben più
solida dell’ambiente», scrive, lasciando intendere che sia solo questione di
tempo e, così come una critica artistica in senso moderno non è sorta
prima del Settecento, una critica ambientale potrebbe sorgere nel futuro.
Per Sepänmaa, infatti, l’arte sta all’ambiente così come la critica d’arte sta
alla critica ambientale; non solo: «le basi della critica ambientale [...] sono
da un punto di vista teorico quasi del tutto le stesse di quelle della critica
d’arte»64. Egli si rende conto, a tratti, che i veri «critici ambientali» altri
non sono che gli artisti che operano nella natura, che la rappresentano o
che ne progettano l’assetto (per esempio gli architetti del paesaggio), ma
poi la voglia di trovare corrispondenze a ogni costo gli riprende la mano,
e afferma che le «vedute» – ossia i famigerati luoghi da cui si possono
godere i bei panorami, che sono piuttosto luoghi di corrompimento che
di educazione del gusto paesaggistico – svolgono nei confronti
dell’ambiente la stessa funzione che svolgono per l’arte i «classici» artistici,
o anche, riprendendo gli argomenti di Carlson, che almeno nel caso della
natura intatta sono gli scienziati naturalisti gli unici veri «critici
ambientali»65.
È curioso quello che accade a questi teorici quando prendono in
considerazione i rapporti tra mondo dell’arte ed esperienza estetica della
natura: sembra che essi non vedano i rapporti che, storicamente, hanno
intrecciato i due versanti, mentre vanno in cerca di analogie che non ci
sono, e ne creano di assolutamente distorte. Non c’è dubbio, per esempio,
che storicamente la protezione della bellezza naturale si sia presentata,
inizialmente, come estensione della protezione della bellezza artistica. I
parchi naturali sono stati spesso considerati, quando si è cominciato a
sentirne la necessità, come l’equivalente del museo (e non sempre chi lo
diceva pensava al museo di storia naturale); il danneggiamento delle
bellezze naturali, anche nel nostro codice penale, risente della normativa
analoga per le bellezze artistiche, come dimostra lo strettissimo
parallelismo tra l’art. 734 del nostro Codice penale (che punisce la
Distruzione o deturpamento di bellezze naturali) e il precedente art. 733 (che
punisce il Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico
nazionale)66; soprattutto, è indubitabile che in molte legislazioni
paesaggistiche (inclusa la nostra) la tutela del paesaggio e il vincolo
paesaggistico hanno esordito nei codici come propaggine e applicazione
particolare del vincolo sui beni storico-artistici. Ma i nostri teorici
ambientali difficilmente lo ricordano, come pure sono inclini a
dimenticare un salutare parallelo con le opere d’arte quando è in
questione la valutazione empirica del paesaggio. Un nutrito filone di
riflessioni in proposito, infatti, affronta il problema della valutazione del
paesaggio ai fini della sua salvaguardia, spesso caldeggiando l’uso di
inchieste o sondaggi d’opinione che stabiliscano che cosa la popolazione
di un determinato luogo apprezzi nell’ambiente che lo circonda67. E così
nasce la difficoltà di trovare degli standard obbiettivi per equiparare le
diverse risposte, o quella di selezionare il pubblico abilitato a dare i pareri
(se ci rivolgiamo ai residenti, come sembrerebbe ovvio, le risposte, oltre a
essere condizionate da fattori affettivi, andranno più a rischio di subire
pressioni da parte di interessi pratici), o ancora quello di stabilire una sorta
di graduatoria tra i termini attestanti l’apprezzamento verso un
determinato ambiente, ecc. Nel mito della consultazione popolare in
materia di paesaggio agisce un malinteso egualitarismo e una mistica della
democrazia ‘dal basso’ che sarebbero degni di miglior causa, perché la
convinzione di fondo è quella che i molti vedano meglio dei pochi esperti
o di coloro che, avendo una maggiore sensibilità in queste materie, si
sono organizzati in associazioni specifiche (come è il caso, nel nostro
paese, di Italia Nostra o del Fondo Ambiente Italiano). Ecco una
circostanza in cui il parallelo con le arti sarebbe salutare, perché nessuno si
sognerebbe di far decidere gli acquisti di un museo dagli abitanti della
città, ma tutti si rivolgerebbero agli esperti. Invece, l’environmental
Aesthetics ripudia l’omologia con l’esperienza artistica quando essa
potrebbe servire, e la insegue quando produce soltanto artificiose
corrispondenze o distorsioni teoriche. A tutti coloro i quali sognano
meccaniche corrispondenze tra il nostro modo di apprezzare l’arte e il
nostro modo di vivere la bellezza naturale, a chi immagina critici
ambientali che recensiscano un bosco come se fosse una prima teatrale, o
descrivano un lago come se si trattasse di raccontare la trama di un film,
dovrebbe sempre essere ricordata la profonda verità enunciata da Adorno:
«Il bello naturale viene determinato dalla sua indeterminatezza, che è
dell’oggetto non meno che del concetto. In quanto indeterminato, anzi
antitetico alle determinazioni, il bello naturale è indeterminabile, in ciò
parente della musica che in Schubert traeva i più profondi effetti da tale
innaturale somiglianza con la natura»68.
Leggendo i teorici dell’environmental Aesthetics, si ha continuamente
l’impressione che tanto parlare di natura e di esperienza estetica nella
natura non sia sostenuto da una spontanea e sincera partecipazione alla
bellezza naturale, che le schermaglie teoriche e le sottigliezze
argomentative coprano una sostanziale incapacità di comunicare una vera
passione per l’esteticità naturale. Il lettore si muove tra esempi lambiccati,
casi chiaramente di scuola, falsi problemi. A tratti, sembra di ripiombare
in qualcosa di simile alle disquisizioni degli hegeliani o alla sistematica
complessa e inutile dei trattati sulla bellezza naturale di secondo
Ottocento. Quando Carlson si chiede, in tutta serietà, se sia necessario
sapere che la balena è un mammifero per apprezzarla esteticamente, ci
viene in mente piuttosto che nessuno di noi vedrà mai una balena, se non
in qualche documentario; e che forse tra quel che sappiamo o crediamo di
sapere sulle balene conta assai di più, a crearcene un’immagine estetica,
quello che abbiamo letto in Moby Dick (anche se questo non significa
necessariamente, come vedremo, ridurre la nostra percezione estetica
della natura a un mero riflesso della nostra percezione artistica). Quando i
teorici ambientali si chiedono, senza sorridere, se le differenze tra i diversi
ambienti (montagna, fiume, palude, mare) possono essere paragonate a
quelle tra le diverse arti, o se le specie animali naturali possono funzionare
come le differenze tra i generi artistici69, il primo impulso è di mandarli al
diavolo perché solo a chi ha un rapporto intellettualistico e falso con la
natura possono venire in mente questioni tanto peregrine. Un segno
estremamente indicativo di questa scarsa apertura alle manifestazioni
effettive della bellezza naturale, che è poi l’incapacità di vedere
quest’ultima nei termini dei suoi contenuti culturali, sta nel fatto che quasi
sempre si addita come esperienza estetica esemplare quella che si prova
dinanzi al singolo oggetto naturale, staccato dal contesto in cui si inserisce
e dai legami storici, immaginativi, artistici che gli si connettono70.
Quando ci si sforza di cogliere l’oggetto nelle sue molteplici connessioni,
quando lo si proietta sul suo sfondo animato, quando, come nel caso di
Berleant, si vuole accentuare il senso di coinvolgimento e di continuità
con la natura, quello che si riesce a tematizzare è al massimo un ambiente
in senso biologico, non un paesaggio in senso estetico.
Ma bisogna dire che in questa incapacità di pensare il paesaggio, cioè
l’ambiente nella sua dimensione estetica, quindi con i suoi legami alla
storia e all’arte, i teorici dell’environmental Aesthetics sono tutt’altro che soli,
anzi sono in larghissima compagnia. Perché la critica al concetto di
paesaggio, la condanna di esso come residuo passatistico ed estetistico, è
un dato massiccio della più recente letteratura sull’ambiente. Un dato con
cui è impossibile, ormai, rinviare il confronto.
1
A. Carlson, Appreciation and the Natural Environment, in «Journal of Aesthetics and
Art Criticism», 1979 (XXXVII), n. 3; Nature, Aesthetic Judgment, and Objectivity, ivi,
1981 (XL), n. 1; di qualche anno successivo è il saggio Nature and positive Aesthetics,
in «Environmental Ethics», 1984 (VI), n. 1.
2
B. Sadler, A. Carlson (a cura di), Environmental Aesthetics. Essays in Interpretation,
University of Victoria Press, Victoria (Canada) 1982; J.L. Nasar (a cura di),
Environmental Aesthetics. Theory, Research, and Applications, Cambridge University
Press, Cambridge-New York 1988; S. Kemal, I. Gaskell (a cura di), Landscape,
Natural Beauty, and the Arts, Cambridge University Press, Cambridge-New York
1993.
3
A. Berleant, The Aesthetics of Environment, Temple University Press, Philadelphia
1992; Id., Living in the Landscape: New Essays in Environmental Aesthetics, University
Press of Kansas, Lawrence 1997.
4
G. Böhme, Für eine ökologische Naturaesthetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989;
Id., Natürlich Natur. Über Natur im Zeitalter ihrer technischen Reproduzierbarkeit,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1992; J. Zimmermann (a cura di), Aesthetik und
Naturerfahrung, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996.
5
E. Tiezzi, Il Capitombolo di Ulisse. Nuova scienza, estetica della natura, sviluppo
sostenibile, Feltrinelli, Milano 1991; Id., La bellezza e la scienza, Cortina, Milano
1998; M. Baldino, L. Bonesio, C. Resta, Geofilosofia, Lyasis, Sondrio 1996; L.
Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993; Ead., Geofilosofia del
paesaggio, Mimesis, Milano 1997; Ead. (a cura di), Orizzonti della geofilosofia,
Arianna, Casalecchio 2000.
6
Y. Sepänmaa, The Beauty of Environment. A General Model for Environmental
Aesthetics, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 1986; S. Godlovitch, Icebreakers:
Environmentalism and Natural Aesthetics, in «Journal of Applied Philosophy», 1994
(XI).
7
«Journal of Aesthetics and Art Criticism», 1998 (LVI), n. 2, numero speciale:
Environmental Aesthetics.
8
H.M. Schönherr, Zwischen Dekoration und Wende der Rationalisierung. Thesen zum
Verhältnis von Ökologie und Aesthetik, in «Rivista di Estetica», 1986 (XXVI).
9
A. Leopold, A Sand County Almanac and Sketches here and there (1949), trad. it.
parziale di S. Bartolommei, in «Critica marxista», 1987, n. 4, pp. 113-23. Ora
anche in M. Tallacchini (a cura di), Etiche della terra. Antologia di filosofia
dell’ambiente, Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 131-41.
10
G. Bateson, Mente e Natura. Un’unità necessaria, trad. it. Adelphi, Milano 1984,
pp. 281 e 33.
11
H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino
1990.
12
Sulla storia dell’ambientalismo italiano si veda, da ultimo, F. Della Seta, La difesa
dell’ambiente in Italia, Angeli, Milano 2000.
13
Si veda per esempio F. Pratesi, F.Tassi, Guida alla natura del Lazio e dell’Abruzzo,
Mondadori, Milano 1972, passim.
14
V. Hösle, Philosophie der ökologischen Krise, Moskauer Vorträge, Beck, München
1991, p. 94.
15
Sepänmaa, The Beauty of Environment cit., pp. 138; 135; 102.
16
R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli 1973, vol. I, p. 189.
17
Cfr. G. Martignetti, Etica e ambiente, in G. Gamba, G. Martignetti, Dizionario
dell’ambiente, ISEDI, Milano 1995, pp. 311-14; cfr. pure S. Bartolommei, Etica e
natura, Laterza, Roma-Bari 1995.
18
P.C. Mayer-Tasch, Ein Netz für Ikarus. Zur Wiedergewinnung der Einheit von
Natur, Kultur und Leben, Goldmann, München 1987, pp. 16 sgg.: L’estetica come
specchio dell’ecologia.
19
Godlovitch, Icebreakers cit., pp. 15-30.
20
Bateson, Mente e natura cit., p. 284.
21
Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, cit., p. 15.
22
Ead., Custodire la terra, in H. Lehmann et al., L’anima del paesaggio tra estetica e
geografia, Mimesis, Milano 1999, p. 132.
23
Ead., Geofilosofia del paesaggio, cit., p. 36.
24
Ead., La terra invisibile, cit., p. 17.
25
M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens, Neske, Pfullingen, 1965; trad. it.
Pensiero e poesia, Armando, Roma 1975.
26
Böhme, Für eine ökologische Naturaesthetik, cit., pp. 7-15. Sul tema della natura
che esperiamo nel nostro proprio corpo si veda anche il cap IV della parte seconda
di Id., Natürlich Natur cit., pp. 77-93.
27
Id., Für eine ökologische Naturaesthetik, cit., pp. 19 sgg.
28
Id., Natürlich Natur cit., pp. 29-43.
29
Si veda E. Bloch, Il Principio Speranza, trad. it. Garzanti, Milano 1994, cap.
XXXVII. Per l’atteggiamento di Bloch nei confronti del bello naturale è utile
vedere anche Id., Geographica, a cura di L. Boella, Marietti, Genova 1992.
30
Per una critica a questo ideale della natura come giardino inglese, si veda M.
Seel, Eine Aesthetik der Natur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, pp. 128-32: Die
Natur ist kein Garten.
31
Tiezzi, Il Capitombolo di Ulisse cit., 1991 p. 17
32
Id., La bellezza e la scienza, cit., p. 20.
33
Id., Il Capitombolo di Ulisse cit. pp. 21-26.
34
Sepänmaa, The Beauty of Environment cit., p. 17.
35
Berleant, The Aesthetics of Environment, cit., pp. 12-13.
36
M. Seel, Aesthetische Argumente in der Ethik der Natur, in Id., Ethisch-aesthetische
Studien, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, pp. 202-203. Una breve esposizione del
punto di vista di Seel è disponibile anche in inglese, nella voce Aesthetics of Nature
and Ethics, in M. Kelly (a cura di) Encyclopaedia of Aesthetics, Oxford University
Press, New York-Oxford 1998, vol. II, pp. 341-43.
37
M. Seel, Aesthetische und moralische Anerkennung der Natur, in Id., Etisch-aesthetische
Studien, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, p. 229.
38
Id., Eine Aesthetik der Natur, cit., p. 10.
39
Id., Aesthetische und moralische Anerkennung der Natur, cit., pp. 288-346.
40
Si veda M. Mothersill, Beauty Restored, Clarendon Press, Oxford 1984. Sulla
bellezza naturale si veda in particolare il cap. Art and Nature.
41
R.W. Hepburn, Declino dell’interesse per la bellezza naturale nell’estetica
contemporanea, in B. Williams e A. Montefiore, Filosofia analitica inglese, trad. it.
Lerici, Roma 1967, pp. 356 e 358.
42
A. Carlson, Appreciation and the Natural Environment, in «Journal of Aesthetics
and Art Criticism», 1979.
43
Id., Nature, Aesthetic Judgment, and Objectivity, ivi, 1981.
44
Id., Appreciating Art and Appreciating Nature, in Kemal, Gaskell, Landscape, Natural
Beauty, and the Arts, cit., pp. 199-227.
45
N. Carrol, On Being Moved by Nature: Between Religion and Natural History, ivi,
pp. 244-66.
46
Godlovitch, Icebreakers cit., pp. 26-27.
47
Si veda Y. Saito, Is There a Correct Aesthetic Appreciation of Nature?, in «The
Journal of Aesthetic Education», 1994 (XVIII), pp. 35-46, e la replica di Carlson:
Saito on the Correct Aesthetic Appreciation of Nature, in «The Journal of Aesthetic
Education», 1996 (XX), pp. 85-93.
48
Y. Saito, The Aesthetics of Unscenic Nature, in «The Journal of Aesthetics and Art
Criticism», 1998 (LVI), n. 2 (primavera), numero speciale a cura di A. Berleant e
A. Carlson, Environmental Aesthetics.
49
E. Brady, Imagination and the aesthetic Appreciation of Nature, ivi.
50
Ch. Foster, The Narrative and the Ambient in Environmental Aesthetics, ivi.
51
M. Muelder Eaton, Fact and Fiction in the Aesthetic Appreciation of Nature, ivi.
52
H. Rolston III, Does Aesthetic Appreciation of Landscapes Need to Be Science-Based?,
in «The British Journal of Aesthetics», 1995 (XXXV), pp. 374-86. Dello stesso
autore si veda anche Aesthetic experience in Forests, in «The Journal of Aesthetics and
Art Criticism», 1998 (LVI), n. 2 (primavera).
53
A. Carlson, Nature, Aesthetic Appreciation, and Knowledge, ivi, 1995 (LIII), n. 4
(autunno), pp. 393-400. Cfr. anche la voce Nature. Contemporary Thought, scritta da
Carlson per l’Encyclopaedia of Aesthetics, cit., vol. III, e quella Environmental Aesthetics
per il Companion to Aesthetics, a cura di D. Cooper, Blackwell, Cambridge (Mass.)-
Oxford 1992.
54
Fa eccezione il saggio di R. Stecker The Correct and the Appropriate in the
Appreciation of Nature, in «The British Journal of Aesthetics», 1997 (XXXVII), n. 4,
pp. 393-402.
55
Brady, Imagination and the aesthetic Appreciation of Nature, cit.
56
Carlson, Nature, Aesthetic Judgement, and Objectivity, cit., p. 24.
57
Id., Appreciating Art and Appreciating Nature, cit., p. 220.
58
Berleant, The Aesthetics of Environment, cit., cap. I; Id., Living in the Landscape cit.,
cap. III: Deconstructing Disney World.
59
Id., The Aesthetics of Environment, cit., cap. II, pubblicato con lievi modifiche
anche in Kemal, Gaskell, Landscape, Natural Beauty, and the Arts, cit., pp. 228-43,
con il titolo The Aesthetics of Art and Nature.
60
Berleant, The Aesthetics of Environment, cit., p. 12.
61
Ivi, p. 27.
62
Ivi, p. 37.
63
Ivi, pp. 135 e 137.
64
Sepänmaa, The Beauty of Environment cit., 1986, pp. 48, 27 e 31.
65
Ivi, pp. 50 e 88 («Environmental critics are naturalists in the case of untouched
nature and the agrarian cultural landscape»).
66
Per un commento all’art. 734 c.p. si veda A. Predieri, voce Paesaggio in
Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano 1981, vol. XXI, pp. 517-19.
67
Si veda in particolare J.L. Nasar (a cura di), Environmental Aesthetics. Theory,
Research and Applications, Cambridge University Press, Cambridge-New York
1988, e B. Sadler, A. Carlson (a cura di), Environmental Aesthetics: Essays in
Interpretation, University of Victoria Press, Victoria 1982. Cfr. inoltre la voce
Landscape Assessment, sempre a firma di A. Carlson, in Kelly (a cura di),
Encyclopaedia of Aesthetics, cit., vol. III.
68
T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1977, p.
123.
69
Testuale: questioni simili vengono proposte per davvero nella Introduction di
Berleant e Carlson al numero speciale di «The Journal of Aesthetics and Art
Criticism» interamente dedicato alla environmental Aesthetics. Si veda per esempio il
paragrafo V, Aesthetics and environmental domains.
70
Lo notava già Hepburn nel suo saggio Declino dell’interesse per la bellezza naturale
nell’estetica contemporanea, cit., alla p. 364: «Nella filosofia britannica contemporanea
c’è una forte tendenza a tributare la più grande simpatia a un modo particolarista
di accostarsi alla bellezza naturale, considerandola, cioè, contemplazione di oggetti
individuali con le loro qualità percettive interessanti da un punto di vista estetico».
Capitolo terzo.
Il paesaggio come identità estetica dei luoghi
Il concetto di paesaggio tra geografia, ecologia ed estetica
Alla ricerca del paesaggio perduto. Il paesaggio è cultura. Un bel paesaggio
all’orizzonte. La bellezza come necessità: in viaggio attraverso l’Italia. Il paesaggio
non è un quadro. Il paesaggio aggredito. Via i cartelloni che deturpano il paesaggio.
Paesaggio ricchezza d’Italia. Paesaggio deturpato: l’Enel pronta a levare i tralicci.
Ecco il frutto (del tutto parziale) di uno spoglio niente affatto sistematico
dei titoli di tre quotidiani nell’arco di qualche mese a cavallo tra il 1999 e
il 2000. D’altronde, ci sono associazioni, come Italia Nostra, il Fondo
Ambiente Italiano, il Touring Club, che al paesaggio dedicano costante
impegno e che hanno tra i loro obiettivi una permanente vigilanza sul
paesaggio stesso. Se prendessimo in considerazione le loro pubblicazioni
periodiche, vedremmo che il paesaggio e la sua tutela vi compaiono
regolarmente: nel caso del bollettino di Italia Nostra, in modo pressoché
esclusivo (un esempio dal numero del novembre 1998: Paesaggio: la qualità
da salvare. Come si tutela il paesaggio. Territorio e paesaggio storico: alla ricerca di
criteri normativi. Alpi Liguri: un parco contro il degrado del paesaggio). Ma anche
in sede istituzionale, il paesaggio sembra ricevere, almeno sul piano dei
propositi, notevoli attenzioni. Il 1998 è stato proclamato dal Consiglio
d’Europa Anno del Paesaggio. Nei giorni 14, 15 e 16 ottobre 1999 si è
tenuta a Roma la prima Conferenza nazionale per il paesaggio.
Organizzata dal ministero per i Beni culturali e ambientali, aperta dal
ministro Melandri, ha visto la partecipazione di decine di esperti, di
centinaia di addetti ai lavori. Perfino la televisione, di solito così restia a
impegnarsi su temi seri, ha mandato in onda, tra l’estate e l’autunno del
1999, una serie di filmati nel quadro di un’inchiesta che si intitolava
Paesaggi rubati.
Del paesaggio, quindi, si parla molto. È uno dei temi che attraggono
l’attenzione. Tutti, almeno a parole, dichiarano che la tutela del paesaggio
è questione di vitale importanza. Ma di cosa parliamo quando parliamo di
paesaggio? Appena la domanda viene posta, subito le certezze s’incrinano,
le sicurezze sfumano, le unanimità si rompono. Sembra che, quando si
discute di paesaggio, sia meglio dare per scontato, anche se scontato non è
affatto, che cosa sia il paesaggio, perché, se ci mettessimo ad approfondire,
scopriremmo assai presto che sotto il nome paesaggio tutti intendono
fenomeni differenti. Prendiamo, per esempio, proprio i titoli di quotidiani
appena citati. Chi li considerasse senza preclusioni credo dovrebbe
convenire sul fatto che quei titoli presuppongono una visione estetica del
paesaggio. Con tutta evidenza, essi parlano del paesaggio come fenomeno
primariamente estetico. Hanno un senso solo se riteniamo che, nel
paesaggio, noi compiamo un’esperienza estetica. Se scorriamo la relazione
con la quale il ministro Melandri ha aperto la Conferenza nazionale per il
paesaggio, leggiamo che, per il nostro Paese, si tratta di tornare a investire
nella conservazione e valorizzazione del proprio patrimonio culturale
«dopo aver smarrito per alcuni decenni l’amore per se stesso, per la propria
bellezza, per la sua storia», che è cominciata un’epoca di «guerra alla
bruttezza», che è suonata l’ora «di riportare la legalità e la bellezza in tutta
l’Italia, dalla valle dei Templi di Agrigento alla Collina del Disonore di
Palermo»1. E credo che questo sia anche, nella misura in cui una simile
affermazione ha senso, il ‘comune sentire’ in materia di paesaggio: credo,
cioè, che la persona di media o buona cultura, non specialista, colleghi
istintivamente l’idea di paesaggio a un’idea di valore estetico, correli il
paesaggio ad aggettivi che esprimono un valore o un disvalore estetici.
Eppure, sono altrettanto convinto che molti esperti vedrebbero in ciò il
retaggio di una malintesa «cultura idealistica», un errore da estirpare
appena possibile. Infatti, se per un verso la natura estetica del concetto di
paesaggio sembra pacifica, per un altro sembra pacifico esattamente il
contrario, e cioè che parlare di paesaggio in termini di esperienza estetica
sia fuorviante e dannoso o, nella migliore delle ipotesi, inutile. I sarcasmi
e le alzate di spalle, in proposito, sono all’ordine del giorno. Per la
stragrande maggioranza degli operatori del paesaggio (architetti, urbanisti,
politici, amministratori) il fatto che nel paesaggio abbiamo a che fare con
valori estetici è una pietra di inciampo, una banalità, un equivoco. Nel
migliore dei casi la questione è liquidata con un riconoscimento formale,
sbrigativo, e poi si passa alle cose serie, cioè a tutto il resto. Anche la
ricordata Conferenza nazionale ha dato un po’ questa impressione, perché
la riflessione generale sul concetto di paesaggio, se si eccettua qualche
intervento illuminato nel corso delle sezioni specifiche2, ha liquidato
questi aspetti affidandoli a una prolusione di Pietro Citati, il quale se l’è
cavata con qualche citazione elegante da Henry James e da Proust sul
paesaggio italiano, sulla sua luce inimitabile e sul fondu che la caratterizza,
che avrà confermato i tecnici nella loro convinzione, e cioè che l’aspetto
estetico del paesaggio è roba per letterati passatisti, e comunque non ha
nulla a che vedere con le questioni serie della progettazione, del recupero,
della pianificazione, della tutela giuridica.
Questa situazione appare, per molti versi, inevitabile. Infatti negli ultimi
decenni la nozione di paesaggio in senso estetico è stata oggetto di un
attacco su più fronti, che ha fatto sì che tale nozione finisse per apparire
desueta, equivoca, inservibile3. Soprattutto la geografia e l’ecologia,
sviluppando una propria concezione del paesaggio, in sé del tutto
legittima, hanno finito per screditare il concetto estetico del paesaggio
stesso. La prima, che ha il paesaggio tra i suoi oggetti epistemici e tra i
suoi concetti operativi, ha manifestato una sempre maggiore diffidenza
per quel che nel paesaggio non è riportabile a dati fisici, descrivibili
oggettivamente, e non solo ha espunto le considerazioni di natura
estetico-percettiva dal proprio orizzonte scientifico, cosa del tutto
naturale, ma ha istillato la convinzione che parlare di esteticità del
paesaggio sia in tutti i sensi una perdita di tempo; la seconda ha sostituito
il concetto di ambiente a quello di paesaggio, con tale successo che anche
nel linguaggio comune si è arrivati a parlare molto più frequentemente di
ambiente che di paesaggio, e si è finito col credere che difendere
l’ambiente sia in tutti i sensi la stessa cosa che difendere il paesaggio. Ma,
d’altro canto, l’idea estetica del paesaggio è stata criticata fortemente
anche da parte dell’estetica ambientale (lo abbiamo cominciato a vedere
nel capitolo precedente, e lo vedremo meglio in questo), cioè proprio da
quegli orientamenti che avrebbero dovuto istituzionalmente occuparsene,
prestando particolare attenzione agli aspetti percettivi, estetici del mondo
naturale.
Come è facile intuire, geografia ed ecologia da un lato, ed estetica
ambientale dall’altro, hanno avuto un peso ben diverso nel determinare la
crisi del concetto estetico di paesaggio. Se le prime due sono state le vere
artefici della riduzione del paesaggio all’ambiente, della cancellazione
degli aspetti percettivo-estetici del paesaggio a vantaggio esclusivo di
quelli oggettivi, fisici, l’estetica ambientale, la cui diffusione è tutto
sommato ancora marginale, e che è quasi assente, per esempio, dal
dibattito italiano, ha contato soprattutto per quel che non ha fatto, cioè
per la sua rinunzia a difendere la valenza estetica del paesaggio. E l’effetto
è sotto gli occhi di tutti: non abbiamo più una riflessione che ci aiuti a
pensare e a comprendere che cosa si debba intendere per valore estetico in
riferimento al paesaggio, anche se, come vedremo, nella nostra nozione di
paesaggio, nel modo di tutelarlo, nella necessità di progettarlo, la
dimensione estetica continua a giocare un ruolo tanto più notevole
quanto meno riconosciuto e autorizzato. Il paradosso è proprio questo:
che mentre è cresciuta enormemente la sensibilità verso il paesaggio, una
sensibilità che è in primis estetica, nella teoria c’è stato sempre meno posto
per giustificare questa sensibilità, e il paesaggio è stato sempre più
identificato con qualcosa che esso non è, ossia con l’ambiente naturale.
L’estetica del paesaggio è, oggi più che mai, una necessità teorica, ma
deve lottare contro decenni di trascuratezza, contro mille sospetti, contro
l’accusa di essere semplice chiacchiera o, peggio, di autorizzare i peggiori
arbitri soggettivistici e di aprire così la strada alla manipolazione e al
saccheggio. Contro una riflessione sull’esperienza estetica che compiamo
nella natura sono sempre in caldo due obiezioni micidiali. La prima è che
l’apprezzamento estetico del paesaggio è una deviazione estetistica, roba
per dilettanti decadenti e per anime belle, alla quale non si può dare peso
(si noti che, anche se forse qualcuno pensa lo stesso per l’arte in genere,
nessuno si sognerebbe di dire lo stesso per esempio, a proposito della
pittura o della musica: e qui certo ha il suo effetto la svalutazione del bello
naturale che ha avuto corso negli ultimi due secoli e di cui, come
abbiamo visto nel primo capitolo, l’arte stessa si è resa responsabile).
L’estetica del paesaggio deve lottare contro lo svantaggio di non avere,
nella stessa tradizione estetica degli ultimi due secoli, una base teorica
sicura, anzi di avere in essa molto spesso un avversario. Ripensare il
paesaggio, ripensare il senso estetico del paesaggio è oggi una sfida
difficile, ma che va raccolta.
La situazione presente, del resto, non si è prodotta d’improvviso, anzi è il
frutto di processi e trasformazioni molto lunghi. Prendiamo il caso della
geografia.
All’inizio, il concetto di paesaggio si introduce nel discorso geografico in
stretta continuità con la sua accezione estetica. Il grande esempio
humboldtiano delle sue Ansichten der Natur, descrizioni di ambienti
naturali nelle quali l’informazione fattuale, scientifica, non va mai
scompagnata da una profonda stupefazione estetica e da una straordinaria
maestria descrittiva, cui già abbiamo accennato nel primo capitolo,
esercita il suo fascino su molta parte dell’Ottocento, anche se il modello
rimane ineguagliato. Ancora alla fine del secolo, mutuando il termine
dalla tradizione tedesca, il geografo italiano Filippo Porena tracciava un
programma il cui fine era pur sempre indicato nell’individuazione
dell’influsso che gli scenari terrestri esercitano «direttamente sul senso
estetico». Sebbene Porena si muovesse nel quadro del Positivismo, e
proponesse un programma di ricerca nettamente empirico, egli
polemizzava contro le prime definizioni puramente oggettivistiche del
paesaggio offerte da alcuni studiosi tedeschi, ribadendo che nel parlare di
paesaggio non si può prescindere dall’elemento soggettivo: «il paesaggio è
inseparabile dall’impressione che esso produce nel nostro senso estetico, la
quale va compresa come parte ingenita e fondamentale del suo
concetto»4. Il divorzio tra paesaggio in senso estetico e paesaggio come
termine tecnico geografico si produce nel Novecento, e lungo percorsi
non sempre lineari. Se Antonio Renato Toniolo, nei primi anni del
nuovo secolo, definisce il paesaggio in termini oggettivi («espressione
sintetica dei rapporti d’interdipendenza dei fenomeni localizzati in
particolari unità spaziali»), Olinto Marinelli gli contrappone nel 1917 la
netta affermazione «un Paese può esistere senza di noi, non un
Paesaggio». Nello stesso periodo, in Germania, Friedrich Ratzel rovescia
il rapporto istituito da Humboldt: il paesaggio in senso estetico non è più
l’avviamento allo studio geografico, destinato a essere trasceso nel
concetto scientifico di paesaggio, ma piuttosto il suo coronamento.
Successivamente, però, con Siegfried Passarge, la nozione di paesaggio
perde ogni gradiente teorico, perché diventa sinonimo di «realtà
geografica» in genere5. Tuttavia, mentre in ambito tedesco, ancora nel
1950, i geografi chiamati a dibattere sulla nozione di paesaggio dalla
rivista «Studium generale» erano tutt’altro che restii a prenderne in
considerazione la dimensione percettiva, magari mediante il concetto,
come vedremo non privo di ambiguità, di «fisionomia del paesaggio»6, in
Italia l’affermazione di un concetto specifico di paesaggio geografico avveniva
in opposizione al concetto estetico del paesaggio. Così, se prima della
guerra Almagià vedeva nel paesaggio la correlazione di vari fenomeni
umani, biologici e fisici, nel 1954 Antonio Toniolo definiva la geografia
«scienza del paesaggio» e il paesaggio stesso «non come panorama ma [...]
come manifestazione collettiva di forme, che tendono ad organizzarsi in
un dato momento, con un certo equilibrio e aspetto, che si evolvono nel
tempo e sono reciprocamente collegate da un qualche rapporto»:
registriamo la menzione del panorama, su cui torneremo, e sorvoliamo
sul fatto che nella sua ineffabile vaghezza tale definizione si adatta
praticamente a qualsiasi cosa, da una partita di calcio a un’orgia. Nel 1947
il geografo Renato Biasutti poneva alla radice del suo Il paesaggio terrestre
esattamente la distinzione tra l’aspetto percettivo e quello scientifico del
termine. Per lui, mentre il paesaggio sensibile può essere identificato con
«ciò che l’occhio può abbracciare in un giro di orizzonte», o, più
latamente, con quel che è «percettibile con tutti i sensi», «un paesaggio
che può essere riprodotto da una fotografia, o dal quadro di un pittore o
dalla descrizione [...] di uno scrittore» il «paesaggio geografico» si
definisce in opposizione al valore percettivo, come frutto di astrazione, in
quanto «sintesi astratta di quelli visibili», tendente «a rilevare da essi gli
elementi e i caratteri che presentano le più frequenti ripetizioni sopra uno
spazio più o meno grande, superiore, in ogni caso, a quello compreso da
un solo orizzonte»7. Pur rivendicando il ruolo dell’uomo nella
conformazione del paesaggio e introducendo la dizione «paesaggio
antropogeografico», anche Aldo Sestini vede nel paesaggio esclusivamente
un’entità fisica, definendolo come «la complessa combinazione di oggetti
e fenomeni legati tra loro da mutui rapporti funzionali (oltre che da
posizione), sì da costituire un’unità organica» e distinguendolo
accuratamente dal paesaggio in senso estetico, considerato come «una
‘veduta’ panoramica, ossia l’immagine da noi percepita di un tratto di
superficie terrestre, quale può abbracciarsi con lo sguardo»8.
Intendiamoci: la geografia è nel suo pieno diritto quando rivendica a
proprio oggetto di studio il paesaggio inteso come conformazione fisica
del territorio, ivi incluse le trasformazioni indotte dall’uomo. I problemi
cominciano quando questa restrizione di campo si traduce nella
svalutazione del paesaggio in senso estetico e nella dichiarazione
dell’irrilevanza e dell’inaffidabilità della nozione estetica di paesaggio.
Persino geografi molto sensibili alla dimensione sociale e interdisciplinare
della loro materia sembrano però inclini, almeno in una certa fase, a
condividere questi sospetti e a fomentarli. Un volume come Semiologia del
paesaggio italiano di Eugenio Turri, del 1979, paga numerosi tributi allo
spirito dei tempi. A colpirci, oggi, non è tanto la rubricazione dello studio
del paesaggio sotto la tutela della scienza imperante della semiologia (a
conti fatti, nulla più di uno scotto alle mode, dato che di semiologia in
senso tecnico Turri ne faceva pochissima), quanto il disprezzo per i
paesaggi ‘estetici’, che sarebbero residui passatistici e oziosità da classi
agiate, opposto all’esaltazione della trasformazione produttiva del
paesaggio da parte delle forze del lavoro, distinzione che mette capo alla
definizione, per la verità abbastanza raccapricciante, del paesaggio
organico come «paesaggio-macchina». Gli aspetti «contemplativi e
vedutistici» del paesaggio erano «legati all’eredità della vecchia cultura
romantico-borghese», mentre i «paesaggi sublimi, da vedere, da rimirare»,
dovevano cedere il campo a quelli che «sono dura e laboriosa conquista
dell’uomo, che sono espressione di dati rapporti di produzione, di
meccanismi socio-economici che si riflettono sul modo di utilizzare il
territorio». «Di certo – concludeva Turri – è finito il paesaggio – il
paesaggio italiano – così come era concepito un tempo: oggetto estetico,
fermo, segnato [...] dalla fissità come contemplatività»9.
Nel caso dell’ecologia le cose sono andate in modo diverso. Qui infatti
non si produce, o almeno non si produsse originariamente, l’equivoco
propiziato dal fatto che il termine paesaggio è strutturalmente ambiguo,
designando sia la natura fisica dei luoghi sia la sua proiezione in
immagine, quindi tanto un fatto materiale quanto un fatto percettivo.
Infatti l’ecologia ha fatto per lungo tempo a meno della nozione di
paesaggio, e ha parlato di ecosistema (Tansley), di ecotopo o di ecocomplesso
(Blandin, Lamotte), per indicare un insieme individuato da caratteristiche
fisiche e biologiche determinate. Un ecosistema, per Tansley, è «un sistema
in senso fisico, che include non solo il complesso degli organismi, ma
anche l’insieme dei fattori fisici che formano quello che noi chiamiamo
l’habitat degli organismi viventi, cioè i fattori ambientali in senso lato»10.
Su queste basi non dovrebbe nascere alcuna confusione, essendo chiaro
che l’oggetto, del tutto legittimo, dell’ecologia è l’ambiente inteso come
spazio fisico-biologico, e dunque altra cosa dal paesaggio nelle sue valenze
estetiche, percettive. Lo stesso Tansley ha scritto altrove: «Quando devo
commentare i meriti di una proposta per una riserva naturale, dopo avere
elencato il valore scientifico della flora e della fauna, spesso non posso fare
a meno di citare anche l’amenità paesistica o l’incanto della vegetazione,
assumendo in queste mie allusioni, tuttavia, un tono quasi patetico. È
come se volessi dire ‘naturalmente il posto è anche davvero magnifico ma
forse non mi è lecito menzionare questo aspetto’»11.
Sebbene le titubanze di Tansley siano comprensibili in un contesto
strettamente scientifico, discorrere di ecosistemi non dovrebbe voler dire,
di per se stesso, che i discorsi sul paesaggio siano privi di senso. Questo
passo ulteriore è stato compiuto, piuttosto, al di fuori dell’ecologia come
scienza, nel discorso comune e nelle applicazioni che discipline diverse
hanno fatto dei concetti ecologici. Così si è finito per assumere che
l’unico significato sensato della parola paesaggio sia quello che ne fa un
semplice sinonimo di ecosistema. Un appiglio, e più di un appiglio, a
questa conclusione, è stato però fornito dal fatto che, da un certo punto in
avanti, si è cominciato a parlare di ecologia del paesaggio.
Il termine, inizialmente, è stato coniato non da un biologo ma da un
geografo, il tedesco Carl Troll, che ha parlato di Landschaftsökologie già nel
1939, ma è diventato di larga diffusione solo con la sua adozione in
ambito anglofono: il testo di riferimento Landscape Ecology, di Forman e
Godron, è del 198612. Questa dizione, per la verità abbastanza singolare,
sembra autorizzare quella risoluzione del paesaggio in senso estetico,
percettivo, nell’ambiente biologico, che era stata invece felicemente
evitata dall’ecologia attraverso il conio del termine tecnico ecosistema, così
come sul versante geografico, la nozione di geosistema, punto di arrivo di
alcune riflessioni recenti sul paesaggio, autorizza la completa
cancellazione degli aspetti estetici in quelli oggettivi e fisici. Alain Roger,
nel suo recente Breve trattato sul paesaggio non esita a definire la dizione
‘Ecologia del paesaggio’ un «mostro teorico», in quanto implica la
completa naturalizzazione del paesaggio, laddove «il paesaggio non è mai
naturale, ma sempre culturale»13. Ma è invece proprio questa riduzione e
questo scambio di concetti ad avere corso nel pensiero ecologico, se non
nella scienza dell’ecologia. Per esempio, se si prende il recente documento
elaborato dal WWF, 500 buone azioni e dieci proposte per la tutela dell’ambiente
e del paesaggio, è possibile leggere: «La concezione del paesaggio
considerato da un punto di vista estetico continua ad essere culturalmente
predominante. Non c’è dubbio invece che il paesaggio sia costituito da una
base fisica di ecosistemi, che con i loro flussi energetici, le loro
caratterizzazioni climatiche, i loro cicli biogeochimici, la loro ricchezza di
vita, hanno poi determinato precise attività umane che, a loro volta,
hanno esercitato un’influenza diretta o indiretta sull’ambiente naturale
arrivando addirittura a cambiarne le forme. Questa considerazione
ambientale del paesaggio è di fondamentale importanza per un’analisi
moderna che non può non rifarsi ai principi che la Landscape Ecology ha
elaborato e diffuso negli ultimi vent’anni. L’ecologia del paesaggio
considera infatti il paesaggio stesso come un sistema di ecosistemi e
individua significativi approcci e chiavi di lettura pratico-operativi di
grande interesse e di promettenti prospettive»14. Oppure, si prenda
l’articolo recente di uno dei più noti ambientalisti italiani, Fulco Pratesi,
dal titolo Il paesaggio: una risorsa a rischio. Si comincia criticando la parola
italiana paesaggio perché «già nella sua accezione, così legata al costruito,
all’antropizzato, all’ecumene, e così diversa dall’inglese landscape che
presuppone terreni aperti, lande, campagne [sic] ci fa comprendere come,
in un paese imbevuto di cultura umanistica come il nostro, il paesaggio
non abbia altra funzione che quella di fungere da ‘panorama’, per un
godimento estetico o estetizzante da parte dell’uomo»; e si prosegue
affermando che «i paesaggi naturali italiani sono quanto di più bello e
suggestivo ci sia al mondo», mentre chiunque sa che, semmai, ciò è vero
dei paesaggi culturali italiani, cioè dei paesaggi lavorati e segnati dall’uomo,
non – o almeno non particolarmente – dei «paesaggi naturali intesi come
(sono ancora parole di Pratesi) quello che la natura avrebbe creato e
sistemato senza l’intervento dell’uomo»15. Un simile punto di vista
trascura del tutto quella storicità del paesaggio che è, essa sì, caratteristica
saliente dell’Italia. Del resto, Pratesi nello stesso articolo denunzia, come
se si trattasse di un fenomeno di oggi, il fatto che «le classiche viti maritate
ad olmi od aceri campestri lasciano il posto a irte e geometriche selve di
paletti cementizi»; forse avrebbe bisogno di rileggere, o meglio di leggere,
la Storia del paesaggio agrario italiano di Sereni e di apprendervi che la
cosiddetta piantata padana è cominciata a sparire già nel secolo scorso.
Di fronte a questi attacchi aperti alle valenze estetiche del paesaggio, di
fronte alla sua confusione con l’ambiente naturale, ci si sarebbe potuto
aspettare che la nascente estetica ambientale prendesse le difese del
paesaggio. Invece, ha contribuito a screditarlo, almeno per voce di alcuni
tra i suoi principali rappresentanti. Abbiamo già visto nel capitolo
precedente il quadro di riferimento in cui si muove Allen Carlson, uno
degli esponenti di spicco dell’environmental Aesthetics. Dei tre atteggiamenti
rispetto alla bellezza naturale distinti da Carlson, l’object model, il landscape
model e il natural environment model, il secondo è appunto il paradigma del
paesaggio, che considera la natura come scenario e come spettacolo.
Ebbene, si ricorderà che per Carlson i primi due paradigmi sono
nettamente inadeguati, mentre solo il terzo configura un rapporto
corretto con la bellezza naturale. Landscape appare a Carlson come un
termine pregiudicato, falsante. Il termine corretto per indicare quel che
nella natura viene apprezzato esteticamente è natural environment. Nella
prospettiva di Carlson, anche se egli lo negherebbe, non c’è più posto per
la considerazione estetica della natura e dei luoghi: ha senso parlare solo
della dimensione fisico-biologica, tanto vero che Carlson non esita ad
affermare, abbastanza sorprendentemente, che «al modo in cui il critico
d’arte e lo storico dell’arte sono ben attrezzati per apprezzare
esteticamente l’arte, il naturalista e l’ecologista sono ben attrezzati per
apprezzare esteticamente la natura». Il paesaggio viene interamente risolto
nell’ambiente, con il quale sembra coincidere, se il primo concetto viene
assunto correttamente. «Il modello paesaggistico – scrive infatti Carlson –
è inadeguato perché è inappropriato alla natura dell’ambiente naturale» e,
con argomentazione non indegna di Monsieur de la Palice, prosegue:
«Probabilmente, al fine di vedere cosa apprezzare nell’ambiente naturale, e
come apprezzarlo, dobbiamo considerare più accuratamente la natura di
tale ambiente. In questa prospettiva ci sono [...] due punti che desidererei
sottolineare. Il primo è che l’ambiente naturale è un ambiente; il secondo
è che è un ambiente naturale»16.
Ma anche Arnold Berleant è critico verso la nozione di paesaggio in
senso estetico, alla quale intende sostituire quella di ‘ambiente’ (che per
lui, a differenza di Carlson, è sia l’ambiente naturale sia l’ambiente
prodotto o trasformato dall’uomo). Se l’esperienza dell’ambiente è
caratterizzata dalla contiguità e dal coinvolgimento, scrive Berleant, allora
dobbiamo dire che ci manca persino un linguaggio per esprimere questi
concetti. «La stessa parola ‘paesaggio’, per esempio, istituzionalizza la
tradizionale oggettivazione dell’ambiente. I dizionari si limitano a
riflettere questo atteggiamento, definendo di solito ‘paesaggio’ in accordo
con la sua etimologia come o ‘un’estensione di scenario naturale percepita
dall’occhio con un singolo sguardo’ o come ‘un dipinto che rappresenta
una parte di uno scenario naturale, terrestre’. Una semplice definizione
come questa include ogni sorta di supposizioni tendenziose, e tra di esse
quella che il paesaggio è un fatto visivo, che esso è limitato, e che è
distante»17.
Tra gli argomenti portati dall’environmental Aesthetics contro la nozione
estetica di paesaggio ve ne sono molti tutt’altro che trascurabili, e che
segnalano limiti effettivi di tale nozione, almeno di quella che è stata per
lungo tempo corrente e che continua ancora, sporadicamente, ad avere
qualche credito. Carlson ha ragione quando evidenzia i difetti di un modo
di guardare alla natura che la considera, sostanzialmente, come pittura di
paesaggio; ha ragione quando sottolinea che la considerazione della natura
come veduta o scenario suppone e incoraggia il distacco dalla natura
stessa; ha ragione quando nota che guardare alla natura come a un
panorama significa dimenticare che la natura è innanzi tutto un ambiente
nel quale siamo immersi, dal quale dunque non possiamo mai staccarci
completamente riducendola ad oggetto di fronte a noi. E Berleant ha
ragione quando fa notare che la nostra esperienza del paesaggio reale non
è la stessa che abbiamo di fronte a una pittura di paesaggio, anzi per la
verità che neppure la grande pittura di paesaggio viene esperita come se si
trattasse di affacciarsi su una mera veduta, su un «bel panorama». Ma
appunto i termini ‘veduta’ e ‘panorama’ sono qui decisivi: Carlson e
Berleant, e con loro l’environmental Aesthetics, sono nel giusto quando
denunziano i limiti di quella visione del paesaggio in senso estetico che ha
avuto largo corso nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, e che
identifica il paesaggio con la veduta e col panorama. Non lo sono più se ci
convinciamo che il paesaggio in senso estetico non è la mera bella veduta,
non è il panorama, ma è un carattere distintivo dei luoghi, che dunque
appartiene ai luoghi stessi, anche se, come è ovvio, in quanto i luoghi
sono percepiti da un osservatore: in una parola, se arriviamo a pensare il
paesaggio come identità estetica dei luoghi.
Proprio il termine panorama, tanto utilizzato dalle guide turistiche, e
ancora così diffuso nel linguaggio comune, è sintomatico. Pochi infatti,
quando lo impiegano in riferimento al paesaggio, e come sinonimo di
esso, sanno che il termine indica invece, originariamente, una
rappresentazione della natura, un’immagine di essa. Il ‘panorama’ era, in
origine, una grande tela dipinta, disposta a trecentosessanta gradi intorno
a uno spettatore che la osservava da un punto centrale prestabilito, esposta
in un edificio circolare spesso appositamente costruito, ed esibita a orari,
come fosse uno spettacolo teatrale. Nel corso dell’Ottocento, le foto
presero gradatamente il posto della pittura, nei panorami, fino a che,
all’inizio del nostro, le nuove forme di riproduzione dell’immagine, come
il cinema, resero obsoleto questo tipo di spettacolo18. Ma non la parola,
che era già transitata a indicare la cosa naturale osservata e non più
l’apparecchio destinato a riprodurla, la realtà e non la rappresentazione.
Ed è proprio questo passaggio, per cui l’immagine soppianta la natura, la
sostituisce, si pone al suo posto, e impedisce un rapporto reale con la cosa
rappresentata, il limite originario di tante concezioni antiquate di
guardare al paesaggio. Il paesaggio in senso estetico è stato spesso
considerato, dai primi che si sono trovati a impiegare la nozione (non
tanto e non soltanto estetologi, come vedremo, quanto membri di
associazioni per la protezione del paesaggio, legislatori, compilatori di
guide turistiche) come identificabile con la mera veduta. Spigolando tra i
testi del primo Novecento, che è anche l’epoca in cui, in Italia, comincia
a porsi un problema di tutela della bellezza naturale, è facile mettere
assieme un florilegio di locuzioni datate e goffe, la «splendida veduta», lo
«spettacolo straordinario», le «belle scene paesistiche», i «quadri naturali», i
«bellissimi punti di vista», i «monumenti naturali», che saranno sempre
«pittoreschi», ecc. Questi vizi d’origine sono rimasti legati alla nozione di
paesaggio in senso estetico, che viene ancora oggi, come abbiamo visto in
Sestini ma anche in Pratesi, identificato con la mera veduta, con il bel
panorama. Mentre invece è venuto il momento di tagliare i ponti con
queste vecchie accezioni, affermando con forza che il paesaggio in senso
estetico non è il mero riflesso soggettivo, la mera impressione
sull’osservatore, e non è neppure la proiezione sulla natura dello sguardo
pittorico, ma è un carattere che inerisce al luogo e lo individua come quel
particolare luogo, e in questo senso è altrettanto ‘oggettivo’ delle altre
determinazioni delle quali ci serviamo per individuare una specifica
porzione di territorio.
Un riscontro: la legislazione italiana a tutela del paesaggio
Tutto questo è ben lungi dall’avere un mero interesse di scuola o dal
riguardare soltanto la storia delle idee. Si può infatti mostrare come le
concezioni teoriche del paesaggio abbiano sostanziato e sorretto gli
interventi legislativi in materia che hanno preso forma nel corso del
Novecento, conferendo ad essi uno sviluppo che riprende esattamente la
linea evolutiva che abbiamo cominciato a individuare: da un predominio
della nozione di paesaggio in senso estetico, ma nell’accezione riduttiva del panorama
e della veduta, si è passati a una sostanziale rimozione della valenza estetica del
paesaggio, che è sembrato interamente ritraducibile in termini di ambiente. Una
considerazione della legislazione italiana a tutela del paesaggio si rivela in
proposito estremamente istruttiva. Naturalmente non si tratterà di
discutere gli aspetti giuridici o amministrativi delle questioni, ma solo di
avanzare qualche osservazione di principio da un punto di vista estetico.
Articoleremo l’analisi in tre momenti, seguendo l’ordine cronologico dei
principali interventi legislativi avutisi nel nostro Paese, che sono appunto
tre:
1) la legge 11 giugno 1922, n. 778, «Per la tutela delle bellezze naturali e
degli immobili di particolare interesse storico»;
2) la legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla «Protezione delle bellezze
naturali» e relativo regolamento di applicazione (regio decreto 3 giugno
1940, n. 1357);
3) la legge 8 agosto 1985, n. 431, conversione in legge del decreto legge
27 giugno 1985, n. 312, recante «Disposizioni urgenti per la tutela delle
zone di particolare interesse ambientale», assai più nota sotto il nome di
«legge Galasso», dal nome di Giuseppe Galasso, lo storico napoletano,
sottosegretario per i Beni culturali e ambientali, cui va il merito di aver
voluto e portato avanti la legge stessa.
Non dedicheremo invece un’analisi specifica all’art. 9 della Costituzione
(«La Repubblica promuove lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione»), anche se,
ovviamente, il fatto che la tutela del paesaggio (e del paesaggio in senso
estetico, come è manifesto dall’accostamento al patrimonio storico-
artistico) sia stata inserita fra i doveri costituzionali ha certamente un
significato rilevante, o almeno avrebbe dovuto averlo. Il condizionale è
d’obbligo se si considera che l’Italia repubblicana ha atteso quarant’anni
prima di legiferare organicamente in materia di tutela del paesaggio, e che
questi quarant’anni sono stati proprio quelli che hanno visto il più grande
saccheggio del nostro patrimonio paesaggistico e ambientale.
La legge 11 giugno 1922 presenta particolare interesse perché è il primo
intervento legislativo di ampio respiro in materia di tutela del paesaggio.
Prima di allora si erano avute solo prese di posizione isolate, aventi
carattere straordinario: per esempio, quella assunta dal ministro per
l’Agricoltura Luigi Rava in difesa della Pineta di Ravenna nel 1905
(«Dichiarazione di inalienabilità, a scopo di rimboschimento, dei relitti
marittimi della provincia di Ravenna per la conservazione della pineta»).
Proprio in quella circostanza uno degli intervenuti nel dibattito
parlamentare aveva invitato il governo «a presentare un disegno di legge
per la conservazione delle bellezze naturali che si connettono alla
letteratura, all’arte, alla storia d’Italia», e nel 1910-11 ci fu effettivamente
una proposta di legge in tal senso da parte di Giuliano Rosadi. Ma fu solo
dopo la guerra che la questione venne ripresa in esame da una apposita
commissione parlamentare, presieduta dall’on. Molmenti. Utilizzando i
lavori della commissione, ma modificando profondamente il dettato della
proposta da essa formulata, l’allora ministro della Pubblica Istruzione
presentò il 25 settembre 1920 il disegno di legge che doveva concludere il
suo iter quasi due anni più tardi. Lo ricordiamo perché quel ministro
aveva avuto e aveva qualcosa a che fare con l’estetica: si chiamava
Benedetto Croce.
La legge del 1922 dava espressione a una sensibilità per i beni
paesaggistici che era, in Italia almeno, un fatto recente, come dimostra il
fatto che solo nel 1906 si era costituita a Bologna l’Associazione nazionale
pei paesaggi e i monumenti pittoreschi d’Italia, nel 1913 il Touring Club
Italiano aveva dato vita a un Comitato nazionale dei siti e dei monumenti
pittoreschi, mentre contemporaneamente nascevano leghe nazionali per la
protezione dei monumenti naturali o associazioni che, come la Pro
montibus et silvis, propugnavano la difesa del patrimonio boschivo e la
creazione di parchi nazionali. Nel 1914 i Fratelli Alinari di Firenze
pubblicano un libro di N.A. Falcone dal titolo Il paesaggio italico e le sue
difese. Il concetto di bellezza naturale e di tutela di essa, nei primi due
decenni del secolo, appare largamente esemplato su quello dell’opera
d’arte e della difesa del patrimonio artistico. La difesa del paesaggio viene
vista come l’estensione alla natura dei principi che sono ormai accettati
per l’arte. È frequente, presso i sostenitori della necessità di un intervento
legislativo in campo paesaggistico, il richiamo a quanto era stato fatto per
il patrimonio artistico con la legge 20 giugno 1909, n. 364. E la legge 26
giugno 1912, n. 688, che allarga la tutela dalle opere d’arte «alle ville, ai
parchi e ai giardini che abbiano interesse storico e artistico», fu
interpretata da alcuni appunto come un trait d’union tra la legislazione in
materia di opere d’arte e quella in materia di paesaggio. Sono molto
significative, per fissare questo atteggiamento, le parole con le quali il
ministro Rava perorava il suo intervento a favore della Pineta di Ravenna:
«Il culto delle civili ricordanze si trasferisca oltre che agli edifici pubblici
ed alle solenni opere consacrate nel marmo e col bronzo, ai monti, alle
acque, alle foreste, a tutte quelle parti del patrio suolo che lunghe
tradizioni associarono agli atteggiamenti morali ed alle vicende politiche
di un grande paese». La natura va protetta perché, come l’arte, diventa
veicolo e vestigio della memoria storica, civile. La locuzione «monumenti
naturali», usata così spesso nei discorsi del tempo, è rivelatrice19.
Un esame del primo articolo della legge del 1922 conferma in pieno
questa ipotesi. Nella formulazione offerta dalla Commissione Molmenti
venivano tutelate le «cose» (termine giuridico volutamente e giustamente
generico che era impiegato anche nella legge sulla tutela delle opere
d’arte) che presentano un notevole interesse pubblico in ragione:
a) della loro bellezza naturale;
b) della loro particolare relazione con la storia, con la letteratura e con
l’ambiente tradizionale dei luoghi;
c) le ville i parchi e i giardini che, non compresi nella legge del 1912, pur
tuttavia offrono un «notevole interesse pubblico»;
d) le bellezze panoramiche (paesaggio).
Nella formulazione definitiva voluta da Croce cade il riferimento alle
ville, parchi e giardini, in quanto già protetti dalla legge 1912 (la loro
menzione anche nella nuova legge poteva a parere del filosofo ingenerare
confusione); cade ogni riferimento all’«ambiente tradizionale dei luoghi»,
e abbiamo dunque: «Sono dichiarate soggette a speciale protezione le cose
immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a
causa della loro bellezza naturale o della particolare connessione con la
storia civile e letteraria. Sono protette altresì dalla presente legge le
bellezze panoramiche».
Cose naturali belle da un lato e bellezze panoramiche dall’altro: è certamente
questa la distinzione esteticamente centrale della legge del 1922, così
come è da considerare con la massima attenzione la sostanziale
identificazione del concetto di paesaggio con quello di bellezza
panoramica che ne consegue. Uno sguardo alle discussioni che
accompagnarono e seguirono l’entrata in vigore della legge è sotto questo
riguardo molto istruttivo: se ne può trovare un compendio nel volume La
difesa della bellezze naturali d’Italia che Luigi Parpagliolo, uno dei direttori
generali delle Belle Arti, pubblicò nel 1923. Parpagliolo considerava
«opportunissima» la distinzione tra «le cose che hanno un’entità propria, e
che quindi sono identificabili nei loro particolari» dalle «bellezze
panoramiche, meglio, per intenderci, dal paesaggio, la cui estensione può
essere, ed è nella maggior parte dei casi, immensurabile, e costituito,
com’è, da tanti elementi svariatissimi fusi fra loro, mal si presta ad essere
raggiunto dalla norma legislativa o quanto meno dalla stessa norma
legislativa dettata per le cose facilmente individuabili»20. L’assimilazione
del ‘paesaggio’ al ‘panorama’ sarà foriera di molte semplificazioni, e
diventerà in futuro una ipoteca gravosa per ogni discorso estetico sul
paesaggio, come abbiamo cominciato a vedere. Ma sarebbe antistorico
mettere in ridicolo il lessico di Parpagliolo, fatto di «belle scene
paesistiche», «bellissimi punti di vista». In fondo erano tempi in cui un
senatore poteva interpretare la legge nel senso che essa proteggesse non i
paesaggi in quanto tali, ma soltanto i luoghi dai quali si possono osservare
i paesaggi, ossia i punti di osservazione, ritenendo «assurda» una tutela
portata sul paesaggio in sé.
La questione, da un punto di vista storico, è più complessa. Se si prende
come documento del sentire dell’epoca in relazione alla bellezza naturale,
per esempio, il trattamento ad essa riservato nelle prime Guide del
Touring, si potrebbe verificare che i bei panorami, anzi i «bei pan.» come
le guide scrivevano per risparmiare spazio, erano il metro usuale del
giudizio21. Ma, se si guarda ai problemi che Parpagliolo sollevava, ci si
accorge che c’è poco da ridere del linguaggio da lui impiegato, perché i
problemi che segnalava sono ancora attuali a distanza di quasi un secolo.
Non ci riferiamo soltanto alla individuazione delle minacce che
giungono al paesaggio dalla edilizia privata, dalle opere pubbliche, e dalla
pubblicità (Parpagliolo diceva réclame): Parpagliolo denunziava l’invadenza
della cartellonistica e della pubblicità da affissione, e le sue prognosi circa
la capacità distruttiva dell’edilizia privata e pubblica si sono purtroppo
rivelate profetiche. Ci riferiamo anche alle osservazioni di Parpagliolo
circa la necessità e insieme la difficoltà di individuare e identificare le
bellezze naturali da difendere. La legge del 1922, e questa è un’ulteriore
conferma del fatto che la bellezza naturale in essa era pensata come
estensione della bellezza artistica, stabiliva come mezzo di tutela la
dichiarazione di notevole interesse pubblico e la relativa notifica ai
proprietari o detentori a titolo di possesso: scattava a questo punto la
servitù non modificandi. La dichiarazione spettava al ministero della
Pubblica Istruzione. Ora, è sufficiente scorrere il volume di Parpagliolo
per rendersi conto che, proprio mentre si istituivano queste norme e se ne
apprezzava la novità, si era anche già consapevoli delle difficoltà di
applicazione, sia per quanto atteneva alle bellezze naturali (e in questo
caso si pensava di procedere attraverso la redazione di un inventario o
catalogo delle bellezze naturali, e nel 1923 si ebbe una Inchiesta a cura del
sottosegretariato alle Belle Arti) sia soprattutto per le bellezze
paesaggistiche, alle quali non si riteneva possibile estendere né l’istituto
della notifica, né conseguentemente la servitù non modificandi22.
La legge 29 giugno 1939, n. 1497, è una legge ancora vigente, che
all’atto della sua formulazione si propose di «coagulare in un unico testo
tutte le esperienze precedenti, culturali e operative, riassorbendo le leggi
pregresse, estendendone gli obiettivi, eliminandone alcune ambiguità»23.
Data questa impostazione, possiamo aspettarci di ritrovare la distinzione
tra ‘bellezze naturali’ e ‘bellezze panoramiche’ e la concezione in termini
vedutistici del paesaggio.
In effetti, l’art. 1 assoggettava alla legge, «a causa del loro notevole
interesse pubblico»:
1) le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di
singolarità geologica;
2) le ville, i giardini e i parchi che, non contemplati dalle leggi per la
tutela delle cose d’interesse artistico o storico, si distinguono per la loro
non comune bellezza;
3) le bellezze panoramiche considerate come quadri e così pure quei punti di
vista o di belvedere, accessibili al pubblico dai quali si goda lo spettacolo
di tali bellezze.
Si noti che, mentre il criterio dell’interesse pubblico è rappresentato in
tutti e quattro i casi dalla percezione di un valore estetico (cui si aggiunge
nel primo caso l’interesse scientifico), la percezione estetica del paesaggio
viene ancora pensata tutta sotto la specie del pittoresco (i ‘quadri naturali’).
Conseguentemente, lo strumento di intervento è ancora l’elenco delle
bellezze naturali e panoramiche (art. 2). Tuttavia c’è motivo di ritenere
che la legge dia espressione anche a posizioni concettualmente più
avanzate rispetto all’impostazione panoramicista del problema del
paesaggio. Per esempio l’art. 5, stabilendo la facoltà per il ministero di
predisporre piani territoriali paesistici, segna già un transito dall’idea del
paesaggio come mera veduta a quella del paesaggio come identità estetica
di un territorio. Analogamente, nel regolamento che seguì la legge (regio
decreto 3 giugno 1940, n. 1357) è specificato (art. 9) che «nota essenziale
di un complesso di cose immobili costituenti un caratteristico aspetto di
valore estetico e tradizionale è la spontanea concordanza e la fusione fra
l’espressione della natura e quella del lavoro umano», una precisazione che
va nel senso della concezione del paesaggio come nesso inscindibile di
natura e storia, e della natura antropica del paesaggio.
Gli anni dal 1940 al 1985 sono gli anni che vedono le trasformazioni più
radicali del territorio italiano, a causa della diminuzione drastica della
popolazione rurale e della conseguente urbanizzazione, della costruzione
della rete autostradale e di nuove vie di comunicazione, del diffondersi
delle seconde case e delle vacanze di massa: tutto questo avviene
sostanzialmente nel vuoto di nuove iniziative legislative, e proprio mentre
quelle precedenti evidenziano la loro drammatica inadeguatezza rispetto
ai fenomeni nuovi in atto. Solo pochi gruppi di cittadini illuminati
sembrano consapevoli di quanto sta accadendo: nel 1956, per esempio,
Antonio Cederna, Elena Croce, Guglielmo de Angelis d’Ossat, Ludovico
Quaroni e altri danno vita all’associazione Italia Nostra, che diventerà
uno dei pochissimi punti di aggregazione del movimento per la tutela del
paesaggio.
Ma negli ultimi decenni si compiono alcuni spostamenti notevoli sul
piano concettuale, relativamente ai problemi del paesaggio, e si assiste a
un grosso cambiamento di mentalità rispetto alla percezione della natura.
Si diffonde sempre di più anche in Italia la sensibilità per le nuove
tematiche ecologiche. Nascono associazioni, gruppi, anche partiti politici
che hanno come loro fine la tutela dell’ambiente inteso come ecosistema,
nel quale dunque (che di ciò si sia consapevoli o no) l’aspetto che viene
accentuato è quello fisico-biologico. La conseguenza nell’ambito che ci
riguarda è degna della massima considerazione: l’interesse per la tutela
della natura non è più correlato, almeno non più esclusivamente, alla
‘bellezza’, alla ‘panoramicità’, ma soprattutto al rispetto della natura, alla
salvaguardia di specie animali e vegetali, alla difesa dall’inquinamento. L’
‘ambiente’ soppianta il ‘paesaggio’24. Ciò significa però anche che, almeno
in parte, attraverso l’interesse ecologico continua a manifestarsi un
interesse estetico per la natura. Quel che sembra accadere, quindi, è che
l’interesse di tipo ecologico viene a essere espressione anche di un rapporto
estetico con la natura e il paesaggio, solo che tale interesse è come
occultato e ‘coperto’ dall’altro. Negli stessi anni si assiste a una dilatazione
della nozione di urbanistica, che porta a ricomprendere spesso il paesaggio
all’interno dell’urbanistica. Ciò è dovuto anche al fatto che l’esperienza di
pianificazione si elabora appunto in materia urbanistica. Il piano
paesistico diventa un derivato di quello urbanistico. L’architetto rivendica
come materia propria la gestione del territorio e del paesaggio.
Il risultato di tutto ciò è che, proprio mentre sarebbe necessaria
l’elaborazione di una nozione estetica del paesaggio che liberi dalla
angusta visione panoramicista e dall’identificazione del valore estetico col
pittoresco, una nozione insomma che chiarisca in che modo all’idea del
paesaggio come identità dei luoghi inerisca inevitabilmente la percezione
del valore estetico del paesaggio, frutto della interazione della storia e della
natura, l’aspetto estetico del paesaggio vien sempre più spesso identificato
e limitato al ‘panorama’, con una inevitabile svalutazione di esso.
Una prima conseguenza di queste opinioni si può vedere nella
scomparsa o nella ‘messa in parentesi’ della nozione di paesaggio non solo
in molte discussioni recenti, ma per esempio anche nel linguaggio della
Amministrazione. L’istituzione, nel 1974, del ministero dei Beni culturali
e ambientali può esserne una riprova: importantissima in sé, quella
decisione si connotava linguisticamente attraverso una ricomprensione
(nella migliore delle ipotesi) del paesaggio nell’ambiente, nella peggiore in
un sacrificio del primo a vantaggio della esclusiva considerazione del
secondo. Il primo dei comitati di settore del neonato ministero si
denomina «per i beni ambientali e architettonici», e così pure, a livello
periferico, le soprintendenze alle quali è affidata la tutela dei beni di cui
alla legge 29 giugno 1939. Solo dal 1994 è attivato, presso il ministero per
i Beni culturali e ambientali, un Ufficio centrale per i beni ambientali e
paesaggistici25.
L’impressione è che da parte degli studiosi di estetica si sia fatto poco per
evitare la semplicistica equazione paesaggio in senso estetico = panorama.
Una delle poche eccezioni è rappresentata dallo studio di Rosario
Assunto Il paesaggio e l’estetica, la cui prima edizione è del 1973, con la sua
chiara coscienza del fatto che l’aspetto estetico di un intero territorio è
una componente essenziale della sua identità storica e anche ambientale in
senso lato, per cui la salvaguardia di un assetto paesistico globale anche nel
suo aspetto estetico è una condizione necessaria per la salvaguardia del
patrimonio culturale e ambientale.
Credo che si debba tener presente questo sfondo teorico nell’affrontare
la più recente legge 8 agosto 1985, ormai nota come «legge Galasso». Si
tratta di una legge di grande portata innovativa perché estende il concetto
di tutela da cose singole o complessi di cose comunque limitati a intere,
amplissime porzioni di territorio e perché, attraverso l’istituzione del
piano paesistico regionale, afferma la necessità di un governo del
territorio che riguardi tutta la superficie nazionale.
Com’è noto, la legge sottopone a vincolo paesaggistico ai sensi della
legge 29 giugno 1939 (quella da noi precedentemente analizzata):
a) i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri
dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare;
b) allo stesso modo, quelli contermini ai laghi, i fiumi e ai torrenti e
corsi d’acqua per una profondità di metri 150;
c) le montagne al di sopra dei 1.600 metri nelle Alpi e dei 1.200 metri
nell’Appennino;
d) i ghiacciai, i parchi, le foreste, i vulcani, le zone umide.
Come si vede, si tratta di un elenco che individua porzioni molto ampie
di territorio, e sembra farlo non tanto sulla base di interessi paesaggistici
quanto sulla base di necessità ambientali (protezione delle coste, degli
specchi e dei corsi d’acqua, dell’alta montagna). In realtà, credo che
sarebbe semplicistico parlare di un sacrificio del valore paesaggistico a
quello ambientale in senso stretto, e questo non solo perché il privilegio
accordato a certe zone (l’alta montagna) sembra venire incontro a un
‘comune sentimento della bellezza naturale’ (ricordiamo le ironie di
Roberto Longhi sulla bellezza naturale che comincia «dai
settecentocinquanta metri in su»). Si tratta piuttosto di una legge che
nasce dalla confluenza di due filoni diversi: quello della protezione delle
bellezze naturali, al quale esplicitamente si riallaccia, e quello della
protezione ambientale. Giustamente, mi pare, una recente sentenza della
Cassazione interpreta che attraverso la «legge Galasso» «la tutela primaria
del paesaggio [...] non è limitata alla mera conservazione di specifiche e
individuate bellezze naturali ma si estende alla gestione e valorizzazione
dello stesso per le valenze estetiche e culturali che esso rappresenta»26. Il
fatto stesso che la legge si diriga prevalentemente verso territori non
antropizzati o scarsamente antropizzati (alta montagna, ghiacciai, zone
umide) andrà spiegato non come una rinunzia a tutelare le zone nelle
quali i valori paesistici si esprimono come valori insieme storici, umani,
ma con la maggiore facilità di assoggettamento a un vincolo generale di
tali territori.
L’importante è che si intenda come il valore estetico del paesaggio,
concepito come identità estetica di un territorio, e quindi come carattere
permanente che contribuisce alla sua fisionomia e alla sua specificità (non
semplicemente come panorama o veduta!) non è in concorrenza con gli
altri aspetti (ecologico, fisico, geologico ecc.), ma rappresenta da un lato
una componente ineliminabile dell’identificazione del paesaggio come
tale, dall’altro una sorta di garanzia e di riprova della esistenza e della
armonizzazione degli altri fattori del paesaggio. L’importante, insomma,
è che non si arrivi a considerare l’identità estetica di un luogo, il valore
estetico del paesaggio, come un accessorio che può essere messo da parte
tutte le volte che faccia comodo farlo. Prendo ad esempio di un rischio
del genere la lettura della «legge Galasso» fatta da un giurista come Achille
Cutrera27. Egli comincia col notare che la nuova legge «supera la
tradizionale e ristretta concezione della difesa dei valori dell’estetica,
facendo perno essenzialmente sul razionale assetto dei suoli e sulla
razionale conservazione dei beni naturali»; aggiunge che i vincoli di
rispetto imposti dalla legge, per esempio nel caso dei fiumi «non sono solo
a presidio dei valori estetici ma prevalentemente [corsivo mio] orientati ad
imporre particolari forme di tutela del suolo per ragioni che attengono
alla idrogeologia, alla morfologia, all’inquinamento delle falde ecc.». Da
qui si giunge ad affermare che si tutela il territorio «inteso come risorsa
naturale» e che i piani paesistici sono finalizzati «alla conservazione, alla
difesa e alla valorizzazione del suolo sulla base delle caratteristiche fisiche e
ambientali del territorio interessato». Ecco fatto: i valori estetici e quelli storici
semplicemente non ci sono più, sono scomparsi. Il che non è forse una
dimenticanza innocente se subito dopo si aggiunge che «l’ampliamento
concettuale di una progettazione non più riferita a singoli beni in favore
della loro prevalente bellezza, ma inquadrata quindi percepita e disegnata
con riferimento a valori che toccano la radice stessa del sistema
territoriale sotto l’aspetto ecologico e naturalistico [...] impone al
progettista più rilevanti responsabilità disciplinari, ma anche più adeguati
spazi di libertà».
Sul piano operativo, è noto che l’aspetto più innovativo e
potenzialmente più ricco di sviluppi della «legge Galasso» era
rappresentato dall’obbligo che essa assegnava alle regioni di dotarsi (entro
il 31 dicembre 1986!) di piani paesistici o piani urbanistico-territoriali
«con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali». La
difficoltà che le regioni hanno avuto a dotarsi di tale piano, i ritardi e le
inadempienze di molte tra di esse sono storia nota; ed è noto anche come
la nozione di piano paesistico sia stata intesa in modo molto diverso dalle
varie regioni. Che alcune abbiano esteso il piano a tutto il territorio
regionale è sicuramente un fatto positivo e l’indice di una nuova
sensibilità per i valori del territorio; tuttavia anche in questo caso si apre
un possibile dissidio tra una concezione prevalentemente urbanistica (il
piano come estensione del piano urbanistico) e una considerazione più
attenta alla specificità dei problemi paesaggistici28.
Da una voce non sospettabile a priori di debolezze per l’estetica, dalla
voce di un geografo, Maria Chiara Zerbi, viene un’osservazione
importante sui piani derivati dalla «legge Galasso»: «Anche se non è
ancora tempo di bilanci [Zerbi scriveva queste parole qualche anno fa] si
può osservare come i piani discesi da tali norme oscillino tra la tendenza ad
appiattire l’idea di paesaggio su quella di territorio o, sulla spinta di sollecitazioni
provenienti dalle discipline scientifiche, a farla coincidere con quella di ambiente»29.
E altri ha notato, più criticamente, che nell’impianto stesso della legge
Galasso si annida un’incongruenza, derivante dall’«aver assoggettato a
vincolo paesistico beni eterogenei e, in parte, del tutto estranei alla legge
del 1939, alla quale il nuovo provvedimento [...] si richiama in modo
esplicito e sostanziale»30. Più precisamente, si dovrebbe dire che la legge
suppone una intercambiabilità tra tutela ambientale e tutela paesaggistica,
tanto da attuare una tutela essenzialmente ambientale (quella del
paesaggio in senso ecologico-geografico) col rinvio a una tutela
paesaggistica (del paesaggio come fenomeno estetico). Così facendo,
incoraggia a pensare che ambiente e paesaggio siano lo stesso.
Ed è proprio in questa identificazione o sostituzione che si annidano i
pericoli. Infatti, nessuno si sogna di ritenere che il paesaggio in senso
fisico-geografico non sia degno di considerazione, o che l’ambiente inteso
come ecosistema non abbia bisogno della massima protezione. Il
problema comincia quando si assume che il paesaggio in senso estetico e i
suoi valori siano ricompresi nel concetto di ambiente o in quello di
paesaggio fisico-geografico, e che quindi la loro tutela non dia luogo a
speciali necessità. Non si tratta di opporre il paesaggio in senso estetico
all’ambiente, ma di comprendere che l’uno non è riducibile all’altro, e che
intendere ‘ambiente’ come sinonimo di ‘paesaggio’ o, peggio, come unico
termine scientifico di fronte all’imprecisione del termine paesaggio, è del
tutto ingiustificato. Non si tratta, insomma, di mettere in questione il
diritto del geografo di parlare del paesaggio geografico o quello
dell’ecologo di parlare di ambiente, ma rivendicare il diritto
dell’estetologo, dello storico dell’arte, dell’architetto di paesaggio a
parlare, fondatamente e seriamente, del valore estetico di esso. Né questa
distinzione significa che tra i due campi non vi sia comunicazione, e che,
per esempio, per parlare esteticamente del paesaggio i dati fisici o
biologici non siano importanti. Tutt’altro. Solo che per comprenderlo
bisogna abbandonare l’altro grande equivoco, che il paesaggio in senso
estetico non sia altro che il panorama, la veduta, e che si riduca all’arbitrio
soggettivo. Bisogna arrivare a pensare il paesaggio come identità estetica dei
luoghi, come un valore certamente non oggettivo (dato che nessun valore
estetico, nemmeno quello della Commedia, è tale), ma neppure
meramente soggettivo nel senso dell’arbitrarietà. Bisogna rivendicare al
paesaggio lo status di tutti i valori estetici, che è quello di essere valori
intersoggettivi, culturali, storici, ovvero di essere dei mezzi di
identificazione culturale per una comunità.
Il ritorno del paesaggio come fenomeno estetico
Qualcosa si sta muovendo, in proposito. Negli ultimi anni parlare di
paesaggio in senso estetico, percettivo, non è più un tabù. Si torna a
capire che difendere l’ambiente vuol dire anche difendere la forma e
l’identità dei luoghi, e non si ha più paura di dire che tra i valori da
difendere c’è anche la bellezza del paesaggio. Si comincia a comprendere
che la confusione tra ambiente e paesaggio è pericolosa, e che da essa non
può nascere nulla di buono. Meno si è fatto sull’altro versante, ossia per la
definizione di un concetto del paesaggio che marchi nettamente la sua
differenza rispetto alla veduta e al panorama, ma qualcosa si intravede
anche a questo proposito.
Solo che questi passi sono stati compiuti all’estero, mentre in Italia c’è
ancora chi crede di essere all’avanguardia propugnando la risoluzione del
concetto di paesaggio in quello di ambiente e spezzando l’ennesima lancia
contro la concezione romantico-estetica del paesaggio, cioè contro
qualcosa di morto da tempo, anzi contro un fantasma. Abbiamo già visto
il caso di Pratesi, ma se ne possono trovare molti altri. Si prenda ad
esempio il libro di Valerio Romani Il paesaggio. Teoria e pianificazione,
pubblicato nel 199431. Ebbene, qui si argomenta che esistono bensì due
accezioni di paesaggio, una estetico-percettiva e una eco-geografica, o
scientifica, ma che «l’unica chiave che permette di comprendere il
paesaggio è l’ecologia», sicché il paesaggio andrà inteso come «la totalità
dei fenomeni naturali ed umani» (una definizione, come si vede, alquanto
bizzarra dato che identifica il paesaggio con tutto l’esistente)32. Il
paesaggio non deve avere alcun riferimento all’estetica, all’immagine, ma
solo quello, scientifico, alla totalità del reale. A tratti Romani sembra
colto da qualche dubbio, e scrive che «l’accezione scientifica (o ecologica)
e quella fenomenica (o estetico-percettiva) sono dunque aspetti
complementari di un unico processo conoscitivo; pertanto non debbono
essere contrapposte, ma congiunte», salvo poi affermare solo due pagine
più avanti che «la definizione fenomenica deve essere rifiutata [...] il vero
riferimento è quello dell’ecologia», il che, certamente, è un bel modo di
congiungerle. La confusione si fa massima quando Romani argomenta
che «l’ambiente è un’entità relazionale e quindi relativa e dipendente dal
soggetto cui è riferita», mentre «il paesaggio è un’entità reale, costituita da
un insieme di elementi nonché dalle relazioni che li legano», ragione per
cui il paesaggio ricomprenderebbe in sé, come caso particolare,
l’ambiente33.
Un altro esempio ancora ci viene da uno dei nostri maggiori esperti di
Architettura del paesaggio, Annalisa Maniglio-Calcagno, che
contrappone il paesaggio in senso estetico e paesaggio come
«manifestazione globale dei processi della biosfera o di aspetto sensibile
degli ecosistemi, sia naturali che artificiali, cioè modificati dall’uomo»,
come al solito intendendo il primo alla stregua di «immagine d’arte,
oggetto di valore estetico esclusivamente da contemplare»34, e che
recentemente è tornata a parlare di paesaggio come «complesso di
ecosistemi interagenti», scrivendo: «Sono necessarie ricerche che non si
limitino all’interpretazione fisionomica e allo studio del paesaggio come
oggetto della percezione, che ha dominato a lungo la cultura italiana [...]
occorrono procedimenti analitici che riferendosi alla concezione
rigorosamente scientifica di paesaggio ne interpretino l’effettiva natura di
entità fisica, organizzata in sistemi naturali e artificiali». Ci si dovrebbe
servire di «letture e interpretazioni semiologiche dei territori, di
conoscenze scientifiche, fisiche e biologiche per individuare fattori,
elementi e componenti del paesaggio scientificamente misurabili», ossia,
per l’ossessione della scientificità, bisognerebbe affidarsi a discipline
inesistenti o tutt’altro che scientifiche e di cui è dubbia persino la
pensabilità (non sappiamo cosa sia una «semiologia del territorio»)35.
Quest’aria di superiorità nei confronti del valore estetico del paesaggio,
questa indifferenza venata di disprezzo verso l’esteticità della natura è
tanto più sorprendente in quanto basterebbe affacciarsi fuori dell’Italia per
sentire spirare un’aria alquanto diversa, e per constatare come parlare
degli aspetti estetici del paesaggio non sia più considerato un tabù. La
stessa Raccomandazione sul Progetto di Convenzione europea del paesaggio,
discussa e adottata dal Consiglio d’Europa il 27 maggio 1998, è basata su
una concezione del paesaggio che non rifiuta affatto la sua componente
storico-estetica, e anzi sottolinea, fin dalla definizione del paesaggio che
viene accolta, la natura percettiva ed estetica del paesaggio stesso:
«Paesaggio: una determinata parte di territorio, che può includere le
acque costiere e/o interne, così come è percepita dalle popolazioni e il cui
aspetto è dovuto a fattori naturali ed umani e alle loro interazioni»36.
Assistiamo insomma al curioso spettacolo per cui proprio in Italia, ossia
in un Paese in cui è difficile negare che proprio l’identità estetica del
paesaggio assuma un rilievo particolare e si configuri come bisognosa di
specifica attenzione e tutela, si continui a credere che sia segno di
modernità e di aggiornamento ostentare nonchalance nei confronti del
paesaggio in senso estetico e della sua bellezza.
Basta invece aprire il Breve trattato del paesaggio pubblicato in francese da
Alain Roger per trovare energicamente affermate tesi che in Italia
suonano blasfemia. «Un paesaggio non è mai riducibile alla sua realtà
fisica – i geosistemi dei geografi, gli ecosistemi degli ecologi – [...] la
trasformazione di un paese [pays] in paesaggio [paysage] suppone sempre
una metamorfosi». Se fatichiamo a capirlo, lo si deve al predominio della
cultura ecologica, alla «difficoltà, per noi ‘uomini dell’ambiente’, nutriti di
ecologia, di elevarsi a quello che si potrebbe chiamare l’autonomia del
paesaggio». Roger può allora stigmatizzare «l’indecisione del legislatore
quando si tratta di distinguere i valori ecologici (ambientali) ed estetici
(paesaggistici), mentre questa distinzione è essenziale». Parlando con
rigore, «il paesaggio non fa ‘parte’ dell’ambiente. Quest’ultimo è un
concetto recente, di origine ecologica, e passibile, a tale titolo, di un
trattamento scientifico. Quanto a lui, il paesaggio è una nozione più
antica, di origine artistica, e bisognosa, come tale, di un’analisi estetica».
Del paesaggio, insomma, si deve occupare l’estetica, non la scienza:
«Contro gli ecologi, dirò che un paesaggio non è mai riducibile a un
ecosistema. Contro i geografi, che non è neppure un geosistema. Per
quanto deludente appaia questa affermazione, si deve tuttavia sostenerla
nella sua debolezza: il paesaggio non è un concetto scientifico. In altri
termini, non c’è, non potrebbe esserci scienza del paesaggio, il che non
significa, beninteso, che su questo argomento non si possano tenere
discorsi corretti»37. Anche in Germania, Martin Seel pone il paesaggio,
almeno programmaticamente, al centro della propria Estetica della natura
(1991): il paesaggio è l’unità estetica della natura, la totalità delle
possibilità di un incontro con la natura. Il suo carattere è dunque
eminentemente percettivo, non fisico, ma esso è anche tutt’altra cosa dal
mero panorama. Caso quasi isolato fra i teorici della Naturaesthetik, Seel
pone insomma il paesaggio come l’esperienza più autentica e comprensiva
che possiamo compiere nella natura considerata da un punto di vista
estetico38.
Né sono solo i filosofi a pensarla in questo modo. L’antologia La théorie
du paysage en France 1974-1994 è interessante non solo perché mostra
quanto si è lavorato in Francia, a differenza che in Italia, su questo
concetto, ma anche perché geografi, antropologi, paesaggisti si rivelano
tutt’altro che refrattari a prendere in considerazione le ragioni estetiche
del paesaggio. Esemplare, in questo senso, la posizione del geografo
culturale Augustin Berque, che nel suo Les raisons du paysage (1995) non
teme di affermare a chiare lettere che il paesaggio non è la morfologia
dell’ambiente e non è un oggetto. Perciò, per comprendere il paesaggio
non è sufficiente la conoscenza morfologica di ciò che costituisce
l’ambiente, né di come funziona la fisiologia della percezione: bisogna
conoscere anche le determinazioni culturali, sociali e storiche della
percezione. Occorre cioè un’attitudine che è del tutto differente da quella
delle discipline «le quali, pur impiegando il termine paesaggio, si
occupano in effetti di morfologia dell’ambiente, ovvero unicamente del
lato oggettivo dell’ambiente, senza porre in questione la sua costruzione
da parte del soggetto». Berque quindi non si stanca di criticare quelle
posizioni della geografia e dell’ecologia tradizionali le quali hanno in
comune il fatto di considerare «il paesaggio come un dato, analizzabile
oggettivamente come tale, vale a dire come qualche cosa che esiste in sé e
non nella sua relazione col per-sé dell’osservatore». Così come l’estetica
non è l’ecologia, scrive Berque, il paesaggio non è l’ambiente. Si dovrà
dire, piuttosto, che il paesaggio è sempre sia ecologico che simbolico. Il
paesaggio richiede la presenza di uno sguardo: «Senza questo sguardo,
senza questa messa a dimora del soggetto percipiente all’interno
dell’ambiente, la quale è al tempo stesso structure d’appel del soggetto
percipiente all’interno dell’immagine, non vi potrebbe essere paesaggio»39.
Un altro geografo francese, Jean-Paul Guerin, in uno scritto intitolato Il
grande ritorno del paesaggio, non teme di attaccare frontalmente il concetto
di paesaggio inteso dalla geografia tradizionale come un «oggetto
scientifico», e parla senza mezzi termini di una «trappola intellettuale»: in
tale concetto di paesaggio «il collegamento fra gli oggetti e il soggetto non
era studiato, e dunque era di fatto un collegamento ideologico». Guerin
può allora parlare del paesaggio come di un «fenomeno culturale» e, quel
che maggiormente ci interessa, può mettere al primo posto tra gli
elementi che formano la cultura di paesaggio proprio l’estetica40.
Di fronte a queste nette affermazioni, i tentativi di alcuni geografi
italiani più aperti di recuperare dopo tanti anatemi la dimensione
percettiva del paesaggio appaiono più incertamente fondati. Così Franco
Farinelli ricorre all’idea di un’«arguzia» del paesaggio, che poi non è altro
che la sua struttura essenzialmente ancipite, per cui esso può essere sia la
cosa sia la rappresentazione o la percezione della cosa41, mentre Eugenio
Turri, rivedendo in parte le sue opinioni precedenti, parla oggi di
Paesaggio come teatro. Dietro la scelta di questa metafora agiscono
certamente molte ragioni condivisibili. Turri vede con chiarezza che il
problema, oggi, è «riportare il paesaggio nell’alveo delle manifestazioni
culturali», giacché ormai è convinto della «impossibilità di ridurre al
piano oggettivo, geometrico, misurabile, ogni intervento di tutela che
non riguardi strettamente la componente naturalistica». Infatti – sono
sempre parole di Turri – «oggi anche i geografi convengono che occorra,
al di fuori di ogni pretesa scientifica, riportare il paesaggio ai suoi
significati soggettivi o comunque inerenti al dominio del rappresentare»42.
La nozione di «paesaggio come teatro» dovrebbe servire a tutti questi
scopi, ma è adatta ad essi? Lo sviluppo delle argomentazioni di Turri e le
contraddizioni cui va incontro rendono legittimo qualche dubbio in
proposito. Intanto, non è chiaro se quella del ‘teatro’ sia semplicemente
una metafora (come Turri stesso talora ammette) oppure un concetto
operativo, e parlare, come fa Turri addirittura nello stesso giro di frase, di
«concezione o metafora del paesaggio come teatro»43 non aiuta a sciogliere
la questione. Ma se, in qualche modo, l’idea del paesaggio come teatro va
presa sul serio, allora essa crea forse più inconvenienti di quelli che risolve.
Infatti, accentua indebitamente gli elementi artificiali e manipolativi del
paesaggio, inducendo a una sottovalutazione degli elementi prettamente
naturali nel paesaggio. Per esempio, Turri dice che siamo noi i ‘registi’ del
paesaggio, e che «allestire il paesaggio significa preparare il palcoscenico su
cui recitare», espressioni pericolose perché sembrano sottolineare una
condizione di libertà e di piena disponibilità del paesaggio che può
incoraggiare arbitri e capricci. Così pure, la metafora teatrale induce a una
troppo netta dicotomia tra spettatori e attori nel paesaggio, con curiosi
contorcimenti. Da un lato sembra infatti che «essere attori significa stare
‘dentro’ il paesaggio, essere spettatori significa starne fuori, distinzione
fondamentale per chiunque abbia approfondito la ricerca sull’essenza del
paesaggio», affermazione che però dimentica come anche essere
‘spettatori’ del paesaggio sia un modo di viverlo, di esperirlo, di
interagirvi44; dall’altro, egli arriva a dire che «il venir meno negli italiani
del ruolo di spettatori, con il prevalere dell’azione sul rispecchiamento
teatrale di essa, è il vero motivo della distruzione del nostro paesaggio»45.
Addentrandosi in questioni più tecniche, si potrebbero segnalare altre
difficoltà. Del tutto problematica è la nozione, di ispirazione semiologica
o pseudo-semiologica, di iconema, che Turri offre come concetto
operativo. Gli iconemi vengono definiti come «il Leitmotive di un pays, di
una regione, nel senso che in essi si esprimono gli elementi costitutivi, le
emergenze nodali di uno spazio organizzato, che proprio da essi trae
omogeneità e unità di orditura». Ma il loro statuto è tutt’altro che chiaro:
come identificarli, e come farne delle invarianti la cui combinazione dia
luogo ai vari paesaggi? L’avvicinamento dei presunti iconemi ai fonemi
della linguistica è una di quelle boutades che potevano aver corso nella
semiotica degli anni Settanta, ma che oggi ci rendono giustamente
sospettosi. Specie quando scopriamo che Turri afferma per un verso che
«basta chiedere a persone diverse che abbiano compiuto lo stesso viaggio
quali sono gli elementi che ritengono più saldamente nella memoria e che
a loro avviso qualificano meglio quel territorio. [...] Generalmente si
hanno risposte analoghe, almeno otto su dieci indicano le stesse cose:
ecco gli iconemi», mentre per un altro confessa di se stesso che «un numero
interminabile di visite ha consentito a chi scrive di individuare nell’insieme
del territorio gli iconemi che si sono poi rivelati gli elementi chiave, sia
dal punto di vista geografico che storico»46.
Ma, al di là di queste incongruenze, quel che colpisce in Turri è il fatto
che, pur riconoscendo appieno il carattere culturale, e percettivo-
soggettivo, del paesaggio, egli continua a sospettare e a trascurare l’aspetto
estetico, come se esso fosse un residuo passatistico e non una
importantissima realtà proprio del nostro modo attuale di vivere il
paesaggio. Per dare spessore al rifiuto dell’appiattimento del paesaggio
sull’ambiente, andrebbe invece riconosciuto che il rapporto che oggi
intratteniamo con la natura è di tipo eminentemente estetico, ossia passa
in primo luogo per una esperienza percettiva volta a un sentimento di
gratificazione. Anche quando l’interesse che porta a determinati
comportamenti nei confronti della natura, come nel caso dell’istituzione
dei parchi nazionali o delle riserve biologiche, è di ordine scientifico-
ecologico, non vi è dubbio che il fruitore comune va alla ricerca in primo
luogo di un’esperienza che è di tipo estetico. Ciò non significa che nel
visitatore del parco non sia presente anche una curiosità scientifica o
ecologica: significa però che tale curiosità dà luogo a esperienze che non
sono per lo più di indole conoscitiva ma estetica. Allo stesso modo,
crediamo, si spiega la grande popolarità della divulgazione biologica o
geografica: l’interesse dello spettatore è così forte perché egli compie qui
un’esperienza che è in se stessa appagante, appunto perché fenomeni
naturali sono esperiti innanzi tutto come esteticamente attraenti. Viviamo
in un’epoca in cui la grandissima parte della popolazione non ha più alcun
rapporto autentico e diretto con la natura: l’unico rapporto di questo tipo
che ancora sussiste, per questa stragrande maggioranza, è appunto quello
estetico.
Ma a favore della irriducibilità del paesaggio all’ambiente sta anche il
dato capitale che il paesaggio non è mai semplicemente naturale, ma è
anche, sempre, costitutivamente storico. La tesi può sembrare azzardata
nel caso dei paesaggi non antropizzati, e di tutti quelli in cui non si
avverte l’opera dell’uomo: eppure anche in questi casi la dimensione
storica del paesaggio salta agli occhi se si pensa a quanto ne è variata, nei
secoli, la percezione. Ma non è necessario scegliere questi casi-limite,
perché è assai facile constatare che in Europa in genere, e in Italia in
particolare, la massima parte del paesaggio è frutto di un’interazione
strettissima e prolungata di opera umana e di dato naturale, sì che quasi
ogni nostro paesaggio è, insieme, natura e storia, ed è un documento
preziosissimo di evoluzione culturale. Il paesaggio italiano è per la
massima parte paesaggio culturale. Ragione per cui la sua comprensione e la
sua tutela non sono affatto possibili sulla base della semplice dimensione
naturalistica del paesaggio, pur importante quanto si vuole. La
valutazione, la tutela e la progettazione del paesaggio italiano richiedono
operatori che abbiano una spiccata preparazione storico-estetica, cioè che
sappiano confrontarsi adeguatamente con la dimensione culturale del
nostro paesaggio.
Infine, non va dimenticato che il valore estetico del paesaggio è anche
una garanzia del suo interesse e della sua vivibilità da un punto di vista
ecologico. Infatti potranno forse darsi dei paesaggi naturalisticamente
importanti e non esteticamente gradevoli (anche se ormai la nostra
percezione ha fatto molta strada in proposito), ma certo non credo si
diano paesaggi esteticamente validi ed ecologicamente malsani o corrotti,
se non in casi specialissimi e spiegabili come situazioni-limite47. Sì che
spesso mi pare che gli sforzi di salvaguardare un luogo o un territorio per
i suoi pregi naturalistici ecc., potrebbero essere espressi per via più
immediata e convincente come sforzi di salvarne l’identità estetica. Il
valore estetico del paesaggio viene sempre più riconosciuto, almeno a
livello di opinione, come valore anche economicamente centrale. Il
turismo non becero vuole una natura anche esteticamente soddisfacente;
e un territorio esteticamente soddisfacente è sempre più importante, per
esempio, ai fini di quella che i tecnici chiamerebbero, con espressione
indubbiamente goffa, la sua «desiderabilità residenziale».
I limiti delle teorie correnti del paesaggio e il paesaggio come identità estetica dei
luoghi
Se tutto questo è vero, allora dovremo concluderne che il criterio che
guida non solo la valutazione, ma anche la tutela del paesaggio, non può
essere un criterio che abbia di mira esclusivamente l’ambiente: deve
includere il paesaggio come fenomeno estetico. Tanto più importante
diventa, dunque, un’adeguata teoria del paesaggio in senso estetico. Ma
proprio qui, sembra, il cammino da fare è ancora lungo, perché anche le
tendenze più recenti, che abbiamo segnalato positivamente nel paragrafo
precedente, sono ancora lontane dall’offrire una serie di soluzioni
soddisfacenti. La più recente teoria del paesaggio sembra muoversi
interamente tra i due poli delle dottrine che potremmo chiamare biologiche
e di quelle che potremmo denominare pittoriche, ma nessuna delle due
tendenze sembra veramente adeguata a pensare l’esperienza che
compiamo nel paesaggio.
Le teorie biologiche (ma forse sarebbe più esatto chiamarle socio-biologiche o
etologiche) del paesaggio sostengono che il nostro apprezzamento estetico
del mondo circostante non può non essere condizionato dalla storia
evolutiva della nostra specie, ragione per cui debbono esistere delle
invarianti, degli ‘universali’ nel nostro atteggiamento nei confronti del
paesaggio, invarianti riscontrabili in tutte le culture e in tutte le epoche:
potrà trattarsi sia (nella terminologia ormai invalsa di Irenäus Eibl-
Eibesfeld) di condizionamenti di base, ovvero di condizionamenti che
condividiamo con altre specie animali, sia di condizionamenti specie-
specifici, ovvero condizionamenti propri della specie umana e di essa sola.
Questo tipo di teorie trova molto ascolto nella cultura anglosassone, e
molto meno in quella italiana, dove tali temi sono pressoché assenti, sia in
riferimento al paesaggio (che appare, e non per caso, uno dei campi di
elezione delle teorie etologiche, assieme al tema della bellezza del corpo
umano: in effetti, che cosa più della percezione del bello di natura
dovrebbe evidenziare la presenza di condizionamenti naturali?) sia in
riferimento ad altri aspetti dell’estetica. Noi le esporremo facendo
riferimento principalmente a quello che rimane, a tutt’oggi, il testo più
indicativo dell’applicazione al paesaggio dell’estetica etologica, ossia il
volume di Jay Appleton, The Experience of Landscape. Pubblicato in prima
edizione nel 1975, il volume è stato di recente ripubblicato con
aggiornamenti nella bibliografia e con un ampio post-scriptum che discute
sia quanto è stato scritto da altri sull’argomento, sia le evoluzioni – per la
verità non decisive – che Appleton stesso ha fatto subire alla propria
teoria48.
Appleton ritiene che le nostre preferenze in materia di paesaggio siano
condizionate filogeneticamente, cioè che il fatto che noi troviamo un
certo tipo di ambiente apprezzabile esteticamente sia, almeno in parte,
legato alla storia biologica della nostra specie e alle condizioni di vita in
cui si sono trovati a lungo i nostri lontani progenitori. Appoggiandosi a
Desmond Morris e a parecchi altri etologi, insomma, Appleton è del
parere che, allo stesso modo in cui il nostro comportamento sessuale o la
nostra aggressività possono essere studiati come sviluppi dei
comportamenti corrispondenti di altre specie animali, e in particolare di
altri primati, così «è certamente logico supporre che gli atteggiamenti di
creature più primitive nei riguardi dei loro ambienti visibili e tangibili
possa gettare luce sugli atteggiamenti umani nei confronti dello stesso
tipo di cose»49. In particolare, Appleton ritiene indubitabile che
l’apprezzamento estetico del paesaggio sia legato alla presenza di
condizioni ambientali favorevoli alla sopravvivenza biologica: «tutto
conduce all’affermazione che il soddisfacimento estetico, esperito nella
contemplazione del paesaggio, nasca dalla percezione spontanea di
caratteri del paesaggio che, nelle loro forme, colori, organizzazioni
spaziali e altri attributi visibili, agiscano come segni-stimoli indicativi di
condizioni ambientali favorevoli alla sopravvivenza»50. È quella che
Appleton denomina habitat theory. La relazione dell’uomo al proprio
ambiente è, basilarmente, la stessa relazione che lega ogni creatura al suo
habitat (siamo in presenza cioè di un condizionamento di base). La
presenza di acqua dolce corrente, di vegetazione, ecc. ci piace nel
paesaggio perché senza acqua dolce e vegetazione non potremmo vivere.
Ma il nocciolo della teoria di Appleton rinvia piuttosto a un
condizionamento specie-specifico, che rimonta ai tempi che videro
l’ominizzazione. Poiché i nostri più lontani progenitori sono vissuti come
cacciatori nelle savane, essi hanno sviluppato una particolare sensibilità e
reattività a due tipi di fattori e alla loro correlazione: al fatto di poter
disporre di una vista adeguata, che consentisse loro l’avvistamento delle
prede di caccia, e a quello di poter, contemporaneamente, avere a
disposizione delle vie di fuga verso rifugi che consentissero loro la salvezza
dagli animali da cui potevano essere annientati. È la cosiddetta
prospect/refuge theory. Così riassume Appleton: «La habitat theory postula che
il piacere estetico nel paesaggio derivi dal fatto che l’osservatore faccia
esperienza di un ambiente favorevole al soddisfacimento delle sue
necessità biologiche. La prospect/refuge theory postula che, giacché la sua
abilità di vedere senza essere visto è un passaggio intermedio nel
soddisfacimento di moltissime di tali necessità, la capacità di un ambiente
di assicurare il verificarsi di questo fatto diventi una fonte più immediata
di soddisfacimento estetico [...] Il valore strategico di un paesaggio, sia
esso naturale o artificiale, è legato alla disposizione di oggetti che riescano
ad assicurare, nel loro assieme, queste due opportunità, e quando questo
valore strategico cessa di essere essenziale alla sopravvivenza continua ad
essere apprezzato esteticamente»51. Su due punti in particolare Appleton
insiste per evitare fraintendimenti. Il primo è che non è affatto necessario
che i caratteri del paesaggio siano effettivamente tali da assicurare vista o
rifugio o sopravvivenza: è sufficiente che sembrino tali, e quindi è possibile
anche che tali caratteri siano espressi simbolicamente. Il secondo – per la
verità messo in chiaro più nel post-scriptum del 1995 che nella versione
iniziale – è che i condizionamenti biologici non escludono la presenza e
l’importanza di quelli storico-culturali. La tesi di Appleton è che il nostro
comportamento estetico nel paesaggio, come del resto già il
comportamento in genere di molte specie animali, include sia elementi
innati sia elementi culturali, ragione per cui Appleton sarebbe soddisfatto
già di aver dimostrato che alcune delle nostre preferenze nel paesaggio sono
etologicamente condizionate, e quindi si possono trovare in tutte le
epoche e in tutte le culture.
Una versione parzialmente diversa della teoria di Appleton è
rappresentata dalla cosiddetta Savannah theory o teoria della Savana di
Gordon H. Orians: i paesaggi saranno tanto più esteticamente apprezzati
quanto più avranno tratti paragonabili a quelli del nostro habitat
primigenio52. Lo studioso tedesco Klaus Richter, che riecheggia questa
teoria, insiste su un punto che è in effetti logicamente inevitabile: ipotesi
di questo tipo implicano che vi sia un genere di paesaggio gradito a tutti, e
che vi siano delle preferenze universali in materia di paesaggio. Tali
preferenze vanno, secondo Richter, ai paesaggi semiaperti, con vegetazione
intermittente (gruppi di alberi, arbusti, ecc.): è il paesaggio idilliaco
apprezzato in tutte le epoche. «Il fatto che noi ci troviamo bene in un
paesaggio intermedio è fondato in un processo di adattamento necessario
alla sopravvivenza accaduto durante l’ominizzazione»53.
Una posizione così tranchante ha il pregio di collocarci subito nel cuore
dei problemi che le teorie etologiche suscitano. Come si concilia, infatti,
l’ipotesi dell’esistenza di invarianti biologiche con la variabilità storica
dell’apprezzamento del paesaggio e addirittura con la sua scarsa o nulla
presenza in alcune culture? E, d’altro lato, come si concilia con la
prodigiosa varietà di paesaggi che l’uomo contemporaneo è in grado di
apprezzare? Più precisamente occorre chiedersi quale contributo specifico
alla comprensione può dare una teoria che non ci dice nulla circa la
diversità dei paesaggi apprezzati, e se essa ci consente comunque di capire
qualcosa di rilevante intorno ad essi.
Le risposte dei sostenitori delle teorie biologiche oscillano tra due poli:
c’è chi, semplicemente, nega una autentica diversità tra le esperienze del
paesaggio nelle varie epoche (e, aggiungiamo subito, nelle varie culture),
e chi invece, più flessibile, la riconosce, ma ritiene comunque che essa
non infici la sovra-storicità del paradigma etologico. Richter appartiene al
primo gruppo. Per lui, il paesaggio semi-aperto della savana è un
universale che attraversa tutte le epoche. Il fatto che l’uomo negli ultimi
secoli abbia imparato ad apprezzare esteticamente anche le montagne e il
bosco viene liquidato come irrilevante perché troppo recente e troppo
limitato. Ma, a parte il fatto che su tempi paleontologici l’amore per il
paesaggio idilliaco è altrettanto recente (cosa conta nei tempi evolutivi
della specie un periodo di duemila anni?) non è forse proprio il nostro
atteggiamento verso il paesaggio che ci interessa capire? E poi, come si fa a
provare che il paesaggio idilliaco è apprezzato in tutte le epoche mettendo
in un solo fascio non solo autori con qualche affinità, come Poussin e
Lorrain, ma anche pittori difficilmente accostabili, come Tischbein e
Watteau, e addirittura lontanissimi da una simile sensibilità, come Caspar
David Friedrich? Ci voleva un biologo per spiegarci che Friedrich, il
pittore dei paesaggi più straordinariamente lacerati e desolanti della
modernità, è in realtà un artista bucolico. Ma, anche sul piano
strettamente scientifico, la disinvoltura con cui si maneggiano i dati è
sorprendente. Richter, lo abbiamo visto, ritiene che il paesaggio più
apprezzato sia quello a spazi aperti alberati, e coerentemente afferma che
la preferenza per il bosco chiuso è un fatto del tutto moderno e
trascurabile. Poi, però, si imbatte in una ricerca statistica di Hans
Hermann Wöbse sulle preferenze paesaggistiche in cui, essendo
ovviamente il campione costituito da uomini di oggi, esce fuori che il
paesaggio preferito è quello del bosco fitto, mentre i gruppi di alberi (il
paesaggio più simile alla savana) stanno solo al terzo posto, ben
distanziati54. Vi aspettate che uno abituato al rigore del metodo scientifico
ne prenda atto? Macché, Richter, imperterrito, ne deduce che «vi sono
universali nella nostra percezione del paesaggio».
Appleton, a differenza degli etologi alla Richter, è invece disposto a
riconoscere la grande variabilità storica delle nostre preferenze in materia
di paesaggio55, ma ritiene comunque che in essa siano sempre presenti
elementi riconducibili alla invariante etologica di base, ossia il desiderio di
poter vedere quanto più possibile senza essere visti. Perché l’operazione
abbia successo, egli è costretto però a dilatare a tal punto i confini di quel
che significano ‘vista’ e ‘rifugio’ da far sì che la sua prospect/refuge theory
diventi del tutto infalsificabile, nel senso che non si riesce a capire quale
tipo di paesaggio non rientri nei canoni fissati. Intanto, come si è visto,
Appleton anticipa subito che non è necessario che si tratti di elementi che
assicurano una vista o un rifugio reali, dato che basta che ne assicurino
uno simbolico: così, però, si precostituisce la facile strada di dichiarare che
gli elementi che non armonizzano col suo criterio nella loro realtà fisica,
vi armonizzano però in quanto siano intesi come simboli rispettivamente
del riparo o dell’apertura visuale. Inoltre, Appleton specifica che, pur
essendo l’attrattiva del paesaggio basata sull’equilibrio di prospect e refuge
(anzi, per la verità questo sembrava proprio il nucleo della sua dottrina),
tuttavia vi sono paesaggi esteticamente soddisfacenti in cui domina la
sensazione di apertura di orizzonti e altri, altrettanto soddisfacenti, in cui
domina invece il senso di protezione56. Con questi due aggiustamenti,
Appleton è in grado di recuperare pressoché ogni paesaggio ai propri
criteri. Se, per esempio, sceglie di esemplificare attraverso dipinti di
paesaggio o contenenti elementi di paesaggio la propria teoria, può
dichiararla confermata da Raffaello e da Lorenzo di Credi, da Jan van
Eyck e da Pieter de Hooch, ma anche dai paesaggi notturni di Elsheimer,
da quelli pittoreschi di Salvator Rosa, da quelli petrosi e aspri di Giovanni
Bellini, ma anche, tutto all’opposto, da Fragonard. Né le cose gli
sembrano più difficili passando, per esempio, ai paesaggi frutto del
progetto dell’uomo. Pensate che sia difficile adattare la stessa teoria ai
giardini geometrici di Le Nôtre, nel Seicento, e a quelli liberi di
Capability Brown, nel secolo seguente? Niente paura: Appleton dimostra
che in tutti e due ci sono elementi di apertura visiva e promesse di rifugio.
Ma così non può evitare di far sorgere nel lettore l’impressione che una
teoria che spiega allo stesso modo fenomeni così diversi riesca a farlo solo
perché non spiega nulla di sostanziale in ciascun fenomeno. Sui giardini
francesi e su quelli inglesi, alla fine, abbiamo la netta consapevolezza di
saperne quanto prima. C’è di più: nonostante tutto, l’impressione che la
teoria funzioni bene per qualsiasi paesaggio (e quindi riesca almeno a
individuare un universale nella nostra percezione, magari troppo astratto
o minimale perché riesca a spiegare qualcosa di importante) è fallace. Ci
sono esempi in cui, malgrado tutti gli sforzi di Appleton per dimostrare il
contrario, essa evidentemente non tiene. Prendiamo il caso del giardino
medioevale del tipo giardino dei semplici, hortus conclusus: bene, qui ci sarà
certo il refuge, ma il prospect non è dato trovarlo. Oppure si prenda il caso
del giardino giapponese57. A parte il fatto che Appleton sembra ignorare il
tipo di giardino secco in pietra e sabbia, anche per il giardino con specie
arboree egli è costretto ai più azzardati equilibrismi per mostrare che esso
è assimilabile al desiderio (tipicamente occidentale) di ampie vedute. Più
in generale, e nonostante ogni diniego di Appleton in proposito, è chiaro
che tutto il gusto moderno, dal Settecento in poi, per la natura sublime
ripugna ai criteri etologici: difficile spiegare con inclinazioni ataviche
l’amore per burroni e ghiacciai, deserti e scogliere a perpendicolo, orridi e
precipizi, anche perché allora bisognerebbe spiegare perché tale amore si è
manifestato solo da un certo momento storico in poi, mentre prima non
ce n’era traccia. L’impressione con la quale ci si ritrae dalla lettura dei testi
di Appleton è che essi, come accade quasi sempre quando si vogliono
interpretare fenomeni culturali mediante retaggi biologici, restino
irrimediabilmente al di qua dei fenomeni che intendono spiegare58.
Anche ammesso che ciò che essi colgono sia vero, non ci dicono ciò che
ci interessa sapere, e annegano le infinite diversità della storia in una
omogeneità così povera che in essa non siamo più in grado di riconoscere
i tratti di alcun fenomeno determinatamente storico.
Una variante meno duramente scientistica delle teorie appena esaminate
è quella proposta dal geografo francese Yves Lacoste, sembra senza
rapporti con i suoi omologhi anglofoni. Per Lacoste un bel paesaggio è
innanzi tutto un paesaggio da cui si può osservare senza essere minacciati,
ragione per cui non è casuale che i ‘punti panoramici’ siano spesso gli
stessi in cui in passato sorgevano fortezze, castelli, torri. Lo sguardo
militare, cioè il modo di guardare il paesaggio proprio di chi, dovendo
fare la guerra, va alla ricerca dei luoghi in cui si possa defilarsi dal fuoco
nemico o aggredire senza essere visti, è strettamente imparentato con il
tanto più mite e certo inoffensivo sguardo dell’amante dei paesaggi.
«L’osservazione dei paesaggi serve, innanzi tutto, a fare la guerra: una gran
parte di movimenti tattici dipende appunto da questi spazi coperti, al fine
di dissimularsi alla vista o al fuoco nemico, ma anche per poterlo
sorprendere: a partire dal momento in cui le armi da fuoco hanno avuto
una portata sufficiente una delle manovre militari essenziali è
rappresentata dal defilare le truppe dietro una piega del terreno, o, in
mancanza di meglio, dietro un boschetto, una siepe, insomma uno spazio
al riparo dalla vista del nemico»59. Questa visione balistica del paesaggio,
che forse non dispiacerebbe a uno scrittore come Daniele Del Giudice,
mostra chiaramente il suo debito con un approccio ancora
sostanzialmente panoramicistico (il paesaggio concepito come veduta
piuttosto che come identità estetica di una porzione di superficie
terrestre), ma ha il vantaggio di richiamare la nostra attenzione su un
dato, il fatto cioè che alla moderna visione paesaggistica hanno
contribuito non soltanto la pittura, ma anche discipline diverse come la
cartografia, la scienza militare, l’ottica, come verrà dimostrato, dopo il
saggio di Lacoste, da una serie di studi specifici, anche italiani60. Esso può
quindi servirci da ammonimento nell’affrontare le teorie pittoriche del
paesaggio, ossia quelle teorie che pongono all’origine della nostra
percezione del paesaggio la rappresentazione che di esso viene fornita
dalla pittura, chiarendo quindi il valore estetico del paesaggio stesso con la
proiezione sul paesaggio reale dell’immagine che di esso produce la pittura.
Si tratta di una tesi tanto antica quanto è recente quella biologica. Essa è
già, più che adombrata, pienamente sviluppata in una lettera di Pietro
Aretino a Tiziano, del 1544. Aretino contempla la laguna di Venezia:
«appoggiate le braccia sul piano della cornice de la finestra [...] mi diedi a
riguardare il mirabile spettacolo [...] rivolgo gli occhi al cielo, il quale, da
che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da così vaga pittura di ombre e di
lumi. Onde l’aria era tal quale vorrebbero esprimerla coloro che hanno
invidia a voi per non poter essere voi. Che vedete, nel raccontarlo io, in
prima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia
artificiata. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi dei nuvoli composti
d’umidità condensa [...] Oh con che bella tratteggiatura i pennelli naturali
spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la
discosta il Vecellio nel far dei paesi! Appariva in certi lati un verde-
azzurro e in alcuni altri un azzurro-verde veramente composto da le
bizzarrie de la natura, maestra de’ maestri. Ella con i chiari e con gli scuri
sfondava e rilevava in maniera quel che le pareva di sfondare e rilevare,
che io, che so come il vostro pennello è spirito dei suoi spiriti, e tre e
quattro volte esclamai ‘Oh Tiziano, dove siete mo’?’»61. Come si vede,
Wilde era stato preceduto, e non di poco, nella sua idea che siano stati gli
impressionisti a creare le caligini rossastre che i suoi contemporanei
ammiravano nelle strade illuminate dalle lampade a gas, o Turner a farci
scoprire la bellezza dei tramonti londinesi: «Può darsi che vi siano state
nebbie per dei secoli, a Londra. Arrivo a dire che vi furono. Ma nessuno
le ha mai viste, e così noi non ne sappiamo niente. Non sono esistite, fino
a che non le ha inventate l’arte. [...] Oggigiorno nessuno che abbia una
vera cultura parla più della bellezza di un tramonto. I tramonti sono del
tutto fuori moda. Appartengono all’epoca in cui Turner era l’ultima
parola nell’arte. Ammirarli è un chiaro segno di temperamento
provinciale»62.
Alain Roger, nel libro Breve trattato del paesaggio, di cui in precedenza
abbiamo segnalato i lati innovativi, appare interamente prigioniero di
questo schema, e cita ampiamente i paradossi un po’ logori di Wilde a
sostegno della propria tesi pittoricistica. È l’arte a creare il paesaggio, è il
paesaggio dipinto a guidare la nostra percezione del paesaggio reale,
attraverso quella che Roger chiama la duplice «artialisation»: una
artialisation in visu, data dal «dipinto sulla tela», e una artialisation in situ data
dal «dipinto sul terreno». L’origine del paesaggio è artistica: «noi siamo, a
nostra insaputa, un’immensa officina artistica, e saremmo stupefatti se
qualcuno ci rivelasse tutto quello che, in noi, proviene dall’arte. Lo stesso
vale per il paesaggio, uno de luoghi privilegiati nei quali si può verificare e
misurare questa capacità estetica»63. La natura è indeterminata e non
riceve le sue determinazioni che dall’arte: un territorio (pays) non diventa
paesaggio reale che sotto la condizione di un paesaggio dipinto: oggi
vediamo la montagna Sainte-Victoire così come Cézanne ci ha insegnato
a vederla (artialisation in visu); e la montagna, devastata da un incendio, è
stata ‘restaurata’ secondo le immagini che ce ne ha dato il grande pittore
(artialisation in situ). Lo stesso vale per il giardino, come già sapeva Pope
(«all gardening is landscape painting»): la reazione alla simmetricità del
giardino francese non si è tradotta, come si crede, in una naturalizzazione
del paesaggio, ma, al contrario, in una pittoricizzazione del territorio: Ut
pictura hortus64. Il giardinaggio, come era già noto al marchese Girardin,
creatore del parco di Erménonville tanto ammirato da Rousseau, altro
non è che «esecuzione di quadri paesaggistici sul terreno»65.
Questa teoria pittorica del paesaggio ha certamente molte buone ragioni,
e funziona piuttosto bene per spiegare le predilezioni paesaggistiche di
molte epoche passate (anche perché, non dobbiamo dimenticarlo, noi
siamo spesso costretti a ricostruire e interpretare i gusti paesaggistici del
passato appunto attraverso i documenti che ce ne ha lasciato l’arte). Ernst
Gombrich, per esempio, l’ha messa alla prova per quanto riguarda l’arte
del Rinascimento, ed è pervenuto alla stessa conclusione di Roger. «Io
credo – egli scrive riassumendo il risultato cui è giunto – che l’idea della
bellezza naturale come ispiratrice dell’arte rappresenti quanto meno una
semplificazione assai pericolosa. Forse si tratta addirittura di un’inversione
del vero processo grazie al quale l’uomo scopre la bellezza nella natura:
chiamiamo pittoresca una veduta se ci ricorda un dipinto che abbiamo
visto in precedenza»66.
Tuttavia questa teoria è talmente vera che forse è (almeno parzialmente)
falsa. Lo è in quanto non si limita ad affermare che la nostra percezione
del paesaggio è condizionata, guidata, educata dalla rappresentazione
artistica del paesaggio stesso, ma si spinge a sostenere, da un lato, che la
nostra percezione del paesaggio reale non è altro che un riflesso e una
conseguenza del paesaggio come genere artistico, dall’altro che non è
pensabile il processo inverso, quello per cui la visione del paesaggio reale è
condizione della nascita del paesaggio dipinto. È un po’ come se non ci si
limitasse ad affermare che la concezione dell’amore di certe epoche è
influenzata, diciamo, dalla rappresentazione dell’amore nel Werther o nel
Dottor Zivago, ma che gli uomini (e le donne) si innamorano perché
hanno letto l’un romanzo o l’altro. Il ragionamento di Gombrich sembra
inesorabile, ma è sufficiente leggere questo passaggio: «Se il Patinier inserì
veramente nei suoi dipinti alcune reminiscenze dello scenario naturale in
cui appare Dinant, se Pieter Bruegel s’ispirò veramente alle vette alpine,
ciò poté avvenire perché la tradizione artistica nella quale questi artisti si
erano formati li aveva forniti di un simbolo visivo già pronto per tali
immagini di rocce isolate e scoscese, il che rendeva loro possibile preferire
ed apprezzare queste forme anche in natura»67. Ora, questa non è una
soluzione, è solo rinviare il problema. Se si può apprezzare la natura solo
se la si è vista trasfigurata dall’arte, diventa impossibile capire come si
produca la prima figurazione artistica di essa. Non si capisce perché ci sia
tanta riluttanza ad ammettere che, se la successiva percezione della Sainte-
Victoire è stata plasmata dal fatto che abbiamo visto i quadri di Cézanne,
almeno la percezione di Cézanne stesso ha avuto per oggetto la montagna
reale. O meglio lo si capisce benissimo, se si pensa che l’idea che sia l’arte
a plasmare la nostra percezione della natura è uno dei dogmi ricorrenti
dell’estetica moderna. È un dogma che, come abbiamo detto, non è privo
di fondamento, ma che forse è altrettanto unilaterale della posizione irrisa
da Gombrich, che è poi quella tradizionale della teoria della mimesis, che
cioè è la bellezza della natura a costituire la possibilità della bellezza
artistica.
È forse giunto il momento di azzardarsi a portare qualche argomento
contro questo dogma. Cominciando da quello che abbiamo già abbozzato
criticando il punto di vista di Gombrich, si può osservare che la tesi
secondo la quale la percezione della bellezza naturale avviene sempre per
trasposizione della bellezza artistica sulla natura può (forse) essere valida
per il fruitore, ma non si capisce come possa essere valida per il
produttore, cioè per l’artista stesso. Se, con Gombrich, affermiamo che
«per il pittore nulla può diventare un motivo se non ciò che egli è in
grado di assimilare nel vocabolario che ha già imparato»68, è evidente che
o si accetta di cadere in un regressus ad infinitum oppure si deve accettare
che ci sia qualcuno che crea i nuovi vocaboli, ovvero, fuor di metafora,
che vede la natura sotto forme nuove.
Potremmo osservare, più in generale, che, sebbene sia plausibile dire che
la nostra percezione della natura è istruita e guidata dalla rappresentazione
artistica della natura stessa, tuttavia molti di noi probabilmente
rilutterebbero ad affermare che questo vale in tutti i casi in cui
apprezziamo esteticamente la natura, specie quando abbiamo di fronte
singoli oggetti naturali. Non credo, per esempio, che sia ragionevole
supporre che ci piacciono i fiori perché abbiamo visto fiori dipinti:
quanto meno, conoscere dipinti di fiori non sembra affatto una
condizione necessaria per l’apprezzamento dei fiori stessi. Oppure: non
pare che si debba aver visto dipinti o altre rappresentazioni artistiche di un
animale per apprezzarne la grazia, la flessuosità o l’agilità. Si noti che le
prove addotte dai sostenitori della tesi opposta sono spesso ambigue, cioè
suscettibili di un’interpretazione antitetica. Per esempio, si può sì
sostenere che la voga dei trionfi di fiori e frutti come genere di dipinti a sé
si diffonde nei paesi del nord Europa a partire dal Seicento, e che nel
Seicento e Settecento, specialmente in Olanda e Inghilterra, l’uso di
coltivare fiori a scopo puramente ornamentale si espande in misura
inimmaginabile in precedenza, ma sembra abbastanza vano asserire che il
primo fenomeno è causa del secondo, come pure l’opposto, laddove
sembra più sensato ritenere che entrambi i fenomeni siano spie di un
mutato atteggiamento nei confronti della natura ed espressione di esso.
Qualcosa del genere sembra valere anche a proposito delle convinzioni
espresse da Roger a proposito del giardino. L’idea che egli avanza,
secondo la quale il giardinaggio non è che pittura nel paesaggio è
anch’essa tutt’altro che nuova. A parte gli esempi già citati, è possibile
ritrovarla tal quale nella Dottrina dell’arte del romantico tedesco August
Wilhelm Schlegel, in un passo sul giardino inglese, di cui Schlegel
indicava l’origine totalmente artistica nella pittura di paesaggio di Claude
Lorrain e Gaspard Poussin. «L’arte dei giardini – scriveva Schlegel – non
sarebbe mai sorta senza il precedente apogeo della pittura di paesaggio: i
grandi pittori furono i modelli e i maestri dei progettisti di giardini.
Quando si trovano giardini che, tenendosi lontani da goffaggini e da uno
stile meschino, sono capaci di presentare le scene paesistiche in uno stile
nobile, libero e armonico, si può essere certi che i loro veri creatori
furono Claude Lorrain e Gaspard Poussin, Ruisdael, Swaneveld e altri
pittori»69. Ma siamo certi che generalizzare quest’idea non significhi
assolutizzare una poetica particolare del giardino, ed elevare a verità
assoluta quella reductio del giardinaggio alla pittura che è un portato
evidente di un determinato gusto? Si faccia questo piccolo esperimento,
di trasporre questa tesi al giardino del Novecento, e si vedrà che essa è ben
poco tenibile. Non sarebbe facile indicare di quale pittura siano
trasposizione i giardini di Russel Page o di Pietro Porcinai. Non si
esclude, è ovvio, che nella cultura d’immagine di questi progettisti di
giardini possano rientrare rappresentazioni pittoriche; si dice solo che
interpretare il loro modo di agire come una pura trasposizione è, oltre che
palesemente inadeguato, spia di una concezione che svaluta il
giardinaggio ad arte minore, ancillare: come chi sostenesse, mutatis
mutandis, che il cinema non è che pittura in movimento adducendo il
fatto che certi registi, da Visconti a Pasolini, hanno tratto ispirazione da
grandi pittori del passato.
Questo terzo argomento ci introduce direttamente a un quarto, che,
assieme a quello che illustrerò successivamente, mi sembra veramente
decisivo. Infatti sebbene l’idea del paesaggio reale come trasposizione sur
nature del paesaggio dipinto abbia avuto tanta rilevanza in passato, e possa
quindi avere senso per epoche in cui vigeva una concezione vedutistica
del paesaggio, a me pare che tale idea diventi ogni giorno meno vera e che
essa non faccia più presa sulla nostra situazione presente. Il vero fenomeno
da spiegare, piuttosto, mi sembra essere il fatto che per la prima volta nella
storia l’apprezzamento del paesaggio sembra costituirsi autonomamente,
senza il tramite necessario di una rappresentazione artistica di esso.
Significherà pure qualcosa, e va probabilmente di pari passo con la sempre
maggiore facilità di accesso diretto alla natura da parte di coloro che ne
sono appassionati, il fatto che il Novecento sia il secolo senza pittura di
paesaggio e in cui tuttavia, almeno da un certo punto in poi, la percezione
estetica del paesaggio diventa un fenomeno capillarmente diffuso, uno di
quelli in cui meglio si esprime il ‘gusto’ del nostro tempo.
Ma il limite maggiore dell’atteggiamento di Roger non è questa
inversione teorica che porta a non vedere quel che effettivamente accade e
a sovrapporvi un modello valido forse per il passato. Il limite più grande è
rappresentato dal fatto che per questa via si accredita quella
considerazione panoramicistica del paesaggio, quella riduzione del
paesaggio a veduta che è, come abbiamo visto, lo scoglio maggiore che
impedisce al paesaggio in senso estetico, al paesaggio come identità
estetica dei luoghi, di essere preso sul serio, e fornisce facili armi ai
detrattori e agli scettici. E tuttavia è sufficiente fermarsi un momento a
riflettere per comprendere che, anche se fosse vero che è il paesaggio
come genere pittorico a insegnarci a vedere il paesaggio reale, da ciò non
segue affatto che l’esperienza che noi facciamo nel paesaggio reale sia la stessa, o
anche soltanto della stessa specie, di quella che facciamo di fronte al paesaggio dipinto.
Io credo che nessuna persona sensata affermerebbe che vedere una delle
riproduzioni della montagna Sainte-Victoire dipinte da Cézanne sia
un’esperienza dello stesso tipo di quella che si compie andando in
Provenza e contemplando la montagna, anzi meglio, osservandola da
lontano e poi avvicinandola, eventualmente scalandola. Si può sostenere il
contrario solo riducendo il paesaggio a veduta, ma è precisamente
quest’idea del paesaggio (in senso estetico) come veduta quella che non
regge più di fronte all’esperienza che oggi facciamo del paesaggio.
Ed è proprio per marcare l’irriducibilità del paesaggio in senso estetico
alla mera veduta e al panorama che abbiamo proposto di considerare il
paesaggio l’identità estetica dei luoghi. Questo modo di guardare all’aspetto
estetico del paesaggio, infatti, evita fin dall’inizio la riduzione
soggettivistica per cui la bellezza del paesaggio finisce per coincidere con
lo sguardo dell’osservatore, e persino con il punto di stazione che egli
sceglie per rimirare il mondo circostante. Certamente, su un piano
diverso (diciamo ontologico), la bellezza naturale è ‘soggettiva’, cioè
dipende dall’esperienza che ne compie un soggetto; ma essa lo è allo
stesso modo in cui è ‘soggettiva’ l’esperienza che noi abbiamo di un
capolavoro artistico. Anche la bellezza dell’Amor sacro e amor profano di
Tiziano è ‘soggettiva’, nel senso che c’è bisogno di un soggetto che la
avverta perché tale bellezza venga in essere; ma, per questo fatto
medesimo, nessuno si sentirebbe autorizzato a credere che non vi sia nella
tela dipinta da Tiziano nulla di ‘oggettivo’ che autorizzi il compimento di
quella esperienza. Per il paesaggio è lo stesso: ci sono dei tratti ‘oggettivi’
che lo caratterizzano e contribuiscono a fissarne l’identità, cioè il suo
essere appunto quel paesaggio e il paesaggio di quel luogo: detto in altri
termini, alla individuazione di un luogo concorre, e spesso in materia
determinante, il suo aspetto estetico.
Questo aspetto, questa identità, non sono affatto riducibili, né è
possibile in alcun modo ricomprenderli, nei caratteri che un luogo
presenta come ambiente o come ecosistema. Si tratta di fenomeni che si
realizzano su piani differenti, culturale il primo, fisico-naturale il
secondo. Il paesaggio è diverso dal territorio dei geografi e dall’ambiente
degli ecologi. I termini, naturalmente, non sono importanti, una volta
che sia stata chiarita la sostanza delle cose. La geografia ha pieno diritto di
parlare di ‘paesaggio’ intendendo la conformazione fisica dei luoghi, ivi
incluse le trasformazioni introdottevi dall’uomo; ma deve essere chiaro
che si tratta di altra cosa dal paesaggio in senso estetico: il primo può
essere descritto come un geosistema, il secondo no. Ribadire questa
distinzione non significa, beninteso, negare i rapporti tra paesaggio e
ambiente o l’utilità dei dati forniti dalla geografia e dall’ecologia anche per
la comprensione estetica di un paesaggio. Tantomeno significa (ma
crediamo che questo fraintendimento non possa neppure sorgere) mettere
in dubbio che l’ambiente e il paesaggio in senso fisico richiedano una
protezione specifica, e abbiano bisogno di essere tutelati tutte le volte che
ciò è necessario. Ma occorre evitare di pensare che la tutela del paesaggio
in senso estetico, e dunque storico-culturale, coincida o possa essere
riassorbita in quella dell’ambiente. Pensare il paesaggio in termini di
identità estetica dei luoghi, insomma, vuol dire salvaguardare la specificità
dell’esperienza estetica che compiamo nella natura, senza perciò negare
che in natura si possano compiere esperienze di tipo diverso, e senza
negare che queste esperienze possano concorrere anche alla nostra
esperienza estetica: una distinzione di principio deve aiutare a
comprendere, non tradursi in una separazione de facto.
La definizione in termini di identità estetica lega immediatamente il
valore del paesaggio alla individualità dei singoli luoghi, e quindi impone
di pensare il paesaggio in senso estetico come infinita pluralità di
paesaggi: esistono classi di paesaggi solo in senso fisico (come accade nella
descrizione geografica), non in senso estetico. Come ama ripetere
Massimo Venturi Ferriolo, si può parlare sempre solo di paesaggi, al plurale, e
non di paesaggio al singolare. Ma questo accade precisamente perché l’aspetto
estetico determina essenzialmente il costituirsi del luogo, ovvero è un
requisito determinante per il costituirsi del luogo come quel luogo. Parlare
di identità estetica significa fare dell’aspetto estetico un tratto saliente della
identità locale. Ciò consente di riformulare in termini critici e sobri quel
che ha spesso trovato espressione in metafore immaginose, come quella
del genius loci. «Consult the genius of the place in all» era il precetto che
già Pope si sentiva di dare come massima generale per l’architetto di
paesaggio. «Il paesaggio – scrive Eugenio Turri – un tempo era
impregnato di usi e di memorie che esprimevano per intero la società, che
sussistevano al di fuori di fatti e personaggi precisi, perché il tempo
cancellava le date e i personaggi e lasciava emergere tutto ciò che era
spirito del luogo, genius loci, come una divinità impersonale che si limitava
ad incarnare il senso del luogo, i suoi odori e colori, le sue parvenze, le
sue magie, i suoni e le parole che ad esso imperscrutabilmente si legavano,
cosicché attraverso le generazioni si perpetuava uno stile, un modo di
vedere, di costruire»70. O ancora, in termini più persuasivi, Venturi
Ferriolo: «Non esiste luogo senza genio: la relazione va recuperata nella
sua pienezza. Non può esistere progetto moderno senza etica, al di fuori
del genius loci»71.
Anche rispetto alla nozione di «fisionomia del paesaggio» la formula
della identità estetica dei luoghi permette di dissipare alcune ambiguità.
Infatti parlare di fisionomia a proposito del paesaggio, come fa una certa
Erdkunde tedesca e come, di recente, ha riproposto la geofilosofia, è
accettabile solo se si è consapevoli del carattere metaforico della dizione.
Ma già discorrere, sulla scia del termine fisionomia, di ‘espressività’ dei
paesaggi, del loro ‘valore espressivo’, del loro ‘stile’, diventa fuorviante72,
perché suppone una trasposizione materiale della terminologia usata per
l’opera d’arte. Nel paesaggio non si ‘esprime’ nulla, e l’interpretazione del
paesaggio in chiave sentimentale, come riscontro degli stati d’animo
soggettivi, è una delle false piste che hanno contribuito a gettare
discredito sull’estetica del paesaggio. Se nell’ambito in cui il concetto di
fisiognomica è sorto, quello della lettura della figura umana e in
particolare del volto come luoghi in cui il carattere dell’individuo si
iscrive e si manifesta, si tratta di decifrare la scrittura attraverso la quale
l’anima si fa percepibile, nel caso del paesaggio significherà soltanto
cogliere quei tratti che identificano il luogo nella sua singolarità e gli
conferiscono un’individualità, che però non può essere pensata, se non
appunto metaforicamente, come manifestazione di un’interiorità. La
geofilosofia ha ragione nella sua richiesta di «ripensamento del paesaggio
in termini di luogo»73, ma per evitare che il ‘luogo’ venga preso nella sua
chiusura tradizionale e provinciale, occorre accettarne appieno anche la
caratterizzazione estetica, sempre suscettibile, in via di principio, di venire
apprezzata anche da chi non ‘appartiene’ alla località e con essa entra in
relazione in un rapporto che è anche, anzi necessariamente, di natura
estetica.
All’identità estetica del paesaggio appartengono sempre,
costitutivamente, la natura e la storia, e ognuna in un nesso inseparabile
con l’altra. Il paesaggio in senso estetico non è mai soltanto natura, è
sempre anche storia. Alla sua identità concorrono sempre sia fattori non
creati dall’uomo, sia le azioni con le quali l’uomo segna e modifica
l’ambiente in cui si trova a vivere o col quale, comunque, entra in
contatto. Per questo parlare di ambiente pensando di avere, con ciò,
ricompreso anche quel che nell’ambiente è frutto del lavoro e della
cultura umana, rischia di essere fuorviante, perché quel che un luogo
significa per noi non può mai essere ridotto ai soli dati fisico-naturali o
biologici. È questo un tema su cui ha insistito a lungo, con ostinazione
pari all’impegno, Rosario Assunto. «Il paesaggio è natura nella quale la
civiltà rispecchia se stessa, riconosce se stessa, immedesimandosi nelle sue
forme; le quali, una volta che la civiltà, una civiltà con tutta la sua
storicità, si è in esse riconosciuta, si configurano ai nostri occhi come
forme, a un tempo, della natura e della civiltà». «Quasi tutto il paesaggio
da noi conosciuto come naturale è un paesaggio plasmato, per così dire,
dall’uomo: è natura cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza
però distruggerla in quanto natura; e anzi modellandola per ragioni che,
in prima istanza, non erano estetiche, ma in sé implicavano quella che
possiamo chiamare una coscienza estetica concomitante; e finivano con
l’esaltare, mettendola in evidenza, la vocazione formale [...] di cui la
natura, in quanto materia, volta per volta si rivelava dotata»74.
Riconoscere la compresenza di natura cultura e storia nel paesaggio, e
assumere l’identità estetica di un luogo come frutto della interazione di
questi tre elementi comporta però un impegno nuovo anche a pensare la
tutela del paesaggio. Siamo tutti d’accordo, almeno in linea di principio,
sul fatto che occorre tutelare sia l’ambiente che il paesaggio. Ma, se la
tutela dell’ambiente può essere pensata in termini di protezione e
conservazione, la tutela del paesaggio non può essere pensata soltanto in
termini di conservazione e protezione. Lasciando da parte le difficoltà che
una posizione conservazionista può incontrare quando essa è applicata
all’ambiente naturale (per esempio è possibile notare che gli ecosistemi
mantenuti nel loro stato naturale sono spesso ambienti mantenuti
artificialmente in tale stato75), è infatti evidente che il paesaggio è un’entità
intrinsecamente storica ed evolutiva, in cui la tutela non può esplicarsi
unicamente come conservazione, ma deve avere anche una componente
progettuale.
Tra i rischi che porta con sé l’assimilazione del paesaggio all’ambiente c’è
anche quello di farci dimenticare quanto il paesaggio sia variato attraverso
i tempi e quanto i paesaggi siano correlati ai mutamenti storici.
L’esperienza spesso drammatica degli ultimi decenni ci ha portato,
purtroppo, a collegare ogni trasformazione del paesaggio a un suo
impoverimento e depauperamento, ma questo non può indurci a credere
che esista, per esempio, un paesaggio italiano come entità sovrastorica,
mentre esiste una pluralità di forme che i singoli paesaggi hanno assunto
nella storia, spesso con grandissime trasformazioni che non hanno
significato, necessariamente, una perdita del valore estetico, bensì
l’assunzione di nuovi valori anche su questo piano76. Ci sono, ovviamente,
singoli paesaggi la cui particolare natura impone innanzi tutto una loro
conservazione; ma è importante anche recuperare la capacità di progettare
dei mutamenti che sappiano essere esteticamente validi, cioè tali da non
sfigurare l’identità dei luoghi pur trasformandola ove questo è necessario.
Abbiamo spesso polemizzato contro quelle tendenze che estendono
meccanicamente all’esperienza estetica nella natura i concetti elaborati in
riferimento all’arte; e anche in questo caso bisognerà dire che il paradigma
del museo è falsante se viene esteso a ogni identità paesaggistica: il
paesaggio non è e non può essere un museo, già solo per il fatto che un
paesaggio, per essere veramente tale, deve essere un paesaggio vivo, che
evolve con la storia.
Una teoria che voglia, oggi, affermare nettamente il carattere estetico del
paesaggio, evitando tuttavia di considerare il paesaggio stesso come
panorama e pensandolo invece come identità estetica di un luogo, deve
quindi confrontarsi con alcune questioni ineludibili.
Innanzi tutto occorre avere chiaro che è proprio il paesaggio a costituire
il vero terreno di confronto per l’estetica ambientale, che invece guarda
spesso con diffidenza al paesaggio stesso e si rivolge di preferenza a
fenomeni che direi ‘minori’ di percezione della bellezza naturale.
Nell’estetica ambientale, lo abbiamo già detto, di estetica ce n’è spesso
pochissima, giacché quel che si ha di mira è soprattutto un’etica della
buona vita e la difesa della natura come imperativo morale. È invece sul
tema del paesaggio, in cui, per così dire, la percezione della bellezza
naturale esibisce tutti i suoi contenuti culturali più ricchi, che si gioca la
possibilità di tornare a parlare, oggi, di bellezza naturale.
In secondo luogo, se il paesaggio non è né natura soltanto, né storia
soltanto, dovremo dire che può veramente apprezzarlo, e tutelarlo, solo
chi sa cogliere assieme entrambi questi elementi. Rivendicare una sana
distinzione tra paesaggio e ambiente è un fatto di chiarezza logica innanzi
tutto, ma non significa affatto affermare che le conoscenze biologiche,
geografiche o ecologiche non entrino nella percezione della identità
estetica di un luogo. Si apprezzano veramente i paesaggi che si
conoscono: il rapporto è simile a quello che si instaura, per esempio, tra le
conoscenze iconologiche e l’apprezzamento di un dipinto. Almeno per
quanto attiene alle componenti naturali del paesaggio, l’ecologia sta al
paesaggio estetico come la filologia sta alla critica letteraria o artistica.
Invece di continuare a girare attorno alla opposizione tra natura e arte,
che è il vero Moloch non solo dell’estetica ecologica, ma di gran parte del
pensiero attuale (si pensi soltanto a quanta ideologia sta dietro
l’opposizione corrente di Natura e Tecnica), forse sarebbe il caso di
prendere l’estetica come modello per la decostruzione di questa
opposizione, come il terreno in cui si può mostrare quanta arte ci sia in
quel che chiamiamo natura e quanta natura in quel che chiamiamo arte.
Proprio perciò, quindi, il tema del rapporto tra natura e arte (intesa,
questa volta, nel senso stretto di arte figurativa) va riproposto con forza,
sulla base della situazione presente, il che significa che occorre
interrogarsi sul contributo che le arti possono dare alla nostra
comprensione della natura oggi, avendo di mira quindi i fenomeni recenti,
onde evitare di calare sull’oggi paradigmi vecchi di due secoli, che
andavano bene, forse, quando c’erano Turner e Constable, ma non
funzionano più nell’epoca di Christo e di Richard Long. È quello che
l’estetica ambientale ha spesso mancato di fare, ma che, pur consapevoli
che si tratta di temi assai poco esplorati, e in cui quindi non si possono
sperare che risultati provvisori, non crediamo più possibile rimandare.
1
G. Melandri, Relazione introduttiva del Ministro per i Beni e le Attività Culturali alla
Prima Conferenza nazionale per il paesaggio (ciclostilato). Gli Atti del Convegno
sono in corso di pubblicazione.
2
In particolare, gli interventi di M. Venturi Ferriolo (nella sezione Paesaggio,
comunicazione, educazione, formazione) e G. Raboni (nella sezione di chiusura).
3
Già nel 1979, nel suo libro La lunga guerra per l’ambiente, Mondadori, Milano
1979, p. 73, Elena Croce scriveva: «‘Paesaggio’ è un termine che continua a
richiamare facilmente accenti sarcastici da politici e managers, i quali
indistintamente lo intendono come l’acquerello della signorina ottocentesca. Un
termine il cui suono, di sia pur civilissimo dilettantismo, non appartiene più alla
odierna, aspra e rivendicativa, difesa dell’ambiente».
4
F. Porena, Il paesaggio nella geografia, in «Bollettino della Società geografica
italiana», 1892 (XXIX), pp. 72-91.
5
Si veda F. Farinelli, Storia del concetto geografico di paesaggio, in Paesaggio Immagine
Realtà, Electa, Milano 1981.
6
I loro scritti sono ora disponibili anche in trad. it.: H. Lehmann, M. Schwind, C.
Troll, H. Lützeler L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, a cura di L. Bonesio e
M. Schmidt di Friedberg, Mimesis, Milano 1999.
7
R. Biasutti, Il paesaggio terrestre, UTET, Torino 1947. Per una storia del concetto
di paesaggio nella geografia italiana si veda M.C. Zerbi, Paesaggi della geografia,
Giappichelli, Torino 1993 (II ed. ampliata; I ed. 1988), in part. cap. II.
8
A. Sestini, Il paesaggio, Touring Club Italiano, Milano 1963, pp. 9-10.
9
E. Turri, Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano 1990 (I ed. 1979), pp.
12, 160, 163. Ma si veda ancora la prefazione del 1990, p. vi: «Così la concezione
estetica del paesaggio ha accompagnato per anni il giudizio sulle trasformazioni,
benché ciò limitatamente a chi in modo più radicale aveva fatto proprie quelle
rappresentazioni, vivendo nella dimensione culturale derivata da una storia [...] che
non aveva altri riferimenti che i propri».
10
A.G. Tansley, The Use and Abuse of Vegetational Concepts and Terms, in «Ecology»,
1935, 16, pp. 284-307.
11
Citato in M. Schmidt di Friedberg, L’ambiguità conservazionista, in AA.VV.,
Orizzonti della geofilosofia, a cura di L. Bonesio, Arianna Editrice, Casalecchio 2000.
12
Sull’ecologia del paesaggio si possono vedere, in italiano, S. Pignatti, Ecologia del
paesaggio, UTET, Torino 1993; L. Finke, Introduzione all’ecologia del paesaggio,
Angeli, Milano 1993; V. Ingegnoli, Fondamenti di ecologia del paesaggio, Città Studi,
Milano 1993.
13
A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997, p. 128.
14
500 buone azioni e dieci proposte per la tutela dell’ambiente e del paesaggio, a cura
dell’Area Legale Istituzionale del WWF Italia, ciclostilato, ottobre 1999.
15
F. Pratesi, Il paesaggio: una risorsa a rischio, in «Attenzione», rivista WWF per
l’ambiente e il territorio, n. 15, ottobre 1999, p. 10. Del resto, il privilegiamento
del naturale sullo storico assumeva nelle Guide alla natura curate da Pratesi e già citate
aspetti quasi grotteschi. Per esempio, nella Guida alla natura del Lazio e dell’Abruzzo
si legge che per apprezzare queste regioni occorre figurarsi l’aspetto che esse
avevano «cinque o seimila anni fa», ossia prima di qualsiasi civilizzazione, motivo
per cui la città di Roma vi appare come un «enorme bubbone» che «si dilata in
forma ameboica» e «scaglia le sue degradanti metastasi fin nelle zone più lontane».
(F. Pratesi, F.Tassi, Guida alla natura del Lazio e dell’Abruzzo, Mondadori, Milano
1972, p. 9).
16
A. Carlson, Appreciation and the Natural Environment, in «The Journal of
Aesthetics and Art Criticism», 1979 (XXXVII), pp. 267-75.
17
A. Berleant, The Aesthetics of Environment, Temple University Press, Philadelphia
1992, p. 5.
18
Sulla storia del panorama sono usciti, in anni recenti, diversi studi, tra i quali
segnaliamo S. Oettermann, Das Panorama. Die Geschichte eines Massenmediums,
Syndakat, Frankfurt a.M. 1980; R. Hyde, Panoramania, Trefoil Publication e
Barbican Art Gallery, London 1988. In italiano, oltre a S. Bordini, Storia del
panorama, Officina, Roma 1984, si può vedere anche G.P. Brunetta, Il viaggio
dell’icononauta, Marsilio, Venezia 1997. Ma non andranno dimenticate le pagine che
dedica al panorama W. Benjamin, nel suo I ‘passaggi’ di Parigi, trad. it. Einaudi,
Torino 2000, pp. 590-99.
19
Bisogna tenere presente lo stato della discussione all’epoca per evitare un
giudizio troppo severo su di essa. L’opinione di P. Calandra, il quale nello scritto I
compiti dell’amministrazione, in S. Cassese (a cura di), L’amministrazione centrale,
UTET, Torino 1984, p. 112, parla di legge «generica» e di una normativa «di mera
repressione» anziché di valorizzazione, è pienamente condivisibile dal punto di
vista odierno, ma potrebbe certamente essere temperata se ci si ricollegasse alla
situazione culturale nella quale la legge prese forma. Si veda in proposito anche il
parere di G. Tognon, Benedetto Croce alla Minerva, La Scuola, Brescia 1990, p. 575.
20
L. Parpagliolo, La difesa delle bellezze naturali d’Italia, Società D’Arte Illustrata,
Roma 1923, pp. 49 sgg.
21
Interessanti osservazioni sulla duplicità insita nell’idea di ‘panorama’ in L.
Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 14 sgg.
22
Si veda Parpagliolo La difesa delle bellezze naturali d’Italia, cit., p. 87.
23
G. Gambirasio, La protezione del paesaggio dalla legge n. 1497 del 1939 ai piani
paesistici, in Il paesaggio italiano del Novecento. Touring Club Italiano, Milano 1994.
24
Il titolo del libro già citato di Elena Croce, La lunga guerra per l’ambiente, può
valere come prova e contrario: dato che esso si riferisce con il termine ambiente
essenzialmente al paesaggio e all’assetto urbano, cosa che di lì a poco sarebbe parsa
alquanto strana.
25
Sulla distinzione concettuale tra ambiente e paesaggio insiste giustamente A.
Predieri, voce Paesaggio, in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano 1981, vol. XXI.
26
Cfr. G.N. Carugno, W. Mazzitti, C. Zucchelli, Codice dei beni ambientali,
Giuffrè, Milano 1994, p. 760.
27
A. Cutrera, L’evoluzione dell’ordinamento legislativo, in «Casabella», nn. 575-576,
1991 (numero interamente dedicato ai problemi del paesaggio).
28
Cfr. G. Franceschini, Piani paesistici I: il caso emiliano e altro, ivi, e A. Cagnardi,
Piani paesistici II: il caso ligure e altro, ivi.
29
Zerbi, Paesaggi della geografia, cit., p. 105.
30
G. Miarelli Mariani, Sviluppo, salvaguardia e tutela nel paesaggio, in C. Muscarà (a
cura di), Piani, parchi, paesaggi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 239 sgg.
31
V. Romani, Il paesaggio. Teoria e pianificazione, Angeli, Milano 1994.
32
Infatti, spiega Romani (ivi, p. 28), i naturalisti incontrando nuovi paesaggi
indagano nella struttura del cosmo, e «kosmós in greco significa nascosto,
misterioso»[sic]. Se questa è la cultura di chi dovrebbe insegnare nelle nostre
università Analisi del paesaggio, non ci si può stupire che a p. 19 dello stesso libro
Romani mostri di ignorare, ossia di capire a rovescio, addirittura il senso della
parola ‘immanente’.
33
Ivi, p. 52.
34
A. Maniglio-Calcagno, Pianificazione paesistica e formazione disciplinare, in «AL»,
1987, nn. 4-5. Maniglio-Calcagno parla di «atteggiamento estetizzante di
derivazione romantico-idealistica [...] che considera il paesaggio reale dal punto di
vista della visione artistica, come immagine d’arte, oggetto di valore estetico
esclusivamente da contemplare».
35
Ead., L’atlante dei paesaggi italiani, in «Architettura del Paesaggio», 1998, 1. In un
inciso che abbiamo tralasciato, Maniglio-Calcagno riconosce che lo studio del
paesaggio come percezione è «fondamentale»; resta da capire come questa
affermazione possa armonizzare con quella che parla di «effettiva natura di entità
fisica» del paesaggio, lasciando intendere che il paesaggio come entità percettiva
non è nulla di effettuale.
36
Sul progetto europeo di una Convenzione del paesaggio è utile la lettura di
M.R. Nappi (a cura di), Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Electa Napoli,
Napoli 1998, che raccoglie gli atti del Convegno Il paesaggio culturale nelle strategie
europee, Torino 1996.
37
Roger, Court traité du paysage, cit., pp. 9, 127, 28, 126, 131.
38
M. Seel, Eine Aesthetik der Natur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, in part. pp.
220 sgg.
39
A. Berque, Les raisons du paysage. De la Chine antique aux environnements de
synthèse, Hazan, Paris 1995, pp. 22, 33.
40
J.-P. Guerin, Il grande ritorno del paesaggio, in Muscarà (a cura di), Piani, parchi,
paesaggi, cit., pp. 121-25.
41
F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, in «Casabella», 1991, nn. 575-576.
42
E. Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato,
Marsilio, Venezia 1998, pp. 11-12.
43
Ivi, p. 28.
44
Infatti lo stesso Turri riconosce, a p. 104, che persino nel caso di quello speciale
spettatore che è il turista, «in qualche modo e in piccola misura diventa egli stesso
attore per il fatto stesso di entrare in quel territorio e provocando in qualche modo
degli effetti con la sua stessa presenza» (e fosse vero quell’«in piccola misura», dato
che sappiamo bene come ci siano moltissimi luoghi letteralmente e radicalmente
trasformati dal loro essere diventati mete turistiche!).
45
Ivi, p. 114. Ma, anche in questo caso, Turri non teme di contraddirsi appena
poche righe più in basso, quando nota che «è quella vecchia compiacenza di
sentirsi attori nel proprio paesaggio che è andata perduta».
46
Ivi, pp. 175 e 181.
47
Cfr. quanto scrive R. Priore, Il Progetto di Convenzione europea del paesaggio del
Consiglio d’Europa, in Il paesaggio culturale nelle strategie europee, cit., p. 29: «Il
paesaggio sta all’ambiente come la nostra pelle sta al nostro corpo. Esso è quindi
una superficie che testimonia lo stato di salute di un organismo vivente».
48
J. Appleton, The Experience of Landscape, ed. riv., John Wiley & Sons,
Chichester-New York 1996.
49
Ivi, p. 58.
50
Ivi, p. 62.
51
Ivi, p. 66-67.
52
G.H. Orians, An Ecological and Evolutionary Approach to Landscape Aesthetics, in
E.C. Penning-Rowsell, D. Lowenthal (a cura di), Landscape Meanings and Values,
Allen and Unwin, London 1986. G.H.Orians, J.H. Heerwagen, Evolved Responses
to Landscape, in J.H. Barkow, L. Cosmides, J. Tooby (a cura di), The Adapted Mind:
Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford University Press,
Oxford-New York 1992, pp. 555-80.
53
K. Richter, Die Herkunft des Schönen. Grundzüge der evolutionären Aesthetik,
Philipp von Zabern, Mainz 1999, p. 138. Si veda naturalmente tutto il cap. VIII:
La bellezza del Paesaggio, pp. 129-48.
54
H.H. Wöbse, Erlebniswirksamkeit der Landschaft und Flurbereinigung. Untersuchungen
zur Landschaftsaesthetik, in «Landschaft und Stadt», 1984 (XVI), pp. 33-54.
55
Si veda in particolare il cap. VII di The Experience of Landscape, dal titolo Fashion,
Taste and Idiom.
56
Ivi, pp. 130 sgg.
57
Appleton se ne occupa ivi, alle pp. 201-202.
58
È per questo che anche quegli autori che si propongono fin dall’inizio di
integrare i paradigmi biologici con le regole culturali e le strategie personali di
interpretazione (è il caso dello studioso australiano S.C. Bourassa, autore di un The
Aesthetics of Landscape, Belhaven Press, London-New York 1991, che affianca ai
criteri di Appleton altri criteri di natura eminentemente storico-culturale) non
riescono in ciò che veramente conterebbe, ossia dimostrare la produttività delle
prime per le seconde.
59
Y. Lacoste, A quoi sert le paysage? Qu’est-ce qu’un beau paysage?, in A. Roger (a
cura di), La théorie du paysage en France, 1975-1995, Champ Vallon, Seyssel 1995. Il
saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1977.
60
Si vedano in particolare: S. Alpers, Arte del descrivere. Scienza e pittura nel Seicento
olandese, Bollati-Boringhieri, Torino 1984; R. Dubbini, Geografie dello sguardo.
Visione e paesaggio nell’età moderna, Einaudi, Torino 1994; W.J.T. Mitchell, Landscape
and Power, The University of Chicago Press, Chicago 1994.
61
P. Aretino, Lettere sull’arte, a cura di E. Camesasca, Edizioni del Milione, Milano
1957, vol. II, pp. 16-18.
62
O. Wilde, La decadenza della menzogna, in Id., Opere, a cura di M. d’Amico,
Mondadori, Milano 1992, pp. 228-29.
63
Roger, Court traité du paysage, cit., p. 16.
64
Ivi, p. 38.
65
Ivi, p. 42.
66
E. Gombrich, La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio, in Id.,
Norma e forma, Einaudi, Torino 1973, p. 170.
67
Ivi, p. 171.
68
Ivi, pp. 170-71.
69
A.W. Schlegel, Die Kunstlehre, in Id., Kritische Schriften und Briefe, a cura di E.
Lohner, Kohlhammer, Stuttgart 1963, p. 183.
70
Turri, Il paesaggio come teatro cit., p. 143.
71
M. Venturi Ferriolo, Il progetto tra etica ed estetica, in «Architettura del Paesaggio»,
1998, 1, pp. 8-9.
72
Questa terminologia ricorre in H. Lehmann, La fisionomia del paesaggio, in
Lehmann et al., L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, cit., pp. 17 sgg.
73
Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, cit. p. 24.
74
R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli 1973, vol. I, p. 365; vol. II p.
29. Su questi aspetti della teoria del paesaggio di Assunto mi permetto di rinviare
al mio scritto Natura e storia nel paesaggio di Assunto, in L. Russo (a cura di), A
Rosario Assunto in Memoriam, Aesthetica Pre-Print, Palermo 1995.
75
Si veda su questi problemi Schmidt di Friedberg, L’ambiguità conservazionista,
cit., pp. 103 sgg.
76
Sulle trasformazioni del paesaggio italiano, oltre all’ormai classico volume di E.
Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Roma-Bari 1996, è ancora
istruttiva la lettura del saggio di G. Pasquali, Mutamenti del paesaggio italiano, in Id.,
Lingua nuova e lingua antica, Le Monnier, Firenze 1985, pp. 315-43.
L’interpretazione
Capitolo quarto.
Forme dell’arte ambientale
Immagine contro natura
C’è un argomento molto forte che si può portare contro la teoria secondo
la quale tutta la bellezza che scorgiamo in natura è esclusivamente un
riflesso della rappresentazione artistica, e che, insomma, esistono i bei
paesaggi perché esistono i dipinti di paesaggio. Infatti tale teoria, che
Wilde poteva formulare nella maniera più netta al termine dell’epoca
d’oro della pittura paesaggistica in occidente, oggi appare un reperto
archeologico. È una teoria anacronistica perché ormai la pittura di
paesaggio non c’è più. Se fosse vero che noi riusciamo ad apprezzare
esteticamente la natura solo quando l’arte ci ha insegnato a farlo, allora
dovremmo dire che tutto l’interesse che la nostra epoca dimostra per il
paesaggio, tutte le preoccupazioni dei legislatori e tutte le proteste dei
cittadini più illuminati per il suo degrado sono senza spiegazione, perché
essi non saprebbero indicare l’arte che le origina.
I pittori romantici potevano considerare il paesaggio la vera arte
dell’avvenire, in qualche modo presentendo e preparando il suo apogeo
nella grande pittura paesaggistica dell’Ottocento, ma oggi i toni di chi
prende a parlare di pittura di paesaggio sono piuttosto quelli dell’elegia, se
non proprio dell’orazione funebre. L’epilogo del Paesaggio nell’arte di
Kenneth Clark è un epicedio: intere epoche non hanno conosciuto nulla
di simile a una pittura di paesaggio; essa ha avuto, in Europa, una breve
stagione radiosa a partire dal diciassettesimo secolo, finché,
nell’Ottocento, è divenuta l’arte dominante, riuscendo a creare una sua
propria estetica. Ma ora tutto ciò è finito, e nulla lascia presagire un
ritorno. Il Novecento è il secolo senza pittura di paesaggio, è il secolo
della «rinunzia alla natura», e le poche pagine che la storia di Clark gli
dedica servono solo al censimento di un’assenza. Le ragioni, a parere dello
storico inglese, sono soprattutto due, la progressiva musealizzazione
dell’arte, cioè il fatto che l’arte ha sempre più spesso rapporti soltanto con
altra arte, e il fatto che la scienza ci consegna sempre di più un’immagine
demitizzata della natura, poco disponibile agli investimenti simbolici.
Clark cita poi anche l’avversione dell’arte d’avanguardia per la bellezza
naturale, ma questo dato, a noi già familiare, più che una spiegazione è il
fatto stesso da spiegare, e sul quale Clark si mostra tutto sommato evasivo.
In ogni caso, la diagnosi sembra difficilmente confutabile; la pittura di
paesaggio è davvero lontana dal Novecento, e sembra sempre più
allontanarsi dall’arte di oggi.
Il caso di Picasso è forse il più trasparente, perché l’artista più celebre del
secolo, sovranamente dotato in pratica per tutte le forme e i generi di
espressione artistica, se una qualche zona di sordità ha mostrato è stato
proprio per il paesaggio: i paesaggi da lui dipinti non sono solo pochi,
sono anche tra le sue cose meno significative, tanto da far venire in mente
il parallelo con Michelangelo, altro artista sommo ma refrattario alla
pittura di paesi: solo che per l’artista del Rinascimento si trattava della
cosciente svalutazione di un genere considerato minore e lasciato senza
rimpianti ai pittori del Nord, mentre per il grande artista contemporaneo
ci troviamo di fronte all’impossibilità di seguitare una tradizione
certamente altissima, ma oramai esaurita. Oppure pensiamo a uno dei
gesti negatori di Marcel Duchamp, che nel 1914 prende una riproduzione
molto manieristica di un paesaggio autunnale, vi aggiunge solo due punti
di colore, rosso e verde, e segna di suo pugno, accanto alla firma, un titolo
straniante: Farmacia. All’altro capo del secolo, ci viene incontro Francis
Bacon, che ha dipinto solo pochissimi paesaggi, dichiarando: «La nostra
più grande ossessione siamo noi stessi, poi forse gli animali, e infine i
paesaggi», e che, quando David Sylvester gli domanda che cosa lo abbia
indotto, sia pure così di rado, a dipingere un paesaggio, risponde:
«l’incapacità di dipingere delle figure». Dal canto suo, Andy Wharol
svuota il paesaggio di ogni pathos numerando le zone di colore di una
marina molto ordinaria e titolando Do it yourself (il paesaggio come genere
da pittura della domenica?). A Bacon dobbiamo un altro gesto fortemente
negatore, una veduta quasi satellitare di una porzione del nostro povero
pianeta – le due Americhe e la stretta linea di terra che le unisce? – in cui
nulla accenna alla presenza di qualche forma di vita, e due frecce rosse
indicano rispettivamente l’orizzonte e alcune lettere senza senso: A Piece
of Waste Land, un pezzo di terra desolata. Forse la vicenda di Mondrian,
in gioventù, come è noto, pittore di paesaggi, e poi approdato a una tra le
più conseguenti negazioni della rappresentazione in pittura (con
l’esclusione, non casuale, persino del colore verde – il colore della
vegetazione, il colore degli alberi – come estremo legame possibile con
l’organico e la naturalità) può veramente valere come vicenda eponima
del secolo XX1.
Certo, una tesi come quella della sparizione della pittura di paesaggio si
presta con estrema facilità a essere falsificata semplicemente mostrando
che questo o quel pittore del Novecento i paesaggi ha continuato a
dipingerli. Anche restando, per comodità, in Italia, vengono subito in
mente nomi come quelli di Rosai e Soffici, con le loro strade toscane
segnate da muri e cipressi, le marine di Carrà e le campagne di Morandi, i
paesaggi mitici, mediterranei dipinti da De Chirico, o ancora la Sicilia
solare e violenta di Guttuso. Ma questa confutazione è troppo facile
perché la verità possa stare dalla sua parte. E la risposta non può consistere
nell’analizzare caso per caso, ribattendo ogni volta in modo diverso,
magari evocando il sospetto di vernacolarismo per Soffici e Rosai, il
dubbio se quelli di Morandi siano ancora veramente dei paesaggi e non
piuttosto delle nature morte en plein air, la constatazione che il De Chirico
maggiore sta altrove, o infine semplicemente insinuando il dubbio sul
valore della pittura di Guttuso. Perché l’obiezione è invece sempre la
stessa, molto più radicale: non si tratta di citare questo o quel paesaggio,
questo o quel pittore che ha ancora dipinto paesaggi (appunto: ancora),
ma di prendere atto che è la stessa possibilità di rappresentare la natura che è
andata in crisi. Non è in gioco una maggiore o minore felicità di resa, una
disposizione personale, un gusto del pubblico, dato che quel che non
possiamo più fare è, semplicemente, riprodurre la natura in immagine. La
natura non si lascia più rappresentare. Ancora una volta, è stato Adorno a
vedere tutto ciò con la massima chiarezza: «la riproduzione del bello
naturale è una tautologia che mentre oggettualizza la manifestazione,
contemporaneamente la elimina. [...] Ciò che nella natura si manifesta
viene derubato, tramite il suo raddoppio nell’arte, proprio di quell’essere
in sé di cui l’esperienza della natura si sazia»2. Ma Adorno ha torto nel
presentare questa impossibilità come propria della natura in quanto tale,
cioè di una natura intesa, astoricamente, come sempre eguale a se stessa.
Curiosamente, proprio Adorno sembra dimenticare per una volta che
l’irriproducibilità della natura non è un dato ontologico, ma storico. Ci
sono state epoche nelle quali era possibile rappresentare la natura; oggi
non lo è più.
Ecco perché anche l’altra possibile obiezione alla scomparsa della pittura
di paesaggio, che cioè la rappresentazione artistica della natura abbia, nel
Novecento, semplicemente mutato di sede, spostandosi dalla pittura alle
arti nuove del cinema e della fotografia, non coglie neppur essa nel segno.
Nessuno vuole negare che il nostro immaginario sia pieno di luoghi che
abbiamo imparato a conoscere attraverso il cinema, e che ci siano molti
film in cui il paesaggio gioca un ruolo importante (anche se forse essi
sono in numero assai minore di quello che ci aspetteremmo). Ognuno di
noi è in grado di citare il mare di Sicilia ne La terra trema di Visconti, o le
Eolie dell’Avventura di Antonioni, o quelle di Stromboli terra di Dio di
Rossellini, fino alla Toscana di Bernardo Bertolucci in Io ballo da sola o ai
«viaggi in Italia» di Silvio Soldini (Un’anima divisa in due) e di Amelio (Il
ladro di bambini, una denunzia straordinaria della desolazione e del degrado
di tanti paesaggi dell’Italia meridionale). E anche in campo internazionale,
senza arrivare a scomodare il grande cinema ‘sulla natura’ da Flaherty a
Dersu Uzala di Kurosawa, come dimenticare l’uso del paesaggio nei film
di Wenders o di Herzog, o l’insolita familiarità con cui oggi noi europei
guardiamo a molto paesaggio americano (alla Monument Valley, per
esempio), perché abbiamo imparato a conoscerlo attraverso tanti film, più
o meno grandi? Ma il ruolo del paesaggio nel cinema meriterebbe un
approfondimento a parte, nel corso del quale si scoprirebbero, forse, cose
singolari. Per esempio, che anche in molto cinema d’autore continua a
vigere un uso emozionale del paesaggio che certamente è funzionale alla
forma filmica, ma che trasposto al paesaggio reale non può costituire un
modello valido di fruizione, anzi perpetua l’equivoco del paesaggio come
stato d’animo e della considerazione patetico-emozionalistica del
paesaggio3. Persino il grande Ejzenštejn sembra incorrere nella fallacia
patetica quando, nella Natura non indifferente, discorre della «musica del
paesaggio» e del paesaggio come ausilio espressivo e riscontro del
sentimento che si vuole rappresentare. «Il paesaggio è l’elemento più libero
del film, il meno gravato da compiti narrativi ausiliari e particolarmente
duttile per la trasmissione di umori, stati d’animo ed emozioni: in breve,
di tutto ciò che, nella sua ‘immaginità’ fluttuante e confusamente
percepita è accessibile pienamente ed esaurientemente solo alla musica»4.
Ma, almeno da Hanslick in poi, sappiamo che la musica non è espressione
di sentimenti, e che nessuna vaga analogia sentimentale può sostituire una
lettura formale; allo stesso modo, il paesaggio non è una metafora delle
emozioni, e una lettura del paesaggio come identità estetica di un luogo
non può essere surrogata da vaghe trasposizioni emozionali. Anche
perché è chiaro come presso autori meno avvertiti la chiave
emozionalistica può facilmente scivolare verso il luogo comune, verso la
banalità, il cliché, la semplice conferma del già saputo. E questo accade
puntualmente in tantissimo cinema commerciale, che ricerca nel
paesaggio una facile attrattiva, di sicuro effetto, le «grandi albe e gli
splendidi tramonti» su cui ironizzava, giustamente, Marco Ferreri.
Quest’ultima osservazione si può estendere anche all’altra arte che
sembrerebbe aver ereditato il ruolo di mediatore artistico del paesaggio
lasciato vacante dalla pittura, ovvero la fotografia. Senza nulla togliere alla
tradizione della grande fotografia di paesaggio, da Strand ad Adams in
America, o da Sander e Renger-Patzsch in Germania, e senza
dimenticare l’attenzione per il paesaggio (ma ancora una volta, e non per
caso, innanzi tutto al paesaggio degradato delle aree malamente
costruite), di fotografi come Basilico, Berengo-Gardin o Iodice nell’Italia
di oggi, il medium fotografico pone all’interprete che ne voglia indagare il
senso per la nostra percezione della natura un problema che è, per
esprimersi nel modo più breve, piuttosto quantitativo che qualitativo. In
questo senso: dalla seconda metà dell’Ottocento in poi la fotografia ha
significato in primo luogo un enorme ampliamento della
rappresentazione della natura. Non c’è angolo, per quanto remoto, del
pianeta che non sia stato raggiunto e fermato nell’immagine fotografica.
Abbiamo visto come il termine stesso ‘panorama’, destinato a diventare
nell’uso comune, e distorto, sinonimo di paesaggio, designava in origine
una macchina ottica: diorami, vues d’optique e panorami, presto costruiti
con l’ausilio delle prime riproduzioni fotografiche, hanno diffuso nel
corso dell’Ottocento una familiarità con l’immagine dei luoghi del tutto
impensabile nelle epoche precedenti. Né il processo si è fermato, anzi
continua inarrestabile: con l’invenzione della cartolina illustrata, databile
intorno al 1870, la ‘veduta’ si diffonde rendendo lo stereotipo
paesaggistico alla portata di tutti; ogni luogo è fissato in immagine. Le
macchine fotografiche portatili, prima, le videocamere poi hanno
permesso a ognuno di noi di prodursi la propria immagine dei paesaggi
con cui entriamo in contatto. «Nel XVIII secolo – ha scritto Ian
Hamilton Finlay, un artista di cui ci occuperemo fra poco – i dipinti
trovavano il loro compimento come paesaggi reali; nel ventesimo secolo i
paesaggi reali trovano il loro compimento come fotografie»5. La
televisione allarga enormemente il novero dei paesaggi familiari,
proponendo continuamente immagini di natura, sia vicina che lontana.
La pubblicità usa il richiamo sempre gratificante della natura,
l’incoercibile biofilia che si manifesta in chiunque viva lontano dalla
natura stessa, per assicurare efficacia ai suoi messaggi. L’industria turistica,
a sua volta, si alimenta di un’incessante pubblicizzazione di paesaggi,
ambienti naturali, siti più o meno esotici. Tutto ciò ha due conseguenze
fondamentali. Da un lato, una diffusione così massiccia di immagini di
natura, in cui inevitabilmente dominano lo stereotipo, l’immediata
consumabilità, rende impossibile ogni azione correttiva che l’arte (accada
ciò con i mezzi delle arti figurative, del cinema o della pittura) voglia
apportarvi producendo ancora altre immagini. Dall’altro, la prevalenza
dell’immagine significa la perdita di ogni contatto più autentico con la
natura stessa, ovvero l’immagine finisce per interporsi tra noi e la natura
impedendoci ogni diretta esperienza della natura stessa. Se l’arte volesse
misurarsi con la percezione corrente della natura restando sul terreno
della pura produzione di immagini, sarebbe destinata inevitabilmente alla
sconfitta, non solo perché la sua voce sarebbe sempre troppo flebile, ma
anche perché qui vige una sorta di legge di Gresham applicata alla
circolazione non del denaro ma dell’immagine, e l’immagine cattiva (cioè
più prevedibile, più modellizzata, più trita) scaccerebbe inevitabilmente
quella buona (cioé quella che consente un’autentica conoscenza, e rompe
gli schemi consueti della rappresentazione). Quel che dovrebbe mediare il
contatto con la natura, si frappone tra essa e noi; quel che dovrebbe
aiutarci a conoscerla, fa sì che non la conosciamo mai, e ne conosciamo
soltanto i simulacri. Le immagini della natura hanno ucciso la natura,
perché hanno reso impossibile, con la loro proliferazione e il loro
scadimento, un’esperienza autentica del mondo naturale. Il turista che
gira con l’occhio incollato alla videocamera, che non guarda ciò che ha
davanti agli occhi, ma lo filma per rivederlo a casa propria (un
comportamento sempre più diffuso che, se già è molto sciocco quando si
rivolge a bellezze artistiche, diventa veramente insensato quando è rivolto
al paesaggio) è la prova provata di come l’immagine serva, oggi, a non farci
vedere la natura.
A questo stato di cose l’arte degli ultimi decenni ha reagito spostando
completamente il piano del proprio confronto con la natura. Avendo
compreso che la strada dell’immagine le era preclusa, perché non è più di
immagini della natura che abbiamo bisogno, dato che ne abbiamo fin
troppe, molti artisti hanno cercato di dare attraverso le loro opere
piuttosto delle esperienze del nostro rapporto con la natura, o per meglio
dire di trasformare in opera la propria esperienza della natura. Se c’è un
tratto comune a tendenze per tutto il resto tra loro diversissime, quali la
Land Art americana degli anni Sessanta, e l’arte ambientale europea dei
decenni successivi6, esso è rappresentato dal fatto che entrambe hanno
compreso che il patto mimetico che legava l’arte alla natura è andato in pezzi e
che nulla è più vano che cercare di ricomporlo, ragione per cui l’arte non potrà
recuperare un legame con la natura riproducendola, ma solo operando
all’interno di essa7. Di qui l’unica parola d’ordine comune a tutte le
tendenze contemporanee di arte nella natura: uscire dall’atelier,
abbandonare le gallerie, cioè lo spazio artificiale dell’immagine riprodotta
della natura, per agire direttamente sul paesaggio (un’esposizione di questi
artisti ha scelto di intitolarsi, significativamente, The Unpainted Landscape,
il paesaggio non dipinto, intendendo con ciò che l’arte ambientale non
produce immagini di paesaggio ma agisce nel paesaggio8); di qui il rifiuto
di produrre dei simulacri della natura con mezzi illusivi, e la scelta di
operare direttamente con i materiali naturali. In questa fuga dallo spazio
museale della galleria giocano certamente molti fattori, come la
contestazione del circuito mercantile dell’arte, il desiderio personale di
allontanarsi dalla città, la passione ecologica; ma la ragione più profonda,
non contingente, è appunto la coscienza della crisi cui è andata incontro
l’immagine della natura. Se la mimesis nel senso tradizionale non basta più
a definire il nostro possibile rapporto con la natura, bisognerà cercare altre
strade, per esempio abbandonare gli spazi chiusi dove possono trovare
posto solo le rappresentazioni della natura, e non la natura stessa9.
Dall’arte di paesaggio all’arte nel paesaggio: «Land Art» e dintorni
Nell’ottobre del 1968 si inaugura a New York, alla Dwan Art Gallery,
una mostra dal titolo Earthworks. Vi partecipa un gruppo di artisti
(Michael Heizer, Walter De Maria, Robert Smithson, Dennis
Oppenheim) che hanno storie personali diverse e diverse poetiche, ma
che sono accomunati dal fatto di avere tutti sentito il bisogno, negli anni
precedenti, di abbandonare gli spazi espositivi classici e di operare
direttamente nella natura, il che per molti di loro ha significato,
soprattutto, le ampie distese desertiche del Sud-Ovest degli Stati Uniti.
Heizer e De Maria, Smithson e la sua compagna Nancy Holt hanno
viaggiato, talora assieme, in California, Arizona, Nuovo Messico,
Colorado, Utah, Nevada, e anche altrove, alla ricerca di luoghi adatti a
ospitare le loro opere. Ne hanno ancora realizzate pochissime. Heizer
(nato nel 1944) ha inserito cinque piccoli parallelepipedi cavi in legno,
aperti sul lato superiore, sul fondo piatto di un lago disseccato nel Nevada
(Dissipate, 1968); oppure ha scavato una trincea sul fondo del lago,
spostando alcune tonnellate di terra e tracciando una linea che si intreccia
formando una voluta circolare, quasi un ricciolo (Isolated Mass/Circumflex,
1968). Walter De Maria ha tracciato sul fondo secco del Mirage Lake due
linee di gesso bianco che formano una croce in cui il braccio maggiore è
lungo 500 piedi (Cross, 1968); e ha segnato, sempre col gesso, due linee
che si fronteggiano a una distanza di tre metri e mezzo circa, e che sono
lunghe ciascuna un miglio (Mile Line Drawing, 1968). Le opere più
colossali, che comportano massicci interventi, verranno di lì a poco,
grazie all’appoggio di collezionisti che agiscono come mecenati. Virginia
Dawn finanzia Double Negative, realizzato nei pressi di Overton, nel
Nevada, tra il 1969 e il 1970. Si tratta di due enormi trincee scavate sui
due lati opposti di un burrone. Le due trincee, profonde quindici metri e
larghe nove (per realizzarle si sono dovute spostare più di ventimila
tonnellate di terra), si fronteggiano, separate dallo strapiombo del
burrone, eguali dall’una parte e dall’altra. Si tratta di un’enorme scultura
di vuoto: «Data l’enormità delle sue dimensioni e la sua posizione, l’unico
modo di esperire quest’opera è di esservi dentro, abitarla nello stesso
modo in cui pensiamo di abitare lo spazio del nostro stesso corpo»10. Nel
1970-71 Robert Smithson progetta e realizza, nel Gran Lago Salato dello
Utah una delle sue opere più famose, la Spiral Jetty. Si tratta di un
terrapieno a forma di spirale che, partendo dalla riva, si spinge nel lago per
una lunghezza di oltre quattrocento metri. Le acque del lago hanno una
colorazione rosa, e i materiali locali scelti per la gettata (larga alcuni metri)
sono pensati per interagire col colore di fondo. O meglio lo erano, visto
che un innalzamento delle acque del lago ha sommerso la spirale
progettata da Smithson, che oggi si può intravedere soltanto come
un’ombra sotto la superficie dell’acqua.
Dietro queste iniziative imponenti, che suscitarono subito un’eco
piuttosto vasta e talora scandalizzata, si celavano alcuni presupposti
comuni. Il primo lo abbiamo già visto, ed era l’impulso a uscire dagli
spazi consacrati della galleria rivendicando per l’artista un teatro assai più
vasto e indefinito, e contemporaneamente prendendo posizione contro il
circuito di mercato dell’arte. C’era poi la volontà di attaccare le
convenzioni della scultura, realizzando dei monumenti del tutto nuovi e
attraverso un linguaggio che nulla aveva in comune col lavoro sui
materiali consueti e nelle proporzioni tradizionali. L’idea era anche quella
di creare una forma d’arte specificamente locale, che avesse rapporto con
condizioni peculiari dell’ambiente (non solo naturale, anche artistico) in
America. Per questi artisti, poi, molto aveva contato, nel corso degli anni
Sessanta, l’esperienza del minimalismo, con la sua preferenza per le forme
geometriche elementari, realizzate in multipli: anche se l’unico tra gli
artisti che cominciarono a operare all’esterno a provenire esplicitamente
dal minimalismo è un artista del quale non abbiamo ancora fatto il nome,
ma che avremo occasione di incontrare più avanti, Robert Morris, la
preferenza per le forme semplici e per il lavoro seriale agisce in molti di
loro, e per esempio Smithson aveva esposto, negli anni precedenti, alcune
opere nettamente segnate dall’esperienza minimalista11. Questi
presupposti assumevano però un peso e un significato molto diverso a
seconda di come interagivano con le storie personali dei singoli artisti. Il
partito preso a favore della monumentalità e delle dimensioni colossali,
per esempio, agisce soprattutto in artisti come Heizer e De Maria (ma in
quest’ultimo in misura minore). Lo si vedrà di lì a poco. Heizer, nel 1972,
comincia a realizzare nella Garden Valley del Nevada un intervento
gigantesco, a metà strada tra la scultura e l’architettura, che denomina
Complex I. Si tratta di un enorme terrapieno, alto sette metri, lungo oltre
quaranta, in parte contenuto tra mura di cemento. Una struttura
aggettante in cemento armato proietta la sua ombra sul terrapieno,
mentre altre strutture in cemento sorgono nelle vicinanze. Heizer si
proponeva di affiancare a Complex I altre due realizzazioni, Complex II e
Complex III, che dovevano creare Complex City ma che sono rimaste
incompiute. La misura gigantesca impone naturalmente l’impiego di
grandi mezzi meccanici: caterpillar, betoniere, escavatori. Come già in
Double Negative, si dovrebbero raggiungere dimensioni colossali, senza
rapporto con la misura del corpo umano. Non è un caso che tanto le foto
di Complex I quanto quelle di Double Negative (ma anche quelle delle linee
di De Maria) inseriscano spesso una figura umana nell’inquadratura,
resuscitando, forse inconsapevolmente, il vecchio artificio dello staffage
paesaggistico, ossia dell’inserimento nelle pitture di paesaggio di alcune
figurette con la funzione di poter costituire una sorta di unità di misura.
La colossalità e l’impiego di macchine per il movimento della terra
rendono assai indiretto ed esteriore il rapporto dell’artista col materiale:
l’immagine del Land Artist «who bulldozes the ground», che violenta la
terra con ruspe gigantesche, viene evidentemente da qui. Ma questo
scarso rapporto tra artista e materiale è indice anche di uno scarso
rapporto tra artista e paesaggio, tra artista e località in cui sceglie di
lavorare. Heizer ha tenuto più volte a ripetere che quel che conta non è il
rapporto con l’ambiente circostante, ma la realizzazione dell’opera. Il suo
motto «It’s about art, not about landscape» la dice lunga in proposito12. Il
peculiare, e rivendicato, ‘americanismo’ dell’arte di Heizer si esprime
anche in questo: i suoi progetti presuppongono degli spazi vergini,
amorfi, quali sarebbe impossibile reperire in Europa, ove quasi ogni
angolo è paesaggio culturalizzato. Heizer rivendica, sia nell’ideazione sia
nelle forme adottate, il legame con le realizzazioni colossali dei popoli
antichi, le mastabe e le piramidi egizie, o quelle precolombiane.
L’indistinzione tra scultura e architettura, ricercata esplicitamente da
Heizer, era già stata identificata da Hegel come uno dei tratti salienti della
più antica architettura, quella simbolica. Dovremmo trovarci di fronte a
una sorta di ‘scultura inorganica’13, dunque architettura; ma d’altra parte
queste opere non presentano uno spazio interno e dunque, da
architetture, tendono a ridiventare sculture.
È fin troppo facile mettere in rapporto il sublime matematico (cioè
legato alle dimensioni) dei lavori di Heizer col sublime dinamico (cioè
legato alla forza, alla potenza) dell’opera più celebre di Walter De Maria e
forse dell’intera Land Art, il Lightning Field realizzato negli anni Settanta
nel Nuovo Messico. De Maria ha piantato quattrocento sbarre di acciaio
inossidabile nel terreno, formando un rettangolo di un miglio per un
chilometro. Le sbarre fuoriescono più o meno dal terreno, seguendone le
ondulazioni in modo da creare con le loro punte, idealmente, una
superficie piana. Poiché la zona è ricca di temporali (è stata scelta apposta)
e le sbarre agiscono da parafulmine, è possibile – teoricamente – vedere i
lampi scaricarsi a terra durante le visite, che per altro seguono un rituale
particolare e richiedono una permanenza sul luogo di almeno un giorno,
mentre per fare il periplo della zona in cui sorgono i pali sono sufficienti
due ore circa. Anche qui, come con Heizer, siamo in presenza di
un’installazione che ha richiesto molto lavoro meccanico (i pali sono
piantati nel cemento), molti studi preliminari (un modello in scala minore
è stato preventivamente realizzato in Arizona), e insomma un rapporto
assai mediato tra l’artista e l’opera. Nel caso di De Maria però il legame
col sito è determinante, perché rinvia a situazioni climatiche e
atmosferiche (almeno nelle intenzioni di De Maria) irripetibili. Gli
interventi in galleria prodotti da De Maria negli stessi anni possono far
pensare anche a rapporti con l’arte concettuale. Per esempio De Maria
riempie di terriccio, fino a una certa altezza, tutti gli ambienti di una
galleria d’arte, ponendo delle lastre di vetro ad argine: le Earthrooms così
allestite (a Monaco nel 1968, a New York nel 1977) servono a richiamare
il rapporto tra uno spazio costruito e uno spazio naturale (de-localizzato,
spiazzato). Ma esse agiscono anche su un piano diverso da quello
concettuale, per esempio attraverso l’odore e la temperatura della terra,
portando a riflettere su quel che resta escluso dalla consueta
rappresentazione di un luogo, come accade nel paesaggio pittorico. Una
sorta di scultura concettuale può essere definito il Vertical Earth Kilometer
realizzato a Kassel. Una sbarra cilindrica di rame viene fatta penetrare nel
terreno per un chilometro, superando grosse difficoltà tecniche. Non
vediamo nulla di più che la sezione di base della sbarra inserita in una
quadrato di cemento, ma non possiamo fare a meno di pensare alla
profondità della terra ferita da una lama così lunga mentre, in modo del
tutto inaspettato, l’opera ci porta a riflettere a quel che sta sotto, e non più
soltanto intorno a noi.
Più stretti rapporti ancora con l’arte concettuale sono identificabili
nell’azione di Robert Smithson, il più inquieto e il più capace di teoria tra
gli artisti americani della Land Art. Spiral Jetty, e altre opere simili
realizzate o progettate da Smithson (Amarillo Ramp, una rampa circolare
che sale verso l’alto, nel Texas: Smithson è morto, giovanissimo, proprio
mentre sorvolava in aereo il cantiere che stava costruendola; Broken Circle
e Spiral Hill, a Emmen in Olanda: una spirale che avvolge una collinetta, e
di fronte un terrapieno a forma di cerchio interrotto che si spinge in un
laghetto formatosi in una cava), costituiscono soltanto un lato, il più
spettacolare, della sua attività. L’altro è rappresentato dalla serie dei non-
sites esposti in galleria. In essi Smithson tematizza molto efficacemente
non solo la dialettica di interno ed esterno (sites/non-sites) ma anche quella
tra realtà del paesaggio e sua rappresentazione. Per esempio egli preleva da
un luogo determinato dei materiali (pietre, terreno) che espone in galleria
in contenitori separati che formano una figura trapezoidale.
Parallelamente, ritaglia in forme eguali a quelle dei contenitori una veduta
aerea del luogo da cui sono state tratte le pietre. Smithson – che aveva
iniziato la sua attività in situ inserendo degli specchi in paesaggi naturali –
continua così la sua meditazione sui rapporti fra quel che si vede (site/non
site si legge come sight/non-sight), quel che c’è e quel che ci
rappresentiamo. È anche questo un modo per far saltare i confini dello
spazio espositivo verso quel fuori a cui si rapporta la Land Art.
I legami col clima, coi fenomeni atmosferici e con il mutare delle
stagioni, che abbiamo visto presupposti dal Lightning Field di De Maria,
condizionano l’attività di molti Land Artists che recuperano così un
rapporto con la natura assai più stretto di quello che possono raggiungere
certi impianti monumentali. Dennis Oppenheim, per esempio, traccia dei
camminamenti sotto forma di piccole trincee aperte nella neve o nel
ghiaccio. Lo fa avvalendosi di strumenti meccanici, ma manovrati
direttamente da lui e agendo personalmente nell’ambiente ostile. Le linee
che ne nascono sono spesso messe in relazione con altre linee
immaginarie, che segnano per esempio il cambiamento di data (Time
Pocket, 1968). In Annual Rings, dello stesso anno, traccia nella neve alcuni
cerchi concentrici ai due lati della frontiera fra Stati Uniti e Canada. I
cerchi ricordano gli anelli di accrescimento della pianta, così il tempo
della natura organica viene opposto alle partizioni artificiali tracciate
dall’uomo (confini geografici, ma anche linee di cambiamento dell’ora).
Altre volte le opere di Land Art cercano un rapporto, più che col
paesaggio circostante, con i grandi fenomeni astronomici. I Sun Tunnels di
Nancy Holt (1973-76) sono quattro grandi tubi di cemento collocati in
un deserto dell’Utah e orientati a coppie in modo tale che il sole vi
penetri direttamente nei giorni vicini ai solstizi. Alcuni fori praticati nelle
volte dei tubi sono invece in corrispondenza, in alcuni periodi dell’anno,
con determinate costellazioni. Il giorno e la notte, insomma, si invertono
nei tubi solari della Holt, che vuole opporre il freddo e l’ombra dei suoi
tubi (una realizzazione volutamente spoglia e grossolana, all’esterno) al
sole e al caldo dell’ambiente circostante14. Ma il rapporto con i fenomeni
astronomici celebra i suoi fasti specialmente in quella forma privilegiata e
ricorrente di realizzazione ambientale che sono gli Osservatori. Osservatori
e labirinti sembrano attrarre irresistibilmente la fantasia degli artisti
ambientali, e del resto anche i secondi, almeno per quanto riguarda la loro
origine nelle civiltà remote, sono stati posti in rapporto con i fenomeni
celesti. Così, come quasi ogni giardino antico ha il suo maze, il suo
labirinto vegetale, labirinti sono stati costruiti da Robert Morris
(Philadelphia Labyrinth, 1974), da Alice Aycock (Maze, 1972) da Dennis
Oppenheim (Maze, 1970) e da Richard Fleischner (Sod Maze, 1974),
mentre i parchi-museo di arte ambientale contemporanea ospitano quasi
sempre un labirinto: alla Fattoria di Celle, in Toscana, è collocato un
piccolo labirinto in marmo verde e bianco, ancora di Robert Morris; a
Fiumara D’Arte, in Sicilia, quello di Italo Lanfredini15.
Un artista che ha molto lavorato intorno al tema dell’osservatorio è
Robert Morris. La sua prima opera del genere fu realizzata in Olanda nel
1971, in occasione dell’esposizione Sonsbeek 1971. Distrutto questo dopo
la mostra, un nuovo Osservatorio è stato realizzato da Morris, in
dimensioni maggiori, sempre in Olanda, a Oostelijk-Flevoland, qualche
anno più tardi. Sono due anelli concentrici costruiti addossando terra a
una palizzata, e sui quali poi è ricresciuta l’erba. L’anello esterno presenta
delle aperture a forma di V rovesciata, mentre quello interno ha dei tagli
rettangolari, come feritoie. L’insieme è relativamente poco appariscente,
perché tende a confondersi col paesaggio circostante, ma trae il suo
significato dalla relazione con i fenomeni celesti: dalle diverse feritoie,
negli opportuni periodi dell’anno, è possibile osservare il sorgere del sole
nei giorni di equinozio. Anche per questo lavoro di Morris siamo ai limiti
tra scultura e architettura; il modello, evidentemente, è dato dagli antichi
monumenti megalitici di cui si ha motivo di supporre un funzionamento
come calendari astronomici (il caso più famoso è Stonehenge in
Inghilterra, ma Morris ricorda anche gli osservatori precolombiani).
Lavori come Observatory ambiscono a entrare in rapporto, più che col
paesaggio terrestre, con quello celeste, spingendo lo spettatore a riflettere
sulle condizioni della sua percezione. Come scrive Morris stesso, occorre
rendere consapevoli dell’esperienza «di un’interazione tra il corpo che
percepisce e il mondo tale da riconoscere pienamente che i termini di
questa interazione sono tanto temporali quanto spaziali, che l’esistenza è
un processo, che l’arte stessa è una forma di comportamento»16. Altri
Osservatori, come quelli progettati da Charles Ross e James Turrel,
ampliano ulteriormente lo spazio di riferimento, estendendolo al sole e
alle stelle. In Star Axis, che Ross ha cominciato a costruire in Nuovo
Messico, nei pressi di Albuquerque, a partire dal 1977, si tratta di rendere
in qualche modo percepibile il movimento dell’asse terrestre su se stesso, e
la rivoluzione che esso compie in 26.000 anni. I tempi e gli spazi si
dilatano dunque enormemente (l’osservatorio dovrebbe consentire di
osservare anche i movimenti della stella polare), e così avviene pure
nell’altro grandioso progetto di James Turrel. Qui, in Roden Crater,
l’osservatorio è fornito dalla natura stessa: Turrel ha acquistato il cono di
un piccolo vulcano spento dell’Arizona e progetta di costruire un tunnel
all’interno della parete, che porti a sbucare direttamente nel cono stesso,
mentre una serie di spazi scoperti scavati nelle pareti e posti in
comunicazione fra di loro dovrebbero permettere di osservare diversi
fenomeni celesti. «Se la monumentalità è qui data dalla natura – ha
osservato Colette Garraud – l’ampiezza dell’impresa la riavvicina all’Earth
Art, ma lo fa in una prospettiva contemplativa, meditativa e lirica non
abituale. Lo scopo ricercato è una moltiplicazione dell’esperienza e la
possibilità di cogliere, a partire dal vulcano trasformato in gigantesco
ricettore sensoriale, i fenomeni luminosi più fugaci»17. In ambienti diversi,
la volontà di collegarsi alla volta celeste darà luogo a interventi
infinitamente meno plateali, a piccole installazioni a misura d’uomo. Così
alla Fattoria di Celle il giapponese Bukici Inoue ha realizzato My Sky
Hole, un piccolo percorso che si addentra nella terra per poi uscire a
perpendicolo in una camera in plexiglas da cui si vede il cielo.
Se il gigantismo è la malattia infantile di molta Land Art, esso è anche
uno dei tratti costanti nell’opera dell’artista che, nel campo degli
interventi outdoors, si è conquistato la più ampia notorietà, il solo forse il
cui nome sia familiare anche a chi non è addetto ai lavori, Christo
(Christo Javacheff, nato nel 1938. Tutti i suoi lavori sono in
collaborazione con la sua compagna Jeanne-Claude). Veramente Christo
non può essere fatto rientrare senza precisazioni nella Land Art americana,
anche se ha esposto insieme a molti Land Artists nella mostra Earth, Air,
Fire, Water. Elements of Art, allestita nel 1971 al Boston Museum of Fine
Arts. La differenza fondamentale degli interventi di Christo rispetto a
quelli della prima Land Art è costituita dal fatto che nel suo caso si tratta
sempre di realizzazioni transitorie, effimere, che non danno luogo a
manufatti durevoli. Le dimensioni, tuttavia, sono quasi sempre colossali.
Il primo lavoro di grande impatto compiuto da Christo nell’ambiente è
Wrapped Coast, realizzata in Australia, a Little Bay vicino a Sidney, nel
1969. In quella occasione Christo ha ‘impacchettato’ due chilometri di
costa rocciosa, alta sul mare, con oltre centomila metri quadri di tessuto
antierosione e sessanta chilometri di corde, per una profondità variabile
tra i cinquanta e i duecento metri dal mare. Qualche anno dopo, nel
Rhode Island, ha invece steso un enorme telo di polipropilene
direttamente sul mare, coprendo una insenatura con un manto di quasi
un ettaro e mezzo (Ocean Front, 1974). Il più spettacolare intervento
‘marino’ di Christo è rappresentato però da Surrounded Islands, portato a
termine nel 1983 ma che ha visto impegnato l’artista per circa quattro
anni. In questo caso sono stati circondati da un brillante tessuto rosa
acceso ben undici isolotti situati nella Biscayne Bay nei pressi di Miami,
in Florida. Le porzioni di tessuto sono state cucite tra loro direttamente
in acqua in modo da seguire i contorni delle isole, formando un bordo
colorato largo duecento piedi. Il tutto ha richiesto sei milioni di piedi
quadrati di polipropilene, ancorato all’esterno alle profondità della baia,
mentre il bordo interno veniva fissato a terra, a pochi metri dalla
vegetazione, in modo da coprire la spiaggia18. Non meno ambiziosi sono
stati gli interventi di Christo in terraferma, a partire da Valley Curtain, un
gigantesco sipario lungo oltre quattrocento metri col quale è stata chiusa,
per un’altezza variabile tra i cinquanta e i quattrocento metri, una valle
del Colorado. Anche qui, decine di tonnellate di cavo d’acciaio e quasi
ventimila metri quadrati di nylon arancione sono stati necessari per
condurre a termine l’opera. Ma ancor più gigantesca è Running Fence, del
1976 (ma preparata nei quattro anni precedenti), un’immensa muraglia di
tessuto alta più di cinque metri, sorretta da pali e fatta snodare per oltre
quaranta chilometri attraverso le campagne della California, seguendo un
percorso sinuoso e accidentato, fino a giungere al mare.
Come si comprende facilmente, ognuna di queste imprese ha richiesto
un’enorme mobilitazione di persone e di mezzi, anche finanziari. Ma, a
differenza di Land Artists come Heizer o De Maria, Christo si fa un punto
di onore di non ricorrere a finanziamenti privati, perché vede in questo
mecenatismo un vincolo (ed è vero che la dipendenza da finanziamenti
privati costituisce un esito abbastanza paradossale per un’arte che aveva
esordito anche come forma di protesta nei confronti del circuito dell’arte
tradizionale e della degradazione dell’opera d’arte a merce. L’artista
bulgaro si procura il danaro (moltissimo) che gli serve per le sue
realizzazioni vendendo disegni preparatori, modellini, collages. Così i suoi
interventi restano documentati, oltre che da moltissime fotografie o film,
da questo materiale predisposto per l’autofinanziamento. E ce n’è
bisogno, perché, come dicevamo, la durata delle opere di Christo è
inversamente proporzionale alla loro monumentalità. Wrapped Coast è
rimasta in situ per dieci settimane; Surrounded Islands per meno di due;
mentre Valley Courtain e Running Fence sono state smontate poco dopo
essere state impiantate. La disparità tra la profusione di materiali e di
mezzi necessari e la breve vita delle installazioni è stata spesso occasione
di polemiche da parte di chi vede in essa uno spreco insensato, e così è
accaduto di frequente che interventi tanto massicci siano stati denunciati
dai gruppi ecologisti come indebite manomissioni e aggressioni di
ambienti naturali. Surrounded Islands, per esempio, è stata contestata
perché la presenza del tessuto colorato poteva avere influenza sulle
abitudini nidificatorie del falco pescatore e in generale sulla fauna e la
flora marina, mentre la sezione terminale di Running Fence, quella che
doveva inabissarsi nel mare, ha provocato proteste perché secondo alcuni
contrastava con le norme che proibiscono costruzioni nella fascia di
duecento metri dalla costa. In realtà Christo prepara con estrema
meticolosità i propri interventi, che richiedono spesso la soluzione di
problemi tecnico-ingegneristici non lievi. In questa fase viene anche
inserita la valutazione dell’impatto ambientale: per esempio, nel caso di
Running Fence, alla discussione delle conseguenze ambientali era dedicato
uno studio di centinaia di pagine19; in quello di Surrounded Islands, Christo
si è appoggiato alle competenze di zoologi ed ecologi per evitare
conseguenze dannose ai lamantini e ad altre specie animali che popolano
le acque della baia.
Se però si tiene conto che quel che veramente importa nell’arte
ambientale è l’esperienza della natura che essa rende possibile, si capisce
che ai fini del giudizio su Christo queste polemiche non si rivelano
decisive. Anche nel caso in cui l’artista avesse interamente ragione nel
sostenere che le sue installazioni non ledono l’equilibrio ambientale e non
comportano nessuna forma di polluzione della natura, resta aperto il
problema del tipo di percezione del paesaggio che esse presuppongono e
incoraggiano. Ci si potrebbe addirittura chiedere fino a che punto le
iniziative di Christo abbiano un legame cogente, necessario con i luoghi
in cui vengono realizzate, siano cioè veramente site-specific (questa
condizione sembra quella indispensabile perché si possa veramente parlare
di arte ambientale). Infatti, non solo è plausibile affermare che il rapporto
con la natura non appare determinante nelle scelte generali dell’artista, al
punto che, come è noto, molte sue iniziative hanno avuto come teatro
ambienti interamente urbanizzati (l’‘impacchettamento’ di Porta Pinciana
a Roma, o quello del Reichstag a Berlino), e che la stessa tecnica del
wrapping è stata da Christo messa a punto su monumenti e costruzioni, e
successivamente trasferita sur nature, ma si può dimostrare che molti suoi
progetti non nascono in vista di un ambiente e di un paesaggio
determinati, non sono dunque motivati dall’osservazione di un luogo
preciso. Così Wrapped Coast era stata pensata inizialmente per un tratto di
costa americana, e solo le difficoltà organizzative incontrate hanno spinto
a trasferirla in Australia; Running Fence è stata realizzata là dove è stato
possibile ottenere permessi e stipulare accordi privati con i proprietari dei
terreni, ecc. Persino là dove le specifiche condizioni ambientali sono state
determinanti, come in Sourrounded Islands, la realizzazione ha posto in luce
come non fossero state considerate le particolari condizioni percettive in
cui si sarebbero trovati i fruitori: poiché il territorio di Great Miami non
presenta alture, era quasi impossibile avere una visione ampia
dell’intervento, a meno di non ricorrere all’aereo; sicché alle immagini di
maggior impatto, quelle alle quali è legata la memoria dell’installazione, e
che sono tutte riprese dall’alto, non corrisponde alcuna esperienza diretta
possibile da parte degli abitanti e dei visitatori («So much news, so little to
see», scrivevano i giornali locali). In realtà, proprio la necessità di
ricorrere ad ardite soluzioni tecniche, a materiali sofisticati, all’aiuto di
intere squadre di maestranze e a strumenti meccanici, come allontana
l’artista da un contatto reale con la natura, artificializzando all’estremo il
suo intervento, così si frappone a guisa di uno schermo tra il fruitore e
l’installazione, concentrando spesso l’attenzione sul tour de force che la
realizzazione ha comportato. E questo, infine, accade soprattutto perché
le iniziative di Christo mirano a un effetto di straniamento che è
ovviamente efficacissimo per richiamare l’interesse sui manufatti, ma lo è
molto meno per plasmare la nostra percezione dei luoghi in cui i
manufatti si ambientano. Non si può negare che le iniziative di Christo
possiedano un forte impatto, e che per esempio Running Fence, questo
confine del tutto immotivato tracciato attraverso il terreno, possa indurre
a riflettere sulle convenzioni che regolano le delimitazioni tra Stati, tra
proprietà diverse, ecc., sulla diversità tra un limite naturale e un limite
introdotto dall’uomo e così via; resta il fatto però che la ragion d’essere
delle installazioni è, in ultima analisi, decorativa (la linea serpentinata di
Running Fence, gli ombrelli variopinti di The Umbrellas, realizzato in
Giappone e Stati Uniti nel 1991, i vezzi aggiunti agli isolotti di Miami
«per sottolinearne la bellezza»). Proprio in quanto lo reduplica, lo
reinventa in forme inattese Christo artificializza ogni paesaggio che
incontra: non ci aiuta a conoscere meglio la natura, ma a vedere anche in
essa nient’altro che i connotati, in ultima analisi rassicuranti, della nostra
capacità manipolativa20.
«Land Art» americana e «Art in Nature» europea
Gli scontri di Christo con gli ecologisti rappresentano un episodio
saliente, ma non isolato nei rapporti di molta Land Art con le
preoccupazioni ambientaliste. La natura invasiva, violenta, spettacolare di
gran parte degli interventi di cui abbiamo parlato nel paragrafo precedente
ha suscitato parecchie preoccupazioni. C’è chi ha osservato che gli
Earthworks, salvo qualche eccezione, distruggono il paesaggio in cui si
inseriscono, e, di fronte alle realizzazioni colossali di Heizer, è stato detto
che esse fanno proprio quel che dovremmo imparare a non fare, ossia
saccheggiano l’ambiente21. In un libro sul paesaggio, il pittore Enzo Carli
scriveva nel 1981 «Un ultimo, sconcertante episodio del rapporto tra
l’uomo ‘artista’ e la natura è rappresentato dalla cosiddetta Earth Art o
Land Art [...] consistente in un diretto intervento sul paesaggio, non per
abbellirlo, coltivarlo o renderlo utile, ma per fini esclusivamente espressivi
e non sempre dichiarati chiaramente o talvolta non dichiarati affatto. Ci
interessa perciò relativamente sapere perché l’americano Robert Smithson
abbia tracciato un’immensa spirale visibile solo dall’alto». E, dopo aver
criticato i progetti di Heizer, Oppenheim e Christo, concludeva «Certo è
che dopo l’inquinamento dell’aria e del mare e dopo la ‘cementificazione’
di tanti luoghi della terra, alla santità della natura non mancava che
l’oltraggio dell’arte e dobbiamo considerare questi artisti tristi testimoni
dell’odierna civiltà, se non come profeti delle immani sventure che il
cosiddetto progresso fa incombere sul nostro pianeta»22. Va detto subito
che le posizioni assunte esplicitamente da molti artisti della Land Art
americana sembrano autorizzare queste preoccupazioni, o almeno
confermare che il genere di intervento nella natura proprio di questi
artisti non è mosso da intenti di rispetto o salvaguardia dell’ambiente. Un
gesto come quello compiuto da Smithson nei pressi di Rome (nello stato
di New York) nel 1969, quando fece scaricare da un camion una colata di
asfalto sul ciglio di una cava abbandonata (Asphalt Rundown) evoca in noi,
oggi, non tanto le considerazioni formali che Smithson probabilmente si
prefiggeva (forse l’omaggio ai procedimenti dell’action painting, certamente
una fascinazione per la materia densa e liquida del catrame, comprovata
anche da altre opere dello stesso periodo, come Glue Pour) quanto
l’immagine triste e troppe volte vista di uno scarico abusivo di materiale
inquinante. Smithson, del resto, non ha mai nascosto il suo scarso
interesse per la natura in quanto tale. «Ho sviluppato una dialettica fra gli
aspetti spirituali e quelli materiali della natura. La mia concezione è
divenuta dualistica, in modo tale da muoversi avanti e indietro fra le due
aree. Non implica affatto la natura intesa in senso classico. Non c’è alcun
riferimento antropomorfico all’ambiente. In effetti, io ho una tendenza
più marcata verso l’inorganico che verso l’organico. L’organico è più
prossimo all’idea di natura: io sono più interessato alla denaturalizzazione
o all’artificio di quanto io lo sia in ogni genere di naturalismo»23.
Coerentemente, Smithson dichiara di preferire alle «bellezze naturali» i
luoghi che sono stati stravolti, deturpati e snaturati dall’intervento umano.
Robert Morris, dal canto suo, afferma di non sentire nessuna reazione
particolare davanti alla natura, e quando, nel 1979, ha l’occasione di
intervenire per il recupero di una cava dismessa di ghiaia nei pressi di
Seattle, la trasforma in una sorta di anfiteatro spoglio, privo di
vegetazione, anzi taglia i pochi alberi superstiti ai margini e ricopre i
tronchi di catrame, dichiarando che «Sarebbe probabilmente
un’assunzione sbagliata supporre che l’artista ingaggiato per lavorare su
paesaggi rovinati dall’industria debba necessariamente ed invariabilmente
scegliere di trasformare questi luoghi in posti idilliaci e rassicuranti»24.
Non meraviglia allora che una generazione di artisti che ha cominciato a
operare nella natura qualche anno dopo le grandi imprese della Land Art
degli anni Sessanta abbia sentito il bisogno di definire il proprio modo di
agire nel paesaggio innanzi tutto in opposizione a quel tipo di interventi.
Che si tratti quasi sempre di artisti del vecchio continente, e che quindi si
possa parlare di una contrapposizione tra Land Art americana e Art in
Nature europea non è ovviamente casuale25. La coscienza del paesaggio
che questo secondo genere di artisti esprime è quella di paesi, come
l’Inghilterra, l’Italia, la Germania o la Francia, in cui la natura intatta
praticamente non esiste più, in cui non può certo albergare la mistica
della nuova frontiera o dell’addomesticamento della wilderness che può
ancora animare qualche rappresentante della civiltà statunitense.
Esemplare, in questo senso, è la risposta che un artista inglese di cui
dovremo parlare diffusamente, Richard Long, diede quando gli fu chiesto
cosa pensava della Land Art. «Per me Land Art è un’espressione americana.
Vuol dire bulldozer e grandi progetti. Mi pare si tratti di un movimento
americano. Si tratta di costruire su terreni che gli artisti hanno acquistato,
e l’intento è quello di fare un grande monumento permanente. Questo
non mi interessa affatto». Dal canto suo Hamish Fulton ha ironizzato sul
lavoro di De Maria, Heizer e Smithson, nel quale vede un
prolungamento della pretesa ‘eroica conquista’ della natura: «Ho
l’impressione che i tre artisti usino il paesaggio senza alcun rispetto di
esso». Anche se operano prevalentemente outdoors, si tratta per Fulton di
artisti che esprimono una mentalità tipicamente urbana, e Smithson viene
visto da Fulton come un «urban cow-boy»26.
Long, Fulton e molti altri artisti di cui passiamo ora a occuparci hanno
battuto, dunque, strade totalmente diverse. Non opere gigantesche, ma
interventi lievi e talvolta quasi invisibili, spesso del tutto transitori. Non
uso di macchine e di maestranze, ma impiego del solo corpo umano, del
corpo dell’artista stesso direttamente impegnato nell’azione nella natura.
Non impiego di materiali estranei e industriali (cemento, acciaio, tessuti
sintetici) ma rigorosa utilizzazione di materiali naturali, spesso raccolti sul
luogo stesso dell’azione. Non progetti adattabili a qualsiasi ambiente, ma
interventi ispirati e guidati dalla natura dei luoghi, pensati esclusivamente
per un ambiente specifico. Non, insomma, opere che puntano a darci
un’immagine della natura, ma che costituiscono esse stesse delle
esperienze esemplari compiute nella natura stessa. E dunque, di contro
allo sprezzo talora ostentato dai Land Artists nei riguardi dell’ecologia,
un’arte che si vuole strettamente alleata, al limite coincidente, con una
corretta pratica ecologica.
Parlando di arte ed ecologia, ovviamente, il pensiero va subito all’opera
di uno degli artisti più influenti e noti della seconda metà del secolo
ventesimo, il tedesco Joseph Beuys. Beuys è un artista complesso, che è
stato presente, in funzione propulsiva, in differenti momenti essenziali
nella storia artistica recente. Egli incarna forse meglio di ogni altro l’idea
di un’arte che si traduce in impegno per la natura, e che vuole essere
iniziativa ecologica in atto. È fin troppo noto che Beuys è stato in
strettissimo contatto con i primi sviluppi del movimento dei Grünen
tedeschi, ed è stato anche coinvolto di persona in un’esperienza politica
(peraltro infelice) col movimento dei Verdi. E alcune immagini celebri,
come quella di Beuys con l’inseparabile cappello di feltro in testa che
nuota nelle acque di una palude dello Zuiderzee, in Olanda, per
protestare contro i progetti di prosciugamento, appartengono oramai alla
storia artistica del Novecento. Difficile immaginare qualcosa di più
esplicito: l’artista impegnato direttamente nella difesa di un ambiente, la
palude, che per secoli è stato guardato con sospetto e paura (e la diffidenza
si è protratta ben più a lungo di quanto sia accaduto, per esempio, con
l’alta montagna) e oggi è invece al centro delle preoccupazioni ecologiche
perché, ancora relativamente selvaggio, rappresenta l’asilo per molte
specie animali e vegetali minacciate. L’azione artistica e quella a difesa
dell’ambiente sono qui indisgiungibili, l’una è l’altra, in applicazione
diretta di quel «concetto allargato di arte», di quel superamento dei limiti
tra arte e vita che costituisce uno dei motivi guida di Beuys.
Beuys ha, come è noto, i suoi materiali-simbolo, che rimandano al
mondo naturale pur inserendosi in una mitologia e in un’iconografia
personale. Il feltro, il grasso, il miele funzionano come simboli ma anche
come segnali indicativi, ricollegandosi da un lato alla storia privata di
Beuys (pilota della Luftwaffe nella seconda guerra mondiale, egli cadde col
suo aereo dietro le retrovie tedesche sul fronte russo, in Crimea, e fu
soccorso e salvato da un gruppo di tatari nomadi che lo curarono
avvolgendolo nel feltro e ungendo di grasso le ferite), dall’altro a un
sistema di riferimenti naturali. Il miele funge da protagonista di una delle
installazioni-azioni di Beuys, appunto la Pompa a miele allestita per
Documenta a Kassel nel 1977. Due grossi motori marini pompano
incessantemente duecento chili di miele in un circuito di tubi che
attraversa i luoghi dell’esposizione. E, naturalmente, rimanda alle api, uno
degli animali totemici di Beuys, che del rapporto con l’infra-umano, con
l’animale, ha fatto un altro dei fili conduttori della sua azione. Accanto
alle api, infatti, troviamo il cavallo, il cervo, il cigno e soprattutto la lepre,
protagonista di tante azioni di Beuys, dalla Sinfonia siberiana per il festival
di Fluxus nel 1963 a Come spiegare la pittura a una lepre morta, inscenato
nella galleria Schmela di Düsseldorf nel novembre del 1965.
Un animale, il coyote, è il protagonista di una delle Azioni più
indicative del rapporto di Beuys con la natura, I like America and America
likes me, andata ‘in scena’ alla galleria René Block di New York nel
maggio del 1974. Avvolto interamente nella sua coperta di feltro,
accompagnato dall’immancabile bastone, Beuys si fa trasportare, disteso
su una barella e caricato su un’ambulanza, fino all’aeroporto dove lo
attende un aereo che lo porterà a New York. Qui si ripete la stessa scena:
barella, ambulanza, il tragitto fino alla galleria con Beuys invisibile nel suo
feltro. In Galleria lo attende un coyote appena catturato. Con lui Beuys
trascorrerà dieci giorni e dieci notti. Oltre alla coperta e al bastone, Beuys
ha soltanto un triangolo che suona a intervalli regolari, e ogni giorno un
po’ di copie del «Wall Street Journal», regolarmente strappate dal coyote.
Lentamente, l’artista interagisce con l’animale, che dapprima si accanisce
contro i bordi della sua coperta, e poi lentamente si lascia avvicinare e
quasi addomesticare. Fedeli alla consegna di Beuys, per il quale si deve
ricorrere all’interpretazione solo in casi estremi, non ci attarderemo sulle
molteplici simbologie contenute in questa azione, dal rapporto tra Europa
e America all’immagine ‘malata’ dell’uomo occidentale,
all’addomesticamento dell’animale. Segnaliamo però che questa azione
conferma il rapporto ‘magico’ che Beuys ritiene di intrattenere con
l’animale e con la natura in genere. In effetti, se alle origini di Beuys c’è
anche un interesse scientifico e ci sono studi poi interrotti di biologia, il
suo modo di porsi nei confronti della natura è soprattutto una critica alla
scienza tradizionale, e la riscoperta di un nesso mistico con il non-umano
che ha punti di contatto non solo, come è stato spesso rilevato, con la
tradizione sciamanica, ma anche con il Romanticismo tedesco.
La più spettacolare azione di Beuys a difesa della natura è però degli
ultimi anni della vita dell’artista. 7000 querce, il progetto realizzato da
Beuys per Documenta 7 a Kassel, nel 1982, è insieme, ancora una volta,
azione artistica e intervento ecologico. Beuys fa scaricare 7.000 colonnine
di basalto davanti al Museo Fredericiano di Kassel. L’idea è che nel
circondario della città dovranno essere piantate 7.000 querce, e che
accanto a ogni quercia sarà infisso nel terreno uno dei blocchi di basalto.
Così, il graduale diminuire della massa di pietre sarà l’indice tangibile del
miglioramento dell’ambiente urbano o suburbano. Beuys stesso pianta la
prima quercia davanti al Museo, all’apertura di Documenta, mentre per
piantare le altre chiede l’impegno di cittadini, amministratori, visitatori:
chiunque può contribuire alle spese per piantare un albero, e ne riceverà
un certificato siglato dall’artista. Cinque anni dopo, per Documenta 8,
l’operazione è conclusa, col più grande successo. Tutte le pietre sono
sparite, tutte le querce sono state piantate, anche se Beuys è morto nel
frattempo. Saranno il figlio e la moglie di Beuys a piantare l’ultima
quercia27.
Richard Long, a differenza di Beuys, non organizza Azioni o
Performances. I suoi interventi all’aperto non presuppongono un pubblico,
e non l’hanno mai avuto. Long, semplicemente, si muove nel paesaggio.
Tutta la sua arte è legata alla presenza fisica del corpo nella natura, nel
senso che gli unici prodotti concepibili per Long sono quelli che il corpo
stesso dell’artista, senza strumenti, può imprimere nell’ambiente
circostante. A Line Made by Walking (Inghilterra, 1967) è l’intervento
eponimo di Long: camminando su e giù in un prato di erba bassa, Long
traccia una linea retta, la cui memoria affida a una fotografia volutamente
dimessa, priva di effetti. La linea si perde in lontananza in un gruppo di
arbusti. Tra breve non sarà più visibile, non appena l’erba si sarà rialzata.
Successivamente, Long ha organizzato trekking in quasi tutte le zone del
globo, tracciando linee e cerchi con la semplice pressione dei piedi,
oppure spostando ciottoli e pietre, o ancora accumulando pezzi di legno,
in Sahara e in Perù, in Islanda e nel Nepal. Si potrebbe pensare che le
linee di Long siano parenti di quelle tracciate da De Maria nel deserto,
ma le intenzioni sono diversissime. De Maria vuole marcare il territorio,
imprimervi dei segni che diano un senso di appropriazione e tolgano la
refrattarietà del luogo naturale; Long non vuole compiere nessun gesto di
appropriazione, e le sue forme non sono soltanto effimere, ma
consapevolmente tenui, l’intervento umano vi è difficilmente
distinguibile almeno a un primo sguardo. A Long non verrebbe mai in
mente di prendere una motocicletta per tracciare dei cerchi nella sabbia,
come ha fatto De Maria in Circular Surface Planar Displacement Drawing
(1970). «Tutto il mio lavoro è fatto interamente con il mio corpo, è fatto
del tempo del mio camminare, della misurazione dei miei passi. Alcuni
cerchi nascono dalle mie mani, altri dalla rapidità del gesto. Così,
attraverso il corpo, è il tempo a entrare nella mia opera. Il tempo è il
cuore stesso del mio lavoro»28. Long sceglie sempre forme semplicissime,
la linea retta, il cerchio, il rettangolo, e solo raramente arriva a
configurazioni appena più complesse, come la spirale o il labirinto. Non è
una scelta minimalista, ma il modo più semplice per fare interagire
l’umano e il naturale, evitando anche la più tenue concessione al
pittoresco. Il rapporto col luogo è sempre decisivo; non si impiegano mai
materiali che l’artista porta con sé, ma sempre soltanto quelli che trova in
situ. Long porta però questi materiali anche in galleria, quando organizza
le sue mostre. Cerchi e rettangoli sono allora disposti sul pavimento o
sulle pareti degli spazi espositivi. Sono cerchi di fango, tracciati con
l’impronta delle mani o dei piedi, o rettangoli di pietre, di legni, di
ardesie.
Non sempre le tracce che Long lascia nel paesaggio o ne riporta sono
così tangibili. Spesso il frutto del camminare di Long non si concreta in
qualcosa di tangibile, ma resta affidato a una mappa. In A Walk of Four
Hours and Four Circles (Inghilterra 1972) Long percorre a piedi quattro
cerchi concentrici nel Dartmoor. La distanza percorsa è quindi di volta in
volta maggiore, ma il tempo impiegato è il medesimo: cambia la velocità
e dunque la percezione del paesaggio. Ma tutto ciò è affidato soltanto a
una memoria grafica, una carta geografica in cui vediamo tracciati i
cerchi, ognuno dei quali porta l’indicazione «Un’ora». Altre volte, sulla
carta non vediamo tracciato nessun cerchio, perché quel che Long ha
fatto è stato seguire tutti i letti di torrenti che si trovano all’interno di una
circonferenza che resta però ipotetica. Avremo allora sulla carta dei
percorsi ramificati, la cui ratio resta ignota fino a che non prendiamo in
considerazione la legenda: A Four Day Walk Along All the Riverbeds within a
Circle on Dartmoor (1978). È chiaro che procedendo in questa direzione ci
si approssima sempre di più a opere puramente concettuali, in cui il dato
sensibile è estenuato o assente. In A Straight Ten Miles Northward Walk on
Dartmoor (1985) sulla carta rimangono soltanto le frecce che indicano la
direzione del vento durante la camminata; in A Sixty Minute Circle Walk
on Dartmoor (1984) le parole che significano quel che si è incontrato o si è
visto sono poste in cerchio a formare qualcosa di simile a un calligramma
o a una poesia visiva; lo stesso accade in Walk of Seven Cairns
(1992).Veniamo soltanto a sapere che Long in una camminata di quattro
giorni nel Galles del Sud ha costruito sette tumuli di pietre in vari
luoghi29.
L’artista che si è spinto più oltre lungo questa rarefazione della traccia
sensibile è però un altro inglese, vicino a Long fin dagli anni del comune
apprendistato presso la St. Martin’s School of Art di Londra, ossia
Hamish Fulton. Anche Fulton è un infaticabile camminatore, che ha
percorso centinaia di miglia in molti paesi del mondo. Ma, a differenza di
Long, Fulton non lascia in situ alcuna traccia del suo passaggio, se si
eccettuano gesti labilissimi come il piantare piume nella sabbia o il gettare
sassi in uno stagno. Le foto che documentano i percorsi di Fulton sono
non solo prive di qualsiasi presenza umana diretta (cosa che accade anche
in Long, dalle cui foto la figura umana è assente, e anche la presenza
animale: i paesaggi di Long sono inquietantemente privi di vita), ma non
riprendono nessun manufatto o reliquia lasciata nel paesaggio, si limitano
a presentarlo. In Marley Wood Lane, per esempio, due diverse fotografie
raffrontano lo stesso sentiero in due differenti stagioni dell’anno, e sotto
una luce variata: noi sappiamo che l’artista è passato due volte nello stesso
luogo in tempi diversi, ma non lo vediamo, né vediamo vestigia del suo
passaggio.
Dietro questa scelta di rispetto assoluto del paesaggio si cela un rispetto
reverenziale e quasi sacrale della natura. «L’ambiente naturale – afferma
Fulton – non è stato costruito dall’uomo e per questa ragione esso è per
me profondamente misterioso e pieno di religione». Tuttavia lo stesso
rispetto e la stessa reverenza possono essere espresse anche da artisti che
non rifiutano il compito tradizionale dell’artista figurativo, che è quello di
plasmare dei materiali. La loro etica ambientalista si esprimerà però nella
scelta rigorosa di materiali naturali, vivi, legati al luogo e al momento in
cui vengono raccolti. Un artista che sa farlo nei modi più suggestivi è il
tedesco Wolfgang Laib, che ha scelto di operare con il latte, il polline, la
cera, il riso, sostanze legate alla vita e al nutrimento. Le sue Milchsteine
(Pietre di latte) sono parallelepipedi di marmo bianco lievemente incavati
dall’artista sulla faccia superiore. La concavità che così viene a formarsi
viene riempita di latte: in questo modo non soltanto si crea un rapporto
tra due dati formali, il bianco della pietra e quello del latte, e una tensione
tra la durezza e la durabilità del marmo e la deperibilità e liquidità della
materia organica, ma si dà vita a qualcosa che deve essere curato come un
essere vivente, dato che il livello del latte deve essere di giorno in giorno
ripristinato. L’altra materia di elezione per Laib è il polline, che egli
raccoglie personalmente nei campi e poi distende in ampi tappeti dalle
forme regolari, luminosissimi, oppure ammucchia in minuscoli
monticelli. Cinque mucchietti di polline alti appena qualche centimetro
possono essere considerati la risposta di Laib al gigantismo della prima
Land Art, se è vero che l’artista ha voluto intitolarle Cinque Montagne che
non possono essere scalate. Materia viva e preziosa, il polline si lega alla cera,
con la quale Laib costruisce delle camere chiuse, tombe o mastabe,
penetrando nelle quali il visitatore si trova a contatto diretto con una
sostanza quasi animata, profumatissima, e può avvertire la fragranza della
natura forse meglio di quanto potrebbe accadergli passeggiando all’aperto.
Invece per Giuseppe Penone la materia simbolo è il legno dell’albero.
Penone, un artista piemontese per molti versi vicino all’arte povera,
prende per esempio una trave e con un paziente lavoro di intaglio porta a
vista la forma di un albero, seguendo gli anelli annuali di accrescimento
del tronco. Quel che interessa Penone è infatti il rapporto tra il tempo
dell’accrescimento vegetale e il tempo umano: per questo incide i
contorni del suo corpo sulla corteccia di un albero, oppure fa sviluppare
un tronco a contatto con il calco di una mano, arrestandone in quel punto
l’accrescimento. La relazione tra forme umane e forme vegetali è
sviluppata da Penone nei suoi lavori con le zucche o le patate, fatte
crescere in calchi tratti dal suo viso o da altre parti del corpo, che poi
vengono utilizzati per fusioni in bronzo, ottenendone degli ibridi
inquietanti, grotteschi, tra il vegetale, l’umano e l’inanimato.
Se Laib e Penone, pur traendo i loro materiali dalla natura, e dalla natura
in cui vivono (che per Penone è la campagna nei pressi di Garessio, tra il
Piemonte e la Liguria), operano preferibilmente in spazi chiusi, altri
artisti perseguono il proprio confronto con i materiali naturali
direttamente all’aperto, nei luoghi stessi dove quei materiali si trovano. Il
più intransigente, forse, nell’uso esclusivo di materiali reperiti in situ è
Andy Goldsworthy, un artista inglese, che ha però lavorato in molte parti
del mondo, sempre con quel che esse gli offrivano. Un titolo come Foglie
lucidate e piegate, riunite all’ombra dell’albero da cui erano cadute, cucite al suolo
mediante spine (1989) è più eloquente di una dichiarazione di poetica.
Ovviamente, le realizzazioni di Goldsworthy sono estremamente
deperibili. Spesso egli opera col ghiaccio e con la neve, mescolati e
colorati con le materie del posto, foggiati in forma di stalattiti o di sfere,
oppure lasciati sciogliere e colare su fogli appositamente predisposti (Ice
and Snow Drawings, 1990-1992); oppure lega assieme con delle spine
alcune foglie d’iris, le lascia flottare in uno stagno e riempie gli spazi
interni con delle rosse bacche di sorbo, salvo specificare nella didascalia
che accompagna la foto che documenta l’intervento che i pesci hanno
attaccato la realizzazione dal basso mentre gli uccelli hanno becchettato le
bacche di sorbo. L’artista italiano Giuliano Mauri ha scelto di operare
prevalentemente nella campagna nei pressi del fiume Adda non lontano
da Lodi. Egli impiega rami raccolti nel bosco, legna di potatura, fibre
vegetali per costruire manufatti al tempo stesso primitivi ed elaborati,
‘cattedrali’, ‘scale del paradiso’, ‘mulini a vento’, nell’allestimento dei
quali si serve spesso di tecniche manuali (legature, embricature) che
appartengono alla tradizione del luogo. La convinzione di fondo, come ha
scritto Vittorio Fagone, è che «una nuova immagine del paesaggio può
nascere solo, in maniera propria e corretta, usando materiali che allo
stesso paesaggio appartengono»30. Se le Isole vaganti e le Crescite Acquatiche
di Mauri possono ricordare alcuni lavori di Goldsworthy consistenti in
leggerissime costruzioni di legni nell’acqua (Morgenstille, del 1988), il
tedesco Nils-Udo sembra collegarsi agli interventi più effimeri
dell’inglese quando, per esempio, prende dei fiori di campanula e pone i
loro calici rovesciati su foglie di castagno e lascia l’insieme a galleggiare
sull’acqua, oppure orla i bordi di un laghetto ghiacciato con piante di
felce che formano una sorta di cimasa o di frangia.
Tuttavia si sbaglierebbe a vedere in questi artisti soltanto un intento
decorativo o celebrativo della natura. Molte loro pratiche implicano anche
una presa di posizione rispetto alla nostra percezione della natura stessa,
alla sua rappresentazione e alle convenzioni con le quali ci accostiamo ad
essa. Le camere di cera di Laib spingono anche a meditare su come il
nostro rapporto con la natura sia essenzialmente sinestesico, su come il
profumo della cera o la sua consistenza al tatto siano essenziali per la
percezione che ne abbiamo. Qualcosa di simile accade con The Spring
Recordings di David Tremlett, uno scaffale su cui sono esposte ottantuno
audiocassette di mezz’ora l’una, sulle quali l’artista ha registrato i canti
degli uccelli durante una serie di passeggiate in Scozia: che è un modo
molto astratto di ricordarci come il paesaggio sia sempre anche un
paesaggio sonoro, sia fatto anche delle voci e dei suoni che udiamo. Le
zucche e le patate fatte crescere da Penone in forme antropomorfiche
enfiate o distorte sono una sorta di ironizzazione del presupposto
tradizionale dell’imitazione della natura. Su questa strada, Penone si
spinge ancora più avanti in Essere Fiume (1981), in cui confronta due
pietre identiche, ma l’una delle quali è tratta dalla natura, l’altra è stata
scolpita dall’artista in modo che sia perfettamente identica alla precedente,
e soprattutto, o almeno nella maniera più spettacolare, in La quercia di
Otterlo (1988). Nel Parco Kröller-Müller nei Paesi Bassi, Penone inserisce
una quercia di bronzo in un viale di querce vere. Potrebbe trattarsi di una
quercia secca, ma col carattere di trompe-l’oeil del tronco contrastano le
foglie raccolte come un nido o una ghirlanda su un lato soltanto di un
ramo. Questa dialettica di artificiale-naturale si ritrova anche in certi
lavori di Alan Sonfist, un artista americano molto lontano dalla grandeur
della prima Land Art, che alla Fattoria di Celle ha costruito i suoi Cerchi
nel tempo legando concentricamente la coltura del grano, quella dell’olivo,
quella dell’alloro, ma anche una macchia primigenia in cui gli arbusti
sono in bronzo. D’altra parte, sempre a Celle, Ian Hamilton Finlay unisce
nel suo Bosco Virgiliano la naturalità di una piantagione di olivi con
l’artificialità di alcune piccole forme in bronzo: un aratro, un cestino di
limoni, una tavola appesa a un tronco. Dani Karavan, un interessante
artista israeliano, espone in Omaggio a Federico II (al Museo Pecci di Prato,
1999) due olivi, uno piantato in un mucchio di terra e l’altro rovesciato
per aria col suo pane di radici. La scritta Buon Governo/Mal Governo allude
naturalmente anche agli affreschi di Lorenzetti che sono gli incunaboli
della moderna pittura di paesaggio, quasi a dirci che oggi il paesaggio non
può più essere rappresentato ma solo esibito attraverso i suoi elementi
naturali. Ancora Finlay, del resto, ha fatto della riflessione sulla
convenzionalità della nostra rappresentazione artistica della natura uno dei
fuochi della sua opera. Quando inserisce in natura, in un angolo del
giardino da lui creato, un cippo in marmo con il monogramma di Dürer,
oppure una lapide con la scritta See Poussin, Hear Lorrain, quando arrangia
diversi angoli della stessa proprietà in modo che possano ricordare un
Salvator Rosa o un Guercino, è chiaro che egli sta ironizzando su certi
processi di pittoricizzazione del paesaggio che hanno presieduto all’arte
dei giardini di epoche passate, ma più in generale ci sta portando a
riflettere su come si formi una certa immagine della natura, e su quanto le
immagini stesse della natura siano logorate e degradate a repliche.
Questa ricerca può prendere forme più dirette, prossime all’indagine
concettuale, in quegli artisti che eleggono a strumento di riflessione o di
lavoro la mappa e la carta geografica, o in quelli che studiano il
funzionamento delle nostre percezioni nel paesaggio. Abbiamo già visto
esempi di queste tecniche nella dialettica site-non site di Smithson, e
nell’impiego di mappe da parte di Long. I Buried Poems di Nancy Holt si
servono delle carte geografiche per costruire un rapporto tra una persona
e un luogo. L’esperienza è stata così raccontata dalla Holt stessa: «Le mie
Poesie sepolte erano, all’origine, delle opere confidenziali. Ho seppellito
una poesia-oggetto concepita pensando a una persona in particolare, in
luoghi come un’isoletta disabitata della Florida, il deserto dell’Arches
National Monument nell’Utah, e gli altopiani di Navesink, nei pressi di
Sandy Hook, nel New Jersey. Alcune qualità fisiche, spaziali e
atmosferiche di un sito mi evocavano una persona che conoscevo. Allora
mi documentavo su quel sito – sulla sua storia, le sue caratteristiche
geologiche, la sua flora, la sua fauna – e inserivo questo o quel passo delle
mie letture in un libricino che conteneva anche delle mappe, delle foto,
delle indicazioni molto precise per trovare le Poesie sepolte, e così pure delle
cartoline, delle immagini ritagliate e/o dei campioni di foglie e di rocce.
Dopo aver letto il libricino, il destinatario della poesia cominciava a
comprendere il legame che aveva con quel sito. Dato che tutti i siti erano
selvaggi, la poesia era stata interrata sotto vuoto in una cassa destinata a
proteggere il contenuto per un tempo all’incirca equivalente alla durata
della vita di un essere umano; così, essa poteva venir dissepolta in qualsiasi
momento se la persona si trovava per caso nella regione in questione»31.
Nei Locators sempre della Holt invece il tema è il confronto tra il
medesimo paesaggio e la percezione che ne hanno diversi osservatori:
sono tubi di legno fissati a un supporto, e collocati nello stesso campo in
modo che i singoli osservatori siano isolati mentre guardano all’esterno,
verso il paesaggio; ma siccome i sostegni sono piazzati l’uno di fronte
all’altro, volgendosi verso l’interno essi vedrebbero non più il paesaggio
ma l’altro che li osserva. Altre volte, l’indagine sul modo in cui guardiamo
alla natura prende la forma di un esercizio sulle distorsioni della nostra
percezione. Così, esplicitamente fin dal titolo, nelle Correzioni di prospettiva
di Jan Dibbets. Si tratta, spiega Gilles A. Tiberghien, «di annullare
l’illusione prospettica creata dalla costruzione fotografica, suscitando
un’altra illusione». Per esempio, Dibbets fissa al suolo, su un prato, delle
cordicelle bianche che formano un trapezio, intersecato dalle sue
diagonali. Poiché la base maggiore è quella più lontana dal punto in cui
viene presa la foto, e poiché le lunghezze sono state accuratamente
calcolate, accade che nella foto si veda un quadrato perfetto, due lati del
quale sono esattamente paralleli ai bordi della foto. L’effetto è che il
quadrato non sembra essere collocato sul prato, ma disegnato sulla foto. È
come se si fosse voluto mettere in questione, in anticipo, l’amore che
molti artisti di cui abbiamo parlato, come Long e Fulton, dimostrano per
le fotografie con l’impianto prospettico più tradizionale possibile, per
esempio quelle in cui una strada o una linea sono esattamente
perpendicolari al piano sul quale si trova l’osservatore, come nella più
collaudata tradizione paesaggistica, di cui è esempio insigne La strada di
Middelharnis di Hobbema, oggi alla National Gallery. Eppure lo stesso
Long, all’inizio della sua carriera, aveva fatto qualche esperimento in
materia percettiva, fotografando un paesaggio in cui aveva inserito un
rettangolo in metallo che inquadrava, in lontananza, un cerchio tracciato
per terra e che, per via dell’inclinazione, appariva più circolare e meno
ellittico di quanto avrebbe dovuto apparire sulla base della distanza.
Uno degli artisti che più prende a oggetto, anche con un certo
atteggiamento ludico, i nostri modi di entrare in contatto con il
paesaggio, è il francese Paul-Armand Gette. Gette, per esempio, ironizza
sull’approccio scientifico dislocando, con molta libertà, targhette
indicative della denominazione scientifica delle specie vegetali in contesti
incongrui, oppure mima osservazioni rigorose delle epoche di fioritura di
determinate piante, o ancora colloca tabelle altimetriche con l’indicazione
del livello del mare (zero metri), talora in contesti appropriati, ossia sulla
riva del mare, talaltra in situazioni straniate, come all’interno di un
giardino inglese. Dove comincia il paesaggio? (1985) non è insomma soltanto
il titolo di una installazione di Gette, ma potrebbe essere l’egida sotto cui
collocare molta parte delle operazioni tentate dagli artisti ambientali
europei, consapevoli che il paesaggio stesso è una realtà con la quale
entriamo in contatto attraverso mediazioni multiformi, nessuna delle
quali può arrogarsi il diritto di porsi come oggettiva.
Sebbene Richard Long sia stato, insieme a De Maria, Smithson e
Heizer uno dei protagonisti del film per la televisione realizzato da Gerry
Schum nel 1969, Land Art, che ha molto contribuito a diffondere il
termine Land Art nel dibattito artistico contemporaneo – prima di allora,
lo si è visto, si era parlato preferibilmente di Earthworks – e sebbene accada
ancor oggi che a molti degli artisti di cui abbiamo parlato in questo
paragrafo ci si riferisca usando questa etichetta, è ormai chiaro che Land
Art è termine troppo carico di connotazioni, che è meglio lasciare
confinato nell’ambito americano in cui è nato (tra l’altro, l’unico artista a
servirsene per indicare i propri lavori è stato De Maria). Le
denominazioni che abbiamo incontrato, di arte ecologica e arte nella natura
sono certamente più appropriate al contesto europeo, anche se nessuna
delle due può ambire a ricoprire l’intero spettro delle azioni artistiche
degli ultimi decenni, perché c’è un’arte che può dirsi ecologica ma che
sceglie di non agire all’aperto, in un contesto naturale, e c’è un’arte che
agisce nella natura senza porre tra i suoi obiettivi espliciti quello della
sensibilizzazione ecologica. Per questo, dal canto nostro, abbiamo
preferito parlare, in generale, di arte ambientale. Perché è un termine di
portata più vasta, ma anche perché sottolinea il vero denominatore
comune di tutte queste ricerche: far esplodere i termini e i confini della
nostra rappresentazione del paesaggio, sostituendovi piuttosto l’esperienza
della natura stessa. Incontrando però in questa operazione un limite forte,
sul quale bisognerà riflettere.
Paradosso dell’arte ambientale
C’è infatti un tratto comune ai protagonisti della Land Art americana
degli anni Sessanta-Settanta e ad artisti come Long, Goldsworthy o
Mauri, al di là di tutte le differenze che li separano. Si tratta di un aspetto
che i testi sull’arte ambientale raramente tematizzano, e che anzi, per ovvi
motivi, tendono a tacere. Quel che unisce le opere gigantesche, invasive e
irrispettose dell’ambiente di certa Land Art, e gli interventi minimi,
attenti ed ecologicamente corretti di molta Art in Nature, è il fatto che
tanto le prime che i secondi sono effettivamente visti da pochissime
persone, cioè che quasi nessuno, anche fra coloro che ne parlano e se ne
interessano (ed è un’esigua minoranza all’interno del già non larghissimo
pubblico dell’arte contemporanea), ha avuto realmente il modo di osservare
queste opere direttamente. Le ragioni possono essere, nell’un caso e
nell’altro, molto diverse. Per le grandi opere dei Land Artists, pesa il fatto
che si trovano spesso in luoghi remoti, difficilmente accessibili (deserti,
laghi salati, regioni montuose), e che esse, nonostante la loro
monumentalità, possono avere vita breve per via di fenomeni naturali
(come è accaduto a Spiral Jetty di Smithson). Per le altre, conta soprattutto
il fatto che esse vengono spesso concepite come effimere, sono fatte con
materiali che il soffiare del vento o il cadere della pioggia disperde e altera
in breve tempo, e poi naturalmente la loro ubicazione in zone non facili
da raggiungere, la stessa tenuità della traccia che costituiscono, e che
spesso è pensata fin dall’inizio come difficilmente distinguibile da una
forma naturale e casuale.
Non è, come ben si comprende, solo un problema di conservazione.
Quando un artista come Nils-Udo raccoglie dei fiori che espone al vento
lasciandoli disperdere, o quando Andy Goldsworthy costruisce sulla
banchisa polare quattro grandi cerchi di ghiaccio attraverso i quali
osservare il sole, è chiaro che si tratta di ‘opere’ che può vedere solo chi
assiste alla loro creazione da parte dell’artista: più che di ‘opere’, verrebbe
da parlare di performances, se non fosse che esse non sono affatto concepite
come tali, e per esempio non sono pensate per un pubblico. Per quanto
quasi tutti gli artisti impegnati in questo genere di attività tendano a
negarlo o a rimuoverlo, quest’arte vive e viene vista quasi soltanto in
fotografia, ossia quasi soltanto attraverso riproduzioni. Torna a essere, contro
ogni intenzione, pura immagine, percepita senza alcun legame con l’ambiente in cui
è nata e che spesso ha fornito i materiali con cui è fatta. Come si viene a
conoscenza delle opere d’arte ambientale? Attraverso mostre in cui sono
esibite, per lo più, le loro foto, oppure in cui esse (come i cerchi di pietre
di Long) sono assemblate in uno spazio che è quanto di più lontano si
possa immaginare da un ambiente naturale. Altre volte, attraverso video.
Più spesso ancora, le vediamo nelle pagine di un libro, che non
obbligatoriamente è un libro sull’arte ambientale, e può essere talvolta un
libro di fotografie pensato dallo stesso artista. Christo fabbrica (e vende)
modelli in scala ridotta delle installazioni gigantesche che progetta sul
terreno, molti protagonisti dell’Art in Nature espongono fotografie delle
proprie installazioni.
Un’arte che era nata in antitesi all’immagine torna a essere pura immagine
come tanta arte tradizionale, anzi persino più di essa, perché mentre per
l’arte tradizionale, se anche è vero che essa viene molto spesso fruita in
riproduzione, è sempre possibile il confronto diretto con l’opera, qui tale
confronto è spessissimo o arduo o del tutto impossibile. Il paradosso è
troppo palese perché, di tanto in tanto, qualcuno non lo noti. Solo che
per lo più ci si limita a segnalare che, per una sorta di nemesi, un’arte che
voleva uscire dalle gallerie, rifiutare lo spazio espositivo, proporsi in
ambienti del tutto diversi da quelli tradizionali, torna in buon ordine
nell’atelier, rientra nel circuito commerciale: si venderanno non le opere,
che magari non ci sono più o non ci sono mai state (come nel caso di
Hamish Fulton), ma le loro foto, o i loro modelli, o i loro progetti. È solo
l’aspetto, diciamo così, sociale o politico della questione che viene preso
in considerazione. Ma in questo modo non si vede, o si finge di non
vedere, il dato veramente singolare, e cioè che un’arte che può concepirsi
soltanto come esperienza, e non come immagine, può essere fruita esclusivamente
come immagine, e non come esperienza.
Gli autori, colti sul fatto, divagano. Dennis Oppenheim sembra
accorgersi della difficoltà esclusivamente a posteriori. Solo quando un
fotografo di «Newsweek» va a fotografare Landslide, racconta
candidamente Oppenheim, «capii che c’erano dei problemi. Da un lato,
io sapevo che praticamente nessuno avrebbe visto Landslide, eccetto il
fotografo. Ma, una volta schiacciato il pulsante dell’otturatore, milioni di
persone avrebbero visto il mio lavoro. Allora capii che la fotografia è
importante»32. Michael Heizer, per esempio, riduce tutto a una questione
di pigrizia dell’utente. «Molta gente – dice – si lamenta del fatto che
nessuno verrà a vedere queste opere, perché si trovano in posti troppo
remoti, eppure si danno da fare per andare in Europa ogni anno; voi non
vi lamentate affatto e non dite che non andrete a vedere le Piramidi
perché sono all’altro capo del mondo, al centro dell’Egitto: ci andate e
basta». Dove è da notare non soltanto la modestia di chi avvicina opere
tanto massicce quanto stupide come Complex I e Complex II alle Piramidi,
o l’ignoranza vera o simulata di chi non sa che queste ultime non sono
affatto inaccessibili in mezzo all’Egitto, ma stanno, almeno le più famose,
alla periferia del Cairo, ma anche la pervicace volontà di negare uno stato
di cose che, è lecito pensare, non potrà cambiare in futuro (probabilmente
i già pochi curiosi che intraprendono il viaggio per vedere Complex City
non sono destinati ad aumentare di molto nei prossimi anni). Una
pervicacia del resto condivisa anche dall’altra parte (cioè da quella dell’arte
ambientale più soft), se Richard Long ha detto: «È falso pensare che le mie
sculture di paesaggi non vengano mai viste. Sono viste talora dagli
abitanti della regione, talvolta mentre le sto facendo, oppure sono
scoperte per caso da persone che possono non riconoscerle per arte, ma
che tuttavia le vedono». Qui c’è parecchia falsa coscienza: Long sa
benissimo che le sue sculture sono ‘viste’ innanzi tutto dai frequentatori
delle sue mostre, dagli acquirenti dei libri su di lui, ossia non sono ‘viste’
affatto, se non attraverso la mediazione fotografica33. Walter De Maria
scrive a proposito del suo ormai celebre Lightning Field che «nessuna
fotografia, serie di fotografie o altro tipo di immagine registrata può
rappresentare completamente Lightning Field»34, ma intanto non esiste
forse opera di Land Art altrettanto fotografata, e con buone ragioni. Essa
infatti dovrebbe servire a catturare le folgori in caso di temporale,
offrendo lo spettacolo sublime dello scatenamento delle forze naturali. Ma
poiché i temporali non ci sono tutti i giorni, il visitatore dovrebbe avere
una buona dose di fortuna per vedere Lightning Field, per dir così, nel
pieno esercizio delle sue funzioni. Ecco allora che quasi tutti i libri sulla
Land Art offrono come pezzo forte, al loro interno, una bella foto
dell’opera di De Maria col suo bel fulmine che si scarica a terra. Nancy
Holt se la cava suggerendo che la riproduzione fotografica può essere uno
stimolo a recarsi sul posto per vedere ‘dal vivo’ le opere, il che è sempre
un sottovalutare il problema, perché suppone che, comunque, la
riproduzione possa far sorgere la curiosità o l’interesse, e cioè renda in
ogni caso giustizia all’opera, ciò che è ben lungi dall’essere vero.
Assai più che nel caso di altri tipi di arte, la riproduzione può rivelarsi
del tutto incapace di adempiere anche soltanto quell’opera di mediazione
e di stimolo alla conoscenza diretta cui è chiamata. Le foto ingannano,
presentano vedute parziali, non riescono (a meno che non siano, a loro
volta, opere d’arte) a dirci veramente cosa sono i luoghi in cui le opere si
inseriscono. Chi ha visto solo le foto di quell’intervento straordinario che
è il grande cretto steso da Alberto Burri sui ruderi di Gibellina Vecchia, è
del tutto legittimato a credere che si tratti di un’operazione cerebrale e
falsa, il semplice trasporto su scala gigantesca di un modulo collaudato
nelle opere museali di Burri. Bisogna essere stati a Gibellina Vecchia, aver
percorso la strada dissestata che, transitando davanti al cimitero (l’unica
cosa ancora viva della città completamente distrutta), attraversa i pochi
ruderi spettrali ancora rimasti in piedi e conduce all’immenso sudario
gettato da Burri sul terreno, bisogna aver percorso gli spazi tra i cretti,
quei simulacri di strade completamente vuote e prive di funzione, bisogna
aver visto il bianco abbacinante e luttuoso di quel cemento per sapere che
cos’è il cretto di Burri. Le foto non bastano, anzi tradiscono il vero
aspetto delle cose. Così, chi non è mai stato dentro il Double Negative di
Heizer (altra opera difficilissima da fotografare) non potrà mai decidere se
le parole con le quali lo descrive Rosalind Krauss sono giustificate:
«Benché l’opera sia simmetrica e dotata di un centro (il punto mediano
del burrone che separa le due incisioni) questo centro si sottrae e ci resta
inaccessibile. Possiamo solo stare in uno degli scavi e considerare l’altro a
partire da questa posizione. Meglio: è soltanto guardando l’altro spazio
che ci formiamo un’immagine di quello in cui noi stiamo»35.
Pochi artisti hanno portato la ricerca sui mezzi della riproduzione delle
loro opere, per così dire, all’interno delle opere stesse. Uno di essi è
certamente Robert Smithson. I suoi Sites/Non sites sono anche, e forse
soprattutto, una meditazione sulla impossibilità di rappresentare la natura,
e sulla convenzionalità delle nostre immagini di essa. E non a caso proprio
Smithson è arrivato alla conclusione che con la fotografia, la natura è diventata
un concetto impossibile. Di conseguenza, egli ha utilizzato la fotografia non
come strumento di riproduzione della natura, ma come mezzo per
mettere in questione tale riproduzione, accentuando i caratteri di
convenzionalità e di interpretazione del reale che sono propri del mezzo
fotografico, come di qualsiasi altro mezzo di rappresentazione della
natura36. Artisti come Richard Long, Hamish Fulton e Andy
Goldsworthy hanno invece fatto di necessità virtù e hanno deciso di tener
conto dell’intermediario fotografico attraverso il quale le loro opere
saranno prevalentemente conosciute fino a far entrare la questione delle
immagini fotografiche nella progettazione stessa dei loro interventi. Così,
checché ne dicano gli interessati, le loro opere vengono realizzate
soprattutto per essere fotografate. Questo è palese in Fulton, che non
producendo nessuna trasformazione visibile nei luoghi che attraversa è
sostanzialmente un fotografo del paesaggio, ma lo è anche negli altri due.
Golsdworthy è un fotografo molto dotato, e ci si potrebbe chiedere se i
suoi interventi avrebbero avuto altrettanta fortuna senza il supporto di
fotografie vivaci e singolari. Così come ci si può chiedere cosa ne sarebbe
delle linee prodotte da Long camminando nell’erba se non ci fossero le
foto a immortalarle. Foto apparentemente dimesse e del tutto ordinarie,
in realtà ben funzionali a una certa mistica del gesto ecologico e
minimalista: chi le guarda vede più di quel che vede, perché vede quello
che già sa, ossia il gesto nella natura selvaggia, il gesto di un uomo solo
che segna la natura con le sole forze del suo corpo. Con ciò, però, siamo
tornati pericolosamente vicino alla logica dell’immagine turistica della
natura: perché non c’è più esperienza della natura, c’è soltanto la
conferma del già saputo. Che questo già saputo sia nell’un caso lo
stereotipo del bel paesaggio e nell’altro l’idea dell’ecologicamente corretto
non fa troppa differenza, dal punto di vista di quel che giunge al fruitore.
Il quale se ne sta a casa propria o in galleria, e guarda delle immagini che
non possono comunicargli se non in minima parte l’esperienza compiuta
effettivamente dall’artista. Se in ogni arte, forse, è presente uno iato tra
quel che l’opera significa per chi la fa e quel che essa può dire a chi si
limita a osservarla, qui lo iato si trasforma in insuperabile abisso. Da un
lato abbiamo artisti che studiano gli ambienti, i materiali, i climi, vivono
nella natura e agiscono all’interno di essa; dall’altro uno spettatore per il
quale tutto questo è, ancora e sempre, solo una serie di immagini.
Assistiamo così a una paradossale esclusione del fruitore dall’esperienza
che dovrebbe essere invitato a compiere. Di fronte a questa rimozione di
uno dei due poli essenziali della comunicazione artistica, finisce per essere
addirittura secondario se essa avvenga perché si è scelto di privilegiare la
diffusione mediatica dell’opera o perché a prendere il sopravvento è stata
la posizione dell’autore, dell’artista. In Surrounded Islands di Christo
l’estrema visibilità dell’opera attraverso i media si ottiene annullandone
quasi del tutto la percepibilità immediata da parte dello spettatore che si
trova sui luoghi. «Mai in precedenza – leggiamo in un volume non certo
sospettabile di nutrire pregiudizi contro l’artista – Christo aveva realizzato
un progetto che, a fronte di tutta la spettacolare ed estesa pubblicità
(publicity) da esso suscitata, contenesse una così assoluta rinunzia al
contatto col pubblico (publicness). Il risultato visivo provvisto dai collages
non poteva essere esperito direttamente. Con maggiore decisione che mai
prima, Christo aveva ritagliato il suo lavoro su misura dei media. Era
attraverso questa mediazione che si rendeva accessibile, film, fotografie e
descrizioni divenivano il prerequisito per la vista, e solo allora si poteva
avere lo spettacolo promesso dai disegni per il progetto. Volando in
elicottero sopra la baia si poteva capire con facilità fino a che punto
Christo avesse escluso gli abitanti di Miami dalla vista del suo lavoro e li
avesse condannati a una frustrazione visiva. Questa vista a volo d’uccello
dava accesso ad una delle più stupende messe in scena di un ambiente mai
concepite. Era questo il punto di vista dal quale l’opera raggiungeva il suo
climax»37. Nelle opere di Long, invece, lo spettatore è come un terzo
incomodo tra l’artista e l’ambiente naturale, dal cui contatto resta
irrimediabilmente lontano: «È nei Word pieces che appare nel modo più
chiaro uno dei tratti più paradossali dell’arte di Richard Long: da questa
comunione con la natura celebrata senza intermissione, lo spettatore resta
sorprendentemente escluso. L’esperienza iniziatica ha già avuto luogo,
altrove, senza di lui, che non avrà accesso se non alle tracce e alle vestigia,
e questa profusione di mezzi sottolinea, al fondo, una strana assenza»38.
Disciolta dal legame motivante dell’esperienza dell’artista, l’immagine
rischia di condividere la stessa vicenda delle immagini correnti,
commerciali della natura; è sottoposta, almeno potenzialmente, allo stesso
processo di degrado. La parabola di molte fotografie di Harvest Art –
quegli interventi che consistono nel tracciare linee e disegni su campi di
cereali o di foraggio con le macchine normalmente usate per la raccolta di
questi prodotti, per esempio Directed Harvest di Dennis Oppenheim, del
1969 – che troviamo oggi utilizzate nelle pubblicità di automobili o di
prodotti agricoli, da questo punto di vista è rivelatrice. L’immagine,
perduto il suo contenuto di verità, ossia di esperienza, diventa fruibile nei
suoi aspetti decorativi, ornamentali, appunto come pura immagine, anzi
pura ‘bella immagine’. Il divieto che molti Land Artists pongono alle
riprese fotografiche delle loro installazioni non è probabilmente dovuto
solo al timore che circolino così foto inadeguate, maldestre, che non
rendono giustizia al loro lavoro, ma anche alla percezione che, se non si
ponessero tali vincoli, un eccesso di riproduzioni potrebbe trasformarle in
soggetti da cartolina illustrata.
Molti studiosi di arte ambientale, come abbiamo detto, tendono a
sottovalutare questo tipo di problemi. Gilles Tiberghien, per esempio,
sembra farne soprattutto una questione di buona volontà: «Si pone allora
il problema dell’accesso a queste sculture monumentali. Situate sovente in
regioni desertiche, esse sono ritenute inaccessibili e ridotte d’un tratto al
loro commento o alla loro riproduzione fotografica. In realtà, nulla
impedisce di visitare questi luoghi. Al contrario, anzi, tutto ci invita a
farlo, e in primo luogo gli artisti stessi»39. In realtà, che qualche problema
ci sia Tiberghien stesso finisce poi per ammetterlo, ma è incline a pensare
che si tratti pur sempre delle difficoltà consuete che comporta per la
nostra percezione il prendere contatto con un’opera attraverso la sua
riproduzione fotografica. «Il problema risiede qui in quel che si potrebbe
chiamare la ‘messa in quadro’ dell’immagine che reintroduce
l’illusionismo respingendo in qualche modo la rappresentazione dietro se
stessa, riducendo la superficie materiale dell’immagine al ‘piano del
quadro sul quale si proietta un insieme spaziale percepito attraverso tale
piano e integrante tutti gli oggetti singoli’ (E. Panofsky). Certo le
deformazioni non sono le stesse che in pittura e la fotografia non
obbedisce di meno a regole di trasformazione. Ma la fotografia, come la
pittura, impone un punto di vista, costruisce un quadro, determina un
asse che gli dona il suo senso. Infatti noi siamo, rispetto a queste opere di
difficile accesso, come i visitatori rinascimentali in rapporto ai giardini di
allora, che erano organizzati in maniera tale da disporre i migliori angoli
di visibilità, come una successione di quadri, il cui effetto è quello di
ridurre la natura ad uno spazio a due dimensioni. È vero che le immagini
di cui disponiamo – se parliamo delle opere durature ancor oggi visibili,
giacché per le altre la cosa è evidente – e che sono riprodotte nelle riviste
o nei libri specializzati, sono quasi sempre le stesse, in modo che esistono
quelli che si potrebbero chiamare degli standard che tendono
irresistibilmente a sostituirsi alle opere medesime»40. Ma nel caso delle
opere d’arte ambientale c’è qualcosa di più delle difficoltà che possono
presentare le riproduzioni fotografiche di opere tridimensionali, sculture
o architetture, perché quelle opere ci promettevano anche un’esperienza
della natura, un contatto e un rapporto con essa, che non si realizza, o si
realizza sotto forme del tutto diverse, attraverso la mediazione fotografica.
Gli artisti ambientali che si sono posti il problema hanno compreso che
esso può essere risolto solo se le opere all’aperto sono rese effettivamente
fruibili nei luoghi nei quali sono nate e in funzione dei quali sono state
pensate. Per questo alcuni di loro hanno recuperato l’ideale del giardino
come spazio in cui progettare le opere ambientali o da allestire attraverso
la realizzazione delle opere stesse. Un precursore, in questo senso, è stato
Ian Hamilton Finlay, il quale, dopo aver acquistato nel 1967 una piccola
proprietà agricola in Scozia, a Dunsyre, ha poi continuamente lavorato
sul giardino circostante il cottage e gli annessi, facendone l’opera della sua
vita: «Un giardino – scrive – non è un oggetto ma un processo». Finlay è
attivo anche altrove (per esempio in alcuni parchi-museo dell’Europa
continentale), ma torna sempre a Stonypath, da lui ribattezzata Little
Sparta, che ha trasformato in un parco in cui sperimenta le sue
trasposizioni dalla pittura al paesaggio, cui abbiamo già accennato, e
ambienta le sue realizzazioni. In una certa misura, il lavoro di Finlay si
colloca sulla linea dei giardinieri-paesaggisti del Settecento inglese, anche
se il suo modo di operare presuppone un distacco critico e una riflessione
sull’opera di trasformazione della natura. Così le sculture, le iscrizioni su
pietra, le installazioni diventano occasioni di meditazione sul rapporto tra
uomo e natura, e a Little Sparta si possono trovare esemplificati tutti i temi
cari all’artista: la minaccia della guerra, evocata dalle riproduzioni di armi
e navi militari; le lapidi e i busti («L’iscrizione appare fuori posto nel
giardino moderno; essa contrasta con la nostra secolarizzazione
suggerendo che ci sono gerarchie della parola»); i paesaggi ‘firmati’ con i
nomi dei grandi pittori del passato; la celebrazione degli eroi della
rivoluzione francese e il culto del neoclassicismo («I giardini classici
elevano la natura. Questo, per l’età presente, è il loro crimine»). Le
differenti parti del giardino sono teatro di sistemazioni diverse.
All’ingresso, il Giardino Romano può anche essere letto come un omaggio
a Villa d’Este; stagni e laghetti movimentano il paesaggio alle spalle
dell’edificio principale, nel quale si possono trovare, come in un parco
settecentesco, un monumento a Caspar David Friedrich e un grotto, un
ponticello dedicato a Claude Lorrain e una stele. Finlay è convinto della
centralità del giardino come luogo di progettazione nella natura («certain
gardens are described as retreats, but they are really attacks»), e della
variabilità dei modi in cui esperiamo la natura attraverso di esso: «un
visitatore abbrevierà il giardino, un altro lo amplierà. Per uno, il giardino
è il divertimento di dieci minuti, per un altro la meditazione di una
giornata intera»41. In questo modo, il giardino di Little Sparta è diventato il
laboratorio di Finlay, il luogo in cui si preparano gli interventi che
verranno realizzati altrove, ma insieme anche l’opera più compiuta e
significativa dell’artista, quella dalla quale egli vorrebbe essere giudicato.
Se si prescinde dall’ispirazione formale, che non potrebbe essere più
diversa, Pratt Farm di James Pierce può essere considerato come il
corrispondente americano di Little Sparta. Anche qui siamo infatti in
presenza di un giardino d’artista. Su un terreno di diciassette acri situato
presso il fiume Kennebec nel Maine, Pierce ha realizzato, a partire dal
1970, numerose sculture in terra, ispirandosi in parte all’arte primitiva.
Sono figure umane di grandi dimensioni costruite con zolle erbose e
pietre, lievemente in rilievo sul terreno (Earthwoman; Suntreeman), oppure
interventi in pietre e legno ispirati a monumenti sepolcrali (Tree Burial), o
ancora labirinti semplicemente tracciati sul terreno. Le realizzazioni di
Pierce, volutamente grossolane e rustiche nelle forme, vogliono collegarsi
a un paesaggio che sembra di per se stesso un parco pittoresco, con larghe
distese erbose che terminano in boschetti e gruppi sparsi di alberi di alto
fusto.
Se il giardino d’artista è opera di un singolo ed espressione della sua
poetica, il parco-museo raccoglie invece opere di artisti diversi, e può
sorgere per iniziativa di un mecenate, di un’istituzione museale pubblica,
di un gruppo di artisti che decidono di operare assieme in uno spazio
aperto. Anche qui, però, si tratta di interventi concepiti in vista di un
ambiente determinato e che, almeno nei casi migliori, sono pensati anche
come mezzi per entrare in rapporto con tale ambiente. Il visitatore,
ponendosi in contatto con le opere, scopre anche un ambiente naturale.
Certo, il termine parco-museo è per se stesso vago e anche ambiguo, dato
che l’idea del museo tradizionale è proprio quella alla quale queste
raccolte di arte ambientale intendono opporsi. Esse si ispirano a modelli
diversi, da quello, relativamente più tradizionale, della raccolta di sculture
all’aperto (ogni scultura collocata all’esterno dovrebbe essere, almeno in
qualche misura, site-specific, cioè concepita avendo riguardo allo spazio che
andrà a occupare), a quello del giardino (e qui sarà massima la prossimità
col giardino d’artista), fino a quello più nuovo della contestualizzazione di
una serie di opere d’arte ambientale all’interno di un territorio anche
vasto, ma che proprio le opere stesse costituiscono in unità.
Correlativamente, anche le opere in essi ospitate si collocano in un
ventaglio piuttosto ampio, che può andare dalla semplice sited-sculpture
fino a opere ambientali complesse, che costruiscono un’esperienza dello
spazio in cui vanno a inserirsi, spingendo il visitatore a ripensare il
proprio rapporto col paesaggio e con il luogo.
Parchi-museo sono oggi presenti in vari paesi del mondo, dallo Storm
King Art Center nel New Jersey al parco del museo Kröller-Müller a
Otterlo, in Olanda. Gruppi di artisti interessati al lavoro nella natura
hanno poi allestito centri di lavoro che realizzano opere, durevoli o
effimere, negli spazi naturali, come è il caso del gruppo Arte Sella in
Trentino o del Crestet Centre d’Art di Vaison La Romaine nel Sud della
Francia. Ma anche restando soltanto all’interno del nostro paese, è
possibile trovare una varia fenomenologia di iniziative diverse, pur se
raggruppabili per comodità sotto l’etichetta del parco-museo42. Se la
Fondazione Severi per la scultura contemporanea nelle campagne
modenesi è ancora sostanzialmente una raccolta di sculture collocata
all’aperto, in cui molte opere non sono state pensate per l’ambiente che
ora le ospita, e quindi non richiedono una fruizione esplicitamente
orientata al rapporto con gli spazi esterni, che del resto sono solo
parzialmente ‘naturali’, la Collezione Gori alla Fattoria di Celle presso
Pistoia (Spazi d’arte a Celle) è un esempio molto significativo di una
raccolta privata costruita attorno a un ambiente preciso, e col quale gli
artisti sono stati chiamati a confrontarsi. Si tratta del vasto giardino inglese
di una villa settecentesca, e, in parte, del terreno agricolo circostante. Il
giardino, con il suo andamento assai mosso, costituisce per gli artisti una
continua sollecitazione. Alcuni, come Sol Le Witt, Beverly Pepper e
Mauro Staccioli, vi inseriscono forme geometriche che contrastano con
l’asimmetria e l’intrico del giardino inglese; altri, come il finlandese Olavi
Lanu o l’artista polacca Magdalena Abakanowicz, costruiscono forme
quasi antropomorfe che accrescono il senso di mistero e di incanto che
promana dal giardino pittoresco. A Celle hanno lavorato anche molti
artisti ambientali alle cui opere abbiamo già dedicato qualche attenzione,
come Richard Long, Robert Morris, Alan Sonfist e lo stesso Finlay43. La
Santa Barbara Art Foundation a Mammola, nella Calabria meridionale, è
invece una via di mezzo tra il giardino d’artista e la raccolta di arte
ambientale. In una vecchia grangia non lontana dalla costa, lo scultore
Nick Spatari ha collocato il suo spazio di lavoro, estendendo ben presto la
propria azione sul terreno circostante, nel quale ha inserito le proprie
opere in legno e in pietra; ma, contemporaneamente, egli ha aperto
questa porzione di campagna calabrese al lavoro di altri artisti, come
Pietro Gentili e Stevi Kervin. Al modello del giardino d’artista
sembrerebbe inizialmente da ricondurre anche il Giardino dei Tarocchi di
Niki de Saint Phalle, a Garavicchio in Toscana. Esso è infatti opera
esclusivamente dell’artista, coadiuvata per alcuni anni dal suo compagno
Jean Tinguely. Ma il genere di interventi compiuti, grandi sculture-
architetture ricoperte da coloratissime tessere di ceramica, ispirate alle
figure dei Tarocchi, ricollegano il giardino a una tradizione significativa,
quella del parco dei mostri e del giardino manierista: il richiamo a
Bomarzo è fin troppo ovvio. Invece il Campo del Sole a Tuoro sul
Trasimeno nasce soprattutto dalle indicazioni di un critico dell’arte
contemporanea, Enrico Crispolti, che chiama a collaborare artisti italiani
e stranieri44.
L’origine di Fiumara d’arte in Sicilia (a Castel di Tusa, tra Messina e
Palermo) è ancora diversa; qui ha agito sì un mecenate privato, Antonio
Presti, che però non ha voluto raccogliere una serie di opere in uno spazio
proprio e delimitato, ma piuttosto disseminare una serie di interventi
ambientali in un territorio assai ampio, che si estende anche
nell’entroterra fino ai monti Nebrodi. Le opere sorgono dunque sul suolo
pubblico, e non formano un museo o un parco, quanto segnano un intero
territorio. Si tratta spesso di realizzazioni di grande impatto; il labirinto
realizzato da Italo Lanfredini, per esempio (Arianna, 1989), sorge a grande
altezza in un piccolo comune dell’interno, ma scopre una prospettiva
larghissima che giunge fino al mare; mentre proprio sulla spiaggia Tano
Festa ha costruito una grande cornice che inquadra la superficie marina
(Monumento per un poeta morto, 1989). Scoprire le opere che si trovano a
Fiumara d’Arte significa dunque muoversi all’interno di un territorio,
venire a conoscerlo, orientarsi in esso, e farsi guidare dalle installazioni
per imparare ad amarlo: significa rifare a ritroso il cammino compiuto
dagli artisti stessi, che tutti hanno soggiornato negli stessi luoghi e sono
stati da questi mossi a pensare i loro interventi.
I parchi-museo offrono quindi al visitatore la possibilità di entrare in
contatto con le opere ambientali nel contesto naturale in cui sono state
create, senza trasferirle in uno spazio che non è il loro, quello della galleria
e del museo tradizionale; al tempo stesso, invitano a quel contatto reale
con le opere e con il paesaggio che installazioni disperse in luoghi remoti
rendono obbiettivamente difficile. Un’altra via per ottenere reali
possibilità di fruizione è rappresentata dall’incontro tra architettura e arte
ambientale. Spesso questo rapporto viene visto con sospetto dagli artisti
‘puri’, che diffidano di ogni destinazione in qualche modo pratica della
loro arte e temono di dover perdere la libertà di sperimentazione. Si tratta
però di sospetti e diffidenze ingiustificate, perché l’architettura deve
sempre porsi il problema del proprio inserimento nel paesaggio, e perché
le opere ambientali, proprio in quanto uno dei loro effetti è anche quello
di portarci a ripensare il paesaggio in cui trovano posto, hanno o
dovrebbero avere sempre una valenza profondamente architettonica.
L’artista americana di origini cinesi Maya Lin, divenuta famosa a poco più
di vent’anni con il progetto per il Vietnam Veterans Memorial, completato
nel 1982 a Washington, D.C., riunisce insieme le figure dell’artista
ambientale, dell’architetto e del progettista di giardini. Già il monumento
ai caduti del Vietnam, che dopo le iniziali contestazioni è divenuta una
delle opere più visitate d’America, è fin dalla sua concezione anche
un’opera ambientale. Due lunghi muri di granito lucido sorgono
progressivamente dal terreno, incontrandosi a formare un angolo ottuso,
un cuneo di pietra. Sulle pareti sono incisi, in ordine cronologico, i nomi
di tutti i caduti della guerra del Vietnam. Legami simbolici e spaziali
uniscono questo monumento antiretorico all’ambiente circostante, e la
sua collocazione tiene conto della disposizione del terreno e delle sue
ondulazioni. La Lin, che non nasconde la sua ammirazione per alcuni
artisti ambientali della generazione precedente, in particolare Robert
Smithson, elabora un monumento rigorosamente orizzontale, ancorato al
terreno e in netta antitesi con la verticalità di tante altre realizzazioni
celebrative; un monumento che utilizza il semplice effetto di due
materiali naturali, la terra e il granito, nella loro giustapposizione. Maya
Lin è però anche autrice di opere che sono veri e propri Earthworks. Wave
Field, realizzato nel 1993-95 nel Campus dell’Università del Michigan ad
Ann Arbor, è un’area prativa di circa mille metri quadri che l’artista ha
increspato come se si trattasse di una superficie equorea mossa da onde,
ottenendo un risultato che non è solo di grande effetto visivo, ma
usufruibile come un giardino. Del resto Maya Lin ha anche, per
l’appunto, progettato giardini (Reading a Garden, 1997-98, a Cleveland
nell’Ohio), parchi pubblici (progetto per Grand Rapids Park, 1997) ma
anche abitazioni private, case nella campagna legate all’orizzontalità come
i suoi monumenti o le prairie houses wrightiane (Weber House, 1991-93,
Haley Farm, 1996).
Un altro modo per portare l’attività dell’artista ambientale all’incontro
con il pubblico è rappresentata dal suo utilizzo per il recupero di aree
degradate, vecchi siti industriali dismessi, cave, miniere abbandonate ecc.
Questo genere di iniziative, che fa del Land Artist un collaboratore se non
un sostituto dell’architetto di paesaggi, è ancora poco diffuso in Italia, ma
ha già una piccola storia negli Stati Uniti. Già nel 1984 John Beardsley
chiudeva il proprio volume sulla Earth Art con un cauto richiamo alle
possibilità che l’arte nella natura offre per la Land Reclamation: «Gran parte
della storia recente del movimento dell’arte ambientale può essere letta
come uno sforzo di riconquistare per l’arte qualcosa della sua centralità
per il dibattito pubblico, di ‘portare l’arte nel mondo reale’»45. La
collaborazione tra gli artisti e altri professionisti del design, come gli
architetti paesaggisti, non è senza rischi, perché «se l’arte è interamente
sussunta sotto altre discipline o un intento completamente funzionale,
corre il rischio di perdere qualcosa della sua particolare magia», ma si
tratta di una sfida che va raccolta se si vuole restituire a un’arte elitaria e
ineffettuale un grande ruolo sociale46. Qui l’attitudine ai grandi progetti e
le ambizioni gigantiste della Land Art possono tornare utili; e, in effetti,
sia Smithson che Heizer che Morris sono stati coinvolti in progetti di
Land Reclamation. Smithson, in particolare, non ha mai fatto mistero di
considerare Fredrick Law Olmsted, colui che nel secolo scorso progettò il
Central Park di New York, dunque quello che oggi chiameremmo un
architetto del paesaggio, come uno dei suoi ispiratori: Olmsted gli appare
come «il primo artista americano di Earthworks». D’altronde, Smithson ha
più volte confessato che erano proprio i siti abbandonati dalle attività
industriali, degradati e distrutti a stimolare la sua capacità artistica. «La
mia esperienza personale è che i siti migliori per l’Earth Art sono quelli
che sono stati sconvolti dall’industria, da un’urbanizzazione incontrollata,
o dalle distruzioni della natura stessa»47. Broken Circle e Spiral Hill sono
stati realizzati in una cava di sabbia abbandonata; Michael Heizer ha
progettato e portato a termine una serie di colossali figure in terra
nell’ambito del recupero di una vasta miniera a cielo aperto nei pressi di
Chicago (Effigy Tumuli, 1983); nel corso degli anni Ottanta un’altra
miniera, vicino a Seattle, è stata oggetto di un intervento di Land
Reclamation da parte di Robert Morris. «Nel paese – ha scritto Smithson –
ci sono molte aree minerarie, cave abbandonate, laghi e fiumi inquinati.
Una soluzione pratica per l’utilizzazione di questi luoghi devastati
potrebbe essere il riciclo del terreno e delle acque in termini di Earth Art».
Certo, affinché questo possa avvenire occorre che l’arte ambientale
accetti di confrontarsi con esperienze diverse, da quelle del giardinaggio
moderno a quelle dell’architettura di paesaggio, rinunziando alla logica
puramente autoreferenziale e spesso fine a se stessa dell’avanguardia. Non
è raro che le realizzazioni dell’arte ambientale pecchino proprio per la
volontà di astratta sperimentazione, e che nel contesto naturale una pura
ricerca formale di novità si riveli di fatto povera e dissonante. Lo ha
riconosciuto anche Morris: «La scultura su larga scala ha spesso abdicato
al compito dell’arte, che consiste nell’ambizione di creare nuove strutture
nel senso più ampio. Un simile scopo si situa all’opposto della novità
superficiale fine a se stessa, o della permutazione di esauste idee
moderniste». In un saggio del 1993 dal titolo Gardens, Earthworks, and
Environmental Art, Stephanie Ross sviluppa l’idea che il giardinaggio, arte
fiorente, arte guida nel Settecento, sia morto come arte perché non ha
saputo diventare un’arte d’avanguardia; la Land Art e gli Earthworks
costituirebbero oggi l’avanguardia che è sempre mancata all’arte del
giardino. «Ritengo che molti dei lavori ambientali di oggi rivestano le
stesse funzioni che rivestivano quei primi giardini [quelli del Settecento].
Essi occupano, nel mondo attuale, uno spazio corrispondente a quello che
occupavano i giardini nel mondo di due secoli e mezzo fa»48. L’assunto
secondo il quale l’Environmental Art dovrebbe sostituire il giardinaggio (che,
in fondo, è la forma più antica e consolidata di arte ambientale) e la
Landscape Architecture è tuttavia oltremodo azzardato. È assai più vero il
contrario: che, cioè, l’Environmental Art avrebbe molto da guadagnare se
imparasse a entrare in collaborazione con queste altre forme di intervento
artistico nella natura – le quali sembrano tutt’altro che morte nella nostra
attuale situazione. Anzi, si potrebbe dire di più: che da uno scambio tra
Land Art, arte ecologica, giardinaggio e progettazione di paesaggio tutte
queste esperienze potrebbero uscire arricchite. Come per rispondere alla
domanda su cosa ne sia, oggi, del bello naturale, non abbiamo potuto
limitarci a esaminare le risposte della filosofia, ma abbiamo dovuto
interrogare anche le esperienze delle arti, della teoria del paesaggio,
dell’ecologia, così un’arte che voglia effettivamente incidere nella nostra
esperienza della natura non può isolarsi in se stessa, compiacendosi delle
proprie ricerche formali, ma deve dialogare con quelle arti che hanno da
sempre lavorato nella e con la natura: non solo l’architettura, dunque, ma
anche la progettazione del paesaggio e del giardino.
1
Va osservato tuttavia che è possibile – ed è stata avanzata più volte – una lettura
che sottolinea invece la continuità tra il Mondrian paesaggista e il Mondrian
astratto. Il saggio di Mondrian Realtà oggettiva e realtà astratta, pubblicato su «De
Stijl» nel 1919-20, e che si può leggere in italiano in appendice a M. Seuphor, Piet
Mondrian. La vita e l’opera, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1960, si presta in
particolare a suffragare una lettura di questo tipo.
2
T.W. Adorno, Teoria estetica, trad. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino 1977, pp.
114-15.
3
Di «fallacia patetica» nell’uso del paesaggio nel film parla P. Adams Sitney in
Landscape in the Cinema: The Rhythms of the World and the Camera, in S. Kemal, I.
Gaskell (a cura di), Landscape, Natural Beauty, and the Arts, Cambridge University
Press, Cambridge-New York 1993, pp. 103-126.
4
S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia
1988, p. 232. Si vedano anche altri passi rivelatori, come quello in cui si parla della
Veduta di Toledo del Greco come di «un esempio praticamente ineguagliato di
paesaggio impetuosamente emozionale» (p. 242), o quest’altro: «Il pittore fu
attratto, più di ogni altra cosa, dalla risonanza emotiva e dalle variazioni di
atmosfera del paesaggio fluviale, e non dalla documentazione della riva del fiume.
Non diversamente la nostra macchina da presa aveva colto, nel porto di Odessa,
singoli particolari del mattino nebbioso, penetrato da un pallido sole, in cerca di
uno stato d’animo consono al tema del lutto per costruire con essi non una
rappresentazione topografica degli impianti portuali di Odessa, ma la parte
introduttiva della scena del lutto sul molo» (p. 246).
5
I.H. Finlay, Detached Sentences on Gardening in the Manner of Shenstone (1985); si
possono leggere ora nella sezione documentaria del volume di J. Kastner, B.
Wallis, Land and Environmental Art, Phaidon, London 1998, pp. 275-77.
6
Land Art è spesso un termine-ombrello che ricopre esperienze artistiche molto
varie, dalla Earth Art americana fino alle tendenze dell’Art in Nature degli ultimi
anni. Così accade, per esempio, nel volume importante e documentato di Gilles
Tiberghien, Land Art, Editions Carré, Paris 1995. Cfr. anche il volume di Kastner
e Wallis citato alla nota precedente, a p. 12: «Like the works that it embraces, the
term Land Art is variable, complex and fraught. [...] Land Art is an imperfect
hyponym for a slippery and widely interconnected brand of conceptual kinship».
7
Scrive R. Fechner in Natur als Landschaft. Zur Entstehung der aesthetischen
Landschaft, Lang, Frankfurt-New York 1986, p. 80: «Verdanken wir der Kunst die
Entdeckung der aesthetischen Landschaft, so wird die Verfremdung ebenfalls
durch die Kunst evident: man mag den Beginn der Verfremdung der Landschaft
am Ende des 19. Jhdts. sehen, so wird durch die aktuelle Land-art ein Prozess
besonders starker Sensibilisierung gesetzt [...] Der Künstler greift direkt in die
Natur ein, die Natur selbst wird künstlerisch verändert, sie wird zum Material, das
Medium des Bildes überflüssig macht». Vedremo più oltre che quest’ultima
affermazione è solo parzialmente giustificata.
8
The Unpainted Landscape, Coracle Press, Scottish Art Council, 1987.
9
Si veda C. Garraud, L’idée de nature dans l’art contemporain, Flammarion, Paris
1994, pp. 8-13. Ma Garraud inverte a nostro avviso l’ordine delle ragioni: non è
che gli artisti ambientali facciano opere non mimetiche perché hanno scelto di
operare nella natura; piuttosto, hanno scelto di operare nella natura quando hanno
compreso che la via mimetica era definitivamente sbarrata. Sulla rinunzia
all’immagine da parte dell’arte ambientale contemporanea si veda anche S.
Gronert, Die bilderlose Natur. Vom Wandel der Naturerfahrung in der Kunst der neueren
Moderne, in J. Zimmermann (a cura di), Aesthetik und Naturerfahrung, Frommann-
Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996, pp. 521-36.
10
R. Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, trad. it. Bruno
Mondadori, Milano 1998, p. 290.
11
Sull’importanza del minimalismo per la nascita della Land Art insiste in
particolare Tiberghien, Land Art, cit., cap. I.
12
Cfr. J. Beardsley, Earthworks and Beyond: Contemporary Art in the Landscape,
Abbeville Press, New York 1984, p. 19 «The purpose of his works is to create art,
not simply to make a statement about the landscape».
13
Anche la nozione di ‘scultura inorganica’ è impiegata da Tiberghien, Land Art,
cit., cap. II.
14
N. Holt, Sun Tunnels, in «Artforum», aprile 1977: «Ho scelto il diametro, la
lunghezza e la distanza dei tubi in funzione delle proporzioni degli oggetti terrestri
e celesti così come essi ci appaiono, e tenendo conto ugualmente della durata del
sorgere e del tramonto del sole all’epoca dei solstizi».
15
Sulle molteplici simbologie del labirinto si può vedere H. Kern, Labyrinthe,
Prestel, München 1992 e W.M. Matthews, Mazes and Labyrinths. Their History and
Development, Dover, New York 1970.
16
Citato in Beardsley, Earthworks and Beyond cit., p. 27.
17
Garraud, L’idée de nature dans l’art contemporain, cit., p. 36.
18
Per maggiori dettagli si veda Christo: Surrounded Islands, Harry N. Abrams Inc.,
New York 1985.
19
A detta di G. Lascault, Vers un dictionnaire partial du paysage, in F. Dagognet (a
cura di), Mort du paysage? Philosophie et esthétique du paysage, Champ Vallon, Seyssel
1982, p. 225 «le projet [di Running Fence] suppose aussi un inventaire préalable de
la faune et de la flore de la région. Il est modifié de façon à ne pas mettre en danger
les espèces animales, à gêner le moins possible les parcours habituels des pélicans
bruns, des daims à queue noire et des souris naines».
20
Di parere diverso è ancora Lascault nel saggio appena citato: «[Christo] emballe
la côte. Il la drape et la voile comme une femme. Il la dissimule pour souligner le
mystère et la sauvagerie qu’elle possède avant tout voilage. Il la cadre pour mieux la
faire voir. Il la transforme provisoirement en une sorte de banquise. Il ne la
reproduit pas telle qu’elle lui apparaît. Il fait du paysage lui-même non pas une
représentation, mais une incitation à intervenir».
21
Cfr. Garraud, L’idée de nature dans l’art contemporain, cit., p. 83, che osserva: «Si
avrebbe torto a pensare che l’arte e l’ecologia vadano necessariamente d’accordo.
Al contrario, gli artisti si son visti rimproverare talvolta l’aggressività dei loro
interventi. Senza dubbio la violenza – se di violenza si tratta – perpetrata da
qualche opera d’arte sul paesaggio è irrisoria a paragone di quella che la civiltà
industriale le ha fatto subire. Ma la funzione simbolica del gesto artistico deve
comportare, agli occhi di qualcuno, un’accresciuta responsabilità».
22
E. Carli, Il paesaggio. L’ambiente naturale nella rappresentazione artistica, Mondadori,
Milano 1981, p. 279.
23
M. Heizer, D. Oppenheim, R. Smithson, Interview with «Avalanche», ora in The
Writings of Robert Smithson, a cura di N. Holt, New York University Press, New
York 1979. Si può leggere anche nella sezione Documenti di Kastner, Wallis, Land
and Environmental Art, cit., pp. 202-205. Smithson aggiunge: «Dato che io penso in
termini di site/non site non avverto più alcuna necessità di riferirmi alla natura».
24
Ovviamente la presa di posizione di Morris ha anche un carattere critico nei
confronti di chi ha devastato il paesaggio. Egli infatti prosegue «contribuendo così
a redimere socialmente coloro che per primi hanno deturpato il paesaggio». E si
chiede: «Non diventerebbe un pochino più facile, in futuro, sventrare il paesaggio
per ottenere un’ultima palata di una fonte di energia non rinnovabile, se si potesse
trovare un artista (a buon prezzo, beninteso) che sappia trasformare la terra
devastata in una suggestiva opera d’arte moderna?» (citati in Beardsley, Earthworks
and Beyond cit., p. 94). Lo scritto più importante di Morris sull’argomento, Notes
on Art as/and Land Reclamation (1980) si può leggere anch’esso nella parte
documentaria di Kastner, Wallis, Land and Environmental Art, cit.
25
La dizione Art in Nature è stata proposta e teorizzata da Vittorio Fagone. Si veda
in particolare V. Fagone, Art in Nature, Mazzotta, Milano 1996.
26
Cfr. su questo punto Tiberghien, Land Art, cit. p. 26 e Beardsley, Earthworks and
Beyond cit., p. 44.
27
H. Stachelhaus, Joseph Beuys, Claassen, Düsseldorf 1987; K. Matthies, Der Nexus
von Kunst und Natur bei Joseph Beuys, in Zimmermann (a cura di), Aesthetik und
Naturerfahrung, cit., pp. 501-19; C. Tisdall, Joseph Beuys, Thames & Hudson,
London 1979. In italiano: G. Celant, Beuys. Tracce in Italia, Amelio, Napoli 1978; J.
Beuys, Difesa della natura, Il Quadrante, Torino 1984.
28
Richard Long. Cerchio di Fango, intervista di E. Coen a R. Long, in «la
Repubblica», 4 maggio 1994.
29
Si veda Richard Long, Catalogo dell’Esposizione tenutasi a Roma, Palazzo delle
esposizioni, 4 maggio-30 giugno 1994, Electa, Milano 1994.
30
V. Fagone (a cura di), Giuliano Mauri. Arte nella Natura 1981-1993, Mazzotta,
Milano 1993. Fagone parla di installazioni «che si caratterizzano essenzialmente
per l’uso esclusivo di materiali naturali, il recupero di tecniche colturali primarie e
la totale intrasferibile inerenza al sito degli interventi progettati».
31
N. Holt, Buried Poems, citato in Tiberghien, Land Art, cit., p. 167.
32
D. Oppenheim, Interview with Alanna Heiss (1992), ora in Kastner, Wallis, Land
and Environmental Art, cit., pp. 224-26.
33
Va segnalata invece l’opinione discordante di Richard Serra: «Le opere realizzate
in luoghi remoti implicano una contraddizione che non sono mai state capaci di
risolvere. Per esempio, quel che la maggior parte della gente conosce di Spiral Jetty
è una veduta dall’elicottero. Se si osserva realmente l’opera, essa non avrebbe nulla
di questo carattere grafico, ma pressoché nessuno l’ha vista veramente, dato che
essa fu sommersa poco dopo essere stata compiuta».
34
W. De Maria, The lightning Field, in «Artforum», aprile 1980, pp. 52-60.
35
Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, cit., p. 290.
36
«È chiaro che quando pensiamo a un’opera di Smithson non possiamo esimerci
dal ricordare che pochi di noi potranno avere un’esperienza diretta di qualcuna di
loro, perché poste in luoghi così distanti dai luoghi del consesso civile, laddove
pochi avranno viaggiato fino al Grande Lago Salato [...] Le conosciamo attraverso
fotografie, e, d’altra parte, molte delle opere di Smithson erano composte di
fotografie: egli era consapevole di questa duplicità», scrive G. Maragliano, Robert
Smithson e le rovine all’inverso, in R. Bruno, B. Corà (a cura di), Tempo e forme
dell’arte contemporanea, Università degli Studi di Cassino, Cassino 1996.
37
Christo: Surrounded Islands, cit., pp. 25-26.
38
Garraud, L’idée de nature dans l’art contemporain, cit., p. 165.
39
Tiberghien, Land Art, cit., pp. 17-18.
40
Ivi, p. 257.
41
Tutte le citazioni sono tratte da Finlay, Detached Sentences on Gardening cit.
42
Per una informazione generale sui parchi-museo in Italia rimandiamo a A.
Massa, I parchi museo di scultura contemporanea, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1995; I
parchi museo di scultura contemporanea in Italia, numero speciale della rivista «Arte
Critica», 1997-98 (V), n. 14 a cura di R. Lambarelli.
43
Su Celle si veda il volume Arte ambientale. La collezione Gori nella Fattoria di Celle,
Umberto Allemandi & C., Milano 1993.
44
E. Crispolti, Campo del Sole, Mazzotta, Milano 1986.
45
Beardsley, Earthworks and Beyond cit., p. 107.
46
Ibid.
47
R. Smithson, Frederick Law Olmsted and the Dialectical Landscape, in «Artforum»,
1973, febbraio; poi anche in The Writings of Robert Smithson, cit. Di questo
atteggiamento di Smithson è rivelatore soprattutto il saggio The Monuments of
Passaic: Has Passaic Replaced Rome as the Eternal City?, in «Artforum», 1967,
dicembre.
48
S. Ross, Gardens, Earthworks, and Environmental Art, in Kemal, Gaskell,
Landscape, Natural Beauty, and the Arts, cit., p. 178.
Gli strumenti
Sulla storia del bello naturale
Non è facile indicare lavori di assieme sull’idea di bellezza naturale e sulla percezione
estetica della natura. Il volume di R. Troncon (a cura di), La Natura tra Oriente e
Occidente, Luni, Milano 1996, contiene una serie di saggi che ricostruiscono il percorso
dell’idea di bellezza naturale e di natura dall’Antichità al presente. Un saggio
complessivo, sintetico ma assai utile, è J. Zimmermann, Zur Geschichte des aesthetischen
Naturbegriffs, in Id. (a cura di), Das Naturbild des Menschen, Fink, München 1982; nel
volume, a cura sempre di Zimmermann, Aesthetik und Naturerfahrung, Frommann-
Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996, un’ampia sezione (pp. 129-353) è dedicata
all’evoluzione storica delle idee sulla bellezza naturale. Si può poi ricorrere a G. Tonelli,
C. Hufnagel, voce Naturschönheit, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J.
Ritter e K. Gründer, vol. VI, e alla voce Bellezza naturale in G. Carchia, P. D’Angelo,
Dizionario di estetica, Laterza, Roma-Bari 1999, a firma di P. D’Angelo. Un capitolo del
libro di P. Hadot, Il velo di Iside. Storia dell’idea di natura, Einaudi, Torino 2006, è dedicato
alla percezione estetica della natura. Spunti critici notevoli nel volume di G. Marrone,
Addio alla natura, Einaudi, Torino 2011.
Ormai invecchiati nell’impostazione, anche se ancora utilizzabili per il reperimento di
fonti, sono alcuni testi di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento sul
sentimento della natura: E. Secrétan, Du sentiment de la nature dans l’Antiquité romaine,
Bridel, Lausanne 1866; V. De Laprade, Le sentiment de la nature avant le christianisme,
Didier, Paris 1866; Id., Le sentiment de la nature chez les Modernes, Didier et Cie, Paris
1870; L. Friedländer, Über Entstehung und Entwicklung des Gefühls für das Romantische in der
Natur, Hirzel, Leipzig 1873; A. Biese, Die Entwicklung des Naturgefühls bei den Griechen,
Lipsius & Tischer, Kiel 1882; Id., Die Entwicklung des Naturgefühls bei den Römern, Lipsius
& Tischer, Kiel 1884; Id., Die Entwicklung des Naturgefühls im Mittelalter und in der Neuzeit,
Hirzel, Leipzig 1888; L. Pignatelli di Monteroduni, Saggio sul sentimento della natura,
Sandron, Palermo 1905; M. Epuy, Le sentiment de la nature, F.R. de Rudeval, Paris 1907;
D. Mornet, Le sentiment de la nature en France, de J.-J. Rousseau à B. de Saint-Pierre,
Hachette, Paris 1907; A. Dauzat, Le sentiment de la nature et son expression artistique, Alcan,
Paris 1914; H.R. Fairclough, Love of Nature among the Greeks and the Romans, Longman,
White Plains 1930; P.V. Tieghem, Le sentiment de la nature dans le préromantisme européen,
Nizet, Paris 1960; W. Flemming, Der Wandel des deutschen Naturgefühls vom 15. zum 18.
Jhdt., in «Deutsche Vierteljahresschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte»,
1931 (XVIII).
La prima parte del volume di M. Collot (a cura di), Les enjeux du paysage, Ousia,
Bruxelles 1997, ricostruisce l’atteggiamento delle varie epoche storiche nei confronti del
paesaggio mediante le opere letterarie, con due buoni saggi sull’antico e uno sul
Medioevo; si veda anche G. Traina, Ambiente e paesaggi di Roma antica, NIS, Firenze
1990; per la concezione della bellezza naturale nell’antichità romana si veda Regionis
forma pvlcherrima. Percezioni, lessico, categorie del paesaggio nella letteratura latina, a cura di G.
Baldo e E. Cazzuffi, Olschki, Firenze 2013; molto ricco iconograficamente il catalogo
della mostra Mito e natura. Dalla Grecia a Pompei, a cura di G. Sena Chiesa e A.
Pontrandolfo, Electa, Milano 2015; per il sorgere della distinzione tra bellezza naturale e
bellezza artistica si veda W. Perpeet, Das Kunstschöne. Sein Ursprung in der italienischen
Renaissance, Alber, Freiburg 1987; per i molteplici significati assunti dal principio
dell’imitazione della natura è ancora utile A. Lovejoy, Natura come norma estetica, in Id.
L’albero della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 105-14. Uno sguardo d’assieme ai
mutamenti nella percezione del bello naturale in A. Roger, Court traité du paysage,
Gallimard, Paris 1997; G. Bertone, Lo sguardo escluso. L’idea di paesaggio nella letteratura
occidentale, Interlinea, Novara 1999, ripercorre invece tali mutamenti attraverso le
letterature moderne, concentrandosi su alcuni autori privilegiati. Sulla percezione del
paesaggio nel Rinascimento: J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, a cura e
con un saggio di M. Venturi Ferriolo, Guerini, Milano 1994 (disponibile anche nella
trad. it. di T. Griffero in J. Ritter, Soggettività, Marietti, Genova 1997); una prospettiva
assai diversa in P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Garzanti,
Milano 1992. Sul sorgere del concetto moderno di paesaggio: J. Maderuelo, El paisaje.
Génesis de un concepto, Abada, Madrid 2005; R. Fechner, Natur als Landschaft. Zur
Entstehung der aesthetischen Landschaft, Lang, Frankfurt-New York 1986; M. Jakob, Le
origini tecnologiche del paesaggio, LetteraVentidue, Roma 2022. Sulla percezione della natura
e del paesaggio in Italia: C. De Seta (a cura di), Storia d’Italia. Annali, V: Il Paesaggio,
Einaudi, Torino 1982.
Per la storia della pittura di paesaggio, ovviamente, i rinvii potrebbero essere
numerosissimi. Ci limitiamo pertanto a segnalare alcuni testi che problematizzano il
rapporto tra pittura di paesaggio e percezione del paesaggio: M.J. Friedländer, Landscape,
Portrait, Still Life. Their Origin and Development, tr. ingl. Philosophical Library, New York
1949; K. Clark, Il paesaggio nell’arte, Garzanti, Milano 1962; G. Romano, Studi sul
paesaggio, Einaudi, Torino 1978; S. Alpers, Arte del descrivere, Bollati Boringhieri, Torino
1984; F. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli Italiani, Einaudi, Torino 1976; A.
Cauquelin, L’invention du paysage, Plon, Paris 1989; N. Schneider, Geschichte der
Landschaftsmalerei, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1999. Specificamente
sul rapporto tra pittura di paesaggio e paesaggio italiano è A. Ottani Cavina, Terre
senz’ombra. L’Italia dipinta, Adelphi, Milano 2015. Altre indicazioni si troveranno nella
sezione bibliografica dedicata al concetto di paesaggio.
Un’ampia ricostruzione della ‘scoperta’ moderna della natura selvaggia è il volume di
F. Brevini, L’invenzione della natura selvaggia. Storia di un’idea dal XVIII secolo a oggi, Bollati
Boringhieri, Torino 2013. Si veda anche R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti
alla natura selvaggia, Bompiani, Milano 2008. Il volume di R. e D. Groh, Weltbild und
Naturaneignung. Zur Kulturgeschichte der Natur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996, contiene
due saggi, uno sulla visione della natura propria della teleologia fisica, l’altro sulla
‘scoperta’ dell’alta montagna. Su quest’ultimo tema, un testo importante è M.H.
Nicolson, Mountain Gloom and Mountain Glory: The Development of the Aesthetics of the
Infinite, Cornell University Press, Ithaca, N.Y. 1959; nuova edizione (con una Premessa
di William Cronon): University of Washington Press, Seattle 1997.
Sempre su questo tema: F. Brevini, Simboli della montagna, Il Mulino, Bologna 2018;
C.E. Engel, La littérature alpestre en France et en Angleterre au XVIIIe et XIXe siècles, Dardel,
Chambéry 1930 (repertorio di descrizioni e impressioni alpine, poco interessante da un
punto di vista teorico); P. Joutard, L’invenzione del Monte Bianco, Einaudi, Torino 1993;
L. Stephen, Il terreno di gioco dell’Europa, Vivalda, Torino 1999. Sulla ‘scoperta’ estetica del
mare si veda invece A. Corbin, L’invenzione del mare, Marsilio, Venezia 1990.
Sul pittoresco e il suo influsso sulla percezione della bellezza naturale: A.
Pleşu, Pittoresco e malinconia. Un’analisi del sentimento della natura nella cultura
europea, ETS, Pisa 2018; T. Calvano, Viaggio nel Pittoresco, Donzelli, Roma
1996; W.J. Hipple, The Beautiful, the Sublime and the Picturesque in
Eighteenth-Century British Aesthetic Theory, Southern Illinois U.P.,
Carbondale 1957; C. Hussey, The Picturesque: Studies in a Point of View,
Putnam, London 1927; R. Milani, Il pittoresco, Laterza, Roma-Bari 1996.
Non possiamo dare qui una bibliografia sugli autori che abbiamo preso in esame (Kant,
Herder, Hegel ecc.), e rimandiamo perciò alle bibliografie specifiche. Segnaliamo però:
M. Seel, Kants Ethik der aesthetischen Natur, in Die Trennung von Natur und Geist, a cura di
R. Bubner, B. Gladigow, W. Haug, Fink, München 1990; G. Böhme, Kants Kritik der
Urteilskraft in neuer Sicht, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1999 (la Critica del Giudizio come
estetica della natura, in una prospettiva però fortemente discutibile); W. Riedel, Der
«Spaziergang». Aesthetik der Landschaft und Geschichtsphilosophie der Natur bei Schiller,
Königshausen & Neumann, Würzburg 1989 (sulla percezione della natura in Schiller);
D. Henrich, Kunst und Natur in der idealistischen Aesthetik, in H.R. Jauss (a cura di),
Nachahmung und Illusion, Fink, München 1964, 19832 (sulla bellezza naturale
nell’idealismo tedesco); per il Romanticismo rinviamo ai saggi contenuti in
Romanticismo: il nuovo sentimento della Natura, Electa, Milano 1993 e al volume a cura di P.
D’Angelo, La natura e il sacro. Studi sulla teoria romantica della pittura, Guerini, Milano
2000.
Per l’atteggiamento dell’arte della modernità nei confronti della natura è interessante il
saggio di H.R. Jauss, Kunst als Anti-Natur: zur aesthetischen Wende nach 1789, in Id.
Studien zum Epochenwandel der aesthetischen Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989;
specificamente sulla teoria del bello naturale in Adorno, infine, sono il volume di G.
Figal, Das Naturschöne als spekulative Gedankenfigur, Bouvier, Bonn 1977 e il saggio di N.
Schneider, Adornos Theorie des Naturschönen, in A. Berndt et al., Frankfurter Schule und
Kunstgeschichte, Reimer, Berlin 1992.
Su estetica ecologica ed estetica ambientale
Per un primo orientamento si può ricorrere alle voci Nature. Contemporary Thought in M.
Kelly (a cura di), Encyclopaedia of Aesthetics, Oxford University Press, New York-Oxford
1998, vol. III, Environmental Aesthetics in D. Cooper (a cura di), Companion to Aesthetics,
Blackwell, Cambridge (Mass.)-Oxford 1992, entrambe a firma di A. Carlson; alla voce
Aesthetics of Nature and Ethics, sempre nella Encyclopaedia of Aesthetics, vol. II, a firma di M.
Seel; a quella Estetica ambientale, in G. Gamba, G. Martignetti (a cura di), Dizionario
dell’ambiente, ISEDI, Milano 1995, e Ambientale, estetica, in G. Carchia, P. D’Angelo,
Dizionario di estetica, Laterza, Roma-Bari 1999, entrambe di P. D’Angelo. Una rassegna
di studi di estetica ambientale disponibile in italiano è P. D’Angelo, Il ritorno del bello
naturale, in «Cultura e Scuola», 1993, n. 125; si può vedere anche Id., Per una critica
dell’estetica ecologica, in R. Troncon (a cura di), La Natura tra Oriente e Occidente, Luni,
Milano 1996; e Id., Tra ecologia ed estetica, in Il Paesaggio dell’estetica. Teorie e percorsi, Atti del
III Convegno nazionale dell’Associazione Italiana Studi di Estetica, Trauben, Torino
1997. Il numero 4 della rivista «Quaderni di Estetica e di Critica», 1999-2000, è
interamente dedicato a Estetiche della Natura.
Relativamente limitati sono gli studi di estetica ambientale di autori italiani. Per gli
studi che si collocano nell’ambito della geofilosofia, rimandiamo alla sezione seguente,
contenente la bibliografia sul concetto di paesaggio. Segnaliamo quindi solo: M.
Gennari, Estetiche dell’ambiente. Linguaggi per l’educazione, SAGEP, Genova 1988; E.
Tiezzi, Il Capitombolo di Ulisse. Nuova scienza, estetica della natura, sviluppo sostenibile,
Feltrinelli, Milano 1991; Id. La bellezza e la scienza, Cortina, Milano 1998; G. Pizziolo,
Ecologia e… estetica, in E. Tiezzi (a cura di), Ecologia e..., Laterza, Roma-Bari 1995; M.
Di Monte (a cura di) Paesaggio, numero monografico della «Rivista di estetica», 2005, n.
2.
Più rilevanti sono invece i contributi dell’estetica ecologica tedesca: H.M. Schönherr,
Zwischen Dekoration und Wende der Rationalisierung. Thesen zum Verhältnis von ...kologie und
Aesthetik, in «Rivista di Estetica», 1986 (XXVI); P.C. Mayer-Tasch, Ein Netz für Ikarus.
Zur Wiedergewinnung der Einheit von Natur, Kultur und Leben, Goldmann, München 1987;
G. Böhme, Für eine ökologische Naturaesthetik, Suhrkamp, Franfurt a.M. 1989; Id.,
Natürlich Natur. Über Natur im Zeitalter ihrer technischen Reproduzierbarkeit, Suhrkamp,
Frankfurt a.M. 1992; V. Hösle, Philosophie der ökologischen Krise. Moskauer Vorträge, Beck,
München 1991; M. Seel, Eine Aesthetik der Natur, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991; M.
Seel, Aesthetische Argumente in der Ethik der Natur, in Id., Etisch-aesthetische Studien,
Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1996; J. Zimmermann (a cura di), Aesthetik und
Naturerfahrung, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996; O. Breidbach (a
cura di), Natur der Aesthetik/Aesthetik der Natur, Springer, Wien-New York 1997.
Ancora più numerosi gli scritti di estetica ambientale in lingua inglese. Per il contesto
filosofico in cui si vanno a inserire si può vedere R.W. Hepburn, Il declino dell’interesse per
la bellezza naturale nell’estetica contemporanea, in B. Williams, A. Montefiore, Filosofia
analitica inglese, trad. it. Lerici, Roma 1967, pp. 356, 358 e M. Mothersill, Beauty
Restored, Clarendon Press, Oxford 1984.
Segnaliamo innanzi tutto l’antologia di testi a cura di A. Carlson e A. Berleant, The
Aesthetics of Natural Environment, Broadview Press, Peterborough 2004, e il volume S.
Kemal, I. Gaskell (a cura di), Landscape, Natural Beauty and the Arts, Cambridge
University Press, Cambridge-New York 1993 e due numeri di rivista interamente
dedicati all’estetica ambientale: «Journal of Comparative Literature and Aesthetics», vol.
XIV, nn. 1-2, 1996 (Università di Jambalpur, India), e «Journal of Aesthetics and Art
Criticism», 1998 (LVI), n. 2, numero speciale: Environmental Aesthetics.
Molti gli scritti di A. Carlson: Appreciation and the Natural Environment, in «Journal of
Aesthetics and Art Criticism», 1979 (XXXVII), n. 3; Id., Nature, Aesthetic Judgement, and
Objectivity, ivi, 1981 (XL), n. 1; Id., Nature and positive Aesthetics, in «Environmental
Ethics», 1984 (VI), n. 1; Id., Appreciating Art and Appreciating Nature, in S. Kemal, I.
Gaskell, Landscape, Natural Beauty, and the Arts, Cambridge University Press,
Cambridge-New York 1993, pp. 199-227; Id., Nature, Aesthetic Appreciation, and
Knowledge, in «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 1995 (LIII), n. 4 (autunno),
pp. 393-400.
Segnaliamo ancora due raccolte di saggi: J.L. Nasar (a cura di), Environmental Aesthetics.
Theory, Research and Applications, Cambridge University Press, Cambridge-New York
1988 e B. Saddler, A. Carlson (a cura di), Environmental Aesthetics: Essays in Interpretation,
University of Victoria Press, Victoria 1982.
Di A. Berleant vanno visti: The Aesthetics of Environment, Temple University Press,
Philadelphia 1992; Id., Living in the Landscape: New Essays in Environmental Aesthetics,
University Press of Kansas, Lawrence 1997. Di E. Brady, Aesthetics of the Natural
Environment, The University of Alabama Press, Tuscaloosa 2003; di M. Budd, The
Aesthetic Appreciation of Nature, Clarendon Press, Oxford 2002.
Altri saggi muovono dalle opinioni di Carlson per criticarle o appoggiarle: N. Carrol,
On Being Moved by Nature: Between Religion and Natural History, in S. Kemal, I. Gaskell,
Landscape, Natural Beauty, and the Arts, Cambridge University Press, Cambridge-New
York 1993, pp. 244-66; Y. Saito, Is There a Correct Aesthetic Appreciation of Nature?, in
«The Journal of Aesthetic Education», 1994 (XVIII), pp. 35-46, e la replica di Carlson
Saito on the correct Aesthetic Appreciation of Nature, in «The Journal of Aesthetic Education»,
1996 (XX), pp. 85-93; sempre di Y. Saito, The Aesthetics of Unscenic Nature, in «The
Journal of Aesthetics and Art Criticism», 1998 (LVI), n. 2 (primavera), numero speciale
a cura di A. Berleant e A. Carlson, Environmental Aesthetics; E. Brady, Imagination and the
aesthetic Appreciation of Nature, ivi; Ch. Foster, The Narrative and the Ambient in
Environmental Aesthetics, ivi; M. Muelder Eaton, Fact and Fiction in the Aesthetic Appreciation
of Nature, ivi; Holmes Rolston III, Aesthetic Experience in Forests, ivi; dello stesso autore
anche Does Aesthetic Appreciation of Landscapes Need to Be Science-Based?, in «The British
Journal of Aesthetics», 1995 (XXXV), pp. 374-86. Per una discussione di questi scritti
rimandiamo a P. D’Angelo, Sul cosiddetto cognitivismo scientifico nell’estetica ambientale
contemporanea, in Id., Filosofia del paesaggio, Quodlibet, Macerata 2010, 20142.
Altri studi sull’estetica ambientale: R. Stecker, The Correct and the Appropriate in the
Appreciation of Nature, in «The British Journal of Aesthetics», 1997 (XXXVII), n. 4, pp.
393-402; S. Godlovitch, Icebreakers: Environmentalism and Natural Aesthetics, in «Journal of
Applied Philosophy», 1994 (XI), pp. 15-30; Y. Sepänmaa, The Beauty of Environment. A
General Model for Environmental Aesthetics, Suomalainen Tiedeakatemia, Helsinki 1986.
Segnaliamo infine che il volume tradotto in italiano di H.C. Hargrove, Fondamenti di
etica ambientale, Muzzio, Milano 1991, contiene molte argomentazioni rilevanti per
l’estetica della natura.
Sul concetto di paesaggio
La diversità degli approcci possibili alla nozione di paesaggio può essere attestata dal
Routledge Companion to Landscape Studies, a cura di P. Howard, I. Thompson, E.
Waterton e M. Atha, Routledge, London-New York 2019, oltre che dalla lettura di
alcune voci di dizionari di diverse discipline: R. Piepmeier, voce Landschaft in Historisches
Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V; Ch. Blanc-Pamard,
J.P. Raison, voce Paesaggio in Enciclopedia Einaudi, vol. X; P. Debernardi, voce Paesaggio
in G. Gamba, G. Martignetti (a cura di), Dizionario dell’ambiente, ISEDI, Milano 1995;
H. Rolston III, voce Landscape in M. Kelly (a cura di), Encyclopaedia of Aesthetics, Oxford
University Press, New York-Oxford 1998, vol. III; P. D’Angelo, voce Paesaggio in G.
Carchia, P. D’Angelo, Dizionario di estetica, Laterza, Roma-Bari 1999.
Per la storia del concetto di paesaggio, così come esso è stato inteso nella ricerca
geografica, un buon punto di avvio è costituito dal volume di M.C. Zerbi, Paesaggi della
geografia, Giappichelli, Torino 1993 (II ed. ampliata; la I ed. è del 1988), e in special
modo dal cap. II, Per una storia dell’idea di paesaggio in Italia. Si veda anche A. Berque,
Pensare il paesaggio, Mimesis, Milano 2022. Sui rapporti tra estetica e geografia, in
relazione al concetto di paesaggio: P: Furia, Estetica e geografia. Spazio, luogo, paesaggio,
Mimesis, Milano 2020; Id., Spaesamento. Esperienza estetico-geografica, Meltemi, Milano
2023; S. Aru e M. Tanca (a cura di), Convocare esperienza, immagini, narrazioni. Dare senso
al paesaggio, 2 voll., Mimesis, Milano 2015. Le principali tappe dell’evoluzione del
concetto geografico di paesaggio possono essere ricostruite attraverso: F. Porena, Il
‘paesaggio’ nella geografia, in «Bollettino della Società geografica italiana», 1892 (XXIX);
A. Toniolo, Compendio di geografia generale, Principato, Milano 19547; O. Marinelli,
Ancora sul concetto del paesaggio, in «Rivista di Geografia Didattica», 1917; R. Biasutti, Il
paesaggio terrestre, UTET, Torino 1947; A. Sestini, Il paesaggio antropogeografico come forma di
equilibrio, in «Bollettino della Società geografica italiana», 1947 (n.s. XII); Id., Il Paesaggio,
Touring Club Italiano, Milano 1963; L. Gambi, Critica ai concetti geografici di paesaggio
umano, in Id., Questioni di geografia, ESI, Napoli 1964; E. Turri, Semiologia del paesaggio
italiano, Longanesi, Milano 19902 (I ed. 1979); Id., Il paesaggio come teatro, Marsilio,
Venezia 1998; F. Farinelli, L’arguzia del paesaggio, in «Casabella», 1991, pp. 575-76; R.
Gambino, Conservare innovare. Paesaggio, ambiente, territorio, UTET, Torino 1997.
Segnaliamo solo alcuni scritti importanti di studiosi stranieri: H. Lehmann, M.
Schwind, C. Troll, H. Lützeler, L’anima del paesaggio tra estetica e geografia, a cura di L.
Bonesio e M. Schmidt di Friedberg, Mimesis, Milano 1999; G. Rougerie, Géographie des
paysages, PUF, Paris 1969; G. e S. Jellicoe, The Landscape of Man, Thames & Hudson,
London 1998.
Per il concetto di ‘ecologia del paesaggio’: R. Forman, N. Godron, Landscape Ecology,
Wiley & Sons, New York 1986; in italiano: C. Ferrari e G. Pezzi, L’ecologia del paesaggio,
Il Mulino, Bologna 2013; S. Pignatti, Ecologia del paesaggio, UTET, Torino 1993; L.
Finke, Introduzione all’ecologia del paesaggio, Angeli, Milano 1993; V. Ingegnoli, Fondamenti
di ecologia del paesaggio, Città Studi, Milano 1993; sul concetto ecologico del paesaggio si
veda H. Leser, Der ökologische Natur- und Landschaftsbegriff, in J. Zimmermann (a cura di),
Das Naturbild des Menschen, Fink, München 1982. La piena riducibilità del concetto di
paesaggio a quello di ambiente è sostenuta da V. Romani in Il Paesaggio. Teoria e
pianificazione, FrancoAngeli, Milano 1994.
Per il punto di vista della geofilosofia: L. Bonesio, La terra invisibile, Marcos y Marcos,
Milano 1993; M. Baldino, L. Bonesio, C. Resta, Geofilosofia, Lyasis, Sondrio 1996; L.
Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997; AA.VV., Orizzonti della
geofilosofia, a cura di L. Bonesio, Arianna Editrice, Casalecchio 2000.
Sul paesaggio dal punto di vista dell’estetica: G. Simmel, Filosofia del paesaggio, in Id., Il
volto e il ritratto, Il Mulino, Bologna 1985 (e si veda L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su
Simmel, Unicopli, Milano 1988); R.M. Rilke, Worpswede. I postimpressionisti tedeschi e la
pittura di paesaggio, Gallone, Milano 1998; E. Straus, Della differenza tra paesaggio e geografia
come differenza tra sentire e percepire, trad. it. di M. Carbone in S. Zecchi (a cura di), Estetica
1995, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 283-300; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica,
Giannini, Napoli 1973 (II ed. modificata, Novecento, Palermo 1993); Id., Il parterre e i
ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento, Novecento, Palermo 1984 e, sulla
concezione del paesaggio di Assunto: P. D’Angelo, Natura e storia nel Paesaggio di Assunto,
in A Rosario Assunto. In Memoriam, Aesthetica Pre-print, Palermo 1995; E.H. Gombrich,
La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio, in Id., Norma e forma. Studi sull’arte
del Rinascimento, Einaudi, Torino 1973, pp. 156-77; A. Roger, Nus et paysages. Essai sur la
fonction de l’art, Aubier, Paris 1978; F. Dagognet (a cura di), Mort du paysage? Philosophie et
esthétique du paysage, Champ Vallon, Seyssel 1982; J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura
nell’età moderna, Guerini, Milano 1994; W.J.T. Mitchell (a cura di), Landscape and Power,
The University of Chicago Press, Chicago-London 1994; Art et Paysage, numero
monografico di «Critique», 1995 (n. 577-578); R. Dubbini, Geografie dello sguardo.
Visione e paesaggio in età moderna, Einaudi, Torino 1994; M. Venturi Ferriolo, Giardino e
paesaggio dei romantici, Guerini e Associati, Milano 1998; Id., Etiche del paesaggio. Il progetto
del mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2022; Id., Percepire paesaggi. La potenza dello
sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2009; Estetica e paesaggio nell’età di Goethe, numero
speciale della rivista «Studi di Estetica», 1999 (XXVII), a cura di R. Milani; sempre di
Milani L’arte del paesaggio, Il Mulino, Bologna 2001; G. Carchia, Filosofia del paesaggio, in
«Quaderni di Estetica e Critica», 1999-2000; Genius loci, numero speciale della rivista
«Sensibilia», 2017, a cura di S. Pedone e M. Tedeschini. Infine, per un confronto con
l’idea cinese di paesaggio, F. Jullien, Vivre de paysage, Gallimard, Paris 2014.
Per la legislazione a tutela del paesaggio, le fonti si possono trovare in G.N. Carugno,
W. Mazzitti, C. Zucchelli, Codice dei beni ambientali, Giuffrè, Milano 1994; si veda poi A.
Predieri, voce Paesaggio in Enciclopedia del Diritto, Giuffrè, Milano 1981, vol. XXI; G.
Gambirasio, La protezione del paesaggio dalla legge n. 1497 del 1939 ai piani paesistici, in Il
paesaggio italiano del Novecento, Touring Club Italiano, Milano 1994; A. Cutrera,
L’evoluzione dell’ordinamento legislativo, in «Casabella», nn. 575-576, 1991; G. Miarelli
Mariani, Sviluppo, salvaguardia e tutela nel paesaggio, in C. Muscarà (a cura di), Piani, parchi,
paesaggi, Laterza, Roma-Bari 1995; P. D’Angelo, La legislazione italiana a tutela del
paesaggio, in M. Venturi Ferriolo (a cura di), La polifonia estetica, Atti del 2° Convegno
internazionale dell’Associazione Italiana per gli Studi di Estetica, Guerini e Associati,
Milano 1997; G. Proietti, Paesaggio e ambiente. I poteri della tutela, Gangemi, Roma 1997;
sul progetto europeo di una Convenzione del Paesaggio si veda M.R. Nappi (a cura di),
Il paesaggio culturale nelle strategie europee, Electa, Napoli 1998. Più recentemente: Culture
and Nature. International legislative texts referring to the safeguard of natural and cultural heritage,
a cura di C. Anon Feliu, Olschki, Firenze 2003; S. Settis, Paesaggio Costituzione Cemento,
Einaudi, Torino 2010; G.F. Cartei, Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio,
Il Mulino, Bologna 2007; G. Galasso, La tutela del paesaggio in Italia 1984-2005, ESI,
Napoli 2006; L. Piccioni, Il volto amato della patria. Il primo movimento per la protezione della
natura in Italia 1880-1934, Temi, Trento 2014.
Per la teoria antropologica o etologica del paesaggio il testo di riferimento è J.
Appleton, The Experience of Landscape, edizione rivista, John Wiley & Sons, Chichester-
New York 1996, che contiene una bibliografia degli scritti dell’autore e una bibliografia
di scritti sulla teoria del paesaggio; le tesi di Appleton sono discusse in S.C. Bourassa,
The Aesthetics of Landscape, Belhaven Press, London-New York 1991; si veda anche D.
Dutton, The Art Instinct, Bloomsbury Press, New York 2009.
Sul punto di vista etologico si veda anche: G.H. Orians, An ecological and evolutionary
approach to landscape Aesthetics, in E.C. Penning-Rowsell e D. Lowenthal (a cura di),
Landscape meanings and values, Allen and Unwin, London 1986; G.H. Orians e J.H.
Heerwagen, Evolved responses to Landscape, in J.H. Barkow, L. Cosmides, J. Tooby (a cura
di), The adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford
University Press, Oxford-New York 1992, pp. 555-80; I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia
umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, Bollati Boringhieri, Torino 1993, in
particolare il cap. IX, Il bello e il vero: il contributo dell’etologia all’estetica; K. Richter, Die
Herkunft des Schönen. Grundzüge der evolutionären Aesthetik, Philipp von Zabern, Mainz
1999, cap. VIII.
Segnaliamo infine alcuni testi del dibattito sul paesaggio, provenienti da punti di vista
differenti ma non avversi a una considerazione estetica del paesaggio stesso: V. Gregotti,
Il territorio dell’architettura, Feltrinelli, Milano 1993 (I ed. 1966: contiene un capitolo La
forma del territorio); M. Schmuda (a cura di), Landschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986;
A. Cauquelin, L’invention du paysage, Plon, Paris 1989; S. Kemal e I. Gaskell (a cura di),
Landscape, natural beauty and the arts, Cambridge University Press, Cambridge 1993; A.
Berque, M. Conan, P. Donadieu, B. Lassus, A. Roger, Cinq propositions pour une théorie
du paysage, Champ Vallon, Seyssel 1994; A. Berque, Les Raisons du Paysage. De la Chine
antique aux environnements de synthèse, Hazan, Paris 1995; A. Roger (a cura di), La théorie
du paysage en France, Champ Vallon, Seyssel 1995; C. Muscarà (a cura di), Piani, parchi,
paesaggi, Laterza, Roma-Bari 1995; S. Schama, Paesaggio e memoria, Mondadori, Milano
1997; A. Roger, Court traité du paysage, Gallimard, Paris 1997; R. Zorzi (a cura di), Il
paesaggio. Dalla percezione alla descrizione, Marsilio, Venezia 1999; G. Clément, Manifesto
del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2005; Id., Giardini, paesaggio e genio naturale,
Quodlibet, Macerata 2013; M. Desportes, Paesaggi in movimento, Quodlibet, Macerata
2008; F. Cuniberto, Paesaggi del regno, Neri Pozza, Vicenza 2017; A. Esch, Viaggio nei
paesaggi storici italiani, LEG, Gorizia 2020; G. Barbera, Conca d’oro, Sellerio, Palermo
2012; Id., Agrumi. Una storia del mondo, Il Saggiatore, Milano 2023; Id., Antropocene,
agricoltura e paesaggio, Aboca, Sansepolcro 2019; M. Jakob, Paesaggio e letteratura, Olschki,
Firenze 2006; Id., Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, Einaudi,
Torino 2014; P. Baldeschi, Paesaggio e territorio, Le Lettere, Firenze 2011; A. Carandini,
La forza del contesto, Laterza, Bari-Roma 2017; F. Cuniberto, Paesaggi del Regno, Neri
Pozza, Vicenza 2017; Id., Viaggio in Italia, Neri Pozza, Vicenza 2020; A. Magnaghi, Il
principio territoriale, Bollati Boringhieri, Torino 2020; S. Iovino, Paesaggio civile. Storie di
ambiente cultura e resistenza, Il Saggiatore, Milano 2022.
Sull’arte ambientale contemporanea
Sulle tendenze di arte nella natura sono da vedere innanzi tutto alcune opere di carattere
generale: A. Sonfist, Art in the Land. A Critical Anthology of Environmental Art, E. Dutton,
New York 1983; J. Beardsley, Earthworks and Beyond: Contemporary Art in the Landscape,
Abbeville Press, New York 1984; S. Cutts et al., The Unpainted Landscape, Coracle Press-
Scottish Arts Council, London-Edinburgh 1987; J.-M. Poinsot, L’atelier sans mur. Textes
1978-1980, Art Edition, Villeurbanne 1991; P. Werkner, Land Art U.S.A. Von den
Ursprüngen zu den Großraumprojekten in der Wüste, Prestel, München 1992; S. Ross,
Gardens, Earthworks, and Environmental Art, in S. Kemal, I. Gaskell, Landscape, Natural
Beauty, and the Arts, Cambridge University Press, Cambridge 1993; C. Garraud, L’idée
de nature dans l’art contemporain, Flammarion, Paris 1994; G. Tiberghien, Land Art,
Editions Carré, Paris 1995; V. Fagone, Art in Nature, Mazzotta, Milano 1996; J. Kastner,
B. Wallis, Land and Environmental Art, Phaidon, London 1998; B. Nemitz (a cura di),
Trans’ Plant. Living Vegetation in Contemporary Art, Hatje Cantz Publishers, New York
1999.
Per un inquadramento delle tendenze di arte ambientale nell’ambito dei movimenti di
arte contemporanea, si possono vedere, in italiano: A. Polveroni, Arte e paesaggio, in
«XXI Secolo. Enciclopedia Treccani del Terzo Millennio», vol. III, Gli spazi e le arti,
2010; F. Poli, Minimalismo, Arte Povera, Arte Concettuale, Laterza, Roma-Bari 1995; R.
Krauss, Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Bruno Mondadori, Milano
1998; in tedesco, è molto utile il saggio di J. Zimmermann, Konstellationen von bildender
Kunst und Natur im Wandel der ästhetischen Moderne, in G. Bien, T. Gil, J. Wilke, ‘Natur’ im
Umbruch. Zur Diskussion des Naturbegriffs in Philosophie, Naturwissenschaft und Kunsttheorie,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1994; da vedere anche U. Franke,
Emanzipation des Plastischen. Die Wende zur Natur bei C. Brancusi, H. Arp und H. Moore, e
S. Gronert, Die bilderlose Natur. Vom Wandel der Naturerfahrung in der Kunst der neueren
Moderne, entrambi in J. Zimmermann (a cura di), Aesthetik und Naturerfahrung,
Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1996.
Segnaliamo poi alcuni numeri speciali di riviste dedicati alla Land Art e all’arte
ambientale in genere: Earthworks: Past and Present, numero speciale di «Art Journal»,
1982, n. 3 (autunno); Art et Nature, numero speciale di «Ligeia», 1992, dicembre; Art and
Ecology, numero speciale della rivista «Art Journal», 1992, n. 2 (estate); infine, il numero
di dicembre di «L’Architecture d’aujourd’hui» contiene alcuni articoli sull’arte nella
natura. Altri saggi sull’arte ambientale: E.C. Baker, Artworks on the Land, in «Art in
America», 1976, gennaio-febbraio; K. Larson, The Expulsion from the Garden:
Environmental Sculpture at the Winter Olympics, in «Artforum», 1980 (con buone
osservazioni sulle difficoltà di rapporto col pubblico proprie di certa Land Art); J.
Leenhardt, L’activité artistique face à la Nature, in «Critique», 1995, n. 577-578 (giugno-
luglio); Ph. Urspung, Raus aus dem Museum? Zu den Freilichtausstellungen in den Schweiz in
den achtziger und frühen neunziger Jahren, in «Kunstdenkmäler», 1993, n. 44 (sull’outdoors
Art in Svizzera); G. Panza di Biumo, Natura, Land Art, ambiente, in «Lotus international»,
1994, n. 82; P. D’Angelo, Tra ecologia ed estetica, in Il paesaggio dell’estetica, Atti del III
Convegno nazionale della Associazione Italiana Studi di Estetica, Trauben, Torino 1997;
Id., Forme dell’arte ambientale, in «Quaderni di Estetica e di Critica», 1999-2000 (IV-V),
pp. 59-69; Id., Immagine contro natura, in AA.VV., Arte natura storicità, Luciano, Napoli
2000.
La natura della presente ricerca esclude una bibliografia anche solo indicativa sui singoli
artisti attivi nell’arte ambientale. Per un primo orientamento, rimandiamo alle
bibliografie che il lettore potrà trovare nei volumi di C. Garraud, G. Tiberghien, V.
Fagone e J. Kastner, B. Wallis, citati sopra.
Sui rapporti tra arte ambientale, architettura, paesaggio: C. Norberg-Schulz, Genius
Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano 1977; Architectura & Natura, Catalogo
della mostra omonima, Torino, Mole Antonelliana, aprile-luglio 1994, Mazzotta,
Milano 1994; P. Gregory, La dimensione paesaggistica dell’architettura nel progetto
contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1998; L. Benevolo, L’architettura nell’Italia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1998 (sul rapporto tra architettura e paesaggio
nell’Italia unita); U. Weilacher, Zwischen Landschaftsarchitektur und Land Art, Birkhäuser,
Basel-Berlin-Boston 1996. In particolare sull’architettura di paesaggio si può consultare
la rivista «Architettura del Paesaggio», organo ufficiale della Associazione italiana
architettura del paesaggio; e il volume A. Maniglio-Calcagno, Architettura del paesaggio.
Evoluzione storica, Calderini, Bologna 1983; G. Durbiano e M. Robiglio, Paesaggio e
architettura nell’Italia contemporanea, Donzelli, Roma 2003; A. Sampieri, Nel paesaggio. Il
progetto per la città negli ultimi vent’anni, Donzelli, Roma 2008; R. Koolhaas, Junkspace,
Quodlibet, Macerata 2006.
Segnaliamo alcuni pochi saggi sui problemi teorici dell’arte del giardino, rimandando
per una discussione di essi a P. D’Angelo, Giardino e paesaggio, in Id., Il paesaggio. Teorie,
storie, luoghi, Laterza, Bari.Roma 2021; R. Assunto, Ontologia e teleologia del giardino,
Guerini, Milano 1988; M. Venturi Ferriolo, Giardino e filosofia, Guerini, Milano 1992;
Id., Giardino e paesaggio dei romantici, Guerini, Milano 1998; C.A. Winner, Geschichte der
Gartentheorie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989; M. Zoppi, Storia del
giardino europeo, Laterza, Roma-Bari 1996; La Ville le Jardin la Mémoire, catalogo delle
esposizioni presso l’Accademia di Francia di Roma, Académie de France à Rome, Villa
Medici, 1998, 1999, 2000; G. Clément, Il giardino in movimento, Quodlibet, Macerata
2011; D.E. Cooper, Una filosofia dei giardini, Castelvecchi, Roma 2012; M. Venturi
Ferriolo, Oltre il giardino. Filosofia di paesaggio, Einaudi, Torino 2019.
Sui parchi-museo in Italia: A. Massa, I parchi-museo di scultura contemporanea in Italia,
Loggia de’ Lanzi, Firenze 1995; I parchi museo di scultura contemporanea in Italia, numero
speciale della rivista «Arte Critica», 1997-98 (V), n. 14, a cura di R. Lambarelli. Su Spazi
d’arte a Celle: arte ambientale. La collezione Gori nella Fattoria di Celle, Umberto Allemandi
& C., Milano 1993. Sul Giardino dei Tarocchi: A. Mazzanti (a cura di), Niki de Saint Phalle.
Il Giardino dei Tarocchi, Charta, Milano 1997. Sul Campo del Sole: E. Crispolti, Campo del
Sole, Mazzotta, Milano 1986. Su Fiumara d’arte: M.L. Crupi, Fiumara d’Arte in Sicilia:
arte, architettura, paesaggio, Quodlibet, Macerata 2022.
Un’acuta riflessione sulle difficoltà dell’arte ambientale è stata portata avanti, in Italia,
dal collettivo Flatform, che nel suo lavoro tematizza esplicitamente il ruolo del medium
filmico, fotografico o sonoro nel nostro rapporto con l’esperienza della natura e del
paesaggio (si veda Flatform. Films and Works 2008-2019, Silvana Editoriale, Milano 2019,
e Flatform. Storia di un albero, Silvana Editoriale, Milano 2020).
All’estero: J. Beardsley, A Landscape for Modern Sculpture. Storm King Art Center,
Abbeville Press, New York 1985; Sculpture in the Rijksmuseum Kröller-Müller, J. Enschedé,
Amsterdam 1992; il Crestet Centre d’Art di Vaison la Romaine (Francia), presieduto da
J. Leenhardt, pubblica con le edizioni Actes Sud, nella collezione «Art/Nature», una
serie «Travaux», che documenta le realizzazioni artistiche del Centro, e una «Actes», che
raccoglie testi dei seminari organizzati presso il Centro e opere legate alla tematica
generale dei rapporti arte-natura.