Docsity La Teoria Politica Di Marx 9
Docsity La Teoria Politica Di Marx 9
Prospero
Filosofia Politica
Università degli Studi di Roma La Sapienza (UNIROMA1)
197 pag.
24/02/2021
Il marxismo fino agli anni ’80 era una tendenza che occupava l’economia, la politica, la storia, la filosofia e
aveva un’infinità di corsi universitari dedicati al pensiero marxista.
Negli anni ’80 in Italia inizia la cosiddetta crisi del marxismo, processo avviato dal filosofo Lucio Colletti.
Dopo l’autocritica del filosofo prima marxista Lucio Colletti, il marxismo declinò fortemente come indirizzo
politico rilevante e nei primi anni ’80 inizia questa rimozione della prospettiva di Marx.
Nella metà degli anni ’70, un importante filosofo di matrice liberal-socialista Norberto Bobbio scrisse un
saggio partendo dalla domanda “Esiste o no una teoria marxista dello Stato?” La risposta che sollevava era
che in Marx non c’era una vera e propria teoria dello Stato, perché la preoccupazione di Marx era quella di
definire una critica dello Stato, delle forme giuridiche, più che un’interpretazione in termini positivi degli
apparati di dominio e di organizzazione del potere.
Il corso si propone di mostrare, invece, che nel pensiero di Marx esiste una ricostruibile indagine positiva
sugli istituti politici. L’ipotesi è che nelle opere di Marx, sebbene non sia presente una sistemazione
concettuale definitiva e organica sullo Stato si può tuttavia rintracciare il materiale che serve per costruire
un indirizzo politico capace di rendere conto della lettura marxiana del fenomeno politico.
Nelle carte di Marx “i Grundrisse" venne ritrovato, negli anni ’30, un indice in cui Marx delineava un
necessario libro sullo Stato e scriveva in dettaglio i capitoli e i paragrafi per scrivere un’opera sistematica e
coerente sulla forma dello Stato moderno, quel libro Marx non lo ha mai scritto. Un secondo indice, risale al
’58, venne ritrovato il quale vedeva Marx intenzionato a scrivere un’opera dedicata allo Stato e interrogarsi
sul rapporto tra Stato e mercato globale. (questi due indici sono presenti in Marx ma non ha dato seguito a
questo suo progetto di ricerca perché il suo itinerario scientifico lo indirizza prevalentemente su tematiche
di analisi della formazione economica-sociale)
Negli studi teorici più recenti questa possibilità di rintracciare un marxismo politico è ribadita da alcuni
indirizzi di pensiero, mentre in Italia il marxismo non esiste più ci sono pochissime figure che richiamano
alla teoria politica e sociale di Marx, in altri paesi il marxismo gode di una straordinaria fioritura, soprattutto
in paesi apparentemente lontani dalle problematiche di tipo marxista, come negli Stati Uniti, Canada,
Inghilterra.
Oggi negli orientamenti internazionali degli studi su Marx, si mostrano diversi indirizzi:
- MARXISMO ANALITICO, il cui principale autore è uno studioso Jon Elster, si proponevano di definire
un marxismo non da stupidi, cioè un marxismo rigoroso, analitico, attento alla logica formale
moderna e agli indirizzi più sofisticati della epistemologia. (Sul piano economico il principale
esponente di questa scuola è John Roemer e sul piano storiografico il principale esponente è
Cohen) Il marxismo analitico si preoccupa di allontanare tutta paccottiglia sul dialettismo, sul
materialismo dialettico per far dialogare Marx con la logica formale più attrezzata e più sofisticata
concettualmente.
C’è anche un marxismo delle scienze della comunicazione creato da un autore tedesco e inglese Christian
Fuchs che ha scritto libri molto importanti su una sociologia della comunicazione ricavata dalle teorie di
Marx. Ciò che manca nel marxismo internazionale è una scuola di pensiero che era molto importante in
Italia, inaugurata da un filosofo Galvano Della Volpe, di cui Lucio Colletti era un seguace.
Ancora oggi nel dibattito internazionale Lucio Colletti è il filosofo marxista italiano più citato e anche
Galvano Della Volpe è un punto di riferimento, anche un indubbio ostacolo alla penetrazione del suo
pensiero è dal tipo di linguaggio che utilizza, cioè una filosofia espressa con un periodare alla tedesca
complessa e molto difficile da rendere nelle lingue attuali, in inglesi e così via. Quindi Della Volpe sconta le
asperità del suo linguaggio perché è complesso, articolato pluri proposizionale e difficilmente accessibile.
Della Volpe ha avuto grandi meriti nella filosofia marxista. Approda al marxismo in età matura, era un
filosofo sui generis, cioè eccentrico rispetto alle tendenze dell’Italia degli anni ’30 e ’40, perché in quegli
anni dominavano le due scuole del Neoidealismo, Croce e Gentile che avevano un impianto idealistico,
metafisico che si ispirava alla dialettica hegeliana e quindi era ostile al sapere empirico.
Benedetto Croce svilupperà una dura polemica contro quelli che lui chiama gli pseudoconcetti, cioè le
scienze empiriche sociali.
Galvano Della Volpe parte da posizioni gentiliane, però scopre, tra i pochi in Italia in quegli anni,
l’importanza della filosofia inglese di Hume, il quale diventa il suo punto di riferimento e dal quale estrae
una filosofia di impianto anti-speculativo, anti-metafisica, anti-spiritualista, una filosofia integralmente laica
ed empirista.
Tra la scoperta di Marx che compirà nei primi anni 40 e le sue opere negli anni 30 dedicate alla filosofia
sperimentale di Hume, esiste un profondo collegamento. Della volpe ritiene che Marx più che un discepolo
di Hegel e della dialettica speculativa metafisica sia piuttosto un seguace di Hume e di Kant dal punto di
vista filosofico. Della Volpe intende sostenere che Marx sia un galileismo morale, cioè segue in campo
sociale, economico e politico lo stesso lavoro sviluppato da Galileo Galilei nel campo della ricerca fisico-
sperimentale.
Secondo Della Volpe Marx non è un seguace di Hegel e quindi della filosofia della metafisica ma elabora il
primo rigoroso tentativo di applicare il metodo scientifico dentro una lettura della società, dell’economia,
una lettura empirico critica della modernità. Da qui, secondo Della Volpe, la necessità di vedere in Marx i
veri punti di riferimento che sono Aristotele, come teoria logico-realistica, Galilei, come metodo empirico-
sperimentale, Hume in quanto secondo Della Volpe Hume è il primo a mettere in campo una filosofia della
morale e dell’etica, in questo solco si inserisce Marx sviluppando questa istanza humiana più o meno
consapevole fino a definire un Galileismo morale o metodo scientifico critico nel campo dell’economia,
della storia e della società.
Oltre a Hume, secondo Della Volpe in Marx, più che Hegel, è presente il Kant critico della metafisica e della
dialettica, e teorico della necessità di un sapere empirico, di una scienza della sintesi a priori cioè come
unità critica di eterogenei.
Kant, dunque, è il teorico, secondo Della Volpe, della positività: dell’elemento empirico, dell’esperienza,
della sensibilità. Secondo Della Volpe, Marx è inseribile entro questo filone: positività del sensibile,
dell’esperimento, del momento empirico.
In questo suo lavoro di reinterpretazione del pensiero di Marx, Della Volpe si avvale di un’opera postuma
Marx, scoperta soltanto nei primi anni ’30, che si intitola “La critica della filosofia hegeliana del diritto
pubblico”. Quest’opera giovanile fu letteralmente scoperta da Della Volpe, che la tradusse in italiano sul
finire degli anni ’40, e la indicò come la conferma della sua ipotesi di un Marx tutt’altro che dialettico ed
hegeliano, ma di un Marx critico, radicale, della dialettica hegeliana e filosofo interessato a criticare la
filosofia per approdare a un sapere di tipo empirico nel campo delle discipline politiche e giuridiche.
Della Volpe si associa, come filosofo marxista, a questa opera giovanile di Marx, che per Della Volpe è
l’opera più rilevante di Marx in campo epistemologico e in campo teorico-politico.
La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico è scritta da Marx, negli anni giovali tra i 23-24 anni, e
consiste nel prendere i lineamenti, il punto più avanzato, della filosofia del diritto di Hegel, che avevano
ancora una presenza significativa nella cultura dell’epoca (era l’opera politico-giuridico tra le più importante
nella cultura europea e tedesca), e vede di precisare un punto di vista critico. Quest’opera giovanile di Marx
è un insieme di quaderni, non pubblicati, destinati a un’opera sistematica mai compiuta.
Marx scrive i paragrafi dell’opera di Hegel, dedicata allo stato, e a seguito di ogni paragrafo sviluppa
considerazioni critiche molto penetranti che mostrano lo sforzo di questo giovane studioso di definire un
proprio punto di vista. Quest’opera prende, quindi, una misura critica nei confronti di Hegel ed è un’opera
che comprende al suo interno due opere distinte: un’opera teologica e un’opera politico-giuridica. Cioè
criticando la teoria dello Stato di Hegel e la filosofia del diritto, Marx mette insieme l’epistemologia e
indicazioni sul profilo della politica e del diritto.
1° è mostrare quello che Marx chiama, i vizi logici della scienza della logica di Hegel
2° mostrare come questi vizi logici poi abbiano delle ricadute nel campo della teoria politica del diritto.
La prima opera, che bisogna ricostruire nei suoi tasselli essenziali, è quella di Marx che critica la logica di
Hegel e quindi anche questo costituisce una smentita delle letture tradizionali del marxismo canonico,
secondo le quali Marx è un puro e semplice epigono di Hegel, è un seguace di Hegel e della sua dialettica.
Invece, se noi leggiamo alla luce delle interpretazioni di Della Volpe, Lucio Colletti, l’opera giovanile di Marx
vediamo che tutt’altro è l’impianto e il profilo teorico di Marx.
Secondo Marx, Hegel costruisce una logica metafisica, spiritualista. In questo Marx si riallaccia a un altro
filosofo del tempo, Ludwig Feuerbach, il quale aveva scritto che non era vero che Hegel fosse l’Aristotele
moderno o un razionalista critico. Secondo Feuerbach il razionalismo di Hegel era in realtà una variante
della teologia, è un razionalismo mistico perché attribuisce alla ragione un qualcosa di teologico, di
provvidenziale.
Seppur Feuerbach ha scoperto che il segreto della filosofia di Hegel è la teologia e che quindi in Hegel non
c’è un sapere critico razionale ma una sorta di misticismo di fondo; secondo Marx, in Hegel si ritrovano
antiche categorie medievali della mistica tedesca e quindi il suo involucro razionalista è soltanto apparente
perché, dietro una maschera della razionalità oggettiva, si nasconde un andamento che lo riconduce dal
misticismo di Eckhart (dirà Della Volpe), cioè al primato dell’unità mistica della ragione che ha nel mondo
reale un qualcosa di negativo.
Quindi, secondo Marx, Hegel ha questo volto teologico, individuato da Feuerbach, il quale Feuerbach ha
però, secondo Marx, un limite: non vede le implicazioni politiche, sociali della sua critica di Hegel e dunque
rimane entro un campo soltanto materialistico-naturalistico. Secondo Marx, inoltre, il limite principale di
Feuerbach è di rimanere in un campo prevalentemente teologico-critico, e quindi di sviluppare una critica
della religione in nome dell’ateismo; mentre, secondo Marx, l’ateismo non è un problema in positivo, una
risposta vera ai problemi della modernità, dunque, si presenta in Feuerbach un’accentuazione della
problematica religiosa, mentre quello che, secondo Marx, occorre fare è trasformare la critica del cielo
nella critica della terra, cioè di vedere le problematiche reali, sociali, e non di attribuire alla critica della
religione un primato come accade in Feuerbach. Secondo Marx, non è la polemica anti-religiosa il problema
da impostare, bensì di trasformare la critica religiosa in analisi positiva dei processi reali della modernità.
Dunque, Feuerbach è un punto di riferimento ma Marx si spinge molto oltre, perché il suo punto di analisi
non è quello di rimanere entro una polemica di tipo religiosa (ateismo contro religiosità) poiché a suo
parere l’ateismo è un punto che sta anch’esso entro un’ottica religiosa, quindi non in grado di risolvere le
questioni che più intende affrontare. Da questo punto di vista, l’intensione di Marx è di mostrare che la
critica di Hegel non ha necessariamente un esito di tipo feuerbachiano e quindi non approda a una critica
religiosa, ma evoca un passaggio all’analisi reale, empirica, dei fenomeni sociali moderni.
Il punto che, secondo Marx, bisogna individuare della filosofia hegeliana: Hegel parte attraverso
un’inversione del rapporto tra soggetto e predicato. Secondo Marx, Hegel fa dell’idea un soggetto. L’idea (o
la ragione) è l’elemento da cui si parte e da questo elemento della ragione come capacità produttiva, Hegel
ricava il mondo reale come appendice, conseguenza di un processo di auto-movimento della ragione.
Quindi, dice Marx, Hegel parte dal postulato secondo cui la ragione è l’inizio e la ragione attraverso processi
di differenziazione interni alla ragione stessa pone la differenza in negativo, cioè la natura, il mondo reale.
Dunque, in Hegel, il mondo reale è il mondo della negatività perché è il frutto di una differenziazione che
vede la ragione uscire da se stessa e produrre un’alterità. Il mondo è un oggetto che scaturisce da una
differenza logica intrinseca al pensiero. Secondo Marx, è proprio questo il problema: facendo della natura il
puro frutto della ragione che si scinde e introduce nella esteriorità, Hegel non riconosce la positività del
mondo.
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In Hegel, secondo Marx, si individua questo nodo concettuale: la non positività, la non autonomia, del
mondo, dell’empiria, della sensibilità. Questo è il punto che Marx intende rimarcare come prioritario e in
questo c’è un’eredità di Kant e di Aristotele.
Kant aveva distinto tra pensare e conoscere, diceva, pensare un oggetto non significa conoscerlo; e aveva
distinto tra ratio essendi e ratio cognoscendi. È vero che la ragione organizza il mondo reale con categorie,
con un lavoro astratto e definitorio, ma questo è, secondo Kant, ratio cognoscendi cioè la ragione come
forma, come sintesi, come lavoro critico classificatorio. Questo lavoro della ragione che opera con
categorie, con differenze, con tipologie astratte non ha, secondo Kant e Marx, una valenza ontologica, cioè
la ratio cognoscendi non è ratio essendi. La ratio essendi sarebbe, invece, quella che fa Hegel, la ragione è
produzione di cose non soltanto conoscenza di cose (in questo c’è la differenza tra Kant e Hegel e anche
l’eredità kantiana che si ripresenta in Marx).
Scrive Marx “la cosiddetta idea reale, lo spirito come spirito infinito, è rappresentata da Hegel come se
agisse secondo un principio determinato e per un’intenzione determinata, esso si scinde in sfere finite e lo fa
per ritornare in sé, per essere per sé, lo fa precisamente in modo che cioè è proprio com’è in realtà, è a
questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico panteistico”. Questo è il cuore della
critica di Marx a Hegel, cioè l’accuso di misticismo logico. Perché misticismo logico?
L’idea è che lo spirito ha una sorta di attitudine divina, lo spirito che crea le cose (ratio essendi); l’infinito
che non si limita a pensare le cose ma ha un’autentica forza materiale, per cui lo spirito pensando crea, lo
spirito concependo idee determina cose reali esterne alla ragione. Quindi l’attitudine del pensiero
hegeliano è quello di essere uno spirito che crea, di non essere soltanto ratio cognoscendi cioè la ragione
che con le categorie organizza i dati reali per conoscerli. Invece, secondo Marx in Hegel abbiamo una
ragione potenziata a ratio essendi, cioè a mostrare con il pensiero una mistica capacità di creare le cose,
come Dio con un atto spirituale crea il mondo, così la ragione hegeliana con pure procedure interne alla
ragione determina il mondo reale.
RATIO COGNOSCENDI: la ragione che con le categorie organizza i dati reali per conoscerli.
Il misticismo logico, di cui parla Marx come caratteristica della dialettica hegeliana, risiede nell’idea che la
ragione ha una potenza che crea il mondo, la ragione è come Dio, e quindi secondo Marx il misticismo di
Hegel consiste in questa venatura teologica del suo idealismo. Quindi, secondo Marx, Hegel è un pensatore
non logico-razionale ma mistico-speculativo, perché la sua ragione è una ragione che, senza contare sulla
positiva osservazione del mondo reale, ritiene che il mondo sia un prodotto della ragione stessa; cioè
secondo Marx la ratio essendi è l’attribuzione alla ragione di qualifiche che spettano, secondo la teologia,
soltanto alla divinità: soltanto un Dio creatore, attraverso un atto di volontà e di pensiero determina le cose
reali e le pone in essere. Secondo Marx, Hegel è la variante filosofica di questa creazione della ragione che,
pensando, pone in essere mentre, secondo Marx, la ragione, pensando, pensa soltanto, non crea l’oggetto;
l’oggetto è indipendente dalla ragione. In questo Marx si inserisce nel filone empiristico kantiano che
riconosce all’oggetto una sua autonoma positività.
Questo implica, secondo Marx, che in Hegel il mondo reale non ha un riconoscimento adeguato, essendo il
mondo reale nient’altro che il risultato di uno spirito, di un’idea, di una nozione di infinito che pone la
realtà per poi tornare di nuovo entro la ragione e pensare, così, di aver raggiunto la totalità delle condizioni,
l’unità di essere e di pensare, finito e infinito.
Il misticismo logico di Hegel, secondo Marx, ha questa ricaduta: il mondo reale non è che un’apparenza, il
mondo reale non è che un risultato. Il pensiero di Marx a questo riguardo è che il mondo reale è ciò che è
dato e quindi il pensiero, le categorie logiche, devono sforzarsi di penetrare nei rapporti, nelle relazioni,
nelle dinamiche del mondo reale; il pensiero però non le ha create, le leggi di funzionamento della realtà
sono state individuate dal pensiero ma il pensiero non crea il movimento reale. Il pensiero è soltanto un
chiarimento concettuale categoriale di cose che esistono (questo è il materialismo per Marx).
Il materialismo significa l’istanza logica per cui il mondo è un dato obiettivo; il mondo non è una produzione
del concetto. Il concetto è, invece, una possibilità di interpretare le cose; il concetto è la penetrazione dei
rapporti reali secondo un’ipotesi che poi bisogna sottoporre a verifica e controllo empirico per confermare
o smentire. Questo è il galileismo morale di Marx di cui parla Della Volpe: i concetti, le idee, sono semplici
ipotesi che servono per orientarsi nel mondo dell’esperienza e della realtà oggettiva.
Quindi, la differenza che Marx vede tra il suo impianto logico-epistemologico di tipo realistico-materialista
rispetto a quello di Hegel che è misticismo logico speculativo è che Hegel fa dello spirito, dell’idea, il
soggetto, quello da cui tutto parte e la realtà diventa soltanto il risultato di un’attività dello spirito; per
Marx, invece, il soggetto non è lo spirito ma è la realtà empirica. A questo riguardo, in quest’opera, Marx
recupera direttamente una parola-chiave di Aristotele: il sostrato (=ciò che resiste, ciò che è fondamento)
Per Marx, il sostrato è l’oggettività, il mondo reale, la materialità. Il carattere materiale del mondo obiettivo
e oggettivo è indicato da Marx attraverso questa categoria Aristotelica, il sostrato.
Il sostrato indica il nucleo fondamentale, questa realtà esistenziale che il pensiero può conoscere, ma non
può creare. Il sostrato è ciò che sfugge al pensiero perché è un dato oggettivo che resiste nella sua
indipendenza, individualità; il sostrato è l’irriducibilmente altro dal pensiero, è il fondamento reale
materiale per cui esiste una realtà oggettiva nella sua concretezza che il pensiero può conoscere e
descrivere ma non creare.
Per Hegel, invece, la realtà empirica, il dato sensibile, non costituisce il sostrato, ossia il fondamento
autonomo, ma questi elementi dati sono soltanto il risultato di un’attività dello spirito. In Hegel, dice Marx,
il rapporto tra spirito e materia, tra sostrato e categoria logica è invertito. Questa inversione consiste nel
fatto che ciò che esiste e che quindi viene postulato come un dato, un esistente, per Hegel non è che il
risultato di un processo di differenziazione che avviene dentro la ragione: la ragione da unità si scinde e
quindi incontra il mondo reale e poi, una volta attraversato il mondo reale, lo supera, lo annienta, per
ritornare ricca di nuove esperienze conoscitive nell’unità ricostruita. Per Marx, questo processo dialettico
(l’uno che si scinde per poi ricomporsi), questa idea hegeliana di totalità è la conferma del misticismo in
Hegel. Per Marx, Hegel lavora come un teologo, come un Dio che dall’uno individua i molti come un
prodotto dell’attività spirituale dell’uno.
Dunque, il primo momento da ricordare è il richiamo di Marx ad Aristotele e al concetto di sostrato, ossia
l’istanza che Marx trasforma del materialismo nella sociologia e nella filosofia. Il sostrato significa che il
mondo non lo crea il mio pensiero, ma è qualcosa da scoprire con una logica dell’indagine. Il pensiero
definisce soltanto la logica dell’indagine e procede per esperimenti e confutazioni, per tentativi ed errori.
Quindi, secondo Marx, Hegel va contestato alla luce di questa sterilità conoscitiva che secondo Marx è il
risultato della dialettica. In questo, Marx, si ricollega a Feuerbach, a Kant e di nuovo rispetto a Feuerbach
c’è un’altra contestazione che Marx acutamente, secondo Della Volpe, formula: mentre in Feuerbach la
critica a Hegel coincide con quella di Marx, cioè dell’inversione soggetto-predicato, del rapporto tra finito e
infinito, in Feuerbach mancava un elemento ulteriore che invece costituisce il punto di forza nuovo
dell’indagine di Marx ossia il fatto che secondo Marx in Hegel non ci sia soltanto questo rapporto rovesciato
tra soggetto e predicato, questo potenziamento della ragione da conoscenza a ontologia, cioè a ente reale
che produce cose, bensì in Hegel si nasconde, dal punto di vista logico, un qualcosa di molto più
interessante che Marx scopre e che mette al centro della sua critica alla logica hegeliana: non soltanto la
ragione cerca di prendere il posto del reale, ma Hegel che assume la realtà come negativa e il prodotto
soltanto della ragione, in realtà, non fa che recuperare la realtà che egli ha trasceso e posto come non
essere e assumerla come il contenuto della ragione stessa.
Secondo Marx, poiché la ragione in realtà non può produrre davvero le cose, la ragione prende le cose così
come sono, come si presentano nella nuda empiria. Però presumendo che queste cose siano state prodotte
dalla ragione, abbiamo in Hegel questa cosa che Marx chiama restaurazione acritica dell’empiria (è un
procedimento complesso dal punto di vista logico). La restaurazione acritica dell’empiria è ciò che distingue
la critica di Feuerbach da quella di Marx; l’aggiunta di Marx al rilievo di Feuerbach consiste nel processo di
restaurazione acritica dell’empiria, cioè la ragione dice di creare il mondo, ma siccome non è possibile
poiché il mondo è dato, questo mondo dato costituisce surrettiziamente il materiale reale su cui la ragione
definisce le sue categorie.
Questo mondo reale che Hegel assume non come altro positivamente distinto e provvisto di autonoma
determinazione, ma come una creazione dello spirito, come un percorso dell’idea infinita che tende a
creare e cose per poi riporle in sé. Dunque, questo mondo reale è presente in Hegel ma in maniera del tutto
trasfigurata, cioè secondo Marx, siccome la ragione non può creare da sé il mondo, assume quelle che
esistono e le spaccia per ragione, cioè per valori assoluti. Questo è quello che oggi si chiamerebbe la critica
della ideologia.
La critica della ideologia in Marx scaturisce dalla denuncia di un limite concettuale. In Hegel, Marx,
denuncia il seguace dell’autoritarismo prussiano, ma assume questo come il risultato di una scelta, cioè
Marx non critica Hegel per le sue simpatie al regime statalista prussiano (secondo Marx questa è la
conseguenza), ma secondo Marx, Hegel giunge a posizioni di assetto politico prussiano perché ha un vizio
logico: ha assunto per una procedura logica difettosa, il dato empirico come provvisto di ragione.
Il succo del ragionamento di Marx è che in Hegel la ragione e l’empiria, ossia il dato reale, perdono
entrambi la loro positività: la ragione viene esaltata come totalità delle condizioni, ma questa esaltazione,
questa volontà di potenza della ragione, questa attribuzione alla ragione di capacità infinite, solo in
apparenza, dice Marx, esalta davvero la ragione, perché si tratta di una ragione così potenziata da diventare
totalità e quindi tutto è nella ragione, diventa l’unità degli opposti ciò che caratterizza la ragione.
Marx, invece, eredita la logica aristotelica, perché a suo parere non si può rinunciare al principio di identità
e di non contraddizione perché questi elementi sono irrinunciabili strumenti di conoscenza della realtà e
delle condizioni reali. Dunque, la tesi secondo cui Marx è un pensatore dialettico che segue Hegel nella sua
ricerca di una logica non di tipo scientifico, non regge alla prova dei testi che mostra invece Marx
recuperare l’essenza della lezione aristotelica per portare avanti una logica positiva nel campo della politica
e della società. Secondo Marx, un dato reale non può prevedere simultaneamente opposte determinazioni
perché questo comporterebbe la violazione del principio logico individuato da Aristotele (il principio di non
contraddizione) che per Marx è essenziale.
25/02/2021
“La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”, si tratta di una lettura che esalta la componente
gnoseologica dell’opera, ossia quel tipo di filosofia che si interessa di teoria della conoscenza e quindi di
come impostare un valido discordo analitico, quali sono gli elementi che conducono a una conoscenza
verificabile e coerente.
Il problema gnoseologico può essere ricollegato a Kant, il quale ha impostato il problema dell’uso critico
della ragione e della necessità di mettere insieme elementi eterogenei, cioè l’aggiunta della sensibilità è
indispensabile a rendere produttivo l’esercizio del pensiero. È quindi Kant a lanciare la sfida di una
gnoseologia critica modellata sulla ricerca scientifica e sul contributo di Newton.
Marx si trova dentro questa tradizione, per cui imposta il problema filosofico non in maniera speculativo
metafisica ma in termini di gnoseologia (teoria della conoscenza), ciò implica che secondo Marx, dopo Kant,
dopo il tentativo di coniugare paradigma filosofico e metodo della scienza, la filosofia non ha più valore se
intesa come speculativa
Dunque Marx come critico della filosofia speculativa è interessato a trasformare le domande filosofiche in
costruzione di un metodo della ricerca in campo sociale, economico e politico. L’itinerario di Marx, in
quest’opera giovanile, è quello di rendere il paradigma scientifico come utilizzabile per chiarire i nodi dei
processi storico sociali della modernità.
La filosofia dunque interessa a Marx, non per una esercitazione speculativa e per inseguire una fondazione
metafisica, ma per lui la filosofia è un tipo di pensiero che deve essere utilizzato per non affidare alla
filosofia speculativa il compito di chiarire i processi politici e sociali reali. Marx intende, quindi, portare
avanti il trasferimento della gnoseologia critica dentro i campi del sapere politico; dunque la sua
gnoseologia è il tentativo di definire una teoria della conoscenza utilizzabile non più nel campo della natura
e della fisica, ma nel mondo storico sociale.
In quest’opera si pone il problema della “logica specifica dell’oggetto specifico”, ossia che se la logica e la
filosofia intendono avere un uso produttivo (conoscitivo), non devono generalizzare, ma si deve trattare di
una logica specifica e quindi diversa da quella di Hegel (il quale pretende che esista una logica generale
Per logica specifica Marx intende logica scientifica ovvero determinata riferita a specifici assetti e istituzioni,
per cui vuol dire costruire un sapere specialistico, specifico, non più di tipo filosofico e metafisico.
Si tratta quindi di una rottura con la tradizione filosofico speculativa e la pretesa di passare dalla metafisica
alla logica specifica, ossia sottoporre gli oggetti sociali, politici e giuridici ad un metodo critico, realistico,
scientifico.
In Hegel la dialettica era un procedimento a tre fasi, ovunque riscontrabili dalla natura alla società; per
Marx invece non esiste una tipologia di questo tipo, non è una conoscenza ma si tratta di una
manifestazione del tutto insufficiente e acritica, per cui con oggetto specifico Marx intende che non si può
costruire categorie assolute senza tempo, le categorie del pensiero devono essere specifiche, in quanto non
posso parlare dello Stato in generale confondendo nella categoria generale di Stato la polis, l’impero
Romano, le città medioevali e così via. La logica specifica vuol dire che la logica è riferibile soltanto ad un
oggetto specifico e quindi per Marx non esiste lo Stato in generale, esiste lo Stato antico e lo Stato
moderno, oggetti specifici.
Dunque questa logica specifica dell’oggetto specifico è il tentativo di Marx di definire un procedimento
conoscitivo critico e consapevole della determinatezza storica, in questo risiede il fondamento della critica
di Marx all’ideologia.
Infatti per Marx l’ideologia non è un mascheramento intenzionale di una posizione di classe inconfessabile,
bensì è il risultato di un cattivo procedimento analitico; e nella critica a Hegel, Marx individua quale sia
secondo lui il metodo sbagliato che conduce ad un esito ideologico; l’esito sbagliato che dipende da un
metodo che secondo Marx non soddisfa i canoni di un sapere empiricamente rigoroso.
Quindi, l’esito ideologico di Hegel, ossia le istituzioni presenti nella Prussia dell’800 intese come razionalità,
realizzazione dello spirito, non si spiega in maniera semplicistica. Hegel è il portavoce di un punto di vista
parziale e quindi le affermazioni che fa sullo Stato e sulla Costituzione sono dovute al fatto che debba
soddisfare una richiesta partigiana, di schieramento particolare; per Marx, Hegel, giunge ad un esito
ideologico, perché utilizza un metodo speculativo, metafisico, e non un metodo rigorosamente scientifico.
Il metodo speculativo, secondo Marx è quello di Hegel, che parte dall’inversione logica del rapporto
soggetto predicato. Soggetto e predicato sono i due termini classici della teoria della conoscenza e indicano
il rapporto tra il pensiero e l’esistenza, tra l’idea e la forma ideale; quindi, secondo il ragionamento di Marx,
Hegel inverte il rapporto tra pensiero ed esistenza.
Infatti per Marx il pensiero non produce le cose, ma le cose hanno una loro esistenza. Invece di partire da
questo livello di separazione tra pensiero e esistenza, per cui il pensiero viene dopo l’esistenza, non viene
prima il pensiero di un oggetto e poi la sua esistenza; Hegel fa del pensiero l’oggetto, e dell’oggetto reale il
predicato del pensiero, invertendo il rapporto che il senso comune suggerisce tra pensiero e cosa, e dunque
la cosa diventa la manifestazione del pensiero ed il pensiero diventa quindi l’evento creativo.
L’inversione di Hegel del rapporto tra soggetto e predicato culmina secondo Marx è il misticismo logico di
Hegel, perché il pensiero viene dotato di una facoltà creatrice (variante dell’intelletto intuitivo, cioè
intelletto che pensando intuisce e crea le cose), tutto ciò per Marx non è sostenibile alla luce di una diversa
impostazione del problema gnoseologico.
Attraverso Feuerbach, Marx si inserisce nella contestazione avviata da Kant del carattere ontologico del
pensiero; cioè il pensiero non produce l’esistenza, non ha forza esistenziale e dunque non ha una valenza
ontologica.
Per Kant e poi per Marx il pensiero ha una valenza gnoseologica conoscitiva, non ontologico creativa.
Questo significa la critica dell’inversione logica del rapporto tra soggetto e predicato che riconosce in Hegel.
Per Marx il rapporto giusto è opposto rispetto a quello formulato da Hegel:
Per Hegel il pensiero viene prima, la realtà è una conseguenza di un atto speculativo della ragione.
Per Marx la ragione, invece, viene dopo il mondo reale. Lo stesso pensiero è un prodotto della natura e
quindi è parte del mondo. Non esiste pensiero senza linguaggio e senza corpo, senza esistenza reale,
dunque il pensiero ha una facoltà conoscitiva, organizzativa, descrittiva ma non ontologico creativa. Questo
è il materialismo, ossia il pensiero, lo spirito, l’infinito (le varianti lessicali che utilizza) non producono il
mondo, la realtà, l’oggetto; la ragione non ha scopi, intenzioni autonome rispetto a quelli che poi la realtà
sociale le conferisce.
Mentre Hegel parte dal pensiero e fa della realtà il risultato del pensiero, e quindi la mistica sostanza
diventa il reale del soggetto; per Marx bisogna, invece, partire dal reale soggetto, il mondo reale, superare il
misticismo e considerare l’ente reale come il vero soggetto dell’infinito (questo è il materialismo di Marx)
Al contrario in Hegel l’infinito, la ragione crea, attraverso atti di differenziazione logica, il mondo finito;
l’infinito produce la finitezza, è visto come superiore e creativo rispetto all’empirico mondo materiale; per
Marx invece è opposto il modo di considerare le cose, l’ente reale va assunto come indipendente, come
altro dalla dimensione del pensiero.
In Marx vi è quindi una rivendicazione della positività del finito, cioè ha un’esistenza reale e non eliminabile.
Il finito è positivo vuol dire l’opposto rispetto alla tradizione filosofica che da Parmenide inizia a considerare
il finito come non essere; Hegel dice che il finto è il non essere che deve essere accantonato e superato
perché così facendo risplende l’infinito nella sua assolutezza.
Dunque nella filosofia di Hegel il finito compare per subito dileguarsi, cioè il mondo reale è un prodotto del
cammino dialettico dell’uno, ossia della ragione, la quale una volta delineatosi il mondo reale empirico deve
riconoscerlo come il non vero, il falso, il non essere e una volta operata questa demistificazione del reale la
ragione può, superando l’ostacolo del mondo reale che essa stessa ha posto, rientrare nell’unità originaria
degli opposti.
Tale procedimento viene contestato in radice da Marx, in nome della consistenza positiva del mondo reale.
Per Marx quello che per la filosofia Hegeliana rappresenta il non vero, è il vero essere:
Il mondo reale lungi dal configurarsi come era in Hegel come non essere, è il vero elemento fondativo, il
sostrato che non può essere l’idea ma ciò che è davvero tangibile è solo l’ente sociale.
Marx eredita la distinzione che Kant ha introdotto per primo, ossia la distinzione tra pensare e conoscere.
Kant dice che pensare un oggetto non significa conoscerlo, perché posso formulare giochi linguistici che
sono coerenti ma che non hanno un risvolto conoscitivo. Per avere conoscenza, secondo Kant, bisogna
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Secondo Marx la logica ha una funzione, ma non può essere una logica generale, astratta, indeterminata
perché questo tipo di cadenza indeterminata della logica non ha una capacità conoscitiva.
Per cui l’inversione soggetto-predicato di Hegel va corretta, attraverso una operazione logica che secondo
Marx svela il primato dell’ente sul pensiero, il carattere reale del mondo empirico che non è non essere,
falso, ma è dato empirico da cogliere con procedure mentali rigorose.
La conseguenza di questo ribaltamento del rapporto tra logica e esperienza, tra pensare ed essere, è che
Marx introduce una seconda dimensione, che lo distingue da Feuerbach e da Kant, la cosiddetta
“Interpolazione” o “surrettizia riassunzione dell’empiria”, che è la conseguenza del fatto che il pensiero può
soltanto pensare e non può creare, per cui quando dal puro pensiero si vuole ricavare qualcosa di riferibile
al mondo reale, questo avviene, per Marx, in una maniera logica viziosa.
Secondo il rilevo critico di Marx, Hegel incorre in questa aporìa (=problema le cui possibilità di soluzione
risultano annullate in partenza dalla contraddizione) da una parte intende operare soltanto entro le
categorie dello spirito, della logica pura, che attraverso il pensiero determina le cose.
Invece secondo Marx, questo itinerario hegeliano inciampa in alcuni inconvenienti, cioè quando Hegel dal
pensiero, dalla logica, deve passare a pronunciare qualcosa di significativamente riferibile all’oggetto
secondo Marx il procedimento di Hegel consiste nell’assumere in maniera non esplicita un mondo empirico
e presentarlo come il mondo del valore, della ragione.
Quindi da una parte Hegel intende rimanere dentro la cornice della ragione, la quale possiede un primato
assoluto, ma quando si tratta di delineare i contenuti reali della ragione Hegel pretende di crearli dalla
ragione stessa con una differenza logica; ma secondo Marx la differenza logica non produce le cose, non si
produce il movimento reale, per dire qualcosa sul movimento reale si deve necessariamente uscire dal
campo della ragione e consultare documenti, realtà, dunque avere un rapporto positivo con il mondo.
Hegel invece, secondo Marx, questo rapporto positivo con il mondo lo assume in una maniera interpolata,
in quanto parte dalla ragione come l’assoluto (che deve poi ritrovare la totalità delle condizioni), ma in
questo processo la ragione assume come ente di ragione proprio l’empirica realtà, quella che ha di fronte
storicamente.
Quindi secondo il rilievo di Marx il problema delle categorie hegeliane è che egli intende fornire categorie
generiche, indeterminate, riferibili alla ragione assoluta, senza tempo; poi però quando deve dare un corpo
alle manifestazioni logiche, questo corpo non potendo essere dei prodotti del pensiero, Hegel le deve
raccogliere osservando ciò che esiste.
Dunque il problema di Hegel, per Marx, è che spaccia la ragione per realtà e la realtà per ragione.
Secondo la visione di Marx questo ha un’accezione negativa, perché la ragione assume come sua
realizzazione una empiria, quindi l’ideologia in Hegel è la sua speculazione, ossia la sua interpolazione per
cui prima dice che la ragione produce le cose storiche (in quanto la ragione è produttiva), poi però siccome
la ragione non può produrre le cose, per dare un contenuto alla ragione, desume questi contenuti da ciò
che esiste, e quindi si parla di interpolazione di contenuti empirici che sono da Hegel colti non in quanto
realtà storica determinata ma come manifestazione del pensiero, come realizzazione dell’idea.
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Questa è l’ideologia non cogliere il mondo delle istituzioni prussiana, su cui Hegel ritaglia le categorie
politiche-giuridiche, non cogliere nella loro determinazione storica temporale, ma valorizzarle come
pensiero.
INTERPOLAZIONE: Operazione di recupero del reale, il quale viene prima denunciato come non vero in
quanto solo la ragione è quello che conta; dopo però questo reale empirico, dichiarato in un primo tempo
falso, diventa l’incarnazione massima del valoro e quindi è la restaurazione acritica dell’empiria, perché
Hegel questo tempo storico lo assume in maniera acritica, come contenuto della ragione; la ragione si
realizza in un empirico contenuto, quello storicamente rintracciabile nell’Europa e nella Prussia del 1800.
Questo secondo Marx è il risultato della logica speculativa Hegeliana, che fa della ragione la produttrice
degli istituti politici, i quali vengono promossi a enti di valore, di ragione: se l’organizzazione statale
Prussiana è prodotto spirituale, emanazione della ragione, non è possibile criticarne l’impianto in quanto la
regione non può essere sottoposta a dubbio (la ragione è il vero, Dio che scende nel mondo, dice Hegel)
Si ha quindi una divinizzazione degli istituti empirici che vengono considerati acriticamente. Gli istituti
prussiani o europei dell’epoca compaiono in Hegel, ma non criticamente, cioè assunti come un portato
storico politico di cui è possibile conoscere la genesi, le modalità di funzionamento, possibili processi di
trasformazione; per Hegel il tempo si è fermato perché la ragione ha fatto il suo ingresso nel mondo e
nell’universo spirituale germanico ha trovato il perfetto ordine.
Quindi secondo Marx l’ideologia di Hegel risiede nel fatto che la ragione si incarna nelle empiriche
istituzioni prussiane, le quali non sono nemmeno le più avanzate, più liberali dell’Europa, ma dissentono da
quello che Marx chiama la miseria tedesca, l’arretratezza storica della Germania.
Per Marx, la riesumazione acritica, surrettizia dell’empiria è il fatto che Hegel che parlava in nome
dell’assoluto e quindi di ciò che è eternamente vero, presenta come traccia di questo spirito che entra nel
mondo le istituzioni arcaiche della monarchia prussiana, in questo senso si può vedere come logica e
politica si intrecciano nel pensiero di Marx.
La logica serve per comprendere e criticare le organizzazioni politico istituzionali, quindi dal punto di vista
gnoseologico la logica specifica dell’oggetto specifico è, secondo Marx, l’antidoto rispetto alla filosofia
speculativa hegeliana che ha come sua inevitabile conseguenza la eternizzazione di istituti storici provvisori,
la Prussia è Dio che entra nel mondo, è la ragione che trova il suo definito compimento di un progetto dello
spirito. Secondo Marx tutto questo è ideologia, filosofia speculativa; bisogna invece impostare un sapere
storico critico, il quale richiede una diversa logica rispetto a quella hegeliana, una logica della scoperta
empirica.
In Hegel, Marx, non denuncia la vuotezza del pensiero, una carenza di realtà, ma una presenza strana della
realtà, l’interpolazione significa una realtà presa per quello che essa non è, trasfigurata. Quindi Hegel
presenta riferimenti al reale, ma questo reale non è descritto come una compagine storica relativa, ma è
valorizzato e assunto come l’indice di un’idea che si è fatta mondo, di una ragione che si è concretizzata nel
tempo storico.
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Infatti Marx assume un’ottica aristotelico-kantiana per quanto riguarda il problema della dialettica. Per
Hegel la dialettica era la pretesa di definire un’altra logica alternativa a quella ritenuta sterile e vuota,
quella del principio di non contraddizione. Hegel contrapponeva intelletto e ragione: l’intelletto si avvale
del principio di non contraddizione ed è uno pseudo sapere, la vera conoscenza delle cose si ha non con
l’intelletto empirico, ma con la ragione speculativa che supera il metodo realistico descrittivo proprio delle
scienze sociali empiriche e naturali. Per Hegel l’intelletto è un non vero dal punto di vista conoscitivo
perché la pienezza della verità si ha con la ragione e non con l’intelletto. Quindi la filosofia, la teologia sono
superiori al sapere intellettivo o scientifico qualitativo.
Da questo punto di vista Hegel ritiene che la non contraddizione sia una sterile categoria; la vera logica, la
dialettica, deve invece andare oltre al principio di identità e di non contraddizione e assumere la possibilità
di pensare la contraddizione e quindi progetta una logica alternativa rispetto a quella aristotelica messa sul
principio di identità e di non contraddizione.
Hegel sostiene la pensabilità di A e NON A sullo stesso oggetto sono possibili determinazioni
contraddittorie; pensare la contraddizione e superarla poi nell’unità speculativa della ragione. (questo è il
grande proposito hegeliano)
Secondo M questo proposito hegeliano, merita di essere smontato, perché bisogna raccogliere una
distinzione presente già in Aristotele e in Kant, in cui si distingue tra contrario e contraddittorio. Marx, in
quest’opera giovanile, separa la contraddizione logica dalla opposizione reale, e in questo vi è una eredità
Kantiana evidente, messa in luce dal filosofo italiano Lucio Colletti.
LA CONTRADDIZIONE LOGICA: è quella che è al centro della logica hegeliana, per Hegel A è uguale a NON A
e quindi sono compatibili. Pronunciare asserzioni contraddittorie è possibile perché la ragione ospita la
contraddizione ed è l’unità degli oppositi
Secondo Marx non si può ragionare in termini di A e NON A perché il NON A non è reale è il semplice NON
rispetto ad A e quindi la semplice opposizione logica di ciò che si è affermato precedentemente. A e NON A
quindi si azzerano perché il NON A non esiste, dire A e NON A sono uguali è dire sono e non sono allo stesso
tempo, questo per Hegel è possibile nella dialettica e per Marx no.
Per Marx il contrario non è il contraddittorio. Mentre il contradditorio non si pone, si annulla, perché dire A
e NON A riferito alla stessa cosa è un vizio logico insormontabile, la contraddizione non è pensabile, perché
dire cose opposte sulla stessa cosa annulla la pensabilità, A e NON A fanno 0, è lo 0 inteso come negazione
dell’asserzione di questo tipo; vi è un altro tipo di 0, dice Kant, come 3-3 fa 0, in questo caso lo 0 è un’entità
positiva e quindi pensabile.
Dunque, secondo Kant e poi secondo Marx la contraddizione non è pensabile perché si annulla: dire cose
opposte logicamente sula stessa entità reale è impossibile; mentre è possibile mostrare che nella realtà
fisica, politica, sociale, ci siano opposizioni reali.
LA CONTRADDIZIONE LOGICA: È dire a e non a allo stesso tempo, l’assoluto impensabile, l’indeterminatezza
estrema
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Dunque, secondo Marx, la contrapposizione non è pensabile mentre gli opposti reali sono pensabili perché
si tratta di estremi reali veri, che sono veri estremi, la contraddizione di Hegel non pone reali alternative,
uno solo dei protagonisti è vero, solo A è vero il NON A è solo riferito ad A e non assume nessuna
consistenza. Il vero punto di equilibrio tra le forze si ha tra forze opposte positive di cui una spinge in una
direzione e l’altra preme per andare nell’altra direzione.
Quello che ad Hegel sfugge è la positività di entrambi i protagonisti della opposizione. Mentre nella
contraddizione hegeliana i due partners sono diseguali per valore e statuto (solo A esiste; NON A è la pura
negazione di A e quindi non ha forza); l’opposizione riguarda A contro B, cioè enti, organizzazioni, forze reali
che combattono per prevalere, è una lotta irriducibile tra punti di vista opposti.
Anche in questo impianto logico affiora tutta la concezione realistica di Marx che intende guardare la
contraddizione non in termini hegeliani, ma nelle dinamiche di forze opposte, di tendenze contrastanti che
possono trovare squilibri ed equilibri ma senza che ci sia una necessità, tutto dipende dai rapporti, dalla
contingenza (condizione molto diversa da quella della tradizione degli hegelo-marxisti).
03/03/2021
Negli anni ’30 due filosofi, Popper e Kelsen, hanno insistito per denunciare il carattere non scientifico
dell’opera di Marx. Secondo i due filosofi, Marx ha un impianto teorico di tipo dialettico e scambia contrasti
reali presenti nella società per contraddizioni logiche o dialettiche; secondo Kelsen e Popper, però, non c’è
compatibilità alcuna tra una logica di tipo dialettico che adotta principio di contraddizione come possibile e
il principio della scienza che invece adotta un paradigma che esclude incongruenze formali e aporie logiche.
Dunque, dialettica contro metodo della scienza; il metodo della scienza non sopporta procedure ambigue,
formulazioni che sfuggono al requisito della coerenza logica.
La loro critica sarà ripresa poi negli anni ’80 in Italia da Lucio Colletti, che proprio riscontrando questa
confusione in Marx tra opposizione reale e contraddizione logica abbondona il marxismo e approda a una
visione molto critica verso la tradizione marxista e in augura in Italia la crisi del marxismo.
In Marx è effettivamente presente questa confusione tra opposizione reale e contraddizione logica ma sia
Popper che Kelsen non hanno mai citato l’opera giovanile di Marx “Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico” che invece mostra un’altra prospettiva teorica, cioè non solo Marx ha presente la
differenza tra contraddizione e opposizione ma utilizza tale distinzione per prendere le distanze da Hegel.
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Dunque Marx critica la dialettica hegeliana perché ritiene che il principio di non contraddizione sia
indispensabile per una visione realistica delle cose. È proprio contestando Hegel che ritiene inoltre che il
materialismo sia incompatibile con la dialettica, perché in quest’opera Marx fonda il principio di non
contraddizione attraverso il richiamo alla concezione aristotelica di “sostrato” o ente reale.
Il sostrato è quella sostanza individuale, la quale ospita i contrari ma non la contraddizione, e quindi il
sostrato è la condizione materiale reale a cui si può riferire un ragionamento corretto che esclude la
contraddizione. Il sostrato reale è ciò che rende un corpo coerente, autonomo, funzionale escludendo
dunque la compresenza di opposti contradditori. Al contrario Hegel ritiene che la contraddizione sia la
caratteristica della realtà, e dunque che l’infinito è falso, che le cose sono e non sono; invece per Marx la
lezione logica aristotelica implica la impossibilità di definire una cosa come è e non è, in quanto ciò esclude
la coerenza non soltanto del ragionamento, ma anche il dato istruttivo del sostrato (l’ente reale è ciò che è
e quindi non si può dire che un ente è e non è).
Dunque, il materialismo per Marx è associato alla non contraddizione dell’ente reale, ossia ciò che è dato, e
quindi essendo il dato da dove parte la conoscenza, non si può dire che il dato c’è e non c’è, poiché
altrimenti è impossibile qualsiasi ragionamento provvisto di significato. Marx tiene presente la lezione
kantiana (ossia il primo che afferma che una cosa non può essere A e NON A al tempo stesso, esempio dello
scendere e del salire, i quali sono due fenomeni opposti, ma non si può dire che il scendere è il non salire,
dunque il salire e lo scendere sono due cose eterogenee, sono due movimenti possibili; ciò implica che uno
stesso fenomeno può essere sottoposto a forze eterogenee , una che spinge in una direzione, l’altra che
aziona dispositivi in senso contrario, e il risultato è un equilibrio o un movimento dato in base ad una
prevalenza di una spinta su un altro), secondo Marx, gli estremi reali non possono essere affrontati come fa
Hegel, cioè sottoposti ad un procedimento di mediazione apparente; secondo Marx, la mediazione è un
qualcosa di non plausibile, perché la mediazione in Hegel è semplicemente ricorrere al rapporto A e NON A,
A come NON A lo toglie e ritorna in se stessa attraverso questa mediazione apparente.
Secondo Marx questa mediazione apparente è propria di una speculazione dialettica ma nulla ha a che fare
con la esplicazione positiva dei fenomeni reali. La conseguenza di una dialettica hegeliana per Marx è che gli
opposti sono finti opposti. In Hegel le parti in causa, sono contraddittori ma non opposti reali e quindi si
tolgono e si eliminano con molta facilità, perché l’uno è il semplice NON dell’altro, e quindi soltanto uno dei
termini, ossia quello iniziale, è il vero punto di riferimento. Questo consente ad Hegel di pensare all’unità
della contraddizione, alla ricomposizione nella totalità che secondo lui supera la contraddizione attraverso
l’unità degli opposti. A giudizio di Marx, si tratta di un procedimento logicamente insostenibile
contraddittorio che non produce conoscenza effettiva dei processi. Opposti reali sono eterogenei, estremi
che non si chiedono l’un l’altro e che quindi sviluppano istanze tra le quali esiste battaglia esplicita.
L’opposizione reale secondo Marx è la presenza di interessi tra i loro antagonisti e queste polarizzazioni non
sono polarizzazioni dialettiche che saltano improvvisamente per raggiungere l’unità già presupposta.
Mentre in Hegel l’unità è presupposta perché il cammino della dialettica vede tesi, antitesi e sintesi in un
processo lineare di assorbimento della differenza; secondo la visione di Marx l’esito non è scontato, perché
gli opposti “se le danno di santa ragione”, cioè è una battaglia tra contraddittori reali, tra opposizioni che
non si risparmiano nella lotta reciproca, ognuno degli elementi tenta di vincere, di avere forza sufficiente
per condurre in porto un’istanza, una ragione, un qualsiasi momento di successo.
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Sempre sul principio di contraddizione e di dialettica, esclusa la contraddizione dialettica come qualcosa di
utile per la conoscenza e l’analisi del tempo storico presente, Marx solleva un’altra questione: non esistono
contraddizioni reali ma esistono credenze contraddittorie”.
Quindi come si imposta il problema per cui un soggetto crede a cose incoerenti tra loro? Si tratta di un tema
al centro della sociologia di Pareto (le azioni logiche e le azioni non logiche), parliamo del fatto che nella
coscienza del soggetto possano essere presenti credenze non logiche e anche contraddizioni, dal punto di
vista della coerenza tar gli enunciati.
Secondo Marx la contraddizione non è un principio della realtà e può avere due risvolti:
- Una contraddizione logica che si annulla e quindi, nel campo della conoscenza, un giudizio dimostrato
contraddittorio è invalidato come insostenibile. In questo caso si tratta di un lavoro analitico critico: se un
pensatore dimostra che un teorema, un assioma è contraddittorio, viola il principio di non contraddizione
questo principio viene smontato e si deve ricorrere a un diverso ragionamento per cercare di fondare su
basi diverse un enunciato, un teorema.
- Nel campo delle credenze pratiche (azioni collettive), invece, questo meccanismo non regge. Dunque non
basta la dimostrazione della contraddizione per far cambiare idea al soggetto, in quanto il campo delle
credenze collettive sfugge alla padronanza del principio logico, esiste nel mondo reale, nel campo delle
credenze un qualcosa che sfugge alla confutazione logica. Per cui nel campo pratico, della politica, della
società le contraddizioni sono un qualcosa che si presentano nel cervello degli uomini.
Marx fornisce una chiave per affrontare questo problema, scrive: “Esiste una critica dogmatica che lotta con
un soggetto come una volta si eliminava il dogma della santa trinità per la contraddizione di uno e tre. La
vera cristica invece mostra l’intima genesi della santa trinità nel cervello umano, descrive il suo atto di
nascita e spiega questo fenomeno contraddittorio”.
Marx pensa che dinanzi al principio della santa trinità la critica dogmatica (non è possibile che uno sia
essere padre, figlio e spirito santo, tutto questo viola il principio di non contraddizione) è insufficiente,
poiché comunque tale concezione (principio della trinità), anche se logicamente contraddittorio, è presente
comunque nella coscienza collettiva e individuale, come fenomeni di conoscenza. Quindi qui non vale il
principio di identità e di non contraddizione, occorre una sorta di spiegazione critico-genetica, una
sociologia della contraddizione, vale a dire spiegare come la credenza della trinità sia diventata un dogma, e
quindi come una contraddizione diventi un fatto di coscienza, ciò implica un lavoro critico che scavalca la
pura questione logica.
Quindi il comportamento degli attori può anche seguire contraddizioni, la contraddizione non esiste nella
realtà ma esiste nell’opinione che un soggetto nutre rispetto a un fenomeno, Marx parla di “falsità
esistente”, cioè un qualcosa di fallace dal punto di vista logico analitico può comunque motivare i
comportamenti reali e legittimare i poteri.
Solo con il principio di non contraddizione si riesce a comprendere la genesi delle credenze, quindi il
principio di non contraddizione è il metodo del sapere critico-genetico, invece le credenze possono sfuggire
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Marx, dunque, non accetta il principio di spiegazione dialettica e cerca di fornire una base logica rigorosa
alle indagini suoi processi politici e sociali. Ora vediamo in cosa Marx vede possibile dal passaggio dalla
critica logica del meccanismo filosofico hegeliano all’indagine positiva delle istituzioni moderne.
Marx compie un processo di ‘traduzione’ in termini politici delle categorie logiche. La categoria logica
hegeliana di idea, spirito, diventa l’equivalente del concetto di Stato.
Infatti Hegel dice che lo Stato è un’idea e da questa idea scaturisce la società civile, come l’opposto dello
Stato; per Marx questo procedimento è vizioso, in quanto è la traduzione dei suoi principi logici dialettici
nel campo della politica.
L’approccio di Hegel, secondo Marx, vuole fare “la cosa della logica”, cioè la cosa reale, la politica reale, è il
risultato di un procedimento logico attraverso il quale l’idea si differenzia e quindi lo Stato crea l’opposto: la
società civile. Mentre Marx dice che non bisogna dare la cosa della logica ma fornire una “logica della cosa”,
cioè bisogna assumere come un dato empirico le istituzioni e vederne l’evoluzione, è quello che appunto
viene chiamato da Marx “la logica della cosa”. In Hegel, dice Marx, è solamente “la cosa della logica” cioè il
reale mondo istituzionale è visto come un risultato di un processo logico, è la logica che crea le istituzioni
statali, ed è lo Stato, inteso come idea, che entra negli assetti empirici e assume un particolare momento di
realizzazione (‘cosa della logica’, è la logica che crea le istituzioni statali), per Marx invece bisogna assumere
come dato empirico le istituzioni e vederne la genesi (‘logica della cosa’). Secondo Marx in Hegel esiste una
empiria trasfigurata, la cosa in Hegel compare come una differenza dell’idea e quindi non viene assunta
come cosa in sé sussistente; la cosa è un’appendice del pensiero e quindi a giudizio di Marx manca ogni
consistenza positiva dell’oggetto sociale e politico.
Lo sforzo analitico compiuto da Marx consiste nel tratteggiare il percorso di una scienza empirica che
assume la cosa e questa cosa o sistema istituzionale viene spiegato attraverso una categoria interpretativa
coerente.
Questo dunque evoca una contrapposizione, la cosa della logica e la logica della cosa, la cosa della logica
significa per M che in H vi è, quella che lo stesso M definisce “idea hegeliana ipostatizzata”, ossia la
credenza per cui l’idea produca le cose, la logica abbia immediate conseguenze nel mondo reale.
Dunque, la ipostatizzazione significa che le idee si traducano in fatti; per Marx questa idea ipostatica è un
misticismo logico, un qualcosa di non sostenibile. Per cui Marx passa dall’idea hegeliana ipostatizzata (ossia
l’idea che si traduce in cosa, la logica che diventa Stato) ad una concezione differente: l’idea non è una cosa
ma è solo una categoria mentale con la quale comprendere la cosa.
In Hegel l’idea è ipostatizzazione in cui lo Stato è un’idea che si oggettivizza (è l’idea che diventa
istituzione); secondo Marx l’idea non è la ragione che entra nel mondo e che crea con un atto del pensiero
le istituzioni, ma le idee in Marx sono categorie logiche attraverso le quali si può comprendere una
compagine istituzionale, si può definire una logica della cosa, quindi le cose, le forme politiche, hanno una
consistenza in sé autonoma, le idee servono non per presupporre una creazione immediata delle cose, degli
istituti politici, ma sono delle categorie con le quali si possono comprendere tali istituti.
Occorre quindi, secondo Marx, operare questa discontinuità critica: bisogna presuppore nel campo politico
e giuridico quello che nella logica veniva chiamato il “sostrato”, cioè l’ente reale è ciò che esiste che è
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In Marx la critica della logica hegeliana serve per condurre anche una critica della politica hegeliana, nel
senso che alla nozione di idea, ragione, infinito, corrisponde quella di Stato e alla nozione di empiria,
sensibilità, finitezza corrisponde quella di società civile (Stato Società civile; Idea Realtà). Quindi le
stesse cose che Hegel ha sostenuto riguardo il primato dell’idea sul mondo empirico, sulla cosa reale, tra
essere e non essere, le argomenta anche a proposito dello Stato. Marx cita il paragrafo 263 dei “Lineamenti
di filosofia del diritto” di Hegel dal quale si ricava questa stretta connessione tra procedimento logico e
fondazione degli istituti politici.
Hegel sostiene che lo Stato è l’idea che ha un potere, una supremazia, è una necessità esterna che domina
su tutte le sfere del reale, le quali però rispetto a questa necessità esterna si trovano in una situazione di
dipendenza ma allo stesso tempo devono assumere lo Stato come loro scopo. Qui è evidente il problema
che Marx sollevava sul piano logico: in Hegel esiste un dialettismo, i momenti della sua riflessione non sono
dotati degli stessi poteri, quindi lo Stato è l’idea, la ragione, mentre la società civile è invece l’empiria, il
cattivo mondo delle cose sensibili.
È, quindi, evidente, secondo Marx, il vizio logico di Hegel perché lo Stato da una parte è una necessità
esterna, quindi separato dalla società civile, è un potere superiore, è un’entità politica coercitiva, estranea
rispetto al mondo empirico della società civile e però, posto lo Stato come necessità esterna quindi come
dominio, allo stesso tempo, secondo Hegel, la società civile ha nello Stato lo scopo della società civile (lo
scopo della società civile è lo Stato). Marx imputa ad Hegel queste problematiche logiche e poi sostanziali,
solo lo Stato è in verità il soggetto perché la società civile trova, non in sé stessa, ma nello Stato medesimo
il suo scopo.
Quindi per Marx, Hegel ricorre a questo problema: da una parte dice che Stato e Società civile sono gli
estremi, sono due entità (Marx riconosce a Hegel questo merito di aver colto la differenza moderna tra
Stato e Società civile), ma dopo aver posto Stato e Società civile come eterogenee, condizioni tra loro
distinte, mentre lo Stato è dominio (ha tutta la completezza di attribuzioni), la Società civile si rivela il “non
Stato” e quindi non ha un’autonoma configurazione.
In Hegel non vi è un’opposizione reale tra Stato e Società civile in quanto stato è A e società civile è NON A,
quindi secondaria, perché il vero motore, l’unico attore, del processo è lo Stato come idea. Secondo Marx è
evidente questo vizio logico hegeliano: la società civile è posta ma subito cancellata, perché se la società
civile fosse davvero un estremo reale non avrebbe come proprio scopo quello dello Stato, indicato da Hegel
come fine della società civile. Quindi per Marx, gli eterogenei in Hegel sono due contendenti falsi, non vi è
una battaglia vera tra Stato e Società civile in quanto la società civile è già invocata per soccombere allo
Stato.
La caratteristica, in Hegel, è che non si può vivere nella differenza, nella contraddizione, ma la
contraddizione va superata e l’elemento di contraddizione nella logica è la realtà sensibile, la cosa empirica,
mentre nello Stato è la Società civile. La società civile va rimossa per far trionfare l’unità della ragione che lo
Stato istituzionalizza nelle sue istituzioni politiche.
Marx riconosce ad Hegel di essere il primo teorico ad aver compreso che lo Stato è un organismo, che la
politica è un sistema; riconosce ad Hegel il merito teorico di aver delineato una visione unitaria di sistema e
quindi di non essersi accontentato di descrizioni superficiali. L’idea di organismo, o di sistema è una
acquisizione importante che Marx recupera da Hegel ma con una differenza: in Hegel la nozione di
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Anche Marx, dunque, fa ricorso al concetto di organismo o di sistema. Il sistema è una costruzione logica, è
il pensiero che definisce i contorni di una unità ma questa unità, mentre in Hegel cancella le differenze
empiriche, in Marx è costruita sulle differenze empiriche (questa è la sostanziale discontinuità). In Hegel
l’organismo è una totalità delle condizioni spirituali; in Marx il sistema è un apparato logico funzionale che
serve per cogliere un momento di connessione.
Marx, in quest’opera giovanile, ipotizza che la modernità sia un sistema che ricomprende differenti
momenti: lo Stato, la società civile, i rapporti economici, la cultura, le ideologie, il diritto. Quindi in Marx il
sistema è una composizione logica che rinvia a enti reali, i quali vanno ricompresi nella loro connessione
reciproca, cioè in quest’opera giovanile di Marx affiora l’istanza di una sociologia dello Stato, vale a dire lo
Stato è l’oggetto di un’indagine che lo connette alla società, all’economia, al diritto, alla cultura e quindi è
una nozione unitaria. Il moderno è un sistema unitario di elementi differenziati, cioè il moderno vede la
compresenza di molteplici aspetti di cui Marx segna la distinzione ma al tempo stesso l’interdipendenza, le
parti sono autonome ma anche interconnesse, nessun elemento è autoreferenziale. Lo Stato si
autonomizza dalla società civile ma non è un’entità autoreferenziale perché poi esistono meccanismi di
connessione tra le dinamiche sociali e i processi politici e istituzionali.
Dunque, il sistema è il punto che Marx segnala come acquisizione importante di Hegel. Entro il sistema
hegeliano, la distinzione tra Stato e Società civile è un ulteriore passaggio che segna un processo rilevante.
Hegel è il primo filosofo che introduce la nozione di Società civile, che nasce in Inghilterra da alti autori, ma
è con Hegel che la Società civile diventa una nozione fondamentale.
Questa nozione di Società civile viene descritta da Hegel come il sistema dei bisogni, dunque non vuole dire
la società civilizzata (non più premoderna, barbarica) ma è una società in cui prevale il momento del
bisogno, ciò vuol dire che questa società vede individui che riconoscono connessioni reciproche scaturite
dalla divisione sociale del lavoro e quindi il bisogno è quello che mette insieme individui tra loro separati.
Hegel è il primo filosofo, dice Marx, a collocarsi all’altezza dell’economia politica classica, questa nozione di
società civile pone Hegel allo stesso livello di Adam Smith o di Ricardo. In Hegel la Società civile è una
modalità di esistenza in cui non compare più l’elemento politico coercitivo, la società civile significa,
dunque, una società istituita per ragioni economiche, per soddisfare bisogni ed è quindi per Hegel il sistema
dei bisogni.
Il sistema di bisogni significa che nessuno è autosufficiente, nessun individuo può vivere confidando
soltanto sul proprio operare, la società civile collega individui autonomi attraverso esigenze di relazione,
per cui il mio bisogno non è soddisfatto solamente da me ma dalla correlazione, dal fatto che altre funzioni
sono svolte da altri soggetti, e quindi, dice Hegel, si crea sulla base della necessità di appagare i bisogni un
intreccio tra i diversi soggetti individuali. Il soggetto individuale è il protagonista della vita moderna, ma tale
protagonista opera confidando che gli altri facciano operazioni per soddisfare bisogni complessi e quindi, io
soddisfo un bisogno dell’altro come l’altro soddisfa un mio bisogno. Quindi la società è intesa come
intreccio di funzioni molteplici, attraverso le quali ciascun attore coopera, stando ciascuno per se stesso si
fonda così una connessione di attori individuale. Tali attori individuali sono tenuti insieme entro una
relazione perché il bisogno li spinge ad operare per avere le altrui cose, il bisogno è lo scambio tra le mie
cose e le cose altrui. Si definisce, dice Hegel, un sistema di connessione reciproca, Hegel descrive la società
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E, quindi, da questo libero intreccio di individui si definisce il sistema della società civile, la quale è istituita
non dal potere ma dal sistema dei bisogni, la società civile è fondata sullo scambio. Il problema che Marx
segnala è che dopo aver formulato l’istanza del sistema dei bisogni, Hegel non ne tiene conto e quindi vede
nel bisogno una mancanza, vede nella società civile un qualcosa che non è propriamente un elemento dello
spirito. La società civile in quanto bisogno, in quanto empirica determinazione volta a istanze materiali, per
Hegel è il non vero, è un qualcosa su cui bisogna far risplendere la luce superiore dell’etica. Dunque la
società civile è bisogno e quindi non ha eticità, non ha valore in sé perché è limitata nel campo dello
strettamente economico, del necessario, bisogna quindi che dalla società civile si passi al momento
fondativo dello Stato, solo lo Stato è ciò che conferisce valore, ciò che istituzionalizza momenti di eticità.
La società civile è, dunque, al tempo stesso la scoperta essenziale di Hegel ma anche la sua dimenticanza
perché secondo Marx questa società civile, in Hegel, non sviluppa sino in fondo le proprie attribuzioni le
proprie caratteristiche fondative. Mentre, in Hegel, il motore è lo Stato che istituisce la sfera sociale; in
Marx il principio fondamentale è proprio la società civile.
Mentre, in Hegel, la società civile, che pure vede come sistema di bisogni, non è veramente dotata di
autonomia e capacità produttiva; in Marx la società civile è il fondamento, l’ente reale; per Marx non è lo
Stato che produce la società civile ma è la società civile che produce le stesse determinazioni politiche, e
Marx parla di istituzioni sociali, cioè presenta lo Stato come istituzione sociale.
04/03/2021
Marx legge Hegel politico e giuridico nei termini di un pensatore ambiguo, contraddittorio, poiché per un
verso anticipa, vede la modernità, rapporti sociali sviluppati e per un altro ha la testa, invece, rivolta
all’indietro e nel suo pensiero si insinuano delle resistenze, delle arcaicità. Dunque un pensatore
ambivalente: antico e moderno al tempo stesso; conservatore e innovatore nello stesso tempo.
L’Hegel innovatore, secondo Marx, si spinge oltre le acquisizioni di Kant e del pensiero liberale, in quanto
formula delle istanze di integrazione nell’ambito politico che rivelano una politica progettuale che ha la
consapevolezza delle profonde contraddizioni che scandiscono il tempo storico moderno. In relazione al
tempo storico della modernità osservato da Hegel, Marx ricorda che nella filosofia hegeliana la società civile
trova una prima sistemazione organica, per cui anche qui modernità e arcaicità sono individuate da Marx
come componenti ineludibili nel percorso teorico hegeliano.
La nozione di società civile per Marx ha la valenza moderna che gli riconosce Hegel, il tempo storico
moderno è caratterizzato dall’apparizione di una società civile; quindi Hegel formalizza, sistematizza, dal
punto di vista concettuale, questo profondo carattere del moderno cioè l’emersione di una sfera soltanto
sociale divisa dall’ambito soltanto politico.
Dunque, agli occhi di Marx, lo schema hegeliano è dentro il profilo della modernità che per Marx, come per
Hegel, annuncia questa distinzione concettuale possibile per la prima volta tra lo Stato e la società, infatti,
prima dell’età moderna queste due entità erano indistinguibili, vi era una compenetrazione reciproca tra
pubblico e privato, tra Stato e società, che rendeva impossibile separare concettualmente il pubblico dal
privato. Non esisteva prima del moderno una sfera solo privata, così come era inconcepibile un ambito
soltanto politico.
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STATO DI NATURA: ciò che precede l’organizzazione dei poteri e ciò che viene prima la positivizzazione del
diritto. Spesso si tratta di una situazione ipotetica, di una costruzione logica.
Immaginiamo lo Stato, la condizione, precedente l’ordinamento politico coercitivo, dunque per Hobbes lo
stato natura era caratterizzato dalla guerra e dalla situazione di incertezza e di inimicizia naturalistica tra gli
uomini; mentre per Locke vi era uno stato di tranquillità in cui non vigeva la guerra assoluta ed erano già
presenti condizioni molto sviluppate come denaro, leggi etc.
Dunque in entrambi i casi la società civile è quella che poi diventerà la società politica cioè era lo Stato,
l’organizzazione pubblica del potere, quella che Hobbes chiama il leviatano, la spada del sovrano.
In Hegel dunque vi sarà un mutamento di queste due locuzioni, dunque la Società civile e lo Stato
assumono una diversa accezione, in Hegel, lo stato di natura scompare come punto di riferimento
significativo e, come altro rispetto allo Stato, appare la società civile.
Quindi, non più lo stato di natura originario, ma la società civile è l’altro rispetto all’organizzazione
statuaria, è la condizione sociale pre-politica e dunque non ancora politica.
Hegel sotto questo punto di vista coglie il carattere economico della società civile, cioè per Hegel la società
civile richiede un’indagine che nell’età moderna ha visto la genesi dell’economia politica. Definisce la
società civile come quell’insieme di relazioni che sono oggetto specifico di un sapere nuovo, ossia
l’economia politica; per cui la società civile viene definita come la trama dei bisogni, vale a dire l’insieme
delle relazioni con le quali gli individui entrano tra loro in relazione per soddisfare i bisogni.
Dunque la società civile è la società che si crea per esigenze naturali, economiche. È un sistema dei bisogni,
in quanto i bisogni richiedono la reciproca interconnessione, la cooperazione secondo gli imperativi stabiliti
dalla divisione sociale del lavoro.
Dunque per Hegel la società civile come sistema dei bisogni significa che tutti gli individui, nel tempo
moderno, devono procacciarsi le condizioni per soddisfare i propri bisogni e, a giudizio di Hegel, non vi è
nessuno che costringe gli individui a fare ciò ma soltanto il bisogno stesso. Dunque, l’Ente umano è per
Hegel un ente che ha necessità, bisogno, istanze sensibili, le quali richiedono una soddisfazione regolare,
tale soddisfazione regolare si trova alla base di quello che gli economisti chiamano la divisione sociale del
lavoro, vale a dire la ripartizione di funzioni, specializzazioni, compiti, poteri, necessari per superare la
condizione di bisogno che caratterizza l’umana condizione antropologica. Per Hegel la società civile nel
sistema dei bisogni è l’intreccio della dipendenza unilaterale di tutti, in quanto tutti sono collegati.
Hegel vede una cosa importante, di solito trascurata, cioè nella società civile in cui ognuno è portatore di
bisogni e di interessi che cerca di soddisfare secondo il libero arbitrio individuale, dunque, la società civile è
l’individuo come padrone del proprio corpo e delle proprie esigenze vitali. La società civile è un mondo di
individui sviluppati che sono titolari del diritto astratto, ossia il diritto privato moderno (il contratto, il
negozio giuridico) per cui tutti operano attraverso liberi contratti, libere azioni individuali.
Hegel coglie “l’intreccio della dipendenza unilaterale di tutti”, dunque una acutissima descrizione della
condizione moderna, per cui ciò che si configura in un primo momento come società di individui ciascuno
dei quali liberamente opera e gestisce i propri rapporti, i propri interessi, secondo liberi atti di volontà
(quindi stipulando contratti), poi questa società del contratto, del negozio, del diritto astratto, si converte
nella “dipendenza unilaterale di tutti”, cioè nella società di mercato, accanto al negozio giuridico che esalta
21
A tale descrizione del moderno, questa penetrazione dal duplice volto della condizione umana moderna, si
aggiunge anche un’ulteriore precisazione delle conseguenze della divisione del lavoro presente nei
“Lineamenti di Filosofia del diritto” di Hegel: la divisione del lavoro, il mercato, l’economia di scambio
introducono il “lavoro astratto” (definizione hegeliana), quindi lavoro indifferente, parcellizzato, privo di
competenza professionale, in quanto il lavoro astratto è ripetere in una fabbrica lo stesso meccanismo; la
conseguenza, della macchina e del lavoro astratto, è la polarizzazione della società moderna, in due grandi
condizioni: da una parte enorme ricchezza e dall’altra il formarsi della plebe. Hegel ha dunque
consapevolezza dei caratteri antinomici della modernità e Marx apprezza questa forte sensibilità hegeliana
verso i temi del moderno e delle contraddizioni della vita sociale.
Ma accanto a questa esaltazione, Marx mette in risalto alcune questioni, collegate alla logica hegeliana.
Hegel, dal punto di vista logico filosofico, è un pensatore che ha la mediazione come categoria
fondamentale, ossia i termini del processo logico e poi politico non sono mai assolutizzati, dunque la
ragione pura non è assoluta. La ragione è un termine che poi deve comprendere l’altro e sono quindi due
termini che bisogna mediare, come si media tra ragione e mondo empirico, così bisogna mediare anche tra
le condizioni politiche, Stato e Società civile.
Lo stesso problema logico, che Marx ha introdotto, di mediare finito e infinito, ragione e mondo oggettivo,
si presenta nel campo politico, dove i termini della riflessione di Hegel sono Stato e Società civile. Dunque,
dice Marx, Hegel parte da questa condizione e la postula come tipica dimensione moderna: l’eterogeneità
di Stato e Società civile, eterogeneità significa differenza, due momenti tra loro inconfondibili.
Inoltre, per Marx, Hegel parla di stato e società civile come due sfere tra loro separate e opposte. La stessa
ambiguità che c’era nel campo logico (la distinzione tra contraddizione e opposizione) Marx la individua
anche nel territorio politico, per cui in Hegel tra Stato e Società civile non vi è un’opposizione reale, quindi
una distinzione tra enti realmente eterogenei ma una vera contraddizione logica, per cui uno soltanto poi
diventa il termine capace di vincere e resistere, ossia lo Stato. (il rapporto tra Stato e Società è analogo a
quello tra ragione e materia).
Dunque, secondo Marx, Hegel descrive lo Stato come la luce, la verità, l’illuminazione, ciò che è positivo in
sé e la Società civile, come sistema dei bisogni, come una mancanza, come una zona di oscurità e di
carenza. Quindi è evidente, secondo Marx, che dopo aver colto acutamente l’eterogeneità tra politica e
società, stato ed economia, Hegel fa un ragionamento che si rimangia questa sua essenziale acquisizione.
Per Marx la mediazione di Hegel è una falsa mediazione che lascia sussistere tutte le contraddizioni che
vengono soltanto nominalmente superate. A proposito di questa contraddizione tra Stato e Società civile
che Hegel poi intende superare con la mediazione, Marx dice che si tratta di un’esigenza che deve dare ad
Hegel una soddisfazione logica, cioè trovare comunque la mediazione, risolvere in ogni modo la
eterogeneità per ritrovare l’unione, la totalità, delle condizioni. Questo, secondo Marx, è il vizio della logica
e dell’analisi politica e sociale di Hegel.
22
In Hegel, invece, tante società non sono A e B (reali estremi) ma sono A e non A (A= Stato / Non A= Società
civile) e tra i due soltanto A sopravvive in quanto Non A è la semplice negazione posta da A. Dunque, il
lavoro di Hegel è quello di segnalare la presenza nel mondo moderno di una Società civile ma questa è il
Non A, rispetto a cui deve tornare a trionfare lo Stato che è l’elemento razionale supremo. La mediazione
dunque in Hegel annulla l’eterogeneità di Stato e Società civile che lui stesso aveva posto come
fondamento della modernità.
Secondo Marx questo ‘deficit logico ’ ha delle conseguenze di carattere politico e sociale che Hegel deve, in
ragione dell’istanza di trovare ad ogni modo di trovare la mediazione, venir meno alla sua scoperta
fondamentale: la Società civile come esclusivo mondo dei bisogni e quindi deve in questo modo perdere la
grande scoperta hegeliana di Società civile come altro rispetto allo Stato in quanto dipendenza reciproca
imputabile ai bisogni prettamente economici alla persona.
Quindi la mediazione tra Stato e Società civile viene ricercata da Hegel, secondo Marx, attraverso una
soluzione ibrida, strutturalmente ambigua, che gli fa perdere il moderno che pure Hegel a dinanzi come
dimensione teorica.
La conseguenza di un impianto logico difettoso è che la Società civile viene a perdere il suo tratto
eminentemente moderno, poiché per avviare la mediazione Hegel si avvale di due ponti di collegamento:
1. Dello Stato verso la Società civile (ossia la BUROCRAZIA con la quale lo Stato entra nella Società
civile, e quindi amministra e gestisce)
- Hegel non ritiene che il liberismo economico costituisca un fondamento accettabile dell’esistenza,
in quanto esso conduce a situazioni estreme di disagio, le quali chiamino in causa lo Stato, il quale
deve attrezzarsi attraverso la burocrazia per risolvere i nodi più spinosi dell’esistenza collettiva. La
plebe, i bisogni, la carenza di condizioni soddisfacenti chiedono la fuoriuscita dallo Stato puramente
astratto teorizzato dai liberali e da Hegel.
- Lo Stato di Hegel non è lo Stato di diritto puro disegnato da Kant (uno Stato che disdegnava le
condizioni sociali perché secondo Kant, la forma peggiore di Stato è lo Stato paternalista che non
lascia che a risolvere le questioni sociali e della asimmetria di ricchezza, sia la competizione sociale
tra gli individui), Hegel va oltre l’ostilità kantiana verso lo Stato paternalista che entra per risolvere
quel mondo che Kant raccomandava come produttivo di ogni benessere. Per Kant lo Stato è solo
forma, è diritto puro e in quanto sfera soltanto giuridica non deve avere preoccupazioni di natura
economica. Le disuguaglianze sociali, le asimmetrie di ricchezza appartengono ai tratti costitutivi
della società moderna e quindi sono garanzia di progresso, perché la competizione stimola una
felice contesa che produce innovazione e crescita.
- Hegel respinge il disegno di uno Stato puramente formale, solo di diritto e ritiene che, invece, lo
Stato abbia compiti espansivi di integrazione, il disagio sociale riguarda lo Stato che non può tirarsi
indietro rispetto alle condizioni di sofferenza che si riscontrano entro una comunità politicamente
organizzata. Secondo Hegel, lo Stato deve predisporre politiche pubbliche attive e per svilupparle lo
Stato non può essere solo giuridico ma deve dotarsi di una robusta amministrazione e quindi di una
polizia (che non è la pubblica sicurezza). La polizia nel linguaggio hegeliano è tedesco è il prendersi
cura di questioni sociali attraverso personale pubblico burocratico e quindi la copertura di bisogni
23
- Hegel auspica un forte apparato burocratico e un robusto sistema organizzativo perché il suo Stato
è di tipo inclusivo, il quale per sviluppare politiche pubbliche ha bisogno di istituti pubblici di
supporto come la polizia, burocrazia etc., in tal modo lo Stato non è più separato e si avvicina a
compiti riguardanti il disagio sociale, con la burocrazia lo Stato mette un piede nella Società civile
accorciando la loro distanza.
- Accanto al tratto individualistico della Società civile moderna borghese di mercato, Hegel pensa ad
una società in cui le differenze individuali vengono mediate attraverso le corporazioni. Dunque,
Hegel vede nell’individualismo, nell’atomismo moderno, una condizione negativa, perché se tutti
sono atomi isolati senza connessioni, senza legami, la povertà estrema (la plebe) è una dimensione
quantitativa crescente, dilaga l’anomia sociale.
- Per arrestare l’anomia sociale, Hegel, suggerisce la struttura corporativa della società e quindi a
ogni professione allestisce degli organi corporativi, in cui si sviluppano meccanismi di solidarietà tra
i membri di questi corpi intermedi. Per cui quando la crisi economica mette in difficoltà questi
soggetti che svolgono le stesse funzioni, gli altri soggetti hanno accumulato qualche risorsa in grado
di ristorare che collegavano gli individui e li proteggevano dall’insorgenza delle incertezze di
mercato.
Questo disegno di Hegel ha dei LIMITI perché in questo modo Hegel ritiene che con questi accorgimenti,
ossia con la presenza della burocrazia e delle corporazioni, il sistema di mercato riesca a funzionare e a
sopravvivere rispetto agli assalti, al regime di proprietà, che vengono dalle plebi, dal giacobinismo, dai
movimenti politici radicali.
Dunque per prevenire moti di ribellione, Hegel ritiene che sia auspicabile un’economia di mercato
integrata, corretta, da una burocrazia che vede un’integrata capacità regolativa dello Stato e da una
struttura corporativa che crea legami, mutualismo, tra gli individui.
Quindi corporazione e burocrazia rappresentano i due correttivi, in quanto, in quanto lo Stato non può
essere lo stato kantiano formale e la Società non può essere la società di Adam Smith di un edonismo
radicale, di un individualismo assoluto e, dunque, la burocrazia corregge la separatezza dello Stato e la
corporazione supera l’atomismo della società.
Marx tuttavia criticherà questa soluzione hegeliana che per Marx nasce solo per soddisfare la logica, per
trovare una mediazione, ma non risolve le antinomie costitutive della modernità. Secondo Marx, se Stato e
Società civile sono veramente separati (e di questo Marx non dubita) non è possibile trovare soluzioni solo
apparenti, come quelle formulate da Hegel.
Ad esempio la burocrazia, che Hegel celebra come soluzione degli enigmi, della separatezza del potere, alla
contraddizione della modernità, agli occhi di Marx, è il raddoppiamento metafisico del mondo, è la
conferma della contraddizione e il riconoscimento di fatto che politica e società sono separate. Marx
descrive il mondo burocratico come una ‘realtà capovolta’, il burocrate ha nel mondo un puro oggetto da
trattare, tratta il mondo con una mentalità burocratico-formale che, secondo Marx, dimostra come Stato e
Società siano ancor più separate.
24
Quindi la burocrazia per Marx è un mondo di forme che cancella i mondi reali, è una forma che raddoppia
le condizioni di vita e, dunque, è vero che la burocrazia si preoccupa dei problemi che insorgono in
situazioni critiche, ma è anche vero che la burocrazia è un mondo separato da quello reale, proprio perché
vi si accede per concorso evoca una distanza.
Proprio la burocrazia, secondo Marx, conferma che la vita reale e quella pubblica formale sono separate in
quanto il fatto che si ricorra alla burocrazia vuol dire che i problemi reali del mondo, della società civile,
sono problemi irrisolti che vengono affrontati attraverso una funzione burocratica, la quale è la conferma
che gli affari privati restano tali e che pubblico e privato sono separati; in quanto la burocrazia non è il
privato che si è pubblicizzato in una società deliberativa ma è il privato che si affida ad una sfera pubblica
separata che funziona attraverso il meccanismo del segreto.
Marx stabilisce un’opposizione strutturale tra il sapere burocratico e il sapere reale; esiste un sapere
tecnico rudimentale che spesso urta contro le condizioni reali e contro le logiche e il buonsenso.
Quindi la burocrazia presentata da Hegel come fine della distanza, come avvenuta riconciliazione di
economia e politica, di Società e di Stato, secondo Marx ha questo opposto risvolto: la burocrazia sanziona
la distanza della politica dalla società, perché la burocrazia è possibile in quanto gli affari reali non sono
gestiti in maniera comunitaria e vengono affidati a un corpo specializzato e burocratico, il quale funziona
secondo procedure, e dunque la procedura diventa il fine e la riproduzione del segreto delle condizioni
formali diventa l’essenza e per Marx questo rappresenta il mondo capovolto, al pari della società reale.
Dunque il “segreto d’ufficio” caratterizza, per Marx, l’ordinamento burocratico, ciò vuol dire che il mondo
burocratico è una macchina a sé stante, diversa dalla vita civile reale, alla quale si accede con protocolli,
tempi, forme, rigidità. Non si può, quindi, dire che la burocrazia sia la fine dello Stato separato, ma è lo
Stato che si chiude in una struttura spesso inaccessibile, in cui il segreto è la funzione dominante.
Marx contrappone allo spirito del segreto, come essenza della burocrazia, la logica della società civile che
esigerebbe la trasparenza e l’opinione pubblica è il nemico principale dello spirito burocratico (antitesi del
pubblico raziocinante informato).
Dunque, non può essere la burocrazia disegnata da Hegel, come gerarchia del sapere, come competenza
professionale a risolvere l’antinomia moderna, perché la burocrazia è la conferma che lo Stato è una
organizzazione burocratica separata e distinta dalla vita. È la burocrazia che conferma la separatezza.
L’altra soluzione individuata da Hegel, ossia le corporazioni, vengono reputate da Marx peggio della
burocrazia come rimedio alla scissione descritta da Hegel. La scissione ovvero la separatezza tra pubblico e
privato, Stato e Società, non può essere risolta con le corporazioni.
È vero che le corporazioni sviluppano mutualismi, meccanismi di difesa degli appartenenti ai singoli
comparti delle professioni, ma questo, secondo Marx, è un’autotutela rispetto alle incertezze dell’economia
di mercato, non è una soluzione delle crisi che caratterizzano l’economia di mercato. Il fatto che gli individui
destinino una parte dei soldi per affrontare le emergenze non risolve le emergenze, sono misure tampone
che intervengono in momenti eccezionali per bloccare una situazione imprevedibile di rischio, ma il rischio
non è stato risolto, non è stato eliminato il problema sociale da cui il rischio, l’incertezza, scaturisce.
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La società industriale per Hegel è la società del rischio e dell’incertezza; occorre dunque porre rimedio, non
cambiando la struttura economica, ma correggendo le strutture sociali attraverso un meccanismo come
quello corporativo.
La corporazione come soluzione, secondo Marx, è un falso rimedio, in quanto non vengono risolti i nodi
funzionali della produzione dei beni, quindi, la corporazione avviene a condizioni economico-strutturali
invariate, rappresenta per Marx un principio pre-moderno, medievale, che non può dunque essere
recuperato nel cuore di in una società industriale sviluppata che non sopporta un impianto di tipo
corporativo.
Secondo il rilievo critico di Marx, proprio in questo ambito, affiora il peggio della miseria tedesca che entra
nella costruzione teorica hegeliana.
Secondo Marx, Hegel non coglie le classi moderne, di cui ha accennato per primo l’esistenza, come la plebe,
l’industria ed il lavoro astratto e, quindi, non coglie i nodi di funzionamento della società di mercato
moderna, ma cerca di rivolgersi all’indietro per trovare dei meccanismi di stabilizzazioni, che sono le
antiche corporazioni che sopravvivono dal Medioevo e che Hegel stesso ripropone nel tempo moderno
come una “sopravvivenza arcaica”, dice Marx.
Hegel non vuole una diversa organizzazione economico-sociale rispetto al mercato e alla cumulazione, ma
vuole soltanto tamponare le produzioni eccentriche di questo mondo e quindi le potenziali di conflitto, di
perdita di senso, di sicurezza della vita del soggetto. In questo, secondo Marx, Hegel mostra un volto
eminentemente passatista, rientra tra i critici romantici della modernità, coloro che rimpiangono la bella
comunità che l’industria ha rotto, rivendicano i vecchi legami comunitari che l’individualismo moderno ha
infranto, hanno una visione idilliaca del passato e rimpiangono una società in cui il mondo era statico e il
bene primario era la terra e dunque la proprietà della terra era vista come un qualcosa di estremamente
positivo, perché la terra vedeva un rapporto etico tra il padrone e il servo, un reciproco riconoscimento, un
meccanismo paternalistico di governo dei beni e delle persone.
Hegel vede nel passato il rimedio, ma secondo Marx il rimedio non può essere la riesumazione della terra
come valore fondativo. Per Hegel, dice Marx, i signori della terra, la nobiltà terriera, rivestono una funzione
direttiva centrale, perché mentre il ceto dell’industria è un ceto dell’incertezza che ha una presenza relativa
nel campo pubblico, la burocrazia invece incarna il sapere e va riconosciuta la sua funzione pubblica, ma
l’eticità è per Hegel quella che si ha attorno all’agricoltura, alla terra, il ceto dell’eticità è quindi quello della
mondo agrario, della proprietà fondiaria e quindi Hegel vede il rimpianto di questo elemento fondiario. In
questo concetto Marx coglie l’arretratezza tedesca che riaffiora tra le pagine di Hegel, il quale coglie alcuni
processi del moderno, ma cerca di porvi rimedio attraverso una resa a condizioni che sono sintomo di
arretratezza, di sopravvivenza di cose antiche
Quindi a giudizio di Marx la mediazione che Hegel ha formulato non è risolutiva perché l’eticità del mondo
agrario, come comunità coesa basata sul riconoscimento della famiglia, della tradizione, della gerarchia,
non è la soluzione ai problemi della modernità, si tratta invece di reminiscenze passatistiche del tutto
impotenti a resistere nei confronti dell’avanzata della modernità.
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Il concetto di classe per Marx è completamente differente dal concetto di status o di corporazione, in Hegel
invece i concetti di classe, di stato e di corporazione sono confusi; a giudizio di Marx la classe sociale
moderna è del tutto irriducibile alla nozione di status, o di corporazione, in quanto Marx afferma che la
classe sociale in senso moderno è il riconoscimento “dell’individualismo realizzato” cioè la classe sociale
moderna è quella condizione mediata da ricchezza, cultura e situazione lavorativa, ossia una situazione che
riguarda individui separati tra loro; dunque le classi moderne secondo Marx sono composte da individui
mentre lo stato o corporazione è la negazione dell’individuo, in quanto appartenenze rigide (entità
collettiva cui si accede per nascita, o per condizioni ascritte).
Dunque la classe sociale è ciò che gli individui fanno in rapporto alle condizioni economiche, situazione che
vede una disparità rispetto a cultura e denaro come condizioni normali di vita economica e sociale.
Le classi sociali moderne, per Marx, sono classi aperte, dinamiche, individualiste a cui si accede sulla base di
ciò che si fa professionalmente, quindi, non sono contemplati in età moderna raggruppamenti statici, non
esistono classi sociali rigide, ma sono strutture aperte, flessibili, a cui si entra e si esce a seconda delle
condizioni professionali e di vita; dunque non si nasce operaio o imprenditore, ma tutti sono individui che
successivamente nelle relazioni fondamentali della vita moderna si collocano diversamente a seconda del
loro rapporto con il denaro, con il sapere, con i mezzi di produzione.
Per Hegel, invece, le classi sono status corporativi e dunque presentano una struttura ancora di tipo pre-
moderna, perché la corporazione o lo status sono entità collettive che hanno quindi un vincolo comunitario
che invece secondo Marx scompare nell’età moderna. Infatti nell’età moderna secondo Marx non vi è più
l’esistenza di vincoli, costrizione, ognuno è individuo, atomo separato, mentre in Hegel la corporazione
reintroduce un vincolo ossia un’appartenenza entro un blocco chiuso, statico.
Quindi da una parte Hegel comprende la distinzione tra stato e società, dunque vede nella società un
carattere non politico e nello stato un carattere non economico, ma poi confonde questa condizione e la
teoria delle classi in Hegel è proprio l’espressione massima di questa confusione, per cui in Hegel le classi
perdono la loro valenza moderna di enti riferibili a individui che occupano posizioni diverse nella
produzione economica e diventano delle appartenenze rigide.
Questa visione hegeliana comporta per Marx, lo smarrimento della distinzione tra status politico e stato
sociale, le classi moderne, dice Marx, non hanno alcun significato politico in quanto sono solo differenze
economiche e quindi non esiste una differenza di classe nell’attribuzione di diritti.
In quell’epoca si attribuiva il diritto politico solo a determinate categorie, non vi era ancora il suffragio
universale. Infatti Marx pensa che l’essenza del moderno sia il suffragio universale, alla luce del suffragio
universale le differenze sociali che vedono le classi moderne svilupparsi non sono traducibili in immediate
differenze politiche, dunque la classe operaia o quella imprenditoriale non ha l’immediata valenza pubblica
e politica vi è bisogno di un processo di mediazione ossia sono il voto, le elezioni, il consenso a trasformare
le classi sociali in soggetti politici.
In Hegel, secondo Marx, manca questo elemento perché facendo delle classi degli ordinamenti corporativi
e disegnando il sistema politico rappresentativo secondo un ruolo specifico attribuito a ciascuna classe,
Hegel perde la separazione tra classe politica e classe sociale e quindi vede nelle classi sociali moderne un
volto molto antico.
Secondo Marx, Hegel in questo è arretrato rispetto alla Francia o all’Inghilterra perché il grande progresso
della rivoluzione francese è quello di rompere i tre ordini, i tre stati, le tre corporazioni e di riconoscere che
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10/03/2021
Il problema che Marx coglie in Hegel è che tutto ruota intorno alla questione della mediazione, cioè Hegel
cerca di superare ogni visione immediata, non con la ragione come immediatezza o con la natura come
immediatezza, in quanto non risolvono per lui le questioni le questioni teoriche più essenziali, ma il suo
sforzo è di avviare un processo attraverso il quale la ragione non è più la pura ragione che ricorre solo a
meccanismi interni, ma è una ragione che entra nel mondo e da astratta diventa concreta; la mediazione è
quindi questo percorso di definizione di una ragione concreta.
VISIONE POLITICA:
Nel campo politico, questo processo vuol dire che Hegel si distingue da Kant e dal liberalismo, ossia dalla
politica intesa come pura forma, pura ragione, per il complesso processo di mediazione, affermando che il
loro limite è di aver contrapposto forma e contenuto, ragione e materia, politica e società. Rispetto
all’impianto liberale kantiano, che separa la forma dalla sostanza, la politica dalla vita, Hegel vuole
delineare un processo più articolato della politica, accusa cioè il razionalismo kantiano e liberale di
astrattezza, il razionalismo astratto in campo giuridico e politico, che caratterizza Kant, è visto da Hegel
come un punto di debolezza teorica, dunque occorre avviare una correzione dei limiti del formalismo
giuridico e politico.
Attraverso la mediazione vuole andare oltre il puro ambito formale, astratto, razionale. Hegel persegue
dunque una razionalità che definisce concreta, sostanziale, la cui concretezza della ragione deriva dall’aver
superato il dualismo liberale kantiano, che postula la ragione come di per sé stante e separata dai momenti
di vita reale.
La mediazione è il processo di superamento della distanza tipica di ogni dualismo liberale, quindi la ragione
concreta di Hegel è l’avvio di un procedimento attraverso il quale la ragione non è separata e la vita non è
immediata, senza forme. Dunque, il processo di mediazione rende la ragione consapevole dei limiti del
mondo e curiosa del mondo coglie le problematiche effettive e cerca superarle attraverso un processo di
mediazione.
La mediazione è lo Stato che perde separatezza (non è più la ragione astratta liberale), è la società che
perde immediatezza, stretto riferimento al necessario, all’immediato ed è quindi una società che acquisisce
forma. Dunque, la ragione perde pura forma per diventare forma concreta e la vita reale perde pura
necessità, bisogno stretto per diventare qualcosa di formalmente pieno, rilevante. Dunque, mediare ciò che
è separato, riempire di contenuti ciò che Kant aveva disegnato in un modo del tutto astratto e puramente
formale. L’astratto, il puro, il formale in Kant erano essenziali; in Hegel sono un elemento negativo, li coglie
non come soluzione al problema ma come una parte della questione.
L’ambizione di Hegel è dunque di raccogliere il diritto forma, lo stato astratto ma per andare oltre, per
trascenderne le limitazioni, che secondo lui impediscono una ragione fondamentale più forte di quella
puramente formale. Dunque, Hegel, non rigetta totalmente il liberalismo ma lo acquisisce come una parte
limitata della modernità che occorre superare, senza escludere la forma e l’astrazione, le quali però
richiedono meccanismi di integrazione che consentono di superare il limite del momento dell’astrazione.
Quindi l’astrazione, in Hegel, è importante ma limitata e dunque non è la soluzione al problema politico.
Bisogna delineare un processo che acquisisca l’astrazione ma ne comprenda la limitazione, dunque, la
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L’ambizione di Hegel è di superare ciò che caratterizza il liberalismo e il disegno del razionalismo astratto di
Kant, attraverso il riconoscimento che accanto allo Stato, accanto all’astrazione, esiste quel mondo che
Kant aveva allontanato: i bisogni, gli interessi. A giudizio di Hegel la ragione, la forma, la politica devono
penetrare nel mondo esterno, nei bisogni, nel sistema concreto del vivere.
Ciò che differenzia Hegel dai pensatori inglesi e francesi che riconoscono la positività del mondo reale, della
natura empirica delle relazioni, è che per lui anche l’utilitarismo e il materialismo sono unilaterali al pari del
formalismo giuridico astratto liberale-kantiano, il cui limite è però di essere senza contenuti, di dipingere
quindi una forma senza la vita reale.
Postulata la condizione empirica, la materialità dei bisogni, Hegel non ritiene che questo sia un mondo per
sé stante; come la ragione astratta coglie solo un momento così i bisogni, la società civile, l’economia sono
un aspetto soltanto del moderno e dunque bisogna fare un processo di superamento. Come la vita induce a
superare l’astrazione e il formalismo così una volta riconosciuta la vita, i bisogni, il lavoro occorre andare
oltre questa dimensione per renderla partecipe della ragione: dunque uno sforzo di trascendimento dei
bisogni, degli elementi empirico materiali perché in quanto tali essi non sono soddisfacenti. La mediazione
è questo dinamismo hegeliano che vede la politica entrare nelle forme della vita e la vita reale (i bisogni)
trascendere la loro limitatezza per acquisire una prospettiva universale.
Con questo processo di mediazione Hegel ritiene di aver dato la risposta a quel problema che egli stesso
aveva segnalato, ossia la scissione, la separazione moderna tra ragione e vita, tra forma e interesse.
Hegel dipinge la mediazione come il ricorso a due momenti di integrazione, dallo Stato astratto, dalla pura
ragione, con la burocrazia si acquisisce una struttura che dalla forma porta al mondo reale e quindi alla
gestione di situazioni concrete contingenti, la burocrazia è l’alto che penetra nelle condizioni periferiche, è
il centro che diventa governante della periferia.
Nel campo della società il meccanismo introdotto da Hegel è quello delle corporazioni che superano i
bisogni irrelati, il mondo puramente economiche, con delle preoccupazioni carattere etico sostanziali e,
quindi, vi è il passaggio attraverso la burocrazia e le corporazioni a una mediazione, in virtù della quale il
politico entra nel campo della eticità.
La morale kantiana era individuale, una morale del singolo, mentre con Hegel si passa dalla morale all’etica,
ossia una dimensione più collettiva; il campo della politica risiede nell’eticità, e l’eticità è il superamento
della scissione tra forma e vita. Dunque, l’eticità è il disegno di un impianto politico articolato non più
separato astratto ma universale concreto.
Il regno dell’eticità configura una ragione concreta attenta alle situazioni reali di disagio. In questo modo,
Hegel ritiene di aver superato la vecchia contrapposizione tra Kant (formalismo, ragion pratica) e
l’empirismo di Hume e in parte di Locke, dunque ritiene di aver unificato queste due dottrine unilaterali:
quella degli interessi, dei bisogni, dei disagi, e quella delle forme, della ragione, dell’universalismo astratto.
Marx riconosce questo sforzo hegeliano che lo separa dal vecchio impianto liberale in una penetrazione
delle condizioni reali. Per questo prende Hegel come suo interlocutore critico, perché ritiene che con Hegel
la filosofia politico-giuridica abbia aggiunto un qualcosa in più rispetto alla filosofia kantiana e liberale, nel
senso che con Hegel c’è questo mondo nuovo dei bisogni, della società civile, che vengono problematizzati,
vengono affrontati in una considerazione politico-giuridica non più ritagliata nell’esclusivo mondo formale
astratto della ragione come forma, come universale vuoto astratto.
29
Per Marx la mediazione è la ‘bestia nera’ della filosofia politico-giuridica hegeliana, in quanto diventa un
pretesto per trovare comunque una soddisfazione logica, diventando un’ossessione che spinge Hegel a
soluzioni ibride, non del tutto coerenti con le sue stesse premesse.
Per Marx se Stato e Società sono due momenti tra loro separati, bisogna allora riconoscere questa
eterogeneità ed assumerla come fondativa del rapporto sociale moderno, e se si tratta di estremi reali
perché pretendere questa soddisfazione logica di trovare comunque la mediazione? Perché estremi reali
non hanno bisogno di una mediazione a priori (ricorda la distinzione tra opposizione e contraddizione).
In Hegel quella tra Stato e Società è una contraddizione che va rimossa; per Marx si tratta di un’opposizione
che vede svolgimenti reali, concreti ma non è possibile assumere una definitiva mediazione come quella
ricercata da Hegel attraverso burocrazia e corporazioni intese come risoluzione nella scissione moderna.
Secondo Marx in Hegel la Società civile è la contraddizione rispetto allo Stato, è il Non A rispetto ad A, e la
soluzione hegeliana è cancellare il Non A per tronare ad A, meccanismo inteso come una nuova entità, non
più come un A vuoto ma come un A che ha assorbito il mondo reale e, quindi, diventa una ragione concreta
e non più astratta. A giudizio di Marx, la società non è il non A posto dallo stato ma è un’entità reale, sono
gli “istituti sociali”, gli “enti reali”.
La distinzione tra Marx e Hegel è che in Hegel la Società civile rientra in un processo con il quale lo Stato
come idea pone il Non A (il mondo reale empirico) per superarlo come negativo, come qualcosa che
ostacola la pura idea, la quale diventa concreta con un processo di superamento del reale, del mondo
empirico come provvisorio destinato ad essere superato per definire una concreta unità o totalità.
Secondo Marx, invece, lo Stato non è l’idea presupposta che già esiste prima della società reale, non è lo
Stato come idea che pone il mondo reale o gli istituti sociali; la Società civile, come mondo di istituti,
rapporti sociali, economia, bisogni, secondo Marx, preesiste allo Stato. Dunque lo Stato non è l’idea che in
un processo dialettico pone la realtà degli istituti della società civile ma sono le dinamiche, i rapporti della
società civile a esprimere la stessa dimensione dello Stato.
Dunque, in Marx, lo Stato non è l’idea, come invece appare in Hegel, ma è una compagine istituzionale,
un’organizzazione di poteri che è una costruzione storica scaturita dai processi reali.
Quindi, in Marx, si delinea una sorta di sociologia dello Stato, perché lo stato non è la ragione che entra nel
mondo, ma è il mondo che esprime lo stato come un’istituzione necessaria per riprodurre le condizioni
della vita reale. (tentativo di approccio sociologico rispetto alle questioni statali)
A giudizio di Marx lo Stato non è filosofia o metafisica, ma è un oggetto sociale complesso che sta nel
tempo in quanto è una produzione storico temporale della società civile ed è nella società civile che
scaturiscono attori che per esigenze di supremazia, di svolgimento di rapporti, costruiscono istituzioni
politico-giuridiche.
Per Marx è dalla trama della società civile che si ricava il laboratorio reale da cui scaturiscono il diritto e la
politica, l’organizzazione statale.
30
Dunque in Marx si rovescia il paradigma politico della modernità; il paradigma politico moderno
presuppone una sovranità dell’idea dello stato, della ragione e da questa sovranità si fa ricavare la società;
nel paradigma della modernità, quindi, la società è il risultato di una sovranità politica, è il politico come
sfera sovrana che introduce l’ordine sociale come un atto di volontà, di creazione delle situazioni reali. Per
Marx, invece, le istituzioni politiche sono il risultato delle dinamiche sociali, delle trasformazioni che
avvengono nei livelli dell’esistenza materiale e, dunque, la società civile in Marx diventa un qualcosa che
evoca “il rapporto sociale di produzione”, è quindi vista come il rapporto sociale, la dinamica della
produzione materiale come fondativa del sociale.
Mentre nel paradigma moderno ed hegeliano la società civile è il prodotto di una decisione politica, per
Marx il sociale è invece l’ente reale il punto di partenza per cui lo Stato è una conseguenza degli sviluppi
della società.
In Marx si pone il problema della sussistenza dell’ambito sociale come dimensione autonoma rispetto al
politico. Essendo la società il punto di partenza, secondo Marx, il problema è di individuare come dalle
dinamiche del sociale scaturiscano, per processi ricostruibili storicamente, le fratture, le dinamiche che
richiedono i sistemi giuridici e i meccanismi di poteri, i quali sono funzioni del meccanismo sociale e non il
punto di partenza. A giudizio di Marx non esiste un diritto che già sa cosa sia la società inventando quindi
delle regole del vivere sociale:
ESEMPIO. Se non vi è una sistema di navi non può esistere un diritto delle navigazioni, dunque il diritto non
inventa la navigazione e i loro rapporti giuridici del traffico via mare.
È dunque nelle dinamiche sociali, nei meccanismi economici fondamentali che, secondo Marx, si colgono le
dinamiche più significative della vita reale. A giudizio di Marx il problema di Hegel è quello di non aver mai
mantenuto saldo il riferimento alla sua stessa scoperta della società civile, dunque il problema che si pone è
quello di cogliere le dinamiche del potere non come autosufficienti, tutte riconducibili a rapporti di volontà
e di coscienza ma le dinamiche del potere viste come relazioni che scaturiscono da intrecci di azioni, da
conflitti, da piani e contropiani (da opposizioni reali).
L’obiezione fondamentale che Marx fa a Hegel è che gli estremi reali non hanno bisogno di mediazione, in
quanto la mediazione la trovano nei meccanismi reali di funzionamento di una società, non esiste quindi
alcuna necessità di predefinirla. Per cui nella mediazione hegeliana Marx denuncia una sorta di filosofia
dall’esito scontato, che possiede la certezza della mediazione, credendo così di aver risolto realtà
spiacevoli, caratterizzate dalla scissione, dall’alienazione etc.
A giudizio di Marx bisogna assumere Stato e Società come dei poli eterogenei, i quali vanno mantenuti
come fondativi del moderno, poiché l’eterogeneità di Stato e Società civile costituisce il nucleo
fondamentale della interpretazione che Marx fornisce del moderno. Secondo la visione di Marx bisogna
distinguere il moderno come caratterizzato dall’astrazione politica e dall’astrazione sociale.
ASTRAZIONE POLITICA: è lo Stato come forma, come universalità, come potere generale sovraordinato
rispetto alla vita. Questo Stato come forma è il superamento di qualsiasi concezione patrimonialistica del
potere, per cui il potere non è una condizione privata, una proprietà ma è un ente generale che caratterizza
il tempo moderno. A parere di Marx, quindi, lo Stato è differente dalla polis o dall’ordinamento feudale,
31
Nel mondo antico, secondo Marx, la maggiore acquisizione (che poi si presenta nel funzionamento effettivo
del mondo moderno) si ha a Roma con il diritto privato; Roma si caratterizza per aver fornito le categorie
giuridiche che poi verranno raccolte anche successivamente agli albori della società di mercato e del
moderno capitalismo.
Per Marx si deve fare distinzione tra il diritto pubblico, che reputa non particolarmente moderno (in quanto
è il diritto scaturito da una organizzazione schiavistica, non fondata sul momento della libertà individuale) e
tra il diritto privato che invece presenta a Roma qualcosa di geniale (ossia mette a punto le categorie del
contratto come forma dello scambio, del negozio giuridico).
Quindi, a giudizio di Marx, a Roma nasce il diritto privato (che successivamente nel capitalismo nascente
tornerà utile), il quale però non diventa sistema in quanto la vita economica, pur conoscendo segni di
commercio sviluppato in alcune aree, non diventa economia integralmente commerciale e quindi la
sussistenza di un apparato servile accanto all’introduzione di rapporti in denaro e a meccanismi di
commercio, vede al tempo stesso opportunità per definire categorie giuridiche ultramoderne, ma questo
mondo giuridico non si sviluppa sino alle estreme conseguenze in quanto il mondo romano non diventa un
meccanismo di economia di mercato.
Per questo, dice Marx, quando poi l’economia mercantile diventa sistema vi è la complessa opera della
ricezione del diritto romano, che viene utilizzato in tutti i paesi europei che scoprono il mercato come
istituzione economica fondamentale; in quanto il diritto Romano ha fornito le categorie fondamentali dello
scambio e tutti i rapporti di diritto privato ma non di diritto politico, il quale era impossibile in quanto vi era
l’ordinamento schiavistico che impediva diritti politici e quindi la configurazione di un rapporto politico.
Per Marx la schiavitù significava che le differenze sociali erano immediatamente politiche, per questo non vi
era il diritto pubblico, il quale per il filosofo era assente anche in età medievale perché anche allora
mancava il tratto tipico del moderno, ossia la differenza sociale come pura differenza sociale. Nel mondo
medievale si continua nell’attribuzione alle differenze di nascita, di condizione, di veri e propri statuti
differenziati.
Lo status e la corporazione, dice Marx, indicano un mondo in cui pubblico e privato sono indistinguibili,
perché le differenze di nascita sono politicamente rilevante, riconosciute nella loro immediatezza. vi è
quindi un carattere ascrittivo riferito a differenze dei differenti diritti (se sei per nascita o per condizione in
una determinata situazione ti competono diritti e doveri specifici ritagliati esclusivamente sul tuo status). Lo
status è secondo Marx la compenetrazione di pubblico e privato.
Quindi in età medievale non c’è una sfera esclusivamente privata, perché lo status è una situazione
ambigua che mescola pubblico e privato, attribuzioni economiche e qualifiche politico-giuridiche e, dunque,
a giudizio di Marx, nell’età medievale manca ancora un vero diritto pubblico, il quale nasce quando le
differenze sociali sono solo differenze sociali e non assumono significato politico.
Per Marx il moderno è quindi è la realtà dell’individualismo cioè non valgono più corporazioni, status, classi
ma ogni individuo, in quanto tale, assume un significato, per cui vi è il riconoscimento giuridico
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Il tempo moderno ha delle differenze che nascono entro una società di individui e dunque sono
riconducibili a denaro, cultura, condizioni di lavoro (in quest’opera giovanile ancora non ha il concetto di
lavoro e forza lavoro, però introduce il significato moderno di classe). La classe moderna, per Marx, si
configura come una classe di individui e non è più uno status corporativo o una comunità di appartenenza
rigidamente definibile, ma è un meccanismo identificativo nato a proposito della condizione sociale, dal
rapporto che gli individui hanno con cultura, denaro etc.
In questa fase giovanile Marx non possiede ancora il concetto di rapporti di produzione e quindi il concetto
di classe viene introdotto, ma non ha ancora la pienezza che acquisirà in seguito, però, coglie questo tratto
distintivo della classe sociale rispetto alla classe politica. La classe medievale, lo status, è una classe politica
in quanto attribuisce all’appartenenza a uno status un insieme di diritti e di doveri e quindi di poteri, di
prestazioni, immunità e privilegi. Dunque lo stato (inteso come condizione sociale) medievale è anche
politico, perché sulla base dello status di appartenenza sono definiti obblighi, prescrizioni, privilegi, regimi
di immunità. Questi regimi di immunità ritagliati sugli status sociali sono il simbolo del premoderno quando
pubblico e privato sono mescolati tra di loro e non è ancora emersa la modernità.
La modernità, secondo Marx, rompe lo status, dissolve la corporazione e una volta rotta la corporazione e
dissolto lo stato ciascuno è solo, è un individuo senza il “legame ombelicale con una comunità”: famiglia,
corporazione, ceto, status, vengono distrutti e Marx indica come sanzione ufficiale di questa eversione
moderna la trasformazione francese della società stratificata in ordini, in una società civile, in nazione di
individui liberi e eguali.
La rivoluzione francese per Marx indica il compimento della modernità, intesa come negazione del
carattere politico delle differenze di status, di rango, di posizione che non hanno più rilevanza pubblica; ciò
comporta che il diritto pubblico, inteso nell’accezione moderna, è possibile solamente quando non esistono
più status e corporazione. Il diritto pubblico come contrassegno del moderno implica la spoliticizzazione
delle differenze, cioè la comparsa di classi solo sociali a cui si appartiene in base alla collocazione nei
rapporti di lavoro e di produzione materiale economica. Le classi, dunque, sono classi di individui; non
esistono diritti costruiti su classe.
Ancora in Kant esiste un diritto pubblico ritagliato su situazioni sociali differenti: il censo, che secondo Marx
è la sopravvivenza di una concezione antica entro il cuore della modernità, che per lui è una contraddizione
incompatibile con la struttura individualistica della società borghese moderna, la quale è una società di
individui liberi da ogni appartenenza, status, situazione ascrittiva; mentre il censo è una sopravvivenza
contraddittoria perché attribuisce a proprietà, ricchezza, cultura, diritto di voto rintroducendo elementi di
status che sono incompatibili con la struttura portante della modernità politica.
La modernità politica, a giudizio di Marx, indica un meccanismo di star per sé del diritto pubblico, dello
stato forma, che diventa l’astratto, il generale e per diventare generale e astratto deve essere una entità
solo politica che ha compiti politici generali a cui si accede non come classe o corporazione, ma come
individui.
Secondo Marx, il moderno si caratterizza per la spoliticizzazione della società, vale a dire nella società civile
le differenze sociali non sono più riconducibili a operazioni di violenza come furti, rapine, le quali ci sono
state nella “accumulazione originaria” ma dopo questo periodo mutano gli equilibri politici e sociali e ciò
che prima è nato per usurpazione, violenza diventa norma, riconoscimento giuridico e quindi le situazioni di
differenza di potere sociale non sono più cariche di significati violenti, coercitivi; la divisione del lavoro
dunque afferma Marx “sostituisce la violenza”.
“La divisione del lavoro dunque sostituisce la violenza” significa che nella società civile moderna si è indotti
a lavorare non perché ci sia un potere che vi costringa, come accadeva agli esordi della modernità, ma
perché si ha interiorizzato anche psicologicamente delle situazioni che fanno concepire come naturale il
fatto di dover trovare lavoro; queste preoccupazioni diventano naturali perché se non ci si procura il
medium generale (il denaro) per vivere non si ha la possibilità di soddisfare il sistema dei bisogni di cui
parlava Hegel.
Dunque, è la divisione del lavoro, l’esistenza di un sistema di bisogni che induce a lavorare perché
altrimenti non si ha quel bene prezioso che è la mediazione del denaro. Il denaro è il grande mediatore
della società civile e quindi tutto dipende dal denaro e per procacciarsi denaro c’è chi svolge attività di
impresa e chi svolge attività subordinate e queste sono le due classi che per Marx caratterizzano la società
civile moderna.
Si tratta di cerchie mobili, in cui puoi entrare e uscire, ma restano pur sempre delle cerchie, cioè delle
differenze perché ci sono situazioni di supremazia, di dominio, e situazioni di subalternità e di obbedienza.
11/03/2021
Lo snodo fondamentale della politica hegeliana era costituito dalla necessità di disegnare uno Stato più
ampio e provvisto di capacità integrativa rispetto al semplice Stato astratto di diritto, allo Stato forma, allo
Stato che governa attraverso la legge.
Nel percorso teorico hegeliano, lo Stato astratto deve incontrare lungo un processo complesso l’alterità,
vale a dire il mondo sociale reale, il sistema dei bisogni. E, quindi, vedere questo inciampo, questa zona di
solito non problematizzata, esclusa dalla pura forma giuridica, per avere una completezza del quadro reale.
Non esiste soltanto la forma e l’astrazione giuridica, ma c’è il mondo reale dei bisogni e degli interessi che
non può essere escluso dalla politica.
Dunque, dallo Stato astratto procede verso la società civile per poi tornare ad una nuova dimensione
pubblica, ad uno Stato come razionalità concreta, realizzazione di un sistema di eticità, perché è l’unità
delle sfere diverse del diritto astratto e dell’economia dei bisogni che attraversano la società civile.
Questo problema hegeliano della separazione e della mediazione tra Stato e società, incontra la
ricostruzione di Marx che contesta sia l’impianto logico, sia i risultati politici di questa logica della
mediazione. Secondo Marx la mediazione è una via che Hegel intende comunque garantire, perché più che
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Secondo Marx bisogna, invece, prendere la separazione tra Stato e Società civile nelle sue estreme
conseguenze senza badare a trovare soddisfazione logica attraverso una mediazione che non risulta tale,
almeno secondo il giudizio che Marx fornisce. La mediazione non risulta tale perché uno dei punti di
mediazione rinvenuti da Hegel è la burocrazia; secondo Marx la burocrazia non è il superamento dello Stato
e della Società civile come sfere separate e antagoniste, ma è la conferma che questa separazione esiste
perché la burocrazia è un’immaginaria generalità, un mondo dell’astrazione, sia pure organizzata in
apparati amministrativi retti dal principio di gerarchia e della competenza tecnica.
Questa gerarchia del sapere che svolge mansioni direttive nel campo politico amministrativo è, al giudizio di
Marx, la prova che la società civile non è società politica, perché se occorre un ceto del sapere, una
mediazione di tipo formale burocratica per risolvere i problemi pubblici, sociali, vuol dire che tra società e
sfera pubblica non esiste coincidenza, non esiste mediazione; la burocrazia non è che la conferma della
separazione, perché non è il superamento del carattere privato del mondo civile, non è il superamento
dell’opposizione pubblico-privato, astratto-concreto, ma è la costruzione di una generalità soltanto
immaginaria, formale, burocratica.
La burocrazia per Marx non è l’affare reale di tutti che diventa gestione comunitaria dei problemi; la
burocrazia è il raddoppiamento del mondo, è la costruzione di una sfera apparente, in cui il cerimoniale, le
procedure, i mezzi superano i fini. La burocrazia è un regno capovolto in cui la sostanza perde valore a
favore del protocollo, della procedura, della certificazione. Il mondo della burocrazia è un mondo di
apparente affare generale. L’affare generale viene gestito come procedura, come formalità, come gerarchia
del sapere.
Secondo Marx, lo spirito reale della burocrazia non è quello della pubblicità; anzi, a suo giudizio, ad essere il
nemico principale dello spirito burocratico è proprio il pubblico, la pubblicità. Esiste una tensione tra
segreto (o metodo burocratico di affrontare i problemi) e spirito pubblico (o trasparenza, opinione pubblica
vigile capace di controllare le questioni).
La burocrazia non è le questioni che sono state pubbliche e trasparenti; la burocrazia assume il problema
reale per problema burocratico e, quindi, fa delle procedure, dei tempi, delle formalità, delle firme, delle
ratifiche dei problemi sostanziali.
Dunque, a giudizio di Marx, se si voleva una conferma che la politica è separata dalla realtà quotidiana, la
conferma è proprio la burocrazia. Hegel, invece, propone la burocrazia come indicatore della fine della
scissione tra Stato e Società civile.
La burocrazia, per Marx, è l’opposto del superamento della scissione, ma è lo Stato che diventa tecnica
procedurale, è un meccanismo infernale in cui il problema reale non viene mai affrontato se non dopo una
infinità di passaggi, rallentamenti, certificazioni. Secondo Marx, quindi, la burocrazia è la conseguenza, il
completamento dello Stato moderno che nasce in età assolutistica, e la burocrazia non è il superamento di
quel tipo di Stato ma è il perfezionamento tecnico procedurale. E, dunque, una visione opposta a quella di
Hegel.
Marx non reputa la burocrazia come la soluzione dei dilemmi, la burocrazia li ripropone tutti irrisolti, o
meglio, fornisce delle soluzioni burocratiche a questioni che però non sono superate. La burocrazia non
supera la vita reale che è caratterizzata da meccanismi di dominio, di differenze sociali, ma la burocrazia
conferma il mondo nelle sue strutture essenziali, non è quindi la soluzione al problema, è un tipo di
soluzione che non supera la struttura della modernità.
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Anche l’altro elemento del disegno hegeliano: la corporazione, lo status; a giudizio di Marx, è sì una
compenetrazione tra pubblico e privato ma ha un modo di intenderlo di tipo regressivo. Cioè riesumando la
struttura corporativa della società, Hegel, non supera il dualismo in senso progressivo ma secondo Marx
con una ricaduta passatistica. A giudizio di Marx, nel trasformare le classi sociali in stati o situazioni
politiche, Hegel mostra il volto dell’arretratezza tedesca rispetto agli altri paesi europei (Francia, Inghilterra)
nei quali, invece, le classi sono soltanto sociali e non sono più consentite strutture corporative.
Se Hegel pone come segnale di ricomposizione, la situazione moderna tra stato e società, economia e
governo, la corporazione, ciò, dice Marx, è qualcosa di estremamente illusorio perché la corporazione è il
ritorno a condizioni che il moderno ha confutato ed eleminato dal punto di vista anche giuridico-
costituzionale. E dunque in Hegel abbiamo, a giudizio di Marx, una soluzione ibrida, pasticciata, in cui la
condizione moderna viene respinta con la riesumazione di cadaveri politici come gli stati o corporazioni.
A giudizio di Marx, nella società moderna non è possibile rompere il tessuto individualistico della società
civile e recuperare una mediazione di tipo corporativo, perché le corporazioni sono il mondo del passato e
quindi soltanto attraverso un immisto di istituti arcaici nel tronco della struttura moderna, Hegel può
ritenere di aver superato la separazione tra Stato e Società civile e di aver fatto della società un terreno
politico reale.
Secondo Marx, si tratta di una sorta di ibridismo di cattivo genere che bisogna contestare in quanto il
processo di ricomposizione della frattura moderna fra pubblico e privato, economia e cittadinanza politica,
richiede altri passaggi, altre soluzioni rispetto a quelle escogitate da Hegel.
In questo processo di superamento del disegno hegeliano, Marx aggredisce la confusione tra corporazione
(o Stato) e classe sociale. A giudizio di Marx, la corporazione o Stato, non è un prodotto moderno ma è una
sopravvivenza di realtà che il mondo moderno ha distrutto a partire da uno dei primi segnali della
modernizzazione che a suo giudizio coincide con lo Stato assoluto.
L’assolutismo monarchico è il primo passaggio ad una condizione moderna in cui con la burocrazia, con
l’amministrazione, il potere rompe le entità intermedie, le strutture corporative, per affermare una
centralizzazione dell’apparato amministrativo e impiantare un processo che condurrà alla codificazione
giuridica.
Centralizzazione e codificazione sono strumenti attraverso i quali lo Stato rompe la gerarchia, l’ordine
corporativo presente nelle società europee. Dunque, nello schema analitico di Marx il moderno si
caratterizza per questo duplice processo: centralizzazione politica e destrutturazione di significato politico
degli enti intermedi. Centralizzazione politica e Verticalizzazione del potere sono il primo passaggio che
viene gestito dalle monarchie assolute, le quali unificano un territorio, una nazione, sotto la simbologia del
potere irresistibile della corona.
Il monarca è lo strumento della centralizzazione politica; si definisce, dunque, un potere superiore dotato di
sovranità, rispetto al quale nessun altro potere può esercitare influenza. Quindi, costruzione di un esercito
(che obbedisce soltanto al monarca, allo stato assoluto), di una moneta (che lo stato conia in piena
sovranità), di una lingua, di una omogeneità simbolico culturale. Questa secondo Marx è la funzione dello
stato moderno di tipo assolutistico: centralizzare l’apparato di comando e fare lo Stato come ente astratto.
Lo Stato come ente astratto, cioè separato, è un’impresa storica che si presenta con la monarchia e
l’assolutismo regio. L’assolutismo regio fa della corona e delle sue simbologie, il simbolo dell’unità politica e
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Questo è quello che Marx chiama “processo di astrazione politica”: cioè togliere significato politico ai poteri
territoriali privati e consegnarli tutti allo Stato che assolutizza il potere di comando e di disciplina. Questa
monopolizzazione delle funzioni politiche è l’astrazione, che vuol dire star per sé, allestire un centro
separato in cui il potere non è gestito, se non da una macchina assolutista che è pienamente in controllo
delle decisioni. Lo Stato astratto è dunque il processo storico con cui le società di corte eleminano centrali
di potere territoriali e quindi in ogni territorio una sola sovranità.
Il concetto di sovranità, a giudizio di Marx, non è divisibile; l’essenza del concetto di sovranità è che non
possono esistere più soggetti ritenuti sovrani, entro un territorio è impossibile che esistano più sovrani. Il
sovrano è per definizione il titolare in ultima istanza del potere.
Secondo Marx, il problema della sovranità è stato impostato nello stato assolutista a favore della sovranità
del Re ma poi va declinato in forme ulteriori. La sua idea della modernizzazione è che si fronteggiano a
lungo nella storia istituzionale europea due concezioni di sovrano:
Delle due espressioni della sovranità, una soltanto è compatibile, l’altra diventa falsa. Ma, dice Marx, è una
falsità esistente perché è falso ritenere che il monarca ricavi legittimazione del potere da Dio, è evidente
che non è empiricamente dimostrabile, questa falsità, non coerente, non suffragata da condizioni reamente
osservabili è tuttavia esistente, cioè svolge una funzione legittimante. Quella che Gaetano Mosca chiamerà
la “formula politica”, ossia il criterio di legittimazione di un potere. Lo stato assoluto si giustifica come
monarchia per grazia divina, è una falsità che esista la grazia divina ma è esistente cioè storicamente
esistita che ha sorretto le pretese di potere da parte della corona.
Dopo la corona, come simbolo del potere in ultima istanza irresistibile, si presentano sviluppi politici
complessi che dentro lo stato territoriale vedono affiorare altre pretese di sovranità. Non più quelle delle
corporazioni e degli enti intermedi, cioè all’insegna del patrimonialismo politico, ma nuove rivendicazioni di
potere dal basso, il potere costituente reclamato dal popolo.
Secondo Marx, il popolo diventa principio della costituzione, perché è l’ente reale da cui il potere politico
discende e questo è il criterio di legittimazione che secondo Marx va posto alla base della modernità
politica
Il passaggio dallo Stato assoluto alla sovranità del popolo richiede passaggi complessi, articolazioni che
mostrano un’evoluzione della forma dello Stato che dallo Stato retto da un monarca per grazia divina
transita a uno Stato retto dal monarca ma che si presenta sia per grazia di Dio che per volontà della
nazione. Questa nuova formula rivela che non c’è più soltanto Dio a legittimare il potere, ma lo stesso
monarca per conservare podestà direttive di governo deve riconoscere nella nazione un punto di
riferimento essenziale.
A giudizio di Marx, nel complesso lo Stato hegeliano si situa in questo livello della monarchia costituzionale
moderna. È uno stato costituzionale di diritto in cui Hegel si colloca all’altezza di alcune grandi
trasformazioni politico-occidentale, tuttavia a suo parere questo impianto di monarchia costituzionale
rappresentativa presenta alcune incongruenze, problematiche critiche.
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Secondo il rilievo critico di Marx, in Hegel, ci sono delle espressioni che rivelano il suo atteggiamento
politico che si ferma a metà strada rispetto ai processi di liberalizzazione, di liberalismo politico.
Marx allude a questo cortocircuito logico travisabile in Hegel, quando Hegel dice che lo Stato è la ragione e
poi che la ragione coincide con la decisione del monarca, saltano tutti i concetti di mediazione, di coerenza
formale, perché non si capisce in che misura la ragione coincida con un corpo fisico. Secondo Hegel il
segreto dello Stato è la volontà, la decisione del monarca in ultima istanza e quindi la decisione è il principio
del disegno hegeliano a base monarchica.
Secondo Marx, se lo Stato hegeliano è lo Stato della ragione, e quindi se il canone di funzionamento del
potere è di tipo razionale, allora non si comprende in che misura poi Hegel teorizzi la necessità della
monarchia ereditaria.
Se la statualità è la razionalità piena coerente, perché poi si attribuisce questo elemento razionale dello
Stato non soltanto alla decisione irresistibile del monarca, ma anche al susseguirsi, alla trasmissione per
linea ereditaria di questa titolarità del potere.
A giudizio di Marx, questo rivela quello che lui chiama “zoologia politica”. Secondo Marx in Hegel con la
dottrina della monarchia ereditaria, dalla ragione si precipita nel corpo. E quindi zoologia politica è un corpo
che ha facoltà misteriose e da cui nasce il re come incarnazione della ragione. In questo, secondo Marx, non
è ravvisabile un processo logico coerente, non è possibile attribuire allo Stato una funzione razionale piena
e poi affidarsi a questo elemento di zoologia politica per cui quale che sia la capacità, l’attitudine, del corpo
nato per primo questo diventa la ragione e il corpo viene innalzato a titolarità del comando.
La sovranità che nasce in un corpo, dice Marx, è l’attività sessuale trasformata in creazione di sovranità
politica, cioè l’atto sessuale che avvia la nascita di un nuovo corpo, diventa il veicolo di legittimazione del
potere politico. (Marx trova questo del tutto lontano dai paradigmi della razionalità, la nascita che fa il
monarca è contraria a qualsiasi principio di giustificazione del potere).
La problematica della sovranità, che sia per Marx che per Hegel è unica: per Hegel coincide con il monarca,
per Marx postula invece il riconoscimento del popolo come titolare del potere sovrano. Hegel aderisce
quindi a una dottrina che è stata sistematizzata da Hobbes che configura un’organizzazione statale in cui è il
potere dall’alto, il sovrano, a unificare il popolo che non è più moltitudine irrelata, sparsa, ma diventa un
corpo politico unitario. È Hobbes il più grande teorico di questo processo di costruzione dall’alto del potere
e della sovranità come punto di partenza che dall’alto unifica una moltitudine trasformandola in popolo.
Hegel appartiene a questo filone e anche lui ribadisce che “sovranità popolare” è semplicemente
un’espressione insulsa, perché Hegel vi scorge il sospetto contributo delle teorie rousseauiane e poi
giacobine. Ed Hegel teme la “sovranità popolare” come concetto, ne vede i rischi di tenuta
dell’ordinamento monarchico, e quindi disprezza fortemente il concetto di popolo come ente sovrano.
Anche la nozione di “opinione pubblica” è da Hegel ritenuta molto sospetta, perché dice Hegel “nulla di più
instabile c’è dell’opinare” (l’opinare un giorno dice una cosa, il giorno dopo ne afferma un’altra). Dinanzi al
fluttuare di opinioni che resistono pochissimo, Hegel si affidava anche ad una sorta di figura di un soggetto
in grado di dominare l’opinione sapendola interpretare ma senza esserne schiavo.
Quindi, “opinione pubblica” e “sovranità popolare” sono due concetti che Hegel guarda con estrema
diffidenza, non che Hegel sia un reazionario, un filosofo della reazione, come spesso viene contestato, né
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Il conservatorismo giuridico e la scuola storica del diritto portano, nel campo della politica e del diritto, il
contrario della ragione; perché se il diritto e la politica sono la tradizione, ciò che è stato fatto tanti anni
prima, quindi la consuetudine, vuol dire che siamo al di fuori della ragione e quindi Hegel non è un filosofo
della reazione, in quanto i filosofi della reazione teorizzano il primato della consuetudine, della tradizione.
Hegel, quindi, dice che nella politica moderna non è la tradizione o la consuetudine a giustificare il diritto e
il potere ma è la ragione e, quindi, abbandona in una contestazione radicale tutti gli approcci di tipo
conservatore, i quali sono anche estranei a un processo che invece Hegel ritiene fondamentale, la
codificazione del diritto.
Per i filosofi conservatori e reazionari, il diritto è consuetudine, è scoperta di ciò che accadeva secoli prima,
è l’inizio del tempo, invece, per Hegel il diritto è un sistema di categorie razionali e quindi va codificato.
Hegel, dunque, si distingue nettamente dai filosofi conservatori e reazionari, perché mentre costoro
rigettavano, in nome della buona tradizione antica, le regole moderne del diritto costruito nei parlamenti e
codificato in apparati sistematici, Hegel ritiene che questi siano elementi imprescindibili e contro la
consuetudine e contro la tradizione, perché il diritto è forma (non è solo forma ma intanto non è
consuetudine e tradizione).
Il diritto va codificato e in questo Hegel accoglie un’eredità liberale moderna, perché la codificazione ha la
sua stagione più sistematica con Napoleone quale erede della rivoluzione francese.
Dunque, Hegel non è un reazionario né un conservatore, perché accetta i diritti e la costruzione giuridico-
sistematica di un codice come unico e coerente sistema di ordinamenti legali.
Hegel però non è neanche un filosofo liberale progressivo avanzato, perché i giacobini, Rousseau, le figure
più egualitarie nella storia del pensiero politico vengono criticate da Hegel che respinge il principio di
eguaglianza, spostato oltre certi limiti e soprattutto rigetta il principio di legittimazione riposante sulla
sovranità del popolo. Né la tradizione, né il popolo costruisce il fondamento legittimo del potere.
Marx reputa Hegel un autore che condivide i pilastri dell’ordinamento politico giuridico di tipo liberale, lo fa
in una maniera in cui però si affacciano sia alcune istanze progressive, sia alcune sollecitazioni di stampo più
regressivo, come ad esempio accade nell’attribuzione di un potere rilevante al ceto dell’agricoltura, ai
signori del maggiorasco e quindi al principio della nascita come fondamento di proprietà e quindi di
sottrazione del bene terra ai principi dell’alienazione, della mobilità di ogni bene che caratterizza il diritto
privato dell’età moderna.
Secondo Marx il principio di giustificazione del potere che Hegel ha suggerito, approda a forme di
naturalismo politico, cioè all’arbitrio del monarca, al decisionismo del monarca, senza limiti in un caso, e poi
all’eccezionalità dell’evento naturale come fondamento di un potere razionale nell’altro.
A giudizio di Marx, bisogna risolvere in altro modo il principio di legittimazione del potere, e se Hobbes è il
capofila di un indirizzo politico cui Hegel aderisce, Marx ha come capofila teorico un’altra tradizione che
risale a Spinoza e Rousseau che sono i due principali teorici della democrazia moderna dal punto di vista
dell’elaborazione concettuale.
Marx ha letto Rousseau e Spinoza e ha trascritto nei suoi quaderni giovanili di appunti, delle definizioni date
da Spinoza e Rousseau sulla democrazia e sul potere popolare. In entrambi questi autori la democrazia si
configurava come una sorta di governo che aveva nelle sue espressioni più coerenti, la tendenza a superare
la forma politica come espressione di un potere astratto e separato.
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Marx ha letto, in queste fasi giovanili, autori politici come Rousseau e Spinoza che accentuano il filone
democratico radicale e poi il quaderno di appunti giovanili di Marx, mostra lo studio di molti autori di storia
politica e anche grandi interpreti del liberalismo come Constant e Tocqueville.
La biblioteca di un autore riferisce le sue fonti, i principali ispiratori di un pensiero. E quello che si nota in
questa fase giovanile di Marx è un passaggio nella biblioteca da una precedente attenzione soprattutto di
carattere filosofica (Marx fa la tesi di dottorato in filosofia antica e quindi tutta l’attività di studio lo vede
indirizzato su testi di Platone, Aristotele, Epicuro, Democrito), alla scoperta della politica che lo vede
cambiare progressivamente i libri della sua biblioteca la quale ospita sempre meno testi filosofici per
contenere invece produzione saggistica politica e giuridica (dal punto di vista dei classici Spinoza,
Tocqueville, Rousseau, Constant e Montesquieu).
Da Rousseau e Spinoza, Marx, ricava e sistematizza l’idea di sovranità popolare, di legittimazione del potere
sulla base del consenso dei soggetti (lettura democratico-radicale); apprende molto da Tocqueville per
quanto riguarda la problematica religiosa nelle democrazie americane e le tendenze alla democratizzazione
dell’America (tensione all’America); da Constant, soprattutto, Marx ricava alcune lezioni che poi saranno
centrali nel suo apparato categoriale, infatti possiamo vedere una visione coincidente tra il liberale
Constant che scrive il celebre saggio sulla differenza della libertà degli antichi e la libertà dei moderni, e
l’elaborazione di Marx.
Marx dalle sollecitazioni critiche di Constant ricava l’idea delle due libertà:
- La libertà degli antichi è la libertà come partecipazione e quindi un’idea forte di democrazia (in tempo
moderno Spinoza e Rousseau). È la libertà di non farsi rappresentare, di prendere parte all’agorà, di
attivarsi e di avere parola in pubblico. Dunque, la libertà degli antichi è questo ideale massimo di una
democrazia che supera il meccanismo della rappresentanza, della delega e diffonde la responsabilità al
livello della deliberazione collettiva.
- La libertà dei moderni è la cura che ciascun soggetto dedica alla propria libertà privata, alla propria
indipendenza. Dalla libertà dei moderni Marx ricava la lettura della modernità in chiave di sfera solo civile e
commerciale. Dunque se la libertà degli antichi è la partecipazione, la libertà dei moderni è l’indipendenza
dal potere, dalla comunità, per svolgere i propri affari privati. Non intendono partecipare in maniera
illimitata alla politica, ma ritengono sia utile coltivare il mito del privato tornaconto, inseguire il denaro,
l’appropriazione privata dei beni come qualcosa di estremamente attraente.
Dunque, due libertà: una tutta politica (quella degli antichi) e una tutta privata (quella dei moderni). Queste
due libertà sono, per Constant, due polarità: una democratico-radicale e poi giacobina, che vede la politica
al centro di comando, come orizzonte del discorso; l’altra è invece la scoperta del mercato, la libertà dei
moderni è la libertà nel mercato di intraprendere azioni, di fare impresa, di perseguire un guadagno,
un’aspettativa di arricchimento.
Secondo Constant, la libertà dei moderni è quella di non partecipare; per gli antichi era inconcepibile la
libertà di non partecipare, chi non partecipava era un idiota. Per i moderni il non partecipare è un valore in
quanto se io partecipassi quotidianamente alla vita politica avrei tutto da perdere nella mia attività privata,
se stessi ininterrottamente nell’agorà, nello spazio pubblico, a deliberare a decidere le sorti della città, la
mia impresa andrebbe a rotoli.
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Da qui Marx ricava la sua idea: la modernità è un compromesso, dal punto di vista teorico, tra l’idea
massima di democrazia (di Rousseau, di Spinoza) e la divisione sociale del lavoro e quindi la libertà dei
moderni coincide con Marx nella realtà dell’economia di mercato. Secondo Marx, la disputa tra democrazia
liberale e democrazia diretta, la disputa tra Constant e Rousseau, è una disputa che non tiene conto del
fatto che la struttura rappresentativa del potere non è qualcosa di escogitato dal punto di vista teorico ma è
il risultato di un compromesso oggettivamente indispensabile (compromesso tra le esigenze funzionali
dell’economia di mercato di tipo capitalistico e le istanze di partecipazione).
Il moderno vuole le istanze di partecipazione perché riconosce a tutti gli individui razionalità, accesso allo
spazio pubblico, potere deliberativo; ma al tempo stesso il moderno è una società di mercato in cui se non
lavori non hai strumenti per vivere. Dunque si realizza un compromesso tra la politica e la società di
mercato, tra mercato e democrazia, e questo compromesso è la rappresentanza politica.
La rappresentanza politica, dunque, viene scoperta da Marx, sulla scia di Constant, come l’istituzione
necessaria storicamente entro società di mercato.
Finché esiste una società, in cui il principio organizzatore è la proprietà privata e il mercato è il misuratore
dell’efficienza delle strategie imprenditoriali è velleitario voler realizzare una democrazia deliberativa.
Secondo Marx una democrazia deliberativa la si può realizzare soltanto attraverso un processo di
contestazione dei fondamenti dell’economia capitalistica di mercato.
Secondo Marx, il limite del giacobinismo politico è di essere intelletto solo politico e quindi di volere la
politica per la politica, di impostare il discorso soltanto sul terreno della democratizzazione, della nostalgia
di agorà. Ma, dice Marx, ricollegandosi a Constant che aveva detto “la libertà degli antichi era ampiamente
diffusa, ma era possibile sulla base di un incidente, che a lavorare provvedevano gli schiavi”. Dunque erano
liberi perché le attività produttive erano addebitate sulle spalle di soggetti che non avevano diritto di
parola. Chi produceva non partecipava, chi partecipava era perché non produceva.
Quindi, secondo Constant, questo è il segreto della libertà degli antichi: il regime schiavistico in economia.
Ora, se il tempo moderno supera il regime schiavistico in economia e fonda un’economia di mercato, se tu
vuoi la democrazia degli antichi e rimpiangi l’agorà, devi contestare l’economia, la struttura proprietaria
dell’ordinamento sociale, perché, secondo Marx, sarebbe contraddittorio una democrazia radicale
deliberativa dentro una struttura di mercato perché si tratta di due principi organizzativi contraddittori.
Il limite, dunque, dei giacobini secondo Marx è di volere la politica per la politica, di essere democratici puri
e non di avere una lettura critica della società, di volere il cambiamento soltanto politico lasciando
sussistere la struttura proprietaria. Secondo Marx, non è possibile operare su questa base perché se non
cambi la struttura proprietaria è impossibile andare oltre la democrazia rappresentativa. Su questo Marx dà
ragione a Constant: finché esiste una società di tipo mercantile capitalistico, il regime corrispondente è
quello rappresentativo con il voto, il pluralismo politico e così via. Se vuoi la democrazia deliberativa devi al
tempo stesso innescare processi di superamento dell’economia di mercato, altrimenti il disegno è
contraddittorio e non può essere sostenuto.
17/03/2021
La parola chiave che ricomprende la proposta interpretativa del moderno da parte di Marx è ASTRAZIONE.
2. Il passaggio da condizioni politiche di stampo patrimonialistico allo stato astratto quale struttura del
moderno
Dunque, un processo duplice però convergente. La società diventa società civile moderna nella quale dice
Marx è realizzato il principio dell’individualismo, come condizione specifica del moderno, si esprime nel
passaggio dalle classi o corporazioni, stati che erano propri del medioevo alle condizioni sociali moderne in
cui l’individuo è il principio. È l’individuo che nelle dinamiche della propria esistenza entra a far parte di
classi sociali ma si tratta di classi sociali moderne che nulla hanno a che vedere con le classi medievali. Le
classi medievali sono delle comunità di tipo politico, per questo nel medioevo non esiste società civile
perché la società civile è possibile soltanto grazie all’astrazione.
L’astrazione realizza che ogni individuo astrae dalla propria condizione ed è assunto come puro individuo,
pura corporeità. Questo è un processo d’astrazione possibile soltanto su base storica, vale a dire l’individuo
astratto non è concepibile nella società feudale premoderna in quanto in essa l’individuo non era isolato,
ma ricompreso in corporazioni, statuti, condizioni oggettive, in legami di tipo comunitario. Invece la
modernità presuppone la rottura dei legami comunitari e l’ingresso in una condizione in cui sovrano è
l’individuo il quale per accidente, per condizioni imprevedibili legate alle situazioni economiche oggettive,
alla divisione sociale del lavoro, occupa un ruolo svolge una professione che dipende dal suo arbitrio dalla
sua volontà.
Dunque nella società moderna non ci sono vincoli che legano l’individuo e impediscono la mobilità sociale.
La mobilità sociale, secondo Marx, è il connotato distintivo di una società che non ha più legami corporativi
e dunque le classi moderne sono classi di tipo non politico come, invece, erano quelle medievali. Secondo
Marx sono delle cerchie mobili in cui l’arbitrio, la volontà giocano un ruolo essenziale, non sono situazioni
chiuse, classi in cui si appartiene per nascita e dalle quali non si può sfuggire perché la tua condizione è data
dalla nascita, da un’appartenenza originaria che assegna a ciascuno un ruolo, una posizione entro un ordine
sociale statico e gerarchizzato.
La società moderna è, invece, il prodotto dell’astrazione. La generalizzazione dei rapporti di denaro rende la
società funzionante su base negoziale e quindi il commercio, il mercato e il denaro rompono il profilo
comunitario della convivenza. Si spezzano legami e l’individuo irrompe sulla scena come padrone del
proprio destino, nel senso che nessuno costringe l’altro a svolgere ruoli, professioni, ma l’unico elemento
che assegna ruoli è la divisione del lavoro che è una condizione oggettiva indipendente dalle volontà dei
singoli individui.
Questo è il processo di astrazione che determina la società civile. La società civile dice Marx è il principio
dell’individualismo e delle cerchie mobili e non è il puro bisogno (perché è una condizione naturale il
bisogno) e non è neanche una condizione politica.
La società civile non è il mero bisogno come invece asseriva Hegel quando la riconosceva come esperienza
mediata dal soddisfacimento di bisogno, il sistema di connessione dei bisogni. Marx accetta questo
elemento ma cerca di cogliere il bisogno non nella pura e semplice determinazione naturalistica. Il bisogno
è tale in qualsiasi epoca storica e regime sociale. In ogni epoca l’uomo ha gli stessi bisogni, almeno quelli
naturali e, quindi, il bisogno è una condizione naturale che viene soddisfatta in rapporti sociali differenti.
Quindi la società è sì un sistema di bisogni ma i bisogni non appartengono alla pura natura ma sono
determinazioni storiche nel senso che non si tratta di soddisfacimenti puramente naturali perché un conto
è il bisogno in una società primitiva, un altro modo di soddisfare i bisogni è la società antica, feudale e
quella moderna.
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La società ha una componente naturale (soddisfare bisogni: mangiare e bere) però questo profilo
dell’esistenza vede modi diversi di realizzare le istanze naturali e i bisogni. Dunque nell’ottica di Marx esiste
un duplice rapporto: il rapporto dell’uomo con la natura e al tempo stesso questo rapporto con la natura
per soddisfare i bisogni essenziali è anche un rapporto con l’altro, è un riconoscimento con l’alterità (quello
che chiamerà “rapporto sociale di produzione”, il quale implica questo duplice livello, il rapporto uomo con
la natura e il rapporto dell’uomo con l’altro uomo).
La soddisfazione del bisogno non avviene più attraverso istanze puramente naturali ma attraverso lo
scambio, la moneta, l’acquisto di beni, la circolazione. Secondo Marx non esiste il puro sistema dei bisogni,
perché il sistema dei bisogni è un legame sociale, ha un tratto naturale e sociale, è l’integrazione di natura e
società.
Questo rende possibile, secondo Marx, differenziare le varie società sulla base della modalità differente
attraverso cui gli uomini entrano in rapporti reciproci per soddisfare i loro bisogni. I bisogni sono realizzati e
coperti attraverso forme differenti di relazioni sociali.
L’altro elemento che Marx segnala è l’astrazione che coinvolge il momento politico.
L’ASTRAZIONE DEL POLITICO: è la costruzione su base storica di una entità astratta da tutti i poteri, da tutte
le condizioni che esistono in un territorio. L’astrazione è il processo istitutivo di un ordine gerarchicamente
superiore, cioè di un potere più grande di ogni altro potere, il quale costruisce lo Stato.
Lo Stato per Marx non è un’invenzione logica o una scoperta delle dottrine politiche, l’applicazione di una
qualche teoria; lo Stato è il risultato di un processo storico in virtù del quale in una società esistono piccoli
poteri, esercizi di potenza sociale e da questo intreccio i molteplici soggetti, che in un territorio rivendicano
autorità, si definiscono condizioni più ampie, progressivamente più complesse e articolate; per cui un
potere più grande degli altri vince e impone a tutti gli altri poteri la condizione dell’obbligo e della
dipendenza.
I teorici moderni definiscono lo Stato come l’ente sovrano che decide in ultima istanza ed è capace di fare
rispettare le decisioni in ultima istanza attraverso la minaccia di sanzione. Quindi lo Stato indica il processo
storico in virtù del quale in uno stesso territorio soltanto un potere, quello dello Stato, detiene l’esercito e
dunque dispone della violenza legittima.
Quindi a giudizio di Marx il duplice livello della modernità è caratterizzata da questa astrazione. A livello
sociale l’astrazione si realizza attraverso la cancellazione che avviene simbolicamente con la rivoluzione
francese, dei vecchi ordini gerarchizzati, dunque il passaggio dalla società stratificata in ordini e
corporazioni a quella che si chiama la “società degli individui”. La società degli individui secondo Marx è
un’astrazione, cioè un livello di cancellazione di tutte le differenze, astrarre dalle diseguaglianze, dalle
diversità per mostrare un livello di astrazione. L’individuo emerge soltanto per astrazione, l’individuo è
quella dimensione media, astratta, per cui non contano le differenze, gli ordini sociali rigidi e gerarchizzati.
Questa astrazione fa nascere l’individuo moderno come singolo, come atomo che sta per sé e non dipende
da alcun meccanismo di potere, perché, dice Marx, la società non è bisogno che è natura e neanche è
politica. La società è distinta dalla natura e dalla politica, è quindi un qualcosa che è tenuta insieme dai
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La società comincia a profilarsi nell’orizzonte teorico di Marx come un luogo distinto, è dalla società che
Marx guarda il formarsi del moderno. La società è la possibilità di individuare concettualmente questo
elemento. Non che prima non esistesse, la società è sempre esistita, ma solo nel moderno, a giudizio di
Marx, è possibile individuarne il nucleo fondativo. Il nucleo fondativo è questo mondo in cui gli individui
scambiano per produrre e quindi la società indica questo profilo moderno di contrattazione, di scambi, di
circolazione illimitata di beni.
Ciò comporta l’intuizione di Marx secondo cui la società si auto istituisce, non è politica né il bisogno, ma è
il legame sociale, che è la trama di relazioni con le quali, in differenti epoche storiche si producono e si
riproducono le condizioni materiali della vita. La società, dunque, è per Marx il legame per produrre e
riprodurre le condizioni dell’esistenza, e quindi ha un sottofondo economico ma non soltanto economico.
Il livello politico o statale è invece il risultato di un altro processo di astrazione, cioè superare tutte le
situazioni di potere privato ed è il processo di “pubblicizzazione del potere”. Quindi la società è l’estrema
privatizzazione delle condizioni, l’individualismo estremo, ovvero l’emersione di individui che in quanto
singoli entrano in rapporto tra di loro, ciascuno è attore individuale. Questo comporta l’integrale
privatizzazione della società, ovvero nella società moderna non valgono vincoli gerarchici e appartenenze
date, tutto è basato sull’individuo (la cosiddetta eguaglianza delle condizioni per cui ciascuno è artefice del
proprio destino). Non esistono più corporazioni, ma ciascuno è un’astrazione.
Nei codici civili del diritto privato si fa ricorso all’essenza dell’astrazione quando si esprime “Chi chiunque”,
questa espressione giuridica dei codici moderni è il riconoscimento che tutti sono atomi differenti. “ Chi
chiunque” compia una determinata azione incorre in una sanzione e quindi non contano le appartenenze
(astrazione dalle differenze). Non esistono privilegi, è la rottura del rango, del privilegio come situazione
giuridicamente rilevanti; è l’indifferenza nel campo giuridico delle situazioni di potere economico che sono
ritenute private non politiche.
Accanto alla privatizzazione della società, ovvero la cancellazione delle corporazioni, c’è un altro elemento:
quella della pubblicizzazione del potere. Il potere diventa pubblico perché scompaiono le giurisdizioni
patrimonialistiche esercitate dentro i conventi, i castelli. Dunque la pubblicizzazione del potere vuol dire
che non ci sono più signori, contee, che hanno piccoli eserciti privati e giudici privati, ma esiste soltanto
l’esercito e l’ordinamento giuridico dello Stato.
Secondo Marx soltanto in età moderna c’è questa realtà dello Stato come pubblicizzazione del potere. Il
potere statale è una dimensione esclusivamente pubblica. Dentro lo Stato moderno non esiste un
ordinamento giuridico gestito da privati ma esiste l’ordinamento giuridico pubblico statale. Lo Stato è la
pubblicizzazione di beni pubblici. La moneta, la finanza, la giustizia, sono tutti simboli della statualità, non
sono più ammessi poteri privati che esercitano funzioni di valenza pubblica (sfera pubblica astratta).
Scrive Marx: «È un progresso della storia che ha mutato le classi politiche in classi sociali, in modo che come
i cristiani sono eguali in cielo e ineguali in terra, così i singoli membri del popolo sono eguali nel cielo del loro
mondo politico e ineguali nell’esistenza terrestre della società» questo è il nucleo dell’analisi di Marx, il
risvolto dell’astrazione.
L’astrazione, dice Marx, è un progresso della storia, è un progresso che lo Stato sia l’unica sfera pubblica e
dentro la società scompaiano le corporazioni e ci sia l’individualismo più esplicito (individualismo e stato
politico sono i due termini). Marx fa una correlazione, prima di Weber, sull’analogia che esiste tra
Cristianesimo e Modernità. Il cristianesimo, secondo Marx, è un qualcosa in stretta sintonia con il moderno,
in quanto come il moderno anche il cristianesimo ha un risvolto astratto. Il cristianesimo al quale Marx
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Questa astrazione convive con le differenze, quindi eguali in quanto figli di Dio o portatori di anima e poi
differenti in quanto corpi, enti sensibili, elementi naturali. Come nella religione, l’eguaglianza è un mondo
celeste separato dalle condizioni reali; così accade nella politica, la quale è la secolarizzazione di un
momento di eguaglianza presente anche in ambito religioso. Nel campo della politica tutti sono eguali. Il
principio dell’eguaglianza, soprattutto dopo la rivoluzione francese, è coerentemente contemplato e
sancito in solenni dichiarazioni dei diritti umani universali.
La modernità che conosce strutture di partecipazione di eguaglianza nel campo politico, poi nella società
reale esistono meccanismi che sono caratterizzati da nuove forme di diseguaglianza. Queste forme di
diseguaglianza sono costitutive della società civile e quindi l’astrazione politica convive con le differenze di
posizione sociale dei reali corpi. Dunque questa è secondo Marx la struttura ambivalente della modernità.
La costruzione del progetto moderno si esprime con una proiezione egualitaria nel campo dell’astrazione
politica dove sono costituzionalmente riconosciuti diritti umani senza riconoscere differenze.
Questo elemento di astrazione ha un duplice volto, secondo Marx, nel campo politico non può che esistere
un’astrazione, cioè un’eguaglianza che astrae dalle differenze, perché questo è il carattere pubblico dello
Stato che altrimenti verrebbe negato. Non è possibile uno Stato con la differenza dei diritti fondamentali. I
diritti fondamentali per Marx sono astratti perché soltanto così il costituzionalismo copre tutti gli individui
eliminando ogni differenza. Questo meccanismo che nel campo pubblico costituzionale è un progresso, nel
campo sociale è confermativo delle differenze perché se lo Stato fa astrazione dalle differenze sociali
queste differenze sociali esistono e quindi il problema di Marx è individuare la genesi di queste istituzioni
sociali.
Dunque, secondo Marx, esiste un duplice problema nella società moderna: la libertà politica (quindi
l’emancipazione politica) che non coincide con la liberazione umana perché nella società civile reale
l’astrazione che il diritto privato esige assegna agli individui differenti posizioni sociali.
Quindi nella società civile, dice Marx, non ci sono più organizzazioni rigide a creare diseguaglianze ma la
diseguaglianza è legata al diverso rapporto con denaro e cultura e quindi nella società civile denaro e
cultura producono differenze.
Quindi il moderno è segnato da questo problema astrazione o produzione di eguaglianza nel campo
pubblico costituzionale e al tempo stesso diseguaglianza come risultato dell’economia di mercato la quale
attribuisce in virtù della concorrenza differenti posizioni sociali e differenti dotazioni in denaro e cultura.
Questi sono, per il momento, i tratti che per Marx producono la diseguaglianza nell’ambito della società
civile, le quali non sono prodotte né dalla natura né dalla politica ma sono prodotte dall’economia di
mercato la quale funziona attraverso la libera concorrenza e quindi queste situazioni di diseguale accesso al
denaro poi richiedono un meccanismo di compensazione. La compensazione è l’eguaglianza sul terreno
politico.
Dunque, la condizione moderna è questa proclamazione dei poteri sovrani, spetta anche alla Nazione. La
Nazione è l’astrazione politico-giuridica che cancella ogni differenza. Marx aderisce al concetto moderno di
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Secondo Marx, il concetto di sovranità popolare significa la preesistenza del popolo rispetto ad ogni forma
di potere. Dal punto di vista storico, in realtà, il funzionamento dei poteri reali mostra altre determinazioni
ma Marx qui sta riflettendo sul piano logico definitorio quindi sull'aspetto assiologico non descrittivo. Poi
sul versante descrittivo anche lui ritiene che i processi di insediamento del moderno abbiano visto percorsi
differenziati che sono spesso coincidenti con la volontà di potere di una dinastia, di un Casato, di una classe
di una condizione particolare.
L’astrazione dello Stato moderno, secondo Marx, ha differenti modalità di esplicazione. Se lo Stato
moderno è caratterizzato dalla astrazione, dentro questo profilo di astrazione Marx enuclea differenti
processi istituzionali: il primo coincide con l’assolutismo monarchico, lo stato assoluto dice Marx è la prima
forma dell'astrazione politica; dopo lo stato assoluto Marx parla di Stato monarchico costituzionale; il terzo
livello monarchico liberale; poi Repubblica e poi democrazia. Questi sono processi che Marx mette a punto
per indicare le tappe dei moderni regimi politici.
Il momento primo momento di astrazione si ha già con l'assolutismo in quanto l'assolutismo cancella i
poteri intermedi e dunque è il primo dispositivo astratto. Però è una astrazione ancora limitata perché
coincide con la formula dei sovrani francesi “Lo stato sono io” quindi coincide con una forte
personalizzazione del potere. Quindi la monarchia assoluta, per Marx, è caratterizzata da questa aporia; per
un verso invoca lo stato astratto generale che comanda per tutti, per un altro questo Stato astratto e
generale coincide con la volontà di una persona singola e quindi a giudizio di Marx si tratta di un'astrazione
ancora limitata ma storicamente significativa, perché secondo Marx in questo momento comincia una
guerra politico dinastica contro il medioevo, contro la società feudale per rafforzare le esigenze di potere
del monarca.
Le esigenze del monarca vedono la commissione di ambizione privata dinastica e di dimensione statale. La
monarchia assoluta per certi versi è un potere personale però spersonalizzante. È un potere
spersonalizzante perché viene costruito un grande apparato di potere con una burocrazia, con una
amministrazione, con un esercito, quindi con figure complesse di organizzazione. Questa figura complessa
di organizzazione ha però come centro di comando una personalità singola.
Dopo questa prima fase del moderno che comincia con l’assolutismo, Marx vede un processo ulteriore: il
riconoscimento della Costituzione, della legge e quindi i primi cenni di uno stato di diritto costituzionale,
cioè è la asserzione che anche il monarca sta nella legge, nella costituzione. Questo secondo Marx mette in
evidenza che il primato della nazione è fondativa nel chiarimento del rapporto politico.
Secondo Marx non si può più postulare il principio che era caro Hegel e a Hobbes che è lo Stato che crea il
popolo superando la moltitudine. La moltitudine in Hobbes erano gli individui presi per sé, quindi una
massa irrelata di individui privi di potere politico. La moltitudine era unificata dal sovrano che quindi
trasformava una moltitudine senza alcuna unità in un popolo. Era in Hobbes e poi in Hegel, lo Stato, il
sovrano, a unificare la moltitudine e a costruire politicamente il popolo.
Marx si riallaccia invece a Rousseau e ritiene che non si possa definire il popolo come una conseguenza del
potere. Non è lo Stato che definisce il popolo ma, secondo Marx, è il popolo che esprime uno Stato. Quindi
dal punto di vista logico-assiologico e non storico-descrittivo, secondo Marx, bisogna fissare
concettualmente che il popolo non è mai una costruzione dall'alto. Il popolo è la radice, il fondamento del
potere.
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IL POTERE COSTITUITO: è il potere che opera attraverso procedure, vincoli legali, sono le istituzioni
inquadrate entro un ordinamento giuridico coerente che attribuisce a ciascun organo dello Stato specifiche
competenze. I poteri costituiti sono l'assemblea parlamentare, il Senato, la Corte Costituzionale, la Corte
dei Conti. Sono tutti poteri costituiti in quanto ricavano dalla costituzione i poteri e le funzioni ritagliate
dalla carta fondamentale.
Ma prima della presenza di poteri costituiti che operano nel solco dei dispositivi costituzionali, deve esserci
qualcosa che ha fatto la Costituzione. Dice Marx, la Costituzione, che è il primato dell'ordinamento la forma
più importante, non si fa da sé e quindi non si può dire che al principio dell'ordinamento c’è la Costituzione.
La Costituzione non è una carta già data e non è un testo che sia auto scrive. La Costituzione, dice Marx,
rinvia a un potere che scrive la costituzione e questo potere si chiamava POTERE COSTITUENTE che
appartiene al popolo.
POTERE COSTITUENTE: è un potere che viene prima della Costituzione. Non esiste un’assemblea
costituente che opera nel quadro della Costituzione, è quel potere che di norma interviene dopo una
rivoluzione, una guerra, quando il paese deve costruire una nuova entità politica.
È vero che i poteri costituiti sono tutti nell'orbita della Costituzione che quindi definisce il vertice di un
ordine gerarchico delle leggi. La Costituzione è il primo dei poteri costituiti, è la carta da cui i poteri
costituiti Parlamento, Governo, burocrazia traggono le loro rispettive competenze formali. Ma, dice Marx,
ammesso che l’ordine gerarchico collochi la Costituzione al vertice c’è rispondere a questo ulteriore
problema. La Costituzione che il vertice dei poteri costituiti non si fa da sé non è un'auto prodotto c’è stato
prima e oltre la Costituzione un qualcosa che l'ha determinata e questo qualcosa che per i teorici normali è
il fatto, un qualcosa di imprevedibile, mentre per Marx dal punto di vista fondativo è il potere costituente.
Hegel attribuiva questo potere costituente al sovrano, al monarca, diceva è inutile interrogarsi sulla genesi
effettiva della Costituzione; la costituzione c’è, non importa da quale potere sia stata scritta o da come essa
si sia prodotta, quindi una sorta di sottrazione della Costituzione dal processo costituente. Per Marx il
processo Costituente invece è la genesi effettiva della Costituzione. Il processo Costituente è il popolo come
titolare in ultima istanza dello stesso potere di scrivere la Costituzione.
Quindi il costituzionalismo moderno postula il primato della Costituzione su tutti i poteri. Marx appartiene
all'altro filone quello che proclama che esistono due momenti: il potere costituito in cui la costituzione
prevale e poi però esiste il potere costituente che vede il primato di un organo di valenza costitutiva e
questo organo di valenza costitutiva costituente è il popolo. Per questo il popolo non è unificato come in
Hobbes dal sovrano perché il popolo è il sovrano.
È il popolo che contiene la matrice unitaria di tutti i poteri; è la fonte di legittimità di qualsiasi potere, anche
in uno Stato che riconosca la separazione dei poteri tutti i poteri riconoscono formalmente la loro
derivazione dal popolo.
Anche oggi nei Tribunali la sentenza si esprime in nome del popolo italiano quindi il popolo è l’ente reale da
cui ogni potere legittimo trae l'investitura.
Questo, secondo Marx, comporta che se il popolo è il potere costituente nessuna carta può ritenersi eterna
perché per principio la costituzione è anch'essa sottoposta al popolo, è sempre il potere costituente
l'elemento dinamico della sovranità. Per evitare che questo potere costituente intervenga occorre ricorrere
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Quindi, il potere costituente ad un certo punto diventa riconoscimento, non un potere sempre effettivo
perché se il potere costituente fosse sempre effettivo non ci sarebbe certezza del diritto, separazione dei
poteri, ordinamento costituzionale. Ad un certo punto bisogna tranquillizzare il potere Costituente; è il
fondamento ma non deve essere sempre evocato. I teorici successivi ricorreranno alla formula secondo cui
il potere costituente è un potere dormiente cioè un potere riconosciuto ma non sempre attivo, in quanto è
comunque il popolo ad avere la parola in ultima istanza anche per modificare la carta fondamentale di uno
Stato.
Perché il potere costituente da dormiente diventi sempre sveglio e attivo, c’è un accorgimento che secondo
Marx va inserito nella costituzione cioè il popolo diventa il principio della Costituzione e quindi è possibile
anche una revisione costituzionale. Quindi per impedire che una Costituzione cada e si convochi
continuamente potere costituente bisogna fare del popolo il principio della Costituzione quindi riconoscere
alla costituzione non una immutabilità, ma la possibilità di accorgimenti revisioni, emendamenti. È quello
che accade un po' nella costituzione americana che si sviluppa attraverso il principio della sovranità
popolare “Noi popolo degli Stati Uniti” comincia con questa proclamazione la costituzione di questo popolo
che ha scritto una costituzione ma poi ha aggiunto nel tempo degli emendamenti che l'hanno integrata.
Questo significa quello che Marx dice: il popolo per non fare una formale rivoluzione può intervenire
attraverso revisioni parziali del testo e quindi esiste la possibilità di revisione costituzionale perché nessun
testo è eterno. La costituzione è votata all'eternità è fatta come se la durata fosse eterna e irreversibile. Ma
questo non implica il disconoscimento del principio per cui il popolo può anche convocare una nuova
Assemblea Costituente o attribuire al potere legislativo un potere di emendare, correggere, integrare la
Costituzione.
Quindi il principio del potere costituente può avere un duplice volto: uno quello francese del potere
costituente come potere rivoluzionario che formalmente dichiara un nuovo ordine, impone una diversa
geografia del potere. In secondo luogo è possibile fare del principio del progresso quindi della revisione,
dell'integrazione, un elemento che la Costituzione ha in sé e quindi non una Costituzione immutabile e non
un potere costituente sempre in opera.
È possibile superare questa oscillazione tra l'immobilità e la continua ebollizione attraverso riconoscimento
che il popolo come principio della Costituzione può fare un nuovo innesto, può cambiare Costituzione. La
Costituzione può essere cambiata, anche il principio costituzionale è nella disponibilità del potere
costituente (ma questo appartiene nel campo dello storicamente fattuale). L’importante è riconoscere che
il popolo è il detentore del potere fondamentale e che quindi non esiste un potere superiore preordinato al
popolo. Il popolo è il depositario del potere fondamentale.
Questo riconoscimento del popolo come potere fondamentale non è ancora presente nelle monarchie
costituzionali le quali riconoscono che il Re non è più l'arbitrio, la volontà decisionale incontrollata, ma che
il Re è nel testo costituzionale, riconosce dei limiti. Non sono più i limiti tradizionali del diritto naturale che
un concetto evanescente ma il monarca costituzionale accetta che il suo potere di indirizzo, di consiglio, sia
dentro le prerogative costituzionali. In questo quadro esiste una limitazione del potere e però ancora la
traduzione del principio della sovranità popolare non trova esplicito riconoscimento. Un maggiore
riconoscimento comincia ad averlo questo principio in età liberale quando si conosce la sovranità della
nazione con Luigi Filippo in Francia e poi con l'ordinamento repubblicano che postula la condizione della
sovranità del popolo come principio di valenza costituzionale.
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Entro la categoria generale di Stato astratto Marx ricomprenda diverse manifestazioni del potere politico
moderno: il primo elemento storico era costituito dallo stato assoluto in cui il monarca esercitava la
pienezza del potere sovrano. Dopo la fase della monarchia assoluta inizia un processo di
costituzionalizzazione del potere monarchico e l'introduzione di carte fondamentali: la prima fu quella
redatta in Inghilterra dopo la gloriosa rivoluzione del 1688-89 che pone il monarca entro il perimetro della
Costituzione. È la Costituzione che autorizza ogni potere incluso quello del monarca.
Secondo Marx, Hegel con la sua teoria politica e giuridica è sicuramente dentro questa stagione della
monarchia costituzionale. Certo vede in Hegel alcune categorie discutibili come quello della decisione in
ultima istanza attribuita al monarca e quindi la decisione ultima come prerogativa reggia e vede Marx un
conflitto soprattutto tra il principio fondativo del moderno, il consenso, e l'altro che esiste in ogni tipo di
monarchia che è quello della ereditarietà del potere.
Secondo Marx, soltanto il consenso istituisce potere legittimo, non la natura, quindi non può esistere, come
invece ancora accade in Hegel dal punto di vista teorico, il concetto di una trasmissione ereditaria del
potere, o natura o consenso, non ci sono altri circuiti di legittimazione e fondazione del potere. Una volta
riconosciuto il principio del consenso, stabilite carte fondamentali che ritagliano con precisione le
attribuzioni dei diversi poteri dello stato, si pone un problema, ovvero quale spazio dare effettivamente al
consenso.
Nella monarchia costituzionale pura il consenso era molto limitato e la fase che inizia nell'800 (in Inghilterra
un po' prima) è quello di passare dalla semplice monarchia che sta nella costituzione ad un monarca che sta
in Parlamento e quindi alla parlamentarizzazione dei regimi politici attraverso il riconoscimento del ruolo
del Parlamento e soprattutto una investitura consensuale dei deputati con un processo di inclusione nella
cittadinanza.
Nella fase primaria del liberalismo, delle monarchie liberali, il mondo effettivamente riconosciuto come
provvisto di diritti politici era molto ristretto erano pochissimi e reclutati secondo rigidi canoni censitari e
prove di alfabetismo. Questa fase della monarchia parlamentare è solo accennata in Hegel, secondo Marx,
perché anche in Hegel ci sono istanze elettive però il Parlamento hegeliano è una camera in cui le
prerogative moderne convivono con aspetti del passato e quindi la geografia di tipo corporativo delle
camere non è secondo Marx in sintonia con gli sviluppi più marcati della modernità politica europea.
Dopo la monarchia parlamentare esiste la fase della Repubblica, la quale ha due risvolti: uno specifico
Monarchia contro le Repubbliche e un altro più generale però molto importante. Ci possono
paradossalmente anche essere monarchie con forme repubblicane. La Repubblica è la forma astratta di
Stato, dice Marx, cioè il riconoscimento dell'eguaglianza giuridica e politica dei cittadini. Quindi la
Repubblica non è soltanto contrapposta alla Monarchia, è anche una diversa configurazione dei diritti.
Nella fase prettamente liberale i diritti sono limitati e quindi non c'è una vera astrazione nel campo del
riconoscimento dei diritti politici i quali sono limitati ad alcune categorie in base alla ricchezza e alla
capacità culturale, all'appartenenza al sesso maschile. Nella Repubblica si assiste ad un allargamento dei
diritti politici e quindi è la forma astratta dello Stato che si realizza, uguaglianza giuridico-formale e
prevalenza dei meccanismi di partecipazione politica che tendono a scavalcare i limiti censitari del passato.
Marx indica come esempio di tipologia di Repubblica quello americano che è il tipo di Stato in cui la
Repubblica, forma astratta di Stato, si sviluppa maggiormente con più ricchezza di articolazioni istituzionali.
Dunque il principio consensuale è l'espressione in termini di diritti politici del valore fondativo riconosciuto
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Tutte e tre queste forme di Stato hanno per Marx una diversità nell'impianto formale costituzionale ma una
stessa configurazione sociale. La Repubblica americana, come la monarchia liberare, la monarchia
costituzionale ma anche lo Stato assoluto, hanno come principio fondativo una determinata struttura della
società: quella che vede il mercato, il denaro e la proprietà come centrali nel disegno dei pubblici poteri e
nel riconoscimento stesso dei diritti.
La Repubblica, come forma astratta di Stato, pone problemi di natura teorica e riguardano soprattutto il
riconoscimento entro una struttura liberal-repubblicana di forme di rappresentanza. La forma repubblicana
dal punto di vista del pensiero politico è un livello intermedio tra liberalismo e democrazia.
Il Liberalismo, nelle sue figure classiche da Constant in poi, celebrava la ristrettezza del Suffragio e il potere
era un potere che presentava le cosiddette libertà negative, ovvero era la dottrina della limitazione dello
Stato che doveva agire entro un ambito scritto dalle forme.
La libertà negativa era il riconoscimento di limiti insuperabili tra il singolo e lo stato. Dunque il liberalismo
classico è una dottrina delle garanzie poste tra l’autorità politica e i singoli individui. Tra l'autorità e il
singolo, tra il potere e il cittadino devono esistere forme giuridiche di tutela dell'autonomia.
L’autonomia è il riconoscimento del momento della individualità come tutelata da forme giuridiche.
La coppia che esprime il pensiero liberale è autorità-libertà; secondo il pensiero liberale l’autorità va
sempre limitata e la libertà consiste nelle prerogative, previste per ogni singolo, di forme giuridiche
azionabili nei confronti del pubblico potere.
Quindi è la cosiddetta Libertà negativa, ossia la presenza di vincoli giuridici che l'autorità non può spezzare
perché i diritti individuali sono ritenuti fondamentali e quindi protetti dal punto di vista giuridico formale.
Questo liberalismo ha, quindi, oltre al garantismo e alla cultura delle forme, una profonda venatura
proprietaria e, quindi, la recinzione della proprietà attraverso barriere d'ingresso nella cittadinanza politica.
Il primo liberalismo ritiene che se votano anche i non proprietari, la sicurezza della proprietà viene minata e
quindi i diritti politici poiché incidono nel processo fondativo della legge e, quindi, è la costruzione
dell'obbligo e ciò che bisogna fare, i diritti politici non possono riguardare i lavoratori, i contadini, chi non
ha proprietà significative da tutelare.
Quindi Il liberalismo classico ha questo doppio volto: garantistico rispetto agli individui che vanno protetti e
garantistico anche rispetto al diritto di proprietà. Il primo liberalismo mette insieme diritti patrimoniali che
riguardano le cose, le proprietà, e diritti fondamentali che riguardano l'autonomia e i diritti individuali delle
persone.
Dunque, mettendo insieme questi due principi costruiscono una città politica nella quale non tutti possono
entrare. Possono accedere alla città politica soltanto i proprietari, perché la proprietà è ritenuta il
fondamento dello stare insieme in uno Stato. Uno Stato che non protegge la proprietà affida il voto anche
ai nullatenenti ma i nullatenenti votando cercano di svuotare le tasche di chi ha beni da proteggere. Quindi
il primo liberalismo adotta questa visione.
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Democrazia, secondo Kant, è la dottrina della partecipazione che si spinge fino a forme dirette di gestione
delle autorità; la democrazia è la sovranità popolare nelle sue versioni radicali. La democrazia è intesa come
un qualcosa di estremamente preoccupante perché comporta meccanismi illimitati, espansivi di
partecipazione e mette in discussione il principio della delega e della rappresentanza. Kant della democrazia
accetta il postulato iniziale “che la sovranità del potere è riconducibile al popolo”, quindi attribuisce alla
nozione rousseauiana di volontà generale un fatto positivo, cioè non si può che ricondurre ogni legge
legittima alla volontà generale.
Per esprimere questa sua visione ricorre ad un espediente lessicale “bisogna fare come se”, quindi bisogna
fare che come se la legge alla quale dobbiamo obbedire fosse il risultato di una volontà generale di una
sovranità reale del popolo. Poi non accade necessariamente così ma, dal punto di vista del principio
organizzativo del potere, il postulato è che il potere obbliga tutti con le sue leggi perché tutti sono gli
artefici della volontà generale, tutti partecipano nel processo di legittimazione del potere.
Quindi Kant accetta come se il potere derivasse dal popolo, ma non accetta che questa formula di sovranità
popolare si spinga davvero fino all'esercizio del potere da parte del Popolo. Kant come altri teorici liberali
distinguono titolarità ed esercizio. La titolarità del potere una volta riconosciuto il consenso e l'eguaglianza
giuridica di tutti non può che essere il popolo inteso come volontà generale; però l'esercizio del potere,
questo è l'argomento sia di Constant che poi di Kant, non può essere effettivamente nelle mani del Popolo.
Occorre, dunque, introdurre un correttivo al principio democratico rousseauiano di volontà generale e di
sovranità popolare e questo correttivo risiede nel principio della delega, nel principio di rappresentanza
politica. La rappresentanza e quindi la democrazia rappresentativa è per così dire il tratto che caratterizza il
filone repubblicano.
Il filone repubblicano si spinge oltre il puro liberalismo, anche se ad esempio in Kant ci sono ancora taluni
residui del vecchio liberalismo che sono visibili nella distinzione che Kant formula tra due categorie di
cittadini: il cittadino attivo e il cittadino passivo. Secondo Kant in una Repubblica anche se tu nasci un
territorio non sei automaticamente cittadino con diritti politici.
CITTADINI ATTIVI: sono i cittadini con diritti politici, quindi, coloro che nascono in un territorio e rientrano
nelle categorie che la legge riconosce come titolari di piena soggettività giuridica e politica.
Accanto ai cittadini attivi, quindi al cittadino nella sua interezza, integrità, di potestà positive, Kant colloca il
cittadino passivo.
CITTADINO PASSIVO: è colui che nasce vive e lavora in uno stato, ma non è cittadino in senso politico; è
cittadino solo in senso civilistico, può fare contratti, può vendere, può lavorare, ma non è cittadino nel
senso gius-pubblicistico, perché anche se lavora, anche se è un contadino o una donna che svolge funzioni
attive e vive, nasce e opera in un paese, questo non lo rende automaticamente cittadino attivo; è un
cittadino passivo perché ha le categorie del diritto privato a sua protezione ma non partecipa alla
definizione dello spazio pubblico, dove entra soltanto il cittadino attivo che è proprietario maschio e colto. I
cittadini passivi sono i non proprietari, i lavoranti e le donne, i quali sono i cittadini soltanto in senso
minore, soltanto civile.
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Quindi cittadino attivo e cittadino passivo è un residuo di vetero liberalismo in Kant che però inaugura
questa stagione rappresentativa cioè il riconoscimento del popolo come fonte del potere e poi il requisito,
però, di un momento di raffreddamento degli umori popolari attraverso un sistema di tipo rappresentativo.
La rappresentanza è il ponte essenziale della teoria politica del liberalismo che diventa repubblicanesimo. È
diciamo così un liberalismo che sta per diventare compatibile con la democrazia ma si ferma un attimo
prima di fare questo passo ulteriore che compirà, ad esempio, sul piano teorico con Tocqueville, il primo
liberal-democratico in senso moderno, che guarda l'America, studia gli istituti americani, è il capofila della
liberaldemocrazia cioè un liberalismo che fa astrazione dal censo e riconosce la titolarità dei diritti politici
alle persone come individui che compongono lo stato.
Su questa dimensione del repubblicanesimo della rappresentanza politica anche Marx dedica le sue
riflessioni notando alcune antinomie nel ragionamento hegeliano riguardo le strutture rappresentative
moderne.
Marx parla di natura discorde della rappresentanza perché la rappresentanza è strutturalmente una
situazione di questo tipo: è rappresentativa di interessi opinioni e al tempo stesso deliberativa cioè
decisione in nome del generale, della universalità e quindi il problema della rappresentanza è in questa sua
duplice natura, di essere espressione di parti, interessi, strutture individuali della società e di partire da
questa dimensione degli interessi, delle differenti cerchie del mondo moderno per definire un ambito di
decisione generale.
Rappresentanza significa agire in luogo di qualcun altro, prendere decisione per conto di chi non le può
prendere. La rappresentanza, dunque, è rendere presente qualcuno, il popolo, come fonte, giustificazione
del potere, anche se però questo popolo non può essere effettivamente presente perché non è concepibile
un'assemblea generale che presenti tutti gli individui che compongono un corpo collettivo, un corpo
popolare. Il popolo non può essere presente, è assente, però questo assente va reso presente. Il problema
della rappresentanza è rendere presente questo assente.
La rappresentanza è indispensabile una volta che si riconosce che il consenso e il popolo fonda ogni potere
legittimo. Riconosciuto che il popolo è la sola fonte del potere legittimo e che soltanto il consenso giustifica
l'esercizio del potere pubblico, allora si pone il problema com’è possibile governare società complesse,
com'è possibile dare leggi costruire diritto pubblico costituzionale in grandi società che hanno milioni di
elettori potenziali. Marx dice che c'è bisogno di una sorta di compromesso tra questo riconoscimento della
titolarità del potere riconosciuta in nome formale al popolo e poi il fatto che questo popolo non può
effettivamente presentarsi quotidianamente nella piazza per svolgere compiti deliberativi.
Secondo Marx questa divaricazione l’ha accolta bene Constant, il quale distingueva tra libertà degli antichi e
libertà dei moderni:
LIBERTÀ DEGLI ANTICHI: era quella di partecipare, chi partecipa non si fa rappresentare, non esiste l'idea di
rappresentanza della democrazia ateniese.
LIBERTÀ MODERNA: nella quale invece ogni soggetto è libero dentro il suo ambito privato professionale e
quindi decide la sua professione, decide come realizzare le proprie chance di vita. La libertà dei moderni è
quella di stare nel mercato, di sviluppare funzioni economiche; è l’homoaeconomicus il titolo principale
della libertà dei moderni.
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Anche Hegel, lo stesso Constant, pur rivendicando la necessità della rappresentanza, della delega, della non
partecipazione diretta, poi escludevano l’apatia come valore. Constant lo diceva chiaramente un cittadino
che si fa rappresentare non significa un cittadino alienato rispetto al bene pubblico, ma un cittadino che
rappresenta i propri interessi e le proprie opinioni attraverso una sfera pubblica e quindi attraverso il
meccanismo del consenso.
La rappresentanza moderna, dunque, è una funzione politica che nasce per l'impossibilità di partecipare
effettivamente alla decisione e al processo deliberativo. Perché non è possibile la partecipazione di tutti alla
vita politica? Perché la democrazia, diceva Rousseau, è possibile soltanto nelle piccole località nei piccoli
luoghi, soltanto nella piccola repubblica, nella piccola città è possibile una partecipazione continuativa;
nelle grandi città nelle grandi repubbliche la democrazia è impossibile.
Quindi Rousseau aveva questo atteggiamento per un verso criticava la rappresentanza diceva: “voi inglesi
credete di essere liberi ma vi ingannate di molto perché siete liberi soltanto il giorno delle elezioni, dopo
aver deposto la scheda, dopo aver votato, dopo aver delegato qualcuno al vostro posto, non siete più liberi
ma soltanto sotto un vincolo di obbligo e di obbedienza, siete schiavi, perché la vostra libertà politica finisce
nel momento della delega della rappresentanza, solo il giorno del voto esercitate un potere politico pieno”.
Rousseau però ad un certo punto arresta il suo proposito il suo impianto politico di democrazia radicale
perché nello stesso contratto sociale dopo aver criticato la falsa libertà inglese e quindi dopo aver dubitato
del carattere rappresentativo come compatibile con la democrazia, dopo aver svolto una critica delle
strutture rappresentative della modernità politica, quando si tratta di andare oltre e di realizzare il suo
modello di cittadinanza repubblicana-democratica dice che “un popolo di dèi potrebbe governarsi in
maniera democratica” e quindi relega l'ideale massimo di democrazia come autogoverno, partecipazione
nelle impossibilità, nel regno della utopia, perché secondo Rousseau è l'assenza degli stimoli del mercato,
del denaro, è l'assenza di corruzione che lui imputa al mercato che rende possibile una cittadinanza di tipo
classico repubblicana.
Nel tempo moderno esiste il denaro, il mercato e soltanto in paesi sperduti di montagna, forse nella
Corsica, è possibile ritrovare qualche traccia di libertà civica, di disinteresse.
La civiltà europea era vista da Rousseau come una civiltà irrimediabilmente perduta perché era stata
corrotta dalla società civile; la società civile, il mercato, la proprietà sono meccanismi che distruggono la
bella comunità e secondo Rousseau ci sarebbe bisogno di un contratto sociale cioè di una vera
rigenerazione etico-politica, di una rinascita, di una rifondazione della politica e della società.
Il contratto sociale per Rousseau è la politica come sovrana, come primato assoluto. Rousseau con il
contratto sociale vuole una nuova società che ricominci da capo a ridiscutere il proprio profilo e quindi a
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Il contratto sociale non è soltanto una forma politica, il consenso, il patto di alienazione che crea la nuova
sfera pubblica, ma questo patto di alienazione aliena tutto cioè il corpo collettivo la volontà generale può
ricominciare da capo a ridefinire il perimetro della città e quindi è un contratto sociale che attraverso la
politica, il consenso, la volontà generale, scrive i contenuti della vita reale e va oltre l'età del denaro, del
mercato, interpretati da Rousseau come un qualcosa che ostacola la bella virtù; la bella virtù del cittadino i
grandi esempi di repubblicanesimo sono, secondo Rousseau, banditi nella modernità perché la modernità è
la società del mercato, del denaro e della diseguaglianza. La diseguaglianza introdotta con il mercato, con la
proprietà, rende impossibile la virtù cittadina, il civismo, la partecipazione effettiva. Solo nel piccolo Stato
dove la ristrettezza dei confini e la mancanza di grandi fortune, di grandi diseguaglianze è ancora
immaginabile un disegno di partecipazione, di politica che costruisce significato collettivo.
Qual è invece l'ottica che persegue Marx? In questo campo è più vicino a Constant che a Rousseau. È vicino
a Rousseau per quanto riguarda l'ideale massimo di democrazia, di deliberazione, di partecipazione, ma è
più vicino al liberale Constant nella spiegazione del motivo per cui il moderno ha una struttura
rappresentativa del potere.
Marx, come già Constant, ritiene che non lo spazio, e quindi la grandezza o piccolezza della città, renda
possibile o impossibile la democrazia. Secondo Marx è più fondato il ragionamento di Constant: quello che
rende inconcepibile, utopistica la democrazia degli antichi, è il fatto che c'è una cosa nuova che gli antichi
non avevano, cioè l'economia di mercato strutturata, consolidata. Finché esiste l’economia di mercato,
secondo anche Marx, la rappresentanza è la forma politico-istituzionale più corrispondente. Nel senso che
dice contro i Giacobini che “non è possibile avere testa antica nelle sabbie mobili del mercato moderno”. La
testa Antica, l'agorà, non è possibile in un'economia di mercato sviluppata consolidata su scala mondiale.
Secondo Marx è il mercato che esige rappresentanza, non il fatto della piccola o grande città. Oggi anche le
piccole città, le piccole Repubblica, hanno una struttura rappresentativa. Non esiste al mondo anche nelle
piccole città comunali vera democrazia diretta perché nella società di mercato c'è la concorrenza, il
mercato, la competizione, la divisione del lavoro che obbliga a dedicare tempo alla professione, alla
coltivazione di specifici interessi. Questo secondo Marx è l'impedimento alla partecipazione e alla
democrazia davvero radicale sognata da Rousseau.
A giudizio di Marx la democrazia non è possibile nelle forme auspicate da Rousseau per un impedimento
economico e sociale; per questo Marx cerca di passare dalla politica alla critica dell'economia politica
perché secondo Marx il primato della politica di Rousseau ha un limite di non avere soggetti sociali, di
difettare di un'autentica comprensione delle categorie dell'economia politica. Per questo Rousseau o i
Giacobini sono accusati da Marx di moralismo, cioè di volere la democrazia degli antichi come pura istanza
intellettualistica. Marx usa il termine “intelletto politico”.
INTELLETTO POLITICO: è l'idea di Repubblica o di Democrazia concepita su base astratta cioè su base
soltanto politica e quindi tenendo occultata la dimensione della divisione sociale del lavoro che invece è
quella che assegna a ciascuno un ruolo, un compito, un interesse.
Quindi secondo Marx se vuoi la democrazia degli antichi e però, come ammoniva Constant, non vuoi la
società schiavistica degli antichi, dovresti condurre una critica dell'economia politica, vale a dire superare le
strutture dell'economia di mercato. Se non superi l’economia di mercato, la divisione del lavoro che la
struttura nei suoi principi funzionali, allora il sogno di un’agorà, di una democrazia diretta è impossibile,
appartiene all'intelletto politico che secondo Marx è un intelletto astratto e di stampo moralistico.
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24/03/2021
La parte più rilevante dal punto di vista teorico della critica di Marx riguarda due concetti:
RAPPRESENTANZA
DEMOCRAZIA
Per quanto riguarda il concetto di rappresentanza Marx fornisce una spiegazione diversa da quella
hegeliana.
Per Hegel la struttura rappresentativa risultava essere un compromesso tra istanze moderne e
reminiscenze di tipo antico; per cui nel disegno hegeliano la rappresentanza conteneva un aspetto elettivo
accanto alle camere di tipo corporativo, voleva dunque una rappresentanza al tempo stesso moderna ma
capace di recuperare la rappresentanza degli interessi e quindi esprimeva una camera dell’agricoltura, una
riservata alla burocrazia ed una al ceto dell’industria. Nella visione hegeliana ogni ceto fondamentale che si
presentava nella città veniva rappresentato.
Dunque, Marx dice, da una parte Hegel vuole una rappresentanza di tipo moderno, cioè individualistica ma
dall’altra sogna un tipo diverso di rappresentanza, ossia di tipo organicistico o corporativo; secondo Marx
tra queste due forme di rappresentanza esiste una incompatibilità: o definisce le strutture di un parlamento
che è rappresentante in senso moderno di individui che votano in quanto individui singoli oppure rimpiange
una articolazione corporativa entro cui le corporazioni definiscono gli assetti rappresentativi. Tra questi due
momenti, secondo Marx, non esiste compatibilità, quindi, Hegel cerca di mettere insieme due opposte
antitetiche concezioni di rappresentanza.
Occorre, dunque, secondo Marx, dare ragione ai Francesi, termine utilizzato da Hegel per dire che la
rappresentanza francese era atomistica, individualistica e dunque bisognava correggerne questo elemento
e accusava la teoria politica dei Francesi di astrattezza. In questo campo l’astrazione per Hegel è un
elemento negativo perché astrarre vuol dire separare, trascendere, le differenze che si esprimono
attraverso i ceti, le corporazioni.
Dunque, l’astrazione francese, secondo Hegel, consiste nel rimuovere le differenze che si presentavano in
forme di ceti o di corporazioni e l’astrazione è cogliere l’individuo in quanto non appartenente a ceti o
corporazioni ma solo visto come un individuo.
A parere di Marx questa veduta, respinta da Hegel, è in realtà l’essenza della modernità politica, la quale
esige l’astrazione e quindi il trascendimento delle differenze che non possono essere organizzate come
corporative. Secondo la visione che Marx ha del moderno, le differenze sociali non possono essere tradotte
in maniera immediata come differenze di tipo politico. Per Hegel, invece, le differenze sociali si traducevano
in forme politiche che corrispondevano alle loro strutture sociali, quindi, in Hegel abbiamo una
rappresentanza sociologica di tipo fotografico e corporativo, perché l’elemento politico è la copia delle
differenze sociali organizzate attraverso le corporazioni.
Per Marx questa visione organicistica, sociologica, non è compatibile con le strutture individualistiche della
società moderna. Secondo Marx, la società moderna è la realizzazione dell’individualismo e le classi sociali
moderne non hanno nulla a che fare con le corporazioni, perché sono classi aperte dovute alla collocazione
di individui; quindi mentre le corporazioni sono organismi chiusi, le classi sociali moderne sono cerchie
mobili e variabili, perché le differenze che intervengono nel campo economico sociale non hanno una
immediata traducibilità in termini politici.
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Un altro rilievo che Marx formula è che in Hegel compare un’ulteriore contraddizione, in quanto da una
parte vuole una rappresentanza di tipo corporativo cetuale (quindi fotografica e sociologica), ma dall’altra
però esige una condizione moderna che è incompatibile con questa sua asserzione.
Hegel esige che i rappresentanti non siano portatori di istruzioni particolare, ossia non siano dei deputati
con vincolo di mandato, giuridici. Quindi Hegel da una parte vuole una rappresentanza che fotografa le
differenze organizzate nelle corporazioni, dall’altra però dopo aver costruito la rappresentanza su questa
dimensione della fotografia, delle differenze corporative, impone ai deputati delle corporazioni di non
seguire le istruzioni delle corporazioni ma di far valere un’ottica generale.
L’obiezione di Marx è che se i deputati sono espressi dalle corporazioni e quindi in quanto membri della
corporazione dei burocrati, appartenenti all’agricoltura, ceto dell’industria, si entra nella camera di
rappresentanza, poi non è possibile che una volta entrati in sede parlamentare rappresentativa ci si
comporti come un astratto rappresentate della nazione, in quanto o si è un rappresentante della nazione o
delle corporazioni. Questa, secondo Marx, è la contraddizione che spezza il ragionamento hegeliano,
perché il mandato imperativo è impossibile nei tempi moderni in quanto la rappresentanza è politica e non
corporativa.
Quindi, dice Marx, o si vuole la rappresentanza corporativa, e quindi si deve necessariamente avere un
vincolo di mandato, perché il deputato segue gli interessi della sua corporazione di appartenenza; o si vuole
un deputato che legiferi, deliberi in maniera generale che però non lo si può ricondurre ad una rapporto
con le corporazioni, perché il deputato sia generale, organo della rappresentanza, deve essere espresso
attraverso elezioni nelle quali ciascuno vota come individuo e quindi supera la differenziazione in diversi
ceti organizzati, i ceti non possono avere rilevanza pubblica e politica. La politica è un’astrazione che deve
rompere tutti gli elementi di tipo corporativo.
Dunque, secondo Marx, il problema che si pone, una volta criticato Hegel e quindi superato l’impianto
organicistico e corporativo, è come far sì che il deputato eletto dal popolo non si separi in maniera
definitiva dai bisogni del popolo (la natura discorde di rappresentanza risiede in questo). Dunque se il
deputato viene eletto dal popolo, vuol dire che ha un rapporto con il cittadino stesso (anche se in tempi
moderni tale rapporto, dice Marx, non può esprimersi con vincoli e mandati ma è comunque esistente) un
rapporto di tipo politico che attraverso le elezioni vincola politicamente il deputato e i cittadini.
Il problema è quindi che il voto, secondo Marx, è il trasformatore dei bisogni in diritto, cioè attraverso il
voto si determina il riconoscimento degli interessi e dei bisogni e dentro la camera di rappresentanza
politica tutti gli interessi sono rappresentati per ragione del loro numero di consenso, quindi dentro la
camera gli interessi esistono ma sono rappresentati in maniera politica secondo raggruppamenti di
opinione e non di corporazione.
Dunque, l’astrazione francese e l’astrazione politica comporta che il rappresentante non rappresenta
corporazione ma aggrega opinioni e programmi, i quali sono la trasformazione di bisogni sociali in proposte
legislative, dice Marx, che attraverso il voto nella vera democrazia, nella rappresentanza con il suffragio
universale, ogni bisogno si trasforma in legge se ottiene il riconoscimento di un voto di maggioranza. Il voto
diventa, quindi, lo strumento con il quale si definiscono bisogni e diritti; è il voto che trasforma il bisogno di
una sfera determinata della società in diritto; il voto è il veicolo di interessi e di opinioni.
L’interesse, il bisogno, deve trasformarsi in una proposta politica che ottiene la fiducia. La rappresentanza è
il rapporto fiduciario che lega la rappresentanza politica e le aspettative della società civile, cioè i bisogni, gli
interessi, le domande.
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La rappresentanza per Marx non è una rappresentanza, come dicevano i teorici francesi, di tipo capacitario,
secondo i teorici francesi liberali infatti la rappresentanza deve esprimere i più capaci e quindi attraverso il
voto si seleziona un corpo politico specializzato capace; secondo Marx la rappresentanza capacitaria non è
l’essenza della rappresentanza moderna.
Se Hegel vedeva nella rappresentanza le corporazioni diverse; Marx vede nella rappresentanza gli interessi
e le volontà che esigono una trasformazione politico legislativa. Se dunque la rappresentanza con il voto
richiede leggi e diritti questo rende il problema della rappresentanza diverso dal puro e semplice elemento
fotografico di Hegel ma anche dalla rappresentanza capacitaria francese.
Marx obietta che la politica non è questioni di capacità ma la rappresentanza politica è il meccanismo
attraverso il quale gli interessi e le opinioni ottengono riconoscimento pubblico.
I teorici della rappresentanza capacitaria giungevano alla conclusione secondo cui dato che la
rappresentanza è il riconoscimento dei più capaci, soltanto gli individui che hanno capacità (cultura,
proprietà, capacità di leggere e scrivere) possono votare, al contrario Marx crede che il voto non esprima la
capacità ma gli interessi, i quali sono valutati dagli individui secondo una loro volontà che esige una fiducia
di tipo politico.
Ciò significa che la politica esige un rapporto politico fiduciario e quindi non il voto come riconoscimento
dei più capaci, dei più colti (dice Marx se la politica si riduce a questo o allora si dovrebbe fare un esame per
fare i rappresentati), in quanto la capacità è quella che può avere un calzolaio (a cui mi affido perché
riconosco la sua capacità nel formulare determinate prestazioni lavorative).
Nel campo politico, invece, non si ha un rapporto di tipo professionale basato sulla capacità, ma un
rapporto di tipo politico che è fondato sul riconoscimento che un deputato porta avanti le proprie opinioni.
Dunque è un rapporto fiduciario e non capacitario, secondo Marx, a definire la rappresentanza politica di
tipo moderno.
In questa struttura di rappresentanza che riconosce l’elezione, la fiducia e il divieto di mandato imperativo,
Marx auspica un progetto di allargamento verso forme di deliberazione e di partecipazione dell’opinione
pubblica della società civile. Queste forme di partecipazione sono la generalizzazione del principio elettivo
in ogni campo possibile.
Secondo Marx, la fiducia e il consenso devono essere non soltanto meccanismi che istituiscono il
parlamento ma anche in altre dinamiche della società, dove si svolgono funzioni politiche, è necessario
estendere il principio elettivo, quindi la moltiplicazione delle sfere in cui il voto è espresso per determinare
le rappresentanze oltre a quella parlamentare.
Quindi Marx non auspica la democrazia diretta, in quanto afferma che bisogna generalizzare il momento
elettorale, dunque, è una democrazia rappresentativa con momenti di deliberazione e di partecipazione. Se
vuole le elezioni generalizzate è perché ovunque si presentino spazi pubblici, oltre il semplice momento
parlamentare (esempio elezioni scolastiche), con allargamento della partecipazione a sedi che allargano il
momento deliberativo, rappresentativo, è quindi la generalizzazione del meccanismo elettivo che secondo
Marx rende possibile, quella da lui chiamata, “la vera democrazia”, con la quale si ha appunto una
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Marx afferma che la partecipazione dei singoli, la crescita di spazi pubblici deliberativi, non comporta
l’offuscamento di elementi di comprensione; secondo il filosofo “l’individuo deve partecipare però se chi
partecipa non conosce e non si informa è una bestia politica che porta nella sfera pubblica nozione non
aperte verso meccanismi generalizzanti, ma porta soltanto pregiudizi, vedute non critiche”. Quindi allargare
la partecipazione, coinvolgere gli individui, le masse e le moltitudini, però, questo può essere anche
rischioso se chi partecipa non ha capacità critica, non è informato, non ha una visione pubblica dei
problemi.
Dunque allargare la partecipazione perché così, secondo Marx, l’astrazione politica viene superata con
elementi di socializzazione della responsabilità politica il quale esige che il soggetto abbia una cultura civica,
mentalità pubblica, altrimenti la partecipazione non di per sé risolutiva.
Quindi quella che Marx chiama la “società politica reale” è la vera democrazia che consiste in un duplice
meccanismo:
La società partecipa e quindi esprime funzioni deliberative politicizzandosi, la società civile è quindi
una società che tende ad assumere compiti pubblici di gestione, quindi a portare la democrazia in
molti luoghi della società. La società civile non è più puramente mercantile o dimensione
economica perché nell’ambito della società civile Marx propone questa penetrazione di
partecipazione. Si hanno quindi meccanismi di politicizzazione della vita civile e la società civile
tende a non essere soltanto società mercantile, retta da denaro e culture, ma diventa società reale
in cui la politica assume una centralità. La società civile diventa sempre più interessata alle
dimensioni pubblico deliberative e quindi non è più una società civile che resta separata come
dimensione economica mercantile.
D’altro canto Marx afferma che attraverso il voto, la partecipazione, la rappresentanza allargata, la
democrazia deliberativa, lo Stato non è più lo stato politico astratto, cioè una dimensione
autoreferenziale, ma lo stato entra in ambiti sociali diversi e viene a perdersi la sua funzione
burocratico centralistica.
Quindi da una parte acquisizione di significato politico della società tramite dispositivi deliberativo
partecipativi; dall’altra tendenziale diminuzione del profilo burocratico centralistico militare dello Stato. Lo
Stato si democratizza, la sua dimensione burocratico-centralistica viene progressivamente a sciogliersi
dinanzi alla trasparenza, alla partecipazione, al controllo dell’opinione pubblica; questa per Marx
rappresenta la vera democrazia.
In questa tendenza, che per Marx è associata al suffragio universale, si ha l’istanza che come la società civile
non è più solamente civile ma acquisisce dimensione politica, così anche lo Stato si trasforma e lo Stato
politico perisce (anticipazione di quella che poi si chiamerà “la teoria marxiana della estinzione dello
stato”), questa estinzione dello Stato non rappresenta la fine del momento politico, per Marx non è lo Stato
in generale che viene tendenzialmente a declinare ma a declinare è lo Stato astratto, cioè lo Stato che
prende vita con l’ assolutismo monarchico, che era la prima versione dello Stato astratto moderno, cioè lo
Stato diventa meno astrazione e più comunità, meno apparato più dimensione deliberativa e sociale.
Il processo della ricomposizione della frattura tra stati e società civile è differente da quello di Hegel, infatti
per Hegel era la burocrazia e la corporazione a superare la scissione moderna tra stato e società civile, per
Marx né la burocrazia né le corporazioni sono il superamento della scissione, ma la vera democrazia, nella
quale contenuto e forma coincidono, in quanto se la legge che esprime gli interessi e i bisogni è definita dal
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Quindi non si può dire che da una parte vi è la democrazia formale e dall’altra quella reale (possibile nel
tempo della repubblica), ma nel tempo della vera democrazia forma e contenuto coincidono in quanto la
forma è espressione di una considerazione pubblica degli interessi.
Questa ripoliticizzazione della società avviene attraverso individui che con il voto hanno la possibilità di
determinare gli orientamenti del sistema politico.
Quindi la vera democrazia è un sistema politico rappresentativo elettivo che seleziona gli interessi e li
traduce secondo il principio democratico di maggioranza. Questo secondo Marx è il processo di una
tendenziale ricomposizione della frattura tra Stati e Società civile, cioè la democrazia come genus di tutte le
costituzioni o come antinomia sciolta di tutte le contraddizioni, è l’enigma risolto. Non ci sono più le
contraddizioni che costringevano Hegel a soluzioni ibride. Nella democrazia presa sul serio, politica e
società tendenzialmente coincidono perché la società può definire una gerarchia degli interessi, dei bisogni
meritevoli di tutela. Quindi, la società è politicizzata e la politica è aperta ai contenuti sociali. Questa è per
Marx l’ottica della vera democrazia, la proposta contenuta nell’opera giovanile “Critica alla critica di Hegel”.
2° CAPITOLO
Finora abbiamo visto Marx che opera su un terreno filosofico-politico e definisce in termini teorici il
problema della rappresentanza, della democrazia, dei processi politici che si stanno svolgendo in Europa.
Ora passiamo a un altro profilo dell’indagine di Marx, su un terreno storico-politico e quindi un’opera
diversa da quella giovanile.
In tale opera emerge uno stile diverso rispetto a quello dell’opera giovanile, da qui emerge un Marx
polemico, che però ha acquisito una forte ironia, la capacità di guardare con espressioni ironiche anche le
questioni politiche più controverse. Tale ironia caratterizza lo stile politico del Marx che indaga un problema
storico come il “colpo di stato di Luigi Bonaparte in Francia” e sviluppa una capacità letteraria evidente.
Si tratta di un testo che Marx scrive a ridosso degli avvenimenti che hanno caratterizzato la vicenda politica
francese. Se nella critica ad Hegel il problema teorico risolutivo era la vera democrazia e il suffragio
universale; le vicende francesi dopo il 1848 per un verso confermano la centralità del suffragio universale
ma dall’altro mettono in evidenza che il suffragio universale in alcune condizioni porta ad esiti reazionari.
Dal punto di vista teorico Marx formula l’esigenza della vera democrazia e del suffragio universale come
istanza fondamentale; successivamente gli avvenimenti francesi mettono in evidenza il problema analitico
che emerge quando il suffragio universale in Francia coincide con avvenimenti politici che portano non allo
stato astratto, superato con la vera democrazia, ma porta a forme di irrigidimento autoritario del potere.
Dunque il 18 Brumaio consente di mettere a confronto l’istanza teorica di Marx “la vera democrazia” e i
processi politici reali che mostrano un punto di arresto del processo di democratizzazione.
Il punto di riferimento è il sistema politico francese che nel 1848 conosce un importante processo
rivoluzionario importante e dopo i banchetti per le riforme vede cadere la monarchia di luglio e si stabilisce
una esperienza politica di tipo repubblicano.
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Come mai la democrazia in Francia si traduce in populismo, in vittoria del capo carismatico e rompe
gli equilibri della repubblica introducendo una dittatura personale.
Quest’opera di Marx si presta per una verifica delle sue teorie sulla democrazia ed è inoltre stata presa
come riferimento teorico per analizzare i fenomeni dell’autoritarismo del 900 (la caduta dei regimi
democratici).
Marx analizza come mai una democrazia appena nata diventi poi destrutturata dinanzi a processi politici
che non ha saputo gestire. Marx scrive quest’opera in contemporanea rispetto agli accadimenti, quindi,
definisce una sorta di scienza politica dell’istante, un’analisi dei processi che si stanno svolgendo sotto gli
occhi stessi dell’osservatore/scrittore. Marx è consapevole delle problematiche che si pongo in un testo che
nasce proprio nel vivo della battaglia politica e dunque molti critici di questa opera ne rivelano il tratto
fortemente polemico, il ricorso ad oggettivazioni forti, crude. Questa forza polemica che attraversa l’opera
convive con una capacità di lettura più in profondità dei processi; se è indubbio il significato militante
dell’opera è altrettanto certo che la polemica, l’invettiva si congiungono a suggerimenti di analisi che fanno
di quest’opera una rilevante composizione di analisi politica.
Marx si caratterizza per una tipologia d’indagine che, anche in questo testo polemico, rivela il suo modo di
procedere, cioè l’indagine storico-politica si caratterizza per una grande attenzione ai dati. Marx studia le
dinamiche storiche istituzionali avvalendosi di statistiche economico-istituzionali fornendo il rilievo
metodologico, secondo cui l’analisi politica non può essere disgiunta dalla indagine su alcuni nodi storici e
dalle dinamiche di natura economica.
Quindi nell’analisi polemica del caso francese, Marx mette insieme politica, società ed economia, perché
senza la società, le dinamiche economiche e senza la consultazione di dati statistici è impossibile venire a
capo di processi politici, dunque, Marx in questo si differenzia dalla storiografia politica, dall’approccio di
Tocqueville per il quale la storia è eminentemente politica.
In Marx la parte politica delle vicende storiche deve sempre congiungersi con indicatori di carattere
economico sociali, con ricorso a statistiche, a dinamiche che illustrano i cicli economici fondamentali; non
esistono, secondo Marx, storie che possano ritagliare il momento politico come ristretto nelle questioni
dinastiche, non esiste una storiografia seria se si guarda solo alle scelte, alle dinamiche che coinvolgono re,
regine, ambasciatori, etc. dunque un’istanza di una storiografia non meramente politica, centrata sui vertici
del potere, sulle dinamiche degli interni apparati.
Secondo Marx la storia politica, le vicende di una repubblica, di una democrazia, sono comprensibile a patto
che si esca dal puro elemento politico ristretto, assumendo un’ottica più allargata alle dinamiche che
coinvolgono la società, le relazioni internazionali, le dinamiche economiche, dunque un intreccio di più
saperi specialistici, non esiste una possibilità di comprendere una politica basandosi esclusivamente sulla
politica.
Marx afferma che “gli uomini fanno le circostanze, determinano i processi dentro vincoli; gli uomini sono
attori che sviluppano dinamiche di innovazione ma lo fanno entro determinati rapporti, non esiste
individuo senza rapporti, non esiste una politica senza dinamiche sociali e circostanze più complesse.”
Afferma inoltre che “in politica vale il principio secondo cui nessuna società può porsi problemi che non
riesce a risolvere” (nucleo del realismo di Marx, andare oltre a ogni utopismo), la società si pone soltanto
problemi che può risolvere perché porre problemi di cui è impossibile la soluzione è un'impresa vana, vi è
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Se dunque nell’indagine politica conta la circostanza, la società e le relazioni, il primo problema che Marx si
pone è valido il criterio che viene presentato da Victor Hugo del problema francese illustrato come episodio
di cesarismo? Il colpo di stato, la caduta del regno democratico in Francia sono vicende che possono essere
comprese alla luce di una volontà di potenza del singolo capo che quindi diventa l’artefice di circostanze? Il
cesarismo è una nozione soddisfacente?
Il cesarismo è vedere come un individuo “capo” porti avanti ambizioni di comando e diventi in virtù di un
suo disegno egemonico il protagonista, quasi unico, delle dinamiche storico politiche. Il cesarismo è un
capo che diventa l’attore centrale che si impossessa del potere e svolge un’attività tutta incentrata sulla sua
esclusiva volontà e capacità di dominio.
Marx obietta a queste teorie del cesarismo, che le vicende politiche non possono mai essere descritte come
un qualcosa che ricade su un unico attore, quindi nessun capo, per quanto carismatico possa essere, è
davvero l’assoluto protagonista delle vicende storico politiche. Non esiste un individuo che in quanto tale è
regista, attore, soggetto dominante.
Il cesarismo dunque, secondo Marx, non è una categoria analitica, tanto più che quelli che in Francia si
rifacevano a tale nozione per criticare il colpo di stato di Bonaparte, poi volendo sminuire la figura di
Bonaparte presentandolo, come faceva Hugo, come “Napoleone il piccolo”, cioè come una statura
insignificante rispetto a Napoleone il grande, lo presentano come un personaggio senza qualità e dunque
non capace di assumere un ruolo effettivo. Marx, dice, da una parte Hugo ed i critici di Bonaparte lo
sminuiscono come un personaggio al limite del grottesco, dall’altra però gli attribuiscono delle capacità di
direzione che contrastano con questa immagine dell’attore farsesco; ma o l’attore è farsesco o la categoria
del cesarismo risulta infondata.
Secondo Marx il problema del cesarismo non è risolvibile con categorie che vedono i fenomeni storico-
politici come teatro di ambizioni e di capacità, occorre dunque svolgere una funzione che dai capi allarghi la
vicenda alle questioni più essenziali. Per Marx il cesarismo non è una categoria risolutiva perché la società è
un laboratorio più complesso rispetto a quello di qualsiasi attori, nessun leader più o meno carismatico
esaurisce il ventaglio delle opportunità e delle dinamiche della società e della politica.
Dunque Marx suggerisce, come prima istanza critica, di rimuovere il concetto di cesarismo, perché qualsiasi
spiegazione del fenomeno politico alla luce delle facoltà carismatiche palesate da un attore singolo
allontana dalla comprensione dei processi reali. Marx ritiene che non sia il carisma di un singolo a
determinare i processi, ma semmai sono i processi, che egli suggerisce di indagare con una visione storica e
con informazioni economiche, a rendere possibile ad un personaggio, come quello descritto da Hugo “il
piccolo”, di svolgere una funzione centrale.
Quindi Marx rovescia il percorso dei teorici del carisma: non è il carisma che determina i processi, ma sono i
processi, determinate vicende, dinamiche economiche, a consentire in determinate condizioni critiche ad
un individuo di assumere una funzione politica rilevante e centrale.
Dunque anche il capo carismatico, la figura cesaristica è secondo Marx una figura storico politica che
appare non per facoltà mitiche (qualcosa di incomprensibile) ma si tratta di un fenomeno che può essere
compreso con un’indagine più approfondita; è un livello di esplosione di un fenomeno che può essere
capito.
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Dunque l’indagine di Marx intende accantonare ogni mistica del capo carismatico e il suo sforzo di analisi è
fare del capo carismatico del cesarista non il punto di partenza ma un risultato di determinati rapporti
politici e sociali; quindi lo sforzo di Marx è quello di cogliere nella vicenda francese una conferma da alcune
ipotesi circa la natura della politica moderna. La sua ipotesi è che il suffragio universale in Francia ha una
ricaduta ed in Inghilterra ne ha un'altra; il suffragio universale in Francia coincide con il cesarismo perché la
maggioranza degli elettori sono contadini e quindi la dinamica politica è fortemente intrecciata con la
dinamica sociale del corpo elettorale; in Inghilterra dove invece vi è un’altra composizione sociale per Marx
il suffragio ha un’altra ricaduta rispetto alla Francia di metà ‘800.
25/03/2021
Il 18 Brumaio di Marx contiene un aspetto molto polemico ma al tempo stesso suggerisce alcune linee
interpretative dei processi politici.
La principale linea interpretativa è che la categoria di cesarismo o di personalizzazione del potere di per sé è
insufficiente e persino fuorviante. Marx si riferisce alle polemiche contro Luigi Bonaparte autore del colpo
di Stato che pone termine all' esperienza della seconda Repubblica francese e una polemica accesa da parte
dei saggisti, scrittori, come Hugo, Proudhon, accentuava il profilo del cesarismo, come chiave interpretativa
del fenomeno.
Marx riscontrava una aporia in questo ricorso alla categoria di cesarismo perché da una parte il cesarismo
evocava una figura eccezionale, quella che Hobbes avrebbe chiamato il politico vanaglorioso (la vanagloria
in Hobbes e in altri autori classici del pensiero era l'equivalente del concetto weberiano moderno di
carisma) e quindi da una parte vedono nel cesarismo l'espressione della vanagloria, dell’esagerato culto di
sé, della attribuzione a un capo di virtù straordinarie; dall'altra però dopo aver scomodato questo concetto
di cesarismo, di carisma, Proudhon e Hugo dipingevano Luigi Buonaparte come una figura del tutto
grottesca, caratterizzata dalla mediocrità assoluta. Marx, quindi, rileva questo contrasto, o è un capo
carismatico eccezionale o è questo personaggio grottesco ai limiti del caricaturale; dice Marx, se è vero che
è un personaggio così mediocre, come mai ha avuto il successo e ha cambiato le prospettive politiche della
Repubblica francese.
Secondo Marx, nessuno dei due atteggiamenti è accettabile per comprendere il processo politico, non che
rinunci a classificare anche lui Luigi Bonaparte in termini grotteschi e rimarca anch’esso il carattere
mediocre; sono quindi tutti sicuri sul fatto che Luigi Bonaparte era un personaggio mediocre,
assolutamente banale, privo di effettivo carisma.
Il problema è come mai riesce a vince e sconfigge i suoi avversari e si proclama imperatore?
La categoria di cesarismo, a giudizio di Marx, non è sufficiente come strumento di indagine; può essere
tutto al più una categoria polemica, un’utilizzazione critico-strumentale.
Un po' come fece Machiavelli con la storia di Cesare, quando condanna tutte le celebrazioni di Cesare fatte
da autori e scrittori, dicendo che si tratta di una storia scritta dal vincitore, il quale ha indotto gli autori a
esaltarne la gloria. Cesare era per Machiavelli un capo che trasferiva dal campo militare a quello politico il
suo prestigio per rompere i vecchi equilibri statali. Machiavelli forniva una prima indicazione per
comprendere queste fenomenologie di personaggi noti in altri campi, quindi non strettamente politico, e
però poi invadono la sfera politica come capi che hanno profondamente le strutture della statualità. Il
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Marx non nega il ruolo dell'elemento carismatico simbolico ma ne circoscrive la comparsa e l'effetto
politico. L'effetto politico di un capo carismatico, secondo Marx, si ha soltanto in una fase storica precisa,
dice, quando tra gli attori politici principali nessuno è in grado di vincere, si determina una situazione di
equilibrio prolungato, dal quale può affiorare un capo con virtù pseudo-carismatiche che realizza una sorta
di tregua, un processo di allontanamento dal conflitto e di stabilizzazione.
Il cosiddetto cesarismo per Marx è un periodo di apparente tregua, di soluzione di compromesso, perché il
conflitto è troppo statico equilibrato e però è intervenuto un qualcosa di nuovo una situazione di crisi
dell'economia, di crisi della politica, di mobilizzazione di soggetti nuovi e si determina un autentico
cortocircuito per cui la vecchia razionalità politica e sociale è sospesa; entra in campo una diversa
mentalità, una diversa logica che il mediocre Luigi Bonaparte conduce sino al successo.
Dunque Max rovescia il ragionamento per cui non è il capo carismatico che porta alla crisi, ma è la crisi che
produce fenomeni pseudo carismatici e quindi sono le circostanze, le relazioni, gli equilibri politici, sociali,
istituzionali, a determinare in situazioni particolarmente critiche soluzioni che escono dall'orbita della
tradizione e delle regole date.
Marx ricorre ad un’analisi ironica nel 18 Brumaio asserendo che Hegel aveva scritto che nella storia
universale gli avvenimenti si ripetono sempre due volte; aggiunge Marx in chiosa, Hegel si è dimenticato di
precisare che una volta come tragedia un'altra come farsa, il gioco farsa-tragedia è un elemento di analisi
che ricorre esplicitamente a quello che potremmo chiamare la teatralizzazione. Farsa e tragedia sono
categorie teatrali che Marx raccoglie e utilizza per l'analisi politica, perché negli scritti politici di Marx c'è
sempre riferimento a Shakespeare, a figure teatrali, in quanto raccoglie molto le metafore, le suggestioni
letterarie come il Don Chisciotte; utilizza, dunque, questi grandi classici della letteratura e del teatro per
descrivere comprendere una situazione, un personaggio, un mutamento storico politico.
Il Napoleone il Grande (quello vero) è celebrato da Marx è descritto come un grande interprete della
moderna società borghese che non esita a espandere il verbo rivoluzionario, il codice civile borghese, in
tutti i territori europei; con l'esercito Napoleone ha portato i codici nuovi ossia i rapporti economici, nuovo
regime familiare, codice civile tutto mutato. Egli coglie la grandezza di Napoleone come interprete
straordinario della modernizzazione borghese scaturita dalla rivoluzione francese, è visto come colui che
porta il linguaggio dei diritti e del mercato del sistema borghese capitalistico in tutti gli angoli perché
diffonde una nuova lingua, il calcolo economico, il culto della proprietà privata come diritto inalienabile
dell'uomo.
Il grande è visto dunque come l'interprete reale dello spirito dell' 89 francese, nelle pagine iniziali del 18
Brumaio, Marx riscontra che le rivoluzioni moderne da quella americana a quella inglese a quella francese
ricorrono a questo espediente: citano letteratura classica, metafore linguaggi personaggi della Grecia o di
Roma antica, per Marx queste maschere antiche vengono utilizzate strumentalmente per trovare una forza
giustificante; un motivo ideologico risiede quindi nel dialogo delle rivoluzioni moderne con figure
personaggi libri antichi classici.
Questa fase, dunque, dell'uso di maschere romane antiche, ad esempio, il culto del cittadino, il culto della
Repubblica sono tutti i recuperi della tradizione romana o dell'agorà ateniese. Queste immagini antiche,
però, dice Marx nascondono preoccupazioni del tutto moderne che però non hanno ancora avuto
espressioni autonome e devono quindi ricorrere al prestito di suggestioni letterarie di figure e di miti
dell'antichità per affrontare però sfide tutte presenti. Solo quando la società moderna svolge in termini
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Napoleone il Grande è dunque colui che traduce il linguaggio economico e giuridico, le dichiarazioni dei
diritti universali dell'epoca moderna e traduce le dichiarazioni in codici; passa quindi dalla proclamazione
astratta di diritti, al codice civile del 1804, che è un capolavoro della scienza giuridica moderna. Ha quindi
sistematizzato in istituti il funzionamento della modernità.
Marx celebra Napoleone in quanto quest’ultimo ha tradotto in codici, in espressioni giuridiche ciò che
prima era affidato a dichiarazioni dell'uomo e del cittadino, erano quindi astratte senza traduzioni
operative. Napoleone le traduce in linguaggio giuridico; il codice civile è l’istituzionalizzazione della
moderna proprietà privata del tempo storico borghese e Napoleone è colui che regola, sistematizza,
fornisce istituzioni giuridiche per il funzionamento della società moderna. Dunque in Marx la figura di
Napoleone viene esaltata.
Dal punto di vista politico Marx fornisce la stessa diagnosi di Tocqueville circa il rapporto tra assolutismo
moderno e rivoluzione francese. Secondo Tocqueville (e Marx è dello stesso avviso) non esiste soltanto una
cesura segnalata dalle barricate, dalla decapitazione del monarca. Oltre questi aspetti di discontinuità
simbolica molto evidenti, secondo Marx, c’è dell’altro.
Marx dà ragione Tocqueville, condivide l’idea che l'antico regime viene anche ad essere continuato dopo la
rivoluzione francese e con Napoleone. L'elemento di continuità secondo Marx e Tocqueville è che la società
di Corte aveva costruito la grande macchina dello Stato astratto; la monarchia assoluta è la prima forma di
statualità moderna che utilizza l'apparato amministrativo e la burocrazia per svolgere un'opera non
soltanto di centralizzazione del potere, ma anche di uniformità giuridica e sociale. La macchina burocratica
amministrativa serve alla monarchia assoluta per distruggere il feudalesimo e il patrimonialismo politico.
Marx vede in questa opera che ha richiesto la burocrazia, l’amministrazione, il diritto, la centralizzazione
politica, un fatto che la rivoluzione francese non scioglie.
Dice Marx che tutte le rivoluzioni moderne, anche quelle successive all' 89, non hanno distrutto la grande
macchina statale della monarchia assoluta, hanno soltanto cercato di conquistarne il controllo per svolgere
funzioni all'interno dello Stato astratto; nessuna rivoluzione dice Marx, tranne poi quella della Comune di
Parigi, si è mai posta l'obiettivo di smantellare questa grande macchina centralistica con una burocrazia
inaccessibile; e l'89 francese con l'impianto napoleonico conferito all'amministrazione è in continuità con
l'invenzione della monarchia assoluta.
Proprio Napoleone costruisce lo stato burocratico centralistico moderno con il sistema dei prefetti che è un
apparato pervasivo di controllo del centro su tutte le periferie, dunque il territorio è amministrato da un
centro forte, unitario, omogeneo che è in grado di controllare e dirigere ogni processo reale.
Dunque Napoleone è questo grande stato macchina, questa statualità centralizzata che dota la Francia di
una grande tradizione amministrativa che dura ancora oggi, la Francia dell'amministrazione forte capillare
centralizzata è una eredità napoleonica che attinge anche dalla società di Corte in certa misura.
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Napoleone si rende conto che se non si spezza la grande proprietà nobiliare, i grandi possessi fondiari,
l'elemento politico non domina veramente, perché nella società sono distribuiti poteri concentrazioni di
forza economica che attribuiscono alla proprietà della terra una rilevanza eccezionale rispetto alla quale il
potere politico può ben poco.
È come oggi una proprietà immateriale come ad esempio Amazon che sfugge ogni determinazione del
potere politico; lì era la proprietà della terra di un bene molto concreto e visibile, oggi sono grandi
multinazionali che dirigono attraverso algoritmi ma il fenomeno è lo stesso: lo Stato domina solo nella
misura in cui, pensava Napoleone, distrugge la potenza economico sociale della vecchia struttura
proprietaria.
Dunque Napoleone, dice Marx, cambia la base materiale dello Stato, non opera soltanto come politico che
gestisce l'apparato statale burocratico ma al momento politico amministrativo congiunge l'aspetto
economico sociale; secondo Marx il segreto del successo e del mito perdurante di Napoleone è nella sua
rivoluzione sociale, ossia lo Stato come sentinella di una grande opera di distribuzione della terra (questo
secondo Marx è il segreto del mito prolungato di Napoleone).
Napoleone è colui che ha portato i contadini in ogni parte di Europa a diffondere il verbo dei diritti e della
rivoluzione ma a questi figli dei contadini ha dato terra e quindi è questo per il contenuto sociale del
bonapartismo ossia la distribuzione della terra.
Napoleone ha fatto quello che non è stato possibile fare in Italia dopo l'unificazione del 1861 la grande
riforma agraria, Napoleone ha fatto la grande riforma agraria distribuendo terra ai piccoli contadini; ha
rotto dunque il potere sociale nobiliare aristocratico nel suo punto di forza ossia la terra e la proprietà
statica dei beni immobili; ha reso la proprietà dinamica mobile del tempo borghese proprietario, la
proprietà principale e la terra l’ha distribuita in piccole dosi a milioni di contadini, per cui questi milioni di
contadini amano lo Stato francese, amano Napoleone, ma non per motivi delle maschere romane evocate
dai rivoluzionari, ma per un motivo molto più contingente lo Stato sentinella, ossia lo Stato che ha dato a
tutti i contadini terre per sopravvivere e quindi la piccola proprietà distribuita.
Dice Marx che vi è una differenza che poi noterà tra l'Inghilterra e la Francia:
IN FRANCIA la terra è gestita da milioni di piccoli contadini autonomi che sono quindi proprietari
del loro appezzamento, lo lavorano con una conduzione tradizionale familiare spesso improduttiva
e però sono proprietari, si riconoscono nello Stato sentinella della proprietà perché anche loro sono
proprietari e fanno causa comune con la proprietà intesa come valore fondativo;
IN INGHILTERRA dice Marx, il profilo della proprietà è diversa in quanto il profilo della proprietà
è quella dei braccianti, quindi figure che non sono proprietari e sviluppano nella terra grande
risentimento verso il padrone, portando dunque a episodi di lotta di classe nelle campagne; molto
forte in Inghilterra così come ad esempio in Italia nella pianura padana tra fine 800 e primo 900.
Infatti nei luoghi descritti da Bernardo Bertolucci nel 900 dove appunto vi è la terra dove c'è il
bracciante che si sviluppa situazioni di grande conflitto, di irriducibile polarizzazione.
In Francia, invece, la terra non è occupata dal bracciante e quindi il contadino francese non è come il
contadino bracciante inglese o dell'Emilia Romagna che ha dato luogo ai primi episodi di sciopero
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Questa secondo Marx è la ragione fondamentale che spiega il mito di Napoleone il Grande e le dinamiche
politiche francesi: il contadino francese non partecipa alle lotte di innovazione perché si sente proprietario.
Napoleone ha realizzato in una certa misura quello che teorizzava la signora Thatcher il cosiddetto
“capitalismo popolare”, cioè rendere tutti i proprietari in modo tale che l'ordine liberista diventa un
ordinamento che vede tutti coinvolti nella sua tutela e riproduzione regolare nel tempo.
Questo è Napoleone il Grande: codici, stato, amministrazione, riforma della terra, è quindi una figura di
grande rilevanza storico politiche.
Napoleone il piccolo, invece, suo nipote, è da tutti, anche da Marx, considerato un epigono piuttosto
scadente, di lui non si apprezzano capacità militari come lo zio, non è conosciuto per un prestigio politico o
militare, tutti lo conoscono e lo descrivono come un personaggio dai gusti mediocri; che ha inoltre una
situazione particolare è pieno di debiti, è un avventuriero estremamente indebitato che cerca di risolvere i
suoi problemi, le sue questioni economiche private con esperienze di vario genere; non è abile nella
conversazione, non ha particolari capacità intellettuali e attitudine retorica, è dal punto di vista del prestigio
molto carente in ethos e quindi il problema che si pone è di cosa vive questo Napoleone piccolo? Qual è
l'elemento che ne caratterizza la capacità di presa?
Marx azzarda un’ipotesi, ossia egli è carismatico in virtù del nome, cioè il nome stesso di Napoleone è tutto
un programma è una concezione del mondo; quindi Napoleone il piccolo sfrutta glorie, capacità che non ha
ma tutti riconoscono in un nome, la fascinazione di un nome, di una tradizione che diventa leggenda/mito;
questo è al centro dell'indagine di Marx.
Quindi quando alcuni critici dicono che in Marx vi è il determinismo economico non è vero nulla, in quanto
proprio in quest'opera si ricorre a immagini teatrali, a ruolo del simbolico come il nome di Napoleone come
simbolo, non c’è nulla di deterministico economico ma c’è la comprensione di molteplici livelli indagine che
vanno accuratamente scrutati e colti nella loro valenza.
Il cosiddetto determinismo economico è una sorta di leggenda storiografica per quanto riguarda il pensiero
di Marx, proprio il 18 Brumaio mostra un approccio tutt'altro che determinista ed economicista. Infatti
Marx prende in esame molteplici variabili, certo la crisi economica è un fattore scatenante e riconosciuto
quindi il problema degli interessi delle relazioni sociali tra le classi, ma accanto a questo Marx indaga altri
momenti a storia delle istituzioni quindi com'è nato lo Stato francese e quindi l'eredita istituzionale, indaga
il processo politico di crisi della vecchia monarchia di luglio di avvento del nuovo ordine repubblicano, gli
attori, i soggetti, i partiti nascenti, il disegno costituzionale, non è vero che in Marx c'è la sottovalutazione
dell'elemento costituzionale giuridico, proprio in quest'opera cioè tutta una parte dedicata all'esplorazione
dei contenuti delle costituzioni francesi e il tentativo di cogliere l' aporia la contraddizione dentro la carta
che vede la compresenza tra due elementi.
Dunque la costituzione appare contraddittoria perché culmina in due teste dai poteri esplicitamente
riconosciuti che in un eventuale contrasto porteranno la costituzione ad esplodere, perché anche il testo
costituzionale secondo Marx dà l'opportunità di conflitti e di tensioni. Inoltre analizza le strutture sociali
della proprietà, della famiglia, l'elemento religioso, il peso delle relazioni internazionali, il ruolo dell'esercito
nelle dinamiche politiche moderne. Quindi sono molteplici gli elementi che vengono intrecciati per offrire
una spiegazione complessa non semplificante dei processi politici.
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Marx dice che lo stato di assedio di Parigi del ’48 fu l’ostetrico di una nuova condizione politica. Questo
perché in Francia, Marx riscontra una pendolarità tra spinte di innovazione e ritorni di reazione o di
conservatorismo politico; l’accelerazione dell’89 che diede il suffragio universale maschile ci fu un record di
aventi di diritto al voto, dopo la caduta della Francia di Napoleone e della nuova costituzione del 1815, il
corpo elettorale da 9 Milioni come era stato prima scende a poco più di 100 mila di elettori. Quindi un
pendolo tra tentativi di stabilire un regime di massa e ritorni a concezioni ristrettissime delle funzioni
politiche fondamentali.
Dopo il ’15 viene la monarchia di Luglio che dura fino al ’48 e non si caratterizza, secondo Marx, per un
allargamento significativo delle libertà costituzionali, c’è una forma di separazione dei poteri, timidi diritti di
libertà e un problema irrisolto: gli aventi di diritto restano molto pochi e i tentativi di allargamento non
sono sopportati dal potere politico. Domina la lettura capacitaria da un autore il quale dice che non bisogna
allargare i diritti elettorali perché soltanto i capaci hanno i lumi necessari per poter votare, la massa non è
capace, non ha intelligenza politica e non può pretendere di esprimersi sulle questioni statali.
Questa situazione di compressione delle libertà politiche era mal vista dai ceti borghesi nascenti, dalle
nuove figure professionali, dai ceti operai e cittadini e quindi ci sono situazioni conflittuali, margini di lotta
politica per chiedere nuovi diritti. Il potere politico vietava manifestazioni di piazza a fini politici e
concedeva soltanto autorizzazioni per matrimoni, banchetti etc.
In Francia sul finire del ’47 e i primi del ’48 i banchetti divennero un’occasione per camuffare un episodio di
lotta politica per una cerimonia di varia natura e quindi i banchetti richiedevano forme anche timide
all’inizio di libertà politica, di innovazione nel campo dei diritti. Molto si svolgeva regolarmente quando ci fu
una inaspettata esplosione di violenza da parte dell’esercito che cambiò la situazione, ci fu un’insurrezione
politica e il ritorno delle barricate nelle strade di Parigi e quindi forme abituali per la Francia di
mobilitazione collettiva. L’esercito secondo un copione ottocentesco non spara sui rivoltosi ma fa causa
comune con i manifestanti perché neanche i soldati godevano di diritti politici. Dunque la rivoluzione ha un
trionfo, Marx dice essere la fase universalistica, buonista della rivoluzione, tutti si sentono cittadini della
stessa patria, tutti sotto una medesima bandiera.
A questa fase appartiene la fase dei diritti, delle proclamazioni di condizioni politiche più innovative e
l’intensificarsi delle iniziative politiche e le fasi di conflitto portarono alla vittoria della soluzione
repubblicana. Secondo Marx vince la soluzione repubblicana perché la Francia aveva avuto diversi
pretendenti al trono (gli eredi di Napoleone, della dinastia di Orleans, i Borbone), lo scettro quindi non era
un elemento unificante ma di rottura. Quindi, dice Marx, la Repubblica vince perché i monarchici avevano
tre teste da incoronare e quindi la divisione del partito monarchico portò all’inaspettato trionfo della
soluzione repubblicana.
Marx rileva una sorta di paradosso nella genesi della Seconda Repubblica francese del 1848: è una
Repubblica voluta da una maggioranza di monarchici e quindi siccome la maggioranza monarchica non si
metteva d’accordo, la soluzione fu nella Repubblica. Questo per Marx è un punto di debolezza nel sistema
politico repubblicano perché questa ipoteca delle tre fazioni monarchiche sarà molto rilevante nelle fasi
politiche successive.
Dunque la Seconda Repubblica francese nasce con il campo monarchico diviso che cede come situazione di
compromesso e si spera molto temporanea alla Repubblica come situazione di equilibro. Oltre a questa
nascita dovuta alla divisione del campo monarchico, Marx vede una eterogeneità del campo repubblicano
progressista, il fronte della cosiddetta Repubblica sociale o Repubblica rossa. Dice Marx che nel ’48 per la
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Marx vede confermata la sua idea del “Gallo Francese” che inizia a cantare e sveglia dal torpore tutta
l’Europa, dagli avvenimenti del ’48 che dà l’esempio e in tutta Europa ci sarà un movimento di protesta
radicale che intende cambiare le strutture del paese delle diverse società.
Dunque in questo panorama francese da una parte esiste una cultura monarchica che cede
momentaneamente la testa perché in disaccordo sul collo da premiare e nel campo delle forze di
innovazione Marx vede la compresenza di due istanze:
- una di tipo universalistico borghese, un radicalismo borghese repubblicano che prende sul serio il
linguaggio dei diritti e pensa che bisogna sviluppare una Repubblica dei diritti universali del
cittadino. Vede nella fratellanza universale la grande speranza di emancipazione.
- Questa cultura del popolo come insieme di liberi cittadini viene sfidata (Marx in questo vede un
fatto positivo) dai movimenti più radicali, socialisti o comunisti del tempo, i quali spezzano questa
grande atmosfera edificante di fratellanza e di universalità e vedono che il popolo non è
un’astrazione di soggetti eguali accumunati da uno spirito di fratellanza ma il popolo è un insieme
di classi e di differenze sociali.
Quindi dentro il campo repubblicano socialista esistono due culture: una dei diritti universali come un
qualcosa di risolutivo e un’altra socialista operaia che non si accontenta dei diritti universali e pretende
qualcosa di più, pretende una repubblica del lavoro, sociale. Queste tensioni sono al centro della
descrizione che Marx fa degli avvenimenti e vede questa dinamica portare a fasi di scontro relativi al
carattere della Repubblica.
Questa formula (riconoscimento del diritto al lavoro), che anche Marx vede nelle sue debolezze nel punto
di vista concreto, era osteggiata da molti costituenti e anche Tocqueville scrive che riconoscere in una
costituzione il diritto al lavoro significa piegarsi alla fine della proprietà, a un regime collettivista e
fortemente dispotico e quindi riconosceva invece nel mercato, nelle libertà tradizionali, il fulcro della
vicenda politica, contro questo spettro del lavoro che intende diventare il contenuto della costituzione.
Il movimento degli operai, dei lavoratori, ottiene un qualche riconoscimento, non tanto sotto il profilo
costituzionale dove la formulazione rimane ambigua nel rapporto con il lavoro, ma nell’affidamento a una
agenzia nazionale del compito di garantire la sopravvivenza a 100mila disoccupati. Queste case, atelier del
lavoro sono una conquista rivendicata da Blanc esponente del movimento socialista francese che vede in
queste strutture una significativa istituzionalizzazione della presenza del lavoro e quindi nella lotta esplicita
di un nuovo potere contro la disoccupazione, la povertà.
Queste misure di attivazione in favore dei disoccupati, però, vede la resistenza di molti ceti, soprattutto di
quelli più ricchi ma anche dei ceti più contadini che vedono nel fatto che alcuni prezzi sono aumentati per
finanziare questi atelier per sostenere il lavoro, il pericolo di una espropriazione della proprietà. Quindi
nelle misure a favore del reddito del lavoro intraprese sulla scia di Blanc si crea un conflitto tra i senza
lavoro che pretendono reddito, assistenza per sopravvivere e chi deve pagare tasse e quindi rifiuta di
destinare risorse pubbliche in favore del mantenimento di queste centinaia di persone in un regime di
occupazione non strettamente produttivo.
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Dunque la Repubblica francese vede queste due culture: chi vuole soltanto un’unificazione giuridica dei
cittadini come formalmente eguali e chi vuole che il cittadino sia visto in carne ed ossa. Quindi la cultura più
liberale, l’astrazione del cittadino come categoria unificante, il movimento socialista decodifica la nozione di
cittadino e vede il suo peso nella vita reale, il suo rapporto con la produzione, il lavoro e quindi le condizioni
di sopravvivenza.
Quando gli atelier voluti da Blanc vengono soppressi gli operai e i disoccupati si ribellano e vogliono
mettere fine alla Repubblica che combatte il diritto al lavoro. Quindi nel Giugno del 1848 si verifica
l’opposizione tra le declinazioni moderate liberali di repubbliche di costituzione e le rivendicazioni
proletarie che vogliono una repubblica dei lavoratori e dunque lo Stato che diventa meccanismo di
riconoscimento e inclusione sociale. L’assalto dei proletari viene represso e “il maledetto Giugno”, come
dice Marx, ha visto la tradizione operaia soccombere; l’assalto operaio per cambiare la repubblica in
direzione sociale non ha successo, vince la forza armata che fa ricorso a repressioni cruente.
Dunque “il maledetto Giugno” di cui parla Marx è la ferita mortale nella storia della Repubblica del ’48, cioè
gli operai parigini che erano stati decisivi a Febbraio quando fecero causa comune con i ceti borghesi per
chiedere una nuova costituzione e imporre la Repubblica, ora diventato i nemici interni, i pericolosi
sovversivi che possono abbattere il regime economico in nome del lavoro.
La repressione di Giugno viene decretata da un Generale esponente del campo repubblicano borghese
moderato e dice Marx “il maledetto Giugno” separa in maniera catastrofica (per quanto riguarda il
susseguirsi degli avvenimenti) la Repubblica dal proletariato. La Repubblica a Giugno ha represso l’assalto
proletario e quindi delle due istanze, quella liberale legata alla proprietà, quindi diritti politici ma nella
continuità del regime economico di mercato e quella socialista, quindi diritti politici accanto a diritti sociali,
vince con le armi quella repubblicana proprietaria e quindi nel Giugno del ’48 si ha questa drammatica
rottura dei soggetti della Repubblica, una parte si schiera con gli insorti parigini, il filone rosso sovversivo e
anarchico e dall’altra il filone dell’ordine, della stabilità, della proprietà.
Questa frattura viene ritenuta da Marx fondamentale per cogliere le vicende a seguire. Perché la repubblica
crolla? Perché gli operai non hanno fatto resistenza quando Luigi Bonaparte ha operato il suo colpo di
Stato? La risposta di Marx è “ricordate il Giugno del ‘48”, perché a difendere la Repubblica contro
Bonaparte sarà lo stesso Generale che ha comandato la Francia nello stato d’assedio del ’48 reprimendo i
moti operai. Quindi quando la Repubblica entra in crisi gli operai con chi dovrebbero stare con Bonaparte o
con il Generale che ha represso il loro assalto parigino nel ’48?
Secondo Marx questa è la vera causa del successo di Napoleone che ottiene anche il voto operaio rispetto
alla causa repubblicana, perché i repubblicani erano percepiti come i custodi dell’ordinamento proprietario
mentre Napoleone, da capo politico populista, si presentava come nemico della proprietà, delle élite e della
finanza.
31/03/2021
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Quindi quello che Marx si propone di fare è di comprendere le ragioni per cui la Repubblica francese dopo
soli 3 anni culmina in un’esperienza di colpo di stato. La categoria da utilizzare che altri autori suggerivano
per interpretare questo fenomeno era la nozione di cesarismo, quindi una torsione autoritaria e
personalistica che rende il potere una postazione debole, occupata dalle forze che intendono mutare gli
equilibri e sospendere le condizioni di una vita libera e politicamente organizzata.
“Cesarismo”, secondo Marx, è una nozione riferita ai processi politici del passato e non è possibile
confondere eventi politici molto differenti tra loro risalenti a sistemi, epoche diverse. Il cesarismo in quanto
evoca un ruolo centrale della persona, del capo, secondo Marx non è una categoria utile per comprendere
le dinamiche della politica moderna che riguarda invece strati di popolazione, soggetti molteplici, profili
politici e statali molti peculiari nella loro fisionomia.
Quindi, il Cesarismo come vocazione al potere personale è da Marx ricondotto entro una cornice
interpretativa più ampia, e quindi il ruolo della figura cesarista, il cosiddetto capo carismatico, va colto
entro una struttura economica, sociale e politica la quale va indagata alla luce delle sue dinamiche
costitutive.
Dunque, non è il capo cesarista il protagonista assoluto della vicenda politica, colui che determina, secondo
un atto di mera volontà individuale, lo sviluppo dei processi politici. Il Cesarismo sarebbe come la
sospensione della nozione di società, non esiste più la società, i rapporti, le forze sociali complesse, bensì
esiste un individuo, un cesare, che come soggetto individuale che ha un potere esorbitante capace di
determinare tutto il processo storico e politico.
A giudizio di Marx non è possibile interpretare in maniera realistica i processi politici alla luce di questa
esaltazione delle capacità creative di un individuo. L’influenza di un individuo, più o meno carismatico, è
inserita entro una cornice più ampia e dentro l’equilibrio che si crea e si rompe, dentro situazioni politiche
complesse, a determinare la figura carismatica come soluzione, sbocco a eventi che non trovano altri
momenti di aggiustamento. Dunque spostare l’attenzione dal capo, dall’individuo, al sistema, all’intreccio di
forze che sono presenti in una determinata fase storico-politica.
Anche l’altra nozione che viene utilizzata, “Bonapartismo”, viene da Marx ricondotta all’interno di questo
limite. Anzitutto il Cesarismo e il Bonapartismo hanno punti di collegamenti ma hanno anche diversità di
prospettiva:
CESARISMO: è interpretato come una dinamica al rafforzamento del potere e della figura di un individuo
fortemente carismatico che può operare anche in condizioni repubblicane, democratiche. Il cesarismo è
l’emersione di una figura di forte prestigio che rafforza le sue pretese di influenza senza necessariamente
rompere il gioco politico competitivo. Il Cesarismo può essere una fenomenologia che opera dentro una
struttura liberale, repubblicana, democratica.
BONAPARTISMO: è quella particolare dimensione del Cesarismo che non sta più dentro il gioco liberale,
democratico competitivo, ma sviluppa una strategia di potere personale che sospende le vecchie regole del
gioco. Il Bonapartismo è una sorta di tecnica nel colpo di Stato, un processo politico che sul fenomeno
cesaristico (vale a dire l’emersione di una figura individuale fortemente visibile, capace di trascinamento),
approfitta di questa dimensione del trascinamento e del carisma riconosciuto a un soggetto per cambiare il
sistema e romperne le regole di funzionamento. Dunque, il Bonapartismo non è un Cesare qualunque, un
capo che vince le elezioni, ad esempio, in virtù di un forte trascinamento e seguito personale, bensì il
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Dunque, il Bonapartismo è quel momento attraverso il quale un capo politico sviluppa il suo prestigio, il suo
carisma, per definire un altro quadro politico, istituzionale. Il Bonapartismo è la rottura del sistema politico
e l’introduzione di un altro regime. A questo riguardo, Marx gioca sulla coppia farsa-tragedia, riprende la
formula hegeliana degli accadimenti della storia universale che si presentano sempre due volte (Marx dice
che Hegel si è dimenticato di aggiungere una volta come tragedia e una seconda come farsa).
Qui farsa e tragedia i due elementi che Marx intende indagare sono: la prima volta il colpo di stato di
Napoleone il Grande che introduce una torsione personalistica e sviluppa un potere di tipo imperiale e
quindi è il colpo di stato che conferisce a Napoleone Bonaparte il potere irresistibile. Marx descrive la figura
di Napoleone il Grande come l’incarnazione in tempi moderni di una condizione di primato assoluto della
politica; secondo Marx, Napoleone mette la politica al posto di comando e attraverso il potere di primato
dello Stato e momenti di impero, di dittatura personale, consolida mercato moderno e sviluppa tutte le
istituzioni politiche e giuridiche che sono indispensabili per la modernizzazione. Quindi, a giudizio di Marx,
in Francia il potere del mercato non è come quello che si sviluppa in Inghilterra attraverso un regime in cui il
mercato poi convive con il parlamentarismo e sviluppa una penetrazione molto forte che attribuisce alle
regole di mercato una capacità di adattamento, di funzionamento; in Francia il primato del mercato viene
sviluppato, secondo Marx, attraverso il ruolo assorbente, decisionista, di Napoleone, il quale impone
politicamente le condizioni della concorrenza, della competizione, della rottura del vecchio mondo feudale
e parassitario. Dunque è con l’iniziativa di Napoleone che si superano tutti i limiti del feudalesimo nel
campo economico e la libera intrapresa viene ad affermarsi in maniera irresistibile.
Tra questo profilo di Napoleone come coscienza politica della modernità, come espressione di un comando
politico indirizzato a uno sviluppo integrale di un’economia moderna competitiva di mercato e il secondo
Napoleone c’è la differenza tra la tragedia e la farsa: il primo Napoleone è la tragedia della modernità,
politica usurpazione imperiale ma per svolgere una funzione di modernizzazione (quindi è una tragedia ma
a suo modo costruttiva), sviluppa dinamiche di modernizzazione sia pure con un volto autoritario; il nipote,
Luigi Bonaparte, è relegato da Marx nel campo della farsa, come lo zio fa ricorso alla tecnica del colpo di
Stato ma la sua esperienza storico-politica appartiene non al campo della tragedia e quindi della politica
che con mezzi brutali sviluppa comunque una funzione di civilizzazione economica e giuridica, bensì rientra
nell’elemento farsesco cioè privo di quella tragicità che faceva comunque appartenere Napoleone
Bonaparte alla dimensione della grande politica che costruisce.
Il nipote, Luigi Bonaparte, per Marx non è un grande politico, non appartiene al senso del tragico in senso
costruttivo, positivo, ma appartiene al senso del tragico in senso farsesco, cioè caricaturali, non ha la
grandezza dello zio ma è soltanto il nome e l’utilizzo del colpo di Stato per affermare un potere di carattere
cesaristico personale che accomuna queste due personalità.
Per comprendere questo meccanismo che porta un uomo mediocre al vertice dello Stato, Marx, si interroga
su molteplici dimensioni (economica, politica, giuridica, costituzionale, ideologica, simbolica), molti sono gli
indicatori che Marx utilizza per comprende questo processo. Anzitutto il profilo che Marx segnala è quello
della profonda instabilità della storia francese, tra la tragedia e la farsa, in poco più di 50 anni, la Francia ha
conosciuto Monarchia, Repubblica, Imperi, ritorni monarchici, cambiamenti di dinastia monarchica e poi nel
’48 il ritorno alla Repubblica, dunque, è un paese fortemente instabile nelle sue dinamiche costituzionali.
Anche la Seconda Repubblica, introdotta quasi per caso dopo gli eventi del 1948, si caratterizza per una
soluzione instabile al problema politico e sociale francese. È una Repubblica caratterizzata, secondo Marx,
da una stranezza costitutiva, ha una maggioranza di forze, di personalità, di tradizione monarchica, dunque
è una Repubblica in cui le figure repubblicane convivono con istanze esplicitamente monarchiche.
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- BONAPARTISMO (l’eredità Napoleonica) che è una velleità di restituire a Napoleone e alla sua
discendenza un ruolo politico eminente. Dunque il Bonapartismo è una delle componenti della tradizione, si
tratta però di una componente sui generis perché non appartiene propriamente a una casata monarchica
ma è legata all’iniziativa strategica di Napoleone che si proclami Imperatore.
- CASA DEI BORBONE la vecchia casa regnante, che rivendica il ritorno al potere.
- DINASTIA DEGLI ORLÉANS che sono anche loro titolare di una richiesta di potere di stampo monarchico.
A queste tre velleità monarchiche, Marx associa anche 3 diverse stratificazioni sociali. Sono 3 campi ai quali
non corrispondono soltanto ambizioni familiari e dinastiche ma hanno dietro forze economico-sociali
differenti:
I BORBONE sono l’espressione della vecchia Francia che ha l’appoggio dell’antica nobiltà e quindi
della grande proprietà terriera sono l’élite della terra e del sangue, la terra come bene etico-
politico. I ceti dell’alta nobiltà e aristocrazia sono più vicini alle ragioni della casta borbonica.
ORLÉANS sono invece una famiglia che esprime, secondo Marx, non più gli interessi statici della
terra ma quelli della grande finanza, Marx ne parla in termini di “Bancocrazia”, cioè un potere delle
élite tecnico-finanziario sono l’élite dell’alta burocrazia, dell’alta finanza, del potere delle
banche. Hanno altri interessi rispetto a quelli della terra poiché mentre la terra vuole un’economia
statica, incardinata su beni fissi, la finanza, invece, è in sintonia con il commercio, l’industria e
quindi con la circolazione illimitata della moneta come nuovo meccanismo economico.
BONAPARTISMO era, invece, il punto di riferimento di vaste zone del mondo contadino perché
Napoleone è riconosciuto dal mondo contadino come il capo che con la sua iniziativa ha distribuito
piccole porzioni di proprietà rendendo milioni di contadini piccoli proprietari. Dunque questo
mondo contadino è affascinato dal nome, dalla leggenda di Napoleone perché, dice Marx, non si
tratta soltanto di una narrazione, di un’evocazione di trascorsi eroici, ma si tratta di qualcosa di più
tangibile, la terra come un bene al quale la famiglia di contadini attribuiscono grande significato.
Dunque, comincia a profilare nella ricostruzione di Marx un panorama complesso e articolato. Secondo
Marx, la Francia del ’48, di metà 800, ha una geografia sociale ed economica molto complessa perché ci
sono segnali di modernizzazione (alcune grandi industrie, la finanza, le banche, le società per azioni, la
speculazione finanziaria sono processi molto sviluppati), tuttavia questa marcia veloce della Francia verso
questa civiltà della finanza e dell’industria moderna di stampo capitalistico convive con un problema molto
forte: la stragrande maggioranza della popolazione è ancora appartenente al settore primario
dell’agricoltura (6milioni di contadini).
La questione sociale e il profilo delle classi è molto frastagliato alla luce di questa situazione politica
francese, si tratta di una situazione molto peculiare perché la Francia raggiunge, con la costituzione del
1884 e quindi la proclamazione della Seconda Repubblica, un record di partecipazione nella storia europea
(in nessun paese europeo si contano così tanti milioni di soggetti titolari di diritti politica, che hanno diritto
di voto). Questa è una situazione molto particolare in quanto, prima di allora, in Francia votavano in 100-
200 mila elettori.
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Il problema fondamentale che la Seconda Repubblica francese pone, agli occhi di Marx, è questo problema
della democrazia di massa senza attori capaci di arrivare alla massa. La massa entra in gioco in un processo
politico costituente che non ha un regime costituzionale forte e riconosciuto, in quanto, la Francia del ’48
vede una molteplicità di figure, soggetti, non tutti condividono la stessa idea di costituzione, la stessa idea
di Repubblica, si comincia a parlare di partiti ma non sono veri partiti nel senso moderno, bensì sono
gruppi, fazioni, movimenti che si creano all’improvviso senza una struttura.
La Francia appare come un laboratorio esplosivo: ripetuti tentativi di accelerazione, conservazione, socialisti
che cercano di andare oltre l’assemblea costituente che aveva abolito gli atelier che davano lavoro ai
disoccupati, invocano così una resurrezione una soluzione di forza per stabilire la repubblica sociale, la
susseguente repressioni e quindi repubblicani che reprimono i socialisti.
Più classi, milioni di persone, più volontà di potenza e non si trova un punto di equilibrio, di condivisione: i
monarchici sognano un mondo; i signori della terra ripiangono antichi rapporto feudali di dominio; la
borghesia teme il proletariato perché vede nella moltitudine una spinta anarchica dissolvente; il
proletariato, che odia i vecchi signori della campagna e i nuovi padroni dell’industria, desidera una
liberazione dei lavoratori con nuovi rapporti sociali; i contadini che vogliono che la loro proprietà sia ben
custodita rispetto a questa incertezza.
Quindi, nel ’48 si presenta una situazione di estrema incertezza: i proprietari terrieri temono di perdere la
loro residua quota di proprietà; i proprietari dell’industria temono il moto del proletariato che comincia a
presentare il proprio volto rivoluzionario; i contadini piccoli delle campagne temono che l’assalto proletario
alla grande industria si traduca anche in violazione del piccolo pezzo di terra. Dunque, tutti temono
qualcosa dinanzi a questo protagonista nuovo, dice Marx, all’assolo proletario. Secondo Marx, dal punto di
vista economico sociale, si presenta questa situazione del ’48, tutti gli altri soggetti sono disponibili a
mettersi insieme, invece, il proletariato senza capi e senza politica di alleanza ricorre alla sua
insubordinazione e tale insubordinazione proletaria è ritenuta da Marx un qualcosa di grandioso perché
segna per la prima volta la soggettività operaia e proletaria come rilevante nel cuore dell’Europa, ma anche
di tragico perché viene sconfitto questo assolo proletario, canto di rivolta operaia.
Tutto questo segna profondamente il quadro politico e, secondo Marx, questo scenario è quello che va
tenuto in considerazione e non la mistica del cesarismo o del bonapartismo, ma situazioni concrete di
accelerazione, immaturità, frazionismo, faziosità, tutti fenomeni che si incontrano nella Francia del ’48 e
che determinano una certa piega presa dagli avvenimenti.
Il problema che Marx cerca di comprendere è “Perché la crisi della Seconda Repubblica francese vede la
soluzione bonapartista autoritaria e non una innovazione nel senso della trasformazione socialista? Perché
la Repubblica crolla e perché crolla in quel modo?”
Si tratta di problemi che richiedono più ambiti di osservazione e Marx non esclude quello strettamente
tecnico-costituzionale però inquadra la stessa debolezza dell’impianto tecnico-costituzionale entro un
panorama più articolato.
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A giudizio di Marx, la costituzione francese del ’48 non è lineare, monista, per quanto riguarda l’esatta
collocazione del potere, ma è una costituzione dualista con due teste perché è una Repubblica
semipresidenziale che ha un potere legislativo riconosciuto (la formazione di governi nel Parlamento con la
fiducia dell’assemblea) e poi ha, però, una testa monocratica, quella del Presidente della Repubblica (eletto
anch’esso a suffragio universale). Queste due teste, dice Marx, sono tra loro in conflitto e tra queste due
teste il potere è conteso.
Dunque, secondo Marx, il vero tallone di Achille della costituzione francese risiede in questa soluzione
ibrida semipresidenziale (due teste, due motori in uno stesso organismo). Secondo Marx, due teste in uno
stesso organismo difficilmente coesistono o comunque posso scatenare conflitti come quelli che si sono
abbattuti sulle istituzioni francesi.
Secondo Marx il problema era che il presidenzialismo e il parlamentarismo erano conciliati in questo
documento francese, però a giudizio d Marx, non è possibile conciliare in maniera costruttiva queste due
dinamiche perché entrambe le due teste rivendicano una fondazione legittima. Dunque non si tratta delle
vecchie dispute popolo e monarchia, perché il popolo era titolare del potere monarca soltanto per natura o
per grazia divina. Qui, sono due poteri entrambi derivanti dal popolo: sia i parlamentari sia il presidente
sono espressione del consenso della sovranità popolare.
Secondo Marx, aver previsto due teste, entrambe espressioni della sovranità popolare, costituisce il tallone
di Achille della Seconda Repubblica: il conflitto che c’è tra Presidente e Assemblea, tra capo dello Stato e
Parlamento, è irrisolvibile e quando tra i due attori si determina un’ostilità e una reciproca volontà di
potenza e di supremazia.
A giudizio di Marx, il sistema politico costituzionale francese era mal congegnato perché il presidente
vantava un’investitura popolare, Napoleone vince le prime elezioni del Dicembre del 1848 ottenendo
6milioni di voti e farà sempre appello ai 6milioni di schede che lo hanno investito nel potere. Dall’altra
parte, ricorda Marx, anche il Parlamento ha avuto un’investitura attraverso il voto.
Dunque due investiture però, suggerisce Marx, esiste una differenza tra queste due investiture che è
destinata a svolgere un ruolo molto importante nei processi politici nelle fasi di crisi: entrambi sono eletti
dal popolo, però, dice Marx, mentre il deputato è eletto in circoscrizione (ogni circoscrizione elegge il
rappresentante) quindi un rapporto molto limitato, il presidente della repubblica è eletto da una infinità di
votanti, da milioni. Dunque il parlamento è composto da 600 deputati, ciascuno dei quali vanta un rapporto
fiduciario con alcune migliaia di elettori, il presidente della repubblica, invece, è una persona che rivende
una sorta di sacralità laica perché ha un rapporto personale, non più metafisico, con la volontà di milioni di
persone.
Quindi, dice Marx, il problema è molto complesso e delicato da sciogliere perché il presidente della
repubblica rivendica costantemente questa sua differenza e dunque rivendica un rapporto quasi mistico tra
sé e il popolo. Essendo, dunque, il Capo dello Stato in un rapporto di identificazione con milioni di voti che
lo hanno eletto direttamente, nessuno può porre limiti al potere del Capo dello Stato.
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Dunque, l’Eliseo (residenza ufficiale del Presidente della Repubblica) unifica; l’assemblea, il Parlamento,
divide. Contro il Parlamento e le sue pretese, Napoleone si presenta come il legittimo supremo interprete
dell’unità, dunque la mastica dell’unità che un popolo trova attraverso l’investitura di un capo. Siamo in una
fase cesaristica, cioè il capo ha una posizione mistica, ha un legame mitico con il popolo e vuole la sua
acclamazione e il riconoscimento di aver avuto milioni di consensi ne accresce il prestigio, l’autorevolezza
anche nei confronti degli altri poteri, primi fra tutti il Governo e il Parlamento.
In una Repubblica parlamentare, il Governo dovrebbe rispondere al Parlamento e avere nel vincolo
fiduciario l’autorizzazione a portare avanti l’indirizzo politico di maggioranza. In Francia, però, le cose
stanno diversamente perché il Presidente della Repubblica rivendica di avere un ruolo nella durata degli
esecutivi. Per cui, nell’esperienza breve della Seconda Repubblica francese ci sono poteri dei governi che,
sebbene sfiduciati dalle camere non cadono, continuano ad operare perché hanno un legame con il
Presidenze. Dunque, esiste una duplice fiducia: quella del Parlamento e quella del Presidente; se cade la
fiducia del Parlamento non necessariamente il Governo è costretto alle dimissioni perché entra in funzione
un alternativo meccanismo di legittimazione, quello del Capo dello Stato, il quale può sostituire le
assemblee, i rappresentanti del popolo, e il Governo può continuare ad operare. Dunque il Governo non è
più di tipo parlamentare perché il Presidente ha la forza per mantenere in piedi esecutivi sgraditi dal
Parlamento.
Quindi, siamo in una fase di cesarismo, la quale si tramuta in bonapartismo quando, dopo gli anni di
presidenza, Bonaparte deve scontrarsi con una prescrizione costituzionale. La carta costituzionale
prevedeva che il Presidente della Repubblica fosse eletto soltanto per 4 anni e non avesse la possibilità
formale di ricandidatura. Giunto nel Dicembre del 1851, Napoleone sa che di lì a pochi mesi si svolgeranno
le elezioni per il nuovo titolare dell’Eliseo ma lui non potrà prendere parte al gioco perché la costituzione
non prevede di mantenere più mandati presidenziale.
La costituzione prevedeva maggioranze qualificate per la sua revisione e quindi il problema che Napoleone
incontra è che anche forzando sull’assemblea ottenere quella maggioranza qualificata indispensabile per
mutare l’impianto costituzionale e consentire più mandati presidenziali era impossibile visto la presenza di
repubblicani e socialisti.
Napoleone, dunque, si trova dinanzi a questo problema. Per mantenere il suo sogno di presidenza non può
contare sulla costituzione e sul Parlamento e quindi deve spingere ai limiti estremi la volontà di rottura.
Dunque si presenta una condizione di conflitto aperto (uno scenario che poi si troverà nel 900 a Weimar e
in molte realtà latinoamericane c’è sempre un conflitto tra presidente e parlamentare).
Nel Dicembre del 1851, Napoleone ha dinanzi a sé questo scenario. Mantenere fedeltà alla costituzione
sulla quale ha giurato significava conservare la correttezza delle forme, ma perdere il potere; oppure
coltivare la sua volontà di mantenere il potere, ma questo implicava la rottura della costituzione perché
nessuna revisione formale era possibile nei termini previsti dalla stessa carta fondamentale francese.
Napoleone sceglie la via dal cesarismo al bonapartismo e, quindi, il Colpo di Stato, ossia la rottura
autoritaria del sistema politico democratico e la proclamazione di un mandato presidenziale nuovo,
decennale, e il ritorno al culto imperiale, alla mistica del presidente imperatore come interprete della
volontà di un popolo.
Quest’opera di Marx è considerata, dagli studiosi, il primo testo sul populismo. Il populismo, in senso
tecnico, è quella esperienza di potere che vede un capo (ritenuto carismatico) rapportarsi in maniera
diretta con un popolo, attraverso un dialogo a due, che salta le mediazioni (partiti e parlamento) ritenuti
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Dunque, Marx analizza questo legame capo-massa che è il populismo, inteso nel suo senso originale, ossia
che un capo si attribuisce capacità generali, unificanti, e interpreta le aspettative, le domande del popolo
inteso comune corpo assolutamente omogeneo. Dunque, il populismo nella variante del bonapartismo che
Marx indaga è questa saldatura tra il capo e il popolo, tra i quali non devono più esserci elementi di
mediazione, di rallentamento, di freno. Il capo è un corpo mistico unificante, è la sintesi di tutte le
differenze che vengono finalmente unificate, trascende tutti i conflitti e dà armonia.
Il popolo in virtù di questo riconoscimento in un capo, non è più il popolo moltitudine che ha fazioni, partiti,
conflitti, classi antagoniste, ma il popolo diventa una salda omogenea unità, il popolo non è più diviso,
ritrova spirito organico comunitario, una comunità senza differenze al suo interno, la quale si riconosce in
un capo che è l’unico interprete autorizzato delle aspettative e dei sentimenti genuini del popolo.
Dunque il popolo diventa, anch’esso, un’entità mistica, che non ha più contrasti, interessi, fattori di
divisione. Il popolo trova unità e superamento della divisione attraverso il capo, il quale attraverso
l’investitura di massa diventa il protagonista assoluto della vita politica e quindi calpesta tutti gli elementi
che rallentano questa comunità superiore di intenti tra l’uno e il popolo.
Se i protagonisti della politica diventano due (il popolo e il presidente imperatore), il parlamento, le
elezioni, vanno accantonate perché non più rilevanti anzi fattori di disturbo (il parlamento è chiacchiera,
moltiplicazione di politicanti), di interruzione di sintonia completa fra il capo e il popolo.
Rispetto al semplice autoritarismo, alla tirannide tradizionale, c’è un elemento nuovo che Marx rimarca in
Bonaparte: Bonaparte sospende le dinamiche normali del parlamentarismo, ma non toglie il ricorso ad un
rapporto con il popolo e questo rapporto con il popolo trova una nuova situazione di inveramento
dell’unità, ossia il Plebiscito, un’invenzione nuova. Il referendum plebiscito è una domanda che il capo
rivolge ottenendo una plebiscitaria risposta favorevole da parte del popolo.
Dunque, secondo Marx, il fatto nuovo è questo elemento: un presidente imperatore nuovo dispotico che
però nutre un certo consenso, ha un indubbio potere di fascinazione su soggetti, moltitudini che sono
incantate da questa figura politica. Il problema che Marx deve spiegare è “Come mai un politico così
mediocre, pieno di debiti, avventuriero, spregiudicato, senza grandi qualità, ha una sintonia così profonda
con una parte del popolo francese e in questa sintonia riesce a vincere il conflitto politico portando la
seconda repubblica in un esito di tipo autoritario”.
Secondo Marx, il problema si traduce in una questione essenziale: Napoleone è stato proclamato come
l’imperatore dei contadini; secondo Marx, è questo il profilo sociologico del consenso a Napoleone, il quale
non ha però solo il consenso dei contadini, ma in una certa fase ottiene anche il sostegno di ceti operai.
Quindi, una sostanziale vittoria tra i ceti contadini e popolari. Il problema al quale Marx intende rispondere
è “Come mai i ceti contadini e popolari votano per Napoleone III?”
Come già Machiavelli aveva indagato su Cesare (cesarismo), la capacità del capo cesarista, carismatico, e
poi bonapartista è quella di simulare e dissimulare. Per cui si riesce a sfondare nei consensi apparendo
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Quindi la prima strategia che il capo populista, cesarista, Napoleone III, compie è quella di costruire una
narrazione, una legenda di un capo che non ha nulla a che fare con i poteri e di un capo che interpreta non i
propri interessi di uomo estremamente indebitato (Marx lo dipinge come un uomo pieno di debiti che per
salvare se stesso si dà alla politica), ma che interpreta gli interessi dello Stato ma soprattutto dei ceti
popolari, l’interprete autentico del popolo in grado di castigare tutti i grandi poteri delle élites (l’estraneo
che combatte le élite, il nemico che rende il popolo vittima di un ceto ristretto affamato di potere).
07/04/2021
Nell’analisi di Marx si poneva l’attenzione su diversi elementi per comprendere il fenomeno della caduta
del regime repubblicano in Francia. Dal punto di vista dell’impianto costituzionale, Marx evidenziava
l’esistenza di una costituzione a due test, il tallone d’Achille era nella testa dell’ordinamento, vale a dire
nella compresenza ai livelli alti dello Stato di un Presidente della Repubblica eletto direttamente da milioni
di cittadini e dal Parlamento eletto anch’esso sulla base del suffragio universale.
Quindi, il rinvio al suffragio universale per l’elezione, non soltanto dei deputati ma anche del Capo dello
Stato, secondo Marx, è l’elemento su cui si sviluppa un profondo antagonismo o lotta dei poteri. In questa
lotta dei poteri alla fine la spunta il Presidente della Repubblica, in quanto rivendica costantemente il suo
plusvalore politico-costituzionale, vale a dire, il Presidente della Repubblica ricava la propria investitura e la
propria legittimazione da un rapporto diretto con il popolo e, quindi, essendoci questo legame immediato
tra Capo dello Stato e popolo sovrano, il Presidente ne approfitta per rivendicare il proprio potere di
decisione contro le attribuzioni che pure le costituzioni prevede in favore del Parlamento.
Nelle situazioni di crisi, nelle situazioni contestate dal punto di vista formale, la prova viene vinta dal Capo
dello Stato in quanto si presenta come l’interprete unico del sentimento popolare. Quindi, nel
presidenzialismo, secondo Marx, si realizza questo meccanismo di identificazione: il capo è direttamente
legato alla massa e il popolo è il sottofondo su cui poi si edifica il potere del Capo dello Stato, il quale ritiene
di operare in un regime senza più mediazioni (bonapartismo o anche populismo autoritario).
Il Capo dello Stato è l’interprete autentico dello spirito del popolo e, in quanto eletto da milioni di elettori, il
Parlamento e le istituzioni di garanzia non contano. In caso di decisioni contrastate, il Capo dello Stato
rivendica la propria superiore legittimazione e quindi fa valere un plusvalore che lo accompagna e ne
rafforza la capacità di influenza nei meccanismi politici e istituzionali.
Marx ricorda il caso più importante in questa lotta tra poteri dello Stato per chi deve avere supremazia e
ricorda il potere cruciale in situazioni di emergenza, il potere militare. Su questo terreno del controllo delle
forze armate, di chi in ultima istanza può decidere le situazioni di emergenza e l’uso della forza, l’Assemblea
nazionale viene progressivamente spodestata e il Capo dello Stato riesce ad ottenere il controllo delle forze
armate e quindi il potere fondamentale.
Il potere fondamentale quando il paese è in condizioni di emergenza è quello del controllo dell’esercito,
della forza pubblica, in quanto dispone del legittimo uso delle armi. Contro la legge che intendeva fare del
Parlamento il giudice depositario del potere di emergenza e del potere di controllo della guardia nazionale,
il Capo dello Stato riesce a imporre la propria volontà e a sottrarre il controllo dell’esercito al Parlamento.
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Dunque, il Presidente prevale sull’Assemblea. Il Governo non ha un’autonomia funzionale perché la vita del
Governo dipende più dalle volontà del Capo dello Stato che non dagli orientamenti espliciti dell’Assemblea
parlamentare. Non soltanto sul versante politico-istituzionale ma anche su quello politico-militare, il
Presidente riesce a spuntarla sull’Assemblea e a ottenere il controllo delle forze armate, per questo il
Presidente riesce a condurre in porto il suo Colpo di Stato.
Giunto in prossimità della scadenza del suo mandato e, quindi, dinanzi al fatto che la costituzione
prevedeva che il Presidente fosse in carica soltanto per 4 anni e non disponesse della facoltà di rielezione, il
Presidente della Repubblica decide di rimanere al potere contro i dispositivi della costituzione e quindi
opera un Colpo di Stato, sorretto dal potere del controllo dell’esercito che il Capo dello Stato ha ottenuto
contro le resistenze deboli di un Parlamento molto diviso al proprio interno.
Marx parla, a questo riguardo, del ruolo politico dell’esercito nelle giunture critiche e dice che si tratta di un
regime pretoriano, in quanto l’esercito sviluppa una funzione politica importante, quale organo che
consente al Capo dello Stato di insediarsi al potere e soprattutto di resistere al potere con l’ausilio della
forza impiegata nelle fasi calde, ossia quando si accennano di dimostrazioni di piazza, prove di resistenza, la
fedeltà dell’esercito garantisce al Presidente della Repubblica la permanenza al potere.
Marx ritiene che una delle caratteristiche degli eventi politici rivoluzionari francesi (ma non soltanto
francesi) fino al ’48 era che quando il popolo, attraverso le barricate e le manifestazioni di piazza, scendeva
in azioni di rivolta e l’esercito veniva chiamato a intervenire e rompere la ribellione, l’esercito si rifiutava di
sparare contro la folla e in questo modo garantiva alla folla il successo. Gli eventi rivoluzionari nella metà
dell’800 vedevano il popolo nella piazza e l’esercito che faceva causa comune con il popolo rifiutandosi di
reprimere in maniera violenta le manifestazioni di protesta. Questo accade anche nel Gennaio del 1848: la
guardia nazionale che si schiera con il popolo che protesta e rivendica i diritti di voto.
Nel 1851 cambia lo scenario, la convergenza tra esercito e popolo che protesta non si verifica più, anzi,
Marx evidenzia che dal punto di vista della tecnica militare nel ’51 francese emerge un fatto nuovo, cioè la
disponibilità di sofisticate armi a ripetizioni, le quali consentono in pochi attimi di ottenere molti morti sulle
piazze e quindi cambia lo scenario tradizionale del popolo in barricata e l’esercito che si rifiuta di sparare.
Con le nuove armi è possibile incutere timori perché è molto più facile il ricorso a forme di repressione
violenta.
Oltre a questo elemento l’esercito diventa un fattore essenziale di stabilizzazione del regime, attraverso
l’esercito c’è un legame che il sistema politico presidenziale imperiale di Bonaparte ha con le gerarchie, con
le strutture amministrative militari dello Stato. Il Bonapartismo eredita questo apparato gigantesco dello
Stato francese e si avvale dell’obbedienza dello spirito burocratico come strumento di mantenimento e di
conquista del potere.
Secondo l’analisi sociologica di Marx la fedeltà dell’esercito e di settori ampi di burocrazia, cioè da parte di
coloro che non possono sopravvivere senza lo stipendio statale, è decisivo perché queste persone sono
legate allo Stato da un rapporto contrattuale vitale e, dunque, chiunque ottenga il controllo del potere della
macchina pubblica deve confidare in una più o meno passiva disponibilità all’obbedienza da parte del
funzionario pubblico, il quale avendo da sopravvivere soltanto con lo stipendio pubblico si guarda bene dal
rompere le condizioni della propria sopravvivenza garantendo un certo consenso al detentore del potere.
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L’esercito è uno dei poteri nuovi che sorregge il Bonapartismo, ma il Bonapartismo non è un classico regime
militare elitario, in cui cioè il potere è controllato soltanto dall’esibizione di violenza e dalla minaccia di
ricorso alle armi. A giudizio di Marx, il Bonapartismo è un regime militare ma che ha una base di massa e,
quindi, il suo problema è comprendere questa base di massa al regime “Da dove nasce? Quali sono le
condizioni sulle quali si edifica questo regime personale e militare?”.
Il regime di governo personale e militare conta su un sostegno ampio e Marx fa una radiografia delle classi
sociali presenti nella Francia di metà 800. Marx viene di solito interpretato come un autore delle classi, il
concetto di classe è centrale nell’analisi di Marx, però, paradossalmente non ha mai scritto in maniera
sistematica sulle classi.
Il capitolo della sua maggiore opera “Il Capitale” che avrebbe dovuto parlare delle classi è interrotto, non
riesce a completare il lavoro, dunque si interrompe proprio sulla parte più rilevante dal suo punto di vista,
ossia quello dell’analisi delle classi e del conflitto di classe nella società moderna.
Marx ha parlato delle classi in maniera sparsa, ad esempio, nell’opera giovanile contro Hegel distingue tra
stato e Classe. Stato come situazione sociale, e non come Stato politico, era un’entità fissa, rigida e rinviava
a una struttura corporativa premoderna; le Classi invece erano raffigurate come cerchie aperte, situazioni
non rigide, non bloccate, ma tipiche di una società dinamica a base individualista.
In quest’opera sul Bonapartismo in alcuni passaggi precisa ulteriormente la sua nozione di classe sociale e
distingue, in una realtà complessa come quella francese, situazioni, stratificazioni, situazioni sociali e poi
classi sociali. Marx introduce una nuova considerazione rispetto a quanto aveva sostenuto nel testo
giovanile, vale a dire, l’importanza del momento politico.
In quest’opera Marx asserisce che esiste una condizione oggettiva e una condizione soggettiva. Per cui se
determinate persone svolgono le stese mansioni, occupano le stesse posizioni sociali e, dunque sono
riconoscibili come appartenenti a una categoria, a una stratificazione della società, questa condizione
oggettiva rende visibile una differenza, una collocazione dei soggetti che è però una collocazione soltanto
oggettiva (classe in senso oggettivo). Perché ci sia davvero una classe sociale che abbia un ruolo nei conflitti
occorre un passaggio ulteriore. La condizione oggettiva, ossia il fatto di appartenere alla stessa posizione, di
avere gli stessi interessi e svolgere le stesse mansioni, deve essere ulteriormente arricchita da un fattore
soggettivo, cioè dalla consapevolezza di avere lo stesso interesse. Ci sono, secondo Marx, possibili scissioni
tra condizione oggettiva e condizione soggettiva, per cui posso svolgere funzioni dipendenti di lavoro
salariato e non avere la percezione di una posizione di classe e, quindi, sono oggettivamente parte di una
classe sociale ma il mio comportamento, la mia azione soggettiva non tiene conto della mia collocazione
sociale.
CONDIZIONE SOGGETTIVA: è quando chi è collocato alla stessa maniera nei processi produttivi diventa
anche protagonista di azioni politiche e sociali. Dunque la classe in termini oggettivi si traduce in classe in
termini soggettivi. Perché questo avvenga, secondo Marx, è richiesto un elemento di congiunzione tra la
divisione del lavoro, e quindi la dimensione della professione lavorativa, e la dimensione politica. Quando
manca questa connessione tra dimensione sociale e prospettiva politica la classe rimane classe solo in
termini oggettivi, ma non ha una funzione positiva e attiva.
Questa distinzione tra classe oggettiva e classe soggettiva Marx la introduce per spiegare il paradosso della
situazione politica e sociale francese: dal punto di vista numerico la classe sicuramente maggioritaria era
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Nel “18 Brumaio” Marx dice che una classe è tale quando ha giornali, organizzazioni politiche di partito a
livello nazionale e quando sviluppa azioni politiche autonome. Il mondo contadino non è una classe, benché
oggettivamente sia addirittura maggioritaria nella composizione sociale della Francia, in quanto non ha un
giornale, non ha un partito, non svolge condizioni di lotta o di iniziativa politica in senso autonomo. La
conseguenza è che questa classe non ha rappresentanza politica autonoma, ma deve farsi rappresentare e
quindi sono altri che ne interpretano gli interessi.
Una classe oggettiva, quindi, ha interessi diffusi ma non sviluppati ad un punto di articolazione politico
progettuale. A giudizio di Marx, ciò che impedisce a milioni di contadini di essere il soggetto più importante
della politica francese e, quindi, di diventare classe in senso soggettivo, è l’isolamento, la mancanza di
relazioni sociali in senso moderno. Secondo Marx, il mondo contadino in Francia è il susseguirsi di
un’infinità di piccoli appezzamenti di terra staccati l’uno dall’altro, senza condivisione di spazi pubblici, di
deliberazione, di iniziativa, è l’isolamento come condizione normale.
Quando nel mondo contadino si sviluppano condizioni politiche, si hanno anche situazioni di ribellione
contadina e di coscienza politica ma, dice Marx, il Bonapartismo reprime queste situazioni di disobbedienza
contadina che sono una situazione minoritaria, cioè in alcuni ambiti della società francese anche il piccolo
contadino acquisisce capacità di lettura, spazio dialogico con altri, meccanismi di intesa e di azione
collettiva, ma sono, a giudizio di Marx, isole piuttosto marginali, perché il corpo più grande del popolo
contadino è un popolo statico senza relazioni con i lumi, con la secolarizzazione che ha caratterizzato la
società francese.
Quindi, secondo Marx, si ha anche un problema che i lumi, la secolarizzazione, la laicizzazione francese, non
penetra in tutta la Francia e c’è dunque un contrasto tra i maestri, i ceti intellettuali e il popolo contadino, il
quale continua ad avere antiche superstizioni, tradizioni, vincoli con il passato mondo fatto di tradizioni,
superstizioni etc. E, dunque, i simboli della laicità e della secolarizzazione non possono essere assunti come
garantiti ovunque, poiché ci sono masse enormi di popolazione rurale che ha modi di vedere, sensibilità
culturali, completamente diversi da quelli delle città.
Oltre alla classe, un altro elemento che Marx dichiara essere importante è quello tra le sensibilità cittadine
e le sensibilità rurali, conflitto tra centro e periferia. Nelle città ci sono processi evidenti di secolarizzazione
e di coscienza politica e Marx dice che nei ceti operai non bisogna annoverare soltanto lavoratori di
fabbrica, ma posizioni di radicalismo politico nascono tra i ciabattini, gli artigiani, i sarti, cioè le figure
dell’800 non soltanto francese, che si caratterizzano per capacità di lettura e maturazione di una coscienza
critica (l’anarchismo, il repubblicanesimo, il socialismo dei piccoli artigiani).
In Francia, dunque, nella città ci sono fabbriche in cui nasce la coscienza operaia; ceti di artigianato,
commercio, piccole industrie in cui si sviluppa una consapevolezza politica e quindi una capacità critica. E,
invece, rispetto a questa Francia centrale, esiste una Francia dispersa, dei mondi rurali, in cui non c’è
l’eredità dei lumi (l’illuminismo si è fermato nelle grandi città) e questo accade perché il mondo contadino è
un mondo in cui il passato domina sul presente e l’isolamento, la chiusura in spazi angusti diventa il fattore
cruciale.
Inoltre, questo mondo contadino, secondo Marx, è conquistato dal ricordo dello Stato sentinella di
Napoleone il Grande, cioè lo Stato che aveva distribuito la proprietà rendendo tutti piccoli coltivatori
indipendenti. In questo modo la situazione politica francese vede il mondo contadino schierarsi con il Colpo
di Stato.
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A questo riguardo, Marx rileva una debolezza dei movimenti radicali che non sono riusciti ad operare una
distinzione nella loro critica della proprietà, ossia la distinzione tra la proprietà dei grandi mezzi di
produzione e la proprietà di un piccolo pezzo di terra. Il movimento repubblicano, socialista, anarchico,
secondo Marx, non comprende come far sganciare la tutela della grande proprietà dalla tutela della piccola
proprietà e quindi regala a Bonaparte, e ai suoi sostenitori, vasti ceti i quali temono che i movimenti
radicali, repubblicani e socialisti costituiscano un’aggressione ai loro beni.
Dunque, esiste una struttura di condivisione che, in nome della proprietà, mette insieme i più diversi
interessi. La proprietà è l’oggetto che mobilita il contadino povero e il grande industriale che sono quindi
accumunati. Il contadino povero, dice Marx, si sente proprietario più che che povero e quindi ritiene che il
suo nemico non sia la banca, il regime economico che supera il piccolo appezzamento di terra perché non
più produttivo e quindi l’industria che esige una diversa logica di funzionamento del meccanismo logico, ma
avverte il pericolo provenire dagli operai che, occupando le fabbriche, mettono la società in pericolo e
quindi alimentano una sorta di pericolo anarchico ormai impellente.
Dunque, il meccanismo che vince con il Bonapartismo è la costruzione di una vasta coalizione sociale che
mette insieme l’esercito e il mondo contadino. Il mondo contadino, sebbene sempre più in situazioni di
disagio, si sente proprietario di qualcosa e quindi la difesa della proprietà diventa l’istanza che mette
insieme interessi contraddittori.
Il problema, secondo Marx, deriva dal fatto che il movimento repubblicano, radicale, socialista, non sia
riuscito a far comprendere al mondo contadino la realtà economica nuova, i prestiti bancari molto elevati,
mutui ipotecari, situazioni oggettive che limitano la possibilità di produzione e sfruttamento efficace della
terra. Tutte queste condizioni sono troppe complesse, non vengono messe in risalto e quindi il primo
elemento che emerge è la frattura tra ceti operai e ceti contadini. In astratto entrambi sono situazioni di
marginalità sociale, ma mentre l’operaio vive in una realtà dove esistono connessioni politiche, giornali, e
masse che si sentono vicine, i contadini non hanno questa comunanza di interessi, ciascuno ha nel suo
piccolo spazio il regno su cui esercita una sovranità illimitata.
La differenza tra la Francia e l’Inghilterra, secondo Marx, è che in Francia il suffragio universale è il premio al
mondo contadino in funzioni di stabilizzazioni e di conservazioni, in Inghilterra, invece, il suffragio
universale viene continuamente rallentato perché il proletariato avrebbe facilmente successo nelle
competizioni possibili. In Francia il suffragio universale interviene in una condizione per cui il lavoro è
frantumato, fortemente polarizzato tra lavoro di fabbrica e lavoro della terra. Tra questi due mondi esiste
una contesa che viene sviluppata politicamente da Bonaparte, il quale si presenta come l’erede dello Stato
sentinella e riesce ad emergere in questo scontro politico, ideologico, attraverso l’immagine di sé come
capo fortemente unificante, interclassista, capace di mettere insieme diverse condizioni sociali.
Marx vede in Bonaparte il costruttore di uno dei primi partiti personali, cioè mette insieme soggetti che
Marx dipinge come malfamati che sono reclutati in una sorta di esercito paramilitare che accompagna la
figura di Bonaparte in tutte le fasi della sua ascesa, è una milizia personale che garantisce, attraverso
strumenti spesso illeciti, un sostegno una capacità di pressione a Bonaparte. Oltre a questo esercito privato
e irregolare, Bonaparte avrà il controllo dell’esercito reale della forza pubblica legittima.
Secondo Marx, il Bonapartismo è la sintesi di elementi eterogenei: l’esercito irregolare con l’esercito
regolare, il mondo dei contadini con il mondo della finanza e della speculazione, il mondo del grande
capitale e il mondo del sottoproletariato, i marginali, i quali non fanno mai causa comune con gli operai.
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Il carattere del Bonapartismo, secondo Marx, è quello di avere un certo consenso sociale, dunque, non è
solo un regime autoritario e illiberale, ma si tratta di un regime che cerca di conciliare chiusure illiberali e
aperture sociali (in questo somiglia molto al fascismo del 900). Il Bonapartismo è visto da Marx come un
regime che assume caratteri di massa e cerca di governare la situazione caotica, complessa, di una società
industriali con misure politiche più o meno efficaci, in quanto secondo Marx il Bonapartismo cerca di
superare i conflitti e le contraddizioni ma senza poter resistere, poiché a giudizio di Marx un principio di
contraddizione attraversa l’esperienza bonapartista e la condurrà alla catastrofe.
Qual è il motivo che consente una certa durata di questo esperimento politico di capo carismatico in un
regime di massa?
Marx dice che Bonaparte governa presentandosi come capo di tutta la nazione e per mantenere questa
immagine di sé come entità omogenea, si presenta come il benefattore, il capo paternalista che con azioni
di governo accontenta le più diverse fasce della società: l’esercito con promesse di aumenti salariali, così
come la burocrazia, inoltre, l’esercito è tenuto insieme dal continuo bellicismo del regime. Marx ricorda che
la Francia si mantiene attiva in più focolai internazionali (partecipa alla vicenda italiana a Roma, poi la
guerra di Crimea e così via) perché la centralità dell’esercito, del regime pretoriano è collegata anche a
queste azioni politiche in cui la Francia esalta il volto della politica di potenza. Quindi, la politica nazionalista
di potenza diventa un fattore di costruzione del consenso.
Un altro elemento che Marx ricorda è la costruzione di opportunità di profitto per ceti elevati della società,
la finanza, l’industria, sono protetti da misure che suggeriscono investimenti, appetiti di ricchezza, ad
esempio, le politiche bancarie, la costruzione del credito mobiliare, cioè nuovi meccanismi finanziari e
bancari che rivelano la continuità del Bonapartismo con i vecchi poteri contro i quali, invece, Bonaparte si
era scagliato per avere il sostegno dei ceti popolari. Quando doveva emergere come capo che contesta le
élite, Napoleone si presentava come estraneo a questo mondo dorato della finanza, delle speculazioni e
dell’élite industriali; una volta al potere, invece, il suo registro politico cambia e sviluppa azioni politico-
economiche che sono richieste in un regime di mercato e per accontentare anche la grande industria
attraverso misure che Marx ritiene essere contraddittorie perché la grande industria, come la finanza,
vogliono uno stato minimo e fortemente produttivo.
Dunque, nella coalizione sociale che mantiene al potere Bonaparte, a giudizio di Marx, esistono interessi
potenzialmente ostili: la grande industria e la finanza che sono decisivi per le sorti di Bonaparte perché
sono il potere reale in una società di mercato, non tollerano spese improduttive che invece rientrano nelle
politiche del consenso ricercate da Bonaparte. Lo sforzo di Bonaparte è quello di garantire gli interessi dei
poteri economici centrali in un’economia capitalistica, di mercato, e però avere anche il consenso. Quindi,
se questi ceti medi vogliono lo stato minimo lui non può accontentarli nella loro richiesta massima perché
comporterebbe minori impiegati pubblici, ma i 500mila della burocrazia francese sono un momento
fondamentale nel consenso al regime.
Dunque, Bonaparte deve avere uno stato che assuma anche politiche improduttive, le quali nonostante
siano per la grande impresa e per il capitale economicamente negative, garantiscono il consenso degli
elettori. Napoleone cerca di mettere insieme queste due domande sociali contraddittorie, attraverso
l’invenzione di uno stato improduttivo ma che con i lavori pubblici garantisce occupazione ma anche
investimenti. Lo stato quindi garantisce momenti e opportunità di guadagno, inoltre, il pubblico viene
sollecitato da investimenti simbolici (la creazione di lotteria, ossia la possibilità astratta di diventare ricchi
attraverso un colpo di fortuna) alimentano un clima che sostiene Napoleone.
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Secondo la diagnosi che Marx fa di questo regime, tutto questo grande apparato simbolico, tutte le misure
di un governo che tiene in piedi gli interessi più eterogenei per mantenere efficienza e consenso, tutte
queste istanze eterogenee sono difficilmente sostenibili nel lungo periodo. A giudizio di Marx, con una
nuova crisi economica o con un’emergenza politico-militare nata dalle continue politiche espansionistiche
della Francia, la situazione del regime diventerà molto più incerta. La convinzione di Marx era che il regime
bonapartista non avrebbe avuto la capacità di consolidamento, questo tipo di regime non può durare a
lungo, rappresenta un’eccezione dentro paesi europei più sviluppati.
A giudizio di Marx, il Bonapartismo come regime pretoriano autoritario, che mantiene sembianze di
democrazia attraverso i plebisciti, non può essere la regola nei regimi sociali moderni; il Bonapartismo urta
contro le dinamiche più significative della modernità politica.
In questo testo, Marx parla dell’opinione pubblica in un brano che viene citato ad esempio Habermas in
“Storia e critica dell’opinione pubblica”. Marx dice che nella società moderna con il suffragio universale e
con la democrazia, la maggioranza decide e la maggioranza è un processo di costruzione che è contagioso; il
meccanismo delle elezioni del suffragio è contagioso perché definisce un regime della deliberazione e della
discussione. Nel brano citato da Habermas, Marx afferma che se la discussione è il metodo per decidere,
adottato dentro i Parlamenti, e quindi se il parlamento moderno è il luogo del governo della discussione,
poi è impossibile che, una volta riconosciuta la discussione, la deliberazione in pubblico, attraverso dibattiti
e contese politico parlamentari, chiudere questo spazio.
Secondo Marx, non si può pretendere che una volta attivato nel Parlamento il regime della discussione poi
questo regime della discussione non si presenti come richiesta in ogni ambito della società. “Se dentro il
parlamento si suona il violino, dice Marx, quindi c’è la musica della deliberazione, della discussione, poi non
si può impedire che questa musica venga seguita da una piazza che comincia a ballare” questa metafora del
violino e della piazza è per Marx l’essenza di quella che lui chiama “le istituzioni progressive della modernità
politica”.
Quindi, entro una società come quella francese che ha sviluppato le istituzioni progressive della modernità,
che ha introdotto i principi di maggioranza, di governo della discussione e quindi ha presentato il tempo del
regime parlamentare come essenziale, secondo Marx, è altamente improbabile che possa durare a lungo
un regime che comprime questi istituti progressivi della modernità politica.
A giudizio di Marx, il regime bonapartista sarà distrutto dalle contraddizioni che non può superare: votato
dai contadini, in nome della difesa della proprietà, poi le politiche protezioniste del regime non
garantiscono una effettiva ripresa dei contadini e, quindi, le condizioni di disagio che spingono l’abbandono
della terra perché improduttiva non vengono effettivamente superate, le situazioni economiche delle
campagne non migliorano perché le leggi dell’economia di mercato vogliono la concorrenza, il commercio
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La situazione che Marx analizza è che in un sistema politico sociale moderno non è possibile chiudere gli
spazi della rappresentanza, il pluralismo politico, le situazioni di conflitto sociale e politico che sono
l’essenza della modernità. A giudizio di Marx, il Bonapartismo non può durare, perché non può durare,
come istituzione politica, un regime che si fonda sulla sospensione e il condizionamento degli istituti liberali
di competizione, cioè in una società capitalistica di mercato risulta, alla lunga, disfunzionale un regime di
tipo autoritario.
Nell’indagine del “18 Brumaio” Marx giunge a questa persuasione: la regolarità delle istituzioni politiche
rappresentative entro situazione economiche come quelle capitalistiche moderne. Questo ribadisce quel
rapporto che aveva indicato nella critica ad Hegel, quando aveva definito il meccanismo moderno come
rappresentanza politica entro individualismo della società civile. Nel “18 Brumaio” questa analisi filosofica è
confermata sul piano della diagnosi politica: la società francese conferma, agli occhi di Marx, che le
strutture autoritarie di un regime pretoriano non sono durevoli, non possono stabilmente governare una
società civile complessa, un’economia di mercato, le quali non possono essere gestite attraverso misure di
contenimento del pluralismo. Il regime pretoriano, il regime militare, è destinato a sciogliersi, a spezzarsi,
perché è una soluzione contraddittoria con l’impianto della modernità. La modernità politica esige lo Stato
politico rappresentativo non può esserci uno stato politico diverso da quello politico rappresentativo
pluralistico.
La Francia, secondo Marx, è destinata a rompersi come regime, non può durare in un’economia di mercato
un regime illiberale, in quanto sono destinati a entrare in contraddizione. Per cercare di trascendere,
risolvere, questa contraddizione, secondo Marx, la Francia sarà spinta ad avventure militari, dalle quali si
sgretolerà la base di sostegno al regime bonapartismo.
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Il sistema sociale moderno è, secondo Marx, Stato politico e Società civile. Stato politico rappresentativo
democratico liberale e economia di mercato.
08/04/2021
L’interpretazione di Marx del fenomeno Bonapartista coglie anche la rilevanza della dimensione
internazionale. Quindi accanto all'indagine sulle dinamiche delle classi, dei partiti, dei contrasti che
riguardano l’interpretazione della costituzione, Marx coglie il ruolo della dinamica internazionale perché, a
suo giudizio, un regime anomalo, come quello di Bonaparte, ha bisogno di un riconoscimento delle altre
potenze europee. Infatti, secondo Marx, per un regime autoritario è difficile consolidarsi senza una qualche
compiacenza o accettazione degli altri Stati influenti d'Europa. Questa dimensione internazionale assume
un volto ambiguo nelle dinamiche di un potere personale autoritario. Secondo Marx questi regimi, come
quello di Bonaparte, non conducono le relazioni internazionali secondo la pura logica di potenza, quindi
rispettando i tempi, le compatibilità, la grammatica delle relazioni di potenza tra Stati ma introducono una
commistione tra dinamiche internazionali e ragioni di consenso interno.
A giudizio di Marx la politica di potenza di Bonaparte non obbedisce a una razionalità strategica pronta a
interpretare l'autonomia delle dinamiche internazionali ma legge il rapporto interstatale e della Francia alla
luce di un’attenzione quasi prioritaria alle esigenze di sostegno al regime. Dunque il sostegno, l'adesione di
massa al regime è una preoccupazione prevalente rispetto alla lucida interpretazione delle dinamiche dello
scacchiere internazionale. Per questo Marx dice “la combinazione di potenza il consenso spinge Napoleone
a intervenire in Italia, contravvenendo ai suoi impegni, credenze degli ambienti più liberali repubblicani
francesi ed europei, e lo fa anzitutto perché deve avere il sostegno del mondo cattolico e dunque
intervenire contro la Repubblica romana serve, più che per ragioni di potenza, per ragioni di
consolidamento del rapporto con le gerarchie ecclesiastiche a fini di consenso del mondo cattolico al nuovo
regime.
Leggendo queste dinamiche Marx si sofferma anche in altri passaggi dei suoi scritti sulla figura di Mazzini e
del Repubblicanesimo che Marx coglie come una concezione della politica troppo astratta e moralistica e
quindi incapace di cogliere la rilevanza, oltre a quella dell'etica e degli impegni solenni sul piano morale,
sulla rilevanza della questione economica e in particolare per quanto riguarda l'Italia e Roma la questione
contadina, la questione delle terre. Secondo Marx il repubblicanesimo astratto di Mazzini, in nome di ideali
etici puri, repubblicanesimo intransigente, dimentica di interpretare la questione sociale e il ruolo della
riforma della terra come cruciale per le questioni nazionali.
In questo Marx ritiene che proprio il primo Napoleone abbia colto invece l'importanza della questione della
terra e della riforma del latifondo, mentre in Italia, secondo Marx, questa comprensione del nesso tra
costruzione della nazione e riforma degli assetti economici arcaici delle campagne non viene colta e Mazzini
è l'esempio di questa trascuratezza della questione contadina, soprattutto della questione meridionale, che
non viene percepita come politicamente importante.
Sempre per ragioni di esigenze interne di mantenimento ed espansione del consenso, una parte partecipa
ad altre questioni di dinamiche europee e, secondo il rilievo che Marx sviluppa, in queste dinamiche
Napoleone perde, in certi suoi passaggi bruschi, il nulla osta delle politiche delle cancellerie europee, che
avvertono che non si tratta di uno statista che si comporta secondo le regole della diplomazia
internazionale ma di una personaggio che improvvisa, rompe, è al di fuori delle ritualità delle relazioni
internazionali. Questo secondo Marx mette un po' in allarme le cancellerie europee più forti, le quali
percepiscono il momento napoleonico come congiunturale, non destinato a durare in eterno, perché il
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La lettura che Marx propone dunque del Bonapartismo è che il cosiddetto Imperatore che mette insieme
tutto, che si propone come capo carismatico capace di unificare oltre ogni differenza e si autodefinisce
quando fa politiche sociali “l'Imperatore socialista”, secondo Marx, tutte queste cose rivelano un tratto
specifico del regime che per accontentare tutti assume ora un volto socialista, ora un volto persino liberale,
ora un volto esplicitamente autoritario.
A giudizio di Marx, questo tipo di regime ha bisogno di un’ideologia specifica per mettere insieme
componenti sociali e culturali eterogenee e l’ideologia specifica è quella non soltanto del culto della
persona ma anche quella della potenza nazionale come valore, il nazionalismo comincia ad essere un valore
che si proietta oltre le prime formazioni del principio di nazionalità. Il principio di nazionalità in origine è la
conseguenza della rivoluzione francese, e il primo segnale del risveglio delle nazionalità è la declinazione
della Nazione come principio di consenso.
La Nazione, dopo la rivoluzione francese, è vista come cultura, volontà, consenso, quindi l’elemento
volontario diventa cruciale e questo, secondo Marx, segna la fine delle radici naturali, delle dottrine naturali
e anche etniche della Nazione. L’elemento volontario è importante, si tratta di un popolo che alla luce di
esperienze, culture, lingue, volontariamente decide il percorso dello Stato nazionale. Dopo il nazionalismo
perde questo significato democratico e assume con il Bonapartismo il volto di una ideologia che segue
politiche di potenza e di consolidamento di un regime che Marx reputa illiberale.
Secondo una recente storiografia, che potremmo chiamare revisionistica, l'Impero di Bonaparte non è un
blocco omogeneo uniforme, ci sarebbero state un momento di accentuazione repressiva e poi un
allentamento della morsa autoritaria con il rispetto di talune garanzie di stampo liberale, si parla addirittura
di un Impero liberale.
Nell'ottica che adotta Marx non c'è questo tipo di lettura del fenomeno bonapartista che viene inquadrato
come un fenomeno di autoritarismo personale che ha un seguito di massa. Quindi non un Impero liberale
ma un impero in cui l'autocrate, come Marx chiama Bonaparte, riesce tuttavia ad avere un sostegno, un
consenso largo. Come si produce questo consenso all'autocrate? Secondo Marx la dimensione della
potenza e della nazione è un risvolto importante, ma è anche una possibile linea di fragilità nella misura in
cui l'avventuriero, come Marx chiama Bonaparte, precipita in situazioni in cui rischia di essere sconfitto.
Marx si aspetta che la crisi economica rompa la coalizione sociale. Infatti, secondo Marx, la crisi economica
mondiale, se si sviluppa nella stessa intensità che ha avuto tra il 46 e 47, è un fenomeno che produce
inevitabili conseguenze politiche, costringendo Bonaparte a misure politiche non più onnicomprensive ma
sarà costretto a scegliere con più precisione quali sono gli interessi da salvaguardare e quelli penalizzare
cioè dovrà decidere chi paga le conseguenze sociali della crisi e dunque la sua volontà di presentarsi come
padre di tutti, come capo politico paternalista benefattore di ogni ceto sociale, questa vocazione verrà
meno.
Quindi la crisi sociale, secondo Marx, è l'elemento che scompagina una coalizione come quella imperiale
bonapartista che dinanzi ad una frattura sociale deve rivedere la sua vocazione finto universalistica e deve
scegliere deve selezionare e penalizzare alcuni interessi, non può accontentare tutti come invece fa quando
le cose vanno bene e quando il bilancio statale consente, dice Marx, l'espansione del debito pubblico. Marx
è tra i primi a vedere il problema del debito pubblico come nuova dinamica delle società europee. Il debito
pubblico è, secondo Marx, il rinvio alle generazioni successive di costi che non possono essere accollati alle
generazioni presenti perché altrimenti il potere perderebbe consenso e quindi con il debito pubblico si
rinviano a tempi migliori e a generazioni diverse il compito di pagare le spese delle politiche pubbliche.
Questo è il primo elemento che potrebbe far saltare gli equilibri del regime bonapartista.
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Dunque i fattori interni portano a una rottura della coalizione sociale, fattori esterni portano a un’erosione
della complicità delle potenze europee dinanzi ad un capo che rompe equilibri e non si attiene con la
dovuta attenzione alle regole di funzionamento dei rapporti interstatali.
Su queste attese siccome l'indagine di Marx che ritiene il regime Bonapartista non una regolarità destinata
a durare ma una regolarità che può intervenire nelle situazioni di eccezione. Nelle situazioni d'eccezione il
Bonapartismo può essere una soluzione politica. Quando si determina questa situazione di eccezione?
Quando le classi sociali più elevate non dispongo di strumenti politici adeguati per avere il consenso e
quindi rischiano di soccombere dinanzi alla forte mobilitazione delle classi subalterne. In queste condizioni
c'è bisogno di un qualcosa di nuovo; quando si mobilitano i ceti subalterni, dice Marx, le vecchie classi
politiche liberarli tradizionali hanno questo difetto: non hanno le masse, perché appartengono al mondo
della tradizione, del voto censitario e della politica intesa come regno della capacità.
Questo mondo, dunque, non riesce a reggere il confronto in situazioni fortemente polarizzate quando in
gioco è l'ordine sociale e il rapporto politico e allora in queste situazioni, secondo Marx, viene a essere
disponibile un supplemento. Le classi liberali non hanno gli strumenti per reggere il confronto sociale e
politico e devono soccombere dinanzi ad una figura: il capo carismatico. Bonaparte è il capo carismatico che
salva il mondo liberale distruggendolo, cioè per salvare l'ordine sociale della proprietà del mercato che è al
cuore dei partiti liberali c'è bisogno di sospendere la competizione politica normale perché i liberali non
hanno gli strumenti per reggere il confronto quando è troppo duro e allora si determina una situazione di
equilibrio che può essere, secondo Marx, gestita attraverso questo intervento.
La figura del capo, del leader diventa uno strumento in più, perché mentre i partiti liberali sono strumenti
degli interessi delle classi privilegiate che sono una minoranza nelle società industriali; il capo carismatico
riesce ad avere un consenso molto più largo perché attraverso la strategia della seduzione e del populismo
non si presenta come esponente dell’élite liberale, non si presenta come appartenente ai ceti alti dello
Stato, ma si presenta come un outsider, come una figura esterna ai giovani e quindi in grado di denunciare
la pochezza dei limiti dei ceti politici tradizionali.
Quindi il Bonapartismo assume questo volto ambiguo: castigatore delle politiche liberali dei ceti tradizionali
e al tempo stesso però salvezza del mondo tradizionale e del mondo liberale. Come riesce a salvare il
mondo liberale senza però il ceto politico liberale? Questo è il problema che Marx intende comprendere
nelle dinamiche del bonapartismo. Riesce a salvare l'ordine proprietario liberare attraverso una capacità di
costruire un consenso interclassista. Il regime Bonapartista affida al capo carismatico la costruzione di un
consenso che scavalca la vecchia geografia politica e per scavalcare le vecchie sigle politiche, il capo
carismatico adotta una politica con forte accento sociale perché questo è indispensabile per andare oltre i
limiti del puro liberalismo tradizionale, il quale era superato dinanzi alle insidie della questione sociale.
Dunque la questione sociale viene gestita ma non attraverso gli attori del conflitto sociale, dei movimenti
radicali socialisti, ma il Bonapartismo espropria la questione sociale specifica dimensioni politica da affidare
al conflitto tra destra e sinistra, capitale e lavoro. Bonaparte riesce dunque a depoliticizzare il conflitto
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Quando, però, malgrado le limitazioni, le politiche repressive nelle città francesi il movimento socialista non
arretra del tutto ma continua ad essere presente, la leva della repressione diventa più forte, quindi il
cosiddetto liberalismo dell'Impero interviene soltanto quando il consenso dei ceti sociali operai è garantito
a regime, quando si risvegliano pulsioni socialiste il regime ritorna a utilizzare strumenti di sorveglianza e
repressione.
Dunque il capo carismatico come risoluzione dei conflitti attraverso un sistema economico che è di mercato
e però adotta politiche sociali che servono per mantenere il regime economico che altrimenti vacillerebbe.
Questo si chiama per Marx lo Stato che da autonomo diventa indipendente. Marx utilizza due concetti:
- AUTONOMIA DELLA POLITICA: si ha quando lo Stato attraverso il suffragio universale diventa un terreno di
contesa misurato attraverso il voto, chi vince dispone degli strumenti pubblici della legge e delle azioni
dell'amministrazione. Quindi lo stato diventa autonomo non nel senso che è indifferente agli scopi e agli
interessi ma che gli scopi e gli interessi dello Stato dipendono dal conflitto politico; chi vince tra i partiti e le
classi detiene il potere di legiferare. Dice Marx che il principio di maggioranza significa che l'interesse
maggioritario diventa legge. Questa è l'autonomia della politica, nel senso che la politica registra le
dinamiche della società misurate attraverso i partiti e il loro consenso. Lo Stato, quindi, è autonomo in
questo senso che dispone di procedure, di istituzioni attraverso le quali si regola il conflitto, si risolve la
contesa tra gli attori e quindi lo stesso Stato può dare risultati diversi nella legislazione. Se vincono
coalizioni sociali ispirate dal lavoro, lo Stato fa riforme in senso socialista; se vincono le forze liberali, lo
Stato adotta leggi di orientamento pro mercato, pro impresa. Tutto, quindi, dipende dalle forme del
conflitto e lo Stato è in questo senso autonomo nel senso che la sua scelta, la sua legislazione dipende
dall'esito del conflitto sociale e politico. Lo Stato diventa da questo punto di vista una procedura non senza
interessi ma con gli interessi che hanno vinto la contesa elettorale il conflitto sociale.
Con Bonaparte non siamo più in questa condizione di Stato autonomia della politica. L’autonomia della
politica si ha nelle democrazie competitive consolidate dove come diceva Marx c'è la vera democrazia in
quanto forme e contenuto coincidono. Nel Bonapartismo, invece, abbiamo un altro tipo di Stato, lo Stato
indipendente.
- STATO INDIPENDENTE: cioè l’Imperatore, il capo carismatico, non è più l'esito di un conflitto politico che lo
Stato misura ma assume il volto di un potere indipendente dal conflitto. Il conflitto non ha più sbocchi
politici, non c'è più l'autonomia del politico perché sopprimendo i partiti più radicali e negando diritti di
sciopero e così via, l'ordinamento illiberale non ha più la corrispondenza tra forma e contenuto, non c'è più
l'autonomia della politica, ma c’è lo Stato come attore indipendente che cioè è a disposizione del capo
carismatico che impianta un regime personale. Agli occhi di Marx questa figura dello Stato indipendente poi
però non è veramente indipendente perché, a giudizio di Marx, lo Stato indipendente di fatto è comunque
a disposizione di grandi potentati i quali sono vicini a Bonaparte e lo sostengono. Questo, però, avviene
senza più le procedure, non è più come nell'autonomia del politico dove chi vince determina l'orientamento
legislativo e quindi la gara è incerta, qui nello Stato indipendente che il Bonapartismo costruisce il conflitto
non c'è, il pluralismo politico e sociale è fortemente limitato e quindi il contenuto dello Stato non dipende
dal consenso, non dipende dalle elezioni perché il gioco è bloccato, il potere è indipendente cioè nelle mani
della disponibilità dell'imperatore, del capo carismatico che adotta politiche discrezionali che sono al di
fuori della cornice del politico moderno.
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In altri paesi, come la Francia di Bonaparte e la stessa Germania Bismarckiana, Marx esclude la possibilità di
giocare secondo le regole dell'autonomia della politica cioè di conquista legale della maggioranza numerica
del voto e quindi in Parlamento con un governo favorevole ai ceti operai. Questo che si presenta in Francia,
invece, è una condizione che non rende possibile il gioco competitivo e quindi la questione del potere non
si pone nei termini di uno stato che consente l'autonomia del politico perché il potere è di Napoleone e le
elezioni non possono cambiare maggioranza attribuendo ai ceti operai la possibilità di risolvere le questioni
sociali più radicale. Quindi l'indipendenza del potere è l’espressione che Marx utilizza.
Questa indipendenza dello Stato del potere, a giudizio di Marx, poi non resiste veramente nei tempi più
lunghi perché il regime personale non è destinato alla lunga durata è una eccezione. Quindi il Bonapartismo
rientra tra le situazioni eccezioni, è un modo per risolvere un conflitto che vedrebbe il potere ricadere su
possibili attori radicali. Il Bonapartismo, dunque, è il ritrovato di situazioni politiche sociali critiche nelle
quali non esiste tra gli attori la condivisione delle regole del gioco. Per Marx tanto l'assemblea nazionale
(partito dell'ordine), quanto il Bonapartismo, quanto i socialisti, vedevano il regime del suffragio universale
come un qualcosa di provvisorio che non era accettato come regime durevole, ognuno dei pretendenti
assumeva la prospettiva della conquista integrale del potere e quindi tutti gli attori nella Seconda
Repubblica avevano questo problema: non condividevano le regole del gioco con le quali si stabiliva il
sistema politico e il modo della contesa e dunque ogni pretendente aspirava poi a chiudere il gioco
competitivo.
In questa situazione di attori tra loro molto nemici, incapaci di compromesso, la situazione era molto calda
e vince Napoleone che riesce a conquistare il potere attraverso il controllo delle forze armate (regime
pretoriano) e poi a ratificarlo attraverso il regime plebiscitario, il Plebiscito come meccanismo di
acclamazione del capo che ha rotto il gioco delle competizioni parlamentari nelle quali tutti gli attori
avevano una accettazione problematica delle regole. Marx se la prende con il mondo liberale, il partito
dell'ordine, perché nella paura del voto operaio, e quindi delle forze socialiste, avevano negato il principio
del suffragio universale, introdotto nel ’48, attraverso una legge che esigeva residenze pure di più anni nelle
città e era una legge che serviva per eliminare dal diritto elettorale circa tre milioni di operai, cioè era un
modo per risolvere con una restrizione del diritto di voto, in ragione della residenza continuativa, per
risolvere la questione sociale attraverso la limitazione del voto dei ceti operai cittadini.
Questo fu un motivo di aspro scontro, Napoleone era anche lui d'accordo però pubblicamente diceva di
non essere d'accordo con questa restrizione e si presentava come l'amico del popolo, l'amico degli operai
che era contro i liberali e il partito parlamentare che aveva distrutto il suffragio universale. Quindi si
prefigge di apparire come l'Imperatore, come il presidente del suffragio, contro la maggioranza
parlamentare che invece aveva fatto ricorso a misure repressive come la repressione armata dei moti di
giugno del ’48, la limitazione del diritto di voto e così via.
Quindi, agli occhi di Marx, non era in gioco un conflitto semplice: il Parlamento democratico contro
l'autocrazia imperiale, perché comunque il Parlamento nella sua maggioranza aveva eliminato il suffragio
universale perché aveva paura del voto operaio e quel Parlamento aveva ordinato, attraverso un governo di
un Generale, stati d'assedio e misure fortemente repressive. Quindi il panorama era un panorama di
assoluta incertezza e tutto questo rendeva il conflitto non come un semplice conflitto tra presidenzialismo e
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Quindi era una Repubblica sconfitta ed entrata in crisi perché mancavano repubblicani, tutti gli attori non
condividevano le regole fondamentali del gioco, c'era un clima di reciproca ostilità e di mancata
condivisione delle regole. In una Repubblica in cui le regole non sono condivise è chiaro che non è possibile
che aspettare una soluzione o l'altra cioè una prova di forza perché tutti gli attori non condividevano la
prospettiva di stare insieme in una Repubblica destinata a durare, ognuno aveva un qualcosa di immediato
da perseguire: i tre partiti monarchici aspettavano la caduta per il ritorno ad una monarchia e i ceti operai
aspettavano un controllo del potere per risolvere così in maniera definitiva la questione sociale e quindi la
Repubblica entra in crisi per questa mancata condivisione delle regole fondamentali del gioco.
La conclusione che Marx trae dal 18 Brumaio è l'intreccio tra politica interna e dinamiche internazionali.
Queste dinamiche sono al centro anche delle riflessioni del Marx giornalista o del Marx politologo, si tratta
di centinaia di articoli pubblicati su quotidiani tedeschi, francesi, americani, qualcuno anche in italiano, in
cui Marx analizza la situazione politica, prevalentemente quella inglese. Il Marx giornalista o politologo non
è stato oggetto di un’analisi rigorosa, viene completamente trascurato, queste opere non sono state mai
ritenute degne di una lettura scientifica sistematica. In questo ha contribuito in parte lo stesso Marx che
nelle sue lettere si lamentava per il tempo che sprecava per i giornali, diceva “io sono costretto per motivi
strettamente alimentari, per avere qualche fonte di reddito, a scrivere ripetutamente sui giornali però
questo mi costringe a dedicare molto tempo all'attualità e ad accantonare il lavoro quotidiano che
conduceva nelle biblioteche inglesi, per portare a termine il suo lavoro: il capitale”.
Quindi malediceva le sue opere giornalistiche perché le riteneva tempo sottratto all'opera squisitamente
scientifica. Dice Marx che è evidente che un articolo di giornale non è la stessa cosa di un testo scientifico e
quindi cerca lui stesso di trovare una spiegazione a questo lavoro che dice di intraprendere soltanto per
motivi economici minimi, per avere qualche soldo per non dipendere interamente dai soldi che gli dava il
suo amico Engels. Quindi Marx riteneva che la sua produzione giornalistica fosse una produzione maledetta
perché lo costringevano a restringere il tempo che lui aveva deciso di dedicare a questa critica
dell'economia politica che secondo lui era l'elemento fondamentale.
Negli anni ’50, invece, la permanenza in Inghilterra lo inducono a questo lavoro di politologo, di analista, di
editorialista dei quotidiani e quindi a svolgere una funzione di interpretazione dei processi politici. Ciò che è
interessante è che anche in queste opere che Marx riteneva minori egli si avvalga di un apparato di
sostegno che è molto rilevante, cioè per scrivere gli articoli Marx dispone di statistiche economico sociali, si
avvale di documentazione istituzionali, libro blu del Parlamento inglese per i resoconti, le informazioni
necessarie per le dinamiche istituzionali, per il lavoro delle commissioni parlamentari quindi è un Marx che
legge molti libri di storia politica e istituzionale mostra come il lavoro del giornalista, del politologo non sia
un lavoro superficiale per cui scrivi la prima cosa che ti viene in mente ma che il lavoro dell'analista politico
richiede documentazione storica e questo apparato storiografico è indispensabile per non dire cose banali
sulle vicende politiche.
Quindi il Marx politologo è un Marx estremamente importante malgrado la sottovalutazione che queste sue
opere hanno avuto dagli interpreti che non hanno mai studiato in maniera scientifica questa produzione di
Marx e dallo stesso Marx che lo riteneva un puro esercizio di sopravvivenza da cui avere qualche soldo e
nulla più. In realtà però lo stesso Marx alcuni di questi articoli giornalistici li riutilizza, ad esempio, gli articoli
sull'India che lui ha studiato in maniera approfondita per i quotidiani si ritrovano nei Grundrisse e nel
Capitale; le riflessioni, ad esempio, sulla crisi economica che sviluppa negli articoli per i quotidiani poi
tornano come materia su cui riprende gli stessi termini nei Grundrisse e anche nel Capitale.
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3° CAPITOLO
Marx politologo inizia stabilendo una connessione tra Bonaparte e Palmerston, una linea di congiunzione
tra modello continentale di politica francese e modello inglese e dice Marx che nella metà dell'Ottocento
questa distanza, che di norma separa il modello continentale di Stato e il modello inglese di Stato, sembra
fortemente attenuata. Il Primo ministro inglese Palmerston, un uomo politico molto influente, di cui Marx
non si limita a scrivere articoli di giornale ma scrisse anche un pamphlet, un libretto che ebbe una notevole
fortuna, circa 25.000 copie, in cui descrive in forma ironica la carriera politica di questo rispettabile politico
inglese che Marx coglie in termini critici in molti suoi passaggi.
L’accorciamento tra il modello inglese e il modello francese consiste nel fatto che, agli occhi di Marx, il
modello francese è il modello di una rivoluzione lenta e quindi di un’accelerazione improvvisa che
conquista il potere e accorcia i tempi dell'innovazione. Il modello francese è, dunque, la politica che
accelera che con atti risoluti determina profonde discontinuità, quindi è il tempo dell’accelerazione,
dell’incursione, dell’eccezione che rompe i tempi lunghi dell'innovazione e costringe a rapide interruzioni a
modifiche repentine del quadro politico istituzionale.
In Inghilterra c'è, invece, un modello più lento di innovazione. Per Marx la Francia è il paese della
transizione breve cioè Napoleone il Grande, la rivoluzione dell'89 in poco tempo recuperano l'arretratezza,
superano la struttura arcaica con gesti di rottura, quindi, è una transizione breve. La conquista del potere e
l'opera di codificazione napoleonica mostra che tutto si svolge in pochi anni. La Francia fa in pochi anni una
transizione breve per gestire processi politici ed economico-sociali che invece in Inghilterra hanno visto un
tempo molto più dilatato. Se la Francia è la transizione breve e accelerata, l’Inghilterra è il paese della
transizione lunga e quindi diluita nel tempo storico.
Questo, dice Marx, non significa però che la Francia sia il paese della violenza e l'Inghilterra sia priva di
queste determinazioni violente, significa piuttosto che ciò che la Francia fa in pochi anni e riduce la
questione con gesti clamorosi, simbolici (ghigliottine), l’Inghilterra l'ha fatto nel 600 quindi nel secolo
precedente. Anche la storia inglese, dice Marx, è tutt'altro che questa storia del costituzionalismo, della
gloriosa rivoluzione del 1688-89, anche la storia inglese ha avuto i suoi re che hanno perso la testa e che
sono stati tolti dal potere.
La differenza tra Inghilterra e Francia è che in Inghilterra il processo di modernizzazione comincia prima e si
svolge su presupposti diversi e quindi in Inghilterra la via della integrazione attraverso il Parlamento è la via
prescelta come strada di innovazione e di modernizzazione; in Francia la società di Corte era sprovvista di
strutture di rappresentanza e quindi quando la società si mobilita perché non è rappresentata non esistono
strutture di potere aperte e quindi rottura violenta dell'ordinamento perché non si poteva fare altrimenti,
in quanto non erano disponibili canali diversi e quindi rottura, transizione breve.
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La lotta tra il Parlamento e la corona, secondo Marx, non è una semplice lotta di modelli istituzionali, di
come scrivere la geografia formale delle istituzioni è anche una lotta tra classi e ceti sociali. Il Parlamento
ospita la nuova classe in ascesa, i nuovi ceti, quindi è la struttura che integra la ricchezza, la borghesia in
espansione, entro la struttura di rappresentanza politica. Mentre in Francia non esiste una rappresentanza
politica aperta ai nuovi ceti del terzo stato, i quali devono fare la rivoluzione per essere ammessi nel
sistema politico; in Inghilterra questi avvenimenti sono presenti in anni e in secoli precedenti quando dopo
conflitti, anche lì molto cruenti, le istituzioni sono diventate organismi plurali e quindi accanto alla corona
altri momenti di condivisione della responsabilità politica.
Il Parlamento dà all' Inghilterra quei canali di accesso per i ceti borghesi, il terzo stato, che in Francia non
c'era e quindi sono stati rotti gli equilibri della società di Corte e dell'assolutismo monarchico. In Inghilterra
questo avviene attraverso un conflitto di più lunga durata dal quale emerge la vittoria dei ceti borghesi e il
Parlamento ratifica questo successo dei ceti borghesi nell'equilibrio dei poteri, il costituzionalismo inglese è,
dice Marx, non soltanto un compromesso tra istituzioni dello Stato: monarca e assemblee, ma è un
compromesso di carattere sociale. Dice Marx il cosiddetto modello inglese che viene evocato spesso a
sproposito in Inghilterra è un compromesso sociale tra diverse classi: il monarca, che esprime le classi più
elevate della nobiltà, la Camera dei Lord, anch’essa espressione dei ceti aristocratici che per via ereditaria
hanno una camera di rappresentanza e poi la nuova camera la Camera dei comuni dove sono rappresentati
i ceti sociali della nascente economia di mercato.
Quindi, a giudizio di Marx, il costituzionalismo inglese è anzitutto un costituzionalismo tra classi sociali che
definiscono il loro equilibrio nelle istituzioni dipartite: Corona, Lord e Comuni. Questi tre luoghi della
politica inglese sono dunque protagonisti di una dinamica non soltanto politica ma sociale e quindi secondo
Marx bisogna vedere come questo equilibrio funzioni davvero nel tempo storico che lui indaga.
Secondo l'ipotesi di Marx il vecchio costituzionalismo inglese con questi tre poteri, tra di loro in cogestione
degli apparati di potere, questo equilibrio si è infranto perché è nata una diversa società e secondo Marx il
vecchio compromesso costituzionale vedeva ancora anche nella composizione della Camera dei Comuni il
primato della società aristocratica, della terra e quindi di una borghesia di tipo particolare. I gentiluomini
inglesi, la nobiltà di campagna e le figure del commercio del mercato sono mutati con l'Ottocento e con la
rivoluzione industriale, in protagonisti della politica inglese perché è mutato radicalmente con
l'industrializzazione il profilo sociale dell'Inghilterra e quindi a giudizio di Marx la politica inglese di metà
800 registra queste dinamiche di alterazione delle basi sociali del vecchio compromesso costituzionale.
Il vecchio compromesso costituzionale poggiava sul primato della terra come figura economica
fondamentale, nell'Ottocento secondo Marx non c'è più questo primato della terra e nasce una nuova
borghesia. Questa nascita di nuova borghesia, accanto ai ceti operai, esige modifiche nella politica inglese e
Palmerston va quindi studiato come espressione inglese di dinamiche che in Francia hanno visto il
fenomeno del Bonapartismo.
Quindi Marx cerca di comprendere affinità e differenze tra Bonapartismo e quella che chiama la
Palmerstonite, cioè il culto di questo capo politico parlamentare che cerca anche lui le vie per una
personalizzazione del potere.
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Il rimprovero che è stato fatto a Marx è sempre stato quello di non aver fornito una teoria della politica e
però stranamente, proprio nelle pagine dove l'analisi della dinamica istituzionale inglese viene condotta,
sono state trascurate nella ricostruzione della teoria politica marxiana.
Come analista del sistema politico inglese, Marx fornisce indicazioni di metodo su come fare analisi politica
per i quotidiani e anzitutto quello che interessa rimarcare è l'utilizzazione di materiali di supporto come le
statistiche, i discorsi parlamentari, che cominciano ad essere pubblicati dalla stampa inglese, le storie
istituzionali dei paesi di cui si occupa e i resoconti delle attività delle commissioni parlamentari e delle
istituzioni parlamentari inglesi. Quindi un’attenzione empirica alle dinamiche della politica con la
preoccupazione di fornire una ricognizione che abbia un supporto verificabile e quindi il ricorso a statistiche
ha elementi che oggi si chiamerebbero appunto tipici di un'analisi empirica perché mentre molti interpreti
si attardano nel cogliere gli aspetti filosofici generali di Marx, in realtà Marx, dopo il periodo giovanile, la
tesi di dottorato e le opere inedite su Hegel, abbandona progressivamente l'attenzione specialistica sulle
questioni filosofiche perché ritiene che l'anatomia della società, come lui la chiama, sia nei rapporti sociali
ed economici e quindi la sua preoccupazione si sposta sul terreno delle statistiche, delle ricostruzioni
storico politiche e quindi le istituzioni, gli ordinamenti, le dinamiche economiche sono i temi nuovi su cui
Marx riflette.
Proprio a dimostrazione che quando in età giovanile auspicava una logica specifica dell'oggetto specifico
aveva in qualche misura interrotto la centralità della filosofia e riteneva che i problemi del moderno fossero
indagabili non più con strumenti semplicemente filosofici ma attraverso un’indagine di carattere storico
empirico per quanto riguarda le dinamiche istituzionali e poi la critica dell'economia politica come
elemento fondamentale per la decifrazione dei rapporti della società moderna.
Rompendo con Hegel la tradizione filosofico speculativa, Marx intende trasferire il compito di
comprensione dei rapporti moderni con discipline empiriche specialistiche come la politica e l'economia e
quindi un cambiamento di paradigma che si avverte in queste sue riflessioni sulle dinamiche politiche più
ravvicinate. Queste riflessioni, oltre che con un materiale empirico e statistico, sono condotte da Marx
anche attraverso un vasto riferimento letterario cioè continue citazioni di Dante, Shakespeare, Cervantes,
Boiardo, Tasso che vengono utilizzati da Marx come elementi di approfondimento, di ironia e quindi
utilizzazione di un vasto repertorio letterario. Quindi accanto alle puntuali indicazioni di elementi statistici e
istituzionali, Marx fa ricorso anche a metafore, immagini di carattere poetico e letterarie che gli servono per
rendere incisiva la sua prosa e per utilizzare un repertorio anche ironico, per penetrare o colpire non in
maniera immediata ma con un riferimento continuo a un piano metaforico, ironico e così via.
Il caso inglese viene indagato da Marx alla luce di questa centralità che l'Inghilterra possedeva nelle
dinamiche economiche e politiche del tempo. L’Inghilterra era al centro del sistema mondo ed era la vera
potenza nelle creazioni economiche di quel tempo. Dunque la necessità di cogliere il dato politico, la
descrizione delle vicende parlamentari, alla luce di un'ottica più attenta alle dinamiche mondiali perché
l’Inghilterra era un paese mondo in cui cioè l'intreccio interno internazionale era più stringente che altrove.
Dunque l'analisi di Marx coglie sempre questo profilo delle relazioni internazionali come centrale nelle
dinamiche inglesi: se l'Inghilterra è il paese più influente nel campo economico quindi è il “paese guida” è
evidente che non può bastare l'analisi delle pure questioni parlamentari e istituzionali perché questo
quadro istituzionale va sempre ampliato con riferimenti precisi alle dinamiche economiche e politico
militari internazionali.
Come viene interpretato il modello inglese da Marx? Marx ci dice che in Europa tra gli specialisti, e non
soltanto tra gli specialisti, più che le vere istituzioni inglesi domina una sorta di mito di Westminster cioè
una visione spesso agiografica che esalta elementi colti staticamente senza vedere come il cosiddetto
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Marx registra il conflitto tra esecutivo (Parlamento) e Corona che è molto forte in quegli anni perché, a
dispetto di ogni visione statica del modello inglese, i protagonisti della vicenda politica istituzionale
svolgono ruoli e interpretano funzioni che non sono staticamente osservabili perché mutano a ridosso di
processi politici più generali. Il terreno tradizionale riservato in Inghilterra alla iniziativa della Corona era
quello della politica estera e della politica di difesa. Marx registra, invece, su questo piano proprio il venir
meno della tradizionale influenza della corona che viene contestata e le velleità della casa regnate di
suggerire, indicare, custodire rapporti diplomatici all'insegna di una visione tradizionale del ruolo della
monarchia, questo viene infranto nell’800 da un processo che vede invece il Parlamento penetrare nella
gestione delle più importanti dinamiche riguardanti la politica estera.
La Corona viene progressivamente emarginata e Marx ricorda i conflitti tra Palmerston, il principe Alberto e
la monarchia inglese più in generale perché gli ultimi tentativi della Corona di continuare ad esercitare una
influenza nelle politiche di Corte tra i vari paesi europei, questa influenza viene discussa e il Parlamento
espropria la corona di attribuzioni tradizionali. È ormai il Parlamento e il Primo Ministro a svolgere le
funzioni direttive nel campo delle relazioni internazionali e dunque il Parlamento, attraverso il Governo,
diventa il protagonista che gestisce i rapporti e sottrae alla Corona un punto tradizionale di intervento.
A questo riguardo Marx vede anche un ulteriore processo, non soltanto la Corona deve cedere le sue
attribuzioni e la sua capacità di influenza in favore del Governo ma nel rapporto tra Parlamento e Governo
si registra un'ulteriore sviluppo: quelle che sulla carta erano funzioni di controllo di iniziativa spettanti alla
Camera vengono in qualche misura marginalizzate dalle capacità di intervento riservate sempre di più al
Governo inteso nella sua funzione più ristretta, Primo ministro e titolare degli esteri, che incidono nelle
dinamiche politiche internazionali condividendo segreti, rapporti diplomatici rispetto ai quali la capacità di
controllo e anche di deliberazione del Parlamento risulta molto più circoscritta perché le urgenze, le
necessità di mantenere il segreto nelle relazioni militari e nei rapporti tra gli Stati suggerisce appunto di non
far sapere tutto al Parlamento e alle opinioni pubbliche perché questo contrasterebbe con le esigenze della
politica di potenza che confliggono con le esigenze della trasparenza e del controllo della opinione pubblica.
Dunque su materie delicate come guerre, rapporti con la Russia, con la Turchia, con la Francia e così via, il
rapporto politico analizzato da Marx vede una zona di opacità, di politica invisibile. Nel corso di queste
ricostruzioni di Marx la politica invisibile come pertinenza del Governo e delle personalità più rilevanti
dell’esecutivo ridimensiona fortemente il peso dell'opinione pubblica e le capacità di controllo e di verifica
del Parlamento.
Altra trasformazione che riguarda il ruolo della Corona è visto da Marx nel modello inglese che procede
verso una tendenziale riduzione della Corona a un ruolo cerimoniale e puramente scenografico perché i
tentativi che ancora persistono della Corona di influenzare il comportamento del Governo, il tentativo di
privilegiare politici che hanno un rapporto più di sintonia con la Corona rispetto ad altri, questi si verificano
ancora a metà dell’800 ma solo molto più deboli rispetto al passato perché c'è una sorta di
istituzionalizzazione della capacità direttiva del Parlamento e del Governo rispetto alle velleità della Corona
di continuare nel tradizionale potere di consiglio, influenza, di orientamento delle dinamiche dell'esecutivo.
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Dunque abbiamo da questo punto di vista dell'indagine di Marx la registrazione di questo slittamento delle
dinamiche politiche dal Palazzo Reale al Parlamento e anche alla sfera dell’Opinione pubblica che con
meeting, manifestazioni di Piazza rivela una sua importante funzione. Dunque abbiamo un sistema politico
visto come sistema dinamico in cui le relazioni istituzionali sono collegate a meccanismi economici e di
politica internazionale più ampio e a dinamiche che vedono la società inglese presentare il volto di
dinamiche di modernizzazione, di gruppi, di pressione, di influenza, di fasi di mobilitazioni.
Tra le fasi di mobilizzazione che più Marx esalta c’è quella che era avvenuta qualche decennio prima
rispetto a queste dinamiche degli anni ‘50 cioè la nascita del movimento cartista che era un movimento
pre-socialista nella dinamica politica inglese che si caratterizzava per la richiesta di grandi riforme
costituzionali, il diritto di voto, il superamento delle diverse entità delle circoscrizioni elettorali per superare
i cosiddetti borghi putridi: si tratta ricorda Marx di anacronismi per cui accanto ai nuovi collegi delle città
che hanno migliaia di elettori per eleggere un seggio si conservano ancora a metà dell'Ottocento in
Inghilterra i cosiddetti borghi putridi in cui alcune singole famiglie votano e dispongono di un seggio; questi
borghi putridi erano la sopravvivenza di un meccanismo arcaico di privilegio feudale che sopravvivono a
questi meccanismi anche nell’800 e il movimento cartista insorge contro queste dinamiche.
Altra richiesta del movimento cartista, essendo appunto la prima fase del movimento operaio inglese,
riguarda la richiesta di uno stipendio per i parlamentari. Secondo il movimento cartista se non si garantisce
uno stipendio a chi viene eletto in Parlamento, il compito di rappresentare la nazione spetta soltanto ai
ricchi che possono tranquillamente andare a Londra e svolgere funzioni di rappresentanza perché hanno
fondi, soldi, terre che risparmiano la fatica della sopravvivenza. Gli operai nel mondo del lavoro, secondo il
movimento cartista, non sono in questa condizione: se un operaio non ha una remunerazione come
rappresentante una volta eletto è evidente che la sua funzione è impossibile perché dovrebbe lasciare il
lavoro e non disporrebbe degli strumenti di esistenza, di sopravvivenza fisica.
Quindi richieste di allargamento del suffragio, di introduzione di circoscrizioni elettorali con un numero di
aventi diritto al voto omogeneo, superare dunque la estrema frantumazione eterogeneità delle
circoscrizioni e ridurre a un numero paritario le diverse circoscrizioni che eleggevano il deputato. Inoltre,
introduzione di uno stipendio per i parlamentari in modo da allargare le possibilità di rappresentanza ai
nuovi ceti sociali non più appartenenti alle sole classi ricche del paese.
Il movimento cartista è appunto il movimento della carta, la carta era un insieme di richieste che questo
movimento inoltrava e quindi il cartismo è la carta di nuovi diritti di cittadinanza richiesti dal movimento
operaio che essendo escluso dal diritto di voto si mobilita per chiedere un ampliamento del campo della
cittadinanza politica. Anche in Inghilterra ci furono aspri conflitti, situazioni di estrema e radicale battaglia
con chiusure repressive dell'autorità rispetto ai movimenti più radicali di lotta per l'eguaglianza politica e il
movimento cartista viene sconfitto non riesce a trasformarsi in partito. Secondo Marx, però, il movimento
cartista ha mostrato che la società inglese non può rimanere estranea al meccanismo politico e che quindi è
aperta in Inghilterra la questione operaia, vale a dire, con la rivoluzione industriale muta il rapporto dentro i
ceti sociali dominanti ma muta anche la geografia elettorale del paese.
Dentro i ceti sociali dominanti la rivoluzione industriale porta al primato dell'industria, della grande
impresa, delle proprietà nuove legate alla fabbrica, alla finanza, al denaro e si tratta di una forma di
proprietà molto diversa da quella che registrava il vecchio compromesso istituzionale inglese. Il vecchio
compromesso istituzionale inglese vedeva il primato delle aristocrazie, della nobiltà, della grande proprietà
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Con il diritto elettorale riservato solo ai proprietari soltanto alcune migliaia di persone avevano il diritto di
voto e la conseguenza di questo è che chi aveva la proprietà aveva anche il potere e dunque non c'era una
vera distinzione tra società civile e società politica perché se nella società politica entravano soltanto i
grandi proprietari allora una condizione economica, la terra, la proprietà, la ricchezza era immediatamente
politica e dunque il potere economico era in quanto tale potere politico. Il Parlamento era, dunque, una
sorta di camera di autorappresentazione di ceti possidenti che esercitavano influenza, capacità di decisione,
in quanto estremamente ristretto era il corpo elettorale.
Con la industrializzazione muta il rapporto dentro i ceti economici dominanti: al vecchio proprietario
terriero e quindi a quello che in termini economici si chiama la rendita, subentra il nuovo proprietario
industriale e quindi plus valore, la produzione di beni, il mercato. La società diventa dinamica e il mercato
invade tutte le sfere principali del rapporto economico, dunque, una nuova proprietà emerge. La vecchia
Inghilterra era organizzata nelle strutture del potere alla luce della prevalenza della terra; era dal mondo
della proprietà della terra che discendevano tutti i capi politici dell'Inghilterra; le élite politiche erano di
estrazione agraria perché il mondo della terra esercitava un primato del rapporto economico.
Con l’industrializzazione questo primato statico della terra, della rendita, della grande proprietà che diventa
sempre più parassitaria, viene infranto il primato dalla nuova proprietà di beni mobili, industriali e questi
ceti di capitalismo industriale reclamano altri rapporti politici, un nuovo compromesso: hanno il potere
economico perché la fabbrica, il mercato mondiale, di cui l'Inghilterra è il padrone, vedono i grandi
capitalisti inglesi svolgere una funzione dominante. A questa funzione dominante del mercato interno
internazionale non corrisponde ancora il riconoscimento dell'influenza politica e quindi il Governo, la
politica, viene denunciata ad esempio dagli interpreti di questo ceto imprenditoriale nuovo “la scuola di
Manchester” in un modo che Marx dice “la scuola di Manchester intende compiere il progetto di una
trasformazione del potere sociale dell’impressa capitalistica in potere politico. La scuola di Manchester è
l’espressione più conseguente dei nuovi rapporti economici a base industriale. La scuola di Manchester è un
gruppo di intellettuali, di economisti, di banchieri, di industriali, i quali esaltano le virtù del libero scambio,
sono liberisti e credono nella ricetta liberista come meccanismo per trasformare il primato economico
dell’impressa in primato politico. Quindi la rivoluzione industriale deve essere completata da un processo di
mutamento nei rapporti interni all'èlite dominante. La terra, la rendita deve essere scalzata dall'industria,
dalla finanza, dai ceti produttivi che richiedono una diversa idea di Stato: lo Stato non è più lo Stato che
mette dazi, strutture protettive e regola una società prevalentemente statica come quella basata sulla
terra, il nuovo Stato è uno Stato che deve rompere le resistenze parassitarie e destinare le risorse pubbliche
non ha compiti improduttivi ma a funzioni che risultano favorevoli alle imprese, alla dinamicità di una
economia a forte dose mercantile industriale.”
Dunque, la scuola di Manchester, dice Marx, intende dinamicizzare la politica e togliere il vecchio involucro
passatista che sopravvive nell'Inghilterra ufficiale. L’Inghilterra ufficiale delle parrucche, della nobiltà, della
terra non corrisponde più alla nuova Inghilterra della borghesia, della fabbrica, del mercato mondiale, della
grande banca, della grande speculazione finanziaria, questi ceti hanno una grande centralità economica ma
ancora non hanno loro eccetto i politici di riferimento. Quindi, dice Marx, si pone un duplice problema:
dentro la classe dominante una problematica relativa alla rappresentazione eccessiva della terra e
marginale dell'impresa capitalistica, dunque, la necessità che l’impresa capitalista che è detentrice del
potere economico sociale diventi anche la chiave di volta del rapporto politico e quindi traduca il suo
potere, la sua influenza economico sociale in controllo dei meccanismi politici di decisione. Quindi una
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Da qui, dice Marx, il carattere di rivolta delle nuove fasce di borghesia di industria contro il vecchio partito
del turismo tradizionale, i vecchi conservatori, il partito dei Tory è un partito che rappresenta la terra e
quindi ha una visione ostile al liberismo, quello conservatore è un partito della protezione dei rapporti
agrari tradizionale. Mentre la scuola di Manchester, nuove dinamiche dentro il partito liberale, esaltano la
funzione del mercato, la necessità di rompere, di accrescere, le capacità di liberalizzazione, di
privatizzazione peculiari ad un regime economico come quello di impresa capitalistica.
Questo dentro la sfera del potere ufficiale quindi rottura del vecchio sistema politico bipartitico perché il
vecchio bipartitismo non regge più, secondo Marx, quando il vecchio mondo conservatore deve rendersi
conto che le dinamiche dell'industria sono così forti che le nostalgie per la rendita, la staticità, il
protezionismo sono queste forme di nostalgia da archiviare. In questo quadro Marx segnala la figura di
Robert Peel, leader conservatore, il quale richiede politiche di tipo liberale. Secondo Robert Peel non può
proseguire la vecchia gestione secondo le ricette del conservatorismo tradizionale e dunque Robert Peel
rompe con il vecchio mondo conservatore e si avvicina alle sensibilità più liberali.
Dunque nel Parlamento abbiamo un data di destrutturazione delle vecchie appartenenze perché le istanze
del libero scambio, del liberismo, conquistano anche settori del conservatorismo così come alcune istanze
di segno più tradizionale sono vive anche dentro il vecchio mondo liberale e quindi, dice Marx, mutano i
rapporti politici perché i rapporti politici erano stati edificati attorno al protezionismo e al culto della terra
come bene primario. Ora non essendoci più il protezionismo, il culto della terra, della tradizione e così via,
le appartenenze parlamentari si sgretolano, non è più quindi presente il vecchio mondo con due quasi
partiti (perché non sono ancora partiti in senso moderno), tra due aree politiche che si contrapponevano
nella metà dell'Ottocento.
La rivoluzione industriale con le esigenze di liberismo, di riconoscimento del ruolo egemonico dell'imprese
e della banca mutano i vecchi rapporti politici e in Parlamento, dunque, non c'è più l'antica ginnastica Tory
e Wigh perché sono mutate le condizioni sociali.
La lettura di Marx mostra come i vecchi protagonisti del cosiddetto bipartitismo inglese sono smontati dalle
dinamiche sociali: se mutano gli interessi fondamentali e quindi emerge l'impresa, la fabbrica, nuovi
rapporti economici, non è possibile la sopravvivenza a lungo termine dei vecchi rapporti politici. Secondo
Marx le antiche sigle tradizionali sono superate, non per misteriose dinamiche individuali che vedono un
parlamentare cambiare casacca (frequente nella Inghilterra dell'epoca), ma per un problema più di fondo:
la rottura della società tradizionale con l'agricoltura e il conservatorismo politico come interprete politico di
un mondo che non ha più centralità e viene soppiantato dalle nuove relazioni industriali.
Mutando la struttura economico-sociale dalla terra all'industria è secondo Marx evidente che non può più
continuare la vecchia rappresentanza politica e dunque i partiti si rompono in Parlamento perché i nuovi
interessi richiedono nuove forme di rappresentanza. Questo dentro il campo economico e sociale ufficiale.
Nell'ambito della società inglese il movimento cartista, a giudizio di Marx, rivela che non soltanto dentro i
piani alti del potere delle classi sociali più forti si presentano problemi di rappresentanza, ma problemi di
rappresentanza emergono anche nelle classi sociali periferiche cioè non basta più il voto per i proprietari,
con l'industrializzazione, con i fenomeni di urbanizzazione, di concentrazioni in grandi città e in grandi
apparati industriali, ci sono nuovi soggetti nuove forze che non possono più rimanere escluse dalla
rappresentanza politica.
Il Cartismo è segnalato da Marx come la richiesta del mondo operaio che è la dinamica nuova che emerge
con la rivoluzione industriale di avere anch'esso un peso politico. Il movimento cartista secondo Marx, però,
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La descrizione che Marx fa delle vicende inglesi degli anni ‘50 rivela come la vecchia disputa politico
parlamentare sia diventata molto poco rappresentativa rispetto alle due grandi questioni: quella della
richiesta dei ceti dominanti di avere uno Stato più sensibile alle esigenze della produzione industriale e
quella del movimento nascente dei lavoratori di avere una rappresentanza politica.
Marx vede una sorta di tendenziale bipolarismo che si deve strutturare in Inghilterra: un partito della
borghesia, interprete degli interessi dinamici del mondo produttivo, e un partito delle classi lavoratrici,
interprete delle funzioni produttive del lavoro e quindi richiesta di potere politico di questi ceti sociali. Il
problema è che questo schema non è tempestivamente tradotto in comportamenti politici conseguenti e
quindi la scuola di Manchester rimane una istanza molto minoritaria dentro il mondo politico e i partiti
operai non nascono tempestivamente perché manca appunto una traduzione del movimento che si svolge
a livello sindacale in una più complessa opera di indirizzo politico.
Quindi, a giudizio di Marx, l'Inghilterra conosce grandi trasformazioni ma non ha ancora gli interpreti politici
adeguati a queste dinamiche nuove, mancano partiti della industria, della borghesia e mancano partiti del
lavoro per esprimere la polarizzazione che, ai suoi occhi, caratterizza il tempo moderno. Invece di questo
schema bipolare esplicito, chiaro, c'è la sopravvivenza di antiche liturgie parlamentari e di fenomeni che
mostrano, secondo Marx, la fine del tradizionale bipolarismo. Il tradizionale il bipolarismo non resiste alle
dinamiche nuove e quindi, dice Marx, tutta la vita del parlamentarismo inglese è decrepita mostra segni
evidenti di usura.
Quali sono questi segni evidenti di usura? Ad una società molto dinamica, produttiva, corrisponde un ceto
politico in cui la rappresentanza dell'impresa capitalistica è molto marginale, ridotta, se non assente perché
le carriere politiche nei partiti di governo, nei partiti ufficiali, sono legate ad antiche tradizioni familiari e
quindi un ceto politico in cui quasi si eredita per diritto naturale, familiare, il seggio in Parlamento perché
mancano strutture di partito in senso moderno. Per cui il reclutamento, la selezione, la modificazione dei
citi parlamentari avviene in una maniera molto arcaica con famiglie sempre presenti nel Governo e nel
Parlamento.
Dunque, la società è diventata borghese capitalistica, fortemente dinamica e innovativa, mentre il ceto
politico rimane in estrazione tradizionale con un impianto quasi familistico privatistico e dunque questo è il
vero problema che, secondo Marx, è al centro della politica inglese. D'altra parte il mondo del lavoro dopo
il movimento cartista è stato incapace di esprimere un proprio ruolo, un proprio soggetto politico
autonomo e quindi le due classi fondamentali (borghesia e proletariato) scontano entrambe per ragioni
diverse una carenza di rappresentanza politica.
Questo che cosa determina a giudizio di Marx? Il carattere asfittico angusto della vita politica inglese. Le
degenerazioni e la corruzione che sono riscontrabili nella politica inglese, a giudizio di Marx, si originano
proprio da questa discrepanza tra nuova società e vecchi rapporti politici. I nuovi rapporti sociali non hanno
ancora avuto adeguate interpretazioni politiche e quindi in Parlamento succedono cose strane, passaggi di
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L'espressione “dittatore parlamentare” è ampiamente presente in Marx che rivela in questo impiego del
termine dittatura come il concetto di dittatore in Marx non abbia il significato novecentesco. Per il
Novecento la dittatura è un fenomeno di regime monopartitico autocratico con forti venature repressive e
con l'annullamento delle libertà fondamentali. Nel lessico ottocentesco, e quindi anche in quello di Marx, il
termine dittatura è il ruolo direttivo svolto da una personalità autorevole. Quindi quando Marx dice il
“dittatore Palmerston”, ciò vuol dire che il termine dittatura o dittatore non ha il significato novecentesco
così come l'espressione di Marx che raramente utilizza ma che è stata presa come l'essenza del suo
pensiero in campo politico la “dittatura del proletariato” non ha significato novecentesco (di regime politico
autocratico) ma è il riferimento a una supremazia, una concezione di primato, di dominio delle forme non
autocratiche repressive ma nelle forme della supremazia.
Il “DITTATORE PARLAMENTARE” è colui non che esprime un regime repressivo personale che chiude le
libertà ma è chi ha in Parlamento una capacità di guida, di leadership.
La “DITTATURA DEL PROLETARIATO” non è la conquista del potere e la soppressione degli spazi del
pluralismo, ma è l'indicazione di una nuova condizione economico sociale, ossia il primato numerico dei ceti
legati al mondo del lavoro, i quali hanno una dittatura nel senso che hanno una maggioranza anche
numerica nelle nuove società industriali.
Dunque il vecchio bipartitismo inglese appartiene ad una fase passata e, a giudizio di Marx, la crisi in
Inghilterra è una crisi di rappresentanza perché la nuova società industriale non ha i nuovi partiti necessari
per interpretarla, da qui i fenomeni di crisi, instabilità, degenerazione. In Inghilterra, dice Marx, il fenomeno
di crisi della politica emerge da quelle che Marx chiama la “fenomenologia delle maggioranze negative”.
La MAGGIORANZA NEGATIVA è il fenomeno per cui, nella dinamica parlamentare inglese, mettendo
insieme diversi spezzoni parlamentari si ha una maggioranza ma è una maggioranza negativa, nel senso che
riesce a impedire l'attività di altre maggioranze senza potersi però trasformare essa stessa in maggioranza.
Quindi si tratta di fenomeni di maggioranze negative nel senso che se si mettono insieme diverse
appartenenze parlamentari, le quali insieme hanno la maggioranza per bloccare il Governo, metterlo in
sofferenza o dichiararne la crisi con sfiducia, ma insieme non riescono a mettersi, quindi hanno una
maggioranza soltanto negativa o impeditiva che cioè non può tramutarsi in maggioranza costruttiva capace
di fare nuovi rapporti politici, nuove intese programmatiche e quindi nuovi esecutivi.
Da qui la profonda instabilità del sistema politico inglese. Il sistema politico inglese negli anni ‘50 è un
sistema fortemente instabile, la durata dei governi è estremamente limitata perché i dittatori parlamentari
cioè i capi politici che in Parlamento dominano non hanno un sostegno stabile perché non hanno un partito
moderno alle loro spalle e dunque il seguito della leadership è estremamente fluttuante, tutto dipende
dalla capacità del dittatore parlamentare, cioè del capo politico di mantenere il sostegno di un certo
numero di parlamentari. Il sostegno di un certo numero di parlamentari si ottiene attraverso la corruzione
esplicita o implicita o quelle che Marx definisce le “attività di patronaggio” cioè il capo politico deve
costantemente aiutare i suoi seguaci attraverso nomine, promozioni, carriere politiche. Dunque, tutto
dipende dal patronaggio politico perché il dittatore parlamentare non dispone di altri strumenti, quali
l’ideologia, l'organizzazione, tutte queste cose non sono presenti in Inghilterra e quindi dice Marx la
mancanza di questi nuovi partiti politici rende la vita parlamentare asfittica, fortemente condizionata
dall'incertezza del consenso di cui dispongono i singoli primi ministri o dittatori parlamentari.
Il dittatore parlamentare non è a capo di un vero partito, ma di legami di natura personale con altri
parlamentari, con altri gruppi e quindi tutto questo impedisce la fenomenologia di governi di legislatura,
non esistono in Inghilterra nella metà dell'Ottocento governi di legislatura. Cosa accadeva frequentemente?
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Mancava quello che ad esempio oggi c’è nella costituzione tedesca “la mozione di sfiducia costruttiva”, la
quale impedisce maggioranze negative in Germania perché secondo la costituzione tedesca vigente tu puoi
far cadere il governo soltanto se ne fai uno alternativo, uno nuovo.
Agli occhi di Marx queste dinamiche instabilità, durata brevissima dei parlamentari, governi parlamentari e
quindi maggioranze negative fenomeni di rottura continua ed eppure parlamentari, mostrano che il sistema
politico inglese attraversa una crisi di sistema, dovuta al fatto che la nuova Inghilterra delle due classi
fondamentali è presente nella società, nei giornali, nella produzione culturale, nelle manifestazioni politiche
di piazza, ma non ha ancora un ruolo dominante nel campo politico. Questo è il problema inglese: una
realtà che vede la divaricazione tra vertici politici e dinamiche sociali, questa realtà viene letta da Marx
come sfidata dalla figura che lui studia: Lord Palmerston.
Marx sviluppa un accostamento tra Bonaparte e Palmerston, si tratta di due fenomeni politici che
rispondono ad una stessa dinamica: la dinamica che la Francia aveva affrontato dopo la rivoluzione del ‘48
era gestire un regime di mobilitazione di massa, come quello che si ha con l'introduzione del suffragio
universale, senza però disporre degli attori di una politica di massa, cioè partiti, organizzazioni e la Francia
esce da questa crisi di rappresentanza con il colpo di Stato, con il Bonapartismo cioè il surrogato di partiti
moderni non presenti nella politica francese di metà 800. Per cui il Bonapartismo è la persona che
conquista il potere e surroga la funzione rappresentativa dei partiti e dunque un meccanismo di politica di
massa che s'inceppa per la mancanza di partiti e trova una valvola di sfogo nelle vicende della
personalizzazione del potere. Quindi il Bonapartismo è il potere personale come interprete di una fase
nuova che non ha attori nuovi perché tutti gli attori che Marx ha descritto nella Francia dopo il ‘48 sono
attori fragili e non in grado di reggere una dinamica politica come quella di massa. La questione, secondo
Marx, Bonaparte la risolve con un potere personale che induce il capo carismatico a rompere gli istituti
100
A giudizio di Marx esiste una possibilità di accostamento tra questo schema francese e quello che fa Lord
Palmerston nel ‘57 nella politica inglese, dove Marx registra un evento nuovo. Dice Marx, come Bonaparte
risolve i problemi attraverso un appello al popolo così Palmerston è in un certo modo l'espressione inglese
del Bonapartismo, cioè in una fase di partiti che non hanno capacità di dominare le masse ma sono ancora
strutture deboli, il capo, il leader, il primo ministro vede nel rapporto immediato con il popolo un possibile
modello per superare la crisi di rappresentanza. Lord Palmerston, secondo Marx, fa in Inghilterra con
strumenti inglesi, lo stesso processo che ha fatto Bonaparte in Francia. Però Bonaparte distrugge le regole
costituzionali; Palmerston invece le forza senza distruggerle.
Marx ricostruisce quello che è accaduto nel ‘57 dopo che Palmerston vince le elezioni, diventa capo di
governo e però fenomeni di maggioranze negative, di scomposizioni del gruppo parlamentare, lo mettono
in minoranza, ma Palmerston non si dimette, come accadeva per i tradizionali capi politici inglesi, ma fa
ricorso ad un fatto nuovo cioè sfida il Parlamento che lo ha messo in minoranza e lo ha censurato e forza la
situazione cercando di sciogliere le Camere per andare direttamente al voto.
Quindi dice Marx come Bonaparte sfida il Parlamento francese dell'assemblea nazionale e la umilia
attraverso un appello al popolo per vie plebiscitarie; lo stesso fenomeno lo fa, però su basi diverse,
Palmerston, il quale dinanzi alla sfiducia parlamentare, al venir meno della maggioranza in aula, si appella
direttamente al paese e fa ricorso a quello che in termini tecnici si chiama scioglimento di lotta.
Lo “SCIOGLIMENTO DI LOTTA” è quel fenomeno che si ha nei regimi parlamentari quando, dinanzi ad una
frattura tra governo e maggioranza, si forza la situazione cercando, non di vedere in Parlamento nuovi
equilibri, nuove condizioni, e quindi verificare se è possibile ottenere altre maggioranze, ma di far sciogliere
il Parlamento e che il conflitto tra primo ministro e Westminster non sia sciolto dentro il Parlamento ma nel
paese, attraverso la prova elettorale.
Quindi attraverso lo scioglimento di lotta, Palmerston, dice Marx, inaugura una fase di politica plebiscitaria
cioè il primo ministro inglese dialoga con il popolo, non è più il Parlamento il centro esclusivo delle
dinamiche parlamentari.
Prima era nel Parlamento che nasceva e moriva l’esecutivo, con Palmerston, dice Marx, abbiamo questa
soluzione di tipo bonapartistico plebiscitario però mentre in Francia questo è avvenuto con un colpo di
Stato, in Inghilterra avviene senza un colpo di Stato ma con una forzatura. È però in entrambi i casi un
nuovo rapporto politico che emerge: il capo interpreta la massa e quindi diventa una nuova fase politica
con il ritrovato del plebiscitarismo, inteso in senso tecnico, il capo trova la fiducia in un voto che si
trasforma in una sorta di Plebiscito.
Mentre in Francia il Plebiscito era proprio un Plebiscito (si o no al potere personale del presidente che
rivendica l'impero), in Inghilterra era un Plebiscito in senso atecnico cioè il voto popolare doveva dare
ragione a Palmerston o al Parlamento che lo ha sfiduciato, se vinceva le elezioni Palmerston il Plebiscito
aveva incoronato il capo politico, se perdeva Palmerston aveva ragione il Parlamento che lo aveva
sfiduciato.
Quindi, secondo Marx, con l'appello al popolo che fa Palmerston abbiamo una nuova situazione nella
politica inglese: il capo chiede al popolo, alla massa, la conferma del suo potere e quindi abbiamo una
nuova stagione politica.
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Abbiamo visto come secondo Marx è ipotizzabile un rapporto tra l’appello al popolo con cui Bonaparte si
libera del governo parlamentare della funzione di mediazione politica dei partiti e l'appello al popolo che
Palmerston effettua per risolvere la crisi di governo in Inghilterra nel 1858. Marx insiste molto su questo
rapporto tra Palmerston e Bonaparte, e li assimila per una comune volontà di risolvere una chiave nuova il
problema politico nell'età delle masse.
Marx ricorda come rapporto tra i due, anche il fatto che subito dopo il colpo di stato di Bonaparte la
carriera politica di Palmerston sembrava destinata al rapido oblio in quanto era componente dell'esecutivo
come uno dei responsabili del ministero per gli esteri e prima ancora di un riconoscimento ufficiale da parte
del governo inglese Palmerston riconosce pubblicamente la nuova Francia di Bonaparte, peraltro ricorda
Marx, prima ancora che fosse effettuato il Plebiscito popolare in Francia per la conferma del regime neo
napoleonico.
Poiché la titolarità del ministro degli Esteri era stata usurpata da Palmerston , mettendo inoltre in
discussione il ruolo del primo ministro e della corona con il suo atto ritenuto intempestivo di
riconoscimento. Questo scaturì una reazione da parte dei suoi rivali interni ed anche dalla corona, la quale
aveva ancora un qualche ruolo nella politica estera, e da queste insieme di ostilità Palmerston fu costretto a
rassegnare le dimissioni come componente del governo, perché era stato ritenuto un atto poco compatibile
con le esigenze di discrezionalità, riservatezza, ponderazione che si richiedono per la gestione degli affari
esteri.
Dopo questo incidente però Palmerston riesce a riprendersi e ad assumere un ruolo politico notevole con
delle grandi capacità di rinascita.
Di fatto secondo l'indagine di Marx Palmerston è visto come un politico di lunghisti che però riesce con una
certa abilità ad apparire sempre nuovo (dice Marx che Palmerston anche quando è vicino ai 70 anni e
sembra avere un piede nella tomba riesce ad apparire al pubblico come l'uomo nuovo).
Questa straordinaria capacità di apparire sempre nuovo è riconosciuta da Marx come attitudine di
Palmerston, che riesce a far dimenticare di essere stato al governo per molti anni, di avere un'esperienza
politica ultra decennale, di aver ricoperto ministeri importanti lungo la sua carriera; e sempre quando si
tratta di scegliere una novità politica, presentarsi come il politico nuovo pronto a vendersi all' opinione
pubblica come un'offerta di continuità questo fatto politici cattura riesce però adesso un' abilità politica
comunicativa ritagliare una tattica che presenta come nuovo.
Dunque questa straordinaria capacità che Marx riconosce a Palmerston di avere una lunga consuetudine
con il potere, un’esperienza pluridecennale con una partecipazione a diversi governi e però malgrado
questo, ad essere percepito dalla opinione pubblica inglese come il politico necessario quando si tratta di
introdurre delle novità; dunque il politico più vecchio dà una immagine di sé come il politico pronto ad una
nuova avventura perché è quello indispensabile per operare una qualche discontinuità, ossia il vecchio che
assume le capacità di improvvisazione creazione di un'attesa e quindi si presenta all' opinione pubblica
come un nuovo politico che è spendibile per risolvere una situazione di emergenza.
Spesso le situazioni di emergenza nelle quali Palmerston entra in scena come una proposta risolutiva sono
di carattere internazionale, un detto che centrale in questa fase è in rilievo della politica internazionale; di
fatto Palmerston ha acquisito una esperienza nella conduzione della politica estera che lo rende un politico
attendibile, infatti quando ci sono situazioni problematiche tutta l'opinione pubblica aspetta perché da
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Di fatto la crisi del 57- 58 è legata a vicende di politica interna e internazionale, cade per una mozione di
sfiducia che lo vede soccombere per sedici voti, perché la sua maggioranza si è disgregata.
In Inghilterra in questa fase le crisi di governo avvengono in questo modo: la maggioranza parlamentare
che ha espresso il governo dopo il voto si disgrega per ragioni interne, perché si tratta partiti molto larghi
nelle loro maglie organizzative, e non hanno un filtro, una gestione da partito novecentesimo dotato di una
disciplina, di un seguito ordinato delle truppe parlamentari, e quindi in questa gestione dei gruppi
parlamentari è molto difficile entrare con un’aspettativa di durata, per cui il futuro presidente del consiglio
per restare in carica deve saper venire in contro alle più disparate richieste delle diverse anime del proprio
gruppo parlamentare (in senso ottocentesco), quando questo non riesce, per cui insorgono rivalità interne
rilevanti e il primo ministro non riesce ad accontentare tutti i suoi seguaci, una parte del gruppo
parlamentare si allontana, e fa convergere il proprio voto con quello dell’opposizione, creando quelle che
Marx definisce “le maggioranze negative”(ossia tronconi, sia di maggioranza che di opposizione che si
unificano e fanno cadere ilo governo, ma senza poterlo sostituire).
Nel corso di questa crisi del 1857-58 Palmerston introduce una soluzione nuova, cioè non stare dentro i
giochi parlamentari, nelle negoziazioni con i vari politici interni alla sua maggioranza e cercare di introdurre
una soluzione ardita e non la via dell'eterna contrattazione per accontentare tutti i suoi colleghi di partito e
di maggioranza, ma un tentativo estremo; ossia ricorre per dirimere i conflitti e per stabilire a chi tocca il
comando affidarsi al popolo come giudice sopra e tu palme storia secondo me ha introdotto questa novità il
e come giudice sovrano.
Dunque secondo Marx Palmerston ha introdotto questa novità: il popolo come giudice di contese dentro il
parlamento;
Dunque questo significa che con Palmerston, secondo Marx, si va oltre la dottrina classica inglese che parla
di sovranità del Parlamento, in Inghilterra vige questa dottrina costituzionale per cui il parlamento è
sovrano, di fatto ricorre quest'espressione già dopo la gloriosa rivoluzione del 1688-89 con la quale che
Parlamento caccia un re e ne mette un altro al suo posto e formula la dichiarazione dei diritti che si
presenta come riconoscimento costituzionalizzazione della centralità del Parlamento, “noi Parlamento
come espressione della nazione” ,così si presenta la dichiarazione inglese dell' 88-89 e quindi il Parlamento
è l' organismo centrale che può decidere tutto anche cambiare la dinastia regnante.
Questa dottrina dell'onnipotenza della sovranità parlamentare continua ad essere proclamata ma a giudizio
di Marx interviene questo elemento di novità, ossia il parlamento deve riconoscere nel popolo il giudice
supremo ed è il popolo adesso che irrompe sulla scena e il Parlamento è in qualche misura costretto a
indietreggiare il spento alla rilevanza del pronunciamento popolare. Quindi Palmerston con questo suo
appello al popolo, ovvero con lo scioglimento anticipato del Parlamento, determina una cesura nella storia
politico istituzionale inglese; secondo Marx la cesura sta nel fatto che non è più il Parlamento l'unico
arbitro della vita e della durata degli esecutivi, adesso è il popolo che viene invocato da Palmerston.
Palmerston avrebbe potuto chiedere una maggioranza nuova e quindi contrattare con il suo partito le
maniere per stare ancora in piedi e quindi allargare la maggioranza ,avrebbe dunque potuto fare quello che
accadeva sempre nella storia parlamentare inglese, nel Parlamento nascono e muoiono i governi;
Palmerston va oltre questa tradizione inglese perché appellandosi al popolo oltrepassa il ruolo centrale del
Parlamento perché è il popolo e non più la negoziazione intra parlamentare il punto nuovo che entra in
gioco, quindi Palmerston gioca una carta estremamente rischiosa non è più il Parlamento che conferisce la
fiducia, ma il parlamento viene sfidato perché dopo aver sfiduciato il governo Palmerston reagisce in tal
modo: non accetta semplicemente il verdetto rassegnando le dimissioni e vedendo se lui stesso riesce a
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Palmerston cioè induce la corona che formalmente rimane ancora oggi titolare del potere di scioglimento,
ma di fatto Palmerston inizia una fase nuova il premier come titolare non giuridico formale ma di fatto
sostanziale il potere di andare al voto quando il premier ritiene più conveniente.
Dunque con Palmerston sono abbiamo questa novità nella storia costituzionale inglese formalmente il
potere di scioglimento delle camere è una prerogativa della corona, anche adesso non è mutato nulla,
perché in Inghilterra non c'è bisogno di mutamenti formali molto si affida ai rapporti di fatto e Palmerston
senza una novità formale, senza alcuna precisazione di carattere costituzionale esplicita, si ha però quella
che puoi inventato un senso comune per gli interpreti della storia costituzionale nella storia del diritto
costituzionale comparato si attribuisce ormai pacificamente al premier inglese il potere di scioglimento, così
non necessariamente avviene sempre, non accade sempre così negli anni 20 del 900 ci fu una richiesta del
premier ma la corona non accordò il potere di scioglimento al partito laburista, che però perché non vi era
accordo perché il partito laburista compare del terzo partito e non poteva ottenere lo scioglimento del
premier. Lo scioglimento del premier lo ottiene Palmerston perché era ancora il capo di un partito che ha la
maggioranza assoluta e quindi la corona dinanzi alla richiesta del premier Palmerston capo del partito
liberale che era il partito maggioritario non può resistere e quindi Palmerston vince questo duello con la
corona, e la corona diventa il potere di ratifica del potere di scioglimento che ha il premier in quanto capo
politico maggioritario.
Quindi il potere di scioglimento in Inghilterra non è un potere della corona è un potere del premier ma non
del premier inteso come persona, perché ad esempio la signora Thatcher e Cameron sono stati sfiduciati e
hanno perso la leadership ma non hanno ottenuto il potere di scioglimento perché il potere di scioglimento
spetta al premier se è il campo del suo partito maggioritario, se non è più il capo del suo partito il
Parlamento può tranquillamente fare un altro governo, di fatto quando è caduto alla signora Thatcher ci fu
un altro esecutivo a guida conservatore e quando è caduto Cameron dopo il referendum c'è stato un altro
esecutivo a guida conservatore. Quindi Palmerston ottiene il potere di scioglimento perché è il capo del
partito maggioritario, questo partito maggioritario chiedendo le elezioni certifica che in Parlamento non ci
sono più condizioni per avere altre maggioranze. Quindi Palmerston sfida con un atto di cesura esplicita il
Parlamento e ridefinisce il potere delicatissimo di scioglimento anticipato delle camere.
Andando al voto, sebbene disponesse il suo partito di una maggioranza, si determinava un problema di
assoluta incertezza perché questa rottura poteva anche essere sanzionata negativamente dal popolo che
dinanzi a un premier che sconfitto nelle camere, sfiduciato, poi non vuole sentire altre ragioni che si appella
direttamente al corpo elettorale per avere una conferma del suo potere, il popolo avrebbe anche potuto
dire di no.
ESEMPIO FRANCESE come ad esempio è successo al presidente della Repubblica francese nel 68, quando
De Gol mette incautamente una sorta di indebita questione di fiducia, celebra un referendum sulla
riduzione dei poteri delle regioni, tranquillo nell'esito del successo, di fatto affermò che se non ottiene la
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ESEMPIO ITALIANO ad esempio recentemente in Italia quando era presidente del consiglio Renzi, che
varò il suo pacchetto di riforma, sicuro di avere una maggioranza plebiscitaria, a favore della riduzione dei
costi della politica del numero dei parlamentari e lui incautamente disse che se in caso di sconfitta avrebbe
subito abbandonato Palazzo Chigi ma dirittura anche la politica attiva e il referendum popolare vide la
sconfitta del presidente del consiglio che lasciò,non la politica attiva ma Palazzo Chigi ad un altro esponente
del suo partito.
Dunque, l'appello al popolo è fortemente rischioso perché poi anche essere sconfitto da questa prova.
La novità delle elezioni del 58 fu che Palmerston ottenne la fiducia popolare, vinse le elezioni con margini
da 80 a 100 voti di maggioranza, e ancora più rilevante è che i suoi oppositori interni al partito liberale
(esponenti della la scuola di Manchester) furono tutti sconfitti.
Si tratta di elezioni in certa misura strane, ricorda Marx, perché furono eletti per la prima volta nel
Parlamento inglese personaggi sconosciuti, cioè c'era una sorta di volontà di punizione del vecchio ceto
politico, e personalità senza storia senza notorietà ottennero tranquillamente il seggio in una dimentichi
discontinuità di punizione delle tradizionali elite politiche, di cui si faceva interprete proprio il capo del
governo quindi Palmerston.
Di fatto egli ottiene quello che oggi si potrebbe dire “una investitura di tipo populistica”, perché sfidando il
Parlamento i vecchi parlamentari e affidandosi a letto mani del popolo Palmerston si comporta appunto
come un populista, cioè sebbene occupi il potere di primo ministro in carica ritiene che nel Parlamento ci
siano personalità che remano contro che impediscono a questo politico di lavorare con efficacia; per cui il
popolo diventa uno strumento alleato per il primo ministro e serve per fare fuori tutti i contestatori del
presidente del primo ministro, il quale cerca una rapporto immediato di identificazione tra il popolo e il
capo.
Secondo Marx questo è un'ulteriore elemento di analogia tra la figura di Palmerston e la figura di
Bonaparte, entrambi secondo Marx appartengono a questo filone del capo politico che ricerca un
investitura plebiscitaria e si presenta: Palmerston come l'uomo nuovo sempre più e Bonaparte come il capo
che interpreta gli umori del popolo contro le elite.
Entrambi appartengono a questo tipo di declinazione del loro rapporto con il politico come legame di
fiducia alla persona del leader, non più mediata da elementi di disturbo come possono essere elite
parlamentari, gruppi politici distinti e così via; quindi le elezioni confermano la leadership Palmerston che è
diventato primo ministro di nuovo.
Questo, gli occhi, di Marx conferma una sorta di quella che si potrebbe chiamare oggi presidenzializzazione
del sistema politico inglese con l’appello al popolo e vincendo le elezioni il premier inglese si avvicina molto
a al presidente americano, cioè malgrado l'Inghilterra sia un sistema politico di tradizione parlamentare sia
la variante più storicamente rilevante più longeva di parlamentarismo quindi sebbene l'Inghilterra sia la
culla del governo parlamentare, con Palmerston si ha un nuovo profilo del governo parlamentare perché il
premier sfidando il Parlamento e cercando il volto in questo clima di conflitto istituzionale determina una
sorta di presidenzializzazione (non c'è una grande differenza tra il premier che viene ad essere il capo
politico di un partito che entra nella battaglia elettorale per la sua per la vittoria e il presidente americano
anche lui ingaggia una battaglia personale).
Sebbene siano evidenti le differenze costituzionali: in America presidente eletto non può essere sfiduciato
dal popolo, il parlamento non ha un potere di indirizzo per revocare la fiducia al presidente; in
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Tra Bonaparte Palmerston Marx vede questa affinità, questo comune ruolo ricercato nel contatto con il
popolo e con l'opinione pubblica.
Il successo di Palmerston però si rivelò importante da un punto di vista ma effimero da un altro punto di
vista; importante perché il potere di scioglimento e la lotta del premier contro il Parlamento è stato, in
questo momento di lotta, premiato il capo Palmerston, il premier riporta una vittoria politicamente, non
soltanto simbolicamente molto rilevante, però questo successo (che conferma appunto l' avvio di una fase
plebiscitaria dentro regimi parlamentari) non è tale da stabilizzare il governo e il comando di Palmerston;
quindi è una vittoria ambivalente:
da una parte segna, agli occhi di Marx, una sorta di contaminazione plebiscitaria del parlamentarismo, il
regime parlamentare inglese più solido il più istituzionalizzato conosce anch'esso questi legami tra il capo e
il popolo attraverso la competizione elettorale.
Questo meccanismo, quindi questo appello al popolo del 58, ha un'importanza nella discontinuità politica
che afferma, quindi nella entrata di una fase di plebiscitarismo democratico.
dall'altra però Palmerston che deve gestire un partito che non è omogeneo, non è un partito in senso
moderno, non ha un'unica, direzione non ha meccanismi di centralizzazione: e quindi il suo governo è
esposto a rivalità interne(ad esempio il conflitto su cui Marx insiste molto tra due esponenti dello stesso
partito Palmerston e Lord Russell), quindi ci sono più teste che rivendicano una prestigiosa funzione di
direzione politica.
Tutto ciò, quindi, introduce elementi di possibile macerazione del governo perché la rivalità tra i capi pone
il governo sempre in una situazione di precarietà, quindi quando ci sono capi rivali tra di loro, Marx lo vide
nella politica inglese, accade che il rivale non sta al potere come primo ministro, ma al ruolo subordinato,
dialoga sottobanco con l'opposizione per mettere in difficoltà il capo politico che è del suo stesso partito,
che però se c'è lui come presidente del consiglio non ci sarà l’altro e quindi la frazione con altri esponenti
del suo mondo liberale vede Palmerston di nuovo in difficoltà appena vinto le elezioni ma altre questioni
internazionali ed interne pongono, diciamo così, una spina nel fianco al suo governo; e appena assaporato il
successo del trionfo del capo plebiscitato dal popolo ci sono differenze interne al suo partito, come la
brigata cosiddetta islandese,( cioè i deputati eletti in Irlanda, quelli costituiscono una sorta di partito nel
partito perché portano avanti nel Parlamento inglese un ottica non secessionistiche ma fortemente
autonomistica) e quindi dice Marx le sorti del governo dipendono molto dalla brigata irlandese, in quanto
se i deputati irlandesi si sganciano dal governo Palmerston vacilla, non ha più i numeri per andare avanti.
Quindi bastano i deputati irlandesi , la scuola di Manchester o esponenti più radicali del liberalismo, e basta
che questi si mettano d'accordo con altri capi di governo ed il governo entra in serie difficoltà ed è quello
che succede dopo il grande trionfo plebiscitario del 58 il governo si logora e Palmerston dopo pochi
mesi, dopo il trionfo deve lasciare il potere e quindi rassegnarsi a le solite liturgie del parlamentarismo
inglese, per cui il governo non è più del trionfatore Palmerston, che ha vinto il voto e ha avuto un'
investitura plebiscitaria, quindi sembra che la carriera di Palmerston sia stata di nuovo compromessa.
Dopo questo nuovo crollo, questo di nuovo riesce a riprendere la scena, in quanto Marx riconosce a
Palmerston questa attitudine di non cadere mai, sembra sul punto di soccombere ma riesce sempre
prendere il comando; e quindi vince nel 57 e 58, viene poi sconfitto in aula si dimette, poi sembrava
eclissata la sua stella e invece Palmerston riesce di nuovo a ripresentarsi per questa sua attitudine ad essere
sempre il nuovo.
106
perché appare sempre nuovo? Marx nota la funzione della stampa, Palmerston ha giornali personali
che lo seguono, che lui finanzia che lui indirizza. Di fatto una grande stampa favorevole fa comodo
nella politica che ha nei giornali il principale media di influenza. Palmerston grazie a una stampa che ne
esalta l'intelligenza l'astuzia la preparazione il senso di responsabilità istituzionale ottiene sempre
questa attestato di nuovo, grazie alla quale riemerge da ogni ferita e si ripresenta al punto di inizio,
dove aveva lasciato le scene si ripresenta e incarna una nuova fase politica e quindi una capacità di
entrare e uscire e di coprire sempre con efficacia comunicativa un ruolo nella politica inglese.
Marx attribuisce a Palmerston due caratteristiche che potrebbero sembrare contraddittorie, dice che è un
grandissimo politico della tattica e poi altre volte dice un clown, cioè uno che sa stare in piedi in scena che
gestisce in maniera artistica le grandi questioni internazionali.
Dunque una caratterizzazione ambivalente: per un verso un tattico cioè uno che conosce i segreti della vita
parlamentare che sa come si preparano le trappole, come colpire alle spalle il nemico, come contare sulla
lealta e anche sulla defezione quindi un tattico estremo sa fare alla perfezione il lavoro dentro le stanze del
potere per ottenere sostegno o rotture di sostegno che legavano i deputati ad altri capi politici, un tattico
stremo che recepisce quando la situazione diventa delicata e conviene più prudentemente stare in ritirata e
affidare la gestione del potere ad altri in modo tale che questi concorrenti interni al suo stesso
raggruppamento vengano scottati dai problemi che non sono risolvibili facilmente tu contatti quel che sa
quando conviene che altri si logorino nella gestione del potere non deve stare sempre al potere; perché
stare sempre al potere in posizione di leadership comporta dei rischi secondo Palmerston e quindi la sua
leadership sa anche quando è il momento di spegnere la visibilità e far sì che altri conducono operazioni
impopolari o comunque difficoltose.
Dal punto di vista dell'abilità tattica Marx ricorda una abitudine di Palmerston e quando fa parte del
governo però non è primo ministro si specializza in un'arte particolare, ossia rende pubbliche le sue critiche
al premier in carica e quindi fa parte del governo ma al tempo stesso lei è un critico. Dunque questa
ambivalenza tattica colpisce Marx e la segnala come una caratteristica del comportamento di Palmerston,
sta in un governo ma già prepara le condizioni per il ritorno in scena di lui stesso e dunque critica il governo
che pure sostiene e di cui far parte e in questo modo prepara le condizioni più favorevoli per un ritorno in
campo in prima persona.
Quando è che secondo Marx la funzione politica di Palmerston risulta più convincente e quindi quando è
che le situazioni diventano più favorevoli per lui a giudizio di Marx Palmerston emerge quando c'è una
grande emergenza che può essere una guerra, una ondata anti francese, questioni importanti nella politica
internazionale, quando c'è bisogno di un' Inghilterra che mostra un volto autorevole allora torna in scena la
figura di Palmerston perché è ritenuto essere il politico con più capacità nella gestione della politica
internazionale e il politico che ha una maggiore influenza sullo scenario europeo; colui che conosce di più le
condizioni internazionale.
A questo riguardo interviene anche, sottolinea Marx, una efficace costruzione di sé, dell'immagine di
Palmerston che indubbiamente è un conoscitore raffinato delle politiche internazionali.
107
Palmerston agli occhi di Marx costruisce il suo ruolo quando la situazione politica richiede una guida
autorevole per affrontare una situazione di emergenza, come quando le condizioni critiche interno
internazionali richiedono che il prestigio della nazione inglese venga tutelato da una personalità di statura
internazionale. Questo fa sì che la figura di Palmerston venga esaltata dai suoi giornali più vicini, i quali
appunto invocano il ritorno di Palmerston, solo lui può salvare l'Inghilterra e l'onore perduto della potenza
inglese.
Dunque in situazioni critiche che si presentano in molteplici luoghi dalla Crimea, dalla questione turca, dalla
questione indiana, perché l' Inghilterra una potenza mondiale e quindi ovunque poi si creino situazioni
critiche come possono essere scandali per la condotta dall'esercito, scandali per l' impreparazione
dell'esercito, scandali per bombardamenti, scandali per della condotta in India, poi cioè il bisogno di un
politico che rassicuri l'opinione pubblica.
A giudizio di Marx la stampa entra in soccorso di Palmerston raffigurano come l'uomo necessario, il politico
che ha tutte le qualità indispensabili che altri non hanno e soltanto lui può dunque ritornare.
Ma come viene costruita questa immagine del Palmerston alcune primo ministro uomo politico
indispensabile? Dice Marx la costruzione dell'immagine pubblica di Palmerston ruota tutto attorno a questo
mito dell'uomo intelligente, astuto essendo astuto, essendo così intelligente nessuno lo potrà prendere in
castagna, tutto dipende dalla sua astuzia nessun altra potenza europea e mondiale vanta un uomo così
intelligente e dunque la situazione è critica le relazioni internazionali sono in un momento delicato soltanto
l'intelligenza di Palmerston come uomo dell' astuzia, dell'abilità può entrare in soccorso e salvare l'impero,
altrimenti in difficoltà.
Dunque costruzione di sé come l'intelligenza superiore, l'astuto l'uomo abile capace di agire con furbizia la
“volpe di Machiavelli” quindi la capacità di ingannare, di approfittare di una situazione portando il
nemico sotto scacco, è intelligente al punto che nessuno gliela può fare, lui invece è in grado di tessere
qualsiasi relazione e preparare qualsiasi astuta trappola nella quale indirizzare il nemico. questo è l’abile
tattico conoscitore di tutti i segreti parlamentari dei tempi della vita parlamentare.
Marx ricorda per un politico inglese dell'Ottocento fondamentale sia la conoscenza dei regolamenti
parlamentari, dei tempi parlamentari, se non sai gestire i regolamenti e le zone di opacità e di possibilità
che parla i regolamenti parlamentari le consuetudini in aula aprono non sei un grande politico e rischi di
essere finito dalle battaglie parlamentari; invece Palmerston conosce tutti i regolamenti sa tutti i segreti e
sa schivare le trappole regolamentari perché sa dove vanno a parare certe mosse certe mozioni, certi ordini
del giorno, sa quali sono le conseguenze possibili e sa schivare ogni possibile minaccia.
Si tratta quindi di un tattico perfetto perché conosce i tempi e sa come gestirli senza incorrere troppi danni.
Oltre a queste caratteristiche di uomo politico razionale, astuto, intelligente, abile, tattico, spregiudicato,
uomo delle istituzioni Marx ricorre anche a quest'altra apparentemente contraddittoria caratteristica di
attore clown dice si potrebbe dire nella parola italiano e pantalone, cioè un personaggio della commedia
della maschera perché il politico inglese il quadro che Marx sta il piangendo deve essere anche un attore,
non basta essere un personaggio di consumata astuzia, perché emerge una figura nuova che diventando
sempre più rilevanti ancora siamo agli esordi sta nascendo l'opinione pubblica ha stampa un ruolo.
Le fonti di Marx sono fonti elevate, statistiche,, storia delle istituzioni resoconti parlamentari, discorsi
parlamentari, ma accanto a questa documentazione storico statistica Marx presta attenzione ai giornali
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Palmerston ,dunque, è illustrato come un attore perché bisogna anche recitare una parte ,sapere che c'è un
pubblico esterno che comincia ad essere protagonista.
Habermas in storia e critica dell'opinione pubblica, ricorda il ruolo nascente della stampa inglese, prima i
dibattiti parlamentari erano nell'assoluto riserve il regime di segretezza, pian piano si introduce una
attenzione per cui la stampa comincia a presentare le prime informazioni, primi resoconti sul dibattito
parlamentare.
Ricorda Habermas quando un incendio negli anni 30 dell'Ottocento distrusse palazzo storico di Westminster
, quando la sala fu rifatta e tra le novità più importanti c’è la presenza di una apposita tribuna stampa e
quindi la stampa diventa pubblicità che entra nella sfera politica. La stampa diventa una condizione
normale nella vita istituzionale, quindi non c'è più il giornalista che fa trapelare voci ma ormai la stampa è
proprio fisicamente presente e gli interventi dei politici vengono ospitati trascritti nelle pagine dei
giornali( spesso occupano 10 colonne di un giornale l’intervento di un politico inglese autorevole).
Dunque la stampa anche quella popolare è un fattore che mostra una rilevanza di un elemento nuovo, il
pubblico- la sfera pubblica.
Marx ricorda che il pubblico presenta un interesse crescente nella recitazione politica, accogliendo i
deputati quando si avvicinano nei palazzi con approvazioni oppure disapprovazione, a seconda della loro
collocazione.
Quindi l'opinione pubblica comincia ad esercitare un ruolo, anche se siamo una fase iniziale; sempre
Habermas ricorda che i giornali specificamente politici nascono in Inghilterra e sono di c espressione dei
gruppi politici più radicali dei movimenti socialisti, cartisti e poi però questi giornali che prima erano dei
movimenti radicali poi vengono superati dalla industria come industria culturale il giornale che rientra tra
i fenomeni dell'industria culturale, quindi la proprietà con il controllo dei giornali con le pubblicità orienta in
maniera significativa le scelte editoriali dei quotidiani.
Palmerston , come altri politici a pari di lui, hanno un giornale personale di riferimento che ne che
consente politiche di orientamento controllo e così via.
Quando si presenta il pubblico è chiaro che votano anche i registri della comunicazione politica, ancora non
siamo nell'età di massa in senso pregnante ma cominciano a affiorare alcune novità, che pubblico che è
presente in Parlamento per ascoltare, per vedere, per sostenere.
Si svolgono, inoltre, i primi meeting in massa e i primi incontri extraparlamentari, Palmerston ofarà qualche
timido tentativo di discorsi extraparlamentari, siamo però in un'età in cui e Parlamento è il luogo cruciale
della comunicazione politica, ci sono anche nella società oltre ai giornali politici più radicali, anche i primi
meeting.
Marx descrive un articolo un meeting molto particolare che vede dice Marx la partecipazione di decine di
migliaia di persone, al quale anche lui partecipa, e fu sul punto di essere arrestato dalla polizia inglese,
perché era meeting dicevo particolare era manifestazione di massa, che oggi può sembrare strano Marx
che viene arrestato per una manifestazione che è contraria alle chiusure dei negozi di domenica e nei giorni
festivi; Marx partecipa a questo meeting e perché era un fenomeno di massa.
Marx dice che si era realizzata l'alleanza tra la chiesa e la grande impresa commerciale, che cominciava a
diffondere i primi centri commerciali e dunque i primi grandi magazzini; si realizza una convergenza tra la
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Marx descrive con immagini molto belle le proteste di questo popolo contro i ceti aristocratici, i quali in
maniera poco aristocratica rispondono agli insulti del popolo facendo gestacci, quindi anche la caduta
dell’aristocrazia inglese nelle grandi manifestazioni plebee.
Dunque in queste grandi manifestazioni Marx è favorevole perché il piccolo commerciante ha un’occasione
in più di vendita quando i grandi luoghi del commercio sono chiusi, e quindi approva questo anche in
quanto sulla base dei rapporti contrattuali in Inghilterra gli operai avevano il loro stipendio il sabato, per cui
avendo queste poche sterline il sabato e facendo restare la domenica i negozi chiusi questi non avevano
alcuna possibilità di comprare merci.
Per cui la possibilità di comunicazione politica è in una situazione che è in bilico tra le esigenze della
comunicazione istituzionale e altre esigenze che invocano quella che poi sarà più una comunicazione extra
istituzionale; in quanto siamo in una fase in cui il Parlamento e la sfera pubblica extraparlamentare
cominciano a definire le forme nuove della politica inglese.
Marx si dedica linguaggio politico, di fatto i suoi articoli sono spesso articoli in cui fa un resoconto come un
analista molto attento, perché si avvale dei resoconti pubblicati sulla stampa e presenta anche degli
accorgimenti che mostrano una padronanza del problema linguistico. Marx dice che bisogna fare attenzione
a non confondere il discorso che è stato pubblicato dal giornale e il discorso che è stato effettivamente
pronunciato in aula.
Dice Marx che nel discorso pronunciato in aula c'è la vera lingua parlata dal politico, ma quella che viene
fuori con il resoconto mezzo stampa è un testo molto cambiato, dice Max la sua maestà lo stenografo, il
quale corregge espressioni errori; e quindi il vero test è quello che sente in Parlamento chi è fisicamente
presente in aula, quello che la stampa e la documentazione ufficiale del Parlamento fornisce è un resoconto
attendibile ma fino a un certo punto, perché sono state eliminate le ripetizioni, le trivialità, insulti che così
via. (è la differenza che ci sarebbe oggi tra un discorso che studio di razzi e il resoconto parlamentare).
Quindi secondo Marx l'analista del linguaggio politico deve tener presente questo dato di metodo il
discorso mezzo stampa non è il discorso autentico; per questo quando Marx scrive ricorre ad una
sottigliezza, ossia il suo giornale scrive: “l'articolo è stato scritto dal nostro corrispondente presente all' aula
di Westminster”, questo è una finzione o un dato di realtà, è comunque un tentativo di mostrare che il
giornalista, l' opinionista, Marx che scrive che cose politiche ha assistito personalmente all'evento e quindi
è in grado di cogliere tutte le sfumature del linguaggio politico oltre il dato puramente giornalistico.
Il metodo che Marx utilizza per analizzare il discorso politico e per comprendere il linguaggio politico è un
metodo aristotelico, ( Marx in gioventù fece la tesi di dottorato sulla filosofia antica Democrito ed Epicuro
io aveva tradotto dal greco con la retorica di Aristotele conoscitore della retorica di Aristotele, e la lettura
della retorica di Aristotele ne al pari della poetica di Aristotele che Marx cita molto esplicitamente) egli
ricava dalla retorica classica gli arnesi per la interpretazione del linguaggio politico e quindi utilizza lo
schema retorico aristotelico per interpretare l'efficacia o l’inefficacia del discorso pubblico parlamentare.
21/04/2021
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La retorica, invece, secondo l'approccio aristotelico, non è questo tipo di uso della parola e del senso dei
simboli, ma usa parole non per dire cose irrazionali, ma verosimili; cioè la retorica è la costruzione di un
discorso che non risulti immediatamente illogico, irrazionale, perché in tal caso non avrebbe effetto, ma si
dimostri in qualche modo plausibile dotato di una qualche verosimiglianza.
Per cui solo un discorso verosimile, e quindi non palesemente assurdo, può esercitare una influenza e
dunque orientare il comportamento.
Diceva Aristotele nella retorica Come non si può chiedere al logico, al matematico di argomentare, così
non si può chiedere al politico di dimostrare; Il logico e matematico, il sapere critico deve dimostrare
attraverso rigorosi ragionamenti, il sillogismo aristotelico e per condurre un ragionamento logico formale
valido basta la coerenza, non si richiede l'argomentazione, cioè il ricorso a strumenti ritornarci, (Non ho
bisogno di insistere sulla leva della passione della demagogia per dimostrare un teorema matematico. La
dimostrazione di un teorema matematico non ha bisogno della retorica, perché il suo fondamento e di tipo
logico, formale deduttivo. Dunque serve la dimostrazione rigorosa, il principio logico dell'identità e della
non contraddizione sono il fondamento di un ragionamento dimostrativo, il quale dimostrativo non si pone
ai voti non è oggetto di discussione per deliberare non si fa un'assemblea per decidere che il teorema di
Pitagora è logicamente. Sorretto, per dire 2+2=4, non c'è bisogno di un'argomentazione retorica e cioè di
una argomentazione che faccia leva su dati emozionali).
Altro per Aristotele, è invece, il mondo della retorica la logica è dimostrazione senza cadute nella emozione,
nel pathos. La retorica, invece, e non dimostrazione di teoremi, ma l'argomentazione attorno a ciò che
bisogna deliberare.
Dunque, la retorica è una scienza della decisione collettiva, è dunque provvista di una dimensione
pragmatica; ed essendo la retorica ciò che si decide in pubblico essa non è chiamata alla dimostrazione, ma
alla argomentazione; perché in un dibattito pubblico non si scopre un teorema logico, non si ha una disputa
sulla deduzione di un se sillogismo, ma in una pubblica assemblea il discorso, la parola serve per indurre i
presenti ad assumere una decisione; E quindi la retorica non è dimostrata in fondo un rigoroso impianto
formale matematico, ma si tratta di una argomentazione attorno a ragionamenti verosimili, cioè che hanno
una qualche parvenza di razionalità;
Ma soltanto una parvenza, perché, secondo Aristotele, ciò che caratterizza la retorica è il fatto che essa si
esercita sul possibile, ciò vuol dire che ha per oggetto materie controverse, oggetti su cui esistono molti ci
punti di vista.
In tal senso, la retorica è decidere sul preferibile, cioè su determinate scelte politiche, economiche,
finanziarie.
Retorica consiste nel costruire il modo di persuadere l'uditorio su materie controverse, attorno alle quali è
possibile una deliberazione che abbia un significato o anche un’altra che sostenga un opposto significato.
Dunque la retorica, per Aristotele coincide con la dialettica, cioè con il mondo del possibile, del preferibile,
ed ha dunque una inclinazione pragmatica.
La retorica è come decidere su argomenti che coinvolgono la assemblea; dunque c'è bisogno di
argomentazione, non di dimostrazione, perché nel mondo della politica dove la retorica si esercita esistono
pensieri e non verità in senso logico, per cui l’oggetto della retorica non è la verità ma il verosimile.
111
Dunque Platone, esortava a cancellare la retorica, la Doxa, e a inseguire la politica come verità; Perché
soltanto la verità è il mondo delle idee, della coerenza e così via. Il risultato di questa definizione di Platone
era però che essendo il campo politico orientato al vero, a governare la città, ci fosse il filosofo, il sapiente e
quindi il rifiuto della retorica dell'opinione coincideva con una visione totalizzante della sfera politica,
perché la politica era affidata al depositario del vero, quindi alla competente, al filosofo, quello che Platone
Inaugurava era il governo dei tecnici, il governo dei custodi.
In Aristotele, invece, non si identifica politica e verità; la politica in Platone era l'uno, l'idea, il vero e quindi
solo il depositario del vero poteva decidere sulle cose politiche. In Aristotele, la politica coincide con il
molteplice, con i molti, con le differenze. Dunque la retorica è un elemento positivo, perché la retorica è
La probabilità, la esistenza di più soluzioni alternative disponibili. Diceva Aristotele che la retorica compare
quando ci sono almeno due possibilità, quindi è il campo della selezione pubblica delle alternative e dunque
la retorica è non dimostrazione, ma persuasione, bisogna persuadere che questo tipo di politica economica
e efficace, bisogna persuadere il pubblico. Quindi è il senso della efficacia, della persuasione, e in questo
consiste per Aristotele la retorica come scienza della dell'azione dell'agire.
Marx accoglie questa concezione aristotelica della retorica come scienza pragmatica, come persuasione;
utilizzabile nel campo del preferibile del pubblico dibattito per deliberare.
In Marx, il luogo per eccellenza che vede il dibattito politico è quello parlamentare, siamo cioè ancora
nell'età del Parlamento come dimensione politica centrale in cui si sviluppa il dibattito pubblico; Si
presentano anche accanto al Parlamento, quindi alla sede istituzionale momenti esterni; Marx ricorda i
movimenti collettivi, movimenti di protesta, i meeting che cominciano a strutturarsi come dimensione
politica rilevante.
Quindi Marx si colloca in questa fase di passaggioil Parlamento è il luogo politico centrale, dove si
svolgono le assemblee deliberative e però accanto al ruolo cruciale del parlamento si segnalano altre
dinamiche di carattere extraparlamentare (la politica non è più chiusa dentro le assemblee).
Dice Marx, che questo indusse, ad esempio, un politico, Lord Derby, a ricorrere spesso una espressione
demagogia della strada, il demagogo di strada, è una figura che indica il tendenziale mutamento del
destinatario, è quel politico che parla non più, rivolgendosi ad un'assemblea di pari (come nel parlamento
‘800) ; si rivolge, invece, alla strada, e quindi la sua retorica non è più corretta, sorvegliata, con elementi di
stile molto formalizzati, ma tende ad assumere un linguaggio più colorito per venire incontro alle
sollecitazioni del pubblico esterno; La strada e il palazzo cominciano ad essere due luoghi essenziali:
112
Marx ritiene, sulla scia di Aristotele, che il buon discorso politico debba essere calibrato in relazione
all'uditorio e al luogo.
Aristotele fondata la retorica attorno al principio cardine, il primato per Aristotele è sempre quello del
destinatario; il destinatario, cioè il pubblico, è l'elemento centrale che per Aristotele il primato. Il primato
del destinatario significa che il modo di argomentare, l'uso delle parole, la connessione delle frasi, la
tonalità del discorso non è qualcosa di astratto, di indeterminato, ma di relativo all'uditorio; cioè Il politico
che parla non può usare lo stesso registro parlando ad un pubblico di esperti o ad un pubblico di persone
semplici; un politico non può parlare lo stesso linguaggio rivolgendosi agli industriali o al mondo del lavoro.
Il destinatario significa che le parole sono calibrate su un pubblico specifico, non esiste, cioè un linguaggio
universale, perché bisogna precisare la parola sull'idea che si ha dell'uditorio.
Quindi, a giudizio di Aristotele, il bravo oratore, il politico che deve persuadere, non può ignorare le
aspettative e le caratteristiche del suo pubblico.
Se chi parla non conosce le aspettative, la qualità, la natura di chi lo ascolta (parla come se ci fosse un
uditorio universale), questo politico non riesce nell'arte di persuasione.
L'arte di persuasione è efficace nella misura in cui le parole si adattano a chi le riceve, se il pubblico non sa
decodificare i significati di un discorso la retorica inefficace; allora tocca il politico costruire un discorso
decodificabile, ma per definire un discorso che risulti chiaro, comprensivo, decodificabile chi parla deve
conoscere l'enciclopedia dell'uditorio e quindi non può parlare in astratto.
Conoscere l'uditorio significa precisare quali sono le parole che quel pubblico in grado di comprendere e
quali sono gli strumenti che bisogna utilizzare per muovere e pubblico per spingerlo a una reazione positiva.
Dunque il carattere dell’uditorio va compreso, altrimenti il discorso è inefficace. Dunque il primato del
destinatario è anche la rilevanza del luogo.
Non si può parlare allo stesso modo in un tribunale, diceva Aristotele, o in un altro elemento della
pubblicità antica, perché diversi sono i codici linguistici, diversi sono i pubblici e dunque tocca all'oratore
modulare parole rispondenti non soltanto all' uditori, ma anche al luogo, alla sede entro cui si parla.
Nell'analisi di Marx, questo rilievo dell’uditorio e del luogo in cui si parla è l'elemento fondamentale.
Siamo in una fase in cui i Parlamento è affiancato dalla strada; e Marx rileva questo in alcune affermazioni,
fatte in un dibattito nella Camera del Lord, in cui dice che vi è uno sforzo delle mobilità inglesi di penetrare i
problemi del momento.
Marx, fa notare come, in certe occasioni la Camera del Lord sembra trasformarsi in una scuola serale di
sociologia ossia i nobili, l'elemento aristocratico della ricchezza, per rivolgersi anche alla strada, devono
anche loro aggiornare il proprio lessico politico.
Dunque questa scuola serale di sociologia vuol dire che linguaggio politico dei ceti aristocratici nobiliari
penetrano, quelli che Eco chiamava, i linguaggi settoriali, cioè i linguaggi della economia. Quindi queste
scuole serale di sociologia che si aprono a Westminster e alla Camera dei Lord nell’ottica di Marx vuol dire
lo sforzo del mondo politico tradizionale di comprendere umori, interessi, sensibilità popolari.
Questa scuola Popolare di sociologia significa che il linguaggio della società viene adoperato anche nelle
istituzioni.
113
Marx fa riferimento anche a un politico che lui apprezza come un grande oratore (Hait?), dicendo che tutti
si attendevano, dopo il discorso alla Camera, un discorso di altrettanto tenore in quello extraparlamentare.
Marx annota non si può per un politico pronunciare lo stesso discorso, perché, dice Marx in Parlamento
c’è uditorio, che quindi ha determinate caratteristiche al di fuori del Parlamento, Brych si rivolgeva a un
pubblico di suoi elettori, e quindi il suo discorso non poteva avere i toni che ha utilizzato in Aula.
Il discorso, dunque, muta a seconda del destinatario e del luogo; perché sarebbe stato un pessimo discorso
ripetere dinanzi ad un elettorato che mi appartiene, perché è quello che mi conosce, mi ha sostenuto, lo
stesso tono, le stesse parole utilizzate in Parlamento, che invece il luogo dello scontro tra maggioranza e
opposizione.
A questo riguardo, Marx ricava da un politico inglese, l'immagine dell'opposizione come valvola di sicurezza
del sistema, cioè nel sistema inglese la opposizione non è un elemento negativo ma in Inghilterra
l'opposizione e addirittura riconosciuta come la valvola di sicurezza del sistema, cioè come una funzione
positiva, ineliminabile.
Proprio agli inizi dell'Ottocento si consolida l'affermazione “Opposizione di Sua Maestà”, cioè
l'opposizione non è sospetta, negativa, ma una funzione costruttiva di controllo e una valvola di sicurezza,
che impedisce al sistema politico di degenerare e quindi un elemento di garanzia di controllo del potere.
Quando però, come accade nell’ 800 con i governi di coalizione, con lo sfaldamento dei partiti, questa
valvola di sicurezza funziona meno, perché le posizioni parlamentari diventano incerte, non incisive la
funzione del contrasto governo posizione, ma si assiste ad una continua compenetrazione dei ruoli, ad uno
scambio che rischia di togliere un significato costruttivo all'opposizione come funzione istituzionale
importante.
Dunque, nel Parlamento il dibattito segue un criterio, una funzione e la retorica è volta alla persuasione
dentro l'aula; Ancora non ci sono partiti e grandi ideologie, e quindi in una fase di rappresentanza che in
politologia chiamano individualistica in Parlamento maturano convinzioni e scelti di voto, cioè ancora non
esiste in Inghilterra il controllo esclusivo assoluto dei partiti del parlamentare. Solo negli anni 60
dell'Ottocento, (Dal 67 in poi si calcola come data spartiacque), compaiono forme organizzative, si
consolidano figure come il cosiddetto “frustatore” un membro del Parlamento che, attraverso un
registro/quaderno controlla da vicino come votano i deputati; e quindi scrive un nome, di chi non ha votato
come il gruppo parlamentare, partito si attendeva e quindi il frustatore è colui che indirizza la compattezza
di un gruppo di parlamentari, e mettendo un segnale blu sotto un nome ne derivava la non ricandidatura.
Dunque comincia intorno agli anni 60, 70 dell’800 Inglese ad esse presenti i parlamento, elementi di
governo di partito, cioè i frustatori solo indispensabili perché altrimenti il cosiddetto dittatore parlamentare
non avrebbe un seguito stabile; Perché senza i frustatori ognuno votava come gli diceva la coscienza o
l'interesse particolare. Quindi non esisteva un governo stabile, il quale richiedeva in Inghilterra i frustatori e
dunque funzioni di controllo, di disciplina parlamentare; in contrasto anche con il mito del Parlamento
come luogo in cui si esprime la coscienza del singolo parlamentare.
Inghilterra questo luogo, questo questa dottrina della coscienza del singolo parlamentare, coincideva con la
instabilità, con governi che duravano pochi mesi.
Allora negli anni 60 e 70 Il sistema politico inglese si stabilizza attraverso un maggiore ruolo della disciplina
dei deputati.
114
Questo è lo strumento che consente all' Inghilterra di edificare il cosiddetto governo di partito e di
raggiungere una stabilità politica molto forte.
La stabilità politica dei governi inglesi non risiede nel puro e semplice sistema maggioritario, ma nel
consolidamento di una disciplina attraverso i frustatori, e i parlamentari che sono tenuti ad un meccanismo
di fedeltà senza di cui non è possibile ottenere una vita di governo durevole.
Ora in questa fase, dunque, nel Parlamento si svolgono funzioni politiche e la persuasione è ancora legata al
l'esito di un discorso parlamentare. Cioè nei primi anni 50 ancora si hanno fenomeni per cui il
comportamento di voto, una mozione di sfiducia in una risoluzione di politica internazionale il voto dei
deputati, sia anche conseguente all'esito di un dibattito parlamentare.
Siamo ancora, cioè nella fase del governo della discussione che vede i parlamentari indirizzare il proprio
consenso anche in ragione di un discorso ben calibrato di un capo parlamentare.
Qualche anno dopo questo scenario del governo della discussione muta in profondità, perché il dibattito
parlamentare sarà più rivolto al pubblico e quindi all'opinione pubblica esterna che non al parlamento in
quanto tal. Il dibattito parlamentare diventerà un meccanismo d’identificazione di una posizione politica
sottoposta all'opinione pubblica.
Quindi nel Parlamento si parla non più per convincere l'altro deputato, perché quell’altro deputato segue
un orientamento di partito, ma si parla perché poi i giornal riportano le discussioni le posizioni dei vari
esponenti politici.
Dunque il discorso in parlamento è fatto ma avendo come destinatario non più il deputato ma la nazione,
l’opinione pubblica. Nasce la sfera pubblica come non più coincidente con il parlamento, il quale viene
affiancato dal pubblico; Marx segnala i meeting, i discorsi extraparlamentari, il ruolo che la stampa esercita
attraverso la pubblicazione di interi discorsi o di sintesi di discorsi pronunciati in Aula.
Il fatto che i giornali più importanti riportano stralci di discorsi parlamentari significa che la vita
parlamentare non è più isolata rispetto alle dinamiche della opinione pubblica che si esercita al di fuori
delle sfere istituzionali.
Analizzando il discorso di Bright, Marx, vede appunto la necessità di strutturare il discorso in maniera
differente a seconda del luogo perché la differenza di luogo coincide anche con la differenza di destinatari.
La differenza destinatario è l'elemento fondamentale, perché l'uditorio, come in Aristotele così anche in
Marx, è l'elemento base su cui bisogna costruire il discorso.
Costruire il discorso sul profilo dell'uditorio implica una cosa essenziale che il politico deve essere non un
sociologo della sera, ma deve essere in qualche modo un sociologo, nel senso che deve conoscere le
caratteristiche di chi lo ascolta questo in età contemporanea si fa anche con strumenti non proprio
raccomandabili come l'uso dei sondaggi di opinione che sono lo strumento attraverso cui il capo politico
conosce gli orientamenti, aspettative di chi ascolta e quindi in un certo modo Il sondaggio può essere uno
strumento positivo se serve per conoscere, ma può anche essere uno strumento di una retorica
degenerativa. se il politico adagia il proprio discorso sulle molle delle aspettative più inconfessabili e
quindi utilizza quello che Derby Censurava come la demagogia della strada, che è appunto la retorica
degenerata, la retorica che assume una coloritura che oggi si chiamerebbe populista, cioè non seguire un
discorso critico, ma adagiare le parole sulle aspettative di chi ascolta senza compiere uno sforzo critico, ma
115
DOPO PAUSA
Marx, oltre ad Aristotele, cita anche una pagina di Voltaire, Marx dice un oratore può permettersi tutto.
tranne che però creare la noia, la quale rappresenta l'indice di un cattivo discorso. Il manifestarsi della noia
è la dimostrazione che il discorso ha avuto un esito negativo.
Marx si ricollega anche invocando quella che lui chiama la dimostrazione ad oculos, cioè per valutare un
discorso politico in Parlamento, non c'è bisogno soltanto di pesare le parole, ma anche la dimostrazione
visiva; gli occhi oltre alle orecchie, le orecchie danno il senso delle parole, il modo con cui un politico parla.
Ma oltre all’orecchio per vedere l'efficacia effettiva di un discorso bisogna rivolgersi all' occhio, cioè vedere
come un politico trattiene se stesso, le proprie emozioni dinanzi a delle parole, a delle critiche. Vedere cioè
con gli occhi come un politico reagisce dinanzi a un discorso di un suo rivale, di un suo avversario.
Marx rileva come durante queste sedute parlamentari inglesi, la dimostrazione visiva con gli occhi è molto
importante, più ancora delle parole, si vede ad esempio Palmerston che dinanzi a un discorso che lui non
apprezza o pronunciato da un competitore politico, fa evidenti gesti di noia, come ad esempio fare finta di
dormire dinanzi a un discorso che tende a contrastare con tutti i mezzi; altre volte, appunto, lo sguardo
rivela in segno di imbarazzo, segno di adesione quindi, oltre alle parole, anche il gesto, la reazione del corpo
è importante.
Risulta essere importante perché la pura e semplice lettura di un discorso fatta perché pubblicata sul
quotidiano, non rende appunto questo momento che attraverso uno sguardo è possibile ritrovare, cioè
vedere come un politico reagisce attraverso la presenza fisica, la ricostruzione di un gesto, di un volto, il
tradimento che si può consumare attraverso una reazione scomposta o un gesto ricercato deliberatamente.
Marx indaga a questo proposito il rapporto anche che esiste tra l’ethos, o lui lo chiama in inglese la dignità
del politico, e la influenza delle sue parole, la dignità è un elemento importante nella valutazione della
retorica politica.
L’ethos sarebbe l'elemento del carattere o in altri termini, del prestigio dell'oratore, cioè l’influenza.
Marx ne mostra diverse gradazioni di ethos, ad esempio rileva il politico sconosciuto, non particolarmente
influente, che parla in Aula e però nessuno lo ascolta con attenzione perché vi è la carenza di ethos. Marx fa
riferimento al “Terzitismo parlamentare”, cioè ad un personaggio che in assemblea non viene ascoltato, le
sue parole non giungono all' uditore perché il suo ethos non è particolarmente rilevante.
Quindi dentro un'assemblea parlamentare esiste una gerarchia per quanto riguarda la dignità o ethos.
Un'attenzione accompagna Palmerston o altri politici autorevoli, una diversa tensione segue le parole di un
parlamentare periferico, quindi esiste una diversità di ethos che influenza chi ascolta un discorso.
La differenza di ethos si rivela anche quando un politico con scarsa dignità, con poco ethos, usa
terminologie che richiederebbero un altro ethos e quindi politici periferici, che osano parlare con il
linguaggio dello Statista.
Dunque l'ethos modula le capacità espressive, nessuno può parlare tradendo il proprio ethos. Cioè un
politico che non ha una centralità riconosciuta in Parlamento, non può parlare come se fosse uno statista,
come se avesse una rilevanza politica che invece non possiede, e dunque il politico devi parlare misurando
le parole al proprio ethos, deve essere consapevole che l'ethos è il perimetro entro cui le parole devono
essere ponderate; se travalichi questo perimetro l’assemblea reagisce male, perché non ti riconosce quella
dignità, quel prestigio che soltanto autorizzano certe espressioni, certe modalità del discorso.
116
ricorda il discorso agreste Deputato di campagna che parla in un determinato modo, secondo
determinate metafora;
Poi dice, c'è l'eloquenza forense ossia gli avvocati degli uomini di legge che adottano un tipo di linguaggio
che li caratterizza.
Ora il bravo oratore in un'assemblea parlamentare non deve annoiare, quindi questo comporta, secondo
Marx la recitazione (recitatio) la quale è un elemento cruciale del discorso politico.
La “recitatio” è la componente della recitazione e quindi attoriale, rappresentativa; per questo Marx dice
che Palmerston era un grande attore, un clown.
È la componente della recitazione, quindi il politico ha una dimensione studiata, calcolata come quella di un
attore che recita e quindi deve disporre se stesso e le proprie argomentazioni, ma anche secondo una
ricercatezza rappresentativa; non deve soltanto curare le espressioni, i modi di dire e i contenuti, ma anche,
oltre alla forma e al contenuto, la recitazione è un elemento cruciale per un politico che interviene.
Essendo la parola il discorso uno degli elementi fondati del politico, il discorso o il recitatio è elemento
fondamentale e quindi Marx dice che Palmerston sono un grande attore, capace di persuadere, di
mostrare, di fingere, di recitare qualsiasi parte con estrema efficacia; dice Marx che Palmerston è un attore
che riesce in ogni parte, sia quella comica, sia quella tragica, spesso quella comica e ironica è importante.
A questo proposito Marx disprezza il discorso della indignazione, che demonizza l'avversario con parole di
fuoco. Secondo Marx bisogna non ricorrere al discorso duro dell'indignazione, della esagerazione verbale, e
quindi dare del farabutto all'avversario, Secondo Marx non è con questa indignazione verbale che si
affronta con efficacia l'avversario politico.
Marx preferisce il gioco di fioretto, l'ironia, l’utilizzazione di metafore, per questo nei suoi articoli cita
continuamente, a partire dal 1853, Dante, la Divina Commedia, Shakespeare, cioè uso di un linguaggio
metaforico evocativo, perché non gli piace il linguaggio della indignazione, ritiene che sia preferibile il
linguaggio della ironia, della comicità, della costruzione acuta, ma non diciamo così appesantita da un tono
moralistico, l’ironia più che il tono moralistico è il centro della buona oratoria secondo Marx.
Dunque, la dignità o l'ethos è fondamentale per il discorso politico; e qui Marx ricorre ad una sorta di
gerarchia dei vari politici del tempo, e tra le preferenze che Marx esplicita sicuramente la figura del capo
conservatore Disraeli che Marx apprezza di più, secondo Marx, il politico che più risponde alle capacità del
capo, che abbia cioè una oratoria incisiva, leggera e penetrante al tempo stesso è Disraeli; anche
Palmerston in certe occasioni viene giudicato da Marx come il più alto oratore della del Parlamento inglese;
altre volte ne registra la debolezza espressiva, però nel complesso, nella scala gerarchica, Marx mette
Disraeli, cioè il capo del partito conservatore, e ne elenca le capacità politiche, le abilità espressive.
Quello che invece non apprezza è un altro politico, il rivale di Palmerston nel mondo liberale, cioè Lord
Russell, che viene demolito come figura politica nelle ricostruzioni giornalistiche dei suoi discorsi fatto da
Marx.
Lord Russell, appare come politico che esercita il proprio potere soltanto perché viene da una famiglia che
ha fatto soldi ha accumulato ricchezze in modo non molto esaltante, poco raccomandabile nel complesso,
ma oltre a questo non ha un qualcosa che ne giustifichi la presenza in posti di governo e di leadership così
frequente.
117
Marx fa anche un accostamento tra la statura fisica di Lord Russell e la sua statura politica e dice che,
insomma, si tratta di un politico piccolo, in tutti i sensi e ritiene che la sua fortuna politica sia del tutto
sproporzionata alle effettive capacità dimostrate.
Marx raccoglie dalla stampa dell'epoca le ricostruzioni che vedono Palmerston fare un trucco rispetto a
Russell, Russell e Palmerston erano esponenti dello stesso gruppo, ma rivali tra di loro, si contendevano la
leadership del mondo liberali costruzioni.
E per diminuire ancora di più la figura del rivale, Mark racconta che Palmerston lo invio in Francia a
compiere una missione diplomatica, si trattò di una scelta che Marx dice raccogliendo dalla stampa queste
informazioni, che Palmerston ha fatto solo perché sapeva che Russell non conoscesse una parola del
francese, e quindi per indebolirne ancora di più il prestigio e quindi si aspettava da questa da questo
incarico diplomatico una ulteriore discesa del prestigio di Russell perché emergeva la sua statura di politico
fragile, debole, non dotato di tutti gli strumenti della autentica leadership.
Altri momenti del discorso politico che Marx utilizza e analizza è questo Il discorso politico ha durata e
struttura formale diversa a seconda delle occasioni parlamentari stesse; e quindi fa riferimento a un tipo di
discorso pronunciato dal suo politico più apprezzato Disraeli, a proposito delle questioni di bilancio.
Nella seduta in cui si discuteva, si presentava da parte del governo quella che oggi si chiamerebbe la legge
finanziaria, Disraeli parlò per oltre tre ore, dal punto di vista della retorica sembra una eccessiva durata che
dimostra un discorso fallimentare, per Marx, invece, si trattava di un discorso positivo anche nella sua
durata, dice occupa molte colonne trascritto nei quotidiani il discorso di Disraeli. Dice anzitutto leggerlo sul
giornale non diminuisce la rilevanza retorica del discorso, perché era un discorso che si poteva anche
leggere non soltanto ascoltare.
Questo perché secondo Marx, ci sono momenti in cui è più efficace un discorso non formalizzato, quindi
parlare a braccio quando, si tratta di fare una battuta di spirito, un'interruzione, rispondere a
un'interruzione che hai ricevuto in aula e allora li devi improvvisare;
Ma in materia economico finanziaria non c'è spazio, secondo Marx, per le metafore, per l'invenzione
linguisti, perché si tratta di un settore politico specifico, in cui il dato informativo e tecnico prevale
sull'aspetto propagandistico.
Noi abbiamo avuto anche esempi in Italia recenti di illustrazioni, di leggi, di misure, di proposte del governo
con le slide, cioè con strumenti di comunicazione molto postmoderni; su materie finanziarie, secondo Marx,
la comunicazione è secondaria rispetto al dato tecnico informativo e quindi apprezza il rigore del discorso
del conservatore Disraeli, che parlando per tre ore e riportando cifre statistiche, ha conferito elementi di
apprezzabile referenzialità al discorso; il discorso era provvisto di elementi tecnici controllabili e secondo
Marx questo era un dato estremamente positivo;
Perché discutendo di questioni come il bilancio, la finanza pubblica, non si può ricorrere a strumenti di
retorica facile, ma è opportuno che il discorso privilegi la dimensione descrittivo- informativa.
Quindi Disraeli ha fatto un grande discorso perché non ha svolto un discorso di propaganda e di
semplificazione, ha costruito un efficace discorso perché provvisto di elementi tecnico informativi. Questo è
essenziale, secondo Marx per le questioni di bilancio, le quali richiedono, dei completamenti di carattere
matematico, statistico, economico.
118
Cioè, dice Marx, il pubblico, la politica non si attende da Disraeli un discorso storiografico, come se un
senatore Romano ragionasse, quando l'impero stava crollando, sulle ragioni storiche, dal politico si
aspettano tutti delle decisioni.
Quindi Disraeli in quella occasione, secondo Marx, ha fallito dal punto di vista della retorica politica, perché
non presentava un testo per un'accademia storiografica, era un capo politico con responsabilità di governo,
il quale avrebbe dovuto semplicemente spiegare come il potere politico inglese reagiva dinanzi ai processi
di crisi sorti India e quindi come gestire i processi che si avviavano di crisi, del rapporto tra la madrepatria e
le colombe politico e un decisore, non un analista.
Soltanto nelle politiche di bilancio Marx riconosceva indispensabile l'elemento dell'analisi della descrizione
puntuale.
Nel campo più politico non è ammesso che il politico divaghi o scambi il proprio ruolo per quello di analista,
non tocca al politico analizzare, al politico tocca decidere, intervenire con efficacia per rispondere ad una
situazione di emergenza come quella che affiorava in India.
Dunque il politico deve conosce i destinatari, l'uditore. deve adattarsi al luogo e poi anche l'oggetto del
discorso, il discorso economico finanziario ha una struttura semantica diversa dal discorso di politica
internazionale, dove dinanzi ad una emergenza, ad una crisi, occorre subito assumere decisioni urgenti e
non divagare.
Secondo Marx la divagazione, tuttavia, quindi l'arte di parlare senza dire cose precise non sempre è indizio
di cattiva retorica, a giudizio di Marx, nei suoi edifici retorici, nei suoi edifici parolai Palmerston raggiunge
una efficacia, sembra non dire nulla, sembra divagare, con certe sue espressioni, esibizioni parlamentari,
ma, dice Marx, quello era il suo scopo; cioè parlare senza dire o rimanendo nell'ambiguità non
necessariamente indica un cattivo discorso.
L'ambiguità semantica, cioè secondo Marx, è negativa se tu non la intendevi raggiungere, e quindi non era
un tuo obiettivo.
Ma se l'ambiguità semantica, l'indeterminatezza sono scelte del politico allora un discorso apparentemente
che divaga, non entrano in merito, quello è un discorso efficace, perché precisamente il non entrare nel
merito era obiettivo prefissato dal politico.
Quindi esiste un discorso che fallisce perché è ambiguo e semanticamente fuggente ma uno stesso
discorso, ambiguo e semanticamente sfuggente è positivo nella misura in cui su quella materia non era
ancora maturata una decisione.
E quindi, se il discorso di Palmerston fosse stato trasparente, risolutivo, avrebbe avuto un insuccesso,
mentre siccome i tempi non erano maturi, siccome c'era qualcosa da far maturare nei rapporti
parlamentari, parlare senza vincolare ad una decisione ravvicinata è un adeguato strumento politico.
119
Quindi l'abilità del politico sta nel comprendere quale grado di apertura semantica conferire al discorso,
non sempre dire tutto è buona politica è un buon discorso politico.
Ci sono zone di ambiguità che il politico deliberatamente ricerca, perché queste zone di ambiguità servono
per la contrattazione, per mettersi d'accordo. per lanciare un messaggio che dunque tutto questo rientra
nella capacità del leader politico di costruire discorsi efficaci.
Un politico, dunque, ha diversi pubblici il pubblico che lo ascolta, il pubblico che sta fuori dalle aule del
Parlamento e inoltre in chi lo ascolta iI politico è in grado di suggerire degli indizi, lanciare dei messaggi che
soltanto alcuni a cui si sta rivolgendo riescono a cogliere.
Dunque è in questa abilità che Marx vede il ritrovato della buona argomentazione politica della buona
retorica e in questo lui ritiene che si che siano particolarmente efficaci Palmerston e Disraeli che sono dei
politici che mostrano di possedere le arti della retorica parlamentare più di altri.
22/04/2021
Abbiamo notato una presenza di tematiche aristoteliche nello studio che Marx dedica, nei suoi articoli, alla
retorica parlamentare inglese. Marx utilizza gli spunti della retorica classica aristotelica per cogliere gli
aspetti più significativi del dibattito parlamentare. Le sue preferenze vanno non tanto su Palmerston ma
soprattutto su Disraeli che egli ritiene la figura più interessante della politica inglese. Un conservatore di cui
vengono apprezzate molto le sue abilità argomentative, nella sua padronanza del lessico politico corretto.
Palmerston chiude la sua carriera politica nel ‘65 per cause naturali e il suo appello al popolo, la sua
inaugurazione di un’impostazioni di tipo plebiscitaria trova degli sviluppi. A Palmerston l'appello al popolo
per risolvere una controversia con il Parlamento e l’orientamento in aula, andò bene nel senso che il
successo elettorale non smentì la sua pretesa di trovare una sponda nel popolo per avere una sorta di
investitura popolare quasi diretta. Dopo Palmerston questa possibilità, di un Premier in grado di ottenere
un sostegno popolare, trova ulteriori sviluppi e molti altri dopo Palmerston ricorreranno al voto anticipato e
al contatto immediato con il corpo elettorale per ricavare una superiore legittimazione politica.
Quindi si determina, secondo Marx, uno spostamento significativo nel panorama politico inglese: il
Parlamento non è più il luogo esclusivo, centrale, in cui si legittimano le leadership politiche e con
Palmerston si sperimenta un nuovo processo di legittimazione che ha nel rapporto con l'opinione pubblica,
con il momento elettorale, la caratteristica fondamentale. Prima non c'era questo rapporto immediato tra
un Premier uscente o che chiede una nuova investitura e il corpo elettorale perché c'erano complesse
manovre in cui il Parlamento e la Corona decidevano l'investitura e le sorti del Governo.
Con Palmerston non soltanto la Corona ma anche il Parlamento viene in qualche misura ridimensionato,
non nel senso non che non debba avere la fiducia del Parlamento, ma che il Parlamento deve
necessariamente seguire un qualcosa che è avvenuto prima nel corpo elettorale, è nella gara elettorale che
si risolve la questione della leadership. Il Parlamento conserva ovviamente il potere perché se poi il
vincitore non è in grado di tenere salda la sua maggioranza, il Parlamento può sfiduciare il Premier e
investire altre personalità politiche.
Nel campo liberale la figura che emerge, dopo Palmerston, è Gladstone, politico che Marx analizza anche
nel suo repertorio retorico e lo ritiene un politico di scuola razionalista e realista cioè il discorso
120
Un altro aspetto che mette in rilievo è il tentativo di Gladstone di mettere insieme liberalismo con alcune
coperture religiose, una sorta di repubblicanesimo con venature religiose che fanno parte del sistema
linguistico di Gladstone.
Gladstone viene dai conservatori ed era un seguace di Robert Peel, poi dopo il governo di Peel che
introdusse delle leggi che furono contrastate dal suo stesso gruppo conservatore, si spaccò la compattezza
del gruppo e i seguaci di Peel tra i quali la Gladstone si allearono con i liberali. Dunque, era un conservatore
con sensibilità libero scambiste, aperte alle dinamiche nuove dei mercati e quindi vicino a istanze su cui più
marcata era la cultura politica dei liberali. Dopo questa uscita dal gruppo dei conservatori e l'entrata nella
pattuglia di seguaci di Peel, Gladstone consolida il suo rapporto con i liberali al punto da diventare il leader
dello schieramento liberale, gruppo politico di grande competenza tecnica.
Il gruppo di Peel è costituito da una cultura conservatrice e con un forte senso delle istituzioni, caratterizzati
cioè da una conoscenza profonda delle problematiche politiche e amministrative. Anche Gladstone, come
Palmerston, predilige i discorsi lunghi e Marx ricorda un discorso di Gladstone durato 5 ore, quindi un
politico che sfidava il tempo e la capacità di ascolto dell'uditorio.
Gladstone cerca di sviluppare delle politiche incentrate su questioni di impatto maggiore: quello di
promettere riforme fiscali per allargare alla classe media alcuni vantaggi del sistema economico in
espansione. Quindi il tentativo di Gladstone è di innovare il sistema della tassazione con diversi regimi
fiscali, meccanismi nuovi di prelievo per alleggerire il carico fiscale e così incrementare le capacità di
consumo delle classi medie della società inglese. Dunque, sviluppa una sorta di tentativo di presentarsi
come il Gladstone del popolo cioè assume il volto di un liberale non più elitario, non più legato
all'aristocrazia ma aperto verso dinamiche e sensibilità sociali popolari.
Gladstone comprende che il liberalismo deve darsi una struttura più popolare, allargando quindi le
opportunità di dinamica sociale, di ascesa, di entrata di più sfere della società nelle possibilità di consumi.
L'uso del fisco, per favorire i consumi, rientra tra le caratteristiche delle politiche di Gladstone quando
questa sua promessa si rivela non corrispondente alle attese e ai proclami Gladstone risulterà molto
penalizzato nelle scelte di voto.
Dunque si sviluppa dopo Palmerston un duello tra due protagonisti: Gladstone per i liberali e Disraeli per i
conservatori. Se Gladstone viene dai conservatori e diventa il capo dei liberali; il percorso di Disraeli è
diverso, Disraeli ha tentato di entrare a Westouter, prima tra le file più liberali poi dopo 2/3 sconfitte
cambia casacca e diventa conservatore. Nel 1832 Disraeli si presenta in Collegio e per dare il senso delle
dimensioni che ancora aveva la politica inglese perde ottenendo soltanto 12 voti, mentre il candidato che
vince nel Collegio ottenne 20 voti; in un altro collegio sempre nel ‘32 ritenta la scalata al seggio
parlamentare ma anche lì la differenza di pochi voti (150 contro 170) cioè l'entità della partecipazione
elettorale, vista la estrema ristrettezza che c'era nel riconoscimento dei diritti politici, era molto esigua.
Disraeli viene molto raffigurato in termini negativi nella pubblicistica del tempo, lo rappresentano come un
bohémien, un personaggio pittoresco bizzarro che vuole entrare nel Parlamento ma senza avere le
credenziali di rispettabilità che la vecchia società imponeva per il ceto politico privilegiato. Disraeli
121
Tutta la retorica politica di Disraeli ruota attorno al tentativo di definire una sorta di partito della Nazione.
Come in Gladstone il liberalismo cerca una dimensione più popolare, così in Disraeli il conservatorismo non
è più soltanto il proprietario di terra e la Chiesa, ma deve darsi il volto nazionalpopolare e quindi cercare di
attrarre uno spazio di opinione pubblica più ampio rispetto a quello tradizionalmente aperto dal
conservatorismo ufficiale.
Il conservatorismo ufficiale era la vecchia Inghilterra delle vecchie casate delle grandi proprietà. Questo
però non impedisce a questo mondo conservatore legato alla proprietà di fare delle cose che Marx
apprezza. Secondo Marx, nella storia inglese, grandi periodi di riforma si hanno, quasi paradossalmente,
quando al potere vanno i conservatori più che quando al potere si stabilizzano i liberali. Dice Marx che sono
i conservatori a introdurre una legislazione più avanzata su molteplici aspetti soprattutto perché i
conservatori condividono una certa ostilità verso il nuovo regime di fabbrica e quindi sono indotti ad essere
più nemici dell'industrialismo e degli esponenti liberali più legati all'industria che non al movimento cartista
o radicalismo sociale.
Il conservatorismo, secondo Marx, ha come suo nemico più il mondo liberale dei diritti, della laicità e
dell'industria che non i movimenti radicali con i quali condividono la critica al sistema di fabbrica e per
questo il mondo conservatore è più aperto nel richiedere interventi per limitare alcune condizioni della vita
nelle fabbriche.
Secondo Marx se al potere non va un liberale, quindi uno percepito come portatore di istanze più liberali
più aperte, ma al potere va un uomo conservatore, legato al vecchio mondo, è più semplice aprire una
grande azione esterna. Marx teorizza in questa fase la necessità della pressione esterna della nascita cioè di
movimenti extraparlamentari perché non esiste un partito socialista e dunque le istanze del mondo del
lavoro possono essere introdotte quando il mondo tradizionale, il governo dei conservatori dinanzi alla
mobilitazione della piazza cede più facilmente e quindi il mondo conservatore viene a essere un
interlocutore perché favorisce, proprio per la sua natura di mondo della conservazione, la nascita di
movimenti di protesta e attraverso questi movimenti di protesta è possibile ottenere leggi, riforme parziali.
Gladstone e Disraeli sono dunque le figure nuove della politica inglese che si sfidano. Il fatto nuovo è che
entrambi gli attori politici hanno la necessità di aprirsi al popolo. Ciò evidenzia un fatto paradossale: la
problematica delle riforme elettorali non è sposata come propria dal mondo liberale, ma le riforme
elettorali sono state più sostenute dal conservatore Disraeli.
I liberali promettevano sempre riforme e Marx ironizza sulla figura del leader liberale Lord Russell, il quale
prometteva riforme all'infinito ma senza realizzarne mai alcuna e anche sulle promesse di riforme elettorali
la parola di Russell si è rivelata inconsistente. Anche Gladstone mette al centro delle sue politiche il fisco,
l'amministrazione, l’integrazione religiosa ma non la riforma politica che era un terreno di anacronismo visti
i rapporti elettorali esistenti. Sarà invece il conservatore Disraeli a sottrarre al mondo liberale, la
problematica della riforma elettorale quindi dell'allargamento del diritto di voto ai ceti operai e fa lui il
passaggio ad un conservatorismo popolare.
Dunque, Disraeli in nome del suo partito della nazione, in nome di un conservatorismo non più
tradizionalista ma democratico, ritiene che il diritto di voto debba essere esteso fino a comprendere il voto
degli operai. Dunque, si sviluppa tra Gladstone e Disraeli un conflitto, dopo le riforme del 1867, attorno alla
conquista del voto dei ceti operai che sono stati ammessi al voto. Una volta che i ceti operai delle città sono
titolari del diritto di voto, i due partiti tradizionali sono costretti a cambiare piattaforma politica e a
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Marx si sofferma anche su un fatto organizzativo connesso all'ampliamento del diritto di voto. Con
l'ampliamento del diritto di voto si ha una necessità organizzativa, poiché non esiste in Inghilterra
l'automatica iscrizione nelle liste elettorali e dunque per poter votare bisognava essere iscritti ad una
circoscrizione. Questa necessità, di iscrivere i propri sostenitori alle liste elettorali, condusse ad una prima
fase di partito organizzato nascono cioè i rudimenti di una organizzazione di partito perché diversi partiti
hanno bisogno di portare più elettori possibili al voto e quindi il registro degli iscritti al voto diventa
fondamentale.
Marx ricorda che non soltanto i partiti si mobilitano per iscrivere i propri aderenti, i propri simpatizzanti e
quindi assicurarsi un vantaggio competitivo ma si sviluppa anche una cosa opposta, ogni partito attraverso
legami e personaggi capaci di entrare nei cavilli, sviluppa una contro istanza tesa a impedire il più possibile
l'iscrizione degli antagonisti delle liste elettorali. Dunque, si sviluppa una dinamica organizzativa nella
vicenda politica, cominciano a presentarsi meccanismi di competizione più allargata: il voto che comprende
i ceti operai cittadini vota sia il programma dei partiti sia avanza la richiesta di un minimo di struttura
organizzativa che misura non episodica ma che dura per qualche tempo (non siamo ancora ai partiti di
massa però siamo entro un cammino verso un processo di organizzazione della vita politica).
In Inghilterra, diversamente dalla Francia che Marx ha analizzato le 18 Brumaio, i partiti nascono dall'alto
del Parlamento e poi entrano nella società; In Francia, invece, abbiamo visto che erano in partiti
repubblicani e socialisti a determinare la soggettività politica. Dunque i partiti sono extraparlamentari, in
Francia, sono partiti esterni che nascono nella società e nel conflitto e poi entrano nelle istituzioni così
anche in Germania. In Inghilterra, invece, i partiti sono soggetti parlamentari si indirizzano verso la società
per delineare un qualche profilo di organizzazione. Quindi partiti interni sono cioè i partiti strutturati
determinati a diventare partito dopo chi il tentativo esterno fatto dal movimento cartista è stato sconfitto.
Dunque anche in Inghilterra c'era una pressione esterna, quella del movimento cartista per definire un
partito della società, ma il movimento cartista non riesce a evolversi sino a diventare un grande partito.
Quindi in Inghilterra la forma partito è di origine parlamentare, sono partiti che da molti decenni sono in
Parlamento a uscire dal Parlamento e darsi per esigenze organizzative ed elettorali un qualche
radicamento. Non votano soltanto 10 persone ma votano migliaia di persone, da qui la necessità di
contenere ed espandere il profilo organizzativo del movimento politico.
Dopo Palmerston molti politici fanno la sua stessa scelta, anche Disraeli fece il tentativo di appellarsi al
popolo e così anche Gladstone entrambi, per risolvere una questione di tenuta della maggioranza, cercano
di risolvere i problemi affidando la risoluzione del conflitto al popolo con lo scioglimento anticipato. Però
mentre a Palmerston questo tentativo produsse una grande affermazione elettorale, a Gladstone ad
esempio nel 1874 il tentativo analogo portò a una sconfitta clamorosa.
Palmerston era un Primo ministro con una maggioranza abbastanza ampia però la riteneva non sufficiente
per svolgere le politiche che aveva in mente di portare avanti e quindi ritiene che il successo sia inevitabile,
sia quasi scontato, ritiene che il clima di opinione sia favorevole e dunque è opportuno sfidare i
conservatori nel campo elettorale per avere così una legittimazione politica più forte. Dunque, il voto e il
successo elettorale diventa la chiave di una legittimazione nuova, più forte, quando un politico sta in
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Anche Disraeli, come Gladstone e prima Palmerston, ritiene che questo sia un percorso inevitabile e quindi
accetta la sfida dell'investitura popolare, il turismo popolare di Disraeli è quindi questo bisogno di avere una
fonte popolare come canone essenziale per l'autorevolezza del leader e del suo governo. In questo Disraeli
aveva condotto una battaglia contro il suo capo storico dei conservatori Lord Derby, il quale invece, ricorda
Marx, era più portatore di un'istanza parlamentarista tradizionale. Lord Derby riteneva che tutto si dovesse
giocare in Parlamento e che quindi l'unica opposizione che lui come capo conservatore doveva fare era
quello di una opposizione responsabile che quando poi il governo aveva difficoltà entrava in gioco o
appoggiando misure singole del governo o accettando di portare avanti un governo di minoranza. Lord
Derby era appunto uso a questa consuetudine, dinanzi alla crisi del governo liberale ufficiale, il capo
dell'opposizione conservatore Derby prendeva il posto dei liberali conducendo una politica di governo di
minoranza.
Questo non accontentava più Disraeli che era portatore di una veduta più moderna più dinamica e
all'anziano leader Derby, che appunto accettava i governi di minoranza (perché i liberali dopo la fuoriuscita
di Peel dei peelisti non vinsero più le elezioni ci vorrà Disraeli a riportarli per la prima volta ad una
affermazione elettorale dopo molti anni), Disraeli proclama questa sua dottrina di Stato apertamente
bipolare. Lord Derby era per l'accomodamento, per la manovra intra-parlamentare, Disraeli invece per una
dialettica più di stampo bipolare aperta.
Quindi i conservatori avrebbero dovuto non approfittare della crisi dei liberali per prendere il posto loro
con governi però condizionati perché non avevano la maggioranza, ma avrebbero dovuto costruire un
partito della nazione capace di avere il voto popolare, vincere le elezioni e governare. Secondo Disraeli con
la politica di Lord Derby il conservatorismo non aveva capacità di influenza perché andava al potere per
pochi mesi ma non poteva scegliere politiche di stampo conservatore in quanto non aveva la maggioranza
in Parlamento essendo il governo di Derby, un governo di minoranza. Disraeli teorizza la necessità di un
confronto corpo a corpo tra maggioranza e opposizione da portare avanti al paese con una campagna
nazionale.
Quindi l’età di Gladstone e di Disraeli segna questa novità: la contesa non è più collegio per collegio, ma
dentro ogni collegio c'è una contesa tra due leader nazionali, tra due partiti della nazione che ambiscono a
conquistare il potere. Quindi mutano assetti organizzativi e moduli della campagna elettorale.
Nel 1874, dice Marx, compaiono per la prima volta con Gladstone i primi grandi manifesti della politica
inglese di comizi extraparlamentari, i quali diventano il normale momento della contesa politica elettorale,
si assiste dunque alla nascita di una nuova stagione della democrazia popolare, populista nel senso non
dispregiativo del termine populista, ma nel senso di una democrazia che alla mediazione parlamentare
tende a sostituire il rapporto con l'opinione pubblica e con il voto popolare.
Disraeli contrariamente però al suo punto dialogico ai governi di minoranza, in realtà anche lui poi accettò il
governo di minoranza, perché Derby lasciò il governo e Disraeli malgrado la sua ideologia contraria ai
governi nati in Parlamento e non investiti dal popolo assume l'eredità di Derby e diventa primo ministro di
un governo di minoranza. Poiché appunto il suo governo di minoranza era condizionato nelle politiche
pubbliche da adottare, Disraeli, dice Marx, si ricorda di Palmerston e dopo una breve fase di governo di
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Dunque, Disraeli ottiene questa acclamazione popolare, è un leader che vince e conferma il suo potere
attraverso una grande battaglia elettorale, quindi quello che accade dopo Palmerston è la rilevanza delle
campagne elettorali, delle battaglie elettorali per la conquista del voto maggioritario e questo vede ancor
più il rafforzamento delle organizzazioni di partito e il ricorso alla piattaforma a strutture comunicative che
prima erano assenti.
Fino a quando la politica inglese è prettamente parlamentare, il linguaggio politico vede la prevalenza del
logos rispetto al pathos perché il logos è un linguaggio politico sorvegliato, attento, molto formale che non
ricerca strutture demagogiche nell’argomentazione perché nel Parlamento c'è l'élite del paese, i votanti
sono pochi, condividono le stesse idee, gli stessi interessi, hanno la medesima collocazione sociale e
dunque un pathos non serve perché tra persone che hanno la stessa cultura, gli stessi interessi, le stesse
credenze non c'è bisogno di scaldare le stato emozionale che infatti, abbiamo visto nella citazione di Marx
dell’espressione del conservatore Lord Derby il quale polemizzava contro il demagogo di strada, cioè il
politico che in Parlamento ricorreva a formule più adatte alla strada che non all'istituzione rappresentativa.
La demagogia della strada è la demagogia che vede poco logos, poca razionalità, poco profilo formale
argomentativo e molto più semplificazione, amplificazione retorica, demagogia e quindi l’elemento del
pathos. Il logos tende ad essere più freddo, distaccato; il pathos per definizione è ciò che scalda, ciò che
induce ad agire attraverso una esortazione, un richiamo emozionale a dati, più che razionali, sentimentali
ed emotivi.
Fin quando il Parlamento è il centro e la politica e il linguaggio politico sono dentro il Parlamento, il logos e
l'ethos sono elementi fondamentali, cioè il prestigio, la dignità e la capacità razionale. Quando, con
l'appello al popolo di Palmerston, la politica esce dal palazzo e deve affrontare la strada, la risorsa
demagogica è indispensabile. Ciò significa che il linguaggio diventa più complesso e se Gladstone parlava 5
ore in Parlamento, in comizio (che comincia a fare lui, è Gladstone il vero scopritore della tecnica del
comizio) non può parlare 5 ore, anzi la caratteristica di Gladstone è che faceva in momenti particolarmente
caldi della politica e della campagna elettorale, 5 discorsi in 5 luoghi diversi nella stessa giornata, quindi
anche molta partecipazione fisica nel momento elettorale.
In Gladstone, oltre al manifesto che Marx ricorda, è importante anche il fatto che la campagna elettorale
diventa un elemento fondamentale perché lui era eletto in un collegio ultra blindato dove aveva una
maggioranza scontata, nessuno poteva consigliarlo per davvero, però, malgrado questo, faceva campagna
elettorale in continuazione nel suo collegio perché la campagna elettorale aveva un richiamo nella stampa e
aveva quindi una possibilità di parlare al paese.
Dunque, si comincia a parlare al paese con campagne elettorali più organizzate e la retorica non può che
vedere una combinazione diversa del rapporto tra logos, ethos e pathos; l’elemento del pathos comincia ad
essere importante. Infatti, il razionalista Gladstone fa ricorso a simbologie anche religiose oltre a un
linguaggio, dice Marx, impregnato di terminologie costituzionali democratiche.
Marx gli rimprovera “tutta questa esaltazione delle libertà costituzionali, del costituzionalismo moderno,
come la giustifica la Gladstone con la sua politica repressiva In Irlanda? Come giustificare le repressioni
irlandesi da parte del ceto politico inglese è un grosso problema che Marx continuamente sollecita
denunciando l'ipocrisia di Gladstone e di tutto il ceto politico inglese, che visita in Italia o altrove le carceri
per vedere il trattamento dei prigionieri politici e quindi si fa portatore di istanze liberali garantiste e
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Marx dice che tra l’Irlanda e l'Inghilterra c'è una vera e propria differenza tra paese dominante e paese
dominato, oppresso e oppressore, e la centralità della questione irlandese è per Marx fondamentale perché
ritiene che lì si svolga anche una forma particolare in conflitto di classe che chiama a una visione critica
delle culture politiche ufficiali dell'Inghilterra. Anche il mondo conservatore deve adottare quella
demagogia nel senso di richiamo a immagini, parole di più largo consumo, a ampliare l'enciclopedia del
discorso politico perché il mondo conservatore cerca di prendere voti operai di piccola borghesia.
Disraeli, che è il massimo stratega ideologo del conservatorismo di questa fase, aveva maturato lo schema
che puntava sulla dialettica maggioranza-opposizione quindi bipolarismo netto che escludeva governi di
minoranza come normale. In Inghilterra i governi di minoranza puntualmente si presentavano; secondo
Palmerston, il governo di minoranza tradisce uno schema bipolare esplicito che invece bisogna recuperare.
Tuttavia in seguito alla malattia del capo conservatore Derby, che era primo ministro di un governo di
minoranza, tocca a Disraeli, in quanto nuovo leader dello schieramento conservatore, sostituire Derby e
guidare un dicastero di minoranza. Disraeli, però, subito dopo si rivolge al corpo elettorale, ottiene lo
scioglimento della camera e sviluppa una grande campagna per l'appello al popolo come risolutore, come
istanza riformativa del sistema politico inglese.
A questo proposito, Marx avverte che la questione irlandese sia una spina nel fianco dell’Inghilterra ufficiale
perché il paese delle libertà e del costituzionalismo senza costituzione assume politiche repressive contro
l’Irlanda. L’Inghilterra, inoltre, comincia a scontare l’impatto delle crisi economiche mondiali che
l'Inghilterra tradizionalmente riusciva a bloccare nella loro influenza, in virtù della centralità dell'economia
mondo, della potenza industriale inglese. L’Inghilterra era protezionista all'interno e liberoscambista
all'esterno e quindi aveva bisogno di vendere all'estero le proprie merci senza che però dall'esterno
venissero minacce per il monopolio industriale commerciale inglese.
Secondo Marx le crisi però non sono risolte, come riteneva il ceto politico inglese, attraverso un'alternanza
tra fasi di liberismo che fasi di protezionismo. A giudizio di Marx, la crisi economica del sistema capitalistico
non è curata con risposte di tipo politico, il liberismo e il protezionismo, perché entrambe queste soluzioni
sono non fondative della crisi (non è protezionismo di per sé che genera la crisi e non è il liberismo di per sé
a indurre un'economia alla crisi), a determinare la crisi è il sistema sociale capitalistico che per regolarità
sue interne determina uno sviluppo contraddittorio. Espansione e ristagni sono parte del sistema
capitalistico che ha dunque la crisi come propria dimensione interna, non c'entra nulla liberismo e
protezionismo che sono soltanto degli accorgimenti, degli strumenti adattivi, correttivi ma non sono di per
sé capaci di eliminare la crisi.
La crisi, secondo Marx, è interna alla logica del sistema capitalistico e nessuna di queste due politiche può
eliminare la crisi perché la crisi appartiene alla contraddizione del sistema economico del capitale e non è
quindi un qualcosa che si possa eliminare con delle misure politiche a favore del liberismo o a favore del
protezionismo. Il capitalismo entra ciclicamente in crisi sia che abbia adottato politiche protezioniste, sia
che abbia una stagione liberoscambista perché è indifferente a queste due cose il meccanismo della crisi
che dipende esclusivamente dalle contraddizioni interne al sistema economico.
Quello che adesso preme rimarcare negli articoli di Marx è questo: mentre il sistema economico
capitalistico che vede l'Inghilterra in una declinante posizione egemonica ha cicli critici, secondo Marx ogni
15-10 anni il sistema si inceppa ed entra in crisi di recessione, in crisi da sovrapproduzione o da
sottoconsumo, questo conduce a degli effetti politici e, secondo Marx, mentre la crisi è un dato regolare,
manca un soggetto da parte delle classi lavoratrici che la crisi devono subirla più di altre.
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Quindi con il primo tentativo di un partito del lavoro, che era il movimento cartista, l’Inghilterra segnala
questa esigenza ma non viene mai realizzato un soggetto politico di queste classi lavoratrici che quindi sono
le più sfruttate e nelle fasi espansive riescono ad avere dei miglioramenti salariali, delle inchieste pubbliche
parlamentari per garantire un minimo di salute nelle fabbriche, ma poi quando il meccanismo entra in crisi
si perdono tutti i diritti acquisiti e la situazione della estrema precarietà caratterizza questi ceti sociali.
A giudizio di Marx nella società moderna si presenta una struttura polarizzata pura. A scuola di Manchester
è l'espressione più consapevole di un partito dell'impressa del capitale e a questo partito delle imprese del
capitale dovrebbe corrisponde un altrettanto trasparente proclamazione dell'autonomia dell'interesse della
classe lavoratrice e quindi un partito del lavoro questo schema viene a presentarsi come tale qualche
decennio dopo perché negli anni in cui Marx scrive manca questa opera di costruzione di un partito
autonomo del movimento operaio e, dice Marx, gli operai non sono soggetti, ma sono oggetti della politica
cioè la stessa cosa che aveva ripetuto a proposito dei contadini in Francia, i quali erano la maggioranza ma
non avendo un partito, non avendo una organizzazione politica nazionale, non avevano interesse di classe,
non erano un soggetto, non erano una classe.
Per Marx una classe si ha quando dispone di una organizzazione che la mette nel centro della politica
nazionale con un soggetto distinto, quello che secondo Marx negli anni ‘70 dell'Inghilterra emerge è la
carenza di un partito dei lavoratori e questo fa sì che i lavoratori siano subalterni oggetto di politiche più o
meno compassionevole degli altri due partiti. Dice Marx che fino ad ora il movimento operaio non ha avuto
un partito e deve accontentarsi di ciò che gli promette Disraeli o Gladstone e quindi essere parte del grande
partito liberale di Gladstone oppure votare il candidato conservatore che in taluni collegi porta avanti
istanze di critica molto demagogiche, molto anticapitaliste.
Quindi Marx suggerisce di venir fuori da questa subalternità che vuole gli operai una volta votare per i
conservatori, un'altra volta per i liberali, senza risolvere la questione di una loro rappresentanza politica.
Costruire una rappresentanza politica degli operai è secondo Marx fondamentale perché non basta la
rappresentanza sindacale attraverso le unioni sindacali che cominciano a svilupparsi in Inghilterra. Le unioni
sindacali hanno una debolezza, secondo Marx, cioè che portano avanti rivendicazioni al livello di singole
aziende, non hanno una possibilità aggregativa nazionale, sono dunque indispensabile degli strumenti
politici e il partito si pone come fondamentale per la rappresentanza degli interessi collettivi del mondo del
lavoro.
In Inghilterra invece, dice Marx, accadono cose ridicole per cui i piccoli partiti socialisti che stanno
nascendo, la federazione socialista e così via, invece di fare un’operazione seria, un ceto politico serio,
fanno delle cose che risultano molto negative per Marx, ad esempio, alcune sigle socialiste accettano di
candidarsi in collegi in bilico sotto una istanza del partito conservatore o del partito liberale che danno dei
soldi per sostenere la candidatura perché la cifra richiesta per candidarsi era molto consistente. Quindi
dove il collegio era in bilico, il conservatore dava i soldi a un candidato radicale socialista per candidarsi, ma
dice Marx questo candidato non ha preso manco 1000 in tutta l'Inghilterra, quindi ha soltanto giocato una
partita ridicola che ha reso disonorevole la causa di questa sigla socialista perché appunto per favorire il
candidato conservatore e strappare i voti degli operai ai liberai mettevano queste sigle di candidati civetta
del movimento socialista che non aggiungevano nessuna percentuale elevata di voto e serviva soltanto per
svolgere una funzione subalterna.
127
Questo viene osservato molto negativamente anche da Marx che vede in questi fenomeni degli elementi di
americanismo degenerato, pretende un altro tipo di partito politico. Marx non ha un'idea novecentesca di
partito, non ha l'idea che poi svilupperà il movimento socialista, socialdemocratico in seguito, e ritiene che
il partito socialista debba essere un partito movimento molto decentralizzato, molto liquido nella sua
struttura organizzativa, non c'è bisogno che di un segretario con funzioni provvisorie e di qualche
funzionario ma niente più, non pensa al partito macchina strutturata che invece sarà l'invenzione della
socialdemocrazia tedesca.
Marx ancora pensa ad un partito di correnti, pluralistico dove cioè non esista il culto della leadership,
ritiene che il culto della leadership sia negativo per un partito del movimento operaio il quale deve avere
strutture partecipative molto accentuate, molto sviluppate, e deve rifiutare tutte le simbologie del vecchio
mondo, le quali sono appunto il professionismo della politica, il culto della leadership del comando.
Dunque, ci vuole un partito disciplinato con carica ideale ma non un partito pesante che sarà invece il
prototipo del partito governo messo appunto proprio dai seguaci di Marx in Germania.
Quando si ritiene che in Marx ci sia una ricetta sicura su cos'è la politica, su cosa bisogna fare, qual è la
questione del potere e così via, si trascura che in Marx non c'è una ricetta ma diversi casi nazionali vengono
tenuti sotto osservazione e se per l'Inghilterra il Parlamento, le istituzioni di rappresentanza e il suffragio
consentono un certo tipo di politica e quindi il partito del lavoro del mondo del lavoro deve entrare in
questo scenario di competizione pacifica; per quanto riguarda la Germania il discorso agli occhi di Marx è
alquanto differente perché in Germania non esistono le stesse tradizioni politiche e costituzionali che sono
esaltate anche da Marx riguardo alla storia inglese. In Inghilterra c'è una fitta trama di libertà e di
costituzionalismo senza costituzioni; in Germania il profilo della statualità è molto differente perché non c'è
rappresentanza, non c'è libertà di organizzazioni, pluralismo politico e dunque il sistema politico tedesco
non ha, agli occhi di Marx, una possibilità di una di una evoluzione politica come quella possibile in
Inghilterra o in America.
28/04/2021
4° CAPITOLO
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Proprio negli anni di permanenza a Londra e di analisi delle vicende politiche inglese, Marx scrive appunti
molto ampi, quaderni che sono poi stati raccolti sotto il titolo “i Grundrisse. Lineamenti fondamentali di
critica dell'economia politica”. Una parte di questi Grundrisse è stata poi ripresa e sistematizzata nel
Capitale ma non tutto ciò che è presente nei Grundrisse è stato ripulito e messo in maniera organica nel
primo volume del Capitale, per questo i Grundrisse hanno sempre stimolato l'attenzione.
I Grundrisse sono testi scoperti molto tardi, in Italia vennero pubblicati sulla fine degli anni ‘60 e Einaudi
1975, quindi si tratta di testi postumi di Marx che hanno colpito l'attenzione perché in essi affronta
questioni che poi non sono più riprese. Quindi per cogliere l'estensione degli interessi scientifici di Marx, i
Grundrisse sono stati ritenuti una miniera che entro certi filoni interpretativi è stata persino preferita al
Capitale perché mentre il Capitale è un'opera sistematica ma incompiuta (Marx ha pubblicato soltanto il
primo volume del Capitale, gli altri due volumi sono stati pubblicati da Engels che quindi ha suggerito delle
interpolazioni, degli aggiustamenti che risentono quindi di un intervento esterno). I Grundrisse sono,
invece, il prodursi di una ricerca attraverso letture, riflessioni critiche che mostrano appunto un interesse di
analisi molto vasto.
Anche in questa opera, i Grundrisse, Marx fa un indice di quello che, secondo lui, bisognava fare e in questo
indice di un'opera che poi mai riuscirà a completare, oltre alle tematiche della economia, consumo,
produzione, distribuzione, diceva che questa opera avrebbe dovuto trattare la sintesi tra società civile e
Stato, la nascita del mercato globale e le dinamiche della crisi che entro il mercato globale si presentano.
Nel ‘57 analisi politica per i giornali e studio scientifico si intrecciano in un particolare bisogno di rimarcare il
ruolo della grande crisi economica del ’57 che sollecita Marx a riflettere, in maniera approfondita, sul
concetto di crisi, sulle dinamiche che portano il sistema sociale moderno alle contrazioni che esplodono
nelle fasi di crisi. Proprio la riflessione sulla crisi del ‘57 porta Marx a intensificare il lavoro che poi ha dato
luogo a questa produzione dei Grundrisse.
I Grundrisse sono una risposta scientifica a un grande problema politico e sociale che era emerso con una
crisi mondiale come quella del ’57 e per comprendere queste dinamiche che portano il sistema sociale
moderno alla crisi, Marx elabora la sua riflessione, la sua teoria. Schumpeter, grande economista del 900 di
indirizzo anti-marxista, riconosce che però il suo concetto di crisi come “distruzione creatrice” ha grandi
collegamenti con la nozione di crisi di Marx. Schumpeter dice, inoltre, che il concetto di ciclo, che anch’egli
riprende e approfondisce ha avuto come prima formulazione teorica quella di Marx, cioè Marx vede che il
sistema economico e sociale moderno ha delle dinamiche cicliche che presentano a intervalli di 10-15 anni
un arresto del meccanismo.
Secondo Marx, gli economisti politici hanno un problema: partono da un'idea quasi metafisica, per cui
esiste un regime di equilibrio, cioè un'economia dinamica ma in equilibrio incapace di conoscere
disfunzioni. Dunque, l'economia politica classica, che pure ha uno statuto scientifico molto importante, ha
tuttavia un assioma di fondo, secondo cui l’equilibrio sia il dato strutturale del sistema economico, il quale
dunque è un organismo coerente, razionale che riproduce regolarmente le proprie condizioni.
Secondo l'ipotesi di Marx, invece, l’equilibrio è sì un concetto ma è un caso, cioè entro determinate fasi si
riscontrano effettivamente meccanismi di equilibrio tra domanda e offerta, tra produzione, distribuzione e
consumo, ma questa situazione di equilibrio è un caso perché, poi, questo sistema economico, proprio
perché ha tre elementi costitutivi: produzione, distribuzione e consumo, questo sistema economico non
129
La scoperta che Marx compie, a questo riguardo, è che ogni 10 anni questo equilibrio si infrange e, dunque,
non è vero che esiste una produzione eterna, priva di antinomie. John Stuart Mill, un grande economista
che pure Marx apprezza, aveva teorizzato questo concetto di produzione eterna, priva di antinomie. John
Stuart Mill aveva teorizzato che il rapporto economico obbedisse a leggi eterne, naturali e che, invece,
soltanto la distribuzione (cioè il consumo, la circolazione dei beni) appartenesse all'elemento della storicità.
A giudizio di Marx, non è vero che il rapporto economico, che il rapporto sociale di produzione sia un dato
di natura eterno e quindi privo di elementi di contraddizioni; non è vero, cioè, che la storia non riguardi i
modi sociali di vivere e produrre.
Quindi nel 1857, con i Grundrisse, Marx è mosso da questo problema: anche la produzione economica è
storia, e non natura come invece postula John Stuart Mill, e quindi il suo problema è vedere i limiti
concettuali di metodo che caratterizzano gli studi dell'economia politica. Marx ha abbandonato le indagini
filosofiche, legge sempre meno libri prettamente filosofici, perché secondo la sua convinzione per decifrare
il funzionamento di una società occorre vedere la sua anatomia e l'anatomia di una società, ai suoi occhi, si
rivela attraverso lo studio approfondito delle leggi del sistema economico.
Secondo molti studiosi di Marx, ci sarebbe una scissione tra il giovane Marx, che si interessava di filosofia e
di logica, e il Marx maturo, della teoria elaborata da un marxista francese Althusser e ritenuta alla base di
una cosiddetta rottura epistemologica tra due Marx: uno filosofico, logico, attento alle dinamiche
antropologiche, e l'altro esclusivamente economico, attento alle tecniche di modi di produzione.
Altri interpreti hanno, invece, riscontrato che tra il Marx giovane, che abbiamo visto nella critica della
filosofia hegeliana del diritto pubblico, e il Marx maturo dei Grundrisse, non esista affatto questa cesura,
questa rottura epistemologica, proposta dal marxista francese Althusser.
Secondo la scuola italiana, ad esempio, di Della Volpe, esiste una profonda unità nelle analisi giovanili e
quelle poi successive, mature. Dunque non due Marx ma un profondo legame che si esprime in una
persistente concezione filosofica del metodo scientifico che rimane invariato tra i testi giovanili e quelli
della maturità.
Secondo alcuni studiosi, in particolare, quando Marx analizza la società civile, come base reale dello Stato,
ha introdotto, per il momento su un piano soltanto logico filosofico, il tema che poi esplorerà in età matura
attraverso gli strumenti dell'economia, cioè quella che prima era la società civile come sfera precedente lo
Stato diventerà, con un nuovo lessico, il modo di produzione, il rapporto sociale di produzione. Quindi la
continuità tra il Marx giovane, critico di Hegel, e il Marx maturo è in questa evoluzione del concetto di
società civile: la società civile diventa il rapporto sociale, le dinamiche materiali che precedono la sfera
politica e ne determinano le modalità di funzionamento.
Dunque l’istanza, che aveva formulato in età giovanile, per cui la società civile istituisce le forme della
politica, viene approfondita, su base scientifica, dal Marx maturo, critico dell'economia politica, quando
vede il rapporto sociale di produzione come la base materiale che determina il funzionamento di un
sistema sociale. In questo già è evidente, dunque, un elemento di connessione, ma quello che più conferma
questa teoria della unità tra il Marx giovane e il Marx maturo è l'introduzione scritta da Marx nel 1857,
chiamata l'introduzione metodologica, si tratta di poche pagine in cui Marx torna ad interrogarsi sulle
questioni del metodo della filosofia, della logica della scienza sociale e in questa introduzione del 1857 si dà
la più coerente formulazione da parte del Marx maturo delle questioni filosofiche e analitiche.
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Quello che Dussel aggiunge a questa ricostruzione fattuale dell’impiego di metafore bibliche, religiose in
generale, è la tesi per cui la teologia è una sorta di super scienza che consente di cogliere elementi che
l'analisi quantitativa, realistica, scientifica non può percepire in maniera chiara e distinta. Quindi, secondo
Dussel, l’impiego di metafore teologiche non è soltanto un espediente linguistico-letterario ma è un vero e
proprio tentativo di andare oltre il codice scientifico dell'economia per proporre un altro tipo di scientificità
a base teologico-metaforica. Questa lettura di Dussel se da una parte è molto interessante nel cogliere le
metafore religiose e teologiche che Marx utilizza per criticare le manifestazioni della modernità, dall'altro
però è discutibile questo tentativo di ricondurre Marx nel quadro di una teologia economica e quindi di un
approccio non scientifico.
Marx ha un rigoroso approccio scientifico, nelle sue intenzioni, perlomeno, non c'è quello di fare una
filosofia o una teologia ma, come noto, la sua intenzione era quella di dedicare il Capitale, la sua opera
fondamentale, a uno scienziato del tempo, Darwin. Darwin era ammirato da Marx, il quale ritiene che il suo
metodo è simile per molti versi al metodo darwiniano cioè, a giudizio di Marx, come Darwin ha mostrato
che nella natura esista una sorta di storicità o una evoluzione per cui da trasformazioni nel mondo animale,
naturale, emerge l'uomo come un prodotto e non come un'origine, così, Marx nel Capitale ha mostrato,
invece, la naturalità delle dinamiche storiche economiche e quindi l’intenzione di Marx era di dedicare il
suo lavoro scientifico a Darwin. Chiese l'autorizzazione e però dopo un certo momento di dubbio, pare su
sollecitazione della moglie, rifiutò questa autorizzazione a Marx di dedicare esplicitamente il suo lavoro a
Darwin per via della pericolosità di un legame con un autore che era guardato con una certa attenzione e
sospetto dal clima culturale dell’epoca.
Quindi non dedica a Darwin l’opera, ma un'impronta darwiniana è comunque presente: il concetto
darwiniano di specie come unità di individui e di una specie che evolve, si modifica è molto simile al
concetto marxiano di società. La società è la specie storico sociale chi unifica individui tra loro in rapporto e
come le specie naturali, se mutano le condizioni, gli individui, le dinamiche generali, evolvono, così nel
campo sociale il sistema della società muta se gli individui o i rapporti di produzione che li legano
reciprocamente, evolvono, si trasformano. Dunque Darwin ha visto la specie naturale in cambiamento, in
evoluzione e ha spiegato queste dinamiche con un metodo rigorosamente scientifico. Marx apprezza di
Darwin che non c'è più un'idea provvidenzialistica del mondo e della natura, cioè con Darwin viene
eliminata ogni teologia perché l'uomo, l'essere posto al centro del creato, non è il destino e il fine del
creato, ma è parte della natura, è inserito entro determinazioni che scavalcano qualsiasi progetto, qualsiasi
volontà.
Dunque, come Darwin vede nella natura l’evolversi di situazioni che fanno nascere e decadere specie, così
nella società e nell'economia è possibile cogliere i meccanismi di trasformazione e di nascita dei diversi
sistemi sociali. Quindi Darwin consente a Marx di rispondere a Stuart Mill e alla sua tesi di una società
caratterizzata da un modo di produzione sempre identico, senza storia. Attraverso il recupero di categorie
logiche darwiniane, Marx vede nell’economia i segni della storicità e dunque, nonostante ci sia sempre un
generale rapporto dell'uomo alla natura per avere la soddisfazione dei bisogni e quindi esiste una dinamica
invariante sempre esistente (non esiste un uomo che non abbia bisogno e non si rapporti alla natura per
avere cose da mangiare ed elementi vitali, la natura è la vita e non esiste società senza rapporto con la
131
Il rapporto sociale di produzione, per Marx, è l'insieme di questi due momenti: il rapporto dell'uomo alla
natura, per avere beni di prima necessità, non avviene con un rapporto individuale del singolo con la natura
ma avviene con la relazione tra il singolo con gli altri e quindi il rapporto uomo-natura è anche rapporto
uomo-uomo. Quindi Marx intreccia l’elemento invariante uomo-natura, che sempre esiste, con l'elemento
storico dinamico, cioè il rapporto uomo-uomo.
Il rapporto sociale di produzione è appunto questo: per vivere, soddisfare i bisogni e riprodursi
regolarmente, l’uomo entra in relazione e dentro queste relazioni sociali si soddisfano i bisogni e dunque
non esiste un unico rapporto invariante uomo-natura, ma diverse modalità di soddisfare i bisogni naturali.
Un conto è il rapporto uomo-natura nel mondo premoderno, nel mondo romano, nel mondo greco che
pure sono forme di civiltà e un altro conto è il rapporto uomo-natura della società medievale e un altro tipo
ancora di sistema sociale è quello moderno; quindi esistono più sistemi sociali, non esiste un unico
rapporto uomo-natura.
Il rapporto uomo-natura si esplica in maniera differente cioè entro forme storiche differenziate. Entro il
sistema sociale antico questo rapporto uomo-natura veniva attraverso il rapporto schiavistico; nel sistema
sociale attraverso il lavoro servile; nella società moderna attraverso il libero lavoro dipendente e attraverso
il rapporto di fabbrica o di produzione alle dipendenze di un'impresa. Dunque, tempo e storia dentro ciò
che invece per Stuart Mill era solo natura.
Altra tesi di Dussel è che, proprio in questi anni, Marx viene a contatto con una nuova copia, un nuovo
esemplare cartaceo della scienza della logica di Hegel. Dunque, secondo la tesi di Dussel, ma ripresa anche
da altri studiosi europei di indirizzo hegel-marxista, Marx rilegge la scienza della logica e da questa rilettura
delle categorie della logica hegeliana ricava le suggestioni, le indicazioni che poi metti a frutto nel Capitale e
nei Grundrisse.
Secondo questi autori, Marx fa una sorta di traduzione in un linguaggio economico sociale delle categorie
che Hegel aveva posto sul piano metafisico speculativo. Secondo questa scuola, Dussel ed altri, c’è una
letterale traducibilità della scienza della logica nelle categorie di critica marxiana dell'economia politica, per
cui Marx prende la scienza della logica e traduce in termini economici le categorie hegeliane.
Questa visione è naturalmente discutibile perché non si capisce allora qual è la rilevanza di Marx, basta
leggere Hegel per trovare la spiegazione dei processi sociali data attraverso non un lavoro di critica
dell'economia, ma attraverso il lavoro speculativo di scienza della logica. Inoltre, da questa interpretazione,
di Dussel e di altri, viene meno il carattere scientifico del lavoro di Marx. Se Marx si limita a mettere in un
linguaggio prosaico il linguaggio speculativo di Hegel, allora è un epigono di Hegel e non si comprende la
sua importanza dal punto di vista analitico.
Se, quindi, è un semplice traduttore in linguaggio economico di categorie hegeliane non scientifiche allora
non vale la pena approfondire la rilevanza analitica di Marx, ma si tratterebbe di un epigono, di un autore di
seconda mano e quindi la conseguenza ultima di questi approcci hegel-marxisti è che Marx lavora sulle
spalle di Hegel e tutto si può trovare già in Hegel, anche se Hegel non conosceva l'economia politica, non
aveva gli strumenti dell'economia però sul piano logico ha introdotto i concetti di quantità, qualità, essenza,
e Marx li traduce nelle categorie di interpretazione del sistema economico.
132
Prendendo, poi, per rilevante il problema sollevato da Dusserl e dagli hegelo-marxisti, ma è davvero
hegeliano il Marx che dopo gli anni 50 ha riletto la scienza della logica di Hegel e ha precisato di nuovo il
proprio punto di vista sulla logica, sul metodo di analisi della società moderna? Se vediamo come in effetti
da un punto di vista filologico si pone il problema, si può ricavare che la lettura di Dussel e degli hegel-
marxisti non è particolarmente fondata da un punto di vista filologico, perché l’introduzione metodologica
del ‘57 ai Grundrisse, che è il punto sistematico del concetto di Marx di metodo della scienza sociale,
mostra che Marx recuperi, in maniera quasi letterale, le critiche che aveva formulato a Hegel nel 1843 nel
testo giovanile della critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.
Dunque non è vero che Marx sia il traduttore economico della filosofia di Hegel, perché questo lo
renderebbe un autore di secondo piano. Inoltre, non è fondata, da un punto di vista filologico, la tesi di un
Marx che imposta in maniera completamente diversa, rispetto agli anni giovanili, la sua indagine di metodo,
il suo concetto di rapporto tra pensiero e realtà, tra logica e dato materiale. La critica della filosofia
hegeliana del diritto pubblico aveva un approccio di tipo aristotelico e quindi poneva il concetto di sostrato
alla base delle categorie del pensiero.
Le categorie del pensiero e quindi il concetto di infinito, di astrazione, nel giovane Marx erano ricondotti a
un elemento reale; l'astrazione, il predicato logico, era ritenuto una funzione del dato empirico o
aristotelicamente del sostrato, cioè il sostrato è ciò che esiste ed è indipendente dalle categorie logiche.
Questo era un Marx aristotelico del 1843 e in questo consiste la sua teoria della conoscenza di stampo
realistico materialista. Infatti per Marx il realismo e il materialismo è l'idea che la realtà non sia il prodotto
del pensiero, cioè l'idea che non sia accettabile Il concetto di Hegel, secondo cui, è il pensiero, la ragione,
che attraverso il movimento interno, un automovimento delle forme del pensiero, produce il dato empirico
reale. Secondo Marx non è in questo modo che si può analizzare la condizione sociale e il suo impianto
analitico presuppone che il pensiero è un elemento di sintesi, di rappresentazione ma non è un elemento di
creazione.
Nella critica del ’43, abbiamo visto la distinzione tra ratio essendi e ratio cognoscendi, è una distinzione che
Marx, attraverso la mediazione di Feuerbach, ricava da Kant, cioè un elemento di realismo e anche di
materialismo, paradossalmente, era presente in Kant quando aveva distinto tra pensare e conoscere, tra
pensare ed essere e tra la razionalità che costruisce forme e la razionalità che produce cose. La ratio
essendi è criticata da Kant perché è un concetto teologico che è lontano dai processi conoscitivi più raffinati
che Kant ricava dal sapere di Newton, dalla fisica moderna e così via, non è la ragione ad essere causa
essenziale, non è la ragione ad essere la ragion d'essere del mondo empirico. La ragione è, invece, ratio
cognoscendi, cioè produce forme, concetti, categorie, schemi trascendentali che possono servire per
conoscere il mondo ma non sono i miei schemi o gli schemi mentali a produrre il mondo. Il mondo è il dato
che bisogna comprendere nella determinazione empirico positive.
Queste istanze, che Marx aveva raccolto nel ’43, sono letteralmente presenti nell'introduzione del 1857, nei
Grundrisse, che mostrano come non sia fondata la tesi di Dussel e degli hegel-marxisti che vedrebbero un
Marx filosofo hegeliano e che questa copia cartacea del 1857, che gli consente una ripassata della logica
hegeliana, non è il fondamento di un ribaltamento dei canoni epistemologici fissati in gioventù. L’impianto
analitico giovanile viene riproposto e sviluppato nel campo dell'economia per comprendere il concetto di
rapporto sociale di produzione, che è il dato reale che non è prodotto dal pensiero, ma è il rapporto che
unisce due dimensioni: l'uomo con la natura perché l'uomo come ente naturale ha un corpo e una
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Quindi il rapporto sociale di produzione è l’insieme di queste due divisioni: uomo-natura e uomo-uomo,
cioè relazione sociale. Il mio sopravvivere è legato al mio svolgere una funzione, un contratto di lavoro ha
un rapporto necessario che mi lega a funzioni riproduttive e quindi è l'insieme di queste due dinamiche che
costituisce il rapporto di produzione.
Marx, a proposito di quello che chiama il metodo scientificamente corretto, scrive “nel metodo
scientificamente corretto, il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, dunque, unità di
ciò che è molteplice. Nel pensiero esso appare, quindi, come processo di sintesi, come il risultato e non come
punto di avvio, benché sia il reale punto di avvio e quindi anche il punto d'avvio dell'intuizione e della
rappresentazione. Seguendo la prima via la rappresentazione piena si volatilizza in determinazione astratta.
Seguendo la seconda, le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del
pensiero, per questo Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero che si
riassume e si approfondisce in se stesso e che si muove per energia autonoma. Mentre, il metodo di salire
dall'astratto al concreto per il pensiero è solo il modo in cui si appropria il concreto, lo riproduce come
qualcosa di spiritualmente concreto ma mai e poi mai esso è però il processo di formazione del concreto
stesso”.
Una pagina trasparente del rapporto di Marx con Hegel e imposta quindi, in forme molto diverse da quelle
suggerite da Dussel e dagli hegel-marxisti, il problema della conoscenza in Marx. Marx recupera,
nell'introduzione del ‘57 dei Grundrisse, le stesse determinazioni del periodo giovanile e il metodo
scientificamente corretto, secondo Marx, consiste nel distinguere tra il pensiero che conosce e il pensiero
che fonda.
Siamo, quindi, in un'ottica kantiana, infatti, quando dice “avvio dell'intuizione e della rappresentazione”, il
concetto di intuizione e di rappresentazione sono concetti Kantiani che mostra che l'intuizione e la
rappresentazione non siano prodotti del pensiero, ma il pensiero presuppone l’intuizione come elemento
della sensibilità. L’intuizione è il rapporto con la cosa, con l'elemento empirico, che per Marx è
indipendente dal pensiero stesso. Il pensiero dà rappresentazioni, unità, sintesi ma non produce le cose che
organizza per ricavarne categorie e rappresentazioni.
Dunque, Marx dice che il metodo scientificamente corretto non significa rinunciare al pensiero e
all’astrazione ma fondare su basi critiche, scientifiche, le funzioni del pensiero e il momento della
astrazione. Secondo Marx c’è un metodo come quello di Hegel e c'è invece un metodo diverso da quello di
Hegel che Marx ritiene il metodo scientificamente più corretto.
Il metodo di Hegel, che quindi non è quello scientificamente corretto, è per Marx quello che fa del pensiero
il produttore del mondo. Per Hegel, dice Marx, il reale è il risultato del pensiero e quindi la realtà empirica,
l'intuizione sensibile, il mondo reale, in Hegel appare come il risultato di una forma, di un pensiero che si
differenzia e che attraverso atti, movimenti interni al pensiero, determina il mondo reale. Per Marx questo
è un metodo non scientifico e quindi in Hegel c'è l'astrazione, il pensiero, le categorie, ma questi livelli di
astrazione, di pensiero non raggiungono un inquadramento per Marx scientifico corretto perché il pensiero
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Il processo di ipostasi, di ipostatizzazione, che Marx criticava nel testo giovanile, si presenta pari pari in
questo testo che dovrebbe, invece, documentare secondo Dussel la conversione di Marx alla scienza della
logica hegeliana. Il reale non è il prodotto del pensiero, in Hegel quindi il pensiero è ipostasi perché
attraverso il pensare, attraverso la differenziazione della ragione, Hegel vedeva il nascere del mondo reale,
dallo spirito che si differenziava scaturiva il mondo storico reale. Per Marx le idee non sono delle ipostasi
ma sono delle idee ipotesi. Dunque, ipostasi è quella hegeliana, per cui il pensiero differenziandosi produce,
è la ratio essendi, cioè la ragione pensando crea, è un essenza produttiva; per Marx, invece, il pensiero è
kantianamente solo un momento di organizzazione, è un’ipotesi, è una rappresentazione che serve per
conoscere ma non per creare, ciò che bisogna conoscere è dato in un mondo indipendente dal pensiero e
quindi, dice Marx, è vero che dal punto di vista della conoscenza, la realtà è ciò che io filtro, determino,
attraverso schemi, concetti, sintesi teoriche e quindi il pensiero dà della realtà una interpretazione, un
meccanismo ipotetico di organizzazione delle relazioni per essere comprese. Ma, appunto, il fatto che la
realtà sia mediata da forme del pensiero e da ipotesi interpretative, è un aspetto che mostra il carattere
costruttivo del pensiero, è il pensiero che costruisce astrazioni e che quindi osservando il molteplice, il
mondo reale, seleziona, individua fatti importanti e li isola rispetto a fatti meno essenziali e quindi il
pensiero produce le astrazioni, ma appunto produce le astrazioni, i concetti, ma non produce il mondo.
Le astrazioni sono, per Marx, dei modi concettuali per comprendere il concreto, come molteplice che va
unificato per avere un significato, un inquadramento concettuale coerente. Ma il pensiero che organizza il
dato e fornisce schemi, rappresentazioni, idee interpretative, non produce queste cose ma le deve
semplicemente spiegare, è una ratio cognoscendi.
Quindi in Hegel, il pensiero è ipostasi, cioè pensando, differenziando, produce; per Marx il pensiero è
un'ipotesi che differenziando, organizzando, selezionando, fornisce una tipologia, un’astrazione.
L'astrazione di Marx è il pensiero che conosce attraverso strumenti interpretativi, attraverso filtri e ipotesi,
ma secondo Marx il reale è però indipendente. Dunque esiste un reale del pensiero e un reale dato, il reale
del pensiero è il primato organizzativo del concetto che Marx riconosce, per Marx non si tratta di negare il
concetto e l’astrazione ma di cogliere i concetti e l’astrazione come ipotesi scientifiche verificabili e quindi è
vero che il reale viene filtrato, selezionato dal concetto, ma poiché il reale è dato, il concetto se non filtra
bene, con categorie adeguate, il reale, bisogna che sia cambiato, corretto e quindi il reale è, per Marx, il
sostrato, è ciò che bisogna comprendere, il reale quindi è ciò che è dato e non è un prodotto del pensiero.
Hegel aveva distinto intelletto e ragione: l’intelletto, per Hegel, era quello delle scienze empirico naturali,
dei sapori speciali e aveva un concetto negativo, era un lavoro intellettuale che vedeva soltanto singole
determinazioni, non coglieva gli elementi più importanti dell'intero. Gli elementi più importanti dell'intero
erano affidati al concetto di ragione.
Quindi in Hegel c'era una contrapposizione tra l'intelletto, come un metodo scientifico che non ha un
grande valore conoscitivo reale e poi la ragione che invece era la sintesi, l’unità dei contrari e aveva il
privata primato rispetto al sapere empirico dell'economia, della fisica e così via. Per Marx bisogna ristabilire
il primato dell’intelletto nel campo delle discipline economico sociali e quindi il metodo scientificamente
corretto è il richiamo, dunque, ad un sapere positivo, scientifico, che, secondo Marx, bisogna assicurare per
comprendere la realtà.
A proposito di questo concetto di pensiero e di totalità, emerge tutta la differenza tra Hegel e Marx. Questi
autori neomarxisti di scuola hegeliana sostengono che mentre l'intelletto separa, coglie aspetti particolari,
la totalità che Hegel invita a cogliere vede invece lo sguardo unitario complessivo. Quindi, secondo questi
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Nella pagina seguente dell’introduzione dei Grundrisse, Marx smonta proprio questa idea dei neomarxisti di
scuola hegeliana perché ritiene che il concetto di totalità non sia l'intero nel senso hegeliano. La totalità in
Hegel o l'intero, la totalità delle condizioni è la ragione di ipostasi, è la ragione che unifica i contrari ed è la
ragione che tiene tutto perché prodotti della spiritualità sono i dati empirico reali. Per Marx la totalità non è
questo intero hegeliano che si differenzia a partire dall'uno o ragione.
Per Marx la totalità è l’insieme di aspetti particolari che bisogna mettere in relazione se si vuole
interpretare coerentemente il sistema sociale. Quindi in Hegel la totalità è una categoria metafisica,
filosofica, è la ragione che è tutto perché produce il mondo reale come una sua dipendenza; per Marx la
totalità non è questa ragione che è il tutto che si differenzi, ma la totalità è quello che Marx chiama anche il
sistema cioè la totalità di Marx è economia, politica, diritto, cultura, come elementi specifici di un tutto.
Dunque la totalità hegeliana è la ragione come unità che si differenzia e poi ritorna in se stessa e quindi è
un circolo dentro la ragione; la totalità, per Marx, è il sistema sociale moderno come insieme di aspetti
differenti, l'economia, produzione di beni, la politica o organizzazione statale della convivenza, il diritto o
forma giuridica dei contratti degli scambi e i prodotti culturali, simbolici, letterari. Dunque la totalità
significa questa realtà di un intreccio tra elementi specifici, quindi non l’intero hegeliano ma il sistema
sociale come unito in differenti elementi.
Questo è il problema che Marx coglie, dice, “la totalità concreta come totalità del pensiero, come un
concreto di idee, è effettivamente un prodotto del pensare, del comprendere, in nessun caso è però un
prodotto del concetto che pensa al di fuori o al di sopra dell’intuizione e della rappresentazione e che genera
se stesso bensì delle elaborazioni in concetti dell’intuizione e dell'immagine. La totalità, quale essa appare
nel cervello come totalità di idee, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nell'unico
modo che gli è possibile, un modo differente dall'applicazione artistica, religiosa, pratico spirituali di questo
mondo. Il soggetto reale continua a sussistere prima e dopo nella sua autonomia, al di fuori del cervello
finché infatti il cervello mantiene un atteggiamento soltanto speculativo, soltanto teorico. Anche nel metodo
teorico il soggetto, la società, deve quindi costantemente essere presente alla rappresentazione come
presupposto”.
Quindi è molto evidente qual è il problema di Marx: è proprio la riduzione del problema della società a
oggetto specifico di indagine. Marx ritorna alla formula giovanile della logica specifica dell'oggetto specifico.
Marx dice che c'è una totalità, un pensiero che guarda alla connessione, al sistema e questa totalità è un
prodotto del pensiero perché per Marx è il pensiero che produce le astrazioni formula le ipotesi e
interpreta le cose e quindi un concetto non è mai tangibile, il concetto per Marx non è una cosa, ma è un
tipo ideale.
Weber, in questo, non si distanza molto da Marx. C'è una certa affinità tra il concetto di tipo ideale di
Weber e il concetto di astrazioni determinata di Marx. Comune ad entrambi è il riconoscimento che l'analisi
sociale formula astrazione. La differenza non è che Marx attribuisca al concetto, il significato di cosa, il
concetto di capitalismo non significa che esista una cosa capitalismo, il concetto di capitalismo è una
astrazione, è quindi una sintesi concettuale di molte determinazioni (Weber la chiamerebbe tipo ideale).
In Weber il tipo è soltanto ideale, cioè una costruzione dell'osservatore che in Weber non si presenta in
forme storiche. Secondo Weber, il tipo ideale, o l'astrazione di Marx, è un qualcosa di costruito
dall’osservatore e che non ha determinazioni storico puntuali. In Weber, ad esempio, il tipo ideale, come
costruzione logica, significa che in ogni epoca esiste un qualcosa che si chiama capitalismo e secondo
Weber esiste un capitalismo antico, un capitalismo feudale, un capitalismo medievale perché il tipo ideale è
un concetto prodotto artificialmente dall’osservatore a cui non corrisponde nulla di discriminante.
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Per Marx non esiste un capitalismo antico e si rapporta con questo ha uno storico del diritto Mommsen, il
quale aveva un po’ le stesse tendenze generalizzanti di Weber di vedere la storia come un invariante. Per
Marx non esiste un capitalismo antico, esiste il capitalismo solo nel tempo storico moderno.
Ciò significa che sia Weber che Marx ricorrono al concetto di astrazione, non c'è conoscenza economico
sociologica senza l'astrazione, senza un concetto. Ma per Weber si risolve qui il lavoro critico, è il soggetto
che indaga, l'osservatore, l'analista, che costruisce i suoi tipi, i suoi concetti e questi tipi sono dei giochi
mentali, dei prodotti logici e quindi in tutte le epoche esiste un potere, un partito (per Weber il partito
politico non è la realtà del 900) esiste sempre il partito così come esiste sempre la burocrazia, esiste sempre
il capitalismo e sono astrazioni indeterminate senza radici storiche precise. Per Marx, invece, le astrazioni
esaltano il fattore pensiero, l’elemento creativo del concetto, Marx è contro il puro senso comune, è contro
la scienza intesa come pura riproduzione passiva del dato.
Marx esalta il lavoro creativo del concetto, il lavoro selettivo dell'astrazione, ma questo lavoro selettivo
dell’astrazione non approda in Marx a vedere invarianti assolute. Per Marx l'astrazione è determinata, cioè
valida entro un solo sistema.
Dunque, per Weber come anche per Stuart Mill, i concetti sono leggi generali ovunque riscontrabili; per
Marx i concetti, per avere un significato conoscitivo, devono essere delimitati, determinati, logica specifica
dell'oggetto specifico, ciò vuol dire che non approdo a una conoscenza scientifica parlando di capitalismo
nel mondo romano o nel mondo greco, ma ho un approccio scientifico se vedo questo concetto, questo tipo
come possibile soltanto entro determinate condizioni.
Quindi, in Marx, il tipo, o astrazione, significa che la realtà indipendente al di fuori del pensiero fornisce
informazioni o intuizioni e rappresentazioni che bisogna cogliere nel processo di elaborazione dei concetti.
Secondo Marx, le intuizioni e le rappresentazioni sono in grado di fornire informazioni per delimitare il
concetto e, dunque, non il tipo ideale weberiano, ma il tipo ideale storico è quello che Marx intende
ritagliare. Questo tipo ideale storico postula che il sistema sociale costruito dal concetto sia poi un sistema
che poggia su alcuni elementi per essere elaborati, cioè il concetto di capitalismo, per Marx, non può
nascere nella mente di Aristotele, che pure era un genio straordinario, perché non si tratta di un concetto
come pura produzione mentale. Il concetto di capitalismo, dice Marx, o il concetto di valore non è presente
in Aristotele, non per un limite del cervello di Aristotele, che è un genio assoluto, ma perché nella sua realtà
greca non c'erano quelli che lui chiamerebbe i modi dell'intuizione della rappresentazione che
consentissero la produzione di un concetto come quello di capitalismo.
Dunque, secondo Marx non è possibile produrre, in ogni tempo, un concetto come quello di capitalismo. Il
concetto di capitalismo, dunque, nasce soltanto entro un determinato assetto sociale. Non è un tipo ideale
che weberianamente è costruibile a prescindere dal tempo, ma è un concetto che soltanto entro un tempo
storico, quello più sviluppato, è possibile elaborare.
Dunque, secondo Marx, il tipo ideale o astrazione è un'astrazione che, lavorando con intelligenza sui
processi, coglie le informazioni per dire questo fatto va interpretato in questo modo e sulla base di questo
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29/04/2021
Abbiamo già visto che una tendenza molto forte negli studi su Marx cerca di ricondurre alla rilettura, da
parte di Marx, della scienza della logica di Hegel, la stesura dei Grundrisse, secondo quindi un modello di
applicazione lineare di categorie, metafore della filosofia hegeliana nell'ambito della economia politica.
Questa tendenza fa di Marx più un applicatore di categorie filosofiche, che non un analista empirico della
società moderna quali egli stesso intendeva essere; Marx non voleva fare filosofia speculativa, intendeva
invece definire un metodo scientifico di indagine della società moderna e questa introduzione del 1857
conferma la distanza di Marx rispetto a Hegel. Una distanza che dal punto di vista logico filosofico risiede in
questo: per Marx le astrazioni, le idee sono strumenti conoscitivi, sono funzioni selettive organizzative di
materiali che esistono al di fuori del soggetto che indaga. Per Hegel, invece, le idee sono delle ipostasi, nel
senso che le idee, attraverso meccanismi interni di differenziazione e di movimento, producono le entità
reali.
Dunque, in Marx il pensiero appartiene alla categoria che presuppone il mondo, la società, come altro
rispetto alla mente, al soggetto, all' idea; per Hegel non esiste questa alterità positiva del mondo empirico
ed è questo il rimprovero che Marx ribadisce nella introduzione ai Grundrisse, cioè Marx rivendica che le
categorie, alle quali il teorico, il sociologo, l'economista ricorre sono categorie elaborate, non in maniera
libera dal materiale, ma sono categorie che devono descrivere oggetti che la mente non produce. La mente
comprende le relazioni, cerca di individuare le leggi di funzionamento di un sistema sociale, ma appunto,
secondo Marx, il sistema sociale ha delle regolarità che sono indipendenti dal sociologo, dall'economista
che studia.
A giudizio di Marx, il soggetto, ovvero la realtà, è esterna, data, indipendente dalla mia volontà e dall'idea,
dal pensiero che io ho dell'oggetto. Pensare non significa conoscere, questo lo aveva già formulato Kant, io
posso anche pensare cose contraddittorie, immagini non realistiche, ma pensare è altro da conoscere e
conoscere è un pensare che tende ad esplorare i modi di funzionamento di una realtà sociale, empirica,
naturale.
Dunque, PENSARE, come diceva Kant, può anche pensare antinomie e quindi la ragione che pensa senza
preoccuparsi di conoscere, ad un certo punto approda alle antinomie e risolvibili.
Il CONOSCERE, invece, non può approdare a antinomie, a enigmi insoluti, perché il conoscere indica una
modalità di costruzione del pensiero riferita a enti reali che sono indipendenti dal pensiero.
È, in Marx, presente la stessa istanza kantiana secondo cui, come si esprimeva Kant, per conoscere gli
elementi sono due: il pensiero e l'aggiunta del sensibile. Anche per Marx, gli elementi del pensiero sono
due: il pensiero, le astrazioni, le costruzioni logiche e poi l'aggiunta del sensibile, ovvero quello che Marx
chiama l'oggetto sociale reale, indipendente dalle idee, dai pensieri. Pensiero ed enti reali sono eterogenei
e sono entrambi fattori positivi, costruttivi, perché Marx ritiene che il pensiero deve selezionare, filtrare,
eliminare cose inessenziali per comprendere la realtà.
Dunque, Marx non è un empirista che ritiene il pensiero puramente passivo, non aderisce alla teoria per cui
il pensiero è il riflesso della realtà, ma il pensiero organizza, seleziona, costruisce modelli entro cui la realtà
viene ricompresa. Quindi, Marx esalta il carattere costruttivo positivo del pensiero, però, questa esaltazione
convive con l'analogo riconoscimento che il reale è anch'esso positivo, che la realtà non è una costruzione
del pensiero, ma è una entità che bisogna conoscere perché non l'ho prodotta io con le mie categorie.
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Dunque, secondo Marx, il pensiero costruisce le leggi, identifica rapporti di causalità, indica meccanismi
logici di connessioni. Questi meccanismi logici di connessione, però, suppongono che il mondo dei rapporti
sociali reali costituisca un dato oggettivo e che quindi le categorie, se non prendono il reale nella sua
regolarità effettiva, descrivono, in maniera non scientifica, non euristicamente solida, la realtà.
Dunque, secondo Marx, la logica è indispensabile per comprendere la realtà, ma la logica è funzione
conoscitiva non è il prodotto che crea l’oggetto, come invece riteneva Hegel. Quindi il problema di Marx
diventa esattamente questo: come costruire delle categorie scientifiche nel campo della società e della
economia? Dunque, non filosofia, non idea hegeliana di totalità, ma un concetto diverso di totalità e di
sistema sono al centro del procedimento teorico di Marx.
Quindi, visto che non esiste conoscenza senza pensiero, e quindi senza astrazioni, senza definizioni, senza
categorie, il problema di Marx diventa quello di cercare di definire come le categorie vadano organizzate
perché risultino efficaci dal punto di vista esplicativo.
Quindi il problema di Marx nei Grundrisse è lo stesso che aveva affrontato nel periodo giovanile, cioè come
nel primo Marx, l'astrazione andava determinata per definire una logica specifica dell'oggetto specifico e
quindi le astrazioni erano ritagliate su enti determinati, singoli, su enti reali, diceva Marx, riprendendo il
termine aristotelico; anche il secondo Marx, quello dei Grundrisse, che secondo il filosofo francese è invece
al di fuori della cornice teorica giovanile, perché avrebbe operato a partire già dal ‘45 una rottura
epistemologica per cui esisterebbe un clima e un secondo Marx, questa dottrina di Althusser della rottura
epistemologica tra un Marx giovanile e un Marx maturo non regge alla prova di tentativi interpretativi che
mostrano altri elementi, alla luce dei quali dal punto di vista epistemologico, il pensiero di Marx non muta
nei punti essenziali; non esistono due epistemologie, la prima giovanile antihegeliana e la seconda di altra
natura con modelli ritagliati sulla scienza della logica hegeliana.
L'impianto di Marx rimane identico e presuppone che le astrazioni, senza di cui non si conosce nulla, siano
sempre da determinare, cioè da costruire in riferimento a enti, situazioni, problematiche specifiche.
Ciò che dunque unifica i due Marx, che Althusser ha separato da un punto di vista epistemologico, è
esattamente questo livello della astrazione come determinazione o specificazione. Ciò vuol dire che le
astrazioni, secondo Marx, per avere una capacità di spiegazione devono essere ritagliate su enti e situazioni
specifiche e quindi le astrazioni sono riferite a enti reali specifici, non a tutti gli enti. Cioè, a giudizio di Marx,
esiste un qualcosa che accomuna l’economia politica e la logica hegeliana: sia l'economia politica che la
logica hegeliana hanno il vizio dell’astrazione indeterminata, vale a dire che l’economista, come il filosofo
speculativo, parla di idee in generale, di società in generale, di economia in generale, di potere in generale.
Secondo Marx, la definizione generale valida per tutte le epoche, si può anche fare, si può anche fare
ricorso a che cosa sia la produzione in generale e quindi colgo in una definizione sintetica, molteplici
evoluzioni storiche che però restano, secondo Marx, diverse. Quindi l'astrazione indeterminata o generica,
che è propria di Hegel e dell'economia politica, secondo Marx, va smontata criticamente, perché parlare di
Stato in generale o di produzione in generale significa accontentarsi di elementi poco significativi, cioè se io
dico lo Stato è quell'entità coercitiva e quindi elementi di coercizione c'erano nella polis antica, nell'impero
della Repubblica, della monarchia romana, nella città medievale e nelle strutture dell'assolutismo e anche
oggi negli Stati costituzionali, ho detto un elemento comune, ma non ho specificato quello che per Marx
conta di più, cioè cosa differenzia i vari enti, i vari istituti, le varie fasi storico sociali.
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A giudizio di Marx non si può, dunque, fare una scienza generale eterna, perché questo cogliere l'elemento
generale eterno significa semplificare il modello esplicativo; perché, bisogna pensare in questi termini:
accostare la critica di Marx a Ricardo, Smith e Hegel, al passaggio critico che si ha con Einstein quando passa
dalla relatività generale alla relatività speciale e quando critica Newton. C'è una somiglianza tra la critica di
Einstein alla fisica classica e la critica di Marx all'economia politica classica e la affinità principale risiede in
questo: secondo Einstein, la relatività speciale rende inservibile le categorie di spazio e tempo assoluto
messo a punto da Newton, le quali non è che non sono valide, ma ritengono di essere valide in tutti gli
spazi, in tutti i sistemi di riferimento sebbene siano stati elaborati alla luce di uno specifico sistema, ossia
quello terrestre. Quindi secondo Einstein bisogna definire una teoria non generale, non un'astrazione
generale di spazio e tempo assoluto, ma rendere queste categorie di spazio e di tempo riferibili a sistemi
specifici di riferimento.
Quindi la relatività significa non che lo spazio e il tempo di Newton non siano veri, ma che quelle nozioni di
spazio e di tempo sono vere soltanto entro un sistema determinato, non sono valide per ogni sistema e che
quindi è possibile comprendere spazio e tempo soltanto riferendoli ai diversi sistemi presi come punto di
osservazione; io non posso applicare le coordinate spazio temporali create da Newton nel sistema terrestre
in un altro sistema, perché non avrebbero traducibilità in quei sistemi retti da altre coordinate.
Lo stesso concetto dal punto di vista metodologico, lo possiamo ritrovare nella critica di Marx a Ricardo e
all'economia politica classica. Secondo Marx, il limite dell'economia politica classica è pensare che esistano
leggi generali eterne valide per tutti i tempi, cioè per tutti i sistemi sociali di riferimento. Marx non nega che
le categorie di Ricardo abbiano un fondamento scientifico, anzi, è un ammiratore di Ricardo, raccogliere
l’insegnamento di Ricardo e apprezza il suo cinismo, il cinismo di Ricardo è ammirato da Marx, perché il
cinismo di Ricardo significa descrivere le leggi dell'economia senza nessun infingimento o finta indignazione
morale. Il cinismo di Ricardo fa parlare i fatti, le relazioni così come sono, perché non intromette morale,
religione o altre considerazioni. Quello che Riccardo intende cogliere sono le regolarità, le leggi
dell'economia e queste leggi sono ciniche, come il linguaggio che le esprime perché è cinico il mondo, non il
linguaggio di Ricardo che cerca di comprendere come questo mondo sia funzionante attraverso leggi
economiche.
Quindi, Marx apprezza Riccardo, la sua apertura, il suo realismo, il suo disincanto, ma gli rimprovera un
difetto di metodo, fa un rimprovero di tipo scientifico, ritiene che il paradigma di Riccardo, sia
scientificamente debole nella misura in cui pensa che esista la produzione in generale, il capitale in
generale, il consumo in generale, cioè nella misura in cui pretende che il sistema antico funzioni con le
stesse regole economiche del meccanismo sociale moderno.
Quindi il rimprovero che Marx formula è di carattere epistemologico, l'economista Ricardo, come Hegel in
campo filosofico, pensano che siano fertili delle astrazioni indeterminate valide in ogni tempo e in ogni
spazio. Secondo Marx, la produzione in generale per quello che di sensato può avere questo concetto, ha
un significato riassuntino sintetico ma non scientifico. Dicendo che la produzione è questo, lo Stato è
questo, non ho compreso realmente il funzionamento delle varie fasi della produzione e della
organizzazione politica del potere.
Dunque, agli occhi di Marx, il limite della economia politica è un limite epistemologico: la incapacità di
cogliere sistemi storici relativi e quindi naturalizzare il rapporto economico. È questo il rilievo critico che
Marx fa sia verso Stuart Mill sia verso Ricardo. Da questi due grandi economisti, da cui prende molto Marx,
140
Quindi, si possono anche ricavare delle definizioni generali purché, dice Marx, entro una definizione
generica si confondano cose che non devono essere confuse e quindi la definizione generica va sorretta
dalla definizione specifica e l'analisi scientifica, per Marx, è sempre specifica, mai di carattere generale.
Quindi, le astrazioni che Marx formula sono astrazioni di un tipo particolare, non sono generali,
indeterminate, ma sono astrazioni che si riferiscono ad un elemento temporale determinato.
Marx nell'introduzione al Grundrisse: “Le astrazioni più generali sorgono solo dove più ricco è lo sviluppo
concreto, dove un elemento appare come l'elemento comune a molti, comune a tutti. Allora esso cessa di
poter essere pensato solo in forma particolare. Quindi l'astrazione più semplice, che l'economia moderna
colloca al vertice che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare però
praticamente vera in questa sua astrazione solo come categoria della società più moderna”. Conclude Marx,
questa parte: “Le categorie più astratte, sebbene siano valide proprio a causa della loro estrazione, per tutte
le epoche, in ciò che vi è di determinato in questa estrazione stessa sono tuttavia il prodotto di condizioni
storiche e hanno piena validità soltanto all'interno di tali condizioni storiche.”
Quindi, l'astrazione storica, l'astrazione determinata. Perché, a giudizio di Marx, le definizioni degli
economisti che partono appunto da definizione generale, il capitale è questo, il consumo è questo,
riconcorrono in questo problema: le astrazioni generali sono possibili soltanto alla luce dei rapporti più
sviluppati, solo partendo dalla modernità, e quindi dalla società più complessa e articolata, si possono
cogliere elementi che sono presenti anche in altri contesti storici.
Quindi la categoria di capitale, certo esiste il capitale anche in Roma antica, in Grecia, nella società feudale,
ma la differenza che Marx coglie è che il capitale nel mondo antico non era elemento determinante del
sistema sociale, così come il sistema economico romano e il sistema economico feudale non avevano il
capitale come sistema di riferimento, come principio organizzatore centrale.
Quindi il problema di Marx è questo: definire astrazioni riferite alle condizioni storiche. Come riferire
queste astrazioni alle condizioni storiche e su quali basi? Non in base a divisioni arbitrarie, ma in base alla
individuazione di quello che per lui costituisce l'elemento rilevante, il fatto tipo.
Nel mondo antico, il capitale è presente, così come forme di economia commerciali ma non sono,
l'elemento tipico su cui è organizzata l'intera società, quello che caratterizza la società antica, ha come
elemento tipico distintivo il lavoro schiavista e quindi quello è il principio fondamentale su cui si può
comprendere quel tipo di sistema. Applicare le categorie moderno a quel tipo di sistema non serve molto,
agli occhi di Marx, perché le categorie moderne, introdotte per spiegare il mondo antico, incorrono in un
problema di provvidenzialismo storico, cioè di cogliere nelle fasi antecedenti il puro e semplice segnale di
un'anticipazione. Secondo Marx, non esiste una scienza sociale che colga anticipazioni del moderno in altre
epoche storiche, ciascuna epoca storica va indagata secondo i principi organizzativi.
141
Secondo Marx, occorre che le categorie di Aristotele sulla schiavitù per natura vengano prese come
categorie storicamente limitate a quel sistema; il fatto che Aristotele non poteva avere una considerazione
diversa, e quindi vedere altre possibilità di organizzazione della vita, limita i suoi concetti e li rende poi non
verificabili, perché altre organizzazioni della società sono state possibili.
La stessa cosa, dice Marx, si ha con gli economisti classici che fanno proprio come Aristotele: assumono il
loro mondo e le categorie del capitale, che hanno indagato da vicino, come naturali ed eterne. Per
Aristotele naturale era la schiavitù; per gli economisti classici, naturale è il capitale. Marx contesta questo
tipo di impostazione, cioè il capitale è una categoria generale nata però in un sistema particolare che non
esisteva ai tempi di Aristotele e nelle società premoderne, dunque, bisogna recuperare quella che Marx
chiama “capacità autocritica”.
L'autocritica è l'astrazione determinata che assume il mondo esistente non come eterno. Quindi, il
principale compito, che Marx si prefigge con la critica dell'economia politica, è la denaturalizzazione delle
categorie; le categorie degli economisti non sono eterne, ma sono espressione teorica, sono astrazioni
ricavate dentro il tempo presente.
Allora il rimprovero che Marx fa a questi teorici è di avere delle astrazioni generali che però hanno
informazioni solo moderne. Quindi le astrazioni costruite da Ricardo, suppongono non la società antica che
non poteva permettere di pensare in termini di capitale, profitto, rendite, ma ha di fronte la concreta
società moderna, e però questa concreta società moderna viene assunta come la società in generale, base
di astrazioni sempre valide.
Dunque, a giudizio di Marx, il limite di Ricardo è di non avere la consapevolezza della relatività storica delle
categorie economiche che così acutamente elabora. Ricardo, cioè, assume che le categorie siano eterne,
che le categorie nate nella società moderna siano prive di possibilità evolutive ulteriori; c'è stata storia,
adesso non c'è più possibilità di ulteriori cambiamenti.
Quindi il rimprovero che fa è lo stesso che farebbe Einstein a un fisico che dà le coordinate spazio-temporali
di questo mondo, a un altro sistema di riferimento; quelle categorie non avrebbero alcun rilievo scientifico,
perché altre coordinate spazio-temporali sono inesistenti in altri contesti.
Dunque, il problema che Marx solleva è determinare le astrazioni evitando generalità secondo le quali non
esistono sviluppi dopo un proprio sistema. Per Aristotele, il proprio sistema era l'ultimo; per l'economia
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La storicità delle categorie, agli occhi di Marx, smentisce la pretesa di leggi naturali eterne. Il fatto che la
schiavitù fosse naturale per Aristotele non viene confutata da motivi ideali o etici, ma dallo sviluppo storico
reale che distrugge un meccanismo economico antico e dunque i sistemi sociali sono molteplici e in
evoluzione. Il problema di Marx è di comprendere come costruire un concetto specifico di sistema sociale e
poi vedere come mutano nel tempo i sistemi sociali, perché l'ottica temporale critica è centrale nella sua
ricostruzione.
Si è visto come lo sforzo di Marx sia quello di definire le condizioni per cui anche il moderno sia in grado di
comprendere se stesso come un elemento storicamente transitorio questo è quello che lui chiama
“l'autocritica della società”, cioè definire categorie in grado di percepire che il mondo più complesso e più
sviluppato è esso stesso un prodotto storico contingente, non è l'assoluto, non è il generale.
Il moderno sviluppa, invece, la pretesa di essere il generale, di aver terminato l'elemento temporale, quindi
dice Marx, entra in una concezione per cui il moderno concepisse la storia precedente come la storia di
tentativi ed errori che avevano una direzione, quella di portare al trionfo della modernità.
E quindi l'idea di progresso, di senso, confonde le dinamiche sociali reali perché applica a processi oggettivi
una direzione, una linearità e quindi valori, scopi.
Marx, elimina questi concetti di valori, di scopo, applicati nella indagine storico sociale, perché anche il
moderno, dunque la società più complessa, più sviluppata, piena di articolazioni informali, è un dato
storico, non è un elemento di natura, non è il genere, ma è una specie, non è ciò che è sempre stato e
sempre sarà, ma è un tempo particolare che si è sviluppato entro determinati rapporti e quindi suppone
una dinamica materiale che è ricostruibile criticamente.
Ma come ricostruire criticamente, le dinamiche, le basi sociali che possibile utilizzare per setacciare i fatti e
delineare un sistema di riferimento? Questo è il senso del lavoro di Marx: determinare entro le epoche
diverse quale è, tra i molteplici fatti, quel rapporto empirico che ha più rilevanza; e quindi dire che gli enti
reali sono indipendenti dal pensiero e hanno una positività, non significa poi ritenere che tutti gli enti reali
siano equivalenti, che tutti siano dello stesso valore esplicativo.
Dunque, qual è il fatto che consente di costruire categorie interpretative più adeguate alle modernità?
Anche nella modernità ci sono negozi, rapporti alimentari, lavori improduttivi, sfere di lavoro che ci sono
sempre stati. Quindi se voglio cogliere il tempo moderno non posso prendere in considerazione quello che
c'è sempre stato, il quale non mi darebbe informazioni utili per segnare una differenza, tracciare un punto
distintivo dello sviluppo storico sociale. Devo vedere qual è il tratto che, sebbene presente in altre epoche,
oggi è diventato quello dominante. Questo è il rapporto sociale di produzione che è il concetto cardine che
Marx mette a punto.
Quindi ogni epoca storica è definibile come una totalità o sistema unitario costruito sulla base di un
elemento cardine nel rapporto sociale di produzione. E nel tempo moderno il rapporto cardine che ha un
principio fondamentale di organizzazione della vita complessiva è il capitale.
Il capitale esiste in tempi moderni come il fattore dominante, per cui, per descrivere la modernità, il
rapporto dominante del moderno, secondo Marx, è il capitale, (per questo il suo libro maggiore si intitola Il
Capitale) è il principio dominante che conferisce a tutto il sistema una sua impronta, una sua coerenza.
Spesso si dice che il rapporto di produzione denoti un concetto di determinismo; determinismo e monismo
come caratteristiche del sistema esplicativo di Marx.
143
Ciò significa, non che ci sia un determinismo immediato, ma che, ad esempio, Marx nell'introduzione
Grundrisse fa un esempio: “la rapina c'è sempre stata, ma questo concetto generale di rapina può essere
scomposto e quindi assumere un significato molto più penetrante, soltanto se attraverso i suggerimenti del
concetto di produzione, riferisco la rapina ad una cosa specifica; la rapina è tale sia si va ai popoli primitivi
che vivevano di rapina, sia se si fa riferimento a qualcosa d'altro, ma un conto è la rapina in un tempo
primitivo, un altro conto è la frode per una società per azioni, per un’impresa moderna differenziata e
complessa. Quindi la rapina c'è sempre, ma cosa viene rapinato è stabilito dal modo di produzione e quindi
solo nel tempo moderno esiste la rapina attraverso speculazioni, violazioni di regole nelle società per
azioni.”
Quindi la produzione, l'esistenza di relazioni economico sociali, è fondamentale perché nascano anche
sistemi regolativi culturali più alti.
Sempre su questa vicenda della rapina, dice Marx, la diversità storica consente di cogliere questo: la rapina
di uno schiavo oggi sarebbe concepita come un reato contro la persona ma in una società schiavistica, nel
mondo antico, rapinare uno schiavo significava rapinare uno strumento di produzione. Quindi, diverse idee
di crimine, diverse idee di reato, a seconda anche del sistema sociale di riferimento.
Quindi il problema di Marx è di vedere come nelle specifiche situazioni storico sociali, il sistema produca e
riproduca se stesso con una certa regolarità. Il sistema sociale è una costruzione logico esplicativa riferita
però a processi, soggetti, attori, istituti reali; e quindi il sistema sociale o totalità, Marx la vede come
insieme di più elementi, ma egli stesso esclude il determinismo, quando, sempre nell'introduzione ai
Grundrisse, afferma: “Tra gli elementi di questa totalità sistema ha luogo l'interazione tra i differenti
momenti, ciò avviene in ogni insieme organico”.
Quindi in ogni sistema, cioè un'interazione degli alimenti non c’è un determinismo. Althusser su questo
aveva suggerito un termine molto acuto, sovradeterminazione, ossia i rapporti di sopra determinazione
sono proprio questi, che Marx sta invocando, i rapporti di interazione. Dice Marx, la legge generale è che la
produzione sia prevalente sulla distribuzione e che la produzione determina il consumo; ma può accadere
in una determinate fasi storiche che empiricamente questa legge non sia vera e che ci siano quindi altri
meccanismi, altre regolarità e quindi in determinate fasi, può essere dominante l'elemento della
distribuzione rispetto a quello della produzione.
La linea generale è che la produzione è l’elemento cardine, per cui la produzione, dice Marx, produce anche
il consumo, e quindi in questo dà indicazioni che sono anche raccolte dagli studi del marketing, è la
produzione che determina il consumo e che quindi l'impresa, l'industria, producendo un bene, produce
anche il mercato del bene, crea quindi anche consumatori. Da questo punto di vista, Marx coglie un
elemento fondamentale: la produzione crea il consumo. Non esiste una domanda del consumatore che poi
produce un'impresa che registra una domanda, ma è l'impresa, la produzione, che anticipa e produce il
144
Ora questo, per Marx, non indica il determinismo, e questo si coglie molto chiaramente nelle pagine
conclusive dell'introduzione del ‘57, quando Marx si riferisce al ruolo che l'arte, la mitologia, la produzione
letteraria hanno nelle diverse società. Dice Marx, che non esiste un determinismo per cui spiegare
Shakespeare o grande autore ci si riferisce ai rapporti immediati di produzione, non esiste una
corrispondenza univoca e deterministica in questo significato, non soltanto perché un genio può scavalcare
la contingenza e vedere cose in anticipo, ma perché, secondo Marx, la produzione artistica, simbolica è
molto complessa da cogliere, ad esempio, secondo Marx, c'è un rapporto tra l'arte antica e la mitologia
antica e quindi non semplice riflesso di condizioni economiche.
In una pagina sempre dell'introduzione del ’57, Marx ragiona sul fatto che esiste un “che” di primitivo nella
mitologia che poi viene raccolta anche nella produzione artistica. Quindi, Omero e così via, sono anche
espressione della mitologia antica e dunque esiste un processo culturale più complesso che sfugge a
determinazioni più elementari. Allora il rapporto sociale di produzioni non conta nelle dinamiche artistiche,
letterarie, invece, conta, e Marx fa un riferimento che si esprime in questi termini: Achille sarebbe
impossibile nel tempo della polvere da sparo dei fucili, dei cannoni e così via, quindi esiste una
determinazione storica, la mitologia e la letteratura antica presuppongono un mondo semplice, un
rapporto che, con una società a contenuto tecnologico più elevato, scomparire. Nell'età dell'elettricità, dei
cannoni, tutte le mitologie dei guerrieri antichi o feudali diventano ineffettuali, non è possibile nei tempi
complessi delle strutture tecnologiche moderne, coltivare la mitologia degli antichi, che diventano appunto
impensabili. È impossibile produrre il mito di Achille degli stessi termini maturati nella letteratura antica.
Aggiunge Marx, il problema più difficile da cogliere non è tanto che Achille rinvia alla mitologia antica, al
mondo antico e quindi al rapporto di connessione causale con il suo tempo, nella fase premoderna di
sviluppo storico, questo è semplice da cogliere; quello che più complesso è spiegare come mai Achille,
anche in una società che non ha più la mitologia, che non ha più la semplicità degli antichi, continui ad
esercitare e a produrre il fascino e a produrre piacere. Questo è il vero problema: come mai quella fantasia,
quella sensibilità continua a svolgersi ed a rimanere suggestiva, trascendendo le coordinate spazio-
temporali.
Quindi, nel caso della letteratura, Marx vede l’insieme di genere e di storia. Achille e la letteratura antica è il
prodotto di un tempo storico particolare, quindi ha un che di contingente nella sua struttura, ma pur
essendo il prodotto di una società particolare e quindi di un sistema temporale specifico, anche dopo
(nell'età moderna dell'industria, della tecnologia, della voce, dell’elettrificazione) le metafore, i miti, la
figura di Ulisse o di Achille continuano ad esercitare un fascino.
È quello che si chiama fermarsi alla componente generica. Esiste una componente specifica, storica, che
collega anche prodotti culturali ad una determinata fase dello sviluppo; poi questi prodotti più innovativi
trascendono l'epoca e creano sensazioni positive e attraggono il gusto anche di fasi storiche
completamente opposte. Dunque, non c'è il determinismo o una considerazione semplicistica dei rapporti,
ma il momento di connessione tra la grande produzione artistico simbolico creativa e il tempo sociale di
riferimento non significa sociologismo volgare, cancellazione delle componenti più artistico creative che
hanno un significato generico cioè non inteso in senso negativo ma generico come appartenente al genere
umano, quindi che scavalca le contingenze storiche.
Dice Marx che quei miti, quel semplice, quel primitivo non viene mai superato neanche nelle società più
complesse; anche le società più complesse hanno tracce di un passato cancellato, rimosso, che però esiste
e si presentano in un secondo manifestazioni imprevedibili.
145
Quindi non esiste un semplicistico rapporto tra struttura e sovrastruttura, al contrario, ci sono grandi
produzioni che non sono riferibili direttamente alla sociologia volgare del tempo.
“È noto che la mitologia greca fu non soltanto l'arsenale ma anche il terreno su cui fiorì l'arte greca. La
visione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia greca e quindi della mitologia
greca, è possibile con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive, i telegrafi, i telegrafi elettrici? Che ne
è di vulcano di fronte a Roberts e company, a Giove di fronte ai parafulmini e di altre figure rispetto al
credito mobiliare.”
E quindi non ci sono più le condizioni tecnologiche, sociali, che hanno prodotto la letteratura greca, però
Marx dice che oltre che la società e i rapporti sociali, la mitologia greca è il fiore dell'arte greca, quindi c'è
anche un elemento extra economico, la mitologia come prodotto che non è direttamente di carattere
economico, ma soltanto attraverso meccanismi di mediazione.
“Achille è possibile con la polvere da sparo e il piombo, o in generale, l'Iliade con il torchio o addirittura con
la macchina da stampa? Con l’apparire del torchietto da stampa non scompaiono necessariamente il canto,
la leggenda e la Musa, cioè le condizioni necessarie della poesia epica?”
Quindi, da una parte Marx segnala che produrre Achille, il mito greco, nel tempo della stampa, della
tecnologia è impossibile e quindi questo è assodato. Però continua Marx: “Ma la difficoltà non consiste nel
comprendere che l'arte, e l’epos greci sono connessi con determinate forme di sviluppo sociale. La difficoltà
sta nel fatto che l'arte e l’epos greci suscitano tuttora in noi un godimento artistico e in certo senso sono
ancora considerati norma e modelli ineguagliabili.”
Quindi l’infanzia, il mito dei bambini che ritorna in ogni epoca, per questo piace l’epos e dell'arte antica, per
il suo valore artistico, per questo meccanismo sociale che anche nei tempi più complessi non cancella i
bambini, il momento infantile, che si ripresenta sempre in forme nuove a determinare fantasie, miti,
immagini.
“Il fascino che l'arte greca esercita su di noi non è in contraddizione con il livello sociale poco sviluppato sul
quale essa crebbe.”
Quindi sebbene come arte non possa più tornare in quanto, secondo Marx, è irripetibile l’evoluzione
storica, non è possibile riprodurre la società antica; è irreversibile il processo storico e quindi le condizioni
sociali antiche non sono riproducibili e non è possibile che nasca spontaneamente un epos e una letteratura
e un'arte come quella greca. Ma quello che invece è possibile, è che elementi di infantilismo siano
comunque presenti, appartengono al momento metatemporale e quindi quell'elemento metatemporale è
restituito sottoforma di produzione artistica. Quindi vediamo che nella ricerca di Marx, non c'è un
determinismo e un approccio monocausale all'insegna dell'economicismo che cancella elementi più
significativi.
Abbiamo già visto, una delle accuse dei teorici dell'economia matematica fanno a Marx è quella di utilizzare
troppo materiale metaforico, troppi riferimenti letterari, di fare ricorso a uno stile linguistico suggestivo e di
non attenersi al nudo linguaggio dei numeri, delle determinazioni quantitative. E quindi il problema che
sorge è che in Marx sono presenti entrambi gli aspetti: la citazione, il richiamo a Shakespeare, al Don
Chisciotte che vengono sempre citati per cogliere il senso di una relazione sociale, ma questa indubbia
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Marx maturo studia, scrive sul calcolo differenziale, intende approfondire la logica matematica perché
ritiene che i suoi problemi relativi alla teoria della critica, all'interpretazione delle dinamiche moderne
abbiano nella matematica il linguaggio esplicativo più importante, quindi studia il calcolo, la geometria,
all'algebra.
Successivamente sono stati recuperati quaderni di matematica che mostrano questa sua vocazione ad una
economia che sia aperta alla problematica umana più generale, quindi alle metafore, alle costruzioni
letterarie molto sofisticate, ma che abbia però uno statuto conoscitivo solido e quindi gli studi di
matematica sono una sua ossessione, perché attraverso la statistica, attraverso la matematica, Marx ritiene
che siano formulabili leggi di tendenza della società moderna; senza un apparato tecnico matematico,
logico matematico, è impossibile fare la critica dell'economia politica.
La critica dell'economia politica non è, dunque, agli occhi di Marx, una scienza inferiore dal punto di vista
tecnico, ma intende essere una scienza superiore, capace di confrontarsi con Ricardo con Smith e con la
nascente scuola neoclassica anche sotto il profilo degli strumenti tecnici dell'indagine. Dunque, attenzione
alla matematica, alla formalizzazione, sono cose che per Marx costituiscono l'essenza di un sapere
scientifico.
Un seguace di Marx nel ‘900, Gramsci, scriverà la produzione degli economisti marxisti è spesso aria fritta
perché non sono bilingue, diceva Gramsci, che il marxista vero è bilingue. Bilingue, vuol dire, che deve
avere un’ottica critica, ma poi conoscere la lingua dei numeri della matematica, deve cioè competere,
criticare attraverso la tecnica del sapere scientifico, non collocandosi all'esterno delle procedure cognitive
più resistenti; per questo bilinguismo, Marx studia appunto il linguaggio dei numeri e della matematica e si
duole di non avere le necessarie conoscenze matematiche che lui riteneva indispensabili per portare a
termine la critica dell'economia politica.
05/05/2021
L'ambizione di Marx è di definire un contributo nell'ambito delle scienze sociali e storiche, nelle quali
l'astrazione è il metodo di indagine. Costruire astrazioni, dunque, è l'essenza del lavoro dell'analista. Cosa
caratterizza l'astrazione? Qual è il livello di astrazione che a giudizio di Marx bisogna cercare? Secondo
Marx, esistono astrazioni indeterminate che accomunano Hegel, dal punto di vista filosofico, ma anche gli
economisti classici da Stuart Mill a Ricardo. Il problema, dunque, non è rifiutare l'astrazione, Marx non è
per il concreto che elimina l'astrazione, ma il suo problema è quale astrazione è necessaria per lo studio
critico dell'economia e della società moderna. L’astrazione indeterminata, di Hegel o degli economisti, ha
come conseguenza la rimozione del carattere storico determinato di ogni epoca. L'astrazione indeterminata
negli economisti comportava che esistesse una società sempre identica con un meccanismo sociale che in
ogni tempo ha le stesse caratteristiche. Dunque, le astrazioni indeterminate sono categorie generali che
puntano sulle invarianti.
Secondo Marx, questo livello di astrazione indeterminata che fissa l'attenzione su ciò che non muta non è
che è una cosa di per sé assurda purché, però, si abbia consapevolezza che a questo livello di astrazione
sfuggono le differenze e quindi le categorie indeterminate eterne descrivono cose che sempre esistono e
poiché sono sempre riscontrabili, secondo Marx, non sono in grado di spiegare il tratto specifico
differenziale di un tempo storico.
Dunque, per gli economisti esiste una produzione che è sempre la stessa e quindi la società non muta, non
ha configurazioni temporali; per Marx, invece, non esiste la società in generale, non esiste la produzione in
generale se non come astrazione. Questa astrazione generale afferrando soltanto elementi comuni in ogni
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L’astrazione determinata in Marx è individuare qual è il livello specifico attorno al quale l'organizzazione
della società si sviluppa e prende forma. A giudizio di Marx, dunque, l'astrazione è un livello unificante o un
sistema che raccoglie molteplici elementi e dentro questo sistema unitario, in cui molteplici aspetti sono
coinvolti, per Marx occorre definire qual è il punto determinante, l'elemento tipico, il fatto tipo, e nel
quadro che egli abbozza l'elemento determinante è quello della produzione cioè il modo sociale con il quale
si sviluppano le relazioni indispensabili per vivere e riprodurre nel tempo le condizioni sociali della vita.
Il rapporto di produzione, dunque, è a giudizio di Marx l'elemento che determina le categorie perché se
vediamo in ogni sistema qual è il livello della produzione che affiora, allora non si potrà coinvolgere nella
stessa categoria generale di economia e di società, la società schiavistica, la società feudale e la società
moderna. Esistono almeno tre grandi tipologie di società e quindi bisogna determinare le astrazioni. C'è un
qualcosa di comune tra la società antica, feudale e moderna, ossia tutte e tre sono società che in generale
hanno un rapporto con la natura perché l'uomo è un ente naturale che si riproduce attraverso elementi
vitali essenziali. A giudizio di Marx, però, questo elemento che è appunto un invariante non è in grado di
cogliere le differenze che esistono invece tra società schiavistica, società corporativa servile e società
individualistica moderna. Dunque, occorre, non fissare l’elemento comune, ma mostrare come l'astrazione
più complessa, quella che l'economia politica descrive, sia possibile soltanto entro un tempo storico
complesso.
La critica, quindi, che Marx fa agli economisti è questa: l'economista pensa che esista appunto un homo
economicus, un individuo, un Robbinson, che da solo si interroga sull'esistenza degli altri e sviluppa la sua
relazione con la natura per avere i mezzi indispensabili alla sopravvivenza. Marx dice che questa filosofia,
che l'economista politica assume, non è un qualcosa di scontato ma è un qualcosa che invece solo la società
moderna riesce a cogliere. A giudizio di Marx, l'individuo isolato, il singolo, il Robbinson, è impensabile
entro una società feudale o in una società antica perché, a giudizio di Marx, l'individuo è il prodotto
esclusivo differenziante della modernità.
Ciò che, dunque, l’economista classico pone come condizione invariante, un individuo che produce e che si
rapporta alla natura, non è affatto per Marx un invariante meccanismo sempre esistente perché dice Marx
questa idea di un individuo solitario è pensabile soltanto nel tempo storico più complesso. A giudizio di
Marx, dunque, l'individuo che l'economista assume come punto di partenza, come elemento invariante
dell'indagine è proprio esso un elemento che mostra la storicità delle categorie economiche.
La storicità dell'economia politica risiede proprio in questo suo culto dell'individuo, però, si tratta di una
storicità inconsapevole non postulata in maniera esplicita e coerente, è quello che Marx giovani imputava a
Hegel: il problema della restaurazione acritica dell'empiria. Questo tema, che Marx aveva scoperto
criticando la logica del diritto hegeliano, ritorna con le stesse basi metodologiche nella sua critica
dell'economia politica. La categoria di individuo, che l'economia politica assume come fondativa e
invariante, è, invece, ritagliata su una condizione storica irripetibile, cioè quella della moderna società
industriale. Solo entro la moderna società è pensabile un individuo che è un attore singolo, sganciato da
legami ascrittivi e vincoli comunitari.
Dunque, dice Marx, l'individuo non è affatto il punto di partenza, come invece crede l'economista classico
che pensa a partire dall'individuo e dalla sua utilità individuale e quindi elabora un concetto di calcolo
economico sulla base di questa figura mitica di un individuo calcolante e razionale, questo homo
economicus che l'economista pone al centro della ricerca non è l'inizio ma il risultato. Dunque, occorre
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L'individuo che ragiona e calcola secondo un rapporto mezzi-fini, utilità e svantaggi, cioè l'homo
economicus, non è affatto un attore sempre esistito, non è un elemento di natura, non è un invariante, agli
occhi di Marx, ma è un attore che è concettualmente pensabile solo nella modernità più sviluppata, è il
risultato di molte trasformazioni, le quali progressivamente rompono quello che Marx chiama il “legame
ombelicale” che prima dell'età moderna, in tutte le altre fasi storiche, legava in maniera organica l'individuo
ad un gruppo più ampio.
Quindi, nello schema di Marx, il canone interpretativo dell'economista politico è sbagliato perché assume
un risultato della modernità come un qualcosa da sempre esistente e questo secondo Marx rende
impossibile una prospettiva che egli chiama di “autocritica della società”. L’economia politica non rende
possibile l'autocritica della società perché scavalca la determinazione temporale e quindi vede nel tempo
presente non un contingente, non un aspetto determinato e quindi modificabile ma ciò che è sempre stato
(le terre, la natura). L’economista politico, secondo Marx, scambia la società per natura perché i rapporti
sociali, che solo nella modernità sono visibili, vengono innalzati a dati di natura e questo processo di
naturalizzazione serve a ritenere che il moderno non abbia alternative, che sia l'unica forma di
organizzazione della società.
Dire che l’homo economicus è il punto di partenza di un’organizzazione sempre identica nel tempo, vuol
dire, a giudizio di Marx, potenziare la moderna società borghese industriale a società sempre esistita e
destinata a durare in eterno. Quindi, a giudizio di Marx, dove l'economista vede natura, leggi generali
invarianti, bisogna fare uno sforzo analitico e scoprire che si tratta invece di leggi determinate.
Dunque, il rimprovero che Marx formula è identico a quello mosso contro Hegel. Anche Hegel partiva dalla
ragione indeterminata, dall'idea di infinito, per vedere poi nelle istituzioni politiche del suo tempo ciò che è
razionale. Quindi, come Hegel costruiva una ragione sul tempo storico contingente degli assetti istituzionali
prussiani e quindi come Hegel potenziava un dato empirico a valore razionale, così accade nella economia
politica: un dato empirico, la società industriale a dominio del capitale, viene presa non come una data
organizzazione della società e quindi una astrazione determinata ma viene presa come una condizione
assoluta generale eterna. Ciò che è storico diventa meta storico, assoluto e in questo c'è la restaurazione
acritica della empirìa perché l'individuo singolo come attore economico è empiricamente possibile soltanto
quando non ci sono più strutture oggettive, vincoli che legano l'individuo a un gruppo più ampio.
L’homo economicus non è l’eterno, ciò che sempre stato ma è il risultato di una grande trasformazione che
dalle precedenti organizzazioni, a base comunitaria o rapporto di status, passano alle condizioni moderne in
cui, come dirà un altro studioso, dallo status si passa al contratto. Quindi prima dell'homo economicus c'era
non l'individuo sempre esistente, ma lo status cioè un qualcosa di più ampio, una famiglia, una tribù, una
corporazione che avvolgeva il singolo come membro di un comune, di un qualcosa di più allargato.
Prima del moderno, dunque, a giudizio di Marx, esistevano rapporti di status, vincoli ascrittivi, legami
ombelicali che impedivano praticamente la emersione dell'individuo come attore singolo. L'attore singolo è
possibile soltanto quando non assumono più rilevanza decisiva le tribù, le corporazioni, le comunità
primitive, le entità intermedie e questo, a giudizio di Marx, non è il punto di partenza come crede
l'economista politico classico, ma è il risultato di un lungo e contraddittorio processo.
Questo processo che dallo status conduce al contratto, viene cancellato dalle astrazioni indeterminate a cui
l'economista fa ricorso e queste astrazioni indeterminate, agli occhi di Marx, hanno un duplice vizio: un
vizio teoretico e un vizio pratico.
149
Dunque, secondo Marx, il limite analitico dell'economia politica è di precisare elementi teorici che
confondono in un meccanismo identico le varie fasi storiche, per cui l'economista ricorre a questo limite di
analisi: le sue categorie senza dubbio sono costruite su una società a base contrattuale, l’homo economicus
è impensabile prima del contratto cioè dell'individualismo moderno e però l’economista politico non
avendo questa autocritica, questa percezione della storicità delle sue categorie, applica i suoi modelli, i suoi
schemi, a tutte le società e quindi (poi lo stesso farà Weber o storici del diritto romano che e costruiranno il
capitalismo antico il capitalismo a Roma e così via) secondo Marx soltanto dentro il tempo storico moderno
queste categorie individualistiche sono assolutamente vere.
Ovviamente se prendiamo queste categorie generali, come categorie ovunque applicabili, posso anche
vedere qualche elemento di individualismo a Roma o ad Atene ma questo, secondo Marx, comporta un
ulteriore errore di analisi: vedere le società premoderne come un tassello di una storia destinata a
compiersi nella modernità. Quindi le categorie generali dell'economista politico guardano alla storia come a
un progressivo avvicinamento alle condizioni moderne e cioè queste categorie che assumono una
prospettiva generica e astratta, poi hanno un problema, ossia il teologismo storico, cioè assumono la
vicenda sociale e storica come un cammino che culmina nel razionalismo moderno, cioè una storia
predeterminata a lieto fine cioè una storia provvista di un telos, di una prospettiva.
Marx è un critico, invece, di questi approcci di filosofia della storia, i quali presuppongono che la storia sia
un lento e unilineare cammino che porta alla modernità. Quindi, in questa ottica, la società antica e la
società moderna non sono altri sistemi che funzionano secondo altri principi organizzativi, ma sono soltanto
delle anticipazioni, quindi Roma è studiata perché anticipa il moderno. Per Marx questo tipo di indagine è
metastorica, priva di determinatezza e quindi porta a conclusioni che lui ritiene non soddisfacenti perché la
modernità diventa l'approdo di un processo che ha un senso. Il senso è la costruzione del sistema
economico retto dal contratto, dal regime di scambio, dai calcoli dell'homo economicus.
Dunque le astrazioni indeterminate sono teoricamente viziate perché costruite sulle basi del moderno, poi
nelle altre epoche si presentano soltanto per vedere ciò che anche a Roma o nel Medioevo è in qualche
modo simile al tempo storico moderno e quindi la mancata comprensione della determinatezza storica
delle categorie conduce l’economista politico, o anche il sociologo weberiano, a vedere nelle passate
epoche storiche ciò che è comune e quindi ciò che anticipa il moderno. Si presenta, dunque, una perdita di
storicità, categorie indeterminate sono, per Marx, deboli e la loro aporia consiste nel fatto che nonostante
siano ritenute indeterminate, in realtà, il loro elemento di verità è molto determinato, cioè Stuart Mill e
Ricardo pensano che le loro categorie siano indeterminate, valide in un meccanismo economico senza
determinazione temporale. Questa credenza, secondo Marx, è ideologia perché le astrazioni indeterminate,
le categorie valide ovunque, sono concepibili soltanto dentro il tempo storico più simpatico e quindi solo
dentro la società complessa è possibile pensare all’homo economicus.
Dunque, ciò che pensabile nel tempo storico più sviluppato, più articolato e differenziato viene scambiato
per un qualcosa sempre possibile, ma in realtà dal punto di vista scientifico dice Marx l'individuo, il
150
In una società, per natura, fondata sulla schiavitù non c'è il libero contratto e quindi non c'è la categoria
economica del valore e della valorizzazione. Queste categorie, dice Marx, sono diventate banali per anche
per l'uomo più semplice della modernità che non è più intelligente di Aristotele, ovviamente, ma quello che
bloccava Aristotele non era un deficit cognitivo del grande filosofo, ma il fatto che per lui la società
schiavistica costituisse un dato di natura e quindi su quella base non era pensabile la figura dell'homo
economicus come attore principale.
L'homo economicus diventa, anche per l'uomo più superficiale dei tempi moderni, un fattore scontato
perché è mutato il sistema sociale di riferimento. Quel sistema sociale di riferimento basato sulla schiavitù
per natura che impediva ad Aristotele di concepire l'individuo e il calcolo economico, su base singola,
privata, diventa un lontano ricordo quando grandi trasformazioni storiche rompono la società stratificata, il
rapporto di schiavitù e di signoria, cioè lo status e si ha l'avvento della moderna società borghese
individualistica, entro la quale diventa non soltanto logicamente ma anche praticamente pensabile l'homo
economicus.
Quindi se non c'è un'economia su base individualistica, se non viene rotto lo status, la comunità, la tribù, la
corporazione è impensabile concettualmente l’homo economicus. L'uomo economicus diventa una
categoria pensabile quando la società è organizzata su base mercantile individualistica e solo in questo
quadro le categorie dell'economista assumono un loro significato esplicativo. Oltre al deficit analitico che
porta l'economista a pensare in termini di teoria generale valida per tutte le fasi storiche, oltre a questo
limite teorico, c'è poi un elemento pratico che ne consegue e l’elemento pratico attiene a quello che si
chiamerebbe la critica della ideologia, cioè l’economista che ritiene che l'homo economicus sia sempre
esistito e sia la razionalità (come spiega Webber la modernità: la razionalizzazione dell'occidente) e quindi è
ragione, è forma, è disincantamento del mondo dovuto alla razionalizzazione e tecnicizzazione di ogni
relazione umana.
Questo profilo, per cui l’homo economicus appartenga alla razionalizzazione, alla formalizzazione, ha a
giudizio di Marx una implicazione di carattere pratico, vale a dire non è pensabile un altro tipo di
organizzazione della vita diverso da quella basata sul calcolo di individui o homo economicus, il quale
diventa l'unico soggetto possibile, non è più una figura storica e quindi che si presenta soltanto dopo
l'avvento dell'economia di mercato, diventa una categoria eterna. Questa naturalizzazione o eternizzazione
dei rapporti sociali particolari del tempo moderno, per Marx, è l'ideologia o come lui la chiama “l'economia
volgare”.
L’economia volgare è perdere la storicità e affermare che il tempo storico presente sia il raggiungimento
dell'età completa della ragione, sia il trionfo della razionalizzazione e che chi critica l’homo economicus e
l'ordine razionale del mercato è al di fuori dei canoni della ragione. Quindi il risvolto pratico di questo
lavoro teorico delle astrazioni indeterminate, invarianti, è che la critica degli istituti della società moderna si
configura come irrazionalità, come follia perché se le categorie economiche sono eterne e l'homo
151
- TEORICI è che non hai una scienza sociale moderna senza categorie speciali, senza leggi relative ad un
tempo storico soltanto;
- RISVOLTO PRATICO è che non si può dire, come fa l'economista, che, dice Marx, sinora c'è stata la storia,
ora non c'è più perché siamo entrati in una società del tutto razionale.
Marx rifiuta questi termini di interpretazione delle diverse specie storico-sociali in termini di razionalità e
ritiene che ogni società abbia un principio organizzativo: la schiavitù, il lavoro servire o il lavoro salariato
moderno. Non si tratta di elementi razionali o irrazionali, ma di modi sociali di produzione che emergono
nel tempo storico e conferisco un significato alle diverse fasi. Quindi le astrazioni devono essere
determinate e la determinazione delle astrazioni richiede di individuare il fatto tipico. Il fatto tipico è il
modo di produzione che differenzia il mondo antico dal mondo moderno e dunque la relatività storica delle
categorie è per Marx il risultato di una indagine scientifica. Questa indagine scientifica, che mostra la
relatività delle categorie, ha anche poi delle conseguenze pratiche, vale a dire, quella che Marx chiama
“l'autocritica della società borghese”, vale a dire, la consapevolezza che la società borghese non è eterna e
può essere trasformata e qui lavoro teorico e pratico si congiungono.
Una qualche traduzione di questi due concetti aristotelici si ha nell’analisi di Marx quando distingue tra
forze di produzione e rapporti di produzione:
ELEMENTO DINAMICO o POTENZA: è costituito dallo sviluppo delle forze produttive cioè dalle figure
soggettive, dai rapporti sociali che in ogni epoca, in ogni trasformazione, favoriscono la nascita di nuove
figure. Quindi la società moderna ha continui mutamenti nella sua base e a seguito delle mutazioni
tecnologiche, cambiano le forze produttive. Basti pensare all'età digitale, Bill Gates, è una mutazione
tecnica di rapporti di produzione che determina l’emersione di nuove figure professionali o di nuove forze
produttive. Queste nuove forze produttive sono figure dinamiche che introducono un elemento di potenza
dentro un ordine sociale e questa potenza può tradursi o in un assestamento, in un adeguamento di ciò che
esiste, o in processi di ulteriori trasformazioni che incidono a livello dei rapporti di produzione.
Dunque, nell'ottica di Marx, la vicenda sociale è data da questa tensione continua tra attori e sistema, tra
forze produttive e rapporti di produzione. La visione di Marx, di una totalità o di un sistema unitario, è stata
152
L’individualismo metodologico è un’interpretazione della società che vede il primato del singolo, dell'attore,
è la teoria dell'azione, messa appunto a livelli più scientificamente elaborati da Max Weber.
L’individualismo metodologico presuppone un quadro di analisi come quello weberiano, per cui la società è
l'azione del singolo, dell’individuo razionale e quindi il nucleo, l'elemento fondativo della società è l'agire
individuale dotato di scopo. Secondo questi filoni di individualismo metodologico non esiste un qualcosa di
relativo all'organizzazione sociale, ma la società non è altro che l'aggregazione di una serie molteplice di atti
individuali di volontà.
Marx viene accusato, dai suoi critici Weber, Popper, di olismo metodologico perché assume come punto di
riferimento il sistema sociale, un punto di vista relativo alla totalità delle condizioni e non al quadro del
singolo attore che persegue scopi. Accanto a questa critica di olismo metodologico rivolta a Marx, ci sono
però alcuni seguaci particolari di Marx, il più conosciuto si chiama Jon Elster, i quali dicono che in Marx, in
realtà, c’è una teoria dell’attore e che in Marx, secondo Jon Elster, è possibile rintracciare una micro
fondazione. La micro fondazione è lo stesso punto di vista di Weber, cioè partire dal singolo agente
razionale che scambia, contratta, negozia, partendo da un singolo punto di riferimento, da un quadro
individuale. Secondo Elster, Marx appartiene anch’egli all'individualismo metodologico perché lo schema
interpretativo del moderno è di tipo individualistico.
C'è da dire che entrambe queste raffigurazioni del lavoro di Marx, quella in chiave olistica e quella in chiave
individualistico metodologica, sono unilaterali nel loro punto di inquadramento del problema, perché in
Marx c’è sia quella che si chiama l'olismo e quindi la visione del sistema, sia quello che si chiama
individualismo metodologico vale a dire la considerazione del singolo attore. Quindi in Marx ci sono
entrambe le prospettive perché la dialettica individuo-società, attore-sistema, non si presta a riduzionismi e
quindi Marx cerca di riflettere su questo elemento del rapporto tra attore e sistema, individuo e società. Su
questa coppia sono nate opposte visioni: l’individualismo metodologico e l'olismo metodologico.
OLISMO METODOLOGICO: per cui la società è un tutto compatto. L'individuo non esiste se non come una
componente essenziale.
INDIVIDUALISMO METODOLOGICO: per cui non esiste la società ma si danno semplicemente attori in
relazione reciproca in vista di un raggiungimento di scopi.
Secondo Marx, dice nei Grundrisse, la società non è la semplice somma di individui, ma contiene le relazioni
degli individui. Quindi non è la semplice somma di individui e quindi l'individualismo metodologico non è
risolutivo, ai suoi occhi. La società non è l'insieme, la sommatoria di tutte le azioni dei singoli, ma è però la
società un qualcosa che per Marx non coincide con la totalità, ma con le relazioni che maturano entro un
sistema specifico. Quindi la società come trama relazionale: questo è il concetto di Marx che non è né
individualismo metodologico né olismo metodologico. La società come relazione. Il sistema sociale è visto
da Marx come una trama di relazione, di rapporti.
Marx scrive, a questo riguardo, proprio nella prima pagina di questa introduzione ai Grundrisse nel 1857
“gli individui che producono in società, e quindi produzione socialmente determinata di individui,
costituiscono naturalmente il punto di avvio.” Quindi il punto di avvio dell’indagine sono individui che
producono in società “il cacciatore e pescatore singolo e isolato con cui cominciano Smith e Ricardo
rientrano tra le fantasie prive di immaginazione delle robinsonate del XVIII secolo, le quali, a differenza di
quanto pensano gli storici della cultura, non esprimono a fatto soltanto una reazione all'eccessiva
raffinatezza e un ritorno a una malintesa vita naturale. Come del resto il contratto sociale di Rousseau, il
quale, mediante il contratto, crea un rapporto e una connessione tra i soggetti indipendenti per natura non
si fonda su tali naturalismi. Questa è l'apparenza e soltanto l'apparenza estetica delle robinsonate piccole e
153
Questa è, dunque, la visione di Marx: l'individuo che produce in società. Questo punto di partenza, che
Marx condivide con l'economia politica classica, viene però precisato in termini molto specifici e diversi
rispetto a quelli di una visione che Marx chiama “robinsonata”. La robinsonata, nell’ottica di Marx, riguarda
la letteratura che ricorre a questo mito di Robinson: il cacciatore, pescatore singolo che si rifugia in un'isola
deserta. Questo, dice Marx, dagli storici della letteratura, della cultura, viene vista come una protesta
contro il lusso, la complessità della società industriale, ma non è questo che conta, secondo Marx, nelle
immaginazioni di un Robinson. La robinsonata, cioè il mito di un individuo che sta solo e che è attore
individuale esclusivo, ha un preciso fondamento: non è la volontà di natura che protesta contro la civiltà,
ma è, secondo Marx, proprio la affermazione della civiltà industriale, la quale rende pensabile la figura di un
Robinson.
Prima del XVI secolo, prima dell'economia di mercato, il singolo attore, il Robinson, era impensabile.
Dunque, il mito letterario del Robinson è, secondo Marx, la preparazione, a livello di cultura, di produzione
artistica, di un qualcosa che è visibile nelle sue determinazioni sociali, cioè la rottura dei legami che
caratterizzavano la società premoderna. Robinson non è un frutto di una immaginazione, ma il risultato che
a livello di immaginazione è, reso con questa figura, il risultato di una grande cesura: la distruzione del
legame, la distruzione della organizzazione per status. Solo quando l’individuo non è più legato ad uno
status e quindi a vincoli preesistenti, è possibile fare il Robinson. Il Robinson non è possibile fino a quando
dura lo status, la società stratificata. Il Robinson, con la sua fuga, è possibile perché la società è
individualizzata, non ci sono più legami rigidi e insuperabili. In questo quadro, dunque, diventa
praticamente possibile la robinsonata.
La robinsonata, dice Marx, è nel campo letterario ciò che in teoria politica e in teoria economica si chiama
società civile, cioè la nascita di una economia individualistica a base mercantile. Dunque il Robinson è in
realtà l'abitante della società civile, ossia la società del contratto, la società dell’individualismo. Marx aveva
utilizzato molto questo concetto in gioventù, nella critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico poi nel
lessico marxiano la formula “società civile” tende a scomparire (questa è una delle ultime occasioni in cui la
formula società civile viene utilizzata da Marx). Al posto della società civile poi Marx parlerà di formazione
economico sociale, di rapporto sociale, di struttura materiale e quindi la società civile è il luogo di
produzione delle condizioni sociali che, per Marx, diventa visibile a partire dal XVI secolo.
La società civile come società di individui che abitano in una economia a base mercantile si presenta
teoricamente e nella grande letteratura tra il 600 e il XVIII secolo e quindi in questa fase l'Europa conosce la
società civile. Questa società civile che per l'economista classico è il punto di partenza, per Marx è, invece, il
risultato, non è il punto di partenza, il dato scontato e naturale, non è naturale che esista un Robinson, non
è un punto di partenza che l'individuo compaia in quanto tale nelle trame sociali, ma è il risultato di un
processo che tra il XVI secolo e i secoli successivi si compie. Quindi si presentano nuove forze produttive,
quelle del mercato della borghesia nascente, e queste nuove forze produttive, nel giro di alcuni secoli,
diventano non soltanto potenza ma hanno rapporto sociale dominante e quindi le forze produttive o
individui possessivi del mercato capitalistico, da figure che emergono storicamente diventano poi i soggetti
dominanti che impongo un diverso principio di organizzazione della società e quindi la borghesia, la società
civile, da potenza, la forza produttiva, diventa atto, sistema, e quindi il mercato, l'individualismo, diventa la
base fondativa della struttura materiale della società.
Marx prosegue “Ai profeti del XVIII secolo sulle cui spalle Smith e Ricardo poggiano ancora completamente,
questo individuo del XVIII secolo, che da un lato è il prodotto della dissoluzione delle forme sociali feudali e
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Secondo Marx questa è una scempiaggine dal punto di vista scientifico che l'individuo sia un dato di natura,
che il singolo attore calcolante sia un dato scontato sempre esistente. In realtà, secondo Marx, questo
individuo presuppone un duplice processo: uno di disgregazione e uno di ricostruzione. Disgregazione della
società feudale, delle comunità, degli status e quindi emersione di nuovi individui, il soggetto borghese. Le
forze produttive rompono la vecchia strutture, le potenze hanno rotto l'atto che prima le comprendeva e
una volta emerse, queste nuove figure, da potenze che sfidano il vecchio ordine da cui sono nate,
diventano la base materiale su cui viene ricostruito un altro ordine sociale: quello della moderna struttura
dell'individualismo proprietario.
Dunque, i due processi sono: rottura della vecchia società feudale dalla quale nascono individui come il
mercante, il libero lavoratore, che non esistevano prima, diventano personaggi nuovi di una trama
relazionale basata sul traffico, il mercato, la produzione.
Il secondo elemento è che la distruzione della vecchia società fa sì che non ci siano più servi ma questi servi
fuggono dalle campagne e vanno nelle città dove diventano liberi proletari che possono vendere forza
lavoro. Queste forze produttive nate dalla dissoluzione della società feudale diventano con il tempo forze
economicamente socialmente dominanti e quindi rotto l'ordine feudale viene ricostruito un diverso ordine
della società cioè l'economia di mercato a base concorrenziale mercantile.
06/05/2021
Si è vista l’importanza nel lavoro di Marx di definire il concetto di società e quindi il concetto di
socioeconomia, come ha scritto Brodel (?), riconoscendo nel contributo di Marx un punto di partenza molto
importante anche per la ricerca storiografica.
Secondo un grande sociologo del 900, Norbert Elias, Marx è il primo dei classici a ritagliare e determinare il
concetto di società e quindi non si parla più di Marx di società in generale, ma di specifiche organizzazioni
sociali. Secondo il rilievo di Norbert Elias, con questa sua operazione, Marx contesta alla radice, quello che
Elias chiama l'homo clausus, questo mito del singolo come punto d'inizio di ogni riflessione.
L'homo clausus, l'uomo chiuso, isolato, lato, dice Elias, è il punto di partenza della filosofia moderna, che
resta tale anche per l'economia moderna e per la sociologia moderna. Secondo Elias, questo mito
dell'homo clausus presuppone che l'individuo, da solo, ad un certo punto decide di entrare in relazione con
gli altri, e quindi intrecciare scambi, meccanismi d'intesa, da cui poi risulterebbe la società come il risultato,
appunto, di scelte individuali.
Questa tradizione, dice Elias, si origina con Cartesio, con il dubbio cartesiano; per cui Cartesio inizia con il
Cogito. Cogito è un'attività con la quale l'individuo dubita di tutto, del mondo, degli altri e l'unico elemento
che lo rassicura, l'unico dato di certezza, è la sua ragione. Da qui la ragione come punto di inizio di un
individuo che quindi sarebbe in grado, senza gli altri, senza il mondo reale, di pensare e dopo il pensiero,
entrare in relazione.
Questo mito, dice Elias, è stato smontato per primo da Marx. Marx, infatti, ironizza con questo pensiero
occidentale che lui chiama “La Tradizione Cristiano borghese dell'Occidente”, e ironizza ad esempio con
Leibniz e dice che con questa filosofia occidentale, con questa metafisica europea, il bambino nasce già
filosofo, e quindi senza entrare in relazioni, senza avere un processo di esperienze collettive nell'ambito
155
E dunque con la tradizione che Marx smantella, l'io preesiste al mondo e agli altri. Si tratta quindi di un io
che non ha diramazioni corporee sensibili, non è un ente di natura, ma è un puro Io e questo puro Io con il
pensiero crede di definire il mondo come una conseguenza del pensiero stesso.
Dunque, l'io si pone come fondatore del mondo sensibile perché non è concepito con un corpo naturale
che pensa, ma è un io metafisico presupposto e questo io metafisico, attraverso il pensiero, definisce le
cose reali e inventa la società.
Secondo Marx, l'homo clausus da cui parte Leibntz, Cartesio, ma anche l’economia politica con la figura
centrale dell'Homo economicus, sono dei presupposti, dei postulati metafisici.
Secondo il rilievo critico di Marx, l'economia politica che intende avere uno statuto scientifico in realtà
recupera uno statuto metafisico, perché secondo Marx l'homo economicus, da cui parte il Ricardo e tutta la
tradizione degli economisti classici, è il trasferimento nel campo dell'economia, quindi di un sapere tecnico,
matematico, scientifico, di un vecchio mito filosofico: quello dell’Io Penso cartesiano, dell'io monade come
soggetto irrelato. Quindi, a giudizio di Marx, c'è una stretta vicinanza tra il concetto metafisico filosofico di
io senza mondo, di io senza altri, l’homo filosoficus come lo chiama Elias, e l’homo economicus di Riccardo,
cioè l'attore isolato che calcola seguendo il mito di Robinson. L'homo economicus con il mito di Robinson
postula la stessa visione della filosofia metafisica, e quindi, secondo Marx, non ha un vero statuto
scientifico perché non esiste l'homo economicus, come non esiste l'homo filosoficus come ente metafisico.
Secondo Marx, il soggetto che pensa è anzitutto un ente naturale finito, è un ente corporeo e quindi non ha
alcuno statuto metafisico. A giudizio di Marx, l'io che pensa è anzitutto un corpo che mangia, si riproduce,
ha passioni, e dunque il soggetto che pensa non è l’io metafisico, ma è un corpo concreto che è nella natura
ed è espresso dalle dinamiche naturali. Questo è molto importante, perché da questa concezione
dell'uomo, come ente di natura, Marx ricava la critica della metafisica e della ontologia, la quale ritiene che
invece esista un pensiero come qualcosa di sganciato rispetto alle determinazioni naturali. Per Marx
l'uomo, come ente finito, può pensare soltanto in maniera finita, e cioè come dice Marx, un “ente
pazienz(?)”, cioè un ente che ricava, da impressioni sensibili, dati su cui riflettere.
In questo Marx si riallaccia a una tradizione, anch'essa molto forte della cultura europea. Lo stesso concetto
era espresso da Hobbes, nella critica del concetto di infinito di pensiero senza determinazioni specifiche.
Perché secondo Marx, e già prima secondo Hobbes, il pensiero dell'infinito è impossibile? Perché l’uomo
essendo un ente finito, cioè un ente corporeo naturale, non può pensare l'infinito, ma i suoi concetti
presuppongono il dato sensibile o la ricettività. Questo veniva affermato anche da Kant, quindi, Marx
appartiene al filone di Hobbes, Hume, Kant che rimarca il carattere corporeo finito dell'ente umano, e da
questo tratto naturale finito, scaturisce una conseguenza fondamentale: che il pensiero è un pensiero che
riceve dall'esterno i dati, le informazioni necessarie, per elaborare concetti. L'uomo è un corpo e quindi è
un ente sensibile e per pensare deve trarre informazioni con gli occhi, sentire cose con le orecchie, è un
ente che, come corpo, pensa e dunque non è un'anima che pensa all'infinito, ma è un corto naturale, è un
ente passivo in quanto naturale, e dunque non è il centro del mondo e non è il destino del mondo, è una
parte di natura che pensa con concetti che non creano le cose, ma sono ricettive attraverso i sensi degli
elementi esterni alla mente.
La mente, secondo Marx, è anch'essa un dato naturale corporeo che appartiene dunque a un ente naturale
che, nella sua finitezza, ha la peculiarità; è un ente naturale che pensa, ma i suoi pensieri non sono quelli
156
La conseguenza, di questo dato naturale, sensibile è anche che la società è non la creazione di un homo
clausus, ma è un dato strutturale, non esiste un io senza gli altri, non esiste un io che non abbia avuto la
genesi da altri due che hanno prodotto questo corpo naturale. Dunque, pensare che ci sia stato un inizio
per cui, come dice Marx, “due soggetti fanno un contratto e decidono di entrare in società”, questo per
Marx è grottesco e caricaturale, perché la società non viene istituita per contratti ma è un dato strutturale
di enti che, soltanto con altri enti, vivono e si riproducono.
Ciò comporta che l'individuo è nella società e che quindi non esiste la contrapposizione, che caratterizza la
sociologia moderna, tra Olisti e Individualisti metodologici, perché non è pensabile l'individuo come homo
clausus, come uomo in sé chiuso, autosufficiente, perché l’individuo è alterità, relazione. Questo comporta
che non esiste un ingresso in società deciso in maniera pattizia, ma la società è il dato da cui si parte.
In questo quadro, il problema di Marx è però un altro. Il rapporto individuo-società, per cui l'individuo fa
parte della società che la società comprende individuo è un qualcosa di importante, ma non di risolutivo,
perché, dice Marx, il rapporto individuo-società inteso in questi termini è un invariante, c'è sempre stato un
rapporto tra individuo e altri per definire una struttura sociale.
Quello che caratterizza il pensiero di Marx è un altro elemento presentato nei Grundrisse. Dice Marx: “la
società non è costituita da individui ma esprime invece la somma delle relazioni, dei rapporti in cui questi
individui stanno gli uni con gli altri. È come se uno dicesse: dal punto di vista della società schiavi e cittadini
non esistono, entrambi sono esseri umani. Tali, essi sono piuttosto fuori della società, essere schiavo ed
essere cittadino sono determinazioni sociali, relazioni tra gli esseri umani A e B; l'essere umano A, in quanto
tale non è schiavo, schiavo egli lo è nella e attraverso la società”.
Quindi il rapporto individuo società va inteso da Marx in termini più complessi, perché il rapporto tra
individui che vivono, e quindi sono organicamente in società, non basta per cogliere quello che Marx ritiene
più importante, cioè l’invariante individuo-società va studiato attraverso la precisazione di varianti
specifiche, vale a dire, le relazioni o i rapporti che questi individui definiscono tra di loro. E dunque non il
semplice individuo-società, ma il rapporto tra gli individui secondo relazioni, mediazioni, per cui un conto è
il rapporto individuo-società che esprime lo schiavo, e un altro conto è il rapporto individuo-società che
esprime il cittadino.
La critica, dunque, dell'individualismo metodologico conduce Marx a questa analogia, dice Marx, è assurdo
pensare alla società come a una creazione di un individuo singolo, come assurdo è la pretesa di spiegare
l'origine della lingua e del linguaggio come una scelta di un soggetto. Come la lingua non nasce come la
scelta di un individuo che inventa; così la società non è una scelta di un individuo che pone in essere la
società. L'individuo entra in società perché è nella società, come direbbe Heidegger, ogni esserci è gettato
nella mondanità, è nel con esserci, quindi l'individuo è nel con esserci, è strutturalmente un individuo che
condivide con altri l'esperienza di vita. Come la lingua, così la società.
La lingua dice Marx è una istituzione sociale, non è un artificio che nasce per un patto tra individui.
L'individuo riceve la lingua come una eredità di storie precedenti e quindi è una istituzione sociale; poi
l'individuo può artificialmente, costruire metafore, definire parole, etc. Però questo dato individuale
157
Quindi l'individualismo metodologico, per Marx, non coglie questo dato. L'individualismo metodologico
intende definire il livello macro (la società) a partire dalla dimensione micro (l'individuo). L'azione
dell'individuo struttura la società. Per Marx non si pone in questi termini. L'analogia con il linguaggio è per
lui risolutiva, di fatto per lui, come accade con il linguaggio, così accade nelle determinazioni sociali.
L'individuo che parla, inventa, costruisce frasi, significanti e significati ma entro un canone, una struttura di
istituzioni linguistiche che nessuno individualmente ha creato, sebbene siano creazioni sociali. Come la
lingua così nella società, la società non è nata da un individuo, così come lo Stato non è, dice Marx, l'opera
di un individuo, e però è un'opera, un'attività umana, sociale.
L'azione è connessione sociale entro quelli che Marx chiama le configurazioni della società. Quindi
l'individuo, l'azione si esplica entro configurazioni e non in modo singolo, non è un singolo attore che
decide, ora costruisco lo Stato, ora invento la lingua, ora invento l'economia, ma sono meccanismi sociali.
Questo meccanismo sociale è un qualcosa che va oltre la dimensione della micro fondazione sebbene sia,
per Marx, un prodotto sociale. Il prodotto sociale, dunque, è un qualcosa che avvicina Marx alle teorie delle
azioni e dell'individualismo metodologico, ma la differenza notevole è che per Marx non esiste un'azione di
un singolo che ad un certo punto inizio a pensare e inventa la filosofia, inizia a parlare e inventa il
linguaggio. Quindi l'attore individuale, il livello della micro azione avviene entro contesti, configurazioni,
strutture.
È vero che l'individuo agisce, opera, pensa, ma lo fa dice Marx, entro situazioni. L’individuo è situazionale, è
gettato entro configurazioni, per cui io oggi nel mio agire non posso pensare di avere schiavi o di avere
rapporti di cavalleria e così via, perché il mio io, la mia azione individuale, è gettata entro specifiche
configurazioni che escludono la cavalleria medievale, il rapporto schiavistico antico.
Dunque, la micro Fondazione non coglie le configurazioni, per cui l'attore che agisce non è il punto di
partenza, perché l'attore che agisce sceglie contratti è dentro situazioni particolari. Quindi l'agire
dell'individuo è sì importante, certo che la società è una trama infinita di relazioni, di azioni, di scambi, ma
appunto la società esiste, non è un qualcosa di inventato. La società è quella configurazione per cui io
agisco liberamente, ma nel tempo e nello spazio, cioè entro determinate situazioni, entro specifiche
organizzazioni sociali e politiche.
Dunque, la micro Fondazione presuppone la macro Fondazione, perché il livello micro dell'agire di tutti gli
individui è rapportato a situazioni che l'individuo singolarmente non ha scelto; nessuno di noi ha scelto di
vivere in una Repubblica democratica retta da un'economia di mercato, inserita nella Comunità europea.
Ma è la macro Fondazione, cioè ciascun attore, a livello micro eredita situazioni oggettive, la storicità, la
dimensione sociale che non è un punto di partenza che si sceglie individualmente. Nessuno sceglie di
iniziare come homo economicus partendo da zero. Tutti nascono, vivono dentro particolari assetti materiali
è questo ciò che Marx chiama “il rapporto sociale, di produzione o configurazione sociale, formazione
158
Da qui, appunto, la differenza di Marx rispetto alla teoria dell'azione. Marx allora è un olista, come
rimproverano i critici popperiani? No, perché appunto la società, per Marx, come lui dice nel capitale, non è
un solido cristallo, è una società, non una tecnologia, un pezzo di natura. La società, per Marx non è un
cristallo, cioè non è una cosa, non è un livello extra temporale. La società è da questo punto di vista una
creazione, un prodotto della vicenda intersoggettiva, e quindi vuol dire che la società è un elemento che
l’elemento sociale struttura.
Ciò che differenzia Marx rispetto all’olismo, che l’olismo condivide l'idea che esistano organizzazioni meta
individuali, che esistano macro livelli, configurazioni impersonali e oggettive. Rispetto all'olismo la
differenza è questa: la società non è natura, come pretende anche l'economista Stuart Mill, la società non è
relazione naturali, invariabile, non modificabile, ma è un organismo su cui l'agire può influire. Quindi è vero
che l'individuo è dentro una configurazione che non ha scelto, però, l'individuo entro questa configurazione
può agire, entrare con altri e definire quello che poi si chiama il “livello della prassi”, il livello dell'azione
soggettiva della costruzione di livelli di consapevolezza critica.
Quindi, alla luce di questo ragionamento, Marx dice che bisogna rifiutare ogni visione naturalistica della
società come un pezzo di natura, come un solido cristallo di cui sfugge la natura, la determinazione senza
chiave di ingresso, non è un solido e inaccessibile pezzo di cristallo. Dice Marx, se la società fosse così, e
quindi un solido inaccessibile cristallo che avrebbe dei guardiani occulti, chi mai avrebbe le chiavi di questo
gigantesco meccanismo o configurazione impenetrabile? Secondo Marx non è questa la società, non è un
solido cristallo di cui esiste un guardiano occulto e le chiavi sono indisponibili per l'azione umana. L'azione
umana è un elemento fondamentale che interviene, però, per Marx, solo se c'è una consapevolezza critica,
un livello di analisi del solido cristallo.
Se assumiamo che la società è un solido cristallo, e quindi si obbedisce all'olismo metodologico, verrebbe
cancellata la dimensione di critica dell'economia politica, che Marx invece fonda. La critica dell'economia
politica del solido cristallo è che se mancano categorie analitiche adeguate ad un'indagine realistica e però
penetrante, la società diventa davvero un pezzo di natura che domina, si riproduce e non esistono
alternative, una sorta di società della sorveglianza in cui tutto è gestito da anonimi meccanismi di
dipendenza.
Se la società fosse una società della sorveglianza, un cristallo impenetrabile, non ci sarebbero le condizioni
per una critica del presente, quella che invece Marx è intenzionato a sviluppare è proprio l'autocritica della
società borghese. Su quali basi è possibile questa autocritica della società borghese? Di vedere il carattere
sociale delle cosiddette cose o sistemi. I sistemi non sono pezzi di natura che non cambiano, non sono
sistemi autoreferenziali, come nella sociologia contemporanea, pensate al Niklas Luhmann, “la teoria dei
sistemi”, la quale definisce il sistema sociale come un qualcosa di chiuso che assorbe informazioni parziali
dell'ambiente, ma per ridefinire sempre la cornice del sistema, il quale cioè è come un meccanismo
autoreferenziale, auto poietico, pone e continuamente ripropone se stesso come un sistema compatto.
La teoria dei sistemi di Luhmann verrebbe criticata da Marx, con la critica che lui fa al solido sistema, cioè al
solido cristallo. Cioè non esiste un sistema impenetrabile che si riproduce con meccanismi anonimi. Marx
vede l'importanza anche dei meccanismi anonimi, ad esempio, in una pagina del Capitale, lui dice quasi una
cosa a freudiana: “gli uomini non sanno di fare ciò, ma lo fanno”. È quello che si può chiamare il livello, che
Marx esplora, dell’inconsapevole sociale. Quindi esiste effettivamente per Marx un livello
dell'inconsapevole sociale. Io facendo contratti, svolgendo azioni quotidiane, non so che cosa sto facendo,
lo faccio in un piano di inconsapevolezza, non sanno di fare questo ma lo fanno. Cioè esistono delle leggi
159
Questo piano dell'inconsapevole, però, non significa che, alla maniera di Heidegger, l'uomo è
semplicemente gettato in un mondo della quotidianità, dell’anomia, ma che, pur essendo gettato entro una
relazione in cui l'inconsapevole sociale si esplica in scelte, in relazioni, in rapporti che nessuno vuole, anche
il capitalista dice Marx, è un funzionario del capitalismo, e quindi anche lui è sottoposto a leggi obiettive
dell'inconsapevole sociale.
Quindi nella società esiste sicuramente un livello dell’inconsapevole sociale, per cui tutti sono funzionari di
un ruolo, ma a giudizio di Marx, per evitare di ricadere in quello che lui chiama anche il “feticismo del
mondo delle merci”, bisogna comprendere il meccanismo sociale, non pensare che sia tutto un risvolto
mistico, impenetrabile.
Cos’è il feticismo per Marx? Il feticismo viene visto da alcune scuole marxiste, quelle Francofortesi, seguaci
di Adorno e così via, come una conferma del carattere hegeliano di Marx. Per cui ci sono frasi molto
letterarie di Marx nel capitale, in cui parla del feticismo delle merci. Il feticismo delle merci è l'attribuzione a
cose naturali, corporee, di significati umani. Quindi attribuire a cose dure, naturali, un’anima, uno spirito,
una capacità di avere significati.
In queste pagine, dal sapore letterario evidente, Marx non intende confessare la matrice hegeliana del suo
pensiero; per Marx, al contrario, si tratta di un misticismo del mondo delle merci, come lui chiama, che
nasce quando non si comprende la natura sociale delle cose e quindi delle merci. Cioè, a giudizio di Marx, il
feticismo del mondo delle merci, per cui lui dice “le cose sembrano avere un volto mistico, cose che
cominciano a ballare, cose sensibilmente sovrasensibili”, con queste formule Marx sta dicendo qualcosa
che interesserebbe molto lo studioso del marketing e della comunicazione, perché sta dicendo che le cose,
le merci, hanno un doppio corpo: un corpo naturale, fisico sensibile, ma anche un corpo mistico,
sovrasensibile, ovvero natura e immaginazione sono dentro la merce.
Marx dice qualcosa di fondamentale per gli studi del consumo e della comunicazione, perché sta dicendo
che una cosa non ha soltanto un significato naturale di essere, ad esempio, un pezzo di mattone, di ferro,
ma oltre al pezzo di ferro che lo fa un corpo naturale, esiste poi una proiezione sensibile intellettuale, cioè
una proiezione del desiderio, dell'immaginazione. Dunque, Marx sta definendo le prime categorie del
desiderio e dell'immaginario, cioè una cosa ha un doppio significato: un pezzo di stoffa non vale nulla, ma
se un pezzo di stoffa è firmato, questo pezzo di stoffa assume un valore nell'immaginario e quindi cattura il
desiderio, sprigiona narrazioni, racconti, costruzioni molto importanti dal punto di vista simbolico.
Quindi Marx sta ragionando non in termini hegeliani, ma sul doppio profilo della merce, che è una cosa
sensibile, ma anche una cosa sovrasensibile. Un hegeliano potrebbe dire che Marx dice che una cosa è al
tempo stesso sensibile e sovrasensibile, quindi è non scientifico, un autore che pensa in termini
contraddittori, come fa una cosa ad essere sensibile e al tempo stesso sovrasensibile? E quindi un hegeliano
dice Marx è hegeliano, il critico di Marx Popperiano dice no, ma in questo modo Marx è un pensatore
dialettico e quindi è al di fuori della cornice di un sapere scientifico.
Semplicemente Marx non è un hegeliano, non è ostile al ragionamento scientifico, sta ragionando su
questo meccanismo: la merce ha significati che trascendono il puro dato sensibile. Quindi, la merce è
sensibile, ma oltre al dato fisico, corporeo, sensibile, la merce è un investimento emozionale, simbolico e
quindi è anche sovrasensibile, dunque è sensibile e sovrasensibile. Non si tratta di un meccanismo
dialettico, ma è la ricostruzione di una vera ambiguità della cosa merce. La cosa merce è una cosa, ma è
anche un significato che la società o l'individuo attribuisce a questa cosa, per cui è un corpo naturale che ha
un valore che trascende il suo puro tratto naturalistico.
160
Quindi il feticismo delle merci si presenta come l’individuazione di un elemento simbolico, linguistico,
culturale, è l'elemento dell'immaginario, per cui una merce viene inseguita anche al di là del suo valore
effettivo, è il doppio corpo delle merci, che sia un valore d'uso, sia un valore di scambio. E quindi una merce
non è semplicemente un valore d’uso, una cosa a cui attribuiamo valore non è un valore d'uso, un anello,
non ha valore d'uso, ma ha un valore di scambio, ha un valore simbolico.
Dunque, Marx sta ponendo le basi di una sorta di sociologia dell'immaginario, per cui il feticismo delle
merci è il mondo delle immagini, delle proiezioni simboliche, delle creazioni più o meno fantastiche su cui si
sviluppa la società dei consumi. La società dei consumi sarebbe impossibile senza questo doppio corpo
delle merci, senza cioè l'esistenza di un dato meta naturale associato alle cose naturali o artificiali prodotte
nello scambio e nella vita economica. Dunque, è una sociologia dell'immaginario, non un ritorno a Hegel,
che Marx abbozza nella sua analisi del feticismo. Queste cose cominciano a ballare perché sono cose ma, al
tempo stesso, sono dei simboli, sono delle cose naturali e al tempo stesso esprimono desideri e quindi un
profilo fondativo dell’immaginario come caratteristica di una società come quella moderna basata sullo
scambio e sulla riproduzione illimitata dei valori merce.
Anche un'immagine coltivata soprattutto dai francofortesi, ma anche da una certa parte significativa degli
studiosi di Marx, è che Marx sarebbe un critico moralistico della società dei consumi, un censore
intransigente del consumismo, ma non è così. Marx, anzi, esalta le capacità di consumo, le opportunità di
consumo e dice che nel mondo moderno il superfluo diventa necessario e quindi il moderno è una
organizzazione sociale complessa, in cui i desideri trascendono i semplici bisogni e ciò che appartiene al
superfluo tende a generalizzarsi come consumo diffuso.
Rispetto a ciò, i fondamenti concettuali li troviamo sempre nella introduzione Grundrisse, Marx scrive: “La
produzione media il consumo di cui essa crea il materiale e al quale senza di essa mancherebbe l'oggetto,
ma il consumo dal canto suo media la produzione, infatti, è soltanto il consumo che crea il soggetto ai
prodotti, il soggetto per il quale i prodotti sono dei prodotti. Il prodotto ottiene l'ultimo compimento soltanto
nel consumo. Una ferrovia sulla quale non si viaggia, che quindi non viene logorata, non viene consumata, è
soltanto una ferrovia in potenza, non lo è nella realtà. Senza produzione non vi è consumo, ma anche senza
consumo, non vi è produzione perché in tal caso la produzione non avrebbe scopo. Un vestito diviene
realmente un vestito soltanto attraverso l'atto dell'indossarlo; una casa che non viene abitata, di fatto non è
una casa reale. Quindi il prodotto, a differenza del semplice oggetto naturale, si conferma, diviene, in
quanto prodotto soltanto nel consumo. Il consumo poi crea il bisogno di nuova produzione.”
161
La differenza che Marx individua rispetto ad altri approcci, è che la produzione nel tempo moderno è una
produzione che però non si arresta, non è rivolta al consumo immediato, ma produce illimitatamente beni,
i quali devono trovare poi mercato, diventare valori d'uso. Quindi il carattere specifico della società
moderna è di non essere rivolta al consumo immediato, ma di produrre illimitatamente beni che poi
devono essere consumati, ma attraverso processi complessi che distinguono l'età moderna da quelle
precedenti, in cui il consumo immediato era lo scopo della produzione (si produce soltanto perché ho
sicuro un acquirente immediato, questo non è per Marx il tempo moderno). Il tempo moderno produce in
serie, in maniera illimitata, quindi c'è un'incertezza nel processo produttivo perché se non trovo il consumo
anche il sistema moderno, che pure non è orientato al consumo immediato, però si frantuma, entra in
contraddizione.
Dunque, la potenziale contraddizione della società moderna per Marx, risiede nel fatto di essere una
produzione per la produzione, quindi produzioni illimitata, e però anche la produzione illimitata non può
trascendere i consumi, perché un'impresa che produca illimitatamente beni e non li vende ha fatto
fallimento, non sta più sul mercato. Quindi la produzione illimitata deve trovare opportunità di consumo.
Questo è il problema della società moderna: la produzione per la produzione deve al tempo stesso creare il
consumatore e quindi la produzione del consumatore diventa un elemento fondamentale, perché i beni
devono essere portati sul mercato, e sul mercato trovare acquirenti. Pertanto, la produzione deve
diventare consumo. Questo però è il meccanismo che non è scontato, esige un passaggio, una creazione di
aspettative, di domande e quindi interviene anche l'immaginario in questo, cioè produrre un consumatore,
il consumatore diventa secondo Marx anch'esso un prodotto. Il consumatore non è un dato in sé definito, il
consumatore è un elemento dinamico che la produzione stessa deve creare.
Dunque, la produzione per la produzione, la creazione illimitata di beni o valori di scambio deve operare in
modo tale che non incorra in crisi di sovrapproduzione. Dunque, la produzione per la produzione ha dentro
di sé il possibile sbocco di una sovrapproduzione di merci che non vengono vendute, non trovano
acquirenti. Quindi, per evitare questo bisogna costruire anche il consumatore. Dunque, il capitalismo in
Marx è un sistema espansivo, non è destinato al pauperismo. Il capitale, in quanto sistema di produzione
illimitata di merci o valori di scambio, deve, in quanto sistema orientato al profitto, trovare al tempo stesso
dei consumatori, e quindi espandere le capacità di consumo. Per Marx è vitale, fisiologico, essenziale per il
sistema economico creare consumatori, e quindi lo sfruttamento poi deve aprire anche al soggetto sforzato
opportunità di consumo, altrimenti la produzione degenera in sovrapproduzione in merci invendute, senza
soggetti che acquistano il bene.
Dunque, come la produzione crea il consumo, il consumatore? Qui Marx sta anticipando il tema anche della
pubblicità, cioè dell’immaginario, della crescita di aspettative, della diffusione di aspettative. Secondo Marx
il consumo non è una semplice aspettativa naturale, il consumo è fabbricato dal produttore. Secondo Marx,
il momento della produzione è in tutti i sensi il fattore prioritario, è la produzione che si crea anche il
consumatore perché è un sistema, è un meccanismo unitario di produzione, circolazione, distribuzione e
consumo.
Senza il consumo non esiste meccanismo produttivo espansivo e quindi il consumo è parte essenziale
dell'esperienza dell'uomo, in quanto consumatore, ma anche come momento fondamentale del sistema
162
Qui Marx dice delle cose molto importanti per l'analisi della società dei consumi e del marketing: “L'oggetto
artistico e allo stesso tempo ogni altro prodotto crea un pubblico sensibile all'arte, in grado di godere della
bellezza. La produzione non produce quindi soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per
l'oggetto. Dunque, come nell'arte l'oggetto crea un pubblico sensibile all'arte (altrimenti nessuno va a un
museo o apprezza un concerto. Una produzione artistica di grande qualità), cioè deve esserci un pubblico
sensibile in grado di godere della bellezza.”
L’espressione di Marx “godere della bellezza” smentisce tutte le indagini su Marx come un determinista, un
economicista. Lui parla di godere della bellezza e quindi non ci sono soltanto bisogni meramente materiali.
Nel rilievo che Marx sviluppa, la produzione non produce soltanto un oggetto ma produce anche il soggetto
per l'oggetto, si tratta di una formulazione molto importante, cioè la produzione non produce soltanto
valori di scambio, oggetti, perché deve produrre anche il soggetto in grado di acquistare l'oggetto. Ciò vuol
dire che nel campo dei consumi culturali, la società capitalistica moderna ha bisogno di un pubblico che
conosce l'arte e sia in grado di godere della bellezza, perché altrimenti non ci sarebbe industria culturale,
non ci sarebbe consumo di questi beni immateriali.
Quindi è una tendenza del sistema di mercato della società capitalistica creare un pubblico, creare il
soggetto oltre al valore di scambio e quindi il soggetto, il momento della soggettività, è fondamentale. Il
consumo di musica, di cinema, di letteratura, non ci sarebbero se il capitalismo fosse una società di rozzi
analfabeti.
Il Capitalismo non è per Marx una società di rozzi analfabeti, ma è una società che sviluppa capacità. La sua
critica al capitalismo non è di essere rozza, una società di poveri analfabeti, ma di essere una società
contraddittoria, perché aumenta la cultura, la capacità, ma non quanto sarebbe possibile, questa è la critica
che lui fa al capitalismo: di sviluppare dinamiche di soggettività, ma di contenerle perché le ragioni del
profitto richiedono che queste condizioni, di crescita della creatività soggettiva, siano ampie ma non
generalizzate, perché c'è sempre bisogno di un esercito industriale di riserva, di soggetti che sviluppino le
mansioni subordinate tipiche di una società industriale.
Quindi la critica che Marx fa il capitalismo è di essere una società che ha bisogno di capacità, ma la
creatività, la capacità del soggetto non si esplica per tutti, ma soltanto per chi è in grado di trovare spazi di
realizzazione entro le condizioni determinate dalla divisione sociale del lavoro. Questo è il rilievo critico che
Marx fa, cioè il sistema capitalistico sviluppa capacità, ma non quante sarebbero possibili e dunque produce
sempre nuove esclusioni. Non è generalizzabile la capacità di godere della bellezza, del pubblico sensibile
all’arte perché comunque una parte della società deve svolgere funzioni subordinate, lavori che nessuno
vorrebbe fare senza, quella che Marx chiama, la “silenziosa coazione dei rapporti economici”.
12/05/2021
Approfondiamo il tema, accennato nelle pagine dell'introduzione dei Grundrisse, cioè il rapporto tra il
sistema teorico e la storicità perché il problema che affiora nella impostazione di Marx è una critica, che
dagli anni giovanili si ripresenta anche nei Grundrisse e nel Capitale, una critica rivolta gli approcci a-storici
o astrazioni indeterminate. Marx, in età giovanile aveva detto l'economia politica assume la proprietà e i
rapporti di proprietà come un fatto, non li spiega questo è il limite della economia politica, cioè assumere
come un dato di fatto, come un evento di natura, rapporti sociali che per l'economista sono i punti
essenziali delle indagini. Quindi l'economia politica assume una sorta di petizione di principio: ciò che
163
Il rapporto con la storia è un elemento molto importante che non va confuso con quello che si chiama lo
storicismo. Marx evoca l'importanza fondativa della storia ma non si può ritenere un autore storicista.
L’interpretazione più interessante è stata suggerita da un suo critico dall'economista Schumpeter, che
appartiene a un altro filone del pensiero economico e però è tra i più acuti nel cogliere la peculiarità
dell'approccio di Marx. Schumpeter ha scritto che il metodo di Marx si può riassumere in questi termini:
Marx introduce parametri storici nella logica e determinazioni logiche nella storia. Ecco Marx fa
esattamente quello che nota Schumpeter, cioè dove l'economista, o anche Hegel, vedeva il cammino della
ragione, dello spirito e oltrepassava ogni dimensione temporale storica, Marx introduce un elemento
genetico critico, vale a dire, la considerazione del continente della storicità. Dove, però, la riflessione si
riduce alla storia di tutti gli accadimenti secondo un criterio cronologico acritico, Marx introduce parametri
logici.
Quindi Marx mette insieme, quella che poi nella teoria linguistica si chiamerà la dimensione diacronica e la
dimensione sincronica, mette insieme cioè quello che sta a cuore delle componenti dello strutturalismo,
vale a dire, le strutture logiche, formali, tecniche che definiscono ambiti di sistema concettuali. L'elemento
strutturale sincronico, la definizione dei concetti e delle strutture interpretative, è centrale in Marx, però
diversamente da un approccio puramente strutturalista, Marx aggiunge una determinazione storica, cioè le
strutture, i sistemi non sono pure costruzioni mentali indipendenti da determinazioni storiche.
Quindi serve la logica, servono le strutture, sono indispensabili le categorie e i sistemi concettuali, ma
questi sistemi, queste strutture, questi elementi sincronici non sono pure e artificiali costruzioni cioè non
sono quello che si può chiamare un gioco linguistico. Per Marx i concetti, le strutture sono un gioco, sono
una struttura artificiale, perché ogni astrazione è una costruzione artificiale, ma diversamente dalle teorie
dei giochi, delle strutture puramente formali, Marx precisa che questo gioco, questa struttura formale, non
opera nel vuoto, nell’indeterminato ma è una struttura delimitata storicamente e quindi è un sistema di
riferimento a enti, istituzioni, attori determinati.
Quindi l'astrazione determinata è la sintesi di logica e storia, diacronia (successione temporale) e sincronia
(organizzazione dei concetti secondo strutture formali). Marx introduce questa necessità di una
determinazione storica perché, già lo aveva visto in Hegel, il problema di tutti i sistemi razionali, che si
pretendono puri o di operare dentro differenziazioni soltanto concettuali, il loro problema è di definire
l'inizio del sistema cioè ciò che determina questo meccanismo che si definisce secondo parametri formali o
strutture categoriali coerenti. A giudizio di Marx, il problema, di Hegel come degli economisti, è di
concepire un sistema di cui sfugge l'inizio, l'elemento fondativo, cioè assumono come un fatto ciò che
andrebbe spiegato e quindi, secondo Marx, il problema è questo: l'economista politico che definisce leggi
che egli pretende siano strutture metatemporali, eterne, non mutabili, in realtà, ritaglia queste categorie,
questi concetti su determinati assetti sociali e materiali. Vale a dire, l'economista che ritiene di operare in
un quadro metatemporale senza riferimenti storici, dice Marx, rivela la storicità del suo approccio proprio
quando pone al centro della sua indagine la nozione di homo economicus, cioè di individuo senza legami.
Dice Marx che questo individuo che l'economista pone come l'inizio, in realtà è semplicemente il risultato
dei processi storici più complessi.
Anche l'altro elemento posto dall'economista, come un dato, cioè l'esistenza di un mercato mondiale, dice
Marx, non è un punto di partenza, ma è il risultato; non esiste una storia mondiale, non esiste un mercato
mondiale, è il risultato di processi storici. Dunque, serve il sistema, serve la categoria concettuale
interpretativa, sono indispensabili le strutture formali e tecniche, purché si abbia la consapevolezza che
sono astrazioni funzionali ad un determinato rapporto sociale perché senza questa consapevolezza, dice
Marx, l'economista politico ricorrere a delle costruzioni metafisiche, arbitrarie, come l’homo economicus,
164
Quindi, la filosofia politica, da Hobbes, a Rousseau, a Kant, e l'economia politica, per spiegare la genesi della
modernità, ricorrono a ipotesi fittizie, Kant stesso le chiamerà “come se”, ipotesi regolative non
effettivamente rintracciabili e quindi fanno ricorso all'ipotesi regolativa di un contratto originario che non
c'è stato realmente però serve per spiegare la genesi del sistema sociale. Per Marx questo modo di
procedere non è scientificamente produttivo perché assume come l'inizio un'ipotesi che soltanto entro
condizioni più sviluppate, quindi al termine del processo storico, è possibile individuare. Quindi la nozione
di individuo, di contratto, di legge della domanda e dell'offerta, di libera concorrenza sono nozioni da
prendere come determinazioni valide ma entro il sistema moderno come quello più sviluppato e
differenziato.
Dice Marx, ricorrendo ad una analogia tra il formalismo dell'economia politica e la teologia, che l'economia
politica quando deve spiegare la genesi di tutto il suo apparato concettuale di queste sofisticate tecniche
del mercato, della domanda, della concorrenza, dell'offerta, del consumo e così via, ricorre ad un inizio
metafisico e questo inizio metafisico poi però coincide storicamente in qualcosa di diverso dal mondo
idilliaco sognato dall'economista politico. Come la teologia ricorre al peccato originale per spiegare la
genesi, così l’economista politico ricorre ad uno stato iniziale metafisico per spiegare la genesi dei processi
che deve spiegare e allora Marx si trasferisce davvero a questa problematica dell'inizio, alla problematica
delle origini.
Si trasferisce, però, Marx a questa problematica nell'ultimo capitolo del primo libro del Capitale, cioè
l'elemento dell'inizio della storia compare, in Marx, alla fine del capitolo ventiquattresimo del primo libro
del Capitale, perché il suo approccio non è quello storicistico (partire dalle origini e poi vedere come si
sviluppa), il problema delle origini viene posto per sfidare queste ipotesi di contratti sociali originari, di un
homo economicus sempre esistito e mostrare che il sistema, in realtà, che l'economista o il filosofo politico
disegna come elemento in sé coerente e formale, quanto la sua genesi evoca meccanismi che non sono
propriamente edificanti e corrispondenti alle logiche funzionali del sistema sociale moderno.
Dunque, Marx dice questo: è vero il sistema sociale moderno del rapporto economico vive l'homo
economicus che scambia, contratta, vende, compera, ricerca il profitto secondo determinazioni
quantitative, ma questo sistema, nella sua genesi, non rinvia a queste leggi. Queste leggi sono possibili
soltanto quando il sistema si è consolidato e ha determinato cioè rapporti che sono quasi diventati naturali.
È vero che la legge della domanda e dell'offerta, la concorrenza, sono dei meccanismi diventati oggettivi,
nessuno più pensa alla genesi di questo sistema, ma lo scienziato sociale questo problema, invece, lo deve
affrontare. Dinanzi a ciascun individuo è normale che una cosa si compra, che un libro ha buon prezzo, che
un qualsiasi prodotto sia oggetto di scambio, è normale andare in ufficio o in fabbrica a lavorare, nessuno si
pone il problema di questi rapporti, ma, dice Marx, quello che è diventato natura e nella psicologia del
singolo diventa fatto banale quotidiano, non è nato così spontaneamente come un frutto di natura per
questo serve il problema della genesi.
Il problema della genesi serve a Marx non per fare una storia storicistica, ma per mostrare che la logica
sincronica, strutturale dell'economia politica e di qualsiasi scienza puramente formale, è una logica
contraddittoria perché con essa non si spiega la genesi del meccanismo economico sociale. La genesi del
meccanismo economico sociale non si ricava dalle leggi eterne dell'economia, perché Marx fa questa
incursione sul piano della storicità e si colloca a quella dimensione che lui chiama “antidiluviana”, “le
condizioni antidiluviane del capitalismo” o come si esprime sempre Marx “il problema della accumulazione
originaria”.
165
Dunque, la storia serve per completare la logica, se la logica viene ad essere costruita senza la
consapevolezza del fattore tempo. L'economista non ha determinato le categorie sulla base del tempo e
quindi il problema delle origini smonta tutto l'edificio formale, perché le origini non sono spiegabili con le
stesse logiche utilizzate per comprendere le modalità di funzionamento del sistema. Quindi, il sistema
sociale moderno di mercato ha precisamente le leggi che l'economista individua, ma per spiegare questo
sistema le leggi dell'economista non servono perché presuppone condizioni che sono definite dentro il
sistema, ma prima del sistema non esisteva.
Cosa c'era prima del sistema, prima delle leggi della domanda e dell'offerta, del libero contratto? C'erano
quelle dimensioni empiriche che, secondo Marx, svelano che la naturalità, di cui parla l'economia politica,
l'eternità delle sue leggi è semplicemente un circolo vizioso, un errore scientifico perché l'accumulazione
originaria o le condizioni antidiluviane del capitale mostrano che ciò che per l'economista, o per il filosofo,
diventa legge di natura, diritto naturale, o con Weber meccanismo di razionalizzazione, in realtà, tutte
queste cose hanno avuto bisogno di cose molto più prosaiche per essere riconosciute.
Come spiega Marx questa vicenda della accumulazione originaria? Dice Marx che bisogna prendere il paese
modello e il paese modello che spiega la genesi del capitalismo è quello che in Europa è il più sviluppato e
svolge un ruolo principale nell'economia moderno, cioè l'Inghilterra. L'Inghilterra è la forma classica di
capitalismo, la quale rivela che tutte queste costruzioni, il contratto, l’homo economicus, leggi naturali, non
esistono. L’Inghilterra vede l'elemento della coercizione, della violenza come fondamentale nella genesi del
sistema capitalistico moderno.
Dunque, Marx distingue sul piano logico effettivamente il capitalismo consolidato, opera senza più furto e
violenza esplicita, ma il capitalismo nel suo atto genetico ha avuto bisogno di elementi di diretta coercizione
perché altrimenti non era spontanea la nascita di un'economia di mercato, non erano leggi naturali che
quindi erano destinate al trionfo, ma c'è stato un elemento e Marx qui richiama una frase di Locke, dice
Marx, “anche Locke, per il quale la proprietà, il lavoro, il denaro sono leggi di natura ed esistevano da
sempre, prima della politica, poi però ricorre ad un'espressione rivelatrice quando dice c'è bisogno
dell’artificio politico”. Dice Marx, l'artificio politico rivela proprio una contraddizione nel pensiero di Locke,
perché se una cosa è naturale non ha bisogno di un artificio politico, se c'è stato bisogno di un artificio
politico e quindi di violenza, di volontà politica organizzata, vuol dire che quelle cose non erano naturali ma
sono state prodotte storicamente dalle relazioni sociali.
166
Marx prende in esame la legislazione inglese sulle terre e quindi il passaggio dalle terre come beni
demaniali comuni, alle terre che vengono privatamente assegnate e occupate. Quindi c'è effettivamente un
fenomeno di occupazione, ma non è un'ipotesi logica, è una ricostruzione precisa dei meccanismi sociali
inglesi. Marx analizza secondo il rapporto forze produttive e sistemi o rapporti di produzione. Quindi il
problema della genesi va inquadrato in questo rapporto tra forze produttive e precedenti rapporti di
produzione. Esiste un sistema e questo sistema nasce rompendo il precedente sistema; da questa rottura
del precedente sistema scaturiscono nuove forze produttive, nuovi attori, nuovi soggetti, nuovi interessi.
Quindi questo rapporto viene così spiegato da Marx: entra in crisi, si distrugge il rapporto sociale di tipo
feudale per determinati meccanismi. Questa rottura dei rapporti sociali feudali produce nuovi soggetti o
nuove forze produttive, le quali se vincono determinano nuovi rapporti di produzione altrimenti sono forze
che restano in piedi ma non hanno un ruolo centrale.
Questo meccanismo vede, in Marx, un duplice processo: la rottura della società feudale, i licenziamenti in
tutta Europa delle corti sovraffollate di gente e quindi disoccupazione dei vecchi apparati politici e un altro
fenomeno, cioè l'abbandono delle terre come fenomeno essenziale, perché non rendono più, non sono più
produttive, a cui si aggiunge anche un ulteriore elemento, cioè le grandi terre, i grandi beni comuni che
davano pascolo, legna ai ceti popolari, nella storia inglese ad un certo punto vengono occupate dai grandi
signori che gestiscono in questo modo privatamente ciò che prima era comune.
Allora cosa accade? Da una parte licenziamenti dei poteri tradizionali; dall'altra nuove forze produttive,
perché secondo Marx non c'è una determinazione etica a far sì che l'individuo sia considerato un individuo
libero, perché il servo della gleba diventi libero, c'è bisogno di passaggi empirici, di nuove macchine che
rendano sostituibili i vecchi soggetti e, inoltre, una condizione specifica, disponibilità di nuova energia forza
lavoro. Come si ricava questa disponibilità? Con le politiche violente di recinzione delle terre, di gestione
privata dei beni pubblici demaniali comuni, molte persone sono costrette ad abbandonare le loro zone di
origine e a recarsi in città. L’'aria della città rende liberi, dice una formula tedesca, ma semplicemente
perché a chi arriva nelle città non è più possibile esercitare un controllo sul suo status, è un vagabondo però
personalmente libero perché la sua fuga dalla terra lo rende al di fuori della vecchia giurisdizione feudale,
non ha più un legame col padrone e quindi non ha più una condizione sociale data. Nella città è una
corporeità libera che non ha più su di sé scritto il meccanismo di identificazione giuridica, non ha più un
servo per natura, è un corpo che si ritrova nella città.
Il problema che Marx descrive è questo: il mercante, o anche l'artigiano, in questa fase hanno la possibilità
di trovare manodopera a buon mercato e quindi per esigenze del tutto storiche oggettive nascono i primi
167
Dunque, l'individuo diventato libero perché scappato dalla campagna, dal vincolo feudale è indotto a
esercitare questa sua libertà attraverso un libero contratto che lo induce ad entrare in officine, in fabbriche
e quindi a produrre. Questo passaggio dal contadino diventato libero perché fuggiasco e così privo di
coercizioni feudali, alla nascita di un rapporto di dipendenza lavorativa, questo rapporto, secondo Marx, è
tutt’altro che pacifico, graduale, naturale. Dice Marx che c'è stato bisogno che i nuovi attori dell'economia,
la borghesia nascente, l'imprenditore che si sta affermando, che queste figure abbiano avuto un rapporto
con i meccanismi politici e quindi si determina un parallelo tra l'impresa, la fabbrica, il ruolo in esso del
proprietario, e i meccanismi politici che servono per puntellare questo nuovo regime. Dunque, si realizza un
rapporto organico tra i nuovi soggetti economici in ascesa (la borghesia, il grande commercio) e le figure
politiche.
Le figure politiche, in questa fase, operano come strumento per il consolidamento del rapporto di
proprietà. Questo meccanismo si opera, dice Marx, attraverso leggi tra il terroristico e il grottesco
(folcloristico) insieme, cioè leggi che Marx analizza nella vicenda inglese, per cui ricorda i vari statuti e i vari
meccanismi legislativi adottati dalla corona inglese per combattere il vagabondaggio e costringere al lavoro.
La costrizione al lavoro è un meccanismo che mostra come alle origini ci sia sorveglianza e forte apparato di
repressione. Marx ricorda gli statuti che punisco, con meccanismi di violenza molto forti, coloro che si
rifiutano di lavorare. Il vagabondo è ritenuto un crimine penale. Anche Locke, quando parlava della figura
del vagabondo che non accetta di entrare in un libero rapporto salariato, auspicava misure legislative
esemplari. Scriveva Locke che se uno viene trovato in città senza occupazione e che vaga senza dimostrare
di avere un posto di lavoro, costui deve essere sottoposto a processo e la pena che Locke auspicava era il
taglio delle orecchie. Dice Locke “ci serve il taglio delle orecchie per gli accattoni degli oziosi”, gli accattoni
degli oziosi erano i fuggiaschi dalle campagne che non avevano questa naturale propensione a vivere in un
regime di fabbrica e quindi il regime del lavoro, della fabbrica, delle dipendenze verso un padrone non è
naturale, non è un prodotto di reciproci soggetti liberi che contrattano, questo diventerà il meccanismo di
funzionamento ma ha avuto bisogno di molto tempo questo elemento per istituzionalizzarsi.
Marx ricorda che il furto non era operato soltanto dalle grandi proprietà per consolidare il potere, ma la
Chiesa faceva ricorso allo stesso meccanismo e, inoltre, parla di espropriazione parlamentare legale cioè
leggi non atti di violenza e di usurpazione, come quelli immaginati da Rousseau, ma leggi del Parlamento
espropriavano i beni pubblici e comuni e li affidavano a signori dotati di particolare influenza. In questa
fase, dunque, Marx ricorre alla sua espressione: il sistema capitalistico nasce grazie a quello che lui chiama
la “violenza concentrata e organizzata”, cioè lo Stato è indispensabile per la genesi del sistema sociale
moderno.
La violenza organizzata e concentrata è stata la risorsa decisiva per dare certezza alla proprietà, per dare
sicurezza dentro lo Stato e per riprodurre come norma le condizioni economiche che sono nate da
situazione di eccezione e, dunque, lo Stato è fondamentale nella genesi del capitalismo. Questo, come
dicono giustamente gli studiosi americani del marxismo politico, smentisce la tesi secondo cui Marx non c'è
un'attenzione al momento politico statuale. La violenza organizzata dello Stato è fondativa nel rapporto
sociale moderno.
Marx si riferisce al Seicento inglese come momento di particolare significato nella vicenda storica della
genesi del capitalismo e dice Marx che il Seicento inglese è una storia, dal punto di vista politico
168
Dunque, vuol dire questo che il capitalismo è un prodotto politico, il prodotto di una volontà politica? No,
Marx, sempre nell'introduzione del ’57, se la prende con un economista il quale dice che la storia dei
rapporti economici è la storia degli imbrogli, delle violenze operate dai governi. Quindi qual è
l’interpretazione di Marx del rapporto tra violenza organizzata e economie? Lo Stato come violenza
organizzata è fondamentale, ma questo non significa per Marx che il rapporto economico sia il prodotto di
una volontà di potenza vuota e quindi ad un certo punto si presentano volontà politiche che inventano il
sistema economico. Il rapporto tra economia e politiche è più complesso.
Secondo Marx, avviene questo tipo di relazione: esistono soggetti nati dalla dissoluzione dei precedenti
rapporti e quindi esistono figure, interessi reali, non è lo Stato che li inventa, lo Stato scaturisce da questi
processi, da questi soggetti, come una leva che matura accanto a queste nuove forze produttive. Quindi per
marcio non è una volontà politica che inventa questo è il capitalista, questo è il lavoratore e quindi inventa
tutto il meccanismo, ma il meccanismo si produce attraverso altri elementi, cioè un determinato tempo, la
divisione sociale del lavoro, si sviluppa secondo determinati parametri e a livelli più o meno avanzati ed
entro questi rapporti scaturisce poi il ruolo della politica e dello Stato.
Per Marx, lo Stato, la violenza politica organizzata, non opera in maniera indeterminata ma alla luce di forze
produttive che sono espresse dallo Stato reale di evoluzione della divisione sociale del lavoro e quindi è
vero che lo Stato, dice Marx, è la levatrice della storia in quanto accorcia i tempi, ma appunto lo Stato
accorcia i tempi, accelera, ma non inventa ex novo. Ci sono soggetti, forze produttive che si servono dello
Stato che viene costruito a ridosso di questi nuovi rapporti sociali e quindi in Marx si determina un intreccio
tra forze produttive, per azioni economiche che esistono tra di loro, e momento politico che è
fondamentale, ma non è l'inventore. Se non ci fossero quelle forze produttive, quelle relazioni economiche,
non è che lo Stato, un manipolo di soggetti con la violenza organizzata, inventa le relazioni economiche,
secondo Marx, il primato è sempre della dimensione di rapporto sociale di produzione. Entro questa
dimensione del rapporto sociale di produzione, il politico poi svolge una funzione attiva, non di riflesso e di
rispecchiamento perché il politico diventa strumento di istituzionalizzazione che riproduce i rapporti di
potere e con essi garantisce la proprietà, il regime degli scambi e così.
Dice Marx, lo Stato prima è una parte accanto ad altre parti, poi attraverso meccanismi storico sociali, lo
Stato da un elemento di parzialità e di violenza diventa l'organizzazione generale che si impone in un
territorio e dice Marx lo Stato, quando si consolida, non è più una parte e quindi rispecchia interessi di
poche centrali di dominio (la Corona e i grandi proprietari), ma diventa una dimensione più generale perché
si istituzionalizza, diventa una macchina formalizzata che funziona attraverso procedure e istituzioni, le
quali, dice Marx, garantisco due condizioni vitali: la sicurezza nel mercato interno e la sicurezza nelle
relazioni esterne.
Dunque, lo Stato o la violenza come levatrice della storia, come la chiama Marx, serve in queste fasi
antidiluviane per accelerare un meccanismo che altrimenti diventerebbe molto più lento e incerto. In
questo c'è la funzione costruttiva del politico: il politico diventa un investimento attraverso il quale le nuove
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Il ceto professionale dei giuristi, il recupero delle categorie del diritto romano privato, garantisce la
circolazione, il commercio, le nuove relazioni che quindi trovano anche figure giuridiche adeguate. In
questo senso Marx parla di diritto di classe, non è una teoria “il diritto è una forma di classe”, ma dice Marx,
nel Capitale, che il diritto, la legislazione, è “la verbalizzazione del rapporto economico”, quindi il diritto
come verbalizzazione, come messa in forma in parole, in concetti, in categorie di rapporti economici che si
presentano dalla dissoluzione del vecchio regime feudale. Questa verbalizzazione è da Marx riscontrata
empiricamente, non è un assioma metafisico secondo cui il diritto e l'economia sono in rapporto di tipo
deterministico, ma Marx allude ad un fatto storico accertabile, empiricamente determinato.
Cos'è questo tratto di classe della legislazione? Dice Marx che dal Seicento in poi fino al 1871 si sussegue in
Inghilterra una legislazione che ha un chiaro contenuto di classe, cioè il diritto, gli apparati dello Stato, le
Istituzioni, hanno una funzione particolaristica tutta incentrata sulla difesa dello sviluppo dei rapporti di
proprietà. Dunque, lo Stato non ha una visione generale, ma è molto legato all'economia, ma questo non è
un assioma metafisico, è la registrazione di un profilo storico determinato.
A cosa si riferisce in particolare Marx? Dice Marx, in Inghilterra esiste una legislazione sui rapporti di lavoro
che mostra appunto come il diritto sia la verbalizzazione dei rapporti economici e abbia un evidente
significato di classe. Marx fa riferimento all'istituto giuridico del salario minimo e come l'ordinamento
giuridico tratti questo problema. Il secondo problema, il secondo istituto giuridico che analizza è quello
della rottura del contratto di lavoro. In entrambi questi due istituti giuridici Marx riscontra la
verbalizzazione del rapporto economico nel senso di un interesse di classe fatto prevalere con strumenti
giuridici.
Il primo problema, cioè la nozione di salario minimo: dice Marx salario minimo era diversamente sanzionato
dal sistema giuridico inglese. Esisteva una legislazione, un salario minimo e se un operaio veniva pagato più
del salario minimo, subiva un elemento di sanzione e, dice Marx, il volto di classe di questo espediente
giuridico si mostra nell'ammenda che l'operaio doveva pagare in caso di salario più robusto di quello
previsto dalla legislazione sui salari minimi. Se un operaio guadagnava più del salario minimo doveva
incorrere in sanzioni esemplari e quindi, non il datore di lavoro, ma l'operaio pagava la violazione della
legge sul contratto minimo perché la sanzione per l'imprenditore era simbolica, mentre per l'operaio era
reale. Questo per Marx era il segno di un diritto differenziato che privilegiava le condizioni di vita superiori
delle classi possidenti.
L'altro profilo giuridico che Marx analizza è la rottura del rapporto contrattuale di lavoro. Se a rompere il
rapporto di lavoro è l'imprenditore, si può fare al più un esposto, un procedimento di diritto civile nelle
corti comuni, quindi è un problema di diritto civile, di inadempienza contrattuale semplice. Se invece a
rompere il rapporto di lavoro, a infrangere la clausola del contratto di lavoro è l'operaio, diventa un reato
penale su cui si pronuncia un tribunale penale. Quindi per l'imprenditore è un problema civilistico; per il
lavoratore è un problema penalistico che riguarda cioè sanzioni giuridiche non patrimoniali.
Quindi, mettono in evidenza queste condizioni giuridiche inglesi, secondo Marx, che il diritto è la
verbalizzazione di un rapporto di classe perché così stavano storicamente le condizioni politiche inglesi. Poi
Marx aggiunge un ulteriore elemento: la legislazione europea e inglese, molto rigida e repressiva, contro
l'associazionismo operaio, cioè il divieto di stringere relazioni per avere contratti collettivi. Non c'è
possibilità per il lavoratore di agire collettivamente, perché l'associazione era perseguita penalmente, era
un diritto penale che sanzionava le associazioni operaie. Solo nel 1871, quindi molto tardi questa
legislazione, dice Marx, viene eliminata nella storia del diritto inglese e quindi comincia una nuova fase
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Accanto a queste dinamiche, Marx vive anche il costituirsi di un rapporto capitalistico su scala
internazionale e quindi vede in Inghilterra il compenetrarsi di Stato e alcune grandi agenzie, la compagnia
delle indie e poi anche il ruolo della banca d'Inghilterra come elemento fondamentale del capitalismo
inglese. La banca d'Inghilterra diventa un fattore fondamentale e Marx parlerà di una bancocrazia cioè la
banca come elemento di finanziamento del capitalismo, di concessione del prestito, di invenzione del
rapporto del debito pubblico e così via. Inoltre, nella vicenda della potenza inglese, come potenza
economica dominante, cruciale è il ruolo della compagnia delle indie di altre compagnie, cioè, all'esterno
dell'Inghilterra, la colonizzazione del mondo attraverso queste figure ambigue. La compagnia delle indie era
una sorta di impresa privata con sovranità politica e quindi era la concessione a queste entità di poteri
politici da esercitare in ogni parte del mondo occupata dall'Inghilterra e quindi politiche ed economia,
sovranità e denaro, si intrecciavano, non erano chiaramente distinti pubblico e privato avevano una
combinazione molto particolare.
Questa vicenda è importante come la descrive Marx che ha nel Capitale passaggi di grande levatura
letteraria quando parla di questi meccanismi di colonizzazione, ad esempio, la metafora del “puritano
inglese che fa soldi con lo scalpo degli indiani” o la distruzione della condotta inglese nelle indie e nei paesi
lontani come “la grande strage erodiana degli innocenti”, cioè dice che si tratta, altro che di leggi di natura
e di ragioni, ma di esercizi spietati di dominio con elementi di distruzione, saccheggio, rapina in tutte le
parti del mondo. Importante, in questa parte del Capitale, è che figura una nozione, in Marx, “opinione
pubblica europea”. Dice Marx che, dinanzi a questi processi di rapina, sterminio, saccheggio, la vergogna è
l'opinione pubblica europea che non ha nulla da dire, trova normale questi scalpi degli indiani o queste
opere di distruzioni in nome della santità del profitto. Marx dice che l'opinione pubblica europea ha
raggiunto un livello proprio di assoluta degradazione, nulla più dell'atteggiamento impassibile dell'opinione
pubblica europea, colta, civilizzata, verso le politiche imperiali, mostra come l'opinione pubblica europea
abbia smarrito valori di cultura, di civiltà e così via.
Dunque, dice Marx, questo Dio straniero che con il denaro, le merci, occupa tutti gli angoli del mondo
disponibile è un Dio che non indietreggia rispetto al saccheggio, alla violenza, alla distruzione. Quello che
Marx auspica è che l'India e altri paesi conquistati dalla potenza inglese abbiano almeno un vantaggio da
questa penetrazione del capitalismo con mano armata, cioè la costruzione di strade, di infrastrutture, di
una piccola entità di classi dirigenti con le quali diventa possibile una rivolta una lotta di resistenza contro il
dominio imperiale. Marx dice che non è libera una Nazione che opprime l'altra e quindi nei rapporti tra
l'Inghilterra, come centro del mondo, e le periferie, che sono sottoposte a un regime di dominio militare, in
questo rapporto si svela la profonda ingiustizia radicata nei meccanismi economici e il suo problema sarà di
determinare una convergenza tra le rivolte in India, o in altri paesi, in Irlanda, e la ribellione dei ceti operai
dentro i loro paesi per fare in modo che questo ingranaggio salti e si determinino nuovi rapporti sociali.
Dunque, nella fase antidiluviano che dura per alcuni secoli, decenni, il sistema vede l’intreccio di politica,
violenza, volto di classe del potere. Questo è quello che storicamente è ricostruito da Marx, il quale però
alla declinazione storica delle origini aggiunge un inquadramento sistemico del meccanismo economico
della formazione economico sociale. Quindi il problema di Marx diventa quello di comprendere le leggi
strutturali del meccanismo economico capitalistico, cioè la sua critica al meccanismo capitalistico non
prende spunto dai romanzi delle origini che mostrano violenza, sangue, distruzione e rapine, ma la sua
critica diventa a livello più avanzato dello sviluppo.
Quali sono le contraddizioni di questo sistema? Anzitutto per Marx la storia del sistema è una storia che
non deve precludere alla scoperta della logica del sistema, però questo non significa che la storia sia un
171
Le armi del vecchio arsenale sono lo Stato, il diritto come verbalizzazione della dominanza di una classe.
Nelle situazioni critiche, secondo Marx, il capitalismo tende a recuperare le armi del vecchio arsenale, dove
cioè non riesce a competere con gli attori, con l’antagonismo sociale più forte, ci sono tendenze a
recuperare quello che sembrava dimenticato e quindi a far riemergere le armi del vecchio arsenale che
significa utilizzazione di strumenti che richiamano alla coercizione, alla situazione critica. Questo, a giudizio
di Marx, avviene perché il sistema che lui indica, come unità di produzione, consumo e così via, è un
sistema attraversato dalla contraddizione, che non è la contraddizione di Hegel (la contraddizione logica),
anzi Marx dice “nulla di più facile per un hegeliano è pensare che produzione e consumo siano identici, e
quindi se sono identici non c'è più contraddizione”.
Invece, contraddizione c’è per Marx perché la produzione e il consumo devono coincidere ma possono non
coincidere e quindi da questa possibilità che il consumo non trovi opportunità, e che quindi la produzione
diventi sovrapproduzione senza realizzazione nella produzione, da questo scarto derivano condizioni
critiche per la sopravvivenza, per la riproduzione del sistema.
Quindi nel quadro di Marx, esaurita la parte storica, poi subentra la parte logica per vedere i punti di
criticità scritti non nel romanzo delle origini, ma nei punti più elevati del sistema.
Quindi quando il sistema si è autonomizzato, diventa quasi autoreferenziale, su cosa questo sistema
diventa vulnerabile? Quali sono i meccanismi che possono far saltare determinati equilibri? Questo è il
problema di Marx: individuare nel sistema più evoluto, nella logica funzionale del meccanismo economico, i
punti di criticità. Questa è la contraddizione non è una categoria filosofica, ma è la tensione tra momenti
diversificati: produzione e consumo, sono in un sistema unitario ma sono pur sempre due momenti diversi
e se non si realizza l'intreccio, il meccanismo traballa.
13/05/2021
Come si è visto nel capitolo 24 del Capitale, in cui delinea una ricostruzione storica della costruzione della
modernità politica, Marx assume come forma classica della modernizzazione quella inglese e non esclude
però quel che altrove i processi storici si svolgano in forme diverse, dice Marx che l’Inghilterra è la forma
classica, però poi ci sono una molteplicità di esperienze empiriche che si svolgono secondo modalità di
sviluppo autonomo e non sottoponibile a una regolarità astratta.
172
Quello che ha visto nel capitolo 24 del capitale è invece la parte storico cronologica che Marx tende ad
escludere dal modello logico. Il modello logico del sistema sociale capitalistico tende a rimuovere,
dimenticare, le sue origini, a metabolizzare le cicatrici della prima modernità. Anche se poi Marx in un
passaggio afferma anche che ciò che ha conosciuto nelle origini storiche, poi il sistema sociale capitalistico,
in taluni momenti tende a riprodurre, a fare di nuovo ricorso, a quelle che Marx chiamava, “le armi del
vecchio arsenale”.
Questi ricordi che riaffiorano, e quindi le tracce della società moderna nelle sue fasi antidiluviane, non
costituiscono però il modello, il sistema. Secondo Marx, dentro il sistema sociale operano anche qua e là
delle eccezioni rispetto al modello logico, cioè questo sistema in taluni momenti critici riproduce quello che
sembrava aver dimenticato. In un altro passo, Marx dice che lo Stato assoluto è la tara occulta dello Stato
moderno e quindi il modello logico puro, che vede consenso, diritti umani e così via, poi si scontra in certi
passaggi critici con la sopravvivenza di modalità arcaiche di vita economica e politica.
Per cui se il modello logico è la società della conoscenza, il capitalismo cognitivo come si chiama oggi,
dentro questo sistema, raffigurato in termini di digitalizzazione, algoritmo, razionalità, poi esistono tracce
di moduli arcaici, per cui situazioni come in Calabria, Latina, in Puglia cioè forme di sopravvivenza, di regimi
sociali arcaici, cioè in taluni passaggi il meccanismo di valorizzazione vede il riprodursi di quello che
apparteneva alle origini, cioè ai modi brutali, spiccioli di costruzione delle opportunità di profitto.
Però Marx soprattutto descrive il modello del capitalismo, cioè le linee di tendenza che lo caratterizzano
come struttura e quindi vede questo modello come tendenzialmente portato all'innovazione illimitata, che
poi si scontra, ovviamente, con problematiche, antinomie, che rivelano processi molto difficili da
organizzare e quindi le situazioni di crisi. Marx interpreta questo modello logico del sistema sociale
moderno come un percorso di differenziazione, cioè il sistema sociale moderno vede l'affiorare di ambiti
specifici che funzionano secondo peculiari regolarità e quindi, nella società moderna, l'economico si
differenzia come regime esclusivamente economico e dunque, retto dal calcolo dei costi dei benefici, dalle
determinazioni quantitative, è la fine di quelle che uno storico dell'economia Polani chiamava i rivestimenti
etici del meccanismo economico.
Nel processo sociale della modernità, Marx vede un meccanismo economico che è soltanto economico,
privo di rivestimenti etico religiosi, i quali non appartengono ai canoni funzionali del regime economico. Il
regime economico è volto al profitto ed è indifferente a richiami di natura etica. Quindi, l'economico si
differenzia, non ha più a che fare con la religione, l'etica, la teologia, la morale, queste dimensioni non
incidono nelle funzioni che caratterizzano una economia che poggia sul calcolo economico.
Dunque, il primo livello di differenziazione è l'economia che si basa sui principi strettamente economico
quantitativi, privi di condizionamenti estrinseci.
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Questo non significa che siano entità incomunicanti, per cui il sistema politico e il sistema economico non
hanno nulla in comune. Secondo Marx, il meccanismo sociale moderno, la formazione economico sociale,
differenzia entro però una cornice unitaria e dunque la sua indagine, che svolge nel capitale e nei
Grundrisse, è di cogliere questo sistema sociale unitario e differenziato, che si chiama, anche se Marx
ricorre piuttosto raramente a questo termine “Capitalismo” (Marx preferisce altri termini, principi
organizzativi del capitale, formazione economico sociale, rapporto sociale di produzione di tipo
capitalistico; il capitalismo ricorre alcune volte, ma non è la dizione preferita da Marx per cogliere il sistema
sociale della modernità).
Dunque, il sistema sociale della modernità è possibile quando l'economia funziona attraverso meccanismi
economici. Questo profilo di autonomizzazione del sistema economico vuol dire che, secondo Marx, il
capitalismo non è possibile quando esiste una società commerciale in quanto tale, in società in cui esiste il
commercio non è presente un meccanismo capitalistico, sono due entità differenti.
A giudizio di Marx, quello che occorre cogliere non è la dimensione che lui chiama della “circolazione”, e
quindi del commercio, dello scambio, della negoziazione, ma il livello della “produzione”, che è quello
fondamentale. Questo elemento comporta, ad esempio, secondo uno storico del 900 Pirene, il capitalismo
moderno si origina già nell’undicesimo secolo, perché Pirene tende a identificare la diffusione del
commercio delle pratiche di circolazione e di scambio con il capitalismo e quindi nell'undicesimo secolo e
poi nelle città italiane si sviluppa, a tutti gli effetti, un sistema economico di tipo capitalistico, perché le città
diventano elementi cardini del sistema e la compravendita attraverso il mercato, il commercio si
impadronisce di ampie zone del mondo.
Marx, riguardo a questi approcci, dice “certo in Italia esistevano dei germi, dei prodromi del capitalismo e le
città italiane hanno prodotto talune manifestazioni che sembrano anticipare il capitalismo (banche, sistemi
di cambiali, commercio diffuso etc.), però, dice Marx, non si sviluppa il caso italiano come meccanismo
capitalistico, perché anzi questo precoce sistema mercantile delle città viene presto superato e altri sono i
modelli economici di sviluppo capitalistico”.
Ma oltre al dato storico per cui l'Italia anticipa il capitalismo, ma poi è in altri paesi che Marx vede la forma
classica del capitalismo, il problema è di natura teorica: cosa è necessario, secondo Marx, perché si abbia
una società di tipo capitalistico? Non basta il commercio, non basta il denaro, non bastano gli strumenti del
diritto privato che vengono riprese dal diritto romano classico, occorre un'altra condizione, quella decisiva,
ossia che sul mercato come bene acquistabile ci siano tutti i prodotti, tutte le cose, compresa una cosa, un
corpo particolare, quello che Marx chiama la “forza lavoro”. Se non c'è la compravendita libera della forza
lavoro, allora non esiste capitalismo, ma esiste una società commerciale, parti di che economia retti dalle
pratiche con negoziali e così via.
Nell'accezione di Marx occorre che tutto sia sottoposto a commercio, tutto sia mediato dallo scambio,
quindi, non soltanto i prodotti, le merci, ma anche quella merce particolare che ha un corpo vendibile.
Quello che caratterizza dunque il sistema capitalistico, per Marx, non è tanto il denaro come principio degli
scambi e quindi le tracce di economia mercantile (queste cose c'erano anche a Roma, in forme abbastanza
sviluppate al punto da richiedere i primi istituti del diritto privato), ma quello che anche a Roma mancava,
malgrado le forme contrattuali producessero un diritto privato è la forza lavoro, cioè il corpo del lavoratore
come cedibile attraverso un contratto libero.
Dunque, è questo il tratto specifico del sistema economico capitalistico, ossia il fatto che il soggetto abbia
una energia, una capacità, per produrre cose, idee, pensieri, merci e queste capacità si acquistano
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Quindi, diritto ed economia a questo livello, per Marx, si intrecciano; perché sia possibile un diritto privato,
astratto, eguale, a giudizio di Marx, non serve un pensiero, una costruzione logica, bensì questo pensiero,
questa astrazione logica che fonda l'eguaglianza giuridica di tutti i soggetti è possibile ad un'unica
condizione, quando storicamente tutti i corpi, anche quello del lavoratore, è un corpo libero e ogni
prestazione è pattuita secondo regole consensuali.
Dunque, nello schema che Marx propone deve esserci la produzione di merci attraverso lo scambio di
merci. Questa è la formula di Marx, ripresa anche da un economista come Piero Sraffa, la produzione di
merci a mezzo di merci, questo è il sistema sociale moderno di tipo capitalistico, cioè la produzione è rivolta
alla creazione di merci, valori di uso che sono portati sul mercato e venduti secondo un prezzo determinato
dalle leggi della domanda e dell'offerta, ma questa produzione non è fatta più come in Grecia o nel
Medioevo o anche nelle fasi antidiluviane del capitalismo, non è fatta più attraverso la schiavitù, il lavoro
coatto, ma attraverso la riduzione di tutti a merce.
Per cui è possibile quella che Marx chiama la “fictio iuris del contratto”: nella società moderna, con una
economia di tipo mercantile capitalistica è possibile questa fictio iuris, cioè che l'imprenditore e il
lavoratore siano considerati entrambi come soggetti liberi, come persone giuridiche. Questo meccanismo
della fictio iuris è possibile quando la finzione logica di equiparare tutti è possibile perché anche il
lavoratore acquisisce personalità giuridica. Quindi questo è il momento per Marx decisivo, il lavoratore
diventa persona giuridica perché non è più uno schiavo, ma può alienare, cioè vendere a tempo il proprio
corpo, ossia la propria capacità fisica e mentale.
Tutto questo secondo Marx è l'essenza della modernità e Marx attribuisce a Hobbes il merito di aver colto
per primo questo elemento quando nel Leviatano Hobbes diceva che “ogni uomo ha il suo prezzo”, cioè
ogni prestazione di qualsiasi soggetto è mediato da un'equivalente: il prezzo in denaro.
Dunque, il sistema economico moderno richiede denaro come mezzo di scambio universale, cioè tutte le
prestazioni sono in denaro. Non è il denaro che produce, però, il sistema capitalistico in quanto tale, ma la
generalizzazione dei rapporti monetari che hanno nel denaro il simbolo universale e nella generalizzazione
che coinvolge anche il corpo del lavoratore.
Quando tutti i corpi possono cedere volontariamente tempo ad un altro, c'è il denaro come Medium e c'è la
società moderna. La società moderna capitalistica, per Marx, implica questa condizione indispensabile:
tutto è mediato dal denaro, anche la prestazione lavorativa di natura manuale o intellettuale è mediata dal
denaro.
Marx dice che forse la metafora simbolica del moderno è l'orologio, perché l'orologio, dice Marx, consente
proprio di misurare quantitativamente il tempo, anche il tempo di lavoro. Quando il tempo di lavoro con
l'orologio è quantificabile, tutto è riconducibile ad un'unità di valore ed è possibile la legge del valore
lavoro. La legge del valore lavoro vuol dire ricondurre ad un tempo di lavoro un corrispondente salariale.
Questo rende possibile la legge astratta del valore e rende possibile la misurazione quantitativa del
meccanismo economico, quando cioè anche il lavoratore acquisisce una dimensione, una proiezione
quantitativa il lavoratore è corpo come forza, lavoro con capacità medie misurabili con il tempo e ripagabili
come prestazioni a tempo secondo un corrispettivo in denaro.
Lo scambio tra denaro e forza lavoro è la base del contratto fondativo della modernità: il contratto di
lavoro. Il contratto di lavoro è, per Marx, un contratto giuridico sui generis, perché è sia una forma giuridica
è un contrario, è una tipologia astratta, ma è al tempo stesso una produzione economica. Quindi il
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Il contratto di lavoro è uno scambio di volontà tra impresa e lavoratore, però questo scambio di volontà tra
impresa e lavoratore ha poi un risvolto; non è uno scambio di volontà semplice, ma da questo scambio
delle volontà si producono cose e quindi interviene un elemento cruciale: il rapporto giuridico diventa
sistema economico. Il contratto di lavoro vede la coincidenza, anche nella loro diversità, di momento
giuridico e di momento economico: il momento giuridico ricopre il rapporto economico, senza il diritto il
meccanismo economico non potrebbe funzionare, e però il meccanismo giuridico si realizza come
produzione di cose, come meccanismo economico.
In tal senso vale la considerazione di Marx che il diritto è la verbalizzazione del rapporto economico. Marx
fa una critica a chi ritiene che sia la volontà della legge a produrre il sistema sociale, non ritiene che il diritto
in quanto tale operi come strumento che crea l'economia, che crea la società, ritiene, al contrario, che i
meccanismi sociali, le differenziazioni empiriche che la società produce nel tempo richiedano poi istituzioni
giuridiche e quindi il diritto come verbalizzazione dei rapporti sociali. Marx fa un esempio; perché il diritto
commerciale moderno sorge ad Amalfi? Perché ad Amalfi sorge un'economia di tipo commerciale con un
sistema di navigazione e se non c'è questo nessuno inventa il diritto commerciale. Se non c'è un rapporto
economico, il diritto della navigazione non nasce, se non c'è un sistema di traffico mediato dalla nave che
oltrepassa i limiti territoriali attraverso le acque, non sorge un diritto della navigazione. E quindi il diritto
della navigazione è l'esempio di verbalizzazione giuridica di un rapporto reale.
Per questo, secondo Marx, il diritto come la merce ha un doppio corpo: uno reale sociali e uno normativo
ideale. Il diritto della navigazione è sia una cosa relativa a istituzioni sociali, è un'istituzione sociale del
traffico attraverso le navi e quindi è una cosa sociale. Ma oltre che rapporto sociale, attraverso lo scambio
marittimo, è anche una forma giuridica, cioè un sistema di idee normative.
Quindi il diritto è verbalizzazione di rapporti sociali, è insieme istituzione della società e creazione di un
ordinamento giuridico sulla base di un lavoro concettuale e formale. Questo lavoro formale, concettuale di
verbalizzazione giuridica è collegata al sistema economico e sociale. Quindi il diritto è istituzione e norma al
tempo stesso. Per questo economia e diritto sono differenti, ma anche componenti dello stesso sistema
sociale.
Questo ragionamento di Marx comporta che il sistema economico ha bisogno di un rivestimento giuridico,
senza il quale non ci sarebbe una economia di mercato solida, capace di riproduzione.
Marx sostiene, allora per concludere questo suo ragionamento, che il diritto è una funzione del sistema
economico sociale e che il diritto, in quanto tale, può essere un po' più avanti della società, ma non troppo;
non può esserci, cioè un sistema giuridico contraddittorio rispetto alle esigenze funzionali del meccanismo
economico. Marx intende dire che i teorici che dicono che bisogna introdurre principi di giustizia,
considerazioni di ordine morale per correggere le storture del meccanismo capitalistico, secondo Marx,
fanno una chiacchiera edificante, perché secondo Marx, il sistema capitalistico non può permettersi quelle
considerazioni di giustizia materiale auspicate da taluni riformatori, perché quelle considerazioni di equità,
giustizia, attenzione alle condizioni particolari, sono incompatibili con la logica astratta del sistema
economico capitalistico.
176
Dunque, un sistema economico di tipo mercantile capitalistico non può assumere la razionalità materiale e
quindi non pago questo mese il mutuo perché me ne sono dimenticato, dovevo andare a trovare una
persona, non pago il mutuo perché avevo mal di denti, tutte queste cose di razionalità materiale di
attenzione alle situazioni empiriche, sono per Marx impossibili, contraddittorie rispetto alla struttura
astratta che il capitalismo impone, cioè obbligazioni giuridiche, compravendita regolare, esigono un diritto
astratto e tipizzate, non è possibile regolare il commercio, lo scambio, attraverso il principio di equità.
Dice Marx che Proudhon o altri critici del capitalismo che correggono il capitalismo appellandosi al principio
di equità, incorrono in un errore, quello di non cogliere che il principio di equità è un principio di
organizzazione, quando l'economia era mescolata con l'etica, quindi, nella società medievale teologica
erano possibili considerazioni di natura equitativa e la Chiesa imponeva un'attività economica sotto la
sorveglianza della fede, quindi giorni di lavoro incompatibili con la festività etc., ma questo è incompatibile
con il sistema astratto che il capitalismo riesce a affermare.
Il capitalismo è un sistema astratto che rompe tutti i legami e ha come unico legale quello dello scambio,
tutti sono liberi soggetti dello scambio, questo è l'unico legame. Dice Marx che tutte sono persone
giuridiche che si riconoscono reciprocamente come portatori di interessi diversi e la composizione degli
interessi diversi è nello scambio, per cui uno cede ed uno acquista; tutti credono che in questo scambio
hanno un vantaggio, altrimenti non lo farebbero e, dunque, lo scambio è estraneo al principio di equità. Il
principio di equità, dice Marx, non può essere applicato in maniera organica al sistema capitalistico, che
anzi in talune fasi del dello sviluppo adotta le cosiddette clausole anti vessatorie, per cui in clausole che
sono pericolose per il consumatore o per il contraente più debole, è richiesta la doppia firma, ma sono
accorgimenti che non superano l'essenza astratta del sistema capitalistico, cioè la sua indifferenza alle
qualità, alle domande, agli scopi; l'unico scopo è vendere e acquistare, avere un interesse da rendere
quantitativamente accresciuto in ogni operazione dello scambio.
Quindi chi dice di applicare l'equità, la giustizia morale al capitalismo, dice secondo Marx una cosa che non
è scientificamente plausibile, perché introdurrebbe un diritto non di tipo moderno. Il diritto moderno
corrispondente alla società di mercato è il diritto privato astratto, indifferente ai valori. Se tu vuoi altri valori
non puoi assumere con il diritto scopi materiali, ma dovresti cambiare la struttura della società, guardare
dice Marx ai rapporti di produzione.
Quello che Marx critica, è il riformismo di chi ritiene che il diritto eguale vada applicato anche nelle relazioni
economiche e quindi prendere sul serio il diritto significa cambiare radicalmente la società. Marx obietta
che il diritto è già eguale, non è che va reso eguale. Il sistema capitalistico funziona solo con il diritto eguale
e quindi non si tratta di applicare nello scambio capitale-lavoro i principi di eguaglianza giuridica, perché
quelli sono, dice Marx, completamente soddisfatti, non c'è una negazione del principio giuridico di
eguaglianza, per cui non c'è un atto di violenza e di usurpazione che costringe il lavoratore a recarsi in
fabbrica. Il contratto è tra persone giuridiche formalmente equiparate dall'ordinamento.
Quindi dice Marx il problema non è giuridico, perché il diritto è astrazione, è eguaglianza formale tipizzante.
Dunque, non si tratta di applicare nel rapporto economico i principi di eguaglianza giuridica, dice Marx, in
nessun luogo, un sistema capitalistico sviluppato (non quello di prima generazione) presenta problemi di
ineguaglianza giuridica, ci sono altri tipi, non è l'ineguaglianza giuridica per cui si porta l'imprenditore in
tribunale perché viola l'eguaglianza, secondo Marx, non è di tipo giuridico il problema, il diritto è eguale e il
sistema economico capitalistico funziona attraverso il diritto eguali.
177
Per Marx, dire che il diritto è una funzione vuol dire che il diritto astratto è una funzione indispensabile per
un'economia di mercato e, quindi, esiste non un contrasto potenziale, come pretendeva Proudhon e altri
critici francesi attratti dai canoni dell'eguaglianza, ma per Marx il diritto eguale astratto esiste, non è
presente alcuna violazione del diritto, dei codici e dell'eguaglianza giuridico formale.
Quello che invece Marx intende scoprire è la vera radice dei problemi della società capitalistica, che non
sono la violazione del diritto formale, è un'altra cosa che proprio attraverso il funzionamento dei dispositivi
del diritto formale si produce una realtà di sfruttamento e quindi lo sfruttamento non è l'antitesi del diritto,
ma è il coronamento di un sistema economico basato sulla mediazione giuridica. Marx intende rispondere
proprio a questo problema: spiegare quella che si chiama la “teoria dello sfruttamento”. Lo sfruttamento
non è un qualcosa che ha violato il diritto, ma è il risultato di un sistema economico perfettamente coperto
da regole giuridiche.
Il primo libro del capitale si apre con l’affermazione secondo cui la società moderna è un'immane raccolta
di merci e poi, aggiunge Marx, queste merci non vanno da sole al mercato. Quindi il problema di Marx è:
tutte queste merci che sono sul mercato, chi le ha prodotte? E quindi, mentre i teorici francesi e Proudhon
rimanevano sull'ambito del diritto, ovvero la circolazione, per Marx il problema è proprio un altro: queste
merci non si producono da sole, deve esserci stato in Cina, in Inghilterra, in India, in qualsiasi posto, un
processo che ha prodotto i computer, le tecnologie e quindi bisogna indagare il meccanismo di produzione.
È lì che Marx ritiene che l'indagine possa fornire indizi molto utili per la comprensione del processo
moderno. Tutti i segreti della modernità sono in questa domanda; le merci non vanno da soli al mercato e
quindi queste merci sollecitano una domanda: Chi le ha prodotte, come le ha prodotte? E lì, secondo Marx,
si ritrovano le radici del moderno.
- IL PIANO DELLA PRODUZIONE: che poi vede che l'eguaglianza giuridica si trasforma in un qualcosa di
estremamente diverso.
Se rimaniamo solo a livello della circolazione, dice Marx, allora il capitalismo sembra l'Eden dei diritti umani,
sembra il paradiso della eguaglianza, dei diritti naturali, umani e così via, perché sul piano della circolazione,
c’è il principio giuridico dell'eguaglianza: tutti i corpi nascono eguali e hanno pari diritto, questo è il livello
giuridico, la circolazione è il momento giuridico astratto. In questo momento giuridico astratto, trionfano i
diritti di natura e l'universalismo etico è pienamente soddisfatto.
Però, dice Marx, c’è poi un piano, un qualcosa che viene di solito di mosso, anche i grandi economisti
classici lo rimuovono, si tratta del livello sottostante a quello della circolazione, cioè il livello della
produzione.
178
Dunque, la circolazione non risolve i problemi di analisi, perché la circolazione pone tutti come soggetti
giuridici che scambiano, il proprietario e il lavoratore, ma la posizione del lavoratore è evidente, è un
soggetto che ha il puro corpo da vendere; la posizione dell'imprenditore non è derivata dal contratto,
perché prima del contratto esiste già il proprietario, che dispone di capitali e di tecniche, di apparati
industriali per avviare la produzione. Quindi non è vero che il contratto produca tutto, il contratto ha dietro
di sé la presenza di figure sociali che hanno un potere sociale eterogeneo, non giuridico, potere sociale.
Questo è il problema che Marx indaga, cioè che il potere sociale dell'imprenditore è prima del contratto, è
condizione del contratto eguale.
Dunque, il problema non è che non c'è l'eguaglianza giuridica, ma il problema è che prima dell'eguaglianza
giuridica, c'è già chi ha la proprietà, il capitale, il denaro e può acquistare nel mercato soltanto chi ha tempo
da vendere, corpo da mettere a disposizione della macchina. Questo è il problema dello sfruttamento o
della asimmetria di potere sociale. Nel contratto non è stabilito il titolare della proprietà, quello è
condizione precontrattuale e da questa condizione precontrattuale il proprietario ha una serie di poteri,
dispositivi, sul corpo che lavora alle sue dipendenze e quindi l'eguaglianza giuridica del negozio, del diritto
privato, convive con questo elemento: poteri sociali attribuiti non dal contratto ma dalla proprietà, dal
capitale. Il capitale, cioè, assume un potere che è extra giuridico, non è un potere giuridico è un potere di
fatto che non è spiegato dal rapporto contrattuale. Il rapporto contrattuale regola soltanto la sfera della
circolazione, ma nulla mi dice, perché tu sei il proprietario e quali meccanismi sono stati adottati per
costruire le fortune economiche. Il livello della potenza direttiva del capitale precede il contratto e è una
condizione per lo svolgimento del sistema economico mercantile. Per cui tutto si fonda sul contratto ma
non la qualità del potere che sovraintende alle relazioni contrattuali.
L'altro problema che Marx evidenzia è che molti corpi che producono associati, in fabbrica o in altre
condizioni lavorative, determinano un prodotto sociale che poi sfugge al loro controllo: è il problema della
alienazione. L’Alienazione è che operai socialmente determinati, attraverso il coordinamento di attività,
prestazioni, momenti di invenzione, di applicazione, producono merci, beni che, come valore di scambio,
entra nel mercato. Non ci sarebbe produzione se questi beni prodotti non avessero un capitale maggiore
rispetto a quello investito.
E quindi il problema che Marx solleva è questo: nel meccanismo sociale, regolato dallo scambio
dell'uguaglianza giuridica tra persone, poi abbiamo questo dato particolare, cioè che i soggetti che hanno
dato tempo, consentendo all'impresa di coordinare le loro prestazioni, poi non sono i gestori, i controllori, i
proprietari di quello che hanno prodotto e quindi l'essenza del contratto di lavoro, del rapporto di mercato
è che il lavoratore entro il sistema d'impresa produce più di quanto ottenga con il salario. Questo è il
problema del plusvalore.
Quindi il sistema economico vede che l'impresa si trattiene, si appropria, di cose che altri hanno prodotto.
Quindi c’è questo meccanismo: i lavoratori producono più di quanto l'ammontare complessivo dei salari
distribuisce loro in termini, appunto, di capitale variabile. Il capitale variabile, l’ammontare dei salari dati al
lavoro, non copre l'intera ricchezza sociale prodotta nelle fabbriche alle dipendenze del capitale.
Secondo Marx esistono dunque diversi tempi: attraverso una normale giornata lavorativa, un determinato
lasso di tempo, alcune ore, ricoprono le spese, i costi della produzione e quindi attraverso il lavoro
continuativo, subordinato alle dipendenze del capitale, attraverso la prestazione misurata per tempo, una
parte di questo tempo di lavoro ricopre le spese che il capitale ha sostenuto per pagare un salario ai suoi
179
Quindi abbiamo un doppio tempo: un tempo serve per sostenere i costi di produzione e il salario, l'altro
tempo è invece quello che fornisce il profitto all'impresa. Dunque, la ripartizione di questi due tempi è il
problema dello sfruttamento perché da una parte c’è l'esigenza dell’impresa di aumentare, incrementare,
le risorse quantitative del profitto e dall'altra ci sono le richieste dei lavoratori ad ottenere tempo di lavoro
più ridotto e salari più dignitosi. Due diritti eguali, perché entrambi sono soggetti giuridici, ma questi due
diritti eguali risolvono la loro contesa soltanto sul piano della forza sociale che li sostiene.
Dunque, il plusvalore e lo sfruttamento sono i meccanismi che determinano la riproduzione del sistema
economico di mercato. Il plusvalore è un’eccedenza quantitativa prodotta dalla fabbrica, dall’impresa, e
questo plusvalore viene sottratto a chi lo ha realizzato e quindi per il lavoro significa alienazione. Cos'è
l'alienazione? Non è una categoria morale, ma è produrre cose che ti sfuggono, è trasferire la propria
capacità, il proprio prodotto, la propria energia individuale o coordinata ad un oggetto, di cui poi perdi il
controllo. Quindi l'alienazione è cessione di potenza sociale, di capacità naturale e mentale ad un oggetto
che diventa merce e che viene portato nel mercato dei beni.
Quindi l'alienazione vuol dire che ciò che la fabbrica, il sistema produttivo, realizza, è indipendente dai
produttori, i quali ricevano soltanto il denaro come contropartita salariale. Ricevuto il denaro il problema
giuridico è risolto, perché il contratto stabiliva quelle condizioni precise e nessuno le ha violate; ma rimane
il problema sociale, economico, non giuridico, cioè il fatto che esista una eccedenza, un plusvalore, che
accresce il potere dispositivo di uno dei soggetti in campo a discapito del potere degli altri soggetti in
campo.
Quindi è un problema di forze che si scontrano. Torna qui il vecchio concetto che abbiamo analizzato dal
punto di vista logico, “l'opposizione reale”, non si tratta di una contraddizione dialettica ma di una
opposizione reale tra una tendenza ad accumulare, allungare il tempo di plusvalore per rendere più
competitiva l'impresa e più ampio il saggio di profitto e un'altra tendenza reale che invece ritiene che più
tempo, più salario, più controllo dei meccanismi di produzione, sia un interesse collettivo fondamentale per
non disperdere quelle che Marx chiama le “energie della vita”. E quindi tra queste due dinamiche ha luogo
una opposizione, una tendenza, il cui esito dipende dalla forza sociale delle rispettive pretese, dalla capacità
di questi due campi antagonisti di costruire energia collettiva, forza sociale e quindi dimensione politica.
Da questo punto di vista, per Marx, il conflitto non ha una determinazione soltanto economica, ma politica
generale e si trasferisce quindi dalla fabbrica, dall'azienda, a livello più politico generale e quindi la
traduzione del conflitto sociale tra interessi che sono tra loro in opposizione reale, questo trasferimento in
un campo che riguarda la sfera politica e quindi il livello sindacale e quello politico si intrecciano.
Marx nel capitale dice una cosa molto significativa a questo riguardo, dice “va bene che i giuristi ricorrono
alla retorica dei diritti dell’uomo e del cittadino, dei diritti universali, però, il conflitto sociale in Inghilterra
ha prodotto la più modesta Magna Carta del lavoro”. Questa più modesta Magna Carta del lavoro è, dopo
azioni conflittuali, la richiesta di intervento politico istituzionale sulle condizioni di fabbrica, e quindi il
Parlamento inglese è costretto dalla mobilitazione collettiva delle grandi città a varare leggi sugli ispettori di
fabbrica e a vigilare sul rispetto delle clausole sanitarie dentro le fabbriche.
Questa modesta Magna Carta del lavoro comporta, dice Marx, che con questa rivendicazione cade il
principio costitutivo del sistema. Il principio costitutivo del sistema moderno è che l'economia è il campo
180
Allora dice Marx, quando il Parlamento inglese, dietro i conflitti sindacali e politici, vara leggi sulla durata
del tempo di lavoro, e quindi leggi su 8, 10 ore di tempo massimo, limita il lavoro minorile alzando a 12 anni
il livello minimo per prestare attività lavorativa, quando introduce alcune prestazioni obbligatorie in campo
sanitario e così via, l’eteronomia diventa un fattore che interferisce positivamente sul terreno economico.
Quindi il conflitto politico, l'intervento legislativo, dietro il conflitto sociale, determina un intreccio di ciò che
il moderno logicamente ha separato: il moderno separa politica ed economia, ma poi proprio le condizioni
della modernità, presentano delle situazioni che con il conflitto, con l'organizzazione delle classi sociali,
determinano momenti di intreccio tra politica ed economia, però, non sono i problemi di applicare il diritto
eguale all'economia, ma sono diritti potenza che vengono a riconoscere situazioni nuove legate al conflitto,
alla capacità di mobilitazione.
Quindi la modesta Magna Carta rappresenta una contestazione sulla base di istanze conflittuali del
plusvalore, del dominio del capitale sulle condizioni complessive di vita. E dunque, al catalogo che piace al
mondo liberale dei diritti astratti e universali dell'uomo e del cittadino, Marx preferisce le piccole libertà
sociali solidali strappate in Inghilterra dal movimento operaio, il quale attraverso il conflitto, la lotta, discute
il plusvalore, cioè non dà per naturale che il plusvalore sia gestito autonomamente come potenza separata
del capitale e quindi interviene nei luoghi di produzione per determinare le condizioni di ripartizione del
prodotto sociale.
Dunque, attenzione da parte di Marx anche alle dinamiche fiscali. Marx dice che il fisco è un qualcosa di
estremamente importante perché dice che tutto il costituzionalismo inglese nasce attraverso il rapporto tra
regime di tassazione e accesso alla rappresentanza, niente tassazione senza rappresentanza. Questo è stato
il punto di riferimento di molti conflitti dell'Inghilterra moderna.
Dice Marx che sul piano fiscale, attraverso un regime non di tassazione indiretta che colpiscono tutte allo
stesso modo, ma attraverso un regime di progressività fiscale è possibile ottenere quelle che lui chiama
“misure semi socialiste”, cioè avere una possibilità di un controllo di risorse pubbliche da destinare a
funzioni politiche pubbliche generali, compiti redistributivi e quindi discutere il rapporto tra salario e
plusvalore con forme politiche giuridiche, nella consapevolezza che queste sono i prodotti di una modesta
Magna Carta che, in quanto modesta e in quanto frutto del conflitto, può sfumare da un momento all'altro.
Quello che Marx ritiene che la vicenda politica inglese dimostri è questo: la modesta Magna Carta vede la
conquista da parte delle organizzazioni operaie di diritti salariali etc., però, quando poi i rapporti tra le forze
sociali e le classi cambiano, questa modesta Magna Carta viene rimessa in discussione e quindi il piano del
diritto viene poi ridimensionato dai rapporti sociali di una economia di mercati.
Se non si mutano nel profondo i rapporti di forza di un'economia di mercato, anche i diritti conquistati in
stagioni di lotta favorevole, rischiano di essere persi dalla generazione successiva. Quindi i diritti sono
conquistabili, sono strumenti indispensabili nella consapevolezza che finché esiste un sistema di tipo
capitalistico, il mercato su scala globale riesce a portare in altri luoghi le produzioni per indebolire la
capacità di pressione nei luoghi al più forte insediamento delle classi lavoratrici.
19/05/2021
Riprendiamo l’analisi sul problema della crisi in Marx. Abbiamo visto che in Marx l'approccio logico si ha
centrale, rispetto a quello storico, cioè il problema che Marx intende chiarire è il modello logico o il sistema
che definisce la società moderna di tipo capitalistico. Il suo è dunque uno sforzo di delineare un modello
puro, un modello teorico di cosa esprime un rapporto sociale entro una cornice di tipo capitalistico. In
181
Quindi Marx definisce un modello puro di sistema capitalistico e questo modello puro non significa che sia
al di fuori della storia, ma è un modello puro storicamente determinato e che bisogna dunque
comprendere nelle sue dinamiche essenziali. Marx fa ricorso la metafora della spirale per definire questo
modello di funzionamento del sistema economico, cioè il sistema moderno è un qualcosa che Marx avvicina
alla spirale nel senso che ha una tendenza a riprodurre sempre le medesime condizioni e però entro un
punto raggiunto che è sempre nuovo. Quindi è un cammino a spirale che riguarda un meccanismo
economico sociale che definisce il contorno di un sistema coerente.
Dunque, il sistema sociale capitalistico moderno è una spirale che funziona in questo modo: il suo inizio
deve essere sempre ricostruito attraverso un processo, quindi il sistema sociale di tipo capitalistico non è
mai fermo, ma è sempre in movimento. L’agire, il mutare, il divenire sono condizioni strutturali di questo
sistema che non può mai arrestarsi ad un punto definito, non ha un approdo, ma è una spirale perché
camminando riproduce se stesso, andando avanti torna al suo inizio. Questo inizio però muta, perché è un
inizio che parte da condizioni che sono nel frattempo mutate. Quindi è un circolo espansivo che mutando,
estendendo le proprie determinazioni, riproduce la macchina del sistema che quindi attraverso questo
processo ciclico è capace di assorbire le tensioni e di presentarle in nuovi rapporti sociali.
Quindi il sistema sociale capitalistico, secondo Marx, è al tempo stesso autoreferenziale, nel senso che è un
circolo che si riproduce, ma anche suscettibile di mutamenti interni, di rapporti che mutano taluni congegni
del sistema stesso. Cosa determina questo meccanismo? Cosa caratterizza questo sistema che procede a
spirale? Marx dice che questo tipo di sistema ha dentro di sé una spinta che lo proietta sempre a
oltrepassare il limite. Il limite del Capitale non è mai lo stesso, non è mai fisso, bisogna sempre andare oltre
il limite raggiunto, non c'è nell'ottica di Marx uno sviluppo che ha esaurito le sue possibilità e quindi inizia
dopo di questo una decrescita.
Secondo Marx, l'essenza del capitalismo è di non avere un limite che non possa essere oltrepassato. Quindi
nel concetto di Marx non esiste un limite nelle cose del capitale perché la natura del capitale è di
trascendere continuamente i limiti che aveva raggiunto, è il capitalismo secondo Marx il primo rapporto di
produzione che è indotto da se stesso a rivoluzionare di continuo le proprie condizioni di funzionamento.
Dunque, è un sistema estremamente dinamico. La dinamicità e il mutamento sono i connotati distintivi del
sistema capitalistico.
Mentre prima del capitalismo esisteva un sistema statico: la produzione era limitata al consumo e quindi
non c'era una crisi, se non per carestie o fenomeni esterni e così via; nel capitalismo abbiamo un altro
profilo: la produzione non è volta al consumo immediato (rapporto di tipo artigianale, precapitalistico), in
un’economia di tipo capitalistico, per Marx, vige la produzione per la produzione e quindi il volto illimitato
del produrre. La produzione non ha un limite, cioè non è riferita ad un consumo certo da soddisfare
attraverso pratiche elementari di scambi. La produzione è un'incognita, è illimitata, produrre per produrre
perché il profilo funzionale del sistema non è quello di vendere un prodotto limitato di cose, attraverso il
baratto lo scambio semplice. Il sistema è un meccanismo di illimitata accumulazione, di profitto
quantitativamente illimitato, questo è il sistema capitalistico, non un'equivalenza semplice tra un
produttore di un bene e un acquirente immediato.
Dalla produzione per l'uso immediato, il sistema capitalistico, volto alla valorizzazione del capitale, tende a
produrre illimitatamente beni o merci. Proprio in questo meccanismo di una produzione illimitata di beni o
merci esiste un problema, cioè secondo l'economia esiste un elemento di certezza perché la legge
economica fondamentale è quella della domanda e dell'offerta e dunque secondo la scuola classica
182
Il dogma dell'economia politica, per Marx, va discusso, cioè questa armonia naturale non costituisce,
secondo Marx, un dogma infallibile. Marx dice che il sistema può trovarsi in equilibrio, ma questo equilibrio
è un caso tra tanti altri casi, non è un dogma assoluto, perché secondo Marx il sistema economico è più
complesso rispetto alla credenza dell'economia politica di un aggiustamento continuo e garantito tra
domanda e offerta che esclude produzioni in eccesso. Secondo Marx, l’economista politico applica alla
società capitalistica le stesse categorie della società non ancora capitalistica in cui il consumo era la finalità
del meccanismo e quindi il sistema era prevedibilmente riconducibile ad armonia, ad unità.
Per Marx il sistema sociale capitalistico non è regolato in maniera semplice, è un sistema complesso, per cui
produzione, distribuzione, consumo sono sì un meccanismo intrecciato ma appunto devono intrecciarsi
questi elementi del sistema economico, non sono un meccanismo lineare per cui necessariamente alla
produzione segue il consumo, non è scontato che il valore d'uso, il prodotto, sia trasformabile in valore di
scambio e quindi trovi un acquirente sul mercato.
Dunque, dice Marx, già da queste considerazioni elementari emerge una cosa: l'equilibrio non è un dogma
assoluto, perché presuppone quelle che Marx chiama le “metamorfosi”, per cui il valore d'uso, cioè un
prodotto di un’industria, un’attività imprenditoriale, deve diventare valore di scambio e quindi incontrare la
mediazione del denaro. Questo processo è solo in potenza; in atto potrebbe non verificarsi. In assenza di
questa metamorfosi, tra valore d'uso e valore di scambio, interviene una prima contraddizione, dice Marx,
la contraddizione è un qualcosa che accompagna i vari processi del meccanismo economico. Se il valore
d'uso prodotto non si trasforma in valore di scambio e quindi non trova una conclusione in un consumo
allargato, la merce resta invenduta e quindi la metamorfosi non avviene e c’è un problema, una tensione,
una crisi nel processo che dalla produzione porta al consumo del bene prodotto.
Quindi, il sistema è dinamico, presuppone che si verifichino delle metamorfosi se queste metamorfosi
necessarie non avvengono, l’equilibrio non è dato, si interrompe il flusso. L’immagine che Marx presenta è
questa: prima di presentarsi come una farfalla capace di spiccare il volo, il capitale è stato una crisalide e
quindi è un processo per cui per diventare farfalla deve subire un processo evolutivo che trasforma degli
elementi dati in qualcosa di nuovo. Prima che la farfalla del capitale cominci a volare, a presentare le sue
forme peculiari, occorre dunque che si realizzino processi, metamorfosi, la circolazione, lo scambio, la
produzione devono intrecciarsi in maniera produttiva; se questo elemento non si presenta interviene
qualcosa che l'economia politica non immagina neppure, cioè la crisi. L’economia politica non presenta una
teoria della crisi perché la magica formula della domanda e dell'offerta non consente al sistema di
presentare delle disarmonie delle contraddizioni e quindi la realizzazione del circuito produzione-consumo
è scontata.
Per Marx non è così, secondo lui, la produzione deve realizzarsi e il capitale investito deve accumulare,
trarre profitto e quindi l'investimento del denaro deve tramutarsi in capitale e questo è un processo che
non è scontato non è che l’investimento in denaro necessariamente poi diventa capitale, cioè trovi una
valorizzazione attraverso il sistema economico, è tutto un meccanismo in cui c'è una zona di incertezza,
potrebbe verificarsi ma potrebbe anche non verificare. La possibilità della crisi è dentro il meccanismo
unitario di produzione, consumo, circolazione che sebbene facciano parte di un sistema unitario sono però
distinti tra loro, elementi differenti, e quindi la spirale, il sistema, è un elemento coerente, una cornice
unitaria che però presuppone distinti elementi differenti, i quali devono combaciare, devono intrecciarsi
183
Essendo, dunque, questo il meccanismo, ossia la produzione illimitata di beni e la ricerca della
valorizzazione, questo è l'unico congegno, l'unica ragione del sistema. Il sistema, la spirale, non ha finalità
esterne e dunque questa spirale, questo sistema dell'economia capitalistica è indifferente a scopi valori,
costruzioni estrinseche. Il meccanismo capitalistico, per Marx, è un sistema autoreferenziale che tende cioè
ad espellere considerazioni etiche, religiose, politiche, perché questa spirale, questo sistema, conosce una
sola ragione che è la valorizzazione. Se qualcosa disturba la valorizzazione deve essere eliminato perché
improduttivo e il sistema deve trovare le condizioni per espellere gli elementi di irrazionalità.
Cos'è allora questa razionalità del sistema capitalistico? Marx la chiama addirittura una follia. In Marx
questo concetto di razionalità non ha la stessa matrice weberiana che fa della razionalità del sistema un
fattore positivo. Per Marx è una razionalità che è interna ad una logica che ha elementi a suo dire di follia.
Questo sistema, questa spirale, ha dentro il proprio codice genetico un richiamo assoluto: produrre sempre
nuovo valore, accumulare sempre profitto. Questa è la logica interna alla spirale e quindi l’economico è una
logica assoluta, assorbente che elimina tutto ciò che ostacola la valorizzazione del capitale.
Dunque, la spirale, il meccanismo capitalistico, ha una fissazione, una missione suprema, valorizzare di
continuo il denaro trasformandolo in capitale che produce sempre profitto, questo è il sistema: produzione
per il profitto e non per il consumo. Dunque, questa produzione per il profitto ha dentro di sé, secondo
Marx, quello che lui chiama il piano nichilistico del capitale. Il piano nichilistico del capitale non è un
giudizio di valore (il capitale è una brutta cosa perché è nichilista), ma è un piano nichilista nel senso che,
secondo Marx, tutti i valori non sono considerati se non producono essi stessi valorizzazioni. Il piano
nichilistico del capitale non impedisce, ad esempio, che domande di qualità o preoccupazioni (che oggi sono
diffuse nella cosiddetta generazione Greta) sull'ambiente, la ricaduta e così via, queste cose non rientrano
nella logica iniziale del capitale perché è nichilista, cioè indifferente a tutti i valori esterni se questi valori
limitano i profitti. Ma se la produzione costruisce nuovi profili di consumo e quindi nuovi consumatori,
diceva Marx, è possibile anche che sollecitazioni di prodotti biologici, prodotti più rispettosi degli equilibri
ambientali e così via, questi prodotti da domande esterne, e quindi estranei alla logica razionale del
capitale, poi diventino essi stessi compatibili con la logica razionale del capitale.
Il sistema, secondo Marx, ha un impianto nichilistico perché non produce in vista di valori, ma se entro
determinate condizioni sociali, su determinati prodotti ecocompatibili, biologici e così via, si intravedono
opportunità di profitto nulla ostacola il capitale a orientare la produzione su quei beni. La produzione, dice
Marx, crea il consumo e quindi il capitale è in grado anche di creare un consumo di tipo qualitativo, purché
produca profitto. Dunque, la logica nichilistica del capitale significa che il capitale non produce perché
segue limiti razionali etici, non segue vincoli materiali imposti dall'esterno, ma se entro condizioni sociali
particolare è possibile creare un pubblico di consumatori sensibili al richiamo naturale biologico, il capitale
orienta in quel modo la produzione e crea anche un pubblico di consumatori per realizzare nuove
opportunità di profitto.
Dunque, questa logica nichilistica del capitale opera in questa maniera: i valori esterni vengono
interiorizzati se su di loro è possibile fare profitto e quindi le imprese volte al profitto, in determinate fasi
storiche, possono creare se stesse dei codici etici, la cosiddetta responsabilità sociale d'impresa, queste
sono non logiche esterne o contrarie al capitale, ma logiche interne al capitale che riesce a modificare
taluni suoi aspetti per realizzare nuovi meccanismi di valorizzazione. Quindi il tratto dinamico del capitale è,
in Marx, questa attitudine camaleontica di assorbire ogni cosa se diventa opportunità di profitto. Dice Marx,
la logica nichilistica del capitale procede inesorabile, non esistono beni comuni, resti sacri, tutto viene
secolarizzato, non esistono vincoli e quindi la logica unica del profitto.
184
Questa spirale, questo piano nichilistico del capitale, a giudizio di Marx, contiene dentro di sé delle
contraddizioni, delle potenziali perturbazioni interne, cioè il meccanismo economico proprio perché è
sempre orientato a produrre illimitatamente beni, questo meccanismo può periodicamente incepparsi, a
giudizio di Marx, il sistema economico capitalistico ha dentro di sé non come una patologia, ma come una
normalità, quindi come una fisiologia, la tendenza alla crisi. La crisi nel sistema economico capitalistico non
è una caduta che conduce ad un crollo. Marx esclude la possibilità di crisi catastrofiche che accompagnano
ad un crollo del capitalismo, non è presente in Marx una teoria crollista.
La crisi è, per Marx, un elemento fisiologico nel procedere del meccanismo, della spirale, la crisi è interna ai
congegni di funzionamento del sistema. Non è dunque una patologia improvvisa, un colpo esterno che
interviene a perturbare una situazione di equilibrio. Nella spiegazione che Marx fornisce della problematica
della crisi, la crisi è un fattore interno al sistema, ciò vuol dire che non rappresenta una caduta o meglio è
una caduta indispensabile per rialzarsi immediatamente. Dunque, il sistema economico, il cammino della
spirale, incontra sempre crisi ma questa crisi non sono un fenomeno che mostrano una malattia che è in
sorta per caso, ma è una malattia congenita di crescita che accompagna sempre il sistema capitalistico. La
specificità del sistema capitalistico per Marx è di essere periodicamente in crisi. Dice Marx è una sorta di
caos che poi si calma.
Dice Marx che il sistema, la spirale, procede in queste condizioni: c'è una situazione calma di equilibrio, da
questa condizione calma di equilibrio poi si sviluppano meccanismi, circolazioni, distribuzione, fattori di
disturbo, di rallentamento, di incertezza, di crisi e poi si torna di nuovo alla calma. Dalla calma al caos alla
calma. Questo è il normale procedere della spirale, del sistema produttivo capitalistico. Dunque, dice Marx,
è un ordine per sua natura sempre disordinato, perché il meccanismo, il sistema, deve continuamente
rompere le condizioni che aveva assunto in partenza. Il sistema, dunque, produce continuamente se stesso
ma su basi rinnovate e questo determina un ordine disordinato, nel senso che l'ordine viene
continuamente sconvolto da meccanismi perturbativi, i quali (questa è la novità dell'approccio di Marx) non
possono essere eliminati e non sono eliminabili perché costituiscono al contrario un elemento
indispensabile per la crescita.
Dunque, secondo Marx, la crisi, la perturbazione, il caos non possono essere banditi come un qualcosa di
negativo. La crisi, il caos, la perturbazione sono un negativo indispensabile al sistema, non sono una
malattia esterna, ma sono una condizione vitale per il sistema di mercato. Quindi nella spiegazione di Marx,
il sistema di mercato deve necessariamente avere periodi di crisi, perché attraverso la crisi il sistema
produce su nuove basi e quindi riavvia il circuito.
Dunque, la crisi fa parte della dinamicità che caratterizza il sistema economico di tipo capitalistico. Essendo
il sistema capitalistico dinamico, caratterizzato dalla innovazione continua, si perviene alla dinamicità e alla
innovazione attraverso una situazione di crisi. Se non ci fosse una crisi, se i profitti non trovassero un
rallentamento delle condizioni competitive date, non ci sarebbe bisogno di innovazioni ma l'innovazione è
indispensabile perché interviene periodicamente la crisi che opera come uno stimolo all'impresa di
resistere sul mercato attraverso l'innovazione.
185
Questa è la novità della teoria di Marx della crisi: la crisi non è una patologia la crisi, non è un arresto, è una
patologia e un arresto che fanno bene al sistema capitalistico non a chi entra in crisi e chiude i battenti ma
al sistema, il quale deve periodicamente ricaricare le proprie opportunità produttive e deve di continuo
rivoluzionarie le proprie basi e reinventare opportunità di profitto attraverso nuove strategie di impresa. In
questo, il pungolo della crisi svolge una funzione centrale, la crisi è lo stimolo esterno che, dinanzi ad un
arresto del meccanismo, induce alla ricostruzione di nuovi paradigmi produttivi, di nuove strategie e in
questo, secondo Marx il meccanismo va illimitatamente avanti.
Quindi la crisi è naturale, è il processo attraverso cui il capitale ricostruisce le proprie condizioni di esistenza
e supera il limite. Il limite alla produzione è relativo, viene continuamente oltrepassato perché la vocazione
del capitale è quella di sviluppare una produzione illimitata di beni per realizzare di continuo il meccanismo
di valorizzazione e di crescita dei capitali. Questo meccanismo per Marx ha dentro di sé, però, un problema
quella che Marx chiama “la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”.
Dunque, in Marx, il sistema economico è spinto incessantemente all'innovazione e quindi a quella che
Schumpeter chiama la “distruzione creatrice”, cioè deve rompe i vecchi equilibri, le vecchie strutture
produttive per inventarne continuamente delle nuove, solo così il sistema avanza nella valorizzazione dei
capitali. In queste spinte all’innovazione competitiva si incontrano problemi, urti, situazioni critiche.
Per Marx nel sistema sociale capitalistico è riscontrabile quella che lui chiama “la legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto”. Non è una legge assoluta, ma tendenziale cioè su base storiche di lunga
durata è possibile misurare alcuni effetti del meccanismo sociale capitalistico e nella lunga durata, a giudizio
di Marx, è possibile vedere che opera questo dispositivo: una caduta tendenziale dei profitti. È tendenziale
perché è possibile contrastarne, rallentarle gli effetti ma non la legge stessa, è possibile cronicizzarla ma
non eliminarla del tutto, non si guarisce dalla legge della caduta tendenziale del profitto.
Questa caduta tendenziale del profitto è il meccanismo per cui, proprio perché il capitale deve
costantemente innovare, deve destinare quote di capitale al meccanismo tecnico, al capitale costante, alle
nuove tecnologie e per resistere, per competere, per innovare c'è bisogno sempre di nuovi strumenti, di
nuove strutture e macchinari. Questo insieme di macchinari, tecnologie si chiama capitale costante e il
capitale costante ha appunto questa caratteristica che è costante, per cui se io spendo un miliardo per una
nuova macchina, il valore di questa macchina non aumenta perché il suo uso e la sua durata rallenta il suo
valore e quindi l’investimento in capitale costante obbliga a ridurre i margini di profitto per investire su
tecnologie di capitale che sono indispensabili per resistere sul mercato.
Si tratta, però, di una legge tendenziale che per Marx può essere contrastata nel sistema sociale
capitalistico da controtendenze, anche qui Marx opera attraverso il concetto di opposizioni reali, tra forze
che spingono in una direzione e da altre forze che, invece, spingono per un'altra posizione del meccanismo
186
Come fa il sistema capitalistico a metabolizzare le sue dinamiche di crisi e quindi a convivere con i costi del
capitale costante e la riduzione dei profitti? Com'è possibile rispondere alle difficoltà dei processi di
valorizzazione del capitale? Secondo Marx, il sistema capitalistico ha delle contro dinamiche, le quali
permettono al meccanismo di non incepparsi in maniera definitiva e quindi di incorrere in situazioni critiche
o annunci di cronaca, non c'è alcun annuncio di crollo, ma di dinamiche, però, che hanno dei costi e delle
dinamiche molto contraddittorie.
Anzitutto un processo, che Marx osserva, è quello della centralizzazione del capitale. Il dogma
dell'economia politica è la concorrenza e quindi le ostilità al monopolio. Secondo Marx la concorrenza,
però, non è la vera alternativa al monopolio se non in forme immediate. In realtà, attraverso la concorrenza
si producono processi di centralizzazione. Quindi non si può contrapporre astrattamente il regime di
concorrenza e i meccanismi di monopolizzazione e concentrazione dei capitali. Quindi il problema che Marx
intravede è questo: non è contro la concorrenza, ma è in virtù della concorrenza che talune imprese
crescono fino ad assorbire altre che non sono in grado di resistere.
Pensiamo, ad esempio, a quello che è successo in Italia al regime delle fabbriche automobilistiche. Alcuni
decenni fa la Fiat aveva assorbito l'Alfa Romeo, la Lancia, la Ferrari e quindi era la fabbrica con un
meccanismo per cui la concorrenza piegava altre imprese e la Fiat emergeva come l'impresa dominante che
centralizzava, almeno nel mercato italiano, la produzione automobilistica. Almeno da alcuni anni ormai la
Fiat è inserita in processi di concentrazione internazionale, prima con fabbriche americane poi con quelle
francesi e così via, quindi la concorrenza produce poi concentrazioni. Un altro esempio è la Microsoft che è
nata dalla concorrenza, ma attraverso la concorrenza esiste nei giganti del web una situazione di quasi
monopolio.
Dunque, questo meccanismo è per Marx una delle controtendenze all'abbattimento dei profitti e quindi
attraverso la concentrazione, la costruzione di giganteschi apparati tecnologici si determinano situazioni di
redditività e si recuperano le capacità espansive del sistema.
Un altro meccanismo per evitare la crisi e l’insorgenza della legge tendenziale della caduta dei profitti è,
dice Marx, la delocalizzazione e l'espansione del commercio internazionale. Per evitare che il saggio di
profitto si contragga, perché il mercato interno è usurato, occorre di continuo produrre in vista di mercati
più ampi e, secondo Marx, la globalizzazione è la logica ispiratrice del sistema capitalistico. Il sistema
capitalistico deve necessariamente produrre una letteratura mondiale, un'economia mondiale, merci
vendute in qualsiasi parte del mondo. Secondo Marx questa è l'essenza del capitalismo, la sua caratteristica
globale.
Attraverso, dunque, la conquista di nuovi mercati (pensiamo al mercato asiatico, al mercato cinese), le
imprese multinazionali superano le difficoltà di realizzare profitti e quindi, chiusi i mercati interni, creano
nuove opportunità di investimento e di profitto coinvolgendo nelle dinamiche del capitale nuovi paesi,
nuovi territori. Secondo Marx, questo rimedio è indispensabile, però, rallenta appunto la legge della caduta
tendenziale del saggio di profitto e la rimanda a un tempo successivo, perché una volta che poi il mercato è
integralmente globalizzato, si ripresenteranno le stesse dinamiche del mancato profitto che si ha dentro
l'economia nazionale.
Per cui se 20 anni fa il salario cinese era di 50 $, oggi i salari cinesi sono allo stesso livello di alcuni paesi
europei. Quindi la globalizzazione conferisce, all'impresa capitalistica, una opportunità congiunturale,
anche se di medio periodo, di realizzare opportunità di profitto che si erano chiuse dentro il sistema
economico occidentale. Le invenzioni di nuovi mercati, il coinvolgimento dell'intero pianeta, attraverso la
comunicazione, i meccanismi di scambio e di produzione, il mercato globale supera il rallentamento del
187
Un altro meccanismo che, secondo Marx, opera la contro tendenza alla caduta del saggio dei profitti è la
contrazione del salario. Nel sistema capitalistico c'è una opposizione di dinamiche, di forze: quelli che
vogliono più profitto e quelli che reclamano più diritti, più salari. Dice Marx che tra diritti eguali prevale chi
ha più forza e nelle dinamiche del capitalismo c’è questo cadere o risorgere di condizioni di profitto a
scapito delle condizioni salariali. Secondo Marx, è una guerra continua tra il saggio di profitto che vuole
estrarre continuamente plusvalore e quindi intensificare lo sfruttamento e ridurre le opportunità di salario
e dall'altra le resistenze conflittuali del mondo del lavoro che invece reclamano meno tempo di lavoro,
riduzione quindi delle situazioni esplicite di sfruttamento e miglioramenti continui della tutela del
lavoratore.
Secondo Marx, però, il capitale ha un'esigenza contraddittoria, infatti, il capitale può ridurre i salari, ma poi
questa tendenza alla riduzione dei salari provocherebbe da una parte maggiori opportunità di profitto,
perché la quota della ricchezza sociale, tolta al lavoro, va al capitale, però, c'è anche un elemento che Marx
considera, cioè, fino a che punto il capitale può azzerare i salari? Se il capitale è produzione per la
produzione e però la produzione deve essere pure venduta e quindi deve esserci un mercato, un consumo
mondiale, poi se produco lavoratori che non hanno reddito per consumare, il saggio di profitto non è che
può davvero continuare ad esistere. Quindi, secondo Marx, nel sistema capitalistico avviene questo tipo di
problema: se si accentuano i profitti, diminuiscono le opportunità di consumo e quindi il vantaggio che il
capitale ha ottenuto attraverso la contrazione dei salari, poi si ripercuote nella impossibilità di sviluppare
veramente i profitti in quanto il lavoratore deve tirare la cinghia, però se stringi la cinghia e vivi al di sotto
delle vecchie possibilità, provoca stagnazione, recessione e quindi di nuovo caduta tendenziale del saggio di
profitto.
Quindi, per Marx, questa legge tendenziale non è mai definitiva e/o approda al crollo, ma nemmeno può
essere davvero eliminata perché le crisi vedono appunto come causa scatenante questi elementi: i profitti e
i salari che sono in un rapporto conflittuale permanente. Quindi, se al posto dei profitti c’è una dinamica
conflittuale del mondo del lavoro che riesce a strappare quella che Marx chiama “la modesta magna carta
del lavoro”, quindi 8 ore e migliori salari, anche questo ha un costo, infatti, più salario, più diritti significa
riduzione del saggio di profitto. Quindi, attraverso la loro azione collettiva e i loro partiti politici, i lavoratori
possono strappare diritti, ma questi diritti hanno una conseguenza, ossia la caduta del saggio di profitto e,
quindi, ci sarà inevitabilmente una risposta da parte del capitale, il quale per recuperare margini di profitto
deve scatenare una sorta di guerra distruttiva contro quelle che in Italia si chiamavano “le sacche di
socialismo reale”, cioè le conquiste del mondo del lavoro che sono maturate in un ciclo favorevole.
Quando il ciclo è favorevole alle forze del lavoro, si ottengono contratti regolari, miglioramenti complessivi
del tenore di vita, coperture assicurative sanitarie e così via, però, queste conquiste, questi orientamenti
sociali della ricchezza, comprimono la quota destinata al profitto. Dunque, c’è questa tensione, questo
conflitto, tra le forze che vogliono salari, consumi, diritti e le forze che rivendicano la riconquista di margini
di profitto. Da questa lotta scaturiscono processi che Marx descrive. Marx dice che nella mente del
capitalista singolo si tende sempre a realizzare il punto zero del salario, cioè nella mente del capitalista
bisognerebbe pagare zero il lavoro così le opportunità di profitto sarebbero inesauribili, infinite, e quindi far
produrre a minor tempo e a minor salario quanto più merci, cose possibili. Questa è la logica del capitale:
meno tempo, meno costi, più profitti. Questo punto matematico vicino allo zero è, però, impossibile da
realizzare, perché, dice Marx, il capitalismo deve anche garantire la riproduzione di quella merce particolare
che è anche una persona e quindi deve garantire che il corpo, la forza lavoro, che produce abbia le
condizioni minime di sopravvivenza.
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Dice Marx che il sogno di ogni capitalista è quello di avere il suo lavoratore che non consuma nulla e quindi
lui non gli deve dare troppo salario, perché il sogno del capitalista c'è questo suo lavoratore che deve
pensare a lavorare e non spendere molto, e però gli altri devono consumare e quindi questo paradosso è
l'essenza del sogno del capitalista: un lavoratore che lavora e però non abbia il salario, però debba
comunque consumare perché altrimenti il sistema si inceppa.
Nell’indagine di Marx interviene un ulteriore elemento che tendenzialmente arresta la caduta del profilo: lo
sviluppo parossistico del credito e della finanza. Dice Marx che, entro certi sviluppi del capitalismo, il
credito diventa poi un fattore estremamente rilevante e quindi facilità di credito. La facilità di credito, a
tassi molto vantaggiosi, diventa un elemento centrale per arginare la caduta del saggio di profitto. Perché,
secondo Marx, il credito è centrale? Per l'impresa, ma poi lo diventerà anche con il cosiddetto credito a
consumo. Con il credito al consumo si ottiene che quello che io non ottengo più con lotte sindacali e
salariali, perché il salario medio tende a diminuire ovunque nei paesi capitalistici. lo ottengo, però, con un
surrogato, con la graziosa concessione di un pezzo di carta, una carta di credito attraverso la quale io posso
comunque essere consumatore, addebito.
Questo diventa un nuovo fattore produttivo il debito come ultima frontiera della produzione. Produzione
mediante debito individuale, perché, attraverso la carta di credito, il consumatore può spendere oltre la sua
immediata disponibilità e quindi attraverso la carta di credito è possibile dimenticare le contrazioni salariali,
i blocchi del salario e così via, i conflitti distributivi tendono a scomparire perché nuove tipologie di conflitto
vengono a presentarsi nelle società di mercato. Dice Marx che la crisi allora viene definitivamente a
scomparire, non c'è più la problematica della crisi, dell’arresto; tutt’altro la crisi viene semplicemente
rinviata, rimandata e, dice Marx, quando poi la crisi scoppia, sui giornali, sulla pubblicistica, si comincia a
dire che la crisi è scoppiata perché c'è stato una banca che ha truffato, perchè ci sono stati dei finanzieri che
hanno speculato.
C'è un articolo molto bello di Marx, scritto sulla crisi inglese degli anni ’50, in cui dice questo “non è lo
speculatore eticamente censurabile che ha prodotto la crisi, non è l'imbroglio degli speculatori di Wall
Street per la loro eccessiva avidità che ha prodotto il disastro. Il disastro, la crisi, interviene non perché ci
sia stato uno speculatore che ha rotto le condizioni ottimali, ma la crisi interviene perché il credito fa parte
della crisi, è stato un tentativo per arginarne l'irruzione, ma non è la soluzione della crisi”.
Quindi, la speculazione, la finanziarizzazione, per Marx, non sono la causa della crisi, ma sono il fenomeno
che la fa esplodere. Quindi, i mutui americani concessi agevolmente per acquistare case poi esplodono non
perché ci sia stata una immoralità, ma perché la forza lavoro non ha più avuto garanzie salariali,
occupazionali, che consentissero il pagamento regolare dei mutui. Dunque, è questo l'elemento scatenante
secondo Marx. La crisi non è finanziaria, la crisi è eminentemente sociale, cioè il venir meno da parte del
mondo del lavoro di strumenti necessari per pagare la carta di credito, il mutuo con regolarità, perché è la
contrazione delle cosiddette protezioni sociali a rendere insolvibile una certa quantità di forza lavoro.
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Tutti gli economisti contemporanei confermano questa cosa rilevando che in termini reali, il salario medio
odierno è molto inferiore a quelli di qualche decennio fa. Qualche decennio fa con un salario potevi
acquistare casa e sostenere mutui regolarmente e così via. Oggi se fissiamo in 1.000 € un salario medio,
vediamo che questo salario medio effettivamente serve poco più che a, come diceva Marx, riprodurre le
condizioni minime della forza lavoro. Se tu non hai casa con questi 1.000 € ti devi comprare una casa,
quindi accendere un mutuo o un affitto. Tra mutuo, bollette, acquisto magari di una macchina e così via,
questi 1.000 € praticamente vengono tutti riassorbiti per la riproduzione minima della forza lavoro e quindi
è questo il problema che secondo Marx genera il fenomeno della crisi.
20/05/2021
A proposito della legge del valore lavoro, c’è un indirizzo di studi marxisti che ritiene che non sia tanto un
problema tecnico matematico ma un problema squisitamente sociologico, vale a dire, il lavoratore offre
una parte del proprio tempo che viene privatamente appropriato dall'impresa. Questo si può trovare in
un'altra formula matematica rispetto a quella suggerita da Marx, ma il problema sociale rimane, è indubbio
che chi lavora produce un prodotto dal valore superiore rispetto a quanto riceva in salario. Quindi, il
problema di questo sovrappiù, di questa ricchezza socialmente prodotta che però è soltanto privatamente
appropriata. Questa è, nell'indagine di Marx, la contraddizione fondamentale della società capitalista.
Il capitalismo è un sistema estremamente dinamico, conosce fasi espansive con riconoscimenti di diritto e
di miglioramenti delle condizioni di vita, ma non può rinunciare a questo suo impianto fondativo. Socialità
del processo produttivo e privatezza del comando della direzione d'impresa, è per Marx la contraddizione
fondamentale che fa si che il sistema economico di mercato, a direzione capitalistica, sacrifichi
periodicamente beni pubblici e orizzonti e capacità soggettive. Secondo Marx, il sistema capitalistico è quel
sistema che sviluppa, richiede capacità, informazione, sapere, ma lo curva questo problema, questa
esigenza al profitto, alla trasformazione dell'intero sistema in una grande macchina orientata al profitto
privato.
E quindi, dice Marx, la sovrapproduzione che in determinate fasi significa crisi è sovrapproduzione, soltanto
entro l'ottica ristretta del mercato, perché è una sovrapproduzione non assoluta, perché nel sistema sociale
capitalistico ci sono, dice Marx, fasce di popolazioni, interi continenti che non hanno neanche il necessario
e quindi la sovrapproduzione è un concetto relativo a quello che il capitale riesce a valorizzare e quindi le
esigenze di valorizzazione del capitale solo in parte coincidono con lo sviluppo di bisogni umani generali.
Soltanto i bisogni che sono mediati dal denaro sono soddisfatti, senza il medium denaro si ha
sovrapproduzione, ossia beni e merci che non hanno acquirenti. È questa la contraddizione tra valore d'uso
e valore di scambio:
VALORE DI SCAMBIO: è il medium indispensabile per accedere a quelli che Marx chiama i beni della vita, i
godimenti della vita.
Dunque, il valore d’uso non ha nel sistema capitalistico un riconoscimento se non nei termini di
compatibilità con il meccanismo di valorizzazione. E quindi, a giudizio di Marx, questo sistema comporta
delle conseguenze, dei problemi di sostenibilità sociale e anche naturale, umano, ambientale. Perché la
legge tendenziale del saggio di profitto evoca un contrasto tra opposte tendenze del meccanismo sociale:
l’esigenza della valorizzazione, dell’accumulazione illimitata da una parte e l’esigenza del lavoro, della
società nel suo complesso dall’altra. Il sistema sociale è questo scontro tra queste dinamiche, finché c'è
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Secondo Marx, il problema che il sistema capitalistico presenta è che per valorizzare il capitale, per
raggiungere il massimo profitto, il meccanismo richiede una estrema economia di tempo, cioè profitto
illimitato con il costo del lavoro e il tempo di produzione sempre più ristretta. Secondo Marx, questa logica
comporta delle tendenze che siccome non possono spingersi sino a quello che Marx chiama il punto zero,
cioè negare i salari e i beni pubblici essenziali, perché altrimenti senza scuola, senza servizi pubblici, senza
salari adeguati, il sistema non avrebbe consumo. Quindi, avrebbe risparmiato tempo, avrebbe contenuto i
costi, ma non ci sarebbero consumatori.
Quindi il sistema sociale è attraversato da istanze contraddittorie: deve contenere costi, deve produrre il
massimo nei minimi tempi, deve far quasi zero tempo di circolazione, perché deve sviluppare la logistica, la
circolazione attraverso la comunicazione, dice Marx, raggiunge quasi il tempo zero, il tempo reale, questa è
un’esigenza organica del sistema di mercato capitalistico. Però, tutte queste esigenze da un lato Marx
riconosce che comportano crescita, sviluppo e industrializzazione crescente, ma questo elemento di
crescita, persino di civiltà, dice Marx, che il capitalismo porta in visibilità nella storia mondiale, questo
meccanismo è ristretto in una contraddizione tra il governo privato e la crescita dei beni pubblici, comuni,
delle esigenze sociali. Socialità e privatezza sono le due istanze che conferiscono alle innovazioni, ai
progressi tecnici ed economici, un carattere contraddittorio.
Dunque, la potenza del lavoro è collettiva, le fabbriche sono luoghi di socialità in cui le funzioni si
distribuiscono, il macchinario richiede cooperazione tra la forza lavoro e quindi la socialità della forza
lavoro, nell’Ottocento viene sfidata con la contrattazione che il capitale (?) contrasta contro questa
individualizzazione del rapporto di lavoro, perché se dinanzi al capitale come potenza dominante nel
sistema economico della proprietà privata compare il singolo lavoratore, il suo potete di contrattazione è
estremamente ridotto. Se invece del singolo lavoratore si organizzano contratti collettivi attraverso i
sindacati, il potere rivendicativo della forza lavoro risulta enormemente accresciuto. E quindi, secondo
Marx, bisogna contrastare il dogma del diritto privato che sancisce il carattere individuale del negozio
giuridico.
Per il diritto privato moderno, l'autonomia è una condizione individuale e quindi il contratto, come
manifestazione principale dell'autonomia, esige che ciascun soggetto in autonomia si accordi con il suo
datore di lavoro. Questo, dice Marx, è un meccanismo che depotenzia la capacità di ottenere una migliore
distribuzione della ricchezza sociale e quindi di contrattare con l'azienda condizioni sanitarie, condizioni di
lavoro, condizioni retributive. Dunque, dice Marx, soltanto attraverso il numero, attraverso la grande legge
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Ovviamente, siccome il moderno è un assetto sociale contraddittorio, questa conquista del lavoro ha delle
conseguenze particolari. Dice Marx, quando il conflitto, la politica, conquista diritti, per il lavoratore si
presentano cose che Marx ritiene molto vantaggiose, ossia il lavoratore ha più tempo, può andare nei
circoli, può assistere a conferenze del proprio sindacato, del proprio partito, conferenze di qualsiasi tipo,
può leggere stampa, quindi può diventare una sorta di cittadino che, sebbene in condizioni di sfruttamento
per la maggior parte del tempo quotidiano, poi riesce a ritagliarsi, attraverso il conflitto sociale radicale,
diritti fruibili.
Questo apparente paradiso del lavoratore che ha tempo per i comizi, conferenze, per leggere, per farsi una
cultura, dice Marx, però, date le caratteristiche strutturali del sistema economico capitalista, non è mai una
cosa definitiva, non c'è cioè un’accumulazione per cui un diritto segue l'altro e quindi nel giro di alcuni anni
o pochi decenni, il sistema è completamente ribaltato a favore del lavoro. Perché questo non accade?
Perché l'altra logica, quella della valorizzazione, della riduzione del costo del lavoro, della contrazione del
tempo necessario per produrre valori di scambio, quell'altra logica trova le condizioni per riprendere quota
e quindi per cancellare nel tempo le conquiste sociali.
Questo, dice Marx, è una regolarità, esiste questa regolarità anticipata da Marx? Sì, se noi vediamo i
cosiddetti 30 anni gloriosi che abbiamo avuto in Europa e in Occidente, dopo la Seconda guerra mondiale,
nei quali c’è stata produttività, crescita, diritti, sindacalizzazione, politicizzazione della classe operaia,
diffusione di cultura di spazi di partecipazione, questi sono stati fenomeni reali e rientrerebbero in quella
che Marx chiamava la modesta Magna Carta del lavoro. Per trent'anni il capitalismo in Occidente ha
consentito la modesta Magna Carta del lavoro di ampliarsi e di assumere le condizioni di vita del lavoro e
diritti sociali collettivi (lo statuto dei lavoratori, la legge sulle 150 ore) tutte conquiste che poi però, ad un
certo punto si sono interrotte.
Perché Marx spiega questo fenomeno nel terzo libro del Capitale: una logica incrementale è impossibile
postularla come definitiva che approda progressivamente a un punto di trasformazione in quanto tale,
secondo Marx, dovrebbe intervenire una cesura di sistema, una rottura qualitativa, altrimenti la logica del
privato, dell'accumulazione, della contrazione del tempo trova condizioni per ricostruire su nuove basi i
meccanismi di sfruttamento e di accumulazione. Infatti, il trentennio glorioso nella metà degli anni ‘70 si
interrompe bruscamente perché ci fu negli anni ’70 un rapporto della trilaterale, un titolo “la crisi della
democrazia” in cui il grande capitale mondiale e sociologi e politologi arruolati in questa impresa
delinearono le condizioni per recuperare competitività e margini di profitto. Perché nel trentennio glorioso,
secondo le statistiche degli storici economici, effettivamente si era riscontrato in maniera empirica la
veridicità della legge marxiana della caduta del saggio di profitto. In effetti, nel corso del trentennio
glorioso, i profitti sono discesi e il lavoro ha incrementato la propria componente nella distribuzione della
quota della ricchezza socialmente prodotta.
Dopo il trentennio glorioso, però, il sistema capitalistico trova le contromisure perché non può andare
avanti in maniera illimitata, l’unità di cittadinanza, di diritti espansivi, statuti, contrattazione collettiva,
sindacati con partiti amici al governo in molte democrazie europee, tutto questo sollecitano una
contromarcia, una sorta di ritorno all'indietro. E se i primi 30 anni del secondo dopoguerra sono il
trentennio glorioso della cittadinanza sociale, dagli anni ‘80 fino al 2007 c'è il secondo trentennio, il
trentennio del neoliberismo, cioè della rottura di tutte le precedenti conquiste, perché incompatibili con le
esigenze del mercato globalizzato.
Come esce il capitalismo dalla camicia di forza del sindacato, dei partiti, dei conflitti sociali che avevano
conquistato troppi diritti secondo l'ottica del mercato? Esce con alcune scelte: la intensificazione decisa
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Negli anni ‘70 tutti i governi che volevano conservare queste politiche espansive vennero sconfitti. I laburisti
inglesi perdono nel ‘78. Altri partiti socialisti, socialdemocratici europei da quegli anni sono impossibilitati a
condurre le stesse politiche sociali del trentennio glorioso. Perché? Perché il capitale fa il cosiddetto
sciopero dei capitali, lo Stato per dare diritti ricorre alla fiscalità, preme sulle imprese, allora l'impresa deve
trovare il modo di affrancarsi da questa cappa oppressiva. Il simbolo di questo può essere Microsoft e
Apple, che pagano lo 0,0% di tasse nei paesi europei perché hanno raggiunto una supremazia, un accumulo
di potere che consenta alle imprese di scegliersi non soltanto che cosa produrre ma anche dove produrre.
Con quale sistema, regime fiscale, produrre? Con quali infrastrutture e quali meccanismi giuridici, privati e
pubblici, convivere? Quindi abbiamo una fuga delle grandi imprese dal coperchio statale.
Tutto questo mostra appunto che i diritti che sono stati riconosciuti nell'ottica della modesta Magna Carta
del lavoro, sono stati poi progressivamente riassorbiti, perché gli strumenti sono esattamente quelli che
Marx aveva individuato: concentrazioni, ricorso al fisco e, inoltre, precarizzazione. Dice Marx che quando il
sistema è in difficoltà e quindi quando entra in crisi, una maniera per risolvere la crisi è la precarizzazione,
perché c'è bisogno che periodicamente l'equilibrio sia spezzato e che, dice Marx, avvenga una distruzione di
capitale reale. La distruzione di capitale reale è una cosa non patologica, è una patologia necessaria per
riprendere quota. E quindi cos'è questa distruzione di capitale? È che si verificano chiusure di attività,
chiusure alle esigenze di credito delle imprese che prima avevano facoltà di accesso, poi si chiudono i
rubinetti delle banche e il finanziamento pone problemi di sussistenza alle imprese che soccombono
quando non trovano capitale contante disponibile e dunque distruzione di capitali, chiusura di imprese e
meccanismi di centralizzazione, costruzione di grandi apparati multinazionali con un capitale disponibile
superiore a quelli di molti Stati nazionali.
In questa ottica, tra la distruzione di capitale reale rientra anche la precarizzazione, perché chiusura di
fabbriche vuol dire disoccupazione di massa, oppure precarizzazione mobilità. La mobilità che cosa
comporta? Che chi aveva un lavoro ben retribuito a tempo indeterminato, ben tutelato, quando c'è questo
fenomeno di distruzione di capitale reale, se vuole continuare a lavorare trova un impiego al ribasso e molti
lavori ad alta qualifica industriale, vengono ricollocati in quelli a più basso contenuto cognitivo, nei servizi
nel settore della salute, delle professioni di assistenza alle persone o nel commercio a più bassa
qualificazione.
Questo è per Marx il meccanismo che consente al sistema di riprendere quota, perché questo sistema a
spirale deve sempre riprendere quota, iniziare da dove era finito il ciclo che era stato interrotto da un
evento traumatico. Cosa comporta questa messa in esubero di forza lavoro? Comporta la creazione
costante, fisiologica, dice Marx, di un esercito industriale di riserva o sovrappopolazione operaia, cioè,
fisiologicamente, il sistema ha bisogno di periodi di espulsioni di forza lavoro dai meccanismi produttivi. Si
crea quindi precarizzazione e disoccupazione di massa, perché l'esercito industriale di riserva è una
opportunità per contenere i costi, superare le cosiddette rigidità del mercato del lavoro e soprattutto è una
misura indispensabile per impedire alla forza lavoro di rivendicare diritti.
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Per cui spesso, oggi, dentro una stessa unità produttiva, una stessa impresa privata, ma anche un ufficio
pubblico, persone che hanno le stesse mansioni, cioè svolgono lo stesso lavoro, hanno una infinità di
coperture contrattuali, cioè sono stati inquadrati con contratti temporanei, part-time, cioè con l'invenzione
che chi svolge le pulizie nel supermercato non è lavoro-dipendente, è una partita IVA, quindi un
imprenditore, con questa finzione che chi svolge i lavori spesso più sottopagati e più utili, non sia un
lavoratore dipendente, coperto dalle garanzie contrattuali nazionali, ma sia un imprenditore, questo è un
meccanismo di valorizzazione del capitale, perché il numero è un problema, bisogna disarticolare la
potenza del numero.
L'altro meccanismo che Marx accenna nel Capitale è quello scaturito dall’osservazione della situazione
americana e la domanda che egli si pone “perché gli operai americani poi non fanno azione conflittuale?”.
Dice Marx, perché lì la situazione è complicata dal fatto che accanto a un lavoratore bianco, c'è un
lavoratore che ha una pelle di un altro colore e quindi le cosiddette differenze di cultura, i conflitti culturali;
l'invenzione della differenza culturale impedisce quella che per Marx è invece la cosa preferibile, quando
dice, “il proletariato non ha patria”, cioè non dovrebbe avere differenze. Il corpo che lavora, le dipendenze
del capitale ha eguale volontà, eguali pretese, eguali bisogni.
Questa equivalenza del corpo che lavora viene, invece, superata attraverso l'invenzione delle differenze di
cultura per cui si stabiliscono meccanismi di odio tra forza lavoro appartenenti a religioni, origini nazionali,
etnie differenti e tutto questo contribuisce allo spegnimento della capacità di resistenza della forza lavoro.
Dunque, secondo Marx, questo meccanismo sociale di tipo capitalistico attraversa, per così dire, tempi di
funzionamento differenti. Possiamo dire che, nello sguardo analitico offerto da Marx, si possono
intravedere tre differenti tipologie di capitalismo:
1° TIPOLOGIA DI CAPITALISMO: è quella che Marx chiama a modo di produzione con la prevalenza di
estrazione di plusvalore assoluto. È il modulo che va dalla accumulazione originaria alle prime forme di
capitalismo industriale ed è basato sul primato della estrazione di plusvalore assoluto.
Cosa vuol dire percezione di valore di plusvalore assoluto? Che la ricchezza, in questa prima fase di sviluppo
del capitalismo moderno, viene ottenuta attraverso lo sfruttamento più brutale e attraverso il ricorso ad un
prolungamento illimitato del tempo di lavoro. La giornata lavorativa dura 15, 16, quando va bene 14 ore;
lavorano donne e bambini fino a 8 anni; quando il Parlamento inglese varò la legge, ricorda Marx, che
bisogna avere almeno 12 anni per entrare in fabbriche e stare 12 ore di lavoro quotidiane, ci fu la protesta
dei sociologi liberisti, Spencer, il quale disse che questa intrusione nel Parlamento di Westminster era un
vero attentato alla libertà, come fa il Parlamento a ridurre l'autonomia negoziale del bambino di 8 anni che
vuole andare in fabbrica per starvi 14 ore? Perché alzare l'età minima a 12 anni questo, secondo Spencer,
era un sopruso perché il Parlamento non deve immischiarsi con le questioni private. In questa fase, dunque,
l'autonomia del rapporto privato prevale sulle esigenze pubbliche e sulle coperture dei diritti fondamentali
della persona che lavora. Questo primo modulo vede, dunque, estrazione di plusvalore assoluto, cioè
proprio l'immagine classica del capitalismo rapace che succhia profitti, oro, attraverso il più duro
sfruttamento.
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Non c'è più la sussunzione formale, ma subentra quella che Marx chiama la sussunzione reale del lavoro al
capitale. Anche qui andando un po' oltre il significato letterale dell'espressione, la sussunzione reale, vuol
dire, che il lavoratore non ha più su di sé una spada, una legge oppressiva nel senso auspicato da Locke, il
taglio delle orecchie per indurre i vagabondi al lavoro. Non c'è più nulla di questo, perché non c'è nessuna
coercizione formale, una violenza, ma c'è la libera accettazione del paradigma mercantile e dunque
riconoscimento dei diritti sindacali, riconoscimento dell'associazionismo, riduzione del tempo di lavoro,
perché non è produttivo per il sistema di fabbrica un lavoratore spremuto 14 giorni, ma è più conveniente e
più produttivo che questo lavoratore sia in funzione vigile, attenta per un tempo di lavoro più ridotto.
La riduzione del tempo di lavoro non significa perdita di profitto, il plusvalore relativo non significa che
l'impresa perde profitto, significa che il profitto non viene più ottenuto attraverso il prolungamento
illimitato della giornata lavorativa. Se il capitale denuncia al tempo di lavoro illimitato, come fa ad
incrementare il profitto? Attraverso l'intensificazione del processo produttivo e quindi il ricorso a
meccanismi di tipo industriale, ad apparati tecnologici che consentono la sostituzione di forza lavoro e la
riduzione del tempo.
Cresce, dunque, nel sistema della seconda fase una nuova cosa che Marx chiama una nuova composizione
organica del capitale. La nuova composizione organica del capitale significa che in questa fase prevale il
capitale costante, cioè la fabbrica si dota di grandi apparati tecnologici e questi apparati tecnologici Marx li
chiama capitale costante. Il capitale costante, dunque, diventa un fenomeno che consente al capitale una
maggiore produttività compatibile anche con una riduzione della durata quantitativa della giornata di
lavoro e quindi lo sfruttamento diventa non più l'allungamento del tempo ma l'utilizzazione più efficace, più
razionale del tempo, grazie alla mediazione della fabbrica, del sistema tecnologico.
3° TIPOLOGIA DI CAPITALISMO: viene accennato da Marx nei Grundrisse, quando parla del modo scientifico
di produzione.
Il terzo modulo del capitalismo è un qualcosa che ancora non si è verificato nel tempo di Marx e lui anticipa
come una tendenza evolutiva del sistema. Il terzo modulo è caratterizzato da un processo scientifico di
produzione, come lui lo chiama, e quindi dalla generalizzazione del sistema di macchine e quindi un terzo
modulo in cui la tecnologia o come in un'altra pagina, sempre dei Grundrisse, chiama la intelligenza
generale, intelletto generale, è presente come fattore della produzione. Dice Marx che in questa fase del
sistema capitalistico l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza alla
produzione immediata diventa un criterio determinante, un fattore di stimolo.
Dunque, un sistema altamente tecnologico con il brevetto, l'invenzione come fattori produttivi centrali.
L'invenzione, l’innovazione diventa un fatture immediatamente produttivo e quindi la scienza diventa
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Marx descrive questo tempo in questi termini: “L’ultima metamorfosi, che si realizza nel sistema
capitalistico è la creazione di un sistema automatico di macchinario. Quello automatico è soltanto la forma
più adeguata e perfezionata ed essa soltanto trasforma il macchinario in un sistema che muove se stesso.
Questo automa è costituito da numerosi organi meccanici di intellettuali, così che gli operai stessi sono
determinati soltanto come sue membra coscienti”. Cioè entro questo sistema tecnologico, fortemente
caratterizzato dalla scienza, dall'innovazione, si registra questo meccanismo: le applicazioni del sapere
diventano una potenza estranea che fa dell'operaio, la parte cosciente del meccanismo, la parte
dipendente. Cioè, in questa fase ultima, del capitale come sistema di tecnologia ipercomplessa e sviluppata,
l'intelletto diventa una potenza estranea.
Pensiamo, oggi, a un algoritmo, un’app che ti dà gli ordini su come consegnare la merce, su quale percorso
fare, non puoi deviare da un percorso indicato dall’app, l'algoritmo decide tutto.
Quindi il sapere consegnato in un algoritmo diventa una forza ultima di oppressione, per cui il lavoro vivo, il
corpo che lavora è alle dipendenze di un meccanismo astratto impersonale, di un algoritmo, di un sistema
automatizzato di macchine intelligenti. Questo per Marx è l'ultimo problema, l'ultima contraddizione che
riguarda il capitalismo maturo. Nel capitalismo ipersviluppato, tecnologizzato, c’è una estrema
contraddizione: la macchina renderebbe possibile godere illimitatamente di tempo. La macchina, il sapere,
l’algoritmo crea condizioni di tempo liberato. Perché però questo non avviene? Nel secolo scorso un
economista, Keynes aveva formulato questa profezia: nel 2023 si lavorerà al massimo 15 ore, perché le
macchine, le tecnologie rendono disponibile tempo. Perché questa profezia dell'economista Keynes non si
è realizzata? Perché, secondo Marx, il cervello sociale, l’intelligenza generale è prodotta dal capitale stesso
e quindi ha questa funzione civilizzatrice, ma questa funzione civilizzatrice si accompagna poi ad un
meccanismo che comprime le opportunità che la scienza, il sapere, la tecnologia introduce. È quello che
Marx parla in questi termini, il conflitto tra tempo libero che la scienza, il sapere, le tecnologie, liberano,
liberano le energie, sviluppano la capacità, ma soltanto in potenza come opportunità, in realtà, questo non
avviene automaticamente perché le esigenze di valorizzazione, di accumulazione del capitale richiedono
che non il valore d'uso e quindi la cultura, il tempo libero, la crescita individuale, sia il fine della società, ma
sempre il valore di scambio e quindi la mediazione del denaro, il meccanismo di valorizzazione.
Dunque, sebbene ci sia un sistema automatico, dice Marx, che renda possibile la riduzione del tempo di
lavoro, e quindi le macchine possono sostituire con la loro intelligenza molte funzioni, questo viene però in
una società capitalistica, visto non come una grande opportunità di liberazione, ma come una minaccia,
perché subito interviene la contabilità del profitto. Queste nuove macchine intelligenti, questi sistemi
automatici mettono fuori produzione una infinità di soggetti. Pensiamo, ad esempio, agli sportelli bancari,
in banca non ci sono più persone fisiche, si fanno tutte operazioni attraverso tecnologie, banche online e
così via. Tutte queste opportunità hanno dei costi, cioè espulsione di forza lavoro e quindi l'algoritmo, il
computer che produce, l'automa che si presenta come equivalente di un corpo reale lavoratore. Tutto
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Quindi, secondo Marx, il grande conflitto nel capitalismo ipersviluppato è il controllo politico sociale della
scienza che diventa fattore produttivo; altrimenti la scienza, la tecnologia nelle mani del potere dispositivo
del grande capitale internazionale, incrementa lo sfruttamento attraverso la tracciabilità di tutte le cose,
attraverso la rapidità infinita, attraverso il controllo (niente Internet e così via). Quindi, secondo Marx, in
questa fase del capitalismo tecnologico, di sistema automatizzato di macchine, si presenta questa grande
definitiva contraddizione: con le macchine, con il sapere, con il cervello sociale è possibile effettivamente
libertà di tempo, dice Marx, diventa possibile per tutti, anche per i lavoratori, godere delle condizioni di
vita, avere tempo per diventare un soggetto, questo però non avviene perché c'è la contraddizione tra il
carattere sociale della produzione che ormai è talmente sociale che anche i saperi scientifici sono coinvolti
nelle attività produttive, quindi anche il cervello, la logica della scoperta scientifica diventa fattore di
sviluppo economico, quindi il sistema economico è cultura, sapere e però su questo sapere, su questo
cervello sociale, su questa intelligenza generale, la contraddizione è che non si realizza in capacità per tutti,
in crescita di opportunità, ma in costruzione di nuove barriere, di nuove esclusive.
Questo è il problema cruciale del capitalismo per Marx. Il capitalismo, secondo Marx, rende possibile
capacità, creatività, ma il tempo libero e creativo di alcuni lo pagano chi deve svolgere funzioni niente
affatto libere e creative. Per cui la contraddizione ultima è questa: il tempo libero del soggetto che per la
capacità si affranca dalla dipendenza è pagato dal tempo, che per lui, vieni svolto alle dipendenze del
capitale, da una infinità di soggetti che restano subalterni. Questa secondo Marx è la contraddizione ultima
che esige il superamento del capitalismo. Il capitalismo non consente a tutti di creare, di diventare artisti,
poeti, di fare il loro percorso di vita, di sviluppare il proprio progetto esistenziale, perché soltanto una parte
della società può fare attività creativa, può diventare soggetto che sviluppa doti cognitive, creative,
musicali, artistiche, ma appunto accanto a questa minoranza di soggetti che hanno il loro tempo libero, c'è
una massa sterminata, controllata nelle loro attività perennemente subalterne (es. la logistica alla consegna
di pizze).
Questo, per Marx, rivela il carattere miserabile del capitalismo. Il carattere miserabile del capitalismo è che
potenzialmente la macchina, la tecnologia, il sapere, rende tempo libero per tutti disponibile, nella realtà,
questo non avviene e questo è l'ultimo confine, l'ultimo tema della contestazione che Marx fa al
capitalismo moderno come meccanismo che dilapida la soggettività, è un meccanismo che impedisce la
libera creazione di capacità e quindi questo è, secondo Marx, il motivo fondamentale che dovrebbe
giustificare una cultura di critica del capitale che anche nel ventunesimo secolo potrebbe essere formulata
negli stessi termini.
Dunque, l'eccessivo sviluppo tecnologico genera disoccupazione, non in quanto tale, l o sviluppo
tecnologico non è mai eccessivo, ma è eccessivo se lo sviluppo tecnologico è governato dalla proprietà
privata e quindi dalle esigenze del profitto e del godimento ristretto delle creazioni del cervello sociale.
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